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DANIELA PAVAN VERAGO

IO SONO DEL MIO AMORE E IL MIO AMORE È MIO

Youcanprint Self-Publishing

Titolo | Io sono del mio amore e il mio amore è mio

Autore | Daniela Pavan Verago

ISBN | 9788891184726

Prima edizione digitale: 2015

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A Ennio

“Il mio amore è venuto a godersi il suo giardino, a raccogliere gigli tra aiuole di piante profumate. Io sono del mio amore e il mio amore è mio. Egli si diletta tra i gigli”

(Cantico dei Cantici 6,2)

L’innamoramento, la magia

Caro Ennio,

sono stata al cimitero di Caorle, dove sapevo che eri sepolto e non ti ho trovato.

Da non crederci.

Ho chiamato il becchino, ho chiesto informazioni, gli ho dato il tuo nome e cognome e gli ho detto che eri morto da circa vent’anni: per l’esattezza il 3 aprile del ‘94.

La mia amica Sandra mi aveva avvertito della tua morte con un telegramma che diceva, molto crudelmente:

“Ennio è morto in un incidente d’auto. Fatti coraggio, ti aspetto.”

Con quel foglio stampato in mano, tutto sgualcito, e la tua data di nascita e di morte, il becchino ed io abbiamo girato tutto il cimitero, ma tu non c’eri da nessuna parte.

Avevo una piccola pianta di ciclamino in mano che alla fine di quella estenuante ricerca era tutta rovinata, perché la tenevo troppo stretta tra il braccio e la mia enorme borsa.

Ho atteso che arrivasse un collega di Neno, così si chiamava il becchino, che confabulassero tra loro, che fero delle telefonate, senza alcun esito. Poi, stremata, ho lasciato un mio recapito, perché mi avvisassero di qualche novità e me ne sono andata.

Magari se avessi pazientato ancora un po’ qualcuno sarebbe arrivato e m’avrebbe portato da te.

Ma non era ciò che mi aspettavo da quella mia visita. Volevo trovare la tua tomba da sola, rivedere il tuo bel viso sulla lapide. Di sicuro era quello che ricordavo, perché sei morto giovane, poco tempo dopo che ci siamo lasciati. Volevo piangere. Chissà.

Prima di uscire dal cimitero posai la mia piantina di ciclamino sulla tomba di una ragazza morta a trentaquattro anni, la stessa età che avevi tu quando ti sei schiantato contro quel muro.

Mi sono allontanata da quel posto, tetro e silenzioso, che era ormai sera.

Piovigginava e avevo freddo, mi faceva male un piede perché avevo messo delle scarpe nuove.

Ero tutta ben vestita e i capelli mi stavano veramente bene, con il taglio nuovo che avevo fatto da poco. Mi sentivo bella.

Chissà, forse speravo che tu mi potessi vedere, ed io volevo assolutamente vedere la foto sulla tomba perché, con il tempo, mi sono scordata il tuo viso. Se ci penso un po’ mi ricordo la tua bocca, la cicatrice sul tuo mento, i tuoi occhi neri, i tuoi capelli folti sempre spettinati e neri come la pece, come un corvo, che era infatti il soprannome che ti davo, ma è l’insieme che non mi appare più. Piano piano sei scomparso dalla mia mente.

Sola, in quel cimitero mi amareggiava anche il fatto che non riuscivo più a piangere per te. Dopo vent’anni non piangevo più, pensando a te, a noi.

Tu ora avresti avuto cinquantaquattro anni ed io ne ho trentasette. Nessuno griderebbe più allo scandalo, per la nostra differenza di età, come invece fecero allora.

Ero una ragazzina, ero minorenne, e avevo esattamente la metà dei tuoi anni.

Non ho mai avuto una foto di te, tantomeno una di noi due insieme.

Noi due insieme. Mi sembra strano dire noi due insieme, mi sembra ancora impossibile che sia accaduto qualcosa tra noi, forse perché ho scordato tutto, non solo il tuo volto.

Ho presente il tuo modo di camminare, trascinando le gambe. Sembravi stanco e annoiato. Portavi le scarpe sempre slacciate. Ho presente il tuo bel corpo, eri magrissimo, ma avevi delle spalle enormi, da buon nuotatore qual eri. Ma non riesco a farti riapparire accanto a me, come mi accadeva subito dopo la tua morte

Ricordo le tue braccia forti che mi stringevano, per strada, in auto, al bar, al cinema. Quando poi eravamo a letto, dopo l’amore, mi continuavi a stringere forte a te, con le tue braccia-serpente e non mi volevi lasciare andare neppure a fare la pipì. Scherzando mi accompagnavi, stringendomi forte, sino alla porta del bagno. E come ridevamo, io minacciavo di farla a letto e tu dicevi cretinate.

Poi tornavo tra le tue braccia e ricominciavamo a fare l’amore, come due disperati che non si preoccupavano del giorno dopo, dell’ora dopo. Come se percepissimo, con largo anticipo, la morte tra noi.

Ricordo i giorni in cui mi venivi a prendere a scuola, che rabbia provavo perché mi vergognavo di te. Eri un uomo grande, vecchio rispetto a me, con una bellissima macchina, costosa e appariscente, che mi stava ad aspettare all’uscita di scuola. Non eri mio padre né mio fratello o mio zio.

Piacevi da impazzire alle mie amiche, che dicevano di invidiarmi, ma in fondo pensavano che ero una puttana.

La gente ti conosceva, eri un avvocato di città, noto e benestante.

Io abitavo in periferia, ero povera, la mia famiglia non sapeva nulla di questa mia sbandata e le malelingue non ci misero molto a informare mia madre di ciò che stavo facendo.

Tutti pensarono che tu non mi avessi detto che eri sposato e invece si sbagliavano, io lo seppi subito, la sera stessa che ci incontrammo. Io sapevo tutto di te.

Ci siamo conosciuti davanti a una libreria, una sera d’estate.

Stavo aspettando la mia amica Sandra, ero seduta sul marciapiede, fumavo una delle mie prime sigarette, che mi faceva tossire e tu ti avvicinasti e mi dicesti di smettere di fumare. Alzai gli occhi dal libro che tenevo in mano e ti vidi un po’ sfocato perché un ultimo raggio di sole, ormai al tramonto, m’impediva di vederti bene. Anche sfocato eri un uomo bello. Non è che ci si possa sbagliare, un uomo bello è bello e basta. Sorridevi e mi porgesti la mano per farmi alzare da quel marciapiede. Ti presentasti e mi facesti i complimenti perché stavo leggendo un libro di Pavese.

Io non sapevo più chi ero, se avevo una voce, se ero al mondo o se stavo sognando. Mi presentai, dissi un sacco di stupidaggini e tenni una lezione su Pavese e poi stremata ero pronta a seguirti in capo al mondo. Tu sorridevi, parlavi con la tua voce calda e sensuale di tanti altri autori che mi consigliasti di leggere. Mi chiedesti se volevo bere qualcosa al bar, lì vicino, e quando ti dissi di no, perché stavo aspettando la mia amica, tu decidesti di sederti con me, sul marciapiede, per parlare di libri, per ridere insieme, sfiorarci, desiderare di vivere e morire con me.

Fu una serata semplice e magica e quando finalmente Sandra comparve ci trovò che ridevamo ancora, felici, innamorati alla follia. Ti presentai alla mia migliore amica e poi piombai in una tristezza tremenda all’idea di doverti lasciare. Ci salutammo e ci scambiammo i numeri di telefono. Ci sembrò d’esserci strappati il cuore, con quell’addio, io molto semplicemente volevo are tutta la vita con te. L’amore vero, quello tremendo è sempre così assoluto, fin dal primo sguardo.

Ci si rivide il giorno dopo e quello seguente e si fecero grandi cose insieme, viaggi, notti intere a fare l’amore, ma quella sera d’estate, io e te su quel marciapiede a parlare di noi, di libri e di niente non la scorderò mai, amore mio.

Quando ti vedevo accadeva qualcosa in me che non ho più provato, e forse mi auguro di non provare mai più. Sentivo tutti i pori della mia pelle respirare, respiravano i capelli, le unghie. La mia pancia borbottava, le budella si torcevano, il viso si distendeva e tutto il mio corpo ti desiderava.

Ti desideravano le mani, il seno, la bocca. I pensieri si offuscavano, mi girava la testa e un rossore tremendo trasformava le mie guance. Il mio respiro voleva essere il tuo respiro, volevo i tuoi pensieri solo per me, volevo che tu desiderassi solo me, perché io volevo te, solo te più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Forse se per averti mi avessero chiesto di mentire, di tradire o di uccidere, l’avrei fatto.

A diciassette anni provai l’amore più grande, più intenso, assoluto e terribile di tutta la mia vita.

Un amore così non si augura a nessuno, oppure si può riservare a un nemico, per farlo soffrire, per rovinargli per sempre la vita. Perché un amore così non poteva durare, era quello di due creature incoscienti, egoiste che volevano cancellare il resto del mondo per un’ora d’amore, un bacio, una carezza. Volevamo tutto il tempo per noi, non ci curavamo se altri soffrivano per quel nostro amore. Perché tua moglie ti amava ed era incinta del vostro primo figlio.

Quel dato di fatto, quella realtà, la pancia di tua moglie, erano una fucilata per me, il rombo di un tuono in un temporale improvviso. Mi coglieva impreparata, mi sentivo male, mi sentivo in colpa.

Continuavo a dirmi che non andava niente bene che io rubassi l’uomo a una bella donna giovane e incinta, che ero una bestia e stavo facendo soffrire anche il vostro bambino.

Ma lo facevo lo stesso, era più forte di qualsiasi senso di colpa ciò che provavo per te e non sarei mai riuscita a smettere.

Tu invece non ti sentivi per niente in colpa, eri un pazzo e dicevi che andava tutto bene, che non facevamo soffrire nessuno. Dicevi di amare veramente tua moglie, di un amore diverso, un amore ufficiale, lo dicevi ridendo, e aggiungevi di desiderare da morire il tuo bambino che stava per venire al mondo.

Ma non era colpa tua né mia se l’amore dei gitani ci aveva colpiti. Pare che queste persone si amino alla follia, per tutta la vita. Stupidaggini, dicevi un sacco di stupidaggini e ridevi come un matto.

Secondo te il nostro amore era come una sciagura, una disgrazia, o una grande fortuna che arriva quando meno te l’aspetti. Non è colpa di nessuno, è destino che accada e basta.

Dicevi che l’amore dei gitani arriva e ti travolge e ti devi far travolgere, ti devi far portare dalla corrente, perché ti rendi conto che è diverso da tutti gli altri amori e non capiterà mai più, non si ripeterà, non tornerà ancora nella tua vita un amore come quello. Dobbiamo solo viverlo e ringraziare il cielo per avercelo donato, magari per poco. Benedire chi ci ha concesso di sentirci tanto speciali e fortunati.

Per il nostro amore sapevamo nasconderci, sapevamo mentire, sapevamo fare

tutto per bene, senza dare scandalo.

Ma, quando il giorno del mio compleanno, ti presentasti all’uscita di scuola con un mazzo enorme di rose rosse non ti stavi nascondendo.

Non ti poterono scambiare per un fratello o uno zio perché ti avvicinasti a me, mi attirasti a te e ci baciammo. Ci nascondemmo in parte dietro il mazzo di fiori e mi sussurrasti all’orecchio frasi sconce e travolgenti.

Ero appena diventata maggiorenne, era un bel guaio ma non ci potevamo fare proprio nulla. Nulla ci toccava.

Le mie amiche erano livide di rabbia e d’invidia. Eravamo all’uscita di scuola, davanti a tutti.

Alcuni professori, ti riconobbero e fecero finta di non vedere, ma fu scandalosa anche la risata che tu facesti loro in faccia.

Eri pazzo di me. Io ero travolta da tutto quell’amore, non riuscivo a fermarmi, a pensare, a riflettere e filtrare le mie emozioni.

Quel giorno non tornai a casa per pranzo, mi portasti nel tuo appartamento, che avevi da scapolo, e si fece per la prima volta l’amore, noi due.

Tutte abbiamo avuto la nostra prima volta, non per tutte è stata travolgente come

ce l’eravamo immaginata ma per me fu magica. La mia prima volta con te, amore mio, fu puro incanto. Il mio corpo e il tuo sembrarono conoscersi da sempre, fosti dolce e apionato, tenero e violento. All’inizio ero molto tesa. Le mie amiche, che già l’avevano fatto, mi avevano un po’ spaventata parlandomi della violenza che comunque ci deve essere nel primo atto d’amore, ma io non sentii alcun dolore. La mia verginità ti sorprese e ti fece perdere la testa. Continuavi a dire che ti avevo fatto un gran regalo perché in tutta la tua vita non ti era mai capitata una vergine, non credevi che ce ne fossero ancora.

Poi mi prendesti in giro perché ero ancora vergine a diciassette anni e mi dicesti che i miei vecchi morosi non ci sapevano fare, se non erano riusciti ad assediare e conquistare il fortino e giù a ridere come pazzi. Alla fine dicesti che il fato mi aveva preservata per te. In cielo si sapeva che stava per nascere il nostro grande amore. Fu solo un attimo ma ebbi paura già quel primo giorno. Sentii che quello era un amore troppo grande per durare, era uno di quei tragici amori che possono ispirare tragedie, commedie o film strappalacrime.

Continuasti a porti la domanda sul perché alla mia età ero ancora vergine e dicesti, ridendo, che la religione m’aveva rovinata. Io non ero troppo religiosa, ma una volta siamo entrati in una chiesetta di campagna a mettere dei fiori per non so quale santo e tu mi prendesti in giro per tutto il giorno. Erano fiori che avevamo raccolto in un prato, dove ci eravamo fermati a fare l’amore. Lo facevamo ovunque, come gli animali, incuranti che qualcuno ci vedesse, sempre talmente presi l’uno dell’altra che a volte bastava uno sguardo, una parola, le tue mani su di me, su di una spalla, sul collo, sul palmo della mano o sulle ginocchia che tutto si offuscava e saliva, dentro me, un desiderio che non sapevo frenare. Allora la mia bocca ti cercava, cercava ogni parte del tuo corpo, come per cibarmi di te. Le mie mani non si fermavano e diventavano bisce, strisciavano e ti toccavano là dove ti avevo visto gemere e chiudere gli occhi dal piacere. Avevo imparato presto la lezione, sapevo ciò che ti piaceva e ti faceva sognare.

Così, come una gran puttana agisce perché i suoi clienti tornino da lei, io mi muovevo, ti toccavo e ti facevo godere perché tu restassi con me e non pensassi

a tua moglie. Ti facevo godere e godevo del nostro amore, non eravamo mai stanchi.

Era estate e nel tuo piccolo appartamento di Caorle, al secondo piano, faceva molto caldo e tenevamo le finestre aperte e la gente in strada sentiva tutto. A volte si fermava qualche curioso, sollevava la testa, sorrideva e poi andava oltre. A volte sentivamo qualche parolaccia venire dalla strada e allora ci mettevamo a ridere e tu dicevi che erano invidiosi e che non avrebbero di certo saputo soddisfare una sgualdrinella esigente come me.

Verso sera dovevo rientrare a casa e indugiavo ancora un po’ sul nostro lettone. Tu stavi alla finestra a fumare e guardare fuori, eravamo tristi perché ci dovevamo lasciare.

La doccia me la facevo solo io perché tu dicevi di non volerti liberare del mio profumo, dell’odore della mia pelle. Io non usavo profumo, ma un semplice sapone al mughetto che ti faceva impazzire.

Poi ognuno andava a casa sua. Io vivevo a Spinea con i miei genitori. Tu abitavi a Treviso con tua moglie Martina e con tuo figlio Venerdì. Non sapevi ancora se era maschio o femmina, tua moglie era al sesto mese di gravidanza. Ma tu eri sicuro che fosse maschio e che gli avresti messo nome Venerdì, perché ti doveva salvare, come era accaduto a Robinson Crusoe.

Tu ti sentivi fragile ma anche invincibile. Non c’era nulla di inviolabile, intoccabile per te. Ti sentivi in grado di fare tutto, di volere tutto come se ti fosse dovuto, come se sapessi che la tua vita sarebbe finita presto e che Dio ti dovesse accontentare ora e subito.

Percepivamo entrambi un senso di morte tra di noi. Sembravi avere coraggio ma anche tanta paura. Il tuo desiderio continuo di sesso, al limite dello sfinimento non era normale, aveva qualcosa di patologico, di tragico. A volte le mie lacrime, alla fine di un rapporto d’amore, venivano scambiate per dolore e ti premuravi di chiedermi se mi avevi fatto male, se avevo goduto e non capivi perché io piangessi.

Forse non lo sapevo neppure io il motivo di tanta disperazione, allora mi asciugavo le lacrime, sorridevo e ti dicevo che piangevo di gioia e di stanchezza. Tu ti rincuoravi e mi mandavi al diavolo.

Ma io pensavo che la nostra storia sarebbe finita presto, tu mi avresti lasciata. Una volta nato tuo figlio, ti saresti scordato di me. Ci pensavo continuamente e soffrivo da morire.

Un giorno provai a dirtelo dopo l’amore e tu ti arrabbiasti molto. Mi dicesti che ero una pazza a pensare che il nostro amore sarebbe finito.

“Noi”, dicevi, “ci ameremo per sempre. Anche dopo la morte.”

I nostri due spiriti si sarebbero cercati per sempre e avremmo ato anche la morte insieme, così come la vita. Eri ateo. Tu pensavi a una tua vita immaginaria non dopo la morte, ma nella morte. Non ti capivo ma andava bene così. Io non stavo a insistere, ti davo ragione, sorridevo e ti dicevo che eri pazzo.

Verso la fine di quella calda estate andammo per tre giorni in montagna.

Andammo ad Auronzo di Cadore, io e te.

Il panorama era bello, il tempo stupendo ma, così come restavamo chiusi a fare l’amore nel tuo appartamento, restammo chiusi nell’hotel Juventus, vista lago, a fare l’amore.

Era come se noi due non potessimo respirare, pensare, mangiare, camminare, vivere senza fare continuamente l’amore. Sempre in allegria, scherzando e giocando continuamente come due ragazzi, due monelli.

Mi dicesti di non mettermi più le mutandine per quei tre giorni, ed io lo feci.

Stavo molto attenta ai vestiti che mettevo, ai colpi di vento e a tenere lontane le tue mani da me, dalle mie gonne, almeno quando eravamo in pubblico.

Ma tu mi toccavi sempre, non sapevi fare altro, non si può dire cosa fosse quell’amore.

La signora che ci dava le chiavi della stanza mi guardava con sdegno e riprovazione. Aveva capito che non eri mio marito, né mio fratello e neppure uno zio, magari aveva anche lei una figlia della mia età e pensava che sarebbe stato proprio un bel guaio scoprirla tanto puttana.

Il ricordo più vivo di quella vacanza fu la tanta felicità. Ero felice e mi bastava, era una misera e piccola felicità che sarebbe finita presto. Tutto il mio corpo era felice, la mia mente non pensava al dopo, al ritorno a casa e se anche lo faceva

se ne fregava.

La gente, tutta la gente, compresi i parenti e gli amici, potevano pure morire, scomparire in un attimo. Tutto il mio mondo eri tu.

Quei tre giorni in montagna, noi due da soli, senza paura del giudizio degli invidiosi, senza timore di essere spiati, mi servirono a conoscerti meglio e, per assurdo, a capire una volta di più che eri pazzo.

Tenevi a me non solo come amante, ma anche come una sorella, o la tua bambina

La sera, al ristorante mi volevi far mangiare di tutto, volevi che ingrassassi perché dicevi che ero troppo magra e la mia magrezza ti faceva “sesso”. Era una frase senza senso che mi faceva ridere, perché non voleva dire proprio nulla.

“La tua magrezza mi tormenta, mi fa impazzire, i tuoi seni piccoli e acerbi, li vorrei succhiare tanto da riuscire a strapparteli, sono pazzo di te, ti dovrò uccidere per avere pace.” Così dicevi ad alta voce a tavola. Io sorridevo, ti pregavo di parlare più piano, ma non arrossivo più alle tue stupidaggini, non arrossivo più da tanto tempo.

Non c’era più vergogna, c’era il nostro grande amore e tutti dovevano stare a guardare, perché un amore così non ritornerà sulla terra per un bel po’ di tempo.

In alcuni momenti, per esempio al mattino prima di colazione, avresti voluto che

fossi tua madre e mi parlavi di lei. Tu adoravi tua madre, che viveva a Londra, e mi avevi promesso che me l’avresti presentata un giorno. Dicevi che le assomigliavo nel colore rosso dei capelli e nella forma degli occhi.

“Magari siamo fratelli noi due”, dicevi, “così abbiamo pure peccato di incesto.”

Perché tu mi avresti amata anche se fossi stata tua sorella, se mi avessi trovata per strada mi avresti violentata, eri pazzo.

L’ultima sera di quella nostra vacanza restammo a fantasticare su come sarebbe stato tuo figlio. Parlammo tanto di Venerdì, che doveva nascere bello come il nonno, matto come il padre e sensibile come la madre. Fu l'unica volta che ti sentii fare cenno a tuo padre, ma cambiasti subito discorso e io non ebbi il coraggio di chiederti di più.

Tua moglie venne a sapere di noi, tutto il paese ne parlava. Tu dicesti che a lei non interessava, che pensava solo alla sua enorme pancia, che non vedeva altro intorno a sé.

Io avevo i miei dubbi in proposito. Pensavo che tu fossi incosciente, ma anche molto bugiardo, o per meglio dire menefreghista, e anche un po’ malvagio. Non ti importava della sofferenza altrui ma solo del tuo piacere.

Quell’ultima notte dicesti che dentro di me dimorava lo spirito di una strega malvagia che, dopo secoli di oblio, si era reincarnata nella bella fanciulla che ero per farti soffrire d’amore, per farti morire di desiderio. Dicesti anche che eri sicuro che prima o poi ti avrei ucciso, eri convinto che fossi io la tua aguzzina. Dicevi tutte queste stupidaggini e non ti drogavi, né bevevi. Tu eri strano, eri

così e basta.

Vivevamo d’amore, una specie rara d’amore pericoloso, come un veleno o una malattia.

Tornammo a casa che l’estate era ormai finita.

Il giorno del nostro ritorno pioveva a dirotto. Mi ricordo che mi accompagnasti per la prima volta sotto casa mia. Non ci baciammo, né ci toccammo più. Una volta scesa dall’auto ti salutai con la mano e tu allontanandoti mi dicesti una frase che non capii, sembrava “Ciao amore” oppure “È finita amore”, non so, non riuscii a sentire bene.

Ero stanca e pensai che tanto, tu non mi avresti dato tregua. Il giorno dopo ti avrei di sicuro rivisto ed avremmo trovato il modo di stare insieme.

Quella sera stessa litigai con mia madre, ci mettemmo a gridare tutte e due per te. Mi disse che ti dovevo lasciare, dovevo smettere di vederti, di dare scandalo, non era decoroso e tutto il paese ne parlava.

Disse, piangendo, che non avrebbe mai pensato che mi potessi comportare come la peggior sgualdrina, che tu avevi una moglie e aspettavi pure un figlio.

Io mi misi a ridere e con aria di sfida le dissi che già lo sapevo, allora lei mi diede un ceffone in pieno viso e subito si fece seria, si soffiò il naso e smise di frignare.

Per ferirmi mi disse una cosa che io ancora non sapevo e cioè che tua moglie ti aveva sposato che già era incinta di quattro mesi e che il figlio che aspettavate non era tuo. Erano solo voci di paese.

Mia madre conosceva Gabriella, la domestica che veniva a servizio a casa tua, a Treviso ed essendo una gran pettegola sapeva tutto di tutti.

Gabriella sapeva che tua moglie Martina era rimasta incinta dopo un suo viaggio di lavoro in Spagna e che non ti aveva mai voluto dire di chi fosse il bimbo.

Tu non eri il padre di Venerdì e m’avevi detto una grossa bugia. I rapporti con tua moglie erano comprensibilmente freddi. Tu non eri nulla per lei, e se anche la tradivi non soffriva per la tua infedeltà.

Rimasi malissimo, quasi impietrita per quella notizia. Così mia madre fu soddisfatta e continuò dicendomi tante altre cattiverie sul tuo conto. Mi disse che eri infedele per natura. Io ero solo una delle tue infinite conquiste. Avevi ato tutta la vita a correre dietro alle sottane e ti piacevano sempre più giovani.

A un certo punto, vedendo la mia disperazione, smise di parlare e se ne andò in cucina a preparare la cena.

Quella sera non riuscii a mangiare nulla, ero perplessa e anche molto delusa. Se mi avevi mentito su tuo figlio su quante altre cose l’avevi fatto? Forse quella serva pettegola si era inventata tutto.

Continuava a scendere una pioggia fitta, con lampi e tuoni. Era arrivato l’autunno.

Andai in cucina a bere una tazza di latte, mia madre stava guardando il suo programma preferito in televisione, me ne andai a letto senza salutarla.

Ascoltavo la pioggia e piangevo. Ero distrutta non tanto per le parole di mia madre, ma per la conferma che il nostro amore sarebbe finito.

Ero scossa, turbata, avvilita.

Forse aveva ragione lei, tu eri solo un porco che si godeva le avventure erotiche con le ragazzine. Forse proprio nel momento in cui ti stavo pensando tu stavi con un’altra, magari ancora più giovane di me, la stavi facendo godere, magari ridevi di me con lei. Magari era vero che ti dovevo uccidere. Tu eri la mia vita, eri la mia pelle, eri dentro di me anche quando non c’eri.

Mi alzai nella notte, mi vestii e pensai di venire a cercarti, sotto la pioggia.

Poi tu mi avresti rassicurata, m’avresti detto che ero importante per te, che mi amavi alla follia e che mia madre era solo invidiosa del nostro amore. Lei un uomo non ce l’aveva più da tanto tempo. Mio padre non ci sopportava e se n’era andato da tanti anni, proprio perché lei era una stronza. Avresti detto di certo così. Di sicuro mia madre era sempre triste e depressa e le veniva bene fare la pettegola. Mi sedetti sul letto. Fuori pioveva, ero stanca e tu comunque mi amavi, ne ero certa. Mi spogliai e me ne tornai a letto. Dormii profondamente

tutta la notte.

Il mattino seguente mi svegliai tutta dolorante. Mi facevano male le gambe, le braccia, persino la pelle bruciava, sembrava che mi stesse per arrivare l’influenza.

Mi misurai la febbre, ma il termometro segnava trentasei e tre.

Tutto bene, stavo bene.

Invece soffrivo come un animale abbandonato, mi mancavi da morire. Non riuscivo a respirare tanto mi mancavi.

Seduta in cucina, davanti ad una tazza di caffè, ti desideravo. Avrei voluto che tu fossi in ogni cosa che toccavo: la sedia, il bicchiere vicino alla mia bocca.

Ero in crisi d’astinenza.

Volevo te come si desidera una droga, una medicina, oppure un veleno per morire. Lontana da te volevo morire.

Pensai seriamente di uccidermi, con l’incoscienza dei miei diciotto anni , perché non vedevo un futuro per noi.

Di lì a pochi mesi ti sarebbe nato il figlio che tanto desideravi. Che fosse stato tuo o no, tu diventavi padre e Martina, secondo me, ti amava comunque. Non era possibile non amarti.

Se anche con lei eri così squilibrato, allegro e rompiballe, come eri con me, non era possibile starti lontano, non volere ogni minuto ascoltare le tue storie, le poesie che sapevi a memoria, le favole.

Mi stupivi. Mi facevi ridere a crepapelle, vergognare, sperare, sognare. Dicevi spesso che io sarei diventata una donna molto importante, eri convinto che io sapessi disegnare e dipingere molto bene. Mi dedicavo a questa attività solo nel tempo libero, dopo gli impegni di scuola, il liceo artistico appunto. Avevi visto dei miei lavori e volevi assolutamente che io dipingessi qualcosa per te.

Il giorno dopo ò senza una telefonata. Nulla di nulla, eri sparito.

Chiamai i pochi amici che avevamo in comune ma nessuno aveva tue notizie.

Quando le cose vanno male si ripensa un po’ a tutto e si teme d’aver fatto errori, detto cose fuori luogo. Così ripensai ai nostri ultimi tre giorni insieme in montagna. Mi persuasi che forse erano stati un dolce addio. Probabilmente ti era mancato il coraggio di dirmelo a voce alta, gridarmelo, che mi volevi lasciare. Nemmeno una telefonata poteva servire al caso tuo e allora mi regalasti un’ultima vacanza d’amore per chiudere in bellezza, per mettere la parola fine a un amore senza via d’uscita.

Mi preparai per il rientro a scuola, in fondo non era la prima volta che sparivi. Pensai ad altro, la vita continuava. Ritornai a uscire con le mie amiche e fu

proprio Teresa a darmi tue notizie: eri diventato padre, con un mese d’anticipo, di una bellissima bambina di nome Michela. Quindi la tua sparizione era legata al lieto evento. Certo non era arrivato il maschietto che tanto desideravi, ma Venerdì poteva essere anche femmina. Un figlio ti può salvare indipendentemente dal sesso. Tua moglie stava bene, era andato tutto per il meglio.

Eri felice e allora perché non farmelo sapere? I giorni arono, tua moglie e la bimba erano già tornate a casa quando una sera il mio telefono suonò, ed eri tu.

Eri molto strano e, con una voce senza alcun cenno di emozione o di gioia, mi comunicasti che era nata Michela, la tua bellissima bambina. Pesava tre chili e mezzo, aveva i capelli e gli occhi neri e piangeva sempre.

Io ti feci i complimenti e ti chiesi se eri felice e tu mi dicesti di sì e aggiungesti: “Troppo felice”, con un tono di voce talmente triste da far rabbrividire.

Ci demmo appuntamento per il giorno dopo al solito bar, per bere un caffè.

Il tempo che seguì a quella telefonata sembrò non voler trascorrere mai.

L’incontro era fissato per il pomeriggio del giorno dopo ed io non ricordo nulla di quella mattina. Nulla contava più per me tranne il desiderio, il bisogno di rivederti.

Alle quattro ci ritrovammo al nostro posto, al nostro tavolo, con tutta la nostra

disperazione.

Eri bellissimo, un po’ dimagrito, con i capelli lunghi, che ti ricadevano sugli occhi. Ti guardavo come quando volevo qualcosa da te, quando volevo fare l’amore con te. Tu lo capisti ma sorridesti, con aria sorniona, e non mi toccasti nemmeno. Stranamente ti tenevi lontano da me, un po’ distante, come per non prendere la scossa. Io riuscii a bere il mio caffè non staccando mai gli occhi dal tuo viso, dalla tua bocca, ti desideravo da morire.

Parlammo di tua figlia Michela e molto candidamente mi dicesti che non aveva nulla di te, non ti assomigliava e sempre di seguito mi confidasti che non era tua figlia. Quando Martina te lo aveva confessato non ci avevi voluto credere e forse non eri ancora convinto che t’avesse fatto una tale carognata. Pensavi che ti volesse solo ferire per tutte le corna che le avevi messo. Forse era così, ma non lo avresti mai saputo. Non lo volevi sapere.

Ti mettesti a piangere e mi spiazzasti del tutto. La gente ci guardava, in quel maledetto bar e poi di solito è la donna che piange, non l’uomo, e io non sapevo cosa fare.

All’improvviso ti alzasti, mi stampasti un bacio apionato sulle labbra, pagasti la consumazione e senza aggiungere una parola te ne andasti via, lasciandomi lì come una mosca, un gatto o un oggetto che non serve più a nulla e di cui ci si vuole sbarazzare.

Era tutto vero ciò che si diceva sul tuo matrimonio. Tua moglie era una gran bella stronza. Perché vi eravate sposati se lei era già incinta di un altro e poi perché non si era sposata il padre di suo figlio? Magari era morto, o era in galera, oppure non la voleva sposare o era già sposato, chissà. Domande alle quali non mi interessava più rispondere. Ero stanca di questo mio amore faticoso, stanca,

sfinita e anche un po’ arrabbiata.

Caro Ennio,

tu mi amavi, lo sentivo, anche dopo la nascita di tua figlia tu mi amavi. Eri disperatamente innamorato di me e anche tu, il giorno del nostro incontro al bar, mi desideravi, ma sei fuggito via.

ò del tempo senza che ci potessimo rivedere, non c’era un motivo preciso. Tu non mi cercasti più ed io non volevo sentirmi dire addio, perciò restavo in una specie di limbo dove tutto poteva ancora accadere.

La scuola ricominciò, ritrovai le mie amiche invidiose che subito mi chiesero di te. Io dissi che tra di noi tutto andava per il meglio e che eri molto impegnato con il tuo lavoro. Nessuno ti rivide più all’uscita di scuola, arono mesi senza una telefonata, niente, sembrava ti fossi scordato di me, di noi.

Nella nostra classe arrivò Giacomo, un nuovo ragazzo molto interessante. Era biondo, con gli occhi azzurri e un po’ stempiato, i maligni dicevano che fosse già mezzo calvo, ma non era vero. Aveva due anni più di me. Non era il classico bel ragazzo. Era sempre serio, parlava poco e molto lentamente. Con me non ci provava, anzi, gli stavo proprio antipatica. Poi Giacomo diventò il mio vicino di banco e finalmente una sera mi invitò a uscire con lui e la sua banda di amici e amiche. Era tutta gente che un po’ se la tirava, erano i classici intellettuali di sinistra, decisamente stronzi e molto ricchi.

Poco prima di Natale ti incontrai al nostro solito bar. Io ero con i miei compagni di scuola e con Giacomo, stavo ridendo per una stupida battuta su un nostro

professore.

Tu ti avvicinasti, con aria triste e sospettosa, non salutasti nessuno e mi dicesti che il quadro era pronto, la cornice era venuta bene e se volevo portarmelo a casa era nella tua macchina e me lo potevi lasciare.

Io non sapevo di cosa tu stessi parlando, ma ti assecondai e uscii a vedere il quadro.

Appena fuori dalla porta mi prendesti tra le braccia e iniziasti a palpeggiarmi ovunque e a cercare disperatamente di baciarmi.

Io mi divincolai e ti dissi di tenere le mani a posto, perché non ti sapevi controllare e mi avevi quasi spogliata. Ti allontanai, ti spinsi via, con rabbia e con dolore. Mi avevi abbandonata per mesi e ora tornavi e mi volevi violentare all’uscita di un bar. Non era normale, ma tu normale non lo eri mai stato.

Non mi andava più di assecondarti in tutto, non volevo più sentirmi la tua Lolita, la tua bambolina che potevi prendere o mollare quando volevi.

Basta. Eri sposato, con tanto di prole, non si poteva andare oltre. Tu ti stupisti di quel mio rifiuto, come se fossi stata un’ingrata, come se non fossero ati mesi, ma ci fossimo lasciati la sera prima.

Non ti volevo più, faceva troppo male il tuo amore. Mi guardasti con un’espressione di sconforto che non dimenticherò mai, ti rendesti conto che ero

cambiata e non dicesti una parola.

Mi lasciasti dire tutte le frasi cattive che mi venivano in mente annuendo e dicendo ogni tanto: “Hai ragione amore mio, hai ragione da vendere, vedrai che cambierò.” Sempre le stesse frasi, come un automa, uno scemo. Quando ebbi finito te ne uscisti con una delle tue battute d’effetto, tremende: “Se mi lasci mi uccido, non voglio più vivere senza di te.”

Io seppi solo sorridere e farti i complimenti per il grande attore che eri e purtroppo aggiunsi solo che era l’ennesima balla che mi dicevi. Mi misi a urlare: “Balle, le solite balle, non sperare che la tua stupida battuta abbia effetto su di me, non ci casco più” e me ne andai.

Ritornai dentro al bar, mi sedetti al tavolo con i miei amici. Ti lasciai lì da solo, sotto una fitta pioggia invernale, gelida. Non andai a guardare dalla finestra cosa stessi facendo, se te ne andavi oppure rientravi per picchiarmi o per prendermi in braccio e portarmi via. Me ne stetti con i miei amici e ripresi a ridere e a scherzare con loro, con Giacomo.

Il giorno dopo mi telefonasti di primo mattino dicendo, molto semplicemente che ci saremmo dovuti vedere, per un ‘ultima volta, per spiegarci un po’ di cose e per ridarmi quel quadro che io sinceramente non ricordavo di averti mai fatto incorniciare. Acconsentii e ci si rivide qualche settimana prima di Natale da te, nel nostro appartamento-rifugio di Caorle, che tante volte ci aveva visti felici.

Io non ti amavo più come prima, avevo preso fiato, mi ero un po’ allontanata da te, dalla malattia dolorosa che era diventata il nostro amore e tu lo capisti subito.

Nei mesi in cui non ci eravamo frequentati ero riuscita a dimenticarmi di te, di noi, a non desiderarti più come prima. Forse mi ero innamorata di Giacomo, lo frequentavo da poco ma ci avevo già fatto l’amore. Non era come con te. Nessun altro mi stordì come sapevi fare tu. Ma il nostro amore non era di questo mondo. Mi ero scordata le emozioni che avevo provato con te per sopravvivere, per resistere al dolore della tua perdita.

Rivedendoti quella sera mi resi conto che io stavo morendo d’amore. Ti desideravo come l’aria, eri sempre dentro di me e soffrivo come una disperata. Soffrivo nel rivederti, soffrivo a non vederti, soffrivo a saperti felice senza di me, ma anche a volerti tutto per me. Un amore così non si può spiegare, descrivere. Si deve solo pregare che accada e basta.

Non ho più riprovato un amore come il nostro, forse non lo riproverò mai più. Ora io fuggo di fronte a un amore che solo mi ricordi quello che provai per te, amore mio.

Caro Ennio,

per me tu eri la gioia pura, la vita e la morte. Io sentivo di poter morire per te, con te e avevo paura.

Quella sera, nel tuo appartamento, cedetti alle tue lusinghe e facemmo l’amore per ore e ore, con rabbia, disperazione, piangendo e poi ridendo, come sempre, come se ci fossimo lasciati pochi istanti prima. Nel mezzo della notte, mentre stavo decidendo di restare con te fino al mattino, tu mi chiedesti di morire con te.

Mi spaventai a morte, ma non sapevo come reagire. Pensai che forse, nei mesi in

cui non ci eravamo frequentati avevi fatto uso di droghe, ma non sembravi né drogato né ubriaco.

Eri molto serio e dicesti che un amore come il nostro accade ogni cento, duecento anni ed è meraviglioso ma destinato a finire tragicamente. Non ci si poteva lasciare, dovevamo morire d’amore e farlo uniti in un ultimo abbraccio. Come Rodolfo e Maria Vetsera, Romeo e Giulietta, bisognava finire la serata uccidendoci insieme, suicidandoci per amore.

Io mi sentii gelare il sangue e pensai veramente, per un attimo, che mi avresti uccisa.

Cercai di prendere tempo, di farti ragionare, di sdrammatizzare la situazione, ma capii chiaramente che non eri più in te.

Eri in piedi, vicino alla tua scrivania e dal cassetto di destra tirasti fuori una pistola. Ti avvicinasti al letto dov’ero io, posasti il fodero sulle lenzuola, e mi porgesti la pistola invitandomi a tenerla in mano e a considerare ciò che avevi appena detto. Io iniziai a tremare ma nello stesso tempo pensai a come salvarmi da quella situazione. Solo parlando e prendendo tempo avrei avuto qualche possibilità. Ma cosa era meglio fare? Cosa si fa con un pazzo con una pistola in mano? Ero solo una ragazzina, stupida certo, per non aver capito lo stato d’animo in cui eri piombato, ma che aveva ancora tutta la vita davanti a sé.

Iniziai a parlare di tua figlia Michela, di quanto era bella, che l’avevo vista giorni prima al bar e tua moglie era felice e la stava facendo vedere ad alcune amiche.

Tu non dicesti nulla. Giravi e rigiravi la pistola tra le mani, toglievi le cartucce e

poi le rimettevi, senza dire una parola.

Poi d’improvviso ti mettesti a piangere e mi dicesti che finalmente sapevi chi era il padre di tua figlia, che la stronza te l’aveva detto e che presto vi sareste separati e lei, con la piccola Michela, sarebbe tornata in Spagna a vivere con il suo uomo, molto ricco e molto più vecchio di lei.

Tutto era già finito tra di voi, da tanto tempo.

Continuavi a piangere come un bambino e a interessarti a quella stupida pistola, la giravi, ci soffiavi dentro ed io, in un momento di tua distrazione, corsi verso la porta e scappai via, così com’ero semi svestita, scalza.

Scesi le scale a due a due, piangendo, gridando aiuto, ma piano senza che nessuno mi sentisse.

Gridavo aiuto a me stessa, chiedevo a me stessa di salvarmi e di allontanarmi, quanto più potevo, da te, da un pazzo che non aveva più nulla del mio grande amore.

Era quasi mattina, me ne scappai via correndo e voltandomi sempre indietro per vedere se mi stavi inseguendo. Incontrai poche persone ma tutti capirono che ero in difficoltà e mi offrirono il loro aiuto. Io non risposi alle loro domande, rifiutai le loro offerte e dissi che non avevo bisogno di nulla, che tutto andava bene. Piangevo, avevo freddo, stava iniziando a nevicare ed ero praticamente nuda e scalza.

Fermai un taxi e mi feci portare a casa.

Riuscii a infilarmi in camera mia, senza che mia madre s’accorgesse di nulla. Una volta chiusa la porta, girai pure la chiave, volevo restare da sola a riflettere, a cercare di capire ciò che mi era appena accaduto.

Potevo essere morta, già da alcune ore, uccisa dall’uomo che diceva di amarmi più d’ogni cosa al mondo. Non riuscivo a mettere a fuoco, a capire bene il pericolo che avevo appena scampato.

Tremavo come una foglia, un po’ per il freddo che avevo preso e un po’ per la paura, l’angoscia, la rabbia per ciò che mi era accaduto. Mi feci una doccia caldissima. Stetti a lungo sotto quel getto rigenerante e decisi che forse potevo anche denunciarti. Tu mi volevi uccidere e magari ci avresti riprovato.

Avvolta nel mio caldo accappatoio cercai di pensare ancora un po’ alla mia assurda storia, poi la stanchezza ebbe la meglio, mi buttai sul letto e mi addormentai.

I giorni che seguirono li ai a pensare a te, a noi, alla tua pazzia. Non ti volevo più vedere ma poi cambiai idea e ti cercai. Andai nei posti che conoscevamo solo noi due, nel nostro appartamento, ma tu non c’eri. Non rispondevi al numero di telefono che m’avevi dato. Eri scomparso, volatilizzato. ai davanti al tuo ufficio di Treviso ma eravate chiusi per ferie, almeno così diceva il cartello affisso al cancello.

Poi la disperazione mi fece telefonare a casa tua, dicendo che ero una tua collega di lavoro e che ti cercavo per fissare un’udienza. Tua moglie mi disse che eri

partito per Londra e mi diede un numero. Forse mi diede un numero a caso perché risultò inesistente.

ai le feste di Natale in famiglia e Giacomo mi fu molto vicino. Lo presentai pure a mia madre ed eravamo tutti felici.

Poi una sera di carnevale, verso la fine di febbraio, ti rividi in pizzeria con una bella ragazza, Malvina, una tua praticante di studio. Io ero con Giacomo e tutti e quattro stavamo aspettando che si liberasse un tavolo. Ci salutammo molto calorosamente e tu mi presentasti la tua compagna. Ci raccontammo un sacco di stupidaggini e poi tu ti allontanasti un po’, sussurrasti qualcosa all’orecchio di quella bella figliola e vi metteste a ridere di gusto.

Io iniziai a tremare e Giacomo mi prese tra le braccia e mi diede un bacio, sulla fronte.

Ci furono assegnati i nostri tavoli, quasi contemporaneamente, ai lati opposti del ristorante, ma non troppo lontani.

Tu mi guardavi in continuazione e, verso la metà della serata ti mettesti a piangere come un bimbo, senza ritegno. Piangevi e continuavi a dire ad alta voce: “Non è possibile, non è possibile.” Malvina, la tua amica, era tutta preoccupata e non sapeva che cosa fare. Ti toccava la mano e ti chiedeva cosa doveva fare, chi doveva chiamare per farti smettere.

Poi ti alzasti, mi guardasti un’ultima volta e mi mandasti un bacio, pagasti il conto e te ne andasti via con la tua amica, che ti rincorreva e ti chiamava per nome.

Giacomo mi vide molto scossa. Sapeva tutto di noi, del nostro grande amore. S’alzò in piedi e mi si avvicinò e vide che anch’io stavo piangendo.

Andò a pagare il conto, m’aiutò a mettermi il cappotto e mi portò a casa, sempre senza dire una parola. In macchina ruppe il silenzio e mi disse che non mi invidiava e che di sicuro l’amore che provavo per te m’avrebbe segnata per tutta la vita. Aggiunse, con amarezza, che forse io non l’avevo mai amato, nel mio cuore c’era posto solo per te.

Caro Ennio,

era tutto vero.

Io potevo avere tante altre avventure, potevo fare l’amore con chiunque, ma il nostro amore vigilava, era sempre con me. Io potevo essere solo tua, non sarei mai stata di nessun altro. Dovevamo morire insieme o decidere di vivere insieme, non c’era altra soluzione per noi.

Quella sera davanti a casa mia salutai Giacomo e lo ringraziai per la dedizione e la pazienza che mi aveva dimostrato. Dovevo solo guarire da quell’amore, come si guarisce dalla peste o da una brutta malattia. Ci voleva del tempo.

E il tempo ò e arrivò quel 3 di aprile.

Ancora un giorno di pioggia per una tragedia, non più autunnale ma primaverile.

Era un lunedì ed ero appena tornata da scuola. Il pranzo non era ancora pronto e così prima di sedermi a tavola andai in camera mia a fare alcune telefonate.

Chiamai Giacomo e gli dissi che ci saremmo visti in serata. Poi suonarono alla porta, mia madre ricevette il telegramma di Sandra e la mia vita si fermò, come si era fermata per sempre la tua. Tu avevi avuto un incidente mortale. Nella notte ti eri schiantato, con la tua auto, contro un muro di cinta di una casa. Eri morto sul colpo, la corsa in ambulanza fu inutile. Tu eri morto, morto.

Sandra non ebbe il coraggio di telefonare, né di venire di persona ad avvisarmi della tragedia. In qualche modo mi volle avvisare e pensò che un telegramma bastasse, per farmi meno male.

Non ti pensavo più da parecchio tempo, più di un mese.

Dopo quella sera al ristorante non ci si rivide più. Eri sparito per l’ennesima volta.

Sapeva più cose di te mia madre, dalla tua donna delle pulizie, di quante non ne sapessi io.

Ti eri definitivamente diviso da tua moglie, che ti aveva portato via Michela. Avevi lasciato, per un periodo, lo studio nelle mani del tuo socio ed eri andato a vivere a Londra, da tua madre.

Io non ti cercai più, provai ad amare Giacomo con più trasporto e ione. Ma l’amore era ben altra cosa. Mi vietai di pensarti ancora. Basta colpi di testa, dovevo diventare adulta e poi era l’anno della maturità, dovevo studiare.

Davanti a quel telegramma il mondo si fermò, i rumori s’attenuarono, un ronzio mi traò il cervello e poi vidi solo ombre nere e caddi giù, come una foglia secca.

Mia madre non vedendomi più arrivare a tavola entrò in camera mia, dove ero andata a leggere il telegramma, che credevo un tuo messaggio per un appuntamento, un tuo scherzo, amore mio. Mi vide a terra, mi prese tra le braccia e mi posò sul letto, andò a prender dell’acqua e cercò di rianimarmi.

Appena mi ripresi mi chiese cosa mi fosse accaduto e vedendo le mie lacrime e il mio sconforto prese il foglio che tenevo stretto nelle mie mani, lesse la stessa notizia che m’aveva fulminata.

Anche lei fu scossa e le scappò un grido e un: “No, non è possibile, povero disgraziato.”

Ci misi un giorno intero per riprendermi. Mi risvegliavo e subito l’idea che tu eri morto mi faceva venire una strana nausea, poi le lacrime e di nuovo il buio, svenivo e cadevo sul letto come un cencio. Mia madre era molto preoccupata, mi stava vicina e acconsentì, su mia supplica, a non chiamare il medico. Non era un dolore fisico ma mentale, era una tragedia dalla quale non potevo più uscire. Il mio fisico, la mia mente risultarono segnati per tutta la vita da quell’evento. Volevo morire con te, proprio come mi avevi proposto tempo prima.

Erano ati dei mesi ma io mi ero scordata di te solo in apparenza, in superficie, fingevo d’aver ritrovato pace e serenità con Giacomo, ma non era così. Nel profondo del mio cuore ti tenevo con me, eravamo sempre insieme. Anche nella semplice scelta di bere un caffè al bar pensavo a come lo bevevi tu, forte e ristretto, lo allungavi con un bicchiere d’acqua calda, che ti facevi portare insieme alla tazzina. Stupide cose, ma tu c’eri e tutto il resto ci poteva stare, si poteva sopportare.

Nuovo amore, nuove amicizie, nuova vita, ma tu eri sempre dentro di me. Come le vene, per il cuore, le arterie per il corpo, la testa per pensare, gli occhi per vedere, eri parte di me, incastrato nella mia essenza, nei miei pensieri.

Dopo la tua morte, provai a scordarti, mi costruii delle corazze. Ebbi nuovi amori, ma tu restavi con me, respiravi con me, aspettavo, ogni giorno, il tuo ritorno. Sognavo di vederti comparire, a un angolo della strada, dietro ad una porta. A volte mi giravo perché mi sembrava di sentire la tua voce che mi chiamava. Desideravo vederti comparire all’improvviso, bello come sempre, con la tua sfacciataggine, la tua spavalderia, la tua invulnerabilità. Per me non era più importante vivere ma attendere che tu mi venissi a riprendere e che mi portassi via con te, in un posto qualsiasi, in capo al mondo oppure che mi chiedessi nuovamente di morire con te, non avrei chiesto di meglio.

In fondo ti aspetto ancora, ti ho aspettato per tutta la vita, amore mio.

L’abbandono, la morte

Caro Ennio,

un mese dopo il tuo funerale fui convocata, presso lo studio di un notaio di Treviso, all’apertura del tuo testamento. Mia madre gridò allo scandalo e non avrebbe voluto che prendessi neppure in considerazione l’obbligo di recarmi a quell’appuntamento. Ci sarebbero stati anche tutti gli altri tuoi eredi, tua moglie, tua figlia, che ne so, tuo padre, tua madre, i tuoi parenti. Mi sarei vergognata da morire. Chi diavolo ero io per aver diritto di presenziare a una cerimonia tanto privata e riservata?

Alle dieci del mattino ero stata tra i primi ad arrivare allo studio notarile. Non conoscevo tutti ma riconobbi tua moglie, con la piccola Michela, tua madre che vidi per la prima volta dopo il funerale e altre tre persone che non sapevo chi fossero. Seppi solo in quella triste occasione che tua madre era vedova da più di due anni. Tu infatti non m'avevi mai parlato di tuo padre, quasi fosse stata una figura da rifiutare o che non t'aveva dato nulla da ricordare. Al tuo funerale riuscii a resistere, per dieci minuti in chiesa, poi stramazzai a terra e mi portarono fuori. Per questo motivo non sapevo dove eri sepolto. Prima d’oggi non ero mai stata in un cimitero a cercare un morto.

Il notaio lesse l’atto e per tutti avevi disposto un lascito. A tua moglie e a Michela andò quasi il tuo intero patrimonio, non si potevano lamentare. Arrivati al mio nome ci fu prima un gran brusio e poi silenzio. Il notaio lesse ciò che mi lasciavi, poi mi consegnò una busta e una scatola sgualcita, legata con uno spago, che conteneva i ritratti che ti avevo fatto e tante altre mie opere, paesaggi, nature morte, prove d’autore, come le chiamavi tu. Tua moglie mi guardò con indifferenza e se ne andò senza aggiungere una parola. Tutti la imitarono, tranne tua madre che mi venne vicino, mi mise una mano sulla spalla e mi disse che tu non avevi mai smesso di pensarmi e che, secondo lei, saresti tornato da me,

prima o poi.

Mi confessò che tu le avevi parlato molto di me e anche delle mie doti di artista. In quell’occasione volle vedere i miei lavori, quelli della scatola e ne fu molto colpita. Le ero un po’ simpatica, non riuscii a capire. Ero troppo sconvolta dalla giornata, dalle cose appena accadute.

Tua madre ed io uscimmo insieme dallo studio. Mi sentii imbarazzata, le dissi che non avevo intenzione d’accettare tutte le cose che mi avevi lasciato. Allora lei divenne seria e disse che così facendo ti avrei dato un ulteriore dolore. Tu tenevi molto a me ed era un modo per aiutarmi a vivere bene e a continuare a dipingere o comunque restare nel mondo dell’arte. Aggiunse che se decidevo di continuare su quella strada, mi poteva consigliare una buona scuola d’arte.

Sapevo che Laura aveva due gallerie a Londra ed era una donna molto influente nel mondo dell’arte contemporanea. Ci lasciammo stringendoci la mano e pensando che in fondo non ci saremmo più riviste.

Mi lasciasti un patrimonio molto importante che comprendeva l’appartamentino di Caorle dove andavamo a fare l’amore, del denaro in titoli a mio nome e una vecchia casa, sulla laguna, in parte ristrutturata, a Cavallino Treporti, vicino a Venezia.

Tu avevi sempre pensato a me, alla mia misera vita e non mi volevi lasciare povera, così scrivesti nella tua lettera di accompagnamento che il notaio mi consegnò.

Una lettera straziante, che ripercorreva il tuo calvario, la tua disperazione nel

dover vivere senza di me. Maledivi la tua decisione di andare a Londra, da tua madre, che ti aveva suggerito di rapirmi, portarmi via dal mio mondo e tenermi segregata, tutta per te. Dicevi anche che tua madre era forse più pazza di te. La lettera continuava con delle poesie d’amore di Prévert, Jiménez, e alcune tue composizioni, scritte per me, in vari momenti della nostra storia. Erano bellissime poesie d’amore che mi facevano sentire amata al di sopra di ogni cosa. Ancora una volta io non mi sentii degna di tanto amore. Nell’ultima poesia, che chiudeva la raccolta, parlavi di morte e della delusione che prova il poeta nel non poter morire insieme al proprio amore, nel vedersi rifiutare dalla persona amata, l’ultima, l’estrema e sublime prova d’amore. Tu eri strano e con quella lettera ne ebbi ulteriore conferma.

Mia madre mi suggerì di non accettare quell’eredità. Disse che m’avrebbe portato solo sventura. La solita stronza, pensai io, e non ebbi nessuna remora nel volermi godere tutto quel ben di Dio.

Ero ricca e nessuno m’avrebbe potuto togliere ciò che tu mi lasciavi. Spudorato com’eri, mettesti una clausola speciale contro ogni possibile impugnazione e, giusto per ridere, ti inventasti anche una maledizione per chi ci avesse provato. La tua meravigliosa lettera d’amore si chiudeva con una frase molto triste e contorta, che non faceva capire se tu stessi ancora cercando la morte o ti fossi rassegnato a vivere senza di me. L’ultima frase fu di Pavese:

”Ogni mattino uscirò per le strade, cercando i colori”.

Si scrisse molto sulla strana dinamica del tuo incidente d’auto e a molti sembrò un suicidio.

La tua auto si schiantò, ad alta velocità, contro il muro di una casa che costeggiava la strada per Caorle, dove ultimamente risiedevi. Una strada che tu

avevi fatto migliaia di volte e che conoscevi bene. Era sera, non avevi bevuto, né eri drogato o altro. Non facesti neanche un tentativo di frenata, niente. Ti schiantasti su quel muro, senza ripensamenti. I testimoni dissero che fu una cosa orribile a vedersi, tutto finì in un momento, moristi all’istante.

Io non volli mai venire a pregare sulla tua tomba proprio perché non mi rassegnai mai alla tua morte.

Oggi, a tanti anni di distanza, sono felice di non averti trovato, qui in questo squallido cimitero, perché non ti voglio ancora credere morto, sepolto sotto ad una lapide.

No, tu sei sempre con me e di sicuro ci siamo tutti sbagliati. Tu non sei morto.

Mi lasciasti tutti quei soldi perché mi amavi e dicevi sempre che io avevo tante doti, tante possibilità di riuscire a diventare una donna molto importante nella vita.

Se qualcuno mi guardasse ora, mentre esco da questo cimitero, vedrebbe una donna matura, ancora piacente, vestita bene, con gioielli importanti, che sembra molto sicura di sé. Proprio quello che volevi tu, amore mio.

Se mi chiedessero cosa ho fatto in tutti questi anni mi verrebbe da rispondere con una famosa battuta di De Niro: “Sono andata a letto presto”. La mia vita è stata faticosa, triste, vuota, persino sciatta. È stata tutta un’attesa di eventi che non accadevano mai, senza di te non c’è più stata luce nei miei giorni.

Forse mi è mancata una sorella o un fratello con cui confrontarmi, parlare, ridere o piangere.

Con mia madre fu sempre molto difficile comunicare, specialmente dopo la mia decisione d’accettare la tua eredità togliendola alle “creature” che, secondo lei, la meritavano di più e cioè tua moglie e tua figlia.

Martina tornò in Spagna dal suo nuovo compagno ma provò parecchie volte a distruggermi. Cercò persino di offrirmi una cifra, molto inferiore a ciò che mi spettava, pur di togliermi di mezzo ma non ci riuscì. Io vinsi la mia battaglia perché avevo un buon avvocato e tutta la tua famiglia, tua madre per prima, dalla mia parte. I tuoi parenti presero molto sul serio le parole che tu lasciasti scritte in mio favore e alla fine io ebbi riconosciuto ciò che mi spettava, non mi fu tolto nulla di ciò che tu mi avevi lasciato. Ma il clamore fu tanto e mia madre si vergognò di me. Le sue amiche dissero che ero proprio una gran puttana. Era tutto vero. Mi destreggiai bene tra cavilli legali a mio favore. Fui una perfida figura irretita dal desiderio di denaro, una che non vedeva l’ora di godersi una bella vita cullata negli agi che ti possono procurare i soldi.

L’idea che tu eri morto e che non valeva la pena di vivere senza di te mi piombò addosso, come un macigno, subito dopo la fine della battaglia per la mia eredità.

La vittoria che tanto volevo non mi appagava, ero ricca, avevo vinto ma ero sola. Non frequentavo più la scuola. Era l’anno della mia maturità, ma non riuscii a studiare. Gli amici finirono per scocciarsi e non sopportare più tutte le mie ripicche, le scenate, i pianti. Nessuno si voleva prendere la briga di dirmi di farmi aiutare da un medico, io stavo male, la depressione si stava mangiando il mio cervello

Caro Ennio,

tornai parecchie volte con la mente a quei giorni di vuoto e paura, che seguirono la tua morte.

Nel momento in cui appresi del tuo incidente qualcosa nella mia mente accadde. Il corpo si raffreddò, il cuore tardò a battere, fu come sentire che tutto piano piano si spegneva, dentro di me. Non avrei mai più potuto dirti: “Ti odio, ti amo, ti desidero, ti aspetto, ti cerco, ti voglio.” Non c’eri più, e mi lasciavi da sola al mondo. Provai tante volte a farmi del male ma avevo troppa paura di soffrire. Il mondo intero non mi interessava più ed oltretutto mi sentivo in colpa. I tuoi amici mi dissero, in seguito, che negli ultimi giorni della tua vita sembravi un barbone.

Eri appena tornato da Londra, eri solo, non mangiavi, non ti lavavi, non andavi al lavoro. Lo studio lo mandava avanti il tuo socio e nessuno sentiva la tua mancanza. Ed io dov’ero? Perché per tutto quel tempo non ti avevo cercato, telefonato, perché ti avevo abbandonato? Non so. Forse decisi che per sopportare la disgrazia di un amore così, bisognava scappare a gambe levate, senza voltarsi indietro.

E poi c’era Giacomo, con lui ero serena, non lo amavo ma mi faceva respirare. Il suo amore non mi devastava, mi lasciava pensare, sperare, vivere. Così mi abituai alla tua assenza, ti credevo felice, a Londra, con qualche ragazzina ancora più stupida di me. Invece il nostro amore ti stava uccidendo. Senza di me ti lasciasti morire a poco a poco e una notte pensasti che uno schianto avrebbe messo fine a tutto quel macello, a quel disastro che era la vita senza di me.

Caro Ennio,

non mi perdonerò mai d’averti lasciato solo ad affrontare la bufera. Non mi cercasti più. Mi vedevi felice, fuori della scuola, in qualche bar, sempre insieme a tanta gente, tanti amici e un nuovo amore. Non hai più osato contattarmi, dopo la sera della pistola. M’avevi spaventata ed era un trauma troppo grande per tornarci sopra.

Ma in fondo ero anch’io preda della stessa disperazione che provavi tu. Dopo la tua morte fu solo una questione di tempo e trovai il modo di farla finita, come avevi fatto tu.

Tentai di morire ingoiando dei sonniferi, come le dive dei film. Roba da non credere.

Era un giorno di settembre, il 26, e decisi che poteva finire così la mia vita. Mia madre era alle terme, a curare il suo enfisema polmonare. Giacomo non lo sentivo da più di un mese e tutti i miei amici si stavano godendo le vacanze da qualche parte, ero sola.

Ingoiai tutte quelle pillole d’un fiato, con tantissima acqua e poi aspettai.

È strano come non ci si renda conto di ciò che si fa, con un gesto simile. La pancia brontola, come sempre, il cuore batte un po’ più forte, la testa gira, ma sembra tutto normale. Arrivano ancora i rumori dalla strada, le auto ano, un clacson suona, l’orologio della cucina va avanti. Il tempo a e sembra non accadere nulla, ma la testa si fa pesante e duole, la nausea sale alla gola, la lingua sembra un pezzo di spugna, ti senti soffocare. Il telefono suona, allora ti viene da rispondere, ti viene la paura tutto d’un tratto e ti metti a gridare, rispondi e, a chiunque sia, chiedi aiuto e dici che ti serve l’ambulanza, che hai tentato di ucciderti, gridi che facciano presto, che non vuoi morire.

Così è stato per me, amore mio. Non ho scelto una pistola o uno schianto, come facesti tu. Il mio gesto non ricordava un dramma, una tragedia, ma un’operetta da quattro soldi. Sandra, la mia amica, mi salvò la vita perché io, dopo aver riposto alla sua chiamata, crollai a terra, nel mio vomito. Sandra chiamò tutti, i pompieri, i miei vicini, l’ambulanza, persino il Padreterno e mi salvò. Sopravvissi al mio stupido gesto ma non alla mia tremenda depressione. Mi dovetti ricoverare in una clinica adatta a quelle malattie della mente dalle quali forse non si guarisce mai.

La clinica, il manicomio

Caro Ennio,

una clinica psichiatrica è un posto difficile da descrivere: è il niente, è la pace perché ti fanno sentire in pace. Ti riempiono di farmaci e tu non sai neppure chi sei. Ero viva e morta, allo stesso tempo.

Del primo anno lì dentro non ricordo molto, tranne che cominciai a dipingere, a esternare tutto il mio dolore attraverso la pittura, poi la scultura. Scolpivo il marmo, saldavo il ferro, piegavo i metalli, per cercare di tornare in vita. Era una clinica privata, molto costosa, che mi potevo permettere solo grazie ai tuoi soldi, al denaro che avevo ereditato. Mia madre mi fu sempre vicina ma io, in un primo tempo, non la riconoscevo e le dicevo di andarsene.

Sandra e tutti i miei amici diradarono le visite, perché il più delle volte non li volevo vedere o non li riconoscevo e poi ero troppo lontana da loro. La clinica era in Svizzera, a Zurigo.

Giacomo continuò a venirmi a trovare per quasi sei mesi e poi smise pure lui di soffrire per me.

Rimasi ancora una volta da sola.

Del primo periodo là dentro non ricordo i volti, né i giorni ma solo i luoghi. Il colore dei muri, le stanze, i soffitti, le finestre chiuse, e sempre la luce elettrica,

non ricordo raggi di sole. Non volevo mai uscire fuori. Avevo paura degli spazi aperti, non so perché. Vivevo nella mia camera e nel padiglione dove dipingevo. Era un luogo enorme, un largo corridoio, profondo, con delle ampie finestre , ma alte da terra così che non si potesse vedere fuori. Non ricordo l’inverno né l’estate di quell’anno, non ricordo il caldo né il freddo e neppure le persone, gli altri pazienti, gli infermieri, nulla, tutto svanito. I medici dicono che può succedere che il paziente rimuova completamente un periodo della vita, forse nell’arco dell’esistenza, magari in tarda età, potranno riaffiorare alcuni episodi. Non si sa. Mia madre pensava che fingessi e diceva che ero una gran furbona che si voleva scordare le cose per non affrontarle. A volte la sentivo parlare da sola, non sperava più che io tornassi a riconoscerla.

Un giorno litigai di brutto con una paziente che si riteneva un’artista brava quanto me. La presi a calci e pugni solo perché aveva fatto cadere una mia scultura. Si chiamava Paola ed era molto più pazza di me, aveva tentato di uccidere uno dei suoi tanti conviventi. Era una brava scultrice e, oltre al marmo, modellava alcune sue opere anche nell’argilla.

avamo interi pomeriggi insieme nel nostro padiglione ma restavamo sempre lontane, io lavoravo in un angolo, in fondo al salone, e lei in una piccola saletta attigua all’entrata. Praticamente ci si poteva vedere, ma non l’avevamo mai fatto prima di quello scontro, o almeno io non mi ricordavo d’averla mai notata. Quella lite ebbe un effetto dirompente sulla mia fragile psiche: da quel giorno mi parve di tornare alla vita. Sentivo il sapore del cibo, il caldo e il freddo, i rumori che non percepivo più, da quasi un anno, tornarono ad assordarmi. I medici imputarono a quell’episodio anche la mia voglia di uscire, di parlare con gli altri pazienti, con Paola, con la quale cercai di scambiare alcune opinioni sul concetto di arte, di spazio. Ci ritrovammo in sala lettura, dove non avevo mai messo piede e mi consigliò alcuni buoni libri. Tornai a leggere, studiai molto e appresi tante cose del mondo dell'arte, in quei pochi mesi, più che in tanti anni di corsi universitari. Si sistemò anche il rapporto con mia madre, che continuava a gridare al miracolo e ad andare in chiesa a ringraziare la Madonna per averle concesso la grazia che tanto aveva implorato.

Finalmente l’avevo riconosciuta e abbracciata e, secondo lei, tutto il resto sarebbe tornato come prima. Mia madre pianse a lungo e disse di non preoccuparmi e di lasciarle la gioia di piangere per la mia guarigione, che era da tanto che aspettava quel momento.

Il giorno seguente, presa da una strana euforia, volle farmi una sorpresa e mi regalò un gatto. I medici le avevano detto che un piccolo animale, un cane, un gatto, una tartaruga avrebbe potuto aiutare la mia guarigione, avrebbe contribuito a scuotere la mia apatia, la mia depressione.

Così mia madre si presentò in clinica con un bellissimo gattone nero, grasso grasso, col pelo folto. Sembrava molto furbo, come tutti i gatti, e convinto di doversi prendere cura di me. In un primo momento non fui molto felice di quel dono e misi subito in chiaro che non avrei saputo accudire un animale, riuscivo a mala pena a pensare a me, figuriamoci se potevo essere responsabile di un gatto. Non gli diedi un nome, né pensai a una cuccetta dove potesse dormire. Da qualche parte sarebbe andato a riposarsi, non mi interessava. Accettai solo che mi girasse intorno mentre dipingevo, mentre mangiavo. Col tempo accettai anche che restasse vicino a me pure la notte, mentre dormivo.

Caro Ennio,

io non mi seppi spiegare, per quale strana magia, dopo la mia lite con Paola e specialmente dopo l’arrivo di quel gatto io tornai a vivere.

Forse la presenza di quell’animale coincise con il mio miglioramento, ma tornai ad avere dei desideri, ad avere fame, sete. Prima di allora tutto era automatico, anche le funzioni vitali avvenivano meccanicamente.

Quel gatto stava sempre con me, mentre dipingevo guardava fisso la tela e ciò che facevo, poi guardava il mio volto, mi fissava con quei suoi occhi neri che parevano due carboni ardenti. Un giorno mi spaventai e non riuscii a reggere quello sguardo. Pensai persino che ci fosse qualcosa di te, in quella bestiaccia, che ti fossi trasformato in un bel gattone, per tornare a starmi vicino, avevi deciso di venirmi a salvare.

Fu mia madre a dargli un nome, lo chiamò Nero perché era nero.

Nero mi portò fuori dalle mie stanze, lo seguii all’esterno, tornai a respirare aria pura, a sentire la pioggia su di me o il sole che mi riscaldava.

Tornai a pensare a te, a mia madre, a Giacomo.

Da un dato momento in poi la mia situazione migliorò drasticamente e i medici programmarono le mie dimissioni. Desiderai d’uscire di lì e tornare a casa mia.

Nell’ultimo mese Paola ed io ci frequentammo più assiduamente per programmare di rivederci anche fuori. Anche lei era in fase di dimissioni, sarebbe presto uscita da quel manicomio per ricchi.

Paola non era solo una buona scultrice, ma aveva ereditato dal padre una galleria d’arte contemporanea in centro a Milano. Era quasi un’assassina e divenne col tempo una mia cara amica.

Non era un nome affermato, nel mondo dell’arte, lei dipingeva per hobby, forse

non era neppure tanto capace. Era più vecchia di me e teneva più alla gestione della sua galleria che a dipingere. Paola amava moltissimo i miei lavori, specialmente le sculture e mi disse che avevo ottime possibilità di avere successo, soprattutto se avessi saputo scegliere la galleria giusta e un curatore importante. Poco prima che mi dimettessero mi venne a trovare pure Laura, tua madre. Venni a sapere in seguito che era stata lei a consigliare a mia madre quella clinica, per il mio ricovero, sempre lei parlava al telefono con i medici, si informava ed aveva a cuore la mia guarigione. Come la prima volta che la vidi, mi venne un colpo al cuore perché ti assomiglia tantissimo. Uscimmo in giardino, insieme a Nero, che le si strusciava sulla gamba e le faceva le fusa. S’informò sulla mia salute e mi disse che voleva essermi d’aiuto a superare la depressione. Mi resi conto che era un po’ matta come te. Mi disse che tu non eri morto, perché eri tornato dentro di lei, come quando ti stava per partorire, e che di sicuro eri anche dentro di me, come se tu m’avessi dato un figlio che non sarebbe nato mai, e che io avrei continuato a portare dentro di me, per tutta la vita.

La portai nel padiglione dove lavoravo a vedere le mie opere. Tua madre non era di tante parole, continuava a dire: “Notevole e particolare”. Non disse, che ne so, bello o bellissimo, ma solo quelle due parole. Mi chiese il permesso di portare alcuni dei miei lavori a Londra, per esporli in una delle sue gallerie ed io acconsentii con piacere. Disse che aveva le persone giuste a cui farli vedere e che ci saremmo tenute in contatto. Nero si lasciava accarezzare, non lo faceva con tutti.

Laura mi strinse forte e mi disse che insieme ce l’avremmo fatta a sconfiggere la depressione, la malasorte e la nostalgia di te. Mi suggerì di continuare a studiare, per imparare a destreggiarmi al meglio, se volevo veramente entrare nel mondo dell'arte.

Il giorno che lasciai il mio manicomio mi vennero a prendere due madri, la mia e la tua.

Erano diventate buone amiche e si incontrarono spesso in quella clinica. Non avevano molto in comune se non un grande amore per me e la voglia che io tornassi a vivere.

Dovetti mettere Nero in una gabbietta, per il viaggio, per evitare che tua madre continuasse a stringerlo a sé.

La casa sulla laguna

Caro Ennio,

ritornare alla vita di tutti i giorni e riprendere la quotidianità fu volare col pensiero al nostro amore.

Ricordai le tue parole di fiducia nella mia intelligenza, nel mio entusiasmo per le cose, nelle mie doti artistiche. Mi dicevi sempre che sarei di sicuro diventata una donna famosa, non sapevi in quale ramo, ma in qualcosa di artistico, non certo tecnico-scientifico. Eri convinto che anch’io avessi la mia giusta dose di pazzia, ma che possedessi un cervello più acuto, più fine e malvagio del tuo. Eri convinto che io fossi cattiva e, se messa alle strette, avrei anche potuto uccidere. Sarei potuta essere una bellissima assassina. Ridesti di gusto, mentre lo dicevi ed io pensai che tu scherzassi e non diedi peso alle tue stupidaggini. Ne dicevi talmente tante.

Uscita dalla clinica-manicomio, più costosa che si potesse trovare, mi dedicai completamente alla pittura ed alla scultura. Il mio nuovo lavoro mi entusiasmava e avevo avuto già dei riscontri nelle vendite a Londra. Laura era in contatto con una famosa art adviser che adorava la mia produzione. I miei lavori piacevano e le mie quotazioni salivano.

Il denaro che tu mi lasciasti lo investii bene. Affittai a una coppia di ragazzi giovani il tuo vecchio appartamento ed io decisi d’andare ad abitare nella tua splendida casa sulla laguna a nord-est di Venezia, a Cavallino Treporti.

Era una casa enorme che ti aveva lasciato in eredità un tuo vecchio zio, matto quanto te, che aveva ato tutta la sua vita all’estero come dirigente di una multinazionale petrolifera americana. Nel tempo libero lo zio amava risiedere in luoghi molto belli, a contatto con la natura. Aveva case sparse in vari luoghi selvaggi e isolati del mondo ma desiderava, più di tutto, rifugiarsi in quella vecchia ed enorme casa sulla laguna. Villa Letizia, così si chiamava, si presentava molto bene all’esterno, ma una volta entrati ci si rendeva conto di tutti i lavori che sarebbero serviti per renderla abitabile. Non me ne curai tanto, ma mi colpì il padiglione che avrei usato per lavorare. Era una vecchia serralimonaia adatta per scolpire o dipingere anche opere di grandi dimensioni, comoda per il mio lavoro, sia per la grandezza che per la luce.

Per lungo tempo, dopo il ricovero, dovetti prendere un sacco di medicine che cercai di diradare con l’aiuto di una terapia psichiatrica, e con la gioia di poter frequentare amici e amiche che avevo perso di vista. Il mio corpo aveva anche bisogno di muoversi. Con il mio lavoro restavo ore e ore in piedi a scolpire o seduta a dipingere: le mie braccia, le mie gambe erano legnose, incapaci di fare una corsa senza risentirne. Anche il respiro diventava affannoso, praticamente ero come un giocattolo arrugginito che un bimbo aveva lasciato per troppo tempo in un angolo.

Dopo il mio insediamento in quella casa, cominciai a fare lunghe eggiate e corse in bicicletta lungo le stradine deserte che costeggiano la laguna. Lio Grando, Lio Piccolo, Saccagnana, erano le mie mete. Paesini minuscoli o piccoli borghi immersi nel silenzio, circondati dalle acque.

Solo acqua, tanta acqua e cielo, il grido dei gabbiani, il gracchiare delle garzette e delle anatre selvatiche e poi i colori tenui delle nuvole, il turchese dei cieli estivi e l’indaco di quelli autunnali, il rosso dei tramonti. Nelle giornate di vento, o dopo un temporale, si intravedevano le montagne, le Dolomiti.

Certo, ero po’ isolata, ma se volevo la confusione Venezia era a mezz’ora di

motonave. Da Punta Sabbioni si raggiungeva il Lido di Venezia, Venezia, Murano, Burano, Sant’Erasmo, e tutte le isole minori con orari di vaporetti e motonavi.

Mi trasferii a Villa Letizia verso la metà di giugno. A febbraio dello stesso anno avevo dato mandato ad Andrea, un mio amico architetto, per l’avvio delle opere di restauro della casa. Volevo che ritornasse la vita, la gioia lì dentro. Tu ci avevi abitato solo per brevi periodi, quando andavi a trovare tuo zio, fratello di Laura. Il giorno in cui ci conoscemmo dal notaio, tua madre ed io, parlammo più di quella casa che di tante altre cose. Mi disse che era molto felice che fosse stata assegnata a me, perché ero un’artista, una donna di cultura e l’avrei trattata, disse proprio “trattata”, con amore. Villa Letizia era un luogo che aveva visto tanto amore. Non mi volle dire di più o meglio si riservò di dirmi di più il giorno che ci fossimo riviste proprio lì, magari dopo il restauro, a bere un tè, raccontandoci dei nostri guai.

Seguii da vicino tutte le fasi del restauro e non volli per nulla stravolgere il vecchio aspetto della casa, aggiunsi solo le comodità che servono a una giovane artista in una casa nuova. Ad Andrea non piaceva il nome “Villa Letizia” ed allora la chiamava solo “la casa sulla laguna”, come se ci fosse da distinguerla da altre case che io avevo. A volte mi veniva da ridere perché gli operai, che ci sentivano parlare, di sicuro pensavano che io fossi molto ricca e che Andrea mi stesse restaurando anche la villa al mare, la villa in montagna, piuttosto che quella in collina. Invece io avevo solo, si fa per dire, quella casa. Durante il periodo del restauro restai a vivere con mia madre nel nostro vecchio appartamento di famiglia, noi due con Nero, il mio gattone grasso, che mi seguiva sempre come un’ombra.

Andrea ed io decidemmo di lasciare quasi tutti i vecchi pavimenti in cotto, i soffitti alti con gli stucchi, le finestre Wagner e le porte laccate, alla veneziana, con le maniglie in ceramica. Feci restaurare alcuni lampadari Rezzonico e altri li acquistai a Murano. Uno sballo. C’era una biblioteca favolosa, con migliaia di volumi, alcuni molto antichi e forse preziosi. C’erano sei stanze per gli ospiti

con relativi bagni, che dovetti rifare completamente.

Gli ospiti risiedevano vicino al mio padiglione di lavoro e avevano anche una zona relax tutta per loro. Al lato opposto della casa, ricavai un bellissimo appartamento tutto per me, molto grande, con varie camere e camerette, bagni, sauna, sala cinema e palestra. Una meraviglia, una casa da ricchi, da nababbi.

Il giardino meritò più tempo per essere restaurato. Vi erano piante secolari da potare, siepi da sistemare. La zona della maestosa vera da pozzo, autentica del seicento, situata su di un pozzo artesiano, meritò il restauro accurato di un vecchio scultore, un artigiano del posto. D’estate, per fare colazione in giardino, vi era un grande padiglione che si estendeva sotto a una struttura in ferro battuto. Un gazebo, completamente ricoperto d’edera, dal quale si vedeva la laguna. Era proprio sulla riva d’acqua. Si sentivano le onde infrangersi sullo scoglio di cemento e il salso, il profumo di muschi e licheni, ti entravano nelle narici.

Fare colazione o leggere un libro sotto quell’edera, era un incanto. Si percepivano anche i profumi di tutte le aiuole, dei fiori e delle erbe. L’odore della salvia, della siepe di glicini e di rosmarino, gli oleandri e i gelsomini. Arrivavano anche i rumori delle barche che avano. A orari stabiliti, le motonavi segnalavano, con la sirena, il loro arrivo nel porto vicino, a pochi chilometri dalla casa. Io continuavo a non credere che tanta meraviglia fosse destinata a me, che potessi godere di un così grande privilegio. Era una delle mie piccole felicità pensare a quella casa. Anche quando ne ero lontana, perché era bella ed era mia. Per ogni scelta che facevo, o sasso che muovevo in quel restauro, pensavo a te. Mi chiedevo se ti fossero piaciute le mattonelle dei bagni o gli arredi, che ne so, le tende, i lampadari, le pentole, le forchette. Le mie piccole gioie erano brevi, ma la tristezza era una costante nella mia vita. La mia depressione si poteva tenere a bada solo con le pillole. Ne prendevo proprio tante. Sospesi anche le sedute dallo psichiatra, perché mi annoiavano. Non dissi nulla, di quest'ultima mia decisione, né a mia madre né a Laura. Stavo forse sbagliando ma mi andava bene così.

Il denaro per il restauro non fu un problema perché tu me ne avevi lasciato tanto, ma stavo diventando autonoma economicamente anche per ciò che ricavavo dalla vendita delle mie opere. Stavo diventando un’artista affermata e ricca. Più ero disperata e dipingevo cose estreme, corpi straziati, teste mozzate oppure installazioni enormi di acciaio e vetro, che neppure io avevo ben chiaro cosa potessero rappresentare e più piacevo ai miei compratori, ai miei art adviser che mi venivano a trovare nel mio padiglione di lavoro.

Ci fu un periodo in cui pensai che la tua morte mi fosse stata da stimolo a tanta creatività. Io volevo dipingere e scolpire per restarti vicino, soffrivo talmente per la tua perdita che solo rifugiandomi nell’arte trovai un po’ di sollievo. Ogni volta che finivo un lavoro mi chiedevo cosa ne avresti pensato tu, se ti sarebbe piaciuto. Avrei avuto bisogno di qualche critica, ma io per tutti ero un genio, nessuno aveva mai nulla da obiettare. Allora, davanti al mio capolavoro, mi accendevo una sigaretta, giravo per un po’ intorno alla creatura. A volte piangevo, a volte sorridevo e poi me ne andavo e non volevo più avere nulla a che fare con ciò che avevo appena terminato, dipinto o scultura che fosse. Chiamavo il mio gallerista e gli dicevo di venire subito a portare via la cosa, così la chiamavo. Raramente davo il titolo all’opera, non mi interessava.

Una volta trasferita a Villa Letizia cominciai a sentirmi sola. Mi resi conto che avo tutto il mio tempo a lavorare, a volte non mangiavo ed ero molto dimagrita.

La casa era talmente grande che mia madre decise di venire a vivere con me, almeno finché non mi fossi ambientata un po’ e non avessi ripreso a mangiare. Arrivarono, lei e Nero, un pomeriggio di settembre. Erano ormai parecchi mesi che vivevo in quella casa e non sapevo ancora come far funzionare tutti gli elettrodomestici della cucina. Mia madre arrivò e cominciò a far rivivere ogni cosa. La casa fu subito più pulita, più arieggiata, si cominciò a sentire profumo di cibo in giro per le stanze. Del sugo al pomodoro si sentiva il profumo di basilico persino nel mio laboratorio, che distava un bel po’ dalla cucina. Avevo una donna delle pulizie che faceva ciò che voleva. Io non sapevo darle degli

ordini e lei riusciva persino a farsi la manicure, durante l’orario di lavoro.

Mia madre la cacciò e assunse una signora del posto, di nome Monica, che le era stata raccomandata dal nostro macellaio.

Monica puliva molto bene, stirava e cantava in continuazione arie di opere liriche. Aveva una voce stupenda. Un giorno mia madre le chiese perché non avesse fatto la cantante lirica, Monica si mise a piangere e le raccontò tutta la sua vita, piangendo e stirando. In pratica fu per amore che smise i suoi studi di cantante. Il suo fidanzato, poi marito, era geloso e non ne voleva sapere che lei salisse su di un palco a fare la civetta, la cantante. Le era toccato l’uomo più bello, muscoloso e stupido della zona. Per colmo di sfortuna era anche benestante e non fu allettato dal denaro che poteva guadagnare una cantante lirica. Carriera stroncata, uno dice, ma ne è nato un grande amore. Non era del tutto vera neppure quella affermazione. Secondo mia madre, il bel marito la sfruttava e le aveva fatto fare ben sei figli, in quindici anni, così da farle are tutte le velleità di entrare nel mondo della lirica. Ma Monica era felice. Cantava solo per noi, stirando e andava bene così.

Con le tre presenze di mia madre, Monica e Nero eravamo decisamente in troppi.

Per fortuna Monica nel tardo pomeriggio se ne andava e mia madre se ne stava per delle ore a guardare la televisione. Avevo un po’ di tregua. Restavamo soli, per qualche ora, Nero ed io e ne avevamo tutti e due un gran sollievo.

Caro Ennio,

quel periodo lo ricordo come il periodo del nulla, del ritorno all’infanzia. Tornai bambina e mi lasciai cullare, coccolare da mia madre, come quando ero piccola.

Ero così vulnerabile, piangevo spesso e non trovavo vie d’uscita, non vedevo la fine della mia disperazione, della mia mancanza di senso per ogni cosa.

Allora decisi di vivere solo per dipingere, almeno in quello trovai un po’ di sollievo. Tutto il resto del mio tempo lo lasciai programmare a mia madre. Lei, naturalmente, ne fu entusiasta, non stava neanche più male. I suoi attacchi d’asma si diradarono tanto da sparire del tutto. Sosteneva che era l’aria del posto, il salso del mare a farla stare bene. In quel periodo, nelle mie eggiate lungo al laguna, mi sorpresi ad osservare un gruppo di anatre con i loro piccoli e ad invidiarne la serenità e la determinazione; loro sapevano cosa fare, dove andare, cosa mangiare, quando allontanarsi dai pericoli. Io avevo molte meno certezze di un'anatra.

Mi trascinavo alle prime luci del mattino dentro al mio padiglione-studio e a volte ne uscivo solo a sera. Mia madre brontolava, veniva più volte a portarmi da bere o da mangiare e poi se ne andava, seguita da Nero che mi guardava sconsolato e decideva di uscire a crogiolarsi al sole.

Per un lungo periodo fu proprio il sole a darmi fastidio, tiravo le tende. C’era comunque la luce che mi serviva per creare le mie opere. Non volevo rumori né persone intorno a me, restavo giorni e giorni a lavorare senza sosta. Dormivo nello sgabuzzino attiguo al padiglione, a volte crollavo stremata sul divano, senza lavarmi, né pettinarmi, senza alcun contatto con ciò che mi circondava. Solo Nero, a volte, si avvicinava e mi saltava in braccio, oppure miagolava per attirare la mia attenzione, per smuovermi dal posto lontano in cui mi ero rifugiata e dal quale non volevo tornare. Ma dov’ero?

Poi finalmente, un giorno Paola mi venne a trovare. Lei si era ristabilita alla grande dalla sua depressione. Eravamo uscite quasi insieme dalla clinica, ma aveva avuto più fortuna di me, più amici di quanti ne avessi io, o solo un amore, un amico, qualcuno o qualcosa per cui tornare a vivere. Paola viveva a Milano, in un appartamento attiguo alla sua galleria. Era ata a prendere alcune mie opere per le quali aveva già un compratore. Le mie produzioni avevano già due gallerie molto quotate, quella di Paola, a Milano e quella di Laura a Londra. Tua madre mi adorava e aveva promosso, con tutti i mezzi, il mio portfolio che comprendeva anche delle sculture.

A Londra erano molto più richieste le sculture che non le tele o le video installazioni.

Insieme, quelle due donne, sapevano di me e delle mie opere molte più cose di quanto non sapessi io stessa. Avevano creato un personaggio, una grande artista, un po’ schiva e maledetta, che non mi assomigliava per nulla. Ma era ciò che richiedeva il mercato, la stampa, i collezionisti e i curatori. Perciò io diventai quella pazza, quella specie di barbona, che volevano che io fossi. Riciclarono e resero pubblica persino la mia permanenza nella clinica psichiatrica svizzera. La mia sofferenza aiutava le vendite. Nessuno ci trovava nulla da ridire, e addirittura Paola era orgogliosa d’aver avuto quell’idea: la mia sofferenza buttata in pasto al pubblico l’aveva elettrizzata. Io non mi opposi, le lasciai fare il loro lavoro.

Non mi andava bene ma se era ciò che faceva schizzare alle stelle le mie quotazioni, allora si doveva sopportare. Se doveva essere tutta una falsità, almeno ne volevo godere in termini economici.

Col tempo Paola e Laura divennero il mio staff. Erano loro a fissare le mie interviste e a prepararmi, in maniera adeguata, per le luci della ribalta. Mi pettinavano, mi vestivano, mi scrivevano il testo delle risposte da dare. Sapevano a quali giornali affidarsi per la pubblicità delle mie mostre, a quali rassegne

partecipare, Londra piuttosto che Berlino, New York, Torino o Milano.

Divenni una tra le giovani artiste italiane più famose del momento, grazie anche a una montatura mediatica che fecero i giornali e i canali televisivi del settore.

Negli anni che seguirono la mia dimissione dal manicomio divenni una star, divenni una donna molto famosa, proprio come volevi tu, amore mio.

Quando ero all’estero l’unico posto che mi mancava era la mia casa sulla laguna.

Laura mi aiutò a investire molto bene i proventi del mio successo. Comprai un appartamento a Londra, in una buona zona non troppo cara, e uno a Milano, vicino alla sede di Paola.

Ero ricca e triste, ma la tristezza, per gli artisti, è come il pane per gli affamati, serve moltissimo.

Nero amava molto sia Paola sia tua madre e quando erano in arrivo, a casa nostra, si agitava. Io riuscivo sempre a percepire, con un giorno di anticipo, l’arrivo dell’una o dell’altra grazie al mio gatto. Anche il giorno di San Martino, l’11 di novembre, in cui ò Paola a trovarci, Nero fu molto agitato.

La mia amica-curatrice arrivò di sera, un venerdì e mi avvisò subito di una grande novità e di un suo nuovo grande amore. Per lei c’erano solo grandi amori.

La ricevetti nel padiglione di lavoro, eravamo tutte e due molto stanche. Restammo un po’ in silenzio: lei si stava gustando la vista della mia nuova installazione, alla quale avevo lavorato giorno e notte negli ultimi due mesi, e io rimasi a guardare la mia cara amica. Paola mi sembrò più vecchia di quanto non fosse, aveva circa dieci anni più di me, ma la pelle del suo viso era già piena di rughe e il taglio corto di capelli, che si era fatta da poco, non le donava per nulla. Era più alta di me, bionda, occhi verdi, magra e si vestiva benissimo, con gusto, spendendo un sacco di soldi nelle migliori boutique di Milano. Era una donna perfetta, un’amica perfetta, forse un’amante perfetta, ma le mancava qualcosa per essere unica, non so come dire, non incantava, era nella media. Se l’avessi vista per strada non l’avrei degnata di uno sguardo, ecco cos’era. Di sicuro tu avresti detto che era invisibile, ma tu eri molto cattivo nel giudicare le persone, amore mio.

Nero si era accovacciato tra di noi e ci guardava, in attesa di chissà quali novità. Paola stava ancora in estasi davanti al mio lavoro e si girava e rigirava una delle sue ciocche di capelli, si lisciava il mento e poi finalmente emise il suo verdetto: “Stupenda, questa è una delle tue migliori porcherie.” Era la frase che diceva ogni volta che vedeva qualcosa di nuovo prodotto da me.

Come sempre io la ringraziai, quasi sorpresa per il solito complimento e la scenetta finì lì.

Non si stupì neppure Nero, che infatti restò ancora accovacciato in attesa.

Ci spostammo in cucina, avevamo tutte e due una gran fame. Mia madre era andata al cinema con le sue amiche ed eravamo noi due sole a cena. Preparò lei una pasta al burro. Nessuna delle due sapeva fare un granché ai fornelli.

Io mi incaricai di aprire un buon vino e la cena fu servita.

Paola godette nel farmi attendere. Si mise a parlare di lavoro, solo verso la fine della cena.

La grande novità era che la mia amica aveva appena acquistato un bell’appartamento, più un locale a uso foresteria, a Venezia, sestiere di Dorsoduro, quindi centralissimo e lo stava restaurando affidandosi a un suo caro amico architetto, di nome Nicola, per il quale nutriva una perversa attrazione, o almeno così disse. Questo Nicola aveva dato segni di provare lo stesso sentimento per lei. Il grande amore era già sulla buona strada per diventare amore eterno, amore infinito, amore e basta.

Paola sembrava interessata più al restauro del suo bell’appartamento che al rapporto con Nicola.

Parlò a lungo di resine antimuffa, di problemi di risalita dell’umidità, di balconi e doppivetri, di stanze grandi da dividere per farne di piccole, ma di amore non si parlò più di tanto, quella sera.

In quella sede restaurata, Paola avrebbe inaugurato una sua nuova galleria e nella foresteria era suo desiderio ospitare dei giovani artisti di aggio a Venezia, promuovendo degli stage, in occasione magari della Biennale di arte contemporanea. Una residenza per scoprire nuovi talenti, come già c’erano a Berlino, Milano, Londra. L’idea non era nuova ma molto stimolante.

Mi fece vedere le foto dell’appartamento in questione. Era una meraviglia, aveva quattro camere enormi, con soffitti altissimi, come si usa a Venezia, e poi bagni, ripostigli una grande cucina, un salone d’entrata che poteva sembrare la hall di un albergo. Doveva esserle costato una cifra spaventosa, alla quale si doveva

aggiungere quella della foresteria adiacente e del restauro.

Paola mi chiese cosa ne pensassi della sua nuova impresa ed io non seppi rispondere che delle banalità spaventose del tipo: “È tutto bellissimo e Venezia è una città molto caotica.” Forse avevo bevuto un po’ troppo, o ero gelosa di tanto entusiasmo. Avrei voluto realizzarla io un’idea tanto innovativa. Quella sera non diedi soddisfazione alla mia amica e le dissi solo che ero stanca e che me ne sarei andata a dormire. Paola colse una sfumatura di tristezza nella mia voce e non disse nulla. Ci salutammo, lei sapeva benissimo dov’era la sua camera, era stata più volte mia ospite. Fui molto maleducata e non seppi spiegarmi il perché.

La mia gelosia nei confronti di Paola non era legata tanto alla sua capacità di avere nuove idee o alla fortuna di avere denaro per acquistare appartamenti favolosi in centro a Venezia, quanto alla sua dote di sapersi innamorare ancora, desiderare una vita sessuale. Cosa che a me non accadeva più da tanto tempo.

Negli anni che seguirono le mie dimissioni dalla clinica non frequentai nessuno, o meglio c’era solo Giacomo che di tanto in tanto mi veniva a trovare nella mia casa sulla laguna, ma non accadeva nulla di speciale tra di noi. Per lungo tempo non facemmo più l’amore. Io non ne sentivo l’esigenza e lui sopportava, in silenzio, che la mia depressione avesse termine e le cose tornassero come prima.

Ma il “prima” a cui faceva riferimento Giacomo, non era stata una grande stagione d’amore. C’era stato in ato parecchio sesso, con qualche sospiro, tanta soddisfazione e niente più.

Quando Giacomo mi veniva a trovare andavamo a fare delle lunghe eggiate in laguna. Poi lui mi guardava lavorare e sospirava, come un ragazzino. Mi faceva tanta tenerezza e la sera, dopo cena si stava nel mio studio a farci delle coccole, a toccarci, baciarci, ma non scattava in me alcun desiderio. Restava a

casa mia per settimane, a volte per mesi ma non riuscivamo a fare di nuovo l’amore. Io avevo sempre te nella mia mente, amore mio.

Ricordo che in quel periodo io non vivevo, vegetavo. Aveva più vita sessuale Nero, il mio gattone, di quanta non ne avessi io.

Io lavoravo sempre, per la gioia del mio gallerista e dei miei compratori.

Se non lavoravo piangevo, mi disperavo, mangiavo troppo e la notte avevo degli incubi spaventosi.

Giacomo era un buon farmacista ma anche un cuoco strepitoso. Mi allettava con i suoi manicaretti, cucinava bene sia la carne che il pesce ed io mangiavo tutto di gusto. Mangiavo e ingrassavo. Nei primi tempi nessuno ci fece caso ma quando iniziai a vestirmi con tuniche larghe e pantaloni con elastico in vita, allora la prima ad accorgersi che qualcosa era cambiato fu mia madre e poi la tua.

Laura mi disse solo che stavo bene e che persino il mio modo di lavorare risultava diverso ora che avevo preso tutti quei chili. Ero più serena, meno conflittuale, un po’ più anonima, meno arrabbiata con il mondo intero.

Mia madre invece ne fece un dramma. Continuava a dirmi che non mi voleva vedere così grassa e sciatta. Secondo lei dimostravo anche molti più anni di quanti ne avevo. Era convinta che tutta la colpa fosse di Giacomo e della cattiva influenza che aveva su di me. Non era felice che non piangessi più, che assi gran parte del mio tempo a mangiare e bere e non prendessi più tanti farmaci.

Forse lei mi preferiva malata, depressa, così sentiva di essere più importante per me. Quando ero con Giacomo, la trascuravo, uscivo con lui, mi dimenticavo un po’ di lei e questo la faceva stare male. Tornarono le sue crisi asmatiche e i suoi attacchi di panico.

Adoravo Giacomo e come mi faceva sentire in pace con il mondo intero. I suoi dolci creavano dipendenza, come una droga, erano la sua specialità. Penso spesso che forse fu l’amore per il cibo e non quello per l’arte a salvarmi dalla mia depressione. Giacomo tra i fornelli diventava persino più bello, interessante. Lui non aveva messo su tanto peso, da quando ci conoscevamo. Era alto e la sua eccessiva magrezza aveva lasciato il posto solo a una leggera pancetta da uomo pigro e sedentario qual era. Mi seguiva raramente nelle mie eggiate. Se ne stava a leggere un libro o a preparare i suoi intrugli per un futuro profumo o una crema portentosa. Avevo lasciato che si ricavasse, vicino agli appartamenti degli ospiti, un laboratorio per la sua attività di chimico. A tempo perso creava profumi e preparati anti età, per la gioia di tutte le signore che frequentavano le sue farmacie.

Qualche volta, se si poteva liberare dagli impegni di lavoro, Giacomo mi accompagnava ovunque andassi e sempre trovava il modo di cucinare per me. Quasi come se fosse diventato il mio mago Merlino, a ogni piatto aggiungeva una pozione magica che mi teneva legata a lui.

Mia madre cucinava solo quando lui non c’era o non poteva raggiungerci per impegni di lavoro.

Anche lei adorava i manicaretti del mio amico, ma con invidia e non perdeva mai occasione per criticarli e insinuare che a lei sarebbero riusciti meglio. Ci avrebbe aggiunto questa o quella spezia e via dicendo. Senza darsi pace e gustarsi quelle delizie.

Giacomo era chimico-farmacista, si era laureato da poco, e lavorava nella ditta di famiglia. Avevano varie farmacie e una fabbrica farmaceutica, molto antica. Erano nel settore da più di sei generazioni.

Lavorando nella sua azienda, Giacomo poteva prendersi delle lunghe pause dal suo lavoro, senza creare problemi. Viveva in un piccolo appartamento in centro a Padova, vicino alla grande villa dove abitavano i suoi. Non avevo mai voluto conoscere nessuno della sua famiglia. Era figlio unico e amava la nonna materna più di tutti i suoi parenti. Non era sposato e, solo nel periodo in cui fui ricoverata in quella clinica svizzera, ebbe una breve relazione con una donna molto più matura e grande di lui. Non mi volle dare spiegazioni, o confidarmi ciò che aveva provato per quella “signora”, ma era una donna sposata e fu solo una questione di sesso. Così mi disse ed io non volli approfondire ulteriormente l’argomento.

Era quasi mio coetaneo, era giovane, ma a te non era mai piaciuto, amore mio. Non abbiamo mai affrontato l’argomento “Giacomo”, noi due, ma una delle ultime volte che ci incontrammo, tu mi dicesti che quel “mio amico” non ti piaceva e che un giorno avrei capito il perché. Lo dicesti con tristezza e un po’ di rassegnazione, tutto d’un fiato e, senza attendere la mia risposta, te ne scappasti via. Aveva qualcosa di apocalittico la tua affermazione, ricordo che un brivido di paura mi percorse la schiena, non mi era mai accaduto prima. Ebbi l’impressione che tu cercassi di avvertirmi di un futuro pericolo. Strana la vita, se si cogliessero senza riserve gli avvertimenti, se ci accorgessimo in tempo delle avvisaglie di pericolo, forse diverremmo immortali.

Giacomo comunque mi amava e, ogni volta che poteva, fuggiva da Padova e veniva da me, nella mia grande casa sulla laguna, o in giro per il mondo. Lasciava tutto e tutti e mi raggiungeva, ovunque io fossi.

Giacomo cucinava per me, viveva per me, mi amava ed io non lo potevo ricambiare. Provavo tanto affetto per lui, la sua presenza mi dava gioia e mi era

diventata quasi indispensabile. Desideravo vedermelo intorno, armeggiare tra i fornelli, o consigliarmi le creme per il viso o i profumi che creava lui. Era un grande chimico e aveva prodotto, per le sue clienti, tutta una linea di creme per il viso e per il corpo. Ma ciò che lo esaltava era inventare dei nuovi profumi. Mi parlava di geniali grandi “nasi”, della grande Tognatto, una signora, molto famosa in quel settore, che aveva creato il profumo per la regina d’Inghilterra. Un giorno se ne arrivò con un flaconcino rosso, una boccetta preziosa, di vetro soffiato, contenente un’essenza favolosa che aveva distillato solo per me. Ne fui molto lusingata, mi piacque moltissimo quel profumo, e subito me ne spruzzai ovunque, sul collo e sui polsi e lo feci annusare anche a mia madre, che non disse nulla di speciale e subito starnutì. Mi guardò con stupore e aggiunse che era troppo impregnante quell’odore. Aprì subito una delle finestre dello studio, per far are l’aria e se ne andò in cucina.

La cosa più strana fu che Nero non si avvicinava più, quando mettevo quel profumo.

Nonostante tutte le sue attenzioni e le infinite prove d’amore io non amavo Giacomo, e lui ne era molto amareggiato. Mi aveva vista innamorata di te e sapeva che nessun altro uomo avrebbe potuto farmi impazzire come avevi fatto tu, amore mio.

Giacomo forse attendeva che la bufera asse e tornasse il sereno, sopportava qualsiasi sgarbo da parte mia, come uno che deve espiare una condanna, sapendo che però ci sarà una fine, un riscatto, una rivincita.

Si prendeva cura di me, mi ricordava di prendere le medicine, mi organizzava le giornate, le serate. Chiamava i miei amici e li obbligava a venirmi a trovare. Mi preparava pranzi e cene favolose e non mi sgridava mai se esageravo nel mangiare, anzi mi incitava a finire tutto ciò che portava in tavola. Pareva non vedere quanto mi stessi ingrassando, quanto si stava deformando il mio corpo, gonfiandosi in maniera mostruosa. Forse non mi amava solo per il mio fisico ma

per la mia mente, il mio genio.

Mia madre, invece, cominciò a ossessionarmi con le sue battute velenose sul mio aspetto fisico: “Sei grassa che fai schifo” mi diceva continuamente e sosteneva che anche la qualità dei miei lavori era peggiorata, non avevano l’intensità di quando ero magra.

Laura mi telefonava e ogni tanto mi chiedeva se intendevo fermarmi ai settantacinque chili o andare oltre. Per il mio metro e sessanta di altezza erano troppi ma io non mi preoccupavo. Sorridevo e le rispondevo che mi sarei messa a dieta quanto prima.

Ma io mi sentivo leggera come non mai, nella mia vita. Paradossalmente più aumentavo di peso più il mio animo diventava leggero, mi sentivo sollevata dall’incubo della tua assenza.

Caro Ennio,

piano piano mi stavo scordando di te e questo aggio della mia vita fu la mia salvezza.

Ma mia madre forse non voleva la mia salvezza, lei voleva difendermi sempre da qualcuno, da un drago ipotetico che voleva portarmi via.

Man mano che svaniva la mia disperazione aumentavano le sue critiche. Aveva fatto voto di salvarmi. Tutta la sua vita era dedicata a me e mentre io uscivo dal

tunnel della depressione lei iniziò a sentirsi inutile.

Odiava Giacomo e tutto ciò che mi stava allontanando da lei, dalla sua vocazione a farmi da infermiera, balia o badante. Io volevo solo una madre che mi amasse per quello che ero, con tutti i miei difetti e che fosse felice di vedermi guarire, anche se ciò voleva dire ingrassare, cambiare forma del corpo.

Il giorno in cui Giacomo si trasferì a vivere da me, a Villa Letizia, mia madre ebbe il suo ennesimo attacco d’asma. Diventò cianotica e insorsero delle complicazioni cardiache che mi obbligarono a ricoverarla in ospedale. Lei aveva sempre sofferto di un grave enfisema polmonare, ma tutte le preoccupazioni che le avevo dato, negli ultimi anni, avevano peggiorato la sua salute. I medici dissero che vi erano anche delle componenti psicosomatiche. Paradossalmente solo quando io stavo male lei sapeva reagire e non soffriva di alcun attacco d’asma. In pratica se migliorava la mia salute, peggiorava la sua. Io guarii io e lei s’ammalò.

Giacomo amava me, la mia vita, mia madre, il mio gatto e tutto ciò che mi riguardava. Finì per aiutarmi ad accudire pure mia madre, anzi senza di lui avrei dovuto trasferirla in una clinica adatta al caso. Con il suo aiuto, nel giro di un mese, mia madre riuscì a tornare a casa nostra sulla laguna.

Giacomo era un “santo” e sopportava, in silenzio, anche l’ingratitudine di mia madre. Nei primi tempi, appena ritornata a casa, non sopportava di essere tanto vulnerabile e dipendere totalmente dalle cure di un estraneo. Mi chiamava in continuazione ma io fingevo di non sentire. Giacomo mi sostituiva in tutte le mansioni che invece avrei dovuto compiere io, da brava figliola. Ma ero diventata pigra ed era così comodo avere una persona di fiducia che mi potesse sostituire, nei compiti noiosi. E poi, comunque, io ero l’artista che non poteva sospendere l’esecuzione di un’opera d’arte, per correre al capezzale della madre malata. Era molto più comodo per lui raggiungere la stanza di mia madre perché viveva in uno degli appartamenti riservato agli ospiti di aggio a Villa Letizia.

Non gli avevo ancora concesso di vivere nel mio appartamento, non mi sentivo ancora pronta per questo. Lui sopportava, con rassegnazione, anche questo ennesimo sgarbo, senza protestare, né minacciare o sbottare. Solo un grande amore poteva giustificare tanta pazienza e sopportazione. Io ero lusingata da tanta ione, da tanta dedizione. Mi pavoneggiavo del risultato che avevo ottenuto. Avevo un servo adorante, al mio servizio, potevo fare di lui ciò che volevo.

Giacomo, con il suo lavoro, aveva anche l’opportunità di avere farmaci sedativi che gli consentivano di far addormentare mia madre molto presto la sera. Io fingevo di non accorgermi di queste sfumature e quando ci si sedeva a tavola, noi due soli, non provavo alcun rimorso, non chiedevo neppure come stesse mia madre. Guardavo con languore tutti i manicaretti che lui aveva cucinato per me e non pensavo ad altro che al mio piacere, a mangiare.

Nero, il mio gatto non mi veniva più tanto vicino e quando lo faceva mi metteva a disagio, pareva giudicarmi molto severamente, con il suo sguardo austero. Non mi stavo comportando bene con nessuna delle persone che mi stavano vicino, lasciavo che mia madre fosse drogata e lasciavo che Giacomo mi amasse senza provare vergogna per non amarlo. Avevo allontanato tutti gli altri amici e tenevo solo i contatti di lavoro. Ma era bello sentirsi un genio, una delle giovani artiste più interessanti nel mondo dell’arte contemporanea.

L’amore che non strappa i capelli

Caro Ennio,

per un grande amore si può morire, ma per un amore semplice, normale, delicato e modesto si può vivere, anzi tornare a vivere.

Ciò che provai per Giacomo fu un povero e triste amore che iniziò in sordina e, non so come, riuscì a farsi strada e a diventare un bel rapporto d’affetto e stima che mi aiutò a vivere serena e a non pensare più alla morte, a non pensare più a te.

Quando si trasferì a vivere con me decise di lasciare, per qualche periodo, il suo lavoro nell’azienda di famiglia. Si limitò a fornire alle sue farmacie, di Padova, solo le creme e i profumi che riusciva a produrre nel piccolo laboratorio che gli avevo messo a disposizione, a casa mia.

Divenne anche il mio psicologo e mi consigliò delle nuove medicine omeopatiche, che produceva lui in laboratorio. Le sue pastiglie andarono piano piano a sostituire quelle tradizionali che mi avevano ordinato i medici che mi avevano in cura per la depressione.

Diminuendo le medicine tradizionali, diminuirono anche le mie crisi di pianto e gli attacchi di panico. Avvenne anche un altro piccolo miracolo: m’accorsi che Giacomo non era niente male neanche come uomo. Voglio dire che forse lui mi preparava dei filtri d’amore, che spacciava per tisane, ma io cominciai a desiderarlo anche fisicamente, non solo come compagno di bevute o

pantagrueliche mangiate. Improvvisamente scattò il desiderio sessuale. Continuavo a non amarlo ma iniziai a desiderarlo.

Decisi, dopo parecchi mesi che viveva nella mia casa, di chiedergli se voleva trasferirsi nel mio appartamento, nell’ala est e dividere la mia stanza da letto. Con astio e un po’ di cattiveria gli chiesi se voleva spostare le sue cose da me. Lui sorrise e mi disse se volevo solo le sue cose o anche il suo favoloso corpo. Era sempre dolce e comprensivo, non mi mise mai a disagio, non mi fece mai notare quanto fossi maleducata e anche un po’ stronza.

ammo l’intera notte, che seguì il suo trasferimento, a fare l’amore. Fu come tornare alla vita. L’avevamo fatto altre volte, da quando ero uscita dalla clinica, ma da quella notte in poi ci fu la scintilla, voglio dire che scoprii Giacomo come un dolcissimo amante. Capiva ogni mia voglia, aspettava i miei tempi, non era attento solo al suo piacere ma al nostro godimento, alla gioia di entrambi. Aveva pochi anni più di me, ma era molto maturo ed esperto in amore. Finalmente fu un amore tra coetanei: non mi sentivo, come con te, la ragazzina sciocca e ingenua alle prese con un uomo molto più vecchio di lei. Eravamo una coppia omogenea, composta da due persone adulte che, libere da qualunque vincolo, desideravano fare del sesso.

Caro Ennio,

non so come dire, ma a volte non capivo proprio perché t’avessi amato tanto e in maniera tanto disperata, senza domani. Forse ero innamorata dell’idea d’amore assoluto che ci eravamo creati, tutta per noi. Volevamo essere invidiati, ma a pensarci bene era un amore molto faticoso e senza via d’uscita. Io ti dovevo accettare così com’eri. Tu non avevi nessuna intenzione di cambiare, di chiarire le cose e di lasciare tua moglie e tua figlia, per me. Anche quando fu lei a lasciarti, tu volevi restare sposato. Desideravi solo un’avventura con me. Non mi avresti mai chiesto di sposarti. Io sarei rimasta per sempre la tua amante, ti avrebbe fatto orrore sposarmi.

Restavi indeciso, come sospeso tra due vite che volevi vivere contemporaneamente, senza curarti del male che facevi alle persone che ti circondavano.

Con Giacomo mi resi conto che l’amore può essere anche pace, serenità, appagamento e basta, senza continui ricatti o paure. Certo lui non era un personaggio come eri tu, non si atteggiava sempre a “uomo bello e maledetto”, non citava i poeti e forse non avrebbe mai avuto due o più relazioni contemporaneamente. Lui era il classico uomo perbene. Ne ero certa.

Giacomo aveva un bel corpo di cui non mi ero mai accorta. Da quando gli dissi che mi sembrava avesse messo su un po’ di pancia, si prese la briga d’andare a correre in spiaggia tutti i giorni, anche sotto la pioggia. Io per lui non avrei mai fatto un tale sacrificio, mangiavo e bevevo e qualche volta andavo in bicicletta ma senza fini atletici, solo per il piacere di stare a contatto con un paesaggio mozzafiato e per godermi un po’ di pace lontana da tutti.

Quasi ogni mattina andava a correre e poi mi portava la colazione a letto e dopo si stava ore a fare l’amore. Mia madre non s’accorgeva di nulla. Viveva nell’altra ala della casa ed era quasi sempre piazzata davanti alla televisione a guardare i suoi programmi preferiti. La trattavo male, non ci si parlava quasi mai e se lo si faceva finivamo per litigare, anche per delle sciocchezze.

In quel periodo mi dedicai alla fotografia e presi come modello proprio Giacomo, o meglio le sue mani, le sue braccia, i suoi piedi, e altre parti del suo bel corpo. Fu un’esperienza nuova per me. Prima d’allora ebbi vari modelli o modelle per le mie sculture, ma con Giacomo fu tutt’altra cosa.

Ci si divertiva a scherzare, prima della posa. Non stava mai fermo, e non voleva mai credere che quelle mie bellissime foto fossero tratte da parti del suo corpo.

Quando Laura le vide fece un fischio spaventoso e disse una parolaccia. Non era tipico di tua madre quell’atteggiamento da maschiaccio. Comunque le foto che feci a Giacomo avevano qualcosa di artistico, di struggente, erano un capolavoro. Non erano solo foto di studio, ma anche foto prese in esterno, quando andavamo a eggiare in laguna, con il sole, con il vento, al tramonto e sempre solo le sue mani, la sua nuca, le sue spalle, tutto ciò che rappresentava per me il concetto di maschio, in quel momento della mia vita. Erano foto di giovane uomo e piacquero talmente anche al mio gallerista di New York, che decise di farne una mostra.

Paola ne portò alcune a Milano, nella sua galleria ed ebbero un tale successo che mi consigliò di metterle in portfolio per la grande mostra di Artissima, che si teneva ogni autunno a Torino. Acconsentii con piacere e vi partecipai, rappresentata dalla sua galleria, con alcune mie sculture e le foto di Giacomo. Non avrei mai pensato nulla di simile, fino a poco tempo prima.

La mia serenità si rifletteva, in maniera positiva anche sul mio lavoro.

Ero proprio portata per la fotografia e iniziai riprendendo il corpo umano ma mi attraeva ogni cosa, soprattutto le foglie in autunno e poi volti delle persone anziane che incontravo al mercato, i pescatori, con le facce bruciate dal sole, le pozzanghere, dopo la pioggia. Tutto era un incanto per me, era vita. Io vivevo per il mio lavoro, ne ero travolta, rapita.

Neanche a dirlo Artissima fu un vero successo. Vendetti ogni cosa a prezzi strepitosi, le mie foto ebbero una gara al rialzo tra gente addetta ai lavori. Ero molto felice, stupita appagata e Giacomo approfittò di questo mio stato di grazia

per chiedermi di sposarlo.

Lo fece una sera di dicembre, mentre mangiavamo delle castagne, vicino al caminetto, a casa mia.

Io feci finta di nulla e non mi volli far vedere stupita. La polpa delle castagne m’andò di traverso e lui mi portò dell’acqua e rimase con il bicchiere in mano, con il pericolo che mi strozzassi, fin che non gli dissi di sì. Mi misi a ridere e gli dissi che mi aveva estorto quel sì negandomi l’acqua. Poi ci stringemmo e ci baciammo a lungo, come due veri innamorati. Gli dissi che avrei voluto un po’ di tempo per pensare al grande o. Mi riservai di confermare quella mia risposta con un po’ più di calma. Lui accettò, sicuro che io volessi solo riflettere sulla data più opportuna, o sugli impegni di lavoro da cui svincolarmi, in vista di una tale festa, di un tale baccanale.

Certo era molto cambiato il mio amore per lui, ma non era quello che credevo ci volesse per sposarsi. Non lo amavo e anche quella sera Giacomo lo percepì ma non disse nulla, anzi sembrò un uomo felice, che aveva ricevuto la risposta che voleva dal suo grande amore. Tutto il resto sarebbe arrivato. Io l’avrei amato alla follia, avremmo avuto dei bambini e la favola sarebbe di certo finita bene.

Giacomo avrebbe voluto un matrimonio senza invitati, noi due, il prete, i testimoni e Nero, fuori della chiesa che ci aspettava, se proprio non lo volevano far entrare.

Giacomo adorava il mio gattone ed era ricambiato.

Paradossalmente Nero mi faceva sentire a disagio. Secondo me, percepiva che io

non amavo Giacomo e me ne faceva una colpa. Aveva gli occhi di un cristiano, lo diceva sempre anche mia madre e mi guardava con sdegno, anzi pareva portarmi rancore per non essermi ancora innamorata del suo padrone.

Giacomo mi chiese di sposarlo in tutta fretta. Per lui sarebbe andato bene anche il giorno dopo, il mese dopo, senza avvisare nessuno, ma io mi presi del tempo e rinviai la mia risposta all’anno seguente. Pensai che potesse andare bene il mese di febbraio, proprio il 14, giorno di San Valentino, patrono degli innamorati. Non brillai certo per originalità, ma Giacomo acconsentì di aspettare ancora qualche mese per raggiungere la sua felicità, la nostra felicità.

Dopo Natale iniziarono i preparativi, ma l’unica cosa da decidere rimaneva la chiesa, perché la casa l’avevamo già, saremmo rimasti a vivere a Villa Letizia. Io avrei continuato a fare l’artista e lui il farmacista. Giacomo voleva che ci sposassimo in una chiesetta alle Mesole, un minuscolo borgo antico sulla laguna. Un incanto, ma era una costruzione molto piccola e sperduta tra viuzze strette, orti e serre di verdura e frutta. Se solo avessi voluto che qualche amico ci raggiungesse avrei faticato molto a dare le coordinate per localizzare quel meraviglioso posto, isolato dal resto del mondo.

Alle pubblicazioni ufficiali e a tutto l’iter burocratico ci pensarono i nostri commercialisti. Giacomo volle patrimoni separati e in effetti era già molto ricco di suo perché io potessi pensare che mi sposasse per interesse. Eravamo entrambe ricchi, belli, giovani, non sarebbe mancato nulla per iniziare una vita felice, noi due.

Per Natale ritornò anche mia madre da uno dei suoi numerosi ricoveri in clinica. Ritornò più serena e con la bella novità che aveva conosciuto Filippo, un suo coetaneo, ricoverato con lei per dei problemi cardiaci e di cui non smetteva di tessere le lodi. Forse si era innamorata.

Decisi di approfittare della sua ritrovata serenità per comunicarle che Giacomo ed io ci saremmo sposati a metà febbraio dell’anno seguente. Stranamente sembrò subito entusiasta della bella novità. Non riuscii a capire fino in fondo se mentisse o fosse veramente felice per me, ma non me ne curai. Avevo preso la mia decisione ed ero libera di farlo, di tornare a vivere, di provare a farmi una famiglia. Mi suonava molto strano il concetto di “famiglia”, forse perché io non l’avevo mai avuta una famiglia, con un padre e una madre, dei fratelli o sorelle, tutto ciò mi risultava estraneo. E poi io non volevo dei figli e dicono che uno dei motivi per cui ci si sposa sia proprio quello di pensare alla prole. Non avrei saputo dare affetto a eventuali bambini, ero un’asociale, un’egoista che sapeva pensare solo al suo lavoro e a se stessa. Una che non sapeva prendersi cura neppure di una madre malata come avrebbe potuto seguire i propri figli?

Caro Ennio,

a Villa Letizia mi ero isolata, sepolta viva, lavoravo e amavo talmente il mio lavoro che tutto il resto pareva non avere importanza per me. Di certo fu colpa anche della mia depressione e del dolore che continuavo a provare per la tua morte, amore mio.

Più si avvicinava la data nel mio matrimonio e più tornavi nella mia mente. Mi pareva quasi di non poterti più pensare, dopo. Sarebbe stato imbarazzante diventare la moglie di Giacomo e continuare a pensare a un altro uomo. Sarebbe stata una cosa vergognosa. Dovevo strapparti dal mio cuore, ricordare solo le sofferenze subite.

Nell’approssimarsi del fatidico giorno ci venne il desiderio di avvisare qualche amico, amica e poi Paola e Laura, tua madre e ancora qualche gallerista e qualche parente e amico d’infanzia di Giacomo, i suoi genitori.

Alla fine ci ritrovammo con una cinquantina d’invitati e si dovette cambiare chiesa, ne serviva una più grande.

Decidemmo di sposarci nell’antica basilica di Torcello, in isola, con il problema dei trasferimenti su vaporetto, coincidenze e altre storie.

Ci affidammo a dei professionisti del settore che programmavano matrimoni da favola. Al posto della cerimonia intima prevista, se ne fece un grande evento, un business. Furono avvisati pure i giornali del settore dell’arte contemporanea. Io ero già una celebrità e avevo deciso di sposare un farmacista e non un artista matto, come me.

Caro Ennio,

alla vigilia delle mie nozze pensavo ancora a te e poi a Giacomo. Erano ormai ati cinque anni dalla tua morte ma era come se tu non ti decidessi a lasciarmi andare, il ricordo di noi non mi permetteva di vivere, d’andare oltre. Era questo l’ostacolo più grande al mio matrimonio e decisi di parlarne a Giacomo. Una sera, ci sedemmo accanto al fuoco e gli dissi molto bruscamente che io accettavo di sposarlo ma non lo amavo, come avrei voluto, come doveva essere tra marito e moglie. Gli dissi di scappare a gambe levate, che gli avrei rovinato la vita, perché io pensavo ancora a te.

Giacomo si rattristò, fece un grande respiro e poi si mise a sorridere. Il suo volto era sereno, e mi assicurò di essere certo del suo o, di fare la cosa giusta sposandomi. Aggiunse, con una nota di rammarico, di avere sempre percepito che io non l’amavo, che io amavo ancora te, ma disse che la vita è lunga e le cose possono cambiare quando meno ce l’aspettiamo.

Mi prese tra le braccia e disse che lo stavo rendendo l’uomo più felice del mondo e che di noi due il più fortunato era lui, perché mi amava alla follia, ogni giorno di più.

Ci sposammo il giorno di San Valentino, che quell’anno cadde di sabato, una pacchia.

Fu un matrimonio sontuoso, semplice solo all’apparenza, con i fiori giusti, tutti bianchi, con gli addobbi di classe, in una cornice d’eccezione qual era la basilica di Torcello.

Mi proposero pure dei paggetti, dei bimbi che pare si prestassero al caso, in affitto, ma io la trovai una cosa squallida e non accettai. La gente era tutta elegantissima. Giacomo ed io eravamo vestiti come si conviene: lui in tight ed io con un vestito bianco vintage, che aveva comprato Laura a Londra per me. Quel giorno tua madre pianse più della mia, diceva che non era giusto, che dovevi esserci tu al mio fianco non Giacomo. E tu c’eri di sicuro, vicino a me, perché io non feci altro che piangere. Ero disperata di dover accettare di non sposare te. Ma tu eri morto, dovevo farmene una ragione e di sicuro non avresti mai accettato di sposarmi.

Forse era proprio la vicinanza continua di Laura, che ti assomigliava come una goccia d’acqua, a turbarmi, non so. Fatto sta che io il giorno del mio matrimonio ero disperata. Ma rientrava nella norma, tutte le spose piangono.

Due importanti galleristi per me e due compagni di università per Giacomo furono i nostri rispettivi testimoni. In Comune ci eravamo sposati la settimana prima, noi due soli, con il sindaco e due segretari comunali, per testimoni.

Il pranzo di nozze non poteva che essere prenotato alla Locanda Cipriani, dal momento che ci sposavamo a Torcello. Posto molto elegante e di fama internazionale. Ci costò un patrimonio ma ne valse di sicuro la pena. Ci sposammo nel tardo pomeriggio e la cena sembrò non finire mai. Ricevemmo un sacco di bei regali, la gente ci fece gli auguri. Tutto in regola, tutto perfetto, da sembrare proprio un matrimonio come tanti

Giacomo era felice anche per me. Era convinto che il suo grande amore sarebbe bastato per tutti e due e che avrebbe colmato il vuoto della mia apatia. Mi era tutto indifferente, non riuscivo proprio a spiegarmi come avessi ceduto e avessi deciso di sposare una persona che non amavo. Certo non lo detestavo, né mi era del tutto indifferente, ma l’amore vero era altra cosa ed io lo sapevo bene.

Io non volevo niente, non amavo nessuno, forse volevo solo morire.

All’ultimo momento, nel pomeriggio, non volevo più sposarmi, né vestirmi. Mi prese una specie di panico, volevo dormire, andare a letto e rinviare, a data da destinare, il matrimonio. Allora chiamarono Giacomo, anche se lo sposo non avrebbe dovuto vedere la sposa prima del sì. Lui accorse tutto trafelato, mandò via tutti quelli che mi circondavano e si mise ad accarezzarmi le braccia, poi le gambe e infine mi fece un massaggio ai piedi. Non disse una parola, ma si sedette accanto a me e mi guardò, con amore. Mi accorsi che accanto a lui sedeva pure Nero e anche lui mi guardava allibito. Mi misi a ridere e gli dissi di aiutarmi a mettere il vestito da sposa e a armi il velo. Nero ci guardò, restò ad osservarci fino a vestizione ultimata e poi se ne andò sconsolato. Mi sentii come una bambina il giorno della sua prima comunione, non come una sposa il giorno delle sue nozze. Mi misi il vestito e Giacomo m’aiutò pure a pettinarmi e a scegliere le scarpe giuste.

Per un lungo periodo, dopo la mia depressione, io non mi sapevo più vestire né pettinare e Giacomo mi fu vicino e mi aiutò a riprendere queste mansioni, che io consideravo inutili.

Giacomo mi vestì il giorno delle nostre nozze, come mi vestiva sempre. Mi lavava, mi spogliava, mi preparava da mangiare, si prendeva cura di me, di mia madre, del mio gatto, cercava di dare un senso alla mia vita.

Quella sera mangiammo di gusto tutte le prelibatezze che quel grande ristorante aveva preparato per noi e i nostri ospiti. Fu un vero successo. Ad una certa ora decidemmo di andarcene. Salutammo tutti i commensali e scappammo via. Uno dei regali di nozze fu una notte al Danieli di Venezia e ci dirigemmo, con un taxi acqueo, al nostro albergo da sogno.

Giacomo volle prendermi in braccio, per varcare la porta della stanza d’albergo. Io lo trovai un gesto strano e inutile. Non era la nostra casa, ma solo il rifugio di una notte.

Non ho un gran bel ricordo di quella esperienza. Ero molto stanca e avevo nostalgia della mia bella casa, del mio gatto, del mio padiglione di lavoro dove finivo quasi tutte le mie serate, dando un ultimo tocco all’opera a cui stavo lavorando.

Caro Ennio,

mentre mi stavo spogliando e pettinando, davanti allo specchio, per un istante pensai che ci potessi essere tu, di là in camera da letto, che mi aspettavi e mi venne da piangere, anzi mi mancò il respiro. Mi ricordai ciò che provavo poco prima di fare l’amore con te e per un attimo mi sembrò di svenire, tanto era forte e sconvolgente la mia sensazione.

Ma vicino al letto nuziale dovetti risvegliarmi dal mio torpore. C’era Giacomo davanti a me, c’era l’uomo che avevo sposato, quello che mi amava tanto e che sembrò capire a cosa stessi pensando.

Si fece l’amore come eravamo abituati, senza particolare trasporto, ma con soddisfazione reciproca. Tutto lì, niente di più e niente di meno di tutte le altre volte.

Il giorno dopo tornammo a casa nel pomeriggio. Non avevamo previsto nessun viaggio di nozze o altre cose che facevano tutti gli sposi. Noi non eravamo preparati al nostro matrimonio e tantomeno a tutte le stranezze che comporta quel rito.

Mia madre ci accolse con calore e ci preparò una cena sontuosa.

Io, in attesa di andare a tavola, non mi sentivo stanca e me ne andai nel mio studio a lavorare. Lasciai Giacomo in cucina a chiacchierare con la suocera. In compagnia di Nero, me ne andai verso l’unico posto al mondo dove mi sentivo in pace con me stessa. Stavo ultimando una scultura che mi richiedeva un grande sforzo fisico e mentale, dovevo saldare del ferro, scolpire del marmo, era un caos dal quale non era ancora emerso ciò che volevo. Non riuscivo ancora ad avere la meglio sulla materia informe. Non c’era l’anima in ciò che stavo plasmando ed ero un po’ sconsolata. Nero mi guardò e si accovacciò accanto a me, come sempre. Posai la saldatrice, mi tolsi la maschera protettiva e iniziai a parlare con il mio gatto.

Anche in clinica, tanto tempo prima, parlavo con lui, perché era l’unico essere vivente che aveva il coraggio di starmi vicino. Restava accanto a me anche se lo maledicevo, gli dicevo cose orribili e lo scacciavo via. Lui si spostava, quando gli tiravo dietro qualche pennello o uno traccio sporco e poi tornava accanto a

me, magari leccandosi qualche macchia di colore che gli era rimasta sul suo folto pelo. Nero sembrava sapere che io l’amavo comunque. Per certi versi assomigliava a Giacomo. Tutti e due restavano accanto a me, nonostante il mio carattere introverso ed insopportabile.

Cominciai a coccolarlo e a guardarlo negli occhi. Nero abbandonò il suo muso nelle mie mani, lasciò che gli pulissi gli occhi e cominciò a fare le fusa.

“Stupido gatto”, dissi, “neanche tu hai mai capito che non me ne frega niente di te, come di Giacomo o della rompiballe di mia madre. Io non amo più nessuno, ve lo dovete mettere in testa. Potrei anche uccidervi tutti e tre senza battere ciglio, o obbligarvi ad andarvene, senza soffrire.

Qui la padrona sono io. Sono padrona del mio tempo, dei miei sentimenti, di questa grande casa e di te, stupido gatto. Ti potrei scuoiare e farmi un collo di pelliccia con questo tuo bel manto, non mi incanti, sai, con le tue moine.” Continuai a dire un sacco di stupidaggini e non m’accorsi che Giacomo era dietro di me e stava ad ascoltare tutto ciò che dicevo, con uno strano sorriso sulle labbra. Finalmente mi raggiunse, mi prese dolcemente tra le braccia e mi diede un bacio, così da zittirmi e farmi capire che lui non aveva creduto a una sola delle terribili parole che avevo appena detto al mio gatto.

“È pronto in tavola e ti stiamo aspettando, vai a sistemarti e non farci più attendere.”

“Arrivo subito, solo un attimo e sarò da voi.”

Bella figura da sciocca che avevo appena fatto, ma la colpa era di Giacomo. Non

si sta a origliare dietro le porte, non sta bene. Nero corse dietro al suo padrone. Di sicuro aveva più fame di me.

Mentre mi lavavo le mani, per scendere a tavola, mi venne da pensare che ora che eravamo sposati, la figura di mia madre per casa poteva risultare un po’ ingombrante. Anche per lei, ora che aveva uno spasimante, c’era poca privacy. Forse dovevamo trovare una soluzione, se ne doveva andare. Poteva tornare nel nostro vecchio appartamento di famiglia a Spinea, che non volle mai affittare e nel quale a volte ritornava, quando faceva tardi, dopo il cinema con le amiche.

Ma mia madre viveva per me, per accudirmi, non pensava che fossi guarita e anche l’idea del mio matrimonio con Giacomo non le era proprio piaciuta.

Non si diede pace e mi pregò di non fare quel o sino all’ultimo momento. Quattro giorni prima della cerimonia mi prese in disparte e mi invitò a riflettere. Mi disse che non vedeva il motivo di rinunciare alla convivenza per il matrimonio, che eravamo tutti e due ancora troppo giovani e che mi sarei presto pentita di ciò che stavo per fare. Aggiunse, con un velo di apprensione, che non mi vedeva felice con Giacomo. Secondo lei lo facevo solo per noia e per farle un dispetto. Insinuò persino a un presunto interesse economico, da parte del mio futuro marito. Io ero ricchissima, un buon partito, solo così si spiegava l’insistenza nel volermi sposare ad ogni costo.

In fine se ne uscì con una frase che mi preoccupò, anzi mi incuriosì. Sostenne che il mio futuro marito potesse essere un pericolo per me. Se l’avessi sposato avrei corso un brutto rischio.

Io mi misi a ridere e le dissi che la sua gelosia, nei confronti di Giacomo era ridicola e che non doveva temere nulla da lui, perché ci amava tutte e due. Lo aveva dimostrato tante volte prendendosi cura anche di lei, quando io non volevo

farlo. Le feci notare che le sue affermazioni erano dettate da una profonda cattiveria e ingratitudine.

Ma lei se ne andò scuotendo la testa e ribadendo di non sposarmi, che me ne sarei pentita molto amaramente, nel giro di poco tempo.

A pensarci bene mia madre non aveva torto, non c’era alcun motivo di sposare Giacomo. Non ero incinta, non lo amavo e forse ero in pericolo. Le madri sono così, avvertono cose che nessuno può sentire, chissà.

Scesi in cucina, per la cena, pensando a tante cose negative e il contrasto con l’aria di festa che avevano creato quei due mi sorprese.

Il menù era interessante. C’era del buon pesce al sale, delle linguine al nero di seppia, delle sarde fritte, che erano la ione di Giacomo. Il dolce l’aveva preparato Monica, la mattina precedente, una squisita torta alla ricotta e cioccolato, la sua specialità.

Mangiammo tutti di gusto e si bevve a volontà. Forse sarebbe stato giusto che noi due, novelli sposi, assimo da soli quella serata, ma non ne risentimmo affatto. Si stava bene, e non pensammo ad altro che a mangiare e a parlare della cerimonia del giorno prima, del bellissimo albergo di Venezia e di tante altre cose leggere, piacevoli, rilassanti. A fine cena mia madre ci salutò e se ne andò a letto. Aveva bevuto molto e pareva un po’ brilla. Tutto il disastro della cucina l’avrebbe sistemato Monica, il giorno dopo.

Una volta arrivati nella nostra bella camera da letto, mentre mi spogliavo, informai Giacomo dell’invito che mi aveva fatto Laura il giorno delle nostre

nozze. Ci aveva invitati a raggiungerla a Londra per una mostra di un noto artista, che era un suo protetto. Lo aveva lanciato lei, anni prima nel mondo dell’arte contemporanea e ora stava raccogliendo i frutti della sua intuizione.

Caro Ennio,

io sapevo che tua madre non era molto simpatica a Giacomo e che tale sentimento era ricambiato, ma m’illudevo che quell’invito potesse essere una specie di viaggio di nozze, per noi due. Avremmo soggiornato nel mio appartamento di Londra. Giacomo non mi sembrò molto entusiasta ma sorrise, cominciò a baciarmi ovunque e mi disse che tutto poteva attendere. Quella sera c’eravamo solo noi due e avevamo tanta voglia di fare l’amore e non pensare più a nulla. Fu una notte dolcissima piena di tenerezza, di carezze, di baci e persino di altro cibo. Verso le quattro del mattino ci tornò la fame. Giacomo scese in cucina a prendere il resto della torta e giocammo a imboccarci e a ridere, a bere e a tornare a fare l’amore, ancora e ancora.

Sfinita, verso mattina, mentre lui era crollato e dormiva di gusto, io restai ad assaporare la felicità che avevo appena vissuto con mio marito. Era la prima delle mie piccole felicità che provavo con lui. Stava già svanendo, ma fu molto intensa e appagante.

Caro Ennio,

continuai a chiedermi quale amore si potesse ritenere, nella vita di ognuno, più grande, più intenso di un altro. O se invece ogni amore non fosse diverso e avesse una sua storia, una sua identità e non si potessero fare paragoni. Come potevo essere tanto ottusa e continuare a pensare che l’unico amore degno di tale nome fosse solo quello che avevo provato per te?

Non era lo stesso sentimento, non avrei mai più provato ciò che provai con te, ma l’amore di Giacomo aveva una sua valenza, un senso. Io l’amavo e quella sera ne ebbi la conferma. Mi dovetti arrendere all’evidenza. Io amavo Giacomo e lui amava me. Era giusto così, eravamo marito e moglie, non poteva esserci nulla di più reale e vero che quella semplice affermazione.

Tu eri stato il primo amore, l’amore della mia adolescenza, l’amore pazzo che forse è meglio non sperimentare. Giacomo era mio marito, il mio migliore amico. Mi aveva raccolto dopo una caduta, mi accudiva, mi amava, mi adorava. Io lo lasciai fare, convinta di non poterlo mai ricambiare e invece ebbe ragione la sua tenacia, la sua costanza. Dopo quella notte, io mi rassegnai all’evidenza: anch’io l’amavo, e dovevo lasciarti definitivamente andare. Avrei continuato tutta la vita a chiedermi cosa fosse l’amore vero, quello che ti fa tremare le ginocchia e scoppiare il cuore dalla gioia, arrossire di vergogna, ma non era ciò che provavo, in quel periodo, per Giacomo. Dovevo farmene una ragione e imparare a convivere con un amore tranquillo e sereno, che non ti mette angoscia, né ti fa piangere o ti chiede sacrifici, ma molto semplicemente ti dà tregua, ti fa ancorare a un porto sicuro, ti fa stare bene.

Caro Ennio,

da quella sera ti avrei di sicuro pensato sempre meno. Era giusto così.

Il giorno seguente lo ai a lavorare e ricevetti una telefonata di Paola che mi chiedeva come si stesse da sposati e se avevo intenzione di accettare l’invito di Laura per la mostra di Londra.

In un primo momento decisi di non muovermi da casa e godermi la mia vita da

sposina novella ma dopo la telefonata della mia amica cominciai a pensare che ci avrebbe fatto bene un piccolo viaggio. Stare un po’ lontani da mia madre e dal lavoro avrebbe fatto bene a tutti e due. Paola mi aveva anche incuriosita descrivendomi le numerose doti dell’artista che andavamo a scoprire a Londra. Si chiamava Carlo Salviati ed era uno scultore e pittore di notevole bravura. Chiudendo la telefonata aveva aggiunto, scherzando, che ci saremmo anche gustate l’occhio, noi donne, perché era veramente un bel ragazzone, quel Carlo, anzi disse proprio che era un “fico da paura”.

Verso sera Giacomo mi raggiunse nel mio padiglione di lavoro e restò a fissarmi in silenzio, per quasi dieci minuti. Si decise a parlare quando Nero si strusciò tra le sue gambe e rimase a osservare la scena, quasi ad incitare l’imbranato del suo padrone a farsi avanti.

Giacomo era molto eccitato e teneva le mani dietro la schiena come a nascondere qualcosa che mi voleva regalare. Si avvicinò, con fare sornione e mi porse un piccolo pacchetto confezionato con nastro blu e carta bianca e riuscì solo a dire: “Questo è per te, l’ho creato quasi a occhi chiusi, pensando alle tue labbra, al tuo sorriso, alle tue braccia bianche, al tuo seno.”

Io mi misi a sorridere e molto stupita e incuriosita mi avvicinai a lui.

Giacomo mi fece notare il biglietto che vi era nascosto tra la carta e m’invitò a leggerlo. Erano parole d’amore struggenti e intense che accompagnavano un suo dono speciale: un profumo che lui aveva inventato solo per me, solo per il suo grande amore.

Non seppi mai capire perché mi misi a piangere e mi buttai tra le sue braccia. Lo baciai, come se avessi ricevuto il più grosso dei diamanti o le chiavi di una strepitosa fuoriserie. Non era il primo profumo che mi donava, ma fu imprevista

e intensa la gioia che mi procurò. Piangevo e lo ringraziavo, mentre lo scartavo, prima ancora di annusarne la fragranza, certa che fosse di sicuro eccezionale.

Aveva delle note fiorite che riuscirono a stordirmi, meglio di un elisir d’amore. Quell’essenza, mi travolse e finimmo nella nostra camera a fare l’amore, come due amanti, più che come marito e moglie.

Quando scendemmo per la cena ci accorgemmo, con infinito piacere, che eravamo soli.

Mia madre era uscita con il suo amico e ci aveva lasciato la cena pronta e un biglietto di scuse per la sua assenza.

Finalmente soli, ci prese una tale euforia che sembravamo due ragazzini alle prese con la loro prima cena insieme. Mi ero spruzzata il suo profumo tra i capelli, sul collo, ovunque e non sentivo il sapore del cibo, ma andava bene così. Doveva essere afrodisiaco o assomigliare a una pozione magica, scoperta dal mio alchimista, in un vecchio testo di stregoneria, perché mi sentivo molto eccitata. Giacomo doveva assecondare questa sua dote, era proprio un grande maestro profumiere.

Finita la cena ci spostammo in salotto a bere il caffè.

Non avevo voglia di chiedergli se potevamo andare o no a Londra, non volevo rovinare la serata con discussioni che potevamo rimandare al giorno dopo.

Quella sera Giacomo si comportò in modo strano, sembrava covare qualcosa di tremendo. Non riuscivo a spiegarmi perché non volesse venire con me a Londra, né il motivo di quel suo ripensamento. Dal momento in cui gli parlai di quel viaggio, mio marito non parve più lo stesso. Come se temesse che, con quella novità, venisse meno l’incanto o si rompesse il precario equilibrio che sembrava esserci finalmente tra noi. Giacomo non voleva proprio sentir parlare di quella vacanza a Londra e non sapeva come dirmelo. Ecco spiegato lo splendido regalo, il suo profumo e tutte le cose carine che stava facendo per me. Il mio mago Merlino, con la sua pozione magica, ebbe successo anche quella notte. Ma non volle parlare d’altro se non d’amore.

Il giorno seguente però io m’impuntai, ne feci una questione di principio: con lui o senza di lui decisi di raggiungere Laura, a Londra. Nel pomeriggio, mentre stavo ultimando un mio lavoro, mi chiamò Paola, per confermarmi che non si sarebbe persa quella mostra per nulla al mondo. Pochi istanti dopo, Giacomo entrò nel mio laboratorio. Era stanco e annoiato.

Ci sedemmo vicini, sul divano ed io chinai la mia testa sulla sua spalla. Restammo per un po’ in silenzio e poi io provai, per l’ennesima volta, ad affrontare l’argomento che ci stava a cuore ed ebbi la conferma che mio marito non sarebbe mai venuto a Londra con me.

Io mi irritai e gli dissi, con un tono alto di voce, che non era giusto detestare tanto Laura e che era solo quello il motivo del suo rifiuto. Giacomo, con un bacio improvviso, mi riportò alla calma e aggiunse che ero libera di andare ovunque volessi e che niente e nessuno mi avrebbe costretta a restare con lui. Non attese la mia risposta e s’alzò. Prese in braccio Nero e se ne andarono nel laboratorio di creme e profumi.

Fui lasciata da sola, nel silenzio del mio grande studio. Mi venne da piangere. Notai, con rammarico, che mi mancava di più il mio gatto che mio marito. Non capii perché, solo poche ore prima, sembravamo tanto felici e in serata ci

eravamo sentiti due estranei.

Di sicuro la nostra coppia che non funzionava, non avremmo dovuto sposarci. Come sempre aveva ragione mia madre. Non avevo fame, decisi di non cenare. Me ne restai nel mio padiglione a lavorare. Che triste situazione.

Chiamai Laura e le confermai il mio arrivo, per la serata del giorno dopo.

Quando sentì la mia voce, tua madre capì subito che qualcosa non andava e mi chiese come mai Giacomo aveva deciso di lasciarmi da sola, pochi giorni dopo le nozze. Rimasi in silenzio e lei capì che non doveva insistere sull’argomento. Ci accordammo su alcuni dettagli della mia visita e mi confermò che aveva fatto sistemare il mio appartamento, messo in funzione ogni cosa perché il mio soggiorno fosse sereno e piacevole. Aggiunse che l’artista, Carlo Salviati, non vedeva l’ora di conoscermi e mi chiese se poteva già fissare un appuntamento per farci incontrare. Le dissi subito di no, che ci volevo pensare e che in fondo io non ero interessata solo alle sue opere, ma alla mia vacanza a Londra. Volevo stare un po’ in pace per conto mio, pensare alla mia vita, a ciò che stavo combinando, alle scelte che avevo fatto fino ad allora.

In fondo, con il matrimonio volevo che qualcosa cambiasse, nella mia esistenza, ma non amavo mio marito, non avrei dovuto fare quel o. Volevo stare un po’ da sola per pensare a quanto scema fossi stata a sposarmi solo per noia, per ripicca verso lo strapotere di mia madre, per disperazione.

Una volta chiusa la porta del laboratorio mi ritrovai sola, mi guardai intorno e feci un profondo respiro. C’erano tre grandi sculture in attesa di essere ultimate, ma non le sentivo mie. Nessuna delle tre rappresentava ancora ciò che volevo esprimere. Stavo vivendo un momento di stasi, di completa apatia, di vuoto mentale. Da quando Giacomo mi aveva chiesto di sposarlo la mia mente s’era

fermata, non avevo prodotto nulla di buono. Non avevo più idee, come se qualcuno m’avesse svuotata. Il mio cuore non batteva più come un tempo, non mi emozionavo più. Iniziavo una scultura, ci lavoravo per un giorno o due e poi la lasciavo come se non fosse opera mia, come se la volessi disconoscere, abbandonare. Stavo vivendo una crisi profonda dalla quale non sapevo come uscire.

Rimasi a dormire sul divano che stava nella piccola stanza attigua al padiglione. Non me la sentivo di raggiungere mio marito a letto. Ero triste e m’addormentai quasi subito.

Fu una notte piena di incubi, come non mi accadeva da tanto tempo e dovetti alzarmi a prendere dei calmanti. Sognai di te, Ennio, di tua figlia, che non vedevo da tanto tempo e della notte in cui tu mi chiedesti di morire con te. Sognai che finivamo spappolati dalla tua pistola. La mia anima vagava, come un occhio impietoso, sul letto e rivedeva i nostri corpi uniti, il mio sangue sul tuo, il mio cervello sulla tua spalla e il tuo sulla testiera del letto. Forse avrei dovuto assecondarti, avrei dovuto seguirti anche nella morte. Qualsiasi cosa fi per continuare a vivere mi riusciva male. Non sapevo più vivere, senza di te, amore mio.

L’indomani mi alzai molto tardi. Venne mia madre a svegliarmi e fu molto stupita nel vedermi sdraiata su quel divano. Sembrò felice di vedere tutte le sue predizioni avverarsi. Lei non amava mio marito e fu uno strano sorriso quello che le vidi sulle labbra, quasi una smorfia di dolore, non so. Non mi disse nulla, ma il suo sguardo smarrito fu più eloquente di qualsiasi discorso.

Raggiunsi Giacomo in cucina e insieme facemmo colazione.

Nero mi venne vicino, mi saltò in braccio e si avvicinò al mio viso, quasi a

volersi far perdonare per avermi lasciata sola e aver ato la notte con il suo padrone. Il mio gatto mi dava più consolazione di tante persone che in quel momento avevo intorno a me.

Giacomo stava telefonando e mia madre stava chiacchierando con Monica. Parlavano del tempo, della neve che era scesa durante la notte e del film che una delle due aveva visto la sera prima. C’era la calma tutto intorno a noi. La stessa calma che era scesa con la neve. Si sentivano i rumori attutiti dal manto bianco che aveva ricoperto ogni cosa, durante la notte. Nero era già uscito a ispezionare il giardino e si vedevano le sue impronte sul marciapiede della casa. Non volevo turbare quella pace con il mio annuncio di partenza per Londra in tarda serata. Non dissi nulla, me ne andai di sopra in camera mia a farmi una doccia e a preparare le valigie. La giornata ò veloce e uscii anch’io in giardino ad aiutare Giacomo a spalare la neve dal viale d’entrata della casa. Pranzammo da soli perché mia madre se andò a incontrare il suo amico Filippo in centro.

Non riuscimmo a parlare di noi ma solo di lavoro. Io gli spiegai le cose che doveva fare per me dal commercialista e lo pregai di ordinarmi del marmo e altro materiale. Al mio ritorno, intendevo ultimare le mie tre installazioni. Gli ricordai di portare Nero dal veterinario, per le vaccinazioni e di non mancare di pagare due fatture di fornitori che erano rimaste in sospeso.

Poi arrivarono delle telefonate e mentre io rispondevo vidi Giacomo uscire dalla cucina e recarsi nel suo laboratorio. Il pomeriggio ò in un baleno e arrivò l’ora della mia partenza.

Raggiunsi mio marito nel suo studio e lo salutai con un bacio. Lo accarezzai sulla fronte e lo rassicurai, dicendogli che sarei stata di ritorno solo dopo qualche giorno. Gli spiegai che era anche per lavoro che facevo quel viaggio e che lui mi sarebbe mancato da morire.

Riuscii a salutare pure mia madre, che era da poco arrivata a casa e tutta trafelata mi venne incontro. Sembrò cadere dalle nuvole, credeva che Giacomo ed io avessimo fatto pace e che non avrei di sicuro lasciato solo mio marito, per andare a vedere una stupida mostra di un artista che neanche conoscevo. Fece una scenata pazzesca e mi disse di pensarci bene che come madre si sentiva in dovere di consigliarmi di non partire, di chiedere scusa a mio marito, disfare le valigie e disdire il volo. Ma non sembrava dire sul serio, anzi pareva finalmente vedere avverarsi tutte le sue fosche previsioni. Mi misi a sorridere, le diedi un bacio sulla guancia e le dissi di fare la brava con il suo Filippo e di comportarsi bene. Poi mi voltai, presi in braccio Nero e lo strinsi forte a me, quasi a non volerlo più lasciare. Quello per il mio gatto fu di sicuro il saluto più caloroso che mi riuscì di fare.

Stavo sulla porta di casa, con la valigia in mano. Il taxi m’aspettava sul vialetto e Giacomo davanti a me, mi guardava quasi inebetito, assente. Pareva una statua di sale, già morto, fulminato dalla mia indifferenza.

Ci salutammo. Io non sapevo come tornare indietro, avrei voluto riavvolgere la pellicola e tornare sulla mia decisione, per non vederlo soffrire così, ma non era possibile.

Nella vita ci sono dei momenti che non si possono cambiare, sono già stati scritti per noi.

Voglio dire che si ha la sensazione di non poter fare altro che assecondare scelte sbagliate.

Solo in quel momento, sulla porta di casa, guardando gli occhi di mio marito mi resi conto di fare una cosa sbagliata, ma non potevo più fermarmi, né tornare indietro.

Me ne andai, chiusi la porta, camminai sulla neve fresca, salii sul taxi, che già da un po’ mi stava aspettando e mi abbandonai sui sedili di quell’auto che m’avrebbe portata via dalla mia tana, dal mio nido sicuro, dove tutto era tranquillo e a portata di mano.

Partii senza averne più voglia, senza un senso, ma lo feci e basta.

Persino il mio gatto cercò di rincorrermi e di mettersi di traverso per fermarmi, ma niente e nessuno lo poteva fare.

Temevo ci fossero dei ritardi nella partenza a causa della neve ma non fu così. Tutto andò liscio e dopo poche ore ero già a Londra.

Laura mi venne a prendere all’aeroporto e fu molto colpita nel vedermi così pallida e sconvolta, tanto che mi chiese se il volo fosse andato bene. Io, con un filo di voce, dissi che tutto era andato per il meglio ed ero felice d’essere a Londra con lei. Tua madre mi strinse a lungo tra le braccia, cercò di sistemarmi i capelli e abbottonarmi il cappotto perché faceva tanto freddo. Mi chiese di Giacomo ed io non le risposi.

Uscimmo dall’aeroporto, lasciammo la folla, la confusione e di nuovo, abbandonata tra i sedili di un taxi, mi sentii stanca, molto stanca.

Mi sembrò di non essere più sicura di me stessa, di non poter stare lontana da casa, dalle mie abitudini, dai miei punti di riferimento, da Giacomo, da mia madre, dal mio gatto.

Avevo lasciato a casa una parte di me, come se mi fossi strappata il cuore, i capelli, la pancia, come se stessi sanguinando e per un attimo guardai, dietro di me, la strada buia, per vedere se si vedesse la scia di sangue che stavo perdendo. Mi sembrò d’essere in fin di vita e mi rifugiai tra le braccia di tua madre.

Carlo

Laura non ebbe il coraggio di accompagnarmi nel mio appartamento per poi dovermi lasciare da sola e così mi portò a casa sua e mi restò vicina per gran parte della nottata, come si fa con una figlia malata. Guardandomi intorno, nella bella casa di tua madre, mi resi conto che di sicuro viveva da sola. Non c'era traccia di qualche presenza maschile, li dentro. Forse aveva qualche collega che la stimava, forse qualche artista si fingeva innamorato, per prendersi gioco di lei e poter sfondare nel mondo dell'arte contemporanea. Ma di fatto tua madre non pareva aver bisogno d'amore, voglio dire che non avrei mai visto nessuno al suo fianco. Per cena riuscii a mangiare solo una ciotola di yogurt e un biscotto. Parlammo un po’ di tutto, del mio lavoro, di mio marito, della mia voglia di morire.

Caro Ennio,

tua madre è sempre stata più forte di me, anche dopo la tua morte lei seppe reagire meglio di me, lei ti conosceva di più e forse s’aspettava da sempre un tuo gesto folle. Lei s’aspettava che tu ti suicidassi, non so, non gliel’ho mai chiesto, ma ho sempre avuto questa sensazione.

Prima di addormentarmi pensai a Giacomo e a mia madre, ma non avevo voglia di chiamarli e di sentire la loro voce, volevo dimenticarmi di tutto e di tutti, solo per una sera, solo fino al giorno dopo, volevo una tregua.

L’indomani, al mio risveglio, mi sentivo molto meglio e in forma. Feci una colazione abbondante e mi spaventai tanta era la bellezza dell’appartamento di tua madre. L’avevo visto altre volte ma mi sembrò ancora più maestoso e grande di come me lo ricordavo. È situato in pieno centro, zona Whitechapel, arredato

con gusto, e pieno di opere di artisti contemporanei, mi piaceva la terrazza che dà sui tetti e sul giardino interno. Anche in pieno inverno, aveva delle piante sempreverdi.

Laura non aveva il coraggio di lasciarmi andare nel mio appartamento, ma io la scongiurai, avevo bisogno di stare un po’ da sola e di rivedere le mie cose. Certo non era grande come il suo superattico, ma nel mio piccolo bilocale ci sarei stata bene, e poi non volevo più abusare della bontà di tua madre. Aveva di sicuro degli impegni di lavoro e poi doveva presentarmi quel Carlo Salviati e farmi vedere tutte le sue opere, raccolte nella mostra che lei stessa aveva promosso. Sedute in cucina bevemmo un’ultima tazza di tè e poi ci demmo appuntamento alla sua galleria per il tardo pomeriggio. In serata dovevamo andare a cena con alcuni curatori molto importanti, per il mio lavoro. Laura aveva deciso, dopo avermene parlato a lungo, di programmare una mostra collettiva nella sua sede e aveva in mente di esporre anche tre miei lavori, voleva che un’intera stanza fosse riservata solo a me. Aveva molto a cuore la mia carriera e cercava in tutti i modi di promuoverla con successo sia a Londra che a Losanna. In Italia e in particolare a Milano mi promuoveva la mia amica Paola, ma senza l’amore e l’attenzione che mi riservava Laura. Forse tua madre mi voleva bene e forse sentiva che tu eri ancora dentro di me. Percepiva che tu non ti eri ancora allontanato del tutto da me, attraverso la mia persona credeva di tenerti vicino. Tua madre mi amava perché amava te, amore mio.

Arrivata al mio piccolo appartamento avrei voluto andarmene a letto e risvegliarmi solo per l’appuntamento del pomeriggio. Era tutto lindo e il frigorifero era pieno di cose buone.

Andai alla finestra e mi rincuorai, anche da me il panorama era stupendo. Il mio appartamento era situato nella zona di Shoreditch. Una parte della città che, dopo i restauri di interi palazzi e varie rivalutazioni, era diventata molto esclusiva.

Chiamai finalmente casa e restai per un po’ al telefono con Giacomo. Era strano

e sembrava avere il fiatone, come chi ha appena fatto una corsa. Non gli dissi del mio malore, anche perché era tutto ato, stavo bene, mi sentivo in forma. Mi mandò un bacio e mi disse che era impegnato per lavoro. Chiuse la conversazione con la preghiera di divertirmi e di tornare presto. Avevo il desiderio di vedere gente, di parlare, di ridere. Mi venne voglia di andare per negozi ad acquistare qualche bel vestito per le due o tre serate mondane che m’aspettavano. Denaro ne avevo, voglia di spendere anche, conoscevo quasi tutti i negozi di grande firma che c’erano nel mio quartiere, cos’altro stavo aspettando?

Chiamai mia madre per rassicurarla che tutto andava per il meglio.

Fu una telefonata molto inquietante. Mi disse che andava tutto bene ma poi, prima di salutarmi, m’informò di alcune telefonate strane che Giacomo aveva fatto a una certa Giselle. Lei aveva involontariamente sentito cosa si stavano dicendo. Mio marito fece cenno ad alcune pillole e a una situazione penosa, che stava per finire. Forse si riferiva a un paziente della farmacia di suo padre, o a un amico malato, chissà. Sta di fatto che con questa Giselle mio marito si dilungò dicendo frasi da “buffone innamorato”, così disse mia madre. Non ci potevo credere e le chiesi se avesse sentito bene, o non avesse travisato alcune parole. Come al solito, lei non perdeva mai il vizio di denigrare mio marito, non lo sopportava, non l’aveva mai amato.

La pregai di stare tranquilla che di sicuro c’era una spiegazione per tutte le sue ansie. Io ero certa dell’amore di Giacomo e niente e nessuno m’avrebbe convinta del contrario.

Posai il telefono e mi guardai intorno come se non mi sentissi più i vestiti sulla pelle, mi pareva d’essere nuda. Avevo freddo e paura, allo stesso tempo. Rovistai nella borsa ed estrassi la mia scatolina porta pillole d’argento, che m’aveva regalato mio marito, tanto tempo prima, quando iniziò a confezionarmi i farmaci per la depressione. In quel periodo assumevo tre pastiglie al giorno. Appena

uscita dalla clinica prendevo dei farmaci di case farmaceutiche internazionali, quelli che vengono prescritti a tutte le persone malate come me. Ma col tempo e col fatto che Giacomo era farmacista ebbi la fortuna di avere dei farmaci, a base di erbe, preparati proprio per me, nel laboratorio della sua farmacia. Mi curava lui, ero nelle sue mani, sia come dosi che come contenuti. Io non mi preoccupai mai di capire cosa mi stesse propinando, mi fidavo e poi le pillole che mi dava mi facevano stare bene e non erano nocive. Avevano meno controindicazioni ed effetti collaterali.

Mi venne un conato di vomito e dovetti correre in bagno. Per un momento pensai che forse ero incinta ma poi capii che era paura. Forse mio marito mi stava avvelenando. Tornai in soggiorno e aprii la scatola delle pillole. Erano di tre formati o meglio ce n’erano di grigie e di bianche, alcune tonde e alcune ovali. Io sapevo solo che dovevo prendere le due bianche al mattino e la grigia alla sera. Per un momento la suggestione fu tale che mi mancò il respiro e dovetti sedermi. Mi presi la testa tra le mani e mi misi a piangere. Non era vero che io mi fidavo ciecamente di Giacomo, anzi attendevo la sua vendetta, per averlo sposato senza amore e per avergli fatto sempre capire che non m’importava nulla di lui, per avergli detto, senza vergogna, che io amavo ancora te.

Caro Ennio,

in un momento mi resi conto che forse mio marito aveva sempre tramato per uccidermi, per avere la mia eredità, per arricchirsi alle mie spalle e forse ci sarebbe finalmente riuscito. Solo così si poteva spiegare il fatto che m’avesse abbandonata, pochi giorni dopo le nozze. Se uno ti ama non ti lascia andare da sola a Londra, se uno ti ama vive del tuo respiro, ti segue anche in capo al mondo. Ma forse stavo solo farneticando, come al solito la mia malattia non mi faceva vedere le cose in maniera obiettiva ed ero pronta a dare retta alle dicerie di mia madre, che da sempre aspettava la sua rivincita. Voleva vedere Giacomo cacciato dalla nostra casa e noi due riprendere la nostra vita da dove l’avevamo lasciata. Mia madre voleva essere l’unica persona a prendersi cura di me, non

voleva la mia felicità, non le era mai interessato vedermi serena, voleva che io dipendessi solo da lei.

Era ormai sera e dovevo raggiungere Laura alla galleria. Non ero andata a fare spese, avevo rimuginato e ripensato tutto il pomeriggio alle parole che mi erano state dette al telefono. Svuotai l’intera scatola di pillole dentro il wc e mi ripromisi di acquistare in farmacia quelle che prendevo quando mi dimisero dalla clinica. Mi ricordavo a memoria il nome del farmaco ma forse ci sarebbe voluta la ricetta. Potevo sempre parlarne con Laura e dirle che me l’ero dimenticate a casa e vedere se il suo medico mi poteva aiutare. Dio santo, in quale casino mi stavo mettendo, e forse non era vero niente, era talmente assurda la storia che avevo sentito da mia madre. Era proprio ciò che lei aveva sempre pensato di Giacomo, lei era convinta, da sempre, che quell’uomo fosse un pericolo per me. A pensarci bene Giacomo non piaceva neppure a te, amore mio.

Nel silenzio più profondo squillò il telefono. Era Laura che mi chiedeva di raggiungerla in galleria. Gli ospiti che mi volevano conoscere erano già arrivati. Risposi con calma e presi tempo dicendo che mi ero appena svegliata da un lungo sonno pomeridiano.

Basta, non pensai più a niente. Dovevo vestirmi e farmi bellissima. Era ora che qualcuno mi notasse, o s’accorgesse di me. Giacomo non mi amava. Non si può amare una che non ti ama, come ho fatto a non capire una cosa tanto elementare. Mi lusingava la sua abnegazione.

Bella incosciente che ero stata a sposarlo, forse mi meritavo proprio di morire. Ciò che mi faceva più rabbia era l’idea che avesse un’altra donna. Quella Giselle da dove diavolo usciva? Forse era la sua donna da sempre, forse volevano solo arricchirsi alle mie spalle. Ma come si può uccidere la moglie con delle pillole facilmente identificabili? Se voleva liberarsi di me avrebbe dovuto attuare un’altra strategia. Forse al mio ritorno mi sarei chiarita le idee. Forse avrei capito che la pazza era mia madre e che mio marito avrebbe continuato ad amarmi alla

follia.

In un quarto d’ora ero pronta, mi ero portata due bei vestiti neri molto eleganti, uno dei quali mi stava a pennello. Le spese pazze le rinviai al mattino seguente. Mi guardai un momento allo specchio, in poco tempo mi truccai ed ero bellissima. Chiamai un taxi che mi portò dritta alla galleria. La festa poteva incominciare, mi sentivo eccitata, frastornata ma anche risvegliata da un lungo letargo, più attenta. Non mi sarei più lasciata andare tra le braccia di uno che non amavo, non era possibile, non era umano, non era vero.

Arrivai alla galleria ed entrai.

Tua madre mi venne incontro e mi baciò con grande affetto. Tutti si girarono a guardarci.

Laura era bellissima, con un vestito verde mela lungo, con tanto di strascico, schiena e spalle scoperte. Tua madre ha fascino da vendere e, nonostante l’età, si veste ancora da sirena. Mi prese per mano e mi presentò a un sacco di gente, che io non avevo mai visto.

Per fortuna in un angolo vidi Paola e tirai un sospiro di sollievo. Ci salutammo e ci sedemmo vicine, lasciando che Laura fe gli onori di casa.

Paola capì che io avevo qualche problema. Mi disse che avevo una strana espressione, così le confidai d’aver perso la scatola delle mie pillole antidepressive e lei mi fu d’aiuto. Avevamo più o meno gli stessi problemi, la stessa storia.

Prese dalla borsa un flacone di pillole e me le diede senza dire nulla. Improvvisamente riconobbi quella boccetta mi ritornò alla mente il mio soggiorno in manicomio. Mi tornò una strana paura ma anche tanta euforia. Mi resi conto d’aver fatto molta strada da allora. Guardai Paola negli occhi e la ringraziai. Aveva uno sguardo triste la mia amica, in fondo sapevamo tutte e due che non si esce mai completamente da una depressione come quella che avevamo vissuto noi due. Forse era meglio se fossimo morte, chissà. Ci mettemmo a parlare di lavoro e mi fece i complimenti per le ultime quattro sculture che le avevo inviato a Milano, nella sua galleria. Due le aveva già piazzate e per una c’era l’interesse di un curatore famoso. Mi chiese se stavo lavorando. Voleva assolutamente rimpiazzare ciò che aveva già venduto. Mi aggiornò su come andava la vendita delle foto delle mani. Quella splendida serie di foto che avevo fatto a mio marito stava andando a ruba. Già, le mani dell’unica persona che s’era presa cura di me, non le vedevo stringersi attorno al mio collo, né impugnare un coltello per scannarmi. No, lui mi amava ed erano mani che mi avevano accarezzato ovunque suscitando solo piacere e tenerezza. Giacomo mi amava, ne ero certa,

Poi ci fu un momento in cui rimasi da sola. Mi guardai intorno e vidi Laura che si stava avvicinando a me accompagnata da un giovane uomo, vestito molto bene, anzi decisamente elegante.

Era Carlo Salviati, l’artista che avrei dovuto conoscere il giorno dopo. Si trovava per caso in zona e aveva deciso di are in galleria a fare due chiacchiere con Laura.

Mi alzai per stringergli la mano, cosa che non dovrebbe mai fare una signora educata e forse lui lo notò. Ci presentammo e risultò molto ossequioso, nei miei confronti, dal momento che io ero molto più famosa di lui. Io non dissi nulla delle sue opere, non le conoscevo e gli confermai che ci sarei stata, di sicuro, il giorno dopo alla sua inaugurazione. La mostra non me la sarei persa per niente al mondo. In un primo momento mi risultò quasi antipatico. Mi diede fastidio che,

subito dopo la presentazione, si fosse allontanato chiacchierando di lavoro con Laura, lasciandomi sola.

Era preoccupato per l’evento del giorno dopo, la sua prima mostra veramente importante e temeva che qualcosa andasse storto.

Mentre continuava a parlare con tua madre Carlo mi guardava con ostinazione, con curiosità.

A un certo punto mi sentii talmente in imbarazzo che mi dovetti alzare e andare a prendermi da bere. Stavo provando qualcosa, avevo le mani fredde e sudavo. Non vidi quell’uomo tutto insieme ma una parte di lui alla volta. Prima gli occhi, poi la bocca, il collo, le spalle, il suo corpo fino alla pancia e poi le gambe, la sua schiena, il suo bel fondo schiena. Ogni parte del suo corpo, che osservavo, mi attraeva, provavo un malsano desiderio di toccarlo. Lo volevo e capivo che non era solo un bell’uomo, ma poteva diventare il mio uomo. Aveva più o meno la mia età, i capelli neri cortissimi, gli occhi azzurri, le labbra fini, da bugiardo mentitore, le orecchie un po’ a sventola e una cicatrice sul labbro inferiore, proprio come te, amore mio. Mi venne un brivido lungo la schiena quando vidi quella sua cicatrice e il vizio di arci sopra i denti, mentre parlava, proprio come facevi tu.

Caro Ennio,

ecco spiegato il motivo della mia inquietudine, quel Carlo un po’ ti assomigliava.

Ero stanca e affamata. Mi avvicinai a Laura e le dissi che di lì a poco me ne sarei andata. Allora lei mi invitò ad accomodarmi nel suo studiolo, mi pregò di

attendere ancora qualche minuto e poi saremmo andate a cena da Sketch, in Conduit Street. Ci avrebbero fatto compagnia due curatori che Laura mi voleva presentare. Sperai che anche Carlo si unisse alla compagnia, almeno da avere un coetaneo vicino, ma non osai chiederlo al diretto interessato e tanto meno a tua madre.

Carlo, a una certa ora, se ne andò, mi venne a salutare e mi pregò di non mancare, la sera seguente, alla sua festa. Lo rassicurai e non lo persi di vista, mentre si allontanava.

La serata trascorse nella noia più totale. Poco prima di sedermi a tavola chiamai Giacomo e gli dissi che mi stavo annoiando a morte e che sarei rientrata, di sicuro, al più presto. Lo pregai di salutare mia madre e di dirle che andava tutto bene.

I due curatori erano svizzeri e parlavano malvolentieri in italiano, preferendo l’inglese. Ogni tanto cercavo di estraniarmi, di pensare ad altro. La discussione al mio tavolo verteva soprattutto sul denaro, sul valore di questo o quell’artista, sui premi internazionali che si stavano per bandire e di cui si sapeva già il vincitore. La vittoria non era determinata solo dal valore delle opere in concorso ma dall’influenza di alcune gallerie famose e dalla grinta dei relativi curatori.

Non avevo tanta fame ma mangiai tutto ciò che mi veniva messo davanti solo per fare qualcosa. Pensai a quanto ero ingrassata nel tempo, alle cose buone che tutti i giorni mi preparava Giacomo, alla sua ione per la cucina. Forse mi stava avvelenando con il cibo e non solo con le pastiglie. Stranamente mi venne da ridere, non riuscivo a vedere mio marito come un assassino.

Se mi fossi innamorata di quel Carlo non avrei comunque lasciato Giacomo: era la mia ancora di salvezza. Lui sapeva come prendermi quando mi venivano le

crisi di panico e stavo male, vomitavo, mettendomi a gridare e spaccando ogni cosa. Solo Giacomo poteva sopportare una pazza come me.

Ero una donna fortunata. Avevo un uomo che mi amava, viveva per me, cucinava per me, creava profumi solo per me e mi curava con le sue medicine. Non potevo desiderare niente di più, se non la libertà. Ero sempre talmente intontita da quei farmaci, che nei ritagli di tempo, nelle pause di lavoro, avevo solo voglia di dormire o di mangiare.

Caro Ennio,

non ero più la tua scricciola, il tuo erotto che non voleva mai nutrirsi. Non avevo più quell’acerbo corpo magro e perfetto che tanto ti faceva impazzire. Ero tonda, spaventosamente tonda, come le donne di Rubens, tutta pancia e cellulite, con meno voglie sessuali e più appetiti culinari.

Che disastro, non mi piacevo più. A volte mi detestavo talmente che mettevo dei drappi sugli specchi, per non vedermi. Ero proprio brutta. Ingrassavo, mi riempivo di strani brufoli e Giacomo sembrava impazzire d’amore per me. Non era una cosa normale.

Dopo il dolce e il caffè ci alzammo ed io seguii Laura verso l’uscita del ristorante. I curatori avevano in mente di finire la serata in un noto locale, per ascoltare un po’ di musica e bere ancora qualcosa. Forse uno di quei due era il fantomatico moroso di tua madre, forse rientrava nel loro gioco perverso fingere di non amarsi, per poi concedersi notti d'amore favolose. Chissà? Era tardi e io declinai l’invito, spiegando che ero un po’ stanca. Ci saremmo riviste l’indomani per chiarire altre cose di lavoro e poi, dopo la mostra di quel Carlo, sarei rientrata a casa. Mi stavo annoiando a Londra e non vedevo l’ora di ritornare alle mie solite giornate casalinghe.

Presi un taxi e in meno di cinque minuti ero già sotto casa mia.

Salendo in ascensore ebbi un momento di paura, non saprei dire ciò che provai, ma c’era qualcosa di magico e al tempo stesso terribile nella fine di quella serata. Non sapevo spiegarmi chi fosse in pericolo, cosa stesse per accadere, ma avevo paura, anzi era proprio terrore.

Entrai subito in casa, come se un assassino mi stesse per raggiungere dalla botola delle scale. C’era silenzio intorno a me. Chiusi la porta e mi misi a ridere e poi a piangere. Andai in camera da letto e presi subito delle pastiglie per calmarmi un po’.

Era la solitudine a farmi paura o il troppo alcol che avevo bevuto a cena. Era da tanto tempo che non restavo da sola, anzi a pensarci bene dall’uscita dalla clinica non ero mai stata proprio da sola, come in quel momento. Era tardi per chiamare casa e poi non volevo darla vinta a mio marito, non volevo fargli capire che senza di lui ero perduta.

Ero solo una stupida donna, viziata, malata, prepotente e senza carattere. Non avrei mai saputo stare da sola, avevo bisogno di compagnia, una qualsiasi compagnia.

Iniziai a spogliarmi, feci scivolare tutti gli indumenti a terra, prima il vestito nero, poi il reggiseno, le mutandine. Mi tolsi la collana e il bracciale e, calpestando tutto ciò che mi circondava, mi avviai verso la doccia. Fu una pausa molto rilassante che mi riportò con i piedi per terra e mi fece are tutti i brutti pensieri. Forse fu anche il benefico effetto delle pillole antidepressive che avevo appena preso, ma mi rilassai e mi venne pure sonno.

Uscita dalla doccia, mi tolsi l’accappatoio e rimasi per un po’ in piedi nuda, davanti allo specchio. Mi guardai a lungo e non mi trovai proprio tanto orribile.

Forse quel Carlo m’avrebbe trovata bella, forse non avrebbe visto solo l’artista affermata, ma anche la persona.

Ero sposata. Io ero una donna felicemente sposata, quasi ancora in luna di miele, che cercava compagnia, che desiderava un altro uomo, che aveva già scordato suo marito.

Mi venne da sorridere, mi misi una delle più belle camice da notte che mi ero portata credendo che Giacomo, alla fine, partisse con me. Che stupida, che donna stupida ero stata a non capire, a non voler credere che mio marito mi avrebbe lasciata da sola, pochi giorni dopo le nostre nozze.

Non avevo sonno. Mi sedetti al tavolo di cucina e aprii il portfolio che Laura mi aveva dato. Mi venne voglia di sapere chi fosse quel Carlo. Come artista non era ancora molto affermato. La sua carriera era cominciata come fotografo, foto di studio costruite, più che foto d’esterni. C’erano anche dei nudi femminili e la sua modella era poco più che una bambina. Provai un certo imbarazzo perché dallo sguardo timoroso, quasi spaventato, trapelava del disagio. Quella giovane donna, che Carlo aveva fotografato, era triste e non amava farsi ritrarre, anzi pareva voler scappare da un momento all’altro dal set. L’effetto di quel presunto disagio era sconcertante. Erano delle foto bellissime, uniche, che facevano quasi arrabbiare, tanto erano vere, vergognose, indecenti. Buon per lui. Risalivano a parecchi anni prima e, nel tempo, poteva essere solo migliorato. Faceva pure video installazioni e sculture, che nel portfolio non erano riportate, ma solo citate.

Ero stanca. Chiusi quelle pagine ed ebbi una grande nostalgia di casa mia, del mio studio. Mi sarei messa a lavorare, se avessi avuto del materiale. Avrei provato a fare qualcosa, ma a Londra, non riuscivo neppure a girarmi, tanto era piccolo l’appartamento. Non tenevo del materiale ma solo una serie di macchine fotografiche, che non adoperavo da tempo. Chissà, forse l’indomani mi sarei immersa un po’ nella città e avrei provato a rimetterle in funzione.

Finalmente mi stesi a letto, spensi la luce e senza pensare più a nulla mi addormentai.

Caro Ennio,

le pillole di Paola mi fecero molto meglio di quelle che mi obbligava a prendere mio marito. Mi risvegliai senza quel senso di smarrimento, di paura che provavo sempre, ogni mattina. Ero più serena e ripensando alle paure della sera prima mi venne da sorridere.

Mi alzai dal letto con tanta voglia di fare qualcosa, di uscire a fotografare degli scorci di Londra, giusto per tenermi in forma e per capire se lontano da Giacomo riuscivo a lavorare bene come a casa. Mentre mi preparavo la colazione pensai a mia madre, così senza un motivo particolare, mi venne una strana nostalgia. Mangiai di gusto tutto quello che Laura mi aveva fatto trovare in dispensa, cose buone, marmellate, biscotti, tortine al miele, ma sempre mi tornava alla mente mia madre tanto che, finita la colazione, provai a chiamarla al telefono di casa. Mi rispose Monica, e mi disse che erano tutti fuori per commissioni. Giacomo era andato alla farmacia di famiglia; Monica disse che il signor Giacomo, come lo chiamava lei, le era sembrato strano, un po’ preoccupato tanto che gli aveva chiesto se qualcuno stesse male. Non ebbe una risposta esauriente, ma solo la rassicurazione che tutto andava bene, che nessuno era in pericolo e che si trattava solo di lavoro. Monica aggiunse che mio marito sembrava seccato, più che preoccupato.

Mia madre era uscita a fare la spesa e, come al solito, avrebbe fatto colazione con il signor Filippo, che era tanto un bell’uomo. Monica aveva voglia di chiacchierare e mi tenne al telefono per parecchio tempo. Concluse la telefonata dicendo che si sentiva la mia mancanza. A Villa Letizia incombeva una strana atmosfera come di pericolo, di precarietà, come se potesse accadere qualcosa di brutto, da un momento all’altro. Io le dissi che non doveva dirmi queste sue sensazioni, che già io mi allarmavo per nulla e dovevo prendere le medicine per stare tranquilla. Allora Monica si mise a piangere, chiedendo che la perdonassi perché era una donna stupida, sapeva solo lavare pavimenti e piatti, non certo parlare con le persone intelligenti come me.

Monica era una donna con una voce stupenda, un cuore d’oro e con una sana mentalità contadina che le faceva percepire cose che sfuggivano ai più. Andava oltre l’aspetto esteriore delle persone. Quando arrivavano dei miei amici, a Villa Letizia, nessuno la prendeva in considerazione, così lei, indisturbata, riusciva a vederli per quello che erano. Mia madre le diceva sempre che, in un’altra vita, lei era stata, di sicuro, una fattucchiera o una cortigiana e aveva terminato i suoi giorni godendosi soldi e privilegi di vecchi uomini, schiavi del sesso e della lussuria.

Posato il telefono mi guardai intorno. Ero sola e mi ritornò l’angoscia della sera prima. Anzi era proprio paura. Le parole di Monica riuscirono a sconvolgermi e mi sembrarono presagire una disgrazia. Corsi in bagno a prendere le mie pillole antidepressive e poi decisi di vestirmi alla svelta e uscire in strada, tra la gente. Avrei anche potuto telefonare a Laura ma ci saremmo viste verso sera alla sua galleria, per la mostra di Carlo. Aveva senz’altro tante cose da sbrigare, gente da controllare, operai da dirigere. Quando c’è un’inaugurazione non si ha tempo da perdere con donne stupide e paurose come me e poi cosa le potevo dire, non c’era motivo d’avere paura, era solo una mia sensazione. Nessuno mi minacciava.

Ero venuta a Londra da sola, e mio marito non mi chiamava, non si curava di

me, nonostante fossero ati solo pochi giorni dalle nostre nozze. Ecco cos’era la mia tristezza, dovevo solo reagire, scappare fuori di casa e immergermi tra la folla. Mi vestii molto velocemente, presi le mie migliori macchine fotografiche, mi guardai allo specchio, raccolsi i capelli sotto un berretto e mi misi un giubbotto pesante. Londra era molto fredda in quel periodo dell’anno. Sprangai con cautela tutte le tre serrature della porta e scesi in strada. Una volta chiuso il portone dietro di me, mi sentii un’altra persona. Erano solo le nove del mattino, non avevo voglia di fare shopping. Immersa tra la folla non avevo più paura. La gente non mi dava fastidio come quando uscivo con Giacomo o con mia madre. Ero sola e stavo bene.

Mi diressi verso il parco, volevo stare tranquilla, volevo lavorare, fotografare, tornare a sentirmi viva. A quell’ora del mattino, con il freddo che faceva, non c’era molta gente. Mi fermai vicino ad alcune piante spoglie, non sapevo di che specie fossero, ma mi incuriosì la forma dei tronchi e il loro colore spento. C’erano dei toni di verde marcio, del marrone, del nero e le foglie cadute facevano un manto tutt’intorno, una meraviglia. Scattai una serie infinita di foto, ai tronchi, agli scorci di cielo, alle foglie sporche di terra, nude e ormai stratificate, marce, morte. Faceva molto freddo e il cielo era grigio, i colori erano condannati a riflettere quel grigiore. Avevo messo dei guanti non troppo spessi, per poter fotografare meglio, e avevo le mani gelate. I tronchi e le foglie che stavo fotografando mi fecero scordare il freddo, ma non riuscivo più a muovere le dita. Mi sentivo presa da una strana euforia e dovevo a tutti i costi fotografare le macchie di muschio sulla corteccia.

Riprese da vicino parevano degli arazzi o meglio delle mappe di città deserte, stravolte da chissà quale esplosione atomica. Fotografai alberi spogli, ma scoprii anche alcuni cespugli che già avevano delle gemme, eravamo a fine febbraio, era normale. In genere ritoccavo le mie foto, prima di mandarle in stampa, le sistemavo. A volte le stravolgevo, ne facevo altro da ciò che erano in origine, cospargendole di acidi, o sovrapponendone tre alla volta.

Quando cominciai a notare dei curiosi che mi osservavano decisi che era ora di

prendermi una pausa. Le mie estremità, mani e piedi, erano quasi congelate, avevo fatto un buon lavoro, mi meritavo un caffè. Presi una stradina che mi portò fuori dal parco e dopo un inutile vagare alla ricerca di un bar entrai in una libreria. Il caldo mi ridiede vita, fu come rientrare nel ventre materno, al sicuro, al riparo. Era una di quelle librerie, molto alla moda in città, fornite anche di bar e paninoteca.

Cercai tra gli scaffali incuriosita, ma non desideravo un libro preciso. Ero entrata solo per rifocillarmi e sedermi al calduccio. La mattinata al parco mi aveva stancata. Non riuscivo a riprendermi dal freddo che avevo patito. Mi diressi verso il bar, trovai un tavolo libero e riuscii a occupare ben due sedie con le mie due macchine fotografiche, il cappotto e la borsa. Avevo fame, erano ormai le due del pomeriggio. Ebbi un attimo di smarrimento e mi chiesi cosa diavolo ci fi a Londra da sola. Avrei dovuto essere a casa con il mio maritino a fare l’amore e pensare a fare figli.

Seduta al mio tavolino ordinai un toast e un succo di frutta. Ripensando alla bellezza dei paesaggi e degli scorci che avevo appena fotografato mi sentii abbastanza soddisfatta del mio lavoro. Mi guardai intorno e, forse per l’ora, non c’era molta gente. Era una libreria a tema, vendevano in prevalenza libri di viaggi, esplorazioni, escursioni, pellegrinaggi. Alle pareti del piccolo bar c’erano poster di montagne innevate, mari tropicali, grotte, lagune al tramonto. Di sicuro ci sarà stato anche qualche libro che parlava della mia laguna. Mi venne un po’ di nostalgia e voglia di tornare a casa. Mi soffermai a pensare a che sciocca ero stata a desiderare un’avventura con quel Carlo, l’artista. In fondo era solo il primo uomo decente che mi era stato presentato, dopo il mio arrivo a Londra. Non potevo essere tanto disperata da buttarmi a capofitto tra le braccia di un perfetto sconosciuto.

Arrivò il mio toast e mi misi a mangiare. Dopo poco, dietro di me, si sedette un vecchio, anzi un bell’uomo anziano, vestito bene, molto curato nell’aspetto: di statura media, capelli bianchi, occhi azzurri, magro ma ben proporzionato, ancora muscoloso. Forse era uno di quei vecchi che vanno a correre per tenersi

in forma. Quando entrai lui era in piedi al fondo della stanza. Stava guardando dei libri, sfogliando dei poster. Poi si avvicinò e si sedette al tavolo dietro al mio.

Notai che aveva in mano un libro ambientato in Africa. Sulla copertina c’erano degli elefanti e lo scenario era la savana. Ci guardammo e lui mi fece un sorriso e mi salutò. Ricambiai il saluto e, quando lo sentii fare l’ordinazione, capii che anche lui era italiano. Ricambiai un ulteriore sorriso, mentre stavo mangiando il mio toast. Fu lui ad avvicinarsi con la sedia e a chiedermi se ero a Londra per lavoro o per studio. Mi vedeva talmente giovane, credeva che fossi una studentessa in Erasmus. Scambiammo i soliti convenevoli, ci presentammo e mi chiese se poteva spostarsi al mio tavolo. Dissi di sì e lui si spostò con tutte le sue cose vicino a me.

Era un bel vecchio, elegante, con le mani ben curate, i capelli e la barba in ordine ed era persino abbronzato. Si presentò, si chiamava Alferio Speranza, nome strano che io non avevo mai sentito e gli amici lo chiamavano Al. Aggiunse che se volevo potevo chiamarlo così. Mi presentai anch’io e gli dissi che ero a Londra per lavoro e che facevo la fotografa. Presi dalla borsa alcune vecchie foto che avevo fatto mesi prima e gliele feci vedere. Fu molto sorpreso, entusiasta e mi fece i complimenti. Data l’atmosfera che si era creata e il suo volto veramente interessante gli chiesi se potevo fotografarlo. Acconsentì di farsi fotografare ma non volle mettersi in posa. Disse che se volevo potevo ritrarlo mentre mangiava o parlava con me, ma voleva essere naturale, non voleva fingere. Mentre gli scattavo delle foto mi chiese se avevo famiglia, vista la fede che portavo al dito, se ero sposata. Gli dissi di sì, ma non volli aggiungere altro.

Mangiava in silenzio e sfogliava il suo libro. L’ultima espressione che vidi nei suoi occhi fu di imbarazzo e perciò decisi di smettere e di sedermi di nuovo accanto a lui, per parlare un po’, come si usa tra persone civili. Sembrava un uomo di poche parole ma dal momento che io non dicevo nulla si mise a parlare lui del tempo, di Londra e poi della sua famiglia, dei suoi quattro figli, avuti da due mogli diverse. Uno con la prima e tre con la seconda. Non ero pronta per accogliere delle confidenze tanto personali e non dissi nulla.

Il mio silenzio fu scambiato per interesse e così Al continuò la sua storia fiume e arrivò a confidarmi anche il triste epilogo dei suoi due matrimoni: era rimasto solo. Sia le due mogli che i quattro figli, ormai adulti, lo avevano abbandonato. Lo avevano lasciato solo, lui e il suo cane Foxy. Non mi ero accorta della presenza del cane, che se ne stava in un angolo della libreria, sotto a una sedia. Era un posto che permetteva l’accesso anche a cani e gatti. Al non intendeva fermarsi e continuò a raccontare che aveva lavorato per tanti anni in Africa e ci aveva fatto fortuna dirigendo una multinazionale italiana che costruiva strade, piazze, ponti e anche qualche diga.

In Nigeria, in seguito ad un colpo di stato, Al perse tutti i suoi risparmi. La seconda moglie, vedendolo ridotto in miseria, non lo volle più e lo abbandonò. Solo dopo che erano finiti agi e fortuna la sua donna s’accorse che Al era diventato vecchio. Aveva vent’anni più di lei e lo abbandonò portandogli via anche i figli e lasciandogli solo il loro cane Foxy. Improvvisamente il mio interlocutore si vergognò. S’accorse d’aver detto troppe cose personali, che in fondo non mi potevano interessare.

Fino alle ultime confidenze pareva parlare da solo, poi si scusò, aspettò che io dicessi qualcosa e vedendo il mio imbarazzo e il mio silenzio mi salutò. Si alzò in piedi, chiamò a sé il suo cane, che accorse felice scodinzolando e me lo presentò. Io accarezzai Foxy, un bastardino dal pelo fulvo, e mi venne da dire solo che era un gran bel cane. Niente altro. Al mi salutò, disse che era felice d’avermi conosciuta. Andò alla cassa a pagare e se ne andò con il suo cane. Io salutai e mi sedetti nuovamente al mio tavolino e rimasi a lungo a guardare dal vetro Al che si allontanava.

Mi venne da piangere, non mi seppi spiegare il perché. In fondo non conoscevo quel vecchio e magari m’aveva detto solo un sacco di storie. Mi misi a piangere come una bimba. Un pianto liberatorio, disperato. Piangevo per Al, per il suo cane, per me. Avevo ancora tanto freddo. Il cameriere mi venne vicino e mi chiese se andava tutto bene. Io lo rassicurai ma non smisi di piangere. Mi calmai

poco a poco, ma restai più di un’ora in libreria. Mi soffiai il naso, rimisi nella custodia la macchina fotografica. Mi rivestii, misi anche il berretto e i guanti.

Andai a pagare e uscii in strada. Nulla mi sembrò come prima, l’incontro con quel vecchio m’aveva cambiata. Mi sentii di nuovo sola, avrei voluto che Al fosse rimasto con me, che mi parlasse ancora di tutti i suoi guai, delle sue mogli, dei suoi figli. Perché lui aveva una vita, io avevo solo la mia depressione, il mio manicomio, il ricordo di un grande amore, che avevo gettato via, senza il coraggio di lottare, un matrimonio da burla e la capacità di pensare solo a me stessa.

In strada, tra la folla mi sembrava di risentire la voce di Al. Era una voce calma e serena anche quando diceva cose tremende dei suoi figli e delle sue mogli. Parlava con la calma di chi ha perso tutto e non ha più voglia di vivere o di lottare. Forse restava vivo solo per il suo cane. Foxy era il cane dei suoi figli, che loro non avevano più voluto. Una sera, rientrando a casa, Al trovò un biglietto di addio. Vi era riportato l’invito a contattare l’avvocato della moglie, la preghiera di non farsi più vedere. In un angolo c’era il cane, di cui doveva prendersi cura e tutte le sue cose racchiuse in tre valigie. Era solo e nessuno si sarebbe più curato di lui. Non mi sembrava una storia credibile. Chissà quali torti aveva fatto il vecchio Al alla sua famiglia per indurli a trattarlo così. Eppure mi sembrava un uomo buono, vulnerabile, indifeso.

Caro Ennio,

mi sentii molto colpita dalla tristezza di quel vecchio, dal fatto che se n’era andato senza che io lo potessi consolare e che gli dicessi una qualsiasi frase intelligente. Riuscii a balbettare solo stupidaggini, tipo che le persone a volte sono delle vere ingrate e la famiglia è un covo di vipere.

Avrei dovuto abbracciarlo, consolarlo, chiedergli se in serata volesse venire con me a una festa, una inaugurazione, parlare con lui. Procurarmi il suo telefono e dargli il mio, offrirgli un sostegno.

Non ero riuscita a esprimere la mia umanità. Un qualsiasi animale si sarebbe comportato meglio di come mi comportai io, con quel vecchio. Anche in quell’occasione mi dimostrai una grande stronza che si sa solo cacciare nei guai e disperarsi. Una che vuole che tutti si preoccupino per lei e che non ha voglia né è pronta a consolare un povero vecchio rimasto solo. Forse, se Al avesse continuato a lamentarsi, gli avrei anche detto di smetterla, ché non me ne importava niente di lui e della sua storia. Ma allora perché mi ero messa a piangere quando se n’era andato?

Per un attimo mi guardai intorno, ero in una bella zona di negozi eleganti, avevo camminato tanto. La gente ava in fretta ed erano tutti tristi. Forse per il freddo, perché non si vedeva mai il sole, ma in quei giorni a Londra c’erano solo persone tristi. Improvvisamente non sapevo più dov’ero. Avevo preso una strada laterale, che credevo di riconoscere e invece mi resi conto di essermi persa. Fermai un taxi e mi feci portare nella via più chic di Londra, dove conoscevo un bel negozio di abbigliamento.

Era tardi, ero stanca e volevo solo avere un vestito nuovo per la serata. Il taxi si fermò ed io individuai il negozio che mi interessava. Una volta dentro mi resi conto, guardandomi allo specchio d’entrata, che ero vestita come una barbona, una reporter di guerra, con colori sul verde militare e tanto di scarponi sporchi di fango, per la eggiata mattutina nel parco. Un vero disastro.

Una ragazza mi fece accomodare in un salottino. Posai su di una panca le mie macchine fotografiche, la borsa, il giubbotto e tutto il resto. Mi venne incontro Antonia, la commessa che già conoscevo e che era un’italiana trasferitasi a Londra da parecchi anni. Ci salutammo calorosamente. non si stupì per come ero vestita, perché mi conosceva, da parecchi anni. Sapeva che ero un’artista un po’

eccentrica e timida, che non seguiva le mode del momento e che aveva bisogno di buoni consigli nel vestire ma anche per il trucco, la pettinatura. Tenevo i miei bei capelli rossi e ricci sempre legati o intrecciati perché non sapevo come pettinarli, non mi truccavo né usavo creme. Dopo il mio ricovero in clinica non seppi più prendermi cura della mia persona, come se non avessi più un viso, un corpo, non so cosa mi accadde. Ero una donna che si guardava raramente allo specchio.

Caro Ennio,

quando ero con te tutto ciò non accadeva. Non avevo tanti mezzi, ero povera, vestivo molto semplicemente ma sempre nel modo giusto, come piaceva a te, da ragazzina perbene. A volte mi truccavo, mettevo solo un po’ di ombretto, del rimmel e un filo di rossetto trasparente. Mi chiamavi “bambolina” ed eri pazzo di me. Sapevo fare tutto con te, anche cucinare.

Forse se non avessi avuto fortuna nel mondo dell’arte, se tu m’avessi lasciata povera, mi sarei sposata con un bel idraulico, che m’ avrebbe adorata e con il quale avrei messo al mondo almeno tre figli. Mi saprei vestire, saprei truccarmi, far da mangiare e tenere in ordine la casa. Non mi perderei neppure una puntata di Segreti e sarei felice. Forse la fortuna di conoscere te è stata anche la mia grande disgrazia. Sono una donna che sa solo fare l’artista, disinteressandosi di tutto e di tutti.

Ad Antonia spiegai che cercavo un vestito da sera, non troppo elegante, né troppo appariscente o scollato, adatto a una festa di inaugurazione nella galleria di Laura, che lei conosceva bene. Era stata proprio tua madre a portarmi in quel negozio.

Antonia non si fece sorprendere dalle mie richieste e disse, senza battere ciglio,

che aveva la cosa giusta per me. Mi sentii subito a mio agio, mi rilassai, mi accomodai e non pensai più a nulla. C’era un buon profumo lì dentro, come nei saloni di bellezza e una piacevole musica di sottofondo, una di quelle lagne che ti fanno sentire anche nelle Spa, mentre ti fanno i massaggi. Nell’attesa mi guardai le mani e mi resi conto che avevo bisogno anche di una buona manicure. Di sicuro anche i miei capelli avrebbero avuto bisogno di qualche cura ma non ci volevo pensare. Erano già le cinque del pomeriggio e non avrei fatto in tempo a trovare anche un parrucchiere capace di fare miracoli.

Mi stavo quasi addormentando quando Antonia ritornò con ben quattro vestiti da farmi provare, seguita da una sua collega con quattro scatole di scarpe e tre borse da sera.

Una vera pacchia.

Ero già pentita e tutte quelle “grandi manovre” non mi mettevano allegria ma solo noia e stanchezza. Una donna qualsiasi sarebbe stata al colmo della gioia nell’avere ben due commesse che trottavano e si affannavano per lei, invece io sarei voluta scappare via, tornare a casa e mettermi a letto. Non ero una donna normale, e tu lo sapevi bene, amore mio.

Cominciai a provare il primo vestito, che mi sembrò poco adatto per la mia serata, era bianco con degli inserti neri sulle spalle e una scollatura molto profonda sulla schiena. Forse mi sembrò solo diverso da come mi sarei aspettata un vestito da sera. Io vedevo bene solo il nero per la sera, infatti gli altri tre vestiti erano neri, Antonia mi conosceva bene. Erano dei vestiti molto belli, con scollature adeguate e pizzi. Uno aveva persino uno strascico di tulle, ma nessuno di quegli abiti mi convinceva.

Dissi alla mia amica che forse era il caso di provare un completo pantaloni e

camicia, ma lei non ne volle sapere e sparì alla ricerca di altri capi da sottoporre al mio difficile giudizio. Guardai l’orologio, erano ormai le sei di sera, non mi sapevo decidere e mi ero già annoiata a sufficienza. Mi avvicinai al vestito bianco, che Antonia aveva lasciato sul tavolino, lo guardai, lo rigirai e decisi di riprovarlo ancora una volta. Quando la commessa ritornò, con una pila enorme di altri modelli, mi trovò già rivestita dei miei stracci e pronta ad andare alla cassa. Avevo deciso di acquistare il primo vestito che avevo provato. Antonia tirò un sospiro di sollievo. Rifiutai la sua richiesta di farmi provare anche delle scarpe, dicendole che avevo già quelle adatte. Mentre le porgevo la mia carta di credito Antonia osservò le mie mani e i miei capelli con un’aria di disapprovazione.

Mi sentii presa dalla disperazione e dalla stanchezza e le dissi che non avevo soluzioni per il mio problema. Non conoscevo nessun parrucchiere che a quell’ora mi ricevesse e mi sistemasse i capelli in tempo per la serata. Con gentilezza e discrezione Antonia mi sussurrò che, se volevo, lei avrebbe fatto una telefonata e a tutto si sarebbe posto rimedio. Mi sedetti, senza opporre più alcuna resistenza, nel salottino d’entrata e aspettai ancora una volta che qualcuno si prendesse cura di me. In un attimo tutto si sistemò. Il parrucchiere, amico di Antonia, accettò di ricevermi e di rimettermi in forma per la serata.

Un taxi mi portò al “Salone Augustine”. Entrai e mi accolsero come una star. Chissà chi credevano che io fossi, per dedicarmi tanta attenzione. Sapevano che ero una grande artista, molto ricca, altrimenti non mi avrebbero accettata a quell’ora di sera, senza appuntamento.

Lì entravano solo grandi dive, celebrità o mogli ricchissime e annoiate. D’altra parte se non mi avesse preceduta la telefonata di Antonia, vedendomi vestita da barbona, mi avrebbero cacciata senza pensarci un momento. Erano tutti gentili con me e furono molto professionali e veloci. In due orette ero già pronta. Ero bella, i capelli mi suggerirono di lasciarli sciolti sulle spalle. Avevano deciso di farli lisci e li avevano ati con il ferretto. A me andava bene, non mi ero opposta alla decisione di rinunciare ai miei ricci naturali, non me ne importava

nulla. Ricci o lisci purché finisse quella storia e me ne potessi tornare a casa. Le mani erano perfette e chiesi anche l’intervento dell’estetista per un trucco leggero. Mi costò un patrimonio ma fecero un ottimo lavoro. Acquistai anche delle creme perché secondo gli estetisti, ne avevo bisogno. Uscii da quel parrucchiere piena di borse, avevo il vestito, le creme, le macchine fotografiche e tutto andava bene. In un attimo un taxi mi riportò a casa, il parrucchiere era solo a pochi isolati dal mio appartamento.

Entrata in soggiorno mi guardai allo specchio e vidi un’altra persona. Non stavo male, con i capelli lisci, ma non ero io quella ragazza riflessa allo specchio. Prima di farmi una bella doccia decisi di chiamare Giacomo perché non mi aveva mai cercata, era di sicuro ancora arrabbiato. Feci il numero di casa e rispose mia madre. Era così felice di sentirmi che pareva fossero mesi che me n’ero andata. Le chiesi come stavano, come stava mio marito e anche il gatto.

Si limitò a dire che andava tutto bene, ma si sentiva che voleva dire la sua. La interruppi chiedendole alcune cose di lavoro, se erano arrivati dei materiali, del marmo e della calce. Lei confermò le consegne, e la sistemazione del tutto nel mio studio. Tornai a chiederle di Giacomo, e mi preoccupai che non fosse a casa a quell’ora. Lei fu molto evasiva e disse che uno sposo lasciato solo, dopo le nozze, non si sa cosa possa fare. Come al solito mia madre diceva un sacco di scempiaggini. Di sicuro mio marito era al lavoro nella sua farmacia. Conclusi la telefonata dicendole che mi ero comperata un bellissimo vestito e che speravo di are una bella serata, con Laura alla inaugurazione di una mostra.

Mia madre pareva andare di fretta. Mi disse che stava pensando di trasferirsi, con Filippo, nel nostro vecchio appartamento di famiglia, perché si amavano ed era ora di ricominciare a vivere. Io fui molto felice di questa sua decisione ma rimasi senza parole. Parlò solo lei e mi consigliò di sbrigarmi a tornare a casa e la telefonata improvvisamente finì. Rimasi da sola, mi guardai intorno e provai a chiamare mio marito a Padova ma non rispose nessuno. Mi avrebbe di sicuro richiamata a breve, forse stava lavorando. Non sapevo se essere felice o preoccupata per l'abbandono di mia madre. E poi quel Filippo io non lo

conoscevo molto bene, ma lei lo amava e andava bene così.

Andai a farmi la doccia e non volli prendere le pastiglie. Dopo che mia madre aveva insinuato che Giacomo mi stava avvelenando non volli più prendere nessuna delle sue pastiglie e comunque stavo bene. Erano solo due giorni che non assumevo più quei farmaci ma continuavo a non sentirne il bisogno. Presi solo dei calmanti, che mi aveva dato Paola, ma contavo di eliminare anche quelli, il prima possibile. Meglio così.

Uscita dalla doccia, mi vestii, mi sistemai i capelli, misi un bracciale e degli orecchini e mi sentii bella, veramente bella, come non mi vedevo da tanto tempo. Avevo fatto tutto da sola, non mi sentivo agitata, anzi ero serena, quasi calma. Misi le scarpe adatte, un bel cappotto nero e una borsa gioiello, piccolina, dentro la quale non ci stava quasi nulla. Uscendo mi guardai un’ultima volta allo specchio, desiderosa che quella sera accadesse qualcosa di sensazionale nella mia vita.

Scesa in strada mi resi conto che piovigginava e faceva molto freddo. Avevo portato anche uno scialle in cachemire nero, da mettere sul vestito, una volta tolto il cappotto, giusto per non prendermi un accidenti, con quello scollo da paura. Arrivata sul posto Laura mi venne incontro e si stupì di tutto, del vestito, dei capelli lisci, del mio viso truccato, della mia bellezza.

Caro Ennio,

tua madre mi adorava da sempre, ma quella sera riuscii a stupirla. Mi disse che non mi aveva vista tanto bella neppure il giorno delle mie nozze. Mi baciò e poi mi lasciò un attimo per andare a ricevere delle persone importanti, che stavano entrando in galleria. Mi disse di fare come se fossi a casa mia e aggiunse che io non avevo di certo bisogno di convenevoli o di qualcuno che mi fe da

Cicerone, ero un’artista che stava per valutare le opere di un collega.

La galleria di tua madre è molto vasta, disposta su due piani e pare un castello incantato. Al piano terra ci sono quattro sale più gli uffici e al primo piano altre tre sale, più un piccolo monolocale dove tua madre qualche volta si ferma a dormire.

Le opere di Carlo erano disposte solo al piano terra e di sopra erano esposti i soliti artisti che facevano cassetta e con i quali tua madre guadagnava un sacco di soldi.

La mostra era molto complessa. Vi erano video installazioni, con alcune scene di guerriglia urbana, disordini nelle banlieue parigine, dialoghi in metropolitana, gente che litigava in un parcheggio deserto, di notte. In un’altra sala c’erano solo foto, comprese quelle stupende di quella ragazzina che io avevo già visto sul suo portfolio. Nell’ultima c’erano delle sculture su piedistalli. In pratica erano delle enormi sfere di acciaio incise, cesellate, sembravano dei bassorilievi romani, una specie di colonna Traiana.

Erano bellissime, quelle enormi palle, e di molto effetto. Da lontano le incisioni parevano ricami senza senso, ma avvicinandosi si scoprivano delle forme umane, delle vignette, delle scene di vita improntate tutte solo ed esclusivamente sul sesso. Tutte le opere di Carlo, almeno quelle esposte in quella mostra avevano uno sfondo erotico. Alcune foto, che ritraevano quella ragazzina in pose inequivocabili, erano addirittura indecenti, inquietanti. Ma gli occhi di quella bambina non denunciavano un abuso. In alcune vi era una certa ritrosia, ma anche gioia, estasi, felicità. Era vergogna, la sensazione che coglieva lo spettatore davanti a quelle opere. Non ci si attendeva quell’espressione negli occhi di una bimba. Quelli dovevano essere gli occhi di una donna matura, con una lunga e consolidata vita sessuale, allora non avrebbero colpito così a fondo le coscienze di chi li guardava. Anche il video che ritraeva la lite dei due uomini nel parcheggio deserto aveva uno sfondo erotico. Quei due giovani uomini

parevano due amanti che litigavano per gelosia, si attraevano e si respingevano come in un gioco d’amore. Invidiai le opere del mio collega, la mostra era ben riuscita, coinvolgente, a tratti scandalosa ma piacevole, molto piacevole.

C’era molta gente, giornalisti del settore, curatori, altri artisti e tante giovani coppie. Nella sala delle foto, c’erano delle ragazzine giovani, forse amiche della modella ritratta.

Carlo non si vedeva ancora, forse aveva avuto un contrattempo. Era una regola non scritta, ma rispettata da tutti, che l’autore fosse il primo ad arrivare a una sua inaugurazione.

Caro Ennio,

ero davanti a una delle foto. Per un attimo mi parve d’essere io quella creatura ritratta. Tornai con la mente a quando tu mi amavi, quando eravamo insieme, io e te, quando tutto il mondo sembrava vivere solo per noi, per il nostro amore e niente e nessuno ci poteva ostacolare. Ci amavamo talmente che tutti erano gentili con noi, non sentivamo gli sguardi cattivi, ci pareva che tutti ci invidiassero e fossero felici del nostro amore.

Davanti ad una foto, in particolare, mi misi a piangere e dovetti prendere il fazzoletto dalla borsetta per soffiarmi il naso. Fu in quell’attimo che Carlo entrò e, dopo aver salutato alcune persone, venne subito accanto a me. Io ero distratta, mi stavo asciugando le lacrime e lui forse vide che piangevo e con discrezione mi venne vicino e pose la sua mano calda sulla mia spalla nuda. Ci fu subito un contatto, uno scatto di sorpresa da parte mia, un segno divino. Il mio cuore, dopo tanti anni, si risvegliò. Dopo quel contatto amorevole, con Carlo forse ci sarebbero state notti d’amore, grida di gioia, giorni sereni, ma la piccola felicità che provai, con quel tocco leggero sulla mia spalla, mi ricordò ciò che provai per

te, amore mio, un giorno lontano seduta sul marciapiede, davanti a una libreria, quando tu mi porgesti la mano per alzarmi. Carlo mi chiese perché stessi piangendo, davanti a una sua opera e si sentì lusingato di aver provocato in me una tale emozione. Ci mettemmo a ridere tutti e due e andammo al bar a prenderci da bere.

Mi disse che ero bellissima, la donna più elegante della serata, e mi stringeva, mi toccava in continuazione. Improvvisamente mi scostai da lui e respinsi le sue avance, in fondo ero una donna sposata e non potevo farmi toccare così. Meglio ancora, non dovevo dare a Carlo l’idea che potesse avere con facilità un’avventura con me.

Dopo un po’ arrivò tua madre, vide che ero un po’ scossa e mi chiese se andasse tutto bene e se avessi notizie di Giacomo, anche per far capire a Carlo che io un marito l’avevo già. Non mi sentii in vena di risponderle e cambiai discorso. Parlammo della mostra e feci i complimenti a tutti e due. Se avessi avuto un po’ più di confidenza con tua madre, le avrei detto che mi sentivo molto triste per l’abbandono di Giacomo. Non mi chiamava mai, tanto che la notte precedente, nel mio appartamento sentii dei rumori venire dall’entrata o dalle scale e, per un attimo, sperai che fosse mio marito che mi aveva fatto la sorpresa di venirmi a trovare. Poi ci saremmo riappacificati, avremmo fatto l’amore e ogni cosa sarebbe tornata al suo posto. Non avrei pensato ad altri uomini. Nel pieno della notte mi venne voglia di farla finita, di morire, di ingoiare il tubetto intero delle mie pillole. Un gesto solo avrebbe messo fine a una serie di azioni banali, che continuavo a compiere e di cui non capivo più l’utilità, il senso.

La festa andava avanti e Carlo era assediato da giovani donne, signore attempate, curatori, giornalisti. Nella confusione lo vedevo molto serio, ma anche compiaciuto. Era felice della buona riuscita della sua prima mostra a Londra. Buon per lui, mi dicevo, ma io mi stavo annoiando ed ero dell’idea di andarmene quando Carlo mi venne vicino, e col suo fare calmo e sicuro mi chiese di restare ancora qualche istante. A fine serata, se volevo, si poteva andare a bere qualcosa noi due soli, lontano da quella bolgia infernale.

Io dissi subito di no, perché ero stanca e non mi sentivo tanto bene, gli dissi che me ne sarei andata a casa. Lui ci rimase male, aggiunse solo “peccato” e poi mi salutò con una stretta di mano e un grazie per aver partecipato alla “sua” serata. Salutai e, nel stringergli la mano, capii che ero perduta, capii che ci sarei andata a letto quella sera stessa.

E fu così. Non mi decisi ad andarmene. Rimasi a curiosare tra le opere esposte, ascoltai i commenti della gente e continuai a guardarlo muoversi tra la folla. E anche lui non mi perdeva di vista, osservava tutte le mie mosse e sorrideva. Laura s’accorse subito dell’attrazione che stava per nascere tra di noi e mi sembrò sbigottita ed incredula.

A fine serata ero ancora lì e lo guardavo senza dire nulla. Carlo mi sorrise e m’invitò a bere qualcosa a casa sua. Si stupì e si sentì lusingato del fatto che non me ne fossi andata. Per conquistarmi mi volle regalare una delle sue foto: quella che mi aveva procurato la crisi di pianto. Io fui molto colpita dal bel gesto e lo ringraziai diventando tutta rossa. Erano anni che non arrossivo più.

Laura mi venne vicino e mi salutò con l’aria di chi vuole dire qualcosa, ma capisce che non è il momento. Forse mi voleva mettere in guardia, proteggermi dai problemi della vita. Mi strinse forte a sé e mi diede appuntamento per il giorno seguente dicendo che mi doveva comunicare una cosa molto importante.

Sottolineò la parola importante con uno sguardo triste, rivolto verso la sala, verso Carlo. Si guardava intorno, poi mi osservò severa e mi disse “divertiti” con una flessione triste della voce, come a dire: “Divertiti questa notte, che domani tutto finirà e dovrai decidere di crescere, di diventare finalmente una donna adulta.”

Io mi sentii un po’ in imbarazzo. Laura aveva ragione, io stavo per fare l’ennesima cosa sbagliata nella mia vita.

Stavo per avere un’avventura con un uomo che neanche conoscevo e che mi aveva circuita impunemente per tutta la serata, pur sapendo che ero sposata. Ma da giorni mio marito non mi cercava, mi stava punendo per la mia decisione di partire per Londra. Peggio per lui, peggio per noi. Carlo ed io ci allontanammo dalla galleria, scappando in taxi, come due amanti.

Arrivati a destinazione mi resi conto che il suo appartamento era molto grande, ma anche tanto in disordine. Di sicuro non aveva previsto di portarci nessuno, per quella sera. Era un loft situato al secondo piano di una fabbrica dismessa.

Si saliva con un ascensore che era un montacarichi con annesso un grande carrello, che serviva anche a trasportare i materiali per le sue sculture.

Una volta entrata in casa non capii dove Carlo vivesse, dove mangiasse o dormisse… c’erano sacchi di sabbia e calce ovunque e taniche di resine puzzolenti. Si vergognò un po’ della confusione e stava per mettere in ordine delle cose quando gli andai vicino e lo presi per mano.

Ci baciammo e tutto ebbe inizio. Fu una vera notte d’amore. Anche con Giacomo c’era una buona intesa sessuale, ma non lo amavo né l’ho mai desiderato come desiderai Carlo quella sera.

Caro Ennio,

nulla di quel nuovo amore mi ricordò la nostra storia, ma finalmente mi resi conto che la mia vita poteva andare avanti, che mi potevo ancora innamorare, stupire. Non ero morta insieme a te, tanti anni prima, io dovevo continuare a vivere.

Con Carlo, quella notte, tu non c’eri più. Con Giacomo, non eravamo mai soli, tu eri sempre lì a guardarci fare l’amore, eri sempre presente, eri dentro di me. Quella notte, per la prima volta, dopo tanti anni, mi resi conto che tu eri morto ed io ero viva, ero libera. Cominciai, da quella sera, ad assaporare le cose per ciò che erano, nel momento in cui accadevano. Anche se non mi davano certezze, non duravano nel tempo, decisi di godere di quelle piccole felicità, senza chiedermi se stavo facendo la cosa giusta o qualcuno poi avrebbe sofferto. Io in quell’attimo ero felice e mi bastava, era un dono, un grande regalo che sentivo di meritare.

Il mattino dopo riuscii ad andarmene via molto presto da quel posto, come nei film, lasciando riposare il mio amato. Uscendo dalla camera da letto diedi un ultimo sguardo al suo corpo nudo, al letto disfatto, alla realtà di ciò che avevo fatto: avevo tradito mio marito dopo neanche una settimana dalle nozze, ero veramente una gran puttana, ed ero serena, lo dovevo ammettere.

Caro Ennio,

tu lo dicevi sempre che avevo la stoffa dell’artista, ma anche l’animo di una grande meretrice, di quelle con la emme maiuscola. Non una cortigiana, ma una vera puttana, una che si perde nel farlo, che ci prova gusto, che non lo fa per soldi o scopi vari ma proprio perché le piace. Erano le sei del mattino e c’erano poche persone per la strada. Faceva freddo e non c’era ancora la luce del giorno, ma neppure il buio della notte. C’era un grigiore che non faceva ancora identificare i volti delle persone. Mi sembrò un momento di tregua prima che tutto riprendesse a scorrere, la gente a gridare. Quasi come se anch’io potessi ancora nascondermi, dire che nulla era accaduto.

Tornai al mio appartamento e una volta entrata in casa sentii subito tutta la stanchezza della notte. In fondo di Carlo non sapevo proprio un bel nulla. La sera precedente non avevamo parlato molto di noi, ma solo di arte e della sua mostra.

ai nel mio studio e vidi che era tutto in ordine. C’erano ancora i due post-it, dove mi ero segnata di chiamare Paola e due curatori di Milano. Ma tutto slittava a un dopo, a un domani, a un poi. Mi buttai sotto la doccia e il calore dell’acqua mi riportò alla realtà, alla mia solitudine. Uscita dal bagno mi resi conto che ero felice e tutto il mio corpo mi ringraziava per la splendida notte d’amore che avevo appena vissuto. Ne avevo proprio bisogno. Me ne andai in cucina a fare colazione, avevo una fame pazzesca. Non toccavo cibo da quasi due giorni, se si esclude quel toast mangiato in libreria con Al.

Che palle quel vecchio. A ripensarci non provavo più pena per lui. Io ero fatta così, non mi importava un accidenti di chi mi circondava, io volevo solo pensare a me stessa e ad avere le mie piccole gioie, niente altro. Senza farmaci e lontano da casa io stavo bene. Quel piacere per una serena solitudine riconquistata fu una vera scoperta, una risposta schietta a tutte le mie paranoie.

Mangiai di gusto tutto ciò che mi era rimasto in casa, persino una scatoletta di tonno, del formaggio, dei biscotti allo zenzero, una vera schifezza. Avevo la stessa fame di quando Giacomo cucinava per me ed io mangiavo tutto ciò che mi scivolava nel piatto, a testa bassa, senza commenti, come una bestia.

Non ero mai sazia e finivo pure la porzione in più, che lui portava in tavola per educazione. Giacomo mi guardava mangiare come si guarda il maiale nel suo trogolo, non era uno sguardo d’amore, ma di schifosa meraviglia. Aveva deciso di mettermi all’ingrasso e ci era in parte già riuscito. Per fortuna la mia fuga a Londra mi aveva salvata. Avevo già perso qualche chilo ed ero più bella, meno

gonfia. La pancia era ritornata bella soda e piatta. Io tornai a trovare un po’ di serenità. Mi mancava il mio gatto, il mio lavoro, ma per il resto stavo meglio da sola.

Dopo poco mi arrivò una telefonata di Carlo e quasi mi vergognai a rispondere. Dissi poche parole, facendo tante pause e respiri strani. Eravamo stati bene insieme. Forse ci saremmo rivisti in serata. Chiusi io, senza tante storie e poi mi restò un sorriso sciocco sulle labbra. La giornata, neanche a dirlo, era grigia e piovosa, mi venne la voglia di andarmene a letto e riposare per un po’, almeno sino all’ora di pranzo. Con tutto il cibo che avevo appena ingurgitato potevo starmene a letto sino all’ora di cena.

Decisi invece di vestirmi e uscire a fare altre foto sotto la pioggia. Avevo voglia di lavorare, ero piena d’amore e di gioia, non mi andava di dormire. Io ero tornata a vivere, anche solo per una notte. Mi resi conto che il mio matrimonio con Giacomo era un inutile ripiego, una battaglia persa in partenza, una vigliaccata verso me stessa, ma più di tutto verso di lui. Aveva ragione mia madre, non dovevo sposarmi così giovane, dovevo riflettere. Ma le doti della riflessione e della calma non erano mai state il mio forte.

Stavo per uscire quando suonarono alla porta: era Laura, tua madre. Mi stupii molto nel vederla tanto mattiniera già in casa mia. Ci scambiammo i soliti baci e la feci accomodare. Si scusò subito, perché non mi aveva avvisata della sua visita. La sera prima aveva solo fatto cenno a una cosa importante che mi doveva dire, ma io me ne ero già scordata. Avevo altro per la mente.

Posai la borsa con le macchine fotografiche, mi tolsi il cappotto e appesi il suo impermeabile.

La invitai a sedere, sul piccolo divano di casa e le offrii un tè. Non sapeva come

iniziare a dirmi quello che evidentemente le stava molto a cuore. Partì da molto lontano, parlando di cose banali, mi fece i complimenti per il vestito che avevo messo la sera prima. Sorvolò sul fatto che mi aveva vista scappare via con Carlo a fine serata e mi chiese se mi era piaciuta la mostra. Risposi di sì e restammo a parlare di lavoro, di Carlo, di arte contemporanea, per circa venti minuti. Poi ci fu una svolta e Laura cambiò bruscamente argomento e umore.

Caro Ennio,

tua madre diventò molto seria e pensierosa e mi confidò che Martina, tua moglie, era morta di overdose in casa sua, a Barcellona, due giorni prima. L’aveva trovata Mimì, la tata che viveva con lei. Alle otto di mattina, andando in cucina a preparare la colazione per Michela, la ragazza vide il corpo di tua moglie a terra, nella sua camera da letto. Presa dal panico chiamò subito un’ambulanza, credendo che si potesse fare ancora qualcosa, senza rendersi conto che era già morta da parecchie ore. Così l’ambulanza arrivò e portò via Martina prima che la figlia si potesse rendere conto di ciò che era accaduto, prima che potesse vedere il corpo di sua madre stravolto da una morte tanto atroce.

Mi sentii mancare e mi dovetti sedere. Dissi solo: “Cristo santo che disastro” e non riuscii a proferire altre parole per un lungo lasso di tempo. Tutto il ato mi piombò nuovamente addosso. Rividi te, tua moglie, tua figlia, la vostra famiglia distrutta da me, da noi, dal nostro assurdo amore. Rividi il volto di Martina quel giorno dal notaio, quando venne svergognata davanti a tutti dall’eredità che tu mi lasciasti. Rividi i suoi occhi, ormai privi di odio e costretti a una rassegnazione umiliante. Non mi avrebbe mai perdonata per ciò che feci alla sua famiglia. Certo c’era la storia della bambina che non era tua, ma vi eravate sposati, forse ti amava.

Laura disse che ora che sua nuora era morta non si sapeva a chi lasciare sua nipote Michela. Del vero padre si sapeva poco o nulla. Michela l’avevi riconosciuta tu, a tutti gli effetti, giuridici e morali, era tua figlia. Laura era una

nonna che non si era mai molto curata della nipote, proprio perché non andava d ‘accordo con sua nuora. Forse se non fosse stata vedova, se ci fosse stato anche un nonno a prendersi cura della bimba le cose sarebbero andate in maniera diversa.

Caro Ennio,

dopo la tua morte Martina ricominciò a bere e a drogarsi, senza pensare alla sua bambina. Peggiorò delle dipendenze di cui era già schiava ancora prima di sposarti.

Nella stanza piombò il silenzio. Laura finì di bere il suo tè e rimise, con cura, la tazzina sul vassoio. Io posai la mia, senza essere riuscita ad avvicinarla alle labbra. Mi sembrò di non poter bere né mangiare più nulla. Borbottai che mi dispiaceva molto per quella tragedia, ma avrei anche voluto che tua madre mi rassicurasse e mi dicesse che io non c’entravo con quel disastro, che niente e nessuno mi avrebbe coinvolta in quella storia.

Dopo un ulteriore silenzio Laura ed io ci guardammo negli occhi e capimmo che eravamo le sole a poterci prendere cura di tua figlia.

Tua madre, molto bruscamente, mi disse che era troppo vecchia per prendersi la responsabilità di crescere una bimba di cinque anni e che dovevo pensarci io. Non era possibile che i parenti di Martina potessero fare qualcosa, perché era figlia unica e i suoi genitori erano morti anni prima in un incidente aereo. Quello che tutti credevano il padre naturale della bimba era molto vecchio ed era sposato. Aveva già dei figli suoi, non aveva alcun interesse né voglia di prendersi cura di lei. Forse neanche sapeva di avere un’altra figlia e forse non era sua quella creatura, ma tua, amore mio. Martina si era vendicata nell’unico modo che poteva, negandoti il diritto di diventare padre, rovinandoti la vita.

Per un istante la stanza mi sembrò molto piccola, le pareti si abbassarono su di me. Mi sentii oppressa, mi mancava l’aria. In pochi giorni a Londra avevo tradito mio marito e sarei tornata a casa con l’idea di adottare una figlia, tua figlia.

Dissi subito che non mi sentivo di fare la madre. Me ne uscii con la solita lagna sulla mia salute cagionevole, la mia depressione sempre in agguato, le troppe medicine che dovevo prendere. Non ebbi il coraggio di dirle che da giorni avevo ridotto drasticamente i farmaci e stavo bene. Ero disperata, non mi si poteva chiedere di diventare adulta tutto d’un colpo, e poi io avevo il mio lavoro, ero una grande artista, non avevo tempo da perdere a crescere una mocciosa che non avevo mai visto, che non era neanche tua figlia. Non avrei certo rivisto in lei le espressioni del tuo volto, le tue labbra, i tuoi occhi. Forse se fosse stata figlia tua non avrei avuto nessun dubbio o incertezza. E poi Giacomo non avrebbe mai accettato un tale impegno, in fondo ti odiava e non ne aveva mai fatto mistero. Avrebbe odiato anche Michela.

Volevo restare figlia, volevo che tutti si prendessero cura di me. Volevo restare la ragazzina un po’ incosciente che avevi conosciuto tu, amore mio. Non ero pronta a diventare adulta.

Guardai Laura con fastidio e le chiesi come poteva venirle in mente di propormi una cosa tanto impegnativa, data la mia situazione. Aggiunsi che di sicuro anche Giacomo sarebbe stato del mio parere. Tua madre forse si lasciò andare e, senza pensare disse: “A me pare che tu sia in debito con mia nipote, tu le devi qualcosa. Pensaci, non ti chiedo di rispondermi subito.”

Non seppi ribattere a una frase tanto velenosa, ne fui molto colpita. Con poche parole qualcuno mi stava mettendo di fronte al danno che avevo fatto anni prima. Voleva che mi rendessi conto che non si può sfuggire alle proprie responsabilità.

Prima o poi la vita ti presenta un conto da pagare. Dovevo espiare il male fatto. Assurdo, non mi toccavano queste storie da donnette. Io non ero neppure credente.

Caro Ennio,

la mia giovane età non mi aveva mai assolta dalla colpa di aver rovinato una famiglia, la tua famiglia, ma io me n’ero sempre fregata.

Laura, quella mattina, volle infierire ulteriormente su di me. Mi disse che Martina non smise mai del tutto di drogarsi e di bere anche durante la gravidanza, proprio per colpa del nostro amore, per la sfacciataggine di quella nostra relazione, sbandierata ai quattro venti. Forse Michela ne avrebbe portato delle conseguenze gravissime, che si sarebbero manifestate solo nel tempo, o forse no. Tua moglie era anche convinta che fu un errore decidere di smettere tanto bruscamente il nostro rapporto. Tu mi amavi e tutto il mondo ti crollò addosso. Martina si persuase che in quella strada tu decidesti di suicidarti. Per colpa mia la lasciasti sola, con una bimba da crescere. Guardai tua madre negli occhi e non riuscii a capire se anche lei pensasse una tale mostruosità. Non era possibile. Tua madre mi voleva bene, ne ero sicura. Ma mi sembrò che riferendo l’incubo di Martina, rivelasse ciò che anche lei aveva sempre saputo. Tu non volevi vivere senza di me. Tu ti eri suicidato, non fu un incidente, non c’erano frenate. Nel profondo del mio cuore anch’io l’avevo sempre pensato. Ti uccisi io, troncando tanto repentinamente il nostro rapporto.

Mi sentii un mostro. Io avevo due morti sulla coscienza, la tua e ora anche quella di tua moglie.

Laura frugò nella borsa e tirò fuori una lettera di Martina per me. Sua nuora l’aveva lasciata sopra a una scrivania, nella casa di Barcellona e lei si era

incaricata di recapitarmela. Non era chiusa e forse Laura l’aveva già letta. Di sicuro se avessi accettato, con gioia, di adottare Michela, forse non mi sarebbe stata consegnata.

Non avevo idea di cosa ci potesse essere scritto, forse una supplica, per convincermi a prendermi cura di sua figlia, forse una maledizione, una rivelazione. Laura s’alzò, disse che aveva delle spese da fare in centro e mi consigliò di leggere con calma la lettera e con altrettanta calma decidere quale risposta darle. Lei, da parte sua, avrebbe agevolato al massimo tutte le pratiche per l'adozione privilegiando su tutte la mia richiesta. In fondo potevo farlo, ero sposata, avevo un marito, ero ricca e potevo provvedere al mantenimento della bambina. Potevo anche non farlo.

Non c’era fretta e di sicuro avrei dovuto parlarne anche con Giacomo. Mi salutò e s’avvio verso l’uscita.

Era triste, non avevo mai visto tua madre tanto preoccupata e vulnerabile. Le dissi che ci avrei pensato o che forse quella lettera l’avrei strappata. Lei mi guardò e si mise a sorridere, mentre chiudeva la porta.

Caro Ennio,

ero di nuovo sola, nella mia casa. Dovevo sentirmi sicura, fino a due ore prima mi sentivo anche felice. Invece, dopo la visita di tua madre, avvertii un pericolo, avrei voluto morire, scappare e rifugiarmi in un posto irraggiungibile per chiunque. In quella stanza erano state appena formulate frasi tremende, accuse pesanti, nei miei confronti. Riecheggiava la parola suicidio, formulata da tua madre, una persona che amavo e che aveva appena lanciato un macigno contro la mia testa. Tenevo in mano quella stupida busta e non sapevo decidermi ad aprirla.

Andai in cucina a farmi un caffè. Non volevo prendere le medicine per calmarmi, volevo resistere alla tremarella che mi stava travolgendo, all’amaro che mi saliva in bocca, alla mancanza di forza nelle gambe. Ritornai in salotto, con la tazzina e tanta curiosità. Mi sedetti sulla stessa poltrona di prima, sorseggiai con calma il caffè e poi mi decisi ad aprire quella lettera.

Conteneva solo poche frasi: “Cara Eleonora, ti sei divertita a fare l’amore con lui, ora divertiti a crescere sua figlia. Me lo devi, lo devi a lui. Alla maggiore età, nostra figlia sarà ricca. Fino ad allora ci devi pensare tu. Qualsiasi decisione prenderai, ti auguro di crepare, provando dolori atroci, ma solo dopo che ti sarai sdebitata con noi. Martina.”

Per fortuna ero seduta, mi sentii mancare e lasciai ricadere la testa all’indietro, sul cuscino della poltrona. Quando mi ripresi la lettera era scivolata a terra ed mi resi conto che era quasi sera.

Non riuscii a realizzare subito ciò che mi era accaduto. Ripresi quello stupido foglio di carta in mano. Rileggendo quelle tremende frasi, quelle assurde accuse, la parola che mi sembrò più strana fu quel “sua figlia”. Di sicuro Martina aveva scritto quella specie di testamento in fin di vita e, nelle sue condizioni, non pensava certo a mentire. E poi quel “me lo devi, lo devi a lui”.

Caro Ennio,

tu avevi una figlia. Michela era figlia tua, mi avevi mentito per farmi sentire meno in colpa? Oppure era solo una stupida invenzione di tua moglie, non lo saprò mai. Era falsa anche la storia della relazione di Martina con quell’uomo sposato? Subito mi venne in mente lo sguardo di tua madre ed ebbi la certezza

che anche lei avesse letto la lettera e che anche lei cercasse spiegazioni. I parenti avevano creduto alla bugia che avevi detto a me perché, per avvalorarla, lo dicesti a tutti. Di sicuro lo venne a sapere pure Martina e come poteva difendersi da una tale carognata? E poi che importanza poteva avere di fronte a una tale tragedia. Michela era una povera orfana e qualcuno si doveva prendere cura di lei.

Chiamai subito casa e parlai a lungo con mio marito, gli dissi che sarei rientrata il giorno seguente, forse in serata, dipendeva dal volo che avrei trovato. Ero stranamente felice di sentire la sua voce, così calda e rilassata e mi calmai anch’io, finalmente. Avevo trascorso un pomeriggio molto agitato, ricco di colpi di scena. Non avevo mangiato nulla per pranzo e avevo un tremendo mal di testa.

Gli anticipai che avevo una grande novità da comunicargli e poi ci salutammo senza dirci quelle stupide piccole cose che si dicono gli innamorati, la gente sposata da poco. Ci salutammo senza tante storie, come se fosse stata una telefonata di lavoro. Possibile che non gli fossi mancata, che non avesse una parola dolce da dedicare alla sua giovane sposa?

Con mia grande sorpresa, dopo poco tempo dalla telefonata di mio marito, chiamò pure mia madre. Era felice che mi fossi decisa di tornare. Parlava in maniera concitata e finì per dirmi che mi voleva riferire uno strano episodio che aveva vissuto in prima persona giorni prima. Era con Filippo, in centro a Treviso, per fare spese, quando aveva visto Giacomo, con una giovane ragazza. Erano a poche decine di metri di distanza, era proprio lui e la ragazza era molto bella, bionda, alta e magra, quasi una modella. Si tenevano per mano e si guardavano in modo inequivocabile. Poi, a un certo punto, lui le aveva sistemato la sciarpa e lei lo aveva ringraziato baciandogli la mano.

Io conoscevo mia madre e non era una pettegola. Mi fece quelle confidenze, con una vena di rammarico nella voce. Anche se non amava Giacomo, non lo

credeva capace di tradimento, infatti disse che forse, quella donna, era una sua cugina o una parente. Concluse confidandomi che solo al telefono sarebbe riuscita a dirmi una cosa tanto triste, di persona non ce l’avrebbe fatta.

Caro Ennio,

non sapevo cosa dire, non mi sembrava possibile che una persona, sempre sull’orlo della depressione come me, potesse sopportare tante emozioni in un lasso di tempo tanto breve. Ero stata di sicuro un’adultera. Forse era certo pure il tradimento di mio marito. L’unica incognita era la mia futura maternità adottiva. Quei pochi giorni a Londra m’avevano molto cambiata, dovevo a tutti i costi diventare adulta e responsabile. Non c’era più spazio per alibi tipo la depressione, il mio lavoro d’artista. Non c’era più una via di fuga, per me, dovevo imparare a fare sul serio.

Posai il telefono, dopo aver rassicurato mia madre che tutto andava bene e che si era sbagliata a interpretare ciò che aveva visto a Treviso. C’era di sicuro una spiegazione e quella ragazza sarà stata proprio una parente di Giacomo o un’allieva della farmacia. Alcuni ragazzi e ragazze facevano il praticantato post laurea nella farmacia di famiglia. Io ero più che sicura dell’amore di mio marito, non era possibile che m’avesse tradita.

M’alzai dalla poltrona, andai verso la finestra. Si erano ormai accese tutte le luci della sera, le auto avano in strada. Dalla fermata della metro uscivano a frotte un sacco di persone infreddolite, tutto scorreva come sempre, era una sera qualunque di fine febbraio. Ero io a essere cambiata, più consapevole, per la prima volta, delle azioni che avevo fino ad allora compiuto.

Andai verso la cucina perché avevo fame. Non sapevo più cucinare, o meglio non lo facevo da tanto tempo. In genere se non trovavo qualcosa di pronto non

mi riusciva di cucinare un bel nulla. Ero pigra e annoiata. Avevo sempre avuto chi cucinava per me. Presi dalla dispensa dei biscotti e mi versai un bel bicchiere di latte. Forse per la cena sarei andata in uno dei ristorantini che c’erano nella zona dove abitavo. Decisi intanto di prenotare il volo del rientro a casa per il giorno seguente.

Laura aveva sottolineato che non mi restava molto tempo per l’adozione e poteva dimostrarsi una procedura lunga e piena di insidie. Michela poteva essere assegnata a una famiglia di estranei perché lei non se la sentiva, alla sua età, di adottare quella mocciosa. Era troppo vecchia e sola. Senza un compagno al suo fianco non se la sentiva d'affrontare un compito tanto gravoso. Mi confidò che aveva sempre detestato Martina e l’odio che provava per tua moglie si era riversato anche su tua figlia, la sua unica nipote.

Verso le otto di sera mi chiamò Carlo e decidemmo di cenare insieme in un ristorante cinese, vicino a casa sua. Mi vestii molto semplicemente con dei pantaloni e un maglione pesante perché avevo freddo.

Arrivammo quasi insieme all’entrata del ristorante, ci mettemmo a ridere e ci baciammo. Ci fecero sedere a un tavolo un po’ appartato. Ci tenemmo per mano e ci guardammo a lungo negli occhi, come fossimo una coppia sposata da anni, che decideva di are una serata diversa.

Invece non eravamo una coppia, non eravamo nulla l’uno per l’altro. Avevamo solo ato una notte intera a fare l’amore, con una ione e un trasporto che pochi hanno il dono di provare, nella vita. Ma era tutto finito. Io sarei tornata a casa mia a fare la moglie, forse la madre e nulla poteva cambiare quella realtà.

Caro Ennio,

forse se Martina non fosse morta, se Laura non m’avesse chiesto di pensare a tua figlia, sarei rimasta a vivere a Londra. Avrei lasciato Giacomo e avrei iniziato una nuova storia con Carlo. Ma la vita è molto strana, tutto accade senza che ci sia il tempo di riflettere, di pensare cosa sia meglio fare per essere felici. Così, anche allora decisi in fretta di tornare a casa.

Anni prima decisi di lasciarti e tu ti uccidesti. Lo feci con la stessa leggerezza con cui sposai Giacomo, senza amore. Quella sera decisi di abbandonare Carlo e lui forse mi amava veramente. Mi supplicò di non lasciarlo e aggiunse che stavo facendo la cosa più insensata della mia vita, ma non sarebbe stata la sola e neppure l’ultima. Non gli parlai di Michela, di come stava per cambiare la mia vita e neppure del fallimento del mio matrimonio. Non eravamo così intimi da poterci confidare segreti e delusioni. Non sapevo niente di lui e lui di me. Non ci sarebbe stata un’altra occasione.

Mangiai di gusto tutto ciò che avevamo ordinato e cambiai argomento. Iniziai a parlare di lavoro ma Carlo non mi assecondò. Se ne rimase zitto. Mangiava e stava ad ascoltare tutte le mie storie su quante gallerie avessero chiesto i miei lavori, su quanto fossero belle delle foto che avevo fatto a uno strano vecchio, molto elegante, che avevo incontrato in libreria il giorno prima.

A un certo punto il mio compagno s’alzò, mi disse: “Addio amore mio, io scendo qui”. Mi diede un bacio apionato sulla bocca, che tutta la gente in sala si voltò a guardare, andò a pagare il conto e se ne andò. Io rimasi seduta al tavolo a finire di mangiare il mio dolce. Poi attesi il caffè, lo sorseggiai piano, piano. Posai il tovagliolo da una parte, mi alzai e me ne andai da sola, come ero arrivata. Quella sera avremmo potuto are insieme un’ultima notte d’amore, a casa mia o a casa sua, ci saremmo potuti divertire ancora e ancora. Ma non ci furono più notti d’amore per noi, avevo rovinato tutto, ancora una volta.

Decisi d’andare a casa e d’infilarmi subito a letto. Non avevo sonno e mi misi a leggere. Tenevo il libro aperto e pensavo a tua figlia. Che bimba poteva essere Michela, che problemi le avevano provocato tutte le dipendenze che aveva avuto la madre? Martina era alcolizzata e drogata, cosa le aveva trasmesso, che valori, che senso della vita, che paure, che gioie? E se mai, un giorno fosse venuta a sapere chi ero io veramente e quanto male avevo fatto alla sua famiglia, mi avrebbe di sicuro odiata e maledetta, uccisa.

Caro Ennio,

tua figlia l’avevo vista una volta sola. Non mi sarei mai avvicinata se quel giorno Michela fosse stata con tua moglie, ma era al parco con quella giovane tata, che avevate allora e che stava sempre a chiacchierare con le amiche. Guardai dentro quella carrozzina e diventai di sale. Quella creatura era bellissima, capelli e occhi neri, come te. Ti assomigliava da morire. Ma tu mi dicesti che non era tua figlia. Non ti poteva assomigliare tanto.

Posai il libro, spensi la luce e finalmente m’addormentai.

Il giorno dopo, in aereo, nel volo di ritorno a casa, continuai a pensare a quanto felice eri di diventare padre. Mia madre non aveva ancora spettegolato dicendomi quelle cattiverie sulla tua falsa paternità ed io credevo ancora che tua moglie ti stesse per donare Venerdì, il figlio maschio che tanto desideravi. Invidiai Martina anche dopo che era nata Michela e le malelingue avevano fatto il loro dovere. Non che io abbia mai pensato di darti un figlio, ma odiavo chi ti stava rendendo tanto felice. Io volevo che tu fossi felice solo con me, ma non avrei mai rischiato la mia vita per partorire un figlio. Forse io non amo i bambini, quei piccoli mostri gridano e puzzano, se la fanno addosso, si debbono cambiare. Non l’avrei mai sopportata una vita simile. Allora perché decidere di stravolgere la mia quiete adottando tua figlia?

No, non potevo farlo. Ne avrebbe sofferto la mia vita di coppia, il mio lavoro d’artista. E poi ero malata, depressa, non sapevo prendermi cura neppure di me stessa, di mia madre, del mio gatto. Come avrei potuto curarmi di una bambina che aveva appena perso la mamma in maniera tanto cruenta e che magari era piena di problemi gravi, come tua figlia?

L’aereo era atterrato. Ero scesa dalla scaletta ed ero talmente sovrappensiero che mi trovai all’uscita dell’aeroporto senza che me ne rendessi conto. Mi ero fatta trasportare dalla gente, andavo dove andavano tutti, feci ciò che facevano tutti, sempre pensando a tua figlia.

Trovai Giacomo all’uscita e fu una piacevole sorpresa.

Ci abbracciammo, con fatica, senza trasporto come chi è appena arrivato da un pellegrinaggio a piedi, chissà da quale luogo sperduto. Giacomo mi baciò come si bacia una vecchia zia, che rientra da una crociera di pensionati. Usciti dall’aeroporto stava nevicando. Il freddo era intorno a noi e dentro di noi. Ebbi all’istante la conferma che mio marito m’aveva tradita. Così, come gli animali hanno la certezza dei disastri che stanno per arrivare, io mi spaventai perché Giacomo non mi amava più ed avrebbe trovato il modo di dirmelo. M’avrebbe dato la notizia del suo innamoramento per quella ragazzina, con la calma che lo aveva sempre contraddistinto e poi ci saremmo lasciati.

Tutto questo mio farneticare solo per un abbraccio un po’ più freddo del solito, all’uscita di un aeroporto? Non era possibile, mi stavo inventando una storia alla quale volevo credere solo perché in fondo ero io la traditrice, ero io la fedifraga, non mio marito. Io però, non avevo nessuna intenzione di parlargli di Carlo, né di distruggere il nostro matrimonio. Dovevo convincerlo a restare con me e adottare una figlia.

In auto, durante il tragitto di ritorno, parlammo di lavoro. Io lo aggiornai su tutte le opere che ero riuscita a vendere a Londra e sulla mostra che avrebbe organizzato Laura per me, la primavera seguente. Feci solo qualche cenno all’inaugurazione e ai lavori di Carlo, senza dilungarmi troppo. Lui rimase ad ascoltare, non intervenne mai. Poi dopo un lungo silenzio iniziò, con uno strano entusiasmo, a parlarmi del nuovo profumo che aveva creato con l’aiuto di Giselle, una ragazza se che stava facendo uno stage nel suo laboratorio, a casa dei suoi.

Il suo trasporto non pareva tanto rivolto alla nuova fragranza quanto alla sensibilità olfattiva della sua allieva, che era anche molto timida e introversa.

Arrivata a casa trovai la cena pronta e un caloroso abbraccio da parte di mia madre e anche da parte di Filippo. Non mi fu molto chiaro il motivo della presenza dell’amico di mia madre, ma forse Giacomo non voleva restare da solo con me. Preferiva la confusione per comunicarmi che mi lasciava.

Ci sedemmo a tavola e tutti mi chiesero di Londra, di Laura e di arte. Ma io avevo tanta fame e risposi a monosillabi, senza dilungarmi troppo. Mangiai con piacere tutte le cose buone che aveva preparato mia madre: pesce lesso con la sua speciale maionese, buona come solo lei la sapeva fare, un antipasto e persino la torta di mele con le uvette. Non erano pietanze elaborate, come quelle di Giacomo, ma lei aveva cucinato per me, con tanto amore.

Finita la cena, Filippo e mia madre se ne andarono a casa loro. Mia madre si era finalmente trasferita a vivere, col suo grande amore, nel nostro vecchio appartamento di Spinea, come mi aveva anticipato giorni prima al telefono.

Giacomo ed io restammo soli, finalmente soli.

Era il momento di parlare, di dirci perché ci eravamo lasciati. Chiederci che senso avesse ancora il nostro matrimonio se tutti e due avevamo dimenticato quella promessa. Ero talmente certa del suo tradimento che, quando me lo confermò, mi stupii di restarci comunque male, molto male. Giacomo, con estremo candore, mi confidò che aveva una storia con Giselle, la stagista profumiera, quella stronza dal naso d’oro, molto sensibile. Gli chiesi se c’era andato a letto e lui disse di sì, con un sorriso da scemo, senza pudore.

Descrisse il suo nuovo amore come se fosse una cosa bella e invidiabile, e a un certo punto parlò di destino. Secondo lui era scritto nel suo destino d’incontrare, dopo pochi giorni dal suo matrimonio, una ragazzina in calore che lo rincorreva notte e giorno per scopare con lui e creare nuovi profumi. Era ormai più di un mese che quella stupida stagista lavorava nel suo laboratorio, ma solo dopo la mia partenza per Londra si erano resi conto di amarsi alla follia. Non sapevo cosa dire. Fino ad allora non mi era mai capitato il ruolo della tradita, ero sempre io a rubare gli uomini alle altre. Mi alzai da tavola, mi venne quasi da vomitare.

Mi spostai in salotto e stramazzai in poltrona. Restai in silenzio, senza dire una parola. Mi prese un moto di rabbia e stavo per gridargli che anch’io l’avevo tradito ed era stato bello fare l’amore con Carlo. Ma mi fermai, la mia confessione non m’avrebbe fatta stare meglio. Io soffrivo ed ero stupita di quel profondo dolore che stavo provando.

Io credevo di non amare Giacomo. Invece ero ferita, ero mutilata. Mi ero abituata a non amarlo ma a essere amata, adorata da lui. Rivolevo a tutti i costi quello strano amore che non avrei mai pensato di perdere.

Per tanti anni Giacomo c’era sempre stato per me, con me, solo mio. Ora mi faceva male quella sua confessione di adulterio, mi bruciava dentro. Non mi ero presa cura di quell’amore che mi veniva sempre donato e che non avevo mai

saputo né voluto contraccambiare. Giacomo ed io ci eravamo fatti del male, ma forse si poteva ricominciare. Forse ora io ero diventata adulta e mi sarei finalmente presa cura di lui, di una figlia, della mia vita.

Caro Ennio,

io avrei voluto dire a Giacomo tutto ciò che stavo provando, ma ero stanca, arrabbiata e seppi solo piangere e dirgli che stavo soffrendo tanto, per il suo tradimento, perché io l’amavo e avevo sempre creduto di essere il suo unico e grande amore. Pensai che si commuovesse, che mi gettasse le braccia a collo, mi prendesse in braccio e ce ne andassimo a fare l’amore nella nostra bella camera. Ma lui rimase imibile, non disse nulla, non fece alcun gesto. L’unica mia consolazione fu prendere il mio gattone tra le braccia e andarmene a letto. Mi alzai e, prima di allontanarmi, gli chiesi cosa intendesse fare. Se mi volesse lasciare subito, tra un’ora, tra un giorno o mai.

Anche lui si era rattristato, non aveva più l’euforia di prima, aveva forse capito d’aver fatto una stupidaggine. Poi mi guardò e se ne uscì con una soluzione che mi sconvolse ancora di più. Giacomo mi disse che se io l’avessi lasciato libero di vivere la sua nuova storia d’amore in santa pace, senza creargli dei problemi, lui avrebbe potuto decidere di restare con me, se ne avevo bisogno. Sottolineò quel “se ne avevo bisogno” come se fosse una medicina per un malato.

Smisi subito di piangere, l’avrei volentieri picchiato. Capii che non c’era più nulla che ci potesse tenere legati se non l’abitudine, come avevamo fatto per anni. Poteva essere un buon affare, lui sarebbe rimasto con me e avremmo adottato Michela. Non me la sentii di parlargli di tua figlia, di nostra figlia, quella sera. Me ne andai a letto e gli dissi che mi sarei presa la notte per pensare a cosa fare della nostra vita. Se avessimo divorziato Michela sarebbe finita con una famiglia di estranei. Forse sarebbe stata la sua fortuna perché, da quella sera, Giacomo e io eravamo più che estranei. Ci eravamo persi o forse non ci eravamo mai incontrati veramente. Gli chiesi di andare a dormire nella sua vecchia stanza

al secondo piano. Lui acconsentì quasi con sollievo. Avrei anche potuto cacciarlo a calci ma dovevo pensare alla mia strategia di sopravvivenza e a Michela.

ai la notte nella mia grande camera da letto, guardandomi intorno e piangendo. Persino Nero se ne andò quando vide che ricominciavo a lagnarmi e imprecare contro tutto e tutti. Ero riuscita ad annoiare pure il mio gatto. Decisi di andare nel mio studio a lavorare.

Caro Ennio,

ripresi a lavorare a una scultura che avevo lasciato in sospeso da mesi. Mi venne l’idea per finirla. Fu un colpo di genio. Ero felice dell’intuizione e ci lavorai tutta la notte dimenticandomi di tutto, delle mie corna, della mia malinconia, di te, di tua figlia, della maledizione che mi perseguitava, dal giorno che ti incontrai, amore mio.

Michela

Caro Ennio,

per l’ennesima volta, nella mia vita, presi la decisione sbagliata e adottai tua figlia Michela.

Il giorno dopo che mio marito mi aveva confessato il suo tradimento, decisi di perdonarlo e di dare alla nostra coppia sfortunata un’altra opportunità. Restammo insieme per poter diventare genitori e adottare tua figlia. Quando, con molta calma, esposi la questione a Giacomo e gli dissi della morte di Martina e la possibilità di adottare Michela, lui si mise a gridare che ero una pazza, una pazza furiosa, una malata che non sapeva prendersi cura neppure di se stessa e del suo gatto, figuriamoci cosa avrei mai combinato adottando una creatura. Finì inveendo anche contro di te, dicendo che non avrebbe accettato ancora il tuo fantasma tra di noi e che tua figlia, per quanto lo riguardava, poteva andarsene al diavolo.

Se ci fossimo fermati lì, quel giorno, a riflettere su ciò che stavamo per fare e avessimo deciso diversamente, ci saremmo risparmiati tanti dolori. Mio marito aveva ragione, non poteva nascere nulla di buono tra due che non si amavano più, né si erano mai amati. Tantomeno si poteva lasciare che un fantasma continuasse a girare per casa. Dovevamo divorziare e non rivederci mai più. Invece io accettai di avere un marito a metà, un po’ mio e un po’ di Giselle, pur di dare un padre a Michela.

Giacomo si impegnò molto ed accettò di fare da padre a tua figlia e ci portammo a casa una bimba triste, che aveva visto morire sua madre a poco a poco, che l’aveva vista bere, drogarsi, frequentare brutta gente e poi morire.

Caro Ennio, tua figlia a cinque anni era una bimba bellissima, molto taciturna, parlava prevalentemente lo spagnolo e non capiva molte parole d’italiano, era sempre vissuta a Barcellona, con la madre. Ti assomigliava in maniera imbarazzante. Mi resi conto che la lettera che mi aveva indirizzato tua moglie doveva essere vera. Quella era tua figlia, a tutti gli effetti ed io mi dovevo prendere cura di lei, era una cosa giusta e molto saggia.

Michela aveva i capelli neri e un po’ mossi, come i tuoi. I suoi occhi erano i tuoi occhi, neri, dolci, disarmanti e aveva il tuo sorriso, triste e delicato. Era magra ma molto alta, per la sua età, persino le spalle, un po’ larghe, mi ricordavano le tue. Non mangiava molto e la mia cucina le faceva schifo. Per dire la verità, mangiava solo se cucinava Giacomo.

Arrivò da noi in primavera, era la fine di aprile. Non riuscii a entrare subito nel suo cuore, anzi non ci riuscii mai. Non mi voleva, era questo il mio nuovo dramma. Subito io fui molto entusiasta di quell’adozione e sopportai, stoicamente, tutte le storie che fece quando arrivò da noi. Non amava me né mio marito, la mia casa, il mio gatto e tantomeno mia madre. Voleva andarsene e gridava sempre. Arrivò l’estate e cercammo di farle amare il mare. Giacomo le insegnò a nuotare. Non fece amicizia con nessuno dei bambini che abitavano vicino a casa nostra. L’unica cosa che amava erano i Lego. Se ne stava ore e ore a costruire macchinine, pupazzi e quelli che lei chiamava mostri orrendi.

Per un periodo venne a stare con noi Mimì, la sua vecchia tata, quella che aveva a Barcellona e le cose sembrarono andare meglio. Mimì la portava al mare e quando era con lei socializzava anche con alcuni bambini. Cosa molto strana per noi. Sembrava volerci provocare e fare la brava bambina con la tata, per poi gridare e scalciare quando era con noi. Un vero inferno. Non riuscivo neppure a lavorare, né a frequentare gente. Giacomo continuava la sua storia extraconiugale con quella Giselle ed io mi sentivo morire.

Poi, una sera di fine agosto, Michela scappò di casa e Giacomo ed io ammo tutta la notte con Polizia e Carabinieri a cercarla in laguna, tra i fossi, per le stradine perdute tra i campi. Ero pazza di dolore per avere perso una figlia, perché quella era ormai mia figlia.

Me ne resi conto quando la gente, che l’aveva cercata con noi per tutta la notte, mi venne a salutare e a dire di farmi forza, che avrei di sicuro ritrovato la mia bambina con le luci del mattino. Sarebbe tornata da me. Mia figlia, io avevo una figlia. La mia stupida vita aveva un senso. Io avevo Michela e Michela aveva me. Tutto sarebbe finito bene.

Verso mezzogiorno i Carabinieri consigliarono mio marito di portarmi a casa. Se ci fossero state novità, se l’avessero trovata, m’avrebbero subito avvisata. Entrai in soggiorno, c’era un bel fresco, anche senza l’aria condizionata. Ero distrutta, non avevo voglia di mangiare e non sarei riuscita a fare le scale per andarmene a letto. Andai nel mio studio e pensai di riposare un po’ sul mio vecchio divano.

Seduta per terra, in un angolo, quasi nascosta dietro ad una mia installazione c’era Michela, tutta spettinata e sporca. Aveva l’aria assorta e non disse nulla. Si mise a piangere. Subito la presi tra le braccia e la strinsi forte a me, ma lei non contraccambiò la mia gioia, sembrava un pezzo di legno, senza vita. Ero talmente felice che non pensai a chiederle niente e tantomeno a sgridarla per quello che aveva fatto e per lo strazio e la paura che ci aveva fatto are. Avvisai Giacomo, e tutta la brava gente che ci stava ancora aiutando nelle ricerche, che Michela era tornata e che tutto era finito per il meglio.

Ringraziammo Polizia e Carabinieri che vennero subito a casa a sincerarsi sulla salute della bambina. Giacomo era felice ma anche fuori di sé per lo spavento. Ma da chi e da cosa voleva scappare? Non c’era nessuno che potesse prendersi cura di lei. C’eravamo solo noi. Noi eravamo la sua unica e sola famiglia.

Decidemmo di non dire nulla a Laura, per non farla allarmare. Mia madre era con noi e lo seppe subito, anzi si prodigò, con il suo Filippo, nelle ricerche; anche lei, in un primo momento, non era tanto convinta di quell’adozione, ma con il tempo si era molto affezionata a Michela, anche se non venne mai contraccambiata. Forse mia madre voleva un nipotino tutto suo, un figlio mio e di Giacomo, ma io non sentivo un tale bisogno. Impiegammo il giorno intero per tirare fuori qualche parola di spiegazioni dalla bocca di nostra figlia. Disse solo che voleva andare a trovare un suo amichetto e poi si era persa. Non trovava più la strada di casa. Tutte balle. Giacomo era furioso e quella sera, prima di metterla a letto, la sgridò e le disse di non pensare a rifare una tale stupidaggine perché potevamo ancora decidere di rimandarla nell’istituto dal quale proveniva.

Fu cattivo, molto cattivo, con lei. In fondo era solo una bimba spaventata ed io non le avrei mai detto quelle parole. Ebbe il coraggio di dirle anche che eravamo noi quelli che l’avrebbero cresciuta, che lei lo volesse o no, perché la conoscevamo da prima che nascesse. Lei ci guardò dal fondo del suo lettino e sembrò ancora più triste e disperata di sempre. Disse solo che aveva capito, ci augurò la buona notte, si girò verso la finestra e si mise a dormire.

Uscendo da quella stanza, Giacomo ed io pensammo che il peggio fosse ato, che nostra figlia si rendesse conto di quanto amore le stavamo dando e si decidesse a contraccambiare, almeno con un po' di rispetto. Invece, da quella notte in poi, iniziarono i suoi grandi e interminabili silenzi. arono giorni interi senza che Michela proferisse una qualsiasi parola e quando lo fece fu solo per piangere, sgridare me, picchiare il mio gatto, prenderlo a calci. Povero Nero, scappava e se ne restava nel mio studio o spariva per delle settimane.

A ottobre iscrivemmo Michela alla prima elementare, in una scuola pubblica, vicino a casa. Con l’inizio della scuola cominciarono altri problemi, perché diceva di non capire la lingua e, con la sua inflessione spagnola, la scambiavano per una extracomunitaria e la prendevano in giro. Così quel poco che riusciva a dire lo diceva balbettando. Con Martina aveva sempre parlato prevalentemente in italiano, quindi lo capiva bene, ma con la tata Mimi si esprimeva solo in

spagnolo.

La balbuzie di nostra figlia ci fece sentire in colpa. La maestra ci convocò per un colloquio: ci disse chiaramente che la bimba viveva un forte disagio. In quella scuola, non riusciva a socializzare, non parlava con nessuno. Ci chiesero com’erano i nostri rapporti con Michela e, sapendo che era una figlia adottiva, ci suggerirono di avvalerci di qualche aiuto esterno, uno psichiatra infantile. Una persona che le stesse più vicino di quanto non fimo noi. Nei pochi mesi che tua figlia si era trasferita a casa nostra avevamo già fatto un bel disastro in fatto di comunicazione. Non trovavamo una crepa nella corazza che si era costruita contro gli estranei, contro di noi. Non saremmo mai riusciti a entrare nel suo cuore. Dover ricorrere all’aiuto di uno psichiatra infantile ci parve una delle tante sconfitte che avevamo subito nella guerra che Michela ci aveva dichiarato.

Rassicurammo la maestra e le promettemmo di are più tempo con nostra figlia prima di ricorrere a un professionista. Mentre uscivamo da quella scuola suonò la ricreazione e pensammo di dare un saluto alla piccola. Era novembre inoltrato, forse faceva già freddo, ma tutti i suoi compagni erano usciti e correvano, giocavano, si mangiavano le merendine, i panini; lei era rimasta dietro a una finestra, appoggiata al davanzale. Con il mento sopra le sue piccole mani guardava fuori. Osservava i suoi amici da lontano. Qualche volta sorrideva. Decidemmo di andarcene, senza disturbarla.

Arrivati a casa ci prese lo sconforto, non avevamo una strategia da concordare, un pensiero comune. Non sapevamo come trattare i figli normali, figuriamoci quelli con problemi. Non eravamo una coppia che aveva desiderato, voluto, concepito una creatura. Noi eravamo due disgraziati che non sapevano neanche perché restavano insieme.

Ma mentre Giacomo aveva la sua relazione con Giselle, che in fondo lo distraeva e gli dava soddisfazione, io non avevo nessuno tranne il mio lavoro. Dopo che Michela era entrata a casa nostra non avevo più pensato a Carlo o ad altri amori.

In maniera molto squallida e forse solo per pietà, qualche notte Giacomo mi seguiva in quella che era stata la nostra camera da letto e facevamo l’amore. Senza che io lo chiedessi e senza che lui me lo negasse. Così, solo perché eravamo sposati, perché ci andava di farlo, perché avevo bevuto un bicchiere di troppo, finivamo a letto insieme. C’era ancora una buona intesa. Il sesso era l’unica cosa che ancora funzionava tra noi, ma era come tra due animali, che ne so, come tra un leone e la leonessa, tra gatti, senza più amore.

Alcune sere mio marito non restava con me fino al mattino. Nel mezzo della notte se ne tornava nella sua stanza, nel suo letto. Le prime volte che lo vidi uscire, come un ladro, mi misi a piangere. Poi mi abituai anche a quella sconfitta. Ci si abitua a qualsiasi cosa pur di avere un po’ di attenzione. Un qualsiasi sentimento, anche la pietà, può andare bene.

Forse nostra figlia aveva percepito che eravamo due genitori anomali, ma lei un padre non l’aveva mai avuto. Martina aveva sempre vissuto da sola a Barcellona, non si era mai risposata. Avrà avuto qualche relazione, ma nulla di serio. Nessun uomo era mai andato a vivere con loro, nella loro bella casa. Anche questo fatto mi faceva pensare che tu, amore mio, eri il padre di Michela.

Laura ci venne a trovare solo tre volte nel primo anno che tua figlia venne a vivere con noi. Ogni volta se ne andava sempre più disperata e pentita per averci proposto un tale sacrificio. Io non riuscii mai a capire perché non si sforzasse di fare la nonna e darci una mano in quel compito tanto difficile. Quando glielo chiesi, tua madre mi rispose che era tardi, era troppo tardi per curare le sue ferite e non sarebbe mai riuscita a instaurare un rapporto decente con sua nipote.

Un giorno mi chiese perché non facevamo un figlio nostro, che forse sarebbe stato d’aiuto anche a Michela. L’avrebbe fatta sentire meno sola, meno al centro dell’attenzione, meno ossessionata dalle nostra continue cure. Dissi che ci stavo pensando e che era uno dei motivi per cui mi ero sposata. Laura se ne andava sempre con immenso sollievo da casa nostra, come chi ha bisogno d’aria e inizia

finalmente a respirare. Devo ammettere che alcune volte la invidiai.

Lei se ne poteva andare a Londra, Parigi, New York, Baltimora, Losanna e ovunque aveva amici che l’aspettavano, la stimavano. Forse, da qualche parte nel mondo, aveva un grande amore, un uomo di cui nessuno sapeva l'identità. Forse invece aveva un grande amore lesbico con una sua cara amica. Tua madre non mi aveva mai considerata degna di accogliere una sua confidenza. Voglio dire che in apparenza io sembravo importante, ma di fatto non contavo nulla per lei. Andava spesso alle terme, faceva viaggi particolari, andava nei deserti; diceva che solo lì ritrovava il suo karma. Tua madre era il mio mito e forse io lo ero per lei. Invidiava la mia pazienza e il mio genio. Sosteneva che ero l’artista più dotata che avesse mai incontrato. Mi confidò che se mai avessi deciso di smettere di dipingere, scolpire, fotografare, lei m’avrebbe uccisa. Scherzava, naturalmente.

A me, per fortuna, il desiderio di smettere di lavorare non venne mai. In quel periodo creavo con il ferro, delle installazioni multiple, tutte uguali in apparenza, ma con dei difetti, delle leggere varianti che a volte solo io conoscevo, e l’acquirente doveva scoprire. Una sola opera era composta anche da sette, otto sculture, molto grandi d ingombranti.

Sia Paola che Laura faticavano a piazzarle. Fui molto fortunata perché mi vennero acquistate da due collezionisti di Los Angeles. Quando io mi spostavo nel mio studio a lavorare, qualche volta Michela mi veniva vicino, senza far rumore, e mi stava a guardare, nascosta in un angolo. Dopo poco la raggiungeva anche Nero, che era diventato la sua ombra, ed entrambi mi spiavano compiaciuti. Io allora fingevo di non vederli e mi lasciavo osservare senza battere ciglio, sperando che mia figlia provasse un po’ d’amore, di stima, di rispetto per me. Non accadde mai e col tempo mi dovetti rassegnare. Ma in quei brevi momenti, sapendo che mia figlia era lì per me, io m’illudevo di contare qualcosa per lei ed ero felice. Era una delle mie piccole felicità, che duravano poco, ma erano molto intense, appaganti.

Un giorno accettò di venire con me, a trovare la mia amica Paola a Venezia. Erano le vacanze di Pasqua, prima che decidessimo di metterla in collegio. Era già una signorina, doveva capire cosa fare della sua vita. Faceva molto caldo e Venezia era già piena di turisti. Paola ci accolse alla grande, ci portò in giro per la sua bella casa e ci fece visitare anche la “residenza per artisti”. Michela sembrava annoiata ma, quando vide due degli ospiti di Paola al lavoro, rimase a guardarli estasiata. L’ambiente era molto vasto ed era un ex deposito di materiale d’una ditta idraulica, fallita. Soffitti alti, adatti ad accogliere le opere maestose. C’era silenzio, si sentiva solo il brusio dei turisti che avano nella calle vicina. Michela si sedette accanto a Mihovil, un ragazzo croato, che stava ritraendo un nudo di donna. La modella era bellissima. Nessuno salutò, continuarono a lavorare, come se noi non fossimo entrati.

Non sembrò di essere nel nostro secolo ma nel Cinquecento, accanto a un grande scultore di quell’epoca. Paola ed io ce ne andammo in casa a preparare la tavola. Era ormai l’una e restammo con piacere a pranzo da lei. Michela continuò a girare per i padiglioni della residenza, senza disturbare gli artisti. Quando ci ritrovammo tutte e tre sedute a tavola, mia figlia pensò solo a mangiare, guardandosi intorno e chiedendo notizie sui vetri di Paola. L’unica cosa che parve interessarla, quel giorno, furono i vasi di Venini e le tante opere in vetro, che Paola aveva disseminate per casa. Dell’arte contemporanea, degli artisti, di tutto ciò che era il mio mondo non le importava proprio niente.

Con Giacomo le cose erano diverse, lui non sembrava amarla e non voleva essere amato, l’ignorava, non la cercava. Forse proprio per questo suo modo di fare Michela si legò più a lui che a me. I primi anni si sopportarono a vicenda e poi, col tempo, si cercarono, si rincorsero, si capirono.

Accadde tra di loro ciò che non accadde mai con me; ci fu ostilità, poi complicità, affetto, comprensione e amore, tanto amore. Giacomo le faceva fare i compiti. L’aiutò a superare la balbuzie senza l’aiuto dello psichiatra. Le comprò il computer, il cellulare, una postazione per ascoltare musica e una batteria perché voleva imparare a suonare uno strumento. La sua camera di adolescente

sembrava la plancia di una grande nave in partenza. Io guardavo, annuivo, ero felice per lei, per loro, approvavo tutte quelle spese, senza protestare mai.

Mi lasciarono fuori dal loro mondo. Io non appartenevo a nessuno dei due, né loro appartenevano a me. Lui la portava nel suo laboratorio, le faceva annusare tutti i profumi che stava per creare o che aveva già perfezionato e erano già in vendita nelle farmacie del suo circuito. Michela lo adorava. Non lo chiamò mai papà, ma Jago, alla spagnola. Le presentò anche Giselle, ma lei la detestò subito e un giorno la fece cadere in laboratorio. Le sfilò la sedia di sotto al sedere, mentre era distratta e teneva in mano delle provette. Giselle finì per terra e si rovesciò in viso un’essenza di narciso che, per fortuna, fu solo leggermente irritante.

Io venni a sapere la cosa perché, arrivata a casa, Michela venne da me nel mio studio e mi disse d’aver sistemato per bene l’amante di Jago. Non vedendo nessuna particolare reazione di stupore in me, mi insultò e mi disse che mi meritavo di stare da sola perché io amavo solo il mio “merdoso” lavoro e non mi accorgevo di ciò che accadeva fuori, nel mondo. Uscì senza aspettare che io potessi aprire bocca e dire una qualsiasi parola. Allora non ci feci caso e mi misi a ridere ma, col tempo, mi resi conto che Michela era gelosa di suo padre, di mio marito.

Dopo l’ennesima espulsione da una scuola pubblica, per liti, zuffe varie e amichette picchiate a sangue, si dovette decidere di iscrivere nostra figlia in un collegio privato, molto esclusivo e costoso, a Losanna. Lontano, tanto lontano da noi. Michela non ne voleva sapere e allora Giacomo s’impose come figura paterna e l’obbligò ad accettare la nostra decisione. La sera prima di partire per il collegio se ne andò a salutare le poche amiche che aveva nei paraggi. Più che amiche erano schiave plagiate da una leader, che eseguivano pedissequamente degli ordini. Dopo cena mi venne a salutare, nello studio, mentre stavo finendo un lavoro che dovevo consegnare per una mostra.

Caro Ennio,

tua figlia era ormai una signorina. Aveva quattordici anni ed era bellissima. La guardai entrare, e ne fui molto orgogliosa, come se l’avessi partorita io. Anzi era diventata molto di più, era la sorellina che non avevo mai avuto, l’amica più cara, che ti dice tutto ciò che pensa e tu la stai ad ascoltare. Non volevo che se ne andasse ma era la cosa giusta da fare per lei, in quel momento della sua vita.

Si sedette accanto a me e disse che senz’altro era tutta colpa di Giselle, se lei doveva andare in quel collegio “merdoso”, che dovevo stare molto attenta a quella “gattamorta”, che m’avrebbe portato via il marito. Io sorrisi e la ringraziai dell’avvertimento. Promisi di far licenziare la “gattamorta” e di non fargliela più trovare in laboratorio da Jago, quando fosse tornata a casa.

Mi diede un bacio e mi disse di non lavorare tanto. Prima che ci lasciassimo arrivò Nero e si sedette davanti a noi. Ci guardò e mosse lievemente la coda. Era vecchio ormai e non si muoveva più molto agilmente, camminava piano e si scomodava, usciva dalla sua tana solo per le grandi occasioni. Un caloroso abbraccio e un bacio tra le sue padrone era una grande occasione, forse irripetibile.

Michela partì alla volta di quella scuola con la ferma intenzione di studiare a fondo e avere le sue belle soddisfazioni. Era una ragazzina molto determinata, intelligente, che aveva ancora tanto da imparare in fatto di buona educazione. Era un’incredibile sfrontata, diceva ciò che pensava senza contare sino a dieci, come le aveva consigliato di fare suo padre. Era bugiarda quando occorreva esserlo e ingenua sino alle lacrime quando si sentiva smascherata. Era un piccolo genio, il “principe” in gonnella. Tutte queste caratteristiche le vedevo solo io. Giacomo era schiavo della sua bella figlia, e pronto a morire per lei. Gli uomini non sempre capiscono le strategia femminili, il lavoro di cesello che riusciamo a compiere con le nostre grazie, la nostra intelligenza.

Caro Ennio,

se tu l’avessi vista in quel periodo della sua vita avresti di sicuro detto che Michela sarebbe diventata una gran donna, un’artista, come avevi pronosticato a me. Partì alla volta di quella scuola e li fece tutti neri, come disse lei. Imparò quattro lingue alla perfezione, ed ebbe sempre voti altissimi. Giacomo ed io eravamo orgogliosi. Lasciai a mio marito il compito di seguirla, di andare a discutere con i docenti della sua arroganza, della sua presunzione. In quella scuola si pagava molto, ma si pretendeva altrettanto. Il traguardo di fine corso era impartire una buona cultura ma più di tutto un’ottima educazione. Così quando Michela diceva ai professori di stare zitti che tanto erano pagati anche troppo, non faceva una bella figura. Quando con il suo computer capiva i patrimoni familiari dei suoi compagni di collegio e li svergognava, se la società del padre aveva perso in borsa, non si faceva nuovi amici. Seminava odio e rancore. Michela era fatta così e non sarebbe mai cambiata. Era una selvaggia e tale voleva restare.

Quando telefonava a casa per cercare di sistemare, col nostro aiuto, tutte le sue malefatte chiedeva di parlare solo con Giacomo. Io la sgridavo e le dicevo un sacco di parolacce, avevo capito quanto furba era. A volte mi sorprendeva e al telefono mi mettevo a ridere, invidiavo la sua sfacciataggine e non riuscivo a essere cattiva con lei. Allora la assecondavo e le concedevo anche ciò che avrei dovuto negarle. Ci aveva in pugno, eravamo due genitori succubi di un piccolo genio malefico. Di sicuro ci era affezionata, ma non ci amava. Non amava me.

Un giorno chiesi a Laura se Michela sapesse qualcosa di ciò che avevo fatto a sua madre, di come erano andate le cose. Lei rispose che di sicuro qualcosa sapeva perché la tata Mimì conosceva tutta la nostra storia e i primi tempi mi odiava. L’aveva sentita un giorno parlare male di me in spagnolo con Michela e, pensando che nessuno la sentisse, m’augurò di morire. Mia madre l’aveva capito che quella Mimì era infelice con noi e sognava solo di ritornare a Barcellona dalla sua famiglia. Dopo che le cose con Michela migliorarono e quella tata

fetente se ne tornò a casa sua, io mi sentii sollevata. Mia madre voleva un altro nipotino, uno che la chiamasse nonna, perché Michela non lo fece mai. Noi la chiamavamo figlia, ma lei non ci chiamò mai mamma o papà. Mia madre diceva che non era normale.

Molte volte mi venne anche il desiderio di parlarle di te, amore mio, di capire cosa sapesse del suo papà, perché tu sei morto che lei non aveva ancora compiuto un anno di vita e non ti poteva ricordare, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Martina avrà risposto in maniera evasiva alle domande di Michela su chi fosse suo padre, su come fosse morto, che lavoro fe… tutte quelle domande banali che a un figlio vengono in mente quando sente la mancanza di uno dei genitori. Dopo essersi spostata a vivere nella nostra casa, tua figlia non mi chiese mai se io ti conoscessi, se io sapessi chi era suo padre. Mi ripromisi di parlarle di noi, della nostra storia, non appena fosse in età per capire.

Già per capire cosa? L’amore, il tradimento, la disperazione, cos’era mai stato quel nostro rapporto?

Caro Ennio,

più avano gli anni e più s’allontanava, si sbiadiva, il ricordo di quel nostro disperato amore, quella confusione di forti sensazioni che non provai mai più nella mia vita e che a te costò la vita.

Ma, come sempre, io ero la sola ingenua a pensare che Michela non sapesse, non vedesse, fosse ancora una bambina. Lei era già adulta e c’era qualcosa di sinistro nei suoi occhi. Quando ti guardava, ti fissava, ti traava il cuore e ti faceva subito pensare a una donna matura, una alla quale potevi confidare qualsiasi cosa, anche la più intima, la più perversa e lei avrebbe capito. Ma non potevo

andare avanti così nell’incertezza. Non poteva esserci un futuro accanto a mia figlia, senza parlare del mio ato, del nostro ato. Mi diedi una scadenza e, per le vacanze di Natale, dei suoi quattordici anni, avrei trovato il modo di aprirle il mio cuore.

Dopo tanti anni finì anche la storia tra Giacomo e Giselle. Senza che io interferissi. La bella giovane se ne tornò in Francia, dopo aver conseguito un prestigioso master, che aveva portato a termine con l’aiuto di mio marito.

Giselle era diventata un “naso” molto importante e avrebbe fatto carriera nel mondo dei profumi.

Si lasciarono e Giacomo tornò da me, tutto e solo per me. Era certo che l’avrei perdonato e ripreso nel mio letto, nel mio cuore. Da casa mia non se n’era mai andato, si era solo spostato in un’altra camera. D’altra parte c’era un accordo tra di noi, io avrei perdonato le sue scappatelle e lui avrebbe fatto da marito a me e da padre a Michela. Tutto a posto, tutto regolare.

Quando tornò nostra figlia, per le vacanze di Natale, fu molto felice di non vedere più Giselle in laboratorio e mi fece i complimenti per aver tenuto fede alla promessa che le avevo fatto. Non le dissi certo che Giselle aveva ottenuto ciò che voleva e se n’era andata, di sua iniziativa, con un master e con un altro uomo molto più ricco di Jago. Perché deluderla?

Caro Ennio,

l’amore, non corrisposto, che provavo per tua figlia mi portò via gli anni migliori della mia esistenza. Non avevo più una vita sociale, non avevo più amici, non

desideravo più nulla, non amavo più nessuno. Michela era lontana, in collegio e non mi dava più tanti pensieri.

avo le notti a fare l’amore con mio marito, ma era una soddisfazione fisica, non mentale. Io non l’amavo, non l’avevo mai amato, ma lui restava vicino a me.

Giacomo, vedendomi tanto triste e temendo per la mia salute, un giorno mi chiese se volessi fare un figlio tutto nostro. Eravamo sposati ormai da tanti anni ma io gli dissi che non c’era tempo per pensare a un altro figlio. Prima dovevamo pensare a Michela, al suo futuro e poi ci sarebbe stato tempo anche per altri figli. Giacomo si mise a ridere e disse che, pensando alla mia maniera, il genere umano si sarebbe già estinto. Mi diede un bacio e sembrò fiducioso che quanto prima io lo avrei assecondato e gli avrei sfornato un figlio tutto suo.

Non mi chiese perché non volessi diventare madre, non aveva capito che io odiavo essere madre, non riuscivo a calarmi nel ruolo. Forse per colpa di Michela, forse per la mia ata depressione, perché non ero normale, perché si partorisce con dolore, per chissà quale strana paura, io ero convinta che non sarei mai stata una buona madre.

Nostra figlia tornò a casa per le vacanze e mi stupii tanto era bella, persino più bella di come era partita. I suoi occhi avevano qualcosa di magnetico, ti attiravano, ti lusingavano, erano pericolosi.

I capelli scendevano lisci sulle spalle, lunghi sino alla vita, neri, lucenti. Era cresciuta in altezza e mi superava di un bel po’; era magra quel tanto che serviva a mettere in risalto le sue belle forme. Non riuscivo a spiegarmi un tale mutamento in così poco tempo. Giacomo fu quasi travolto dal cambiamento di Michela, la guardava stupito, ammaliato da tanta bellezza. Si confidò con me, quando vide che anch’io notai la sua reazione. Disse, scherzando, che ci avevano

scambiato la figlia e lui rivoleva indietro l’altra Michela. Rivoleva la sua bambina, quella era già una donna.

Nostra figlia ci baciò, senza calore come sempre e cominciò a raccontarci dei suoi nuovi amici, di un professore che era una vera “bellezza”, di Losanna una città interessante, da ricconi. Ci spiegò che quel suo cambiamento era dovuto anche ai consigli di Isabella, la sua vicina di camera. Il collegio era solo femminile e ogni ragazza aveva una sua camera enorme, con bagno e piccolo studio, tutto per sé. Praticamente una suite deluxe, per ogni fortunata stronzetta.

Michela stava facendo un corso di studi molto esclusivo che non aveva nulla delle scuole che stavano facendo le sue amiche di Cavallino-Treporti, con le quali aveva condiviso le elementari e le medie. Nelle vacanze si era ripromessa di andarle a trovare e di farle “schiattare” dall’invidia. Michela studiava anche molte materie che avevano di base la chimica. Sarebbe forse diventata un “grande naso” o una farmacista, come suo padre.

Da piccola, nostra figlia, rimase a lungo a guardare, a osservare noi due e decise di seguire le orme di Giacomo, non le mie. Non le piaceva fare l’artista, non era un buon esempio il mio, anche se si guadagnava moltissimo. Michela era molto attratta dal denaro, dalle cose che si possono acquistare con tanti soldi. Anche in questo non mi assomigliava per nulla, ma non assomigliava neanche a te. Volevo vedere qualcosa di te, in tua figlia, ma più cresceva e più s’allontanava da ciò che io ricordavo di te, amore mio.

Quel Natale fu uno degli ultimi periodi felici che ammo insieme, poi le cose sarebbero cambiate. Ci vennero a trovare pure Filippo e mia madre. Invitammo anche Laura, ma aveva altri impegni e spedì, via corriere, i regali per tutti noi. A sua nipote regalò degli orecchini molto belli e preziosi che lei subito indossò e chiese se, a nostro parere, i pendenti potessero essere zirconi o diamanti. Nessuno le rispose e cambiammo argomento.

Quelle vacanze sembrarono volare e poco prima che Michela ritornasse in collegio trovai il tempo di parlarle. Eravamo noi due sole, tranquille, sedute vicino al caminetto, fuori nevicava. Mi diede lei lo spunto per parlare di Martina. Teneva tra le mani gli orecchini che le aveva regalato la nonna e mi disse che anche sua madre le aveva lasciato dei gioielli e, alla sua maggiore età, ne sarebbe venuta in possesso. Io feci finta di non sapere nulla, e le chiesi se si ricordava qualcosa anche di suo padre, di te. Lei non sembrò scossa, non mi guardò. Come se le avessi chiesto notizie del suo gatto, aggiunse che sapeva che eri morto in un incidente d’auto, eri giovane e bellissimo, facevi l’avvocato ed eri ricchissimo. Anche tu le avevi lasciato una grande eredità. Doveva solo arrivare ai diciotto anni e poi tutta la sua vita sarebbe cambiata.

Io rimasi impietrita. Le chiesi se amava la sua mamma, se si ricordava qualcosa di lei. Allora venne fuori la grande attrice che si nascondeva in mia figlia. Con un’interpretazione da Oscar, si mise a piangere, a frignare e disse di aver vissuto troppe situazioni penose e drammatiche con quella drogata di sua madre e che non voleva condividerle con nessuno, tantomeno con me. Aggiunse, con cattiveria, che erano cose che non mi riguardavano e non avremmo affrontato mai più.

Vedendo la mia pena aggiunse, con dolcezza, che le uniche persone che le volevano bene eravamo noi due e la sua nonna Laura, ne era certa. Lei non ricordava d’aver ricevuto altro amore prima di noi. La conversazione finì e suonò il mio cellulare. Mi allontanai per rispondere e al mio ritorno mia figlia non c’era più.

Caro Ennio,

Michela sapeva mentire, era una tra le persone più false che io avessi mai conosciuto. Era capace di farti credere ciò che voleva, quando voleva e con

Giacomo ci riusciva molto bene. Lo sapeva circuire e portare, come un cane al guinzaglio, dove voleva lei. Lui era convinto d’essere severo e inflessibile con sua figlia ma chiunque li frequentasse capiva che era solo un bamboccio nelle sue mani.

Michela era adorata, come nipote, anche dai genitori di Giacomo e a volte, quando tornava dal collegio, non veniva più a casa da me, a Villa Letizia in laguna, ma se ne andava ospite dei miei suoceri, nella loro splendida casa in centro a Padova. La riempivano di regali, vestiva come una principessa, all’ultima moda e tutta firmatissima. Io ero felice per lei ma restavo sempre più sola. Villa Letizia era troppo isolata e la ragazzina doveva avere buoni amici in città, gente che aveva la sua stessa istruzione e ceto sociale, insomma figli di ricchi e non di pescatori o contadini.

Per Michela ci poteva essere solo un buon partito, doveva “sposare bene”.

Nei momenti che non mi andava di lavorare, cominciai a frequentare Paola. Quando la mia amica era a Venezia , e doveva accogliere nuovi artisti mi chiamava, per avere un mio parere e per are qualche giorno insieme. Era molto piacevole restare ospite da lei, nella sua residenza. Il suo appartamento era molto grande e c’era una camera tutta per me, così come io a Villa Letizia avevo riservato una intera ala della casa tutta per lei. Paola era rimasta la pazza che avevo incontrato in clinica. Aveva i miei stessi sbalzi d’umore, un momento ti adorava e subito dopo ti poteva mandare al diavolo. Prendeva ancora un sacco di farmaci, mentre io dopo essere diventata “madre”, non prendevo più nulla, se non delle blande tisane e delle gocce per dormire. Ogni cinque o sei mesi cambiava “moroso”, si disperava per la perdita e se ne sceglieva un altro, sempre più giovane ed esperto in amore.

Mi piaceva stare a guardare come lavoravano le nuove leve dell’arte contemporanea. A volte non erano tanto più giovani di me, ma io mi sentivo lontana da loro, lontana da tutti. Io avevo un mio modo di lavorare, di iniziare

un’opera. Per esempio non sarei mai riuscita a farmi imporre un tema, non avrei mai fatto una cosa su commissione, a comando. Mentre Paola, a volte, accoglieva gli artisti e dava loro una traccia.

In pratica, con la sua galleria, sondava le richieste di mercato e suggeriva ai suoi ragazzi come indirizzare la loro creatività. Se era il periodo che andavano le tele, si dipingeva, se erano richieste le sculture, acquistava valanghe di marmo e via dicendo. Praticamente li plagiava.

Io non potevo inserirmi, non era giusto, non ero a casa mia, ma sorridevo e consolavo qualche giovane collega che si lamentava con me della cosa. Quasi tutti gli artisti non amavano avere un tema, ma in quella residenza si faceva così e si dovevano adeguare. Quando il loro soggiorno finiva se ne tornavano a casa e Paola si incaricava di promuovere la loro carriera e la vendita delle loro opere. Uno o due dei lavori eseguiti dai giovani ospiti di turno restavano a Venezia, nella galleria della residenza, in omaggio. Una volta Paola mi chiese perché mai non ospitassi anch’io qualcuno di quei geni a Villa Letizia. Mi sarei divertita, ci avrei fatto dei soldi, forse mi poteva capitare di scoprire un grande talento. Dissi che ci avrei pensato e la cosa cominciò a frullarmi per la testa. Decisi di non dire ancora nulla né a Giacomo e tantomeno a Michela.

Caro Ennio,

tua figlia crebbe molto bene ed io fui tanto orgogliosa di tutti i suoi traguardi. Portò brillantemente a termine le scuole superiori. Scelse poi di iscriversi alla facoltà di farmacia, a Parigi, con una particolare specializzazione in chimica degli elementi, che veniva insegnata solo lì. Si studiavano le tecniche per creare i profumi, un vero aggancio per tenersi Jago tutto per sé. In effetti mio marito non lo vedevo quasi più, era sempre con sua figlia.

A Michela venne assegnata persino una borsa di studio per are due mesi a Grasse, nel sud della Francia, dove c’erano parecchie scuole per profumieri e Giacomo la volle accompagnare.

Fui un po’ delusa, un po’ gelosa, che non m’avessero chiesto d’andare con loro ma io avevo il mio lavoro e mi bastava.

Quando mia figlia non studiava era sempre in viaggio o in vacanza a casa di questo o quel amico. Sempre in località esclusive e rilassanti. Tutta la sua vita era dorata e serena.

Caro Ennio,

compiuti i diciotto anni tua figlia ereditò tutti i beni che tu le avevi lasciato. Non accadde nulla di eclatante, tutto restò come prima. Il suo patrimonio era ben investito in titoli e immobili e lei ne lasciò la gestione allo studio di commercialisti che era conosciuto e stimato dalla famiglia. Poteva decidere di andarsene lontano e godersi in pace la sua eredità, ma preferì restare a Villa Letizia con noi, con Jago. Perché rinunciare ad abitare con due persone tanto buone, ricche e generose?

Giacomo ed io eravamo in effetti molto ricchi. Lui ebbe fortuna con i suoi prodotti di bellezza, non solo con i profumi ma anche con le creme, gli unguenti che in breve tempo gli vennero richiesti anche per le grandi catene di distribuzione. Gestiva le tre farmacie di famiglia e aveva le sue belle soddisfazioni sul lavoro.

Con le mie opere avevo raggiunto delle buone quotazioni. Ma, nonostante la

fama e il successo, non ebbi mai la sensazione che mia figlia mi stimasse o che fosse orgogliosa di me. I giorni che avo a Venezia, in residenza, avevo tanti giovani artisti che mi adoravano. Erano fieri che io mi occui di loro, che li consigliassi, li seguissi. Ero sincera e davo loro qualche buona dritta. Mi sentivo bene tra la mia gente e più d’una volta anch’io presi spunto da quei ragazzi per portare a termine un lavoro. Mi sentivo ammirata, amata. Cosa che non era più accaduta con Giacomo e tantomeno con mia figlia.

Quando Michela era lontana da casa Laura veniva spesso a trovarmi. Tua madre invecchiava bene, era molto in forma e mandava avanti con grinta le sue gallerie, decideva tutto lei: artisti da ospitare, mostre da allestire, partecipazione a fiere del settore come Artissima o MiArt o meglio ancora Art Basel o Kassel. Era sempre in aereo da un posto all’altro a piazzare i suoi protetti, me compresa. Un giorno eravamo sedute sul divano dello studio, a bere un tè e lei mi guardò, molto intensamente e mi chiese se c’era qualcosa di triste o di allegro di cui le volevo parlare.

Io per la prima volta, dopo tanti anni, arrossii e dissi di no, che tutto andava bene e che ero felice. Avevo un marito, una figlia che non mi odiava, una bella casa, un lavoro che mi dava soddisfazioni, cosa potevo volere di più? Lei si mise a ridere e mi fece notare che non avevo detto d’avere una figlia che mi amava, ma una figlia che non mi odiava, era diversa la cosa, molto diversa.

Scese il silenzio. Non c’era molto da dire. Laura aveva capito da tempo chi era sua nipote e non le piaceva. Forse sarebbe cambiata, forse sarebbe maturata oppure peggiorata, chissà.

Nessuna delle due riusciva a prevedere le azioni di quella ragazza. Michela non era mai stata una bambina, né un’adolescente, né un essere umano, ma solo una macchina da guerra. Avevo sempre avuto l’impressione che m’avesse dichiarato guerra nell’attimo in cui ci vedemmo per la prima volta. I suoi occhi di bambina furono due coltelli affilati puntati contro di me e mi lasciai traare il cuore,

senza protestare, né fuggire o cercare in qualche modo di fermarla. Laura aveva capito il mio dramma, ma non poteva farci nulla. Non era mai riuscita a difendermi da sua nipote, ne aveva quasi paura.

Laura mi chiese, sorridendo, com’era andata la storia del gatto. Io non ci trovai nulla da ridere nel ricordare come Michela aveva ucciso il mio Nero. Non mi ricordo per quale motivo mia figlia, di ritorno da Losanna se l’era presa con me, forse perché ero l’unica a negarle qualcosa. Era ormai una signorina e Nero era vecchio e stanco, se ne stava sempre vicino a me. Era gelosa dell’unico affetto che mi era rimasto. Il mio gatto aveva sempre amato me, non lei. Era riuscita ad accattivarsi Giacomo, i miei suoceri e anche i miei amici, ma il mio gatto la snobbava, non la seguiva più come quando era bambina e lei non lo sopportava. Nero era vecchio ed anche sordo.

Un giorno che eravamo tutti e tre nel mio studio, Michela attese che io andassi alla porta d’entrata, a firmare una ricevuta per la consegna di alcuni materiali e di ritorno nello studio vidi del sangue uscire da un grosso blocco di marmo, che era caduto dal suo piedistallo. Sotto c’era il mio gatto, morto schiacciato. Michela fece finta d’accorrere per il frastuono, ma le si leggeva in faccia che era stata lei. Io rimasi impietrita con la mia ricevuta in mano. Se solo avessi avuto vicino un coltello o una pistola mi sarei avventata su di lei e l’avrei uccisa.

Lasciai la scena del disastro e me ne andai fuori di casa per un po’. Presi la bicicletta e mi misi a correre per le viuzze della laguna. Era autunno, ma faceva ancora tanto caldo. Chiamai Giacomo al cellulare e gli dissi cos’era accaduto ma lui minimizzò e disse che poteva benissimo essere stato un incidente, magari un colpo di vento, che aveva fatto cadere il masso e Nero, sordo com’era, non aveva avvertito il pericolo. Già, forse erano andate così le cose. Tornai a casa sfinita, verso sera.

Giacomo era già arrivato. Michela era tra le sue braccia e piangeva per la morte del nostro bel gattone. Il mio studio era già tutto pulito. Nero lo avevano sepolto

in giardino, vicino a una mia opera in marmo che gli faceva da lapide. Guardando Giacomo che consolava Michela mi venne una rabbia tremenda. Non la stava consolando come un padre. Giacomo amava Michela. Mi confidai finalmente con Laura e le dissi tutte le mie perplessità.

Erano parecchi anni che avevo quella sensazione. Forse proprio dopo la morte di Nero, dalla sera che li vidi stringersi e toccarsi come non si doveva fare.

Giacomo era molto attratto da sua figlia, forse ero solo gelosa, ma lui era schiavo di quella grandissima bugiarda. Laura stava ad ascoltare, non disse una parola, ma non pareva molto stupita delle rivelazioni che le stavo facendo. Così continuai nella mia paranoia e le confidai che a volte li osservavo, quando giocavano a carte o se ne stavano ore in laboratorio a creare quegli stupidi profumi. C’era tra di loro molta complicità, era il rapporto tra maestro e discepola. Pareva però che fosse Michela a insegnare delle cose a Giacomo e non il contrario. Non vidi mai più un uomo rincretinirsi tanto. Mendicare il bene di una figlia ingrata.

Perché Michela non amava Giacomo, lo stava solo usando, per chissà quale dei suoi loschi scopi.

Sul tavolo del mio studio c’era un album di foto e tua madre l’aprì. Erano foto di Michela, che ripercorrevano gli anni trascorsi con noi. Foto che la ritraevano al mare, alle gare di danza, foto di lei in giardino o con gli amici. Aveva sempre lo stesso sguardo falso. Tua figlia rideva e piangeva allo stesso modo. Quel pomeriggio accanto a tua madre, davanti a quelle foto, mi misi a piangere.

Laura mi strinse forte a sé e cercò di consolarmi, dicendo che mio marito mi adorava, ne era certa. Di sicuro non sapeva ancora gestire al meglio il suo ruolo di padre. Disse che forse dovevo rivedere il dottor Grimaldi, che mi aveva curata

in ato per la depressione. Anche se era una cosa ata, superata, quel bravo medico mi poteva dare qualche buon consiglio. Aggiunse che Michela faceva la donna, ma era ancora una ragazzina.

Non piaceva molto neanche a lei l’atteggiamento da “grande” che a volte assumeva. Ma era normale, tutte le adolescenti facevano così.

Sorridendo sussurrò che non sembrava proprio essere tua figlia, non aveva niente di te. Era vero. Quella non poteva essere tua figlia.

Finito il tè e finiti i brutti ricordi Laura ed io ci rendemmo conto che c’erano solo quelli, di belli non ce n’erano. Quando mi salutò, sulla porta di casa, mi disse che dovevo avere più cura della mia persona. Mi consigliò di tagliarmi i capelli, di andare dall’estetista, perché ero tanto giovane e tanto vecchia insieme. Le promisi qualsiasi cosa purché se ne andasse, ero stanca e molto arrabbiata. Non aveva capito niente, o forse aveva ragione lei, io stavo per ricadere nella mia depressione. Da quando decisi di adottare Michela la mia malattia si era attenuata, anzi del tutto sparita. Eliminai tutti i farmaci. Stavo bene, io non avevo bisogno di rivedere il dottor Grimaldi. Laura si sbagliava, io non ero pazza, ma solo tanto trascurata da mio marito.

Caro Ennio,

in fondo la mia vita me l’aveva rovinata proprio tua madre con la stupida proposta dell’adozione di una piccola vipera. Se devo essere sincera io non ho mai provato un vero amore per tua figlia e lei deve averlo capito da subito, dal primo istante che ci siamo viste. Mi sono presa un impegno, ho sempre cercato di sopportarla, di capirla, ma non posso amarla, sarebbe come chiedermi d’amare Giacomo. Ecco un’altra cosa che legava quei due: io non li amavo e non li avrei mai amati.

Michela ed io ci odiavamo.

Tua madre non tornò più a casa mia per molti anni. Io l’andavo a trovare per lavoro a Londra oppure ci si sentiva al telefono, si chiacchierava d’arte contemporanea e di quanto mi stessi rincretinendo. Era arrivato il mio “brutto periodo”. Arriva per tutti gli artisti e tutto ciò che producevo non piaceva più ai critici e neppure a Laura.

erà, mi dicevo e intanto ci soffrivo, perché se non fossi più riuscita a lavorare mi sarei sparata. L’unica soddisfazione che mi salvò la vita, in quel periodo, fu scappare a Venezia in residenza dai ragazzi, che di ispirazione ne avevano tantissima. Li invidiavo e li benedivo. A casa di Paola, stavo bene, stavo in pace. Non provai mai attrazione per nessuno di loro, anche se ci fu Andrea, uno scultore romano, che mi fece una corte spietata. Ne fui lusingata, ma non scattò mai niente altro nel mio cuore.

Giacomo mi consolava per la perdita di ispirazione mi invitava a smettere di fare “casino” con tutti quei pezzi di marmo e cianfrusaglie per casa. Voleva sdrammatizzare un po’ la situazione e farmi capire che avrei potuto vivere una vita serena e agiata con tutti i soldi che avevo accumulato negli anni. Come al solito mio marito non capiva niente di me e del legame stretto che avevo con il mio lavoro. L’arte era tutto per me. Non ero riuscita a far entrare niente altro nella mia vita se non il desiderio di creare. Decisi di ospitare anch’io degli artisti e lo comunicai a Paola, prima che a mio marito o a Michela, perché volevo che fossero ragazzi provenienti dal suo circuito.

Così un giorno, a Villa Letizia, arrivò Anna, una ragazza di Genova che aveva solo cinque anni più di mia figlia. Era una fotografa e quando vidi il suo portfolio mi innamorai, all’istante, delle sue opere. Anna era molto timida, parlava poco, solo lo stretto indispensabile. Fotografava dei volti, delle materie

tipo l’acqua, il fango, la melma, la polvere. A volte costruiva le sue installazioni in studio.

Fece una serie di foto, nel padiglione che le avevo riservato, che ebbero in seguito ben tre premi del settore, sia in Italia che all’estero. Fotografava dei grandi drappi di stoffa, con sfondi neri, dai quali faceva emergere delle parti anatomiche, teste, braccia, mani e anche parti non identificabili. Aveva una valanga di lampade e torce elettriche, sfondi e paraventi, per creare la luce giusta. Non era mai soddisfatta e si lamentava sempre. Anna era molto triste, non sorrideva mai. Era magra, aveva i capelli neri cortissimi, rasati, gli occhi azzurri e la carnagione di un bianco cadaverico, quasi inquietante. Mangiava poco, era vegetariana. Si fermò solo per un mese. Era maggio e la laguna era un incanto, ma Anna non mi raggiunse mai nelle mie gite in bicicletta.

Se ne stava sempre nel suo padiglione, tra le sue cose, molte volte al buio. Stava creando una sua opera e solo io potevo capire quanto felice fosse, in quei momenti.

Giacomo non fu molto entusiasta della mia idea di residenza, anche se Villa Letizia fu restaurata con quella caratteristica. All’inizio della nostra relazione io ospitai il mio futuro marito proprio nel reparto che avrei dedicato agli artisti.

Mia figlia non volle neppure conoscere Anna. Non fu contenta della mia scelta di ospitare una giovane artista, che poteva fare strada e per la quale io rappresentavo un mito. Anna mi adorava ed era orgogliosa di stare con me e me ne infischiai sia del parere di mio marito che di quello di mia figlia. Ero a casa mia, ero felice di questa mia nuova attività. Era l’ennesima piccola felicità che mi concedevo, non sarei ritornata sulla mia decisione. Avrei aperto le mie porte ad altra gente, altri artisti. Sicuramente.

Caro Ennio,

tua madre tornò a Villa Letizia in occasione della festa di maturità di sua nipote. Sembrò essere trascorso un secolo dal nostro ultimo pomeriggio ato a chiacchierare insieme, eravamo tutte e due cambiate. Io mi ero tagliata i capelli ed ero molto dimagrita, non mangiavo più tanto. Giacomo cucinava raramente per me, viveva a Padova e ci si vedeva solo nelle grandi occasioni. Tua madre invece era in gran forma, con lo stesso taglio di capelli, ma di un bel colore bianco candido. Si era lasciata la sua tinta naturale e le stava molto bene. Era sempre magra come un chiodo e aveva gli occhi che brillavano, come chi è innamorato. Erano ati tanti anni e avrei dato qualsiasi cosa per sapere qualche indiscrezione sulla sua vita privata. Ci furono parecchie occasioni nelle quali Laura avrebbe potuto confidarsi con me, ma non accadde mai e io non ebbi mai il coraggio di chiederle nulla in merito, m' intimoriva. Potevamo parlare per ore d'arte, di viaggi, di persone che entrambe conoscevamo, ma mai di sentimenti. Tua madre seppe sempre tenere le dovute distanze con me. Venivamo da mondi troppo diversi, lei restava una gran signora e io una poveretta alla quale suo figlio aveva fatto l'elemosina.

Villa Letizia era addobbata per la grande festa. Giacomo si era messo ai fornelli, aveva deciso il menù ed era sua anche la decisione di festeggiare in laguna e non a Padova il traguardo, tanto importante, raggiunto da nostra figlia. C’erano molti invitati, era luglio e faceva un gran caldo. Laura era già arrivata e ci avrebbero presto raggiunti anche Paola, con il suo nuovo compagno. I miei suoceri e la mia amica Sandra, che non vedevo da parecchi anni perché viveva a Roma, entrarono insieme nel soggiorno e mi vennero incontro. C’erano un sacco di amici di mia figlia, gente del posto ma anche coetanei di Padova e Losanna. Conosceva mezzo mondo e sembrava essere amata da tutti. Buon per lei. Un po’ la invidiavo. Era l’opposto di ciò che ero io, timida e introversa.

Giacomo aveva tutto sotto controllo. In giardino i tavoli erano già preparati. In cucina mio marito si avvalse dell’aiuto di altri due cuochi. A servire gli invitati c’erano, sguinzagliati per i vari saloni e l’enorme giardino, ben sei camerieri. La

festa poteva cominciare.

Quello stesso giorno Michela mi stupì perché, per la prima volta, mi chiese d’andare a fare spese con lei. Si voleva comprare un vestito adatto alla serata e voleva un mio consiglio. Cosa che non aveva mai fatto. Era sempre Giacomo che pensava a lei oppure se ne andava a spendere un sacco di soldi con le sue amiche. Mi aveva sempre ignorata e questa sua richiesta mi stupì molto. A essere sincera m’aveva stupito anche il suo atteggiamento amorevole nei miei confronti. Quando arrivò a casa, il giorno prima della festa, m’abbracciò molto calorosamente. Di solito ero io a stringerla e lei restava come un pupazzo tra le mie braccia. Non mi aveva mai stretta a sé, neppure da bambina.

La giornata di shopping non fu molto divertente. Si andò in auto a Punta Sabbioni e si salì sulla motonave diretta a Venezia, dove c’era il meglio del meglio, proprio ciò che aveva sempre avuto mia figlia nella sua vita. Andammo dove piaceva a lei e si comprò un vestito da favola, nero, con scollo adatto alla sua giovane età, non volgare, molto elegante. Le scarpe le aveva già comprate giorni prima.

Aveva le idee chiare e si fece tutto in un baleno, tanto che non mi spiegai perché m’avesse chiesto di accompagnarla. Non mi chiese se anch’io volessi comprarmi un vestito. In fondo poteva essere una cosa bella che mia figlia mi consigliasse come vestirmi, ne avevo bisogno.

Io ero la solita distratta che magari usciva anche con due scarpe di colore diverso, non ci assomigliavamo proprio per nulla. Non avevo idea di quali colori mi stessero bene e quali evitare per il mio “incarnato”. Michela invece diede una lezione alle commesse che la stavano servendo tirando fuori tutta una sua paranoia sui colori adatti a lei e su ciò che, visto il suo “incarnato”, quelle poverette non avrebbero dovuto neppure proporle.

Poi, rivolta a me, ma facendosi ben sentire, disse che a Londra, in una qualsiasi boutique, non avrebbero mai sbagliato a suggerirti un capo d’abbigliamento. Finalmente, uscita da quel posto, mi parve di tornare a respirare.

Con mia figlia, in quel negozio, mi sentii molto in difficoltà per la sua arroganza, per il modo in cui era abituata a trattare la gente.

Avevo cresciuto una vera stronza. Una da prendere a calci dal mattino alla sera. Non si parlò mai di noi ma solo di vestiti, borse, scarpe e biancheria intima costosissima. In realtà parlava solo lei, io l'ascoltavo e sorridevo come una vera imbecille. Era così che mi faceva sentire Michela, una povera imbecille alla quale far credere qualsiasi cosa.

La guardavo, per strada, mentre sfrecciavamo tra i turisti, per riuscire a prendere in orario la motonave di ritorno. Era falsa. Non mi fidai del suo modo buono di trattarmi, del suo caldo abbraccio, non era mai stata tanto gentile con me. In motonave restammo in silenzio, non si riesce a parlare, con il rumore assordante dei motori. Arrivate a casa Michela andò subito a far vedere il vestito a nonna Laura, che non aveva voluto venire con noi perché si sentiva un po’ stanca. Trovai strana anche questa smania per la nonna, di cui non s’era mai curata, anzi ultimamente la trattava male. Diceva che Laura era vecchia e non capiva più nulla di arte contemporanea, né di psicologia. Secondo lei tua madre non sapeva più gestire al meglio le sue gallerie, perché era “rincoglionita” e si fidava troppo dei suoi collaboratori, che di sicuro la fregavano. Non le pareva normale che fosse rimasta una vedova inconsolabile e non avesse più voluto un uomo accanto a sé, sosteneva infatti che doveva avere di sicuro uno o più amanti, molto più giovani di lei, con i quali se la sava alla grande.

Verso sera cominciarono ad arrivare gli ospiti. C’era una nutrita schiera di amici padovani, perché mia figlia ava molto del suo tempo libero a casa dei nonni. A Villa Letizia ci veniva di rado, con qualche amica, solo per andare in spiaggia. Non sapevo di preciso chi frequentasse, se avesse un ragazzo. Era un brutto

periodo anche per la mia vita matrimoniale. Giacomo restava spesso a Padova, per seguire il suo lavoro e mi inviava degli sms, faceva qualche telefonata. Io gli rispondevo e non gli dicevo mai che mi sentivo sola. Qualche volta arrivava, senza preavviso, a Villa Letizia e mi baciava, mi abbracciava. Restava a dormire con me e facevamo l’amore.

Io non sapevo se ero felice, ma mi godevo quei pochi istanti di gioia, come ho sempre fatto nella mia vita, senza chiedermi se potessero durare o meno, se li meritassi o no. Quelle notti d’amore che Giacomo mi regalava erano molto meno di niente per lui, ma importanti per me, mi aiutarono a sopravvivere.

Al mattino, prima di lasciarci, io gli chiedevo notizie di nostra figlia. Loro si vedevano spesso e si sentivano via Skype. Giacomo era sempre molto evasivo e diceva che i risultati scolastici li vedevo anch’io, era brava e andava tutto bene. La sua vita sentimentale non ci doveva interessare. Comunque lui non sapeva di nessun rapporto importante. Michela aveva tante storie, serie o meno che fossero non ci dovevano riguardare, perché nostra figlia era molto più matura dei suoi coetanei. A me continuava a sembrare strano l’atteggiamento di mio marito nei confronti di sua figlia, ma ero molto triste, stanca, sola. Mi accontentavo delle sue parole, senza indagare, o interessarmi a ciò che mi diceva. Io restavo per giorni sepolta in quella mia grande casa, con il mio lavoro, le mie abitudini, qualche eggiata in laguna e tanto silenzio intorno a me.

Se non avessi avuto la via di fuga delle mie visite alla residenza di Paola, a Venezia, forse sarei ricaduta in depressione. Mi sentivo bene tra quei ragazzi e molte volte, alcuni di loro, mi venivano a trovare a Villa Letizia e ci rimanevano a finire il loro stage. Paola ed io eravamo amiche sincere e di conforto l’una per l’altra.

Anche mia madre qualche volta mi veniva a trovare, ma sempre accompagnata da Filippo. Quei due stavano bene insieme ed erano talmente affiatati che non si lasciavano mai. Ero io l’intrusa tra di loro, ero esclusa anche dall’affetto di mia

madre. Da non crederci, quella non sembrava essere la stessa donna che, tanti anni prima, era sempre malata e piena di paure e dolori. Con l’amore di Filippo, anche se giunto in tarda età, era rinata. Buon per lei.

La festa era già iniziata e Michela ancora non si vedeva. Io facevo gli onori di casa, insieme a mio marito ed ero felice. Con Giacomo al mio fianco e la casa piena di gente, piena di vita, io stavo gustando una delle mie piccole felicità, me la stavo centellinando. Sapevo che non sarebbe durata a lungo, ma era talmente intensa che mi faceva stare bene. Ero in pensiero, temevo che qualcosa andasse storto, che sorgesse qualche intoppo. Volevo che tutto fosse perfetto per la festa di maturità di nostra figlia. Non avevo idea di dove potesse essere andata, ma io sapevo talmente poco di lei, non capivo mai cosa le girasse per la testa e non ebbi mai il coraggio di chiederglielo.

Mi guardavo intorno per indovinare quale di quei bei ragazzi potesse essere il suo moroso. Doveva pur avere un piccolo amore, un coetaneo che le fe la corte, era talmente bella che tutti avrebbero, di sicuro, fatto a botte per lei. Alla sua età si deve avere il ragazzo, una prima storia.

Caro Ennio,

mi si gelò il sangue nelle vene quando pensai che io, più o meno alla sua età, avevo te, amore mio. Io all’età di mia figlia ero già una rovina famiglie, una gran puttana.

Qualcuno mise della buona musica e alcune coppie iniziarono a ballare sulla terrazza del giardino. Era una serata molto calda ma senza umidità. Il cielo era pieno di stelle, come non mai e c’era pure una splendida luna. Il giardino era illuminato da luci tenui, candele sui tavoli e il buffet era fornito di mille delizie. Piatti di pesce, preparati da mio marito apposta per la sua bella figliola.

Antipasti, verdure alla griglia, aragoste, e riso freddo. E poi dolci, frutta e vini di tutti i tipi, champagne, prosecco. Una meraviglia per i nostri ospiti che rimasero di sicuro stupiti e ammaliati da tanto sfarzo.

Bene, tutto stava andando bene, ero felice e mi sentivo bella. Mi ero messa uno splendido vestito rosso, da vampira. Avevo tagliato i miei bei capelli ricci e rossi e un po’ mi sentivo nuda, diversa, senza il peso delle mie folte chiome sulle spalle. Ma, come tutti mi dicevano, il taglio corto ringiovanisce. Mentre mi preparavo, da sola nella mia camera, mi sentivo molto triste perché non ero vecchia, né brutta, ma nessuno si curava di me. Giacomo non mi vedeva più. Quando lo avevo di fronte guardava oltre il mio viso, come se ci fosse sempre qualcosa di più interessante da osservare dietro o accanto a me. Quando eravamo con gli amici non mi lasciava parlare e qualche volta mi zittiva, così per ferirmi, senza un motivo preciso, ma perché era abituato a farlo, perché ero stupida e glielo lasciavo fare.

Conclusa la notte d’amore che mi concedeva ogni tanto, pareva aver assolto, con noia, ai suoi doveri coniugali e desiderare solo di scapparsene via. Di sicuro dopo quella Giselle avrà avuto altre storie ma non ne sapevo nulla. Risiedeva, per lunghi periodi, a Padova a casa dei genitori o nel suo vecchio appartamento da scapolo, dove viveva prima che ci sposassimo. Michela, quando tornava dal collegio, andava da lui o dai suoi cari nonni. Praticamente io ero una povera vedova, con tanto di marito vivo o, meglio ancora, ero una cornuta contenta. Quella sera pensai, mentre mangiavo alcune cose buone del buffet e bevevo del buon vino, che ora che mia figlia aveva raggiunto la maggiore età il mio ruolo di madre adottiva poteva ritenersi concluso. Avrei chiesto il divorzio.

Avrei potuto farlo anche prima, ma mi andava bene così. Il male che avevo fatto a Martina e alla tua famiglia lo avevo espiato, con lo schifo di vita che avevo vissuto sino ad allora. Uscita in giardino, guardando quelle incredibili stelle, pensai che ero ancora una bella donna, giovane, ricca, famosa e con tutta la vita davanti a sé. Ero felice. Certo ero sola e forse non ero stata una buona madre, ma a tutto c’è rimedio.

Io volevo che Michela fosse felice, che si laureasse in farmacia, come voleva Giacomo. Poi di sicuro avrebbe sposato un rampollo di buona famiglia, e magari sarei diventata nonna, perché no?

Ti immagini, amore mio, io che divento nonna? Senza essere mai stata madre, sarei ata al ruolo di nonna. Da non crederci.

Girando per i tavoli del giardino e del soggiorno tutti mi fecero i complimenti per il vestito, per la mia bellezza, per la serata e per l’ottimo cibo.

Ero felice, mi sentivo bene. Anche Giacomo mi venne vicino e mi baciò sul collo. Mi vennero i brividi di piacere e ricambiai con un bacio sulla bocca. Laura se ne stava seduta da sola in un angolo del soggiorno. Era vestita in maniera impeccabile, elegante come sempre, ma mi sembrò molto stanca. Per la prima volta mi resi conto che tua madre stava invecchiando.

Tutti mi chiedevano dove fosse la festeggiata ma io non sapevo rispondere. Forse era al telefono o al computer che chattava con i suoi innumerevoli amici.

Poi, dallo scalone, si vide scendere una nuvola bianca. Era mia figlia, con un meraviglioso vestito di tulle bianco, con una leggera scollatura sul davanti e una voragine di apertura sulla schiena. Era molto abbronzata, aveva i capelli raccolti ed era bellissima.

Caro Ennio,

solo quella sera mi resi conto di quanto ti assomigliasse e avrei voluto che tu fossi lì. Scendeva le scale come una di quelle attrici che si vedono in televisione o in alcuni film. Era sicura di sé, certa di piacere all’intera platea.

Giacomo l’accolse alla fine della scala, le diede un bacio, le porse la mano e si avviarono al buffet.

Ci mancò poco che tutti si mettessero ad applaudire la divina. Non vennero verso di me ma andarono a dare un saluto ai nonni paterni e poi a Laura.

Io rimasi di stucco e non capii cosa ne avesse fatto del vestito nero che avevamo comperato insieme a Venezia. Falsa, era tutta una falsità, un depistaggio, per non farmi vedere l'abito che intendeva mettere quella sera. Se mi avesse chiesto un parere di sicuro le avrei detto che quel modello non era adatto a lei, era veramente scandaloso, al limite del volgare, ma le stava a pennello.

Da dietro le si vedevano persino i glutei, scoperti per metà. Una vera vergogna, ma le stava bene, sfacciatamente bene. Laura mi raggiunse e, sorridendo, mi chiese se mi pie il vestito di mia figlia e che fine avesse fatto quello nero comprato a Venezia.

Non risposi alle sue domande, ma le dissi che quell'abbigliamento volgare piaceva di sicuro a tutti gli uomini presenti, compreso mio marito. Non si potrà mai descrivere il volto, lo stupore di Giacomo quando vide Michela scendere le scale di casa nostra. Non pareva più lui, ma l’innamorato che attende la sua sposa, il cavaliere che si farà massacrare in battaglia per la sua donzella, lo spasimante che vede la sua amata. Praticamente uno stronzo di uomo sposato, che sbavava per una sciocca ragazzina, che oltretutto era sua figlia. Tutti videro

lo stravolgimento di mio marito e, prima che qualcuno glielo fe notare, lo raggiunsi e gli chiesi di pensare al vino che già scarseggiava. Era una scusa, ma funzionò.

Giacomo si riprese e se ne andò verso il buffet. Mi avvicinai a mia figlia e le feci i complimenti per il vestito e lei, senza vergogna e senza arrossire, mi ringraziò e mi disse che glielo aveva regalato Jago.

Da restarci secca. Mi sentii mancare perché lei continuò dicendo che Jago aveva cucinato per lei, le aveva consigliato il vestito e aveva voluto a tutti i costi quella festa.

Ed io chi ero? Poteva ben pensare che tutte le cose che le erano state concesse quella sera provenivano anche da me, dal mio cuore, dal mio amore per lei.

Qualcuno la chiamò e lei svolazzò altrove, con tutto il suo tulle. Rimasi lì, a guardare la scena, a osservare quanto fosse felice mia figlia.

Le sorprese non erano finite. A una cert’ora, Michela mi raggiunse sotto al portico, in giardino, per farmi vedere l’anello di diamanti che le aveva appena regalato il suo papà. Era talmente felice che pensò di ringraziare anche me. Poi se ne andò in giro, tra i tavoli del giardino, a far vedere il suo regalo.

Laura mi fermò mentre stavo per affrontare mio marito e chiedergli perché non mi avesse detto nulla di tutte quelle spese pazze. Volevo che mi spiegasse il motivo di tanta cattiveria nei miei confronti. Quella sera dovevano esserci due genitori dietro le sorprese fatte a Michela, non solo “un papà”. Dovevamo essere uniti, per il bene di nostra figlia. Era la festa di maturità, la festa per la sua

entrata nel mondo degli adulti e i sacrifici per arrivare a quel traguardo li avevo fatti anch’io, non solo lui. Aveva ragione tua madre, non era il momento adatto, per iniziare una lite. Era Michela che lo aveva cambiato, non era più lui. Mia figlia, nel tempo, ci aveva messi l'uno contro l'altra. Lo aveva fatto con soddisfazione perché lei era fatta così, era un’ingrata, era una ragazza cattiva, come era stata una bambina cattiva, con me. Decisi di non fare scenate. Era tardi per qualsiasi azione e forse mi meritavo tutto l’odio che mia figlia provava per me.

Caro Ennio,

quella sera ti pensai e furono il tuo ricordo e la tua presenza a tenermi calma. Non prendevo più farmaci e m’erano d’aiuto degli esercizi yoga di respirazione. Improvvisamente mi sentii stringere la gola da uno strano nodo e dovetti uscire dal salone a godermi il fresco della sera e mettere in pratica ciò che avevo imparato nelle mie lezioni anti-panico.

Era una notte incantata e la luna spargeva la sua luce ovunque. Respirai profondamente e subito mi sentii meglio. Mi avviai verso il fondo del giardino, verso la parte che confinava con l’acqua della laguna.

Stavo andando verso il mio bellissimo gazebo, per sedermi un po’ in pace, lontano da tutta quella gente in festa e godermi il riflesso della luna sull’acqua. Giunta a metà strada già s’intravedeva la mia meta e mi resi conto che c’era qualcuno seduto sulle panche, che stavano sotto la siepe di edera.

La luce della luna rifletteva ed espandeva il bianco del vestito di una donna. Erano in poche a essere vestite di bianco quella sera, anzi solo due: Michela e la mia carissima amica Sandra.

Per un attimo sperai che fosse Sandra, perché mi sarei fatta una bella chiacchierata con una delle mie amiche più care.

Ma non era Sandra la donna vestita di bianco e non era sola. C’era un uomo con lei.

I due ridevano, parlavano sottovoce, si baciavano, si stringevano, gemevano di ione ed erano le persone più importanti della mia vita: Michela e Giacomo.

Per un attimo il mio cuore si fermò. Si fermò il mio respiro e tutto il mio corpo. Le mie gambe non ne vollero sapere di procedere e si tramutarono in marmo. Quei due non s’accorsero di me, continuarono a baciarsi apionatamente. Lui aveva affondato le mani sui glutei di lei, ormai nudi e i corpi si stringevano, quasi non potessero resistere al desiderio di fare l’amore lì, sotto al mio gazebo, a casa mia. Lui era tutto eccitato e la voleva possedere. Si fermarono perché qualcuno, dalla villa, chiamò Michela. Gli ospiti volevano la festeggiata e lei gemette di rabbia, nel ricomporsi.

Caro Ennio,

davanti a me c’era mia figlia, tua figlia Michela, avvinghiata a mio marito Giacomo, quello che per tanti anni le aveva fatto da padre. Io mi nascosi dietro a una siepe e non ebbi il coraggio neppure di fiatare. Loro sentirono i richiami e anche dei rumori venire dal vialetto. Dopo un ultimo bacio, decisero di rientrare in casa, uno alla volta, per non suscitare sospetti.

Se ne andò per primo mio marito. Dal mio nascondiglio lo lasciai are senza muovere un dito. Lei restò ancora un po’ sotto al gazebo, respirò profondamente, quindi si ricompose. Si sistemò il vestito, raccolse i capelli e si rimise le scarpe. La vidi trattenersi ancora qualche momento a guardare la laguna, ascoltando il rumore dei grilli e delle rane, assaporando dolcemente la notte magica che stava vivendo.

Per un attimo pensai di strangolarla, avvicinandomi furtivamente dietro di lei e, con una corda, un laccio qualsiasi, stringerle il collo sino alla morte. Oppure avrei potuto spingerla in acqua e tenerla sotto per farla annegare, ma era una nuotatrice provetta e magari ad annegare sarei stata io. Volevo uscire dal mio nascondiglio e affrontarla. Dirle che era un’ingrata, che non mi meritavo ciò che mi stava facendo. Dirle di lasciarmi Giacomo, che io l’amavo ed ero tanto sola. Dirle che nessuna ragazza della sua età poteva comportarsi da sgualdrina, come stava facendo lei.

Ma la notte era serena, la luna continuava a splendere, come prima, e c’era solo il rumore dei grilli intorno a me.

Quando Michela mi ò accanto era già diversa, non più eccitata. Aveva ripreso la maschera della brava ragazza, della figlia amorosa. In fondo era la festa della sua maturità, c’era un sacco di gente importante, non era il caso di fare uno scandalo. La lasciai are indisturbata, anzi scivolai ulteriormente verso la siepe, per non farmi vedere.

Sentii il suo respiro, ormai tornato normale e fui pervasa dal suo profumo. Poi, sicura che nessuno mi vedesse, uscii allo scoperto e finalmente mi avvicinai al gazebo.

Lì sotto era rimasta traccia di mia figlia e anche di mio marito. Risentivo le loro

parole sconce sussurrate, le grida di piacere e fu come rivederli ancora, all'infinito. Giravano intorno a me, ridevano di me, come due pupazzi malvagi che si erano, da sempre, presi gioco della mia persona.

Io non ero triste come avrei dovuto essere.

Dopo tanti anni mi sentii libera.

Caro Ennio,

ho trovato finalmente la tua tomba. Neno mi ha chiamata, dicendomi di averti localizzato. Eri stato spostato di reparto, tra quelli morti da tanto tempo. Sono qui, davanti a te. Sulla lapide c’è una tua foto un po’ sbiadita. Sei bellissimo, proprio come ti ricordavo, amore mio.

Sono molto bella anch’io, tutta vestita a festa, con le scarpe giuste, la borsa e un mazzo di fiori. Averti ritrovato è una grande gioia per me, una delle mie piccole felicità, che mi sto assaporando con calma.

Poi me ne andrò per sempre.

Ti sto lasciando, amore mio.

Non tornerò mai più da te.

INDICE

L’innamoramento, la magia

L’abbandono, la morte

La clinica, il manicomio

La casa sulla laguna

L’amore che non strappa i capelli

Carlo

Michela