Il Paladino 4530r

INDICE

Frontespizio Colophon Dedica PARTE PRIMA 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 PARTE SECONDA 11 12 13

14 15 16 17 18 19 20 21 22 PARTE TERZA 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33

34 35 36 37 38 Nota storica Nota dell’autrice Ringraziamenti L’autrice

Angela P. Fassio

Il paladino

romanzo storico

Della stessa autrice in formato eBook

Progetto Genesis. Post mortem La croce di Bisanzio

Il paladino I edizione digitale: agosto 2014 Copyright © 2014 Angela Pesce Fassio Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

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ISBN: 978-6-05-031637-7

In copertina: immagine © Thinkstock

Edizione elettronica: Gian Paolo Gasperi

www.gianpaologasperi.it

A tutti coloro che si battono per difendere la libertà, la giustizia e i diritti dei più deboli. Ai paladini di ieri, di oggi e di domani.

PARTE PRIMA

Di sogni e draghi

1

Il respiro del drago lo guidava. Un suono che vibrava nel silenzio della foresta e gli indicava il cammino. Malgrado il buio e le asperità del sentiero, procedeva sicuro e senza timore. Arrancò lungo l’erta scoscesa. A tratti nubi sfilacciate nascondevano la luna e un soffio di brezza gli alitava sul viso. Poi si addentrò fra le ombre, aprendosi un varco nell’intreccio del fogliame, finché raggiunse le pendici rocciose della montagna. Si concesse una sosta, prima d’iniziare la scalata, per scrutare il percorso. La difficoltà dell’impresa non lo scoraggiò. Aveva aspettato quel momento per tutta la sua giovane vita e non avrebbe rinunciato neppure se fosse stato dieci volte più difficile e pericoloso. Era una sfida che si sentiva pronto ad affrontare. Salì, trovando appigli nelle rocce, fidandosi dell’istinto e del proprio vigore. Mai si voltò a guardare dietro di sé mentre dava la scalata alla montagna dove dimorava il drago. A circa metà del percorso le pietre franarono e fu sul punto di cadere. Si appiattì a braccia distese contro la pendenza e aspettò che il pietrisco precipitasse, poi riprese a muoversi, issandosi a forza, il viso accaldato. Ora il respiro del drago risuonava ingigantito. Con un ultimo sforzo si issò sullo sperone roccioso, sostando qualche istante per riprendere fiato. Scostò i capelli umidi dalla fronte e scrutò davanti a sé, dove si apriva un antro tenebroso. Vapori densi e acri uscivano a intervalli regolari dalla cavità. Un suono cavernoso e inquietante echeggiava nelle profondità della montagna. Gettò appena un’occhiata ai macabri resti disseminati sulla soglia, poi estrasse la spada dal fodero assicurato sul dorso e avanzò. Durendal scintillò, sprigionando energia che si diffuse in ogni parte del suo corpo. Appena dentro, fu avvolto da un’oscurità che neppure l’argenteo brillio della

spada riuscì a penetrare.

Lentamente, un o dopo l’altro, s’inoltrò con la spada puntata contro l’invisibile nemico che, ne era certo, lo aspettava acquattato in qualche remoto recesso della grotta, pronto ad attaccare. Ma anche lui era pronto: muscoli tesi, sensi all’erta, consapevole della forza che gli scorreva nelle vene insieme al sangue, impetuosa come un torrente in piena. Così potente da renderlo capace di percepire il pulsare del grande cuore che batteva all’unisono col suo, come se lui e il drago fossero una cosa sola. D’improvviso il drago eruttò contro di lui una fiammata. Con un balzo fulmineo si riparò dietro una roccia e il getto infuocato lo sfiorò senza recargli danni, incendiando però un folto cespuglio presso l’entrata. Quel chiarore gli permise di vederlo in tutta la sua orrida magnificenza: enorme, rivestito di scaglie bronzee, con occhi gialli da rettile e zanne acuminate. Accucciato con le ali membranose ripiegate e le zampe anteriori incrociate, lo guardava aspettando la sua mossa successiva. Il suo sguardo non era maligno, quanto piuttosto rassegnato. Intorno a lui c’erano ossa e carcasse spolpate, resti di pasti più o meno recenti. Mentre il roveto si consumava crepitando, il giovane si avvicinò cauto al mostro. Benché non sembrasse minaccioso non abbassò la guardia: i draghi erano imprevedibili. Gli occhi gialli, ora socchiusi, non cessarono di osservarlo mentre avanzava. Quando infine si arrestò, distava appena pochi i dalla creatura. Le sue percezioni amplificate rivelarono che gli sarebbe stato facile ucciderlo, perché non avrebbe reagito. Il drago era pronto a morire. Tanta rassegnazione lo sorprese, impedendogli di attuare il proposito che l’aveva condotto fin lì. Lentamente abbassò la spada, sconcertato. Ben diverso aveva immaginato l’incontro col temibile predatore e ora, di fronte a tanta acquiescenza, si sentì confuso.

«Cosa aspetti a uccidermi?» disse il drago con voce cavernosa. «Sei venuto per questo, no?»

Il giovane fece un balzo indietro. «Tu parli!» La risata echeggiò sonora e beffarda insieme. «Ti meraviglia che abbia il dono della parola? Dunque sai nulla di noi draghi, ragazzino.» «Ne so più che abbastanza», replicò. Il drago agitò una zampa tediato e sospirò. «Già, le solite bugie. Avanti, facciamola finita. Usa la tua spada prodigiosa e tagliami la testa. Sono stanco di vivere, e ancora più stanco di avere a che fare con degli stupidi, ottusi umani. Il mio tempo quaggiù è finito.» «Che gloria ne ricaverei a ucciderti senza che tu opponga resistenza?» «E chi vuoi che lo sappia? Nessuno ti smentirà se ti vanterai di avermi affrontato e ucciso.» «Non sarebbe leale né onorevole. Non posso darti la morte in questo modo.» «Rinunci?» Si raddrizzò, torreggiando su di lui minaccioso. «Hai pietà di me, stupido umano? Potrei ridurti in cenere con un soffio, farti poltiglia con una sola zampata!» «Dunque fallo!» lo sfidò pungolandolo al fianco. Il drago sussultò, ma non reagì come si aspettava. «Non ne ho la forza», confessò, abbattendosi con un tonfo che fece tremare la caverna. Fu allora che vide la ferita. Un rivolo di sangue scuro che colava lungo il ventre e gocciolava sulla roccia, dove si era formata una pozza. Si accostò per esaminarla. Era grave, ma non mortale. «Posso curarla se vuoi…» disse d’impulso. Una risata gorgogliante scaturì dalla gola del mostro e il ragazzo si adombrò. «Che ci trovi di divertente?» «Tutto», rispose contorcendosi dal gran ridere. «Se non la smetti me ne andrò e ti lascerò morire dissanguato», minacciò, facendo l’atto di avviarsi verso l’apertura.

«No! Aspetta, ti prego. Non te ne andare.» Lui si fermò e si girò a guardarlo. «Non mi convincerai a ucciderti. Non hai bisogno del mio intervento per mettere fine alla tua esistenza. Morirai comunque.» «È qui che ti sbagli, mio giovane amico. Avvicinati e dai un’occhiata.» Lo fece, e con grande stupore notò che la ferita aveva smesso di sanguinare e si stava rimarginando. «Com’è possibile?» chiese incredulo, nonostante la guarigione avvenisse sotto ai suoi occhi. «Le nostre carni hanno il potere di rigenerarsi.» «Allora ti sei preso gioco di me.» «No, voglio morire. Però solo con la tua spada prodigiosa puoi uccidermi. E il solo modo di farlo è tagliarmi la testa.» «Non posso.» «Perché sei così testardo? Ti offro l’opportunità di uccidere l’ultimo drago e tu non ne vuoi approfittare?» «Ti ho già spiegato perché non intendo farlo.» «E se ti dicessi che uccidendomi diventerai un guerriero invincibile? Non avrai uguali in tutto il mondo e le tue gesta saranno cantate dai bardi e dai poeti nei secoli a venire. Il tuo nome diventerà leggenda e tu… tu sarai immortale! Cosa aspetti ancora? Chiunque altro, al tuo posto, non avrebbe esitazioni.» «Tutto questo avverrà comunque, se è scritto nel libro del Fato.» Lo sguardo del drago lo trafisse. «E se io fossi il tassello del mosaico senza il quale muterebbe il corso degli eventi?» «Sarà quel che sarà», replicò scrollando le spalle. «Stolto ragazzo, ti sto offrendo più di quanto qualsiasi mortale potrebbe desiderare e tu l’accogli con tanta indifferenza? Allora vediamo come sai

combattere!» ruggì. L’alito ardente del drago eruttò, mancandolo di poco. Il ragazzo scattò fulmineo, brandendo la spada, ed evitò una seconda fiammata. La testa serpentina guizzava rapida, seguendo i suoi spostamenti, e il soffio infuocato colpiva le rocce e gli arbusti rinsecchiti. Ormai circondato dalle fiamme, il ragazzo si lanciò verso l’apertura per non restare intrappolato e si gettò con una capriola in mezzo ai massi, appena in tempo per evitare di finire arrostito. La vampa rovente lo lambì, strinandogli i capelli. Poi il drago emerse dall’antro, ergendosi in tutta la sua mole, scoprendo il ventre molle. Rapido, il ragazzo estrasse la daga e la lanciò, trafiggendolo. Il ruggito del drago ferito echeggiò simile a un boato. L’enorme creatura barcollò, agitando le zampe nel vano tentativo di estrarre la daga, e il ragazzo ne approfittò per uscire allo scoperto. Il sangue zampillava come una fontana e lo investì, ma lui era troppo concentrato per notarlo. Si avvicinò brandendo Durendal con entrambe le mani e quando il drago tese il collo per emettere un gemito lacerante calò con tutte le proprie forze il fendente mortale…

Orlando si svegliò con un sussulto, la mente ancora annebbiata dal sonno e dal sogno inquietante, e gli occorse qualche attimo per capire che le grida e gli strepiti che udiva erano reali. Balzò in piedi e si precipitò attraverso il bosco verso la scogliera. Il tenue chiarore dell’alba era intriso di umida foschia e di fumo, di terrore e di morte. Si lanciò a capofitto giù dal sentiero, intravedendo appena i fuochi di segnalazione accesi sulle torri di guardia. Navigli barbareschi erano nella piccola rada e sulla spiaggia si combatteva, o meglio si tentava di impedire agli incursori di razziare il villaggio, di rapire donne e bambini. Uno scontro impari, poiché le forze dei difensori erano esigue e non si trattava di soldati di mestiere, ma di pescatori determinati a proteggere il poco che avevano e le loro famiglie dalla cupidigia e dalla ferocia dei pirati. Una visione raccapricciante si presentò a Orlando quando raggiunse le rocce ai

margini della spiaggia, tuttavia ricacciò l’orrore in un angolo remoto della propria mente e si appostò. Afferrò una manciata di frecce dalla faretra, tese la corda dell’arco di tasso e incoccò la prima. Distinguere i nemici nella confusione, col fumo che il vento gli soffiava sul viso non era facile, ma Orlando era un eccellente arciere e non tardò a trovare un bersaglio. Un uomo alto e grosso, occupato a trascinare una donna urlante verso la battigia, venne trafitto dal suo dardo e, ancora prima che stramazzasse, Orlando ne colpì un altro e poi un altro, falciando vittime con precisione letale. Però gli incursori erano tanti e lui era solo. Gli uomini del villaggio stavano per soccombere, nonostante si battessero con grande coraggio, e le case bruciavano, obbligando donne e bambini a una fuga disordinata. Orlando continuò a scagliare frecce e ad abbattere nemici finché i pirati non scoprirono la sua presenza. Subito un folto gruppo si mise a correre nella sua direzione e lui, pur consapevole del pericolo, non esitò a stenderne altri quattro. Poi fuggì. Gli inseguitori urlarono invettive mentre gli arrancavano dietro. Uno scagliò un pugnale, che lo mancò e rimbalzò sulla pietra. Orlando lo sentì, ma proseguì senza voltarsi. Ormai era quasi in cima al crinale e stava rapidamente guadagnando vantaggio. Raggiunto lo sperone si lanciò nel bosco, correndo come un capriolo, deciso a seminare gli inseguitori o a sfiancarli. Poi le loro grida si smorzarono in distanza e finalmente rallentò per guardarsi alle spalle, ma per quanto scrutasse non ne vide traccia. Si nascose nella macchia e aspettò, non volendo rischiare di cadere in un agguato sulla via del ritorno. Il sole era alto quando uscì dal nascondiglio e tornò indietro, evitando di seguire il sentiero e addentrandosi nella macchia. La sua conoscenza del luogo gli consentiva di muoversi con assoluta sicurezza. Se era necessario, sapeva eludere qualsiasi minaccia. Raggiunse la scogliera in un altro punto e sostò per scrutare in direzione della spiaggia. Lo scontro si era concluso e i navigli erano già al largo. Li scorse allontanarsi veloci, a vele spiegate, lasciando dietro di sé morte e devastazione. Una sorda rabbia lo pervase al pensiero di non aver potuto difendere il villaggio e la sua gente come sarebbe stato suo dovere, ma non aveva mezzi per assoldare dei guerrieri. Alla morte di suo padre i creditori si erano presi quasi tutto, lasciando lui e la madre in miseria, a malapena provvisti dell’indispensabile per sopravvivere. Erano rimasti solo Iselda, la governante, e Manuzio, la cui

incrollabile fedeltà non era venuta meno neanche in quei frangenti. Con l’animo esacerbato dal dolore scese lungo il sentiero e si diresse verso il villaggio incendiato per constatare i danni e aiutare a seppellire i morti. Fu accolto da uno sparuto gruppo di superstiti. I loro sguardi disperati lo straziarono, il loro silenzio lo ferì, ma cercò di confortarli come meglio poteva. C’erano morti dappertutto e non una sola casa era rimasta in piedi. Niente era stato risparmiato dalla furia dei razziatori venuti dal mare. Orlando mandò a chiamare il monaco eremita affinché si occue delle anime dei defunti e mentre si aggirava desolato in mezzo alla devastazione gli si fece incontro una donna. La riconobbe a stento ridotta com’era, e quando con un grido strozzato cadde sulle ginocchia battendosi il petto fu come se una lama rovente gli trafiggesse il cuore. La sollevò e la strinse fra le braccia, piangendo insieme a lei, perché anche se non aveva proferito parola aveva capito e condivideva il suo dolore. «La mia bambina… La mia bambina…» mormorò fra i singhiozzi. «Me l’hanno portata via, quei maledetti!» Orlando la serrò più forte, mentre un amalgama di emozioni si agitava dentro di lui strozzandogli la gola. Si sentiva in colpa: se solo avesse potuto disporre di un manipolo di guerrieri avrebbe impedito quella tragedia. Lacrime d’amarezza e di impotente furore gli rigarono le guance appena scurite da un’ombra di barba. La donna si staccò da lui e lo guardò. «Ho qualcosa da darti», disse con voce incerta. «L’ho salvato a stento, ma lei ci teneva tanto che tu l’avessi…» Frugò sotto la tunica lacera e sporca estraendo un involto che gli porse. «Prendilo, è tuo.» Gli tremarono le mani nell’aprirlo, e quando lo vide restò senza fiato. Col cuore che martellava impazzito guardò dispiegarsi lo stendardo rosso su cui era ricamato un drago coi colori degli Anglante.

«Mio Dio…» mormorò, ricordandosi del sogno. «Lavorava di notte per finirlo e dartelo. Voleva farti una sorpresa.»

Orlando lo serrò fra i pugni e lo portò al viso, scoprendo che conservava tracce del profumo di Angelica. Lo inalò con gli occhi chiusi, rivivendo in un istante i giorni spensierati che avevano vissuto insieme, ripensando all’amicizia che li aveva uniti e al tragico destino che li aveva divisi per sempre. «Era tanto tempo che lo stendardo degli Anglante non sventolava sulla torre», disse con voce rauca d’emozione. «Il Cavaliere del Drago», sussurrò la donna con un tremulo sorriso. «Ti chiamava così, la mia Angelica.»

2

Stava facendo buio quando stancamente rientrò al castello. Sotto al corsaletto aveva riposto lo stendardo, nell’attesa di issarlo sul pennone della torre. Gli andò incontro Manuzio col suo o zoppicante, accompagnato da due cani magri e irsuti, i soli segugi rimasti della muta da caccia del defunto conte d’Anglante. Lo raggiunsero uggiolando e chiedendo carezze che Orlando dispensò a entrambi: era un pretesto per rimandare il momento delle spiegazioni e tenere a bada il tumulto che lo agitava. «Sono due giorni che manchi da casa e tua madre è quasi fuori di sé dalla pena. Ho sentito che c’è stata un’incursione al villaggio e anch’io ero preoccupato, ma ho evitato di dirglielo per non aggravare le sue condizioni. Non sta affatto bene, ragazzo, e le tue scorribande certo non l’aiutano.» «Sei stato saggio a tacere», sospirò Orlando. «Non potrò mai dimenticare quello che ho visto oggi, né come mi sono sentito nell’essere impotente a difendere la mia gente. Non so come, ma farò in modo che un tale orrore non debba più ripetersi.» «Più facile a dirsi che a farsi, figliolo», mormorò il vecchio scrollando il capo. «Va’ da tua madre, ora. Non farla aspettare oltre. Iselda sta preparando la cena e ti chiamerò appena pronta.» Orlando annuì e gli posò la mano sulla spalla dandogli una stretta affettuosa, poi si allontanò attraverso il cortile invaso dalle ombre. Nel varcare la soglia della torre fu colpito dall’aria di desolato abbandono che regnava nella sala. Avvertì un senso di gelo, sebbene il fuoco crepitasse nel camino, e i suoi i echeggiarono in modo quasi sinistro nel silenzio sepolcrale. Salì in fretta per raggiungere la stanza della madre. Non ne usciva quasi più, ormai, indebolita dalle privazioni e dal male che la consumava. Era privo di mezzi per curarla e offrirle qualche comodità, persino nutrirla in modo adeguato era un problema, eppure non si lamentava mai e per lui aveva sempre un sorriso, un gesto o una parola affettuosa. Anche nella sofferenza e nella povertà dimostrava una

straordinaria forza d’animo e la sua fede in Dio non aveva mai avuto cedimenti. Bussò leggermente e all’invito a entrare aprì la porta. Era a letto e vederla più prostrata del solito gli procurò una fitta di sofferenza. Si avvicinò con un sorriso e si chinò a posare un bacio sulla guancia pallida. Lei lo accarezzò, arruffandogli i capelli. «Dove sei stato per tutto questo tempo? Mi farai morire d’ansia, figlio mio.» «Perdonami, sono stato a caccia e mi sono allontanato più del previsto.» «Almeno hai catturato qualcosa?» «Purtroppo no, però andrà meglio la prossima volta.» «Dio, come sei ridotto!» esclamò avvedendosi del suo stato. «Cos’è questo? Sangue?» «Non è che un graffio. Niente di cui debba preoccuparti.» «Tu mi stai nascondendo qualcosa. Anche Manuzio si comporta in modo strano. Credo che mi dovresti dire la verità, tanto prima o poi la scoprirei comunque.» Orlando si lasciò sfuggire un sospiro e si arrese all’acutezza di sua madre, a cui era impossibile tener celato alcunché. «Verso l’alba c’è stata una scorreria al villaggio», le confessò. «Dormivo nel bosco e sono stato svegliato dal clamore dello scontro. Allora mi sono precipitato a prestare aiuto e ho ucciso almeno una dozzina di pirati, prima che mi scoprissero e fossi costretto a fuggire. Alcuni mi hanno inseguito, mentre gli altri proseguivano la distruzione. Dopo aver fatto perdere le mie tracce sono tornato indietro e li ho visti andar via con le loro navi, portandosi dietro dei prigionieri… È stato orribile non poter intervenire a difenderli sul serio.» «Hai fatto ciò che potevi», lo confortò sua madre. «Non è stato abbastanza! Se solo avessi avuto degli uomini, anche pochi, avrei potuto proteggere la mia gente com’è mio dovere. Come loro si attendono che faccia.»

«Non ti angustiare. Sono certa che comprendono, perché conoscono la nostra situazione. Sanno che non è colpa tua se non sei in grado di difenderli dalle incursioni dei barbareschi.» «Mi compiangono, forse provano pietà, e questo non posso sopportarlo!» Si alzò e prese a camminare avanti e indietro nella stanza, incapace di dominare l’amarezza e la frustrazione. «Devo fare qualcosa. Non posso continuare così, a stare inerte e guardare te che soffri, e la nostra gente costretta a subire gli attacchi di masnade d’infedeli.» «E cosa vorresti fare?» «Non lo so, maledizione! Non lo so!» Vederlo così agitato mise in allarme la donna, che si decise a dire ciò che da tempo meditava, ma che non aveva mai avuto il coraggio di porre in atto. Forse per orgoglio, forse per paura o altri motivi che non sapeva identificare. Però non c’era alternativa e bisognava agire. Aveva atteso anche troppo. «Un modo di cambiare le cose ci sarebbe, e credo che tu sia abbastanza cresciuto per conoscere alcune verità sulla nostra famiglia che finora ti ho tenuto nascoste.»

Un guizzo di curiosità attraversò lo sguardo di Orlando. Si fermò e tornò presso il letto. «Quali verità?» «Siedi qui accanto a me», lo invitò la madre. Lui lo fece senza smettere di guardarla, attendendo le parole che tardavano a venire e che sperava ardentemente potessero mutare il corso della sua vita.

«Abbiamo dei parenti importanti, uno dei quali è l’uomo più potente della terra. Uno è mio fratello Gano di Maganza, l’altro è colui che molto tempo fa mi diede Durendal, facendomi giurare che te l’avrei consegnata quando avresti raggiunto l’età adatta, senza però rivelarti altro.» «Lo ricordo», annuì Orlando, riandando con la mente al giorno in cui sua madre gli aveva dato la spada e con aria misteriosa gli aveva detto che era dono del suo

protettore. «Tu eri ancora piccolo, allora, e niente lasciava prevedere che la nostra situazione sarebbe cambiata a tal punto. Anche dopo la morte di tuo padre ho continuato a sperare di non dover ricorrere all’aiuto di mio fratello e di non dovermi appellare alla generosità del re dei Franchi, ma è venuto il momento di mettere da parte l’orgoglio e di assicurarti un avvenire degno del tuo rango. Qui non c’è niente per te, mentre alla corte di Carlo Magno potrai trovare il posto che ti spetta di diritto e dare nuovo lustro al tuo casato. Scriverò a Gano, che certo accoglierà la mia richiesta.» Sorpreso dalla rivelazione, Orlando lasciò trascorrere qualche istante di silenzio, poi alzò il capo per guardarla. «Non voglio che tu implori l’intercessione di alcuno per assicurarmi un brillante avvenire. Sarebbe troppo umiliante. Saprò cavarmela da solo, e se emergerò, un giorno, sarà soltanto per merito mio.» «In te parla l’orgoglio, ma per un giovane nelle tue condizioni farsi strada è assai difficile. Lascia che Gano ti aiuti, che il re ti aiuti. In fondo è loro dovere, in specie del secondo.» «Perché?» La domanda le fece abbassare gli occhi. Ancora non aveva detto tutto, ma doveva, benché la confessione la straziasse di vergogna. Aveva serbato quel segreto per così tanti anni, l’aveva così a lungo e gelosamente protetto, che adesso sentiva venirle meno il coraggio. Eppure doveva trovarlo per il bene di Orlando e perché lui aveva il diritto di saperlo. «Il conte Milone d’Anglante non era il tuo vero padre. Lo sposai che già ti aspettavo e lui accettò serenamente il fatto senza porre domande, recriminare o rivolgermi rimproveri. Fu la regina Berta a combinare il matrimonio per evitare uno scandalo e per proteggere sia me che suo figlio Carlo, col quale avevo avuto una breve ma intensa storia d’amore. Sapevamo entrambi che non avremmo mai potuto sposarci, dato che la regina aveva altri progetti, ma questo non ci fermò. Eravamo giovani, pieni d’ardore, e ci lasciammo trasportare dai sentimenti e dalla ione. Quando scoprii di essere incinta lo confidai a Carlo, che promise di aiutarmi e ne parlò a sua madre. Insieme mi trovarono un marito, un uomo anziano e comprensivo, disposto a riconoscerti come suo. Il conte d’Anglante, appunto. Carlo non potrà mai proclamare davanti al mondo che sei suo figlio, ma

manterrà la promessa che mi fece e ti prenderà con sé.» Il viso di Orlando era impenetrabile, marmoreo nella sua rigidità, ma dentro si sentiva quasi sul punto di esplodere. Nel confessargli quel segreto sua madre si era alleggerita la coscienza, ma gli aveva posto sulle spalle un fardello pesante. Lo sentì gravare su di sé come un macigno e temette di esserne schiacciato, soffocato. L’uomo che aveva amato e creduto suo padre non era altro che una pedina. Non c’era alcun vincolo di sangue a unirli. Adesso capiva perché non c’erano somiglianze fra loro, perché certe sfumature che gli erano risultate incomprensibili adesso gli apparivano più chiare. Chiunque altro, al suo posto, sarebbe stato fiero di essere figlio, sia pure illegittimo, del re dei Franchi, ma non lui. Non poteva, perché l’orgoglio degli Anglante che gli era stato inculcato lo rendeva incapace di accettare quella semplice verità. Consapevole che la madre era turbata dal suo protratto silenzio, infine si decise a parlare. «Mio zio Gano è a conoscenza di questa storia?» Lei scosse il capo e sospirò. «Ne dubito. È probabile che Carlo abbia taciuto. Come me, d’altronde.» «E ne hai parlato solo quando non potevi più farne a meno.» «So di meritare i tuoi rimproveri, e forse mi giudichi severamente, ma non potevo rivelarti la verità. Avevo giurato di non farlo finché non fossi stato pronto a conoscerla.» «Certe verità non si è mai abbastanza pronti a conoscerle. Questa verità avrei preferito ignorarla per sempre.» L’implicita accusa fece trasalire la donna che lo guardò addolorata. «L’ho fatto solo per il tuo bene, devi credermi.» «Ti credo, ma ora sto soffrendo e rimpiango l’ignoranza di prima.» «Mi dispiace, non volevo farti soffrire.» «Lo so, e non te ne voglio. So che hai agito costretta dalle circostanze, ma rivelarmi la verità è stato inutile perché non cambierò idea. Foggerò il mio futuro a modo mio, senza alcun aiuto, proprio come avrebbe desiderato l’uomo che fino a poco fa credevo mio padre. Questo, almeno, sento di doverglielo.»

Le lacrime le traboccarono irrefrenabili e scivolarono lungo le guance pallide. Lo afferrò per le braccia, stringendolo con sorprendente energia. «Ti prego, Orlando, ragiona! Avrai grandi opportunità al fianco del re e di tuo zio Gano, che è uno dei paladini. Non sciupare questa occasione solo per un malinteso senso d’orgoglio!» «L’orgoglio è tutto ciò che mi rimane e nessuno me lo può togliere.» Si sciolse con gentile fermezza dalla sua stretta e si alzò per andarsene, ma il richiamo di lei lo bloccò sulla porta. Si girò lentamente a guardarla e abbozzò un sorriso. «Non tentare di convincermi. Questa volta farò a modo mio.» Sua madre si lasciò sfuggire un singhiozzo disperato. «Non odiarmi, Orlando. Non potrei sopportarlo.» «Odiarti? Madre, tu sei ciò che amo di più su questa terra.»

La notte era chiara quando salì sul torrione per issare lo stendardo. Lo guardò sventolare alla brezza, i colori scintillanti alla luce delle torce, e il drago parve animarsi sotto ai suoi occhi, rammentandogli il sogno e il presagio che racchiudeva. Nel sogno aveva sconfitto il mostro, ma sarebbe stato capace di sconfiggere i draghi che dilaniavano la sua anima? Distolse lo sguardo con un sospiro per puntarlo sul mare rischiarato dalla luna e pensò ad Angelica, perduta chissà dove sulla distesa argentata, prigioniera a bordo di una nave che la portava incontro a un destino ignoto. In fondo anche lui ignorava dove l’avrebbe condotto il proprio destino, ma non si sarebbe abbandonato alla corrente e lasciato trasportare alla deriva. Forse, un giorno, avrebbe ritrovato Angelica da qualche parte, nel mondo sconfinato che si stendeva oltre l’orizzonte e che intendeva esplorare, conquistare e fare suo. Progetti ambiziosi ma non impossibili da realizzare per chi come lui avesse la volontà e la forza di farlo. Plasmare la propria vita e vincere le avversità, questo vagheggiava Orlando nello scrutare lontano, dove il cielo si fondeva con la superficie increspata del mare ed era impossibile distinguere dove cominciava l’uno e finiva l’altro. Smarrito nel fascino dell’immensità, lasciò vagare liberi i pensieri, che come una mandria di cavalli selvaggi galoppavano nella sua mente.

Il ripetuto richiamo di Manuzio lo riportò alla realtà. Si affrettò a lasciare la torre e mentre scendeva le scale incontrò Iselda che portava la cena a sua madre. Le fece un rapido cenno e ò oltre, raggiungendo poco dopo il salone in cui l’aspettava il maestro d’armi, per necessità servitore e scudiero, ligio al dovere più di quanto richiesto, ma consapevole dell’importanza del proprio ruolo al fianco del giovane conte. Sulla tavola c’erano montone arrosto, radici stufate, fichi e formaggio. Latte di capra e acqua al posto del vino, dato che le scorte della cantina erano esaurite ormai da tempo. Quando il conte Milone era in vita e il benessere regnava nel castello, non ci si sarebbe mai sognati di apparecchiare la tavola in modo così modesto, ma tutto ciò che aveva valore era stato venduto e si era conservato solo l’indispensabile. Orlando non aveva che un vago ricordo di quando il casato era prospero e non aveva rimpianti, ma il vecchio Manuzio soffriva per l’indigenza in cui versavano e ne provava vergogna. Comunque era grato a Dio che il ragazzo non avesse grilli per la testa e accettasse la povertà senza troppi problemi. Sedettero e mangiarono in un silenzio interrotto solo dal crepitare della legna nel camino, amplificato dalla vastità della sala vuota. Tutti gli arredi se n’erano andati, venduti un poco alla volta, e non erano rimasti che il tavolo e le panche. Per quanto ancora non si sapeva, perché con l’inverno forse li avrebbero dovuti bruciare per riscaldarsi se non avessero potuto procurarsi del legname. Manuzio osservò Orlando mangiare con la voracità propria della sua età, ma fu colpito dal suo silenzio. Sul suo viso erano evidenti i segni della tensione e si domandò cosa lo turbasse. Cercò di avviare una conversazione qualsiasi, ma invano, e infine si decise a chiedere spiegazioni. «Cosa c’è che non va?» «Tutto, e non so come porvi rimedio.» Manuzio fu stupito dalla risposta. «È la prima volta che ti sento parlare così. Non mi vuoi dire che cosa ti preoccupa?» Orlando tormentò un pezzo di pane con dita nervose. «Non riesco più a vivere in

questo modo. Stare qui ad aspettare che un miracolo cambi la situazione non è da uomini.» «Ma tu sei soltanto un ragazzo», sorrise Manuzio. «E i cambiamenti verranno, ne sono certo. Basterà che tu abbia fede e pazienza.» «Questo può andar bene per te, che sei vecchio e non ti aspetti più niente dalla vita, ma io sono giovane e dalla vita esigo qualcosa di meglio che condurre un’esistenza grama e senza prospettive. Non parlo soltanto per me, ma anche per mia madre, che ha già sofferto tanto e merita tutto ciò che sono in grado di offrirle.» «Se lei accetta serenamente le prove che le vengono da Dio, dovresti farlo anche tu.» «Ma io non posso!» sbottò Orlando. «Non sono capace di stare a guardare: io devo agire. Devo operare i cambiamenti senza aspettare che cadano dall’alto. Sono un ragazzo, è vero, ma se voglio foggiare il mio destino devo farlo adesso. Domani potrebbe essere già troppo tardi.» «E cosa vorresti fare?» «Ancora non lo so, ma ci sto pensando.» «Sei una testa calda. Lo sapevo da tempo, ma m’illudevo di averti inculcato un po’ di buonsenso in questi anni. Ora, invece, scopro che sei tale e quale a tuo padre, che riposi in pace, e come lui pronto a lanciarti a capofitto incontro all’ignoto senza badare alle conseguenze. E avendo davanti agli occhi la fine che fece lui, non posso che esserne preoccupato. Qualsiasi cosa tu stia meditando di fare, evita di commettere sciocchezze. Tua madre ne morirebbe.» «Mia madre sta morendo proprio a causa della mia inerzia. Non ho mai fatto niente per toglierla da questa situazione.» «Non mi pare che se ne sia lamentata.» «E ti sembra una buona ragione per rinunciare?» «Sei testardo e ostinato come tuo padre», sospirò Manuzio.

«Smettila di tirarlo in ballo!» scattò Orlando. «Lui è morto e sepolto da anni e non si preoccupa certo della rovina che si è abbattuta sulla sua famiglia!» «Se fosse qui, adesso, non parleresti così.» Orlando si alzò con impeto, minacciando di rovesciare la panca. «Non ho più voglia di stare ad ascoltarti!» dichiarò andandosene. Manuzio non lo trattenne, ma sussultò allo sbattere fragoroso della porta e scosse il capo. Orlando non aveva mai avuto un carattere facile, ma niente l’aveva preparato a una reazione tanto violenta. Cosa gli stava succedendo? Perché d’improvviso rivelava quella insofferenza? Che covasse in animo tanta collera lo spaventava e non sapeva come fronteggiarlo. Era troppo vecchio e stanco per combattere contro il ragazzo, ma se anche non lo fosse stato temeva di non avere abbastanza autorità per tenerlo a freno.

3

Prendendo a calci le pietre del cortile per sfogare la sorda collera che lo divorava, Orlando si diresse verso la scuderia, dove ormai alloggiavano soltanto due vecchi cavalli da tiro e il suo destriero, uno stallone dal manto fulvo e dai crini color miele che si chiamava Albaluce.

Fu salutato da un nitrito e uno scalpitare impaziente, mentre gli altri due seguitavano a mangiare senza levare il muso, sebbene pure loro l’avessero riconosciuto. Orlando lo accarezzò sul collo possente, seguendo la linea elegante del dorso, lasciando che gli mordicchiasse la manica come d’abitudine; un po’ per gioco e un po’ nella speranza di ricevere qualcosa di buono. Ma quando Orlando prese sella e morso capì che sarebbero usciti e manifestò la propria gioia con un nitrito e una scrollata della bella testa fiera. «Stai buono», gli sussurrò nel sellarlo. «Serba le tue energie per stanotte, perché correrai a lungo.» Poi lo condusse fuori per le briglie e montò in sella con un’agile giravolta, spronandolo verso il portale ancora spalancato e, superandolo con un balzo, si allontanò nella notte. Cavallo e cavaliere scomparvero presto nel buio e nella macchia. Il suono degli zoccoli che percorrevano il ponte e la strada di pietra attirò sua madre e Manuzio. Entrambi si affacciarono; Ginevra dalla finestra della sua stanza e Manuzio dalla porta della cucina, ma Orlando era già svanito, rapido e fugace come un miraggio. Orlando guidò il destriero nel bosco, seguendo il tracciato di tortuosi sentieri che ben conosceva. Non era una delle sue solite scorribande, perché stavolta non sarebbe tornato indietro. Aveva assecondato l’impulso di andarsene com’era nella sua natura, senza pensare alle conseguenze o al dolore che avrebbe arrecato a sua madre.

Decise di dirigersi a sud, verso uno dei porti del meridione. Forse a Brindisi, dove avrebbe potuto trovare un imbarco. La meta non gli importava, purché fosse abbastanza lontano. La vendita del cavallo gli avrebbe consentito di pagarsi il aggio, e poi via verso l’ignoto, verso una nuova vita e l’avventura. Non temeva alcunché, poiché aveva Durendal e l’Olifante, era intelligente e sapeva combattere. Che altro gli occorreva per far fortuna? Non si rendeva conto che stava fuggendo, che cercava di troncare ogni legame col ato e dimenticare quel padre troppo importante e potente che aveva scoperto di avere e nella cui ombra non intendeva vivere. La sua era semplice paura di affrontare la realtà, ma l’incosciente irruenza che dominava le sue azioni lo rendeva cieco. Confidava nella propria forza e si credeva invincibile, mentre era soltanto un ragazzo privo di esperienza, ignaro delle cose del mondo e delle leggi spietate che lo governavano. Cavalcò la notte intera senza fermarsi e alle prime luci uscì dal bosco per inoltrarsi sulla strada del litorale. Malgrado fosse impaziente di arrivare, moderò l’andatura del cavallo per non sfiancarlo e più avanti gli concesse una sosta. C’era un frutteto, lì vicino, e vi si addentrò per cogliere qualche pesca già matura, per nulla turbato dal commettere quello che era, a tutti gli effetti, un furto. «Non sai che rubare è peccato?» disse d’un tratto una voce. Orlando trasalì, facendo voltare il cavallo e lasciando cadere i frutti per mettere mano alla spada. Si trovò davanti un monaco, forse un pellegrino, a giudicare dal logoro mantello e dal bordone a cui si appoggiava, e sembrava inoffensivo. Sorrideva e sebbene ancora giovane sul suo viso c’erano i segni di un’esistenza intensamente vissuta. Probabilmente grama ed errabonda. «Ho fame», replicò. «E per i pochi frutti che ho colto il padrone non andrà certo in rovina.» «Hai un bel cavallo e una spada anche più bella. Per non dire della zanna d’avorio che porti a tracolla e che deve valere parecchio. Sei nobile, oltretutto, e certo non ti manca il denaro per procurarti il cibo onestamente.» «E chi sei tu per giudicare?»

«E per giunta parli con arroganza», soggiunse lo sconosciuto accentuando il sorriso. «Tu non sei certo da meno. I tuoi modi non sono quelli di un pellegrino, né di un monaco.» «Infatti non sono l’uno né l’altro. Mi chiamo Rinaldo d’Urbino e sono un cavaliere errante.» Orlando inarcò un sopracciglio. «Un cavaliere. E dove sono il tuo cavallo e la tua spada?» «Il cavallo l’ho perduto a una giostra e la spada…» Scostò il mantello con enfasi per mostrarla. «Come vedi quella l’ho ancora e potrei sfidarti per dimostrarti il mio valore e vincerti il cavallo.» «Più facile a dirsi che a farsi. Durendal spacca le pietre e Olifante ti potrebbe far esplodere la testa come un melone. Soltanto un pazzo o un aspirante suicida oserebbe battersi con me.» «E io di certo non lo sono. Ma chi sei, dunque, tu che ancora così giovane fai sfoggio di tanta superbia?» «Orlando d’Anglante.» L’altro si fece pensieroso, poi scosse il capo. «Mai sentito nominare.» «Non ho compiuto imprese che abbiano dato fama al mio nome, ma lo farò presto e tutti impareranno a temermi. Tremeranno al solo sentirlo pronunciare.» Rinaldo d’Urbino lo squadrò, soppesando le sue parole, poi fece un cenno col capo. «Mi piaci. Sei un tipo strano, ma credo che andremo d’accordo.» «Sarebbe a dire?» «Che verrò con te. Non importa dove, basta che ci sia da combattere e da mettersi in mostra.» «No, io viaggio da solo.»

«Sarebbe poco saggio. Il cammino verso il meridione è infido, pieno di pericoli. Non andresti lontano, da solo.» «Ma sei appiedato e io vado di fretta.» «Monterò dietro di te. Il tuo cavallo è forte abbastanza da portarci entrambi, almeno finché non ne avrò uno anch’io.» Orlando esitò. Non rientrava nei suoi progetti avere compagnia, però dovette convenire che viaggiare con Rinaldo gli sarebbe potuto tornar comodo, e alla fine acconsentì. «Ci sto», rispose, tendendo la mano. L’altro si aggrappò e balzò dietro di lui. «Non te ne pentirai.» «Lo spero», replicò spronando Albaluce coi talloni. «Allora, dove siamo diretti?» «Lo saprai al momento opportuno.»

Dopo una notte agitata, Ginevra volle lasciare il letto nonostante le proteste dell’ancella. Si fece vestire e pettinare, mentre in preda all’ansia continuava a parlare di Orlando. «Questa notte non è rientrato», sospirò tormentandosi le mani. «Ne sono certa perché ho dormito pochissimo. Bisogna che parli a Manuzio. Forse lui sa dov’è andato. Ho paura, Iselda. Orlando è così impulsivo…» «Non è la prima volta che il ragazzo sta fuori tutta la notte. Gli piace dormire sotto le stelle, come gli animali selvatici. Smetti di agitarti. Vedrai che tornerà fra poco», rispose la donna raccogliendo i lunghi capelli castani, qua e là striati da ciocche bianche. «Questa volta è diverso. Ieri abbiamo avuto una conversazione che l’ha turbato e temo possa aver commesso qualche gesto avventato. È talmente ombroso e suscettibile!» «Lo so, mia signora, ma non devi pensare al peggio. Orlando non fuggirebbe

mai.» Ginevra avrebbe voluto crederle. Con tutto il cuore desiderava che Iselda avesse ragione, ma conosceva troppo bene suo figlio per illudersi. Orlando se n’era andato perché non sopportava che lei gli avesse taciuto per anni la verità e perché non voleva affrontare il padre naturale, la cui figura gigantesca e splendente di gloria gli incuteva timore. Si alzò appena Iselda finì di pettinarla e raccogliendo la gonna si avviò alla porta. Sulla soglia si girò e le fece un cenno. «Vieni, accompagnami.» L’ancella la raggiunse e scesero insieme la ripida scala. La mano di Ginevra tremava appoggiata al suo braccio, non tanto per l’apprensione quanto per lo sforzo. Eppure, malgrado la debolezza, riuscì ad arrivare in fondo senza cedimenti. Iselda l’accompagnò a sedere nel vano di una piccola finestra. «Vado a chiamare Manuzio», le disse. «E ti porterò qualcosa da mangiare.» Lei scosse il capo. «Non ho fame, ma sbrigati a portare qui Manuzio.» L’ancella si dileguò in cucina e Ginevra, esausta, si appoggiò allo schienale del sedile con un sospiro, guardando intorno a sé con tristezza. Il salone che un tempo era stato il suo orgoglio per l’eleganza degli arredi, adesso era di un deprimente squallore. Le pareti erano annerite e incrostate di sporcizia, il pavimento non veniva lavato da chissà quanto e nessuno si curava di spazzare almeno i rifiuti che i cani lasciavano in giro. Iselda e Manuzio facevano del loro meglio, ma soli e anziani non riuscivano a fare tutto e lei era troppo indebolita dalla malattia per occuparsene. Malgrado ciò che pensava Orlando, era giunto il momento di scrivere a Gano e al re affinché ponessero riparo a quella situazione. Nessuno dei due sarebbe venuto meno al proprio dovere. Manuzio arrivò, seguito da Iselda con una ciotola di latte e del pane su un piccolo vassoio. Mentre il maestro d’armi le si avvicinava, l’ancella posò il cibo sul tavolo, poi s’inchinò e li lasciò soli. «Iselda mi ha detto che sei preoccupata per l’assenza di Orlando, mia signora», disse l’uomo nel sederle accanto.

«È vero. L’ho sentito andare via a cavallo, ieri sera, ma non è tornato.» «Forse è andato al villaggio, oppure in giro per i boschi e ha dormito all’aperto come la notte ata.» Le sorrise. «Vedrai che tornerà. Lo fa sempre.» «Ma… se questa volta non lo fe?» L’uomo la guardò e lesse nei suoi occhi l’ansia e il tormento. Le sfiorò la mano con gentilezza, una confidenza che mai aveva osato prima. «Ho avuto la sensazione che ieri sera Orlando fosse molto turbato. Parlava in modo diverso, si comportava in modo strano. Diceva cose che non gli avevo mai sentito dire finora e devo ammettere che mi ha allarmato. È accaduto qualcosa che possa averlo sconvolto tanto da spingerlo ad andarsene?» «Temo di sì», sospirò Ginevra. «Non posso rivelarti di cosa si tratta, ma Orlando l’ha presa male. Alla luce dei fatti, l’ha presa più male di quanto mi abbia dato a intendere. Oh, se solo avessi idea di dove può essere andato!» «Se fossi più giovane e valido andrei a cercarlo e lo ricondurrei a casa. Non c’è niente che si possa fare? Ci sarà pure qualcuno che possa aiutarci.» «Sì, qualcuno c’è. Prendimi il necessario per scrivere. Manderò una lettera a mio fratello Gano e al re. Loro mi aiuteranno.»

Verso sera Orlando e Rinaldo si accamparono in una radura poco distante dalla strada e dal mare, delimitata presso la scarpata da un basso muretto di malta oltre il quale crescevano alberi di ulivo. Mentre il compagno accendeva il fuoco, Orlando si prese cura di Albaluce, poi spellò i due conigli che aveva catturato e li mise ad arrostire, rigirandoli ogni tanto sullo spiedo improvvisato. Abituato alla solitudine, Orlando non era incline a parlare, ma l’altro era un tipo curioso e non seppe resistere a lungo senza fargli domande. «Come mai sei scappato di casa? Di certo non sei ancora stato ordinato cavaliere, dato che sei molto giovane, e non hai l’aria di uno sbandato. La tua famiglia sarà in ansia per la tua scomparsa.»

«Cosa ti fa credere che sia scappato?» L’altro si mise a ridere. «È così evidente. Nessuno che non stia fuggendo si metterebbe in viaggio senza denaro, viveri e bagaglio, come stai facendo tu. Non amo dispensare consigli, ma nel tuo caso farò un’eccezione: torna indietro, finché sei in tempo. Cresci ancora un po’ e diventa cavaliere, poi affronterai il mondo, se è davvero ciò che desideri.» «Chi sei tu per dirmi ciò che devo o non devo fare?» «Uno che ha più esperienza di te e conosce la vita. Credimi, l’avventura che vai cercando non la troverai in questo modo. Così troverai solo guai, e tanti.» «Non ti riguarda.» «Ti sbagli. Adesso riguarda anche me poiché viaggiamo insieme. Sono più vecchio, anche se non di tanto, e ti posso mettere in guardia dal commettere sciocchezze di cui ti potresti pentire amaramente.» «Non ti ho chiesto di seguirmi. Là c’è la strada e puoi andartene quando vuoi. Anche subito.» L’altro sogghignò. «E lasciarti mangiare questa favolosa cena tutta da solo? Neanche per sogno! Però lascia che ti dica che sei testardo e ostinato peggio di un mulo.» «Me lo sento ripetere in continuazione. Da tutti.» «Non mi sorprende. Allora, mi dici o no perché stai scappando?» «No.» «D’accordo, tieniti pure i tuoi segreti.» «Non mi va di parlare dei fatti miei con uno che a malapena conosco.» «Già, lo vedo. Peccato, ti stai perdendo un’occasione. Potrei essere un buon amico, e hai l’aria di averne bisogno. Soltanto uno che ha vissuto come un eremita può disprezzare il valore di un’amicizia sincera. È così che hai vissuto finora, da eremita?»

«Fai troppe domande, e a me la gente curiosa non piace.» «Allora non ne farò più.» «Saggia decisione.» Mangiarono in silenzio, mentre la notte avvolgeva la radura e il vento frusciava fra i rami degli ulivi, recando fragranze di rosmarino e salvia. Orlando si avvide dello sguardo dell’altro che lo scrutava di sottecchi, forse per cercare di capire cosa nascondesse. Non poteva negare che Rinaldo gli era simpatico, nonostante l’atteggiamento un po’ irritante, ma non intendeva dargli confidenza. Non l’avrebbe fatto neanche fosse stato un amico, del resto. Non si confidava con Manuzio, che pure conosceva fin dall’infanzia, e neppure con sua madre. Forse aveva ereditato da lei la propensione a serbare gelosamente i suoi segreti.

Non avendo fratelli e sorelle era cresciuto selvatico come un orso e altrettanto determinato a difendere la propria intimità. La sua esistenza solitaria l’aveva portato a sviluppare una forte diffidenza nei confronti degli altri, rendendolo schivo e riservato, persino aggressivo se qualcuno cercava di aprire uno spiraglio nella barriera che aveva eretto.

Tuttavia il suo peggior difetto era l’orgoglio. L’esagerata considerazione di sé e delle sue capacità che lo portava spesso a strafare, a superare ogni limite, a sfidare continuamente la sorte e a mettersi in gioco. Orlando era incapace di dominare la smania che lo spingeva ad affrontare la vita, il desiderio di foggiarla a propria misura e di mutare il corso di un destino che l’aveva voluto figlio di re senza diritto alla corona. Ma il mondo era pieno di regni da conquistare, di corone a cui ambire, di gloria a cui aspirare. E per lui, nelle cui vene scorreva lo stesso sangue che aveva reso grande e potente re Carlo, realizzare quei sogni di grandezza non sarebbe stato impossibile.

4

Orlando sognava, quando fu svegliato alquanto bruscamente da Rinaldo. «È ora di andare.» Il sole si era levato da un pezzo. «Perché mi hai lasciato dormire tanto?» «Hai tanta fretta di arrivare, dovunque sia il luogo in cui sei diretto?» «La strada è lunga e abbiamo un solo cavallo. Non voglio sfiancarlo.» «Giusto», annuì l’altro. «Ma non credi che abbia il diritto di sapere dove stiamo andando?» Raccolti sella e finimenti, Orlando si avviò verso lo stallone. «Sto andando a Brindisi», rispose, sperando che Rinaldo avrebbe smesso di dargli il tormento. «E che ci vai a fare?» «A cercare un imbarco.» «Per dove?» Orlando scrollò le spalle. «Non ha importanza, purché sia abbastanza lontano.» «Non sai quel che dici, e soprattutto non sai che posto infame sia quella città. Uno come te non sopravvivrà un solo giorno.» Orlando finì di stringere lo straccale e si girò a guardarlo. «Sei libero di non venire se hai paura», sogghignò. «Paura io? Ci sono già stato e ne sono uscito vivo, ma tu… tu non te la caverai.» «Scommettiamo?»

«Perché no? Mi piace giocare e sono disposto a puntare tutto ciò che possiedo che appena metterai piede a Brindisi ti taglieranno la gola.» «Sicuro, per te sarebbe una bella fortuna prendermi il cavallo e le armi. Io, invece, non ne ricaverò alcun vantaggio, visto che possiedi ben poco, però sarà uno so vederti nudo.» «La tua temerarietà ti sarà fatale, e prima di quanto immagini.» Orlando balzò in sella e gli porse la mano. «Salta su, che ce ne andiamo, se non hai cambiato idea.» «Ci mancherebbe», replicò Rinaldo montando dietro di lui. «Sono sul punto di vincere una scommessa che mi procurerà un bel cavallo, una magnifica spada e una zanna d’elefante… Che potrei volere di più?» Un tocco leggero ai fianchi e Albaluce si incamminò. «Hai poche pretese», osservò Orlando. «Non hai altre aspirazioni nella vita?» «A dire il vero ne avrei una», mormorò Rinaldo. «Ma è talmente fuori dalla mia portata che ci penso raramente. È una specie di sogno.» «Se è un segreto non voglio saperlo.» «Te lo dirò, se prometti di non ridere.» «Prometto.» «Ciò che desidero di più al mondo è diventare un paladino, uno dei dodici pari di re Carlo.» Per la sorpresa, Orlando tirò le briglie così bruscamente che il cavallo minacciò di impennarsi e di farli cadere. Non lo stupiva che qualcuno potesse nutrire una tale ambizione, data la fama leggendaria che circondava i paladini, ma che a desiderarlo fosse proprio Rinaldo era perlomeno singolare. «Non è un onore che viene concesso a chiunque», rispose. «Lo so, per questo lo considero soltanto un sogno.»

Proseguirono in silenzio. La strada assolata si snodava tra il mare color turchese, la scogliera e il bosco, bianca e polverosa, segnata dal transito di eserciti invasori che avevano scorrazzato in lungo e in largo nella penisola dopo la caduta dell’impero romano e che ora giaceva nel quasi totale abbandono. Città turrite apparivano d’improvviso nei lampi di luce del sole. Sospese fra cielo e mare, avevano la stessa consistenza dei miraggi nella loro fugace bellezza, e lasciavano nello sguardo del viaggiatore un’attonita meraviglia. Verso mezzogiorno fecero una sosta. Mentre il cavallo brucava, compirono una rapida incursione in un frutteto per cogliere pesche e albicocche che mangiarono all’ombra di un boschetto, ridendo come monelli da strada. La loquacità di Rinaldo si infrangeva contro il riserbo di Orlando, ma non al punto da impedirgli di fare qualche domanda. Il taciturno compagno di viaggio destava la sua curiosità e l’aura di mistero di cui si ammantava, invece di scoraggiarlo, lo stimolava a indagare. Non poteva negare di esserne affascinato, perché intuiva in lui qualità nascoste, una ricchezza interiore che attendeva soltanto di essere portata alla luce. Anche a costo d’irritarlo. «Stavo pensando», disse rompendo il silenzio del meriggio assolato, «che potresti raccontarmi qualcosa di te e della tua vita. Per conoscerci meglio, capisci?» Lo sguardo di Orlando fu attraversato da un lampo di malizia. Strappò un filo d’erba e prese a masticarlo pensoso. «Cosa potrei raccontare per soddisfare la tua insaziabile curiosità? Saresti contento se ti dicessi che l’altra notte ho affrontato e ucciso un drago? Che ho sconfitto da solo una masnada di pirati barbareschi? Che sono il figlio bastardo di un re?» «Mi stai prendendo in giro», replicò Rinaldo. «È la verità, ma tu non mi credi», ridacchiò Orlando. «Non puoi pretendere che creda a simili vanterie.» «Allora smettila di fare domande.» «Non ci riesco. Che c’è di male nel volerti conoscere meglio?»

«Mi conosci quanto basta. Ti ho già detto anche troppo.» «Quello che è troppo per te, per me non è abbastanza.» «Temo che tu non abbia scelta.» «Se ti comporti così non avrai mai degli amici.» «Mai avuto bisogno di amici in vita mia.» «Che presuntuoso! Come puoi non apprezzare il valore dell’amicizia?» «Conosco il mio valore e non mi serve altro.» «Allora sei da compiangere, perché ti attende una vita vuota e infelice.» Orlando si alzò stiracchiandosi. «Basta con queste futili chiacchiere. Mi stai annoiando.» Emise un fischio e il cavallo arrivò al trotto, strofinando il muso contro di lui. Orlando balzò in sella e da lì guardò Rinaldo. «È venuto il momento di separarci», dichiarò. «Perché?» esclamò quello sorpreso. «Perché vado di fretta e tu mi rallenti.» «Ehi, non puoi lasciarmi qui! Abbiamo fatto una scommessa, te lo sei scordato?» «Sei stato tu a proporre la scommessa, e dato che ho cambiato idea me ne tiro fuori e ti saluto.» Spronò il cavallo e si allontanò al galoppo, lasciando Rinaldo in mezzo alla strada polverosa, senza curarsi dei richiami e delle imprecazioni che gli gridò dietro. Poi anche l’eco si smorzò in distanza e non udì altro suono che il battito cadenzato degli zoccoli di Albaluce.

Cavalcò tutto il pomeriggio ad andatura sostenuta, senza rivolgere un solo pensiero a Rinaldo. Tuttavia, quando il sole tramontò e venne il momento di accamparsi, si rese conto di sentirne la mancanza. Fu costretto ad ammettere che era un compagno piacevole, malgrado l’invadenza, e che il suo inalterabile buonumore aveva alleviato il fardello dei conflitti che lo tormentavano. Ma non

lo rimpianse a lungo. Appena ebbe il fuoco e messo ad arrostire il coniglio tornò ad apprezzare la solitudine e il silenzio, ancora più gradito dopo l’inesauribile chiacchierio di Rinaldo. Più tardi, prima di addormentarsi, pensò a sua madre e a Manuzio, lasciati senza un saluto. Sperò che avessero perdonato la sua fuga e che non si sarebbero angustiati per lui. Si ripromise, se mai un giorno fosse tornato da quell’avventura ricco e ammantato di gloria, che avrebbe ridato splendore al castello, assicurando a entrambi una vecchiaia serena. Non provò rimorso per coloro che aveva con tanta leggerezza abbandonato e scivolò dolcemente nel sonno. Nel cuore della notte fu destato da un fruscio, tanto lieve da risultare quasi impercettibile per sensi meno esercitati dei suoi. Si tese in ascolto, senza muovere un muscolo, la mano serrata sull’elsa della spada. Il cavallo sbuffò e calpestò l’erba, innervosito da una presenza estranea. Orlando scrutò nell’oscurità che le braci ormai languenti del fuoco non riuscivano a dissipare, e intravide un movimento fra gli alberi: un’ombra che si spostava furtiva, ma non abbastanza da are inosservata. Aspettò, pronto a scattare, e quando l’ombra si accostò al cavallo balzò in piedi e si avventò sullo sconosciuto, gettandolo a terra e torreggiando su di lui minaccioso, con la spada puntata contro la sua gola. «Pietà!» implorò il malfattore, tremando di paura. «Perché dovrei avere pietà di te che hai cercato di sorprendermi nel sonno?» sibilò Orlando. «Non ti avrei fatto del male, lo giuro! Volevo solo prendere il tuo cavallo… Sono un miserabile ladro, ma non un assassino.» Orlando fece un o indietro e abbassò la spada. «Alzati e vattene. Sparisci, prima che cambi idea e ti faccia a fettine!» L’uomo non se lo fece ripetere e si dileguò. Tornato il silenzio, Orlando rinfoderò la spada e usò il coltello da caccia per riattizzare il fuoco. Mancavano ancora parecchie ore all’alba, ma non aveva più voglia di dormire. L’episodio l’aveva reso inquieto, ponendolo di fronte a un pericolo che non aveva preso in considerazione. Il luogo poteva essere pieno di

malfattori, e non tutti intenzionati soltanto a rubargli il cavallo. Altri più audaci avrebbero potuto aggredirlo mentre dormiva, e sebbene non dubitasse di sapersi difendere ritenne più saggio non esporsi al rischio. Poco dopo, sellato il cavallo, ripartì al galoppo. Nei giorni seguenti cavalcò quasi senza interruzione, concedendosi solo qualche ora di riposo, ma anche la sua resistenza aveva un limite e venne il momento in cui fu sul punto di crollare per lo sfinimento. Tuttavia si impose di non cedere e guidò il cavallo verso alcune rovine che si ergevano su un promontorio, seguendo il tracciato dell’impervio sentiero. Le rocce erano a strapiombo sul mare e da lassù la vista era magnifica, ma Orlando non era in vena di apprezzarla. Si inoltrò fra le mura diroccate, ando sotto un arco e giungendo in un piccolo cortile interno, sul quale si proiettava l’ombra del mastio. Si chinò un poco in avanti per smontare e quel movimento gli salvò la vita. La freccia sibilò sopra la sua testa, configgendosi in una delle travi che sostenevano l’arco d’ingresso. Subito si lasciò cadere a terra e spinse via il cavallo, poi corse a ripararsi dietro un muro sbrecciato. Sguainò la spada e scrutò intorno per scoprire chi l’aveva preso di mira, ma non riuscì a vedere l’arciere, sicuramente appostato sul torrione. Infatti altre due frecce lo sfiorarono, costringendolo ad abbassarsi. Le sentì urtare contro le pietre e poi rimbalzare a terra. Trascorsero alcuni istanti di silenzio teso, prima che una voce minacciosa echeggiasse dall’alto. «Ehi, forestiero, non hai alcuna speranza di uscire vivo da qui. Sei circondato e sotto tiro, perciò ti consiglio di deporre le armi e arrenderti. Se ti consegnerai senza combattere, ti do la mia parola che avrai una morte rapida, altrimenti…» Orlando non si lasciò intimorire. «Altrimenti?» «Verremo a prenderti e ti faremo a pezzi!» Era inesperto, ma non ingenuo né digiuno di tattica, poiché Manuzio l’aveva addestrato a dovere, perciò non cadde nell’inganno. Se davvero ci fossero stati tutti gli uomini che la voce asseriva, gli avrebbero scagliato contro un tale numero di frecce da tenerlo bloccato. Invece non dovevano essere più di due, al massimo tre, e le sue possibilità di cavarsela erano certamente elevate. La

tensione nervosa, di fronte alla prospettiva di un combattimento, gli fece dimenticare la stanchezza: doveva snidarli, pochi o tanti che fossero. «Venite a prendermi. Se siete così valorosi, di certo non avrete paura di affrontare un uomo solo!» ribatté sfidandoli. Per tutta risposta arrivarono altre frecce. Ne contò sei, scagliate in rapida sequenza e dalla stessa direzione. Ciò gli confermò che si trovavano nel torrione, su piani diversi, e non erano più di tre, proprio come aveva intuito. Se ne uscì con una squillante risata di scherno. «Ecco la dimostrazione della vostra paura», gridò. «Quelli come voi, io me li mangio in un solo boccone.» La reazione non si fece attendere.

Urlando come invasati per spaventarlo, tre uomini uscirono dal mastio per avventarsi su di lui. Brandivano corte daghe e sembravano sicuri del fatto loro, solo che ignoravano con quale avversario stavano per scontrarsi. Con un sorriso beffardo, Orlando balzò fuori brandendo Durendal e calò un tremendo fendente sulle pietre, che si infransero con una miriade di scintille e grande fragore, poi li fronteggiò spavaldo. Investiti dalle schegge affilate quelli si arrestarono esitanti, intimoriti dal prodigio. «Che succede?» chiese. «Dov’è finita la vostra smania di farmi a pezzi?» E intanto mulinava la spada, che sibilava minacciosa come un serpente. I tre energumeni, attoniti e spauriti, si tennero a distanza e ciò permise a Orlando di dare un’altra dimostrazione. Durendal si abbatté su un muro, frantumandolo. Ormai in preda al terrore quelli arretrarono, e con un altro colpo lui fendette le pietre del selciato, avanzando verso di loro finché si diedero alla fuga.

Soddisfatto della bravata, Orlando rinfoderò la spada e andò a prendere il cavallo per legarlo a un anello infisso nel muro. Adesso poteva finalmente concedersi un meritato riposo.

Si svegliò al tramonto, accarezzato dagli ultimi raggi del sole. Stormi di rondoni volavano intorno alla torre lanciando richiami e i gabbiani sfrecciavano sulla scogliera e sulla superficie del mare. Orlando si arrampicò su una scala di pietra e da lì scrutò l’orizzonte già lambito dalle prime ombre, assalito d’improvviso dalla nostalgia di casa. Dei profumi familiari dell’orto che a quell’ora si facevano più intensi, dell’abbaiare festoso dei cani, della voce di sua madre. Provò nostalgia per Manuzio e per tutto ciò che aveva lasciato dietro di sé. Nell’andarsene aveva creduto di recidere ogni legame col ato, ma c’erano ricordi impossibili da cancellare e suoni, immagini, voci, odori che facevano parte di lui, impressi nella sua mente e nel suo cuore, che l’avrebbero seguito ovunque sarebbe andato. Sospirò malinconico, mentre calava la sera e i richiami degli uccelli si smorzavano in un silenzio quasi struggente, colmandogli l’animo di una pena indefinibile, e lasciò il punto d’osservazione per scendere nel cortile e dissellare Albaluce. Mentre gli posava sulla groppa una coperta, sentì il suono cadenzato del galoppo di un cavallo che si avvicinava e, con un moto d’irritazione, raggiunse un terrapieno per vedere chi stesse arrivando. Era pronto ad affrontare chiunque avesse intenzione di contendergli il suo piccolo regno. Tuttavia non era un nemico come si aspettava e stentò a credere ai propri occhi quando riconobbe Rinaldo, che chissà come era riuscito a procurarsi un cavallo. Un tipo dalle mille risorse, rifletté saltando a terra per andargli incontro con un sorriso, suo malgrado contento di rivederlo. Alzò il braccio in segno di saluto e lo chiamò. L’altro lo ricambiò, affrettandosi a raggiungerlo e smontando di sella con un balzo per correre ad abbracciarlo. Orlando lo lasciò fare, sebbene vagamente a disagio. Nessuno, a parte sua madre, aveva gesti d’affetto per lui. «Sapevo che ti avrei trovato qui!» esclamò Rinaldo. «Strada facendo mi sono imbattuto in tre loschi figuri che stavano scappando e mi hanno gridato di non salire, perché quassù c’era un matto che spacca le pietre con la spada, e non c’è voluto molto a capire che eri tu. Scommetto che stanno ancora correndo!» Risero insieme e Orlando non perse l’occasione di vantarsi. «Gli ho dato una piccola lezione, facendogli vedere quello che può fare Durendal.» «Avrei voluto esserci.»

«Non sei arrabbiato con me perché ti ho lasciato?» «Figurati. Al posto tuo avrei fatto lo stesso.» Si guardò attorno. «Niente male. Hai sloggiato quei bifolchi e ti sei sistemato. Mi offri ospitalità?» «Sei il benvenuto. Dimmi, dove hai preso quel cavallo?» «Dopo che te ne sei andato ho incontrato un mercante. Ricco e non troppo sveglio, così ho deciso di alleggerirlo proponendogli di giocare. Ha perso, e allora gli ho preso il cavallo più una borsa di monete. Non hai idea di quanti polli da spennare ci siano in giro!» Orlando sorrise ed evitò di fargli notare che un simile comportamento non era degno di un cavaliere, perché capì che non avrebbe avuto scelta se voleva procurarsi i mezzi di sostentamento. Legarono il cavallo accanto ad Albaluce e poi entrarono nel torrione, dove Orlando accese un fuoco per arrostire la selvaggina. «È quasi come essere a casa», sospirò Rinaldo mettendosi comodo. «Un tetto sulla testa, il calore del fuoco e del buon cibo… Che si può volere di più dalla vita?» «Non farci l’abitudine», ridacchiò Orlando. «Domani ce ne andiamo.» «Andiamo? Significa che viaggeremo di nuovo insieme?» «Sì, almeno per un po’.» «Non ti libererai di me tanto facilmente. Noi due siamo una coppia formidabile e faremo molta strada.» Orlando si limitò a sorridere. Perché privarlo delle sue illusioni?

5

Durante la notte si scatenò un violento temporale. Il fragore dei tuoni e il ruggito del mare tempestoso svegliarono Orlando, che uscì per portare al riparo i cavalli. Rinaldo, che aveva il sonno pesante, quasi non lo sentì e si limitò a un borbottio indistinto. Al ritorno, bagnato fradicio, Orlando si avvicinò a una delle piccole aperture della torre da dove avvistò, al chiarore baluginante dei lampi, la sagoma di un vascello in balia dei marosi, alquanto distante dalla riva. «Qualcuno farà naufragio, stanotte», disse inutilmente all’amico che dormiva beato. Poi tornò a scrutare fuori: il piccolo naviglio beccheggiava, a tratti sgroppava, flagellato dalla violenza delle ondate che minacciavano di travolgerlo.

Tuttavia non attese il compiersi del dramma e con un sospiro tornò a coricarsi, pensando alla piccola Angelica rapita. La sola amica che mai avesse avuto. La immaginò spaventata ma non in lacrime, perché non l’aveva vista piangere neppure una volta, nemmeno quando il padre era morto in mare. Sapeva che era forte e coraggiosa, ma in fondo era soltanto una ragazzina che il destino avverso aveva strappato all’amore della madre, alla gente del suo villaggio e alla sua terra, e forse le prove cui sarebbe andata incontro l’avrebbero piegata, cancellando per sempre la sua innocenza. Si rigirò inquieto sul giaciglio, mentre pian piano la tempesta si placava e lui, cullato dal tamburellare della pioggia, infine si addormentò. Al risveglio splendeva il sole. Mezzo assonnato, Orlando batté le palpebre e si girò verso Rinaldo, pure lui sveglio da poco e intento a stiracchiarsi. «Buon giorno», lo salutò. «Buon giorno anche a te», rispose Orlando flettendo i muscoli. «Muoviti,

pigrone, a quest’ora dovremmo già essere in viaggio.» «Che fretta c’è?» brontolò l’altro. «Brindisi non scapperà di certo.» Orlando raccolse le sue poche cose per riporle nella bisaccia e annuì. «Lo so, ma più i giorni ano e meno probabilità avrò di rintracciarla.» Si sarebbe morso la lingua per l’involontaria rivelazione, ma ormai era fatta. Evitò di guardare Rinaldo, pur avvertendo il suo sguardo curioso e indagatore. «Rintracciarla? Sbaglio o mi è sfuggito qualcosa?» Orlando esalò un respiro. «Sto cercando una persona», spiegò riluttante. «Una ragazza, per l’esattezza.» «Ah, dovevo immaginarlo che c’era di mezzo una donna.» «È soltanto una ragazzina, ma siamo amici. L’hanno rapita i barbareschi alcune notti fa, durante una scorreria nel suo villaggio.» «Ecco perché te ne sei andato da casa.» «Lei è uno dei motivi per cui sono partito, ma è importante. Mi è molto cara e voglio ritrovarla per restituirla alla madre, che non ha altri che lei.» Rinaldo lo scrutò. «Ne sei innamorato?» «No. Te l’ho detto; è solo una ragazzina.» «Uno non si prende la pena d’inseguire pirati per una ragazza che non ama», sentenziò Rinaldo. «Dell’amore so niente, però il mio senso dell’onore mi impone di salvarla. Non ho potuto difendere il villaggio e impedire che tanta gente fosse uccisa, ma almeno questo glielo devo.» «È un bel gesto, ma dubito che riuscirai nell’impresa. I pirati saranno ormai lontani, forse avranno già raggiunto le coste dell’Africa o quelle della Spagna. Come puoi sperare di ritrovarla?» «Non lo so, ma devo tentare.»

«Un’impresa nobile e temeraria, proprio come piace a me», dichiarò Rinaldo. «Non posso coinvolgerti; è troppo rischioso.» «Se stai cercando di dissuadermi, levatelo dalla testa. La mia esperienza ti potrà servire. A Brindisi ho qualche conoscenza fra i capitani che danno la caccia ai barbareschi e alcuni mi devono dei favori. Non dico che ritroveremo la tua amica, ma se non altro potremo ottenere delle informazioni su come muoverci.» «Sei davvero deciso a seguirmi?» «Fino in fondo.» Orlando sorrise. Cominciava a comprendere il significato dell’amicizia e della lealtà cavalleresca. Poco dopo si incamminarono. Le ultime pozzanghere create dal temporale si stavano asciugando al sole e l’aria era tersa, profumata di fiori d’arancio e salsedine. La superficie del mare era quieta, appena increspata dalla brezza, e nello scrutarla Orlando ricordò il vascello avvistato durante la notte. Si sollevò sulle staffe per scandagliare con lo sguardo al di là delle rocce, verso la piccola spiaggia, e trasalì per la sorpresa nel vedere il naviglio arenato. Appariva intatto, ma a giudicare dall’attività che gli ferveva intorno doveva aver subito dei danni. Si fece schermo al sole con la mano e, nello scorgere la bandiera con la mezzaluna, si lasciò sfuggire un’esclamazione soffocata. «Cosa c’è?» chiese Rinaldo. «Laggiù», indicò Orlando, pervaso da una strana eccitazione. «La nave arenata sulla spiaggia.» «E allora?» «Sono sicuro sia la stessa che ho visto stanotte, mentre infuriava il temporale. Credevo fosse affondata, invece è finita lì.» «Non ti seguo.» «Hai notato la mezzaluna? Sono barbareschi, forse pirati.»

«Capisco dove vuoi andare a parare, ma stai lavorando troppo di fantasia. Anche se fosse come dici tu, non penserai di essere così fortunato da aver trovato proprio quella su cui si trova la tua amica.» «Non lo sapremo mai se non andiamo a vedere», replicò spronando il cavallo e guidandolo verso un sentiero che digradava verso la piccola insenatura. «Orlando, cosa vuoi fare?» Non ottenne risposta e suo malgrado fu costretto a seguirlo. Se li avessero visti, e se si trattava davvero di pirati saraceni, lo scontro sarebbe stato inevitabile. Nonostante la piccola stazza, quel tipo di vascello poteva imbarcare fino a quaranta uomini. E non era tanto lo svantaggio numerico a impensierirlo, quanto la fama di ferocia che si erano creati. In Orlando, rifletté mentre galoppava, doveva esserci davvero una vena di follia. Come spiegare altrimenti quella smania di lanciarsi in un’impresa disperata? Irruppero sulla spiaggia al gran galoppo. Rinaldo aveva estratto la spada e la mulinava, provocando un sibilo minaccioso e terrificante. Orlando invece aveva accostato alla bocca l’Olifante e vi soffiava dentro con tutto il fiato. Ne uscì un suono spaventoso, che echeggiò amplificato negli anfratti rocciosi. Rinaldo sentì rizzarsi i capelli sulla nuca e a fatica si riscosse dalla paralisi che aveva prodotto sui suoi arti. Ma niente l’aveva preparato a ciò che vide e che non avrebbe mai creduto possibile se non ne fosse stato testimone. I saraceni furono presi da un folle terrore. Alcuni si misero a correre in modo disordinato, urtandosi l’un l’altro per cercare di fuggire al suono acuto e stridente, lacerante nella sua intensità. Altri si gettarono a terra tappandosi le orecchie, urlando per la sofferenza e dimenandosi in una sorta di agonia. Poi giacquero come morti, le facce distorte e pallide, resi inoffensivi da quel devastante e oscuro potere. Orlando continuò a suonare finché anche l’ultimo saraceno si accasciò esanime, poi ordinò a Rinaldo di sorvegliarli e smontò da cavallo per correre a bordo e scendere nella stiva. Il cuore gli martellava nel petto per l’emozione. Trovò prigionieri stipati nel vano angusto e fetido. Occhi colmi di stupore e paura lo scrutarono mentre a sua volta cercava, fra quei visi smunti, l’amica perduta senza però trovarla. Domandò se l’avessero vista, ma non ottenne notizie. Allora li liberò tutti, dicendo loro di andarsene il più in fretta possibile. Sebbene

frastornati, i poveretti sciamarono sulla spiaggia e dopo qualche attimo d’esitazione alla vista dei saraceni paralizzati a cui Rinaldo faceva buona guardia, si dispersero in ogni direzione. Anche Orlando scese dalla nave e impugnata Durendal prese a menare fendenti contro il fasciame della nave. A ogni colpo il legno si frantumava, finché con uno scricchiolio l’intera struttura cedette, disseminando schegge ovunque.

«Aiutami a legare queste canaglie», disse infine all’amico che lo guardava stranito. Rinaldo recuperò delle funi e obbedì. «Cosa ne vuoi fare di costoro?» «Consegnarli all’autorità del luogo perché siano puniti come meritano.» «Non l’hai trovata, vero?» «No, ma non ho perso la speranza. Le navi che fecero l’incursione erano due. Forse la troverò sull’altra.» «Forse», assentì Rinaldo dubbioso. «Sarà come cercare un ago in un pagliaio, lo sai?» «Lo so.» «Sei uno che non conosce il significato della parola arrendersi, però non so se ammirarti o compiangerti.» «Fa’ come ti pare, ma cerca di sbrigarti a legare questi avanzi di galera. Fra poco si riprenderanno.» «Faremo prima se mi dai una mano.» Una volta legati, li radunarono per condurli dal signore del luogo e affidarli alla sua giustizia. I prigionieri erano frastornati, incapaci di comprendere cosa fosse accaduto e come quei due, da soli, fossero riusciti a metterli fuori combattimento. Erano convinti di essere caduti vittime di un sortilegio e li guardavano con timore reverenziale.

Stavano per avviarsi, quando sopraggiunsero dei cavalieri al galoppo. Questi si schierarono con una manovra perfetta e l’uomo che ne aveva il comando venne avanti, rivolgendosi a Orlando. «Sono vostri prigionieri?» domandò accennando al gruppo. «Sì, signore. Li abbiamo catturati poco fa. Sono pirati barbareschi e quella era la loro nave.» L’altro non nascose lo stupore. «Avete fatto tutto da soli?» «Sì, e non è stato troppo difficile.» «Posso sapere come ci siete riusciti?» «Li ho storditi con questo», dichiarò Orlando mostrando l’Olifante. «Fammi vedere.» Il tono non consentiva obiezioni. «Come desideri, signore, ma ti avverto che il suono potrà avere conseguenze spiacevoli.» Portò la zanna cava alla bocca e vi soffiò dentro con forza. Gli effetti furono immediati e devastanti. I cavalli, imbizzarriti, si impennarono, minacciando di disarcionare i cavalieri. Alcuni, roteando gli occhi presero a girare in tondo come impazziti e gli uomini si strapparono gli elmi per coprirsi le orecchie. I prigionieri, dal canto loro, stramazzarono rantolando. «Basta!» gridò il comandante. «Basta così!» Orlando smise subito. «Adesso mi credi?» «Ti credo, ma sospetto che ci sia qualcosa di magico in quel corno. Non ne ho mai sentito alcuno produrre un suono simile e con effetti tanto terribili.» «Non c’è alcun incantesimo», mentì il ragazzo, poiché in realtà era impregnato di arcana magia orientale. «E non è un corno, ma una zanna d’elefante.» «Come lo hai avuto?»

«Un dono, come la mia spada.» L’uomo lo scrutò a lungo per valutarlo. «Come ti chiami?» «Orlando d’Anglante, e lui è Rinaldo da Urbino. E tu chi sei, signore?» «Raniero da Acerra, barone di queste terre, e sarò onorato se tu e il tuo compagno vorrete accettare la mia ospitalità.» «Ti ringrazio, ma non è possibile. Il nostro viaggio non può subire ritardi», rispose ignorando l’occhiata del compagno, che evidentemente non era d’accordo. «Ti consegno però i prigionieri, affinché siano giudicati e puniti.» Il barone approvò con un cenno. «Subiranno la giusta condanna», dichiarò. «Decidi tu: da questo momento la loro sorte è nella tue mani.» Ordinato ai suoi uomini di prendere in consegna i saraceni, il barone si accomiatò. «Se vi capiterà di tornare da queste parti, sappiate che sarete i benvenuti nel mio castello.» Poi partì al galoppo, precedendo i suoi cavalieri che trascinavano i recalcitranti prigionieri. «Avresti dovuto accettare l’invito», disse Rinaldo dopo un po’. «Almeno avremmo avuto un pasto decente e un buon letto per stanotte.» «Avremmo perso del tempo prezioso. Inoltre, quel barone non mi ispirava fiducia.» «Come mai?» «Troppa curiosità verso l’Olifante.» Rinaldo si concesse qualche attimo di riflessione, poi riprese. «Certo che hai provocato un bello scompiglio col tuo Olifante. Oggi ho assistito a qualcosa che non potrò dimenticare.» Si fermò per guardarlo. «Hai detto la verità quando ti ha chiesto se era magico?» «No. Era già abbastanza sospettoso senza che gli rivelassi che sull’Olifante è stato fatto un incantesimo molto potente.»

«Di che genere?» «Lo ignoro. So soltanto che si tratta di magia orientale. Qualcosa di misterioso su cui è più saggio tacere.» «I saraceni lo hanno capito. Per questo erano atterriti a morte.» «È probabile», convenne Orlando con un sorriso. «Anche la tua spada cela segreti inviolabili?» «Custodisce reliquie tra le più preziose», rispose carezzando l’elsa ingemmata con reverenza. «Si dice sia stata forgiata da un angelo.» «Chi sei tu per possedere simili armi prodigiose? Chi sei veramente, intendo.» «La mia identità la conosci. Che altro c’è da sapere?» «Ti conosco? So il tuo nome e che ami le sfide pericolose, ma in realtà di te so niente. A volte ho l’impressione di vederti circonfuso di un alone tenebroso, da forze oscure e minacciose. Con te cavalca la tempesta.» L’acutezza dell’osservazione di Rinaldo lo colpì. Era così che si sentiva: tenebroso e terribile. Andava incontro alla vita con la furia dell’uragano, determinato a combatterla e vincerla come se fosse un nemico. I simboli opposti dell’Alfa e dell’Omega incisi sull’elsa della sua spada sembravano aver tracciato un sentiero a senso unico che era costretto a percorrere, eternamente in lotta tra il bene e il male, la vita e la morte, che contrassegnavano la sua esistenza, eternamente alla ricerca di se stesso e della propria essenza, ma incapace di afferrarle anche quando sembravano a portata di mano. Continuava a dibattersi, invischiato nella ragnatela delle domande che non trovavano risposta, forse perché non ne avevano o perché era incapace di darsele, e tuttavia senza mai arrendersi. Il Drago era ovunque, nella molteplicità delle sue forme. Ruggiva dentro di lui nel furore della battaglia e dominava le sue azioni. Era suo destino seguitare a cacciare il Drago senza poterlo uccidere, perché farlo equivaleva a uccidere se stesso.

6

Il denaro che Rinaldo aveva vinto al mercante procurò loro qualche conforto durante l’ultima parte del viaggio verso Brindisi. Sostarono in alcune città costiere, fortificate a difesa contro le incursioni moresche, ma abbastanza ospitali coi forestieri, specie se si presentavano con bei cavalli e provvisti di denaro. Il declino longobardo non aveva compromesso la loro prosperità, né scalfito l’allegria degli abitanti, che avevano ormai fatto l’abitudine ai cambiamenti d’autorità. In fondo, franchi o longobardi non faceva differenza, purché fossero liberi di commerciare. Di re Carlo, protettore e difensore del papa, avevano sentito dire un gran bene e non erano restii a sottomettersi. A impensierirli, però, c’era Adelchi, il principe longobardo sconfitto da re Carlo a Pavia, che covava propositi di rivincita ed era intenzionato a far valere le proprie ragioni con le armi. L’idea che il loro territorio potesse divenire teatro di battaglia, li rendeva inquieti. I longobardi erano indeboliti, dispersi qua e là lungo la penisola, privi di un vero capo che fosse capace di adunarli e guidarli contro i franchi. Tuttavia, alleati coi bizantini, minacciavano la sovranità del pontefice. Perciò re Carlo avanzava col suo esercito verso Roma per difenderlo. Alcuni dicevano che fosse arrivato nell’Italia centrale, altri riferivano che fosse ancora accampato a Pavia, e chi addirittura sosteneva che fosse rientrato in Francia. Il rincorrersi di voci incontrollate provocava una certa confusione e molta incertezza. In Orlando, fuggito dalla rocca di Faro per timore di incontrarlo, quelle voci suscitarono apprensione e aumentarono la fretta di raggiungere Brindisi e imbarcarsi, in modo da porre la maggior distanza fra loro. «È sorprendente la quantità di notizie contrastanti che riesce a mettere insieme la gente», commentò Rinaldo mentre lasciavano la cittadina in cui avevano ato la notte. «Sono quasi sempre le stesse, ma ando di bocca in bocca diventano sempre più inverosimili.»

«A cosa ti riferisci?» chiese Orlando distratto. «A quello che si dice del re, è ovvio. Praticamente non abbiamo sentito parlare d’altro.» «Sono soltanto chiacchiere. Discorsi da taverna privi di qualsiasi fondamento. Che ne può sapere questa gente di quello che fa il re?» «Poco o niente, certo», ammise l’altro. «Tuttavia persino nelle dicerie può esserci un pizzico di verità. Tu pensi che il re tornerà ad affrontarlo?» Orlando scrollò le spalle. «Non lo so, e nemmeno mi importa.» «La sua causa è perduta, ma credo che tornerà lo stesso. Dubito che vorrà rinunciare a un tentativo di riconquista, anche se improbabile. Ne uscirà sconfitto e umiliato un’altra volta, anzi peggio, dato che stavolta sarà finita per sempre.» «La cosa non mi riguarda», dichiarò Orlando insofferente. «È vero. Però la sorte del mio paese mi sta a cuore. A te no?» «Mi è indifferente. Che sia Carlo a regnare sull’Italia, piuttosto che Adelchi, non cambia la sostanza delle cose. Entrambi sono stranieri, entrambi ambiscono al potere e al dominio. Dal crollo dell’impero romano non c’è stato popolo, in Europa, che non abbia considerato la penisola territorio di conquista. Longobardi e franchi non sono che gli ennesimi di una lunga serie, e non saranno gli ultimi. Dopo di loro ne verranno altri e poi altri ancora. Non ci sarà pace finché ci sarà un lembo di terra da spartirsi, o una città da sottomettere. La posizione strategica di questo paese è una preda ambita da tutti.» «Sono certo che quando re Carlo scaccerà definitivamente i longobardi molte cose cambieranno. Sarà un buon sovrano anche per noi, come già lo è per i franchi.» «Peccato che lui non possa sentire le tue lodi sperticate!» lo derise Orlando. «Lo pensi davvero?» protesto Rinaldo. «Tu, invece, non sopporti di sentirne

parlare. Si direbbe che lo detesti.» «Come potrei, visto che neanche lo conosco? La verità è che non mi fido di lui, né delle sue promesse.» «Sei in malafede. Quelle che ha fatto finora le ha mantenute.» «Basta con questi discorsi», concluse Orlando annoiato, poi spronò il cavallo e prese distanza. Rinaldo sospirò e lo lasciò andare. L’impazienza e l’insofferenza lo rendevano incapace di star fermo a lungo, come se solo con l’attività continua riuscisse a placare la smania che lo consumava. Dopo un po’, avendolo perso di vista, spronò il cavallo al galoppo per raggiungerlo. Più avanti la strada si addentrava nel bosco e alla locanda dove avevano dormito erano circolate voci inquietanti sulla presenza di banditi che tendevano agguati ai viaggiatori. Il pensiero che Orlando potesse essere caduto in un’imboscata lo indusse a spingere il cavallo a un galoppo sfrenato. Il ragazzo sapeva difendersi, ma se i malfattori fossero stati numerosi l’avrebbero potuto sopraffare. Le sue apprensioni si rivelarono fondate quando gli giunse l’eco di uno scontro. Coprì a velocità vertiginosa la distanza che lo separava e irruppe a spada sguainata nella mischia, calpestando i corpi dei caduti e urtando con violenza quelli che cercarono di ostacolarlo. Menò colpi forsennati, senza curarsi di dove cadessero, per dare manforte all’amico. La masnada era numerosa e combatteva bene. Rinaldo ebbe modo di scoprirlo tra un fendente e l’altro.

Orlando, scatenato, ne sventrò due con un solo colpo e il terzo lo decapitò. Un altro finì squarciato dall’inguine alla gola e, ancora prima che cadesse dalla sella, un quinto stramazzò nella polvere. «Ehi, lasciane qualcuno anche per me!» protestò Rinaldo, falciandone uno alle gambe e finendolo con un fendente alla testa.

Malgrado le gravi perdite gli assalitori non volevano arrendersi. Il loro capo continuava a spronarli, minacciando castighi se fossero fuggiti, ma evitava lo scontro. «Ce n’è abbastanza per tutti e due», sogghignò Orlando, aprendosi un varco a forza e piombando sul cavaliere che sbraitava e roteava la spada, ma si teneva fuori dalla mischia, travolgendolo con l’impeto della carica. Cadde il cavallo, intrappolando l’uomo sanguinante sotto il proprio peso, e Orlando smontò per dare al codardo il colpo di grazia.

La morte del loro capo precipitò i superstiti nel panico. In pochi istanti ripiegarono disordinatamente verso la boscaglia e si dileguarono nel folto. «Ehi, non ho ancora finito con voi!» gridò Orlando, rimontando in sella per inseguirli. Fu trattenuto da Rinaldo, che lo ostacolò con il cavallo. «Lascia che vadano.» Lui lo guardò torvo, ma poi sorrise, e indicando i cadaveri disseminati sul terreno non mancò di metterne in evidenza il numero. «Ho fatto una strage.» «Lo vedo», sorrise l’amico. «Però io ti ho dato una mano.» «Già, ma te la sei presa comoda.» «Se avessi suonato l’Olifante sarei arrivato prima.» «Come se ne avessi avuto il tempo quando mi sono saltati addosso!» esclamò Orlando. «E non l’avrei suonato comunque. Non certo per chiedere aiuto.» «Il tuo orgoglio finirà con l’ucciderti, una volta o l’altra», sospirò Rinaldo. «Sono un osso duro», replicò Orlando ridendo. «Questi qui possono testimoniarlo.» Rinaldo si limitò ad annuire, facendo scorrere lo sguardo sui corpi mutilati e coperti di sangue di uomini e cavalli. «Che ne facciamo?»

«Niente», replicò Orlando con una scrollata di spalle. «Li lasciamo in pasto ai corvi?» «Perché no? Credi che loro ci avrebbero dato sepoltura dopo averci ammazzati?» Spronò il cavallo e si avviò. «Andiamo. Siamo rimasti qui anche troppo.» Rinaldo lo seguì, sconcertato dal suo comportamento. Tanto distacco, tanta freddezza in un ragazzo così giovane non li aveva mai visti. L’uccisione di tutti quegli uomini non sembrava l’avesse minimamente turbato. Non lo poteva affermare, ma probabilmente quello era stato il suo primo vero combattimento, e ricordando come si era sentito dopo il proprio battesimo del sangue, quando furore ed eccitazione erano svaniti e lo scenario di morte gli era apparso in tutta la sua cruda realtà, si meravigliò della sua calma. L’avrebbe creduto incapace di sentimenti, se non fosse stato smentito dall’ansia di ritrovare la sua piccola amica rapita, per la pena che gli affiorava nello sguardo quando ne parlava. Ma per quanto riguardava il resto, Orlando era gelido come il ghiaccio. Da parte sua Orlando cavalcava fiero, appagato nel proprio smisurato orgoglio per la vittoria riportata. Che si fosse trattato di briganti non sminuiva il suo valore. Questa volta non li aveva tramortiti col suono dell’Olifante, invischiandoli nella sua arcana magia, ma ne aveva fatto strage col vigore del proprio braccio e con la spada, che nella sua mano sprigionava una forza prodigiosa. Lo scontro l’aveva esaltato e reso euforico. Non era avvenuto come l’aveva immaginato nelle sue fantasie, ma l’emozione che gli aveva procurato era stata intensa, inebriante. Non c’erano stati echi tonanti di galoppo o l’usbergo scosso dal vento nell’impeto della carica, ma soltanto il turbinare delle lame, le grida dei feriti e dei morenti; niente di più che la cruda essenza del vincere o morire. Non ne avrebbe ricavato gloria né onori. Nessuno avrebbe elogiato il suo ardimento, ma aveva vinto la sfida più importante della sua vita affrontando da solo un numero soverchiante di assalitori. E neanche per un attimo era stato sfiorato dal dubbio di non farcela.

Qualche giorno dopo giunsero a Brindisi. Di forestieri ne andavano e venivano in continuazione, perciò il loro arrivo ò inosservato. Fu al momento d’inoltrarsi nel labirinto di stradine dei quartieri portuali che Orlando si rese conto di quanto gli fosse utile la guida di Rinaldo, che dimostrò di sapersi destreggiare come uno del posto. Di brutti ceffi, in giro, ce n’erano parecchi, e donne dall’aria equivoca li guardarono incuriosite dagli angoli in penombra. Qualcuna cercò di attirare la loro attenzione, ma essi proseguirono senza degnarle di una seconda occhiata. Trovarono alloggio in una locanda a poca distanza dal porto. Lì, disse Rinaldo, avrebbero potuto incontrare dei capitani e prendere accordi per l’imbarco. «Sempre che tu non abbia cambiato idea», aggiunse. Orlando era troppo occupato a guardarsi attorno per rispondere. Le facce patibolari che li scrutavano non erano amichevoli. C’erano ambigui bizantini e biondi uomini del nord, armeni, arabi dalla pelle scura e dagli occhi di ossidiana, e altri di origine più incerta ma che comunque non ispiravano fiducia. Presero posto a uno dei pochi tavoli liberi e ordinarono da mangiare e da bere. L’oste, diffidente, pretese di vedere il denaro prima di servirli, e quando Rinaldo lo accontentò, divenne subito servizievole. Chiamò una servente e le ordinò di portare loro tutto ciò che desideravano. «C’è qualcuno che conosci?» chiese Orlando, infastidito dall’attenzione di cui era oggetto. «Nessuno, ma d’altronde è ancora presto. È probabile che si facciano vivi più tardi.» «O che forse non vengano affatto. Da quanto non li vedi?» «Un anno, poco più.» «È un periodo abbastanza lungo e potrebbero essere accadute molte cose. Le navi fanno naufragio o vengono assalite dai pirati e affondate. I capitani di mare muoiono come tutti gli altri.» Rinaldo lo guardò storto. «Siamo appena arrivati, cosa pretendi?»

«Niente, stavo solo facendo congetture.» «Se stasera nessuno di quelli che conosco si farà vedere, domani andremo al porto. Chiederò notizie a chi conosce sempre tutto di tutti. Ma non hai ancora risposto alla mia domanda.» «Quale?» «Se non hai per caso cambiato idea. Vuoi ancora imbarcarti?» «La mia decisione è immutata.» «Allora bisognerà indagare per scoprire dove avrebbero potuto portare la tua amica. Non vogliamo procedere a tentoni, vero? Decine di navi vanno e vengono di continuo nel Mediterraneo e sono dirette dappertutto. Non soltanto i barbareschi commerciano in schiavi. È uno dei mercati più floridi, quindi sono parecchi quelli che vi si arricchiscono.» «Anche i cristiani?» «Già, anche loro. Quando si tratta di far soldi non hanno scrupoli, ti assicuro.» «Secondo te, dove potrebbero averla portata?» Rinaldo si strinse nelle spalle e sospirò. «Chi lo sa? Magari a Bisanzio o a Damasco, a Baghdad, forse, o persino in Spagna. Praticamente ovunque prosperi il commercio degli schiavi. Potrebbero volerci anni per trovarla, ammesso che ci si riesca, e intanto sarà diventata una donna e sarà la moglie di qualche emiro, o concubina di un sultano. Oppure potrebbe essere morta.» Pensoso, Orlando fissò il bicchiere per qualche istante, poi alzò gli occhi. «Mi stai dicendo che mi prefiggo un’impresa impossibile?» «No, perché questo te l’ho detto subito. Adesso voglio metterti di fronte alle difficoltà che incontreremo, così che tu sia preparato.» «Ho capito», annuì cupo. «Ma non intendo rinunciare.» «Non ne dubitavo», sorrise Rinaldo. «Ora mangiamo, prima che si raffreddi.»

Mentre cenavano Orlando osservò gli strani individui che affollavano la locanda, in specie quelli esotici e appariscenti. Venne ricambiato da occhiate poco amichevoli, da cui peraltro non fu scoraggiato. A un certo punto uno degli orientali si avvicinò, torreggiando su di loro minaccioso, con i pollici infilati nella cintura e lo sguardo scintillante. Rinaldo ricambiò lo sguardo, mentre Orlando si fingeva interessato al pugnale ricurvo, la cui impugnatura ingemmata spuntava dal fodero, e alla scimitarra, entrambi ostentati per incutere timore. «Belle armi», commentò infine, decidendosi a guardarlo in faccia. «Sono vere o si tratta solo di preziosi giocattoli?» aggiunse con un sorriso, senza batter ciglio al calcio che Rinaldo gli sferrò da sotto il tavolo. Le sue parole spiazzarono l’arabo, che parve sbalordito da tanta impertinenza da restarne ammutolito. Subito ne approfittò Rinaldo, che fiutando guai cercò di rimediare. «Il mio amico non intendeva offenderti, signore. È giovane e non ha mai ammirato armi del genere, finora.» «Il tuo amico non ha cessato un momento di fissarmi da quando siete arrivati», replicò senza distogliere lo sguardo da Orlando. «Nel mio paese tanta mancanza di rispetto sarebbe giudicata imperdonabile e meritevole di castigo.» «Per fortuna non siamo nel tuo paese; qui gli uomini sono liberi di guardarsi negli occhi senza timore e senza per questo risentirsene. Se ciò non ti garba, puoi tornare da dove sei venuto», ribatté Orlando posando con voluta noncuranza la mano sull’elsa della spada. L’arabo parve sul punto di dare in escandescenze, ma riuscì a dominarsi. «Meriteresti una lezione, infedele, ma questo non è il luogo né il momento», sibilò. Il giovane si alzò lentamente, fissandolo con un sorriso di sfida. In piedi di fronte a lui, lo sovrastò di tutta la testa e lo costrinse a guardarlo dal basso. «Sono a tua disposizione, quando vuoi.» Gli occhi di giaietto dell’arabo lo trafissero. «Pagherai per la tua insolenza, infedele.»

Le ultime parole, proferite col chiaro intento di insultarlo, gli fecero perdere la calma che si era imposto. Estrasse Durendal e gliela puntò alla gola, mentre esclamazioni di stupore si levavano dai presenti e Rinaldo si metteva le mani nei capelli per la disperazione. «Infedele sarai tu, adoratore di Satana!» ruggì Orlando costringendolo ad arretrare. L’oste, attirato dal trambusto, arrivò di corsa. «Se proprio smaniate dalla voglia di battervi, andate fuori!» gridò allarmato. Rinaldo lo trasse in disparte e gli ordinò di tacere, poi si rivolse all’amico. «Metti via quello spiedo, te lo chiedo per favore. Non voglio guai, e sono certo che non ne vuoi nemmeno tu. Si è trattato di un equivoco, niente che non possa essere risolto in modo amichevole, da uomini ragionevoli.» «Dagli ascolto», biascicò l’arabo seriamente spaventato. Orlando moriva dalla voglia di tagliare la gola allo spregevole individuo, ma gli era rimasto un barlume di buonsenso. «Se chiederai scusa per aver insultato coloro che ti ospitano, forse ti permetterò di vivere, adoratore di Satana.» Era un’intollerabile umiliazione, ma l’altro non ebbe scelta. «Domando perdono per ciò che ho detto, che Allah mi sia testimone.» L’ondata di sollievo che pervase l’atmosfera fu quasi tangibile. Orlando rinfoderò la spada e gli ordinò di andarsene. Quello, dopo avergli rivolto un’occhiata astiosa, tornò al proprio tavolo. La questione, tuttavia, non era risolta, rifletté Orlando, e quando si sarebbero rivisti lo scontro sarebbe stato inevitabile. La minaccia della resa dei conti era impressa sul volto dell’uomo. L’avvertì nell’aria, come quando sta per scatenarsi un temporale. La vide riflessa sulla faccia di Rinaldo, che trasudava disapprovazione. E infine, dentro di sé, sentì il mugghiare sordo del Drago.

7

I rimproveri di Rinaldo arrivarono puntualmente, non appena salirono in camera. «Non ti pare che abbiamo guai a sufficienza, senza che tu ne procuri degli altri?» chiese allargando le braccia. «Dovevi proprio sfidare l’arabo in quel modo? È stato offensivo, d’accordo, ma potevi ignorarlo. Dopo tutto ha reagito solo perché infastidito dai tuoi sguardi insistenti. Se mi avessi lasciato fare, avrei sistemato ogni cosa.» Orlando, che aveva iniziato a spogliarsi, non rispose. Distaccato, come se non fosse neppure presente, baciò l’impugnatura di Durendal nel punto in cui formava la croce e la depose accanto all’Olifante. «Ma mi stai almeno a sentire?» domandò l’altro, irritato dal suo silenzio. «Ti pare che possa farne a meno?» sogghignò Orlando. «Tu hai bisogno di qualcuno che ti insegni a vivere fra le persone civili. Sei un mezzo selvaggio, e i tuoi modi… puah, fanno davvero schifo. Conosci solo il linguaggio della violenza. Sei una specie di bruto, ignaro delle sottigliezze della diplomazia, e monti su tutte le furie per delle inezie. Devi imparare a controllarti se vuoi sopravvivere in questo mondo. Nessuno ti ha mai detto che esiste un codice cavalleresco alle cui regole si deve sottostare?» «Stai mettendo in dubbio il mio senso dell’onore?» «No», si affrettò a rispondere Rinaldo. «Ti sto dicendo che se vuoi diventare un cavaliere dovrai imparare le regole e rispettarle: tu hai bisogno di disciplina.» «E vorresti insegnarmela tu?» «Potrei, se tu fossi disposto a collaborare.» «No, grazie. Ho già avuto un maestro e mi è bastato. Comunque ti ringrazio per

la predica. Ne farò tesoro per il futuro.» «Non avrai futuro se continui così!» Orlando si sdraiò sul letto e intrecciò le mani dietro il capo. «Spegni la candela, per favore. È ora di dormire.» «Non ho ancora finito.» «Potrai proseguire domani, se ci tieni tanto a fare di me una persona civile.» Rinaldo spense la candela e si coricò. «Mi sa che sarà una perdita di tempo», sospirò. Orlando sorrise nel buio, suo malgrado costretto ad ammettere che l’amico non aveva tutti i torti. Non intendeva dirglielo, ovviamente, perché Rinaldo non aveva bisogno di ulteriori incoraggiamenti a tenergli sermoni, ma doveva convenire che il suo comportamento non era proprio da manuale. D’altronde, quando sentiva il ruggito del Drago dentro di sé, una nebbia rossastra gli calava davanti agli occhi e non era più capace di dominarsi. Forse non ci sarebbe mai riuscito completamente, perché la natura selvaggia del Drago era anche la sua, però poteva tentare di domarlo, almeno in parte. Per tutta la giornata seguente si aggirarono fra le banchine, in mezzo a scaricatori e marinai, perdigiorno e curiosi, per cercare di ottenere qualche notizia. C’erano vascelli provenienti da ogni porto del Mediterraneo, ma nessuno di coloro che interrogarono seppe dare informazioni. Qualcuno conosceva i capitani di cui Rinaldo domandò, ma non ne sapeva niente da mesi. L’ultima volta erano stati visti a Cipro e a Rodi, poi erano scomparsi. Forse affondati da una burrasca, oppure caduti vittime dei pirati. Entrambe le ipotesi erano attendibili, dato che il carico non era mai giunto a destinazione. Mentre seduti su un muretto mangiavano frutta comprata al mercato, furono avvicinati da un uomo che aveva l’aspetto e i modi di un levantino. «Perdonate il disturbo, ma vorrei parlarvi», disse con un sorriso untuoso. Entrambi lo guardarono con malcelata diffidenza, poi si scambiarono un’occhiata e annuirono d’intesa.

«A quale proposito?» chiese Rinaldo. «Riguardo alle domande che avete fatto in giro stamattina. Ho appreso, per puro caso, che state cercando qualcuno.» «Infatti, ma nessuno ha saputo darci notizie.» «Conosco una persona che vi potrebbe aiutare e che è disposta a incontrarvi.» «Allora perché ha mandato te?» «È una personalità d’alto rango e desidera mantenere l’anonimato. Mi ha ordinato di accompagnarvi nella sua residenza, che si trova a pochi isolati da qui.» «Non capisco il motivo di tanto riserbo», dichiarò Rinaldo, poi si rivolse a Orlando. «Tu che ne pensi?» «Non mi piace.» «Sono d’accordo», approvò. «Riferisci a chi ti manda che se vorrà parlare con noi ci troverà alla locanda del Gallo Ardito.» «Come desiderate», rispose quello inchinandosi. «Buona giornata», augurò prima di andarsene.

Seguirono con lo sguardo la figura ricurva finché scomparve tra la folla. «Uno strano individuo», osservò Rinaldo. «Ancora più strano il suo messaggio. Sospetto che sia stato pagato per condurci in una trappola. E ritengo di sapere chi è il mandante.» «L’arabo? Forse», annuì Rinaldo. «Però, se ha detto la verità, quel tizio verrà alla locanda.» «Nel frattempo che facciamo?» «Ce ne andremo in giro a curiosare. Ho sentito che nel quartiere ebraico c’è una

fiera.» Orlando saltò giù dal muretto. «Allora andiamo», lo esortò. «Non sono mai stato a una fiera.» L’altro lo guardò incredulo. «Sul serio? Ma dove sei vissuto finora, in un eremo?» «Sì, in un certo senso.» In effetti la rocca di Faro era una specie di eremo. Era austera, tetra e isolata come un monastero. Una specie di nido d’aquila inaccessibile, dove l’eco degli avvenimenti che scuotevano il mondo giungevano smorzati e dove si aveva la sensazione che lo stesso fluire del tempo fosse rallentato. «E dove sarebbe questo romitaggio?» «Lontano», sussurrò Orlando. «Molto lontano.» «Dovevo aspettarmelo che avresti eluso la domanda», sospirò Rinaldo. «Spero solo che un giorno mi spiegherai perché circondi di tanto mistero la tua vita.» «Per rendermi più interessante?» «Eh, potrebbe essere una buona ragione, ma credo ce ne siano altre più profonde.» «Acuta osservazione, complimenti.» «Sì, prendimi pure in giro.» Risero, mentre si addentravano nella penombra degli angiporti, tra edifici cadenti, scalinate tortuose, vicoli sudici, androni oscuri e misteriosi che sembravano perdersi nel nulla. Fu proprio da lì che due uomini sbucarono all’improvviso e li assalirono, senza però coglierli di sorpresa. Le spade di Orlando e Rinaldo intercettarono fulminee le lame degli aggressori, respingendone l’attacco. Nel furioso corpo a corpo i due banditi si trovarono in svantaggio. Il cozzare delle spade echeggiò nella viuzza, mentre venivano incalzati e costretti a

indietreggiare verso il muro di un edificio, tagliando ogni via di fuga. I due si difesero strenuamente, pronti a morire piuttosto che arrendersi, e furono accontentati. Stramazzarono uno dopo l’altro, abbattuti da letali fendenti, mentre Rinaldo e Orlando scrutavano attorno con le spade in pugno alla ricerca di altri possibili assalitori, ma non ne videro. Chiunque avesse mandato i sicari doveva aver ritenuto che bastassero. Scambiandosi un’occhiata d’intesa, i due amici si allontanarono dal luogo dello scontro in gran fretta. «Cosa ne pensi?» chiese Rinaldo. «Quello che pensi tu: qualcuno ci vuole morti, e non mi devo sforzare troppo per immaginare chi possa essere.» «Già, neanche io. Ho il presentimento che cominci a tirare cattiva aria da queste parti.» Orlando annuì e gli segnalò di tacere. Alcuni anti erano entrati nel vicolo e rallentarono per osservarli, probabilmente incuriositi dalle vesti sporche di sangue. Tuttavia arono oltre appena Rinaldo scoccò loro un’occhiata minacciosa. Quando furono certi di non essere uditi ripresero a parlare. «Cosa facciamo?» chiese Orlando. «Torniamo alla locanda, prendiamo i cavalli e andiamo in un posto più sicuro.» «Ne conosci qualcuno?» «Lo credevo, ma forse mi sono sbagliato. Avevo fatto affidamento sui miei amici capitani, che però sono scomparsi.» Si concesse alcuni istanti per riflettere e sospirò. «Sei sempre deciso a imbarcarti?» Orlando non rispose subito. A dire il vero non era più così sicuro di volerlo fare, benché gli seccasse ammetterlo. La sua decisione era stata dettata dall’illusione che sarebbe stato facile ritrovare Angelica. Ora, però, dopo averci ragionato sopra, si rendeva conto che era un’assurda speranza e che doveva guardare in faccia la realtà.

Non aveva che una scelta da fare, e la fece a modo suo, impulsivamente. «No», dichiarò con fermezza. «Voglio diventare cavaliere e battermi in nome della giustizia e per la difesa dei deboli, mettendomi al servizio della fede.» «Ma cosa vai farneticando?» domandò dubbioso Rinaldo. «Ti rendi conto che è una strada lunga e irta di difficoltà, specie col tuo carattere?» «Le difficoltà non mi spaventano.» «Allora tornerai a casa?» «Ho capito che non me ne sarei mai dovuto andare. I problemi non si risolvono con la fuga, ma affrontandoli.» «E Angelica?» «Lei era soltanto un pretesto per eludere la verità. Forse un giorno, a Dio piacendo, la ritroverò.» «Allora propongono di andarcene, prima che qualcun altro tenti di ammazzarci.» Si avviarono verso la locanda e strada facendo Orlando volle conoscere le sue intenzioni. «Vieni con me? Mi farebbe piacere averti al mio fianco, anche se sei un gran rompiscatole.» «Mi lusinga che tu lo chieda, ma ti accompagnerò solo per un tratto e poi me ne andrò per la mia strada.» «Credevo volessi diventare paladino.» «Mi piacerebbe, ma devo fare i conti con la realtà. Paladini si diventa soltanto se si appartiene alla cerchia dei cavaliere del re e io non ho le carte in regola per ambire a tanto. Sono un mercenario e il massimo a cui posso aspirare è di entrare al servizio di qualche signore.» Nel frattempo erano arrivati nei pressi della locanda. Orlando stava per parlargli di suo zio Gano, conte di Maganza e amico intimo del re, quando si trovarono davanti un manipolo di armigeri.

«Sono loro!» gridò uno indicandoli. «Prendeteli!» Nonostante la sorpresa, Orlando e Rinaldo fecero un rapido dietro-front per fuggire, ma da un vicolo sopraggiunsero altri soldati a bloccarli. Li circondarono, e minacciati dalle lance non poterono fare altro che arrendersi. «Vi dichiaro in arresto», disse il comandante facendosi largo. «Consegnatemi le armi.» Rinaldo posò la mano sul braccio di Orlando che stava per estrarre Durendal e gli fece un cenno di diniego. «Di cosa siamo accusati?» chiese poi. «Di omicidio. Comunque ve lo dirà il giudice. Allora, venite con le buone o dobbiamo usare la maniere forti?» Disarmati e legati, furono condotti alla cittadella e rinchiusi in celle separate ma contigue, da dove potevano almeno parlarsi. Nonostante le loro ripetute domande non ottennero spiegazioni e quando gli armigeri se ne andarono Rinaldo si accostò all’inferriata facendogli segno di avvicinarsi. «Che cosa intendeva dire il comandante degli sbirri? A parte i due che ci hanno assaliti non abbiamo ucciso nessuno, qui in città.» «Forse si riferiva proprio a loro», rispose Orlando.

«Da quando si finisce in prigione per aver ammazzato due pendagli da forca? Inoltre, che altro avremmo potuto fare se non difenderci?» «Sospetto che la situazione sia molto più complicata. Temo che sia in atto un complotto contro di noi.» «Un complotto? Perché mai qualcuno dovrebbe prendersi questo disturbo? Non siamo persone importanti e non abbiamo creato fastidi.» «Ne sei davvero convinto? Che ne dici del nostro amico arabo? Quello non è tipo da scordarsi un’offesa, e certo possiede i mezzi per vendicarsi.» Rinaldo fece una smorfia. «Siamo nei guai se è come dici tu.»

«Ne verremo fuori», lo rassicurò Orlando con un ottimismo che sapeva d’incoscienza. «L’arabo, anche se potente, è pur sempre uno straniero e la sua parola non può valere più della nostra. Il giudice crederà alla nostra innocenza, appena gli avremo spiegato ogni cosa. E se proprio dovesse mettersi male, ci appelleremo al Giudizio di Dio.» «Speriamo che non ce ne sia bisogno», sospirò Rinaldo. «Sarà la nostra ultima risorsa, ma bisognerebbe evitare di finire davanti al giudice. Se solo potessimo far arrivare un messaggio a Faro, mia madre e Manuzio potrebbero aiutarci.» «Un messaggio? Ma di cosa farnetichi?» «Te lo spiegherò dopo. Adesso dimmi: hai ancora del denaro?» «No, sai che me lo hanno requisito.» «Sto parlando di quello che hai nascosto dentro il corsaletto.» «Giusto, me n’ero dimenticato.» Si frugò addosso e sorrise. «È al suo posto. Cosa ne vorresti fare?» «Corrompere una delle guardie e convincerla a portare un messaggio alla rocca di Faro per chiedere aiuto.» «A tua madre? Come farà a toglierci di galera?» «Lei sa a chi rivolgersi.» «Già, magari al re in persona, così che possa arrivare coi suoi paladini a tirarci fuori da qui.» «Qualcosa del genere.» «Oh, Dio, ho paura che tu stia parlando sul serio.» «Infatti. Mio zio Gano è amico intimo del re, e appena conoscerà la situazione verrà a salvarci.» Rinaldo restò in silenzio qualche istante per assimilare la strabiliante notizia.

«Tuo zio è amico di re Carlo? Mi stai prendendo in giro?» «Credi che lo farei in un momento simile?» «No, non ne saresti capace. Dì, non è che sei parente del re, per caso?» Orlando sorrise con amarezza. Chissà quale sarebbe stata la reazione dell’amico se gli avesse rivelato di essere davvero figlio illegittimo del re. Senza ironia, questa volta. Ma quello era un segreto che nessun altro doveva conoscere. «Non che io sappia», rispose infine. «Meno male, altrimenti mi sarei sentito in imbarazzo», dichiarò Rinaldo. «Solo mi chiedo perché aspettare tanto a farmi queste rivelazioni. Non vorrai darmi a intendere che ti vergogni di appartenere alla più alta nobiltà.» «Non amo vantarmi del mio lignaggio, tutto qui. Inoltre, malgrado l’antica nobiltà, io e mia madre viviamo nell’indigenza. Dopo la morte di mio… padre, di tutte le proprietà non ci è rimasto che il castello, e ben poco d’altro.» «Scusa, ma per uno che ha orgoglio da vendere come te, tanta modestia mi sembra strana.» «Ho i miei motivi, di cui non sono tenuto a parlare con te. Allora, vuoi mettere a disposizione il denaro che ti resta?» «Funzionerà?» «Non lo so. Dipende dall’avidità della guardia e dal suo desiderio di collaborare. Potrebbe anche intascare il denaro senza fare niente, oppure denunciarci per tentata corruzione. Il che ci metterebbe in una posizione ancora più grave.» «Sì, però se non tentiamo non lo sapremo mai e soprattutto non potremo sperare di ricevere aiuto.» «Quindi?» «Corriamo il rischio. In fondo che abbiamo da perdere?»

Più tardi venne una guardia a portare loro da mangiare. I due decisero di fare un tentativo per sondare il terreno e Rinaldo provò ad attaccare discorso. «Ehi, amico, come te la i?» L’altro sbirciò nella cella per dargli un’occhiata. «Non mi è permesso parlare coi prigionieri», rispose. «Però, dato che me l’hai chiesto, è proprio uno schifo.» «Dici davvero?» domandò Rinaldo, accostandosi all’inferriata. «Abbiamo una misera paga e turni massacranti, neanche fossimo degli schiavi. Riesco a malapena a sfamare la mia famiglia.» «Una condizione veramente penosa.» «Puoi ben dirlo! Non sono mai stato baciato dalla fortuna.» Rinaldo afferrò l’occasione al volo. «La fortuna, qualche volta, arriva quando meno te l’aspetti», disse insinuante. L’uomo lo scrutò. «Cosa intendi dire?» «Che potrei ricompensarti se fossi disposto a darci una mano a uscire da qua.» «Sei matto? Non posso farvi evadere!» «Non ti sto chiedendo di farlo. Ma se tu porterai un messaggio alla persona che ti diremo, questa otterrà il nostro rilascio e tu intascherai un bel po’ di soldi. È fattibile, non credi? Ti assicuro che non abbiamo commesso il delitto di cui siamo accusati. Qualunque esso sia.» «Questo lo dicono tutti», sogghignò la guardia. «però, se mi mostri il denaro…» «Devi fidarti, amico, così come noi ci fidiamo di te. Ma ti do la mia parola che ne varrà la pena.» «Ci devo pensare.» «D’accordo, ma non ci mettere troppo tempo.»

Il giorno seguente aspettarono con ansia che la guardia tornasse e desse la risposta che speravano. Però non si fece vedere. I pasti furono portati da un altro carceriere, un tizio dall’aria truce che non li degnò di un’occhiata. «Credi che ci abbia traditi?» domandò Orlando preoccupato. «No, probabilmente ha finito il turno. Vedrai che domani verrà.» Infatti tornò e non li deluse. Rinaldo gli consegnò una parte del denaro e Orlando gli diede istruzioni su dove andare e a chi riferire il messaggio. La guardia si dimostrò abbastanza sveglia da mandare tutto a memoria. «Partirai oggi stesso?» gli chiese prima che se ne andasse. «Stasera. Ho già organizzato tutto. Entro cinque o sei giorni al massimo dovrei essere di ritorno.» «Buona fortuna.»

8

Il castello era più malandato di quanto si aspettava, malgrado conservasse ancora una parvenza dell’aspetto imponente che un tempo ne aveva fatto una delle più formidabili fortezze della penisola. L’uomo rallentò l’andatura del cavallo, quasi temesse di affrontare l’incognita che si celava dietro le mura cadenti, dove i rampicanti selvatici mascheravano a stento le crepe e l’incuria. L’imminenza dell’incontro con la sorella che non vedeva da anni gli procurava un senso di disagio, non disgiunto da un sentimento molto più indefinito che somigliava al rimorso. Dal giorno in cui era andata in sposa al conte d’Anglante, i loro rapporti si erano rarefatti. All’inizio lei gli aveva scritto di frequente, ma non avendo mai ricevuto risposta alla fine aveva smesso. Adesso, dopo anni di silenzio, gli aveva mandato una lettera. Ginevra non era donna da rivolgere suppliche, e poteva solo immaginare quale sforzo le fosse costato scrivergli per informarlo della situazione precaria in cui versava, della propria infermità e di quanto la preoccue l’avvenire del figlio, che dopo la morte del padre era vissuto quasi abbandonato a se stesso. Senza rinunciare alla propria dignità, Ginevra gli chiedeva d’intervenire, ponendo l’accento sul legame di sangue che li univa e ricordandogli la promessa da lui fatta al momento delle nozze con il conte d’Anglante, finora disattesa. Gano aveva sempre amato teneramente la sorella, perciò quelle poche righe l’avevano indotto a recarsi nel remoto paesino arroccato di fronte al mare, sospeso come una visione irreale tra il verde dei boschi e l’azzurro del cielo, con quelle torri abbarbicate sulla scogliera intorno a cui volavano chiassosi rondoni e gabbiani. Quelle scarne parole scritte con calligrafia incerta erano state una sconvolgente rivelazione. D’improvviso si era reso conto di quanto avesse trascurato la sorella per dedicare tutto se stesso alla causa del giovane Carlo, re dei franchi e d’Italia. Legato a lui fin dall’infanzia da sentimenti di lealtà, dovere e amicizia, aveva persino dimenticato i suoi legami di sangue. Era soprattutto questo a frenarlo dal varcare il portale spalancato che dava accesso a un mondo estraneo e che, in certo qual modo, gli incuteva timore.

Si avvicinò con una lentezza che destò sconcerto nei cavalieri della scorta, abituati a ben altri generi d’approccio da parte sua. Ma infine lo varcò e fu accolto da uno svolazzare di galline starnazzanti. I cani irsuti abbaiarono furiosamente alla comparsa dei cavalieri che lo seguivano. Il pandemonio attirò fuori un uomo anziano, dal volto scurito dal sole e solcato da rughe, incorniciato da una massa di capelli argentei. Gano ne ignorò lo sguardo curioso e diffidente per guardarsi attorno, rendendosi conto che la sua prima impressione era stata troppo ottimista. Il castello appartenuto al conte d’Anglante era davvero in penose condizioni e constatare che la sorella vivesse in una situazione simile lo trafisse in modo doloroso. Se solo l’avesse saputo prima… Smontò di sella sotto lo sguardo indagatore del vecchio, mentre uno scudiero prendeva le briglie del suo cavallo e gli scariti occupavano l’intero cortile aumentando l’agitazione delle galline. Col mantello che fluttuava al soffio della brezza gli andò incontro. Tolse l’elmo e l’infilò sotto il braccio, consapevole dell’impressione che suscitava tutto vestito di ferro com’era, e gli rivolse un cenno. Il sole accese riflessi ramati nei suoi capelli. «Sono il conte Gano di Maganza», si presentò. «Io sono Manuzio e sono onorato di darti il benvenuto. La mia signora ti attende con ansia. Vieni, ti accompagno da lei.» Manuzio gli fece strada all’interno e Gano si lasciò guidare nella stanza, senza indugiare troppo a guardarsi intorno. Tuttavia quel poco che vide bastò ad acuire la sua pena. Salirono la scala di pietra, mentre Manuzio lo metteva al corrente della situazione quasi disperata in cui versavano e delle ancor peggiori condizioni di salute della contessa. «Non ha fatto che pregare per il tuo arrivo, dal giorno in cui ti ha scritto. È preoccupata per la sorte di suo figlio Orlando. Quel ragazzo è la sua unica ragione di vita e la sua dannazione.» «Non ha detto dove avesse intenzione di andare? Non avete saputo più niente di lui?» «Nulla di buono, purtroppo», sospirò Manuzio. «Ma sarà lei stessa a parlartene.

Io, però, desidero dirti che se qualcuno non si prenderà cura di lui per raddrizzarlo, non so davvero come finirà.» Poi si fermò davanti a una porta e l’aprì, facendogli cenno di entrare. Gano esitò sulla soglia un istante, abbracciando con lo sguardo la stanza spoglia, permeata da un odore dolciastro. Nel letto giaceva una donna smunta e fragile, la pallida copia della giovane piena di vita e di ardore il cui ricordo l’aveva accompagnato tutti quegli anni. Una larva consumata dal male, dalla sofferenza e dalle privazioni. Dovette compiere uno sforzo per coprire la distanza che lo separava da lei. La pena lo straziò nel vederla così ridotta. Come ho potuto lasciare che accadesse? si chiese dilaniato dal rimorso. Il suo nome gli salì alle labbra, dolce e amaro insieme: «Ginevra.» Il suono della sua voce la fece riemergere dal torpore febbricitante. Le palpebre si sollevarono con un fremito. Gli occhi, un tempo azzurro intenso e ora scoloriti, si illuminarono nel riconoscerlo. «Gano», mormorò la donna tendendo la mano sottile e pallida. «Dio sia ringraziato, sei venuto.» Lui prese nelle sue quelle dita esili e sedette sulla sponda del letto, mentre Manuzio si ritirava con discrezione. «Perdonami», le disse affranto. Ginevra sorrise. «Cosa ti dovrei perdonare?» «Tutto», sussurrò con la gola serrata. «Ti ho abbandonata quando più avevi bisogno di me… Sono stato cieco ed egoista. Da quanto tempo vivi così?» «Sono anni ormai che Orlando e io viviamo della carità di quelli che erano i nostri servi. Milone era un brav’uomo, ma privo del senso degli affari. Dilapidò l’intero patrimonio e quando morì fummo costretti a vendere ogni cosa per far fronte alle nostre necessità.» «Perché non me l’hai detto? Avrei potuto aiutarti, evitare il disastro.» «Per non crearti problemi. Non ti volevo affliggere coi miei guai.» «Ma sono tuo fratello e avevo il diritto di sapere!»

«Non ci scrivevamo più da troppo tempo. Credevo che non ti importasse di me, di noi.» Gano si sentì morire per quelle parole e le baciò la mano, accostandola alla guancia con struggente tenerezza. «Ho lasciato che il mio dovere verso il re prevalesse sui miei doveri verso di te e mio nipote. Ho sbagliato, e sono qui per riparare al torto che vi ho fatto.» «Te ne sono grata. Come ti ho scritto, Orlando ha un carattere difficile e ribelle. Ha bisogno di essere guidato da qualcuno che sia autorevole. Ho vissuto nell’angoscia da quando se n’è andato, ma ora sono ancora più preoccupata, perché ho saputo che si trova in prigione a Brindisi, insieme a un amico, ed entrambi sono accusati di omicidio. Il messaggio è giunto soltanto due giorni fa, portato da un armigero. Orlando mi supplica di chiedere il tuo intervento, se necessario anche quello del re, per ottenere il rilascio. Conoscendo quanto sia orgoglioso, deve essergli costato molto implorare aiuto.» «Non temere, farò l’impossibile per riportarlo a casa. Poi vi condurrò via da qui e mi prenderò cura di voi. Sono certo che il re vorrà che Orlando riceva un’educazione degna del suo rango. Da parte mia lo tratterò come un figlio e gli insegnerò la via della spada e dell’onore, come si conviene a un giovane che aspiri a diventare cavaliere.» Un’ondata di lacrime traboccò dagli occhi di Ginevra. «Grazie, fratello mio, e ringrazia anche il re, quando lo vedrai.» «Potrai farlo tu stessa, poiché certo non te ne mancherà l’occasione, in futuro. Anche lui ha molto a cuore Orlando, ma non sapeva se tu avresti avuto piacere di un suo diretto interessamento. Dovevi vedere come era contento quando gli ho mostrato la tua lettera! Mi ha ordinato di partire subito per venire a prendervi e vi ha preparato una residenza principesca per te e Orlando. Adesso le vostre tribolazioni sono finite, mia cara sorella.» Un’intensa commozione le serrò la gola, impedendole di parlare. Piangeva, mentre aggrappata alla mano di lui cercava di trasmettergli ciò che non riusciva a esprimere con la voce. Rendendosene conto, Gano le sfiorò il viso con dolcezza, come faceva quando erano bambini per confortarla. «Non devi avere alcun timore. Ti riporterò Orlando sano e salvo. E durante la mia assenza preparati a partire. Al nostro

ritorno non dovrai restare un giorno di più qui dentro.» «Sei così buono», mormorò lei, abbandonandosi sui guanciali con un sospiro. «Che Dio mi perdoni per il fardello che pongo sulle tue spalle.» «Non dirlo, Ginevra. Non sei tu quella che Dio deve perdonare.» La baciò e se ne andò in fretta per celarle la propria commozione. Scese la scala a precipizio, turbato come non gli accadeva da tempo, e a Manuzio disse che sarebbe partito subito per Brindisi. Poi gli diede una borsa col del denaro. «Questo dovrebbe bastare per coprire tutte le spese fino al mio ritorno. E fa’ in modo che la contessa riceva le cure di cui ha bisogno. Voglio che sia abbastanza in forze per affrontare il viaggio che l’attende.» «Riporterai a casa Orlando?» «Sì, anche se fossi costretto a mettere Brindisi sotto assedio.» «Che Dio ti benedica, signore.» Gano gli posò la mano sulla spalla e lo guardò negli occhi. «Conto sulla tua collaborazione, e ti assicuro che la dedizione che finora hai dimostrato alla famiglia sarà ricompensata.» «Ho fatto il mio dovere.» «No, hai fatto molto di più», replicò Gano. «Ci vedremo a giorni.» Lo lasciò e si diresse verso la porta. «Buona fortuna», gli augurò il vecchio. Gano si girò sulla soglia e sorrise, sfiorando l’elsa della spada. «La fortuna sta qui, nella mia Murgleis. Comunque ti ringrazio.» Appena fuori mise l’elmo sul capo e infilò i guanti. Prima di montare in sella chiamò Fulberto.

«Comanda, signore.»

«Si parte per Brindisi», lo informò. «Ho appena saputo che mio nipote è prigioniero nella cittadella. Manda un messaggio al re per avvertirlo. Potremmo aver bisogno del suo intervento.» Fulberto eseguì l’ordine e pochi momenti dopo uno scarita partì al galoppo. Gano e gli altri cavalieri della scorta lo seguirono alcuni minuti più tardi, prendendo però la direzione opposta, e si inoltrarono lungo la stessa strada costiera che aveva percorso Orlando. Galopparono nell’ombra screziata di riflessi dorati. Gano sentì risvegliarsi echi sopiti di lontani ricordi: erano, quelle, le verdi dimore ancestrali popolate da elfi e folletti, di fate elusive scaturite dalla bruma; effimere visioni di sogno che svanivano nell’attimo in cui l’occhio riusciva a coglierle. La selva arcana in cui si addentrava da bambino per vivere fantastiche avventure intrise di magia. Lui cavaliere, Ginevra principessa da salvare, era la costante di quelle epiche imprese fanciullesche. Mentre procedeva si sentiva immerso in una dimensione sospesa fra ato e presente, trascinato dal flusso disordinato che emergeva dai remoti recessi della memoria, sepolto sotto gli strati degli eventi che avevano forgiato la sua vita, che l’avevano reso il primo dei pari di Francia, per poi essere privato del ruolo a cui ambiva più di ogni altro per ricevere altre cariche, altri onori e riconoscimenti. La delusione era stata – ed era tuttora – cocente, ma il volere del re veniva prima di ogni altra cosa, e la sua anima, al pari del suo corpo, apparteneva al re. La grande considerazione e la fiducia che gli dimostrava lo ripagavano solo in parte di ciò che aveva perduto, e continuava a rimpiangere il periodo in cui era stato al suo fianco come paladino. Lo rimpianse anche in quel momento, mentre la marea dei ricordi lo guidava lungo i sentieri del ato e dell’infanzia, riconducendolo all’estate in cui Ginevra aveva soggiornato nella residenza di Heristal. Erano ragazzi, allora, ma Carlo possedeva già il famoso fascino che conquistava tutti. Ginevra era uno splendore, con i capelli ramati e gli occhi di un blu intenso che faceva pensare al mare, o alle rare pietre preziose chiamate zaffiri, con la pelle di velluto e le labbra di corallo. Incantevole per la grazia acerba e sensuale propria delle adolescenti. Carlo, al pari di tutti gli altri, era stato rapito e sedotto dalla sua bellezza in boccio. L’aveva corteggiata, sebbene in modo discreto per

non attirare l’attenzione della madre, la severa regina Berta. Ma Ginevra aveva disdegnato le attenzioni del giovane principe, che in privato si lagnava con lui della freddezza con cui lo trattava. Eppure, in qualche occasione, gli era parso di vederli scambiarsi sguardi complici e teneri sorrisi. Non era mai riuscito a scoprire se la storia fosse sfociata in un idillio, ma il dubbio gli era rimasto, almeno finché la sorella aveva sposato l’anziano conte d’Anglante. Un matrimonio, a dire il vero, che aveva destato la sua perplessità per quanto era stato precipitoso. Nell’apprendere che era stata proprio la regina Berta a combinarlo, aveva chiesto spiegazioni a Carlo, suo malgrado colpito da un sospetto che, sia pure vago, lo tormentava. Le sue domande avevano trovato risposte soddisfacenti e ogni dubbio era stato dissipato. Carlo gli aveva detto che il conte d’Anglante apparteneva alla più antica nobiltà italica, e nel combinare quelle nozze la regina aveva tenuto conto dei saldi vincoli che sarebbero venuti a crearsi con la casa regnante. Alla fine si era convinto che Ginevra sarebbe stata felice col marito, e le lettere che lei gli mandava lo confermavano. Poi un giorno Ginevra gli aveva comunicato di attendere un figlio. Ma quella era stata una delle ultime lettere prima che la corrispondenza si interrompesse. Ora quel bambino aveva quindici anni e per lui era uno sconosciuto. Gli avevano riferito che era ombroso e di indole ribelle, ma questo era tutto ciò che sapeva sul suo conto, ed era davvero poco. Forse troppo poco per stabilire un legame affettivo, ma non aveva altro a disposizione e se lo sarebbe fatto bastare. D’altronde, pensò, non sarebbe stata la prima volta che si accingeva a compiere un’impresa difficile e non ne era particolarmente impensierito. Non dubitava che con lui come mentore e con la protezione del re, Orlando sarebbe stato avviato verso un brillante avvenire, degno del casato a cui apparteneva. Ma l’importante, adesso, era arrivare a Brindisi senza farsi sorprendere dai longobardi rimasti fedeli ad Adelchi, ai quali non sarebbe parso vero di poter intercettare dei soldati dell’esercito franco.

Orlando fremeva per l’impazienza di conoscere l’esito della missione affidata alla guardia, a cui lui e Rinaldo avevano affidato la loro vita, insieme al denaro.

Si muoveva nell’esiguo spazio della cella come un leone in gabbia, sentendosi soffocare da quelle quattro mura, dall’atmosfera greve della prigione. A volte, per scaricare la tensione dei muscoli da troppo tempo inattivi e placare la propria ansia, si aggrappava alle sbarre e le scuoteva con forza.

Invece Rinaldo se ne stava quieto, accettando con distaccato fatalismo la situazione, e ogni tanto lo esortava a imitarlo perché, diceva, agitarsi non avrebbe risolto prima i loro problemi. Ma essendo irrequieto e per natura poco incline ad accettare limiti alla propria libertà d’azione, Orlando non lo ascoltava. Poi, finalmente, la guardia tornò. «Allora, hai portato il messaggio?» la interrogò Orlando. «Secondo le tue istruzioni», rispose. «Hai visto mia madre? Come sta?» «Non bene, ma mi ha assicurato che farà il possibile per aiutarvi.» «Tutto qui?» «Non c’è altro», dichiarò l’uomo, volgendosi poi verso Rinaldo. «Adesso dammi il resto dei soldi. Me li sono guadagnati.» «Questo lo dici tu, ma chi ci assicura che tu sia andato davvero a Faro?» «Sono stato a Faro, lo giuro!» protestò. «Ho parlato con un vecchio di nome Manuzio e con la contessa Ginevra, signora di quel castello in rovina che si affaccia sul mare. Ti basta?» «Dagli i soldi», intervenne Orlando. «Ha fatto ciò che doveva. Non gli avevo detto il nome di mia madre, né del maestro d’armi. Non potrebbe averli saputi se non recandosi a Faro.» Rinaldo si separò piuttosto a malincuore dalla piccola somma che gli restava, anche perché, in realtà, non avevano ricevuto alcuna assicurazione circa un intervento in loro soccorso. Ma avevano fatto un patto e la guardia l’aveva

mantenuto. Adesso toccava a loro rispettarlo. «Spero che vengano presto a liberarvi», disse la guardia intascando il denaro. «Ma se non accadesse, giuro che lo farò io.»

Il giorno dopo li andarono a prendere per interrogarli. Furono scortati in una stanzetta spoglia, dove li attendevano il comandante della cittadella e il mercante arabo. Nel vedere quest’ultimo, Orlando digrignò i denti e fece per scagliarsi su di lui, ma i soldati lo trattennero. Rinaldo gli gettò un’occhiata di rimprovero e scrollò la testa. Era stato un gesto inutile che avrebbe compromesso ancora di più la loro posizione. E infatti l’arabo ne approfittò subito. «Lo hai visto? Come puoi dubitare che un tale energumeno abbia ucciso i miei uomini?» «Ci hanno teso un agguato e abbiamo dovuto difenderci! Neanche li conoscevamo, ma loro aspettavano proprio noi, e da chi possono aver avuto l’ordine se non da questo farabutto?» gridò Orlando dibattendosi. Il comandante lo guardò. «Perché mai l’avrebbe fatto? Omar Fayadi è un mercante assai stimato, con il quale mezza città tratta affari da anni.» «Per vendetta, che altro? Abbiamo avuto una disputa, nella locanda in cui alloggiavamo, e deve aver considerato offensivo ciò che gli ho detto. C’erano dei testimoni che potranno confermare le mie parole.» «È andata in questo modo?» chiese il comandante all’arabo. «La disputa c’è stata e lui mi ha mancato di rispetto, tuttavia l’ho perdonato, come ci insegna Allah grande e misericordioso. Non ho incaricato i miei uomini di ucciderli, e conoscendoli sono certo che non avrebbero mai agito di loro iniziativa. Questi due li hanno aggrediti e uccisi senza pietà al solo scopo di danneggiarmi. Ci conosciamo da anni, come puoi dubitare della mia parola?» «Non prenderla come un’offesa, Omar, ma coloro che erano presenti alla scena

nella locanda affermano che la tua reazione è stata esagerata e che hai lasciato trapelare minacce nei loro riguardi.» «Forse mi sono lasciato trascinare dalla collera del momento, ma giuro su Allah che non avevo intenzione di vendicarmi.» «Quindi i tuoi uomini se ne andavano a so e si sono imbattuti per puro caso in questi due, i quali, benché non li avessero mai visti prima e non sapessero che erano al tuo servizio, hanno deciso di ammazzarli.» «Chi può sapere come siano andate veramente le cose?» «Infatti è quello che intendo accertare, prima di prendere una decisione. Per adesso puoi andare, ma non lasciare la città, perché potrei avere ancora bisogno di parlarti.» L’arabo sorrise. «Non ho alcuna intenzione di partire senza aver ottenuto giustizia. È il meno che possa fare per ripagare la fedeltà dei miei uomini barbaramente uccisi. Che Allah ti illumini e ti aiuti a raggiungere la verità.» Gli rivolse un cerimonioso saluto e, dopo aver lanciato ai due giovani un’occhiata feroce, se ne andò. Il comandante intrecciò le mani sopra il tavolo e sospirò, poi alzò il capo per rivolgersi ai soldati. «Uscite», ordinò. «Voglio parlare da solo coi prigionieri.» Orlando e Rinaldo si scambiarono un’occhiata interrogativa, non sapendo come interpretare la decisione. L’uomo sembrava un tipo ragionevole e forse c’era qualche probabilità di convincerlo che erano stati aggrediti e costretti a difendersi. «L’arabo ha mentito», dichiarò Rinaldo facendo segno a Orlando di tacere. «Voleva vendicare l’offesa che, secondo lui, gli abbiamo arrecato, e non ha esitato a spedire i suoi scagnozzi contro di noi. Ci sono piombati addosso nell’angiporto e non avremmo avuto scampo se fossimo stati meno pronti a difenderci. Non posso credere che la parola di uno straniero, qui, valga più della nostra. Io sono Rinaldo da Urbino, cavaliere errante, e il mio compagno è Orlando d’Anglante, che presto sarà ordinato cavaliere. La nostra fede e il nostro onore non ci consentirebbero mai di macchiarci di un atto vile come l’omicidio. Non siamo assassini che colpiscono nell’ombra.»

«Sono propenso a credervi», rispose il comandante. «Tuttavia Omar Fayadi è assai influente e gode di protezioni in alto loco, malgrado sia straniero e musulmano. Non sarà tanto facile dimostrare che sta mentendo.» «Sarà anche influente, ma è un bugiardo e un codardo, poiché non ha avuto il coraggio di affrontarmi secondo il codice della cavalleria!» sbottò Orlando, incapace di trattenersi. «Ho osato sfidarlo, e lui non me l’ha perdonato.» Un guizzo di ammirazione attraversò lo sguardo del comandante mentre sorrideva. «Tanta audacia in un ragazzo così giovane deve averlo irritato parecchio», osservò. «Ora capisco perché cova un tale rancore e vuole vendicarsi.» «E tu glielo permetterai? Lascerai che ci condannino solo per dare soddisfazione a quell’individuo?» «I miei poteri sono limitati, ma non permetterò che sia commessa un’ingiustizia. Cercherò di evitarvi il patibolo con ogni mezzo a mia disposizione, anche se sarà difficile.» «E se non dovessi riuscire?» «Troverò un altro modo per tirarvi fuori da qui. Avete la mia parola.»

9

Col are dei giorni la speranza di una rapida scarcerazione parve farsi più remota, finché una mattina la guardia e altri due soldati vennero a prenderli. «Siete liberi», annunciò con un sorriso. «Ordine del governatore. Il conte Gano di Maganza vi sta aspettando.» Orlando aggrottò la fronte. «Mio zio è qui?» «Già, e deve aver fatto pesare tutta la sua autorità per ottenere il vostro rilascio.» «Non stento a crederlo», annuì, turbato al pensiero di incontrare lo zio, che per lui era un estraneo. Rinaldo manifestò un più concreto entusiasmo dandogli una manata sulle spalle appena uscì dalla cella. «Finalmente ce ne andiamo!» esclamò. Furono scortati al posto di guardia, dove li attendevano Gano, due scariti e il comandante. Sebbene non avesse mai visto il nipote, Gano lo riconobbe subito e non esitò nell’andargli incontro per abbracciarlo. Orlando era tale e quale a sua madre, con in più qualcosa di estraneo e familiare al tempo stesso che lo sconcertò. Tuttavia lo strinse a sé con affetto, sorprendendosi un poco nel sentire in lui un certo rigido distacco. Non lasciò trasparire la propria emozione, ma il sorriso che gli rivolse quando se ne staccò per guardarlo era pieno di calore. «Sei alto e forte per la tua età», disse. «Grazie per essere venuto», rispose Orlando senza slancio. «Potevo forse deludere tua madre? E poi era mio dovere intervenire.» «Mi dispiace d’aver causato questo guaio.»

«Lascia stare. L’importante è che tu e il tuo amico siate liberi.» Rinaldo si fece avanti per presentarsi e salutarlo. «Signore, permettimi di ringraziarti», aggiunse. «Spero di poterti ripagare per questo favore.» «Ripagarmi?» sorrise Gano. «Sì, forse troveremo il modo.» Il comandante ordinò che fossero restituite le armi ai due giovani e non mancò di esprimere la propria soddisfazione per il lieto fine della vicenda. «L’unico a rimanere insoddisfatto sarà Omar Fayadi», soggiunse con una sfumatura divertita. «Ma non dubito che troverà il modo di dimenticare questo episodio.» Orlando, che si era appena allacciato sui fianchi la cintura con la spada e si era messo a tracolla l’Olifante, lo guardò. «Io, al contrario, non lo dimenticherò. Se mai un giorno dovessi incontrarlo di nuovo, spegnerò nel sangue la sua infima esistenza.» L’altro ammutolì di fronte a tanta fredda determinazione, ma Gano cercò di stemperare quelle parole colme di livore. «Suvvia, capisco che tu sia ancora scosso per questa spiacevole esperienza, ma a che scopo rivolgere vuote minacce?» «Non ho l’abitudine di minacciare a vuoto», dichiarò. Rinaldo intervenne con una risata. «Confesso che lo infilzerei volentieri anch’io, se mi capitasse a tiro, ma sono convinto che quel brav’uomo si terrà alla larga da noi.» Gano guardò il nipote, che lo ricambiò con una gelida occhiata. «Certe vanterie non trovano posto fra i cavalieri del re», replicò con asprezza. «E farai bene a rammentarlo, poiché non saranno tollerate.» «Io non sono cavaliere, e tanto meno del re», ribatté Orlando. «Ma lo diventerai, e prima di quanto immagini. Perciò, visto che hai molte cose da imparare, sarà bene che tu cominci subito col ricordare ciò che ti ho detto.» Il rimproverò lo irritò, perché mai nessuno prima gliene aveva rivolti, eccettuato

Manuzio, che comunque non si era mai permesso di far pesare la propria autorità a tal punto. Gano, invece, non aveva esitato a criticarlo di fronte ad altri, senza curarsi di ferire il suo orgoglio. Tuttavia tacque, consapevole che lo zio era nel giusto. Si congedarono dal comandante e raggiunsero gli scariti che li attendevano nel cortile. Montarono a cavallo e partirono al trotto. Orlando non gettò neppure uno sguardo dietro di sé nell’attraversare la città. Solo quando ne uscirono si girò sulla sella per guardare le mura e le torri che splendevano bianche nel sole, ma senza provare alcuna emozione se non un vago senso di sollievo. «Tuo zio mi piace», dichiarò Rinaldo che cavalcava al suo fianco. «E si vede che ti vuole bene.» «Ma se neppure mi conosce!» «Sei sangue del suo sangue, e per uno come lui basta e avanza. È un paladino, vero?» Orlando non condivideva l’ammirazione dell’amico, sebbene riconoscesse che lo zio incuteva un forte senso di rispetto. «Non indossa il mantello azzurro, quindi non credo che lo sia. Probabilmente non lo è più per qualche ragione che ignoro.» L’altro restò qualche istante in silenzio con l’aria di chi riflette su qualcosa di importante, poi si decise a parlare. «Ascolta, so di chiederti molto, ma… metteresti una buona parola per me presso tuo zio? Lui deve avere influenza a corte e certo il re gli dà ascolto…» «Immagino di sì.» «Lo farai?» «Lo farò, visto che ci tieni tanto, ma non sono sicuro che il tuo desiderio di diventare paladino sarà accolto. Non ho idea del criterio con cui il re sceglie coloro che dovranno fare parte del comitato dei pari.» «Forse mi sto illudendo, ma… potrebbe essere la mia unica occasione.»

«Me ne rendo conto. E ti prometto che se potrò, ti appoggerò.» «Magnifico!» esclamò Rinaldo tutto contento. «Ehi, raffredda il tuo entusiasmo. Forse il re non ci riterrà degni di diventare paladini.» «Dio, non sono mai stato così vicino a realizzare il mio sogno!» sospirò con aria beata, proprio come non l’avesse sentito. Orlando non poté impedirsi di ridere e l’eco raggiunse Gano, che cavalcava alla testa del distaccamento. Si voltò a guardarli con aria interrogativa, poi girò il cavallo per andare a unirsi a loro. «Posso conoscere il motivo di tanta allegria?» domandò. Tornando subito serio, il giovane scrollò le spalle. «Niente d’importante. Stavamo solo scherzando.» «Mi riesce difficile immaginare che tu abbia voglia di scherzare. Sbaglio?» «In effetti è vero», ammise. «Tuttavia Rinaldo, qualche volta, riesce a farmi ridere.» «Una qualità davvero rara. Ditemi, come vi siete conosciuti?» «Lungo la strada», rispose pronto Rinaldo. «Lui stava rubacchiando della frutta e io gli ho detto che stava commettendo un peccato. Poi abbiamo fatto amicizia, anche se non è stato facile data la sua ritrosia. Ce n’è voluto, prima che riuscissi a far breccia e a sapere qualcosa di lui.» «Non ho l’abitudine di raccontare i fatti miei a un estraneo», interloquì Orlando. «Il riserbo è una caratteristica di famiglia», sorrise Gano. «Comunque, ho l’impressione che siate affiatati, nonostante le differenze di carattere.» «È solo merito mio. Lui non fa alcuno sforzo per rendersi simpatico.» «Perché dovrei?» ribatté Orlando. «Se mi si accetta per ciò che sono, bene, altrimenti…» Lasciò in sospeso la frase, concludendo con una eloquente

scrollata di spalle. «Visto? Questa è la conferma di quanto ho appena detto.» Gano annuì, rivedendo in Orlando il riflesso della propria immagine giovanile, ma avvertendo anche delle preoccupanti differenze. Certamente quel nipote gli avrebbe dato filo da torcere.

L’andatura sostenuta imposta da Gano li portò a Faro in appena tre giorni. Troppo pochi per consentire a Orlando di fare conoscenza con lo zio, ma molti per pensare. Pensare al futuro, alla svolta improvvisa che aveva preso la sua vita: a ciò che stava per lasciarsi dietro con rimpianto e al timore di quello che lo attendeva. Erano accadute tante cose, negli ultimi tempi, e per poco non ne era rimasto travolto. Prima la sua determinazione di seguire e liberare Angelica, poi l’improvvisa presa di coscienza che sarebbe stata un’impresa disperata, e infine la decisione di tornare indietro. Adesso tutto ciò gli appariva come il segno di un destino a cui non poteva sottrarsi. Il Drago era la risposta alle domande inespresse che vorticavano nella sua mente. Il Drago che gli ruggiva nel cuore e che si ergeva rampante sullo stendardo issato sul pennone, racchiudeva nelle sue spire sinuose i segreti del suo destino. Nel guardarlo, tuttavia, si rese conto che lo stendardo era a mezz’asta e avvertì un senso di funesto presagio. Spronò il cavallo e si staccò dalla fila per galoppare verso il portale spalancato, ignorando i richiami di Rinaldo e Gano, rimasti indietro con gli altri. Irruppe nel cortile in un turbinio di polvere e balzò a terra ancora prima che il cavallo si arrestasse. Corse verso il torrione, mentre Manuzio gli veniva incontro. Gli lesse sul viso sfatto la muta risposta all’angosciosa domanda che aveva nel cuore. In un silenzioso scambio di sguardi, comprese. Proruppe in un grido straziato e lo superò per precipitarsi sulla scala. Con una spinta spalancò la porta della stanza di sua madre. Era vuota. Il letto rifatto, ogni cosa in ordine.

Irrigidito, rimase sulla soglia con un velo di dolore sul volto. Manuzio lo raggiunse e si fermò a pochi i, in un silenzio che più di ogni parola esprimeva la sua pena. Avrebbe voluto dirgli qualcosa per confortarlo, ma non ne fu capace. Orlando avvertì la sua presenza e si voltò. «Quand’è successo?» chiese con voce atona. «Il giorno dopo la partenza del conte Gano. È accaduto così… da un momento all’altro. Ora giace nella cripta, al fianco di tuo padre. Puoi andare a vederla, se vuoi.» «Non ora», rispose con asprezza. Si riscosse dall’attonita immobilità e se ne andò a lunghe falcate, circondato dall’aura oscura e palpitante del dolore e della collera. Manuzio non cercò di trattenerlo, comprendendo il suo bisogno di rimanere solo, sentendosi d’un tratto troppo vecchio e stanco per continuare a vivere. Ma ricordò che c’erano degli ospiti che dovevano essere accolti e rifocillati. Conosceva abbastanza Orlando da sapere che non se ne sarebbe occupato, perciò toccava a lui farsene carico. Si trascinò verso la scala e mentre scendeva sentì la porta sbattere, poi il galoppo di un cavallo che si allontanava. Era Orlando. Nel salone Gano gli andò incontro. Nello sguardo una domanda a cui non seppe come rispondere. «Cos’è successo? Orlando era turbato e se n’è andato senza dire niente.» «La contessa Ginevra è morta», sospirò Manuzio. «Il ragazzo ne è rimasto sconvolto ed è uscito in cerca di solitudine. Tornerà, non temere.» Gano ebbe la sensazione che tutta l’aria gli venisse risucchiata via dai polmoni e dovette lottare per respirare, per alleviare il peso che lo soffocava. «Morta?» sillabò a stento. «Sì, signore. La sventura si è di nuovo abbattuta su di noi.» Il conte era abituato a dominare le proprie emozioni. Ci erano voluti anni per imparare a imbrigliarle e domarle, per riuscire a mantenere la mente lucida e

fredda anche nei momenti di più intenso turbamento, per non lasciarsi coinvolgere dai sentimenti e mantenere l’animo il più possibile sereno. Questa volta, però, mascherare il dolore che la perdita della sorella appena ritrovata gli arrecava, gli costò uno sforzo tremendo. Si sentì come se gli avessero lacerato il cuore, ma non lasciò trasparire il suo tormento. Aspettò a parlare per timore che la voce incrinata lo potesse tradire. «Dov’è?» si limitò a chiedere. «Nella cripta», rispose Manuzio, sconcertato da tanta indifferenza. «Vuoi che ti accompagni?» «No. Vado da solo.» Manuzio lo guardò allontanarsi, poi andò a sedere accanto al camino e pianse senza ritegno, ringraziando di essere abbastanza vecchio da potersi concedere quel sollievo.

Orlando spinse il cavallo a un galoppo sfrenato sui sentieri scoscesi fra il mare e il bosco, costeggiando vertiginosi strapiombi, incurante dei pericoli. Il Drago urlava dentro di lui echeggiando nel suo cuore, provocando un tumulto che niente era in grado di arginare. Reso folle dal dolore, rischiò più volte di sfracellarsi sulle rocce flagellate dalle onde, ma proseguì senza nemmeno accorgersene, sospinto dal desiderio di annullarsi in quella corsa selvaggia. Guidò il cavallo lungo il crinale pietroso, spronandolo fino allo stremo, fino a sentirsi stremato lui stesso. Poi si arrestò sulla sommità di un cocuzzolo disseminato di radi cespugli e rododendri, da cui si poteva abbracciare con lo sguardo uno spazio sconfinato, e afferrato l’Olifante vi soffiò dentro con tutto il fiato. Ne uscì un suono straziante, struggente come un pianto, che si diffuse come un’onda, rimbalzando negli anfratti, ripercotendosi nelle valli ombrose, fino a disperdersi nella vastità del cielo. Soffiò finché non ebbe più forze, e infine si accasciò a terra.

L’urlo lacerante venne udito anche dal re, che cavalcava verso la rocca con un reparto di armati. Ne riconobbe l’origine e lo interpretò come l’annuncio di una sciagura. Subito diede ordine di aumentare l’andatura e spinse Tencedur a un galoppo serrato, prendendo vantaggio sul seguito. I cavalieri divorarono rapidamente la distanza che ancora li separava dalla rocca di Faro, e all’apparire del torrione su cui sventolava lo stendardo a mezz’asta, il re capì che un nuovo lutto si era abbattuto sugli Anglante e avvertì una stretta al cuore. Il frastuono prodotto dall’arrivo degli armati nel cortile fece accorrere Manuzio, che al vederli si allarmò. Ma Carlo balzò a terra e gli andò incontro, mascherando dietro al sorriso l’ansia che il suono dell’Olifante aveva risvegliato. «Non hai di che temere», lo rassicurò. «La nostra invasione è pacifica.» L’uomo s’inchinò, intuendo dall’aura di maestà che emanava che si trattava di una persona importante. «Chi sei, signore?» domandò, alzando lo sguardo sul gigante e sentendosi ancora più piccolo e vecchio. «Sono il re», rispose l’altro. Manuzio lo guardò a bocca aperta per qualche attimo, poi fece per prosternarsi nella polvere, senza però riuscirci perché Carlo lo trattenne. «Mio sire, è un grande onore», balbettò cadendo in confusione. «Mi rammarico di non poterti ricevere più degnamente, ma come puoi vedere viviamo in condizioni assai misere.» «Cos’era quel suono di corno che abbiamo udito per strada? Era così lugubre da dare i brividi.» «Era l’Olifante, sire. Suonato da Orlando.» «L’ho riconosciuto. Ma perché suonarlo in quel modo?» Gli occhi del vecchio si fecero lucidi. «È il suo modo di piangere la morte della madre. La contessa d’Anglante ci ha lasciati dopo una lunga malattia.»

Fu un duro colpo per Carlo, ma abituato com’era a celare i propri sentimenti non lasciò trapelare nulla, se non un cordoglio di circostanza. «Gano di Maganza è qui?» chiese dopo un istante di penoso silenzio. «Nella cripta, a pregare sulla tomba della contessa.» «E Orlando?» «Da qualche parte, lassù sui monti. Dovrebbe tornare, se non ha deciso di are la notte nel bosco.» «Gli vado incontro», dichiarò il re rimontando in sella. «Forse dovresti aspettarlo qui, sire. Quando è di quell’umore il ragazzo diventa pericoloso.» Carlo sorrise. «Non correrò alcun rischio», replicò voltando il cavallo e avviandosi verso il portale. Manuzio lo vide fare un cenno di diniego alla scorta e andarsene da solo, imponente in sella al suo grande stallone nero, e si lasciò sfuggire un sospiro di rimpianto per non potergli offrire un’ospitalità più consona alla sua importanza. Non era cosa da tutti i giorni ricevere la visita di un re.

L’abbandono di Orlando non si protrasse a lungo, né indugiò a versare lacrime per la morte della madre, preferendo esprimere col suono dell’Olifante il dolore che lo dilaniava. Lo afferrò e riprese a soffiarvi con forza, traendone tonalità possenti e spaventose. Ora, più che un lamento, era un tuono che squassava le montagne, che frantumava le pietre e scuoteva gli alberi. Una vibrazione cavernosa d’impressionante intensità che faceva davvero pensare a un drago in preda alla furia. La stessa che ardeva nel suo cuore dove lo spirito del Drago dimorava. Una tempesta si scatenò intorno a Orlando, mentre soffiava nell’Olifante fino a farsi bruciare i polmoni.

L’eco terrificante guidò il re fino a lui. Nel condurre il cavallo su per il sentiero roccioso, quasi stordito dalle vibrazioni sonore, venne sopraffatto dal ricordo di Ginevra, da lui un tempo amata, e che aveva relegato in quel luogo remoto dandola in sposa al conte d’Anglante. Rimpianto e un vago senso di colpa lo resero triste, tuttavia mescolati al desiderio di incontrare il figlio che lei gli aveva dato e che mai avrebbe potuto riconoscere. Si chiese se Orlando conoscesse la verità e, in quel caso, quali sentimenti provasse per lui. L’avrebbe odiato?

10

Come scaturito dal suono prodigioso dell’Olifante, si levò un vento furioso.

Rami spezzati e foglie turbinarono intorno a Orlando, che continuava a soffiare nella zanna cava. Fosche nubi si addensarono nel cielo e il mare ruggì sulla scogliera. Giungendo sullo sperone di roccia, il re fu colpito dalla scena che si presentò ai suoi occhi. Per alcuni istanti ne fu suggestionato, mentre il suo cavallo, Tencedur, scalpitava nervoso. Orlando, in equilibrio sull’orlo del dirupo, sembrava combattere contro una schiera di invisibili nemici. Il volto era contratto dallo sforzo prolungato e le vene del collo gli si erano gonfiate, tanto che parevano sul punto di scoppiare. Quando finalmente scorse il cavaliere immobile al limite del suo campo visivo, si interruppe. Lasciò l’Olifante e serrò l’elsa di Durendal, estraendola con un rapido movimento. Tuttavia non la puntò contro colui che lo fissava dall’enorme cavallo nero, ma lo fissò a propria volta, ricambiando l’esame di quello sguardo azzurro e cristallino. Il vento e il rombo dei marosi echeggiarono, mentre Orlando e il re si scrutavano. «Metti via la spada», disse Carlo. «Non sono tuo nemico.» «Chi sei?» chiese Orlando, senza però obbedirgli. L’altro non rispose. Smontò di sella per andargli incontro e sorrise, tenendo le braccia rilassate lungo i fianchi. I suoi occhi si spostarono dal viso corrucciato di Orlando alla spada, che per effetto delle livide nubi riluceva brunita. «Quella deve essere Durendal», osservò.

«È il suo nome», annuì il ragazzo. «Ma tu come fai a conoscerla?» «Di te e della spada, nonché delle reliquie custodite nell’elsa, conosco tutto. Così come so che la zanna d’elefante capace di emettere suoni terrificanti si chiama Olifante.» La punta della spada si sollevò verso di lui in modo appena percettibile, ma chiaramente minaccioso. «Sei forse un mago, tu che sai queste cose?» «No, anche se alcuni affermano che mi servo della magia per sconfiggere i miei nemici.» «Non fare un altro o», ammonì Orlando. «Cosa temi?» «Niente», replicò sprezzante. «Non esiste cosa al mondo che mi faccia paura.» «Tranne, forse, ciò che non conosci.» «Smettila di giocare con me e dimmi chi sei.» «Io sono il re.» Orlando non dubitò delle sue parole, ma non ne fu impressionato. Rinfoderò la spada e lo guardò con una mescolanza di dolore e collera. «Sei venuto troppo tardi. Mia madre è morta.» «Lo so», rispose Carlo, sostenendo la sua silenziosa sfida. «Riconosco di aver trascurato troppo a lungo i miei doveri verso di lei e, soprattutto, verso di te. Ma da ora in poi tutto cambierà.» «Riconoscerai di fronte al mondo che sono tuo figlio?» Carlo abbassò il capo, ferito dal suo tono. «Questo non posso farlo.» «Tu sei il re, puoi fare ciò che vuoi.» «Non in questa circostanza, purtroppo. Il segreto dovrà essere serbato, anche se vorrei gridarlo a tutti. Però non vuol dire che tu non possa godere dei privilegi riservati al tuo rango e aspirare a un brillante avvenire. Farò quanto è in mio

potere affinché tu abbia ciò che ti spetta per diritto di sangue, tranne che proclamarti mio erede.» «Non voglio niente da te!» proruppe il ragazzo. «Tu ci hai abbandonati, dimenticati per anni. Ci hai lasciati vivere miseramente quando sarebbe bastata una parola, una sola, a darci un po’ di benessere. Adesso arrivi, ammantato del tuo potere, e mi parli di diritti, privilegi di sangue, di futuro degno del mio rango… E magari ti aspetti pure che ne sia felice, che mi getti ai tuoi piedi e ti ringrazi per tanta generosità!» Quelle parole rabbiose trafissero Carlo come lame. Orlando reagiva come aveva temuto, gettandogli in faccia il rancore e la frustrazione accumulati durante quegli anni di solitudine, di miseria e abbandono. Volle difendersi, benché sapesse che le sue giustificazioni erano deboli. «Ho cercato di dare a tua madre e a te il meglio che ho potuto. Se non è stato abbastanza, non farmene una colpa, ti prego. Non vi ho mai dimenticati, malgrado le apparenze, e nemmeno tuo zio lo ha fatto. Ignoravamo che le vostre condizioni fossero tanto disagiate. Abbiamo appreso la verità solo dopo che tua madre ci ha scritto, e ti assicuro che è stato un duro colpo.» «È facile per te lavarti la coscienza dai sensi di colpa, ma non pensi alla sofferenza che hai inflitto a mia madre con la tua indifferenza?» «Sono qui per farmi perdonare e per riparare ai torti che ti ho fatto. Non mi vuoi concedere questa possibilità?» Carlo allargò le braccia, inviandogli un tacito invito con lo sguardo. Orlando esitò, combattuto fra sentimenti contrastanti, poi si lasciò guidare dall’impulso del proprio cuore e andò da lui. Si abbracciarono a lungo, in silenzio, entrambi sul punto di essere sopraffatti dalla commozione, ma ancora troppo estranei per abbattere ogni barriera e lasciarsene travolgere. Per Carlo, aver ritrovato quel figlio che era stato costretto a negare, fu una gioia immensa. Per Orlando, cresciuto nella selvatica solitudine di Faro, quell’abbraccio fu la rivelazione di non aver aspettato né desiderato altro per tutta la vita.

Carlo lo allontanò un poco per guardarlo. Sorrise, compiaciuto e orgoglioso, tenendogli le mani sulle ampie spalle. «Somigli a tua madre», mormorò, cogliendo nei tratti del giovane volto virile tutto il fascino di Ginevra. Approfondì l’esame, cercando qualcosa che li accomunasse e che fe sorgere dei sospetti, ma a parte gli occhi, che per colore ed espressione erano simili ai suoi, Orlando assomigliava più a Gano che a lui. Orlando non se ne adombrò, pur cogliendo l’inespresso timore, poiché ogni residuo rancore in lui era svanito, dissipato dall’umile atteggiamento di un re che per ventura era anche suo padre. Fu conquistato dal fascino magnetico che esercitava al pari di tutti coloro che lo conoscevano, e sentì il desiderio di conquistarne l’affetto, poiché era ciò di cui più intensamente sentiva il bisogno, sebbene fosse riluttante ad ammetterlo. «E ora in sella», ordinò il re. «È tempo di rientrare.» Si avviarono affiancati, mentre col diradarsi delle nubi la luce crepuscolare si sprigionava e ne illuminava i profili, le virili fattezze e l’identica fierezza del portamento. Tuttavia Orlando si stancò presto di quel lento procedere e spronò Albaluce al galoppo, distanziando il re di parecchio, per eseguire un rapido dietro-front e tornargli al fianco. Lo fece alcune volte, sentendo il bisogno di scaricare nell’attività fisica la tensione troppo a lungo contenuta, e Carlo lo lasciò fare. Ammirò la sua destrezza nel cavalcare, anche se provò un vago timore per l’irruenza e la spericolatezza di cui dava prova. Tanta vitalità lo fece sentire d’improvviso vecchio, e tanto inutile dispendio di energie lo indusse a richiamarlo. Orlando obbedì e gli si affiancò, mettendo il cavallo al o. «Sei sempre così irrequieto?» domandò il re. «Non riesco a star fermo. È come se nelle mie vene scorresse un fiume in piena, turbolento e vorticoso. Ma è anche peggio, quando il Drago mi ruggisce nel cuore.» Carlo lo guardò sconcertato. «Il Drago?» Orlando si strinse nelle spalle. «Io lo chiamo così. Non saprei quale nome dargli,

altrimenti. È lui che vive nei miei sogni e domina le mie azioni.» «Il drago degli Anglante?» «Sì, anche se non sono realmente un Anglante, lui fa parte di me.» «Bisognerà che tu impari a imbrigliarlo. D’altronde, sono molte le cose che dovrai imparare, prima di diventare cavaliere.» «Sarai tu a insegnarmele?» «No. Io non posso farlo, anche se mi piacerebbe. Ti affiderò a tuo zio. È un grande cavaliere e mi fido di lui come di me stesso.» «E lui accetterà?» «Non ho alcun dubbio che sarà felice di farti da maestro. Ma tu cosa ne pensi?» «Io avrei preferito te, ma anche lui andrà bene. È mio zio.» «Guarda che non è un ripiego. Gano è l’uomo a cui ho affidato più volte la mia vita; è un amico fidato che svolge per me gli incarichi più delicati e rischiosi. Credi che ti affiderei a qualcuno meno saggio e prode?» «No. Ma dimmi, quando potrò diventare cavaliere?» «Appena sarai pronto. Vale a dire quando Gano deciderà che sei pronto per l’investitura.» «Ci vorrà molto?» «Dipenderà da te, soprattutto, ma penso che occorreranno almeno un paio d’anni.» «Due anni?» esclamò Orlando, come si fosse trattato di due secoli. «Non sono molti. Spesso ce ne vogliono di più.» «Perché aspettare? Cavalco meglio di chiunque altro, e in quanto a combattere… non esiste al mondo un avversario capace di vincermi. Tu sei il re, e se volessi potresti farmi cavaliere anche adesso!»

«Potrei, è vero», ammise Carlo. «Ma non lo farò.» «Perché?» ringhiò il ragazzo. «Sarebbe prematuro. Sei troppo giovane e inesperto. Prima devi farti un po’ le ossa.» Lo guardò, facendosi d’improvviso severo. «Basta discutere. Ho preso una decisione e così sarà.» Insieme alla delusione, Orlando inghiottì le parole aspre che gli erano salite alle labbra. Serrò le mascelle e spronò il cavallo lungo la stradina, precedendolo verso la rocca che si scorgeva attraverso la cortina degli alberi. Carlo scosse il capo e sospirò, ma lo lasciò andare. Il ragazzo aveva bisogno di disciplina, ma più ancora aveva bisogno di essere domato come un giovane stallone selvaggio. Si chiese se Gano sarebbe riuscito a imbrigliare quella forza della natura. Imporgli delle regole sarebbe stato come contenere il mare in burrasca. In Orlando, però, c’erano le doti che potevano fare grande un cavaliere, una volta smussati gli spigoli ed eliminata la grezza corteccia. L’impresa, per quanto ardua, avrebbe potuto dare risultati al di sopra di ogni aspettativa, e lui si aspettava molto da quel ragazzo. Orlando fece irruzione nel cortile pieno di soldati. Smontò con un balzo e lasciò il cavallo per dirigersi a lunghe falcate verso la cappella. Manuzio lo rincorse, ma fu preceduto da Gano, che tuttavia venne ignorato e che fece appena in tempo a scorgere le nubi temporalesche che si addensavano sul suo viso. Facendogli chiaramente intendere che non era il momento opportuno, Orlando infilò la porta prima che lo zio potesse fermarlo e scomparve all’interno. Gano e Manuzio si guardarono sconcertati, ma l’arrivo del re attirò la loro attenzione. Gano gli andò incontro e gli tenne il cavallo mentre smontava. «Cos’è successo?» domandò. «Il ragazzo sembrava furioso.» «Il mio rifiuto di farlo cavaliere l’ha indispettito, ma gli erà», replicò Carlo serafico. «Spero che non sia stato villano.» «No, ma occorre che impari le buone maniere. Serve che qualcuno si occupi di

lui e lo segua come farebbe un padre. Purtroppo non mi sarà possibile farlo di persona.» «Ho promesso a sua madre che me ne sarei occupato io, sire.» «Ripongo la massima fiducia in te», disse posandogli la mano sulla spalla. «Ma temo che il compito sarà duro, amico mio.» «Lo so», annuì Gano. «Vai a parlargli e poi raggiungetemi. È ora di cena.» Gano abbassò il capo in segno di assenso e si allontanò. Le prime ombre della sera stavano invadendo la rocca, ma l’oscurità era ravvivata dai fuochi e nell’aria si stava diffondendo il profumo di carni arrostite. Carlo andò a parlare col maestro d’armi per impartirgli alcune istruzioni. Era tempo che Faro e il suo fedele custode conoscessero un meritato benessere. Orlando, nella cripta della cappella, sfiorò la pietra tombale sotto cui giaceva sua madre e le chiese perdono per la propria assenza nel momento del trao. Malgrado la fede profonda non gli veniva facile pregare, in specie nella forma recitata a memoria, e preferiva rivolgere a Dio e alla Vergine i pensieri che gli venivano spontanei, che gli scaturivano dal cuore nei momenti in cui ne avvertiva l’esigenza. Anche stavolta, davanti al sepolcro della madre, indirizzò al cielo preghiere del tutto personali, sussurrando parole ardenti, vibranti di malinconia e di speranza. Parole che non espressero soltanto il dolore, ma anche i timori, i dubbi, le ansie per il futuro, per l’ignoto cammino che stava per intraprendere e che un velo nascondeva. Se avesse potuto, con un solo colpo di spada avrebbe lacerato quel velo. «Signore, dammi la forza di essere degno», mormorò mentre Gano lo raggiungeva e si fermava a pochi i, in ascolto. Orlando non disse altro e si segnò. Nel girarsi lo vide e corrugò la fronte. «Non ti ho sentito entrare.» «Eri troppo assorto nelle tue preghiere. Continua pure, se credi, io aspetterò.» «Ho finito e stavo per andarmene.»

«Bene, allora possiamo parlare.» «Di cosa?» «Credo che noi due abbiamo tanti argomenti di cui parlare.» «E dobbiamo farlo proprio adesso?» chiese Orlando impaziente. «Il re mi ha ordinato di istruirti e la prima lezione potrebbe cominciare subito.» «Lascia stare, zio. Oggi non sono in vena», replicò il ragazzo avviandosi verso l’uscita. Gano lo afferrò per un braccio. «Non è cortese che tu te ne vada in questo modo. Se vuoi diventare un cavaliere, devi imparare a essere gentile, ad avere delle buone maniere.» Orlando affilò lo sguardo. «Cosa intendi dire?» «Mi riferisco al tuo comportamento: non puoi fare sempre quello che ti a per la testa. Alla corte del re ci sono delle regole che tutti siamo obbligati a osservare.» «Non mi piacciono le regole.» «Temo che dovrai fartele piacere: non hai scelta. Le regole sono indispensabili. So che adesso parole come etichetta e protocollo ti sgomentano e suscitano sentimenti di ribellione, ma col tempo ti abituerai e imparerai ad apprezzarle.» «Ne dubito.» «Se ti ostinerai a rifiutarle non potrai diventare cavaliere. E tu lo vuoi diventare, non è vero?» «Certo che lo voglio!» «Allora smetti di essere cocciuto e cerca di imparare. Al mio fianco, e al fianco del re, conoscerai un genere di vita a cui molti aspirano ma che soltanto pochi hanno la possibilità di raggiungere. Un giorno potresti addirittura ottenere la nomina a paladino. Io lo ero, e ancora rimpiango quel tempo.»

Orlando si concesse qualche attimo di silenziosa riflessione. Paladino era una parola magica, era la chiave che apriva tutte le porte della gloria e della grandezza. Era un sogno irrealizzabile per quasi tutti, che la sorte metteva alla sua portata. Bastava che lo volesse e sarebbe diventato realtà. Valeva la pena di rinunciare all’indipendenza che gli era tanto cara per arrivare all’apice della carriera di un cavaliere. Lo riconobbe in quell’attimo sublime, mentre il velo che occultava il futuro si squarciava e gli consentiva di vedere oltre, di scorgere le infinite possibilità che gli si offrivano… Un fremito lo percorse. Porre se stesso e Durendal al servizio del re, della giustizia e della fede, compiere imprese epiche per la grandezza del regno, divenire strumento di distruzione per i nemici. Nella sua mente si affollarono visioni di battaglie, di città e torri demolite nella polvere, di pietre frantumate nell’echeggiare dei corni e dei tamburi di guerra. Non poteva esserci altro per cui valesse la pena di vivere… o di morire. Gano vide qualcosa di bello e fatale nel suo sguardo e rabbrividì. Con un gesto di tenerezza del quale si sorprese, gli sfiorò la guancia con le dita callose. «Andiamo. Il re ci sta aspettando per la cena e non è bene farlo attendere troppo.» Orlando lo seguì docile, ancora frastornato per le visioni risonanti di ferro e di lame turbinanti e corrusche che attraverso la cortina del tempo gli erano giunte. Nel salire la ripida scala che dalla cripta conduceva alla cappella, ebbe la sensazione che finalmente ogni tessera del mosaico della sua vita stesse andando al proprio posto. Nelle ancora inesplorate regioni della sua anima vibrò una corda sconosciuta e la nota che ne scaturì echeggiò come un canto di guerra.

PARTE SECONDA

Di canti di guerra e carmi d’amore

11

Nel lasciare Faro, Orlando non provò rimpianti. Solo la partenza di Rinaldo lo rattristò, soprattutto perché se ne andò durante la notte, senza una parola di commiato. Toccò a Gano l’ingrato compito di informarlo, poco prima che si mettessero in viaggio per Roma. «Andato?» chiese Orlando incredulo. «Perché?» «Ha detto che non c’era posto per lui, in mezzo a noi, e che perciò avrebbe ripreso la sua strada.» «Non ci posso credere. Desiderava diventare paladino e ora che ne aveva l’occasione…» si interruppe, guardandolo con sospetto. «Mi stai nascondendo qualcosa? Parla, o andrò a chiederlo al re.» «Non occorre. Se proprio ci tieni a saperlo te lo dirò», replicò Gano bruscamente. «La richiesta del tuo amico non è stata accolta. Però, tenendo conto del suo lignaggio e del suo valore, gli è stato offerto di far parte dei cavalieri reali. Lui ha rifiutato, preferendo riprendere la sua esistenza errabonda. Ha deciso di andarsene da un momento all’altro, malgrado le mie insistenze per farlo restare almeno fino a stamattina, in modo che potesse accomiatarsi da te. Mi ha detto di farti i suoi saluti.» «Nient’altro?» chiese Orlando, sentendo bruciare come un tradimento l’abbandono dell’amico. «No. Era molto deluso e aveva una gran fretta.» Lo zio gli sfiorò la spalla. «Cerca di comprendere le sue ragioni e non gli serbare rancore.» «Non temere», ribatté Orlando con orgoglio. «Non starò certo ad angustiarmi per lui. Anzi, sono contento di essermene liberato.» Non aggiunse altro e lo lasciò per andare a salutare Manuzio.

Il vecchio sostava sulla soglia del torrione con aria afflitta e più curvo del solito. Orlando stava per andarsene al seguito del re e la certezza di sapere definitiva quella separazione lo addolorava. Tuttavia sorrise quando lo vide avvicinarsi e a stento si trattenne dall’abbracciarlo come gli suggeriva il cuore. Anche se da tempo si era preparato alla partenza del suo pupillo, ora che il momento era venuto si sentiva smarrito. Insieme a lui se ne andava tutta la sua vita. Restarono in silenzio, l’uno di fronte all’altro, per un lunghissimo istante e senza compiere un gesto. Poi Orlando infranse il rigore che si era imposto e gli posò la mano sulla spalla ossuta, stringendola un poco. «Dobbiamo dirci addio, Manuzio», disse in tono neutro. Il maestro d’armi inghiottì il nodo che gli serrava la gola. «Lo so», rispose con voce incrinata. «Doveva succedere, prima o dopo, ma non è facile vederti andare via. Mi mancherai, ragazzo.» «Mi mancherai anche tu, ma spero che ogni tanto mi manderai notizie. Se dovessi avere dei problemi, fammelo sapere.» «Non ci sarà alcun problema. Il re ha provveduto in modo generoso a ogni mia necessità e per le riparazioni di cui il castello ha bisogno. E manderà una piccola guarnigione per proteggermi. Come vedi, puoi stare tranquillo.» «Allora… addio.» «Ti auguro ogni bene. Che Dio sia con te.» Non c’era altro da dire e Orlando, dopo avergli rivolto un ultimo cenno, lo lasciò. Montò a cavallo con un balzo e andò a unirsi alla schiera pronta a mettersi in marcia. Si affiancò a un ragazzo che doveva avere circa la sua età e si scambiarono un saluto, rimandando ad altro momento le presentazioni. Si avviarono appena venne dato l’ordine, col re e Gano in testa alla fila. Manuzio li guardò andare via con una stretta al cuore, ma solo quando anche l’ultimo scarita fu scomparso e la polvere tornò a posarsi sul terreno lasciò che le lacrime traboccassero. Orlando non cedette all’impulso di girarsi.

Il re si volse verso Gano. «Che fa Orlando?» «Cavalca al fianco di Olivieri, tutto impettito.» «Sarebbe buona cosa che diventassero amici.» Un lieve sorriso increspò le labbra di Gano. «Mi riesce difficile anche solo immaginarlo. Sono così diversi.» «Spesso è proprio dalle diversità che nascono le amicizie più sincere. Ciò che manca a Orlando ce l’ha Olivieri e viceversa.» «Non lo so», mormorò Gano dubbioso. «Il ragazzo mi pare poco incline all’amicizia, e lo sarà ancora meno dopo l’abbandono di Rinaldo.» Carlo aggrottò la fronte. «Credi che ne soffra?» «Senza dubbio, anche se è troppo orgoglioso per mostrarlo.» «L’orgoglio può condurre un uomo alla rovina.» «Oppure alla gloria. Però non dimenticare che è soltanto un ragazzo, per quanto molto dotato.» «Dotato lo è senz’altro, e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia c’è qualcosa d’inquietante, in lui.» Gano sorrise. «È un adolescente che ha vissuto troppo tempo in un castello popolato da ombre. Non sarebbe stato facile per un uomo adulto, figurarsi per un bambino!» «Vedo che ci tieni a lui.» «È vero», ammise. «Sarà perché ritrovo me stesso alla sua età.» «Anche a me sta a cuore, malgrado il suo carattere spigoloso.» «Non c’è spigolo che non possa essere smussato con l’affetto e la pazienza.»

«Avrai il tuo daffare, ma se c’è qualcuno in grado di riuscirci, quello sei tu, amico mio.»

Viaggiando verso Roma, dove il re era atteso dal papa, Orlando e Olivieri posero le basi di un’amicizia destinata a rafforzarsi col tempo. Come aveva predetto Carlo, reso lungimirante dalla propria conoscenza dell’animo umano, sarebbero state proprio le diversità a unirli. Olivieri era allegro, estroverso e solare quanto Orlando era ombroso, chiuso e tormentato. Perciò, nonostante la diffidenza, Orlando se ne sentì attirato e lasciò che l’altro gli si accostasse, pur trattandolo con una certa freddezza. La ione che tentava con ogni mezzo di contenere, ma che in lui era profondamente radicata, finiva sempre col prevalere, sia nel bene che nel male, nell’odio come nell’amore, e anche nell’amicizia. Durante l’ultima tappa prima di giungere a Roma, mentre gli uomini scherzavano intorno ai bivacchi, Orlando si allontanò credendo di are inosservato. Olivieri però lo vide e decise di seguirlo, tenendosi a distanza per non farsi scorgere. Nel bosco rischiarato dalla luna non fu difficile, e d’altronde Orlando, ignaro di essere osservato, non aveva motivo di nascondersi. Si addentrò nel folto, seguendo il tracciato appena percettibile di un sentiero, come se dagli oscuri recessi gli fosse giunto un richiamo che soltanto lui poteva sentire. Si muoveva senza incertezze, guidato dal proprio istinto. Non per niente aveva trascorso gran parte della sua giovane vita in mezzo ai boschi, imparando a orientarsi come un animale selvatico. Quel luogo, sebbene sconosciuto, per lui non aveva segreti. L’eco dei suoni dell’accampamento si era smorzata da un pezzo alle sue spalle quando, al diradarsi improvviso del folto, giunse nei pressi di una sorgente. L’acqua gorgogliante si riversava in una conca del terreno formando una pozza. Le facevano da corona gli alberi, alti e solenni, e la luna la inondava di luce argentea, riflettendosi sulla superficie come in uno specchio. Nel cielo rilucevano debolmente le stelle. Orlando si avvicinò lentamente, timoroso di infrangere la quiete del luogo e di profanarne l’arcana bellezza. Poi sedette a ridosso di un tronco, con lo sguardo fisso alle stelle, e rifletté sugli avvenimenti che avevano mutato il corso della sua

vita finché, a un certo punto, si addormentò e fece un sogno.

Si rivide sulla sponda di quel lago a fissare qualcosa che prima gli era sfuggito: una figura, pallida ed evanescente, sedeva vicino all’acqua. Si fermò a guardarla trasognato, incerto se avvicinarsi ancora o andarsene, incerto persino sulla sua reale presenza. Potevano i suoi occhi trarlo in inganno al punto da fargli vedere ciò che non c’era? Non era propenso a credere nella magia, negli incantesimi intessuti da maghi o fate, tuttavia la creatura luminosa sembrava opera di un sortilegio. Diafane mani sfioravano l’acqua, formando cerchi e strani disegni, increspature lievi che subito svanivano. Quel che di lei poteva scorgere, poiché gli dava le spalle, era troppo poco per giudicarne l’aspetto, ma era pronto a giurare che fosse bellissima.

«Perché esiti?» chiese lei d’un tratto. «Tu che nulla temi, hai forse paura di me?» «Chi sei?» chiese Orlando turbato. «Avvicinati e lo scoprirai.» Si accostò e lei volse il viso per guardarlo. Era di una bellezza irreale. «Tu non appartieni a questo mondo», mormorò il ragazzo. Lei sorrise e la luce che irradiava divenne più intensa. Si alzò con un movimento rapido e fluido, come se fosse fatta d’acqua o di una sostanza impalpabile, e la morbida tunica si modellò sul suo corpo esile e squisito. «Cosa importa da dove vengo? Ora sono qui e non è per caso che stanotte ci siamo incontrati.» «Mi hai chiamato tu?»

«Non ero certa che mi avresti udita.» «Perché?» «La tua mente è affollata di pensieri che a volte mi confondono, ma il tuo cuore non ha segreti per me.» «Allora sai cosa desidero. Tu conosci le mie aspirazioni.» «Sì, e ho il potere di realizzarle. Tutte.» Orlando sorrise. «Nessuno è capace di leggere nel cuore di un uomo e di realizzare i suoi più segreti desideri, tranne Dio. E tu non lo sei.» «Hai dimenticato gli Angeli. Anch’essi possono compiere prodigi. La tua spada ne è la dimostrazione tangibile. Non hai forse riscontrato tu stesso qual è il suo potere?» «Tu non puoi essere un angelo.» «Perché no?» «Non ne hai l’aspetto.» «E secondo te quale aspetto dovrei avere?» Gli parve di percepire una sfumatura divertita nella sua voce e si irritò. «Come posso saperlo se non ne ho mai visti? Però non sei come immagino dovrebbe essere un angelo. Non hai le ali, tanto per cominciare, e sei… una donna.» Il sorriso di lei si accentuò. «Dunque, secondo te gli Angeli devono avere per forza le ali ed essere di sesso maschile?» «Così vengono dipinti da sempre ed è così che la gente li immagina.» «E se fosse tutto sbagliato? Gli Angeli potrebbero non avere forma definita, in quanto non sono fatti di materia, e non essere alati. Essendo puro spirito, potrebbero assumere l’aspetto che vogliono, qualora debbano mostrarsi.» Orlando la guardò scettico. «Stai cercando di convincermi che sei un angelo?»

«Se credi nell’esistenza degli Angeli, non devo convincerti di alcunché.» «È vero», riconobbe. «Però non comprendo la ragione del nostro incontro.» «Te l’ho detto: io conosco ogni segreto racchiuso nel tuo cuore, i tuoi sogni, i tuoi desideri. Persino quelli che tu ignori. Sono qui per aiutarti a far sì che si avverino.» «Una promessa allettante, ma perché proprio io fra tanti?» «Tu sei Orlando e non sei come gli altri. Nei disegni di Dio tu occupi un posto speciale.» «Dio non concede favori senza contropartita. Quale sarà il prezzo se otterrò ciò che voglio?» Un’ombra offuscò il bellissimo viso. «Un prezzo assai elevato, ma ne varrà la pena.» «Quale?» insistette Orlando. «La vita, forse.» Malgrado se lo fosse aspettato, la risposta lo colpì. «Non temo di morire, ma non per questo la vita mi è meno cara.» «La daresti se ti promettessi gloria e fama imperitura? Se il tuo nome sarà ricordato nei secoli e i trovatori canteranno le tue imprese? Ti sto offrendo di diventare una leggenda.» «Prima o dopo che sarò morto?» «Che importa? Sarai il più grande paladino di Francia e non ci sarà cavaliere al mondo che non vorrà somigliarti, emularti.» «Il mio valore mi condurrà comunque a emergere, e vivrei più a lungo.» «Non è detto. Potresti morire a Roma, in un agguato, o durante una delle tante campagne di guerra del re. La tua vita potrebbe essere troncata entro qualche settimana, e allora addio sogni di gloria.»

«Suona tanto come un ricatto. In pratica, non mi viene lasciata scelta.» «C’è sempre un’altra possibilità di scelta, ma è giusto che tu sappia cosa ti aspetta.» «Questa medaglia ha una sola faccia. Da entrambi i lati c’è soltanto la morte.» «Ti sbagli. Da un lato c’è la morte, dall’altro c’è l’immortalità. A te decidere se morire come un oscuro cavaliere o diventare immortale. Devi seguire l’istinto del Drago.» «Io voglio combattere e vincere i nemici del re, voglio diventare il primo fra i paladini, voglio…» «Allora la scelta è fatta», lo interruppe lei. Gli sfiorò la fronte con la mano diafana, scendendo sugli occhi e costringendolo a chiuderli. «Al risveglio non ricorderai nulla, tranne che gli Angeli non hanno ali e qualche volta assumono sembianze femminili. Dormi, Orlando. Dormi e sogna le grandi imprese che compirai…»

Olivieri lo trovò che dormiva profondamente e sedette poco distante per vegliare sul suo sonno. Gli sembrò strano che Orlando si fosse allontanato dal campo, dove aveva una comoda tenda, per andare a dormire nel mezzo del bosco, ma non indugiò a porsi troppe domande. D’altronde, ciò che aveva sentito dire sul giovane nipote del conte Gano era una spiegazione più che sufficiente. Orlando, col suo carattere scontroso e lunatico, si era già creato una discreta fama fra i cavalieri del re. Striature rosate annunciavano l’alba quando Orlando si svegliò. Fu sorpreso di non trovarsi nella propria tenda, ma lo fu ancora di più nel vedere Olivieri che sonnecchiava lì accanto con la spada sulle ginocchia. Gli diede uno scossone. «Svegliati!» ordinò. Olivieri batté le palpebre alcune volte prima di destarsi del tutto. «È quasi giorno», borbottò stiracchiandosi.

«Già. Cosa ci fai tu qui?» «Stanotte ti ho seguito e poi… credo di essermi perso. Ma dimmi che ci fai tu qui, piuttosto.» «Avevo voglia di stare per conto mio a pensare, solo che mi sono addormentato. Non capisco perché mi sei venuto dietro.» «Curiosità, credo. Ti secca?» Invece di rispondere Orlando si chinò a tuffare il viso nell’acqua, poi scrollando i capelli bagnati gli gettò un’occhiata in tralice. «Hai ato la notte accanto a me per proteggermi?» «Più o meno. Ma non hai risposto alla mia domanda.» «Sì, mi secca. Le persone curiose mi infastidiscono. La prossima vota che vuoi accompagnarmi, chiedimelo, se proprio ci tieni a sapere dove vado.» «D’accordo», rispose Olivieri con un sorriso. Orlando, già in piedi, lo spronò. «Sbrigati, dobbiamo tornare al campo prima che ci diano per dispersi.» Poco dopo si incamminarono, ma mentre si inoltravano nel folto Orlando si voltò per gettare ancora un’occhiata alla radura. Alla luce del giorno non appariva più magica come l’aveva vista durante la notte, eppure aveva la sensazione che fosse accaduto qualcosa di speciale, sebbene avesse i ricordi assai confusi riguardo lo strano sogno che aveva a che fare con Angeli senza ali e dalle affascinanti sembianze femminili. «Qualcosa non va?» domandò Olivieri nel vedere che si attardava. Orlando scosse il capo, cercando di scacciare le immagini che gli si erano affacciate alla mente e che non sapeva come spiegare. «No, niente», rispose riprendendo a camminare.

12

Roma, decadente e magnifica, si aprì come uno scrigno ricolmo di gioielli dinanzi agli occhi di Orlando, più stupefatto degli altri alla vista dei fasti e dello splendore che l’avevano resa grande. Ora la potenza della città immortale, della città eterna, non era altro che un ricordo smarrito nelle brume del ato, eppure in quei ruderi erano conservati, quasi intatti, l’orgoglio e lo sfarzo per i quali era stata celebrata. Non sminuite dalla rovina, la maestosità delle vestigia, la solennità delle colonne e dei capitelli spezzati, dei frontespizi corrosi, delle statue mutilate, erano ancora capaci di suscitare meraviglia, di risvegliare intense emozioni.

Tutto il fascino dell’Urbe millenaria in cui si fondevano fastosità pagana e rigore cristiano, era racchiuso nella cerchia delle mura aureliane, dove una moltitudine di chiese e basiliche era sorta a celebrare la gloria di Dio. Intorno, ovunque si spingesse lo sguardo, i sepolcri dei martiri testimoniavano, nella loro austera semplicità, l’avvento di una nuova Era. Dalle ceneri dell’impero dei Cesari, Roma era risorta per aprirsi a un futuro non più risonante del o cadenzato delle legioni ma salmodiante di preghiera. Roma santa e corrotta, opulenta e misera, fastosa e austera, offriva a piene mani le sue meraviglie, molte delle quali erano appariscenti, altre più nascoste e ben più preziose. Luoghi sacri e profani furono visitati dal re e dal seguito durante i giorni che precedettero le festività pasquali. Si inebriarono di devozione e di stupore davanti all’incessante processione dei fedeli, quel popolo che aveva il privilegio di dimorare nella città eterna e che manifestava la propria fede in modo suggestivo, riempiendo anche a tarda sera le strade e illuminandole di fiaccole e candele. Erano convenuti da ogni parte i pellegrini, molti dei quali nel

riconoscere re Carlo lo acclamarono, si accodarono mentre camminava fra i ruderi e i resti delle statue. Vedevano, nel suo giovanile vigore e nella regalità della sua persona, il perpetuarsi dei consoli e degli imperatori, la loro cristiana incarnazione. Non meno stupita ammirazione destarono i paladini, che lo circondavano come pretoriani. Ammantato di barbarica magnificenza, il re dei franchi rappresentava il presente e il futuro, ma più ancora la continuità del ato e dei suoi echi altisonanti, il cui ricordo era tuttora vivo nella memoria. Orlando era consapevole di assistere a un evento di portata storica quando avvenne l’incontro fra il re e il pontefice. Dopo l’ebbrezza suscitata dalle testimonianze della fede, vedere i due uomini più potenti del mondo occidentale che si abbracciavano fu motivo di ulteriore emozione. La folla applaudiva. Tutta Roma risuonava di voci inneggianti, quasi frastornanti per chi, come lui, non era ancora abituato agli eccessi della mondanità. Fu toccato, malgrado il proprio distacco, dall’intensità di un avvenimento che non aveva soltanto una valenza simbolica, ma che sanciva l’unione dei due poteri supremi: il potere spirituale e il potere temporale. Il re e il papa, legati da un vincolo di reciproca fiducia, garanti della giustizia e dell’ordine in un regno che non era mai stato così vasto dalla caduta dell’impero romano. Attraverso quell’incontro veniva sottoscritta un’alleanza sorta dalla necessità di fronteggiare la minaccia rappresentata dai longobardi e destinata a perdurare nel tempo. Lo scudo e la spada di Carlo a protezione del seggio di Pietro. Il colloquio fra il re e il papa a un certo punto venne sospeso per assistere alla messa solenne, poi tutti i notabili si recarono al banchetto allestito nel palazzo del Laterano, circondati dall’alto clero e dalla nobiltà romana. Un momento conviviale e sereno nel corso del quale si accrebbe il prestigio del re e si rafforzò l’amicizia con il pontefice. Privo della disinvoltura e della malizia di cui erano provvisti gli altri, Orlando riscosse un successo tutto personale presso le dame, attratte dai suoi rossori non meno che dalla sua avvenenza. Fu oggetto di languidi sguardi e di qualche non troppo sottintesa profferta amorosa da cui si schermì non senza imbarazzo. L’ala protettrice di Gano si estese anche in quelle circostanze e in suo soccorso giunse Olivieri, che con una scusa lo sottrasse all’assedio delle ammiratrici.

«Dovrai abituarti alle attenzioni femminili e imparare a destreggiarti», gli disse divertito. «Sembra che la tua aria smarrita ecciti la loro fantasia.» Orlando lo guardò allarmato, più che lusingato. «Meno male che sei arrivato a salvarmi.» «Le donne non sanno resistere al fascino acerbo di un giovane scudiero.» «E sempre così?» «Anche peggio, quando sarai cavaliere.» Il pensiero gli fece aggrottare la fronte. Si sentì ancora più goffo e desiderò andarsene per porre fine a quel supplizio, ma non c’era modo di eclissarsi, almeno finché durava il banchetto. Seduto accanto a Olivieri piluccò ciò che gli era stato servito e osservò i commensali per studiarne il comportamento. Sarebbe mai riuscito a imparare le buone maniere e a diventare come loro? A sera inoltrata, finalmente, il banchetto finì. Il re e il papa si ritirarono per parlare in privato, mentre gli altri prendevano commiato e se ne andavano. Gano e i paladini erano scomparsi, forse chiamati ad assolvere qualche incarico, e Orlando informò Olivieri della propria intenzione di uscire. «Vengo con te», si offrì il giovane. «Dicono che Roma, di notte, sia pericolosa.» «So badare a me stesso», replicò lui scontroso. «Come preferisci», annuì Olivieri. «Ma evita di allontanarti troppo e sii prudente.» Con un cenno di saluto, Orlando si gettò il mantello sulle spalle e uscì. Dopo aver indugiato qualche istante per guardarsi intorno e decidere quale direzione prendere, si avventurò alla scoperta della città, il cui fascino era accentuato dal chiarore lunare. Olivieri restò a guardarlo finché non scomparve in un vicolo, poi rientrò e andò a cercare Gano per avvisarlo della sortita del nipote. Non dubitava che Orlando sapesse difendersi, però era meglio non correre rischi.

Esaltato dalla solitaria escursione e rapito dalla magia della città che a ogni o gli offriva stupefacenti scoperte, Orlando si allontanò più di quanto avesse intenzione. Si lasciò alle spalle il dedalo di viuzze su cui si affacciavano botteghe di vario genere, ora buie e deserte, per addentrarsi nel Foro e aggirarsi fra i ruderi lambiti dalla pallida luce della luna. Ascoltò il sussurro della brezza che accarezzava le antiche pietre e i resti delle scalinate marmoree, delle colonne infrante, insinuandosi nelle fessure e fra le mura diroccate invase da rampicanti ed erbacce. Risuonò alle sue orecchie il linguaggio misterioso delle ere, mescolato al clamore dei trionfi e al frastuono dell’arena, accompagnato dal o cadenzato della guardia del Pretorio, tuttora echeggiante sui lastricati consunti. Lì avevano vissuto ed erano morti consoli e imperatori, matrone, austere vestali e dissolute imperatrici. La loro presenza si percepiva ovunque. Le tracce incancellabili che avevano lasciato si confondevano nelle ombre dei porticati, si respiravano nell’aria. Si potevano sentir bisbigliare nell’oscurità. Una nube nascose la luna e, d’improvviso, gli parve che una folla di spettri lo assediasse. I sussurri si trasformarono in strida e suoni agghiaccianti che lo costrinsero a turarsi le orecchie. L’incanto svanì, sostituito da un’aura inquietante e sinistra che lo indusse ad allontanarsi in fretta. Si voltò alcune volte per assicurarsi che i fantasmi non lo seguissero, ma a pochi isolati di distanza capì di essere stato vittima di una suggestione e rise delle sue paure. Nei pressi del Campidoglio incontrò un gruppo di uomini ubriachi che gli rivolsero frasi di scherno. Li ignorò e ò oltre, attraversando una piazza ingombra di rifiuti e tornando a inoltrarsi nel reticolo di viuzze sordide. A un angolo una donna discinta gli fece cenni inequivocabili. Ignorò pure lei e proseguì. Poco oltre, nel fermarsi ad ammirare un arco trionfale non distante dalle vestigia del tempio di Giano, gli giunsero gli inconfondibili suoni di uno scontro. Pensando che fosse una zuffa da taverna, nella quale non voleva immischiarsi, fu tentato di andarsene, ma quando da un vicolo sbucò un uomo inseguito da alcuni malfattori armati, il suo naturale istinto prevalse. Sguainò Durendal e si lanciò in soccorso dello sfortunato. La sua apparizione improvvisa disorientò i banditi, che si fermarono esitanti, e

Orlando ne approfittò per gettare un’occhiata al tizio. «Rinaldo?» esclamò sorpreso. Anche l’altro lo riconobbe e scoppiò a ridere. «Ma guarda chi si rivede!» «Ti sei cacciato nei guai, eh?» «Come al solito.» I banditi caricarono, forti del loro numero, e i due amici ritrovati li affrontarono. Le lame sibilarono e letali fendenti ne falciarono alcuni, rendendo più cauti i loro compari. Orlando e Rinaldo si lanciarono all’attacco mulinando le spade e altri furono abbattuti. Ma i superstiti, invece di fuggire come sarebbe stato logico aspettarsi, reagirono con furia.

«Perché sono così arrabbiati?» chiese Orlando tra un fendente e l’altro. «Te lo dico dopo», ansimò Rinaldo, alle prese con un omaccione che lo incalzava con una mazza. Orlando squarciò l’avversario e intercettò quello che stava per avventarsi su Rinaldo da dietro. «Eh, no, non è leale!» ringhiò, pressandolo con rapidi assalti e obbligandolo a una difesa serrata quanto confusa finché, con un colpo da manuale, gli fece volare via la spada di mano e lo finì con un fendente. Ma non fece in tempo a intervenire in aiuto dell’amico in difficoltà, perché un altro lo aggredì saltandogli addosso e, avvinghiandosi a lui, lo trascinò a terra. Il violento impatto gli fece sfuggire la spada e fu costretto a un furioso corpo a corpo per impedire all’aggressore di trafiggerlo col pugnale. Ringraziò Manuzio che l’aveva addestrato anche nella lotta a mani nude e riuscì a disarmarlo. A ruoli invertiti l’uomo non era più tanto coraggioso e lo implorò di avere pietà. Orlando non ne ebbe alcuna e lo uccise. Troppo tardi, tuttavia, per soccorrere Rinaldo, atterrato da un colpo di mazza. Alla vista dell’amico ferito, Orlando si infuriò. Recuperò la spada e si avventò sull’omaccione, calando su di lui un fendente così violento da spaccargli la testa. Appena quello stramazzò, il ragazzo raggiunse Rinaldo che si era trascinato a ridosso di un muro ed era ormai agonizzante.

«Resisti», disse con voce incrinata. «I soccorsi arriveranno presto.» Afferrò l’Olifante per portarlo alla bocca, ma Rinaldo lo trattenne. «Non sprecare fiato per me. Non lo vedi che sono spacciato?» «Non ti lascerò morire!» ruggì liberandosi dalla stretta e suonando ugualmente. Un lamento prolungato e straziante echeggiò nella notte. Gano e i cavalieri usciti a cercarlo udirono il richiamo e credendolo in pericolo accorsero. Giunti sul posto lo trovarono inginocchiato al fianco del ferito, in mezzo ai cadaveri degli aggressori. Gano si avvicinò e si lasciò sfuggire un’esclamazione nel riconoscere Rinaldo. Subito ordinò che fosse trasportato al Laterano, ma incontrò il suo deciso rifiuto. «Lasciatemi qui», rantolò. «Se mi troveranno circondato da tanti morti penseranno che li abbia uccisi tutti io. Sarà una bella soddisfazione per uno come me, che non ha saputo combinare niente di buono nella vita.» «Non parlare così, Rinaldo!» proruppe Orlando straziato. «È la verità. Ho barattato il mio onore di cavaliere per un piatto di fave… Stanotte, però, mi sono battuto bene.» «Sei stato grande», annuì Orlando mezzo accecato dalle lacrime. «Anche tu…», mormorò afferrandogli la mano. «Sono contento di averti rivisto. Perdonami se me sono andato senza salutarti, ma mi vergognavo troppo per il rifiuto del re e… ti invidiavo per la fortuna che ti era toccata.» Orlando inghiottì il nodo che gli stringeva la gola. «Sei stato un buon amico. Non ti dimenticherò mai.» Rinaldo sorrise ancora una volta, poi ebbe un sussultò e morì. Con un gesto pietoso Orlando gli chiuse gli occhi e mormorò una preghiera. Gano gli posò la mano sulla spalla. «Andiamo», lo esortò.

Fu obbedito senza discutere, la qual cosa lo sconcertò. Tuttavia attribuì tanta arrendevolezza al dolore per la morte dell’amico. Pure lui aveva conosciuto la pena lacerante che procurava la perdita di un amico e poteva comprenderlo. I pochi anti che incontrarono sulla via del ritorno affrettarono il o e non osarono levare lo sguardo su di loro, tanto era il timore che ispiravano. Malgrado il cupo silenzio in cui Orlando era immerso, Gano non volle risparmiargli un giusto rimprovero. «È stata un’imprudenza uscire da solo. Potresti esserci tu su quella piazza, al posto di Rinaldo.» «Non sono in vena di ascoltare prediche», replicò il ragazzo. «Il re sarà molto contrariato quando saprà della tua sortita.» «Non occorre che lo sappia.» «Anche se ti, lo verrebbe a sapere comunque, perciò meglio che sia io a informarlo.» «È stato Olivieri ad avvisarti, vero?» «Sì. Temeva, e giustamente, che saresti stato in pericolo.» «Non si sarebbe dovuto immischiare. L’avevo avvertito che so badare a me stesso.» Gano si fermò di scatto, agguantandolo per un braccio e tirandolo di fronte a sé. «Tu e io dobbiamo parlare. Ci sono cose che vanno chiarite, e subito.» «Lo faremo domani, se proprio ci tieni. Adesso sono stanco e voglio andare a dormire», ribatté liberandosi e riprendendo a camminare. «D’accordo», sospirò suo zio contrariato. «Ma sappi che il tuo comportamento non sarà senza conseguenze.»

La reazione del re, tuttavia, non fu quella che Gano si era aspettato.

Per la bravata Orlando ricevette soltanto un blando rimprovero, peraltro subito mitigato dall’investitura a cavaliere che Carlo giudicò opportuna in seguito alla prova di abilità e coraggio che aveva dato. Durante la breve ma solenne cerimonia in cui gli fu compagno Olivieri, il re annunciò a entrambi la propria intenzione di ammetterli nella cerchia dei pari non appena se ne fossero dimostrati degni.

La decisione contrariò Gano, che dopo essere stato il primo fra i paladini si era visto estromesso per motivi che, malgrado le spiegazioni ricevute, non gli erano mai stati chiari e che tuttora considerava quell’atto un’ingiustizia. Si era piegato alla volontà del sovrano come ogni suddito leale e fedele era tenuto a fare, ma in fondo al cuore si sentiva tradito. A fatica mascherò i propri sentimenti quando venne il momento di congratularsi col nipote, il quale non mancò di rivolgergli un sorriso trionfante, senza accorgersi di ferirlo ancora più profondamente. Dopo, mentre i due cavalieri di fresca nomina venivano condotti via dai compagni per festeggiare, Gano ne approfittò per palesare al re le proprie rimostranze. «Ora diventerà ancora più superbo e vanaglorioso», osservò con una sfumatura di acredine. Carlo la percepì e aggrottò la fronte. «Mi pare di notare una nota di rimprovero nelle tue parole. Ritieni che abbia sbagliato?» «Ritengo sia stato prematuro farlo cavaliere, in specie col carattere che si ritrova. Un più lungo periodo di apprendistato sarebbe stato opportuno. Mi sto sforzando di inculcargli un minimo di disciplina e di insegnargli a rispettare le regole, e tu rischi di compromettere tutto. Perdona se te lo dico con franchezza, ma sei stato intempestivo.» La mano che si posò sulla sua spalla era greve come pietra e lo sguardo lo trafisse come una lama. «Siamo amici da tanto tempo e ti ho sempre incoraggiato a esprimere liberamente ciò che pensi, tuttavia vorrei non dimenticassi che sono il re e che ho il potere di prendere qualsiasi decisione

ritenga opportuna, sia che tu l’approvi o meno. Apprezzo il tuo impegno nei riguardi di Orlando e te ne sono grato, ma non sei autorizzato a criticarmi, soprattutto non nel modo in cui l’hai fatto. Soltanto io posso giudicare chi debba essere investito cavaliere, e ho deciso che per Orlando e Olivieri era venuto il momento. Altrettanto farò quando deciderò di farli paladini. Sono stato chiaro?» Mortificato, Gano chinò il capo. «Sì, mio sire.» «Bene. Mi auguro di non doverti più ricordare che, sebbene mio amico, sei pur sempre mio suddito e che ci sono dei limiti che neppure tu puoi permetterti di superare.» «Perdonami se ho osato troppo, ma poiché mi sta a cuore il bene di Orlando io…» «Lo so», l’interruppe il re. «Credi forse che a me non stia a cuore altrettanto? Non te l’avrei affidato se fosse altrimenti. Ho grandi progetti per quel ragazzo. Vedo in lui straordinarie potenzialità. È come un diamante grezzo e dipenderà da noi, soprattutto da te, farlo brillare in tutta la sua luce.» «Sto facendo del mio meglio, ma certo aiuterebbe se lui collaborasse di più.» «Dagli tempo. È giovane ed è stato sradicato dal suo paese per essere proiettato in un mondo nuovo e sconosciuto dove tutto lo disorienta. Ha bisogno di ambientarsi, di capire che noi lo amiamo e che quello che facciamo è per il suo bene.» «Orlando è una promessa di morte. Se riuscirà a sopravvivere alla propria temerarietà, diventerà invincibile.»

Il mattino dopo Orlando si svegliò con un terribile mal di testa e tutti i postumi degli eccessi a cui si era abbandonato durante i festeggiamenti della nottata. Sperò che Olivieri e gli altri soffrissero quanto lui, ma il pensiero non migliorò il suo stato di malessere e la sola prospettiva di alzarsi e affrontare la giornata lo fece sentire ancora peggio. Seduto sul letto cercò di alleviare il dolore massaggiando le tempie, ma nel sentir bussare alla porta ebbe la sensazione che un punteruolo gli perforasse il cranio

ed emise un lamento. «Avanti», biascicò.

Entrò Gano, che al vedere la sua aria afflitta non poté trattenersi dal sorridere. «Hai un aspetto orribile», osservò. Orlando lo guardò torvo. «Perché sei qui?» «Preparati, si parte in missione.» «Per dove?» «Te lo dirò lungo la strada. Sbrigati, non abbiamo molto tempo.»

13

Benché fosse impaziente di conoscere nei dettagli lo scopo della missione, Orlando si astenne dal fare domande e attese che lo zio si decidesse a fornirgli spiegazioni. Lasciarono Roma con una numerosa scorta di armati e si diressero a sud, tagliando obliquamente la regione e raggiungere la costa adriatica e il Salento. Cavalcarono quasi senza interruzione, concedendosi solo brevi soste notturne ed evitando i centri abitati. L’andatura sostenuta non incoraggiava la conversazione, e quando Gano ordinava di fermarsi erano sempre troppo stanchi per aver voglia di parlare. Mangiavano un boccone e si sdraiavano a dormire, pronti a riprendere la marcia prima che albeggiasse. Nel riconoscere il territorio che stavano attraversando, Orlando intuì che erano diretti verso la penisola salentina, ma ancora evitò di chiedere spiegazioni, certo che il momento delle rivelazioni fosse ormai prossimo. Nei pressi di Brindisi, mentre erano accampati, Gano si allontanò affidandogli il comando. Scomparve nella boscaglia in un baleno, lasciando Orlando a interrogarsi sui motivi di quella eggiata notturna. Attese il suo ritorno seduto davanti al fuoco ormai languente, mentre gli uomini dormivano e i cavalli, poco distanti, sbuffavano e raspavano il terreno con gli zoccoli. La luna sorse e tramontò, ma di Gano non c’era ancora alcun segno. Inquieto, Orlando si alzò per ascoltare e percepire, attraverso i fruscii di sottofondo e i richiami degli uccelli notturni, il suono dei i dello zio. Era sicuro di saperli distinguere, così come avrebbe saputo riconoscere il rumore prodotto da qualsiasi creatura si fosse avvicinata, anche la più silenziosa. Ma dopo qualche momento, deluso, tornò a sedere. Trascorse dell’altro tempo e il torpore cominciò a pervaderlo. Mentre lottava per non crollare sentì un frusciare di rami smossi e balzò in piedi, la mano serrata sull’elsa della spada. Il materializzarsi di un’ombra nell’oscurità gli fece balzare

il cuore in gola. Fu sul punto di dare l’allarme, ma la voce di Gano lo indusse a rilassarsi e a vergognarsi per non averlo riconosciuto. «Metti via quella spada. Sono io.» «Cominciavo a preoccuparmi», rispose. «L’incontro si è protratto più del previsto», spiegò Gano laconico. «Tutto bene?» Invece di rispondere, Gano sedette e restò per un po’ a fissare i tizzoni ardenti, poi fece un cenno. «Avvicinati. È ora che tu sappia perché siamo venuti qui.» Orlando gli sedette di fronte. «Mi chiedevo quando me l’avresti detto.» «In realtà non c’era alcun motivo di tenertelo nascosto finora, ma ho voluto mettere alla prova la tua pazienza.» «Lo immaginavo, perciò ho evitato di fare domande.» Gano annuì e sorrise. «Siamo qui per Adelchi. Il suo sbarco avverrà domani in una piccola baia nascosta, un paio di miglia a sud di Brindisi. Arriverà con una nave bizantina e pare avrà con sé un piccolo distaccamento di mercenari, un anticipo del contingente più grosso che dovrebbe giungere in seguito.» «In che cosa consiste esattamente il nostro incarico?» «Assicurarci che arrivi, innanzi tutto, e cercare di scoprire le sue intenzioni, per quanto ciò sia possibile senza rivelare la nostra presenza.» «Solo questo?» «Sì, almeno per ora. Non è cosa di poco conto questo ritorno di Adelchi. Significa che non si è rassegnato alla sconfitta e che ci darà ancora filo da torcere.» «La sua sorte è segnata», sentenziò Orlando. «È venuto a gettarsi nelle fauci del lupo. Si può essere più stolti?» «Adelchi è disperato e vuole vendetta. Sarebbe un errore sottovalutarlo.»

«Adelchi è un uomo morto, solo che ancora non lo sa.» Gano gli lesse negli occhi la luce ferale che ben conosceva e capì che lo sventurato principe longobardo sarebbe caduto per mano di Orlando. Che lo uccida pure, pensò, purché ciò avvenga al momento opportuno.

Era un tratto di costa frastagliato e scosceso il luogo prescelto per lo sbarco di Adelchi. Abbastanza lontano dal porto per non dare nell’occhio e con un approdo grande a sufficienza per contenere i mercenari che erano venuti con lui da Bisanzio. Gano e Orlando vi si recarono all’alba, soli e appiedati. Si appostarono al riparo delle rocce, in ottima posizione per l’avvistamento, e si prepararono a un’attesa che poteva anche essere lunga. Al sorgere del sole arrivò un reparto di cavalieri longobardi. Erano una trentina e conducevano dei cavalli per le briglie. Li osservarono percorrere lo stretto sentiero fino alla spiaggia, dove si fermarono per scrutare il mare increspato dal vento. Da lì a poco, in distanza, comparve la sagoma affusolata di una galea bizantina, facilmente riconoscibile dalle vele color porpora. L’apparizione provocò una certa agitazione fra i cavalieri in attesa. Alcuni smontarono di sella per confabulare in modo concitato e indicare il vascello che si avvicinava rapidamente. Nello scorgere sul ponte l’inconfondibile luccichio delle armi, Gano e Orlando si scambiarono uno sguardo d’intesa. La nave era carica di armati. La prua fendeva le onde sollevando creste di spuma, e quando fu vicina alla riva le vele vennero calate e lo scafo accostò con l’ultimo abbrivio. Fu allora che Gano e Orlando videro Adelchi, in piedi sul ponte e col nero mantello che fluttuava nel vento; i suoi occhi erano puntati sui cavalieri in attesa.

Appena la prua toccò la sabbia, venne calata una erella nell’acqua bassa e il principe la raggiunse per primo, percorrendola a lunghe falcate, subito seguito dai mercenari che scesero in modo disordinato, sguazzando fino ai polpacci per guadagnare la spiaggia.

Alcuni nobili si mossero per incontrare Adelchi e tributargli il saluto riservato ai re, sebbene tutti fossero consapevoli, lui per primo, che non c’erano speranze di riavere la corona perduta. Del resto risultò evidente dall’esiguo numero di coloro che gli erano rimasti fedeli, a cui tuttavia riservò saluti e calorose strette di mano. I nobili, da parte loro, lo rassicurarono sullo stato di salute della sua famiglia. Lo informarono che sua sorella attendeva con ansia il suo arrivo e lui assentì, senza nutrire il minimo dubbio al riguardo. Sapeva come nessun altro che la sete di vendetta di Ermengarda era ancora più implacabile della sua, e ciò che più ardentemente sperava era di placarla in entrambi. Mentre tutti rimontavano in sella e un nobile lo esortava ad affrettarsi, Adelchi alzò lo sguardo per scrutare le rocce sovrastanti. Orlando e Gano si ritrassero istintivamente, sebbene consapevoli di non poter essere visti. «Ci sono spie in giro?» domandò sospettoso il principe. «Non ne sono state segnalate, però è meglio essere cauti. Il vostro ritorno è avvenuto in incognito.» «Non lo resterà ancora a lungo», replicò con un sorriso ferino. «Intendo uscire allo scoperto quanto prima.» «Mio signore, non dobbiamo agire in modo avventato. La situazione esige prudenza, specie ora che siamo rimasti così pochi a esservi fedeli.» «Tra poco saremo più numerosi, amico mio. Molto più numerosi», gli assicurò. Voleva credere alla promessa fatta dall’imperatore riguardo all’invio di truppe per combattere la sua personale guerra contro Carlo. Se non per altre ragioni, almeno per la congrua ricompensa pattuita riteneva che gli accordi sarebbero stati rispettati. Posò la mano sulla spalla del nobile. «Abbiamo parecchio di cui discutere e importanti decisioni da prendere.» «Noi vi seguiremo sempre, sire», replicò l’altro solenne. «Fino alla vittoria o alla morte», aggiunse balzando in sella. Adelchi spronò il cavallo al galoppo. Seguito e mercenari, schierati per due, lo seguirono. Transitarono poco distanti da dove erano appostati Gano e Orlando. Alla vista di Adelchi così vicino il giovane dovette frenare l’impulso di avventarsi su di lui.

Tuttavia non riuscì a impedirsi di stringere con forza l’elsa di Durendal, mentre serrava le mascelle e seguiva con sguardo di rabbia impotente il longobardo che si allontanava col seguito di armati. Gano gli posò la mano sulla spalla. «Sangue freddo, ragazzo. Il tuo momento verrà, e prima di quanto immagini.» «Non sarà mai abbastanza presto», sibilò Orlando. «Perché tanta smania di uccidere Adelchi? Neppure lo conoscevi, prima di oggi.» «Lo conosco quanto basta!» «Tanto da mettere a repentaglio la segretezza della nostra missione? Stavi per saltargli addosso, ammettilo.» «L’avrei fatto senza esitare se non ci fossi stato tu.» «Meno male che c’ero, allora! Adesso però rilassati e serba i tuoi ardori bellicosi per la prossima occasione.» «Ma quando? Oggi avremmo potuto appostarci quassù in forze e tendere un agguato. A quest’ora ci saremmo liberati di lui una volta per tutte!» «Non è questo il punto», sospirò Gano. «Allora qual è?» «Il re non avrebbe approvato la nostra iniziativa personale. Sono sicuro che ha altri piani per Adelchi, e il nostro compito, per ora, termina qui.» «Vorresti darmi a intendere che hai sempre aspettato gli ordini del re per agire?» «Sì, almeno nella maggior parte dei casi. Anche se a volte gli ordini non sono propriamente… espliciti.» «Spiegati meglio.» Gano lo guardò incerto. Come fargli comprendere certe sottigliezze? Orlando non era tipo da percepire le delicate sfumature di un ordine inespresso, di

qualcosa che andava fatto ma con discrezione, con l’avallo del re e tuttavia senza che ne venisse coinvolto in prima persona. «È questione di intuito», disse infine. «Bisogna capire quello che desidera il re anche se non viene detto in modo esplicito. So che non è facile per te capirlo, adesso, ma col tempo imparerai.» «Non ne sono tanto sicuro», rispose dubbioso Orlando. Non lo sono nemmeno io, pensò Gano con un sospiro. Tu agisci senza riflettere. Ti lanci nella mischia e combatti con le sole armi che conosci. Ma essere cavalieri, e soprattutto essere paladini, non è solo questo. Come posso trasmetterti la mia conoscenza se tu non ascolti ciò che dico?

Lasciarono la scogliera e si riunirono ai cavalieri in attesa, poi partirono diretti a nord. «Torniamo a Roma?» chiese Orlando. «No, andiamo a Heristal, dove ci ha preceduti il re.» «Perché non è rimasto a Roma?» «È tornato dalla regina, che gli ha dato una figlia. Era troppo impaziente di vederla per attendere il nostro ritorno.»

«Non mi pare molto sensato.» Gano lo guardò severo. «Credimi, tutto quello che fa il re è dannatamente sensato. E poi, chi sei tu per giudicarlo?» «Ho soltanto espresso un’opinione. È vietato anche questo?» «No, ma dovresti imparare a tenere a freno la lingua, per non parlare del resto.» «Trovi sempre da ridire in tutto quello che faccio. Cosa c’è in me che non ti va a genio?»

«È questo che credi? Ritieni che ti rivolga delle critiche perché non mi piaci?» «Non so di preciso, ma ho questa impressione. Non mi incoraggi mai, neanche quando mi sforzo di fare bene.» «Forse perché non ti sforzi abbastanza.» «Il fatto è che la maggior parte delle volte non capisco. Ci sono delle contraddizioni in ciò che dici e mi sento confuso. Eppure non credo di essere stupido.» «No, non lo sei», ridacchiò Gano. «Sei solo troppo giovane e impulsivo. Sei attratto dallo scontro e dall’uso delle armi. La sola idea dell’azione ti eccita e ti fa perdere la testa. Però non c’è soltanto il combattere, per un cavaliere. Ci sono anche l’arte della diplomazia, la politica, la conversazione dotta, la sensibilità che rende capaci di percepire ogni sfumatura, persino la più elusiva, per usarla al fine di servire il re e la sua causa, che poi è anche la tua. Devi saperti destreggiare sia sul campo di battaglia che a corte, nel consiglio di guerra come in quello di pace. Vivere a corte è tutto questo e molto, molto di più.» Non era sicuro che avesse capito, ma non avrebbe saputo come spiegarsi meglio. Le parole erano inadeguate a esprimere concetti tanto astratti, e gli arzigogoli della retorica trovavano in Orlando un terreno sterile. D’altronde anche per lui era stato così, a quella età, e solo il tempo e l’esperienza avrebbero potuto affinare la capacità di comprensione che era necessaria. Si convinse, con indulgenza davvero paterna, che il nipote avrebbe riflettuto su ciò che gli aveva detto e che, alla fine, l’intesa fra loro si sarebbe rafforzata. Tuttavia non si faceva troppe illusioni che il ragazzo, con la sua natura ribelle e insofferente, avrebbe seguito i suoi consigli. Forse si sarebbe fatto un puntiglio di non seguirli affatto, come tutti i giovani, ma non per questo lui si sarebbe sottratto al proprio dovere, poiché il suo primo imperativo era di compiacere il re e non importava quanto il compito fosse gravoso. In ato ne aveva istruiti tanti con successo e non intendeva lasciarsi sgomentare dai capricci di un adolescente.

Giunsero in una Heristal in festa per la nascita della principessa Rotrude.

Mentre si dirigevano verso il Palazzo, Gano si rammaricò per le notizie che doveva riferire e che avrebbero causato un nuovo allontanamento del re dalla famiglia, ma Adelchi era una spina nel fianco che doveva essere estratta una volta per tutte e bisognava agire con tempestività e determinazione. Gano si allontanò con Turpino, che era venuto a riceverli, lasciando Orlando e la scorta nel cortile, tra un andirivieni indaffarato di staffieri, scudieri e serventi. Seccato per essere stato messo da parte senza ricevere istruzioni, Orlando si decise a entrare, ma appena varcò la soglia si arrestò esitante non sapendo da quale parte andare. Gli venne in soccorso Olivieri, che gli andò incontro sorridendo e, prima che potesse sottrarsi, lo serrò in un caloroso abbraccio. «Ah, eccoti qua!» esclamò allegro. «Benvenuto a Heristal.» «Grazie», rispose allontanandosi, imbarazzato da tanta espansività. «Gano mi ha incaricato di accompagnarti al tuo alloggio, che tra l’altro è anche il mio, e di fare gli onori di casa. Lui sarà occupato a lungo col re e toccherà a me farti da guida. Non appena ti sarai sistemato ti condurrò in giro e conoscerai gli altri.» «Chi sarebbero questi altri?» domandò seguendolo. «Cavalieri, scudieri, gente che vive a corte e si sposta con il re nelle sue varie residenze. Ci sono anche delle ragazze che conoscerai, fra cui mia sorella. Hetistal ti piacerà, ne sono certo.» Orlando non lo era altrettanto, ma evitò di dirlo. Olivieri stava facendo del suo meglio per metterlo a proprio agio e non voleva urtarlo, ma la sensazione di essere un estraneo aumentò a mano a mano che attraversavano le innumerevoli stanze, tutte riccamente arredate, così diverse dall’austerità a cui era abituato da fargli credere di essere vissuto, fino ad allora, in una stamberga. L’ala riservata ai paladini, ai cavalieri e agli scudieri era più sobria, ma non meno confortevole. La stanza che avrebbe diviso con Olivieri era ampia e luminosa, con arredi semplici e funzionali, adatta a giovani guerrieri, ma agli occhi di Orlando parve splendida ben oltre ogni più ardita fantasia e indugiò sulla soglia a rimirarla, quasi incredulo che fosse destinata a lui.

«Allora, che ne dici?» domandò il compagno, sorpreso dal suo prolungato silenzio. «Sono senza parole», rispose abbozzando un sorriso. «Lo vedo, ma ti abituerai a certe comodità. Ci ripagano della loro assoluta mancanza durante le campagne di guerra. Qui possiamo avere tutto ciò che desideriamo.» «Ed è così in ogni residenza reale?» «Ma certo! Presto scoprirai che il re è assai generoso verso coloro che lo servono con lealtà e devozione, almeno quanto è severo con chi lo tradisce. Non è mai crudele, però, nemmeno coi nemici acerrimi, poiché la sua giustizia si accompagna sempre alla clemenza. È questo che lo rende grande.» «Io lo conosco ancora poco, ma non ho mai sentito parlar male di lui.» «I suoi detrattori, specie quelli che ha sconfitto, non gli risparmiano le critiche, ma riconoscono che è un sovrano saggio e lungimirante, doti assai rare al giorno d’oggi. Ma che stai a fare sulla porta? Entra e metti a posto le tue cose, che dopo ti porto un po’ in giro. La devi conoscere Heristal, prima che si riparta!»

Olivieri fu di parola. In capo ai pochi giorni che precedettero la nuova partenza per l’Italia, Orlando non conobbe soltanto la residenza reale e i suoi numerosi abitanti, ma anche la città e parte dei dintorni. Conobbe anche la sorella di Olivieri, l’incantevole Alda, nonché le dame e le giovani donne di cui si circondava la regina Ildegarda, la moglie bambina del re. La incontrò nella fastosa cornice della corte franca e rimase abbagliato dalla sua avvenenza, incantato dai suoi modi gentili e dalla vivacità dei suoi gesti. Comprese perché il re avesse voluto raggiungerla e condividerne la gioia per la nascita della secondogenita.

Tutti si prodigarono per farlo sentire parte di quella grande famiglia, tuttavia Orlando continuava, malgrado i loro sforzi, a sentirsi fuori posto.

Era qualcosa che non dipendeva dalla sua volontà, ma che faceva parte della sua natura e che lo rendeva poco incline a stringere legami, che lo portava a prediligere la solitudine e il vuoto affettivo. Sebbene dentro di sé avvertisse il bisogno di calore umano come un cucciolo smarrito, allo stesso tempo temeva di aprirsi e di rendersi vulnerabile. Fu quindi con sollievo che accolse la notizia della partenza e lasciò senza rimpianto Heristal, già afferrato dall’ansia febbrile dei combattimenti, inebriato di vanità e d’orgoglio, smanioso di mettere alla prova il proprio valore. Sotto il ferro dell’usbergo il cuore gli martellava e il rombo che gli risuonava nelle orecchie era come il rullo di mille tamburi. Una musica guerriera dal ritmo incalzante che lo esaltava. Niente era paragonabile alle sensazioni destate in lui dalla vista dei cavalieri in armi, dal riflesso delle armature, dalla miriade di lunghe lance che si innalzavano verso il cielo come gli aculei di una mitica creatura. Era musica lo stridere dei finimenti e lo scalpitare dei cavalli. Il ruggito possente del Drago fece svanire come un miraggio l’armonia gentile di Heristal e dei suoi giardini, sostituita dalla nebbia rossastra dell’ardore che gli scorreva nelle vene insieme al sangue impetuoso. La morte cavalcava al suo fianco.

14

I longobardi che avrebbero dovuto sostenere Adelchi non esitarono a tradirlo per sottomettersi ai franchi senza alcun tentativo di opporsi. Benché si fossero asserragliati in una delle loro roccaforti e avessero avuto la possibilità di resistere a un assedio, non appena avvistarono le avanguardie dell’esercito franco si arresero senza condizioni. Furono così zelanti nel collaborare che rivelarono dove si trovava il principe e di quanti armati disponesse, confermando peraltro le informazioni già in possesso del re. In tal modo Adelchi fu tradito un’altra volta e abbandonato al proprio destino.

Carlo provò quasi comione per l’irriducibile ma sfortunato rivale, che gli era stato cognato quando ne aveva sposato la sorella Ermengarda, al cui ripudio doveva il suo implacabile odio. Un sentimento devastante che lo stava trascinando alla rovina, mentre sarebbe bastato che Adelchi se ne fosse rimasto lontano dall’Italia, in volontario esilio alla corte di Bisanzio, per risparmiarsi tutto il dolore e l’amarezza della totale disfatta. Ma Adelchi era troppo accecato dal desiderio di vendicare gli oltraggi subiti e di farsi strumento della rivalsa della sorella per dare ascolto ai suggerimenti del buonsenso. Così, senza neanche rendersene conto, era venuto a infilare la testa nel cappio che gli era stato preparato. Per garantirsi la neutralità dei nobili longobardi, Carlo pretese che gli venissero consegnati degli ostaggi. Dopo aver assicurato che sarebbero stati trattati con ogni riguardo, marciò con il suo poderoso esercito contro Adelchi per affrontarlo l’ultima volta. Il principe pensava di aver trovato il luogo ideale per tendere un’imboscata ai franchi, ma quando capì di essersi andato a cacciare in una trappola era già troppo tardi. Vi si era quindi attestato con una trentina di cavalieri e gli scarsi rinforzi giunti da Bisanzio, mercenari nei quali riponeva poca o nessuna fiducia.

Sebbene il sospetto l’avesse sfiorato, aveva continuato a credere che l’imperatore avrebbe rispettato i patti e gli avrebbe mandato un altro contingente. Tuttavia, col are del tempo, si rese conto di essere stato tradito. In piedi sul ciglio dell’abisso in fondo al quale scorrevano le acque tumultuose di un torrente, Adelchi ne scandagliò la profondità, quasi potesse trarre gli auspici del proprio futuro dal tenebroso e dirupato recesso. Un’aquila volteggiò sopra di lui, librandosi nell’azzurro del cielo e proiettando la sua ombra sulle rocce. Alzò il capo per seguirne il volo, mentre maestosa e solenne planava sulle correnti aeree e il suo richiamo echeggiava fra le balze dei dirupi. Un attimo dopo scomparve oltre le vette incappucciate di nubi. Se solo anche lui avesse potuto librarsi a quelle vertiginose altezze e, volando con lei, contemplare il mondo… Sospirò e tornò a scrutare il baratro che si spalancava sotto di lui immane e spaventoso. Un o soltanto oltre l’orlo e sarebbe caduto, ma forse nel cadere avrebbe provato l’ebbrezza di volare come l’aquila e, almeno per qualche istante, avrebbe conosciuto il significato della libertà… Il grido d’allarme di una vedetta lo distolse da quei cupi pensieri. L’avvistamento dell’esercito franco aveva messo in agitazione i mercenari bizantini. Storse la bocca nel comprendere che al momento decisivo avrebbe potuto fare affidamento soltanto sui suoi cavalieri, davvero pochi per dare battaglia a un’armata. Non temeva di morire. Anzi, sarebbe morto con gioia se avesse potuto portare con sé l’odiato re dei franchi e fargli pagare le umiliazioni che gli aveva inflitto. Quale dolce vendetta sarebbe stata trascinare l’orgoglioso, superbo Carlo nella polvere e vederne sgorgare il sangue! Si accorse di sognare a occhi aperti quando un fragore tonante l’avvisò che l’esercito si stava avvicinando. Si fece condurre il cavallo e balzò in sella per far schierare i cavalieri e i mercenari. Questi interruppero i loro vivaci conciliaboli e obbedirono, ma erano impauriti e intuì che l’avrebbero abbandonato appena il nemico fosse comparso in campo. Si allineò coi cavalieri pronti a combattere al suo fianco l’ultima battaglia, le armi in pugno e lo sguardo come di febbre.

Che i bizantini si arrendano pure, pensò sprezzante. Noi, almeno, sapremo

dimostrare di qual pasta sono fatti i longobardi!

Il frastuono aumentò e parve che una enorme valanga stesse per abbattersi sul pianoro e sugli uomini in attesa. La paura dei mercenari si tramutò in terrore, ma in qualche modo il loro comandante riuscì a trattenerli. Adelchi non si voltò. Ciò che avveniva alle sue spalle non lo riguardava; solo ciò che stava per comparirgli di fronte aveva importanza. Aggrottò le sopracciglia, mentre l’attesa che il fragore si materializzasse diventava spasmodica e la tensione saliva. Anche i cavalli, contagiati dal nervosismo degli uomini, scalpitarono agitati. Poi, all’improvviso, calò il silenzio, ancora più angosciante e pauroso del frastuono che l’aveva preceduto. Incombette sui longobardi e sui mercenari come un’invisibile minaccia. L’incertezza di ciò che stava per accadere aumentò il disagio e l’inquietudine. Quindi, repentino com’era venuto il silenzio si infranse e il nemico apparve davanti ai loro occhi sbigottiti. L’armata si addentrò nello stretto aggio, snodandosi sinuosa come un serpente irto di aculei. Parve scaturire dalle viscere della montagna e nel marciare produceva un suono cavernoso che echeggiava fra le rocce e le accidentate pareti. Il suo avanzare era inarrestabile come un messaggio di morte, capace di far tremare anche i più intrepidi guerrieri. Era un canto ferale che evocava scenari sanguinosi, riverberanti di barbarico splendore, di fulgida e selvaggia magnificenza. Le sue spire scagliose parvero dilatarsi all’infinito e, al diradarsi della bruma sottile che ammantava le balze, apparve infine in tutta la sua orrida grandezza, lasciando impietriti i longobardi e suscitando ancor più terrore nei mercenari, il cui comandante ora stentava a mantenerne il controllo. Si agitavano, infatti, come pecore davanti ai lupi. In modo ordinato, il serpente si frazionò in scaglioni per allargarsi e andare a prendere posizione sui tratti pianeggianti alle pendici dei monti, chiudendo gli spazi fra le rocce, finché la selva di lance si distese su ambo i lati del pianoro come un ventaglio, proiettandovi ombre cupe e minacciose. Una esibizione di

forza destinata a gettare nel panico il nemico. Nello schieramento si aprì un varco attraverso il quale vennero avanti il re, i paladini e un manipolo di cavalieri fra cui Olivieri e Orlando. Avanzarono in sella a cavalli sbuffanti, coperti di ferro, impressionanti per l’aura di forza che li circondava. Sembravano invincibili, e, di fatto, lo erano, invulnerabili come divinità guerriere sorte dal ventre della terra. E quanto allo stridore del metallo si aggiunse il suono terrifico dell’Olifante, così possente da far vacillare il cuore e la mente, parve che la stessa furia di Dio stesse per scatenarsi. Fra i longobardi intercorsero sguardi tesi. Soltanto Adelchi restò imperturbabile. Fissava con occhi di brace il re franco che avanzava coi paladini. Al suo fianco c’erano Orlando e Olivieri, che quel giorno avrebbero combattuto la loro prima battaglia. Al vederli così fieri e sicuri non lo si sarebbe detto, ma Carlo volle ugualmente rivolgere a entrambi qualche parola d’incoraggiamento. Un consiglio al momento giusto poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Erano talmente giovani che si sentì rimordere la per averli voluti con sé nella spedizione, ma non era affatto sicuro che se l’avesse ordinato sarebbero rimasti a Heristal, specie Orlando, che smaniava dalla voglia di combattere. D’altronde non li avrebbe potuti proteggere all’infinito, perciò tanto valeva che la loro iniziazione avvenisse subito. Non sarebbe stata una vera e propria battaglia fra due potenti eserciti, dunque non avrebbero corso troppi rischi. Orlando non distolse gli occhi da Adelchi, che si era fatto avanti con la lancia in pugno, e se un cenno imperioso del re non l’avesse fermato si sarebbe scagliato contro di lui. Trattenne il destriero e serrò le mascelle, mentre il principe gridava la propria sfida con voce che echeggiò tra i contrafforti rocciosi. «Dico a te, Carlo re dei franchi, fatti avanti se hai coraggio! Misurati con me da pari a pari e che sia la nostra forza a decidere chi sarà il vincitore!» Mentre i paladini formavano una barriera per proteggerlo, Carlo fece segno a Turpino perché parlasse in sua vece. Orlando, fremente d’impazienza, si rivolse al re. «Lascia che mi batta con lui, sire. Concedimi l’onore di ucciderlo in tuo nome.»

Girandosi a guardarlo, Carlo scosse il capo. «Non tocca a te raccogliere la sfida. Avrai modo di batterti e dare prova del tuo valore, ma non adesso.» Orlando si impose la calma, fissando Adelchi come se intendesse abbatterlo con la sola forza dello sguardo. In sella al suo cavallo fulvo il principe longobardo girava in tondo, adirato per il rifiuto del re di scendere in campo, e continuava a urlargli rabbiose invettive. «Questo è un insulto! Dov’è il tuo tanto decantato coraggio, Carlo? Vieni, fatti sotto. Risolviamo la questione fra noi, da cavalieri!» La tensione aumentò fino a diventare palpabile. Una nebbia rossastra offuscò la vista di Orlando. Il cuore gli rombava nel petto e il Drago gli ruggiva nella testa, assordandolo, impedendogli di sentire ciò che diceva Turpino, impegnato a far rispettare i termini dello scontro. Ancora pochi istanti e non sarebbe più riuscito a dominarsi…

Poi Wala uscì dalla schiera e si fece avanti sulla spianata. Il suo enorme cavallo nero s’impennò, lanciando un fiero nitrito di sfida. Dalla fila dei longobardi uscì un cavaliere per andargli incontro. Fermi l’uno di fronte all’altro, i due si scrutarono per qualche momento in un silenzio greve di funesti presagi. A un muto segnale partirono al galoppo. Orlando si tese sulla sella, gonfiando i muscoli come si preparasse a sostenere l’impatto. Vide Wala evitare l’attacco e infliggere al longobardo un colpo con la mazza ferrata. Il cavaliere vacillò, ma tornò alla carica. Schivò un altro colpo, ma nel voltare il destriero gli si trovò di fronte. La mazza calò implacabile a fracassargli lo scudo e la spalla. L’urlo di Orlando si perse nel boato che si levò dalle file dei franchi. Ma il duello non era ancora finito. Wala lasciò cadere la mazza e sguainò la spada per avventarsi su di lui. Orlando si tendeva a ogni fendente come se fosse lui a sferrarli. Le sue mani si serrarono convulse sulle redini quando l’ultimo fendente squarciò il longobardo dalla spalla al fianco, facendone sprizzare il sangue. Allora gli irruppe dalla gola un grido di trionfo, a cui subito si accompagnò una nuova acclamazione dei franchi.

Impietriti, i longobardi guardarono il corpo senza vita del loro compagno stramazzare a terra con un tonfo. Wala rientrò nei ranghi, accettando con un sorriso i complimenti che gli furono rivolti. Orlando comprese che l’attesa spasmodica stava per avere fine e trasse un profondo respiro. Accarezzò Durendal, avvertendo l’emanazione della sua forza, del suo ancestrale potere. Il primo scontro era stato vinto dal campione del re e ciò significava che Dio era dalla loro parte. Levò una fervida, silenziosa preghiera e guardò Carlo, aspettando l’ordine di avanzata con una calma che lo sorprese. Ogni emozione era svanita, ora che il momento era arrivato. Data l’esiguità delle forze nemiche e l’incertezza del comportamento dei bizantini, non sarebbe stato necessario l’impiego completo delle truppe. Carlo non voleva un massacro, ma uno scontro alla pari, pertanto scelse una trentina di cavalieri, inclusi i paladini, e diede ai comandanti dei contingenti l’ordine di non intervenire. Poi, circondato dai pari, scese in campo. Mentre si accodava alla fila, Orlando avvertì l’eccitazione di coloro che non avrebbero preso parte alla battaglia e ne comprese la frustrazione. Tuttavia non ebbe il tempo di indulgere in tali considerazioni, poiché il nemico si stava movendo e Durendal vibrava nella sua mano, il sangue gli rombava nelle orecchie. Si trovò lanciato in un furioso galoppo tra gli altri cavalieri, col vento che gli sferzava il volto. Fu pervaso dall’ebbrezza quando il fragore del ferro e il tuono del galoppo si tramutarono in una cacofonia di suoni indistinti e si trovò al centro della mischia. Non ci fu il tempo per pensare, ma soltanto di agire come l’istinto e l’addestramento gli dettavano. Era nel proprio elemento. Combatteva con ardore, ma in modo giocoso, quasi partecie a un torneo, e i suoi micidiali fendenti falciavano i longobardi. Olivieri non gli era da meno per audacia e valore. I due ragazzi si cimentavano in un gioco sanguinoso e crudele, ma non privo di bellezza ed eleganza per il modo cavalleresco con cui veniva condotto. I longobardi erano ridotti a poco meno della metà, mentre i franchi avevano

subito soltanto una perdita. Lo stesso Carlo si era messo in luce vincendo duelli, sempre più consapevole della crescente rabbiosa frustrazione di Adelchi nell’assistere impotente all’annientamento dei suoi e furioso per l’impossibilità di raggiungerlo. Il principe longobardo aveva rinunciato a tentare di avvicinarsi, visti vani i propri sforzi, ma non a provocarlo. Non potendo ferirlo con le armi, tentava di ferirlo a parole, lanciando insulti con voce stizzosa e stridula che si perdeva nel frastuono della battaglia e non otteneva altro risultato che di sentirsi ancora più oltraggiato. Carlo, il maledetto, si stava prendendo gioco di lui. Sebbene impegnato, Orlando non lo perdeva di vista. Sorrideva con aria di scherno nel vederlo così schiumante di rabbia impotente e pregustava il momento in cui l’avrebbe affrontato e umiliato. Abbatté un altro avversario con un ben assestato fendente, poi spronò il cavallo per soccorrere un paladino in difficoltà. Il longobardo che l’aveva disarcionato non riuscì ad arrecargli altri danni, perché su di lui si avventò una furia, una tempesta con le sembianze di un ragazzo di sedici anni. Il cavaliere lesse in fondo ai suoi occhi la propria condanna a morte, ma non arretrò. Raccolse la sfida di Orlando con un ghigno che si tramutò in una smorfia d’orrore quando un fendente di precisione letale lo tagliò in due. I tronconi sanguinanti caddero ai lati del cavallo, restando appesi alle staffe. L’animale, colto dal terrore, partì al galoppo trascinandosi dietro i macabri resti attraverso il pianoro e andando poi a sfracellarsi contro le rocce. «Sei davvero in gamba, ragazzo», si complimentò il re che aveva assistito al duello.

«Grazie, sire», rispose, avvedendosi in quel momento che non c’erano più nemici da uccidere. I longobardi erano tutti caduti, incluso un ristretto numero di bizantini e il loro comandante, i soli ad aver combattuto e dato prova di valore. Era sopravvissuto soltanto Adelchi quando il re ordinò la cessazione delle ostilità. Levò il braccio per tacitare il boato di giubilo dei franchi, ormai convinto che il principe avesse perduto ogni velleità di battersi. Non volendo infierire ancora su di lui, si augurò che avesse il buonsenso di accettare la sconfitta.

Ma si sbagliava, perché ignorava in quale misura l’altro lo odiasse e quanto la smania di vendicarsi prevalesse su ogni altra considerazione. L’offesa che gli aveva arrecato rifiutando di battersi con lui era intollerabile e poteva soltanto essere lavata col sangue. A questo scopo Adelchi tentò di nuovo di provocarlo e trascinarlo sul campo, senza avvedersi, accecato com’era dalla collera e dall’orgoglio, che Orlando non aspettava altro che d’infliggergli una sonora lezione. Sotto l’ondata di parole che cadevano su di lui come schegge acuminate e incandescenti, Orlando non resse più. Fremente, cercò lo sguardo del re per rivolgergli una muta, ardente domanda. Al cenno d’assenso subito si fece avanti, interrompendo la litania del principe e attirandone l’attenzione caracollando intorno col cavallo, sogghignando beffardo e impertinente. «Invece di blaterare misurati con me. Vediamo se hai davvero coraggio!» lo provocò sferzante.

Adelchi lo squadrò superbo. «Fatti da parte, lattante. Queste sono cose da uomini», replicò. «Questo lattante è capace di spedirti all’inferno così velocemente che tu non sapresti neanche come ci sei arrivato!» «Il tuo re ha davvero perduto l’onore se manda a combattere in sua vece i ragazzini.» «Stai parlando a vanvera, e solo perché hai paura di confrontarti con me!» «Ritirati finché sei in tempo. Ti avverto che sto per perdere la pazienza.» «Io l’ho già persa da un pezzo! Avanti, fatti sotto!» «Ti farò rimpiangere di avermi sfidato.» «Provamelo!» Fu creato spazio intorno ai due contendenti e Gano ne approfittò per accostarsi al re, preoccupato per l’esito del duello.

«Sire, richiamalo e lascia che sia io a battermi», disse. Il re lo guardò stupito. «Non posso credere che tu me lo chieda», rispose. «Forse ritieni che Orlando non sia all’altezza di questo confronto?» «No, sire. Tuttavia il ragazzo è ancora troppo inesperto e temo per la sua incolumità.»

«Se lo fi, il suo onore ne resterebbe compromesso e lui non ce lo perdonerebbe mai. Io credo che vincerà. Oggi ha combattuto assai bene.» Gano chinò il capo in segno di assenso e sospirò, preparandosi ad assistere a uno scontro che riteneva impari, malgrado il nipote avesse già dato prova di valore e ardimento. Presa distanza, Orlando e Adelchi spronarono i cavalli e si avventarono l’uno contro l’altro con tale violenza da venire quasi sbalzati di sella. Adelchi, ammaccato dal colpo, fece girare il destriero con una impennata, mentre Orlando proseguiva la corsa verso il dirupo. Il principe si lanciò all’inseguimento, gridandogli di fermarsi, al che Orlando eseguì una rapida giravolta e lo caricò. L’avrebbe potuto facilmente abbattere, ma non aveva fretta di concludere il duello. Si limitò a tranciargli l’elmo e il camaglio, procurandogli un taglio alla nuca. Rise della prodezza e tornò all’assalto, acclamato dai franchi e seguito con ansia dal re e da Gano, che ritenevano stesse giocando in modo pericoloso. Adelchi non era avversario da sottovalutare, soprattutto esacerbato com’era. Orlando però cominciava appena a divertirsi e riprese a stuzzicarlo, infliggendogli soltanto colpi leggeri, sufficienti a stordirlo e mortificarlo, nonché a fargli saggiare ciò che gli avrebbe potuto fare nel momento in cui avesse deciso di farla davvero finita. Il principe non riusciva che a sfiorarlo. A volte nemmeno lo vedeva, tanto Orlando gli sgusciava via rapidamente dopo aver portato a segno un altro colpo. Lui, invece, era coperto di ferite e ammaccature. Anche il naso era tumefatto per una botta assestata col piatto della spada, ma le ferite che più gli bruciavano erano quelle inferte al suo orgoglio. Si vedeva beffato da un ragazzo alle prime

armi e i continui affronti acuivano la sua cieca bramosia di vendetta, rinfocolavano la sua rabbia. Lo inseguiva urlando, girando a vuoto, rendendosi conto che il cavallo era ormai esausto e che pure lui cominciava a essere a corto di energie, ma determinato a continuare quel gioco sanguinoso finché uno di loro fosse crollato morto. Ciò che più lo infuriava era il sorriso di Orlando. Un sorriso beffardo e crudele che gli errava sulle labbra e gli traboccava dagli occhi. La sua sicurezza di vincere sortiva un effetto deleterio su di lui. Lo comprendeva, e tuttavia non poteva sottrarsi per il suo onore.

Poi Orlando si stancò di giocare. Spronò il cavallo e si avventò sul nemico per ingaggiare un duello in cui gli diede ulteriore prova di ciò che sapeva fare quando faceva sul serio. Adelchi riportò un’altra ferita, stavolta più grave, e la perdita di quel po’ di dignità che ancora gli restava. Durendal s’infilò sotto lo scudo, recidendone di netto la cinghia e strappandolo dal braccio. Lo scudo compì un breve volo e ricadde con clangore fra le rocce. Adelchi commise l’errore di distrarsi per seguirne la traiettoria e Orlando, questa volta, non glielo perdonò. Durendal, già arrossata dal suo sangue, si abbatté con un fendente mortale, tranciando ferro, carne e ossa, recidendo arterie. Il sangue sprizzò con tale forza dalla ferita da inondare lo stesso Orlando. Sul volto di Adelchi affiorò un’espressione incredula, sostituita poi dall’orrore. Stava morendo, e per mano di un ragazzo inesperto. Era la beffa più atroce che il destino potesse giocargli, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di esibire il suo cadavere e gloriarsi di averlo ucciso. Questo mai. Sebbene indebolito e sofferente, trovò ancora la forza di girare il cavallo e lanciarlo in un furioso galoppo verso lo strapiombo, ridendo come un pazzo. Intuendo le sue intenzioni, Orlando e un altro paladino lo inseguirono. La folle corsa tenne tutti col fiato sospeso, finché Orlando riuscì ad affiancarsi e afferrare le redini proprio pochi attimi prima che superasse il ciglio del precipizio, e producendosi in una acrobazia che suscitò esclamazioni di meraviglia, trascinò cavallo e cavaliere al sicuro.

L’altro non fu altrettanto abile e fortunato. Sospinto dallo slancio il suo destriero balzò nel vuoto, provocando la rovinosa caduta di entrambi. I loro corpi rimbalzarono sulle rocce sottostanti e si sfracellarono sul greto del torrente che scorreva nel fondovalle. Malgrado il fatale evento, l’esultanza per la vittoria di Orlando fu incontenibile. Mentre il cadavere di Adelchi veniva spogliato delle armi, i cavalieri afferrarono il giovane e lo issarono sugli scudi per portarlo in trionfo fra le acclamazioni delle truppe. In disparte, Carlo e Gano assistettero ai festeggiamenti con pacato distacco, rattristati dalla perdita di un valoroso. «Oggi Orlando ha dimostrato quel che vale», disse Gano con orgoglio. «Ma tu ne dubitavi», rispose il re con un leggero sorriso. «Merito il tuo rimprovero, sire, ma in me parlava l’affetto di un padre.» «E l’apprensione di una chioccia», lo canzonò, tornando poi a farsi serio. «A quanto ammontano le nostre perdite?» «Abbiamo perso due paladini, sire, e alcuni sono feriti in modo lieve.» «Un prezzo davvero basso da pagare per una vittoria di tale importanza. La causa longobarda è definitivamente perduta e l’astro di Adelchi è tramontato per sempre.» «Chi altri oserà farti la guerra, mio sire? Ormai hai sconfitto tutti i tuoi nemici.» «Qualcuno ci sarà, non dubitare. Ma intanto assaporiamo la pace finché durerà.» Lasciò scorrere alcuni istanti di silenzio mentre osservava divertito Orlando e Olivieri che scherzavano, poi si girò a guardarlo. «Bisognerà sostituire i caduti. La schiera dei pari non può restare incompleta.» «Lo so», annuì Gano, sfiorato da una vaga speranza. «Hai in mente qualche nome?» «Due, in particolare: Orlando e Olivieri. Oggi entrambi si sono dimostrati degni della nomina.»

«Non credi sia prematuro? Ci sono cavalieri più anziani e altrettanto degni di prendere il posto dei caduti.» «Forse», riconobbe Carlo, che ormai aveva deciso. «Tuttavia desidero che diventino paladini. Va’ a chiamarli. Li nominerò qui e subito.» Malgrado il disappunto, Gano obbedì senza altre obiezioni e poco dopo accompagnò i due giovani dal re, che posò sulle loro spalle il mantello azzurro e li nominò paladini sul campo.

15

Orlando si svegliò stordito e con un gran mal di testa, postumi di una nottata di festeggiamenti a seguito della designazione a paladino.

I suoi ricordi erano così confusi che rimase sorpreso di trovarsi in un letto che non era il suo e in compagnia di una ragazza. «Buon giorno», lo salutò lei, divertita dalla sua evidente confusione. «Chi sei e che ci faccio qui?» biascicò Orlando. «Stanotte dovevi essere più ubriaco di quanto sembrassi se neppure rammenti il mio nome», rispose imbronciata. «Scusa, ma ricordo poco o niente di quanto è successo.» «Sono Tilda, la danzatrice. Tu e il tuo amico Olivieri vi siete giocati a dadi la mia compagnia e tu hai vinto.» La danzatrice? s’interrogò Orlando, a cui la spiegazione non aveva chiarito le idee. «Ti ho vinto ai dadi? E nonostante la sbronza mi sono comportato bene?» «Sei stato fantastico!» «Sono lusingato, ma anche avvilito per aver dimenticato tutto.» «Posso rinfrescarti la memoria se lo desideri…» gli propose maliziosa, facendo scorrere lo sguardo sul suo corpo muscoloso.

«Ne sarei felice, ma temo che adesso non ce ne sia il tempo», sospirò.

Scivolò fuori del letto per infilare la tunica. In quel momento fu bussato alla porta e Orlando andò ad aprire, mentre Tilda scompariva sotto le coperte. Era Gano, che lo guardò severo. «Non sei ancora pronto? Non dirmi che ti sei scordato che dobbiamo partire per la Bretagna!» Il ragazzo avvampò, cadendo nella più totale confusione. «Io… ecco… il fatto è che ieri sera… ehm, abbiamo festeggiato e credo… credo d’aver bevuto troppo…» balbettò. Gano sorrise, divertito dal suo evidente imbarazzo, e si sporse per dare una sbirciata nella stanza. «Lo so, e scommetto che non sei solo.» «In effetti è così», confessò Orlando ancor più a disagio. Lo zio dovette fare uno sforzo per mantenere un’aria severa. «Ti concedo il tempo per dare l’addio alla tua bella e prepararti. Ti aspetto in cortile.» Gli voltò le spalle e se ne andò, lasciandolo ancora più stordito di prima, se possibile. Appena si riebbe, Orlando chiuse la porta e tornò verso il letto su cui si lasciò cadere con un sospiro e un lamento. «Povero me, sono rovinato.» Tilda riemerse dalle coperte. «Chi era?» «Mio zio Gano. Cielo, sono davvero nei guai! Avessi visto con che occhi mi guardava. Me la farà pagare.» «Povero tesoro, lascia che ti consoli…» Orlando fu tentato di resisterle, ma i suoi argomenti furono così persuasivi che capitolò nel giro di pochi istanti.

Quando si presentò in cortile, dove lo aspettavano Gano, Olivieri e i trecento scariti pronti a partire per la missione in Bretagna, Orlando si era alquanto ripreso, sebbene i postumi dei bagordi non fossero svaniti del tutto.

Notò con soddisfazione che Olivieri non era in condizioni migliori e che suo zio, al pari di tutti gli altri, aveva assunto un atteggiamento di assoluta indifferenza di cui gli fu grato. Con tutta la dignità di cui fu capace, raggiunse il cavallo che lo scudiero teneva e montò in sella. Le tempie continuavano a pulsare, ma almeno la nebbia che gli offuscava la mente si era diradata e ora ricordava, almeno in buona parte, ciò che era avvenuto la sera prima. Mentre si avviavano al o, si sforzò di rimettere ordine nei propri ricordi. La sera precedente il re aveva convocato una riunione a cui, per la prima volta, avevano preso parte lui e Olivieri nella loro nuova veste di paladini. Si era iniziato a parlare di pace, di come instaurarla e mantenerla, e a forza di progetti e di idee erano finiti col discutere di guerra, come se l’una e l’altra fossero inscindibili. Erano quindi giunti alla conclusione che non sarebbe stato possibile avere una pace stabile se continuavano a persistere focolai di ribellione sparsi in giro per l’Europa. Allora il re aveva parlato della Bretagna, un fazzoletto di terra affacciato sul mare che non rientrava sotto il dominio franco. Un territorio denso di foreste intricate e di difficile accesso, dove la popolazione viveva secondo tradizioni ancestrali, praticava l’antica religione e si procurava il necessario con la pirateria. Un luogo ostile e misterioso, soggetto alle incursioni dei vichinghi e degli angli, l’ultima enclave pagana in un mondo ormai quasi del tutto evangelizzato. Il re riteneva che fosse una minaccia per l’impero e voleva farne una propria marca, perciò aveva incaricato Gano di recarsi sul posto per una missione esplorativa presso i capi bretoni e proporre o imporre loro un’alleanza. Qualora la diplomazia fosse fallita, Gano aveva l’ordine di imporsi con la forza. Era una questione di sicurezza del regno. Come marca, la Bretagna avrebbe potuto essere controllata, sia pure concedendo una certa autonomia ai capi locali. Poi, in ambito più ristretto, la decisione era stata discussa nei dettagli. Gano aveva dimostrato, ancora una volta, la validità del suo sistema spionistico, fornendo preziose informazioni e rivelando la propria profonda conoscenza delle usanze tribali. Il re era stato molto soddisfatto e la missione era stata confermata. Gano, accompagnato da Orlando e Olivieri, più trecento scariti, sarebbe partito il giorno dopo.

Sciolta la riunione, i due ragazzi e altri compagni erano andati a festeggiare in una taverna. Avevano bevuto, cantato, riso, scherzato e ballato. Le ragazze erano giovani, carine e… disponibili, così Orlando e Olivieri si erano contesi Tilda, che li aveva sedotti con una sensuale danza, affidando ai dadi la sorte di chi dei due dovesse godere dei suoi favori. Orlando aveva vinto e si era ritirato in camera con lei, lasciando l’amico a consolarsi con un’altra. Adesso che si era ripreso dai vapori del vino, Orlando era in grado di ricordare la turbinosa notte trascorsa fra le braccia di Tilda, e nel rammentare ciò che aveva fatto si sentì quasi morire di vergogna. Era stata un’esperienza eccitante, tuttavia, e malgrado lo spiacevole senso di colpa si sentiva più adulto. Non che avesse intenzione di rifarlo, ma era sicuro che l’insegnamento di Tilda avrebbe potuto migliorare i suoi futuri rapporti con le donne. Gli venne spontaneo chiedersi se Alda avrebbe apprezzato la sua nuova disinvoltura. Alda era uno scrigno ricolmo di preziose gemme che nessuno, finora, era mai riuscito a dischiudere. Una creatura di tale bellezza e perfezione da fargli temere di contaminarla se soltanto l’avesse sfiorata. Se avesse desiderato farsi avanti e corteggiarla, l’avrebbe dovuto fare con tatto e cortesia, parlandole d’amore soltanto per metafore. Altera e inaccessibile com’era, lei si sarebbe concessa solo per un vero amore. Ma lui, dell’amore cantato dai bardi, in realtà sapeva nulla. «Stai ancora pensando a Tilda?» domandò d’un tratto Olivieri. «Sì», rispose Orlando, sentendosi colto in fallo. «Stavo tentando di rimettere ordine nella confusione che ho in testa.» L’amico fece una smorfia di sofferenza. «Non me ne parlare. Mi sento come se qualcuno mi avesse preso a randellate sul cranio. Dimmi, almeno ne è valsa la pena?» «Da quello che riesco a ricordare, direi di sì.» «Mi fa piacere, così la prossima volta la lascerai a me.» «Potrai stare con lei tutte le volte che vorrai. Io ho chiuso con Tilda.» «Oh, bella. E perché?» «Non voglio più frequentare taverne né ragazze di quel genere.»

«Ma sei hai appena cominciato!» «È vero, però ho delle aspirazioni più… elevate.» «Vuoi darti alla vita ascetica? Non mi sembri il tipo.» Orlando si adombrò. «No, hai ragione, ma non sono nemmeno tipo da frequentare ragazze di facili costumi.» «E che c’è di male? Tutti gli uomini lo fanno!» «E facendolo si degradano. Io vorrei… Ecco, io aspiro a qualcosa di diverso. Qualcosa che non sia soltanto l’ebbrezza di un momento.» «L’amore?» chiese Olivieri divertito. «Perché no? È un’aspirazione più che legittima.» «Credo che i fumi del vino non siano ancora dissipati del tutto, altrimenti non parleresti così. Ieri sera eri ben felice che Tilda fosse disposta a offrirti i suoi favori.» «Ieri sera, ma stamani vedo le cose sotto una luce diversa. Per un istante, prima che mi rivolgessi la parola, ho pensato ad Alda e mi chiedevo…» Olivieri sussultò come se l’avesse punto una vespa. «Mia sorella? Cosa c’entra lei in questo discorso?» «Lasciami finire…» «No! Tu lascia stare mia sorella! Come osi coinvolgerla nei tuoi pensieri licenziosi?» «Guarda che non stavo pensando a lei in quel modo. Posso assicurarti che la considero con il massimo rispetto. Alda è un angelo; non potrei mai contaminarla con pensieri impuri.» «Comunque, per te, Alda è terreno di caccia proibito.» «Potrei sapere per quale ragione?»

«Perché le spezzeresti il cuore.» «No, guarda che…» «Basta! Non voglio ascoltare altro. Dimentica mia sorella: lei non fa per te. Ci sono altre giovani donne altrettanto attraenti che sarebbero felici se tu le corteggiassi. Rivolgiti a loro, se sei in vena di comporre versi e suonare l’arpa.» Orlando rimase in silenzio, sconcertato e anche un po’ offeso dalla reazione che riteneva esagerata, ma non era tanto insensibile da non comprendere il desiderio dell’amico di proteggere la sorella, allontanando da lei ogni possibile fonte di dolore. Al posto di Olivieri, probabilmente avrebbe fatto lo stesso. «D’accordo», disse infine. «La nostra amicizia mi è troppo cara perché possa rischiare di perderla arrecandoti offesa.» «Mi dai la tua parola d’onore?» «Parola d’onore», dichiarò Orlando solenne. Proseguirono senza dirsi altro per un lungo tratto, poi Gano si girò sulla sella e fece segno a Orlando di raggiungerlo. Il ragazzo spronò il cavallo e gli si affiancò. Nell’osservarlo, lo zio si rese conto che Orlando era di malumore, ma non volle indagare e si limitò a impartirgli ordini. «Voglio che tu prenda quattro uomini e ci preceda verso il confine. Ti affido il compito di perlustrare il territorio e di venire a riferire subito se noterai qualcosa di sospetto, o anche d’insolito. Qualunque cosa ti possa apparire anomala, anche all’apparenza trascurabile, me la dovrai riferire.» «Come potrò rendermi conto di stranezze o anomalie? Non potrò riconoscerle se non saprò di cosa si tratta.» «Osserva, confronta, impara. Non esistono segreti che non possano essere individuati da un occhio attento.» Orlando, che guardava con diffidenza tutto ciò che esulava dal combattere, non esitò a esprimere la propria opinione. «Perché incarichi proprio me? Olivieri ne sarebbe senz’altro più capace. Manda lui.» Gano lo traò con un’occhiata severa. «Ti ho dato un ordine e voglio che sia

eseguito. Non intendo star qui a discutere. Obbedisci, e subito!» «Sissignore», rispose facendo voltare il cavallo e galoppando verso le retrovie. Ebbe il buonsenso di scegliere quattro degli scariti più anziani ed esperti, spiegando brevemente ciò che Gano aveva ordinato, poi si avviarono al galoppo e scomparvero nella foschia.

Lo strepito degli zoccoli si era appena smorzato, che Olivieri si staccò dalla fila per andare ad affiancarsi a Gano. «Dove va Orlando?» «L’ho mandato in esplorazione. Non voglio incorrere in sgradite sorprese.» Il ragazzo abbozzò un sorriso. «E come l’ha presa?» «La prenda come vuole», replicò Gano con una scrollata di spalle. Olivieri non fece commenti. «Posso restare qui?» chiese poi. «Certo», gli concesse. «Fammi compagnia.»

Orlando rimuginava sull’ordine che non aveva gradito e su molte altre cose, mentre alla testa della pattuglia procedeva a un lento galoppo cadenzato. Per come la vedeva, lo zio aveva voluto infliggergli una punizione per il ritardo con cui si era presentato quella mattina. Altrimenti, perché affidargli la perlustrazione di un territorio che non poteva riservare alcun genere d’imprevisto? L’avrebbe capito se si fossero già inoltrati in terra d’Armor, dove la presenza di tribù ostili avrebbe potuto rappresentare una minaccia, ma si trovavano ad appena poche leghe da Heristal e la strada non attraversava una landa desolata e selvaggia, ma una vasta regione popolata, con villaggi, città e guarnigioni. A suo avviso, le precauzioni di Gano erano prive di fondamento. Per molte e molte leghe ancora potevano considerarsi al sicuro e non c’era niente, in realtà, che potesse scoprire. Niente, se non l’insegnamento da trarre dalla lezione che gli era stata impartita.

Superate le città di Tertry e Quercy, imboccarono una strada secondaria che per brevi tratti seguiva la linea frastagliata della costa. La bruma che verso metà mattina si era diradata, ora tornava a infittirsi; una cortina greve, impregnata di salmastro e grondante umidità. Orlando si ò la mano inguantata sul volto. Un gesto di malcelato fastidio, oltre che dettato dalla necessità di tergerlo. Dopo ore non avevano incontrato che alcune carovane di mercanti, semplici viandanti e pellegrini diretti a Tours; neanche un segno, sia pure vago, che potesse destare allarme o sospetto. L’incarico sarebbe stato più semplice se avesse saputo cosa cercare, ma non aveva neanche un vago indizio su cui basarsi. A mano a mano che andavano avanti non fece che convincersi una volta di più che la perlustrazione non avrebbe avuto esito. Tuttavia, nonostante quella certezza, non lo sfiorò neanche l’idea di rinunciare. Avrebbe eseguito l’ordine fino in fondo, com’era suo dovere e perché era ciò che Gano si aspettava da lui. Ubbidendogli, eseguiva la volontà del re, al quale ogni considerazione personale era subordinata. Scese il crepuscolo. La luce filtrata dalla bruma divenne rossastra, poi color ametista. Fu allora che Orlando sentì odore di fumo. Proveniva da un punto vicino alla costa, e poiché non c’erano villaggi o abitazioni nella zona ne dedusse che si trattava di un accampamento. Anche gli uomini l’avevano fiutato. Di concerto, senza che ci fosse bisogno di dare l’ordine, si fermarono per annusare l’aria. Il fumo, mescolato alla nebbia, era praticamente invisibile, ma dall’intensità dell’odore giudicarono che fosse un accampamento piuttosto grande, con più fuochi, e ciò significava molti uomini. Orlando si consultò con gli scariti. «Conoscete qualche gruppo di nomadi così numeroso che si accampi abitualmente da queste parti?» «Nessuno, signore», rispose il più anziano. «Le popolazioni nomadi che conosciamo si spostano tutte verso sud, in questa stagione. Deve trattarsi di gente venuta dal mare.» «Potrebbero essere angli o vichinghi?» «Che siano gli uni o gli altri non fa differenza: sono comunque pericolosi. Non hanno attraversato il mare in così tanti per fare una scampagnata.»

«Ne sono convinto anch’io», convenne, cominciando a pensare che Gano avesse sospettato qualcosa del genere quando gli aveva dato quell’ordine. «Tu e Delmar tornate indietro ad avvisare il conte; io e Ranulfo ci avvicineremo per dare un’occhiata.» «Perdonami, signore, ma non credo che il conte approverebbe.» «Lo so, ma dobbiamo renderci conto dell’entità del pericolo.» L’altro lo scrutò dubbioso. «Ti limiterai a osservare, signore?» «Ma certo», rispose con un disarmante sorriso. «Cosa vuoi che facciamo in due?» «Va bene, ma come faremo a ritrovarvi?» «Se si tratta di nemici come penso, suonerò l’Olifante per avvisarvi e, appena avverrà l’attacco, mi getterò nella mischia. Se piacerà a Dio, ci rivedremo a battaglia finita. Adesso andate!» Mentre i due scariti si allontanavano al galoppo, Orlando e Ranulfo imboccarono un sentiero che si addentrava nel folto. Avanzarono al o, cercando di fare il minor rumore possibile. Fu arduo orientarsi nella nebbia e nell’oscurità, ma l’istinto di Orlando li guidò nella giusta direzione e poco dopo riuscirono a scorgere i bagliori dei fuochi da campo, vasto proprio come avevano supposto. L’eco degli schiamazzi si sentiva anche da quella distanza, segno che gli incursori erano talmente sicuri del fatto loro da non preoccuparsi di are inosservati. Orlando e Ranulfo lasciarono i cavalli nella macchia e si avvicinarono ancora per poter osservare meglio, strisciando fra l’erba alta.

«Riesci a distinguere chi sono?» chiese Orlando. «Angli», sussurrò Ranulfo. «A giudicare dal numero devono essere arrivati con una piccola flotta. Si stanno preparando ad assaltare i villaggi della costa.»

«Devono essere tutti ubriachi», osservò Orlando, notando la confusione che regnava nell’accampamento.

«Dopo aver bevuto diventano ancora più sanguinari. Speriamo che i nostri arrivino presto.» «Se conosco mio zio Gano, saranno qui a momenti.» Continuarono a spiare gli angli senza dirsi altro. Il vento aveva cambiato direzione e avrebbe potuto portare l’eco delle loro parole fino al campo. Gli angli eccedevano nel mangiare e nel bere, sghignazzando e berciando nella loro lingua aspra, che risuonava quanto mai primitiva alle orecchie di Orlando. A tratti si accendevano alterchi e i clamori aumentavano d’intensità, ma la cortina di nebbia non consentiva di vedere cosa avvenisse e gli uomini che si muovevano sulla spiaggia erano soltanto ombre dai contorni indistinti, sebbene gigantesche. D’un tratto una di quelle ombre si materializzò a poca distanza, facendo loro temere di essere stati scoperti. Orlando brandì il pugnale, pronto a scattare, ma Ranulfo gli posò la mano sul braccio e scosse il capo. L’uomo non li aveva visti e si era allontanato solo per soddisfare una necessità fisiologica. Il getto di orina sprizzò sulla sabbia, accompagnato da grugniti animaleschi, poi l’uomo sistemò le brache e se ne andò. Con una smorfia di disgusto, Orlando rinfoderò il pugnale. Trascorse dell’altro tempo. Ormai Orlando fremeva per l’impazienza di entrare in azione e quell’attesa gli parve interminabile. Poi, finalmente, li sentì.

16

Un rombo dapprima sommesso, come l’annuncio in sordina di un temporale, poi si trasformò nel fragore di una tempesta. I cavalieri irruppero, sbucando dalla nebbia come una marea ferrigna, simili a creature infernali su cavalli fumiganti. Orlando diede fiato all’Olifante, diffondendo intorno il proprio ferale messaggio. Bastò quel suono spaventoso a gettare nello scompiglio l’accampamento degli angli. Credendolo generato da qualche misteriosa e demoniaca creatura, si misero a correre qua e là come forsennati, senza sapere in qual modo affrontare la minacciosa presenza. La loro reazione fu ancora più confusa quando i cavalieri piombarono al galoppo nel campo, devastando e uccidendo. Orlando smise di suonare per balzare in sella. Impaziente di lanciarsi nella mischia, partì al galoppo senza aspettare Ranulfo. Da come si stavano mettendo le cose, la battaglia non si sarebbe protratta a lungo e non voleva perdere l’occasione di battersi. Ebbe appena il tempo di emettere un altro sonoro richiamo con l’Olifante che si trovò coinvolto nei combattimenti. Gli angli opponevano un’ostinata quanto poco efficace resistenza. Nonostante la superiorità numerica non riuscivano a contrastare i franchi e tanto meno a respingerli. Si difendevano con rabbia, ma cadevano come mosche. Il tratto di spiaggia che occupavano era disseminato di cadaveri e di feriti agonizzanti. La nebbia vorticava nel bagliore delle fiamme, rossa di sangue e di furia, echeggiante di grida d’incitamento, nitriti e lamenti, risonante di ferro e scalpitare di zoccoli. Come sempre, Orlando si muoveva a proprio agio in quello scenario di morte. Avanzava aprendosi varchi a colpi di spada in mezzo alla massa confusa di corpi, falciando gli avversari con terribili fendenti. Non era uno scontro fra cavalieri, ma una brutale carneficina. Non c’erano regole, non c’erano scambi di

cortesie, nemmeno un barlume di comportamento cavalleresco, e tuttavia pur nell’atto di uccidere Orlando era in tutto e per tutto un cavaliere. Assestò un fendente al barbuto, gigantesco guerriero che gli si era parato dinanzi con un’ascia enorme, e quando cadde squarciato si cercò un altro avversario, scoprendo che non ce n’erano. Mentre si guardava attorno con Durendal stretta nel pugno e l’oscuro fuoco del combattimento negli occhi, fu raggiunto da Gano, anche lui coperto di sangue.

«Li abbiamo annientati», annunciò con un sorriso ferino. «Guarda, le loro navi alla fonda stanno bruciando. Ho mandato degli uomini a incendiarle.» Il giovane strinse gli occhi irritati dal fumo per scrutare in direzione del mare, dove la flottiglia degli angli si stava consumando in un rogo spettacolare. Poi girò lentamente il capo verso di lui. «Era questo che volevi scoprissi quando mi hai mandato in perlustrazione? Tu sapevi cosa avrei trovato, non è così?» Gano ò la mano sul volto, trasformato in una maschera grottesca da tracce di sangue, fango e nerofumo, e accentuò il sorriso. «Non lo sapevo; lo sospettavo soltanto. Volevo fossi tu a darmene la prova, e devo dire che ci sei riuscito.» «Non sarebbe stato più semplice se mi avessi avvertito?» «Sì, ma non intendevo facilitarti il compito. Mi proponevo di saggiare il tuo comportamento di fronte a una situazione imprevista.» «Ho superato l’esame?» «In modo brillante. Forse ti sorprenderà, ma non mi aspettavo niente di meno da te.» Era un elogio, senza dubbio, e gli fece piacere. «Sono contento di non averti deluso.» Gettò attorno un’occhiata e rinfoderò la spada. «Quante perdite abbiamo subito?» «Ancora non so, ma spero non molte. Ah, ecco Olivieri.» Il giovane paladino conduceva per le briglie il cavallo e si era fatto scivolare

sulle spalle il camaglio. Teneva l’elmo sotto il braccio e indirizzò loro un sorriso. Il mantello azzurro era insudiciato e strappato, ma anche così malridotto conservava intatta la sua valenza simbolica. Si fermò accanto al cavallo di Orlando e alzò il capo per guardare l’amico, posandogli la mano sul ginocchio. «Sono contento di rivederti, fratello», lo salutò, usando per la prima volta il termine che implicava il legame da cui erano uniti. «Anch’io», rispose Orlando, comunicando con gli occhi ciò che le sue labbra tacevano. Un muto messaggio che l’altro comprese. Gano ne fu lieto, malgrado la lieve trafittura di sofferenza che avvertì. Sapeva quanto fosse importante lo spirito di fratellanza che univa i paladini e quanto ciò costituisse un legame ancora più forte col re, che ne era il vertice. La consapevolezza che il nipote avesse trovato in Olivieri un amico fraterno suscitò in lui un sentimento di gioia e di conforto. Si sentì chiamare da un cavaliere e si girò. «Cosa vuoi?» «Cosa ne facciamo dei loro feriti, signore?» «Bisogna ucciderli. Non ci possiamo permettere di fare prigionieri.» «E dei nostri? Alcuni non posso reggersi in sella.» Gano guardò Olivieri. «Devi occupartene tu. Li scorterai a Heristal con cinquanta uomini. Riferisci al re quanto è successo e digli che sistemerò la questione a modo mio. Lui sa cosa intendo.» «Questo significa che mi tagli fuori dalla missione», osservò il giovane. «È inevitabile. Mi dispiace, ma non si può fare altrimenti. Orlando e io andremo avanti con gli scariti.» Olivieri assentì, cercando di nascondere la delusione. «Allora non mi resta che augurarvi buona fortuna.» Gano sorrise. «E ce ne vorrà parecchia per attuare il piano che ho in mente.»

Mentre Olivieri organizzava il trasporto dei feriti, Gano e Orlando, con i duecento scariti rimasti, si misero in marcia verso la Bretagna. «Quali sono le tue intenzioni?» chiese Orlando quando si accamparono. Erano seduti davanti a uno dei fuochi accesi nella radura e avevano appena finito di mangiare. Poco lontano uno degli uomini aveva preso l’arpa e suonava. La melodia, dolce e malinconica, colmava l’aria di note cristalline. «Non te lo dirò, almeno per ora», rispose Gano. «Come mai tanto mistero?» «Il fatto è che non sono ancora sicuro che il mio piano sia attuabile. Tutto dipenderà da ciò che mi diranno le guida bretoni che dovremmo incontrare più avanti.» «Se dici così, ho il sospetto che sia un piano pericoloso.» «Infatti lo è. Tieni conto che agiamo per conto del re, ma senza aver ricevuto ordini precisi.» Orlando sogghignò. «Il che significa che un eventuale fallimento ci procurerà dei guai.» «È un rischio più che accettabile. Se dovessi ricevere un rapporto negativo non se ne farà niente.» «Ti piace svolgere questo genere di incarichi?» «Fa parte del mio lavoro, che è servire il re al meglio delle mie possibilità. Non sempre è un lavoro pulito, ma se occorre non mi tiro indietro.» «Hai mai ucciso qualcuno in modo non… leale?» Gano lo fissò. «Vuoi sapere se sono capace di trasformarmi in un assassino?» Orlando annuì. «Se posso evito di sporcarmi le mani in prima persona. Si può sempre assoldare un sicario che agisca al mio posto, ma non esiterei a uccidere per il bene del

regno.» «Immagino sia per questo che non sei più un paladino. In tale veste ti sarebbe stato impossibile agire nell’ombra.» Un sorriso sfumato d’amarezza apparve sulle labbra di Gano. «La mia abilità nel gestire la rete spionistica del re mi è stata fatale. Non nego di avere rimpianti per non essere più tra i pari, ma la mia attività riveste una grande importanza e ne vado fiero.» «Non hai mai desiderato altro?» «Che mai potrei desiderare?» «Non lo so. Forse una vita diversa, lontano dalla corte, magari più semplice ma ricca di affetti famigliari. Tuo figlio non lo vedi che di rado, per non parlare di tua moglie.» Gano scosse il capo, senza neanche il bisogno di riflettere. «Non vorrei una vita diversa per niente al mondo», dichiarò. «Mia moglie fa ciò che le piace e non sente la mia mancanza. In quanto a Baldovino… lui è cresciuto più con i tutori che con me, ma non si è mai lamentato. Ora è un uomo e presto si creerà una famiglia sua. Non ho altri doveri nei suoi riguardi. D’altronde, non ho mai coltivato legami profondi con altri, eccettuato il re. Per lui, sarei pronto a morire.» «Perché ti sei fatto carico di adottarmi e istruirmi?» «Perché sei figlio della mia povera sorella e perché me l’ha chiesto il re. Ma anche perché nessun altro avrebbe potuto, o voluto, assumersi questa responsabilità.» «Sempre e soltanto per dovere, quindi.» «Soprattutto per dovere.» «Mai, neanche una volta, hai agito per una ragione diversa?» «Se è accaduto, è ato così tanto tempo che non lo ricordo.»

Orlando restò in silenzio. Anche il suonatore d’arpa aveva smesso di suonare e i soli rumori che si sentivano erano sommessi, ovattati, così lievi da far risultare ingigantiti il crepitare dei fuochi e i richiami degli uccelli notturni. Gli uomini si sistemarono per dormire, mentre le sentinelle si disponevano a montare la guardia. Pure Gano si coricò, coprendosi col mantello, ma con gli occhi socchiusi guardò Orlando, ancora intento a fissare la danza capricciosa della fiamma e a seguire il corso dei propri pensieri. Gli aveva detto più cose di sé di quante ne avesse mai raccontate ad altri in ato, eccettuato il re, ma gli aveva taciuto la cosa più importante: l’affetto che provava per lui. Neppure a suo figlio voleva così bene, e non sapeva spiegarsene la ragione. Ignorava da quale fonte segreta scaturisse quell’amore paterno che aveva negato alla sua progenie, ma esisteva e si era profondamente radicato. Poco importava che Orlando non lo ricambiasse nella stessa misura o che non lo ricambiasse affatto. In lui, con il suo carattere ombroso e ribelle, con l’irruenza e la rabbia che covava dentro, riconosceva se stesso adolescente come non si era mai riconosciuto in Baldovino. Ravvisava, nel carattere di Orlando, i tratti salienti del proprio carattere, che il tempo e la dedizione alla causa del re avevano pian piano smussato. Tuttavia, lo zelo con cui si dedicava a impartirgli l’insegnamento non era dovuto soltanto a ciò che di lui conosceva, quanto piuttosto a ciò che di lui ignorava e che gli restava precluso, confidando che sarebbe infine riuscito ad aprire una breccia nel suo animo schivo. Un’impresa che non considerava impossibile, malgrado gli ostacoli che frapponeva Orlando. Scivolò nel sonno prima di accorgersi che il nipote si era allontanato. Appena fuori dal cerchio luminoso dei fuochi, Orlando fu avvolto dall’oscurità, accentuata dalla fitta nebbia. Ancora pochi i e anche l’ultimo residuo di bagliore scomparve. Camminò per parecchio tempo prima di decidere di sedere a ridosso di un tronco rugoso, stringendosi nel mantello. Abbandonò il capo all’indietro, avvertendo contro la nuca la ruvida corteccia. Riaffiorò il ricordo delle fiabe che sua madre gli raccontava quando era piccolo. Storie di fate, maghi e incantesimi, di creature magiche e misteriose che intessevano sortilegi. Elfi, gnomi e nani custodi di immensi tesori, mostruosi troll delle foreste, e orchi che divoravano i bambini. E draghi enormi che eruttavano fuoco, come quelli che popolavano i suoi sogni.

Come quello che dimorava nel suo cuore. Lasciò vagare lo sguardo intorno, senza vedere altro che nebbia, senza sentire altro che suoni sommessi, sussurri e fruscii. Chiuse gli occhi, immaginando di trovarsi ancora a Faro, nei boschi che circondavano il suo castello, ma scoprì che il ricordo si era già appannato, diluito dagli avvenimenti che avevano cambiato la sua vita. Persino il viso di sua madre non era che uno sbiadito riflesso di ciò che era stato. Se n’era andato da Faro da meno di un anno, ma sembrava che fossero trascorsi secoli. D’altronde, come tutti i giovani, anche Orlando era proiettato in avanti, verso il futuro, smanioso di afferrarlo e farlo proprio. Non esistevano ostacoli che potessero arrestarlo. Nemmeno la morte gli incuteva timore. Un pensiero che neanche lo sfiorava, poiché come tutti quelli della sua età Orlando si credeva invulnerabile e immortale.

Giorni dopo, arrancando nella foresta di Brocelandia, Orlando poté farsi un’idea di ciò che significava la parola impenetrabile. Era necessario aprirsi un varco a forza, recidendo e spezzando rami, conducendo i cavalli per le briglie. Era un luogo fitto di ombre e di mistero, dove si perdeva la nozione del tempo e in cui la luce stentava a filtrare ed era comunque un chiarore diluito, come se la foresta fosse immersa in un perenne crepuscolo. Persino per lui sarebbe stato arduo orientarsi se non ci fosse stato Gano, che affrontava l’impervio e intricato percorso senza incertezze. Non avevano ancora incontrato le guide bretoni, né si erano imbattuti in qualche indigeno, ma ciò non voleva dire che il loro arrivo fosse ato inosservato. Anzi, Gano riteneva che già da un pezzo qualcuno li spiasse, perciò procedeva guardingo e vigile.

Essendo la selvaggina varia e abbondante, erano riusciti ogni giorno a procurarsi della carne fresca. Anche l’acqua non scarseggiava e spesso, sul loro cammino, incontravano ruscelli e laghetti dove ristorare se stessi e i cavalli. In quei punti la vegetazione si diradava abbastanza da lasciar filtrare il sole, creando spettacolari

riverberi di luce, guizzi baluginanti che sembravano prodotti da specchi magici. Un incanto naturale e molto suggestivo. Sostarono, dopo una marcia protratta per ore, sulle sponde di un piccolo lago. Fra le ombre verdi e nere, inframmezzate da screziature dorate, si dissetarono e fecero abbeverare i cavalli. Aleggiava una bruma sottile sul pelo dell’acqua, vapori perlacei che si spandevano all’intorno, attorcendosi sinuosi fra le contorte radici e gli arbusti. Affidato il cavallo a uno scudiero, Gano si allontanò, costeggiando il laghetto, per dirigersi verso le formazioni rocciose che emergevano dall’acqua e dalla bruma, dando l’impressione di essere sospese. Camminando, scrutava davanti a sé con sguardo attento. Orlando volle seguirlo, spinto dalla curiosità più che dal desiderio di fargli compagnia. «Cosa stai cercando?» chiese nel raggiungerlo. Gano gli fece segno di tacere e proseguì verso le rocce, somiglianti alle vestigia di un antico castello, per aggirarne il perimetro. Pochi i più avanti si apriva un oscuro antro. L’umidità che stillava dalle scabre pareti formava piccole pozze sul terreno erboso, che recava tracce del aggio di qualcuno. Gano indugiò a studiarle qualche istante, poi portò le mani alla bocca ed emise un segnale modulato. Poco dopo dalla cavità uscì un uomo vestito con pelli di pecora, con barba e capelli lunghi, il cui aspetto allarmò Orlando, che d’istinto serrò la mano sull’elsa della spada. L’altro però sorrise nel farsi loro incontro e il saluto che scambiò con Gano dissipò dalla mente del giovane ogni sospetto. Parlarono un linguaggio incomprensibile a Orlando, che li osservò in disparte con la fronte aggrottata, irritato per essere stato escluso dal dialogo. Sebbene non muovesse neanche un muscolo, il suo sguardo penetrante finì con attirare l’attenzione dello zio, che con un sorriso di scusa si decise a fare le presentazioni. «Questo è Erland», disse indicando l’uomo, «venuto a portarci le notizie che aspettavamo.» Poi indicò lui. «Orlando d’Anglante, mio nipote e paladino del re.» Orlando ricambiò con un cenno il saluto dell’altro. «Cosa vi siete detti?»

«Erland mi ha appena riferito che le navi ci aspettano in una piccola insenatura a una ventina di leghe da qui. Ha tardato a raggiungerci perché lui e i suoi uomini hanno incontrato qualche difficoltà a procurarsele.» «Quali navi?» Gano sorrise. «Quelle che ci servono per compiere un’incursione sulle coste degli angli.» «Ma noi non siamo uomini di mare», obiettò il giovane. «Possiamo essere tutto ciò che vogliamo, se è necessario. E, data la situazione, lo diventeremo.» Orlando sembrò dubbioso, ma non mosse obiezioni. «Vado a dire agli uomini che ci rimettiamo in marcia. Immagino che tu voglia partire subito.» «Infatti», annuì Gano. «Dovremo agire in modo tempestivo se vogliamo che il fattore sorpresa funzioni.»

Rivedere il sole dopo essere stati immersi per giorni nell’ombra verde smeraldo della foresta ebbe un effetto abbagliante e frastornante insieme, dovuto anche all’immediatezza con cui sbucarono dal folto e venendo a trovarsi di fronte a una distesa di sabbia candida, lambita dalle onde crestate di spuma e illuminata da una luce cruda che ferì i loro occhi. Sostarono alcuni istanti per riabituarsi, battendo le palpebre come creature notturne davanti a un falò, e prendendo nota delle quattro navi alla fonda a pochi i dalla riva: veloci e snelli scafi vichinghi, drakar.

Gli uomini che erano a bordo agitarono le braccia nell’avvistarli. Erland e Gano risposero e iniziarono a scendere il leggero pendio, seguiti da Orlando e dai soldati. Era stato deciso che i cavalli sarebbero rimasti sulla spiaggia, affidati agli scudieri in attesa del loro ritorno. Mentre scendevano in una nube di polvere, Orlando si affiancò a Gano. Gettò

un’occhiata a Erland che li precedeva, poi si girò verso lo zio. «Non comprendo lo scopo di questa scorreria», sussurrò. «Anche se non conosco in dettaglio gli ordini del re, dubito che includessero questa possibilità.» «Non era inclusa, ma neppure esclusa. Stiamo per infliggere agli angli una lezione che non dimenticheranno, e prima di tornare a sbarcare sulle nostre coste ci penseranno seriamente. Molto seriamente.» «Ma non sono i soli a compiere atti di pirateria. Anche i vichinghi, gli scoti e i danesi si spingono fin qui per razziare.» «Che vengano. Da ora in avanti non avranno più a che fare con gente indifesa. Troveranno noi ad aspettarli, armati e determinati a ricacciarli da dove sono venuti. E i bretoni ce ne saranno grati.» «Abbiamo bisogno della loro riconoscenza?» «Certo, perché ci faciliterà i rapporti con loro. Dobbiamo aprire una breccia nel muro di diffidenza che hanno eretto contro gli stranieri, e questo è un efficace mezzo di ottenerlo.» «Spero che tu sappia quello che fai.» «È così. Fidati.»

17

Le bianche e vertiginose scogliere della Cornovaglia destarono nei franchi grande stupore. Si stagliavano come una muraglia sullo sfondo del cielo azzurro, quasi abbaglianti nel loro candore. Stormi di gabbiani si libravano nell’aria tersa, che risuonava di striduli richiami. Sciamavano sulla scogliera e avano a volo radente sulle navi, la cui chiglia frangeva le onde sollevando trine di spuma.

Gli uomini di Erland evitarono abilmente di lasciarsi risucchiare dalle vorticose correnti, mantenendo i vascelli a distanza di sicurezza. Le manovre, sempre eseguite con perizia, avevano infine rassicurato Orlando, che fin dal primo momento in cui era salito a bordo aveva rimpianto di aver lasciato la terraferma e il suo fido cavallo per quell’avventura marinara. Navigare non gli si confaceva, tuttavia l’esperienza non mancava di aspetti positivi da cui trarre utili insegnamenti. Inoltre, non soffrendo di alcun disturbo provocato dal continuo beccheggio della nave, trascorreva la maggior parte del tempo sul ponte, affacciato al parapetto, incurante del vento che lo sferzava e degli spruzzi salmastri che lo investivano. Quel mattino, quando le ripide pareti della bianca scogliera erano apparse davanti alle navi, per un attimo gli era parso di intravedere una massa scura ergersi a strapiombo sul mare: la visione, fugace come un miraggio, di una fortezza. Aguzzando la vista aveva tentato di metterla meglio a fuoco, ma l’apparizione era già svanita, lasciandogli la sensazione d’averla soltanto immaginata. Poi la nave aveva compiuto un balzo in avanti, sospinta dal vento, e si era allontanata. Impossibile, da quella distanza, riuscire a discernere qualcosa annidato sulla muraglia. «Stiamo per doppiare la punta», l’avvisò Gano che gli si era affiancato. «Erland dice che arriveremo in vista del nostro obiettivo verso il tramonto.»

Orlando si girò. «Cosa ci stiamo preparando ad assaltare?» «Una città fortificata. Un covo dei pirati angli.» «Vuoi assediarla?» «Non sono così stupido. Intendo snidarli e affrontarli in campo aperto. Quando vedranno bruciare le loro navi alla fonda, si precipiteranno a vedere cosa succede se noi saremo là ad aspettarli. Un piano semplice ed efficace.» «Speriamo che funzioni.» «Ti ho mai dato l’impressione di essere uno che si lancia in un’impresa senza aver calcolato tutto?» «No, però c’è sempre una prima volta.» Gano non se la prese e sorrise. Guardò verso l’estremità della scogliera che si protendeva come la prora di una nave sulle acque agitate e la indicò. «Hai visto il castello fantasma lassù?» Il giovane annuì, ripensando alla fugace visione avuta poco prima. «Ho visto qualcosa, in effetti, ma troppo indistinto per definirlo.» «Era Tintagel, il castello della regina Igraine. Suo marito era Lot, re di Cornovaglia, ucciso da Uther Pendragon quando si invaghì di lei e gliela volle portar via. Dalla loro unione nacque Artù.» «Quello di Merlino e di Excalibur?» «Proprio lui. Di Tintagel non ci sono altro che rovine, ormai, ma dicono che ogni tanto compaia ai naviganti che incrociano in queste acque in tutto il suo antico splendore. E di notte brilla di mille luci, tanto da attirare le navi e farle naufragare sugli scogli.» «È soltanto una leggenda.» «Vero, però anche tu pensi d’aver visto qualcosa.» «Non era che una massa scura, indefinibile. È probabile che fossero le rovine

che dicevi, ammesso che Tintagel sia mai esistito.» «Ci sono davvero i resti di un castello lassù, anche se non è certo che sia il castello di re Lot. Ma la gente di qui vuole credere che lo sia e lo chiama con questo nome. D’altronde, non è certo che siano esistiti un mago chiamato Merlino, la fata Morgana, né la Dama del Lago che diede la spada Excalibur a Uther Pendragon. E se tu credi che la tua spada sia stata forgiata da un angelo, puoi anche credere che un tempo sia vissuto un grande re che si circondava di dodici cavalieri eletti e che li radunava intorno alla Tavola Rotonda.» «Dodici pari come i paladini», osservò Orlando, suo malgrado affascinato. Si erano intanto allontanati dalla punta del corno da cui prendeva il nome la regione. Ora stavano addentrandosi in fitti banchi di nebbia. «Questa non ci voleva», dichiarò Orlando. «Al contrario, ci favorirà. Così nessuno potrà vederci arrivare», replicò Gano. «Ma com’è possibile orientarsi?» «Erland e i suoi sanno il fatto loro. Non ti preoccupare.» Orlando non era altrettanto ottimista. Se le navi fossero andate a incagliarsi sugli scogli, non avrebbero avuto alcuna possibilità di salvarsi. Tuttavia, malgrado i suoi timori, la navigazione proseguì tranquilla. Ammainate le vele, i vascelli procedevano a remi, guidati dagli esperti piloti che, fra l’altro, avevano il compito di non perdere il contatto fra le navi. Trascorsa un’ora o poco più, Erland si avvicinò per parlare con Gano. Un rapido conciliabolo in quella lingua incomprensibile sotto gli occhi attenti di Orlando, che si sforzò senza successo di capire ciò che dicevano e che tentò di indovinare dalle loro facce se c’erano buone o cattive notizie. Poi Erland si allontanò e Gano si rivolse a lui con un ampio sorriso. «Tra poco entreremo nel porto degli angli. Tieniti pronto.» «Io sono sempre pronto.»

Dopo il breve scambio di battute accadde tutto così in fretta che Orlando ebbe la sensazione di trovarsi afferrato da un vortice. Gli arcieri scagliarono frecce incendiarie sulle navi alla fonda nella baia. Decine di fuochi divamparono, accendendo di bagliori la nebbia e il pallido crepuscolo, riverberando sulle acque. Dalla città fortificata si levarono grida d’allarme. I vascelli accostarono ai moli e i soldati franchi si affollarono per sbarcare, mentre un nugolo di guerrieri urlanti si riversava dalla porta spalancata e calava verso di loro lungo il pendio. Gano e Orlando, ciascuno al comando di cento uomini, si precipitarono incontro all’orda lanciando il grido di guerra dei franchi. Si scontrarono sul tratto pianeggiante davanti al porto. Un impatto violento e selvaggio nel quale gli angli caddero subito a decine. Orlando perse il contatto con Gano, ma proseguì coi suoi uomini in un’avanzata inarrestabile e letale, lasciandosi dietro una scia di morti. Tutti gli angli in grado di combattere erano usciti per difendersi e la città era sguarnita. Il varco offerto dal portale tuttora spalancato era un invito troppo allettante perché Orlando non si sentisse invogliato a tentare un colpo di mano. Al centro del turbine Orlando trascinò dietro di sé i soldati, aprendosi un varco a colpi di spada, accompagnato dal fragore della battaglia che infuriava. Qualcuno però dall’interno intuì le sue intenzioni e si affrettò a richiudere i battenti. Orlando tentò di impedirlo lanciandosi verso il portale, ma arrivò troppo tardi e per la rabbia prese a menare fendenti contro il legno e le borchie di ferro con tale impeto da squarciarlo in più punti, provocando una pioggia di scintille e spaventando a morte quanti si erano asserragliati. Un manipolo di angli si avventò su di lui per fermarlo, ma fu bloccato e sterminato dai soldati franchi. Orlando continuò finché il portale cominciò a cedere. Le borchie si spezzarono sotto i fendenti di Durendal e il legno si frantumò. Incurante delle schegge, Orlando non smise fino a quando il portone fu abbattuto e si schiantò al suolo. Con un grido d’esultanza Orlando si lanciò nel varco e con un pugno di uomini conquistò la città. Nel vedere lo stendardo degli Anglante sventolare sul pennone Gano sorrise.

Lo videro anche gli angli superstiti e furono presi dallo sconforto, ma non deposero le armi finché il loro capo cadde sotto i colpi di Gano.

Quando il giorno dopo la flottiglia prese il largo, la città fortificata degli angli era un cumulo di macerie fumanti. Le loro navi, quelle che non erano affondate, ridotte a inutili relitti. Ripartirono con molti ostaggi e un ricco bottino da consegnare al re, insieme alla promessa che non ci sarebbero state altre incursioni sulla costa della Bretagna e del regno franco. Gano non si fidava della promessa, ma per il momento gli poteva bastare. Adesso la sua mente era rivolta ai vichinghi, la cui minaccia non era metaforica. Prevedeva che sarebbero presto sbarcati in forze sulle coste bretoni e si prefiggeva di approntare una solida difesa con i rinforzi che gli avrebbe procurato Olivieri. Purché fossero arrivati in tempo. Il forte vento di maestrale li sospinse velocemente verso la costa della Bretagna e, al momento dell’approdo, trovarono Olivieri e trecento soldati ad aspettarli. «Non volevo credere alle mie orecchie quando gli scudieri mi hanno detto che eravate salpati per un’incursione contro gli angli», disse durante il caloroso scambio di saluti. «È stata un’idea di Gano», spiegò Orlando con un sorriso. «Un piano che definire audace è poco, ma che ha avuto successo.» «Lo vedo», annuì il giovane adocchiando gli ostaggi radunati sulla spiaggia e i forzieri appena sbarcati. «Il re si rammarica di non essere potuto venire, ma sono giunte notizie di una rivolta dei sassoni ed è partito per il nord.» «Vitichindo?» «Sempre lui.» «C’era da aspettarselo», commentò Gano. «Non danno alcun valore ai giuramenti.» «Questa volta riceveranno un castigo esemplare.»

«Se il re avesse lasciato che uccidessi Vitichindo, anni fa, adesso il problema sarebbe risolto.» Olivieri si strinse nelle spalle. «Credo che voglia sistemare la questione a modo suo, senza uccidere Vitichindo e costringendo i sassoni a sottomettersi e a convertirsi. Ma noi, nel frattempo, che facciamo?» «Innanzi tutto mandiamo gli ostaggi e il bottino a Heristal con una buona scorta, poi aspettiamo che arrivino i vichinghi. Dopo gli angli, daremo una lezione anche a loro.» «Raccontatemi cos’è successo.» Riferirono l’impresa con abbondanza di particolari e Orlando non perse l’occasione di vantarsi per aver conquistato la città fortificata praticamente da solo, dopo averne abbattuto il portale a colpi di spada. Olivieri non ne fu sorpreso, perché ormai le gesta di Orlando erano cosa nota, ma fu il racconto del castello fantasma di Tintagel da lui intravisto sulle bianche scogliere della Cornovaglia a destare la sua meraviglia. «Questa mi pare una storia di gran lunga più interessante», dichiarò. «La voglio conoscere.» «Non ne so molto, a parte ciò che mi ha detto Gano. Credo sia meglio lasciarla raccontare a lui.» Gano lo accontentò e prese a parlare di Tintagel, della bella regina Igraine e di re Lot, di Uther Pendragon e del mago Merlino, addentrandosi in quella vicenda dai risvolti leggendari che aveva il potere di affascinare chi la ascoltava. La suggestione che esercitava diventò ancora più evidente quando gruppi di uomini lasciarono i bivacchi per avvicinarsi ad ascoltare. Erano tutti rapiti dalla magia che Gano sapeva evocare. Non meno degli altri Orlando, che malgrado rifuggisse da tutto ciò che si scontrava col suo senso pratico era vittima pure lui dell’incanto. Continuò a pensarci anche dopo, mentre i fuochi languivano e il campo era immerso nel silenzio. Disteso sotto il mantello, cullato dal mormorio della risacca e dal sussurro del vento, rimase a lungo sveglio a contemplare il cielo stellato e a chiedersi se era possibile che nella vita di un uomo potesse trovare posto un amore così grande da scatenare una guerra.

Solo se era un pazzo, concluse fra sé prima di addormentarsi.

All’alba i vascelli di Erland erano pronti a salpare. Gano compensò in modo generoso gli equipaggi e lo stesso Erland, che nel congedarsi gli assicurò che sarebbe tornato volentieri a servirlo, se ne avesse avuto bisogno. «Mi ricorderò della tua promessa», rispose Gano. Poi, mentre gli snelli navigli prendevano il largo, andò a dare istruzioni per la partenza degli ostaggi e del bottino destinati al re. Alle prime luci il convoglio si mise in marcia. Adesso non restava che aspettare l’arrivo dei vichinghi, se come gli avevano riferito i suoi informatori quella era la stagione in cui compivano incursioni con scadenze regolari. Le vedette avevano l’ordine di dare il segnale appena avvistate la navi e lui, nel frattempo, avrebbe posto le basi per la futura collaborazione con gli abitanti del luogo. Impresa che si rivelò più ardua del previsto, quando la piccola delegazione capeggiata da Gano ricevette un’accoglienza decisamente ostile e trovò le porte della cittadella sbarrate.

«Tornate da dove siete venuti, stranieri!» intimò un anziano dall’alto delle mura. «La vostra presenza è una profanazione alla nostra terra!» «Veniamo in pace», rispose Gano. «Siamo qui per offrirvi la protezione del re dei franchi.» «Non riconosciamo l’autorità del vostro sovrano e non ci serve la sua protezione», replicò l’altro.

«Lascia almeno che ti spieghi…»

«Andatevene!» tuonò l’uomo, e a far da eco alle sue parole sulle mura apparvero degli arcieri con le frecce incoccate. Gano non sottovalutò la minaccia e ordinò ai suoi di ritirarsi. «Gliela diamo vinta così facilmente?» sibilò Orlando. «Almeno per il momento», sorrise Gano. «In fondo non mi aspettavo che ci spalancassero le porte, conoscendo la loro naturale diffidenza nei confronti degli estranei. Questa è gente fiera di cui bisogna guadagnarsi la fiducia.» «Ci hanno trattato come dei pezzenti!» «Dimostreremo loro che si sbagliano.»

arono alcuni giorni di calma, scanditi da un’attesa che presto si fece snervante, poi arrivò il segnale. Dalla sommità di uno sperone di roccia una delle vedette avvistò le navi. Gano la raggiunse per avere conferma e anche lui scorse le sagome scure che solcavano le onde a vele spiegate. «Eccoli che arrivano», osservò con un sorriso. «Riesco a contarne una decina, e tu?» «Dodici, signore. Navi vichinghe, a giudicare dalla forma e dagli scudi appesi alle fiancate.» «Bel lavoro», annuì. «Andiamo a riceverli come meritano.» Le navi erano ormai state avvistate anche dalla spiaggia e i soldati agli ordini di Orlando e Olivieri si stavano già preparando. Al ritorno di Gano stavano arretrando verso il folto, dove sarebbero rimasti nascosti fino al momento dell’attacco. Ogni traccia dell’accampamento era stata cancellata con cura, in modo che niente potesse rivelare la loro presenza. I vichinghi dovevano sbarcare senza il minimo sospetto.

I drakar si avvicinarono rapidamente alla spiaggia in uno scintillio minaccioso di scudi, spade e asce. Il mare parve ribollire sotto le chiglie che ne fendevano le onde. Alla vista dei guerrieri ammassati sui ponti, Orlando comprese come potessero destare terrore nelle popolazioni soggette alle loro sanguinose scorrerie. Quei giganti irsuti, la cui ferocia era leggendaria, portavano morte e distruzione come un flagello biblico. Un lontano suono di campane avvertì i franchi che l’orda era stata avvistata dalle torri di guardia disseminate sulla scogliera. Era il segnale che chiamava la gente a raccolta e l’esortava ad affrettarsi per raggiungere la cittadella per mettersi al sicuro. Uno scampanio pressante che, nonostante la distanza, diede ai franchi la misura di quanto quei predatori fossero temuti. Celati fra le ombre dense della macchia, gli arcieri erano pronti con le frecce incoccate e aspettavano l’ordine di Gano. Orlando e Olivieri fremevano d’impazienza. Erano distanti, ciascuno al comando di un reparto di soldati, con Gano al centro con il grosso delle forze e degli arcieri. Gli agili vascelli scivolarono sulla superficie del mare fino ad arenarsi sulla spiaggia. La torma urlante di vichinghi sbarcò, sciamando sull’arenile e dirigendosi a o di corsa lungo il pendio. Al comando un omaccione dall’elmo adorno di corna, armato di ascia e mazza ferrata, con al fianco una spada enorme. Lo schieramento si allargò, offrendo un bersaglio ideale. Gano diede l’ordine. La scarica di frecce partì con perfetta sincronia. Salì verso il cielo e, con una parabola discendente, ricadde sibilando sui vichinghi, trafiggendo quelli che formavano la linea più avanzata. Non il capo, però, che si protesse con lo scudo sul quale andarono a configgersi tre dardi. Mentre si levavano grida di sconcerto e d’agonia, un’altra scarica di frecce si abbatté sullo schieramento più arretrato, mietendo altre vittime. Il panico dilagò nell’orda. I vichinghi superstiti e i feriti lievi fecero dietro-front e si precipitarono verso le navi, nonostante le urla del loro capo, infuriato per essere caduto in una trappola. Ma prima che riuscissero a salire a bordo, i franchi uscirono allo scoperto e si

lanciarono all’assalto con una manovra di accerchiamento. Ormai circondati, i vichinghi furono costretti a combattere. Incitati dal capo, che fra un colpo di mazza e uno d’ascia abbatteva i soldati come una sorta di gigante Golia, i vichinghi riuscirono a procurare ai franchi un buon numero di perdite. Il terreno brulicava di combattenti come un formicaio. Ovunque c’erano cadaveri e feriti agonizzanti. Lamenti e grida si mescolavano al fragore del ferro e agli incitamenti. L’aria si era fatta acre per l’odore del sangue. Orlando, al centro della mischia, abbatteva nemici con mortali fendenti. Esaltato dal furore e dalla consapevolezza della propria superiorità, si permetteva di dichiarare a ogni avversario dove l’avrebbe colpito. Si divertiva a giocare con ciascuno come un gatto col topo. E lo era, agile come un felino. E altrettanto veloci e letali erano le sue zampate. Solo che non le infliggeva con gli artigli, ma con la lama di Durendal, grondante di sangue, vibrante d’energia propria, smaniosa quanto il braccio che la brandiva di recidere il filo della vita di quanti si facevano avanti. Orrendi fiori purpurei sbocciavano dove la lama affilata cadeva. Schizzavano frammenti ossei e fuoriuscivano poltiglie che erano stati viscere. Corpi mutilati e teste mozzate formavano lo strascico che lasciava dietro di sé nella propria inarrestabile avanzata. Olivieri non gli era da meno. Già ne aveva sterminati a decine e ancora seminava morte col sorriso sulle labbra e un canto di guerra nel cuore. Si incontrarono infine sul campo di battaglia, affrontando insieme gli ultimi nemici, e vollero dar prova di valore e ardimento, come se fosse una gara di destrezza e non una lotta per la vita. La battaglia continuava, sebbene con minor furia, perché ormai si stavano spegnendo anche gli ultimi focolai di resistenza e i combattenti erano stremati. Ma finché il capo non avesse dichiarato la resa o fosse caduto, nessuno avrebbe deposto le armi. Perciò i franchi seguitavano a martellarli senza tregua, sicuri della vittoria e della loro forza. Orlando scrutò attorno a sé alla ricerca di altri avversari, senza però trovarne. Si accorse che Olivieri non era più al suo fianco e con la spada stretta nel pugno

vagò nel campo di battaglia su cui stavano calando le prime ombre della sera e dove si udivano quasi soltanto lamenti e deboli richieste d’aiuto. Aveva lo sguardo annebbiato e stanco, ma il vento gli recò il suono di uno scontro distante da lì e si affrettò per giungervi prima che si concludesse. Qualcuno, tuttavia, si erse davanti a lui e gli sbarrò la strada. La sagoma gigantesca, quanto mai minacciosa, aveva le vesti imbrattate di sangue. E sangue gocciolava dalle armi che serrava nelle mani enormi. Occhi di brace fissarono Orlando, mentre a gambe divaricate lo fronteggiava. «Sono Gunnar e tu mi renderai ragione dei miei valorosi guerrieri che hai sterminato!» Un sorriso di scherno increspò le labbra di Orlando. «Devi proprio essere stanco di vivere se osi sfidarmi», replicò sprezzante. «Dà un’occhiata in giro e pensaci bene. Vuoi fare la stessa fine anche tu?» «Io ti ucciderò, perché il loro sangue reclama vendetta!» ruggì quello. La risata di Orlando risuonò ingigantita dal silenzio. Anche gli echi degli ultimi scontri si erano spenti e non si udiva altro che il mormorio della risacca. «Allora fatti avanti», rispose. Gunnar si avventò su di lui con un ruggito, pronto a colpire. Orlando non batté ciglio e aspettò immobile fino all’ultimo istante, poi guizzò di lato. Trascinato dal proprio impeto il vichingo perse l’equilibrio e cadde. La scure si conficcò in un pezzo di legno tanto profondamente da rendergli impossibile estrarla e la mazza gli sfuggì di mano. Orlando non esitò ad approfittarne per calare su di lui un tremendo fendente. La lama affondò nel collo come una mannaia, troncando la testa di netto. Il giovane guardò il cadavere che sussultava, il sangue che zampillava sulla sabbia, e sorrise. «Adesso potrai raggiungere i guerrieri che ti hanno preceduto nel tuo inferno, se ne avete uno. Buon viaggio, Gunnar!»

18

Intorno ai bivacchi, quella notte, non si udirono racconti intrisi di magia, né canti o risate, ma soltanto la struggente melodia dell’arpa fece da sottofondo alla tristezza che gravava sull’animo di tutti. Nessuno aveva voglia di festeggiare la vittoria riportata sui vichinghi, poiché troppi erano gli amici e i compagni d’arme caduti nella battaglia. I pochi prigionieri, radunati ai margini della foresta, erano strettamente sorvegliati. Gano li aveva risparmiati solo perché sperava che potessero fornire utili informazioni e si riservava di interrogarli personalmente. I cadaveri di entrambe le parti erano stati trasportati a bordo delle navi a cui era stato appiccato il fuoco, prima di essere sospinte al largo. Un provvedimento dettato da motivi puramente pratici, sebbene avesse provato una certa ripugnanza nel mescolare i propri morti a quelli, assai più numerosi, del nemico. Gano aveva poi ordinato che anche le navi rimaste fossero incendiate, in modo che non restasse più traccia dei predatori venuti dal nord. Per ore il fuoco era arso consumando il fasciame, inerpicandosi come una serpe sugli alberi e divorandoli, emanando bagliori così intensi da poter essere visti a grande distanza. Era esattamente ciò che si augurava mentre assisteva al rogo. Se quel fuoco fosse stato interpretato come un segnale, ci sarebbero state presto delle visite. «Sei sicuro che verranno?» chiese Orlando per l’ennesima volta. «Verranno, puoi starne certo», rispose Gano gettando altra legna nel fuoco. «E se ti sbagliassi?» «Non mi sbaglio mai», dichiarò serafico. «È tardi. A quest’ora dovrebbero essere già qui.» «Se non sarà stasera, verranno domani, ma non c’è dubbio che arriveranno. Dopo tutto, siamo i loro salvatori.»

«Considerando l’accoglienza che ci hanno riservato, potrebbero volerci giorni prima che si decidano. Per quanto hai intenzione di aspettare?» «Per tutto il tempo che sarà necessario. Mettiti seduto e calmati. Non serve agitarsi.» Olivieri, che aveva assistito in silenzio al dialogo, sorrise. «Orlando non ha ancora smaltito l’eccitazione della battaglia. Guarda, ha scavato un solco a forza di andare avanti e indietro.» L’interessato sbuffò. «Che posso farci se non riesco a stare fermo?» Gano alzò il capo e lo guardò. «Allora fa’ qualcosa di utile e controlla i prigionieri. Accompagnalo, Olivieri, non vorrei che infilzasse qualcuno per placare le sue smanie.» «Se fosse dipeso da me non ne avrei lasciato vivo neanche uno», replicò Orlando. «Lo so, ma per fortuna non sei tu ad avere il comando. Quei prigionieri ci servono vivi, quindi tieni a freno i tuoi istinti omicidi.» I due giovani si erano appena allontanati quando arrivò una delle guide bretoni. «Sta succedendo qualcosa», avvertì. «Non so esattamente cosa, ma forse dovresti venire a vedere.» Gano balzò in piedi. «Andiamo.» Dovettero farsi largo in mezzo agli uomini radunati per guardare. Alcuni indicavano un punto in direzione della scogliera e si scambiavano commenti in cui si mescolavano sconcerto, curiosità, e un certo nervosismo. La ragione di quella inquietudine fu chiara a Gano non appena poté avere la visuale libera. Il bretone puntò l’indice. «Ecco perché ho voluto che venissi a vedere», disse. «Cosa ne pensi?» Un piccolo corteo scendeva lungo il sentiero facendosi luce con delle fiaccole. Era formato da uomini e capeggiato dall’anziano che li aveva cacciati via quando si erano presentati alle porte della cittadella.

Gano sorrise. «Si sono decisi, finalmente», osservò compiaciuto. «Io torno al mio bivacco. Tu va’ a incontrarli e conducili da me. Bada che nessuno dia loro fastidio.» Orlando e Olivieri avvistarono il corteo nel momento in cui entrava nell’accampamento. I soldati si aprirono per lasciarlo are. «Gano aveva ragione», commentò Orlando. «Sono venuti, proprio come aveva previsto.» «Ne dubitavi?» «In effetti sì», ammise. «Questa non è gente che concede facilmente la propria amicizia.» «Non è detto che ci considerino amici, ma li abbiamo salvati e forse ce ne saranno grati.» «Torniamo indietro, voglio sentire ciò che diranno.» Raggiunsero il bivacco di Gano qualche istante prima che arrivasse la rappresentanza cittadina e aderirono al tacito invito di porsi ai suoi fianchi, curiosi di conoscere meglio quel popolo così fiero delle proprie tradizioni da rifiutare altezzosamente l’introduzione di altre usanze e rifuggire ogni contatto con genti diverse. Al giungere del capo e del suo seguito ci fu uno scambio di convenevoli. La guida bretone fece le presentazioni e Gano invitò i delegati a sedere. Nonostante la leggera tensione sembrava fossero ben disposti e ciò lasciava presagire sviluppi positivi. La maggior sorpresa l’ebbero quando il capo ò dal proprio linguaggio a parlare in lingua franca. Gano gli rivolse un cenno d’apprezzamento e l’altro annuì con solennità. «Oggi ci avete reso un grande servizio», disse. «Vi siamo riconoscenti per averci salvati e sentiamo il dovere di dimostrarlo in modo concreto. In qualità di rappresentante eletto del mio popolo, vi porgo il benvenuto nella nostra terra e vi

informo che siamo disposti a valutare le vostre condizioni. Non è stato facile raggiungere un accordo e ci sono volute molte discussioni, ma la maggioranza è incline ad accettare con favore la vostra presenza sul nostro territorio.» Era una grande vittoria, Gano lo sapeva, ma non lasciò trapelare la propria soddisfazione. «Ci state chiedendo protezione, se ho capito bene.» «A voi, che rappresentate il gran re Carlo dei Franchi, ci rivolgiamo per avere protezione. Siamo pronti a sottoscrivere un trattato d’alleanza che vi consenta di stabilire dei presidi militari e di avere il controllo delle coste. In cambio, vogliamo garanzie che verrà rispettata la nostra autonomia. La Bretagna non dovrà diventare una provincia franca.» Era esattamente ciò che il re si era prefissato, tuttavia Gano non volle lasciar intendere che fosse cosa facile da ottenere. Farli stare un po’ sui carboni ardenti non avrebbe fatto loro male. «Si dovrà discutere col re, prima di prendere ogni decisione, e non vi posso assicurare che accetterà le vostre condizioni. Mantenere delle guarnigioni in questo territorio avrà dei costi elevati. Inoltre, se saranno permanenti, bisognerà che vengano a stabilirsi anche le famiglie.» «Dite al re che avrà la nostra collaborazione, anche per quanto riguarda il mantenimento delle truppe e delle loro famiglie. Le scorrerie dei pirati ci hanno arrecato danni enormi e da anni non riusciamo a dormire tranquilli con questa minaccia sospesa sul capo. La vostra presenza ci permetterà di ricominciare a vivere.» «Porteremo la vostra offerta al re, avete la mia parola, e sarà mia premura farvi sapere al più presto ciò che è stato deciso al riguardo.» Il capo lo guardò dritto negli occhi. «So che siete un uomo di parola e mi fido di voi, così come si fida il grande re, che altrimenti non vi avrebbe dato questo incarico.» «Sono lusingato», rispose Gano abbassando il capo per nascondere un sorriso compiaciuto. Si congedarono di lì a poco, dopo un ulteriore scambio di promesse d’amicizia, e mentre il corteo dei bretoni lasciava l’accampamento, accompagnato dalla guida,

Orlando e Olivieri guardarono Gano, che ne ricambiò lo sguardo. «La missione è andata a buon fine», dichiarò. «Abbiamo ottenuto ciò che volevamo e anche di più. La Bretagna è nostra e da ora in poi la difenderemo dalle incursioni.» Lo disse non senza orgoglio, consapevole del merito che aveva per il successo dell’impresa e che andava ad aggiungersi ad altri già acquisiti in precedenza. Era impaziente di tornare a Heristal e di comunicare al re l’esito positivo del proprio lavoro, eseguito come sempre con zelo e felice intuizione. Non c’era maggior ricompensa per lui del vedere il re soddisfatto, ma stavolta si aspettava di vedersi assegnata la marca di Bretagna come giusto premio e non dubitava che avrebbe ottenuto quel riconoscimento. Lo sperava per suo figlio Baldovino, più ancora che per se stesso, che lo rimproverava per l’assenza di ambizione, cosa che giudicava riprovevole in un vassallo che aveva dedicato l’intera esistenza al servizio del re e aveva contribuito ad aumentare il prestigio del regno. Baldovino, al contrario, era provvisto di una smisurata ambizione e voleva primeggiare, emergere, brillare di una luce tale da abbagliare tutti, e non importava se accadeva per merito d’altri, purché accadesse. Non era il figlio che avrebbe voluto, ma era il suo erede e riteneva di dovergli qualcosa.

19

Spiravano forti venti di guerra nella Spagna soggiogata dai mori e il re si preparava a un intervento in forze.

Sebbene la Sassonia non fosse del tutto pacificata e sottomessa, e non lo sarebbe mai stata finché l’inafferrabile Vitichindo non fosse stato catturato o ucciso, i paladini e le armate erano stati richiamati. Durante la tregua che intercorse fra una spedizione e l’altra, il re e la corte si erano trasferiti a Chasseneuil, vicino a Poitiers, e fu lì che Gano, Orlando e Olivieri, di ritorno dalla Bretagna, li raggiunsero.

L’ombra di una nuova campagna militare non turbò più di tanto i festeggiamenti che furono organizzati in loro onore. Banchetti, danze e tornei allietarono la corte e il popolino, al quale il re non fece mancare la sua parte di divertimento. Fu l’occasione per Orlando di rivedere Alda, a cui aveva pensato con intensità davvero insolita durante la lunga assenza. Si videro una prima volta, ma solo di sfuggita, a un banchetto. Niente più che uno scambio di sguardi e qualche furtivo sorriso, ma abbastanza da attizzare il latente fuoco che si era tempo addietro. Fu una serata memorabile, densa di avvenimenti e di emozioni. Seduti al fianco del re, Orlando e Olivieri si trovarono al centro dell’attenzione, in specie quando ebbe luogo il brindisi al successo ottenuto in Bretagna che re Carlo attribuì a loro con un’enfasi che Gano giudicò esagerata. Non fu il solo, poiché pure Baldovino la pensò allo stesso modo. Colui che era stato il vero artefice di quel brillante risultato si trovò messo in ombra dai due giovanissimi paladini. Ebbe tuttavia un’altra ragione per cui dolersi, e fu soprattutto questa a ferirlo e a fargli ritenere di essere trattato ingiustamente.

Aveva accarezzato la speranza di essere nominato prefetto della marca di Bretagna, invece il re decise di assegnarla a Orlando, e quando ne diede pubblicamente l’annuncio Gano si sentì trafiggere dalla gelosia. Gli parve che con quel gesto il re lo privasse del proprio affetto, venendo meno al legame d’amicizia che li univa fin dall’infanzia. Suo figlio, incapace di comprendere il suo stato d’animo, rigirò il coltello nella piaga.

«Come ha potuto farti questo?» bisbigliò, mentre dai convitati si levavano gioiose acclamazioni. «Lui è il re e può fare tutto ciò che vuole», rispose, celando dietro un sorriso la propria amara delusione. «Ma è un affronto! Non ti accorgi che quel piccolo insolente sta prendendo il tuo posto? Ti sta derubando e tu lo accetti senza batter ciglio? Guardalo, sta facendo la ruota come un pavone e il re lo guarda in adorazione, neanche fosse suo figlio!» «Smettila! Non è il luogo né il momento per questi discorsi», gli sibilò Gano. Ma la velenosa insinuazione non cadde nel vuoto, perché Gano si mise a osservare con maggiore attenzione Orlando e il re. Li studiò come non aveva mai fatto prima e notò particolari che gli erano sfuggiti. La loro somiglianza risultò più evidente, così come l’atteggiamento che avevano l’uno verso l’altro, la complicità degli sguardi e quella corrente sotterranea che li univa. Cominciò a porsi delle domande e a intravedere un segreto sepolto nelle pieghe del ato, scoprendo d’improvviso l’impulso di svelarlo. Il veleno del sospetto e della gelosia iniziò la sua lenta ma devastante opera di corrosione. Non bastarono a placarlo l’abbraccio del re e le sue rassicurazioni. Il seme era stato gettato e aveva trovato un fertile terreno in cui germogliare. Giocolieri e artisti allietarono la serata in un’interminabile sequenza di esibizioni spettacolari, ma il culmine fu raggiunto al momento dell’apertura delle danze, quando finalmente gli scambi di occhiate, sorrisi e cenni furtivi avrebbero avuto il loro epilogo. Se idilli dovevano sbocciare, non ci poteva essere momento

migliore. Orlando non prese parte alle danze, sebbene lo desiderasse. Avrebbe voluto invitare Alda, ma la giovane era circondata da una schiera di ammiratori così numerosi che non osò farsi avanti. E poi temeva di contrariare Olivieri, che non sembrava favorevole a un loro rapporto. «Perché non ti getti anche tu nella mischia?» gli domandò il re con un sorriso. «Non c’è ragazza che non vorrebbe danzare con te, stasera.» «Non ne ho voglia», rispose Orlando con aria annoiata. «Lui preferisce un altro genere di mischia», intervenne Olivieri. «Non si addicono i movimenti aggraziati di una danza a un rude guerriero come lui.» «Più che rude, direi prode», lo corresse il re ridendo. «Ma davvero hai così facilmente ucciso il vichingo Gunnar? Mi hanno detto che era grosso il doppio di te e assai abile.» «Forse che Davide non atterrò e uccise Golia?» interloquì di nuovo Olivieri. «Se non l’avessi ammazzato io, l’avrebbe certo fatto qualcun altro. Non è stata un’impresa straordinaria come può sembrare», replicò Orlando. «Sei troppo modesto, ragazzo», dichiarò il re. «Lui modesto?» esclamò Gano, che si era avvicinato e aveva sentito l’ultima parte della conversazione. «Ma se non fa altro che vantarsi e gloriarsi delle sue imprese! Nessuno meglio di lui riesce a far apparire grandiosa anche la più insignificante azione di guerra. Eccolo lì, il prefetto della marca di Bretagna e appena fatto marchese, che se ne sta tutto tediato e sdegnoso. Ormai ci guarda tutti dall’alto in basso, è evidente!» Il tono acrimonioso non sfuggì a nessuno dei presenti, ma fu Orlando ad alzarsi per andargli vicino. «C’è qualcosa che non va, zio?» domandò con gentilezza. «No, che mai dovrebbe esserci? È una magnifica serata e ci stiamo divertendo un mondo.»

«Allora perché fai del sarcasmo?» Suo zio lo guardò con espressione innocente. «Io fare del sarcasmo? Non mi permetterei mai, in specie nei tuoi confronti e in presenza del re. Non hai un briciolo di senso dell’umorismo, ragazzo, e non capisci quando si scherza. Io, per l’appunto, stavo scherzando.» Orlando non riuscì a capire cosa stesse succedendo, ma era evidente che Gano ce l’aveva con lui per qualche oscuro motivo ed era intenzionato a scoprirlo. Però il re, avvertendo una crescente tensione fra i due, intervenne. «Ma certo che stava scherzando!» esclamò ridendo. «Tu non conosci bene Gano come lo conosco io e hai frainteso le sue parole. Gustiamo ancora una coppa di vino e non pensiamoci più.» L’episodio non ebbe seguito e la serata si concluse senza altri incidenti, ma Orlando continuò a interrogarsi sullo strano comportamento dello zio.

La taverna, quella sera, era più affollata del solito e i clienti facevano chiasso perché la principale attrazione ancora non si era fatta vedere. Battevano i bicchieri sui tavoli e minacciavano di volere indietro i soldi se Tilda, la danzatrice, non si fosse presentata subito. La padrona, preoccupata, trasse Brigida da parte. «Sali subito a chiamare Tilda, prima che questi energumeni mi sfascino il locale. Dille di scendere immediatamente se non vuole perdere il posto!» Brigida si affrettò a obbedire e andò a bussare alla porta della stanzetta in cui viveva la ballerina. Cercò di aprire, ma l’uscio era chiuso col paletto. «Ti prego, scendi! La padrona è furiosa e di sotto sta per scatenarsi un putiferio.» Batté più forte sull’uscio. «Fammi entrare!» Tilda si alzò dal pavimento su cui era inginocchiata e si ricompose. Con un piede spinse il bacile sotto il letto e pizzicò le guance per ravvivarle, poi andò ad aprire.

«Finalmente!» esclamò Brigida, scrutandola con le mani sui fianchi.

«Scusa, ma non riuscivo a trovare la mia collana preferita e tu sai che non ballo senza. È il mio portafortuna», rispose con un sorriso forzato. Ormai stava male da settimane e dubitava di riuscire a nascondere ancora a lungo il suo stato.

«Hai l’aria stravolta», osservò Brigida che aveva l’occhio acuto. «Sicura di star bene?» «Sto benissimo», affermò Tilda, facendo un o oltre la soglia. «Andiamo?» L’altra, però, intravide spuntare il bacile da sotto il letto e aggrottò la fronte. Prima che Tilda la potesse fermare entrò e lo trasse fuori. «E questo cos’è?» chiese con una smorfia. «Devo aver mangiato del cibo avariato», spiegò disinvolta. Brigida ricacciò il bacile sotto al letto e la raggiunse, prendendola per un braccio. «Non me la racconti giusta. Perché non mi dici la verità?» «Aspetto un bambino», sospirò Tilda. «Lo sospettavo», annuì Brigida. «Sei nei guai, ragazza mia. Quando la padrona lo saprà…» «Non ho intenzione di dirglielo, finché potrò evitarlo, e conto sulla tua discrezione.» «Sai almeno chi è il padre?» «Sì. È il giovane paladino con cui ho ato la notte tempo fa.» «Orlando?» esclamò Brigida. «Ne sei sicura? Scusa, ma dopo di lui ne sono ati altri nel tuo letto.» «Non ho avuto rapporti con altri uomini, dopo Orlando, perciò sono sicura che sia il padre del bambino.»

«E intendi farglielo sapere?» Tilda sorrise con amarezza. «Come credi che accoglierebbe una notizia del genere? Orlando è nobile e io sono soltanto una ballerina da taverna. No, me la caverò da sola. Ho messo del denaro da parte e potrò provvedere a me e al piccolo.» «Secondo me lo dovrebbe sapere.» «Non voglio. Giura che non ne farai parola ad anima viva!» «D’accordo. Prometto che terrò la bocca chiusa.»

Alla vigilia del torneo, Orlando ricevette l’inattesa visita di un’ancella di Alda. Malgrado la sorpresa, ebbe la presenza di spirito da farla entrare e richiudere la porta, in modo da evitare che qualcuno la vedesse e saltasse a conclusioni affrettate. «Donna Alda desidera incontrarvi e vi aspetta nel padiglione delle rose», lo informò. «Quando?» «Adesso», rispose la donna, e non aggiunse altro. Orlando aspettò che l’ancella si allontanasse, poi uscì a propria volta. Non era nuovo a inviti del genere, ma che Alda, sempre tanto riservata, gli avesse dato appuntamento era davvero inconsueto. Forse aveva deciso di prendere l’iniziativa nel rendersi conto che lui non avrebbe mai osato farsi avanti, trattenuto dalla timidezza e dalla promessa d’onore fatta a Olivieri. Ma ora che lei aveva fatto il primo o, Orlando era disposto a rischiare di mettere in gioco la loro amicizia, anche se si augurava con tutto il cuore che non si dovesse giungere a tanto. Tuttavia, nell’incontrarlo poco dopo, provò un certo imbarazzo.

«Ehi, dove te ne vai così di fretta?» chiese il giovane con un sorriso. «Devo… incontrare una persona», balbettò Orlando arrossendo. «Scommetto che si tratta di una donna.» «Infatti», annuì sempre più a disagio. «È un segreto o mi puoi dire chi è?» «Preferirei non dirtelo, almeno per ora.» Olivieri scoppiò a ridere. «Fammi indovinare… Si tratta di Alda?» Orlando lo guardò sconcertato. Negare sarebbe stato sciocco, oltre che inutile. «Sì, è proprio tua sorella», confessò. Se il fulmine doveva cadere, meglio che fosse subito. Il suo sconcerto si trasformò in genuina sorpresa quando l’amico gli posò le mani sulle spalle e continuò a sorridere. «Alda mi aveva parlato della sua intenzione di chiederti un incontro. Sembra che tu le abbia rubato il cuore e non potevo certo farla soffrire negandole il mio consenso. Va’ da lei, fratello. Avete tutti e due la mia benedizione.» «Davvero? Ma io credevo che tu…» «Lo so, ho cercato di scoraggiarti dal farle la corte. Però, se voi due siete destinati l’uno all’altra, non voglio mettermi in mezzo. Amo Alda perché è mia sorella, ma anche tu sei come un fratello. Come potrei dividere ciò che Dio e il destino potrebbero aver deciso di unire?» Orlando lo abbracciò di slancio. «Ti ringrazio. Ora mi sento l’animo più sereno.» L’altro si sciolse dalla stretta e gli diede una leggera spinta. «Va’, corri da lei, prima che si stanchi di aspettarti.»

Brigida aveva preso quella decisione d’impulso, malgrado la promessa fatta a Tilda, ma adesso che era giunta davanti a Heristal esitò a mettere in atto le sue

intenzioni. La residenza reale, così grande e imponente, la intimidì. Come poteva sperare di ottenere udienza da Orlando, o anche solo da un paggio o uno scudiero?

Mentre indugiava esitante, la sua presenza fu notata da una delle guardie, che le fece segno di avvicinarsi. «L’ingresso per la servitù è da quella parte», le disse. «Grazie, ma non sono una servente», rispose Brigida.

L’uomo la squadrò con malcelato interesse. «Be’, se intendi offrire qualche altro genere di servizio, temo dovrai tornare più tardi.» «Porto un messaggio per messer Orlando, il paladino, da parte della mia padrona.» Le parve una buona idea fingersi l’ancella di una dama. La verità l’avrebbe rivelata solo all’interessato. «Temo che non sia possibile. Messer Orlando non è a Heristal. Tutta la corte si è trasferita in un’altra residenza. Però, se mi dai il messaggio, sarà mia premura riferirlo.» Brigida cercò di celare la propria delusione dietro un sorriso. «Mi dispiace, ma non posso parlarne a estranei.» Gli fece un cenno col capo e se ne andò. Il comandante, che aveva assistito alla scena da una certa distanza, si affiancò alla guardia. «Cosa voleva quella ragazza?» «Parlare con messer Orlando, signore. Ha detto di essere l’ancella di una dama, però credo sia una bugia.» «La conosco», ridacchiò il comandante. «È una delle ragazze della taverna, giù al villaggio, e scommetto un mese di paga che le dame non le ha mai viste neanche di sfuggita.» Sospirò e tornò a ridacchiare. «Sai cosa credo? Che il

nostro prode paladino l’abbia messa nei guai e lei sia venuta qui con la speranza di riuscire a estorcergli del denaro. Se dovesse ripresentarsi, cacciala via.»

20

Il padiglione, che in primavera e in estate era completamente avvolto dalle rose rampicanti da cui prendeva il nome, si ergeva in un angolo appartato del giardino. La bizzarria delle sue forme, dovuta al capriccio del re, si notava soprattutto nei periodi dell’anno in cui i roseti erano sfioriti e appariva piuttosto incongruo all’interno di un complesso fortificato qual era il castello di Chasseneuil, dove le concessioni all’estetica erano praticamente inesistenti. Essendo quell’anno la primavera in anticipo, le rose erano sbocciate e ammantavano l’intera struttura fino al tetto dorato, inerpicandosi sulle snelle colonne e sulla balaustra, creando chiazze di colore nel verde e diffondendo intorno un intenso profumo. L’aspetto esotico della costruzione ò del tutto inosservato a Orlando, troppo preso dall’ansia dell’incontro e dal tentativo di scorgere Alda, celata al suo sguardo dall’intrico del roseto. La vide solo quando fu a pochi i e, sopraffatto dall’emozione, si fermò. Incantato dalla sua bellezza, non riuscì a far altro che guardarla. Neanche nell’infuriare della battaglia il suo cuore batteva tanto forte. Nessun nemico gli aveva fatto tremare a quel modo le ginocchia, né seccare la gola da renderlo incapace di proferire parola. Restò immobile e senza respiro così a lungo da convincersi di essere saldamente ancorato al terreno e di morire lì per mancanza d’aria. Lei sfiorava con dita lievi le corde dell’arpa, traendone note d’infinita dolcezza, e il suo sguardo era perduto in un modo interiore di cui nessun altro aveva la chiave. Ignara della presenza di Orlando, Alda incominciò a cantare.

Vorrei cacciar via la malinconia

Che strugge d’anima mia. Ma c’è un’eco di pianto nel mio cuore Perché stasera non verrà il mio amore. È partito di primo mattino lasciandomi Una rosa sul cuscino. Ora è apita e sfiorita. Nei suoi petali non c’è più vita. Sento il gelo traare il mio cuore Perché ho perduto per sempre il mio amore.

Interrompendosi d’un tratto volse il capo. Nel vedere Orlando sorrise e gli fece cenno di raggiungerla. Il giovane, riuscendo finalmente a scuotersi dall’estatica contemplazione, andò a sedere al suo fianco. «Continua a cantare, ti prego», la esortò. Alda scrollò il capo e posò l’arpa. «È solo una sciocca e triste canzone», sospirò. «Erano anni che non la cantavo.» «È triste, però è bella. Dimmi, perché lui se n’è andato?» «È partito per andare alla guerra. Non è ciò che fanno sempre gli uomini, nelle canzoni come nella vita?» Orlando sorrise e le prese la mano. «È vero, ma poi tornano dall’amata.» «No, non tutti tornano. Il cavaliere della canzone è uno di quelli che non farà ritorno. Cadrà in battaglia e lei lo piangerà fino a morirne. Ma adesso non parliamo di cose tristi che sciuperebbero questo momento felice.» Lui continuò a tenerle la mano, carezzandole le dita. Lasciò trascorrere alcuni

istanti di silenzio prima di riprendere a parlare. «Il tuo invito mi ha sorpreso. Perché hai voluto incontrarmi?» «Perché se non l’avessi fatto io, tu non avresti mai avuto il coraggio di chiedermelo. L’altra sera, al banchetto, non mi hai nemmeno invitata a ballare.» «Non ti sono certo mancati gli inviti.» «Non potevo rifiutarli, in specie vedendo che tu non avevi alcuna intenzione di farti avanti.» «Era ciò che più desideravo, ma ero intimidito e temevo di contrariare tuo fratello.» «Olivieri non sarà più un ostacolo. Gli ho parlato.» «Lo so. L’ho incontrato mentre venivo qui e mi ha liberato dalla promessa che gli avevo fatto.» «Spero che ti faccia piacere.» «Ne dubiti, forse?» Alda scosse il capo e i capelli le danzarono intorno al viso. «No, almeno non credo. A dire il vero ci conosciamo così poco… sappiamo così poco l’uno dell’altra.» «Avremo tanto tempo per conoscerci, da ora in poi.» Il bel viso di Alda tornò a farsi triste. «Non ce ne sarà molto. So che fra poco partirai, e temo che questa ennesima guerra sarà lunga.» Orlando sorrise, prendendole anche l’altra mano e baciandone il palmo. «Le campagne del re non sono mai tanto lunghe. Vedrai che sarò di ritorno prima di quanto ti aspetti.» «Ho paura lo stesso, ma non voglio pensarci. Non stasera. Domani ci sarà il torneo e sarà una giornata di festa.» «Giostrerò e vincerò per te. Dammi qualcosa che mi porti fortuna.»

«Non hai che da chiedere.»

Mentre gli scudieri lo vestivano per la giostra, Orlando accarezzò furtivamente la fusciacca di seta che Alda gli aveva dato. Era un pegno tangibile del suo amore e le aveva promesso che l’avrebbe portata sempre, non solo durante il torneo, ma anche in battaglia. In cambio, lei aveva voluto il suo anello col sigillo a forma di drago e Orlando gliel’aveva donato per suggellare il giuramento che si erano scambiati. Ancora non riusciva a credere di essere caduto vittima delle frecce di Cupido, lui che rifuggiva le ioni e i sentimenti, che aveva sempre considerato debolezza cedere agli impulsi del cuore. Invece, come già era accaduto per l’amicizia, era finito invischiato nelle maglie sottili e tenaci della rete che Alda aveva intessuto intorno a lui e di cui era ormai prigioniero. L’aveva avvinto a sé con dolci catene, spalancando di fronte a lui orizzonti inesplorati, conducendolo oltre la soglia di una dimensione di cui aveva ignorato l’esistenza. Ma tutto era avvenuto in modo naturale; la sua iniziale ritrosia, la freddezza di cui si era ammantato, si erano dissolte come brume estive quando, abbandonato nelle sue braccia, si era lasciato trascinare alla deriva. Era stato un sogno bellissimo che la luce dell’alba aveva cancellato soltanto in parte, e alcuni filamenti dorati del sogno gli erano rimasti nella mente e sulla pelle. Una sensazione che la morbidezza della seta accentuava. Venne a scuoterlo Olivieri, irrompendo nella tenda e avvertendolo che la giostra stava per cominciare. Soltanto allora Orlando sentì il chiasso che faceva il pubblico radunato sulle tribune e nei recinti e si alzò per cingere ben stretta la cintura sui fianchi e prendere la spada che uno scudiero gli porgeva. Non la leggendaria Durendal, ma un’arma dal taglio e dalla punta smussati, in modo da non arrecare gravi ferite agli avversari. Tutte le armi a cui si sarebbe fatto ricorso nella giostra erano poco più che giocattoli. «C’è molta gente là fuori venuta a vedere le nostre prodezze», aggiunse Olivieri sorridendo. «Sono pronto», dichiarò Orlando soppesando la spada, così lieve da sembrare fatta d’aria.

«Allora andiamo. Fra poco il re darà il segnale d’inizio.» Gli stendardi sventolavano sullo sfondo del cielo plumbeo, creando chiazze di vivaci colori. Nei recinti si accalcava una folla chiassosa e impaziente, non meno dei nobili che gremivano la tribuna. I campioni andarono a scegliersi una lancia tra quelle poste sulle rastrelliere, mentre gli scudieri attendevano con i cavalli e il maresciallo di campo cercava di far udire la propria voce al di sopra dei clamori, elencando le regole della gara come una monotona litania. Non meno eccitati dei cavalieri e degli spettatori erano i cavalli, che scalpitavano e sbuffavano, scrollavano le criniere e nitrivano. Tutti portavano ricche gualdrappe adorne di nappe dorate o argentate, ricamate con i simboli dei casati di appartenenza.

Squilli di trombe seguirono la conclusione del severo discorso del maresciallo di campo. I campioni montarono in sella e il re si alzò per dare il segnale d’inizio del torneo. Subito i contendenti raggiunsero le rispettive estremità del campo, poi partirono al galoppo, lancia in resta, scontrandosi con violenza proprio sotto la tribuna reale. Orlando spezzò la propria lancia contro lo scudo dell’avversario, disarcionandolo. Altre andarono in frantumi negli urti, in un vorticare di polvere che avvolse tutti i cavalieri nascondendoli per qualche istante alla vista del pubblico, che non per questo smise di urlare. Mentre il polverone si depositava, i cavalieri disarcionati furono accompagnati fuori e quelli rimasti in sella afferrarono le mazze per affrontare un altro duello. Il clamore della mischia si fece assordante per il rimbombo dei colpi. L’ entusiasmo salì al cielo. Orlando si vide piombare addosso un cavaliere che non riconobbe subito, mezzo accecato dal turbinio della polvere, ma che fronteggiò con l’impeto che gli era abituale, costringendolo a una difesa serrata. Ne riconobbe infine i colori e l’emblema e lo scambiò per Gano, ma scoprì invece che era Baldovino e rimase sconcertato dall’espressione che riuscì a leggergli sul volto. Non era la semplice determinazione a vincere lo scontro per dar prova di valore, ma sete di rivalsa.

Ne ebbe conferma da un colpo di mazza sferrato con l’intento di ferirlo e che riuscì a parare con lo scudo. La violenza dell’urto lo fece barcollare e infine cadere in ginocchio. Imbaldanzito, l’altro gli si scagliò addosso, rinnovando l’assalto con furore e costringendolo a ripararsi alla disperata. Erano nel mezzo della mischia, con cavalli scossi che galoppavano imbizzarriti fra i contendenti e aumentavano lo scompiglio, avvolti da una densa nuvola di polvere che impediva ai giudici di verificare le scorrettezze. L’iniziale stupore di Orlando si tramutò in autentica collera nel rendersi conto che l’avversario stava infrangendo le regole del torneo. Non aveva modo di attirare l’attenzione se non correndo il rischio di subire ferite gravi, poteva soltanto reagire. Si rialzò, respingendo la nuova carica con lo scudo, poi gli sferrò un colpo abbastanza forte da stordirlo. Baldovino vacillò, mentre un rivolo di sangue gli scorreva sulla tempia. Ritenendo il duello concluso, Orlando gli voltò le spalle per affrontare un altro avversario. Baldovino però non volle cedere e lo assalì alle spalle. Si levò allora un boato e col diradarsi della polvere, nonché la diminuzione dei duellanti, i giudici poterono finalmente avvedersi della grave infrazione alle regole. «Squalifica! Squalifica!» si sentì gridare. Ma Baldovino era ormai lanciato e non si fermò. Orlando si girò con un rapido guizzo, intercettò il colpo e si preparò a fronteggiare lo sleale avversario con aria di sfida. Una cappa di silenzio scese, improvvisa e raggelante. I duelli cessarono come dietro un muto comando, mentre il re, cortigiani e popolino guardavano i due al centro dell’arena, immobili a fissarsi con occhi di brace. Il silenzioso duello durò appena pochi istanti, ma bastò a far capire ai presenti col fiato sospeso che la contesa, sebbene conclusa in quella sede, avrebbe avuto ulteriori strascichi. Baldovino fu costretto ad abbandonare la tenzone, ma prima di lasciare il campo saettò uno sguardo torvo a Orlando, che lo ricambiò con altrettanto furore. Poco dopo, mentre nella sua tenda gli medicavano le ferite, Orlando ricevette la visita di Turpino. «Il re desidera sapere cos’è successo», disse.

«Non lo devi chiedere a me, ma a Baldovino», replicò il giovane. «O magari a Gano, che meglio di ogni altro conosce l’animo di suo figlio.» «Davvero non so spiegarmi come sia potuto accadere. Mai, prima d’ora, si era verificata una così aperta violazione delle regole cavalleresche.» «Di certo non sono io che posso spiegarlo. So soltanto che per qualche ragione che ignoro Baldovino ha tentato di uccidermi, o almeno di ferirmi gravemente. E sono stato fortunato a non aver subito danni.» I medici che avevano terminato il lavoro dichiararono che Orlando era in condizioni di continuare il torneo, sempre che i giudici non l’avessero squalificato. Turpino li congedò e chiamò uno scudiero affinché portasse dell’acqua. Mentre si dissetava, il giovane gettò un’occhiata penetrante al vescovo e la sua espressione gli fece temere di non poter proseguire. «Sono stato squalificato?» chiese, cercando di celare la propria ansia. «I giudici volevano farlo, ma il re lo ha impedito. Si è mostrato irremovibile al riguardo.» «E Gano che ha detto?» «Niente, ma è stato proprio il suo silenzio a destare le mie preoccupazioni. Da quando siete tornati dalla Bretagna non è più lo stesso. C’è qualcosa che lo rode.» Orlando sorrise e scrollò le spalle. «Gli erà, vedrai. Lo conosco e so che non è tipo da covare a lungo i suoi malumori.» «Spero che tu abbia ragione, ma ho un brutto presentimento.» Il giovane non ebbe modo di replicare, poiché il suono dei corni richiamò i campioni in lizza e dovette affrettarsi a raggiungere l’arena. Il suo arrivo venne accolto da un’ovazione equamente distribuita fra i nobili che affollavano le tribune, in specie le dame, e il popolo che si assiepava nei recinti e che il servizio d’ordine faticava a contenere. Montò in sella e rivolse un cenno di saluto, poi ricambiò il sorriso di Olivieri, che suscitava l’entusiasmo della folla femminile quasi quanto Orlando.

Ripresero i duelli, accesi ed esaltanti, e continuarono a oltranza, con Gano che atterrò con facilità i propri avversari e conquistò la sua parte di applausi e grida di giubilo. Olivieri non gli fu da meno, ma ancora una volta fu Orlando ad accendere gli animi, sconfiggendo tre cavalieri di fila e poi ritrovandosi ad affrontare i soli rimasti in sella: Gano e Olivieri. Lo spettacolo offerto dalla destrezza dei tre campioni fu all’altezza delle aspettative del pubblico, che li acclamò a squarciagola e li applaudì fino a spellarsi le mani. Furono i vincitori assoluti del torneo e come tali circondati di giubilo e portati in trionfo sugli scudi, dopo che il re ebbe dato l’ordine di interrompere la gara e di fare ritorno al castello. Era ormai pomeriggio inoltrato e un festoso quanto rumoroso corteo si formò sulla strada, transitando fra due ali di folla, una moltitudine che voleva vedere e salutare il re e faceva a gomitate per trovarsi in prima fila. Baldovino, sorretto dagli scudieri, si accodò in mezzo agli altri sconfitti, covando dentro di sé il rancore per la cocente umiliazione e maturando propositi di rivincita.

Tilda non si accorse che Brigida, dal vano dell’uscio rimasto aperto, la osservava da qualche istante. Continuò a infilare nella sacca da viaggio le sue poche cose, ripiegando con cura il vestito che indossava per danzare, e i suoi gesti erano accompagnati da un pianto silenzioso. «Te ne vai?» chiese infine, rivelando la propria presenza. Tilda si girò a guardarla e inghiottì le lacrime. «La padrona mi ha dato il benservito e vuole che entro stasera lasci libera la stanza.» «Hai un posto dove andare, qualcuno che si prenda cura di te?» «In qualche modo mi arrangerò; so badare a me stessa.» «Lo so, ma adesso devi pensare anche al bambino.» «Praticamente non faccio altro», sospirò Tilda sedendo sul bordo del letto.

«Forse te ne saresti dovuta liberare.» «Scherzi? Io lo voglio questo bambino!» Brigida andò a sederle accanto e le cinse le spalle col braccio. «Mia povera cara, un figlio sarà una complicazione in più. Lo dovrai crescere da sola, affrontando il giudizio della gente. Ho paura che tu non ti renda conto delle difficoltà che incontrerai.» «Non m’importa!» esclamò Tilda. «Sono pronta a fare qualunque sacrificio per il mio bambino.» «Che non conoscerà mai suo padre e che agli occhi di tutti sarà un figlio illegittimo. Un prezzo alto da pagare per una sola notte d’amore col tuo prode paladino, che fra l’altro ignorerà per sempre di avere un erede e a quest’ora ti avrà già dimenticata fra le braccia di un’altra donna.» «Ne è valsa la pena», sospirò Tilda con aria sognante. «Tu non sai quel che dici», la commiserò Brigida.

Sfumata l’eccitazione del torneo e della vittoria, dopo il rito del lavacro e il brindisi col re, che riservò a tutti parole di elogio, si fece sera ed ebbe luogo un altro banchetto. Orlando, colmato di onori, era al centro dell’attenzione. Sebbene il re non volesse manifestare troppo apertamente il proprio affetto e la considerazione in cui lo teneva, nessuno dei presenti ebbe dubbi sulla natura dei suoi sentimenti. In specie Gano e Baldovino, che una volta di più si sentirono defraudati e videro nel giovane un pericoloso rivale che minacciava la sicurezza della loro posizione a corte.

Se Baldovino era furente per il fallimento e la sconfitta, Gano lo era perché vedeva allentarsi ogni giorno di più il legame con il re. Si vedeva sostituito nel cuore del sovrano da quel giovane ardimentoso ma inesperto, troppo impetuoso per essere affidabile, ultimo arrivato e già annoverato come il migliore dei pari;

l’eletto degno di essere investito di ogni privilegio. Lo amareggiava, inoltre, il rendersi conto che suo figlio non era nemmeno lontanamente all’altezza delle sue attese. Il suo comportamento al torneo l’aveva deluso profondamente, ferendo il suo orgoglio di padre ed esacerbando la gelosia nei confronti di Orlando. E non aveva certo migliorato il suo stato d’animo l’apprendere dal re che sarebbe dovuto partire in anticipo, in modo da prendere contatto con i baschi e ottenerne il consenso al aggio dell’armata sul loro territorio. Un’altra missione delicata e di grande importanza strategica che gli era stata assegnata in virtù delle sue doti di negoziatore, ma che lui interpretava con un ennesimo allontanamento. Guardò Carlo che sorrideva a Orlando, ne udì gli elogi per le prodezze in campo, e sentì tutto il sapore del tradimento. Non sfuggì a Baldovino la sua torva espressione e per un insano desiderio di rivalsa scelse quel momento per informarlo di una scoperta che riteneva eccezionale. Gli si avvicinò, sedendo al posto che era rimasto vuoto al suo fianco, e con enfasi gli versò del vino. «Brinda anche tu alla gloria di Orlando», suggerì con un maligno sorriso. Gano allontanò la coppa con una smorfia. «Non ne ho voglia.» «Lo immaginavo», sogghignò Baldovino. «Neanche tu sopporti queste scene penose. Il re è abbagliato dal nuovo astro che brilla a corte come tutti gli altri, se non di più.» Gano lo trafisse con un’occhiata gelida. «Perlomeno Orlando si è comportato con onore, mentre tu non puoi dire altrettanto.» «Non sono pentito di ciò che ho fatto oggi, e se potessi lo rifarei. Quel piccolo arrogante meritava una lezione.» «Invece sei stato tu a riceverla, e hai gettato la vergogna su di noi. Se sei venuto in cerca di comprensione, non ne avrai.» «Non cerco la tua comprensione.» «E allora cosa vuoi?»

Baldovino si protese verso di lui per parlargli all’orecchio. «Voglio svelarti un segreto.» «Di che genere?» «Qualcosa che riguarda il re e il tuo protetto Orlando.» «Chiacchiere di corte, niente di più.» «Non questa volta, ti assicuro.» «Allora smetti di menare il can per l’aia e parla.» Baldovino gli si accostò ancora di più per sussurrargli il segreto di cui era giunto a conoscenza. Gano evitò di trasalire solo perché era capace di esercitare un ferreo autocontrollo. Neppure dal suo volto trapelò traccia d’emozione, sebbene fosse profondamente turbato. C’erano stati dei momenti in cui quel terribile sospetto gli aveva attraversato la mente, ma l’aveva scacciato con risolutezza. Ora le parole di suo figlio sembravano dissipare ogni dubbio e dare una forma concreta al pensiero che aveva appena osato formulare. Di nuovo si sentì l’amaro in bocca, non tanto per la rivelazione in se stessa, quanto perché era stato proprio suo figlio a riferirlo. «Lo guardò con aria severa. «A chi altri l’hai detto?» «A nessuno. Credi che vada in giro a divulgare una notizia del genere?» «Ti credo capace di questo e altro, ma se non l’hai detto, tanto meglio per te. Se dovessi venire a sapere che hai parlato, che hai fatto anche solo qualche velata allusione, ti ucciderò con le mie mani.»

21

Alda si agitò nel sonno inducendo Orlando a svegliarsi. La sentì tremare fra le sue braccia mentre l’accarezzava dolcemente per calmarla, sussurrando tenere parole per dissipare le ombre paurose che popolavano i suoi sogni. «Ho fatto uno strano sogno», mormorò. «Un incubo, direi, da come ti agitavi.» «No, non proprio, ma… inquietante.» «Raccontamelo», la esortò, certo che parlarne avrebbe placato i suoi timori. Lei si scostò un poco da lui per girarsi sul fianco e sollevarsi sul gomito. Restò alcuni istanti in silenzio per riordinare le sequenze del sogno, poi iniziò a raccontare. «Era notte e io mi trovavo in una stretta valle circondata da montagne cupe e minacciose. Il cielo era punteggiato da una miriade di stelle, ma ce n’era un gruppo che brillava più delle altre e una, in particolare, era fulgida come un piccolo sole. D’improvviso la stella più grande e splendente si è mossa per dirigersi verso le vette, e subito dopo altre dodici l’hanno seguita. Ero incantata da quello spettacolo straordinario e dal fulgore che emanavano, ma d’un tratto le dodici stelle sono cadute a velocità vertiginosa, lasciandosi dietro una scia infuocata che ha inondato tutto il cielo. Persino le montagne erano imbevute da quel bagliore color del sangue… Io guardavo atterrita, mentre una a una le stelle svanivano e ne restava una sola, ma non più brillante come prima. Sembrava che il dolore per la perdita delle sorelle l’avesse offuscata…» Sospirò di nuovo e tacque, accarezzando con la punta delle dita il petto di Orlando. «È stato un sogno strano. Ma si tratta solo di un sogno.» «Temo che sia un cattivo presagio.» «È la prima volta che ti accade?»

«No, faccio spesso dei sogni inquietanti. A volte sono proprio spaventosi.» «Allora perché preoccuparti di questo?» Alda cercò rifugio nelle sue braccia, che l’accolsero confortanti. «Non lo so», bisbigliò. «Forse perché ho paura di perderti.» «Non temere, non accadrà», la rassicurò Orlando. «E quando tornerò dalla Spagna chiederò a tuo fratello e al re il consenso alle nostre nozze.» «Non ci saranno ostacoli per noi, ma… temo che Baldovino non la prenderà tanto bene.» «Cosa c’entra lui?» «Mi aveva chiesta in moglie, tempo fa, e io l’ho rifiutato.» «Si metterà il cuore in pace.» «Non lo conosci; non si rassegnerà tanto facilmente. E poi ti detesta.» «Questo l’ho capito», sospirò Orlando. «E mi dispiace che si sia comportato in modo tanto sleale al torneo. Immagino che Gano sarà furioso.» «Cos’è successo fra te e tuo zio? Dal vostro ritorno è cambiato al punto da essere irriconoscibile e sembra che sia tu la causa.» «L’hai notato anche tu?» «Non è cosa che i inosservata. A nessuno è sfuggito che ci sono dei dissapori fra voi.» «Forse ti sorprenderà, ma non c’è stato alcun dissapore. Se Gano è diventato freddo e distante con me, ne ignoro il motivo.» «Perché non tenti di chiarire la situazione, prima che degeneri?» «Lo farò. Non voglio partire per la Spagna sapendolo in collera per qualcosa che ho detto o fatto senza rendermene conto. Ammetto che non sempre mi sono comportato bene, ma gli devo tutto e provo affetto per lui.»

«Allora parlagli al più presto e appiana ogni malinteso. Non voglio che ci siano ombre sulle nostre nozze.»

Orlando andò a palazzo per cercarlo quel mattino stesso, di buonora, ma ebbe la sorpresa di non trovarlo. Gli fu detto che era partito durante la notte per destinazione ignota e che non si sapeva quando sarebbe rientrato. Deluso, Orlando fece per ritirarsi, ma venne intercettato da Baldovino. «Cosa ti spinge a cercare mio padre di buon mattino?» l’apostrofò. «Ero venuto per parlargli», rispose. «È partito stanotte per la Guascogna, a spianare il cammino per l’armata. I compiti più ingrati toccano sempre a lui, e le glorie se le accaparrano gli altri, quelli furbi. Sai di cosa parlo.» «No, temo proprio di non saperlo», replicò, preferendo non rilevare l’allusione. «Scusa, ma vado di fretta.» L’altro gli tagliò la strada. «Ehi, come mai tanta furia? Potresti dire a me la ragione per cui volevi parlare con mio padre.» «Non è questione che ti riguardi.» Baldovino gli venne sotto con aria di sfida. «Un giorno o l’altro qualcuno ti farà ingoiare tutta la tua boria», sibilò. «Di certo non sarai tu», rimbeccò Orlando con un sogghigno. Si spostò di lato e tirò dritto, ma venne di nuovo fermato. «Al torneo hai avuto fortuna, ma non ti illudere che possa essere sempre così.» La limitata pazienza di Orlando si era ormai esaurita, tuttavia per l’affetto che portava a Gano non volle cedere alla provocazione. «È meglio chiudere qui, Baldovino», disse con voce resa roca dalla collera. «Meglio per te, intendo.» «Altrimenti cosa mi farai?» lo derise l’altro, senza avvedersi, cieco com’era,

della furia che stava per esplodere. Una nebbia rossastra offuscò la vista di Orlando, mentre dalla bocca gli usciva un suono simile a un ruggito cavernoso. Con mossa fulminea estrasse Durendal e si avventò su Baldovino. «Difenditi, perdio!» gli intimò. Questi non poté far altro che accettare lo scontro, rendendosi conto solo in quel momento d’aver perso il controllo della situazione. Il cozzare delle lame echeggiò nel corridoio, facendo accorrere alcune guardie. Lo stupore le paralizzò per qualche attimo, poi una di loro si riebbe e cercò di porre fine al duello, prima richiamando i due contendenti e poi mettendosi in mezzo per dividerli. Dovette ritirarsi sanguinante, ferito da un fendente di Baldovino. Soccorso dai compagni, venne trasportato all’infermeria. Sotto gli incalzanti, furiosi assalti di Orlando, Baldovino ebbe modo di pentirsi d’averlo provocato. Più di una volta riuscì a stento a evitare i suoi micidiali fendenti e dovette ripararsi dalle schegge di pietra che schizzavano come proiettili dalle pareti su cui si abbatteva Durendal, lasciandovi profonde scalfitture. Fu costretto ad arretrare lungo il corridoio, tempestato dai colpi e dalle invettive di Orlando, il cui volto lucido di sudore e trasfigurato dalla collera incuteva davvero paura. Era stata intenzione di Orlando di infliggergli soltanto una lezione che non potesse essere dimenticata, ma nell’impeto dello scontro e accecato dalla furia che ormai lo dominava, non fu capace di impedirsi di andare fino in fondo. Nello scorgere un varco nella guardia del cugino colpì senza misericordia. Il fendente obliquo tracciò un solco profondo nella carne dalla spalla all’addome. Il sangue sprizzò, arrossandogli la tunica. Baldovino mollò la spada e si piegò sulle ginocchia con un gemito, premendo le mani sulla ferita nel vano tentativo di arginare l’emorragia. La furia di Orlando sfumò nell’attimo in cui lo vide cadere. Rinfoderò Durendal e accorse al suo fianco per sorreggerlo, mentre sopraggiungevano Turpino, Olivieri e altri paladini, informati di ciò che stava succedendo. Ma erano arrivati troppo tardi. Circondarono Orlando, inginocchiato con Baldovino fra le braccia, e nell’alzare il viso per guardarli lesse nei loro occhi sgomento, dolore, forse anche rimprovero. Come biasimarli se lui stesso provava rimorso? Se Baldovino fosse

morto, Gano non l’avrebbe mai perdonato. In un silenzio teso, Turpino si chinò a esaminare la ferita. Orlando attese il verdetto col fiato sospeso. «Bisogna trasportarlo subito nella sua stanza e far venire il cerusico. È grave, ma non tanto da morire se si riesce a fermare il sangue.» Pervaso dal sollievo, Orlando offrì il proprio aiuto per il trasporto, ma Turpino lo ricusò. «Possiamo fare anche senza di te», rispose pacato. «D’altronde il re vuole vederti immediatamente e non sarebbe saggio farlo aspettare.» Orlando si rialzò, sentendosi gravare addosso gli sguardi di tutti, pesanti come macigni. Persino Olivieri lo fissava incupito, ma mentre si allontanava si accorse che l’amico lo seguiva e rallentò per farsi raggiungere, sorridendogli con gratitudine. «Ti accompagno dal re», disse il giovane. «Spero che tu abbia una valida giustificazione per ciò che hai fatto.» «Dio mi è testimone che non volevo arrivare a tanto», si difese Orlando. «Sebbene mi avesse provocato e offeso, non intendevo ferirlo mortalmente.» «Ma ci sei andato molto vicino. Hai idea delle conseguenze se, Dio non voglia, dovesse morire?» «È stato un duello leale!» protestò. «O mi giudichi capace di assalire qualcuno nell’ombra e pugnalarlo alle spalle?» «No, questo mai. Però hai infranto le regole, accettando una sfida all’interno del palazzo, sapendo che il re lo ha vietato in modo tassativo.» «Cosa avrei dovuto fare?» «Scegliere un altro luogo e un altro momento.» Orlando scosse il capo. «Non potevo. Ero troppo fuori di me per ragionare.» «È questo il tuo maggior difetto», sospirò Olivieri. «Tu ragioni troppo poco.»

Olivieri lo lasciò sulla soglia degli appartamenti reali, dove venne introdotto poco dopo da Alcuino, il cui aspetto funereo non migliorò il suo stato d’animo. Mentre Alcuino si ritirava, Orlando si inchinò al re e nell’incontrarne lo sguardo capì quel che dovevano provare i nemici sconfitti quando gli venivano condotti davanti. Tuttavia la sensazione durò appena un istante, perché lui non era un nemico, né uno sconfitto, e poteva avvalersi di buone ragioni per giustificare il duello con Baldovino. Il sovrano lasciò are lunghi attimi di silenzio prima di rivolgergli la parola. Voleva che si rendesse conto che la sua posizione non gli assicurava l’impunità e che i privilegi, così come gli erano stati accordati, potevano essere revocati in qualsiasi momento e a sua discrezione. Occorreva che quel ragazzo ostinato e ribelle capisse che appartenere alla schiera dei pari non era da prendere alla leggera. «Morirà?» chiese infine il re. «Turpino dice di no, sire», rispose Orlando. «Speriamo che abbia ragione. Tu, soprattutto, devi augurarti che Baldovino sopravviva, altrimenti nemmeno io potrei proteggerti dalla collera di Gano. Ora, raccontami cos’è successo.» Il giovane narrò l’accaduto nei minimi dettagli, senza trascurare di spiegare la ragione per cui era andato a cercare lo zio. Riferì parola per parola il diverbio che aveva preceduto il duello, incluso il ferimento, da parte di Baldovino, di una guardia intervenuta per separarli. Il re lo ascoltò senza interromperlo fino alla fine, poi ancora una volta rimase silenzioso, riflettendo su ciò che aveva sentito. Non si poteva negare che la reazione di Orlando fosse giustificata dall’offesa subita, nondimeno meritava una punizione. «Resterai agli arresti nei tuoi alloggi fino al giorno della partenza per la Spagna», disse. «Spero che ciò ti induca a meditare e ti sia d’insegnamento per il futuro. I paladini rappresentano il regno e nessuna macchia, né ombra, deve offuscarne l’immagine. Tu fai parte di questa schiera eletta, da me posta al di sopra di ogni altra, ma devi dimostrare di esserne degno ogni giorno della tua vita. Non è un traguardo, ma l’inizio di un cammino lungo e difficile. Se pensi

che essere paladino ti consenta di agire al di fuori delle regole, sei in errore. Il paladino è soggetto più di ogni altro cavaliere alle regole e a una disciplina ferrea e intransigente. Fra le altre cose, un paladino deve saper dominare le proprie emozioni, controllare le proprie reazioni e gli istinti, anche quando riceve un oltraggio così grave da esigere di essere lavato col sangue. Al torneo ti sei comportato bene e hai dato prova di possedere un elevato senso dell’onore. Ma oggi… oggi hai offeso te stesso e i tuoi pari scendendo allo stesso livello di Baldovino, il quale sapeva bene quel che faceva nel provocarti e, soprattutto, sapeva come avresti reagito. Certo non immaginava come sarebbe andata a finire, ma voleva ugualmente trascinarti in uno scontro. Dovrai fare in modo che non si ripeta mai più.» «Lo terrò a mente, sire», rispose Orlando, sollevato che gli fossero state inflitte soltanto una ramanzina e una punizione non troppo severa. Qualche giorno di segregazione nel suo alloggio non gli sarebbe pesato più di tanto, anche se ciò l’avrebbe costretto a rinunciare alla compagnia di Alda. Uscito Orlando, il re venne raggiunto dalla regina Ildegarda. «Ho appena saputo che Baldovino se la caverà», annunciò con un sorriso. «Non potrà prendere parte alla spedizione, ma si riprenderà presto e seguiterà ad affliggerci ancora a lungo. Quasi rimpiango che Orlando non l’abbia ucciso. Sarebbe stata un’autentica liberazione.» Carlo la guardò con aria di finto rimprovero. «È la nuova gravidanza che ti rende tanto assetata di sangue?» «Forse sono soltanto un po’ tesa», sospirò. «Dovunque vada non sento parlare che di funesti presagi, di sinistre premonizioni che riguardano la spedizione in Spagna. Persino Alda fa sogni inquietanti, ultimamente.» «Non ascoltare le loro chiacchiere: sarà una guerra come tutte le altre.» «Lo dici, ma non ne sei convinto nemmeno tu.» «È vero», ammise Carlo. «Tu sai sempre leggere nel mio cuore e non è possibile ingannarti. Questa guerra presenta troppe incognite, a partire dalla dubbia alleanza coi mori, e non l’affronto con animo sereno, pur essendo persuaso di essere nel giusto.»

«Cos’è che ti turba di più?» «Tutto e niente. Ma ci sono quesiti a cui non so dare una risposta, né sarà possibile averla finché non saremo in Spagna. Il nemico che dobbiamo affrontare è diverso da ogni altro, e forse coloro che consideriamo alleati si riveleranno dei nemici, prima che sia finita. È la doppiezza degli orientali che mi angustia. Con gente così non si può mai essere sicuri di niente e di nessuno.» «Allora perché ti sei fatto trascinare in questa campagna?» «Perché spero di riuscire a creare una marca iberica, e con l’insediamento dei nostri presidi, proteggere i confini e il valichi dei Pirenei, in modo da arginare qualsiasi futura invasione.» «Quindi sarà una guerra giusta.» «Non esistono guerre giuste, ma soltanto guerre inevitabili se vogliamo proteggere i nostri territori. È quello che stiamo facendo da anni, ormai, e mi auguro che prima o poi ci siano dei risultati.» Ildegarda si accarezzò il ventre con un sorriso dolcissimo. «Ai nostri figli lasceremo un regno grande, pacifico e prospero. È più di quanto si possa desiderare a questo mondo.» «È il sogno di mio padre che sto cercando di tradurre in realtà, e spero di vivere abbastanza da vederlo compiuto.» Restarono in silenzio per un po’, assaporando quei momenti d’intimità così rari e preziosi, cercando di tenere lontano il pensiero della nuova, imminente separazione che continuava a insinuarsi nella loro mente con l’insistenza di un tarlo molesto. Poi fu Ildegarda a parlare, riallacciando il filo interrotto del discorso di poco prima. «Hai intenzione di dirlo a Gano?» «Mandandogli un messaggio? Anche ammesso che fosse possibile trovarlo, preferisco dirglielo di persona quando ci incontreremo. So come prenderlo ed evitare che faccia ricadere la sua collera su Orlando. In fin dei conti, Baldovino ha avuto ciò che si meritava, ma è pur sempre suo figlio.»

«Gano lo perdonerà. Vuole un gran bene a suo nipote.» «Fino a poco tempo fa, sarei stato pronto a scommetterci. Però adesso non ne sono più tanto sicuro. Gano è così cambiato che quasi stento a riconoscerlo.» «Di qualunque cosa si tratti ne verrà fuori, ma credo che dovresti mostrarti comprensivo e aiutarlo a superare questa fase critica.» «A cosa pensi sia dovuta?» «Difficile a dirsi. In realtà, ho soltanto la sensazione che sia molto turbato. Potrebbe trattarsi di gelosia.» Carlo guardò la moglie sorpreso. «Geloso di chi?» «Di Orlando, che tu tratti con palese affetto e colmi di onori. Potrebbe sentirsi messo in ombra.» «Non avevo considerato questa possibilità, ma potresti avere ragione. In tal caso, bisognerà giungere a un chiarimento.» «Sì, accerta che sia così, poi chiarisci tutto al più presto. La gelosia e il rancore sono corrosivi e pericolosi.»

Di ritorno all’accampamento, Gano trovò un messaggero ad aspettarlo. Non si chiese come fosse riuscito a trovarlo fra quei monti selvaggi e impervi, ma poiché era lì ne dedusse che dovesse comunicargli una notizia importante, forse grave. Si fece consegnare il plico e l’aprì senza fretta, sebbene fosse ansioso di conoscerne il contenuto. Lo lesse senza che nulla di ciò che gli ava in animo trapelasse dal suo volto. Poi alzò il capo e guardò il corriere. «È il re che ti manda?» s’informò. «No, signore. Il re non sa che sono qui. È stato tuo figlio a far scrivere il messaggio e a ordinarmi di portarlo d’urgenza.»

«Quindi la sua vita non è in pericolo.» «Ora non più, signore.» «Va bene, puoi andare», lo congedò. «Ma ricorda, per chiunque che non sia mio figlio tu non sei mai stato qui. Noi non ci siamo mai visti», aggiunse. «Ai tuoi ordini, signore.» Poco dopo, ascoltando il galoppo del cavallo che si allontanava, Gano rilesse il messaggio, poi fece a pezzi la pergamena e la gettò nel braciere. La guardò diventare cenere, mentre nel suo intimo infuriava una tempesta così violenta da rischiare di compromettere il suo equilibrio mentale. Baldovino, suo figlio, aveva rischiato di morire per mano di Orlando, il bastardo del re. Non ancora sazio di onori, gloria e privilegi, aveva adesso tentato di ucciderlo per una disputa di nessuna importanza. Era Orlando, sempre e soltanto lui, la causa di tutti i suoi guai. Questo era il ringraziamento per averlo accolto e trattato come un figlio, per aver sopportato le sue bizze e i suoi capricci. Una ben misera ricompensa per tanta abnegazione. Ma sarebbe venuto presto il giorno in cui avrebbe dovuto rendere conto delle proprie azioni. Non solo davanti a lui, ma anche davanti a Dio, il Giudice Supremo. E attraverso Orlando avrebbe colpito il re, che gli aveva sedotto la sorella rendendola madre, che l’aveva ingannato e tradito. Che Orlando assaporasse pure le sue vittorie, finché poteva, perché presto avrebbe assaggiato l’amaro sapore della polvere e della sconfitta.

22

Fu Olivieri a comunicare alla sorella che Orlando era stato messo agli arresti. «Perché?» chiese Alda allarmata. «È stato sfidato da Baldovino e l’ha ferito. È mancato poco che lo uccidesse.» «A causa mia?»

«No, la ragione è un’altra, anche se credo che Baldovino non abbia ancora accettato che tu gli abbia preferito Orlando.» «Gano, immagino.» Olivieri si strinse nelle spalle. «Gano, la figuraccia che ha fatto al torneo, i suoi personali rancori. Il fatto è che Orlando è caduto nella provocazione e ha infranto le regole dei paladini.» «Non è giusto che sia stato punito per aver reagito alle provocazioni di Baldovino.» «Sono certo che il re li avrebbe puniti entrambi, se il figlio di Gano non fosse stato ferito piuttosto gravemente.» Alda sospirò. «Speravo di trascorrere questi ultimi giorni insieme a Orlando…» «Mi dispiace, ma dovrai rinunciare. Non potrà ricevere visite fino alla partenza.» La giovane finse di rassegnarsi, mentre in realtà stava già pensando al modo di eludere il divieto e incontrare segretamente Orlando. Non voleva coinvolgere il fratello per timore che anche lui potesse incorrere nel

castigo del re, ma forse avrebbe potuto chiedere l’intervento della regina, sempre sensibile nelle questioni di cuore. Quando le confidò le proprie intenzioni, però, Ildegarda non si mostrò favorevole. «Non mi pare saggio contravvenire agli ordini di Carlo. Capisco quanto desideri stare col tuo innamorato prima che parta, ma dovrai rinunciare.» «Mia signora, se fossi al mio posto cosa faresti?» La regina sorrise. «Tenterei di vederlo di nascosto, malgrado il rischio.» «Grazie, è ciò che volevo sapere.» «Cerca di stare attenta. In questi giorni il re non è tanto disposto alla comprensione e al perdono.» «Farò in modo che nessuno lo scopra.»

Per introdursi nell’alloggio di Orlando, la giovane si sostituì a uno degli scudieri che gli portavano i pasti. Il ragazzo si fece corrompere volentieri per aver modo di intrattenersi con l’ancella di cui era innamorato e che era al servizio di Alda. Il travestimento funzionò e le guardie la lasciarono are senza il minimo sospetto. Col cuore che batteva forte Alda bussò alla porta e attese. Orlando era seduto su una panca nel vano della finestra e lasciava vagare lo sguardo fuori con la segreta speranza di veder apparire la sua amata. Un solo giorno era ato da quando era agli arresti e già la clausura gli era diventata insopportabile. «Avanti», disse nel sentir bussare, ma non si voltò a guardare chi fosse. La porta si aprì e Alda entrò. «Ti ho portato da mangiare, signore», disse contraffacendo la voce. «Grazie. Posa tutto sul tavolo ed esci», rispose Orlando.

«Sicuro di volere che me ne vada?» domandò lei, facendosi scivolare dal capo il cappuccio della corta mantella. Orlando trasalì e si girò di scatto, chiaramente sorpreso di vederla. «Alda! Cosa ci fai qui?» Lei sorrise. «Non potevo rinunciare a vederti.» «Che pazzia!» esclamò il giovane, colmando con due balzi la distanza che li separava. «Se qualcuno lo scoprisse…» Alda gli posò un dito sulle labbra. «Abbiamo la complicità del tuo scudiero e della mia ancella; nessuno ci scoprirà, amore mio.» Orlando l’abbracciò. «Sono felice che tu sia venuta. Stavo per impazzire chiuso qui dentro, rodendomi perché non potevo stare con te…» La baciò, inebriandosi della sua vicinanza e del suo profumo.

«Non posso restare a lungo, ma farò in modo di tornare stasera.» «Devi essere prudente, amore. Non voglio che ti esponga alla collera del re per causa mia.» «Non temere, la regina è dalla nostra parte», rispose lei baciandolo con ardore. Rimasero stretti l’uno all’altra finché la voce della prudenza li sollecitò a separarsi. Si sciolsero con riluttanza dall’abbraccio e Alda si coprì di nuovo il capo prima di uscire. Gli mandò un bacio sulla punta delle dita e se ne andò. Al richiudersi della porta Orlando sospirò e tornò a sedere nel vano della finestra. Le ore gli sarebbero sembrate interminabili nell’attesa di rivederla.

Quando scese la sera e Alda non apparve, Orlando credette d’impazzire per l’ansia. Il timore che potessero aver scoperto il sotterfugio lo tormentava e le più assurde

congetture trovarono spazio nella sua mente. Camminava agitato da un capo all’altro della stanza, fermandosi solo a tratti per ascoltare i rumori, anche i più lievi, che provenivano dal corridoio.

Un suono di i lo fece balzare alla porta. Appoggiò l’orecchio per ascoltare, il cuore che martellava nel petto, ma si trattava solo del cambio della guardia e si ritrasse deluso. L’ansia diventò impazienza e poi l’irritazione prese il sopravvento. L’ingiustizia del suo castigo gli apparve enorme e intollerabile. Sentì crescere dentro di sé la smania di uscire, di fuggire da quella prigione anche a costo di incorrere in un altro e più severo castigo. Era pronto a sfidare il re pur di mettere fine a quel supplizio. Ma nel momento in cui stava per attuare il proprio intento gli parve di riconoscere il o di Alda e si dominò. Con occhi accesi di speranza fissò l’uscio. Si sentì sciogliere il cuore di gioia nel vederlo aprirsi piano. Troppo piano, pensò con una fitta d’impazienza. Ma poi Alda fu sulla soglia e il suo sorriso gli fece dimenticare tutto. Quasi le strappò il vassoio dalle mani per la fretta di abbracciarla, e la ione con cui la strinse non le lasciò dubbi sulla sua felicità di rivederla.

«Ehi, piano…» protestò lei ridendo. Ma già Orlando scioglieva i lacci del mantello con dita febbrili e le disfaceva la treccia bruna, coprendole di piccoli e teneri baci il viso per poi indugiare sulla sua bocca e schiuderla alla ione più ardente. La ragazza lo assecondò, impaziente quanto lui di perdersi in quell’amore che li bruciava senza consumarli, e di esorcizzare nell’esaltazione dei sensi l’ombra minacciosa della guerra. Andarono alla deriva sulla corrente infuocata del desiderio, mentre la notte esalava i suoi profumi e la brezza li accarezzava. Infine, ebbri d’amore ma sazi di ione, si assopirono.

Il verso di una civetta destò Orlando dal dolce sopore. Si accorse che Alda non era al suo fianco e la cercò a tastoni attraverso il letto, prima di scorgerla alla finestra, con una delle sue camicie addosso e avvolta nel manto dei capelli. Si alzò e la raggiunse, cingendola con le braccia. «Prenderai freddo», le alitò all’orecchio. «È una notte così bella…» sospirò lei. «Vorrei che non finisse mai, ma fra poco me ne dovrò andare.» «Tornerai domani?» «Nessuna forza al mondo lo potrebbe impedire. Quanto tempo ci resta, amore?» «Tutta la vita», rispose Orlando baciandole la guancia di velluto e sentendola rabbrividire. «Hai freddo?» «No, era un brivido di paura.» «Ancora brutti sogni?» «Qualche volta», ammise Alda. «Ma non stanotte.» La fece girare in modo di vederla in viso. «Ho bisogno di saperti serena per partire tranquillo. Già mi strazia di doverti lasciare, ma sapere che ti tormenti mi è insopportabile. Prendi esempio dalla regina, dalla sua forza e dal suo coraggio.» «La mia forza viene meno al pensiero che potresti morire.» «Farò in modo che non avvenga. Dopo tutto, non è la prima volta che affronto una guerra.» «Fosse anche la millesima, io tremerei lo stesso.» «Non posso darti la certezza che tornerò vivo. Nessuno conosce il proprio destino.» «Ma talvolta i presentimenti si avverano, e io temo i miei.» «I tuoi presentimenti sono il riflesso delle tue paure.»

Lei sospirò. «Cercherò di essere forte, poiché tu lo desideri, e prometto che non verserò lacrime quando te ne andrai.» «È una promessa.» Alda si sciolse dall’abbraccio. «Devo andare…» Lui la guardò mentre si rivestiva in fretta e l’accompagnò fin sulla porta, dandole un ultimo bacio. «A domani», le sussurrò. «Se mi guardi così non sarò più capace di andarmene», rispose. «Allora rimani e che accada ciò che deve accadere!» «Meglio di no, amore.» Gli sfiorò la guancia con una carezza. «Dormi bene», aggiunse andando via.

Per intercessione della regina, la reclusione di Orlando fu abbreviata.

Olivieri gli portò la buona notizia alla vigilia della partenza per la Spagna. «Sei libero», gli annunciò con un sorriso. «Il re ti condona quest’ultimo giorno, a patto che tu faccia visita a Baldovino.» «Come sta?» chiese Orlando rasserenato. «Abbastanza bene, malgrado si rammarichi di dover rinunciare alla spedizione. Però ha promesso di raggiungerci appena potrà.» «Non ce la farà», dichiarò Orlando. «Conquisteremo la Spagna in un batter d’occhi.» «Temo che non sarà così facile, fratello.» Orlando si avviò alla porta, troppo eccitato dalla riconquistata libertà per pensare ad altro. «Orsù, muoviti!» esclamò uscendo.

Mentre percorrevano i corridoi Orlando constatò dalla frenetica attività che regnava nel castello quanto ormai fosse prossima la partenza. L’armata si stava radunando nelle campagne dei dintorni e nel castello fervevano gli ultimi preparativi. Si respirava un’atmosfera d’attesa non priva di tensione per le incognite che l’impresa comportava e l’eccitazione generale era contagiosa. Prima di raggiungere l’alloggio di Baldovino, i due giovani si trattennero a parlare con i paladini e con Turpino, dal quale seppero che proprio in quel momento il re era a colloquio con una delegazione dell’emiro di Saragozza.

«Cosa vogliono i mori?» chiese Orlando. Il vescovo si strinse nelle spalle. «Alleanze, forse. Corre voce che neanche fra loro ci sia accordo. Non temere, la spedizione si farà. Il re non tornerà sulla sua decisione.» «Mi auguro che non si faccia abbindolare dai loro sorrisi e giri di parole. Quelli sono maestri nell’arte dell’inganno.» «Carlo sa quel che fa», replicò Turpino. «Non ne dubito», dichiarò Orlando. «Tuttavia il re non conosce bene il territorio e potrebbe lasciarsi fuorviare.» «È qui che ti sbagli», ribatté Turpino. «Sono mesi che i nostri esploratori, inclusi Gano e i baschi, eseguono ricognizioni oltre confine e hanno inviato regolari rapporti con dettagliate descrizioni del territorio in cui dovremo operare. Niente è stato lasciato al caso, ti assicuro.» «Sono lieto di saperlo. Francamente, la prospettiva di fare un salto nell’ignoto non mi piaceva.» «Neanche fosse la prima volta! Non eri così riluttante quando hai seguito tuo zio nella scorreria in Anglia, eppure non avevi la più vaga idea di ciò che avresti dovuto affrontare.» «Angli e vichinghi non hanno niente da spartire con i mori.»

Avvedendosi che il discorso stava prendendo una brutta piega, Olivieri intervenne per ricordare a Orlando che dovevano andare da Baldovino e lo trascinò via. Strada facendo lo rimproverò. «Proprio non riesci a trattenerti dal muovere critiche al re per il suo operato, a quanto vedo! Mi chiedo quando ti deciderai a capire che certe osservazioni è più saggio evitarle. Una volta o l’altra ti lascerai sfuggire una parola di troppo e allora…» «Noi siamo i suoi pari ed è nostro diritto rivolgergli delle critiche», ribatté Orlando. «Dovere, non diritto. Cerca di non dimenticarlo. Inoltre, ricorda che le tue parole potrebbero essere riferite e magari distorte per nuocerti agli occhi del re. Ciò che oggi ti concede, domani te lo può togliere.» «Non corro questo rischio. Perché si sarebbe preso il disturbo di cercarmi se non volesse avermi al suo fianco?» «Tira la corda una volta di troppo e te ne accorgerai. Potresti ritrovarti a governare qualche feudo sperduto ai confini del mondo, per esserti lasciato andare a parlare a sproposito.» Orlando non ebbe modo di replicare perché intanto erano arrivati all’alloggio di Baldovino. Al loro bussare venne ad aprire un servo, che si fece da parte per farli entrare. «Come mai vieni anche tu?» chiese Orlando. «Per impedirti di fare o dire sciocchezze», replicò l’amico con un sorriso, ignorando l’occhiataccia che ricevette in risposta. Adagiato fra i cuscini, Baldovino era pallido, ma non sembrava troppo debilitato. Li accolse con studiata cortesia e li ringraziò per la visita. «E così siete pronti a partire per la Spagna», disse dopo aver congedato il servo. «Sì, domani è il gran giorno», rispose Olivieri.

«Vi auguro buona fortuna; ne avrete bisogno.» Raccogliendo l’occhiata ammonitrice dell’amico, Orlando tenne per sé un commento salace e sorrise. «Hai notizie di tuo padre?» «Nessuna», mentì il cugino. «Ma non ne sono sorpreso. Quando va in missione raramente si fa vivo. Comunque, sono certo che stia bene e che lo incontrerete sui valichi.» «Gli porteremo i tuoi saluti», disse Olivieri. «Sì, e ditegli che un incidente mi ha impedito di partecipare alla spedizione.» «Gli dirò la verità», dichiarò Orlando. «Non voglio che ci siano malintesi, fra noi.» «Giusto», assentì. «Quelli che ci sono bastano, non è così?» Orlando aggrottò la fronte. «Cosa intendi dire?» «Non ti inalberare», lo esortò Baldovino. «Se ben ricordo, l’altra mattina, sei venuto per parlargli a proposito dei vostri dissapori.» «È vero», ammise il giovane. «E mi voglio scusare per come ho reagito. Non mi sarei dovuto lasciar dominare dalla collera. Soprattutto non avrei dovuto aggredirti e ferirti. Sono davvero spiacente.» Il sorriso che Baldovino gli rivolse non lo ingannò sui suoi veri sentimenti. «Non è stata tutta colpa tua. Sono stato scorretto e ti ho provocato. Vogliamo metterci una pietra sopra?» «Certo», rispose prontamente Orlando, sicuro che mentisse come stava mentendo lui. Il reciproco risentimento non era cosa che potesse essere cancellata facilmente. Olivieri, più ingenuo, pensò che si fossero veramente riconciliati e quando se ne andarono non mancò di rallegrarsi con l’amico. «Il re sarà contento di sapere che avete fatto pace», commentò. «Temeva che la frattura fosse insanabile e che potessero esserci risvolti spiacevoli.»

Orlando non volle disilluderlo. «Non volevo partire con una questione in sospeso, in specie con chi mi è parente.» «Hai agito saggiamente, anche se per un istante ho temuto il peggio», confessò.

Orlando scoppiò in una risata amara. «Forse sto imparando come ci si comporta a corte, dove l’apparenza conta assai più della sostanza, l’ipocrisia più dei sentimenti veri. Non importa se ci si odia a morte, basta nasconderlo dietro al sorriso e alle buone maniere.» Olivieri lo guardò con una sfumatura di dubbio negli occhi, ma non volle indagare sulle sue affermazioni, forse temendo di scoprire verità dolorose. Dal canto suo Orlando non gli chiarì i dubbi. Era convinto che in Spagna tutti i nodi esistenti tra lui e Gano sarebbero stati sciolti, in un modo o nell’altro.

La donna che la guardava dalla soglia non aveva l’aria amichevole, ma Tilda si fece coraggio e avanzò verso di lei con un timido sorriso sulle labbra, che tuttavia svanì non appena l’altra le rivolse la parola. «Dunque sei tornata», l’apostrofò scrutandola. «E non da sola, a quanto vedo.» Tilda abbassò il capo. «Non scacciarmi, ti prego. Non ho altro posto in cui andare.» «Certo non si può dire che ti manchi la faccia tosta. Ti presenti qui, dopo tutti questi anni, e ti aspetti di essere accolta a braccia aperte!» «Sono una figlia indegna e merito i tuoi rimproveri», rispose Tilda con voce incrinata d’emozione. «Ma il mio bambino è innocente e per lui ti imploro di avere comione.» «Sai almeno chi sia il padre della tua creatura?» «Un paladino del re», mormorò la giovane. «Nientemeno!» sogghignò la donna. «Nessuna bugia, intesi?»

Tilda fu sul punto di ribattere che era la verità, ma l’espressione severa di sua madre la dissuase e, di nuovo, abbassò il capo. «Non sai chi sia, proprio come immaginavo», sospirò Gertrude, decidendo infine di accoglierla. «Vieni, entriamo in casa», la invitò con un cenno. «Il tuo patrigno tornerà fra poco dai campi e prima che arrivi dobbiamo inventare qualcosa per giustificare il tuo stato. Dubito che sarà contento di avere un’altra bocca da sfamare… Anzi, due quando nascerà il bambino, ma in fondo è un brav’uomo e non farà troppe storie.» Tilda esitò, sgomenta al pensiero di rivedere il patrigno. Il ricordo che serbava di lui era spiacevole, perché Gilberto era un individuo ripugnante che l’aveva insidiata fin dal giorno in cui aveva messo piede in casa e lei, per sottrarsi alle sue attenzioni, se n’era andata non appena era stata abbastanza adulta per farlo. «Cosa c’è?» chiese sua madre, avvedendosi della sua esitazione. «Niente», si affrettò a rispondere Tilda seguendola in casa e riscoprendo il deprimente squallore nel quale era cresciuta.

Cadeva una pioggia sottile, il giorno della partenza, e tuttavia una gran folla si era radunata per assistere al aggio delle truppe, un lungo serpente che si snodava lungo le strade e sembrava non avere fine. Il re procedeva all’avanguardia, circondato dai paladini. L’attenzione convergeva sul gruppo che si distingueva fra gli altri per l’azzurro mantello e sul sovrano, i cui cenni di saluto e il sorriso suscitavano acclamazioni entusiaste.

Carlo aveva voluto Orlando al suo fianco, un onore che gli concedeva spesso. Significava che l’aveva perdonato e che intendeva dimostrare pubblicamente quanto gli fosse caro. Ma il giovane paladino non sembrava apprezzare il privilegio. Con il volto serio e le sopracciglia aggrottate cavalcava senza degnare di uno sguardo la gente che si assiepava e faceva a gomitate per vederlo e applaudirlo. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, scrutando il lontano orizzonte,

come se attendesse da un momento all’altro di veder comparire il nemico. Ma non al nemico pensava Orlando, bensì all’amata. Il commiato da Alda era stato struggente, benché lei avesse mantenuto la promessa di non piangere. Avevano rinnovato il loro giuramento d’amore e lei gli aveva annodato sui fianchi la fusciacca di seta, poi aveva fatto un o indietro per guardarlo. Si erano fissati per lunghi istanti senza parlare, straziati da quell’addio ma incapaci di dirlo, perché le parole sarebbero uscite spezzate dalle loro labbra. Infine, Orlando era balzato in sella e aveva raggiunto i paladini in attesa. Soltanto una volta, mentre si avviavano, si era girato sulla sella per guardare Alda, immobile come una statua, pallida ed eterea come un sogno. Era talmente assorto da non accorgersi che ogni tanto il re lo osservava. Ma a lungo andare il suo comportamento irritò Carlo, che mal sopportava di vedersi circondato da musi lunghi. «Cosa c’è che non va?» gli chiese infine. «Niente, sire.» «A guardarti non si direbbe. È da quando siamo partiti che sei muto e rigido come un manichino. Ci sarà pure una ragione!» «Più di una, ma preferisco non parlarne.» «Allora vai a covare il tuo malumore accanto a Turpino. Non ti sopporto!» «Come comandi, sire», replicò Orlando voltando il cavallo per arretrare e andare a fianco del vescovo. Carlo sbuffò contrariato e chiamò con un cenno Namo. Il cavaliere prontamente gli si accostò. Non fece domande, ma non gli sfuggì l’ombra d’irritazione comparsa sul volto del re, come d’altronde non aveva mancato di notare che Orlando era stato allontanato. Dopo qualche attimo di silenzio, il re gli rivolse la parola. «Come se la cavano i tre nuovi paladini?» «Bene, a quanto ho visto. Sono emozionati, ma è normale essendo così giovani.» «Falli venire qui. Desidero che cavalchino insieme a me, almeno per qualche

lega.» Ansegi, Gerardo e Sansone, lo raggiunsero in un baleno, felici dell’onore e impazienti di dimostrare al sovrano il loro valore in battaglia. Gli portarono una ventata di allegria che fu la benvenuta dopo il muso di Orlando. Non avevano ancora vent’anni e sprigionavano vitalità, pronti al sorriso e in vena di scherzi. Nel guardarli e sentirli parlare Carlo si rivide ragazzo e nella dolcezza dei ricordi si sentì rasserenato, sebbene non del tutto senza rimorso nel condurli, così poco esperti, a combattere una guerra che si profilava lunga e sanguinosa.

Dopo giorni di pioggia uggiosa tornò finalmente il sole. I Pirenei si ergevano, maestosi e selvaggi, di fronte all’armata che stava per affrontarne i valichi insidiosi.

Brullo e tormentato il paesaggio, aspro come i contrafforti rocciosi. Il contrasto dei colori risultava ancora più netto nella luce abbacinante. Orlando scrutò i picchi che si levavano verso il cielo con la sensazione che quelle rocce scabre e butterate, scaturite dal ventre della terra durante qualche spaventoso cataclisma, gravassero su di lui fino a schiacciarlo. E rabbrividì al soffio gelido di una premonizione mortale.

PARTE TERZA

Di ioni e tradimenti

23

Un’eterea bruma velava le cime delle montagne, scivolando con sottili filamenti lungo i crinali, disegnando volute argentate sulle acque del fiume. Molto in alto, un’aquila si librava nell’aria immota. Un piccolo reparto di guerrieri avanzava al trotto. La strada si snodava tortuosa e bianca, sfiorando a tratti le pendici dei monti. In alcuni punti si restringeva fino a divenire poco più di un sentiero incuneato fra le rocce, disseminato da enormi massi di granito che sembravano scagliati dalla mano di un dio iracondo, e si ergevano minacciosi sul sentiero come le sentinelle di un regno proibito. Striature d’oro e rosso screziarono il cielo. La luce si aprì un varco nella nebbia, tracciando sentieri luminosi nel fondovalle. Il fiume emanò barbagli iridescenti. I cavalieri si inoltrarono nel cono d’ombra proiettato dalla montagna. Rallentarono, facendosi guardinghi, serrandosi a protezione delle due donne velate che cavalcavano al centro. Come presagendo un pericolo, il cavallo bianco appiattì le orecchie e soffiò dalle narici, scrollando la vaporosa criniera. Una carezza e qualche parola sussurrata ne placarono il nervosismo, ma l’inquietudine aveva contagiato tutti. Il comandante segnalò di aumentare l’andatura e partì al galoppo, impaziente di uscire da quel sinistro paesaggio.

Poco oltre, tuttavia, la minaccia si concretizzò in un rombo simile al tuono che echeggiò in tutta la valle, rifrangendosi sui contrafforti rocciosi e rimbalzando sulle rocce, proprio come se stesse per scatenarsi una tempesta. Disorientati e confusi, i cavalieri rallentarono e guardarono il cielo, dove non c’era neanche una nuvola. Ma il rombo si avvicinava, cavernoso e terribile, proveniente da ambo i lati del sentiero, come un’invisibile valanga sul punto di travolgerli.

I cavalli imbizzarriti s’impennarono nitrendo. Le donne, aggrappate alla criniera, scrutarono atterrite le pareti scabre e cercarono di tenersi salde in sella. Intorno, gli uomini che dovevano proteggerle erano nel panico. Poi echeggiò un altro suono, ancora più spaventoso, simile al ruggito di una fiera, che restò sospeso nell’aria come un terrificante monito. Infine, materializzandosi dalla bruma come draghi irti di aculei, coperti di scaglie di ferro e bronzo, i guerrieri franchi conversero al galoppo sul reparto allo sbando. Lo circondarono e intimarono la resa. Prima che potessero gettare le armi, il comandante reagì con un atto d’inutile coraggio e si lanciò alla carica, ma subito cadde col petto traato da una lancia. Una delle donne emise un grido strozzato. Un paladino si staccò dalla schiera e avanzò. Il suo aspetto era temibile. Chiuso nel ferro da capo a piedi, sembrava una creatura da incubo, un’entità mostruosa scaturita dalle voragini infernali. Anche il suo grande destriero nero incuteva paura. Nessuno, fra i mori, si sarebbe meravigliato se avesse eruttato fiamme dalle narici. «Arrendetevi», ordinò il paladino, trattenendo con mano ferma lo scalpitante destriero. «Consegnate le armi e non vi sarà fatto alcun male. Vi condurremo prigionieri a Cordova, dove sarete trattati con ogni riguardo in attesa che i vostri paghino il riscatto, o che ci sia uno scambio di ostaggi.» I mori si scambiarono sguardi tesi. Il loro comandante era morto e le forze soverchianti dei franchi non lasciavano alternative. Una resa onorevole era meglio che farsi uccidere. A uno a uno deposero le armi e si lasciarono catturare. Disarmati, i guerrieri rimontarono a cavallo sotto lo sguardo sprezzante della donna in sella alla giumenta bianca. Il paladino fece girare il cavallo per ordinare la partenza, ma una voce imperiosa lo bloccò. «Chi siete voi che osate trattare in questo modo la figlia di un emiro?» Per qualche istante si udì solo il fischio del vento negli anfratti. Il cavaliere restò immobile, come raggelato da tanta audacia, poi toccò i fianchi del destriero per

farlo girare di nuovo e lo guidò verso la donna. La trafisse con sguardo di brace. «Sono Orlando d’Anglante, paladino di re Carlo dei franchi», rispose orgoglioso. Ignorando il mormorio dei mori e i loro volti grigi di paura, sorrise impudente e le rivolse un beffardo inchino. «Siete soddisfatta, adesso?» Lei lo fissò come volesse incenerirlo, poi girò sdegnosamente il capo. Non si era mai sentita tanto oltraggiata in vita sua. Quel cristiano insolente avrebbe pagato caro l’affronto che le aveva arrecato. Mentre cavalcavano coi prigionieri e gli ostaggi verso Cordova, Olivieri si affiancò a Orlando. Il vincolo di fratellanza che li univa si era rafforzato col are del tempo. Valorosi e invincibili in battaglia, si erano guadagnati una fama quasi leggendaria in Spagna, non meno che nel resto d’Europa, e suscitavano un timore reverenziale nei loro nemici. Ambedue amavano le sfide, ma se Orlando era impetuoso e impulsivo, Olivieri era più riflessivo e pacato. Era lui che spesso moderava gli slanci bellicosi dell’amico e lo esortava alla prudenza. Orlando non sempre lo ascoltava, ma ne riconosceva la saggezza. Re Carlo, che pure amava tutti i paladini, li aveva particolarmente cari, in specie il tempestoso, irascibile Orlando, la cui devozione senza limiti e l’inflessibile senso dell’onore, al pari del suo ardimento, lo colmavano d’orgoglio. Olivieri gli restò affiancato senza parlare. Dal camaglio spuntava un ciuffo di capelli biondi che gli scendeva sulla fronte spaziosa. Il suo aspetto nordico e solare contrastava con la bruna, mediterranea aggressività dell’altro, sottolineando in modo visibile la loro diversa personalità. Quel lungo silenzio finì con l’indisporre Orlando. «Avanti, dimmi cosa c’è che non va’.» «Niente», rispose l’altro con una scrollata di spalle. «Mi stavo solo chiedendo se la nostra azione non potrebbe venire interpretata come un atto di guerra, una violazione della tregua.» «Non c’è stata battaglia. Abbiamo solo catturato ostaggi.» «Un morto c’è stato, e non ce ne sono stati altri solo perché erano talmente spaventati da non essere in grado di reagire.» «Siamo venuti per liberare la Spagna dai mori. Non è certo con le tregue e i

negoziati che si vincono le guerre.» «Malgrado ciò che pensi, qualche volta bisogna dare spazio alla diplomazia.» «Con i mori non si discute. Si uccidono e basta. Non esistono altri modi per ridurli alla ragione.» «Temo che tuo zio Gano non sarebbe d’accordo», sorrise Olivieri. Il giovane s’incupì, nel sentir pronunciare quel nome. «Siamo in disaccordo praticamente su tutto. Il rancore che nutre nei miei riguardi lo rende cieco.» «Credo che dovresti parlargli. Sarebbe ora di chiarire i malintesi che si sono creati fra voi, invece di limitarvi a guardarvi in cagnesco.» «Credi che non abbia tentato? Ma quando cerco di affrontare l’argomento lui diventa evasivo, sfuggente, si trincera dietro la barriera che ha eretto intorno a sé e rende vani i miei sforzi. Adesso poi è in missione chissà dove per ordine del re e non avrò occasione di parlargli per un pezzo.» «Comunque, ti consiglio di chiarire ogni cosa appena tornerà. Sono convinto che non abbia smesso di volerti bene. Dovete solo riconciliarvi.» «Vorrei poter essere altrettanto ottimista, ma neanche il re riesce a spiegarsi il suo cambiamento.» «Ne avete parlato?» «Certo, ma non è servito a molto. Il re ha tentato di minimizzare, ma ho intuito che anche lui è turbato.» Rimasero in silenzio, seguendo ciascuno il corso dei propri pensieri. Sebbene avesse voluto rassicurarlo, Olivieri non poteva impedirsi di essere preoccupato per la tensione quasi tangibile che era venuta a crearsi fra i due, incrinando i loro rapporti. Gano di Maganza aveva sempre dimostrato affetto per il nipote, ma poi era avvenuto qualcosa che l’aveva cambiato. Gli elogi si erano mutati in critiche, i pregi in difetti. In un arco di tempo relativamente breve, Orlando non era più

stato motivo d’orgoglio per lo zio, che aveva preso l’abitudine di giudicarlo in modo severo, a volte spietato. Niente più gli andava bene, qualsiasi cosa fe, tanto che persino il re l’aveva richiamato, esortandolo a mostrarsi più benevolo e comprensivo. Gano si era risentito e si era fatto ancora più scostante. Era stato allora che Carlo aveva ritenuto opportuno mandarlo in missione altrove, pensando che la lontananza gli avrebbe giovato. Nonostante fosse sempre pronto a vedere il lato positivo delle cose, Olivieri fu costretto ad ammettere che la situazione non prometteva niente di buono. I pensieri di Orlando erano molto più tempestosi, e se l’amico fosse stato in grado di percepirli ne sarebbe rimasto sgomento. Il disamore e il rancore dello zio l’avevano ferito più profondamente di quanto fosse disposto a riconoscere. Gano era stato la sua guida, il suo punto di riferimento, la fonte a cui attingere la conoscenza. Se a soli quindici anni era stato ammesso nel comitato dei pari, lo doveva a Gano. Al suo fianco si era nutrito di ideali. A lui doveva il suo profondo senso dell’onore, della lealtà, dell’amor patrio e l’illimitata fedeltà al proprio sovrano, che pur essendo il suo vero padre era dovuto restare nell’ombra, demandando ad altri il compito di educarlo e istruirlo. Orlando sarebbe morto per il re, se fosse stato necessario. Ma anche per Gano… fino a qualche tempo prima. Adesso l’animo di Orlando era inquinato dal dubbio; un amalgama di sentimenti che non era capace di discernere, che forse aveva paura di analizzare perché temeva di scoprire che colui che aveva idolatrato e innalzato al di sopra di tutti potesse rivelarsi un simulacro di falsità e di menzogne. Malgrado fosse consapevole che quel conflitto rischiava di distruggerlo, Orlando non sapeva come uscirne e si macerava nel dilemma. Ormai, soltanto l’esaltazione della battaglia, l’ebbrezza del sangue e l’odore del ferro avevano importanza. Odiare i mori e farne strage era diventata la sua unica ragione di vita. Niente gli procurava maggior soddisfazione dell’ucciderli. Anche quel mattino, quando avevano avvistato i mori, era stato lui a decidere di tendere l’agguato e catturarli. Olivieri si era dichiarato in disaccordo, ma alla fine aveva dovuto cedere. Nei brevi istanti di tensione che avevano preceduto la loro resa, Orlando aveva sperato che opponessero resistenza per avere il pretesto di ingaggiare battaglia e sterminarli. Eppure non era un mostro assetato di sangue, anzi, il suo innato senso di cavalleria lo portava ad avere rispetto per il nemico.

Tuttavia coi mori era tutt’altra questione: gli ispiravano un odio sconfinato e avevano il potere di risvegliare il Drago dentro di lui e di scatenare la sua furia. Gioiva quando brandiva Durendal e la mulinava facendo vibrare nell’aria la lama lucente, traendone suoni armoniosi e terrificanti insieme. Quel suono echeggiante di morte aveva il potere di atterrire i nemici, anche i più coraggiosi. Tre nomi più di ogni altro temevano i mori: Orlando, Durendal e l’Olifante. Si faceva annunciare dall’Olifante, poi lanciava il nero destriero contro i nemici con Durendal in pugno, e paladini e soldati lo seguivano urlando, seminando terrore e morte. Di vittoria in vittoria avevano strappato ai mori le città e le fortezze di Spagna. Li avevano sconfitti e sottomessi. Molti avevano abiurato e si erano fatti cristiani. Carlo li aveva perdonati, accordando favori e privilegi. Orlando non approvava la benevolenza del re, perché era certo che il giorno in cui si sarebbero ritirati per tornare in Francia, quegli stessi che avevano abbandonato la loro fede avrebbero tradito. Senza il temibile esercito franco a proteggere quei territori, i cristiani avrebbero di nuovo patito la persecuzione degli oppressori. La dura lotta e tutto il sangue versato sarebbero stati vani. Per questo voleva ucciderne quanti più poteva. Per questo chiudeva il proprio cuore alla pietà. I mori non ne avevano e chi negava pietà agli altri, non era degno di riceverne. Lui si sentiva come la collera di Dio scatenata per liberare quel suolo dai dominatori. Dopo un po’ Olivieri tornò a parlare. Non era capace di restare a lungo in silenzio e voleva dissipare le nubi temporalesche che si erano addensate sul volto dell’amico. «Credi che siano belle?» domandò con un sorriso malizioso. Orlando volse il capo. «Chi?» «Le prigioniere, o gli ostaggi, se preferisci. Mi stavo chiedendo quali sembianze nascondano quei fitti veli.» «Non lo so e nemmeno m’interessa. Una volta a Cordova le consegneremo al re e non le rivedremo mai più.» «Non sei curioso neanche un pochino?» «Perché dovrei? Il loro aspetto non è affare che mi riguardi.» Mentre lo diceva si

girò sulla sella per gettare un’occhiata alle due donne. Una cavalcava eretta e fiera, altera come una regina. L’altra teneva il capo chino e gli occhi bassi. Per un istante incrociò lo sguardo della prima e ne fu traato come da una lama. Sorrise, beffardo e impertinente, e lei abbassò ancor più il cappuccio del mantello per celarsi ai suoi occhi profani. L’amico finse di non avvedersi del suo interesse appena dissimulato e sorrise di nuovo. «Ne deduco che Alda è sempre la signora del tuo cuore.» «Ancora e sempre», sospirò Orlando addolcito. «Non esiste al mondo creatura più bella, dolce e soave. A parte la regina Ildegarda.» «Doverosa precisazione», scherzò l’altro. «Che d’altronde condivido pienamente. Donne così sono assai rare.» Orlando lo scrutò. «È per questo che non c’è un’innamorata che si strugge nell’attesa del tuo ritorno?» chiese. Olivieri scoppiò a ridere sornione. «Di innamorate afflitte ce ne saranno a decine, amico mio», si vantò. «Ma l’amore, quello vero, ancora non l’ho conosciuto. Mi chiedo se potrà accadere anche a me, di amare una donna in modo unico, assoluto.» «Non lo so, ma non ti scoraggiare. A volte Cupido colpisce quando meno te l’aspetti.» «Tu parli d’amore e ti infiammi pensando alla tua Alda lontana. Io ne parlo ed è come polvere dispersa dal vento. Non sono che vuote parole. Forse è destino che debba morire senza conoscere le gioie e le pene d’amore.» «Questa amarezza non ti si addice. Parliamo d’altro, se questo argomento ti rattrista.» «Hai ragione. Sono uno sciocco. Volevo distrarti dai tuoi cupi pensieri e invece ho ottenuto l’effetto opposto.» Un sorriso spianò il volto di Orlando, trasformandolo completamente. «Ti ho mai detto che dovresti sorridere più spesso?»

«Migliaia di volte.» «E allora fallo, perdio!» Risero insieme e quell’improvviso guizzo di allegria attirò l’attenzione degli ostaggi. Lo sguardo dell’altezzosa principessa si posò su Olivieri, chiaro e limpido come acqua di fonte, e poi su Orlando, tenebroso, oscuro come un dio della guerra, affascinante e misterioso. Le incuteva paura, ma allo stesso tempo, in modo arcano e inquietante, esercitava su di lei un forte potere d’attrazione. Aveva percepito una corrente, tra loro, nel momento in cui si erano guardati. Un breve duello silenzioso durante il quale aveva colto tutte le implicazioni e i pericoli. Uno scontro di sguardi e volontà pronte a sfidarsi, ma anche di ione pronta ad accendersi. Ebbe un fremito nel ricordare la profezia che tempo addietro le aveva fatto una veggente. Che fosse lui il valoroso guerriero cristiano di cui le aveva parlato? La compagna la scrutò apprensiva e si attirò una gelida occhiata. «Che hai da guardare?» sibilò. «Attenta, mia signora. In lui arde un fuoco che potrebbe bruciarti», l’ammonì. «Bada a quel che dici, Amina», la redarguì minacciosa la principessa. Mortificata, la donna abbassò il capo e sospirò. Non voleva attirarsi la collera della padrona e non osò dire altro, ma si ripromise di stare in guardia.

24

Arrivarono a Cordova al tramonto. Le mura fortificate recavano ancora i segni dell’assedio, il cui ricordo era recente, ma sugli spalti sventolavano gli stendardi e le bandiere di Carlo, illuminati dai fuochi di mille torce. La turrita, orgogliosa Cordova era di nuovo in mano cristiana, ma la caduta della roccaforte dei mori aveva richiesto un elevato tributo di sangue ai franchi. La campagna di guerra si stava rivelando dispendiosa oltre ogni aspettativa e Saragozza, nonostante tutto, continuava a resistere. Anche la tregua reggeva, a dispetto di coloro che a malincuore vi avevano aderito, e prima di scatenare una nuova offensiva il re voleva aspettare di conoscere l’esito dei negoziati. Confidava in Gano e nelle sue risorse, nell’abilità con cui tesseva le maglie sottili della diplomazia. Se c’era qualcuno in grado di concludere in modo brillante le trattative e ottenere la pace, non poteva essere che lui. Le porte si spalancarono davanti al distaccamento di cavalieri e soldati guidati dai due paladini. La presenza dei prigionieri mori e delle due donne suscitò la curiosità delle guardie, che si scambiarono occhiate perplesse, mentre quelli transitavano serrati tra i guerrieri e tutti insieme si allontanavano al galoppo per dirigersi verso il palazzo reale. Meno tranquilla fu la reazione della gente che incontrarono per strada. I mori furono fatti segno di gesti bellicosi e di qualche insulto, ma la presenza dei due paladini e dei soldati scoraggiò ogni velleità di aggressione. Anche a palazzo il loro arrivo fu accolto con sconcerto. Il vescovo Turpino, nel recarsi a riceverli, non esitò a disapprovare la cattura.

«È violazione della tregua!» esclamò. «Questo atto sconsiderato potrebbe compromettere l’esito delle trattative!»

«Vedi se ti riesce di farlo capire a Orlando», replicò Olivieri. «Lo dovevo immaginare che era stata idea tua. Non riesci a tenere a freno i tuoi istinti bellicosi.» Orlando sorrise senza scomporsi. «Sono degli ostaggi, Turpino, e come tali potrebbero rivelarsi utili. Non so quanto possano valere gli eunuchi, ma una delle donne è la figlia di un emiro. Per riaverla, suo padre sarà disposto a pagare un elevato riscatto.» «Non hai giudizio, ragazzo. Se solo usassi un po’ più il cervello e meno la spada, saresti sorpreso dai risultati.» «Smetti di farmi la predica, Turpino. In fondo non è successo niente di grave. Ho agito come ritenevo opportuno e sono pronto ad assumerne la responsabilità.» «Sarai certo chiamato a farlo. Stiamo attraversando una fase assai delicata in cui basta un o falso per mandare tutto a monte. Non è il momento di darsi alle bravate.» Orlando lo trafisse con lo sguardo, ma si rimangiò le parole infuocate che stava per pronunciare. Il rispetto che gli portava lo indusse a toni più pacati. «Vado a fare rapporto al re, prima che qualcuno si senta in dovere di informarlo. Nel frattempo, tu e Olivieri potreste occuparvi della sistemazione degli ostaggi.» Se ne andò senza attendere risposta, e sentì su di sé tutto il peso dello sguardo della principessa: una lama di ghiaccio che gli trafiggeva la schiena.

Carlo fu contento di vederlo e congedò Eginardo per parlare con lui da solo. Lo abbracciò con calore e lo invitò a sedere, chiamando un servo e ordinando che portasse da bere. «Allora, quale esito ha avuto la ricognizione delle province basche?» chiese senza preamboli. «Negativo, sire. Non s’è vista traccia di ribelli e la gente sembra tranquilla. I nostri agenti hanno fatto rapporti rassicuranti, forse persino troppo.»

Il re lo scrutò per un lungo istante, prima di parlare. «Mi pare di cogliere una sfumatura di ambiguità nelle tue parole. Pensi forse che tuo zio Gano non abbia fatto bene il proprio dovere?» «E chi sono io per giudicare il suo operato? No, sire, non intendevo muovere alcuna critica. Almeno finché i baschi non ricominceranno a darci fastidio.» «Temi che lo facciano? Ci hanno giurato fedeltà. Gano se n’è fatto garante.» «Non sarebbe la prima volta che un giuramento viene infranto. Gano li ha conquistati alla nostra causa, ma potrebbero essere fedeli più a lui che a te.» «Gano è un fedele servitore del re!» scattò Carlo contrariato. «E non permetto a nessuno, nemmeno a te, certe insinuazioni.» «Non volevo farne. È solo che la situazione instabile delle province basche mi preoccupa e sono persuaso che non debba essere sottovalutata.» «Terrò in debito conto il tuo avvertimento», dichiarò Carlo. «E lo farò presente a Gano, appena tornerà. C’è altro che mi devi dire?» «In effetti sì, ci sarebbe un’altra cosa. Sulla via del ritorno ci siamo imbattuti in un distaccamento di mori. Abbiamo loro intimato la resa e li abbiamo catturati. Scortavano due donne, una delle quali ha dichiarato di essere figlia di un emiro. Li abbiamo condotti qui come ostaggi.» Il volto di Carlo si oscurò. «Ostaggi? Hai catturato dei mori pur sapendo che stiamo negoziando la resa di Saragozza?» «Ho pensato che ci sarebbero stati utili. Potrai chiederne il riscatto, oppure scambiarli con dei nostri prigionieri. Non c’è stato praticamente spargimento di sangue, quindi non c’è stata violazione della tregua. Ho semplicemente fatto valere un nostro diritto, poiché si trovavano in un territorio posto sotto la nostra giurisdizione.» «Olivieri la pensa come te?» «Non esattamente. Ho dovuto convincerlo che stavamo agendo in piena legalità.»

«Spero che riuscirò a persuadere anche l’emiro a cui hai rapito la figlia, quando gliela restituirò senza richiesta di riscatto e accompagnata dalle nostre scuse. Con Namo e Wala mi inventerò qualcosa che eviti il peggio. Ma tu, da ora in poi, astieniti dal commettere altre pazzie di questo genere, chiaro?»

«Restituirai gli ostaggi senza chiedere niente in cambio?» «È il meno che possa fare, e spero che basti, per ricucire la frattura. Chi è l’emiro in questione?» «Non lo so. Ci siamo limitati a catturarli e a condurli qui. Non facciamo conversazione coi prigionieri.» «In questo caso, trattandosi di una donna, avreste potuto fare un’eccezione. Chissà come sarà spaventata, poverina!» Orlando la rivide: altera e sprezzante, traboccante di odio e di collera. Se fosse stata un uomo si sarebbe avventata su di lui per tagliargli la gola. «No, sire, non credo proprio.» «Comunque, bisognerà trattarla col riguardo che le è dovuto e procurarle delle ancelle, anche se ne ha già una. Andrò a farle visita al più presto. Intanto tu scoprirai chi è l’emiro suo padre e me lo riferirai, in modo che possa prendere contatti e informarlo che sua figlia si trova presso la mia corte e al sicuro.» «E dopo?» «Dopo, se tutto andrà come spero, la ricondurrai dalla sua famiglia. Tu l’hai presa e tu la restituirai.»

Nel rientrare al proprio alloggio, Orlando trovò Olivieri, che gli andò incontro interrogandolo con gli occhi. Orlando lo prese per un braccio e lo trasse nella stanza, chiudendo la porta dietro di loro.

«Siamo nei guai?» domandò Olivieri con una sfumatura d’inquietudine. «No, non saranno presi provvedimenti disciplinari nei nostri confronti.» «Meno male. Per un momento ho temuto il peggio. Ma racconta, non tenermi sulle spine.» «Non c’è molto da dire, a parte che il re ha deciso di restituire gli ostaggi senza riscatto e con le sue scuse.» «Speriamo che l’emiro non voglia la tua testa.» «Me lo auguro, visto che sarò io a eseguire questo incarico.» «Un compito ingrato», sospirò Olivieri. «Sono d’accordo, ma farò il mio dovere.» «Chiederò il permesso di accompagnarti. Se è stato un errore catturare i mori, lo abbiamo commesso in due.» «Me ne sono addossato tutta la responsabilità. Ho detto che tu hai tentato di dissuadermi, il che è vero, e che non ti ho dato retta.» Sorrise. «Non ti preoccupare, me la caverò.» Rasserenato, Olivieri ricambiò il sorriso. «Non ne dubito; tu hai nove vite come i gatti, e proprio come loro ricadi sempre in piedi.» Si alzò per congedarsi, ma Orlando lo trattenne. «Ancora una cosa, prima che te ne vada. Dov’è stata alloggiata la principessa?» «Nell’ala del palazzo in cui si trovava il serraglio del governatore. È stata un’idea di Turpino. Come mai ti interessa?» «Il re desidera che mi informi sulla sua famiglia.» «Andrai a farle visita?» «Devo, anche se ne farei volentieri a meno.» «Sta’ attento, sarebbe capace di cavarti gli occhi.»

«Starò in guardia», replicò Orlando sorridendo, mentre lo accompagnava alla porta. Si salutarono con un abbraccio e Olivieri se ne andò. Dopo aver chiamato a più riprese lo scudiero, Orlando si spazientì e andò a cercarlo. Restò sorpreso di non trovarlo, dato che il ragazzo eseguiva con zelo i propri compiti, ma ritenne che fosse stato chiamato altrove e si rassegnò a spogliarsi da solo. Tuttavia, rientrando nel proprio alloggio, ebbe la sorpresa di trovarvi un uomo che non conosceva e dopo un istante di stupore lo minacciò con la spada, costringendolo ad arretrare. «Chi sei e cosa ci fai qui?» lo apostrofò. «So… sono Argante, signore. Il… il tuo umile s… servo.» «Non ti conosco, né ti ho mai visto prima. Bada, se menti…» Lo pungolò, obbligandolo ad addossarsi alla parete. «Giuro su Dio che è la verità.» «Tu puzzi di saraceno, uomo, e non m’inganni. Quelli della tua razza li riconosco a fiuto.» «Sono cristiano e battezzato, lo giuro!» «Dov’è Galante, il mio scudiero?» «È stato chiamato da ser Namo per svolgere non so quale servizio. Io sono stato mandato a sostituirlo.» Orlando rinfoderò la spada. «Forse dici la verità, ma le tue spiegazioni non mi convincono. Non mi fido di te. Ora va’ a cercare il mio scudiero e mandalo qui. Subito!» Argante obbedì, cinereo per la paura, e la porta si chiuse con un tonfo dietro di lui. Reso diffidente dal comportamento dell’uomo, il giovane fece un rapido sopralluogo per accertarsi che non fosse stato manomesso o trafugato qualcosa.

Trovò tutto in ordine, ma la sensazione d’inquietudine non lo abbandonò. Mentre aspettava Galante si versò del vino e lo sorseggiò lentamente, pensieroso e di malumore. A causa del contrattempo, se tale era, sarebbe arrivato in ritardo a cena. Lo scudiero arrivò poco dopo, trafelato per la corsa, e si scusò. «Non ho potuto esimermi dall’assistere ser Namo, signore. Il suo servo Gerione è stato ferito e non poteva accudirlo.» «È stato lui a mandarmi il saraceno convertito?» «Sì, mio signore, ero presente quando l’ha ordinato.» «Va bene», annuì Orlando. «Adesso aiutami a cambiarmi, sono già in ritardo.»

Arrivò a cena già cominciata. Re Carlo sedeva a tavola circondato dai paladini e dai più stretti collaboratori. Turpino era alla sua destra, con al fianco Eginardo, ma il posto di sinistra era libero. Nel vedere Orlando il re gli fece cenno di raggiungerlo e lui si affrettò a obbedire, per nulla sorpreso dall’onore. «Spero che tu abbia una giustificazione per il ritardo», gli bisbigliò girandosi verso di lui. «Sono desolato, ma ho avuto un contrattempo», rispose lanciando un’occhiata a Namo, seduto dall’altra parte. «Niente di grave, mi auguro.» «No, sire. Solo un trascurabile disguido.» «Allora mangiamo.» Le portate erano numerose e abbondavano le carni arrostite, di cui il re era particolarmente ghiotto. Lo scalco provvedeva a tagliare e disossare per lui, ma non di rado restava inattivo perché a Carlo piaceva farlo da solo. Mangiando

conversava e scherzava, scambiando battute coi paladini. Eginardo, che era il suo biografo personale, stava attento a tutto, pronto a cogliere ogni sfumatura delle parole che pronunciava per poterle trascrivere fedelmente. Orlando mangiò poco, bevve con moderatezza e parlò ancora meno. Le voci chiassose e le risate lo infastidivano più del solito ed era impaziente di andarsene, ma secondo le abitudini del re la serata si sarebbe protratta e bisognava adattarsi. Tuttavia, a un certo punto, il re richiese l’attenzione dei commensali e impose il silenzio. Il vociare cessò immediatamente e gli sguardi conversero su di lui, in attesa che parlasse. Pure Orlando fu incuriosito dall’interruzione, sebbene avesse intuito fin dal principio che il sovrano teneva in serbo qualche sorprendente notizia. «Questa sera mi è giunto un messaggio da parte di Gano di Maganza, il quale mi informa che ci sono elevate possibilità che le trattative abbiano esito positivo. Aggiunge che dovremo presto aspettarci di ricevere un’ambasceria con profferte di pace e che al suo rientro, previsto a breve termine, mi farà un resoconto più dettagliato.» La notizia provocò reazioni di diversa natura. Alcuni manifestarono soddisfazione e anche sollievo, altri l’accolsero con diffidenza, se non con sospetto. Orlando era fra questi ultimi.

Il re impose di nuovo il silenzio. «Credevo avreste accolto tutti con entusiasmo questa notizia, ma mi sbagliavo. Scorgo degli scontenti fra voi e mi domando perché. Dopo tre anni di guerra e di lontananza dovreste essere lieti ora che si profila l’eventualità di stipulare una pace duratura che ci consentirà di tornare in Francia, invece non è così. Anche tu, Orlando. Te lo leggo negli occhi, sebbene tu non abbia proferito parola.» L’attenzione dei presenti si accentrò su di lui, che intendendo l’implicito invito del re si alzò. Alto, prestante e bello, eguagliava Carlo in imponenza. «È vero, sire, l’annuncio che ci hai dato non mi rallegra come dovrebbe. Malgrado senta, al pari degli altri, il desiderio di tornare in patria, considero a dir

poco sospetta la profferta di pace che dovrebbe giungerci dall’emiro di Saragozza. Siamo venuti per liberare la Spagna dai mori, per sconfiggerli e ricacciarli in mare, ma ancora non abbiamo assolto il nostro compito. Se ci ritireremo senza averlo fatto, questi tre anni di guerra saranno stati vani e coloro che hanno sparso il loro sangue saranno morti per niente. Per questo dico che bisogna rifiutare la dubbia offerta di pace e continuare a combattere. Finché resterà anche un solo saraceno su questa terra, la libertà di noi tutti sarà in pericolo.» Si levarono voci di dissenso e altre d’approvazione. I due partiti che si erano creati proclamarono la loro posizione e la sala echeggiò di animate discussioni. Ma prima che potessero degenerare, il re vi pose fine con un gesto autoritario. Tornò il silenzio, repentino a glaciale. «Ho ascoltato la tua opinione, così come ne ascolterò altre a tale proposito, poiché al solo sentir pronunciare la parola “pace” alcuni di voi fremono d’indignazione. Tuttavia voglio che vi sia ben chiara una cosa: la decisione finale spetterà a me e a me soltanto. Quando il conte Gano tornerà e mi avrà riferito ogni dettaglio, riunirò il consiglio e vi metterò al corrente di tutto. Fino ad allora, considero la discussione chiusa. Non voglio sentirne più parlare.» Fece scorrere lo sguardo sui presenti, quasi sfidandoli a contraddirlo, ma nessuno fiatò.

25

Orlando e Olivieri tornarono insieme ai loro alloggi, che erano contigui, e prima di separarsi si trattennero a parlare. «Temo che il re non abbia apprezzato la tua franchezza, in specie sapendo quanta influenza abbia il tuo esempio su noi tutti. Inoltre, entrare in aperta polemica con l’operato di tuo zio non è stata una mossa avveduta.» «Ho solo detto quello che penso», replicò asciutto Orlando. «Lo so, ma un po’ di tatto non avrebbe guastato. Perdonami, ma se continui così rischi di contrariare il re una volta di troppo.» «Se vuole circondarsi di gente pronta a leccargli i piedi, allora dovrà scegliere tipi come mio zio Gano. Io sono pronto a morire per lui, ma non sarò mai servile!» Con un gesto d’impazienza, l’amico lo trascinò dentro la stanza. «Stai giocando col fuoco, Orlando, e rischi di bruciarti!» lo ammonì. «Ci sono limiti oltre i quali neppure noi possiamo andare. Nessuno può arrogarsi il diritto di dire al re ciò che deve o non deve fare. Non lo capisci che con la tua condotta rischi d’imboccare una strada sbagliata?» Lo sguardo ardente di collera di Orlando lo colpì ancora prima delle aspre parole che pronunciò. «Se non fossi mio amico ti farei pentire di ciò che hai detto!» Olivieri, ferito, abbassò il capo. «Vedo che non sei nello stato d’animo migliore per ragionare, e mi addolora che tu abbia frainteso il senso delle mie parole. E siccome non voglio che fra noi vengano a crearsi dissapori, ti auguro la buona notte.» Fu soltanto lo smisurato orgoglio a impedirgli di trattenerlo per scusarsi. Lo guardò andare via in silenzio, lasciando che l’incomprensione restasse sospesa fra loro come un’invisibile barriera. Ribollente di collera, serrò il pugno e lo abbatté sul tavolino, mandandolo in frantumi. Il dolore lo placò e lo fece tornare

in sé quel poco che bastava a capire che Olivieri aveva parlato soltanto per il suo bene, che non aveva inteso urtarlo e tanto meno offenderlo. Tuttavia non avrebbe ritirato le parole pronunciate davanti al re.

Il mattino seguente, reduce da una notte quasi insonne, Orlando si vestì in fretta e si recò a bussare alla porta di Olivieri con l’intenzione di scusarsi. Venne ad aprirgli un servo, che lo informò dell’assenza del conte. «Dov’è?» chiese Orlando. «Nella sala d’armi, signore, a esercitarsi con gli altri.» Lo ringraziò e se ne andò a lunghe falcate. Nello scendere quasi a precipizio le scale investì Turpino, che le saliva leggendo il breviario. «Ehi, cos’è tutta questa furia?» gli chiese. Il giovane si chinò a raccogliere il libretto e glielo restituì con un sorriso. «Perdonami, spero di non averti fatto male.» L’altro batté le palpebre, incredulo di fronte all’inattesa cortesia. «Sei certo di stare bene, ragazzo?» «Sì, sto bene, anche se non ho dormito affatto stanotte.» «Insonnia d’amore?» «Di tutt’altra specie, purtroppo. Sei stato nella sala d’armi?» «Ne vengo proprio ora. Ho fatto un po’ di allenamento. Anche se non mi è più consentito combattere, preferisco tenermi in esercizio.» «Hai visto Olivieri?» «L’ho lasciato che stava duellando con Ansegi. Come mai tanta urgenza di vederlo? È successo qualcosa tra voi ieri sera?» Con la sottile capacità d’intuizione che gli era propria il vescovo aveva colpito nel segno. «Abbiamo avuto un piccolo diverbio», ammise Orlando. «E non vado

orgoglioso del modo in cui mi sono comportato. Voglio scusarmi e riappacificarmi.» «Sono contento di sentirtelo dire», approvò Turpino. «Vorrei suggerirti, se posso, di ritrattare le osservazioni fatte davanti al re. Il tuo atteggiamento gli è dispiaciuto.» Orlando s’irrigidì. «Ne sono desolato, ma non ho cambiato parere.» «Non dico che tu lo debba fare, ma almeno adotta una linea più morbida. In parole povere, cerca di essere più diplomatico.» «Io sono un guerriero, non un politicante.» «Non è detto che le due cose debbano essere disgiunte, ma… su questo non ci sono dubbi. Ti avverto, però, che un giorno o l’altro il tuo orgoglio ti condurrà a commettere qualche irreparabile sciocchezza. Ora va’, ragazzo, va’ a riconciliarti con Olivieri.» Con un cenno Orlando lo lasciò. Turpino si girò per seguirlo con lo sguardo e sospirò. Nessuno più di Orlando avrebbe incarnato lo spirito cavalleresco, se solo non avesse permesso al proprio lato oscuro di prevalere. La sala d’armi echeggiava di suoni guerreschi, non troppo dissimili da quelli che si udivano su un campo di battaglia. Le armi smussate che si usavano per le esercitazioni non toglievano nulla al realismo degli scontri, né sminuivano l’impeto dei duellanti. Di solito i paladini si allenavano all’aperto, ma quando erano pochi, come in quel caso, non disdegnavano la grande sala, adibita a quell’uso dall’emiro che aveva governato la città. Dalla soglia Orlando indugiò a osservare Olivieri e Ansegi, grondanti sudore, che menavano colpi rapidissimi, i giovani volti contratti nello sforzo e nella concentrazione. C’era qualcosa di selvaggio e di antico nei loro movimenti, come eseguissero una danza tribale votata a un oscuro dio della guerra. Ne ammirò la destrezza, la velocità e l’ardore. Senza provare invidia per la bravura di cui davano prova, applaudì quando Ansegi mandò a segno un colpo che fece vacillare Olivieri. I due interruppero il combattimento per guardarlo e sorrisero.

«Unisciti a noi», lo invitò Ansegi. «No, grazie. Non sono venuto ad allenarmi, ma solo per parlare con Olivieri. Aspetterò che abbiate finito.» «Per me può bastare», dichiarò il giovane, facendo un inchino all’avversario sconfitto. «Sei d’accordo anche tu?» «Sì, ma non vantarti per questa vittoria. La prossima volta la sconterai con gli interessi.» «Sono sempre pronto a concederti la rivincita», sorrise l’altro posando l’arma e avviandosi verso l’uscita. Olivieri prese un panno per tergere il sudore dal viso e sedette su una panca, invitando Orlando a raggiungerlo. «Sei arrivato giusto in tempo per salvarmi. Oggi Ansegi mi avrebbe distrutto.» «È diventato bravo», convenne Orlando. «Molto. Ricordi quando fu nominato cavaliere con Sansone e Gerardo e tutti e tre, novizi, diventarono paladini?» «Sì, sembra ieri.» «E ricordi la disputa che sorse al momento di dare un nome alle loro spade? Tutti e tre volevano chiamarle Micaela per onorare l’Arcangelo Michele. L’ebbe vinta Gerardo.» «E tutti e tre ebbero l’onore di cavalcare al fianco del re, il primo giorno dopo la partenza.» «Sembra ato un soffio da quando accadde, invece sono trascorsi tre lunghi anni. Quanti amici abbiamo perso? Dì, ne hai tenuto il conto?» «No, è tanto che ho smesso di contarli», sospirò Orlando. «Però noi dodici siamo tutti insieme come allora e soltanto a sentirci nominare i mori battono i denti per la paura.»

Olivieri annuì con un sorriso. «Già, e corre voce che dodici valenti guerrieri dei loro vogliano emularci. Ciò ti lusinga?» «Al contrario, mi infastidisce. Non ci sono limiti alla loro millanteria.» «Sono d’accordo. Il solo pensiero che dei mori si proclamino paladini è un’ingiuria a Dio, ancor prima che a noi. Tuttavia non potremo impedirlo se il re deciderà di ordinare la ritirata. Tutto dipende da ciò che dirà Gano e dall’incontro con gli ambasciatori dell’emiro.» «Se avrà luogo.» «Non c’è dubbio, salvo che si verifichi un impedimento.» «Basterebbe che i mori infrangessero la tregua, e non sarei sorpreso se accadesse.» «È questo che speri? Non dirmi che la cattura degli ostaggi è stata un’azione provocatoria.» «Sul mio onore, non lo è stata. In quel momento ho pensato solo ai vantaggi che avremmo potuto trarne. Anche se desidero combattere più di ogni altra cosa, non arriverei mai a scatenare una guerra.» «Lo so, ti conosco troppo bene per pensarlo, sia pure di sfuggita. Ma qualcun altro potrebbe sospettarlo se la tregua così faticosamente raggiunta dovesse essere infranta.» «Per esempio mio zio Gano?» «Lui, e forse parecchi degli altri. Magari persino il re, dopo quello che hai detto ieri sera.» Orlando colse al volo l’occasione. «A proposito di ieri sera…» L’amico gli posò la mano sulla spalla e lo interruppe. «Non dire niente. Ho già dimenticato.»

Orlando lo guardò con affetto e gratitudine. «Ti ringrazio, sei un vero amico.» «Puoi giurarci. Ho ancora la cicatrice del taglio che ha suggellato il nostro patto di sangue», replicò Olivieri scoprendo il braccio per mostrarla. «Anch’io», disse Orlando mostrandola a sua volta. «Soltanto la morte potrà infrangere il nostro patto.» «Sì, soltanto la morte», gli fece eco l’amico con una nota di malinconia nella voce. Quelle ultime parole aleggiarono nella sala d’armi come un funesto presagio, ma a riscuoterli dalla repentina tristezza arrivò Engelieri. «Venite, presto!» esclamò dalla soglia. «Il re ha convocato d’urgenza il consiglio.» I due giovani si scambiarono uno sguardo allarmato e balzarono in piedi per raggiungerlo. «Cos’è successo?» domandò Orlando mentre si avviavano. «Non lo so. Appena informato sono corso a chiamarvi. Comunque si tratta certamente di cosa grave.» Ne convennero e affrettarono il o, impazienti di conoscere la ragione della convocazione improvvisa. La sala era affollata, l’agitazione intensa. Il volto del re era cupo, solcato da rughe di contrarietà, e i suoi occhi scintillavano come cristalli di ghiaccio. Al vederli fece segno di unirsi agli altri, raggruppati alla sua destra. Turpino e l’immancabile Eginardo erano dietro di lui. Namo e Wala ai suoi fianchi. Si udiva un mormorio sommesso, simile al vibrare delle corde di un’arpa, e Orlando sentì la tensione salire in una spirale sempre più stretta, finché anche lui ne fu contagiato e dovette reprimere a forza l’impulso di farli tacere. Ma prima che si arrivasse al punto critico il re alzò la mano per imporre il silenzio. Ora muti, lo guardarono tutti, scossi da un fremito d’attesa.

«Poco fa mi è giunta una notizia di gravità inaudita che mi ha indotto a convocare d’urgenza il consiglio. Duemila scariti che dovevano controllare i movimenti del nemico sono stati massacrati in un’imboscata. L’unico superstite, malgrado le ferite, è riuscito a tornare per riferire l’accaduto ed è morto subito dopo. La tregua è stata deliberatamente violata e pertanto ho ordinato l’interruzione dei negoziati. L’incontro con gli ambasciatori è stato annullato. La guerra continuerà finché Saragozza non cadrà o si arrenderà. Partiremo non appena il conte Gano sarà rientrato. Inutile che vi dica quanto ciò mi abbia rattristato. La perdita di duemila uomini valorosi è un duro colpo, ma gli autori del massacro non resteranno impuniti. I mori pagheranno questo tradimento.» Un coro unanime si levò ad approvare le parole del re. Anche coloro che avevano auspicato un trattato di pace che avrebbe affrettato il ritorno in Francia gridarono come gli altri, se non più forte. Quelli che non avevano creduto alla buonafede dei mori, videro in quell’ennesimo tradimento la conferma della loro diffidenza, ma non per questo ne gioirono. La tragica morte dei soldati aleggiò su tutti come il presagio di ulteriori sciagure. Superato il momento di più intensa emozione, il re ò a illustrare i suoi piani di guerra. Si consigliò coi capi militari, valutò ogni possibile tattica e strategia, consultò genieri ed esperti, fra cui un moro convertito che veniva da Saragozza e si vantava di conoscerla a menadito. A sentire lui, Saragozza era inespugnabile, ma evidentemente non conosceva bene il re franco, nelle cui mani erano cadute molte città ritenute inespugnabili, e a cui non avevano resistito neppure le Chiuse di Susa e le difese longobarde. «Se vuoi collaborare fallo, altrimenti vattene e lasciaci lavorare in pace», lo redarguì Carlo. «Perdonami, sire», rispose quello contrito. «Volevo soltanto che ti rendessi conto delle difficoltà…» «Sono perfettamente in grado di capirlo da solo. Va’ avanti.» «Non posso senza l’apporto di un disegno.» «Sei capace di farlo?» «Certo, mio sire, ma mi occorrono almeno due giorni per ricostruire fedelmente la mappa.»

«Te li concedo. Comincia subito. Eginardo, va’ con lui e provvedi a tutto ciò di cui avrà bisogno.» E sorveglialo, era l’ordine sottinteso. Usciti che furono, Carlo tornò a rivolgersi al consesso. Ordinò che si avviassero i preparativi, in attesa di poter disporre di maggiori dettagli circa la consistenza delle difese della città, e volle che a precedere l’armata fossero inviati degli esploratori per studiare il percorso, per sapere quali e quante città avrebbero incontrato sul loro cammino e conoscerne le intenzioni. A quanto gli aveva riferito Gano nei rapporti, non ci sarebbe stata alcuna resistenza in caso di avanzata verso Saragozza, ma voleva esserne certo. Le avanguardie avrebbero garantito la tranquilla marcia delle truppe nel territorio. Al termine della discussione il piano dell’offensiva era stato messo a punto. Ora non restava che attendere la fine del lavoro di Maligante e il ritorno di Gano. Quando infine li congedò, Orlando chiese di restare. Gli fu concesso e appena rimasero soli il re gli chiese cosa volesse. «Che ne sarà ora della principessa?» «Di restituirli, come avevo deciso, non se ne parla. Ora potrebbero davvero esserci utili. Hai interrogato la principessa?» «Ancora no, ma intendo farlo subito se non hai altri compiti da affidarmi.» «Affrettati, e poi vieni a riferire.» Tacque un istante, poi gli posò la mano sulla spalla. «Immagino che sarai contento, adesso che si torna a combattere. Avrai occasione di coprirti di gloria.» «Non nego che mi dia piacere, sire», ammise Orlando. «Tu avevi ragione e io torto», disse il re inaspettatamente. «Coi mori non si può trattare. Non ci si può fidare della loro parola. Resteremo finché non li avremo cacciati tutti e la Spagna tornerà libera. È un giuramento solenne del quale tu sei testimone.» Sorrise e lo serrò in un abbraccio. «Di tutti i paladini, che sono l’élite della cavalleria franca, tu sei il migliore. Se dovessi affidare la mia vita a qualcuno sceglierei te.» «E io ti difenderei fino alla morte», promise Orlando.

«Lo so», rispose il re. «Ma spero che non bisognerà giungere a tanto. Ora lasciami, ho bisogno di riflettere.» «Come desideri, sire.» Fuori trovò Olivieri ad aspettarlo e dal suo sguardo capì che era in ansia per lui. Si sentì perciò in dovere di rasserenarlo. «Va tutto bene. Il re non è più in collera con me e ha riconosciuto che gli ostaggi da noi catturati adesso potrebbero esserci utili», disse mentre si incamminavano. «Vado a parlare con la principessa. Mi accompagni?» «No, lascio a te questa incombenza. Ho saputo quel che mi premeva e ora posso tornare ai miei compiti. Ci vedremo più tardi.» Si separarono e Orlando si avviò verso la scala. Non aveva alcun desiderio di rivedere la principessa, ma non potendolo evitare avrebbe almeno cercato di rendere il colloquio il più breve possibile.

26

Ai soldati che montavano la guardia Orlando disse che veniva per ordine del re e fu lasciato are. Varcata la soglia ebbe la sorpresa di trovarsi davanti Argante e non esitò a mostrare quanto poco contento fosse di vederlo. «Ancora tu! Si può sapere cosa ci fai qui?» L’altro s’inchinò, per niente turbato dal suo tono. «Sono stato incaricato di vegliare sulla principessa», rispose. «Poiché parlo correntemente la sua lingua e sono un eunuco, il re mi ha concesso questo privilegio.» «Un eunuco, eh?» brontolò Orlando. «E suppongo che dovrai fare da interprete.» «Non ce ne sarà bisogno.» «Allora accompagnami da lei e poi vattene», replicò avviandosi, ma Argante lo bloccò. «Devi aspettare qui. Vado a vedere se ti può ricevere.» Indispettito, Orlando si rassegnò e ne approfittò per guardarsi intorno. Benché ne avesse sentito parlare non aveva mai messo piede nel serraglio e la sua curiosità era giustificata. Conosceva l’usanza musulmana che consentiva agli uomini di avere più mogli, ma nel caso di emiri e califfi alle mogli si aggiungevano le concubine, talvolta numerose. Per ospitare tante donne, che vivevano isolate e celate alla vista di chiunque, tranne che del loro signore, delle schiave e degli eunuchi, occorreva molto spazio. Talvolta si trattava di un’intera ala del palazzo, come in quel caso, oppure di tutto un palazzo, costruito per loro. In quel regno inviolabile e segreto, le donne conducevano un’esistenza oziosa ma non sempre tranquilla, poiché non erano immuni da intrighi e congiure. Si dedicavano soprattutto alla cura del corpo e della bellezza, circondate da schiave pronte a esaudire ogni capriccio. Era un mondo dorato e lussuoso, del quale erano prigioniere fino alla morte. Una usanza che i franchi, rispettosi della libertà delle loro donne, ripudiavano.

Diviso tra meravigliato stupore e cristiana disapprovazione, Orlando esplorò l’atrio, al centro del quale c’era una fontana. I colori pastello dei marmi e dei mosaici si fondevano con mirabile armonia negli ornamenti dorati, nei trafori delicati come trine, nelle eleganti colonne smaltate che si slanciavano verso l’alto a formare archi e volute, per perdersi nel soffitto blu trapunto di stelle che ricordava l’incontaminata immensità del cielo in una notte estiva. Mentre si aggirava col naso per aria tornò Argante. Orlando si distolse dalla contemplazione per guardarlo con aria torva. «Allora, la principessa si degnerà di ricevermi o invecchierò nell’attesa?» Senza rilevare l’ironia, l’altro gli fece un inchino. «Se vuoi avere la cortesia di seguirmi, ti accompagno da lei.» Le sale che attraversarono lasciarono Orlando senza fiato. Il serraglio si stava aprendo davanti ai suoi occhi come uno scrigno colmo di gioielli preziosi, ma tutta la bellezza raffinata che lo circondava svanì di fronte alla splendida fanciulla che gli venne incontro. Niente l’aveva preparato alla leggiadra, straordinaria bellezza della giovane donna. Gli bastò uno sguardo per restarne folgorato. Alla vista di quell’apparizione di sogno l’immagine di Alda sfumò, inghiottita dalle brume della lontana terra di Francia.

«La principessa Shanaz», annunciò Argante con enfasi. «Figlia del potente signore di Salamanca, l’emiro Omar al Fayadi.» Orlando s’inchinò, deciso a non lasciarsi dominare dall’emozione e, rigido e distaccato, la fissò con occhi gelidi come il mare del nord. «Lasciaci soli», ordinò ad Argante. L’eunuco si mosse a disagio ed esitò. «Non… non è possibile, signore. L’etichetta…» «Ti ordino di lasciarci soli», ripeté Orlando. Argante guardò la principessa, che gli fece un cenno con la mano. «Vai, sono

certa che non correrò alcun pericolo», lo esortò con gentilezza. Non sentirono nemmeno la porta richiudersi. In piedi uno di fronte all’altro, si guardarono senza parlare per interminabili istanti. Solo il sommesso suono dell’acqua della fontana infrangeva il profondo silenzio. Infine fu Shanaz ad abbassare lo sguardo, turbata dalle sensazioni che il giovane cavaliere aveva risvegliato. Lui, che solo pochi attimi prima avrebbe voluto vedere morto e che ora, invece, le faceva battere forte il cuore. Pure Orlando, stordito e confuso, lottava contro l’attrazione fatale che lo trascinava verso di lei come un torrente in piena e che l’avrebbe condotto alla rovina. Lottò per spezzare l’incanto che minacciava di imprigionarlo. Si ammantò di orgoglio e distacco per dissimulare anche a se stesso ciò che provava, persuaso di poter vincere con la forza di volontà anche la battaglia con il proprio cuore. «Non vuoi sederti?» chiese lei d’un tratto. «No, grazie», le rispose gelido. «Allora camminiamo, se non ti spiace», propose la principessa. Orlando la seguì, acutamente consapevole della sua vicinanza, del frusciare delle sue vesti e del profumo. «Il mio re si augura che tu sia soddisfatta della sistemazione.» «Come potrei non esserlo? Queste stanze mi ricordano il palazzo di mio padre…» La prigione dorata da cui vorrei tanto fuggire, pensò. «Ringrazialo da parte mia per il trattamento di riguardo.» «Anche gli uomini della tua scorta sono stati ben alloggiati.» «Il tuo re è generoso coi nemici. Mi avevano detto che voi franchi siete barbari e incolti, ma ho potuto constatare che non così, almeno non sempre. Forse è soltanto a causa di questi pregiudizi che ci combattiamo.» «Non è un pregiudizio che voi abbiate conquistato la Spagna con le armi, che

abbiate costretto la gente a convertirsi alla vostra fede e giustiziato in modo sommario chi vi si è opposto. Noi vi combattiamo perché siete oppressori e persecutori dei cristiani. Si tratta di fare giustizia nel nome di Dio.» «Mio padre non ha mai perseguitato i cristiani, e nemmeno gli ebrei», replicò lei. «A Salamanca tutti convivono in modo pacifico, liberi di praticare il loro culto.» «Non conosco tuo padre e non posso giudicare il suo operato, ma so che quello che dite e quello che fate sono cose distinte. Prendi per esempio l’emiro di Saragozza: stava negoziando la pace, parlava di inviare ambasciatori e doni al nostro re per dimostrare la propria buona volontà, e molti di noi erano disposti a credergli. Poi veniamo a sapere che ha teso un’imboscata e ha trucidato duemila dei nostri soldati, violando la tregua e tradendo la propria parola. Con questo atto l’emiro ha gettato la maschera e ha rivelato il suo vero volto: quello di un vile traditore.» Shanaz si fermò e alzò gli occhi colmi di dolore. «Com’è profondo il tuo odio. Gronda dalle tue parole come un veleno, un acido corrosivo…» mormorò. «Dunque non c’è più tregua né margine per le trattative. Cosa ne sarà di me, adesso?» «Il re aveva deciso di renderti ai tuoi senza alcun riscatto. Era persino pronto a scusarsi per l’offesa che i suoi paladini ti avevano arrecato. Ora le cose sono cambiate. Sei un ostaggio e resterai qui finché il re non deciderà diversamente.» «Mio padre accetterà qualsiasi condizione purché sia liberata. Sono certa che se il tuo re ne fe richiesta, sarebbe disposto ad allearsi con lui per combattere l’emiro di Saragozza.» «Non credo che il re vorrà prendere in considerazione un’altra dubbia alleanza coi mori.» «Forse sì, se sarai tu a dirglielo. Faresti questo per me? Metteresti da parte il tuo sconfinato odio per favorire un’intesa che potrebbe rivelarsi vantaggiosa per tutte le parti in causa?» Lo supplicava con lo sguardo e non fu capace di negarglielo. «Proverò, ma non posso farti promesse.» «Mi basta», rispose lei afferrandogli la mano per baciarla.

Orlando la ritrasse subito, sorpreso e imbarazzato per il gesto di omaggio, ma gli parve che le labbra di lei avessero lasciato un’indelebile impronta. «Ora devo andare», disse turbato. «Ti farò conoscere al più presto la risposta del re.» Si allontanò senza aggiungere altro tanta era la fretta di sfuggirle, di sottrarsi all’incantesimo che lo avvinceva. Shanaz guardò la porta richiudersi dietro di lui e le sembrò che la stanza fosse ancora più grande e desolatamente vuota, ora che se n’era andato. Lacrime silenziose le rigarono le guance. «È stato così spiacevole l’incontro con il cristiano?» chiese Amina, entrata con o felpato. «Meno di quanto immaginassi», rispose la giovane. «Allora perché stai piangendo?» Shanaz sospirò. Era difficile celare qualcosa alla governante che l’aveva cresciuta. «Non ti riguarda», replicò altezzosa.

Quando si recò dal re per riferire il colloquio avuto con la principessa, Orlando dovette aspettare il proprio turno. Il sovrano era occupato e non poteva riceverlo. Si rassegnò all’attesa e meditò sull’incontro che aveva risvegliato emozioni da tempo sopite, precipitandolo nella confusione e nello smarrimento. Non era mai stato incline a lasciarsi facilmente attrarre dalle donne. La loro ammirazione lo lusingava, ma non era vanesio al punto da gettarsi in avventure amorose solo per aggiungere conquiste come tacche di vittoria sul legno della sua lancia. Era schivo, restio anche di fronte al più sfacciato tentativo di seduzione. Soltanto Alda era riuscita ad aprire una breccia nel suo inespugnabile cuore. L’aveva amata perdutamente, ma proprio nel momento culminante dell’amore era avvenuta la partenza. Il dolore per la separazione si era affievolito con la lontananza. Tre anni senza vederla, con soltanto sporadiche lettere a tenere vivo il loro legame, avevano a poco a poco spento la ione. Il tempo, inesorabile nemico, aveva fatto apire il tenero fiore sbocciato in quella ormai lontana primavera. Era rimasto ancorato a un’illusione, ora se ne rendeva conto, senza avere il coraggio di confessarlo a se stesso. La dolce, gentile Alda era svanita

come un sogno al momento del risveglio. Si sentì trafitto dal rimpianto per quell’amore che aveva creduto eterno e che invece si era rivelato effimero. Quale valore poteva avere, ora, l’impegno solenne preso con lei, quel giuramento apionato sussurrato nell’incanto torpido dei sensi? Adesso era agitato da un conflitto interiore che non sapeva come affrontare. Sul volto aveva i segni della violenta tempesta che imperversava nel suo animo; mai una simile furia l’aveva invaso, se non di fronte all’odiato nemico… All’aprirsi della porta si girò, così cupo e teso che Gano, al vederlo, represse a stento un sussulto. «Orlando…» «Zio Gano, sei tornato», disse, riprendendo il dominio di sé e sforzandosi di sorridere. Il mutamento di Orlando fu tanto repentino da indurlo a credere di essersi ingannato. «Poco fa, e non ho nemmeno avuto il tempo di ripulirmi, prima di presentarmi al re. Come stai?» «Al solito. E tu?» «Stanco, e anche scontento.» «Lo vedo, ma almeno adesso la situazione è chiara.» Gano storse la bocca. «Chiara? Come può esserlo con gente che dice una cosa, ne fa un’altra e pensa ancora qualcosa di diverso? Hanno l’animo tortuoso come un fiume che scorre in mezzo alle montagne e la mente subdola come serpi.» «Devi essere molto deluso per parlare in questo modo, tu che hai sempre sostenuto che si poteva negoziare, che ci si poteva fidare. Io, al contrario, non ho mai coltivato illusioni sul loro conto.» Gano affilò lo sguardo. «Dimmi, cosa si prova ad avere sempre ragione?» Il tono aspro ferì Orlando e un’ombra gli offuscò il viso. «Tu mi dovrai spiegare

il motivo di questo malanimo, zio, ma non ora e non qui. Scusami, ma devo andare a parlare col re.» «Certo, vai», replicò Gano con un cenno. «Le questioni di famiglia possono aspettare.» Nell’andarsene Orlando gli posò una mano sulla spalla. «Sono felice che tu sia tornato sano e salvo», mormorò. Gano lo guardò varcare la soglia e sospirò. Era provato e amareggiato, furioso per come la situazione era sfuggita al suo controllo. Non aveva avuto davvero intenzione d’infierire sul nipote, ma si era lasciato trasportare dalla collera e dalla frustrazione, sentimenti che ormai dominavano il suo cuore, dove la gelosia per l’affetto che Carlo dimostrava al giovane era una ferita aperta. Non riusciva a perdonare a Orlando d’aver preso il posto che era stato suo, così come non gli perdonava d’aver surclassato suo figlio Baldovino e di avere dimostrato quanto fosse vile. Ma c’era un altro tarlo che lo rodeva; il sapere che Orlando era figlio naturale del re e di sua sorella Ginevra. Traeva il suo unico e blando conforto dalla convinzione che un giorno Carlo l’avrebbe richiamato al suo fianco e reintegrato nel ruolo cui aveva diritto, riconoscendo infine di aver sbagliato nel sostituirlo con l’orgoglioso e temerario pupillo. Se ne andò rimuginando pensieri e desideri di rivalsa, reso cieco dal proprio rancore, sordo a ogni richiamo alla ragionevolezza che gli era stato rivolto dal suo sovrano. Intanto Orlando era al cospetto di Carlo. «Tuo zio è tornato prima del previsto», lo informò il re invitandolo a sedere. «Ha interrotto i negoziati non appena gli è giunta notizia del tradimento e ha galoppato fin qua a rotta di collo coi suoi baschi.» «Lo so. L’ho incontrato in anticamera e ci siamo salutati.» Carlo lo sondò con lo sguardo. «Come ti è sembrato?» «Teso, anche deluso. Non è stato molto amichevole.»

«Un modo inadeguato per descrivere il suo stato d’animo», commentò il re con un sorriso. «La chiusura delle trattative, sebbene non sia stata colpa sua, lo ha molto contrariato.» «È comprensibile, poiché era convinto della sincerità dei mori e della loro volontà di concludere la pace. Scoprirne la falsità deve essere stato un duro colpo. Credo che tema di averti deluso. Forse è questo che lo rode.» «C’è ben altro che lo rode, a quanto mi risulta, e francamente non lo capisco», dichiarò Carlo scrollando il capo. «Ma ora basta parlare di Gano. Dimmi invece della principessa.» «Ho saputo che è figlia dell’emiro di Salamanca, il quale, a suo dire, è sempre stato tollerante e magnanime nei confronti di cristiani ed ebrei. Secondo lei, sarebbe addirittura disposto a stringere un’alleanza con te per debellare l’emiro di Saragozza. Mi ha pregato di informarti, affinché tu consideri l’eventualità di prendere contatti e presentare la proposta.» «Lo potrei davvero prendere in considerazione», mormorò Carlo pensoso. «Non nego che questa alleanza ci potrebbe fare comodo. Potrei rendergli la figlia in cambio della sua collaborazione. Non c’è molto tempo, data la partenza imminente, perciò gli faro scrivere subito.» «Quando arriverà la risposta saremo in marcia verso Saragozza», osservò Orlando. «È vero, e infatti la principessa ci seguirà con tutto il suo seguito.» Orlando non nascose la propria sorpresa. «Donne in guerra, sire?» «Perché no? Forse che le donne franche non seguono i loro uomini in guerra? Lo fece anche la regina, se ben ricordi.» «Ma la principessa non è franca. Inoltre, ciò la esporrebbe a dei rischi in caso di scontri.» «Sarà ben protetta, poiché sarai tu a occupartene. Lo eviterei, se potessi, ma bisogna essere pronti a restituirla non appena ci arriverà la risposta di suo padre. Tu sarai responsabile della sua sicurezza, e quando verrà il momento la scorterai a Salamanca, non solo per renderla all’emiro, ma anche per discutere i termini

dell’eventuale alleanza.» Orlando ne fu tutt’altro che entusiasta e non esitò a dirlo. «Ti prego, sire, affida questo incarico a qualcun altro. Io non sono un diplomatico.» «Non ne voglio discutere. Così ho deciso e così sarà.» «Ma non è un compito adatto a me», insistette Orlando. «Oltre a non essere tagliato per la diplomazia perdo facilmente la calma, tu lo sai bene. E poi odio i mori e non voglio averci a che fare.» Il re non si scompose e sorrise. «Proprio per questo sei perfetto. Se dovesse esserci un inganno, tu lo scoprirai.» Orlando si arrese ed emise un sospiro rassegnato. «Quando si parte?» «Fra quattro giorni. Occupati tu di informare la principessa e provvedi a tutte le sue necessità per il viaggio. Non voglio che debba subire disagi. Conto su di te, Orlando.»

27

Uscita Amina, la principessa aveva continuato a piangere, senza avvedersi della presenza di Argante che la osservava dalla soglia. Esitò qualche attimo, poi le si avvicinò e le sfiorò la spalla. «Perché queste lacrime, mia signora?» domandò. «Forse ti ha offeso?» Lei alzò il viso e scosse il capo. «No», sospirò. «Perdona l’audacia, ma… allora come mai sei tanto addolorata?» «A causa del suo odio, credo. Mi è scivolato sulla pelle fino a penetrarmi nel cuore.» «Hai paura di lui?» «No, non lo temo, anche se forse dovrei.» Si alzò e serrò le mani. «È strano…» mormorò. «Cosa, mia signora?» «Tutto. Non capisco cosa stia succedendo e sono confusa, smarrita. Pensavo di odiarlo quando mi ha catturata e condotta qui, ma ora… non ne sono più così sicura. Eppure è un nemico.» Lo guardò con espressione incerta. Nemmeno lei sapeva perché si stesse confidando con un estraneo quando non era stata capace di farlo con la vecchia Amina, ma oscuramente sentiva di potersi fidare di lui. «Tu sai perché mi sento così?» «Soltanto tu potrai rispondere a questa domanda, altezza.» Shanaz tornò a sedere fra i cuscini. «Cosa pensi di lui?» Argante si strinse nelle spalle. «Che importanza ha la mia opinione? Non sono che un servo.»

«Hai eluso la mia domanda.» «Perdonami, ma non penso che ti interessi davvero cosa penso di Orlando. Se vuoi delle risposte, dovrai trovarle da sola.» «Sei un impertinente», sorrise lei. «Lo so, ma che vuoi farci? Sono fatto così.» Shanaz decise di cambiare argomento. «Da dove vieni? Ho saputo che ti sei fatto cristiano dopo la caduta di questa città. Cosa ti ha spinto ad abbandonare la vera fede?» «Ero musulmano per convenienza. In realtà nel mio cuore sono sempre stato devoto a un solo Dio, ma non ero pronto a morire per Lui. Non ho mai avuto vocazione per il martirio.» «Sei stato più saggio di tanti altri. Ti sei piegato dalla parte in cui soffiava il vento.» «Ma sarò chiamato a renderne conto, il giorno del Giudizio.» «Ciascuno di noi dovrà rendere conto dei propri peccati, quando verrà il momento.» «Mi riesce difficile immaginare i tuoi peccati, altezza. A me sembri un angelo.» «Cosa ne sai tu degli angeli?» Lui abbassò lo sguardo come imbarazzato. «Poco o niente, lo ammetto. Tuttavia, se gli angeli avessero sembianze femminili, sono convinto che sarebbero uguali a te.» Furono interrotti da un’ancella che inchinandosi annunciò l’arrivo di Orlando. «Ancora?» chiese la giovane sorpresa. «Cosa vorrà adesso?» «Se vuoi me ne occupo io e ti eviterò questo disturbo, altezza», si offrì Argante. «No, fallo entrare. Sono curiosa di sentire ciò che ha da dirmi.»

«Anch’io», mormorò l’eunuco. Il paladino venne introdotto nella stanza e nel vedere che la principessa non era sola aggrottò la fronte. Tuttavia nascose il disappunto e le rivolse un cortese saluto. «Non ci aspettavamo un’altra tua visita, oggi», disse l’eunuco con un sorriso vagamente canzonatorio. Orlando finse di non aver sentito. «Sono venuto per ordine del re, il quale desidera che ti prepari a partire. Lasceremo Cordova fra quattro giorni e io sono a tua disposizione.» «Andiamo a Saragozza?» domandò Shanaz. «Sì, altezza. Il re è desolato di doverti sottoporre alle fatiche di questo viaggio, ma la risposta di tuo padre potrebbe giungere durante il trasferimento e l’averti con noi ci semplificherà le cose.» «Riferisci al re che lo ringrazio per la premura e assicuragli che non si dovrà preoccupare per me. Sono abituata a viaggiare.» «Verrò anch’io, vero?» intervenne Argante. «Sì, tu e le ancelle accompagnerete la principessa.» «Si va a Saragozza!» esclamò l’eunuco facendo una piroetta. «Ho sempre sognato di andarci.» Orlando lo guardò torvo e la principessa si trattenne a stento dal ridere. Aveva l’impressione che quel buffo ometto lo fe apposta a irritare Orlando e si divertisse alle sue spalle. «Perdonalo», disse, prima che l’ombroso paladino perdesse la pazienza. «C’è una vena infantile in lui.» Il giovane respirò a fondo per calmarsi e fece un cenno. «Se ti occorre qualcosa fammelo sapere, ma evita di mandare Argante. Una volta o l’altra potrebbe farmi perdere il controllo.»

«Me ne ricorderò», rispose lei con un sorriso. Orlando si congedò con un inchino e appena uscì Argante si lasciò cadere sui cuscini, mezzo soffocato per il gran ridere. «Smettila!» ordinò Shanaz. «Non è saggio che tu lo prenda in giro.» «Scusami», ansimò lui. «Ma proprio non riesco a impedirmelo.» «Potresti farlo una volta di troppo e allora te ne pentiresti.» «Non ti preoccupare per me», replicò con un guizzo d’astuzia negli occhi. «So come tenere a bada quel mastino.»

L’armata non incontrò ostacoli nell’avanzata verso Saragozza. Le città e i castelli che incontrarono lungo il cammino spalancarono le porte, sottomettendosi di propria volontà al re franco, il quale li premiò con generosità. Pareva che niente potesse arrestare la marcia vittoriosa attraverso le terre spagnole, quasi bastasse il solo nome di Carlo a spegnere ogni velleità di resistenza. Non li arrestarono i fiumi e le montagne, né le poche fortezze che si opposero con la forza e che furono rase al suolo. Fu così che con impeto travolgente l’armata giunse sulle rive dell’Ebro, così vicina da poter scorgere i bastioni e le torri di Saragozza. Posero l’accampamento, con il grande padiglione reale al centro e le tende dei paladini attorno, poi quelle dei comandanti e di seguito tutte le altre, finché la pianura non fu gremita come un gigantesco formicaio. A scoraggiare ogni sortita dalla città venne costruito un vallo fortificato. Il re si era appena insediato nel padiglione e discorreva con Turpino e Gano, quando si presentò un soldato annunciando l’arrivo di un corriere da Salamanca. «Conducilo qui», ordinò Carlo. Gano e il vescovo si scambiarono un’occhiata di sconcerto.

«Che novità è mai questa?» chiese Gano. «Da quando intrattieni rapporti con l’emiro di Salamanca?» «Da quando ne teniamo in ostaggio la figlia, catturata da Orlando durante una sortita. Restate pure, e ascoltate ciò che diremo.» Il soldato tornò col corriere e se ne andò. Questi s’inchinò a Carlo senza esitazione. Pur non conoscendolo di persona ne aveva sentito parlare così ampiamente da non lasciarsi trarre in inganno dagli altri due uomini presenti. Con fare cerimonioso gli consegnò un plico e restò in attesa. Il re ne spezzò i sigilli e lo scorse rapidamente. Il contenuto lo soddisfece e sorrise. «Riferisci al tuo signore che la principessa Shanaz gli verrà riconsegnata al più presto e che sarà scortata da uno dei miei paladini, il valoroso marchese Orlando d’Anglante, il quale sarà incaricato di prendere accordi per la nostra futura alleanza. Digli anche che gli mando i miei saluti e che sono onorato per l’offerta di combattere al mio fianco.» Il corriere s’inchinò. «Riferirò parola per parola, mio signore.» Carlo annuì e si volse a Turpino. «Accompagnalo dalla principessa, in modo che possa vedere coi suoi occhi che è trattata con ogni riguardo e possa tranquillizzare l’emiro.» «Sarà fatto, sire», rispose il vescovo. Non appena uscirono, Gano non si trattenne dall’esprimere ciò che pensava. «Non è saggio mandare Orlando a concordare l’alleanza con l’emiro, conoscendo il suo carattere focoso e l’odio viscerale che nutre per i mori. Come puoi affidargli una tale missione? Scatenerà una guerra, come minimo! Uno qualsiasi dei paladini saprebbe cavarsela meglio di lui.» «Non condivido il tuo pessimismo», ribatté il re imperturbabile. «Lo so anch’io che Orlando non possiede doti diplomatiche, tuttavia sono convinto che assolverà al meglio questo incarico. Non capisci che ho dovuto infliggergli una lezione che gli potrà servire in futuro?» «Orlando non imparerà mai! Non l’ha fatto finora e non lo farà in futuro. Mandalo in battaglia, dagli dei nemici da uccidere con la sua Durendal, ma non affidargli compiti che richiedono doti che non possiede, se vuoi evitare disastri.

Manda me, manda Engelieri o Wala, ma non quel ragazzo impetuoso e aggressivo!» «È tempo che quel ragazzo impetuoso e aggressivo, come lo definisci tu, cresca e si renda conto che esistono altri mezzi, altri modi per ottenere qualcosa, oltre la forza bruta. Lui ha catturato l’ostaggio e lui lo consegnerà, questo è quanto.» Gano scosse il capo, amareggiato. «Una volta davi ascolto ai miei consigli, sire.» «E lo farò ancora, quando non saranno dettati dal malanimo. Cosa ti rode, amico mio?» «Niente, mio re, ma soffro nel vedere che ora privilegi l’orgoglio dei giovani e disdegni la saggezza dei tuoi vecchi e più fidati collaboratori.» «Non pensarlo neppure!» esclamò Carlo. «Ritieni forse che ti abbia trattato ingiustamente? Ti ho sempre affidato incarichi d’importanza strategica per il regno e non ti ho mai negato la mia fiducia. Puoi, in tutta sincerità, affermare il contrario?» «No, non posso», riconobbe Gano con un sospiro. «Allora perché avverto tanta amarezza, tanto rancore nelle tue parole? Non ho concesso niente a Orlando che tu non abbia ottenuto prima, incluso il mio affetto. Non hai alcun motivo di roderti, perciò mettiti l’animo in pace.» Incupito e per nulla rassicurato, Gano chiese il permesso di ritirarsi e gli fu accordato.

Nella tenda Orlando se ne stava rimuginando i pensieri con aria cupa. Galante, il suo scudiero, era occupato a lustrare le armi e ogni tanto alzava gli occhi su di lui, senza però osare di rivolgergli la parola. Non conosceva la ragione di quel malumore che perdurava ormai da giorni, ma cominciava a preoccuparsi. Olivieri si affacciò sulla soglia col sorriso sulle labbra. «Il re vuole vederti», gli annunciò. Orlando si alzò. «Andiamo», rispose, gettandosi il mantello sulle spalle.

Si incamminarono verso il padiglione reale, che era poco distante, e sul percorso incontrarono Gano che li guardò appena, accennando un freddo saluto, e ò oltre rapidamente. Olivieri, sorpreso da quel comportamento, chiese spiegazioni. «Sei ancora tu la causa del suo pessimo umore?» «Lo dovresti chiedere a lui», replicò Orlando seccamente. «Ne deduco che non avete avuto un chiarimento.» «Ho tentato, dopo il suo ritorno, ma senza risultato. Rifiuta di affrontare l’argomento. Perché devo perderci tempo se non mi vuole ascoltare?» «Perché è tuo zio e la situazione sta degenerando. Forse non te ne rendi conto, ma la tensione fra voi è percepita da tutti. Siete come due vulcani sul punto di esplodere e siamo preoccupati.» Erano ormai giunti a pochi i dal padiglione reale, davanti al quale montavano la guardia gli scariti, le truppe scelte del re. Orlando si fermò e guardò l’amico. «Se mio zio vuole riconciliarsi io sono pronto, ma adesso dovrà essere lui a fare la prima mossa.» «Ma come puoi pretendere una cosa simile? Lui è più anziano di te e gli devi rispetto!» «Non intendo mendicare il perdono per qualcosa che non ho fatto!» «Nessuno pensa che tu debba scusarti. Però potresti chiedere al re di intercedere per favorire un vostro incontro chiarificatore.» Orlando lo guardò dubbioso. «Dubito che il re intenda immischiarsi in questioni strettamente personali.» «Io credo che lo farà, invece, perché gli siete entrambi cari. Prova a domandarglielo.» Il giovane rimase alcuni istanti pensoso, poi annuì. «Seguirò il tuo consiglio.»

Olivieri sorrise e lo sospinse verso il padiglione. «Ora va’, il re ti sta aspettando.» «Tu non vieni?» «No, vuole parlarti da solo.» Orlando gli fece un cenno e si avviò. Gli scariti lo salutarono e sollevarono la falda per farlo entrare. Carlo sedeva al tavolo da lavoro su cui si accumulavano numerosi documenti. Su un cavalletto era stata spiegata la mappa della Spagna, divisa in base ai possedimenti cristiani e mori. Alla panoplia le sue armi, fra cui rifulgeva Gioiosa, la spada che in battaglia emetteva suoni armoniosi come canti. Il re alzò lo sguardo sul paladino che indugiava sulla soglia e con un sorriso lo invitò a entrare. «Vuoi un sorso di vino?» domandò con gentilezza. «No, grazie, sire», rispose Orlando rigido sull’attenti. «Allora siediti, che non mi venga il torcicollo per guardarti.» Orlando obbedì, accomodandosi su uno sgabello, e attese. Il re intrecciò le mani e lo studiò per qualche attimo in silenzio, ricevendone in cambio uno sguardo fermo. Gli occhi di Orlando, al pari dei suoi, potevano trafiggere come lame. Malgrado fossero di un limpido azzurro, in quel momento avevano la stessa sfumatura del mare in tempesta, altrettanto cupi e minacciosi. Re Carlo sospirò, domandandosi da chi avesse preso quel carattere ombroso, e fu tentato di protrarre il silenzio per mettere alla prova la sua pazienza. Ma alla fine parlò. «L’emiro di Salamanca ha risposto. Alla restituzione della figlia, concorderà il patto d’alleanza con noi. Gli ho assicurato che la rivedrà al più presto.» «Sono pronto», dichiarò il giovane. «Quando dovrò partire?» «Domani.»

«Allora non parteciperò all’assedio?» «Non temere, Saragozza non cadrà facilmente e sono certo che al tuo ritorno avrai ancora occasione di combattere e dimostrare il tuo valore. L’incarico che ti affido è importante. Tienilo bene a mente, quando parlerai con l’emiro.» «Non ti deluderò, sire.» «Lo so», sorrise il re, «e ripongo in te la massima fiducia. Per questo non ho voluto dare ascolto a tuo zio, che mi consigliava di mandare qualcun altro. A suo parere, sei inadatto a questo compito.» Il volto di Orlando s’indurì fino a sembrare scolpito nella pietra. «Non credevo che Gano si sarebbe spinto a tanto.» «Sono certo che non volesse metterti in cattiva luce. Ha semplicemente espresso la sua opinione.» «Un’opinione tutt’altro che lusinghiera!» «Il suo timore è che tu possa lasciarti trascinare dal tuo carattere. Questo, aggiunto alla tua inesperienza per i negoziati, lo preoccupa.» Gli parve che Orlando fosse sul punto di esplodere in una delle sue famose sfuriate e si affrettò a blandirlo. «Suvvia, non hai motivo di risentirti. Ho ribadito a Gano la mia decisione di affidarti questo incarico, perché ti considero all’altezza di portarlo a termine con successo. Tu stesso hai detto poco fa che non mi deluderai, e io ti credo. Lascia che Gano dica ciò che vuole. I fatti gli dimostreranno che si sbaglia.» Respirando profondamente il giovane rilasciò i muscoli e si dominò, sia pure a fatica. Naturalmente non chiese al re di intercedere a favore di un incontro chiarificatore con lo zio. Offeso e ferito da ciò che aveva udito, si ripromise di affrontare la questione a modo suo. Si congedò poco dopo con l’animo esacerbato, controllando a stento la tempesta che infuriava dentro di lui. Fuori ad aspettarlo c’era Olivieri, che gli lesse sul volto i segni premonitori della furia che stava per scatenarsi e si allarmò.

«Cos’è successo?» gli chiese, rincorrendolo per stargli a fianco. «Dov’è Gano?» ringhiò. «Non lo so. Sarà nella sua tenda, immagino. Fermati! Cos’è tutta questa furia?» Orlando proseguì senza ascoltarlo, i pugni e le mascelle serrati. Olivieri lo inseguì, presagendo che quel selvaggio furore sarebbe sfociato in una lite e non sapendo come impedirlo. Orlando andò dritto alla tenda dello zio. Lo scudiero che cercò di bloccarlo sulla soglia venne scaraventato a terra con una spinta. Mentre Olivieri lo aiutava a rialzarsi, il giovane irruppe all’interno, gli occhi ardenti di collera, la mano stretta sull’elsa della spada e un atteggiamento di minaccia tanto scoperto che Gano, al vederlo, arretrò sorpreso. «Ora mi renderai ragione dell’offesa che mi hai arrecato!» tuonò Orlando. «Non so di cosa parli», rispose l’altro fingendo sconcerto. «Quale offesa?» Orlando torreggiò su di lui emanando tenebrosi bagliori di furia. «Lo sai benissimo!»

«Tu farnetichi, ragazzo. Se sei ubriaco, va’ a smaltire i fumi del vino altrove e lasciami in pace.» Quelle parole sprezzanti rinfocolarono ancor più la sua già incontenibile collera. Lo schiaffeggiò col guanto e sguainò la spada. «Mi darai soddisfazione. Qui e adesso!» L’espressione di Gano mutò. Con un sibilo la sua spada uscì dal fodero. «Osi sfidarmi, bamboccio?» «Sei stato tu a volerlo!» Si fronteggiarono per qualche istante in un silenzioso, terribile duello di sguardi, frementi di furia. Onde d’odio, rancore e rabbia si infransero su di loro.

Fu Gano ad avventarsi su di lui con un ruggito, calando un tremendo fendente. Durendal si alzò a intercettarlo. Il cozzo del ferro echeggiò, mentre Orlando vacillava sotto l’urto violento. Rispose con rapidi colpi, incalzandolo, sentendo dentro di sé il ruggito sordo del Drago, il cupo rombo del tuono, l’eco di mille tamburi di guerra. Lo scudiero assisteva senza sapere come porre fine allo scontro, ma Olivieri estrasse la spada e si gettò in mezzo a loro, incurante del rischio, per far cessare la folle disputa. Intercettò i fendenti che stavano per abbattersi e li richiamò alla ragione. «Basta! Smettete di dare un tale vergognoso spettacolo e deponete le armi!» ordinò. Si arrestarono, ma tutt’altro che placati si guardarono traboccanti di astioso furore. L’odio scorreva dall’uno all’altro come un fiume ribollente, un fluido velenoso di cui Olivieri avvertì tutto il potere corrosivo. «Vattene!» gli ingiunse Orlando senza smettere di fissare lo zio. «Non ti immischiare.» «Non vi lascerò commettere questa follia. Vi preme dunque tanto di uccidervi? Non ci sono dunque abbastanza nemici sui quali sfogare le vostre smanie sanguinarie?» «È stato lui a cominciare», dichiarò Gano. «Mi ha accusato di averlo offeso e mi ha lanciato il guanto della sfida. Che altro potevo fare se non raccoglierlo?» «Mi ha deriso. Si è fatto beffe di me. Avrei dovuto tollerarlo?» ribatté Orlando. Olivieri stava per rispondere, ma gli fu impedito dall’arrivo di Turpino, che ando davanti alla tenda aveva udito le grida dei due. «Cosa sta succedendo qui?» Guardò i due antagonisti con le spade in pugno e gli occhi di brace, poi il giovane che si era messo in mezzo. «La questione è più seria di quanto pensassi se due pari di Francia si affrontano con le armi e un paladino è costretto a intervenire per dividerli. Credo sia il caso di rimettervi al giudizio del re.» Rinfoderando la spada, Olivieri gli si accostò. «Meglio evitare di portarli davanti al re», sussurrò. «La disputa è grave, ma non tanto da richiedere il suo intervento.»

«Stavano affrontandosi con le armi e non c’è dubbio sui loro intenti. La contesa merita l’attenzione del re. Fatti consegnare le spade, che tanto indegnamente stavano usando, e andiamo!» La determinazione del vescovo era tale che il giovane non se la sentì di perorare la causa dei contendenti. «Lo farò, poiché me l’ordini, ma soltanto Dio può sapere quali saranno le conseguenze.» Chiese quindi a Gano e Orlando di consegnargli le armi, mostrandosi dispiaciuto del ricorso a quel provvedimento. I due obbedirono malvolentieri, guardandosi in cagnesco, e badando a stare distanti l’uno dall’altro li seguirono fuori, dove in molti si erano radunati nel sentire il rumore della disputa. C’erano pure i paladini, che si accodarono mentre si dirigevano verso il padiglione reale. La curiosità e il fitto mormorio di cui erano fatti oggetto non turbò Gano e Orlando, che a un cenno severo di Wala varcarono la soglia. Turpino, Olivieri e i paladini tutti li seguirono.

28

Una sola occhiata fu sufficiente al re per capire la ragione dell’improvvisa invasione del suo padiglione. Gano e Orlando torvi e disarmati, Olivieri rattristato, Turpino indignato, insieme alla tensione quasi palpabile tra i paladini, bastarono a far chiarezza sulla situazione ancora prima che qualcuno parlasse. I suoi peggiori timori si erano avverati e proprio in uno dei momenti cruciali della campagna. Si rivolse al vescovo con un cenno. «Parla, Turpino.» «Sire, è avvenuto un fatto assai grave, indegno di due cavalieri di alto lignaggio. La contesa che si trascina fra loro», disse indicando Orlando e Gano, «è giunta al punto da indurli a battersi. Se Olivieri non fosse intervenuto ci sarebbe stato spargimento di sangue, tanto era l’odio che li aizzava l’uno contro l’altro. Vedendoli così accaniti e sordi a ogni richiamo alla ragione, ho ordinato a Olivieri di disarmarli e condurli al tuo cospetto. Si sono piegati a malincuore e ora, come puoi vedere, evitano persino di guardarsi, comportandosi come nemici giurati, invece che compagni e parenti. Poiché hanno arrecato disonore a te, oltre che a loro stessi, li rimetto al tuo giudizio.» Il re annuì e guardò i due rivali. «E voi cosa avete da dire?» Parlarono insieme, colmi d’ira e livore, gridando per sopraffarsi a parole, ora che non potevano misurarsi con le armi. Indignato, Carlo li fece tacere imponendosi d’autorità. Poi ordinò a Orlando di spiegarsi per primo. Gano, offeso, si ritrasse. «Dopo il nostro colloquio, sire, sono andato da Gano per chiedergli ragione di ciò che ti aveva detto. Volevo che mi spiegasse il motivo di tanto rancore e dei suoi malevoli giudizi. Ma lui è andato su tutte le furie, dandomi dell’ubriaco farneticante. All’offesa si è aggiunta la beffa, allora l’ho sfidato.»

«Adesso parla tu, Gano.» «Non ho niente da aggiungere a ciò che è stato detto finora», dichiarò con asprezza. «Sei certo di non voler dare altre spiegazioni? Se esistono motivi che causano il tuo rancore verso Orlando, credo sia il momento di esprimerli.» «Non ho niente da giustificare per quello che penso di lui, sire. Nemmeno davanti a te.» «Mi addolora sentirti parlare così, ma non posso costringerti. Però, Orlando, mi addolora ancora di più che tu abbia reso palese un discorso fatto dal tuo re in ambito privato e che tu non ne abbia comprese le ragioni. Devo avvertirti, comunque, e ciò vale per entrambi, che le vostre diatribe personali possono essere dannose all’esito della campagna. Abbiamo già abbastanza nemici da combattere per farci distrarre da dissidi interni. Pertanto vi ordino di riconciliarvi, qui e adesso, davanti a me e a questo consesso di cavalieri. Esigo che lo facciate, altrimenti dovrò infliggere a entrambi una punizione esemplare.» Le parole del re toccarono Orlando, che malgrado si sentisse mortalmente offeso non intendeva arrecargli dolore, né fornire motivo di ulteriore biasimo. Allora si volse verso lo zio e con uno di quei gesti spontanei che l’avevano reso popolare nonostante il carattere difficile, gli offrì la mano. «Sono pronto a mettere una pietra sul ato e a dimenticare ogni divergenza. Dio mi è testimone che non voglio esserti nemico.» Gano non si lasciò commuovere e lo guardò astioso, ignorando la mano tesa. «Non intendo riconciliarmi con chi cela dietro la facciata dell’ipocrisia i suoi veri sentimenti.» Nello stupefatto silenzio che seguì, Carlo si alzò dallo scranno con impeto. «Prendi quella mano, Gano. È un ordine!» Ma l’altro rifiutò ancora una volta. «Mi rimetto alla tua sentenza, ma non lo farò.» Orlando, ferito, lasciò ricadere il braccio e serrò il pugno con forza tale da farsi sbiancare le nocche. Olivieri gli strinse leggermente la spalla per dargli conforto,

ma pure lui era sconvolto dallo strano atteggiamento del conte di Maganza. Se non avesse assistito alla scena, non l’avrebbe mai creduto. Gano accolse con gelida indifferenza l’incredulità e lo sdegno, continuando a fronteggiare il re, che lo traava con lo sguardo, in attesa dell’inevitabile condanna. Carlo, facendo appello a tutto il proprio autocontrollo, congedò i presenti, dicendo di voler rimanere solo con Gano e non parlò finché non se ne furono andati tutti. Giunto sulla soglia Wala si voltò, aspettandosi di essere richiamato, ma il re non lo fece e dovette raggiungere gli altri. Il re stava concedendo al ribelle un trattamento di favore che non si sentì di approvare. Gano meritava di subire la punizione e di essere svergognato davanti a tutti. Ordinato agli scariti di disperdere l’assembramento che si era formato davanti al padiglione e di non lasciar are nessuno, Carlo si rivolse a Gano con espressione severa e allo stesso tempo rattristata. «Mi hai sfidato di fronte ai pari, assumendo un atteggiamento che non può are impunito. Cosa ti succede?» chiese, fissandolo intensamente. «Perché lo hai fatto? Siamo stati compagni di tante battaglie, hai dato prova della tua devozione alla corona più di una volta, e più di una volta hai messo a rischio la tua vita. Adesso esigo una spiegazione per quello che è successo. Io voglio e devo capirne le ragioni!» «Non ho spiegazioni da offrirti, sire, e nemmeno scuse. Mi appello al tuo senso di giustizia e mi aspetto di ricevere il castigo che riterrai opportuno.» «La tua ostinazione mi è incomprensibile. Lo sai che potrei accusarti di tradimento e farti giustiziare?» «Fallo, se ritieni che lo meriti.» «Vuoi condurmi all’esasperazione? Stai camminando sul filo di una lama, Gano. Sta’ attento, o potresti tagliarti.» L’altro sorrise. «Lo faccio da tutta la vita, sire, e non c’è niente che mi spaventi, tranne una cosa.»

«Quale?» «Non poterti più servire.» «Parli di servirmi, eppure non hai esitato a sfidare davanti a tutti la mia autorità.» «Solo perché mi hai chiesto l’impossibile. Ordinami qualunque altra cosa, anche di uccidermi, e io obbedirò. Ma non chiedermi di riconciliarmi con Orlando.» «Il tuo odio per lui è dunque così profondo?» «È come una fiamma oscura che mi divora e non avrò pace finché non sarà estinta, in un modo o nell’altro. Non ti chiedo di capirmi, né di schierarti dalla mia parte, perché so che ti è caro al di sopra di tutti, ma non puoi pretendere che io mi scusi con lui. In nome della nostra amicizia, non farlo.» Il re rimase a lungo in silenzio, riflettendo su quelle spaventose, agghiaccianti parole. Gano si appellava alla loro amicizia, al legame fraterno che li univa fin dall’infanzia, e voleva mano libera per sfidare Orlando. Non potendo e non volendo operare una scelta a discapito dell’uno o dell’altro, prese la sola decisione possibile. «Tu mi costringi ad allontanarti. Non posso permetterti di restare sapendo ciò che hai nel cuore. Prenderai i tuoi baschi e te ne andrai, dove non ha importanza, purché sia lontano. Se avrai informazioni da darmi, invia un corriere, a meno che le circostanze richiedano diversamente.» Il volto fino ad allora imibile di Gano lasciò trasparire il dolore profondo che lo lacerava. «Mi infliggi un ben duro castigo, mio re, ma ti obbedirò, poiché il mio unico scopo è servirti.» Le sue parole grondavano amarezza, ma Carlo non si lasciò commuovere. «Allora fallo fino in fondo e parti questa sera stessa.» «Come ordini», rispose lui inchinandosi. Carlo lo congedò bruscamente, liquidando con un solo gesto lui e la questione, irritato per essere stato obbligato a prendere un provvedimento così drastico. Gano uscì, rimuginando torbidi pensieri di vendetta. Andò a radunare i baschi e

senza fornire spiegazioni ordinò che si preparassero a lasciare subito l’accampamento. Se ne andarono prima di sera e il fragore del loro galoppo attirò Orlando sulla soglia della tenda. Fra lo sventolare degli stendardi riconobbe quello di Maganza e aggrottò la fronte. Turpino e Olivieri, che si trovavano nei pressi, si avvicinarono. «Cosa succede?» chiese loro il giovane. «Perché se ne vanno?» «Ordine del re», rispose il vescovo. «Mi chiedo come avrà preso Gano un tale provvedimento.» «Male, questo è certo», intervenne Olivieri. «Non digerirà facilmente questa punizione.» «E farà ricadere ogni colpa su di me», fece eco Orlando oscurandosi in volto. «Me la farà pagare alla prima occasione, ma quando avverrà sarò pronto.» «Non avresti dovuto sfidarlo», lo rimproverò Turpino. «Ora non ci sono più speranze che possiate riappacificarvi.» Lo sguardo bellicoso di Orlando lo trafisse. «Sarebbe bastato un gesto conciliante, anche piccolo, da parte sua per non arrivare a tanto. Ma a che vale darti queste spiegazioni? L’amicizia che ti lega a lui ti impedisce di vedere con chiarezza i fatti. Gano mi ha offeso in tanti modi, ma quest’ultimo ha superato ogni misura e non potevo tollerarlo.» «Sono ben poche le cose che tu sei disposto a tollerare, ragazzo, in specie se qualcuno, che forse ne ha motivo, osa mettere in dubbio le tue qualità.» «Fermati qui, Turpino, prima che il tuo ardore nel difendere mio zio ti faccia dire qualcosa di cui potresti pentirti e mi faccia dimenticare il rispetto per l’abito che porti.» Sebbene risentito per quelle parole il vescovo non si scompose. «Non aggiungerò altro, a parte che esiste una vena di follia dentro di te. Un germe che prima poi ti condurrà alla rovina. Attento a te, Orlando!» Si allontanò a lunghi i, senza dargli il tempo di replicare, e Orlando restò a

fissare la figura finché scomparve fra le ombre che si stavano addensando sull’accampamento. «Cosa voleva dire?» chiese poi voltandosi verso Olivieri. «Mi credi pazzo anche tu?» «Non dare peso alle sue parole: sono solo vento e non vogliono significare niente. Turpino è amico di Gano e sono certo che ritenga ingiustificato l’ordine del re di allontanarlo.» «E tu, invece, cosa pensi?» «Penso sia un bene che Gano sia stato allontanato. Da qualche tempo il suo modo di comportarsi era strano, per non dire sospetto. E non sono il solo a pensarlo.» «Anche se lui e io siamo in contrasto, questo non ti autorizza a giudicare sospetto il suo modo di comportarsi. Lo ritieni capace di tradire il suo re?» Olivieri sorrise. «Non mi fraintendere, fratello. Non era questo che intendevo.» «Allora cosa volevi dire?» Il giovane si strinse nelle spalle. «Non lo so. È una sensazione che non riesco a definire, ma che avvertiamo quasi tutti, noi paladini. Una specie di effluvio mefitico che avvelena l’aria intorno a lui. Ma nessuno ha mai menzionato il tradimento.» «Se qualcuno lo fe, dovrebbe renderne conto a me. La sua fedeltà al re non deve essere messa in discussione.» «Tranquillo, non oserebbero neppure formulare il pensiero», lo rassicurò. «Tuttavia temono che i vostri dissapori possano nuocere alla nostra causa. Per molti di noi, Gano è un mito.» «Lo so. E anche se non l’avessi saputo l’avrei capito dalla reazione di Turpino.» «Vorresti fargliene una colpa? La sua amicizia con Gano risale ai tempi dell’infanzia, insieme a quella del re.»

Orlando fece un gesto vago con la mano. «Conosco la storia della loro amicizia quanto te, se non di più. Ne ho sentito parlare per anni da mio zio.» Un sorriso addolcì i tratti di Olivieri. «Allora perché parlarne ancora? Gano se n’è andato e non lo rivedremo per un pezzo. Forse, quando tornerà, la sua collera sarà sbollita e vorrà fare la pace.» «Io non lo respingerò di certo», dichiarò Orlando. «Perdonami, ma ora devo lasciarti. Domani partirò all’alba per scortare la principessa a Salamanca e gli uomini attendono ordini.» «Cerca di non trattenerti troppo laggiù, o rischierai di non esserci quando andremo a espugnare Saragozza», scherzò Olivieri. «Illuso, non ce la potete fare senza di me!» lo rimbeccò Orlando ridendo. Lasciato l’amico, il giovane si recò a scegliere i cavalieri per la scorta, disponendo che ciascuno provvedesse ai viveri per il viaggio, in modo da evitare di trainarsi appresso carri e bestie da soma che avrebbero rallentato la marcia. Più tardi andò a controllare il proprio cavallo per assicurarsi che avesse ricevuto le debite cure. Veillantif lo salutò con un nitrito, raspando il terreno con gli zoccoli. Orlando si trattenne con lui per un poco, mentre il buio si infittiva e l’ardere dei fuochi da campo disegnava ombre capricciose sulle tende. Dalle mura della città quel fulgore doveva apparire quanto mai minaccioso. Indugiò su quel pensiero, rimpiangendo di non poter partecipare all’attacco. Sapere, però, che Saragozza non sarebbe facilmente caduta rinfocolò il suo ardore combattivo e desiderò di concludere al più presto l’incarico per tornare e cavalcare con gli altri paladini. Agognava di battersi al loro fianco e coronare finalmente la grande impresa di infrangere quelle mura possenti che si ergevano come una sfida alla potenza militare dei franchi. Solo quando sarebbero state ridotte a cumuli di rovine fumanti sarebbe stato soddisfatto. L’agitarsi inquieto del cavallo lo avvertì che c’era qualcuno. Con un movimento fulmineo estrasse la spada e fronteggiò l’intruso che indugiava a pochi i da lui, immerso nell’ombra. «Vieni avanti e fatti riconoscere», ordinò.

Gli rispose la voce di Argante, flebile come un pigolio. «Metti via quello spiedo, o non mi muoverò di qui.» Lui rinfoderò Durendal con un sogghigno. «Ecco fatto. Adesso fatti avanti e dimmi cosa vuoi.» L’altro avanzò incerto, senza perdere di vista la mano di Orlando posata sull’elsa. «Perché sei sempre così nervoso?» «Colpa tua, che ti sei avvicinato furtivo come un nemico», replicò beffardo Orlando. «Scusami se non ho pensato di farmi annunciare con squilli di tromba.» «Allora, cosa vuoi? Non ho tempo da perdere.» «La principessa desidera vederti e mi ha chiesto di accompagnarti da lei.» «Non so cosa voglia, ma adesso ho da fare. Dille che non mi hai trovato.» «Aspetta!» lo fermò Argante. «Sarà questione di poco. Sii gentile con lei, per una volta tanto.» Uno sbuffo d’impazienza fece eco a quelle parole. «Va bene. Andiamo.» Si avviarono, Orlando davanti e l’altro dietro, costretto a trotterellare per cercare di adeguarsi alla sua andatura, ansimando per lo sforzo e borbottando come una pentola in ebollizione. «Che brutto carattere… Che giovane bisbetico… Non mi poteva capitare di peggio. Neanche alla corte del califfo di Cordova sono stato così bistrattato, povero me!» Nel sentire quella litania Orlando si arrestò di colpo. Argante, che lo seguiva a testa bassa, gli finì addosso e rischiò di cadere. Non appena recuperò l’equilibrio lo guardò accigliato, aspettando una spiegazione. Il giovane lo accontentò subito. «Si può sapere cosa vai brontolando?» tuonò minaccioso.

«Niente… Proprio niente…» balbettò l’altro indietreggiando. «Forse… però… potresti rallentare un… poco. Mi manca il… fiato a tenerti dietro.» «Sono sicuro che se terrai la bocca chiusa ne avrai di più a disposizione», lo rimbeccò Orlando riprendendo a camminare spedito. Argante levò lo sguardo al cielo in una silenziosa supplica e gli sgambettò appresso. Stavolta senza fare commenti. Quando raggiunsero il padiglione della principessa il pover’uomo era sfinito. Tuttavia Orlando non gli concesse tregua e gli ordinò di annunciare il suo arrivo. «E bada di non farmi aspettare troppo», aggiunse. Senza una parola Argante sparì oltre la soglia. Pochi istanti e ricomparve per invitarlo a entrare con un gesto enfatico e beffardo insieme, dileguandosi subito dopo. Orlando neanche se ne accorse, abbagliato com’era dalla visione che gli era apparsa. Fece un inchino, cui la principessa rispose con un cenno del capo e un vago sorriso.

«Cosa posso fare per te, altezza?» chiese. «Sono stata informata che domattina partiremo per Salamanca. Il tuo re si è accordato con l’inviato di mio padre per la mia restituzione e ti ha ordinato di scortarmi.» «È così, infatti.» «Mi dispiace che ti sia stato affidato un incarico tanto sgradevole.» «È un ordine del re, e io devo obbedire.» «Ma se avessi potuto, avresti mandato qualcun altro?» «Senza dubbio», ammise Orlando con sincerità. «Ma a cosa serve parlarne? Farò il mio dovere, hai la mia parola.»

«Lo so», sorrise lei. «Malgrado tutto, mi proteggerai a costo della vita, poiché così esige il tuo re.» «Perdonami, ma davvero non so quale sia lo scopo di questa conversazione. Non vorrei apparire scortese, ma la mia presenza è richiesta altrove e ti prego di essere breve se hai qualcosa da dirmi.» «Sono desolata di averti sottratto ai tuoi compiti. Dimmi soltanto come intendi organizzare il viaggio e dopo ti lascerò libero.» «Partiremo all’alba e cavalcheremo veloci. Indossa qualcosa di pratico e riduci al minimo il bagaglio. Porta un mantello pesante per la notte. È tutto.» «Ho capito. Grazie per la stringata chiarezza. Puoi andare.» Non aspettandosi un congedo così brusco Orlando ebbe un istante di esitazione. Poi le rivolse un inchino e si girò per uscire. Ma nell’attimo in cui stava per sollevare la falda lei lo richiamò. «Aspetta!» Lui si fermò, girandosi lentamente a guardarla. «Sì, altezza?» Shanaz restò in silenzio, come fosse pentita di averlo trattenuto. I suoi modi rudi e sbrigativi non incoraggiavano la conversazione. «Niente. Va’ pure.» Gli fu difficile decifrare l’espressione del suo viso parzialmente velato, ma ebbe la sensazione che in realtà avesse voluto dirgli qualcosa d’altro. Indugiò ancora qualche istante, tentato di chiedere spiegazioni, ma non lo fece e se ne andò. La principessa aveva ancora lo sguardo fisso sulla falda che era ricaduta dietro di lui quando fu raggiunta da Amina.

«Non sei felice di tornare a casa, piccola mia?» «Certo che lo sono», rispose lei girandosi e andando a prender posto fra i cuscini sparsi sul tappeto. Lì accanto c’era una ciotola colma di frutti e prese una mela d’un bel rosso , ma invece di addentarla si mise a giocarci.

Amina le sedette a fianco, lisciando invisibili grinze sulla gonna. Tenne gli occhi bassi per qualche istante, poi li alzò per guardarla. «Sarà un lungo viaggio e saremo costrette a are molto tempo in compagnia di quel giovane infedele», sospirò. «E allora?» fece Shanaz con un guizzo nello sguardo. «Niente… Ma forse il re franco avrebbe dovuto scegliere qualcun altro. Un cavaliere più anziano ed esperto. Più affidabile.» «Cos’è che ti preoccupa? Temi che possa attentare alla mia virtù?» «Questi infedeli non hanno rispetto per le donne. Lui ti guarda in modo sfacciato, come nessuno alla corte di tuo padre oserebbe fare. E sembra che a te non dia fastidio, quando invece dovrebbe. Per non parlare dei suoi modi irriverenti, che sono anche peggio dei suoi sguardi lascivi.» «Sguardi lascivi?» esclamò Shanaz. «Non ti pare di esagerare?» «Lo vedi che ho ragione? Lui è pericoloso!» «Basta con queste sciocchezze, Amina!» la rimproverò Shanaz. «E invece di star qui ad annoiarmi con le tue insulse chiacchiere va’ a preparare il bagaglio. E bada che sia leggero come ha ordinato Orlando.» «Pochi bagagli, mia signora?» chiese la donna stupita. «Dovremo viaggiare veloci.» «E anche scomodi, perché quel bifolco non si degna di preoccuparsi del tuo disagio.» «Visto che ti lamenti, tu resterai qui. Partirai più tardi con il resto dei bagagli, a bordo di un carro come si conviene a una donna della tua età.» «Non puoi fare a meno di me!» «Certo che posso», replicò Shanaz seccamente, congedandola con un brusco cenno.

29

Fuori, Orlando sostò alcuni istanti per riprendersi. Come già gli era accaduto in precedenza, vedere la principessa aveva destato in lui emozioni contrastanti e violente che non sapeva spiegare, o che forse non voleva soffermarsi ad analizzare. Tuttavia era innegabile che subiva il suo fascino, malgrado vi si opponesse.

Prima di incontrarla i suoi pensieri e le sue azioni erano stati di una purezza cristallina. Non c’erano dubbi a tormentarlo, né aveva incertezze. Da una parte c’erano i mori da uccidere, dall’altra i cristiani, votati a una giusta e santa causa. Ora, invece, viveva nella confusione, perché si sentiva costretto a vedere tutto in un’altra prospettiva: i nemici potevano, all’occorrenza, diventare amici e viceversa. Shanaz si era trasformata da ostaggio in strumento per ottenere l’alleanza con suo padre e contemporaneamente in artefice del suo smarrimento. Ma i sentimenti potevano – e dovevano – essere celati, soffocati e stroncati. In fondo, appena eseguito l’incarico, non l’avrebbe mai più rivista e quel lacerante tormento avrebbe avuto fine. Il pensiero alleggerì il peso che lo opprimeva. Una manciata di giorni che mai potevano significare? Argante, che di nascosto aveva ascoltato il dialogo fra lui e la principessa, avendo una mente arguta non aveva impiegato molto a trarre le conclusioni. Quei due erano attratti l’uno dall’altro come falene dalla fiamma ed era pronto a giurare che, prima o poi, si sarebbero bruciati. Sogghignò fra sé: il truce massacratore di mori era stato sedotto dalla bella figlia dell’emiro! Era una beffa del destino. Come non vedere in tutto ciò una sorta di giustizia divina? Tuttavia, quando fece per allontanarsi furtivo, il fine udito di Orlando percepì il fruscio dei suoi i e, sguainata Durendal, lo bloccò. «Chi va là? Vieni fuori e fatti riconoscere!»

Timidamente, con aria colpevole, Argante obbedì. «Sono io, signore.» «Di nuovo tu?» proruppe il giovane. «Cosa facevi là dietro? Mi spiavi?» Ostentando stupore l’eunuco scosse il capo. «Io? Nossignore. Non oserei mai! Mi trovavo qui per caso, lo giuro.» Rinfoderando la spada Orlando lo guardò minaccioso. «Bada, uomo, se ti pesco un’altra volta a gironzolarmi intorno ti infilzo, parola mia. Tu non mi vai a genio, perciò attento a te!» Argante gli rivolse il suo sorriso più innocente. «Perdonami se ti ho offeso senza volerlo, mio cavaliere.» Poi si fece insinuante. «Hai parlato con la principessa?» «Non è cosa che ti riguardi.» «È vero, tuttavia…» Lo sguardo di Orlando lo trafisse. «Tuttavia?» L’eunuco gli si accostò e dopo essersi gettato attorno una rapida occhiata si lasciò sfuggire un sussurro. «Certo mi sbaglio, ma… forse ti interessa sapere cosa pensa di te.» «Infatti ti sbagli: non m’interessa. E poi come ti permetti questa confidenza? Non mi pare di avertene incoraggiato, né autorizzato.» Argante arretrò di qualche o, inchinandosi. «Ancora una volta ti chiedo perdono. Ho osato troppo e meriterei di essere preso a frustate.»

«Bada, potrei prendere per buono il tuo consiglio. Ora vattene, sono stanco delle tue stupide chiacchiere!» Il servo si dileguò, non volendo esasperare il paladino. Però era certo di aver gettato il seme della curiosità dentro di lui e confidava che presto sarebbe germogliato. Dopo tutto, la strada per Salamanca era lunga. Orlando si avviò verso la propria tenda, salutando distrattamente gli uomini che

incontrava. Era quasi ora di cena e l’odore del cibo si spandeva nell’aria, mescolato a quello del fumo, del ferro e dei cavalli. Si stavano già formando le prime file per la distribuzione del rancio e tutt’intorno echeggiavano voci, producendo un suono simile al ronzio di un alveare.

Nella zona in cui si trovavano i padiglioni del re e dei paladini si respirava un’atmosfera di tensione. Orlando l’avvertì non appena vi giunse e ne ebbe conferma nel vedere gli undici pari radunati, intenti a un fitto conciliabolo. Sentì levarsi le voci di Engelieri e Gerino al di sopra delle altre e allora, preoccupato, si affrettò a raggiungerli. Al vederlo Olivieri gli andò incontro, mentre gli altri lo guardarono in un silenzio inquietante. Scrutando i loro volti alterati Orlando intuì che era accaduto qualcosa di grave. «Ditemi cos’è successo», li esortò. Parlò Engelieri, a cui luccicavano gli occhi per la tristezza e la collera. «Abbiamo saputo poco fa che il governatore della città ha fatto giustiziare oltre cento cristiani, e che altrettanti ne seguiranno la sorte se non leveremo l’assedio. Tutti i cristiani che abitano a Saragozza sono considerati ostaggi e la responsabilità della loro morte ricadrà su di noi.» «Chi l’ha detto?» domandò Orlando sconvolto. «Un messo dell’emiro che è stato ricevuto dal re.» «Come ha reagito Carlo?» «Puoi ben immaginarlo», sogghignò Engelieri. «Non ha ordinato che fosse giustiziato sul posto solo per non esacerbare ancora di più gli animi, ma ti posso assicurare che è furioso.» «E ora che fa?» «Appena il messo è andato via ci ha congedati, trattenendo solo Turpino, Wala e

Namo. Se abbiamo capito le sue intenzioni, domani sferrerà il primo attacco.» Orlando serrò i pugni. «E io non ci sarò!» «Non ti rammaricare», lo consolò Engelieri. «Se mai Saragozza dovesse cadere prima del tuo ritorno, ti lasceremo qualche moro da uccidere, così che tu non debba sentirti defraudato di un tale piacere.» Orlando stava per ribattere, ma d’un tratto si levarono grida concitate. «Al fuoco! Guardate, la città brucia!» Si affrettarono verso i fossati e le palizzate eretti a protezione del campo e videro il sinistro bagliore che sfolgorava nella notte. Parve, in effetti, che le mura di Saragozza ardessero per un incendio. Si interrogarono l’un l’altro con gli sguardi, senza comprendere cosa significasse, poi si resero conto con raccapriccio che non erano i bastioni a bruciare, ma migliaia di croci elevate su di essi, a cui erano stati inchiodati altrettanti cristiani sottoposti al supplizio. Nello stupefatto, sgomento silenzio che seguì, ne poterono udire le grida strazianti anche da quella distanza. «Che Dio abbia pietà di loro», mormorò Olivieri segnandosi, pallido da far paura. «Che massacro insensato», gli fece eco Gerino, altrettanto sconvolto. Orlando, accecato dal furore, fece per lanciarsi oltre gli sbarramenti per scagliarsi da solo contro le mura della città. Dovettero trattenerlo per impedirgli di compiere quel gesto insano e lui si dibatté furente, il volto rigato da amare lacrime di frustrazione. Arrivò Carlo, seguito da Turpino, Wala e Namo. Gli si fece spazio, in modo che potesse assistere allo scempio. Negli occhi del re si accese un’ira quale non si era mai vista, poi il dolore lo sopraffece e si commosse fino alle lacrime. Il vento che spirava in direzione dell’accampamento soffiò sui loro volti attoniti e sgomenti il fumo e il lezzo della pece, della carne bruciata, mentre grida e gemiti si affievolivano, finché il crepitare del fuoco sovrastò ogni altro suono. Allora il re prese la parola.

«Giuro sul mio onore che quei martiri non sono morti invano e che le loro sofferenze saranno vendicate. Giuro che non avrò pace finché anche uno solo dei vili carnefici resterà in vita. Nessuna pietà, nessun prigioniero!» Un urlo si levò dai paladini e dai cavalieri, dagli scariti e dalla truppa radunata. Un grido che echeggiò come un tonante monito a Saragozza e all’emiro dei mori di Spagna, e dilagò in tutto l’accampamento col fragore di una tempesta. Nel sentire quel frastuono Shanaz si allarmò e afferrato il mantello per coprirsi, ignorando le proteste della vecchia Amina, si affacciò sulla soglia della tenda. Si accorse della grande agitazione che regnava fra i soldati, né udì le voci alterate e le aspre parole di cui intese il senso e che la spaventarono. Vide anche il sinistro bagliore delle fiamme sulle mura della città e rabbrividì, pur senza capire. Mentre fissava quella tragica scena fu raggiunta da un affannato Argante. «Torna dentro, mia signora!» le ordinò sospingendola in modo maldestro. Lei si oppose. «Cosa succede?» «Rientra, ti prego, e te lo dirò», insistette, temendo che la sua vista potesse indurre i soldati incolleriti a commettere qualche atto inconsulto. Shanaz obbedì senza discutere, avvertendo nell’urgenza del suo tono la presenza di una concreta minaccia. D’altronde la furia che serpeggiava tra i franchi era tale da incuterle paura. Lasciò ricadere il mantello e serrò le braccia intorno al corpo, scossa da un fremito. Argante si attardò qualche attimo sulla soglia, scrutò qua e là con aria circospetta, poi rientrò e chiuse la falda. «Adesso mi vuoi spiegare cosa succede?» chiese Shanaz impaziente. «Una cosa terribile, mia signora. L’emiro ha fatto crocifiggere e bruciare molti cristiani sugli spalti della città, in segno di spregio verso i franchi.» Il viso della giovane sbiancò. «Dunque sono quelle le fiamme che ho visto! Ma perché tanta crudeltà?» «Dicono che l’emiro abbia inviato al re dei franchi un ultimatum: se non avesse

levato l’assedio, avrebbe fatto trucidare tutti i cristiani residenti in città. E poiché non l’ha fatto, non ha esitato ad attuare la sua minaccia.» «Ma è orribile!» «Sì, e ora comprendi il motivo dell’agitazione che regna nel campo. I franchi sono furibondi e reclamano vendetta. Forse, se ti avessero vista…» Lasciò la frase in sospeso, ma il significato era inequivocabile. «Ho capito», mormorò lei. «Credi che sia in pericolo?» «No, ma ti sconsiglio di farti vedere in giro. È un gran brutto momento.» «Non volevo che mi vedessero, ma tutto quel trambusto ha destato la mia curiosità e anche un vago timore. Come potevo immaginare…» «Certo, come avresti potuto?» Argante si guardò attorno. «Dove sono le ancelle?» «Non lo so. Di là c’è soltanto Amina, sicuramente spaventata a morte.» «Poco importa. Resterò io a proteggerti, se ce ne fosse bisogno.» «Ti ringrazio. Finora non ho mai avuto paura, ma stanotte…» «Con me sarai al sicuro. Mi farò uccidere, piuttosto che permettere a qualche esaltato di farti del male.» «Ne sono certa», annuì guardandolo con gratitudine. Argante non aveva l’aria del prode e lei dubitava persino che sapesse maneggiare un’arma, ma non fu neppure sfiorata dal pensiero che la potesse abbandonare nel momento del pericolo. Sentì di potersi fidare completamente di lui. «Dovresti cercare di dormire un po’», le disse gentilmente. «All’alba dovrai metterti in viaggio.» Shanaz annuì e si adagiò sui cuscini con un sospiro. L’eunuco la coprì col mantello e sedette girato verso l’ingresso col pugnale a portata di mano. Se qualche energumeno avesse fatto irruzione se la sarebbe

dovuta vedere con lui. Poco dopo Shanaz si addormentò. Fuori, i tumulti si attenuarono fino a smorzarsi del tutto, ma quella non sarebbe stata una notte come le altre. Lo sapeva bene Argante, che lottava per restare sveglio e tenere fede alla sua promessa. Tuttavia, malgrado gli eroici sforzi di volontà, alla fine dovette soccombere al sonno.

Quando Orlando lasciò la riunione che si era tenuta nel padiglione reale era assai tardi. Il re gli aveva concesso di essere presente, benché l’indomani dovesse partire, e il giovane gli era stato grato del privilegio. Durante le discussioni Carlo si era più volte rivolto a lui per chiedere consiglio, dando ulteriore prova di quanto avesse a cuore la sua opinione, e Orlando non l’aveva deluso. Finché era stato occupato a discutere non aveva pensato alla principessa, ritenendo che non si trovasse realmente in pericolo. Tuttavia, appena fuori, la vista di assembramenti di soldati lo allarmò. Prese con sé alcuni dei suoi cavalieri più fidati e attraversò l’accampamento per recarsi alla tenda della principessa, davanti alla quale intendeva disporre alcune guardie per il resto della notte. Mentre percorreva a lunghe falcate i sentieri in mezzo alle tende si rese conto che pian piano il campo stava tornando alla normalità. La truppa si apprestava a dormire, ritirandosi nelle tende o sotto i ripari di fortuna, e ormai anche gli ultimi capannelli si stavano sciogliendo. Il momento critico sembrava superato e la disciplina, profondamente radicata, aveva avuto ragione degli animi di tutti, anche dei più esaltati. Tuttavia, nei pressi della tenda della principessa, Orlando fu colto da una vaga apprensione. Sebbene non ci fossero segnali allarmanti decise di entrare per rassicurarsi. Ordinò ai cavalieri di disporsi in cerchio e sollevò la falda, varcando la soglia. Dentro era quasi buio. Il fuoco dei bracieri stava languendo e le lucerne erano spente, ma riuscì ugualmente a discernere la principessa che dormiva tranquilla e ne provò sollievo. Non si accorse però della presenza di Argante, lungo disteso sui tappeti, sul quale incespicò. Si ritrasse sorpreso, mentre l’altro si svegliava di soprassalto e gli saltava addosso brandendo il pugnale. Nonostante l’attacco improvviso Orlando non ebbe difficoltà a difendersi. In pochi istanti ridusse

l’avversario all’impotenza, disarmandolo e colpendolo abbastanza forte da stordirlo. Il rumore della breve lotta svegliò Shanaz, che alla vista della figura torreggiante si mise a gridare. Orlando dovette afferrarla e tapparle la bocca per impedire che attirasse i soldati. Lei si dimenò, scalciando e cercando di graffiarlo. «Sta’ buona. Sono Orlando.» Nel dirlo allentò la stretta e la girò per darle modo di vederlo. Con un gemito lei si abbandonò contro il suo petto, aggrappandosi alle sue spalle per non cadere. «Mi hai fatto paura», sussurrò. «Scusami», rispose lui sfiorandole i capelli sciolti, lunghi fino ai fianchi. Il suo inebriante profumo e il calore del suo corpo minacciarono di fargli perdere la testa. Gli occhi di lei, ancora dilatati per la paura, scintillavano come oscure stelle nel viso d’avorio. «Perché sei venuto?» «Ero preoccupato per te. Sarei dovuto venire prima, ma il re ha tenuto consiglio di guerra e ha voluto che fossi presente anch’io. Ho portato alcuni dei miei migliori cavalieri, che ora fanno la guardia qui fuori, e sono entrato per assicurarmi che stessi bene. Poi ho inciampato nel tuo servo e sono stato aggredito.» «Argante!» esclamò lei scostandosi. «Non l’avrai ucciso!» «No, è soltanto stordito», ridacchiò Orlando. Shanaz sorrise, ma nel rendersi conto di essere senza velo provò un certo imbarazzo. «Non guardarmi, ti prego.» Orlando raccolse il velo dai cuscini e glielo porse. «Ecco, copriti.» Lei lo avvolse sul capo e sulla parte inferiore del viso, facendogli rimpiangere d’averla assecondata. Per pochi attimi aveva potuto ammirare la squisita bellezza del suo volto, radioso come il sole, e ora quell’astro era di nuovo oscurato. Argante emise un gemito, ma erano troppo rapiti l’uno dall’altra per sentirlo.

Lamentandosi e massaggiando il bernoccolo sul capo si levò a sedere e mise a fuoco le due figure, così vicine da sfiorarsi, riconoscendo la principessa e Orlando. Imprecò fra i denti. Dunque era stato lui a colpirlo. Gemette di nuovo, ma continuarono a ignorarlo. Allora prese a lamentarsi più forte, contorcendosi per attirare l’attenzione. Finalmente si ricordarono di lui e si avvicinarono. «Ah, grazie a Dio vi siete decisi! Avrei potuto restare stecchito e non mi avreste neppure notato.» Orlando lo rimise in piedi sollevandolo di peso. «Sapevo di non averti colpito troppo forte e che non correvi il rischio di morire.» Il servo lo guardò torvo. «Lo dici tu che non era forte! Ho la testa che rintrona come un tamburo, accidenti a te!» «Non mi hai lasciato scelta; tu mi hai assalito con un pugnale.» Gli spruzzò in faccia un po’ d’acqua del bacile in cui galleggiavano petali di rosa. «Meglio, adesso?» «Sopravvivrò. Ho la testa dura», borbottò l’eunuco. La principessa gli posò sulla fronte una pezzuola bagnata. «Questo calmerà il dolore», disse con un sorriso. «Sei davvero un angelo, mia signora. Il più soave e celestiale degli angeli. Ti prego, guardati da quel bruto e stagli lontano. Ancora non so cosa sia venuto a fare qui.» «Che cosa succede?» esclamò Amina apparendo d’improvviso. Il suo sguardo si posò su Orlando, spostandosi poi alla principessa e infine ad Argante, che faceva smorfie per farsi consolare, e alzò le braccia al cielo con aria costernata. «Che oltraggio è mai questo? Come hai osato introdurti nella nostra tenda a quest’ora della notte? Risponderai al tuo sovrano di tanta impudenza!» Di fronte alla sfuriata Argante si fece piccino e cercò di ritrarsi nell’ombra. Orlando, invece, rivolse alla vecchia un beffardo inchino. «Non c’è stato alcun oltraggio, e la principessa te lo potrà confermare. Stavo solo facendo il mio dovere, che è di proteggere lei e te, bisbetica di una donna. E ora, signore, vi auguro la buona notte.» Imitò con aria di scherno il saluto dei mori. «Salam

aleikum.» E se ne andò. «Che insolente!» sibilò Amina indignata. Shanaz seguì Orlando fuori. «Aspetta!» Lui si voltò e sorrise. «Scusami, non volevo mancarti di rispetto, ma la tua serva è davvero indisponente.» «Non dirlo a me, che sono costretta a sopportarla da anni. Non è cattiva, ma mi sorveglia come un carceriere.» «Un vero e proprio cane da guardia», sogghignò Orlando. «Ci delizierà con la sua presenza durante il viaggio?» Lo sguardo della principessa fu attraversato da un guizzo d’astuzia. «No, Amina è troppo anziana per sopportare tanti disagi. Mi raggiungerà più tardi con i carri dei bagagli e le bestie da soma.» «Sospetto che non abbia preso bene la tua decisione.» «È furibonda», rise Shanaz. «Si è arresa solo quando le ho assicurato che Argante ci accompagnerà.» Orlando vide che Amina si era affacciata sulla soglia e li osservava con aria truce. «Credo che dovresti andare, prima che si arrabbi davvero», suggerì. La principessa si girò un istante, poi tornò a guardare lui. «Resterai qui fuori tutta la notte?» «Com’è mio dovere.» «Sarai mio ospite. Ti prego, torna dentro.»

30

Nell’intravedere il fioco chiarore dell’alba, Orlando si avvicinò alla soglia della tenda per gettare un’occhiata fuori. Subito lo scudiero lo raggiunse per prendere ordini. «Sella i cavalli e conducili qui. Avverti tutti di armarsi e di tenersi pronti a partire.» Galante si dileguò fra le tende del campo ancora in parte addormentato. Orlando impartì ai cavalieri altri ordini, poi rientrò per svegliare Argante e la principessa, che si era ritirata con Amina e le altre ancelle nella zona adibita a stanza da letto.

L’eunuco fu subito in piedi. «È già l’ora, signore?» «Tra poco farà giorno. Va’ a chiamare la principessa.» «Sono qui», rispose lei affacciandosi. «Sono pronta.» I due uomini si voltarono insieme, guardandola mentre si faceva loro incontro. Shanaz aveva indossato comodi pantaloni, una casacca con maniche lunghe, stretta in vita da una fusciacca, e un mantello di lana. Una sciarpa di seta avvolta sul capo le ricadeva a coprire la parte inferiore del viso. Alle sue spalle apparve la governante, arcigna come sempre. Orlando la ignorò e si rivolse alla principessa. «Mangia qualcosa», le suggerì indicando un cesto di frutta. «Non ci fermeremo prima di sera.» «Non ho fame.» «Come desideri», replicò lui freddamente. Shanaz indugiò a guardarsi attorno e Amina ne approfittò per abbracciarla e sussurrarle all’orecchio altre raccomandazioni.

«Dobbiamo affrettarci», la esortò Orlando. «Ci stanno aspettando.» Come se non l’avesse sentito, la governante continuò a tenere abbracciata la principessa e a sommergerla con un fitto parlottare che, alla fine, irritò il giovane. Con un moto d’impazienza prese per un braccio Shanaz e la guidò fuori, senza far caso al borbottio astioso della donna. Argante li seguì trotterellando. Cavalieri e scudieri li attendevano già in sella, schierati in perfetto ordine. Galante condusse Veillantif e altri due cavalli. Orlando aiutò Shanaz a montare, le aggiustò le staffe e si assicurò che il sottopancia fosse stretto a dovere. L’eunuco si arrampicò a fatica sulla sella, sbuffando e brontolando. «Non vieni ad assicurarti che sia tutto a posto anche per me?» chiese con aria sorniona.

Orlando gli gettò un’occhiata torva e non rispose. Balzò in groppa con un agile volteggio e si pose alla testa dei cavalieri dando l’ordine di partire. I pochi che assistettero alla loro partenza li guardarono transitare perlopiù in silenzio, ancora assonnati. Soltanto qualcuno abbozzò un cenno di saluto, che però non fu ricambiato. Presso il cancello del vallo c’era Olivieri in attesa. Mentre i soldati spalancavano i battenti, Orlando arrestò il cavallo e sorrise all’amico venuto a salutarlo.

«Sono felice di vederti, fratello», gli disse. «Non potevo lasciarti andar via senza un ultimo saluto», rispose il giovane, posandogli la mano sul ginocchio. «Sii prudente. La strada per Salamanca è lunga e piena di pericoli.» «Lo sarò», replicò Orlando. «A patto che lo sia anche tu. Ricorda che non potrò

coprirti le spalle quando andrai all’assalto.» «Buon viaggio e buona fortuna.» «Che Dio sia con te, Olivieri. Ci rivedremo presto.» Sorrise ancora una volta e toccò i fianchi del destriero, che si avviò al trotto. Appena il reparto varcò il cancello, i portali si chio. Al sorgere del sole erano già lontani dal campo e da Saragozza, sulle cui mura le croci e i martiri bruciati durante la notte erano stati sostituiti da altre croci, altri cristiani in attesa di essere immolati alla crudeltà del governatore. Ma erano ormai troppo distanti per udire i lamenti e le preghiere, per assistere ai nuovi tumulti che agitarono i franchi nel vederli. Con andatura sostenuta seguirono la strada tortuosa che si inoltrava in mezzo alle alture, dove il vento soffiava incessante e la vegetazione cresceva in modo disordinato, creando chiazze di verde e marrone sui crinali scoscesi. Davanti a loro, per tutto lo spazio che l’occhio poteva abbracciare, si stendeva un territorio brullo e selvaggio, disseminato di formazioni rocciose, ripidi pendii, gole e anfratti, speroni frastagliati e valli corrugate in cui a tratti scintillavano le acque del fiume. Nel cielo screziato di nuvole, si libravano aquile maestose e falchi in cerca di preda. Orlando non cessava di perlustrare con lo sguardo la zona, scandagliando ogni palmo di terreno per scorgere insidie e prevenire agguati. Salamanca era lontana e per arrivarci avrebbero dovuto attraversare svariate decine di leghe di una regione in mano ai mori, affidandosi soltanto al proprio valore e alla protezione divina. Bisognava evitare città e villaggi presidiati dal nemico, e finché non avessero incontrato il distaccamento inviato dall’emiro per scortarli si sarebbero dovuti muovere con estrema cautela. Il sole era ormai alto quando scorsero in distanza una strozzatura. Orlando mandò in avanscoperta due cavalieri, ordinando agli altri di serrare i ranghi e stare all’erta. Si avvicinarono con una certa apprensione. La gola era stretta, oscura e sinistra.

Orlando attese il segnale di via libera, che però tardò a giungere. Veillantif sbuffò innervosito, scrollando la testa. C’era forse il nemico appostato fra le complici ombre degli anfratti? Era già sul punto di sguainare la spada quando i due cavalieri riapparvero e segnalarono che il aggio era sgombro. Con sollievo, Orlando alzò il braccio in risposta. Il reparto si spinse al galoppo, serrato e compatto. Il rombo cavernoso degli zoccoli dei cavalli echeggiò fra le rupi, mescolato al suono amplificato del ferro e dello stridere dei finimenti. Solo quando sbucarono di nuovo alla luce del sole si sentirono rassicurati, ma non rallentarono. Più oltre, annidato fra le ininterrotte ondulazioni del terreno, videro un villaggio che bruciava. Il fumo saliva in lente spirali verso il cielo, offuscandolo. Una volta vicini videro le case, ormai ridotte a roghi crepitanti, divorati dalle fiamme. Doveva esserci stata una scorreria dei mori, anche se di essi non c’era traccia. Adalbigi guardò Orlando. Lo interrogò solo con gli occhi e ricevette una risposta altrettanto silenziosa ma inequivocabile: nessun intervento. In breve si lasciarono alle spalle le rovine del villaggio e tornarono ad avanzare in mezzo al nulla. La regione era ostile in ogni senso e non sembrava ospitare alcuna forma di vita, tranne rapaci e capre selvatiche. I raggi spietati del sole illuminavano con crudezza la landa desolata che li circondava. Agli occhi di Orlando, e non ai suoi soltanto, appariva come un deserto. Dov’erano le rigogliose campagne e le foreste di un verde profondo della sua dolce terra natale? Lontana come un sogno perduto al di là dei monti, era tuttavia un ricordo che il lungo distacco non aveva smorzato. La cavalcata si protrasse senza soste fino al tramonto, quando Orlando ordinò di fermarsi per are la notte. Scelse un luogo sopraelevato da cui si dominava l’intera zona circostante e dove i massi disposti tutt’intorno dal capriccio della natura fornivano protezione. Scudieri e cavalieri lavorarono di concerto per erigere le tende, accudire i cavalli stanchi e accendere i fuochi. In breve il campo fu pronto e Orlando accompagnò la principessa alla tenda, eretta accanto alla sua. «Temo che non sia troppo confortevole», sospirò. «Ma è quanto di meglio possa offrirti.»

«Andrà benissimo. Ti ringrazio.» «Riposati», suggerì il giovane. «Argante si prenderà cura di te e ti porterà la cena, appena sarà pronta.» «Non vorresti cenare con me?» «Lo farei, ma ai miei uomini parrebbe strano se mostrassi di preferire la tua compagnia alla loro.» Lei sorrise per celare la delusione. «Certo, capisco.» «Magari verrò più tardi, se per te va bene.» «Dubito che riuscirò a stare sveglia, dopo mangiato. Sono sfinita.» «Allora ci vedremo domattina. Ti auguro buon riposo.» «Altrettanto a te.» Orlando se ne andò in fretta per sottrarsi al pericoloso incanto della sua presenza, preferendo la familiare sicurezza dei propri compagni d’arme alle conturbanti sensazioni che lei risvegliava e da cui non sapeva come difendersi. Sedette insieme a loro accanto al fuoco, mentre gli scudieri si davano da fare per servirli. A un certo punto venne Argante a prendere il cibo per sé e per Shanaz; lo fece in silenzio e rapidamente, allontanandosi subito dopo. Orlando non lo degnò di uno sguardo, concentrandosi sui discorsi degli uomini ed escludendo tutto il resto dalla propria mente. Come facevano sempre i soldati davanti a un fuoco, furono rievocate imprese e battaglie, ricordando gli atti di valore, citando il nome di questo o quel cavaliere che si era particolarmente distinto, senza scordare i compagni caduti, ma accettandone la perdita come un evento naturale, un destino che accomunava tutti. Erano giovani e amavano la vita, ma non per questo temevano la morte, sempre in agguato in battaglia. Nelle oscure trame del fato erano scritti i loro nomi e a nessuno era dato sapere quando o chi sarebbe stato colpito. Se non si poteva sfuggire al proprio destino, a che scopo struggersi nell’attesa che si compisse? Più la vita era breve, più meritava di essere assaporata.

Quando Adalbigi iniziò a parlare di tornei, la compagnia si animò. Giostrare non era meno importante del combattere e gli allori guadagnati li rendevano orgogliosi. Erano tuttavia ricordi lontani anche quelli, poiché da che erano in Spagna non c’era più tempo per le giostre. Ma seppero rievocarli con tale lividezza che a tutti parve fossero avvenuti non più tardi del giorno prima. Al ricordo, un sorriso aleggiò sulla bocca di Orlando, che aggiunse le proprie osservazioni, senza trascurare di far notare ad alcuni d’aver assaggiato il suo valore e di essere caduti sotto i suoi colpi. Da lì a parlare di donne, il o fu breve. Come dimenticare le dame e le donzelle che assistevano alle giostre e si entusiasmavano alle prodezze dei loro beniamini? Belle e audaci, non esitavano a promettere delizie e a concedere favori. Non ce n’era uno, fra loro, che non li avesse assaporati, e ora quel ricordo era più dolce che mai. «Se torno la sposo, la mia Erzelinda», disse Adalbigi con aria sognante, rievocando l’immagine dell’esile ragazza bionda, il suo sguardo dolce, il viso gentile. «Sempre che non l’abbia già fatto qualcun altro», lo derise Almerigi. «Mi ha dato la sua promessa, prima che partissi», ribatté il giovane, accarezzando con mossa furtiva il ciondolo che sempre portava sul cuore. «Illuso. Tutti sappiamo quale valore abbia la promessa di una donna, specie se fatta a chi sta per partire.» «Non Erzelinda», dichiarò Adalbigi. «Lei mi aspetterà.» Almerigi replicò con una eloquente alzata di spalle, ma non aggiunse altro per non urtare l’amico. Tuttavia, conoscendo la fama della ragazza, dubitava che l’avrebbe aspettato. «Tre anni sono lunghi», sospirò Aquilante. «E le nostre donne non sono angeli, anche se ci piace vederle in queste sembianze. Io non spero che la mia attenda il mio ritorno, ammesso che ciò avvenga.» «E tu, Orlando, speri che la tua ti aspetti?» domandò Almerigi. Il giovane lasciò vagare lo sguardo sulle fiamme guizzanti, prima di rispondere.

Fuggevole, il ricordo di Alda lo sfiorò. «Non lo so», mormorò infine. «Come dice Aquilante, tre anni sono lunghi e forse è pretendere troppo da una donna giovane e bella. Se Alda in questo frattempo si fosse innamorata di un altro, lo capirei.» «Andiamo!» esclamò Gontrano più disincantato. «Chi di voi è davvero convinto che la sua donna lo aspetti per tanto tempo? Non facciamoci illusioni, amici.» Si arono l’otre del vino, a cui attinsero in abbondanza. La notte era fredda, l’immensa volta del cielo punteggiata di stelle, algide e remote. Nei momenti di silenzio che seguirono, si udì il crepitare della legna che ardeva, mescolato alla monotona litania del vento. L’oscurità li circondava fitta, impenetrabile. Ripresero a parlare, finché Almerigi prese dalla bisaccia la piccola arpa da cui non si separava mai e incominciò a suonare, accompagnandosi in una dolce e malinconica canzone. Cantava della Francia, di insondabili foreste, di bionde trecce sfatte, di amori perduti e di morte. Aveva una bella voce e tutti lo ascoltarono rapiti, a poco a poco sopraffatti dalla forza evocativa del canto e della nostalgia.

Orlando lasciò che finisse, poi disse che era tempo di ritirarsi. Stabilì i turni di guardia, riservandosi l’ultimo, e dopo averli salutati si avviò alla propria tenda. Stava per entrare quando scorse una figura che sostava nell’ombra, indefinita ma riconoscibile: Shanaz. Deviò per avvicinarsi, sorpreso che fosse ancora sveglia. «Come mai non dormi?» «Mi hanno svegliata le vostre voci e la canzone del tuo uomo», rispose. «Argante, invece, dorme come un sasso.» «Mi dispiace di aver turbato il tuo riposo.» «Non importa. Cos’era quella canzone? Non ho capito bene le parole, ma mi è sembrata molto bella. Malinconica, ma bella.» «È una storia d’amore e di morte.»

«Sembrano inseparabili anche nella realtà, non solo nelle poesie e nelle canzoni», sospirò lei. «Forse perché è davvero così. Canti e poemi si ispirano alla vita reale, dominata dall’amore e dalla morte.» «E dalla guerra, scaturita dall’odio e fonte di ogni male. Se tutti smettessero di combattere e di uccidere, se tutti scegliessero di amare in pace, non credi che questo potrebbe essere un mondo migliore?» «Sogni, null’altro che futili sogni. Soltanto con la forza e le armi si può imporre la pace. Le parole vanno bene per i monaci, che vivono l’utopia dell’amore universale. D’altronde, tu sei una donna e non puoi capire.» «Le donne sono portatrici di vita, non di morte. Per questo aborriscono la guerra che le priva dei figli, dei padri, degli amanti. Al contrario di voi, comprendiamo che le nazioni fondate sul fragile equilibrio delle armi sono destinate a soccombere, prima o poi. Questa terra era in pace, prima che arrivaste voi franchi. Ora quelli che furono amici e alleati si combattono e non sanno più da che parte stare.» Orlando si adombrò. «Di quale pace stai parlando? Ti riferisci forse a quella in cui i cristiani subiscono vessazioni e tormenti? Vi dite tolleranti, portatori di cultura e civiltà, ma siete soltanto dei carnefici. Siete degli invasori, degli oppressori sanguinari e spietati. Non potrà mai esserci alcuna comprensione fra noi.» L’aggressione verbale la fece vacillare come sotto l’impeto di una tempesta. Era un attacco diretto alla sua gente, alla sua fede e a lei stessa. Le parole crude di Orlando la ferirono e la offesero. Ma fu soprattutto l’orgoglio che la spinse a ribattere. «Come osi parlarmi in questo modo? Io sono la principessa Shanaz, figlia dell’invitto emiro di Salamanca, e tu hai l’ardire di insultarmi, insolente d’un infedele?» Aggredito a propria volta, Orlando avvampò di collera. L’afferrò rudemente per un braccio e la trascinò nella tenda, senza curarsi delle sue proteste né di farle male. Al riparo da sguardi indiscreti, se non d’orecchie, la scrollò con violenza e la spinse via da sé con forza, mandandola a cadere fra i cuscini. Lei lo guardò con una mescolanza di odio e paura.

«Nessuno, uomo o donna che sia, può mancarmi di rispetto. Tu sarai anche una principessa, ma finché non ti avrò consegnata a tuo padre sei un ostaggio. Perciò ti consiglio di comportarti bene, o potrei fartene pentire. La mia pazienza ha dei limiti che tu hai superato oltre misura.» «Mio padre ti farà frustare per questo oltraggio!» Lui le sorrise beffardo. «Tu credi? Io penso invece che potrebbe essermi grato per averti trattata come meriti.» Furiosa, Shanaz si avventò su di lui cercando di colpirlo, ma Orlando la intercettò prima che arrivasse a segno. Le torse il braccio con una ferrea morsa, rendendo vani tutti i suoi tentativi di liberarsi. «Se non la smetti di contorcerti ti farò ancora più male», l’ammonì. Non era più in collera, quanto piuttosto divertito. Nonostante la lotta impari lei rifiutava di arrendersi, di piegarsi alla sua forza. Cercò di graffiarlo e lui dovette imprigionarle anche l’altro braccio. Shanaz venne a trovarsi immobilizzata in una stretta che le mozzava il respiro e le procurava dolore, ma non era niente al confronto con la rabbia e la frustrazione che le ardevano dentro. «Sei un vigliacco!» sibilò continuando a sfidarlo. Orlando sapeva di farle male e alla fine ne ebbe pietà. «Ti lascio, se la smetti di aggredirmi.» «Va bene, lasciami.» «Non ho sentito. Dillo più forte.» «Sì, maledetto!» Quando mollò la presa, lei vacillò come ubriaca. «Il viaggio fino a Salamanca è lungo e non mi garba la prospettiva di dovermi confrontare con te ogni giorno.» «Ti odierò per il resto della mia vita!» esclamò lei fissandolo con occhi di brace.

Orlando le si accostò, ricambiando lo sguardo e costringendola a fare un o indietro.

«Io non ti odio di meno, tuttavia farò il mio dovere e ti renderò sana e salva a tuo padre, sempre che tu collabori. E adesso vattene a dormire. Si parte all’alba.» Fremendo di rabbia Shanaz lo guardò uscire, poi afferrò i cuscini e li scagliò dietro di lui, insultandolo nella propria lingua. Argante, che era stato svegliato dall’alterco ma che se n’era rimasto in silenzio nel suo cantuccio, tossicchiò per attirare la sua attenzione. Shanaz gli tirò un cuscino e lo prese in faccia. «Scommetto che eri sveglio e hai sentito tutto.» «Sì, altezza.» «Perché non sei intervenuto per difendermi? Non hai visto come mi ha trattata quell’arrogante di uomo?» «Perdonami, non ne ho avuto il coraggio.» «Ma che bravo! E tu saresti quello che mi vuole proteggere?» «Io sono qui per servirti, mia signora. È Orlando che ha il compito di proteggerti.» «Sei un codardo! Se mai hai avuto un po’ di coraggio te lo hanno tagliato insieme ai testicoli, dannatissimo eunuco!» Ancora più infuriata, cominciò a bersagliarlo di cuscini. «Vattene a dormire fuori, che io non debba sopportare la tua odiosa presenza!» Argante sgattaiolò verso l’uscita, mentre l’ultimo cuscino colpiva la falda. Fuori, si rannicchiò per proteggersi dal freddo pungente, lasciandosi sfuggire un suono lamentoso per l’avversa sorte che lo perseguitava.

31

Nei giorni successivi i rapporti tra Orlando e la principessa non migliorarono, sebbene entrambi si sforzassero di evitare un altro scontro. Argante assisteva al duello di volontà fra il divertito e il preoccupato, chiedendosi fino a quando sarebbe durato quel braccio di ferro e quale dei due si sarebbe infine arreso. Orlando le rivolgeva la parola solo quando non poteva evitarlo e Shanaz, dal canto suo, lo ripagava con un contegno altezzoso e scostante, obbedendo alle sue direttive con malcelato fastidio. Il loro contrasto aveva finito per coinvolgere anche gli uomini, che prevedevano sviluppi catastrofici. Conoscendo Orlando, non era difficile intuire che non avrebbe sopportato a lungo la situazione. Qualcuno arrivò ad azzardare delle scommesse, tanto per rompere la monotonia del viaggio, e ogni volta che i due si incontravano e si scambiavano qualche parola, sguardi curiosi si puntavano su di loro, impazienti di assistere all’inevitabile scenata. Ormai la tensione aveva contagiato tutti. Orlando era più intrattabile del solito, sempre di malumore e litigioso. Galante ne faceva le spese, ma nessuno era esente da ramanzine. Tuttavia, se gli scudieri erano rassegnati a farsi strapazzare, non altrettanto lo erano i cavalieri, il cui orgoglio non inferiore a quello del paladino li rendeva facilmente irritabili e permalosi. Il povero Argante, preso tra due fuochi, era quello che maggiormente ne subiva i contraccolpi. La sera, quando si radunavano intorno ai fuochi per mangiare, discutevano spesso con animosità e, nonostante i tentativi di Almerigi di placare gli ardori con l’arpa e il canto, la maggior parte delle volte finivano per litigare. Allora, Orlando doveva intervenire d’autorità per impedire che gli alterchi degenerassero. Ovviamente la colpa di tutto era della principessa e del suo comportamento, pensava Orlando, incapace di rendersi conto che pure lui aveva la sua parte di responsabilità. Pioveva a dirotto quando raggiunsero il fiume Duero, ingrossato dagli acquazzoni degli ultimi giorni. I due scudieri mandati in avanscoperta tornarono

a riferire che il guado era impossibile e che il traghettatore, mezza lega più a valle, non ne voleva sapere di portarli sull’altra sponda. «Dice che la corrente è troppo forte e non se la sente di rischiare.» «Non possiamo restare bloccati qui a tempo indeterminato!» protestò Orlando. «Gli abbiamo detto d’avere fretta, ma non ha voluto sentire ragioni. Ci ha consigliato di accamparci e aspettare. Forse il tempo migliorerà.» Orlando guardò il cielo cupo, che non lasciava presagire alcuna schiarita, e scosse il capo. «Bisognerà trovare il modo di are», dichiarò ostinato. «Siamo solo a metà pomeriggio e non intendo sprecare delle ore in attesa di un improbabile miglioramento. Scendiamo a valle. Del traghettatore mi occuperò io.» Si rimisero in marcia, seguendo la strada dissestata che costeggiava il fiume. Orlando fremeva d’impazienza e irritazione per il fastidioso contrattempo che li costringeva a rallentare. Avevano già perduto tempo prezioso e ne avrebbero perso ancora se non fossero riusciti ad attraversare il Duero entro la giornata. Sembrava che tutto congiurasse per impedirgli di arrivare velocemente a Salamanca e ciò inaspriva il suo disappunto. Mezza lega sarebbe stata un distanza irrisoria se fosse stato possibile procedere al galoppo. Invece, costretti dal terreno impervio e scivoloso a un’andatura lenta, impiegarono un tempo lunghissimo. O almeno così sembrò a tutti. Poi, finalmente, scorsero la baracca del traghettatore. La piattaforma, saldamente fissata ai pali da robuste funi, beccheggiava sulle acque ribollenti del fiume. Orlando ordinò di fermarsi, e mentre i suoi compagni cercavano riparo sotto le fronde di alcuni alberi stenti, andò a bussare all’uscio della casupola. Venne ad aprire un uomo grande quasi quanto lui, con spalle e braccia enormi, una faccia color del cuoio vecchio e con addosso abiti sdruciti. Emanava uno sgradevole odore e gli esalò sul viso un fiato mefitico. Lo squadrò da capo a piedi e sogghignò, rivelando i denti guasti. «Ti sei scomodato a venire fin qua per niente», disse senza dargli il tempo di aprir bocca. «Ho detto ai tuoi scagnozzi che non vi porterò dall’altra parte e non

lo farò. Almeno non oggi.» «Posso pagarti bene il disturbo», replicò Orlando. «Nessuna somma può valere il rischio. Qua attorno c’è spazio sufficiente per accamparvi e aspettare domani. Se smetterà di piovere e il fiume sarà meno burrascoso, vi traghetterò.» «Non possiamo aspettare domani!» sbottò Orlando. L’altro si strinse nelle spalle. «E io che posso farci? Non ho il potere di comandare agli elementi. Se tu ce l’hai, usalo.» «Ascolta...» «Domani», ribatté l’uomo sbattendogli l’uscio in faccia. Orlando fissò l’uscio come se volesse incenerirlo. Era infuriato per il modo in cui era stato trattato e ancora di più per la determinazione del traghettatore, ma si rese conto che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea neanche se gli avesse offerto tutto l’oro del mondo, cosa che peraltro non era in grado di fare. Se ne andò scornato e furibondo, serrando i pugni per il senso d’impotenza che lo pervadeva, e raggiunse i suoi nel boschetto. Bagnati e infreddoliti questi capirono al primo sguardo che non aveva avuto fortuna. Il cielo, solcato dal guizzo dei lampi, sembrò farsi beffe di loro. «Niente da fare», annunciò funereo. «Mi ha sbattuto la porta in faccia senza ascoltarmi, quel bifolco!» Shanaz non poté trattenere un sogghigno, ma tornò subito seria quando ricevette un colpetto da Argante. Cavalieri e scudieri si scambiarono sguardi costernati. «E adesso che facciamo?» chiese Adalbigi. «Non abbiamo scelta. Dobbiamo per forza accamparci e aspettare domani, sperando che il tempo migliori.» «E se non migliorasse?» fece Almerigi.

«Traghetteremo in ogni caso», dichiarò Orlando. «Possiamo farlo anche senza di lui. Coraggio, diamoci da fare e piantiamo le tende.» Nel giro di pochi minuti, sullo spiazzo retrostante la baracca, si innalzarono le tende e i ripari per i cavalli e i fuochi. Accenderli comportò qualche difficoltà a causa della legna umida, ma alla fine gli sforzi degli scudieri furono ripagati e le fiamme crepitarono, diffondendo luce e calore. Orlando si guardò intorno cercando la principessa. Non vedendola andò a cercarla nella sua tenda, ma trovò soltanto Argante occupato ad asciugare i vestiti. «Dov’è Shanaz?» chiese perentorio. «Non lo so, signore», rispose l’eunuco. «Mi ha lasciato poco fa senza dire niente e ho pensato che volesse scaldarsi vicino al fuoco.» «Invece non c’è!» ruggì il giovane. «Dov’è andata?» Gli si avvicinò e lo agguantò in modo rude. «Non ne ho la più vaga idea, signore, lo giuro!» «Se è fuggita io ti ammazzo!» «Ti prego, non prendertela con me. Si sarà appartata qui vicino. Vedrai che tornerà fra poco.» Orlando lo lasciò andare con un sibilo spazientito. «Prega che riesca a ritrovarla, eunuco, o la pagherai!» Uscì avvolto dall’aura tempestosa e Argante si lasciò ricadere con un gemito sui cuscini. Che uomo impossibile! Orlando si allontanò dal campo a lunghe falcate, addentrandosi nella boscaglia e maledicendo una volta di più quell’incarico, che non solo gli impediva di partecipare all’assedio di Saragozza, ma lo obbligava a fare da balia a una ragazzina capricciosa. Era certo che non si fosse allontanata di molto e contava di ritrovarla subito, ma mentre si apriva un varco nell’intricata vegetazione meditò sul modo di punirla per aver disobbedito ai suoi ordini.

Shanaz si era avventurata nel bosco seguendo un impulso improvviso, dettato soprattutto dal bisogno di riflettere in solitudine. La forzata convivenza con i cavalieri la infastidiva. Sentiva continuamente minacciata la propria intimità, sebbene non avesse motivo di lagnarsi per il loro comportamento. Era alla ricerca di una pace che da qualche tempo le sfuggiva e che non riusciva a trovare nemmeno nel raccoglimento della preghiera. Riteneva che lo stretto contatto con quegli uomini stesse inquinando la sua fede, che contaminasse la purezza della sua essenza. Ma era Orlando, più di ogni altro, che la turbava. Fiero come un leone e altrettanto selvaggio e indomabile, rappresentava un enigma che non era capace di decifrare. Era la persona più indisponente che le fosse mai capitato d’incontrare, eppure l’attraeva in modo irresistibile… quando non desiderava cavargli gli occhi. Sentimenti contrastanti si agitavano nel suo animo mentre arrancava sul sentiero fangoso appena tracciato nel folto, sotto la pioggia che le inzuppava il mantello. Talmente assorta in quel tormentoso conflitto interiore da non accorgersi di quanto si fosse allontanata dal campo finché un ringhio sommesso e minaccioso la riportò bruscamente alla realtà.

Davanti a lei c’era un lupo. La fissava dai cespugli nel fioco chiarore del giorno morente. Grande e irsuto, con le fauci socchiuse da cui si intravedevano le zanne acuminate. Shanaz s’immobilizzò, respirando appena, gettando attorno rapide occhiate alla ricerca di una via di fuga che sapeva inesistente. Così come sapeva che se si fosse mossa la bestia le sarebbe balzata addosso… Ma l’avrebbe fatto comunque. Infatti la vide acquattarsi, i muscoli tesi e pronti allo scatto ferale. Allah potente e misericordioso, aiutami!

Lo scroscio della pioggia risuonò ingigantito. Shanaz non udì nient’altro per interminabili istanti, mentre la certezza di non avere scampo l’attanagliava. Il lupo emise un ringhio cavernoso, scoprendo ancor più le zanne, e spiccò il

balzo. Shanaz lanciò un grido, alzando istintivamente le braccia per proteggersi e aspettando l’impatto, ma un sibilo improvviso fendette l’aria e una daga si conficcò nella gola della bestia con precisione, spingendola indietro e inchiodandola al tronco di un albero. Shanaz vacillò, ma subito un’ombra si materializzò al suo fianco per sorreggerla. Un paio di braccia coperte di ferro la cinsero, la serrarono rassicuranti. Lei si abbandonò alla stretta singhiozzando. «Non piangere», le disse l’uomo con dolcezza. «È tutto finito.» Soltanto allora lo riconobbe e fu tentata di respingerlo. Ma scoprì che desiderava soltanto lasciarsi andare nel suo abbraccio, aggrapparsi alla forza indomita che traboccava da lui e la inondava di calore come una fornace. Probabilmente Orlando non avrebbe mai saputo quanto era stata vicina alla resa incondizionata. Dominando le intense emozioni, Shanaz gli posò le mani sul petto per allontanarlo. «Puoi lasciarmi. Sono in grado di reggermi da sola.» La lasciò subito e lei dovette irrigidire le gambe per non vacillare. Orlando se ne avvide, ma restò immobile. «Non ti saresti dovuta allontanare. Questo posto è infestato dai lupi, e non solo a quattro zampe. Per fortuna ho seguito le tue tracce e sono arrivato in tempo.» Non c’era alcun rimprovero nelle sue parole, ma lei alzò il mento con fierezza. «Mi dispiace di averti causato tanto disturbo», replicò gelida. «Comunque, avevo la situazione sotto controllo.» «Già», sogghignò lui. «L’avevo notato, infatti.» Andò a recuperare la daga, estraendola dal corpo del lupo. La pulì nel pelo dell’animale e la rinfoderò, poi tornò da lei e le indicò il sentiero. «Torniamo al campo. Hai bisogno di cambiarti e scaldarti. E poi Argante sarà in pensiero.» «Spero che tu non abbia fatto pagare a lui la mia disubbidienza.» «No, ma ho minacciato di farlo se non ti avessi trovata.» «Sei il solito bruto.»

«Lo so, me l’hai già detto.» Shanaz si avviò in silenzio, decisa a nascondergli il tremito da cui era scossa e che col freddo poco o niente aveva a che fare. Sebbene avesse cercato di minimizzare l’episodio era consapevole del pericolo corso e la paura non era ancora svanita. Camminò come una sonnambula, sorretta solo dalla volontà, ma d’improvviso le mancarono le forze. Orlando se l’aspettava e fu pronto a intervenire. Stavolta non solo la sorresse, ma la sollevò sulle braccia. «Meglio che ti porti io, almeno finché non ti sarai ripresa.» «Mettimi giù», protestò lei debolmente. «Sta’ zitta», le ingiunse burbero e gentile. Lei obbedì e gli cinse il collo, posando il capo sulla sua spalla. Chiuse gli occhi, cullata dalla sua andatura, sentendosi protetta come mai prima. Tuttavia, qualcosa in fondo al suo cuore si ribellava e lottava contro l’insinuante debolezza che minacciava di sopraffarla, contro il languore conturbante che risucchiava ogni desiderio di contrastare la forza d’attrazione che la trascinava verso di lui come una meteora lanciata incontro al sole. Non aveva che un’arma per difendersi dagli assalti del proprio cuore; colpire Orlando laddove era più vulnerabile. Solo così avrebbe evitato di cadere nel vortice di un’insana ione. Nelle vicinanze dell’accampamento, prima che i cavalieri li avvistassero, gli chiese di fermarsi. «Perché?» domandò sorpreso. «Non voglio che ci vedano così.» «Cosa ci sarebbe di male?» «Moltissimo. Mettimi subito giù!» Orlando ebbe la tentazione di lasciarla cadere, tanto era indispettito dai suoi modi, ma non lo fece. La depose con delicatezza, come un fragile ninnolo. «Sei

soddisfatta adesso?»

Lei lo gratificò di un’occhiata sdegnosa. «Lo sarò solo quando potrò finalmente fare un bagno e levarmi di dosso la puzza che mi hai lasciato.» Orlando la fissò incredulo. Le aveva salvato la vita, l’aveva confortata e portata sulle braccia, e quello era il ringraziamento? E dire che solo qualche istante prima aveva avuto la sensazione che ogni divergenza fosse sul punto di venire appianata, che ci fosse uno spiraglio di riconciliazione in quel loro difficile rapporto. Come aveva potuto essere tanto ingenuo? «Sbaglio o mi hai appena detto che puzzo?» chiese risentito. Shanaz sferrò l’ultimo colpo senza pietà. «Come un caprone, ma è soltanto una delle cose che mi ripugnano di te.» Lui non riuscì a credere che avesse davvero proferito quelle parole. «E quali sarebbero le altre, di grazia?» «Sono troppe per elencarle tutte, ma la prima è che sei un infedele e che aborrisco ogni contatto con te. Tu contamini ogni cosa che tocchi.» «Te inclusa, naturalmente.» «Soprattutto. Ti sono riconoscente per avermi salvata, ma questo non ti autorizza a credere che possa vederti sotto una luce diversa.» «Ti assicuro che non mi sono mai illuso al riguardo, e d’altronde neppure lo desidero. Sei un impiccio colossale e non vedo l’ora di liberarmi di te. Se proprio ci tieni a saperlo, non ti sopporto più di quanto tu sopporti me.» «Almeno abbiamo messo in chiaro ciò che pensiamo l’uno dell’altro e spero che in futuro ti comporterai di conseguenza. Anche se sei uno zotico, suppongo tu possieda un minimo di buona creanza», ribatté Shanaz, e senza dargli il tempo di replicare gli voltò le spalle e se ne andò. Orlando restò dov’era e la guardò entrare nella tenda senza curarsi della pioggia che lo inzuppava, incurante di tutto fuorché della collera che montava dentro di

lui e lo sommergeva finché non fu capace di dominarla. Con un ruggito spaventoso estrasse Durendal e cominciò a menare fendenti sugli alberi come se fossero dei nemici, accanendosi con furia cieca, tagliando rami e cortecce fino a ridurli quasi in poltiglia. Il frastuono e i suoi grugniti rabbiosi si mescolarono allo scroscio della pioggia. Fumigando per lo sforzo e la collera, non si avvide che alcuni dei suoi compagni erano venuti a vedere cosa accadeva. Lo osservarono sconcertati e annichiliti, tenendosi a distanza di sicurezza. Nessuno tentò di arrestare l’opera di distruzione che stava compiendo, ma era la prima volta che si trovavano a essere testimoni di una delle leggendarie sfuriate di Orlando e compresero perché se ne parlava con tanto reverenziale timore. Si arrestò soltanto quando l’opera di devastazione fu compiuta e anche l’ultimo misero arbusto si infranse sotto i suoi colpi. Allora piantò la spada nel terreno molle e scrutò intorno a sé. Nel suo sguardo c’era ancora un’ombra della collera che aveva provocato lo scempio, ma non era più così terribile. Si accorse della presenza dei compagni che lo osservavano muti e aggrottò la fronte. «Cosa fate lì impalati?» domandò con voce rauca per lo sforzo. «Volevate della legna da ardere? Ora ne avete in abbondanza.» Agguantò Durendal e la rinfoderò, ando in mezzo a loro come se niente fosse, e si ritirò nella tenda. Adalbigi e Aquilante furono i primi a riaversi e comandarono agli scudieri di raccogliere i rami. Quella notte i fuochi furono alimentati senza parsimonia e riscaldarono gli infreddoliti cavalieri mentre commentavano l’episodio e lo arricchivano di dettagli per renderlo degno di essere raccontato al loro ritorno. Almerigi ne fu ispirato al punto da comporre un poemetto in musica per esaltarlo e dipinse gli alberi come nemici assetati di sangue di cui Orlando aveva fatto strage.

Durante la notte smise di piovere e alle prime luci Orlando andò a verificare le condizioni del fiume. Era sempre gonfio e tumultuoso, con ramaglie e relitti che la corrente trascinava e di cui una buona parte si era ammassata a ridosso della

chiatta, che parve incoronata di macabri trofei. La prudenza sconsigliava di attraversarlo, tuttavia era un aggio obbligato per proseguire e c’erano soltanto due possibilità: aspettare un momento più favorevole o arrischiarsi. Se non avesse avuto tanta fretta, forse Orlando avrebbe seguito il proprio buonsenso. Ma erano l’impazienza e l’insofferenza a comandare le sue azioni e così mise a tacere la prudenza e decise di attraversare il Duero malgrado il pericolo. I compagni non si meravigliarono della sua decisione e si dichiararono d’accordo, sebbene Almerigi sostenesse che sarebbe stato opportuno attendere almeno un paio di giorni per vedere come si mettevano le cose. Infine anche in lui prevalse l’ansia di ripartire e senza altri indugi il campo fu tolto e la chiatta confiscata. Invano il traghettatore protestò contro quello che considerava un sopruso. Alla fine dovette sottostare all’esproprio. Le operazioni d’imbarco richiesero tempo e furono complicate dai cavalli recalcitranti, ma finalmente furono tutti a bordo dell’oscillante chiatta e Orlando incoraggiò la principessa, in attesa sul molo, a prendervi posto. Argante l’aveva preceduta col bagaglio e l’aspettava reggendosi al parapetto. Ma Shanaz oppose un deciso rifiuto. «Non metterò piede su quell’affare neanche sotto minaccia di morte!» dichiarò incrociando le braccia e alzando il mento con aria di sfida. Orlando tornò a terra e le si accostò minaccioso. «Non costringermi a portarti di peso», sibilò irritato. Non le avrebbe permesso di fargli fare la figura dell’imbecille davanti ai suoi uomini e al traghettatore. L’avrebbe trascinata per i capelli se fosse stato necessario. «Guai a te se mi tocchi!» Consapevole dei sogghigni di cui era oggetto la loro disputa, Orlando fece un altro o avanti. «Devi venire, non hai scelta. Se con le buone o le cattive sta a te decidere.» La ragazza si rese conto che la propria risolutezza contrastava con quella di Orlando e, soprattutto, con la sua forza, ma non voleva cedere. Guardò il traghettatore come se attendesse da lui un intervento, ma l’uomo ridacchiava

divertito come gli altri ed era evidente che non avrebbe mosso un dito per aiutarla. «Non verrò», dichiarò ostinata. Ormai al limite della pazienza, il giovane la raggiunse con un balzo, l’afferrò per le braccia e la issò sulle spalle. Ignorando gli strilli e i tentativi di liberarsi la portò a bordo e non la lasciò finché non furono staccati gli ormeggi e si allontanarono dalla sponda, poi la depose senza troppi riguardi sui sacchetti di sabbia e andò a dirigere le manovre. Shanaz, ribollente di collera e umiliazione, si tirò il cappuccio del mantello sul capo e si sforzò di rendersi invisibile.

32

Appena lasciata la riva furono investiti dall’impeto della corrente. L’acqua flagellò la chiatta e la sommerse in più punti, trascinandola con forza. La fune a cui era assicurata si tese al massimo, impedendo che fosse risucchiata via, ma non avrebbe sopportato a lungo una simile trazione. Orlando e i compagni manovrarono le pertiche, cercando di contrastare la corrente vorticosa e mantenere l’assetto. Il compito assorbiva tutte le loro energie e richiedeva una completa concentrazione, tuttavia Orlando riuscì a tratti a gettare un’occhiata alla principessa, rannicchiata e aggrappata al parapetto di tronchi, livida di paura. L’avvertimento di Aquilante che aveva avvistato un grosso tronco diretto contro la fiancata venne sentito a malapena. Il rombo del fiume sovrastava ogni altro suono e la chiatta era tempestata di continuo da detriti alla deriva. Nonostante gli sforzi congiunti non fu possibile evitare l’impatto. Il tronco urtò la chiatta con la forza di un maglio e per il contraccolpo il traghetto s’impennò, minacciando di rovesciarsi. Orlando e i compagni ingaggiarono una lotta furiosa e riuscirono a governare, ma Shanaz fu sbalzata fuori e precipitò nelle acque tumultuose. Argante gridò e si sporse per aiutarla, ma in un soffio fu risucchiata e trascinata via. Senza perdere un attimo, Orlando si liberò delle armi e dell’armatura e si tuffò. Si inabissò nel turbinio limaccioso per qualche istante, prima di riemergere e nuotare con vigorose bracciate verso la giovane, che a tratti ricompariva davanti a lui e annaspava disperata per tenersi a galla. In pochi momenti entrambi scomparvero alla vista dei compagni, che sebbene in ansia per la loro sorte non poterono far altro che proseguire e pregare per raggiungere sani e salvi l’altra sponda. Arrancando furiosamente Orlando accorciava le distanze, ma d’improvviso Shanaz venne inghiottita dai flutti. Allora si immerse anche lui per cercarla. L’acqua era così torbida che a malapena riusciva a scorgerla, tuttavia la vide dibattersi nel vano tentativo di risalire e capì che era trattenuta da una pianta

acquatica che le si era avvinghiata a una gamba. Mentre si spingeva per raggiungerla, ignorando la pressante richiesta d’aria dei propri polmoni, la vide abbandonarsi e temette il peggio. L’urgenza moltiplicò le sue energie e finalmente riuscì ad afferrarla. La liberò con un violento strattone e la trasse con sé verso la superficie. Nel riemergere respirò a fondo, tenendo la ragazza con il viso fuori dall’acqua. Era pallida ed esangue. Non poté nemmeno accertarsi che fosse ancora viva, ma era più che mai determinato a non arrendersi e seguitò a lottare contro la furia del fiume. Poco oltre c’era un’ansa, sulla quale si protendeva una lingua di terra su cui crescevano ciuffi di vegetazione. Tenendo stretta la giovane, si lasciò trasportare dalla corrente e quando fu abbastanza vicino si protese ad afferrare i rami spioventi di un salice per issarsi sulla terraferma. L’albero si piegò sotto il loro peso, ma resistette, e Orlando riuscì a trascinare se stesso e la principessa, ancora esanime, al sicuro. Nonostante fosse stremato si diede subito da fare per rianimarla. Si ricordò di un modo che aveva visto usare da un pescatore per salvare un compagno per il quale sembravano non esserci speranze. Si inginocchiò a fianco della giovane e cominciò a insufflare nella sua bocca il proprio respiro. Lo ripeté più volte senza che accadesse nulla. Poi finalmente percepì un fremito, seguito da un colpo di tosse col quale la ragazza rigurgitò dell’acqua. Rincuorato da quel segno di vita, la sollevò per aiutarla a liberarsi del tutto e infine lei riaprì gli occhi e lo guardò confusa, come se non lo riconoscesse, poi gli gettò le braccia intorno al collo. Malgrado la sorpresa per l’insolito slancio d’affetto, Orlando l’assecondò e la tenne stretta. Bagnati fradici e tremanti, assaporarono la gioia di essere ancora vivi. Tuttavia Orlando non permise a quegli istanti di intensa emozione di protrarsi. Soffocò la tenerezza che cercava d’insinuarsi nel suo cuore per occuparsi di questioni più urgenti, e non notò l’ombra di delusione che apparve sul viso di Shanaz nel momento in cui si sciolse dall’abbraccio per rialzarsi. Si mise a calcolare la distanza che li separava dai compagni e quanto tempo sarebbe occorso per raggiungerli. Dovevano fare presto, dato che erano appiedati, infreddoliti e lui era disarmato. Aveva soltanto il coltello da caccia e l’Olifante, che nella fretta di tuffarsi aveva scordato di togliere, ma non l’avrebbe usato per richiamare i compagni per timore di attirare l’attenzione di

eventuali nemici. Si sentiva nudo senza Durendal al fianco più ancora che privo dell’armatura, una sensazione tutta nuova e alquanto spiacevole di vulnerabilità. Poi si accorse che lei lo guardava piena di speranza, attendendosi di essere condotta in salvo, e le sorrise. «Credo sia meglio muoversi», disse porgendole la mano. «Pensi di riuscire a camminare?» Shanaz si rialzò e strizzò gli indumenti zuppi. «Posso farcela», dichiarò risoluta. «Hai idea di quanto ci siamo allontanati?» «A occhio e croce almeno un paio di leghe, forse tre.» «Non è una grande distanza.» «No, ma siamo stanchi e non sarà facile orientarsi. Spero che i miei uomini scenderanno a valle per cercarci, appena giunti a riva, ma se ci fossimo allontanati più di quanto ho calcolato potrebbe volerci del tempo e noi non ce la faremo a resistere.» «Se non ci muoviamo non lo sapremo mai», sospirò lei avviandosi. Lui la seguì, ammirato per la sua determinazione. Non si era ancora ripresa dall’annegamento, ma ciò non le impediva di mettersi in cammino. Però, da lì a poco, Orlando notò che zoppicava a causa di una ferita alla caviglia. «Fermati», ordinò. «Lasciami dare un’occhiata a quel taglio. Stai sanguinando.» «Non è grave.» «Forse, ma potrebbe peggiorare lungo il cammino.» Le indicò il ceppo di un albero abbattuto. «Siedi lì.» Shanaz obbedì e lasciò che esaminasse la caviglia. Le tolse lo stivaletto, tranciato e macchiato di sangue nel punto in cui un oggetto acuminato l’aveva ferita, e posò il piccolo piede gelato sul proprio ginocchio. La caviglia era leggermente gonfia e violacea, il taglio abbastanza profondo da richiedere qualche punto di sutura. Disgraziatamente non aveva il necessario, perciò l’unica cosa che poteva fare era di fasciarlo strettamente in modo da arrestare il sangue. Strappò un lembo della camicia di lino e lo usò come benda. Le sue mani grandi e forti erano incredibilmente delicate e leggere, abili almeno quanto quelle di un

chirurgo. Ma di certo le mani di un chirurgo non avrebbero suscitato in lei le conturbanti sensazioni che seppero risvegliare quelle di Orlando mentre le sfioravano la pelle per bendarla. Un pensiero che le procurò un fremito. Orlando se ne avvide e alzò il capo per guardarla. «Ti ho fatto male?» «No, hai un tocco assai gentile per essere un guerriero.» Lui sorrise divertito. «Devo considerarlo un complimento?» «È la verità.» «È la prima cosa carina che mi dici da quando ci conosciamo.» «Davvero? Be’, non ti montare la testa.» «Non c’è pericolo», sorrise. «Con te non si sa mai quando arriva il colpo basso.» Lei aggrottò la fronte. «Significa che colpisco a tradimento?» «Era solo un modo di dire.» Le infilò lo stivaletto e le depose il piede a terra con delicatezza. «Prova ad alzarti e vedi se la fasciatura va bene.» Shanaz si alzò e provò a reggersi sulla caviglia ferita. «Pare di sì. Hai fatto un buon lavoro.» «Allora muoviamoci. Siamo fradici e dobbiamo riunirci ai miei uomini per cambiarci.» Si incamminarono sulla stradina fangosa. Orlando adattò la propria andatura a quella di lei, molto più lenta, e si concentrò su quanto li circondava per captare il minimo segno di pericolo. Si sentiva indifeso senza la spada, lento e goffo senza il cavallo, ma era pur sempre un paladino e poteva battersi col coltello e a mani nude se fosse stato necessario. Sebbene tormentata dal dolore, Shanaz non si lamentò mai e mantenne il o. La fretta di Orlando era ampiamente giustificata e anche lei desiderava raggiungere i cavalieri franchi al più presto. Il territorio in cui si trovavano era in mano all’emiro Massud, che non solo odiava i cristiani e in particolare i franchi, ma era anche nemico giurato di suo padre. Massud era un individuo spregevole,

un fanatico e un criminale che obbediva soltanto alla propria legge e non riconosceva altra autorità che quella della forza. Sul suo territorio nessuno poteva considerarsi al sicuro. Shanaz non osò pensare a ciò che sarebbe loro accaduto se una delle sue masnade li avesse sorpresi. Dalla sua fortezza, Massud dominava la regione e incuteva terrore a tutti. Orlando non conosceva l’emiro Massud e la ferocia che l’aveva reso tristemente famoso, ma il suo istinto di guerriero lo induceva a stare in guardia. Sapeva di trovarsi in territorio ostile e doveva preoccuparsi della sicurezza di Shanaz. Era stato un pensiero costante fin da quando avevano lasciato l’accampamento, ma adesso che erano isolati dal resto della compagnia e poteva contare solo su se stesso per proteggerla stava diventando assillante. Certo, era pronto a morire per lei, ma se fosse morto chi l’avrebbe protetta?

Mentre i pensieri si aggiravano nella sua mente, un suono diverso dallo scorrere frusciante del fiume, e molto più inquietante, attirò la sua attenzione. Si fermò e afferrò Shanaz per un braccio, tacitando la sua protesta con un cenno imperioso. Si tese in ascolto, isolando il rumore da ogni altro, poi la sospinse verso la boscaglia e si nascose insieme a lei nella macchia. Il suono si fece più forte man mano che si avvicinava e diventò un rombo costante, inconfondibile per un orecchio esercitato come il suo. «Cavalieri», sussurrò. «Molti.» Gli occhi di Shanaz si dilatarono per la paura. «Non sono i tuoi compagni, vero?» «No, purtroppo.» Shanaz rabbrividì e quando i cavalieri comparvero sulla strada, vedendo che erano almeno una ventina, si aggrappò al braccio di Orlando. «Ci scopriranno!» «No, se restiamo fermi e zitti. Non credo ci stiano cercando e eranno senza vederci.» Lei trattenne il respiro nel vederli sfilare davanti a loro sollevando schizzi di fanghiglia e senza rendersene conto aumentò la stretta sul braccio di Orlando. Il

reparto transitò così velocemente che a malapena poté scorgere le facce truci e barbute, ma riconobbe le insegne di Massud e fu presa dal panico. Se li avessero visti, o anche solo intuito la loro presenza… Lottò contro il primordiale istinto di fuggire, consapevole che soltanto l’immobilità e il silenzio l’avrebbero salvata. Allora chiuse gli occhi e si strinse ancora di più a Orlando. Per il giovane fu un supplizio dover restare ivo, celato nella macchia come un coniglio, e osservare il nemico che transitava a pochi i. Ma poiché la salvezza dipendeva dal non farsi scorgere, anche lui si costrinse a restare immobile finché l’ultimo guerriero si allontanò e il galoppo dei cavalli si disperse nel vento. Allora si girò verso Shanaz, ancora rannicchiata, e la toccò leggermente sulla spalla. «Se ne sono andati», disse. «Puoi smettere di tremare.» Lei alzò la testa di scatto. «Non sto tremando.» Orlando stava per ribattere, ma qualcosa gli fece serrare le mascelle. «Dov’è la tua sciarpa?» sibilò. Shanaz si accorse che non l’aveva più. «Non lo so. Credo d’averla persa lungo la strada.» L’imprecazione di Orlando la fece trasalire. «Prega che non la trovino o saremo nei guai», dichiarò con aria truce. «Mi dispiace», mormorò lei col mento tremante. «Con tutto quello che è successo…» Stava per piangere e lui ne ebbe comione. «Andiamo», la esortò prendendola per un braccio. Si rimisero in cammino, tenendosi il più possibile al riparo della boscaglia, mentre le nubi si diradavano e lasciavano trapelare la luce del sole. Tuttavia non ebbero modo di rallegrarsene, perché davanti a loro, sulla strada, apparvero alcuni uomini a cavallo. Riconoscendo le insegne di Massud, la principessa si lasciò sfuggire un grido soffocato e Orlando si pose davanti a lei per farle scudo. Un gesto protettivo che si rivelò inutile, dato che i guerrieri li circondarono, puntando contro di loro le lance. Il giovane sostenne con fermezza lo sguardo minaccioso di quello che aveva il comando e ne ricevette in cambio un sogghigno crudele. Shanaz tremava contro di lui e si sentì sommergere di rabbia per la propria incapacità di difendere

entrambi.

«Chi sono?» domandò in un bisbiglio. «Guerrieri di Massud, l’emiro che controlla la regione. Un nemico», sussurrò lei. «Che Allah ci aiuti.» «Temo che il mio e il tuo Dio possano fare ben poco.» Il capo della masnada ringhiò un ordine. Due guerrieri smontarono e avanzarono decisi verso di loro, le lance puntate in avanti. Orlando, con un movimento fulmineo, le afferrò e con uno strattone se ne impadronì, poi li trafisse entrambi e prima che quelli stramazzassero le scagliò contro altri due guerrieri, centrandoli al petto e sbalzandoli di sella.

«Scappa!» gridò quindi a Shanaz, avventandosi sul guerriero più vicino per agguantarlo e sollevarlo di peso. In un attimo lo disarmò e lo uccise, afferrando le briglie del suo cavallo. Ma quando già stava per balzare in sella la principessa strillò. Voltandosi, Orlando la vide dibattersi fra le braccia del capo con un pugnale alla gola. Con un ruggito si scagliò contro di lui, ma un violento colpo alla nuca lo atterrò.

Quando Orlando riprese conoscenza e sollevò lentamente le palpebre, per prima cosa ricordò lo scontro e si drizzò a sedere con un grugnito, che però si tramutò in un roco gemito alla fitta di dolore che gli attraversò la base del cranio e gli offuscò la vista.

«Shanaz?» mormorò, cercando di discernere la figura a malapena visibile nella penombra. «Sono qui», rispose la giovane sfiorandogli la spalla.

«Dove ci hanno portati?»

«Nella fortezza di Massud.» «Come mai siamo stati rinchiusi insieme?» «Non ho rivelato loro chi sono. Credono che io sia la tua donna e non hanno ritenuto necessario dividerci.» Orlando ridacchiò. «La mia donna? Deve esserti costato un bello sforzo calarti nella finzione.» «La tua ironia è fuori luogo.» «Hai ragione, scusami.» Massaggiò la nuca dolente. «Quel che mi chiedo è perché si sono presi il disturbo di catturarci quando avrebbero potuto ucciderci subito.» «E privare Massud del piacere di farlo personalmente e nel modo più spettacolare e doloroso?» Serrò le braccia intorno al corpo, scossa da un tremito. «Tu non sai di cos’è capace quell’abietto individuo!» «Mi dispiace», sussurrò Orlando. «Non doveva finire così.» «Non temo la morte», dichiarò Shanaz alzando lo sguardo su di lui. «Sto morendo giorno dopo giorno da quando ti ho incontrato…» s’interruppe un attimo, esitante. «Ti amo», confessò con voce incrinata dall’emozione. «Prima avevo paura di dirtelo, ma non posso più tacere i miei sentimenti.» L’ammissione lasciò Orlando senza parole. La resa da parte di Shanaz era l’ultima cosa che si aspettava, eppure aveva desiderato che accadesse malgrado i loro continui scontri. Persino quando cercava di convincersi che il baratro da cui erano divisi fosse incolmabile e lottava per reprimere quell’amore non aveva mai smesso di sperarlo. La sua forza di volontà era stata sconfitta da un sentimento così grande e potente che nulla al mondo poteva imbrigliare. Adesso capiva perché un uomo poteva impazzire per amore di una donna. Ma il comprenderlo non lo aiutava, anzi aumentava il suo smarrimento. Se non fossero stati prigionieri e prossimi a morire, lei non avrebbe mai confessato di amarlo.

«Perché sei così silenzioso?» domandò Shanaz, dopo aver aspettato invano la sua risposta. «Ti ho messo in imbarazzo? Perdonami, ma volevo che lo sapessi. Ho mentito. Ogni giorno in cui lottavo contro di te era una bugia. Il mio orgoglio mi induceva a contrastarti, ma sono stanca di combattere. Se non ricambi il mio amore posso capirlo, ma dì qualcosa!» Orlando l’afferrò per le spalle e l’attirò più vicino. «Se non ricambio il tuo amore? Ti amo perdutamente, follemente… Ti desidero come mai nessuna prima di te e mi torturo al pensiero che non ti potrò mai avere…» «Sì che puoi avermi», rispose lei cingendogli il collo e accostando il viso al suo. Così vicino da sfiorargli le labbra. «Possiamo amarci per il tempo che ci resta da vivere.» Orlando non dava mai niente per scontato, neppure la morte, sebbene fosse costretto a riconoscere che la situazione non lasciava spazio alla speranza, e il timore che Shanaz potesse pentirsi di essersi data a lui, se per miracolo fossero usciti vivi dalle galere di Massud, frenò il suo slancio di ione. «Non credo sia una buona idea», dichiarò con voce roca per lo sforzo di dominarsi.

Shanaz, però, non era disposta a rinunciare. In specie dopo avergli rivelato che l’amava, dopo avergli aperto il proprio cuore. Non era una decisione presa alla leggera, ma ponderata fin dal momento in cui li avevano rinchiusi nella cella e Orlando giaceva privo di sensi e lei aveva avuto paura che morisse senza conoscere la verità. Aveva giurato a se stessa che non sarebbe morta senza prima aver assaporato le gioie dell’amore e adesso voleva andare fino in fondo. Sostenuta dalla determinazione non lasciò che il giovane la respingesse. Consapevole che lui stava combattendo una battaglia che non era in grado di vincere, si servì di tutte le proprie armi per sedurlo e portarlo alla resa.

Quando infine Orlando la rovesciò sulla paglia, quasi strappandole i vestiti di dosso, capì di avere vinto.

Più tardi, mentre Shanaz dormiva, Orlando ne approfittò per ispezionare la cella.

Non pensava di trovare qualche via d’uscita, ma aveva bisogno di fare qualcosa. Qualunque cosa pur di tenere la mente occupata e distoglierla dalla principessa. Lei gli aveva fatto perdere la ragione. L’aveva ammaliato, imprigionandolo nelle maglie sottili della seduzione, ma non poteva incolparla di ciò che era accaduto e tutta la rabbia che sentiva dentro era rivolta contro se stesso e la propria debolezza.

Come una belva in gabbia perlustrò ogni angolo della prigione, solo per scoprire ciò che già sapeva: che le mura erano di solida pietra e senza alcuno spiraglio e che la finestrella da cui trapelava il fioco chiarore lunare era impossibile da raggiungere. La porta di ferro aveva solo una piccola apertura ad altezza d’uomo ed era munita di sbarre. Da lì penetrava la tenue luminosità delle torce che dissipava un poco l’oscurità all’interno.

Orlando accostò il viso al riquadro per gettare un’occhiata nel corridoio. Per quello che gli fu consentito di vedere c’erano altre porte, altre celle che forse ospitavano prigionieri. Gli parve di sentire dei lamenti, ma troppo distanti per esserne sicuro. Altri suoni non ce n’erano e tutto quel silenzio gli gravò addosso come un macigno. Afferrò le sbarre e le scosse con furia impotente.

Pensò ai compagni che forse li davano per morti. Aquilante, Almerigi, Adalbigi e tutti gli altri, il suo scudiero Galante… Era certo che non avessero interrotto le ricerche, ma prima o poi si sarebbero arresi all’evidenza della loro scomparsa. Forse avrebbero trovato le tracce che si erano lasciati dietro e, con un po’ di fortuna, anche i guerrieri da lui uccisi sulla strada. Cadaveri che avrebbero dimostrato che si era battuto prima di essere catturato, ma non rivelato dove lui e la principessa fossero stati portati…

Appoggiò la fronte alla porta, le mani serrate intorno alle sbarre e gli occhi chiusi, con in bocca l’acre sapore di una sconfitta che non voleva accettare ma che si profilava inevitabile. Rimase così a lungo, col capo abbandonato fra le braccia, finché fu raggiunto da Shanaz e al suo tocco lieve si riscosse. Allentò la presa sulle sbarre e si voltò lentamente. Lei lo abbracciò e posò il capo sul suo petto. «Ho tanta paura», mormorò. «Allora siamo in due», rispose carezzandola piano. «Lo dici solo per confortarmi. So bene che a te niente incute paura.» «Non è per me che temo, ma per te, per quello che potrebbero farti. Sono inerme e disarmato… Come posso proteggerti? Non mi perdonerò mai per averti trascinata in questa situazione.» «È tardi per i rimpianti, non credi? E poi non è colpa tua quanto è accaduto.» «Forse no, ma…» s’interruppe d’un tratto. «Ascolta», aggiunse. «Cosa?» chiese lei, ma la mano di Orlando si posò sulla sua bocca.

«Sta venendo qualcuno», bisbigliò traendola lontano dalla porta. Udirono un suono di i pesanti, accompagnato da un tintinnare di chiavi, e poco dopo un’ombra oscurò la fioca luce. Trattennero il respiro, mentre ascoltavano i giri della chiave nella serratura. Poi la porta si aprì e un uomo con una torcia in mano apparve nel riquadro: un carceriere. Orlando dominò l’impulso di saltargli addosso e ucciderlo, ma la sua espressione di minaccia fu così evidente che l’altro indietreggiò. «Sono qui per aiutarvi a fuggire», disse in fretta. Orlando affilò lo sguardo. «In che modo?» «Conosco un aggio segreto che dal sotterraneo porta fuori dalla fortezza.» «Perché dovrei fidarmi di te? Chi mi dice che non vuoi condurci in una

trappola?» «Se non mi credi puoi restare qui con la tua donna e morire fra i tormenti che Massud ha decretato. E ti assicuro che sarà una morte lenta e orribile.» Shanaz gli strinse il braccio. «Ti prego, fidati», sussurrò. Orlando capì di non avere scelta e annuì. «Andiamo.» L’uomo sorrise e li precedette nel corridoio. Aspettò che uscissero e poi richiuse la porta, tornando a far loro da guida. Camminava spedito, girandosi a tratti per assicurarsi che fossero dietro di lui. Orlando notò che a tracolla aveva l’Olifante che gli era stato tolto al momento della cattura e quel particolare lo rassicurò.

Tuttavia, quando giunsero alla fine del corridoio e non vide sbocchi di alcun genere, si fece di nuovo sospettoso. L’altro, però, azionò un meccanismo nascosto e una sezione della parete scivolò su invisibili guide, rivelando un adito buio. «Ecco il aggio», disse l’uomo. «Non dovete far altro che seguirlo fino in fondo e sarete liberi.» Diede a Orlando la torcia e l’Olifante. «Buona fortuna.» «Perché fai questo per noi?» chiese il giovane prima di addentrarsi nel cunicolo. «A un certo punto della propria vita un uomo deve scegliere da quale parte stare. Io mi sono schierato troppo a lungo dalla parte del male e sono stanco di sangue e uccisioni. Ridarvi la libertà non cancellerà tutti i miei peccati, ma spero che Dio ne terrà conto, quando sarò chiamato al suo cospetto. Andate, ora. Il cambio della guardia avverrà fra poco.» «Allora… grazie», sorrise Orlando avviandosi con la principessa per mano. Era di nuovo in possesso dell’Olifante e presto, sperava, avrebbe riavuto anche Durendal.

La galleria era rettilinea, in leggera discesa e facile da seguire. Orlando procedeva con andatura veloce, rischiarando il cammino con la torcia, quasi

trascinando Shanaz per la fretta di uscire e riassaporare la libertà. Ormai non pensava ad altro che a ritrovare i suoi uomini e portare a termine la missione, che aveva già subito ritardi a causa della sorte avversa, e impaziente com’era scordò che la ragazza era ferita e faticava a stargli dietro. Dal canto suo Shanaz si sforzò di resistere, ma d’un tratto incespicò e si aggrappò a lui per non cadere. Orlando la sorresse col braccio libero, rendendosi conto d’aver preteso troppo. «Fermiamoci qualche momento», propose. «Te ne sono grata», sospirò Shanaz, celando a malapena una smorfia di dolore. «Ormai non dovrebbe mancare molto all’uscita», osservò Orlando. «Lo spero, ma… cosa faremo una volta fuori?» «Dovremo allontanarci in fretta dalla fortezza. È quasi l’alba e se la nostra fuga non è stata ancora scoperta, di certo lo sarà presto. Massud sguinzaglierà i suoi guerrieri per cercarci.» «Siamo appiedati e io non sono in grado di camminare veloce come te. Tanto meno di correre. Forse dovresti lasciarmi nel bosco e andare da solo alla ricerca dei tuoi uomini. Una volta trovati verrai a prendermi.» «Lasciarti da sola nel bosco? Non se ne parla nemmeno!» «Ragiona, Orlando. Sono un peso per te!» «Sta’ zitta, donna!» le ingiunse burbero e tenero. «Ti porterò in braccio, se sarà necessario, ma non ti abbandonerò.» Lacrime silenziose le scivolarono sulle guance e lui la guardò sorpreso. Non l’aveva mai vista piangere e ne fu colpito più che se gli avesse dato un pugno nello stomaco. Posò la torcia sul pavimento, contro la parete, e si avvicinò alla ragazza per abbracciarla. «È il pensiero che ti porti di nuovo in braccio che ti fa piangere?» «Non scherzare, per favore.»

Orlando la scostò un poco e le prese il viso fra le mani, asciugando le lacrime coi pollici. «Ti riporterò a casa. Fidati di me.» Lei scoppiò in singhiozzi, abbandonandosi contro il suo petto. Detestava mostrarsi così debole, ma non riusciva a trattenersi. Le faceva più paura tornare da suo padre che affrontare la morte per mano di Massud. E l’atterriva che quell’uomo rigido e inflessibile potesse scoprire che si era offerta a Orlando. Li avrebbe fatti giustiziare entrambi se l’avesse anche solo sospettato. «Mio padre mi ucciderà», singhiozzò.

«Invece sarà felice di rivederti, e basterà che tu tenga la bocca chiusa su quanto è accaduto fra noi perché tutto torni a posto. Coraggio, basta piangere. Dobbiamo muoverci.» «Hai ragione», dichiarò alzando il mento con fierezza. «Dobbiamo comportarci come se non fosse mai accaduto.»

Aquilante, che aveva assunto il comando del reparto in assenza di Orlando, guidò le ricerche dei due dispersi con tenacia, sebbene anche lui, come i compagni, iniziasse a temere che fossero inutili. Sebbene fino ad allora non avessero trovato alcuna traccia che potesse alimentare la speranza di ritrovarli vivi, Aquilante conosceva troppo bene Orlando per ritenere che la forza del fiume potesse averlo sconfitto. Nuotava come un pesce e possedeva risorse d’energia tali da renderlo capace di sopravvivere persino nelle condizioni più sfavorevoli. Pertanto ordinò che la ricerca proseguisse lungo la sponda, dove si snodava una strada e s’infittiva la boscaglia.

Perlustrarono il terreno palmo a palmo, rinvenendo prima la sciarpa di Shanaz, attaccata a un ramo spinoso, e poi i corpi dei guerrieri. Il suolo era pieno di orme miste di zoccoli e piedi. Ancora molle per le recenti piogge, recava i segni di un corpo trascinato.

Mentre si aggiravano sul luogo dello scontro, Galante proruppe in un grido d’avvertimento. «Ce n’è uno ancora vivo!» Aquilante smontò per avvicinarsi all’uomo e interrogarlo.

«Stiamo cercando un cavaliere e una giovane donna. Se dici dove li hanno portati avrai una morte pietosa, altrimenti…»

«Tanto morirò comunque», rispose quello beffardo. «E per quei due non c’è alcuna speranza. Saranno già stati giustiziati, ormai.» La mano di Aquilante afferrò la lancia confitta nel petto dell’uomo e la torse. Quello urlò per lo strazio. «Allora, ti decidi a parlare?» «Pietà!» ansimò il moribondo. «Ne avrò se risponderai. Dove hanno portato i prigionieri?»

«Alla fortezza di Massud… alcune leghe più a nord… proseguendo sulla strada…» La voce si spezzò in un rantolo e dopo un paio di sussulti morì. Aquilante si rialzò e rimontò in sella ma, prima che desse l’ordine di muoversi, Almerigi spinse il proprio cavallo e gli si affiancò. «Corrono voci terribili sull’individuo che controlla la regione. Se Orlando e la principessa sono prigionieri in quella fortezza, temo che siano spacciati.» «Non è detto», replicò il cavaliere. «La cattura è avvenuta solo ieri e forse non è troppo tardi per salvarli.» «E come pensi di farli evadere?» «Ancora non lo so, ma qualcosa mi verrà in mente», ribatté spronando il cavallo.

Almerigi scosse il capo imprecando, poi lo seguì e gli altri si accodarono.

33

Arrivarono nei pressi della fortezza alle prime luci e per evitare che le sentinelle li avvistassero rimasero al riparo del bosco, scrutando le mura che apparivano inaccessibili con un senso di rabbiosa frustrazione. Era evidente che anche con delle macchine da guerra e un lungo assedio sarebbe stato arduo espugnare la roccaforte, ma l’impresa si presentava impossibile per un manipolo di uomini che poteva fare assegnamento soltanto sul proprio coraggio. «Siamo venuti fin qui per niente!» esclamò Almerigi. «A meno che tu non abbia un piano prodigioso per penetrare quelle mura.» «Purtroppo non ne ho alcuno», fu costretto ad ammettere Aquilante. «Allora ci saremmo potuti risparmiare il viaggio.» «Chiudi la bocca e lasciami pensare», intimò il cavaliere. Argante, che era smontato per addentrarsi fra i fitti cespugli, aguzzò la vista per scandagliare la base perimetrale dei bastioni e d’un tratto scorse qualcosa che lo fece tornare indietro a precipizio. «Signore! Signore!»

«Sì, che vuoi?» sbottò Aquilante. «C’è qualcuno laggiù, ai piedi delle mura.» «Chi vuoi che ci sia, stupido eunuco? Lasciami riflettere in pace.» «Ti prego, vieni a vedere coi tuoi occhi», insistette.

Aquilante lo assecondò e qualche attimo dopo, con suo grande stupore, vide due figure che arrancavano sul sentiero, mentre dall’alto i guerrieri di Massud scagliavano frecce e lance, che tuttavia andavano a configgersi nel terreno. «Che mi venga un colpo se quello non è Orlando con la principessa!» Si girò verso gli uomini. «Venite qui, presto!» Accorsero tutti, esplodendo in grida di esultanza alla vista di Orlando, e galopparono incontro al giovane e alla stremata Shanaz per portarli al sicuro. Aquilante smontò per abbracciarlo, mentre Galante conduceva Veillantif e il cavallo della principessa con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, tanta era la gioia di rivederlo. «Grazie a Dio, siete vivi!» esclamò Aquilante serrandolo in una morsa affettuosa. «Vi cerchiamo da ieri e temevamo foste perduti, specie dopo aver saputo che eravate prigionieri lassù.» «Come siete riusciti a evadere?» chiese Adalbigi. «Con l’insperato aiuto di un carceriere», rispose Orlando.

«Liberati da un carceriere? Questa la voglio proprio sentire!» Ciascuno volle tributare il suo personale saluto al paladino, che li ricambiò con lo stesso entusiasmo. Ma Gontrano li avvisò che dalla fortezza stavano uscendo molti uomini a cavallo e tutti balzarono in sella, spronando le cavalcature a un galoppo serrato.

Solo quando furono certi di aver seminato gli inseguitori facendo perdere le loro tracce fra i tortuosi sentieri del bosco, Orlando ordinò di fermarsi. Durante la sosta Galante gli portò indumenti puliti e armatura, aiutandolo a indossarle, mentre la principessa stava a guardare e si sentiva esclusa dalle manifestazioni di cameratismo prettamente maschili a cui assisteva.

Subito dopo Argante arrivò con i nuovi abiti di Shanaz. I due si appartarono dietro i cespugli, al riparo da sguardi indiscreti, affinché la giovane potesse cambiarsi. «Tutto bene, altezza?» s’informò Argante. «Sì, certo.» «Ero molto preoccupato», sospirò con un sorriso malizioso. «Ma non saprei se lo ero di più per te o per il paladino.» Fu sorpreso di non sentirsi rispondere per le rime e il suo strano silenzio lo impensierì. «C’è qualcosa che non va?» domandò scrutandola. «Lasciami in pace!» sbottò lei, avvolgendosi nei veli con gesti stizzosi. Nel frattempo Orlando, finalmente in possesso dell’amata spada, con un sorriso ne accarezzò l’elsa. «Ora sono di nuovo me stesso.» Non indugiarono a lungo e rimontarono in sella, avviandosi al galoppo nella luce cruda del giorno che inondava la valle del Duero. Era notte inoltrata quando si accamparono. Orlando non avrebbe esitato a proseguire, ma la principessa era sfinita e non poteva pretendere che si sottoponesse a una cavalcata tanto sfibrante, in specie dopo quel che aveva ato. D’altronde erano tutti provati e avevano bisogno di riposo per essere in grado di affrontare il lungo viaggio del giorno seguente. Salamanca distava ormai soltanto quattro giorni e, salvo imprevisti, la parte più rischiosa della missione stava per concludersi. Se il negoziato con l’emiro non avesse preso troppo tempo, si sarebbero potuti ricongiungere con l’armata a breve termine e prendere parte all’assedio. Orlando era rimasto solo davanti al fuoco, dopo aver raccontato ai compagni le disavventure in cui erano incorsi lui e la principessa. Gli altri già dormivano o montavano la guardia. Il crepitare della legna si accompagnava alla litania del vento che soffiava in mezzo alle alture.

Rigirò la coppa quasi vuota fra le mani, fissando pensieroso il vino che vorticava al suo interno. Quel rimestare del liquido gli fece venire in mente Gano, cosa che non gli accadeva da un po’. Si chiese dove fosse e cosa stesse facendo, se ancora rimuginasse covando il proprio rancore o se avesse infine ritrovato la ragione. Difficile a dirsi data la sua imprevedibilità. Si erano lasciati così male che quasi ne aveva rimorso. Ma come riconciliarsi se Gano vanificava ogni suo sforzo? «A cosa stai pensando?» chiese d’un tratto qualcuno dietro di lui. Trasalì e si girò, sorpreso di vedere Shanaz. «Come mai non sei a dormire?» chiese bruscamente. Lei s’irrigidì. «Scusami, non volevo intromettermi nelle tue meditazioni», replicò voltandogli le spalle per andarsene. Orlando scattò in piedi e la trattenne. «Mi dispiace, non volevo essere sgarbato. Siedi pure se vuoi e riscaldati al fuoco. Stanotte si gela.» «Non è una buona idea. Tu desideri rimanere solo coi tuoi pensieri.» «I miei pensieri seguono un percorso vizioso che non porta da nessuna parte», sospirò. «Fammi compagnia.» «Forse un’altra volta. D’improvviso mi è venuto sonno. Buona notte.» Se ne andò in fretta, ma non tanto da impedire a Orlando di raggiungerla prima che arrivasse alla tenda. «Perché sei così scostante? Da quando siamo fuggiti dalla prigione di Massud mi tratti peggio di un estraneo.» «Un estraneo? E chi è quello che poco fa mi ha ringhiato contro?» «Ti ho già detto che mi dispiace. Che altro vuoi?» «Niente, a parte forse un po’ di gentilezza, ma credo sia pretendere troppo da te. Sei l’uomo più egoista e prepotente che abbia mai conosciuto e non vedo l’ora di arrivare a Salamanca, così non dovrò più sopportare la tua presenza!»

Ferito dall’asprezza delle sue parole, Orlando ripensò agli intensi momenti di ione che avevano condiviso nell’oscura cella. Allora, quando la stringeva fra le braccia, Shanaz aveva ricambiato il suo ardore senza riserve, rivelando la propria vera natura. Ora, invece, lo teneva a distanza. Lottò con la tentazione di girarle le spalle e andarsene, ma poi l’afferrò e stringendola quasi con furia fra le braccia cercò la sua bocca e la baciò con impeto travolgente. Dapprima Shanaz si dibatté senza troppa convinzione, poi si ritrovò aggrappata alle sue spalle con forza, mentre il mondo le vorticava attorno e le tremavano le ginocchia. L’onda infuocata la travolse e le fece perdere ogni controllo. Accesa da quel bacio rubato, Shanaz gli affondò le dita nella nuca, premendo il corpo contro di lui, reclamandolo con tutta se stessa.

Poi, improvvisamente smarrita e tremante, lo allontanò. La donna apionata che solo un istante prima aveva corrisposto al bacio tornò altera e scostante. «Non farlo mai più o potrei non rispondere delle mie azioni!» sibilò prima di voltargli le spalle. «Non sarebbe la prima volta», sogghignò Orlando. Shanaz si bloccò e tornò a girarsi verso di lui con occhi fiammeggianti. «Come osi?» esclamò furibonda, avventandosi per dargli uno schiaffo. Orlando le afferrò il polso, lo sguardo incupito in cui ardevano fuochi tenebrosi. «Non ti azzardare mai più a levare le mani contro di me, o mi potrei dimenticare che sei una donna.» «Sei un bruto e io ti odio!» Con uno strattone Orlando l’attirò vicino. «Lo so, me ne hai data ampia dimostrazione non più tardi della notte scorsa», le alitò sul viso. Poi la respinse in modo rude. «Va’ a dormire, principessa», aggiunse, poi se ne andò. Stizzita, Shanaz indugiò alcuni istanti a guardarlo, prima di rifugiarsi nella tenda. Argante aveva assistito alla scena, ma si era ritirato appena Orlando si era allontanato. Finse di dormire, mentre lei si accaniva contro i cuscini per sfogarsi, ma non riuscì a ingannarla.

«So che sei sveglio», l’apostrofò Shanaz. «E sono certa che hai visto tutto.» «Sì, lo confesso», sospirò. «Ho visto come ti dibattevi nelle sue braccia e cercavi di evitare ogni contatto.» «Mi stai provocando, eunuco?» «Non oserei mai, mia signora. Mi chiedo soltanto che fine abbia fatto il tuo odio per lui. Ammettilo, sei caduta in balia del suo fascino.» «Neanche per sogno!» «Allora temo di soffrire di allucinazioni, perché giurerei che quel bacio ti sia piaciuto. E parecchio, anche.» «Hai troppa immaginazione. Torna a dormire e lasciami in pace.» Come ogni notte prima di ritirarsi, Orlando fece il giro del campo per accertarsi che le sentinelle fossero ai loro posti. A tutte raccomandò di tenere gli occhi bene aperti. «Cosa temi?» chiese Gontrano, notando la sua espressione tesa. «Forse niente, ma non voglio brutte sorprese.» «Ho capito», annuì Gontrano. «Pensi che gli uomini di Massud possano aver seguito le nostre tracce e ti preoccupa un loro possibile attacco.» «Proprio così. Sono guerrieri esperti e non dobbiamo sottovalutarli.» «Che vengano», sorrise il cavaliere. «Saremo pronti a riceverli.» Orlando gli posò la mano sulla spalla, dandogli una leggera stretta, e si accomiatò. Raggiunta la propria tenda vi trovò Galante che dormiva e lo svegliò. «È già l’alba, signore?» chiese il ragazzo stropicciandosi gli occhi. «Non ancora, ma ho bisogno di te per vegliare sulla principessa.»

«Sono pronto», rispose balzando in piedi e armandosi in fretta. Poco dopo si avviarono. «Chi c’è a guardia dei cavalli?» chiese Orlando. «Geraldo e Ruggero, signore.» «Hai dato loro disposizioni secondo i miei ordini?» «Sì, signore.» Erano nel frattempo arrivati alla tenda della principessa e Orlando ordinò allo scudiero di mettersi di guardia davanti all’ingresso, poi sollevò la falda ed entrò. La lucerna gli permise di discernere Argante, che russava sonoramente. Fece scorrere intorno lo sguardo e scorse Shanaz, distesa poco lontano. Si avvide subito che era sveglia, ma non riuscì a scansare il cuscino che lei gli lanciò.

«Niente male come arma», ridacchiò, scostandolo col piede. «Cosa sei venuto a fare qui?» sibilò lei battagliera. «A proteggerti, che altro?» «Non avrai intenzione di restare tutta la notte!» «Abbassa la voce o sveglierai Argante. Comunque sì, intendo restare per tutta la notte. Prometto che non ti darò fastidio.» «Credi che riuscirò a dormire con te che continui a fissarmi? E poi, perché ritieni che sia in pericolo?» «Sospetto che i guerrieri di Massud vogliano attaccarci.» «Hai detto che li avevamo seminati.» «Ricordo ciò che ho detto, ma potrei essermi sbagliato.»

«Ah, dunque anche tu ti sbagli, qualche volta.» «Ebbene, sì. Ogni tanto mi sbaglio. Contenta? Adesso vorrei che la smettessi di discutere e cercassi di riposare. Forse non verranno stanotte.» Borbottando dell’arroganza degli uomini Shanaz afferrò la coperta, ci si avvolse e si coricò.

Orlando emise uno sbuffo e sedette su uno sgabello con la spada posata sulle ginocchia tentando, ma senza successo, di non guardare la principessa. La debole fiammella della lucerna si era quasi estinta quando nel campo risuonarono grida d’allarme. Orlando balzò in piedi brandendo Durendal e, dopo aver ordinato alla principessa di non muoversi, uscì per affrontare gli assalitori. Svegliato di soprassalto dai clamori, Argante strisciò sulla soglia per gettare un’occhiata, ma si ritrasse subito con un grido soffocato. «Resta dove sei, mia signora!» raccomandò. Shanaz, gli occhi dilatati per la paura, assentì. I guerrieri di Massud avevano sferrato l’attacco in modo avventato, pensando di cogliere i cavalieri cristiani nel sonno e poterne fare strage, ma fin dal primo momento si resero conto d’aver commesso un errore fatale, perché in realtà nessuno dormiva e la ben organizzata difesa ne contrastò l’impeto. L’irruzione nel campo fu impedita, anche se qualche isolato guerriero riuscì a infiltrarsi allo scopo di appiccare il fuoco alle tende e dovette essere fermato dagli scudieri, che occupavano una posizione più arretrata.

La battaglia infuriava. Orlando e i compagni falciavano i nemici con letali fendenti, ma nella confusione della mischia non si accorsero che alcuni guerrieri erano penetrati nel campo per assalire da dietro i difensori. Aquilante se ne avvide appena in tempo e lanciò l’allarme. Radunò un manipolo e lo guidò all’attacco.

Grida e clamori risuonavano ovunque.

Nella tenda, Shanaz non riusciva a capire cosa stesse succedendo e l’incertezza per l’esito dello scontro le fece dimenticare la paura. Lasciò il giaciglio per avvicinarsi alla soglia e dare un’occhiata. Argante la supplicò di non mostrarsi, ma fu ignorato. Con occhi colmi di apprensione cercò Orlando, riuscendo a intravederlo a malapena in mezzo ai combattenti. Affascinata malgrado l’orrore, indugiò lì fuori, le mani serrate sui lembi del mantello, mentre a pochi i da lei si combatteva e si moriva. Poi accadde tutto così rapidamente da sembrare irreale. Un guerriero irruppe a cavallo, l’afferrò e la trasse sulla sella. Shanaz lanciò un urlo e invocò il nome di Orlando, ma l’uomo si allontanò al gran galoppo e si dileguò nel buio. I compagni che lo aspettavano nel boschetto si lanciarono dietro di lui. Orlando però aveva sentito il suo appello disperato. Mulinò la spada per atterrare i nemici che lo incalzavano, si aprì un varco e si precipitò verso la posta dei cavalli. Veillantif, già sellato, scalpitò d’impazienza. Orlando montò in sella e lo spronò all’inseguimento dei rapitori. Il destriero galoppava con potenti falcate e in breve Orlando avvistò i fuggitivi. Procedevano in fila per uno e la schiena dell’ultimo era ormai a portata di tiro. Orlando lasciò le briglie e incoccò una freccia. La scagliò e lo trafisse. L’uomo stramazzò e il suo cavallo continuò la corsa. Il giovane mirò al nuovo bersaglio e anche quello cadde trafitto. Ne restavano due. Pure loro furono centrati dai dardi e rotolarono nella scarpata. Orlando piantò i talloni nei fianchi di Veillantif e il destriero balzò in avanti. L’uomo che teneva la principessa si girò sulla sella e vide Orlando piombargli addosso. Non poté fare niente per difendersi dal fendente che gli troncò di netto la testa. Il suo corpo restò in groppa ancora alcuni istanti, prima di cadere con un piede impigliato nella staffa. Shanaz, atterrita e mezzo svenuta, riuscì in qualche modo ad afferrare le redini e a reggersi finché Orlando affiancò il destriero e si protese verso di lei. Galopparono per un tratto affiancati, con Orlando che tendeva il braccio ma non

riusciva a raggiungerla. «Buttati!» le gridò, ma lei scosse il capo. Allora Orlando si alzò sulle staffe e si allungò per afferrarla e trarla di peso sulla sella davanti a sé. L’altro cavallo si allontanò, trascinando il cadavere del guerriero. Tenendola saldamente, il giovane rallentò l’andatura di Veillantif fino a fermarlo. Shanaz rimase inerte nelle sue braccia alcuni istanti, poi con un gemito gli cinse il collo e si strinse a lui tremando. «Va tutto bene», le sussurrò accarezzandole i capelli. «Sei salva.» «Ho avuto tanta paura», confessò. Lui non permise che quel momento di tenerezza si protraesse e girò il cavallo. «Torniamo al campo», dichiarò dando di sprone. «Sei arrabbiato con me?» gli chiese dopo un po’, preoccupata dal suo silenzio. «Dovrei?» chiese lui di rimando. «Ti ho disubbidito e sono uscita.» «Allora hai ragione: sono arrabbiato.» «Ma sei calmo, però.» «Sono furioso, va bene? Così infuriato che mi piacerebbe darti una bella strapazzata per insegnarti a obbedire agli ordini, in specie ai miei, quando ti vengono dati. Ma tu fai sempre di testa tua e temo che sarebbe inutile.» Lei rise piano, il viso affondato nel suo petto. «Sono proprio tremenda, vero?» «Se avessi immaginato cosa mi aspettava quando il re mi ha incaricato di riconsegnarti a tuo padre… Be’, non so se gli avrei obbedito. Tu hai il potere di farmi andare il sangue alla testa, di farmi perdere il controllo… Sei l’ostaggio più indomabile che mi sia capitato d’incontrare. Che Dio salvi l’uomo che ti sposerà!»

«Non sai quel che dici», mormorò Shanaz. Colpito dal tono con cui lei aveva pronunciato la frase, Orlando rallentò l’andatura del cavallo. «Sei promessa a qualcuno?» domandò. «Mio padre vuole che sposi un uomo che detesto. Preferirei morire, piuttosto che diventare sua moglie!» «Suvvia, non sarà così terribile», cercò di minimizzare. «È molto peggio», sospirò la giovane. «Mi dispiace.» Shanaz restò in silenzio e lui, dopo qualche istante, spronò di nuovo il cavallo, ripetendosi che in fondo non era questione che lo riguardasse e che il suo compito sarebbe finito una volta arrivati a Salamanca. Ma era troppo coinvolto ormai per restare indifferente alla sorte della principessa. L’accampamento era tornato tranquillo quando vi giunsero. I pochi guerrieri sopravvissuti allo scontro erano fuggiti e i caduti, assai più numerosi, erano già stati raccolti per essere gettati nella fossa comune che gli scudieri avevano scavato.

Addentrandosi in mezzo alle tende, Orlando scrutò intorno a sé, notando con sollievo che i suoi compagni erano tutti salvi e che solo alcuni avevano riportato lievi ferite. Lo scudiero fu il primo ad andargli incontro per tenere le briglie mentre il giovane smontava e aiutava la principessa a fare altrettanto. «Bentornato, signore», lo salutò sorridendo. «Eravamo preoccupati per te.» Orlando ricambiò il sorriso, che tuttavia sfumò dalle sue labbra appena vide Aquilante avvicinarsi a lunghe falcate e intuì dall’espressione del suo viso che era contrariato.

«Occupati del cavallo, Galante», ordinò al ragazzo, poi affidò Shanaz all’eunuco che si era fatto sulla soglia della tenda e si rivolse all’amico. «Mi vuoi dire qualcosa, Aquilante?» «In effetti sì, avrei qualcosa da dirti», replicò l’altro. «Allora andiamo a parlare in privato», dichiarò Orlando precedendolo verso la propria tenda. Appena dentro, Orlando versò dell’acqua nel bacile per lavarsi viso e mani, poi li asciugò con un panno. I suoi gesti calmi e misurati spazientirono Aquilante, che l’osservò fremente ma non osò interromperlo. «Un sorso di vino?» domandò Orlando con l’otre in mano. «No, grazie», fu la secca risposta. «Vuol dire che berrò da solo», sorrise lui versandolo nella coppa. Lo sorseggiò piano per meglio assaporarne l’aspro aroma, senza smettere di guardare l’amico che lo fissava a propria volta e che ormai stentava a dominarsi. «Sono molto stanco, perciò dì in fretta quel che devi.» «Come hai potuto abbandonare il combattimento nel momento più cruciale? Ti sei allontanato senza avvertire e senza dare ordini. Sei sparito, lasciandoci soli ad affrontare la marmaglia. Sei impazzito, per caso? Hai dimenticato qual è il primo dovere di un comandante?» «Non c’è bisogno che mi ricordi qual è il mio dovere di paladino e comandante, ma pare che sia tu a dimenticare che ho giurato sul mio onore di proteggere la principessa e che avrei tradito quell’impegno se non avessi inseguito i suoi rapitori. Ho dovuto agire in fretta come richiedevano le circostanze e non ho avuto il tempo di avvisare.» «Dunque saresti disposto a sacrificare noi e te stesso per salvare quella donna?» «Sì, se fosse necessario. Lo sapevi, quando siamo partiti da Saragozza, che non sarebbe stata una eggiata e forse sarei stato obbligato a prendere decisioni difficili. Nessuno ti ha costretto a venire, ma adesso sei qui e mi attendo che tu faccia il tuo dovere. Preferirei mille volte combattere sotto le mura di Saragozza, ma ho ricevuto degli ordini e sono tenuto a obbedire.»

La tensione di Aquilante si allentò. Con un gesto stanco ò la mano sul viso. «Mi dispiace, non avrei dovuto lasciarmi trasportare», sospirò. «Lo vuoi un po’ di vino, adesso?» chiese Orlando. «Ne berrei volentieri un sorso, grazie.» Lo sorseggiarono in silenzio, poi Aquilante tese la coppa vuota per farsela riempire ancora. Orlando l’accontentò. «Cerca di non ubriacarti, però», gli disse con un sorriso. «Non possiamo concederci di riposare, purtroppo. All’alba manca poco, ormai.» «Pensi che i guerrieri di Massud torneranno ad attaccarci?» «È ciò che temo», annuì Orlando. «Perciò dovremo stare in guardia.» Aquilante finì di bere e posò la coppa. «Posso parlare con franchezza?» «Perché, che hai fatto finora?» ridacchiò il giovane.

«Vorrei sapere cosa ti è ato per la testa quando hai catturato la principessa.» «Se ti può essere di conforto, sappi che non l’avrei mai fatto se avessi immaginato le conseguenze.» «Non mi conforta molto, ma ti credo.» Gli tese la mano. «Nessun rancore?» «Nessuno», rispose Orlando accettando il gesto e rimpiangendo che non fosse altrettanto facile risolvere la questione rimasta in sospeso con suo zio Gano. Uscito Aquilante, si presentò il suo scudiero per informarlo d’aver accudito Veillantif secondo i suoi ordini e per mettersi a disposizione. «Non c’è tempo per riposare», borbottò Orlando ricusando il suo aiuto per spogliarsi. «Vuoi coricarti con l’armatura, signore?» domandò il ragazzo stupito.

Orlando si allungò sulla branda con un sospiro. «Tanto non dormirò…» Ma appena chiuse gli occhi scivolò in un sonno pesante. Lo scudiero sorrise e gli mise addosso una coperta, apprestandosi a trascorrere il resto della notte nella tenda insieme a lui per vegliare sul suo riposo.

34

Alle prime luci smontarono il campo e si rimisero in viaggio. Malgrado la tregua, Orlando ritenne opportuno evitare ulteriori motivi di attrito e cercò di prendere le distanze da Shanaz, lasciando che fossero Argante e il suo scudiero a provvedere alle sue necessità. Tuttavia, mentre cavalcavano ad andatura sostenuta, continuò a sentire su di sé il suo sguardo. Nonostante si sforzasse di ignorarla ciò lo fece sentire a disagio. «Siete di nuovo ai ferri corti o sbaglio?» chiese Almerigi che gli stava al fianco. «Non vedo l’ora di liberarmene», rispose tetro. «Peccato», sospirò l’amico. «Perderò la scommessa.» «Quale scommessa?» «Quella fatta con Adalbigi. Lui sostiene che i vostri rapporti non miglioreranno con l’andare del tempo, mentre io sono dell’idea che prima di arrivare a destinazione farete le fusa come due gattini.» «Gattini?» fece Orlando con un sorriso ferino. «Che paragone infelice.» «Intendo dire che avreste fatto amicizia, non appena vi foste conosciuti meglio.» «Spiacente, ma non ci hai azzeccato. Spero che tu non abbia scommesso molto.» L’altro scoppiò a ridere. «Tranquillo, non finirò rovinato.» In quel momento li raggiunse Gontrano, che Orlando aveva mandato in retroguardia per garantirsi maggior protezione. «Siamo osservati», riferì. «Ho visto dei segnali da un capo all’altro delle alture.» «Uomini di Massud?»

«Troppo distanti per riuscire a identificarli, ma è probabile.» «Forse stanno preparando un’imboscata. Manda qualcuno in avanscoperta. Voglio sapere cosa ci aspetta più avanti.» Gontrano gli fece un cenno e girato il cavallo rientrò nella retroguardia. Poco dopo due esploratori si allontanarono al galoppo.

«Serriamo i ranghi?» chiese Almerigi. «Non ancora. Meglio evitare di insospettirli, ma avvisa gli uomini di tenersi pronti.» Mentre il cavaliere si allontanava per eseguire l’ordine, Orlando scrutò in direzione delle alture scabre e desolate che s’innalzavano su entrambi i lati della strada. Non riuscì a scorgere alcun movimento sospetto, ma d’un tratto intravide un luccichio, tanto rapido da poter a malapena coglierlo. Forse è un’arma oppure uno specchio, pensò. Sapere che qualcuno li osservava e forse li seguiva a distanza lo innervosì. Si girò sulla sella per controllare la schiera. Gli uomini erano pronti, come notò dall’atteggiamento che avevano assunto. Un altro scudiero si era avvicinato alla principessa, in modo da poterla meglio proteggere. Incrociò lo sguardo di lei: un breve ma intenso scambio di occhiate, che come una corrente ò dall’uno all’altro. Argante, a cui niente sfuggiva, non mancò di notarlo. Il ritorno di Almerigi distolse l’attenzione di Orlando dalla principessa. «Se proveranno ad attaccarci troveranno pane per i loro denti», dichiarò mettendo il cavallo al o con quello del giovane. «Sapremo cosa ci aspetta al ritorno degli esploratori. Gontrano ha notato qualcosa d’altro?» «No, i segnali sono cessati. Forse sono andati via.»

«Oppure ci piomberanno addosso.» Scorse in distanza i due cavalieri che si avvicinavano. «Eccoli. Ora sapremo.» Diede di sprone e galoppò loro incontro. Nell’arrestarsi li interrogò con lo sguardo, ancor prima che con le parole. «Allora, cosa avete scoperto?» «Prima solo orme di cavalli e di uomini a piedi, poi è comparso un cavaliere.» «Un cavaliere?» «Sì, signore. Non abbiamo potuto identificarlo perché teneva il viso coperto, ma dice che vuole parlare con te e che ti puoi fidare.» Estrasse dal saccoccio un piccolo involto che gli porse. «Ci ha dato questo. Ha detto che l’avresti riconosciuto.» Orlando lo prese e l’aprì. Dentro c’era un anello con sigillo sulla cui appartenenza non ebbe dubbi. Lo fissò alcuni istanti pensieroso, poi annuì. «Lo conosco, infatti. Voi tornate dagli altri. Io vado a incontrarlo.» Partì al galoppo senza attendere risposta, mentre i due scariti si riunivano ai compagni.

«Dove va Orlando?» chiese Aquilante perplesso. «A incontrare un uomo che ha chiesto di lui», rispose lo scarita. «Da solo?» «Lo conosci, signore. Non credo che corra rischi.» Aquilante si consultò brevemente coi compagni e decisero di aumentare l’andatura per seguire più da vicino Orlando e aver modo d’intervenire in caso di bisogno. Nel frattempo il paladino era già nei pressi della gola fra le alture, un angusto aggio che ispirava una sensazione inquietante. L’affrontò al piccolo galoppo,

scrutando intorno guardingo, la mano serrata sull’elsa della spada. Malgrado avesse riconosciuto l’anello di Gano, sospettava che si trattasse di un espediente per attirarlo in una trappola. Poco oltre gli venne incontro un cavaliere. Sbucò all’improvviso da un anfratto come un’apparizione infernale. Veillantif fece un brusco scarto e Orlando aveva già estratto Durendal quando lo riconobbe. Gano si scoprì il capo e sorrise. «Mi fa piacere scoprire che ti fidi ancora di me.» Il giovane gli rese l’anello. «Perché questo incontro tanto misterioso?» «Per salvarti la vita.» «Salvarmi da chi?» Gano sorrise di nuovo. «Dai guerrieri di Massud, che fra poco assaliranno il tuo reparto. Ho negoziato la tua salvezza, in cambio della principessa. Massud se ne vuole servire come arma di ricatto nei riguardi dell’emiro suo padre.» «Sei pazzo! Perché lo hai fatto?» «Sei mio nipote e non potevo lasciarti ammazzare da una masnada di banditi. Dovresti essermi grato.» «Grato?» ringhiò Orlando. «E gli altri?» Gano scrollò le spalle. «Andranno incontro al loro destino.» «Crederanno che li abbia abbandonati! Sarò considerato un traditore! Dannazione, Gano, tu sei veramente pazzo!» Fece voltare il cavallo e lo lanciò al galoppo, deciso a raggiungere i compagni ed evitare che accadesse l’irreparabile. Ignorò i richiami di Gano e lo maledisse, rimproverandosi per aver anche solo pensato che si fosse ravveduto. Spinse Veillantif alla massima velocità, pregando che non fosse troppo tardi. E mentre il destriero accorciava la distanza afferrò l’Olifante e soffiando con tutto il fiato annunciò il proprio arrivo.

Il suono terribile echeggiò, ingigantito dalle cavità delle rocce, simile al ruggito di un drago. Non smise di soffiare neanche quando avvistò i compagni che già si battevano contro forze soverchianti, consapevole che il suono, combinato col suo arrivo, avrebbe intimorito gli uni e ridato ardore agli altri. Infatti, come aveva previsto, la sua apparizione gettò scompiglio fra i guerrieri di Massud, sui quali si avventò come un leone, menando fendenti e seminando morte. I mori furono presi dal panico. Molti si diedero a una precipitosa fuga, cercando di salvarsi dalla sua furia. Altri, più coraggiosi, seguitarono a combattere. Ma nonostante la resistenza caddero uno a uno sotto i colpi di Orlando e dei cavalieri franchi. Poi stramazzò anche l’ultimo, squarciato da un fendente di Orlando, che fumigante di sudore e imbrattato di sangue sembrava l’incarnazione di un dio guerriero. Allora il giovane paladino, con la spada grondante ancora stretta in pugno, trattenne il cavallo scalpitante e si guardò attorno finalmente placato. Poco dopo fu raggiunto dai compagni superstiti, fra cui Aquilante, Almerigi e Adalbigi, quest’ultimo leggermente ferito, e da qualche scudiero dall’aria stravolta. Arrivò anche Argante, che a giudicare dall’aspetto doveva essersi battuto ferocemente. Però non vide Galante e neppure Shanaz, dei quali chiese notizie. «Rassicurati, signore, stanno bene», rispose l’eunuco. «Il tuo scudiero si è preso cura di lei come avevi ordinato. Sono laggiù, fra quelle rocce.» Gli indicò il luogo, poi lo guardò. «Ma che cosa ti è successo? Temevamo che fossi caduto in una trappola.» «In un certo senso è così», sospirò Orlando pensando a Gano e al suo tentativo fallito. Ancora non gli era ben chiaro se avesse davvero cercato di salvarlo, oppure se avesse voluto farlo are per traditore. Forse ambedue le cose, rifletté amareggiato. Aquilante si avvicinò per prendere ordini. «Ripartiamo subito», disse Orlando. «Non intendo rischiare altri attacchi. Preparatevi, mentre vado a prendere Galante e la principessa.» «Seppelliamo i morti?»

«Soltanto i nostri.» «Non sarà un gran lavoro. Abbiamo subito ben poche perdite.» «Tanto meglio. I nostri feriti ci seguiranno anche se non possono cavalcare. Provvedi per il loro trasporto, se è necessario.» «E per quanto riguarda i mori feriti?» «Uccidili. Non facciamo prigionieri.» «Ci potrebbero servire se Massud decidesse di attaccarci di nuovo.» «Niente prigionieri. Non voglio trascinarmi dietro gente che può crearci dei problemi. Credo che Massud ci lascerà stare, dopo le batoste che ha preso.» Si allontanò e si diresse spedito verso le rocce, avvertendo tutto il peso del sospetto tradimento di Gano, un’idea che gli ripugnava e che tuttavia doveva considerare. Nel vederlo arrivare Galante gli andò incontro, seguito a pochi i dalla principessa. Orlando evitò di guardarla e sorrise allo scudiero. «È tutto finito», disse. «La maggior parte dei mori è caduta sotto i nostri colpi e gli altri si sono ritirati.» «Ritirati, signore? Da qui ho visto che fuggivano come lepri», replicò il ragazzo. «Il tuo arrivo li ha gettati nel terrore. Avrei voluto combattere anch’io, ma…» «Avevi un altro dovere da compiere. Non temere, ci saranno altre battaglie in cui potrai metterti in luce.» Gli posò la mano sulla spalla con affetto e il ragazzo arrossì, confuso. «Vado a prendere i cavalli, signore.» Orlando non lo trattenne, anche se avrebbe preferito evitare di restare solo con la principessa. «Stai bene?» le chiese, decidendo finalmente di guardarla. «Sì. Il tuo scudiero mi ha protetta. Mi avrebbe difesa fino alla morte se

necessario, mentre tu…» «Mentre io? Avanti, concludi la frase.» Lei esitò, poi riprese con maggior forza. «Mi hai abbandonata nel momento di maggior pericolo. Hai tradito la parola che avevi dato! Sei senza onore!» La sfuriata, che in fondo non era del tutto ingiustificata, lo spazientì. «Non ti ho abbandonata, e tanto meno ho tradito la mia parola! Tu stavi con uomini pronti a difenderti e a morire per te. Non mi sarei allontanato se non fossi stato sicuro che eri protetta!» Shanaz lo fissò gelida, facendogli capire che la spiegazione non era bastata a farle cambiare parere, ma Orlando decise di troncare la discussione prima che degenerasse. Però Shanaz era di tutt’altro avviso. «Sei un codardo!» inveì rabbiosa. «Non m’importa cosa pensi di me, ma non ti azzardare a ripeterlo davanti a qualcuno o te ne pentirai!» Shanaz si rese conto di essersi spinta troppo oltre. Dopo tutto Orlando stava facendo del proprio meglio e lei certo non gli rendeva la vita facile. «Perdonami», mormorò. «Ritirò ciò che ho detto.» Lo guardò e poiché lui taceva riprese. «Il fatto è che ho avuto paura… Paura che tu non tornassi.» Orlando restò in silenzio. Shanaz alternava momenti di intensa ione e tenerezza a momenti di gelido distacco, ma fu costretto ad ammettere che anche lui provava sentimenti contrastanti e che se talvolta desiderava tramortirla di baci, spesso aveva voglia di strozzarla. «Eri preoccupata per me?» chiese infine, pur conoscendo già la risposta. «Sì, terribilmente. La sola idea che tu potessi morire mi era intollerabile.» Orlando le prese la mano e la tenne fra le sue per alcuni istanti, prima di portarla alle labbra e posarvi un lungo bacio. Quando alzò lo sguardo vide che piangeva e sentì l’impulso di abbracciarla e darle conforto, ma Galante arrivò coi cavalli e si allontanò senza dire niente. Lasciò che fosse lo scudiero ad aiutarla a montare in

sella e balzò in groppa a Veillantif, precedendoli verso il reparto in attesa.

Ormai distavano soltanto un giorno di cavallo da Salamanca quando una sera, dopo essersi accampati, furono raggiunti da un messaggero franco. L’uomo fu subito accompagnato alla tenda di Orlando, che lo accolse con sorpresa. Il corriere aveva cavalcato senza soste e recava sul viso i segni della stanchezza. Il giovane gli offrì da bere, prima di ascoltare ciò che doveva riferire. «Il re vi comanda di tornare immediatamente e di considerare annullata la missione presso l’emiro. È stato deciso il ritiro dalla Spagna dell’intero esercito.» Un guizzo di genuino stupore attraversò lo sguardo di Orlando. «L’armata si ritira? Allora Saragozza è caduta!» «No, il re toglierà l’assedio. Vi sarà spiegata ogni cosa non appena tornerete al campo. Per ora dovete limitarvi a eseguire l’ordine.» «Riferisci al re che obbedisco», rispose congedandolo. La decisione di re Carlo gli risultò incomprensibile, tanto più perché giungeva a un o dalla conquista di Saragozza e dalla probabile, imminente sconfitta dei mori. Tuttavia, se una tale decisione era stata presa, voleva dire che gravi avvenimenti l’avevano determinata. Chiamò Galante e gli ordinò di convocare immediatamente i cavalieri a consiglio. Poco dopo si presentarono, sconcertati dall’imprevista riunione, ma bastò che lo guardassero per comprendere che era accaduto qualcosa di grave. Il volto cupo e teso di Orlando non lasciava dubbi al riguardo. «È giunto da parte del re l’ordine di tornare subito al campo. Secondo quanto mi è stato riferito, l’armata si sta preparando a lasciare la Spagna», annunciò senza preamboli, com’era sua abitudine. I cavalieri si scambiarono sguardi increduli, più ancora che stupiti. La notizia era davvero sconvolgente.

«Significa che ci ritiriamo senza concludere la campagna?» chiese Aquilante. «Esattamente.» «E Saragozza?» fece Adalbigi. «Inespugnata. L’assedio verrà tolto per predisporre la ritirata.» «Ma è una follia!» esclamò Gontrano. «Lo penso anch’io, ma non ci compete discutere le decisioni del re. In ogni caso, sapremo di cosa si tratta al nostro rientro.» «Niente alleanza con l’emiro, quindi.» «È scontato. Dato che ce ne andiamo, la sua alleanza non ci serve più. Ci limiteremo a restituirgli la figlia e a porgergli le nostre scuse.» Aquilante scosse il capo. «È talmente assurdo che non riesco a crederci. Abbiamo buttato via un sacco di tempo per niente!» «Condivido il tuo stato d’animo, ma abbandonarci a sterili discussioni non servirà a modificare la situazione. Ora andate, ma evitate di informare gli uomini. Intendo farlo personalmente quando lo riterrò opportuno.» I cavalieri si congedarono e uscirono alla spicciolata, così delusi da non avere neppure voglia di commentare l’accaduto. Con la fronte aggrottata Orlando sorseggiò una coppa di vino. L’amarezza per la fine anticipata e improvvisa della campagna era bruciante, dolorosa come una sconfitta. Era una beffa crudele il doversi ritirare senza condurre a termine la conquista, in specie quando si annunciava una vittoria completa e folgorante. Più ancora che deluso si sentiva tradito da quell’evento. Più tardi, nell’unirsi agli uomini per la cena, non riuscì a impedirsi di guardare verso la tenda di Shanaz per tentare di scorgerne almeno l’ombra. Tuttavia, appena la vide si voltò di scatto e andò a sedere con la scodella in un punto in cui non poteva essere visto. Era troppo esacerbato per parlare con chiunque: era certo che se fosse rimasto al campo, forse avrebbe potuto convincere il re a restare.

Mangiò in fretta per l’impazienza di ritirarsi, ma poi si rese conto di non poter trascurare i propri doveri verso gli uomini e, sebbene sentisse il bisogno di isolarsi, andò a sedere presso il fuoco in loro compagnia. Argante gli si avvicinò e chiese se poteva parlargli. «Non vedi che sono occupato?» replicò irritato. «Levati dai piedi e lasciami in pace!» Il tono della sua risposta consigliò all’eunuco di andarsene in fretta. Più tardi, lasciati i cavalieri, Orlando raggiunse i soldati della truppa. Questi ancora non sapevano del cambiamento e discorrevano allegramente fra loro andosi l’otre del vino. Si trattenne solo il tempo necessario per bere un sorso e organizzare i turni di guardia, poi si allontanò. «Il comandante è di malumore, stasera», osservò uno scarita dopo che Orlando li ebbe lasciati. «Hai visto che faccia scura?» gli fece eco un altro.

«Cosa ne pensate voi?» chiese il primo.

«Difficile a dirsi, ma forse ha ricevuto brutte notizie da quel corriere.» «Probabile. Comunque, lo sapremo non appena ci avrà rimuginato sopra abbastanza», concluse lo scarita. «ami l’otre. Ci voglio bere sopra.» Orlando stava per entrare nella tenda quando riapparve Argante. «Ancora tu?» esclamò minaccioso. «Perdonami se ti importuno, ma la principessa insiste per vederti», rispose, sforzandosi di non indietreggiare sotto il suo sguardo torvo. «Cosa vuole?»

«Non lo so, signore.» «D’accordo, andiamo», si arrese Orlando. Argante gli trotterellò a fianco fino all’ingresso della tenda e sollevò la falda per farlo entrare. «Tu non vieni?» domandò il giovane. «No, signore. Desidera vederti da solo.» Appena dentro Shanaz gli andò incontro e scrutò il suo viso oscurato da nubi temporalesche con apprensione.

«Ho visto il corriere», esordì esitante. «E la tua faccia mi dice che hai ricevuto cattive notizie. Di cosa si tratta?» «Il re ha deciso di ritirarsi dalla Spagna. Abbandona l’assedio di Saragozza per tornare in Francia.» «E questo desta la tua contrarietà.» «Come potrebbe essere altrimenti? Una ritirata adesso, alla soglia di una vittoria schiacciante, equivale a una resa ignominiosa!» «Mi dispiace che tu sia tanto amareggiato, ma non posso nasconderti che la vostra partenza, per me e la mia gente, significa che tornerà la pace.» «Immagino che anche tuo padre proverà sollievo. Eviterà un’alleanza che probabilmente non gli era gradita.» «E a te eviterà di doverla negoziare e accettarne i compromessi.» «È il solo lato positivo della situazione», ammise Orlando. «Ma è un compenso inadeguato agli sforzi profusi per questa campagna. C’è altro che mi devi dire?» «Sì, desidero ringraziarti. Potrei non avere modo di farlo quando arriveremo a Salamanca e voglio che tu sappia quanto ti sono grata per tutto ciò che hai fatto per me.»

«Ho soltanto eseguito gli ordini e compiuto il mio dovere.» «Ti prego, non essere così rigido», mormorò prendendogli le mani. «Non ci vedremo mai più, ma io non ti dimenticherò.» «Nemmeno io potrò dimenticarti, in specie dopo quello che mi hai fatto are», ridacchiò Orlando.

«Puoi perdonarmi?» «Per avermi rubato e poi spezzato il cuore? Ne dubito.» «Anche il mio cuore è in frantumi», sospirò lei. Orlando le posò una mano sul petto. «Eppure batte forte», sussurrò. «Solo perché tu sei qui, ma quando partirai sanguinerà fino a morirne.» Acutamente consapevole della sua vicinanza e delle pulsazioni affrettate contro il palmo della sua mano, Orlando si chinò a baciarla. Voleva essere un bacio d’addio, ma i sentimenti a stento arginati traboccarono e lo travolsero. A propria volta trascinata nel vortice della ione, Shanaz ricambiò con uguale ardore baci e carezze. «Rimani con me stanotte», gli alitò sulle labbra. Ritrovando un barlume di lucidità Orlando ricordò che Argante era lì fuori e che avrebbe potuto sorprenderli da un istante all’altro. «Non possiamo rischiare che l’eunuco ci scopra», rispose. «Lui non verrà. Gli ho ordinato di non entrare per nessun motivo.» Ma ormai Orlando aveva ripreso il dominio di sé e con fermezza l’allontanò. «Devo andare», dichiarò risoluto. Ferita, Shanaz fece un o indietro. «Allora vattene!» intimò. Senza dire una parola Orlando le voltò le spalle e se ne andò.

L’indomani partirono all’alba e in tutta fretta sotto l’imperversare degli ordini sbraitati da Orlando, il cui umore non era migliorato dopo la notte insonne. Ignorando Argante e Shanaz, montò a cavallo e andò a porsi al comando della fila. Impose subito un’andatura sostenuta, un chiaro espediente per impedire qualsiasi tentativo di approccio, ma anche un’esigenza dettata dalla necessità di arrivare al più presto a Salamanca. Verso mezzogiorno venne avvistato un reparto di cavalieri che galoppava loro incontro. Orlando si distolse a fatica dalle proprie cupe riflessioni per scrutare la pianura dove una nube di polvere segnalava la presenza dei cavalieri. «Deve trattarsi della scorta che ci accompagnerà a Salamanca», disse ad Aquilante. «Comunque meglio stare in guardia. Serrate i ranghi e tenetevi pronti.» Il giovane girò il cavallo e galoppò indietro per portare gli ordini, mentre Orlando continuava a tenere d’occhio il polverone, attraverso il quale poteva vagamente distinguere le insegne moresche. Ne contò una ventina e il numero limitato lo rassicurò circa le loro intenzioni. Si chiese se l’emiro avesse già saputo del ritiro dei franchi e, in quel caso, se altri ne avessero avuto notizia. Che ne sarebbe stato dei piccoli distaccamenti che avevano il compito di pattugliare la zona a sud dell’Ebro e che ora sarebbero potuti diventare obiettivo di rappresaglie? Si augurò che tutti avessero ricevuto l’ordine di rientro. «Sono i guerrieri di mio padre», disse Shanaz facendolo trasalire. «Riconosco i vessilli.» Orlando le indirizzò un’occhiata rovente. «Torna subito al tuo posto!» Invece di obbedirgli Shanaz spronò la giumenta e galoppò incontro ai suoi, lasciandolo di stucco. Orlando si sentì quasi soffocare dalla collera. Consapevole delle occhiate e dei sorrisi di scherno che si scambiavano gli uomini alle sue spalle, si lanciò all’inseguimento. Veillantif era assai più veloce e potente della giumenta di Shanaz e la raggiunse in un baleno. Mentre si affiancava, il giovane si protese ad afferrare le redini e indusse il destriero a rallentare, esercitando sul morso della cavalla la trazione necessaria a fermarla. Pochi istanti dopo i due cavalli si arrestarono in una densa nube di polvere. I mori erano ormai vicini.

«Si può sapere cosa ti è preso?» l’aggredì lui, pervaso da una collera selvaggia quanto irragionevole. «Lo chiedo a te, visto che mi eviti come un’appestata!» ritorse lei altrettanto furibonda. Il velo le era caduto e rivelava il suo splendido viso. «Ricomponiti!» le ordinò invece di darle chiarimenti. «Non vorrai che ti vedano in queste condizioni.» Trafiggendolo con un’occhiata lei obbedì. «Perché rifiuti di parlarmi? Cosa ti ho fatto?» «Eccoli», ribatté, ignorando il suo accento disperato. Fissò i cavalieri che rallentavano e si arrestavano a poca distanza, mentre Shanaz si sforzava di assumere un atteggiamento distaccato e altero. Ma dentro di sé soffriva per il comportamento incomprensibile di Orlando, che era anche offensivo nei suoi riguardi. Furono scambiati ossequiosi e cerimoniosi saluti che si prolungarono ben oltre le aspettative di Orlando, il quale era impaziente di ripartire per raggiungere Salamanca, che ormai distava soltanto poche leghe. Tuttavia si sentì sollevato al pensiero di non dover avviare negoziati con l’emiro. La sosta in città si sarebbe limitata allo stretto indispensabile e la sua discutibile abilità dialettica non sarebbe stata messa alla prova. In quanto ai propri sentimenti per la principessa e al conflitto che avevano suscitato, preferì non soffermarsi ad analizzarli. Se non altro, quella partenza precipitosa gli avrebbe risparmiato ulteriori tormenti e il non avere più continuamente sotto gli occhi la sua conturbante bellezza l’avrebbe fatto rinsavire.

35

Orlando e i suoi cavalieri erano partiti. Shanaz aveva sentito il frastuono del loro galoppo percorrere la città ancora addormentata. Era echeggiato a lungo nel silenzio delle strade deserte per poi smorzarsi e svanire in distanza. Sebbene vi si fosse preparata, aveva avvertito in modo lacerante il senso di distacco e non era riuscita a trattenere le lacrime. Aveva pianto col viso affondato nel guanciale finché la luce incerta dell’alba era penetrata nella stanza, poi era scivolata in un sonno inquieto, popolato da incubi e orride visioni di morte. Quei sogni seguitavano a turbarla mentre le ancelle la vestivano e la pettinavano, adornandola di preziosi gioielli. Nello specchio d’argento non vedeva la propria immagine, bensì quella di Orlando coperto di sangue e morente. Il senso di un’immane tragedia che stava per abbattersi sull’armata franca minacciò di far vacillare la sua ragione. Tuttavia, malgrado l’angoscia, si sforzò di non mostrare alcuna emozione. Era ormai pronta quando entrò l’eunuco Naghib. Shanaz posò lo specchio sul tavolino intarsiato per ascoltarlo. «Tuo padre desidera vederti e mi ha ordinato di accompagnarti da lui, altezza.» Poiché non c’era modo di sottrarsi al perentorio invito, Shanaz lo seguì. L’emiro non era solo. Con lui c’era suo fratello Samir, il principe ereditario. La sua presenza era di cattivo presagio. Padre e fratello la scrutarono inquisitori: il loro affetto era commisurato al grado di obbedienza e docilità che lei sapeva dimostrare. Soddisfatto del suo atteggiamento deferente, l’emiro le si avvicinò e prendendole il mento con due dita la obbligò a sollevare il viso. «I cavalieri franchi sono

partiti», le annunciò compiaciuto, attendendo una reazione che però non venne. «La notizia che l’armata cristiana è sul punto di levare le tende e andarsene ha colmato di gioia il mio cuore. Allah ha voluto che mi fosse risparmiata una discutibile alleanza con gli infedeli inducendoli a lasciare il nostro paese. Ora tutto tornerà come prima e saremo di nuovo in pace…» Fu interrotto da grida provenienti dal cortile e fece una smorfia di disappunto. «Cosa succede?» chiese Shanaz, dirigendosi verso la finestra prima che le fosse impedito. Ciò che vide la raggelò, ma soffocò il grido che le era salito alle labbra. I carnefici stavano fustigando uomini e donne. Sgomenta, si voltò per interrogare il padre. «Di cosa si sono resi colpevoli perché tu li punisca tanto crudelmente?» «Hanno violato le mie disposizioni», le rispose con freddo distacco. «Vieni via, non è spettacolo per i tuoi occhi.» «Quali disposizioni?» «Avevo proibito ai cristiani residenti di organizzare processioni e di esibire i simboli della loro fede. Costoro hanno disobbedito e il loro castigo sarà un esempio per tutti gli altri.» «Ma tu non avevi mai infierito contro i cristiani, prima d’ora!» «Mi è stato fatto notare che la mia tolleranza era interpretata come debolezza e che negli ultimi tempo, grazie anche alla presenza dei franchi, essi stavano alzando troppo la testa. Dopo qualche esecuzione torneranno umili.» Shanaz distolse il viso dalla scena, ma non poteva evitare di sentire i lamenti. Era pietrificata dall’orrore e incapace di muoversi, anche per fare pochi i. Fu suo padre ad allontanarla dalla finestra afferrandola per un braccio. Lei lo seguì un po’ incerta, sconvolta da ciò che aveva visto, ma ancora di più perché era stato suo padre a ordinarlo. E pensare che l’aveva difeso con tanto ardore davanti a Orlando che l’accusava di essere persecutore d’innocenti! «Dimentica ciò che hai visto», le disse. «Tenterò», rispose, ben sapendo che sarebbe stato impossibile.

«Forse la notizia che sto per darti ti aiuterà.» «Quale notizia?» «Il tuo promesso sposo vuole anticipare la celebrazione delle vostre nozze e io sono stato felice di accordargliene il permesso. Presto diventerai sua moglie.» «Sarà un grande onore per me», rispose come ci si attendeva da lei. L’emiro e suo fratello annuirono solenni. «Puoi ben dirlo, figlia mia. Ora ritirati e comincia a pensare al tuo matrimonio. Sarà un efficace antidoto contro il penoso spettacolo di cui sei stata testimone.» Shanaz s’inchinò a entrambi e uscì col cuore greve di dolore e di angoscia. Alì l’aspettava per scortarla nelle sue stanze, fedele e devoto al padrone come un cane. Mentre percorrevano la loggia inondata di sole che filtrava dai preziosi trafori delle pareti, Shanaz si sentì prigioniera come mai le era accaduto in ato. Al fianco di Orlando aveva conosciuto una libertà che sempre le era stata negata e ora le mura del palazzo-fortezza le si richiudevano intorno come quelle di una prigione, minacciando di soffocarla. Ma il peggio sarebbe venuto col matrimonio. Accanto a un marito la cui crudeltà era tristemente famosa, avrebbe conosciuto un ancor più penoso genere di schiavitù. Sentì che non l’avrebbe potuto sopportare, ed era anche consapevole di non potersi sottomettere alla volontà paterna andando contro tutti i suoi sogni, i suoi desideri… ma sapeva che una ribellione avrebbe scatenato la collera di suo padre e la punizione sarebbe stata terribile. Non aveva che un modo per spezzare le catene e involarsi verso la libertà… D’un tratto, senza che l’eunuco potesse fermarla, corse verso una delle aperture della loggia e con un balzo si lanciò nel vuoto.

I franchi stavano levando l’assedio e si preparavano a partire. Nell’accampamento regnava un’intensa attività e dagli spalti di Saragozza i mori

assistevano, increduli per l’inatteso abbandono del grande re. Non erano stati gli ambasciatori e i doni a indurlo a ritirarsi, né il timore per le esecuzioni dei cristiani, bensì qualcosa d’altro di cui ignoravano la natura. Erano comunque salvi, sempre che non si trattasse di una mossa strategica, e nelle moschee affollate i fedeli rendevano grazie a Dio per aver distolto i franchi dalle loro mire di conquista. Ben altri sentimenti si agitavano nel cuore di Orlando mentre alla testa dei cavalieri galoppava alla volta dell’accampamento. Una sorda collera s’impadronì di lui nel vedere i bastioni appena scalfiti della città e l’incessante lavoro degli uomini che smantellavano le macchine d’assedio. L’abbandono di Saragozza inespugnata gli colmò di un sapore amaro la bocca. Tutte le vittorie riportate in quegli anni venivano vanificate in un solo momento. Le stragi e il sangue versato, il martirio dei cristiani, le mura infrante e ridotte in polvere… tutto inutile. Alla vigilia della conquista dell’ultimo caposaldo dei mori e della loro definitiva sconfitta, il re decideva di lasciare e tornare indietro. Una scelta che Orlando considerava insensata e pericolosa. Si staccò dagli altri non appena giunsero al campo e si diresse verso il padiglione reale, una sorta di isola relativamente tranquilla in un mare di confusione, dove si erano radunati i paladini in attesa di ordini. Olivieri gli andò incontro per primo. Orlando arrestò il cavallo e balzò a terra per abbracciarlo, e mentre si scambiavano un saluto fraterno vennero circondati dal resto dei pari, impazienti di dargli il bentornato. «Devi aver cavalcato senza soste per essere giunto tanto rapidamente», osservò Olivieri. Un’ombra gli offuscò il viso stanco. «Data l’urgenza del richiamo non potevo fare diversamente», rispose. «Ma cos’è accaduto?» «Sarà il re a informarti. Sappi, comunque, che gravi avvenimenti hanno provocato questa decisione.»

«Ma ha davvero deciso di ritirarsi?» domandò Orlando, ancora incredulo. «Vi è stato costretto.» «Un errore che ci costerà assai caro», dichiarò. «Attento a come parli, ragazzo», l’ammonì Turpino, giunto in quel momento. «Non giudicare le azioni del re senza sapere cosa le ha determinate.» Orlando si girò a fronteggiarlo. «Non mi fare la predica, vescovo. Ho soltanto espresso la mia opinione e non esiterò a farlo anche davanti al re.» Si avviò, ma fu trattenuto da Olivieri. «Aspetta. Il re si sta consultando con Wala, Namo e Gano.» Orlando si voltò con un guizzo. «Gano è tornato?» «Ieri l’altro.» Si oscurò al ricordo di come lo zio avesse tentato di trarlo in inganno. «Qualsiasi cosa stiano dicendo riguarda anche me», sibilò divincolandosi e varcando la soglia del padiglione senza che potessero impedirlo. Al suo apparire il re si interruppe a metà del discorso, mentre Gano e gli altri due si giravano a guardare chi avesse avuto l’ardire di entrare senza invito. «Orlando!» esclamò Carlo posando la mappa per andargli incontro sorridendo. «Bentornato, figliolo.» Lo abbracciò, poi lo tenne per le spalle scrutandolo. «Hai l’aria affaticata», osservò. «Abbiamo galoppato giorno e notte per affrettare il ritorno, sire. Il tuo messaggio lo imponeva.» «Immagino che tu sia curioso di conoscere il motivo per cui ho ordinato la ritirata con tanta urgenza.» «Lo sono, infatti, ma posso aspettare che la riunione sia finita.» «Abbiamo concluso. Gli ultimi dettagli verranno discussi in un altro momento.» Si rivolse a Gano. «Parti subito. Occorre che la strada del valico sia sgombra e

sicura.» «Non ci sarà alcun problema, sire», gli assicurò lui con un sorriso. «Me ne faccio garante.» Prese congedo e nel are accanto al nipote indugiò un istante. «Buona fortuna per il ritorno. Ne avrai bisogno», disse enigmatico. Uscì lasciando quella frase sibillina sospesa, ma Orlando non ebbe il tempo di interrogarsi sul suo significato, poiché il re congedò anche Namo e Wala per rimanere da solo con lui. Versò da bere per entrambi e lo invitò amabilmente a sedere. «Deluso per il negoziato andato a monte?» «Niente affatto. La delusione, semmai, riguarda questa partenza.» Bevve un sorso e lo guardò. «Cosa ti ha spinto a interrompere la campagna? Confesso che ancora non riesco a crederci.» «Io stesso stento a credere di essere giunto a questa determinazione. Saragozza avrebbe capitolato presto e gli anni trascorsi quaggiù avrebbero finalmente avuto un senso, ma non avevo scelta. Vitichindo e i suoi sassoni hanno scatenato un’offensiva, radendo al suolo villaggi, chiese e città, trucidando uomini, donne e bambini, giungendo a livelli di atrocità mai toccati prima. Il nostro esercito è intervenuto subito, ma è stato duramente sconfitto sul Weser. Un eccidio senza precedenti nel quale ha perso la vita anche uno dei miei nipoti… La vittoria ha esaltato Vitichindo, che ora si sente onnipotente e minaccia i nostri confini. Restare ancora in Spagna vorrebbe dire dargli mano libera, cosa che non intendo permettere. Per questo ho deciso di tornare in Francia. Non ti nascondo che la situazione è grave e che sono preoccupato.» Orlando rimase alcuni istanti in silenzio, riflettendo sulle notizie allarmanti che gli erano state comunicate, poi smise di osservare i riflessi delle fiamme nel vino della coppa e alzò il capo. «Come l’hanno presa gli altri?» «Ne abbiamo discusso per giorni. Non volevo decidere senza ascoltare il parere dei miei collaboratori, e devo ammettere che alcuni non erano d’accordo. C’era chi avrebbe voluto restare fino alla conclusione della campagna per non vanificare gli sforzi di questi anni. Io stesso, se non ci fosse stato il disastro sul Weser, sarei stato incline a rinviare il rientro. Ma, stando così le cose, il rischio sarebbe troppo elevato. Alla fine anche quelli contrari si sono resi conto che la nostra priorità è di proteggere i confini.»

«I mori crederanno che abbiamo paura. Prendiamo Saragozza, trattiamo la pace e poi ce ne andremo!» «Impossibile. La decisione è stata presa. I mori hanno capito e non ci considereranno dei codardi. Ce ne andiamo con onore, senza aver subito una sola sconfitta e col morale alto. Inoltre, i mori hanno imparato a conoscerci e a rispettarci. Non è il risultato che mi ero prefissato, ma è pur sempre qualcosa. Perlomeno un inizio, una base su cui lavorare in futuro.» Orlando scosse il capo. «Lascia che ti dica che stai commettendo un errore che avrà gravi ripercussioni sul futuro.» «Può darsi, ma Wala e Namo hanno approvato la mia decisione e l’hanno appoggiata fin dall’inizio. Anche Turpino, sebbene avesse in un primo momento dei dubbi, ora l’approva.» «Anche Gano, immagino.» «Anche lui. E pure i paladini. Tutti. Temo che ti dovrai rassegnare.» «Lo temo anch’io», sospirò, pensando alla partenza con amaro rimpianto, un sentimento che non avrebbe mai creduto di poter provare. In quel ritiro affrettato c’era il sapore aspro della sconfitta che sembrava sogghignare nell’ombra e irriderli. Anni sprecati a combattere un nemico agguerrito e feroce, anni di sacrifici e di pena che adesso si condensavano tutti nel suo animo, rendendo la rinuncia e la partenza ancor più dolorose. Fu appena sfiorato dal pensiero di Alda in attesa del suo ritorno, poiché avrebbero marciato subito verso il Reno e non avrebbe avuto il tempo di incontrarla neppure di sfuggita. Non pensò a Shanaz, che pure aveva amato, poiché già cominciava a svanire il suo ricordo nei meandri della memoria, lasciando il vago rammarico di un incontro che, pur nella sua intensità, era stato fugace. Cuori alla deriva, li aveva definiti lei. Pianeti in fuga che si incrociano per il breve spazio di qualche attimo e poi si perdono di nuovo nell’infinito. Un’immagine poetica e triste, ma terribilmente vera. In quel coacervo di sentimenti e di emozioni, emerse con chiarezza cristallina la vacuità della sua esistenza, condotta da un campo di battaglia all’altro, da una città ridotta in macerie a un’altra. Pochi punti fermi nella vita di un cavaliere

legato al dovere e all’onore, dove tutto era subordinato alla volontà del re, incluso l’amore. Un deserto di solitudine e di tenebra dove solo la gloria del combattimento vittorioso rischiarava di lampi di luce, abbaglianti sul momento, ma poi destinati a estinguersi. Svaniva, nell’ardente bagliore di un crepuscolo estivo, come la vampa di un incendio, il sogno di una Spagna conquistata e di nuovo cristiana. Tre anni spesi nell’inseguire una chimera, un miraggio, un’idea vagheggiata che Vitichindo, in un sol colpo, aveva cancellato. Si accorse che il re lo scrutava e abbozzò un sorriso. «Perdonami se mi sono estraniato, ma mi riesce difficile rassegnarmi alla partenza.» «Lo so. Credi che per me sia facile? Mi sono piegato a malincuore alla necessità. Finché non condurrò Vitichindo prigioniero e in catene ad Aquisgrana, saremo sempre minacciati.» «Come hai organizzato la ritirata?» Carlo capì che Orlando aveva accettato la partenza e si sentì rasserenato. Aveva temuto di dover affrontare interminabili discussioni per convincerlo, invece era stato più facile del previsto. Più facile di come l’aveva dipinto Gano. «L’armata dovrà procedere rapidamente e quindi non dovrà essere intralciata dai carri e dalle bestie da soma. Sarà un lungo serpente che si snoderà attraverso i crinali delle montagne e la retroguardia sarà per forza più lenta. Colui che ne avrà il comando sarà gravato da una grande responsabilità.» «Hai già deciso a chi lo assegnerai?» «Ancora no, ma Gano ha suggerito te. A suo parere, nessun altro può garantire la sicurezza del convoglio.» «E tu cosa ne pensi?» «Avevo pensato di utilizzarti diversamente, ma forse lasciare a te e ai paladini questo compito non è una cattiva idea.»

«Lo considero un onore. Credo che anche gli altri saranno d’accordo.» «Ne sei sicuro?» chiese dubbioso Carlo. «Sicurissimo», dichiarò con un ampio sorriso. «Forse Gano credeva che l’avrei ritenuto un affronto, invece penso sia un incarico adatto ai paladini.» «Dovrete per forza restare molto distaccati dal resto dell’esercito, anche se ho predisposto un servizio di staffette per mantenere i contatti. I mori potrebbero considerarvi un facile obiettivo e attaccarvi.» «Basterà la nostra presenza a scoraggiare chiunque.» «Probabilmente hai ragione, tuttavia…» «Perché tanta esitazione? Dubiti che io sia all’altezza del compito?» «Neanche per un istante! Esito perché temo… per la tua sorte.» Un infausto e gelido presagio sfiorava il re. Turbato suo malgrado, Orlando si sforzò di sorridere e dissipare l’ombra che d’un tratto era scesa sul suo sovrano. «Non dare ascolto ai presagi, sire. Chi vuoi che abbia il coraggio di attaccarci?» Il re rimase silenzioso per qualche attimo, poi annuì lentamente. «Infatti. Chi mai oserebbe…?»

Fu Orlando a informare i paladini che avrebbero scortato la retroguardia. Proprio come aveva detto nessuno se ne adombrò e Turpino si dichiarò pronto a unirsi a loro per non far mancare il o della sua esperienza. «Dovrai chiedere il permesso al re», disse Orlando. «Potrebbe averti destinato ad altri compiti.» «Non mi negherà il suo consenso», dichiarò il vescovo. «Sempre che tu non abbia qualcosa in contrario.» «Sarò felice di averti con noi, a patto di non essere storditi dalle tue prediche.»

«Allora vado a chiederglielo. Non partite senza di me, mi raccomando!» Orlando scoppiò a ridere. «Sta’ tranquillo, ci vorrà parecchio tempo prima che si parte.» Uscito Turpino, i paladini gli chiesero istruzioni. Olivieri volle sapere come mai si era offerto di comandare la retroguardia. «Non lo so. È stato un impulso improvviso. Spero di non aver commesso un errore.» «Non c’è di mezzo lo zampino di Gano?» «In effetti è stato lui a raccomandarmi per questo incarico, però il re era d’accordo. Sono stato io a convincerlo che con la nostra protezione i carri saranno al sicuro e che nessuno avrà il coraggio di assalirci.» Olivieri sospirò. «Avrei preferito che non l’avessi detto, almeno quest’ultima parte.» Orlando gli rivolse uno sguardo indagatore. «Cosa temi, fratello?» «Niente, ma non si può negare che ci siano forze in gioco che sfuggono al nostro controllo.» «Non al mio.» Il sorriso non riuscì a dissipare del tutto l’ombra che gli offuscava il viso. «Sarà quel che Dio vorrà», replicò. «Ma pregherò affinché ci protegga.» Le fiammelle delle candele vacillarono come a un soffio improvviso e ognuno rabbrividì, come se una minaccia invisibile incombesse su di loro. Si scambiarono sguardi tesi e trasalirono quando il cupo rimbombo del tuono echeggiò sull’accampamento. «Stanotte ci sarà tempesta», disse Orlando, contagiato dall’atmosfera sinistra. «Speriamo che i presto», gli fece eco Gerieri.

«Sarà un segno?» domandò Gerino.

«Non lo so, ma forse Dio non vuole che ce ne andiamo lasciando la nostra opera incompiuta.» «Se voleva che restassimo, Dio avrebbe dovuto fermare i sassoni e impedire il massacro di tanti innocenti», replicò l’altro. «È soltanto un temporale e sembra che abbiate paura della fine del mondo!» li derise Sansone. D’un tratto la tenda venne squassata da una violenta raffica di vento e parve sul punto di lacerarsi. Le candele si spensero e il livido chiarore di un lampo illuminò i volti attoniti dei paladini. Il tuono rumoreggiò, echeggiando sulle alture, seguito dal primo scroscio di pioggia. Il senso pratico di Orlando ebbe il sopravvento. «Consiglio di andare a controllare i ripari per i cavalli e ad assicurarvi che il carico sia all’asciutto. Il nostro incarico ha inizio da questo istante e non voglio che ci accusino di trascuratezza.»

L’accampamento si svegliò alla debole luce di un’alba caliginosa, intrisa d’umidità. Il violento temporale aveva trasformato il terreno in un acquitrino, malgrado i canali di scolo, e parte dei fossati del vallo trincerato erano colmi d’acqua fangosa. Ormai soltanto poche tende erano rimaste laddove fino a qualche giorno prima brulicavano a migliaia. Erano quelle dei paladini e dei reparti che avrebbero scortato la retroguardia, la cui partenza sarebbe avvenuta più tardi. Orlando previde che ciò non si sarebbe verificato prima di qualche giorno.

Comunque tutto era pronto e agli ultimi dettagli ci avrebbe pensato il siniscalco. Si recò coi paladini a salutare il re, in procinto di lasciare il campo con la guardia reale e il primo scaglione. Turpino li aveva preceduti e annunciò che il re aveva acconsentito che rimanesse con loro. C’era un velo di tristezza sui volti di tutti e l’atmosfera tetra rendeva ancor più penoso il commiato. Ciascuno a proprio modo sentiva gravare su di sé il peso di quell’abbandono e nessuno volse lo sguardo in direzione delle mura inviolate di Saragozza.

«Ci rivedremo in Sassonia», disse Carlo abbracciando uno a uno i suoi paladini. Quando venne il turno di Orlando aveva gli occhi lucidi per la commozione a stento trattenuta. Lo strinse a sé con trasporto e nello scostarsi gli serrò le spalle con forza, comunicandogli un tacito messaggio. Poi sorrise. «Che Dio ti accompagni, figliolo», disse con voce ferma. «Ti assicuro che neppure un carro o un mulo andranno perduti, sire.» «Non mi importa se andranno persi tutti, purché tu torni sano e salvo.» Si sfilò dal dito un anello a cui teneva molto perché era un dono della madre di Orlando e glielo diede. «Me lo renderai quando ci rivedremo», aggiunse. Nel prenderlo gli sfuggì e cadde nel fango. Il re trasalì. I presenti si scambiarono occhiate colme d’inquietudine. Orlando si chinò a raccoglierlo e lo pulì, prima di infilarlo al dito. «Grazie, sire. Lo terrò caro», rispose, per nulla turbato dall’incidente. Poi re Carlo montò in sella e andò alla testa del primo scaglione. I reparti si incolonnarono uno dopo l’altro, dando inizio alla lenta marcia verso il confine e le montagne. Una lunga fila serpentina si snodò sulla strada man mano che i vari distaccamenti andavano ad aggiungersi a quelli che li precedevano. Il re non era più visibile, nascosto dalla moltitudine di armati, ma Orlando non riuscì a staccare gli occhi dall’interminabile colonna in cui continuavano ad affluire uomini e cavalli e su cui sventolavano insegne e stendardi variopinti, macchie di vivace colore sullo sfondo grigio del cielo.

Poi, assalito da un improvviso senso di vuoto e di solitudine, Orlando girò sui talloni e se ne andò, incapace di sopportare oltre quella vista. «Ehi, dove vai?» chiese Olivieri. Non ebbe risposta. «Andiamo con lui?» domandò Gerino, seguendone i rapidi i con una sfumatura di apprensione. «Non credo che voglia compagnia.» Il paladino annuì, mentre Orlando scompariva in mezzo alle poche tende rimaste e si dirigeva verso il limitare del vallo. Ne raggiunse il punto più elevato, da cui si potevano meglio vedere i bastioni di Saragozza illuminati dal pallido sole sbucato dalla cortina di nuvole. Ne seguì con lo sguardo la linea possente e immaginò di abbatterli a colpi di spada, di vederli infranti e atterrati nel fango. Si esaltò a quella fantasia e fu colto da una repentina smania di agire, di porre fine all’inerzia e alla perniciosa malinconia che si era impadronita di lui. Fare qualcosa, qualsiasi cosa era meglio che andare alla deriva nel fiume d’amarezza che gli scorreva nell’anima. Fischiò per chiamare Veillantif e gli saltò in groppa, dando di sprone e lanciandolo al galoppo. Saltò oltre la palizzata e si allontanò sollevando una cortina di spruzzi di fanghiglia.

36

Dopo un breve e furioso galoppo Orlando arrestò il cavallo sulla sponda dell’Ebro. Davanti a lui si ergevano imponenti le mura della città, vicine eppure irraggiungibili, da cui lo spiavano migliaia di sguardi. A quei bastioni e ai mori che lo osservavano lanciò la sua sfida. Sguainò Durendal e fece caracollare Veillantif avanti e indietro, gridando il proprio nome per farsi riconoscere. «Chi di voi ha il coraggio di uscire e venire a incrociare la sua spada con la mia? Sono Orlando d’Anglante, signore di Bretagna e pari del re. Chi fra voi oserà raccogliere la mia sfida? Uno o dieci non farà differenza. Sono pronto a battermi con tutti e a dimostrare il valore di un paladino del re!» Nel vedere che nessuno lo ascoltava, afferrò l’Olifante e vi soffiò dentro con forza. Il suono si propagò terribile, simile a un ruggito, vibrando nell’aria immota. Nel sentirlo i franchi rimasti al campo accorsero, ammassandosi sul limitare del vallo. Accorsero anche i paladini, che alla vista di Orlando da solo davanti alla città si scambiarono sguardi apprensivi. «Ma cosa fa?» chiese Sansone. «È impazzito?» «Sta solo sfogando la sua frustrazione», rispose Olivieri. «Finirà col farsi ammazzare da una freccia o un giavellotto. Non capisce che sta facendo da bersaglio? Qualcuno lo vada a prendere e lo riporti indietro», disse Engelieri.

«Quando vedrà che nessuno risponde alla sua sfida tornerà da solo», ribatté Olivieri.

«Se non sarà troppo tardi», osservò cupo Berengario. Orlando intanto seguitava a suonare, interrompendosi soltanto per ripetere la sua provocazione, e non sembrava avere alcuna intenzione di tornare. Dagli spalti i mori lo guardavano in silenzio. Impossibile capire ciò che ava per la loro mente nell’assistere all’ennesima prova di audacia dal loro più acerrimo nemico. Al tramonto Orlando era ancora là, a lanciare imperterrito e più frustrato che mai la propria sfida alla città che disdegnava di raccoglierla. Calarono le ombre della sera ad ammantare la valle dell’Ebro e d’un tratto, simile a uno spettro scaturito dalle tenebre, apparve un cavaliere lanciato al galoppo. Al vederlo il cuore di Orlando si gonfiò di gioia feroce e con un grido spronò Veillantif per andargli incontro. Dal vallo lo videro anche i paladini. «E quello da dov’è sbucato? Non è uscito dalla città», disse Engelieri. «Non lo so», mormorò Olivieri. «Non ha insegne né simboli che lo identifichino. Parrebbe… un fantasma.» Col destriero lanciato a un galoppo sfrenato Orlando notò a malapena gli sfumati contorni del cavaliere. Il nero dell’armatura e del cavallo sembravano fondersi con l’oscurità, come se ne fossero parte, ma non se ne curò. La sua smania di battersi ebbe il sopravvento su ogni altra considerazione. Gli si avventò addosso con furia, lo affiancò e gli inferse un colpo terribile, squarciandolo dalla spalla al fianco. Senza nemmeno rallentare, fece compiere un mezzo giro al cavallo e con la rapidità di un fulmine gli troncò il capo di netto. Mentre la testa rotolava nel fango, il destriero con ciò che restava del cavaliere si allontanò dileguandosi nel buio. Orlando arrestò Veillantif e gli fece compiere un rapido dietro-front, poi galoppò verso il greto del fiume, dove si era fermata la testa mozzata. Lanciò un grido d’esultanza e levò la spada in segno di vittoria, prima di smontare e andare a

vedere il volto di colui che aveva ucciso. Ma la gioia si tramutò in stupefatto orrore. Arretrò sgomento mentre fissava il proprio volto. Suoi gli occhi vitrei. Sua la bocca distorta dall’agonia. Vide, in quella maschera di morte, la propria immagine. «Ma che specie di magia è mai questa?» si chiese con voce soffocata, protendendo la mano ad afferrare la testa e incontrando il vuoto. Si ritrasse di scatto quando essa svanì. Cadde in ginocchio, sopraffatto da un amalgama di emozioni. Dio aveva voluto inviargli un monito, o forse un presagio di morte, un segno del destino che lo attendeva sulla via del ritorno? O forse aveva voluto metterlo in guardia contro la superbia e mostrargli che era vulnerabile, che pure lui poteva cadere sul campo di battaglia? Era abbastanza superstizioso da non sottovalutare i segni sovrannaturali, ma anche troppo sicuro di poter mutare i disegni del fato per lasciarsi suggestionare. Superato il momento d’intenso sconvolgimento interiore, Orlando si raddrizzò e rinfoderata la spada rimontò in sella per rientrare al galoppo nel campo, dove fu accolto con sollievo dai compagni, che gli si affollarono intorno e lo sommersero di domande. In specie quelli che l’avevano visto duellare col misterioso cavaliere erano curiosi di conoscere i dettagli, di sapere come e perché era comparso all’improvviso e dal nulla. Pure loro, in fondo al cuore, lo interpretarono come un presagio. «Ne so quanto voi», rispose Orlando conducendo il cavallo per le briglie. «È accaduto tutto in modo strano… non so spiegare. Di certo non era reale, poiché è svanito appena l’ho atterrato.» «Ma l’avrai pur visto in faccia quando gli hai troncato il capo», obiettò Olivieri. «Solo un attimo, prima di scomparisse.» «Che sembianze aveva?» «Nessuna», mentì, rabbrividendo al ricordo.

«Uno spettro!» esclamò Berengario. «Un’anima persa degli Inferi ha risposto alla tua sfida invece dei mori codardi!» «Comunque sia, sei stato imprudente», dichiarò Engelieri severo. «Ti saresti potuto prendere una freccia e morire là fuori per mano di qualche ignoto arciere in vena di prodezze. Pensa a come si sarebbero inorgogliti i mori!» «Non correvo alcun rischio», minimizzò Orlando. «Le loro frecce non arrivano tanto lontano e lo dimostra il fatto che non ci hanno nemmeno provato.» Engelieri storse la bocca. «In realtà, io credo che fossero troppo sbalorditi dallo spettacolo che stavi offrendo per avere la presenza di spirito di reagire. Ti è andata bene.» «Sono stato avventato, lo riconosco, ma tu sai che quando sono così infuriato non sono padrone delle mie azioni.» «Sì, lo so», annuì l’altro con aria lugubre. «Così come so che un giorno o l’altro questa tua irruenza ti sarà fatale. Prego Dio che ciò avvenga senza che altri ne debbano subire le conseguenze. E ora smettiamola con questi discorsi e occupiamoci dei preparativi.» Ricordando che aveva il comando e la responsabilità della retroguardia, Orlando convenne che aveva ragione. Lasciò il cavallo alle cure dello scudiero e si affrettò a occuparsi dei propri compiti.

Si ritirò assai tardi. Ormai il grosso dell’armata doveva essere giunto in prossimità delle montagne. Aveva appena congedato Galante e stava per coricarsi quando gli fu annunciata la visita del siniscalco. Nonostante la stanchezza non rifiutò di ascoltarlo. «Sono preoccupato per i carri del re», gli disse. «Qualcuno mi ha fatto osservare che i teli di copertura sono troppo vistosi e che potrebbero attirare l’attenzione. So che devono distinguersi dagli altri, ma in questo caso sarebbe opportuno non si notassero.» «Ordina che siano sostituiti i loro teloni, e inserisci un carro reale fra ogni due

dei normali», suggerì Orlando che conosceva bene la pignoleria dell’uomo. «Ma così non sarà possibile riconoscerli!» «Che importanza può avere se lo scopo è proteggerli?» Ricevette uno sguardo dubbioso. «Non so se il re approverebbe.» «Non credo che troverà da ridire. Inoltre, una volta ato il confine potrai far rimettere i teli originali e il re non se ne accorgerà.» Eggiardo si concesse qualche istante di riflessione prima di annuire. «Hai ragione. Darò subito ordine che si faccia la sostituzione, anche se non so se faremo in tempo.» Orlando sorrise. «Avrai tutto il tempo occorrente, non temere. Dobbiamo aspettare che anche l’ultimo fante sia lontano prima di metterci in marcia.» «E questo non sarà un problema se ci attaccano? Come faranno ad arrivare in tempo i rinforzi se saranno così distanti?» «Non ne avremo bisogno. Chi sarebbe tanto pazzo da assalirci? Basterà la presenza dei paladini a scoraggiare chiunque.» «Speriamo che tu abbia ragione», sospirò. «Andrà tutto bene, fidati.» Uscito il siniscalco, Orlando poté finalmente coricarsi, ma rimase a lungo sveglio, reso inquieto dall’apprensione e dal peso della responsabilità che si era addossato. Malgrado avesse promesso che nemmeno un’oncia del prezioso carico sarebbe andata perduta, non si sentiva tranquillo. Si respirava un’atmosfera foriera di infausti presagi che neppure lui poteva ignorare. C’erano i baschi, la cui dubbia fedeltà destava più che legittimi sospetti. E Gano, il cui comportamento suscitava inquietanti interrogativi e ancor più inquietanti risposte. In cuor suo lo giudicava incapace di tradire il re, ma tutt’altra questione sarebbe stata tradire lui. Se la retroguardia fosse caduta in un agguato sul valico, magari a opera dei baschi, e lui fosse caduto in combattimento, Gano si sarebbe vendicato dei torti di cui si riteneva vittima e non sarebbe stato incolpato. Gano rimestava nel torbido da sempre e non avrebbe esitato a servirsi di una subdola

manovra per metterlo fuori causa una volta per tutte. Con quei pensieri che vorticavano senza posa nella mente infine si addormentò.

Si svegliò di soprassalto, ansimante e inondato di sudore freddo. Si drizzò a sedere e cercò di domare il tumulto provocato da uno strano sogno. La sensazione che fosse un presagio di morte era così intensa da farlo tremare. Il baratro della paura minacciò di spalancarsi e inghiottirlo, ma riprese il controllo di sé e della propria mente. Se di presagio si trattava, non era che un avvertimento di ciò che sarebbe potuto accadere, ma niente era ancora stabilito. Non era che una delle infinite possibilità e, in quanto tale, poteva essere cambiata. Tornò a sdraiarsi cercando di riprendere sonno, ma invano. Appena chiudeva gli occhi tornavano ad assalirlo le immagini del sogno, così vivide da turbarlo nel profondo. Nel sogno era il Drago a morire, ma poiché esso dimorava da sempre nella sua anima la deduzione risultava fin troppo ovvia. Gli sovvenne, allora, il sogno fatto tempo addietro, prima di diventare paladino. Il Drago gli aveva promesso gloria immortale se l’avesse ucciso, e da quel momento la sua vita era stata costellata da avvenimenti che gli avevano dato fama, facendo di lui il più grande cavaliere della Cristianità. Forse il fato aveva deciso di riscuotere il prezzo di tutti gli onori che gli erano stati concessi. Forse era giunta l’ora di guadagnarsi l’immortalità che gli era stata promessa. Un suono di voci concitate interruppe i suoi pensieri. Balzò in piedi allarmato e afferrata la spada corse fuori, dove trovò Argante che si dibatteva trattenuto dalle guardie. Ordinò che lo lasciassero e interruppe il fluire dei ringraziamenti con tono brusco. «Perché ti aggiri intorno alla mia tenda a quest’ora?» «Speravo di poterti parlare, signore. Ci sto provando da quando siamo tornati, ma c’è sempre qualcuno che mi caccia via, se non lo fai tu stesso.»

«Allora dì quel che devi e fallo in fretta.» «Non davanti a loro, signore», replicò offeso. Orlando sospirò di disappunto, ma con un cenno lo invitò a seguirlo dentro. Rivolto uno sguardo trionfante alle guardie, Argante gli trotterellò dietro. «Coraggio, ti ascolto», lo esortò versandosi da bere. L’eunuco frugò sotto il giubbetto e prese un foglio alquanto sciupato che gli porse. «È per te.» Orlando lo prese e lo rigirò fra le dita. «Che cos’è?» «Una lettera della principessa.» «Quando te l’ha data?» «La sera prima della partenza. Me l’ha consegnata di nascosto.» «E hai aspettato tutto questo tempo…?» «Ho eseguito i suoi ordini, signore. Voleva che tu l’avessi solo quando saremmo arrivati e…» Lo interruppe con un gesto. «D’accordo, ho capito», disse spezzando il sigillo. Lo scritto era breve, la calligrafia elegante. In qualche punto l’inchiostro era scolorito, come se vi fossero cadute delle lacrime. Il ricordo di lei lo assalì a tradimento, facendogli dolere il cuore. Rimpianto e amarezza si mescolarono mentre leggeva.

Orlando, non mi è stato concesso di dirti addio. Gli eunuchi e le mie ancelle mi sorvegliano, perciò non posso neppure tentare di incontrarti in segreto. Così ho deciso di scriverti per ringraziarti e chiederti perdono per i capricci che troppe volte hai dovuto sopportare. Sono stata felice accanto a te, anche se per poco, e mi sarà di conforto nei giorni bui che verranno.

Adesso che le mura di questa prigione dorata mi circondano, sento più forte che mai la nostalgia per la libertà che mi hai fatto conoscere. Ti porterò nel mio cuore per sempre. Addio, mio amato cavaliere. Possa Dio concederti un felice ritorno nella tua terra. Shanaz

Nell’alzare lo sguardo Orlando si accorse che Argante se n’era andato. Volle leggere ancora una volta la lettera, prima di lasciarla cadere nel braciere. La osservò mentre si accartocciava e bruciava, consumandosi rapidamente come la ione, una vampa accecante di cui restava solo cenere. D’altronde, l’intera sua vita era dominata dalle ioni, talvolta violente e indomabili. Era apionato nell’odio come nell’amore, nella collera e nell’amicizia. Combatteva con ione per difendere la fede e per amore del re, che poneva al di sopra di ogni cosa. Erano ione l’ardore e l’orgoglio, le sfuriate del suo carattere impetuoso, la ribellione e la scontrosità. Bruciava dentro di lui la ione del Drago, la cui furia devastante lo rendeva invincibile. Ma tutta quella ione dirompente lo consumava come quella lettera gettata nel braciere e, forse presto, anche di lui non sarebbe rimasta che cenere. In lontananza, verso levante, un bagliore incerto come un fuoco fatuo rischiarava la notte. Poteva trarre in inganno e sembrare l’annuncio dell’alba, ma in realtà era l’accampamento dell’ultimo contingente partito quel mattino, che marciando rapidamente aveva raggiunto i contrafforti delle montagne. Scrutò quel chiarore e poi la città ammantata di ombre, sulle cui mura brillavano minuscole luci. Ormai l’avanguardia dell’armata aveva acquisito sufficiente vantaggio ed era venuto il momento di partire. Un’ulteriore attesa li avrebbe esposti al rischio di un attacco dei mori, che alcuni osservatori dicevano essere in fermento. Pure lui aveva avuto la sensazione che nella città si stesse preparando qualcosa. Da giorni rullavano i tamburi e si udivano grida. Il richiamo alla preghiera dai minareti si era fatto più frequente. Un segno che non bisognava sottovalutare.

Ce n’era più che abbastanza per sentirsi inquieti e affrettare la partenza.

Alla luce incerta dell’alba Orlando fu avvertito che tutto era pronto e che si attendevano i suoi ordini. Si sottopose alla vestizione oppresso da cupi presentimenti da cui, nonostante gli sforzi, non riusciva a liberarsi. Poi si allacciò la spada al fianco e uscì, ordinando agli scudieri di levare la tenda e caricarla a bordo di un carro insieme ai suoi bagagli. I carri erano già in fila, i cavalieri in sella e i fanti ordinatamente schierati. Orlando aspettò che anche gli ultimi ritardatari arrivassero, poi fece un cenno a Gualtiero dell’Ulmo, che subito gli si avvicinò. «Comanda, Orlando.» «Scegli una cinquantina di cavalieri e precedici verso i valichi. Accertatevi che nessuno si prepari a tenderci un agguato e aspettateci. Segnalate con gli specchi qualsiasi movimento che sembri sospetto. Conto su di voi per la nostra sicurezza.» «Niente ci sfuggirà», gli assicurò Gualtiero con un sorriso, poi girò il cavallo e si allontanò al piccolo galoppo. Seguito da Olivieri e Berengario, Orlando ò in rassegna la colonna per accertarsi che fosse tutto in ordine. Poi, finalmente, diede il segnale di partenza. L’avanguardia al comando di Gualtiero si era da poco allontanata, e mentre si mettevano in marcia Orlando la seguì con lo sguardo finché non scomparve. Quando la colonna si avviò, nel cielo vagavano banchi di nuvole basse che disegnavano mutevoli ombre sulla pianura. Le ruote dei carri affondavano nel fango. L’Ebro, gonfio per la pioggia, mugghiava. Ma un altro suono si levò a contrastarlo, più possente e lugubre: tamburi! Un rombo che si diffuse nell’aria come un’incombente minaccia. Orlando arrestò il cavallo e si volse in direzione della città da cui proveniva l’allarme e comprese

che da quelle porte presto sarebbero usciti guerrieri a migliaia. Che vengano, pensò senza paura. Impareranno cosa significa misurarsi coi paladini di Francia! Spronò quindi Veillantif per portarsi in testa alla colonna, incitando i soldati e i conducenti dei carri ad aumentare l’andatura. Ordinò ai cavalieri di coprire i fianchi e invitò i paladini a tenersi pronti. Agli scariti, infine, ordinò di serrare i ranghi e di coprire il convoglio in modo da non lasciare varchi al nemico, qualora li avesse raggiunti. Tutti obbedirono senza indugio, ma Orlando prese a galoppare avanti e indietro per esortarli ad affrettarsi, ritenendo che ci fosse poco tempo per raggiungere le pendici delle montagne. Col procedere della marcia il cupo tambureggiare si smorzò; ormai la città era lontana. Orlando scrutò i picchi montuosi con speranza e trepidazione. Sebbene ancora non ci fosse traccia di inseguitori e la pianura dietro di loro apparisse deserta, di nuovo incitò i suoi ad affrettarsi. Se fossero stati sorpresi in quello spazio aperto e coi carri da difendere avrebbero avuto poche speranze di respingerli. Nei giorni seguenti Orlando obbligò tutti a un ritmo sostenuto, concedendo solo poche ore per riposare di notte e senza mai perdere di vista la pianura dove da un momento all’altro si sarebbe potuta concretizzare la minaccia dei mori. Di Gualtiero non c’erano notizie, ma confidava che l’avrebbe incontrato più avanti, all’imboccatura del valico che avrebbero affrontato l’indomani. Per lui non ci fu riposo neppure quella notte, l’ultima se fosse piaciuto a Dio, che avrebbero ato sul suolo di Spagna. La mole delle montagne nascondeva in parte il cielo punteggiato di stelle. Spirava una brezza leggera che recava fragranze intense e selvagge, mitigando la calura del giorno e asciugando il sudore dai corpi affaticati. I fuochi ardevano e qualcuno strappava malinconici accordi dall’arpa, sognando la propria casa e la famiglia. Da una balza rocciosa Orlando scandagliava con lo sguardo la grande vallata che avevano attraversato, ripensando agli anni trascorsi in quella terra travagliata e

oppressa che stavano per lasciare. Una vena di malinconia s’insinuò nel suo cuore al ricordo delle imprese gloriose che avevano compiuto, le battaglie e le conquiste. Vittorie che avevano alimentato il fuoco della speranza e che ora, nel momento dell’abbandono, svanivano come polvere dispersa dal vento. Malgrado le valide ragioni che avevano determinato il ritiro, Orlando sentì che non sarebbero mai stati perdonati per aver abbandonato la Spagna al proprio destino. Sospirò, carezzando l’elsa di Durendal per trarne conforto e la forza di affrontare il domani e ciò che avrebbe portato. Con un sussulto di nostalgia si chiese se avrebbe mai rivisto la verde e dolce terra di Francia.

37

Giungendo al valico di Roncisvalle, quella mattina d’agosto, Orlando ebbe la sorpresa di trovarlo deserto. Si era spinto lassù per primo con la speranza di incontrare Gualtiero o uno dei suoi cavalieri e avere notizie, ma restò deluso. Preoccupato, prese a interrogarsi sulla loro sorte, non meno che sulla strana e forse inquietante assenza di viandanti e pellegrini. Assillato da dubbi e sospetti attese l’arrivo degli altri per consultarsi. La colonna stava affrontando lentamente la salita, ma alcuni paladini la precedevano e fra poco l’avrebbero raggiunto. Si rese conto allora del silenzio innaturale che regnava sul o e divenne ancora più inquieto. Anche Veillantif dava segni di nervosismo e raspava il terreno con gli zoccoli, appiattendo le orecchie e sbuffando. Orlando lo calmò con qualche carezza, continuando a guardarsi intorno, mentre la spiegazione del silenzio e della solitudine del luogo assumeva ancor più sinistri significati. D’improvviso colse un movimento sull’altura a lato della gola e facendo girare il cavallo estrasse la spada, pronto ad affrontare il nemico. Ma era Gualtiero, che dall’alto del poggio gli faceva segnali, e a giudicare da com’era malconcio doveva aver fatto brutti incontri. Afferrato dall’apprensione spinse il cavallo verso di lui, ma l’altro gli segnalò di non proseguire e prese a scendere più in fretta che poteva. Quando finalmente lo raggiunse quasi crollò per la fatica. Orlando smontò e lo sostenne, avvedendosi che era ferito e sanguinante. «Cos’è successo?» chiese sgomento. «I baschi…» ansimò Gualtiero. «Hanno bloccato il o e ci hanno teso un agguato. Saranno almeno settemila, forse più, e vi attendono al varco.» Represse un singulto e continuò. «È stata una carneficina! Soltanto io sono sopravvissuto e mi sono trascinato fin qui per avvertirti.»

Orlando era sconvolto, ma non lo diede a vedere. «Gliela faremo pagare, non temere», gli assicurò. «Ciò che mi chiedo è perché si sono rivoltati contro di noi.» Il concretizzarsi dei sospetti e dei presentimenti lo inquietò. «Forse lo dovresti chiedere a Gano. Non era lui incaricato di assicurarsi che non disturbassero il nostro transito?» Non replicò all’insinuazione, ma non era alieno dal sospettare che proprio suo zio fosse responsabile del voltafaccia. «Resta qui», ordinò a Gualtiero. «Vado a vedere a che punto è il convoglio.» Rimontò in sella e si allontanò al galoppo, raggiungendo l’inizio della salita proprio nel momento in cui arrivavano i paladini e un primo distaccamento di cavalieri. Il volto di Orlando era un libro aperto sul quale i paladini lessero la loro condanna. «Abbiamo qualche problema», annunciò guardandoli uno a uno negli occhi. «Il o è bloccato dai baschi che hanno annientato gli esploratori. Gualtiero si è salvato a stento ed è corso a dircelo. Almeno in settemila ci aspettano lassù, e temo che non avremo altra scelta che batterci.» «Combattere?» esclamò il siniscalco allarmato. «E cosa ne facciamo dei carri che stanno salendo?» «Devono fermarsi. Se arriveranno fin qui ci saranno d’intralcio e non potremo manovrare», rispose Orlando. Engelieri alzò lo sguardo verso i picchi da cui spuntavano le avanguardie basche. «Eccoli che arrivano», annunciò. Ebbero appena il tempo di avvistarli che subito Olivieri attirò l’attenzione sulla pianura con un grido d’allarme. «I mori, laggiù! Guardate quanti sono!» Turpino sorrise. «Avevi ragione, Orlando: dovremo combattere. E dovremo anche morire, temo.» La pianura brulicava di guerrieri e le loro schiere più avanzate stavano già

affrontando l’erta che portava al valico. Orlando segnalò ai cavalieri di raggiungere il pianoro e lasciò ai fanti il compito di affrontare il primo urto col nemico. Poi comandò di rovesciare i carri lungo il declivio, in modo da smorzarne almeno in parte l’avanzata. L’ordine venne eseguito e i primi guerrieri mori furono investiti dalle masserizie, che rotolarono col fragore di una valanga, smovendo sassi e svellendo alberi, travolgendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Le schiere dei mori, travolte dall’insolita frana, si scomposero, mentre molti cadevano urlando nei precipizi. L’espediente rallentò l’avanzata dei nemici, lasciando a Orlando sufficiente tempo di organizzare le sue esigue truppe. Le schierò su due fronti, uno a contrastare i baschi che scendevano, l’altro a fronteggiare i mori che salivano. «Tremila contro forze soverchianti e per di più presi nel mezzo», commentò Engelieri. «Mi sfiora il sospetto che sia un piano preordinato.» «È ben più che un sospetto», ripose Berengario. «Vorrei tanto avere fra le mani il responsabile di questa imboscata!» «Lo vorrei anch’io, ma temo che toccherà ad altri infliggergli il giusto castigo.» Orlando chiamò a sé i paladini più giovani e li esortò a restare al suo fianco. «Sono tanti, ma non è la prima volta che dobbiamo affrontare forze che ci sono superiori di numero. Loro ci temono. Sfruttiamo questa debolezza e vinceremo!» «Che vengano!» esclamò Sansone. «Vedranno di cosa siamo capaci!» «Cadranno come mosche, quelle canaglie!» fece eco Gerardo. Orlando sorrise ammirandone l’indomito coraggio. «Combattete da prodi quali siete», disse sguainando la spada e baciando l’elsa nel punto in cui formava la croce. «Che Iddio ci dia forza e coraggio.» Sopraggiunse Olivieri al galoppo. «Arrivano, e sono così tanti che il bagliore dei loro usberghi è accecante!» Anche Orlando li vide: una selva di lance e di scudi, una marea di guerrieri che

faceva rimbombare di tuono la montagna. «Hanno il sole negli occhi», osservò. «Questo ci favorirà.» «Sì, ma per quanto?» «Abbastanza da ucciderne in gran numero», replicò fiero. Olivieri scrutò il valico brulicante di baschi. Anche da lì proveniva un frastuono spaventoso. «Carlo non è ancora così distante da non poterci udire se chiederemo aiuto. So come la pensi, ma… suona l’Olifante.» Come se non l’avesse sentito Orlando si mise a urlare ordini. Avvenne uno scambio di sguardi tesi fra i paladini, che ben conoscevano la sua ostinazione nel rifiutarsi di suonare il corno per chiedere soccorso, ma in quelle circostanze non sarebbe stato un disonore segnalare al re che si trovavano in pericolo. «Sì, suonalo. Metti da parte il tuo maledetto orgoglio e soffia in quel corno, Orlando!» lo esortò Engelieri. Orlando reagì com’era da lui, con sdegno sprezzante. «Che io sia dannato se lo farò. Meglio morire che invocare aiuto!» «Tu non ragioni!» proruppe Olivieri. «Non ne verrà sminuito il tuo onore di cavaliere, né alcuno ti muoverà rimprovero per aver fatto la cosa più logica. Se suonerai, il re ci raggiungerà in tempo per salvarci. Vuoi dunque morire e non vedere più la nostra terra? Là c’è Alda che ti aspetta!» «Non la nominare neppure!» lo aggredì Orlando avvampando di collera. «Non voglio pensare a lei né alla Francia. Un guerriero deve avere la mente sgombra se vuole battersi con ardore e coraggio. Non insistere, dunque, poiché non suonerò l’Olifante. Almeno non ancora.» «Quando lo farai sarà troppo tardi e saremo tutti morti!» gridò Berengario spazientito. «È inutile», sospirò Olivieri. «Non ci sta neppure a sentire.» «Cerca di convincerlo, tu che sei suo amico fraterno. È la nostra unica

speranza», lo incitò il paladino prima di allontanarsi per andare a prendere posizione. Intanto Turpino impartiva la benedizione ai cavalieri inginocchiati, ormai accerchiati dal nemico che avanzava senza troppa fretta, sicuro che non avessero scampo. L’eco del furioso scontro sull’erta si stava smorzando. I fanti, travolti, non opponevano ormai che una debole resistenza. I paladini votati al sacrificio si inginocchiarono per ricevere la benedizione. Sul volto di ciascuno c’era l’espressione serena di chi si sente in grazia di Dio ed è pronto a compiere il proprio dovere fino in fondo. Orlando fu il primo ad alzarsi e a montare in sella. La fusciacca color cremisi con l’effigie del drago degli Anglante gli attraversava la spalla e il petto. Non c’era stata battaglia in cui non l’avesse indossata e ogni volta gli aveva portato fortuna. Un amaro sorriso gli aleggiò sulle labbra mentre guardava le proprie esigue schiere che si apprestavano a dare battaglia e fu certo che stavolta, da soli, il valore e la fortuna non sarebbero bastati a salvarlo. Sfiorò l’Olifante che gli pendeva al fianco. La tentazione di suonarlo e richiamare indietro Carlo e le sue truppe era forte, ma il suo orgoglio prevalse e scacciò risoluto il pensiero. Ebbe appena il tempo di pronunciare un breve discorso d’incoraggiamento prima che le avanguardie nemiche convergessero su di loro, da entrambi i lati del pianoro. Poi l’orda urlante caricò impetuosa. La battaglia cominciò, furiosa e selvaggia, e già i primi caduti degli opposti schieramenti giacevano sul terreno. Lo spaventoso fragore percosse i fianchi delle montagne, echeggiando nelle valli oscure e negli anfratti simile al boato di una valanga. I franchi ne uccidevano a centinaia, ma altri ne giungevano a sostituire i morti, mentre le file di re Carlo si assottigliavano, sgretolandosi un poco alla volta sotto le ribollenti ondate di baschi e mori. Una battaglia impari come non si era mai vista infuriava al valico e i paladini compivano prodigi di ardimento e coraggio, avvalorando l’alone leggendario che li circondava.

Sfidavano la morte a ogni scontro, lanciando il grido di guerra che era diventato famoso e che da solo faceva tremare i nemici: Monjoie. Salde le braccia e forti i cuori, vedevano cadere intorno a loro i compagni d’arme, i fratelli, e sentivano avvicinarsi il momento della loro stessa morte, ma erano pronti ad accoglierla con gioia, non in dispregio della vita ma come dono supremo fatto a Dio e al re, a cui si erano votati anima e corpo. Aquilante fu tra i primi a cadere. Una freccia gli traò la gola mentre combatteva nella mischia. Rovinò a terra trascinando con sé il cavallo e subito si riversarono su di lui a frotte. Impotente, Orlando lo vide scomparire nella massa di corpi. Caddero anche Almerigi e Adalbigi, travolti dalla carica dirompente, e Gontrano, che sebbene mortalmente ferito seguitò a battersi fino a stramazzare. Affondò pure lui nel mucchio e finì calpestato dall’orda. Il Drago ruggiva nel cuore di Orlando, che con Durendal in pugno falciava i nemici e li costringeva ad arretrare. Di tutti i paladini era il più temuto e di fronte a lui anche i cuori più intrepidi tremavano. Tra i mori c’erano dodici guerrieri, emuli dei paladini, che vantavano prodezze di gran lunga superiori e che avevano giurato di sconfiggerli. La gran parte ambiva a uccidere Orlando, il campione imbattuto dei franchi, per ricavarne gloria e onori, per affermare la propria supremazia. Con atti di incredibile ferocia i più temerari si aprirono la strada nella mischia per raggiungere Orlando, gridando invettive e sfidandolo ad affrontarli. Nonostante il frastuono il paladino li sentì e si fece avanti menando mortali fendenti. Era assetato di sangue e traboccante di furia. Aelroth fu il primo a cadere sotto i colpi di Durendal. Ne ebbe il corpo squarciato e il capo mozzato con tanta rapidità che quasi non si accorse di morire. Poi toccò a Falsarone, le cui vanterie si spensero in un rantolo. Il terzo venne falciato da Olivieri e il quarto, Turgis di Tortelosa, da Gerieri con un colpo da manuale. Non gli fu da meno Gerino, che piazzò un fendente letale guadagnandosi le lodi di Orlando. Venne avanti Ansegi pieno di ardimento e squassò Corsalbigi infilzandolo fino all’elsa, poi estratta la lama dalle ferita sanguinante gli troncò il capo di netto. Malprimigi incontrò la morte per mano di Turpino, infuriato dalle bestemmie e dagli insulti da lui vomitati. Quando cadde andò a strappargli la mezzaluna d’oro

dall’elmo per calpestarla. A quella vista si fece avanti tronfio Aliseth, autore di inaudite efferatezza. Voleva vendicare il compagno, ma lo intercettò Gerino, che si avventò su di lui schiantandogli sul capo la scure. «Che la tua anima bruci all’inferno, maledetto!» gridò levando l’arma e volgendosi a cercare altri nemici da abbattere. Ormai il pianoro rigurgitava di cadaveri. I franchi li scaraventavano nel dirupo per sgomberare il campo e la battaglia continuava a infuriare. Orlando si spostava da un capo all’altro del fronte, instancabile nell’incitare i suoi. Bastavano la sua presenza e il sibilo di Durendal per gettare nel panico i mori. Ma le file dei franchi si assottigliavano a ogni nuovo assalto. Malgrado le prodezze e l’indomito coraggio la fine si avvicinava. Dopo aver assistito alla fine dei compagni, i pari mori non erano più così impazienti di battersi. Lasciavano che altri si fero avanti, preferendo aspettare da una posizione sicura che le forze soverchianti li indebolissero prima di affrontarli. Monjoie era il grido che risuonava nel fragore e nell’incessante vorticare delle armi, propagandosi nell’aria e rotolando lungo i fianchi dirupati dei monti, assordante e terribile. Arrivò il momento in cui, nonostante gli sforzi per tenersi fuori dalla mischia, i quattro mori non poterono evitare di scontrarsi coi paladini, a meno di non voler essere giudicati dei vigliacchi. Estorgante incontrò la morte per mano di Ottone, che lo tirò giù dalla sella con un fendente trasversale. Escremiz fu abbattuto da Engelieri, che gli fracassò la testa con la mazza ferrata. Margarigi, che aveva giurato di abbattere e calpestare Orlando sotto gli zoccoli del cavallo, venne fatto a pezzi da Berengario. L’ultimo, ormai atterrito al punto da reggersi a malapena in sella, si salvò lasciandosi trascinare nel riflusso degli schieramenti fino alle retrovie. Da lì, sentendosi al sicuro, prese a maledire la sfortuna. Ma non si impegnò per tornare in prima linea.

Nell’infuriare della battaglia Orlando venne raggiunto da Gualtiero, imbrattato di sangue e polvere, stravolto dalla fatica.

«Si sta mettendo male per noi, lassù», lo avvertì contrito. «Non so ancora per quanto potremo resistere.» «Resistete più che potete. La fine si avvicina anche per noi, ma non sia mai che si soccomba senza aver compiuto il nostro dovere fino in fondo.» L’altro scosse il capo avvilito. «Siamo troppo pochi, Orlando. Tu ci chiedi l’impossibile.» Il paladino lo guardò truce. «Noi lo stiamo facendo e mi aspetto che voi facciate altrettanto.» Senza aggiungere altro Gualtiero si allontanò. Orlando lo seguì con lo sguardo finché scomparve oltre il poggio, poi tornò a concentrarsi sullo scontro, adesso ancora più aspro e mortale. Non ò molto tempo prima che dal poggio giungessero le grida dei baschi vittoriosi e ormai padroni del campo. Grida che pure i mori udirono e da cui trassero nuove energie per caricare i franchi, per incalzarli con rinnovato impeto e sfondare lo schieramento in più punti. Le sentì anche il vile rifugiato nelle retrovie, che ritrovato un barlume di ardimento si mise a chiamare Orlando a gran voce, minacciandolo di orribile morte, sfidandolo a raggiungerlo e a confrontarsi con lui, se ne aveva il coraggio. Gli rispose un ringhio che divenne un possente ruggito. Orlando fendette la calca come un macigno, spezzando arti e frantumando crani per aprirsi un varco verso di lui, lasciandosi dietro una scia di cadaveri e di sangue, mentre la marea della collera saliva inarrestabile e dilagava con la potenza distruttiva di un uragano. Il vile se lo trovò davanti in un baleno e il grido gli morì in gola. Ogni via di fuga gli era preclusa e non ebbe altra scelta che affrontare quella furia circondata da un alone di morte. Lo sfidò di nuovo, ostentando sicurezza mentre dentro di sé tremava.

«Fatti avanti, se hai coraggio! Sono il prode Alzared, signore di Montenigro, e berrò il tuo sangue!» La risata di scherno che fece eco alle sue parole lo raggelò. Orlando spronò il cavallo come se intendesse travolgerlo, ma all’ultimo momento lo arrestò bruscamente facendolo impennare e lo girò, prendendo a trottargli intorno con un ghigno beffardo e una mortale collera negli occhi. «Tu sei un morto che cammina, Alzared!» tuonò. Intorno a lui l’aria ribolliva, densa e irrespirabile. L’altro trovò la forza di replicare. «Invece di giostrare, perché non ti misuri con me? Io ho ucciso i tuoi compagni. Guarda, la riconosci questa?» Sventolò la sciarpa appartenuta a Gontrano, mulinando la scimitarra con espressione minacciosa. «E adesso ucciderò anche te!» Tentò un affondo, che Orlando evitò facendo scartare il cavallo. Poi gli fu addosso in un turbinare di polvere e con fragore di tuono. Alzared ebbe appena il tempo di scorgere il sinistro luccichio di Durendal, prima che si abbattesse su di lui con un sibilo letale. Il fendente lo tranciò in due, affondando fin nella sella e nella groppa del destriero. Stramazzarono entrambi e Orlando, un istante prima che il moro toccasse il suolo, gli mozzò il capo con un colpo da maestro, facendolo schizzare come un proiettile nella mischia. Un guerriero, trafitto dalla punta acuminata dell’elmo, fu abbattuto. La morte di Alzared destò stupore e sconcerto nelle schiere dei mori, che nell’arco di poco tempo avevano assistito all’inesorabile caduta del fiore della loro cavalleria. La delusione serpeggiò nelle file, amara e incontenibile. Afferrati dal timore della sconfitta malgrado la superiorità numerica esitarono, concedendo qualche momento di tregua. Nelle retrovie si manifestarono disordini e la confusione aumentò il clima d’incertezza. Durante quei fatali istanti Orlando tornò fra i suoi e li esortò ad attaccare, a respingere il nemico intimorito. Sembrò possibile che accadesse il miracolo. Parve davvero che le ormai esigue schiere franche riuscissero a far indietreggiare le scompaginate truppe moresche, quando dall’alto del poggio i baschi cominciarono a scendere. Non c’era nessuno che li potesse trattenere. Anche Gualtiero era caduto e giaceva nella massa confusa dei cadaveri.

L’illusione non durò che un istante e la crudele realtà prese il sopravvento. I franchi erano rimasti in trecento e i nemici, malgrado le ingenti perdite, erano ancora migliaia. Orlando scrutò in entrambe le direzioni, come a volersi rendere conto dell’effettiva consistenza del nemico che dovevano affrontare. Olivieri, coperto di sangue e polvere come lui, gli venne accanto. «Che giornata afosa!» osservò nel tergere il viso. «Temo che fra poco farà ancora più caldo», rispose Orlando, additando la torma di nemici che dopo l’iniziale arretramento stavano di nuovo affrontando la salita. Furono raggiunti dagli altri paladini. Erano tutti incolumi, finora, ma nonostante la calura avvertivano l’alito gelido della morte serrarli in una morsa sempre più stretta. D’un tratto, come un sinistro presagio, il silenzio venne infranto dal cupo risuonare dei tamburi e dal clangore degli scudi percossi dai mori. Un frastuono spaventoso. L’eco tonante di un avvertimento di morte.

38

Il lugubre e ferale suono raggiunse Argante, che per il terrore si turò le orecchie. Non gli bastò, perché il fragore era tale da far vibrare il suolo e l’aria. Tremando si rannicchiò ancora di più, disperato per la tragica sorte che sarebbe toccata a lui e a tutti i suoi compagni. Maledisse il destino e pregò per le anime di coloro che erano morti e per quelli che presto li avrebbero seguiti. Chiese a Dio di infondere forza e coraggio ai paladini, implorandolo quando fosse giunto il momento di concedere loro una morte rapida e pietosa. Di accoglierli, infine, come un padre benevolo avrebbe accolto i figli prediletti. Si segnò con mano tremante, mentre il frastuono gli rimbombava nel petto mescolandosi al martellare impazzito del cuore. Ormai erano così vicini che li avrebbe potuti sfiorare se si fosse sporto. Ma gli bastava sentirli per tremare fin nel profondo. Pulì alla meglio il viso insanguinato. Quando Orlando aveva dato ordine di far ribaltare i carri per ostacolare l’avanzata nemica, era sgusciato fuori da quello su cui viaggiava. Ma era caduto malamente e rotolato lungo il declivio fino a piombare in una fenditura, dove aveva perso i sensi urtando il capo contro una roccia sporgente. Era rimasto svenuto finché quel suono spaventoso l’aveva riportato alla realtà. Fece appello a tutto il proprio coraggio per issarsi e sporgere la testa, ma la vista dell’armata che saliva inesorabile lo agghiacciò. Subito si ritrasse con un gemito. Si acquattò, osando respirare appena, e aspettò che il tremendo fato si compisse. L’orda dei mori invase e sommerse il pianoro. Era ato mezzogiorno e la luce era abbacinante, il caldo torrido. L’aria era così arroventata che a ogni respiro pareva di ingoiare fuoco liquido. Gli attacchi si succedevano a ondate, senza concedere tregua, e il massacro

continuava. Il tanfo di morte era ammorbante. Nella caligine della calura le migliaia di corpi che si contorcevano negli spasimi dell’agonia apparivano come figure grottesche. I volti erano maschere di sangue coagulato con negli occhi un orrore senza fine. I superstiti che ancora combattevano sembravano già fantasmi sullo sfondo dell’aspro, tormentato paesaggio che li circondava. Orlando era stremato, ma non cedeva. Grondava sangue dei nemici abbattuti, fumigava per la furia con cui si batteva, affiancato dai pochi rimasti vivi. Il pugno di eroi difendeva la posizione senza nulla cedere al nemico. Lo stendardo degli Anglante si muoveva pigro nella brezza e il drago dorato sembrava vivo, pronto a spiccare il balzo. Un oceano di corpi trafitti e mutilati di uomini e cavalli si stendeva tutto intorno, così sterminato che a malapena l’occhio poteva coglierne la tragica vastità. Una visione terrificante, uno scenario di morte che testimoniava quanto feroce e selvaggio fosse stato il combattimento. Nella furia degli ultimi scontri erano caduti da prodi Ansegi e Gerieri, Gerino, Ivo e Ivorio, Berengario ed Engelieri, Sansone e Gerardo. Erano stati abbattuti da forze soverchianti, ma prima di morire ne avevano falciati a centinaia. Erano stati protagonisti di tali e tanti atti di valore da meritarsi di essere celebrati da bardi e poeti, da entrare nel novero dei più grandi eroi di tutti i tempi. Ora, trafitti ed esanimi, giacevano nel mucchio ai piedi del poggio dove il manipolo sempre più esiguo seguitava a combattere, a resistere nonostante la fatica appesantisse le loro membra, la vista fosse offuscata. Dei paladini non erano rimasti che Orlando, Olivieri e Ottone, che poco dopo cadde trafitto da una lancia. Appena fu atterrato gli si avventarono addosso a decine per finirlo. Turpino, quasi irriconoscibile imbrattato di sangue e sfigurato dallo sforzo com’era, mormorava preghiere per i caduti tra un fendente e l’altro. «È la fine», ansimò Olivieri premendo la mano sul fianco. Abbattendo due mori con un solo fendente Orlando gli fece un sorriso sghembo. «Lo so, fratello, ma non ci fu mai battaglia più gloriosa e bella.» Ne infilzò un altro mentre parlava e l’orda arretrò sgomenta, concedendo un insperato attimo di tregua agli stremati cavalieri. Era quasi un prodigio che malgrado l’esiguità del numero riuscissero a tenere in scacco le forze nemiche. Era frustrante per i mori non riuscire a sopraffarli.

D’un tratto Orlando infisse la spada nel terreno e prese l’Olifante per pulirlo. Lo guardarono sorpresi Olivieri e Turpino. «Che fai?» chiese il primo. «Non lo vedi? Lo pulisco per suonarlo», rispose tranquillo. «Adesso? A cosa può servire, ormai?» «Certo non a salvarci, ma Carlo lo sentirà e tornerà per vendicarci e raccogliere i nostri resti.» «Ben misero conforto!» sbottò Olivieri irritato. «Lo dovevi suonare prima, ma tu testardo non mi hai dato ascolto.» «Avevo giurato che mai me ne sarei servito per chiedere aiuto. Era una questione d’onore.» «Ecco dove ci ha portati il tuo onore!» replicò Olivieri indicando la carneficina. «Sei soddisfatto adesso che ci ha portati a morire tutti? Questo è il risultato della tua follia!» Orlando lo guardò mortificato, sapendo in fondo al cuore quanto giusto fosse il rimprovero. «Non essere in collera, fratello.» «Ne ho ben diritto, ammettilo! La tua vanità e il tuo smisurato orgoglio hanno provocato questo disastro.» «Smettetela, voi due», intervenne Turpino. «A che serve recriminare? Pure io penso che sia tardi per suonare l’Olifante, tuttavia credo che Orlando abbia ragione. Carlo lo sentirà e tornerà per vendicare la nostra morte e darci cristiana sepoltura. Suonalo, dunque. Affrettati!» Lo esortò, poi si voltò a indicare i mori. «Quelli sono in fermento e torneranno in forze. Se aspetti ancora non ci sarà più tempo.» Orlando portò il corno alla bocca e soffiò con tutto il fiato che aveva in corpo. Gli si gonfiarono le vene del collo al punto che parvero dover scoppiare e il viso gli si alterò per lo sforzo immane.

Il suono si propagò, lugubre e prolungato come lo straziante lamento di una fiera in agonia. Echeggiò fra gli aspri contrafforti rocciosi delle montagne e delle valli profonde, e chi lo udì ne fu raggelato e sconvolto tanto urgente e disperato era il richiamo. Nel sentirlo Argante si fece il segno della croce. Se Orlando suonava l’Olifante voleva dire che era davvero finita. Lo sentì anche re Carlo, che arrestò il cavallo per tendere l’orecchio. Il lamento si ripeté, evocando tutto lo strazio di una disperata invocazione d’aiuto. «È Orlando», disse Namo. «È allo stremo, sire. Che facciamo?» «Torniamo indietro!» rispose il sovrano facendo compiere una rapida giravolta al destriero e lanciandolo al galoppo. Invertito l’ordine di marcia la colonna di cavalieri lo seguì a grande velocità, mentre le prime ombre del crepuscolo scendevano a oscurare i monti e il cielo si tingeva di un cupo color sangue. Gano fu scosso da un brivido nell’udire il suono ferale. Pure lui non dubitò che Orlando si trovasse in estremo pericolo e l’impulso di correre in suo soccorso diventò insopprimibile. Balzò in piedi e a lunghe falcate raggiunse il cavallo. Suo figlio cercò di trattenerlo. «Dove vuoi andare?» chiese afferrandogli il braccio. «Ormai è troppo tardi per salvare Orlando. Il suo destino è segnato e non puoi modificarne il corso.» «Vado lo stesso», dichiarò Gano e lo spinse da parte. «E con te farò i conti dopo!» Baldovino tentò di trattenerlo ancora mentre balzava in sella. «Ho agito come avresti dovuto fare tu, se solo ne avessi avuto il coraggio!» Gano gli sferrò un calcio, strappandogli le briglie di mano e galoppando via. La terribile certezza che Orlando fosse in grave pericolo gli fece dimenticare ogni rancore. Orlando ripose l’Olifante e vacillò. I compagni gli si strinsero attorno. Non aveva più fiato, non aveva quasi più forze. Durendal, insanguinata fino all’elsa

preziosa, era diventata pesante. Con occhi stanchi guardò ricomporsi le schiere nemiche e sentì dilagare dentro di sé un amaro rimpianto. Quello sarebbe stato l’ultimo tramonto che contemplava. Con la mente affollata di ricordi e il cuore serrato dalla pena si preparò ad affrontare l’ultimo combattimento. «Coraggio, fratelli, facciamo vedere a costoro come sanno morire i paladini!» disse brandendo la spada a due mani. «Siamo con te, Orlando», rispose Olivieri, sempre più smorto per il troppo sangue perduto. «Monjoie!» gridò Turpino. «Monjoie!» gli fecero eco i pochi superstiti. Avanzarono incontro ai mori. Olivieri vacillava per la debolezza e Orlando lo sostenne. «Ancora uno sforzo, fratello. Uccidine più che puoi!» Attingendo alle sue ultime risorse falciò i mori che gli si pararono davanti, mentre Orlando fendeva la schiera con colpi mortali e ando lasciava dietro di sé un tappeto di cadaveri. Si accorse d’un tratto che Olivieri non era più al suo fianco e nel voltarsi per cercarlo vide che l’orda stava per sopraffarlo. Tornò sui propri i per soccorrerlo e falciò i nemici che lo incalzavano creando il vuoto intorno. «Non… ce… la… faccio… più…» rantolò Olivieri appoggiandosi alla spada. «Non cedere proprio adesso. Avanti, colpisci!» Allora l’eroico paladino ricominciò a colpire, mentre il sangue e la vita fluivano via dal suo corpo e una grande debolezza lo pervadeva. Orlando lo cinse col braccio tenendolo stretto, guidando la sua lama e aiutandolo a infliggere ancora morte. Ma infine cedette. Il suo volto era soffuso di mortale pallore e il suo sguardo già vitreo si posò sull’amico fraterno. «Lasciami», mormorò. «È davvero finita.» «No! Non andartene, Olivieri!»

«C’è una luce… Oh, se vedessi come risplende!» Si abbandonò nelle sue braccia e Orlando lo lasciò scivolare a terra, in mezzo ai morti. «La vedrò assai presto, fratello», rispose. Barcollò per il dolore della perdita e della ferita che gli era stata inferta alle spalle, ma fu solo questione di un attimo e si riprese, tornando a combattere con rinnovato impeto. D’improvviso sentì una voce che lo invocava e nel voltarsi vide Turpino accerchiato, quasi sommerso dall’orda nemica. Si batteva come un leone, ma raggiunto da un colpo di lancia barcollò. «Resisti, sto arrivando!» gli gridò facendosi largo a colpi di spada, calci e gomitate. Ma a nulla valsero i suoi titanici sforzi. Turpino cadde trafitto una seconda volta e la massa urlante lo sommerse, celandolo alla sua vista. «Sono qui, Turpino!» Il vescovo lo guardò e un sorriso aleggiò sulle sue labbra. «Ti benedico, Orlando. Ci rivedremo fra i santi in paradiso.» Poi venne inghiottito dal brulicare dei mori. «Nooo!» gridò Orlando avventandosi al colmo del furore. I nemici per un momento si fermarono dinanzi a quella furia, sgomenti e atterriti, guardandolo come se fosse un demone scaturito dall’inferno. Lui li fronteggiò con un ghigno ferino, la spada già levata per attaccarli, quando si udì un suono che sovrastò ogni altro. Echeggiante e possente si propagò nell’aria il suono dei corni del re. Un suono che Orlando non avrebbe mai creduto di poter sentire ancora. Il cuore gli si gonfiò di gioia e furore insieme e con un ruggito si avventò sui mori esterrefatti, che arretrarono sotto l’impeto del suo furibondo assalto. La sua inesauribile forza li colmava di terrore, ma ancora di più li atterriva l’imminente arrivo del re franco e dei suoi armati. Allora si ritirarono a precipizio, mentre Orlando li beffeggiava e li sfidava a tornare, ma quelli si ritrassero come pecore davanti al lupo e fuggirono. I baschi, allarmati, fecero altrettanto.

Non rimase che lui: unico superstite in mezzo a un oceano di cadaveri. Un grido d’esultanza gli uscì dal petto. «Abbiamo vinto! Nostra è la vittoria e nostro è il campo!» Ma a qual prezzo, pensò subito dopo lasciando vagare attorno lo sguardo inebetito. Il silenzio si era intanto sostituito al frastuono della battaglia. Calava la sera e presto il pietoso sipario della notte avrebbe nascosto l’orrido scenario di morte. Orlando si trascinò dove era caduto Turpino e scavando in mezzo ai corpi lo trasse fuori. Lo ricompose pietosamente sotto un olmo, poi andò a cercare Olivieri e tutti i compagni valorosi. Sebbene fosse esausto volle ricomporli amorosamente accanto al vescovo, pulendoli alla meglio dal sangue e dalla polvere. Poi pregò accanto a loro per un tempo che parve interminabile. Quando si riscosse andò a dissetarsi al ruscello. Stentò a riconoscere la propria immagine riflessa nell’acqua e a lungo restò a fissarla stordito, ubriaco di sangue e di morte. Sanguinava da almeno una mezza dozzina di ferite, ma quella mortale gli era stata inferta alla schiena e gli aveva perforato un polmone. Stava per morire, ma prima aveva ancora qualcosa da fare. Si rialzò e vacillando prese la spada, impugnandola a due mani. La levò e l’abbatté con violenza contro un masso per spezzarne la lama e impedire che cadesse in mano ai mori. Ma Durendal sprigionò scintille e resistette, frantumando la roccia in una miriade di schegge. Orlando ritentò, ma con lo stesso risultato. La spada rifiutava di spezzarsi. Disperato ed esausto, vi si appoggiò ansimando. Le forze lo stavano abbandonando rapidamente e la morte si avvicinava. Non gli restava che nasconderla insieme all’Olifante e sperare che nessuno la trovasse. Ma mentre si trascinava faticosamente verso i cespugli incespicando a ogni o, l’oscurità venne squarciata da una luce improvvisa, così abbagliante che dovette socchiudere gli occhi. In quel bagliore apparve un angelo, la cui bellezza ultraterrena gli toccò il cuore dolente. L’apparizione tese la mano senza proferire parola e Orlando, comprendendo ciò che voleva, gli porse la spada. L’angelo la prese e gli rivolse un dolcissimo sorriso. Non temere, Durendal non cadrà in mani empie. Io la custodirò fino al giorno in

cui giungerà qualcuno che sarà degno di brandirla. Sopraffatto dalla commozione Orlando chiuse gli occhi e quando li riaprì l’angelo e la luce erano svaniti, insieme alla spada. Adesso poteva morire. Si trascinò fino all’olmo sotto il quale aveva radunato le spoglie dei paladini e si stese accanto a Olivieri. A poco a poco lo pervase un grande senso di pace. Il dolore scomparve e una gradevole pesantezza si diffuse in tutto il suo corpo. Morire era come addormentarsi, pensò con un sorriso.

Con quel sorriso sereno lo trovò Argante. Orlando sembrava dormire e ogni traccia di sofferenza e fatica era scomparsa dal suo viso. Si inginocchiò al suo fianco e si protese ad accarezzargli la fronte, scostando il ciuffo di capelli sfuggito dal camaglio. Era così giovane e bello da spezzare il cuore. Pianse, poiché malgrado tutto si era affezionato a quel ragazzo ribelle e focoso, e si riscosse soltanto nel sentire il rumore degli zoccoli di un cavallo che giungeva al galoppo. Riconobbe il cavaliere: era Gano, che arrestò il cavallo e balzò a terra. Il suo sguardo sgomento si posò sui paladini, poi su Orlando. Gli sfuggì un grido strozzato e gli corse accanto, sopraffatto dal dolore. Lo tenne stretto, e tutta l’intensità dei sentimenti contrastanti che aveva provato per lui si sciolse in un pianto accorato. Alla fine, stremato, depose un bacio sulla fronte di Orlando, poggiò il capo al tronco rugoso dell’olmo e si addormentò. Argante vegliò fino all’alba in preghiera, quando sopraggiunsero il re coi suoi cavalieri e il silenzio venne infranto da nitriti, voci piene di sgomento e clangore di armi. Qualcuno pianse. Altri trattennero le lacrime, limitandosi ad aggirarsi in mezzo ai morti mormorando preghiere. Cercando i corpi di amici e parenti nella moltitudine dei cadaveri. Dopo l’iniziale sbigottimento di fronte all’immane disastro, Carlo smontò di sella e scrutò attorno alla ricerca dei paladini, ma soprattutto di Orlando. Pur dubitando che fosse vivo continuò ad aggrapparsi all’esile filo di speranza che alimentava nel proprio cuore, finché fu raggiunto da Wala, che con un cenno

della mano gli indicò l’olmo. «Sono là, sire», mormorò affranto. «Tutti?» chiese il re mentre si avviava. «Tutti, sire. Anche Orlando. E Gano è con loro.» Carlo affrettò il o. Dominare il dolore che lo straziava gli costò uno sforzo sovrumano. Ancora più straziante era la consapevolezza di non poter piangere la perdita di quel figlio tanto amato che non aveva mai potuto riconoscere. Gano si svegliò all’arrivo del re e abbassò gli occhi sotto lo sguardo gelido che gli fu rivolto. Adagiò dolcemente il corpo di Orlando che aveva tenuto fra le braccia tutta la notte e si alzò. In piedi, come impietrito, scrutò le facce cupe che lo circondavano in un silenzio greve. Nessuno gli rivolse la parola e allora fu lui a parlare. «Vi aspettavo», disse con voce spenta. «Sapevo che sareste arrivati.» Carlo neppure lo sentì. Tutta la sua attenzione era concentrata su Orlando, il cui viso esprimeva un senso di profonda beatitudine. Serrò i pugni e irrigidì le gambe per impedirsi di crollare in ginocchio e piangerlo come gli ordinava il suo affetto, e come in sogno sentì la voce di Namo interrogare Gano. «Dove sono i baschi? Perché non sei ferito?» «Non so dove siano», rispose Gano. «Sono arrivato troppo tardi. La battaglia era finita e io… non ho combattuto.» I cavalieri guardarono il re, da cui aspettavano un cenno o una parola, ma Carlo restò in silenzio, esitando a pronunciare l’inevitabile condanna. «Che sia arrestato», ordinò allora Wala. «Sarà giudicato per tradimento.» Finalmente il re si scosse dal torpore che lo paralizzava e posò lo sguardo sull’amico di una vita, colui che era stato primo fra i pari e sulla cui fedeltà non aveva mai nutrito dubbi, e sul quale ora gravava l’ombra del sospetto. «Hai qualcosa da dire a tua discolpa?» domandò.

«Non credevo di essere chiamato a discolparmi, sire», rispose. «Nemmeno io l’avrei creduto possibile, fino a oggi. Tuttavia è innegabile che esistano lati oscuri nel tuo comportamento sui quali si dovrà fare chiarezza.» «Mi rimetto al giudizio del re», dichiarò Gano. «Le accuse contro di te sono pesanti. Non vuoi difenderti?» Gano sorrise. «Non ne ho motivo: sono innocente.» «Sia come vuoi, dunque», sospirò Carlo. «Sarai giudicato per tradimento e collusione col nemico.» Rivolse un cenno ai cavalieri. «Portatelo via.»

Un’assemblea esacerbata, intimorita dal ribollente sdegno dell’armata, deliberò che l’impiccagione sarebbe stata una condanna troppo misericordiosa per il reato di cui Gano si era macchiato. Disonorevole, ma non sufficiente. «Occorre una morte che sia di monito e d’esempio», sentenziò Namo sull’onda dei sentimenti avversi dei presenti, che giudicavano Gano colpevole dell’eccidio di tremila franchi e dei paladini. «Il delitto di cui il marchese di Maganza si è macchiato è il più abominevole e indegno di un soldato. Ci vuole una morte commisurata alla gravità di un tale delitto.» E il re convalidò la sentenza di condanna a morte per squartamento.

Nota storica

Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve e Berta di Laon, nacque nel 742 a poche leghe da Maastricht, nel castello di Heristal, antica dimora di famiglia. Con un colpo di stato Pipino detronizzò l’ultimo re merovingio, ne prese la corona e divenne re dei franchi. Alla sua morte il regno fu diviso tra i figli Carlo e Carlomanno, per essere in seguito riunito da Carlo sotto un unico scettro alla morte del fratello. Da quel momento ebbe inizio l’espansione che avrebbe portato alla conquista del regno longobardo d’Italia e alla creazione di un impero europeo di oltre un milione di chilometri quadrati di superficie, denominato Sacro e Romano per esprimere la volontà di un’armonia universale fondata sull’equilibrio tra i valori dello spirito e la forza delle armi. Nasceva in questo contesto ideale la cavalleria moderna, che all’antica barbarie sostituiva principi di solidarietà umana, lealtà verso i propri stessi nemici, pietà per l’avversario sconfitto sul campo. Con i suoi paladini, così chiamati in quanto conti di palazzo o palatini, Carlo combatté in modo quasi incessante contro numerosi popoli. Preservò l’integrità territoriale dell’impero e la pace all’interno dei suoi confini.

La figura storica di Orlando d’Anglante viene sopravanzata e oscurata da quella leggendaria, in quanto il ritratto che di lui viene tracciato dall’unica fonte ufficiale e coeva appartiene a Eginardo, il biografo di Carlo Magno, forse troppo impegnato a magnificare le imprese del suo sovrano per dedicare maggiore attenzione a un personaggio che avrebbe potuto metterlo in ombra. Di Orlando, Eginardo dice semplicemente che era prefetto della Marca di Bretagna; che viveva a corte; partecipava alle imprese militari del re e che l’aveva seguito nella campagna di guerra contro i mori di Spagna, dove aveva trovato la morte a Roncisvalle, durante il ritiro dell’armata franca della cui retroguardia aveva assunto il comando. Poche stringate righe per descrivere un evento della cui portata si sarebbe parlato a lungo e che si sarebbe inciso a lettere

di fuoco nella memoria collettiva. Di ben altro spessore e importanza è invece il ritratto che ci viene tramandato da altre fonti anonime e assai più incerte, non coeve, in cui Orlando sarebbe stato il nipote di Carlo Magno, forse addirittura figlio naturale, prima cavaliere e poi paladino, combattente di grande valore, strenuo difensore della giustizia e della fede. Tale immagine ha ispirato i grandi poemi epici dell’Ariosto, del Boiardo, e ancora prima dell’anonimo autore dello splendido poema La Chanson de Roland, nel quale è descritta con insuperabile bravura la battaglia di Roncisvalle in cui incontrano la morte i paladini. L’epopea di Carlo Magno è precorritrice del medioevo e Orlando ne è il principale protagonista, nonché portatore di quei valori cavallereschi che nei secoli successivi renderanno famosi altri personaggi le cui figure, al pari della sua, si trovano sospese sui labili confini fra Storia e Mito, realtà e fantasia. Mancando molti elementi fondamentali per una ricostruzione fedele della vicenda di Orlando, mi sono avvalsa delle versioni romanzate scritte su di lui, pur tuttavia non meno valide, perché il personaggio agisce in un contesto epocale ben definito come quello carolingio e assume pertanto quei contorni chiari e realistici che lo storico ufficiale gli ha negato.

Nota dell’autrice

Il paladino è una storia di fantasia, pur basandosi su fatti storici veramente accaduti. In origine doveva essere un Fantasy e contenere tutti gli elementi caratteristici del genere, ma il progetto non ha incontrato l’approvazione dell’Editore ed è stato trasformato in romanzo storico. Una piccola premessa per spiegare che l’autonomia dell’Autore nella creazione delle proprie opere ha spesso dei limiti e che ignorare i suggerimenti dell’Editore può pregiudicare la pubblicazione. La mia immaginazione, però, non ha incontrato ostacoli nel descrivere l’eroe della vicenda. Orlando ha un carattere difficile e i sentimenti che si provano nei suoi riguardi possono essere estremi, come l’amore e l’odio, ma spesso non si comprende dove finisca l’uno e cominci l’altro. È un personaggio unico nel suo genere e nella lunga epopea cavalleresca, e sebbene il suo comportamento eroico desti ammirazione, non si può fare a meno di pensare che se fosse stato meno ostinato e orgoglioso, forse la battaglia di Roncisvalle avrebbe avuto un esito diverso. Ma queste sono soltanto speculazioni e Orlando non incarnerebbe il paladino per antonomasia se avesse ceduto anche solo per un momento alla propria determinazione. Nella vicenda di Orlando si mescolano valori fondamentali quali l’amicizia, la lealtà, il senso dell’onore e la dedizione alla causa del re e della fede, il coraggio, anche quello di difendere la propria posizione nonostante tutto e tutti, le grandi ioni che possono condurre alla rovina. In questo contesto si inseriscono l’ambizione, la gelosia, il desiderio di rivalsa e di vendetta per il tradimento di Gano, in uno scontro fatale che nessuno può arrestare, e nemmeno il potere del re è efficace. Il disegno del Fato si compirà e la rovina trascinerà con sé Orlando, Gano e i paladini tutti.

Desidero aggiungere che il romanzo, ora riproposto in versione digitale, presenta alcune varianti rispetto all’edizione precedente. Infatti, nella nuova stesura ho introdotto delle parti inedite, nuovi personaggi, un intreccio più coinvolgente e apionante, e un finale che lascia col fiato sospeso…

Ringraziamenti

Ringrazio Gian Paolo Gasperi, senza la cui preziosa collaborazione non avrei potuto realizzare il mio desiderio di riproporre questo romanzo, a cui va riconosciuto anche il merito d’aver creato la nuova e bellissima cover.

L’autrice

Nata ad Asti, dove risiede tuttora, Angela Pesce Fassio è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria. Coltiva altre ioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le consentono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale. Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.