Leonardo Bruni
IL PICCOLO CRISTO
ISBN 978-88-98517-01-5
Leonardo Bruni © 2007 Vietati i diritti di riproduzione, di memorizzazione elettronica, di traduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo compresi i microfilm e le copie fotostatiche, senza la preventiva autorizzazione dell'Autore.
Elaborazione Testo digitale Cristina Salvini Grafica Copertine Marco Badiani
Indice
1.
2.
3.
3a.
3b.
3c.
4.
4a.
4b.
4c.
4d.
4e.
5.
5a.
6.
7.
7a.
8.
8a.
9.
9a.
10.
11.
11a.
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14a.
15.
16.
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18a.
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Letteratura teologica e spirituale
Collana «Investigatori dell'animo umano»
Dello stesso Autore: •L'innocente e il colpevole •Il piccolo Cristo •Lo Speranzoso •Fiorirà l'Annunciazione? •Anime [Souls] •L'imperfetto •Pensieri forti d'un cristiano debole. Vol. I – Vol. II •Racconti cristiani. Vol. I – Vol. II – Vol. III •Una Messa con padre Pio •Un giorno con padre Pio •Via Casello 78 Via Verdi 3
Collana «Saggi sull'uomo»
•La doppia illusione: Sisifo e Prometeo
•La prima volta: dal sesso beato al sesso sporcato • Le prime parole di Dio all'uomo • Vita terrena di Cristo • Gesù Cristo il più grande paradosso della storia.
LEGENDA
Egli = il piccolo Cristo, ovvero il personaggio medesimo, di nome Eros. Tu = sempre il piccolo Cristo, ma espresso nella 2ª persona singolare. LUI = Gesù Cristo, ovvero per i credenti l’istesimo Dio, storicamente un falegname. L’Altro = il diavolo, satana, il maligno, l’avversario ovvero il serpente antico per i credenti. Per gli agnostici il Super-Io, l’accusatore di freudiana memoria. Lei = la moglie del piccolo Cristo, un piccolo fiore di nome Margherita. noi = la famiglia del piccolo Cristo, in teoria la comunità unita nell’amore. Laura = figlia del piccolo Cristo. Carla = altra figlia del medesimo. Paolo = figlio del piccolo Cristo. Pietro = altro figlio di Eros. Mai apparso a calpestare questa terra. Bellini = socio del piccolo Cristo in una filatura. Uomo appastato dallo spirito dell’Altro o spirito del mondo. Franco = marito contadino di Carla, figlia di Eros.
* * *
La presente opera è frutto di fantasia narrativa. Qualsiasi riferimento a persone, situazioni, fatti storici o istituzioni è da ritenersi del tutto casuale.
1.
Nella campagna toscana, in un piccolo paesino chiamato Agliana viveva un uomo timorato, anzi innamorato, di Dio. Il suo nome coincideva con quello dell’amore, infatti si chiamava Eros. Esercitava la professione di disegnatore tessile e aspirante industriale. Il suo aspetto era abbastanza insignificante, con un fisico senza pettorali, né addominali scolpiti tipo pancia di tartaruga. Alto e dinoccolato si ritrovava con una faccia incavata, che a causa del mento allungato prendeva un aspetto un po' cavallino. Però tutti questi difetti scomparivano dinanzi alla bellezza dei suoi occhi: vivi e splendenti, verdi come l’acqua marina, innamoravano al solo vederli. Era sempre stato credente e in ogni situazione della sua vita aveva aderito alla fede in Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le sue forze. Al punto che ogni sua giornata era scandita da questa sua relazione con il divino. Incontro che lui chiamava preghiera. Perciò appena alzato diceva le lodi mattutine, fosse felice o triste, gli girasse bene o male: non importava. Prendeva il breviario e pregava un quarto d’ora. Poi se ne usciva per lavorare. Alla sera quando tornava, nuovamente si rivolgeva all’Altissimo. Riprendeva il breviario e pregava i vespri, ringraziando Dio per la giornata appena trascorsa. Fosse stata questa foriera di successi e felicità, oppure cosparsa di grane e accidenti non significava niente. Tutto al cospetto di Dio si annullava; perché lui aveva questo di bello, che riusciva a mantenere un animo spiritualmente libero, non attaccato in modo disordinato a niente e a nessuno. Non si sedeva mai alla tavola senza farsi il segno di croce, e così moglie e figli erano cresciuti in questa atmosfera spirituale – al limite del mistico si potrebbe dire –, cosicché prima di mangiare sempre ringraziavano il Signore. Veramente più lui che gli altri membri della sua famiglia. Loro lo seguivano biascicando qualche parola, trascinati dal suo fervore, come si fanno trascinare i vagoni d’un treno da una locomotiva. Lo stesso faceva prima di dormire. Sempre diceva compieta l’ultima preghiera, che completa e chiude la giornata. Dopo si addormentava tranquillo e sereno, come un bambino in braccio a sua madre, ed
entrava nella pace di Morfeo dormendo il sonno del giusto. L’altra metà del cielo, quella dotata dell’articolazione femminile – mentre lui possedeva quella maschile – insomma, la persona che Dio nella sua infinita prescienza aveva scelto per lui, prima che egli medesimo lo sapesse, era un piccolo fiore. Infatti si chiamava Margherita. L’aveva incontrata parecchi anni prima in una pista da ballo, s’erano innamorati e dopo alterne vicissitudini l’aveva sposata. Dapprima il piccolo fiore trovava un po’ esagerate le manifestazioni di fede del consorte, ma poi anche lei aderì alla virtù di religione, diventando una tiepida credente. Una delle tante anime cristiane che professava la fede quasi a modo di scaramanzia superstiziosa, perché si sa credere è meglio di non credere; infatti la credenza in Dio ci protegge, altrimenti perché credere se non ci fosse un’adeguata ricompensa, una retribuzione per tutti i sacrifici che tale pratica comporta ? Dal loro amore, da quel regalo discendente dall’alto – non ci si innamora perché si decide che «ora» mi innamoro del primo che incontro per la strada - ne erano venuti fuori tre figli. Dall’unione della loro carne, dall’impasto del loro amore ne erano venuti fuori altre tre nuove carni, che un po’ riflettevano qualcosa di lui, e un po’ facevano vedere qualcosa di lei. Questo rappresentava, diciamo, la sua consolazione più grande, la promessa d’eternità che più gli dava energia per convincersi sempre più della bellezza della vita. Anzi, a voler investigare fino in fondo, ad illuminare le profondità recondite del suo animo egli si sentiva ed era ancora giovane, poco più che trentenne, energico e desideroso d’un quarto figlio. Ma questo non l’aveva ancora rivelato all’altra metà del cielo, in quanto s’era accorto che il piccolo fiore considerava tre come il numero perfetto. Aggettivo da intendersi nel senso di completo, di «stop». Nomen est omen e Eros significava amore di nome e di fatto. Quando diventava una sola cosa con la sua Margherita, ella per una nottata dimenticava tutte le asperità della loro opaca esistenza, perché si immergeva – smarrendosi – in quel mare d’occhi verdi. Il giorno, però, si comportava in modo opposto alla notte. Si lamentava delle loro condizioni economiche, del fatto che lui si contentasse di quel posto di tecnico tessile in quel piccolo lanificio senza speranza di una grande carriera, e gli metteva davanti quei due o tre esempi di ex compagni di scuola che erano già arrivati al successo, essendo diventati padroni d’una ditta. Le lagnanze di sua moglie da una parte gli davano amarezza, dall’altra riconosceva che non erano infondate. Infatti, solo a prima vista lo stipendio era dignitoso: un milione e quattrocentomila lire. Ma l’inflazione nel bel paese
andava veleggiando al 25% e la vita non rincarava da un anno ad un altro, ma da una settimana all’altra. Lui accendeva la TV sentiva il telegiornale mentre mangiava, e si domandava a chi avesse dato il proprio voto. Udiva, infatti, che l’indice ISTAT era cresciuto dello 0,8% rispetto al mese precedente; mentre Margherita sbottava dicendo che persino al mercato le scarpe costavano un buon 20% in più del mese prima e lo stesso i pantaloni. Non poteva mica – diceva – comprare quattro pantaloni e tagliarli a metà per spendere meno, al massimo – continuava – poteva risparmiare sul mangiare: cinque uova invece di dieci, un etto di prosciutto invece di due, frutta e verdura un po’ ata e lesso invece del filetto. Che poteva fare? Ma tutto si ricomponeva il giorno della resurrezione. La Domenica mattina Margherita puliva la casa alla perfezione, aiutata da sua madre che una volta la settimana veniva a trovarli. D’altronde con tre figli piccoli, due femmine – Laura e Carla – e l’ultimo nato, Paolo di soli due anni, il daffare non mancava. Sua suocera, ancora forte, spolverava con lo spray tutti i mobili, spazzava tutte le stanze con la granata e poi dava il cencio umido con lo spazzolone sui pavimenti. Lui vedeva quelle spalle larghe che dondolavano in su e in giù mentre puliva, come gli ebrei quando pregavano al muro del pianto. Sua moglie dava aria a tutti i lenzuoli e coperte, sistemava tutte le camere, ma soprattutto cucinava ed apparecchiava nella sala grande, tutta illuminata. Non appena lui tornava dalla Messa, poco dopo mezzogiorno, trovava tutto pronto: i pavimenti lustravano, nell’aria si espandeva l’odore del buon brodo di carne e la tavola era apparecchiata per il giorno di festa. Eros, umile com’era non si metteva a capotavola, ma si comportava come gli ebrei, perché – sosteneva – essi sono nella religione i nostri fratelli maggiori. Allora faceva mettere a capotavola la suocera, mentre lui sedeva accanto a sua moglie. Il bambino sedeva tra le due donne, mentre le figlie gli stavano davanti, dall’altra parte del tavolo. Tutto era pronto per l’inizio del pranzo, con la tovaglia rossa jacquard a disegno messicano che aveva comprata in viaggio di nozze, i bicchieri di cristallo e i piatti di ceramica fine di Jena. Lui si alzava, si schiariva la gola, e per imporre silenzio batteva lievemente tre colpi di coltello sul bordo del bicchiere di cristallo: quello era il suo momento di gloria settimanale. Alzava il viso, metteva le mani giunte e diceva la preghiera. Dapprima c’era un po’ d’indecisione, ma poi – mentre ava con lo sguardo sui presenti – tutti lo seguivano e pregavano, con voce sempre più convinta, il Padre Nostro. I suoi occhi acqua marina rilucevano più del solito e anche la sua pelle sembrava risplendere.
Poi si sedeva, con suocera, moglie e figli e incominciava a tirare nel piatto i tortellini in brodo. La prima porzione la dava sempre a sua suocera, poi a Margherita e ai figli. Lui si serviva per ultimo. Nessuno diceva una parola, si sentiva solo il trangugiare delle bocche, perché il brodo era bollente, e tutti erano felici. Perché quello era il giorno in cui non doveva trovare posto la tristezza. Tutto doveva splendere e gridare di gioia. E nei giorni d’inverno, quando si abbuiava per qualche temporale improvviso, o rannuvolava improvvisamente lui faceva accendere tutte le luci della sala. Non era, forse, quello il giorno in cui il Signore aveva vinto la morte e inaugurato una vita nuova? La pasqua settimanale andava pur festeggiata con solennità, per l’avvento di quella creazione rinnovata dove non avrebbero trovato più posto né lutto né affanno. Dall’ampia zuppiera il fumo del brodo caldo si spandeva tutto intorno e quel calore sembrava riempire non solo la stanza, ma anche i cuori. I figlioli ridevano felici quando arrivava il roast beef con le patatine arrosto, e le femmine facevano a gara a chi infilava con la forchetta più patate nel minor tempo. I genitori guardavano, ma non rimproveravano, anzi sorridevano. Il tempo ava pigro, lentamente, fino a che sua suocera esclamava: «Ah, sono le due ate, bisogna andare a rigovernare». Allora tutti si alzavano e ognuno faceva la sua parte. Dopo la suocera prendeva i bambini per giocarci insieme e portarli a fare una eggiata. Eros guardava la moglie con quegli occhi acquosi e sospirava: « Margy, andiamo a letto a fare un pisolino». «Subito» diceva lei. E andavano in camera, tacendo, senza dire altro. Perché le parole erano in più e Eros diceva solo in tono sommesso: «Margy, facciamo all’amore», e cominciavano a sbaciucchiarsi mentre si spogliavano. Così ava il giorno della festa.
1b. Sei disteso accanto a lei nel letto, ancora ansimante per l’amore vissuto. Scorri lievemente, con i polpastrelli delle dita, la mano sul suo corpo. Distesa sul dorso, sonnecchia appagata. Hai sempre addosso appiccicato il suo odore, l’umidore delle sue carni nascoste, in cui – penetrando – sei diventato un tutt’uno con lei. La guardi di profilo e i la mano sui seni turgidi. Si volta, pigra, e ti
abbraccia, aprendo mollemente la bocca per baciarti. Tu stai ancora accaldato, e anche lei è tutta un bollore. Nella camera il sole d’estate, come un braciere incandescente, ha riscaldato tutto: le tende, i mobili, le lenzuola; ogni cosa avvampa in quell’atmosfera surriscaldata, dove poco prima la ione dell’amore aveva fuso la tua possanza con i gemiti di lei. Mentre le guardi pulsare la giugulare del collo, pensi che l’amore che può riposare tra i due guanciali della fedeltà e dell’indissolubilità è una grande meraviglia. Realizzi che hai fatto l’azione umana che più ti avvicina al godimento divino, e ti fa rassomigliare a LUI, eterno godimento nell’amore. Lei si volta, puntando un gomito sul letto, e tenendosi su la guancia con la mano. I suoi seni ti toccano il petto. Puoi vedere l’aureolato, rosa scuro, dei suoi capezzoli. E pensi che hanno allattato e dato vita ai tuoi figli. Lei ti a l’altra mano, a mo' di rastrello, tra i capelli e dice che vuole dirti qualcosa. «Dimmi» rispondi. «No, niente. Mi è venuto in mente, come un bagliore, questo pensiero. Perché Eros, manchi così d’ambizione? In fondo hai moglie e tre figli, una famiglia numerosa da mantenere». «Ma noi non manchiamo di niente». «Sì, finora. Perché mio padre ci ha aiutati nel pagare il mutuo della casa. Altrimenti come ce la saremmo cavata?» «Va bene, ma non capisco il fine del discorso». Tergiversi, perché ti senti un po’ a disagio. « Ti ricordi il discorso che facesti l’altra sera sulla filatura dello Zipoli?». Certo che te lo ricordi, come faresti ad averlo dimenticato? Il Bellini, l’altro tecnico, che lavora insieme a te nel lanificio, ti aveva prospettato e proposto un salto di qualità. Il vecchio Zipoli vendeva la sua filatura cardata per un prezzo abbordabile: trenta milioni di lire. Si poteva rilevarla, mettendo insieme le vostre due liquidazioni. Sempre che la fabbrica dove lavorate sia disposta a darvi la lana da filare, come ha fatto finora.
«Non credere che simili occasioni capitino due volte nella vita» dice. «È sempre un bel rischio» ti azzardi a dire «sono sempre dieci operai da pagare». «Chi non risica non rosica, caro mio!» ribatte lei con aria decisa. Tamburelli con la mano sul suo fianco, e cominci ad accarezzarla, ma lei con un gesto veloce te la toglie. Si mette seduta sul letto, con le schiena curva, e le braccia che le stringono le ginocchia. Ti guarda, o meglio ti scruta con i suoi occhi indagatori. Ti senti come un pugile spinto nell’angolo, senza via d’uscita. Devi prendere una decisione. In fondo – pensi – la cosa non è male. Potreste dividervi i compiti. Il Bellini all’assortimento delle carde, ad oliare le lane e preparare le miste per i filatoi. Tu a seguire l’amministrazione, cercare il lavoro e consegnarlo ai clienti. Già ti vedi a riscuotere gli assegni per il filato prodotto, firmati dal cav. Pacini, il tuo ex padrone. «Certo» dici «ne parlerò domani al Bellini. Il momento è buono; a pensarci bene, ora o mai più». Lei, con un gridolino di gioia, salta giù dal letto; si veste in quattro e quattr’otto e dice che andrà a dirlo alla mamma, ritornata ora dalla girata con i bambini. Tu resti solo nel letto e nella luce del sole. Ma dentro qualcosa ti stride, ti mette a disagio. Ti sei trovato spiazzato dovendo scendere, dall’alto dei cieli amorosi, alla prosaicità della terra. C’è sempre la luce splendente del sole nella stanza. Ma le vostre membra non brillano più, non sono più trasfigurate dalla splendore dell’amore. Anche tu ti vesti. A che pro rimanere lì da solo? Pensi, però, che l’amore puro – trasparente e oblativo – dura poco. Qualcosa lo deve sempre inquinare, lo deve sempre opacizzare.
Tu desideri, vai sempre in cerca d’essere amato così a fondo perduto, per come sei. Ma gira e rigira quel modo, purissimo e senza sbavature, non lo trovi mai. 1c. LUI dice che tu pensi da uomo: in molte cose – continua – tu giudichi come ti persuade l’affetto umano. Non bisogna farsi convincere subito da ogni parola o istigazione. Gli uomini sapienti non abboccano subito ad ogni progetto, non precipitano nelle azioni, e non credono a tutto ciò che gli si dice. Quanto uno sarà semplice come una colomba e prudente come il serpente, tanto più diventerà saggio ed esperto delle cose del mondo. Caro Eros – ti dice – da molte cose hai da staccarti ancora, e non puoi godere del perfetto amore, se non con l’abnegazione di te stesso. Ti dice di riflettere su questa provata sentenza. LUI, con le sue spirituali ispirazioni velocemente com’è venuto, scompare. Tu resti lì con il tuo cuore indeciso, e pensi che il Signore è lontano lassù nei cieli, e il corpo caldo della Margy quaggiù sulla terra. Chiaramente LUI dice il contrario di tua moglie. Chiaramente LUI possiede un amore purissimo e spirituale esente da qualsiasi inquinamento di tornaconto soggettivo. Chiaramente pensi che in fondo LUI dice la verità. Ambiguamente, però, segui l’idea di tua moglie.
2.
Quando Eros tornò a casa trovò sua moglie ai fornelli. Guardandola notò in lei uno sguardo strano: un misto tra il corruccio e il pianto. Il lucore dei suoi occhi, infatti, gli dicevano che aveva pianto; come pure l’espressione corrucciata con cui l’aveva salutato. La sua mente ed il suo cuore era tutto rivolto a quel grande piano che illuminava l’orizzonte della sua vita: diventare industriale. Aveva comprato un anno prima la filatura dallo Zipoli e s’era messo in società col Bellini. Tutte le sere, appena varcata la soglia di casa, non pronunciava parola. ava direttamente in sala e pregava i vespri. Perché il suo animo religioso era sempre rivolto a conciliare le cose terrene con quelle celesti, a mettere insieme quelle visibili con quelle invisibili, in quanto il visibile poggiava sull’invisibile: questo diceva Eros. Ma quella sera accadde diversamente. Si rese conto che quella semplice devozione poteva aspettare, dopo aver scambiato un semplice sguardo con sua moglie. «Che c’è?» domandò. Lei, sospirando, con un gesto della mano gli indicò di andare in sala e disse, asciutta: «Sono incinta». «Ah» rispose lui pervaso da un impeto di intima gioia «come frecce in mano ad un eroe sono i figli della giovinezza, beato l’uomo che piena ne ha la faretra. Margy, non sei contenta che aspettiamo il quarto figlio? Chiaramente è un dono di Dio, non programmato. Benediciamo il Signore» «Lascia stare il Signore, piuttosto dimmi tu ne sai niente?» gli diceva questo scrutandolo con delle occhiate indagatrici. «In che senso io, che vuoi dire?». «Hai capito benissimo, nel senso che a volte mi avevi fatto intendere che volevi
altri figli, e io ti avevo detto che per me era partita chiusa. Tre erano più che sufficienti. Insomma, Eros mi hai messo incinta senza dirmelo?». Si ritrasse da lei, risentito: « Ma dico sei impazzita? Come potrei fare una cosa simile? Pensa piuttosto a pregare; affinché si stia bene e si possa vedere i figli dei nostri figli fino alla terza generazione». Siccome lei non faceva che piangere e si macerava dimagrendo di peso invece di aumentare, Eros – mosso a comione – accettò che sua suocera venisse a stare da loro. D’altronde viveva sola, essendo vedova già da tre anni. Eros, da buon giusto, pensò che potesse aiutare sua moglie sollevandola dal peso delle faccende di casa. Allora Margy sarebbe stata meglio. Le ore ano formando i giorni. I giorni sommandosi formano le settimane. Le settimane una dopo l’altra fanno i mesi. Dopo quattro mesi, una sera in cui stava pregando compieta prima d’andare a letto, sentì nel tinello sua moglie piangere sommessamente. Allora, aperta la porta di sala fece per recarsi nel cucinino dove si trovava Margherita: voleva andare a consolarla. Arrivato, però, alla porta del tinello udì distintamente la voce di sua suocera che diceva: «Sei una disgraziata. Se stai dietro a tuo marito, quel fissato della religione, diventerai peggio d’una coniglia. Quanti figli ti farà fare? Non lo sai come la pensano i preti? Però la fatica della gravidanza e i dolori del parto toccano a te. Sei una sciagurata, ecco cosa sei». Si ritrasse, adirato e inorridito dalla porta e ne se tornò in sala. Là, nel suo animo, come da una finestra spalancata, era entrata una rabbia bruciante, un’ira ardente. Come si permetteva? Non sapeva quella vecchia megera che il matrimonio nel Signore è un segno altissimo della somiglianza di Dio tra gli uomini ? E che di tutte le unioni umane quella del sacramento coniugale era la più alta, se no perché Cristo l’aveva innalzata alla dignità di sacramento? Cercava di distendersi per dire compieta, ma non ci riusciva. Ora si alzava, ora si rimetteva a sedere, riprendendo in mano il breviario. Ma troppo bruciante si levava alta la fiamma dell’odio che s’era accesa nel suo cuore. Essa bruciava rigogliosa e grandi fiamme rosso fuoco salivano con le loro lingue accese fin verso la sua gola. «Ah» sospirava Eros «maledetta arpia, ecco la ricompensa per averla ospitata in casa mia». Dopo un po’ di tempo riuscì a fare silenzio nel suo cuore e a comandare a quei pensieri malvagi. Si rimise a sedere sul divano e cominciò a pregare. Leggendo e
meditando la preghiera breve, rimase meravigliato da quel o biblico. LUI diceva che dovevamo togliere da noi ogni asprezza, ira, clamore o maldicenza. Bisognava – invece – essere benevoli gli uni verso gli altri, perdonandoci a vicenda, come noi eravamo stati perdonati da Cristo. Lentamente il fuoco dentro di lui si spense, ormai non erano rimasti che esili vapori di fumo, come ne escono dalle rovine d’una casa bruciata, appena spenta dai pompieri. In silenzio si recò a letto, e dopo aver baciato la Margherita s’addormentò nel sonno del giusto. ò un mese, Eros aveva cercato di dimenticare quel brutto episodio, mentre sua suocera aveva continuato a suonare il refrain delle sue lagnanze a Margherita. Ai suoi occhi Eros era uno che invece di rendere felice sua moglie la rovinava. Per questo gli rimproverava quella gravidanza, lamentandosi con sua figlia. Una sera, appena rientrato, trovò sua moglie ferma a letto e le domandò cosa fosse successo. Margherita preoccupata, gli rivelò che aveva visto delle perdite di sangue, che il ginecologo era andato via appena da mezz’ora e le aveva imposto di starsene ferma a letto. Correva il rischio di non portare avanti la gravidanza. Fissandola con apprensione la vide con l’occhio d’un estraneo: era ridotta pelle e ossa, con le guance tutte incavate e quel pancione sul petto scarno. Quella sera pregò il doppio e con più foga. Le ecografie fatte avevano rivelato che si trattava d’un maschio. Aveva Paolo ci sarebbe stato anche Pietro. Così avrebbe avuto in casa la coppia dei due più grandi apostoli: Pietro e Paolo. Il Signore vede e provvede, pregava. Lo ringraziava per la giornata appena trascorsa, per la notte che stava venendo e per le stelle che brillavano nel cielo; e prima d’andare a dormire pregò per la seconda volta intercedendo affinché quella gravidanza andasse a buon fine. Bisbigliava con le labbra chiedendo al Signore che quella creatura vedesse la luce e che la sua casa fosse allietata da quella nuova nascita. Ma tre giorni più tardi mentre se ne stava sprofondato in una notte profonda, la mano di Margherita lo scosse. Con voce affannata gli disse che stava male, aveva dei dolori tremendi al basso ventre e una copiosa emorragia. Nel mezzo della notte non chiamò neppure l’ambulanza. Prese Margherita la mise in macchina e si recò al pronto soccorso. Mezz’ora dopo era già in sala operatoria. Un’ora dopo gliela resero, ancora addormentata dall’anestesia, e lo avvisarono che non c’era stato niente da fare. Avevano compiuto un raschiamento dell’utero, a causa dell’emorragia massiva provocata da quell’aborto naturale. Il bambino era perduto. Chiese se poteva seppellire i resti del bambino in terra consacrata, spiegando che era un credente e che per lui quello non era un ammasso di ciccia,
ma una vera e propria persona che se n’era andata in cielo direttamente, senza calpestare il suolo terrestre. Il dottore, l’uomo dal camice bianco che aveva davanti, lo guardò con occhio stralunato, come se vedesse un marziano. Non rispose: gli voltò le spalle e andò via. Più tardi seppe che era stato ato dall’inceneritore, perché per i feti abortiti non c’è cristiana sepoltura. La cosa non gli tornava tanto, ma stava così. Cercò, in tutti i modi, di consolare sua moglie, anche perché lei era entrata in depressione. Non faceva altro che piangere e non voleva essere consolata. Come prima piangeva perché era rimasta incinta controvoglia, così ora faceva altrettanto perché aveva perso il bambino. Non appena accadeva qualcosa bastava un bruscolo che le ricordasse ciò che era accaduto - che piangeva a dirotto. Come quella volta che incontrarono una coppia d’amici con un bimbo nel eggino. Finalmente una sera, dopo che avevano fatto all’amore, Margherita si decise a buttare fuori quel peso che l’angustiava. Dipendeva dal fatto che prima d’essere operata il chirurgo le aveva detto: «Ora l’hanno portata gli altri, ma la prossima volta verrà con le sue gambe; qualora rimanesse incinta di nuovo». Eros si sentì di nuovo ribollire. Come si potevano permettere tali parole? Potevano forse i chirurghi mettersi al posto dell’Altissimo? Quello che abbassa ed esalta, fa morire e fa vivere, rende povero e arricchisce e nulla sfugge alla sua mano? Egli sentiva il suo corpo bruciare, come se il calore deponesse la sua forma sul lenzuolo. Ah, se solo avesse potuto avere quel dottore tra le mani… L’unica cosa positiva fu l’atteggiamento di sua suocera: da buona mamma aiutò sua figlia, liberandola dalle faccende domestiche, in modo che guarisse prima da quella brutta depressione. Comunque i giorni arono formando le settimane. Una dopo l’altra queste fecero i mesi, e dodici di questi fecero un anno. E questo successe per tre anni di seguito. Eros ava la vita a lavorare, a pregare Dio e a far l’amore con Margherita.
2a. Due mesi dopo – in ufficio – lui stava picchiettando sui tasti della macchina da scrivere. Era la fine del mese e stava facendo le fatture per i clienti. Attraverso il muro fluiva il rumore sordo, un mugghio basso e continuo, del treno delle carde. Gli assortimenti di carderia con le grandi botti rifasciate di guarnizioni, con i
cilindri lavoratori e spogliatori, giravano al massimo. Lui sentiva il mugghiare dei motori sotto sforzo e lo stridore delle cinghie di trasmissione. Era un accompagnamento in sordina, una specie di nenia di fondo a cui era uso, in fin dei conti non si trattava d’altro che del respiro della filatura. D’un tratto cominciò a sentire come un canto melanconico. Lì per lì non ci fece caso. A volte gli operai delle filande cantavano a voce alta per vincere il chiasso dei macchinari con cantilene strane. Ma quella era un’intonazione diversa, che ben presto divenne una richiesta d’aiuto. Sentì un urlo strascicato come d’uno che provasse un dolore prolungato, e urlasse per attirare la loro attenzione. Colpito smise di battere sui tasti della macchina, per fare silenzio; per capire di cosa si trattasse. Qualcosa l’aveva messo in apprensione. Sospeso, senza respirare, se ne stette in completo silenzio per qualche secondo. Ora l’urlo di dolore si percepiva più chiaramente. Il mugghio delle macchine stava scemando, segno che il treno delle carde si stava fermando: era stata staccata la corrente all’assortimento. Altre voci concitate, alcuni comandi secchi più urlati che detti, lo fecero alzare dalla sedia. Lui non fece in tempo ad aprire la porta dell’ufficio che il capo filatura entrò dentro tutto sottosopra: «Eros venga! Presto! Il cardaiolo è rimasto con una mano intrappolata nelle trombe del divisore». Lui corse con il cuore in gola dietro al capo. La distanza che correva tra l’ufficio e la testa del treno delle macchine gli apparve incredibilmente lunga. Inciampo' in tubi di gomma dell’aria compressa, ò l’avantreno, la prima e la seconda carda, dette una spallata ad una paratia che gli ostruiva il aggio, arrivò alla terza carda, per poi giungere all’ultima e al divisore. Le urla erano diminuite per diventare un lamento continuo, come d’uno stanco che non avesse più forza né fiato. Con la coda dell’occhio, correndo sempre dietro al capo, s’accorse che i cilindri – anche se lentamente – stavano ancora girando: il mostro d’acciaio non s’era ancora fermato. Già sudati arrivarono al divisore. Il lamento, piagnucoloso, veniva da sotto. Lui andò avanti al macchinario e gettò uno sguardo nella buca, nella lunga trincea che correva sotto i macchinari. Ezio con la torcia illuminò là sotto, e solo allora lui vide la mano dell’operaio mangiata dalle trombe del divisore. Ingollata da quel meccanismo creato per prendere il sottile velo di lana e dividerlo in tanti fini laccioli. Sentì Ezio urlare rabbioso: «Giovanni quante volte ti ho detto di adoperare il ferro lungo ad arpione per togliere la peluria dalle trombe. Mai mettere le dita, mai!». L’altro sospeso con i piedi per aria, con solo il polso che gli si vedeva uscire dalle trombe non rispose nemmeno. Non ne aveva la forza. Lui cominciò
insieme ad Ezio a smontare il divisore. Nella frenesia di quei momenti il capo imprecò contro una vite slabbrata; lui insieme ad altri operai cercava di far scorrere il divisore sui binari, per staccarlo dalla carda. Man mano che con il grosso argano lo facevano procedere lungo i binari, azionando la a cremagliera, lui poté finalmente vedere il volto paonazzo di Giovanni e le sua labbra violacee. Intanto la fronte di Ezio, per lo sforzo di svitare tutte le viti che tenevano chiuse le trombe del divisore, s’era imperlata di sudore. Alla fine, dopo una mezz’oretta, ci riuscirono. Il corpo di Giovanni cadde giù, afflosciandosi come un sacco vuoto, nelle braccia di Ezio. Con sforzi convulsi, imprecando e moccolando, lo portarono al di sopra, salendo i gradini. Fu solo allora che lui sentì dalla bocca di Giovanni quella fiatata di vino, il frazio dell’alito dell’ubriaco. Guardando per terra notò il fiasco di vino, vicino al muro, quasi vuoto. Non era la prima volta che quello veniva a lavorare ubriaco. Diverse volte l’avevano redarguito e il Bellini aveva insistito per licenziarlo. Ma lui era un piccolo Cristo. Come fare ad aggiungere altri pesi a chi era già curvato dalla vita? Giovanni aveva un figlio handicappato, perciò beveva. Se lo avesse licenziato dove sarebbe andato a finire? Così, contro il parere del suo socio, l’aveva tenuto. Lui vide la mano di Giovanni completamente spellata, raggrumata e appallottolata nel proprio sangue, mentre il bianco nitore delle ossa affiorava fuori. Più che una mano sembrava un enorme granchio informe di carne rosso sangue. Lui si ricordò della parabola del buon samaritano ed andò subito a mettere in moto la macchina. Correndo urlò a Ezio e agli altri di portarlo fuori, mentre lui portava la macchina all’entrata della filatura. Guidando come un ossesso, a rischio della sua incolumità, arrivò al pronto soccorso. Giovanni lo salutò con il volto sbiancato come un lenzuolo, prima che lo portassero in sala operatoria. Tornato a casa riferì tutto a Margy. Lei gli diede il suo assenso dicendo che aveva agito bene. In capo a due mesi gli arrivò una richiesta di danni di cinquanta milioni dall’INAIL. L’istituto assicurativo lo riteneva responsabile dell’incidente occorso. Non sapeva che gli assortimenti di carderia devono avere un cancelletto, aperto il quale – prima di scendere nelle buche – un interruttore ferma le macchine? Lui aveva visto bene che Giovanni – ubriaco – aveva messo un cartoncino per bloccare il funzionamento dell’interruttore. Ma la sua deposizione non valse un fico secco: lui era il padrone. Rimase stupefatto quando i carabinieri gli fecero leggere la deposizione di Giovanni. Per paura di perdere l’invalidità, testimoniò che l’interruttore non funzionava, anzi che loro – i padroni – l’avevano messo fuori uso per non fermare le macchine e non perdere
produzione. Fu condannato per direttissima a pagare quaranta milioni di danni a Giovanni. Lui da piccolo Cristo non è che si aspettasse un encomio per come si era dato da fare ad aiutarlo, ma leggendo e rileggendo la parabola del “buon samaritano” non si capacitava di quella batosta. Ma la cosa non finì lì: dopo sei mesi il tribunale d’ufficio lo condannò a sei mesi con la condizionale.
3.
Forse – anzi senza forse - alle preghiere non consegue un risultato alla lettera. Nella vita non ci sono solo le benedizioni di Dio, ci sono anche le maledizioni del maligno. Di questo Eros se ne accorse un giorno, quando entrato in filatura vide le macchine tutte ferme. Sorpreso domandò cosa fosse successo. Mancava forse la corrente ? Il capo fece segno di no con la testa, e il suo socio con aria mogia gli indicò – puntando l’indice in alto – il soffitto dello stanzone. Lì per lì non capì. Sentì la voce del Bellini dargli quella notizia inverosimile, allucinante: «Eros, le capriate del soffitto stanno cedendo. Vedi quelle grosse travi che vanno da una parte all’altra del magazzino? Sono marce e stanno per cadere giù, tirandosi dietro il tetto. Se succedesse la filatura verrebbe seppellita dai calcinacci, diventando un rottame. Il geometra chiamato stamani, impaurito, ha avvisato i pompieri. Sono venuti subito e hanno tolto l’agibilità all’edificio». «Sarebbe?» chiese lui titubante. «Sarebbe che finché non viene tirato su un nuovo tetto con una volta di cemento armato non si può lavorare» «E quanto ci vuole?» «Il proprietario del magazzino si è già informato. L’impresa edile ci metterà un anno, mese più, mese meno». Si sentì piegare i ginocchi.
3a.
«Ti rendi conto di quello che ci sta succedendo? Come mai tra le migliaia di capannoni proprio a noi doveva capitare una simile sciagura?». Il Bellini comincia ad innervosirsi e tutto ad un tratto ti accorgi che non sai che dire. Il tuo socio fuma nervosamente e schiaccia sotto i piedi una cicca dopo l’altra. Vi trovate da soli nell’ufficio della filatura, già ferma. Al di là del muro non si sente più il rumore tipico degli assortimenti di carderia. Ogni volta che venivi qui a fare le fatture o altre cose quel mugghiare profondo, prodotto dai giri dei grandi tamburi e dalle agugliate dei filatoi, lungi dal darti fastidio ti faceva compagnia. Si trattava d’un suono amico, come ti dicesse: ogni volta che senti stridere la cinghia di trasmissione un tot di filato è avvolto sui fusi e tu hai guadagnato un tot di lire. Il socio ti strappa da questi pensieri e ti fa una domanda, a prima vista, sciocca: «Scusa, se ti trovi davanti ad una curva che fai? Vai a diritto o curvi?». «Che domande, curvo» rispondi. «E noi questo dobbiamo fare. È un periodo cruciale, ne va della nostra stessa sopravvivenza familiare. Non possiamo aspettare, bisogna assolutamente prendere dei provvedimenti. Agire con decisione. Quanto ci è costato raddoppiare e rinnovare completamente la filatura?». «Seicento milioni» rispondi sovrappensiero. «E con la banca Commerciale quanto abbiamo di debito? Te lo dico io duecento milioni. Chi ce li pagherà? Mettiti in testa una cosa: appena la banca saprà di questa disgrazia ci chiederà di onorare la fideiussione e così ci prenderanno anche le case dove abitiamo». «Niente affatto! Ti comporti come se tutto andasse in malora e Dio non esistesse. Tu manchi di fede, per questo vedi tutto nero. È la voce della disperazione che parla in te».
Lui si mette a sfogliare il registro delle fatture, ma fa così per prendere tempo, si rende conto che sta dicendo delle cose che non ti piacciono, è indeciso, ma poi butta fuori quello che ha dentro: «Senti poche storie. Noi siamo assicurati per un miliardo di lire contro gli incendi. Se la filatura bruciasse subito, che so per un cortocircuito, in meno di un anno incasseremmo il premio e potremmo ripartire con un’altra filatura da qualche parte…» Anche tu cominci ad innervosirti, ti i la mano sulla testa, a lisciarti i capelli. Intanto tieni chiudi gli occhi e te ne stai meditabondo per qualche attimo. «Non se parla neanche. Non se ne fa di nulla. Il settimo comandamento parla chiaro: non rubare. Non si può andare così contro al Signore, tradire Dio, diventare dei banditi…». «Ma che dici?» ti interrompe lui « qui si tratta di vivere o crepare! Si rischia di ritrovarsi in mezzo alla strada con moglie e figli! E poi rubare a chi, alle società di assicurazione? Ma non fare il bambino! Loro hanno miliardi a sfare e si rifaranno aumentando di mille lire i milioni di polizze che hanno su tutti gli altri». «No! Io queste cose non le fo». Sbatti violentemente il pugno sulla scrivania, ti alzi e te ne vai. Durante il tragitto per tornare a casa gesticoli come un pazzo, dimenando le mani in qua e là, ripensando alla proposta del tuo socio. Ti sembrava tutto facile quando sei anni prima avevi preso quella piccola filatura, ma ora la matassa s’è fatta tremendamente aggrovigliata. Dove hai sbagliato? Scrutando la tua coscienza ti accorgi che avevi fatto tutto a fin di bene: per mantenere la tua famiglia. Ma il bene, l’amore per Margy e i figli, adesso ti si trasforma in male, in un danno colossale. Potevi prevederlo? No. Allora cerchi di stare in pace, ma non ci riesci. Provi a ricollegare tutti i aggi, tutti i fatti che in questi ultimi anni si sono succeduti e non trovi un filo conduttore, qualcosa che ti possa spiegare perché ti è caduta sul capo una simile tegola. Aveva ragione il Bellini o Gesù Cristo? Ti metti a ridere a questa domanda e, per poco, non vai a sbattere contro un’altra macchina che viaggia in senso inverso. L’altro suona arrabbiato e ti manda in quel posto. Non te la senti di tornare a casa. È troppo brutta la notizia da dare a Margherita. Fallire. Rimanere senza casa. Ritrovarsi da qualche altra parte. Ti ricordi di quando eri piccolo e andavi alla Bure, dove il fiume girava e faceva una specie di laghetto. Lì facevi il
bagno, felice, insieme ai tuoi amici d’infanzia. Prendi un’altra strada e ti dirigi verso il Cantone. Sono tanti anni che non ci sei più tornato. Cosa stai facendo? Una specie di pellegrinaggio nella natura per trovare un po’ di pace? Un tuffo patetico nel ato senza problemi? Un tentativo di training autogeno spicciolo, «un fai da te» psicologico? Non lo sai neppure tu. Diciamo un insieme di tutto questo, o niente di tutto ciò. Quando arrivi da Broccolo spegni la macchina e scendi. Cominci ad arrampicarti sull’argine, stando attento a dove metti i piedi, gradino dopo gradino sul piccolo sentiero che scorre tra l’erba. Con un po’ di fatica arrivi in cima alla sponda e cammini sullo stretto sentiero che, diritto, porta fino all’ansa del fiume. Provi sempre la stessa sensazione di quando eri piccolo e la mamma ti redarguiva «Eros, non andare mai da solo al Cantone. Capito? Mai». Quel misto di insicurezza e di timore, la paura di mettere un piede in fallo e di cadere nella corrente; perché il aggio è strettissimo, e te ne stai in bilico in un equilibrio precario mentre sta abbuiando, sul crinale d’una massicciata. Per fare cosa? Per ritrovare quello antico sentimento di contentezza naturale, di quando da ragazzo andavi a fare il bagno con i tuoi amici nell’ansa del fiume. Era davvero lì che te ne stavi completamente felice? Ora sei arrivato e stai attento a discendere i gradini dell’argine. Ti stai dirigendo verso l’acqua che scorre lenta, perché girando forma una specie di laghetto, sembra stanca anche lei, da come scivola via pigra. Nella luce umbratile del tramonto, nell’atmosfera abbuiata ancora soffusa dall’ultima striscia di lucore del giorno, arrivi fin sul pelo dell’acqua e ti fermi. Ti chini e prendi nel palmo della mano un po’ d’acqua, poi ti rialzi. Di lontano senti il fischio d’un treno, allora ti ricordi che la linea ferroviaria a parallela all’argine dall’altra parte. Chiudi gli occhi e cerchi di meditare. Preghi, anche, in silenzio. Niente di strutturato, qualche pensiero, il desiderio del cuore di uscire da tale situazione difficile, cose così. Ad essere sinceri un po’ ti senti consolato. In fin dei conti la vita non ti ha deluso, navighi verso i quaranta anni, forse tra poco fallirai, ma sarà una sconfitta parziale. Hai sempre l’amore di tua moglie, il calore della famiglia e, bene o male, te la caverai anche stavolta. Era necessario tornare qui. Nella pace e nello scorrere placido del fiume. Non vedi come resta imperterrito di fronte a tutto quello che accade? Questo andare continuo, questo scorrere senza fine, ti deve far riflettere per aiutarti a relativizzare ciò che ti accade. D’altronde quello che sta accadendo a te è accaduto a tanti altri. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Vanità delle vanità, quello che è accaduto succederà ancora, e allora «caro mio» - ti dici - «prendi la vita come viene». Tali
considerazioni ti lasciano un senso di pace e di consolazione, e senza dubbio questo ritorno al mondo della fanciullezza ti ha fatto bene. Dopo una mezz’oretta te ne torni alla macchina e fili a casa. Ora parlerai con tua moglie, ma non sai da che parte incominciare. Bene o male lo farai.
3b.
Mentre stai parcheggiando la macchina in garage, LUI, ti fa germogliare pensieri consolatori, del tipo: se tu riponi la tua fiducia in qualche persona, perché hai degli interessi in comune sarai instabile e contristato. Cerca di morire a tali sentimenti, e con Me ti ritroverai ristorato e sollevato.
3c.
Un momento dopo l’Altro – il serpente antico – ti insinua pensieri depressi e disperati: «Sei un pezzente, non imparerai mai a stare al mondo. Sei un morto di fame e un fallito».
4.
Dopo cena Eros prese il coraggio a due mani e riferì a Margherita il colloquio avuto col suo socio. I figlioli erano andati a letto, e nella stanza stagnava ancora l’aroma e l’odore dei cibi. Margy accolse quella specie di confessione con un tuffo al cuore: dunque la situazione era peggiore di quella che si fosse immaginata. Il vento batteva sui vetri facendoli tintinnare, e con quello stesso ritmo – pericolosamente – oscillava in lei il suo cuore. Il subbuglio che provava non risiedeva tanto nella disgrazia caduta addosso a suo marito, quanto piuttosto nel terrore delle conseguenze d’un fallimento economico. Lentamente su loro calò un silenzio di tomba. Strideva con l’assordante vocio dei figlioli che - poco prima – era risuonato tra quelle mura. Un silenzio che stava diventando sempre più pesante e che s’andava depositando sulle loro spalle. Eros cominciò ad andare su e giù per la stanza, poteva sentire il suo cuore battere forte, come la pelle d’un tamburo tirata e battuta allo spasimo. Tuttavia non aveva ancora il coraggio di porle la domanda cruciale, l’affondo definitivo. Lei faceva finta di fare qualcosa: riporre stoviglie nel cassetto, piatti nella credenza. D’un tratto, non potendosi più trattenere oltre, si fece coraggio: «Ma insomma cosa ne pensi? Devo – forse - diventare un ladro, compiere delle azioni contro la mia coscienza?» Margy finì di riporre le posate e chiuse il cassetto. Ormai il silenzio era rotto e non poteva più nascondersi. Si ritrovarono davanti faccia a faccia. «Di quale furto stai cianciando? Che sciocchezze vai dicendo, ci sono forse cose più importanti della famiglia e dell’avvenire dei tuoi figli? Andremo ad abitare sotto i ponti?». Eros non rispose. Sentiva confusamente che Dio l’aveva messo alla prova, ma non ne conosceva assolutamente la ragione. Perché Dio aveva permesso tale sciagura? Accanto alla sua c’era la filatura del Massai, ma a lui non era accaduto niente. Solo al loro stanzone tra tutte le migliaia di magazzini della città stava accadendo quel fatto inconcepibile. Dio lo castigava per delle colpe gravi, a lui
sconosciute o nascoste ? Ma le inavvertenze chi le discerne ? Quella disamina che stava facendo lo stava stressando troppo, al punto che percepì una fitta alla testa e un mal di capo incipiente. Decise di smettere di torturarsi per quella sera. Ne aveva abbastanza. Margy era già andata in bagno, si sciolse la crocchia annodata dei capelli e dando un colpo deciso all’indietro, cominciò a pettinarsi. I capelli, a cascata, le scendevano fin sulle spalle. Lui le venne vicino e si ritrovarono riflessi nello specchio, uno accanto all’altra. Eros percepì l’occhiata corrucciata di lei, quasi di disprezzo, tentò di metterle una mano sulla spalla, ma lei si ritrasse di colpo. A letto gli voltò le spalle e Eros non ebbe neppure il coraggio di toccarla. Solo prima di addormentarsi gli venne in mente che quella sera non aveva pregato né la preghiera dei vespri, né si era fatto il segno di croce prima di mangiare, né aveva detto la preghiera di compieta. Erano tutte andate in fanteria.
La mattina dopo il Bellini se ne venne fuori con una proposta strana. Voleva venire anche lui a riscuotere dai clienti. Lì per lì Eros non capì la ragione, ma l’altro gliela spiattellò nuda e cruda: bisognava prendere tutti i pagamenti e tenerseli per sé. Non bisognava assolutamente fare come avevano sempre fatto, ovvero depositarli in banca nel conto corrente. L’istituto di credito, tra pochi giorni, avrebbe certamente tolto il fido e chiesto il rientro dello scoperto. Ciò avrebbe significato perdere tutti gli incassi, requisiti dalla banca. Come avrebbero fatto a pagare i contributi o le spese obbligate? Anche se il ragionamento non faceva una grinza Eros acconsentì controvoglia. Notò sul viso squadrato del socio un’espressione dura, arcigna, data dalle mascelle serrate e dallo sguardo cupo. Fecero il giro dei clienti e andarono direttamente a incassare gli assegni. In totale facevano quarantotto milioni, che si divisero in parti eguali. Eros si recò in silenzio in soffitta, aprì la porta del sotto tetto e curvandosi, arrivò fin nel punto più basso, dove i tabelloni del tetto calavano all’ingiù. Per lui questa decisione era stata un tormento e l’aveva messo a disagio. Nascose i soldi dentro una scatola di mattonelle di ceramica e tornò giù in casa. In contrasto con il socio aveva sempre trattato gli operai con sollecitudine e li aveva sempre accontentati in tutto e per tutto. Avendo già parlato con loro credeva che le cose fossero appianate e avessero compreso la situazione. Dovevano solo attendere la cassa integrazione speciale fino alla ripresa dei lavori. Ma una mattina, recatosi in ufficio per prendere i cartellini delle ore di presenza, rimase esterrefatto: davanti all’ingresso stazionavano una decina di
persone, con bandiere rosse e megafoni, innalzanti cartelli con scritte allucinanti e minacciose : «Filatura Calamai & Bellini occupata» «Lotta di classe, lotta dura senza paura» «Le fabbriche a chi ci lavora». Chiese cosa diavolo succedesse. Faceva freddo quella mattina, era un inverno rigido e sull’asfalto del piazzale la brina aveva ghiacciato la pioggia notturna, al punto che ad ogni o si sentiva scricchiolare il ghiaccio. Eros notò tre o quattro ragazzi strani, con gli eskimo verdi e un libretto rosso in mano, che stavano arringando gli operai. Recatosi vicino a loro comprese di cosa stessero parlando: della rivoluzione culturale, di Mao Tse Tung e delle guardie rosse cinesi. A sentire quei discorsi gli sembrarono degli apostoli d’una religione rovesciata; venuti a salvare la nostra società per introdurla nel paradiso comunista. Cercò di mettersi a dialogare con loro. Intanto per il freddo batteva i piedi a terra, rompendo la crosta di brina ghiacciata. Gli s’era radunato attorno un crocchio di persone: i suoi operai più qualche curioso. «Cosa diavolo è successo?» domandò «di dove venite fuori?». «È semplice» rispose uno con una barba rossa, che incorniciava un viso allampanato, con due occhi neri corvini «veniamo dall’università, dove abbiamo già provocato il crollo di questa società marcia. Conosciamo il vostro atteggiamento, di falso paternalismo, e vi diciamo che se stamani siamo qui è per guidare questi compagni proletari in questa lotta. Noi facciamo parte del nuovo mondo, voi del vecchio, destinato alla sconfitta. Occuperemo questa fabbrica per far vincere il pensiero del grande Mao Tse Tung». «Ci deve essere un errore, questa è una piccola ditta. Sono solo dieci operai, inoltre le lavorazioni sono ferme ed è stata chiesta la cassa integrazione speciale. Non c’è proprio niente da occupare». «Questo lo dice lei che fa parte di una categoria contro rivoluzionaria. Lo sa quali sono? Gliele elenco: proprietari terrieri, industriali, capitalisti e elementi di destra. Uno, dieci, cento o mille fa lo stesso: lei è un industriale che succhia, come un vampiro, la forza a questi poveri proletari. Meno male che la rivoluzione culturale delle gloriose Guardie Rosse iniziata dalla amica Cina è ormai ben piantata anche da noi. Lei fa parte di una classe nemica, di un vecchiume culturale da fare fuori, perché – se ne renda conto o meno – lei è un
nemico di classe». Il cielo era grigio e plumbeo e si levò un vento diaccio. Con le mani nelle tasche del cappotto, Eros Calamai forte sempre e debole mai, continuò a battere i piedi dal freddo. Aveva giurato a se stesso di rimanere calmo, ma quelle parole l’avevano completamente sbalestrato. Rivolgendosi, con uno scatto agli operai presenti, alzò la voce: «E voi che dite? Non la sapete la nostra situazione, che andate cercando?» Gli rispose il pulitore delle carde, a nome di tutti: «E a noi chi ci pensa? Solo questi nostri compagni proletari. Vogliamo i quattrini della cassa integrazione anticipati, subito, da voi. Altrimenti occuperemo la fabbrica e non sarà possibile iniziare nessun lavoro per sistemare il tetto». Fu a questo punto che il suo socio, con fare stravolto, gli puntò l’indice sul colletto del cappotto rinfacciandogli il suo fare remissivo con gli operai. Se si era giunti a questo punto, di sicuro, la colpa era sua. Avesse – negli anni prima avuto più polso, avesse mostrato il pugno di ferro, invece che il molle guanto di velluto gli operai non avrebbero ardito tanto. Invece quel suo maledetto comportamento da imbelle, con tutti quei discorsi di volersi bene, di essere tutti fratelli, di acconsentire a tutte le loro richieste avevano prodotto quel gran bel risultato. Chiudendo le mani e stringendo i pugni, ce la fece a non ribellarsi. Il Bellini, barcollando, se ne andò via e lo stesso fece lui. Comunque il fatto l’aveva profondamente deluso. Comprese che la benevolenza verso gli operai era stata intesa come una debolezza, da parte sua. Quella sera stessa si ritrovarono da un famoso commercialista per vedere il da farsi. Dai corridoi ovattati di moquette dove le segretarie frusciavano per scomparire in diverse porte, arrivò all’ufficio del grande luminare finanziario. Dietro una scrivania a ferro di cavallo, enorme, stava un omino basso che tirava appena su la testa. Quella era l’occasione per vedere se fosse possibile trovare delle soluzioni. Nel silenzio ovattato della moquette la prima reazione del luminare fu questa: «Voi non avete un raffreddore o una polmonite ma un tumore» «E allora?» chiese il suo socio. «Allora bisogna agire in fretta. Fare subito un affitto d’azienda in favore di una nuova società a responsabilità limitata. Chiamatela come volete, che so “Filatura Ristoro”. Questa deve prendere tutti i macchinari in affitto ad un prezzo stracciato – poniamo centomila lire al mese – e voi dovete cominciare a lavorare, appena riparato il magazzino a nome della nuova ditta, mentre la vecchia la
dovete far fallire. Non date niente a nessuno. Fregatevene di tutti». Eros sentì un senso di ripulsa a quelle parole e provò a fare delle obiezioni. «Ma non si può comportarsi così, lasciare la gente in mezzo alla strada. Bisognerà pur dare le liquidazioni agli operai, pagare i contributi per le pensioni». Non che volesse fare l’eroe, solo che quelle parole gli sgorgarono dal petto come l’acqua dalla sorgente. Quella tragedia, lungi dall’indurirlo e farlo diventare più egoista, aveva fatto germogliare in lui un sentimento di comione verso gli operai, che non avevano trovato di meglio che tentare di occupare la fabbrica con quei facinorosi, emulanti le Guardia Rosse di Mao Tse Tung. Gli venivano alla mente le Beatitudine evangeliche. Se non avesse avuto lui, ora, uno slancio di giustizia che andasse al di là del mero interesse egoistico dove sarebbero andate a finire quelle dieci famiglie? Entrò così nell’arena, dove si scontrano gli spiriti, non è che lui volesse scontrarsi con il suo socio, né dimostrare a nessuno se aveva o no la tempra del lottatore; voleva semplicemente battersi per un’opera buona, aiutare chi aveva bisogno e dimostrare che il vangelo non era un ideale lassù nell’alto dei cieli, ma una bella soluzione anche per chi doveva battersi per la sopravvivenza. «Fa parte dei tuoi vestiti agli ignudi, non negare un prestito all’indigente, non disprezzare il povero che ti chiede aiuto». Queste parole delle preghiere gli venivano alla mente, così a brandelli, in quell’ufficio dove le luci soffuse e la morbida moquette facevano sembrare il mondo sfuocato e lontano. Ma lui sapeva che se ne stava lì vicino, appena oltre le pareti di quella stanza. Il suo intervento fu accolto nel più totale silenzio. Il suo socio teneva ancora la testa chinata, quasi non volesse stare a sentire i suoi discorsi. Poi disse che lui era dell’idea di fare subito quella nuova società, che non voleva assolutamente dare niente a nessuno e che se falliva anche quella nuova società non gliene poteva fregare di meno, tanto si sapeva come andava in Italia. «Bravo» gli rispose il luminare «il curatore nominato dal tribunale sarà tanto se riuscirà a fare l’elenco del ivo tra tre o quattro anni. Nel frattempo, voi, con la nuova ditta avrete già risolto i vostri problemi, mettendolo in tasca a tutti». Fu a questo punto che Eros decise di ribellarsi, spiegando non aveva nessuna intenzione di entrare a far parte di quella nuova ditta. Per lui si trattava d’una
operazione immorale, servendo solo a fregare la gente e disse una frase, con voce sommessa, piegando il capo: «Credo che non si possano risolvere i problemi della nostra vita gettando a mare gli altri, in questo caso questi dieci operai». Fuori, nel cortile, il Bellini gli disse a muso duro che se voleva pagare le liquidazioni doveva farlo con la sua parte dei pagamenti, come pure per i contributi. Quel giorno stesso Eros si fece dare l’importo delle liquidazioni, come pure quello dei contributi e delle ritenute per gli operai. Facendo la somma si rese conto che occorrevano ventiquattro milioni, l’equivalente della somma che aveva rimpiattato in soffitta. Quel pomeriggio stesso salì su, prese i denari, fece firmare le ricevute agli operai per la liquidazione e si recò dal suo ragioniere. Gli diede i denari per pagare i contributi e le ritenute dei dipendenti. Così gli eskimo e i libretti rossi se ne andarono a portare il loro verbo da qualche altra parte. L’indomani si ritrovarono da un notaio e sciolsero la società: come tutte le divisioni si svolse in un silenzio gelido. Uscendo dallo studio notarile si alzò i baveri del cappotto. Era ormai buio e la forte tramontana invernale, man mano che avanzava verso il parcheggio, lo spingeva contro i muri delle case. All’arrivo di folate più impetuose - quasi di tormenta - non riusciva ad avanzare, anzi si ritrovava ad arretrare. Cercava di coprirsi il collo, con una mano, stringendosi i baveri del cappotto. Quello che aveva stilato poco prima era in pratica la chiusa di dieci anni di vita professionale. Arrivò, barcollando, alla macchina e aperto lo sportello si lasciò cadere esausto a sedere. Pensò che di beghe ne aveva già ate parecchie; non si reputava certo un tipo fragile – corazzato com’era dalla fede. Nondimeno la pesantezza di quel fallimento gli cadde addosso all’improvviso, rapportandola alla baldanza provata all’inizio dell’avventura, dieci anni prima. Al buio e al mugghiare del vento, si lasciò scivolare a spalle piegate con la testa in avanti. Si mise la testa tra le mani, e per non far prevalere il groppo che gli montava in gola, riuscì a trattenere i singhiozzi con una preghiera d’abbandono. Aveva già deciso dentro di sé di non ribellarsi. Guai a seguire questa reazione: quella di ribellarsi. Non avrebbe fatto altro che rigirare il coltello nella piaga.
4a.
Mentre sfinito stava salendo dal garage nel suo appartamento, rimuginando cosa potesse dire all’altra metà del cielo, Eros Calamai si sentì grandemente consolato. Nel vuoto della sua debolezza entrò un olio di letizia e sentì come se la mano del Padre gli si posasse sulla testa. Nell’intimo gli germogliò un messaggio : «Figliolo, non ti affliggere se vedi i disonesti onorati e te fallito e umiliato. Rimetti sempre a me la tua causa e io ti innalzerò a tempo debito. Vivi il patire come il godere, l’insuccesso come la fama, la povertà come la ricchezza. Allora sarai veramente libero nello spirito».
4b.
Un attimo dopo gli arrivò il vento gelido dell’Altro – l’eterno accusatore – che gli instillò disperazione: «Vedi come ti sei ritrovato con il tuo Dio? Ti punisce perché sei malvagio».
4c.
Ti rigiri nel letto, perché non sei riuscito a dormire. Voltando il capo guardi sul comodino, alla tua destra, le lancette fosforescenti della sveglia: non sono neppure le cinque. Lei, adagiata accanto a te, dorme pesantemente. Avete parlato parecchio dopo cena, è stato un dialogo tra due che si amano. In certi momenti avete alzato la voce, in altri avete quasi pianto – ritrovandovi nelle braccia l’uno dell’altro -, in altri lei si è irrigidita e ti ha detto nettamente quello che pensava. Alla fine più che incontrati vi siete scontrati. Ti sorprende il cinguettio d’un uccellino che senti, nitido e chiaro, appena fuori la finestra, sarà – arguisci - sul terrazzo. Potrebbe essere un merlo, un cuculo o un erotto. Non lo sai, perché non hai mai capito niente di richiami degli uccelli, al contrario di tuo zio che era un provetto cacciatore. Ricordi? Cominci a vagare con la mente, adesso sei nella casa paterna e tuo zio ti porta a vedere le gabbie degli uccellini. Cinguettano felici e spensierati anche se sono in gabbia. Forse sarebbe meglio per te, caro Eros, essere così: inconsapevoli del loro destino. Fischiettare e cantare anche se uno si ritrova ingabbiato, imprigionato contro la propria volontà. «Guarda, Eros – ti dice zio Fellino – lo vedi quel erotto lì? Saltella in qua e là felice come una pasqua. E quel bel merlo tutto nero con il becco giallo aranciato? Ti assicuro che è bravissimo a fare da richiamo, quando vo a caccia». Tu guardi, impensierito, quelle alette che frullano un poco, cercano di aprirsi ma non possono perché la gabbia è stretta. Sono solo in grado di saltellare da un piccolo trapezio all’altro, su quelle piccole altalene che oscillano nella gabbia. Non sei così anche tu, Eros? Anche tu hai cercato di volare, volevi fare l’industriale, metter su una fabbrica, non tanto per accumular dei quattrini come una preda, in fondo non ti hanno mai interessato più di tanto; quanto piuttosto di dare lavoro alla gente, mantenere degli operai, migliorare il tuo paese. Ma ti è capitato una tegola addosso, il volo ti si è interrotto e sei caduto a terra rovinosamente. Lei ora si muove e si rigira lentamente. Stanotte non avete fatto l’amore. Quella solenne promessa che avevate presa di fronte a Dio e agli uomini d’essere una cosa sola, questa volta è stata disattesa. Quel suo corpo flessuoso e agile, quel suo corpo che si prestava docile ai tuoi desideri, che potevi farne quello che
volevi, stanotte non ti è appartenuto. Alla realtà della vostra unione è stata inferta una ferita, che ancora ti sanguina. Sanguinerà anche a lei? Speri e credi di sì, ma se ti sbagliassi? Hai troppe sensazioni dentro, troppe spinte sentimentali che cozzano le une con le altre, e così ti ritrovi tirato come un elastico in qua e in là. a una macchina, e poi un’altra. Guardi le lancette fosforescenti: sono le cinque. Qualcuno, pensi, comincia a brozzare. Tante volte, dopo aver litigato vi siete ritrovati uno nelle braccia dell’altro: in fondo era più bello così. Ma ora è diverso. Il suo comportamento ti fa senso, un po’ ti disgusta. Anche il suo corpo, la sua carne che ti attirava tanto, ora - a pensarci bene – ha perso il suo fascino, il suo splendore. Prima ti pareva che la sua pelle luccicasse, adesso non luccica più, è spenta e opaca. Ti dici che devi superare quel sentimento: è negativo. Ti leva l’eccitazione e invece di sollevarti il desiderio, te lo deprime. Adesso cantano in due: cip-cip, fanno una specie di duetto cinguettato. Devono essere proprio vicini, sul pianerottolo del terrazzo o al massimo sulla ringhiera. Ti viene in mente che, con il loro canto, ringraziano Dio e lo lodano per la loro esistenza. Lo loderanno inconsapevolmente, ma a modo loro lo ringraziano così. E tu Eros lo ringrazi o no? Ecco questo è un altro di quei sentimenti che ti si agitano dentro e cozzano l’un con l’altro. Provi un gran guazzabuglio; perché la religione – nata per unire voi a Dio – adesso ti divide dalla Margy? Anzi è stata proprio la causa della vostra litigata? Pensi: Cristo quanto mi costi? È possibile che per seguirti devo perdere la filatura, chiudere l’amicizia col mio socio e litigare con Margherita? Fin dove bisogna spingersi? Ci sarà un limite, c’è un limite a tutto in questa vita. Apri gli occhi e dai un rapida occhiata verso la finestra, guardi attentamente per vedere se appare una spera di luce, ma è ancora troppo presto, ti avvolgono solo le tenebre. Arriva un camion pesante, grosso, che si ferma davanti a casa. Dai rumori comprendi che è quella della spazzatura, perché senti alzare il cassonetto, sbatterlo e rivoltarlo nella pancia del bestione. Senti il cassonetto rimesso a terra, e poi il camion che ingrana e riparte. E se fossi tu quello spostato? Con quella mania che ti ritrovi di mettere Gesù Cristo a colazione, a pranzo e a cena. Gli altri ti dicono sempre: «cosa c’entra questo con la religione?», ma tu trovi sempre un aggancio e glielo spieghi. Questa tua insistenza nel voler mettere quello che tu chiami “ il Signore” in ogni avvenimento della tua vita, non sarà questo –Eros- che rovina i tuoi rapporti con gli altri? Caro mio, mettiti anche nei loro panni: in quelli del Bellini che aveva messo tutti i suoi risparmi in quella filatura, in quella della Margy che ha paura per la sua famiglia, in quella dei tuoi figli che captano con le loro antenne tutte le tensioni che sentono in casa. Eros, per seguire questo benedetto Gesù Cristo non
stai cadendo in un colossale tranello, non stai buttando la tua vita? In un certo senso Questo è più pazzo delle Guardie Rosse, più comunista di Mao Tse Tung. Dice di essere il creatore, il padrone del mondo, poi avvisa che le volpi hanno le tane, gli uccelli del cielo un nido dove porre i loro piccoli, ma LUI non ha neppure un guanciale dove posare il capo. Eros, cerca di capire, così facendo LUI ti spiazza. Allora comprendi che il limite non c’è: se continui a seguirlo non arriverai mai alla fine, alla perfezione che ti chiede. Che ore saranno? Senti lo sferragliare della saracinesca della macelleria che viene aperta: sono le sei. Dalle stecche dell’avvolgibile un filo di luce netto e splendente lotta contro il buio della notte. Possiede la lucida sicurezza di chi è sicuro di vincere. Sono ormai le sei e mezzo. Pensi che tra poco ti alzerai e invece ti prende una cascaggine. Vaghi un po’ con la mente poi ti appisoli. «Eros, che sorpresa come stai? Quanti anni è che non eri venuto a trovarci? Una marea, più di quindici». Ti dice zio Fellino mentre si mette il fucile in spalla e porta, appese a uno spago, una fila di tre gabbiette d’uccellini. Vuoi venire con me? Vo a caccia. Ma tu dici di no con la testa. Non vuoi. «Ah, capisco – ti dice – ma ormai sono ati tanti anni da quel fatto». Eros, non devi continuare a macerarti, anche se ricordi benissimo quel pomeriggio, tu eri un bambino di sette anni e tua sorella ne aveva solo uno. Fu colpa di un cacciatore che lasciò il fucile nella siepe di bussolino, tu vedesti una cinghia sporgere e la prendesti. Ma il fucile a doppia canna era troppo pesante per le tue deboli, piccole braccia, e appena lo imbracciasti s’inclinò verso terra. Con il ditino pollice toccasti un aggeggino di metallo a forma di fiorellino. Era, invece, il cane del fucile che sfuggitoti colpì il percussore, facendo partire il colpo. Fu solo allora che vedesti la piccola sorella, a dieci metri da te, urlare a squarciagola con la spalla sinistra distrutta dal colpo, grondante di sangue. Il braccio le pendeva pencolante, come morto, attaccato al corpo solo da un piccolo lembo di pelle. Era una bella giornata d’estate e la mamma ti aveva appena chiamato per fare merenda «Eros, vieni subito a casa». E tu obbediente eri corso. Forse se non fossi stato tanto obbediente, se avessi fatto spallucce, se avessi continuato a giocare con Renzo alle figurine, tua sorella non avrebbe portato per tutta la vita quella orribile ferita alla spalla. Tutto quello ammasso di pelle accicciolata, piena di pieghe e rughe, tirate a destra e sinistra, che appena andavate al mare tutti guardavano con ribrezzo; perché era impossibile non farvi cadere lo sguardo. E tu avresti voluto morire piuttosto che guardarla, ma – ugualmente- ti ci cadeva l’occhiata, e pativi per aver fatto del male a tua povera
sorella. A pensarci bene, Eros, questo è sempre stato il dramma della tua vita: fai il bene e ti si trasforma in male. Sei obbediente alla mamma e trovi un fucile nella siepe. Avessi disobbedito non l’avresti scorto. Cerchi di essere onesto e stai distruggendo la pace della tua famiglia. Ma puoi agire diversamente? Dimmelo, te la senti di comportarti in modo diverso? No, non te la senti. Il cristiano – ti dici – deve sempre seguire il primato soggettivo della propria coscienza, non si può andare contro se stessi. D’un tratto ti senti scuotere, ma lì per lì sei troppo intontito, non comprendi. È tua moglie che ti chiama forte: «Eros, Eros muoviti! Stai facendo tardi. Devi andare a prendere il sussidio di disoccupazione». Sei stato sveglio tutta la notte, poi spossato, ti sei appisolato verso le sei del mattino. Hai sognato, Eros, non c’è più nessuna casa nativa: Zio Fellino, l’altro cacciatore suo amico che lasciò il fucile nella siepe, tua sorella, tutta gente morta da anni ed anni. Eros, sono quasi le nove, datti una smossa. Devi andare all’ufficio del lavoro a prendere il sussidio di disoccupazione per gli artigiani.
4d.
Mentre ti stai facendo la barba ti arriva l’Altro, il maligno nero: «L’hai visto come ti sei ritrovato, eh, a seguire il tuo Cristo? A prendere il sussidio di disoccupazione a quarant’anni, disgraziato!».
4e.
Ora noi a quel tempo eravamo ancora piccoli. Non è che capivamo molto della nostra situazione familiare. Tu continuavi a comportarti come prima, quasi non fosse successo nulla. Invece la faccia della mamma trasmetteva tutta la sua preoccupazione, con quei tratti induriti e quelle mascelle serrate. Noi da alcune frasi spezzate, da una certa qual atmosfera depressa e pesante avevamo capito che la musica era cambiata: da una dolce melodia s’era ati ad un andamento drammatico. Nella sala udivamo frasi del tipo “l’abbonamento a Tempo quest’anno è meglio non rinnovarlo. Tanto è un settimanale da poco”, quando noi avevamo udito per anni e anni i tuoi elogi sperticati a quel giornale che diceva “pane al pane e vino al vino”. Ma quello che più ci fece impressione e , in un certo senso, ci dimostrò come nella nostra famiglia si annidava anche il mostro della divisione, fu il notare la tua espressione abbacchiata mentre facevi colazione. Noi non osavamo più guardarti in faccia: ci facevi troppa comione. Tu, percependo la ragione dei nostri sguardi indagatori, ti eri premunito di darci una spiegazione: si trattava di tagli di lametta. Il tuo tentativo, in apparenza logico, rendeva invece la realtà ancora più patetica. Noi vedevamo benissimo che non erano tagli che uno si fa radendosi la barba. Più che tagli erano graffi, lunghi e paralleli, che a fasci di due o tre insieme ti rigavano il viso, per tutta la gota, dallo zigomo al mento. Per questo a colazione quando ci ammannivi quelle fole, tra di noi cadeva un silenzio totale, pesante: si sarebbe potuto sentire una briciola di pane cadere per terra. Bastava guardare il tuo viso per accorgersi che quelli erano graffi fatti con cattiveria, fatti con unghie affilate, femminili, com’erano quelle della mamma. D’istinto noi in quei momenti ci sentivamo a disagio, avremmo preferito trovarci ai confini d’un paese lontano piuttosto che alla stessa tavola, in quanto la minaccia che rappresentavano quei graffi era per noi senza pari. Ci trasmetteva la sensazione d’un terremoto, come quando le persone sentono la terra sobbalzare sotto i piedi, e hanno paura che s’apra una voragine per caderci dentro. Noi innocenti com’eravamo pensavamo che il terreno sui cui eravamo germogliati – ovvero il vostro matrimonio – fosse qualcosa di stabile, fermo e inamovibile, come una catena montuosa. Perciò vedere quei graffi fatti sulla tua
faccia dalla mamma, che non ne voleva più sapere delle tue effusioni, e quindi si rifiutava all’unione intima con te, ci dava una senso di tristezza che, come marea straripante, ci sommergeva completamente. Prima di allora non avevamo mai pensato all’eventualità d’un vostro fallimento matrimoniale. Di come il fallimento della filatura si potesse tirare dietro il fallimento del vostro matrimonio. Tipo una nave che affondando si portasse dietro, nel gorgo profondo, le scialuppe che cercavano d’abbandonarla. Speravamo che al risveglio, nella mattina seguente, il tutto si fosse dimostrato un brutto sogno. In balia di quella sofferenza, di quella tempesta che ci rovesciava addosso quelle onde odiose, noi avremmo desiderato cancellare quelle visioni e vedervi tornare a sorridere.
5.
Le ore fanno i giorni, i giorni i mesi e i mesi gli anni. Ne erano ati due e Eros non aveva saputo più niente del fallimento della filatura, salvo che il Bellini – dopo sistemato lo stanzone – aveva preso in affitto i macchinari a nome della nuova società e continuava a lavorare. Margherita stava finendo di rigovernare quando suonò il camlo: gli disse di andare ad aprire che lei aveva da fare. Eros aprì e vide venire su dalla rampa delle scale un uomo tarchiato, piuttosto tozzo, che saliva con un po’ d’affanno. Appena se lo ritrovò davanti lo sconosciuto si qualificò come l’ufficiale giudiziario, incaricato dal tribunale di fare il pignoramento della casa, di tutti i loro beni e arredi in favore dei suoi creditori. Per maggior sicurezza gli mise davanti alla faccia la copia della sentenza. Eros prese in mano quei fogli e si sedette insieme a costui nel tinello. Margherita sentì un colpo al cuore, e quasi traballò, al punto che Eros dovette sostenerla per farla sedere. I fallimenti si sa hanno questo di brutto: che ti prendono la casa e quello che ci sta dentro. Nonostante l’apparenza di can mastino, con quella faccia squadrata e due grosse gote che gli pendevano giù come borse, l’ufficiale giudiziario si dimostrò d’animo gentile. L’abito, pensò, Eros non fa il monaco. Soprattutto verso Margherita. Sapeva, per esperienza, di come le donne di casa subissero il trauma maggiore. Per la qual cosa si mise a sedere accanto alla Margy e a sua madre, rimaste entrambe raggelate dall’impressione avuta. «Ho bisogno di voi» disse per metterle e proprio agio «vi prego di accompagnarmi per le stanze, per stilare l’inventario dei beni da pignorare. Oh, lo so bene che per voi è una sofferenza, ma le casalinghe conoscono molto meglio degli uomini la loro casa». Margherita sentiva le parole di quello sconosciuto, ma le sembrava di sognare. Certo molte volte aveva pensato alle conseguenze del fallimento di Eros, non che fosse una bambina, sapeva che il tribunale requisisce i beni dei falliti, ma – cosa strana – siccome non riusciva ad affrontare razionalmente l’argomento s’era
rifugiata in una serie di speranze fittizie. Una dimenticanza, o uno sbaglio della cancelleria del tribunale che non mandasse l’ufficiale giudiziario. Oppure un giudice che decideva di soprassedere. E poi, anche se faceva spallucce, dentro di sé sperava che Eros avesse ragione quando diceva: «Vedrai Margy che Dio non abbandona. Il Signore non permetterà che si sia provati al di là delle nostre capacità di sopportazione. Ci sono tanti tipi di miracolo. Il Signore aiuta». E sotto, sotto, lei a questo ci si era attaccata. Invece il Signore non aveva aiutato e la loro casa stava per essere messa all’asta, dopo che quell’avvoltoio l’avesse stimata e pignorata. Il mastino la guardò e lei si alzò con lui. Cominciarono dall’ingresso pignorando il mobile con lo specchio, su cui stava il telefono. Poi Margherita accompagnò lo sciacallo nella sala. Lui chiese con un timbro di voce sottile, da bambino, impensabile in un simile colosso notizie di ogni tappeto, lampadario, divano, poltrona. Descrisse persino il colore e la forma dei cuscini, appuntando tutto meticolosamente e mettendo davanti ad ogni cosa un numero d’inventario. Così fece nel tinello, nelle camere da letto, persino quelle dei bambini e nel bagno, come pure nel ripostiglio. Poi chiese a Margherita di accompagnarlo su nella soffitta e giù nel garage. Nella luce di quella fredda giornata di febbraio ella afferrò la sua pashmina di cashmere ed uscì con lui. Guardandola così, mentre si gettava addosso quello scialle raffinato, Eros non poté fare a meno di pensare che era ancora bella. Anzi con quei capelli biondi che brillavano dorati, riflettenti i raggi del sole, gli sembrava d’una bellezza ancor più abbagliante. Tuttavia non aveva compreso la ragione di tale comportamento. Margherita s’era messa la stola sulle spalle per mostrare, qualora avesse incontrato qualche condomino sulle scale, che se ne andava con un amico di famiglia a fare due i. Mentre scendeva gli scalini pensava che a nessuno era toccata la disgrazia che loro sperimentavano. Agli altri condomini non accadeva mai niente di male. I loro lavori andavano sempre bene, i loro figli scoppiavano di salute e la fortuna gli aiutava. Certo ci vuole fortuna, pensava. Se ne stette lì dieci minuti nel garage a fare l’inventario di ogni cosa, compreso il eggino di quando Laura era piccina, più la macchina malandata di Eros. Margherita osservava con quale perizia, puntigliosità, ma anche con quale gentilezza l’avvoltoio giuridico chiedesse a lei notizie su ogni cosa che incontrava e di come la segnasse con pignoleria nei grandi fogli che aveva. Alla fine, per curiosità, dette un’occhiata al numero a cui era arrivato e vi lesse «130». Dunque avevano così tante cose nella propria casa? Prima che se ne andasse, prese il coraggio a due mani e gli chiese: «Perché non ha segnato né il tavolo di cucina, né il letto matrimoniale?».
La risposta la sorprese: «Mia cara signora, noi viviamo in una Stato di diritto, al fallito non può essere portato via né il tavolo con le sedie per mangiare e neppure il talamo per dormire». Così dicendo si inchinò a mezzo busto per salutarli e se ne andò. Eros guardò Margherita. Sua madre guardò Eros. I suoi figli guardarono Margherita. Eros guardò i suoi figli. La suocera guardò i nipoti. Eros guardò sua suocera. Tutti i loro sguardi si incrociarono, ma nessuno disse niente a nessuno. Fu Margy ad interrompere il silenzio e a dire: « È una bellissima giornata di sole, un anticipo di primavera, perché non andiamo a fare una eggiata sul ponte, lungo il fiume?». La proposta piacque ad Eros, sua suocera invece non trovò di meglio che accasciarsi sulla sedia, tenendosi il capo tra le mani. Nella sala, protetti dai vetri, il tepore solare aveva invaso la stanza, ma appena fuori sentirono il contraccolpo dell’aria pungente di febbraio. Si diressero verso il ponte, per are al di là del fiume. Camminavano uno accanto all’altro. Eros teneva le mani nelle tasche del cappotto, a braccia arcuate, e Margy lo teneva a braccetto, con la mano infilata in tasca. «In fin dei conti è stato gentile» iniziò lei. «Sì, credevo a peggio». Dopo aver ato il sottoaggio della ferrovia, si diressero verso il ponte. Potevano vedere il nastro acquoso, diaccio e trasparente, che scorreva veloce verso la pescaia più avanti. Man mano che il nastro acquoso s’avvicinava allo scivolo di quella piccola cascata aumentava di velocità e cominciava a scomporsi in migliaia di rivoli increspati, che sgomitavano gli uni con gli altri, finché giunto nel piano inclinato si gonfiava e arricciava a causa della schiuma che si formava. Ritornato in piano tutto si acquietava e il nastro acquoso scivolava via, nuovamente piatto e trasparente. Procedevano spediti e con o svelto entrarono nella erella, che costeggiava il ponte. A lato le macchine sfrecciavano sul nastro asfaltato. Dovettero rallentare il o, perché davanti a loro un vecchio stanco procedeva lentamente. Da dietro potevano sentire il suo respiro asmatico, mentre portava due sacchetti di roba. Non essendoci spazio per sorarlo decisero di
uniformarsi al suo o. Eros lo squadrò meglio; probabilmente si trattava d’un povero pensionato. Poteva vedere i pantaloni lisi di lana grigia e una camicia di flanella garzata, con un disegno all’americana tipo cow boy, come ormai non se ne vedeva più da tempo. Anche le scarpe denotavano un che di trasandato, con le suole un po’ scollate, consumate in modo diseguale. «Sarò ridotto così anch’io Margy tra una decina d’anni?». «No, tu no. Per me quello è un vedovo, si nota che gli manca una mano femminile». «Dici?». «Ne sono sicura». «Però, fuori non fa per nulla caldo, anzi è freddo. In casa abbiamo avuto una impressione sbagliata». «Amore mio, sperimentiamo tante impressioni sbagliate nella vita. Guarda per esempio l’ufficiale giudiziario. Ci ha fatto un’impressione buona con la sua gentilezza, al limite del carino. Eppure, legalmente, da oggi siamo diventati dei senza casa» disse lei con calma. «Capisco quello che vuoi dire. Comunque una soluzione la troveremo. L’importante è volersi bene. L’amore vince tutte le difficoltà». Si sorprese di se stesso per le parole che uscivano dalla sua bocca. Ma anche di quello che diceva Margherita. L’aveva chiamato «amore mio» ed era da parecchio che non adoperava una simile espressione. Forse – pensò – quello che rende difficili i nostri rapporti e fa il tragitto della nostra vita più accidentato è dare troppa importanza a ciò che accade. Relativizzare, relativizzare bisognava, altrimenti se qualcosa o qualcuno diventava un assoluto, poveri noi. «Dove vuoi andare?» le chiese. «iamo il ponte, poi facciamo una bella eggiata lungo la pista pedonale, costeggiando il fiume, fino alle giostre». «Si potrebbe fare anche una capatina alla pasticceria del Boganini, quando ci arriviamo».
«È una buona idea. Non ci crederai ma mi è venuto appetito. Si vede che il pignoramento della casa mi ha sviluppato un certo languorino. Sembrerebbe una contraddizione». «Niente affatto, Margy, anzi è un buon segno. Se sei affamata significa che non vuoi dare eccessiva importanza a ciò che è accaduto, non vuoi preoccuparti oltremodo. D’altronde a che pro? La tua mi sembra una buona linea di difesa. Salomonica, al limite della sapienza biblica direi». «Davvero Eros?». «Davvero Margy». «E quanto tempo credi che impiegherà il tribunale per buttarci fuori di casa?» «Questo non si può dire. È nella mente di Dio. Il funzionamento della giustizia umana è assolutamente imprevedibile, imperscrutabile. A volte scolano il moscerino, a volte inghiottono il cammello senza batter ciglio. Sono ciechi da un occhio e orbi dall’altro; con una mano tirano colpi a casaccio con la spada, e con l’altra misurano in modo sbagliato con la bilancia. Una specie di dea bendata all’incontrario». Arrivati che furono alla fine della erella si presero per mano e cominciarono a eggiare lentamente. Il vecchio che li precedeva s’era messo a sedere su una panchina: cercava di appisolarsi al tepore dei raggi del sole. Come loro, altre coppie avevano avuto la medesima idea. Mentre procedevano lentamente, mano nella mano, Eros vide uno che con una canoa si inoltrava nella corrente del fiume. «Guarda là Margy» disse, indicandogli il canottiere. Da una parte lo invidiava, ma dall’altra gli appariva al limite del temerario. «Lo sai Eros che Laura e Carla hanno già il filarino fisso, e Paolo vuole fare sul serio con la Stefania?» «Davvero di Paolo me lo potevo immaginare, ma loro due così giovani…» Margherita rise; arrivati alla pasticceria sedettero ad un tavolo, sotto l’ampia veranda. Lei affamata prese un cappuccino con due paste, lui un tè al latte da perfetto inglese. Tornando indietro, mentre già l’aria cominciava a farsi più
gelida, rimasero sorpresi di quell’energia insospettata che li aveva investiti. Forse, si dissero, abbiamo da qualche parte delle energie segrete che, in certi avvenimenti, se ne vengono fuori. Energie sconosciute, perché pensando a mente fredda a certi fatti solo come possibili e futuri, queste energie non si sentono.
5a.
Noi ti volevamo bene, ma sinceramente non ti capivamo. Quando la mamma faceva i tripli salti mortali per andare avanti, per mettere insieme il pranzo con la cena, tu sembravi rimanere – di fronte a questi problemi – sovranamente indifferente. O per lo meno così pareva a noi. Sistemavi sempre la cosa con frasi del tipo: «Il cristiano guarda alle cose di lassù, dove se ne sta Cristo risorto assiso alla destra del Padre. Dio sa di quello che abbiamo bisogno, e come tale provvederà alle sue creature che siamo noi». Così, quando in casa nostra si addensavano nuvole basse e grigie, preannuncianti un temporale, tu stimavi che fossero sufficienti tali frasi per far tornare un bel sole splendente. E noi restavamo sconcertati: la mamma, Paolo e Laura – tutti - non sapevamo più che pesci pigliare. Perché tu, con quella difesa apionata di Dio, ti rifugiavi su un altro piano, rispetto alle nostre richieste; te ne fuggivi per una tangente soprannaturale, indicante il cielo. Invece noi eravamo inabissati nei bisogni giornalieri e ti chiedevamo le cose più normali che dei figli chiedono ad un babbo: un motorino per Paolo, una macchina usata per Carla, tre lire alla Laura per recarsi ad una gita scolastica di cinque giorni. Niente. Ti trinceravi dietro quello spesso baluardo, quella fortezza impenetrabile delle tue sentenze religiose e noi restavamo lì con un palmo di naso. Come quel giorno tremendo in cui dovemmo abbandonare la nostra casa. Una mattina vedemmo un grande cartello appeso al cancello d’ingresso del nostro condominio: «Oggi vendita all’asta per conto del tribunale di Pistoia». Un’ora dopo cominciarono ad arrivare delle persone sconosciute, a sbirciare tranquilli e sereni la nostra camera; me lo ricordo benissimo per noi fu uno shock, come un’invasione di truppe straniere. Poi arrivò quell’ufficiale giudiziario che avevamo visto l’anno prima circolare per casa con tutti quei fogli scritti, fitti, fitti. Venne con un banchino, lo sistemò nell’ingresso e alle dieci precise fece suonare una camla, premendo forte un bottoncino con il palmo della mano. Al suono gentile «din, din» che ne seguì, tutti smisero di parlare e si avvicinarono al banchino. «In nome e per conto del Tribunale di Pistoia do inizio alla presente asta giudiziaria per le vendita della casa del sig. Eros Calamai. Immobile attualmente occupato dall’esecutato che dovrà lasciarlo libero entro
stasera, a norma dell’art. 573 del Cod. Civ.». Noi guardavamo nostra madre, che se ne stava lì – seduta in disparte – invecchiata e malinconica, mentre tu te ne stavi tranquillo vicino al banchino del banditore, quasi fossi uno dei concorrenti all’asta e non l’esecutato. Ci sembrava che il dramma, più di tanto, non ti toccasse, diciamo che tale attitudine da te definita «libertà completa dello spirito» ci lasciava sconcertati e ci appariva, semplicemente, scandalosa. Quando il banditore pronunciò quelle tremende parole «Sessantacinque milioni e uno, sessantacinque milioni e due, sessantacinque milioni e tre…» restando per un attimo silenzioso come per lasciarle sospese nell’aria, scorgemmo la nonna, povera donna, che con gli occhi luccicanti stava quasi per piangere. Poi lo sentimmo proseguire: «Non c’è nessun altro rilancio? Nessun aumento? Aggiudico l’immobile per sessantacinque milioni di lire al qui presente sig. Lombardi Luca». Dette un colpo deciso alla campana sul tavolino facendola suonare. Noi sentimmo dentro uno strappo, come quando un impiccato sente la corda tendersi, dopo che è precipitato nella botola aperta. Fu quando la mamma si alzò e abbracciò noi e la nonna, in un abbraccio silenzioso. Non c’era niente da dire, stante che in quei momenti le parole sono insufficienti. Non servono. Invece tu venisti da noi e pronunciasti quelle parole sfasate, completamente fuori luogo «Su, su state tranquilli che il Signore sul monte provvede». Dicesti proprio così «sul monte» e quale fosse tale monte lo sapevi solo tu. Qualche giorno dopo noi ti chiedemmo lumi su tale espressione, in quanto eravamo sempre alquanto arrabbiati verso di te. E tu ci rispondesti – ricordi? – che si trattava d’una espressione usata dagli ebrei per descrivere la provvidenza del Signore. Nata sul monte Moria quando Abramo alzò il coltello per sacrificare Isacco, ma la mano dell’angelo lo fermò. Allora lui uccise un ariete che era rimasto con le corna impigliate in un cespuglio lì vicino. Perciò nacque tale detto. Ma a noi nessuno fermò la mano del banditore e la nostra casa fu sacrificata. Questo forse non ti era venuto a mente. Cioè che noi eravamo in pianura, non stavamo su nessun monte. La delusione se ne stava dipinta sulle nostre facce, mentre portavamo via le nostre carabattole. Poche e povere cose lasciate libere dal pignoramento. Quelli che si chiamano ”effetti personali” o giù di lì. Ci faceva comione la mamma, che aveva provato tempo prima a fare quella operazione con il suo scialle per cercare di nascondere gli avvenimenti agli inquilini dello stesso stabile. Adesso quell’operazione dimostrava tutta la sua inconsistenza; perché proprio mentre portavamo via i sacchi degli indumenti, le seggiole e il tavolo del tinello, il letto matrimoniale smontato e i comodini, si vedeva benissimo la gente che stava ad
uccellare agli angoli di ogni piano. Da ultimo non si sapeva bene se erano meglio quelli che non si facevano vedere, o quelli che cercavano di darci una mano a portare giù qualcosa e ci offrivano la loro commiserazione, mettendoci a disagio. Forse sarebbe stato meglio se non avessimo visto nessuno. Provammo un sollievo quando il camion della ditta di traslochi partì, e noi gli andammo dietro. Ora siamo in questa stamberga della casetta che apparteneva alla zia Alberta, sorella della nonna. Già a noi questo tuo paese natale nel quale siamo dovuti tornare non piace proprio; Agliana consiste in una strada maestra che va a finire in piazza della chiesa, altre due o tre strade che si intersecano con qualche negozio e finita lì. Devi arguire che per Laura, Carla e me, tre giovani che stanno crescendo non è il massimo dell’attrattiva.
6.
Eros si chiuse dietro la porta sgangherata di legno, e uscì fuori fino ad arrivare alla ringhiera del cancelletto. Era ormai notte piena e lui teneva i piedi nell’erba fresca: un fazzoletto di giardino affogato tra il cemento delle case e l’asfalto della strada. Respirò forte l’aria fresca, pura, della notte riempiendosene i polmoni. Espirò: il soffio del suo respiro fu il solo suono che percepì. Non tirava un alito di vento, e le lucine brillanti delle stelle bucavano la scura volta del cielo d’un colore strano, indefinito, tra l’indaco e il grigio scuro, tendente al nero. Ma nero non era. Forse – pensò – raffigurava la situazione della sua vita. Tendente al nero, ma illuminata dalle luci della fede. Aveva lasciato in casa gli odori di cucina e le voci di Margy e dei figli, con i loro discorsi umanamente comprensibili, ma vuoti di ogni speranza che non fosse un “sei” al super enalotto. Certo quel cucinotto era veramente piccolo; zia Alberta ci stava da sola, da quando rimasta vedova di zio Beppe ci aveva abitato altri sette anni prima di fare la sua pasqua, da questo mondo al Padre. Ma per loro era troppo angusto, per mangiare si toccavano i gomiti l’uno con l’altro. Gli odori, poi, del riso di verdura e della carne all’olio, uniti al fumo dei fornelli saturavano presto tempo quel piccolo spazio, così l’aria diventava come ispessita e si appiccicava alla pelle. Per questo era uscito, lontano da quella canicciaia intrisa di fumo e d’odori. Respirò più profondamente l’aria fresca e penetrante della notte di Maggio, che già profumava di rose e giaggioli. Sentiva in sé tutta la lacerazione della sua situazione: dove sarebbe andato, cosa avrebbe fatto alla soglia dei quarant’anni? Perché era perfettamente inutile nasconderselo. Esisteva una frattura netta, un abisso incolmabile tra questi due modi di vedere la realtà. O saltava il fosso e agiva come il Bellini, vale a dire la maggioranza delle persone, o restava com’era. La filatura del Bellini, appena sistemata, era stata divorata da un incendio e l’assicurazione, dopo qualche mese, aveva pagato il miliardo di risarcimento. Eppure, eppure… Stando a quello che diceva LUI, anche nel vangelo di domenica scorsa, il Bellini si muoveva male, rischiava grosso: come tutti quelli che volevano salvare la propria vita seguendo gli impulsi dei loro
desideri naturali, accaparrando denari a più non posso, conquistando il potere con ogni mezzo e cercando di succhiare il piacere da ogni dove. Sembrava dimostrarsi una strategia vincente, invece si rivelava di corta gittata. Perché, sempre LUI, sosteneva che quelli la vita la perdevano. Al contrario, quelli che come lui sembravano perderla, perché non ammassavano i quattrini disonestamente, non sgomitavano per sopravanzare sugli altri e non godevano il piacere adulterino – sempre LUI -, sosteneva che alla fine la salvavano e vincevano la battaglia più importante. Mentre cercava di scrutare con la mente tale paradosso, udì nel buio della notte il grido roco e sgraziato d’una civetta. Sorpreso si voltò da ogni parte, per vedere se la scorgeva. Un altro grido gli arrivò e allora capì che se ne stava fra gli alti cipressi, dall’altra parte della strada, nel giardino del grande asilo delle suore. In città, pensò, in tanti anni quel grido non l’aveva mai sentito, ma ora si trovava al limite della campagna. Era uno scemo lui? Un fesso matricolato? L’angoscia della sua situazione, con una morsa ferrea, gli serrò l’animo come una spugna strizzata. Sbagliava tutto, come Margherita e i figli ormai grandi gli facevano capire? Non aveva egli la responsabilità di altre quattro persone? Voltandosi a sinistra vide, nel buio della notte, un tondino rosso . Scrutando meglio si accorse che la lucina rossa si alzava e abbassava, a seconda dei movimenti del braccio di quell’uomo. È il mio nuovo vicino – pensò Eros – che se sta fumando una sigaretta. «Allora, come va?» disse l’uomo «sei tornato alla base?». «Sì, meglio la casina di zia Alberta che un affitto da pagare». D’improvviso si ricordò che si chiamava Lido, faceva il tessitore, aveva combattuto da partigiano e portava una vistosa cicatrice su una guancia « e a te, Lido, come va la vita?». «Mah, la prendo come viene, ormai sono già in pensione, una figlia è sposata e l’altro è già fidanzato, l’importante è la salute». Stava per ribattere, quando una voce stridula chiamò l’uomo che subito lo salutò, ritornando in casa. Forse aveva ragione Lido. Meglio prendere la vita come viene, godere di quello che ci viene dato, standosene contenti, senza affannarsi e angustiarsi delle mazzate che ci capitano. Eros, oh Eros, allora continui a non capire? La vita è quella che è, non senti quello che dice LUI? Anche se guadagnassi il mondo
intero, e non salvassi la tua vita a cosa ti gioverebbe? Cosa potresti dare in cambio della tua vita; si può forse comprare una vita? E poi la dolce consolazione della Grazia, dove la metti? L’arcana contentezza di quel godimento spirituale, più liberante di quello dell’amplesso con Margherita; una forza che può risarcire le tue ferite e darti una nuova contentezza intima. Avrebbe continuato su quella strada, a privilegiare il “non ancora” dell’eternità vivendo nella grazia di Dio, piuttosto che il solo momento presente. Chi vive solo per “ora” pensò non capisce il periodo che vive, essendo cieco sul progetto dell’eternità. Adesso se ne stava contento di aver accettato quel posto di professore di religione alle scuole superiori. Possedeva quel riconoscimento, quel pezzo di carta di laurea in teologia che aveva conseguito quando era ancora giovanotto, e che adesso era diventata una fonte di lavoro. D’altronde, si disse, siamo fatti così: soffriamo molto per il poco che ci manca, e godiamo poco del molto che abbiamo. Assorto in questi pensieri sentì una mano che gli toccava il braccio, si voltò e vide Margherita dietro di lui. «Vieni dentro» gli sussurrò «sta facendosi tardi. Nel cucinotto si scoppiava di caldo, ma qui fuori con la camicia sola corri il rischio di prenderti una marmotta. Le notti di Maggio sono ancora fredde». Rientrarono dentro cingendosi la vita l’un l’altro. A letto fecero all’amore, ma Eros fu sfavorevolmente sorpreso del modo di fare di Margy. Ella si unì a lui con una foga esagerata, animalesca, quasi volesse cercare nella sessualità sfrenata una compensazione alla loro situazione esistenziale. Gli parve un modo eccessivo, esagerato di vivere l’unione coniugale; come uno che cercasse di stordirsi con una droga. E lui si sentì a disagio.
7.
Le ore ano e fanno i giorni, i giorni scivolano via e fanno le settimane, le settimane sommandosi formano i mesi, i mesi trascorrono e fanno gli anni. Eros, da quando aveva saputo che Carla – la figlia maggiore – aveva lasciato Andrea quel bravo figliolo tanto cristiano, non si dava pace. Non solo perché Andrea era un buon partito, come si dice, ma per le sue qualità umane. Dove lo trovi un giovane che fa parte di un gruppo di giovani impegnati e frequenta la chiesa per fede vera? Era diventato per lui un tormento e non riusciva a capacitarsi. Per questo punzecchiava sua moglie, chiedendole come stessero veramente le cose. Margy rispondeva piccata: «E io che ne so? Credi forse che adesso i giovani siano come la nostra generazione? Quando dovevamo chiedere il permesso ai nostri genitori a quindici anni per accendere la televisione o per uscire di casa? Tua figlia ha più di vent’anni ed è maggiorenne, che vai cercando?». «Tu parli da atea Margherita. Cosa significa minorenne o maggiorenne? Esse sono parole vuote, prive di senso, di fronte ai comandamenti morali del Signore. Non sai che essi valgono dal primo vagito fino all’ultimo respiro? Il Signore se ne impippa di maggiorenne o minorenne, avere più o meno di diciotto anni non è il metro di misura del bene e del male». « E quale sarebbe di grazia?». «La verità. Questo è il metro di misura, non certo i nostri desideri più o meno nobili. Insomma possibile che con Andrea sia finita così? In fin dei conti due o tre mesi fa si parlava di un possibile matrimonio. Ora siamo ati dal giorno alla notte, dalla gioia alla pena». «Eros tu idealizzi sempre. Ma cosa credi che sia andata a fare nostra figlia, quando l’estate scorsa è stata tre settimane in Sardegna da sola con il bell’Andrea?». Margherita aveva calcato il trono della voce, enfatizzando quelle due parole “da
sola”, e lui sentì una fitta al cuore. Aveva combattuto, sì, aveva combattuto ma s’era ritrovato perdente su tutta la linea. I suoi tre figli gli avevano riso dietro, quando aveva loro illustrato la bellezza del piano divino sulla sessualità, e sulla felicità di arrivare casti al matrimonio come lui aveva fatto con Margy. Così aveva dovuto ingollare quel rospo, quel viaggio di nozze anticipato di sua figlia con il fidanzato. Per tre settimane era stato addolorato. Il peggior Agosto della sua vita. Anche le feste erano ate nell’afflizione, compreso il Ferragosto; non gli sembrava nemmeno d’essere in ferie, quanto d’essere nella malinconia, come dopo un lutto. Era estate, ma valeva quanto la primavera, l’autunno o l’inverno. Non faceva differenza. Si rammaricava, addirittura, con Margherita d’essere in vacanza e di non avere da lavorare, almeno diceva «il cervello non mi andrebbe sempre lì, e il tempo mi erebbe prima». Di una cosa era rimasto stupito: dell’atteggiamento di sua moglie. Sulle prime anche lei aveva reclamato con Carla, ma poi – quando Eros riattaccava il ritornello – faceva spallucce e gli diceva: «Ma non lo vedi com’è bella? Non ti accorgi come la guardano vogliosi gli uomini? Eros Calamai tu sei il ritratto del tuo cognome. Non cali mai dal cielo su questa terra. E poi sai che ti dico? Se tornassi indietro farei differente. Che vantaggio ne abbiamo avuto a stare tutto quel tempo a friggere, ad ardere, da fidanzati? Tutte le coppie dei nostri amici andavano a letto insieme, e tu sai che gli unici “puri” eravamo noi. E cosa ci abbiamo guadagnato? Te lo dico io: di stare tre anni senza godimento». «Margherita tu bestemmi, quando mai si è sentito uno rimpiangere il bene fatto, lamentandosi di non aver compiuto il male? Vuoi tu mettere la felicità pura, trasparente e cristallina come l’acqua di fonte, della nostra prima notte quando vergine io e vergine tu ci siamo uniti promettendoci amore eterno? Ti sei scordata di quella notte veramente gloriosa all’Hotel Excelsior di Roma? Quando mai si è visto uno annoiato del cibo celestiale della Grazia, che si rivolge a mangiare il brago puzzolente del peccato?». «Senti se tu avessi un po’ più i piedi per terra forse avresti sentito dire che hanno visto tua figlia al circolino di san Niccolò». «Come? Quando? Con chi? Cosa avrebbe a che fare mia figlia con quel covo di pseudo rivoluzionari di Lotta Continua?». «Tua figlia nulla, la politica non le è mai interessata, al contrario di Paolo, ma forse le interessa qualcuno che bazzica lì» concluse lei.
«Margy non mi lasciare sulle spine, se no mi arrabbio. Allora tu sai qualcosa, dimmelo!». «Eros ne so quanto te. Solo l’ho vista uscire due o tre volte dalla casa di quel Franco, che sta dietro la curva». «Ma è sposato» sbottò lui. «No, mio caro, è separato, ed ha ottenuto il divorzio l’anno scorso, dopo aver trovato sua moglie a letto con un altro. Tutto qui». «Ma è in contrasto con la legge del Signore!». «E a me lo dici?» disse Margherita «Cosa ci posso fare io? Non sei tu il sapiente di casa? Dici sempre che bisogna avere fede in Dio. Bene, pregalo per vedere se esaudisce la tua richiesta di trovare un marito cristiano per tua figlia. Io ci credo il giusto, in quanto che preghi o non preghi il risultato è il medesimo: la vita se ne va per conto suo, come se ne deve andare. Piuttosto quale migliore occasione per parlarci, che stasera? Quando la porteremo dal meccanico a ritirare la macchina accomodata?». Eros se ne stava abbarbicato al volante, guidando meccanicamente senza pensare al traffico. Mentre attraversava il viale Galilei, il sole gli stava facendo “ciao” per ritirarsi dietro la cresta delle colline. Le imporporava con un collare di luce rossastra - ultimo regalo alla terra sua sposa. Lui impacciato non sapeva come farci cadere il discorso. Margherita, seduta accanto a lui, se ne stava muta come un pesce. Guardando sua figlia attraverso il retrovisore pensò che era veramente bella. Era ormai una donna fatta, nella fulgida pienezza della sua maturità. La guardava mentre lei volgeva lo sguardo oltre i finestrini. Carla non s’era accorta che lui la scrutava. Un’aura di luce le colpì la guancia e Eros vide il suo viso imporporarsi per l’alone rossastro del riverbero vespertino. I suoi capelli brillarono come trasfigurati, e le sue guance divennero come petali di rosa, messe controluce. Gli venne in mente la pelle d’una pesca olezzante e matura, pronta per essere gustata. Tutt’un tratto Carla cominciò a parlare, con voce calma, quasi non toccasse a lei, senza che nessuno le avesse chiesto qualcosa: «Quando ho lasciato Andrea non stavo già con Franco, se è questo che volete sapere. Diciamo che una storia è venuta di seguito all’altra. È un mese che ci conosciamo. Andrea andava bene per l’amore da ragazza, Franco per una donna vera. Una settimana dopo che ci
siamo incontrati sono stata a letto con lui, è stato bellissimo, diverso che con Andrea. Ho intenzione di andare a vivere con lui». Tutti i discorsi che, prima, s’era preparati gli crollarono come un castello di sabbia di fronte ai marosi, la gola gli si strinse e rimase senza fiato. Lanciò un’occhiata rapida alla moglie, sulla sua destra; ma Margherita se ne stava calma e tranquilla come se Carla non avesse detto nulla. Poi, dopo due o tre secondi, come se qualcosa fosse scattato in loro – all’unisono – cominciarono a sbraitare, quasi obbedissero ad un’antica legge di natura che impone ai genitori di educare i figli. Parlarono tutti e due a mitraglia, confusamente, accavallandosi l’uno con l’altro: «Tuo padre è molto arrabbiato, Carla» incominciò Margherita. «Dico, ma come è possibile? Dopo tutto quello che ti abbiamo insegnato. Dimmi non ti abbiamo forse insegnato come agire? Qui sta il bene, dall’altra parte sta il male: ora metti la mano dove vuoi. Dirigiti dove vuoi. Ma da che parte la metti? Cosa ti riserverà il futuro, come compagna di un uomo già divorziato?». «Guarda che tuo padre non ti dice, Carla, queste cose per farti stare male, ma perché vuole solo – come lo voglio io – che tu stia bene. E non ti fare impressionare dal tono della sua voce, mettiti in testa che tuo padre, ora, è molto addolorato». Tutti gli angeli del paradiso Eros chiamò a testimoni dei suoi discorsi; affinché gli dessero delle buone ispirazioni per convincere l’animo di sua figlia. Perché d’istinto sentiva che sua figlia, con quella scelta, faceva un salto, varcava un fosso. «Guarda Carla – continuò – che tutti i peccati si commettono fuori del corpo, ma il peccato di fornicazione, di lussuria sessuale, è l’unico che noi commettiamo dentro il nostro corpo. Questo lo dice espressamente san Paolo nella sua lettera ai Romani, te la ricordi, quando te la leggevo da bambina? E perché dice di fuggire la fornicazione? Forse perché la sessualità non è una cosa buona, attraente, regalataci da Dio? Nient’affatto. Solo per farci capire che commettendo quest’azione nel nostro corpo non facciamo un uso, ma un abuso di tale regalo. Ricordati che per la veemenza delle sue sensazioni, le tue facoltà – memoria, sentimenti, volontà e intelligenza – ne restano grandemente scompigliate e tu ti ritrovi a desiderare ciò che non è buono agli occhi del Signore».
Ma lui sentiva di parlare ad un muro di gomma. Sua figlia rimaneva immobile, dietro sul seggiolino, come se lui parlasse ad un’altra. Eros Calamai, forte sempre e debole mai, cominciò ad avere paura del futuro di sua figlia: cosa ne sarebbe stato della sua vita? La sensazione più triste, però, fu l’impressione di aver discusso con un’estranea. Anche quella era stata una bella mazzata, non c’era che dire. Nella sua vita, familiare e professionale, da un po’ di anni succedevano cose piene di minacce. Avvenimenti intimidatori, come promesse di male che lo infilzavano anno dopo anno. Forse – pensò – che egli avesse da scontare per colpe commesse dai suoi avi? Gli rimuginava in mente quella frase della Bibbia - «Io sono un Dio geloso che colpisco le colpe dei padri nei figli…» - ma poi gli venne in mente Gesù che perdonava l’adultera, e non lanciava la pietra, LUI che in fin dei conti avrebbe potuto. Comprese che né lui, né Margherita erano riusciti a trasmetterle la Bella Notizia, ma gira e rigira solo regole e tradizioni: due pietanze fredde. Nel frattempo erano arrivati in cima al viale; erano più sotto alle colline ed Eros vide un’ultima striscia di alone rossastro, incoronare le creste dei monti, come gobbe di cammelli adagiati. Girò a destra, oltre il semaforo, fermandosi poco dopo davanti all’officina del meccanico. «Devo scendere» disse Carla e, senza dire altro, aprì lo sportello e si diresse veloce verso l’officina. Camminava veloce sul marciapiede e in pochi attimi scomparve dietro la siepe che costeggiava l’edificio. Lui fece manovra e ritornò indietro. Nel silenzio che avvolgeva l’abitacolo, poiché ognuno se ne stava perso nei propri pensieri, Eros chiese aiuto a Dio in quanto si sentiva insufficiente al compito che quell’avvenimento gli metteva davanti. «Aiutami Spirito Santo» pregava «a farle capire l’amore di puro dono». Ma gli sembrava una specie d’utopia nella situazione reale che viveva sua figlia. D’altronde era riuscito lui a vivere sempre l’amore di carità, libero e puro da interessi e contraccambi? No. Così il vangelo gli appariva sempre più come un paradosso, un’assurdità ed una esagerazione, buona solo ad illuminare un’ora settimanale – quella della Messa domenicale -, mentre dal lunedì mattina al sabato notte funzionava un’altra economia, un’altra legge del sistema, con regole molto più ferree e appuntite. Le parole di LUI se ne rimanevano lì a mezz’aria con quelle asserzioni incredibili «A chi ti percuote una guancia tu porgi anche l’altra, e a chi ti chiede il mantello tu dagli anche la tunica». Si mise a ridere, pensando, che allora tanto valeva – con quel tipo - farci andare a letto anche la Laura. «Che ridi?» gli disse sua moglie «Non mi pare proprio il caso».
«Niente. Pensavo all’impossibilità di vivere il vangelo, forse provo un po’ di stanchezza non lo so… ma sto provando una divisione dolorosa tra la Parola di Vita e la vita terrena, diciamo così». «Mah. Chi lo sa. So solo che come nostra figlia ce ne sta una per uscio. Forse ha ragione lei… Forse che noi perché ci siamo sposati nel Signore, con tutti i crismi scendenti dall’alto, abbiamo avuto una vita migliore?». «Taci. Tu mi metti solo confusione nell’animo. Ha ragione? Per me no. Ma poi, chi lo sa. Gli ultimi saranno i primi, e i primi saranno gli ultimi…la verità è che razionalmente non ci si capisce nulla. La soluzione non c’è». Quando chiuse la porta del garage, nello sforzo di fissare bene il chiavistello, si accorse che le sue mani tremavano. Per la prima volta, rifletté che aveva i capelli brizzolati e che un’enorme tonsura posava sulla sua testa. Creava un grande spazio tondo al quale facevano corona, in tondo, i capelli rimasti. Aveva sempre odiato la calvizie ed ora se la ritrovava, incipiente, sulla testa.
7a.
Quando Carla, mia sorella, mi raccontò del suo amore che era sbocciato per Franco io fui contenta per lei. Ce ne stavamo chiotte, chiotte, accucciate in quel letto a cancello, che cigolava se ci giravamo troppo velocemente, nella misera cameretta dove ormai abitavamo. Mi raccontò come lui aveva saputo confortarla nelle sue difficoltà, e di come – come mai prima d’ora – si fosse sentita protetta, difesa e tutelata dalla sua presenza. Tutta un’altra cosa che l’esperienza con Andrea. Buon ragazzo, ma il loro amore sbocciò troppo presto - Carla aveva solo quattordici anni - così rimase sempre una relazione da adolescenti. Poi non fosti tu, che dicesti che era troppo giovane per un fidanzamento vero e proprio? Vedi, anche quella volta, tu la contrariasti. Tu mi dici sempre «Laura guarda di non fare come la Carla». Ma cosa fa in fin dei conti mia sorella? Da come mi parla sono sicura che ha trovato l’uomo della sua vita. Non l’ho mai vista serena e forte come adesso. Oggi mi ha detto che Franco è veramente delicato con lei. Mi ha raccontato che l’ha portata sul trattore nei suoi campi, e quando l’ha sollevata per la vita, facendola scendere da quel bestione le sue mani forti e callose, cotte dal sole, che prima la stringevano così forte, poi si sono trasformate in due piume soffici quando la accarezzava. È stata con lui a vedere i suoi campi, e lui le ha detto «guarda anche se sono rimasti pochi contadini, io sono felice di fare questa vita, perché vivo con la natura e la natura vive con me, e di questo mondo mi piace tutto». Hanno fatto una eggiata sulla proda del campo, dove le spighe erano alte, e poi sono stati abbracciati e Franco – apionato – le ha detto che voleva stare tutta la vita con lei, che non sarebbe stata un’avventura. Non c’è stato niente di violento, o di volgare ma un amore molto delicato e sensibile. Poi lui ha cominciato a falciare il grano e ha detto a Carla che quest’anno avrà un bel raccolto, non so quante centinaia di quintali di grano, e poi granturco, e poi a Settembre mieterà l’uva e a Novembre farà l’olio, perché ha più di mille olivi muraioli. Quella parola non l’avevo mai sentita, ma mia sorella tutta felice ha detto proprio così “muraioli”. Vedi babbo, quello che mi rende perplessa con te, è questa tua apertura a parole che poi diventa a volte chiusura assoluta sui fatti. Da una parte sembri apertissimo, poi diventi
chiusissimo. Per te contano solo tre cose: la castità e la verginità; il contentarsi del necessario che abbiamo, la cosiddetta povertà evangelica; il non volere spintonare gli altri per avere il primo posto: «l’obbedienza». Perché la ricerca del potere tu dici – quasi spaventato – è la radice di tutti i mali, insieme alla fama dei denari e al piacere sessuale disordinato. Però nella mia mente si agitano migliaia di pensieri diversi. Sono abbastanza grande, adesso, per vedere di come piogge scroscianti ci siano cadute addosso. Mi ricordo di quando il nonno diceva che non bisogna contentarsi mai, e ti spronava ad avere una ditta tutta tua e a diventare un grande industriale. Tu invece mi sembri in balia degli avvenimenti. Non cerchi mai di guidarli, ma attendi, stai a vedere quello che succede. Come uno che se ne stesse fermo sotto una pioggia battente, e invece di ripararsi, decidesse di rimanere lì, all’aperto, diventando tutto fradicio aspettando la «provvidenza» del sole. Io invece prenderei provvedimenti, mi rifugerei in casa e mi cambierei d’abito, asciugandomi prontamente. Ti dico questo, babbo, perché mi sembra che con questa tua benedetta «provvidenza» tu non faccia altro che diventare sempre più fradicio. Per la qual cosa è perfettamente inutile che tu mi dica «Laura guarda di non fare la fine di tua sorella Carla». Francamente parlando mia sorella ha fatto una gran bella fine, perché non l’ho mai vista così appagata e felice.
8.
Eros Calamai anche se con la faccenda della figlia andata via di casa aveva molto sofferto, adesso s’era messo l’animo in pace. Primo perché Carla gira e rigira se ne stava a cento metri da casa con il suo agricoltore; secondo perché il nostro animo fa l’abitudine a tutto, e ciò che poteva apparire inaccettabile e terribile all’inizio, poi assume un aspetto quasi normale. Nel frattempo la terra aveva pensato bene di girare intorno al sole per due volte, come pure Franco fare altre due vendemmie, ed Eros avere la capigliatura più brizzolata. Quella sera, tornando da scuola all’ora di cena poiché aveva avuto gli scrutini, incontrò Paolo sul marciapiede, così fecero l’ultimo tratto di strada insieme prima d’entrare in casa. L’unico maschio che avesse, in quanto Pietro era andato direttamente in cielo, gli era sempre sembrato un ragazzo contento. Eros si limitò a chiedergli come fosse andata la giornata, le solite cose che si chiedono di routine. Fu a questo punto, quando lui stava infilando la chiave nella toppa per aprire la porta, che suo figlio gli disse quelle poche parole, che ebbero nel suo animo lo stesso effetto d’un bombardamento a tappeto su una città. «Babbo, ma tu non crederei mica sempre a quelle novellette del Paradiso, Inferno e Purgatorio vero?». Pensando si trattasse d’una battuta, la buttò sullo scherzo, ma suo figlio non aveva nessuna voglia di scherzare. Seriamente gli espose le conclusioni a cui, in piena sintonia con il professore di filosofia era arrivato, e fu solo allora che Eros Calamai sprofondò in una palude. Si deve sapere, infatti, che lui – da fervente cattolico – aveva un desiderio segreto, un progetto arcano del quale nemmeno Margherita era stata messa al corrente. Trattavasi di un sommo ideale alla cui realizzazione egli aveva dedicato dalla nascita del figlio quasi vent’anni di ferventi preghiere: la consacrazione di suo figlio come sacerdote. Di fronte a tale obiettivo tutti gli altri traguardi agli occhi di Eros impallidivano. Nessuno poteva stare al suo pari. Scoprire così adesso, all’improvviso, che non solo Paolo non pensava minimamente ad entrare in seminario per la vocazione sacerdotale, ma
che non ne voleva più sapere neppure della semplice consacrazione battesimale e aveva buttato la fede alle ortiche, lo riempì di amarezza. A cena parlò con suo figlio serratamente. Sperava che illuminandogli le ragioni della fede e del grande progetto esistenziale da figlio di Dio, Paolo riconoscesse alla svelta il suo errore, e alla fine la mano del Signore – lo Spirito Santo – gli fe aprire gli occhi. Ma quale fu la sua sorpresa quanto criticandolo punto per punto, quel figlio si dimostrò molto più pervicace, lasciandolo nella desolazione più piena. La mente gli andò alla famiglia accanto, dove andava due volte al mese ad animare un gruppo di vangelo; cosa avevano fatto loro di tanto importante per meritare tre figli gioiello, che non avevano sgarrato dal retto sentiero nemmeno d’un millimetro? E lui cosa aveva fatto di tanto tremendo per meritarsi un figlio dichiaratamente ateo, simpatizzante dei centri sociali d’estrema sinistra, in cui andava a sbattersi per intere nottate? La famiglia del Magni, perbacco, era felice, invece la sua si stava dimostrando una mela marcia. In teoria il rimedio consisteva nella semplice modalità di toglierla dal paniere. Dunque via Carla. Ora via Paolo. A quando il togliere anche Laura? Ironia della sorte lui che aveva profuso tutte le sue energie per formare una famiglia cristiana modello, dove l’amore per Dio circolasse come principio vitale, si ritrovava ora con un paniere tutto marcio. Dove aveva sbagliato per meritarsi tutta quella sfortuna, e cosa aveva fatto mai il Magni per meritarsi quel figlio integerrimo, andato missionario in Tanzania con i scani? Perché la cosa che l’aveva scandalizzato di più era stata, proprio, la testimonianza di Saverio, il figlio del Magni. Ritornato per un mese dalla missione, una sera l’aveva invitato a casa sua, nella speranza che i suoi figli sentendolo parlare s’innamorassero del celeste maestro. Ma quale non fu la sua sorpresa, anzi la sua rabbia che diventò presto invidia vera e propria, quando alla domanda di come suo padre da piccolo l’avesse istruito nelle verità di fede si sentì rispondere che nient’affatto, il vecchio Magni era sempre stato un anticlericale e non gli aveva trasmesso niente di verità spirituali, anzi disse Saverio ridendo, mi raccontava delle barzellette sconce del tipo: «Bongo Bingo nel davanti te lo spingo, Bingo Bongo nel di dietro te lo pongo». Alla risate pacchiane dei suoi figli, insieme a quelle di Saverio, si unì anche lui, ma nel suo cuore lacrimava. Dunque nella famiglia Magni non c’era mai stata un’istruzione religiosa, nel senso comune del termine, ma anzi delle barzellette come quella alla Bingo Bongo. E tu guarda qui il risultato: un missionario laico scano. Mentre lui dopo aver speso più di vent’anni di sforzi colossali, per
dare ai suoi figli un quadro organico e sistematico del grande edificio cristiano si ritrovava ora con una figlia peccatrice, un figlio ateo e una moglie indifferente. In più dopo aver parlato, in quegli anni, con il Magni di cose personali s’era convinto che – anche se non viveva nell’abbondanza – pur tuttavia niente di doloroso o di grave gli era mai capitato. Niente di assolutamente paragonabile alle sue traversie. Meno male, si disse, che Laura cresceva diritta come un fuso: rappresentava la sua consolazione.
8a.
Ti trovi a tavola per il pranzo domenicale. Ma non c’è più nessun lampadario , né stanze risplendenti. Neppure tu pensi più alla gloria domenicale della resurrezione, mezzo morto come sei: perché Carla è andata un mese al mare con l’agricoltore e Paolo non sai nemmeno dove sia, fissato com’è con l’Interrail. Prende il treno a Firenze e scorrazza per due settimane per tutta Europa, scomparendo per quindici giorni. Laura è andata a Londra alla pari, dovrebbe tornare – dice - alla fine del mese. Pensi che gli altri siano come dei grossi massi, delle pietre troppo pesanti per muoverli o dirigerli dove vorresti tu. O meglio dove vorrebbe il Signore, che tu non vuoi certo essere obbedito perché sei tu, allora saresti una specie di dittatore, un Hitler delle pareti domestiche; ma perché sai che lo vuole Dio, e LUI vuole solo quello che è il nostro bene. Scuoti il capo ed emetti un sospiro. Non a inosservato, Margherita ti dice: «Che hai?». «Niente» e fai spallucce. «Non è vero, non me la canti giusta, io ti conosco, quando sospiri così è perché c’è qualcosa che ti rode». «Ma che rode e rode non ho niente» e biascichi il boccone che non ti va giù. Hai cercato di aggirarla, ma lei insiste, vuole sapere perché oggi non ridi, siamo nelle ferie d’Agosto perbacco. Allora tu ti sforzi e cerchi di spiegarle l’immagine, la metafora delle grosse pietre, dei pesanti massi. Lei ti scruta e anche se se ne sta ferma davanti a te, hai l’impressione che sia come un felino che ti giri intorno per osservarti meglio. Una specie di leonessa in cerca di preda. Margy ti fissa attenta, ci crede davvero a quello che le stai spiegando o fa finta solamente? La risposta ti arriva dopo qualche attimo. «Ma perché ti vuoi sforzare così per nulla? Tu fai la tua vita, gli altri la loro, compresi i nostri figli. Scusa poi sei in contraddizione, o non hai sempre sostenuto che Dio lascia libertà completa? E allora?».
«No, non hai preso coscienza di quello che volevo spiegarti». «Invece ho capito benissimo. Guarda che il paragone con la pietra non esiste proprio. I nostri figli non sono mica duri come quei massi che hai descritto tu. Per me vedi molto più nero l’orizzonte di come sia in realtà». Tu cerchi di ribattere che non sei pessimista, il cristiano è l’uomo della speranza e della resurrezione. Anche se perdente sulla cronaca è sicuro di vincere sulla storia; sulla distanza lunga è vittorioso perché Cristo ha vinto pure per lui. Le dici che oggi il sole è scintillante d’oro ed è una bellissima giornata, e che Dio può trasformare anche le pietre in figli d’Abramo, LUI sa fare anche i miracoli. Allora ti grida: «Ricominci con le pietre e i miracoli?» E ti tira fuori la storia del marito della Grazia, quello che fa il muratore. Tu obietti – sapendo già dove andrà a parare – che sono più giovani di una decina d’anni di noi. Ma lei insiste che Grazia le racconta tutto; suo marito sì che è un uomo: non perde colpo. Tutte le mattine che Dio manda in terra, alle cinque precise, prima d’andare a lavorare, fa l’amore con sua moglie, le porta il caffè a letto e poi esce. Tutte le mattine da più di dieci anni. Tu annuisci con la testa spiegando che è un bel record, e cerchi di consolarla perché se ti ha detto questo è segno che si sente trascurata. Va bene la fede, la speranza e la carità, va bene le pratiche di preghiera e i giorni d’osservanza come la Domenica. Anche gli sforzi della volontà, i sacrifici, l’astinenza e il digiuno al mercoledì delle ceneri e al venerdì santo, tutte cose vere e sante. Ma il fatto è che oggi stai attraversando un periodo delicato, vorresti metterti a gridare tutto quello che ti viene in mente, perché ti senti come Giacobbe. Anche tu hai combattuto con questo personaggio misterioso, è tutta una vita che combatti, che ti sacrifichi, che cerchi di immolarti sull’altare come un piccolo Cristo, ma almeno Giacobbe sul far dell’alba sullo Jabbok ebbe il dono di un nuovo nome e la promessa di diventare un grande popolo. Ma tu? D’accordo sei un seguace del Cristo, sei un suo fervente fedele, ma maremma maiala tutte queste scelte in netto contrasto con tutto quello che fanno gli altri – anche quelli bontà loro che dicono di avere la fede e poi fanno peggio degli altri -, tutte queste scelte dico, dove ti porteranno? Non è che ti ritroverai morto di fame abbandonato da tutti, senza aver compicciato nulla nella vita, non solo per di qui, ma anche per di là? Fallito di corpo e fallito d’anima? D’altronde hai accettato liberamente la dinamica battesimale. Ricordi? Sei morto al mondo, immerso nella morte di Cristo alla terra, per risorgere con LUI nel cielo. Ma tu nella tua vita adesso non vedi altro che morte e rovine, mentre della scintillante resurrezione non vedi neanche l’ombra. Nel frattempo hai finito di spazzare, lei
ha finito di rigovernare e non trovi niente di meglio che recarti in camera con Margy, dato che è domenica pomeriggio e ti ricordi della parabola del muratore.
9.
Laura doveva tornare, ma non tornò. A fine Agosto arrivò una lettera che a Londra ci stava benissimo e una sua amica l’aveva avvisata che cercavano un’impiegata per un albergo. Scriveva, felice, che l’avevano subito assunta a tempo indeterminato nella reception, poiché era italiana. Infatti la stragrande maggioranza dei clienti di quel grande albergo era italiana. Aveva anche mandato, insieme alla lettera, una fotografia. Eros Calamai ogni tanto la toglieva dalla busta e se la rimirava. Laura sorrideva, davanti a quel lungo bancone della reception, indossando un’elegante divisa. Un pantalone blu scuro, una camicia bianca con il collo a trine, e sopra un corpetto rigato a strisce sgargianti rosse e verdi. Indossava anche un cappellino, stile bustina militare come gli americani nell’ultima guerra, ma – puntualizzava nella lettera – era solo per la foto, perché non lo metteva mai. Siccome era una brava ragazza una volta la settimana telefonava. Diceva che era davvero felice e che si sentiva “realizzata”. Eros Calamai rispondeva sempre per secondo, che prima parlava con sua mamma. Margherita si illuminava tutta quando riceveva la telefonata di Laura, e gettava come un gridolino di gioia appena sentiva la sua voce. Voleva sapere tutto, ogni cosa che le accadeva, ma Laura giustamente replicava che non si poteva stare a telefono delle ore. Ma siccome la bocca parla per la sovrabbondanza del cuore Margy ribatteva che era sua madre e che voleva sapere tutto. Così tra gridolino e richiesta di tutto, chiamata e risposta di non tutto, se ne andava via metà telefonata. Poi la conversazione aveva un momento di indecisione, senza argomenti, come una macchina rimasta senza carburante che vada avanti a strattoni, allora Margy diceva «Ti o tuo padre», ed entrava in scena lui. Dato che le cose principali erano state già dette Eros partiva svantaggiato. Conoscendo per esperienza che gli rimaneva un minuto o poco più, le chiedeva se andava alla Messa e lei rispondeva “sì”; ma poi gli nasceva un dubbio e le suggeriva di andare in una chiesa cattolica, perché - stai attenta - là ci sono le chiese anglicane che sono vuote della divina presenza; infatti Gesù Cristo risorto
non c’è, il tabernacolo eucaristico non ci sta e allora lei – per tranquillizzarlo – diceva “ sì, sì stai tranquillo vado ad una chiesa cattolica”. Allora lui si sentiva stringere il cuore, gli veniva come un magone, e dai suoi occhi traspariva un lucore acquoso, perché stavano per affiorargli delle lacrime che però bloccava andosi il dorso delle mani sugli occhi. Potreste congetturare che fosse emozionato per la voce della figlia, ma sbagliereste, non si trattava di questo. La cosa che lo faceva traboccare d’emozione era la strabiliante potenza, l’esaltante grandezza della cattolicità della chiesa. Che dopo venti secoli in ogni paese del mondo la gente si ritrovasse per inneggiare a LUI, l’ex falegname di Nazareth, questo lo faceva traboccare d’emozione. E Eros Calamai, forte sempre e debole mai, vedeva sua figlia protetta da quel grande ombrello della depositaria della verità rivelata, di quel prolungamento di Cristo nel tempo che è la chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Gli sembrava che sua figlia fosse come sotto le pieghe di una grande veste, riparata da quella grande gonna circolare che poi altro non era che il lembo, l’orlo della veste della vergine, Maria Santissima. Era tempo di terminare, lui salutava la figlia e lentamente riattaccava il ricevitore, sempre dopo aver sentito dall’altra parte il “tu-tu” della comunicazione finita. Le ore volano e anche i giorni. Quattro settimane fanno un mese, e dodici mesi fanno il tempo che la terra impiega per circumnavigare intorno al sole. Essa, come ogni anno, decise bene di girargli intorno compiendo un giro completo. Eros Calamai pensò che siccome lo faceva da milioni d’anni, senza sgarrare mai, l’ingegnere che aveva ideato quel meccanismo – perbacco – doveva avere un bell’encefalo. Lo gnegnero ce l’aveva anche lui, ma al contrario delle cose escogitate dall’altro ingegnere che duravano secoli e secoli e funzionavano senza stancarsi, le sue procedevano lentamente, come un rigagnolo su un greto sassoso, a stento, e non diventavano mai potenti, maestose. Rachitiche non crepavano, ma neppure crescevano e sembravano non portare frutto. Se c’era un’immagine che fotografava la sua vita Eros Calamai l’aveva individuata in un viandante che, dal finestrino d’un treno, vedesse venirgli avanti la distesa d’un deserto. Un deserto: questa era la raffigurazione, la foto della sua vita. Arrivarono nuove telefonate, udirono nuovi saluti, ci furono altre richiesta di dire “tutto” e risposte che non c’era tempo per dirlo, e Eros Calamai sentì molte volte la consolante notizia che Laura se ne stava sotto il lembo della veste di Maria Santissima. Un pomeriggio domenicale, sul tardi, udirono squillare il telefono. Nell’animo di entrambi fu come se un banditore avesse urlato: «telefonata per i coniugi
Calamai». Si presentarono emozionati all’appuntamento con la cornetta. Come sempre si misero in fila: prima Margherita, poi Eros. Si dissero le solite cose, come altre decine di volte, contenti di quel prodigio della tecnica che rendeva presente la voce della figlia come se fosse lì. Però loro stavano ad Agliana e Laura se ne stava là, a Londra. Era nel medesimo tempo una verità e una menzogna, una realtà e un’illusione. Poi la voce andò via e Eros Calamai, come sempre, riagganciò dopo. Qualcosa di nuovo, anzi d’importante però c’era stato, perché Laura aveva detto di attendere una lettera con una foto. Loro avevano replicato, un po’ agitati, che volevano sapere assolutamente di cosa si trattasse, ma la figlia aveva tagliato corto dicendo che non si dovevano preoccupare, perché era “a beautiful thing ”. Dato che Laura aveva detto che l’aveva già imbucata aspettavano il postino da un giorno all’altro. Una mattina l’impiegato postale arrivò, fece firmare a Eros Calamai una ricevuta e se ne andò. Siccome aveva sentito il camlo venne anche Margherita. Se ne stavano lì sul marciapiede ed erano indecisi se aprirla subito, o dopo essere rientrati in casa. Eros la tastò e sentì che conteneva diversi fogli, era abbastanza spessa con una specie di rigonfiamento nel mezzo. Si mossero e appena entrati in casa lui aprì la lettera. Cominciò a leggere, ma non aveva ancora letto metà della lettera che scrutando meglio la foto sentì mancarsi le forze, le gambe non lo ressero più e cascò a sedere d’un botto. Margherita gli prese i fogli con piglio deciso e lesse a voce alta, nel silenzio più completo della stanza. Arrivata, però, anche lei all’ultima facciata di scritto non ce la fece ad andare avanti e s’accasciò sulla sedia. «Perché non dici niente, Eros?». «E che posso dire sono scioccato». «Ma non si può fare niente? Non possiamo stare fermi, ad aspettare qui, sarebbe meglio andare in Inghilterra. Tu che dici?». «Si può benissimo andare a Londra, ma cosa credi di concludere? Il dado è tratto, alea iacta est, non si può distruggere una vita già iniziata. Sarebbe un abominio, Margy, agli occhi del Signore». «Ma, ma… questa è tutta un’altra cosa, qualcosa di strabiliante chi ha mai sentito dire d’una donna che fa un figlio senza un uomo? Cosa sarebbe questa “banca del seme” nella quale è andata, come si va a fare le compere al
supermercato? Da quando in qua sugli scaffali si vende la vita come un chilo di pasta? Perché ha deciso di mettersi un figlio sulle spalle senza l’aiuto d’un compagno? E come farà a continuare a lavorare?». Infervorata Margherita continuava a parlare, ma Eros non la sentiva più. Lui guardava quella foto di sua figlia con quell’abito premaman, con la faccia sorridente, e quei depliant rappresentanti quella protuberanza che aveva sentito al tastare la lettera. Lì si magnificava una clinica londinese di fecondazione artificiale, dove qualsiasi donna con una cifra abbordabile poteva togliersi lo sfizio di diventare madre. Egli guardava tutti quei diagrammi illustranti le percentuali di successo di tale tecnica, come pure tutte le facce di quelle donne sorridenti con in braccio i bambini piccoli. Nella stanza regnava un silenzio di tomba, ma dentro di sé sentiva il boato tremendo d’un terremoto. La clinica si vantava della serietà adoperata per scegliere i donatori, rigorosamente anonimi. Essi dovevano are attraverso un vaglio di analisi e prove per poter donare il loro seme; proprio questa griglia – insisteva il depliant – rappresentava la miglior garanzia sulla prole futura: uno sperma “d.o.c.”. Dapprima pensarono di non dire niente a nessuno, ma poi – dato che Laura avvisava che sarebbe tornata una settimana a Natale con il bambino – compresero l’inconsistenza di tale ipotesi. In capo a un’ora tutta la famiglia seppe la buona novella e – manco a dirlo – Paolo e Carla furono felicissimi della cosa. D’altronde si poteva continuare a mettere trampoli alle possibilità della scienza? Stavolta però Eros Calamai, forte sempre e debole mai, non si ritrovò solo: Margy si mise al suo fianco e gli dette ragione in tutto e per tutto. Alle sei del mattino dopo, si alzò come sempre, dovendo andare ad insegnare a scuola. Uscì lesto da letto, cercando di non fare rumore, anche se sapeva benissimo che Margy sentiva tutto. Andò in bagno si fece la barba, poi si mise a pregare le lodi mattutine nella piccola stanza dell’ingresso. Cercava di concentrasi sull’inno e sui salmi, ma la mente gli divagava, e un dolore bruciante lo investì strizzandogli – come un artiglio d’aquila – lo stomaco e le budella. Di sicuro, pensò, si trattava della solita colite spastica che si riaffacciava. Proseguì la preghiera nell’aridità più completa, senza provare alcun diletto nel proprio animo, e pensò che tra due giorni sarebbe iniziata la quaresima, con il mercoledì delle ceneri: astinenza e digiuno. Però, per lui, era iniziata prima: «pulvere es, et in pulvere reverteris, polvere sei, Eros Calamai, e in polvere tornerai». Allora si mise a protestare con LUI reclamando che aveva sempre professato la volontà d’essere un suo servo, ma che non capiva perché era degno di castigo invece che di premio. Aveva forse lui disgustato Gesù con innumerevoli peccati, o con
colpe inavvertite? Le inavvertenze chi le discerne? Liberami - chiedeva a Gesù di questa croce. Alzandosi per recarsi al lavoro si confermò nell’idea che lui, del mistero di nostro Signore, conosceva abbastanza le sofferenze della ione e i chiodi della crocifissione, ma che poco gli era toccato della gioia e della gloria della resurrezione. Comunque quel natale fu una doppia festa. Anche Carla aspettava un bambino da Franco e insieme a Laura, tornata per una settimana, arono giorni felici. Siccome non c’era posto per tutti, nella misera casa dove abitavano, fu deciso di recarsi a casa di Franco. Ma per Eros Calamai, forte sempre e debole mai, non fu un natale nel senso più autentico del termine. Mangiarono e bevvero tutti felici, dato che il pranzo fu luculliano. Il brodo di cappone e lo zampone con le lenticchie, che una famiglia contadina come Franco si faceva da sé, lui se lo sognava. Tuttavia si sentiva intristito e sapeva bene da cosa dipendesse. Nessuno prima di mangiare s’era fatto il segno di croce, nessuno in quella casa aveva pronunciato non dico una preghiera completa, ma nemmeno due parole per lodare e ringraziare Dio di quel giorno benedetto. Gettando un’occhiata alle pareti, scrutò i quadri e le stampe che c’erano appese. Una in particolare lo colpì, c’era raffigurato uno che sembrava Gesù Cristo. Ma aveva un cappello strano e un sigaro in bocca, ed alzava la mano a pugno chiuso. Sopra portava una scritta “hasta la victoria siempre”. Paolo lo sbirciò e facendo un mezzo giro su se stesso, mettendo la faccia davanti alla sua gli disse: «Babbo, gli rassomiglia ma non è Gesù Cristo, è Che Guevara». Così finì quel natale per Eros Calamai. In lui era crollato tutto. Solo il mondo rimaneva fermo, calmo e placido, come se non fosse successo niente.
9a.
Eros, ti posso capire ma fino ad un certo punto. Se la nostra società è così che cosa ci vuoi fare? Anch’io sono rimasta esterrefatta da questa fecondazione artificiale eterologa, come l’ha chiamata il dottore. Ma quando vedo quel povero bambino mi si scioglie il cuore, come quando viene la Carla a portarmi Chicchino, e mi dice: «Mamma me lo guardi che devo andare a lavorare?». Cosa dovrei fare? In fin dei conti loro sono carne della nostra carne e ossa delle nostre ossa, innocenti come Cristo. Anche quando sono stati battezzati, tutti e due insieme, e il sacerdote ha detto a Carla e Franco: «Cosa chiedete per il vostro bambino?» loro hanno risposto: «La fede e la vita eterna», ho sentito che tu hai avuto un sussulto. Infatti la sera prima, a letto parlando sottovoce prima di addormentarci, tu sostenevi che era un ipocrita. Non poteva, Franco, chiedere la fede per il suo bambino, se non ci credeva lui per primo. E che istruzione religiosa avrebbe impartito a suo figlio, quali certezze di fede gli avrebbe trasmesso? Di sicuro gli avrebbe parlato con ammirazione di Che Guevara e mai di Gesù Cristo. E lo stesso dicesi per Laura, vedova volontaria, ante litteram. Il fatto è che possiamo metterci a ragionare per ore e ore di tutta questa accozzaglia di fatti che ci sono successi, ma una linea di demarcazione, un taglio netto per districare questa matassa – come potrebbe fare un chirurgo con il bisturi – io non so tracciarlo. E sicuramente neanche tu. È proprio questa impossibilità pratica di discernere dove sta il bene e il male che mi blocca. D’altronde pure tu, che sostieni di avere Dio per amico, con tutta la tua fede, che cosa hai concluso? Dove ti hanno portato tutti quei discorsi eccitati, con quel tuo viso diventato rosso dallo sforzo, mentre discettavi di queste due figlie? Tutto quel santo zelo, tutte quelle accese dichiarazioni sul peccato da condannare, e i compromessi con le collusioni da evitare altrimenti li aiutavamo a peccare, il desiderio veemente di ergersi da giudice, la spinta violenta di rompere ogni rapporto, tutte quelle emozioni violente che ti facevano perdere la tramontana. Dove ti hanno portato? Te lo dico io: neanche d’un millimetro avanti a me. Perché poi dicevi che il Signore non ci vuole intransigenti e crudeli, ma comionevoli, in quanto dobbiamo sì censurare il peccato, ma amare i peccatori. E allora, ancora una volta, sperimentavi il medesimo senso di
impotenza che provavo io, con poca fede. Eros Calamai, tu oscilli paurosamente da momenti di esaltazione, di incontenibile entusiasmo, come quando sostieni di essere partecipe della divinità di Cristo che ti sta preparando una gloria eterna, superiore in grandezza a qualunque valutazione umana; a momenti di depressione spirituale paurosa, quando ti accorgi che i semi di questa gloria eterna, altro non sono che tutte queste fregature che pigli dalla mattina alla sera. Cosa ti serve dunque dire:«Cosa darò in cambio al Signore per tutto quello che mi ha dato?», se un’ora dopo dici:«Perché mi hai dimenticato, perché triste me ne vado oppresso dal nemico?». Vedi? Anche tu in questo misterioso miscuglio del bene che danneggia e del male che avvantaggia, non sai più che pesci prendere. Guarda pure la tua professione e vedi se non ho ragione. Quando cominciasti ad insegnare religione nelle scuole eri uno stimato docente, ma pochi anni dopo venne fuori quel presidente del consiglio, come si chiamava? Ah, Craxi. Pensò fosse buona cosa rivedere il Concordato con la Chiesa. E da buon socialista avvisò la sposa del tuo Signore che non voleva più dare la congrua ai sacerdoti. E la tua chiesa che fece? Disse: «Noi ci consideriamo come appartenenti al Cristo povero e umile e ce ne freghiamo dei tuoi quattrini. A noi basta il regno di Dio il resto è un sovrappiù». Oppure dissero: «Orsù, venerabili fratelli insigniti del sacro ordine dell’episcopato questo è un momento cruciale, che facciamo? Possiamo avere l’opportunità dell’otto per mille sull’IRPEF della nostra bene amata nazione, ma in cambio dobbiamo buttare a mare gli insegnanti di religione. Craxi, infatti, chiede che tale materia diventi facoltativa, non più obbligatoria per ogni scuola di ordine e grado, con tutte le conseguenze che possiamo immaginarci: la fine della cultura religiosa e spirituale, nelle scuole statali, per le giovani generazioni». Che fecero? Lo sai bene! Al punto che eri indignato e nella confusione più completa. E quando ti dissi che anch’io avevo mille dubbi su questa tua scelta esistenziale, per campare la famiglia, mi rispondesti: «Mille grammi di dubbi non fanno un grammo di certezza». Quindi tu te ne stai con il tuo grammo di certezze. Io con i miei mille di dubbi.
10.
Eros Calamai, forte debole e debole mai, stava spiegando in 4ª Liceo l’essenza del peccato originale. Siccome si trattava di una delle unità didattiche più complesse dell’anno scolastico, la stava illustrando da un mese. Prima aveva spiegato l’aspetto ontico, ovvero del modo di essere dell’uomo, indipendentemente dalle sue libere azioni, consistente nella privazione della grazia santificante; poi era ato all’aspetto personalistico. Cioè la tendenza ad atti liberi cattivi, per cui la corruzione non esiste solo in seguito ad azioni di volontà altrui, ma esiste anche nella nostra stessa volontà, entrando così nella sfera della moralità, potendosi chiamare quindi «peccato». Stava appunto spiegando la differenza tra peccato originale e peccato personale, ovvero di come il primo sia addebitato alla natura e non renda l’uomo personalmente colpevole; mentre il secondo, avendo origine da un atto peccaminoso del medesimo soggetto, ci renda – invece - personalmente colpevoli. quando sentì bussare alla porta: «Avanti» disse. «Prof. Calamai alla fine dell’ora si deve recare in presidenza» l’avvisò il bidello. Pur non sapendo di cosa si trattasse Eros – o meglio il prof. Calamai che a scuola siamo tutti “professori” – sentì puzza di bruciato. Erano tempi duri, periodi in cui il suo lavoro gli pareva più simile ad una guerra di trincea che ad una qualsiasi professione. Non ava giorno che qualche collegio dei docenti, oppure qualche consiglio di classe, o qualche genitore di estrazione marxista, o liberale radicale, non fe appello al nuovo concordato per trovare nell’articolo tale o talaltro un’arma per sparare sull’insegnamento della religione. Parevano tutti sciami di api impazzite alle quali fosse stato disturbato l’alveare, alle quali sembrava che di tutti i problemi che affliggevano la scuola italiana il più eclatante fosse quello dell’ora settimanale di religione. Ogni prof. di religione, sballottato tra riunioni dell’ufficio scolastico diocesano in cui si delineava un quadro, e tra riunioni a scuola in cui quel medesimo quadro risultava completamente rovesciato, cercava di sopravvivere come poteva attraverso una propria via di scampo, o come si dice con un proverbio toscano di
«farsi la scarpa per il proprio piede». Camminando nel lungo corridoio, per dirigersi verso la presidenza, ripensava appunto a ciò che era accaduto nell’ultimo collegio dei docenti. Diversi colleghi s’erano comportati in modo spietato contro la chiesa e la religione, al punto che si sentiva come Gesù quando con il cartello attaccato al collo stava salendo il calvario. Anche a lui avevano attaccato un cartello al collo su cui stava scritto: «oscurantista e reazionario, dispensatore ai giovani di venefiche speranze». Fatto sta che lui si era fatta un’idea, cioè che gira e rigira tutta quella ribellione contro la religione, e la cattolica in particolare, aveva come vero bersaglio, come vero nemico da colpire il solito Gesù Cristo. Dopo tutte quelle proclamazioni, quelle assemblee, quelle lotte incitanti all'odio verso ciò che insegnava s’era andato sempre più confermando in questa idea. Il nemico vero, quello da abbattere, era sempre LUI, l’ex falegname di Nazareth. Dopo aver chiesto permesso ed essere entrato in presidenza, Eros si trovò faccia a faccia con il preside. Da una parte stava un dirigente ministeriale, di ruolo a vita, titolare d’una posizione ben potente. Dall’altra stava lui docente a tempo determinato che ogni anno veniva licenziato il trentuno di agosto per essere riassunto il primo di settembre, modalità da non prendersi come automatica e scontata. Entro la fine di agosto doveva avere il nulla osta dalla chiesa, poi con questa proposta di nomina si doveva recare nella scuola assegnata e lì ricevere il gradimento del preside, onde venire finalmente assunto per quell’anno scolastico. Eros teneva un gran brutto presentimento, anzi pensava che niente di buono gli si stesse profilando, ma sperava di sbagliarsi. Furono sufficienti le prima parole del preside per fargli capire in che razza di ginepraio stava entrando. «Caro prof. Calamai, l’ho chiamata per una decisione sofferta, da parte mia, ma credo alla fine giusta». «Mi dica preside». «Come certo lei saprà con l’ultima finanziaria il Ministero della Pubblica Istruzione ha ricevuto meno fondi, e tutti devono cercare di razionalizzare le spese. Si rende conto vero che ha delle classi diciamo un po’ vuote? In cui il numero degli esentati dalla religione veleggia verso il 30%?». «Sì il suo calcolo torna».
«Bene, mi fa piacere che lei sia così obiettivo, che non sia cioè così integralista come altri uomini religiosi. Il fatto è appunto questo: per risparmiare avevo pensato di accorparle alcune classi, così pagando meno ore, risparmieremo sui fondi pubblici». «E … di quanto sarebbe questo taglio?». «Vedremo, stia tranquillo. Forse di cinque, sei classi. Bene! Mi fa piacere la sua disponibilità, torni pure in classe». La sera in camera sua cercò di parlare della cosa con Margherita. Parlava e, nello stesso tempo, guardava con lo sguardo assorto fuori dalla finestra; prima sentì una sirena, poi vide un’autoambulanza venire a prelevare una vecchia dalla casa accanto. Doveva stare male, perché portandola nel lettino le avevano già attaccato l’ossigeno ed una fleboclisi. Solo dopo, incrociando lo sguardo di Margy sentì le sue parole: «E ti quanto verrebbe diminuito il tuo stipendio con questo accorpamento di classi?» «Mah, non so, sul venti, venticinque per cento». L’altra metà del cielo comprese immediatamente il significato pratico di quelle parole, e scoppiò in un pianto isterico che fortunatamente durò pochissimo. Lui non sapeva che dire e preferì tacere. Allargò solo le braccia, in modo sconsolato. Il meccanismo di questo nuovo accordo tra Stato e Chiesa, però, cominciò a stressarlo oltre misura. La ragione stava nel fatto che ogni anno gli alunni potevano scegliere se aderire o no all’insegnamento della religione. Per cui nella sua vita professionale cominciarono ad accadere fatti mai visti: alunni che conosceva da anni, i quali incontrandolo nel corridoio – con la faccia più sorridente del mondo – gli dicevano: «Profe, non se l’abbia a male, ma io il prossimo anno ho deciso che non farò religione». Sulle prime cercò di capire, di trovare delle ragioni a quelle defezioni che gli decimavano le classi. Ma più si sforzava di essere attraente nelle spiegazioni, più cercava di capire i suoi alunni, più si rendeva conto che tali accorgimenti non spostavano il problema d’una virgola. Perché, due anni dopo la corte costituzionale fece una sentenza carina, in base alla quale l’alunno che non faceva religione non solo poteva uscire di classe, ma anche di scuola. Il risultato fu che gli alunni delle quinte, forniti di patenti, invece di segnarsi a religione si esentavano, per uscire di scuola a fare la giratina con la ragazza. Fu allora che
Eros Calamai capì contro chi o che cosa aveva da combattere. Contro la possibilità di fare un’ora meno di scuola, uscendo prima o dormendo un’ora in più. Nelle classi quarte dava sempre un tema di morale. Anche quell’anno decise che avrebbe fatto un compito in classe sul “libero arbitrio”. Appena arrivò in classe si accorse che gli alunni ne avevano poca voglia, ma prese questo atteggiamento come normale. Così gli alunni fecero quel tema sulla libertà. Riportando il compito, come sempre, chiamava gli alunni partendo dal voto più basso: era una sua abitudine. In tal modo uno sapeva che se il compagno appena chiamato aveva raggiunto il “sei” – ovvero la sufficienza – d’ora innanzi tutte le valutazioni sarebbero state sufficienti. E quale non fu la sua sorpresa, quando consegnando gli ultimi cinque compiti alle alunne più brave, si sentì rispondere: «Caro Profe, questo è l’ultimo tema che facciamo con lei». Lì per lì non comprese per cui rispose: «Non capisco». «È semplice, noi non vogliamo stare ore e ore a fare temi di religione». «Perché?». «Perché l’anno prossimo ci esenteremo». Senza guardarle diede loro i compiti e non rispose. In effetti non credeva che tali minacce avrebbero avuto seguito, essendo tali alunne le migliori della classe. Invece poco prima della fine dell’anno scolastico s’imbatté in un collega, proveniente dalla segreteria. «Ma che è successo in 4ªC Liceo?». «Niente, che è successo?». «Guarda ti conviene are di segreteria, perché proprio adesso parlavano che la classe si è esentata in massa e ne sono rimasti solo tre a fare religione». Rispose che lui non poteva forzare le coscienze, e che non era responsabile delle scelte altrui, ma l’altro gli rispose che la segretaria stessa c’era rimasta male e aveva chiesto agli alunni se avessero per caso un cattivo rapporto con il docente, o se questi non fosse all’altezza. Un tipo grassoccio, con i capelli ricci e la pelle abbronzata, rispose per tutti dicendo che “no” il profe spiegava bene e con lui
andavano d’amore e d’accordo. Solo gli girava così e avevano deciso di fare un’ora meno di scuola. Allora tutte le volte che Eros Calamai, forte sempre e debole mai, entrava a fare lezione in quella classe mentre spiegava, pensava: «tutti questi mi abbandoneranno, e che senso ha tutto ciò?». E non lo trovava, per la semplice ragione che non c’era; poiché nel menefreghismo, nel rifiutare i doveri e nel disimpegno non ci sta significato, ma solo il vuoto del nulla. Quando rese noto quel suo dispiacere alla Margy per condividere tale pena, trovare un po’ di consolazione e d’addolcimento a quella sofferenza, lei gli rispose se quel fatto poteva incidere sul suo stipendio, al che lui rispose che era troppo presto per saperlo. Sarebbe dipeso dal totale delle iscrizioni del prossimo anno scolastico.
11.
Un’altra cosa che Eros Calamai, forte sempre e debole mai, non riusciva a digerire, insieme al menefreghismo di qualche studente, era la trionfale parata del Primo Maggio. Intanto non comprendeva, stante le difficoltà a sbarcare il lunario, dove poggiasse tutta quella prosopopea e quella presunzione di far festa. Lo mettevano a disagio tutte quelle bandiere rosse, i trattori, le macchine e la banda che chiudeva il corteo. Tra proclami, slogan urlati decine di volte da altoparlanti a tutto volume, lui – in piedi davanti al cancello di casa – mentre sfilava tutto quel serpentone si sentiva a disagio per la boria che dimostravano i partecipanti. Quell’anno, vedendo Franco che apriva baldanzoso il corteo dei trattori, il disagio divenne vera e propria repulsione. Ma il dolore più pungente, la fitta più alta dello spasimo lo provò al vedere sua figlia Carla che, ritta sul trattore, agitava una grande bandiera rossa. Ella la brandiva con foga e muovendola contro vento da sinistra a destra, la faceva sventolare, dondolandosi con il corpo. ando davanti casa lo salutò con un sorriso, mentre il corteo sciamando per le strade berciava a voce alta “bandiera rossa la trionferà, bandiera rossa la trionferà…”. La visione della figlia, sventolante quel vessillo di rivalsa rivoluzionaria, recante quell’orribile simbolo di stella, falce e martello su campo rosso, gli apparve come una sciagura, come se un velo nero gli calasse davanti agli occhi. Ogni anno ne rimaneva stupito. Che, anno dopo anno, tutte quelle migliaia di persone continuassero ad inneggiare, spasimando, per quella ideologia diventata completamente contraria al proprio spirito iniziale di aiutare i poveracci, ecco questo lo lasciava interdetto. Infatti sopra quel desiderio encomiabile s’era depositato – nel corso dei decenni – tutto un armamentario di burocrazia, nomenclatura di partito, boiardi di Stato, imperialismo militare e gulag siberiani che rappresentava l’esatto contrario dell’ideale di partenza. Che dopo tutti questi fatti, quelle migliaia di persone si comportassero come se tali fatti non fossero mai avvenuti – ecco – ciò lo lasciava stupito. Pensava alla differenza tra quel corteo rumoroso, esagitato al limite dell’arrabbiato e la calma
– placide e serena – della processione del Corpus Domini. Anche lì ci stavano tante persone, anche lì ci stavano tante bandiere – bianche invece di rosse - , anche lì ci stava la medesima banda. Lui, come sempre, portava il baldacchino sostenendo una delle robuste stanghe che lo componevano. E nelle giornate ventose, quanto sforzo e fatica dovevano fare – insieme agli altri otto - per evitare che il vento se lo portasse via, trasformandolo in una vela rigonfia. Quale differenza tra i due atteggiamenti! Lì un sentimento di rivalsa, al limite della ribellione; là una calma composta, fondata sulla fede in LUI risorto, che – umile come sempre – si faceva portare per le vie del paese. Finito il corteo se ne stette un po’ lì, a vedere quella marea di sfaccendati che a gregge disperso lo seguiva, agitando cartelli e striscioni rivoluzionari scritti in tono intimidatorio. Ormai era quasi mezzogiorno e il cielo tersissimo si spiegava sopra di loro con una luminosità rilucente. Davanti a lui si stendevano tutti quei tetti di tegole rosse, illuminate dal sole, ma su tutti svettava la grande sagoma del campanile, con la sua cima di rame a triangolo isoscele. Baciato dal sole risplendeva, assumendo toni rossastri. La campana greve cominciò a battere le dodici, ma nessuno dette segno di ricordarsi dell’Ave Maria. Dell’ora dell’Angelus. Con dispiacere, per la prima volta, si rese conto d’essere un estraneo al suo stesso mondo e solo allora comprese il tremendo potere dell’Altro – l’angelo dell’abisso – che seduceva tutta quella gente portandola al male attraverso l’attrattiva e il fascino d’un bene apparente. Fu allora che gli vennero in mente le parole di LUI «voi siete nel mondo, ma non siete del mondo, ma fatevi coraggio che io ho vinto il mondo». Ormai era ato anche l’ultimo capannello, e la coda del corteo ora gli dava le spalle, portandosi via gli ultimi striscioni; perso nei suoi pensieri, immerso nella luce del pieno mattino, gli arrivò nitida la voce di Margherita : «Eros vieni dentro presto, che mi devi aiutare ad apparecchiare».
11a.
Il fatto sta che non ci siamo capiti. Come quella sera che venisti tutto angosciato a cercarmi nella comune, sopra Firenze, dove ero andato ad abitare. A te sembrava una cosa pazzesca, fuori da ogni regola che un figlio potesse andare via di casa così, senza “sistemarsi” come dicevi tu. Manco a dirlo la sistemazione che mi proponevi, altro non era che lo sposalizio in chiesa, con fidanzata in abito bianco e fiori d’arancio, unito alle eterne promesse di fedeltà e indissolubilità. Mentre invece, per me, quello rappresentava una specie d’abisso in cui mi guardavo bene dal cadere, perché consisteva nella fotografia sputata del tuo matrimonio piccolo borghese. Un’istituzione superata e reazionaria, un ferro vecchio arrugginito, un qualcosa da mettere da parte come una minaccia per la mia vita. Così mentre tutto felice mi trovavo nella centro sociale “Scintilla Fiammeggiante”, che avevamo costruito requisendo una vecchia fabbrica dismessa d’una multinazionale americana, che non aveva trovato di meglio che lasciare quattrocento operai fiorentini a so per andare in Romania, ti vidi mentre – tutto spaesato – te ne stavi incorniciato nella porta che dava sul grande salone. Logicamente apparivi a disagio, con quel tuo viso smunto a guance incavate, mentre giravi la testa in qua e là nel tentativo di vedermi. Avevi un aspetto impensierito e il portamento un po’ ingobbito. Sfortunatamente per te, capitasti in una serata particolare, quando un compagno del comitato nazionale era venuto apposta da Roma, per spiegarci le ultime iniziative di lotta in questo paese di merda. In quel grande salone saremmo stati più di cinquecento, non solo del nostro centro sociale, ma di molti altri centri della Toscana. Avevamo addirittura messo su un palco per il complesso dei “Novantanove Potenti” la cui melodia mi era familiare, mentre a te risultava odiosa, perché tutte le volte che mettevo una cassetta dicevi che ti faceva dolere la testa. Ricordo bene come il compagno Bertrand cominciò: «Vengo da Roma a portarvi i saluti del comitato nazionale, compagni fiorentini, voi avete il sostegno aperto del nostro movimento! Ricordatevi in che direzione spira il vento della storia! Il sole sorge da oriente, si alza dalla Cina, il suo colore è rosso, e porta il nome del venerabile compagno Mao Tse Tung!».
Non poté continuare oltre. Il salone rimbombò degli applausi, e centinaia di bracci alzati a pugno chiuso si levarono d’istinto. Molti compagni cominciarono a scandire slogan spontanei, inneggianti al nuovo modello di società. A fatica il responsabile nazionale riuscì a far sentire la sua voce, anche se aveva alzato il volume dell’altoparlante: «Compagni, compagni! Vi prego di fare silenzio! Io parlo a voi come a dei veri rivoluzionari; rigettate quei falsi rivoluzionari che a parole dicono di aiutare la classe operaia, poi a fatti mangiano alla stessa greppia dei padroni, e voi sapete benissimo a chi mi riferisco! A coloro che sventolano le bandiere rosse nelle piazze, ma poi in parlamento a Roma fanno pappa e ciccia con la Democrazia Cristiana; mi riferisco al Partito Comunista Italiano, che diventato controrivoluzionario con le sue false bandiere rosse combatte le nostre vere bandiere rosse». Nel salone scoppiò un putiferio e fu tutto un susseguirsi di slogan, pugni alzati e canzoni rivoluzionarie. La platea dei cinquecento compagni era diventata una fiumana inarrestabile, nella quale ognuno manifestava il suo fervore rivoluzionario, nella consapevolezza di possedere la forza delle masse. Fu in quella confusione colossale, mentre innalzavamo i nostri proclami di disprezzo verso il PCI, che ti vidi – in controluce – incorniciato nella porta. Nell’enorme sala l’urlio era totale, tutti urlavano a squarciagola, l’aria stava diventando irrespirabile, non si sarebbe neppure sentito un colpo di rivoltella sparato da qualche metro. Siccome non potevi vedermi in tale calca, venni io e ti dissi: «Babbo che ci fai qui? Che sei venuto a fare?». Quella mattina stessa, infatti, avevo telefonato alla mamma e le avevo detto che stavo benissimo. Naturalmente tu, essendo domenica, eri a Messa. Per questo ti guardai, e vidi nel tuo sguardo un’espressione di paura, come uno sperdutosi di notte nel bosco. Non ricordo bene le tue prime parole, ma dopo mi dicesti: «Ma voi siete una banda di matti! Paolo, come fai a vivere qui?». «Babbo, ma perché non vuoi capire che questa è la scelta più importante della mia vita? Qui mi sento a casa, insieme a tutti questi compagni». Allora ti mettesti a guardare a sinistra e a destra, facendomi tutte domande scontate, del tipo dove dormivo, se mi nutrivo abbastanza, se ero veramente felice e cose di questo genere. Mi manifestavi una tua interna tristezza, attraverso l’esitazione del tuo parlare, e mentre camminavamo nei corridoio del centro sociale tu vedesti uno slogan scritto su una parete con lo spray e d’istinto mi guardasti inorridito. Diceva: «La rivoluzione a attraverso le mutande
delle studentesse». Al che io ti risposi, guarda babbo non è come credi tu. Non siamo mica dei satiri, affamati di sesso. Quello è uno slogan rivoluzionario per proclamare e combattere la sessuofobia di voi cattolici, che avete sempre visto la sessualità come qualcosa di impuro e peccaminoso. Allora tu hai trattenuto un po’ il fiato e poi sei scoppiato, dicendomi arrabbiato che mai la chiesa ha considerato la sessualità come qualcosa di indegno, sì in certi periodi – come quello medioevale – ci potevano essere stati dei predicatori che dipingevano il sesso come negativo, ma mai il magistero della chiesa li ha seguiti, anzi – e mi facesti l’esempio dei “catari” che consideravano il matrimonio impuro – la chiesa ha sempre considerato questi movimenti rigoristi eretici da condannare. Tra di noi era caduto il silenzio, si poteva sentire il soffio dei nostri respiri affannati, e fu quando mi dicesti se avevo anch’io una ragazza. Ti risposi che lo sapevate benissimo tu e la mamma, che avevo una ragazza che stava con me nel centro sociale. Allora tu cominciasti con le solite tue idee sostenendo che voi dovevate conoscerla, perché la famiglia è una realtà d’origine divina e via dicendo. Io ti risposi che stavamo conducendo una battaglia epocale, una grande rivoluzione culturale, e uno dei punti irrinunciabili era appunto la libertà sessuale. Che non dovevi farmi intravedere diaboliche fiamme infernali se avevo una relazione con tale ragazza, e che era lei medesima che non ne voleva sapere come dicevi tu di “fare entratura in casa”. Quello che voi chiamavate fidanzamento ufficiale era un fatto culturale, legato a usi e costumi borghesi, per noi morto e sepolto. Fu allora che, mentre avevi deciso di salutarmi e andare via, nel corridoio incontrammo il dirigente del comitato nazionale. Ci ritrovammo di fronte, uno davanti all’altro, faccia a faccia, e tu – spiazzandomi completamente e facendomi quasi vergognare, mi ricordo che arrossii addirittura – gli chiedesti il permesso di salire sul palco per fare un tuo discorso. Lui mi guardò con aria interrogativa, come a chiedermi “di che partito è tuo padre?”, ma io mi strinsi nelle spalle, e tu salisti sul palco. Avevano appena attaccato uno striscione con lo slogan “il potere del popolo sta sulla canna del fucile” e un altro che non ricordo perfettamente, ma che parlava dell’importanza di un buon timoniere per poter navigare in alto mare, e senz’ombra di dubbio il migliore sulla piazza si chiamava Mao Tse Tung. Al tuo apparire sul palco si fece un silenzio di tomba. Siccome nessuno ti
conosceva, ti squadrarono tutti per sapere se eri un rivoluzionario o un controrivoluzionario venuto a propagandare la causa dei traditori del popolo. Io, da una parte mi vergognavo di te, dall’altra avevo paura per te. Sapevo che avevamo condotto delle battaglie dure e una settimana prima avevamo resistito con spranghe, bastoni, sassate e bottiglie rotte agli attacchi dei celerini, che volevano farci sgomberare da lì. Indugiasti un po’ con il microfono in mano e poi cominciasti a dire: «Compagni, o meglio fratelli, che fratelli è più profondo ancora, vi parlo da padre e non già da segretario di partito. Voi parlate di “potere” e di “timoniere” e fate bene. Ma io vorrei svelarvi il vero significato di queste parole. Cosa significa “potere” e quand’è che uno lo possiede veramente? Ebbene, il vero potere consiste nel servizio. Nel mettersi all’ultimo posto, e nel nascondimento più assoluto far funzionare le cose. Chi di voi ha mai pensato in treno al lavoro umile e nascosto del macchinista? Eppure egli ha il potere sulle vostre vite, durante il tempo del tragitto, ma l’adopera servendovi. Fratelli se volete un potere duraturo dovete servire chi vi sta vicino e non cercare di prevaricare con la forza. La violenza innesca un meccanismo che, inevitabilmente, richiama altra violenza, che la supera. In questo circolo vizioso non c’è più limite al proliferare del male. Il servizio, invece, agisce in tutta altra maniera. Esso non richiama altra violenza, ma essendo una forma dell’amore, agisce delicatamente risvegliando in ognuno le migliori energie sopite. Fratelli mi sia lecito dirvi che colui che detiene il potere sul cielo e sulla terra e quanto contiene non è Mao Tse Tung ma un tal Gesù Cristo». A questo punto si udì un brusio, un mormorio tra i compagni. Mormorio che andò via, via sempre più crescendo; come un fruscio di alberi sbattuti dal vento, che diventa uragano e li scozzona scapigliandoli. Si dette il caso che il compagno del comitato centrale, per un bisogno impellente, fosse andato in bagno per pochi minuti. Fu proprio allora che il tuo annuncio di quel grande rivoluzionario – tal Gesù Cristo – che sostenevi essere più comunista di Mao, scoppiò come una bomba tra quelle centinaia di persone. Non si capiva più nulla chi fosse il rivoluzionario e il controrivoluzionario, il salvatore e il traditore dei popoli, il progressista e il reazionario. Qualcuno ti chiamava già traditore e venduto. Altri, urlando, chiedevano chi cazzo ti avesse chiamato. Alcuni, pochi in verità, sostenevano invece che avevi detto qualcosa di nuovo, di
inaudito, perché aprivi sprazzi e orizzonti sconosciuti, facendo vedere la religione dal punto di vista di un proletario. Diversi con fare intimidatorio si recarono verso il palco, sbraitando che tu ingannavi il movimento operaio, mescolando verità e menzogna, bianco e nero, come i controrivoluzionari più biechi. Quando questi compagni facinorosi, saliti sul palco, strattonandoti per i baveri della giacca, ti tolsero il microfono, temetti per la tua incolumità. Accusandoti di ingannare le masse ti dettero una spinta, tra il tripudio dei presenti, che si misero ad urlare – come ossessi – frasi del tipo: “nessun opportunista potrà più permettersi di scagliare la punta della lancia contro il partito del popolo”. Impaurito mi diressi verso il palco urlando che eri mio padre, un povero disgraziato fallito, con uno stipendio da fame, e fu allora che nessuno osò più metterti le mani addosso o rivolgerti epiteti ingiuriosi. Ho sempre davanti agli occhi, nitida, l’immagine di te che ti rimettevi gli occhialini a mezzaluna a posto, e ti asciugavi il labbro sanguinante con il dorso della mano. Ti portai nei gabinetti dove ti sciacquasti la bocca, con un po’ di acqua fresca. Ti chiesi come ti sentissi, e se avevi intenzione di sporgere querela ai carabinieri o meditato vendetta e la tua riposta mi colpì: «Non albergo in me sentimenti di vendetta, perché sono cristiano e perdono». Fu quella parola perdono che mi colpì: detta in quel contesto dove tutti criticavano tutti; dove la ragione era tutta dalla nostra parte; dove volevamo distruggere tutto e non c’era posto per nessun ripensamento; dove, se uno si azzardava a dire qualcosa anche vera contro il Partito, veniva immediatamente distrutto ed etichettato con la peggiore definizione: “borghese controrivoluzionario”. Devo riconoscere che, quando ti accompagnai all’uscita mentre – dandomi le spalle – ti allontanavi per tornartene a casa, sconfitto come sempre, e mi venne la ragazza accanto prendendomi la mano per consolarmi – sinceramente – mi apparisti più rivoluzionario di noi.
12.
La terra aveva pensato bene di fare molti giri intorno al sole, molti anni erano ati dal fallimento, e la vita per Eros Calamai – forte sempre e debole mai – si era incanalata in direzioni diverse. Considerava questo periodo della sua vita come concluso, come un mobile vecchio lasciato ad ammuffire in soffitta. Quel giorno, però, ritornando da scuola vide sul tavolo di cucina un documento pieno di timbri e firme. Sul frontespizio portava un’insegna e una scritta a caratteri in grassetto: “Tribunale civile e penale di Prato”. Lo scorse con attenzione e s’andava chiedendo cosa diavolo fosse quella citazione che Margherita aveva firmato dal postino, quando l’occhio gli cadde su una frase: “Imputato insieme al suo socio Bellini Sebastiano per avere con un medesimo disegno criminoso defraudato gli operai della filatura “Bellini & Calamai” dei contributi lavorativi ai sensi dell’art. 155 c.p.p. Reato scoperto dal locale Ufficio Imposte del Comune di Prato”. Seguiva firma del cancelliere e data della prima udienza penale presso un aula del tribunale. Quella dichiarazione, messa così nero su bianco, suonò per lui come assurda, in quanto aveva lui stesso – dieci anni prima – consegnato i denari al ragioniere perché pagasse tali contributi allo Stato. Inoltre il tono intimidatorio usato non gli piaceva per nulla. Bastarono poche telefonate per scoprire il busillis. Venne così a sapere che il ragioniere, ricevuti da lui i soldi in contanti, non li aveva versati come doveva all’INPS ma se li era trattenuti per sé. Siccome doveva avere sei milioni, pensò bene di tenerseli tutti e ventiquattro. Proprio in quel momento entrò Margherita, chiudendosi dietro la porta della camera. Finora non gli aveva rivolto parola su quella citazione; lui stava venendo dal bagno perché aveva sentito il bisogno di sciacquarsi il viso, forse più per riordinare le idee sul da farsi che per rinfrescarsi. Fu allora che gli chiese: «Eros, ma come sta questa faccenda? Qui sta scritto che è un processo penale». «Hai ragione Margy, ma c’è stato un reato…». «Ah!».
«Guarda che non l’ho fatto io, ma il ragionier Gatti». «Chi, quello che ti teneva l’amministrazione della filatura?». «Sì» rispose lui, sospirando. «Allora che te ne frega? Il processo lo faranno a lui». «No, non hai capito Margy» continuò con voce stanca «il processo lo faranno a me, perché il reato è ascritto alla ditta. Gli diedi nella foga di quei momenti i denari in contanti, lui – invece di versarli all’INPS – se li è tenuti, ed io non ho nessuna prova in mano. L’Ufficio delle Imposte conosce me, non lui. Figura per la legge che io ho tenuto per me le ritenute degli operai prese dalla busta paga. Un furto, un’appropriazione indebita». Nella piccola cucina calò, per qualche attimo un silenzio glaciale, e lui fece in tempo a vedere sua moglie che teneva i gomiti sui fianchi. La udì dire: «Quindi, se non erro, tu Eros Calamai hai dato in mano a quel ragioniere la somma di ventiquattro milioni senza chiedere uno straccio di ricevuta? Ho capito bene?». La risposta gli costò molto: «Sì, hai capito bene. Lo conoscevo da tanti anni, e non avrei mai pensato…» «Eros Calamai è proprio questo il tuo problema. Che tu non pensi mai la cosa, in apparenza, più banale di questo mondo. Ovvero che gli altri non sono tutti spirituali e illusi come te. Gli altri, caro mio, pensano al bene reale, tangibile, dei loro cari e delle loro famiglie. Ah! Sai che risate s’è fatto quel tal Gatti? Sai quanti anni ha portato in una bella casa al mare – per mesi interi – sua moglie e i suoi figli con i tuoi quattrini? Ma non capisci che questo mondo funziona a doppia faccia? Come una valigia che abbia sempre un doppio fondo? La realtà non è quella che si dice a parole, apertamente, ma quella che se ne sta sotto, quella mascherata, quella dei fatti». Lui si scoprì improvvisamente troppo debole per reclamare, aveva solo voglia di dormire, di far riposare un po’ il suo corpo stanco, di distendersi e di non litigare con nessuno. “Eros Calamai – pensò – sei evidentemente un inguaribile utopista, questo fatto dimostra che il tuo cristianesimo non funziona, perché diventi nemico di te stesso, combatti contro te medesimo. Sei troppo semplice ha ragione Margy, e la tua semplicità è presa per i fondelli dall’astuzia degli altri”. Aveva solo il desiderio di distendersi e di non pensare più a nulla, ma la
citazione del tribunale rimaneva lì sul comodino con quella data dell’udienza, fissata tra qualche giorno. Rimuginò che doveva trovarsi un avvocato, perché quello era un processo penale, mica scherzi. Nell’ufficio dell’avvocato La Porta si sentì confortato. Lo conosceva da tanti anni e spiegandogli quella traversia percepì la sua partecipazione e la sua amicizia. L’avvocato La Porta era un vero credente, proveniva da una povera famiglia contadina e s’era fatto tutto da sé. Gli spiegò che lui non rappresentava il primo caso di tale reato. Diversi professionisti, infatti, che tenevano l’amministrazione di molte ditte, sapendo che la legge italiana addebitava tutta la responsabilità all’azienda, avevano pensato bene di appropriarsi delle somme dei contributi, tanto nessuno li avrebbe mai detto nulla. All’estero, invece, funzionava diversamente: i professionisti erano responsabili in solido con le aziende, quindi rigavano diritti. La Porta pigiò un bottone, a lato della scrivania, e comparve una segretaria graziosa. Doveva essere stata poco prima dalla parrucchiera, perché portava un casco di capelli lisciati alla perfezione, pettinati così diritti che si illuminavano di luce riflessa. Con le due fossette alla guance chiese cosa volesse, al che l’avvocato le disse di preparare la memoria per la difesa. Pochi minuti dopo tornò, dopo aver battuto a macchina alcuni fogli, e l’avvocato si premunì di riguardare bene il testo, parola per parola, prima di dirgli di firmare. Alla fine Eros Calamai, forte sempre e debole mai, appose le sue firme su tutte le facciate del documento e si sentì rassicurato dalle parole del La Porta: «Stia tranquillo, i giudici sanno che sono atti dovuti e in genere sono clementi». Lui era venuto fino al Palazzo di Giustizia con l’autobus. Credeva di fare una eggiata o poco più. Nel corridoio prima vide la figura imponente del La Porta, alto quanto un giocatore di basket, poi vide il suo ex socio con il suo avvocato. Lo salutò con un cenno della mano, ma non poté evitare una sensazione di disgusto allo stomaco al solo vederlo. Davanti al portone dell’aula vide un foglio con le cause di quel giorno e lesse: “Ore 10,30 Causa Ufficio Imposte contro Filatura Bellini & Calamai”. Il corridoio, lungo e stretto, su cui si affacciavano le aule delle udienze era gremito all’inverosimile di giovani, vecchi, gente vestita con tanto di abito scuro in doppio petto e cravatta, come pure di persone trasandate, e tutti aspettavano che cominciasse la loro udienza. Si sentiva un brusio, ognuno diceva la sua, ed Eros – dopo una mezz’oretta – capì subito chi erano gli imputati e chi gli avvocati. Quelli che si infervoravano e
parlavano all’orecchio degli altri, attirando la loro attenzione ora su un punto, ora su un altro, che si sforzavano di spiegare come si doveva svolgere il dibattito erano gli imputati. Cercavano di illuminare i loro difensori su come sarebbe stato meglio agire. Quelli, invece, che si sforzavano di stare a sentire, che piegando la testa facevano finta di mettere l’orecchio vicino alla bocca dei loro clienti, erano gli avvocati. Nel corridoio c’erano anche delle donne con dei bambini, ed Eros chiese cosa diavolo ci fero. Al che l’avvocato gli rispose che erano delle mogli che avevano udienza contro i mariti che le picchiavano. Lui rimase come scioccato da tale affermazione. Ma il tempo ava e non sapeva più che fare. Chiese al La Porta se era una cosa normale, e costui gli riferì che era normalissimo. Chiese se poteva andare a mangiare un panino da qualche parte, essendo già ate le due del pomeriggio, ma l’avvocato gli disse che no, non si poteva. Cosa sarebbe successo se, mentre andava alla tavola calda, il giudice li chiamava per l’udienza? Sarebbe stato condannato in contumacia. Non si poteva rischiare. Allora lui rimase lì ad attendere la chiamata per l’inizio dell’udienza. La guardia aprì il portone, poi dopo un rapido sguardo sui presenti, chiamò l’intestazione d’una causa. Eros s’accorse che si trattava di quella prima di loro. L’avvocato, con un gesto della mano, gli fece presente che non ci si poteva fare nulla e che, nella migliore delle ipotesi, la loro sarebbe cominciata alle quattro. Salvo complicazioni, vale a dire essere aggiornata al giorno seguente. D’improvviso, dieci minuti dopo, sentirono delle voci concitate, dei poliziotti agitati entrarono nell’aula e alcune persone furono accompagnate fuori, tra grida e schiamazzi di altre che se ne stavano nell’aula. «Arresto istantaneo» sentenziò La Porta. Appena pronunciate tali parole comparve un poliziotto urlando: «Causa Filatura Bellini & Calamai»! Eros entrò, non senza chiedersi le ragioni, guardando quelle persone allontanarsi scortate dalle guardie, di cosa diavolo avessero mai commesso. Entrato nell’aula, si ritrovò come in una piccola sala cinematografica, solo che al posto dello schermo ci stava il banco dei giudice e della giuria. Poi era tutto uguale: il corridoio, il degradare dall’alto in basso delle file di sedie, la moquette per terra, le luci alle pareti. Stava per mettersi accanto al suo avvocato, quando si sentì preso alle spalle e scortato – quasi di peso – a lato dello scranno del giudice. Fu solo allora che notò una gabbia, formata da sbarre grigie e fitte che da terra arrivavano al soffitto, con dentro una panca. In un lampo comprese quello che mai avrebbe pensato: lui per lo Stato Italiano era un delinquente! Uno da mettere nella gabbia degli imputati.
Piombò in uno stato di profonda vergogna e la persona del suo socio, di cui doveva subire la vicinanza, produsse in lui una repulsione ancora maggiore per ciò che stava vivendo. Una voce gridò: «In piedi entra la corte!». Tutti si alzarono. Vennero dei testimoni, in pratica solo due impiegati dell’ufficio delle imposte che certificarono il furto delle ritenute, perpetrato ai danni dello Stato e dei lavoratori. Il discorso del Pubblico Ministero fu il più stringato possibile, al limite dello scontato. Disse che non c’era proprio niente da arzigogolare si trattava d’uno dei tanti casi di lestofanti che si mettono in tasca i quattrini degli operai e chiese il massimo della pena: tre anni di reclusione. Eros cercò con lo sguardo Margherita, ma i suoi occhi incontrarono solo persone sconosciute. Lei, prima gli aveva detto che sarebbe venuta, poi – presa dal patema di vederlo trattato come un malfattore – aveva deciso di restarsene a casa. L’arringa dell’avvocato La Porta lo sorprese profondamente. Sapeva come i difensori si preparassero studiando la causa e guardando di trovare tutti i cavilli per aiutare i loro clienti. Quindi se ne stava tranquillo. Cosa c'era di più semplice che riferire del furto dei quattrini da parte del ragioniere Gatti? Ma grande fu la sua sorpresa nell’udire il discorso, che perorava la sua causa. Man mano che l’arringa procedeva gli si presentava davanti una vaga immagine di qualcosa d’indefinito, come una foto sfuocata dove i contorni sbiadiscono. Forse che si doveva nascondere la verità? L’avvocato, con la sua imponente statura e quella toga con le nappe d’oro, parlava con quella voce in falsetto, inconsueta in un uomo di tale mole, più simile alla voce d’un bambino che a quella d’un adulto. Sosteneva che bisognava comprendere la situazione, in quel disperato momento, dopo che s’era scatenata su di loro quella tempesta del tetto che crollava, mentre avanzava la paura del fallimento un momento di debolezza si poteva comprendere. Parlò a braccio poco più di cinque minuti, poi – dopo essersi rimesso alla clemenza della corte – si sedette, levandosi la toga con un ampio gesto della mano. Eros arrossì dalla vergogna, quando sentì le parole del suo difensore. Difensore di cosa? Pensò. Intanto riandava con la mente al milione che La Porta aveva preteso per le spese iniziali, procedurali, “per istruire il processo”. Fece il conto, dove cinque minuti equivalevano ad un milione. Quanto guadagnava La Porta per ogni ora? Dodici milioni. In quanto quella mattina medesima, aveva altri tre processi. Di nuovo sentì la voce della polizia giudiziaria: «In piedi esce la corte!».
Si alzò e si avvicinò alla grata della gabbia, rimanendo lì per qualche minuto. Guardò le facce di tutti i presenti, mettendo il viso tra due sbarre, cercando di indovinare chi fossero, cosa pensassero o che diavolo stessero facendo lì tutte quelle persone. Quelle che conosceva si potevano contare sulle dita di una mano. Nell’animo si sentiva di nuovo come un piccolo Cristo, ingiustamente processato come LUI, anche se diverse erano le ragioni del processo di LUI e del suo. Qualche analogia, però, esisteva di sicuro: che la verità se ne sta sepolta sotto una marea di menzogne; che il male è ben vivo, che il mondo ne è pieno; che era più forte di lui e che non ci poteva fare niente. Aveva potuto – o meglio voluto fare nulla Gesù Cristo quando era stato processato? No, non aveva voluto fare nulla. Il vivente eterno, il creatore del mondo, LUI, padrone degli oceani e di tutte le terre accettò di soggiacere al potere delle tenebre. E questo era precisamente ciò che lo faceva star male. Nel senso che non comprendeva – e come poteva? – quello che di tutti i misteri della fede è il più ostico e aspro alla ragione, vale a dire il mistero della croce. Durante quell’attesa arrivò alla conclusione che la croce non era solo la battaglia interiore dell’uomo contro le proprie tendenze maligne, ma anche la battaglia che l’uomo deve intraprendere contro tutte le forme di male che gli capitano tra capo e collo. È innocente ma deve piegarsi a sopportare tali forche caudine. Non gli tornava il modo di fare di Gesù Cristo, quello di sottostare al male, invece di giudicarlo e fare piazza pulita immediatamente. Certo, poi il Signore aveva vinto, dimostrando con la sua resurrezione che la morte perde, e che il suo amore era più potente di tutto l’odio del mondo, ma intanto bisognava morire… Mentre divagava con la mente in tali pensieri, venne l’Altro – l’eterno tormentato – e gli disse: «Queste pene sono per te asino d’un cristiano. Non lo sai che il cristiano è un cretino?». E come poteva pretendere lui, Eros Calamai, forte sempre e debole mai, di essere superiore al suo Signore? Un discepolo non è di più del suo maestro. Gli vennero in mente queste parole e nel suo animo ritornò la quiete. Dopo una mezz’ora udì di nuovo la guardia urlare: «In piedi entra la corte!». Ebbe un fremito, emise un sospiro e si rialzò insieme al suo socio. Il giudice, in piedi alla cattedra, inforcò gli occhiali e cominciò a leggere con voce nasale. Invano egli cercò di seguire, parola per parola, il filo del discorso. Esso era infarcito di riferimento all'articolo tale, dell’anno tale; all’articolo tale altro del codice penale; a frasi del tipo “viste le attenuanti generiche si decide di…”; per cui pur avendo compreso le parole iniziali che dicevano: “nel nome del popolo italiano” – nel procedere del discorso che durò più di cinque minuti – lui si sperse, fin quando sentì la frase “per questi motivi la corte condanna gli imputati
alla pena di anni due e mesi tre di reclusione con il beneficio della condizionale”. Lui disse “ringraziamo Iddio” e tornò a casa. Durante il viaggio di ritorno cercò di applicare a quello che gli era accaduto la frase di sco, il poverello d’Assisi, ma nonostante tutta la sua buona volontà non ci riusciva. Si vede, pensò, che la sua fedeltà a Cristo era meno docile ed entusiasta di quella del santo. Perché, senza requie, lui viveva e sentiva questa fedeltà come tormentosa. Con tutta evidenza gli sfuggiva, e proprio non vedeva dove stesse quella che sco vedeva risplendere nelle sofferenze: la perfetta letizia. Quella lui non l’esperimentava neanche da lontano. Quando aprì la porta della misera casetta inspirò profondamente, per prepararsi alla sfuriata della Margherita. Ma l’aria che aveva respirato non gli servì a niente, sua moglie lo guardò appena di striscio, e non fece parola. Con la coda dell’occhio intravide la durezza scolpita nei tratti del suo volto, e la noncuranza – al limite del disprezzo del suo atteggiamento. Sentì, nella calura del tardo pomeriggio, l’acuto richiamo delle cicale che frinivano, uno stridio di gomme per la curva presa troppo veloce, e l’olezzo pesante del lesso rifatto, con la porzione intatta, piena sulla tavola, il cui odore gli riempì le narici. Mentre si metteva a sedere lo colpì una striscia di luce, in tralice, che dalle persiane ravvivava la tinta smorta del muro. Eros pensò che rappresentasse la Grazia. Anch’essa illumina la nostra opacità esistenziale e la fa risplendere, trasfigurandola. Si girò su se stesso, guardò sua moglie e disse le sole parole che erano da dirsi, le sole importanti: «Due anni e tre mesi». Dopo mangiato entrò in camera, si buttò vestito com’era sul letto, raggomitolandosi come un ghiro in letargo. Cercò di addormentarsi, ma non gli riuscì. Pensò che il giorno seguente, sabato, era il suo giorno libero e che poi sarebbe venuta la domenica, il giorno della resurrezione. Guardando il riflesso dei vetri d’una macchina splendere sul muro della stanza, per poi fuggire, decise che l’indomani sarebbe andato con Margy al supermercato. Avrebbe comprato un bel pezzo di magro per fare un buon brodo, i tortellini migliori e del pesce senza lische morbido come il burro. La coda di rospo, sì, il pesce più caro. Voltandosi sul dorso stava rimirando il soffitto, quando percepì un ronzio strano. Guardò per ogni dove, ma non vide niente. Era un brusio basso, continuo, che suonava sgraziato. Fu allora che lo vide, sull’angolo destro, in cima al vetro della finestra. Un moscone, come era entrato non si sa, non faceva altro che battere contro il vetro, desiderando volare nel cielo terso. Si alzò. Gli venne l’idea di schiacciarlo con un colpo di asciugamano, ma desistette. Salì su una sedia e aprì la finestra. Cercò agitando l’asciugamano di farlo uscire, lo indirizzò verso l’aria aperta, ma il moscone insisteva a rimanere dietro al vetro. Ronzava, batteva la testa nel vetro, e ritornava indietro sbattendola di nuovo: scorgeva l’azzurro del
cielo e credeva di andarsene fuori, come se il vetro non esistesse. Venne l’Altro – il serpente antico – e gli disse: «Vedi? Sei un cretino come quel moscone. Non credere d’essere più intelligente di lui. Crede di poter volare nel cielo radioso, ma il vetro trasparente lo blocca. Quello sono io. Invisibile e trasparente vi dimostro che il cielo è un’illusione». Stava per replicare, quando sentì LUI: «Non discorrerci. Sarebbe solo a tuo danno. Gli daresti solo corda e vincerebbe lui. Ciò che esce dalla sua bocca è solo menzogna. Il cielo c’è e ti aspetta con il possesso della nostra beatitudine divina. Possesso certo e sicuro d’una vita di godimenti senza fine. Non combattere contro di lui, ti sfiancherebbe, e il tuo sforzo lo fortificherebbe. Disprezzalo e non ti ci trattenere sopra. Abbandona la tristezza che è la morte lenta dell’anima e non serve a nulla. Pensa alla vita dell’anima che è la gioia dello Spirito. La prove a cui ti sottopongo e ti sottoporrò sono tutti contrassegni della mia dilezione per te: gemme per la tua anima. erà, Eros, il rigido inverno e verrà la lunga primavera tanto più ricca di bellezze, quanto furono più dure le tempeste».
13.
Lui è un po’ accaldato, il sole di metà settembre picchia ancora forte, e nel primo pomeriggio l’afa si fa ancora sentire: l’aria è ferma e non si muove foglia. Il fatto sta che non è più abituato ad andare in bicicletta. Il tragitto non è stato lungo, ma i polpacci gli fanno male ed è in debito d’ossigeno. Se ne va spingendo con fatica i pedali, e tutte le volte che fa fare loro un giro si piega in avanti con il busto, come se a spingere andasse più forte o durasse meno fatica. Ma gli viene naturale. Sembra un ebreo che s’inchina pregando al muro del pianto. Ormai aveva solo l’ultima salita da fare, bastava are il ponte sulla Bure, fare la discesa senza fatica – prendendo velocità e sentendo sul viso l’aria diventare più fresca – e poi pedalare per la strada sterrata che si inoltrava nei campi. Eros, si disse, chi te lo ha fatto fare? Non sei più abituato ad andare in bicicletta. Ma sapeva benissimo che la domanda era inutile. Troppo interesse aveva suscitato in lui quella storia che Lido gli aveva raccontata la sera prima. Se ne stava fuori, nella notte tiepida, quando il suo vicino gli disse: «Ma l’hai saputo della scoperta nel campo del Cianco?» «Quale scoperta» disse lui. «C’è sulla Nazione di oggi, non l’hai letta?». «No». «Hanno trovato una balena». «Ah». «Stavano facendo degli scavi per non so che cosa, quando a pochi metri di profondità hanno cominciato a vedere delle ossa bianche e squadrate. Incuriositi hanno continuato, e dopo poco tempo ne è venuta fuori una linea lunga tipo enorme spina dorsale, con altre ossa arcuate, a forma di gabbia, che la
circondavano». «E Allora?». «È stato proprio allora, che un architetto del Comune venuto a fare un sopralluogo – guardando dall’alto, al limite dello scavo – ha urlato: “ma questo è uno scheletro! Quelle sono vertebre d’una schiena e le altre costole d’un torace enorme”. Così ha fatto interrompere i lavori, ed è andato subito dal sindaco. Poi sul posto è arrivato un archeologo o un altro con un nome più complicato patontologo…». «No, paleontologo». «Ah, ecco sì, paleontologo. Entusiasmato ha detto subito che si trattava dello scheletro d’una balena, ha bloccato tutti i lavori, adesso è tutto recintato e pieno di quelli lì – i paleo o come si chiamano – che stanno scavando il terreno con attrezzi adatti, per far emergere il cetaceo. Hanno calcolato con delle apparecchiature da quando quella se ne sta lì, sottoterra: cinque milioni di anni». Dunque, vicino a casa sua dove era nato, cinque milioni di anni fa ci nuotavano le balene. La notizia è troppo forte perché lui non vada a sincerarsene. Arriva un po’ accaldato e trafelato, da lontano si vedono bene tutti i nastri a strisce colorati messi dalla soprintendenza. Poco dopo si ritrova lì, sul bordo di quel grande scavo, mentre guarda affascinato la creatura che sbuca dalle profondità della terra. Al lavoro ci sono cinque o sei persone. Lui nota uno che dà ordini, di certo il paleontologo, e altri giovani, forse dei ricercatori universitari che spazzolano delicatamente le bianche ossa emergenti. Gli chiedono cosa stia cercando, in quanto la zona è recintata, e lui spiega che è un professore di scuola – un teologo – e che è rimasto affascinato dalla notizia ed è venuto fin lì in bicicletta per conoscere più a fondo la faccenda. Lui non si attenta a chiedere altro. Allora il capo anziano si gira in su, lo guarda, gli fa cenno con la mano di scendere e gli danno il permesso di vedere il reperto da vicino. Scende lentamente la discesa, a i corti, facendo attenzione a non inciampare. Dallo sforzo tiene serrati i denti e stretta la bocca, e con una mano si ferma gli occhialini che cadrebbero. Adesso è arrivato stringe la mano al funzionario, e spiega che per lui teologo quella scoperta ha un sapore meraviglioso. Anche per noi, dice il paleontologo. Non sono cose che accadono tutti i giorni. Lui domanda se c’era qualcuno che avesse congetturato una simile
scoperta, e l’altro gli dice di no. Comunque torna tutto, i fatti combaciano come le tessere di un puzzle. Cinque milioni di anni fa, qui ci fu la glaciazione, e nel freddo mare di allora niente di più naturale che nuotassero le balene. L’esperto lo accompagna e mettendosi il sigaro in bocca, scoprendo una dentatura ingiallita, gli prende la mano e gliela fa strusciare su quelle vertebre squadrate, bianche e tozze. Lui tocca quelle cose con i polpastrelli, lievemente, come quando tocca la pelle nuda della Margy, in religioso silenzio, quasi fossero delle reliquie. E infatti vestigia, reliquie della creazione sono. Il funzionario precisa che ci vorranno due o tre settimane, ma poi – una volta emerso e ripulito il tutto – il cetaceo preistorico sarà portato in una sala del museo nazionale di Firenze. Lui pensa che la sua indagine è conclusa, anche perché il campanile della chiesa di San Niccolò - quello che vedeva quando da piccolo veniva nel campo del Cianco a giocare - batte le sei della sera. Riprende la bicicletta e ricomincia ad affannarsi sui pedali, ad andare in su e giù con la schiena come gli ebrei al muro del pianto. Pensa al mondo, a Dio, alla creazione, al tempo, e alla sua vita. Rimugina su quella data: cinque milioni di anni, cinque milioni di anni… Sono tanti cinque milioni di anni. E che cosa sei tu – Eros Calamai – di fronte a LUI? Ti rendi conto chi sia LUI e chi sei tu? Per LUI cinque milioni di anni non sono niente, LUI se li beve nel caffelatte la mattina, e allora come ardisci discutere, anzi litigare con LUI? Eros Calamai, tu non hai il senso delle proporzioni. Ma ti rendi conto con chi vuoi discutere? Tu sei un pidocchio, una pulce, un granellino di polvere nell’universo e pretendi di fargli delle osservazioni? Perché mi è successa la tale cosa con la filatura; le tale altre con la moglie, il figlio e le figlie; e tutte le altre traversie, e quella prima e quella dopo. Chi credi di essere perché se ne prenda cura? Non sai che per LUI cinque milioni di anni, sono come per te il giorno appena ato? Allora prendi la vita come viene, e non ti assillare più, non ti macinare dentro come stai facendo da tanto tempo, da troppo tempo, Eros Calamai, forte sempre e debole mai. Quando lui, dopo aver messo la bicicletta a posto, torna in casa trova sua moglie con gli occhi lucidi: ha pianto un bel po’. Allora le domanda che cosa c’è e lei, continuando sempre a stare seduta o meglio accasciata sulla seggiola, s’asciuga gli occhi con il bordo del grembiule e gli porge una lettera. È tale a quale quella ricevuta diversi anni fa, perché nel frattempo la terra – anche se loro non ci hanno mai fatto caso – ha girato intorno al sole più d’una volta. La lettera è aperta, ma a lui basta tastarla sentendo nel mezzo quel rigonfiamento, quel gonfiore che non ha mai dimenticato da quel giorno, e capisce subito. Infatti tira fuori la foto della Laura che ha pensato bene, dato che la prima volta ha fatto un
bel bambino, di farsi ingravidare un’altra volta con una fecondazione eterologa, sempre beninteso dal famoso istituto londinese. L’unica differenza è che adesso è una bambina, che innocente e inconsapevole se ne dorme placide nella braccia di mamma Laura. Beata lei, pensa lui, meno male che è incosciente in questo mondo di matti. Perché a sapere molto, a voler conoscere troppo in profondità si corre il rischio di battere il capo nel muro, perché chi più conosce più soffre. Allora lui le chiede perché pianga, lei si arrabbia e gli dice ma come “perché?”, non vedi questa disgraziata sola e senza marito che cosa ha fatto? Ha messo al mondo un altro figlio mezzo orfano di partenza. Poi, soffiandosi il naso per l’emozione, gli dice che Laura ha telefonato poco dopo che lui era andato via in bicicletta – a proposito fa lei “dove sei andato, tutto il pomeriggio?” – lui fa un gesto con la mano come per dire “cose da nulla, ne parliamo dopo”, e lei continua dicendo che la figlia ha chiesto assistenza e vorrebbe la mamma almeno un mese in Inghilterra. Margherita dice che si sente a pezzi e non sa più che pesci pigliare. Lui la tira su e le dice “ma che vuoi che sia, come frecce in mano ad un eroe sono i figli della giovinezza, beato chi ne ha piena la faretra, essi sono un benedizione del Signore, è bene che tu vada ad aiutarla”. Allora lei, alzando la faccia verso di lui, dice se veramente la pensa così. E lui risponde certo, non lo sai che per il Signore cinque milioni di anni sono come il giorno di ieri che è ato? LUI abbassa ed esalta,ferisce e risana, rende povero e arricchisce e fa nuotare qui le balene. All’accenno del cetaceo lei lo guarda sorpresa, a bocca aperta, pensando che povero Eros, dai e dai, i patimenti della vita ti hanno fatto rimbecillire, ormai sei andato.
14.
I minuti formano le ore e queste i giorni. Eros Calamai ne fece are uno solo e nel pomeriggio seguente portò Margherita all’aeroporto Galileo Galilei di Pisa. La mise sul volo Pisa – London, la baciò, le fece “ciao” con la mano quando alla voce dell’altoparlante si imbarcò al gate 9 seguendo l’ultima chiamata, the last call. Mentre l’aereo decollava e cominciava a salire le fece di nuovo “ciao” dalla grande vetrata della sala dell’aeroporto, dove tutti i familiari si radunavano per vedere partire o arrivare i loro cari; gli sembrava una torre di Babele, e anche se lei non poteva vederlo, agitò la mano ugualmente. Margherita gli telefonò più tardi del previsto, verso le dieci di sera, avvisandolo che tutto era andato bene. A Londra era atterrata in perfetto orario, aveva atteso più di un’ora e poi s’era imbarcata nel volo interno Londra – Leeds, che adesso Laura lavorava là. Ormai aveva fatto carriera, e per la catena di alberghi per cui lavorava era diventata una managing director o come diceva lei una chief. Adesso si trovava nell’appartamento di lei, attaccato a quel grande albergo con tanti piani, e gli diceva che la bambina era una meraviglia, un angelo paffuto, puppava e dormiva, con un faccino biondo e roseo come una pesca. Charles invece andava già alle primary school e quando l’aveva chiamata grandmama lei si era messa a piangere dall’emozione. Poi Margy lo salutò, con un bacio telefonico e gli disse good night, perché là si parlava così. Così Eros Calamai, forte sempre e debole mai, si ritrovò solo nella sua casetta. Per quella sera e per molte altre sere dopo. Ormai stava avvicinandosi alla pensione, aveva sessant’anni ma gli piaceva ancora insegnare. I capelli erano imbiancati, ma aveva sempre la pelle fresca e giovanile. Ogni mattina, infatti, si radeva, perché odiava che gli si vedesse la barba bianca. Quella volta che per un’influenza era dovuto stare cinque giorni senza radersi, al vedersi nello specchio s’era impaurito. Quella barba lunga, dava al suo volto emaciato, un che di trasandato, di vecchio cadente che non gli piacque per niente. Siccome aveva un po’ di problemi alla prostata si alzava presto al mattino, e prima d’andare a scuola si recava nella chiesa del paese per la Messa mattutina. Di uomini c’era
solo lui. Di tutto quel paesone, che adesso era diventato una mezza cittadina, alle sette e mezzo del mattino si ritrovavano in dieci o poco più. Siccome era senza quattrini, senza ambizioni e cattolico fervente, la gente lo schivava. Ma lui non se la prendeva, pregava la mattina, a mezzogiorno e alla sera; il sabato sera la Carla e Franco lo invitavano a cena; due o tre pomeriggi li ava aiutando il nipotino a fare i compiti; fuori, qualche sera parlava un po’ con Lido, l’ex partigiano, stando appoggiato alla ringhiera del cancello. In fin dei conti pensava la vita monacale, claustrale l’aveva sempre affascinato e se la sua casa era diventata una specie di piccolo monastero, la cosa non gli dispiaceva per niente. Così quando telefonò Margy dicendogli che darling lei non sarebbe tornata, perché adesso Laura aveva too much da fare, essendo diventata ormai una top manager Eros Calamai non si scompose più di tanto. Alla proposta della figlia di come here, in quanto lei aveva da fare un master molto impegnativo per il suo future lui rispose che ci avrebbe pensato. Nel silenzio della stanza s’accorse che non aveva niente da dire a nessuno. Men che mai a quegli alunni che incontrandolo nel corridoio della scuola, stamani durante l’intervallo, gli avevano detto: “profe l’anno prossimo religione non la fo”. Al che lui aveva risposto con un’alzata di spalle. Ormai la parabola della sua vita aveva preso la curva discendente, lui era un piccolo Cristo e si stava domandando che senso avesse tutto quello che gli era capitato. Il suo animo oscillava tra due sensazioni. La contentezza al leggere la Parola di Dio, che gli attestava la partecipazione alla divinità e che gli veniva preparata una gloria eterna, superiore, in grandezza a qualunque valutazione umana. Al che lui diceva: “Cosa darò in cambio al Signore per tutto quello che mi ha dato?”. E siccome LUI non esigeva niente in contraccambio, ma solo il suo amore, rimaneva come sbigottito e terrorizzato dal timore che, a causa della sua leggerezza d’animo o delle preoccupazioni della vita, lui potesse diventare motivo di vergogna e disonore per Cristo. Perché conviveva, nel suo animo, anche l’altra oscillazione. Se il cristiano doveva diventare un “alter Christus” come avrebbe potuto lui che aveva l’amore completamente affievolito, anzi provava talvolta rancore verso Dio, fare qualcosa di buono per LUI? Il grande Cristo – anche umanamente parlando – aveva compiuto delle cose meravigliose. E siccome ci stava scritto “quello che ho fatto io fatelo anche voi”, lì cascava l’asino. Aveva mai camminato sulle acque, calmato il mare in tempesta, sfamato cinquemila persone con cinque pagnotte e due pesci, o risuscitato un morto? Come poteva lui rassomigliare a LUI, campione divino, se non riusciva neppure a rassomigliare ai campioni umani? Per quanto si sforzasse non sarebbe mai stato capace di guidare una Ferrari a trecento chilometri all’ora come
Schumacher. Non era capace di guidare una macchina come Schumacher e voleva condurre la sua vita come Cristo? Ma andiamo! “Tu sei un pazzo illuso, uno che s’inganna sulla vita, un imbecille” gli suggeriva l’Altro, l’avversario di sempre. Un giorno chiese ad un sacerdote se poteva chetare l’Altro, ma gli rispose che “no”, niente e nessuno poteva zittirlo, perché il maligno convive in noi: chi lo chiamava satana, chi inconscio, ma si trattava sempre dell’antico seduttore.
14a.
Ti giri e rigiri nel letto, ma non riesci a prendere sonno. Il fatto è che anche la solitudine stanca. Dopo i primi tempi della novità, ripensi e consideri che non sei creato per stare solo. Tieni chiusi gli occhi e tenti di dormire, ma il sonno non viene. Vengono invece tanti pensieri e ricordi, a frotte, come una torma di cavalli impazziti. Ti domandi perché devi andare a rivangare quella storia, vecchia di più di quarant’anni, ma la ragione dice una cosa e l’agitarsi dei sentimenti un’altra. Cerchi di dormire e bene o male, ti si apre la porta del sonno. Lei ride, con i capelli al vento, e ti sora con la bicicletta, sul ponte della Bure. Poi prende velocità nella discesa, tu le urli di andare più piano, hai paura che le succeda qualcosa. È il tuo primo grande amore, non una cottarella qualsiasi. Sono tre anni che state insieme e tra poco avrete l’esame di maturità. Finita la discesa, scendete dalle biciclette e proseguite a piedi lungo il sentiero che costeggia l’argine del fiume. Ad un’ansa lasciate cadere le biciclette e entrate dentro una specie di alcova naturale, dietro una folta colonia di canne di giunchi. «Da piccino - le dici – le tagliavo e ci facevo le canne da pesca». «Ah, si?» ti risponde lei con la sua voce dolce, pastosa. Si chiama Giovanna è tua compagna di classe a scuola, e tuo amore nella vita. Vi mettete a sedere sull’erba soffice e, dopo averla abbracciata, baciata e strinta, vi ritrovate entrambi distesi sull’erba. È un adagiarsi naturale, come la forza di gravità, che vi spinge ad accarezzarvi, ad accendere i vostri desideri, a far vagare lungo i vostri corpi le vostre bocche e le vostre mani. Ancora non siete stati a letto insieme, e tu sai che non sarà neanche oggi. Comunque vi amate in modo apionato, e lei ti concede tutto quello che tu puoi fare, a parte quello. Tu dici che la ami, ma lei ti dice che ti ama di più. E ti mette davanti agli occhi l’anello di fidanzamento, composto da due cerchi di colore diverso e intrecciati, su cui è scritto “più di ieri e meno di domani”. «Vedi?» ti dice «domani di amerò di più».
Tu ti sei abbassato i pantaloni e lei si è alzata la minigonna di scozzese, quella che quando accavalla le gambe sotto il banco, ti fa sognare. Tu l’accarezzi tutta e altrettanto fa lei. Tu sei tutto un bollore mentre ti accarezza con la mano, con la sua pelle liscia come un fiore il membro, e tu fai altrettanto con le sue parti intime. Le tue dita scivolano in quel suo umidore, senti che si contrae e che ti desidera, giocherelli dopo averla baciata con la tua lingua su tutto il suo corpo e lei ride. Tu stai per perdere la tramontana e lei si fa seria: «No, adesso no… lo sai. Dopo l’esame di maturità, quando saremo fidanzati in casa». Tu fai cenno di “sì” con la testa. L’erba morbida di Maggio ti solletica i polpacci e qualche filo le è rimasto tra i capelli biondi. Anche Margy ha i capelli biondi, a te sono sempre piaciute le bionde. Dopo dieci minuti sei adagiato sul dorso, lei se ne sta su un fianco accanto a te, ti bacia la guancia e ti guarda di profilo: «Hai un profilo greco» ti sussurra. Dice che non ha mai voluto bene ad un ragazzo come a te, sei il primo grande amore della sua vita, e tu dici altrettanto; non stai con lei come gli altri compagni di scuola, che stanno con le ragazze solo per soddisfare il desiderio. Allora lei ridendo, quasi ti monta addosso, rovesciandosi sopra di te e ti morde il collo. E tu tra le canne di giunchi vedi brillare il sole e il riverbero ti fa chiudere gli occhi… «Vorrei sapere quanto vuoi continuare a stare tappato in casa, sembra che tu abbia un morto ai piedi» ti rimprovera tua madre, «Se questo è il risultato della bella votazione dell’esame di Stato, stiamo freschi» continua. Ma a te il punteggio dell’esame interessa quanto il due di picche, quando briscola è cuori. Ti brucia che Giovanna si sia trasferita a Milano, così da un giorno ad un altro, insieme ad una sua amica perché aveva avuto da una ditta di là un’offerta di lavoro. Ti brucia che da quando è partita lei sia completamente scomparsa, ormai è quasi settembre ed è più d’un mese che è andata via. Non hai avuto né una telefonata, né un indirizzo. Hai anche pensato d’andare a Milano, ma dove vai a battere il capo? Allora ti chiedi come mai l’amore che è la forza più grande dell’universo, porca miseria, nella tua vita diventi più fragile d’un vetro di cristallo. Tiri fuori dal cassetto del comodino le foto di te e di lei. Una è della gita all’isola d’Elba, fatta con la scuola. Indossa un vestito estivo, trasparente e scollato, con un lungo spacco nella gonna, per cui si vede il costume che ci sta sotto. Costume che ti ricordi diventò tutto bagnato per il mare
e per l’amore. Senti una mano sulla spalla e ti giri, è tua madre. «Amore mio, fattene una ragione. Non ti chiudere in casa, vai fuori con gli amici. Più te ne stai da solo, e più soffri». Così decidi di darle retta, telefoni a Marco e fissi per andare al mare, poi prendi le foto e vai in fondo all’orto, dove il babbo brucia la spazzatura. Butti le foto nella buca, le cospargi di alcool e ci butti sopra un cerino. Le vedi annerire e accartocciare, mentre le fiamme guizzano. Poi si spengono e resta solo una paccottiglia nera. Ti volti e vai via. Ma in te le fiamme non si spengono, le loro lingue spasimano ancora bruciando nel tuo cuore; perché le fiamme dell’amore tradito restano nel tempo, si leniscono lentamente. Buon per te Eros Calamai, buon per te che due anni dopo, nella sala da ballo dei Ferrovieri, vedesti una giovane biondina che ti colpì. «Come ti chiami?». «Margherita».
15.
Se ne stava mezzo addormentato, disteso sul divano. Sentì squillare il telefono, ma obnubilato dal torpore non riuscì subito a realizzare quello che succedeva. Gli sembrava che sua mamma lo chiamasse per fare i compiti. Si svegliò e rispose con la bocca mezza impastata. Una voce concitata lo colpì: «Eros Calamai?» «Sì, chi parla?» «Senta lei non mi conosce, sono un amico di suo figlio Paolo. Telefono dal centro sociale, c’è stata una carica della celere e Paolo è rimasto ferito. Sta qua fuori con un occhio bendato, ancora intontito dalle manganellate». «Ma è grave?» rispose lui impaurito. «No, no stia tranquillo. È solo che siccome ci hanno buttati fuori, lui non sa dove andare; per questo mi ha chiesto di telefonare a lei. Venga subito per piacere». Così fu che Eros Calamai, forte sempre e debole mai, prese la macchina e si recò sopra Firenze. Quel venerdì doveva andare all’adorazione delle cinque pomeridiane. Ma l’adorazione più importante – pensò – adesso era quella di aiutare il suo povero figlio. Era forse lasciare Cristo il suo modo di fare? Nient’affatto, si trattava solo di andare a trovare Gesù in un altro modo. Lasciava Gesù per andare a trovare Gesù, presente in quel figlio flagellato dai celerini. Lo trovò che seduto sul marciapiede, se ne stava – accosciato - con il capo chinato sui ginocchi. Non corsero molte parole. Gli chiese se quell'occhio bendato fosse pericoloso, e Paolo gli rispose scuotendo la testa. Al pronto soccorso gli avevano detto che tra due giorni se la poteva togliere, senza problemi. In quanto agli ematomi sarebbero ati, di lì a qualche giorno. La cosa era accaduta perché la multinazionale aveva fatto una denuncia e, dopo aver lasciato quattrocento operai a casa, voleva costruire degli appartamenti al posto di quella fabbrica; quindi l’edificio doveva essere sgomberato.
Nel viaggio di ritorno, mentre il tergicristallo gli spazzolava quelle insistenti gocce di pioggia, Eros si scoprì piangente come il tempo. Ma non piangeva per sé, ma per suo figlio. «Io e te siamo eguali, Paolo» esordì «se per tante cose abbiamo idee opposte, su altrettante siamo dalla stessa parte. La verità è che io e te, tu per l’utopia marxista e io per quella cristiana, in questo mondo siamo degli spostati, gente che non trova collocazione, che da noia, fastidio». La società perfetta, dell’uomo nuovo, dove ognuno si sente realizzato nella sua dignità di persona, da quello che fatica sui campi fino allo scienziato Nobel, da quello che si fa i calli alle mani a quello che batte i polpastrelli sulla tastiera del pianoforte snocciolando le note dei notturni di Chopin, dove ognuno sia considerato non per quello che ha o che fa, ma per quello che “è” per il fatto stesso di esistere, dove sta? Una società dove tutti abbiano la possibilità di esprimere le loro capacità, dove ci sia una occupazione dignitosa per tutti, senza dover essere costretti a mandare centinaia di curriculum vitae sapendo che non si riprenderà indietro nemmeno il costo dei francobolli. Una società dove il male, di qualsiasi tipo, non abbia cittadinanza. Da quello che riduce in schiavitù le donne per farle prostituire; a quello che arraffa miliardi in bancarotte fraudolente e dopo tre giorni di galera se ne torna a casa; mentre un altro non ha dove rifugiarsi nelle notti invernali. Eppure l’uomo nuovo era arrivato, aveva vissuto qui trentacinque anni o giù di lì e aveva lasciato il suo stile di vita, il modello di comportamento, valido per tutti, perfettissimo. Si chiamava Gesù Cristo, aveva una madre ma non un padre terreno, per la semplice ragione che ce ne aveva un altro dall’eternità in cielo; per cui aveva solo bisogno di un nido in cui svilupparsi per nove mesi, uguale a noi. Diciamo che LUI era nato non dall’amore di un uomo e una donna – come tutti noi -, ma dall’amore di Dio per tutti gli uomini, che si chiama Spirito Santo. E infatti veniva dall’unione di sua madre con Questo. LUI cresciuto all’ombra del tempio di Gerusalemme, sotto la legge dell’unico popolo che aspettava un messia, crebbe non considerando un tesoro geloso, una preda da trattenere ad ogni costo, la sua ricchezza divina, ma con l’ideale di spogliarsi di essa, per farne partecipi tutti, così da dimenticare se stesso, in questo movimento discendente che si chiama “amore”. Ormai l’aveva compreso fin troppo bene, dopo quasi sessant’anni di esperienza, come funziona la vita. Funziona solo se dimentichi te stesso e ti metti nei panni
degli altri, se fai propria l’esperienza altrui, se ti abbassi a patire i medesimi dolori, le stesse sofferenze. Altrimenti ognuno se ne resta chiuso nella sua torre d’avorio, e la vita trascorre così e non se ne capisce mai la lezione. In macchina, guardando suo figlio provava un misto di comione e di tristezza. Gli vide la vena del collo pulsare e quel “tic” strano, mai visto prima. Muoveva le labbra, all’improvviso, come se abbozzasse un sorriso, con un movimento convulso, un tremolio velocissimo unito a quello di arricciare il naso come fanno i conigli, quando mangiano l’erba. “Certo – pensò scuotendo il capo sconsolato – sarà dipeso dallo shock dei colpi subiti; come pure dalla distruzione di quel progetto di vita comunitaria. In fin dei conti l’irruzione della polizia è stata una rivoluzione per loro, un terremoto che ha fatto crollare l’illusione di poter creare una società diversa”. Fuori le nuvole gli stavano in alto, davanti al parabrezza; la campagna spoglia di scura terra dopo essergli venuta incontro, se ne fuggiva via dai finestrini, insieme agli alberi scheletriti. Ma mano che procedeva s’accorse che le nuvole, in alto davanti a lui, non rimanevano ferme, ma si muovevano – ora lente, ora veloci – in quel cielo d’acciaio. Assumevano forme incomprensibili, forse pensò “sono come i progetti e le idee della mia vita. Quello che progetto, mai si avvera e devo continuamente cambiarlo, e il tutto è come un vagare senza un risultato apparente”. Prima di arrivare a casa, appena entrati nel viale principale in via Roma, si fermò al caffè Nazionale. Era un bellissimo locale e avendo notato gruppi di gente che se ne stavano ai tavolini al caldo, gli venne l’idea di prendere un caffè con suo figlio. «Che prendi?» gli chiese. «Un caffè». «Per me un cappuccino con la barba bianca». Sorrise di quella battuta a sfondo religioso, riguardante i frati scani. In pace in un separé riscaldato, si misero a chiacchierare. «Come va con quella ragazza?». «Credo che entrambi ci riteniamo liberi». «Perché? È tutto finito?».
«Babbo, tutte le volte che si parla di ragazze, tu pensi subito al matrimonio, ad un’unione sacramentale indissolubile. Mentre non funziona così». «No? E come funziona?». «Funziona che l’amore può finire. Certo, penso che prima o poi mi sposerò anch’io, una volta bisognerà pur provare. Ma adesso ho altri progetti». «Sarebbe?» chiese addentando un budino di riso, e sorseggiando il cappuccino. «Sarebbe che mi sono sentito qualche volta con la Laura. Dove sta ci possono essere delle buone prospettive di lavoro. L’Inghilterra per i giovani è molto meglio dell’Italia. Ho voglia di andare là e vedere. Se va bene ci resto, se no torno. È semplice». «Sì, è semplice» rispose lui, ma sentì un groppo alla gola. In macchina Eros Calamai, forte sempre e debole mai, pensava “io e lui siamo eguali perché viviamo entrambi da disadattati in questa società”. Prima si parlava di giustizia sociale, in modo violento, sbagliato. Poi il muro di Berlino era andato giù, ed era nata la speranza di una nuova società – nata dalle ceneri del marxismo – che unisse l’ideale della giustizia sociale, con la libertà e la dignità di ogni persona. Ma è durata lo spazio d’un mattino. Invece è germogliato quel mostro del neo liberismo, chiamato globalizzazione. Gli ritornava alla mente quello che gli aveva riferito quel sacerdote polacco “prima col comunismo i seminari erano pieni; dopo con la globalizzazione si sono svuotati. Si sono riempite le discoteche, i pub, i bordelli. È subentrato un altro modo di vivere”. Così siete uguali, due sconfitti da queste alternative sociali, per opposte ragioni, dove il dio quattrino conta più del Dio Trino. Gli spieghi che per molte cose la sua visione della realtà è più vicina ai vangeli del neo liberismo, e che la vostra differenza sta nella tensione. «Paolo, io aspiro all’immortalità, a Cristo che ribalterà la pietra della mia tomba; la mia tensione è escatologica. Tu aspiri, invece, ad una tensione sociale, ad un mondo reso perfetto dai vivi. Ma si può forse raddrizzare uno nato storto di natura? E noi Paolo nasciamo tutti con l’inclinazione al male, handicappati per il bene gratuito, con il marchio della concupiscenza: il seme dell’egoismo per
avere, godere, comandare». Tuttavia Eros non voleva deluderlo e così gli disse, per consolarlo, che il mondo è grande - anche se sapeva di mentire; perché anche a Leeds si crepa e si patisce come a Agliana; che a Leeds avrebbe senza dubbio avuto occasioni che qui non aveva; e che anche lui avrebbe trovato l’anima gemella. La terra fece in tempo a compiere solo un giro sul suo asse: il giorno dopo Eros accompagnò suo figlio all’aeroporto di Pisa, per il volo low cost – ora si diceva così – Pisa/London. Anche a lui fece “ciao” con la mano due volte e poi se ne tornò a casa. Sentiva il bisogno di meditare con calma e serenità il marasma della sua vita. Di come, al limite dei sessant’anni, si fosse ritrovato così deluso e spogliato. Pensò ai progetti giovanili, quando voleva diventare un industriale tessile, e come quel susseguirsi di croci, tipo onde di marea, l’avessero deposto fin lì sulla sponda deserta di quella casetta. Ma poteva forse vivere di rimpianti? Nostalgie di professioni andate male; progetti familiari andati per conto loro, con tre figli prodighi, senza il ritorno alla casa del Padre. Ma quale casa del padre? Sorrise amaramente. Si poteva forse chiamare casa quel tugurio della zia defunta? “Non si può vivere di rimpianti Eros – si disse – devi mettere da parte il dolore. Tutti quei ricordi gli devi oscurare per tirarne fuori le luci della resurrezione”. Ieri aveva sentito il vangelo della trasfigurazione. In quei momenti s’era ricaricato e anche il suo animo era diventato splendente, come l’umanità del Cristo. Ma poi le luci della ribalta s’erano spente, e l’opacità, il grigiore del quotidiano avevano ripreso il sopravvento. Cosa ci stava a fare a questo mondo? Se non poteva trasmettere ai figli l’essenza più profonda della sua vita, cioè l’esperienza della fede? “Questo è il tuo problema, Eros, tu vuoi sempre fare il piccolo Cristo, ma poi non puoi portare sulle tue spalle le loro sofferenze, non sei il Salvatore del mondo, al massimo puoi soffrire e offrire la tua vita per loro, ma da questo pozzo senza fondo dove tu butti il tuo sacrificio e la tua offerta, non ricevi eco alcuna di risposta”.
16.
Il cosiddetto cristianesimo puro, quello completamente spirituale, risplendente della bellezza divina, che si realizza nella storia di tutta l’umanità e tua personale, questo cristianesimo fatto di preghiere, di riti, di sacramenti, di pratiche, di infinite riunioni di gruppi impegnati alla fine delle quali non sai mai se si sia fatto accademia o vero cristianesimo, questo cristianesimo Eros esiste o no? Se questo cristianesimo puro non è una proiezione del desiderio dell’uomo di vivere per sempre, per cui s’inventa e si costruisce un dio di propria fantasia, insomma se il cristianesimo non è un’invenzione o una scappatoia umana per esorcizzare la morte, una sorta di illusoria costruzione tutta nostra, ma invece quello stesso Dio-Cristo che dice “il corpo è bello e mi ci ficco” diventando carne, questo benedetto cristianesimo puro esiste o no? Se guardi a LUI che è l’incarnazione dell’amore, della verità e della giustizia tu dici: esiste. Se guardi non solo a quello che ha detto, ma a quello che ha fatto, a tutto il suo stile di vita, te ne stai sicuro che il cristianesimo puro esiste. Però appena provi a mettere in pratica quello che LUI ti dice, a fare quello che LUI ha fatto ti ritrovi in una marea di fatiche disperate e – anche se hai la grazia per andare avanti – arrivi ad un punto che non ci capisci più niente. Ormai nella vita di fede sei andato troppo avanti per guardarti indietro, perché sta scritto “nessuno che metta mano all’aratro e si volga indietro è degno del regno di Dio”; allora tu cerchi sempre di andare avanti, non hai altro modo di vivere, certe azioni che gli altri bevono come acqua, per te sono stoltezze obbrobriose, montagne enormi da evitare. Andare avanti diventa però una specie di condanna, di malattia terrena, in quanto te ne succedono di cotte e di crude proprio perché tu vuoi vivere questo benedetto cristianesimo puro. Contemporaneamente però ti accorgi – caro Eros – che tu sei il primo a non esserne capace, a non potere vivere quella perfezione che il vangelo tutti i giorni ti mette davanti con le parole di LUI e il suo modo di vivere. Cerchi allora di scavare fino in fondo, illuminato dallo Spirito santo, nei meandri più reconditi del tuo animo. E viene fuori che tu, caro mio, sei come un handicappato
paralitico che aspiri alla medaglia d’oro sui cento metri piani. Sei nato con queste pulsioni istintive, naturali e ostinate, che niente e nessuno ti può togliere. E il bello sta proprio qui: nemmeno LUI te le vuole togliere. Anzi, anche dopo che sei diventato un cristiano completo, te le lascia addosso. Perché fa così? Perché ti lascia dentro questi virus che senza freni a volte vengono fuori, refrattari a ogni tentativo di imbrigliamento? Qui non si tratta d’istinti da tre soldi una lira. Come quello di coprirsi il capo con un ombrello se piove, o di calmare la sete con un bicchiere d’acqua fresca. Qui si tratta di desideri disordinati, che scattano indeliberati, prima che la tua volontà possa farci qualcosa, di spinte che ti spingono in certe direzioni, di sentimenti importanti. E questa spinta, questa inclinazione ti dicono non è peccato, ma se la assecondi ti porta – infallibilmente – a peccare. Allora, siccome sono spinte che ti attirano, perché ti presentano cose belle – il piacere, l’avere, il potere – tu non sai più come agire in questo mondo dove il cristianesimo puro esiste solo nella tua testa, o nella testa di qualche monaco trappista rinchiuso nel recinto del suo monastero. La differenza è però che lui è protetto da questo muro di cinta, mentre tu sei dentro il mondo fino al collo. Ti chiedi perché LUI non ti ha tolto queste spinte infette, quando ti ha fatto suo figlio. E domandi a destra e domandi a sinistra. E ti dicono “per agonem”. LUI te le lascia, perché vuole che tu sforzandoti e combattendo contro queste tendenze che vorrebbero portarti al male, al peccato, alla morte dell’anima e del corpo, acquisti una gloria maggiore se queste tendenze te le avesse tolte completamente. Ma allora “non sono stato salvato” tu replichi. No, ti dicono sei già salvato, però solo nell’ordine della Grazia, non ancora nell’ordine della Gloria. Eros, ti dicono, bisogna che tu aspetti d’arrivare in paradiso per non avere più difficoltà, né contrarietà. Capisci allora d’essere un uomo strano, quello del già e del non ancora, ma vivendo nel mondo non puoi fonderti con gli altri. Tu cerchi di vivere un cristianesimo puro, porca loca, e allora devi denunciare, insistere, ammonire in ogni occasione, sia essa propizia o inopportuna. Così denunci il tuo socio perché vuol fregare i suoi creditori con una furbata di nuova società; litighi con tua moglie perché vuoi il quarto figlio “crescete e moltiplicatevi” sta scritto; le appari remissivo perché non corri dietro ai quattrini; ti condannano in tribunale perché consideri ogni uomo tuo fratello e dici al tuo ragioniere “versa questi contanti per pagare i contributi” ma lui se li mette in tasca; ti scontri con chi della religione non gliene frega niente e non vogliono che i loro figli studino tale materia, così ci rimetti di stipendio; contrasti con tua figlia perché fa
l’inseminazione artificiale “non è permessa, tu le dici, ogni uomo deve nascere da un atto d’amore di due sposi”; combatti con tuo figlio che vede e vive la vita illuminata da un’altra ideologia, che a te sembra tenebra; vivi un rapporto difficile e sofferto con l’altra figlia che convive con un contadino. Tu, caro Eros, servendoti per ogni decisione, adoperando per ogni azione il vaglio del cosiddetto cristianesimo puro ti ritrovi separato dal mondo, vivi in un’altra dimensione, come se lo splendore dello Spirito diventasse un velo, un vetro che ti fa intravedere tutto attraverso di esso. E dietro questo vetro tutto ti appare pattume, tutto tu stimi come spazzatura pur di non perdere l’unione con LUI. Però, quando ti trovi davanti a LUI, anche tu, Eros Calamai – forte sempre e debole mai – ti accorgi di non essere puro. Anche tu sei sporco e impuro, grigio come il panno d’uno spazzolone dopo aver pulito il pavimento, e allora perché continui a cercare questo benedetto cristianesimo puro? Ammetti, meglio ammettere, che sei un illuso, uno a cui bisognerebbe dire “tutto da rifare pover’uomo”: tutti i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, i progetti, tutta la tua storia su questo sentiero scosceso e sconnesso di sessant’anni, tutto ti dovrebbe portare a diventare desolato e disperato. Eppure è proprio nel momento del tuo massimo sconforto, nella tua disillusione più desolata, che LUI – nel sacramento della confessione - ti dice “vai in pace i tuoi peccati sono perdonati”. Allora ti senti come se nascessi nuovamente, proprio in quel momento; vivente in una beatitudine naturale, composta da una pace perfettamente serena; lo sai che non ti riesce fare tutto come vorresti, che non sai immolarti come Cristo. Difatti tu sei Eros Calamai non Gesù Cristo, tu sei una persona normale con i suoi limiti fisici anche se nello spirito ti senti chiamato all’infinito; tu non sei capace di affrontare il dolore come Cristo, sei solo un piccolo Cristo; allora cerchi di compiacerlo, ti sembra di non avere paura di niente in quei momenti, che tutto ti sia possibile, e così ricominci a cercare di vivere il cristianesimo puro come un piccolo Cristo. Ma poi ti scontri e batti il capo contro il muro che separa il reale dallo ideale e ti ritornano tutti i dubbi sull’impossibilità di vivere questo benedetto cristianesimo puro. Però tu vuoi raggiungere la felicità, vuoi quella vera, quella eterna, e di ricordi che la puoi raggiungere solo vivendo come un piccolo Cristo.
17.
I giorni fanno le settimane e le settimane i mesi. Ne sono ati qualcuno. È domenica pomeriggio e ti ritrovi con lei, disteso nel letto. Margherita è tornata, come qualche altra volta, da Londra. Fa la spola raramente tra qui e là. Tu sei ancora ansimante per l’amore vissuto, ma non c’è stata nessuna sala illuminata dalle luci della resurrezione. Eppure sarebbe il giorno di questa luce splendente. Avete mangiato voi due soli, e tu hai detto che dai e dai siete tornati al punto di partenza, come quando eravate fidanzati. Ma tanta acqua è ata sotto i ponti. Tu scorri lievemente, con i polpastrelli delle dita, la mano sui suoi fianchi. Distesa sul dorso sonnecchia. Si sentirà appagata? Hai sempre addosso appiccicato il suo odore, ma quel suo umidore non c’è più. Al suo posto è subentrato un umidore posticcio, dato da un ovulo medicinale. Il fatto sta che da un po’ di tempo è in menopausa, e il suo corpo non secerne più gli ormoni che aiutano l’atto d’amore. Prima che tu diventassi una sola carne con lei, ti ha detto una frase che ti ha colpito, anzi che ti ha contrariato, ma poi – dopo fatto l’amore – riconosci che è la pura verità: “Eros il meglio è ato”. La guardi di profilo e i la mano sui suoi seni, ma non sono più turgidi. Non si rizzano più con quei capezzoli appuntiti, restano flaccidi. Si volta, pigra, e ti abbraccia aprendo mollemente la bocca per baciarti. Tu stai ancora un po’ accaldato, e anche lei è tutta un bollore. Ripensi a quella frase “nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia”, e concludi che l’approssimarsi della vecchiaia è come una malattia in se stessa. Si sentirà appagata? Non lo sai. D’altronde anche tu non sei più quello di trentacinque anni fa. “Eros hai delle gambine sottili su quella pancia così sporgente”. Devi riconoscere che ha ragione, quando ti metti di profilo allo specchio. Gli addominali a guscio di tartaruga non li hai mai avuti, ma il ventre piatto sì, su delle gambe muscolose e ben piantate. Ora, invece, hai due gambine con polpacci e cosce flaccide, rinsecchite, su una pancetta a cocomero. Nella camera il sole d’estate, come un braciere incandescente, ha riscaldato tutto: le tende, i
mobili, le lenzuola; ogni cosa avvampa in quell’atmosfera, dove poco prima avete provato a suscitare la ione dell’amore. Ma la tua possanza non è più quella di quando eri più giovane, e lei non manda più tutti quei gemiti. Alcuni tuoi amici ti hanno fatto vedere quelle pasticche di viagra. Sostengono che ti fanno ritornare come vent’anni fa. Tu, però, li consideri degli sfasati. Gente che pretende di fermare l’acqua del fiume che tocchi con la mano, quando l’ultima che va diventa la prima di quella che viene. Si può forse fermare il fiume, la corrente del tempo? Tu pensi che sia meglio seguire quella sentenza sapienziale che sostiene esserci il tempo per ogni cosa: “Un tempo per gli amplessi e un tempo per stare senza amplessi”. Mentre le guardi pulsare la giugulare del collo, pensi che l’amore che può riposare tra i due guanciali della fedeltà e della indissolubilità traluce qualcosa di divino. Se il fatto fisico è in decadenza la sua forza spirituale è intatta, ed è questo che è meraviglioso. Anche l’abitudine e la routine, il compiere gli stessi gesti, se da una parte sembrano spegnere la novità, dall’altra invece ti fanno sentire ancora più unito a lei, per quella realtà non rappresentata solo dall’unione fisica, ma da tutta una vita ata insieme. Da quel complesso di progetti, scelte di vita, nascite di figli e nipoti, che fanno di voi due una stessa realtà. Realtà che poi altro non è che la vita d’un amore completamente umano, che condivide tutto, creando una realtà nuova: la vita matrimoniale. Lei si volta, puntando un gomito sul letto, e tenendosi la guancia con una mano. I suoi seni ti toccano il petto. Puoi vedere l’aureolato, rosa scuro, dei suoi capezzoli. E pensi che hanno allattato e dato vita ai tuoi figli. Lei ti a l’altra mano, a mo' di rastrello tra i capelli, e dice che vuole dirti qualcosa. «Dimmi» rispondi. «No, niente. Solo mi è venuto in mente, ora, che Franco e Carla hanno delle difficoltà economiche. Ieri sera, povera figliola, era veramente depressa. L’agricoltura qui in Italia è diventata una cenerentola, una occupazione con redditi vergognosi. La stanno abbandonando tutti a detta sua, in quanto di tutta la piana è rimasto solo Franco a coltivare i campi. Sono tutti andati in fabbrica, vendendo i terreni a tre lire; perché anche questi non costano più niente, ce ne sono troppi in vendita». «E allora?».
«Niente. Volevo solo vedere se possiamo fare qualcosa per aiutarli. Tutto qui». «Mi sembra più facile a dirsi che a farsi». Tamburelli con la mano sul suo fianco, e cominci ad accarezzarla, ma senti che gli occhi ti si chiudono. In fondo, pensi, per tua figlia certo che varrebbe la pena di fare qualcosa. Ma poi non sai cosa, non ti viene in mente nessuna idea e così non puoi prendere nessuna decisione.
18.
Accosciato a terra, Franco raspa con la mano, strizza nel palmo una zolla e se la mette al naso, sbriciolandola tra i polpastrelli. Odora per qualche secondo, poi – disgustato – la ributta a terra. Cadendo alza una nuvolina di polvere. Ha l’odore secco e puzzolente della terra esausta, diventata sterile per la siccità. Non è più quella terra pastosa, che si apriva al vomere spandendo quell’odore pieno, da humus fertile. Ora questa manda l’odore d’un cadavere. Franco guarda quel colore tra avana e giallo ocra provocato dal sole e dalla mancanza di piogge. Alza il capo, sentendo soffiare il vento caldo dello scirocco proveniente dall’Africa; quell’aria calda non fa altro che aumentare la pesantezza dell’afa – pensa. Il sole di fine Giugno, implacabile, dardeggia: impossibile persino guardarlo. “Tre anni, rimugina lui, ed è andato tutto storto. Gli inverni miti che non sembrano più neppure inverni con quelle piogge torrenziali, tipo monsone quasi fossimo all’equatore; dilavano la terra e la privano dell’humus fertile, lasciandola secca ed esausta come una donna che ha subito violenza. E le mezze stagioni, come la primavera, sparite. Il caldo che arriva di brutto, con quel cielo terso, limpido e cristallino. Quasi, quasi lo scambieresti per un vetro a specchio”. L’ultimo bollettino dell’associazione agricoltori arrivato ieri, gli era sembrato il respiro appesantito e flebile d’un agonizzante. I prezzi calati del 30% a causa delle importazioni dai paesi in via di sviluppo. “È la globalizzazione bellezza” gli aveva risposto il mulino a cui ogni anno consegnava il grano. Per gli ortaggi peggio ancora, aveva cessato la produzione l’anno prima, come faceva a competere con le fragole tunisine o spagnole? Franco spazia, guardando in ogni direzione. Di tutta quell’immensa piana solo i suoi sono campi coltivati. Gli altri contadini hanno già abbandonato la partita. Chi è andato a lavorare in fabbrica, chi ha venduto la terra a tre soldi una lira, case coloniche comprese. Guarda caso, però, il prezzo d’un trattore in meno di dieci anni è raddoppiato. Lui guarda le pannocchie di granturco, mezze spelacchiate, con la testa adagiata all’ingiù e i chicchi di mais rinsecchiti. Anche il grano, cresciuto su quel terreno arido e riarso ha lo stelo secco, legnoso, basta
stringerlo tra le dita e si sbriciola scricchiolando. La spiga ha i chicchi rachitici e duri, gli dà noia persino il pensare alla resa ridicola dei quintali per ettaro. Che senso ha continuare? Sarà quello – pensa –l’ultimo anno da agricoltore? Aveva puntato su una ripresa, ma non c’era stata, anzi le rese e i prezzi sprofondavano sempre più. Rimuginò amaramente che non avrebbe potuto are un altro anno in quelle condizioni, ormai era già tutto finito. Più le ore avano e più il solleone diventava bollente. Lui, a torso nudo, era rimasto solo con i pantaloni e continuava a stare lì dopo essersi accesa una sigaretta. Cosa ci stava a fare? Di preciso non lo sapeva neppure lui. Diciamo che il suo era il tipo di attaccamento atavico, una specie di cordone ombelicale che lo legava alla terra: suo nonno, suo padre, lui, tutti in famiglia erano sempre stati contadini. E la terra non li aveva mai traditi. Mai. Fino ad oggi. Mettendosi a scavare con la soletta della scarpa per terra, si rammentò del nonno quando lo portò, per la prima volta, a lavorare. Lui si sentiva impacciato, curvava poco la schiena per zappare e fu quando il nonno gli disse: «Franco, ricordatelo sempre, la terra è bassa». A quel ricordo abbozzò un sorriso amaro, ed ebbe un momento di esitazione. Fu quando sentì la voce della Carla, che urlando lo chiamava a casa. «Cosa ti sembra?» gli domandò lei. Lui rispose solo scuotendo il capo. «Mah, eremo anche questo momento. A mangiare oggi viene anche il babbo che è solo. Ti dispiace?». «E perché dovrebbe dispiacermi, poveretto. Ben venga, faremo tre chiacchiere».
Fu così che Eros Calamai, forte sempre e debole mai, figlio di Dio e capo di una famiglia votata alla dispersione, che viveva la prima beatitudine quella dei poveri fin dentro lo spirito, ovvero di quelli che vivevano solo del necessario non appetendo al superfluo; nato in un mondo meraviglioso perché creato da Dio, ma cresciuto in una società corrotta dal male; per qualche tempo affascinato dalla ricerca del successo mondano, per poi ritornare alla fonte dell’acqua viva della Grazia vivendo come un piccolo Cristo, si confermò nell’opinione di poter aiutare sua figlia.
Prese l’elenco telefonico, lo scorse fino a Calenzano e si fermò alla voce “Filatura Bellini & Co. spa”. Stette un attimo indeciso, poi compose il numero. «Filatura Bellini sono Marzia dica». «Buongiorno volevo sapere se potevo parlare con il sig. Bellini». «Ma chi parla scusi. Ha un appuntamento?». La voce aveva avuto un brusco cambiamento, quasi avesse chiesto la luna, o comunque un qualcosa che non era scontato, si poteva raggiungere solo dopo aver ato un percorso ad ostacoli. «No, vede sono un suo ex socio. Sono molti anni che non lo vedo e vorrei parlare con lui. Mi bastano dieci minuti…». «Stamani no, è in riunione. Come si chiama?». «Eros Calamai». «Va bene, mi ritelefoni nel pomeriggio e le faccio sapere». Eros si segnò su un foglio un appunto, lasciandolo al tavolino del telefono. Nel primo pomeriggio ritelefonò: «Filatura Bellini, sono Roberta dica». «Senta io stamani ho parlato con una sua collega, una certa Marzia, mi doveva fissare un appuntamento con il sig. Bellini…». Dall’altro capo percepì un silenzio a cui seguì un parlottare sommesso. S’immaginò una ragazza bionda, slanciata, con un giovane viso truccato che chiedeva alla compagna se avesse o no chiesto al padrone tale appuntamento. «No, guardi Marzia è nel turno di mattina e non c’è nessun appuntamento fissato per lei». «Perché io ero un suo ex socio…» «Ah, bene, allora provi a venire così all’impronta. Domattina verso le dieci. Si intrufola tra un appuntamento e l’altro ed è tutto risolto». Eros calamai, forte sempre e debole mai, si stava dirigendo verso la fabbrica del Bellini. Da diversi anni non era più dove l’avevano tanto tempo fa, si erano
trasferiti nella nuova zona industriale, lui sapeva all’incirca dove si trovava, ma di strade ce n’era una marea. I colori del giorno prendevano più vivezza, mentre il sole che si elevava somigliava ad una palla gialla, d’oro incandescente, che spandeva sempre più calore. I muri delle fabbriche schierate lungo la strada si facevano più netti e nitidi. Si diresse guidato da quella grande insegna che campeggiava svettando sui capannoni: “Filatura Bellini &Co.”, come un re magio guidato dalla stella. Prima di entrare fumò tutta una sigaretta. «Buon giorno». «Desidera?». «Sono il signor Eros Calamai, avevo telefonato per sapere se potevo parlare con il sig. Bellini…». «Ah, sì. Attenda in sala d’aspetto, ora ha un cliente poi avviseremo il principale». «Grazie». Seduto nella saletta fece finta di leggere un giornale patinato. Trattava di come bisogna investire i capitali per avere il massimo rendimento dai medesimi, e faceva una moltitudine di esempi con differenti diagrammi. Ma davvero la gente credeva che bastasse prendere i risultati dell’anno ato perché si riproducessero pari, pari nel futuro? “Se avessi conosciuto il futuro, pensò, a quest’ora non sarei qui”. “E dove saresti, eh, Eros Calamai?”. “Sarei alle Maldive su una spiaggia bianca, sotto una palma a bere il succo fresco d’una noce di cocco”. Si mise a pensare ai nomi di svariate persone che avevano conosciuto insieme, e gli balenarono in mente diversi nomi. Il principale era quello del Lombardi, un loro ex compagno di scuola diventato socio del Bellini, morto purtroppo l’anno scorso d’un tumore al cervello. Di sicuro quello sarebbe stato l’argomento di partenza per il colloquio. «Eros, che piacere, accomodati». Lui si accomodò davanti a quella scrivania di mogano marrone scuro, a ferro di cavallo, in quell’ufficio completamente diverso dal resto della fabbrica ultra moderna. Di stile antico rassomigliava più ad una stanza di antiquariato che ad un ufficio, con tutti quei tappeti persiani a coprire il pavimento, quadri antichi e mobili in massello. I raggi del sole battevano sulla scrivania lustra mostrando la
raffinatezza della lucidatura a cera d’api, eseguita sul legno. «Allora che mi racconti? Mi fa piacere vederti». «Niente, sai che adesso insegno a scuola e sono prossimo alla pensione…». «Eh sì, beato chi ci arriva ti ricordi di Ermanno?». «Davvero, povero Lombardi. Ma chi l’avrebbe mai detto, ora che poteva stare bene. È vero che è andato in America ad operarsi?». «Sì, ma non è cambiato niente salvo la cifra stratosferica presa dalla clinica di New York». «Aveva due figli?». «Sì, uno è ingegnere e uno sta laureandosi ora». «Lavoreranno con te, immagino». «No, no. Con la vedova di Ermanno ci siamo divisi». Lui guardava il suo ex socio e notò il solito carnato olivastro, la faccia con le gote tonde a mela e le labbra carnose, pronunciate. Si era mantenuto bene e solo due ciuffi di cespugli bianchi tradivano, ai lati della testa, la sua età. Ora non aveva altra scelta, era lui il poveretto che aveva chiesto il colloquio; la parte debole, che cercava un aiuto per la figlia ed il genero per farli sopravvivere. Deglutì e cominciò a parlare: «Volevo…». In quel mentre squillò il telefono: «Scusa Eros». «Niente». «Oh, ingegnere ha fatto bene a telefonarmi, la situazione è critica. Quando saranno pronti i diecimila metri per la Lan corporation?» rispose il Bellini, tappando con una mano la cornetta, e avvisandolo che si trattava d’una telefonata importante. Proveniva dall’ingegnere responsabile del nuovo stabilimento in Romania, inaugurato giusto un anno fa, in cui producevano tessuti per le grandi case automobilistiche. «La prossima settimana? Va bene. Mi raccomando ingegnere il controllo della qualità; lei sa che la Lan corp. è una
multinazionale molto esigente che produce tutti i sedili per Ford, General Motors e Toyota». Eros notò che mentre parlava disegnava una macchina sportiva ed era molto bravo. Il Bellini – pensò – era sempre stato un apionato di rally e di macchine sportive. «Capisci Eros, adesso la produzione di filati è un affare secondario. Il fatturato viene dalla produzione dei tessuti per la tappezzeria di auto in due stabilimenti: qui e in Romania. Meglio vendere il tessuto invece che il filato non ti pare?». Lui rispose di sì con il capo. «Vieni di faccio vedere lo stabilimento». Abbandonarono l’ufficio dove si trovavano e cominciarono a camminare nei capannoni, tra macchinari e operai. Ora come ora – gli disse il Bellini - c’erano un centinaio di operai lì e in Romania altri cinquecento. Davanti ad un grande vaporizzo su cui si avvolgevano le pezze da spedire si fece coraggio: «Vedi la situazione è questa, tu sai che ho tre figli. Bene. Una, Carla, è in un momento critico perché sta in campagna con un agricoltore e non riescono a tirare avanti. Così ero venuto da te per sapere se potevi fare qualcosa, non so per lei o per lui si chiama Franco, è un gran lavoratore». «Vieni ti voglio presentare Alfredo». Avevano continuato a camminare ed erano ritornati alla reception della fabbrica. Lì accanto ci stava un piccolo ufficino. «Questo è Alfredo, questo è Eros» disse il Bellini appena entrati. «Alfredo – continuò – vende per nostro conto le rimanenze dei filati. È una buona idea non ti pare? I fine partita o i reclami o i filati difettosi, invece di venderli per tre lire ai grossisti li vendiamo ai dettaglianti o ai venditori ambulanti, quelli che fanno i mercati. Ovviamente non c’è uno stipendio fisso, si tratta di affari sporadici, ma con una buona percentuale di provvigione. Tua figlia o tuo genero potrebbero affiancare Alfredo, e prendersi la percentuale sugli affari andati a buon fine. Che te ne pare?». Sforzandosi di notare tutto e di non perdere neanche una parola, Eros, guardò
meglio Alfredo. Un uomo precocemente invecchiato, con le spalle incurvate, ormai completamente calvo. Dal suo comportamento silenzioso e remissivo, da tutto l’arredamento di quella specie di ufficio scarno – in pratica un ripostiglio ribattezzato ufficio - comprese benissimo la trappola di tale proposta. Sul tavolino notò dei fondi rocca con un piccolo aspo per fare delle mazzette, dei filzolini di filato. Quella specie di lavoratore autonomo, pensionato o a part time, non faceva altro dalla mattina alla sera che spedire ai negozianti l’elenco delle rimanenze dei filati, sperando che tra un chilo di qui e un chilo di là, alla fine del mese qualcosa rimanesse anche per lui. Si sentì ribollire, ma lui era un piccolo Cristo e non poteva mettersi a imprecare e dire quello che pensava di tale proposta. In quanto avrebbe dovuto dire al Bellini “sei uno stronzo”. Fece sfoggio di un po’ di diplomazia dicendo che ne avrebbe parlato a sua figlia e salutò entrambi. Uscendo gli venne in mente che la legge occhio per occhio, dente per dente Cristo l’aveva eliminata con la legge nuova dell’amore, ma che aveva anche detto di scrollarsi la polvere dai sandali per non avere niente a che fare con chi rifiutava di aiutare il prossimo. Ovviamente non avrebbe mai accettato di fare intrappolare sua figlia in quella proposta, così appena uscito dallo stabilimento, sullo zerbino dell’ingresso si strusciò via la polvere dalle scarpe.
18a.
Noi, durante il tempo del viaggio in cui ci portasti all’aeroporto di Pisa per andare a Leeds, volevamo dirti tante cose. Ma poi sai come funzionano certe faccende. Funzionano che, nonostante le più buone intenzioni, tanti sentimenti ti restano dentro e non c’è verso di buttarli fuori, così come certe parole. Le vorresti dire ma ti restano nella strozza. E sì che per lo stato in cui era ridotta l’autostrada Firenze – Mare di tempo ne abbiamo avuto, io e Franco. Tra corsie a senso unico per i lavori in corso, betoniere, camion che scaricavano montagne di catrame, sacchi di cemento e operai che – a torso nudo per il caldo – seguivano un enorme mostro fumante che rifaceva il manto stradale, sembrava di fare un percorso di guerra e non un tragitto verso l’aeroporto. Difatti ci mettemmo il doppio. Volevamo dirti che nonostante le nostre diverse visioni della vita, ti vogliamo bene, anche Franco sai? Non credere perché non può vedere i preti o non va mai in chiesa che non sia un uomo sensibile. Di certo molto di più di quel tuo socio, quel Bellini, di tanti anni fa. Non dovette essere stato facile per te accettare l’umiliazione di andare a trovarlo. Io me lo ricordo, quando da piccina, tu dicevi che era un lazzarone. Quel tuo gesto ci ha colpiti, anche se il risultato è stato negativo. Noi abbiamo capito che nella vita non è il risultato che conta, altrimenti novanta persone ogni cento si dovrebbero far fuori. Quello che conta è volersi bene perché siamo stati creati per amare ed essere amati, tutto il resto è un sovrappiù. Poi non è mica che andiamo al polo Nord. Tu dici sempre che la globalizzazione è anti cristiana ma almeno per i trasporti aerei ha funzionato. La mamma fa la spola, noi andiamo là, in quanto – in fin dei conti – con questi voli low cost andare a Londra costa quanto una cena in un ristorante. L’unico abbarbicato a questo paesino sei tu, che non sei ancora in pensione. Comunque due anni ano presto. Riguardo poi al comportamento di Franco mi sarebbe piaciuto rispondere a tante tue domande. Tu dicevi sempre: perché non cambia opinione? Perché non si rimette in discussione? Si è obbligati tutta la vita a stare dietro al partito comunista? Si smette di respirare se si lascia il partito? Babbo noi volevamo spiegarti questa faccenda, perché – vedi - ci sono degli avvenimenti nella vita
delle persone che sono come dei giri di boa: da quel punto non si può più tornare indietro. Ne viene fuori una specie di ostacolo insormontabile, d’ignoranza invincibile. Franco ha sempre vissuto tutta la fanciullezza, adolescenza e giovinezza in una famiglia che ha sempre considerato la chiesa come qualcosa di orripilante. Sulle colline pistoiesi, sopra Treppio, in cima ad una cresta dove finisce il sentiero il suo fratello maggiore fu ammazzato dai tedeschi e dai fascisti. Questo tu lo sai. Ma non sai il seguito. Un partigiano morto per loro rappresentava un trofeo raro. Adelmo poi che era anche comandante del battaglione era il massimo. Lo presero subito, appena morto, con la guancia ancora abbrustolita dalla canna bollente della mitragliatrice. Era morto infatti per un colpo rimbalzato da una roccia vicina che gli aveva traato una tempia e stramazzando era caduto con il viso sulla mitragliatrice che gli aveva bruciato la gota. Lo misero su un camion e lo portarono giù in piazza del paese, dove sta la chiesa. Era arrivato proprio allora un pretino giovane nominato dal vescovo. Quando la salma arrivò in piazza, la notizia aveva già fatto il giro di tutto il paese. I suoi familiari presero il corpo, sollevandolo dal camion, e con quella barella lo volevano portare in chiesa per fargli il funerale. Ma arrivò il federale del paese che urlò al sacerdote “se fai il funerale cristiano a quest’uomo sei morto anche tu”. Non era quello un momento speciale? Il momento di dimostrare, anzi di testimoniare, che tutto il fiume melmoso della storia poteva essere depurato dal Cristo? Che tutto quello scorrere di odio, dolore, male fatto e ricevuto, e rifatto e ricevuto ancora più malvagiamente, doveva trovare una sublimazione? Non era la nostra una antica società cristiana, che da più di millenovecento anni si rifaceva a LUI? E la sua prosecuzione nel tempo, il suo prolungamento in questo fiume fangoso e motoso che è la nostra storia non si chiamava forse "chiesa"? Il sacerdote discese gli scalini della chiesa e si trovò, faccia a faccia, con il federale. Tutto il paese era radunato alla porta della chiesa. A braccia nude gli amici e i familiari di Adelmo tenevano il feretro con il morto. In quel silenzio si sarebbe potuto sentire volare una mosca. Il sacerdote se ne stette un attimo indeciso, poi abbassò le braccia come in preda ad un senso di sconfitta, e sopraffatto da questa immensa fiumana di melma e fango della guerra disse alzando la voce: «Non c’è posto in chiesa per i nemici del fascio!». Successe un parapiglia, si verificarono degli scontri – fortunatamente solo a botte – il sacerdote chiuse in fretta e furia il portone della chiesa, e i familiari di Adelmo si recarono piangendo di rabbia e dolore al cimitero. Lì, al tramonto
mentre il fiume fangoso aveva ulcerato gli animi non meno dei corpi, fu sepolto in fretta e furia senza funerale né benedizione religiosa. Prima i genitori di Franco, che allora non era ancora nato, andavano sempre in chiesa, ma da quel momento non ci misero più piede e così tutti i loro parenti. Alcuni anni dopo ad Adelmo fu data la medaglia d’oro, e in suo onore fu eretta una statua che troneggia ancora nel centro della piazza del Comune. Noi avremmo voluto spiegarti tutte queste cose, ma Franco è un tipo silenzioso tu lo sai. E poi l’altoparlante annuncia che è l’ultimo avviso per l’uscita numero 9 per il volo Pisa-London. Ci salutiamo e ci baciamo sulle guance, mentre ti dico “babbo, abbi cura di te”. L’unico incontaminato da questa fiumana fangosa è stato Chicco, che ti ha buttato le braccia al collo e ti ha detto: «Nonno, ti voglio bene» e ti ha dato un bacio con lo schiocco. Ma tu lo dici sempre che i bambini sono più vicini di noi al regno dei cieli.
19.
È un limpido pomeriggio di fine Giugno, è da tempo che non piove e il caldo dell’estate sta diventando pesante, i cespugli di rovi e le siepi di alloro, ai lati della strada, sono già coperti di polvere che le rare macchine sollevano al loro aggio. Eros sta camminando, tenendo la mamma a braccetto, verso la gelateria del nonno. Indossa il vestito della festa e si sente felice, di quella felicità naturale che lo riempie e lo sazia. È contento e tanto basta. È il pomeriggio più bello della settimana, perché starà col nonno ad aiutarlo nella gelateria. Procedono a o abbastanza sostenuto e ora ano a lato dei tigli che delimitano l’inizio del viale Roma. Lui apre il torace e respira a pieni polmoni quel profumo dei fiori di tiglio che è così delicato e penetrante. Gli piace tanto perché pur essendo così sopraffino permea e impregna di sé l’aria circostante. Una folata di vento gliene porta un effluvio più abbondante e Eros lo aspira con piacere. Con la mano ando struscia il tronco di un tiglio e sente la dura scorza del legno, tutto rigato e scanalato. Quanto sarà vecchio? A scienze ha studiato che segandolo e contando tutti i cerchi disegnati sul fusto si può calcolare il numero degli anni. ata la curva, in fondo al viale, Eros intravede già il piccolo spiazzo con la tenda sporgente, e sotto i tavolini con le sedie. Uno sconosciuto li sora in bicicletta e grida, ridendo a sua madre: «Marcella, che ti sei fatto il fidanzato?». Lei ride e dice che «sì, non lo vedi com’è alto?». Anche lui ride e solo ora riflette che a quattordici anni è alto come la mamma. Il sole batte forte, ma il caldo è stemperato dalle chiome degli alberi e dall’ombra. Una spera di sole a rettilinea tra le chiome, non si frastaglia, e colpisce dritta come una lancia la striscia bianca, dipinta su ogni albero. S’illumina luminescente. Eros pensa che hanno avuto una buona idea a dipingere di bianco fosforescente gli alberi del viale, così di notte le macchine vedono
meglio la strada, specie la curva. Arrivano dal nonno Gianni e appena sulla soglia lui sente l’odore piacevole e dolce delle cialde appena sfornate, e della crema. «Sono arrivati i rinforzi, eh? Bravo Eros». Lui bacia il nonno e si mette a sedere fuori ad un tavolino. Il nonno gli ha già preparato il gelato preferito: crema, fiordilatte, stracciatella con sopra una cresta di panna. Lui lo lecca tutto con voluttà, poi si gusta il cono di cialda profumata. Dandoglielo il nonno ha detto la solita frase: «Vai Eros goditi questo gelato. La vita è tanto amara, ma il gelato la fa dolce». Dopo lui si mette il grembiule bianco e va dietro, nel laboratorio, ad aiutare il nonno. La mamma si mette davanti, alla vetrina, a spalettare il gelato per i clienti. Comincia la ressa, i tavolini sono pieni e arrivano le compagnie dei ragazzi. La mamma di là urla che la crema e la nocciola stanno finendo. “Sempre così – sussurra il nonno – fai più di venti gusti e loro prendono sempre i soliti cinque o sei. Se però non hai anche gli altri, reclamano che non c’è assortimento”. La macchina dopo aver bollito e pastorizzato il latte e le uova, manteca e gela il tutto. Eros con movimenti precisi del polso mette, spalettando, la massa gelatinosa appena sfornata in due vaschette. Le porta alla mamma. La crema è giusta: né troppo morbida, altrimenti si abbasserebbe, ritornando liquida; né troppo dura, altrimenti si sentirebbe troppo il ghiaccio e non si scioglierebbe in bocca. Eros ride e si diverte col nonno, che prepara tutti i gelati alla frutta: fragole, limoni, mirtilli e cocomero. «Eros ricordati che su questi si guadagna il doppio. Non hanno bisogno di latte, solo acqua e frutta». Lui non si stanca perché il profumo del cacao, delle nocciole e dei coni di cialde appena sfornate dalla macchinetta gli piace. Così a lo svago di quella giornata. Nel laboratorio ora fa caldo, lui si toglie col dorso della mano il sudore dalla fronte, gli aromi dei vari gusti si sono mischiati e l’aria – nel laboratorio – è diventata pesante, ma è una pesantezza profumata impregnata di queste fragranze , non come quando in una stanza ci sono troppe persone. Eros continua a spalettare e a sfornare gelato morbido e cremoso. Si sente contento perché quelli là fuori, gustandolo, si renderanno la vita un po’ più felice.
Tu non sai neanche perché hai fatto questo sogno. Non hai mai sognato il nonno Gianni e la sua gelateria. Ti ricordi solo, dopo la sua morte, alcuni frammenti di frasi tra la mamma e tuo babbo: «E allora la gelateria che fine farà?». «Marcella io non posso fare il gelataio, io sono un tessitore. Non c’è niente da fare si deve chiudere. Ho altri progetti su di lui, il gelato non sarà certo il suo futuro». E capì che il “lui” di cui parlava il babbo era lui. Di dormire non se ne parla proprio più, meglio alzarsi e gustare l’aria fresca del mattino, prima d’andare a scuola. Quel sogno ti ha fatto risalire nel ato, come un esploratore che controcorrente navighi dalla foce verso la sorgente d’un fiume, solo che il fiume è la storia della tua vita. Vita segnata dalla decadenza e dal fallimento, ata sul crinale tra povertà e miseria, nata con grandi progetti nel dopoguerra e cresciuta tra cambiamenti epocali. Prima il fascino della persona di LUI, poi il desiderio del successo economico, poi i aggi attraverso il fallimento, i dubbi sulla giustizia marxista, e la ribellione contro il neo liberismo della globalizzazione. Comunque hai compreso ben presto che la ribellione a qualsiasi tipo società, per te piccolo Cristo, non è praticabile. Tu vesti, mangi, vendi, compri, lavori, fai all’amore come gli altri, ma questo è solo un’apparenza tipo una tinteggiatura superficiale. In realtà, nel livello più profondo, oltre il quale non ce ne sta un altro, tu non puoi appartenere a nessuna società. Ne hai avuto abbastanza sia del capitalismo, sia del socialismo, sia della globalizzazione. La verità è che LUI ti inserisce nel mondo, ma non sei del mondo. Eros tu non sei né un fariseo, né un ipocrita, vale a dire uno che si maschera, facendo finta di ridere mentre dentro piange e viceversa. La realtà, molto semplice, è che LUI è irriducibile al mondo, a qualsiasi tipo di società umana, e siccome ti ha donato il suo spirito, rinnovando la tua umanità mondana, tu non puoi mescolarti con gli altri. O meglio ti puoi mescolare fino ad un certo punto. Altrimenti se credi di buttare LUI dalla finestra, fuori dalla tua vita, diventi come gli altri che a forza di mettersi la maschera non sanno più chi sono veramente. Perché un conto è mettersela per gioco a carnevale e poi togliersela qualche giorno dopo. Un conto è mettersela per la vita, credendo con questo
travestimento, che poi non vuol dire altro che seguire la vecchia canzoncina dell’Altro, di lasciare intatto il dentro compromettendo solo il fuori. Quasi che si potesse camminare per decenni in una strada fangosa senza sporcarsi le scarpe. Quasi che parteggiare per il vecchio mondo – quello dell’arraffare egoistico, del godere e del primeggiare ad ogni costo – portato avanti con migliaia di atti della propria volontà non ci cambiasse anche dentro. Probabilmente se vuoi cambiare sei sempre in tempo. Anche tu puoi diventare uno privo di scrupoli o, come si dice, privo di ideali. Puoi benissimo smettere di lambiccarti il cervello su ciò che è lecito e ciò che non lo è, potresti vivere benissimo come tanti senza un obiettivo ben preciso – la famosa vita eterna – facendosi spingere dagli istinti come le foglie dal vento d’autunno. Senza ritegno o considerazione alcuna verso tutti e nessuno, considerando solo il tuo tornaconto come centro di gravità permanente. Lo dice anche una canzonetta. Non è una via dolorosa, né una lotta dura per lo spirito, anzi sarebbe una strada in discesa, ampia e spaziosa, senza interminabili crisi di coscienza avendola semplicemente soppressa. Addio sfibranti discernimenti spirituali se una cosa sia secondo la volontà di LUI, l’eterna volontà di LUI che guarda caso ti rimane sempre imperscrutabile, ed erri sempre quando credi di averla conosciuta. O meglio pretendi di averla conosciuta nella tua vita. Addio snervanti crisi di coscienza se una cosa “buona” fosse però più o meno opportuna. Perché c’è bene e bene. E il bene migliore – guarda caso – è sempre quello in cui tu devi somigliare a LUI, ovvero diventare un agnello sacrificale. È allora che meriti, è allora che accumuli per la banca del cielo, quella che ti dà gli interessi del centuplo, però nell’aldilà. Il fatto è che tu venuto al mondo non volevi danneggiare nessuno, volevi solo fare la tua vita essendo amico di tutti, cercando di rendere felici le persone che LUI ti aveva messo accanto. Tu non chiedevi altro. Il fatto è che però tu facevi i conti senza l’oste, senza l’Altro – l’eterno sterminatore. LUI ti aveva messo in guardia dicendoti “non credere che sia venuto a portare la pace sulla terra”. Questo lo hai capito tardi. Ovvero che non dipendeva da LUI, ma dall’atteggiamento e dalla risposta che gli altri davano al suo messaggio. LUI era venuto a portare la benevolenza e l’amore, per stare in pace con tutti, come volevi fare tu, ma la conseguenza del suo rifiuto è stata appunto questa guerra. Non è bastato che tu non volessi nemici, sono gli altri che hanno fatto di te un nemico per loro. Non ti hanno lasciato scelta, perché funzionavi con un’altra mentalità e suscitavi un contrasto contro i loro desideri, anche loro volevano sopravvivere al male, facendo però un male maggiore e così cavarsela a danno
dell’altro. Altro che poi eri tu. LUI ha fatto di te un animale strano, che non vive secondo gli usi, i costumi, il modo di agire e pensare degli altri, ma come una specie di libero battitore, sganciato dalla mentalità corrente, perché tu hai dentro di te un germe irriducibile che non ti fa peccare, che ti fa vedere tutto - dallo spillo all’elefante alla luce della Rivelazione di LUI, per cui fai sempre quello che ti ispira, propone, dice, decide e vuole LUI. Non è che questo mondo ti fa schifo, perché l’ha fatto LUI ed è meraviglioso, così il denaro lo consideri un ottimo servo, ma non vuoi che divenga su di te un pessimo padrone; anche la beatitudine di LUI è il massimo del piacere, anche questo è buono perché l’ha creato LUI, ma tu non te le senti di viverlo come Rodolfo Valentino o Porfirio Rubirosa. Sai che accontentarti della Margy è il modo più limpido di saziarti veramente. Anche il comandare, il potere e il successo sugli altri è una cosa buona, ma tu seguendo LUI, hai capito che il vero modo di regnare è servire e prendere l’ultimo posto, solo così puoi sfamare la fame di LUI presente nell’affamato e la sete di LUI nell’assetato. Così mentre le stelle se ne vanno via dal cielo e tu vedi un merlo che, con il suo becco aranciato, becca tra l’erba e le foglie marcenti un lombrico, arrivi alla conclusione che se LUI pensa ai piccoli del merlo che pigolano a LUI, penserà anche ai tuoi figli. Pertanto questa è la valutazione che dai alla tua esistenza. Sicuro che LUI avrà segnato nel libro della vita, in quel tuo inserto personale compilato nel regno dei cieli che tu non hai ancora visto, ma che vedrai un attimo dopo il tuo aggio terreno, tutte quelle cose che per seguire LUI ti hanno incasinato; ma che, gira e rigira, ti daranno un successo stratosferico.
20.
Lui cammina nel Corso senza una meta precisa. Ieri ha firmato la domanda di quiescenza, richiedendo di essere messo in pensione. Tante volte aveva visto quella circolare del preside e aveva scosso il capo, come per dire “no, io voglio insegnare per portare agli altri la rivelazione cristiana, voglio essere un piccolo Cristo” e quando un suo collega gli aveva detto “ma vedrai che ogni esperienza ha un inizio e una fine” lui aveva sentito come una rivolta dentro di sé e aveva concluso che “no lui avrebbe sempre continuato ad insegnare”. Invece aveva ragione il suo collega tutto inizia e tutto finisce. Mentre sta guardando la vetrina d’un negozio sente una voce forte: «Profe!» Espressione da non intendersi nel senso di “profeta” ma in quello di professore. Lui abituato a tale titolo si volta e il suo sguardo si incrocia con quello d’una donna matura. Cerca di investigare, in un nanosecondo, nei cassettini della memoria, ma non gli viene niente indietro. Comunque dice la formula standard per questi casi: «Carissima, come va?». Il fatto è che ricordarsi i volti di alunni avuti venti o trenta anni fa è praticamente impossibile, e siccome ogni anno ha diciotto classi per un totale di cinquecento alunni il tutto diventa un’impresa impraticabile. «Come si chiamano?». Chiede indicando i bambini. «Questo è Marco, ha dodici anni. Questa Sabrina sei e il poppante è Andrea, che se la dorme alla grossa». Lui tocca con amore, delicatamente, Andrea che se ne sta beato nel eggino dopo aver poppato dalla mamma. La guarda negli occhi e scopre che sono raggianti, d’altronde se ne stava attorniata da quei tre frutti della vita, da quei tre miracoli dell’amore. Finalmente gli dice il nome: «Sono Innocenti Maria».
In un flash rivede una ragazzina contestatrice, alla quale non andava bene niente, che aveva anche dei momenti di sballo con gli spinelli. Ora ha davanti una donna sulla quarantina, splendida, matura e appagata, realizzata in pieno. Sì questo è ciò che tutta la sua persona, tutto il suo portamento e l’espressione del suo volto gli trasmette. Linguaggio non verbale – pensa lui – più profondo di quello a parole, che lui come insegnante conosce bene. Gli viene in mente una mamma preoccupata che veniva a parlare con lui sostenendo che non sapeva più che pesci prendere con quella figlia, alla quale non andava più bene niente. Come pure nei consigli di classe qualcuno profetizzava che ”questa Innocenti farà una brutta fine, fumando gli spinelli”. Certo era la più facinorosa a contestarlo quando lui esponeva la morale sessuale e familiare cristiana; tutto era retrogrado, tutto superato, non parliamo poi del sacramento del matrimonio fedele e indissolubile. Allora ripensa che nei nostri discorsi si rimane sempre ad un livello terra terra perché non si tiene mai conto dell’opera di un certo Spirito Santo. Guarda, invece di far naufragio nella vita, come questa ha recuperato con l’aiuto della Grazia discesa dall’alto. Parlano un po’, poi lui le fa i suoi auguri e lei lo saluta: «Tante cose anche a lei, profe». Così pensa che nell’immaginario di un alunno lui resta sempre “profe” anche se questo ha quaranta anni. Semel magister semper magister. Continuando a eggiare, vedendosi riflesso in una vetrina, pensa che è veramente arrivato il momento di sciogliere le vele e di andare in pensione, o meglio a Leeds. Tanto che cambia? Niente. Perché se del Signore è la terra e quanto contiene, è del Signore Agliana e anche Leeds.
21.
Fu così che Eros Calamai, forte sempre e debole mai, si trovò con un biglietto aereo in tasca pagato dalla figlia. Contrariamente a tutto quello che aveva immaginato, stranamente, non provava nessuna agitazione né rimpianti, né nostalgia per tutto ciò che stava per lasciare. Eppure quella era l’ultima sua sera sulla terra che l’aveva generato, allevato e nutrito. Lì si trovavano le sue radici, le tombe dei suoi cari, genitori, nonni, zii e zie. Lui stesso, ora, se ne stava a sedere nella poltrona sdrucita di quella che una volta era la casa di zia Alberta. Per tanti anni lei aveva calcato quegli stessi pavimenti, per poi andar e a raggiungere i suoi padri. Regnava, invece, in lui una grande pace; da dove venisse, neppure lui lo sapeva. Perché pace lui, in sessanta anni, non ne aveva mai avuta. Mai essa aveva regnato né in gioventù, né in vecchiaia; solo il fallimento e l’inutilità della povertà l’avevano accompagnato, come le mosche cocchiere accompagnano l’elefante. Eros Calamai pensò, guardando fuori le stelle, a come sarebbe stata diversa la sua vita se solo non fosse stato credente. Uno tra i tanti, uguale a tutti, uno in mezzo agli altri, a tutti quelli che non sono né sale, né lievito per il proprio prossimo. Si limitavano ad essere luce, sale e lievito per loro stessi, per vincere la battaglia di questo mondo, per essere i primi. Se avessi fatto come tutti – pensava Eros – non sarebbero successe tutte queste disgrazie e ora sarebbe socio del Bellini. Suo figlio avrebbe lavorato insieme a lui nella sua azienda, la Carla non avrebbe fatto la fame con un contadino, Paolo non sarebbe stato un rivoluzionario illuso, Laura non si sarebbe fatta ingravidare da un seme anonimo. Eppure, eppure… LUI sosteneva differente. Spogliarsi, sacrificarsi di sé doveva; amare anche i nemici; bere l’amaro calice della sconfitta; fino a dormire senza avere un guanciale su cui poggiare il capo; lasciare che Margy non ti stimi; che Laura andasse a Londra; che Paolo rifiutasse Cristo e la chiesa e che Carla buttasse la sua vita con quel contadino. Proprio questo bisognava fare: accogliere tutti queste disgrazie impreviste, come belle notizie ardentemente attese. In ciò
consisteva quella che si chiamava volontà di Dio. L’assoluta imperscrutabile volontà di LUI. Rifletté che era diventato completamente pazzo e alienato, secondo la mentalità del mondo, ma che ciò corrispondeva – specularmene – ad essere beato nel regno dei cieli. Prima di partire si decise a compiere un’altra cosa. Andò nella piccola sala e dai ripiani della libreria trasse tutti gli inserti delle sue lezioni. Ognuno aveva il suo colore: rosso per le classi prime, verde per le seconde, arancio per le terze, blu per le quarte e nero per le quinte. Stette un attimo indeciso se bruciarli, ma il cucinino era troppo piccolo e il peso dei fogli troppo grande. Si rammentò di quando, in fondo all’orto, aveva bruciato le foto della Giovanna, ma qui non aveva nessun orto. Decise allora di buttare tutto in un grande sacco nero della spazzatura. Dopo averci buttato tutti gli inserti, vi gettò anche i libri di testo, come pure tutti gli altri appunti delle lezioni. Con fatica si mise il sacco sulle spalle e si diresse verso il cassonetto. E mentre, dando un colpo di reni, gettò il tutto là dentro pensava “ è una vita Eros, è una vita quella che tu butti, una vita finita nell’insuccesso più completo”. Poi stette in piedi guardando il cassonetto da dietro l’inferriata del cancello. Quando vide il lampeggiante dell’enorme camion delle nettezza provò un senso di sollievo. Di tutto lui si era alla fine liberato. Solo, nella mano stringeva l’unico libro che non aveva avuto il coraggio di buttare via. Due volte aveva tentato di gettarlo nel sacco. Ma per due volte il suo braccio si era ritirato. Non poteva. Era più forte di lui, come se una molla gli tirasse indietro il gomito. Delicatamente ripose nella valigia la Sacra Bibbia. Sfogliandola velocemente i suoi occhi notarono gli angoli delle pagine, a destra, bisunti dai suoi polpastrelli. Comunque la mano gli tremò nel chiudere a chiave la porta della casina. Le chiavi tintinnarono un po’. Poi vide arrivare il taxi che l’avrebbe portato all’aeroporto di Peretola. Gli avevano, infatti, prenotato un volo notturno, low cost super scontato. “Meglio così – pensava – così non vedrò più niente. Ormai sono un vecchio pensionato, ho visto la mia vita andare in rovina, per cui guardo il mondo con disincanto, con l’ironia del santo. “Santo ? beh, non ci allarghiamo tanto. Diciamo un povero fin dentro lo spirito, un anawin del Signore, un curvato dalla vita. “ Mentre volava si sentiva leggero come una piuma, più leggero d’una mongolfiera. Gli venne in mente che la solitudine era finita e che la mattina dopo avrebbe finalmente rivisto tutta la sua
famiglia. Stanotte anche lui faceva il suo Esodo. E se la verde campagna inglese fosse la sua terra promessa? Che ne sapeva lui della volontà del Signore? Là invece che lacrime e affanni poteva benissimo scorrerci latte e miele. * * * Non si trovava male a Leeds. Laura era ormai più inglese che italiana, i suoi nipoti lo chiamavano grandaddy; Paolo lavorava nella reception dell’Hotel e viveva per conto suo; Carla e Franco facevano i camerieri e lui rimase sorpreso quando gli fecero vedere la paga mensile. Sommata alle mance prendevano un salario triplo che in Italia, è un good wage disse Franco. Al di là dei piccoli cambiamenti come la colazione, breakfast, che era una specie di pranzo mattutino; del pranzo, lunch, che era una specie di colazione; del fatto che costituiva un’emorragia mortale per il suo portafoglio comprare una bottiglia di Chianti rosso per cui aveva scoperto la bontà della beer, lui a Leeds si sentiva rinato. Di quel luogo gli piaceva tutto. Il fatto che fosse una città abbastanza grande, ma che aveva mantenuto la mentalità di un borgo, di un paesino. Provava una grandissima gioia alla vista di quelle meravigliose colline, rivestite d’un bel manto verde smeraldo, su cui vedeva le sheeps pascolare. A loro – pensava – era riuscito tenere i vantaggi del progresso con il rispetto della campagna, facendo i giardinieri della natura. Mica come in Italia dove i contadini erano stati messi alla fame.
22.
Quello che gli piaceva degli inglesi era il loro completo lascia correre, la totale indifferenza nei riguardi degli altri. Abituato a tutte quelle chiacchiere e critiche malevole che gli italiani si rivolgevano l’un l’altro, l’essere catapultato a Leeds aveva rappresentato per lui una buona notizia. Soprattutto amava quell’atteggiamento di rispetto, di non ingerenza nella vita altrui, come quando – inavvertitamente - un rappresentante della razza albionica lo toccava: “sorry” sussurrava subito ritraendo il braccio; per scusarsi d’averlo toccato. Lui si sentiva protetto da tutte quelle maniere rispettose verso la sua privacy, come un baco da seta al sicuro nel suo bozzolo. D’altronde c’era forse scritto nel Libro dei Libri, nel Libro per eccellenza, nella Sacra Bibbia che non si poteva cambiare paese? Che si fosse obbligati a stare per tutta la vita nel medesimo luogo? Si mancava forse di fede se si lasciava il suolo nativo per andare a vivere in un altro paese? D’altronde non era forse emigrato il popolo eletto? E Gesù stesso – da piccolo – non era stato portato in un altro paese? E quando lui era nato aveva firmato un accordo la sua mamma con Dio perché rimanesse nella solita nazione? Nossignori. Così da quel momento gli fu sempre più chiaro che le campagne verdi dello Yorkshire, con quelle strade delimitate da muriccioli in pietra che tanto gli ricordavano i paesini medioevali del Chianti; il castello di Cliffe; St. George Church e tutti quei fiumi che placidi scorrevano tra i monti Pennini avrebbero rappresentato il luogo del suo estremo rifugio, il posto in cui si sarebbe preparato per compiere la sua pasqua. Fu così che quel giorno, siccome non aveva nipotini da guardare, si recò con lei sulla riva meridionale dell’Aire. Avevano deciso di prendersi una mattinata libera e con le bicycles erano arrivati fin là; dove il fiume Aire si allarga e, diventando navigabile, dopo essersi congiunto con il Calder, forma il grande canale navigabile dello Huddersfield. «Ti rendi conto Margy come sono pratici questi qui? Noi non abbiamo niente di simile in Italia con tutti i nostri fiumi».
«Che vuoi dire?». «Intendo tutte queste waterways, tutti questi fiumi che diventano canali navigabili. Guarda qua » disse, indicando un grande cartellone sul quale era riportata tutta la rete. In rosso erano segnati tutti i percorsi navigabili, e la linea rossa veniva raddoppiata per avvisare quando gli stretti canali diventavano grandi. I fiumi più piccoli, invece, erano dipinti in blu. Apparivano come piccoli capillari che andassero a sfociare in grosse vene, che – a loro volta – sfociavano in una grande arteria. «Guarda Margy dove va a finire. Chi l’avrebbe immaginato?». E scorrendo l’indice sul grande tabellone leggeva: «Fiume Aire, Calder, Hebble, Spen, Worth. Inizia il percorso navigabile Aire & Calder, poi Calder & Hebble, e dopo gli stretti canali di Huddersfield, Standedge e Rochdale comincia quella grande aorta rossa del grande canale navigabile Huddersfield. Vedi dove va a finire? Dopo aver ricevuto le acque del canale Knottingley & Goole, nientedimeno che a Liverpool! Ma ti rendi conto Margy?». Sul placido, largissimo nastro d’acqua, color grigio acciaio, procedeva lenta una lunghissima chiatta. Era incinta di un’enorme montagna di pietrisco, forse materiali per fondi stradali. Intanto erano arrivati ad un ristoro, dove una donna della loro età gestiva quel piccolo locale. Stava pulendo dei tavolini e, alzando la testa, li salutò. «Cosa vuoi?». «Fish and chips » fece lei completamente naturalizzata inglese. Lui invece prese dei panini imbottiti, innaffiati con una buona birra. «Where are you from?» chiese la donna. La loro pronuncia li aveva traditi: non ci voleva la laurea per capire che non erano inglesi. «Italians» lui rispose. Poi siccome non aveva modo di spiegarle dove si trovasse Agliana, e come attraverso migliaia di combinazioni la sua vita fosse arrivata fin lì – ando attraverso una filatura fallita, attraverso la logica illusoria d’un figlio inserito in una comunità marxista, come d’una figlia che aveva messo al mondo due figli senza concorso di uomo, e un’altra che aveva battuto il capo contro le ferree
leggi del neo liberismo – siccome era inutile spendere tante parole – fu preso da una sensazione di vanagloria e per fare impressione su di lei, rispose: «From Florence». «Ooh!» rispose lei con ammirazione. E il discorso finì lì, con l’enorme supremazia di Firenze e dell’Arno su Leeds e l’Aire. Alla fine del lunch gli venne voglia di un gelato. Così lo ordinò. La donna, solerte, glielo portò. Allora lui spiegò che “no” non aveva ben compreso, o forse era lui che non si era ben spiegato. Lui voleva un gelato fresco, un ice cream fatto d’allora, morbido e gustoso, spalettato sopra un cono di cialda profumata che spandesse nell’aria la fragranza profumata dell’anice, quando – alla fine del gelato – l’avesse spaccata con i denti e mangiata. Lui non voleva quel prodotto confezionato industrialmente, pieno di grassi vegetali e di latte in polvere. Poi per farsi capire meglio fece il gesto della mucca “muuuh” che faceva il latte, e della gallina “co-co-co-coccodé” che faceva le uova. Questo ci voleva: fresh milk, eggs and sugar. La cameriera si mise a ridere, quando lo vide fare il verso della gallina, mentre – agitando i gomiti a triangolo – imitava lo sforzo della gallina che agitava le ali per partorire l’uovo. Ma poi gli disse che “no” proprio non capiva cosa volesse. In England quello si intendeva per gelato. Allora lui, caparbio, ricominciò parlando di gelato artigianale, fatto tutte le mattine per essere gustato nel pomeriggio. Fresco come il pane di giornata. Le disse pure il suo proverbio: “la vita è amara, ma un gelato la rende dolce”. Ma la donna continuava a scuotere il capo, in segno di diniego, e a dire che non capiva cosa volesse: «I don’t understand what you want, sorry». Dopo che la donna si mise a servire altri clienti, senza più curarsi di lui, sentì la voce di Margy: «Ma che discussione ti sei messo a fare?». «Perché?». «Ma come perché? Dovevi arrivare fin qui, sulle verdi sponde del fiume Aire, per sapere che in England non esiste il gelato artigianale? Non sei mica ad Agliana alla gelateria di tuo nonno». «Ma da qualche parte ci sarò pure…».
«No, da nessuna parte. In tutto l’United Kingdom non ci sta il gelato che vuoi tu».
23.
Lui si sta asciugando il viso, ancora grondante d’acqua, con una spugna di cotone. Si a con piacere la sugna assetata d’acqua sul viso e, poi, si guarda allo specchio “ma che razza d’idea ti è venuta Eros? La tua non è più l’età dei progetti, tutte le volte che nella vita hai tentato di salire, sempre più in giù il terreno scivoloso del mondo ti ha fatto affondare, Eros non riuscirai mai a fare qualcosa di valido, cosa diavolo ti è venuto in mente alla tua età? Ecco non è proprio il tempo di architettare simili progetti, di volersi arrampicare di nuovo in su…” Allora tu esci fuori e in un quarto d’ora sei nella prima riserva naturale del mondo, fatta dal naturalista Charles Waterton – dalle parti di Walton Hall. E pensi che questi inglesi per la salvaguardia della natura sono molto più avanti dei latini come te. Vai verso un grande prato che discende in un declivio e ti metti a sedere sotto un grande albero. Senti tra i capelli il soffio delicato del vento estivo, tutto intorno è pace profonda e luce abbacinante. Dei belati ti fanno girare il capo. Sul dorso d’una collinetta, in lontananza, ci sta un gregge di pecore. Brucano l’erba, saltano, gironzolano in qua e in là. Voltano il loro muso con quegli occhini neri e le fronti lanute, ma non ti vedono, intente come sono a brucare l’erba. Tu invece le scruti. “Sarebbe meglio vivere come loro? Senza risposte, ma anche senza domande. Loro non hanno il fardello del ato come hai tu. Per quanto ingentilito dalla grazia di LUI, anche così – caro Eros – è stato breve il tuo lungo viaggio”. Tuttavia i ricordi sono sempre presenti, o meglio riaffiorano come la melma portata su da una tempesta. Tu però adesso non sei per niente agitato. Anzi sei molto tranquillo e in pace: con te stesso, con Dio, con gli altri e con la natura. Cosa vuoi di più Eros Calamai? Sarà un mistero, sarà un prodigio ma all’improvviso questo filo del ato ti si riavvolge addosso. Ed è come se fosse presente ora. Ti alzi in piedi e cominci a camminare, nervosamente, nel grande prato. In bocca hai messo un filo d’erba lunga.
Senti il bisogno di volare via, non sai neanche tu dove; desidereresti poter tornare indietro, come un fantasma, per poter ritessere la trama della tua vita; ti piacerebbe, adesso, buttarti un quel ruscello come fanno quelle pecore, per poi arrivare all’altra vita purificato, dopo esserti scosso l’acqua scrollandola dal groppone come fanno loro; desidereresti che i tuoi i lasciassero una traccia. Non come ora, che dopo ato l’erba si rialza e li cancella. Un grande cartellone con su scritto: “Qui meditò e visse Eros Calamai, forte sempre e debole mai. Qui tessé il destino della sua vita”; spereresti che per te LUI fe dei miracoli, ma sai bene che l’Altro – l’angelo dell’abisso – ha completa libertà di movimento. D’altronde LUI lo lascia fare, e questo puzzle tra te, LUI e l’Altro è stato il dramma della tua vita, è diventato un rompicapo inestricabile; perché tra questi tre, tu sei quello che ha l’occhio meno penetrante e profondo, non vedi ad un palmo dal tuo naso; il tuo intelletto paragonato agli altri due è lento e meditativo, ha bisogno di esperienza per decidere tra diverse opzioni, così ti ritrovi come un vaso di coccio tra due d’acciaio; ti piacerebbe chiedere a LUI un specie di tregua temporale. Ti sorge questo pensiero bizzarro, e ti si stampa un sorriso ironico, enigmatico sul volto. È inutile nasconderselo: ti piacerebbe avere una rivalsa, una scommessa per provare a te stesso e agli altri che non sei un incapace. Vorresti proprio essere un piccolo Cristo, cosicché la gente dicesse mentre tu i tra la folla “ma lo sai chi è quello?” “No” “Ma come no! È Eros Calamai, sai quello che ha fatto quella gran cosa…” Allora senti il bisogno di pregare, affinché LUI ti faccia come fece ad Acaz. Ormai in fin di vita, spacciato, fu sollevato dal profondo della fossa in cui stava per cadere. E LUI gli dette una prova ed un segno inconfutabile. Gli disse che avrebbe rimesso indietro le lancette della meridiana di due ore. E l’ombra del sole tornò indietro sul quadrante di due ore, ed Acaz ebbe altri sette anni di vita in più. Perché non poteva averli anche lui? Una grazia efficace, un aiuto eccezionale: sette anni in più su questa terra al piccolo Cristo, Eros Calamai. Affinché possa vincere la scommessa della sua vita: dimostrare a tutti, ma prima a se stesso, che il vangelo funziona e che non è un deficiente ad agire come Dio comanda. Tu sai però che esiste anche l’Altro – l’irriducibile maligno – quello che ti mette sempre i trampoli tra le ruote. Tu speri che LUI – siccome è onnipotente e può fare tutto ciò che gli pare, tutto ciò che vuole – per una volta, solo per questi ultimi anni, per queste ultime
cartucce sparate, finalmente lo blocchi. LUI con grande naturalezza, con un semplice gesto, con nonchalance lo può fare. Lo può incatenare come sta scritto nell’Apocalisse. Immobilizzato e sprofondato nel suo abisso per mille anni, così che non apra neanche bocca, quella sua bocca nera dalla quale esce fumo puzzolente e menzogne maleodoranti. “Ti figuri eh? – caro mio dice rivolto all’Altro – come ti ritroveresti? Pieno di livore e impossibilitato a nuocermi come hai fatto per sessanta anni di vita. Sempre per 21.900 giorni, per 3120 settimane, per 720 mesi, per sessanta giri di valzer di quella pallina che è la terra intorno al sole, io ho visto il tuo sorriso sghignazzante sul tuo viso abbrustolito. Sempre tu c’eri, sopraffino senza far rumore, reale ma invisibile, presente ma imprendibile, per cui quando cercavo di lottare contro di te facevo la figura di quello che – a pugni – batte l’aria. Ma adesso che ne sai? Può darsi che LUI esaudisca la mia preghiera, dato che sono vecchio e ai bordi degli occhi ho le rughe a zampa di gallina. E così mi faccia la grazia come ad Acaz, e allora per sette anni non vedrò più la tua faccia di merda”. Ti alzi e torni a casa, interiormente ti senti sicuro, come mai sei stato in vita tua. Appena vedi Margherita le dici: «Vado alla locale camera di Commercio ». «A che fare?». «A chiedere informazioni per mettere una gelateria artigianale». «Una gelateria che?». «La vita è tanto amara che un gelato la rende dolce» le dici con un sorrisetto e te ne vai via, mentre lei ti guarda stralunata dalla finestra. Ti spiegano che basta un foglio, non è come in Italia che devi fare tutte quelle pratiche in settanta uffici diversi, il giorno dopo sei già a cavallo ed avanzi come un prode per le vie di Leeds, essendo il proprietario della “Eros Ice Cream Ltd”. Telefoni alla Carpeggiani di Reggio Emilia, spieghi loro la situazione, sulle prime restano interdetti, ma poi ti trovi d’accordo per una macchina a due vaschette, con frigoriferi, vetrina e tutte le attrezzature ausiliarie. Ti mandano una e-mail con un preventivo e siccome fai loro comione allegano anche tutte le ricette. Allora ti succede una cosa strana: cominci a cambiarle e a correggerle, così su due piedi, come se tu fossi un grande competente, un gelatiere super esperto. Il fatto sta, o meglio come sta non lo sai neanche tu, che i cassettini della tua memoria come per incanto si sono riaperti e tu puoi cavarne
le ricette segrete del tuo nonno Gianni. Quelle ricette che lui aveva dato solo a te, a voce, senza mai scriverle, facendotele imparare a mente. Tu scuoti il capo e pensi che quelli là la ricetta di una buona stracciatella non sanno neanche dove stia di casa. Non ci hanno messo lo stecchino di vaniglia. E non sanno che non ci vuole un cacao qualsiasi, ma il cacao amaro della Pernigotti. LUI ti dice “ vedi se esiste la comunione dei santi?”. Tu capisci che dal paradiso tuo nonno – attraverso una ispirazione acutissima – ti ha fatto ricordare tutte quelle ricette dimenticate della tua infanzia, come se te le avesse dettate ora e non cinquant’anni fa.
24.
Fu così che Eros Calamai, forte sempre e debole mai, trovò uno shop, un negozietto vuoto all’angolo di Puddington Road, davanti alla Primary School e lì sistemò la sua gelateria. Tutte le critiche, i sorrisetti ironici, le facce prima divertite e poi enigmatiche dei familiari, con i relativi consigli di lasciar perdere “tanto non hai compicciato niente di buono in vita tua, non sei tagliato per il business, hai trovato solo il modo di piparti anche la liquidazione per rimanere in braghe di tela” lui li considerò zero spaccato. Come piombo – “plop” – che velocemente affonda in acque profonde, per restarsene sul fondo e non risalire mai più. Il giorno dell’inaugurazione era un Saturday. Eros non l’aveva scelto a caso, perché era il 19 Marzo, San Giuseppe. È vero che lui era un piccolo Cristo, ma era altrettanto vero che aveva deciso di mettere quella iniziativa sotto la protezione di St, Joseph, artigiano come lui. Legno da piallare o gelato da spalettare poco importa. Importante è che St. Joseph aveva insegnato a LUI a fare il falegname, per cui in paradiso poteva intercedere per il buon andamento della Eros Ice Cream, stante la comunione dei santi. Aveva anche messo sul Leeds Journal un avviso pubblicitario che quel giorno apriva. E fu un’apoteosi. Quando i bambini uscirono di scuola e videro la gelateria piena di chicchi e bandierine colorate vi si precipitarono in massa. Poi le mamme affascinate dal profumo delle cialde appena sfornate e dal gelato appena fatto, cominciarono a comprare tante vaschette intere. Lui non sapeva più come riparare. Aveva un gran bisogno di aiuto e telefonò a Margy, pregandola di venire. Ella venne senza eccessiva ritrosia, con gioia si mise il grembiule bianco, e cominciò a servire i gelati e a stare alla cassa, mentre lui andò in laboratorio e rifare il gelato. Lui calcolò che ne aveva fatto il doppio del preventivato; poi in the twlight time al tramonto, calcolò che ne aveva fatto il triplo; in seguito dopo cena ci fu l’assalto di tutti quelli che si erano ati la parola, più quelli che venivano a fare la giratina serale. A notte tarda, dopo mezzanotte, quando chiuse il negozio si mise a sedere su una sgabello, davanti al registratore di cassa,
cominciando a contare l’incasso di quel primo giorno. Facevano 450 Pounds e 20 pence. Su per giù un milione delle vecchie lire, più di 500 Euro. 60 minuti fanno un’ora, 24 ore 1 giorno, 7 giorni una settimana e 4 settimane 1 mese. Di mesi ne erano ati appena tre, ma Eros non sapeva più come supplire alla richieste del suo gelato. Aveva aperto altre due gelaterie, una a nord l’altra a sud della città, serviva i ristoranti più esclusivi di Leeds e una marea di gente gli telefonava perché, per molti di loro, il gelato aveva sostituito la cena normale. Il gelato era diventato il loro dinner. A casa espose il suo problema. Se lui operoso artigiano, lavorava indefesso dalla mattina alla sera, ma – nondimeno – non riusciva a riparare agli ordini come poteva fare? Gli sembrava che gli inglesi fossero ammattiti, in preda alla follia, perché per il suo gelato perdevano l’albionico aplomb e si litigavano nel negozio, freneticamente, attaccandosi l’un l’altro, se solo temevano di rimanere senza. “Come devo fare se non riparo?” domandava lui. Laura lo guardò divertita, riconobbe che suo padre da solo – poverino – non sarebbe mai riuscito a trovare la soluzione, per cui gliela regalò lei. «È semplice babbo – disse – devi mettere molti negozi in franchising». «Metto che ?». «Molti negozi in franchising. È una formula di collaborazione tra un’impresa affiliante – la tua – e i negozi affiliati, detti francisee. Tu dai loro il diritto di esclusività nella loro città, il tuo gelato e il tuo marchio. Loro lo vendono e una parte del loro incasso lo danno a te». Eros Calamai, forte sempre e debole mai, comprese subito che si trattava d’una forma di apostolato. Non aveva forse LUI sguinzagliato ai quattro angoli della terra i suoi 12 apostoli, per spandere la buona novella? Così avrebbe fatto lui. In capo ad un mese fioccarono le richieste da tutte le città dell’United Kingdom per voler aprire una gelateria con il marchio Eros Ice Cream. Lui telefonò alla Carpeggiani e ordinò cinquanta macchine, ognuna capace di sfornare cinque vaschette di gelato per volta. Lì per lì rimasero interdetti. Poi gli chiesero se stava scherzando e se si rendeva conto di quanto stava ordinando. Voleva forse produrre 100 quintali di gelato al giorno? Due quintali per macchina? Al che lui disteso, fresco e riposato, rispose che “sì” aveva bisogno di 100 quintali di gelato
al giorno. Anzi che si riservava, entro sei mesi, di ordinarne altre cinquanta se i negozi affiliati fossero diventati cento. Intanto Carla e Franco smisero di fare i waiters. A che pro continuare a fare i camerieri quando si può diventare dei capi area, che seguono i negozi del sud come del nord dell’Inghilterra? In capo a sei mesi i negozi affiliati non erano 100 ma 200. Allora lui telefonò alla Carpeggiani e ordinò altre cento macchine per fare il gelato, da cinque vaschette cadauna. Lì per lì rimasero interdetti, ma poi le produssero e le inviarono nella gelida albione. Il suo marchio era ormai familiare in quasi tutte le città, e per ogni dove potevi trovare i camioncini frigoriferi della “Eros Ice Cream” che rifornivano i vari negozi. Erano dipinti a colori vivaci e portavano un logo a forma di cuoricino rosa, trafitto da un cono gelato di crema gialla. Una specie di freccia di Cupido che faceva venire l’acquolina in bocca. Laura gli aveva ottenuto un contratto di esclusiva per la catena di alberghi per cui lavorava, e dato che erano più di cento forniti ognuno di un ristorante di lusso, li riforniva tutti. La terra aveva avuto il tempo di girare attorno al sole solo per due volte, quanto Eros Calamai, forte sempre e debole mai, controllò il bilancio annuale. Il totale del fatturato era 50 milioni di sterline, qualcosa come 65 milioni di Euro o più di cento miliardi di lire, perché lui era sempre abituato a fare i calcoli in lire. Siccome la sua società aveva bisogno di un AD – amministratore delegato – Laura si licenziò e venne da lui a fare la Chief Manager. Eros conduceva la vita di sempre. Si alzava presto, poco dopo le sei del mattino, ringraziava Dio con le lodi mattutine, poi prendeva il breakfast. Lavorava poche ore in verità, perché a mezzogiorno doveva andare a riprendere i nipotini dalla Primary School, insieme a Margy. Non ne voleva sapere di lasciare il piccolo appartamento e lì continuava a stare. Un cruccio l’aveva ancora: il fatto che Paolo non fosse sposato e non fosse tornato alla casa del Padre. Per questo tutte le sere, prima del dinner, nella preghiera del vespro chiedeva al Signore che suo figlio fe come il figliol prodigo. E diceva, parlando a tu per tu con LUI: forse che non è più tuo figlio che mio? Che aspetti a farlo rientrare in se stesso? Vuoi che si perda? Che me ne faccio di tutti questi miliardi? Se vuoi te li offro, li brucio tutti in cambio della sua conversione. E quando diceva ciò era sincero al cento per cento. Ma LUI sembrava dormire, invano la sua preghiera cercava di innalzarsi fino al cielo, più pesante del piombo poi gli ricadeva – non esaudita – in testa. Questa storia, lui lo sentiva bene, lo macinava interiormente, portandolo a pensare che LUI qualche croce gliela voleva lasciare. Eros comprendeva però
che l’animo umano è strano. Funziona a modo suo, a seconda delle idee che gli girano per la testa. Prendi lui per esempio: ora lo chiamavano “sir” e chi lo incontrava lo salutava deferente: «Good morning Sir». Non più il «’rning» frettoloso che gli facevano prima. In banca poi si sprofondavano in inchini al suo aggio, dall’usciere al direttore. Avrebbe dovuto avere tutte le ragioni per essere felice al cento per cento. Invece no. Lui soffriva molto del poco che gli mancava – la conversione di suo figlio – e godeva poco dei miliardi che aveva. Per cui qualche volta ricominciava a litigare con Dio, per amore di Dio per carità, ma rimproverava a LUI di comportarsi da disertore. Vale a dire di averlo lasciato solo, sul campo di battaglia, in balia dell’altro, il serpente strisciante.
25.
Un giorno Eros Calamai, forte sempre e debole mai, andò nella gelateria più grande di Leeds. Lì tra tavolini, specchi luccicanti, profumo di cialde e crepes vide per la prima volta una nuova addetta. Il logo “Eros Ice Cream” con il cuoricino trafitto dal cono gelato le tornava giusto sul petto, ritto e ansimante. Riguardandola meglio scorse una giovane ragazza, con un ovale perfetto incorniciato da una cascata di riccioli biondi e sfavillanti. Quando rideva con quella dentatura bianca e abbagliante, sembrava la réclame della felicità. Anche lui era felice. Se ne stava solo, seduto ad un tavolino in fondo al grande locale, quando vide arrivare suo figlio Paolo. Dal modo in cui salutò la ragazza, dal come la guardava ammirato, e da come lei lo guardava estasiata, Eros capì di trovarsi davanti alla rappresentazione dorata dell’amore. Sorrise, ma non volendo farsi vedere dal figlio, si nascose dietro un separé. Che il Signore volesse farlo traboccare di gioia dopo tanta infelicità? Che volesse fargli anche quella grazia, l’ultima che desiderava tanto? Accapando due o tre volte dal separé, vide apparire e scomparire i visi dei due. Eros sospirò di gioia e si disse che aveva ragione. Suo figlio prima di andare via aveva abbracciato quella ragazza, dolcemente, per le spalle. Lei aveva chinato il viso con la sua cascata di riccioli biondi, nell’incavo della spalla di lui, ed erano rimasti così per un po’ di tempo. Tenevano entrambi gli occhi chiusi. Sembrava che fero finta di dormire o meglio di sognare. Eros sbirciò, ancora una volta accapando dal bordo del separé, e fece in tempo a vedere suo figlio mettere in moto la Jaguar e andare via. Nei giorni seguenti prese informazioni, delicate e segrete, su quella ragazza. Venne così a sapere che si chiamava Debbie e che era figlia di un pastore puritano. A tale notizia un gran subbuglio proruppe dal suo cuore, un impeto di lacrime gioiose – come cristalli lucenti – gli comparvero negli occhi. Come investito da una folata di vento divino si recò nella church di St. George. Più che camminare vi corse in fretta, quasi si precipitò, con il cuore pieno di esultanza. Paolo innamorato d’una figlia d’un pastore protestante? E per di più puritano? In chiesa non c’era nessuno, seduto nella prima panca, vedeva il fumo sottile delle
candele salire in alto, un tenue e esile filo ombroso che si innalzava, si agitava sinuoso e poi scompariva. Lui sapeva che quella era sola una parte della realtà: quella che vedevano gli occhi del corpo. La superficie di quell’enorme oceano che è l’essere e la vita. Si mise in ginocchio, davanti alla balaustra, e cominciò dentro di sé a cantare con gemiti inesprimibili. Se ne stava a mani giunte davanti all’altare magnificando e benedicendo Iddio. Poi si alzò e sollevando le mani e le braccia, quasi volesse toccare la volta della cupola, si mise a lodare il Signore. Era come se d’improvviso gli fossero cadute delle scaglie dagli occhi, come se da cieco si fosse ritrovato vedente. Rivide con occhi nuovi tutta la storia, il mosaico della sua vita, mentre in modo totalmente diverso LUI gli mostrava – agli occhi dell’anima – ciò che gli occhi del corpo non potevano vedere, né le sue orecchie sentire. Perché non si trattava né di colori, né di suoni, ma di pura essenza spirituale che dava vita alla sua esistenza. Allora lui capì come per tanti anni fosse rimasto cieco. Nutrendo rancore verso di LUI che aveva permesso tutte quelle sofferenze nella sua vita. Invece la realtà invisibile – la sola vera – su cui poggiava quella visibile gli mostrava come stessero veramente le cose. LUI aveva permesso tutti quei dolori che l’avevano circondato, come l’acqua circonda l’annegando, solo per preparargli delle gioie più grandi e durature. Un eterno più bello che se quelle frecce non l’avessero trafitto. Sempre, come nuvole dense, gravide d’acqua s’erano addensate nel cielo della sua vita – oscurando il sole – per spiovere su di lui, ma solo per dargli mesi dopo un raccolto più abbondante. «Queste sofferenze sono state il seme; il frutto è che ti ho mandato perché tanti avessero la salvezza per mezzo tuo». Dunque questo era il nocciolo. Che lui era diventato salvezza per molti. Certo – pensò – quasi mille persone traggono sostentamento dalla mia ditta. Si sedette allora sulla panca rimuginando su quella meraviglia. Come si poteva credere che fosse una semplice combinazione, un evento solo del caos? Poteva esistere il caos padrone di se stesso, dal momento che esisteva LUI? LUI che combinava le combinazioni cosicché noi fossimo consolati, ando dalla desolazione e dall’abbattimento a sperimentare il suo miracolo? Ora anche lui ne godeva. Quante volte aveva patito, sofferto per quel figlio invischiato in storie d’amore ambigue, accese dal timbro della lussuria, illuminate dai riflessi rossastri dell’Altro – l’eterno scimmiottatore – che tutto travolgeva e portava al male. Prima di andarsene provò un impulso irresistibile ad inginocchiarsi e piegò la schiena fino a toccare la fronte a terra. Nel silenzio della chiesa percepì come un arcano fruscio, quasi che i piedi di LUI lo accompagnassero, come quando aprì
le acque del mar Rosso, o come quando camminò sulle acque. Comunque – si disse – le orme di LUI hanno una caratteristica unica e particolarissima: che rimangono sempre invisibili. Con suo figlio si stava dirigendo verso le bianche scogliere di Dover. Dovevano presenziare all’inaugurazione – sul lungomare – di un grande shop il 250° della catena. Eros sonnecchiava, quasi stava per addormentarsi, cullato dal rullio del motore. L’A2 era completamente sgombra, lui riscaldato dal sole che lo baciava in fronte se ne stava a palpebre chiuse, godendosi quel tepore. Anche con la mente s’era appisolato, salvo pensare che con quella Jaguar a 170 all’ora non si percepiva il minimo beccheggio della carrozzeria. “Ne è ata d’acqua sotto i ponti – rimuginò tra sé – da quando avevo la 500 della FIAT. Ti ricordi eh Eros? Bisognava tirare una levetta per metterla in moto, e poi alzarne un’altra ancora per dare benzina al carburatore, altrimenti non entrava in moto”. Vagava con la mente in questi pensieri. Sulla larga e dritta Dover Road stavano avvicinandosi a Whitfield. Il ronzio del motore, attutito dall’insonorizzazione, gli faceva da ninna nanna. Pisolava. «Vuoi che ci fermiamo a Whitfield babbo?» la voce di Paolo lo trasse fuori dal dormiveglia. «Fai come vuoi». «Si potrebbe andare a fare una capatina al negozio del centro». «Quanto ci vorrà?». «Ad occhio e croce un’oretta di tempo. Tra uscire dall’autostrada, andare nel centro, visitare il negozio e rientrare». «Perché fece lui, girando la testa verso suo figlio, c’è forse a Whitfield un’impiegata bellina?». La grassa risata di Paolo lo mise di buon umore. «Dicono che amoreggi con una biondina… come si chiama?» chiese, facendo finta d’essere soprappensiero, mentre si lisciava il mento. «Debbie. Ma sarà come le altre…».
«Guarda che ti sbagli». «Perché?». «Quella è figlia d’un pastore puritano. Non credere che si comporterà come le altre. Il tesoruccio nascosto sotto le slip ricamate non te lo farà vedere, caro mio, a meno che…». «A meno che?». «A meno che tu non la sposi». «Ah, ricominciamo? Dormi un po’ babbo che ti fa bene. Scommettiamo che tra un mese me la sono portata a letto come tutte le altre?». «Bene, si accettano scommesse». «Guarda che c’è l’uscita per Whitfield, allora usciamo o no?». «No». Arrivati vicino alla città girarono per la Jubilee Way, perché il negozio si trovava sul lungomare, proprio sulla eggiata prospiciente la spiaggia. Arrivarono ad inaugurazione già cominciata tra bandierine, palloncini colorati e banda con majorettes. Il negozio era stato letteralmente preso d’assalto dalla folla. A frotte vi entravano spintonandosi, per prendere il gelato gratis. Con l’occhio esperto fece un calcolo a mente. Tra vaschette regalate con i pony express ai ristoranti e alle famiglie, tra coni e coppette cinque quintali di gelato se ne erano volati via. Erano questi i momenti in cui si sentiva ringiovanire sempre più. Donare gratuitamente, regalare un po' di dolce felicità, far dimenticare per dieci minuti che la vita è amara; essere un piccolo Cristo venuto a consolare chi era desolato. Durava appena dieci minuti? Non importava, era il principio, l’intenzione che contava. Dopo aver salutato il gerente del negozio, il francisee, gli disse la solita frase che diceva a tutti. Era diventata un ritornello, e a casa sua la ripetevano a modo di barzelletta tra Margy, figli e nipoti: «Ci deve essere qualcosa di sbagliato nel vostro paese, è troppo facile qui fare quattrini».
26.
Sei arrivato in un altro mondo, quello del silenzio degli uomini e del grande libro squadernato, parlante della creazione. Il fatto è che stai invecchiando, Eros. Queste cerimonie non ti dicono più niente, così dopo cinque minuti ti sei dileguato e sei arrivato fin qui. Nessuno si è accorto di nulla. Meglio così. Camminando oltre la fine della guida di legno, ti inoltri nella spiaggia, fin sulla battigia. Ti levi le scarpe, i calzini e procedi nel silenzio e nella solitudine, accompagnato solo dal sibilo del vento. Il mare immenso è increspato. Il colore non è limpido – azzurro verde – come piace a te. È invece d’un azzurro opaco tendente al grigio, visto così sembra quasi un enorme sommovimento di piombo spumeggiante. Anche la sabbia non ha quel bel colorino beige, tendente al giallo, come quella che piace a te. È più sbiancata, slavata, e poi – cosa peggiore – non è fine come il talco. Andando avanti ti senti bucare le piante dei piedi. Non è soffice è sassosa, un misto tra rena e sassolini. Non si può avere tutto in England, pensi. La morbidezza della spiaggia della Versilia te la sogni. Sulla destra in lontananza, scorgi una casa padronale, con una rotonda bianca sul davanti. Quest’anno hai deciso che anche tu andrai al mare con Margy. D’altronde loro ti vogliono bene e hanno comprato quella grandissima villa al mare, proprio per stare tutti insieme d’estate. Già si sono risentiti perché non ne hai voluto sapere di traslocare in una casa più lussuosa. Ma tu sei contento così. Non ne vuoi sapere di lasciare quel piccolo flat, in quel quartierino popolare di Leeds. Ormai sei vecchio, più che lavorare sovrintendi, e nonostante il pisolino pomeridiano ti stanchi facilmente. Non puoi più tirare fino a sera, alle quattro del pomeriggio hai già le pile scariche. Poi, vedi come stai a spalle curve? Eros non stare così! Te lo dice sempre Margy. Con la schiena e la testa piegata sembri un salice piangente! Non ci puoi fare niente. Tuo nonno, tuo babbo, avevano quella postura, sarà un fatto di DNA, pensi.
Adesso stai proprio sulla battigia, dove i cavalloni sciabordando – a volte con ritmo lento ora spumeggiando – esauriscono la loro forza. Arrivano fin quasi in cima al declivio della riva poi tornano indietro, e tutte le bolle di schiuma scoppiano. Il vento ti scaruffa i pochi capelli rimasti. Meccanicamente ti i una mano sulla testa. Un po’ avanti, una cinquantina di metri dalla spiaggia, un branco di gabbiani fa le sue evoluzioni. Si lasciano trasportare dalle correnti ventose, su e giù, senza fatica; poi veloce come un proiettile uno si lancia verso l’acqua dà una beccata sulla superficie delle onde, e se ne torna in alto. Come abbia fatto a vedere il pesce e a beccarlo in una frazione di secondo non lo sai neanche tu. Tu pensi che questa vita è meravigliosa e che LUI ti ha ricolmato di benedizioni. Nel cielo grigio azzurro viaggiano, sull’orizzonte, nuvole bianche come batuffoli di cotone – pensi che sarebbe ora che Paolo si sistemasse con Debbie. All’improvviso, mentre una folata più forte di vento ti scapiglia nuovamente i capelli, senti il bisogno di pregare. Cosa curiosa ringrazi Dio del matrimonio di Paolo, come fosse una cosa già accaduta. Un cavallone più impetuoso ti bagna i piedi. L’acqua diaccia ti da noia i ti ritrai, ritornando indietro.
27.
I giorni fanno le settimane, e le settimane i mesi. Ne erano ati tre. Eros Calamai, forte sempre e debole mai, si trovava nell’ufficio chiuso nei suoi pensieri. Tutti gli impiegati erano già usciti: l’orario di lavoro era terminato. Lui se ne stava lì solo da un’oretta, tanto per ammazzare il tempo. Ormai le sue funzioni erano di rappresentanza. Se ne stava sprofondato nella grande poltrona, appoggiato con la schiena e le gambe allungate, mentre il crepuscolo cresceva. Aveva solo la lampada sul tavolo, fatta di fili fluorescenti come un cespuglio splendente. Sarà apparso così – rifletteva – il roveto ardente a Mosè? Un cespuglio di pruni fiammeggianti che non bruciava, un mistero. Di misteri ce n’erano tanti a cominciare dalla sua vita. Gli appariva un immenso puzzle, senza disegno preordinato o meglio il disegno lo conosceva soltanto LUI, senza margini né a destra né a sinistra né in alto né in basso, dove la vittoria o la sconfitta, il successo o l’insuccesso, la salvezza o la perdizione non dipendevano da come mettevamo i pezzi, ma da LUI che li sistemava dietro il sipario. Le faceva LUI, in definitiva, le mosse? Sicuramente no. Non si sentiva una pedina, lui aveva una sua volontà e libertà da esercitare; tuttavia volgendosi indietro, meditando tutto ciò che gli era accaduto, era pura follia concludere che noi potessimo tirare le fila di quelle migliaia di combinazioni. Chi l’avrebbe mai detto, o chi mai avrebbe potuto prevedere che in dieci anni lui fosse diventato un multiples? Un possessore di grandi catene di negozi? Adesso avevano messo radici anche in Scotland e Eire. Lui non sapeva più se i negozi erano 700 o 800. Sorgevano come funghi da sé, dal fertile sottobosco delle richieste di quelli che volevano diventare francisee. Sentì bussare alla porta dell’ufficio e istintivamente si drizzò di schiena, facendosi forza sui gomiti. Udì una voce: «Paul?». «Chi è?». «Sono io» rispose la voce gentile.
Vide la porta aprirsi e Debbie entrare dentro. Lei rimase stupefatta di vedere lui invece di Paolo e disse piano «sorry». Era stata ingannata dalla sua voce, uguale a quella di Paolo. «Lo so» disse lui «tanti all’inizio ci scambiano al telefono». Lui cercò di capire perché lei fosse venuta fin lì, ma poi gli venne in mente che quello era l’orario normale in cui suo figlio stava in ufficio. Di sicuro non era la prima volta, era abituata a venire a trovarlo. Debbie era rimasta in silenzio, ritta, davanti alla porta; lui vedeva che si sentiva a disagio. Dato che lei non apriva bocca – disse – alzando la cornetta del telefono: «Vuoi telefonare a Paolo?». «Veramente è una cosa che mi piaceva dirgli a voce». «Sarebbe?». «Niente di importante» fece lei continuando a stare sulla porta, stando ora su un piede ora su un altro. «Mio padre lo vorrebbe vedere stasera. È un pastore puritano, un po’ all’antica diciamo, e dice sempre che le cose vanno fatte in regola». «Puoi startene tranquilla che Paolo verrà stasera a parlare con i tuoi. Va bene?». «Sì, alle nove» fece lei con un sorriso e un segno d’assenso. E alzando la mano lo salutò, sgusciando fuori dalla porta. Lui rimase lì riportato alla realtà del tempo che a, e alla richiesta del padre di Debbie. Chiaramente in casa sua aveva avuto dei problemi o delle discussioni. Dato che era figlia unica di quel pastore protestante ci voleva poco a capire cosa suo padre avrebbe chiesto a Paolo. «Guarda – disse a suo figlio – che con quella lì non è come con le altre. Con Debbie a letto per divertimento non ci vai». «Me ne sto accorgendo anch’io».
Il tono pensieroso di suo figlio lo colpì. Di solito Paolo svolazzava da una ragazza all’altra. Il comportamento di questo calabrone svolazzante da un fiore all’altro non gli piaceva. Sempre suo figlio aveva sorriso prendendo in giro i suoi consigli di sposarsi. E sempre puntualmente gli aveva ribattuto: «Hai visto? Anche con questa ci sono andato a letto, perché dovrei sposarmi?». Invece ora aveva sentito la voce di suo figlio riflessiva, pensierosa, segno che a quella ragazza teneva davvero. Di getto gli disse: «Stasera non sfottere le posizioni di nessuno. Ricordati che è un pastore protestante, e per di più puritano, sono rigorosi per certi aspetti. Debbie è l’unica figlia che ha, per lui è come la pupilla dei suoi occhi. Teme che per te sia una delle tante. Ricordati che il matrimonio è il coronamento dell’amore e non la tomba, come sostiene qualcuno…». Cosa strana non ribatté, ma stette ad ascoltarlo in silenzio. La mattina dopo, siccome la curiosità non è solo femmina, moriva dalla voglia di sapere come fosse andata a casa di Debbie. Uscì, quindi, e si diresse verso gli uffici della ditta. Non ebbe nemmeno bisogno di entrare. Vide suo figlio arrivare e posteggiare la Jaguar. Lui si era preparato durante il tragitto un discorsino. Quei tipi di pensieri rimuginati, limati e riguardati da ogni punto di vista. Cotti e ribaltati come una frittata. Aspettava solo che suo figlio uscisse di macchina, per aprire bocca e rifilarglielo. Ma non ne ebbe il tempo. Sentì, da dietro, la voce di sua figlia Carla che gli diceva a voce alta: «Babbo la sai l’ultima? Ieri sera Paolo ha fissato la data delle nozze. Tra tre mesi si sposa». Si voltò, sorrise a sua figlia che non aveva visto arrivare e le dette il bacino del buongiorno. Fece le congratulazioni a suo figlio, poi decise che la notizia era troppo bella per tenersela per sé. Si fece promettere che non avrebbero telefonato alla mamma. Gliela avrebbe portata lui. Così se ne ritornò giulivo verso il suo flat. Era proprio il caso di fare con Margy una bella eggiata lungo le rive dell’Eire.
28.
Stai eggiando con Margy in una strada sterrata, meglio sarebbe chiamarla sentiero. S’inoltra in un prato coperto d’erba verde, abbastanza alta. Ti arriva quasi al ginocchio. ando il fruscio dell’erba ti solletica la pelle. Più avanti, in fondo, scorgi un bosco di betulle e tigli. Tu hai ben chiara la direzione da prendere. Ti inoltri con lei nel bosco, dove tutto è silenzio, poi quando il sentiero si incrocia con un altro giri a destra, seguendo una freccia scritta a mano, su una tavoletta rossa: «Fairburn Ings». Non c’è un’anima. Pensi, mentre proseguite mano nella mano, che hai avuto una bella idea a tornare in questa riserva naturale. Appena arrivato qui, criticavi il fatto che la domenica non significa "il giorno del Signore", ”ma solo il giorno del sole” sunday. Non ti andava giù l’usanza del week end. Annacqua la visione della domenica cristiana dicevi. Ma poi ti sei adeguato. Anzi il costume ti piace. Non caschi certo nella mania di andare a destra e sinistra, come viaggiare per centinaia di Km., fare lunghe file sull’autostrada, per ritrovarsi la domenica sera più stanco di quando eri partito. Te ne guardi bene. No. Tu preferisci la quieta avventura del pic-nic in aperta campagna. Chi ti vedesse ora con le scarpe da trekking e i pantaloni kaki da militare inglese, corti fino al ginocchio, con le bretelle sopra una maglia di Shetland, non potrebbe certo collegare la tua persona ad un italiano di nome Eros Calamai. D’altronde anche Margy non è da meno. Due giorni fa sei andato in Kirkstall Road e le hai comprato una sottana di scozzese. La commessa, quando le hai spiegato cosa volevi, ti ha sorriso e ti ha fatto vedere tre modelli. Tutti rigorosamente scottish clan con disegni brevettati. Tu li hai guardati, o meglio li hai scrutati bene; poi tra Mac Millan, Mac Farland e Mac Pherson hai scelto l’ultimo. Un disegno a quadri verde smeraldo e verde scuro, con striature di blu e quelle filettature rosse e gialle che – pur così esili – davano al tutto un che di civettuolo. Ti è piaciuta quella anche perché, sul davanti, aveva una specie di borsa di pelle con una frangia di peneri. Così gliela hai portata e lei ha mandato un gridolino di gioia, tutta contenta della scampagnata odierna. Infatti nella
borsa ci ha messo tutte le sue cose. Avete deciso di non portare niente da mangiare: andrete in un restaurant. Solo avete sottobraccio un grande plaid matrimoniale. Oggi è una bellissima giornata d’estate, con l’aria calda e senza vento. Ma il sole, pur sfolgorando nel cielo senza nuvole, non ha quella forza dei solleoni italiani. Non c’è quella calura che ti batte sulla testa e che, dopo mezz’ora di cammino, ti sposserebbe, madido di sudore e svuotato di ogni energia. Qui puoi camminare anche d’estate perché la calura resta sempre temperata. A te sembra di vivere una specie d’avventura, d’esplorazione d’ignoto, eppure sai benissimo dove ti trovi e dove andrai. Il fatto è che la campagna e il bosco sono sempre nuovi. Gli uccellini che svolazzano tra le fronde, il sottobosco verde e marrone, i greggi di pecore sui declivi vicini, simili a bianche nuvolette mobili; qualche lepre che vedi fuggire qua e là; sono per te nuovi e inaspettati. Eppure, anche l’anno scorso hai visto uccellini, pecore, lepri e sottobosco. Ma non è quello di quest’anno. LUI crea insieme nella continuità e nella novità. Non si ripete mai. Il tappeto di foglie accartocciate, sotto una quercia, è molto più spesso di quello dell’anno scorso. Ti arriva quasi fin sotto il ginocchio. LUI è un pittore che dipinge il quadro della creazione con tinte sempre differenti. Margy, mentre procedi mano nella mano, ti dice: «Ma perché ti ostini a stare in quel buco di appartamento? I figlioli vogliono che andiamo a stare in una delle loro ville». Ma tu cocciuto scuoti la testa. «No Margy, preferisco così». «Ma perché?» fa lei, stringendoti il braccio e tirandoti a sé. Così sei costretto a girare la testa e a guardarla negli occhi. «Oh, la ragione è molto semplice. Voglio rimanere in quel piccolo appartamento perché si ricordino sempre da dove sono partiti. Che non perdano mai la memoria di essere stati poveri. In tal modo spero che non diventino mai altezzosi o superbi, anche se vanno in Jaguar ed hanno le ville al mare. Ogni volta che vengono a trovarmi, con i nipoti, quell’appartamento sarà per loro una specie di memoriale o qualcosa di simile. Per lo meno così spero». Lei non ribatte, solo dice che comincia a sentire un certo languorino. Ti accorgi
che la bellezza della giornata le ha tolto ogni velleità di bisticcio o litigio. Non è la prima volta che affronta questo argomento, ma stavolta non ha discusso per niente. Se ne è stata zitta e buona. In fin dei conti tra i giorni che a ad accudire i nipoti, specialmente i due gemelli di Paolo più piccoli, sono più le notti che dorme nelle ville che nel piccolo flat. Ormai sono quasi tre ore che camminate, zitti, zitti avete fatto quasi dieci km. Siete alla fine del bosco e intravedi, dopo l’ultima fila di alberi, ultimi soldati di sentinella, un vastissimo prato che declina all’ingiù fino sulle sponde dell’Eire. Puoi vedere là in fondo le poche case sulla riva, e accanto all’ansa del fiume il Waterways Restaurant.Ci sono anche altri locali, altri pubs più a buon mercato, ma tu la domenica non vuoi lesinare. Inoltre ti ricordi che Margy ha l’ipertensione e che deve mangiare cibi cucinati lì per lì, espressi, con qualche accorgimento; per cui quei locali vanno bene per i giovano vogliosi di birre e panini con chicken fried Guardi l’orologio: è quasi mezzogiorno. Pensi che non sentirai suonare tra cinque minuti nessuna campana. Difatti nessun campanile suona. Qui sono anglicani e non suonano l’Angelus. «Margy ti manca il suono dell’Angelus?». Lei ride e ti dà di scemo. Invece tu sostieni che l’Angelus è una delle poche cose superiori dell’Italia sull’Inghilterra. O meglio della tradizione cattolica su quella protestante. «Loro hanno abiurato la verginità di Maria. Per cui non ricordano l’ora che l’Angelo le annunziò che si sarebbe sposata con lo Spirito Santo». «E se avesse detto di no?». «Beh, era liberissima di farlo. Probabilmente il Signore avrebbe trovato un altro modo di venirci a trovare». Ora vedi diverse macchine ferme al parcheggio del ristorante. Pensi che sono cittadini di Leeds che non ne vogliono sapere di fare una camminata di tre ore per arrivare fin là. Preferiscono venti minuti di macchina senza erba, alberi e fiori. Quando finalmente, dopo la discesa tra i campi, arrivate al Waterways vi accorgete – con sorpresa – che è praticamente pieno. Non c’è più un posto vuoto in tutto il parcheggio. Ma tu te ne resti sovranamente calmo. Forse perché conosci bene la grande sala da pranzo con l’ampia vetrata, che guarda sul fiume. O forse, anzi senza forse, perché il proprietario del Waterways è uno dei tuoi
francisee ed ha una grande vetrina con i tuoi gelati. L’intero borgo ha la vitalità delle stazioni balneari in piena stagione. Per gli inglesi quel fiume è come un piccolo mare. Le villette, molte ancora di legno con i loro giardinetti, sono tutte linde e verniciate di fresco. Qualcuno sta attraccando al pontile con il canotto, altri dallo stesso pontile stanno partendo ora per una regata. Prima d’entrare nella sala del ristorante dai di gomito a Margy: «Guarda là» le dici alzando il mento. Vedi un superbo “otto con” timoniere. L’hanno messo in acqua proprio ora e con potenti bracciate cominciano a prendere velocità. Attutite ti arrivano le loro voci “oooh!” ad ogni battuta di remo, mentre il timoniere dà loro il tempo. Adesso stanno accelerando il ritmo delle battute, i remi affondano nell’acqua con colpi secchi e precisi. Dietro il canotto filante la scia dell’acqua, netta e sottile, come un taglio di coltello, si vede appena. La superficie dell’acqua s’incresca solo un tantino, poi si richiude subito. Filano via lisci. Ti senti toccare su una spalla. È il direttore del ristorante che ti ha riconosciuto. È un omone con due grandi baffi rossi, messi a mezzaluna all’insù, un tipico anglo sassone che però è pieno di vitalità mediterranea. «Potevi avvisarmi no?» dice quasi rimproverandoti. Ma tu indovini che gli hai fatto piacere. Non aspetta neanche che rispondiate. Vi guida nella grande sala da pranzo e vi mette ad un tavolo, prospiciente la grande vetrata. «Chi sono?» domandi additando l’equipaggio dell’otto con, che adesso si sta allontanando sempre più. «Oh quelli, sono dell’università di Bradford. Il loro sogno è dare del filo da torcere – alla prossima regata – a quelli di Cambridge». Fate tutti e tre una risata, e tu tieni gli occhi fissi su quello che ora è diventato un puntino e fila galleggiando sul fiume. Viene il cameriere e ti saluta. «’rning Sir». Gli fai un saluto con la mano. Rifletti che le parti si sono invertite. Adesso il
cameriere è inglese ed il cliente italiano. Adesso sei diventato “Sir”. Il cameriere torna con la lista dei vini e delle vivande. Con i vini non ti sbagli: va bene che sei naturalizzato inglese, ma fino ad un certo punto. Ordini una bottiglia di Chianti Gallo Nero. Dopo mangiato non te la senti di stare lì a poltrire, per ore e ore. Fai un segno a Margy con il sopracciglio ed insieme vi alzate. Ci saranno ancora tre ore di sole pieno e non vedi l’ora – prima che scompaia – di recarti sulla riva dell’Eire. È un posticino solitario, in un ansa del fiume, dove l’erba del prato arriva quasi a lambire la corrente e dove quei cespugli di betulle e piante acquatiche creano una specie di alcova, di riparo naturale. Uscite dal ristorante calmi e satolli. Il Chianti ti circola nelle vene, riscaldandoti tutto il corpo. La big steak arrostita ti ha dato delle nuove energie. Prendi Margy per la mano e con uno stecchino tra i denti, ti dirigi verso il fiume placido. Ieri sera un connazionale che ha una pizzeria ti aveva incontrato, suggerendoti di tornare in Italia: «Guarda che la situazione là è cambiata molto. Adesso è un paese moderno senza marxisti rivoluzionari e fa parte della UE. Ha una democrazia equa e le tasse le pagano tutti». Ma tu sei ancora bruciato, ulcerato da tanti ricordi. Sei certo che quelle parole sono solo fregnacce. Quando ti chiedono cosa pensi dell’Italia ti mantieni sulle generali, cerchi di dipingere il bel paese agli occhi degli anglo sassoni, ma dentro di te sai che là ci sono i disgraziati a busta paga che devono pagare le tasse per quelli che la busta paga se la possono fare da sé. Così in quella calda intimità solare ridi con Margy, raccontandole l’episodio. Anche a camminare lentamente, in breve, vi trovate sulla riva del fiume. La costeggiate fino a raggiungere l’ansa con quella piccola macchia. Lì dopo aver steso il grande plaid, vi sdraiate al sole. C’è una calma totale, non si sente volare una mosca e non c’è nessuno nelle vicinanze. Prendi la mano di Margy distesa accanto a te, e ti appisoli. Segretamente pensi che l’Eire e la Bure – dove andavi da bambino – si somigliano molto. D’un tratto lei ti stringe la mano più forte, e ti accorgi come sarebbe stata vuota la vita senza la sua presenza. «Non è bene che l’uomo sia solo» disse LUI fin dall’inizio. Come sarebbe stata la tua vita senza di lei? Senza il suo amore, senza i figli e i
nipoti? Il sole adesso comincia a declinare, ma restano due ore buone di tepore e di luce. Il calore del sole fa splendere tutto all’intorno, l’acqua manda dei luccichii come briciole di specchi luccicanti. Gli uccelli cantano tra le fronde, all’improvviso lei si mette a sedere, ti tocca un braccio con la mano ed esclama: «Guarda Eros, una famiglia di anatre. Guarda come sono carine». Ti metti a sedere anche tu e vedi are quella famigliola di palmipedi. Dalla mamma al babbo, agli anatroccoli, se ne vanno – scivolando rapidi – sullo specchio d’acqua. Puoi scorgere le loro zampette che si agitano veloci a mo' di pagaia. Vi rimettete a giacere. Ora sei disteso accanto a lei e – ad occhi chiusi – lasci vagare la mente. Sei accaldato dal sole, non dallo sforzo dell’unione fisica come quando eri giovane. Scorri lievemente, con i polpastrelli delle dita, la mano sul suo corpo. Distesa sul dorso sonnecchia appagata, dal sole e dalla bella mangiata che ha fatto. Un alito di vento ti porta il suo odore, con quel profumo che conosci da più di quarant’anni. La guardi di profilo e i la tua mano sui suoi seni. Non sono turgidi. Si volta pigra, ti abbraccia e ti manda un bacino con le dita. Nella tasca, con la mano, tocchi la scatolina del Viagra. La getterai nel fiume, quando tra un’ora ti alzerai. Quei fornitori te la avevano voluta dare a tutti i costi, ma tu ci hai ripensato. C’è un tempo per ogni cosa. È il tempo di seguire la verità della natura, di rimanere nella purezza dell’amore, solo spirituale. Di tornare alla sorgente da cui fluisce l’acqua viva. Sei ancora accaldato e anche lei è tutta un bollore. In quella specie di camera aperta fino al cielo il sole d’estate, come un braciere incandescente, ha riscaldato tutto: le piante, l’erba, il boschetto di betulle e la macchia dei cespugli. Ogni cosa splende in quell’atmosfera luccicante, dove il gaudio dell’amore ti rende leggero come una piuma. Mentre le guardi pulsare la giugulare del collo, pensi che l’amore che può riposare tra i due guanciali della fedeltà e dell’indissolubilità è una grande meraviglia. Realizzi che è la capacità umana che più ti avvicina al godimento divino, e ti fa rassomigliare a LUI, eterno gaudio nell’amore. Lei si volta, puntando un gomito sul plaid, tenendosi su la guancia con la mano. Ti a
l’altra, a mo' di rastrello, tra i capelli e dice che è una giornata incantevole. Vagando con la mente ti coglie un pensiero strano. Come sarà stato il primo giorno all’inizio della creazione? «In principio LUI creò il cielo e la terra». Sarà cambiato qualcosa o tutto da quel lontanissimo giorno? Sarà stata certamente più felice la condizione dei primi due? In fondo Adamo ed Eva vivevano in una situazione di perfezione e d’innocenza perfetta, a noi sconosciuta. Ti giri su un fianco, rannicchiato come un feto nel grembo materno, e ti sembra all’istante di ascendere nell’immensità celeste, da cui poi ridiscendi; però più lentamente come uno che atterri col paracadute. Hai solo una consapevolezza parziale di quanto stai sperimentando. Ti innalzi soavemente, dolcemente, senza brusche scosse verso eteree regioni, dove la materia non ha più limiti né pesantezza. Verso celesti regioni risplendenti, punteggiate da spiriti luminosi. Chi sono? Persone che non hanno bisogno del corpo per esistere? Pensi che tu sei qui – immobile – a prendere il sole, mentre quelle luci vanno e vengono – su e giù – come saette. Tra quelle luci saettanti e quegli esseri luminescenti all’improvviso hai una folgorazione: perbacco, Eros, perché non ci hai pensato prima? Hai visto gli angeli! Quelli erano angeli che intorno a te salivano e scendevano dal paradiso in terra. Ti togli il ghiribizzo di essere un’anima prediletta da LUI, d’altronde per tutta la vita hai voluto essere un piccolo Cristo; perciò quelle sensazioni altro non sono che anticipi e caparra della beatitudine paradisiaca. Il paesaggio del paradiso deve essere per forza così. Un giardino splendente per il fuoco dell’amore, dai colori delicati rosa pastello, giallo crema, verde acqua – mai volgari o pacchiani – che rischiarano l’occhio. E sopra una cappa, un tetto che tutto copre e da cui promanano un’infinità di raggi scintillanti: le luci dell’acqua viva. Insomma LUI. Perché in paradiso il godimento dell’amore non avrà né intralci né ostacoli che lo rallentano e bloccano. C’è un dominio assoluto della felicità. E quello che tu provi ora non è forse felicità? Tenti di definire, classificare tutte quelle sensazioni. Mediti ciò che ti ha toccato nell’intimo. Dalla prima momentanea ascesa – incosciente? – al cielo, alla visione di quegli esseri scintillanti. Sono moti dello spirito che ti hanno dato una grande energia. Se il tuo corpo fisico sta decadendo, se ti stai acciaccando con un dolorino qui e una
patologia là, il tuo spirito si va ringiovanendo e rinnovando di giorno in giorno. Affascinato da questa meravigliosa prospettiva dell’eternità ti senti forte, riempito da una calma placida, in preda ad un entusiasmo esaltante. La tua testa è leggerissima, con la fronte baciata dal sole, quasi come uno di quei palloncini più leggeri dell’aria. Ti volti, mettendoti a giacere sulla schiena. Allunghi la mano e incontri, sotto la gonna di Maherson, il ginocchio e la pelle nuda di Margy. Vorresti metterla a parte di queste tue sensazioni. Ma sei indeciso. Lei ti precede: «Lo sai, Eros, cosa mi è successo?». «No, dimmi». «A forza di stare con gli occhi al sole; sai come quando per la troppa luce li chiudi e li riapri? Ho visto a palpebre chiuse una marea di scintille, di faville lucenti che schizzavano in qua e là». Allora ti sorprendi a dire: «Non è niente Margy. Anche a me è successo il solito». Eros, Eros quando la smetterai di essere così scimunito? Lo vuoi capire che tu non hai visto gli angeli, ma solo un riflesso, un balenio di scintille, di luci nel fondo della retina? Così richiudi gli occhi nuovamente. Questa sarà l’ultima mezz’oretta, poi dovrete ripartire. Senti una brezza più fresca sulla guancia. Volti la testa e apri gli occhi. Vedi i fili d’erba che si piegano, le loro cime che s’inchinano come se asse qualcuno. All’improvviso un lampo ti squarcia la mente, perché “il Signore amava eggiare nel giardino alla brezza della sera”. Ti metti a sedere di colpo e giri la testa a sinistra e a destra. Ma lo sai benissimo che LUI – quando a – non lascia tracce. Vedi l’effetto, i fili d’erba che si piegano, non la causa – i suoi piedi. Un brivido ti corre nella schiena, in quanto solo ora ti ricordi dell’Altro – lo strusciante maledetto. Anche lui s’annida nel giardino. Margy ti ha visto sussultare e ti tocca sulla spalla: «Eros che ti prende?». «Niente». «Prima mi hai fatto paura. Quando ti sei alzato di scatto: cosa sbirci nell’erba?». «Niente. Avevo paura che ci fosse un serpente».
«Cosa?» fa lei e si sbellica dalle risate «ma Eros in England non ci sono serpenti!». Allora ti rilassi e ti metti giù. E pensi che tra quel primo giorno in cui LUI eggiava nel giardino ed il giorno di oggi non c’è proprio nessuna differenza. Anche oggi LUI ha fatto sorgere il sole, e la terra – innamorata – gli ha girato intorno. Un merlo dal becco aranciato saltella tra le fronde di betulle; l’acqua del fiume sussurra con il suo gorgoglio; da lontano t’arriva il belato innocente e tremolante d’una pecora. Il cielo è terso, pulito come un cristallo, l’aria freme e i fiori sbocciano tra l’erba. Tutto canta e grida di gioia. Sospiri sollevato e stringi la mano a Margy. Finalmente l’Altro – il serpente antico – non c’è più. È scomparso per sempre. Ti rilassi e ti gusti l’ultimo sole della giornata. La vita è una meraviglia. Ora, finalmente felice, ti puoi addormentare in pace.
F I N E
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