Tavola dei Contenuti (TOC)
Copertina I parte I XIV secolo II XVI secolo III 1797 - 1802 IV V 1824 VI 1823-1838 VII 1786 - 1825 VIII 1841 II parte
I 1841 II 1844 III 1844 IV 1844 - 1853 V 1853 VI 1859 VII 1864 VIII 1866 IX Estate 1866 X Agosto 1866 XI
1866 - 1871 XII 24 - 7 - 1915 Epilogo Nota bibliografica RINGRAZIAMENTI
Un Romanzo Storico di: Davide Dotto
Il ponte delle
Vivene
eBook
ISBN versione digitale 978-88-6660-178-4
IL PONTE DELLE VIVENE Autore: Davide Dotto
Copyright © 2016 CIESSE Edizioni
[email protected] www.ciessedizioni.it – www.shop-ciessedizioni.it www.blog-ciessedizioni.info
I Edizione stampata nel mese di gennaio 2016
Impostazione grafica e progetto copertina: © 2016 CIESSE Edizioni Immagine di copertina: Torre castello di San Salvatore (Susegana – TV)
Collana: Green Editing a cura di: Pia Barletta
PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Ai miei nipotini Angelo, Federico e Davide
I parte
Ero rigido e freddo, ero un ponte gettato sopra un abisso. Franz Kafka, Il Ponte
I
XIV secolo
Valchiusa era così nominata non per via dei monti che le sbarravano la strada, ma per le acque del Chiese che vi scorrevano intorno. Il fiume avanzava, scompariva per poi riaffiorare all’improvviso allo sguardo poco più in là. Esso si accostava a lunghe file di boschi che si infittivano man mano che si saliva, rincorreva le scarpate in un vivo contrasto di pianure e giogaie, di valli e alture, da lì proseguiva imperterrito fino a gettarsi tra le acque dell’Idro, nella piana di Storo. Non fosse stato per l’imponente Castello che dominava quel paese, non ci sarebbe granché da raccontare.
Alla morte di suo padre, Andreas si presentò davanti al portone e prese possesso del palazzo. Doveva decidere che farne, se abitarlo o liberarsene. Dimostrava circa venticinque anni, rampollo di una famiglia di cui non si è tramandato il nome. Delle sue origini non si è conservato nulla, se non quello che le generazioni di carbonai e minatori consegnarono ai posteri. Si sa che gli ultimi cinque anni li spese in lunghe peregrinazioni, impegnato in battaglie e avventure di cui si è perso il ricordo. Andreas intendeva stabilire quali fossero i confini effettivi delle nuove proprietà: ogni fazzoletto di terra faceva parte del vescovado, senza distinzione tra ciò che era sopra e ciò che stava sotto, a valle o a monte. La cosa non era chiara, perché si sapeva di volta in volta chi avesse su quelle terre diritto di alta e bassa giustizia. Andreas dedicò le sue giornate a misurare, calcolare, a stilare un minuzioso inventario che aggiornasse l’antico. Nell’edificare il Castello si era assecondato il disegno delle pareti rocciose, rinunziando alla simmetria delle forme. Rappresentava un unico blocco che si univa al resto. Si ergeva su un grumo pietrificato allacciato alla montagna, i bastioni gareggiavano con gli spalti di roccia che lo affiancavano. Radici insidiose e un fitto reticolato d’edera si abbarbicavano tra le mura ricoprendole
quasi integralmente. Sul retro, un pianoro erboso terminava in uno strapiombo che si attraversava grazie a un ponte di corda dissestato. Si trattava di quello che molti giurarono di vedere, caparbio e teso tra un versante e l’altro, due, tre secoli dopo. Ed era lo stesso che poté notare di aggio l’esercito di Napoleone, e di cui ancora si parlava all’inizio del secolo scorso, quando infine crollò. Non per una bava di vento, ma per i contraccolpi di una battaglia aerea. Che si sapesse, già all’epoca di Andreas la misteriosa erella di travi era diroccata, e non ava giorno che non vincesse la forza di gravità che premeva verso l’abisso. Il ragazzo si domandò se non fosse il caso di rinforzare il ponte o di costruirne uno più robusto. Oltre il dirupo che si apriva a pochi i, nelle mappe a sua disposizione non si vedeva altro. Prima c’era il prato di cui si è detto, in un angolo del quale si accatastava la legna da ardere. Per il resto, non vedeva l’ora di visitare le terre che lo attendevano. Ben pochi osavano avventurarsi al di là di quel confine naturale. Il versante opposto, infatti, apparteneva alla Vivena, uno spirito dimorante nei boschi, per definizione da sempre forestiero. La Vivena era una figura incrollabile e granitica, forgiata da millenni di incontrastato dominio. Essa emergeva nella valle addormentata, in equilibrio su un picco, piantata come un chiodo su una sporgenza di roccia a precipizio, lo sguardo fisso a indugiare sui casolari. Oppure vagava nella notte silenziosa, priva di sonno fino a giungere alle porte dei paesi, dai quali si ritirava sul far del giorno. Benevola o collerica secondo la stagione, si riconosceva dal mantello scuro che avvolgeva la figura, dai modi regali e irascibili. Da bambino, Andreas ascoltava suo padre raccontare e reinventare storie tramandate di generazione in generazione. Mai e poi mai, gli ripeteva, avrebbe dovuto violare il regno di questa traghettatrice di anime dalle sembianze umane, così la chiamava, spietata quanto la sua solitudine. Che non allacciasse rapporti, non si invischiasse nelle faccende di colei che abitava quei luoghi ben prima dei figli e delle figlie di Adamo. Persino l’angelo della morte vi si muoveva cauto. «Se sei uomo ti rapisce il cuore e non torni più a casa. Se sei donna ti avvolge un’angoscia invincibile,
desideri scomparire all’istante, non averla mai incontrata. Di fronte a essa sfiguri e ti tormenti, muori d’invidia a non essere lei. Per il resto non hai da temere nulla se non la contraddici e non la contrasti. La Vivena è il destino, la memoria della valle, guardiana essa stessa di quanto la imprigiona.» Gli apparve in equilibrio sulla prima coppia di assi, nel momento in cui egli mosse un o oltre il confine stabilito. Il suo sguardo severo gli intimò di tornare indietro. In seguito la avvistò intenta a raccogliere dell’erba nel prato sul retro. La vide fragile e solitaria, alla mercé di qualsiasi predatore. Le si accostò con cautela, illudendosi di sorprenderla e sfiorarle il lembo della veste, ma essa si voltò prima che potesse farlo, apostrofandolo con asprezza: «Osate avvicinarvi a me? Di certo non mi temete come dovreste.» No, non la temeva, avrebbe voluto rispondere, contraddicendosi subito dopo, che le stava di fronte neanche fosse una statua di sale, privo del respiro, vinto dal turbamento di chi era stato colto con le mani nel sacco. «Tutto quello su cui poggia il castello vi appartiene. Vostri sono i pendii che potete risalire e la mulattiera che scorta al paese. Per mia graziosa concessione potrete eggiare sul mio prato, ma non vi avvicinerete al ponte, né lo attraverserete. È vostra la legna che viene accatastata al muro, vostro ciò che coltiverete nei terreni intorno. Non un ramo dei miei boschi è vostro più di quello che vi è dato per diritto di aggio. Solo ai minatori che scavano la roccia viva e ai carbonai consento il transito. A voi sarà proibito.» Andreas comprese che gli spettavano le fondamenta del castello, ma non la metà del burrone sul quale poggiava il ponte. «Siete arguta, mia signora. Se il prato non fosse vostro, almeno metà del ponte mi spetterebbe, con ciò che attraversa la mia parte» rispose recuperando la padronanza di sé. Il viso della donna mostrò dapprima meraviglia, poi si indurì per l’insolenza del giovane. Si allontanò sprezzante, raggiunse il ponte che attraversò con o leggero. Prima di dileguarsi tra i boschi pronti ad accoglierla, gli lanciò un’ultima occhiata. Segno che ormai, per leggerezza di entrambi, l’irreparabile era avvenuto. Anche volendo, lui non avrebbe potuto inseguirla. La Vivena
abitava l’infida roccia, poggiava la punta dei piedi nelle salde pareti, sostava tra le paludi vischiose. Abitava le grotte, condivideva le miniere con i cavatori, si immergeva nei torrenti. Talora si soffermava in solitudine in cima al mondo, tra i ghiacci oltre le nubi che si addensavano copiose. Il ragazzo fu conquistato dalla figura, tanto che i racconti non gli bastarono. Desiderò che quel pezzo di mondo divenisse tutto il mondo, e che non esistessero altri che loro due. Prese l’abitudine di trattenersi a lungo nei pressi del ponte che mai avrebbe attraversato, o sul muro prospiciente il prato, anche a costo di sfidare l’ira della signora, come la chiamava. Il monito di suo padre gli tornò chiaro nella mente: se gli dèi si ritirarono per sempre nel proprio Olimpo dopo la guerra di Troia, fu perché appresero la nefasta lezione del mischiare le cose divine alle umane. Non era il caso di scatenare un innesco che nessuno sarebbe stato in grado di dire dove avrebbe condotto. Se la Vivena o Andreas avessero violato il limite, alle generazioni future sarebbe stato presentato un conto assai salato. Se la Vivena si fosse impossessata della rocca, da essa avrebbe governato le valli quale tenebrosa regina. L’ammonimento non raggiunse lo scopo. Da quel momento il giovane non ebbe pace. Sognò il suo viso, gli occhi sfavillanti, le labbra rosse che gli avevano rivolto la parola, il ciuffo di capelli neri. Non volle sentire ragioni, pur non osando disobbedire al comando impartito. Non si accontentò di pazientare a guardia del suo versante. Le gridava dei messaggi dal ponte o da un balcone, affinché li ascoltasse, o glieli porgesse il vento pietoso. Pur non incontrandola, ne avvertiva la presenza. Arrivò a recitarle poemi di sua composizione, struggendosi delle mancate risposte. Andando contro gli avvertimenti del padre, non potendole donare ciò che le apparteneva, le avrebbe offerto le mura merlate e le torri in cui abitava. L’avrebbe chiesta in moglie per condividere lo stesso destino, senza darle tregua finché il suo desiderio non fosse stato esaudito. Andreas mal sopportava la solitudine, e spesso scendeva in paese. Frequentava il mercato, la bettola, si distraeva con i pettegolezzi della vita montanara, narrava e ascoltava storie accoccolato su una sedia. Meglio che girare sospirando tra le stanze, spiato dalla servitù, o intravedere un topo sul far della sera, una lucertola
tra i muri entrata con un po’ di sole. Ogni tanto si ammirava negli specchi e pensava che la vita di montagna non fe per lui. Sentiva la necessità di muoversi, di viaggiare a dorso di cavallo. Ma appena fuori dalla valle, l’improvvisa malinconia che lo coglieva imponeva di abbandonare il proposito. Anno dopo anno, giorno dopo giorno, la Vivena si abituò alle stravaganze dello spasimante fino a ricambiarlo in segreto. Pur non proferendo parole, a loro modo se la intendevano. Decise di rispondere ai suoi messaggi con un canto armonioso al quale il giovane non rimase indifferente, e tale che non si era mai sentito. Questa concessione però non fu sufficiente al castellano, che intensificò gli sforzi per attirarla a sé. Architettò agguati e imboscate per sorprenderla, si appostò imperterrito vicino ai corsi d’acqua o dietro le siepi, oziò su una roccia al bordo del sentiero, badando di non contravvenire al comando antico. Non voleva rischiare di perdere il favore che non gli negava. “Ho capito. Non vi piace il mio Castello”, pensò una mattina esaminando le mura esterne della fortificazione. Per compiacerla spese gran parte del suo patrimonio. Chiamò valenti architetti che sistemarono le soffitte e arredarono con gusto le stanze. Era certo che lo sfolgorio luminescente delle vetrate rimesse a nuovo l’avrebbe attirata. Allora l’avrebbe accolta in pompa magna, accompagnandola tra le camere, i corridoi, le scale levigate. «Le soffitte saranno vostre, i piani di mezzo saranno i miei. Le segrete, popolate un tempo dai prigionieri, se volete saranno vostre anch’esse» le sussurrava dal ponte. Per richiamare la sua attenzione, la sala centrale del pianterreno brulicò di luci, musici e saltimbanchi. Era sicuro che lei avrebbe notato l’impegno profuso a riceverla nelle stanze che le preparava e, incuriosita dalla baldoria e dai flauti, si sarebbe avvicinata. Gli parve infatti di scorgere dalla finestra gli occhi inquieti e furtivi di chi avrebbe dato chissà cosa per partecipare alla festa e alle danze. Andreas commise l’errore di precipitarsi fuori e chiamarla a gran voce, ma lei, sentendolo avvicinare, fuggì in tempo. Il ragazzo scrutò la sua ombra sul ponte che, per la furia di chi lo attraversava, parve volersi staccare dai suoi attracchi.
Il Castello perse a poco a poco l’aspetto fosco di sempre. Divenne luogo d’incontro per artisti e letterati che vi avano le serate. Il portone si aprì a una stretta cerchia di visitatori che attraversava stupefatta sale sontuose. A essa si offrivano cene pantagrueliche, colme di pietanze prelibate servite con stoviglie di legno intarsiato. E che arredi, che stoffe, che sale, che broccati, che grandi e variopinte tovaglie nascondevano le gambe dei tavoli, quali preziose e sfavillanti acquerecce stavano in bella mostra sopra la credenza. C’era da andare in visibilio davanti a sedie, statue e ninnoli di legno verniciato che affollavano ogni anfratto altrimenti scoperto. Non trascurò di rivestire le pareti di damasco. Chi vi abitava stabilmente dava l’impressione di trascorrervi una perenne villeggiatura. A questo il proprietario desiderava si pensasse. Non lo infastidiva che lo ritenessero un mecenate e sputare di tanto in tanto sentenze e massime, o essere attorniato da ospiti compiacenti che si guardavano bene dal contraddirlo. Costoro preconfezionavano risposte scherzose sui più disparati argomenti, parlavano di facezie, sogghignavano e non coprivano il viso con le mani se si trattava di scabrosità. La noia la nascondevano, ma essa era dissimulata dalla postura dei corpi. Il castellano osservava un gran lavorare di mani dietro la schiena, il continuo e irrefrenabile lisciarsi di barbe, nell’infinito disputare di questa o di quella cosa. Un atempo era la vita. Nel parlare, nel mantenere il silenzio, il capo non lo chinavano mai. Piuttosto si torcevano il collo nel guardare in alto, per allungarlo ed emergere dalla torma o sorprendere lo sguardo assente del padrone di casa. Ciò che osservava era l’immagine di un libro rimasto chiuso, un luogo muto che esibiva nella sua fredda superficie. Cessarono l’allegrezza del fanciullo e il gaudio dell’avventuriero che allietarono i suoi vent’anni. Conquistò la certezza che una vita eccitante e degna di essere vissuta era solo quella immaginata, e a essa non poteva tornare. Superati i trenta si stancò della vita che conduceva, dei commensali che si attardavano in peripezie e giochi di parole fini a se stessi, a ripetere e a manipolare formule in voga, a cavar fuori un significato che non fosse l’ordinario. Discutevano fino all’inverosimile dei propri viaggi, ricordando un particolare insignificante, ansiosi di non tralasciare nulla, e a una voce seguiva l’altra di rincalzo. Trascorsero così gli anni senza che la Vivena si fe vedere o accettasse i suoi inviti. Nelle giornate di vento l’uomo ne avvertiva il canto privo di parole, una nota dolce e limpida che si allacciava ai refoli e giungeva intatta alle orecchie
prima, al cuore poi. A quarant’anni invecchiò. Una barba mezza grigia gli solcava le guance scendendo a ciuffo sul mento. I vestiti eleganti, adatti al lignaggio, non ne miglioravano la figura. «Assomiglio a mio padre» sussurrava tra sé, sconsolato di un avvenire lasciato alle spalle. Trascorse intere giornate all’aperto, domandandosi cosa avrebbe potuto inventare per conquistare lo spirito impossibile delle acque e dei boschi, che si trincerava dietro il silenzio e il terribile e invitante canto armonioso. Si rivelò inutile uscire a tutte le ore, anche in pieno inverno, accovacciarsi sul fianco del muro e attendere l’arrivo dell’amata. Al di là del ponte le cascate torrentizie si offrivano in lontananza come un dipinto. Era un quadro meraviglioso di cose che, se non fossero state innervate dalla presenza della Vivena, sarebbero apparse immobili. Solo il ritmo del sole, il aggio delle nuvole, il salto delle ore ne mutavano le tinte. Il padrone del Castello voleva toccarlo con mano questo mondo incantato, non era sufficiente fissarne i contorni dalle vetrate dell’eremo o nei pressi del ponte di legno. Desiderava capire di quale pasta fossero preparati i colori che osservava per ricomporli nelle sue mani. Il Castello era una minima parte di ciò che poteva dominare. Il resto si trovava a ridosso del versante proibito, trasfigurato dalla bruma mattutina, una metà mancante del suo tutto. Un giorno credette di capire. Nella sua follia considerò che per anni la Vivena avesse risposto ai suoi richiami con la voce che rimbalzava stentorea tra le pareti di roccia, un chiaro invito ad avvicinarsi, a dare l’addio alle sue proprietà. Un invito al quale non aveva mai aderito. Lei si era vendicata esibendo l’inveterata crudeltà di chi svanisce davanti agli occhi, ma non prima d’avergli mostrato in sogno un sorriso dolce che instillò il desiderio mai sopito di accarezzarle le guance. «Che stupido sono stato» concluse.
Non si diede per vinto. Pensò di presentarsi a lei con un dono che avrebbe gradito. Le fece cucire un mantello, che quello che indossava era consunto dalle intemperie e dall’umidità delle grotte. Scelse un abile sarto che rinchiuse in una stanza segreta, nella quale fece riporre un arcolaio. Egli sarebbe stato presente, custode del suo lavoro, un po’ per controllare che non se la prendesse comoda, un po’ perché non si distraesse e non mancasse di nulla. Quando il dono fu pronto, si decise. Licenziò il sarto e congedò la servitù, pagando a ciascuno il salario dovuto. Sprangò le porte e le finestre, dopodiché abbandonò il Castello, diretto verso il ponte. Aveva piovuto da poco e la erella di legno era sdrucciolevole e insidiosa al o. Tuttavia non desistette e, fiducioso, la attraversò. Arrivato a metà, una trave marcia e malamente inchiodata cedette al peso. L’uomo non gridò, né fiatò. L’ultimo pensiero lo dedicò all’amata assente. Riuscì soltanto, prima che il vuoto lo inghiottisse per sempre, a gettare avanti il mantello, affinché non si perdesse con lui tra i flutti. Che almeno rimanesse qualcosa di sé. La Vivena al suo ritorno fu stupita di vedere i finestroni del Castello chiusi, nonostante il sole brillasse alto e la giornata fosse stupenda. Poi distinse i drappi del mantello buttato sul ponte, scrollato dal vento che smuoveva le foglie e la polvere. La Vivena, alla quale nulla si poteva nascondere, contò i i che avevano condotto lo sciagurato fino al mezzo, e osservò il punto da cui era precipitato. Calò su di lei la tristezza. Avanzò lenta, si appropriò del dono. Si spogliò del vecchio indumento e indossò il nuovo. Così avvolta, assomigliava a una rondine sfiancata da un faticoso viaggio. Osservò a lungo il luogo che Andreas non avrebbe mai dovuto oltreare, e l’apertura della trave che aveva ceduto. Attese invano un rumore, ma il Castello era disabitato come il suo cuore. Se il castellano aveva manifestato il suo amore lasciando la rocca, lei avrebbe abbandonato le rocce. Migrò dalle umide grotte e si impossessò dell’eremo, segnando un diverso confine tra il mondo degli uomini e il suo.
Superò il ponte, mise piede nel pianoro sul retro, fu di fronte al portone. La serratura si aprì al semplice cenno della mano, le finestre si spalancarono inondando di luce le pareti. Si avviò con trepidazione verso i corridoi, si perse tra i piani e le stanze. Entrò nella camera con l’arcolaio e i resti del tessuto con il quale era stato confezionato il mantello. Assuefatta alle pareti umide delle caverne, non occupò subito i piani superiori, preferì le segrete, elette a propria dimora sepolcrale. Dalle labbra uscì un canto triste, dalle pupille sgorgarono lacrime che non rammentava d’aver mai pianto. Solo il sonno le donò la pace, e dormendo trascorse gli inverni, finché si consumò e di lei non rimase che il mantello, posato da qualche parte. Non si spense tuttavia il canto triste, aggrappato a ogni refolo di vento. A tendere bene l’orecchio si poté udirlo per anni in alcuni punti della vallata. Chi ebbe la sventura di sentirlo ne ebbe straziato il cuore, tanto da immedesimarsi nel suo dispiacere.
II
XVI secolo
Non si parlò delle Vivene finché non iniziò la caccia alle streghe. Che si sapesse, a valle ve n’era almeno una. Stanarla non sarebbe stato facile, la natura e le arti magiche l’avevano resa, si diceva, eterea come il vento. A incontrarla lontana dal rifugio, avvolta nella sua veste, non si sarebbe scorto né il viso né le mani, ma il mantello sventolante. Era quello a far paura; purché definita, una qualunque figura avrebbe suscitato minore sgomento. Di certo porre sotto processo un mantello non dava soddisfazione alcuna. Chi avrebbero arso al palo? Le autorità civili se la presero con le donne del posto, più facili da porre alla sbarra per l’abitudine di ritirarsi sulle alture poco dopo il calar del sole, ad appartarsi con l’innamorato. Cosa avesse scatenato il santo inquisitore e la combriccola che lo seguiva peggio di un nutrito sciame di vespe, non lo sapeva nessuno. Probabilmente un’alluvione o una contesa giudiziaria che aveva visto coinvolte famiglie influenti. La prima strega fu arsa viva contro il muro del municipio di Colledoro. La volta successiva furono due a Gramo, poi tre a Valmezzo, la prossima sarebbe stata a Valchiusa. Oscuri presagi della sorte imminente spinsero le donne a barricarsi in casa, soprattutto per via di ciò che sbraitava il prete durante la messa, delle occhiate lanciate ai fedeli alla perenne ricerca del maligno. I mariti, i figli e i fratelli si sforzarono di consolarle: cosa mai avrebbe potuto scovare l’inquisitore nella loro bicocca? Loro intuivano che lui le colpe, se non le trovava, le inventava, cogliendo corrispondenze e prove laddove nessun semplice le avrebbe scorte, o creando dal nulla malefici che scaturivano dal proprio ingegno. Dovendo nutrire il proprio zelo, per niente al mondo se ne sarebbe andato a mani vuote. Avrebbe pronunciato parole e minacce tali da far confessare qualsiasi abominio, se non si voleva venisse strappato il cuore dal petto. Allora piangevano e si disperavano, le donne, immaginando l’orrenda morte nell’essere legate e bruciate su un’asta,
con la consapevolezza di non poter mantenere, dinanzi al prelato, l’animo degli innocenti. Davanti a lui si era condannate, che non si perdonava neppure il peccato originale. Una sera figure velate posero sulla soglia delle case una croce bianca. All’alba si sarebbe presentato l’inquisitore, chiedendo di entrare. Avrebbe posto domande e arrestato la figlia, la moglie, la sorella, la madre, investigato sul marito, i figli. Prima che ciò potesse accadere, tuttavia, qualcuno picchiò alle porte e alle finestre. Raccomandò di raccogliere il minimo indispensabile e di fuggire prima del canto del gallo. Appena fossero state per strada, avrebbe loro indicato la direzione da prendere. Era una voce femminile, dolce, flebile ma autoritaria, familiare. Chi aprì la porta o dischiuse la finestra, scorse una figura ammantata allontanarsi. La maggior parte delle donne avvisate non si fecero pregare, e al seguito di figli e mariti dopo pochi minuti stavano per via con una mantellina e un tozzo di pane. Dovettero far presto, fossero state sorprese nella fuga o, peggio, arrestate oltre la soglia, non sarebbero state sottoposte ad alcun processo, ma giustiziate sul posto, come era avvenuto altrove. Il piccolo corteo si orientò al canto della salvatrice che procedeva segnando il o. Nessuno si oppose o si lamentò, considerando il pericolo in agguato. Si aprì un sentiero, all’inizio scosceso, che dopo un tratto cominciava a salire. Terminata l’ascesa e abbandonato il fitto del bosco, superate nella marcia due colline, si mostrò il Castello, che suscitò sentimenti contrastanti. Il portone era spalancato, pronto ad accogliere i fuggitivi. Vi trascorsero non solo la notte, ma anche i giorni seguenti, finché l’inquisitore non tornò da dove era venuto. Le donne rientrarono nelle loro case con i famigliari come se non fosse accaduto nulla. Una sola ragazza mancava alla conta. Di costei non si sapeva gran che. Non era nativa del paese. Era comparsa l’anno prima.
Si presentò al mercato. Disse di chiamarsi Vincenzina. Approfittò di una piccola folla già radunata per i fatti propri, la quale prese a esaminarla con circospezione, chiedendosi di cosa fosse fatta. Se di carne e ossa, di pastafrolla o vetro soffiato. Vincenzina disorientò i presenti domandando quale fosse la via più breve per arrivare al Castello. I più anziani scossero la testa, a significare che non erano cose da chiedere, e che quello non era luogo da bazzicare.
«E perché mai? Sapete se ci abita qualcuno?» «Per essere abitato sarà abitato. Ma non sappiamo da chi. Ogni tanto si apre una finestra, ma forse è il vento o son marciti i chiusi. Che volete che ne sappiamo, noi?» Si ragionava ancora, nel segreto del focolare, della moltitudine di traati che la tradizione voleva si radunasse, una volta l’anno poco dopo il crepuscolo, sul ponte e con i quali non era il caso di avere a che fare. Ad attaccar bottone con quelle anime, il malcapitato non faceva ritorno. E anche se gli fosse andata bene, doveva sperare di non incappare nella Vivena che, a furia di blandizie, l’avrebbe portato via con sé, per sempre. «Fantasmi? Quali fantasmi?» «I nostri cari, quando se ne vanno, salgono fino al ponte e lo attraversano, seguendo il canto della Vivena. Quella è la porta degli inferi. La Vivena li accompagna nel tragitto, e se scorge uno vivo con il suo canto melodioso attira pure lui nelle tenebre, senza fare distinzioni.» Ogni generazione creava da sé i propri fantasmi, e là li faceva abitare, sul Ponte delle Vivene. Vincenzina rispose: «Mi hanno già narrato queste storie. Forse sono voci che hanno messo in giro i proprietari affinché non venga in mente a nessuno di impossessarsi del Castello durante la loro assenza, non credete? Hanno essi un nome?» «Non li conosciamo, non sono mai scesi in paese. Da qui c’è una sola strada per raggiungere il Castello ed è quella che avete davanti. L’unico di cui si ricordi è precipitato tentando di attraversare il ponte. Qual era il suo nome? Ah sì, Andreas, si chiamava, l’antico signore di queste valli.» Vincenzina estrasse dalla sacca, di fronte ai presenti esterrefatti, un mazzo di chiavi di ferro. Erano pesanti, nere e arrugginite: «Se questo era il suo nome, sono capitata nel luogo giusto. E queste sicuramente ne apriranno il portone.» «Dove le avete trovate?» domandò una donna, con viva curiosità.
La piccola folla intorno a lei la guardò confusa in attesa di una risposta che non venne. Vincenzina scelse delle ciliegie e le pagò con una moneta di rame di un conio sconosciuto, cosa che disorientò il mercante. «Avete detto che questa è la direzione, vero?» Le donne annuirono, gli uomini scossero il capo sconsolati. Vedendola raggiungere i confini della piazza e scomparire nella mulattiera, non nascosero un sospiro di sollievo. Fino all’ultimo avevano pensato domandasse di essere accompagnata. In che modo ò la notte lo sapeva lei sola, e a meno che non la si incontrasse in piazza l’indomani, nessuno sarebbe salito fin lassù per domandarglielo. Ricomparve in seguito con un mantello liso ma di tessuto pregiato, di quelli che non si confezionavano più. Lo teneva stretto su di sé come temesse glielo strape via un colpo di vento. Strana ragazza, la Vicenzina. Non se ne spogliava nemmeno d’estate. Per i suoi modi dolci e gentili fu presto ben voluta. Talvolta la chiamavano a far da bambinaia. «Che hai fatto oggi con Vincenzina?» domandavano le madri. E i figli e le figlie riferivano di avventure e di cose straordinarie. Un giorno un bimbo le domandò: «Quando ci inviti a casa tua?» Vincenzina si fece seria e con tono solenne replicò: «Molto presto.» A primavera, sempre che fosse lei, la si scorgeva in bilico tra i declivi a tastare la roccia, o ai margini di un precipizio. Attorno a lei roteavano foglie e petali, oltre a un effluvio di polline che assediava il mantello. E lei, col viso proteso verso l’abisso, quasi a spiccare il volo, si inebriava di quel profumo, del colorato pulviscolo che le stuzzicava le narici. «Chi è quella pazza?» si domandavano le donne che aguzzavano la vista facendosi con la mano ombra sugli occhi. Sembrava una Vivena. Anzi, era la Vivena. Vicenzina era la Vivena.
La Vivena non aveva voce, e Vicenzina le diede la voce. Non aveva braccia, né gambe. Vincenzina fu le sue braccia e le sue gambe. La Vivena non aveva capelli. Vincenzina fu il suo volto e i suoi capelli. Non era difficile avere confidenza con lei. Poteva sedersi accanto a te e non la sentivi arrivare. Ti volgevi, lei non c’era più, e ti mangiavi le mani per averla ignorata. Avresti potuto domandarle qualcosa o farle un complimento che avrebbe gradito. In tal caso la si poteva incontrare di nuovo, mai nello stesso luogo. Se le si parlava dei propri malanni, lei assentiva con gravità prima di suggerire il rimedio. Ai bisognosi lasciava un sacchetto di stoffa con un regalo. Quelle fortunate parlavano con lei del più e del meno, o si mettevano insieme a fantasticare. Allora la Vincenzina le interrogava sul marito, sui figli. Alla fine arrivava il consiglio giusto, che era opportuno seguire alla lettera, e non era mai vano. Se il giorno seguente era previsto un viaggio, la Vincenzina suggeriva il miglior tragitto, oppure si faceva scura e raccomandava di non muoversi dal paese. Era inutile cercarla. Non si faceva trovare. avano gli anni, ma non intaccavano il viso di Vicenzina. Tuttavia anch’essi presentarono il loro conto. Venne un inverno che le schiarì i capelli e le offuscò un poco la mente. Lo sguardo era sparuto e a tratti assente. Eppure le parole che pronunciava avevano la forza di un tempo, e anche le energie non erano venute meno. Poi non la si vide più, scomparve come il giorno in cui fu vista la prima volta. Si dice che abbandonò il Castello per essere accolta nel suo paese d’origine. Quale fosse nessuno lo ricordava. Il commiato lo diede all’ultima festa del paese, mostrandosi senza mantello. Nessuno la riconobbe, con la faccia di un’altra. Sorridente e quieta si guardava intorno, indugiando sulle ragazze più giovani, come se dovesse scegliere tra loro. Poi la videro alzarsi e dirigersi verso lo stradone, quello che usciva dalla valle, seguendo la direzione del vento e delle foglie.
III
1797 - 1802
Giuseppina compiva quindici anni quando gli eserciti di Napoleone si spinsero da Asolo verso il fiume Piave. Tentarono di guadarlo ricavando travi e tavole dai carretti sottratti ai contadini. Ne fecero ponti, seguendo l’esempio di Giulio Cesare e Annibale. Non furono gli avversari a opporre una strenua resistenza ma il fiume, che ne rallentò l’avanzata nel vano tentativo di disperderli tra le acque. Le battaglie furono combattute a colpi di moschetto e cannoni; saltarono in aria ponti, ne furono costruiti di fortuna ancorandoli al suolo con chiodi, pali e fissando corde. Presto i si arrivarono a Susegana, ne risalirono le colline fino a prendere d’assalto il Castello di San Salvatore. Da un momento all’altro sarebbero giunti alle porte di Treviso. La cosa che più desiderava capire era da dove sarebbero entrati. Voleva essere presente quando i soldati avrebbero varcato le porte della città. A dispetto della stagione il freddo era intenso. L’aria di aprile era pregna delle polveri alzate dall’instancabile galoppare dei cavalli. A Giuseppina pareva di sentire lo scalpitio degli zoccoli sulla carreggiata, l’inno di vittoria intonato dai fucilieri a piena voce in un vernacolo forestiero. Già immaginava le coccarde e il tricolore di cui tanto si fantasticava. Non vedeva l’ora di incontrarli. Si domandava quanti tenessero la spada, se portassero il moschetto ad armacollo, quando l’avessero adoperato e se avessero buona la mira. Una cosa era figurarseli, altra vederli comparire all’improvviso in carne e ossa. Mancava il tempo di avvistarli perché, si raccontava, spuntavano fuori come il diavolo, direttamente dalla terra. Chissà se sarebbe ricresciuta l’erba dopo il loro aggio, chissà quanti terreni si sarebbero dovuti rassodare di nuovo. Si sapeva che, prima di raggiungere le città, si sarebbero rifocillati nelle case. Nel muoversi e nel dar battaglia non potevano di sicuro portarsi dietro cospicue scorte di viveri. Qualora non fossero riusciti ad approvvigionarsi nelle retrovie, avrebbero dovuto contare sulla generosità della gente del posto e, ove mancasse,
assicurarsi con la forza le provviste per sé e la biada per i cavalli. Che almeno tra loro non si confondessero i comuni ladri di polli. Giuseppina sognava di abbandonare quella conca prima che la imprigionasse per sempre. Così chiamava le campagne trevigiane per il senso di voragine che le suscitavano. Se ne sarebbe andata, anche a costo di farsi portar via dal primo arrivato, che non ne poteva più. Li avrebbe osservati uno a uno, in attesa di quello giusto, alto, bello, meglio se biondo e con l’acqua marina negli occhi, un principe in uniforme bell’e pronto. Così si narrava a filò. Capitava spesso che gli eserciti in ritirata portassero con sé qualche ragazza del paese, e più d’una consenziente. Era, il 1797, un anno colmo di promesse. Si attendeva con impazienza l’ingresso dei si i quali, altro mare sopra il vecchio, avrebbero scacciato i tedeschi. Nessuno, tuttavia, aveva la garanzia che sarebbero stati migliori. Quanto valesse un ragionamento del genere nella mente di chi lo faceva si vide col senno di poi, che la città si aprì al saccheggio dei nuovi venuti. Avvertito lo scacco, non mancarono, nella città e nei suburbi, risse e i soliti disordini. Scoppiò la guerra del pane, si diede l’assalto sia agli uomini in uniforme che ai forni. La città di Treviso da lì a pochi mesi festeggiò, non senza una leggera apprensione, la dipartita dei si e l’ingresso del generale Klenau, a capo dell’esercito austriaco. Giuseppina compiva diciassette anni quando le carreggiate tremarono alla stessa maniera, martellate dagli zoccoli di nuovi cavalli. Non furono si né Austriaci stavolta, ma Cosacchi, un popolo del nord. Scortavano un numero doppio di prigionieri si. In mezzo a quell’abbaruffio ci si perdeva tra lingue sconosciute e armi esotiche dalle forme più strane che lasciavano senza fiato. Fu in quei giorni che, allontanatasi da casa per attingere l’acqua al pozzo, Giuseppina intravide un ragazzo in divisa con il capello crespo, piuttosto corpulento. Non era a cavallo, fumava appoggiato all’albero posto al confine della cascina. Aveva un gran faccione, un aspetto poco marziale ed era rosso di naso. La mole riempiva fin quasi a far scoppiare la casacca cilestrina, i bottoni rilucevano e il cappello stretto sul cranio pendeva da una parte. Le apparvero due occhi piccoli, però azzurri.
«Avete un pezzo di formaggio?» le chiese con uno strano accento, prima che l’imbarazzo lo confondesse. Evidentemente aveva gironzolato di casale in casale, ma nessuno gli aveva aperto. Giuseppina ispezionò le tasche del grembiule, cercò invano un pezzo di pane che ricordava di aver messo da parte. Se era affamato, pensò, non era una cattiva idea invitarlo a pranzo. «Venite, un poco di timballo ci sarà di certo per voi, sia mai mi svenite per strada. Vi piacciono le rape bianche? E la polenta?» gli domandò. Quella di scambiarsi i nomi è un’arte come poche. Ciascuno deve indovinare il tono di voce e accompagnarlo con lo sguardo giusto. Forse Giuseppina aveva incontrato qualcuno cui aggrapparsi nella fuga cui pensava da tempo. Cercò di farglielo capire prendendolo per mano e accompagnando il suo o. In quel momento, a spingerli verso casa, ci si mise anche un refolo di vento furfante. «Io sono Giuseppina.» «Oreste. Io sono Oreste.» Superato il cancello rugginoso e il fieno affastellato a seccare, un coniglio sbarrò loro la strada. La madre di Giuseppina stava recandosi in legnaia quando si accorse dell’uomo che le si accompagnava. Atterrita si scostò dalla porta e rientrò in casa. Si fece trovare col fazzoletto in capo, seduta sulla seggiola accanto ai ceppi ardenti. Fissò i due mostrando il mento affilato. Suo padre, intento a scaldarsi tra le spire di fumo e ad annusare tabacco, sembrò destarsi di soprassalto. Aveva spalle larghe e un torace prominente, pupille tonde che domandarono inquieti. Ma chi diavolo è? Analizzò la scena che aveva davanti, mascherando l’agitazione. La divisa cilestrina dell’uomo lasciava adito a pochi dubbi, il loro ospite era un soldato dell’Impero. Le poche parole di circostanza pronunciate all’ingresso erano di un accento mai sentito, comunque non tedesco. Avrebbe desiderato domandargli da dove venisse, ma non osò.
Che sia un disertore, un fuggiasco? pensò impallidendo, che sarebbero stati guai. «Che cosa fa questa stupida, perché l’ha portato in casa nostra?» domandò a sua moglie con voce bassa ma profonda, impossibile da non udire. La donna assestò al marito una gomitata nello stomaco, quindi rimasero in religioso silenzio, a osservare la figlia apparecchiare la tavola e distribuire ampie porzioni di timballo di riso, quello che sarebbe dovuto durare fino a cena. Giuseppina gongolava. Per una volta poteva atteggiarsi a padrona di casa senza che ribattessero nulla. Sua madre la fissava stralunata come a dire che dopo avrebbero fatto i conti. «Questa sì che è una rapina», bofonchiò il padrone di casa, dopo di che una seconda gomitata lo fece tossire. «Voi non mangiate?» chiese a un tratto la ragazza, notando il loro trambusto. Al suo cenno deciso abbandonarono l’angolo accanto al fuoco e presero posto. Non era il caso di contraddirla. A poco a poco il timore iniziale si smorzò, per il tono cortese e timido di Oreste, il portamento impacciato. «Vi siete perso?» domandò Giuseppina all’improvviso. «Che dite?» rispose lui, continuando a mangiare. Diede presto fondo al piatto, chiese del vino per dissetarsi, dopodiché fu in vena di confidenza. Parlò delle montagne da cui proveniva, alle quali desiderava tornare presto. Delle battaglie nemmeno una parola, salvo alla fine. Parlò dei suoi che si stavano raccogliendo per rimpatriare. Giuseppina seppe che era figlio di un orologiaio e nipote di un falegname, mestieri cui si dedicava quando non indossava la divisa. Terminato il pranzo ringraziò. Incerto sul da farsi bofonchiò qualche parola di commiato. «Che bestia» sussurrò Giuseppina con disappunto.
Nel vederlo allontanarsi accennando un saluto malfatto, la ragazza percepì il vuoto crescerle dentro. Perché con due parole si sarebbero potuti fidanzare, e sarebbe mancato solo l’abbraccio dei suoi a mo’ di benedizione. E quello lì niente, la lasciava al suo destino. Giuseppina lanciò un’occhiata disperata ai genitori e a lui che si allontanava. Se Oreste si fosse dileguato, chi l’avrebbe ripigliato? Agguantò lo scialle e, prima di andarsene, scorse i volti furiosi. «Ma dove credi di andare?» mugugnò suo padre sbigottito. Giuseppina si avvicinò per dar loro un rapido abbraccio. Suo padre la guardò con occhi severi e perplessi. Sua madre si fece di brace. «Non stai bene con noi?» Il primo impulso fu di scostarla da sé, poi l’afferrò e la strinse al petto. Giuseppina ebbe un moto di stupore, poi se ne staccò e, senza guardarsi indietro, incalzò il soldato dell’Impero. «Sapete cavalcare?» le domandò che l’ebbe raggiunto, accarezzando un’idea improvvisa. Tra i commilitoni sembrava padrone di sé, meno timido e più deciso. «Porto in città il carretto di mio padre, so stare a cassetta. So tenere le briglie, tenderle e mollarle quando serve. So farmi obbedire dall’asino e rimetterlo al trotto» si affrettò a rispondere affannata dalla corsa. «È sufficiente» sentenziò Oreste senza aggiungere altro. Le cose non si rivelarono troppo complicate. Giuseppina ricevette una divisa di fortuna piuttosto abbondante, un cappello largo nel quale nascondere i capelli e un cavallo da galoppare razziato da qualche parte. Solo allora comparvero alcune compaesane, strette al proprio compagno, eccitate per la fuga. Qualcuna la conosceva persino. «Dove mi portate?»
«A Valchiusa, il mio paese.» «E Valchiusa dov’è? E Valchiusa com’è?» Giuseppina ebbe un improvviso moto di delusione. Sperava che Oreste la scortasse in un paese lontano, patria dell’uniforme che indossava. Pensava a Innsbruck, a Vienna. Anche i monti svizzeri le sarebbero andati a genio. Ma Valchiusa era, le spiegò, il nome di un paese delle Giudicarie, tra Condino, Bondone, Valmezzo e Colledoro. E vabbè, considerò, indietro non si torna, ormai è fatta, era destino pure quello. Avrebbe conosciuto gente nuova, simpatica, meno tanghera di quella che lasciava. «Vi sono le montagne e i nevai» diceva Oreste. «Si respira aria buona. Vi troverete bene.» Giuseppina fu invasa dal vivo desiderio di raggiungere i monti. Lassù, pensava, non solo l’aria, ma tutto il resto era puro, perché si stava oltre le nuvole. Lo stato delle strade ricordava le battaglie combattute negli ultimi mesi. Ogni tanto ci si fermava per far aderbare i cavalli. Si sostava all’ombra degli alberi e, approfittando di un corso d’acqua, ci si rinfrescava. Si parlavano il tedesco e idiomi mai sentiti, quali il ladino e il fassano. Il gruppo via via si ridusse, finché alcuni, con Giuseppina e Oreste, intrapresero la strada verso le Giudicarie. In gran parte erano alto-atesini, qualcuno proveniva dalla Val di Fassa. Un gruppo si fermò prima, essendo arrivato a destinazione, un secondo deviò verso il Brenta. Un terzo proseguì per l’Austria seguendo l’Adige. Quando le loro montagne si avvicinarono, videro spuntare catene e picchi staccati tra loro, alcuni simili a bastioni o a denti aguzzi. Si distinguevano i meli e i larici, le mura diroccate di antichi castelli. Si intravedevano scorci di paesi e villaggi, case che sbucavano tra le macchie, svettanti campanili, fiotti chiari di cascate zampillanti. Eppure sarebbero occorse diverse ore di viaggio per toccare con mano un simile paesaggio. I pochi rimasti del gruppo dovettero introdursi in strettoie non facili da percorrere. Procedettero in religioso silenzio, fosse mai che uno spirito dispettoso, una Vivena, ecco, Oreste parlò di una Vivena, fe rotolare i massi.
Entrarono a Valchiusa e la videro in fermento. Napoleone aveva occupato la vallata. Data la sua posizione, celata alla vista da picchi e tratti impervi, i militi non scesero fino al paese, avendo marciato lungo opposti versanti. La piazza sussultò per l’esplodere degli schioppi in lontananza. Verso il tramonto giungeva ancora l’eco di cannoni, confusa in un primo momento con i tuoni dei piovaschi stagionali. Il paese per secoli era stato in pace, fuori dalla storia. Poi aveva fatto il suo ingresso la civiltà: la proprietà, il municipio, le guardie che compivano il loro giro d’ispezione, il castello che era stato una prigione. Le poche case intorno alla piazza, schiacciate contro il monte, formavano un cuneo tra due imperi, uno vero e uno posticcio, e però in lotta tra loro. Ogni salto d’anno squillavano trombe e spuntavano decreti. Ogni tre o quattro i padri di famiglia indossavano l’uniforme e partivano. Non c’era spazio nei dintorni per i campi di battaglia, e non giungeva nemmeno l’odore della polvere da sparo. E dire che il vento, tra le gole, soffiava forte. Si combatteva altrove e nessun esercito, che si ricordasse, vi aveva mai fatto ingresso in armi. La desolazione arrivava per quanti se ne andavano e non tornavano, lasciando le case vuote, le baite chiuse, le stalle incustodite. Si credeva che nelle Giudicarie governasse il vescovo, ma il vescovo se n’era fuggito via l’anno addietro. Ne aveva di terre, di domini, quelli di un signore feudale. Questi avevano fatto gola a qualcuno. Nel 1802 tale conte Ferdinand von Bissingen, governatore del Tirolo, entrò a Trento prendendo possesso del principato vescovile in nome dell’Imperatore. A ben vedere nessun chiusese avrebbe saputo che la valle era stata annessa alla Baviera prima, al Regno Italico poi. Avrebbe a stento capito che Valchiusa era stata ricompresa nel distretto di Rovereto. E poi in municipio si parlava un tedesco pulito ma incomprensibile a chi, anche in quello, si esprimeva in dialetto e per di più a orecchio. La sola cosa sicura erano le due o tre guardie municipali che la sera rientravano nelle proprie case e smettevano l’uniforme. Recuperavano le sembianze della gente comune e si confondevano tra gli avventori all’osteria. Per il resto i nuovi arrivati, cui mancava il tempo di essere lungimiranti, portavano nuove regole, smantellando quelle degli immediati predecessori. Con
questa voglia di fare e disfare si faticava a maneggiare leggi e decreti difficili da digerire che subito mutavano. Il funzionario insediato di fresco non riusciva a prendere possesso dell’ufficio che doveva ar le consegne, o svignarsela in fretta. A scandire i mesi erano sufficienti le stagioni, tangibili governanti che si alternavano nel corso dell’anno da millenni, come il giorno e la notte, e alcune prescrizioni tramandate di generazione in generazione, sempre vive e pronte all’uso, che non svecchiavano dall’oggi al domani. Le montagne difendevano le valli dalla luce violenta del sole, quella che abbagliava e disseccava la terra. Nel cielo, qualche volta, si formavano altre cime, fatte di nuvole d’acqua ammassate in strati, specchio e riflesso dei promontori di roccia, tali da farsi più vicine e gravare sulle teste. Non si muoveva pietra o foglia che Iddio non volesse. Eppure con un tratto di penna si cancellavano regni, amministrazioni comunali, distretti o si ricostituivano di sana pianta. Nulla di queste beghe scalfiva le montagne e le rocce di cui erano fatte. Squadre e comi si spezzavano nel granito, senza affondarvi. Meglio era aggrapparsi al corso antico delle cose, di quelle che in natura rimanevano identiche a loro stesse, facendosi beffe della storia degli uomini, più eterne degli stessi Eterni.
IV
Dopo molti anni ci si ricordava ancora di Oreste, di quando aveva condotto in casa la futura moglie col vestito inzaccherato perché fuori diluviava. Difficile capire se si trattasse di un buono o di un cattivo auspicio.
Appena arrivati, accesero il fuoco e, stanchi, si sedettero. Rimasero immobili, con gli occhi bassi e fissi. «C’è da riassettare la casa» mormorò Oreste guardandosi intorno e cercando il viso di Giuseppina. «Ma ora ci siete voi», aggiunse dopo una lunga pausa. Era un chiaro invito a darsi da fare, a non restarsene con le mani in mano, e non recriminare per il fastidioso odore di stalla che saliva alle narici. Giuseppina aveva saputo che la suocera era morta non più tardi di un anno prima. Aveva capito quanto fosse intollerabile per Oreste vivere in una casa vuota. Non avendo incontrato una donna in paese che lo accudisse, l’aveva pescata fuori. Immaginò una vita domestica non dissimile da quella delle campagne trevigiane. Sarebbero venuti i figli, forse una figlia che, come lei, avrebbe desiderato fuggire. Ecco la ruota che gira, rifletté. Di tanto in tanto pensava a cosa avesse lasciato, stupita di non provare la benché minima nostalgia. L’allegria di quella novità si smorzò sul nascere. Percepì uno strappo, un lacerarsi di spago che la liberò delle ultime illusioni. Erano male assortiti, i loro pensieri da subito non procedettero nella stessa direzione. Avrebbero dovuto strattonarsi a vicenda per darsene una. Che poteva farci? Intuiva che i reciproci difetti sarebbero saltati fuori in un colpo solo, soffocando le virtù che li avevano messi insieme. Non si tennero per mano neanche una volta, che non ve ne fu il tempo. Giuseppina assecondò la fretta di chi intanto preparava le carte per bloccare sul nascere le maldicenze. Oreste si portava pur sempre in casa una donna, e la
posizione andava regolarizzata senza ritardo. Giuseppina si ritrovò sposa alla fine del secolo, davanti a un piccolo altare senza corte e fidanzamento, ad abitare uno stanzone fuligginoso addossato alla montagna, così diverso dall’ampio casale al quale era abituata. Dopo ci furono molte parole non dette. Fece come sua madre. Non amava quell’uomo ma lo accettò e afferrò le redini della vita domestica. Per non piangere sul latte versato prese a comandare, cosa che a Oreste non dispiacque affatto. A suo dire la solitudine pesava più della libertà. Stava bene sotto il giogo di qualcuno, poco importava fosse un generale, una madre, una moglie. A lei andava bene nella misura in cui strillava il suo nome e batteva le mani quando, come i bambini, tardava a mettersi a tavola. Un figlio, ecco cos’era l’uomo che si vestiva da soldato, in ordine, pettinato e sbarbato. E lei che gli spazzolava la giubba aperta e le controspalline col grado, gli stirava le maniche, dava colpi secchi sul dorso e alla schiena, e lo aiutava a infilarsi gli stivali. Calategli un cappello sugli occhi - si diceva - avvolgetelo nella bella uniforme con i bottoni di metallo che diano risalto al busto e alla pancia, lasciategli crescere la barba quanto basta a coprire il mento e le guance. Non assomigliava un poco a quei cosacchi che aveva intravisto da ragazza? Di cosa si lamentava, si domandava. Alla fine era lontano da quelli che erano buoni solo ad arricciarsi i baffi e a riempirsi di boria perché erano funzionari, soldati, impiegati o uscieri di municipio. E poi, a conoscerlo meglio, non lo trovava stupido. Poteva andar peggio, per carità, che non le era capitato un tipo manesco. Udiva spesso le grida, l’eco di manate e schiaffi che uscivano dalle finestre aperte, a colmare la piazza per niente sorda, quando le mogli accoglievano i mariti al ritorno dall’osteria, a ore tarde. Nell’udire i vicini e le vicine sbraitare per i soldi o per supposte infedeltà, Giuseppina e Oreste si perdonavano le reciproche sciocchezze, imparando a tirare avanti. Per tutti Oreste era un marito tranquillo, schivo e fuori asse. Uno di quelli che si nascondono dentro i propri vestiti, sotto il cappello e, a maggior ragione, nella
propria divisa. La vita militare lo metteva a suo agio nella misura in cui non gli si chiedeva di decidere, ma di obbedire. Con la divisa pareva un altro, stava persino dritto di schiena e non chinava il capo, se non dinanzi al superiore. Parlava anche meglio, che di solito si esprimeva con frasi smozzicate e a monosillabi. Guadagnava in stima e la suscitava, in primo luogo, in Giuseppina. Gli si accendeva lo sguardo, il velo di timidezza che conservava, lungi dal nuocergli, gli attribuiva una certa grazia. Sembrava poter far tutto, ed era sempre contento di partire. Tolta quella, diveniva un uomo mansueto e indeciso. Giuseppina era stupita di quella metamorfosi. Sarebbe bastato, a quel punto, che non togliesse mai la tenuta cilestrina dai bottoni lucenti, o che si immaginasse soltanto di indossarla, perché non lo cogliesse l’insicurezza e quella sorta di inettitudine per le cose quotidiane. Giuseppina si sorprendeva insonne, la notte, a temere che le campagne militari non glielo restituissero. Sopraffatta da questa premonizione, si immaginava a Valchiusa da sola, in una regione in cui non era nata né cresciuta, dove conosceva sì e no qualche dirimpettaia. Inoltre, Oreste era falegname, orologiaio e scribacchino. In casa, accanto al fuoco, stava la mensoletta sulla quale esponeva ninnoli che intagliava e vendeva al mercato, dalla quale cadevano polvere di segatura e trucioli. Quel ripiano in casa era la sua bottega. Trascorreva le giornate assorto nel suo lavoro, con la figura massiccia e la testa calva rischiarata dal focolare, così simile al padre di Giuseppina che lei stessa se ne stupiva. Eccolo meditabondo innanzi al focolare, intento a grattarsi un ginocchio, col riverbero a evidenziare i tratti del viso immobile. E poi profumava di tabacco e vino, un miscuglio di odori che ne rivelava l’indole: pensosa con la pipa tra le mani, gaudente in compagnia degli amici. Qualche volta lo sorprese brillo al ritorno dall’osteria, con l’alito cattivo, la voce avvinazzata e le orecchie rosse. Quando gli prendeva la ridarella lei non diceva niente, si limitava a sbattere sul tavolo le posate e a riempire il piatto di una minestra calda. Lui si sedeva colto in fallo, in silenzio, senza controbattere alla pensosa acrimonia della moglie. Eppure la sua indole aveva attirato Giuseppina come una calamita e non poteva essere diversamente. Per questo motivo alternava nei suoi confronti un sentimento di fastidio a una sana indulgenza. Nella bella stagione Oreste metteva una panca fuori, dove sedeva e contrattava
con i anti le sue creazioni. Oppure impagliava sedie, intrecciava con mano veloce le spire di un cappello che vendeva per strada. Molti suoi oggetti si potevano rinvenire nei paesi della valle. Non mancavano clienti da fuori che gli portavano un orologio da sistemare, e lì ci metteva il suo genio, perché aveva le mani d’oro. Per i suoi ninnoli e i lavori di falegnameria riceveva un po’ di carbone per l’inverno e ogni genere di vettovaglie. Ben accetto era il latte di capra. Talora barattava piccoli oggetti con sigari che fumava subito. Era istruito quanto bastava per scrivere lettere su commissione. Di nascosto componeva versi che raccoglieva in quaderni unti e non leggeva a nessuno.
V
1824
Vi fu un lungo tempo in cui Giuseppina badava alla casa e al marito. Non aveva grilli per la testa, quelli vennero dopo. Con le compaesane andava a lavandare al fiume, dove scorreva un’acqua fonda e limpida, nel punto in cui c’erano fronde basse esposte al sole. Su di esse stendevano la biancheria strizzata ad asciugare. Non c’era nelle vicinanze miglior lavatoio, buono a dispiegare un lenzuolo intero. Si stava in piedi a frizionare, piegate in due di schiena, le sottane e le maglie. Poco importava si dovesse affrontare un terreno aspro e insidioso o si scorgessero di scorcio le mura del castello. A distanza sembrava una lunga macchia di dorsale, o un veliero alla deriva affiorante tra nuvole girovaghe e fumose di nebbia. Era costituito da un vasto edificio merlato immerso nell’umidità. Che si sapesse, non vi dimorava nessuno. Difficile dire se qualcuno avesse risorse sufficienti per risiedervi in inverno e mantenere le stanze. A meno di abitare un locale alla volta, sarebbe stato assai dispendioso riscaldare anche solo una delle larghe sale. E poi i tempi dei signori erano finiti. Dai paesi limitrofi e da lontane città ogni tanto si presentavano turisti, emuli di Goethe, succubi della moda di scrivere memorie di viaggi. Non davano mai la sensazione di piovere a caso. Scendevano a valle a bella posta, tra strade che conoscevano in pochi. Qualcuno proveniva dalla gaudente Vienna. Non erano privi di mezzi, possedevano mappe e carte geografiche che ritraevano le cime più alte, simili a ceppi tra le nuvole. Si presentavano alla comunità chiedendo informazioni sul Castello, incontrando solo riserbo e cogliendo nei visi tracce di un timore antico. Alla fine tornavano da dove erano giunti. Le valligiane nella salita raccontavano storie di famiglia come fossero altrui per riderci sopra e confidarsi senza rimorsi. Almeno finché non si avvicinavano, appunto, al Castello. Allora tacevano e accennavano un rapido segno di croce, recitavano un’avemaria e proseguivano tenendo gli occhi bassi, non potendo
mutare direzione. Di là un tempo ci stavano il Paradiso, Eva che mangiò la mela, ricacciata con Adamo verso le valli, luoghi di lacrime e di malvagi che generavano in una volta sola giusti e malandrini. Il colle dove si ergeva l’eremo era chiamato maledetto a causa del serpente, santo per i progenitori ai quali si doveva comunque rispetto. Le donne che si incontravano al lavatoio non si limitavano a parlare del più e del meno, ma si confidavano i propri segreti. Ci si metteva a parte di questo o quel rimedio contro gli acciacchi, compreso il mal di pietra. Vi era spesso colei che faceva da sé, esperta in fatto di erbe e unguenti, attitudine che non avrebbe osato rivelare a chicchessia. Aleggiava ancora il doloroso ricordo della caccia alle streghe di due secoli prima, quando le donne del paese erano scappate in direzione delle montagne. Nei casi più delicati ci si incontrava dietro una siepe, per la consegna del preparato. In quelli più semplici la donna d’erbe indicava sul luogo le piante da raccogliere, frantumare ed essiccare. Per quelli difficili questa era la risposta: «Non posso farci niente. Se l’infuso che ti ho prescritto non ti ha giovato, c’è poco da fare. Devi rivolgerti a lei, sempre che accetti di parlarti. E non disperare. Forse sa che la cerchi. La Vivena di tali cose ne sa più di tutte noi messe insieme. Può leggere il futuro, se glielo chiedi, ma tu astienitene. È la prima a diffidare di questa facoltà. Quello che di solito vede è un abbozzo, una traccia. Una semplice direzione nella quale si scivola.» Se qualcuna, stupita di quella sapienza, chiedeva: «Com’è che possiedi simili conoscenze, non sarai mica tu la Vivena, vero?» capitava che la donna rispondesse con un enigmatico sorriso, e non si fe più vedere al lavatoio. Giuseppina sapeva che le donne di Valchiusa avevano, nel corso dei secoli, acquistato familiarità con le Vivane o Vivene che dir si volesse. Chi le incontrava dava per certo non fossero fantasmi ma donne in carne e ossa, con indosso un mantello scuro che non toglievano mai. Le montagne che svettavano intorno da millenni si erano innervate di tali presenze, chiare e luminose per alcuni, oscure per il parroco e molte fra le pie donne del paese. Si diceva che se Eva era nata da una costola di Adamo, le
Vivene erano nate dalle antiche frane, da schegge di roccia rotolate dai pendii verso i burroni. Pallide come la neve, indossavano un mantello del colore della grafite e abitavano luoghi in cui nessuno aveva mai messo piede sin dall’alba dei tempi. A dirla tutta, anche tra le pie donne c’era chi si recava nelle alture a bella posta per incontrarle e chiedere una grazia. Difficilmente ci si avvicinava tanto da sfiorarne la veste. Se si andava in cerca di loro, spuntavano alle spalle. Tu non le vedevi, ma loro sì. Spesso approfittavano dell’oscurità, più simili a lupi che a pastori dinanzi al gregge. Oppure pedinavano la postulante per sondarne le intenzioni, e apparirle in sogno. Era meglio non incontrarle mai. Da esse veniva il bene, ma anche un inconsapevole male, che una volta avuto inizio non si poteva arrestare. Il difficile era tirar dritto o cambiar strada se le si scorgeva. Il loro aggio imponeva il silenzio e il bosco intero, anche in pieno giorno, si addormentava. Se proprio non si riusciva a evitarle, occorreva prestare attenzione quando ci si trovava al loro cospetto, e a quel che si domandava. Infatti le Vivene afferravano i discorsi alla lettera e di grazia, di solito, ne accordavano una soltanto. In seguito non c’era verso di imbattersi nuovamente in loro e le stesse comari allontanavano chi si fosse già assicurata il beneficio. Un tempo si andava con esse d’amore e d’accordo, poi la fede aveva causato lo scisma tra il paese e le sue reminiscenze pagane. Su ogni cosa sembrava distendersi una nube scura, intesa a separare il mondo umano da ciò che non lo era.
Assalita dalla disappetenza, Giuseppina smagriva di giorno in giorno. Divenne una figura priva di luce, goffa, pigra, senza sorriso. Si infilava addosso un grembiule stinto dal sole, portava un fazzoletto a fiori in testa, che non era decoroso andare in giro senza. Causa della perenne spossatezza non erano le sgobbate al fiume, ma un pensiero molesto. Le dirimpettaie più giovani crescevano un bimbo dietro l’altro, lei invece di figli non ne aveva avuti. Per confortarla la chiamarono a far da madrina ai battesimi ma la felicità di tenere i pargoli in braccio durante il rito esasperò il desiderio di averne di propri. Ricambiò perciò l’invito con l’invidia di cui domandava perdono in confessione,
prima della messa domenicale. Perse la quiete iniziando a fare confronti con le vicine, incurante che esse fero altrettanto con lei. Non immaginava la gelosia di ritorno delle comari per i suoi fianchi stretti, la figura minuta e graziosa. Sottecchi la consideravano bella, la mancata maternità la preservava dalle grinfie degli anni che avevano aggredito suo marito, sottraendo i capelli e sbiancando la barba. Infatti Oreste stava invecchiando male, che il viso gli si era fatto gelatinoso e gli occhi più piccoli di quanto non fossero. Un figlio non è soltanto un regalo all’avvenire, Giuseppina ne voleva uno vero, per togliersi la malinconia dalla testa e legarsi per sempre a luoghi così nuovi per lei, ed entrare nella loro storia con qualcosa di suo. Non fu facile risparmiare le forze necessarie e avventurarsi da sola tra le alture. Con una certa dose di incoscienza, sorretta dall’ineluttabilità del desiderio, Giuseppina vi si recò nelle ore più impensate. A metà strada tornava indietro, impietrita e colma di soggezione. Il Castello lo raggiunse giorno dopo giorno, o dopo o, fino a protendere la mano verso il portone, senza osare bussare. Si domandò che bisogno vi fosse di avvicinarsi a quelle mura. Non abitavano le grotte, le Vivene? Ma in tal caso avrebbe mai scovato quella giusta? Tanto valeva sedersi sulla strada e aspettare che le comparisse davanti. Preferiva indugiare sotto il balcone, una finestra chiusa. No, pensava, non c’era nessuno. Nessuno che potesse risponderle se avesse chiamato o battuto all’ingresso. Approfittò di una giornata senza vento, di un’ora che le permettesse di tornare in paese prima che Oreste rientrasse dall’osteria. La cena era bell’e pronta e la casa rassettata a modo. Eppure l’inquietudine, man mano che saliva, le ronzava attorno senza abbandonarla. Il silenzio la tormentava. Era pronta a sobbalzare a ogni scricchiolio, anche a uno dei suoi i, o per la falena che si posò sul vestito di lino chiaro. Le fu naturale inginocchiarsi e recitare una preghiera. Così aveva fatto diverse volte, finché sentì dischiudersi il gran portone e qualcuno avvicinarsi. Non osò muovere un muscolo, né fiatare. «Già che lo chiedi e insisti tanto, dovrò accontentarti» disse una voce dietro di lei. Poteva essere uno scherzo, pensò, magari lo fosse stato. «Ieri notte hai concepito una figlia. Una figlia che apparterrà alle montagne e ai corsi d’acqua, ma non a te. Ora che lo sai, spero che cesserai di tormentarmi e di
disturbare il mio sonno.» Giuseppina si alzò tremante. Si volse, ma riuscì appena a scorgere il lembo del mantello nero che cingeva colei che si allontanava. Il cuore batteva all’impazzata. La grazia era stata ottenuta, sì, ma in malo modo. Una nuova inquietudine la assalì, coprendole le spalle come un manto. Le scese sugli occhi una patina e il cuore le divenne pesante. Si toccò il ventre. Che stupida, pensava, che stupida sono stata a prenderla per sfinimento, a tormentare la Vivena. A Oreste non raccontò nulla dell’accaduto, si mostrò insolente e capricciosa, chiese di rinforzare le grate alle finestre, vi fissò tende di canapa, tali che da fuori nessuno potesse guardare dentro. «Apparterrà alle montagne e ai corsi d’acqua. Che avrà voluto dire?» si struggeva intanto Giuseppina.
VI
1823-1838
Oreste sulle prime non lo diede a vedere, ma di qualcosa si dovette accorgere. Da qualche giorno Giuseppina stava più dritta di schiena, non si piegava alla stessa maniera, il nodo al grembiule disegnava una circonferenza più larga. Il pallore consueto del volto lasciava posto a un colorito più roseo, oppure a un improvviso rossore. Era destino che ingrassasse pure lei, pensò il marito con una punta di rammarico. Il tempo ava per tutti. Quando la moglie gli disse, per segni che non si potevano più equivocare, che era incinta, l’uomo cadde in confusione. Prima che potesse dire qualcosa, fu Giuseppina a parlare: «Ho un bel po’ di roba da lavare, ma in queste condizioni non so mica se… fa freddo, mi si son gonfiate le gambe… se ne accorgeranno tutte al lavatoio, oggi più che la volta ata, quando si vedeva appena, a pensare che tu e io… alla nostra età…» Come avrebbero reagito vent’anni prima? Oreste le avrebbe mostrato un viso inebetito, si sarebbe risvegliato d’un tratto, sorridente, pronto a festeggiare con un sorso di vino. Le venne l’ansia nel sentirsi chiamare dalle sue compagne, lei che la gerla nemmeno l’aveva preparata. Un sassolino colpì la finestra e una voce indistinta gridò, da fuori, il suo nome. Oreste tirò un sospiro e serio disse: «Cosa sono questi crucci? Diventare madre non è certo vergogna. Dimentica gli anni del calendario e guardati. Ogni tuo capello è nero, non una ruga segna il tuo volto. Vergogna sarà se non ti fai vedere. Penseranno chissà cosa. Fatti aiutare, lascia che capiscano, rendile partecipi della nostra gioia. Se fai il muso ti ringhieranno contro. Non so come sei stata abituata al tuo paese. Un paio di braccia in più sono sempre una benedizione. E se dicono, lascia che dicano.»
Giuseppina preparò la biancheria e la gerla, pagò la ragazza più giovane affinché l’aiutasse a portarla, almeno in certi tratti della salita.
«Mi devi solo accompagnare, e poi mi riporti indietro. Sta’ tranquilla che le robe le lavo da me» precisò. Abituata ai cicalecci e ai brusii della camminata, la turbarono l’ostinato silenzio e le occhiate che le donne si scambiavano tra loro, finché Giuseppina non vinse la reticenza e la vergogna e disse che sì, aspettava un figlio. Lo disse così, come le veniva, con la voce di chi non ammetteva repliche. Si fermarono tutte, però, e presero a fissarla scolpite e immobili. Lei sorrise, e sorrisero anche loro. «E Oreste lo sa?» domandò la più giovane, osservando che la pancia si vedeva e non si vedeva, ma che loro si erano accorte già da una settimana di un piccolo peso che premeva sulla spina dorsale, deformando la postura. «E sì», ribatté un’altra, «gli uomini e le donne non vedono allo stesso modo.» Ripresero il cammino, mormorando del futuro lieto evento, con i suoi se e i suoi ma. La Rosa, commentarono, aveva avuto un figlio a un’età più avanzata, che era bianca di capelli. Si sapeva tutti del voto fatto in chiesa; di preghiera in preghiera, finalmente la Madonna l’aveva accontentata. Poi questo figlio gliel’aveva tolto quasi subito, che non aveva superato l’inverno. «Ma a voi di sicuro andrà meglio» le disse la più vecchia senza guardarla in faccia. In quel momento, udite quelle parole, Giuseppina si sentì mancare, a pensare che la Vergine con quella creatura non c’entrava niente, e quindi non la si sarebbe potuta battezzare senza commettere sacrilegio. Stava tra due fuochi, tra la Madre di Dio e la Vivena. «Io la faccio battezzare, che non può restare senza. Poi ciascuno per la sua strada, ecco, ciascuno per la sua strada. E chissà che non si sciolga la maledizione che ti porti, disgraziata figlia mia» sussurrò senza farsi sentire. Al fonte battesimale l’avrebbe chiamata come Maria Maddalena, affinché tra le due mettesse una buona parola. «Marlena. Sia questo il tuo nome.» In quel momento Marlena le assestò un calcio a un fianco che la fece sussultare.
In paese intanto si chiacchierava e Oreste non era lieto del cicaleccio che gli tornava indietro.
Una sera accasò più livido del solito. Aveva quasi fatto a botte con un compare per via di insinuazioni troppo dirette. Ad esempio taluno ricordava d’aver scorto sua moglie compiere un certo tragitto verso le alture, senza che vi fosse alcuna necessità. Non aveva con sé la secchia dei panni, né il cestello per i funghi. E lo stesso giurava di averla vista discendere a mani vuote, con le vesti grinzite e fare prudente. «Dimmi… chi hai incontrato, quel giorno, sul monte?» domandò Oreste tutto d’un fiato, abbassando il viso. Nelle chiacchiere si era fatto il nome del carbonaio, il vecchio Marteus, che teneva il capanno a lato della spianata dove affumicava il legno a far carbone, oltre il ponte delle Vivene, nel punto in cui la terra si faceva grigia per la polvere e la cenere che la ricopriva. A quelle parole, che non parvero vere, Giuseppina andò fuori di sé per la vergogna. A stento trattenne le lacrime, e scaricò la sua rabbia verso il marito che dava credito alle maldicenze. Si trattò della prima vera lite da quando erano sposati, che i loro alterchi erano cose da poco. Si sorpresero entrambi ad alzare la voce. Immaginarono i vicini con le orecchie tese a cogliere ciò che si gridavano e quel che si rispondevano.
Quando finalmente furono faccia a faccia, Giuseppina si intenerì per i pochi capelli corvini in testa, le pupille scure e furbesche che cercavano il suo viso. Più la contemplava, più scorgeva nei lineamenti della neonata il rifiuto caparbio di farsi mettere i piedi in testa da un mondo che ancora non conosceva. Marlena sonnecchiava attaccata a sua madre, pronta ad affrontare, tra le poppate, la prima alba. Con il suo piagnisteo reclamava il seno e la sicurezza di un intimo abbraccio. Giuseppina la osservava stordita ed emozionata, troppo felice per badare al pensiero molesto appostato nella semioscurità. Pallida e snervata per il parto, con lei vicino sentiva scorrerle dentro una forza pertinace e salda. Con essa resisteva al timore, memore delle parole della Vivena, che la piccola le venisse sottratta. E così, quando la levatrice si accostò per carezzarle il capo, saltò su: «Che cosa volete, di che avete bisogno?»
Quella era la rabbia per la reazione di Oreste alla nascita: «Maschi no, eh?» Appena si fosse rimessa in forze, Giuseppina gli avrebbe fatto notare che una figlia era senz’altro meglio, con un maschietto avrebbe dovuto dar prova dell’autorevolezza che gli mancava anche da soldato, che in divisa obbediva agli ordini, ma non ne dava. Ora che Marlena affondava sul suo petto, Giuseppina si era alleggerita di un fardello che le appesantiva il corpo. Ma a breve ne avrebbe portato uno grave nel cuore. Giuseppina riposava un poco al mattino. Si destava a notte fonda aggrappata alla sponda del letto che tra le ombre ne vedeva una più scura, fatta di mani protese e dita lunghe a formare un arpione. Si torceva per l’improvviso spavento, destando la neonata dal sonno incostante. Allontanava Oreste, il suo odore misto di tabacco e sudore che graffiava le narici, e lo spingeva nel cantuccio di guardia alla finestra. Così leniva l’ansia delle notti di tempesta, quando sognava la nemica uscire dalla tana e confondersi nella tormenta. La vedeva macinare la strada battuta dalla grandine, o turbinare tra i banchi di nebbia. Oppure, sempre in sogno, ne percepiva la presenza oltre la soglia, a origliare dietro gli scuri. Anche il fischiare del vento la inquietava, che si immaginava la strega annaspare per farsi spazio ed entrarle in casa. Per ragioni d’età era improbabile che arrivassero un secondo o un terzo figlio. Non bastava Marlena per recuperare posizioni nei confronti delle compaesane che avevano quattro, cinque o sei marmocchi da sfamare. Ora però almeno non andava in giro da sola. Aveva una bimba da allattare e da portarsi appresso, e non entrava in chiesa da sola. Oreste, che l’accompagnava e seguiva distratto la funzione, non faceva testo, sedeva tra gli uomini su un altro banco, che allora si usava così. Un po’ per scherzo e un po’ per invidia ci si domandava se la piccola Marlena fosse davvero figlia loro. Pareva ingiusto che a Giuseppina fosse nata una bambina tanto bella. Non somigliava ai genitori e a nessuno del paese. Le comari la scansavano stizzite, a loro dire non la raccontava giusta: com’era che a quarant’anni suonati era diventata madre? Quale patto aveva mai stretto, e con chi? Presto si rimproverò ai genitori di tenere troppo al chiuso la bambina. Cresceva
bella e forte, curata e trattata da principessa. E principessa pareva davvero per il lieve portamento, l’incedere misurato, gli occhi che entravano nelle cose e leggevano l’anima di chi ricambiava lo sguardo. Nulla le sfuggiva, e poco importava non avesse facoltà di parola. Gli altri bambini raccoglievano fasci di legna, attingevano l’acqua dal pozzo, seguivano le madri all’acquaio e vi si trattenevano, in estate, quasi nudi. Oppure badavano al bestiame. «Invidiosi», replicava Giuseppina, osservando i capelli neri d’ebano della figlia, le fiammelle azzurre a illuminare le pupille, l’assenza di imperfezioni sulla pelle, inammissibile per la vita dura delle montanare. Quando Giuseppina conduceva la figlia alle funzioni religiose, il parroco se ne spazientiva. Non per i suoi piagnistei, ma perché le donne più che guardare la Vergine volgevano il capo altrove, distraendosi in bisbigli, e perché, durante la benedizione, la madre allontanava la bambina dal getto dell’aspersorio. Quando non comparvero più alla messa domenicale, la cosa fu considerata un affronto inaudito a Nostro Signore.
Era una giornata tiepida priva di nuvole. Giuseppina e Marlena arrivarono per caso a un sentiero tracciato dai caprioli e celato da una torma di larici, oltre a un bosco di faggeti e a siepi che si perdevano alla vista. Queste ultime, come si credeva, non accostavano un dirupo, ma conducevano verso un giardinetto, così chiamò la spianata con il prato di un’erba dall’insolito verde. Il percorso era tortuoso, ma praticabile senza troppo affanno. In leggera salita, assumeva tratti impervi e accidentati al o. Si apriva un’inaspettata pista forestale che si inoltrava nel fitto del bosco. C’erano mucchietti di sassi sparsi, a segnare un percorso antico che seguirono, inoltrandosi tra stagni paludosi e alberi silenti. Vi era stata una terribile frana, si ricordava, e da parecchi anni nessuno vi si era recato. Da lì non si vedeva il Castello, situato nel lato opposto. «Ecco», disse alla bambina, «qui prenderemo il sole, ci riposeremo e tu potrai giocare. Smetteranno di dire che ti chiudo in casa». Marlena aveva compiuto da poco un anno e azzardava i primi i, si rotolava
nel prato, gettandosi tra le campanule e tormentando gli steli d’erba. Scoprirono in breve che non erano gli unici frequentatori del pianoro. Scorsero nel loro angolo una vecchia intenta a raccogliere viole del pensiero. Marlena la fissava con sospetto, stringendosi alla sottana di sua madre. Per farsi ombra la vecchia si copriva fronte e tempia col braccio, che la pezzuola in testa non le bastava. Era la Gisella. Abitava il mulino ai margini del paese, un rudere di sassi nel punto in cui la valle si restringeva, tra massi instabili e pini mughi. Si diceva fosse una strega, ma le poltiglie che preparava con la terra tutto sembravano tranne pozioni. La Gisella di rado guardava qualcuno dritto negli occhi, non perché si credesse capace di lanciare malie, ma per il timore che la follia di cui soffriva risultasse evidente. Non era una presenza raccomandabile, poteva saltarti addosso per un nulla, sbraitare contro all’improvviso, inseguirti con un sasso o minacciarti con la punta dello zoccolo. Sulle prime non parve accorgersi di loro. Stava mugugnando parole senza senso in direzione del vento, e rivolgeva improperi a un coniglio selvatico che non riusciva a catturare. A un tratto prese a volteggiare come una trottola e a recriminare per un mantello perduto: «Non ti ho forse servito bene, o pia maledetta?» Giuseppina fu colta dal panico. Riconobbe la voce, sebbene alterata, di colei che le aveva parlato al castello. Afferrò in malo modo Marlena e si fece strada tra sterpi e radici, rischiando di inciampare. Fu allora che la donna rivolse alla madre e alla piccola un piglio risentito, esibendo i pochi denti demoliti dalla carie: «Perché scappi? L’hai preso tu il mio mantello? L’ho appoggiato qui, tra gli arbusti. Restituiscimelo subito! È inutile che ti allontani, ti seguirò ovunque, tanto so chi sei!» le urlò con voce isterica. Giuseppina raggiunse la piazza e corse in casa, serrando porte e finestre. La vecchia Gisella non l’aveva seguita, ma ciò non la rincuorò.
A sei anni Marlena accompagnava la madre al fiume insieme alle lavandaie. Sua madre vi si recava con due ceste, di cui una vuota, che la bambina trascinava per terra. Giuseppina la issava sopra un ceppo affinché si credesse alta. Per evitare che affondasse tra i lenzuoli sporchi ammonticchiati a parte o vuotato il cesto largo vi si raggomitolasse, le affidava un fazzolettino, un cencio da sfregare e piccoli indumenti. Prima di rientrare ne approfittava per sciacquarle il viso, frizionarle nuca e braccia.
ò ancora del tempo e Marlena si domandava perché sua madre fosse risoluta nell’impedirle di guardare le alture. Le vietava di sostare in un dato angolo della piazza, che di scorcio si intravedeva il Castello. Se desiderava eggiare, non poteva allontanarsi dalla sorveglianza di Giuseppina, vinta dal terrore che svanisse senza lasciare traccia se non le si stava col fiato sul collo. Lo stesso tentava di fare Oreste quando riponeva lo scalpello e il raschio, o la lente per gli orologi. Marlena non era priva di fantasia, e si inventava infiniti giochi che le permettevano di non allontanarsi troppo e non annoiarsi più del dovuto. L’ansia dei genitori era tale che la piccola, pur stando all’aria aperta, viveva da reclusa. A dieci anni si fece grande e responsabile, diffidente degli sconosciuti, quanto basta perché si difendesse da sé e non si attaccasse troppo alle gonne di sua madre. Girava per casa con un largo grembiule e le maniche arrotolate. Imparò a impastare la farina, a spazzare per terra, almeno finché ne aveva voglia, altrimenti sostava dinanzi la finestra, a spiare chiunque vedesse are in piazza. Giuseppina allentò la sorveglianza. Non si dava pensiero della Gisella, chiusa nel mulino e resa innocua dall’estrema vecchiezza. Aveva almeno settanta, settantacinque anni, gli ultimi inverni l’avevano sfiancata. Ai cento poteva arrivarci benissimo. Quelli che mancavano, la Gisella li contava nei granelli del rosario che aveva scovato fuori dalla chiesa. Quando Marlena compì quattordici anni cambiò modo di camminare, le si acuì lo sguardo e iniziarono nuove preoccupazioni. Giuseppina si sorprendeva nell’avvertire per casa una presenza estranea. Si domandava chi fosse quella
ragazzina sprezzante e volitiva, se davvero fosse uscita dal suo ventre. Marlena si chiedeva invece cosa ci fe tra quelle quattro mura. Sembrava aver piantato radici altrove, carpendo sprazzi di eternità che a sua madre sfuggivano. Sua madre la coglieva spesso a contemplare con malinconia e ione le alture, indugiare sulle mura del Castello che si scorgevano dall’angolo della piazza da cui non poteva allontanarsi. Divenne intrattabile, non sopportava essere ripresa, né trascorrere gran parte della giornata in casa a fare i mestieri. L’annoiava e la esasperava tenere la cucina calda e pulita, attenuare l’odore di stalla che saliva dal pavimento e per cui innaffiava i muri, o quello di tabacco e legno che papà Oreste si portava addosso. Spesso sua madre raggiungeva livelli di inclemenza per lei inauditi. Capitava, mentre Oreste non guardava, che volasse uno schiaffo, e la ragazzina si ritrovava una guancia rossa, a mischiare lacrime alla minestra. Giuseppina la osservava di sbieco incontrando il volto triste, pentendosi dei propri sfoghi. Il loro conflitto durava a fasi alterne, in un controbattere e rispondersi per le rime. La donna rivedeva se stessa, alla sua età. Ripensava a sua madre, di cui aveva preso il posto. Marlena si faceva sempre più bella, con quei capelli lunghi e neri, gli occhi ardenti, pronta a balzare sulla preda, poco importa fosse sua madre. A turbare la donna furono strani discorsi che la ragazza iniziò a imbastire, senza capo né coda. «E voi, mamma, di quale elemento siete fatta?» Giuseppina sulle prime non seppe che rispondere, poi le disse: «Di terra. Siamo tratti dalla terra e a essa ritorneremo. Polvere alla polvere, cenere alla cenere, come quella che verso per lavare la tua roba.» «Non vengono mai dal nulla le cose. Dalla terra proviene la genia degli uomini» intervenne Oreste. «Non per nulla l’uomo richiama l’humus, il suo nutrimento.» «Contenta?» disse Giuseppina, lanciando un’occhiataccia nella direzione
dell’uomo. «Se è così, che bisogno c’è delle scarpe? Perché separarsi dal suolo?» Giuseppina e Oreste non trovarono nulla da ribattere. Autorevolezza o no, la prima figura che Marlena imparò a temere fu quella di suo padre, che aveva da poco ato la sessantina, col suo stare in parte davanti al fuoco, tanto da ritenerlo uno spirito silenzioso. Quando partiva per la guerra, credeva che continuasse ad abitare la casa, e si intrufolasse nelle palandrane. Pensava ve ne fossero due come lui, il primo con la divisa, e il secondo senza. E poi a volte aveva la barba, e bastava questo per farne due persone distinte. Marlena smise di mangiare carne, raccoglieva erbe e foglie, scegliendole con cura. Nell’unica stanza che avevano per casa, un paravento separava il letto dei genitori dal suo. A dire il vero Giuseppina voleva fe cambio con loro, che dormisse nel lato in ombra. Ma nell’ombra c’erano i ragni, le lucertole che entravano e non uscivano mai. Nell’ombra si potevano nascondere mostri che, non visti, strisciavano la notte per ghermirla. La parete non si vedeva, coperta dal buio che s’apriva a corridoio sul fondo, dove si depositava la polvere antica. Nel punto scuro della casa, la fantasia stessa di Giuseppina creava presenze tenebrose che attendevano l’istante opportuno per inghiottirla tutta intera. Non c’era angolo più popolato di quello, con i fantasmi che prendevano forma dalle esalazioni del camino spento. Nel suo lato, invece, c’era il cielo a proteggerla, e le montagne che vi guardavano dentro. E poi bastava saltare dalla finestra per guadagnarsi la via di fuga. Oreste propose di spostare la brandina contro la porta, ma anche la finestra doveva restare chiusa, almeno di notte. Marlena non ne volle sapere. «Quando dormo mi piace guardare fuori» disse una sera, senza spiegare ciò che intendeva. Amava svegliarsi e stiracchiarsi al primo sole, che c’era e non c’era, mentre si precisavano i contorni dei boschi lontani. Negli occhi aveva l’effimera allucinazione dell’ultimo sonno che precedeva l’alba. Alla luce bianca che preannunciava il mattino si svegliava, usciva dal letto e correva verso quello dei genitori, scostando il paravento.
Confidò di udire lo scorrere delle cascate d’acqua, di sapere cosa si nascondesse tra le piante. Era in grado, annusando l’aria, di capire se la sera sarebbe stata allietata dal vento di libeccio o scossa dalla tempesta, e quale direzione avrebbe preso il vento l’indomani. Non sapeva neanche lei perché, l’aria la fiutava e il naso si arricciava sopra il labbro. Giuseppina la guardava spaventata. Sarebbero parsi giochi di bambina se non ci avesse spesso indovinato. Marlena aveva già preso l’abitudine di uscire di soppiatto, come i gatti, allontanandosi quanto bastava per poter udire i richiami di sua madre. Ma a un solo o fuori dal paese l’afferrava la smania irrefrenabile di correre a perdifiato e lasciarsi alle spalle la vallata. «Devo andarmene da qui» parlottava tra sé, sicura che nessuno la udisse. Pensava infatti che vi fosse maggior libertà in bilico tra dirupi e gole che tra le calde pareti domestiche, e che dovesse fuggire dalle reti che sua madre tesseva per trattenerla a sé. In alcuni momenti della giornata Marlena sentiva su di sé l’insistenza di uno sguardo che non era quello di mamma Giuseppina. Quando le diceva: «Non vedo nessuno. Sento cose», era sincera, non era in grado di identificare alcuna presenza precisa intorno a lei. Essa diveniva incalzante una volta superata la soglia di casa, la accompagnava al o e la incitava a proseguire al di là della piazza. Ne cercava segni tangibili, rintracciandoli ovunque. Era il suolo che calpestava, la bruma che l’avvolgeva, l’aria che respirava, la tempesta che si sarebbe scatenata di lì a poco. Si sorprendeva di ritrovarsi dentro un paesaggio che le apparteneva, inventato o reale che fosse. Ci fu, poi, la questione dei fiori. Giuseppina scoprì sui davanzali piccoli mazzi disposti in vasi di fortuna. «Dove li hai raccolti?» domandava ansiosa, non erano di quelli che crescevano nelle vicinanze. «Hai disturbato la Anna?» La Anna era la fioraia, ma Marlena rispondeva che no, la Anna non s’era vista, non era giorno di mercato. Dove li scovasse, non c’era verso di capirlo. Raccontò di aver scorto in un prato delle fanciulle danzare. Danzavano da sole muovendo il capo come corolle, ed erano primule e roselle.
VII
1786 – 1825
Non era la prima volta che la Gisella sgattaiolava fuori di casa. Qualunque fosse il nascondiglio, Enzo andava a prelevarla e lei, ammansita, si lasciava condurre. Da ultimo si rifugiò tra il fieno di una cascina incustodita, a due i da chi la cercava nelle vicinanze, e poco mancò la infilzasse col forcone. Stavolta no, si ripromise, non le avrebbe buscate. Tremava di paura nel pensare alle bastonate, ai calci e ai pugni che non le avrebbe lesinato. Avrebbe potuto ammazzarla, uno di quei giorni, se avesse mirato in alto, alla tempia, dove diceva riposasse la memoria. Non le importava di trascorrere la notte fuori, piovesse o gelasse. L’importante era fuggire da quelle mani bastarde che si chiudevano a tenaglia sul collo o si serravano sui fianchi a pinza. Enzo, uno scioperato avido di vino bevuto dai fiaschi, se non gli si consentiva di fare ciò che gli frullava in capo, dava di matto. L’aveva sposato che era l’uomo più bello e frivolo del paese, per fare un dispetto a sua madre. Col matrimonio, però, la favola era presto finita. L’affetto che Enzo diceva di provare per la giovane moglie aveva lasciato spazio a sentimenti di diversa natura. Dopo mezzogiorno fuggì di corsa dal marito che la rincorreva per la piazza strepitando e alzando contro di lei le braccia, e menando colpi col bastone. Non ebbe il coraggio di incalzarla fino alle colline che ella cominciò a salire, incespicando per la paura che la raggiungesse. Quando arrivò al Castello, la Gisella si acquietò perché, giratasi, non scorse l’inseguitore. Il portone del castello, lo stesso che di solito si mostrava sprangato a chi avesse l’ardire di avvicinarsi, era socchiuso. La Gisella vi si introdusse con cautela. Le si spalancò una sala larga, in fondo alla quale ardeva un fuoco azzurro. Le finestre erano accostate e lasciavano filtrare dall’esterno un filo di luce. Si aspettava di essere invasa dall’odore di cose vecchie e di muffa, oltre che dalla polvere. Invece le narici furono accarezzate dal profumo del legno verniciato, misto a quello dei fiori freschi. D’istinto aprì gli infissi, in modo che ogni angolo della sala venisse rischiarato.
A un tratto distinse il drappo di un mantello poggiato su una poltrona gibbosa, e avrebbe giurato che un attimo prima non vi fosse. «Che stregoneria è mai questa?» le scappò detto. «Beh, che importa? Io da qui non me ne vado.» Attirata dal riverbero che illuminava il mantello, si avvicinò. Sfiorò il tessuto con prudenza, poi lo agguantò appropriandosene. L’ordito, rigido in apparenza, al tatto si distese. Bastò poco perché le cingesse le spalle chiudendosi sul petto. Il difficile fu raccogliere le frange, affinché non la impicciassero nei movimenti, che sventolavano da tutte le parti. La foggia era antica di almeno duecento anni, priva di strappi e teneva caldo. Cessò di rimpiangere i tessuti dei mercanti che non poteva permettersi. Nessun vestito di pizzo o orlato avrebbe potuto competere col senso di potenza e benessere che la invase nel vestirsene: «Uno specchio! Ci sarà pure uno specchio in questo castello.» Ciò detto fece il giro delle stanze, alcune sontuose, larghe, altre strette, simili a sacrestie e a santuari disabitati. Entrò da ogni porta, aprì molte finestre finché fu in una stanza colma di specchi che ne raddoppiavano il volume. Era soddisfatta dell’effetto, rassomigliava alla nera signora di un’antica leggenda di re Salomone. In essi riflesse se stessa in immagini multiple. Ciascuna sembrava vivere una vita propria. Da bambina aveva amato l'idea di essere non una soltanto, ma cento o mille. All’inizio tutto le parve bello e fascinoso. Seria e affaccendata si scordò del paese. Dedicò il resto della giornata a ispezionare il maniero. Visitò e scandagliò ogni anfratto senza trascurare nulla, nemmeno gli archibugi appesi ai muri, le alabarde e gli stendardi scoloriti. Si impegnò in grandi pulizie. Uscì per attingere l’acqua da un vecchio pozzo, trovò spazzole e stracci e un pezzo di sapone dimenticato, pronta ad affrontare la polvere, i topi e le ragnatele. Caso mai il padrone, se ve ne era uno, si fosse preso la briga di presentarsi, si sarebbe offerta quale sguattera tuttofare. Non insegnavano questo le favole che si raccontavano a filò?
Tolse dalle sale i tappeti, li stese sui balconi, riponendoli la sera al loro posto. Si ritirò nel solaio e da lì scatenò una cascata d’acqua insaponata che inondò le scale e lambì i piani sottostanti. La prima notte non fu facile. Prima di coricarsi sprangò per bene il portone e le finestre, che non si sa mai. La luna illuminava mezzo cielo ed era già ata mezzanotte. Le fu impossibile levarsi il mantello. Le frange le si riavvolsero in vita, i lembi appena discosti la strinsero in una robusta presa. Solo il capo rimase nudo. Lesse lo sconcerto e la paura nello sguardo che gli specchi le restituirono. Non mancarono di intimorirla gli echi che si diffondevano dalle segrete giungendo ai piani superiori. Da qualche parte vi era un pertugio che scavava la montagna, da cui spirava un vento che suonava a zufolo. Che fosse questo il lamento antico, il pianto triste della Vivena di cui si parlava? La mattina presto recuperò ciocchi di legna per i giorni a venire. Si abbeverò alle sorgenti, si cibò di bacche e radici, di erbe che cuoceva in un pentolino di rame e di frutta a, del biscòt che scaldava sul fuoco. Non temeva la fame, né la sete. Si sentiva forte. Non vedeva l’ora di scendere in piazza, di vedere come se la ava la gente di sua conoscenza, di mostrarsi tra poderi e prati, di esibire i segni della sua rinnovata bellezza. Vestita da Vivena, nera e paurosa, nessuno sarebbe rimasto imibile al suo aggio. Le rughe che sin dall’adolescenza le solcavano il viso si diradarono, la figura ne beneficiò all’istante. Il piglio era severo e nelle pupille brillava una nuova luce. Anche le guance si riempirono, la schiena si fece dritta, l’incedere elegante. Le inquietudini delle prime settimane si affievolirono presto. Nessuno le chiese conto di nulla. Vediamo di chi mi potrò vendicare. Di quella vacca altezzosa che mi ha offeso al mercato, dell’insolente che mi ha rubato il posto in chiesa, dell’imbecille che mi ha… e avanti così, assaporando il suo stato. La Gisella voleva tornare in paese e riscuotere il credito da chi le aveva fatto del male, primo fra tutti il disgraziato marito. A queste riflessioni la veste tremò di ribellione e un pensiero molesto angariò la
ragazza. Tu desideri solo vendicarti di chi ti ha fatto torto. Alla Gisella mancò il respiro. Nessuno aveva parlato, quel moto di rimprovero era emerso tra le pieghe della sua mente, rigurgito di una coscienza che non le apparteneva pienamente. Più tentava di contrastare la volontà del mantello, che di questo si trattava, più esso si incollava alla pelle, avvinghiandosi alla sua persona. Scoprì presto che se poteva muoversi a suo piacimento tra le stanze del castello, visitare il prato retrostante, attraversare il ponte di corda, una forza inaudita le impediva di scendere a valle. Ci provò e ci riprovò finché, impietrita, gridò con tutto il fiato in gola, senza che le uscisse un suono. Presa da una furia improvvisa, lottò contro la presenza che la avvolgeva nell’unico modo che ritenne possibile: scappò dal castello, attraversò il ponte, corse nella direzione delle montagne, in cerca di un pertugio in cui non la si potesse scovare. Volando senza correre, si introdusse nel bosco che superò. Raggiunse i rilievi che si aprivano ai fianchi. Non avvertì alcuna fatica, nessuna spossatezza, e non cessò di arrampicarsi tra le rocce con o leggero. La salita fu lieve, scavalcò con andatura vertiginosa le pareti pietrose senza che si accorciasse il respiro. L’aria divenne fresca, fino a farsi gelida e tagliente. Si ritrovò su una cima sconosciuta, regno di ghiacci perenni, luogo inospitale persino per le radici che non riuscivano ad attecchire. Di sotto scorreva un cumulo di nuvole che si raccoglievano compatte, alle quali rispondeva la condensa che le usciva dalle labbra.
Il bianco che si distendeva davanti le fece chiudere le palpebre. Il sole, picchiandovi forte, ficcava i suoi raggi nelle pupille. Si sentì parte di una biologia diversa che coinvolgeva e abbracciava le cose. Non fu facile abituarsi. La Gisella tentò di scrollarsi il mantello, pronta a gettarlo via da sé, nell’impeto di rabbia che ancora la invadeva. Inaspettatamente la veste non oppose resistenza. Così facendo un freddo intenso penetrò nelle ossa sin dalla punta del naso, il cuore prese a battere all’impazzata, non le riuscì di
respirare. Una morsa le strinse lo stomaco, fu colta da sussulti e si sentì mancare. Se lo rinfilò in fretta in preda a fremiti violenti, ma non prima che il gelo le scorticasse le mani. La Gisella non ebbe la necessità di porre domande. Le risposte le giunsero da quel barlume di coscienza che condivideva, fino a capire chi era diventata. Non lei, comprese, ma il mantello l’aveva condotta fin lì. La donna che si trovava in equilibrio su uno sperone di roccia era la Vivena. Poco importava il suo nome, si chiamasse Vincenzina o Gisella. Il suo animo si divise tra emozioni contrastanti. Voleva tornare indietro, ma continuò a indugiare su quel mare di cielo e nuvole intorno all’isola di pietra che la accoglieva, con il sole che assomigliava alla punta di una lancetta invisibile che segnava il tempo e si muoveva sul quadrante tra l’alba e il tramonto, ando per mezzogiorno. Sapeva che sotto il cielo indaco avrebbe potuto scorgere i nidi delle aquile, e le aquile sopra quelli. Avrebbe intravisto distese di foreste che sembravano prati, e i villaggi delle valli non più grandi di sassolini sparsi. Tra quei puntini informi ogni cosa perdeva la sua consistenza, assumeva le forme di un tutto indistinto. Lassù in cima si sentiva padrona di non sapeva esattamente cosa. Le sembrava di perdersi dentro una volontà incontrastabile, impalpabile e capricciosa. Dalla Vivena imparò quanto fossero piccoli gli uomini. Ignari di loro stessi, proiettavano il loro destino oltre la terra. Riempivano il cielo di segni, di occhi, di braccia, di dèi e troni sui quali farli sedere. Speravano che, spostando altrove la sfera dell’ignoto, ne avessero alla fine meno paura. Chi avesse, però, perlustrato a dovere quelle altezze si sarebbe reso conto della realtà: la terra era piccina mentre il cielo, così spopolato, appariva un’ampia distesa desertica. Al contrario del mare, non era solcato da navi, e premeva sulle valli come un coperchio. I troni sui quali le divinità dovevano sedere, ovunque fossero, erano vuoti. Non vacanti, terribilmente vuoti. Sembrava così scontato che i numi aleggiassero sulle nuvole, vigilassero su quanto succedeva nel perigeo. E invece il loro soffio si era disperso in mezzo ai sassi e la terra, sulle loro spoglie germogliavano le piante, e vi camminavano sopra i mortali. Persa in questi pensieri, mise un piede in fallo. Ma non cadde. «Riportami al Castello» sussurrò rabbonita la ragazza. S’accorse che il vuoto che aveva sotto non la spaventava più che tanto. Scese di
un o, poggiò il piede su instabili sporgenze senza perdere l’equilibrio, abbandonò a poco a poco il picco del ghiacciaio. Non ebbe difficoltà a ripercorrere a ritroso la strada. La Vivena l’aveva attraversata migliaia di volte, e in comune con lei aveva la memoria di queste e altre cose. Riconobbe i boschi nei quali si era addentrata, le alture che aveva già oltreato. In capo a un’ora fu sulla via del Castello. Raggiunse la sua stanza, ravvivò il fuoco, davanti al quale si addormentò sfibrata.
Il mantello di velluto nero prese a ossessionarle il pensiero, tanto da volersene impossessare più di quanto già non le appartenesse. Comprese che in esso albergava una volontà che le guidava i i e la rendeva padrona di ogni cosa. Non avrebbe tuttavia accettato il ruolo di semplice faccendiera. Né sopportato di far parte del mobilio, di rassomigliare a un oggetto decorativo, a una tenda, a un ricamo, a un’ombreggiatura, al disegno di un vaso antico. Le fu chiara la storia di Vincenzina, della quale si favoleggiava da secoli. Non era stata che una serva, serva dello spettro che aveva alle calcagna. Essa era sopravvissuta per anni fusa con un essere infernale. A poco a poco di lei non era rimasto nulla. Questo sarebbe stato il destino della Gisella, se non fosse riuscita a separarsi dalla sua aguzzina. Desiderò con tutte le sue forze di spodestare lo spirito che vegliava sul suo animo governandone le azioni. I primi tempi la Gisella aveva ben poca energia per contrastare l’impulso che la costringeva a recarsi in luoghi lontani. Si addentrò spesso nei ghiacciai, sul più alto pinnacolo di quel piccolo mondo. In un’occasione rimase in cima due giorni e due notti a montare la guardia, prigioniera di riflessioni di cui non afferrava il senso. Delle Vivene aveva sempre saputo poco o nulla e ora toccava con mano la verità di alcuni racconti. Acquisì gradualmente una sorta di chiaroveggenza che la stordiva, insieme alla capacità misteriosa di cogliere traccia di quel che sarebbe stato. Conobbe luoghi che non aveva mai visitato, la memoria si colmò di ricordi non suoi, molti precedenti la sua nascita. Anni che erano decenni, secoli, millenni, popoli che si erano succeduti e parole che cambiavano di significato per i secoli
che separavano coloro che le pronunciavano. E la voce turbata che nel cuore della notte gridava: Basta! Fu messa a parte di un sapere antico che la turbava, alterando luoghi comuni sui quali da sempre aveva confidato. Leggeva nelle iridi degli scoiattoli e dei cervi ciò che nessuno avrebbe saputo intendere, comprendeva il senso dei messaggi che le civette portavano da lontano. Ogni zolla, ogni foglia staccata dal ramo narrava qualcosa di sé. Non vi era nulla che non tentasse di dialogare con lei. Pure l’arcolaio che scorse in una stanza le rivelò i suoi segreti, anche i resti del tessuto scuro che mani esperte avevano intrecciato diffo nell’aria i propri fantasmi. Dal suolo che calpestava percepì il respiro di una creatura viva e pulsante, una divinità occulta al mondo visibile. Capitava che giungesse in villaggi vicini e rispondesse a chi la interrogava con parole non sue, in un vernacolo che non aveva mai udito, ma che intendeva perfettamente. Curò malati, distribuì decotti, praticò da ostetrica. Divenne mezzo per dei fini di cui non le importava nulla. Se Vincenzina aveva accettato la sua condizione, la Gisella lottò, giorno dopo giorno, anno dopo anno, contro ogni cenno di affievolimento della propria coscienza. Insomma, se c’era la Gisella dentro la veste, un’altra parlava in sua vece, come accadde quel giorno che una donna si avvicinò e la udì mormorare sotto le finestre. Uscì morsa dalla curiosità di sapere chi osasse molestare il suo riposo. Il sentimento che la sopraffece verso la questuante era la pietà, la quale ebbe la meglio sul dispetto e la voglia di cacciarla in malo modo. E così due volontà si confo tra chi ci mise le parole e chi il tono. La parte benevola accordò la grazia richiesta, la malevola non lesinò dal metterci del suo, paga di scorgere Giuseppina allontanarsi con la coda tra le gambe, scossa fino al midollo. Non mancavano gli inconvenienti. Lei stessa non poteva nascondere nulla di ciò che la riguardava, e non c’erano segreti di cui lo spirito non si impossessasse. La Vivena, tramite la Gisella, aveva un viso da Proserpina, mani, gambe robuste con le quali tornava a vivere. A ciò non avrebbe rinunciato facilmente, ma non sarebbe stato semplice conservare quel po’ di determinazione che bastava. Poteva negoziare, perfezionare il patto che le congiungeva. Si moltiplicarono i conflitti e i reciproci dispetti di chi si contendeva uno spazio angusto. E poi c’erano i sentimenti che si spartivano, e tentava di arginare. Ogni giorno perdeva un tassello di sé. Cosa sarebbe rimasto di lei se non materiale di
scarto, una donna avvizzita e ripiegata su se stessa? Veniva spremuta neanche fosse un limone, e la buccia sarebbe stata gettata tra i pattumi. I rapporti si complicarono quando la Gisella fu in grado di nascondere alcuni suoi disegni, simulando un’arrendevolezza che conservava un che di ostile. Per molti anni non era scesa in paese. Solo il carbonaio la incrociava ogni tanto. Nell’avvicinarsi al Castello, Marteus sorprendeva in lontananza un’ombra aggirarsi nel cortile o attraversare di buona lena il ponte di corda. Spesso la scorgeva nell’opposto versante, vicino alle cataste di legno da affumicare. Enorme fu la gioia che provò nel riuscire a scendere a valle, ad avvicinarsi a Valchiusa. Bastò occupare i suoi pensieri senza lasciare emergere le reali intenzioni. Ne approfittava per spiare verso le finestre. S’accorse che erano ati parecchi più anni di quelli che contava. Pochi si sarebbero ricordati di lei, e quei pochi non l’avrebbero riconosciuta con addosso il mantello. La osservavano nervosi, mantenevano le distanze e nascondevano i bambini. Cercò suo marito, che vide vecchio e ubriaco, appena uscito dalla locanda, perso tra i vizi e le braccia della puttana del paese, con la voglia di menare le mani contro chiunque. Le si rivoltò lo stomaco nel vederlo orinare sul muro del municipio. Anch’egli la adocchiò, ma osservò soltanto un’ombra calata nella rientranza di un muro. Non levò un dito contro Enzo. Reclamava giustizia, ma sapeva che il destino presto gli avrebbe reso pan per focaccia. Desistette dal suo proposito, domandandosi se fosse una decisione completamente sua. Capitò una sera che Enzo era a dorso di cavallo. Imboccò una strettoia rischiosa, ai margini di un dirupo. A procedere con calma si giungeva in un ripiano che si collegava a una strada più ampia. Quella volta non tirò le redini e pretese di mantenere un trotto sostenuto. Il ronzino però prese a tergiversare. Rallentò l’andatura e scosse il capo verso il punto in cui si apriva il vuoto. «Che ti prende, stupida bestia? Oooh, oooh! Che spazio non ce n’è per deviare, vai! Oooh, oooh!» così dicendo ne percosse la collottola, picchiò sulla criniera e sferrò calci sui fianchi. Solo allora percepì una figura sul ciglio, e ce ne volle per riconoscerne le fattezze. Sembrava attenderlo, e infatti si staccò dalla parete di
roccia collocandosi in mezzo alla strada. Il cavallo, spaventato dalla veste funerea che ricopriva la donna, si impennò senz’avviso. Fu vano per l’uomo trattenersi sul dorso e tentare di controllare la bestia. Perse l’appoggio, precipitò trattenendo le briglie staccatesi dalle giunture che legavano il muso dell’animale. Fu inghiottito dal crepaccio, dello stesso colore delle iridi di lei che riflettevano i bagliori lunari. La Gisella apparve ad alcuni che la incontravano in lontananza e si defilavano tremebondi. Capitò che qualche sciagurata le si avvicinasse per domandare una grazia. Per lo più erano ragazze madri, o vedove che le ricordavano la sua antica condizione. Spinta dalla pietà, non le lasciò mai andare a mani vuote. E poco le importava, stavolta, se ci metteva lo zampino l’altra. Venne il giorno che il mantello le si allentò. Stupita e allarmata da questa novità, la Gisella applicò in vita due giri di corda spessa per tenerlo stretto, ingaggiando una lotta che la lasciò stordita e priva di forze. Tentò, giorno per giorno, di rinforzare il compromesso, aspirando a una tregua che aveva la sostanza del ricatto. Un giorno il portone con un terribile fragore si sigillò a un o da lei. Poco mancò che le troncasse di netto il capo o il braccio che protese per farsi strada. Nel medesimo istante il mantello sciolse le corde e le si sfilò. Sei libera, questo fu l’ultimo pensiero che ebbero in comune. «Nooooooo!» gridò la Gisella, fino a sputare l’anima. Si infuriò, pianse lacrime amare per l’affronto subito, nemmeno fosse una vecchia domestica cui dare, dalla sera alla mattina, il benservito, senza che potesse preparare un fagotto con le proprie cose. Aveva inteso che la veste avrebbe cinto presto le spalle di qualcun’altra. E in fondo, la scelta era già stata fatta. Era la figlia di Giuseppina, e la Gisella sapeva dove trovarla. I mali della vecchiaia la ghermirono togliendole il fiato. La faccia le si rattrappì in un reticolo di rughe. La sentì inaridirsi e stringersi sugli zigomi. Le si rimpicciolirono gli occhi. Calò la vista e l’udito. La schiena si curvò. Il o si fece pesante e le iridi malvagie dietro il sorriso. Aveva abitato tutta la vita nel
castello in cui, ora, non riusciva a entrare. Non aveva mai avuto bisogno di chiavi da inserire nella toppa, che il portone obbediva al suo cenno. Eppure l’irreparabile accadde. La sera incombente la spinse alla ricerca di un riparo per la notte. Senza il mantello non ebbe molto per coprirsi, se non una maglia consunta e una camiciola di lino, nulla per difendere il collo dall’imminente gelata notturna. Bussò disperata, si aggrappò alle borchie, afflitta. Provò a nascondersi nel lato dell’entrata del Castello, per riapparire subito dopo confusa. Restò a lungo, impalata e discinta, a scrutare con rabbia l’entrata. Gridò parole che nessuno avrebbe inteso. Al di là del ponte di corda vi era un’antica catapecchia di legno e sassi. Forzarne l’ingresso non sarebbe stato difficile. Ricomparve in paese preceduta da un acquazzone. All’alba incrociò solo un gatto girovago. Nessuno si ricordava di lei. Portava l’inverno nella faccia e nei capelli lunghi e spettinati. Era vestita di stracci pesanti di pioggia, assediati da una pastura di fango e foglie. Per sopravvivere andò a carità bussando porte, o raccoglieva e dava via carabattole. A colpire era l’andatura sbilenca, il viso di pergamena accartocciata, sul quale spiccavano orbite profonde. La mano destra nodosa e rattrappita, con dita gonfie, impugnava il bastone che sosteneva le gambe tremanti. La sinistra esibiva una ciotola. Ondeggiava con o incerto, persa e istupidita. La voce, con cui cincischiava parole prive di senso, era roca e sibilante. Verso sera fissava la luna come se vi fosse precipitata all’improvviso. Il tempo la restituiva al paese, vecchia e malata nello spirito, senza nulla da conservare se non un odio profondo covato verso chiunque. Non più avvolta tra le pieghe del mantello, fu preda di un incantesimo assurdo, prosciugata dell’umanità e del senno. Ciò che di lei rimaneva erano resti privi di polpa. Era lucida nella sua follia e fin troppo folle nella sua lucidità. Aveva vissuto troppi anni al di sopra di tutto e di tutti, per non perdere il gusto di quel che fosse il bene e il male. Era talmente inaridita nelle carni da non trovare appiglio se non in ciò che le era stato tolto. Nessuna esistenza le pareva degna di essere vissuta se non quella da cui era stata esclusa. «Che ci fate da queste parti?» le domandò stupito Marteus, il carbonaio, l’unico che la riconobbe.
«Mi ha scacciata» ripeteva. «Ma chi, il diavolo?» le rispose. Fu lui a regalarle la giubba che indossava e a rifocillarla. «Mi ha scacciata…» continuò la Gisella, inondando le gote di nuove lacrime. «Si è presa la mia gioventù, la salute. Mi ha lasciato questi resti, per lei indigeribili. Guarda, carbonaio, guarda!» La vecchia esibì le braccia, i piedi rinsecchiti, fece per spogliarsi degli indumenti ma l’uomo glielo proibì. «Tornatevene al mulino. La vostra casa è ancora in piedi» le disse, «se avete bisogno, sarò lieto di aiutarvi.» «Il mantello. Ho perso il mio mantello. Hai visto il mio mantello? Mi appartiene, sai, è mio.» Seguendo il suggerimento, si riappropriò della casa del vecchio mulino che aveva ereditato dai suoi, ai margini del paese. Stava lì, con le mole bloccate, senza più un getto d’acqua che le smuovesse. La casupola era costituita da una grande stanza tanto umida che ad abitarla ti sentivi fradicio. Un’anima buona le confezionò un mantello per l’inverno, secondo la descrizione che ne aveva fatto, e glielo consegnò dicendo: «L’abbiamo trovato.» La Gisella, indispettita, gridò che non era il suo, che l’uno non valeva l’altro, ma lo teneva lo stesso, in mancanza di meglio. Fu vano interrogarla per capire che avesse visto e in che modo avesse vissuto tra le alture quegli anni. Non si poté carpire alcun segreto dalle parole prive di senso che le uscivano dalla bocca. La follia albergava nello sguardo, saturo di un desiderio malato. «Il mio mantello. Ridatemi il mio mantello. Se l’è ripreso, la maledetta. Lo darà a un’altra. Quando accadrà sbucherò fuori e me lo riprenderò.» Ormai decrepita e impacciata nei movimenti, se scorgeva dal mulino strani movimenti s’agitava e saliva la collina annaspando. Quella volta cadde e sbatté la faccia sulla sterrata, si sbucciò le ginocchia rinsecchite e si tagliò una mano sulla pietra. Trascorse parecchie notti a tentare di forzare la serratura e far girare
le chiavi, finché non le rimanevano in mano e le infilava di nuovo. Fu così che Valchiusa ebbe la sua strega. E lo fu veramente, che non dimenticò ciò che aveva imparato dalla Vivena. E di questo visse. Finché era stata giovane, prima della Rivoluzione, era ignorata e battuta dal marito senza che nessuno protestasse. Ora che si era fatta anziana, se non la riverivano la rispettavano e la tenevano da conto pur nella sua follia. Non era in grado di soddisfare qualsiasi richiesta, filtri d’amore non ne preparava, né fatture o maledizioni, se non quelle che mandava dietro e le bestemmie che le morivano in bocca. Ciò nonostante qualche vaticinio si avverava, ed erano in molti a temere il viso terribile al riverbero di un fiammifero . Pur non prevedendo il futuro, tirava le somme di ciò che sapeva, perché vedeva a chiare lettere il ato. Del paese, degli abitanti, della valle. E molte cose nascoste, di esse avrebbe approfittato se fosse stata più savia. Sapeva aprire squarci tra le nubi con un dito. Lei diceva che no, non era stregoneria, ma un segreto antico che permetteva di opporre un’energia contraria a quella che raccoglieva tra loro i nembi. Se glielo si domandava, dava qualche consiglio con la voce traballante, prima di ricadere nel proprio delirio, e piegarsi in due a sputar per terra.
VIII
1841
Quando Marlena compì diciassette anni una conventicola di imberbi cominciò ad andarle dietro. La inseguivano tra i sentieri scoscesi senza perderla d’occhio. Uno tra essi, in particolare, prese a farle il filo con poca fortuna. Più che un filo era, infatti, una cordicella sfilacciata. A conquistarlo furono il volto affilato della volpe, i capelli lunghi e neri, la fragranza di bosco. Camminava accompagnata da una musica impercettibile, sempre che non la condividesse canticchiando. Sfuggendo al controllo della madre, si intrufolava nelle fiere di paese, si insinuava tra i suonatori ambulanti, cantava e ballava con grazia nello spiazzo, assecondando i refoli di vento. Quelli del gruppo, che non avevano voglia di sfacchinare, di nascosto dai genitori o dai padroni organizzavano gite al torrente, nella speranza di coglierla da sola a sciorinare e lavare i panni che deponeva, torceva e batteva nei pressi di una pietra lunga e levigata che finiva a punta. La quale si diceva avanzasse dalla costruzione del castello, e là si trovasse dai tempi di Carlo Magno. Non stendeva ad asciugare i lenzuoli appena strizzati, ma ne riempiva la cesta che caricava sulle spalle. Nonostante il peso procedeva, non vista, per una ripida scorciatoia, balzando tra i dorsi di roccia o scendendo dal ghiaione. Fu grande la paura di Giuseppina nel sorprenderla, che la redarguì con asprezza: «Ma dimmi un po’, non vorrai mica ammazzarti! C’è la strada per questo.» «Faccio minor fatica in questo modo» rispose risentita. Hayek, così si chiamava uno della brigata, l’avrebbe aiutata volentieri a portare la cesta, ma a quanto pare la ragazza si arrangiava benissimo. Un giorno l’aspettò alla fine del percorso e la chiamò a gran voce. Marlena mise un piede in fallo e rotolò verso l’avvio della strada battuta, sbucciandosi il ginocchio e imbrattando la sottana di polvere di pietra. «Ma siete scemo! E adesso che faccio, torno su per sciacquare mezzo lenzuolo?» si dolse raccogliendo il lembo fuoriuscito dalla gerla. «È un po’ di terra, ci date una spazzolata e non si vedrà niente.»
Marlena, sbuffando, si ricompose e riprese il carico in spalla: «Che mi volevate dire?» «Date qua, che ve la porto io, v’accompagno. Vi va?» «No, mi arrangio. Se volete, però, potete accompagnarmi, sempre che riusciate a starmi dietro.» Ciò detto procedette verso casa a i così svelti da lasciare il ragazzo con un palmo di naso. Lui fece per gridarle qualcosa, ma fu interrotto dalle sghignazzate della combriccola che aveva spiato la scena: «E dai, fate a chi arriva prima!» «Che figuraccia, povero Hayek!» «Quella lì di sicuro è una strega. Non cammina, vola.» «Non c’è da fidarsi. Se la guardi storto ti rende la pariglia e il malocchio, che non è solamente un’occhiata cattiva.» «Lasciala perdere, Hayek, non ti ci mettere. Avrai solo guai.» Ma da quell’orecchio non ci sentiva già più.
Chiacchiere o non chiacchiere, Hayek non desistette. Si era incapricciato sul serio di una ragazzina poco più grande di lui, seria e severa, che nulla aveva a che fare con quelle del paese, pur avendo da ridire sugli zotici di Valchiusa e la loro mentalità ristretta. Preferiva subire il fascino della figura leggera, della sua grazia luminosa. Faceva la spola tra la sua casa e quella di lei, desiderando di camminarle al fianco e rivolgerle la parola: «Stasera vi porto a ballare. Ditelo a mamma che venite con me.» Marlena si limitava a distogliere lo sguardo.
«Dove vi state recando di bello?» insisteva Hayek. «Tra Diosadove e Dappertutto{1}» era la risposta di sempre. Un giorno Hayek le si parò davanti supplicante: «Ditemi qualche cosa. Vi sono tanto odioso? Ve la fate con qualcun altro? Ditemi chi è, che gli spacco la faccia.» Marlena non resistette e scoppiò a ridere. «State attento che non le buscate voi, invece, da mio padre.» «Ditemi l’ora, che vi vengo a prendere!» «Voi, piuttosto, di dove siete?» «Io sto a Valmezzo. Lassù, vedete, c’è la baita di mio nonno. Ci taglio l’erba e spacco la legna. Vi va di venire un giorno?» Marlena sentiva già su di sé il piglio di sua madre, in fondo alla piazza. Gliene avrebbe dette quattro, al rientro, se si fosse fermata in strada a chiacchierare con uno sconosciuto, con uno di Valmezzo, poi. «Proprio a Valmezzo state?» «Sì, oltre le colline.» «Eh… ditemi. Dalla baita di vostro nonno si vede il Castello?» Hayek sussultò: «Perché questa domanda? Il Castello… sì… un po’ si vede. Ma non dovete aver paura, è lontano…» «Che si vede?» lo incalzò lei. «Le torri. Si vedono le torri» ammise il ragazzo. «E… ci siete mai stato?» «Al Castello?» si allarmò Hayek. Non capiva dove volesse arrivare. «Non sono sprovveduto fino a questo punto…»
«Sentite, un giorno mi ci dovete portare. Vi va?» «Alla baita?» domandò speranzoso. «Al Castello. Mi dovete portare al Castello» affermò seria Marlena. Hayek impallidì, si morse il labbro. Marlena sbuffò, fece per allontanarsi quando il ragazzo le gridò: «Vi porto ovunque vogliate. Anche domani.» «Domani non posso. Facciamo postdomani» acconsentì Marlena, esibendo un sorriso raggiante. «Postdomani non posso io, invece. » «Portatemici adesso. » «Adesso? Siete matta? » «E voi vigliacco!» lo apostrofò lei addentrandosi nella piazza.
Hayek conduceva le bestie all’alpeggio, trascorreva la stagione calda a falciare l’erba dei monti per ricavarne balle di fieno. Curava la parte di pascolo stabilita, per la quale si pagava la quota. Qualche volta sconfinava. Aveva scovato, infatti, una traversiera che congiungeva prato a prato. C’era poco da rischiare e nessuno da infastidire; il macàf, il responsabile della malga, il vecchio che masticava gherigli di noce, si incontrava solo nei pressi dell’osteria. Da quelle altezze si adocchiavano il villaggio, il Castello e le baite sparse. Ve ne erano quattro o cinque e quella di Hayek era una delle più solide e antiche. Il piano terra era destinato a stalla, il sottotetto serviva da fienile. Se gli toccava di sgobbare, cominciava a falciare poco dopo l’alba e proseguiva non oltre mezzogiorno, finché la calura era sopportabile. Faceva una pausa per battere la falce con la pietra, prima di riprendere a forza di braccia.
Contro la canicola portava un berretto spiegazzato di traverso che calava sugli occhi. A una certa ora entrava in cascina, metteva a bollire l’acqua salata per la polenta. Unendo l’utile al dilettevole girava intorno al versante, guadagnando ogni giorno in altezza. Sceglieva via via i pascoli più ripidi, ma senza esagerare. Guardava la strada che scendeva verso quella che univa Valmezzo a Valchiusa, deviando per Colledoro e Gramo, per poi proseguire cingendo col suo corso la valle. A osservarla dall’alto, quella che diventava una carrareccia formava un’ampia circonferenza equidistante da ogni cosa. Di ciò ci si rendeva conto sostando nel mezzo del Ponte delle Vivene, da dove risultava visibile un tratto piuttosto ampio del suo giro. Lungo questa strada una mattina vide Marlena. Riconobbe l’ingombrante sottana chiara che teneva su affinché non si riempisse di terra e di polvere. Ogni tanto ci transitavano carretti o carrozzelle che balzavano tra le asperità del terreno, alternandosi in entrambi i sensi. Da lì si vedevano le case sparse, le greggi al pascolo, i carbonai che salivano o scendevano. La baita era posta su terra di confine. Non era ancora Valmezzo e non era più Valchiusa. Era anche il luogo in cui, a mezzogiorno, si udivano rintoccare all’unisono i campanili dei paesi limitrofi. Hayek si morse un labbro. Di sicuro Marlena era ata sotto la sporgenza che faceva ombra sulla strada, tanto che sarebbe bastato protendersi appena per un saluto e quattro chiacchiere. Al di sotto comparivano un tronco e la radice di un enorme olmo abbattuto anzitempo, il quale impediva alla parete di franare. Di notte assumeva le sembianze di una testa di strega o di tartaruga, pronta a divorare l’improvvido viandante che ci asse in mezzo. Invisibile dalla sporgenza, Marlena rallentò la marcia per riprendere il o a ritmo sostenuto subito dopo, pensando ai fatti propri. Era impossibile non si fosse accorta di lui, del profumo d’erba recisa che rovesciava in strada, del sasso che vi rotolava. Hayek invece la notò quando ormai la strada piegava a gomito, in direzione di Valchiusa. Quale tragitto avesse percorso lo capì nei giorni seguenti, che la scorse di nuovo. La vide, infatti, l’indomani. La raggiunse con un balzo dal rialzo in cui stava, al che lei lo riprese:
«E che, comparite sempre così, come un fantasma?» «Com’è che ate di qua?» domandò lui. Marlena confidò che Giuseppina era caduta in casa battendo il capo, e ora riposava nel suo letto tramortita e confusa. «Quando vostra madre si rimetterà, prometto, vi accompagnerò al Castello.» «La promessa è debito. Ci conto» fece Marlena riprendendo il cammino, nella premura di rincasare presto. Giuseppina non sarebbe stata contenta di quelle deviazioni. «Domani vi trovo qui? Mi aspettate?» «Ma certo.» Gli sorrise grata, quindi riprese la via verso il paese. Marlena trascorreva le giornate a raccogliere erbe per preparare impacchi che avrebbero dato sollievo alla degente. Hayek aveva un debole per il viso gioioso e serio, perso tra i crucci, della ragazza. Se non la vedeva o non pensava a lei, era come se non si fosse levato il sole. Se la prendeva allora con la fortuna avversa, e contro Marlena stessa che, crudele, si negava. Lo avevano stregato la sua andatura, le fiammelle scure dentro gli occhi. Provava gelosia delle altrui attenzioni per lei, delle parole che non gli rivolgeva.
A Valchiusa, Hayek non poteva recarsi spesso. Se vi capitava, indugiava sulla piazza per vederla uscire di casa. Marlena prese a fare la sdegnosa, ma anche ad adornarsi di scialli colorati che suo padre comprava a poco prezzo, magari in cambio di un ninnolo di legno. O ne rubava uno a sua madre, sperando non se ne accorgesse. Lo piegava per bene, lo nascondeva, quindi lo estraeva dalle pieghe del vestito e lo indossava, profumata di rosmarino e menta, non prima di allontanarsi da sguardi indiscreti. Si iniziò a vociare e qualcuno un giorno prese Hayek a parte domandandogli: «Com’è che stai sempre sul confine?»
Suo nonno non fu contento che frequentasse una ragazza del posto, come se non ve ne fossero abbastanza al suo paese. Anche Marlena ebbe le sue grane. Aveva allungato le eggiate e raccolto pretesti per incamminarsi nei pressi della baita per ricordare la promessa: «Mi dovete condurre al castello, vi siete impegnato...» «Venite da me, là il Castello si vede benissimo» le disse. Marlena rispose tra l’altezzoso e l’offesa, ma le si illuminarono le guance di un sorriso, segno che l’invito le faceva piacere. La prossima volta, rifletté, Hayek avrebbe rotto gli indugi. L’avrebbe presa per mano, si sarebbero persi nei sentieri silenziosi, sarebbero giunti al castello. Si sarebbero inoltrati nel labirinto dei boschi, lasciandosi dietro case e villaggi, innalzando barriere contro qualsiasi presenza umana che non fosse la loro. Avrebbero giocato a rincorrersi e a nascondersi dietro enormi tronchi. Avrebbero osato, andando oltre il bacio, e in malora il mondo. Qualcosa giunse all’orecchio di Giuseppina che, rossa in viso, le vietò di frequentare il ragazzo di Valmezzo, quello con la faccia da barbaro. Erano birboni, diceva, e non perché ci credesse, ma perché ci credevano gli altri e perché era stata alimentata una chiacchiera di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Per via dell’età e dell’inesperienza non era il caso che la figlia si impegolasse in storie e sentimenti. Se la sorte con Giuseppina si era dimostrata in parte benigna, non era opportuno tirare troppo la corda. Per questo non fu avara di moniti e avvertimenti. Le ricordò, per esempio, che le premure degli uomini compaiono all’inizio. Dopo si stancano, emerge la cattiva volontà e la trascuratezza. In principio per te affrontano mari e monti per condurti a casa loro, ma dopo non c’è verso di smuoverli dal cantuccio accanto al fuoco. E che dire della grettezza, la noia che spengono la favola? Marlena non ebbe più nessuna scusa per recarsi in cerca di erbe. Giuseppina, grazie agli infusi preparati dalla figlia, si ristabilì perfettamente. Tanto che le chiese dove avesse imparato, chi avesse mai frequentato a sua insaputa per apprendere una simile arte.
«Non ho incontrato nessuno» rispose increspando il labbro, «sono cose che so per istinto.» Giuseppina si limitò a farsi promettere di non allontanarsi da Valchiusa per nessun motivo, che non avrebbe saputo dove cercarla se non fosse tornata, né difenderla se l’avessero aggredita. Quando Hayek riuscì a incontrare Marlena, le confidò che di lì a due giorni sarebbe partito soldato. Marlena si oscurò in viso. Ogni ritrosia scomparve. Fu lei a spronarlo: «Avete poco tempo per mantenere la promessa. Conducetemi al Castello. Non voglio restare a mani vuote. Datemi un figlio» gli disse risoluta. Ecco ciò che desiderava. Un figlio da concepire altrove, lontano da una terra che non concedeva niente. E dire che furono proprio i divieti delle rispettive famiglie a unirli, che in mancanza chissà quanto sarebbero durate le reciproche schermaglie. I genitori di Marlena guardavano con sospetto quelli di Valmezzo. La famiglia di Hayek era assai orgogliosa dei propri averi e della cassaforte di ferro che custodiva in casa. Non si sarebbe mai imparentata con gente senza terra. Così consideravano la famiglia di Marlena. Lei se l’era presa, ma un sorriso benevolo le aveva presto illuminato il volto: «Il patrimonio della vostra famiglia sarà ben poca cosa a confronto di quello che vi darò questa notte. Mia madre potrà anche strapparmi i capelli al mio ritorno, ma non potrà farci niente.» Hayek stava per replicare, ma lei lo zittì severa. Sapeva che non sarebbe tornato. Lesse nella faccia un’infelice premonizione. Non c’era tempo per parole inutili. La premura aveva le sue ragioni. Ogni cosa aveva il suo prezzo, non c’era briciola che il destino non rendicontasse. Sarebbe valso poco sciuparsi in lacrime per le angustie del poi. Tanto valeva far man bassa dei momenti belli, illuminati da un sorriso assai simile alle giornate che il crepuscolo si portava via. Perché quello sarebbe stato per loro un crepuscolo lungo tre giorni. «Giochiamo ai fantasmi!» lo sfidò, scomparendo tra gli alberi. Per tre giorni celebrarono le loro nozze, lontani da tutto e da tutti. Andreas fu
concepito nell’ultimo tramonto, quando l’orizzonte scomparve davanti ai loro occhi chiusi.
II parte
Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust, Die eine will sich von der andern trennen;
[Due anime, ahimè, abitano nel mio petto. L’una vuol fuggire dall’altra (GOETHE, Faust vv. 1111-1112)]
Ormai tutto aveva perso la sua primordiale fluidezza, irrigidendosi in un profilo e la partita che un tempo si era giocata tra una forma e l’altra, si riduceva ora all’alternativa tra l’apparire e lo sparire.
ROBERTO CALASSO, Le nozze di Co e Armonia Adelphi 1988 p. 241
I
1841
Imboccata la piazza, Marlena scorse da lontano la figura traballante di sua madre. Non la ricordava così vecchia. Si domandò se non fosse rimasta a vegliare, poco oltre la soglia, tutto il tempo. Sollevata e stanca, Giuseppina la accolse senza proferire parola. «Se ne riparlerà domani. Va’ a dormire. Domani sarà tempesta» le disse papà Oreste. Il giorno dopo però nessuno toccò l’argomento e Marlena si guardò bene dall’accennarne. Si alzò, fece colazione, mormorò un timido saluto, non uscì di casa. Era tornata, il resto ava in secondo piano. Solo Giuseppina, al momento opportuno, si arrogò il diritto di dire la sua. Per questo una sera si appartò con lei, e fu un interminabile confabulare e discutere. Giuseppina, sottovoce, adoperò toni aspri e accesi, ai quali la ragazza non replicò. Marlena temeva sua madre. E sua madre temeva la figlia più sicura e temprata di lei, una donna fatta alla quale c’era poco da insegnare. Distinse tra le pieghe del volto un che di diverso e di incontrovertibile. La sorprese a tastarsi il ventre, che nei mesi successivi si gonfiò. Non poté che accogliere il fatto compiuto. Non una strega, ma un uomo l’aveva presa, trascinandola e abbracciandola nelle foreste, con grave scandalo della contrada. C’era poco da ribattere tuttavia, che le ragazze chiacchierate erano più d’una in paese. Non c’era famiglia che non avesse le sue belle gatte da pelare e alla quale rispondere se avesse avuto da ridire, o semplicemente puntato il dito. Hayek non fece ritorno. Valchiusa e Valmezzo piansero i figli e i padri, chiamati a combattere chissà dove. Le madri e le mogli strinsero chi un fazzoletto, chi l’ultima lettera, chi un paio di stivali. Non sempre fu dato sapere in quale valle, in quale gola riposassero le spoglie dei loro cari. E dire che Marlena se l’era immaginato, nei sogni, con un cappone al fianco e il sorriso negli occhi, fiero di
smentire la premonizione avversa. Ma essa si avverò, puntuale come le lacrime che versò a furia di strofinarsi le palpebre e di tirar su col naso. Marlena non cessò di ispirare ai genitori emozioni contrastanti. Una mattina si destò con il ghiribizzo di eggiare per la mulattiera che serrava la piazza a imbuto. Vinta dalla bramosia invincibile delle madri in attesa, non valsero a trattenerla i castighi minacciati da mamma Giuseppina e le paternali di papà Oreste. Partì dominata da una misteriosa voglia, non la fermarono le nubi che si ammassavano contro i monti, assumendo strane forme. Marlena auscultò il vento per capire da dove venisse e individuarne la direzione. Era sicura che le avrebbe spostate altrove, e così avvenne, se non fosse stato per un cumulo girovago che produsse nelle alture un veloce piovasco. La via si innalzava a gradini, era mal battuta, con fili d’erba in mezzo e vari generi di inciampi. La foderava uno spesso strato di ghiaia grossa, tanto che pareva di calpestare ossa calcinate. Era una di quelle interminabili, non ripide all’inizio, che dirupavano man mano che si procedeva. Cingeva la collina fino al cocuzzolo, per poi avvallarsi e inerpicarsi sul dorso della gemella. Marlena allungò il o in direzione del versante malagevole, priva di indugi. Poteva osservare, sebbene lontana, la piazza del paese che aveva superato già da mezz’ora. Non era una piazza ordinaria. Appresso stava il paese con il suo emiciclo di casupole di legno e sassi, unite ai pendii delle giogaie. Ciascuna abitazione vista dall’alto aderiva all’altra. Erano invisibili i cunicoli che le staccavano, in mezzo vi soffiava il vento e si intrufolavano i bambini, o le coppie a sghimbescio ad amoreggiare. Le montagne agghindate parevano simili a giganti addormentati, posti di guardia a un tesoro. Le vette spuntavano prossime, con i fianchi tagliati a picco. «Promettimi che non mi farai ammattire, che non ti infilerai negli angoli, e obbedirai sempre alla tua mamma» raccomandava Marlena al piccino in grembo, ricordando che lei stessa non era stata ligia a quel comandamento. Osservando quanto le stava di spalle, si rese conto di provenire dal fondo di una gola. A questo somigliava lo scorcio di valle dalla quale era partita. Quella forra
era il letto ideale di un fiume immenso, il pauroso scolo della sua ondata di piena. Si sentì confusa. Imponenti e mostruose erano le pareti dei rilievi, con le chiome delle boscaglie che, mosse dal vento, urlavano contro di esse. Incombevano sui villaggi, sulle case. Bastava che una talpa indisturbata nella propria tana scavasse quei versanti di roccia mista a terra perché rovinassero. Rammentò le antiche storie che narravano di ecatombe accadute nei secoli ati. Fosse stato per lei, entro quelle fauci non avrebbe mai edificato paesi. Gli ultimi metri furono faticosi. Anche lì il sentiero era mal messo, pieno di inciampi e ciottolacci. I piedi, gonfi dentro i sandali, cominciarono a dolere. Riuscì a tenersi e a non rotolare tra le siepi e i rovi che si propagavano oltre il ciglio. Non mancava molto per raggiungere la meta. Contò i i che restavano, tirò il fiato, curò di non intrappolarsi negli sterpi presenti nel tratto finale. Adocchiò di striscio il movimento furtivo di una figura comparsa e svanita all’istante. Si stava alzando il vento e questo, pensò, era l’effetto che produceva percuotendo i fianchi dei rilievi. A parte le foglie che mulinavano in vortici d’aria, non vi era intorno anima viva. Finalmente si disegnarono con precisione le merlature del Castello. Esso a distanza somigliava a un volto massiccio. Il costruttore pareva aver scolpito un’intera costa di montagna per darvi la forma. Non sembrava, la facciata, fatta di mattoni uniti con la malta, ma un unico blocco che nulla poteva scalfire. Scavando sulla viva roccia si erano realizzate maestose finestre. I chiusi erano serrati, facevano bella mostra ballatoi infilati di traverso, con un’arte dell’incastro impiegata da chissà quale valente architetto. «Ecco il tuo maniero, caro principino, tua felicità imperitura» sussurrò, ispirata, al bimbo che teneva in grembo. «Qui incontrerai una splendida principessa, imprigionata nella torre. Che pancia ha questa cittadella, è per contenere un drago gigante. Ti arrostisce se ti avvicini. Ma tu, prode lanciere, lo sfiderai a duello e lo batterai, che i Davide vincono nei tempi lunghi, i Golia solo fino al calar del sole.» Già immaginava le storie che gli avrebbe raccontato. Secoli fa quei luoghi erano abitati da fieri cavalieri, elfi e timide ninfe. Da qualche parte si nascondevano le fate con le gonne lunghe e i capelli setosi. Assorta esaminò le mura, la facciata poderosa e sbreccata, la chiave di volta che la sosteneva. Scorse la cariatide in ombra sotto un arco di pietra. Scolpita a ridosso della colonna che abbracciava, esposta alle intemperie e al sole, la osservava silente. Marlena ammirò la costruzione, si distrasse inseguendo un ramoscello vivo che correva, una mantide. Poi una civetta volò via dall’incavo in cui stava appollaiata.
Fu colta da un brivido, per un attimo la statua sembrò volgersi verso di lei. Si trattava invece dell’ombra della civetta di prima, sfumata tra i lineamenti di questa. Osservò meglio il portone di ferro con le borchie, il battente serrato nella maniglia a pugno. Distinse un mazzo di chiavi che pendeva dalla toppa. Erano grosse e nere, pesanti da maneggiare. Tentò, con decisione, di girare la maggiore, ma nel ruotarla non riuscì a vincere la serratura antica. La chiave era quella, entrava giusta ma la ruggine, consumandola, l’aveva resa ostile. Oppure opponeva resistenza un chiavistello ostinato, vi erano cardini oltre il battente che non cedevano ad alcuna spinta. Chi poteva dirlo? Decise di perlustrare il retro dell’edificio. Oltre a un pezzo di cortile che inselvatichiva, pieno di ciuffi e felci, vi era lo strapiombo sotto il quale scorrevano acque tumultuose. In esso non volavano nemmeno i corvi, temendo il risucchio. A capitarci d’inverno o nelle notti di gelo era un suicidio, si poteva sdrucciolare su un lastrone di ghiaccio, precipitando nelle sue profondità. Marlena vide il ponte che valicava il burrone, più leggero di quel che si raccontava. Le assi si mostravano solide, non erano tarlate. Le funi che lo puntellavano erano un po’ sfrangiate, ma la temibile erella avrebbe retto al suo aggio. «È questo il ponte delle Vivene, possibile?» si domandò. Rapita da un improvviso spirito d’avventura, volle proseguire. «Dai, proviamo» si disse, pronta a muovere il primo o. Oltre il dirupo scorse una capanna di legno e sassi e, finalmente, una schiera di meli dai quali pendevano succosi frutti. Per arrivare a essi attraversò il ponte con prudenza mista a timore, il suo scricchiolare dava l’impressione di essere cosa viva. Se il ponte mi sentisse e avesse in sospetto il mio o, pensò, vorrebbe vedermi e sapere chi io sia. Devo rimanere calma, che se si volta si staccherà dai suoi attracchi e Dio sa cosa ne sarà di noi.
Qualche pomo stava ammaccato al suolo, rotolato fino al bordo del precipizio. Non sarebbe stato come cogliere la primizia e, novella Eva, spiccò un paio di frutti direttamente dall’albero e li addentò. Si avvicinò quindi alla capanna, una di quelle erette dai tagliaboschi. Le facciate non mostravano alcun ingresso. Ne ispezionò i lati, tranne quello che guardava il burrone. Forse l’accesso era nel lato della voragine, ove era impossibile arrivare. Che vi fosse in precedenza un ripiano di terra franato nel frattempo? Sospirò pensando agli sforzi sinora compiuti. Con pazienza tastò la facciata del retro, poi quella di lato. Cercò a lungo la porta, senza vederla. Quando la mano scoprì una protuberanza, gridò di gioia: apparve una piccola maniglia, celata dal muschio. La tirò a sé, spalancando la soglia. Aprì l’unica finestra diffondendo la luce del tramonto. Era già così tardi? «Mamma Giuseppina ci spellerà vivi! Sì sì caro, anche a te… non si dice forse che le colpe delle madri ricadranno sui figli?» disse sorridendo. Entrò in un locale più accogliente di quanto l’esterno lasciasse presagire. C’erano poca polvere, due sedie accostate, un tavolino fissato al centro, una panca contro la parete. Accese la lanterna a olio appesa al cavicchio spandendone il chiarore. Sulla tavola l’attendeva una scodella con formaggio vecchio e pane secco. Marlena ne approfittò, smorzando la fame salita nel frattempo. Quando rosicchiò l’ultima crosta di pane, fu vinta dal sonno e si distese sulla panca. La sera era serena, tirava solamente un poco di vento. Si risvegliò col sole alto. Uscì assonnata e confusa. Guardando verso il castello, osservò che gli scuri erano spalancati. Il cuore iniziò a batterle forte e le mancò il respiro. Ritornò sul ponte, che attraversò con trepidazione. Incespicò, quasi si stirò un braccio attaccandosi alla corda. Voleva assolutamente entrarvi, poco importava chi vi abitasse, anche a costo di fare la sfacciata e l’importuna. Ormai, pensava, il danno era fatto. Che tornasse prima o
dopo mezzogiorno a Valchiusa che differenza avrebbe fatto? Non aveva che da raccontare la verità: stanca per la eggiata si era assopita dentro un rifugio, risvegliandosi solo a mattino inoltrato. Udì il fragore di chi apriva nuove finestre, ma non distinse alcuna figura affacciata. Sembrava che il castello, non visto, si destasse dal sonno della notte. La serratura mancava, stavolta, delle chiavi. Il portone era appena socchiuso, la statua posta di guardia se ne stava, indifferente, assicurata alla colonna. Una leggera corrente soffiava dall’interno. Marlena, convinta dall’invitante stridio dei cardini, vi s’intrufolò sopraffatta dalla curiosità. Si aprì dinanzi la grande sala, con i mobili in buono stato: madie, armadi, tavoli massicci, comò, sedie e cassapanche. La luce del mattino nutriva le pareti. Le tende, consunte e acrome, svolazzavano integre salvo lievi sdruciture. Tastò il pavimento di legno. La polvere che si alzò era vecchia di pochi giorni.
Giuseppina e Oreste la fecero cercare ovunque. Chiesero aiuto al buon Marteus, che setacciò in lungo e in largo i boschi delle alture. Erano tante a scomparire così, chi scivolata in un dirupo, chi divorata da un orso o persa per la strada. Non era la prima volta che questa figlia ribelle si allontanava senza avvertire, ma una settimana era lunga da trascorrere in solitudine, e sebbene fosse una ragazza sveglia, a quest’ora chissà dove si era cacciata, a patire di stenti. Non si trovavano chiari segni del suo aggio, per esempio tracce di un fuoco nei dintorni. Marteus intuì che Marlena si era introdotta nella capannuccia di legno, per giungere alla quale aveva superato il ponte. Preferì non rivelare ai genitori la circostanza, si trattava pur sempre di supposizioni. La Vivena non era generosa con chi violava il comandamento antico. Giuseppina trascorse i giorni successivi torcendosi le mani, che già si immaginava nonna e sognava un bimbo o una bimba gironzolare per casa, stretto o stretta alle sottane. E si mordeva il labbro nel ricordare l’avvertimento al quale non pensava più: Apparterrà alle montagne e ai corsi d’acqua.
Il nipote no, gridava la sua anima. Il nipote me lo deve lasciare. E se non me lo lascia me lo vado a riprendere, che non sta nei patti. Oreste la scrutava preoccupato, in ansia pure lui per la sorte della figlia disgraziata, scomparsa come se la terra l’avesse inghiottita tutta intera. Il suo silenzio indispettiva Giuseppina. Quando però la esortò a smettere di piangere, lei gli si avventò contro gridando e sfogando i nervi che non teneva. «Che hai da parlare tu adesso, che te ne rimani muto come un pesce? Tu qui ci sei nato, io certe cose non le so, e non ti sei mai degnato di spiegarmele. Continuo a non capirle, e non voglio capirle.» Oreste fece per rispondere qualcosa, ma chinò il capo. Marlena tornò in paese dopo otto giorni, con addosso uno strano mantello. Non bussò, non fiatò, rimase a lungo davanti alla porta. Fu Oreste ad accorgersi di lei, ad aprirle e a invitarla a entrare. «Marlena» sussurrò con gentilezza, prendendole la mano. La ragazza aveva uno sguardo diverso dal solito, osservò suo padre come se non lo conoscesse. Sua madre le andò incontro livida e confusa per il sollievo che provava, misto a una rinnovata paura che si fece strada. Le diede da pensare la foggia del mantello che la avvolgeva. Trattenne il respiro tormentata dal dubbio. «Toglitelo. Toglitelo subito!» le intimò sentendosi mancare.
Marlena acquisì un diverso senso del tempo. Amorfa nel corso del giorno, si destava nell’oscurità. Gli occhi al lume di candela si facevano profondi incutendo timore a chi li avesse incrociati. Poi si riaddormentava, rivivendo lo stesso incubo: sorprendeva l’incedere furioso della Gisella, che allo scorgerla, lanciava un urlo soffocato. La vecchia si aggrappava al portone, sul quale bussava sferrando colpi ostinati. A un tratto indugiava sul mantello che Marlena indossava.
Sembrava, la Gisella, una figura fatta di legno da ardere, minuta e grinzosa. Dal viso si distinguevano occhi piccoli, un naso levigato e una bocca priva di labbra da cui tuonò, stridulo, un verso: «Ridammelo!» Marlena la osservava in silenzio. La Gisella non mutò espressione, quasi non respirava, né muoveva un muscolo. «Se dici che ti appartiene, vieni a prenderlo» disse la ragazza con una voce che non si riconobbe. «Spetta a me! Spetta a me di diritto!» urlò la vecchia accostandosi. Marlena si tolse la veste che la donna afferrò a piene mani, cingendosene. La vecchia sorrise, si diresse verso il dirupo, senza voltarsi indietro. Da esso si gettò, dapprima planando, poi precipitando nel vuoto, davanti a una Marlena esterrefatta che, udite le ossa e le carni rimbalzare facendo strazio di se stesse, si coprì le orecchie con le mani, destandosi di soprassalto. Di quel mantello non ne voleva sapere nulla. Le provò tutte per liberarsene. Lo nascose sotto le pietre, lo legò al maniglione del portone del Castello, lo gettò in alto, affinché si impigliasse su un ramo. Lo pensava perduto, ma eccolo ricomparire sopra una sponda del ponte, inseguendola sulla via di casa. Aveva vagato per giorni nella foresta, confusa e allibita, prima di decidersi a tornare in paese. Marlena divenne il corpo di cui si vestiva uno spirito inquieto. Ne era il volto, le mani tremanti, quel miscuglio di sentimenti, ricordi che la incatenavano a esso. Evidente, sul viso, era il conflitto tra emozioni che la tormentavano, costretta a chinarsi a una volontà forte e saggia, alla purezza incontaminata di un’entità che, per sua natura, eggiava sul filo del coltello. Avrebbe voluto scappare via, confusa per i troppi pensieri in testa, difficili da esprimere e decifrare. Allora se ne stava muta. Scomparve, di nuovo, per tre mesi, prima di ricomparire in paese, a partorire. Priva del mantello, bussò con forza a notte fonda, in pieno travaglio.
Non ci fu tempo di cercare la levatrice. Oreste ravvivò il fuoco, corse al pozzo a colmare un secchio d’acqua che scaldò in tutta fretta. Giuseppina ricordò il suo, di parto. Stesso giaciglio, stesso periodo dell’anno, due candele accese. Lei, questa volta, fece da ostetrica, con Oreste a maneggiare col catino, a mettere insieme le fasce per avvolgere il nipote, a intrecciare la paglia e farne una culla da appendere al soffitto. Andreas nacque all’alba, questo il nome che gli fu imposto. In fondo suonava bene, breve e non altisonante. Finalmente un nipote, bofonchiò il nonno, qualcuno a fare da erede, se non per il nome, per la piccola casa incastonata nel monte. Sfinita e rossa per la fatica, Marlena accarezzava Andreas come una reliquia. Lo baciava sugli occhi e piangeva con i suoi. Non pronunciò nessuna parola, nulla raccontò dei mesi trascorsi al Castello. All’alba del quinto giorno Marlena e Andreas si dileguarono. Prima del mattino, la ragazza fuggì dalla finestra aperta che i genitori ancora dormivano, desiderosa di raggiungere un luogo in cui la Vivena non potesse trovarli. Giuseppina e Oreste si svegliarono allarmati dal fracasso, incerti se si trattasse dell’ultima immagine di un sogno. Giuseppina s’alzò, impietrita di fronte al letto vuoto. «Vuole tenersi il bambino» sussurrò Oreste. Giuseppina lo fulminò, cogliendo il senso di quelle parole. Sperò fino all’ultimo che le cose si sistemassero altrimenti. Tastò il letto vuoto e sbottò irosa: «E no! Si è già presa mia figlia. Il nipote me lo deve lasciare. Me lo deve lasciare, che non mi rimane niente.» Uscì di casa senza cuffia, davanti a Oreste che non sapeva che pesci pigliare. Oltre la soglia non c’era nessuno, solo il vento a spazzare la strada. Dove cercarla, Dio mio, dove?
Andò dietro al sentiero dei caprioli che seguiva le foreste sopra i tetti a punta, affondando i piedi su un tappeto di aghi di pino. Chiamò la figlia, tese l’orecchio al minimo rumore. Ritrovò il giardinetto e un sentiero che non ricordava, siepi ricciute e rovi. Le sembrò di udire un vagito. Mantenne il verso della strada, ma intorno non aveva che alberi muti a confonderla. Ostinata avanzò e voltò di lato, incurante di perdere ogni punto di riferimento. Ruzzolò per terra, si rialzò nervosa e ammaccata, chiamò di nuovo. Dopo un lungo cercare le rispose un sussurro: «Silenzio.» Marlena si affacciò dietro il nero di un pioppo. Aveva addosso il mantello e in braccio il bimbo dormiente. Gli occhi arrossati indicavano il pianto, e di nuovo era sul punto di singhiozzare, ma non per l’addio che aveva appena dato a Giuseppina e a Oreste. Suo figlio non era nei patti. Doveva lasciarlo a Giuseppina. Condivideva e rifiutava al tempo stesso un simile decreto, e meditava sul modo di aggirarlo, tenersi il bambino, o venire a riprenderlo. «Marlena» mormorò Giuseppina, accogliendo il bambino che le veniva offerto. «Chiunque tu sia, lasciala andare, lascia andare mia figlia. Mi metto anche in ginocchio, vedi, mi inginocchio.» Così fece, stringendo al petto il nipote. Attese invano un cenno, una parola, una risposta. Quando risollevò gli occhi, la Vivena era scomparsa portandosi via Marlena. Non aveva udito un o, né il frusciare della veste. Giuseppina rientrò in casa vinta dalla fatica e dalla febbre. Oreste non c’era, uscito a cercarle. «Latte di capra. Latte di capra e acqua. L’acqua c’è, ma il latte di capra dove lo trovo?» brontolava nonna Giuseppina ninnando il nipote che protestava per la fame.
Con la nascita di Andreas si scoprirono anziani. Nonno Oreste, così poco simile ai padri e ai nonni di una volta, di quelli che a guardarli mettevano paura, mostrava l’orgoglio di una barba crespa alla russa e la pancia gonfia. Nonna Giuseppina da un pezzo non scioglieva i capelli, raccolti
nella crocchia nascosta nel fazzoletto che legava sotto il mento. I capelli persero in breve il loro colore, l’ultima ciocca scura si schiarì e poco valeva nasconderla. I denti le caddero uno a uno sul piatto della minestra. Le gengive le si gonfiarono, causando un fastidio assai simile a quello che il piccolo avvertì allo spuntare dei denti da latte. Tanti erano gli anni vissuti insieme. Non si poteva parlare tra loro di distacco, piuttosto di una minor tensione affettiva colorata di riserbo, alla quale il piccolo dava sollievo. Andreas si distraeva con un nulla, non prestava attenzione a quanto gli si raccomandava. Privo dell’espressione sonnacchiosa dei pigri, inseguiva ansioso ogni movimento. Non riusciva a star fermo durante i pasti. Giocava con le pietanze che gettava in aria adoperando le posate a mo’ di catapulta. A due anni si fabbricò una frombola con cui scagliava proiettili ovunque. I nonni fuggivano, sotto il suo tiro, con finta paura. Non domandò di sua madre, dando per scontato che lo fosse Giuseppina. Scoprì molto presto il Castello di cui scorgeva in lontananza le mura, e lo puntava a dito, domandando storie. «È la casa del lupo, del lupo che ti mangia» rispondeva Oreste, imitandone il verso e spalancando la bocca. Perlopiù era il nonno a incantarlo, narrandogli imprese di un esercito straordinario, quello imperiale, che si radunava oltre le montagne. I militi avevano divise scintillanti, lo schioppo ad armacollo, una sciabola legata alla vita, chiusa nel fodero. C’erano giorni in cui, volendo scovare un nascondiglio, si addentrava tra i cunicoli delle case. Se ne tornava unto e bisunto, con la biancheria da lavare, e la disperazione di nonna Giuseppina. Della sua età non ve ne erano molti, i più erano grandi e i loro discorsi incomprensibili. Parlavano del bere, delle donne, sputavano per terra e guardavano male le guardie. A otto anni Andreas imparò a schioccare la lingua, ma smise subito per i manrovesci di nonna Giuseppina. I nonni gli stavano alle calcagna, i ragazzetti lo schivavano. Se si avvicinava a quelli che giocavano a palla in un angolo della piazza, lo allontanavano con la scusa che era troppo piccolo e si poteva far male, senza prestare attenzione
all’irriducibile sorriso anarchico e alle proteste che lo accompagnavano. Nonna Giuseppina badava che Andreas non si agitasse troppo durante le sue corse, che non si avvedeva degli ostacoli ed erano sempre capitomboli. Se poteva, scorrazzava per l’ammattonato della piazza inseguendo i monelli più grandi fino alle ore tarde, quando l’ultimo spicchio di sole si inabissava oltre il limite del mondo e la luna dondolava tra le ombre. Con un balzo desiderava rincorrerlo fino ad arrivarvi in un lampo, in quella metà del mondo. E sognava di confondersi nel vento, di perdersi tra le nuvole, o di essere nuvola egli stesso. Una nuvola con gli occhi però, per osservare ciò che si dispiegava sotto di lui. Se l’avesse colto la tristezza, pensava, si sarebbe riversato sulla terra in forma di pioggia, accompagnata dai lampi, inzuppando con dispetto il grembiule e la testa di nonna Giuseppina. Di sera, quando le finestre si chiudevano, i limiti della piazza diventavano invisibili: essa appariva infinita, non si distinguevano le case, appena appena si scorgevano le cime delle montagne scure. Si dissolveva qualunque confine, e non si capiva dove iniziava e finiva la notte. Si formava nei paraggi un grande vuoto, che Andreas immaginava colmato da foreste, valichi, sorgenti, castelli diroccati e capanne di legno nelle quali ripararsi. Amava la vastità orizzontale che gli regalava l’oscurità, anche se aveva timore, in quelle ore, di attraversare la piazza per tutta la lunghezza. Nonna Giuseppina, che lo osservava, rompeva presto l’incanto. Poneva fuori una sedia di paglia sfilacciata, si portava dietro una fiaccola o accendeva un cerino, pronta a corrergli incontro all’occorrenza, che non capitasse mai lo rapisse un lupo, un orso, lo ghermisse una strega. Non si raccontava forse di quell’orso che colsero addormentato di fronte al Municipio? Come niente fosse, tra lo sbigottimento di chi usciva di casa, badando di non importunarlo e mantenendo le distanze e prima che le guardie prendessero servizio, si era levato tornando, dopo un grande sbadiglio, da dove era venuto. Si fosse trattato di un lupo, così vicino alle case, si sarebbe svegliato a suon di busse piovute da tutte le parti, fino a spellarlo. Non occorreva che nonna Giuseppina andasse incontro ad Andreas. Era capace di inseguirlo ovunque con lo sguardo e la voce. In questo modo lo braccava e il nipote si sentiva sempre il fiato sul collo. Se scorgeva i ragazzi rumoreggiare in strada, o i lavoranti che tornavano alle case, la nonna correva ad abbrancarlo, incurante delle sue proteste:
«Se c’è una che mi rapisce, quella sei sempre tu!»
II
1844
Marteus lo conoscevano tutti. Era l’unico in grado di percorrere senza danno le stradine delle alture, aveva sempre chiaro l’itinerario da seguire e non si accodava a nessuno nelle salite. Si inerpicava tra le rocce, non eludeva i sentieri proibiti e azzardati. Si mostrava riguardoso di quei luoghi con la sua presenza discreta. Oltre a raccogliere legna da ardere, curava gli alberi estirpando e sfruttando quelli che li soffocavano. Fino a quel momento Marteus aveva vissuto per conto proprio, che riteneva non si potesse star bene se non quando si sta da soli. Col tempo cominciò a invidiare gli amici sistemati con moglie e figli. Andò in cerca di una compagna, ma non ne trovò nessuna che lo sopportasse o che gli rassettasse la bicocca. In paese lo si incrociava durante le assemblee in piazza, quelle convocate con la crìa, alle quali partecipavano i capi famiglia. Si discuteva del taglio del bosco, si dettavano e confermavano le prescrizioni, si tenevano da conto le cose proibite e consentite. A lui toccava salire in alto. Altrove non era permesso tagliare rami e tronchi per ottenere carbone, si chiudeva un occhio per le madri di famiglia che sottraevano manciate di fascine secche, una mezza grembiulata, non certo un carico da musat. Spesso trascorreva ciò che restava della notte riparato nella capanna di legno e sassi, che raggiungeva superando il ponte di legno e la nebbia. Aveva predisposto una stanza con qualche comodità. Mancava solo la stufa per l’inverno. Di lui si pensava la sapesse lunga, soprattutto di Vivene, almeno quando non alzava il gomito e non si perdeva in digressioni prive di fondamento. Marteus ava di casa in casa a vendere sacchi di carbone che trascinava col carretto. Se ne tornava sempre allegro e giulivo, facendosi beffe della fifa dei valligiani. Taluni erano sicuri fosse lui stesso a far circolare voci che inventava di sana pianta e metteva in bocca al suo vecchio nonno o a chissà quale sedicente avo del tempo che fu. Sapeva che la Vivena non amava si parlasse di lei a sproposito.
Tuttavia, se non l’aveva ancora gettato da una croda o dal ponte, era perché le storie che raccontava le piacevano. «E le streghe, i vampiri, li hai incontrati?» chiedevano i bambini. «Ma quando mai» rispondeva lui. «E le Vivene?» «Di certo ve n’è una. Le altre non so che fine abbiano fatto.» «E i fantasmi del ponte?» Ai fantasmi del Ponte delle Vivene non credeva, per la semplice ragione che non ne aveva mai incontrati, nemmeno per sbaglio. Se il ponte e i boschi, di notte, rilucevano d’argento, era per un raggio di luna girovago, calato sulle assi di legno, quando lo spazio intorno diveniva abisso o cielo. Se vi eggiavano i morti, morti restavano e non vi era motivo di curarsi di loro. Poi venne quel giorno, non uno dei tanti. A Valchiusa ricordano ancora le sferzate di vento che spazzarono la valle fino a sera, dopo che una sconosciuta vestita di velluto nero apparve dal nulla, con le braccia incrociate sul petto, al centro della piazza. Inseguiva qualcuno con quel tanto d’occhi scrutatori che avrebbero intimorito chiunque. Non rivolse la parola ad alcuno e a nessuno l’avrebbe rivolta, se non a colui o colei che cercava. Il suo volto indugiava tra le case, computandole una a una. Adelina ci ò a fianco cercando sua figlia. Scorse il suo abito senza tasche, il cappuccio che le incorniciava il viso gelido contro cui non si può nulla, però familiare. Davanti a lei il resto scomparve. Si sentì mancare, travolta dal vuoto che si aprì intorno, scossa dalle sue pupille penetranti. Esse l’avvolsero come una corrente d’aria, incollandosi all’anima. Premette una mano sul cuore che batteva all’impazzata. Poi la Vivena si allontanò. Tornata in sé, si voltò in tutt’altra direzione chiamando la bambina. Ma di Zoe non c’era nessuna traccia.
Scendeva ora una pioggia obliqua mischiata a vento. Come per un presentimento ci si era già serrati in casa. Il bucato steso ad asciugare fu strappato dai muretti e disperso. Presero a volare anche i cappelli rubati alle teste, a sbatacchiare con forza portoni e finestre. Una gragnola di grandine che non si era vista spesso si abbatté sui tetti e i fianchi delle case. Si temette che la montagna si sbriciolasse per l’acqua che avrebbe bevuto. Qualcuno, sicuro nel proprio rifugio, ostentava ottimismo, convinto che il paese si sarebbe appena sbrecciato, e che ci sarebbe stato poco da ricostruire. A memoria dell’evento sarebbero rimasti i calcinacci di una casa abbandonata, una pietra sulla quale scrivere una data, o il nome del disgraziato che ci avesse lasciato le penne. Al pari dei bottegai che abbassavano le saracinesche, l’oste si decise e serrò il portone, impedendo a chiunque di uscire o di entrare. Quella sera Marteus si trovava in osteria e, tra un quartino e l’altro che gli fu offerto, prese a sorridere come il suo solito delle antiche storie, le quali avevano l’unico effetto di impaurire e togliere il sonno a chi le avesse ascoltate. «Qualcuno l’ha fatta grossa» cominciò a dire, «le han mancato di rispetto ed ecco, la Vivena se la prende con il paese.» «Sei tu che le hai mancato di rispetto? È te che dobbiamo ringraziare per questo tempo da lupi? Sei tu, in fondo, quello che ha maggiori probabilità di incontrarla» disse di rimando l’oste, prendendolo in giro. Marteus sorrise. «Certo, bisogna prestare attenzione. Quanto si domanda lo prende alla lettera. In ato coloro che vi ebbero a che fare sarebbe stato meglio fossero nati muti. Mio nonno, per esempio, prima della Rivoluzione, aiutò una ragazza a sciogliere i capelli da un intrico di ramaglie. Lei, riconoscente, gli chiese se avesse una grazia da domandare, al che lui rispose scherzando: ‘Vecchio e malandato che sono, chiedo di vivere serenamente e in salute almeno l’anno che viene’. Lo disse così per dire, era un suo intercalare famoso, un modo di allungarsi la vita. Chi lo conosceva lo sapeva e gli rispondeva con i soliti complimenti: ‘Ma cosa dici, non vedi che sei un giovanotto?’ Eh no, la donna lo prese sul serio. Il vecchio non stava poi tanto male, aveva poco più di cinquant’anni, acciacchi
lievi. Visse un anno in perfetta salute. Quel po’ di malanni che lo molestavano lo abbandonarono. Il leggero affanno al petto si mitigò, così il dolore alla schiena, l’artrosi alla gamba. Sbrigò il lavoro di sempre con nuovo vigore e buona lena. Dopo un anno esatto morì, senza accorgersene, davanti al fuoco. E dire che di anni poteva camparne altri venti o trenta». Poi, in attesa che la tormenta si sfogasse, raccontò un secondo aneddoto. La Vivena, avendo scorto un fiaccheraio che procedeva per la sua strada, lo fermò con un cenno della mano. Lui le domandò se avesse di che pagare. La Vivena vestiva del suo liso manto scuro ed era priva di bagagli. Levò il cappuccio, rivelandogli il volto. Non fece in tempo a pronunciare una parola che il vetturino bofonchiò: «Salite, prima che cambi idea!» Non le domandò chi fosse, da dove venisse e questo la colpì. Seduta sul retro e silenziosa, la donna percorse la strada fino al paese a bordo di un ballonzolante barroccio, il quale arrancava tra stradine strette e il terreno scabro, con i cerchi fuori dalla carreggiata. Il fiaccheraio, poco loquace nel corso del tragitto, le confidò che riteneva sorprendente che i cavalli, durante il cammino incidentato, non si fossero agitati e che le ruote non fossero uscite dal loro asse. Eppure il terreno era fradicio e franoso a causa delle recenti piogge, più sconnesso che in precedenti occasioni. «Mi avete portato fortuna, signora. Non è da tutti rabbonire le mie bestiole. Ora potete scendere, oltre non vi posso accompagnare.» «Qual è il vostro più grande desiderio?» gli domandò lei, volendo ricompensare la cortesia. «Semplice», le rispose diffidente, «ho da tornare sano e salvo dalla mia bella e ho ad attendermi il mio bicchiere di rosso. Altro non ho da cercare». «Bene, accettate il mio consiglio. L’avete detto pure voi che ieri sera ha piovuto così tanto che è destino che le colline franino. Ma non sapete che le più pericolose e prossime a smottare appartengono al promontorio del Nord. Vi conviene evitarle e imboccare l’opposto versante. La strada è scomoda e lunga,
ma non insidiosa. Procedete lentamente, non sferzate troppo i cavalli e vedrete che stasera, come avete domandato, giungerete sano e salvo dalla vostra famiglia e dal meritato bicchiere di vino.» «… che berrò alla vostra salute» rispose lui. Solo allora l’uomo comprese chi avesse davanti. Sbiancò nel considerare che se non l’avesse fatta salire… No, il buon uomo non ci voleva pensare. La Vivena non gli rivelò quindi che se le avesse domandato la ricchezza, gli avrebbe consentito di scovare dell’oro in gran quantità. Ne conservava una buona scorta proprio là, tra i poggi intrisi d’acqua più di una spugna, nel promontorio del Nord. «E che ne sai tu dell’oro? Te l’ha raccontato lei? È la balla più grossa mai sentita in vita mia. Ci sei andato tu a cercare l’oro, dato che sai dove si trova?» si lasciò sfuggire un avventore. «Il mio è un gioco» ribatté Marteus, per niente offeso, «io racconto. Sta a voi trarre le conclusioni. »
Marteus affermava di aver trascorso la vita a cercare le Vivene per chiedere una grazia, campare fino a cent’anni e menar vita da gran signore. Ma non ne aveva mai incrociata una. Possibile? Ci si chiedeva. Qualcuno doveva pur avere incontrato davanti alle pile di legno da affumicare. Era uno dei pochi a superare il ponte delle Vivene senza conseguenze, e ad ammirare da vicino i finestroni e le facciate posteriori del Castello. Certo, si giustificava, avvertiva una presenza, e gli pareva di scorgere una figura in lontananza, ma non poteva giurarci. Bastava un gioco di luce e un tronco scuro assumeva forma di donna. Chissà? La Vivena per sua natura si rintanava nel proprio cantuccio da qualche parte. Il suo spirito, raccontava Marteus, doveva essere così pregno di misteri svelati da gettarla in chissà quale inferno di emozioni. E lei stessa, in fondo, era mistero tra misteri. Un incontro a dire il vero l’aveva avuto, ma si trattava di una vecchia pazza di cui non si ricordava nessuno. «La Gisella… colei che sembrava sempre uscita
dal manicomio» precisò il carbonaio, al che l’oste rispose: «Quella sì che era una strega. Se l’è portata via un dirupo sarà due anni fa. Le streghe, se ci sono, mica è detto abitino il Castello di lassù… È da secoli che l’hanno abbandonato, preferendo un quieto riparo in paese. Anzi. Campano tra noi comuni mortali sotto mentite spoglie, salvo rivelarsi all’istante meno opportuno. Le vostre mogli affidano loro i figli. Di chi parlo? ma sì, le conoscete, quelle che mettono insieme il pranzo con la cena leggendo mani e fondi di caffè. Compongono filtri d’amore, contrabbandano il valore di un pronostico, osservano il luccichio di una sfera di vetro. Mischiano e rovesciano le carte per dar loro un senso. Rievocano, studiano e intrecciano tra loro i destini. Sono le fattucchiere che salgono sui monti a saccheggiare, Dio solo sa cosa, per i propri traffici. Violano la sacralità dei luoghi, sono le stesse che recitano preghiere in chiesa, quasi fossero formule magiche.» «Se è per questo, in paese incontrate anche chi esercita un’arte più antica di quella» rispose Marteus, tra lo sconcerto generale. «Piuttosto, caro oste, se sei tanto ingegnoso e avveduto, porta con te il tuo coraggio, oltre a pane, formaggio e salsiccia. Vacci di persona a vedere se ci sono streghe, vacci di persona a toccare con mano le mura del Castello e torna qui a riferire. Potresti avere ragione tu, potrei aver ragione io. Ma che ne sappiamo? A parole potremmo ricreare il mondo a nostro garbo e vedremmo se le streghe sono tra noi o ne hai sposata una che la sera, invece di recitare le orazioni, ti getta il malocchio. Anzi, sai che ti dico? Farò di meglio. Ti porto con me, sul carretto. Prepara la tua bisaccia, domattina all’alba si parte di buona lena.» L’oste fece un gesto con la mano, per soprassedere. Rispose qualcosa, ma nessuno lo udì, che la porta si spalancò all’improvviso. Quasi si fracassò contro la parete, a causa del vento sparso nel locale. Entrò l’ultimo cliente, e molto si armeggiò per sprangare la soglia. La cliente era Adelina, vedova, una vicina di Oreste, che se ne stava seduto in silenzio con la sua acquavite, ad ascoltare distratto i discorsi degli altri. «Che mi combinate donna Adelina, dovevate tapparvi in casa, non uscirvene con questo tempo da lupi. Mi avete quasi spezzato l’uscio… non mi direte che siete rimasta senza rosso!» disse l’oste suscitando l’ilarità dei presenti. La donna non gli diede retta, cercò ansiosa in giro, individuò Oreste, e gli si
avvicinò. L’uomo si allarmò. Doveva essere cosa grave. Il suo volto era agitato e terreo, non aveva fiato per parlare. Fosse stato più sobrio, pensò Oreste, sarebbe stato meglio. Da quanto la donna gli andò raccontando a spizzichi e a bocconi, la piccola Zoe era svanita nel nulla. L’aveva lasciata a giocare all’aperto, ogni tanto le buttava un occhio. Ora che il tempo metteva brutto l’aveva chiamata invano. Aveva notato una presenza sinistra in piazza. Scoppiò in un pianto fino allora trattenuto, e mostrò ai presenti ciò che teneva stretto in pugno: una scarpina manca di tela rossa. Gliela aveva rapita lei, se l’era portata lontano avvolgendola nel mantello. Lei e nessun’altra aveva chiamato la tempesta e il vento che soffiava fuori. «È una tormenta da castigo, guardate cosa non fa volare giù…» disse un avventore. Dalla finestra si scorsero un paio di tegole volar via come tordi, un paio sfracellarsi in strada. Ciascuno si impensierì per la tenuta del tetto della propria casa. «Parlateci voi, vi prego. Ditele che è la mia unica figlia» disse Adelina rivolta a Oreste, con un filo di voce. «Perché mi dite queste cose?» sussurrò Oreste esterrefatto che, pensava, non c’entrava niente, e non voleva entrarci. «L’acqua del cielo e dei fiumi è già un tutt’uno. Chi ha ordinato questo cognac?» domandò l’oste continuando a servire al banco. Quindi, rivolgendosi alla donna: «Ovunque sia, dato che il vento ulula, non vi lasceremo uscire. Se è nelle vicinanze, nessuno le avrà negato un riparo. Appena la buriana sarà finita, ve la riporteranno indietro sana e salva. State tranquilla…» «Eh, parlate bene voi. Sapete che la mia Zoe è una bimba giudiziosa, però ha la mania dei nascondigli e va su, su, nei luoghi più impensati. Non vorrei si fosse allontanata troppo, che di fulmini ne cadranno parecchi dal cielo.» Sospirando, Adelina sorseggiò il cognac che l’oste le offrì, riprendendo colore.
«Ho paura… ho paura che la Vivena sia scesa in paese e me l’abbia portata via…» «Se è andata così non c’è da preoccuparsi. L’avrà condotta al Castello, e la terrà al caldo. E al peggio non è il caso di pensare» intervenne Marteus concentrato sul bicchiere mezzo vuoto. A sentir parlare del Castello gli avventori ammutolirono. Adelina fu grata, comunque, per quelle parole speranzose. Si rivolse di nuovo a Oreste. Nella donna che le si era affiancata in piazza aveva riconosciuto Marlena. Ma non era Marlena, o almeno non lo sembrava più, gli disse. «Voi non capite, Oreste. Fatemici parlare, accompagnatemi da lei, aiutatemi, vi prego. Convincetela a restituirmi la bambina… se l’è presa… me l’ha presa sotto il naso…» Poco ci mancò che scoppiasse a entrambi il cuore.
III
1844
Accadeva sempre più di rado che Marlena riaffiorasse dalle profondità in cui era immersa, fino a pensare con la sua voce, altrimenti soffocata da strati e strati di ricordi e paure. Percepiva se stessa a un tratto, come quella mattina che si sentì trascinare da tutte le parti, quasi a spargersi per i quattro canti della stanza, leggera e fluida, acqua nell’acqua. Cedette al vuoto che si spalancò ai piedi della branda. Invano tentò di rincuorarsi lasciando scivolare un braccio fino a sfiorare lo scendiletto. Non percepiva il suo corpo, che già scorreva e si intrufolava negli anfratti come il vino, a formare un piccolo fiume. Si disperse in mille rivoli, lambì sedie, inzuppò un fazzoletto dimenticato sotto il letto, carezzò una piuma di rondine lasciandola fluttuare nei rigagnoli, di qua e di là diramando. Quando si destò, capì che aveva piovuto per l’intera notte. Il fiume si era talmente ingrossato da far temere che tracimasse. All’alba le acque si ritirarono, liberando i canaloni e scongiurando il pericolo. La Vivena era in grado di far scoppiare le tormente anche in sogno. Uno dei primi giochi che la incantavano da bambina era imitare con la voce i tuoni, il vento, lo scrosciare dell’acqua. Attendeva impaziente i boati e gli strepiti dei temporali, quelli veri. Subendo il fascino di questa fantasticheria, sognava di evocare le tempeste. Non le rimaneva altro da fare, quando si scatenavano, che accoglierle su di sé. All’approssimarsi della buriana, ricordava, sgattaiolava fuori di casa anziché rientrarvi o rimanervi, con buona pace di mamma Giuseppina e papà Oreste, con addosso un semplice vestito di panno. Le avevano narrato la storia di Noè affinché temesse la furia degli elementi. Lei invece pensava alle piante, alla terra imbevuta d’acqua, alle creature che non entrarono nell’arca. Abbandonata al gioco delle forze, lasciava che la pioggia le sferzasse il viso e la raccoglieva tra le mani a coppa. In una sorta di danza, con un balzo deciso tentava di afferrare una saetta, o la coda degli uccelli in volo ammassati in stormi. Era tutto diverso, pensava, dopo la burrasca. Il terreno assorbiva il piovasco dal cielo, le pozzanghere colmavano gli avvallamenti, cospargendo i viottoli e raccontando di
sé. Il resto, brano a brano, riemergeva dalle acque ritirate, dopo il piccolo diluvio. Allora stendeva le braccia, quasi volesse trovarsi in balia dei vortici. Rincasava gocciolante e sorridente con i capelli e la fronte imperlati, le vesti intrise di fango, a guisa di uno spesso manto acquoso. Pazza, pazza, gridava sua madre quando lasciava che su di lei si sfogasse la tempesta di vento e grandine. E ora, col mantello addosso, la pioggia che cadeva a rovesci le obbediva. Se le avessero domandato perché danzasse come una squilibrata durante l’imperversare degli elementi, avrebbe risposto, ora, che celebrava le nozze perpetue della terra con il cielo, del mortale col divino. L’uno non poteva esistere senza l’altro, le esigenze del cielo non potevano soccombere sempre alla terra. Il firmamento doveva pur aprirsi al suolo, qualche volta. Si trattava di un’unica entità, che se ne ricavi due, ciascuna è inconsistente e incompleta. Manca di un occhio, di una gamba, di un lato intero, destro o mancino. Come è arrivata qui? si chiese Marlena. Una bambina pallida e sonnacchiosa si aggirava per la stanza sfiorando le pareti. Avrà avuto tre anni. Non di più. «Io mi chiamo Zoe. Tu chi sei?» La donna la guardò confusa. Non seppe rispondere alla sua domanda.
IV
1844 - 1853
A impensierirla erano i rumori notturni intervallati da interminabili silenzi. La rincuoravano i primi barbagli del sole che interrompevano la notte troppo lunga. Si sentiva al sicuro nel ventre del Castello, protetta dalle pareti della stanza che si era scelta. Non avrebbe mai rinunciato alle ispezioni di primo mattino, lei che libera e insolente entrava e usciva dagli angoli, si nascondeva dietro le tende, bighellonava tra i tavoli, accarezzava gli arazzi; lei che coglieva, poco prima dell’alba, l’eco di un o, un colpo di tosse. Era la Vivena che controllava le porte, serrava l’uscio o apriva i balconi. Se l’avesse chiamata, difficilmente avrebbe capito da dove provenisse la voce. Zoe faticava ad abituarsi sia all’improvviso suo apparire sia alle assenze che duravano giorni. Quand’era molto piccola, la cercava fino allo sfinimento. Si sforzava di tenere gli occhi spalancati, che non la cogliesse il sonno prima del suo ritorno. Abbracciava il portone chiuso, tendeva l’orecchio, si raggomitolava sul tappeto ad attenderla, finché non si addormentava. Quando si svegliava, si trovava sempre sul proprio letto. Sin da subito aveva scorto, negli occhi della Vivena, il desiderio di chi cercava nei suoi tratti quelli di qualcun altro. Col tempo crebbe in lei la consapevolezza di essere stata presa per dispetto. Tuttavia un pensiero di tal fatta dovette soccombere di fronte all’incanto di vivere in un Castello, sedotta dalle parole che la Vivena stessa pronunciò sin dal primo incontro: «Da brava bambina mi servirai e mi obbedirai in ogni cosa. Da nessun altro riceverai ordini. Ti renderò padrona di ogni mattone, di ogni trave, dei chiodi piantati sul legno. Delle colline, degli alberi, delle cime che stanno intorno.» Che le fosse stata donata la prigione in cui era, anzi, erano entrambe recluse, lo capì tardi. A nove anni ricordava ben poco di quel giorno, il mantello che l’avvolgeva, la voce che gridava lontano. Solo in sogno si palesava qualche
immagine del ato e un luogo che era ovunque e da nessuna parte. Ciò che entrava nei sogni lo dimenticava al suo risveglio inquieto. Difficilmente avrebbe abbandonato il castello e le abitudini invalse, quali le lunghe eggiate tra i campi, le foreste, e l’acqua che gorgogliava nei paraggi. A soggiogarla erano gli stretti sentieri che disperdevano le fila di abeti, una città fatta di colonne di legno e fronde vaste. Amava incastonarsi all’interno di un acero cavo, divertendosi a far voci. Spaventava scoiattoli e eri imitando ora questo ora quel predatore. E poi guadagnava nuovi spazi, fatti di viottoli, scorciatoie, bugigattoli, nascondigli per starsene per conto suo. Le piaceva stare di vedetta, a guardia del ponte, staccata dalle moltitudini, dai cuori umani. Lassù scorreva un altro tempo, si udivano strani rumori, la circuivano nuove soggezioni, regnavano diversi sentimenti. A questo si abituò scordando a poco a poco il resto. L’effimero si insinuava nell’eterno, la pioggia, il gelo e la neve atterravano sopra le valli e le montagne, eterne e immutabili. No, non avrebbe mai fatto a meno di questa libertà, non avrebbe abitato case, ma solo castelli. Un giorno le domandò perché detestasse i bambini. Si aspettava che la Vivena la rincuorasse sul punto, che rispondesse che no, i bambini non li detestava affatto, che pensieri erano mai questi? Invece le disse: «Perché sono stata bambina anch’io, e non piacevo a nessuno.» Zoe imparò ad accendere il camino, a scegliere i ciocchi lunghi da riporre a lato di quelli grossi che appoggiava sopra. Imparò con quelli a fare un piccolo ponte, sopra il quale far sedere il fuoco. Se la Vivena sopportava il freddo, Zoe era tutto un brivido. Sin da piccola aveva abitato una stanza del mastio, e da essa non usciva per non rischiare la prendessero i geloni ai piedi e alle mani, quando si condensava il respiro e si strofinava le mani per scaldarle sulla fiamma ansimante. Terminato l’inverno, si allentava la morsa del gelo e dalle fenditure di roccia riprendevano a scorrere le cascate. Di sera però si alzava fitta la nebbia. Sorgeva un sole che portava calore e se fioccava erano i pini che si scrollavano di dosso
la neve che non trattenevano. Prima uno poi l’altro, oppure insieme, inosservati. Zoe usciva, senza bisogno di chiedere alcun permesso. Correva oltre il ponte di legno, verso gli alberi, poi tra chioma e chioma affinché le piovesse in testa l’ultima neve. Non vi era molta legna da ardere, per entrambe comunque bastava. Erano gli scarti del lavoro che Marteus accatastava sul retro, nel punto in cui non si vedeva. Rappresentava una sorta di pedaggio di cui non s’era del tutto persa la memoria. Anche coloro che avevano, da tempo immemore, il permesso di attraversare il ponte, donavano almeno un paio di ciocchi, qualche volta un ceppo. Erano vecchi minatori e lavoranti che, prendendo diverse strade, raramente scendevano fino a Valchiusa. E anche carbonai e taglialegna, briganti, comuni malfattori messi al bando, disertori sfuggiti alla fucilazione, anime in pena. Zoe si era accorta di loro, del bosco e del ponte che brulicavano di voci, di esseri indefinibili, di lanterne girovaghe a notte fonda. Difficile capire quanto questi fantasmi le fossero simili e dissimili, amichevoli e ostili. Avrebbe imparato a conoscerli e a comprenderli, un giorno. Di questo era certa. Le storie dei vecchi mettevano in guardia. «Sai» raccontava il solito Marteus in osteria, «gli spiriti scendono da lassù, si confondono tra noi, mangiano alla nostra tavola, si mostrano amichevoli, affabili e bonari, e di solito lo sono. Accade che trascorrano le notti all’aperto, scendano fino a valle o entrino in paese. Camminano tra gli argini, alla ricerca di una voce. Quella di un figlio, di una madre. Attendono l’alba per specchiarsi nel torrente, sciacquarsi il volto e ricordare il proprio nome. O per appropriarsi di storie che non appartengono loro. Un velo cala sugli occhi che non hanno più. Siedono al banco dell’osteria, mercanteggiano alla fiera, così che non si fanno riconoscere, e intanto ti invitano a render visita, lassù. Frequentano le feste e le sagre, indistinguibili da noi altri e alla fine due o tre paesani, ghermiti e avvinti dalle loro figure e incantati dalle chiacchiere, finiscono per seguirli diosadove». Altre volte, diceva, percorrevano un tragitto opposto, lungo il ponte, attraversato il quale osservavano il lato nascosto del Castello, che assumeva un aspetto minaccioso, diversamente dalla facciata che guardava la contrada. Dava infatti l’idea di un edificio disadorno e incustodito, in totale abbandono. Se avessero
indugiato su quelle mura, sarebbe scomparsa l’illusione di essere vivi, nella certezza di essere anime sospese, prigioniere del ponte delle Vivene. Solo poco prima si sarebbero stupiti di un’eventualità del genere, rabbrividendo al pensiero di incontrare spiriti simili a loro, o di assomigliargli. Un dì sorpresero una bambina uscire da un cespuglio, a pochi i dal ponte, che immediatamente entrò nel Castello, spaventata dalla loro presenza, fosse stata lei e non loro lo spettro.
V
1853
Si alternavano così le stagioni, per Andreas. La voglia di giocare si smorzava, a periodi tranquilli seguivano quelli delle ginocchia sbucciate, dei bernoccoli in fronte, delle botte sul mento. I grandi spiavano questo bimbo minuto, fragile ma ricco di energie e ostinato, per capire che tipo di adulto sarebbe divenuto. Ci si domandava se l’assenza della madre, oltre che del padre, avrebbe prodotto danno. Si moltiplicarono i suoi nomi: i coetanei, con cui trascorreva intere giornate, lo riempivano di appellativi e nomignoli. Se oggi non era nessuno, domani sarebbe stato cento, o mille, superando i limiti angusti che poneva l’essere uno soltanto. Gli bastava uno specchio ed era due, e la sera che i nonni dormivano, si teneva compagnia con i suoi doppi. Era comodo mandare uno al mercato, l’altro in perlustrazione tra acquitrini e fossati, il più coraggioso in avanscoperta sul Ponte delle Vivene. Così fantasticava. Fino agli undici anni Andreas fu un angelo di bambino. Poi iniziarono i richiami che lo attiravano altrove. E a essi Giuseppina lo strappava, come aveva fatto con Marlena. Ma non ne sarebbe stata capace per sempre. Le bastò guardarlo negli occhi spaesati per capire quanto simili fossero a quelli di sua madre. Tanto che nei suoi, essi vivevano di nuovo. Cosa che atterriva la donna per i presagi che portava, che si credeva entrasse, con lui, un fantasma in casa. Affinché si tenesse distante dai guai, nonno Oreste lo iniziò anzitempo all’arte dell’intaglio. Avesse potuto, Giuseppina avrebbe fermato il tempo. Non tanto per se stessa, che aveva superato i settant’anni, ma per Andreas. Per lei era più un figlio che un nipote, che Marlena le era stata strappata troppo presto. Ignaro di ciò, Andreas sfuggiva al controllo di nonna Giuseppina svanendo per giornate intere. La poveretta non poteva abbandonare le proprie faccende e un marito malfermo sulle gambe per andare in cerca del nipote. Preferiva soprassedere sulle sue marachelle, sempre che non superassero il segno.
E poi no, non credeva che avesse l’audacia di allontanarsi troppo. A parte rari casi, era a portata dei suoi richiami. Bastava che domandasse in giro e v’era chi l’aveva appena visto, chi qua, chi là, chi a due i, poco lontano. Andreas, quando accompagnava sua nonna, non era entusiasta del frizionare panni al fiume, delle donne in piedi piegate di schiena, intente a sbatacchiare le robe sulla pietra. Preferiva guardarsi intorno in cerca di diversivi più stimolanti. Si allontanava raggiungendo la sponda di un altro torrente, a spiare il guizzo di una rana o a rubare della frutta. Un giorno stava seduto sulla ghiaia assorto a spiare un batrace fuoriuscito dal rigagnolo. Forse gli occhi prominenti sul capo avevano scorto l’intruso. «Cra, cra, cra» fece, non resistendo alla tentazione. Qualcos’altro si mosse nelle vicinanze, e questo fu sufficiente perché quello riprendesse i suoi saltelli, svanendo nel fogliame e lasciando confuso il ragazzino. Andreas fissò nella direzione dello steccato e dei fusti. Vide un panno lavato, che sua nonna aveva steso tra i rami. Rimase in attesa, perplesso. Tra le ramaglie si disegnarono le forme di un volto, la linea del naso, la bocca. «Chi sei?» gridò Andreas. «Zoe» rispose la bambina, uscendo allo scoperto. «Sei un fantasma?» «Certo che no, non vedi?» «E che ci fai qui?» «Qui c’è il mio giardino» disse lei indicando un pezzettino di terra rassodata. «Perché non segni il confine? Chi a non lo calpesta e sa che è tuo. Anzi. Ne vorrei uno anch’io.» «Come si fa?»
«In questo modo…» rispose lui, cercando e conficcando dei paletti sul suolo. «Sono piccoli e di inciampo, è peggio che non metterli» ribatté lei. «Allora poniamoli così, costruiamo un’aiuola. Uno è stupido se non capisce che è un’aiuola.» «Stupido sei tu, che non si vede lo stesso, e chi cammina ha il sole negli occhi. Sistemiamo del ghiaino intorno.» Il luogo in cui si trovavano non era silenzioso e immobile. Quella striscia di terra costituiva una zona di aggio, sebbene non intenso. Nei pressi non si potevano costruire case, non c’erano spianate su cui piantare fondamenta. Nemmeno si poteva sostare, a meno di sedersi sul bordo, occupando la roccia di una frana antica. Se ti alzavi in piedi o smettevi di camminare, perdevi l’equilibrio e ruzzolavi verso il basso, che lì era tutto pendente. In salita per recarsi al castello, in discesa verso la valle. Fu lì, in quella terrazza sospesa, che Andreas incontrò Zoe. E vi sarebbe tornato, pensava, con la scusa di cercare legna e ciocchi che nonno Oreste potesse scolpire. Se non avesse sentito nonna Giuseppina che lo chiamava a gran voce, sarebbe rimasto volentieri. In seguito Andreas le portò piccoli regali che erano una gioia per gli occhi. Bottoni colorati, forcine, pettini di metallo. Oppure un anellino di ferro o un oggettino rubato dalla mensola di nonno Oreste. In cambio lei gli permise di darle una mano nel piccolo orto. Il ragazzo non poteva attardarsi, doveva trovare il tempo di ritornare in paese senza che Giuseppina stralunasse, ma in ogni occasione si fermava cinque minuti di più che, pensava, non se ne sarebbe accorta. Una volta però esagerò di brutto, tanto che si immaginò di vederla salire sulla collina per dargliene di santa ragione. Zoe, accomodante i primi giorni e timorosa di non sciupare quella nuova conoscenza, divenne impaziente e irrequieta. «Sei un uomo o una cenerentola, che devi rientrare quando suona l’Ave Maria?» «Io vado e vengo quando voglio. Nessuno ha da comandarmi.» «Bene. Domani ti aspetto a casa mia.»
«E dov’è casa tua?» «Io abito solo castelli» rispose misteriosa. Quando l’indomani si presentò, non servì bussare. Zoe gli aprì subito. L’aveva atteso la mattina sbirciando dal balcone, ne aveva contato i i ansiosa e trepidante. Andreas entrò infilandosi tra lei e la porta. Una persona che ti piace, pensò, un po’ ti fa paura. E lo intimorivano i capelli neri e gli occhi d’aquila che entravano nelle profondità delle cose. «Sei tu la Vivena?» domandò. Al che la ragazzina scoppiò in una risata squillante che lo rassicurò: «La Vivena ora non c’è.» «Ma allora… tu abiti qui?» «Sì. E mi porto appresso le chiavi, vedi?» disse mostrandogliele con sussiego. Zoe chiuse il portone col saliscendi, raggiante e con fare cerimonioso lo accompagnò per la sala centrale. «Bada di non toccare niente. Sai, si accorge se ho spostato qualcosa. Non me lo proibisce, questo no, però me ne chiede il motivo e non sempre so che rispondere. Vedi? Una volta ho fatto cadere quella spada. Mi ha domandato che ne volessi fare. Guardarla da vicino, le ho detto. Le è bastato.» Ve ne era una di ferro scuro, con l’elsa arrugginita, più pesante di lei. Se c’era la spada, pensò Andreas, doveva esserci il resto, cioè lo scudo, l’elmo, l’armatura di un antico cavaliere. «E i cassetti…. non aprirli per carità, che poi è difficile richiuderli.» «Cosa contengono?» fece lui incuriosito. «Carabattole e vecchie trine.» Dal tono che usava, pensò Andreas, mancava poco dicesse che i mobili
conservavano memoria di quel che accadeva intorno. E poi c’era il vento, raccontava Zoe, un loro servitore. Soffiava dalle segrete, toglieva la polvere e spazzava i pavimenti. «Com’è la Vivena?» «L’hai mai vista?» «No, che io sappia… però mi dicono che scende ogni tanto in paese.» «Non credo. Cosa ci andrebbe a fare? In paese non c’è niente.» «Non c’è niente? Mi domando piuttosto come tu faccia a vivere qui, non ti annoi?» «Potrei fare a te questa domanda. Dai, mica sarai venuto fin quassù per bisticciare. Giochiamo. Nessuno ci disturberà.» Di un pacco di stracci fecero una palla e si rincorsero nella grande sala, incuranti delle proprie grida sacrileghe e dei volti luminosi. Se qualcuno fosse ato di lì in quel momento, si sarebbe stupito delle loro voci e si sarebbe domandato che fero mai dei bambini in un posto del genere se non riempire l’angusto silenzio. Imbrunì e se ne accorsero appena. Zoe era soddisfatta, si poteva preparare un lettino per la notte in una delle stanze. Perché non portarne uno nella sua? Davanti al fatto compiuto la Vivena non avrebbe certo avuto il cuore di mandare via il suo amico, no? Andreas, ai discorsi velati della ragazzina, cominciò a dar qualche segnale di nervosismo. Intimorito dall’ora tarda e dal sole ormai basso, le chiese supplichevole di aprire il portone, che doveva rincasare. Non aveva poco da camminare, e gli sarebbe toccato far la strada di corsa. Zoe non gli diede retta. Ingannò l’improvviso impaccio accendendo una candela. Ne accese un’altra, e un’altra ancora. Tentò di raggiungere i lucernai, ma non vi arrivò. «Ti prego Zoe, mia nonna mi starà già cercando. Apri il portone e lasciami
andare, io non so come si fa.» «Non ti trovi bene qui?» domandò lei cocciuta. I lucernai si illuminarono all’improvviso, diradando le ombre rimaste, tranne una che assumeva fattezze via via più definite. Da quanto la Vivena li stava a osservare? Da dove era entrata? Andreas deglutì, non riuscì a distogliere lo sguardo da lei, e lei da lui.
Il nipote non era rientrato e Giuseppina non sapeva dove andarlo a cercare. Aveva meno timori che con Marlena, ma considerava che da un po’ di tempo in qua fosse più discolo del solito. «Vado a cercarlo» disse a Oreste indispettita. Uscì, raggiunse il mezzo della piazza e si mise a chiamarlo a gran voce. «Sono qui» le rispose il bambino comparendole alle spalle. «Ma dove ti eri nascosto? E guarda le ginocchia, son tutte sbucciate! Che ragazzaccio stai diventando, lo sai?»
Uscito dal torpore dell’infanzia, Andreas affrontò le burrasche dell’adolescenza iraconda, mista allo sguardo malinconico della sera. I ricordi infantili vennero relegati, uno a uno, in un cantuccio della memoria. Era immaturo, di un’immaturità piena di risorse e priva di risentimento. Da lì a poco sarebbe scemato il desiderio di giochi e di sorrisi. L’età adulta, più seria, sarebbe scesa coprendolo col suo manto. Sogni sensati l’avrebbero afferrato, così come si chiude una porta e se ne apre un’altra. A quattordici anni fumava i mezzi sigari, la pipa che sottraeva a suo nonno. Non sognava fatine in bilico sulla roccia, ma riempiva la mano di trucioli e segatura coi ferri del mestiere che Oreste tentò di insegnargli, o imparava a scorgere forme nei ciocchi. Suo nonno lo iniziò all’arte degli orologi, provò a incantarlo
con il funzionamento delle ruote dentate: l’universo stesso era un grande Orologio, prodotto da un artista d’eccezione. Ciascun ingranaggio dipendeva dagli altri, niuno poteva camminare o fermarsi senza intaccare il moto. La noia lo teneva sospeso, pieno di stimoli ma non di ambizioni. Si cantava tutto il giorno la stessa canzone, che a quindici anni non era cresciuto abbastanza per vivere da boscaiolo. Il braccio si contorceva per il peso della mannaia dopo una mezza dozzina di colpi sul ceppo. Avrebbe potuto imparare il mestiere del carbonaio, in fondo Marteus aveva una certa età, ma Andreas non ne volle sapere. Tuttavia le stoviglie le intagliava che non aveva dieci anni, e i cucchiai e le forchette erano di sua mano. A diciotto sapeva piallare e usare il morsetto, grazie alla pazienza di nonno Oreste che gli spiegava a voce. I desideri non dovevano prendere forma, pensava, preferiva lasciarsi investire dal vento di cui ignorava la provenienza, e lasciare qualcosa di insepolto in balia delle intemperie e dei primi freddi. Nonna Giuseppina era stufa di rimproverarlo quando, invece di bussare o chiamare per farsi aprire, lanciava sassetti e terra alla finestra. La voce gli s’era fatta grossa, non era più l’età di quando lo pigliava a forza, che dei ragazzacci gli insegnavano parole volgari da ripetere a ogni frase.
VI
1859
L’inverno si portò via Oreste. Cominciò a morire un pomeriggio, quando un occhio si spense. Andò a coricarsi presto, l’indomani non si svegliò. Le vicine che si presentarono al cospetto di Giuseppina, pronte a borbottare le condoglianze, la trovarono sulla soglia a raccogliere gli abbracci, il conforto al cordoglio, dando sfogo al pianto. Si celebrò un funerale semplice, di facce compunte, col celebrante ritto e solenne, l’abito corto che gli si vedevano le scarpe. Andreas stava accanto alla bara e stretto a Giuseppina, dopo aver scacciato le funerarie, le loro trenodie indecenti e sgolate. Tra esse si nascondevano, Giuseppina ci avrebbe giurato, facce di fattucchiera che trafugavano i cadaveri alla ricerca di cimeli. «Perché non è venuta lei, invece? Perché?» borbottò tutto il tempo, ansiosa di scorgere sua figlia tra la piccola folla pietosa, o la sua ombra tra i muri di pietra. Dopo le esequie, Giuseppina tentò di mostrarsi forte e composta nel suo dolore. Lo immaginava ancora seduto nella seggiola che spolverava quotidianamente. Continuò a scambiare qualche parola con Oreste, imprecando per questo e per quello, e qualcosa doveva risponderle, che rimaneva assorta, in ascolto e si quietava. I giorni seguenti collocò comunque la seggiola sul bordo della piazza, ponendo la propria al fianco, e in essa sprofondava facendogli compagnia. Alle poche che le si accostavano per le ultime condoglianze, ribatteva semplicemente, con voce ferma: «Dove si era rimaste?»
Nella primavera del 1859 si raccoglievano volontari dal Lombardo Veneto al comando del Re di Sardegna. Qualcuno della valle partì, però alla chetichella. La paura grossa era che sul campo di battaglia ci si scontrasse col vicino arruolato nell’Impero. Se fosse accaduto, le cose le avrebbe decise il destino, contro il quale non c’è appello. Fece molto rumore la compagnia dei “Cacciatori delle Alpi”, al comando della quale fu posto un famoso generale. Essa si vestì di divise bianche abbandonate dagli avversari durante una ritirata. Data la scarsezza di mezzi, non si guardò tanto per il sottile, chi poté vi aggiunse un cappello e un foulard rosso per segnalare la propria appartenenza. I campi di battaglia si raggiunsero marciando, qualche gruppo ci arrivò coi primi treni. Il 15 giugno la seconda armata imperiale si spinse fino alla Valle del Chiese. Le riuscì, per qualche giorno, di anticipare le milizie di Napoleone III, nell’attesa di robusti rinforzi presso la foce del Mincio. Il tempo era piovigginoso, i fiumi si ingrossarono apposta per non farsi guadare. Attraversarli in quelle condizioni non era cosa da poco, nemmeno con l’adeguato equipaggiamento da ponte che, perlopiù, mancava. Prima ancora di sapere se le armate dell’Impero sarebbero entrate nella valle, Andreas già scalpitava, memore delle storie che gli aveva raccontato Giuseppina. Voleva correre fuori, salire in cima alle colline e vedere se le loro divise fossero simili a quelle del nonno, quali fregi ne ornassero i cappelli, da che parte pendesse la sciabola, verso quale lato portassero lo schioppo. Con tutt’altra emozione, dall’alto del mastio prima, dalla cima più alta poi, la Vivena spiava rabbiosa le strade in lontananza e i movimenti degli eserciti che si mantennero lontani dai suoi domini. Se avessero osato penetrarvi avrebbero avuto il fatto loro.
VII
1864
Cresciuta all’ombra del Castello, Zoe smise di saltellare come una bimba. Non le pesava la solitudine, anzi. Della compagnia altrui non avrebbe saputo che farsene. Il suo spirito assecondava il moto delle stagioni, e diversamente non poteva fare non avendo mai visto un calendario. Tendeva a quella o a tal altra cosa, secondo ciò che le suggeriva l’estro, senza che potesse decidere dove mettere radici. Quel mattino, non capì neanche lei perché, fu presa dalla prepotente voglia di correre a valle. Decise di approfittare del lungo viaggio che aveva allontanato la Vivena dal Castello. Sarebbe tornata di lì a due giorni, si diceva, e di questa scorribanda non avrebbe mai saputo. Era affezionata alla Vivena. Le spazzolava il mantello quando stava seduta a riflettere o posava una mano sul suo capo, accennando a una carezza. Ormai avevano la stessa parlata e lo stesso odore. La giornata, sebbene prossima all’inverno, era tersa, l’aria pungente. Ad attirarla furono i colori accesi dei boschi, le case che animavano il paesaggio sul fondo. Zoe scese al villaggio. Scelse un punto oltre il quale non avrebbe proceduto, per non contravvenire agli ammonimenti severi della Vivena. Il confine, così chiaro all’inizio, la confuse e ogni o impose il successivo, tanto che non le riuscì di fermarsi e giunse alla fine della mulattiera, all’inizio della piazza. Una nuova risoluzione si fece strada. Invece di tornare indietro, già che c’era, decise di rimanervi fino al tramonto. Di quel mondo che le si apriva, chiuso e timido nell’ora mattutina, apprezzò il silenzio e la ritrosia degli abitanti che, uscendo dalle case per le loro faccende, la guardarono appena, ando oltre. Il timore inconscio di venire aggredita con domande o additata come straniera lasciò posto a un’emozione potente.
Io qui ci sono già stata. Riconobbe un paio di case, e tra esse si ostinò a fissare quella che le era più familiare. Ne vide uscire una donna grossa, con i capelli neri e raccolti in cuffia, il grembiule chiaro che si stendeva sulla figura. La donna indugiò sulla ragazza, la fissò a lungo aggrottando le sopracciglia, come se tentasse di riconoscerla e non vi riuscisse. «Ma non hai freddo tu? Dai, entra, vieni a prendere qualcosa di caldo. Da dove vieni?» le gridò. Zoe si avvicinò. La donna la fece entrare, accostò una sedia accanto al fuoco. «Raccontami un po’ di te. Sembri una di qui, ma non mi ricordo di averti mai visto. Sai, ho perso una figlia molti anni fa, ora dovrebbe avere la tua età.» Zoe fu colta da un’improvvisa angoscia che tentò di dissimulare. Si osservò le mani, divenute rosse. È così anche il viso, pensò. «Come ti chiami?» le domandò sorridendo. Zoe non rispose, l’altra non insistette. Consumarono insieme latte caldo e pane secco. «La sogno ancora, sai? La incontro adulta e le dico vedi, qui tu sei stata bambina e la invito a entrare in casa. A differenza di te lei tergiversa, non mi riconosce, indica la montagna e mi risponde anche lassù sono stata bambina. La vedo are oltre, mi sveglio e piango finché non spunta il sole.» Zoe desiderò trovarsi ovunque tranne che all’interno di quella casa. Avrebbe voluto consolarla, ma non le vennero, tra le labbra, le parole giuste. Comprese di aver varcato un limite che non era il caso superare. Le sorrise, salutò, quindi prese la porta e scomparve. Abbandonò la piazza in fretta, sentendosi addosso lo sguardo di Adelina. Quello non era il suo posto. Non vedeva l’ora di tornare al Castello, di chiudersi dentro e non uscirne mai più.
Nel risalire evitò di volgersi verso la valle, dietro le rocce frastagliate dei promontori che si levavano a nasconderla. Fu colta dalla vertigine a causa della nebbia improvvisa che fasciò ogni cosa. Il sole, sempre più pallido, non rincuorava l’affrettato incedere. Superata la seconda collina, ne sbucò una terza. Capì di essersi perduta. Tornò indietro, al paese, riprese la mulattiera e risalì di nuovo. Emersero quattro colline e non due, al che, scoraggiata, non seppe quale strada imboccare. Trascorse la notte procedendo a tentoni. Prima o poi sarebbero spuntate, si diceva, le merlature del castello. E così accadde, ai primi chiarori dell’alba. Tremò nel rendersi conto che la Vivena era rientrata. Le finestre erano sbarrate, il portone chiuso dall’interno. Bussò per farsi aprire, corse ai balconi, chiamò per ore, ma la Vivena non le rispose. Il Castello si ergeva enorme, impenetrabile, illuminato dal primo sole. La notte trascorsa all’addiaccio le provocò una forte polmonite. Il vento e il gelo ridussero i suoi capelli a una massa informe e scapigliata, mentre l’umidità si fece strada tra le vie respiratorie. Per settimane la tormentò una febbre feroce e insistente. Trascorse un mese, tra albe e tramonti, senza che si alzasse dal letto. «Perché te ne volevi andare?» domandò la Vivena. I suoi occhi brillavano di una luce cupa, pentita per la severità del castigo, e precipitata in pensieri imperscrutabili. La ragazza, in un momento di lucidità, rispose piccata, prima di riaddormentarsi: «Poi sono tornata, no? Lasciatemi in pace.» Le lacrime che a tratti le inondarono il viso appartenevano a Marlena, che sempre più raramente emergeva tra le ombre.
«Sono stata crudele. E lo sarò di nuovo se non mi libero di te» bisbigliò. Il mantello sussultò per quel primo e unico vero atto di ribellione. «Non riesco a guarirla» si struggeva, ben conoscendo il motivo. Le aveva disobbedito, la Vivena non cessava di punirla per questo. «Sta morendo. Guariscila, ti prego.» Il mantello sussultò di nuovo. «Io so come fare. Mi staccherò da te» esclamò Marlena, aggrappandosi a un’idea che aveva estorto alla nemica. «Se lo farai morrai» sussurrò una voce dentro di lei. «E sia.» Marlena si levò il mantello che la cingeva e lo depose sul corpo febbricitante della ragazza. Quindi ravvivò il fuoco della stanza. Aveva da poco superato i quarant’anni, ma ne dimostrava molti di più. Due rughe profonde scesero tra le guance, le mani si prosciugarono della loro freschezza, gli occhi le si affossarono. I capelli, neri come la pece, si velarono di bianco. Un sonno antico la sopraffece, ma tentò di resistere. «Ti ho servito bene. Non dire di no. La piccola Zoe farà altrettanto. Non ha altri legami che te» borbottò prima di addormentarsi. Zoe fu invasa dalla luce che filtrava formando una diagonale perfetta tra il pavimento e la parete. La stanza era fredda, dal camino salivano gli ultimi fumi di un fuoco ormai estinto. Si sforzò di ruotare un braccio, muovere una gamba, ma essi non le rispondevano. Il sogno, le cui immagini non si sarebbero impresse nella memoria, la tratteneva tra le sue spire. La fronte era fresca, liberi i polmoni. Sorrise alla donna minuta addormentata,
seduta al suo capezzale. «Chi sei?» Ne riconobbe a stento i lineamenti, la chiamò con voce dolce. Non ricevendo risposta si alzò, le restituì il mantello e le accarezzò il viso. Tra le labbra aveva un’ultima parola da dirle, ma non riuscì a pronunciarla, ché le lacrime, copiose, la investirono con prepotenza. La pianse come si piange una madre. La vegliò due giorni e due notti. Poi la seppellì nel prato dietro il Castello. Il mantello la avviluppò con delicatezza, Zoe acconsentì a dar carne e sangue a uno spirito che chiedeva di manifestarsi in lei, e a lasciarsi avvolgere da una marea di pensieri. Ne ebbe paura, ma alla fine si rassegnò. La Vivena mutò nome ma non la figura. Per lunghi giorni non si concesse né cibo né riposo, imperturbabile a ridosso delle rocce, della noia e dell’eternità. Poi, secondo calendario, calò l’inverno. Ghiacciò rapidamente gli specchi d’acqua, Valchiusa si serrò in se stessa, protetta più che se avesse avuto mura invalicabili, per ridestarsi in primavera. Nessuno osò mettere il naso fuori se non qualche ritardatario che fece incetta di cataste di legno e castagne. Ci si doveva proteggere dai lupi che presto avrebbero abbandonato le foreste in cerca di cibo. Ciascuno alla bell’e meglio aveva già accomodato il proprio giaciglio, avviata la stufa o il camino e fatto scorta di grog. I più anziani trascorsero la stagione avvolti in spesse coperte di lana ruvida, cingendo d’assedio il focolare, osservando dalle finestre il paese coperto da un manto di neve fresca. Nella bella stagione Andreas sbarcava il lunario falciando l’erba, cosa che non gli andava a genio. Di recente gli era stato affidato un asino che si poteva utilizzare per trasportare i carichi di legna. Era vecchio, malandato, e il padrone prima o poi ne avrebbe comperato un altro. A ridosso di quell’inverno, il vecchio asino scappò dalla stalla. A notte fonda, raccolte le ultime forze, riuscì a strappare dal muro la cavezza.
Importava poco stabilire chi, tra Andreas e il padrone, avesse dimenticato di fissare il catenaccio al portone. «Si sarà accorto che lo si guardava strano.» Andreas ci ragionò a lungo se valesse la pena di cercarlo, ata la buriana che si era scatenata poco prima dell’alba. «Guarda» gli propose il padrone, «se lo trovi è tuo. Se mi paghi un po’ di affitto per la stalla, lo puoi tenere qui.» Sarebbero stati stretti due asini, con un covo e una greppia in comune. Ma tant’è. Un altro anno, o forse due, il vecchio asino sarebbe stato utile per guidare un carretto, che non ne avevano mai avuti. Incalzato da Giuseppina, Andreas partì per le alture alla ricerca del musat. L’avesse recuperato, gli disse, tanto valeva condurlo con un carico di legna, e non fe il viaggio a vuoto. Di lì a due giorni avrebbe nevicato per una settimana intera. Il difficile fu seguire le tracce del o claudicante. A causa del tempo che si volse in burrasca, i sentieri si gonfiarono d’acqua. Andreas superò la collina, continuò per una mulattiera che scendeva e risaliva subito dopo un largo prato. Con fare grave deviò fino ai boschi. Avrebbe proceduto per tentativi avanzando, tornando indietro, mutando strada e percorrendone di nuove, finché poggiò il piede in una strettoia che franò, ruzzolando nel fossato sottostante. Scivolò sul dorso di una parete di terra, precipitando su una massa soffice che attutì il colpo. Nel ricomporsi e nel ringraziare il cielo di non essere incappato in spigoli e pietre, gli si gelò il sangue quando incontrò il muso del somaro riverso. Le pupille dell’animale si cacciarono dentro le sue, tanto parevano vigili. Tastò col piede la carcassa che non si mosse. Ripresosi dallo spavento, Andreas imprecò a gran voce, strofinò le gambe e il torace per levarsi l’odore. Si guardò intorno alla ricerca di un sostegno cui aggrapparsi e risalire. Fu allora che osservò di scorcio le mura del Castello e le torri a lui rivolte. Possibile che si fosse avvicinato tanto? Lo assalì un ricordo, perché da quel punto era visibile il Ponte delle Vivene. Non ti voglio più vedere!
Queste le ultime parole che la piccola Zoe gli aveva urlato contro, con tutto il fiato che aveva in gola, quando fu avvolto dal mantello della Vivena, la sera dopo un intero pomeriggio trascorso a giocare. Andreas immaginò il suo viso alterato dalla rabbia infantile, a significare la sua delusione. Perché lui aveva espresso un desiderio da bambino, chiedendo alla Vivena di essere ricondotto a casa. Non gli era venuto in mente di accamparsi, per una notte, in una stanza del castello. Si sarebbe stati felici tutti quanti, per sempre. Poteva chiedere di portarci i nonni, lo spazio c’era. Era tardi, fuori faceva freddo, si fosse incamminato da solo avrebbe perduto la strada, aveva detto tutto d’un fiato, disperato, alla Vivena che lo fissava indifferente. La scorse aggrappata al parapetto di corda. Era una figura minuta che lo osservava chissà da quanto. L’aveva visto arrivare, e quando era caduto si era sporta di più. Si domandò quale significato dovesse attribuire al suo Non ti voglio più vedere. Non poteva sapere che Zoe lo aveva atteso per molte settimane, curando che il portone non fosse mai chiuso del tutto, e sperando che non avesse preso alla lettera quel suo sfogo. Ma Andreas, dopo lo spavento, a quella bambina aveva smesso di pensare presto, temendo di venire braccato, inseguito, se solo avesse messo piede in un luogo non suo. Ma Zoe già il giorno successivo scriveva sospirando il suo nome sui vetri appannati, desiderosa nel contempo di affibbiargli un pugno nello stomaco da togliergli il fiato. Per chiudere il litigio e fare pace. Era impaziente di crescere in fretta, di farsi bella e argli davanti una e più volte, fingendo di non vederlo. Quella volta sul ponte era la prima. Per guardarla meglio Andreas si strofinò le palpebre per togliersi la terra, la polvere, ignaro di ciò che frullava nella mente della ragazza. Quando li riaprì Zoe era scomparsa.
VIII
1866
Trascorsero sette anni. Sebbene si mantenesse in forze, la vecchiaia la afferrò alle spalle. La schiena si curvò, le gote si afflosciarono. Il velo della notte scese su Giuseppina pure durante il giorno, gli oggetti si mostravano vaporosi e vaghi, pur dando a intendere di distinguerli perfettamente. A ottantaquattro anni, età di bilanci e presagi, era invecchiata d’un balzo. Sorda a un orecchio, comparve sulla bocca una certa piega amara. La voce le divenne bassa e arrochita, per via del gran fumare di Oreste prima, di Andreas poi. Da qualche giorno le prendeva un malore che fino all’ultimo nascose al nipote. Usciva da sé, senza percepirsi più. In principio erano lievi mancamenti. Subito dopo si riappropriava delle gambe, a esse si rinsaldava prima di cadere, risolvendo in niente l’impercettibile cedimento che la coglieva. Nel corso di una discussione le capitava di percepire pezzi di frase, e il resto doveva ricostruirlo. Le riusciva tuttavia di rispondere a tono, simulando il fare distratto di vecchia. Aveva impiegato anni per appartenere a quel piccolo frammento di mondo, che la pelle aveva assunto la consistenza della terra, e anche i pensieri vi corrispondevano. Tanto che si sorprese di sentirsi, tra le ultime della sua generazione, più valchiusese di quelli che erano arrivati dopo. Era nato un legame particolare con i luoghi e le genti, i rovi, le piante, i laghi, le rocce. Alla fine ce l’aveva fatta a mettere radici profonde, nonostante rimanesse poco proclive alla compagnia. Negli ultimi tempi non conversava con nessuno, un po’ per le scarse occasioni, un po’ perché le dirimpettaie smisero di interessarsi a lei. Molte erano le storie che avrebbe potuto raccontare. Era, infatti, una che aveva viaggiato. Ricordava bene gli eserciti di Napoleone, i cosacchi alle porte di Treviso. In quei giorni si stava sulle spine. C’era un traffico inusitato di figure in
palandrana scura che sostavano sulla piazza, quasi fossero statue di sale. Lo sguardo indagatore scandagliava ogni anfratto. Chi le osservò dalle finestre, ne ricevette una forte impressione. I più anziani trassero auspici nefasti dai barbagli del primo sole e dal mantello sulfureo che di quelle nascondeva le fattezze. Giuseppina sussurrava dietro vituperi. «Che vogliono? Che cercano?» Gli uomini in uniforme riempirono le mura del paese di avvisi. Si era in periodo di coscrizione. L’Imperatore chiamava i giovani alle armi. Chi aveva figli piccoli non si preoccupava che del marito, che avrebbe lasciato la casa per indossare la veste cilestrina. Giuseppina il marito non l’aveva, ma c’era il nipote che, con i suoi ventiquattro anni, avrebbe dovuto rispondere alla chiamata. «No…» sospirò atterrita. Giunsero intanto voci che si erano costituiti cinque reggimenti e Andreas non vedeva l’ora di partire. «Cosa?» gli domandò Giuseppina con un filo di voce, tra l’ansia e la meraviglia. «Cinque reggimenti, sì, ma dall’altra parte. È la volta buona che ci liberiamo degli Asburgo» rispose lui, in attesa degli improperi che non giunsero. Giuseppina non aveva granché da dire o da fare. Aveva terminato la sua opera, cresciuto il nipote, la madre di lui con le proprie mani e i suoi pensieri. Non c’erano ulteriori insegnamenti che da lei Andreas potesse trarre. Scosse il capo. Da quale cuore provenivano quelle parole? Finora ci si era trovati bene sotto l’Impero, e lei aveva vissuto quanto bastava per comprendere che le cose non cambiavano con la bandiera. Capiva anche che non le sarebbe riuscito di impedirgli nulla, né sarebbe valso legarlo alla sedia con due o tre giri di corda. Giuseppina aveva respirato il Settecento, calpestato le polveri delle menti più illuminate e l’utopia di una rivoluzione di cui nessuno aveva memoria. In fondo era destino di ogni generazione recarsi in battaglia. Andreas in guerra avrebbe
imparato che la vita è terribile quanto la morte, e che c’è poco da rimpiangere. Si domandò se fossero in lotta tra loro le montagne, i valichi, le pianure. Nossignore, le guerre servivano agli uomini, a essi soltanto, per risolversi di campare in pace. Dopo. Dopo aver indossato la divisa del soldato, del patriota o del cittadino. Di guerra ne sarebbe presto scoppiata un’altra, e un’altra ancora, a dimenticare la precedente. Giunto che fosse il momento, sarebbero state vane le suppliche. Andreas non avrebbe sentito ragioni, tanto ambiva di visitare nuove terre, farsi le ossa sui campi di battaglia. A ben guardarlo, Giuseppina percepiva la sua eccitazione. Lo vide già marciare inseguendo le orme di cento come lui, attratti dal sangue che non avevano mai visto scorrere. Immaginava gli spari lontani, i canti in sottofondo che davano il ritmo alla marcia. Non era più un bambino. Era terminata l’età dei rimbrotti e delle paternali. La sera girovagava ozioso per la piazza, finché non lo vinceva il richiamo dell’osteria. Se faceva tardi, Giuseppina lo accoglieva in casa tacendo. Se esagerava col vino pazientava, sicura che ubriaco marcio non l’avrebbe visto mai. Certo, Andreas cercava il vino nella bettola per avere la mente meno lucida, e dormire un poco anche da sveglio. Di partire, a conti fatti, gli sarebbe toccato comunque. Aveva chiesto e ottenuto di arruolarsi nel corpo dei garibaldini. Di lì a pochi giorni le guardie avrebbero bussato per vedere chi c’era e non c’era, come si fosse in una grande caserma. «Dovrai andartene in fretta, che ti verranno a cercare. Se ti scoprono, ti farai fucilare, non sono cose che si perdonano, queste» gli disse, e le parve di parlare a Oreste più che a suo nipote. «C’è un gruppo che mi aspetta. Ci muoveremo stanotte insieme.» Gli diede la sua benedizione e lo strinse a sé, lasciandolo partire. Ma non prima d’aver stretto, in segreto, un voto al cielo. Dopo un mese che Andreas era andato via, Giuseppina stava già di vedetta sulla porta, con un piede oltre la soglia e uno dentro. La guerra più dura la combatteva chi rimaneva a casa.
Lo sguardo scandagliava le distanze, sorvolava il colle che sbarrava la strada, immaginando ciò che stava dietro. Osservava il cielo per raccogliere segni, si sentiva un po’ strega, e forse lo era veramente per quella figlia di cui non sapeva niente. Nemmeno il vento parlava di lei. Si alzava di notte se avvertiva un rumore sospetto, poi tornava a letto, vinta da un colpo di tosse. Non chiudeva la finestra per guardare meglio la piazza. Si inventò una data, entro la quale sperava di vederlo tornare. Ma essa, prima di inventarne una seconda, era già trascorsa invano. Poi la prese la smania di andarlo a cercare. Tuttavia non si sarebbe allontanata, per il timore che Andreas non trovasse nessuno ad attenderlo. Nei sogni era Oreste e non il nipote a emergere dal fondo della piazza. Per il terribile presagio si destava sudata e ansiosa, come quella volta che aveva sognato di recarsi in chiesa e aveva visto il marito che la fissava, seduto sulla panca di fuori. Si mise la mano sulla bocca, pianse e tremò, col sussulto nel cuore, che sognare i morti non era cosa da poco, né arrivare a mattino affrontando notti colme di simili visioni. E allora implorava, neanche lei sapeva chi, che la si lasciasse dormire in pace. Capiva il senso della grazia a suo tempo ottenuta, una benedizione con la maledizione dentro. L’aveva capito spiando Andreas che partiva. Perché i figli appartenevano alla terra, e la terra prima o poi li avrebbe reclamati. E così i nipoti, che si distaccavano dai figli e dalle figlie. E non era giusto sopravvivere – ecco il pensiero di quei giorni – non era giusto sopravvivere alle generazioni future. Giunto il momento, Giuseppina portò con sé due pani e un pezzo di formaggio, che di più non le serviva. Di lì a poco il sole avrebbe inondato il cielo, facendo scappare gli ultimi spettri accampati nella notte. Uscì così com’era, sonnacchiosa e dondolante, con le reni che dolevano e l’affanno al petto. Si dimenticò di chiudere la porta. Giuseppina capì di non essere in grado di arrivare al Castello e di chiedere la grazia che stavolta riguardava il nipote. Ma le parole, temeva, le sarebbero morte in bocca a pensare che le cose andavano come dovevano andare, e forzarle non si dimostrava saggio. Giunta a un pino, si sedette sopra un ceppo a riprendere fiato, decisa a tornare indietro.
Si destò dall’improvvisa sonnolenza che stava calando la sera. «Dov’è colei che ho incontrato anni fa? Tu sei un’altra, non la stessa…» sussurrò alla presenza che scorse al suo fianco. Tese la mano e afferrò un lembo del mantello. Cercò le parole che aveva in mente, ma ne pronunciò altre, prima di addormentarsi di nuovo. «Qui si sta bene. Fammi restare.» Ritrovarono Giuseppina tre giorni dopo e solo per caso, ancora seduta sul bordo di quella strada. Si era buscata tutte le tempeste e le intemperie di quelle notti, senza battere ciglio.
IX
Estate 1866
Si ritrovò tra gente semplice, qualcuno poco più vigoroso, alto e con le spalle larghe. Andreas era tra i più gracili, come se a un certo punto avesse smesso di crescere. In fondo poteva non voler dire nulla, pure nonna Giuseppina era minuta, ma dimostrava maggior spirito di lui e del nonno messi insieme. Tra i volontari al fianco del Generale vi era chi aveva studiato da cadetto. Nei loro confronti si provava invidia, perché il loro era l’occhio più allenato, valutavano le armi a peso, ma non lesinavano consigli e le pacche sulle spalle. La frontiera, come gli si spiegò, era come la marea, mai la stessa. Fino a poco tempo prima era lontana. Anche superando le Alpi, i laghi e guadando il Po, ci si trovava dentro l’Impero. Si arrivava a una piana ricca e prospera, dove c’era Milano, che per i propri affari contendeva gli scali di Genova e di Venezia, tanto che forse il vero confine era il mare. E quale mare, quello di Genova? Quello di Venezia? Valchiusa si trovava nel mezzo di un esteso retroterra e se partivi a dorso di corsiero non raggiungevi mai il suo limitare. Un giorno però Valchiusa si svegliò che la frontiera era quasi a due i, non pareva vero di poterla superare tanto facilmente. Si marciava già stanchi, coi nervi logorati e tesi, lo stomaco mai pieno. Perfino i capi, quelli che avevano esperienza, si mostravano insicuri e timorosi nel dare gli ordini. Avante, Avante! Andreas venne abbrancato dal timor panico, che le battaglie le aveva solo immaginate, inventate. L’esercito aveva cominciato a muoversi verso il campo, se ne sarebbe combattuta una quel giorno stesso. Il cuore batteva all’impazzata, la testa gli girava, non aveva voce per parlare. I polmoni erano oppressi, un mattone era cucito nella pancia ma le gambe, tutto questo, lo dovevano ignorare. E poi c’era il generale, e davanti a lui si doveva far bella figura. Si giurò ciascuno che non si sarebbe indietreggiato. E il coraggio venne per davvero, ché anzi se lo dettero insieme. A Ponte Caffaro, si era nell’ultima settimana di giugno, respinsero un robusto
assalto nemico. Andreas era rimasto in piedi. Gli sembrò che una mano invisibile lo riparasse dalle insidie. La stessa cosa avvenne durante gli scontri di Pieve di Ledro, tre settimane dopo. Per il fatto di non distendersi per evitare i colpi, gli fu dato dell’incosciente, come sanno esserlo gli eroi. Eppure ebbe miglior sorte di altri, che nel coricarsi furono presi in pieno. Andreas aveva nei timpani il rimbombo dell’artiglieria, il fischio delle pallottole, lo sguardo intontito di chi non era pronto, ma doveva caricare contro il nemico, prima di divenire concime per la terra. Costeggiarono i monti evitando le pietre, per non dare agli avversari la soddisfazione di vederli cadere. Avrebbero preso confidenza con pertugi, anfratti e grotte, approfittato di trincee naturali. E poi si marciava a zig zag, non tra ghiaia fina ma tra sassi caduti a casaccio dalle alture. Difficile cavarsi d’impaccio, così in disequilibrio nei propri i. Imbracciare il moschetto, mirare e far fuoco era un’impresa, peggio che avere una zavorra aggrappata al braccio. Andreas si rincuorò quando parve che gli avversari fossero rientrati nelle montagne, timorosi che si corresse a prenderli dentro chissà quale imboscata. No, non tramavano nulla. Si andava a istinto. Questo era il loro punto debole, o la loro forza. Non erano prevedibili. Andreas comprese che in fondo quella grande differenza tra chi stava nell’una o nell’altra parte non c’era. Impossibile intendere chi tra gli schieramenti in campo fosse migliore o peggiore, ché si stava tutti, alla fine, sulla stessa barca. Sia coloro che indossavano le divise blu notte sia coloro che avevano indosso quelle rosse, o soltanto un fazzoletto vermiglio, potevano provenire dalla medesima valle, dalla stessa montagna, avere le stesse famiglie, le stesse case alle quali tornare, la stessa lingua, la stessa chiesa da frequentare. Chi era contro chi? Come scegliere? Il generale venne colpito prima della battaglia disastrosa di Vezza D’Oglio, sul Monte Suello. Continuò in carrozza, perché gli avevano bucato un ginocchio, o forse un tallone, come Achille, o una caviglia o la coscia, non c’era modo di saperlo. Si era confusi e spiazzati. Spiazzato il famoso generale, che si confrontava con
un paesaggio non congeniale. Se avesse potuto, diceva, avrebbe fatto in altro modo. Sarebbe andato prima per Trieste, ecco, per le coste dalmate, aggirando l’ostacolo, evitando tutte quelle gole, quelle strettoie. Avanzarono lungo l’alta Valle, inseguendo il Chiese. A Condino si respinse il violento assalto del generale Kuhn. Con la furia e la disperazione di chi nulla ha da perdere, Andreas acquistò la rabbia e il coraggio che gli serviva, affrontò l’avversario, come se intendesse farla finita, che non ne poteva più, e intanto osservava i compagni e gli avversari cadere, ponendo a tutti una domanda muta. Sentì, in mezzo al campo, il canto di un gallo, frastornato o ignaro di quanto accadeva. Ultimi dieci giorni di luglio: guadagnata la Val di Ledro, al di là vi erano già Tiarno e Bezzecca. Quando il generale mosse guerra aperta, i suoi uomini riuscirono, e Andreas tra costoro, a chiudere l’avversario su due fronti. La belva attorniata, però, se non ha vie di fuga, diventa assai feroce, e non si deve andarle troppo vicino, ma sfiancarla. Non si capiva più chi attaccava e chi si difendeva, chi avanzava e chi si dava alla fuga, se erano loro o gli altri. A seguito di un furioso attacco di artiglieria, Andreas percepì di nuovo una presenza, e gli parve di scorgere il lembo di una veste scura.
Non ti muovere gli sussurrò negli orecchi, quasi in un bacio. «Non posso!» gridò il soldato, che non poté seguire il consiglio, avviandosi alla carica insieme al suo gruppo. Era il tempo in cui i fucili sparavano un colpo alla volta, e per impedire al nemico di rovesciare la polvere e le pallottole nei moschetti, ci si avventava contro di loro con le baionette.
X
Agosto 1866
Del soldato non aveva niente. Neanche la divisa, che era una camiciola e un paio di pantaloni rimediati alla meglio, i quali lo rendevano simile a un innocuo montanaro. Scoprì la guerra, imparò a imbracciare il fucile e a impugnare il coltello. Conobbe il dubbio se avanzare e rispondere al fuoco o lasciarsi cadere dentro un fosso nelle vicinanze e avere qualche possibilità di sopravvivere. Eppure gli sfuggiva il senso di quanto aveva vissuto, come il trovarsi o no dalla parte giusta, per via dell’esito incerto e sconclusionato dell’ultima battaglia. Non si sapeva mai dove voltarsi per rispondere al fuoco. Dormì rannicchiato sull’erba, con un occhio chiuso, il capo sullo zaino e trattenendo il respiro. Erano notti d’ombre appostate, in attesa di uscire allo scoperto. Ombre che non erano fantasmi o demoni, ma uomini. Poi le cose cominciavano a sbiadire, che lo coglieva il sonno, per ricomporsi l’indomani, nell’azzurro del mattino, di fronte a montagne possenti, sprofondate nel loro sonno immortale. Nulla sarebbe rimasto degli eserciti se, d’un tratto, si fossero svegliate o fossero franate insieme. Forse per questo nonno Oreste non tramandò alcuna memoria di ciò che aveva visto nei pochi campi di battaglia che aveva frequentato. Andreas avrebbe fatto altrettanto. Trascorse giorni a vagare di paese in paese, sotto i raggi obliqui del sole e la luce fredda del plenilunio, tra bottiglie vuote abbandonate sui marciapiedi, e le locande nelle quali ci si rinchiudeva a smaltire la ciucca, o a mendicare un piatto di minestra. Da bere e da mangiare non si rifiutava a un pellegrino, a condizione che non si fe rivedere. Quelli come lui entravano assetati in molte bettole. A essi l’oste non negava un bicchiere di rosso, specie se si faceva festa e tirava aria di sbornia. E dire che non si era sicuri di aver vinto. Si era contenti di tornare a casa, ma ciò non estingueva l’abbattimento per la sconfitta. Qualcuno dei camerati non avrebbe saputo cosa dire di quel che, forse, conveniva tacere. Di paese in paese gli capitò di udire diverse versioni delle battaglie che aveva combattuto. Alcune erano veritiere, altre ritoccate. Evitò con cura di intervenire nelle discussioni, o
di sbugiardare chi si vantava di cose che non potevano essere. I forestieri di rado erano ben visti, e potevano essere denunciati e sospettati di tutto per via del loro accento o per il colore della camicia e del fazzoletto intorno al collo. Non era il caso di essere inviso all’autorità, di qualunque parte essa fosse. Questi erano i timori che nidificavano dentro, trovare, prima di sera, un rifugio nel quale acquattarsi come i gatti. Insomma, Andreas tornava proprio da quella battaglia lì, con gli occhi bassi, il logorio dei nervi e la nostalgia. Usciva alla chetichella dalle porte di Bezzecca, che aprivano la via verso Trento. Durante la marcia ricordò le storie che nonna Giuseppina gli aveva narrato, del soldato timido e sperduto capitato al suo casolare, più di sessant’anni prima. Ecco come doveva sentirsi nonno Oreste, privo di una patria che non fosse la divisa, così fuori dal suo mondo. Fosse stato conscio di ciò che l’aspettava, avrebbe preferito mimetizzarsi tra le piante, o costruire casa sopra un albero. O vincere la paura atavica e inutile del Castello che da secoli, ora lo comprendeva, proteggeva la valle senza che nessuno se ne fosse accorto. Al ritorno dalla guerra Andreas seguì la via dell’acqua, il percorso delle rogge e dei torrenti che tracimavano a valle, finché non arrivò a uno snodo oltre il quale, credeva, avrebbe scorto Valchiusa. Sbagliò versante e sbucò da un’altra parte. Gli toccò tornare indietro, ripercorrere una certa carreggiata e voltare invece di proseguire dritto. La valle la raggiunse non senza difficoltà, perché i villaggi visti da lontano si somigliavano tutti. Si ritrovò a girovagare tra strade e mura sconosciute, con la paura di essere arrestato a ogni o. Non prese le carreggiate, preferì camminare per vicoli tortuosi. Potendolo fare si addentrò nei boschi, prolungando la strada. Entrò di nuovo nello stesso paese, riconobbe la locanda e l’insegna prima che la piazza. I soldati dell’impero stanavano i disfattisti e coloro che si erano distinti in attività sovversive. Talora incontrava qualcuno, ma nessuno gli prestò attenzione, o rispose alle sue domande. Valchiusa in fondo non era nelle mappe, difficile che taluno fosse in grado di indicargli, a braccio, la direzione da prendere. Stava girando in tondo una seconda volta quando scorse una figura scura appostata in equilibrio su una cima. La ravvisò appena, facendosi scudo sugli
occhi con la mano. Seguì d’impulso la direzione che essa indicava. Ogni pochi i svaniva per riapparire poco oltre. Le urlò qualcosa, fece gesti, salutò, ma non ricevette altra risposta che la sua presenza. Fino allora si era lasciato guidare dal caso o dai sentieri d’acqua, perdendosi in questo o quel torrente che credeva essere un affluente del Chiese. Si mise a contare le cime, a sondarne le forme, finché gli si mostrarono nudi e crudi, impacciati e pudichi, costoni di montagna conosciuti. Finalmente riconobbe il macigno scuro sul quale era aggrappato un melo e le vette seghettate, il promontorio che cingeva l’abitato, quello con una sporgenza scura in rilievo: il Castello. Aveva sì e no ancora sei chilometri da percorrere. Il paesaggio sembrava privo della devastazione dei campi di battaglia, intatto e accogliente, bello e rifiorito. Una volta giunto, vagolò da un lato all’altro della piazza. Il paese gli parve assai più piccolo di quel che ricordava, come se le montagne fossero avanzate stringendo la valle. Più minute erano le case, più bassi i tetti. Andreas camminava rasente i muri, nel punto in cui l’ombra rientrava. ava e riava davanti alla propria casa senza dar segno di riconoscerla. La notte la trascorse fuori, ad aspettare nemmeno lui sapeva cosa. Osservava vigile la piazza deserta. Cercava il coraggio di chiedere di nonna Giuseppina e di altri che erano partiti, e non vedeva in giro o aveva paura di incontrare. Sentiva il bisogno di raccontare di sé, di fermare i ricordi che sfuggivano dalla sua mente come si fosse aperta una falla. Ma nessuno uscì dalle case per domandargli che vita avesse condotto e cosa si aspettasse di trovare in paese. L’immagine stessa di sua nonna, così faticosamente recuperata sul momento, si dissolveva offrendo un volto che non aveva fattezze, ma solo la vestaglia, il grembiule o il fazzoletto sul capo.
In uno di quei giorni, dopo la fine della guerra che chiudeva l’estate, Andreas la vide scendere dalla collina. Il mantello scuro l’avvolgeva in un bozzolo, ma non mascherava la grazia dei movimenti. Ecco il profilo delle ossa, i muscoli del collo e del viso, l’azzurro delle vene irrorate dal sangue, i capelli neri, le ciglia, le labbra rosse. Sembrava attraversare i muri, si muoveva leggera senza alzare la polvere. La seguì fino in piazza, dove eggiava disinvolta, a differenza di chi preferiva serrarsi in casa, nella speranza che i soldati dell’Impero non picchiassero alla porta chiedendo di entrare. Impalpabile, si mescolò tra le donne che uscivano alla chetichella e si guardavano intorno prima di spingersi oltre, e indietreggiare al minimo rumore. Verso sera la scorse all’interno di un casolare diroccato, nel quale si intrufolava da bambino. Un tempo vi trascorrevano la notte i senza tetto, qualche malcapitato, un viaggiatore che avesse smarrito la strada. Nonna Giuseppina l’aveva sgridato le volte che l’aveva notato a cacciarsi dentro: «Ti possono tagliare la gola, là ci vanno i briganti.» Di briganti però, ribatteva Andreas, non ne aveva mai trovati. Ci aveva semmai incontrato il prete, che vi teneva in fresco la selvaggina. Quante parole aveva buscato anche da lui. Fu un atto di incoscienza entrare nel covo. Era divenuto un deposito. Le finestre erano state murate, ma non l’ingresso. Stava per allontanarsi quando la vide scendere le scale. Gli sorrise di un sorriso ingenuo. Andreas si illuminò. «Ti riconosco, piccola Zoe. Mi hai indicato tu, dalle cime, la via del ritorno.» Solo questo ricordi di me? stava per rispondergli, ma altre furono le parole che pronunciò. «E ancora te la indicherò, che non mi sembri tornato del tutto. Non vedi che ti stanno aspettando in piazza?» «Vengo da lì» ribatté lui confuso, «e non ho incontrato nessuno.» «Allora sono alla locanda. Là troverai i tuoi cari, i compagni di battaglia che hai
lasciato indietro. A quest’ora chiederanno di te.» Alla taverna Andreas notò dei figuri che sorbivano la loro tazza di vino in silenzio. Accanto vociavano distratti giocatori di carte. Alcuni si avvicinavano al banco, ma non biascicavano che parole incomprensibili. «Sei nuovo?» domandava l’oste all’immancabile nuovo venuto, al che l’altro di solito annuiva. «Sei tu, Andreas?» disse riconoscendolo. «Hanno chiesto di me?» domandò lui ansioso. «Non ancora, ma è presto, non sono arrivati tutti. Guardati un po’ intorno, vedi se riconosci qualcuno. Sono appena tornati dalla guerra, come te e me.» «Anche tu hai combattuto?» «Non direi combattuto, sono caduto appena ho messo piede nel campo. Una cannonata e via, non ci sentivo già più. Mi è rimasta molta polvere negli occhi e non c’è verso di togliermela. Vedi? Cade pure nei bicchieri che continuo a strofinare.» «Che ne è di mia nonna?» domandò con un filo di voce, che non ci capiva niente e intanto l’ansia montava. Quale di quelle di fuori è la mia casa? fu la domanda che gli morì in bocca. Però l’osteria se la ricordava, e con essa l’oste, il banco contro il muro, le sedie e i tavoli davanti. E suo nonno. Sì, aveva un nonno. Forse una madre da qualche parte. «Ormai non ha motivo di cercarti» gli rispose l’oste con gravità. Andreas trasse un sospiro. Cercò un posto a sedere nella penombra, in preda a una profonda tristezza. Quelli come lui tentavano di tirare le fila e di raccontare una storia, col dubbio fosse di un altro e non la propria. E la raccontavano non una, ma due, tre volte, finché non la dimenticavano. Se la facevano raccontare da chi l’aveva appena ascoltata. Una, due, tre volte, finché anche questi non la dimenticava. Da quello
che gli riuscì di intendere, non solo il paese si era riempito di reduci claudicanti e orbi, avevano pure cominciato a schiaffar gente in gattabuia ed era stato decretato lo stato d’assedio. Vigeva, infatti, la legge marziale, ed era un continuo via vai di soldati in divisa blu notte, impegnati a stanare renitenti, sovversivi e irredentisti. Entravano nelle case, rovesciavano sedie, gettavano in aria cassetti, ispezionavano a fondo i camini, staccavano dai muri le mensole. Erano frettolosi e impertinenti, alti fino al soffitto, con la spada e lo schioppo in vista, e le divise d’ordinanza fresche di bucato, impeccabili, e poi il cappello sopra i visi scavati e severi. Se ne erano visti parecchi in giro, nelle ultime settimane. Per questo i valligiani non osavano mettere il naso fuori, salvo sbirciare tra le croci delle finestre, in piedi col camicione e la berretta. Molti scavalca-montagne avevano rinunciato non solo a rientrare, ma si erano risolti a emigrare. I più coraggiosi si erano recati a Genova per partire niente meno che verso le Americhe o il Brasile. Fu rinforzata la guardia civica, ciò significava che subito dietro alla prima coppia di gendarmi, seguiva la seconda. Costoro rimanevano fissi e immobili, di vedetta sulla piazza, tanto che parevano due manichini, parte dell’arredo urbano. Apparivano la mattina presto, e là stavano fino a mezzogiorno. Poi si allontanavano a o di marcia o di fanfara, mentre chi veniva dopo, sempre a o di marcia o di fanfara, dava il cambio. Da qualche giorno in paese l’Ufficiale Generale non faceva altro che ascoltare, interrogare e controinterrogare quelli rimasti. Fece incetta di storie di vecchi. Si fece confidare chi vivesse di qua, chi alloggiasse di là, in che rapporti fossero tra loro. Le storie erano tante e intricate, i nomi non finivano mai, e difficilmente si sarebbero tenuti a mente, e poi si verbalizzava tutto. A ingarbugliare le cose più del dovuto, fu una furbata di quella gente di montagna. Un poco per non farsi infastidire una seconda volta, un poco per non impegolarsi oltre il necessario. Per confondere le acque ci si arroccava dietro il proprio vernacolo, tanto ch’era impossibile cavarci qualche cosa. Mai parlar chiaro con chi, con quel che ti fanno dire, può remarti contro. L’oste si avvicinò all’improvviso ad Andreas e gli diede una pacca sulle spalle, versandogli nuovo vino. «Smettila di angustiarti, guarda chi c’è.» Tra loro si sedette la Vivena. Al suo ingresso gli avventori si levarono il
cappello. Anche lei ascoltò, muta, gli ultimi discorsi. Poi intorno si fece silenzio. Perché la Vivena lì presente era colei che aveva tenuto insieme le generazioni che si erano succedute, era la memoria, le cose dimenticate e i segreti inviolati che riposavano granitici dentro di lei. Se ne stava immobile, simile a un aedo pronto a essere interrogato o a interrogare. «La signora non beve?» le domandò l’oste con dolcezza. La donna sorrise e ringraziò, allontanando con un gesto la tazza traboccante che le fu porta. «Non manca molto» si sentì sussurrare, al che Andreas trasalì. Gli ultimi tavoli vuoti si erano riempiti nel frattempo. Non mancava nessuno, come fossero entrati da un’altra porta. Ci si osservava sparuti e confusi, in attesa che accadesse qualcosa, o si pronunciasse la parola decisiva. Tra loro abbozzarono un sorriso, si alzò il brusio di una chiacchiera. Ecco Marteus, al quale Andreas avrebbe domandato volentieri notizie di quanto accaduto in paese durante la sua assenza. Scorse nonna Giuseppina, ma non fu sicuro si trattasse di lei. Era più giovane di quando l’aveva lasciata. I capelli erano candidi, poche rughe segnavano i lineamenti. Non degnò di uno sguardo il nipote, intenta a lisciare i capelli scuri di una ragazza silenziosa, alla quale parlava sottovoce. La ragazza dai capelli scuri assentiva, sorrideva e non cessava di fissare Andreas. Era incerta se chiamarlo a sé o attendere che fosse lui ad avvicinarsi. Andreas stentò a capire chi fosse, poi un ricordo infantile si fece strada. Era la Vivena che aveva incontrato al Castello… priva del mantello che indossava, ora, quell’altra. In breve distinse a uno a uno coloro che lo avevano affiancato nell’ultima battaglia. Uno caduto in una rupe, un altro dilaniato da un mortaio, un terzo ucciso a colpi di baionetta. Chi aveva perduto una gamba, lo vide camminare con entrambe. Rivisse il boato e il sibilo nelle orecchie, il violento dolore al petto, l’ultima immagine di un incubo prima del risveglio, la terribile sensazione di avere un moschetto puntato e fumante dopo essere esploso contro di lui. Era morto nel
campo di battaglia che non aveva neanche la camicia, né le scarpe ai piedi. Eppure aveva marciato per giorni interi, con l’idea fissa del ritorno, senza mangiare nulla, né bere. Era stato l’ultimo ad accorgersi di non aver sofferto il freddo, la fame, né il male alle ossa per le notti trascorse all’aperto. E ultimo anche a notare che persino il vento gli aveva girato intorno per giorni pur di non soffiargli nelle orecchie. I dubbi svanirono del tutto quando un uomo tarchiato e con o pesante si avvicinò dandogli un buffetto sulla guancia. «Mancavi solo tu, sai, senza di te mica si parte» brontolò nonno Oreste. La voce giunse chiara, le parole ben pronunciate. «Si parte? E per dove?» domandò lui. Fu nonna Giuseppina a rispondere, senza smettere di pettinare i capelli di Marlena: «Andiamo al ponte. Al ponte delle Vivene.» Presto nemmeno Andreas pensò a quello che lasciava. «Che aspettiamo ad avviarci? La luna è bella tonda» borbottò tra sé il carbonaio. Non mancava molto alla mezzanotte. Marteus guardò serio verso la Vivena che stava ai margini e li osservava triste. Andreas condivideva lo stesso desiderio di inoltrarsi verso le colline, i prati che di notte non si vedevano, ma profumavano più che durante il giorno. Marlena scrutò Zoe con un dispiacere che durò un istante e parve subito dimenticato: «Le ho salvato la vita spogliandomi del mantello. Ma a cosa l’ho condannata?» La ragazza sgranò gli occhi e fu presa da un sussulto. Come, tutto qui? Si volse verso l’oste che seguiva gli avventori, cercò Andreas che aveva parole dolci per gli amici, per nonna Giuseppina, per sua madre, ma nessuna per la piccola Zoe. Eppure era grazie a lei se quegli spiriti avevano ritrovato la strada di casa. Si erano incontrati per un ultimo saluto, prima di venire traghettati chissà dove, mentre lei era destinata a un’incontrovertibile solitudine. Doveva esservi una festa. In osteria si beve, si suona, si fa baldoria. Si vive. La indispettiva il sipario che, scuro e inquietante, scendeva calando dalle pareti annerite che neanche le candele riuscivano a illuminare. Vi era qualcosa di ingiusto e disonesto in tutto questo, pensò. Troppo forte era l’attrazione, la voglia di staccarsi e partire con
loro, salire sull’invisibile cocchio che li attendeva. Pure Marlena, colei che l’aveva cresciuta ma non sufficientemente amata, se ne andava, col cuore in trionfo e rivolto al figlio, dimentica di lei. Guardò Giuseppina, paga di avere a fianco il marito, la figlia, il nipote. La morte univa ciò che la natura aveva loro sottratto. Parto anch’io con loro, no? domandò a se stessa. Ma la Vivena non le rispose. Una lacrima scese da un occhio, mentre l’altro rimase asciutto. Zoe aspettava con ansia il colpo di scena, il finale lieto, la rivincita. Pensava a un traguardo che non poteva essere quello che si mostrava, che alla morte di Andreas non credeva, come al resto che aveva distrutto quel po’ di mondo che le restava. La Vivena, serbando un ostinato silenzio, la tratteneva a sé con rabbia, proprio quando lei avrebbe desiderato fare altrettanto con lo spirito di Andreas che non le badava. Una vita nell’aldilà non esiste. E le anime immortali, che io sappia, oltre a contarsi sulla punta delle dita, sono quelle che soffrono di più. Vedi? Si sono dimenticati di noi. Un malessere dapprima dolce, poi sfiancante e risoluto, scorse come sangue nelle vene. Zoe ansimò, cominciò a divincolarsi dalla stretta che la teneva asserragliata, simile più a una catena che a un vestito. Il viso, dapprima imibile, tradì un’emozione violenta. Lasciami andare via con loro. Desiderava stare tra Marlena e Giuseppina, nella comunità da cui era stata sottratta e che rimpiangeva. A che sarebbe servito? Tra poco si sarebbero dissolti e non sarebbero stati più. Né qui, né altrove. Una frangia del mantello le si avviluppò in vita, ma senza troppa convinzione. Bastò uno strattone per attenuarne la presa, pur non sciogliendola del tutto. Zoe si sentì defraudata, e defraudata era la Vivena, indispettita dal via vai di soldati che a intermittenza avevano scombinato la routine della montagna, e
contro il quale non poteva fare nulla. Non era un esercito compatto da sbaragliare con un colpo di vento o con una frana. L’Imperatore aveva giocato sporco arruolando gente del posto. Da un po’ si era insinuato un tarlo nella Vivena, impotente di fronte a questo e nuovi modi di darsi battaglia, che si faceva a meno del rombo dei cannoni, ma non di leggi e decreti. La Vivena era stata un intero popolo di donne, e tra esse si ribellava l’ultima venuta, che al silenzio delle altre voleva imporre la propria voce, e gridare qualcosa, fosse più di un’ultima parola. Zoe, con questa parola a fior di labbra, fissava gli ultimi fantasmi che, uscendo, avrebbero riempito la piazza, dimentichi di loro stessi. Protestava contro la rassegnazione della Vivena, lontana da qualsiasi sguardo che non fosse il suo, spirito che si insinuava ovunque, difficile da afferrare, da salvare. Traghettatrice di anime, non poteva abbandonare lo spazio in cui era collocata. E la stessa sorte spettava a Zoe, un tutt’uno con essa, un ingranaggio vivo, dentro la causa che produceva ogni effetto. I morti in paese sono più numerosi dei vivi e tutti prima o poi, pensava, eranno oltre il Ponte delle Vivene. Anche coloro ai quali è stato proibito. Dalla sua parte la Vivena aveva le leggi della natura, le stesse che la tenevano al laccio, e contro le quali gli uomini potevano molto grazie al loro ingegno. La Vivena invidiava il loro dio, sempre che ne pregassero uno. Sopra di sé osservava il cielo vuoto che le pesava sulla testa più della propria indifferenza. Zoe comprese che ella non era più che il mantello nelle cui fibre si era fusa. Non era più di colei che le dava un volto, le mani, le gambe per camminare. Finalmente si sciolse con uno strattone dal mantello impigliato nella gamba della sedia, per correre in direzione di Andreas che si volse per l’improvviso trambusto. Non fece in tempo a pronunciarne il nome che svanirono tutti. Zoe si ritrovò nella taverna vuota, sola, imbambolata e al buio. Si spensero le candele, calò con violenza il sipario nero. Alla cieca cercò il mantello che lacerò nel districarlo dalla sedia. Le frange che le restarono in mano avevano la consistenza della carta. Con lei l’orologio della piazza a battere l’ultimo rintocco della mezzanotte.
XI
1866 - 1871
Adelina avvolse in un mantello scuro una bambina sfuggita a sua madre. Incurante delle grida di costei, gliela rapì sotto il naso. La condusse non in casa ma al Castello, che spalancò loro il gran portone. Vi si chio dentro, rendendo difficile qualsiasi irruzione dall’esterno. Subito dopo dal mantello uscì una ragazza dai capelli neri e lo sguardo penetrante. «Chi sei?» le chiese Adelina, riconoscendola. Era colei che aveva invitato una volta a entrare, offrendole latte caldo e pane secco, e poi era fuggita in preda a chissà quali trepidazioni. «Sono Zoe, mamma, Zoe!» le rispose gridando, riappropriandosi del nome che ella stessa le aveva dato, quando l’aveva partorita.
Se il tramonto del cielo in tempesta era stato rosso, l’alba si colorò di un viola intenso. La sua luce graffiò gli occhi di Adelina che faticava a rendersi conto di dove si trovava, sopraffatta dal sogno che l’aveva tormentata tutta la notte. Aveva di nuovo rivissuto quel giorno, anche se in modo diverso. Stavolta le parti si erano invertite. Si alzò, si rinfrescò il viso, pronta ad affrontare un’altra giornata. Uscì, salutò la dirimpettaia con un largo sorriso, parlottò di questo e di quello. A metà mattina l’incubo era bell’e dimenticato, anche se un velo d’ansia l’assalì a causa del cuore che le balzava in petto e non accennava a placarsi. Stava scansando le foglie secche che il vento aveva accumulato nei pressi dell’uscio, quando si sentì chiamare. Le sembrò la voce del garzone del paese, ma non poteva essere. Sua madre stava ancora piangendo quel povero ragazzo di appena vent’anni. Dio solo sapeva in quali campi di battaglia l’aveva portato l’ultima guerra.
«Wotàn?» fece lei a sua volta, confusa. «Wotàn?» Si alzò il vento verso le alture. Lasciò cadere il rastrello e, dimentica delle foglie, avanzò guardinga. Percorse la piazza in diagonale, raggiunse la mulattiera che cominciò a salire. Allora la vide e la riconobbe. Comparve tra i cespugli inselvatichiti, con i capelli scarmigliati e lo sguardo di chi aveva errato per l’intera notte senza sapere dove andare. Tremava tutta, infreddolita come se avesse trascorso molte ore all’addiaccio. «Mi chiamavi tu? Che ti è successo, bimba mia?» domandò Adelina alla ragazza che la fissava con labbra mute e gli occhi umidi. «Dai, scendiamo, a casa ho del caffè, cosa rara e preziosa, me ne hanno portato giusto ieri un sacco intero» le disse. Zoe non oppose resistenza. Si lasciò condurre fino a un muretto, quello su cui spiccavano gli ultimi decreti dell’Imperatore. «Tranquilla, se ne sono andati. Hanno interrogato tutti, ne hanno fucilato un paio, più disgraziati che altro. Chissà che non si possa stare un po’ in pace, ora, a non sentire il loro sbattere di speroni. E parla, su, Zoe, mica mi sei diventata muta, no? Perché questo è il tuo nome, vero?» Adelina le accarezzò il viso, indugiò sulle guance, le labbra, il naso. «Finalmente qualcuno che torna, dopo tanti che son partiti. Ti ho sognato stanotte, sai? Ed è da stamane che ho un presentimento, ed eccoti qua. Lo dicevo io che una volta o l’altra… e dire che tra poco non ci sarà nessuno, solo qualche vecchio. E pochi figli. Sai, ci sei tu, c’è Michele, il figlio dell’Assunta. Te la ricordi l’Assunta, che ti teneva sulle ginocchia? E Antonio, un po’ tocco, ma un buon figliolo pure lui…» A una manciata di metri l’attendevano quattro mura accoglienti, con un bel fuoco crepitante. Zoe non dormiva da giorni. Aveva girovagato a vuoto, non perché si fosse persa, ma per via di una tensione inesauribile che la spingeva sia sulle alture, sia in paese, ed era difficile decidersi, se per un senso o per l’altro. «Gli Austriaci non ci hanno depredato di tutto, qualcosa l’abbiamo conservata.
L’inverno che viene sarà terribile, ma la legna non ci manca. E poi ci sono le robe da lavare. Approfitteremo delle belle giornate per andare al fiume.» Adelina non lesinò racconti, la tenne al corrente di quanto avvenuto durante la sua assenza. Pure del Castello le narrò, a lei che l’aveva abitato per anni. Zoe ascoltava senza dire nulla, ma un sorriso dolce le illuminava il viso. Ciò incoraggiò Adelina, avida di riprendersi la figlia e di recuperare il tempo perduto. La ragazza lesse nello sguardo un velo di rimprovero, e per un momento si rivide piccola, a tre anni, quando per timore di essere rimbrottata le era sfuggita, andando a nascondersi tra le pieghe del mantello di colei che l’aveva stretta a sé. Era così accogliente, il cantuccio che l’aveva avvolta, e teneva così caldo. «Va beh, lasciamo are qualche giorno. Ti riposerai, recupererai le forze e mangerai come si deve. Ce n’è tanto da fare, sai? E poi ho un’età che…» Adelina aveva buone braccia, tornite e rassicuranti. Gli occhi vispi non perdevano di vista la figlia, come a sincerarsi di averla al suo fianco, e non crollasse incespicando al prossimo o. «Ma allora, lassù, proprio non c’è più nessuno?» le domandò infine. Zoe le aveva detto che ormai il Castello era sigillato per sempre, e che non era abitato. «No. Non c’è più nessuno» le rispose, non resistendo alla tentazione di voltarsi di nuovo, in direzione delle mura che facevano bella mostra di sé. Adelina continuò a parlare, raccontava di questo e di quello. Zoe le si appoggiò, sfinita, lasciandosi accompagnare dentro casa.
Della guerra franco prussiana combattuta pochi anni dopo a Valchiusa non si sapeva granché. I soldati dell’Impero, nel frattempo, si erano dileguati, impegnati su ben altri fronti. Da qualche parte c’era la Prussia, e poi la Francia, a reggere le sorti di un conflitto sanguinoso. Grazie al cielo nessuno del paese partì per rinsaldare le fila dei combattenti. Tuttavia fu facile avvertire che l’aria era cambiata, per via di Zoe che tendeva l’orecchio, o si bloccava all’improvviso durante le faccende di casa. Fu lei a consigliare all’Assunta di nascondere Michele, che non era il caso si fe trovare. E si fece bene. Certo, a Valchiusa ormai c’era solo qualche vecchio, ma le liste di coscrizione andavano a caccia
dei nipoti, mettendo nero su bianco le loro generalità, e in subbuglio i cuori delle famiglie rimaste. Quando vennero a cercarlo, non lo trovarono. Non pensarono di perlustrare le baite delle alture o le casupole dei carbonai, né di fermare e perquisire le pie donne che si alternavano lungo la strada, a portargli i viveri e il cambio dei vestiti. Anche Antonio la scampò. Finse di essere sciancato oltre che tocco, e tale che un fucile non era in grado di tenerlo senza scaricarselo addosso. E il tenente che bussò alla sua porta per condurlo via preferì stargli lontano e lasciarlo a quella poveretta di sua madre. Ci si dovette rimboccare le maniche per prepararsi all’inverno. Si chiamò da fuori qualche fattore, che lavorasse di piccone e badile. Si riaprirono le baite, ci si riappropriò delle stalle. Il difficile era curare il bestiame come si deve, che i vecchi padroni facevano quel che potevano. Fu lì che Zoe si ricordò del suo orto. A primavera si potevano scavare terrazze intorno, e magari farne campi di erba medica. Valchiusa sarebbe rifiorita di nuovo. L’alternativa era abbandonarla al suo destino, e lasciare che gli ultimi abitanti emigrassero chi a Gramo, chi a Colledoro o a Valmezzo. O a Condino e a Bondone. Furono le donne, in assenza dei mariti e con il consiglio dei padri o dei nonni, a ricominciare da capo, a lavorare di buona lena cantando. E grande fu la sorpresa di Adelina del sapere della figlia, che volentieri condivideva le conoscenze e i segreti appresi dalla Vivena. Attraverso di lei rivivevano la mansuetudine e la grazia di Vincenzina, la rabbia della Gisella quando estirpava la malerba o le prendeva la smania di starsene da sola sul Ponte delle Vivene. In lei sopravviveva lo sguardo dolce di Marlena, quando l’aveva curata. Qualcuno pensò di riaprire l’osteria, ma Zoe non ne volle sapere. Impallidiva e le tremavano le gambe solo all’idea di entrarvi. Lei no, diceva con un sorriso triste, ci pensassero le altre, lei non ci avrebbe messo piede. Certo, conveniva, sarebbe stato bello se vi fosse stato da suonare e da ballare, ma non c’era tempo di pensare a queste cose. Adelina cercava di consolare il suo cuore irrequieto, e le chiedeva ragione della tristezza che non l’abbandonava mai.
«Ti ci vuole un marito, figlia mia. È l’ora che ti sistemi. So già chi farebbe per te, Michele è un buon uomo, lavoratore, non dire di no.» Zoe la guardò seria e decisa: «No. Michele no. Piuttosto Antonio, vada per Antonio, se mi vorrà.» Adelina, basita e confusa, ne domandò il motivo. «Ma guarda un po’, ma guarda un po’. E perché? O cielo… non mi dirai che…» Zoe sorrise vergognosa, e le confidò che sì, si erano conosciuti. Non era questo a tormentarla. Spesso si incantava a osservare l’orizzonte, come se oltre si nascondesse una minaccia. E non erano tempeste, tuoni o frane. Dio solo sapeva quanto volentieri avrebbe fatto a meno di quella premonizione.
XII
24 – 7 – 1915
Il cielo, che fin dal mattino presto era parso terso e sgombro, si oscurò d’un tratto. Non si trattava di una nube primaverile carica d’acqua, ma di una sagoma affusolata che ugualmente portava tempesta perché la sua voce tuonò, inaspettata, lungo l’intera valle. La vecchia Zoe alzò lo sguardo e il batticuore, l’angoscia, l’improvviso spavento, si leggevano nel suo volto. Chissà perché le venne in mente un o che le aveva letto suo figlio, una sera: «Quanto desiderate elevarvi in alto e verso la luce, con tanta più forza vi abbarbicate nella terra, inoltrandovi nel suo abisso, verso il male.»{2} Lei aveva capito “verso il mare”, subendo il fascino del racconto di Dedalo e di Icaro. Ed essi rievocava in quei momenti, quasi fossero stati risputati dal mare che li aveva inghiottiti e si nascondessero nella pancia di quel velivolo sbuffante e imperioso, che sfiorava le montagne e ava poco sopra le chiome dei pini. Zoe non ne aveva mai veduti prima d’ora, ne aveva solamente sentito parlare. Di cosa era fatto? In apparenza vi era metallo e legno, spargeva vapori e umori e l’aria si colmava di caligine solfurea. E le ali? Non erano di cera, non si liquefacevano al sole. Al seguito del primo ne sopraggiunse un altro, e tra essi si incuneò un terzo. Per non cadere, turbinavano insieme rincorrendosi, sfidando il distacco dal suolo, la forza di gravità. Che impressione le loro bocche dentate, la tetra spensieratezza di divinità oscure. «Madonna Santissima, e per salpare come fanno? E se son navi dove attraccano?» si domandava in paese a chi si riteneva ne sapesse un poco più degli altri. Alla fine delle loro evoluzioni, scomparvero calando all’orizzonte. Al contrario di Zoe, Vivian, sua nipote, era rimasta estasiata da quelle creature volanti, che ora sfuggivano al suo sguardo. Indispettita, desiderò raggiungerle e aggrapparsi alla loro coda, come fossero semplici aquiloni di carta. Stava per uscire quando sua madre l’acchiappò per la collottola e la rimbrottò.
«Non muovetevi» sibilò Zoe sussultando e puntando il dito. Aveva cominciato a piovere, o almeno così sembrava. Non era un acquazzone di gocce larghe e rumorose, ma spruzzaglia di detriti che seguì un tuono più forte degli altri. Calò un mare solido di schegge mischiate a legno, ferraglia e roccia. La montagna si era spostata, avanzando di un o. Nello stesso momento, a pezzi e a frantumi, in una danza ininterrotta di funi attorcigliate e travi sconnesse slacciate le une dalle altre, il ponte delle Vivene si arrese alla forza di gravità. Le sue assi entrarono nelle fenditure della roccia, sbatacchiando contro la pareti. La battaglia aerea si combatté al riparo degli occhi, colorando l’orizzonte di squarci rossi. Anche il Castello cedette, insieme alla montagna che smottò sotto i colpi delle bombe. Una cascata di terra, detriti e polvere annaffiò la piazza e si incollò ai vetri. Volarono scaglie legnose abbattendosi sui tetti e sulle finestre. Zoe si tenne stretta ai propri cari. Abbracciò la nipote, la nuora, in apprensione per il figlio, chiamato Antonio come suo padre, accovacciato in chissà quale trincea. Le donne gridarono quando un sasso frantumò il vetro della finestra, senza riuscire a entrare. Poi scese il silenzio. Nessuno osò abbandonare il proprio riparo. Chi avesse messo il naso fuori avrebbe appena intravisto un’ombra aggirarsi per la piazza devastata. Camminava sopra i calcinacci, guardava le case. Ce n’era una più scheggiata dell’altra, ma erano tutte in piedi. Questo le bastava.
Epilogo
La mia memoria è intatta. Io che abito tra queste montagne ancor prima che emergessero dalle acque, mi ridestai dopo un sonno lungo molte ere. Mi sorpresi nel ritrovare il mio corpo fasciato di un misto di terra, foglie, rami e polvere. Mi domandai chi m’avesse deposta e perché in quel luogo anziché un altro. Cominciò tutto da un battito di palpebre, le mie. A dire il vero avevo prima aperto la bocca e ne era uscito, con tormento, il primo respiro. Poi seguì il secondo, il terzo e infiniti altri. Riempivo e svuotavo i polmoni. Bruciavano tanto che gridai per il dolore. Udii per la prima volta il suono della mia voce, a incontrare la luce abbagliante del giorno. Dalle mie parole non nascevano le cose. Non vennero fuori stelle o pianeti, ché l’Universo l’aveva creato già qualcun altro. Di ciò rimasi male e tenni il muso. Poi scoprii la notte e la luna, così arida, lontana. Eppure non priva di pianure e monti, il tutto però ghiacciato come in un perenne inverno. “Chissà”, mi domandavo, “che non sia in realtà un enorme specchio e che quelle pianure e quei monti siano quelli che ho intorno.” Mi mossi da me. Non era la corrente delle acque o il vento a permettermi di alzare prima il capo, poi la schiena, da supina che ero. Vidi così che la sterminata distesa delle acque nella quale mi credevo immersa si era ritirata da tempo, lasciandomi sulla terra, all’asciutto. I pesci avevano riguadagnato l’acqua, gli anfibi sarebbero rimasti raminghi e indecisi tra un regno e l’altro. La mia attenzione si rivolse agli steli d’erba che spiccavano dal suolo. Sfiorai con le dita dei boccioli e avvertii l’agitarsi improvviso della loro linfa. Odorai la fragranza dei prati e distinsi uno a uno questo e altri profumi: delle rocce, dei licheni, dei funghi, della terra che raccolsi e annusai. Percepii il calore proveniente dalla profondità della terra, le tracce di una pioggia recente. Seguì il mio primo pensiero fatto di colori, di aromi, sensazioni. Provai a imitare le melodie dei pettirossi e i cinguettii dei pulcini nei nidi,
ricevendone risposta. Raggiante di gioia, al mio canto si unì la danza che durò fino alle luci del tramonto che mi lasciarono di stucco: “Io chi sono? Chi sono Io?” mi domandavo di nuovo, e sempre mi sarei domandata. Nei giorni che seguirono studiai le mie mani, le braccia, il ventre, le gambe con le quali potevo correre, saltare, dare calci ai promontori che intralciavano il cammino, e non avevano intenzione di scostarsi per lasciarmi are. A meno di farmi strada tra le fessure di roccia, fino a raggiungere la vena delle profonde falde che abitai. Non so da quali metamorfosi provenivo. Se un tempo fui in grado di trattenere le mie forme pur cambiandole mille e mille volte, le particelle di cui ero fatta cessarono di fluire da uno stato all’altro se non a costo di sfiancanti sforzi, finché il mantello non mi imprigionò dopo aver bevuto tutte le mie lacrime. Ma prima… Prima, trovandomi tra selve, gole e giogaie, per millenni andai alla ricerca delle mie compagne. Tanto vagai, eppure non mi riuscì di incontrarne nemmeno una, se non quando mi imbattei nella mia immagine riflessa in una pozza. Se ve ne erano, non l’ho mai saputo. Se l’una era desta, l’altra era ancora assopita, se l’altra si svegliava dal suo sonno, l’una si allontanava per Diosadove. O forse ciascuna sfuggiva allo sguardo della propria simile tramutandosi in corso d’acqua, in roccia, in arbusto, cosa che provai a fare anch’io per scampare alla voracità dei lupi o delle iene, o quando mi sorprese un fragore inaspettato, un sospetto tremare di fronda. Accadeva che per avanzare più velocemente prendessi la forma di un’antilope. Per raggiungere senza sforzo, a o d’aria, le cime dei monti mi libravo in volo in forma d’aquila. Contavo i giorni e le stagioni, addormentandomi nel fondo delle caverne, lontana dall’angustia dell’aver coscienza di me. Sognavo di essere una pietra, un ragno, una foglia, un grumo di cenere, un poco di lava. Mi addormentai e mi risvegliai che era inverno. Erano nate le mie montagne, salite fin oltre le coltri.
Grande fu la sorpresa, dopo l’era dei ghiacci, nell’accorgermi che qualcuno abitava le vallate. Non vi erano più solo distese di boschi, sterpaglie e paludi, ma anche villaggi di capanne. Le creature che incontrai erano primitive, strane, piccole e affaccendate. Per combattere la solitudine, indecisa sul da farsi, mi accontentai di studiarle da lontano. Ogni tanto scendevo, di notte mi appostavo di fianco alle loro case, ne spiavo i movimenti e i rumori, vegliavo sui loro figli. Spesso incontravo qualcuno nelle alture, intento a raccogliere delle erbe o la legna per il fuoco. Allora me ne stavo in disparte, timorosa, a osservarne il comportamento. Solo dopo molte remore mi mostrai e diedi confidenza, talvolta riaffidando alle madri i bambini che non di rado si perdevano nel fitto dei boschi. Frequentando i villaggi, conobbi molte donne e i loro figli. Ne appresi il linguaggio, insegnai loro ciò che era necessario per affrontare i tormenti dell’inverno. Gli abitanti dei villaggi mi accolsero di buon grado, riconoscendo in me ciò che ero: un benefico spirito da venerare e al quale ricorrere quando ve ne fosse stato bisogno. Condivisi la scienza delle erbe per curare le febbri, e mostrai loro dove trovarle. Se in casa c’era un malato, sostavo davanti all’uscio o alla finestra, dai quali consegnavo i medicamenti necessari. Dentro le case non entravo volentieri, salvo nei fienili o nelle stalle, ad assistere i parti degli animali. Il mio aiuto si rivelò prezioso per le puerpere, che partorivano apposta nelle greppie. Mi si scorgeva di notte a vigilare sulle valli. Scendevo e risalivo verso le montagne. Gli insonni potevano intravedere la mia ombra illuminata dalla luna. Coloro che uscivano di casa poco prima dell’alba mi trovavano al proprio fianco, lungo il cammino. Nessun esercito riuscì mai a porre sotto assedio il paese perché, se non bastavano i declivi e i burroni, ne impedivo il aggio scatenando i venti più forti, sbaragliando le fanterie più risolute, prima che raggiungessero il mio confine. Senza rendermene conto fui vinta dal fascino di queste creature. Come successe al centauro Chirone, venni punta da una freccia che mi intossicò il cuore. Nello stesso modo si appropriarono di me, imprigionando la mia volontà ai loro desideri. Iniziò una reciproca conoscenza destinata a guastarsi e a rinnovarsi in una
danza rituale, senza posa, nel corso dei millenni. Non furono rare le incomprensioni, e non poteva essere altrimenti. L’immanifesto si mostrava al manifesto, il cielo alla terra, il sereno si alternava alla tempesta e albergava nei cuori un sentimento confuso, una mistura indefinibile di amore e rancore. Mi impossessai delle loro paure. Fin dal lontano momento della creazione non ero stata assalita da una tale sete di conoscenza, di ciò che è causa della storia degli uomini. Dove mai può rifugiarsi un essere che trascende il tempo se non spogliandosene qualora ne sia stato irretito? Deve disimparare quanto ha appreso dagli uomini che ha incrociato lungo il cammino, sua unica tentazione. A rifletter bene proprio questo è l’uomo per un essere senza tempo: un’invincibile quanto nefanda tentazione. La divinità, o ciò che tale si ritiene, non s’invischia con leggerezza nel destino di tale creatura. Alla divinità non è consentito morire, nemmeno di incontrarla o di vederla, la morte. Cacciare l’umanità dal paradiso terrestre è nulla se non se ne spartisce la sorte. Ma una volta creati gli uomini, ecco creato il tempo, come non venirne travolti? Gli dèi antichi questo grave rischio lo corsero senza pensarci, e troppo tardi se ne avvidero, o non lo intesero affatto. Scoppiarono irriducibili tumulti tra le divinità del cielo, tanto che dovettero distanziarsi tra loro, affinché la discordia non si rinnovasse all’istante. Per questo motivo mi stupii di quei mostri volanti che vidi all’orizzonte. Non mi capitava più di incontrare qualcuno di questi Eterni. Echeggiavano soltanto, nei miei sogni, le loro voci e i ricordi di remote battaglie combattute nei cieli di brace in forma di bufere e tormente. “Io? E Io?” mi ripetevo senza posa. “Chi sono Io? Forse un sasso, una pianta, un pesce, un volatile, una roccia? Appartiene a me tutto questo spazio? Tutto questo è una sola cosa con me? Sono divisa tra le tenebre e la luce, tra il giorno e la notte? Sono io la luna piena, sono io anche la luna nuova? È mio il calendario? Sono mie le stagioni?” «Stanno tornando. Stanno tornando a prendermi!» gridai entusiasta nel vederli
apparire. Se ne andarono e io rimasi a guardare l’azzurro così esteso e inevitabile da ritenerlo esso stesso la divinità che cercavo. Se non fosse stato, almeno, per le rovine che lasciarono, vomitando fuoco dalle loro bocche, lo avrei creduto. Chi sono io, e chi sono loro? Dopo fu acqua, vento e fango ai piedi, dalle caviglie fino alle ginocchia. E terra, distruzione che cercai di bloccare ergendomi ad argine, che almeno le case rimanessero indenni, e non venisse meno la protezione di cui godevano da sempre. «Mi hanno ingannata» sussurrai piangendo. Ecco. Non ho avuto altra sorte che farmi creatura tra le creature e alla fine dissolvermi tra l’ordito e la trama del mantello che, nei secoli, ha vestito, con me dentro, molte donne. Nulla più ho fatto se non dare corso a quello che è stato, alla vita stessa, a ciò che accompagna il battito di ciascun cuore. Ho definitivamente appreso che il corso delle cose è fissato da sempre, ogni forza che vi si opponga è priva di legge. Perché mai intervenire a raddrizzar ciò che non è storto? Ogni molla e ogni ingranaggio libera la propria energia e nulla e nessuno può fermare il moto che ne consegue. Ecco il tempo, ed ecco la morte. Per l’ultima volta ho proteso le mani contro la devastazione, proteggendo le case che avevo dietro, sacrificando i miei boschi, i miei ruscelli, il castello, il ponte, a questo nuovo modo, più vigliacco degli altri, di fare la guerra. Le Vivene promanano dalla natura stessa e in quanto tali sono moralmente indifferenti, poste al di là del bene e del male. Fino ad allora non avevo bisogno di sapere cosa fossero il bene e il male. Me l’hanno insegnato i figli degli uomini. Al di là del bene e del male non è un luogo, ma uno stato in cui gli opposti si
attraggono e si confondono, costituiscono una sostanza sola. Se non che questo trovarsi “al di là” di tutto e persino del “desiderio” è uno stato precario per chi possiede un barlume di conoscenza. E gli uomini ne sono privi. Fingono di possederla, e ne sono immuni. Invece viene sempre il momento in cui si desidera qualcosa: conoscere, capire, camminare, muovere un braccio, respirare. Vivere. Da quello stato si discende subito. Basta, in fondo, ritrovarsi supini sulla terra. Se un tempo, tra il sonno e la veglia, nulla accadeva oltre l’ordinario fluire delle cose, secondo le regole dettate dai meccanismi del Grande Orologio, ora invece si svolge, indisturbata, la storia di queste creature, le quali non sono mai le stesse, ma lasciano tracce del loro aggio, affinché nessuno se ne dimentichi. Io di sicuro non dimenticherò. Anch’io, da un giorno all’altro, desiderai abitare un luogo dove ero sicura di farmi trovare. Costruii il ponte e colmai un dirupo altrimenti invalicabile. Rapita dal vortice presi ad abitare le foreste, e vidi costruire il Castello. Poi penetrò in me una particella effimera, e un uomo mi donò la veste che si è sgretolata tra le mani di Zoe, liberandomi nella mia ultima e inaspettata metamorfosi. “Qual è il mio nome? Chi o cosa sono IO?” vado ripetendo, ora smarrita.
Nota bibliografica
HUGO DE ROSSI DI S. GIULIANA, Fiabe e leggende della val di Fassa, Istituto cultural Ladin Majon di Fasegn, San Giovanni Vigo di Fassa, 1984 GIUSEPPE ALÙ, Storia e storie del Risorgimento a Treviso (1796-1866), Edizioni della Galleria, Padova 1984 LEGGENDE E RACCONTI DEL TRENTINO ALTO ADIGE a cura di Bruna Dal Lago / Elmar Locher, Newton Compton, Roma, 1983 GIANFRANCO FAGIUOLI, 51 giorni con Garibaldi – La storia di un volontario veronese in camicia rossa tra il Garda e le Giudicarie, Cooperativa Il Chiese, Storo 1993 NICOLA FANO, Garibaldi, l’illusione Italiana, B.C. Dalai editore, Milano 2010 GARBARI, LEONARDI (a cura di) Storia del Trentino, volume V, L’età contemporanea (1803-1918) Il Mulino, Milano 2003 WILLIAM K.C. GUTHRIE, I Greci e i loro dei – Il Mulino Bologna 1987 PIERO PIERI, Storia militare del Risorgimento, Einaudi Torino, 1962 ALAIN PILLEPICH, Napoleone e gli Italiani, Il Mulino Bologna 2005 GUNTHER E. ROTHENBERG, L’esercito di sco Giuseppe, LEG, Bologna 2004
RINGRAZIAMENTI
Dopo sette anni di stesure, ripensamenti e riscritture, finalmente il Ponte delle Vivene è giunto alla sua conclusione. Di questo devo ringraziare la rilettura attenta e preziosa di Pia Barletta, alla quale già anni fa avevo parlato di questa storia.
Ringrazio di cuore Carlo Santi per la fiducia accordata a questo romanzo, di certo non facile.
Un grazie doveroso, infine, al lettore che vorrà leggere queste pagine.
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IL PONTE DELLE VIVENE
di Davide Dotto
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{1} Una citazione da Gesualdo Bufalino, Museo d’ombra {2} Nietzsche, Così parlò Zarathustra