Il golfo delle Sirene
Secondo una leggenda dove ora sorge la cittadina di Vico Equense a metà strada tra Pompei e Sorrento nella penisola Sorrentina, esisteva un'antichissima città di nome Aequa. Importante centro economico e di potere, essa doveva essere molto ricca contendendo a Sorrento, uno dei luoghi preferiti dai patrizi romani "che la ornarono di templi magnifici e di grandiose ville”, il primato nella penisola, ma fu travolta da uno spaventoso maremoto molti secoli prima di Cristo. In realtà una notizia su questa città ce la fornisce Silio Italico, nel libro V verso 460 - 466 della sua opera Punica, dove ci parla di Equana borgo Romano celebrato per la bontà dei suoi vini e del condottiero Murranum, morto combattendo durante la seconda guerra punica, (202 - 218 a.C.) tra Romani e Cartaginesi nella battaglia del lago Trasimeno. Silio Italico (? 25 a.C. -Campania 101 d.C.) era un poeta Latino. Una lettera di Plinio il Giovane illustra la sua vita, delatore sotto il principato di Nerone, fu da questi eletto Console nel 68; seppe cancellare questa macchia con un lodevole proconsolato in Asia (77) sotto Vespasiano, ritiratosi dalla vita pubblica, si dedicò allo studio delle lettere e professò un vero e proprio culto per Virgilio, il poeta delle " Egloghe ", delle " Georgiche " e dell’" Eneide " il maestro di Dante ritenuto Mago dalla tradizione popolare, secondo la quale avrebbe salvato la città di Napoli liberandola da invasioni d’insetti e serpenti, la dotò di erbe medicinali e dettò per ognuna delle fonti flegree un'iscrizione, che in seguito furono distrutte dai medici Salernitani, ideò fogne, pozzi, fontane, e rese pescoso il mare del golfo con un pesce intagliato nella pietra. E a Napoli egli volle il suo sepolcro, la città lo ricambiò amandolo moltissimo e prima di San Gennaro lo considerò suo protettore. Matilde Serao nelle sue leggende napoletane a proposito di Virgilio ci narra:<<... ma conosciamo poco Virgilio Mago, che ha prodigato alla città diletta fra tutte, i miracoli del suo potere magico. Noi siamo ingrati verso colui che esclama: ille Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope.
... Virgilio veniva da lontano, dal nord forse, dal cielo certamente; egli era giovane, bello, alto della persona eretto nel busto, ma camminava con la
testa curva e mormorava certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare, dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia e a Cuma; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del mare, per la via Platamonia, tendendo l'orecchio all’armonia delle onde, quasi che esse dicessero a lui soltanto parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia. In allora Parthenope era molestata da una grande quantità di mosche, mosche che si moltiplicavano in così grande numero e davano tanto fastidio, da farne fuggire i tranquilli e felici abitatori. Virgilio, per rimediare a così grave sconcio, fece creare una mosca d'oro, qualmente egli prescrisse e dopo fatta, le insufflò, con parole, la vita: la quale mosca d'oro se ne andava volando, di qua' e di là, e ogni mosca vera che incontrava, faceva morire. Così in poco tempo furono distrutte tutte le mosche che affliggevano la bella città di Parthenope. Altro miracolo fu questo: le molte paludi che allora si trovavano nella città, erano dannose, e perché i miasmi che esalavano, guastavano l'aria producendo febbri, pestilenze ed altre morie, e perché erano infestate da pericolosissime sanguisughe, Virgilio asciugò le paludi dove sorsero case e giardini e l'aria vi divenne la più pura che mai respirar si potesse. Così, giovandosi del suo potere che era infinito, un giorno egli salì sopra una collina e chiamò alla sua obbedienza i venti ed ordinò al Favonio, che spirava nella città nel mese di Aprile e col suo caldo soffio abbruciava le piante e i fiori, di mutare direzione: e la flora primaverile crebbe più bella e più rigogliosa. Laggiù nel quartiere che noi moderni chiamiamo Pendino, annidava un formidabile serpente, che era lo spavento di ogni uomo avendo già morsicato e strozzato bambini e fanciulle, e quando si mettevano in molti per combatterlo, esso scompariva rapidamente, nelle viscere della terra, per poi ricomparire più terribile che mai. Chiamato Virgilio in soccorso, egli si avviò tutto solo, ricusando ogni compagnia, al luogo dove il serpente si annidava e con le sue formule magiche l'ebbe subito domato e morto. Anzi è da notarsi che, sebbene la città fosse tutta eretta sopra un'altra città nera e malsana, fatta di caverne, sotterranei e cloache, dove potrebbero allignare simili rettili, da quel tempo sinora, mai più ve ne furono. Quando un morbo fierissimo invase la razza dei cavalli, Virgilio fece fondere un grande cavallo di bronzo, gli trasfuse il suo magico potere e ogni cavallo condotto a fare tre giri, intorno a quello di bronzo, era immancabilmente guarito, non senza molta collera di maniscalchi ed empirici, che si vedevano superati e sbugiardati. Certi pescatori della
spiaggia napoletana e propriamente quelli che dimoravano sulla strada, chiamata in seguito Porta di Massa, andarono da Virgilio, lagnandosi della scarsa pesca che vi facevano e chiedendo a lui un miracolo. Virgilio li volle contentare e in una grossa pietra fece scolpire un piccolo pesce, disse le sue incantagioni e piantata la pietra in quel punto, il mare fruttificò mai sempre di pesci innumerevoli. Virgilio fece mettere sulle porte di Parthenope, verso le vie della Campania, due teste augurali ed incantate, una che rideva e l'altra che piangeva: onde colui che capitava a are sotto la porta dove la testa rideva, ne traeva buon augurio per i suoi affari che sempre riuscivano a bene ed il contrario, colui che ava sotto la testa piangente. Fu Virgilio che in poche notti fece eseguire da esseri sovrannaturali la grotta di Pozzuoli, per facilitare il viaggio agli abitanti di quei villaggi che venivano in città; fu Virgilio, per la sua virtù magica, fece sorgere un orto di erbe salutari per le ferite ed ottime come condimento alle vivande; fu Virgilio che insegnò ai giovani i giuochi delle melarance e delle piastrelle, che s'ignoravano; fu Virgilio che di notte incantò le acque sorgive della spiaggia Platamonia e della spiaggia di Pozzuoli, dando loro singolare potenza per guarire ogni specie di malattia; fu Virgilio che applicando certi suoi rimedi e pronunziando gli scongiuri, sanò molti e molti ammalati; fu Virgilio che volendo salvare la compagna del suo discepolo Albino, svelò il mistero dell'antro Cumano dove i sacerdoti ingannavano il popolo coi responsi falsi, prodotti da una naturale combinazione di suoni. La cronaca soggiunge che Virgilio Mago fu amato, rispettato, idolatrato quasi come un Dio, poiché giammai rivolse la sua magia a scopo malvagio, sibbene sempre a vantaggio della città e dell'uomo. La cronaca non dice, quando e dove morisse Virgilio; molti allora credettero alla sua immortalità; qualcuno alla sua morte, su quel colle presso Avellino che chiamasi Montevergine, dove si era ridotto a studiare ed era divenuto vecchissimo. Ad ogni modo gli abitanti di Parthenope gli eressero un grande monumento, che poi fu distrutto, quello che sorge all'imboccatura della grotta essendo un semplice colombario. Ma non ebbero alcuna sicurezza di fatto il luogo e il modo, e l'epoca della sua morte... il poeta con le sue lunghe peregrinazioni, per quella orrida, bella e straziata campagna dei Campi Flegrei, dove egli fantasticava dell'Averno e dello Stige; con le sue lunghe peregrinazioni nella Campania Felice, dove egli ha acquistato quell'amore profondo della natura, l'amore dei campi ubertosi che si stendono all'infinito sotto il sole, dei prati verdeggianti, dove pascola quietamente il bove dai grandi occhi nei quali il cielo si riflette, l'amore dei boschi oscuri e silenziosi dove l'anima si calma e si assopisce nella pace, l'amore dei colli Aprichi, dove i liberi venti fanno ondeggiare
tutta una vegetazione di fiori; l'amore dell'uccello che canta e vola via, dell'insetto dorato che ronza, della foglia che il turbine si porta, della forte quercia che nulla scuote; quell'amore profondo della natura, che è il sentimento più alto del suo poema, che è la magia per cui ancora c'incanta, che è con una parola troppo moderna ma vera la nostalgia del suo cuore, che lo fa esclamare... ”fortunatos agricolas”, che da' alla sua descrizione tanto calore, tanta luce, tanta vita. E' il poeta che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura; è il poeta che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive; è il poeta che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso si scandisce; è il poeta che conosce la virtù dei semplici, che ha, scoverte certe leggi naturali, ignote a tutti; è il poeta civile che uccide le bestie, fa asciugare le paludi e fa sorgere a quel posto palagi e giardini; è il poeta che insegna ai giovani i giuochi dove il corpo si fortifica e l'anima si serena; è lui, sublime fantastico, che stabilisce l'augurio della buona e della mala ventura; è lui che come calamita fortissima, attrae a se ' l'amore, l'ossequio, il rispetto; è lui solo il buono, il veritiero, il saggio. Virgilio Mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte ... il poeta non muore >>. Silio Italico raccolse del poeta i più disparati cimeli con ione antiquaria, aveva inoltre una venerazione religiosa per il suo sepolcro, (posto nel parco di fuorigrotta) "Anche se egli era morto a Brindisi il 22 settembre del 19 a.C. di ritorno da un viaggio in Grecia" tanto da comprarlo, così come anche la villa di Cicerone poco lontana. Ciò diede l'opportunità a Marziale di comporre un bellissimo epigramma: " Silos haec magni celebrat monumenta Maronis,
Luger a facundi, qui Ciceronis habet
Hoeredem, dominumque sui tumulique, larisque.
Non alium mallet nec Maro, nec Cicero"
Egli lo visitava tutti i giorni, e secondo Plinio Cecilio lo rispettava come un
tempio. E dal gusto per la curiosità sono permeati i diciassette libri di Punica, poema epico sulla seconda guerra Punica, dall'assedio di Sagunto alla vittoria di Scipione a Zama. Se il metodo annalistico del racconto propone il parallelo con Ennio, è sicura l'utilizzazione sistematica della terza decade di Tito Livio, mentre l'impianto stilistico si riferisce a Virgilio, secondo Plinio componeva i suoi versi con più cura che ingegno, altre fonti di Silio Italico furono: Marrone, Posidonio ed Iginio, ci sono nella sua opera informazioni, etnografiche, mitologiche e storiche. Nella letteratura latina il genere epico ebbe vasta diffusione, poiché si prestò bene alla celebrazione e all'idealizzazione della storia Romana: così nel Bellum Poenicum di Nevio (270 a.C. - 201 a.C.) in versi Saturni; così negli: Annales di Ennio (239 - 169 a.C.).Parlò della seconda guerra Punica anche Polibio (200 - 120 a.C.), storico Greco che venne a Roma come ostaggio entrando poi nel circolo degli Scipioni, ed anche Cesare nelle: Storie. La città, di cui parla anche Strabone, geografo greco di età Augustea: " Vi è una strada nella città con case dall'una parte e dall'altra ", descrizione che ne rileva la pianta Ippodamea, termine che deriva da Ippodamo di Mileto, vissuto nel V secolo a.C., a cui sono attribuite le regole fondamentali per la costruzione delle città antiche, con strade perpendicolari, e terrazzamenti sulle colline, numerose città antiche quali: Pirene, Rodi, il Pireo e Mileto, furono edificate secondo questo schema urbanistico a scacchiera. Secondo alcuni studiosi, si chiamò in seguito Vico da un borgo, o villaggio (vicus) creato da Carlo I d'Angio' per i suoi cavalieri (Aequensis) nel luogo, dove si trovava il pago Romano. Effettivamente egli aveva rivolto molte cure a serbare e migliorare le razze equine tanto che i cavalli del regno erano molto rinomati e ricercati dalle più lontane regioni. Vico Equense ha una popolazione pressappoco di 20.000 abitanti, sorge circa a dieci chilometri da Castellammare di Stabia proseguendo lungo la strada panoramica SS145 Sorrentina dalla quale si può ammirare il golfo di Napoli e a 16 km dal monte Faito, da cui si arriva percorrendo la SS 269. La strada è perlopiù stretta e tortuosa, spesso panoramica, intorno ai 1100 metri si trova il Villaggio Monte Faito, formato da villini, bar, alberghi, da un belvedere la vista spazia su tutto il golfo di Napoli e se la visibilità è buona anche sulle isole del golfo. Procedendo per un'altra strada in salita tra i verdi boschi, troviamo un centro impianti RAI, presso il quale si trova il santuario di San Michele, fondato da eremiti medioevali ma rifatto varie volte, da questo luogo si può vedere uno stupendo panorama. Il monte Faito con i suoi 1440 metri rappresenta il punto più alto della catena montuosa dei Lattari. Il massiccio deriva il suo nome dalla faggeta che lo ricopre mentre le singole cime, grazie alle loro
particolari forme, che ricordano una gigantesca dentatura, prendono il nome di Molare e Canino. I suoi fianchi, tormentati, presentano dappertutto un declivio ripido o ripidissimo con gole profonde e selvaggi strapiombi. Essi sono coperti nelle parti rivolte a settentrione e a oriente, cioè verso Castellammare e Pimonte, da un fitto manto boscoso; mentre quella rivolta verso mezzogiorno è quasi del tutto priva di vegetazione, mostrando spesso la nuda roccia o un semplice velo di rada erba. Invece quella rivolta verso occidente offre un pendio meno ripido fin sui 600 metri di altitudine che in parte è costituito da piccole pianure. Segue, al di sopra di questa zona, una fascia sassosa e poverissima di humus, larga varie centinaia di metri e anch'essa dal pendio molto accentuato. Ad essa subentra un territorio vasto circa 400 ettari, ricco di vegetazione e di spazi pianeggianti e che si eleva dolcemente fino all'altura che segna lo spartiacque tra il versante di Vico e quello di Castellammare, e si prolunga, innalzandosi gradualmente, fino al luogo chiamato porta del Faito, dove si unisce al bastione roccioso che sale dal versante del golfo di Salerno; mentre nella parte che si prolunga verso oriente, si eleva ancora e terminando con tre caratteristiche punte, le quali hanno dato al luogo il nome di Monte Sant’Angelo a tre Pizzi, il cui nome: Sant’Angelo deriverebbe dall'arcangelo San Michele che sarebbe apparso ai santi Catello, vescovo di Stabia e Antonino, un monaco Benedettino che si erano ritirati a vita eremitica in quel luogo, affinché li innalzassero un oratorio a lui dedicato, ciò avvenne verso il V - VI secolo. Sulle sue rocce calcaree si ritrova anche grazie all'alta quota, un ambiente tipicamente montano caratterizzato, oltre che dalla presenza ubiquitaria del faggio, anche da estese coltivazioni di castagno, rovere, carpino nero, olmo, roverella, acero e ontano napoletano. Il sottobosco, pur molto povero, a causa della notevole ombra, in primavera si ravviva di fioriture di viole, ciclamini e crochi. Riveste grande interesse la presenza della pinguicola, una pianticella carnivora che si trova in prossimità di alcune delle numerose sorgenti. La fauna è costituita da molte specie tra le quali spiccano i rapaci diurni quali la poiana, il gheppio, lo sparviero e presso i dirupi più inaccessibili anche il velocissimo falco pellegrino. Le specie terricole annoverano talpe, ghiri, la volpe rossa abbastanza diffusa. La cittadina sorge sopra un promontorio roccioso prospiciente, il mare è una rinomata stazione balneare, di soggiorno e di cure termali, infatti, poco distanti dal centro ci sono le terme dello Scrajo, nome che in latino significa dirupo. Lo stabilimento termale fu fondato nel 1895 da Pietro Scala per sfruttare una sorgente di acqua solfo - clorurata -sodica, conosciuta già dai Romani, e citata da molti autori tra cui Plinio il Vecchio. Esse erogano acqua solfurea,
dalle grandi qualità terapeutiche. Inoltre la città è una base per escursioni sui monti Lattari, Vico ha un terreno molto fertile perché di natura vulcanica, ricca di verde lussureggiante e di vari e spettacolari panorami, predominano le colture dell'olivo, della vite e degli agrumi. Gli abitanti prendono il nome di Vicani. Sparsa su un'ampia superficie " Il più esteso della penisola Sorrentina " è attorniata da colline, formata da numerosi agglomerati, (13) denominati "borgate" o "casali " sia lungo la costa: (Marina di Equa, Seiano, Montechiaro ecc.) che sulle pendici occidentali dei monti Lattari (Bonea, San Salvatore, Pacognano, Preazzano, ecc.) la vita di questi borghi scorre lenta e tranquilla dedita alla pastorizia e all'agricoltura. Nella cittadina vi è anche un interessante museo mineralogico, unico nel sud dell’Italia: " Museo Mineralogico Campano” inaugurato il 22 ottobre 1992, esso ospita una grande collezione di 5000 minerali e di 1400 specie provenienti da tutto il mondo, raccolti in cinquanta anni di ricerca dall'ingegner Pasquale Discepolo. Nel corso degli anni, grazie ad altre donazioni, sono state istituite le sezioni dedicate a paleontologia, gemme, antropologia. Sempre a Vico Equense, è assegnato ogni anno il premio: " Capo d'Orlando " chiamato così dalla località della città dove nel XIX secolo sono stati rinvenuti pesci fossili del Cretaceo ora esposti in vari musei Europei. Istituito nel 1999, con la sola sezione scientifica vanta nel suo albo d'oro protagonisti del settore scientifico di fama mondiale, nel 2000 è stata istituita la sezione giornalismo e nel 2001 quella per la divulgazione televisiva. Le origini di questa città sono antichissime, abitata dagli Ausoni o Opici, dai Fenici, dagli Etruschi, dai Greci, dagli Osci, dai Sanniti, dai Romani presenze testimoniate anche dai più di 700 reperti custoditi nel suo Antiquarium, databili tra il VII ed il III secolo a.C., (vasi attici a figure nere e rosse, buccheri con incisioni graffite in alfabeto di matrice Osca, monili, coppe e bronzi finemente cesellati) . Tra i reperti più rilevanti figura una "Hydria" Attica a figure rosse (V sec.a.C.) una " Oinochoe "corinzia con figure di animali, diversi utensili e monili di bronzo, decine di coppe, "Oinochoai" (brocche da vino) in bucchero, la ceramica a totale impasto nero tipica dell'influenza culturale etrusca, da segnalare, inoltre, decine di anforette "Bombylioi", lucerne in ceramica e vasellame di bronzo. All'esterno delle vetrine ci sono alcune grosse anfore usate per il trasporto di generi alimentari e un'ancora romana del III secolo d.C. recuperata dai fondali di Punta Scutolo. Nel centro storico sono state ritrovate negli anni sessanta (1965,1966) parti di una necropoli (140 tombe) preromana ricca di corredi funerari. Già nell'ottocento erano stati scoperti manufatti non solo funerari nello stesso luogo. Probabilmente luogo di villeggiatura
dell'aristocrazia Romana, alleata di Roma decise in seguito di parteggiare per la Lega Sociale ma pagò caro questo suo gesto, Silla nell'89 a.C. la rase al suolo, così come Stabia ordinando che ne fosse costruita una nuova (secondo alcuni studiosi la città prese, il nome di Aequa poiché era stata: aequata cioè spianata) e come tutti i territori collegati con Stabia, subì l'espropriazione e tutti i suoi abitanti, furono dispersi, ma rinacque sotto l'imperatore Augusto quando divenne colonia Romana, nel 62 e nel 64 d.C. subì terribili terremoti e venne sepolta, secondo alcuni studiosi dai lapilli eruttati durante l'eruzione del 79 d.C. che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia. Poi l'antico centro fu distrutto ancora nel primo medioevo (VI) secolo dai barbari (I Goti). Il grande Castello in posizione dominante fu fatto costruire dallo stesso Carlo d'Angio' verso la fine del 1200, (secondo alcuni studiosi invece da Sparano di Bari feudatario di Vico tra il 1284 e il 1289) in quello stesso periodo fu proclamata da lui: " Università " cioè libero comune staccandola da Sorrento. Essa però non avendo postazioni difensive fu attaccata, dai Pisani dagli Aragonesi e dai Sorrentini che tradito il re Carlo davanti al porto di Napoli assalirono i Vicani che gli si erano mostrati fedeli, in seguito si dotò di mura, attaccata spesso dai pirati Saraceni, gli abitanti preferirono rifugiarsi sulle colline circostanti. Della struttura originaria del maniero non rimane molto, oltre la muratura vi era uno spiazzo, i magazzini per i viveri e le munizioni, vi fu in seguito un ampliamento con torri, fossato e numerose stanze. Nel XV secolo sotto la signoria dei Carrafa, il castello aveva tre torri, tra cui la centrale "Torre Masta". Ferrante Carrafa, restaurò la parte Angioina gravemente danneggiata ed abbatté due torri. Il palazzo baronale che è sempre stato considerato parte integrante della rocca, fu edificato probabilmente da Federico Carrafa tra il 1535 e il 1540, per quanto riguarda la parte centrale con i saloni del pian terreno e l'ala che si protende sul mare. In seguito il principe Matteo di Capua, diventato feudatario di Vico, decise l'allargamento del giardino e l'arricchimento del palazzo con preziosa mobilia e una raffinata pinacoteca. In seguito ò ai Ravaschieri di Satriano poi a varie famiglie, (Giovanni Pipino, Matteo di Capua) sotto Alfonso e Ferrante d'Aragona fu luogo d'incontro per artisti e scrittori, specialmente della Napoletana Accademia Pontaniana, ospitò inoltre anche Gioacchino Murat e Ferdinando di Borbone. Nel 1807 il principe di Satriano lo vendette alla corte e da questa ò ad un certo signor Nicola Amalfi ed infine alla famiglia Giusso precisamente al duca Luigi che nel 1822 lo aveva acquistato. All'inizio del novecento però gli eredi lo vendettero ai Gesuiti, che lo possedettero dal 1935 al 1973, i quali a loro volta lo hanno
ceduto ad una società immobiliare che lo ha trasformato in un residence lasciando intatto l'esterno. A Vico trovò dimora anche l'illustre giurista Gaetano Filangieri che qui' compose le sue opere sulla legislazione e qui' morì il 21 luglio 1788. Ebbe anche la sede vescovile, che mantenne fino al 1799, quando l'ultimo vescovo, Michele Natale, fu condannato a morte da Ferdinando IV di Borbone per aver aderito al moto Giacobino che portò al-
l' effimera repubblica Partenopea e giustiziato in piazza mercato a Napoli assieme a Eleonora Pimentel Fonseca. Notevole la chiesa dell'Assunta (ex cattedrale), chiamata anche: Vescovado, unico esempio di architettura sacra in stile gotico in costiera Sorrentina, di origini trecentesche, fu trasferita dalla marina, che stava progressivamente sprofondando, probabile opera del vescovo Giovanni Cimino, secondo alcuni studiosi invece fondazione di Carlo II d'Angio', ma con rifacimenti settecenteschi soprattutto all'esterno e nella navata centrale per opera del vescovo Paolino Pace, la torre campanaria del 1635, quadrata a tre ordini con un ingresso ad arco, culmina con una loggia merlata. Esternamente si notano le finestre ogivali presenti sui fianchi, testimonianza dell'originaria costruzione. Del XIV si trovano all'interno una tomba e un affresco di madonna con bambino, la pianta è a tre navate divisa da colonne, quella centrale era ricoperta da capriate lignee, possedeva un pavimento di maiolica sostituito nel 1880, e un’abside pentagonale che come il resto delle pareti era adorno di affreschi, di cui restano soltanto alcuni grossi frammenti vicini alla maniera di Roberto di Oderisio. Interessante il coro ligneo intagliato, la sagrestia, sul fondo della navata sinistra è in stile gotico, con rifacimenti settecenteschi e conserva sulle pareti, in medaglioni di stucco, le trentaquattro effigi dei vescovi della città. Lo slargo antistante alla facciata sul mare doveva essere certamente più profondo ma i continui cedimenti del costone lo hanno ridotto progressivamente. Poco distante dalla cattedrale, sul Corso Filangieri, protesa sul mare, è la chiesa di Santa Maria delle grazie a punta a mare, nel XV secolo, si dice che caduta in rovina e coperta di sterpi emanasse una luce intensa, grazie alla quale gli abitanti scoprirono, su un muro, l'immagine della vergine e decisero di ricostruire la cappella. Sulla facciata di stile ionico, si aprono due nicchie con le statue di tufo dei patroni di vico: San Ciro e San Giovanni. Raggiungendo via Natale e percorrendola fino in fondo si raggiunge il largo dei tigli, uno spettacolare balcone sul mare, dove troviamo un antico edificio ora scuola media, ma nel 1300 sede
vescovile quando essa fu trasferita dalla marina di Aequa. Risalendo lungo il viale della rimembranza, la cupola maiolicata della chiesa di San Ciro e San Giovanni annuncia la presenza di un luogo storico per la città: qui' sorgeva probabilmente l'edificio sacro più antico di Vico, risalente al XII secolo, preesistente anche alla cattedrale e restaurato sotto Alfonso D'Aragona. Questa chiesa fu sede, quando Vico divenne "Universitas", del " Tocco" o "Seggio" e vi si radunavano i cittadini per discutere di problemi politici ed amministrativi. La struttura presenta elementi di piperno grigio sulla facciata, il campanile con una cella campanaria ottagona del 1873, l'interno a croce latina con un'unica navata e tre cappelle per lato. Notevoli anche la chiesa dell'Annunziata (XV secolo). La costa è frastagliata e ricca di caratteristiche spiaggette, una panoramica strada in discesa conduce alla marina di Vico, lungo questa sono visibili i resti di una villa Romana di epoca Augustea, raggiungibile anche percorrendo le scale di via castello che costeggiano le mura dell'antica costruzione. Tra gli ulivi è possibile notare i resti dei mulini del 1640 nei quali affluivano le acque della sorgente Sperlonga. Caratteristiche abitazioni dal tetto a botte denotano la marina, qui troviamo anche spiagge con stabilimenti balneari ed un piccolo porticciolo. Lungo la fascia costiera che da qui' raggiungeva punta Scutolo, un tempo non sommerse dal mare sorgevano numerose ville marittime. Dal centro di Vico Equense ripresa la SS 145, dopo circa 2 Km si arriva a Seiano così chiamata dal nome di un senatore Romano che secondo una notizia di Cicerone, aveva in questo luogo una grande villa. Seiano, Lucio Elio (Bolsena 20 - 16 a.C. - Roma 31 d.C.), era un uomo politico Romano appartenente all'ordine Equestre, fu prefetto del pretorio sotto Tiberio dal 14 d.C. in seguito accrebbe enormemente la sua influenza sull'Imperatore che quando nel ventisette si ritirò a Capri, lasciò Roma nelle sue mani, Seiano che aveva già compiuto in precedenza numerose epurazioni tra i senatori, ottenne prima l'esilio per Agrippina Maggiore e per il primogenito: Giulio Cesare Nerone nel ventinove e poi l'arresto del secondogenito: Giulio Cesare Druso, temendoli come rivali nel suo disegno di impossessarsi del trono. Nel trentuno Antonia Minore, madre di Germanico, informò, però Tiberio dell'ambizioso progetto di Seiano, che nel frattempo era diventato Console, smascherato egli fu condannato a morte. Dopo il ponte di Seiano provenendo da Vico s’imbocca sulla destra via Murrano, incassata nel vallone di Rivo D'arco che conduce alla marina di Aequa, volendo invece procedere a piedi si prosegue oltre la strada suddetta e si prosegue per via Santa Maria Vecchia lungo la quale si trova la chiesa che porta lo stesso nome e percorrendo anche una scalinata si arriva alla
marina. Secondo la leggenda è qui che doveva trovarsi l'antica Aequa, procedendo sulla destra troviamo la massiccia torre di Caporivo del XIII secolo, sede del noto ristorante " Torre del Saracino " vicino ad un piccolo corso d'acqua per lo più asciutto, il: Rivo D'arco, il quale per l'ampiezza del suo bacino e per la lunghezza del suo corso è il maggiore di tutti quelli che scorrono nel territorio di Vico Equense. Esso è detto così per l'arco, che lo sovrastava e sul quale ava l'antica via che per Alberi portava a Sorrento, ancora oltre troviamo il promontorio di Pezzolo e resti di ville Romane di epoca imperiale, in questo luogo fu trovato un gruppo marmoreo raffigurante Amore e Psiche ora al museo nazionale di Napoli. Procedendo sulla sinistra, per via Arcoleo, troviamo un piccolo porticciolo, oltre il quale c'è la piazza e la piccola cappella, dedicata a Sant'Antonio, dalla quale parte una processione a mare in onore del Santo, dopo i campi sportivi del complesso, le Axidie si trovano i resti degli arsenali del 400, nei quali erano costruite le antiche imbarcazioni, procedendo oltre, inizia via Calcare, alla fine della quale si trova una piccola costruzione di tufo nero ad archi a forma di castello che nel XIII secolo ospitava degli arsenali, e che in seguito fu utilizzata per il commercio di calce, oltre il quale non è possibile proseguire. Risalendo sulla statale e proseguendo per circa 1 KM, si arriva al belvedere di punta Scutolo per ammirare tutta la costa frastagliata ed il golfo di Napoli, qui' vi era una torre: Torre di Guardiola di Scutolo fatta costruire nel 1569 da Cafaro Pignaloso, un notabile di Cava dei Tirreni. Tutte le grandi eruzioni del Vesuvio, che l’hanno lasciato “decapitato” ma con basi più solide, atte a sopportare una maggiore elevazione del gran cono, hanno provocato deboli maremoti, come quella più famosa del 24 agosto del 79 d.C. che distrusse le città di: Pompei, Ercolano e Stabia, i cui abitanti, abituati a considerare il Vesuvio, un vulcano spento furono del tutto impreparati ad affrontare l'eruzione. Essi avevano anche una festa pubblica dedicata al dio Vulcano: i Vulcanalia, che cadeva il 23 agosto, durante la festa erano lanciati nei falò pesci vivi per placare il dio del fuoco. L'eruzione secondo gli studiosi ebbe una potenza sette volte maggiore della bomba atomica lanciata su Hiroshima, mentre l'energia termica fu circa 100.000 volte superiore, e causò un maremoto di cui parla Plinio il giovane, "il quale durante l'eruzione rimase a Miseno in compagnia della madre", nelle famose lettere dirette all'amico Tacito, in esse narra i fenomeni che egli contemplò dal luogo dove si trovava e da conto della morte dello zio, "Plinio il Vecchio il quale essendo comandante della flotta romana a Miseno, imbarcò' e si diresse verso Ercolano, ma non poté approdare per la grande quantità di sassi che cadevano, si diresse allora a Stabia dal suo amico
Pomponiano ma qui' trovò la morte", secondo i ragguagli avuti da coloro che erano ritornati con la flotta. Le ceneri delle eruzioni arrivarono anche in Egitto ed in Siria. La città diciassette anni prima il 5 febbraio del 62 era stata devastata anche da un grande terremoto, durante il consolato di Regolo e Verginio, proprio quando l'imperatore Nerone si trovava a Napoli e si esibiva a teatro, episodio descritto da Lucio Anneo Seneca nelle: Naturales Questiones, libro sesto
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> Dopo quest'eruzione l'intera zona vesuviana tra il vulcano ed il mare, fu profondamente modificata: i fiumi Sarno e Sebeto persero il letto, creando grandi zone di acquitrino e paludi, la "silva mala" dei Romani; la linea di costa modificata a causa del bradisismo e del maremoto, la spiaggia di Ercolano sprofondò di quattro metri rispetto all'attuale livello, inoltre il mare che prima lambiva la città, si ritirò, oggi è a quattrocento metri di distanza dalla città, fu anche distrutta la strada costiera Domiziana, per cui per raggiungere Salerno bisognava prendere la strada interna Popilia. Strabone, nel 19 d.C., nella sua geografica scrive, riferendosi al Vesuvio: " Esso è una montagna rivestita di terra fertile, e dalla quale sembra che abbiano tagliato orizzontalmente la cima: forma una pianura quasi piatta, totalmente sterile, del colore della cenere, nella quale s’incontrano di tratto in tratto caverne piene di fenditure formate da una pietra annerita come se avesse subito l'azione del fuoco; di modo che si può congetturare che lì vi fosse un vulcano il quale si è spento dopo aver consumato tutta la materia infiammabile che gli serviva da alimento". Il Vesuvio fu citato anche da: Polibio, Diodoro Siculo, Lucrezio, Vitruvio, Dionigi d'Alicarnasso, Vellejo Patercolo, Silio Italico e Seneca. Anche l'eruzione del: 16 - 31 dicembre 1631, la più forte dopo quella Pompeiana, colse la popolazione del tutto impreparata poiché il vulcano dormiva da oltre centocinquanta anni e il suo cono si era notevolmente innalzato al punto di superare il monte Somma, inoltre le sue pendici erano ricche di vegetazione ed i suoi pascoli così lussureggianti che gli umanisti Pontano e Sannazzaro, l'avevano preso a protagonista di favole bucoliche. Essa provocò un'onda che devastò le coste tra Napoli e Castellammare
facendo numerose vittime, circa 3000, Napoli ne uscì indenne e per ringraziare San Gennaro fu costruita la guglia di piazza Sforza, da questa data, in particolare per opera dei padri Gesuiti, il Vesuvio diventerà oggetto di ricerche continue. Alcuni studiosi ritengono che il Vesuvio fosse già attivo quando i Greci giunsero sulle coste campane, attratti dalla terra fertilissima e soleggiata, dal clima mite e dai facili e naturali approdi, (essi, provenienti dalle città Euboiche di Calcide ed Eretria si fermarono prima a Ischia: "Pitecusa" intorno al (770 a.C.) poi fondarono Cuma, posta su un'alta rupe di 82 metri, nel VII secolo (750 a.C.) a cui imposero lo stesso nome della patria: Kymi e poi i fuggiaschi di Samo (530 a.C.) fondarono l'attuale Pozzuoli, chiamata così in epoca romana secondo Varrone per la puzza, di zolfi ed altri minerali che vi si sentono, oppure dal latino "puteus" per la quantità di pozzi fatti scavare da Annibale o da Quinto Fabio quando condusse la stessa colonia romana contro Annibale, già emporio della potente Cuma a cui imposero il nome di: Dikearchia o Dicarchia "città del buon governo". Furono i Cumani a fondare la città di Partenope, essi colpiti due volte da una feroce pestilenza, che decimò la popolazione. Gli abitanti di Cuma si rifugiarono in un luogo dolce e mite in attesa che il pericolo asse del tutto, ma con l'intenzione, di abbandonare il loro paese di origine così duramente colpito e considerato luogo di pericolo e paura. Tornati nella loro città natale alcuni nobili decisero di interpellare Apollo e chiedere a lui un consiglio sul da farsi, davanti all'ara del dio del Sole, i Cumani chiesero al figlio di Giove come potesse essere mutato e divenire sicuro il luogo dal quale provenivano. A questo interrogativo fu Apollo stesso a rispondere e a consigliarli di abbandonare Cuma cercando un'altra zona nella quale organizzare il loro futuro; di cercare e pregare Partenope, fermarsi dove essa giaceva e costruire lì le loro case. Unirsi e procreare poiché quella nuova città avrebbe raggiunto enorme fama e grande risonanza e avrebbe avuto la sua storia. La maggior parte dei cumani volle obbedire al consiglio divino. Si misero quindi alla ricerca di questa Partenope e del luogo ove poter cominciare ad avviare le loro attività, abitare con le famiglie e iniziare una nuova luminosa vita. Partenope era una ragazza d’incommensurabile bellezza. Figlia del re di Sicilia, aveva intrapreso un viaggio con una numerosa flotta ma giunta a Baia si ammalò e non ci furono cure che riuscissero a strapparla alla morte. Fu quindi sepolta in quello stesso luogo e le fu dedicato un tempio. Matilde Serao la descrive così :<< Invero ella era bellissima: era l'immagine della forte e vigorosa bellezza, che ebbero Giunone e Minerva, cui veniva rassomigliata. La fronte bassa e limitata di dea, i grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, la vivida
candidezza della carnagione. Si chiamava Parthenope che nel dolce linguaggio greco, significa, vergine >>. Giunti al sepolcro i Cumani riconobbero il luogo indicato da Apollo e cominciarono subito a edificare la nuova città alla quale imposero il nome della vergine Partenope, e qui, come aveva predetto Apollo, vissero tranquilli e prosperando per molti anni.
Finché cominciarono litigi e discordie tra i cittadini. Fu allora che un giovane chiamato Tiberio Iulio Tarso, appartenente a una ricca famiglia, con alcuni suoi amici decise di edificare una città nuova poco distante da Partenope sotto le falde del monte Falerno nella zona che oggi chiamiamo Sant'Eframo. Il giovane costruì la nuova città a proprie spese cingendola con robuste mura e la chiamò Neapolis, cioè città nuova. Ben presto Neapolis cominciò a crescere allargando i propri confini. Intanto il nome di Partenope cadeva in disuso e molti utilizzavano il nome di Paleopoli, per indicare il vecchio nucleo rispetto alla nuova Neapolis; ma pian piano anche questo non venne più utilizzato e la città fu definitivamente chiamata Neapolis. I coloni greci preferivano sempre promontori alti sul mare, quasi isole probabilmente per la loro caratteristica di difendibilità da attacchi nemici. Essi non ebbero, però vita facile, furono infatti ostacolati dagli Etruschi, sul mare, poiché al tempo della colonizzazione greca, essi stanziati da molto tempo in quei luoghi si presentavano già come il popolo meglio organizzato, più intraprendente e dinamico di tutta la fascia costiera tirrenica, interessati al controllo di tutta la zona, e al commercio con le popolazioni circostanti. I Greci preferirono creare le loro prime colonie lontane, dalle zone controllate dagli Etruschi, ma adatte ad entrare in rapporti commerciali con essi, prima di tutto per l'approvvigionamento dei metalli di cui l'Etruria disponeva largamente. Si ebbe poi nonostante la rivalità greco - etrusca sul mare un profondo influsso della cultura greca su quella etrusca, infatti si presume che ci fu un lungo periodo in cui la lingua etrusca fu parlata senza essere scritta, fino al momento dell'introduzione della scrittura resa possibile dall'adozione dell'alfabeto, trasmesso agli etruschi, dai coloni greci di Ischia e di Cuma. Diodoro Siculo che visse ai tempi di Giulio Cesare, rifacendosi a Timeo, narra che la piana Campana si chiamava "Phlegraea" da monte oggi detto Vesuvio e che un tempo ha vomitato un gran fiume di fuoco come l'Etna in Sicilia; e ancora oggi esso conserva molte tracce dell'antico incendio. Gli antichi onoravano Giove e Plutone col titolo di Vesuvio e di Summano, aggiungendo il soprannome di
"esuberantissimo", attributo che caratterizza bene un Vulcano in furore. I Greci erano grandi creatori di leggende per cui di fronte alle fiammate e alle eruttazioni dei vulcani campani, diffo la leggenda dei giganti Lastrigoni dall'unico occhio di fuoco che affondavano le navi con il lancio di grossi massi. Tra le varie mitologie di tutti i popoli politeisti, la più bella, la meglio ordinata, la più coerente è, senza dubbio, proprio la mitologia Greca, innanzitutto poiché questo popolo era, tra tutti quelli che abitavano allora la terra, uno dei più intelligenti, dei meglio dotati di fantasia, dei più sensibili al bello; ma specialmente perché i miti religiosi che questo popolo aveva inventato vennero ben presto rielaborati dai suoi poeti, cioè da coloro che emergevano dalla massa per avere più spiccate, più profonde, più perfette, le migliori qualità della razza: intelligenza, fantasia, serenità, sentimento vivissimo del bello e dell'armonia. Tra i tanti poeti greci che trattarono di mitologia, vi sono, sin dai primordi della poesia greca, due sommi: Esiodo ed Omero. I popoli antichi, infatti, nel creare i propri miti, furono guidati soltanto dalla spontaneità del sentimento religioso, essi si limitarono a raccontare dei loro Dei gli eroismi, i miracoli, le grazie accordate agli uomini buoni, le punizioni inflitte agli empi e ai reprobi, insomma le sole notizie essenziali per spiegare in qualche modo i fenomeni naturali che li spaventavano o li meravigliavano; senza preoccuparsi ne di cercare le origini e le parentele di queste divinità, ne’di raggrupparle in costellazioni di Dei maggiori o minori, né di conferire ai miti un significato simbolico o morale. Furono i poeti più tardi, che, impadronitisi di tali schematiche leggende colte dalla bocca stessa del popolo, vollero trasformarle in poesia e misero perciò un po' di ordine nell'intricata matassa ed eliminando le contraddizioni, connettendo un mito con l'altro, colmando le lacune con circostanze da essi inventate di sana pianta, e dando ad ogni mito un significato simbolico, ridussero la mitologia ad un sistema cronologicamente, logicamente ed esteticamente armonico e ben equilibrato. Per abbellire e rendere più divertente e più efficace il loro racconto, perché questo era soprattutto lo scopo della loro manipolazione dei miti, poco si curarono di rispettare il sentimento religioso che originariamente li aveva ispirati, tanto che spesso attribuirono alle divinità gesta e atteggiamenti ben poco degni di esse e talvolta persino irriverenti e ridicoli: basterà ricordare i continui e futili bisticci tra Giove e la moglie che si leggono nei poemi Omerici. Si possono pertanto distinguere due diverse mitologie: quella che chiameremo: mitologia popolare, le cui caratteristiche sono la spontaneità, l'ingenuità', e la religiosità; e una mitologia letteraria o dotta, che è una trasfigurazione poetica o filosofica di quella popolare. Gli antichi
localizzarono in Campania alcuni dei loro miti più importanti, qui' avvennero le battaglie di Giove contro i Titani, nelle sue viscere giacevano i giganti sepolti dal re degli dei quando ne ebbe domata la ribellione: Tifeo e Mimante. Ai terribili sussulti dei loro corpi, vinti ma non domati, essi attribuivano i forti terremoti che di tanto in tanto squassavano queste terre e, alla loro ira impotente, le esalazioni di fumi ardenti e le eruzioni che sollevavano la terra verso il cielo. Qui dominava il divino fabbro Efesto che si serviva dei vulcani come forge ed "agorà di Efesto"chiamavano i Greci, l’odierna Solfatara, più tardi detta "il foro di Vulcano" dai romani. Ed è proprio questa continua attività vulcanica a connotare un'immagine di una terra nelle cui viscere ben si poteva ipotizzare l'estrema tappa del viaggio umano, l'ingresso dell'ultima dimora: L'Ade, i luoghi sacri di Persefone. S’immaginò quindi che le acque dei suoi laghi, la palude d'Acheronte (il Fusaro), i laghi Lucrino e d'Averno fossero alimentati dai fiumi sotterranei del regno dei morti, il Piriflegetonte ed il Cocito, qui' Ulisse ed Enea vennero ad evocare le ombre dei loro cari per conoscere il proprio destino, e qui' la maga Circe indica ad Odisseo il cammino per giungerà all'Ade. Quando Zeus affidò al fratello Poseidone, il dominio del mare assegnò contemporaneamente il domino dell'Oltretomba all'altro suo fratello Hades. Questo Dio regnava dunque, insieme con la moglie Persefone sulle ombre dei morti; e la sua dimora è perciò nell'Erebo, un luogo posto nelle profonde viscere della terra. L'aggiu' i raggi del sole non possono penetrare, e l'atmosfera è resa fosca e pesante da una densa nebbia e da nubi. Questo luogo sotterraneo, un'immensa caverna ha, come suolo, un prato di asfodeli, circondato tutt'attorno da quattro fiumi spaventosi: Lo Stige, l'Acheronte, il Flegetonte e il Cocito, ai quali più tardi venne aggiunto dai poeti un quinto fiume, il Lete, che è il fiume dell'oblio della vita terrena. Per penetrare nell'Erebo, che è un'isola, occorre un barcaiolo, Caronte, figlio dell'Erebo e della Notte, come pagamento per il tragitto egli riceve dal defunto un obolo, quello stesso, che a tale scopo, i parenti mettono in bocca al morto, nel momento di seppellirlo. ate le acque di questi fiumi, si entra nell'Erebo per una porta, a guardia della quale sta Cerbero, figlio di Tifone e di Echidna, cane feroce con tre teste, che latra con ululati terribili: esso lascia entrare liberamente le anime; ma guai a quelle che volessero uscire. L'Erebo è diviso in due parti distinte: il Tartaro, che è il luogo dei tormenti per le anime colpevoli, e l'Eliso, che è il luogo in cui riposano i beati. L'Eliso o Campi Elisi è una bella campagna, dove non si sa che cosa sia neve, pioggia e gelo, poiché vi spira continuamente uno zeffiro lieve che da' refrigerio alle anime, le quali, per i loro meriti speciali, possono vivere,
anche dopo morte, una vita tranquilla e felice. A giudicare le anime dei defunti sono stati messi quattro mortali per il loro senso di giustizia e per i propri meriti, Minosse, l'antico e mitico re di Creta, figlio di Zeus e di Europa, sposo di Pasifae, padre di Arianna e Fedra, che aveva dato al suo popolo leggi savissime. Radamanto, fratello di Minosse il quale però per sfuggire alla sua ira era fuggito in Beozia, dove sposò Alcmene. Eaco, figlio di Zeus e di Egina, re dei Mirmidoni, molto caro agli Dei per la sua pietà e per la dolcezza del suo carattere. Infine Trittolemo figlio di Celeo che ospitò Demetra, egli inventò l'aratro e diffuse l'agricoltura. Tra le tante divinità che dimoravano in questi luoghi, vi erano anche: Ecate, figlia di Perse e di Asteria, della stirpe dei Titani, signora della Notte, delle malie e dei fantasmi, essa spaventava gli uomini evocando terribili fantasmi, e vagava nottetempo per i trivi e sulle tombe, emettendo lugubri lamenti: i cani da guardia nelle campagne annunciavano l'avvicinarsi della Dea con insistenti latrati. Era rappresentata con tre teste, una di cavallo, una di cane, e la terza di leone, sulle quali si attorcigliavano serpi al posto di capelli. Le tre Erinni, Aletto, Tisifone e Megera. Erano le dee della maledizione e della vendetta punitrice. La loro figura era raccapricciante, venivano raffigurate come vecchie orribili, con serpenti per capelli e con occhi di fiamma. Esse perseguitavano senza tregua il colpevole con la loro spaventosa forza, finché quello non avesse espiato il suo delitto. Thanatos e Hypnos figli gemelli della notte. Mentre Hypnos, che i Romani chiamavano Somnus ed era la personificazione del sonno, giovava benignamente agli uomini, apportando loro il dolce riposo e l'oblio degli affanni, Thanatos, che i Romani chiamavano Mors, essendo appunto la personificazione della morte, era inaccessibile a ogni sentimento di pietà: veniva rappresentato in veste nera, con mano la scure dei sacrifici, di cui si serviva per recidere un ricciolo al morente. Le Arpie figlie di Taumante e di Elettra, le Dee delle procelle rapaci e della fame, che rubavano e insozzavano i cibi delle persone che prendevano a perseguitare. Tra le Arpie vengono nominate: Podarge, dai piedi veloci; Aello, Ocipete, Celeno. Erano rappresentate come grossi uccellacci da preda con visi di donna: Gli Argonauti le cacciarono dalla Tracia ed esse fuggirono riparando nelle isole Strofadi, dove le trovò poi Enea. L'areola mitica non si è mai allontanata da questi luoghi. Un paesaggio straordinario cantato nei versi di Virgilio, Stazio, Silio Italico, Plinio il giovane un luogo amato dall'aristocrazia romana, per la bellezza dei suoi luoghi e per le sorgenti termali, Strabone la definiva <
>, per Stazio era <
>, egli definì questi luoghi <
> Lucilio defini' Pozzuoli ( Puteoli ) <
>
Petronio nel Satyricon. CXIX fa dire ad Eumolpo <<...e che gli scogli della riviera di Lucrino, danno l'ostrica gustosa utile a solleticare l'appetito ed a rovinare lo stomaco>> CXX << C'e' un luogo remoto al fondo di un abisso che si trova fra Napoli e la campagna fertile di Pozzuoli, bagnato dall'acqua di Cocito: infatti ne esce fuori un vapore denso, che sparge intorno odori soffocanti. D'autunno non cresce mai nulla, e sui campi non spunta mai un filo d'erba a primavera sui teneri virgulti non si odono canti di uccelli, ma sempre e solo rovine e rocce ammantate di nero squallore, alle quali fa da corona una fila di tristi cipressi>>. Cassiodoro, nel 530 d.C. all'imperatore Atalarico scriveva <
> (Variae, IX, 6; cfr.XII, 22) Già nel corso del I sec a.C. Orazio, incantato dalla bellezza corruttrice ed insidiosa di Baia, riassume in un celebre verso la sua ammirazione << Nullus in orbe sinus Bais praelucet amoenis >> (nessun golfo al mondo è splendido come la ridente Baia) il nome di questa città, famosa per le terme, poi sommersa dal bradisismo deriverebbe dai buoi che Ercole portò con sé quando tornò dalla Spagna dopo aver vinto Gerione, oppure da Bajo il compagno di Ulisse ed Ercole vi creò una strada che la collegava al lago d'Averno, gli edifici di questa città sono definiti da Orazio e Marziale come splendidi e superbi. Cicerone, una delle fonti più preziose per la ricostruzione della vita, che si svolgeva nell'area flegrea la definirà "pusilla Roma",
<< deliziosa >> << luoghi sommamente desiderabili, se non fossero quasi da sfuggirsi per la folla dei seccatori >> per la bellezza dei luoghi, la mitezza del clima, il potere curativo delle acque termali, egli vi incontrò Cesare nell'ultimo giorno dei Saturnalie gli offre <
> nella sua villa sul mare. Questa villa: Il Cumanum fu così descritta da Plinio (XXXI, I, 3):<<E' cosa degna di essere ricordata, per coloro che dal lago di Averno si recano a Puteoli, quella villa sovrapposta al lido, e decantata per il suo portico e per il suo boschetto, che
Cicerone, sull'esempio di quella di Atene, chiamava Accademia, e dove egli compose i suoi libri del medesimo nome>> Nerone vi meditava il sacrificio di Agrippina, mentre a Baia si facevano feste a Minerva. Petronio la ricorda << dove squarciata la sede dell'Erebo s'apre in massa il coro sale di Dite >> ( Satyricon,123,v.250 ) Qui' sorgevano le magnifiche e sontuose ville del ricco banchiere puteolano Cluvio, di Fausto, figlio di Silla, di Quinto Catulo, di Ortenzio, di Cicerone, di Licinio Crasso, e Caio Mario, di Varrone, di Nerone, di Pompeo di Cesare, di Antonio, di Tiberio. Qui' avvenne la morte di Publio Cornelio Scipione e qui' pronunciò le sue memorabili parole "nequidem ossa meo habebis" Roma con la sua corte si deliziava qui'. Anche Petrarca nell'Itinerarium Syriacum menziona questi luoghi nello stesso ordine del libro VI dell'Eneide. Il sommo poeta, dopo una visita nel 1341 o 43, in una lettera, descrive la solfatara e si rammarica di non aver visto Liternum luogo prediletto da Scipione l'Africano:<< ho visto i luoghi descritti da Virgilio; e quel che è più mirabile, tanto prima di lui descritto da Omero: greco antichissimo e sopra tutti dottissimo che altrove non trovando luogo più nobile, e al suo racconto più acconcio, lo prese dall'Italia. Ho visto i laghi d'Averno e di Lucrino, e anche le acque stagnanti dell'Acheronte; la laguna di Agrippina Augusta, resa infelice dalla crudeltà del figlio; la strada di Caio Caligola, splendida una volta, ora coperta dalle onde e la barriera imposta al mare da Giulio Cesare; vidi la patria e l'abitazione della Sibilla, e quell'orrenda spelonca, donde gli stolti non tornano indietro e i saggi non possono entrarci; ho visto il monte Falerno famoso per le sue vigne e quell'arida terra che qui esala continuamente vapori salutari alle malattie, la erutta gorgogliando nuvole di cenere e acque termali, a guisa di caldaia che bolle; ho visto le rupi che d’ogni parte stillano un'acqua e bagni che un tempo, per dono della natura madre comune, servirono a guarire ogni male, e che ora per l'invidia dei medici, come dico, sono stati con altri confiusi; ai quali tutta via anche oggi dalle vicine città concorre gran numero di persone d'ambo i sessi >>, mentre il Boccaccio, nell': Elegia di Madonna Fiammetta - Cap V. diceva :<< in mezzo dell'antiche Cume e di Pozzuolo sono le dilettevoli Baiae, sopra li mari nei liti, del sito delle quali più bello ne’più piacevole ne cuopre alcuno il cielo >> Il quartiere marittimo, con moli, porti, bacini artificiali, fari, depositi, strade, ancoraggi d'approdo, è interamente sommerso a circa 150 metri dalla costa attuale. Al fascino di questi luoghi non si sottrarrà neanche un altro viaggiatore famoso, Wolfgang Goethe, che nel "Viaggio in Italia" annota il 1 marzo 1787
:<< Una gita in mare fino a Pozzuoli, brevi e felici eggiate in carrozza e a piedi attraverso il più prodigioso paese del mondo. Sotto il sole più limpido e il suolo più infido; macerie d'inconcepibile opulenza, smozzicate, sinistre; acque ribollenti, crepacci esalanti zolfo, montagne di scorie ribelli ad ogni vegetazione, spazi brulli e desolati poi, d'improvviso una verzura eternamente rigogliosa, che alligna ovunque può e s’innalza su tutta questa morte, cingendo stagni e rivi, affermandosi con superbi gruppi di querce perfino sui fianchi di un antico cratere>> Più tardi, Alessandro Dumas dirà che <
> Mentre il Pontano sosteneva che qui' i corpi si risanavano ma le anime si ammalavano, anche Il grande archeologo Amedeo Maiuri, descrisse questi luoghi :<
>si dissero dai primi abitatori ellenici, che vedevano ancora nel V secolo l'Epomeo solcato dalle vampate sanguigne delle lave, perché apparivano fiammeggianti e come combusti dal fuoco. Ed accanto alla più lussureggiante vegetazione ed agli aspetti più sereni e lieti della natura, qual'e' l'amenissimo lido di Pozzuoli e di Baia, il cratere ribollente della Solfatara, la plumbea pesantezza delle acque del lago d'Averno, le caverne e le spelonche sacre al culto dell'invisibile, agli spiriti ed alle voci del mistero>> mentre il Saint Non nel 1759 così descriveva la solfatara : <
Un esperimento che questa gente fa normalmente davanti a tutti i viaggiatori, e che mi sembra assai pericoloso, è di gettare con forza una pietra per terra in un punto dove c'e' una piccola crepa: sotto ai piedi si sente un rumore come un colpo di cannone che rimbomba in lontananza per parecchio tempo, in volte immense la cui superficie ha certamente poco spessore. Soggetto di riflessione per il viaggiatore>>. La denominazione del Vesuvio è Italica ed ha un significato simile al nome greco : "Vulcano" che sta a significare secondo Timeo : " monte delle fiamme ". Esso che raggiunge i 1277 metri d'altezza in realtà è un vulcano cresciuto all'interno della più antica caldera del monte Somma, che risale a circa 25.000 anni fa, secondo alcuni studiosi in quel tempo il vulcano o era sottomarino, o la lava si apriva la strada attraverso le rocce che si erano formate nel fondo del mare, ecco perché tra le formazioni del monte Somma, si rinvengono allo stato fossile conchiglie marine, esso costituisce un esempio di
" vulcano a recinto " la cui attività terminò con lo sprofondamento della caldera stessa . Nei secoli si sono avute anche emissioni laviche lungo fratture poste all'esterno della caldera come quelle dell'eruzione del 1760 e del 1794. Le eruzioni di questo vulcano possono essere catalogate in tre tipi principali: A) Eruzioni di modesta entità con attività prevalentemente effusiva o mista (effusiva - esplosiva) con la formazione di colate e di fontane di lava, ed anche la caduta di blocchi, bombe, ceneri e lapilli, nonché spesso di grosse colate di fango (lahar) dovute alle piogge torrenziali che sovente accompagnano queste eruzioni, un esempio è quello dell'aprile 1906 e del 1944. B) Eruzioni esplosive dette anche sub pliniane, abbiamo in questi casi l'abbondante caduta di blocchi, ceneri e lapilli perlopiù pomicei e lo scorrimento distruttivo di lava e colate di fango, eruzioni di questo tipo sono state quelle del 472 d.C. quella del 512 d.C. e quella del 1631 d.C. C) Eruzioni catastrofiche dette eruzioni pliniane. Queste eruzioni di solito iniziano con un'enorme emissione di pomici e ceneri e con lo scorrimento di grandi colate di lava e di fango un esempio di quest'eruzione è quella del 79 d.C. che distrusse Pompei ed Ercolano e che Plinio il giovane descrisse efficacemente. All'ultima eruzione quella del 1944, ha fatto seguito una fase di riposo a condotto ostruito, caratterizzata da modesti segni d'attività: (fumarole all'interno del cratere e moderata attività sismica). Ad eccezione
di Plinio il Giovane, di cui abbiamo l'unica descrizione diretta dell'eruzione del 23 Novembre del 79 d.C. che avvenne circa un'ora dopo mezzogiorno e durò tre giorni, gli scrittori latini e greci, ci hanno tramandato più un'interpretazione mitologica del Vesuvio che una sua descrizione scientifica. Virgilio, Marziale e Svetonio, hanno dato lustro e mistero all'argomento collocando sul Vesuvio la fucina di Vulcano, ritenuto il dio del fuoco, figlio di Zeus e di Era, lavorava i metalli nelle sue officine sotterranee, egli spargeva sulla terra il suo fuoco, e tutte le creature lo temevano tranne i pesci, pertanto Vulcano doveva essere placato gettando pesci vivi tra le fiamme di una pira. Nei suoi boschi si cacciavano anche: cinghiali, cervi e lepri. Il Vesuvio deve essere considerato un vulcano attivo molto pericoloso anche a causa della grande urbanizzazione del territorio circostante, la sua storia ci insegna che quanto più lunghi sono i periodi di riposo tanto più è distruttivo il suo risveglio. Solo però tra il 1841 e il 1845 per volere di Ferdinando II di Borbone, fu edificato l'osservatorio vesuviano, inaugurato il 28 settembre 1845, in occasione del VII congresso degli scienziati Italiani. La palazzina neoclassica ospita un'interessante raccolta di minerali, ed ha una fornitissima biblioteca, adesso funziona come centro di ricerca ed esposizione di strumenti scientifici, campioni di minerali e rocce, mentre la sede operativa è stata trasferita a Napoli. Mentre il Parco Nazionale del Vesuvio è stato costituito nel 1995 su una superficie di circa 8490 ettari. In realtà tutto il golfo di Napoli è un'enorme caldera cioè la bocca di un gigantesco vulcano che gli antichi chiamavano "cratere" perché ha la forma di una tazza, la distanza poi tra Napoli e la parte opposta: punta della Camla è di circa settanta chilometri. La presenza di materiale vulcanico a Castellammare di Stabia e a Vico Equense è testimoniata anche da una notizia di Giulio Cesare Capaccio, (1550 - 1633) gran viaggiatore e dotto studioso napoletano, storico e apionato di archeologia egli fu il primo ad interessarsi alle rovine di Paestum, segretario della città di Napoli tra il 1602 e il 1613 ed autore di una guida: " Il Forastiero ", storia della città sotto forma di dialogo fra un Napoletano ed un viaggiatore straniero che fu pubblicato postumo. Egli sosteneva che l'altezza, inusuale per l'epoca, fino al sesto o settimo piano dei palazzi di Napoli era possibile grazie alla leggerezza delle pietre estratte delle cave locali, che miste alla pozzolana e alla calce "perfettissima" di Castellammare di Stabia e di Vico Equense formava un composto solido e leggero: "Rimango attonito quando contemplo gli edifici della città che sono così alti come non si veggono in alcuna parte del mondo, e se in alcuna parte sono, non si vedranno con questa frequenza...
Havemo noi la pietra leggera che si cava nei monti nostri... l'arena detta pozzolana forte quando si conglutina con la calce ha tanta forza che con piacevolezza fa erger la fabbrica insino al sesto e settimo appartamento". Anche le isole di Procida e di Ischia sono di origine vulcanica. Invece Capri, che appare dal mare caratterizzata da ripide pareti calcaree, e che secondo la leggenda era abitata dalle sirene all'epoca di Ulisse, le quali col loro dolce canto attiravano i miseri naviganti, che poi uccidevano; e da lontano ne apparivano le biancheggianti ossa disperse sul lido. Ulisse istruito da Circe evitò i loro agguati; ed esse allora disperate si gettarono in mare e vi perirono. Così cantavano Omero, Virgilio, e gli antichi poeti che chiamavano Capri isola delle sirene. I letterati hanno cercato di spiegare l'esistenza delle sirene in molti modi identificandole di volta in volta con: la schiuma delle onde del mare, con l'incanto del golfo di Napoli, con i raggi del sole, erano per altri pericolose scogliere, o streghe marine o spiriti planetari, o le armoniose facoltà dello spirito ed ancora Laucotèa, divinità fenicia, che può assumere forma di uccello. In seguito quest’isola fu invasa da rozzi Lestrigoni, i quali erranti e dispersi vivevano per la Campania trucidando e nutrendosi dei loro nemici. Omero li dipinge colossali e feroci; ed Augusto, che aveva raccolto in Capri un museo di cose antiche e rare, vi teneva ossa grandiose di animali e d'uomini che si credevano appartenere a tal popolo. Anche i Cimmeri dovettero stabilirsi a Capri quando, fuggendo dal furore dei tanti vulcani che distruggevano Pozzuoli loro patria, si sparsero per le coste della Campania: ma questi popoli, che si perdono nel buio dei secoli altra memoria, non han lasciato di loro se non confuse tradizioni che gli antichi storici ci tramandano, e che furono abbellite dai primi poeti. Essa ha una storia che comincia da molto lontano, colonizzata prima da coloni Elleni di stirpe teleboiche, poi in epoca romana Augusto e Tiberio la scelgono come dimora, vi realizzano grandi opere e ne determinano il destino di luogo eletto. Hadrawa nel 1793 ci narra:<
Capri dal gran numero de' capri, che anticamente vi si trovano. Il suo giro, o circuito è di nove miglia, avendone di lunghezza cinque, e due di larghezza. La sua forma è assai allungata, e quasi nel parallelo di Napoli...>>: Il nome di Capri deriva dal latino Caprae, ma fu anche chiamata Senaria, Telantea, ed insula Telonis. Questo Telone, secondo Virgilio, era Re dell'Isola prima che Enea venisse in Italia. Da Virgilio pure, e da Stazio, e da Tacito sappiamo che i suoi più antichi abitanti furono i Teleboi, prima della guerra di Troia, popolo proveniente dall'Acarnania in Epiro, il loro re Ebalo, figlio di Telone e di una ninfa: Sebezia, non contento del limitato regno lasciò Capri a suo padre, e con parte dei suoi coraggiosi sudditi armati di corte picche, e di rotelle di metallo, ò nel vicino continente, dove scorreva il Sarno per fondarvi un regno più vasto. Strabone che credeva che l'isola fosse stata staccata dalla terraferma da un terremoto, poi dice che ai Teleboi successero nel possesso di Capri i Napoletani, i quali la diedero quindi, ad Augusto in cambio di Ischia, al qual proposito si narra che quest'imperatore s’innamorò di Capri per aver veduto, o, com’è più probabile, creduto di vedere al suo sbarcarvi una vecchia elce rinvigorire nei suoi rami. Egli eresse nell'isola degli edifici magnifici, con portici e giardini, facendo demolire quelli di Giulia sua nipote perché erano troppo grandiosi. Augusto frequentava l'antico Efebeo e disputava di letteratura greca. E qui' vi ò alcuni anni prima di recarsi a Nola dove morì; ma toccava a Tiberio rendere quest'isola famosa, ritirandovisi dopo tredici anni d'impero nell'anno di Roma 777, il 26 d.C. secondo alcuni poiché a Roma era odiato, non si fidava di nessuno e aveva paura che tutti cercassero di avvelenarlo, istigato da Seiano, conducendo con sé Cocceio Nerva suo giurisprudente, ed alcuni suoi famigliari, fra i quali l'astrologo Trasillo, alle cui dicerie prestava molta fede, e lasciò in Roma l'imperatrice Livia sua madre. E qui vi si rinchiuse per ben undici anni uscendone rare volte. Egli vi costruì magnifici edifici, in numero di dodici, ciascuno dei quali portava il nome di una delle principali divinità. Secondo Svetonio, la sua immensa villa, la più celebre e magnifica era dedicata a Giove e qui' il tiranno vi si rinchiuse dopo l'esecuzione di Seiano, per nove mesi, per timore di un complotto. Essa era situata nel promontorio orientale, dov'era un palazzo eretto da Augusto, e poi da Tiberio ingrandito. Settemila metri quadri di costruzioni e tredicimila metri quadri di giardino a terrazze e ninfei, i cui resti sono oggi visibili grazie allo scavo dell'archeologo: Amedeo Maiuri, inoltre fece costruire strade rotabili, e abbellì la città. Tacito riferisce la ragione per cui questo monarca scelse Capri, e non Roma o altre nobili città dell'Impero Romano:<
di aver dedicati tempj per la Campania, quantunque con un editto avesse ordinato che niuno disturbasse la sua quiete e per la conveniente disposizione delle sue guardie rimosso fosse l'affollamento dei campagnoli, pure odiando egli i municipj, le colonie, e qualsiasi cosa sul continente, andò a nascondersi nell'isola di Capri che è divisa per uno stretto di tre miglia dal promontorio Sorrentino. Credo ch'a lui pie sommamente la solitudine di quell'isola, e perché non ha porto, cosicché pochi sussidj vi si possan portare, e questi in piccoli navigli. Il clima, durante l'inverno, viene mitigato dall'opposto monte, che respinge i venti impetuosi, e l'estate trasformasi ivi in primavera perché l'Isola è circondata da un mare aperto, e piacevolissimo; guardava essa un bellissimo golfo, prima che il Vesuvio, montagna ignivora, sconvolgesse la faccia del luogo>>: Tiberio condotto a Capri dalla sua diffidenza, portò qui il suo smodato lusso, e tutto il fasto di un Imperatore Romano, eresse numerosi edifici, tutti sontuosi, magnifici e ricchi di marmi; quindi Stazio non senza ragione chiamò quell'isola: dites Caprae (la ricca Capri), ricca davvero di pompa Tiberiana. Essa che è d'origine invece dolomitica fu danneggiata da un terremoto nel 366 dopo cristo, la famosa grotta azzurra scoperta nel 1826 per opera del pescatore Angelo Ferraro, in realtà era nota con lo stesso nome molto tempo prima, come testimonia una canzone anonima del 1500 "La grotta azzurra" dove una strofa dice:
"Acalate no poco
stentato è lo aggio
jarria dinto a lo fuoco
pe sta vicino a te...
chest'è la grotta azzurra
non aie chiu' che bede' "
Essa doveva essere utilizzata in epoca romana come piccolo approdo, come testimoniano i resti di opere murarie che vi si trovano all'interno, nel fondo, un antico sentiero conduce nella roccia, forse verso Damecuta che sovrasta la grotta e dove, secondo la leggenda, Tiberio avrebbe rinchiuso alcune fanciulle; è possibile che questa caverna sia stata il segreto luogo dei suoi convegni. L'ingresso di questa grotta è ribassato evidente segno di sprofondamento dell'isola nel corso dei secoli. Gregorovius nel 1853 ci narra:<
In queste acque fosforescenti dalle voluttuose onde i corpi delle giovani scintillavano come quelli delle nereidi e non saranno mancati il canto delle sirene ed il suono del flauto, per fare di questo bagno un indicibile gioco di voluttà. Vidi dipinta su un vaso greco una sirena, creatura singolare; essa alza le sue braccia, bianche come gigli, battendole insieme come due cembali di bronzo e ridendo. Così sorgono le sirene dall'azzurro fuoco marino,
facendo udire il loro riso, apparendo e scomparendo nelle onde. Esse però son viste soltanto dagli uomini fortunati e dai bambini. Narra Svetonio, nel libro ll del: De Vita Caesarum, che Augusto aveva imposto il nome di " Apragopolis " a un'insula vicino a Capri, dagli ozi di coloro che vi si ritiravano, per riposarvisi, in essa era sepolto il suo favorito, lo schiavo Siro, Masgaba. Questo scoglio secondo Svetonio era visibile da Capri, ma ora è sparito sotto le azzurre acque del golfo. Mentre secondo altri studiosi, ciò che ne rimane è il faraglione più grande detto: il Monacone, che anticamente assieme agli altri due denominati <<Sirenum scopuli>> scogli delle sirene, formavano un'isola sola di forma quasi semicircolare e che il mare o qualche terremoto li avevano separati, nonché ridotti nelle dimensioni. Anche l'arco naturale è dovuto alle forze della natura, infatti, è quanto rimane del crollo di una grande caverna e mostra un singolare fenomeno di erosione di roccia calcarea. Ischia, invece fu fondata un millennio prima di cristo, da coloni Elleni di stirpe calcidica ed eretria, deve la sua esistenza ad un grande vulcano che si formò nel mare, essa per effetto delle sue eruzioni crebbe in forma conica in tempi remotissimi, e fu danneggiata da numerose eruzioni e terremoti, quello della sera del 28 luglio 1883 rase al suolo Casamicciola uno dei suoi comuni, la sua durata fu di circa 14-16 secondi ma sufficiente a causare in tutta l'isola 2300 morti e oltre 750 feriti, in quell'occasione perirono anche i genitori del filosofo Benedetto Croce, che fortunatamente riuscì a salvarsi. In epoca precedente si ebbero sull'isola un'eruzione nel luogo che ora si chiama monte Corvo, quasi alle falde dell'Epomeo sopra Forio dove si scorge ancora il cratere, ed ancora in molti punti si distingue la lava nelle adiacenze di Panza ed allora si formò il capo Imperatore circa quattro mila anni fa, nel 700 a.C. si ebbe l'eruzione del Rotaro, la quale fu piuttosto singolare, si aprì, infatti, un’enorme voragine, dalla quale fu lanciata una grande quantità di massi, di pietre calcinate con cenere, ed altro materiale vulcanico che ricadendo su se stesso riempì il vuoto e creò lo stesso monte. A causa di quest’evento i greci Eubei, stabiliti sull'isola, spaventati la abbandonarono, a quest'eruzione ne seguì un'altra che formò il monte chiamato il Montagnone che viene ad essere quasi sovrapposto al Rotaro, poi ci fu un'altra eruzione, detta delle Caccavelle, che avvenne nel IV secolo a.C. essa sfondò il suolo ai piedi dell'Epomeo formando un profondo abisso, che rapidamente si riempì di lava, poi essa fuoriuscì sollevandosi e riversandosi verso il mare formando un promontorio con le due punte di Zaro e Caruso, che divide la spiaggia di San Montano da quella di Forio, i Siracusani che avevano occupato l'isola anche loro l'abbandonarono. Poi sotto Carlo II d'Angio' ci
furono le violente eruzioni del Cremato e quella detta dell'Arso (1300 1303) quando l'Epomeo fece un'espulsione di lava alla sua base sul territorio di Ischia, qui si formò un ampio cratere e da quello uscì la lava che coprì per due miglia il territorio d'Ischia fino al mare, mentre per l'eruzione del 1301, il comune di Forio rimase abbandonato per i quattro anni successivi, anche Barano si spopolò in quell'occasione. Questo vulcano di Ischia l'Epomeo, detto anche monte San Nicola, che la domina con i suoi 789 metri, ritenuto con le sue eruzioni il creatore di Ischia, nonché il monte più alto dell'isola è stato fino ad epoca recente anche un lanciatore di enormi massi. Secondo il Douglas, il Vesuvio e l'Epomeo si mostravano attivi a turno, infatti, le antiche eruzioni ischitane si arrestarono quando il Vesuvio si risvegliò nel 79 d.C. per riprendere quando nel medioevo il Vesuvio cadde in un lungo periodo di letargo. Il Capaccio diceva di Ischia: <
> Procida, la più piccola delle isole del golfo, ha un circuito di circa sedici chilometri, con quattro di lunghezza, ed il suolo, quasi tutto pianeggiante, si eleva dal mare dai quindici ai centoventi metri, la costa e' costituita da rocce tufacee friabili, di colore giallo. L’isola fu abitata fin da epoca antichissima come e' risultato dagli scavi archeologici fatti nell'isoletta di Vivara, detta anche Bivaro o Guevara, negli anni 1936 - 37, recentemente a punta mezzodì sono venuti alla luce tra i tanti reperti alcune punte di freccia di pietra, una punta di pugnale dell'età' del bronzo, frammenti di cocci, una lucernetta del: XI - XV secolo a.C. Micenea. Definita <
> da Stazio, Prochita, detta da Stefano, e da Dionisio Alicarnasseo e dicono che fosse detta così da una nutrice d'Enea che morì lì durante il viaggio, questa notizia secondo il Capaccio viene
confermata da antichi scrittori come Volcatio, e Aurelio Pisone, anche se Plinio lo negava, infatti, secondo lui il nome in greco dell'isola: " La Profusa " deriverebbe dalla sua origine vulcanica, la leggenda dice che sotto di essa dorma il gigante Mimante, secondo Plinio e Strabone essa fu staccata dal territorio d'Ischia e dalla terraferma a causa di un terremoto, in particolare secondo il geografo Strabone vi furono due sconvolgimenti: il primo staccò dalla terraferma tutta la zona comprendendo le isole di Procida, Vivara ed Ischia unite fra loro; il secondo separò questa zona formandone le suddette isole, durante l'eruzione del monte Epomeo. Tali isole non solo hanno con i Campi Flegrei la stessa struttura e forma, ma sono divise fra loro da brevi tratti di mare; difatti, tra il Monte di Procida e Procida la larghezza è meno di tre chilometri e solo al centro del canale arriva a dieci metri di profondità; tra Procida e Vivara la profondità e' di solo cinque metri, mentre tra questa ed Ischia la larghezza e' di tre chilometri e la profondità arriva ai venticinque metri. E' da notarsi che la piccola isola di Vivara, vista dalla parte più elevata di essa (m.109) sembra formare un solo corpo con Procida. Difatti se Vivara ci appare separata da un piccolo tratto di mare, di cento metri appena, e' perché essa non rappresenta che una parte di un cratere, esso e' stato distrutto nel lato sud dalle erosioni atmosferiche e marine, ed in esso e' penetrato il mare. Lo studioso Lazzaro Spallanzani notò in prossimità della:" punta della lingua " uno scoglio chiamato: " scoglietto delle pietre arse", costituito da pomici, smalti e lave di consistenza fragile, sfaldandosi esse con grande facilità se sottoposte ad urti. Il professor Antonio Parascandola geologo dell'università' di Napoli riuscì a stabilire che la roccia in questione non era una colata di lava continua, ma una fontana di lava, costituita da grosse falde laviche con interposizione di poche ceneri e proietti vari. Vicino alla costa di Napoli, di fronte al monte Echia oggi colle di: Pizzo falcone, la cui origine vulcanica e' confermata dal fatto che da esso anticamente si traeva la: pozzolana che gli antichi chiamavano <
> e che così era descritta da Stabone :<<Mescolando questa polvere con la calce, gettano al largo delle dighe, le rive aperte vengono articolate in bacini, così che le più grandi navi possono ormeggiare con sicurezza>> terriccio rosso ruggine che prendeva il nome dal suo luogo d'origine ; Pozzuoli, essa per la sua porosità e la sua natura vetrosa, aggiunta alla calce, faceva molta presa nell'acqua ". Pizzo falcone, secondo alcuni studiosi era il luogo dove venne fondata la Palepoli ellenica, in questo luogo vennero scavate cisterne per conservare acqua, ma anche le grotte chiamate Platamonie, allo scopo di trarre pietre da costruzione e spazio per imbarcazioni. Di fronte a questo luogo che sovrasta la zona chiamata Santa
Lucia, sorgeva l'isola di " Megaride," oggi uno scoglio, unito artificialmente alla costa dal borgo marinaro, sul quale sorge il "castel dell'ovo " Gia' in eta' classica essa divenne rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali e i ruderi delle costruzioni romane: i monaci Basiliani che avrebbero poi utilizzato le possenti colonne romane per ornare la sala del loro cenobio. Al suo interno vi e' la chiesetta dedicata a San Sebastiano e a Santa Patrizia: monaca bizantina di stirpe imperiale, approdata con le consorelle sull' isoletta e conosciuta per il liquido misterioso: la manna che stilla dalla sua tomba, questa chiesa venne fondata da Costantino dedicandola a San Michele Arcangelo, da come risulta da una lettera di papa Gregorio Magno. L'isola il cui significato e' dal greco:" Grande " sulla quale secondo Plinio i Greci fondarono la città di Megara, posta fra Napoli e Posillipo, e secondo Plutarco, il ricco generale romano: Lucio Licinio Lucullo, vincitore di Mitridate dopo una lunga campagna di guerra durata otto anni, famoso per la raffinatezza dei suoi banchetti avrebbe posseduto una villa con una peschiera, il cosiddetto : " Castro Luculliano ", che secondo alcuni studiosi si spingeva fino alle pendici di Pizzo Falcone, nella quale si pensa che vi avesse trascorso quindici anni Virgilio e fosse stato imprigionato, da Odoacre, l'ultimo imperatore Romano d'occidente, Romolo Augustolo, nel 476 d.C. quando cadde l'impero romano d'occidente. Il castrum venne successivamente demolito dagli stessi napoletani nell'anno 902 per ordine del duca Gregorio IV, poiché i Saraceni al comando di Abrahim - ibn - Ahmed si erano impadroniti della Sicilia ed il duca temette che il luogo una volta conquistato dai nemici potesse diventare un grosso rischio per la città. Lucullo aveva un'immensa biblioteca che fu frequentata anche da Cicerone, ed era aperta agli studiosi così come la sua galleria d'opere d'arte. Molti storici latini lo ricordano anche per aver speso immense ricchezze in un'imponente scavo per realizzare un canale marino che isolasse la collina dove si trovava una sua villa. Per questo motivo Pompeo lo definì il Serse togato paragonandolo al re persiano che aveva fatto scavare un canale marino nel monte Athos per farvi are la sua flotta, ma egli aveva compiuto quest'impresa con il solo scopo di alimentare con acque marine i suoi allevamenti di pesci. Anche Matilde Serao, moglie di Eduardo Scarfoglio e direttrice del
" Mattino " ci parla di quest’isola, narrando che perlomeno cento anni prima della nascita di Cristo c'era un' isola larga e fiorita che si era staccata
ma non allontanandosi di molto dalla riva Platamonia, ora il Chiatamone. Lucullo, forte guerriero, amico dei letterati e primo tra gli Epicurei aveva deciso di creare lì una grandiosa villa, con immense vasche per l'allevamento dei pesci, usanza piuttosto comune nel Italia meridionale dove molte delle grandi ville erano dotate di complessi vivai, e con magnifici giardini. Egli aveva sposato Servilia, sorella di Catone, ma un giorno uno spaventoso terremoto inghiottì l'isola con tutta la villa, i giardini ed i vivai. La Serao conclude il racconto dicendo:<
>. Per quanto riguarda il nome del castello, secondo la leggenda, Virgilio pose in una nicchia nelle fondamenta, che poi fece murare, un uovo chiuso in una gabbietta metallica, avvisando che alla rottura dell'uovo tutta la città sarebbe crollata, secondo un'altra versione invece l'uovo sarebbe stato sigillato in una caraffa di cristallo piena d'acqua protetta da una gabbia di ferro. Questa fu appesa a una pesante trave di quercia, sistemata in una cameretta fatta costruire apposta, nella quale penetrava un raggio di luce, con la stessa raccomandazione, mentre secondo altri studiosi il nome del castello deriverebbe dalla forma ovoidale dell'isolotto. Gli antichi solevano spiegare i fenomeni vulcanici, ipotizzando sotto i coni, la presenza di un gigante, la cui collera esplodeva attraverso le eruzioni, così si credeva ad esempio che sotto Ischia dormisse Tifeo, uno dei giganti che dettero la scalata al cielo e Mimante sotto Procida. Di Tifeo si narra che dopo la sconfitta dei giganti da parte di Ercole egli sviluppo un grande odio verso costui tanto che quando Ercole gli costruì addosso l'abitato dell'isola costui, si scosse con violenza provocando un forte terremoto ed una colata lavica che distrusse tutto. Anche il Petrarca, fu testimone di un cataclisma di probabile origine vulcanica, egli nella notte del 25 novembre 1343, abbandonata la cella solitaria della chiesa di San Lorenzo Maggiore, scendeva a pregare con i frati, dopo aver ascoltato con grande apprensione la profezia di un'eremita, al quale seguì il maremoto che produsse ingenti danni e che il poeta descrisse nella lettera rivolta a Giovanni Colonna. Anche nella zona di Marechiaro non lontano dal centro di Napoli ci sono stati fenomeni di bradisismo in epoca antica evidenziati dai ruderi di una villa romana "Il palazzo degli spiriti" in parte sott'acqua, così come a Posillipo troviamo altri ruderi romani "La scuola degli spiriti" semisommersi. Il bradisismo trae origine dalla parola greca Bradus: lento e
seismos: scuotimento. La terra si solleva (bradisismo positivo) o si abbassa (bradisismo negativo) lentamente. Per lo più il movimento viene registrato lungo le coste, però analoghi movimenti sono registrati anche all'interno dei continenti (bradisismo continentale) e sono percepibili per l'abbassamento di colline. Molte sono le teorie sulle cause del bradisismo. Secondo alcuni vulcanologi e' un fenomeno collegato alla minore o maggiore pressione di magma (o di gas) sotto la superficie terrestre. Si tratterebbe, perciò di un'intensa attività vulcanica in alcuni periodi. Il fenomeno dell'abbassamento si verificherebbe nei casi di evaporazione, disidratazione o soluzione di materiale roccioso. Un esempio di bradisismo e' visibile a Pozzuoli "Il Macellum"l'antico mercato conosciuto come "Tempio di Serapide". Nelle vicinanze di Pozzuoli, città posta nella zona dei Campi Flegrei dal greco: phlegràios "Ardenti "di fuoco, si ebbe una spaventosa eruzione preceduta da numerosi terremoti, che seppelli il villaggio termale di Tripergole e parte del lago Lucrino, che prima dell'eruzione era molto grande e veniva"chiamato così da Lucrum per il guadagno che si ricavava dall'ostricoltura", lago citato da Varrone, Marziale, Orazio, Giovenale. L’eruzione distrusse il porto Giulio e causò lo spopolamento di Pozzuoli, durante la dominazione del viceré Don Pedro Alvarez de Toledo, conosciuto per aver ordinato nel 1537 di costruire oltre 300 torri lungo i litorali e le coste del regno, per la difesa delle popolazioni contro le incursioni dei pirati. Il cataclisma durò dal 29 al 30 settembre del 1538, ed in una sola notte nacque il " monte nuovo " una bocca vulcanica, oggi una collinetta di 140 metri d'altezza. Quest'avvenimento destò l'interesse di, scienziati geografi ed artisti, accorsi per documentare l'evento straordinario, che ridisegnò l'aria compresa tra Pozzuoli e Baia, le numerose relazioni e descrizioni raccontano di una natura che affascina per la sua straordinarietà, l'avvenimento venne illustrato da numerosi artisti da: Marcantonio delli Falconi nella xilografia contenuta nel :Dell'incendio di Pozzuoli, al cosiddetto Maestro del Trabocchetto nella incisione siglata G.A. La vita di questi luoghi, abbandonati dagli abitanti terrorizzati, rinacque per volere del viceré che per rassicurare la popolazione costruì a Pozzuoli un'abitazione fortezza ancora visibile nella villa Avellino. Simone Porzio nella sua epistola al Viceré Pietro da Toledo, così descrive il fenomeno:<
quantità di pesci, ma ancora sorgere in alto le acque dolci. Finalmente nel giorno ventotto il gran tratto di terra, che giace fra le radici del monte, che gli abitanti dicono Barbaro, ed il mare vicino Averno, vedevasi sollevare e d'un tratto prendere la figura di un monte che nasce. E nello stesso giorno, all'ora seconda della notte, questo cumulo di terra, aperta quasi una bocca, con gran fremito, vomitò grandi fuochi, e pomici e pietre, e tanta copia di brutta cenere che covri' gli edifici i quali ancora erano in Pozzuoli; le erbe tutte coperchio' schianto' alberi, e ridusse in cenere la vendemmia pendente, alla distanza di sei miglia, ed uccise gli uccelli e alcuni quadrupedi, mentre gli abitanti, per trovare uno scampo in Napoli, fuggivano tra le tenebre, co' loro nati e loro mogli, mettendo gemiti e grida e pianti. La qual cenere, per forza delle esalazioni; e' spinta a circa sessanta mila i lontano; e, ciò che può sembrare meraviglioso presso la voragine cadde secca ed in lontananza fangosa ed umida. Poi quello che supera ogni ammirazione, il monte presso la voragine si vide, in una sola notte ammassato di pomici e cenere, per una altezza di oltre mille i; in cui molti certamente erano spiragli, dei quali ora due soli rimangono, l'uno presso il lido che si estende ad Averno, l'altro nel mezzo stesso del monte. Di Averno gran parte e' coperto di cenere. Quei bagni, celebrati per tanti secoli, i quali tanti infermi davano la sanità, giacciono sepolti nella cenere. E questo incendio dura fino a questo giorno,ma con qualche interruzione>> (De Conflagratione agri Puteolani Simoni Portii Epistula, Napoli, Sultzbach 1538). I Greci indicarono con l'aggettivo "phlegraios" tutta la Piana Campana che si estendeva dal monte Massico ai monti attorno a Caserta ed ai Lattari; fu il carattere di questa terra, dove innumerevoli eruzioni, fin dall'età' antica, aveva disseminato una moltitudine di crateri, a suggerire questo nome di "terre ardenti" o "regione bruciata": I confini del territorio così identificato sono variati nel corso del tempo, ad esempio Strabone e Plinio indicavano solo il territorio tra Pozzuoli e Cuma, Diodoro Siculo vi comprende non solo la zona di Cuma ma anche tutto il rimanente tratto fino al Vesuvio e Polibio vi aggiunse anche le zone di Capua e di Nola.Tuttavia col tempo si e' andata via via designando con tal nome una porzione più limitata, tra Posillipo e Miseno, comprendendovi anche, Pozzuoli, Baia, Cuma, Miseno, Ischia, Vivara e Procida legate alla costa da una comune origine vulcanica. Tutta la città di Napoli e' costruita sopra uno strato di cenere vulcanica, ossia il tufo" tufo giallo napoletano " pietra, porosa, morbida e leggera, dal colore prevalentemente giallo, ma anche grigio, o di colore rosa carico, esso e' facilmente tagliabile, e perforabile inoltre a parità di volume e' molto più leggera e resistente allo schiacciamento di qualsiasi altra pietra da
costruzione e per la sua porosità ha buone qualità termostatiche. Si presta facilmente allo scavo di trafori, anzi e' l'unica in cui i Romani abbiano scavato gallerie stradali. Il tufo napoletano e' adatto al clima di questa città; in un clima freddo cadrebbe in disfacimento per azione del gelo e del disgelo. Invece i blocchi di tufo delle mure greche, sono ancora perfettamente conservati e le pareti tufacee dei fronti di cava riverberano moderatamente luce e calore. Naturalmente il tufo non si presta come pietra da pavimentazione stradale, per questo scopo si utilizza a Napoli la lava vesuviana. Gli antichi romani utilizzarono frequentemente: l'opus caementicium, cioè pietre di tufo, con malta mescolata con la pozzolana, la locale sabbia rossa, che prendeva nome dal suo luogo di origine: Pozzuoli che rendeva estremamente forte ogni costruzione, soprattutto se posta in acqua, rendendola più salda e resistente della roccia, questa era una scoperta importantissima per l'impero romano infatti si poteva costruire rapidamente ciò che con pietra e mattoni avrebbe richiesto tempi lunghissimi, ciò spiega perché nel mare nonostante il bradisismo ed i terremoti resistono ancora, strade, mosaici, arcate, mura ecc. Si tratta di quindici chilometri cubi di roccia che vennero generati dalla:" Ignimbrite Campania "colossali eruzioni iniziate trentacinquemila anni fa ad opera d’innumerevoli vulcani della zona flegrea, dove ancora oggi ne sono visibili una cinquantina, tra i tanti citiamo il cratere degli: Astroni,"uno dei più tipici e meglio conservati vulcani flegrei "da: Sturnis per l'abbondanza di uccelli, o da strioni, stregoni, esso e' ricco di rigogliosa vegetazione vi troviamo: lecci, castagni, querce, olmi e pioppi e divenne per volere di Alfonso I d'Aragona, luogo di caccia di cinghiali, cervi e capri. Il “vulcano Solfatara"il Forum Vulcani di Strabone dal cratere ellittico risale a 4000 anni fa ed e' l'unico dei Campi Flegrei ancora attivo, con abbondanti manifestazioni fumaroliche, l'ultima eruzione risalirebbe al 1198. Il lago d'Averno, anch'esso un cratere e quindi di forma circolare, chiamato anche Acheronte o palude Acherusia luogo che maggiormente evoca: Omero, Virgilio ed il culto dell'oltretomba poiché fu ritenuto l'ingresso dell'Ade, la porta del regno infernale, esso e' profondo al centro circa 34 metri, per il greco, amante della vita e del sole, niente era più angoscioso dell'oscurità' degli antri umidi, della prossimità di potenze sotterranee; perciò metteva in relazione con esse la morte, acerrima nemica e fonte di sofferenze per il genere umano; ideò un mondo degli inferi, ed in un luoghi come il lago d'Averno ne pose l'accesso. Lungo la sponda orientale del lago, si ammira una grandiosa sala termale, nota come: tempio di Apollo di età Adrianea, coperto da una cupola di circa 38 metri, di poco inferiore a quella del
Pantheon a Roma. Nel 37a.C. durante la guerra civile tra Ottaviano e Sesto Pompeo da un progetto dello stratega: Marco Vipsanio Agrippa, fu collegato al mare mediante il lago Lucrino, con un grande canale, qui' venne realizzato un grande struttura portuale militare per grandi navi, simbolo di grandezza di potenza e di dominio di Roma il:" Portus Julius " adibito ad arsenale della flotta di Miseno, a causa del bradisismo discendente questa struttura e' però sommersa, e alla distanza di circa 500 metri dalla riva attuale, così come la città di Miseno così chiamata, dal compagno di Ulisse, o dal trombettiere d'Enea qui' seppellito come favoleggiò Virgilio. In esso si aprono molte grotte e caverne, che si trovano a: Cuma, Miseno, Pozzuoli, lago d' Averno e nella stessa Napoli. A Miseno vi e' un monte a guisa di scoglio isolato, tutto cavernoso, di cui scrisse anche Virgilio: Monte sub aerio, qui nunc Misenus ub illo, nelle sue viscere vi erano bagni natatorj, tra gli altri la grotta dragonara o traconara, il cui nome deriverebbe dal termine traconi cioè vie storte a guisa di serpenti, essa e' costituita da cinque gallerie disuguali, le volte fatte a crociera, sono sostenute dalle tramezzature, e sorrette da dodici pilastri, la cominciò Nerone per congiungere Miseno all' Averno con lo scopo di raccogliervi tutte le acque calde di Baia. A Cuma vi e' una galleria romana, tutta scavata nel tufo a sezione trapeizodale che venne considerata per molto tempo l'antro di un famoso oracolo dell'antichità', stando alla descrizione di Virgilio (Eneide, libro VI), la sacerdotessa di Apollo: la Sibilla Cumana, ma potrebbe anche essere un raro esempio di architettura funeraria d’ispirazione cretesemicenea. Un corridoio (dromos) lungo m.131.50, largo m.2,40 e alto circa 5.m. di forma trapezoidale e illuminato da sei aperture laterali, conduce in un ambiente arcuato nel quale si affaccia un'altro più riposto. Recenti studi attribuiscono invece una funzione difensiva della sottostante area portuale. Sotto l'acropoli di Pozzuoli, primo centro urbano, rocca, castrum e centro religioso, che conserva vistose tracce dell'impianto viario del 194 a.C., invece e' visibile una galleria orizzontale con l'imboccatura al livello del mare, munita di un pozzo verticale dotato di una scala elicoidale con al centro lo spazio per un montacarichi, che consentiva di portare la merce scaricata dalle navi direttamente sull'Acropoli. La città centro mercantile e industriale con le sue officine di ceramiche, di vetri di profumi, di colori e di metalli era il punto di ritrovo dell'aristocrazia romana, essa aveva le sue sorgenti minerali, le sue terme, i suoi bagni di mare. Dopo essere stato il padrone del mondo e non aver trovato in tutto il suo impero altro luogo che gli pie, Silla venne a morire a Pozzuoli. Vi si recava di tanto in tanto Seneca ad attendere sul molo l'arrivo della nave tabellaria che doveva
recargli notizie delle sue ricche aziende agricole Egiziane. Vi sbarcò nell'anno sessantuno, dopo una traversata tempestosa San Paolo che, dopo una breve sosta tra i confratelli della comunità cristiana, proseguì alla volta di Roma per essere giudicato, quale cittadino romano, dall'imperatore. Augusto vi aveva un tempio fattogli costruire dal cavaliere romano Calpurnio.Tiberio vi aveva una statua sorretta da un piedistallo di marmo che rappresentava le quattordici città dell'Asia minore distrutte da un terremoto e fatte ricostruire da Tiberio. Caligola vi fece costruire il famoso ponte che partiva dal molo, traversava il golfo e andava a finire a Baia. La sua costruzione cagionò la sospensione dei trasporti ed affamò Roma. Era sostenuto da venticinque archi partendo dal molo,e poiché il mare più oltre diventava troppo profondo per continuare ad impiantarvi dei piloni, si era riunito un numero immenso di galere fermate con ancore e catene; poi, su di esse si erano fissate delle tavole che, ricoperte di terra e di pietre, formavano il ponte: L'imperatore vi o' sopra, rivestito della clamide, armato della spada di Alessandro Magno, e trascinandosi dietro il cocchio, trainato da quattro cavalli, il giovane Dario figlio di Arbane, che i Parti gli avevano dato in ostaggio. Fece tutto ciò poiché Trasillo astrologo di Tiberio, gli aveva predetto che sarebbe diventato imperatore solo se avesse attraversato a cavallo il golfo di Baia cosa che egli fece e fu per quattro anni imperatore. Pozzuoli fu il punto d'incontro di razze diverse, il posto ove confluivano merci e meraviglie d'Oriente. Sotto la collina di Posillipo venne costruita, secondo un programma di lavori pubblici voluti da Marco Vipsanio Agrippa, condottiero poi genero di Ottaviano Augusto, da Lucio Cocceio Aucto, liberto ed architetto la crypta neapolitana, secondo la leggenda ad opera di 100.000 schiavi per realizzare la galleria in soli quindici giorni, di quest'imponente opera ci parlano, Seneca che narra di un camminamento angusto, buio e polveroso e l'autore del Satyricon: Tito Petronio che asserisce che bisognava procedervi chinati, il quale in questa sua opera fece capitare i tre avventurosi giovanotti Encolpio, Ascylto e Gitone, proprio nel bel mezzo di un rito orgiastico davanti all'ara con i simboli del culto del dio della fecondità Priapo che veniva celebrato dentro la crypta, culto segreto e riservato a pochi adepti, nonché Giacomo leopardi nei Paralipomeni, scrive del luogo " ove la tomba pon di Virgilio un'amorosa fede "e in cui si apre " il varco che del tuon rimbomba spesso che dal Vesuvio intorno fiede ". Nonostante i dissesti continui la crypta neapolitana che è la galleria viaria più conosciuta dell'antichità' ritratta in innumerevoli incisioni e dipinti, assolse il compito di collegare rapidamente la città con la zona flegrea fino al 1885 in cui fu aperta la parallela galleria detta grotta nuova lunga, un
chilometro, venne ampliata e ristrutturata nel 1940 con l'apertura della mostra d'oltremare, chiamata anche galleria delle quattro giornate in ricordo dell'insurrezione contro i tedeschi nel 1943, sue sono altre due imponenti opere, il dritto traforo sotto il capo di Posillipo lungo 700 metri che metteva in comunicazione le varie parti dell'immensa villa di Vedio Pollione lasciata in eredità all'imperatore Augusto, e la grotta di Cocceio purtroppo non visitabile, perfettamente dritta lunga un chilometro e larga tanto da farvi are due carri affiancati scavata sotto il monte Grillo, rese collegabili la fortificata Cuma con il ben riparato porto militare costruito nell'Averno, da dove si usciva nel mare aperto tramite un'altro imponente canale navigabile. Virgilio ammirò molto quel portus Iulius, costruito negli stessi luoghi dove il suo Enea era sceso negli inferi incontrandovi l'ombra del padre Anchise, e dove era sceso anche l'Ulisse Omerico per interpellare sulla sua sorte l'anima dell'indovino Tiresia. Accanto alla grande galleria prima interrata dal bradisismo flegreo quindi danneggiata da esplosioni quando venne utilizzata in tempi recenti come deposito di munizioni era stato scavato il canale di un grosso acquedotto. Sotto l'acropoli di Cuma altri 180 metri di traforo costituiscono il prolungamento della grotta di Cocceio dopo un tratto di strada all'aperto, due gallerie perfettamente dritte, ventilate e anche illuminate con pozzi opportunamente disposti, perpendicolari ed obliqui, nella volta con squarci nei lati. Secondo alcuni studiosi queste cavità vennero create dagli antichi abitanti della Campania come via di comunicazione sotterranea poiché non era possibile averla per terra a causa dei molti vulcani, non solo quindi il Vesuvio che in epoca ata erano continuamente in eruzione. In realtà le prime cavità furono realizzate dai fondatori della città venuti dalla Grecia, nel V secolo a.C., provenienti da Eubea la grande isola della Grecia orientale nel mar Egeo, i quali erano esuli, perseguitati dopo le guerre civili, coloro che fuggivano la povertà, mercanti, o guerrieri, che traforarono monti, scavarono pozzi artesiani e canali, crearono: bacini, cisterne, cunicoli, tubazioni realizzando un acquedotto sotterraneo che prelevando acqua dalle falde del Vesuvio, dalla sorgente poi denominata della Bolla, nel territorio oggi denominato di Volla o Pollena, esso consentiva di prelevare acqua da ogni abitazione, furono loro ad insegnare ai romani l'arte: " Idraulica ". I romani ampliarono l'acquedotto, ed in epoca Augustea venne realizzata quell'imponente costruzione sotterranea," costituito da un condotto alto un metro e ottanta e con una larghezza di novanta centimetri, poggiava su una base di calce spessa quasi cinquanta centimetri, con le pareti delle stesse dimensioni " e su ponti che dalle fonti di Serino distanti circa ottanta
chilometri, e procedendo a una velocità media di quattro chilometri l'ora, serviva gli abitanti di: Pompei, Napoli, Pozzuoli ed infine riempiva la Piscina mirabilis, fatta dall'architetto Agrippa immenso serbatoio "costruito con mattoni rossi dal soffitto a volta sostenuto da quarantotto colonne alcune alte più di quindici metri, con ordine quaternario e al cui interno si entrava con due scalinate di quaranta gradini" della flotta imperiale militare d'Occidente, nel porto di Miseno voluto dal divino Augusto per tenere sotto controllo il Mediterraneo, e rappresentazione del potere di Roma…Dionigi d'Alicarnasso definiva il porto di Miseno
, da questa città vi era una strada che la collegava con Cuma ed un'altra con Baia. Essa riusciva a dissetare la guarnigione navale di Miseno composta da oltre diecimila marinai ed altrettanti civili. Per la costruzione erano stati impiegati 40.000 uomini, schiavi e legionari che lo avevano portato a termine in diciotto mesi. Anche i resti dell'antica Misenum sono sommersi e interrati, la città era dislocata verso il porto. Qui' ebbero ville anche: Caio Mario, Lucullo e Tiberio. Dal cinquecento poi, Napoli crebbe sfruttando il materiale prelevato dal sottosuolo, ad opera dei pozzari che lavoravano al lume di fioche lucerne a olio e che seguivano le regole dettate dagli antichi scavatori, essi scavavano con strumenti semplici: un piccone con due punte a lama verticale chiamato smarra, un piccolo maglio di ferro, la duplice ascia e quattro cunei di legno. Erano in grado di arrampicarsi con agilità utilizzando dei piccoli incavi dove incastravano saldamente le mani ed i piedi. Queste cavità vennero utilizzate anche come cimitero, come rifugio contro le persecuzioni religiose, o come protezione contro i bombardamenti della seconda guerra mondiale quando sulla città vennero lanciate oltre 28.000 bombe. Le eruzioni forti e prolungate possono provocare lo sprofondamento delle isole vulcaniche. Il 20 maggio del 1883 ci fu' l'eruzione di una piccola isola vulcanica chiamata Kracatoa , che si trovava nel mezzo del canale che divideva le due isole principali dell'arcipelago della Sonda cioè Giava e Sumatra. L'eruzione durò per tre mesi portando allo svuotamento della camera magmatica, la mattina del 27 Agosto dopo due giorni d’intensa eruzione, due terzi dell'isola sprofondarono in mare, una grande esplosione lanciò verso il cielo un'enorme quantità di pomici e di ceneri che arrivarono fino a 70 km nella stratosfera. Lo sprofondamento provocò un'onda di maremoto alta 22 metri che si abbatté sulle coste di Giava e di Sumatra provocando 36000 morti, mentre il sole si oscurò alla distanza di oltre 200 km. La carta del mediterraneo di Ibn Ben Zara, che utilizzò antichissime mappe, e' esatta nel tracciare la linea costiera, ma indica accanto alle isole conosciute un certo
numero d’isole che non esistono più dal livello del mare. Una copia medioevale di una carta tardo Romana del IV secolo d.C. la " Tabula Peutingeriana " mostra una piccola isola di fronte alla costiera Sorrentina, che potrebbe essere ciò che allora rimaneva di Aequa, inoltre da Napoli e' tracciata una strada che la congiungeva ad Ercolano, Oplontis e Pompei e da quest'ultima si diramava per Stabiae, Sorrento, e Nocera ma questa strada deve essere poi stata inghiottita dal mare poiché fino all'ottocento per raggiungere Sorrento da Napoli bisognava prendere il vaporetto, oppure percorrere disagevoli sentieri. Il Vieusseux nel 1818 affermava:<<Si sente dire, in verità, che vogliono aprire una strada da Castellamare a Sorrento: per quest'ultima sarebbe una sciagura! I napoletani vi si riverserebbero coi loro corricoli, trascinandosi appresso lussi e vizi che li distinguono ed infettandone i pacifici abitanti; non solo, ma si determinerebbe un rialzo nei prezzi del necessario, che qui' e' assolutamente ragionevole...>>: La strada venne infatti costruita solo nel XIX secolo grazie all'interessamento del presidente del consiglio Giuseppe Zanardella, il quale in visita a Sorrento nel 1902 venne ospitato da Ernesto De Curtis e dal fratello Giambattista all'hotel Tramontano, la città ha bisogno anche di un finanziamento, di nuove costruzioni e delle poste, per cui nel 1904 i due fratelli dedicano al politico la canzone : " Torna a Surriento " molto interessante questa strofa della canzone:
"Vide ò mare de Surriento,
Che tesoro tene nfunno:
Chi ha girato tutto ò munno
Nun l'ha visto comm'a cca' "
"Vedi il mare di Sorrento,
Che tesoro tiene in fondo:
Chi ha girato tutto il mondo
Non l'ha visto come qui' "
Apuleio uno scrittore latino del secondo secolo dopo cristo, nel: De Mundo, dice :
" terre che prima erano continenti, sono diventate isole e altre, che un tempo erano state isole, si sono trasformate in continenti per il ritirarsi del mare..." Un'antica leggenda siciliana legata al mare, quella di : Cola
" Nicola " pesce, citata anche da Benedetto Croce in : (Storie e leggende napoletane) parla di un ragazzo maledetto dalla madre, che a furia di rifugiarsi nel mare prese caratteristiche di vero e proprio pesce, capace di trattenersi ore e giorni immerso nelle acque, come nel proprio suo elemento, senza bisogno di risalire a galla per respirare, egli usava per lunghi spostamenti, farsi inghiottire da grossi pesci da cui poi usciva tagliandone il ventre. Una volta il re fu preso da desiderio di sapere come fosse fatto il fondo del mare; e Niccolo' Pesce, dopo lunga dimora, tornò a dirgli che era tutto formato di giardini di corallo, che l'arena era cosparsa di pietre preziose, che qua e là s'incontravano mucchi di tesori, di armi, di scheletri umani, di navi sommerse. Un'altra volta discese nelle misteriose grotte di Castel dell'ovo, e ne riportò manate di gemme. Ancora il re gli comandò d'indagare come l'isola di Sicilia si regge sul mare, e Niccolo' Pesce gli riferì
che poggiava sopra tre enormi colonne, l'una delle quali era spezzata. Un giorno venne al re voglia di conoscere fino a che punto veramente costui potesse giungere nella profondità del mare, e gli ordinò di andare a riprendere una palla di cannone, che sarebbe stata scagliata dal faro di Messina: Niccolo' Pesce disse che avrebbe obbedito, se il re avesse insistito, ma che sentiva che non sarebbe mai più tornato a terra. Il re insistette, Niccolo' saltò subito nelle onde; corse corse senza posa dietro la palla che affondava veloce; la raggiunse in quella furia d'inseguimento e la raccolse nelle sue mani. Ma ecco che, alzando il capo, vide sopra sé le acque tese e ferme. Lo coprivano come un marmo sepolcrale. Si accorse di trovarsi in uno spazio senz'acqua, vuoto, silenzioso. Impossibile riafferrare le onde, impossibile riattaccare il nuoto. Là restò chiuso, la terminò la sua vita. Un bassorilievo di epoca classica rappresentante Orione, venuto alla luce durante gli scavi per la fondazione del "sedile di porto " e murato nel settecento, sulla facciata di una casa all'inizio di via Mezzocannone, lato Corso Umberto, ce lo rappresenta come un uomo coperto da un vello con un coltello nella mano destra. Secondo alcuni il ritrovamento avvenne ai tempi di Carlo I d'Angio', mentre sul finire del cinquecento tra i letterati napoletani, si manifestò l'opinione che esso provenisse da un tempietto del porto della Napoli Greco - Romana, e rappresentasse Orione. Il Capaccio, ai principi del Seicento, accenna che il popolo lo credeva << un uomo selvaggio>>: Il forastiero, Napoli,1634; e il Celano, nella seconda metà del secolo, <
>; il Sigismondo, nel Settecento, dice che <
>: descrizione della città di Napoli, Napoli,178889,vol.II, p.193. Secondo Benedetto Croce, la leggenda di Niccolo' o Cola Pesce o del Pesce Cola era originaria del faro di Messina, dove era presente in molteplici versioni, e da dove era poi ata a Napoli, localizzandosi presso il Porto. Questa leggenda tuttavia era stata narrata, o vi avevano fatto allusione, innumerevoli scrittori, dal medioevo ai giorni nostri, essa era stata trattata in poemi, liriche e drammi ed era stato oggetto di dotte dispute. La riferisce Gualtiero Mapes nelle sue Nugae curialium, scritte fra il 1188 e il 1193, essa fu rinarrata da Gervasio da Tilbury nei suoi Otia imperalia, circa nel 1210, la raccontarono ancora fra Salimbene nel duecento, poi fra Pipino, Fazio degli Uberti e Ricobaldo da Ferrara nel trecento e moltissimi altri in seguito, anche Cervantes, lo ricorda nel Don Chisciotte. Mentre una poco conosciuta storia popolare spagnola in versi, del Pece Nicolao, che era stata pubblicata a Barcellona nel 1608, narra come egli ancora abitasse i mari, e di tanto in tanto riapparisse per discorrere coi
marinai e informarli delle scoperte che compiva e istruirli intorno ai segreti di navigazione. Che questa leggenda avesse origine da un famoso nuotatore o palombaro di Messina, e' un'ipotesi come un'altra; e non e' comprovata dalle asserzioni degli scrittori più antichi, i quali danno tutti il caso come storico, ma ciascuno come accaduto ai suoi tempi: Gualtiero Mapes, lo pone agli anni di Guglielmo II di Sicilia; Gervasio da Tilbury, a quello di re Ruggiero ; Salimbene, a quelli di Federico II. E se fra Salimbene cita come informatori i frati di Messina, suoi grandi amici, e un suo fratello consanguineo, il Mapes pretende addirittura di averlo appreso da taluni, che conobbero di persona Niccolo'. Lo Steinthal tento' l'interpretazione mitica, mettendola in relazione con la figura di San Nicola di Bari protettore del mare, e attraverso il santo cristiano, col dio pagano Poseidon. Ne' alcuna connessione sussiste tra la storia del Pesce Niccolo' e l'antica canzone popolare se, dell'anello che la donna lascia cadere nel mare e che il pescatore per amore o per avere in cambio un bacio si tuffa a riprendere, tornando salvo o morendo secondo le varie versioni. Secondo il croce i motivi che concorsero a dare popolarità e lunga vita alla leggenda sono: la tendenza a immaginare uomini e animali con virtù diverse da quelle naturali, uomini - pesce, uomini - uccelli, centauri o bue marino, pesce monaco, sirene, arpie, e via discorrendo; i sentimenti che desta il mare, così quelli di attrattiva e curiosità per l'ignoto, come quelli di cupidigia per le ricchezze che sommerse chiude in se; le paure dei marinai con le congiunte immaginazioni sui mezzi miracolosi di vincere i pericoli; l'esemplare effetto della maledizione materna. Il mare e’ stato sempre fonte di vita ma anche di morte, nel 1693 ci fu’ uno spaventoso maremoto che devastò Catania e provocò 70.000 vittime, esso fu causato da uno dei terremoti più violenti registrati in Italia in epoca storica. Nel 1755 un maremoto devastò la città di Lisbona. Mercoledì, 5 febbraio 1787, un'ora dopo mezzogiorno, una fortissima scossa di terremoto sconvolse la Calabria per 100 secondi. In questo tempo morirono 32,000 persone. L'onda d’urto venne avvertita da Palermo alla Puglia, dalle Eolie a Lipari. A mezzanotte una seconda violentissima scossa distrusse Messina. Il mare flagellò le coste spazzò i villaggi, i moli, rapì le persone scampate sulla riva, le scosse si succedettero fino alla fine di agosto mietendo oltre 62.000 vittime. Una missione archeologica diretta da Spiridon Marinatos dell'università' di Atene effettuò degli scavi a Santorino isola dell'Egeo non lontana da Creta tra il 1967 ed il 1972, la missione portò alla luce nell'isola una grande città risalente al II millennio a.C.,che fu sepolta da un'improvvisa eruzione vulcanica, sotto una spessa coltre di cenere solidificata, come Pompei, ma qui mancano resti
umani, c'e' da ritenere quindi una fuga degli abitanti prima della catastrofe… quanto si e' trovato finora rivela una ricca civiltà, resti di edifici pubblici, e di case a due o tre piani, con sotterranei adibiti a magazzini per i viveri o ad officine, vasi decorati con eleganti motivi floreali, anfore contenenti resti di vino e di olio. Sulle pareti delle stanze, o almeno di quelle di rappresentanza, splendidi dipinti in vivaci colori raffigurano paesaggi, scene della vita animale e vegetale, uomini e donne nelle occupazioni d'ogni giorno. In realtà Aequa non era situata lungo la costa ma posta su una grande isola di fronte alle coste della penisola sorrentina, non lontano da un piccolo ma distruttivo vulcano, un giorno il vulcano esplose, e gran parte dell'isola s’inabissò a causa dello svuotamento della camera magmatica creando un'enorme onda di maremoto che distrusse ciò che l'eruzione aveva risparmiato. Il territorio della penisola sorrentina in realtà e' roccioso come si può osservare nelle zone interne, ma anche nella localita’, della marina di Seiano alla fine di via calcare dove anticamente c'era una cava di pietra, ma lungo le coste si e' creata una sovrapposizione di materiale tufaceo che alcuni studiosi hanno ritenuto proveniente dalle eruzioni Vesuviane, ma il Vesuvio non e' mai riuscito nonostante la sua potenza a raggiungere questi luoghi, infatti i venti dominanti portano i materiali vulcanici verso la piana pompeiana. Nel territorio di Vico Equense inoltre sia alla marina sia nelle zone collinari sono presenti case con il tetto a botte tipiche della zona vesuviana, create con lo scopo di non far accumulare sui tetti cenere, lapilli e detriti vulcanici che li avrebbero sfondati, un'altro indizio della presenza di un vulcano. Ho trovato poi sulla spiaggia di Pezzollo un coccio molto antico che presenta nella zona smaltata una bolla per la creazione della quale e' stata necessaria una temperatura di migliaia di gradi, perfettamente compatibile quindi con un'eruzione vulcanica, nello stesso luogo, ma in mare, ho ritrovato due pezzi di legno carbonizzati, probabilmente ridotti così dalla stessa eruzione, la zona antistante, la spiaggia inoltre e' piena di cocci alcuni anche molto grandi di anfore, e di vari contenitori in terracotta, ridotti così dal catastrofico evento. Il Vesuvio anche se fosse arrivato in questa zona con la sua potenza distruttiva, non avrebbe mai potuto raggiungere questa elevatissima temperatura, ad una così grande distanza. Ci si potrà domandare a che epoca risale quest'evento catastrofico, con molta probabilità al II secolo dopo cristo. La mia ipotesi e' suffragata dal fatto che molti anni fa sotto una balza tufacea del castello di Vico venne ritrovato in una grotta un cavaliere sannita, il quale, probabilmente sorpreso dall'eruzione si era rifugiato lì, ma il materiale vulcanico aveva occluso il suo rifugio murandolo vivo. Nella
:Tabula Peutingeriana,"carta di epoca tardo romana, scoperta alla fine del XV secolo, raffigurante l'intero mondo conosciuto in epoca romana, dipinta su pergamena, era divisa in dodici fogli che uniti formano un rotolo lungo 7 metri. Gli undici fogli rimasti sono conservati a Vienna "e' visibile un'isola di fronte alle coste della penisola sorrentina, doveva essere questa, ciò che all'epoca rimaneva di Aequa, il bradisismo però la ha fatta inabissare, come ha fatto inabissare tutta la costa sorrentina. Basti pensare al luogo chiamato Capo di Sorrento, anticamente si definiva con questo termine, un luogo sopraelevato, che dominava la zona circostante così come il "capo"domina il corpo, ma ora questo luogo e' posto più in basso della costa di Sorrento. Sulla spiaggia di Seiano sono visibili poi i resti di una villa di epoca imperiale, la quale e' stata costruita molto tempo dopo il tragico evento essa, e' in parte sprofondata nella sabbia altri resti si trovano ora in fondo al mare, a causa del bradisismo discendente. Nella zona collinare di Vico Equense, a: Moiano c'e' una strada, che prende il nome di: Cuneus Cerenius, in realtà il nome e' stato scritto in modo sbagliato il nome esatto e': (Cineres) questo termine, maschile plurale in latino ha il significato di :ruderi di una città incenerita. A conferma di ciò poco distante osservando con attenzione degli scavi per la costruzione di un edificio ho notato in mezzo al terreno delle zone carbonizzate come se fossero state esposte ad un'elevatissima temperatura. Parlando poi con una contadina di un'altro paese ma più vicino a Vico ero venuto a conoscenza che il terreno e' ricco di materiale vulcanico come lapilli e cenere, inoltre piccole scosse di terremoto, fremiti più che altro agitano una zona che migliaia di anni fa, doveva essere molto attiva geologicamente, questo fatto viene confermato dalle acque minerali della sorgente dello Scrajo poco distante da Vico Equense. Cercherò ora di analizzare quale potrebbe essere il significato del nome Aequa: secondo alcuni studiosi proverrebbe da: aequo, as, avi, atum, are, verbo transitivo che significa: uguagliare, rendere uguale, appianare, spianare. Nome che le venne dato dopo che Silla l'aveva rasa al suolo cioè spianata, ma in realtà questo nome esisteva da molto prima che Silla la distruggesse. Più probabilmente invece deriva da: Aequus, a, um. Aggettivo che significa giusto, buono, moderato, ma anche: uguale, pari, piano in riferimento alla natura pianeggiante del luogo dove sorgeva Aequa. Secondo altri studiosi questo nome fu dato alla zona dai veterani mandati da Augusto, i quali, colpiti dalla posizione pianeggiante di quella contrada in confronto alle zone vicine, collinose e piene di valli e di strapiombi, la chiamarono (terra) aequa , ossia (terra) piana in senso orizzontale: terra cioè, che non presentava ineguaglianze altimetriche. E' interessante notare
che c'e' un paese prima di Sorrento che occupa la più estesa zona pianeggiante della costiera sorrentina esso prende proprio il nome di Piano di Sorrento ed' e' la zona delimitata da una parte da Meta e dall'altra da Sant'Agnello. Il popolo aequano tuttavia non scomparve con la distruzione del primo luogo dove si erano stabiliti poiché molti avevano preferito abitare sulla terraferma. E' straordinaria la somiglianza di questo luogo con Atlantide così come ce la descriva Platone, una pianura con alle spalle una grande montagna, la pianura e' quella di Piano di Sorrento mentre la montagna e' il monte Faito. Che il luogo fosse abitato da un popolo nobile e' valoroso e' testimoniato anche dagli stemmi che ci sono sugli archi delle porte di quasi tutte le vecchie case di Vico Equense di Piano di Meta di Sorrento e della stessa Sorrento. In realtà in tutti i vecchi paesi d'Italia ci sono alcune case in cui abitavano dei nobili e che presentano degli stemmi sugli archi, ma non c'e nessun luogo dove questo fenomeno sia così generalizzato come nei paesi della penisola sorrentina. Inoltre per quale motivo Carlo Dangio' scelse proprio Vico per edificare un grande castello, e persone di grande nobilta’ si succedettero
nel dominio del piccolo borgo. Poi perché un paesino cosi piccolo presenta un numero così elevato di chiese, alcune di grande importanza come la Cattedrale, tutte costruite in un'epoca in cui gli abitanti della zona non erano molto numerosi. E' da presumere che questo luogo fosse per qualche motivo sacro, le chiese infatti venivano frequentemente edificate su edifici religiosi più antichi già esistenti, sia per risparmiare il lavoro della costruzione delle fondamenta, sia per economizzare sul materiale da costruzione. Anche Omero ci parla nella sua Odissea libro IX di quest'isola egli narra :<<...adunque poco lontano dal porto si stende un'isola bassa,
non vicino ne' lontano dalla terra dei Ciclopi, selvosa; e là dentro vivono capre selvagge, infinite: infatti non le fa allontanare di la ' o di uomini, ne' entrano in essa i cacciatori, che per i boschi soffrono travagli percorrendo le vette dei monti. D'altra parte l'isola non e' occupata ne' da armenti ne' da campi coltivati, ma essa non seminata e non arata, e' priva sempre di uomini, e nutre belanti capre ...Poiché certo essa non e' affatto sterile, no proprio, ma potrebbe produrre ogni frutto nella sua stagione; che
là si stendono, lungo le rive del mare canuto, prati irrigui, soffici dove potrebbero esserci viti veramente eterne. Vi e' inoltre terreno da semina, *piano*: lì potrebbero mietere sempre, a suo tempo, messi molto alte, poiché sotto il suolo vi e' grasso in abbondanza. Vi e' ancora un porto che offre un buon ancoraggio, dove non c'e' bisogno di cordame, non c'e' bisogno, cioè, ne' di gettare le ancore, ne' di attaccare gli ormeggi, ma, dopo esservi approdati, si può aspettare alquanto tempo, finché l'animo dei nocchieri stimoli gli stessi a ripartire, e finché soffino i venti. E in capo al porto scorre
una limpida acqua, una fonte che sgorga di sotto una grotta; e all'intorno sorgono dei pioppi. Colà approdammo, e un Dio ci guidava per la notte buia: infatti non vi era luce sì da vederci, poiché intorno alle navi si stendeva una fitta nebbia, ne' la luna splendeva dal cielo, ma era coperta di nuvole. Colà nessuno di noi vide con i suoi occhi quell'isola, e neppure ci accorgemmo delle lunghe onde che rotolavano verso terra, prima che le navi ben fornite di banchi fossero approdate. E alle navi approdate, ammainammo tutte le vele, poi anche noi scendemmo sul frangente del mare ; e quivi appisolatici attendemmo l'Aurora divina. Quando poi mattutina apparve l'Aurora dalle rosee dita, ammirando l'isola ci aggiravamo per essa. E le Ninfe, figlie di Zeus portatore dell'egida, scovarono capre montane, perché i miei compagni potessero fare colazione. Subito prendemmo dalle navi archi ricurvi e giavellotti di lungo fusto, e ordinatici in tre schiere, cominciammo a colpire; e ben presto la divinità ci diede una preda abbondante. Orbene, mi seguivano dodici navi e a ciascuna di esse toccarono in sorte nove capre; e per me solo i compagni ne scelsero dieci. Così allora per tutto il giorno. Fino al tramonto del sole, riposammo, spartendoci e carni infinite e vino dolce. Infatti non ancora era venuto a mancare dalle navi il vino rosso, ma ce n'era: giacché molto ne avevamo attinto nelle anfore noi tutti, quando avevamo preso la sacra città dei Ciconi. E guardavamo verso la terra dei Ciclopi che ci erano vicini, e vedevamo il fumo e udivamo la voce di essi e i belati delle pecore e delle capre... Ma quando dunque giungemmo a quell'isola, dove appunto le altre navi ben fornite di banchi per rematori, ci aspettavano, tutte riunite, e intorno a esse gli altri compagni sedevano afflitti, aspettandoci sempre, quivi giunti, facemmo approdare la nave sulla sabbia, poi anche noi scendemmo sul frangente del mare. Poi dopo aver tolto dalla concava nave
le greggi del Ciclope, ce le dividemmo fra noi, onde nessuno mi andasse via defraudato di una parte *uguale* a quella degli altri. Ma a me solo i compagni dalle belle gambiere diedero a parte, nella divisione delle greggi, il montone; e avendo sacrificato sulla riva questo montone a Zeus, dagli oscuri nembi, figlio di Crono, che regna su tutti, ne bruciai le cosce; ma egli non si curava dei miei sacrifici, anzi egli meditava come potessero perire tutte le navi ben fornite di banchi per rematori e i miei fedeli compagni. Così allora per tutto il giorno, fino al tramonto del sole, riposammo, spartendoci e carni infinite e vino dolce. Poi quando il sole tramontò, e sopraggiunsero le tenebre, allora appunto ci mettemmo a dormire sul frangente del mare. E quando mattutina apparve l'Aurora dalle rosee dita, allora appunto io, incitandoli, comandai ai compagni e che salissero anch'essi e che sciogliessero gli ormeggi. E quelli salirono subito, e sedettero ai banchi dei rematori, e seduti in ordine batterono il mare canuto coi remi. Di là poi navigammo più oltre, afflitti nel cuore per aver perduto i cari compagni, e pur lieti per essere scampati alla morte.>> Odissea libro IX. Innanzitutto c'e' da chiederci se questa descrizione sia veritiera oppure inventata da Omero, in realtà essa e' talmente particolareggiata e precisa che non lascia dubbi. Si potrebbe ancora ipotizzare che questa descrizione corrisponda a qualche isola del golfo di Napoli quali: Capri, Ischia, o Procida, ma le prime due sono piuttosto montuose, mentre la terza anche essendo per lo più pianeggiante, non era disabitata all'epoca in cui avvengono i fatti, inoltre è molto lontana dalla terraferma e nelle vicinanze non ci sono monti, anch’essa non corrisponde dunque alla descrizione, che ci da Omero. Dalle parole del poeta possiamo capire molte cose Aequa all'epoca non era abitata nonostante avesse una fonte d'acqua, e fosse fertile e avesse un porto tanto ampio da contenere dodici navi, da questi i capiamo anche che l'isola era molto grande, non eccessivamente lontana dalla riva, e aveva un fondale di tipo sabbioso, il motivo di quest’abbandono potrebbe attribuirsi, ai terremoti che scuotevano l'isola in epoca arcaica. Secondo Omero in realtà i Ciclopi di cui faceva parte anche Polifemo, erano tutto un popolo di potenti giganti, rozzi, senza legge e senza ombra di civiltà, e simboleggiavano i vulcani, essi erano rappresentati con un solo occhio sulla fronte, forse il cratere da cui scaturisce il fuoco. Da ciò possiamo dedurre che questa grande isola non era molto lontana da un Vulcano che poi la distrusse assieme a tutta la costa circostante. I monti descritti dal poeta dove si cacciavano le capre sono con molta probabilita’: il monte, Faito di cui abbiamo già parlato, il monte: Comune di 877 metri ed il monte: di Vico Alvano di 643 metri, tutte montagne perfettamente visibili dal mare, inoltre
c'e' una località nel casale di Moiano che prende il nome di caprile, termine che deriva dalla voce latina caper/capri (capro) e dal suffisso ile con questo termine già in latino come in italiano s’indica un luogo chiuso dove venivano custodite le capre, mentre nella località di San Salvatore nel territorio di Vico Equense troviamo il termine Crapolla, questa parola deriva dal latino capreola (capriola) e' evidente quindi la presenza di questi animali già in epoca remota in questa zona. C'e' da chiedersi chi avesse portato queste capre sull'isola, la mia ipotesi e’che essa in origine fosse attaccata alla terraferma in particolare al territorio di Piano di Sorrento poi il bradisismo discendente continui terremoti, maremoti l'hanno staccata dalla terraferma. La zona venne scelta, dagli antichi colonizzatori soprattutto per l'ottima qualità del terreno agricolo. La nebbia descritta da Omero e' anche perfettamente compatibile con il luogo infatti anticamente dovevano esserci nella zona dei laghetti alimentati da acque sotterranee, che generavano delle persistenti nebbie per lo più all'alba, analogo fenomeno accade nella zona dei campi flegrei, dove ci sono i laghi d'Averno e Lucrino. Omero con l'Iliade e l'Odissea creò i più importanti poemi classici dell'epica greca antica, in queste opere, s’incontrano tratti caratteristici di una narrazione, che per molte generazioni era stata tramandata a voce; ne sono un esempio, le molte ripetizioni che permettevano, a chi ascoltava, di seguire più facilmente il racconto. Altre caratteristiche sono l'ampio ricorso ad epiteti, cioè aggettivi, che accompagnano i nomi, soprattutto dei personaggi e degli dei, facendo notare le loro qualità, per esempio: Achille generoso, Elena bella chioma. La parola "Epica"deriva dal greco epos, che significa parola, racconto di gesta eroiche. l'Epica e' quindi un genere letterario che narra avventure di cui sono protagonisti eroi, cioè uomini eccezionali per forza fisica e virtù guerriera. Il racconto delle gesta degli eroi era solitamente in versi. I fatti narrati erano considerati così importanti e degni di ammirazione che si sentiva la necessità di recitarli e di cantarli con l'accompagnamento di uno strumento musicale a corde, quello più in uso era la cetra. E quando i testi sono associati alla musica, le parole devono adattarsi al ritmo e quindi assumere una forma poetica.Tutti i popoli antichi si riconoscevano nella poesia epica perché essa narrava episodi o leggende che si riferivano alle loro origini. Anticamente, alla creazione dei racconti epici contribuiva tutta la popolazione, poiché si trattava di narrazioni popolari che venivano tramandate oralmente da padre in figlio e che si arricchivano di particolari di generazione in generazione. Ciò avvenne fino a quando uno o più poeti elaborarono i racconti popolari impreziosendoli con la loro arte e la loro genialità. Omero compose i suoi due poemi
probabilmente intorno all'ottocento a.C. Le notizie che possediamo su quest'autore, non sono accertate, visse probabilmente nel IX secolo a.C. in una città sulla costa dell'Asia Minore (oggi Turchia occidentale) ed ebbe modo di visitare l'Egitto, la Libia, la Spagna e l'Italia, oltre alla Grecia e molte isole del mar egeo. Secondo alcuni critici l'autore dell'Iliade non poteva essere lo stesso dell'Odissea, poiché esiste una notevole diversità tra il mondo sociale, politico e religioso descritto nel primo poema e quello descritto nel secondo. L'ambiente in cui si svolgono i fatti narrati nell'Iliade e' violento, agitato dalla guerra tra popoli e da lotte tra individui, mentre quello dell'Odissea e' più tranquillo, più pacifico, sostanzialmente più avanzato ed evoluto. Secondo altri studiosi invece, le due opere sono state composte dallo stesso autore, perché il modo di esprimersi utilizzato in entrambe le opere non presenta sostanziali differenze. Omero avrebbe scritto il primo poema durante la giovinezza e il secondo in età avanzata. Nei poemi omerici la presenza degli dei e' continua e determinante. Gli eroi, prima di agire, consultano sempre gli dei che comunicano con loro direttamente, scendendo in terra al fianco dei loro protetti, assumendo sembianze umane o apparendo loro in sogno. Gli dei manifestano sentimenti e stati d'animo simili a quelli degli uomini e per queste caratteristiche delle divinità la religione dei greci si definisce antropomorfica (dal greco anthropos, uomo e morfe' forma). Per mantenere buoni rapporti con loro, gli uomini devono obbedire al loro volere e compiere frequenti sacrifici, uccidendo animali in loro onore. Odisseo, Ulisse in latino il protagonista dell'Odissea, era il re dell'isola di Itaca e figlio di Laerte. Dotato di grande forza fisica e di coraggio, è riconosciuto da tutti come il più astuto degli eroi greci. La sua perspicacia unita ad una straordinaria intelligenza, gli permetteva dei prevenire le mosse dei nemici e di raggiungere gli scopi che si era prefissato. Quasi sicuramente Aequa non fu colonizzata per prima dai Romani poiché essi preferivano come luogo di residenza la terraferma come dimostrano le isole flegree di Procida, Vivara, ed Ischia, dove non si notano ruderi di monumenti pubblici e privati romani, ma soltanto tombe di origine greca, come ad’esempio le due tombe in località "campo inglese" a Procida, a quindici metri di altezza su un costone che affaccia sulla spiaggia di Ciraccio. Il motivo è ché queste isole, per la loro limitata estensione e per la loro natura vulcanica non si prestavano alla grandiosità costruttiva dell'architettura romana. Soltanto Capri, unica eccezione assurse a sede imperiale, e ancora oggi dopo due millenni, si possono ammirare gli avanzi delle fastose dimore regali: Villa Jovis, famosa villa di Tiberio e Villa Augustea di Palazzo a Mare, che con le loro possenti struttura murarie,
mostrano al mondo l'antica potenza di Roma. Piuttosto è da presumere che i primi abitanti dell'isola fossero i Fenici. La presenza di un grande fiume sul territorio, ora asciutto in seguito ai fenomeni vulcanici antichi rendevano il luogo ideale per uno stanziamento, infatti, la presenza dei fiumi era molto importante per i popoli antichi, perché l'acqua favoriva l'agricoltura e perché gli straripamenti rendevano fertile le terre circostanti. Infatti, fu proprio lungo i grandi fiumi: il Nilo, il Tigri, L'Eufrate che si svilupparono le prime civiltà. Concludendo il mistero di Aequa è stato appena svelato, ma ancora tanto rimane da scoprire.