Il Lato Nascosto Della Luna 32320

Il lato nascosto della luna

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Ringraziamenti

Per la copertina: © sellingpix - Fotolia.com

Prefazione

Questa raccolta di racconti contiene nove racconti già pubblicati nelle raccolte "Storie all'imbrunire Vol. II", "Zone d'ombra", più un inedito ("Due luci nelle tenebre").

Il lato oscuro della luna

L’anello e la palude

Marianna

Le venti stanze

Gente della notte

Doni dall’altro mondo

La discarica dei giocattoli

Biglie colorate

Gli Occhi del Clown

Alter-Ego

Due luci nelle tenebre

L’anello e la palude

Certi racconti nascono da lontano, molto spesso da episodi legati alla vita reale, altre volte invece da un ato che può essere legato all’infanzia, alla fantasia di un bambino, stimolata da storie, leggende.

Persino dai cartoni animati.

Certo, un bambino non vedrà (o almeno non dovrebbe) un cartone con sfumature thriller-horror, eppure quand’ero piccolo c’erano alcune animazioni – forse per lo stile “meno” manga, più “serio”, i volti più e le figure più squadrati, meno “tondi” rispetto all’ultimo decennio – che potevano già inculcare alcune paure o fantasie talvolta grottesche.

Il soggetto che sta alla base de “L’anello e la palude”, nel suo pensiero originale, nasce proprio da un ricordo (notevolmente) rielaborato di un bambino divenuto adulto.

Ricordo nutrito, alimentato, stimolato da centinaia di altre visioni certamente, eppure in fondo, fatte le debite proporzioni e strappando un sorriso al lettore, forse non così diverso dall’assistere a sei anni ad un episodio di quel celebre gruppo di acchiappa-fantasmi e del loro simpatico cane, nella versione originale..

Raggi di luna proiettavano sull’acqua della palude immagini e riflessi di oggetti, ombre dai contorni indefiniti, suggestioni di uno spettacolo incontaminabile, fuori dal tempo.

Generalmente il silenzio stagnava tra gli acquitrini e le mangrovie.

Solo ogni tanto, dei coccodrilli e qualche gufo, poiana o altro uccello della palude, rompevano l’armonia dovuta a quell’assenza di rumori.

Jack si voltò, e per la prima volta avrebbe giurato di provare un senso di pace, di sentirsi a suo agio.

Lì dove gli arbusti e i rami degli alberi tra le due sponde si intrecciavano tra loro quasi a formare una volta, lì dove l’acqua era più profonda, Jack si sentiva ormai di casa.

Jack inspirò un’ultima volta, prima di gettare il mozzicone di sigaretta.

Poi diede un calcio al sacco, gettando il corpo di Mary nel punto prescelto.

Pace a te, Mary Wood. Un giorno ci rivedremo. Forse.

Quindi girò la barca, una specie di grande zattera che poteva guidare sia a remi che a motore.

Lì, nell’oscurità della golena, iniziò a seguire lentamente il percorso a ritroso che lo avrebbe condotto a casa, mentre la quiete della palude lo accompagnava come

fosse stato Caronte, il traghettatore che aveva appena finito di trasportare il consueto carico di defunti verso l’aldilà.

Il suo volto imperturbabile, per nulla provato, non lasciava trasparire alcun tipo di emozioni, solo alcune cicatrici sembravano poter raccontare qualcosa di più sul suo ato.

Jack se le sfiorò con delicatezza, quasi a cercare di rimarginare ciò che il tempo non era riuscito a fare.

Poi lisciandosi alcuni peli della barba incolta, iniziò ad improvvisare una lenta litania.

Poche note, un ritornello che gli ricordava quand’era bambino, lo accompagnarono finché qualcosa scosse improvvisamente la zattera, facendola sobbalzare di lato.

Jack rallentò un attimo e controllò con una torcia di non avere urtato qualche albero o le sue radici.

Non vide nulla, né in apparenza la zattera aveva una falla o si era inclinata pericolosamente.

Cos’è accaduto?

Attese alcuni secondi, puntando la torcia tutto intorno alla ricerca di qualcosa o, ipotesi meno probabile, qualcuno.

Nuovamente non fu in grado di scorgere anima viva.

Riprese il comando della zattera, ma in breve si rese conto che ciò che aveva colpito era vivo e continuava a seguirlo: celato nell’acqua gelida della palude emetteva un suono, un lamento quasi infernale che non apparteneva in alcun modo alla realtà che il giovane conosceva.

Jack azionò il motore della barca che aveva tenuto spento per non fare rumore e, con il cuore in gola, percorse gli ultimi cento metri che lo conducevano alla banchina, dove come di consueto l’avrebbe lasciata.

Devo stare calmo, provò a ripetersi più volte.

Quindi impugnò un remo e lo tenne saldo fronte a sé, finché giunse a destinazione.

Una volta che ebbe attraccato, scese a terra con la torcia in mano e percorse correndo alcuni metri tra i canneti, il o incerto e instabile di chi affronta nelle tenebre di un incubo un nemico sconosciuto.

Stanco e grondante di sudore, si fermò solo quando si sentì del tutto a corto di fiato, per puntare indietro la torcia e cercare qualcosa, ma cosa?

Tutto intorno a Jack c’era solo l’oscurità della notte e le anime della palude.

O almeno così credeva inizialmente.

Fu quando aguzzò ulteriormente lo sguardo, aiutandosi con uno speciale binocolo ad infrarossi, che Jack colse la visione di due occhi spettrali nelle acque delle palude, vicino alla banchina.

Il coccodrillo si è fermato, pensò.

Poi un rumore, l’equivalente di un peso che avesse spezzato un grosso tronco con la veemenza di un mastodonte, lo fece sobbalzare all’indietro, come se a scuoterlo fosse stato il rinculo del tamburo di una pistola.

Cosa è stato?

Riprese a correre.

Ansimante, percorse gli ultimi centro metri, verso la casa che aveva lì, dove la palude terminava e la vegetazione era più simile a quella di un bosco.

Finalmente vi entrò, sprangò la porta e tentò di riposare, turbato più per ciò che aveva visto, che per quello che aveva fatto.

Intanto, nella palude, i due occhi spettrali che avevano seguito Jack proseguirono verso la banchina.

Ciò che aveva colpito, uscì dall’acqua, trascinando lentamente con sé il peso di un corpo.

Già, quando il Caronte Jack terminava il suo lavoro, interveniva lei; solo per alcuni metri in realtà, pochi i verso il bosco dietro la casa del giovane, dove avrebbe riposto il corpo di Mary insieme agli altri, affinché avesse pace.

Da quel momento in poi anche quella notte, nulla turbò ulteriormente la quiete delle anime della palude.

2. Jack

L’indomani Jack pulì accuratamente la zattera da ogni residuo che potesse ricondurre al corpo di Mary; quindi fece altrettanto per la vanga con cui aveva tramortito la giovane.

Fin dal principio aveva deciso che avrebbe gettato il corpo di Mary in un punto della palude dove nessuno avrebbe potuto trovarla.

Già, in quelle zone stazionava solo qualche vecchio pescatore che cercava di stanare il vecchio zio Sam, un leggendario pesce dalle dimensioni fuori dal comune, e Jack.

Jack aveva quasi trent’anni; viveva di espedienti e del lascito che gli avevano fatto i genitori prima di morire.

Ogni tanto, almeno un paio di volte a settimana, faceva un salto in città; amava frequentare alcuni locali notturni, perlopiù balere e night.

Posti squallidi, dove si riuniva solo la feccia della società.

In uno di quei luoghi aveva conosciuto Mary e le sue altre vittime, donne disponibili, che con pochi soldi lo avrebbero seguito anche in capo al mondo, per nulla spaventate dal fatto che abitasse in un posto così isolato.

Mary era stata forse la più bella: biondi capelli lunghi, il volto perfetto, come fosse stato di porcellana e un fisico aggraziato, filiforme, addolcito da curve armoniose.

Armoniosa.

Questo era ciò che Jack immaginava ogni qualvolta ripensava a lei e al suo corpo.

Una bellezza eterea, uno sguardo magnetico, penetrante, a tal punto da spingere Jack a tornare da lei, quasi a voler scoprire se dietro quegli occhi si fossero celate chissà quali torbide fantasie.

Sì, Jack aveva fatto l’amore con lei più di una volta, sempre più rapito dalla sua espressività intensa e penetrante.

Le aveva fatto mille promesse.

Ti sposerò! Ti riempirò di regali! Sarai mia per sempre!

Lei credeva alle sue parole.

Ma non sapeva che Jack non si faceva scrupoli, né tantomeno aveva una

qualsiasi idea di cosa significasse promettere tali cose ad una donna.

Ciò che faceva era solo per compensare uno squilibrio, mentale e ormonale.

Al termine di un breve periodo, come un animale sazio dopo aver divorato la sua preda, Jack se né era liberato, come sempre senza provare alcun rimorso per quello che faceva, ma cercando di dare a sé stesso una spiegazione logica a quei gesti, una sorta di assoluzione per quello che aveva fatto.

In realtà, qualsiasi fosse la molla, il folle ingranaggio che spingeva la sua mente ad agire in quel modo, era comunque destinato a rimettersi in moto ciclicamente.

Come i meccanismi di un orologio, Jack si attivava in ricorrenze particolari, quando la luna crescente e le condizioni meteo favorevoli avrebbero potuto guidare i suoi spostamenti nella palude anche nell’oscurità.

Lì, anche nelle tenebre più profonde, era in grado di orientarsi con la sola forza dell'istinto, come un animale, un felino, che riporta la preda catturata a chi riconosce come il suo padrone.

Di una sola cosa non si era ancora preoccupato, ma la questione era lì, aperta e irrisolta e il sesto senso gli diceva che presto avrebbe dovuto occuparsene.

Per quanto non fosse un particolare rilevante o a cui riteneva necessario rispondere subito, il "felino" Jack non avrebbe saputo dire chi fosse realmente il suo padrone.

3. L’investigatore

L’investigatore Sommerson osservò attentamente la vegetazione della palude mentre il suo traghetto lo conduceva a destinazione.

Giunchi, canneti, lische maggiori e acque sporche ben si prestavano a nascondere prove di un ato torbido.

Il telefono dell'ispettore Sommerson iniziò a squillare.

Sul display lampeggiava una scritta luminosa: Frankie.

Premi il tasto verde per accettare la chiamata.

Ok

Tim si infilò gli auricolari, quindi iniziò ad ascoltare quanto Frankie aveva da dirgli.

"Ehi capo."

"Ciao Frankie. Tutto bene?"

"Ho delle novità."

"Novità? Bene Frankie. L'abbiamo preso allora?"

"Preso? No, capo. Magari. Però possiamo depennare dalla lista almeno altre due persone.."

"Ah.", Tim Sommerson si lasciò sfuggire una smorfia di disappunto, quindi continuò:

"Allora spara. Cos'hai raccolto quest'oggi?"

"Beh, ha presente il primo dei tizi che abita poco distante dalla palude?"

"Si, Charles, quel Charles Brown mi pare si chiami."

"Già capo, proprio lui. Beh" disse Frankie dopo una breve pausa "credo sia impossibile che dal letto di ospedale e con un by abbia potuto far sparire cinque persone, non crede?"

Tim Sommerson attese qualche secondo, quindi prese l'agenda e tracciò una riga

sul nome Brown.

"No Frankie, effettivamente questo lo esclude. C'è dell'altro?"

"Si capo. Quell'altro tipo, di cui non ricordo mai il nome, quel Kant, Com.. Connor, beh al diavolo come si chiama! Sono andato a fargli visita stamane."

Tim rimase in attesa qualche secondo del proseguo della storia, quindi incalzò Frankie:

"Beh, Frankie, sei andato a fargli visita. E poi? Non tenermi sulle spine!"

"Ah niente capo. E' andato. E' partito con la testa, completamente!"

Sentendo quelle parole Tim per un attimo credette di aver trovato una pista buona:

"Ma allora può fare al caso nostro?" chiese.

"No, Non credo capo. Ne ho visti tanti di maniaci, serial killer, ma una persona che quasi non ricorda il suo nome e che non si regge in piedi da tanto si è fatta di acidi, non credo possa are così inosservata."

Tim aggrottò la fronte e si masticò nervosamente le labbra.

"Già Frankie, hai ragione."

"Cosa facciamo allora capo?"

"Niente per ora. Sto andando a trovare quel Jack Thomson, quello che abita più vicino alla palude. Vediamo cos'ha da raccontarmi"

"Speriamo sia la pista giusta, capo."

Tim Sommerson allontanò per un attimo il cellulare e pagò il suo traghettatore per poi fargli cenno:

"Torni tra due ore, grazie."

Quindi riprese la conversazione:

"Sì, speriamo Frankie. Tu tienti pronto a partire. Se ho buone notizie ti chiamo subito."

Dall'altro capo della conversazione Frankie Williams riagganciò.

Tim Sommerson ripose il cellulare, prima di fermarsi un attimo per rinfrescarsi la fronte.

Questo caldo è già insopportabile, pensò.

Si preannuncia una giornata lunga, ma ti troverò, maledetto bastardo.

Stanne certo.

4. La casa

Tim giunse in breve tempo a casa di Jack.

Ad accoglierlo trovò un degrado generale nel giardino antistante, dove c’erano insetti d’ogni tipo, nascosti tra i lunghi fili d’erba.

In breve tempo percorse il tratto di giardino che conduceva all’entrata; salì alcuni gradini verso una veranda in legno coperta da un tetto, e vide attraverso la zanzariera della porta che Jack non era in casa.

Merda. Dove è andato?

Si sedette su di una panca all'ingresso e attese alcuni minuti.

Il bosco si stagliava di fronte a lui a poche decine di metri, lasciando intravedere uno spiazzo lievemente depresso poco in lontananza, una radura che scendeva per un paio di metri per poi risalire.

Forse un tempo conteneva una piccola pozza d'acqua.

Tim si voltò a guardare tutto intorno.

Si soffermò alcuni secondi ad osservare l'ingresso.

Era stranamente orientato lontano dalla palude e quasi riusciva nell'intento di inserire la casa in un contesto del tutto differente, più vivibile.

Da quella posizione però, Thomson non avrebbe potuto scorgere chi giungeva dalla banchina se non sporgendosi in avanti di qualche metro.

Perché? si chiese Tim.

Per quale motivo non è ancora intervenuto, quasi a voler nascondere l'ingresso della sua abitazione a chi volge le spalle alla palude?

In un attimo, il caldo soffocante distolse quell'interrogativo dalla sua mente.

C'erano altre domande, ancor più immediate, a cui non sapeva rispondere.

Perché vivere qui? si chiese Tim.

Cosa può cercare un giovane in questi luoghi?

O forse la domanda giusta è: cosa può nascondere in questi luoghi?

Già, pensò Tim. Forse ci siamo.

Questo è il punto.

Dove potrebbe nascondere qualcuno? In uno scantinato? Nel bosco qui dietro o nelle acque della palude?

Tim prese un blocchetto, una matita dal taschino e trascrisse alcuni appunti:

Ore 10. Tempo impiegato per arrivare a destinazione: 2 ore circa.

Approdo semplice.

Degrado esterno contrasta con apparente ordine all'interno.

Il soggetto è solo?

Vive veramente qui?

Sottolineò due volte con la matita l'ultima domanda, prima che alcuni rumori improvvisi, simili allo scricchiolio di una porta, preannunciassero la dipartita della punta.

Quindi alzò gli occhi e vide qualcuno che si avvicinava dalla banchina, portando in spalla alcuni sacchi scuri, apparentemente vuoti.

Jack Thomson, pensò.

"Ehilà. Buongiorno", disse l'uomo, "non aspettavo visite. Con chi.. il ho piacere di parlare?"

"Tim" signore. Disse l'ispettore togliendosi il cappello e mostrando il distintivo "Tim Sommerson. E' lei il signor Thomson? Sono venuto qui a farle alcune domande. Ha del tempo per me?"

Jack rimase apparentemente imperturbabile, per nulla interessato al reale motivo di quella visita.

Adagiò i sacchi sul tavolo, alcune ceste più piccole con del pesce fresco e fece strada all'ispettore:

"Prego, si accomodi. Sono a sua disposizione. Di che si tratta?"

5. L’interrogatorio

Jack accompagnò Tim nel salotto antistante la cucina.

Tim Sommerson si mise comodo e non indugiò a lungo: ò subito al reale motivo della sua visita.

“Signor Thomson dove è stato negli ultimi tempi? In particolare mi interessano i suoi spostamenti nelle sere dello scorso lunedì e venerdì..”

“Perché mi chiede queste informazioni? E’ un interrogatorio?” rispose apparentemente già sulla difensiva Jack.

“Beh Signor Thomson lo consideri come vuole, ma le domande le faccio io. Vede, stiamo indagando sulle sparizioni di alcune donne, circa una dozzina, avvenute di recente in città, ed alcune tracce mi dicono che lei potrebbe avere qualcosa da raccontarmi.”

“Vorrebbe dirmi che devo ritenermi indagato signore? Come può allora presentarsi qui senza un mandato?” Jack sbottò per un attimo, quindi si calmò e riprese a parlare con un tono forzatamente più pacato: “Comunque signore non ho nulla da nascondere. Uscito dal carcere posso tranquillamente affermare di aver fatto una vita tranquilla, e dato che posso permettermi di vivere dignitosamente di rendita non cerco più guai con la legge signore.”

“Si certo.. sento discorsi come questo quasi ogni giorno.” sogghignò l’ispettore “Senta Jack, risponda alle mie domande e forse la lascerò in pace.” Disse ancora, e fece il gesto di accendersi un sigaro. “Permette?”

Jack rispose con una smorfia di disgusto, quindi con un cenno della mano invitò l’ispettore a prestare attenzione a non rovinare la tappezzeria.

L’ispettore annuì ciondolando la testa con fare indifferente, per poi proseguire con le domande:

“Risponda a ciò che le ho chiesto. Dove è stato nelle sere di lunedì e venerdì della scorsa settimana? Ho dei testimoni che riportano di averla vista frequentare il night Cool & Hot, ed uscire dal locale ogni sera accompagnato da una ragazza differente.”

Jack attese qualche istante prima di rispondere, soppesando attentamente quanto aveva da dire:

“Si.. ricordo, le ragazze di cui parla sono come dire.. delle prostitute, ecco, magari non di professione ma.. che lo fanno per arrotondare; comunque le posso dire per certo che sono stato solo uno tra tanti clienti.”

Tim abbozzò metodicamente qualche altro appunto sul taccuino, quindi sferrò l’attacco:

“Lei conferma dunque di aver visto Mary Wood la sera di venerdì?”

“Mary.. si, la ragazza bionda, ricordo di essere stato con lei per un paio di ore, più o meno fino alle due di notte.”

“E poi signore, dove l’ha portata? Dove è stato l’ultimo posto in cui l’ha vista?”

“Il.. il parcheggio poco fuori dal night dove ci eravamo appartati signore.”

“Signor Thomson, chi l’ha vista dopo le due? Era solo o c’è qualcuno che può confermare la sua deposizione?”

“No signore.. ero solo, dopo aver lasciato Mary sono tornato a casa, qui nel bosco, intorno alle tre del mattino.”

Jack prese fiato; bevette un sorso d’acqua e attese di sapere cosa gli serbava il destino, nella fattispecie quanto l’ispettore volesse andare a fondo con quella vicenda.

Giusto il tempo di provare a riordinare le idee per un attimo, che avvenne qualcosa che lo distolse dai pensieri e dalle risposte che aveva dato.

Jack ebbe l’impressione di sentire un rumore dall’esterno, provenire subito al di fuori la finestra del pianterreno.

Probabilmente è un colpo d’aria che sbatte sui rami degli alberi, pensò istintivamente, anche se è strano: la giornata fino ad ora è stata tranquilla, calda. Umida. Nessun alito di vento.

“Signore la procedura vuole che io torni qui con un mandato di perquisizione della sua casa, ma se lei si dimostra disponibile potremmo evitare di scomodare il tribunale e procedere adesso.” disse Tim Sommerson terminando il suo sigaro.

Ma sul volto imperturbabile del giovane, Tim Sommerson notò un’insolita espressività, e per una volta avrebbe giurato di riconoscere angoscia, o forse sofferenza, prima che Jack gli rispondesse:

“Signore, finché non vedo un mandato non le posso dare il mio benestare. Spiacente.”

Tim Sommerson non si scompose.

Richiuse il proprio blocchetto di appunti e sottolineò alcune annotazioni: nervosismo latente, alibi inesistente.

Quindi si congedò da Jack:

“Va bene signore, ci rivediamo domani allora. La avverto però: non sarò solo e i miei collaboratori non avranno particolare riguardo per il suo mobilio. Ah, se cambiasse idea ecco il mio recapito telefonico; non le nascondo che credo lei debba anche pensare a trovarsi un avvocato.”

Jack annuì pensieroso, più per ciò che gli era parso di scorgere nel giardino che per il fatto di essere indagato per la sparizione delle donne che aveva ucciso.

Per un attimo infatti, gli era parso di intravedere una sagoma negli alberi muoversi lentamente.

La sensazione che aveva provato era che qualcuno li stesse spiando.

Qualcuno o qualcosa.

Già, gli pareva che fosse strisciato attraverso l’erba alta fuori dal giardino, all’inizio del bosco.

Probabilmente era stato il vento a muovere i fili d’erba, ma che cosa poteva aver lasciato dei solchi sul terreno e piegare definitivamente alcuni rami di arbusti alti anche due metri?

Forse è stato un coccodrillo, pensò. Già un grosso bestione.

Era una soluzione accettabile, se solo non fosse stato per un particolare rilevante: i coccodrilli che Jack conosceva non si allontanavano mai dalla palude.

6. Dettagli

Jack sprangò la porta di casa dietro di sé.

L'ispettore era uscito; Jack era solo, eppure da quando aveva avuto quella visione dall'esterno durante l'interrogatorio, avvertiva una spiacevole sensazione di essere spiato, anche se non avrebbe saputo dire da chi e da quanto tempo.

Forse era solo un senso d'inquietudine, un tarlo che ben conosceva, in quanto affiorava nella sua mente inevitabilmente con ciclicità, da quando la sua anima aveva iniziato a prepararsi la strada, a posare i primi mattoni per una dimora all'inferno.

Un tarlo.

Già, solo così avrebbe potuto definire ciò che lo spinse da un lato a verificare che nessuno potesse entrare in casa e dall'altro a controllare i particolari, a ripercorrere mentalmente a ritroso le scene delle notti precedenti.

Si concentrò su alcune istantanee che aveva scattato l'ultima sera nel locale a Mary, quasi a voler fissare alcuni momenti, alcune situazioni.

Ritratti, primi piani del viso. Sorrisi.

Tutto era andato secondo i piani, almeno in apparenza.

Aveva gettato il corpo di Mary nella palude, così come i suoi gioielli.

I gioielli.

Si, Jack era solito rinchiudere maniacalmente i monili delle sue vittime in piccoli sacchetti, ben sigillati in modo da confondere eventuali ricerche, per poi gettarli in punti diversi rispetto a dove gettava i corpi.

Aveva seguito questa procedura con attenzione.

Eppure, Jack sentiva che questa volta qualcosa poteva essergli sfuggito, ma cosa?

Jack fissò attentamente la mano sinistra di Mary e per un attimo ebbe un'illuminazione. Giusto un flash, prima che alcune grida in lontananza lo spinsero ad uscire di casa.

7. Il Vecchio Sam

Una volta fuori dall’edificio, l’umidità e il caldo soffocante obbligarono Tim Sommerson a fermarsi alcuni minuti per asciugarsi la fronte e prendere fiato.

A pochi metri dalla banchina, poco lontano dalla casa dove abitava Jack Thomson, una scena in apparenza surreale catturò l’attenzione dell’ispettore.

Due uomini, l'uno fianco all'altro, sembravano dibattersi contro chissà quale nemico, mentre la loro canna da pesca si protendeva in avanti, attirandoli a sé, sospinta da una forza inverosimilmente reale.

Che cosa stava accadendo?

Tim affrettò il o.

Con lo sguardo fisso al suolo iniziò ad immaginare cosa fosse celato sotto quelle acque sporche.

Quasi divertito da quella visione, la sua immaginazione iniziò a produrre creature fantastiche: un serpente? Un alligatore?

Le più ardite ipotesi gli arono per la mente, prima che, ad un tratto, il cuore gli balzasse letteralmente in gola, non appena si rese conto che poco distante da lui si stava manifestando un evento del tutto imprevedibile: Tim se ne rese subito conto, vedendo i due pescatori sobbalzare all'indietro, i loro corpi sospinti, catapultati verso la riva come se avessero appena sparato un colpo con un potente cannone.

Davanti a loro, avviluppato, del tutto confuso in un enorme gettito d'acqua, un pesce dalle dimensioni abnormi solcò per un attimo lo spazio aereo di fronte a Tim, oscurando per una breve frazione di secondo la luce del sole, prima di atterrare pesantemente sopra la gamba di un pescatore.

Tim rimase esterrefatto e pietrificato allo stesso tempo.

Che scena, pensò.

Quale opera diabolica, quale mistero della genetica possono aver creato un esemplare di pesce siluro così imponente, così maestoso?

I suoi occhi immediatamente si fissarono sulle acque, nel tentativo di scandagliare istintivamente i fondali della palude, alla ricerca di una risposta.

Poi, in un attimo, qualcosa, una visione breve come un fotogramma, uno scatto rubato tra i canneti, lo spaventò, prima che le urla dei pescatori lo riportassero alla realtà.

8. Dubbi

Tim corse a perdifiato per una cinquantina di metri, evitando a fatica radici affioranti e piccole pozze d'acqua.

Nella sua mente annebbiata dalla calura e dall’umidità le idee e gli intenti iniziarono a confondersi senza un senso.

Quello che aveva visto era reale o era frutto di una mente stanca, di un’immaginazione abituata da sempre a elaborare scene, protagonisti, come fosse stato il regista, lo sceneggiatore di un film dalla trama in continua evoluzione?

Tim non sapeva rispondersi, perché avrebbe dovuto pensare di essersi immaginato tutto? Del resto i pescatori, man mano che si avvicinava, erano lì, reali protagonisti.

Li poteva vedere in preda a sensazioni e sentimenti contrastanti, mentre il vecchio dolorante cercava di alzarsi da terra con la gamba malconcia e il più giovane, forse il figlio, si riversava di peso sul pesce siluro, lottando come un cavaliere in un rodeo, nel maldestro tentativo di imbrigliarlo nella rete.

Eppure qualcosa non convinceva Tim.

Forse era solo frutto della sua mente, già non poteva che essere così, ma ciò che credeva di aver visto in lontananza muoversi furtivamente tra i canneti, non poteva essere reale.

O almeno, di questo ne era certo per un motivo.

Perché Tim credeva a tutto ciò che era razionale.

E quegli occhi, quella sagoma che credeva di aver scorto anche solo per un momento, prima di sparire tra i canneti non avrebbe potuto appartenere in alcun modo al mondo che conosceva.

Neanche ad un mondo di pesci del calibro di quello ritrovato dai due pescatori.

9. La “buona azione”

Jack Sommers aveva appena osservato la scena da lontano, senza intervenire.

Solo una volta che si era reso conto di cosa fosse accaduto, aveva deciso di farsi avanti e provare ad indagare.

Una buona azione, pensò divertito tra sé.

Già, anche se quella parola, quel concetto non facevano parte del suo vocabolario.

Doppio fine, ecco. Questo era ciò che meglio definiva il suo pensiero.

Seguì l'ispettore nella sua strana e goffa corsa ed una volta arrivato a destinazione provò a rendersi utile:

“Ispettore” chiese “serve aiuto? Non ho potuto fare a meno di sentire le urla mentre rientravo in casa, quest’uomo ha sicuramente bisogno di soccorsi medici.” disse indicando il ginocchio gonfio di siero del vecchio pescatore.

Tim Sommerson dal canto suo, si asciugò un attimo la fronte mentre il sudore

continuava a grondargli il viso, quasi irriconoscibile, sfigurato per il rossore e dalla dilatazione dei pori, prima di rispondere:

“Buona idea signor Sommers. Li può portare con sé in casa mentre chiamo qualcuno?”

Jack annuì, aiutando il giovane pescatore a sorreggere il padre avvolgendogli un braccio attorno al collo.

“La casa dista poco effettivamente. Dovremmo farcela a portare il signor.. signor?”

“Adam” rispose il vecchio. “E quello sfaticato a fianco a lei è mio figlio. Jason. Se non fosse per quelle braccia da sfaticato non starei qui a terra con un ginocchio girato!”

“Ma papà!”

“Smettila figliolo. Sai che è così. Ora datti da fare, aiutami a sorreggermi!”

“Bene signor Adam, come dicevo” riprese Jack “dovremmo farcela a portarla da me. E a casa mia potrà mettersi del ghiaccio sulla gamba..”

Jack non fece tempo a finir di parlare che ad un tratto uno spruzzo d’acqua catturò l’attenzione generale.

Proveniva dal pesce.

Jack lo fissò mentre con un colpo di coda per poco non lo colpiva alle caviglie.

Era realmente un esemplare fuori dal comune, intento a sgusciare rabbiosamente nel tentativo di liberarsi dalla rete.

Ed aveva qualcosa nell’aspetto che lo rendeva particolarmente attraente.

Forse era un luccichio, un bagliore che si sprigionava ai suoi occhi in modo del tutto innaturale.

Oppure era solo per il suo vigore, per la forza che continuava a ostentare come facevano alcune delle sue vittime, quando tentavano in tutti i modi di sfuggirgli.

“E.. e il pesce? Cosa ne facciamo?” chiese Jack “Non potremmo certamente lasciare qui quello che probabilmente è il vecchio Sam, non trovate?”

“Perché per il momento non lo porta fino a casa sua, signore.” disse il giovane Jason.

“Già, buona idea.” aggiunse con ritrovata verve il padre.

Solo l’ispettore non pareva partecipare interessato a quel dialogo.

Il suo aspetto era quello di un uomo provato, a corto di fiato, mentre si sorreggeva con una mano su di un albero.

Jack provò a scuoterlo dal torpore:

“Ispettore non si disturbi ulteriormente. Me ne occupo io, non vorrei dovermi preoccupare anche del suo stato di salute.”

Tim non rispose a quella che poteva apparire una provocazione.

Fece un cenno con la testa, e mentre si sentiva mancare il respiro, estrasse una bottiglietta d’acqua dallo zaino e ne bevette un sorso.

Tim sapeva che quanto aveva detto Thomson era vero.

Si sentiva stanco e spossato.

Aveva un incredibile bisogno di riposare e di riordinare le idee, di distinguere, di trovare un senso in ciò che aveva visto.

Voltò le spalle al trio e allontanandosi si diresse verso il punto di incontro concordato con il suo traghettatore.

Quindi, durante l’attesa, compose il numero di Frankie:

“Ehi capo, ci sono novità?”

“Frankie, domani tienti pronto.”

“Ok signore. Dove andiamo?”

“Se son.. vivo ti porto a fare visita in un posto dove né son sicuro, come è vero che ti devo cento dollari, c’è quello che cerchiamo!”

“Ok capo. E’ quel Jack?”

“Non so Frankie. Non né son certo; vorrei dirti che è lui, ma credo sia più giusto dirti che è qualcosa che c’è QUI, nella palude.”

Dall’altro capo della conversazione Frankie attese in trepidazione di ricevere altri dettagli, ma presto riagganciò.

L’ispettore Sommerson aveva già terminato la telefonata.

10. L’anello

Non senza faticare, Jack accompagnò i due uomini in casa, introducendo a fatica il vecchio.

Merda. Quest’uomo pesa di più delle donne che sono abituato a trasportare.

Jack si sincerò che il vecchio Adam riuscisse a sedersi, e a trovare una posizione stabile, quindi gli appoggiò una borsa di ghiaccio come aveva promesso.

Quindi, stanco per lo sforzo, si allontanò verso la vetrata d’ingresso, con lo sguardo intento a controllare gli spostamenti dell’ispettore.

Bene, se ne è andato.

“Signori” disse “si direbbe che oggi è il vostro giorno fortunato. Quando lo sapranno i giornali vi daranno la prima pagina nella cronaca locale!”

“Già. Ben detto.” rispose Jason.

“Che ne dite se per festeggiare vi offrissi qualcosa da bere?”

Jack indicò un paio di bottiglie, poi aggiunse:

“Dello Scotch può andar bene?”

“Ottimo” rispose il vecchio “Vada per lo Scotch!”

Mentre Jack si dirigeva in cucina, Adam e Jason tornarono a contemplare il pesce che pendeva all’amo su di un tavolo.

Dal suo corpo ogni tanto partiva qualche sussulto; delle contrazioni producevano dei colpi di coda, inizialmente più forti, poi via via che il pesce cedeva al dolore, sempre meno evidenti.

Ad un certo punto Adam ne fu quasi certo:

“E’ morto.”

Fece allora un cenno al figlio, che senza fiatare salì su una sedia per sollevarlo e adagiarlo sul tavolo.

Jason fece forza una, due, più volte, mentre con una mano provava a sorreggere idealmente il peso del pesce, con l’altra tentava di aprirne la bocca senza farlo cadere.

Nella sua mente erano ancora impresse le parole del padre.

Sfaticato.

Ora vedrai se sono uno sfaticato, pensò tra sé rabbiosamente.

Si sforzò ancora, finché finalmente riuscì nell’intento: aprì la bocca e fece per osservare dove si fosse impigliato l’amo della canna.

Fu a quel punto che una visione inaspettata lo colse di sorpresa.

Incastonato nella bocca del pesce c’era un anello, apparentemente d’oro, liscio all’esterno e con una piccola incisione all’interno.

Jason lo estrasse, aguzzò la vista e lesse l’incisione:

“Mary W., 02-07-1988”

Gli occhi del giovane rimasero totalmente inespressivi per alcuni secondi.

Quel nome, quella data. Dove li ho già visti?

In un attimo immagini, ricordi ed emozioni si frapposero confuse nella sua mente, fintanto che tutto iniziò a comporsi distintamente, ed una figura, un volto sembrava delinearsi nella sua immaginazione sempre più definito, in un riquadro dai contorni inquietanti.

Adam notò lo stato d’animo del figlio e gli diede uno scossone:

“Ehi che c’è? Che hai visto?”

“Papà. Non so, non né son certo..” rispose Jason “ma ricordi quella ragazza, quella Mary con cui sono stato fidanzato per alcuni mesi?”

“Mary. Mary si credo di ricordare. Quella biondina figliolo?”

“Già papà, proprio lei.”

“Perché te ne sei ricordato proprio ora?”

“Beh papà..” rispose Jason mostrandogli con la mano tremante l’anello, quasi fosse un mozzicone di un dito “perché questo anello.. gliel’avevo regalato io.”

11. La vanga

Nella mente del vecchio Adam quel ritrovamento non suscitò inizialmente grande interesse.

Il figlio era uscito con molte donne e non capiva come la vista di quel monile potesse farlo preoccupare in quel modo.

Quindi, in un attimo ebbe un intuito, la scossa, quella sorta di sesto senso che può legare così sapientemente un padre e un figlio senza che questi si debbano parlare.

“Presto presto, devi correre immediatamente a cercare quell’ispettore.” disse al figlio “Quella Mary è una delle ragazze scomparse, giusto Jason?”

“Si papà. E’ proprio così. Aggrappati al mio braccio, dobbiamo uscire di qui!”

“No figliolo, vai tu. Io resto qui, il signor Thomson mi aiuterà a rimettermi in sesto. Ti sarei solo d’intralcio..”

Jason annuì col capo, poi richiuse l’anello in una scatola di esche che aveva svuotato e fece per voltare le spalle al vecchio Sam, ma un tuono lo bloccò di colpo, spingendolo a buttare lo sguardo al di fuori.

Era un semplice temporale o.. un presagio: che significato aveva la loro incredibile scoperta?

Non fece tempo a rispondersi.

Del tutto inaspettato, un colpo secco e violento alla nuca lo tramortì meschinamente, senza lasciargli nemmeno la possibilità di vedere il volto del suo aggressore.

Il suo corpo ricadde inerte sul tavolo, a far compagnia al vecchio pesce.

D’altro lato della stanza il vecchio pescatore non vide nulla, ma sentì il tonfo come una stilettata al cuore, come solo la perdita di una persona cara poteva fare.

Con il cuore in affanno, senza essersi in realtà reso conto di cosa fosse successo al figlio, Adam si voltò, giusto in tempo per vedere la vanga di Jack abbassarsi dall’alto verso il basso, senza pietà.

Quindi il buio.

Il pescatore seguì la stessa sorte del figlio.

Jack pulì la vanga e preparò i corpi dei due pescatori richiudendoli in altrettanti

sacchi.

Non era contento di ciò che aveva fatto, ma quell’oggetto non apparteneva a loro, né tantomeno all’ispettore.

Quell’oggetto era della palude, così come gli altri gioielli che aveva gettato.

Ecco, questo era ciò che riteneva giusto.

Ora avrebbe dovuto attendere solo la notte per liberarsi dell’anello e di quei corpi.

Quindi, l’indomani, avrebbe fatto sparire ogni traccia prima dell’arrivo dell’ispettore e dei suoi scagnozzi.

Jack attese le due per uscire da casa; quell’ora ormai era un elemento ricorrente nei suoi spostamenti.

Aveva preparato al solito i sacchi ben chiusi, quindi li aveva adagiati sulla zattera, attraccata al pontile tra i canneti poco distante da casa, muovendosi furtivamente nell’oscurità.

La luna, i coccodrilli ed i pesci erano gli unici a poterlo osservare, e questo per Jack era quasi un motivo di rassicurazione.

O almeno di ciò né era convinto.

Se Jack avesse guardato nell’oscurità del bosco, subito dietro casa, avrebbe potuto scorgere due occhi spettrali che lo stavano osservando da quando era uscito.

Jack avviò il motore della zattera e si diresse lentamente lontano dalla sua abitazione; per la prima volta avvertì una sensazione di disagio, probabilmente un’ansia dovuta alla visita dell’ispettore ed al precipitare degli ultimi eventi.

Jack constatò che l’aria della palude era particolarmente pesante, nauseante, forse più del solito, probabilmente inquinata dalla decomposizione e dal fermentare di tanti microorganismi.

Ma quel pensiero non lo turbò più di tanto.

Jack conosceva quei posti e sapeva che cosa vi avrebbe trovato: acque sporche, maleodoranti, e poco altro, oltre alla luce della luna, l'unica affidabile guida nei suoi spostamenti, quando in prossimità del punto prescelto avrebbe spento le luci della zattera.

Erano altri invece i suoi tormenti.

Ripensò ai pescatori.

Non avevo altra scelta? E se avessi pagato per il loro silenzio invece di ucciderli?

Per un attimo provò orrore per quello che aveva fatto, poi tornò ad essere spietato; si inchinò presso il corpo di Adam, aprì il sacco e gettò il pescatore nell’acqua con dei pesi avvolti alle gambe.

La palude lo inghiottì in pochi istanti.

Quindi fece per voltarsi a cercare il corpo di Jason, ma qualcosa gli strattonò la gamba e lo fece scivolare sulla zattera.

Jack batté il capo e restò tramortito alcuni secondi.

E quando aprì gli occhi una visione sconvolgente e terribile gli fece rimpiangere di non essere rimasto svenuto.

La zattera precedentemente in perfetto equilibrio ora pendeva dal lato opposto, sospingendo il suo corpo a scivolare in avanti, sul fondo bagnato.

Di fronte a lui, emersa dal profondo della palude, si ergeva una creatura spaventosa, con mani e gambe interamente ricoperte di alghe, la testa apparentemente umana ma scarnificata.

Jack non riuscì a fissarla che per pochi attimi, giusto il tempo necessario per riconoscere lo sguardo spettrale che lo aveva seguito tra le mangrovie la sera precedente.

La creatura, alta più di due metri, aveva i piedi palmati e nelle mano sinistra stringeva alcuni monili.

Jack osservò questi particolari a stento, puntando una torcia nella speranza che la luce artificiale la allontanasse.

Jack credette di morire per lo spavento.

Istintivamente chiuse gli occhi, nell’intento di poterli riaprire come dopo un brutto sogno, senza rivedere nuovamente quella manifestazione infernale.

Il tutto però gli diede l'illusione di funzionare solo per poco tempo, fintanto che la creatura emise un suono gutturale.

A quel punto Jack li aprì nuovamente.

A quel punto avrebbe voluto alzarsi e fuggire in qualche modo, ma sentì che non ne era in grado, dato che nella caduta si era probabilmente distorto una gamba.

La creatura alzò allora il braccio sinistro, quello con i monili e lo puntò verso di lui.

Jack intravide tra i gioielli una collana che lì per lì associò mentalmente per quello che era stato uno dei gioielli di Mary Wood.

Non né era certo, ma anche gli altri monili gli parevano familiari.

Inizialmente non ebbe tempo per capire cosa poteva significare quella scoperta: la creatura attirò la sua attenzione avvicinandosi lentamente ed emettendo un lamento stridulo, assordante.

Jack indietreggiò mani alle orecchie, strisciando fino ad aggrapparsi al bordo della zattera, provando una paura così grande da desiderare la morte.

Quindi gli balenò in testa un’idea che, seppur malsana, era forse la chiave di tutto.

Frugò tra le sue tasche e dopo qualche istante di esitazione tirò fuori l’anello che era appartenuto a Mary Wood.

Lo sporse verso la creatura.

E in quegli attimi il silenzio della palude fu interrotto da un altro suono infernale del mostro, che fissò alcuni secondi il giovane attraverso le sue orbite spettrali.

Fu allora che lì, dove avrebbero dovuto esserci i bulbi oculari, Jack avrebbe giurato di scorgere un'innaturale ed inquietante rosso ardente apparire dal nulla, come se dall'interno della creatura all’improvviso si fossero sprigionate delle fiamme.

Il tutto durò per una decina di secondi, sebbene il tempo fosse una variabile che per una volta sembrava sfuggire ad ogni logica, facendo sembrare ogni istante interminabile.

Jack raccomandò molte volte pietà per la sua anima a Dio, come mai aveva fatto in vita sua.

Pregò, supplicò che quella visione non volesse significare che per la sua anima fosse già giunta l'ora di scendere agli inferi.

Una preghiera incerta, balbettante, con la bocca che schiumava di terrore, finché il mostro strappò dalle sue mani il monile appartenuto alla ragazza, facendolo ricadere sulla zattera, tramortito.

Quindi, evidentemente soddisfatta per ciò che aveva ottenuto, la creatura si quietò quasi improvvisamente, limitandosi ad odorare da testa a piedi il ragazzo, e ricoprendolo pressoché interamente con il liquame organico che tracimava dal suo corpo.

Al termine, si inabissò con un’incredibile velocità, sparendo tra le mangrovie della palude.

Forse non aveva capito che Jack, in realtà, era solo svenuto..

12. Il ritrovamento

Il mattino seguente Tim e Frankie giunsero alla casa di Jack Thomson con una squadra di poliziotti ed un mandato, ma dell’uomo non trovarono alcuna traccia.

Furono avvisati dopo un paio d’ore del ritrovamento, da parte di un pescatore, di una zattera con a bordo Jack ferito e in stato di shock, e di un cadavere chiuso in un sacco.

E dentro quel sacco c’era il corpo dell’uomo con cui Tim aveva parlato il giorno prima, Jason.

L’investigatore abbozzò una ricostruzione dei fatti concludendo che Jack avesse avuto una disputa con i due pescatori, proseguita con una colluttazione di cui era l’unico sopravvissuto.

Jack fu quindi incriminato per l’omicidio dei due uomini, ma l’inchiesta portò alla luce molto poco, infatti la lucidità mentale dell’uomo sembrava fosse stata definitivamente compromessa dai fatti di quella notte.

Questo particolare fu confermato anche dalle perizie psichiatriche richieste dai giudici.

Jack non si riprese mai del tutto ed il suo avvocato difensore chiese che non

fosse considerato capace di intendere e di volere.

Al termine del processo fu quindi rinchiuso in un istituto di recupero per malattie mentali.

I corpi degli uomini e delle donne uccisi da Jack furono ritrovati dopo molti anni dai fatti accaduti, in una buca profonda, scavata nel bosco vicino alla sua casa.

Un tecnico di una ditta, tale Sam Fork, incaricato di bonificare e rendere abitabile una parte di palude nei pressi della casa di Jack, si era imbattuto accidentalmente in una depressione nel terreno, mentre segava alcuni alberi.

Che poi fosse stato solo per un caso, una coincidenza o una fortuita casualità, ma il destino aveva deciso di preservargli la vita in un modo rocambolesco e per certi versi macabro, facendo si che la sua caduta fosse attutita dai resti dei corpi delle povere vittime.

Ad aggiungere interesse alla già importante scoperta, ci fu il ritrovamento di numerosi gioielli, collocati in piccole buste sigillate in prossimità dei cadaveri, monili che i parenti ritenevano avessero indossato al momento della sparizione.

Tutto questo sembrava fornire delle risposte a quelle misteriose scomparse, le risposte che Jack Thomson non aveva mai saputo o voluto dare.

Ma nonostante ciò, la scoperta non riusciva a dare un senso a tutto, una spiegazione plausibile allo svolgersi dei fatti e una risposta alla domanda più

importante:

Jack aveva realmente fatto tutto da solo?

13. L’ospedale

Dopo il ritrovamento, Tim Sommerson fu incaricato di recarsi all’ospedale psichiatrico per vedere Jack e capire se fosse in grado di riconoscere le vittime dagli indumenti ritrovati o dai gioielli stessi.

Quando Tim entrò nella sua stanza bianca, Jack fissava il tavolo con uno sguardo totalmente inespressivo, assente, mentre ricomponeva le grandi tessere di un puzzle per bambini.

“Jack si ricorda di me, sono Tim Sommerson.” Esordì.

Nessuna risposta.

Jack si limitò ad ignorarlo, come del resto avrebbe fatto con qualsiasi persona che gli si fosse presentata di fronte e che non fosse un dottore, o l'addetto della mensa.

Dalle cartelle cliniche risultava che Jack non parlava con nessuno; si faceva sentire solo per mangiare e quando stava male, come se le sue funzioni vitali si fossero ridotte ad uno stadio infantile.

I dottori dell’ospedale aggiornavano periodicamente la sua anamnesi annotando il suo strano comportamento, per quanto fosse in un certo senso costante,

coerente nel tempo.

Di giorno manifestava delle crisi epilettiche: con gli occhi fissi in uno stato di trance fissava il vuoto ed urlava, ponendosi le mani davanti al volto nel tentativo di difendersi da un qualcosa che solo lui sembrava fosse in grado di vedere.

Tim provò anche a cambiare l’approccio rispetto ai suoi predecessori, ando a modi più garbati e ad un tono di voce rassicurante:

“Per cortesia, so che ultimamente non se la sta ando molto bene, ma mi aiuti a ricostruire. Ci sono molti punti in questa vicenda che non mi sono chiari; vede” disse estraendo un campione di monili ritrovati nel bosco “le ho portato alcuni effetti personali che pensiamo appartenessero alle vittime: sono collane, orologi e braccialetti; ad esempio, questo anello con scritto Mary all’interno, sa dirmi se era di Mary Wood?”

Tim Sommerson non avrebbe mai creduto che poche parole avrebbero potuto sortire un effetto così efficace e immediato.

Jack infatti sembrò quasi trasalire dal suo stato catalettico, ed iniziò a dire cose apparentemente sconnesse:

“Dove l’ha trovato?! Lei ora è qui?! No signore la prego non la faccia tornare! Signore mi lasci stare, tenga lontano da me quell’anello; la prego, la scongiuro, vada via subito!!”

La bocca di Jack iniziò a tremare; le parole uscirono sempre più scomposte, in un farneticare delirante, finché svenne e cadde a terra sotto lo sguardo sbigottito dell'ispettore.

Jack non tornò più in sé fino all'arrivo dei soccorsi.

Tim lasciò l’ospedale psichiatrico perplesso.

“Turbe psichiche, attacchi schizofrenici. Frankie, tutto conferma l'identikit di una persona disturbata, di un serial killer..” disse dopo aver telefonato al suo fidato collaboratore.

Dall’altro lato della conversazione Frankie provò a riordinare le idee:

“E’ vero capo, eppure resta sempre valida la questione principale: come ha fatto a trasportare quei corpi da solo e a scavare quell’enorme buca senza un escavatore o quantomeno un aiuto?”

Tim rimase pensieroso.

Frankie aveva ragione, c’erano troppi particolari che non tornavano.

“Frankie, Ammettiamo per un attimo che non abbia agito da solo, ma spostiamo l’attenzione su di un altro punto. Cosa spiegherebbe secondo te il fatto che quando oggi ha invocato aiuto, il suo sguardo per la prima volta era quello di un

uomo spaventato, scioccato? Di cosa aveva paura, del complice? Forse aveva un conto in sospeso?”

“Non lo so capo. Credo che avremo la risposta se capiremo cosa intendeva quando parlava al femminile, di “Lei”. Quella credo sia la chiave, la pista da seguire.”

“Già Frankie; io credo si riferisse ad una sua vittima, a Mary Wood probabilmente. E’ plausibile, ma allo stesso tempo questa ipotesi non mi convince pienamente.”

“E perché capo?” chiese Frankie.

Tim sospirò per la scarsa acutezza del suo collaboratore, ma rispose comunque prima di riagganciare:

“E per quale motivo avrebbe dovuto temere un fantasma?”

14. Tim e la creatura

Tim annotò alcuni appunti sul blocchetto che portava sempre con sé, quindi salì sulla sua macchina e si diresse verso quella strada che avevano costruito di recente, poco distante dalla palude, e che faceva da raccordo tra l’ospedale e la città.

La giornata d’estate volgeva ormai verso l’imbrunire.

La via si dirigeva parallelamente ad alcuni tratti del bosco caratterizzati da zone acquitrinose, dove i canneti erano l’elemento principale della vegetazione.

Il caldo e l’umidità stavano prosciugando nuovamente le energie di Tim.

Ad un certo punto l’investigatore aprì un finestrino della sua vettura d’ordinanza e, se non fosse stato per la totale mancanza di vento, gli parve di sentire uno strano rumore, un fruscio provenire dalla vegetazione ai bordi della strada.

A quel punto, per un attimo, ai suoi occhi tutto parve fermarsi, ed uno stormo di uccelli ò davanti alla sua auto, come se stesse fuggendo da qualcosa.

Mentre pensava a queste cose e a Jack Thomson, Tim guardò il sacchetto di monili che aveva appoggiato sul sedile del eggero.

Qualcosa in quel sacchetto, forse quell’anello, ha turbato Jack sconvolgendolo, pensò.

Ma cosa? E perché?

Non fece tempo a rispondersi che poco distante dal punto del bosco dove c’era ancora la casa ormai fatiscente di Jack, una sagoma sbucò fuori improvvisamente dalla vegetazione, urtando la ruota anteriore della vettura guidata dall’ispettore.

L’auto sobbalzò e finì fuori strada, terminando la sua corsa addosso ad un albero.

Lo schianto fu notevole, tanto da distruggere la parte anteriore della Chevrolet.

Solo Tim non ebbe conseguenze.

Si destò quasi illeso, si slacciò la cintura che lo aveva salvato ed iniziò a chiedersi che cosa lo avesse urtato.

Sbirciò istintivamente nello specchietto retrovisore, ma nella semioscurità non riuscì a scorgere quasi nulla, solo del fumo nero che proveniva minaccioso da sotto il cofano, a confermare che qualcosa si era guastato irrimediabilmente.

Fece uno sforzo per recuperare le forze residue e scese dall’auto.

Prese il cellulare ed iniziò a cercare il numero di Frankie.

Sul display apparve un messaggio quasi irriverente: Non c'è campo, solo numeri di emergenza.

Diresse allora la torcia che teneva in macchina verso il punto dove l’auto era stata speronata.

E fu allora che una visione spettrale lo raggelò all'istante, proiettandolo in una dimensione irreale.

Fuori ad attenderlo, nel centro della strada, c'era qualcosa che non apparteneva in alcun modo al mondo che Tim conosceva.

In un attimo ebbe tutte le risposte che cercava sullo strano comportamento di Jack e su quelle frasi sconnesse durante la sua visita all’ospedale psichiatrico.

Tutto ciò di cui aveva riferito in modo apparentemente incomprensibile, si riferiva dunque a quella cosa che ora distava una trentina di metri da lui, un incubo che aveva sconvolto persino un assassino seriale come Jack, e che ora lo stava fissando attraverso due occhi spettrali, dal lato opposto della carreggiata.

Tim rimase impietrito ad osservarlo, cercando inutilmente di ricordare un

elemento in quell'indagine che lo potesse aiutare.

Quindi la creatura iniziò ad avanzare verso Tim, muovendo le gambe possenti, ricoperte di alghe, da cui ricadevano ancora rivoli d’acqua, provenienti dalla palude da cui era emersa.

Tim restò per qualche secondo fermo ad attendere il suo destino, in attesa di un’idea, un intuizione, finché un dettaglio, un particolare, gli suggerirono una strada da percorrere.

Tim corse verso la macchina a cercare il sacchetto con i monili; lo trovò e dopo averlo soppesato lo lanciò verso la creatura, in modo che finisse poco distante dall’auto, in direzione del portabagagli.

A quel punto si spostò dalla vettura e attese alcuni secondi.

La creatura sembrò capire che cosa gli fosse stato lanciato e si diresse a raccoglierlo.

Nel frattempo Tim guadagnò alcuni metri dalla macchina ed iniziò a correre a grandi falcate verso la strada.

Dopo qualche metro si voltò e vide la creatura raccogliere il sacchetto.

Il tutto avvenne in un silenzio surreale, come se ogni elemento naturale si fosse

fermato ad osservare la scena.

Quindi l’essere emise un suono, o.. un lamento, ne era certo.

I suoi occhi spettrali si accesero di un color rosso fuoco, pulsando ritmicamente fino ad apparire ancor più innaturali, iniettati di sangue.

Tim lo notò chiaramente mentre avvertiva una strana sensazione nel suo corpo.

Era come se, del tutto ipnotizzato da quello sguardo, qualcosa, forse una forza misteriosa, lo stesse paralizzando progressivamente.

Una sensazione di impotenza, uno strano torpore, che lo abbandonò solo quando la creatura si mosse di scatto, per dirigersi verso di lui.

A quel punto avvenne quello che Tim in cuor suo aveva pregato che accadesse.

La vettura esplose con un enorme boato.

Subito divamparono delle fiamme altissime e migliaia di frammenti di vetro e lamiera precipitarono dal cielo.

La creatura emise un lamento così acuto che diede l’impressione di far tremare

gli alberi del bosco, mentre il suo corpo veniva interamente avviluppato dalle fiamme.

Quindi, in breve tempo, mentre quegli occhi continuarono ad osservarlo fino all'ultimo istante, quasi a voler fissare per sempre nella sua mente quella visione, tornò da dove era venuta.

L'unico luogo dove quello sguardo iniettato di sangue avrebbe potuto are inosservato, pensò Tim mentre si allontanava.

Attento ad evitare i frammenti e la cenere che pioveva dall'alto non si voltò a guardare indietro, mentre dal cielo ricadevano anche piccoli oggetti dorati.

Oggetti a lui ben noti. Monili che ricadevano sul suo corpo, senza però provocargli alcun tipo di dolore.

Tim notò questo particolare, mentre correva.

Perché? Si chiese.

Come è fisicamente possibile tutto questo? Non dovevano fondersi con il calore?

Forse era solo l’effetto dell'adrenalina che aveva in corpo o forse era solo una delle tante questioni irrisolte, ma per una volta evitò la procedura e ò oltre, senza tornare indietro sui suoi i.

Solo un particolare, una sensazione di corpo estraneo, lo turbò per un attimo nella sua fuga.

Qualcosa, un piccolo oggetto, si era infilato nello spazio di pelle tra il collo e la camicia, scivolando giù, lungo la pelle del dorso.

Già, un oggetto metallico, in parte perfettamente levigato e in parte no, che non avrebbe saputo dire perché, ma ne era certo, anche senza vederlo, sapeva perfettamente di che si trattava, ma non avrebbe saputo spiegare per quale motivo ne fosse entrato nuovamente in possesso..

Marianna

Ho sempre adorato le ville venete.

Maestosi giardini finemente curati, dove ritrovare una flora altrimenti sconosciuta, a volte addirittura catalogata con dovizia di particolari.

Edifici pieni di storia, di vita, di vite, di ioni, feste, banchetti, cerimonie, amori, duelli.. tradimenti.

Non credo che vivere ai tempi in cui furono progettate fosse un modo “più bello” di vivere, però son altrettanto convinto che il magnetismo, il fascino discreto della loro storia stessa, sia un’inesauribile fonte d’ispirazione per la fantasia di uno scrittore.

Forse è il concetto di bello di ciò che ci resta, ovvero l’arte e la sua immortalità pur nella decadenza, o forse è un po’ come il ricordo di un periodo lontano del nostro ato, in cui ci basta ammirare la foto di un paesaggio, per pensare che ciò che stavamo facendo allora era comunque ugualmente stupendo, dimenticando per un attimo tutto il resto.

La mente umana.

E’ complesso il meccanismo che regola ciò che inconsciamente decretiamo come sublime, fin dal primo sguardo.

Un labirinto per esempio.

La parola stessa ha il fascino della leggenda, del mistero.. del sogno stesso. A quanti di voi non è mai capito di sognare di perdersi in un dedalo di vie, sentieri, o stanze, seguendo (o fuggendo) da qualcuno?

A me succede spesso, e Marianna in fondo è un po’ tutto questo. Una villa, un sogno, un labirinto. Il profumo di un tempo antico, il suono di un’orchestra, il respiro di un’anima innamorata nel suo giardino segreto..

Lì dove il colore predominante era il verde degli alberi e dei prati e dove la fitta vegetazione si intersecava in un groviglio, un dedalo di rami, arbusti e fili d’erba, giacevano le rovine della Villa Magnifica, quella che era stata per anni la residenza estiva di generazioni della famiglia Farsetti.

Antonio penetrò qualche metro nel sentiero, dove i sassi ed il ghiaino erano stati portati a valle dalle fortissime precipitazioni dei giorni precedenti.

Quindi si inerpicò per una breve salita, appoggiandosi ad un bastone di fortuna, raccolto ai margini del boschetto.

Le foglie dei rami gli sbattevano sulla fronte, quasi a volersi opporre al suo aggio.

Forse questo è un segnale, un ammonimento?

Il notaio l’aveva messo in guardia sulla pericolosità nel varcare la soglia dell’entrata della villa: ad attenderlo potevano esserci travi pericolanti, gradini consunti dal tempo pronti a cedere sotto i suoi i, polvere, animali od insetti pericolosi come scorpioni e ragni velenosi.

Antonio non aveva dato peso a quelle parole.

Avrebbe fatto il possibile per verificare se era possibile recuperare ogni stanza della villa e riportarla agli antichi splendori.

Con questi pensieri in testa percorse l’ultimo tratto, quello dove la salita presentava delle pendenze quasi proibitive e dove un occhio attento avrebbe potuto notare un mutamento nella vegetazione: una corteccia liscia, brunorossastra era sempre più frequente sugli alberi e sul sentiero si potevano calpestare piccole noci cadute di recente.

Una piacevole alchimia di colori rivelava quella visione, riposta subito prima che Antonio potesse scorgere i muretti di cinta del giardino d’ingresso della villa.

Il aggio del tempo era stato inesorabile: piccole e grandi crepe si intravedevano ovunque, alternate ad edere e ad altre piante rampicanti che si erano avviluppate lungo i muretti in modo da attraversarli tutti, in un’unica soluzione di continuità.

Antonio si diresse verso il cancelletto d’entrata: un vecchio lucchetto arrugginito bloccava una catena ancor più consunta che impediva alle porticine di aprirsi.

Il giovane estrasse dallo zaino un tronchesino e spezzò la catena.

Quindi si incamminò verso l’entrata.

La moglie Anna lo seguiva a pochi i di distanza, con lei la sorella nonché amica del cuore Camilla e a chiudere il gruppo l’amico Matteo.

Antonio guidò il gruppo verso il portone, notò le grosse maniglie presenti su entrambe le ante e aprì la serratura utilizzando il mazzo di chiavi che gli aveva consegnato il notaio: un cigolio anticipò l’apertura del pesante blocco di legno, quindi una ventata d’aria si fece strada verso l’esterno, impregnando il respiro dei giovani con l’impeto di chi volesse fuggire da un luogo in cui era rimasto intrappolato per decenni.

Subito dentro la villa alcuni fili di ragnatela scivolarono dal soffitto di fronte a loro, mettendo in agitazione la componente femminile del gruppo.

Quindi avanzarono lentamente verso l’interno, soffermandosi ad ogni o.

Alcune mattonelle del pavimento si sollevarono leggermente sotto il peso del loro corpo.

Questo è uno dei primi punti dove intervenire, pensò Antonio.

Il giovane indossò un paio di guanti e si diresse verso gli scuri che intravedeva fronte a sé, dietro le scale che si ergevano nel centro della stanza.

Antonio aprì progressivamente ogni imposta e lentamente fasci di luce affiorarono qui e là, riprendendo ad illuminare quelle mura ed indicando impietosamente i punti dove la muffa aveva vissuto per anni indisturbata.

La visita proseguì alle altre stanze del pianoterra, quindi Antonio fece per salire le scale quando per un attimo avvertì un rumore provenire dall’alto.

Si levò un soffio d’aria.

Forse qualcosa, una trave, stava cedendo.

Sei tornato?

I giovani salirono le scale, notarono gli scalini in marmo stabili sotto il peso dei loro corpi, ma consunti dal tempo e dal calpestio delle persone.

Aprirono tutte le stanze.

Molte vetrate erano rotte, il mobilio in genere era ricoperto da vecchie lenzuola.

Antonio osservò lo specchio nel salone principale, il luogo prescelto per balli e feste.

Copriva tutta la parete est, fornendo l'illusione di raddoppiare le dimensioni della stanza, che si espandeva idealmente in un gioco di luci e riflessi, in una maestosa terrazza, ormai pericolante.

I giovani proseguirono la visita lungo tutto il corridoio, notando sul soffitto delle stanze alcuni affreschi di vari soggetti, come scene campagnole, carnevalesche, posti esotici, vita quotidiana di nobili, il tutto adibito allo scopo di intrattenere gli ospiti durante il loro soggiorno.

Quasi paralizzati dalla moltitudine di scene e soggetti offerti dagli artisti, ne convennero che quando il tutto non doveva essere stato consunto dal tempo ed offuscato dalla polvere, doveva trattarsi di gioia pura per gli occhi dello spettatore.

Quindi, il tempo di mettere piede sul locale successivo, che Antonio si trovò a sollevare un lenzuolo e a scorgere un vecchio pianoforte a coda.

Probabilmente ora si trovavano in una delle stanze dedicate alla musica.

Anna e Camilla si soffermarono invece sui letti, ancora preparati come se fossero stati utilizzati fino al giorno prima.

In totale le stanze al piano superiore erano una quindicina.

Restava a loro da visitare il terzo piano e le stanze di soggiorno al piano terra, dedicate ai periodi caldi dell’anno.

Antonio decise di sospendere la visita e tornare dopo un paio di settimane con il personale della ditta a cui aveva affidato il lavoro di restauro.

All’uscita dalla villa Matteo notò qualcosa a circa cinquanta metri di distanza dietro la villa, fuori uscire dalla vegetazione:

“Ehi, guardate! Sembra che ci sia un piccolo edificio, una sorte di piccolo tempio votivo.”

“Hai ragione, devo controllare nella planimetria per capire di che si tratta. Comunque non ci giurerei, ma prima mi è parso di sentire qualche scricchiolio sinistro provenire da quella direzione. Probabilmente il suo stato di conservazione è pessimo.” osservò Antonio.

“Non so voi, ma in generale finché non lo mettono a posto, preferisco non avvicinarmi a quel tempietto: il suo abbandono e la sua fatiscenza mi trasmettono un senso.. come di inquietudine, ecco.” disse Anna.

Antonio rifletté per un attimo su quanto aveva detto la moglie, e con l’intento di saperne di più su quell’edificio tornò dentro e portò via con sé un libricino che aveva notato sul tavolo a fianco l’ingresso, il cui titolo era: “Storia della Villa Magnifica”.

Il tutto era composto da un fascicolo di una cinquantina di pagine, contenente una descrizione della genesi dell’edificio, la vita ed alcuni ritratti di chi vi aveva soggiornato.

Pagine ingiallite e raggrinzite, certo, ma che sembrano infondere interesse proprio per quel loro apparire ricche di storia e di.. vita.

Antonio lo ripose con cura in una borsa, con lo stesso riguardo che si ha per un attestato, un riconoscimento importante, e con in fondo al cuore una piacevole certezza.

Già, quella sera, avrebbe avuto sicuramente qualcosa da leggere..

2

Antonio, giunto nel suo appartamento, attese la sera e poi, disteso sul letto, iniziò a sfogliare quelle pagine polverose.

Il costruttore di quella casa era stato un antenato facoltoso, un nobile di cui era presente un ritratto a mezzo busto, dipinto quando più o meno superava la quarantina.

La villa era stata costruita come residenza estiva e ci vollero parecchi anni prima che fosse utilizzata.

Inizialmente era stata concepita su due piani e con una piccola torre centrale, poi ridimensionata a causa di alcuni difetti che la rendevano in parte pendente e pericolante. Per le numerose stanze degli appartamenti residenziali erano stati commissionati splendidi arazzi ed affreschi raffiguranti temi triviali, con l’intento di rallegrare lo spirito degli ospiti.

I saloni delle feste inizialmente progettati erano due, e uno era stato ideato anche per il piano terra, completamente adornato di specchi.

Quindi il progetto era stato modificato: cercando di seguire quanto indicava il celebre architetto Palladio, la vita dell’edificio avrebbe dovuto animarsi attorno ad un grande salone centrale, la cui prosecuzione naturale poteva essere una splendida terrazza, completamente rivolta verso il giardino, da cui gli ospiti avrebbero potuto ammirare una ricca varietà di piante.

Un’attenzione particolare infatti era stata riportata anche nei dettagli e nella cura della vegetazione del giardino: rododendri, azalee, cornus, abeti ed un piccolo laghetto centrale avrebbero reso il parco della villa una splendida cornice verde, ideale per eggiare e dare ricevimenti all’aperto durante il periodo primaverile ed estivo.

Non meno importante, ai lati del giardino si estendeva un labirinto di siepi, al cui centro risiedeva un piccolo tempio votivo, dalla cui sommità si poteva vedere il giusto percorso per uscire dal dedalo.

Antonio ripensò a quanto aveva visto al mattino, e non riuscì a ricordare se la base del labirinto fosse stata rimossa oppure se fosse ancora utilizzabile per farci rifiorire delle siepi.

Si concentrò allora sul tempietto centrale, l’unico edificio che non aveva ancora visto, e si ripropose di far rinascere nell’insieme quell’idea così originale.

Antonio sfogliò velocemente le pagine contenenti le piantine delle stanze dell’edificio e proseguì la sua lettura fino alla fine del libro, affascinato dalla storia delle persone e dell’edificio.

Il giovane rimase deluso solo dal capitolo finale.

L’ultima persona di cui si parlava era una donna, la bella Marianna, che aveva vissuto in quei luoghi verso la fine del 1800.

Inizialmente anche la nobile si era trasferita nella villa solo per il periodo estivo e perlopiù in assenza del marito, intento per lavoro a girare il mondo.

Lady Marianna non aveva ancora avuto figli e pertanto, per non rimanere sola, si era avvalsa della compagnia di alcune dame a lei care.

I giorni trascorrevano serenamente, con la donna che sviluppava la ione per la cura il giardino e le sue edere in particolare.

Poi però una forte depressione per la solitudine la rese progressivamente sempre più pallida e magra.

I medici credettero che avesse qualche rara malattia, ma lady Marianna non avvertiva malesseri particolari come tosse, raffreddore, febbre o emorragie.

Quello che manifestava aveva i contorni di un malessere fisico indefinito.

Ogni giorno si sentiva sempre più debole, finché finì allettata per buona parte della giornata, alternando solo qualche eggiata nel giardino, a toccare ed ammirare le sue edere, verso la zona del santuario e del labirinto. L’ultima parte del racconto di vita di lady Marianna illustrava una scoperta sensazionale che aveva effettuato curando le sue piante:

“Estraendo parte della linfa, ella riteneva di essere in grado di curarsi. I medici erano preoccupati per questa sua idea, credevano potesse indebolirsi

ulteriormente. Poi della signora Marianna un giorno si persero le tracce; il suo corpo fu cercato in tutte le stanze dell’edificio, fintanto che..”

E in questo punto il racconto terminava inaspettatamente.

Antonio controllò la rilegatura del libro: l’ultima pagina era stata rimossa.

Per quale motivo qualcuno avrebbe potuto rovinare un libro di nessun valore?

Forse la pagina era stata rimossa accidentalmente?

Oppure c’era qualche particolare, forse incentrato sulla vita di qualche persona e magari dedicato ad argomenti scabrosi, che non doveva essere rivelato?

Antonio affascinato da mille e più fantasie si coricò a letto a fianco alla moglie ed iniziò a dormire profondamente. E poco prima del risveglio, in una fase di dormiveglia, un sogno particolarmente vivido gli rimase chiaramente impresso nella mente.

Antonio si trovava nella villa, anche se non avrebbe saputo dire se il sogno si svolgesse in un tempo futuro in cui l’edificio era già stato ristrutturato, oppure se fosse in un tempo ato.

La villa era comunque nel suo massimo splendore.

Il giardino perfettamente curato, le stanze animate da una festa in cui persone eleganti intrecciavano dialoghi divertite, mentre una musica suadente accompagnava i balli degli invitati durante una notte splendida, in cui Antonio osservava il chiarore della luna appoggiato al balcone dell’enorme terrazza.

Al suo fianco c’era una donna bellissima, del cui volto non aveva un ricordo certo, ma che lui sapeva per certo essere lady Marianna.

Lady Marianna gli sussurrò delle dolci parole:

“Amore, tu non sai per quanto tempo ho atteso questo momento. Ti ho aspettato per lunghi giorni, quasi interminabili che poi sono diventati mesi e anni. Non ho mai smesso di sperare che tu tornassi da me, di poterti riabbracciare di nuovo, sentire il calore del tuo corpo che mi stringe forte a sé. Amore ora sei qui per sempre, vero?”

“Sì.. sì, non ti lascerò più. Sono stato uno stolto ad abbandonarti, non mi sono reso conto di quanto fossi importante per me, amore mio.”

Così dicendo Antonio avvicinò le labbra a quelle di Marianna e la baciò.

Ma Marianna allontanò un attimo lo sguardo da lui e sul suo viso scesero alcune lacrime:

“Perché piangi amore mio? Ora che sono tornato che motivo hai di soffrire?”

“Amore, tu dici così ma so che nel frattempo c’è un’altra persona che ha occupato un posto fisso nella tua mente e nel tuo cuore.”

“Ma.. di cosa stai parlando amore mio?”

“Sì, è così e tu lo sai a chi mi riferisco.”

“Non può essere vero amore quanto dici, ci sei solo tu!”

A quel punto di quel sogno sull’incantevole volto di Marianna iniziò ad affiorare un candore, all’inizio normale, che poi si trasformò in pallore, sintomo di malessere.

“Amore cosa ti succede, ti senti male?”

“Non è niente tesoro, seguimi che ti mostrerò cosa mi può far stare meglio.”

Lady Marianna e Antonio scesero dalla terrazza nel giardino e percorsero nella notte alcuni i tra i rododendri, illuminati dalla luna che si specchiava nel piccolo lago di fronte alla villa.

Il volto di Marianna risplendeva nell’oscurità, incantevole come fosse una bellissima ninfa, in una visione di cui solo il pallore di crescente intensità era

l’unico elemento di disturbo.

Giunsero al labirinto ando tra le alte siepi.

Marianna si sentì mancare un paio di volte, ma rimase in piedi, appoggiandosi ad Antonio in un abbraccio che non sembrava poter aver fine.

Percorsero la strada fino al piccolo tempio senza mai sbagliare percorso, come se conoscessero quel labirinto da sempre.

Ma proprio lì, una volta giunti in prossimità dell'entrata, avvenne qualcosa che lasciò esterrefatto Antonio.

Le siepi infatti sembrarono animarsi di un’energia improvvisa.

Alcuni arbusti si alzarono prima verso il cielo e poi si diressero verso Marianna, quasi volessero aiutarla nel suo incedere.

Marianna accarezzò gli arbusti e quindi fece per aprire il portone del tempio.

“Ecco amore, è qui che ti volevo portare.” disse la donna mentre il suo volto iniziava ad assumere dei connotati sempre più cadaverici.

“Tesoro, ma tu stai malissimo. Lascia che chiami i dottori!”

“No amore. Non serve. In pochi minuti starò meglio.”

E provando così a rincuorarlo Marianna lo condusse al secondo piano del piccolo edificio, dove il muro andava via via ricoprendosi di una strana edera rampicante.

Quindi, una volta giunti in cima, Marianna si diresse verso l’edera, e lì una visione incredibile e sconcertante allo stesso tempo si presentò agli occhi di Antonio:

Marianna si diresse verso la parte del muro dove la pianta ne ricopriva interamente la superficie.

In pochi secondi fu come avvolta dai rami e trasportata al suo interno.

Marianna i si girò.

Con il viso rivolto verso Antonio, distese le braccia e l’edera iniziò a rianimarla, entrando in una sorta di simbiosi con il suo corpo.

A quel punto la donna, con il volto in parte ricoperto dalla pianta, si rivolse un’ultima volta a lui:

“Amore, qui il mio corpo trova forza e vigore, ogni giorno vengo ad abbeverarmi a questa fonte di energia immortale.”.

“Ma tesoro quello che stai facendo è inconcepibile, tu.. tu non sei reale”

“Sì che lo sono, ricordi? Una volta già provasti a liberarti di me, ma allora tu mi privasti solo del mio corpo, non della mia anima.”

“Ma cosa stai dicendo amore? Io.. proprio non capisco..”

A quel punto il ricordo del sogno nella mente di Antonio, iniziava a farsi sempre più confuso, focalizzando il dettaglio sul volto di Marianna sempre più serio, a tal punto da risultare quasi adirato.

“Ora che sei tornato, ti perdono per quello che mi hai fatto. E ti lascio con questo messaggio: quando la luna varcherà di nuovo questo cielo, i nostri corpi potranno incontrarsi nuovamente.”

A sentir quelle parole il ricordo del sogno si interruppe definitivamente.

Antonio aprì gli occhi di scatto e si voltò per abbracciare Anna.

Un gesto semplice, come il dimostrare il suo amore con una carezza.

Avrebbe voluto farlo, se solo non fosse sicuramente accaduto qualcosa.

Già, per quanto non riuscisse a spiegarsi il motivo, non poté a fare a meno di notare che sua moglie non era a letto con lui.

3

Antonio chiamò la moglie a gran voce ma non giunse alcuna risposta.

La donna non era in casa.

Telefonò quindi all’amica Camilla, ma la donna non aveva minimamente idea di dove fosse Anna.

Provò allora a chiamarla al cellulare, ma si accorse che era ancora lì, dove l’aveva lasciato la sera precedente, appoggiato sul comodino.

Cosa ancor più inquietante, Anna era uscita di casa senza documenti, né indumenti al di fuori della vestaglia da notte con cui si era coricata.

Ma dove può essere andata?

Antonio coinvolse immediatamente la polizia; le ricerche furono condotte in città e durarono per un giorno, infruttuose.

Quindi il giovane, esausto, si coricò per la prima volta dalla sparizione della moglie e sognò nuovamente:

Questa volta il ricordo iniziava nel giardino della villa: Antonio era lì, ad una festa, come un ospite qualsiasi invitato a festeggiare il ritorno di una persona importante. La serata scorreva piacevolmente, ma nell’aria si avvertiva la sensazione che qualcosa di negativo fosse in agguato, pronto a guastare il tutto.

Quindi d’un tratto scorse due figure dirigersi verso il labirinto.

Antonio le seguì per alcuni metri attraverso le siepi e si fermò ad ascoltare il loro dialogo:

“Ma come amore, sei appena tornato e già devi ripartire? Non vedi quante persone oggi sono presenti a questa festa in tuo onore? Ti prego resta, non mi lasciare nuovamente, sento che questa volta.. né morirei!”

“Mi spiace Marianna, il mio lavoro mi spinge a girare il mondo, non posso fermarmi a lungo.”

“Ma amore, quando tornerai?”

“Forse tra sei mesi, forse tra un anno, solo il padre eterno conosce il mio destino.”

A quel punto Antonio sentì un gemito, un lamento.

Voltò l’angolo e vide la donna accasciarsi al suolo, priva di vita, fra le braccia dell’uomo.

Questi si voltò di scatto verso Antonio che per un attimo avvertì una sensazione di déjà-vu.

Neanche il tempo di realizzare che cosa l’avesse provocata, che il sogno si interruppe bruscamente.

4

Antonio si destò poco oltre l’alba con un’idea, un chiodo fisso nella mente: quell’ambientazione ricorrente nei suoi sogni era più che un indizio: doveva cercare Anna nella Villa Magnifica.

Chiamò quindi Matteo e partirono assieme.

I due percorsero il sentiero ombroso, l’entrata del giardino e si prodigarono a cercare dentro l’edificio, ma nulla, della donna non c’era traccia.

Ad un certo punto avvertirono un rumore, amplificato ancor di più dal silenzio surreale di quel luogo: i due giovani cedettero di riconoscere un lamento provenire dall’esterno, in direzione del giardino.

Si precipitarono fuori con il cuore in gola e distinsero quello che sembrava essere un pianto, che a prima vista proveniva dalla zona del tempio.

I due percorsero quel tratto di giardino in un lampo, ed in quel breve lasso di tempo Antonio provò nuovamente quella sensazione di déjà-vu, come se in qualche modo sapesse a cosa stavano andando incontro.

Giunsero al santuario, dove notarono che le porte erano già aperte e si precipitarono all’interno.

Antonio constatò che mentre l’edera che era fuori era quasi completamente diradata, quella all’interno dell’edificio si diffondeva rigogliosamente, ed ora si espandeva diretta verso il secondo piano.

“Ma è come se fosse.. viva!?” esclamò esterrefatto Matteo indicando la pianta.

“Andiamo, temo di sapere di cosa si tratta. Ti spiegherò dopo, ora credo non ci sia più tempo da perdere!”

I due salirono di fretta la piccola scala a chiocciola che conduceva al secondo piano, in parte ricoperta dalla pianta, e dopo alcuni i capirono finalmente che cosa produceva quei lamenti.

Anna era lì, completamente avvolta dall’edera, quasi esanime.

Nel suo volto stava avvenendo una trasfigurazione: i suoi lineamenti, la sua espressione non erano più quelli dell’amata moglie, ma quelli di lady Marianna!

Antonio tirò fuori immediatamente dalle tasche un coltello estraibile ed iniziò a tagliare l’edera che avvolgeva la sua amata, mentre Matteo tentava di strappare rami e foglie a mani nude.

Ad un certo punto Matteo si tagliò sfregandosi le mani con i rami, e notò che dalla pianta usciva una linfa verde che iniziava a ricoprire la sua ferita.

Si allontanò di scatto e succhiò via il sangue e la linfa. Quindi si coprì il braccio con un lembo di stoffa, e continuò ad aiutare l’amico.

I giovani estirparono Anna dalla pianta strappando ogni ramo e foglia che la avvolgeva; l’edera, animata da una forza innaturale, si oppose a lungo, con i suoi rami che continuavano ad avviluppare il corpo della donna, come per proteggerla più che per difendere sé stessa: in verità infatti, la pianta non diede mai l’impressione di voler recar del male a qualcuno.

Al termine, la giovane cadde tra le braccia del marito e un suono irreale spezzò il silenzio di quei luoghi.

Dopo qualche minuto il viso di Anna riacquistò i suoi lineamenti naturali e sparirono definitivamente le tracce del ricordo di lady Marianna.

Antonio strinse forte a sé l’amata e la baciò più volte, finché..

5

Finché Anna riprese i sensi.

Ma subito dopo qualcosa attirò nuovamente l’attenzione di Matteo; dove fino a qualche minuto prima l’edera rifioriva rigogliosa, ora si stava velocemente diradando fino a scomparire del tutto, lasciando intravedere un muro con una croce affrescata, al cui centro era visibile una piccola fessura.

Matteo si avvicinò e sbirciò dentro il buco.

Nell’oscurità riuscì ad intravedere un piccolo rotolo di carta.

Lo estrasse e lo mostrò ad Antonio: il giovane lo srotolò con cura, facendo attenzione affinché non si sgretolasse.

Quando finalmente poté scorgerne il contenuto, capì che era la pagina mancante del libro della storia della villa. Antonio spiegò quanto aveva letto in precedenza all’amico, e assieme lessero il contenuto di quel foglio:

“Si decise di cercarla nel giardino, laddove la signora amava trascorrere il suo tempo dedicando anima e corpo alla cura delle piante. La ricerca, inizialmente infruttuosa, portò al piccolo tempio, aldilà del labirinto.

Il corpo della donna fu trovato avvolto dalle sue amate piante ai piedi dell’edificio: la donna presumibilmente si era gettata dalla sommità dello stesso.

Ai piedi di lady Marianna fu trovato un biglietto che spiegava i motivi della sua tragica decisione: la solitudine che provava aveva sfinito il suo fragile cuore; quando poi aveva saputo che il marito non sarebbe tornato neanche per presenziare alla splendida festa di ricevimento che stava organizzando, decise di compiere il tragico gesto.

Il suo corpo venne murato come da sue ultime volontà dietro il muro a nord nel secondo piano del tempio.

Il corpo della donna, che in vita era stata molto amata dal personale della villa, ricevette continue visite nel corso degli anni: la gente veniva lì a pregare per lei.

Una cosa che suscitava interesse era il continuo rifiorire rigoglioso dell’edera sul muro, a pochi metri rispetto a dove lady Marianna giaceva.

Era quantomeno curioso che traesse linfa proprio lì, dove il corpo era stato riposto.

E così avvenne inspiegabilmente per molto tempo, finché giunse un’estate calda, molto calda, durante la quale scoppiò un maestoso incendio. E le fiamme devastarono le siepi del labirinto. Bruciò inoltre quasi tutta la vegetazione, compresa quella che adornava le pareti del tempio, e soprattutto fece crollare una parte del muro, proprio quella dietro la quale era stato deposto il corpo della

donna.

A quel punto fu visibile a tutti quella che venne ritenuta a tutti gli effetti una diavoleria: ciò che restava della donna era sospeso a ridosso del muro, come se avesse continuato a vivere avviluppato ai resti della pianta, fintanto che l’incendio non l’aveva quasi del tutto bruciata.

E quando il muro fu richiuso, e venne lasciata solo una piccola fessura, le cronache riportano che stranamente da quel pertugio continuasse a fuori uscire quell’edera..”

A questo punto il foglio terminava con una frase, l’ultima attribuita a lady Marianna nel suo biglietto d’addio: “Io continuerò ad aspettarti qui per sempre, amore mio; la mia anima dimorerà in questi luoghi in eterno..”

E con una bozza, una sorta di ritratto di quello che era stato il marito di Lady Marianna.

Antonio lo fissò a lungo, quasi a voler essere certo che quel cocktail di emozioni ed avvenimenti non lo avesse confuso.

Quindi, quando non si sentì in più in grado di custodire quella visione solo per sé, decise di mostrarlo all'amico.

Lì lo sguardo, il volto smarrito di Matteo in un attimo confermarono i suoi dubbi, le sue prime impressioni.

Brividi, un senso di gelo attraversarono il suo corpo dal capo ai piedi fino a fargli assumere un pallore cadaverico.

Per quanto non volesse credere a ciò che stava vedendo e alle implicazioni, a ciò che poteva voler significare, la somiglianza del suo volto con quella del ritratto era - senza ombra di dubbio - impressionante..

Le venti stanze

Mi capita molto spesso di soffermarmi a riflettere su come mi sia venuta l’ispirazione per scrivere certe storie.

Lo faccio quando sono in “pausa” ed attendo lo spunto per riprendere con una nuova trama.

Il mio è un vero e proprio tentativo di razionalizzare la stesura di un racconto, sebbene scrivere sia un processo che molto ha dell’irrazionale, per come spesso (soprattutto agli inizi) mi ritrovassi in preda ad un istinto compulsivo, a riversare (anche su carta) tutto ciò che mi ava per la mente, quasi avessi la sensazione che il “nastro” su cui viaggiava il racconto si autodistruggesse una volta “letto”.

“Le Venti Stanze” in sintesi è proprio questo.

Un racconto ancora una volta figlio di alcuni giorni d’estate, trascorsi in località di montagna dove di castelli, per la verità, non c’è molta traccia.

Ed al sottoscritto, fin da quand’ero bambino, i castelli son sempre piaciuti.

La montagna senza castelli è come una pentola senza i manici, una casa senza un tetto.

Non ha molto senso di esistere, e forse è per questo che tra i boschi ed i prati in alta quota ho immaginato questa storia, così surreale e così.. onirica.

Si tratta a tutti gli effetti del secondo racconto che ho scritto, ma forse il primo ad trasmettermi un incredibile senso di completezza e gratificazione.

Presto, presto, devo fare presto! Pensò Arthur mentre il tic toc costante dell’orologio a pendolo scandiva il tempo nella seconda stanza del castello dello zio di Charles, Sir Henry.

Per un attimo ebbe l’impressione che le lancette si spostassero più velocemente del dovuto e che quel vecchio pezzo di legno tarlato si stesse prendendo gioco di lui.

In realtà, a mente fredda, l’unica cosa di cui era certo era che non gli restava molto tempo.

Già.

Aveva ato in rassegna due stanze delle venti del castello.

A breve si sarebbe spostato sulle altre, ma avrebbe avuto solo un’ora scarsa per completare l’opera.

Opera, già o forse meglio avrebbe dovuto parlare di gioco.

Sì, perché era tutto frutto di un gioco, un patto tra amici con la mente annebbiata dagli effluvi dell'alcool.

Una storia nata tra un bicchiere di liquore ed un paio di storie di fantasmi, tanto per aumentare la suspense.

Inizialmente partita come una boutade, poi trasformatasi in una vera e propria sfida di resistenza, una "gara" di Jack Daniels, da cui Arthur era uscito sconfitto e che aveva segnato il destino della sua serata.

Si trattava di una gara contro il tempo, della durata di un paio d’ore, il cui scopo era il dimostrare di aver attraversato tutte le stanze di quel vecchio maniero, poco distante dalla casa per studenti dove dormivano, rigorosamente di notte.

La posta in palio era qualcosa di molto importante, a cui Arthur difficilmente avrebbe potuto rinunciare.

Già, se non fosse riuscito nell’impresa si sarebbe giocato l’ammissione alla confraternita degli studenti di cui Charles era il socio reggente per quell’anno.

Una vera e propria impresa impossibile.

A complicare le cose inoltre, Arthur avrebbe dovuto accendere almeno venti

candele, a dimostrazione del suo aggio e utili allo stesso tempo per fronteggiare la scarsa illuminazione delle stanze.

A quell’ora di notte infatti, a parte l’androne principale, l’oscurità regnava sovrana negli interni del castello e Arthur avrebbe girato di stanza in stanza illuminando l’ambiente con una vecchia lampada ad olio, appartenuta ad un antenato di Sir Henry.

Tutto era stato deciso mentre ovviamente Sir Henry era completamente all’oscuro della bravata dei due ragazzi.

In vacanza in un atollo dall'altra parte del globo si era fidato a lasciare a Charles le chiavi del castello perché lo tenesse aperto di giorno, facendo da guida ai turisti.

Guida.

Già, invece, mentre Arthur avrebbe corso contro il tempo, Charles si sarebbe sicuramente seduto comodo nell’androne principale del castello, controllando solo ogni tanto l’orologio e sorseggiando una birra assieme alla fidanzata Carol.

Di una cosa Arthur era certo.

Aldilà di come sarebbero andate le cose quella notte, in futuro sarebbe ci andato molto più cautamente con il Jack Daniels e le scommesse..

2

“Sicuramente non ce la farà” disse Charles a Carol, sghignazzando divertito.

“Poveretto, ma è un vero e proprio tour de force! E la prossima settimana avete anche un esame importante!”, rispose Carol che aveva in simpatia Arthur, un amico che conosceva dai tempi del liceo.

“Ah ah, è così un credulone e regge così poco l’alcool; ieri sera era talmente sbronzo che ha accettato la sfida senza batter ciglio. Per lui la parola vale ancora tanto e così alla fine non si è tirato indietro.”

Charles diceva così, ma in cuor suo sapeva che fossero altre le motivazioni del suo amico.

In quei luoghi il tempo era spesso perturbato e la bella stagione faceva capolino si e no d’estate per un paio di mesi.

Le montagne oscuravano la vallata ed il sole tramontava presto anche in quelle che avrebbero dovuto essere le giornate più lunghe dell’anno.

Se non fosse stato per le persone che condividevano con loro la casa degli studenti, il paese sarebbe stato di una noia mortale.

Di per sé privo di abitanti, a parte le famiglie storiche del luogo, come la sua e quella di Arthur, il suo appeal era dovuto solo al via vai di studenti e corsi dell’università.

Carol invece proveniva da fuori città, da circa 60 miglia di distanza a Sud, dove i paesaggi lasciavano il posto alle grandi industrie e le città non avevano una storia antica da raccontare.

Charles aveva incontrato Carol all’università.

Subito c’era stato il colpo di fulmine per entrambi, tra i banchi delle lezioni di storia, ed ora stavano assieme ormai da quasi sei mesi.

Un amore a prima vista.

Già, come quello per le scommesse, i giochi.

Ogni occasione era buona per puntare qualche soldo, o mettere in palio qualche lavoretto sporco che nessuno avrebbe voluto fare.

Così, mentre Arthur si sarebbe dato da fare, Charles avrebbe avuto a disposizione altro tempo per pensare.

Pensare.

Già.

Anche se quell'idea lo sfiorava appena, quel tempo gli sarebbe potuto servire anche per riflettere, per capire cosa fare, se paradossalmente le cose non fossero andate come aveva previsto..

3

Arthur aprì il terzo portone di quella notte.

Ogni volta il primo obiettivo era sempre lo stesso: trovare la chiave della stanza successiva.

Infatti, a complicare le cose, Charles aveva distribuito le chiavi sui tavoli, in cima alle armi, sulle corna di alcuni animali imbalsamati, oppure sui muri.

La terza stanza era piccola, circa quattro metri per cinque, o almeno lo è rispetto alle altre stanze pensava Arthur.

Arthur posò la lampada verso il muro alla sua sinistra dopo aver verificato che la chiave non fosse sopra il tavolo centrale.

Ad attrarre la sua attenzione scorse una serie di quadri, ritratti di persone vissute sicuramente molti secoli prima.

Il primo raffigurava una donna molto bella, con un sorriso che per certi versi gli ricordava la Monna Lisa.

Poi c’erano due uomini, uno apparentemente ritratto intorno ai sessant’anni, o forse cinquanta.

A quei tempi si invecchiava sicuramente prima, pensò Arthur.

Il suo aspetto era quello d’un uomo mite, portava lunghi baffi bianchi ed aveva un copricapo con una piuma rossa da un lato, un tipo di cappello di cui non ricordava il nome, ma che aveva sicuramente visto in qualche altro castello.

L’altro uomo era ritratto in un abito cerimoniale scuro. Sembra più giovane del precedente ed ha uno sguardo molto austero, pensò tra sé.

Sotto ogni ritratto c’era una breve iscrizione in una lingua aulica, in parte ereditata dal latino.

Arthur si soffermò velocemente sui tre ritratti, distraendosi per un attimo dal suo obiettivo principale.

Sotto il dipinto della giovane donna c’era scritto qualcosa che dopo una rapida occhiata pensò di poter tradurre in questo modo:

“Vivi sperando e pregando. Volgi le spalle dopo l’imbrunire, che sia dell’anima o del sole.“

Curioso pensò Arthur, nonché criptico, come spesso sono le iscrizioni antiche.

Il suo sguardo quindi si spostò, quel tanto che bastava per leggere cosa c’era scritto sotto al secondo ritratto:

“Occupasti la vita dispensando saggezza, sempre attenta sia la tua mente al sapere, alla conoscenza.”

Questo invece sembra un breve epitaffio, arricchito da un consiglio, un monito di chi ha conosciuto il tizio nel dipinto, pensò Arthur.

Infine l’iscrizione sotto al terzo ed ultimo ritratto non era del tutto leggibile, consumata dal tempo, così Arthur poté tradurne solo una parte:

“Che la croce sia il tuo riferimento, laddove la luce dell’oscurità sembra illuminare la vista solo agli occhi delle anime defunte, nella..” e lì le lettere terminavano.

L’ultima parola era illeggibile.

D’un tratto Arthur provò una strana sensazione di estraneità, come se la sua mente fosse rimasta intrappolata in un altro tempo.

Solo alcuni secondi dopo, quando fu interrotto quella specie di incantesimo, volse lo sguardo oltre i ritratti ed in cima ad un’alabarda trovò finalmente la chiave della quarta stanza.

4

Mentre con una mano porgeva la lampada in avanti, illuminando il cammino di fronte a sé, intravide il nuovo portone.

Infilò la chiave e vi entrò, non prima di aver la candela sopra al tavolo.

La quarta stanza era una camera da letto singola, probabilmente una stanza degli ospiti.

Lo sguardo di Arthur, illuminato dal bagliore della lampada, si soffermò per un attimo sul letto, molto piccolo e con la classica forma a baldacchino.

Gli ospiti del castello non dovevano superare il metro e mezzo d’altezza, pena dormire nella stalla, in piedi, come i cavalli! pensò divertito il giovane.

In questa stanza non c’erano ritratti, solo paesaggi e cherubini danzanti sul soffitto, che probabilmente dovevano servire a rallegrare la vista dell’ospite durante il suo soggiorno.

Arthur proseguì dopo aver trovato la quinta chiave sul letto, accese la candela sull’inginocchiatoio alla sinistra dello stesso e proseguì verso la sala successiva.

La quinta stanza era certamente di aggio, un lungo corridoio con imponenti, ed allo stesso tempo consunte, armature ai lati, quasi a far da guardia ai notevoli - per le dimensioni più che per l’interesse che gli suscitavano - arazzi che si stagliavano su entrambe le pareti.

Arthur ispezionò ogni armatura ed alla fine osservò accuratamente l’ultima.

Aprì la visiera del cavaliere e vi trovò le chiavi di quella che sarebbe stata la sesta stanza.

Cercò ulteriormente con lo sguardo e si accorse che la mano sinistra dell’armatura era rivolta verso l’alto, con una candela posta verticalmente in mezzo.

La accese, attento a non rovesciare il palmo della mano del cavaliere.

Quindi uscì dal corridoio e dovette percorrere una scala a chiocciola, molto stretta, che lo condusse al secondo piano del castello.

Qui la scelta sulle stanze da visitare sarà inevitabilmente più complessa, pensò subito Arthur.

Il corridoio del secondo piano infatti presentava porte di stanze disposte simmetricamente, una di fronte all’altra.

Quale affrontare quindi per prima?

L’unica è provare la chiave su uno dei lati e, sperando nella buona sorte, vedere quale portone si apre..

5

Dopo aver praticamente tirato a sorte, Arthur si diresse verso il primo portone a destra, infilò la chiave a fatica, ma non riuscì a farle compiere neanche mezzo giro; estrasse quindi la chiave e si precipitò al portone di sinistra, la infilò e dopo due mandate riuscì ad aprirla.

Accidenti! Altro tempo prezioso sprecato!

Quindi fece leve sulla maniglia ed aprì la porta.

Fu a quel punto che la visione che lo accolse gli sembrò decisamente meno rasserenante rispetto alle stanze precedenti.

Nella sesta stanza infatti, erano disposti quelli che sembravano antichi strumenti di tortura, gabbie tipo sarcofago con punteruoli all’interno, presse e ruote per comprimere e allungare arti a dismisura.

Questi oggetti, sebbene sapesse che il castello di giorno era aperto al pubblico per le visite, lo inquietarono per un attimo.

Nella sua mente infatti, il pensiero di dover mettere anche solo accidentalmente le mani su uno di quegli strumenti di tortura, lo terrorizzava.

Solo per quella visione, per quell’idea, credeva che quel luogo potesse rievocare antiche sofferenze.

Per un attimo provò ad immaginare cosa avrebbe provato se fosse stato in grado di sentire ancora le urla degli sfortunati, dei prigionieri.

Provò a pensare agli ultimi momenti della loro vita in quelle stanze, da cui forse se ne sarebbero andati solo per poi essere esposti appesi in gabbia, come uccelli, dalla torre principale, a subire lo scherno dei anti e a consumare lentamente sotto le intemperie.

Per un attimo Arthur rabbrividì.

Quindi il suo pensiero volse in fretta a pensare dove l’amico potesse aver nascosto la chiave del locale successivo.

Cercò per prima cosa la candela, così da avere una seconda luce nella stanza oltre a quella della lampada.

La vide quasi subito, su di un mobiletto, una teca contenente degli oggetti di tortura di piccole dimensioni.

La accese e riprese a cercare.

La gabbia era chiusa, protetta al pubblico da una corda; la ruota invece era accessibile, ma non v’era traccia della chiave su di essa.

Forse Charles mi ha risparmiato di cercare negli strumenti di tortura! pensò per un attimo Arthur.

Ma dovette ricredersi quasi subito.

Appoggiata su di una teca ad altezza d'uomo, faceva capolino una maschera di ferro, che per un attimo gli ricordò il film, e che lo fece tremare al pensiero che quell'oggetto non era stato sicuramente fatto su misura al povero malcapitato di turno.

Aprì così il cimelio non senza una sorta di timore.

All’interno vi trovò la chiave, inveì verso Charles ed uscì dalla stanza quasi di corsa, per quanto gli fosse possibile con la scarsa illuminazione che c’era.

Fuori nel corridoio Arthur avvertì per la prima volta un senso di oppressione.

Non era mai stato claustrofobico, ma quei luoghi angusti iniziavano ad infondergli un senso d’ansia.

Pensò anche che forse era giunto il momento di farla finita con quel gioco.

Se si fosse imbattuto in un altro locale come quello con la maschera di ferro e gli altri arnesi, se ne sarebbe tornato a gambe levate dal castello, incurante di Charles, del suo circolo e anzi, se l’avesse escluso, avrebbe spifferato tutto a Sir Henry al ritorno dalla vacanza.

Ora però avrebbe dovuto tentare di chiudere nel miglior modo possibile la serata.

Nella sua mente un sogno, un desiderio nascosto iniziavano a farsi strada.

Quanto vorrei trovare qualche moneta d’oro in un aggio segreto, dentro un’armatura..

Fosse così, potrei pagarmi la retta del college..

6

La stanza successiva era molto grande.

Si trattava nuovamente di una camera da letto.

Questa volta però le piazze erano due, in una dimensione complessiva sempre piccola rispetto agli standard moderni, ma sicuramente più confortevole rispetto a quanto aveva visto poche stanze addietro.

Arthur puntò la lampada verso il muro dietro il letto, dove poté nuovamente scorgere alcuni ritratti nello stile della terza sala.

C’era un uomo in tenuta da caccia che con una mano esibiva la sua preda, una volpe, e una donna, non giovanissima e decisamente robusta per i suoi gusti.

Quindi posò l’attenzione su un ritratto di dimensioni notevoli, decisamente il più grande che aveva visto.

Al suo fianco era presente una stampa moderna, riposta appositamente su di un leggio, per guidare i turisti durante le visite guidate.

Arthur si soffermò a leggerne il contenuto.

Nel quadro era rappresentato un pro-antenato dello zio di Charles, tale Sir William.

Notò inoltre che, stranamente, quel dipinto era l’unico della stanza ad avere un’incisione, simile a quelle lette sotto i ritratti della terza stanza.

Per quanto il buio non gli permettesse di leggere bene, gli parve fossero scritte più o meno queste parole:

“L’attesa vana è quella impaziente di chi non sa cogliere la luce del Signore; pochi minuti avrai, fintanto che la strada illuminata dalla croce ti sarà.”

Arthur trovò quella frase non meno enigmatica delle precedenti.

Controllò più volte la traduzione ma ne era certo, il contenuto non si poteva discostare da quanto aveva interpretato seppur sommariamente.

Arthur iniziò a sentirsi un po’ confuso, mentre le parole ed i ricordi della grammatica latina affioravano qua e là tra i suoi pensieri, in un cocktail incerto ed approssimativo.

Per riprendersi provò a riordinare le idee e a concentrarsi sulla sfida.

Spostò la sua attenzione sul letto.

Accese la candela posta sul cuscino spostandola ai piedi del baldacchino e frugò sul fianco destro.

Con un intuizione trovò la chiave della stanza successiva riposta in un risvolto del lenzuolo del letto, comunque ben visibile ad un occhio attento.

Quindi uscì, e nel farlo notò anche il quadro di donna che era posto sul lato opposto della camera.

Si trattava della moglie dell’antenato di Charles, Lady Adriane, una bellissima donna, bionda, colta nel pieno della sua giovinezza, probabilmente quando doveva aver avuto poco più di vent’anni.

Anche Lady Adriane sembrava sorridere e sotto il suo ritratto era ben visibile l’ennesimo messaggio:

“Non la prima, né la seconda, ma la terza, nel lato dove batte il cuore, troverai ciò che vai cercando.”

Arthur per un attimo rimase perplesso.

Cosa avranno voluto dire queste parole?

Gli abitanti del castello saranno stati sicuramente molto religiosi.

La croce, il Signore, il cuore erano tutte parole di chi aveva in mente la fede al primo posto, ma potevano essere anche delle metafore per qualcos’altro, di tutt’altro genere, ma a cui al momento non avrebbe saputo attribuire un’identità.

Se solo avessi più tempo, se solo avessi più elementi, forse potrei capire..

Per un attimo tutto intorno a lui sembrò fermarsi nuovamente.

La sua mente riprese ad elaborare supposizioni, immagini, visioni fantastiche in un'atmosfera del tutto irreale, ma affascinante, tanto che non avrebbe voluto smettere di sognare ad occhi aperti.

Quindi, quasi per un gesto meccanico, si rimise in marcia.

Uscì di fretta dalla stanza e ritornò nel corridoio.

Era quasi giunto a metà dell’opera, ma aveva la sensazione che le sorprese non fossero ancora finite.

7

Nel salone d'ingresso del castello un silenzio surreale era interrotto solo ogni tanto dalle voci dei due ragazzi.

Aneddoti e ricordi del college non elevavano certamente il tono superficiale della loro conversazione:

“E di quella volta che Arthur è inciampato nella gara dei 100 metri all’ultimo affondo, ti ricordi?” disse Charles.

“Si, che buffo, povero, si ruppe un piede se non ricordo male!” rispose Carol.

“Non vorrei portargli sfortuna ma secondo me anche oggi ci sono buone possibilità che faccia qualche capitombolo. Le scale del castello sanno come far male!” aggiunse Charles inizialmente divertito per poi diventare improvvisamente serio, scuro in volto.

Già, c'era qualcosa a cui non aveva pensato prima di organizzare tutto, forse stupidamente, e che affiorava nella sua mente solo allora, nella forma di un senso di inquietudine, di un presentimento.

Cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe detto al pronto soccorso, allo zio, se Arthur si fosse fatto male?

Era un ipotesi forse esagerata si, ma possibile e resa ancor più complicata al pensiero di dover trovare una scusa, una giustificazione plausibile per non arrecare pubblicità negativa al castello.

Anche nella mente di Carol quelle parole sembrarono destare dei pensieri, dei timori che fino ad allora non aveva preventivato:

"Non credi sia giunto il momento di lasciar perdere, che forse il gioco è durato a sufficienza?"

Charles sembrò riflettere accuratamente cosa rispondere, ma poi sul suo volto tornò la quiete ed un sorriso, come se quel pensiero, quel dubbio, l'avessero abbandonato velocemente per far posto ad altro.

Con le gambe accavallate sul tavolino e le braccia conserte dietro il collo, il suo corpo sembrava esprimere una serenità, o forse un’incoscienza che solo la sua giovane età avrebbero potuto giustificare:

"No, non credo.” disse “E poi ho il sospetto, forse solo un sesto senso, che il bello debba ancora venire.."

8

Arthur entrò finalmente nella stanza più maestosa del castello, a suo modo di vedere, la biblioteca.

Diede uno sguardo subito all’orologio a pendolo sulla parete Nord - più grande di quello contenuto nella terza stanza - e vide con stupore che era ata solo mezzora; aveva dunque tempo a sufficienza per finire o almeno per provarci, come se le lancette dell’orologio si fossero fermate o avessero rallentato la loro corsa.

La biblioteca era disposta su di una superficie rettangolare di circa venti metri per dieci, con corridoi che si intersecavano perpendicolarmente, pieni zeppi di vecchi libri estremamente polverosi, tanto che Arthur sperò in cuor suo di non dover cercare su qualche scaffale la chiave della stanza successiva.

Solo uno strano rumore metallico proveniente da nord disturbava la quiete di quella stanza, illuminata in parte dalle luce della luna piena, mentre penetrava attraverso le finestre di vetro finemente decorate.

Arthur iniziò a percorrere il corridoio centrale, fino a giungere in prossimità dell’orologio a pendolo.

Lì notò con piacere che l’inventiva dell’amico non finiva mai di elaborare soluzioni ed idee originali.

Il rumore metallico che sentiva scandire il tempo ritmicamente, proveniva dal suo interno.

La chiave infatti era appesa al pendolo dell’orologio.

Arthur rise divertito.

Prese una sedia dal primo tavolo vicino, vi salì in piedi e sporgendosi con il braccio destro a penzoloni cercò di prendere la chiave, calcolando il tempo dei meccanismi dell’orologio.

Ma per un attimo la sedia scricchiolò paurosamente.

Arthur rischiò di cadere, quindi con un guizzo strattonò la chiave verso l’alto.

Il meccanismo dell’orologio sussultò per un secondo ed improvvisamente si ritrovò a terra, caviglia dolorante, la sedia distrutta, ma fiero di aver ottenuto ciò che cercava.

Accese quindi la candela sopra il tavolo di fronte e notò un incisione sopra il pendolo, nello stesso stile delle precedenti, sotto un crocifisso:

“Nella stanza della conoscenza se più in alto vuoi cercare, qualcosa di più grande

troverai.”

Arthur pensò subito d’istinto a qualche libro importante conservato nella parte alta di uno dei tanti scaffali della biblioteca.

Era infatti una consuetudine antica il conservare importanti manoscritti in biblioteche, tramandati di proprietario in proprietario e custoditi gelosamente, lontano da occhi indiscreti.

Mentre osservava ciò, Arthur fece per uscire dalla biblioteca, quando notò una scala a chiocciola nella parte ovest della stanza.

Non ci aveva fatto caso in precedenza.

Tornò allora sui suoi i.

Camminò pochi metri, finché fu in grado di vedere una stampa moderna, in cima all'arco sulla porta che dava l'ingresso alla rampa di gradini.

“Cappella, XVI sec.”

Quelle scale conducevano dunque verso una piccola torre al cui interno era contenuta una cappella votiva.

Per un attimo Arthur ripensò alle parole dell’incisione sotto il crocifisso.

E se per assurdo avessero voluto indicare qualcosa di diverso da un libro?

“In alto vuoi cercare..” potrebbe voler dire anche salire dalla biblioteca alla cappella..

Al diavolo la sfida! pensò istintivamente.

C’è un enigma da decifrare e forse ho raccolto il giusto numero di elementi per venirne a capo!

Sospinto dall’adrenalina Arthur iniziò a salire le scale a chiocciola.

Il suo respiro divenne sempre più affannoso, mentre l’umidità della sera rendeva pericolosamente scivolosi i gradini, già piccoli di per sé e consumati dal tempo e dal peso delle persone che li avevano calpestati.

Non senza qualche difficoltà arrivò finalmente all’ingresso della piccola cappella.

E lì lo spettacolo ed i giochi di luce che si presentarono davanti ai suoi occhi lo lasciarono subito senza fiato.

Le finestre della cappella, di vetro colorato ed interamente decorato con motivi religiosi, illuminavano il piccolo altare posto nella parte sud, vicino all’ingresso delle scale.

Non appena lo sguardo di un osservatore si fosse spostato poco più in alto, dietro l'altare, avrebbe potuto notare come alcuni raggi di luna proiettassero sul muro immagini di santi e di angeli, che si stagliavano simmetricamente ad est e ad ovest dell’altare, in mezzo al crocifisso.

Sotto ogni immagine erano inoltre riflesse delle piccole croci.

In totale ce sono 12, come il numero degli apostoli, notò Arthur, mentre davanti all’altare si trovavano tre file di inginocchiatoi ed un leggio, su cui era appoggiata una vecchia bibbia polverosa.

Arthur notò anche che la luce della luna era tanto forte, grazie anche alla sapiente maestria di chi aveva architettato la stanza, da rendere quasi superfluo a quell’ora di notte l’uso della lampada ad olio.

Sì, pensò Arthur, è quasi mezzanotte e la luna filtra chiaramente dalle finestre.

Sembra sia lì, ad osservarmi.

Mi sembra quasi di scorgere i suoi bulbi oculari sporgere dai crateri non appena allontano lo sguardo!

Quanto durerà questa luce, questo straordinario gioco di riflessi e bagliori?

Arthur per un attimo si sentì come uno spettatore privilegiato, il cui unico dubbio era scegliere se osservare lo spettacolo offerto dalla visione esterna della luna o quanto magistralmente riflesso dal suo chiarore all'interno della cappella.

Il tutto durò alcuni minuti, duranti i quali nuovamente perse la concezione dello trascorrere del tempo.

Al termine distolse lo sguardo ed i suoi pensieri per tornare a concentrarsi su quel luogo sacro.

Rivolse l’attenzione sulle dodici croci riflesse ai lati del crocifisso, unico particolare ripetuto tra le tante decorazioni.

E per un attimo ebbe come un’intuizione.

Forse quello che le incisioni volevano lasciare era un messaggio in codice, degli indizi che portavano lì, alla biblioteca e poi alla cappella.

Devo solo capire come interpretare i messaggi.

La prima incisione riportava qualcosa riguardo all’imbrunire, al voltare le spalle.

Probabilmente queste parole volevano suggerire all’osservatore di lasciarsi illuminare dalla luce della luna, pensò Arthur.

Diresse allora lo sguardo verso la parete sud della cappella, posizionandosi al centro della stanza, in direzione del leggio e del crocifisso, ed iniziò a riflettere, su quanto aveva visto attraversando il castello.

Il secondo ritratto della terza stanza non lo aveva impressionato, sembrava posizionato apposta per confondere l'osservatore, con il suo messaggio riferito apparentemente alla vita del soggetto, senza aggiungere altre informazioni.

L’incisione del terzo ritratto invece parlava della luce della croce ed era incompleto, mancava infatti l’ultima parola.

In questo caso la luce della croce a cui il messaggio si riferiva, poteva essere quella proiettata sul muro dalla luna.

Ma se da un lato questa pareva essere un’interpretazione corretta, quale poteva essere l’ultima parola, quella illeggibile?

Arthur fece lo sforzo mentale di provare a ricomporre tutte le tessere del puzzle.

In quegli istanti immagini, frasi, parole si intersecarono nella sua mente quasi a ricomporre una storia.

Arthur lasciò andare la fantasia e provò ad immaginare la vita dei personaggi rappresentati, narrata da quei volti dipinti nei ritratti, nella speranza che le loro parole gli fornissero qualche indicazione.

Quindi, all'improvviso, vide chiaramente quella che poteva essere una strada da percorrere.

Ma si, pensò, con un minimo sforzo di fantasia la cappella è la parola mancante!

Soddisfatto da quell’intuizione riportò alla mente le ultime parole che ricordava.

Il messaggio indicava di cogliere la fascia della notte in cui la luce illuminava la stanza.

Ma tutte quelle immagini, quelle croci, che senso avevano?

Cosa doveva cercare?

Salì sull’altare ed iniziò ad osservare che il muro presentava dei rilievi decorativi simmetrici; con suo stupore quei rilievi erano delle piccole croci, che perfettamente si sovrapponevano con quelle riflesse dalla luna.

I rilievi si ergevano a circa due metri dall’altare ed erano quindi difficili da osservare più da vicino.

Cercò allora un’indicazione, un aiuto nelle parole dell’ultimo ritratto che aveva visto:

“Non la prima, né la seconda, ma la terza, nel lato dove batte il cuore, troverai ciò che vai cercando.”

La terza, forse è una delle dodici croci?

Può essere, ma quale?

“Nel lato dove batteva il cuore.”, ovvero a partire da sinistra; ma cosa devo fare, devo forse premere su una delle croci in rilievo?

Se sì, come posso farlo?

Potrei saltare, ma la gamba mi duole troppo..

Arthur rifletté ancora un po’ ed anche in questo caso la risposta che cercava non tardò ad arrivare.

Sperando di essere perdonato per l’atto blasfemo che avrebbe fatto, salì sull’altare, quindi si sporse verso la terza croce da sinistra e con entrambe le mani premette forte la decorazione, grande come il palmo di una mano o poco

più.

A quel punto il rilievo iniziò a cedere lentamente e faticosamente verso l’interno, facendo leva su di un meccanismo in parte consumato dal trascorrere del tempo.

Dopo qualche secondo il silenzio nella stanza fu interrotto da un suono di un ingranaggio antico, proveniente da sotto l’altare, presso il leggio.

Arthur scostò le mani dal rilievo ormai perfettamente inserito nel muro e balzò giù dall’altare, con il cuore in fibrillazione.

Lo spettacolo di luce proveniente dalla luna illuminava ora l’entrata di una scala non più celata, sotto il basamento del leggio.

Arthur prese in mano la lampada che aveva appoggiato su di un inginocchiatoio e con il cuore in gola iniziò a scendere le scale.

L’aria di chiuso gli diede subito alla testa.

Prestò doppia attenzione ad ogni gradino, ad ogni o, per non scivolare, mentre l’emozione e l’adrenalina gli infondevano un’energia impensabile.

Lungo tutto il tragitto si soffermò ad osservare solo alcune torce appese al muro, risalenti ad almeno quattro secoli prima, che per un attimo riacquistarono barlumi del loro antico bagliore, illuminate dalla luce della lampada ad olio.

Fu quando però giunse alla base delle scale che un senso di meraviglia e di stupore lo lasciarono senza fiato.

Immersa in un'atmosfera magica e sacra allo stesso tempo, quasi la sua scoperta fosse paragonabile una sorta di profanazione di una tomba antica, lo attendeva una piccola stanza di pianta quadrata, dal lato di circa tre metri.

Un luogo affascinante, per certi versi seducente, come avrebbe potuto essere il risvegliare dal suo sonno secolare una dolce fanciulla addormentata.

In centro alla stanza emergeva un forziere ed ai lati alcune coppe d’oro, collane e monili preziosi.

Nella parete nord invece, si ergeva un ritratto di un uomo in abiti talari ed un’iscrizione in parte rovinata da cui era ancora possibile leggere qualcosa:

“Se la strada breve vuoi percorrere non esitare, credi in me.”

Arthur mugugnò qualcosa tra sé ed aprì il forziere: una visione di colori oro ed argento si illuminò sotto la luce giallo oro della lampada; centinaia di monete ed altri gioielli erano lì, di fronte a lui, ad attenderlo da secoli.

Prese con sé quanto poté e fece per uscire dalle scale, ma per un attimo ripensò alle parole dell’ultimo ritratto.

La strada breve poteva essere un’indicazione per uscire dalla stanza, probabilmente una via veloce per fuggire col tesoro in caso di assedio, pensò.

Arthur impugnò la lampada e la ridiresse verso il ritratto illuminando il volto del soggetto.

A prima vista non c’era niente che attirasse la sua attenzione.

Quindi avvicinò lo sguardo a pochi centimetri dalla tela, tanto da poter ancora sentire l’odore degli antichi oli usati dall’artista.

L’abito era bianco, con i ricami d’orati in evidenza.

Un crocifisso era appeso al collo del soggetto ritratto che teneva la mano destra appoggiata su di un libro, in apparenza una bibbia.

Il copricapo è sicuramente una tiara, il soggetto del dipinto dunque era un papa, pensò Arthur.

Poco importava comunque, quello che gli serviva era un indizio.

Arthur osservò da vicino, quasi da mezzo metro, il volto del soggetto senza scorgere alcun segno particolare, quando all’improvviso un’idea gli balzò in

mente.

Salendo sopra il forziere avrebbe potuto osservare meglio la parte alta del quadro.

In particolare nel volto c’era qualcosa che non lo convinceva.

Salì dunque sullo scrigno richiuso, e si sporse lateralmente rispetto al ritratto.

Così facendo poté notare due piccoli rilievi rispetto al dipinto, in corrispondenza agli occhi del papa.

Arthur impresse le dita della mano sinistra sui due rilievi, che cedettero come aveva fatto la croce nella cappella; quindi un altro suono cigolante spezzò il silenzio nella stanza.

Mentre ritraeva le dita dal quadro, ebbe l’impressione che questo si allontanasse da lui.

Così infatti stava accadendo.

La parete che reggeva il quadro si spostò indietro di circa mezzo metro, lasciando intravedere un breve corridoio.

Allo stesso tempo un meccanismo di sicurezza bloccò l’entrata della stanza: una grata sbucò dal soffitto, subito dopo l’ultimo scalino, impedendo di fatto ad Arthur di tornare indietro.

Arthur scese dal forziere e si infilò nel pertugio.

Puntando la lampada di fronte a sé percorse il corridoio per qualche metro.

Al termine c’era una portone ad attenderlo.

Per un attimo ripensò alla sfida che aveva interrotto e temette al pensiero di non avere la chiave per aprirlo.

Ma la sua paura durò pochi secondi: il meccanismo sembrava rivolto verso l’esterno di modo che fosse possibile aprire la porta solo in una direzione.

Ruppe dunque gli indugi ed appoggiandosi di peso con le spalle fece forza verso l’uscita.

9

Charles non riusciva più a stare fermo, ad attendere senza far nulla il ritorno dell'amico.

Carol invece si era appisolata già da un po'.

Lei e Charles ne avevano approfittato dell’attesa per trascorrere una mezzoretta in intimità.

Era stato magnifico; per un attimo si erano sentiti entrambi proiettati indietro nei secoli, immaginando gli amori, gli intrighi e le ioni di un tempo perduto.

Perduto.

Già, forse come Arthur, di cui Charles non aveva più notizie ed il cui ritardo iniziava a destare preoccupazione.

Ma dove sei finito?

Ad un certo punto Charles si alzò dalla poltrona per avvicinarsi al muro lato ovest.

Intendeva osservare da vicino i ritratti dello zio che si era fatto fare di recente cercando di rispettare lo stile del castello.

Forse un giorno su quei muri ci sarebbe stato pure il suo volto, dato che lo zio non aveva figli e quindi probabilmente avrebbe lasciato a lui in eredità il vecchio maniero.

Una visione, un'idea intrigante ed inquietante allo stesso tempo.

Che immagine, che ricordo avrebbe lasciato di sé ai posteri?

Non avrebbe saputo dare una risposta.

Ma proprio mentre rifletteva su queste cose, un rumore improvviso lo destò, come se lo avesse svegliato di soprassalto dai suoi pensieri.

Si trattò di uno scricchiolio, un suono stridente proveniente dal muro, dietro una delle due armature poste vicino alla porta principale della stanza.

Lì, nascosta da un ritratto di dimensioni ad altezza d’uomo, si celava inaspettatamente una porta da cui uscì, come un fantasma, Arthur.

A quel punto la paura iniziale che provò Charles lasciò il posto alla meraviglia.

Arthur entrò nella stanza sovrastato da un alone di polvere con uno sguardo in parte smarrito e confuso.

Con lui si materializzò anche il suono, un tintinnio metallico e la vista di un bagliore, un luccichio che all’inizio Charles non fu in grado di riconoscere.

Fu quando vide più da vicino ciò che l’amico aveva trovato che quasi svenne per l’emozione.

Anelli intarsiati di pietre preziose, perle, collane d'oro, piccoli scrigni, pendagli e monete antiche.

In poche parole una piccola parte di un tesoro, una fortuna d'altri tempi che attendeva solo di essere portata alla luce nella sua interezza.

Il resto dell’incredibile storia fece dimenticare a Charles la scommessa con l’amico.

Al ritorno Sir Henry fu grato ad entrambi.

Ricompensò i giovani pagando loro la retta per l’università e offrendosi come sponsor della confraternita.

Quasi a voler mantenere lo stile e la storia del castello, Sir Henry si preoccupò anche in prima persona di lasciare un segno tangibile del aggio e della scoperta dei due ragazzi.

Si trattò a tutti gli effetti di una sorpresa, alla cui realizzazione i due amici si prestarono entusiasti.

Henry fece commissionare due ritratti, intitolati a Sir Charles e Sir Arthur, e li collocò nell’androne.

Due dipinti a grandezza naturale, perfettamente realizzati in uno stile moderno, ma con un dettaglio, un particolare che li lega indissolubilmente ai loro predecessori.

Chi visita il castello infatti, li può trovare accanto al dipinto dello zio di Charles, ognuno con la propria, apparentemente incomprensibile, incisione..

Gente della notte

Brividi di piacere.

Sotto la pelle. Emozioni che rinfrancano la mente come poche altre cose.

Avevo da poco iniziato a scrivere quando mi venne in mente la storia per questo racconto, il terzo in assoluto tra quelli che ho scritto.

Una storia dagli intrecci televisivi, attuale, pungente, cinica.

Quando finii di leggerla provai un senso di commozione, in fin dei conti mi ero appena avventurato nel mondo della scrittura e non sapevo che cosa volesse dire “emozionarsi” per una propria opera.

Gente della Notte è proprio questo, un thriller “classico” o “un’americanata”, come ha detto un noto critico che l’ha letto.

In qualsiasi modo lo si voglia definire, dico solo che per me assumerà sempre un sapore dolce, come lo è il ricordo di alcuni giorni d’estate, e delle mie mani che battono ancora incerte sulla tastiera..

Jack osservava nervosamente alcuni lampi nel cielo far capolino all’orizzonte.

La notte era terribilmente buia, alcune nuvole dall’aspetto gonfio oscuravano in parte la luna, mentre la pioggia era lì, quasi ad attendere un segnale.

Jack in cuor suo sperava in un blackout meteorologico: se solo piovesse, tutto diventerebbe inevitabilmente più complesso.

Poi c'era il problema della serratura.

Già, la serratura.

Come aprire il portabagagli apparentemente intaccabile della sua Ford?

Quella sera poche cose erano andate per il verso giusto dopo il suo ritorno.

Tutto era iniziato quando una delle ruote anteriori della Ford aveva incontrato un chiodo particolarmente invadente, facendogli provare l’ebbrezza di un tête-a-tête con un idrante.

Jack era uscito frastornato, confuso, tanto che gli era sembrato che la luna si stesse prendendo gioco di lui, volteggiando in una danza frenetica assieme alla costellazione dell’orsa.

Si era fermato alcuni minuti a riordinare le idee.

La carrozzeria era ammaccata, ma la funzionalità dell’auto non era stata compromessa.

Bene, pensò.

Quindi aveva aperto il bagagliaio, cercando un triangolo e la cassetta degli attrezzi che gli avevano fornito al momento del noleggio della vettura.

A quel punto si era imbattuto nella classica distrazione fatale: aveva appoggiato le chiavi della macchina sul fodero del bagagliaio, vicino al corpo di Scott; e dopo aver estratto la cassetta degli attrezzi ed il triangolo, aveva chiuso il baule ed era andato in un angolo ad urinare.

Solo al ritorno si era accorto del grave errore che spinse Jack ad imprecare, esaurendo il formulario conosciuto senza che però la sua situazione mutasse di una virgola.

Già, ora se anche avesse utilizzato il kit per riparare il pneumatico, non sarebbe stato comunque più in grado di avviare il motore..

2

Alcune folate di vento crearono piccoli vortici di fogliame e carte, roteando attorno all'auto con fare insolente.

Un nuvolo di polvere spinse qualche granello insidioso fin su, a trovare dimora nei suoi bulbi oculari.

Jack si sentì come se lo avessero spinto a terra, con la faccia rivolta su una superficie sabbiosa.

Bestemmiò più volte.

Il vento non poteva che peggiorare le cose.

Optò quindi per la soluzione più immediata: chiamare il carro attrezzi con il telefono cellulare, in modo da aver un mezzo per arrivare fino a casa, luogo sicuro, dove avrebbe aperto con calma il bagagliaio:

“Si, pronto, assistenza notturna.”, gli rispose una voce assonnata.

“Salve, senta, sono poco fuori città, in vicinanza del parco White Rock; ho forato

una gomma della mia Ford e non ho con me né il ruotino di scorta né il kit di riparazione, tra quanto potrebbe mandarmi un carro attrezzi? Basta che mi riportiate alla mia abitazione che dista una decina di miglia da qui.”

La voce dell’assistenza diede l’impressione di voler cogliere l’affare al volo:

“Mmm, tra mezz’ora circa ho un carro attrezzi che si libera dalle sue parti; potrebbe portarla a casa, ma le costerà cinquecento dollari. E’ la tariffa notturna, le può andar bene?”

Jack lasciò trascorrere alcuni secondi prima di rispondere, tralasciando comunque il dettaglio più importante. Già, non avrebbe mai pagato: “Va bene, le lascio un recapito telefonico in modo che l’autista possa contattarmi.”

“D’accordo signore, l’autista la contatterà quando sarà presso il parco; mi scusi a quale nome registro la chiamata?”

Jack temporeggiò nuovamente, giusto il tempo di sfogliare tra le sue carte d’identità: “John, John Wood.”

“Ok, grazie signor Wood per averci contattato, se non le è di disturbo la richiameremo domani per un questionario di gradimento; intanto le auguro una buona notte.”

L’addetto all’assistenza agganciò la telefonata.

Probabilmente era in pigiama, pensò Jack.

3

Scott si destò all’improvviso.

Aprì gli occhi e fece d’istinto per aprire anche la bocca, ma si rese conto che qualcosa di appiccicoso e stretto allo stesso tempo gli fasciava parte del volto e i capelli.

Per un attimo si sentì soffocare.

Il senso di panico durò alcuni istanti molto lunghi, durante i quali provò a muovere tutte le parti del corpo, come un orologiaio intento a controllare minuziosamente il funzionamento degli ingranaggi.

Quando tutti gli organi risposero all’appello si rese conto che era legato, mani dietro la schiena e piedi scalzi, disteso su di un fianco.

Per sua fortuna non era bendato, ma non riusciva a capire come mai vedesse solo buio di fronte a sé.

Iniziò allora a muoversi di lato, spostandosi col peso del corpo rivolto su di una gamba, mentre con le mani bloccate ai polsi poteva solo protendere le dita in avanti.

Ad un certo punto i suoi piedi urtarono qualcosa di pesante, apparentemente inamovibile, che lo spinse a compiere un balzello, facendo in qualche modo leva sugli addominali.

E’ una cella?

Non fece tempo a rispondersi che urtò la testa contro una superficie metallica.

Ricadde dolorante.

Tentò di emettere un lamento che gli rimase strozzato in gola; quindi, con il sangue che gli pulsava nella testa si fermò per alcuni secondi, fintanto che il dolore si attenuò, fino a diventare impercettibile.

A quel punto, imperterrito, riprese a cercare, con le mani protese, qualcosa, qualsiasi cosa che lo destasse da quell’incubo..

Tim Bottom fischiettava un allegro motivetto che trasmettevano alla radio; aveva appena telefonato lasciando il solito messaggio: era un giovane di bell’aspetto, libero sentimentalmente, e cercava avventure; non aveva preferenze su età e sesso, prometteva invece intense emozioni a chi avrebbe risposto al suo appello.

Intense emozioni.

Sapeva che forse non rendeva bene l'idea, ma d'altro canto in un breve messaggio cos'altro avrebbe potuto promettere che non fosse tremendamente banale e scontato?

L’allegria di Tim fu interrotta dalla chiamata del centro operativo:

“Tim, Tim Bottom c’è una chiamata poco distante da dove sei attualmente; se sei libero puoi recarti presso il parco White Rock? C’è da trasportare una vettura a poche miglia da lì.” disse l’uomo al telefono.

Tim bofonchiò tra sé rabbiosamente, prima di alzare il tono della voce:

“Sì, sono libero. Ma me lo pagate lo straordinario?”

L’uomo dall’altro della cornetta lo mise in attesa alcuni secondi, prima di rispondere:

“Va bene Tim, ho parlato col capo. Ma fatti dare un consiglio: ti conviene moderare i toni, o questo lavoro lo perderai un giorno o l’altro.”

Risposta soddisfacente, pensò Tim. Quindi annotò il numero del cliente, cambiò stazione radio e si diresse verso la statale in direzione del parco.

Sul cruscotto il display del cellulare pulsava nervosamente.

Hai un nuovo messaggio vocale.

Tim compose il numero della segreteria.

Era una donna di trentacinque anni che aveva ascoltato il suo appello alla radio: “Sono sola e sento tanto la mancanza di un uomo questa notte. Chiamami.”

Tim iniziò a digitare nervosamente il numero, ma si ricordò dell’incarico, e promise a se stesso di fare in fretta.

Quella notte avrebbe dato il meglio di sé..

4

Jack infilò la pistola nel fodero del giubbino, accese la radio e si mise comodo ad aspettare la chiamata del carro attrezzi.

Il freddo era sopportabile, ma ora anche l’aria odorava di pioggia.

E’ solo una questione di minuti, pensò.

Riò mentalmente più volte il suo piano.

Una volta arrivato a casa avrebbe forzato l’apertura del bagagliaio con un piede di porco, lì avrebbe preso Scott e lo avrebbe legato ad una sedia.

Quindi, con una iniezione di siero, gli avrebbe fatto dire tutto quello che sapeva.

Tutto deciso, tutto pianificato, eppure un quesito rimaneva irrisolto.

Cosa ne avrebbe fatto di lui?

Non avrebbe saputo rispondere.

Alcune idee gli frullarono alternativamente per la testa: perlopiù pensieri bizzarri e un po’ sadici, finché raggiunse una consapevolezza.

Già, se fosse riuscito a gettare il corpo nel laghetto del parco, in mezzo alle carpe e alle rane, e se l’avesse tagliato fine fine, non l’avrebbero mai più ritrovato..

Scott iniziò ad avvertire dei crampi, delle fitte lancinanti attraversargli i tendini e le nervature delle mani, mentre si sforzava di tenere le dita protese.

Ad un certo punto ebbe la sensazione di urtare qualcosa con l’indice della mano sinistra.

Tentò allora un ulteriore movimento e facendo leva con i piedi sull’ostacolo inamovibile si spostò verso l’oggetto.

Era qualcosa di circolare e metallico lievemente depresso, di piccole dimensioni; tutto attorno invece poteva sfiorare una superficie più ampia, piatta, estesa più orizzontalmente che verticalmente.

Di cosa si trattava?

Non fece tempo a rispondersi che sentì un rumore dall’esterno, del tutto simile ad uno sportello che si chiudeva.

Uno sportello.

Già, o meglio una portiera, un cofano di un auto, pensò sforzandosi di immaginare cosa la sorte gli avesse riservato.

§Quindi ebbe una visione chiarificatrice: Certo, come ho fatto a non capirlo prima?! Sono chiuso in un baule di una macchina e quella sensazione fredda che percepisco sulla pelle delle dita non può che provenire che dalla serratura!

Dannazione, pensò, devo agire in fretta.

Iniziò allora a ruotare su stesso e con i piedi urtò qualcosa che produsse un suono familiare, come quello di monetine o piccoli arnesi metallici.

Si fermò, con la punta delle dita ispezionò l’oggetto misterioso e sentì chiara la presenza di alcune scanalature e zigrinature.

All’improvviso non ebbe dubbi: stava toccando alcune chiavi.

Allungò quindi le gambe, spostando con i piedi il mazzo presso il fondo del baule.

Ora poteva sentiva chiaramente l’insieme delle chiavi appoggiate quasi verticalmente sulla parete metallica.

Distese allora l’alluce e dopo un paio di tentativi riuscì a infilarci il portachiavi.

Prese fiato per un attimo, quindi cercò di posizionarsi supino, portando le gambe a sé e lasciando cadere il mazzo sul petto.

A quel punto, per un attimo, ebbe una visione inquietante che non si seppe spiegare: si immaginò legato come un agnello su di un altare antico, poco prima del sacrificio, mentre una figura con il volto ricoperto da una maschera attizzava un fuoco.

Rabbrividì. Distolse quell’immagine da incubo e si posizionò di lato, sul fianco sinistro, facendosi scivolare le chiavi di fronte; quindi, con una torsione, si girò completamente su sé stesso, e dopo un paio di tentativi riuscì finalmente a prendere tra le dita della mano destra il portachiavi.

A quel punto, come se sul fuoco su cui idealmente giaceva si fosse riverso un acquazzone, tirò un sospirò di sollievo.

Non sono così distante dalla libertà, si tratta di compiere un ulteriore, piccolo sforzo.

Ma come fare?

Scott individuò con l’indice la chiave più appuntita, facendola scivolare in mezzo ai polsi; infine cambiò posizione, si sedette accovacciato nel baule ed

iniziò a fare leva, muovendosi ritmicamente per tagliare la corda ai polsi.

Un movimento continuo, ossessivo e quasi nevrotico, finché all’improvviso le nubi nel suo rituale immaginario sembrarono scomparire nuovamente, lasciando spazio alla calura del peggior sole che avesse mai visto in vita sua.

Già, nella concitazione e nella fretta di fuggire non si era reso conto di un particolare determinante, un errore clamoroso, che lo rigettò nel rituale più cruento: per quanti sforzi avesse profuso, non avrebbe mai potuto aprire quella serratura dall’interno..

5

Tim accelerò bruscamente, lo sguardo puntato costantemente sullo specchietto retrovisore.

Per poco non commetteva un’infrazione: non si era fermato ad uno stop, distratto dalle dediche alla radio.

Poco male, pensò, a quest’ora della notte non si vede anima viva e non c’é nulla, a parte un gigantesco cartello pubblicitario di lingerie femminile.

Superato il cartello accelerò verso l’incrocio tra la statale ed il parco White Rock. Quindi compose il numero e telefonò al cliente:

“Salve, le sto portando il carro attrezzi per il problema che ha segnalato al centro assistenza, mi dice dove posso trovarla?”

“Ah si, guardi, sono nella parte sud rispetto al parco, ho forato nell’area di sosta, quella attrezzata per il camping.” rispose Jack.

“Bene mi è tutto chiaro, c’è qualcun altro nel parcheggio signore?”, chiese Tim.

Jack attese alcuni secondi, forse più incuriosito dalla domanda che a volersi sincerare di quanto stava per rispondere:

“No, non c’è nessuno, la aspetterò fuori dalla mia vettura, una Ford, con i fari accesi.”

“Bene sarò lì tra cinque minuti, signore, lei è solo?” ribadì Tim.

Dall’altro della conversazione Tim sentì un colpo, come se qualcosa o qualcuno avesse colpito un cofano:

“Si.. sono solo, a parte il vento.. e la pioggia imminente.. già. Ma perché me lo chiede?”

Jack attese invano una risposta per alcuni secondi, ma alla fine richiuse lo sportello del cellulare.

Il suo interlocutore aveva già interrotto la comunicazione.

6

Il poliziotto Smith non amava fare il turno di notte; dare multe agli ubriachi che giravano per la città non era gratificante dopo quindici anni di servizio e tantomeno apprezzava inseguire uno di quei tanti giovani scellerati che ignoravano i cartelli e gli stop.

Così, quella sera, dopo aver visto quel carro attrezzi non fermarsi all’incrocio, aveva inveito per l’ennesima volta con sé stesso, per non aver ancora ottenuto quella promozione che attendeva da anni.

Quindi era salito in macchina con calma; aveva il motore e le luci, per sbucare fuori dal cartellone dietro cui si era nascosto, verso il primo inseguimento della serata..

Scott per un attimo ebbe un sussulto, sentendo le prime fibre cedere grazie allo sfregamento.

Aumentò allora la velocità.

Lo sforzo si fece sempre più intenso, tanto che ad un certo punto si trovò quasi a sbattere per inerzia con la testa sul soffitto del bagagliaio.

D’un tratto sentì il suo corpo produrre una sensazione piacevole, forse endorfine,

pensò.

Pur senza rendersene subito conto, questo poteva voler significare solo una cosa: la corda era stata recisa e le sue mani erano finalmente libere.

Scott porse le dita immediatamente sul volto, con una lieve pressione di un’unghia sollevò un lembo del nastro isolante che era stato applicato alla sua bocca e tirò prima piano, poi, una volta liberata la bocca, forte, così da liberare il resto del volto e la nuca.

Per un attimo il dolore fu enorme, Scott desistette dall’urlare inveendo più volte a bassa voce, mentre una sensazione di bruciore simile ad un ustione lo fece quasi sobbalzare.

Merda! Quel maledetto nastro mi ha strappato un ciuffo di capelli dalla nuca!

Scott schiumò di rabbia. Doveva venire a capo al più presto da quella situazione assurda.

Avvicinò allora i piedi a sé ed individuato il nodo della corda, iniziò a sciogliere il legame che gli cingeva le gambe.

In breve tempo si sarebbe liberato del tutto.

A quel punto avrebbe iniziato a pensare a come affrontare colui o coloro che lo

avevano ridotto in quello stato..

7

Tim Bottom arrivò in corrispondenza del parcheggio indicato dal cliente, una vasta area di sosta lunga almeno quattrocento metri ed attrezzata al meglio per il soggiorno per camper e roulotte.

Dopo qualche minuto individuò due luci in lontananza, si avvicinò e vide un uomo fare cenno di fermarsi con le mani alzate.

Tim scese dal carro attrezzi e si diresse verso l’uomo:

“Salve è lei il signor…. John, John Wood?” disse leggendo dagli appunti che aveva trascritto su di un post-it.

“Si sono io che ho chiamato, fortuna che è arrivato, temevo di dover fare dieci miglia a piedi!”, rispose con un sorriso beffardo Jack.

Tim lasciò cadere un borsone pesantemente:

“Bene signore, mi mostri dove agganciare la vettura al carro e poi partiamo subito.”

“Ha mica una torcia da prestarmi?” chiese Jack.

“Ah si certo signore, con questo buio difficilmente riusciremmo ad agganciare l’auto se non vedo come è fatta la sua macchina.”

Tim iniziò a frugare nel vano posteriore del carro attrezzi ed estrasse una valigetta apparentemente molto pesante, piena di utensili, cacciaviti, bulloni, dadi, martelli e qualsiasi altro oggetto che avrebbe potuto vendere un ferramenta; da un cassetto interno estrasse due torce, soppesò per un attimo quale potesse essere la scelta migliore e si avvicinò all’auto di Jack.

“Ecco signore prenda pure questa torcia e mi indichi dove inserire il gancio.”

Jack trasalì per un attimo: un altro colpo proveniente dal portabagagli quasi lo interruppe mentre stava per replicare: “Grazie.. ecco vede, la gomma anteriore è bucata con un chiodo, credo, proprio lì; vede, ho scordato nel garage il kit per riparare pneumatici tubeless, anche se, detto francamente, non l’ho mai usato e non so se funzionerebbe..”

Tim diede un’occhiata veloce al kit, quindi seguì Jack verso il cofano della vettura.

“Non so, credo che forse le sarebbe durata diecimila chilometri di meno e poi avrebbe dovuto cambiarla comunque. Ad ogni modo signore ora vediamo dove agganciare il traino.”

Dopo quelle parole Jack si estraniò da tutto e mentre teneva in mano la torcia un pensiero fisso iniziò a tormentarlo:

Qual è il momento più opportuno in cui estrarre la pistola?

La pistola.

Già, a quell’ora di notte ed in quel luogo lontano da occhi indiscreti, non c’era motivo di preoccuparsi del rumore di uno sparo, mentre la presenza del lago nel parco avrebbe semplificato notevolmente la fase di eliminazione delle prove.

Ottimo, pensò.

Guiderò il carro attrezzi fino a casa, trasportando la Ford e domani soltanto penserò a dove abbandonare il mezzo rubato.

Domani.

Con la mente occupata a pensare alle prossime mosse si posizionò davanti al cofano, si chinò ed accese la torcia puntandola verso l’auto, quando ad un tratto si accorse che la pioggia aveva deciso di rompere gli indugi.

Già, per il momento si trattava di qualche goccia solamente, quel tanto che bastava per bagnargli la fronte e sfiorargli a malapena un occhio.

Diamine, pensò. Devo sbrigarmi!

Toccò con una mano il gancio di traino, quasi a sincerarsi che l'urto di prima non l'avesse portato via, quindi fece per voltarsi verso Tim:

"Ecco vede. E' qui.."

Furono parole che calarono d'intensità bruscamente, come emesse da un registratore le cui pile erano divenute esauste.

Parole che gli rimasero inaspettatamente strozzate in gola perché senza che potesse sentire il primo tuono, un colpo secco ed improvviso gli gelò la testa.

Sorpresa, dolore, smarrimento e terrore si insinuarono nella sua mente per pochissimi attimi, sensazioni che raggiunsero il culmine quando d’istinto fece per mettersi la mano dietro la nuca e sentì un rivolo di sangue che grondava, come se si fossero rotte delle tubature.

Ma cosa diavolo..

Si sentì come un vecchio albero a cui era stato sferrato l’ultimo colpo prima che fosse abbattuto: le sue gambe vacillarono ed il corpo cadde tramortito in avanti, sul cofano dell’auto, mentre la pioggia aumentò di intensità, tempestiva ed inopportuna complice, quasi a volersi sincerare di far sparire ogni traccia..

8

Tim osservò da vicino il martello, prese un panno dal cruscotto dell’auto e lo ripulì accuratamente dal sangue per poi riporre l’oggetto dentro la cassetta degli attrezzi.

La solita routine, pensò.

Quindi, con molta calma, sollevò il corpo di Jack fischiettando un ritornello che proveniva dalla radio.

Respira ancora?

Prese il polso dell’uomo e controllò che fosse ancora vivo, quindi iniziò a spogliarlo e a legarlo mani e piedi, lasciandone libero soltanto il volto. Lo sollevò, lo portò in spalla per alcuni metri, finché lo adagiò a terra.

A quel punto, come se nulla in quel gesto lo avesse scosso minimamente, fece per aprire il bagagliaio della Ford quando notò che era chiuso a chiave.

Merda.

Tornò allora sui suoi i e guardò nel cruscotto della macchina: stranamente la chiave non era inserita e sembrava non fosse neppure all’interno dell’auto.

Aprì allora la cassetta degli attrezzi e da un vano estrasse un piede di porco, finché un pensiero, il primo dopo aver sferrato quel colpo con una ferocia straordinaria, lo turbò all’improvviso.

Già, l’hard rock che trasmettevano alla radio gli provocava un senso di disgusto, simile al bump-bump ossessivo prodotto da un’emicrania; cercò quindi il canale con le dediche per camionisti.

La voce dello speaker stava leggendo alcuni messaggi pervenuti alla radio per conto di qualche ascoltatore e ascoltatrice. Uno di questi probabilmente era per lui:

“Per Tim, hai ricevuto il mio messaggio? Sandra.”

Tim prese il cellulare e inviò subito una risposta alla radio:

“A Sandra. La tua lunga attesa sarà adeguatamente ricompensata. Tim.”

Tim attese cinque minuti tra spot e medley finché lo speaker lesse anche il suo messaggio.

Bene pensò, la notte si prospetta decisamente lunga nel mio letto. Quindi guardò

il bagagliaio della Ford:

Ma non subito, prima tocca a te..

9

Scott iniziò a percepire un senso di angoscia, inizialmente celato dalle difficoltà nel liberarsi della corda, farsi strada nella sua mente sempre più insistentemente.

Aveva potuto sentire solo qualche parola del dialogo ed era stato in grado di cogliere le voci di due uomini.

Ma chi erano?

E cosa volevano da lui?

L’unica cosa probabile era che lo avevano rapito assieme e poi qualcosa non doveva essere andato per il verso giusto perché c’erano stati dei rumori, un corpo era caduto sul cofano e le voci erano diventate tre, con della musica a fare da contorno.

Un vero intrigo.

Un rebus di cui avrebbe fatto volentieri a meno, vista la sua precaria posizione.

Come avrebbe potuto difendersi infatti con in mano solo un portachiavi?

Per quanto si sforzasse di pensare non poté a fare meno di constatare che qualsiasi confronto dalla sua posizione lo avrebbe visto nettamente in svantaggio.

Gli restava quindi una sola speranza.

Già, pensò, non mi resta che l'effetto sorpresa..

Jack non si era ancora ripreso dal colpo e probabilmente non lo avrebbe fatto mai.

Peccato, se fosse sveglio sarebbe più eccitante, pensò Tim appoggiando il piede di porco tra la serratura del bagagliaio e facendo saltare il meccanismo di chiusura con un paio di martellate.

Quindi, mentre qualche solitario chicco di grandine bussava indelicatamente sul metallo della carrozzeria, Tim aprì il baule dell’auto con una mano, e con la torcia tentò di illuminarne il contenuto.

A quel punto tutto nella sua mente sembrò quietarsi all’improvviso: tra i suoi pensieri solo alcuni numeri, il conto delle sue vittime, che si sovrapponevano in un calcolo incerto ed impietoso.

Quindici, sedici, forse venti.

Tutto perché nella matematica non era mai stato molto bravo o forse perché non aveva memoria per le cose.

Dettagli, sono solo stupidi dettagli.

Eppure si era ripromesso da sempre di appuntarsi quel numero. Ma perché non lo faceva ora?

Già, il momento era propizio.

Tim estrasse dal taschino una penna, un blocco note e scrisse un numero:

21.

Per la prima volta si sentì rinfrancato.

Ho fatto la cosa giusta, pensò.

Ma in quell’attimo, preannunciato da un urlo di battaglia che quasi lo fece sobbalzare per lo spavento, un colpo al basso ventre, inaspettato e violento, lo fece barcollare all’indietro, facendolo ripiegare su sé stesso per un paio di secondi.

Tim rimase paralizzato a terra, dolorante.

Quindi quel qualcosa che lo aveva colpito, si materializzò ai suoi occhi come un uomo sui trent’anni, magro e basso di statura, che uscì a fatica dal bagagliaio.

Tim fece una smorfia di rabbia.

Tornò rapidamente in sé, prese una breve rincorsa e si precipitò sull’uomo mentre si rialzava da terra.

Scott tentò di divincolarsi, ma la stazza robusta di Tim gli permise di bloccarlo.

La resistenza di Scott durò pochi attimi.

Tim, gambe a cavalcioni sul suo petto, strinse una mano al collo dell’uomo ed iniziò a premere sempre più forte; poi allungò l’altra mano per terra ed iniziò a cercare qualcosa.

Scott in breve tempo iniziò a respirare a tratti, affannosamente, finché con i suoi occhi agonizzanti vide la mano sinistra di Tim sollevare quello che doveva essere un piede di porco.

E’ la fine, pensò.

Distolse lo sguardo ed iniziò a pensare alla sua breve esistenza, al suo lavoro da spia, alle bugie raccontate alla famiglia per tenerla all’oscuro dai pericoli e a quell’epilogo inevitabile.

Nella sua mente una sola speranza: che il tutto avvenisse rapidamente, in modo pressoché indolore, preferibilmente con un solo colpo.

Un solo colpo.

Già, Scott lo attese invano alcuni istanti.

Quindi, un nuovo rumore, forte e secco, attutito solo dal ticchettio ritmico della pioggia e da alcuni tuoni, spezzò il silenzio della notte.

E Scott si sentì inaspettatamente in grado di riprendere a respirare.

10

Il giorno dopo, il poliziotto Walter Smith iniziò a ricostruire mentalmente la sequenza dei fatti che avrebbe riposto a verbale:

“Ho seguito il carro attrezzi da lontano, mantenendomi circa a trecento metri di distanza.

Dopo pochi minuti sono giunto presso il parco White Rock e sono entrato lentamente nell’area di parcheggio; purtroppo ho perso l’aggressione al primo uomo per cercare il blocchetto delle multe e comunicare al centro di comando la mia posizione.

Quindi, fortunatamente, sono riuscito ad intervenire senza fare troppo rumore e a freddare l’uomo robusto prima che questi colpisse quello più magro.

Al termine ho chiamato un’ambulanza ed ho effettuato numerose rilevazioni sul posto, come da prassi.”

Bene, pensò.

Era stata una notte particolarmente impegnativa, ed ora aspettava con impazienza il momento in cui poter uscire dal centro di comando per andarsi a riposare.

Una cosa però lo rendeva particolarmente su di giri, infondendogli un entusiasmo adrenalinico.

Probabilmente il suo salvataggio della sera precedente gli avrebbe procurato la tanto agognata promozione, o almeno così si vociferava nei corridoi già dal primo mattino.

La tanto agognata promozione.

Sì, il momento che aveva atteso da una vita, o quasi.

Quella parola riusciva a infondergli un tale stato di febbrile eccitazione che in quei momenti anche ciò che detestava maggiormente del suo lavoro, ovvero la fase burocratica, riusciva a trovare un senso nella sua mente, un perché.

La burocrazia.

Già, il protocollo prevedeva che si dovessero catalogare tutti gli oggetti che erano stati rinvenuti sulla scena del crimine e così Smith era intento ad incellofanare e a riporre etichette, quando qualcosa lo scosse all'improvviso.

Si trattava di uno squillo, la suoneria di un cellulare che trillava nel mucchio e che Smith individuò presto come il telefono che aveva rinvenuto nella Ford.

Nella sua mente le congetture e le ipotesi di complotto più elaborate iniziarono a farsi strada.

Quale delinquente avrebbe risposto dall’altro lato?

Era forse il capo di un organizzazione criminale?

Che tono avrebbe dovuto assumere per mantenere attiva la conversazione per almeno alcuni istanti, in modo da farla rintracciare?

Walter Smith percepì l’occasione della vita.

Non ebbe esitazioni, si voltò verso i colleghi e fece un cenno con uno schiocco di dita, sincerandosi che il capo ordinasse di far partire la registrazione.

Nell’ufficio piombò il silenzio, di lì a breve solo il vivavoce del cellulare avrebbe parlato nelle cuffie di Walter.

Solo alcuni minuti lo separavano da una carriera di successo.

Di questo né era ormai certo. Glielo diceva il suo sesto senso.

Quindi la voce zittì anche il più ardito dei suoi pensieri e Walter rimase ad

ascoltare, sicuro che ciò stava per sentire avrebbe in qualche modo cambiato la sua vita:

“Buongiorno signore siamo del servizio assistenza auto che l’ha aiutata ieri notte. Se non Le è di troppo disturbo vorremmo rubarle pochi minuti del suo prezioso tempo per sottoporle un questionario di VALUTAZIONE e capire se è stato soddisfatto del servizio che Le abbiamo offerto. Signore, Le è tutto chiaro, possiamo procedere?”

Doni dall’altro mondo

Fin da quand’ero piccolo, nella casa dove abitavo con i miei genitori, c’era una cassapanca antica, del ‘600, proveniente da una chiesa, diceva mio padre, assieme ad un tavolino con delle sedie ed un inginocchiatoio.

Quella cassapanca..

Sulla sua superficie sono intagliate delle facce.

Volti orrendi, mostruosi, che nella mente dell’artista che l’aveva realizzata, potevano essere benissimo la rappresentazione del diavolo in persona.

Non vi nascondo come questo pensiero abbia realmente turbato i miei sogni quando ero poco più che bambino, ed iniziavo per le prime volte a rendermi conto di come la vita in fondo non sia solo un gioco festoso, ma un momento di aggio.

Incubi..

A volte tentavo di star sveglio il più a lungo possibile per la paura irrazionale di non farmi cogliere impreparato nel sonno, dallo spirito maligno che credevo dimorasse in quella cassapanca.

Altre volte ancora, temevo per la sorte della mia adorata gatta, che era solita coricarvisi sopra, a mio avviso ignara del pericolo cui andava incontro.

Ecco, queste sono le premesse che mi hanno spinto a scrivere quasi di getto questo racconto, “Doni dall’altro mondo”.

Come nota per il lettore aggiungo anche che è stato menzionato come meritevole al concorso “La Bussola Letteraria 2011”.

Il doppio suono del camlo interruppe quella che si preannunciava come una monotona mattinata. Jack alzò la cornetta del citofono e riconobbe la voce familiare della postina:

"Signore c'è qui un pacco per lei, può venire a firmare?"

Jack si guardò un attimo allo specchio di fronte all’ingresso: era ancora in mutande; una canottiera trasandata e dei lunghi calzini completavano il quadro dell’uomo, uno scapolo che in fondo non si era mai preso cura di sé stesso.

"Adesso scendo, ma mi lasci due minuti per cortesia, va bene?"

Jack ripose la cornetta ed iniziò a vestirsi in velocità.

Si sentiva in fibrillazione. Un grosso pacco? E chi poteva averglielo mandato? Jack non ricordava di aver ordinato nulla su e-bay. Forse la sua ex-moglie gli aveva rispedito qualcosa che gli apparteneva e che si era tenuta accidentalmente dopo il divorzio? Nella sua mente le ipotesi più probabili erano due: o si trattava di quel tapis-roulant che avevano comprato di recente, oppure di quell'enorme appendiabiti che aveva trovato ad un mercatino dell'usato.

Quale delle due? Sarà quello che non usa Sandra..

Jack scese le scale di corsa pensando a dove collocare l'appendiabiti.

La postina era lì ad attenderlo; ultimamente si erano visti così spesso che ormai avrebbe potuto abbandonare il tono formale della conversazione, pensò. Se intendeva farlo comunque non era solo per una gentilezza fine a sé stessa: Jack, infatti, sentiva di provare un certo interesse per quella biondina dal volto così grazioso; e anche se non gli era mai ato per la testa di provare a flirtare con una donna più giovane di lui di almeno quindici anni, da quando era tornato nel mondo dei single aveva dovuto studiare nuove tecniche di sopravvivenza.

"Salve signore, ecco, metta una firma qui e una lì. Grazie."

Il pacco è dietro il furgone, Archie l'aiuterà a portarlo in casa.

Jack pensò che avrebbe preferito aiutare la postina a scaricarlo piuttosto che farsi aiutare da Archie. Poi finalmente vide ciò che l'attendeva: qualsiasi cosa fosse contenuta in quell'imballaggio era grande almeno un metro e ottanta, forse più, per mezzo metro di larghezza e poco più di altezza.

Jack e Archie lo trasportarono per il viottolo in giardino a fatica: quella cosa pesava e parecchio.

Archie si scomodò a portare il pacco fino alla sala d'ingresso dell'appartamento di Jack, quindi lo riaccompagnò fuori di casa, dove la postina l’attendeva per consegnargli la lettera che accompagnava l'oggetto.

Jack firmò la ricevuta e rispolverò un vecchio repertorio d’abbordaggio con un sorriso ammiccante:

"C'è anche il suo numero di telefono per caso?" La donna inizialmente arrossì, quindi quasi lo sorprese:

"No guardi, ma se insiste potrei anche darglielo." Disse sorridendo.

"Allora.. insisto perché una bella donna come lei mi onorerebbe se volesse venire a cena con me."

La postina attese un paio di secondi, prima di rispondere:

"Va bene domani sera alle 20?"

"A me va benissimo, a proposito io sono Jack."

La postina lo guardò sorridendo, prima che Jack si rendesse conto che doveva riprendere la buona abitudine di pensare prima di parlare.

"Già lo sapevo, comunque io sono Alyson; a giovedì Jack."

Jack osservò Alyson allontanarsi verso il furgone:

Sei bella anche con quella divisa addosso.

Quindi chiuse la porta di casa e si diresse in salotto. Si sentiva tremendamente emozionato, con il cuore palpitante come quello di un adolescente alla prima cotta.

Per distrarsi diede un’occhiata all’imballaggio: era proprio grande; Jack stette qualche secondo a pensare a come aprirlo, tanto che gli sovvenne un dubbio: e se il contenuto fosse del materiale fragile? In questo caso dovrei aprirlo con estrema attenzione. L'unico modo per scoprire cosa contiene è leggere la lettera:

Cairo, 20 Ottobre

Caro Jack,

è molto tempo che non mi vedi ma questo non significa che io mi sia dimenticato

di te, nipote.

Ti starai chiedendo quando ci siamo visti l'ultima volta, beh credo siano ati più di vent’anni.

In questo tempo sarai cresciuto e diventato un uomo maturo. Io invece sono rimasto il solito vecchio giramondo che ha trascorso la sua vita tra scavi, rovine, templi, musei e città d'oriente. Perché il tuo vecchio zio dovrebbe scriverti solo ora?

Beh, ti ricorderai del fatto che sono un archeologo.

In questi anni in cui ho girato per i continenti ho scoperto che non tutte le cose di questo mondo sono come l'archeologia e la scienza in genere ci hanno descritto.

Ci sono stati dei tempi in cui l'uomo, o chi per lui, è riuscito a costruire degli oggetti che trascendono oltremodo la realtà che conosciamo.

Devi sapere che di alcuni di questi oggetti non sono state perse del tutto le tracce e io ho avuto la fortuna di entrarne in possesso.

Ora che sto diventando vecchio sento però che li devo affidare a mani sicure, in modo che il loro incredibile potere non finisca nelle mani sbagliate. E’ per questo motivo che ho pensato a voi nipoti.

Ora che ti ho detto ciò, starai bramando dalla voglia di vedere cosa contiene quel pacco che ti ho spedito.

Prima di vederlo però devi sapere alcune cose.

A te Jack, ho spedito una cosa molto importante, che ho avuto modo di comprare da un antiquario durante un mio soggiorno in Italia.

Questa cosa è come dire.. speciale; scoprirai infatti che, per certi versi, è come se vivesse di vita propria.

Non mi fraintendere! Non pretendo che tu capisca subito queste parole, io stesso non né sono del tutto certo, però tu conservala con cura e vedrai che anche la tua vita e la tua salute ne beneficeranno; di un'unica cosa ti raccomando: esponila in un contesto privo di energie negative, esposto alla calda luce del sole, altrimenti.. beh.. non lo so per certo cosa potrebbe accadere, ma credo ne varrebbe della tua salute.

Mio caro nipote, accetta dunque questo regalo e perdonami per non essere stato un buon zio.

Ah, una cosa, dentro la busta di questa lettera troverai un’altra busta con un’altra lettera. Aprila solo se le cose ti sembreranno aver preso una piega inaspettata.

Tuo zio,

Richard Brown.

Un mix di scetticismo e curiosità affollarono inizialmente i pensieri di Jack.

Quindi alzò gli occhi dalla lettera e guardò l'imballaggio in centro alla stanza.

Cosa contieni?

Prese un taglierino da un cassetto ed iniziò ad aprire il pacco. Ci volle qualche minuto per togliere il cartone, finché alla fine il dono si rivelò ai suoi occhi nella sua interezza: si trattava di una cassa, una lunga cassapanca di legno pesante, intarsiata e decorata finemente lungo la maggior parte della sua superficie.

Jack la osservò da vicino.

Ogni parete laterale era ricoperta da disegni apparentemente incomprensibili e da alcuni volti, alcuni di aspetto rassicurante, altri invece che di primo acchito gli suscitavano un malessere, un senso di inquietudine.

Lungo la parte superiore del mobile invece non c'era alcun disegno, ma solo un riquadro, un lieve incasso posto centralmente rispetto alla superficie rettangolare, con una scritta:

“Non est clavis. Tuus manus est clavis.”

Latino? Cosa vorrà dire?

Jack ripensò alle parole di suo zio: "Tienila in un luogo esposto alla luce e lontano da energie negative". Bene pensò, il salotto è il luogo appropriato, lì il sole batte per buona parte della giornata. Una cosa però stonava: quella cassa era troppo vecchia per un arredamento moderno, quindi l'unica cosa da fare era ricoprirla con qualcosa che la rendesse meno pesante da vedere.

Ma cosa poteva adoperare? Era troppo bassa per appoggiarvi un telefono o un televisore.

Un’altra cosa poi lo incuriosiva: quell'oggetto in apparenza non si poteva aprire né dai lati, né tantomeno da sopra. Però, allo stesso tempo, se fosse stato un blocco unico, lui e Archie non sarebbero mai riusciti a sollevarla da soli. Quindi doveva essere cava all’interno.

Ci doveva essere un modo per aprirla e collocarvi eventualmente qualcosa, ma come?

Ci penserò con calma, ora ho altre priorità.

Jack uscì di casa: quel pomeriggio avrebbe dovuto aggiornare il guardaroba per l’appuntamento con Alyson.

Anche l'occhio vuole la sua parte.

2

La notte successiva trascorse serenamente: Jack sognò ripetutamente incontri e situazioni intriganti con Alyson.

Il suo subconscio gli proiettava scene dei più bei posti che aveva già visto con la ex-moglie, sostituendola con la giovane.

Al risveglio però fu bruscamente destato da una sensazione umida: la lingua ruvida del suo cane per un attimo gli fece sognare di essere bagnato da una secchiata d'acqua mentre era disteso sul lungomare con Alyson.

“Ehi Hannibal, vuoi fare un giro eh? Dai spostati, aiutami a trovare i pantaloni.”

Alla parola pantaloni Hannibal si girò di scattò e portò a Jack un paio di Jeans consunti su cui erano evidenti i segni dei suoi denti aguzzi.

Jack scese dal letto, si vestì e si diresse verso la cucina.

Attraversando il salotto diede un'occhiata alla cassapanca; era tutto a posto osservò, tranne una macchia gialla in corrispondenza di una gamba d'appoggio.

“Merda”, inveì Jack, “Hannibal non potevi aspettare un'altra mezzora?”

Hannibal per tutta risposta scodinzolò con un espressione felice.

Jack pulì la pipì del cane e finalmente fece colazione.

3

"Professore, dai dati in nostro possesso la cassa è giunta in Inghilterra, più precisamente dal nipote del signor Richard."

Tom Beckett batté un pugno sul tavolo per dare più enfasi al momento, quindi si sedette di fronte al professor Simmons.

“Bene Tom, e cosa stiamo aspettando? Non vorrai che ci sfugga di nuovo?”

“No professore, ma lei sa dov’è ora il professor Richard?”

“Non ne ho la più la pallida idea.”

“E come faremo allora ad aprirla?”

“In qualche modo faremo; una volta che l’avremo potuta ispezionare meglio, capiremo finalmente come si apre. E così.. potremo pensare a come impadronirci del suo potere.”

Tom Beckett non poté non notare che gli occhi del professor Simmons sembravano brillare di una luce propria, mentre parlava dell’utilizzo che

avrebbero potuto fare di quella cassa.

“Già professore, se è come quelle carte dicono, qui siamo di fronte ad una delle scoperte più importanti per tutta l’umanità, non crede?”

“Tutta l’umanità? Vedremo Tom, vedremo..”

Tom non avrebbe giurato di aver capito appieno le intenzioni del professore. Ma di una cosa era in qualche modo certo: sarebbe stato il viaggio più sconvolgente della sua vita.

4

Jack si raccomandò ad Hannibal:

“Fai il bravo mi raccomando!”

Lasciò socchiusa la vetrata del salotto verso il giardino in modo che il cane potesse uscire a espletare i suoi bisogni. Quindi prese la sua ventiquattrore d'ordinanza, la documentazione ed uscì per andare a lavoro.

Uscendo di casa notò che la serratura del cancello era difettosa dato che la porta non restava chiusa e bastava una pressione dall’esterno per aprirla.

Al momento non ci fece troppo caso, ma una volta giunto a metà strada, un'immagine preoccupante gli ò per la mente:

Merda: Hannibal. Se si accorge che il cancello è difettoso..

Tom Beckett e Ben Simmons giunsero a Londra con un volo last-minute.

Durante il viaggio avevano avuto modo di parlare a lungo su come approcciare il nipote del professor Richard.

"Professore il suo piano dovrebbe funzionare."

"Già Tom, fare appello al buon senso civico di un cittadino inglese è una cosa sensata. Speriamo di non dover usare metodi più radicali per ottenere la cassa."

"Signore, se serve saremo pronti anche a quello."

"Taxi! Taxi!" Ben Simmons si vide sfuggire di mano il primo Taxi, quindi finalmente il secondo si fermò.

"Prego signori, vi aiuto con le valigie." L'autista caricò i bagagli del professor Simmons, mentre Tom lo aiutava a salire nell'auto.

Il professore mostrò un biglietto al tassista: "Ci porti a questo indirizzo, grazie.”

“Bene signori, allacciate le cinture per cortesia che si parte..”

Edward Brown prese in mano il cellulare e compose il numero di Jack. Con una mano sul manubrio della bici ed una al telefono percorreva veloce la strada che portava all'abitazione del fratello.

"Ehi Jack, come và?"

"Bene Edward, riesci a are anche stamane?"

Edward sapeva, che come studente, i soldi che gli ava il fratello per dare una ripulita alla casa erano una valida fonte di sostentamento per pagarsi le uscite serali.

"Certo, ci sono quasi; devo portare fuori Hannibal?"

"Vedi un po’ te, se ti avanza tempo portalo a fare un giro. Stamane era irrequieto, tanto che l'ha fatta in casa, vicino ad una cassa che ho ricevuto dalla zio Richard. Ricordi? O forse eri troppo piccolo, comunque è quel matto dello zio archeologo di cui ci raccontava papà.

Credo che manderà qualcosa anche a te, anche se non ne sono certo.."

Edward ripensò per un attimo alla sua giovinezza: dello zio Richard ricordava poco o nulla; forse l’ultimo immagine che aveva di lui era legata ad un natale in famiglia.

Con la mente immersa tra i ricordi come in un archivio di vecchi film, all'improvviso una buca lo fece sobbalzare sul sedile della bici, il cellulare gli scivolò dalla mano e non gli cadde dal braccio solo grazie al laccio che indossava al polso.

Per fortuna non si è rotto nulla, costa una fortuna questo telefono.

Quindi notò che accidentalmente aveva chiuso la telefonata col fratello: poco male, pensò. Jack mi ha già detto cosa fare.

Edward risalì in bici e percorse l'ultimo centinaio di metri che lo separava dalla casa.

In un attimo arrivò a destinazione.

Entrato in giardino si tenne pronto all'agguato di Hannibal: il cane di Jack era veloce e faceva salti alti anche un metro, per certi versi impensabili vista la sua stazza pesante.

Edward appoggiò la bici sul cavalletto ed iniziò a chiamare il cane, ma stranamente non sentì alcun rumore che ne preannunciasse l'arrivo.

Si diresse quindi verso la porta d'ingresso.

Una volta dentro la casa appariva insolitamente vuota. Fece quindi un giro veloce tra le stanze dove tutto sembrava in ordine, ma di Hannibal non c'era nessuna traccia.

Merda, è scappato ancora.

Non era la prima volta che il cane fuggiva dal giardino, ma di solito si recava al massimo nei dintorni, nelle abitazioni dei vicini.

Niente panico, devo solo attendere che lo riportino.

Iniziò quindi a ripulire la casa. Lo sgabuzzino con le scope ed i detergenti era di fronte al salotto, e andovi di fronte non poté fare a meno di notare quella cassapanca di legno di cui gli aveva parlato il fratello. Il suo aspetto era perlomeno insolito: le decorazioni lungo i lati non gli ricordavano alcun tipo di stile, ed era oggettivamente difficile associare quel pezzo d’antiquariato ad un periodo storico, pensò.

C'erano due intarsi in particolare ad attrarre la sua attenzione: lungo entrambi i lati, verso destra, era raffigurato un volto gioioso, che gli ricordava un'immagine antropomorfa del sole, con quei raggi che lo circondavano. Lungo il lato sinistro invece era rappresentato un volto in apparenza inquietante, che non avrebbe saputo dire che cosa gli ricordava; probabilmente negli intenti dell'artista si trattava di una rappresentazione diabolica.

A completare gli intarsi c'erano degli strani simboli, dei numeri e delle scene.

Scene.

Già, in prossimità del volto gioioso si intravedeva la raffigurazione di un gruppo di persone inginocchiate che sembravano compiere il gesto di seppellire un uomo. Quindi, nella scena successiva, il gruppo di persone si volgeva in adorazione del sole e di uno strano oggetto rettangolare e infine, nella terza rappresentazione, era descritta una scena di riappacificazione e di festa.

Dall’altro lato invece, subito a sinistra del volto demoniaco, era stilizzato un orologio, la sagoma di un uomo armato di lancia ed il numero 1.

Curioso ed inquietante allo stesso tempo, questo oggetto mi fa venire i brividi.

Verso fine mattina Tom Beckett ed il professor Simmons suonarono alla porta dell'abitazione di Jack Brown.

Edward si affacciò all'uscio dell'ingresso:

"Salve, cerchiamo il signor Jack Brown."

"Siete venuti per riportare il cane, vero? E’ un.. mascalzone, non lo puoi lasciar fuori controllo un minuto."

"Cane? Quale cane signore? No guardi, siamo due amici di.. famiglia, ecco. E' in casa il signor Brown?"

Edward rimase perplesso per un attimo. Dall'aspetto curato ed elegante questi due sembrano delle personalità, non è che mio fratello ha combinato qualcosa?

"No, mio fratello non è in casa. Torna stasera dopo il lavoro. Devo lasciargli detto qualcosa?"

Tom Beckett e il professore si scambiarono uno sguardo d'intesa:

"Siamo qui per prendere una cassapanca. Suo fratello le avrà lasciato detto che saremmo ati, no?"

Edward ripensò per un attimo a quando aveva accidentalmente interrotto la telefonata con Jack. Forse se fosse rimasto in linea gliel'avrebbe detto, ma qualcosa stonava comunque in quella storia.

"Prego entrate, chiamo subito mio fratello per avvisarlo che siete arrivati."

La risposta spiazzò in parte i piani dei due uomini.

"Professore, il piano B?" sussurrò Tom quando Edward si voltò per fargli strada.

"Già, dobbiamo fare attenzione però: facciamolo entrare in casa prima, poi usa questo." Mormorò il professor Ben, prima di estrarre un martello dalla ventiquattrore e sporgerlo verso Tom.

Edward dal canto suo non si accorse di nulla.

Si diresse verso il salotto con il telefono cellulare in mano:

"Pronto Jack?"

"Si dimmi pure."

"Devo dirti due cose: ci sono due tizi qui, sono venuti per il ritiro della cassa dello zio Richard. E purtroppo Hannibal è fuggito di nuovo, dovrò cercarlo credo."

Jack trasalì:

"Due tizi? Ritiro? Ma di cosa stai parlando Edward, non aspettavo proprio nessuno."

Jack non fece tempo a finire di parlare che la conversazione cadde improvvisamente.

Porca miseria, inveì Jack. Devo tornare a casa al più presto.

Il professor Simmons si congratulò con Tom:

"Ottimo colpo, ben assestato. Complimenti Tom."

"Professore, avrei preferito non ce ne fosse stato bisogno, ma date le circostanze.."

"Non crucciarti Tom, per il bene nostro e della scienza era la soluzione migliore."

Ancora una volta Tom notò una sorta di ghigno isterico nel volto del professor Simmons mentre pronunciava quelle parole.

"E ora che facciamo?"

"Portiamo il corpo dell'uomo in uno sgabuzzino e poi occupiamoci della cassa."

I due spostarono il corpo di Edward lentamente, data l'età avanzata che non permetteva al professor Simmons di compiere sforzi prolungati.

"Tom pulisci subito anche le chiazze di sangue, prima che vengano assorbite dal pavimento."

"Ok professore."

Tom trascorse una mezzora a fare pulizie, mentre il professore osservava con ammirazione la cassa.

"Tom, è.. MAGNIFICA."

Tom lo osservò a lungo mentre la studiava da vicino: il professore stazionava accovacciato a terra, e con una lente d’ingrandimento ispezionava accuratamente gli intarsi, consultando degli appunti.

Ma cosa sta facendo? E' completamente assorto tanto che sembra non essersi neanche fatto scrupolo per quello che è successo.. Che stia cercando un ingranaggio per aprirla?

Quindi riprese con il lavoro sporco: terminata la pulizia del pavimento, era giunto il momento di aprire lo sgabuzzino per riporre il corpo di Edward. Tom fece appena una lieva pressione sulla maniglia, quando un’immagine sconcertante lo bloccò di colpo, facendolo quasi cadere all'indietro: di fronte a lui c’era il corpo senza vita di un cane.

Tom resistette ad una sensazione di disgusto e lo osservò da vicino: per quanto non fosse un esperto né tantomeno un veterinario, era evidente che l'animale era stato trafitto con un oggetto tagliente in un unico punto.

E' come se fosse stato infilzato, pensò istintivamente.

E presto decise che era il caso di riportare al professore quel ritrovamento:

"Merda professore, ma dove siamo capitati?"

Alla vista del cadavere dell’animale il professor Simmons rinsavì per un attimo, mutando quella strana espressione in un volto preoccupato:

"Questo significa che forse arriviamo troppo tardi."

"In che senso tardi? Cosa intende dire?"

"Nel senso che temo che qualcuno abbia già capito come entrare nella cassa.."

5

Alyson iniziò il giro con il furgone presso la zona in cui abitava Jack.

Controllò il borsone con la corrispondenza e tirò un sospiro di sollievo: anche quel mattino sarebbe ata da lui.

Anche se Jack non era in casa avvertiva un’insolita sensazione di piacere a recarsi presso la sua abitazione; in un certo senso era quasi un modo per familiarizzare con un ambiente che forse, se le cose fossero andate per il verso giusto, avrebbe rivisto anche quella sera.

Tom Beckett ripensò per un attimo alle ultime parole del professore che nel frattempo era tornato ad ispezionare la cassa.

Qualcuno è entrato? Ma chi?

Quindi adagiò a fatica il corpo di Edward dentro lo sgabuzzino e lo richiuse di colpo, per evitare che cadesse.

Al termine si appoggiò mani al muro per non cadere mentre resisteva ad alcuni conati di vomito, quando all’improvviso un colpo di vento gli gelò le spalle.

Sentì un tonfo, per certi versi simile alla chiusura di una porta, ma anche alla caduta di un corpo.

"Professore la prego controlli che non ci siano spifferi, non mi sento molto bene."

Dal professor Simmons non giunse alcuna risposta.

Merda, questo è sempre assorto nei suoi pensieri.

"Professore.." Con la testa china tra le gambe, Tom diede un attimo un'occhiata alla sua ombra proiettata sul muro: vicino alle sue gambe, poco distante di lui, riconobbe la figura di un uomo che si stava avvicinando. Tom si voltò allora di scatto:

"E voi chi siete?"

Jack si palesò agli occhi di Tom Beckett:

"Come, chi sono io, chi siete voi semmai. Io sono il proprietario di casa. E voi che ci fate in casa mia? Dov'è mio fratello?"

Tom si guardò in giro apparentemente incapace di trovare una scusa plausibile. Abbozzò un dialogo:

"Si calmi signore, stia tranquillo, noi siamo.." disse, e restò inebetito qualche secondo finché il professor Simmons lo tolse dall'impaccio:

"Siamo della sovraintendenza della cultura, signore. Lasci che mi presenti, il mio nome è Ben Simmons, professor Ben Simmons; mi occupo anche di archeologia." disse Ben allungando la mano destra in avanti.

Jack rifiutò di porgere la mano, quindi incalzò Ben:

"Voglio sapere cosa ci fate qui, in casa mia, ora, altrimenti chiamo la polizia!"

Ben Simmons fece un cenno con il capo a Tom mentre questi era appoggiato sulla porta dello sgabuzzino.

"Signore stia calmo, tra poco le sarà tutto più chiaro."

Alle parole del professore, Tom si spostò all'indietro rispetto alla porta ed in pochi secondi l’aprì di scatto: il corpo di Edward rovinò addosso a Jack facendolo cadere tramortito.

"Tom bloccalo, presto."

Tom si buttò sulle gambe di Jack mentre il professor Simmons tirava fuori una

corda tra il materiale che si erano portati appresso.

I due riversarono Jack sulla schiena e lo legarono alle mani e ai piedi. Quindi si complimentarono l'uno con l'altro per la prontezza di spirito e di riflessi.

Jack guardò sconvolto i due uomini, incapace di profferire parola.

Fu il professor Simmons a rompere il silenzio:

"Bene signor Brown, e ora saremo noi a fare le domande."

"Già signore e le conviene rispondere se non vuole fare la fine di suo fratello." aggiunse Tom.

"Cosa.. cosa volete da me?" chiese Jack.

"Lei signore ha una cosa che ci serve. Bene, quella cosa è lì in salotto, ma non possiamo prendercela e portarla via senza la sua chiave."

Tom ribadì il concetto:

"Già, senza la chiave."

"Cosa? Quale chiave? Ma di cosa state parlando?" chiese Jack sempre più confuso.

Il professor Simmons rispose con una voce e un tono isterici:

"Vede quella cassapanca antica? Quella è la cosa che ci prenderemo. Solo che ci serve un modo per aprirla. Bene, quella chiave è suo zio, Richard Brown. Sa dirci dov'è attualmente il professor Richard?"

"No signore, mio zio non lo vedo da vent’anni, glielo giuro!"

"Signore non mi racconti bugie. Tom prendi il martello."

"Certo professore, con quello vedrà che il signor Brown ci dirà tutto quello che sa."

Jack iniziò istintivamente a dimenarsi su sé stesso, ma si rese conto che il suo era uno sforzo inutile dato che si trovava riverso e bloccato pancia a terra.

"Gli prenda una mano Tom."

"Va bene." Tom adagiò la mano destra di Jack sul pavimento, quindi fece il gesto di alzare il braccio su di lui.

Jack vide l'ombra del martello proiettata sul pavimento. Chiuse gli occhi e si raccomando a Dio per non provare troppo dolore.

Quindi attese.

Dopo alcuni secondi avvertì un rumore dietro di lui, un forte tonfo come di un corpo che cadeva sul pavimento. Allora aprì gli occhi di scatto e vide il professor Simmons alzare le mani in segno di difesa, prima di cadere trafitto da un oggetto lungo e appuntito.

Jack fece tempo a riconoscere una lancia prima di svenire dalla paura.

Rimase senza sensi per un tempo indefinito, finché al risveglio si trovò disteso su una superficie dura, in un ambiente stretto, chiuso da ogni lato, tranne di fronte a sé. Guardò allora in alto e riconobbe il soffitto del suo salotto. Fu così che realizzò dov'era finito: verosimilmente si trovava nella cassapanca di legno.

Cosa ci faccio qui? Chi è stato?

I suoi interrogativi furono interrotti da dei i e da una voce che si avvicinava alla cassapanca. In pochi secondi un volto si frappose tra lui e il soffitto:

"Ciao Jack."

"Chi.. chi siete?"

"Come chi sono? Non mi riconosci? Sono lo zio.. lo zio Richard."

6

Alyson arrivò a casa di Jack verso mezzogiorno. Aveva ancora in mente le ultime parole dell’interminabile dialogo con la signora Plum:

"No grazie signora, é che non posso fermarmi a prendere il tè mentre sto lavorando. Comunque volentieri, un'altra volta che o di qui, va bene?"

"Ci tengo mia cara Alyson, ti farò mangiare anche una fetta del dolce che tutti mi invidiano."

"Ummm, Molte grazie signora Plum, arrivederci."

Alyson sapeva che prima o poi avrebbe dovuto accettare l'invito di quella gentile vecchietta, ma ora la sua priorità era finire il giro il prima possibile per prepararsi con calma alla cena con Jack.

Pigiò quindi il piede sull'acceleratore del furgone e in breve tempo giunse a casa Brown.

Alyson notò che la macchina di Jack era parcheggiata in strada.

Bene, Il mio uomo è a casa.

Suonò quindi al camlo e attese.

Dopo quasi un minuto si affacciò un volto che non conosceva. Alyson per un attimo pensò di aver sbagliato civico, poi disse:

"Signore c'è posta da firmare per il signor Jack Brown. E' in casa?"

"No guardi, sono lo zio di Jack, mi chiamo Richard. Vede, ritiro io la posta di mio nipote dato che starò qui per un po' di tempo. Dove devo firmare?"

Alyson rimase interdetta per un po' osservando l’abbigliamento quantomeno originale dell’uomo, del tutto simile a quello di un avventuriero nel deserto o tutt’al più ad un archeologo.

"Signore guardi, non credo lei possa prendere la posta di suo nipote senza una delega od un suo documento. Comunque da domani, Jack la potrà ritirare all'ufficio centrale."

"Chi, mio nipote? Non credo mia cara, lei forse non può saperlo, ma mi ha prestato l'appartamento dato che starà via per lavoro per almeno un mesetto."

"Le ha prestato l'appartamento? Cosa significa? Che non è più qui? E dove è andato?"

"All'estero, era un affare urgente, sa com'è.."

"No signore, non mi ha detto nulla. Io e Jack dovevamo uscire questa sera. E' proprio sicuro?"

"Si certo, e ora se mi vuole scusare, ho degli affari importanti da sbrigare."

"Può lasciargli almeno un messaggio se lo sente?"

Richard temporeggiò un attimo, poi rispose:

"Sì, va bene entri un attimo in cucina che prendo nota."

Alyson entrò in casa, ed il signor Richard la fece attendere in cucina.

La postina si guardò intorno in cerca di indizi perché quella faccenda presentava troppe incongruenze.

Non vide nulla di interessante finché, adagiato sul tavolo della cucina, riconobbe la busta che aveva consegnato il giorno prima: Alyson riuscì ad infilarsela in tasca prima che ritornasse Richard.

"Ecco, ho trovato carta e penna, prego mi dica."

"No guardi, non importa, ripensandoci è meglio se quello che ho da dire glielo dico di persona. La ringrazio, saluti."

Ed Alyson uscì di casa di fretta, non lasciando alcun diritto di replica a Richard.

7

Rientrata nel suo furgone Alsyon prese in mano la busta indirizzata a Jack e la lesse con attenzione.

E trovò così interessante il contenuto della prima lettera, che ritenne di dover leggere anche il contenuto della seconda busta. Nel contenuto di quelle parole confidava di trovare le risposte che cercava:

Caro nipote,

se stai leggendo questa lettera è perché qualcosa non sta andando per il verso giusto.

Cercherò allora di fornire una chiave di interpretazione ai tuoi problemi.

Vedi, nel momento in cui ti sto scrivendo queste righe, sono molto malato e non credo di avere più che qualche mese di vita.

I medici non mi hanno dato molte speranze di salvezza.

Negli ultimi tempi ho così trascorso molto del mio tempo a letto,

documentandomi sui reperti che possiedo e che più mi affascinano.

E' stato così che credo di essere riuscito a capire come usare gli incredibili poteri che nasconde quella cassa che ti ho spedito.

Dico credo nipote, perché ahimè, per sperimentarli dovrò prima essere morto; già hai letto bene caro Jack, MORTO: lascerò come disposizione testamentarie ai miei servitori che depongano il mio corpo dentro la cassa. Così, se ti sei mai chiesto cosa contiene quell'oggetto, ora lo sai.

Quindi, se tu avrai fatto quel poco che ti ho chiesto, potrò tornare in vita e riabbracciarti!

Ti starai chiedendo come ho fatto a capire tutto questo e se il mio è il discorso di un vecchio pazzo.

Invece, a tutto questo c'è una spiegazione quasi razionale.

Vedi, grazie alle mie ricerche, ho trovato delle carte che mi hanno aiutato a capire come interpretare le incisioni sulla cassa e così mi è apparso subito chiaro il suo potere guaritore. Se osservi bene le vignette lungo il lato destro, capirai anche tu che l’artista ha rappresentato una sequenze di tre scene: morte, adorazione e vita intesa come resurrezione. Il significato di quei disegni, caro Jack, è che se hai tenuto questa cassa al riparo da energie negative ed esposta all'energia pura della luce del sole, presto mi vedrai uscire dal suo interno e tornare in vita in piena salute.

Sarà bellissimo, potremmo finalmente riabbracciarci e so che mi perdonerai per non essere stato chiaro fin da subito.

Se invece come temo, dovesse essere successo qualcosa di grave che ti ha spinto a leggere questa lettera, allora devi porre attenzione all'interpretazione delle incisioni rimanenti: se la cassa dovesse essere usata in un contesto malvagio, lo spirito di chi vi è posto all'interno ne assorbirebbe tutta l'energia negativa ed uscirebbe periodicamente a riversarla su altri esseri umani, generando una catena senza fine di crimini.

L'animo malvagio potrà guarire solo ponendo a sua volta dentro la cassa uno spirito puro, ma attenzione: tutto ciò avrà come prezzo la vita di costui. La guarigione avverrà nell'arco di dodici ore, durante le quali lo spirito malvagio riposerà, ricaricandosi dell'energia della persona rinchiusa dentro la cassa.

Caro nipote,

questo è tutto, so che è difficile credere alle mie parole, ma se stai leggendo questa lettera un atto di fede può essere la tua salvezza.

Tuo zio,

Richard.

Alyson sentì un vortice di idee e pensieri farsi spazio nella sua mente in maniera confusa.

Il significato di quelle parole le suscitava emozioni contrastanti: meraviglia, stupore, eccitazione ed inquietudine si alternavano in un cocktail dal sapore dolce e amaro allo stesso tempo per la sorte di Jack.

Rimase seduta per qualche minuto nel furgone, incapace di scegliere cosa fare. Quindi guardò l'orologio e prese una solenne decisione:

Se è vero quel che ho letto non ho molto tempo per salvarlo, devo darmi da fare!

Alyson si direzionò di nuovo verso la porta di casa pensando a come entrare senza dare nell'occhio.

Fu così che notò che la serratura del cancello d'ingresso era rotta; la porta sembrava chiusa ma in realtà bastava una semplice pressione per aprirla.

Alyson si guardò in giro: nessuno in vista, posso entrare.

Si precipitò verso l'interno del giardino, spingendosi poi fino alla porta d'ingresso che, notò subito, invece era chiusa.

Dannazione! Ci deve essere un altro modo!

Si spostò allora lungo la veranda e vide che, nascosta da alcune piante, la vetrata

del salotto era aperta e vi si poteva accedere liberamente.

Entrò quindi in casa di Jack furtivamente: una volta dentro iniziò a muoversi con cautela, attenta a non fare il benché minimo rumore; quindi, a conferma di quanto aveva letto, vide che Richard era in camera da letto che dormiva. E sul suo volto si intravedevano già dieci anni di meno.

Com’è razionalmente possibile? Si chiese esterrefatta.

La cassa..

Doveva concentrare le sue energie su di essa, e trovare un modo di aprirla, anche se in apparenza, dall'esterno, non si vedeva alcun meccanismo o ingranaggio. Le strane iscrizioni non riportavano alcun suggerimento, ma solo quanto diceva Richard nella sua lettera e d’altro canto Alyson non pretendeva di poterne capire di più in così poco tempo.

Si soffermò allora sulla parte superiore del mobile. Notò che era priva di disegni o incisioni, ma c'era un iscrizione in lingua antica; era latino.

Alyson si sforzò di ricordare una grammatica che aveva dimenticato da quando aveva terminato gli studi:

Clavis? Cosa vorrà dire? Clava? No.. Chiave.. Non c'è una chiave, la tua mano è la chiave.. Si, questa è la traduzione, ma quale sarà la corretta interpretazione?

Alyson guardò il piccolo incavo sotto la frase, e decise di provare la cosa più semplice che le veniva in mente: l'incasso sulla parte superiore era grande giusto le dimensioni di un suo polpastrello. Alyson fece dunque una forte pressione col dito ed attese con un briciolo di speranza.

Dopo pochi secondi la cassa emise un rumore, uno scricchiolio ed il pannello superiore si mosse lateralmente sul suo lato più lungo.

Dentro la cassa Jack era come addormentato, sul suo volto i segni di un principio di invecchiamento.

Alyson lo toccò con forza, scuotendolo, finché..

Finché, dopo qualche attimo di paura, tornò ad essere cosciente.

Alyson lo aiutò ad uscire dalla cassa, e lo abbracciò intensamente. Avrebbe voluto parlargli ma in quel momento entrambi erano come bloccati, non sapevano cosa dirsi, né tantomeno cosa fare. Quindi, all’improvviso, un lamento proveniente dalla camera da letto le ricordò che l'incubo non era del tutto finito.

Lo zio Richard si era destato dal suo sonno e si sarebbe sicuramente diretto verso loro, in direzione della cassa e di Jack.

Alyson fece cenno allora a Jack di correre verso la camera, mentre Richard era già in piedi ed in pochi i era giunto quasi alla porta.

Jack si proiettò di scatto con un braccio dentro la stanza quel tanto che gli bastava per afferrare la maniglia; tirò la porta a sé e fece per chiuderla, quando, nello spazio tra la porta e il muro, vide sbucare le dita di una mano, che afferrò a sua volta l'estremità della porta ed iniziò a fare leva con forza in verso contrario per aprirla.

Alyson corse allora verso la cassa; prese un martello che era adagiato sul pavimento ed iniziò a colpire con veemenza il mobile; non contò i colpi che diede, ma proseguì finché aveva energie in corpo e finché la cassa non fu completamente distrutta.

Ma la cosa più sorprendente fu che quando ebbe finito, Jack si trovò di colpo sbalzato all'indietro, come se Richard avesse smesso da un secondo all'altro di opporre resistenza.

Alyson aiutò il padrone di casa ad alzarsi; lo guardò e vide che il suo volto era tornato ad essere quello di un quasi quarantenne nel pieno delle sue forze.

A quel punto aprirono assieme la porta della camera da letto e lo spettacolo che si presentò davanti ai loro occhi fu impressionante: il corpo dello zio Richard era sul pavimento in completa decomposizione, con una mano protesa in avanti, verso la porta. Nell'altra – o meglio in ciò che restava di essa - brandiva invece una lunga lancia, la stessa con cui probabilmente aveva freddato i due archeologi.

Alyson fissò ancora Jack, quindi lo abbracciò intensamente e gli chiese:

"E di quei resti cosa ne facciamo?"

"Bruciamoli! Facciamoli sparire! Per il bene dell'umanità è bene che nessuno capisca come ricostruire un oggetto così diabolico."

Alyson e Jack fecero un falò nel retro del giardino; osservarono le fiamme ardere e bruciare altissime. Per un attimo Alyson ebbe come l’impressione che il fuoco assumesse un’espressione, che un volto si contorcesse mentre le ceneri si disperdevano nell’aria.

E’ Diabolico, fortuna che è finita, pensò Jack.

8

Al termine del rogo Alyson guardò intensamente il volto stralunato di Jack:

"E adesso che facciamo?"

"Tu vai pure e finisci con il tuo lavoro come nulla fosse accaduto. Io dovrò chiamare la polizia, inventare una storia plausibile e voglio che tu te ne stia fuori.” Disse, prima di aprire la porta di una camera e mostrarne il contenuto: “Vedi, in quella stanza ci sono tre corpi, compreso ahimè anche quello di mio fratello Edward."

Alyson sconvolta per la vista dei corpi, tra cui il fratello di lui, lo abbracciò di nuovo:

"Sicuro di non volere il mio aiuto?"

"No, vai pure, grazie." rispose Jack, e la accompagnò fuori, verso il furgone.

Alyson non dimenticò l'appuntamento:

"Ci sentiamo stasera?"

"Si, ti chiamo quando ho finito con la polizia."

"A presto allora."

"Sì, a presto."

Alyson fece il gesto di mandargli un bacio con la mano, quindi aprì lo sportello e si sedette al posto di guida. Infilò la chiave per accendere il motore quando le affiorò un dubbio: Edward Brown? Sì, deve esserci qualcosa per lui. Frugò nel retro del furgone e dopo qualche minuto trovò una lettera ed un pacco.

Chissà cosa contiene.

Il mittente era Richard Brown. Sì, di nuovo lui. Nella mente di Alyson si alternarono i pensieri più contrastanti:

Devo darlo subito a Jack? E se contenesse chissà quale diavoleria che mi potrebbe cambiare la vita? Devo riportarlo all’ufficio postale oppure potrei portarlo a casa prima di finire il giro e vedere di che si tratta?

I suoi pensieri furono interrotti bruscamente da un rumore che la fece quasi sobbalzare; qualcuno stava bussando alla porta del furgone: dal finestrino vide che era nuovamente Jack.

"Problemi?" le chiese sorridendo.

Alyson rimase interdetta per un attimo:

"No, tutto a posto, mi ero solo.. dimenticata di darti questa." e gli porse una lettera dal borsone appoggiato sul sedile del eggero.

Jack guardò subito il mittente:

"Ah, già grazie, la solita bolletta; queste sono sempre puntuali, eh? Ora vai però, e mi raccomando finisci il tuo giro come nulla fosse accaduto."

"Ok.. ci proverò! A presto."

Jack salutò Alyson mentre partiva con il furgone.

Strano, pensò; c’era un dettaglio nell’aspetto della donna che stonava: avrei giurato che ora sul suo volto ci fosse lo stesso strano sorriso, quel ghigno l’ho già visto da qualche parte. Ma dove? Ah si, sul volto di uno quei archeologi, il più vecchio.

Quindi non poté fare a meno di ripensare alla lettera di suo zio.

A te ho spedito una cosa molto importante.

Già, A te. Quella sfumatura nella lettera non poteva che significare una sola cosa: altri doni erano in giro per il mondo ed il loro contenuto diabolico poteva travolgere come un'onda anomala chissà quante altre vite.

Quel pensiero dapprima in apparenza così assurdo ed insensato si stava insinuando via via sempre più nella sua mente, fino a fargli venire un dubbio, un atroce presentimento.

Già, pensò mentre osservava Alyson allontanarsi da casa, anche se non ci giurerei, credo che quel furgone non stia percorrendo il solito itinerario..

La discarica dei giocattoli

Credo che nel cuore di ogni adulto ci dovrebbe essere quasi "istituzionalmente" un angolo, una sorta di stanza colorata di blu, giallo, rosso o verde, di tonalità accese, di gioia, di speranza; il "box" dove trovare sempre i ricordi dell'infanzia, gli oggetti, i pensieri, gli amici, i progetti, il famoso "cosa farò da grande".

Ecco, e personalmente trovo che il periodo che va dagli undici ai tredici anni di un individuo sia una vera e propria fucina di idee, per quanto scorra via veloce, e molto spesso ne resti solo una sequenza di immagini simile al trailer di un film.

Cosa accadrebbe quindi se al ricordo lontano dei lunghi tramonti di un'estate calda, si unisse una visione surreale, un sogno dagli scenari post-moderni, dove l'inquinamento distorce la realtà e confonde le menti?

Su questa idea nasce questo racconto, e sul fatto che mi piace ricordare che da ragazzi si potevano fare (o anche solo pensare) delle cose senza le briglie che l'età adulta ci impone, con però tutte le conseguenze che ogni gesto, piccolo o grande che sia, comporta..

Click. Clank. Il vetro che fuoriusciva dai sacchetti scricchiolava in modo sinistro, ed il rumore dei cocci che si sfregavano e compattavano l'uno con l'altro non distava molto da un lamento, pensava Billie Joe.

Quindi PLOP, il suono di un bel tuffo, emesso poco prima di sprofondare in quelle strane acque, striate di colori come la coca cola vista in controluce.

La carta, la ceramica.. bastoncini di cotone, posate e piatti di plastica, un vecchio pupazzo di stoffa dal pelo sgualcito e consunto, che Billie Joe da piccolo adorava, ma dal cui ventre ormai si intravedeva tutto il polistirolo, mentre fuoriusciva come le interiora di una carcassa di un vecchio animale.

Quanto avrebbe voluto tenerlo ancora, provare a farlo rammendare..

“E’ vecchio, è consumato, non posso più rammendarlo. Ha più cuciture il tuo Orsetto Bruno di Frankestein! Neanche un intervento di chirurgia massiva potrebbe rimetterlo in sesto!”

Frankestein..

Suo fratello Frankie sogghignava di gusto al pensiero che Orsetto Bruno potesse avanzare barcollando con le mani protese come un insulso scimmione privo di cervello.

“Ehi Billie.. guarda sono il tuo Orsetto Bruno.. Buuuuu! E dove vado ora a prendere il miele?! Nella discarica!”

“Smettila Frankie, per favore non mi fai affatto ridere.” sbottava Billie Joe. Ma Orsetto Bruno probabilmente non avrebbe apprezzato comunque.

Blop-blop furono quasi sicuramente le sue ultime parole, mentre andava a far compagnia all’umido; Billie Joe l’aveva riposto sui cartoni della pizza, nella

speranza che.. non affondasse, e che un Caronte dei rifiuti lo portasse lontano da lì, dove magari qualche ragazzino povero avrebbe potuto trarne una compagnia insperata.

Rifiuti di ogni genere. Era interessante notare come la tipologia di oggetti gettati fosse mutata nel tempo, ed in base allo sviluppo della tecnologia alcune cose sprofondassero meglio di altre - più velocemente avrebbe detto Billie Joe mentre gli oggetti “più vecchi” a volte facevano fatica a sparire in quelle acque dense, in quel fluido oleoso, quasi il loro fosse un ultimo – disperato - tentativo di annaspare, di rimanere ancora a “galla” nella civiltà.

Billie Joe aveva sempre buttato le cose nel laghetto alla rinfusa, senza seguire un ordine particolare, e soffermandosi subito dopo, a vedere se al loro posto veniva su una bella quantità di bolle, a volte piccole, altre volte più grandi, altre volte circondate da un alone di una schiuma bianca che gli ricordava la spuma da barba di suo padre.

Non ne aveva mai usata una di spuma sulla sua pelle, ma ora che aveva quasi tredici anni, e qualche timido pelo spuntava qua e là, il o da lì alla scelta tra lama o rasoio elettrico, sarebbe stato decisamente veloce, pensava.

Billie Joe aveva tempo per pensare a tutto questo quasi ogni sera d’estate, dopo cena e prima dell’imbrunire, quando le zanzare uscivano a so, e come compagnie di adolescenti si ritrovavano a piccoli gruppi, nei vicoli, nelle strade, affamate di vita come un ragazzo che ha vissuto sempre in campagna e che improvvisamente scopre quali insani divertimenti può riservargli la città dopo una cert’ora.

La mamma gli diceva: “Billie prepara i sacchi coi rifiuti e buttali. Ricorda: la plastica ed il vetro vanno nel verde, l'umido nel marrone, l'erba nel verde scuro,

mentre la carta nel giallo. I cartoni della pizza invece no! Ricorda, quelli vanno nel cassonetto a forma di campana! Come ci vanno le ceramiche, ovvero i piatti rotti! Mi segui Billie Joe?”

E Billie Joe annuiva sempre, come un fidato scudiero.

“Sì mamma, tutto chiaro. Ricevuto!”

Tutto chiaro diceva, e poi non importava a nessuno, pensava, se un ragazzino con la discromatopsia (una parola che dopo mesi aveva imparato a dire senza balbettare o impappinarsi, cosa di cui ora andava fiero come gli avessero regalato un nuovo maglione), buttasse un sacchetto nel posto giusto. In fondo era un po' come chiedere ad un cieco se ti sapeva indicare la strada, o ad uno straniero se si ricordava la via che dalla stazione portava al museo.

A chi importava realmente?

Umido nel lago, plastica nel fosso, e sull'erbacce ci piscio addosso, canticchiava mentre si dirigeva quella sera alle cave con il suo carico di spazzatura.

Cave.. laghetto.. quello si era divertente. Vedere la roba che sprofondava ogni volta, e non tornava più su..

Tranne le bottiglie. Per quelle aveva dovuto ingegnarsi ed iniziare a riempirle di sassi pur di farle sparire.

Quanto saranno state profonde quelle acque? Per quanto tempo avrebbe potuto continuare a buttarci oggetti senza vederli sbucare fuori come la punta di un iceberg?

“Ehi Billie Joe, ma che ci fai con tutta quella roba?” Lo canzonò il suo vicino e coetaneo Teddie, “Ci dai da mangiare ai maiali?”

E Billie Joe fece il solito sforzo per alzare il dito medio mentre trasportava tutta quella roba, ma ci riuscì come sempre e si ripromise che ci sarebbe sempre riuscito, fosse stata l'ultima cosa che avrebbe fatto a costo di romperselo.

“Ehi, ma lo sai che ormai quella cava puzza dell'odore dei tuoi calzini? Puzza d'acqua, puzza di piede, Billie Joe annusa anche il mio sedere!” insisté Teddie, mentre lo seguiva sulla sua bmx, un residuato recuperato da un'altra discarica, che brillava ancora di ruggine e di incrostazioni vintage.

“Dispensato come il solito Teddie, eh? Ma cambierà, eccome se cambierà, prima o poi.."

Con il termine dispensato intendeva dire che Teddie non doveva portare le immondizie, perché ci pensava suo padre, mentre Billie Joe lo faceva ormai come fosse un compito per casa, con la routine di un aficionados e l’entusiasmo di un carcerato che andava a spaccare pietre sotto il sole.

“Non cambierà un corno, e anzi dentro uno di quei sacchi di questo o ci resterai dentro anche te. Ah ah! Faccia di compostaggio..”

Billie Joe sorrise (era arrivato al punto di trovare quasi simpatiche certe provocazioni di Teddie), e alzò ancora il dito medio ad intermittenza, come fosse stato il led di una lampadina segnaletica o lo stantuffo di una pompetta per gonfiare le ruote della bici.

Il tempo di giungere presso le cave, guardarsi le spalle, controllare che oltre a Teddie nessuno l'avesse seguito, e quindi via, a contare le bolle sulla schiuma ed il loro bop bop, come fosse stata una gara di riflessi.

“Erano almeno dieci questa volta!”

“Nove” disse Teddie.

“Dieci dico io.”

“Nove. Ce la giochiamo a pari o dispari?” E così via anche quella sera: mentre le zanzare sorseggiavano felici il loro cocktail, spartendolo assieme ai pappataci, ed il laghetto della cava sottraeva il solito carico alla razione quotidiana di rancio della discarica.

Il consueto rituale di contare le bolle almeno quattro o cinque volte, quindi Billie Joe e Teddie si sarebbero posizionati sullo schienale della panchina sotto l’unico albero, un vecchio salice piangente, a rosicchiare bastoncini di liquirizia finché i denti gli sarebbero divenuti verdi, l’alito dolciastro e lì sarebbero rimasti, fin quando si sarebbero stancati di osservare le sfumature di colori sulla superficie dell’acqua. Quindi come altre volte sarebbe sopraggiunto anche Frankie, sbuffando come un matto sulle ruote della sua spider poco più grande di un monopattino.

“Ehi ragazzi, come vi butta?”

“Be-bene Frankie.”

“Hai detto addio ad Orsetto Bruno? Gli hai fatto almeno una cerimonia solenne?”

Teddie sogghignò e si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere in faccia a Billie Joe.

“Già. Fatto tutto. A quest’ora sarà già negli abissi del laghetto..” disse con uno sguardo rattristato.

“Buon.. per lui. Beh, consolati. Se lo sa mamma che vieni qua tutte le sere o soprattutto papà.. beh, non escluderei che potresti rivederlo presto il tuo amico Orsetto..”

Billie Joe digrignò i denti fin quasi ad emettere il suono stridente di un gessetto che si blocca sulla lavagna.

“Ti conviene stare zitto Frankie, o dirò a mamma che la sera ti prendi la birra dal frigo quando lei e papà dormono.”

Frankie sbottò di rabbia facendo il gesto di sferrare un ceffone.

“Brutto spione bast..” iniziò a dire, quando Teddie lo bloccò di colpo, interrompendo suo malgrado quello che iniziava a ritenere un simpatico siparietto.

“Ragazzi, fermi tutti!”

“Che succede Teddie, dannazione mi hai quasi fatto prendere un colpo. Che succede?!”

“Guardate! Guardate là!”

Teddie guardò i due fratelli ed indicò con la mano il centro del laghetto, mentre il suo indice oscillava nervosamente come il mirino di una carabina.

Quindi, una visione del tutto inaspettata li colse di sorpresa, come un voluminoso pacco sotto l’albero di natale.

PLOF. Qualcosa si materializzò sulla superficie come fosse stato sospinto su da una molla.

“Fiiiico..” esclamò esterrefatto Billie Joe.

“A quanto pare, il lago sta digerendo..”

Il lago stava digerendo ed.. eruttando.

Una bolla grande come quelle di sapone che Billie Joe in vita sua non era mai riuscito a fare, con dentro.. una sorpresa.

A Teddie quasi non pareva vero.

Era trascorso quasi un anno da quando ricordava di essersi separato da un vecchio trenino elettrico.

Separato..

Teddie ricordava in realtà di averlo perso di vista da un giorno all’altro e sua madre non aveva mai negato le sue accuse di averlo fatto sparire come punizione, per il fatto che la sera iniziava a tornar tardi e la faceva stare in pensiero.

Quel trenino..

La cosa strana, a cui Teddie non sapeva dare una risposta - e per l’entusiasmo del ritrovamento proprio non ne voleva sapere di pensarci – era il fatto che le acque del laghetto delle cave l’avevano restituito perfettamente integro, facendo sembrare persino stranamente luccicante la carrozzeria di quella vecchia

locomotiva, che tutti dopo quel tempo avrebbero dato per arrugginita in maniera irreparabile.

Ma non era solo quello il motivo che aumentava il mistero attorno a quella scoperta: come aveva fatto a finire fin lì?

A detta di Teddie i suoi genitori neanche sapevano dell'esistenza di quel posto, e non erano assolutamente tipi da gettare i rifiuti al di fuori delle aree preposte.

L’unica ipotesi quindi era che qualche balordo avesse fatto visita al suo gestore, il vecchio signor James, si fosse appropriato di qualche vecchio giocattolo e poi l’avesse gettato nel punto che più si prestava a nascondere le malefatte: il laghetto delle cave.

Qualsiasi fosse la provenienza, i tre amici ne convennero comunque che si trattava di un ritrovamento alquanto singolare.

arono solo un paio di settimane da quell’evento, che la voce si era sparsa tra i ragazzi del quartiere con l’entropia di una pallina in un flipper.

Bobbie Fox e Jackie Lin, il ragazzino cinese che gli abitava di fronte, vi si recavano quasi tutte le sere nella speranza che il lago rigettasse una vecchia palla da calcio che Bobbie diceva di aver vinto ad un’asta online, da un tipo che diceva di aver conosciuto Maradona.

La palla era autografata quindi secondo lui da re Diego in persona, e poca

importava il fatto che finita in quell’acqua sporca e ad alta percentuale di componenti chimiche, della firma del calciatore non sarebbe rimasto che uno sbiadito ricordo.

Poi c’era Paulo ed un gruppo di ragazzini brasiliani. Quasi ogni sera d’estate si trovavano a giocare a calcio, qualche centinaio di metri in linea d’aria dalle cave, e a Paulo una sera avevano rubato la sua vecchia bici, un modello a tre rapporti a cui aveva tolto i freni, perché a Paulo piaceva provare l’ebbrezza di frenare con i piedi.

Quella bici..

Era convinto che se la fosse mangiata il laghetto. O che qualcuno che non gli voleva particolarmente bene gli avesse fatto uno scherzo di cattivo gusto e l’avesse gettata lì senza tanti complimenti, solo per il gusto di farlo tornare a casa la sera, a piedi, per quattro chilometri.

Isteria collettiva..

Ecco cosa ne pensava Billie Joe di quel pellegrinaggio continuo tutte le sere, capitanato da Teddie, che guidava di volta in volta piccoli gruppetti, neanche fosse il cicerone, o la maschera che strappava i biglietti all’ingresso del cinema.

“Dai vieni anche tu Billie Joe!” gli dicevano in coro, e Billie Joe sorrideva, faceva il classico gesto con la mano (evitando il dito medio) ma prendeva la direzione opposta, rispetto al lago.

“Ehi dove vai con quella roba? Non la butti più al solito posto?” lo incalzò una sera Teddie, per una volta apparentemente senza sotto-intendere alcuna provocazione o atteggiamento di scherno.

“No grazie, Teddie. Ho i miei bei bidoni colorati che mi attendono. Sai com’è, credo che prima o poi riuscirò a distinguere il rosso dal verde, e che almeno ho qualche anno per fare pratica, prima di prendere la patente..”

Teddie ricambiò la battuta con un sorriso tirato. In lui c’era una strana bramosia di coinvolgimento avrebbe detto Billie Joe.

Bramosia, adrenalina o fanatismo che fosse, la stessa sensazione l’aveva provata forse solo quando avevano acquistato una console nuova, di quelle dove si ci si poteva riunire a gruppi di quattro o otto persone, ed inscenare infuocate sfide ai videogames.

“Ciao Billie Joe allora, se ci ripensi sai dove siamo..” disse Teddie, ma Billie Joe non rispose.

E Billie Joe pensò che non ci sarebbe mai tornato, per un semplice motivo.

Quel lago, il trenino dalla carrozzeria luccicante che era sbucato fuori da quelle cave dove l’acqua secondo alcuni (e secondo i cartelli ormai semi-nascosti dalla vegetazione intorno) era estremamente nociva per la salute..

Billie Joe non avrebbe saputo spiegare perché provasse una tale sensazione di

negatività, ma in qualche modo ne era certo.

Doveva starne alla larga, come da un nido d’api.

Se solo fosse stata viva sua nonna Marie, che diceva di poter vedere gli spiriti e le anime dei traati, gli avrebbe detto certamente una delle sue solite frasi ad effetto, del tipo: “Billie Joe, ragazzo mio, acque scure.. stanne alla larga. Non si è mai visto un CERCATORE d’oro trovare una pagliuzza in un pentolone di liquame.”

Pentolone.

Il vero problema semmai, secondo Billie Joe, era capire che cos’altro il pentolone avrebbe potuto eruttare..

Ed il pentolone contro ogni più benevola aspettativa continuò ad eruttare..

Solo gradite sorprese sembrava recitasse lo slogan.

Bobbie Fox ritrovò il suo pallone autografato, perfettamente pulito da ogni residuo, come fosse nuovo, solo leggermente sgonfio.

Paulo rivide la sua bici a solo un paio di metri di distanza dai bordi del laghetto (all’interno del quale per la verità nessuno aveva mai osato tuffarsi) e riuscì a riprenderne possesso con un bastone ad uncino, del tipo di quelli usati per

appendere gli abiti.

Frankie stesso una sera tornò a casa estremamente raggiante ed in preda ad una eccitazione apparentemente incontrollabile:

“Billie, Billie!”

“Che c’è Frankie?”

Billie Joe stava leggendo un libro, dopo aver realizzato che le avventure di pesca di Mark Twain e Huckleberry Finn fossero tutt’altra cosa rispetto al nuovo hobby del quartiere.

“Che c’è? Hai pescato un dinosauro nel lago e vuoi un aiuto perché lo faccia are per la porta di casa?”

“No.. no! Dannazione Billie Joe. Devi credermi. E’ successa una cosa che ha dell’incredibile stasera!”

Billie Joe si accertò di riporre un segnalibro prima di prestargli attenzione.

“E sarebbe?”

“Oh. Devi sapere che.. è un po’ difficile da spiegare, ma le cose stanno proprio così..”

E quello che raccontò Frankie si rivelò stranamente più interessante del previsto.

“Devi sapere che quel nuovo ragazzo che abita di fronte a Bobbie Fox..”

“Jackie Lin?”

“No, Marty o qualcosa di simile. Vabbè, ma il nome non è importante. Insomma Marty e Bobbie stavano usando un vecchio remo per smuovere le acque del lago in prossimità della riva e vedere se saltava fuori qualcosa di interessante. In realtà non avevano un’idea ben precisa di cosa stavano cercando.. era più che altro un atempo come un altro..”

Billie Joe si trattenne a stento dal dire che pensava di conoscere migliori atempi per trascorrere una sera d’estate, che farsi succhiare via il sangue da insetti transgenici.

“Beh” continuò Frankie “dai un colpo di remo, dai un altro, l’acqua non si smuove minimamente. Sembrava densa come forse lo è il fango di una palude, anche se nessuno qui ne ha mai visto una..”

“Interessante Frankie.. Vai al punto.” Sbottò spazientito Billie Joe.

“Insomma, dopo qualche minuto a Marty viene in mente un’idea giusto per cambiare programma e rompere la noia, che era l'unica cosa che iniziava ad affiorare..”

“E che cosa hanno fatto?”

“Marty ha proposto di fare una gara di lancio di sassi e vedere quanti balzelli avrebbero fatto su quell’acqua, in alcuni punti così stranamente densa e pastosa..”

“Niente di nuovo fin qui.. un grande classico. Il Mario Bros della situazione.” Osservò Billie Joe.

“Già, solo che le cose ad un certo punto hanno preso una strana piega. Marty ha lasciato partire un colpo convinto che avrebbe fatto strike, ma si è sbilanciato molto ed ha perso l’equilibrio..

Ed è scivolato nel lago. Billie Joe! Marty ha fatto un bel tuffo in quelle dannatissime acque putride, che il creatore solo sa, quanto profonde siano e soprattutto cosa sia depositato sul loro fondale!”

“Un tuffo?!”

“Già una cosa che non era mai accaduta prima!”

“Cosa sento mai..” commentò Billie Joe, in realtà per nulla convinto che quella parte del racconto fosse poi così interessante.

“Ma non è questo ciò che è veramente STRANO in questa storia.” aggiunse Frankie con uno strano fanatismo negli occhi.

“E allora? Non tenermi sulle spine!”

“Beh Billie Joe. Devi sapere che Marty quest’oggi era caduto in bici mentre tornava dall’edicola di Moe, dove si era fermato a prendere un paio di giornaletti della Marvel.. e Marty si era tagliato durante la caduta: un solco lungo almeno cinque cm, poco profondo, ma ben visibile e non del tutto superficiale..”

“Frankie, ma perché diavolo mi racconti le disavventure di Marty? A tutti è capitato di sbucciarsi una gamba cadendo dalla bici, no?”

A quelle parole Frankie sorrise, come se sapesse il finale del film o se dalle sue parole potesse dipendere l’esito di una disputa:

“Certo a tutti può capitare di sbucciarsi un ginocchio cadendo dalla bici” rispose “ma non a tutti di tuffarsi nel lago ed uscirne con la ferita sul ginocchio perfettamente rimarginata..”

La ferita perfettamente rimarginata..

Billie Joe strabuzzò più volte gli occhi, mentre l’umidità eccezionale della sera rendeva la sua vista meno aguzza ed approssimativa, tanto che pure la figura di Frankie sembrava una visione sbiadita, un fantasma di poco conto.

“Non può essere che nella caduta a terra Marty si fosse solo SPORCATO la gamba – magari di fango - e che l’impatto con l’acqua abbia semplicemente ripulito l’ipotetico striscio di terra?”

Frankie abbassò la testa per un attimo, quasi quell’idea avesse smontato in un attimo il castello che da qualche tempo sostava sospeso per aria, nella sua mente, su di un cuscinetto di nuvole.

“No.. Non credo sia possibile! Marty era convinto di essersi fatto quella sbucciatura. Gli bruciava, diceva, gli bruciava eccome, quindi non poteva che trattarsi di un taglio!”

Rispose così Frankie, ma sul suo sguardo ora aleggiava uno strano mix di ansia, forse per tornare al più presto sul luogo a ricontrollare la ferita di Marty, ed odio verso Billie Joe, per aver pensato subito qualcosa, che a lui in più di un’ora di tempo non era proprio ata per la mente.

“Ad ogni modo non è solo questo il motivo per cui sono qui.” Disse ostentando un ghigno nella bocca che ora quasi schiumava di rabbia.

“Uhm? E che cos’altro c’è che ti.. turba?”

“Nulla. Proprio nulla. Sono qui a portarti un messaggio. Un messaggio proveniente da Teddie, Marty, Paulo, Gordon, Vern e tutti gli altri ragazzi del quartiere..”

“Un messaggio?” chiese per la prima volta incuriosito Billie Joe. “E sarebbe?”

“Domani sera grande adunata al laghetto vicino alla discarica. Ed è gradita la presenza di tutti. Anche la tua..”

Era gradita la sua presenza.. ma per quale motivo? Si chiese Billie Joe.

Cosa diavolo stavano escogitando di così importante perché tutti i ragazzi del quartiere avrebbero dovuto ritrovarsi assieme, bande e gruppetti di solito disuniti, che tenevano saldo il proprio status quo proprio in virtù di questo processo di disgregazione..

Qualcosa di grosso bolliva in pentola.. qualcosa di sicuramente più importante di un torneo serale a pallone o di un’elezione di comitato di vigilantes del quartiere.

Eppure..

C’era qualcosa che Billie Joe temeva più di ogni altra cosa..

L’isteria collettiva.

O quello che definiva da un po’ di tempo l’effetto Cocoon.

Già, l’immagine di quei vecchietti nella piscina miracolosa del film assumeva dei contorni decisamente inquietanti se associata anche solo per un attimo con il MAGICO laghetto vicino alla discarica.

Fantasie.. Pensò Billie Joe.

Solo fantasie.

Quella sera riprese la sua lettura dei grandi classici di Mark Twain.

Immaginò di guadare a piedi nudi le acque limpide di un fiume pulito, nell’intento di trovare la sua prima pagliuzza d’oro.

Un cercatore d’oro.. avrebbe detto sua nonna.

Quale fosse il motivo poi perché continuasse ad associare la sua figura al laghetto non avrebbe saputo dire, ma di una cosa era certo.

Qualsiasi cosa pensasse quella notte pur di addormentarsi, il cercatore d’oro Billie Joe tardò comunque a prender sonno, perché qualcosa stuzzicava oltremodo la sua fantasia.

Proprio non riusciva ad immaginare infatti che cosa bollisse realmente in quel pentolone..

La sera successiva giunse con il ritmo lento e cadenzato di una calda giornata d’estate, quando ai compiti per casa era riservato lo spazio di tempo che d’inverno era solitamente dedicato alla merenda, e viceversa.

Billie Joe se ne era stato seduto tutto il tempo a sonnecchiare, durante le ore calde, sull’amaca nel giardino, fintanto ché i segni delle reti si erano impressi sulla sua pelle, formando tanti piccoli cerchi, o forme esagonali.

“Altro che cerchi nel grano.” L’apostrofò sua madre. “Tu e la tua amaca sì che sapreste come far comparire senza alcuno sforzo le più strane figure in una sola notte. Poi, magari chissà, sei anche sonnambulo..”

Billie Joe sorrise.

“Scusa mamma.” E si scusò, ma non sapeva dire se in realtà quella fosse una situazione in cui giustificarsi o semplicemente una battuta, una constatazione a cui non dare troppo peso.

Cose da grandi..

Sfumature a cui col tempo avrebbe dato la giusta importanza.

Ed era un po’ come il saper distinguere i colori e le tonalità le une dalle altre. Chissà.. forse col tempo anche quel suo piccolo difetto visivo sarebbe sparito e Billie Joe non avrebbe più continuato a confondere il verde con il marrone.

“Esco mamma.” Disse una volta giunta sera, dopo che sua madre aveva irrigato le piante e lui e Frankie avevano terminato con la potatura delle piante di pomodoro.

“Vado anche io.” aggiunse Frankie.

Sua madre non fece una piega.

“Billie Joe, le immondizie sono al solito posto, nel retro davanti al garage..”

E Billie Joe si avviò con una sorta di automatismo, quasi quel vecchio capanno di lastricato (e forse amianto) che chiamavano garage, fosse la sua tappa serale preferita.

“Frankie, tu prendi le sterpaglie, io proseguo con la differenziata, l’umido ed il resto..” esordì, e Frankie che era più piccolo di un anno obbedì al fratello maggiore senza dire nulla, ma ostentando una sorta di innaturale estraneità al contesto, a tutto ciò che stava facendo.

Erano i suoi occhi; del tutto inespressivi, assenti, e stranamente freddi. Freddi e vuoti come due biglie dalle pupille azzurre, ristrette altresì che dilatate. Iniettati

di un non so che di negativo, come quelli di un robot o di uno spietato androide tratto dal peggior racconto di fantascienza alla K. Dick.

“Ecco. Muoviamoci ora.” Furono le sue uniche parole ad un certo punto, dopo che lui e Billie Joe avevano finito di caricare i sacchi sulla carriola.

“E Perché? Non siamo in anticipo per l’appuntamento?”

“Non importa.” Rispose freddamente Frankie.

“Gli altri ci stanno già aspettando.”

Billie Joe non replicò, si diresse verso la strada che lo separava dalla discarica e dal laghetto, con una strano senso d’ansia, una sorta di ammonimento.

Già, in quei quattrocento metri di sterrato che lo separavano dalla destinazione, pensò che quel quesito l’avrebbe in qualche modo accompagnato come un piccolo tormento, come una scarpa fradicia o un cappello caldo sulla nuca sudata.

Era tutto il giorno che non vedeva in giro nessuno dei ragazzi del quartiere.

Ma da quanto lo stavano aspettando allora?

E poi c’era l’interrogativo forse più inquietante.. come faceva Frankie ad essere così certo che fossero già lì?

Il sentiero sterrato conteneva migliaia di piccoli sassolini che si infilavano inopportuni nei sandali di Billie Joe, tra gli interstizi delle dita e sotto la pianta del piede, proprio lì, dove faceva più male.

Anche Frankie sembrava soffrire dello stesso problema, ed ogni tanto interrompeva quell’espressione di ghiaccio per scalciare nervosamente via grumi di pietruzze.

“Non serve a nulla Frankie.” Diceva Billie Joe, “Su questa strada la concentrazione di ghiaino è così alta, che è inevitabile riempirsi i piedi di sassi.”

Ma Frankie non rispondeva.

Si e no bofonchiava qualcosa che assomigliava ad un grugnito, o alzava le spalle come a dire in fondo, chissenefrega.

Non si era unito neppure alla voce del fratello quando questi aveva iniziato ad intonare un pezzetto del vecchio classico che ascoltava sempre il loro padre: Rolling on a River, di Tina Turner, quando stava ancora col marito Ike.

Non ha senso, pensava Billie Joe; quello non era il fratello che pensava di conoscere.

Ed era un po’ la stessa strana sensazione, dai contorni decisamente surreali, che provava osservando quella sera i fossi ai lati del sentiero.

Congiungevano idealmente il lago come piccoli estuari; durante l’anno erano in realtà molto spesso acquitrinosi, e lungo la superficie crescevano piccoli canneti, o piante come mestolacce, sedani d'acqua, ed insetti d’ogni tipo; l'habitat ideale per le rane, quando il tutto si trasformava in acque stagnanti, e fonte d’abbeveraggio per nutrie, quando invece pioveva copiosamente.

Fossi..

Dividevano il piccolo sentiero dai campi come trincee, e durante quell’estate mai aveva avuto il sentore che potessero tracimare.

Le piogge erano state perlopiù deboli, e a parte qualche temporale, Billie Joe non aveva memoria di aver visto l’acqua insidiare il ghiaino ciottoloso.

“Ehi Frankie, ma ha piovuto stanotte?”

Frankie fece cenno di no con la mano.

E Billie Joe non poté che constatare con una certa apprensione come i suoi discorsi, i suoi turbamenti, non sembrassero interessare più di tanto l’animo del fratello, del tutto assorto in qualcosa.

Ma in cosa?

Intanto il livello dell’acqua, man mano che si avvicinava al laghetto andava via via crescendo, fin quasi a sfiorare nell’ultimo tratto la superficie dove camminavano.

Ma non era quello l’aspetto più inquietante.

Per quanto si strofinasse gli occhi con la canottiera imperlata di sudore, nel tentativo di mettere bene a fuoco la visione, non poté fare a meno di cedere alla prima impressione che gli ò per la mente.

Già, per quanto assurda, perché nel suo immaginario quella scena gli ricordava forse solo la fuoriuscita di petrolio da un autocisterna - ed in quella zona si trattava di un evento improbabile - non poté considerare diversamente il colore di quell’acqua che fuoriusciva dai fossati.

Così scura, densa e maleodorante da assomigliare al petrolio, sembrava che avesse ricoperto ogni cosa, non lasciando spazio in alcun modo alla vegetazione, che era andata via via diradandosi, come avviene nel progredire l’ascesa in un sentiero di montagna.

Il tempo di giungere al lago e voltarsi indietro, che quella scena nell’insieme gli ricordava una risaia, o gli acquitrini di una palude formatasi in brevissimo tempo dopo una forte precipitazione.

Un’immagine d’impatto, soprattutto per via del colore a tratti molto scuro dell’acqua, tanto che Billie Joe si girò più volte dietro di sé, quasi inconsciamente, a controllare che la via di ritorno verso casa non sparisse inghiottita nel nulla.

“Ecco. Siamo arrivati.” Esclamò un po’ turbato da quello sconvolgimento nel microclima, quando il sentiero era ormai alle loro spalle; quindi appoggiò la carriola in un angolo, con l’intento di liberarsi dei rifiuti portandoli alla discarica solo al ritorno, tale era la curiosità di capire di che cosa si sarebbe parlato quella sera.

“Benvenuti. Frankie, Billie Joe. Prego ragazzi, accomodatevi vicino alla banchina. Soprattutto vorrei la tua attenzione Billie Joe, c’è una cosa che voglio farti vedere..”

La voce che li accolse con la confidenza di un padrone di casa fu con nessuna sorpresa quella di Teddie, che sostava al termine di un corridoio di ragazzi, poco prima del ponticello di legno su cui un tempo – ricordava Billie Joe – la gente del posto era solita attraccare piccole barche, quando il laghetto artificiale non era contaminato, ed al suo interno si potevano trovare trote, lucci, pesci gatto o altre specie d’acqua dolce.

“Perché diamine ci hai riuniti tutti qui, Teddie? Che c’è di così importante che non potevamo discutere altrove, chennessò, al campo di calcio?”

Billie Joe parlò in questo modo, attendendo in cuor suo in realtà, che qualcuno dei ragazzi dal gruppo tirasse fuori la voce e dicesse la sua, spezzando quel silenzio surreale di attesa, inframezzato soltanto dal ronzio a sonagli dei grilli e dal canto delle cicale.

“Billie, amico mio, non essere timido. Vieni avanti ed osserva che cosa questo posto MAGNIFICO ha riservato anche per te. Esclusivamente per te..” Rimarcò con voce ferma Teddie, in un tono che in quel momento in nessun modo ricordava quello incerto ed ormonale di un ragazzino di quasi tredici anni, quanto quello sicuro, freddo e FANATICO di un adulto che sapeva cosa voleva.

“Che cosa devo vedere Teddie? Dai su, facciamola breve, e voialtri.. perché ve ne state zitti? Orsù, non siete mica al cinema!”

Non giunse alcuna risposta dai vari Paulo, Verne, Marty, Bobbie, Jackie Lin. Né tantomeno un sorriso, un commento, un espressione, un gesto che potesse rivelare l’entropia della serata, la genesi di uno scherzo.

Perché di scherzo si sarebbe trattato, di questo Billie Joe ne era in qualche modo certo, mentre avanzava lungo il ponte, guardingo ed attento ai movimenti tutto intorno, pronto a fuggire via di scatto non appena qualcuno si fosse tradito ed avesse rivelato la prima mossa.

Ma non avvenne nulla di tutto ciò.

I ragazzi, compreso Frankie, se ne stettero in disparte, ad osservare Billie Joe mentre raggiungeva Teddie alla fine del ponticello.

“Eccomi qua Teddie. Giuro che se è uno scherzo in qualche modo te la farò pagare..” esordì.

Ma come risposta Teddie sorrise, con uno sguardo che poi Billie Joe definì dannatamente calmo, freddo, comato; INESPRESSIVO avrebbe detto.

Come quello di Frankie. Come quello di TUTTI i ragazzi.

Uno strano DEJA-VU’, pensò.

Quindi quel pensiero, quell’idea, che tornava a galla.

Isteria collettiva,.

“E’ tutto a posto Billie, qui sei tra amici, non hai motivo di dubitare di noi..” disse con tono rassicurante Teddie. “Ti chiedo solo di osservare la superficie del lago e dirmi che cosa ne pensi.. o meglio, che cosa ci vedi..”

A Billie Joe quelle parole giunsero in una sorta di segnale differito, quasi il suo cervello si rifiutasse a priori di considerare la sua presenza al lago solo per esprimere un parere “su ciò che vedeva”.

“Non capisco cosa intendi.. cosa dovrei vedere?” disse. E mentre si guardava intorno non riusciva a notare nulla di eccezionalmente particolare. Tranne forse un dettaglio. Già, probabilmente solo una sensazione, pensò istintivamente, eppure..

“Ecco. Forse il livello dell’acqua è salito. Forse il lago si sta riempiendo, come una tinozza. E questo credo spiegherebbe anche quello strano fenomeno..” iniziò a dire, e si voltò per indicare il sentiero e i due fossi, quando il suo sguardo si imbatté, al posto della palude d’acqua scura, nel gruppo di amici che ora sostavano all’imboccatura del ponte, a pochi metri di distanza da lui, quasi a formare un muro, che ostruiva ogni altra visione.

“No, no, Billie. Non è questo che intendevo farti vedere. Vedi.” Continuò Teddie “so che c’è un oggetto della tua infanzia a cui sei molto legato e che ti piacerebbe rivedere..” disse, e a quelle parole Billie Joe iniziò a pensare.

Innanzitutto a che cosa Teddie potesse sapere degli oggetti a cui lui si sentiva in qualche modo legato.

“Boh.. Non saprei a che cosa ti potresti riferire..” rispose, e Teddie gli indicò la superficie del lago, un punto che distava si e no un metro e mezzo da dove terminava quel ponticello d’attracco.

Billie Joe fissò allora la mano ossuta dell’amico.

L’acqua scura e sporca non sembrava poter rivelare alcun dettaglio, pensò istintivamente.

“Ehi. Ma non vedo nulla!” disse interdetto. “Ragazzi. Lo ripeto. Se è uno scherzo NON fa affatto ridere per ora!” e continuò a parlare, finché..

Finché non avvenne qualcosa di del tutto inaspettato.

Nonostante fossero già ate le otto di sera c’era ancora luce in abbondanza, tanta almeno per capire se ci si poteva specchiare in quell’acqua o meno.

E Billie Joe non era mai riuscito sino ad allora a scorgere la propria immagine riflessa su quella superficie malsana, variopinta, o a tratti nera come la pece.

Ma ora..

Ad un tratto l’acqua divenne improvvisamente chiara, trasparente come quella di una pentola, in un unico punto, dal diametro di una piccola imbarcazione o poco più, giusto di fronte a Billie Joe, giusto dove stava puntando il dito Teddie, come fosse stato il bastone di un rabdomante.

Stava indicando il fondale..

Si rivelò per la prima volta ai suoi occhi in modo chiaro, limpido, e apparentemente (e qui stava la prima sorpresa) poco profondo.

Impressionante, pensò istintivamente Billie Joe.

“Ma come diamine è possibile?!” fu il suo commento.

Ma non fu quello l’unico elemento di stupore o meraviglia.

Mentre Teddie continuava ad incitarlo con una strana luce negli occhi e frasi del tipo “Dai. Forza Billie Joe. Dimmi che ci vedi!”, il fondale del lago iniziò a rivelare elementi, oggetti che mai avrebbe pensato di poter trovare in quel luogo: borse, pupazzi, trenini, palloni, biciclette, skateboard, aquiloni, monopattini e migliaia di altri giocattoli, giacevano disposti ORDINATAMENTE in fondo a quella porzione di lago che si era rivelata ai suoi occhi all’improvviso, come fosse stato un chiromante, di fronte alla superficie di una sfera magica di cristallo.

“Cosa vedi allora?! DANNAZIONE Billie Joe parla e dimmi se vedi anche tu quello che vedo io.. QUELLO che vediamo noi!”

E Billie Joe non sapeva ancora che cosa dire.

Isteria collettiva?

Aveva preso anche lui?

No. Non è possibile, continuava a ripetersi.

Eppure..

Ad un tratto scorse un oggetto che pensava morto e sepolto.

Scorse il pupazzo di pelouche da cui non si separava mai da bambino. Orsetto Bruno giaceva in compagnia degli altri giocattoli, apparentemente PERFETTAMENTE conservato, il ventre intonso, (ricucito?) come fosse stato aldilà di una vetrata, o riposto con cura nella teca di un museo.

NO! Non è possibile! Quel pupazzo.. Aveva lo stomaco sventrato l’ultima volta che l’ho visto! Eppure.. Non può essere una coincidenza! Continuò a mormorare a bassa voce, accovacciandosi verso la superficie del lago, con le mani dietro la testa, non accorgendosi neppure che da qualche minuto Teddie sostava alle sue spalle e tentava di origliare cosa stava dicendo.

“Lo vedi, eh Billie Joe? Lo so che lo vedi.. E ora LUI vuole che tu allunghi semplicemente la tua mano in quell’acqua limpida e pura. E poi..” bisbigliò, e il suo alito puzzava di uno strano fetore, avrebbe detto Billie Joe.

“E POI?!” chiese sconvolto.

“Niente. Vuole che tu ti sporga e che tu lo prenda, mi pare ovvio.. BILLIE JOE.”

Mi pare ovvio Billie Joe.

Quella frase riecheggiò nella sua mente con una strana enfasi.

Sembrava assolutamente convincente, nel tono, nell’espressività.. qualcosa che

non distava molto da un messaggio subliminale.

Billie Joe si voltò e fissò ancora il gruppo di ragazzi, mentre Teddie gli poneva un braccio sulla spalla, quasi a volergli fornire una sorta di o psicologico.

Erano tutti immobili, in attesa di un suo gesto, di una sua risposta. E fu allora che a Billie Joe venne in mente un’idea, seppur malsana.

Tornò a fissare l’acqua e a controllare che la visione nel frattempo non fosse sparita.

E così non era accaduto, ma ora, oltre agli oggetti sul fondale, poteva scorgere un altro particolare, che prima non aveva osservato.

I volti.. le facce del gruppo di amici, Teddie e Frankie compresi, erano riflesse come la sua sullo specchio d’acqua.

Fin qui nulla di eccezionale.

Se non fosse stato per un particolare.

Isteria collettiva..

Le facce riflesse sembravano riportare con chiarezza dei dettagli altrimenti invisibili.. I loro occhi soprattutto: erano accomunati dalla stessa espressività, dalla stessa FORMA; e quelle pupille affatto dilatate, ma allungate, fin quasi a far combaciare le due estremità e risaltare il bianco della cornea, non incutevano alcun pensiero BENEVOLO, pensò.

E poi c’erano le sfumature.. gioco di luce dell’acqua o riflesso affatto causale? Ad ogni modo gli ricordavano una sola cosa, pensò, e non era affatto un’immagine rassicurante.

No, non lo raccoglierò pensò ad un tratto.

Non toccherò quell’orso, non immergerò le mie mani in queste acque sporche..

I suoi pensieri scivolarono via in un continuum temporale a cui non seguì nessun discorso, per la delusione sempre più cocente sul volto di Teddie:

“Dannazione! Billie Joe ti ho fatto una domanda! PARLA!” insisté ancora, e Billie Joe pensò che a quel punto della situazione doveva per forza accadere qualcosa; doveva sperare che un evento lo portasse lontano da quella situazione che stava prendendo via via dei connotati sinistri ed inquietanti.

Un evento..

Billie Joe fissò ripetutamente l’acqua e Teddie, mentre i ragazzi si stringevano dietro a lui, a capannello, impedendogli di fatto ogni via di fuga.

Presto avrebbe dovuto fare ciò che volevano da lui, altrimenti..

Beh, Billie Joe non osò pensare a cosa gli sarebbe accaduto, perché i presupposti non promettevano nulla di buono.

E non ebbe neanche il tempo di farlo perché non accadde un evento, ma bensì DUE.

Il primo glielo rivelò nuovamente l’acqua del lago, come un segreto, una rivelazione che lo lasciò senza fiato.

Quindi senti un tic.

Poi un tac.

Tic-toc. Tic-tac.

I contorni sulla superficie del lago divennero improvvisamente più indefiniti, disturbati.

Pittura ad olio.

Gocce di pioggia.

La visione svanì, ed al primo tuono uno scalpitio frenetico decretò la fine di quella surreale assemblea..

Trascorsero dei giorni, forse settimane prima che Billie Joe si riaffacciasse alla vita notturna del quartiere.

"Da domani ho deciso che le porto al mattino presto alla discarica, mamma.." aveva detto riferendosi alle immondizie il giorno successivo al temporale, eludendo a fatica lo sguardo interdetto della madre.

"E.. perché Billie Joe?"

"Nulla ma’.. E' che il mattino è più fresco, e le zanzare hanno già banchettato.."

Zanzare..

Sua madre sembrò non voler indagare oltre nel giudicare lo strano cambiamento nel comportamento del figlio, divenuto improvvisamente più riflessivo e taciturno.

Bollò il tutto come frutto di uno dei frequenti stravolgimenti ormonali dell'adolescenza.

Un segno del aggio..

"Oh.. il mio ometto sta crescendo.." diceva mentre lo vedeva trascorrere le sere intento nella lettura di grandi classici, da Verne a Salgari, ando per Kipling e Dickens, piuttosto che correr dietro ad un pallone.

E Billie Joe sorrideva.

In fondo sua madre era una brava donna.

Aveva accolto senza batter ciglio quella sua idea, senza porre una sola domanda.

Era bastata una sola telefonata, al distretto giusto, perché si presentassero l'indomani degli uomini in tuta bianca, interamente ricoperti da capo a piedi come astronauti.

Solfato di.. Nitrato di.. Questo era stato il loro primo incomprensibile responso.

Sostanze tossiche, da non inalare, tale era il potere allucinogeno che potevano scatenare nelle menti dei malcapitati di turno.

Isteria collettiva..

Tutto finalmente tornava, tutto sembrava avere un senso.

Il laghetto, le sue acque putride che sembravano nutrirsi di rifiuti e della sanità mentale dei suoi amici, era solo uno strano ricordo, ora transennato ed inaccessibile ai non addetti ai lavori, fintanto che le operazioni di bonifica non sarebbero state completate.

Ci sarebbero voluti mesi, forse anni, forse addirittura i lavori non sarebbero mai stati fatti.

Si era vociferato anche della presenza di sostanze radioattive, e così magari l'intera vicenda sarebbe stata insabbiata, sperando semplicemente che nessuno si ricordasse nulla.

Billie Joe pensava tutto questo e che in fondo il bisogno di dimenticare era lo stesso desiderio che lo avrebbe accompagnato per chissà quanto tempo.

Dimenticare in che stato aveva visto i ragazzi, suo fratello, la stessa assurda luce giallo-bluastra che a volte era il riflesso sulla superficie del lago, e che quel giorno invece era la tonalità dei loro occhi.

Spettrale.

Ma non era quella l'unica scena che avrebbe tentato di dimenticare.

Per qualche attimo - il tempo di aprire e chiudere gli occhi e chiedersi se in realtà stesse sognando - aveva visto qualcosa, o meglio qualcuno, sul fondale, a fianco ai giocattoli, che mai avrebbe pensato di scorgere.

"Se finisci in paradiso o all'inferno me lo vieni a dire?"

"Certo Billie Joe, te lo prometto." Aveva sempre risposto a quella domanda nonna Marie, finché aveva avuto un briciolo di coscienza.

E a quella promessa non aveva mai dato seguito dopo la sua scomparsa..

Fino a quel giorno.. fino a quel momento.

Il suo volto gli era apparso dal nulla, in quello scorcio d'acqua trasparente, in cui giaceva ancora vestita come il giorno in cui l'aveva salutata:

"Ehi CERCATORE. Cosa diavolo vai cercando? Fossi in te non lo farei.."

Aveva detto, e qualsiasi cosa avesse visto o sognato, Billie Joe aveva ritratto d'istinto le sue mani dal proposito di immergerle, arrivando a sfiorare solo per un attimo la superficie del lago.

Quindi PUFF, quell'immagine era sparita, ma mentre Teddie aveva continuato a

parlare, Billie Joe aveva osservato delle piccolissime bolle venire a galla.

Forse ebbe solo un impressione pensò dopo, ma due dubbi inquietanti lo accompagnarono per moltissimo tempo: dapprima l'assurda sensazione che quel fondale in realtà stesse ribollendo già da un po'.

E poi c'era la questione dell'alito del suo amico.

Così insopportabile e dolciastro, per qualche inspiegabile motivo puzzava terribilmente di zolfo..

Biglie colorate

L’America del sud. L’America coloniale ed i suoi campi di cotone.

Un rituale antico, magico, ed una coppia di vecchi proprietari agricoli, di poche parole ed età indefinita.

Un podere in un’atmosfera che potrebbe essere quella di The Others.

Ecco, questi sono gli ingredienti che ho frullato nella mia mente quando ho pensato la prima volta a questo racconto.

Il finale può apparire incerto, ma molto spesso l’occhio del lettore non deve cercare la risposta lontano; quando gli indizi ci sono tutti, basta pensare che lo scrittore intendeva dire proprio la prima cosa che ci è ata per la mente..

Due occhi di cerbiatto sbirciavano il mondo oltre il finestrino dell'auto, tentando di riconoscere forme ed oggetti in mezzo alla campagna.

Junior era così, semplicemente desideroso di conoscere la realtà che lo circondava, di scorgere paesaggi, luoghi e "cose" nuove.

Cose.

Già come ogni bambino tutto agli occhi di Junior era prima di tutto una cosa, grande o piccola, un po’ come le persone.

C'erano gli amici, piccoli come John e gli adulti come il papà Jack e la mamma Maria.

Quante cose c'erano da scoprire lì fuori.

"Papà, dista ancora molto la casa dei nonni di John?"

Jack gli accarezzò la testa per rassicurarlo:

"Stai tranquillo figliolo, tra poco saremo arrivati, vero mamma?"

"Si papà. Manca poco Junior e poi potrai giocare assieme al tuo amichetto quanto vorrai."

Mamma Maria diede un bacio sulla nuca del suo piccolo, dal sedile posteriore dove erano entrambi seduti nel tentativo di evitare il mal d’auto.

"Ma lo sai papà che la nonna di John ha una casa molto grande?"

"Veramente?"

"Sì, è grande almeno come un campo da football, e ci sono i campi, gli animali, ed anche i resti di una vecchia chiesa."

"Ti piace?" chiese Jack.

"Sì, molto, mi ha detto che posso giocare fuori a palla oppure con i cavallini e l'aquilone."

"Bello; allora vedremo di tornarci ancora."

"Sì papà, poi John mi ha detto che la sua nonna tiene una collezione grande grande di biglie colorate e che io le posso vedere."

"Ti piacciono le biglie colorate?" chiese Maria.

"Si mamma."

"Allora quando torniamo te ne compriamo tante va bene?"

"Sì mamma, grazie. Che bello!"

Maria diresse lo sguardo fuori dall'auto, alcune lacrime le scendevano lungo il volto al pensiero di quanto il bambino fosse tenero ed innocente.

In cuor suo non avrebbe mai pensato che un figlio potesse ammorbidire il suo cuore a tal punto, lei una manager del suo calibro, abituata a comandare, a dirigere il personale.

"Ecco, vedo una casa in lontananza, forse siamo arrivati."

Jack riconobbe chiaramente tra una lieve foschia il podere dei nonni di John: era come l'aveva descritta il figlio, una casa antica, di stampo coloniale, con campi coltivati ed una vecchia stalla.

Lungo i fossi, tra gli steli del grano ed i campi di pomodori, numerosi braccianti lavoravano la terra, raccogliendone gli ultimi frutti, sotto i raggi di un sole ormai pallido e spento dall’arrivo dell’autunno.

Poco in lontananza c'era una piccola chiesa, poco più grande di una cappella, perlopiù fatiscente e con davanti quello che sembrava essere un piccolo camposanto, probabilmente contenente la tomba di famiglia.

Il tutto era imbevuto di un alone.. demodé, come se quello fosse stato un luogo fuori dal tempo, in cui l'elettricità e l'acqua corrente facevano paradossalmente la parte di un oopart.

Inquietante, pensò per un attimo Jack.

Perché non me ne sono stato a casa?

Jack parcheggiò l'auto in uno spiazzo fangoso, sporcando i paraurti e di lì a breve anche l'orlo dei pantaloni.

Le imprecazioni dovette soffocarle a stento per non farsi sentire dal figlio.

John dal canto suo invece corse incontro a Junior, mentre in lontananza all'ingresso della casa due occhi chiari e semivitrei fissavano attentamente i due bambini mentre ridevano.

Quella deve essere Nonna Sarah, pensò Jack trascinando un borsone.

"Salve signora, buonasera."

"Buonasera, prego siete i benvenuti."

Mura ingiallite, adorne di quadri di famiglia, un vecchio camino e panche di legno.

Vecchi scuri ed inferriate, un orologio a pendolo apparentemente funzionante ed una sedia a dondolo ampiamente tarlata.

Oggetti tipici di un mercatino d'antiquariato.

Come fanno a vivere qui? Pensò Jack, confrontando mentalmente gli interni con gli arredi del suo appartamento.

Forse è per via della vita all'aria aperta, nei campi?

Oppure, e lungi dal volerli giudicare male, perché questi contadini non hanno mai visto una città e le sue meraviglie?

Quelle domande gli sfiorarono la mente solo per alcuni istanti, giusto il tempo di sedersi a tavola ed iniziare ad assaporare gli antipasti di salumi che nonna Sarah aveva preparato.

Salame d'oca, pane fatto in casa, uova fresche, buon vino.

Delizie per una volta non elaborate.

Ed il marito di nonna Sarah?

Jack lanciò lo sguardo fuori dai vetri sbiaditi di una finestra e lo vide lì, di ritorno dai campi con un grosso sacco sulle spalle.

Che schiena robusta. Un fisico possente e pochissimi segni d'invecchiamento. Incredibilmente era come lo ritraeva una foto sul muro, scattata probabilmente una ventina d’anni prima, assieme al figlio.

Avere almeno settant’anni e non dimostrarli, pensò Jack, cercando di levarsi con un grissino un pezzo di lardo dai denti.

"Avete viaggiato bene? E' stato difficile trovarci?" chiese nonna Sarah.

"Sì signora, tutto a posto. Grazie al navigatore ovviamente."

Jack notò l'espressione interrogativa sul volto della donna e, per un attimo, capì cosa dovettero aver provato i conquistatori spagnoli quando mostrarono le loro pistole ai nativi d'America.

"Capisco, vi troverete bene in questi due giorni; certo, a patto che sappiate farvi ben volere dalle oche e dalle galline." disse la donna sghignazzando scompostamente.

"Oche? Galline? Perché?"

"Perché non va l'ha detto John?"

"No, cosa?"

"Beh" disse la donna mostrando le fessure tra i denti, "semplice, perché dormirete sopra la stalla."

Jack e la moglie terminarono la cena con la piacevole sensazione che il loro corpo si fosse riempito oltremodo a sazietà.

Bevande, contorni e dolci allietarono la loro presenza più dell'insolita compagnia dei due vecchi padroni di casa.

Nonno Sam era decisamente un uomo taciturno, poco intento alle buone maniere ed all'ospitalità che si riserva normalmente a due estranei.

Il suo era un modo grezzo di porsi e di presentarsi. Attento a sistemarsi l’occhio di vetro come fosse stata una spilla decorativa, portava ancora gli stessi abiti unti del sudore delle fatiche della giornata.

All’inizio, per confondere gli odori, tracannò in un attimo mezza caraffa di vino, evitando di rivolgere parola ai due ospiti, se non per domandare loro il numero giorni in cui si sarebbero fermati a soggiornare.

Che modi, pensò da subito Maria.

Il suo sguardo incrociò gli occhi del marito, e non ci fu bisogno che questi aggiungesse nulla perché fosse evidente il suo disappunto.

Quindi, all'improvviso, la conversazione si ravvivò su alcuni temi.

La città, la scuola dei bambini, di cosa si parlava in quei giorni.

Ecco, Jack provò ad essere esaustivo, evitando solo argomenti come la cronaca locale, che imperversava nei giornali sotto forma di crimini più o meno efferati.

"La solita vita di città, dove tutto è tranquillo tranne la sera.".

La sera.

Già, mai Jack avrebbe lasciato che suo figlio o sua moglie uscissero al buio di quei tempi da soli.

I pericoli erano in agguato ovunque.

"Per fortuna che ci sono posti tranquilli come la campagna, allora." commentò nonna Sarah.

"Già signora, ma mi permetta di chiederle una cosa." le chiese Maria "Cosa

spinge una coppia a non lasciare dei posti come questo, per certi versi ecco, direi fuori dal mondo, dove per vivere si fatica ancora con il sudore della propria pelle?"

Nonna Sarah non le rispose subito; il suo sguardo si era d'incanto fermato a raccogliere una sorta di benestare del marito:

"Beh, non c’è alcun motivo per voler lasciare le nostre sane abitudini. Del resto, ci guardi, lei ritiene che questa vita ci abbia stressato?"

Jack riconobbe nei suoi occhi un certo magnetismo, e che, d’altronde, quanto aveva detto riportava fedelmente la realtà:

“No signora. Lasci che mi complimenti per la vostra splendida forma fisica. Anzi” aggiunse con tono affabile “mi piacerebbe sapere come fare a conservarmi altrettanto bene. Se mi permette, qual è il vostro segreto?”

“Il nostro segreto? Beh” disse nonna Sarah sorridendo e puntando lo sguardo istintivamente verso l’esterno della casa “sarà la collezione di biglie colorate del mio adorato nipote!”

Alla mente di Jack, inebriata dall'alcool, quelle parole suonarono confuse, ma il suo sesto senso avrebbe giurato che volessero intendere altro, oltre al significato letterale.

Camera sopra una stalla con vista sui campi.

Una visione quantomeno insolita per un cittadino, sospirò Jack dando un'occhiata fuori dalla finestra del piccolo alloggio al secondo piano in cui quella notte avrebbe riposato.

Il paesaggio naturale illuminato dalla luna offriva diversi spunti ad un'immaginazione assuefatta alla vista del cemento e delle strade.

Le spighe nei campi fluttuavano sospinte dal vento, bisbigliando sommessamente suoni e rumori ai grilli e alle cavallette, un linguaggio universale che misteriosamente solo l'uomo sembrava non riuscire a comprendere.

Che disdetta, pensò Jack, nonostante questa pace non riesco a dormire, sbottò tra sé.

Quindi diede un'occhiata alla moglie e al figlioletto che riposavano beati sotto le coperte di lana fresca.

Fate sogni d'oro tesori miei, io credo che.. contemplerò la luna.

E Jack si vestì in fretta, soffermandosi solo per dare un'occhiata rapida ai cassetti nella stanza antistante la camera da letto.

Riuscissi a trovare qualcosa da leggere o anche un vecchio album di fotografie, forse riuscirei a conciliare il sonno.

Ecco, una foto dei nonni di John, in bianco e nero, in cui sembrano uguali a come sono oggi, beati loro.

Quindi una lavanda profumata, un cappello, un vecchio cofanetto.

Nulla che faccia al caso mio, pensò; quindi, d’un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione.

Da sotto un armadio faceva capolino un lembo ingiallito, un pezzo di un foglio di carta, ripiegato in più parti e sigillato con della cera lacca come fosse stata una busta.

Su di un lato c'era scritto qualcosa di apparentemente incomprensibile, con una calligrafia antica, forse attribuibile agli inizi del secolo scorso.

Jack lo raccolse, soffiò via il velo di polvere e con estrema delicatezza lo aprì, sospinto da un'immane curiosità.

Al suo interno trovò le istruzioni per quello che a prima vista avrebbe definito una sorta di ricettario:

"Elisir di .. Istruzioni.

.. soggetti di carnagione e etnia possibilmente diversa: ispanici, europei, africani, asiatici, caucasici.

Attendere una notte di plenilunio e portare i soggetti presso il campo antistante la cappella votiva.

Riempire un pentolone colmo d'acqua con erbe e frutti dei campi; appiccare un fuoco ed attendere una decina di minuti.

Distendere i soggetti orientandone il volto verso la luna, dopo averli sedati con del cloroformio.

Estrarre con un cucchiaio una biglia.. prestando attenzione ad individuarne esemplari di colore differente.

Aggiungere le biglie al fuoco ed attendere la loro cottura..

Al termine cospargere il tutto con qualche condimento, prima di assaggiare.."

Il foglio terminava con una sigla scarabocchiata, forse una firma.

Jack rilesse più volte da cima a fondo quelle parole, ma non riuscì ad attribuire un significato, un senso a ciò che vi era descritto. Alcune frasi risultavano parzialmente illeggibili, come se l’inchiostro fosse stato bagnato o forse più semplicemente l’usura del tempo avesse rovinato irrimediabilmente il foglio.

Tentò quindi di dare un’interpretazione.

Nel suo immaginario, quanto aveva letto non era un ricettario vero e proprio quanto probabilmente un gioco, una sorta di rituale magico inventato da bambini un centinaio d'anni prima.

Già, gli pareva di poter tornare indietro di un secolo, là dove i cellulari, la televisione ed i videogiochi non erano neanche concepibili come fantasie in un libro.

Probabilmente i figli dei contadini amavano trascorrere il tempo libero raccontando storie di fantasmi all'aperto, al cospetto della luna, seduti intorno ad un fuoco o ad un pentolone .

Per un attimo si immaginò lui stesso bambino, seduto a terra a gambe conserte, vestito di pochi abiti, nei pressi di un camposanto.

Gli amici che ridevano organizzando scherzi e burle al malcapitato cane di turno.

Il vento freddo che sospingeva la cenere del fuoco sulla pelle.

La fame, sensazioni non provate, ma percepibili come se fero parte del suo bagaglio genetico.

Ecco, Jack vide tutto questo chiaramente, mentre scendeva la scale, diretto verso i campi, a contemplare la luna piena.

La luna piena.

Già, come nella lettera.

Una serata ideale per un gioco tra bambini.

Perché allora non dirigersi verso i campi, ad assaporare in prima persona emozioni di un tempo lontano?

Perché non cercare altre tracce di quell'antico gioco?

L'idea penetrò nella mente di Jack, facendosi strada contro la volontà di dormire come un'ossessione, un input da eseguire quanto prima, quasi fosse già stato deciso da molto tempo.

Ma da chi?

Come arti azionati meccanicamente, le gambe iniziarono a guidare il suo o sicure, facendogli seguire un percorso che sembravano conoscere.

La sua eggiata durò alcuni minuti soltanto, per una volta incurante di sporcarsi le calzature tra il fango e le pozzanghere, si trovò in men che non si dica ad osservare il crocifisso sulla cima della chiesa, al chiaror di luna.

Quindi il suo sguardo si spostò sulle lapidi e le croci, dietro la cui sagoma inclinata dalle intemperie poteva scorgere alcuni fiori o pipistrelli.

Dettagli, luoghi e oggetti unici testimoni del trascorrere del tempo, pensò.

Come alcuni rumori, fruscii del vento che gli penetrava sotto le maniche della giacca, fino a gelargli la schiena.

Oppure come delle luci che poco lontano rischiaravano l'orizzonte, all'inizio del camposanto.

Erano forse dei rimasugli, piccoli focolai di sterpaglie accesi dal signor Sam, il padrone di casa.

Sì, sicuramente c’era qualcuno; gli parve di sentire anche delle grida soffocate: probabilmente il vecchio contadino stava ammazzando qualche maiale.

Perché non andare a vedere?

Forse l’uomo avrebbe gradito che in cambio dell’ospitalità Jack gli avesse offerto un paio di braccia forti per bloccare l’animale.

Già, buona idea, pensò. E poi, c’è sempre da imparare qualcosa.

Affrettò quindi il ò; superando il camposanto, si diresse verso il luogo da dove sentiva provenire quelle grida.

Il rumore si faceva sempre più vicino, ma in apparenza non vedeva proprio nulla; di fronte a lui c’era solo un fuocherello, alcune sterpaglie ed una tavola.

Già, un grosso pezzo di legno tagliato grossolanamente si ergeva su due pietre.

La tavola, un paio di panche ai suoi lati.

Il posto ideale dove soffermarsi a pensare, ad attendere che la mente si svuotasse di tutte le tensioni, le scorie accumulate durante la settimana.

Così Jack si sedette a riposare, a contemplare la luna, il cielo scuro sporcato da alcune nuvole.

Che pace, pensò.

Cosa potrebbe turbarmi, in questo luogo lontano dal mondo, dall’angosciante tam tam mediatico dei mass-media?

Quindi, ad un tratto, Jack avvertì un calpestio, un rumore di rami spezzati alle sue spalle.

Si voltò di scatto e dall'oscurità vide avvicinarsi due figure lievemente separate l'una dall'altra.

Il loro incedere era lento, man mano che si palesavano ai suoi occhi, Jack vide distintamente che i due individui trascinavano qualcosa, apparentemente dei grossi sacchi.

Cosa fare?

Istintivamente l'uomo si alzò e si nascose pancia a terra sotto la panca.

Quindi, dopo essere rimasto immobile per alcuni istanti, si soffermò ad ascoltare.

I due individui si fermarono poco distante al fuoco.

Pure da disteso, Jack né poteva scorgere chiaramente le ombre sul terreno, in parte deformate dalle lingue del fuoco, in una visione surreale.

Il più alto, svuotò il contenuto del sacco a fatica e lo adagiò sulla terra fredda, a pochi metri di distanza.

E Jack iniziò ad avvertire uno strano presentimento.

Cosa era stato adagiato per terra?

Pesava molto?

L'altro individuo a sua volta ripeté lo stesso procedimento, svuotando il contenuto del proprio sacco.

Improvvisamente, tutto in quel luogo sembrò fermarsi per alcuni istanti.

Jack sentì solo un rumore metallico, mentre qualcosa veniva adagiato sopra il fuoco.

Quindi, i due individui iniziarono un dialogo con voci sommesse:

"Tienilo fermo, mi raccomando!"

"Già, speriamo che l'effetto dell'anestetico duri almeno una decina di minuti."

"Dove hai riposto le erbe? Posso gettarle nel pentolone?"

"Sì, aspetta, credo si stiano svegliando."

"Colpiscili in testa allora! Svelta!"

A quelle parole Jack rabbrividì.

Cosa stava accadendo?

Tutto per certi versi – o per una suggestione? - gli portava alla mente quanto aveva letto su quel foglio di carta.

Forse quello che aveva letto quindi non era un gioco per bambini?

Ed allora che cosa poteva essere?

Alcune ipotesi gli frullarono per la mente, quindi in un attimo, tutti gli elementi del puzzle sembrarono incastrarsi perfettamente.

Lo strano aspetto giovanile dei nonni di John, l'elisir, i sacchi "pesanti" e il loro contenuto, la pentola.

Tutto lasciava pensare solo ad un macabro scenario.

Forse quei vecchi avevano trovato il modo di sfuggire al degrado del tempo?

Forse avevano venduto l'anima al diavolo in cambio di una formula demoniaca?

A quel pensiero l'adrenalina gli gelò il respiro.

Jack iniziò a scivolare lentamente fuori dalla panca, nel punto meno illuminato dal fuoco.

Quindi si alzò di scatto ed iniziò a correre a perdifiato tra i campi, in direzione della stalla, prestando attenzione a non fare rumore.

Nella sua mente le idee annaspavano confuse; mentre la stanchezza improvvisamente iniziava a stroncargli il fiato, provò ad immaginare come poteva avvenire quel rituale.

Le erbe, la luna piena, i soggetti di etnie diverse, magari reclutati come braccianti nei campi per pochi soldi.

Chissà da quale tempo immemore si ripeteva quella cerimonia e, soprattutto, chi era stato a lasciare quel foglio?

Forse era qualcuno della famiglia che voleva provare a salvare lo sventurato di turno.

Già, può essere, in questa folle storia anche questo avrebbe un senso, pensò Jack, mentre sfinito dalla corsa iniziò a salire precipitosamente le scale della stalla.

Nella sua mente un pensiero ossessivo: Presto, devo fare presto. Devo svegliare Maria e Junior e poi dobbiamo fuggire da questo posto maledetto!

Un solo dubbio continuava a non trovare una soluzione, per quanto si sforzasse a pensare, per quanto fosse certo che la soluzione anche in questo caso fosse a portata di mano: che cos'erano realmente le biglie citate nel rituale?

Il signor Sam attese finché l'ultima brace si spense sul fuoco.

"Hai sentito anche tu qualcosa?"

"Sì, credo fosse il padre di Junior."

"Ah. Che abbia visto tutto?"

"No, non credo, forse ha sentito qualcosa però." rispose nonna Sarah asciugandosi la fronte.

"Era una fortuna che fossero arrivati."

"Già, non capita così spesso una famiglia così multietnica. La moglie è chiaramente di origini spagnole, mentre il figlio, beh, l'hanno adottato in Africa."

"Brave persone credo."

"Sì."

"Pensi che se ne andranno subito?"

"Non so, il sonnifero che gli ho somministrato nel vino potrebbe non avere effetti duraturi o semplicemente sull'uomo potrebbe non bastare."

"Sarebbe un peccato."

"Già, lo sarebbe. Ma non ti preoccupare, la notte è lunga e poi, beh, ci saranno altre occasioni comunque. Ho chiesto a Junior di invitare altri amichetti."

"Bene, buona idea." sospirò nonna Sarah, porgendo una vanga al marito.

Il vecchio Sam si pulì la bocca dopo aver guardato la luna per un istante dal suo occhio buono.

Gli pareva già di sentire nuove forze, un nuovo vigore, che lo riportava indietro agli anni dell’adolescenza.

Solo l'aspetto non poteva ringiovanire ulteriormente.

Quello no, fermo com'era al primo giorno in cui aveva partecipato a quel rituale.

Un giorno che non avrebbe mai dimenticato, e di cui portava ancora il segno visibile sul volto, con in evidenz l’unico errore di interpretazione del cerimoniale che aveva commesso da allora.

Biglia.

Stupida biglia, pensò sistemandosi la benda sulla fronte, ed iniziò a scavare con veemenza la prima buca..

Gli Occhi del Clown

Un’istantanea, un dettaglio. Quante volte vi è capitato guidando (o in auto, in treno, in bus) di cogliere un’immagine, come una sagoma, una figura o una scritta, solo per una frazione di secondo?

Ma non un’immagine qualsiasi: una figura che spicca come un forte contrasto, come lo potrebbero essere un paio di sandali su di una roccia in alta montagna o.. un computer solitario, in bella vista su di una panchina!

Ecco, l’idea che spesso sta dietro ad un racconto nasce proprio da ciò che la nostra immaginazione è in grado di generare non tanto sotto forma di elementi di disturbo, ma quanto come piccoli indizi, da disseminare un po’ ovunque per aiutarci a ricomporre un quadro ben preciso.

Il racconto che segue in fondo è basato proprio su questo: un’idea, una visione proprio lì, dove la nostra mente fa fatica a cogliere il nesso, anche se questo, a ben vedere, c’è.

Eccome.

Sulla neve.

I pneumatici denticolati del suo treno gomme invernale pattinavano come artigli

consunti, unghie mangiucchiate, lasciando che quel suo vecchio furgoncino padronale avanzasse a stento, in realtà slittando il più delle volte, come un bob sospinto da un ragazzino.

Il quadro di sabbia.

Max buttò lo sguardo e la fantasia sulla solita cornice riposta poco sopra il cruscotto, comprata da un negozio cinese sul lungo mare di Riccione, prima che il suo cervello memorizzasse l’input, l’informazione del tutto inattesa.

Un orso. Un gigantesco orso con le zampe conserte sostava seduto sulla panchina, con la schiena inarcata in avanti, sotto il rivestimento della fermata dell’autobus.

Trattavasi di un orso bianco, come tutto il paesaggio del resto. Alberi, case, strade, giardini, insegne, cartelli, automobili parcheggiate. Ogni cosa era ampiamente ricoperta da uno strato biancastro spesso mediamente una trentina di centimetri, lì, lungo la strada che ogni giorno Max puntualmente percorreva per trasportare il consueto carico di bibite, latte, ed altri viveri di prima necessità.

L’orso..

Un’anomalia nel paesaggio di montagna, uno scherzo della mente, un prodotto della fantasia, aveva pensato. Erano due giorni che quasi non dormiva; lavorava anche setti giorni su sette durante le festività di Natale, e nonostante avesse avuto due linee di febbre non poteva permettersi di certo di abbandonare neanche per un giorno il suo giro, pena il correre il rischio che l’incarico fosse affidato a qualcun altro.

Sveglia alle due e ritorno alle sedici, quindici se si trattava di un giro fortunato.

Ma con tutta questa neve in giro sarà difficile che me la cavi in poco tempo.

Ecco, pensò, l’ultima consegna è subito dopo quel dannato bivio.

Lì la strada diventava estremamente sconnessa. Gli scossoni, probabilmente dovuti al manto stradale da rifare, a qualche radice che si era fatta strada tra le crepe nell'asfalto, rendevano l’intero tragitto che conduceva per la piccola frazione di Virti estremamente gibboso ed instabile, mettendo a dura prova gli ammortizzatori del piccolo camioncino, nonché la resistenza del portellone di dietro, fissato solo con una piccola catena annodata, dato che il meccanismo che regolava la serratura era partito da tempo, e Max non aveva avuto l’occasione di ripararlo.

Altri ventimila chilometri e cambio tutto! diceva sempre, salvo poi ritrovarsi come di consueto a fare un cambio d’olio quasi ogni settimana, e a rischiare un incidente in autostrada quando le gomme usurate scoppiavano a turno, incapaci di sostenere il peso di un carico estremamente pesante.

Per non parlare del contachilometri analogico, su cui da tempo una serie di numeri nove era andata a far compagnia al due in cima, come tanti utenti in coda presso uno sportello, ignari del fatto che probabilmente non aprirà mai.

Ecco, fine corsa, anche oggi ce l'ho fatta, bofonchiò tra sé Max, dopo aver percorso il tragitto a venti, forse venticinque km all’ora, inveendo e

bestemmiando tra un sussulto e l’altro, mentre la sua vettura compiva piccoli balzelli, come nel rover spaziale di un vecchio videogioco bidimensionale degli anni ottanta.

“Buongiorno signora Rita.” Esclamò, salutando con la mano la cliente che l’aveva aspettato come di consueto sulla soglia della porta, come fa una nonna col nipotino, con il sacchetto di caramelle in evidenza.

“Buongiorno a te, Max, come è andata caro, hai trovato traffico?”

Max grugnì nervosamente. Avrebbe voluto dire che piuttosto che guidare sulla neve con pneumatici simil-slick avrebbe preferito affrontare una coda di camper od un pullman di linea, subito prima di una fila di tornanti.

“No signora, le strade tutto sommato sono a posto. La viabilità è tranquilla; saranno tutti a spalar neve. Le assicuro che in giro ce n’è da bruciare coppie di panettoni interi in un colpo solo..”

“Veramente Max? Beh allora ci dovrei mandare mio marito a dare una mano, sempre se il tuo ragionamento vale anche per le scorie accumulate durante i natali pregressi..”

La signora Rita sorrise, e Max a sua volta si lasciò andare ad una risata fragorosa.

“Oh certo che vale signora. Vale eccome..” esclamò, e le consegnò un cartone

con un litro di latte, uno stock di sei bottiglie di acqua minerale - perché le tubature erano ghiacciate - e del pane caldo (o quasi).

“Sono otto euro e venti signora.”

“Ecco. Tieni il resto caro Max.” disse sventolando velocemente una banconota da dieci.

Max ringraziò l'anziana cliente con un cenno, quindi fece per risalire sul furgone.

“E' domani che inizi il nuovo giro Max?”

“Già signora, oggi finisco qui, ma da domani continuo fino alla frazione successiva.”

Max non fece a tempo di finire la frase che la cliente non lo stava più ascoltando.

Stava facendo ritorno sui suoi i, in quella casa dove probabilmente il marito – che Max in tante visite non aveva mai visto – si stava fumando una pipa o leggendo un libro, riscaldato dal calore delle braci del loro vecchio camino scoppiettante.

Una visione che percepì in qualche modo persino rilassante.

Forse perché erano le quindici e la giornata lavorativa stava terminando, o forse perché era ciò che aveva in mente di fare per sè e non riusciva mai a portare a termine.

Cosa fosse realmente quella sensazione non avrebbe saputo dire.

Max aveva appena avviato il motore dal parcheggio della frazione pregustando del sano riposo, quando udì quello strano tonfo che quasi lo fece sussultare.

Era la seconda volta quel giorno che aveva avuto una sensazione strana, quasi agghiacciante, per quanto inattesa.

La prima era stata quando aveva sognato – di questo era giunto ad una conclusione ragionevole, quasi certa – di vedere quell’orso seduto sulla panchina, nelle vesti di un turista qualsiasi, che attendeva la navetta di ritorno dagli impianti, ed ora invece..

Gli era sembrato che qualcosa di pesante, di estremamente pesante, fosse saltato giù dal suo furgone..

Ma che cosa?

Max pigiò il freno solo dopo qualche metro, perplesso come se nel traffico avesse udito il sibilo inatteso di un fischio, provenire da una pattuglia di polizia ben appostata. Rimase dunque immobile, ad osservare il cruscotto per qualche secondo, mentre solo la radio ed un inopportuno revival di successi natalizi, non

faceva affiorare il silenzio che stagnava tutto intorno.

C'è nessuno? Il commento gli morì strozzato in gola, non appena affondò il piede a terra e completò il giro dell'abitacolo.

Fu allora che oltre le scia dei pneumatici una visione inspiegabile lo lasciò di sasso, mentre la sagoma della signora Rita era già un ricordo e nella tranquilla frazione di montagna era ripiombato il silenzio tombale della neve appena sedimentata.

Max strabuzzò gli occhi anche più volte, ma alla fine dovette cedere alla prima impressione: quelle che erano impresse davanti ai suoi occhi erano impronte, impronte di un grosso animale..

Bipede?!

L’indomani Max partì al solito presto, dopo aver riposato cinque, forse sei ore ed aver bevuto qualche bicchiere di troppo pur di ottenere il risultato desiderato.

Dormire il pomeriggio, anziché la notte, non era per tutti, pensava. E non era neanche un fattore ereditario, se suo padre riusciva a farlo da una vita, senza aver bisogno di aiutini, più o meno consistenti.

Neve e sole, un connubio destinato a durare poco, osservò esageratamente divertito con la sensazione di testa pesante, mentre alcuni raggi dell'amata stella riscaldavano un cielo ormai prossimo ad annoverare un nuovo inizio d'anno.

Il fondo della strada era sempre biancastro, certo, ma ora il verde sulla cima di qualche albero spiccava qua e la all'orizzonte, ed in fondo sarebbe bastato aggiungere qualche frutto rosso tra i rami per regalare una visione patriottica all'acuto osservatore.

Neve sciolta, gli orsi si risvegliano dal letargo.

L'associazione mentale gli sfuggì direttamente dai meandri del cervello, in modo inconscio, quasi avesse varcato inavvertitamente il confine tra sogno e realtà, mentre il mezzo lo stava per condurre quasi automaticamente in prossimità della fermata dell’autobus.

L'orso sta aspettando te ed.. il tuo servizio direttamente a domicilio! La questione é semplice.. Ha finito la riserva di viveri!

Pensò quasi del tutto stralunato, tanto che gli venne spontaneo tentare di darsi una risposta:

Ma cerca proprio me, oppure si accontenterà delle bibite gassate e del pane o del pesce che conservo nella cella frigorifera?

Una questione improbabile che per un attimo quasi lo fece sorridere, ma il divertimento durò poco, il tempo di are davanti alla piazzola di sosta e memorizzare un nuovo input.

La strada era di nuovo semi-deserta, il sole sbucava sornione tra le nuvole, ed un camion spargisale proveniente dalla direzione opposta aveva appena sollevato un sassolino, facendolo rimbalzare sul suo parabrezza, forse scheggiandolo, quando Max scorse la sagoma quasi nello stesso punto del giorno precedente.

Un enorme figura, un gigantesco clown se ne stava solo soletto, apparentemente ad attendere l'autobus di linea.

Un CLOWN.

Max trasalì, perché in un attimo pensò che quella visione fosse frutto dell'ennesimo scherzo del subconscio che ora gli rievocava immagini e paure di un bimbo che non era mai riuscito ad intravedere nulla di divertente in quello che reputava solo un inquietante travestimento, adatto perlopiù a far da comparsa nella stanza di bambole di porcellana della sceneggiatura di un film horror.

L'orso aveva fame, ma il clown di più. Se guardavi bene avresti notato ancora qualche ciuffo bianco svolazzare qui e la, attorno alla panca.

Lo strano pensiero lo gelò più dell'effettiva irrazionalità della scena a cui aveva o, a questo punto, credeva, di aver assistito.

Così giunse al bivio con il cuore in gola, perché la sola idea di dover ora rallentare bruscamente l'andatura del mezzo in qualche modo lo inorridivva.

Il circo, forse é in città, e non ho visto i cartelli, ricoperti dalla neve. E quella

era sicuramente proprio la sagoma nella foto di un cartello. Un grande cartello. Pensò che questa era l'unica spiegazione logica possibile, mentre percorreva la strada ed i suoi dossi con lo sguardo fisso davanti, e la coda degli occhi sullo specchietto retrovisore, aspettandosi in un qualche modo irrazionale un sussulto, un barlume di luce provenire dal portellone posteriore.

Clank.

Toc, toc.

“Buongiorno a te caro ragazzo.” La voce della signora Rita giunse invece come un'interruzione puntuale e dannatamente spettrale allo stesso tempo.

Max non si era neppure reso conto di aver parcheggiato il furgone già da alcuni minuti, con un gesto automatico, quando con lo sguardo ora sbarrato come uno dei suoi pesci nel congelatore, fissava completamente inespressivo un angolo del parabrezza.

“Tutto bene Max? Sei al telefono? Ti ho disturbato?”

“Non si preoccupi signora..” Disse con l'espressione pallida di chi aveva appena assistito al materializzarsi di uno dei suoi peggiori incubi.

“So che può sembrare difficile da comprendere nel posto in cui mi trovo”, esclamò, “ma credo (SPERO) di aver fatto solamente un brutto SOGNO..”

Il sogno.

Max non aveva saputo trovare una spiegazione più convincente.

E d’altronde la signora Rita non aveva fatto una piega, insistendo solamente perché Max assaggiasse una fetta di dolce che aveva cucinato per il marito. Un’offerta a cui Max non aveva saputo dir di no, non rifiutando neppure l'offerta di un caffè ristretto. Ed era bastato sentirne solo l'aroma perché improvvisamente i suoi sensi si rianimassero, ed un insperato senso di euforia si diffondesse in tutto il suo corpo.

Durerà poco, pensò istintivamente, rielaborando una scena già vista. Ma quanto sarebbe bastato per terminare il giro ed arrivare finalmente a casa.

"Ti riempio il thermos, ti va Max?"

Anche a quella richiesta Max non aveva saputo obiettare, sebbene fosse consapevole che all'euforia iniziale avrebbero potuto sopraggiungere in un attimo ansia, fibrillazione, nervosismo, ed il suo umore avrebbe potuto prendere una strana e a volte persino incontrollabile piega. Come quella volta che, quasi in preda ad un delirio animalesco, era saltato addosso, a fine turno, all'imbranato conducente di un SUV che gli rallentava l'uscita dal parcheggio.

"Gr.. grazie, basta solo un goccio.." rispose, e la signora Rita annuì sorridendo, ma come ogni buona donna vecchio stampo non frenò la dose, tanto che la bevanda scura scivolò lungo la superficie argentata quasi fosse un pozzo senza fondo, ed il suo aroma si diffuse tutto intorno, riempiendo gli spazi con l'entropia di un gas.

In pochi minuti Max avvertì un'innaturale ed incontrollabile risveglio fisico ed ormonale.

Ora persino la strada gli appariva tutta in discesa, confortato dal fatto che solo un incarico lo separava dalla chiusura della giornata.

Run baby run, la voce di Cheril Crow suonava inaspettatamente opportuna, mentre il tiepido sole riscaldava l'aria tutto intorno, e qua e la qualche pozza d'acqua faceva già capolino dove gli strati di neve erano più sottili.

Un solo cliente, pensò Max, a cui sarebbe bastato alzare di poco lo sguardo specchiandosi sul retrovisore, per accorgersi di come il suo stato fisico fosse pericolosamente alterato. In particolare i suoi occhi.. prima vitrei, inespressivi, ora sembravano assetati di una strana bramosia, quasi animalesca. Tanto che persino i suoi.. incubi più recenti, l'orso ed il clown, gli apparivano ora due come ricordi apparentemente lontani.

Stato confusionale.. Alterazione fisica..

Fu proprio quando nel suo corpo avvertì il principio di un profondo sconvolgimento, che affrontò l'ennesima visione sfuggente di quei giorni, quella di Anna.

Anna Pavidelli.

Un nome che lo riportava in un attimo ai tempi della scuola, del liceo, a quando era un ragazzino brufoloso che arrossiva e quasi abbassava lo sguardo quando la bella della classe gli ava a fianco.

"Ciao.. Anna." era solito bofonchiare timidamente, con una voce sommessa che raramente raggiungeva un tono udibile.

Ma Anna non rispondeva; tirava dritto con l'espressione eloquente di chi lo considerava invisibile, per non dire insignificante.

"Max.. Max, il timidone, sei proprio tu?"

Max sentì il cuore balzargli in gola quando la donna lo fissò sul finestrino con l'espressione perplessa di chi aveva appena riesumato il pensiero di qualcosa che apparteneva ad un tempo lontano.

"Sì.. sono io.", esclamò tergiversando, "Come.. va? Che ci fai qui, tutta sola soletta.. a percorrere queste strade di montagna.. lo sai che il sole sta per calare ed il ghiaccio renderà presto tutto estremamente scivoloso?"

Max quasi si meravigliò di se stesso per la fluidità del ragionamento, la sicurezza ostentata, come se d'improvviso avesse vinto una paura primordiale, la timidezza.

"Oh.. è complesso da spiegare.. vedi, aspettavo.. Fuzzy. Lo attendevo a casa più di un'ora fa, ma non si é fatto ancora vivo, e ora sono in ansia per lui, tanto che

sono uscita a cercarlo."

"Fuzzy?" Max ripeté incerto quel nome un paio di volte, mentre il frastuono proveniente dal vecchio ed usurato motore del furgoncino sovrastava quasi ogni parola, e quel dialogo non sembrava prendere la piega che ora avrebbe desiderato.

"Devi scusarmi." le disse, "Ma questi cilindri, i pistoni e le valvole fanno un chiasso infernale e non sento nulla. D'altronde però non me la sento di spegnerlo.. Con questo freddo non so neppure se ripartirebbe.." Max continuò a gesticolare e a parlare ad alta voce, mentre lo sguardo della conoscente appariva assente e confuso, come quello di chi ha smarrito un'animale caro. Un cane?

"Sì, capisco. Vedi il fatto é che Fuzzy non tarda quasi mai quando si assenta. Non vorrei gli fosse successo qualcosa." esclamò ancora fissando pensierosa la strada: un viale alberato in salita, con in evidenza steccati ricoperti da neve, e recinti che cingevano i giardini ghiacciati di case vacanza ora disabitate.

Un vero e proprio deserto nella neve, pensò Max.

Qui nessuno potrebbe accorgersi se accadesse qualcosa, neppure se..

"Senti perché non salti su, che ho quasi finito il giro e ti posso dare una mano a cercare il tuo Fuzzy?" esclamò mentre un'idea, un proposito malsano iniziava a balenargli per la mente.

"Aiutarmi a cercare Fuzzy?!"

Le parole di Anna giunsero in realtà nuovamente confuse, tanto che Max per un attimo fece il gesto istintivo di sporgere l'orecchio, ma un sussulto, una sorta di scossone d'assestamento proveniente dal fondo del furgone lo bloccò di colpo.

"Sì, dai, forza!" fece cenno con la mano.

Per tutta risposta Anna scrutò da cima a fondo il furgoncino ed il suo abitacolo, prima che il suo sguardo si illuminasse improvvisamente e che le sue parole risuonassero in qualche modo.. sibilline:

"Va bene. Ti ringrazio Max. E anche Fuzzy ne sono certa, te ne sarà in qualche modo grato.."

Fuzzy mi sarà grato..

Max continuò a ripetere mentalmente quella frase più volte, quasi a voler fissare un concetto, mentre tra i suoi pensieri la confusione aumentava, ed uno strano senso di annebbiamento andava a cozzare con la ritrovata vigoria fisica.

E poi c’era Anna.

Ora che stava seduta al suo fianco non poteva fare a meno che provare uno strano mix di emozioni: ammirazione, nostalgia per i tempi andati, attrazione,

ma anche odio, astio, persino vendetta.

Era sempre bella. Anzi bellissima, ed in un certo qual modo era come se racchiudesse al suo interno il concentrato della vita di Max: rappresentava tutto ciò per cui avrebbe potuto lottare, battersi e che invece non aveva mai avuto il CORAGGIO di cercare.

“Dove pensi di trovare il mio Fuzzy?” domandò una volta che il furgoncino era di nuovo in strada, mentre il tubo di scappamento iniziava a scoppiettare, come se il mezzo non riuscisse ora a condurre un carico divenuto improvvisamente pesante.

“Il tuo Fuzzy..? Boh.” Esclamò guardandosi intorno, “potrebbe aver preso la direzione del lago.. magari aveva sete.” Le rispose. E con il furgone svoltò per una strada che scendeva proprio verso la grande pozza d’acqua artificiale, un laghetto che d’estate era ricolmo di trote, libellule e canneti, e che ora invece veniva saltuariamente utilizzato come pista di pattinaggio dai bimbi più piccoli, quando la coltre di ghiaccio si ispessiva creando una patina opaca.

“Il lago.. no, non credo che il mio Fuzzy avrebbe potuto percorrere tutta quella strada e soprattutto non credo avrebbe potuto farlo così conciato..” Le perplessità di Anna in realtà non furono ascoltate, come un elemento di disturbo, indesiderato e tagliato dalla scena.

Max si limitò a proseguire oltre, pigiando sull’acceleratore, nonostante il velo di fumo nero che ora proveniva dal cofano, perché era un altro il copione che si era prefissato.

“Max? Mi ascolti con questo chiasso? Dicevo che non credo Fuzzy sia andato al lago..” esclamò ancora, ma il furgone sussultò su di una buca compiendo un balzello di quasi mezzo metro, e dal retro giunse prima un rumore, simile ad un colpo, un tonfo, quindi un altro suono, del tutto assimilabile ad un lamento.

“Uhm? Cosa è stato?! Hai.. sentito anche tu?” esclamò improvvisamente Max, quasi fosse stato svegliato di soprassalto.

“Sì, l’ho sentito. Puoi fermarti a controllare? Magari è stato.. FUZZY.” Rispose Anna.

E Max a quelle parole si voltò, e strabuzzò gli occhi più volte, quasi a volersi destare, perché la risposta e la voce candida della donna, se da un lato continuavano a solleticargli le fantasie più sporche, dall’altro ora avevano un non so che di inquietante.

“Non.. capisco.” Rispose quasi bofonchiando. “Non capisco cosa intendi dire. Ad ogni modo fidati di me che siamo quasi giunti a destinazione.” Esclamò prendendo tempo, mentre la strada ora si apriva: non c’era quasi più traccia del bosco, e mancavano solo un centinaio di metri per giungere in prossimità del parcheggio del lago, ora deserto e ricoperto da uno strato di neve pressoché intatto, a parte per le impronte lasciate da qualche animale.

Un paesaggio deserto, che ben si prestava a quanto aveva in mente.

“Fermati ti ho detto. Potrebbe essere stato Fuzzy. Fermati..” le parole della donna questa volta giunsero distintamente perché terminato il tratto gibboso, gli ammortizzatori smisero di pigolare, così come il carico cessò di rimbombare

all'interno dell'abitacolo.

Improvvisamente calò il silenzio, solo il motore continuò a vibrare per qualche metro, fintanto che Max scorse anche il tronco dell'ultimo albero lungo i bordi della strada: sulla sua corteccia sporgeva un'enorme escrescenza rotonda che ricordava tanto un bubbone ricolmo. Come quelli che da ragazzino gli avevano sempre impedito di fare breccia nel cuore delle ragazze.

Il tempo di argli oltre, quasi con una sorta di acredine e disgusto, che Max spense il motore e..

E si ritrovò a tu per tu con Anna, nella solitudine di un parcheggio di montagna, quando tutti i turisti erano intenti a sciare e l'unico contatto con il mondo esterno era il suo furgoncino.

"Eccoci arrivati." esclamò e prontamente si girò verso la donna, sorridendo nel modo più languido che conoscesse.

Anna dal canto suo non tradì alcun tipo di preoccupazione per come la situazione stava evolvendo.

"Bene. Scendiamo allora e cerchiamo Fuzzy, anche se, se fossi in te, controllerei prima dietro.." esclamò, ma Max nuovamente non l'ascoltò.

Il tono insistente e monotono della conversazione sortirono semmai l'effetto di innervosirlo ulteriormente, tanto che sorseggiò ancora quel caffè (probabilmente

corretto pensò poi) nel thermos, fino all'ultima goccia.

L'effetto che ne seguì fu l'aumentare all'impazzata del suo battito cardiaco, ora in preda ad una vera e propria fibrillazione.

"Adesso non scenderemo. Ne cercheremo il tuo diavolo di un Fuzzy, Anna! Ora tu mi darai ciò che mi spettava già allora.." ed iniziò ad inveire, allungando le mani fronte a sé, fino a toccare con un braccio una gamba della donna e a far scattar con l'altro il meccanismo che regolava la serratura interna dell'abitacolo.

"Ma cosa stai facendo?! FUZZY è qua fuori.. con me è buono ma tu non farlo arrabbiare o te la farà pagare cara.." lo minacciò, ma Max non volle sentire.

Allungò anche l'altra mano sul busto della donna, e da quel momento non capì più nulla.

Il furgone ebbe un altro sobbalzo, quindi due, tre scossoni, che Max pensò fossero prodotti dal suo goffo spostarsi sul lato del eggero, dove ormai aveva braccato la donna.

"Fuzzy.. Te la farà pagare, vedrai!" rise Anna, con un ghigno isterico che sembrava non promettere nulla di diverso da quanto asseriva.

"Smettila, stai zitta! ti conviene essere carina con me!" sbraitò in preda all'alterazione.

Nel frattempo un ennesimo colpo era partito dal vano posteriore del furgone, e qualcosa era caduto a terra producendo piccoli tonfi metallici, preceduti dal tintinnio di piccoli anelli.

Max fece appena a tempo a fare scivolare la mano sotto il maglione di Anna quando il vetro alle sue spalle andò in frantumi.

"Fuzzy! Finalmente sei arrivato!" esclamò la donna, ma Max neppure allora si voltò.

"Non ci casco, basta con questi trucchetti!" disse completamente fuori di sé, ma il guanto bianco lo cinse prima al collo poi..

Lo estrasse bruscamente dall’abitacolo, risucchiandolo come un aspirapolvere.

Nel aggio il suo busto scivolò lungo i resti di vetro, come forse anche il suo volto, ma il contatto non produsse alcun dolore immediato. Piccoli cristalli di ghiaccio erano ora sul suo viso, sui suoi occhi, mentre si trovava riverso, faccia a terra nella neve umida e fredda. Qualsiasi senso di bruciore non poteva ormai essere che anestetizzato, mentre nel suo corpo si alternavano ora un mix di emozioni come adrenalina, brividi di freddo e paura. Tanta paura.

“Cosa diavolo è stato..” Non fece tempo a terminare la frase, che si girò col volto sul lato destro, aprendo solo un occhio verso il cielo, ed allora il suo cervello memorizzò una nuova istantanea.

Un clown, un gigantesco clown lo osservava immobile, braccia conserte ad un metro di distanza, con in mano un oggetto, proteso in avanti come un’arma.

Un pesce. Un enorme pesce ghiacciato, il più grande che avesse nel suo congelatore, con cui evidentemente aveva appena sfondato il vetro della sua portiera.

Ma non era questo l’aspetto in se più assurdo e terrorizzante allo stesso tempo. C’era qualcosa nell’aspetto del clown che lo rendeva dannatamente inquietante oltre alla maestosità della sua figura: era il suo sguardo, i suoi occhi in particolare, sottili e apparentemente privi di iride, apparivano come due orrende fessure bianco-rosate. Mentre il trucco, disposto tutto attorno, era di un rosso intenso in cima che terminava in lingue di fuoco raccapriccianti, come rivoli di sangue che scendevano giù fino al collo. il tutto sfociava in una visione complessiva del suo viso che annichiliva lo sguardo dell'osservatore, come se quello non fosse un clown qualsiasi, ma un clown cattivo, mandato lì apposta dal suo subconscio (o dalla sua coscienza pensò poi), pronto a punirlo per il suo tentativo di crimine efferato presentandogli l'incarnazione del suo peggiore incubo.

E’ il clown del diavolo, pensò tremando per un attimo Max, mentre la figura sembrava fissarlo incuriosita e sicura di sé allo stesso tempo, dall’alto dei suoi due metri abbondanti.

Quindi il tempo di elaborare quell’idea e di dare un’occhiata al pavimento, che Max vide realizzarsi un altro dettaglio del suo incubo.

Quando se ne accorse, iniziò a scalciare nervosamente a terra, sollevando un mucchio di neve fresca tutto intorno, tanto che probabilmente – pensò poi – il clown non dovette riuscire a vedere nulla per qualche istante.

Un gesto goffo, ma efficace, perché dopo pochi secondi Max era già lontano dal suo furgoncino che correva maldestramente e gridava a squarciagola frasi sconnesse:

“La neve si scioglie! Gli orsi han finito il letargo! Ed il clown.. quel dannatissimo clown.. ERA TUTTO VERO.. NON SOGNAVO! I ciuffi di pelo, li ho visti coi miei occhi..

Erano tutti intorno!!”

Anna abbracciò di slancio il suo Fuzzy, mentre Max faticava a guadagnare metri, inciampando nella neve fresca.

“Devo inseguirlo?” esclamò Fuzzy, mentre l'ennesima goccia d'acqua proveniente da un albero scivolava prima sui suoi capelli rossi quindi sulla fronte.

“No amore. Lascia stare, la lezione che gli hai dato gli è bastata. Vedrai non si comporterà più così.” Rispose lei, prima di baciarlo apionatamente.

Gerard, in arte Fuzzy, meglio conosciuto al circo come l’uomo orso o il clown alto ma privo di trampoli, osservò a lungo quella figura, fintanto che divenne un puntino lontano all’orizzonte, che poi sparì dietro una curva di alberi.

Max. Solo quel nome sapeva di lui in realtà..

E pensare che per qualche tempo gli era stato in qualche modo persino grato.

Erano due giorni che gli rubava un aggio, di ritorno al circo, ora che le navette da e verso la città, partivano quasi sempre sovraffollate da turisti e non si fermavano neppure.

Due giorni, che lo attendeva come si fa con un autobus di linea.

Prima o poi - aveva addirittura pensato - avrebbe tentato di rendergli in qualche modo il favore, e invece..

Non gli avrebbe fatto del male quel pomeriggio, almeno se non ce ne fosse stata la necessità, di questo ne era certo.

Lui era il clown buono per definizione, tranne quando gli si scioglieva il trucco agli occhi.

Lo strato più superficiale sarebbe stato il primo a dissolversi.

Era una sensazione oltremodo fastidiosa, in quanto doveva sforzarsi nel tenerli aperti, mantenendo il più delle volte solo uno spiraglio, mentre il rosso vermiglio sarebbe presto sceso giù, lungo il suo volto.

Allora le palpebre socchiuse sarebbero quasi per incanto divenute bianche, pallide del candore della neve, ed il resto del volto avrebbe iniziato progressivamente a sporcarsi, di un color rosso intenso.

Un effetto raccapricciante perché in continuo divenire: vere e proprie lacrime di sangue che sarebbero colate giù, senza sosta, fino a fargli assumere nel complesso un aspetto dannatamente inquietante, quasi demoniaco..

Alter-Ego

Il ritratto ovale di E.A. Poe. Il ritratto di Dorian Gray.

Sono solo un paio di racconti accumunati da un tema che da sempre stuzzica la fantasia di uno scrittore noir: il ritratto.

Che il motivo sia da ricercare nell’espressività della raffigurazione, nel magnetismo del soggetto, piuttosto che nel mistero celato in fondo alla rappresentazione, molto spesso metafora, riassunto di vita di individui di cui all’epoca non rimaneva altro che raccontasse la loro storia (che poteva essere innanzitutto normale), non saprei dire.

Ciò che invece so per certo è che quello che segue è uno dei primi racconti che scrissi, quando avevo appena scoperto che il ricercare “il thriller nel gotico” è forse ciò che mi affascina di più.

Sublime, questo era il senso che Anthony provava ogni qualvolta osservava l’accuratezza con cui erano stati riprodotti i lineamenti del suo viso, le curvature dei suoi muscoli, le increspature dell’abito da sera, il colore degli occhi, la forma ondulata dei capelli.

In altre parole una perfetta espressione del bello.

Già, quando Anthony si soffermava a pensare che cosa, quali altre emozioni quel quadro suscitasse in lui, pensava ad una sensazione descrivibile come il frutto della migliore espressione dell’arte; un’arte che faceva trasparire agli occhi di chi la vedeva una sensazione di vita e una tal perfezione in quella verosimiglianza, che forse pochi osservatori si sarebbero stupiti, se l’Anthony nel quadro si fosse animato improvvisamente.

Il quadro.

Anthony lo aveva commissionato all’amico Brian, un giovane a lui coetaneo con la stessa ione del padre per la pittura. I due si conoscevano da quando erano ragazzini ed Anthony aveva potuto osservare da vicino la crescita artistica dell’amico; Brian era divenuto un pittore esperto nel ritrarre soggetti noti: a lui si erano rivolti reali, politici, sportivi ed artisti musicali di fama mondiale.

Per il ritratto di Anthony ci volle quasi un anno di lavorazione. Lo studio dove lavorava abitualmente, all’interno dell’abitazione dove risiedeva, era il luogo dove quasi ogni giorno dedicavano assieme almeno un paio d’ore per la realizzazione dell’opera.

Brian lavorava meticolosamente. La sua peculiarità era riuscire ad imprimere una personalità ai soggetti che dipingeva, cercando di far risaltare un tratto somatico, un aspetto del carattere; questo chiaramente era possibile laddove era a conoscenza del carattere della persona. Per questo motivo spesso si faceva consigliare da amici e parenti del soggetto. Tranne nel caso di Anthony.

Già, dell’amico ben conosceva pregi e difetti. Anthony era una persona mite, gentile, quasi del tutto incapace di fare del male al prossimo, aspetti di un carattere che lo rendevano incline a subire prevaricazioni, nel lavoro, così come nella sfera affettiva.

Brian fu a lungo indeciso su che tipo di personalità imprimere al ritratto di Anthony e alla fine volle stupirlo, quasi per dare una scossa alla sua esistenza: il risultato fu tale che il ritratto era sì perfetto, ma si sarebbe potuto dire che quello dipinto non fosse Anthony, bensì il fratello gemello del giovane; infatti, dal volto e dalla postura del corpo, traspariva una sicurezza, un’arroganza e una determinazione che contrastavano non poco con il suo carattere mite.

Una volta terminata l’opera Brian rifletté a lungo se consegnarla o meno all’amico. Volle infatti che la vedesse e che giudicasse in prima persona se accettarla o meno. Anthony, a sorpresa, fu così entusiasta del risultato che lo portò via subito, senza esitare.

Lo appese nel suo salotto, in bella vista tra i dipinti raffiguranti antenati e alcune foto d’epoca.

Lì, ne era certo, avrebbe attratto ogni sguardo, spiccando tra gli altri e dando maggior lustro alla casa stessa.

2

La vita tranquilla di Anthony fu scossa da un triste evento, la morte dello zio, fratello del padre e unica persona della famiglia con cui avesse un rapporto frequente. I genitori infatti erano a loro volta scomparsi da tempo e, nonostante avesse un lavoro e fosse in grado di badare a sé stesso, quella figura familiare era divenuta in breve un punto di riferimento a tutti gli effetti.

Dopo il funerale dello zio, Anthony si recò quindi dal notaio scosso nell’animo e profondamente turbato, per la triste, ma doverosa, lettura delle disposizioni testamentarie. Con sua sorpresa, all’incontro dal notaio incontrò anche una donna che Anthony non faticò a riconoscere, nonostante la sua conoscenza risalisse a tempo addietro. Si trattava di una ex-compagna dello zio, con il quale questi aveva convissuto per alcuni anni, tre, forse quattro, finché si erano lasciati.

Lo zio aveva sofferto a lungo per quella separazione, dovuta ad un altro uomo, con il quale la donna aveva intrapreso un nuovo rapporto di convivenza.

Anthony si soffermò per un attimo a ricordare tutti quei dettagli, immagini di un ato non più recente che gli erano rimasti impressi nei ricordi stranamente, come fossero parte integrante del suo trascorso personale, in una sorta di sofferenza empatica.

Il tutto durò alcuni minuti, durante i quali sentì nascere un sentimento di sofferenza, o forse più precisamente di fastidio per quella presenza.

Poi, quando il notaio si presentò puntuale ai due, tutta la sua attenzione si rivolse immediatamente altrove:

“Il signor Alfred ha trascritto di suo pugno le sue ultima volontà; ora come era suo volere le leggerò a voi due qui presenti, che siete le uniche persone da lui citate in questo documento in mio possesso”

Il notaio si soffermò a guardare gli eredi per un attimo, lasciandosi scivolare gli occhiali, quindi iniziò a leggere lentamente e con tono di voce chiaro:

“Io Alfred Smith, nel pieno delle mie facoltà mentali, lascio qui di seguito indicate le mie ultime volontà. Dato che non mi sono mai sposato e che non ho figli, almeno che io sappia, intendo consegnare tutto ciò che è in mio possesso alle uniche due persone che in vita hanno saputo starmi vicino nei momenti di difficoltà. Lascio pertanto a mio nipote Anthony la somma depositata nel conto di cui sono intestatario presso la banca centrale … segue indirizzo e coordinate. Alla signora Anna Anderson lascio invece la casa di cui sono proprietario, ivi compreso il mobilio … anche qui segue indirizzo.

In fede Alfred Smith”

“Il documento termina con i vostri recapiti” aggiunse il notaio per poi riporre il documento nella busta da cui l’aveva estratto. “Ecco signori questo è quanto, un documento stringato ma molto chiaro, no? Non credo ci potranno essere fraintendimenti”

I due annuirono ed non aggiunsero commenti.

In cuor suo però Anthony rimase più che sorpreso dalle decisioni dello zio, quasi scosso, turbato; scorse inoltre un’espressione chiaramente soddisfatta nel volto della signora Anderson, un sorriso così beffardo che per un attimo lo sfiorò, istillandogli, seppur con un margine di incertezza, il dubbio che fosse rivolto a lui.

Ad ogni modo Anthony non cedette alla provocazione; dissimulando il fastidio provato per quell'atteggiamento irriverente, rimase calmo, salutò il notaio, la signora Anderson e si recò a casa.

3

Una volta entrato nell’androne della sua abitazione, Anthony fissò per qualche minuto i quadri, soffermandosi più volte, quasi distrattamente, sul suo ritratto.

Un’idea fissa lo tormentava? Perché lo zio aveva lasciato la casa a quella donna e non a lui? Perché si era dimostrato generoso con una persona che lo aveva fatto soffrire?

Forse aveva ragione Brian, nella vita capita spesso alle persone di indole generosa di ricevere rimpianti e delusioni. Un’altra persona al mio posto avrebbe tirato fuori gli attributi! Avrebbe impugnato il testamento e dimostrato che non aveva alcun valore, contestando il fatto più probabile, che quella donna è stata lei stessa, in qualche modo, a fargli scrivere quelle cose, approfittando dello stato di salute dello zio. Probabilmente si è recata a trovarlo di recente, facendogli intendere di lasciar aperto uno spiraglio per una riappacificazione, giusto per mettere le mani sulla sua casa.

Già, le cose saranno andate certamente così! Maledizione! Anna Anderson, le persone come te dovrebbero ricevere una sonora lezione di vita!

Mentre quei pensieri gli frullavano nervosamente per la testa, il volto di Anthony assunse un’innaturale colore rosso vivo lungo le gote e le vene sul suo collo si gonfiarono pericolosamente, mettendosi in evidenza come il gozzo di una rana.

Se solo inoltre avesse aperto la bocca, si sarebbe accorto di come stesse

schiumando di rabbia.

Eppure, provava così raramente quei sentimenti, che sentiva il bisogno, una necessità quasi impellente, di lasciarli andare liberamente, e di potersi sfogare così, senza porre freni alla mente.

Erano idee, pensieri che avrebbe definito certamente negativi, ma in qualche modo affidabili perché frutto della sua esperienza diretta.

E' una sorta di sesto senso pensò, pienamente convinto di sé, fissando il ritratto: già, ma perché non posso avere la grinta, la cattiveria, la determinazione con cui mi ha dipinto Brian?

A quel pensiero Anthony si sentì raggiungere il culmine, l’apice di quel processo invettivo, quindi, d'un tratto, come se si fosse spento il fuoco in quel suo ribollire iroso, iniziò a pensare ad altro.

Già, la giornata era stata lunga e pesante in molti aspetti.

Una notte riposante l’avrebbe ricondotto sui giusti binari.

Con questi propositi in mente si diresse verso la stanza da letto e si coricò.

4

Anthony iniziò a dormire profondamente, ando per una fase di dormiveglia molto veloce in cui immagini ed emozioni della giornata appena trascorsa si sovrapposero confusamente, in un cocktail adrenalinico, che si tradusse in un sonno disturbato e leggero, a tal punto che si destò dopo solo un paio d'ore, in seguito ad un rumore secco e forte, simile ad un tonfo improvviso, come quello di una porta che sbatte, o di un libro che cade da uno scaffale.

Anthony si alzò dal letto e notò che fuori pioveva copiosamente. Quasi del tutto intorpidito dal sonno percorse le scale verso il primo piano e vide dell’acqua sui gradini; probabilmente il soffitto perde pensò. Fece attenzione pertanto a non scivolare e si recò nell’androne da cui aveva sentito provenire i rumori.

L’acqua era giunta anche in quella stanza, ma a parte una finestra socchiusa, che probabilmente era la causa dei rumori che sentiva, non c’era altro che fosse apparentemente fuori posto.

Apparentemente.

Anthony chiuse la finestra cercando di ricordare quando l’avesse aperta; ripose sommariamente alcune pezze sul pavimento, per asciugare l’acqua, e si diresse nuovamente al piano superiore, verso la sua camera da letto.

Ormai vigile, notò una chiazza bagnata anche in prossimità del suo letto, ma non in altri punti della stanza.

Infiltrazioni?

Già, era l’ipotesi più plausibile anche se non avrebbe saputo spiegare a cosa fossero dovute. Decise quindi che l’indomani avrebbe chiamato il costruttore dell’edificio, affinché intervenisse il prima possibile.

Quindi riprese a dormire con fatica, in quanto il rumore incessante ed allo stesso tempo discontinuo della pioggia produceva un ticchettio ritmico fastidioso, simile per alcuni aspetti, per quanto quel pensiero gli sembrasse assurdo e frutto solamente di una fantasia fervida, ad un frenetico battere delle nocche delle dita di una mano sul vetro.

5

Al mattino seguente Anthony tornò nei punti dove aveva riscontrato le infiltrazioni e constatò che fortunatamente la situazione era rimasta come l’aveva lasciata al momento di tornare a dormire, questo nonostante l’enorme quantità di pioggia che si era riversata sulla zona dove abitava, durante quella notte. Ad ogni buon conto chiamò il costruttore e questi si riservò di mandare un tecnico ad ispezionare le perdite.

Il signor William arrivò verso fine mattina ed iniziò a controllare i punti indicati da Anthony, in cui aveva riscontrato le probabili infiltrazioni. William analizzò la casa per un’ora circa utilizzando delle scale per salire sul tetto. Poi emise il suo responso insindacabile:

“Signore, per quanto mi riguarda la casa è interamente a posto; non mi risulta che ci siano infiltrazioni sul tetto né sui pavimenti o lungo le pareti verticali. E’ sicuro di non aver avuto qualche visita ieri sera? Mi spiego meglio: se lei ha lasciato inavvertitamente una finestra aperta durante il temporale, potrebbe essere entrato qualche uccello od un pipistrello a cercare riparo. Di conseguenza, se questi si fosse appoggiato col suo corpo fradicio per terra o avesse provato a volare all'interno della sua abitazione, potrebbe chiaramente aver bagnato le scale e le stanze"

Anthony pensò un attimo alla bontà di quel ragionamento, che metteva in luce una possibilità a cui non aveva pensato, quindi rispose all'uomo:

"Effettivamente ieri notte, quando sono sceso perché ho sentito dei rumori, mi sono accorto di aver lasciato una finestra aperta in salotto. Potrebbe essere

quindi che qualche volatile abbia girato per la casa con le conseguenze che abbiamo visto entrambi"

Il signor William, appurato che non ci fosse altro da fare, si congedò frettolosamente:

"Bene signore, il mio lavoro è terminato. Le manderò domani la parcella perché adesso ho un'urgenza che mi attende. La saluto”

Una volta solo, emozioni alterne si contrastarono nella mente del giovane Anthony.

Già, se da un lato aveva evitato ulteriori interventi costosi ed inutili perdite di tempo, dall'altro si faceva strada la consapevolezza che avrebbe potuto evitare la chiamata del tecnico.

Inoltre, riflettendo su tutti gli aspetti, sulla dinamica di come si potessero essere svolti i fatti secondo quella ricostruzione, un particolare proprio non quadrava.

Già, anche ammettendo che un volatile fosse entrato in casa, magari ferito o morto, questi avrebbe sporcato sicuramente, lasciando escrementi sull’arredamento. Anthony iniziò pertanto a cercare tracce dell'animale in tutta la casa. Cercò al primo piano, dietro i divani, sotto i tavoli, poi al secondo piano dove aveva trovato tracce d'acqua, ma niente, non c'era traccia di uccelli o pipistrelli, né tantomeno del loro corpo o di loro escrementi.

Anthony rimase perplesso, quindi alla fine trasse la conclusione che gli pareva più ovvia: il volatile, come è riuscito ad entrare, così è stato anche in grado di tornare alla finestra, per uscire di casa.

Un’idea plausibile, pensò prima di tornare a sedere in salotto, ma, d’altro canto, è anche vero che poteva non avere molto senso abbandonare un posto caldo e asciutto. Quindi come saranno andate realmente le cose?

Quel quesito, quell’interrogativo a cui non aveva saputo dare una risposta certa, lo accompagnò per qualche minuto.

Quindi Anthony provò a rilassarsi, ad allentare la tensione accumulata leggendo un libro.

Tensione.

Già, o più precisamente uno strano senso di oppressione, di pesantezza, che provava da alcune ore, nonostante avesse cercato più volte di arieggiare i locali dell’edificio.

Che cos’era? Era solo una strana, stupida sensazione di chiuso, a cui non avrebbe dovuto dare troppo peso?

Qualunque cosa fosse a turbarlo, ad un certo punto uno squillo alla porta di casa, del tutto inaspettato, lo scosse dai suoi pensieri.

E con sua enorme sorpresa, ad attenderlo non c’era il postino.

6

Sbirciando da dietro allo spioncino, un distintivo metallico, del tipo che avrebbe fatto volentieri a meno di vedere, anticipò per alcuni secondi la visione di due uomini vestiti in borghese.

Anthony aprì la porta:

"Buongiorno agenti, cosa desiderate?"

"Signore, la disturbiamo perché è successo un grave fatto, un evento.. su cui stiamo indagando"

"E cosa sarebbe successo di così grave agenti?"

"E' morta.. è morta la signora Anna Anderson. Verosimilmente è successo stanotte in un'ora non ancora definita. Le nostre indagini ci portano da lei in quanto sappiamo che eravate entrambi coinvolti in una questione di eredità. Signore cosa ha fatto stanotte?"

Anthony si sentì colto alla sprovvista, quasi incapace di realizzare cosa fosse accaduto. Le parole, la presenza degli agenti lo trasportarono in uno stato semiconfusionale:

"Io.. ero a casa, ho dormito quasi tutta la notte, ho avuto problemi.. la pioggia, uccelli, delle infiltrazioni, insomma non vi sto a spiegare, è stata una notte agitata, ma sono sempre stato qui agente. Quello che mi dice è una tragedia, era una persona che è stata molto legata a mio zio. Mi spiace per questo, ma le assicuro, non saprei cos’altro aggiungere a quello che sapete già!"

I due agenti rimasero imperturbabili ad attendere che Anthony finisse di ribattere, quindi quello che fino ad allora non si era espresso, si fece avanti, tendendo un paio di biglietti di carta, prima di parlare con un tono di voce del tutto inespressivo:

"Signore, questi sono i nostri riferimenti. Per ora consideri questa visita come del tutto informale, un modo cortese per informarla sui fatti. La terremo aggiornata sugli sviluppi di questa vicenda e gradiremmo inoltre che lei restasse in città nei prossimi giorni"

A quelle parole non lasciarono replica, i due si congedarono immediatamente da Anthony con un cenno di saluto.

Il giovane rimase perplesso e pensieroso per molti minuti: è proprio un fatto grave, chi avrebbe potuto compierlo? La donna viveva sola da quando le era morto l'ex-compagno. Non gli pareva inoltre avesse figli, che movente poteva esserci per ucciderla? Una rapina? Non sembrava un motivo sufficientemente valido ma, del resto, finché non trapelavano altri dettagli sull’indagine, avrebbe potuto fare innumerevoli congetture senza capirne di più. Si rassegnò allora a porre momentaneamente la parola fine alla questione; la giornata stava volgendo verso il termine e si sentiva nuovamente – e per certi versi stranamente – stanco, spossato, come se la sera precedente non avesse riposato a sufficienza.

7

Anthony trascorse la notte dormendo finalmente tutto d’un fiato, ma al risveglio ricevette una nuova visita. Il signor William era ato a consegnargli la parcella per l’intervento del giorno precedente:

“Signore ha avuto ancora problemi? E’ riuscito a trovare il volatile che le ha sporcato la casa la sera precedente?”

“No guardi non l’ho trovato, probabilmente sarà uscito l’altra sera. In compenso ora è tutto a posto. Quanto le devo per ieri?”

“Guardi, sono cento dollari per la chiamata, e altri centocinquanta per il tempo che ho trascorso da lei, totale duecentocinquanta dollari”

Anthony per un attimo si sentì mancare; si trattava di un vero e proprio furto. Lì per lì non ebbe il coraggio di ribattere, così salutò il tecnico e tornò a rimuginare in salotto. Le spese che aveva effettuato nell’ultimo periodo erano notevoli ed ora sentiva la rabbia crescere dentro di sé per aver sborsato del denaro per un intervento che all'atto pratico non aveva prodotto nulla. Mentre pensava a queste cose diede un'altra occhiata al suo ritratto; il suo volto sembrava ancora più fiero e sicuro rispetto all'ultima volta in cui lo aveva visto.

Con quell'espressione avrei dovuto affrontare quel William! Con il coraggio di dirgli apertamente che non si tratta così un cliente e che non esiterò a chiamare il suo principale. Ecco, così avrei dovuto parlare! pensò nuovamente in preda

all’ira.

Ira.

Già, sentendosi nuovamente il viso ribollire di calore per la collera, Anthony si rese conto che forse era giunto il momento di rompere quello stato mentale, frammisto ad ansia e suscettibilità, che lo tormentava da un po’.

Pensò quindi ad una rimpatriata.

Sì, doveva a tutti i costi invitare l'amico Brian a cenare, per ricordare assieme i bei tempi del liceo: le ragazze, le vacanze, lo sport, gli scherzi.

Ricordi.

Già, nella mente di Anthony quella poteva essere la medicina per sconfiggere quel continuo senso di pesantezza alla testa, una sensazione che andava via via aumentando man mano che i minuti trascorrevano e che sortiva un effetto spiacevole e del tutto imprevisto.

Già, per quanto non riuscisse a capire il perché, quell'impressione non era più correlata ad una stanza soltanto, il salotto, ma in qualche modo era come se non lo abbandonasse, come un alone, una nebbia che lentamente scende e avvolge tutto ciò che è visibile, rendendo affannoso il respiro e arrecando un senso di malessere.

Ma cosa c’era che lo turbava così profondamente?

Anthony non seppe rispondere, ma per un attimo il suo sesto senso sembrò suggerirgli un nome.

Già, né era in qualche modo certo, anche se non avrebbe saputo dire perché, la presenza di Brian avrebbe saputo dare una spiegazione logica a tutto.

8

I poliziotti Taylor e Jones si recarono dal notaio Davies. Lo scopo della loro visita era appurare che cosa cambiasse nelle disposizioni testamentarie dello zio di Anthony con la morte della signora Anderson.

"Notaio Davies, avrà saputo della tragica scomparsa della signora Anna Anderson" esordì Taylor.

"No, sinceramente ne vengo al corrente solo adesso. Cosa è successo? E' stata una disgrazia?"

"No, guardi, non crediamo si tratti di una disgrazia, comunque non possiamo dire altro finché l'istruttoria prosegue. Ciò che vorremo che lei ci dicesse è sapere cosa cambia nella questione dell’eredità del signor Smith; a chi andrà ora la casa?"

Il notaio Davies incrociò le mani e si sforzò di rispondere con lo sguardo e il tono di voce di chi intende apparire schietto e sincero allo stesso tempo:

"Né il signor Smith né la signora Anderson avevano figli, di conseguenza probabilmente quell'abitazione potrà finire allo stato"

"Ne é sicuro signore?" chiese Jones.

"In linea di massima è così. Devo controllare bene l'asse ereditario, ma probabilmente le cose andranno in questo modo agente in quanto non ci sono altre disposizioni nel documento olografo lasciato dal signor Smith"

I due poliziotti si congedarono dal notaio perplessi. Il fatto che Anthony non avesse possibilità di ricevere in eredità l'abitazione dello zio faceva decadere quasi del tutto il movente che lo poteva aver spinto a compiere l'omicidio della signora Anderson. Certo, poteva restare il raptus, la follia, ma Anthony Smith sembrava una persona sana di mente e dal carattere mite, apparentemente incapace di infierire con numerosi colpi di coltello sul corpo della signora Anderson.

Non restava loro quindi che proseguire con le indagini. L'assassino aveva lasciato numerose impronte, sicuramente non era un professionista; da una prima ricostruzione probabilmente poteva aver atteso la donna sulle scale di casa, nascosto nell'ascensore dopo averlo preventivamente bloccato. Quindi era forse balzato alle spalle della donna, tramortendola per trascinarne il corpo nell'ascensore. A quel punto aveva portato il corpo nel seminterrato dove, lontano da sguardi indiscreti, aveva infierito numerose volte con un coltello.

La ferocia e la brutalità dell'assassinio erano tipiche di una personalità squilibrata.

Taylor e Jones avevano dunque molti dubbi ma una sola, importante consapevolezza, quasi un monito, un imperativo che si erano preposti: chiunque fosse stato l'autore di quel gesto, loro avrebbero fatto di tutto per arrestarlo, anche fosse stata solo una questione di tempo.

9

Quella notte Brian dormì negli stanza degli ospiti, nell'abitazione dell'amico.

Si coricarono dopo aver mangiato abbondantemente e bevuto un paio di bicchieri di troppo: ad un'allegria iniziale era seguito un senso di pesantezza e di sonno, che in breve tempo li aveva condotti a letto, dove i sogni di Anthony furono interrotti bruscamente da un rumore che proveniva da sotto, dal primo piano. Il giovane si alzò prontamente, attento a non far rumore per non svegliare Brian che dormiva nella stanza attigua. Scese le scale e sentì uno spiffero d'aria provenire dal salotto. Con una torcia tascabile che portava sempre con sé notò che una finestra era aperta: prontamente ne richiuse i battenti, e pensò che i rumori forse erano dovuti al vento che sbatteva. Quindi tornò a letto e riprese a dormire.

Dopo solo un paio d'ore ancora, un altro rumore lo riportò ad uno stato di semicoscienza. Gli era parso di sentire il suono di alcuni vetri mandati in frantumi.

Anthony si sedette sul letto a pensare.

Mi sono forse sognato quel rumore?

A volte i sogni possono trasmettere degli input così reali da trarre in inganno!

Quel pensiero lo convinse della vacuità della sua sensazione; si ricoricò e provò a riaddormentarsi. Dopo qualche secondo però, avvertì una serie rumori appena percettibili, di frequenza costante, del tutto simili a calpestii, provenire dal vano scale. A fatica si alzò dal giaciglio nuovamente; aprì la porta della stanza e direzionò la torcia verso le scale poco di fronte nel corridoio.

A quel punto, la visione che né seguì lo spaventò, destandolo del tutto. Ebbe la sensazione di vedere qualcuno scendere velocemente, per certi versi in modo innaturale, al piano terra.

Un ladro! Pensò istintivamente.

Anthony percorse allora le scale lentamente, con lo scopo di cogliere il soggetto in fragrante, fino ad intravederne la sagoma che si dirigeva verso l'androne, il salotto dell'abitazione. Per un attimo scorse solo il profilo di quello che era sicuramente un uomo; ma in quella frazione di secondo notò anche un altro particolare: chiunque fosse quel tale era vestito in modo decisamente elegante.

Anthony tornò quindi sui suoi i e decise che era giunto il momento di informare Brian. La stanza dell’amico era però chiusa dall’interno, a chiave, e Brian impiegò stranamente alcuni minuti ad aprire. Il suo aspetto inoltre era quantomeno diverso da quello di una persona che è stata destata bruscamente dal sonno; sembrava incredibilmente sveglio, reattivo ed eccitato.

Ma perché? Anthony annotò questi dettagli mentalmente, ma nella concitazione degli eventi non ci fece troppo caso.

Entrambi scesero le scale, accesero tutte le luci ed iniziarono ad urlare:

"Attento! Siamo in due, sappiamo che sei qui, se sei armato ti conviene desistere! Abbiamo già chiamato la polizia!"

In realtà stavano bluffando.

Rimasero quindi in silenzio, ad attendere una replica, ma dal ladro non giunse alcuna risposta.

I due perlustrarono l'abitazione da cima a fondo, ma del presunto ospite elegante non c'era alcuna traccia. Fatto ancor più rilevante, Anthony osservò che non era stato rubato nulla. Probabilmente l'uomo era riuscito ad uscire da una finestra quasi subito, accortosi di essere stato scoperto.

Ma anche quella ricostruzione sembrava non collimare del tutto con gli elementi in loro possesso.

Già, se solo avesse voluto agire in silenzio perché avrebbe dovuto mandare in frantumi una finestra del salotto? Inoltre, se fosse uscito per quel pertugio, avrebbe anche potuto tagliarsi nella concitazione, ma questo non trovava riscontro per la totale assenza di tracce di sangue.

L'episodio scosse e non poco i due giovani che desistettero dal chiamare la polizia solo perché non era stato portato via nulla.

Al risveglio Brian notò inoltre un particolare interessante in camera da letto

dell'amico, aprendo gli armadi per controllare che tutto fosse in ordine.

Un vestito in particolare non era riposto con cura, quasi fosse stato usato e poi messo via frettolosamente.

"L'uomo indossava per caso un abito simile a questo?"

"Ah.. questo? Può essere, d’altronde nell’oscurità non potevo scorgere bene dettagli come il colore o il modello. Comunque è quello che uso per le occasioni, tipo quando mi hai ritratto, ricordi?"

"Si giusto, ecco dove l'avevo già visto! Beh dev'essere un abito comune, ricordi dove l'avevi acquistato? Potremmo fare delle verifiche col negoziante se sei d'accordo"

"Già, potrebbe essere un'idea"

Anthony rimase a riflettere prima di rispondere, cercando di ricordare quante altre copie di quel modello ci fossero nel negozio, oppure se altri clienti l'avessero provato in sua presenza.

Il tentativo non andò a vuoto; emerse un particolare che gli era rimasto impresso, in quanto determinante sul prezzo finale, e che fu anche confermato successivamente dal commesso che l'aveva consigliato nella scelta.

Era un dettaglio a cui cercò di non dare troppo peso, eppure quel modello, seppur ad Anthony fosse piaciuto fin da subito, non era stato venduto a nessun'altro, almeno in quel negozio.

10

Un nuovo efferato delitto fu assegnato alla coppia Taylor e Jones. Un tecnico che lavorava nel settore delle costruzioni era stato trovato ucciso brutalmente nella sua abitazione. Anche in questo caso l'assassino aveva infierito accoltellando più volte la povera vittima. E come spesso accadeva in questi casi, la cosa più difficile per i due agenti era trovare il movente; il signor William Evans non era particolarmente ricco né, a detta di amici e parenti, aveva contratto debiti con qualcuno, o giocava d'azzardo. Una via percorribile era dunque ripercorrere gli spostamenti degli ultimi giorni, controllando anche il tabulato delle sue telefonate.

"Vediamo, l'altro giorno ha ricevuto telefonate da tre clienti, confermate dalla ditta" osservò Taylor, leggendo il resoconto delle chiamate.

"E il giorno prima?" chiese Jones.

"Altri quattro clienti, e uno è lo stesso numero di ieri; strana coincidenza si tratta del signor Smith, il nipote del tipo che è morto, a cui siamo andati a far visita un paio di giorni fa".

"Mmm, cosa dici, andiamo a fargli qualche domanda?"

Taylor bofonchiò qualcosa osservando la lista dei nominativi degli indagati sulla sua agenda: un vecchio diario del ’91 che conservava ancora come una reliquia, dove poteva ritrovare essenzialmente ogni tipo di annotazione da quando aveva

iniziato a lavorare, nonostante i fogli ingialliti e la rilegatura scollata rendessero ogni tipo di ricerca sempre più farraginosa.

"Direi di are da lui e poi di ripetere in rassegna le visite che abbiamo effettuato ieri, se sei d'accordo"

Jones annuì.

I due si recarono nuovamente a far visita ad Anthony il mattino successivo, e questa volta il giovane li fece entrare in casa ed accomodare in salotto, dove la stanza era quasi interamente tappezzata di quadri. Uno in particolare catturò l'attenzione di Jones. Era il ritratto del padrone di casa. Jones notò la qualità del dipinto e si soffermò sull'autore: era quel Brian Cooper di cui aveva sentito parlare un gran bene.

Jones lo osservò a lungo, soffermandosi sulla delicatezza del tocco dell’artista, sulle sfumature dalle tonalità ricercate e sull’impatto generale che lo faceva risaltare nella stanza, quasi fosse stato un grosso diamante in un diadema di zirconi.

C’era però qualcosa in quell’apparente perfezione che in qualche modo spiccava smaccatamente, così grossolanamente da far pensare che quel ritratto fosse stato curato nei minimi particolari fino alla fine, salvo poi esser terminato in tutta fretta, lasciando esposto quel dettaglio, a tutti gli effetti una sbavatura.

Già, e per quanto si sforzasse di comprenderne il motivo, di trovare una giustificazione, non poté fare a meno di notare che le mani dell'uomo erano dipinte con un rosa naturale, salvo che per quel che si intravvedeva della parte

inferiore del palmo; infatti a contrastare la tonalità c'erano delle macchie di rosso intenso, come se il dipinto avesse perso colore. Le stesse sbavature, del tutto simili a gocce, erano inoltre presenti sotto il corpo, nella parte di disegno relativa al pavimento.

E’ un peccato, quel colore rovina e non poco il quadro constatò tra sé Jones, in cuor suo quasi dispiaciuto.

Inoltre c’era dell’altro. Già, anche questo era un dettaglio macroscopico, ma che restava in secondo piano perché visibile solo sporgendosi da alcune angolature ed evitando il riflesso del sole.

Riguardava la cornice che lo custodiva. Quel vetro era verosimilmente rovinato. Rigato, graffiato, strisciato.

Ma perché?

Da un prima occhiata sembrava che qualcuno si fosse accanito con un coltello, delle chiavi o un cacciavite.

Strano, pensò James, ed inquietante allo stesso tempo.

Ad ogni modo si guardò comunque dal far notare al padrone di casa i difetti ed iniziò a porre le domande che si erano preposti:

“Signore dove è stato la scorsa notte?”

“Di cosa si tratta agente?”

“E’ accaduto un altro grave crimine, su cui stiamo indagando. Ancora una volta sembra che le tracce in nostro possesso ci portino a farle visita”

Anthony si sentì nuovamente del tutto impreparato a quell’evento, cercò quindi di rispondere con lucidità ed in tutta franchezza:

“Io e il mio amico Brian abbiamo trascorso la notte nella mia abitazione e probabilmente siamo stati visitati da un ladro”

“Ah” disse Jones quasi incredulo a quelle parole “e perché non ci avete chiamato allora?”

Anthony provò ad essere il più convincente possibile, mostrando la finestra ancora rotta:

“Beh, non vi abbiamo chiamato solo perché non è stato rubato nulla, ma come può vedere la casa porta ancora i segni del tentativo di furto” disse indicando i frammenti appuntiti di vetro, rimasti in corrispondenza ai cardini.

“Ah.. capisco” Jones rimase visibilmente spiazzato dalla risposta “questo signor Brian è lo stesso tizio che le ha dipinto quel ritratto?” chiese indicando il quadro

in salotto.

“Si è lui agente”

“Beh se stanno così le cose, ho bisogno che mi fornisca l'indirizzo del suo amico. Dobbiamo verificare anche il suo, di alibi" e così dicendo l'agente troncò il breve interrogatorio congedandosi da Anthony.

Troppi aspetti non quadravano affatto in quella vicenda, ma allo stesso tempo né era certo, non erano ancora in possesso di tutti gli indizi necessari a sbrogliare quella matassa.

11

Il camlo suonò inaspettato due volte ed Anthony ricevette l’ennesima visita in pochi giorni.

Era Brian. Ma la sua non sembrava una visita di cortesia.

Già, Brian si presentò con lo scopo di illustrare un'idea che gli era venuta in mente per cogliere sul fatto il ladro che da un po' di notti faceva visita ad Anthony.

“Ho pensato che potremmo cospargere di chiodi il pavimento presso la finestra rotta in salotto ed ungere d’olio i punti esposti, dove il ladro può appoggiare le mani”

Anthony ci pensò a lungo e per quanto quell’idea potesse sembrare apparentemente bizzarra e malsana l’approvò, ma ad una condizione:

“Per me va bene, ma.. che resti tra noi, intesi?”

Brian accettò, con lo sguardo eloquente di chi non capiva del tutto il motivo di quella richiesta.

Quindi i due iniziarono a mettere in atto il piano.

Si arrovellarono perché la finestra fosse cosparsa solo di chiodi sottili, quasi invisibili, che andarono a sostituire i cocci di vetro.

Uno strato leggero come un velo di peli ispidi, mentre tutto intorno, sia all'interno che all'esterno, la superficie fu resa così unta e scivolosa che avrebbero impiegato ore a ripulire il tutto.

Ore.

Già, il tempo ò in realtà veloce e la luce del sole calò inesorabile dietro un velo di nuvole dall'aspetto minaccioso.

Anthony si coricò presto, e mentre pensava a cosa avrebbe fatto se fosse accaduto qualcosa, non poté fare a meno di osservare nervosamente una mezzaluna dalle sfumature rosse che sbucava all'orizzonte.

Una visione insolita.

Rosso. Rosso come il tanto sangue che è stato inspiegabilmente versato, pensò, rabbrividendo.

Quindi provò a distrarsi, a pensare ad altro, ma il pensiero ricadde inevitabilmente su un altro aspetto che lo tormentava.

Forse avrebbe piovuto nuovamente.

Forse Anthony avrebbe sentito nuovamente quel ticchettio frenetico sul vetro.

Inquietante.

Sì, quel pensiero lo spaventava oltremodo.

Ricordava ancora come fosse aumentato il battito del suo cuore quando aveva sentito quel rumore la prima notte. Credeva non fosse in grado di riuscire a farlo smettere e che a breve, quel bump-bump incontrollabile lo avrebbe condotto alla morte o – ancor peggio - alla pazzia.

Il suo incedere sembrava andasse a tempo, quasi per uno scherzo, un gioco del destino, un effetto involontario, dettato dalla paura.

Già, ma la cosa che lo terrorizzava di più e che ora sembrava così evidente, così chiara, come se d'incanto si fossero ricomposti i pezzi di un ipotetico puzzle, era in che cosa quel suono dopo alcuni minuti si era evoluto.

Fu un'immagine che emerse dal suo subconscio perché tenuta rinchiusa, nascosta come un segreto, una terribile visione che nessuno doveva conoscere.

Era un ricordo del suo dormiveglia, che lo aveva accompagnato allora e che né era certo, anche se non avrebbe saputo dire cosa rappresentasse, si sarebbe ripetuto anche quella notte.

Così Anthony chiuse gli occhi, e non riuscì a smettere di pensarci.

Nel frattempo la pioggia giunse inevitabile, puntuale, nonostante fosse un ospite del tutto indesiderata.

Ed anche quel rumore si ripresentò, con la stessa cadenza e regolarità della prima notte, spezzando lo scroscio delle gocce d'acqua.

Ma la cosa più incomprensibile e spaventosa allo stesso tempo era la sua provenienza.

Già, Anthony provò a concentrarsi e per quanto si sforzasse non poté fare a meno di constatare che non proveniva dall'esterno, ma più giù, dal pianterreno, forse dal salotto.

Era un suono forte, simile a unghie che graffiavano un vetro come artigli, e che come un brutto incubo, non lo abbandonò nemmeno un istante.

12

L’indomani Brian ricevette una visita dalla polizia e confermò il resoconto dell’amico; convinse poi i due poliziotti a seguirlo presso la casa di Anthony, spiegandogli di essere preoccupato per il suo stato di salute dato che non lo aveva ancora sentito quel mattino come faceva di consueto negli ultimi tempi.

Una volta giunti a casa del giovane bussarono più volte ma non ricevettero risposta. Forzarono allora la serratura della porta d'ingresso ed entrarono. Qui una visione inaspettata li colse di sorpresa: il corpo di Anthony giaceva supino in salotto, trafitto da un coltello, probabilmente in modo accidentale, in corrispondenza a dove i due giovani avevano preparato la trappola per il ladro. I due poliziotti furono d'accordo sulla tragica casualità che aveva portato alla morte il giovane, che probabilmente era scivolato, ma non seppero dare una spiegazione logica ad alcuni fatti di quella notte: cosa ci faceva Anthony vestito così elegantemente? Perché il pavimento del suo salotto era cosparso di chiodi? Perché, inoltre, stava uscendo a quell’ora di notte?

Trascorsero alcuni giorni e le analisi dei laboratori della scientifica riportarono a galla la scomoda verità sui delitti che avevano scosso la città: Anthony aveva ucciso sia la signora Anderson che il signor William; le sue impronte erano ovunque nelle abitazioni delle due vittime ed il coltello tramite cui accidentalmente aveva trovato la morte, corrispondeva all'arma da taglio che aveva infierito sui corpi. In entrambi i casi probabilmente aveva agito di notte, muovendosi cautamente, attento a non destare troppi sospetti, tanto meno di Brian che gli era stato molto vicino; l'uomo agiva senza un movente, colto probabilmente da raptus di follia, ma la stranezza più degna di nota nel suo comportamento era il vestire elegantemente, come l'aveva ritratto l'amico, secondo le testimonianze di alcuni vicini delle vittime.

I poliziotti Taylor e Jones illustrarono gli esiti dell'indagine a Brian, che nel frattempo si era trasferito a vivere nella casa di Anthony, in qualità di erede, come aveva lasciato per iscritto l'amico, forse timoroso per la propria salute dopo gli ultimi avvenimenti.

“Signore noto con piacere che lei ha dato qualche ritocco al ritratto che aveva fatto per il signor Smith” disse l'agente Taylor, notando che erano sparite le gocce di color rosso sangue dai palmi delle mani e dal pavimento, e che la teca di vetro era stata forse sostituita.

“Già agente, ho pensato che anche Anthony ne sarebbe stato contento; nonostante tutto quello che è successo non potrò che pensare a lui che a come quell'amico con cui ho condiviso tanti bei momenti”

Taylor constatò tra sé come quell’uomo avesse un gran cuore oltre che un’inconfutabile dono artistico:

“La capisco anche se è difficile immaginarlo così dopo quello che ha fatto a quelle povere vittime; se lo lasci dire: lei è proprio una brava persona, ed è come se fosse riuscito ad infondere lo spirito del suo amico in quel quadro. Signore, lei, con il suo magnifico tratto, gli ha quasi donato l’eternità!”

Mentre si complimentava ancora una volta con Brian per il ritratto, Jones si sarebbe aspettato di tutto, tranne che notare per un attimo uno sguardo di sconcerto, di sorpresa negli occhi dell’artista, come se quelle parole l’avessero colpito in particolar modo.

Fu una sensazione che durò a lungo, durante la quale ci fu un’apparentemente

incomprensibile sensazione di imbarazzo, interrotta a stento dalle parole di congedo di Brian:

“Beh.. che dire agente, la ringrazio. Non avrei mai pensato di infondere tanto entusiasmo con un semplice dipinto. Ora però vi devo salutare, il mio lavoro non prevede pause quando c’è la giusta musa. Ad ogni modo, è stato piacevole parlare con voi, sebbene avrei preferito farlo in tutt’altre circostanze”

Brian, così dicendo, si diresse verso la cucina.

I due agenti fecero a loro volte per uscire quando un rumore stridulo e capace quasi di perforargli i timpani, destò la loro attenzione di colpo.

Di cosa si trattava?

Non seppero rispondere, ma Jones non poté fare a meno di soffermarsi nuovamente ad osservare quella casa e il suo nuovo proprietario.

Forse c’era qualcosa che nell’insieme stonava.

Già, era abituato da tempo ad osservare i cambiamenti nel comportamento delle persone e questo lo portava spesso a trarre molte considerazioni corrette da un lato e una minore percentuale di conclusioni affrettate dall'altro.

In questo caso il dettaglio era però così evidente che lo fece dubitare di aver

parlato con la stessa persona che aveva conosciuto poco tempo prima.

Sì, osservandolo di sfuggita, mentre si serviva da bere in cucina, avrebbe giurato che sul volto di Brian fossero affiorate come d'incanto lo stesso ghigno e la stessa arroganza che aveva inizialmente scorto sul dipinto dell'amico Anthony.

Una trasformazione che era poco più di una sensazione, un impressione difficilmente dimostrabile, eppure a dargli paradossalmente conforto in quel giudizio, era emerso un altro aspetto.

Si trattava del dipinto, il quadro di Anthony.

Ad un esame più approfondito, il suo volto, i lineamenti sembravano aver assunto dei contorni appartenenti ad un carattere mite e sensibile, quasi su quella tela fossero stati applicati degli ulteriori ritocchi.

Erano dettagli, sfumature quasi impercettibili, eppure evidenti ad un acuto osservatore.

Dettagli.

Già, come il vetro di quella cornice.

Mi sono sbagliato a giudicarlo sostituito poc’anzi? Si chiese.

Avrebbe giurato infatti, che fino a pochi minuti prima quel vetro fosse perfetto, intonso.

Ora invece anche l'occhio più inesperto si sarebbe accorto di quei segni, di quei graffi che ne rovinavano così duramente l'aspetto.

Eppure non era quello l'unico pensiero a turbarlo.

Già, sebbene gli sembrasse impossibile e per quanto non riuscisse a dare una spiegazione, una giustificazione razionale a quanto aveva visto, non poté fare a meno di credere alla visione che ne seguì.

Per alcuni istanti i due occhi di Anthony sembrarono fissarlo da dietro quel vetro con un'espressione implorante, terrorizzata, e mentre sfiorando la superficie della teca si rese conto di come fosse perfettamente levigata, per un attimo lo sfiorò un'idea che lo fece raggelare di colpo.

Si trattava di un pensiero, un immagine lì per lì assurda, incomprensibile, che gli si istillò nella mente come un tarlo.

Già, e sebbene non sapesse, o forse più semplicemente non volesse spiegare a se stesso chi o che cosa li avesse prodotti, era palesemente evidente come quei solchi presenti all'interno del vetro - e non all’esterno - fossero di origine recente..

Due luci nelle tenebre

J.T. fece per sollevare la lapide mentre la pioggia incessante non tendeva a diminuire.

In un attimo il coperchio volò dietro di lui e la terra umida si rivelò ai suoi occhi.

J.T. si voltò e per un istante vide ancora quelle luci spettrali aggirarsi nelle tenebre.

Quindi si calmò, forse era riuscito a distanziare quell'essere che l'aveva seguito da quando si era inoltrato nel viale che conduceva al cimitero.

Presto, devo fare presto.

Nella sua testa si rese conto che non restava molto tempo, che doveva fare quello per cui era lì, senza indugiare oltre.

Iniziò pertanto a scavare, mentre il ticchettare assordante dell'acqua non gli permetteva di sentire il benché minimo rumore.

Dopo qualche minuto vide finalmente la bara, di un materiale solido, sicuramente un tipo di legno molto pesante, pensò, che avrebbe identificato

tornato alla base.

J.T. adagiò la bara vicino alla buca, quindi la aprì e vide ciò che stava cercando: davanti a lui i resti di un corpo umano di piccole dimensioni.

Adagiò allora lo strumento che teneva con sé, sul piccolo corpo.

Il lungo ago penetrò nel braccio in profondità, fino all’osso.

Attese alcuni secondi e poi un segnale, una vibrazione dell’oggetto gli comunicò che aveva raccolto quanto bastava. Estrasse allora l’ago, agì sulla parte superiore dello strumento ed inviò i dati alla base, in modo che fossero raccolti ed elaborati immediatamente.

Bene, siamo a metà dell’opera.

Nel frattempo altre nubi oscuravano il cielo, addensandosi rapidamente come bolle scure sparate da una pistola.

J.T. abbassò lo sguardo ed in lontananza vide due luci inoltrarsi nella sua direzione: una era posizionata più bassa, a mezza altezza, e l’altra più in alto.

Le osservò bene e notò che ruotavano indipendentemente l’una dall’altra.

J.T. riconobbe dietro quelle luci il corpo dell’essere che lo stava pedinando.

Ripose quindi in un attimo il corpo dell’uomo nella bara e la richiuse; quindi si incamminò verso il luogo prestabilito.

L’essere era distante una cinquantina di metri; il suo incedere era lento, probabilmente per la corazza pesante che indossava.

Forse quella è la sua pelle, pensò J.T.

Dopo alcuni metri percorsi nel buio riuscì finalmente ad uscire dall’uscita posteriore del cimitero; poco distante vide un edificio, probabilmente l’abitazione dei custodi, che al momento appariva in disuso, disabitata e forse pericolante.

J.T. estrasse nuovamente lo strumento che aveva utilizzato poco prima sul cadavere, lo puntò verso l'edificio e ne calcolò approssimativamente l'area.

Bene, qui andrà benissimo.

Quindi in pochi secondi fu davanti alla soglia di entrata dell'abitazione, aprì la porta e si diresse al primo piano.

Si trovò in un luogo umido, con travi in legno marcite dal tempo e da funghi saprofiti fosforescenti.

Una volta al centro della stanza J.T. adagiò lo strumento sul pavimento, verticalmente.

Quindi si allontanò e l'oggetto si allungò fino a toccare il soffitto, illuminando la stanza di una luce ultravioletta, ideale per osservare l'esterno senza attirare l’attenzione.

Al termine si avvicinò ad una finestra, come ad attendere un segnale.

Lì fuori, nell'oscurità, la pioggia stava finalmente cessando di scendere copiosa.

J.T. attese immobile alcuni minuti aggrappato al balcone, finché una visione sconcertante attirò la sua attenzione: le due luci erano ormai vicinissime, mentre in lontananza se ne intravedevano molte altre.

Probabilmente l'essere che lo stava tallonando aveva chiamato rinforzi nella speranza di trovarlo.

J.T. disattivò immediatamente lo strumento e si precipitò verso le scale in fondo alla stanza, tanto velocemente che in pochi attimi si trovò nel sottotetto.

Attese immobile, finché un rumore dal pianterreno ruppe il silenzio della notte.

Sentì alcune voci:

"E' qui, l'ho visto chiaramente, dietro quella finestra laggiù!"

Un essere indicò ad un compagno il punto dove J.T. si era appoggiato fino a qualche minuto prima.

Poi con quelle lunghe protuberanze all'estremità del tronco principale, in mezzo alle due luci, indicò all'altro prima una direzione, quindi un'altra, quest’ultima verso le scale.

J.T. vide la scena in un riquadro che aveva formato dal nulla tra gli assi, puntando lo strumento in direzione del pavimento del sottotetto.

Decise allora di accelerare i tempi, prese l'oggetto e lo direzionò verso l’alto: in pochi secondi creò uno squarcio tra la copertura e le tegole e si trovò proiettato al di sopra dell'edificio, in prossimità del camino.

Subito dopo allontanò lo strumento dal tetto e il buco si richiuse, come se non si fosse mai formato.

In un attimo giunse sulla sommità dell'edificio, ma ciò che vide lo turbò: le creature erano lì, a decine, ed avevano circondato l'abitazione, senza lasciargli in apparenza alcuna possibilità di fuga.

Già, in apparenza.

J.T. diresse lo strumento verso il cielo, finché apparve una luce da una nuvola che si diresse verso di lui ed in pochi secondi il suo corpo scomparve..

Jack Simmons era su quel caso da mesi.

L'FBI gli aveva segnalato che in alcuni cimiteri di campagna, in zone poco abitate, erano stati riscontrati degli strani casi di profanazione di tombe.

In tutte le segnalazioni riportate si trattava di strani interventi chirurgici, asportazioni, fori su corpi di soggetti giovani, molto spesso bambini, morti in circostanze misteriose, delle quali non era stato possibile individuare le cause.

Quella notte Jack aveva avuto una soffiata: erano state intraviste delle luci nel cielo poco sopra un cimitero a Est nella regione, simili a quelle riscontrate da un testimone in corrispondenza dell'ultimo caso che si era verificato.

Jack si era recato quindi con il suo team in perlustrazione nella zona.

Lì avevano bonificato l'area antistante facendo evacuare le poche persone che vi abitavano - perlopiù contadini - adducendo come scusa alcune verifiche per conto del governo sull’elevata radioattività del luogo.

Aveva fatto indossare a ciascun membro del suo team la tenuta sperimentale che

i laboratori dell'FBI avevano preparato per nuovi tipi di guerriglie.

In pratica una sorta di tuta mimetica agiva sui loro corpi come una seconda pelle: non aumentava il peso, ma permetteva di agire protetti da radiazioni, gas tossici, proiettili e fuoco. Inoltre sugli occhi era stata posta una protezione in modo che non fossero sensibili ai raggi laser.

Con quella tuta addosso sembravano quasi creature di un altro mondo, con delle torce speciali posizionate una in mezzo al busto, in modo da avere sempre una illuminazione frontale, e una in mezzo alla fronte, di modo che una luce seguisse sempre lo sguardo quando avessero ruotato la testa.

Quella notte Jack era andato da solo in avanscoperta, dopo aver ordinato ai suoi di disattivare le torce e circondare l'area, usando la visione ad infrarossi della tuta per muoversi nel territorio.

Per un attimo, fuori dal cimitero, Jack era quasi sicuro di aver visto qualcosa di indefinito muoversi, ma qualsiasi cosa fosse era troppo veloce per lui ed in genere per un uomo o animale conosciuto.

Quell'essere gli era riapparso all’improvviso, mentre sollevava una lapide ed il coperchio di una bara con una facilità e velocità impressionanti, aiutato da un oggetto cilindrico bianco che variava forma in continuazione, in base a come lo manipolava.

Mani?

Sì, quell'essere aveva anch'esso un aspetto umano, ma con proporzioni completamente diverse, in aperto contrasto con la fisicità di cui disponeva.

Finché era nel cimitero non gli era stato possibile constatare altro che la sua altezza, molto al di sotto degli standard umani, poco sopra il metro. Quindi, una volta che lui e i suoi uomini avevano circondato l'edificio, gli era stato possibile analizzarne la fisionomia più accuratamente: si trattava di un essere umanoide grigio-verde, dotato di arti sottilissimi, quasi filiformi, che si muoveva quasi sospeso sul terreno.

In una protuberanza che nell'oscurità sembrava simile ad una mano, teneva sempre fisso quello strano oggetto che manipolava e plasmava in continuazione; con quello strumento era stato in grado di crearsi un foro nel tetto per poi farlo sparire come per incanto con un altro gesto.

Jack aveva potuto osservare tutto questo distintamente nella notte per qualche secondo, poco prima che i suoi uomini direzionassero le luci delle torce verso il tetto. Ed era stato più volte sul punto di ordinare all'elicottero che sorvolava la zona, invisibile all'occhio umano, di gettare delle reti in corrispondenza dell'edificio, in modo da catturarlo.

Purtroppo però l'essere era sparito nel nulla, trascinato verso il cielo come se fosse stato risucchiato da una forza invisibile, in grado di vincere qualsiasi tipo di gravità.

Sotto gli occhi esterrefatti dei componenti del suo team, era sparito all’interno di una nuvola e, come d'incanto, una gigantesca sfera di luce era apparsa ad un centinaio di metri da loro, sospesa in aria.

Quella che probabilmente era la sagoma di un’astronave era quindi rimasta per qualche secondo immobile, ad osservarli, per poi scomparire in un attimo, lasciando spazio tra le stelle solo al penetrante chiarore del disco della luna piena.

J.T. osservò per un attimo da un piccolo oblò le luci delle creature volgersi verso l'astronave; le loro protuberanze, che gli esseri umani avrebbero chiamato arti, sembravano minacciose: alcune brandivano degli oggetti che se fossero entrati in contatto con il suo corpo l’avrebbero certamente ferito.

J.T. si voltò verso il suo comandante che stava osservando la scena affianco a lui:

"Signore, nel poco tempo che siamo stati qui non ci eravamo accorti che altre creature intelligenti oltre agli uomini e agli animali terrestri popolassero questo pianeta. Forse è il caso di sospendere i nostri test genetici?"

"No J.T., forse siamo noi a sbagliarci, la prossima volta non temere di avere contatti con quelle creature, forse potrebbero essere interessate come noi puramente al codice genetico dell'uomo."

J.T. accettò senza discutere il consiglio del comandante:

"Già signore, come dicono gli umani? Ah sì, forse l'apparenza inganna.."

L’apparenza inganna.. il significato di quella frase per J.T. era ancora per certi versi oscuro, come il funzionamento di quegli occhi umani che ora giacevano

perfettamente conservati, nel laboratorio, sospesi dentro due contenitori.

J.T. si ripromise che li avrebbe analizzati accuratamente, anche se ne era certo, non sarebbero mai stati in grado di superare la capacità visiva degli esseri della sua specie..