Ilaria Cipriani
In oltre
Versi di segale
Titolo originale: "In oltre" © 2014 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea ottobre 2014 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-557-7 I edizione e-book novembre 2014 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-594-0 www.giovaneholden.it
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UUID: 9788863965940
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Indice
Prefazione Rosa di me i di fiori Lassù Solitaria stanchezza La viaggiatrice Assenza L’autostoppista In lotta Al metro Messaggio promo-esistenziale Senza fissa dimora Velature Appartati appartamenti Contrasti Problema Sì e no
Schiacciante Intimi intrighi Di sbaglio in sbaglio Per strada Responso Surreale Sparendo Disorientante Mancanza Scambio Aperture Scelte In alto A sorpresa i di volo Stravaganza in forse Comunque Patto matto Funambologie Dalle mani Percezioni
Oltre le labbra Voglie perplesse Illic Iridi Convalescenza Buonanotte Sonno in sogno Cerchi di buio In un boccone K.O. Di prepotenza Vuoto vedente Ringraziamenti
L'Autrice
A Greta e Glenda, i miei respiri.
Prefazione
Ho ricevuto le poesie di Ilaria una mattina di fine agosto, per posta elettronica. Le ho scaricate e le ho lette, scorrendole come fossero scritte in un moderno volumen, una pergamena virtuale… Un verso dopo l’altro, una strofa dopo l’altra, sgranate come un rosario, senza avere, in questa prima lettura, una visione d’insieme. Mi sono lasciata volutamente trascinare dalla corrente delle parole, dal fiorire delle associazioni e, leggendo, dentro di me, è risuonata, in contemporanea, l’eco della potenza mediterranea della lirica classica e la voce raffinatamente sensoriale della poesia simbolista, metabolizzate e distillate dall’uso assolutamente moderno che Ilaria fa del ritmo, delle sonorità, della sintassi, delle valenze semantiche delle parole. Parole. Parole piegate, cesellate, affilate come un bisturi, usate come strumenti di filologica precisione nell’esame, impietoso e pietoso al tempo stesso, della conoscenza di sé (l’in) e dell’altro da sé e che proiettano Ilaria nell’oltre. Un’autoanalisi, quasi una terapia, che a attraverso la conoscenza profonda della lingua plasmata a tradurre una difficile esperienza di vita, un viaggio dell’io che, frantumato dal dolore, tenta di riemergere, di sperare in una possibile felicità. Parole. Parole distillate con attenzione da cui escono, come dal cappello di un abile prestigiatore, altre parole, spremute, concentrate in un succo così denso di significati da risultare diluibile in associazioni tanto improbabili quanto intriganti e suggestive. Così anche la metafora, se vogliamo, scontata della rosa, trova qui una sua dimensione assolutamente originale, offrendo le coordinate con cui la prosa poetica, che si alterna ai versi, può riuscire a raccontare, decodificare, interpretare, dare un senso al percorso tormentato di un in che anela all’oltre. Un percorso maieutico così necessario da costringere Ilaria a usare la prosa per
ragionare poeticamente con se stessa, non sottraendosi mai all’esame per così dire chirurgico dei suoi stati d’animo. Un percorso così importante da risultare affiancato, nei aggi emblematicamente più tormentati, da immagini di notevole profondità e raffinatezza grafica. La rosa diventa quindi metafora vissuta, simbolo concreto di quell’impulso inarrestabile a risorgere, come un seme che non può fare a meno di crescere, di sentire in sé il panta rei dell’esistenza. Rappresenta quell’altro da sé con cui Ilaria inizialmente si fonde e si confonde, ma che poi diventa ciò con cui lei stessa si misura, si scontra e si incontra. Un panismo solamente apparente, dunque, dove l’identificazione dell’io con la sostanza arborea è solo l’inizio di un’analisi poeticamente razionale che porterà l’in traumatizzato, sempre presente e cosciente, a un oltre salvifico. La poesia di In oltre è cosi, al tempo stesso, ricerca e percorso catartico, attuato attraverso una scrittura tanto ricca di immagini quanto raffinata nelle sonorità, nelle scelte lessicali, negli inconsueti accostamenti sensoriali, nelle antitesi così abilmente cercate da sembrare assolutamente spontanee. Ed è quella di Ilaria una scrittura sorprendente, affascinante, ma anche un gioco dell’intelletto, da assaporare nelle sue molteplici variazioni, nel suo essere inconfondibilmente mediterranea: solare e lunare, luminosa e bruciante, cupa e assoluta, apollinea e dionisiaca, paradisiaca e infernale come la vita che Ilaria racconta.
Alberta Stefanini
La tengo senza quasi sfiorarla, come una manciata di sabbia preziosa raccolta nel palmo della mano. Se chiudessi il pugno la vedrei scivolare via, tra le mie dita, persa nell’oltre. Accadrebbe di sicuro, lo so. Ma la voglio in, non oltre. Almeno non ancora. Perciò la tengo piano, senza quasi sfiorarla.
Rosa di me
Ho una rosa fra le dita: bianca, mi sogna sulla pelle.
Sopra il centro dei petali dal cuore sfrangiato si annodano sciolte le ali di Dio.
Vibrano lunghe ma lente in un volo d’ovatta, muovendosi a culla nel dolore composto.
Rattrappiscono rapide, ben chiuse in un bacio
di veli a respiro verso l’anima stanca.
E l’ombelico fiorito racchiude il destino già scritto o da scrivere con lo stelo del tempo.
Così tengo sulla mano, bianca, la rosa più mia.
Non è una rosa recisa. Mi rattristano i fiori tagliati, la loro freschezza a scadenza, quell’odore colorato che puzza di morto. È una rosa viva, ben piantata, che appoggia la testa sulla mia pelle e mi guarda in faccia. Con insistenza, inesorabilmente, senza imbarazzo. Sono io ad abbassare gli occhi, alla fine, non lei. Li chiudo e comincio a vedere. Annuso con le palpebre l’aroma lento e corposo della terra: un profumo marrone, morbido, bagnato.
Mi sento fondo sul fondo e fango nel fango. Intorno a me un ricamo di radici fissate a punto erba, una scala cucita con fili di legno, in attesa. Sono lì, verme di me stessa, forma strisciante nella melma del rifiuto, nella morbosa rassicurazione di un dolore ritrovato. Eppure sono ben altro da questo. Ben altro e ben oltre. Quindi… Nuda sul mio corpo di donna imparo un’altra volta a camminare. Faticando, in salita. Respirando, in ascesa.
i di fiori
È un fiore schiacciato dal martello che picchia il rifiuto in ritorno a spezzarmi le ossa.
È un fiore caduto da occhi gentili il nuovo abbandono che è quello di sempre.
È un fiore inghiottito dalla bocca tagliente il vuoto a cucchiai nella pancia riaperta.
Tutto già sentito,
in profondo, quando avanzavo sbilenca a braccetto del pianto.
Tutto già provato, senz’altro, mentre fuggivo cercando di seminare il ricordo.
Tutto ritornato, purtroppo, ora che speravo, contenta, di andare per mano. Eppure so camminare al o degli angeli.
Al o… Al o… Degli angeli al o…
In realtà non sono del tutto certa di riuscire a procedere, ma devo farlo. La spinta verso l’alto è irresistibile. E già mentre avanzo lungo le radici salgo, salgo ancora, salgo sempre, fino a trovare il cielo nella terra che mi bacia, aprendo le labbra al mio aggio. Allora mi muovo fuori dal terreno, al di là del fango, oltre il carcere della melma. Oltre, appunto, per dare un senso all’in.
Lassù
Ho bisogno di salire nel cielo, quest’oggi.
Non volare, salire.
Con i piedi appoggiati alle pietre dell’aria, cantando negli occhi per donare la voce all’universo che suona.
Ho bisogno di sedere
nel cielo, quest’oggi.
Di salire e sedere.
Con la nuca lasciata sopra il nodo di vento di un cuscino che sbatte massaggiando la mente dentro il collo contratto.
Ne ho bisogno, quest’oggi.
Di pensarmi e guardare.
Non è facile, l’ascesa. La carne del mio corpo nudo guarda in alto e striscia lungo il gambo della rosa, sullo stelo della vita che vive la mia vita in sé. Il sudore dell’aria mi bagna la pelle e tradisce lo sforzo. Il silenzio del verde sfiorato rivela il canto incolore della solitudine. Ma non importa. È l’inizio.
Solitaria stanchezza
“Ora siediti, riposa. Siedi qui, fra le mie braccia, sulla pelle del divano che ha sentito da lontano le scintille del tuo pianto sulle gocce dell’incanto. Tu riposa. Dai, riposa.”
Lo schiocchìo delle mie ossa chiede svelto a quella forma che mi chiama come vela attirata dal suo vento:
“Tu davvero vuoi che sieda? Sieda qui, fra le tue braccia, sul velluto del cuscino che ha bevuto da vicino ogni lacrima di riso nel singhiozzo più improvviso? Io riposo. Sì, riposo.”
E mi siedo quindi piano fra le braccia del mio niente che mi accoglie come terra in attesa di un’impronta.
Sono stanca, sola e stanca, ma la vita non mi sfianca se il futuro a me non manca.
Quasi dimentico il mio corpo mentre ne seguo le onde che mi spingono avanti, flessuose, per raggiungere la battigia di una foglia isolata. Scivolo sulla corrente del ramo che mi guida fino a lei, la abbraccio sotto la pancia sensibile, sfioro con la mia la sua guancia solitaria. Con rispetto ieratico, pronta a sgozzare me stessa sull’altare della dea Solitudine in un sereno sacrificio propiziatorio alla vita.
La viaggiatrice
È salita sul treno più di tre anni fa: più di tre metri di tempo, più di tre chili di ore fa.
Alla mia stazione è arrivata con un biglietto di sola andata.
È scesa molle dal vagone dentro l’odore del silenzio: lungo la pelle del vento arrivando a piedi nudi qua.
Si è sistemata in casa mia
senza intenzione d’andar via.
Ha sfatto la valigia sulla tovaglia del letto: apparecchiando col non sogno non ha toccato cibo mai.
Non sapevo chi fosse, all’inizio, poi l’ho capito senza indizio.
Subdola… Sapiente… Solitudine…
Assenza
Non è per forza triste, una donna sola.
Il suo sorriso nascosto può aprirsi già caldo a leccare in segreto dita presto bagnate che camminano lente sulla voglia di te.
Non è per forza ferma, una donna sola.
Il suo ventre in apnea può ruotare distratto dentro un giro di danza
tra la mano e il bacino che subito attento impara il ritmo per sé.
Non è per forza vuota, una donna sola.
Il suo pube dolciastro può riempirsi di luce come nube squarciata sotto brividi a pioggia che inondano il monte in un ricamo da re.
È una donna sola; una donna solo sola.
È il mio sangue a placare l’ego della dea, ma il collo guarito inghiotte veloce il taglio. Ricomincia a muoversi il corpo, di nuovo integro, e mi porta verso quella speranza che ammicca al mio animo nell’occhio grasso e rotondo di un bocciolo. Una gemma rigonfia di futuro, dondolante poco più su. La raggiungo e il mio fiato si fa sorriso tanto lieve da non scoppiare la bolla che racchiude quell’attesa di fiore.
L’autostoppista
L’ho incontrata spesso lungo le strade di porcellana bruciata del mio paese.
Con la giacca rosa fucsia, un rossetto per l’asfalto.
Sotto i riccioli sfuggiti all’azzurro del cappello.
Nella gomma delle scarpe, una fionda verso il cielo.
Sempre col pollice in su, per salvare la vita
al gladiatore sconfitto che si rialza dentro me.
Sempre l’ho fatta salire, perché non si nega un aggio all’anziana ragazza da tutti chiamata Speranza.
Sempre è scesa in segreto da quel sedile al mio fianco senza lasciarmi capire quando, come o perché.
Ed ogni giorno è lì, lungo le strade di porcellana bruciata del mio viaggio.
In lotta
Sono un’orda di barbari taglienti i pensieri negativi che mi invadono violenti.
Sono un mazzo di rose trasparenti i pensieri positivi che mi sfiorano suadenti.
E nel mezzo a una tempesta di sereno io mi fermo piegandomi sul seno con la testa che annusa la speranza respirando nell’acqua di una stanza.
Poi vado avanti, comunque, tra cambi d’andatura che stabiliscono il ritmo del mio respiro. Sono un lombrico troppo caldo per essere solo un lombrico; sono una farfalla che vola camminando; sono un serpente con le ossa pulsanti. Sono… Sono io, che nel procedere penso, parlandomi ascolto e, mentre credo nell’aria, pongo domande leggere al vento degli altri.
Al metro
Un gioco di centimetri: è solo questo la vita, solo e tutto questo.
Me lo dice dal video una voce graffiante che cade giù nella gola e trova sempre l’altezza.
Pareti da scalare un centimetro alla volta: le pareti dell’Inferno.
Lo ripete dal video quella voce di cenere che vede la dannazione
ma trova sempre una luce.
Un centimetro e il o finisce in un prato; uno indietro ed inciampa nei rovi del pianto; uno in alto e la fronte si appoggia al sereno; uno in basso e le gambe son dentro il pantano.
E i minuti cominciano a formicare frenetici in misure frullate dal frastuono frizzante di freni in frantumi.
Mentre lo spazio si scioglie sotto scaglie di grana scaldate e scurite
sulla schiena scoperta del pomodoro schiacciato.
In varietà di ritmi che è varietà di gusti nella pizza al metro dei miei vari giorni.
Messaggio promo-esistenziale
Come il vecchio scontrino di un acquisto sbagliato sto piegata su me nella tasca dei giorni e rimpiango la spesa che ha svenduto il mio io.
Con il corpo di carta da cui forbici calde ritagliano i piedi cerco nuove radici avanzando in ginocchio in quel bosco di stoffa.
È un’antica foresta il cappotto indossato da tempo dal tempo
e nel verde lanoso io mi aggrappo alle foglie che nascondono spine.
Perché? Per quanto? Per chi?
Dove? Da sempre? Di più?
Vicino al cielo? Verso terra? Via da qui?
Non lo so… So che no… So che sì…
E sopra il film di quei rami che va su schermi di piante attacco tutti i cartelli di richieste in domanda, sottotitoli muti in attesa sul fondo.
Ma a soltanto la pubblicità.
Senza fissa dimora
Prova a catturare un capriccio di conchiglia nel litigio di ogni onda.
Seguilo col naso dentro un mare di ragione che ne mostra il moto assurdo.
Respiralo negli occhi verso un tempo di bonaccia trasformato in quiete obliqua.
Forse allora avrai intravisto proprio allora avrai intuito l’incostanza della vita in un capriccio di conchiglia.
Velature
Mentre la pioggia porta via la sabbia del mio sonno, penso.
E sui ricami di riso di un abito da sposa, parlo.
Per non parlare di ciò che penso.
Appartati appartamenti
Chiuso nel proprio alveare ognuno di noi si muove negli esagoni dei giorni.
Sono le stanze della vita scolpite a nido d’ape dal pungiglione del tempo.
In una si sta filo muro per toccare con la pelle la cera calda dell’amore.
Nell’altra si dorme giù a terra sul tappeto trasparente di ali vive d’angoscia.
In altre ancora si cammina su zampe gialle di pensieri nell’ambra densa del ronzio.
Ma restano sempre cellette che sono luoghi fuori spazio dove il respiro non può entrare.
Forse nel devoto rispetto di serrature ben serrate si trova il modo di capire.
Forse si scopre la maniera per assaggiare con la mente il miele nascosto nel fiele.
O forse basta rinunciare
a comprendere col vento frasi scritte sopra un lago.
Continuando ad ascoltarsi nell’alveare.
Morbida, calda, rampicante, sono muschio improbabile sullo stelo che mi accetta e si avvolge di me. Divento lenzuolo lungo il gambo della rosa: mi strappo e mi tendo, al contatto inevitabile e improvviso con le spine. È lo stimolo lacerante di una stimolante lacerazione. Mentre lo sperone del pianto mi pungola ai fianchi costringendomi al trotto, comunque. Così, oltre spine di lacrime, io continuo l’ascesa.
Contrasti
Le odio. Le odio e le adoro.
Mi esplodono in faccia sulla miccia del nero di un fulmine spento.
Mi screziano il viso nella bomba del giallo di un tuono che è .
Le lacrime che odio. Le mie lacrime che adoro.
Problema
Oggi ho gli occhi in un sorriso, ma la testa non li segue, col cervello che è incastrato nelle pieghe fredde, morte di una stella dentro il letto.
Ho la bocca da risata, mentre il petto resta indietro, con il cuore appesantito dal fardello troppo vuoto del vestito che mi metto.
E non trovo soluzione sul mio corpo disconnesso.
Sì e no
È un fiore opprimente col bronzo dei petali lasciato a schiacciare lo stelo che chiede sostegno alle foglie.
È una farfalla nel nodo sciolto sulla cravatta di ali croccanti aperte a sfiorare colori di voce.
È una testa di donna che ascolta col naso un canto pesante risolto in enigma a creare il leggero.
È l’assurdo.
L’assurdo perfetto.
L’assurdo di un fiore nella mia testa farfalla.
Schiacciante
Mi è scesa addosso, proprio ora, come una botte che puzza di vino marcito nel suo legno d’aceto.
La vista sparisce, proprio qui, nel barricato marrone che tinge le ore dove schiumano gli occhi.
M’ingoio la voce, proprio là, in un bicchiere di buio fatto bere così come nera cicuta.
Io la odio, lei mi ama.
Io la fuggo, lei mi trova.
Io la uccido, lei mi vive.
E c’è sempre, molto spesso forse mai, ogni tanto, magari ancora…
Quella maledetta ben detta violenta voglia
di piangere.
Poi non so più, confusa. Stringo forte, con tutto il corpo, la vita che per me si è fatta stelo, ma lei cade a pioggia dal mio corpo setaccio, sfilacciata in farina di rami e di foglie. Tutte possibili deviazioni che mi bloccano di fronte a una scelta da prendere nel verde di un dubbio moltiplicato.
Intimi intrighi
Ci cammino con le mani interpretando fra le dita le parole accatastate come legna del pensiero.
Ci striscio coi miei gomiti ogni giorno in cui le orecchie mi rivedono arruolata nell’esercito dei dubbi.
Ci rimbalzo con la schiena quando provo il materasso che non dorme perché aspetta tutti i riccioli dei sogni.
E mi oriento senza meta,
parto senza via d’uscita, cerco la mia doppia entrata.
Proprio lì, nel labirinto, di quell’anima che ha vinto sempre e solo per istinto.
Di sbaglio in sbaglio
Io barcollo, scarsa e scalza, su un enorme formicaio, affondando i piedi nudi nella viva melma nera.
Dentro un fango brulicante che corrode la mia pelle rosicchiandomi le tibie più scoperte ad ogni o.
Io traballo, stanca e storta, nella paglia troppo alta non trovando mai quell’ago che sia bussola al viaggio.
Dentro un giallo ingannatore che vuol sangue dai miei stinchi amputandomi la strada verso il tempio del dio giusto.
E io sbaglio, scema e sciatta, lungo il pianto di mia figlia, annegando le ginocchia impotenti alla corrente.
Dentro quella sua richiesta di un aiuto più azzeccato che io sento di non darle sulla barca del mio amore.
Ma prego e spero d’imparare…
Per strada
C’è traffico, oggi, sul raccordo anulare della mia vita in viaggio.
Né in partenza né in arrivo: in viaggio…
Allo svincolo frena l’automobile chiara del mio pensiero in discesa.
Né in pianura né in salita: in discesa.
Così suono, da ora, con il clacson stonato del mio cuore in attesa.
Né in fuga né in stallo: in attesa.
Alla fine mi chiama davvero, abbozzandomi un cenno col moncone dolente. Lo sapevo già, forse, anche quando dicevo di non sapere più, confusa. Ma non volevo ascoltarlo, il richiamo di quel ramo spezzato. Forte, robusto e spezzato. È lì, davanti a me, terribile, spaventoso. Lo temo e ne tremo. Vestita solo di panico ci scivolo sopra, abbracciandolo stretto per trafiggermi il ventre con la punta scheggiata da cui gocciola sangue fratello. La lama di legno affilato mi squarcia lo stomaco. Il mio corpo si contorce nel grido urlato dagli scatti della coda tagliata di una lucertola. Solo accettando di arrotolarmi su quel dolore posso allungarmi di nuovo al cammino della vita. Lo so e lo faccio. Fino a quando, sciolto il nodo di me, riprendo a salire. Il sorriso non finito del ramo mi spinge avanti, adesso. E non c’è sangue sul moncone, fasciato da una striscia di pelle della mia anima sbucciata.
Responso
La mano di Satana ha scritto una lettera bagnata di fuoco a un uomo che amo, ieri.
Dalle sue dita di fiamma il gelo.
Le mie viscide ustioni cercano qualche sollievo nuotando giù immerse nella fogna del mondo, oggi.
E dentro ogni escremento
il male.
Surreale
È salito in superficie, stamani, l’Inferno.
Io cammino per strada percorrendo le vie del suo fuoco dannato.
Con due bimbe per mano e un sorriso che finge sulla tomba del viso.
E dovrò vivere lì, da oggi: all’Inferno.
Sparendo
Una voce si allontana, bruciata nel pozzo del sole.
Parla un po’ dentro quel caldo, zittita da urla di sole.
Poi tace giù dai raggi, schiacciata dal peso del sole.
E ogni fiume di tempo, qualsiasi volo di senso, qualunque attesa di centro si perde
in silenzio lungo la voce a cui penso.
Disorientante
Un sole ubriaco barcolla per le strade di luglio, al mio fianco.
Nella sbornia sbagliata racconta storie troppo spezzate, a singhiozzo.
E tramonta confuso a ogni ora del giorno.
Mancanza
Da mesi…
Ne ritrovo la carezza nel pudore della schiuma che nasconde le mie dita troppo nude.
Ma non riesco a trattenere l’acqua ferma tra le mani e quel sapone ruba.
Ne percepisco la voce come coda dei pensieri che mi cantano nel cuore troppo zitto.
Ma non riesco a far durare quelle note sulle vene e ogni suono tace.
Ne rielaboro il profumo nei ricordi del mio naso che li scrive con l’olfatto troppo solo.
Ma non riesco ad evitare lo starnuto della mente e ogni fragranza sfugge.
Da mesi…
Mio fratello mi manca con lo strazio con cui mancherebbe la carne a uno scheletro vivo.
Ritrovato lo stelo, comincio di nuovo a salire. Ancora. Dolcemente, con un corpo di gomma che attutisce lo sforzo e si stende al futuro. Mi curvo morbida, calma, sulle anse del tempo in sospeso. Senza fretta alcuna giungo lì, in quel calice verde che addormenta i minuti e mi accoglie come vino al bicchiere. Quindi… Io riposo. Tranquilla, inspirando in profondo l’aria tersa dei sogni e l’ossigeno sano della libertà. Libertà di sperare nel sereno, di credere nel sole, di sentire la luce.
Scambio
Un baratto: un baratto moderno nella preistoria che è in esso.
Io lo voglio: lo voglio e lo faccio tra me e il tempo stesso.
La do via: la mia vita farfalla sulla tela del ragno di gesso.
Me lo prendo: l’arcobaleno disciolto nella bottiglia del sole concesso.
Adesso.
Aperture
C’è una chiave di acqua sopra il gancio a cratere del vulcano di un sogno.
Schiude immagini a fiamma eruttate di pancia dalla testa del mondo.
Apre bocche di demoni bruciate dal sole del magma al tramonto.
Spalanca porte di luce tessute sul filo di un pensiero dal fondo.
E c’è una chiave di acqua nel vulcano che poggia sopra il gancio del sogno.
Scelte
Li ascolto, invisibili, sulla pelle del viso, i racconti disciolti negli anni piovuti.
Le sfioro, intuibili, fra le dita distese, le storie sognate nell’aria che a.
Mentre il cielo, in pezzi di spugna, suona assorbendo il suono.
Se ora avessi davanti quell’ uomo che amo io berrei questo vento col bicchiere di un bacio già pronta a bagnare il mio corpo svestito nella vasca che, calda, vuole fare l’amore.
Se ora avessi di fronte le figlie che amo scherzerei tra risate sfarinate in sorrisi da riunire all’impasto di quel pane di giorni che già lievita lento nell’abbraccio del forno.
Se ora avessi qui accanto un cane che amo correrei a perdifiato nel sentiero del senso fino a farmi cadere con la schiena sul mondo mescolando alle gambe le sue zampe all’insù.
In assoluta libertà di scelta.
Libera di scegliere, oltre ogni vita del tempo, per la mia vita
oltre ogni tempo.
La corolla mi esplode davanti come un fiore d’artificio, un gioco pirotecnico di petali e profumi. Una miriade di candide forme vibra di fronte a me pulsando in segreto. Ci entro dentro e striscio serena tra quei fantasmi sorridenti che mi accolgono benevoli nell’abbraccio di velluto dei loro bianchi lenzuoli. Li sento ovunque. Li vedo ovunque. Gioiosi, frementi. E sono petali di morbido vetro, si allungano in alto, in oltre, soffiati dall’ebbrezza della felicità.
In alto
Fiorisce veloce sul mio lampadario una farfalla di legno che non chiede permesso.
Poi sboccia in rimbalzo là sopra il soffitto col petalo tondo che gira convesso.
È un cerchio a colori negato e riammesso.
È un disco oscillante avvitato a se stesso.
È un pezzo d’antico ruotato in adesso.
E il mio pavimento osserva il contrasto di una trottola allegra che vive a riflesso.
Cefile… Ecilef… Licefe…
All’incontrario… Mescolata… A testa in giù…
Felice!
A sorpresa
Succede. A volte succede.
È una doccia che sale su dai piedi alle orecchie per bagnare la pelle del controsenso perfetto.
È il silenzio che suona lo zampettio di zanzare chiamate alla marcia con strani i a rintocco.
È il fungo che cresce sopra il muschio di un tetto a incollare le tegole
nel loro umido asciutto.
È ciò che vibra sui massi.
È ciò che leggi nei fossi.
È ciò che tu non ti aspetti.
Ma succede. A volte succede.
E la frizzante felicità si siede dove anche chi non la vede alla sua forza per forza cede.
i di volo
Ho eggiato con l’alba, stamani.
Le ho dato la mano e ho camminato con lei.
Spaventata all’inizio, dietro un vetro a finestra, ho incrociato le braccia all’invito del giorno.
Troppo immenso per me, così piccola e poca!
Troppo spazio infinito, nei miei limiti stretti!
Troppo vasto di tempo, per un corpo a lancette!
Ma poi l’aria si è accesa colorando il mio gusto e mi sono assaggiata dritta sopra quel tetto.
Quanto viola disciolto lungo il fiume del cielo!
Quanto rosa rotondo, fra i gomitoli d’aria!
Quanto giallo in attesa nei covoni di sole!
Così le ho dato la mano,
stamani.
Ho esultato nell’alba e ho volato con lei.
A un tratto, in quel mare burroso di bianco, la rotondità di un sole improbabile tramonta mentre si alza sull’orizzonte di latte. È lì davanti: attraente, magnetico. Sfacciatamente diverso da tutti gli altri. Diverso da loro e uguale a me, alla mia parte più dimenticata, alla parte più viva e vitale. La mia essenza. È una calamita di colore: impossibile resistere. Tendo la mano verso quel petalo arancio, sfiorato dal rosso tra scaglie accese di giallo. Le mie dita lo raggiungono, fragili. E in un attimo… Comprendo.
Stravaganza in forse
Artisti folli e poeti pazzi vagano la notte raccogliendo mazzi col se stesso più normale a incartare i gambi del falso quotidiano che li vuole strambi.
Ci son boccioli di latta che tagliano le mani dentro corolle di luna pronte a baciare il domani e in ogni petalo blu colorato di note c’è una parte di ognuno trasformata in voce.
Guanti alle ginocchia e cappello sul naso stan vestiti così scrivendo sul raso di un lenzuolo rigonfio di bianche sorprese
attaccate alla norma senza esserne offese.
Comunque
Un pagliaccio di specchi.
Quell’uomo che è vuoto se non vede i riflessi delle proprie emozioni colorate negli altri.
Un re di cristallo.
Quell’uomo prezioso nel suo fragile vaso con la trasparenza che mostra i ricchi doni dell’io.
Qualcuno lo insulta in un modo.
Qualcuno lo loda in un altro.
E lui resta… l’artista!
Patto matto
Davvero non mi dispiacerebbe affatto vivere un giorno un amore matto come un parcheggio col disco orario in scadenza dove si è pronti per la temuta partenza: sensazione di gioia piuttosto precaria che la renderebbe ogni istante preziosa e rara!
Sarebbero allora gli occhi del vento a trovarsi attratti in un certo momento anche in mezzo al quadro di visi amici che sorridono piano sedendo felici mentre il profumo nascosto e segreto dell’aria a ogni sguardo fugace incontrollabile varia.
Non ci sarebbe quindi niente di scontato in quel lungo contatto profondo e rubato a un bianco di sole o al blu giallo di stelle
che colorano in brividi gli strati di pelle quando, spogliato di sé, il corpo già freme nel piacere di un tremito oltre e senza catene.
Lasciando poi il fiato trasformarsi in parola ci si potrebbe trovare in un’entità verbale sola col pensiero in ascesa su riflessioni e storie che diventano degne di trasformarsi in memorie per tuffarsi poi giù, in allegra picchiata, dentro un fiume di sana e triviale risata.
Per tutto questo non mi dispiacerebbe affatto godermi un giorno il mio grande amore matto perché di cambiare il disco c’è la maniera. aprendo qualche volta dolcemente la portiera solo e soltanto per prolungare la magia finché ci sarà voglia di volare insieme in scia.
Funambologie
Con le braccia allargate tra le foglie del cielo muovo appena le mani in quel bosco d’azzurro che vibra.
Ho il piacere tra le dita e nell’ebbrezza io rido.
Con i piedi tremanti sul tappeto dell’aria ballo sopra le gambe nel salotto del vento che suona.
Ho la gioia sui talloni e nell’estasi io vivo.
Con la testa slegata dal comando del collo muovo sopra le spalle la mia mente vivace che cresce.
Ho dei voli dentro gli occhi e nell’altezza io penso.
Sono oltre il banale, al di là del normale, dentro ciò che è speciale.
Sono sopra il quotidiano, già più su dell’umano,
in mezzo a quello che amo.
Ma cammino sul filo di una storia tagliente; nella poesia di quel filo che fa tutto con niente; sempre lungo un bel filo dritto sopra la gente.
Un o falso e cado.
Uno squilibrio e cado.
Un non pensiero e cado.
Cado
ricado e cado.
Per rialzarmi nelle magie delle più intime funambologie.
Si cercano lì, tra i petali della mia vita. Due farfalle notturne in amore dentro le pieghe delle ali. In amore nella corolla della mia esistenza. Proprio lì, perché il mio corpo, nudo e bagnato, possa ricordare. Possa sentire. Possa amare.
Dalle mani
Una carezza…
Lunga come il respiro dell’aria…
Lieve come lo sfarfallio dei sì…
Lenta come la voce del mare…
Una carezza…
E scopro lungo il corpo le vie d’acqua
dell’anima.
Percezioni
Sono curiosa, stanotte.
Curiosa di assaggiare il sapore della luna che veglia sdraiata su questo soffitto.
Curiosa di ascoltare il profumo della mirra che canta la storia nel tempio dell’io.
Sono capace,
stanotte.
Capace di vedere la mano della luce che intreccia le dita ai palmi vuoti del buio.
Capace di sentire quello strappo in una stella che si apre sull’onda dell’amore più sognato.
Sono stupita, stanotte.
Stupita di giocare dentro il nettare di un fiore che scende
bagnando stoffe sotto la mia pelle.
Stupita di volere un sorriso sopra il ventre che porta lontano la sabbia viva del sonno.
Allora bacio, stanotte.
Bacio anche il sole, stanotte.
E indosso lingue di vento come un abito da sera sul corpo nudo del bacio.
Oltre le labbra
Dov’è?
Il balenio dei minuti che accende archi di luce sul porticato in mattoni del grande chiostro disteso come cornice al mosaico di un pavimento consunto dal camminare di mani già mosse verso il piacere?
Dov’è?
Il rotolio dei pensieri che si fa chioma ribelle su quel guanciale di carne
del basso ventre dell’uomo amato sopra le righe del libro scritto con lui per dare pagina e corpo all’attrazione in attesa?
Dov’è?
Il mugolio della bocca che parla voce di mare nel fracassarsi dell’onda rigonfia dentro i suoi flutti urlati in mille frammenti di dolci schizzi salati già pronti al canto segreto del coro bianco dal fondo?
È tutto lì… Tutto… Tutto è lì…
Oltre… Le labbra… Oltre…
Voglie perplesse
C’è…
Il desiderio spavento di stare sopra un ghiacciaio con sotto sassi di sole.
Il desiderio paura di bere schegge in cristallo nel brindisi al bicchiere.
Il desiderio timore di giocare con le carte del baro che non bara.
C’è…
…In un occhio di donna che attende…
Illic
Al di là delle colline del tempo c’è un prato.
Cammino spesso lì.
Al di là della piazza del cuore c’è una panchina.
Io siedo sempre lì.
Al di là dei viali della mente
c’è un albero.
Respiro il verde lì.
E ti do appuntamento in quel colore a panchina che se ne frega del tempo.
Poi ti aspetto in quel sogno dove manca soltanto il tuo amore al mio fianco.
E se le orecchie della pelle ti vedono arrivare io mi regalo il mare.
Iridi
Quando ascolto i tuoi occhi non servono altre voci perché la vita canti.
Quando sfioro i tuoi occhi non servono altre curve perché la forma esista.
Ogni volta che vedo i tuoi occhi non servono altri colori perché il mondo splenda.
E non mi serve altro, non ho bisogno d’altro, completa a cerchio in te.
È tutto troppo, però, all'improvviso.
La paura di essere felice mi travolge, impietosa. Non so reggere la gioia e le spalle si piegano tremando sotto il peso di quell’emozione che mi fa respirare così a fondo da soffocarmi. I polmoni non sanno gestirla, in collasso. Perciò mi curvo, a pezzi. Rotolo su me stessa, ammalata di me, delle mie incapacità. Non vorrei, ma succede. Finché cado nella profondità oscura dei petali, nella tana buia del loro centro più nascosto. E mi rifugio laggiù, in attesa. Aspettando di guarire ancora.
Convalescenza
Nel mio cuore ho la tosse, il raffreddore al cervello e l’anima trema per la febbre che sale.
Devo starmene in casa, bere tazze di caldo, evitando quel gelo che spaventa là fuori.
Chiusa dentro la tana come un lupo già vecchio ingrigito dai sassi che ha beccato sul muso.
Devo stare in silenzio
sotto il tetto di fumo sbadigliato distratto dal camino di sala.
Chiusa dentro la buca come un tasso accecato con le lacrime asciutte nel bagnato del pianto.
Perché il cuore ha la tosse, è raffreddato il cervello e l’anima si ammala di un’influenza che è in me.
Il buio di cui mi vesto è un abito cangiante, che evolve la sua forma su di me. Nell’interno più profondo della rosa la mia pelle lo indossa e lo vive sempre nuovo. Dentro molteplici tonalità di nero. Dentro lo scuro che sfuma e si addensa, come scialle di notte che rotola, informe, sulla schiena del cielo. Perché è un vestito di spazio cucito su un’emozione di tempo.
Buonanotte
“Ho sonno… Mi dispiace… Ho troppo sonno…”
L’ho detto stamani alla luce del vento che suonava la pioggia.
L’ho ripetuto più tardi alle orecchie di latta dell’auto bagnata.
L’ho ribadito stasera agli occhi dei piatti spalancati per cena.
“Ho sonno… Mi dispiace… Ho troppo sonno…”
E il sonno dorme dentro me che non dormo.
Sonno in sogno
Addormentarsi nella luce del buio notturno dopo avere volato sopra le nuvole dei giorni; dopo battaglie infuocate in un fango di miele; dopo contatti profondi dove la pelle è lo straccio di vita strappato al vestito del tempo che vibra.
E dormire lì, nel silenzio rosso di emozioni in fiamme.
Cerchi di buio
Io non dormo, stanotte.
Mi rigiro, bloccata, in un letto di se.
Piango tanto, stanotte.
Mi rivesto di cenci buttati da tempo.
E non sogno, stanotte.
Ma concedo al pensiero un dolore che c’è.
Aspettando che stanotte chiuda il cerchio di stanotte.
In un boccone
Una mano sconosciuta mi cammina addosso, stanotte, e scrive una pagina di stomaco vivo con artigli da gatto.
Inghiottendo, prima o poi, la leggerò.
Masticando, per adesso, io non so.
K.O.
Come un pugile suonato annaspo nell’acqua sporcata di colpi che inonda il mio ring.
Il paradenti rosso sangue bacia il fondo del secchio preferendolo alla bocca che marcisce in un sorriso.
Allora voglio il tappeto…
Voglio cadere al tappeto…
Per dormire sul tappeto un breve sonno senza pugni…
Eppure non mi è concesso restare chiusa nelle stanze segrete dei petali, nella loro oscurità silente. Non mi è concesso e non me lo concedo. Non posso, dopo aver toccato l’oltre, morire di nuovo nell’in di me stessa. E allora lascio entrare la luna. A forza.
Di prepotenza
Mi spalanca la fronte come fosse una porta scalciata nell’urto da stivali pesanti.
Entra nella mia testa con il o tagliente di chi mette a soqquadro per trovare le prove.
Cerca dentro il cervello rivoltando le zolle di quel grigio terreno coltivato nel cranio.
È una luna fetente
che butta tutto il suo occhio a fare lastre ai pensieri.
È una luna fottuta che vuole leggere dentro radiografie della mente.
È una luna bastarda che non rispetta il segreto del dolore che è in me.
Ed entra piena, comunque.
Ed entra a forza, a prescindere.
Senza neanche un mandato di perquisizione.
La vedo, adesso. Nella mia luna c’è una grossa libellula con le zampe impantanate, che procede a fatica. Tormentata, si strappa, in ricerca. Dilaniandosi, scopre. Finalmente la vedo. E vedo con lei. Oltre.
Vuoto vedente
Una libellula stanca affonda le zampe nel buio in farina della luna a metà.
Trascina le ali nell’argento più spento con gli occhi sporgenti che non vogliono luce.
Ne cava uno, rotondo, e lo scaglia diritto nel cratere più a punta: in buca.
Strappa l’altro, bagnato,
e lo getta stupito nell’asciutto lunare: in basso.
Finché la testa pesante di orbite vuote vede.
Ringraziamenti
Ringrazio Giovanni Balderi, raffinato interprete della mia anima. Ringrazio Alberta, che all’indiscussa competenza della sua lettura ha unito la sensibilità di un’amicizia preziosa e sincera. Ringrazio i miei genitori, che mi offrono sempre, in silenzio, il loro incondizionato sostegno, per me fondamentale. E un grazie di cuore va infine alla mia Casa Editrice, che apprezza ciò che scrivo e consente ai miei pensieri di uscire allo scoperto.
L'Autrice
Ilaria Cipriani è nata a Pietrasanta e vive a Valdicastello Carducci. Laureata in Lettere Moderne, è giornalista freelance e insegna presso la Scuola Media P. E. Barsanti di Pietrasanta. Ha collaborato col maestro Novello Finotti alla stesura dei testi critici di Soffio d’anime (2004) e Radiografia per un eccidio (2007). Altri suoi testi critici sono stati presentati in occasione delle personali dello scultore Armen Agop (2005) e della pittrice Federica Finotti (2009), e per la mostra “L’arte del cavallo” (2007) alla Versiliana di Pietrasanta. Nel 2011 pubblica il suo primo romanzo, Con la testa sotto il cuscino (L’Autore Libri Firenze), e vince il Premio Letterario Nazionale S. Anna - Gennj Marsili. Nel 2012 vince il Premio Letterario Versilia chiama Versilia e pubblica la silloge In fine (Giovane Holden Edizioni). Dal 2014 collabora con la compagnia, diretta da Beatrice Paoleschi, Emox Balletto e ha scritto gli inserti poetici dell’ultima produzione Achille e Pentesilea, vincitrice del premio speciale MAB.