Gabriele Collesano
M’ILLUMINO DI TE
Youcanprint Self-Publishing
Titolo | M’illumino di te
Autore | Gabriele Collesano
ISBN | 9788891185273
Prima edizione digitale: 2015
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
[email protected]
www.youcanprint.it
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in
alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Orgoglioso che nel mio chi sono ci sia il vostro prezioso contributo, a Nonno Giorgio e Nonna Rita
Tu sei per la mia mente, come cibo per la vita. Come piogge di primavera, sono per la terra. E per goderti in pace, combatto la stessa guerra che conduce un avaro, per accumular ricchezza. Prima, orgoglioso di possedere e, subito dopo, roso dal dubbio, che il tempo gli scippi il tesoro. Prima, voglioso di restare solo con te poi, orgoglioso che il mondo veda il mio piacere. Talvolta, sazio di banchettare del tuo sguardo, subito dopo, affamato di una tua occhiata. Non possiedo, né perseguo alcun piacere, se non ciò che ho da te, o da te io posso avere. Così ogni giorno, soffro di fame e sazietà, di tutto ghiotto e d’ogni cosa privo.
[William Shakespeare – Tu sei per la mia mente]
PREFAZIONE
Un'altra storia d'amore by Gabriele Collesano, e sembra ieri - in effetti non è ata una vita: circa due anni, a conti fatti - che questo ragazzone pontederese di trent'anni (allora ventotto) mi contattò con un sms, o forse era una mail, chissà più, dicendomi ciao, sono Gabriele, è appena uscito il mio primo libro, una storia d'amore tra adolescenti, il titolo è “Da adesso in poi”, ti andrebbe di leggerlo, di scriverne sul “Tirreno” (giornale con cui mi fregio di collaborare dal 2003) e magari di darmi una mano quando lo presenterò qui a Pontedera, alla Libreria Roma?
Precisò che era, in assoluto, la sua prima uscita da scrittore, il suo «battesimo di fuoco col pubblico», e insomma un po' di o sarebbe stato gradito assai, anche per rompere il ghiaccio «grazie a qualche domanda giusta al momento giusto». Aggiunse, il birichino, che aveva letto diversi miei articoli, gli piaceva molto come scrivevo e «una tua recensione sarebbe un prezioso regalo».
Come esimersi?
Accettai subito, e feci benissimo. Lessi d'un fiato le pagine di quel suo esordio pieno di ingenua (ma solo fino a un certo punto, giacché, anche in questo senso, il Collesano è sempre pronto a stupirti) ione, di intricatissime selve sentimentali, di suggestioni cantautoriali (l'autore, all'epoca, aveva un irresistibile penchant per i brani dei Negramaro, le cui parole in musica difatti svolazzavano, tra allegre e malinconiche - più spesso malinconiche - tra le righe di molte delle pagine del romanzo). E infatti nella nostra prima intervista mi raccontò che, tempo prima, c'era stato un periodo «in cui ascoltavo spesso le loro canzoni d'amore, tristi e bellissime, pervase dall'atmosfera rarefatta in cui sprazzi di luce si mischiano a ombre di dolore e che si sposa così bene con le sonorità del gruppo. Mi è venuta a mente così, di colpo, come un cerino che s'accende, la storia di questo ragazzo che, altrettanto all'improvviso, deve fare i conti con due
eventi che cambiano la sua vita. Il primo è la fine di un'importante storia d'amore. E poi le visite notturne di un sogno ricorrente che, in qualche modo, va a riempire gli spazi vuoti che prima non c'erano, le assenze, le intercapedini che si formano tra i sentimenti in disordine, tra i sogni che si accartocciano su se stessi, segnando il destino del mio giovane protagonista. Che, o dopo o, finisce per approdare a una scelta consapevole...».
Sapeva il fatto suo, questo giovanotto dall'aria autorevolmente impacciata, volto pieno, di una rotondità rassicurante, capelli cortissimi, voluminosi occhiali dalla montatura scura che mi fecero subito pensare alla volontà di creare un effetto barriera col mondo esterno, un po' come quel gran classico che resta la coperta di Linus. Insomma sapeva cosa voleva dire e, per giunta, come e quando dirlo.
Citando ancora da quel pezzo del Tirreno: “Anni fa, la laurea in legge all'università di Pisa. Poi un master in economia. Oggi Gabriele lavora per un'azienda di Bientina. Accanto ai codici, ai numeri, scorre questa vena di narratore uscita fuori, pure lei, di botto. «La trama ha preso a ronzarmi in testa in modo sempre più insistente, tanto da convincermi a fissarla attraverso la scrittura. Dopo qualche mese, il romanzo era finito»”.
Qualcosa di assai simile deve esser successo anche questa volta. La trama avrà iniziato a ronzargli in testa in modo sempre più insistente e lui ecco, senza pensarci due volte, l'ha inchiodata alle sue responsabilità, messa con le spalle al muro attraverso la scrittura. E questa volta, con polso ancora più fermo, con un bel po' di “mestiere” in più. Ma con la medesima grazia, col solito delicato tatto, a mio modesto avviso.
Ed ecco che ora, gentile lettore, hai tra le mani il nuovissimo “M'illumino di te”, il secondo romanzo by Collesano, il cui titolo è vagamente ungarettiano - ma senz’altro le assonanze col celebre poeta finiranno qui, uno si dice, e chissà. Comunque, ancora una storia d'amore tra ragazzi che, evidentemente, finiranno per accendersi come infuocate lampadine ad altissimo dispendio energetico,
ancora una scorribanda elegiaca quanto frastagliata, combattuta, fortemente assaporata, tra le più indecifrabili pieghe che assume il cuore quando entrano in ballo sentimenti capaci di cambiare l'esistenza per sempre, in meglio o in peggio chissà, i personaggi di Collesano lo scopriranno vivendo (e i suoi lettori leggendo: l'ultima cosa che vorremmo fare è rovinare la sorpresa con ghiotte, ma perniciose, anticipazioni sulla trama).
Una mail. Questa volta ne sono sicuro. L'irresistibile lusingatore è tornato alla carica: «Ciao, sono Gabriele, come stai? Ho appena finito il mio secondo romanzo! Ti andrebbe di firmare la prefazione? Ciò che scrivesti su “Da adesso in poi” mi emozionò (sempre un filo esagerato, il Collesano, ndr), sono sicuro che un tuo testo darebbe un tocco di classe al tutto... ti va?».
Di esimersi, questa volta, manco a parlarne, capirai.
Anche perché è un piacere e un onore, e ora sono serissimo, entrare in qualche modo a far parte del lavoro di un giovane autore così determinato nel far bene e, per di più, tanto innamorato dell'amore, cosa che, coi tempi che corrono, male non fa.
Quindi ecco qua la prefazione, Gabriele caro. Dubito sia un tocco di classe (un “tocco” punto e basta sarebbe già molto), ma confesso che, a questo punto, ci rimarrei male se tu non mi scrivessi una mail (o un sms) in vista dell’uscita del terzo romanzo.
Andrea Lanini
I
Il mio rapporto con le donne?
Un disastro.
O meglio, diciamo che non sono predisposto alla condivisione di un qualcosa con l’altro sesso.
Al massimo posso condividere un letto. E non per dormire. Ma va bene anche una macchina dove c’è poca luce.
Il mio rapporto più lungo, o meno corto – mettetela come vi torna meglio – è durato ben centoventi giorni (che poi sono quattro mesi, ma in giorni sembra tanto tempo).
Alla tenera età di quindici anni mi infatuai di Filomena. Lei ventenne ripetente di quinta A, io giovane quindicenne di seconda B. Stesso istituto superiore.
Ci conoscemmo in gita, ma già mi era entrata nell’occhio visto che, a detta di tutti, era il pezzo più ambito della scuola.
Quel giorno a Verona, sarà che è la città degli innamorati, sarà quel bacio che mi buttò dal balcone di Giulietta, scattò la scintilla.
Ero piccolo, non sapevo ancora che avere una donna accanto può essere deleterio. Dovrebbero scriverselo sulle magliette come sui pacchetti di sigarette: “La donna nuoce gravemente alla salute”.
Ma lì per lì mi sentivo grande a vantarmi con gli amici di stare insieme alla più bella e desiderata dall’intera comunità scolastica.
Ci volle poco a farmi ricredere.
Dopo un mese mi era già venuta a noia.
Mi presentò a tutta la famiglia: genitori, zii, nonni, cugini. Chi più ne ha più ne metta. Cene a destra, cene a manca.
No, non fa per me. Io ho bisogno di spazi.
Fortunatamente arrivò il giorno in cui trovai la scusa valida per lasciarla. Che poi di scusa non si trattò, mi servì lei, e su un piatto d’argento, la possibilità di chiudere.
E successe nella settimana in cui i suoi erano in vacanza.
Casa libera, un incubo.
- Amore, i miei sabato partono per Amsterdam. Abbiamo sette giorni tutti per noi! Ventiquattr’ore su ventiquattro insieme. Mangiamo insieme, dormiamo insieme, tutto insieme. Tutto! Non sei contento?
- No, i tuoi non avevano altro da fare che partire?
Questo è quello che rispose la mia faccia, in realtà mi sforzai di sorridere ed esporre tutti i denti possibili.
- Certo amore, non vedevo l’ora!
Ripeto, fortunatamente di lì a breve arrivò il regalo più bello che mi potesse capitare.
Il secondo giorno dei sette giorni su sette, delle ventiquattr’ore su ventiquattro insieme, avevo la cena di classe.
Ci trovammo al ristorante ma ci raggiunse la notizia che era mancato il padre di un nostro compagno. Decidemmo di annullare.
Non dissi nulla a Filomena e tornai a casa. Le avrei fatto una sorpresa per farla contenta. A dire la verità io preferivo la mangiata tutta la vita, ma già che ebbi l’occasione di renderla, per una volta, felice, perché non approfittarne.
Altro che, me la fece ma lei la sorpresa: entrai in camera e la trovai nuda a dimenarsi sul corpo di un estraneo, anche lui nudo.
Avrei voluto esultare, iniziare a saltare sul letto, buttarmi sulla materassa e abbracciarli insieme. Però così facendo sarei ato dalla parte del torto.
Me ne andai indispettito.
Ma dentro avevo un vulcano di gioia da far eruttare e che in quel frangente dovetti trattenere.
Un po’ come se un milanista sfegatato si ritrova in curva nord tra gli ultras dell’Inter durante una finale di Champions’ League a San Siro e al novantottesimo fa il gol dell’uno a zero il Milan. Oltretutto su rigore inesistente.
Godi come un maiale ma non puoi festeggiare.
Devi fingere di essere abbattuto.
E così feci quando vidi Filomena tra le grinfie di quell’energumeno. Simulai come al novantottesimo il mio idolo in area di rigore.
Inscenai la parte del fidanzato la cui vita non ha più senso senza di lei. Col cuore infranto da colei che era tutto per lui.
Ci ripenso, voleva stare sette giorni su sette con me. Strane le donne.
Poco male, ero riuscito nel mio intento. Levarmela dai piedi soprattutto uscendone a testa alta, da vincitore. Un vero trionfo!
Ma la storia con Filomena è niente in confronto ad Antonella.
II
- Sveglia Nicolò.
Nel dormiveglia riconosco la voce di mio padre che, come tutte le mattine, tenta di interrompermi il sonno.
- Che ore sono?
So per certo che sono le quattro in punto, mio padre è un orologio svizzero, non sgarra di mezzo minuto, ma la mia è una domanda retorica col solo intento di allungare la permanenza sotto le coperte di qualche misero secondo, meglio di nulla.
- Su, Nico…
Devo rassegnarmi alla sua insistenza, quanto meno mi tolgo il pensiero. E farfuglio qualcosa che assomiglia a un buongiorno.
È l’unica e quanto mai banale parola che maggiormente, a mio avviso, si addice alla situazione, mi esce dalla bocca in automatico. Discorso anche troppo articolato vista l’ora.
Sono sordomuto part time: mi isolo dal mondo dal momento che apro gli occhi
fino a che il sole non è sorto da almeno un paio d’ore, chi proferisce verbo convinto di ricevere risposta deve riporre le speranze, è più facile instaurare una conversazione col muro.
- Colazione è in tavola…
Mio padre con questo gesto dimostra di prendersi cura di me, e io apprezzo non poco: alzarsi alle quattro del mattino e in più prepararmi il cappuccino con i biscotti è uno sforzo meritevole di tutta la mia stima.
Prima di spostarmi in cucina mi affaccio alla finestra: fuori è buio pesto e piove a dirotto. E oltretutto è lunedì.
Odio la pioggia.
Mi opprime, mi snerva e mi indispone. Soffoca il mio diritto alla libertà, la libertà, tra le altre, di andare in giro a testa alta. Mi costringe a trovare riparo, limita il mio raggio d’azione.
E odio il lunedì, non un lunedì in particolare, tutti i lunedì.
Li odio talmente intensamente che quel senso di frustrazione, impotenza e rassegnazione (al lunedì appunto) mi pervade già dalla domenica sera prima di andare a dormire.
Perché so che dal momento che chiudo gli occhi è già lunedì.
Amo vivere la vita, la mia vita.
Un giorno mi è stato chiesto di definirla con un aggettivo, io non ho avuto mezzo dubbio e ho risposto che è mia.
Non voglio rimpianti.
Della mia vita ne faccio quel che ritengo più giusto: insomma, della mia vita faccio quel che voglio (sempre nel rispetto del prossimo ovviamente).
Amo le cose che iniziano e che finiscono.
Che è sempre meglio che abbiano un principio e una fine – seppur a malincuore – piuttosto che non siano mai iniziate.
Amo i cambiamenti.
Amo, nel guardarmi indietro, poter constatare che qualcosa – o, ancora meglio, più di qualcosa – è mutato.
Vuol dire che le esperienze mi hanno formato.
Vuol dire che delle strade che ho percorso ho visto il traguardo – e se non l’ho visto, quantomeno ci ho provato.
Vuol dire che ho vissuto.
Amo sognare di notte.
Che se è un incubo, quel sollievo che mi rassicura quando apro gli occhi mi inebria e mi dà la spinta per affrontare la giornata col sorriso.
Se invece è un sogno a tutti gli effetti, mi trasmette la carica giusta per provare a realizzarlo anche nella realtà.
III
- Sei sveglio?
Mio padre non solo si sveglia alle quattro e mi prepara colazione, tutte le mattine mi accompagna alla stazione in auto.
E anche stamani si sta sincerando che mi sia svegliato del tutto: il mio lavoro non mi permette assolutamente botte di sonno, nessun lavoro lo permette ma il mio in particolare.
- Sì babbo, tranquillo…
Abbozzo la conversazione – è sempre troppo presto per interloquire con il mondo – e mi allungo verso il seggiolino posteriore dove è poggiato un quotidiano sicuramente vecchio di qualche giorno ma pur sempre una scusa valida per non proseguire il discorso.
Mi cade l’occhio su alcuni titoli in prima pagina – le solite accuse al nostro paese – e mi sopraggiunge un pensiero che suggerisce al mio broncio di intensificarsi maggiormente: è lunedì, piove e in più in Italia non va bene un bel nulla.
L’Italia delle raccomandazioni.
L’Italia degli amici di amici.
Che se sei amico (o parente, ancora meglio) di qualcuno che è amico, forse qualche porta ti si apre.
Altrimenti non c’è speranza.
L’Italia dei giovani partiti alla ricerca della considerazione che meritano con la loro valigia carica di sogni, progetti e forse anche qualche paura.
Che sia Inghilterra, Germania o chissà dove. Senza sapere se torneranno mai. Ma quel che conta è andare via da qui.
L’Italia che l’importante non è essere, ma apparire. Italia di estetiste e chirurghi plastici.
L’Italia dei furbi.
Italia di prepotenti, ignoranti e insofferenti.
Italia di valori svaniti. Di ingiustizie e sogni infranti, dove la forza di una spinta dell’amico di un amico sotterra i meriti.
L’Italia del la legge sono io e tu non vali niente.
Italia di invidie e rancori.
L’Italia che il rispetto ha perso la sua forma. Italia di tutti maestri.
L’Italia dei tradimenti e di famiglie a pezzetti.
- Ci vediamo a pranzo, Nico. Che ci facciamo?
Siamo arrivati di fronte alla stazione e la cura di mio padre nei miei confronti non ha fine.
- Non ti preoccupare, babbo; mi va bene tutto.
Lo saluto e mi avvio verso l’atrio per fare l’abbonamento.
È lunedì nonché primo giorno del mese.
IV
Binario 3.
Lo schermo luminoso sopra la mia testa segnala venti minuti di ritardo sul regionale 13706: sì, è proprio il mio.
Mi siedo sulla panchina più vicina e comincio a guardarmi intorno, magari riconosco qualche faccia nota per scambiare due parole (non di più) e ingannare l’attesa.
Per mia sfortuna niente da fare.
Continuo a curiosare, un altro pensiero mi raggiunge: la stazione dei treni è la location ideale per gli addii (o, bene che vada, arrivederci) e per le riunioni stile carramba che sorpresa.
Alla mia destra una coppia di ragazzi.
Lei in lacrime continua ad abbracciare e sbaciucchiare il suo lui, il quale, con la sua valigia, la rassicura e accoglie le sue smancerie pronto a partire per chissà dove.
Alla mia sinistra tutta un’altra scena.
Nessuna coppia in procinto di separarsi (fisicamente) ma un giovane sorridente e allo stesso tempo ansioso (si vede dall’espressione fiera che non sta nella pelle) con un mazzo di rose in mano talmente grande che gli copre mezzo busto: sta sicuramente aspettando la sua lei e se ad ogni rosa corrisponde un giorno di lontananza, beh è già un po’ che non la vede.
- Il regionale 13706 è in arrivo al binario 3, si prega di allontanarsi dalla riga gialla.
La voce dell’altoparlante annuncia che la mia attesa sta per terminare, grazie a Dio.
Alla mia destra ora si sprecano le lacrime, alla mia sinistra il tizio smania dalla voglia di riabbracciare colei per la quale è valsa la pena alzarsi di prima mattina.
Prendo posto in una delle carrozze.
Se sul binario ho fatto da spettatore al festival degli stati d’animo, ora è giunto il momento di assistere ai diversi approcci alla tecnologia delle persone che mi circondano.
- Marzia, come faccio a rispondere a questo messaggio?
La signora sulla sessantina che occupa il seggiolino di fronte al mio sta maneggiando il suo cellulare ma sembra non arrivarne a capo.
- Fai vedere a me…
La compare pari età prende in mano la situazione e non si arrende ai primi tentativi con esito fallimentare.
- Marzia, non ti preoccupare: gli telefono.
Le due dopo qualche minuto arrivano alla soluzione con una scorciatoia, battaglia persa ma obiettivo raggiunto.
Nel frattempo, la ragazza al mio fianco non ha staccato gli occhi dal suo iphone per tutta la durata della buffa scenetta tra le simpatiche signore: incessante movimento di dita sullo schermo del suo oggetto di piacere e cuffie nelle orecchie.
Lei avrebbe saputo rispondere al messaggio ricevuto dall’amica di Marzia anche bendata e con una mano legata.
V
- Pronto, Luigi? Sono Nicolò. Sto arrivando, il treno era in ritardo…
Luigi è il mio responsabile.
Ho una laurea in architettura con lode, conseguita in cinque anni pari pari per non farmi mancare nulla.
Al momento, però, di essa mi rimane solo la grande soddisfazione personale, l’immenso orgoglio che mio padre nutre nei miei confronti dopo i tanti sforzi economici sostenuti per permettermi di realizzare il percorso accademico, e un pezzo di carta incorniciato e attaccato in camera sopra il letto.
Cosicché ogni giorno che lo guardo mi chiedo se sia valsa la pena spendere tutti quei soldi per avere un pezzo di carta, visto che non mi permette di vivere di quello per cui ho studiato.
Fossi andato in cartoleria e avessi comprato una risma di fogli A4 avrei speso molto meno e ne avrei avuti molti di più.
Da bambino sognavo di diventare un architetto di successo. Va bene che da bambini si sogna in grande ma ora come ora non sono nemmeno un architetto da quattro soldi.
“Quando eri piccolo mi dicevi che da grande avresti voluto costruire le case”, mio padre me lo ripete sempre.
Oggi invece sono un operatore ecologico, uno spazzino insomma.
Appena laureato ho sostenuto innumerevoli colloqui e concorsi per studi privati e aziende di mezza Italia.
Per un momento ho anche pensato di emigrare oltre confine ma il dispiacere di abbandonare mio padre mi ha trattenuto qui.
Mai una gioia, sempre i soliti discorsi.
- Questo è solamente un colloquio conoscitivo, non abbiamo posizioni aperte in questo periodo ma abbiamo il piacere di conoscerla…
- Il suo profilo è davvero interessante, il suo curriculum sarà inserito nei nostri database nel caso avremo bisogno…
- Le faremo sapere nei prossimi giorni…
E poi non ha mai fatto sapere niente nessuno.
Uno degli ultimi concorsi che ho fatto – chiaramente con esito negativo – non riesco ancora a digerirlo a ripensarci.
Metteva in ballo cinque posti per uno dei più importanti e rinomati studi della Toscana e si componeva di cinque prove.
Test psicoattitudinale con domande assurde del tipo “Come ti comporti se sei alla guida, un'auto ti sora con la linea continua e ti manda a quel paese? 1 Lasci perdere. 2 Inizi a suonare il clacson. 3 Lo insegui.”: prima prova superata.
Test scritto, condito di domande di logica e matematica: seconda prova superata col punteggio più alto.
Colloquio di gruppo con problemi da risolvere ancora più assurdi delle domande del test psicoattitudinale: terza prova superata.
Colloquio singolo alla presenza del titolare: quarta prova superata.
Periodo di prova con percorso formativo di cento ore: fallito.
Dopo alcune settimane sono venuto a sapere che i cinque fortunati in effetti erano già dipendenti della società e il concorso era tutta una farsa.
Così, tentativo dopo tentativo, ho gradualmente perso la speranza e alla fine mi sono arreso.
Ho accettato un contratto a termine – ora diventato a tempo indeterminato – con una multiutility che opera a qualche decina di chilometri da casa mia, lo stesso contratto che mi rende indipendente da mio padre.
Che poi, anche se non è quello per cui ho studiato, è tutta esperienza.
Ormai sono due anni che faccio questo lavoro, dal lunedì al sabato dalle cinque e mezza alle undici e mezza.
L’orario non è proprio il massimo della vita ma alla fine ci ho fatto l’abitudine. Anzi, a dirla tutta, quasi quasi mi dà soddisfazione l’idea di rendere un servizio utile alla comunità – certo, fare l’architetto resta il sogno della mia vita.
E, da due anni a questa parte, dal lunedì al sabato, è sempre il solito copione: mio padre mi sveglia alle quattro del mattino, mi accompagna alla stazione di Pontedera, scendo a Firenze Rifredi e mi avvio nel parcheggio a pochi i dove mi aspetta il mio camioncino col quale condivido una bella fetta della mia giornata.
- Nicolò zona a, Stefy zona b e Marco zona c…
Luigi è già lì con i miei colleghi e, come ogni mattina, ci dà disposizioni sulle zone che dobbiamo coprire.
Io mi occupo di raccolta e spazzamento.
Insomma, raccatto i rifiuti porta a porta, do una spazzata alle strade e, quando c’è bisogno, taglio l’erba dei giardini pubblici.
Terminato il velocissimo briefing, sono pronto per partire.
VI
Mi suona il cellulare mentre sto raccogliendo l’ennesimo sacchetto di rifiuti organici.
- Nico, tra dieci minuti?
Io e Marco, il mio collega, abbiamo l’abitudine di vederci durante la pausa mattutina per berci un caffè insieme (o chi per esso) e per fare due chiacchiere.
Stamani sicuramente avrà da sfottermi perché ieri la sua Juventus ha battuto la mia Fiorentina con un sonoro tre a uno, oltretutto a domicilio.
Entro al bar e lui è già lì che mi aspetta sorridente e mi fa segno tre con la mano.
- Cambiamo discorso, Marco… Offro io stamani, eh?
Io e Marco oltre ad essere colleghi siamo ottimi amici.
Abbiamo instaurato un bel rapporto anche extra lavoro.
Lui ha quattro anni più di me e da dieci fa questo mestiere.
Uscito dalla scuola superiore – non senza faticare –, nel giro di pochi giorni è entrato in azienda: Luigi è amico fraterno di suo padre. Con un misero diploma da triplo ripetente si fa fatica ad affacciarsi al mondo del lavoro.
Mi stupiscono positivamente la sua schiettezza e la sua sincerità.
Non si vergogna a render pubblico il fatto che se non fosse stato per suo padre chissà se oggi avrebbe un posto fisso.
E con una famiglia da mantenere – una moglie e un bambino di sei mesi – il suo stipendio sicuro è una manna dal cielo.
Avrà avuto anche una spinta per entrare, ma ciò non toglie che sia un grande lavoratore. Questo è un altro motivo per cui lo apprezzo.
In più, come persona niente da dire: sempre disponibile, nel momento del bisogno c’è sempre.
Insomma, un amico vero.
- Come sta Mauro?
Fortunatamente la discussione sulla disfatta della mia squadra del cuore si è
abbozzata ancora prima di cominciare.
- Abbastanza bene dai, c’è di peggio nella vita…
Mauro è mio padre e Marco si preoccupa di me e di tutto ciò che mi è caro.
Lo squillare del mio cellulare interrompe il nostro interloquire.
- Nico, ci possiamo vedere in pausa pranzo? Ti devo parlare…
Dall’altra parte del telefono riconosco la voce di Stefy, la nostra collega.
- Va bene, ma una cosa veloce… Ci vediamo dopo…
Riattacco e Marco, che ha sentito il breve scambio di battute tra me e Stefy, mi scruta con sguardo compiaciuto.
- E’ ora Nico, torno a lavoro… Dopo mi racconti tutto però…
Avverto mio padre che non ci sono a pranzo, pago e esco dal bar.
Il mio camioncino è lì tutto solo che mi aspetta.
VII
I’m not afraid to walk this world alone.
Il tatuaggio del ragazzo seduto al tavolo a fianco al mio mi incuriosisce non poco: non ho paura di andare avanti nel mondo da solo – traduzione più o meno precisa, il succo è questo.
- Nico, ma mi stai ascoltando?
Stefy, evidentemente risentita, ha capito che non la sto affatto seguendo.
A me ha colpito quel tatuaggio.
E per un motivo particolare: perché riassume in poche parole la storia di mio padre.
Mio padre cammina da solo da sempre.
All’età di sei anni ha perso i genitori – i nonni che non ho mai conosciuto – in un tragico incidente stradale.
Fino a diciotto anni ha vissuto in collegio dopodiché, una volta uscito, ha cominciato a lavorare e, con i pochi spiccioli che ha iniziato a guadagnare, è riuscito ad affittarsi un monolocale nel quale piano piano è riuscito a ricostruirsi una vita.
A ventidue anni ha conosciuto Antonella della quale si è innamorato perdutamente.
Ha investito la sua vita su di lei, l’ha sposata e dopo quattro anni di vero amore sono nato io.
La vita sembra avergli reso quello che nell’infanzia gli aveva tolto, ossia una famiglia.
Troppa grazia, Sant’Antonio.
Una sera, rientrando a casa da lavoro, mi sente piangere nel box. Così, certo che Antonella non mi abbia sentito, si dirige in cucina per dirle che ho bisogno di lei ma stranamente non la trova alle prese coi fornelli.
Un biglietto lo aspettava attaccato sul tavolo di vetro in sala: “Stasera non torno a casa, Antonella”.
Senza una motivazione, senza un perché.
Sei semplici parole di ghiaccio.
Antonella non è più tornata.
Dopo alcuni anni siamo venuti a sapere che era fuggita in Venezuela con un ragazzo conosciuto a Firenze qualche settimana prima.
Nient’altro.
Mai più vista, mai più sentita.
È rimasto solo quel biglietto che mio padre ha ancora nel cassetto dei ricordi, accanto al tavolo di vetro in sala.
Ogni tanto se lo rilegge per trovare la forza di andare avanti.
Sì, lui è forte, lui cammina da solo da sempre.
Lui non ha paura.
Lui, da quel maledetto giorno in cui si è trovato nuovamente a fare i conti con tutto senza nessuno al suo fianco, si è buttato a capofitto nella vita con un unico obiettivo: non farmi mancare nulla.
E così è stato, almeno fino a oggi.
Mi ha fatto da padre, e da madre e da nonni che non ho mai avuto.
Non ha mai più voluto saperne di legami affettivi con donne.
Lui non ha paura di camminare nel mondo da solo.
E ci cammina anche a testa alta.
Forse, però, in due a volte è un po’ più facile.
Io ogni tanto provo a dirglielo, ma lui non ci sente. Dice che ha me e questo gli basta e avanza.
Decido di dare ascolto a Stefy, se mi ha chiesto di pranzare insieme c’è un valido motivo.
- Nico, mi devi dire cosa pensi, cosa provi… Altrimenti io non ci capisco più niente…
Io e Stefy una sera siamo finiti a letto insieme: a cena qualche bicchiere di troppo e la frittata è fatta.
E ora si è convinta che mi sia infatuato di lei ma mi trattenga dal manifestare il mio sentimento.
In realtà la verità è tutt’altra.
- Stefy, non per volerti male, te lo dico una volta per tutte se tu non l’avessi ancora capito: è stato un errore…
Chissà mai che poi m’innamoro davvero e mi scappa in Venezuela anche lei.
VIII
A primo impatto posso sembrare una persona schiva, introversa e silenziosa.
Non c’è niente di più falso, è solamente un’apparenza.
La solarità fa parte di me.
Mi piace ridere, scherzare e non prendermi troppo sul serio.
Il fatto è che non sono uno invadente e quindi tendo a farmi spazio nella vita della gente a piccole dosi.
Mi inserisco un o alla volta, in punta di piedi. La sento anche come una forma di rispetto.
Anche con Marco è stato così.
Non abbiamo un segreto, altro che riservatezza e silenzi. Insieme siamo peggio di due pettegole.
- Allora come è andato il pranzo con la tua ragazza?
- Marco, non diciamo eresie… Lo sai…
- Eppure insieme sareste una coppia perfetta… Ah ma te sei più duro del cemento…
Sento un tono di rassegnazione nella sua voce.
Ma ha pienamente ragione. Non che saremmo una coppia perfetta, ovviamente.
Stefy ed io siamo coetanei, ventisei anni compiuti qualche settimana fa: la sera del fattaccio stavamo festeggiando il suo compleanno.
E poi è andata come è andata.
Se avessi saputo prima dell’accaduto che mi sarei tirato dietro tutte quelle storie, ci avrei pensato bene prima di trascinarla nella mia auto.
Con la scusa della macchina nuova – e aiutati da un goccetto di troppo che nelle cene tra amici non guasta mai – ci siamo ritrovati sul seggiolino posteriore.
È bastato un “ti faccio vedere come è spaziosa dietro” che già eravamo sdraiati e i finestrini appannati ci davano la nostra privacy.
Mi sono fatto trascinare dall’istinto e ora mi tengo la palla al piede delle sue menate.
Mio padre me lo dice sempre: “Fai cosa ti pare, la vita è tua, ma accettane le conseguenze!”
Incosciente.
Tornassi indietro eviterei.
Che poi Stefy ha tutte le caratteristiche della ragazza modello: occhi verde mare e sorriso contagioso, semplice, carina, mai volgare.
La ragazza ideale, insomma.
Avessi un fratello o un figlio magari gliela presenterei.
Probabilmente al realizzarsi del nostro “avvicinamento” ha influito anche la recente rottura col suo fidanzato storico.
La sua fragilità del momento sicuramente ha inciso.
E da quella sera è un continuo: messaggi, chiamate, lettere, inviti.
Non ci sente.
- Rassegnati Marco, la coppia perfetta rimarrà solo nella tua mente… Non ci penso nemmeno… Oggi sono stato chiaro con lei…
- Prima o poi Nico ti succederà anche a te, eh!
- Non credo proprio.
Probabile che la sindrome da fuga in Venezuela mi paralizzi.
Ma per il momento sto bene così.
IX
Sono sul treno che mi riporta a casa e ho modo di ripensare a quello che mi sono detto poco fa con Marco.
Effettivamente con le ragazze sono abbastanza frenato. E dire abbastanza forse è un eufemismo.
Più che essere frenato con le ragazze, diciamo che non sono avvezzo ai rapporti con l’altro sesso che coinvolgano sentimenti.
La storia di mio padre sicuramente ha il suo peso, ne sono consapevole.
Ma di questo non me ne faccio una colpa.
Dove è scritto che bisogna per forza legarsi a qualcuno?
Da nessuna parte.
Il colloquio telefonico del signore che ho davanti mi distrae dal pensiero.
- Giuliana, stasera tuo figlio è a cena da me… No, non se ne parla… Giuliana,
ho o no il diritto di vederlo?
Le sue frasi, intervallate da brevi silenzi, si stanno facendo sempre più cariche di tensione.
Evidentemente il figlio di Giuliana è anche suo figlio ed è ancora più evidente che i due sono separati e si stanno contendendo la sua compagnia per la serata.
Almeno lui, l’oggetto della contesa, ha una madre.
Antonella invece non si preoccupa di invitarmi a cena. Organizzare una trasferta in Venezuela in effetti è abbastanza complicato, come biasimarla.
Che poi a me, a dirla tutta, di conoscerla non preme nemmeno così tanto.
Dopo quel che ha combinato che se ne stia dove è.
Più lontana possibile.
- Pensaci prima di sposarti…
Siamo arrivati alla stazione di Empoli e l’ex marito di Giuliana, nell’avviarsi verso l’uscita, mi catechizza.
Lo guardo e ribatto.
- Non si preoccupi, non c’è rischio…
E chi ci ha mai pensato?
X
Lavoro dieci ore al giorno.
Tempo di are velocemente da casa e subito devo ripartire.
Non mi accontento dell’impegno mattutino nel mondo dei rifiuti.
Il pomeriggio mi confronto col mondo dei commercianti: faccio il barista – o almeno ci provo – in un caffè in centro.
Lì non c’è bisogno che mi accompagni mio padre in auto, ci vado a piedi. Anche se, sono sicuro, se glielo chiedessi mi ci accompagnerebbe volentieri.
Alla fine del mese ho un discreto stipendio, però fi l’architetto guadagnerei il doppio e lavorerei quasi la metà.
Non si può aver tutto dalla vita.
E poi non è mai detta l’ultima parola, la speranza di realizzarmi non mi molla di certo.
- Come è andata stamani?
Mio padre – non faccio in tempo a chiudere il portone di casa – si preoccupa subito di avere un resoconto sulla mattinata seppur sappia benissimo che tutte le mattine è sempre la solita storia.
Per lui è un modo di farsi sentire presente, e ciò mi rende felice.
- Come vuoi che sia andata? Come sempre!
Accenno un sorriso di circostanza e mi butto sotto la doccia.
Non ho tempo da perdere, Michela mi aspetta.
Michela è colei che gestisce il caffè.
Che poi non è solo un caffè: è una caffetteria, ristobar, happy hour e chi più ne ha più ne metta. Oggi va di moda così.
Fino a qualche mese fa lo gestiva insieme al marito. Poi, dal giorno che si sono separati, lui non ne ha più voluto sapere di vederla tutti i giorni e si è fatto da parte.
Così, nell’impossibilità di far fronte a tutte quelle attività da sola, mi ha chiesto se avevo voglia di darle una mano. Prima di allora ero un assiduo frequentatore.
- Stasera ci sei a cena o mi dai buca come oggi?
Esco dalla doccia e mio padre torna alla carica.
- Certo! Stasera si cena insieme cascasse il mondo!
- Ah, a proposito… Con chi hai pranzato?
Non c’è bisogno che gli risponda, la sua è la classica domanda retorica.
Si immagina tutto.
Oltretutto è a conoscenza dell’intrallazzo con Stefy.
Siamo sulla stessa frequenza. E con lui sono un libro aperto.
- Che me lo domandi a fare? Chi vuoi che fosse a rompere?
Esco di casa lasciandolo con un sorriso d’intesa.
XI
Sto asciugando le tazzine bollenti uscite dalla lavastoviglie quando vedo una sagoma nota che si sta dirigendo proprio verso l’ingresso del bar.
È Stefy.
Guardo meglio, forse i miei occhi mi stanno facendo un brutto scherzo.
Impossibile, ho dieci decimi.
Neppure giornate intere di studio per anni, tante delle quali davanti a un computer portatile a disegnare i miei progetti, li hanno svigoriti.
Tutto mio padre: anche lui, a cinquanta anni ati da un po’, nessun cedimento alla vista.
Addirittura non porta nemmeno quella sorta di occhialini da due lire che signori e signore iniziano a portare a una certa età per leggere.
Purtroppo è davvero lei.
Ora cosa avrà da dirmi?
Cosa vuole da me?
E soprattutto, ma come glielo devo dire che non ne voglio sapere?
Tengo a bada il raptus irrazionale che mi spingerebbe a lanciarle dietro tutto quello che mi capita a tiro.
In queste situazioni non mi lascio prendere e riesco a mantenere la necessaria lucidità per trovare una soluzione.
Un lampo di genio ha deciso di venirmi ad aiutare grazie a Dio.
- Michela, mi fai un favore?
- Dimmi…
Mi guarda quasi sorpresa.
- Vedi quella che sta arrivando?
- Si…
La curiosità ora si aggiunge all’essere sorpresa della mia richiesta.
- Ecco, non la sopporto più… Mi puoi baciare con tutta la ione che hai in corpo? Poi ti spiego…
Sono andato a letto anche con Michela. E nemmeno una volta sola.
Questo ha rafforzato la nostra complicità e quindi non mi faccio problemi a chiederle di baciarmi.
Con Michela però non ci sono mai stati strascichi.
Non c’è in ballo alcun tipo di emozione o sentimento, né da parte sua né tanto meno da parte mia.
È stata chiara fin da subito: la sua mente è sempre troppo impregnata di pensieri legati alla rottura con l’ex marito.
Con ciò non si preclude di consolarsi con me.
E questo per me non è motivo valido per non accontentarla, anzi.
Dio benedica la sua confusione.
Il nostro è il rapporto perfetto.
Condividiamo solo due o tre sere a settimana (non contando i pomeriggi a lavoro, ovviamente) e il più delle volte senza nemmeno parlare.
Conosciamo a memoria tutti i parcheggi di Pontedera e dintorni.
- Va bene, però sei in debito…
Michela non fa in tempo a finire la frase che già sta utilizzando la bocca in altro modo, avvinghiandomi nemmeno davanti a lei ci fosse Calcaterra, protagonista della sua serie tv preferita nonché suo sogno erotico.
Improvvisamente, con la coda dell’occhio, vedo Stefy cambiare bruscamente direzione – non senza un visibile mutamento nella sua espressione facciale.
Missione compiuta.
Forse ora avrà capito che non ne voglio sapere.
Né di lei, né di nessuna.
XII
Il novanta per cento delle persone sta con la persona sbagliata. Ed è proprio questo che fa girare la ruota.
Willie Nelson, noto al mondo come icona americana della musica rock, a me è noto anche per un aforisma che più vero non si può.
Anzi, forse si sbaglia perché quella percentuale secondo me è ancora più alta.
L’amore dura il tempo dell’infatuazione, poi scema. Poi ci si viene a noia.
O si sta insieme per convenienza. O perché da soli non si sa stare.
O si sta insieme finché non c’è qualcosa che ci tira di più.
E un prestante giovanotto, nella testa malata di una donna mediocre come è Antonella, brutta figura di una moglie e di una madre, tira di più di un povero illuso ma copia perfetta del buon marito e padre di famiglia, che si è dannato l’anima per lei.
L’essere umano è egoista per natura.
Però sono convinto che in due sia più facile. Che condividere qualcosa dà quel senso di realizzazione che supera l’egoismo innato.
Sono convinto che da qualche parte la persona che calza a puntino al nostro caso sia nascosta.
Però il problema è trovarla.
È più facile recuperare un ago in un pagliaio forse.
Sono troppi i cloni di Antonella.
Perché rischiare di rimanere con niente in mano e un macigno sullo stomaco impossibile da digerire?
Rileggo la frase del buon Willie su uno dei settimanali che compra mio padre per are il tempo, mentre aspetto che rientri a casa.
Stasera dobbiamo cenare insieme.
Mio padre da qualche mese ha perso il lavoro e il pomeriggio solitamente va al circolo per fare una partita a carte e due chiacchiere con gli amici. La mattina invece si divide tra letture leggere e televisione.
E si mette a mia completa disposizione quando ne ho bisogno.
A cinquant’anni suonati, a pochi i dalla pensione, trovare un nuovo lavoro è impresa tutt’altro che semplice.
Lavorava come falegname in una piccola bottega del centro, una di quelle botteghe che se ci i davanti sembra che lì si sia fermato il tempo.
La crisi se l’è portata via.
Ha chiuso dopo sessanta anni di gloriosa attività.
Il proprietario gliel’ha comunicato in lacrime. Erano ormai più amici che colleghi.
Non ha potuto fare altrimenti.
Oggi la gente, prima di pensare a restaurare un armadio o un tavolo, si preoccupa di riuscire a fare la spesa.
E, così come l’esercizio grazie al quale mio padre è riuscito a farmi venire su dignitosamente, sono tanti i commercianti, le ditte e le piccole imprese che lo stanno seguendo a ruota.
L’Italia colpita e affondata, come a battaglia navale.
E con lei mio padre.
Per fortuna che col mio doppio lavoro riesco comunque a non farci mancare nulla.
Ora sono io a dare tutto me stesso per lui, per noi.
Dopo una vita di sacrifici per farmi studiare e vedermi con la corona di alloro in testa è giusto così.
Farei anche dieci lavori per vederlo sereno.
Sento aprire la porta.
È lui e ha due cartoni in mano.
La tavola è già apparecchiata, ci ha pensato prima di uscire.
- Nico, stasera si va di pizza!
- Ottima idea!
Amo la pizza in tutte le sue forme.
- Non te l’ho mai raccontato: prima che tu nascessi, per il periodo che sono stato con tua madre, non ho mai mangiato pizza… A lei non piaceva!
- Vorrai dire Antonella, io non ho una madre…
Ci sediamo a tavola e il discorso si fa serio.
- Nico, capisco il tuo rancore nei suoi confronti… Non si è mai fatta più viva perché sono tanti i fattori a non permetterglielo: la sua nuova vita, la lontananza, la paura che tu possa reagire nel modo sbagliato… Quante volte te lo devo ripetere…
- Finché non perdi la voce. Per me è morta…
- Dai Nico, pensa alla pizza… Te l’ho portata con tanto amore e te ora me la fai ghiacciare!
Mio padre è sempre bravo a sdrammatizzare.
E l’importante è che ci sia lui.
XIII
Fino più o meno alla seconda superiore a scuola amavo la matematica e la fisica.
E una delle nozioni che più mi affascinavano era quella della proporzionalità.
Non so bene spiegarmi il motivo, forse era un segno premonitore di quello che, da quando sono operatore ecologico, provo quotidianamente sulla mia pelle quando inizia ad avvicinarsi l’inverno.
L’avvicinarsi dell’inverno è direttamente proporzionale all’arrivo del freddo. E l’arrivo del freddo, a sua volta, è direttamente proporzionale al ritardo dei treni.
Ossia: man mano che ci addentriamo nell’inverno, il ritardo dei treni è costantemente maggiore in proporzione al freddo.
Morale della favola, ogni mattina quello che mi deve portare a lavoro non è mai puntuale.
E il ritardare, che sia un mezzo pubblico, una persona o chi per loro, è una cosa che mi fa imbestialire.
Non quanto un lunedì di pioggia, ma si arriva quasi a quei livelli.
Stamani il display luminoso sopra al binario 3 segnala dieci minuti di ritardo e io rischio che le mie gambe facciano tutt’uno con la pavimentazione congelata.
In realtà una nota positiva allevia il mio inizio mattinata: oggi sono dieci giorni che Stefy non si fa sentire. Avrà capito la lezione e si sarà rassegnata alle mie quanto mai schiette parole.
Se avesse continuato a tartassarmi sarei stato costretto quantomeno a cambiare numero di cellulare.
Come, oltretutto, già successo in ato con una sua predecessora.
Marina, ventitré anni e un fisico da lasciare senza fiato, risultato sicuramente di ore e ore di palestra.
Conosciuta un sabato in un locale della Versilia, scommisi con Marco che entro dieci giorni me la sarei portata a letto.
In pratica, esclusa Filomena, è stata la mia storia più lunga: otto giorni.
Otto giorni in cui ci siamo sentiti quotidianamente: io col solo intento di sbrigare la faccenda prima possibile per riscuotere la posta messa in gioco con Marco; lei chissà con quale intento, ma questo era di secondaria importanza nella mia mente.
La domenica sera successiva, dopo un tanto serrato quanto mai finto corteggiamento condito di messaggini sdolcinati, raggiunsi l’obiettivo dopo aver ato un pomeriggio intero in un centro commerciale.
Mai sofferto così tanto in vita mia. Ma dovevo vincere la scommessa e accettai l’uscita in quel maledetto ammasso di negozi e negozietti.
Non me ne risparmiò uno.
Arrivai ad invidiare un ragazzo con le stampelle. Lui poteva sedersi e aspettare lì la consorte, era giustificato; io, invece, dovevo seguire Marina come un cagnolino e per di più assecondarla.
La sera stessa però ho avuto la mia rivincita nella zona più buia del romanticissimo parcheggio del supermercato di Pontedera.
Dopodiché non l’ho più cercata.
Ed è da quel momento che, come successo di recente con Stefy, il mio cellulare ha cominciato a suonare all’impazzata a tutte le ore. Senza sosta.
Non potevo che prendere la decisione drastica di cambiare numero.
Intanto però il sacrificio aveva valso una cena con Marco.
E, in più, la giornata ata al centro commerciale aveva fatto nascere in me un pensiero.
Il giorno che mi fidanzerò, se mi fidanzerò, lo farò con una commessa, così io lavoro da lunedì a sabato e lei il fine settimana.
Perfetto per vederci il meno possibile.
- Il regionale 13706 è in arrivo al binario 3, si prega di allontanarsi dalla riga gialla.
I dieci minuti di ritardo sono ati e la voce registrata dell’altoparlante della stazione mi comunica che sta iniziando un’altra mattina di lavoro.
Da Stefy e Marina sono riuscito a scappare. Da lui no, non si scappa: ogni giorno mi aspetta al varco.
XIV
- Sei arrivato?
Stamani mio padre non mi ha potuto accompagnare alla stazione e prontamente arriva la sua chiamata per accertarsi che sia tutto a posto. Il tragitto casa treno è questione di minuti ma la sua premura a volte supera l’inimmaginabile.
- Sì, babbo.
- Che hai?
La mia voce stamani è particolarmente cupa.
- Niente, lo sai che la mattina ho bisogno di un po’ di tempo prima di svegliarmi del tutto.
In realtà stamani qualcosa che non va c’è. Mi sono alzato male, provo disprezzo per il mondo intero come se fosse un piovoso lunedì mattina.
- Va bene Nico, ci vediamo dopo.
Ha capito che qualcosa non va ma non vuole insistere.
Saluto, riaggancio e mi avvio al binario.
Prima però, mi fermo a bere un caffè al bar nella piazza antistante la stazione, ne ho già bisogno.
Qui mi trovavo con i miei compagni di classe delle superiori le mattine che marinavamo la scuola. Ogni scusa era buona per non entrare.
Con l’occasione facevamo colazione tutti insieme e scambiavamo qualche pettegolezzo invece di affrontare cinque ore di ione.
La maggior parte di loro ne approfittava per fumare le prime sigarette. Non tanto per il gusto, quanto perché li faceva grandi con le ragazzine.
Si inizia sempre così. Una per provare, un’altra per far colpo sulla compagna di banco e oggi quei miei ex compagni ne fumano un pacchetto al giorno perché non ne possono più fare a meno.
E, al ritmo di un pacchetto al giorno, vanno a spendere quanto un anno intero di tasse universitarie.
Mio padre si è ammazzato una vita per permettersi e permettermi di studiare e loro quei soldi se li fumano così. Se li fumano nel vero senso della parola.
Il pensiero alimenta la mia incazzatura.
Saluto il barista e trovo anche il tempo per disprezzare una senzatetto che sta già chiedendo l’elemosina che ancora il sole non è sorto.
Sto esagerando.
La mia arrabbiatura sta diventando incontrollabile.
Che mi sta succedendo stamani?
Sì, il mio lavoro non è il massimo però di solito mi rassegno e la prendo con filosofia.
Ma questa mattina c’è qualcosa che va oltre alla normale sensazione di insoddisfazione.
Ci manca solo di incontrare Stefy e poi siamo a posto.
Per fortuna è troppo presto per correre quel rischio.
Salgo al binario e mi abbandono al mio destino.
XV
Stamani Luigi mi ha assegnato una porzione di città che non ho mai ricoperto prima.
Parcheggio e tempo di scaricare il tagliaerba inizia a piovere.
Acqua, neve, caldo, freddo: il brutto del mio lavoro. Non mi risparmio alcuna situazione atmosferica.
Ma non posso fare altrimenti.
O così o Pomì. Come mi diceva sempre una vecchia citando una famosissima pubblicità.
Mi cade l’occhio sul camlo di una delle abitazioni che circondano il parco pubblico in cui sto dando agio all’attrezzo che ho ben stretto tra le mie mani.
Colli.
Colli?!
Guardo meglio. Forse ho letto male.
No, ho visto proprio bene. Il cognome scritto sul camlo è proprio quello.
Ed è il cognome da nubile di Antonella. Forse la mia incazzatura era un segno premonitore.
XVI
- Oh bene, stasera Martina ha invitato le sue amiche a cena e sono di libera uscita.
Siamo nello spogliatoio della piscina, ho raccolto l’invito di Stefano, mio amico dai tempi delle elementari, di farci una nuotata insieme. Dopo un’intensa giornata di lavoro, una delle tante, ho bisogno anche io di rilassarmi.
Non faccio molto caso alla sua affermazione, il mio pensiero è stabile da qualche ora su quel cognome sul camlo. Mi ha lasciato di stucco, sono rimasto interdetto.
Meglio se ascolto Stefano, mi pare abbia da sfogarsi di qualcosa.
- Dicevi, Ste?
- Tutte le sere sul divano con Martina… Coniugare la vita di coppia non è facile… Menomale stasera mi ha spedito fuor di casa, non mi par vero: posso distrarmi un po’… Ce ne fossero di serate così…
Abbozzo un mezzo sorriso, non so cosa rispondergli.
In realtà lo saprei.
- Ma che cazzo ci stai a fare insieme se dopo poco ti è già venuta a noia?
Però me lo tengo per me, fiato sprecato al vento.
Stefano e Martina stanno insieme da due anni e convivono da uno. Hanno in previsione il matrimonio e, per non rimanere indietro, lei è incinta.
Che forse abbiano un attimo affrettato i tempi?
Indietro poi non si torna, contenti loro…
E ce ne sono tante di coppie come loro. Si mettono insieme senza nemmeno conoscersi.
Purtroppo però poi arriva il giorno in cui non vedi l’ora di staccarti dallo sfortunato lui o lei di turno per startene da qualche altra parte. E quel giorno ormai sei talmente legato che non puoi più tornare sui tuoi i.
O meglio, potresti tornarci. Ma sarebbe un gesto talmente coraggioso che la maggior parte delle persone che ci si ritrova preferisce soprassedere.
Stefano è l’esempio lampante di questo tipo di situazione.
Aspetta in gloria il momento in cui Martina gli concede di svagarsi e non ci pensa un attimo a fuggire da lei.
- Buon per te che non hai da rendere conto a nessuno…
Siamo nel corridoio che porta alla vasca e continua il monologo.
Accenno un secondo sorriso, che gli devo dire.
Ma è tanto difficile starsene per conto proprio? Questo bisogno impellente di condividere per forza, condividere anche se di fronte hai la donna che non fa per te: a me sembra una forzatura inutile.
Per il momento sto bene così e non lo invidio assolutamente.
Probabilmente arriverà il giorno che anche io potrò carezzare il pancione della mia lei in dolce attesa. Ma deve essere la lei con la “l” maiuscola.
Vorrei rammentare a Stefano la storia di mio padre e Antonella. Ma non lo voglio agitare.
Mi si infila in testa ancora quel cognome e quel camlo.
Mi tuffo in acqua per rinfrescarmi le idee.
XVII
Spiegare l’amore, spiegare il meccanismo che si innesca dentro quando si accende la fiammella. Questa è una missione impossibile a detta di tanti. Bisogna viverlo, sento dire spesso da chi dice di esserci ato.
In realtà, penso che oggettivamente non sia difficile definirlo.
Amare è calzarsi a pennello, è essere felici della felicità di chi ti sta accanto. Amare è sentirsi liberi, nei limiti del possibile ovviamente.
Purtroppo per tanti questo concetto non è molto chiaro.
Prendo Stefano e Martina. Lui aspetta in gloria che lei esca con le amiche per poter sentirsi libero di andare in piscina. Altrimenti ci va lo stesso, è vero. Ma lei non manca di farlo sentire in colpa perché le ruba spazio.
E questo è amare? No. Ed è un no senza attenuanti.
Purtroppo io penso di avere una visione distorta dell’amore. E questa è la madre di tutti i miei problemi in tal senso.
Quando la mia attuale visione si allineerà con la definizione più oggettiva allora sarò anche io in grado di prendere in considerazione la possibilità di
intraprendere il percorso che tutti sognano.
Per il momento siamo lontani da quel momento.
Per me amare, oggi, scade a tratti nel volgare.
La mia lei è solo una preda e ogni attenzione che le dedico è finalizzata a portarla nello spiazzo più lontano possibile da qualsiasi occhio indiscreto. Le offro l’aperitivo, la porto a cena, guardiamo un film insieme: sì, ma poi finiamo a letto. Sennò non si va d’accordo.
E dopo coccole? Stiamo scherzando. Dopo fai il prima possibile a tornartene da dove sei venuta.
Al massimo prima le coccole, anzi prima ci stanno perché le fanno credere che non voglio andare diretto al sodo. Ma se pensi che perda tempo anche a fartele dopo ti sei bevuta il cervello.
Una sera sono uscito con una ragazza: primo appuntamento, la porto al mare. Magari si scioglie, il mare è ai primi posti nelle menti femminili in termini di romanticismo.
Eravamo in macchina già da una ventina di minuti buoni (il mare più vicino a casa mia è a una mezzoretta) quando, parlando di esperienze ate, mi accenna un discorso che mi puzza.
- Sembri un bravo ragazzo, non penso tu sia qui con me solo per quello... Oltretutto, come dire, sono ancora illibata in quel senso, quindi non lo farei mai quel o senza essere sicura al cento per cento…
Finsi di rispondere al cellulare e farfugliai qualcosa.
- Scusami tanto, un mio amico ha bevuto troppo e si è sentito male: devo assolutamente tornare indietro.
Lo ammetto, il mio amare è immaturo quanto basta perché non mi leghi a nessuno. Per il bene di lei soprattutto.
Il mio è un amare senza impegno.
- Amore stasera ho la cena del lavoro, ti dispiace se non stiamo insieme?
A una frase del genere riderei in faccia a colei che la pronuncia, risata di soddisfazione chiaramente.
- Ma che peccato, me ne devo stare da solo col monopolio assoluto sul telecomando e guardare finalmente quello che mi pare. Ma se vuoi puoi andare a cena quando ti pare: di lavoro, di palestra, di classe. Asilo, elementari, medie, superiori, università anche se non l’hai fatta. Basta che ti levi da tre i. Anzi, quando torni e mi trovi già sotto le coperte svegliami solamente se hai intenzione di smaltire il pasto che ovviamente sarà stato abbondante. Altrimenti non t’azzardare nemmeno ad accendere la luce. Ne va della tua incolumità.
Quantomeno chi mi gravita attorno ha la consapevolezza – perché sono io a farglielo presente per evitare problemi – di questa mia condizione. Metto le mani avanti. O meglio me ne lavo completamente le mani di tante menate assurde.
La storia di Antonella incide? Mi ha segnato? Il mio atteggiamento è un ritirarsi nel guscio per evitare fregature? Probabilmente. Ma penso che questa sensazione mi apparterrebbe comunque, indipendentemente da tutto.
A proposito di Antonella, forse è il caso di raccontare a mio padre del suo cognome letto sul camlo?
XVIII
Ogni donna ha nel suo ato un amore sciupato o nel suo futuro un amore da sciupare.
Mi spiego meglio, se conosci una ragazza che non è mai stata innamorata e sei il primo con cui condivide un amore, stai tranquillo che hai le ore contate. Magari durerete mesi o più probabilmente anni, però stai pur sicuro che arriverà un bel giorno e ti comunicherà quasi con distacco che è finita.
Se invece la sua prima vittima è già stata sacrificata, magari sono più alte le chance che la cosa possa durare.
La donna deve cambiare, non può mica stare per tutta la vita con la stessa persona accanto. Sarebbe riduttivo per il suo essere donna. Anche solo per lo sfizio di poter dire di aver ammazzato un amore. La nobilita, la fa sentire più forte.
Ancora meglio se l’avvicendamento avviene in corsa. Spesso non si limita a procedere per i, cioè prima abbandonare la vittima e poi acquistare il nuovo lui. Il più delle volte prima acquista il nuovo lui e poi abbandona la vittima. Le cose se si fanno vanno fatte bene.
Che poi che c’è di male se ha voglia di cambiare? Sarà pur libera di sentirsi nella condizione di fare come crede? Non c’è mica nulla di strano!
Stefano da questo punto di vista è fortunato, può stare (relativamente) tranquillo.
Martina il suo amore l’ha già sciupato. Si chiama Eugenio, una vita (o quasi) insieme e poi arriva la dannata voglia di cambiare. Arrivano i primi scricchiolii, la voglia di recuperare tutto il tempo che hai perso, oltretutto il tempo più prezioso, quello della gioventù, e la frittata è fatta.
Anche per Martina è andata così. Una, due, tre sere esci con le amiche e poi è matematico che conosci persone nuove.
Stefano è stato una di queste nuove conoscenze. Una bevuta in più, ti scambi il numero per gioco o per far finta di fare un favore alla tua amica e poi ti inizi a sentire.
Martina e Stefano si sono iniziati a sentire, prima una volta ogni tre giorni, poi ogni giorno, poi ogni ora.
E alla fine il patatrac è dietro l’angolo. Scatta l’appuntamento, la prima volta lei si tira indietro per rispetto di lui che è a casa ad aspettarla. La seconda con la scusa che prima vuole chiudere.
Ma quale chiudere, il rischio di rimanere senza né l’uno né l’altro è troppo alto: alla terza Martina si è concessa. Si è concessa per bene. L’ha tirato nella sua trappola.
Ma quando è tornata da Eugenio non ha avuto il coraggio di dirgli nulla.
Ha aspettato di avere la certezza che Stefano ci fosse dentro fino al collo prima di uccidere l’amore di Eugenio.
Ha girato pagina con la naturalezza con cui si gira la pagina di un quotidiano dopo aver letto i titoli principali.
Ha messo un punto nella sua vita con un pennarello indelebile. Così da non tornare sui propri i nemmeno se le asse per la testa di farlo.
Ha spento la luce di Eugenio come si spenge la luce prima di andare a letto.
E per un po’ lui ha navigato nel buio. Come a mosca cieca ma senza benda.
Poi un bel giorno è partito per Londra e ora è sempre laggiù, ha un ristorante tutto suo dopo aver fatto la gavetta per locali e vive con Celeste e la piccola Luna, frutto del loro amore.
Stamani ho chiesto a Luigi di assegnarmi ancora una volta la zona b, quella del camlo misterioso, così da capire se c’è qualche collegamento tra quel cognome e Antonella.
Magari posso provare a suonare, magari risponde qualcuno.
La curiosità è forte anche se a più riprese ho sostenuto che per me quella persona è morta.
Quel che è sicuro è che prima di dire della scoperta a mio padre, voglio approfondire.
Non voglio smuovere qualcosa dentro di lui e poi scoprire che lì non sanno nemmeno chi sia Antonella.
- Marco zona a, Stefy zona b, Nicolò zona c…
Luigi ha deciso come ci dobbiamo suddividere, avanzo la proposta di scambio.
- Va bene se io e Stefy ci scambiamo zona? Stefy, ti dispiace?
- Se sta bene a voi per me non c’è assolutamente alcun tipo di problema.
Luigi ha dato il suo consenso. Stefy annuisce.
- Poi vi spiego. Tranquilli, non è niente di trascendentale…
- Dai, ora tutti a lavoro però!
Luigi sancisce il rompete le righe.
Missione compiuta.
IXX
In amore vince chi fugge.
Mi sto dirigendo verso quel camlo che tanto ha svegliato la mia curiosità e mi imbatto in questa scritta sul muro di un palazzo.
È scritta in rosso a caratteri cubitali ma avrebbe catturato la mia attenzione in ogni caso: poco importa la forma, è il senso dell’affermazione che mi tocca da vicino. O meglio, tocca mio padre ma di riflesso riguarda anche me.
Mi fermo a fissarla.
Un signore sulla settantina mi a accanto e, nel vedermi immobile a guardare la scritta, volge il suo sguardo verso di me ma prosegue diritto.
Chissà cosa sta pensando: o mi prende per scemo o penserà che ho bisogno di un oculista bravo. Molto bravo.
Poi si ferma d’improvviso, si gira e mi torna incontro mentre sono sempre imbambolato e assorto.
- Tutto a posto?
- Sì, grazie. Solo che questa frase…
Mi interrompe prima che completi il discorso.
- È fuggita la ragazza che pensavi fosse la donna della tua vita, eh? Tranquillo, se se ne è andata vuol dire che non lo era…
La saggezza non gli manca, vorrei rispondergli che in realtà la donna della mia vita non è ancora proprio arrivata. Ma non ho voglia di argomentare e ribatto con lo scopo di chiuderla lì.
- Eh sì, mi ha lasciato da solo, me ne farò una ragione.
- Nulla è perduto, sei giovane. In bocca al lupo!
L’anziano soggetto, dopo avermi servito la sua dose di ottimismo, si allontana nuovamente.
Io invece non mi muovo di un centimetro.
In amore vince chi fugge.
La penso diversamente, penso che se uno dei due fugge non ha vinto nessuno.
Un amore finito ti deforma. Fisicamente e mentalmente.
Un amore finito è un fallimento su tutti i fronti. Per chi resta e per chi se ne va.
Per chi resta perché ci hai investito tutto te stesso e alla fine ti ritrovi con un pugno di mosche in mano.
Per chi fugge perché, potrai anche avere tutte le ragioni del mondo, ma scappare è comunque da vigliacchi. Soprattutto se si scappa dalle proprie responsabilità.
Che poi dove fuggi?
Hai voglia di staccare la spina, hai voglia di andartene a diecimila chilometri di distanza: quel qualcosa dentro che ti lega all’altra metà non svanisce certo sparendo dalla circolazione.
Quel filo non si spezza.
Potrà dissolversi col tempo, questo sì. Ma lì per lì un amore non si cancella, puoi andare pure in capo al mondo e far perdere le tue tracce come tu non fossi mai esistito. Non si cancella.
Prima di portarmi a letto Michela, ho avuto anche modo di parlarci seriamente.
Non lavoravo ancora nel suo bar. Capitò una sera che eravamo da soli, mi confidò che aveva deciso di farla finita col marito.
Una parola e un singhiozzo, non riusciva a parlare senza piangere.
Il suo volto era un fiume di lacrime e il suo sguardo basso in segno di sconfitta.
La sua era una resa.
- Mi dice che mi ama, che non può fare a meno di me, che sono tutto per lui… E poi?! E poi se ne esce tutte le sere con i suoi amici, stacca il cellulare, non so dove va, cosa fa, con chi è. Sto come una cretina ad aspettare che mi rassicuri che è tutto a posto e invece non si degna di considerarmi. Per non parlare di qualche messaggio che ho letto… Basta, Nico, a costo di soffrire, esco dalla sua vita.
Michela ha dato forfait. Forse sarebbe stato più giusto andare a fondo. Provare a chiarire, provare a capire i motivi dei loro problemi.
Da quella sera però ha deciso di chiudere, di fuggire da lui, di non farsi più viva.
E non ha vinto, il suo è stato un capitolare. Senza condizioni.
La rabbia ha smosso il suo orgoglio. Ma il dolore ha storpiato il suo sorriso.
Il suo sentimento è stato graffiato, il cuore illuso.
Hai voglia di fuggire quando ripensi ai momenti ati insieme.
Ti si attaccano addosso come se il tuo lui o la tua lei fosse lì a un centimetro di distanza.
Da quelli non c’è verso di allontanarsi.
E ti assalgono quando meno te lo aspetti.
Sotto la doccia. Quando stai parlando di tutt’altro con un amico.
Non c’è distrazione che li plachi, se devono intromettersi non perdonano e si fanno sotto.
E tu stai lì a subire. Inerme.
- Ragazzo, tutto a posto?
Un’altra persona è attratta dal mio atteggiamento alquanto strano. È una signora che dall’età potrebbe essere mia madre.
Sono ancora con lo sguardo fisso nel muro.
Penso ad Antonella, lei sì che si è comportata da codarda.
- Sì, sì… Stavo pensando che chi l’ha scritto non c’ha capito proprio un bel niente…
Finalmente ho espresso a parole come la penso.
Lei alza le sopracciglia quasi disinteressata e se va.
Do un ultimo sguardo al muro.
Io almeno non fuggo. Non mi presento a priori.
E quando mi presenterò all’amore sarà per sempre.
Sposto lo sguardo verso la direzione che ho intenzione di prendere.
Ora è una questione tra me e il camlo, è proprio lì dietro l’angolo.
XX
Suono, non suono.
Sono qui davanti e improvvisamente mi viene voglia di lasciar perdere.
Alla fine il cognome di Antonella è un cognome comune, magari mi risponde qualcuno che non ha nulla a che fare con lei.
Sono combattuto.
La curiosità spinge il mio indice ad affondare il pulsante. L’orgoglio mi frena: è o no morta per me, Antonella? Perché darle attenzioni che non merita?
Ormai ci sono.
- Chi è?
Dall’altra parte del citofono mi accoglie una voce acuta, pungente quasi.
Rimango spiazzato. E ora cosa le rispondo?
- Signora, siamo della nettezza urbana. Posso salire? Devo farle un paio di domande.
Scusa banale ma è la prima cosa che mi a in testa. E pare funzionare.
- La ringrazio per la signora, sono ancora signorina! Comunque, prego! La aspetto al terzo piano.
Sicuramente non si tratta di Antonella. Non ho mai sentito la sua voce ma sono certo, seppur abbiamo scambiato solo due battute, che quella che ho appena ascoltato è una voce molto giovanile.
Però questo non è un buon motivo per non accogliere l’invito. Potrebbe aver avuto a che fare con lei in qualche modo ed essere una fonte valida per trarre qualche informazione.
Sì, non lo nego, mi piacerebbe capire che fine ha fatto. Anche se, per come è andata, perdonarla è l’ultimo dei miei pensieri. Se me la trovassi davanti di certo gliene direi quattro.
Mi si apre il portone difronte, il vento lo fa sbattere.
Lo richiudo accuratamente e mi ritrovo in penombra.
- Chiedo scusa, la luce è fulminata: faccia attenzione!
Il messaggio arriva dall’alto ed è ancora la voce di prima.
Forte e chiara. Mi sta già quasi simpatica senza ancora vedere chi ne sia la proprietaria.
Difficile che abbia a che fare con Antonella.
Salgo le scale con la massima attenzione, il buio si addensa scalino dopo scalino, e mi ritrovo sul pianerottolo al terzo piano.
La porta è socchiusa.
Sto per agguantare la maniglia e chiedere permesso, ma vengo battuto sul tempo.
Tempismo perfetto, apparentemente si sta aprendo da sola ma dietro c’è sicuramente la lei che fino a un minuto fa era solo una voce, con l’intento di farmi strada.
Proprio così.
- Avanti!
Un sorriso magnetico oscura tutto il resto, eppure in casa luci e finestre non mancano.
XXI
Sì, il mio rapporto con le donne è instabile, è appurato.
Ma questo non vuol dire che non m’innamori.
Anzi.
M’innamoro una, dieci, cento volte a sera.
Esco a fare l’aperitivo e m’innamoro. Vado a ballare e m’innamoro. E non solo di una, magari.
Però non è un amore serio, è un amore per ridere con gli amici.
M’innamoro della curiosità che mi trasmette la presenza femminile. Di quell’amore superficiale che non fai in tempo a dire a chi ti sta accanto “Oh, mi sono innamorato di quella”, ed è già svanito nel successivo bicchiere di vodka lemon.
Ecco forse perché m’innamoro più o meno di tutte.
Ecco forse perché il finale è quello di sempre: a volte va a finire bene e ci fidanziamo nel parcheggio più cool di Pontedera e dintorni, a volte mi devo accontentare di uno squallido spiazzo per di più sterrato. Niente di nuovo, rientra nel mio stile.
E il succo alla fine è sempre lo stesso: è un fidanzamento che dura il tempo di spogliarsi, sfogarsi e rivestirsi.
Dopo finisce l’effetto dei vodka lemon e l’incantesimo si rompe.
A volte se non riesco a fidanzarmi la sera stessa provo il corteggiamento per giorni. Si sa, sono alquanto insofferente in quel frangente: o dice sì nel breve o la liquido senza pietà.
Che poi a dirla tutta tra tutti questi mini fidanzamenti forse ci sarebbe anche quella giusta, però c’è sempre qualcosa che non mi fa andare oltre al parcheggio: quando – Stefy docet – i messaggini a ripetizione che non mi danno nemmeno il tempo di respirare, quando un mio strano filmino che mi impedisce di approfondire, quando non so cosa.
Fatto sta che di cento m’innamoro e con cento finisce in men che non si dica.
Attenzione bene, di amori superficiali ne esistono svariate fattispecie.
Quella più meschina è l’amore col quale vuoi dimostrare di stare meglio.
Lui o lei ti lascia e tu, pompato d’orgoglio, accetti la scelta con filosofia. Anzi, dopo un mese sei già mano nella mano ad un'altra persona tanto che quella scelta non t’ha scalfito minimamente.
E quello sarebbe amore? Quello è l’amore superficiale per eccellenza.
A chi vuoi dimostrare e, soprattutto, cosa vuoi dimostrare se dopo aver fatto le eggiatine per mano col nuovo o nuova malcapitati torni a casa e pensi alla causa di quell’amore artificioso?
Meglio il mio d’amore. Sì, ha un secondo fine però quantomeno è sincero: cioè, dopo il parcheggio le cose sono messe in chiaro, per scritto.
Quando svanisce, svanisce. Che colpa ne ho.
- Prego, si sieda. Le posso offrire qualcosa?
- Guarda, intanto dammi del tu visto che a occhio siamo coetanei e poi se proprio insisti, un caffè lo bevo volentieri.
Mi sa che mi sono innamorato di nuovo.
Non ha ancora un nome, ma questa ragazza mi incuriosisce proprio.
Sta inserendo la cialda nella macchinetta quando mi pone una domanda che mi mette nuovamente in difficoltà.
- E, coetanei o no, perché mi sei piombato in casa?
Temporeggio.
- Fermati, prima sono io che ti devo chiedere una cosa: coi tempi che corrono apri così a tutti senza accertarti di chi possa essere?
- Non cambiare discorso. Dopo che hai suonato, prima mi sono affacciata alla finestra e poi ho risposto al citofono: ho visto la tuta fluorescente, tu mi hai detto di essere della nettezza urbana… Ho fatto due più due e mi sono fidata. Ma torniamo a noi: che vuoi da me?
- Vorrei sapere…
Non faccio in tempo a concludere la frase che mi suona il cellulare.
Rispondo e la voce agitata di non so chi mi comunica quello che non vorrei sentire.
- Scusa, devo scappare… Ne parliamo la prossima volta.
XXII
Hanno sempre deciso gli altri al mio posto. In amore, sul lavoro. Ho sempre e solo potuto subire. Ma oggi voglio decidere io per me. Voglio sentirmi libero, per una volta, di essere protagonista della mia vita. Voglio sentirmi libero di scrivere di mio pugno un capitolo importante della mia esistenza. Un capitolo nero. L’ultimo. L’ultima pagina del mio libro deve portare la mia firma. Nico, so che non capirai. Ma devi farlo. Non trovo più la forza di andare avanti. Fino ad oggi sei stato tu il mio unico motivo, ma ora sei un uomo e puoi andare avanti con le tue gambe. Devi provare a non odiarmi. È quello che voglio. Avrei potuto parlarne con te, però poco sarebbe cambiato. Scusa Nico, non posso tornare indietro. Tuo padre
Poche parole d’addio.
Scritte su un foglio di carta straccia ritrovato nella tasca destra dei suoi pantaloni.
Voleva lasciarmi un messaggio, sapeva che sarebbe stato ritrovato.
Un messaggio dal tratto tremolante, chissà se era davvero deciso.
Fatto sta che si è buttato giù.
Un ante ha sentito un tonfo sordo e ha immediatamente lanciato l’allarme.
Mio padre era senza scarpe, immobile.
Se le era tolte prima di lanciarsi. Forse erano troppo pese per provare a volare.
E ora me lo ritrovo di fronte, ancora immobile. Adagiato su un lettino bianco.
- Nell’impatto col terreno ha riportato lesioni gravissime. Vediamo come reagisce nelle prossime ore.
Il dottore mi sta spiegando che la situazione è delicatissima. Quanto meno mio padre non è riuscito nell’intento.
- Posso restare da solo con lui?
- Un minuto, poi devi lasciarlo riposare però.
Mi basta e mi avanza per accertarmi che la situazione è critica.
Ha gli occhi aperti: è cosciente ma reso impotente dal dolore.
Non è in grado nemmeno di accennare una smorfia con i muscoli della faccia.
Ho paura anche ad avvicinarmi. Non voglio rischiare niente. Vorrei abbracciarlo ma non è possibile.
Posso solo rassicurarlo che io ci sono. Può sentirmi.
- Quando torni a casa non ti mollo un secondo…
Non me ne capacito ancora di quel gesto estremo. È attaccato a un filo, però. Non è finita. Penso solo a quello.
Avverto Luigi che ho dovuto abbandonare il lavoro e torno a casa, non prima di salutarlo.
- Se molli non te la perdono…
Una lacrima esce dai suoi occhi. Mi stanno dicendo che ci sta provando.
XXIII
Chissà cosa c’è dietro. Cosa gli è scattato in testa per arrivare a decidere di levarsi dal mondo.
Sicuramente una sostanziosa dose di incoscienza condita da un invidiabile coraggio.
Un mix letale, che spenge il cervello.
Sono certo che mio padre non voleva dimostrare niente a nessuno. Ha deciso di agire e l’ha fatto, punto.
Lo stimo anche per questo.
Non mi piacciono le persone che meditano un’azione perché si aspettano una reazione. O perché vogliono a tutti i costi far sapere che loro sono in grado di farlo e tu no.
Nella vita bisogna essere padroni delle proprie scelte. Senza fare troppo rumore. Senza voler per forza attrarre l’attenzione di chissà chi.
Scegliere incondizionatamente quello che è meglio per noi stessi: impresa difficile ma non impossibile.
Lui sono convinto ci sia riuscito.
In silenzio, in punta di piedi.
Per fortuna l’esecuzione l’ha tradito. Ma la sensazione di impotenza, di non poter fare nulla per ristabilire le sue condizioni non mi si leva di dosso.
Nemmeno una doccia ghiacciata mi smuove da questo terribile stato dell’essere. A malapena l’acqua riesce a scivolarmi addosso.
Decido di sdraiarmi sul letto ma ci si mette anche il cellulare a non darmi pace.
Prima Marco che vuole sincerarsi di cosa sia successo e comunicarmi che Luigi ha deciso di lasciarmi qualche giorno di permesso per stare vicino a mio padre.
Poi Michela. Anche lei si è preoccupata per me.
- Nico, stai pure a casa i prossimi giorni. Al bar ci penso io…
Finché il suono del camlo mi costringe ad alzarmi. Controvoglia. Ma devo sentire chi è. Magari porta notizie dall’ospedale.
- Chi è?
- Rosa…
Rosa chi? Penso tra me e me. Forse ho capito male? Ci sta.
- Chiedo scusa: chi è?
- Rosa… Hai capito bene! Mi sei piombato in casa stamani e, prima di dirmi il perché, te ne sei andato senza darmi una spiegazione. Sono curiosa di natura… Posso salire?
È colei che stamattina mi ha risposto al citofono con su scritto Colli.
Quel sorriso magnetico ora ha anche un nome: Rosa.
E non nascondo che mi ha stupito.
- Ti aspetto su…
XXIV
A volte capita di aspettare per qualcosa, o qualcuno, che non arriverà mai…
Ho letto questa frase da qualche parte, forse su qualche social, e non c’è cosa più vera.
Penso a mio padre: Dio solo sa quanto ha aspettato un cenno da parte di Antonella. Quanto ha aspettato che tornasse.
Se si è sfiorata la tragedia, uno dei motivi scatenanti è anche la sua assenza.
Forse la sta ancora aspettando anche se lo maschera bene.
Anche se la forza di volontà lo ha fatto andare dritto per la sua strada senza abbattersi.
Fino a che non ha deciso di gettare la spugna. E sicuramente mentre stava per farlo il pensiero è ato anche da quella sera di quasi trent’anni fa in cui un vuoto si è insediato nella sua vita.
Nel mio caso quelle parole valgono soprattutto con le ragazze.
Sarà che sono sfortunato in quel frangente. Ma succede sempre tutto il contrario rispetto a quanto mi aspetto da una donna.
Quando voglio che non mi assillino è un continuo di messaggi e telefonate.
Quando invece ti aspetti qualcosa di più, potrei invecchiarci ad aspettare.
A volte anche a me piacerebbe che qualcuno mi fe sentire importante. Ma quel qualcuno non è mai quel qualcuno che dico io.
Non c’è verso: con l’altro sesso non me la dico.
Devo ancora scoprire se sono loro che non mi capiscono o sono io che non capisco loro.
Con Michela ho un rapporto trasparente, ma è la classica eccezione che conferma la regola.
Per il resto buio totale.
Il punto è che non ho mai trovato una ragazza che sia stata in grado di sorprendermi. Che mi abbia smosso nello stomaco quel senso di stupore misto a incredulità.
Se non ho mai vissuto davvero a pieno una donna il motivo è semplice: mai la ragazza che avrei sperato mi stupisse è riuscita a stupirmi.
Anzi, una è riuscita a stupirmi e da pochissimo ho scoperto che si chiama Rosa.
Mai mi sarei aspettato che me la sarei ritrovata in casa. Ma soprattutto mi chiedo come abbia fatto a trovarmi.
È poco ma sicuro: sarei andato io a ricercarla perché la storia del cognome di Antonella voglio chiarirla, a maggior ragione ora che è successo quel che è successo.
Però mi ha battuto sul tempo.
E non mi nascondo che la cosa mi fa piacere.
- Qual buon vento?
Esordisco invitandola a sedersi.
- Mi hai abbandonato di corsa senza una spiegazione…
La interrompo spiegandole che sono dovuto scappare all’ospedale. E lei mi svela
come sia riuscita a sapere dove abito.
- Sei uscito di casa a corsa e non ti sei accorto che hai perso il portafoglio…
Cavolo, non c’avevo fatto caso.
Inizio a capire man mano che va avanti a parlare.
- Mi sono preoccupata che fosse successo qualcosa di grave vista la tua furia e sbirciando il tuo indirizzo sulla carta d’identità…
- Eccoti qui!
Una ragazza che si preoccupa per me, mi inizio a ricredere sul gentil sesso.
- Sì ma sono qui anche perché sono curiosa di sapere cosa volevi da me!
È ora di tornare da mio padre.
- Se te lo spiegassi in un altro posto? C’è anche un’altra persona che vuole sapere qualcosa da te. Hai voglia di accompagnarmi?
Invito accettato.
Con quelle labbra che fanno a gara con gli occhi a chi sorride di più.
XXV
- Facciamo due i?
Siamo appena usciti dal portone di casa e Rosa propone di raggiungere l’ospedale a piedi.
Non una cattiva idea, alla fine non è poi così lontano.
- Ti faccio strada, ti porto a conoscere una persona importante, la più importante per me.
Durante il tragitto le racconto la storia di mio padre, fino al triste epilogo. Lei ascolta in religioso silenzio.
Finché nella mia testa si insedia un dubbio.
Rosa si è fatta quarantacinque minuti di strada solo per restituirmi il portafoglio? Solo perché avevamo lasciato un discorso a mezzo? Davvero si era preoccupata per me?
- Non ti fare troppi giri mentali, il destino ha voluto che ci incontrassimo e io non mollo niente al caso…
La sua risposta mi lascia piacevolmente sorpreso, ancora una volta.
- A proposito, non mi hai ancora detto come ti chiami…
- Io sono Nicolò, spero avrò modo di farmi conoscere…
Mi sbilancio. Incoscientemente.
E forse è la prima volta che lo faccio senza un secondo fine.
- Chi vivrà vedrà…
Lei non ha intenzione di sbilanciarsi.
Non lo nascondo un po’ mi prende. Sicuramente non mi rimane indifferente.
- Posso almeno sapere qualcosa in più su di te oltre che ti chiami Rosa?
Accenna un sorriso. Un’altra scossa dentro.
Poi decide di concedermi qualche pillola su di lei.
Ha ventitré anni, vive a Firenze da sempre e nella vita fa l’insegnante in una scuola di danza.
- L’anno scorso ho subito un grave infortunio e ho dovuto abbandonare l’attività agonistica, ma sono una testa dura e ho deciso di non mollare. Voglio trasmettere la mia ione alle ragazzine.
Starei ore ad ascoltarla.
Il sorriso non ci pensa nemmeno ad abbandonarla nonostante stia raccontandomi un episodio che l’ha segnata in negativo.
Mi cade l’occhio su un anello all’anulare destro. E mi scappa la battuta.
- Chi è il fortunato?
Mi specifica che non è un anello di fidanzamento ma un regalo del padre.
- Sono molto legata a lui, è l’unico uomo della mia vita. Gli altri meglio lasciarli perdere…
Non mi addentro nell’argomento ma lascia intendere un rapporto con i ragazzi travagliato quanto basta. Più o meno come me con le donne.
In più abbiamo un’altra cosa in comune.
- Anche io ci sono molto legato…
Siamo quasi arrivati a destinazione ma, attraversando il sottoaggio della ferrovia, Rosa improvvisamente si ferma e alza il braccio sinistro verso l’alto.
- Senti?
- Cosa?
- Sta ando il treno, muoviti: esprimi un desiderio!
Mi racconta che se iamo sotto a un treno e esprimiamo un desiderio, quest’ultimo si avvera.
In fretta e furia tira fuori due biglietti dalla tasca e una penna.
- Tu scrivilo qui.
E mi dà foglio e penna.
Poi mi ruba la penna e scrive il suo.
- E ora?
Ho espresso il mio ma non so che farmene.
- Ce lo teniamo per noi, chissà, un giorno ci rincontreremo e potremo constatare se si è realizzato o meno…
- Affare fatto.
Riprendiamo a camminare.
La mia richiesta è semplice: spero che mio padre si rimetta. E alla svelta.
La sua non mi è data saperla. Ma pagherei per sbirciare cosa ha scritto.
Mi incuriosisce troppo.
Così come mi incuriosisce il sole tatuato sul suo polso sinistro. È sbucato dalla manica quando ha alzato il braccio al cielo.
- E quello cosa rappresenta?
- Un momento particolare della mia vita, il più luminoso… Però non posso dirti di più…
Siamo arrivati davanti all’ospedale ma prima di entrare mi soffermo su un’ultima cosa.
- A proposito di particolari, prima, raccontandoti di mio padre, ho omesso un aggio importante: riguarda Antonella, ma te ne voglio parlare insieme a lui…
XXVI
Non so se il desiderio che Rosa ha immortalato sul suo biglietto si avvererà, il mio probabilmente sì.
Mio padre ha un sacco di lesioni, traumi, fratture. Chi più ne ha più ne metta. E probabilmente dovrà andare sotto i ferri per l’asportazione della milza.
Ma il dottore mi assicura che uscirà di qui con le sue gambe.
Tra una settimana, un mese, un anno. Questo non può assicurarmelo con certezza, però mi dà la sua parola che non è in pericolo di vita.
- Decidiamo nelle prossime ore se è necessario l’intervento…
Intanto è sottoposto a una cura di farmaci dai nomi tanto vari quanto incomprensibili con vari scopi tra i quali il principale è quello di alleviare il dolore.
- Tuo padre è un miracolato, potete andare a salutarlo, è sveglio.
Entriamo nella sua stanza, c’è il mio collega Marco seduto su una sedia in fondo al letto.
Piange in silenzio.
Gli presento Rosa e lo abbraccio.
- Grazie di essere venuto…
Lo rassicuro che andrà tutto bene.
- L’ho saputo da Luigi, come ha potuto?
- Marco, l’importante è che finisca tutto per il meglio…
Annuisce e mi saluta. È una persona dotata di grande intelligenza e sicuramente con quel gesto ha voluto lasciarci soli con lui.
Anche Rosa non trattiene le lacrime.
Provo a farle forza stringendola a me.
Un silenzio che fa troppo rumore ci avvolge.
Gli occhi di mio padre sembrano chiedermi scusa. Sembrano dirmi che non succederà più.
E sono stanchi, si chiudono e aprono a intermittenza in concomitanza con l’acuirsi e alleggerirsi del dolore.
Si capisce dalle smorfie del viso, dall’accavallarsi dei suoi muscoli facciali.
Ancora non riesce a parlare ma lentamente ce la fa a muoversi.
- Lei è Rosa ed è qui perché forse ha qualcosa da dirci riguardo ad Antonella…
Gli occhi di mio padre ora diventano attenti. È comunque una persona che ha segnato la sua, la nostra vita, seppur manchi ormai da troppo tempo.
La guardo, è dubbiosa.
Le racconto la storia tra mio padre e Antonella. Fino alla fuga e all’abbandono senza lasciare mezza traccia di lei.
- E io che c’entro, scusate…
Arrivo al dunque ed espongo la storia del cognome di Antonella sul camlo di casa sua.
- Mi dispiace davvero deludervi ma non so chi sia questa Antonella. Colli è il cognome dei proprietari ma non so chi siano, io semplicemente pago l’affitto ad un’agenzia che se non sbaglio gira il bonifico in Venezuela.
Bingo.
Il cognome, la fuga in Venezuela con un ragazzo conosciuto a Firenze: due indizi fanno quasi una prova.
Basta uno scambio di occhiate con mio padre per capire che anche lui ormai vuole approfondire la questione.
- Puoi chiamare l’agenzia?
Rosa acconsente, esce col telefono all’orecchio e rientra nella stanza.
- Niente da fare, solo un paio di coincidenze: i proprietari di casa mia non hanno a che fare con nessuna Antonella.
Peccato, sono convinto che quell’uomo sdraiato sul letto, per poco non esanime, questa notizia non l’abbia presa bene.
È un’ulteriore mazzata, il suo abbassare lo sguardo lo lascia trapelare. Nonostante in ato non abbia mai esitato a sventolare ai quattro venti la sua integrità di fronte all’argomento.
Se davvero non l’avesse toccato non sarebbe lì immobile, con tutti i pezzi del suo corpo in disordine.
XXVII
Ripenso al responso di Rosa.
Se le sue parole sono state una mazzata per mio padre, alimentargli invano la speranza sarebbe stato peggio. Sarebbe stato il colpo di grazia.
Sì, la telefonata con l’agenzia suona da sentenza ma, quantomeno, ora lui si metterà l’anima in pace.
Se l’è già messa da un po’.
Antonella non esiste più.
Mio padre ne era già consapevole e aveva già accettato questa situazione.
Figuriamoci, invece, se dall’agenzia avessero materializzato a distanza di anni la figura di Antonella, con un numero di telefono, un indirizzo. E magari lei non ne avesse comunque voluto sapere, nemmeno di un confronto.
Questo no, mio padre non l’avrebbe accettato.
Questo sarebbe stato un colpo basso per il suo orgoglio.
Sapere che c’è, che è al di là di un muro per sua volontà invalicabile.
No, questo sarebbe stato inaccettabile.
Meglio che sia andata così.
Anche Rosa sembra essere d’accordo col mio ragionamento.
- Nico, non gli creiamo false illusioni. Lasciamo che si rimetta senza subire altri traumi.
I nostri modi di pensare sono perpendicolari. Eccome se s’incontrano.
Ripenso ancora alla possibilità, seppur minima, ma comunque sfumata di incontrare Antonella per la prima volta.
Anche per me penso sia andata meglio così.
Vale lo stesso discorso fatto per mio padre. La delusione sarebbe stata doppia.
Alla fine sto bene così, senza di lei. Anche se la curiosità fa parte di me.
Decidiamo di tornare verso casa a piedi, ancora una volta.
Rosa si apre e mi rende partecipe di una parte del suo ato.
- Ho avuto una storia con Luca durata otto anni, siamo cresciuti insieme. Ovviamente la storia più importante della mia vita, che mi ha lasciato il segno. Poi ho scoperto che aveva un’altra. Non l’ho perdonato.
Forse è quello il periodo più luminoso della sua vita.
Forse è quello il periodo che l’ha spinta a tatuarsi un sole.
Pagherei per sapere se è davvero così.
Ma non voglio insistere, mi ha già detto che non me lo può dire.
Forse non me lo vuole dire. Ci conosciamo solo da una manciata di ore in effetti.
Chi sono io per farle svelare le sue cose? Il percorso a ritroso prevede il aggio sotto la ferrovia.
Si ferma proprio lì.
- Nico, facciamo un patto…
- Dimmi…
Pendo dalle sue labbra.
- La prossima settimana ci vediamo e sveliamo i nostri desideri scritti sui biglietti del treno, ci stai?
Per me va bene, il mio sta per avverarsi: il dottore mi ha rassicurato, mio padre ci leverà le gambe.
Le rispondo che ci sto. Poi mi sale un dubbio.
- Perché proprio tra una settimana?
- Perché domani parto per un concorso di danza con le mie allieve e sto via per qualche giorno!
Peccato, trascorrere del tempo con lei mi iniziava a piacere. È forse la prima volta che mi capita. Vedere in una ragazza qualcosa che va oltre a un buio parcheggio.
Per lo meno non mi ricordo l’ultima volta che è successo, se è successo.
Sarà la notizia di dovermi staccare forzatamente da lei, sarà una spinta incondizionata che non so spiegarmi da dove arrivi, sarà non so cosa, ma avvicino le mie labbra alle sue. Senza baciarla.
La sua reazione è quella sperata.
Forse non il bacio più bello della mia vita. Sicuramente il più sentito.
Riprendiamo a camminare fino sotto il portone di casa mia.
Si è fatto buio, fuori. Nel mio dentro invece ho la sensazione che si sia accesa una fiammella che fa luce.
Rosa mi avverte che deve tornarsene a casa sua.
Le chiedo se vuole rimanere da me, l’ora si è fatta tarda.
- Speravo me lo chiedessi, non volevo essere troppo invadente.
Sono davvero io? Inizio a dubitare.
Ma non mi sono mai sentito così.
XXVIII
Tanta era la voglia di fare l’amore che ci siamo scordati pure di mangiare.
Mi sveglio con una fame assurda e mi giro cercando Rosa con lo sguardo.
In questo letto stanotte forse è riuscita a tracciare una linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo Nicolò.
Non so quanto netta, non so quanto duratura. Ma in questo momento molto visibile.
Il Nicolò dei parcheggi inorridirebbe.
Mi direbbe che sono stato derubato della mia dignità. Che ne pagherò le conseguenze.
Ma non ho tanta voglia di starlo ad ascoltare.
Non me ne vergogno affatto di quel che è successo.
Chi è lui per dirmi questo?
E chi sono io? Il vecchio o il nuovo Nicolò?
Ho ancora il suo sapore sulla mia pelle. Mi basta il pensiero per riassaggiarlo inebriato.
Nico, come facevi ad accontentarti dello squallore di un meschino parcheggio?
Ne pagherò pur dazio, però questa sensazione riconcilia col mondo.
Le lenzuola sono ancora in totale disordine.
Come lo erano i nostri corpi. Mischiati, avvolti in un tutt’uno.
Tanto che facevo fatica a capire qual era il mio e quale il suo.
Ora che ce li siamo restituiti, mi accontento anche solo di quel sapore.
Mi sazia di lei.
Mi accorgo che Rosa non è più al mio fianco, mi ha lasciato il suo numero sul comodino.
Senza una parola in più.
Le scrivo un messaggio, tanto è forte la voglia di cercarla. Mi risponde subito.
- Fammi sapere come sta tuo padre, come sai sono partita. Ci vediamo quando torno, me lo hai promesso.
Ci vediamo sì.
Questa sazietà sono sicuro che non durerà certo per molto.
XXIX
Il o è breve.
Lasciarsi andare nelle acque agitate dell’emozione col rischio di naufragare in mare aperto. O frenare l’istinto prima ancora di tuffarsi.
Il o è davvero breve.
Basta abbassare la guardia un istante e ci sei con tutte le gambe, è un attimo.
Già il fatto che ci sto pensando e non so se è il caso di preoccuparsi.
Fino a oggi non mi sfiorava nemmeno il pensiero.
Non mi mettevo nemmeno il costume.
Ora però mi sorge il dubbio che le persone con cui ho avuto a che fare fino a qualche giorno fa non siano state in grado di farmi scattare questo rigirio in testa.
Mi sorge il dubbio che Rosa non mi molli come mollavo la sfortunata di turno dopo esser riuscito nell’intento.
Come ci riesca non lo so.
Si dice che bastano venti centesimi di secondo a partire dal momento in cui vediamo per la prima volta una persona, per farci scattare nel cervello dei processi chimici che rilasciano nel corpo delle sostanze in grado di provocare una sensazione di benessere ed eccitazione simile all’effetto delle droghe.
È quanto emerge da uno studio americano condotto da dottori qualificati.
Che la visione di Rosa abbia fatto scattare quel meccanismo?
Non so se sperarlo.
Di una cosa sono certo: per innamorarsi basterà pur meno di mezzo secondo, ma per dimenticare una delusione non bastano anni a volte.
Ed è proprio il timore di inciampare mentre stai per buttarti che ha sempre prevalso in me.
La possibilità di andarsi a cercare una sofferenza inutile quando avresti potuto evitare in partenza.
Ma con Rosa cadere mi fa un po’ meno paura.
Il dottore mi riceve nel suo ufficio per aggiornarmi sulle condizioni di mio padre.
Di colpo la mia mente si libera da considerazioni di qualunque tipo.
Voglio solo che mi dica che tutto sta procedendo per il meglio.
- Il signor Mauro sarà sottoposto a un intervento di asportazione della milza, come già ipotizzato in precedenza. Ma le sue condizioni sono sensibilmente migliorate. Dopo l’operazione saremo in grado di valutare per meglio i tempi necessari per le dimissioni dall’ospedale.
Un sorriso si fa largo sulla mia faccia.
Se da un lato andare sotto i ferri un pizzico mi agita, tuttavia sentire nominare la parola dimissioni mi conforta.
E la mia testa torna a quel patto stretto con Rosa: il mio desiderio si avvererà.
Ne sono sempre più sicuro.
Mentre il suo rimane un mistero.
Come quel suo sole tatuato, quel suo periodo luminoso del quale non mi è dato sapere.
- Posso andare a salutarlo prima dell’intervento?
- Come no, è di là che ti aspetta.
XXX
- Dove l’hai lasciata?
Con un filo di voce mio padre va subito al sodo, noncurante del fatto che sono lì per lui e non certo per parlare di Rosa.
La cerca con lo sguardo muovendo la testa lentamente ma pur sempre in maniera più sciolta rispetto all’ultima volta che l’ho visto.
Tra poco si opera e si preoccupa di me.
È la sua indole, non si smentisce mai.
Anche quando sarebbe più che lecito, anzi doveroso, concentrarsi solo su di sé.
- Racconta, quanto ti piace?
Con lui non posso mentire. E forse è il caso che non menta nemmeno a me stesso.
Forse è il caso che ascolti il nuovo Nicolò e lasci perdere il vecchio.
Troppi forse, troppa confusione mi annebbia la ragione.
Quella ragione che il vecchio Nicolò usava come arma per sfuggire ad una qualsiasi Antonella, oggi sembra non armi più.
Me lo ripeto e me lo ripeto: cosa mi sta succedendo?
Che quel bacio, quella notte insieme abbiano abbassato le mie difese? Eppure tra baci e notti solo Dio sa quante ne ho ate.
- Non ci sto capendo più niente…
La mia risposta non lascia dubbi. Figurarsi a uno come mio padre che mi conosce meglio di quanto io conosca me stesso.
- Vai fino in fondo.
Quattro parole. Solo quattro ma mi rimbombano dentro. E il fatto che siano dette da lui me ne amplifica la portata.
Dove devo andare?
E se fosse una trappola? Se mi dovessi far male?
Rimango in silenzio.
Sta al dottore romperlo.
- Siamo pronti per l’intervento, Nicolò ti devo far uscire.
Con mio padre mi basta uno sguardo, un cenno d’intesa.
Ora tocca a lui andare fino in fondo, non importa che glielo ricordi. Sa che non deve mollare proprio adesso che il peggio è alle spalle.
XXXI
Interminabile.
L’attesa su questa panca mezza sgangherata e per di più scomoda mi logora.
La sala d’attesa è desolata, mi fa compagnia solo un mucchio di giornali incolonnati alla meglio da una mano che sicuramente aveva qualcosa di meglio a cui dedicarsi.
Provo a chiamare Rosa per aggiornarla sulle condizioni di mio padre. È stata lei a chiedermi di farlo.
Il suo cellulare però pare essere spento. Le mando un messaggio, lo leggerà appena può.
Nel silenzio sento ben scandito il ticchettio del mio orologio. Sembra andare al rallentatore.
In queste situazioni lo scorrere dei minuti gioca il brutto scherzo di non voler are mai.
In queste situazioni riesci a mettere a fuoco cosa conta davvero.
Ti rendi conto che a volte hai sprecato fiato ed energie per qualcosa che in confronto alla salute di un tuo caro è niente.
Ti rendi conto che quel qualcosa a cui hai dato assoluta importanza improvvisamente vale zero.
Chi se ne frega se non farò mai l’architetto, se mi riporto mio padre a casa sarò lo spazzino più felice del mondo.
Potrà essere lunedì ogni giorno. E piovere per sempre.
Decido di aprire uno di quei giornali per provare ad ingannare il tempo. Anche se non sono sicuro che la lettura sarà in grado di distrarmi.
Ho paura di volare e adotto questa tattica anche sull’aereo.
Ma purtroppo anche in quell’occasione non sono capace di isolarmi totalmente e puntualmente fallisco l’obiettivo.
Non avere la terra sotto i piedi è la sensazione peggiore che abbia mai provato. Tutte le volte mi causa uno stato di agitazione tale da rendermi innaturale in tutto.
Anche adesso mi sento in bilico, senza un punto di riferimento a cui appigliarmi.
Finalmente si apre la porta e si affaccia il dottore.
- L’operazione è riuscita perfettamente e le condizioni del signor Mauro stanno migliorando ora dopo ora: nel giro di qualche giorno sarà dimesso.
- Davvero?
Voglio avere la certezza di aver capito bene.
- Tuo padre è forte, ti do la mia parola. Che fosse una persona forte era fuori di dubbio.
XXXII
In quattro e quattr’otto organizzo una cena con Marco e Michela.
Voglio festeggiare con loro la bella notizia.
Avrei invitato volentieri pure Rosa, la chiamerò per condividere anche con lei la riuscita dell’intervento a cui si è sottoposto mio padre.
In quattro e quattr’otto sono mezzo ubriaco, il sollievo provocato dalle parole del dottore scardina in me qualsiasi freno.
Scorrono fiumi di birra. Accompagnati da sorrisi di chi sa di averla scampata bella.
Mi prenderò cura di mio padre, ancora di più di quanto ho fatto finora.
Intanto però mi bevo un’altra pinta.
Michela mi segue a ruota, Marco deve per forza di cose regolarsi: ha una famiglia a casa che lo aspetta.
Puntualmente il suo cellulare inizia a suonare.
- Marco, il bimbo non dorme… Hai ancora tanto tempo?
Per fortuna abbiamo appena finito di mangiare la pizza.
Lui paga velocemente e corre in soccorso alla moglie.
Io e Michela invece ci concediamo un dolcino per chiudere in bellezza, dopodiché ci avviamo anche noi verso la cassa non prima di un po’ di limoncello.
Come faccia ad arrivarci non è dato saperlo, le gambe mi pesano nemmeno attaccato ci avessi un peso di cinquanta chili.
Fatto sta che in qualche modo devo esserci arrivato visto che mi ritrovo nei seggiolini posteriori della macchina di Michela.
Completamente nudo con lei che mi sta addosso nemmeno fossi un ladro che ha tentato di rubarle il portafoglio.
Faccio in tempo a tornare in me per capire cosa sta succedendo. E la allontano bruscamente.
- Michela, lasciamo perdere. Portami a casa.
Mi dà retta non senza un pizzico di stupore.
È la prima volta che la rifiuto. Forse è la prima volta in assoluto che rifiuto una donna.
Salendo le scale di casa mi suona il cellulare.
Il telefono di Rosa è nuovamente raggiungibile e decido di chiamarla nonostante il livello di alcool sia sopra i livelli di guardia.
- Nico!
- Ciao Rosa, sono Nico! Mio padre sta bene, presto me lo riporto a casa!
In sottofondo sento delle voci, mi sembra un dialetto spagnoleggiante.
Mi sa che ho bevuto davvero troppo.
- Sono felicissima! Tra pochi giorni torno e mi racconti tutto, ok? Ora sono impegnatissima, scusami!
La rassicuro che ci vedremo, non ci piove.
Mi infilo nel letto e pagherei a sapere chi mi sta muovendo il soffitto.
Chiudo gli occhi e ci metto un po’ a prendere sonno. Sarà che il pensiero di Rosa non mi si stacca dal petto.
Sarà che se ho rifiutato Michela è anche colpa sua.
XXXIII
Il vecchio Nicolò mi disconosce.
Quell’epilogo che centinaia di volte non era mai cambiato di una virgola, ieri sera ha deciso di prendere un’altra strada, del tutto opposta.
Io, Michela, un parcheggio: con lui protagonista il finale è scritto.
E invece no: la musica è cambiata.
Ma che mi prende?
Vorrei spostare il tempo avanti di almeno un paio d’anni per vedere cos’è Rosa per me.
Se la notte spesa insieme ha valso la pena.
Se quel bacio era davvero il principio di qualcosa.
Ma così sarebbe troppo facile.
Nella vita bisogna rischiare. A costo di restare a piedi.
Tanto prima o poi qualcuno che si ferma per darti una mano a.
A meno che non si tratti di Antonella: lei non si ferma, lei se ne va.
Ma Rosa non è Antonella. Rosa è Rosa.
Rosa mi dà la sensazione di essere una persona che non ha motivo di deluderti.
Rosa mi sembra la ragazza per cui vale la pena rischiare.
Ci sono dei momenti nella vita in cui per capire tante cose basta un attimo.
Io ho capito che quella notte ata insieme non me le scorderò facilmente.
Dica cosa gli pare il vecchio Nicolò.
Mi prenda pure per scemo. Mi prenda per pazzo.
Che alla fine avrà pure ragione lui.
Ma ci sono dei momenti nella vita in cui capisci che forse è arrivato il momento di buttarsi.
XXXIV
Sono giorni d’attesa.
Le dimissioni dall’ospedale di mio padre sono imminenti, così come imminente è il rientro di Rosa.
Sto aspettando ancora che mi faccia sapere quando tornerà di preciso.
A dirla tutta non sono il tipo che ama aspettare.
Aspettare cosa?
Nella vita non c’è tempo per aspettare. Tempo perso.
Nella vita bisogna andarsi a prendere quello che si vuole. Se davvero si vuole.
Sennò si può pure aspettarlo, vuol dire che non lo si desidera fino in fondo.
La vita va presa di petto.
Ma questa è un’attesa forzata, non posso far niente per smorzarla.
Posso solo sperare che vada a scemare prima possibile.
Perché ho voglia di portare a casa mio padre e ripartire da dove eravamo rimasti.
Perché la mia sazietà di Rosa non durerà ancora per molto.
Anzi, più la penso, più ho voglia di vederla e più mi sento svuotare.
Qualcosa si smuove, lo squillare del mio cellulare me lo fa quantomeno sperare.
- Stasera il signor Mauro verrà dimesso dall’ospedale definitivamente.
Le parole del dottore interrompono quel maledetto attendere. Almeno in parte.
Tempo di fare una doccia e mi fiondo da lui.
M’incammino o o verso l’ospedale quando il destino vuole che il cerchio si vada a completare.
- Tra un quarto d’ora sono da tuo padre, ti ci trovo?
Il messaggio di Rosa non disattende quello che ci eravamo promessi. È tornata.
Accelero, decido di fermarmi in un bar per non presentarmi a mani vuote. Accelero ancora.
Varcata la soglia della camera di mio padre però non la vedo.
- Rosa? Non è ancora arrivata?
- Sì, ti ha lasciato questo.
Mio padre mi porge un biglietto. No, non è un biglietto, è il biglietto, quello del famoso desiderio scritto insieme prima che partisse.
Lo apro, non senza un poco d’agitazione, con la curiosità che spinge un bambino durante l’operazione di scartamento dei regali di Natale.
Nella vita è obbligatorio aspirare sempre a qualcosa di migliore. Ed è per questo che mi sono tatuata un sole: perché il periodo più luminoso della mia vita non è ancora arrivato ma sono sicura che arriverà. Magari con te, lo sento a pelle. Io ci spero.
Chiudo il foglietto: ho il solo bisogno di capire dove si trovi in questo momento.
Ho solo bisogno di lei.
Alla faccia del vecchio Nicolò. Di lui no, non ho più bisogno.
Le scrivo un messaggio e la sua risposta non tarda ad arrivare.
- Se vuoi rendere giustizia al mio tatuaggio, se vuoi che quel sole abbia un senso, corri da me. Sai dove trovarmi. Sennò non mi cercare mai più.
Scatto sull’attenti e dico a mio padre che tornerò a prenderlo prima possibile.
Non c’è necessità di dargli spiegazioni.
Ha già capito tutto.
Venti centesimi di secondo per far scattare quelle famose sostanze chimiche. Forse è valso anche per lei.
Ed è proprio lì dove ero sicuro di trovarla: al sottoaggio della ferrovia.
Dove per la prima volta ci siamo sfiorati.
Dove per la prima volta ho scovato quel sole disegnato. Che ora fa luce.
M’illumino di lei.
L’abbraccio prima ancora di baciarla. Ma non c’è tempo da perdere.
- Dimettono mio padre: andiamo a prenderlo e ceniamo a casa mia stasera?
Rosa sorride e predispone il suo piano.
- Facciamo così: io o a prendere qualcosa per cena e ci vediamo direttamente da te.
XXXV
Ci sarà tutto il tempo del mondo per parlare. Di tutto.
Di quel che è successo. Di quel che sarà.
Ora l’importante però è essere di nuovo a casa. Insieme.
Sono talmente in trepidazione per l’arrivo di Rosa che la sto aspettando dal vetro della finestra di sala che dà sulla strada.
Un’auto parcheggia.
Sono così sicuro che sia lei che balzo verso il citofono prima ancora che scenda di macchina.
a un minuto, due. Ma nessuno suona il camlo.
Torno alla finestra.
Scorgo la figura di Rosa proprio di fronte all’entrata di casa. È davvero lei e sta parlando con una donna che non conosco.
Torno al citofono.
Finalmente suona.
- Chi è?
Domanda di rito, scontata ma d’obbligo.
La risposta no.
- Antonella.
EPILOGO
Secondo voi, all’ospedale, durante la telefonata intercorsa tra Rosa e l’agenzia, chi era dall’altra parte del telefono ha davvero detto di non conoscere alcuna Antonella o in realtà ha informato Rosa di esserci in contatto per via di quel bonifico girato in Venezuela?
Secondo voi, Rosa è davvero partita per un concorso di danza o ha preso il primo volo alla ricerca di Antonella dopo aver ricevuto indicazioni dall’agenzia?
Secondo voi, al momento delle dimissioni di Mauro dall’ospedale, Rosa perché si è assentata? Doveva forse andare a recuperare una persona prima di tornare a casa di Nicolò?
A proposito: come è finita tra Mauro e Antonella? E tra Nicolò e Rosa?
Lascio alla vostra immaginazione…
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio, prima di tutto, te che stai leggendo. Non so per quale motivo hai deciso di iniziare a farlo, io ti ringrazio di cuore per la fiducia.
Ringrazio chi, dopo l’ultima pagina della narrazione, ha sperato che non fosse finita lì. Vuol dire che questa storia ti ha coinvolto.
Ringrazio chi, dopo il mio primo romanzo (“Da adesso in poi”, Youcanprint 2013), mi ha chiesto di continuare a scrivere. Spero di non averti deluso.
Ringrazio Andrea Lanini per la prefazione, sono onorato che tu l’abbia scritta per me. Ti stimo davvero molto, sia professionalmente che come persona.
Ringrazio i miei amici e la mia famiglia che non mi fanno mai mancare il loro sostegno.
Ringrazio Valentina, l’unica mia ragione. Sono orgoglioso di avere al mio fianco una persona come te.
Indice
Frontespizio
Diritto d'autore
PREFAZIONE
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
IXX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI