Rema
Jamal 1960
ISBN: 9788892531628
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Rema
Jamal 1960
Copyright
Titolo del libro: Jamal 1960 Autore: Rema © 2014 , Rema
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Ai cari vecchi amici del Rosenberg, ai quali sono legato da tanti ricordi e nostalgie di gioventù Rema
Prefazione
La narrazione è ambientata nell'“Institut auf dem Rosenberg” di San Gallo, città capoluogo dell'omonimo cantone nella Svizzera tedesca. L’idea di scrivere un romanzo ambientato nel collegio mi è stata suggerita da Alvise, un amico ed ex rosenberghiano come me, durante la festa per il 125mo anniversario della fondazione del collegio, tenutasi a San Gallo il 23 agosto 2014. Devo aver metabolizzato per oltre un mese l’idea senza neanche rendermene conto. Fatto è che mi sono alzato una mattina e… di colpo mi è arrivata una folgorazione: una trama che, rifacendosi a quegli anni ravvivati dalla fresca rivisitazione dei luoghi, mi ha motivato a scrivere con entusiasmo questa nuova storia. Nonostante molti nomi di persone e di luoghi siano inventati (per ovvi motivi), mi auguro di riuscire a comunicare nel racconto le sensazioni, i colori e la dinamica dei ricordi, che non sempre le memorie riescono a trasmettere, se non a chi abbia vissuto le proprie esperienze nello stesso ambiente e nella stessa epoca. Se non sono riuscito nell'intento, cari amici e voi accidentali lettori, perdonatemi. Rema
Prologo
Ero arrivato verso le undici di quel mattino di agosto a Sankt Gallen, amena città, capoluogo dell'omonimo cantone svizzero, per rivedere un vecchio e caro amico, compagno di collegio dal ’58 al ’62. Dopo gli anni del collegio, il mio amico aveva continuato gli studi all’Università di Sankt Gallen, alla rinomata Wirtschaffen Hochschule, una facoltà di economia e commercio riconosciuta internazionalmente come una scuola di altissimo livello.
Riccardo, affermato commercialista, professore di economia alla Hochschule, si era anche sposato in Svizzera, aveva due figli e, da qualche anno, tre nipotini.
Come me ormai non più giovane, non se la sentiva di ritornare in Italia se non per pochi giorni a far visita ai parenti; in quelle occasioni, si fermava per qualche giorno nella bella villa di Santa Margherita, ereditata dal padre. Era diventato cittadino svizzero a tutti gli effetti, con tanto di nazionalità e aporto.
Non era cambiato molto; alto sul metro e ottantacinque, a dispetto degli anni aveva mantenuto un fisico asciutto. I capelli, una volta castani, si erano ingrigiti, come i suoi folti sopraccigli, ma gli occhi grigioverdi mantenevano quel guizzo di allora e gli occhiali “professorali”, appoggiati su un naso piccolo e proporzionato, lo rendevano più serio e posato di un tempo. Il suo bel profilo ovale si era arricchito di una barba anch’essa ingrigita che gli donava un’aria molto intellettuale. La sua casa era una bella e grande villa, non lontana dal collegio, circondata da un giardino il cui verde prato e le numerose piante suggerivano pace e serenità. Consumammo un frugale pasto sotto il gazebo nel giardino, servito da una graziosa cameriera indiana. Sua moglie, mi disse, sarebbe ritornata nel pomeriggio da Teufel, dove abitava la figlia. Poi mi fece accomodare nel suo studio su una delle due confortevoli vecchie poltrone. Si
diresse verso uno stipetto, prese due balloon ed una bottiglia di armagnac di vent’anni e, sorridendo, depose il tutto sul tavolinetto posto tra le due poltrone. Versò quel liquido ambrato e facemmo un brindisi ai vecchi ed ai nuovi tempi.
Poi, come al solito, i “ti ricordi” si sprecarono, e le immagini legate ad essi riemersero dalla memoria come vecchie foto ingiallite dal tempo, ma ancora nitide.
Dopo un altro brindisi, guardandolo sorpreso, gli chiesi: «Da quando bevi dell'armagnac? Mi pare di ricordare che un tempo fossi astemio».
Seguì una pausa di silenzio, durante la quale capii dalla sua espressione che la sua mente era ritornata al ato. Poi mi rispose:
«Caro Vittorio, certamente ricorderai i due omicidi avvenuti in collegio nell'ottobre del ’60 nell'arco di pochi giorni… Bene, quegli avvenimenti io, Augusto e Roberto li vivemmo in prima persona. Da allora, in occasioni speciali o piacevoli, bevo volentieri un balloon di Armagnac».
Rimasi anch'io per un po' silenzioso, assaporando quel nettare e cercando di far mente locale su quegli eventi; alla fine, gli manifestai la mia curiosità:
«Sì, mi ricordo. Fu un momento terribile, che sconvolse la nostra piccola comunità. Ricordo pure che tu, Augusto e Roberto foste direttamente coinvolti in quella storia. Non ho mai saputo come veramente si è svolta l’intera vicenda e, a distanza di tanti anni, mi piacerebbe conoscerla direttamente dalle labbra di un
protagonista, sempre che questi abbia voglia di raccontarmela…»
Riccardo si fece serio, si alzò, si chinò e tirò fuori da un cassetto della scrivania una cartella in marocchino. Rialzando la testa, mi spiegò:
«Sai, dopo l’esame di stato a Berna, poco prima di iscrivermi alla Hochschule, ho pensato di buttar giù una specie di resoconto, quasi un diario di quei giorni. Se proprio lo desideri, ti racconto come andò».
Alla mia risposta affermativa, cominciò, quasi con solennità, il suo racconto.
Capitolo 1Inizio dell’anno scolastico 1960-1961
L
e campane della cattedrale di Sankt Gallen avevano appena suonato le 16 di quel lunedì 10 ottobre 1960. Mio padre mi aveva lasciato da mezz’ora, dopo avermi accompagnato in auto per quella strada piena di curve, che era veramente penosa per chi soffriva la macchina. In quel tempo le autostrade non c’erano, perciò il viaggio era veramente lungo. Eravamo partiti da casa alle 7 del mattino per arrivare a Lecco, proseguire per Chiavenna, superare il Maloya a Silvapiana, poi lo Julier, dove ci eravamo fermati brevemente per colazione all' Ospizio La Veduta , proprio sulla cima del o. Avevamo poi proseguito per Altstätter, Teufen e, finalmente, Sankt Gallen, die Stadt in der grüner Ring .[1] Era il mio terzo anno al collegio e dopo un’estate di vacanza, ritornare e rivedere i vecchi compagni era una prospettiva piacevole. Entrammo in collegio e mio padre, dopo avermi aiutato a scaricare il bagaglio, fatte le ultime raccomandazioni di rito, mi abbracciò e ripartì; aveva un appuntamento a Lugano con il rappresentante della sua ditta per la Svizzera, il signor Louise, proprio colui che gli aveva suggerito l’idea di iscrivermi al collegio. Prima di lasciarmi, con mio enorme stupore mi aveva elargito duecento franchi svizzeri, una somma importante per un ragazzo di sedici anni, tanto più che era sempre molto restio a darmi dei soldi, se non guadagnati; infatti, nel porgerli mi aveva detto: «Questi sono per il mese che hai fatto in fabbrica». Andai a disfare la valigia ed a sistemare le mie varie cose nell’armadio e nel tavolino da notte; poi mi sarei recato a vedere se era già arrivato qualcuno dei compagni dell’anno precedente.
Il collegio sorge su una delle colline che circondano Sankt Gallen, distribuito tra sette palazzine che ospitano, secondo l'anno di corso, le camerette degli allievi, eppoi le aule, nonché i servizi e gli uffici. Ciascuno degli edifici ha una denominazione: il Nußbaum, per ragazzi fino ai 12-13 anni; l’Ulrichshof, dove si trovavano la
mensa, gli uffici della direzione e delle quattro sezioni, la svizzera-tedesca, l’italiana, l’anglo-americana e la linguistica, oltre all’economato ed a qualche aula; il Talsteig, dove ero io, per ragazzi dai 14 ai 16 anni; l’Ekkehard, che ospitava ragazzi dai 15 ai 17 anni, il Niedersteig, per quelli dai 17 ai 19 anni, l’Hochsteig e la Stammhaus, per quelli dai 18 ai 20 anni. All’epoca, la sezione italiana e quella anglo-americana contavano una settantina di alunni ciascuna, quella svizzero-tedesca circa duecento e la linguistica quasi cento. La rappresentanza delle varie nazioni del mondo era pressoché totale.
Il Talsteig era la palazzina più in basso del complesso, ed era vicina ai campi da tennis ed al campo di calcio e di atletica. Stavo uscendo dalla camera, quando mi scontrai con Augusto, che stava entrando con il padre e la madre nella camera. Così, eravamo compagni sia di classe sia di camera. Li lasciai e salii al piazzale, dove si affacciavano sulla Höhenweg tre degli edifici, l’Ulrichshof, l’Ekkehard ed il Nußbaum. Come giunsi sul piazzale, m’incontrai con Vittorio, Roberto e Sergio, appena arrivati da San Gimignano, Roma e Forlì, rispettivamente. Scambiati i saluti, decidemmo, visto che solo il giorno dopo sarebbe cominciata la scuola e mancavano un paio d'ore alla cena, di andare allo Schoren, una trattoria-bar lì vicino, per prenderci una birra. Incontrammo alcuni tedeschi e americani che avevano cominciato già da un mese l’anno scolastico: Uwe, un armadio di quasi due metri, berlinese, Franz, più minuto, di Düsseldorf, Jim, di Chicago, Bernd, di Basilea, Wim, di San Francisco; tra tutti, spiccava Arnold, grosso e nero come il carbone, del Ghana. Quattro risate, un brindisi, che gli altri ci obbligarono a pagare, visto che eravamo gli ultimi arrivati, e rientro per la cena. Augusto lo rividi poi in camera, perché era sceso in città con i suoi a cena. Veniva da Sesto San Giovanni, era un ragazzo di statura media, magro, i capelli di color castano leggermente ramato, una fronte aperta, due sopracciglia ben disegnate e gli occhi color castano chiaro in continuo movimento, il naso regolare posto su due labbra un po' sottili. Caratterialmente tranquillo e riflessivo, ma, come accade con tutti i calmi, guai a farlo arrabbiare… in quei momenti era meglio stare alla larga. La sua generosità eccedeva qualsiasi aspettativa; quanto all'amicizia, per lui era una cosa sacra.
La sera vedemmo che c’erano dei volti nuovi tra il personale di servizio. La maggior parte delle inservienti era alloggiata all’ultimo piano del Talsteig, proprio sopra le nostre camere; le altre erano in città, così come la maggior parte del resto del personale maschile, del quale solo sei elementi abitavano in una casa posta sotto il Talsteig, detta la “fattoria”. Questa non era altro che un cascinale riadattato, che al piano terra ospitava il laboratorio per la manutenzione e le riparazioni urgenti, dalla falegnameria all’idraulica, all'impianto elettrico. In un angolo c’era il magazzino per gli attrezzi sportivi degli studenti e al piano superiore le camere ed i servizi igienici. L’anno prima vi alloggiavano tre svizzeri, Franz, Ulrich ed Heinz, due italiani, Romeo e Gennaro, ed uno spagnolo, Felipe. Quell’anno, al posto di Gennaro era arrivato un croato, Milenko, ed al posto di Felipe, un algerino, Jamal. Ulrich, che svolgeva le mansioni di guardiano notturno, controllava che gli studenti non uscissero durante la notte e che tutto fosse tranquillo. Il giorno dopo, al termine della colazione, ci fu nello studio del preside la presentazione dei professori e degli orari settimanali delle lezioni. Non vi erano grosse novità: come nuovi professori c’erano il Mene di Lettere, lo Scale di Storia, la Daru di se ed il Botti di Matematica e Fisica. Gli altri erano rimasti gli stessi: il Borli di Geografia e Chimica, padre Zill di Tedesco, il Mill d’Inglese e don Mario di Religione. Gli allievi e i professori vivevano a stretto contatto, a differenza di quanto avveniva nelle scuole statali; ciò non soltanto favoriva la reciproca comprensione, ma, senza che venisse meno la deferenza ed il rispetto dei ruoli, insegnava ai ragazzi che tutti hanno la stessa dignità, indipendentemente dalla loro funzione. La prima ora cominciò con un lieve ritardo, ma senza particolari problemi. Ogni ora di lezione durava 45 minuti, e siccome ciascun insegnamento si teneva nella propria aula, eravamo noi alunni che ci spostavamo a seconda della materia. Alle 10 c’era un breve intervallo e dopo un quarto d'ora si riprendeva. Tutto stava scorrendo nella maniera più tranquilla, direi quasi monotona, un’ora dopo l’altra, e così arrivammo a mezzogiorno. Prima di sederci per il pranzo, il direttore, il professor Rhein, era solito chiamare uno studente a caso per recitare la preghiera di ringraziamento. Il professor Rhein era una persona di altri tempi; alto, capelli bianchi, un’espressione severa e nello stesso tempo dolce, lineamenti fini ed occhi azzurri, ingranditi dalle lenti
spesse degli occhiali. Quel giorno toccò ad Amin, ugandese, recitare la preghiera, Vater segne diese Speise, uns zur Kraft und dir zum Preise.[2] Come sempre accadeva, quando la preghiera terminò, si levò un rumore assordante di sedie smosse, seguito dal brusio di circa quattrocento giovani che parlavano e scherzavano. Finito il pranzo, ci si trovò sul piazzale, dove i più grandi, facendo molta attenzione per non essere colti in flagrante dai professori, fumavano una sigaretta, mentre gli altri parlavano tra loro. Quel giorno, alle 14 avremmo seguito ancora una lezione di geografia ed alle 15 una di storia. Come ogni giorno, alle 16 avremmo avuto da una a tre ore di libertà, a seconda dell’età. In quelle ore di libera uscita, alcuni scendevano in città, altri facevano una eggiata, altrimenti si andava, se il tempo lo permetteva, a giocare a tennis o al calcio, oppure ad allenarsi nella corsa sulla pista che circondava il campo di calcio, o anche in palestra a giocare a pallacanestro. Gli americani avevano sempre con sé i guanti e la palla da baseball, ed era un continuo lanciarsela l'un l'altro; su richiesta, potevano ottenere le mazze per allenarsi sul campo adiacente a quello del calcio. Le mazze erano conservate con gli sci ed altri attrezzi ritenuti pericolosi in un magazzino della fattoria, dove era Franz che curava la distribuzione e la restituzione degli attrezzi.
Quel pomeriggio Vittorio, Augusto ed io, visto il tempo discreto, decidemmo di andare a visitare l’OLMA, la fiera che si teneva tutti gli anni in quel periodo a Sankt Gallen. Le fiere all’epoca attiravano anche persone da paesi vicini ed erano una vera e propria festa. Oltre agli stand che esponevano i prodotti più disparati, c’era anche il Luna Park. Scendendo, ci imbattemmo in alcuni ragazzi tedeschi ed americani e ci aggregammo a loro. Quando arrivammo in centro, ci separammo in due gruppi, perché alcuni si diressero al City, un bar vicino alla Mark Platz, a bere una birra e prendere un piatto di patate fritte, mentre noi tre, in compagnia di altri quattro, preferimmo andare al Luna Park. Girando fra le giostre ed i baracconi, capitammo alle giostre degli aeroplanini, e qui trovammo Giuliana e Gabriella, entrambe della provincia di Udine, e Bruna, piemontese. Le conoscevamo dall'anno precedente, perché tutt'e tre facevano le inservienti alla lavanderia del collegio ed erano nostre coinquiline al Talsteig. Giuliana aveva 23 anni, non era
tanto bella, ma aveva un seno notevole, i capelli biondi; era un po’ grassottella, aveva degli occhi azzurri bovini, inespressivi, le guance paffute ed una bocca grande e carnosa su un inizio di doppio mento. L'impressione che destava era quella di una persona piuttosto grossolana. Gabriella, 20 anni, pareva più una tedesca che un'italiana: bionda, alta e slanciata, con i seni ben proporzionati sulla vita snella, un ventre tondo e due belle gambe. Gli occhi azzurro chiaro vivaci e la bocca ben disegnata che risaltava sulle guance magre le donavano un'espressione sensuale, accentuata dal sorriso che le conferiva un'aria un po' maliziosa. Era da quattro anni in Svizzera e da due al collegio, dove il lavoro, diceva lei, le permetteva di inviare alla famiglia un discreto sostegno. Bruna, maggiore di un anno, aveva un bel portamento, capelli neri corvini ed occhi verdi; era simpatica, e noi ragazzi trovavamo molto gradevole la sua presenza. Non mi sembrò vero di avere l'occasione buona per are un po' di tempo con una compagnia femminile; ci fermammo a parlare con loro e poi andammo in giro tutti insieme scherzando e ridendo. Siccome Gabriella si divertiva a stuzzicarmi, pensai che non le dispii e, benché fosse più grande di me, mi feci coraggio: cogliendo il momento in cui eravamo rimasti indietro agli altri, la invitai a bere un bicchiere di vino o una birra al Walliser Keller, un bar ristorante abbastanza fuori mano, dove difficilmente avrei trovato dei compagni o professori. Il tentativo ebbe successo, e così quatto quatto me la filai e, d’accordo con lei, andai ad aspettarla al Walliser. Quando Gabriella mi raggiunse, ordinammo una fondue valdese ed un bicchiere di buon vino e i nostri discorsi, grazie all'intraprendenza della mia amica, divennero sempre più confidenziali. Avevo due soldi più del solito in tasca, stavo flirtando con una ventenne; fu con orgoglio che tirai fuori i dodici franchi del conto. Mi sentivo adulto. Il tempo ò fin troppo velocemente. Per non rischiare delle misure disciplinari, ci accingemmo a ritornare in collegio separatamente. Prima di lasciarci, Gabriella mi rivolse, con un sorriso, un invito che mi lasciò di sasso: «Ci vediamo alle docce dopo cena?» Annuii, non trovando le parole, e mi parve di toccare il cielo con un dito.
Quella cena ed il restante tempo non avano mai, ogni momento guardavo l’ora, mentre Augusto mi prendeva in giro. Avevo fatto regolare richiesta al
capo-casa, il prof Borli, per fare la doccia, ed alla fine, alle 9.15, scesi in accappatoio nell'interrato del Talsteig, dove, oltre alla lavanderia-stireria, la cosiddetta Lingerie, che prendeva la maggior parte del livello, vi erano due locali con le docce per gli studenti e, dalla parte opposta del corridoio, altri due per le inservienti. Con me c’era anche Roberto, un ragazzo di Roma, alto e snello, i capelli leggermente lunghi e biondi, una fronte alta e spaziosa con due occhi azzurro intenso, dietro a degli occhiali con la montatura in acciaio, un naso leggermente pronunciato su due labbra regolari. Il suo aspetto rimandava un'immagine piacevole e simpatica, in sintonia con il suo carattere, molto espansivo ed energico: se gli veniva in mente di fare qualcosa, prendeva la sua decisione rapidamente e, se si aveva bisogno di lui, si poteva contare sul suo aiuto. Anche lui doveva incontrarsi con una inserviente della Lingerie, Erika, una tedesca graziosa, dagli occhi verdastri ed espressivi, i capelli castano chiari, non molto alta, che era lì perché una sua parente le aveva trovato quella sistemazione. In due avremmo gestito meglio la situazione. L’uno, mentre l’altro si appartava, avrebbe controllato se qualcuno scendesse le scale. Era prudente usare ogni cautela, perché se ci avessero scoperti, le conseguenze sarebbero state molto negative. Insieme avevamo deciso in precedenza di fissare l'appuntamento successivo ai bordi del bosco, a trecento metri dal Talsteig, un posto meno rischioso e abbastanza appartato, anche se la temperatura cominciava ad essere più fresca.
Tutto andò alla perfezione, senza il minimo problema. Prima Roberto e poi io facemmo da palo, e le cose andarono proprio come avevamo sperato; anzi, Gabriella si dimostrò più intraprendente ed esperta di quanto avessi immaginato, e questo non poté che lusingarmi. Ritornammo in camera con il morale al settimo cielo; Augusto rinunciò a prendermi in giro e cominciò a parlare dei suoi progetti per agganciare Bruna. Prendere sonno non fu facile, perché quei primi approcci amorosi erano esaltanti e portavano un carico di fantasie e di illusioni.
La mattina dopo, era stato incaricato di dare la sveglia alle 7 Paul Werner, di Königstein, il quale fu accolto da due pantofole, lanciate in sequenza sia da Augusto sia dal sottoscritto. Le lezioni si susseguirono fino all’ora di pranzo. Nell'intervallo delle 10, risalii in camera per prendere un libro che avevo dimenticato; mentre ritornavo in classe vidi Jamal intento a riparare l'anta di un
armadio. Mi salutò gentilmente e mi disse, ammiccando: «Signorino, bella la ragazza di ieri sera, eh!» Fui gelato, mi sentii mancare il terreno sotto i piedi. Come diavolo poteva aver visto o saputo qualcosa, dal momento che lui dormiva alla fattoria e non c’erano finestre nelle docce? Feci finta di niente, gli risposi con un sorriso a mezza bocca e mi precipitai verso l’aula di tedesco, dove avevamo due ore con padre Zill, uno dei professori più severi del collegio. Ad ogni lezione ci interrogava a turno sull'argomento del giorno precedente; non ci dava un voto, ma solo una nota, negativa o positiva, della quale avrebbe tenuto conto al momento dell’interrogazione formale. Poiché le classi erano composte al più da sette ragazzi (una addirittura soltanto da due), il giro delle domande era rapido ed inesorabile. Al termine, il professore introduceva un nuovo argomento, e il tempo rimanente ava in men che non si dica. Quel pomeriggio non avevamo lezioni e, siccome era ancora bel tempo, facemmo una partita di tennis. Persi due set 6-4 e 7-5, vinsi il terzo 6-3. Uscivo accaldato e sudato dal campo, quando Jamal, andomi a fianco, mi disse, accennando un sorriso d'intesa: «Signorino, bisogna fare attenzione a fare certe cose, anche i muri hanno gli occhi e le orecchie…» L’osservai di sbieco e mi resi conto che la sua persona aveva qualcosa di misterioso e preoccupante. Alto un metro e ottanta, un fisico atletico, i capelli tagliati a spazzola su una fronte spaziosa, un naso dal profilo greco con un paio di baffetti neri su cui risaltava la bocca con delle labbra molto sottili che rendevano l’espressione crudele, le guance leggermente squadrate, che esaltavano l’idea di forza evocata nel complesso. Quello che turbava maggiormente era lo sguardo: degli occhi di un grigio acciaio che mandavano come dei guizzi di intelligenza e di fredda brutalità trattenuta. Aveva una cicatrice che gli solcava la guancia e scendeva lungo il collo, fino a sparire nella camicia; le movenze feline e il o lievemente claudicante della gamba destra contribuivano ad accrescere l'inquietudine. La sua voce non era sgradevole, suonava profonda, appropriata alla sua figura virile e muscolosa.
Cominciavo ad essere preoccupato. Cosa voleva farmi intendere, ma, soprattutto, cosa voleva? Feci velocemente la doccia, ed uscendo dall'interrato incrociai Gabriella, che mi sorrise mentre rientrava in stireria, strizzandomi l’occhio.
Quella sera non ci saremmo rivisti alle docce; come aveva proposto Roberto, la sera prima avevamo concordato di incontrarci subito dopo la cena ai margini del boschetto posto sotto la fattoria. Andai nella camera di Roberto, per raccontargli di Jamal, perché non mi sentivo affatto tranquillo. Roberto mi rispose senza pensarci troppo: «Non vedo cosa possa volere, se non eventualmente spillarci qualche franco per non parlare… Cos’altro, sennò?» La sua interpretazione della questione non mi rassicurò del tutto; quella sera avremmo dovuto essere più prudenti.
Il tempo a nostra disposizione dopo la cena era limitato, meno di un’ora. Con due pile funzionanti a dinamo, con una luce veramente da “poveri morti”, che a tratti accendevamo e spegnevamo, ci recammo all’appuntamento, con molta ansia ma con altrettanta bramosia. Erika e Gabriella ci aspettavano un po’ incerte, per via del buio e del rischio che correvano; se fossimo stati sorpresi, ne sarebbero seguiti il licenziamento in tronco per loro e l’espulsione immediata per noi. Il contatto e l’età ci fecero dimenticare i timori e presto, nascosti dall’ombra del bosco, ritrovammo l’ardore e le pulsazioni della vita, incuranti delle eventuali conseguenze. Mancavano dieci minuti alle 8 quando rientrammo, giusto in tempo, nelle nostre camere, felici e soddisfatti come non mai. Ci ritenevamo adulti, e questa sensazione ci rendeva tronfi come tacchini. Con Augusto mi limitai, con tono di sufficienza, a dimostrare la mia magnanima superiorità: «È andato tutto benissimo. Ho chiesto a Gabriella se la prossima volta che ci incontriamo può portare Bruna, e lei mi ha detto di sì». Studiai per ancora un’ora; all'ordine che ci venne impartito come ogni sera dal ragazzo di turno, Licht aus!,[3] mi addormentai immediatamente, dimentico di Jamal e di tutte le preoccupazioni. Il giorno dopo tutto si svolse tranquillamente. Nel pomeriggio avevamo solo un’ora libera e ne approfittammo, dopo aver studiato un paio d’ore, per scendere in città, mangiare un piatto di patate fritte e bere una birra. Quanto a Jamal, non lo vidi per tutto il giorno.
Al rientro dalla città, mentre percorrevo la Dietliweg, una stradina che fiancheggia l’Ulrichshof, per scendere al Talsteig, poi alla fattoria e quindi al bosco, da un’apertura della siepe sulla destra sbucò, quasi come dal nulla, Jamal. Mi salutò sorridendo e, sempre gentilmente, con quella sua voce profonda, mi avvertì: «Signorino, è pericoloso fare quello che state facendo, attenzione!» Ciò detto, sparì lungo la strada, senza lasciarmi il tempo di replicare e di chiedere cosa volessero significare quegli avvertimenti. Andai direttamente in camera di Roberto e gli riferii dell’accaduto. Stringendosi nelle spalle, commentò: «Vuol dire che dobbiamo essere più cauti. Domani sera verrà pure Augusto, giochiamo bene le nostre carte. Sarebbe meglio che uno fe veramente il palo, mentre gli altri…»
Il giorno dopo non accadde nulla di rilevante, se si eccettua un battibecco tra uno studente italiano, Luca, ed uno tedesco, Willy, che finì in una sana scazzottatura seguita da una riappacificazione nel pomeriggio allo Shoren davanti a due birre. Interrogato in Geografia, Ettore ci fece sbellicare dalle risa per i suoi disperati tentativi di identificare quali città italiane il professore gli indicava sulla cartina muta. Il buon Alvise gli suggerì il nome di Bologna al posto di Bari e quello di Modena invece di Mantova. Tralascio la descrizione dell’espressione del professor Borli, ma la scena fu davvero esilarante per tutti noi. Forse lo fu un po’ meno per Ettore, però contribuì al buon umore della giornata e costò un cazzotto, quasi bonario, ad Alvise, nel corridoio. Quella sera, Augusto e Bruna sarebbero stati della compagnia. Il luogo dell'appuntamento era un prato non molto distante dal collegio, dove si ergeva un enorme frassino circondato da quattro panchine, rigorosamente al buio.
Capitolo 2La Kriminal Polizei di Sankt Gallen
S
otto le fronde di quel maestoso frassino, nell’oscurità più totale, l a serata si rivelò, se possibile, superiore alle aspettative, perché Gabriella aveva preso alcune iniziative che mi avevano fatto letteralmente andare su di giri. Quando si fece l’ora di rientrare, dovemmo separarci, cosa che facemmo a malincuore dopo esserci scambiati gli ultimi baci. Non potevamo rischiare di essere visti; perciò, noi ragazzi ci avviammo a ripercorrere la stessa strada che avevamo seguito per raggiungere il luogo del convegno, mentre le ragazze presero una stradina che si snodava sotto il prato per raggiungere dopo qualche centinaio di metri il retro della fattoria. I timori si erano dissolti, i segnali di allarme erano stati dimenticati mentre sull’onda dell’euforia tutti e tre ci accingevamo a rientrare nelle nostre camere. Stavamo percorrendo la stradina che portava al Talsteig , quando Augusto, che era davanti, si fermò di colpo e ci fece notare un mucchio informe, che la tenue luce della lampadina accesa all'ingresso dell’ Ulrichshof non ci permetteva di definire. Avanzammo con cautela e, man mano che ci si avvicinava, si riconosceva la sagoma di una persona distesa per terra. Roberto estrasse la torcia a dinamo e, dopo aver azionato il più celermente possibile la manovella del rotore, puntò il piccolo fascio luminoso sulla figura indistinta. Con nostro immediato terrore e disgusto, ci accorgemmo che si trattava di Jamal.
Il particolare più impressionante era il taglio che gli aveva quasi staccato la testa dal collo, riversa in un lago di sangue. Mi girai e corsi a vomitare in un angolo lì vicino. Roberto, più risoluto, si precipitò verso l’Ulrichshof a chiedere aiuto. Augusto ebbe la mia stessa reazione, per poi rimanere lì, in attesa che Roberto e qualcun altro arrivassero e non restassimo soli in quella terribile situazione.
Mentre aspettavamo, Augusto mi chiese, come se potessi dargli una risposta: «Ma che sarà successo? E perché ammazzarlo così, sgozzandolo come una
bestia?»
Non aveva ancora finito di dirlo che fu ripreso dalla nausea e si allontanò di nuovo. In quel momento ricomparve Roberto, seguito da diverse persone che con delle torce elettriche illuminarono la scena rendendola ancora più cruda di quanto fosse apparsa nella semioscurità, che ne aveva velato i particolari. Mentre mi muovevo per andare incontro al gruppo, scorsi a circa trenta metri dal morto un luccichio, probabilmente causato dal riflesso del fascio di una torcia. Mi avvicinai e vidi, rabbrividendo, un coltello con una lama lunga più di venti centimetri ed un insolito manico in osso leggermente ricurvo. Poiché alla luce fioca della mia lampada la lama pareva sporca di sangue, di qui a pensare che fosse l’arma del delitto il o fu breve. Non sapendo come comportarmi, mi ci misi davanti per nasconderla, non so ancora oggi per quale ragione precisa. Dopo una mezz’ora circa arrivarono due auto della polizia ed un’autoambulanza. I poliziotti accesero dei fari che rischiararono il luogo a giorno, effettuarono i rilievi del caso e fecero portare via il corpo di Jamal.
Intanto il professor Rhein, direttore del collegio, letteralmente fuori di sé, aveva immediatamente telefonato al proprietario del collegio per avvisarlo dell'accaduto. Quando gli agenti, terminato il lavoro sulla scena del crimine, con calma cominciarono a chiedergli come si erano svolti i fatti, Augusto, Roberto e io fummo chiamati in causa come autori del ritrovamento. Gli altri studenti vennero invitati a ritornare alle loro camere, mentre noi tre seguimmo il direttore, accompagnato da alcuni poliziotti, nel suo studio al primo piano dell’Ulrischof. Fummo inizialmente interrogati separatamente, poi, visto che le risposte erano state concordi, ci fu permesso di rispondere insieme.
Nel frattempo era arrivato Herr Gi, il proprietario, il quale, dopo un breve conciliabolo con il professor Rhein, si rivolse alla polizia, facendo presente quanto un incidente del genere, in uno dei più prestigiosi collegi internazionali, potesse avere delle conseguenze negative notevoli non solo per lui, ma anche per la città di Sankt Gallen. I suoi argomenti indussero la polizia a lasciarci tornare alle nostre camere ed a limitarsi a chiedere che ci tenessimo a disposizione la
mattina seguente. Erano le 23 quando finalmente ritornammo in camera ancora sconvolti dall’emozione di esserci trovati, per la prima volta in vita nostra, di fronte ad un morto ammazzato; la piacevole mezz'ora ata in precedenza pareva un ricordo lontano.
Il mattino dopo fummo al centro dell’attenzione, tempestati da domande e richieste di spiegazioni che non eravamo in grado di fornire. Appena mi fu possibile ritornai sul luogo del delitto per scoprire se il coltello era stato rinvenuto dalla polizia. Con un certo stupore lo intravvidi coperto da qualche foglia portata dal vento e, resomi conto che era stato da sciocchi tacere del ritrovamento, chiesi ad Augusto e Roberto di avvisare qualcuno della direzione. Si accinse ad andare Roberto, che aveva maggiore padronanza del tedesco, mentre Augusto sarebbe rimasto con me perché non volevo restare solo.
L'iniziativa si rivelò superflua, in quanto proprio in quel momento arrivò un'auto della polizia, dalla quale scesero due agenti che si diressero verso di noi. Uno l’avevamo conosciuto la sera prima, l’altro era un ufficiale, il tenente Gus Zimmermann. Alto un metro e novanta, magro e muscoloso, sulla trentina, capelli biondi tagliati a spazzola, fronte spaziosa, dei sopraccigli regolari su due intelligenti occhi blu, che trasmettevano timore e allo stesso tempo comunicavano fiducia. Il naso leggermente aquilino e pronunciato non stonava sulle labbra carnose. Dal piglio militaresco traspariva un carattere forte e deciso, non molto elastico. Ci chiese abbastanza bruscamente cosa fimo lì.
Roberto colse la palla al balzo e spiegò che volevamo rivedere, alla luce del giorno, il posto nel quale Jamal era stato ammazzato. Di fronte al cipiglio del tenente, si affrettò ad aggiungere: «Stavo venendo a chiamarvi, proprio perché il mio amico Riccardo, mentre risaliva, ha visto tra le foglie il coltello che è dietro di lui».
I due si precipitarono, spostandomi quasi di peso. Il tenente si chinò ed estrasse da una tasca una busta di plastica, nella quale avvolse il coltello che si era
premurato di raccogliere con molta attenzione, badando a non toccarlo con le dita. Il coltello era veramente uno di quegli oggetti che incuriosiscono. Ora, alla luce del sole, potemmo ammirarne la lama damascata e il manico di corno, intarsiato con una scena di caccia in argento e due scritte in arabo vicino all’elsa. In quel momento arrivarono altre due auto della polizia; gli agenti che ne discesero cercarono con discrezione i cinque uomini che condividevano con Jamal la fattoria e li invitarono a seguirli al comando di polizia. Dentro di me mi stupii che non l'avessero già fatto la sera prima. In ogni caso, anche noi fummo portati al commissariato, accompagnati, poiché minorenni, dal professor Rhein.
Ripetemmo fino allo sfinimento come avevamo trovato il corpo di Jamal e cosa avevamo fatto prima. Noi tre avevamo concordato una versione semplice e credibile della serata, non del tutto falsa. Raccontammo che al termine della cena, siccome la temperatura era ancora mite, eravamo andati a fare una eggiata fino al campo con il grande frassino, distante circa cinquecento metri dal collegio. Ci eravamo seduti sulla panchina che guardava verso il lago di Costanza ed avevamo scambiato quattro chiacchiere su ciò che ciascuno di noi aveva fatto durante le vacanze estive. Poi, vista l’ora, ci eravamo affrettati a rientrare al collegio e sulla via del ritorno ci eravamo imbattuti nel corpo esanime di Jamal.
Nel frattempo arrivò un traduttore dal consolato italiano, inviato dietro suggerimento del signor Gi.
L’interrogatorio continuò ancora per un’ora, finché decisero che non avevano più niente da chiederci.
Prima di lasciarci andare via, il tenente ci raccomandò: «Se vi torna in mente qualcosa che ora vi è sfuggita, vi prego vivamente di informarci all’istante». Mentre stavamo uscendo, lo sentimmo esclamare: «Ah, dimenticavo!» Ci voltammo. «Beh, visto che avete guadagnato qualche merito nel ritrovare il coltello e che ha attirato la vostra curiosità, vi dirò che era di Jamal. Si tratta di
un tipico coltello con il manico in corno di muflone fabbricato artigianalmente in Corsica, chiamato vendetta. Grazie ancora, signorini, per la vostra collaborazione, e arrivederci!» Restai sorpreso: non mi aspettavo che ci raccontasse qualcosa che riguardava le indagini; forse, pensai, ci è davvero grato.
Rientrammo in collegio. Ormai avevamo saltato le lezioni del mattino; quel pomeriggio non ne avremmo avute, ma avremmo dovuto prepararci per l’indomani. Perciò, dopo il pranzo Augusto ed io, che frequentavamo la terza ragioneria, ci recammo da Sergio, mentre Roberto, che frequentava la terza del liceo scientifico, andò da Etile, per avere aggiornamenti sugli argomenti da studiare.
Prima di rientrare in camera per metterci al lavoro, decidemmo di fare una breve eggiata. Scendemmo fino al bosco ando davanti alla fattoria; provai un brivido e fui colpito dal pensiero che solo il giorno prima mi sarei sentito molto a disagio all'idea di incontrare Jamal.
Quando giungemmo all'altezza della porta del magazzino degli attrezzi, vedemmo Romeo, un italiano della provincia di Udine. Aveva 33 anni, da cinque era in Svizzera e da due lavorava all'Istituto come manutentore del riscaldamento e giardiniere. Biondiccio, di statura media, occhi grigi, mascella leggermente cadente, bocca con una leggera piega amara, usava dei modi gentili nel rivolgersi alle persone.
Ci venne incontro con aria costernata: «Avete visto, signorini? Cosa da non credere! Un morto, e per di più mio compagno di camera: è veramente inaudito. Chi lo ha ucciso, e perché? Sapete, era arrivato da due mesi e ci si intendeva, lui con il se ed un po’ di italiano che aveva appreso da un suo camerata ed io con il mio dialetto. Era simpatico, ma non so, era un po' strano… Aveva qualcosa che mi sfuggiva e qualche volta mi faceva un po' paura. Mi disse in confidenza che aveva provato a fare il filo ad una delle cameriere, la Giuliana,
ma lei non l’aveva voluto; allora aveva provato con le altre, senza successo».
«In tutto questo tempo non è successo nulla di strano?» si informò Roberto.
«Lunedì ricevette una lettera che lo mise in agitazione. La sera mi raccontò una vicenda che gli era accaduta diversi anni prima in Tunisia, ma era tanto brutta che pensai che stava esagerando e si era inventato un po' di cose per darsi importanza».
La nostra curiosità ci spinse ad incoraggiarlo a proseguire, e lui non si fece pregare.
«Jamal mi disse che per quasi dieci anni era stato nella Legione Straniera, dove aveva raggiunto il grado di sergente. Lì aveva imparato che la vita degli altri, se non erano dei compagni fidati, non valeva molto. Un giorno, ebbe l'ordine di lasciare la caserma di Sidi Bel Abbàs, dove era il comando della Legione, e di recarsi con una squadra di dieci legionari al centro di addestramento di Saidà per istruire un gruppo di reclute. Dopo tre mesi, invece di farli rientrare, li avevano fatti proseguire insieme con un'altra squadra per Aïn Draham, in Tunisia, dove si stavano verificando azioni di guerriglia dei rivoluzionari. Erano arrivati alla loro destinazione di notte e si erano accampati nei pressi del villaggio, stanchi e preoccupati per quello che poteva aspettarli. Fu proprio durante il turno di guardia di Jamal che successe una cosa per la quale decise di non rinnovare l'ingaggio nella Legione…»
Eravamo completamente presi dal racconto di Romeo, e sul momento non capimmo perché si fosse interrotto; ma, seguendo il suo sguardo, vedemmo che stava sopraggiungendo il direttore. Delusi per non aver potuto ascoltare il seguito della storia, lo salutammo e proseguimmo la nostra eggiata, ripromettendoci di ritornare da Romeo.
Ci chiedemmo se quella sera sarebbe stato opportuno andare all’appuntamento con le nostre belle; forse sarebbe stato meglio fare una doccia e andare a dormire, perché il giorno dopo saremmo stati interrogati, molto probabilmente, e saremmo stati solo parzialmente giustificati dagli eventi. Prendemmo anche in considerazione la possibilità di rivolgerci al professor Rhein o, meglio ancora, al preside della sezione italiana, il professor Bazzi, per chiedere qualche giorno di dispensa dalle interrogazioni per riprenderci dallo shock. Alla fine, decidemmo di riprendere le lezioni, come se niente fosse accaduto.
Continuavamo a pensare al delitto. Il racconto di Romeo, benché monco, o forse proprio perché tale, aveva contribuito a trasformare la semplice curiosità in una sorta di coinvolgimento, in un interesse personale a scoprire i segreti della vita di Jamal ed il motivo della sua uccisione. Quella vicenda cominciata con un orrore che avremmo preferito evitare, ci stava pian piano avviluppando in una ragnatela.
Capitolo 3La storia di Jamal
Decidemmo di ritornare da Romeo, sperando che non ci fossero altre visite inaspettate e lui potesse completare il suo racconto. Romeo non era nella fattoria; lo chiamammo ad alta voce, ma senza ottenere risposta. Fu Ulrich il guardiano, che, probabilmente svegliato dai nostri richiami, si affacciò alla finestra chiedendoci cosa avevamo da urlare. Scusandoci, ci allontanammo. Eravamo quasi al Talsteig, quando vedemmo uscire dalla porta sul retro della Lingerie proprio Romeo, che ci sorrise e ci fece segno di seguirlo, cosa che fummo ben lieti di fare. Invece di recarsi alla fattoria, si diresse verso il bosco e di lì, risalendo, entrò nello Schoren. Bene, davanti ad una birra e ad un piatto di patatine fritte sarebbe stato ancora meglio. Una volta seduti, Romeo, accertatosi con uno sguardo che non ci fossero orecchie indiscrete, riprese il racconto da dove era stato interrotto: «Jamal sentì dei rumori che lo insospettirono. Addestrato a non sottovalutare i pericoli con i quali dovevano convivere quotidianamente, svegliò i suoi uomini e tutta la pattuglia, ventre a terra, strisciò verso le prime case del villaggio, da cui provenivano dei lamenti che diventavano più fievoli man mano che si avvicinavano. Era un piccolo villaggio di circa seicento anime, dove avrebbe potuto annidarsi un gruppo di guerriglieri del Fronte di Liberazione. Il sergente Le Loup, un còrso amico di Jamal, che era sopraggiunto con la seconda pattuglia, pensò bene di mandare a chiamare rinforzi. Le due pattuglie si avvicinarono silenziosamente ed entrarono nella prima casupola, da dove provenivano i lamenti. Il buio non permetteva di scorgere granché, ma appena entrati l’odore del sangue li colse immediatamente e la loro pratica di operare al buio li aiutò ad intravvedere una scena che li scosse nonostante fossero sempre preparati al peggio. La prima cosa che avevano loro insegnato nella Legione Straniera era il disprezzo e la sopportazione del dolore, oltre ogni limite umano. Nella casupola giacevano dei corpi, da uno dei quali si levavano dei versi strazianti».
Romeo si fermò e sembrava restio a proseguire, come se la sua educazione e la sua cultura gli rendessero difficile fare un racconto di quel genere a dei ragazzi. Noi capimmo il motivo della sua pausa, e cercammo di convincerlo a continuare.
«Ascolti, Romeo: è vero che siamo giovani e che questa dev'essere una brutta storia, ma pure noi abbiamo visto in faccia la morte non più tardi di ieri sera. Non le pare abbastanza?»
Romeo tentennava, ma dopo un lungo sorso di birra riprese a raccontare:
«Uno dei militari accese una torcia. La visione che ebbero fu orribile. C'erano tre corpi di donne di diversa età, quello di un uomo di mezza età ed un ammasso di carne e di sangue irriconoscibile in fin di vita. Le donne portavano i segni di violenze sessuali, ma oltre a ciò erano state seviziate in modo disumano, i loro seni erano stati staccati dal corpo. La ragazza che non era ancora spirata non aveva un solo pezzo di carne che non fosse tagliuzzato; da un braccio pendevano brandelli di carne insanguinata, come se qualcuno avesse voluto fare dei cinturini di pelle, i seni erano stati trafitti da parte a parte con degli spilloni che formavano una corona spinata. La cosa più abominevole era che dalla vagina le fuoriusciva quello che restava di un membro, che, come capirono, era dell’uomo che giaceva accanto».
Romeo sembrava inorridito dalle sue stesse parole e vuotò d'un sorso la birra rimasta; noi ne ordinammo subito un’altra. Eravamo diventati verdi e le patatine erano rimaste quasi per intero nel piatto, ma il racconto non era ancora terminato.
«La reazione a quello scempio fu di una disciplinata freddezza. Uscirono in fretta dalla casupola, per entrare in un’altra e poi in un'altra ancora, spargendosi nel villaggio. Dopo mezz’ora si resero conto che oltre cento esseri umani, tra
donne, uomini e bambini erano stati massacrati nel modo più feroce che una mente umana possa immaginare. Quando si ritrovarono tutti nel centro del villaggio, Le Loup lanciò uno sguardo a Jamal ed estrasse dal fodero, che portava sempre legato al polpaccio, la vendetta, un coltello del suo paese con la lunga lama damascata ed un manico in corno di muflone intarsiato in argento. Jamal intercettò lo sguardo dell'amico e capì che, se gli autori di quella disumana carneficina fossero stati presi, non se ne sarebbe salvato nessuno. Nel frattempo erano arrivati i rinforzi e le luci cominciavano ad illuminare quell'orrendo scenario di morte e di disumana violenza. La Legione non era composta da giovanetti di primo pelo, la maggior parte degli arruolati fuggiva dalla legge del proprio paese per aver commesso crimini per lo più molto gravi. Nella squadra di Jamal prestavano servizio il caporale Munz, che aveva trucidato per rapina un’intera famiglia vicino a Berlino, e il soldato René, che aveva ucciso tre prostitute a Bruxelles. C'erano tanti altri casi simili, i legionari non erano certo delle orsoline».
Romeo si fermò per buttare giù un altro lungo sorso di birra. Roberto lo incalzò:
«Li presero?»
«Non potevano essere andati lontano. Si misero alla caccia degli autori del massacro come un branco di lupi assetati di sangue. Correvano, per poi fermarsi ed ascoltare nel silenzio della notte se qualche rumore indicasse la presenza del nemico. Dopo neanche un chilometro trovarono sul ciglio del sentiero i resti di tre donne conciate come le altre. I corpi erano ancora caldi, la qual cosa li spinse ad accelerare la corsa. Seguendo il protocollo, avevano mandato in avanscoperta tre soldati, uno dei quali ritornò dopo mezz’ora, con la notizia che un chilometro più avanti c'era un gruppo di un centinaio di persone sedute in una radura, che parlavano, ridevano e scherzavano tra loro masticando foglie di qat.[4] Arrivò il tenente “Bonjour”, soprannominato così per il suo costante vezzo di rivolgersi a tutti con quel saluto. Di gentile non c’era molto nel tenente: alto, massiccio, viso
squadrato, piccoli occhi porcini sporgenti da una grossa testa rasata come una palla da bigliardo, somigliava più ad un taglialegna che ad un ufficiale. Prima di scatenare l'inferno, volle ricordare a tutti che avevano giurato di restare fedeli al Codice d’onore del Legionario».
Romeo estrasse un foglio di carta da una tasca e ce lo diede da leggere spiegando:
«Me lo ha dato una sera Jamal, consigliandomi di impararlo a memoria e di non dimenticarlo, perché mi sarebbe servito nella vita».
Guardammo il foglio che ci porgeva. Il testo era in se e diceva: CODICE D’ONORE DEL LEGIONARIO
Articolo 1. Legionario, sei un volontario che serve la Francia con onore e fedeltà. Articolo 2. Ogni legionario è tuo fratello d'armi qualunque sia la sua nazionalità, la sua razza, la sua religione. Gli devi dimostrare sempre la stretta solidarietà che deve unire i membri di una famiglia. Articolo 3. Rispettoso delle tradizioni, fedele ai tuoi capi, la disciplina e il cameratismo sono la tua forza, il coraggio e la lealtà le tue virtù. Articolo 4. Fiero del tuo stato di legionario, lo dimostri con il tuo contegno sempre elegante, il tuo comportamento sempre degno ma modesto, il tuo alloggio sempre pulito. Articolo 5. Soldato scelto, ti alleni con rigore, mantieni la tua arma come il tuo bene più prezioso, hai la preoccupazione costante della tua forma fisica.
Articolo 6. Sacra è la missione, devi eseguirla fino in fondo nel rispetto delle leggi, delle usanze della guerra, delle convenzioni internazionali, e, se fosse necessario, rischiando la tua vita. Articolo 7. Nel combattimento, devi agire senza ione e senza odio, rispettare i nemici vinti, non lasciare mai i morti, i feriti e neanche le armi.
Dopo averlo letto lo restituimmo a Romeo ed aspettammo che riprendesse il racconto.
«Le Loup si avvicinò a Jamal e gli disse: Fratello, se dovesse succedermi qualcosa questa notte, la “vendetta” è tua, ricordatelo. Si mossero come giaguari, in poco tempo percorsero la distanza che li separava dai massacratori. L’ordine era di fare solo tre prigionieri, possibilmente tra i capi, per sottoporli ad un interrogatorio. Individuare i capi per risparmiarli non sarebbe stato un affare semplice, tanto più che la voglia di uccidere in quel momento era perfino più forte della proverbiale freddezza in combattimento dei legionari. Fu un ulteriore massacro, questa volta ai danni dei guerriglieri. Nonostante la furia dell'attacco, gli ordini vennero rispettati: tre arabi barbuti, magri, meglio vestiti degli altri, ebbero salva la vita e furono fatti prigionieri, gli altri finirono tutti trucidati. Nell’operazione, tre dei rivoltosi, avendo capito di non avere scampo, avevano scansato l’attacco del nemico al momento giusto e si erano fatti saltare in aria con le proprie bombe a mano, causando così lo scempio anche di una decina di legionari, tra i quali Le Loup, ferito mortalmente. Jamal aveva perso un fratello, l’unico vero amico della sua vita; in quel momento capì che il dolore gli avrebbe reso impossibile restare nella Legione Straniera. La sua ferma terminò il mese dopo. Si congedò con gli onori e con qualche soldo che spese per fare un regalo alla sua amica principessa».
Fummo colti di sorpresa. Augusto gli chiese:
«Una principessa araba?»
«No, tedesca… Con i pochi soldi rimasti si trovò di fronte al problema di trovare lavoro, non volendo gravare sulle spalle della sua amica. Aveva però commesso un grave errore, non aveva ucciso uno dei rivoltosi che aveva fatto prigioniero, un certo Mustafà El Jaif, il quale l'aveva minacciato: Tu, fratello arabo, dovresti essere con me per la liberazione delle nostre terre, non contro. Un giorno ti ritroverò… Stanne certo».
Romeo trangugiò quel poco che rimaneva della birra e guardandoci concluse:
«Grazie, signorini, ora mi sento meglio; mi sono liberato di un peso che da diversi giorni mi portavo dentro».
Gli chiesi:
«Romeo, l’ha raccontata tutta questa storia alla polizia?»
Sia Roberto che Augusto annuirono e lo guardammo restando in attesa della risposta. Romeo, invece di rispondere, ordinò un’altra birra per tutti. Noi guardammo l’orologio e con preoccupazione ci rendemmo conto che erano già le 17 e che non avevamo ancora studiato per la lezione per il giorno dopo.
Ancora un altro lungo sorso, poi Romeo si decise a parlare:
«So che dovrei farlo, mi rendo conto che è una cosa importante per le indagini… Signorini, non vorreste darmi una mano e dirlo voi alla polizia? Il mio tedesco non è assolutamente all’altezza, voi potreste dire che ve lo raccontò lui personalmente e che in un primo momento non avete dato peso alla storia...»
Roberto ribatté con decisione per tutti noi:
«La polizia capirebbe subito che non sono confidenze che si fanno a ragazzi di sedici anni. Per giunta, sia lei che noi saremmo nei guai se ci vedessero parlare come stiamo facendo ora. Domani mattina, se non addirittura ora, vada dalla polizia, chieda un traduttore al consolato e racconti tutto quello che ha detto a noi».
Romeo parve un po’ deluso, ma si riprese e con uno sguardo più sereno convenne che quella era la cosa da farsi:
«Sì, avete ragione. Vado dalla frau Guy, la mia superiore, e le chiedo il permesso di recarmi subito alla polizia. Scusatemi, e grazie ancora».
Ci alzammo e velocemente ritornammo ai nostri impegni di studio. Nessuno di noi, però, si sentiva tranquillo. Augusto ed io, ritornati in camera insieme, cominciammo a fare tutta una serie di congetture. Secondo noi, l’assassino non poteva essere altri che quel prigioniero tunisino che aveva minacciato Jamal. Ne discutemmo ancora un po’, poi decidemmo che sarebbe stato meglio studiare, se non volevamo aver degli altri problemi il giorno dopo. A cena, i ragazzi, anche quelli che conoscevamo appena, si fecero in quattro per salutarci e chiederci informazioni sull'accaduto. Dopo la cena, toccò ad un nuovo arrivato fare la conoscenza del bagno nella fontana.
Sulla Höheweg, tra l’Ulrichshof ed il Nussbaum c’era una fontanella d’acqua sempre molto fresca. Il rito di iniziazione del collegio prevedeva che le matricole, dopo cena, dovessero subire l'immersione della testa nella fontana. Quella sera il malcapitato di turno fu Massimo, di Bassano del Grappa che se la cavò egregiamente, perché invece di difendersi ed agitarsi, con molta flemma si lasciò prendere senza opporre resistenza, rendendo più agevole il compito degli esecutori, ma smorzando così il loro divertimento.
Ritornammo in camera e, forse per liberarci dal peso del racconto di Romeo o forse solo perché a 16 anni non se ne ha mai abbastanza, chiedemmo il permesso di fare la doccia, con la segreta speranza di incontrare le nostre amiche. Sarà stato perché erano curiose di sentire dalla nostra viva voce come erano andate le cose la sera prima e cosa ci aveva chiesto la polizia, fatto è che erano lì ad attenderci. Quella sera toccò ad Augusto fare il palo. Eravamo sul più bello quando il colpo di tosse di Augusto ci mise immediatamente in allerta e ritornammo come fulmini alle nostre docce, giusto in tempo prima che frau Guy comparisse. Come avevamo immaginato, eravamo stati tempestati di domande dalle nostre amichette e gran parte dei discorsi riguardarono Jamal, anche se ciò non aveva frenato le effusioni.
In particolare, Gabriella mi riferì un episodio che mi lasciò perplesso:
«Giuliana mi ha detto un po' di tempo fa che era uscita un paio di volte con Jamal, ma poi lo aveva liquidato, perché non le piaceva. Non mostrava affetto, non aveva delicatezza, diventava violento; secondo lei era un maniaco».
«E tu? Non hai mai avuto a che fare con lui?»
Parve colta di sorpresa, poi disse con aria indifferente:
«Io... no, cioè, sì. Mi capitò di uscire con lui una domenica pomeriggio; ma con me si comportò bene, fu gentile. Insomma, non posso dire niente di lui, né in bene, né in male».
Ritornato in camera ne parlai con Augusto; entrambi arrivammo alla conclusione che Jamal non era sicuramente una persona del tutto normale. Riuscimmo a terminare i compiti, avendo ottenuto dal professor Borli il permesso di rimandare di un'ora lo spegnimento della luce. Il professore si era fermato con noi per qualche minuto per accertarsi che non fossimo molto turbati e per chiederci se avessimo bisogno di qualcosa; gliene fummo grati, perché era stato veramente molto gentile e amichevole. Nella notte feci qualche brutto sogno, ma non fui il solo, accadde anche sia ad Augusto che a Roberto, come questi ci confermò il giorno dopo. Era chiaro che non avevamo ancora assorbito i postumi di quella esperienza traumatica. Al mattino decisi di darmi malato. Abbandonai le lezioni alla seconda ora ed andai dalla schwester Mayer (l’infermiera, con due splendidi occhi azzurri, ma purtroppo terribilmente strabici) per farmi dare un calmante, ricevendone, per tutta risposta, nient'altro che del Formitrol e l’ordine di mettermi a letto.
Capitolo 4La camera di Jamal
Ritornai in camera e mi buttai sul letto senza spogliarmi. Cercai di restare con gli occhi chiusi, ma avevo davanti a me Jamal e corpi straziati e deturpati da orribili ferite. Mi alzai e decisi, in barba al regolamento, di andare a fare una eggiata nel bosco sottostante; se mi avessero rimproverato, mi sarei giustificato dicendo che non era previsto dal regolamento come comportarsi in una circostanza come quella che ci era capitata. Uscendo incontrai Roberto, che si era dato malato anche lui; certamente di lì a poco l’avrebbe fatto anche Augusto. Ci guardammo e, senza parlarci, ci avviammo verso il bosco. ando davanti alla fattoria, per un impulso che non saprei spiegare, dopo esserci guardati attorno entrammo per introdurci nelle camere degli inservienti. C’eravamo stati una volta, l’anno prima, per chiedere a Romeo se ci poteva riparare una valigia. Salimmo lungo quelle scale in legno, che ci parvero cigolare in maniera infernale. Avanzammo guardinghi, tutte le porte erano aperte, non c’era neanche Ulrich. Molto lentamente ci dirigemmo verso la camera di Romeo e del povero Jamal. Mentre eravamo alla stazione di polizia, avevamo sentito dire che il funerale sarebbe stato celebrato il giorno successivo e che, dopo la cremazione, l'urna sarebbe stata portata al cimitero di Feldli.
Una volta entrati, ci rendemmo conto che non avevamo uno scopo preciso; cominciammo a guardarci in giro e ci avvicinammo al tavolino da notte posto accanto al letto di Jamal. Come per un tacito accordo, mi posi accanto alla finestra per controllare che non stesse arrivando nessuno. Roberto guardava tutto, senza toccare niente; ad un certo punto mi chiamò indicando una fotografia:
«Guarda questa foto. Cosa ti fa venire in mente?»
Mi avvicinai ed osservai attentamente quell'immagine. Jamal era ritratto in mezzo a degli altri soldati; il particolare che aveva attirato l’attenzione di Roberto era lo sfondo: un cimitero con tanti tumoli e képi blanc. Una didascalia in se recitava:
Mai un legionario dirà che è stanco - farà tutti i lavori e obbedirà sino alla morte.
La morte in combattimento è l'onore maggiore.
La morte più orribile è vivere da vigliacco.
Frasi esaltanti e significative per i legionari, un po' meno per noi, che, pur apprezzandone lo spirito eroico, eravamo più inclini al pacifismo.
Ci scambiammo i ruoli: Roberto prese il mio posto di vedetta e io proseguii nell'esplorazione sperando di trovare degli indizi che potessero dirci qualcosa di più su Jamal e sulle sue amicizie. Non era una ricerca facile da condurre procedendo a caso e, per giunta, senza toccare nulla. L’armadio era aperto, guardai all'interno, ma non vidi nulla di interessante; poi mi abbassai, allungando il braccio fino ad arrivare nella zona tra i piedi ed il fondo lungo la parete. Lì una piccola asse di rinforzo formava in entrambi gli angoli una nicchia dove qualche volta noi allievi più esperti nascondevamo le lettere o i soldi, per metterli al sicuro dagli occhi indiscreti (e dalle mani) dei nostri compagni, sempre al verde come noi. Nell'angolo a destra le mie dita incontrarono qualcosa che al tatto pareva velluto. Chiamai Roberto e sotto i suoi occhi tirai fuori da quel nascondiglio una cartelletta di pelle scamosciata colore marrone, alquanto pesante. Mi rialzai con il cuore che batteva all’impazzata. Roberto guardò velocemente nell'angolo a sinistra e scoprì che c’era un’altra cartelletta più piccola, anch'essa in pelle scamosciata. Senza rifletterci sopra, prendemmo le
due cartelle ed uscimmo a capofitto dalla camera. In pochi istanti ci trovammo fuori dalla fattoria e corremmo verso il bosco.
Una volta arrivati ansimanti nel bosco, ci fermammo e restammo per un po' a guardarci l'un l'altro; nessuno di noi due voleva parlare per primo. Proprio in quel momento sentimmo la voce di Augusto che ci stava cercando; lo chiamammo a nostra volta e ci ritrovammo insieme. Appena ci ebbe raggiunto, il nostro amico diede la stura alle sue rimostranze:
«Che ci facevate alla fattoria? Perché non vi siete fermati ad aspettarmi mentre stavo arrivando? Che motivo c'era per correre via in quel modo?»
Lo mettemmo al corrente di quello che avevamo trovato e gli mostrammo le cartelle, ma questo servì solo ad accrescere la sua agitazione:
«Siete matti? Ci pensate che se la polizia venisse a saperlo, ci potrebbe incolpare di aver intralciato le indagini? Datemi retta, vediamo di darle a Romeo pregandolo di consegnarle alla polizia. E noi smettiamola di giocare a fare i detective».
La voce del Grillo Parlante. Avremmo dovuto dargli ascolto e capire che le sue osservazioni erano sensate, ma la curiosità non è solo donna, sicché gli rispondemmo che, sì, aveva ragione ma prima avremmo potuto dare almeno un'occhiata al contenuto delle cartelle.
Augusto non voleva cedere:
«Io me ne vado. Dopo la morte di Jamal e il racconto di Romeo, non ne voglio sapere più niente, ne ho più che abbastanza». Non aveva ancora terminato la frase che ci vide aprire la prima cartella, attenti a non toccar niente con le dita. Avevamo disteso per terra la mia giacca e, dopo aver aperto la cartella più grande, vi avevamo vuotato il contenuto. C’erano alcuni oggetti e dei documenti, che spostammo con un ramoscello per separarli gli uni dagli altri. Roberto prese il fazzoletto e, usandolo come un guanto, aprì il fascicolo più voluminoso. Era una patente della Legione Straniera che conferiva i gradi di caporale al soldato scelto Jamal B.Y., seguita dalla patente di sergente. Un altro conteneva le dimissioni dalla Legione. C’erano alcune foto di ragazze piuttosto avvenenti, nude ed in pose provocanti, ma quella che in particolare attrasse la nostra attenzione fu una fotografia che ritraeva Jamal in un letto di ospedale, il viso ed il collo avvolti nelle bende, ed una larga fasciatura che prendeva il ventre e l’inguine. Tra altre foto di ragazze dello stesso genere delle precedenti, ce n'era una che lo vedeva con i gradi di sergente tra una decina di soldati. Gli oggetti usciti dalla cartella consistevano in un coltello a serramanico di stile arabo, con delle iscrizioni in arabo, un temperino, due biro, una matita, alcuni francobolli, delle monete e cinque bossoli sui quali era incisa una data. Avemmo la stessa impressione che si potrebbe ricevere trovandosi davanti a delle reliquie. Dopo aver rimesso tutto dentro la prima cartella ci apprestavamo ad aprire l’altra, quando un fruscio non distante ci spinse, con il cuore in gola, a raccogliere tutto e scappare verso il Talsteig.
Come arrivammo in camera nostra, Augusto, che aveva ripreso coraggio, disse:
«Ora cominciano i problemi; abbiamo fatto proprio una grossa stupidaggine, speriamo bene… Avanti, apriamo la seconda cartella prima che si faccia mezzogiorno».
Presi i guanti dall’armadio, li infilai ed aprii la cartelletta. Il primo documento che ne uscì ci lasciò sconcertati. Si trattava del referto di un ospedale di Algeri dal quale si capiva, nonostante il linguaggio medico alquanto ostico, che il sergente Jamal era stato dimesso ristabilito, ma che aveva subito l'asportazione
dei testicoli. Questo, mi dissi, deve avere a che fare con il comportamento di Jamal di cui Giuliana ha parlato a Gabriella. Alla prima occasione, cercherò di saperne di più.
Oltre a questo documento vi era una foto che lo ritraeva a torso nudo. Fin qui, niente di strano; ciò che lasciava perplessi era che ai suoi piedi vi erano cinque ragazze nude e legate come si usa con le caprette. Ne vedemmo poi un’altra che era davvero raccapricciante, perché lo raffigurava con un membro completo delle gonadi nella mano sollevata in alto, come ad esibire un trofeo. Queste non erano le uniche fotografie che davano da pensare: altre lo ritraevano con dei suoi commilitoni in posizioni strane ed equivoche. Una sola era stata riposta con cura, avvolta in una carta velina; era la foto di un sergente in alta uniforme, che recava in calce la dedica:
A Jamal, mio amico fraterno Le Loup Babouche, 15 giugno 1955
Così avemmo la possibilità di vedere l’amico di Jamal, pace all’anima sua. Per certi versi non era molto dissimile da lui, gli somigliava nell'espressione del viso e nell'aspetto fisico complessivo; a differenza di Jamal, aveva delle lunghe basette ed un pizzo che gli conferivano un’aria mefistofelica, da duro, Augusto, che aveva calzato a sua volta i guanti e stava rovistando tra le foto, richiamò la nostra attenzione su quella che aveva in mano. Su quello che doveva essere stato un campo di battaglia, con diversi corpi disseminati sul terreno, appariva sulla destra Jamal che, accanto a tre uomini malconci, inginocchiati e legati, guardava uno dei prigionieri, che a sua volta gli ricambiava lo sguardo. Ci tornò in mente quello che ci aveva raccontato Romeo il giorno prima a proposito di Mustafà El Jaif.
Anche in questa cartella trovammo tre bossoli, più piccoli, su cui erano state incise delle date.
Rimettemmo tutto in ordine e guardammo l'orologio. Poiché erano solo le 11, pensammo che prima dell'ora di pranzo avremmo potuto riportare le cartelle nel loro nascondiglio, sempre evitando di lasciarvi impronte, cercare Romeo e farle consegnare da lui alla polizia. Detto fatto, uscimmo e ritornammo alla fattoria, dove Augusto rimase a fare il palo mentre Roberto ed io ricollocavamo le cartelle nelle nicchie. Nel compiere questa operazione, Roberto sfiorò qualcos'altro con la punta delle dita; allungò il braccio più che poteva e, quando lo trasse fuori dallo stretto varco, la mano stringeva una busta. Ci guardammo e fummo colti dallo stesso pensiero: doveva essere la lettera che aveva fatto preoccupare Jamal. La prendemmo e ci affrettammo a rientrare in collegio, mettendo la lettera al sicuro sotto l'armadio della mia camera prima di recarci a pranzo.
Durante il pranzo ci veniva consegnata la posta; quel giorno ricevetti una lettera di mia madre, sicché non vedevo l'ora di essere di nuovo libero per leggere sia la lettera appena arrivata che quella spedita a Jamal. Dovetti rassegnarmi a frenare l'impazienza, perché al temine del pranzo la bella e giovane Rosa, segretaria del preside, venne ad invitare me ed i miei amici a seguirla in presidenza.
Il preside fu molto premuroso con noi.
«Ragazzi, tutti ci rendiamo conto del fatto che avete vissuto una bruttissima esperienza. La vita talora ci aggredisce con violenza, senza preavviso. Se c'è qualcosa con la quale posso esservi di aiuto per ritrovare la serenità, non esitate a dirmelo. Intanto, d’accordo con i vostri professori, abbiamo pensato di lasciarvi una settimana di riposo per darvi il tempo di riprendervi. Va bene?»
Se andava bene! Quasi l'avremmo abbracciato. Ci alzammo, lo ringraziammo compitamente e ce ne ritornammo di corsa in camera, dove la lettera misteriosa ci aspettava.
Esaminammo con cura la busta. Il timbro di provenienza era della vicina Winterthur, distante circa 60 km. da Sankt Gallen, e recava la data del 6 ottobre 1960; la data di ricezione dell'ufficio postale di Sankt Gallen era del 7 ottobre. L'indirizzo era in stampatello, vergato con una grafia un po' incerta, come di chi si sforzi di riprodurre dei caratteri che non gli sono familiari. La aprimmo e scoprimmo che era scritta in arabo, lingua per noi totalmente incomprensibile.
Roberto, superato il momento di delusione, disse:
«Beh, l’unico qui in collegio che la può tradurre è Ahmed. Potremmo chiedere a lui».
Amhed Al-Fahad era uno degli allievi del collegio, figlio di un ricchissimo sceicco; non era facile, però, da avvicinare, perché era seguito come un'ombra da una guardia del corpo.
«Mica facile parlargli con quel mastino che lo sorveglia» commentai.
«Allora, perché non ci rivolgiamo direttamente alla sua guardia?» fece notare Augusto.
Roberto non se lo fece ripetere. Partì immediatamente alla caccia di Ahmed o
della sua guardia. Dopo neanche mezz'ora, ricomparve con un sorriso smagliante e ci raccontò il suo colpo di fortuna. Proprio mentre era davanti alla porta di Ahmed, incerto sul da farsi, era ato nel corridoio un gruppetto di allievi della classe del compagno arabo, il quale, sentendo le voci, era uscito dalla stanza. Lui ne aveva approfittato per chiedergli la traduzione della lettera e Ahmed l'aveva accontentato di buon grado scrivendola su un foglio. Il testo diceva:
Jamal, ti ricordi? Ti avevo giurato che ti avrei trovato. Come vedi, so dove sei. Da ora la tua vita non vale niente. Un fratello mussulmano che conosci bene.
Non avemmo dubbi, anche se non c'era la firma. L'autore della lettera non poteva che essere Mustafà El Jaif, ed essa ai nostri occhi equivaleva ad una confessione.
Roberto fu, al solito, il primo a parlare:
«Mi pare che non abbiamo alternative. Dobbiamo rimettere la lettera al suo posto come abbiamo fatto con le cartelle, affinché nessuno possa provare che noi abbiamo toccato qualcosa. Poi ci tocca convincere Romeo ad andare a consegnare tutto alla polizia»
«Sì? E che gli racconta?» obiettò Augusto.
«Mah, una cosa qualunque, che abbia senso. Per esempio, potrebbe dire che gli era caduta una moneta ed era rotolata sotto l’armadio. Cercandola a tastoni aveva trovato quelle cose».
Sembrò a tutti e tre un racconto plausibile, sicché ci recammo alla fattoria. Salite le scale, maledicendo gli scricchiolii ed i cigolii che avrebbero potuto svegliare Ulrich, questa volta trovammo aperte le porte, tranne quella della stanza di Franz e Ulrich. Augusto e Roberto rimasero sul pianerottolo senza fiatare, mentre io entrai nella camera di Romeo e rimisi in fretta e furia la busta con la lettera al suo posto. Quindi ci precipitammo giù per le scale, e poi di corsa al Talsteig.
Giunti in camera, ci mettemmo a pensare come contattare Romeo e, soprattutto, come persuaderlo a fare quel o. Come Gastarbeiter[5] si sarebbe trovato in una situazione incresciosa, sarebbe stato guardato con diffidenza ed assoggettato a controlli ed interrogatori, essendo i lavoratori italiani fortemente discriminati a quel tempo. Ci rendevamo conto che sarebbe stato molto difficile fargli accettare la nostra proposta. Mi venne in mente un’idea.
«Sentite un po': se lui lo dicesse al suo capo, per farlo riferire al direttore, il quale a sua volta potrebbe informare la polizia, non risolveremmo il problema? In questo modo non sarebbe costretto affrontare direttamente la polizia; d'altra parte, rivolgendosi al suo superiore dimostrerebbe di essere una persona a modo, di volersi uniformare alla disciplina svizzera. Poi… saranno gli altri ad assumersi la responsabilità delle decisioni. Cosa ne dite?»
Dopo qualche attimo di riflessione i miei amici convennero che valeva la pena di tentare. Visto che eravamo d'accordo, considerata la debolezza della posizione di Romeo, mi venne di suggerire:
«Magari potremmo accompagnarlo e dargli un sostegno con la nostra presenza
quando andrà a parlare con frau Guy. Tempo libero, ne abbiamo tanto». Cominciammo ad andare in giro per cercare Romeo, che alla fine trovammo nella palazzina di fronte all’Ulrichshof, dove c’era al pianterreno il laboratorio di fisica e chimica e nel seminterrato la palestra. Stava trafficando con dei tubi dell’acqua, avendo smontato i pannelli di legno del rivestimento, per vedere come riparare una perdita. Gli bastò vederci per scurirsi in volto, ma ci salutò con la sua solita gentilezza. Roberto fu spiccio:
«Romeo, quando finisce il suo lavoro, ci raggiunga alla birreria Schwarz Adler, sulla Marktplatz. Vedrà che forse abbiamo trovato il modo di farle guadagnare un po' di stima e, magari, qualche franco dagli svizzeri».
La risposta, gentile ma abbastanza secca, non si fece attendere:
«Meglio essere chiari, signorini: voi qui studiate ed avete le spalle coperte dalle vostre famiglie; io, se perdo questo posto, non so che fare per mantenere la mia famiglia in Italia. Quindi, per favore, cercate di non tormentarmi e di non farmi correre inutili rischi».
Poi, quasi a scusarsi del suo disappunto, tirando un sospiro aggiunse:
«Va bene, ci vediamo alle 17.30 alla Schwarz Adler».
ammo un po' di tempo in camera a far congetture su Jamal e dopo un’ora cominciammo a scendere le scale che dalla Höhenweg portavano in città. Avevamo percorso quelle scale tante volte che ne conoscevamo il numero dei gradini, ben 476. Ci sedemmo ad un tavolo della Schwarz Adler ed aspettammo
con impazienza l'arrivo di Romeo. Entrò dopo neanche dieci minuti e venne direttamente a sedersi al nostro tavolo. Ordinammo una birra e due weißwürst[6] con le solite patatine fritte. Dopo che fummo serviti, Romeo prese la parola, raccontandoci che era andato alla polizia e che erano stati cortesi con lui, però l’avevano tenuto fino alle 20, facendogli ripetere almeno cinque volte la storia che aveva raccontato anche a noi. Alla fine, forse si erano resi conto di averlo sfinito e l’avevano addirittura accompagnato in auto fino al collegio, con la raccomandazione di andare a riferire immediatamente qualunque particolare che gli fosse tornato in mente.
Finito il suo racconto, dopo un sorso di birra Romeo chiese:
«Allora, signorini, qual è la cosa di cui mi volete parlare?»
Augusto, che di noi tre era il più pacato ed era anche quello che sapeva scegliere meglio le parole, si fece carico di esporre la questione.
«Romeo, questa mattina siamo venuti nella sua camera per parlare con lei, ma non l'abbiamo trovata. Mentre eravamo lì, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che quella era stata anche la camera di Jamal. Roberto ha detto: Chissà se Jamal aveva qualche segreto, qualcosa di nascosto. E Riccardo ha osservato: Beh, se l'aveva, poteva solo fare come facciamo noi, occultarlo sotto l'armadio. Un po' per curiosità, un po' per gioco, abbiamo infilato le mani lì sotto».
Romeo a momenti si rovesciava la birra addosso. Cominciò a protestare con veemenza:
«Vi rendete conto, signorini, che non era una cosa da fare? Entrare in una camera
che non è la vostra ed andare a frugare per mettere le mani su cose che non vi appartengono... Non è possibile!»
Augusto non perse la flemma.
«Ascolti, Romeo, non ci crederà, ma abbiamo scoperto che sotto l’armadio c’erano due cartellette di pelle ed una lettera. Le abbiamo esaminate, facendo attenzione a non lasciare impronte, e crediamo di aver capito chi ha ucciso Jamal».
Romeo ci guardò uno per uno, allibito, disorientato. Improvvisamente un lampo di comprensione gli ò sul volto.
«E ora cosa volete chiedermi? Avete combinato questo pasticcio e volete che vada io alla polizia a denunciare il ritrovamento? Non se ne parla nemmeno».
Trangugiò il resto della sua birra tutta di un colpo e riprese fiato. Gliene ordinammo subito un’altra con la speranza di ammorbidirlo. Augusto continuò:
«No, certo, assolutamente no! Ci rendiamo conto di quanto sarebbe inopportuno. Romeo, lei non dovrebbe andare alla polizia, ma da frau Guy e dirle che, cercando di recuperare una moneta rotolata sotto l’armadio di Jamal, ha scoperto che c’erano due cartelle ed una busta, che ha lasciato dov'erano. Sarà compito del suo capo informare il direttore, che a sua volta metterà al corrente la polizia. Tutto quello che risulterà ai suoi capi ed alla polizia sarà che lei ha fatto scrupolosamente il suo dovere. Per questo, riceverà un elogio e, probabilmente, anche un premio».
Romeo rimase assorto nei suoi pensieri per un po' di tempo; alla fine cedette, forse persuaso dalla prospettiva di una ricompensa:
«Va bene, come salgo vado subito a cercarla. Comunque, per un po’ di giorni è meglio che non ci vediamo».
Capitolo 5Il tenente Gus Zimmermann
La mattina successiva, alle 8.30 dalla finestra della nostra camera Augusto ed io vedemmo un’auto che scendeva fino alla fattoria. Pensammo che potesse trattarsi della polizia, e perciò andai a chiamare Roberto, che non avrebbe potuto notarla, perché la sua camera, posta al piano inferiore, era prospiciente i campi di tennis e di calcio. Si precipitò da noi e tutti e tre, seminascosti dalle tende, cercammo di vedere cosa stava accadendo. Romeo e la frau Guy erano all'ingresso, evidentemente in attesa dei visitatori, tra i quali riconoscemmo il tenente Zimmermann; vedemmo dei segni di saluto, dopo i quali entrarono tutti nell'edificio. Trascorso qualche minuto, scorgemmo il tenente ed il suo assistente dalla finestra aperta della camera di Romeo. arono più di dieci minuti prima che i poliziotti uscissero, portando con sé una piccola sacca; quindi salutarono frau Guy e Romeo e ripartirono. Ci chiedemmo se tutto si era svolto secondo il nostro piano e se Romeo ne era uscito bene, come gli avevamo prospettato. Avevamo finito da poco il pranzo ed eravamo usciti dal refettorio, quando il professor Rhein ci chiamò e ci invitò a seguirlo nel suo ufficio al primo piano. Con sorpresa e con una certa apprensione vedemmo che ci stava aspettando il tenente Zimmermann. Entrammo nell’ufficio, il professore ci fece accomodare e poi guardò interrogativamente il tenente, il quale cominciò a parlare riassumendo gli ultimi eventi e dandoci l'impressione di ignorare del tutto il nostro coinvolgimento.
«Il signor Romeo ha dato dei contributi significativi alle indagini. Due sere fa ci ha raccontato una storia piuttosto drammatica su Jamal e questa mattina, grazie alla provvidenziale caduta di una monetina sotto l'armadio del defunto, ci ha fatto acquisire degli elementi interessanti. Infatti, la ricerca della monetina gli ha fatto scoprire dei documenti nascosti, e noi siamo stati informati tempestivamente del rinvenimento dal suo superiore, la signora Guy. Un colpo di fortuna davvero incredibile».
Il professor Rhein si sentì in dovere di intervenire.
«Tenente, apprendo con soddisfazione che il nostro personale collabora attivamente con la polizia, ma non comprendo quale relazione possa esserci tra questi ragazzi e le vicende che ci ha esposto. Hanno vissuto un'esperienza talmente sgradevole, che forse sarebbe opportuno non assoggettarli ad ulteriori pressioni». In cuor nostro apprezzammo l'atteggiamento protettivo del professor Rhein e ci volgemmo ad osservare la reazione del tenente, che non si scompose.
«Professore, capisco le sue preoccupazioni, ma sono sicuro che anche lei converrà con me che le indagini devono proseguire, e con la massima celerità, per garantire tranquillità al collegio ed ai suoi studenti. Per questo motivo ho bisogno di rivolgere qualche domanda a questi tre giovanotti».
Ci guardò fissandoci negli occhi, come se volesse farci intendere che sospettava qualcosa. Ci sentimmo a disagio, ma sapevamo che non avremmo potuto sottrarci. Per nostra fortuna, la sua richiesta non ci costrinse a ricorrere a sotterfugi.
«Avete avuto per caso rapporti con Jamal negli ultimi tempi? Mi spiego meglio. Avete notato o visto qualcosa che vi ha turbati o incuriositi, insomma qualcosa che possa essere messa in relazione con la sua uccisione?»
Mi vennero in mente quelle allusioni di Jamal ai miei incontri con Gabriella, ma, anche prescindendo dall'imbarazzo che avrei avuto a spiegarne il significato al professor Rhein, non mi pareva che avessero a che fare con il delitto. Rispondemmo tutti e tre scuotendo la testa in segno di diniego.
Il tenente, stranamente, parve soddisfatto.
«Grazie, professor Rhein, e grazie a voi, ragazzi».
Fece una piccola pausa, poi aggiunse, squadrandoci con intenzione:
«Sono sicuro che, se dovesse tornarvi alla memoria qualche particolare o se dovesse capitarvi di notare qualcosa che vi pare degna di attenzione, non esitereste a comunicarmela».
Ciò detto, ci salutò e se ne andò. Il professor Rhein ci manifestò il suo rammarico.
«Mi dispiace che siate stati coinvolti in una simile faccenda alla vostra giovane età. Penso che vi farebbe piacere pensare ad altro. Domani, sabato, se volete potete unirvi al gruppo che andrà in gita a Schaffausen. Fatemi sapere la vostra decisione entro le 15».
Che gentilezza! Ne restammo compiaciuti: non si può dire che non fossero stati sempre gentili, ma così era davvero sopra la norma. In ogni caso, dopo esserci consultati decidemmo di non andare a Schaffausen, perché c’eravamo già stati. In fondo, preferivamo starcene per i fatti nostri e continuare le nostre investigazioni su Jamal: le parole del tenente non costituivano forse un invito a tenere gli occhi aperti? Non gli sarebbe certo dispiaciuto se gli avessimo portato qualche novità. Cominciammo subito a pensare a come avremmo potuto saperne di più su Jamal; la fantasia dell'adolescenza stava avendo la meglio, a discapito del buon senso e della prudenza.
Si erano fatte le 16. Ci recammo in città e andammo al Walliser Keller a mangiare una buona fonduta valdese accompagnata da un bicchiere di Plein Soleil Fendant du Valais. Quando ne uscimmo per rientrare in collegio, non avevamo fatto che pochi i sulla Marktplazt, quando ci sentimmo salutare alle spalle e, voltandoci, vedemmo il tenente Zimmermann. Ci fermammo per ricambiare il saluto, e lui gentilmente ci chiese se poteva offrirci un caffè. Intuendo che non si trattava di una semplice cortesia, Roberto provò ad evitare il colloquio:
«Lei è molto gentile, signor tenente, ma noi, purtroppo, non possiamo trattenerci, perché dobbiamo rientrare entro venti minuti, altrimenti saremo puniti per non aver rispettato l’orario».
Ci rispose sorridendo:
«Oh, allora dovreste proprio correre! Via, non dovete preoccuparvi per tanto poco, perché ora vi accompagnerò io in macchina. Venite, l’ho parcheggiata qui vicino».
Non potemmo fare altro che seguirlo, chiedendoci dentro di noi dove volesse andare a parare. Montammo in macchina in silenzio. Il tenente avviò il motore e poi ci chiese a bruciapelo:
«Non vi dice niente il nome di Mustafà El Jaif?»
Rispondemmo in coro, forse troppo affrettatamente:
«Chi?»
Il tenente fece le viste di non aver colto la nostra agitazione; guardò in tralice Roberto, che era seduto al suo fianco, e continuò: «Non tutto è chiaro, ma l'abbiamo cercato perché è sospettato dell’omicidio e l’abbiamo rintracciato a Winterthur. Pare, però, che abbia un buon alibi. Lui ed un altro tunisino erano a cena con un loro compatriota per festeggiarne l'arrivo in Svizzera».
Le nostre certezze crollarono come un castello di carte. Se non era stato Mustafà, chi altri? Stavamo correndo dei rischi immischiandoci in quella storia? Come se ci avesse letto nel pensiero, Zimmermann ci rassicurò: «Non c'è da preoccuparsi, la Svizzera è un paese molto tranquillo e la polizia sa come vigilare sui cittadini e sugli ospiti. I criminali prima o poi vengono presi».
Era quel “poi” che ci suonava preoccupante. Arrivammo al collegio e smontammo, ringraziando il tenente e augurandogli di arrivare presto a capo della faccenda. A cena, fummo di nuovo il bersaglio della curiosità dei nostri compagni, ma, non avendo nulla di nuovo da aggiungere, pian piano vedemmo scemare il loro interesse. Subito dopo, ci incontrammo con i nostri compagni di classe per informarci su come andavano le lezioni. Sergio, Alvise, Massimo, Renzo ed Ettore raccontarono a me e ad Augusto in modo molto colorito della disastrosa interrogazione di tedesco, che aveva visto fioccare i “negativo” come se nevicasse. Alle 21, ricevuta l’autorizzazione a fare la doccia, eravamo da basso, con la speranza che anche le “nostre” ragazze ci fossero. Dopo qualche minuto di
impaziente attesa, comparve solo Bruna, con grande soddisfazione di Augusto, la quale ci disse che quella sera né Erika né Gabriella sarebbero scese, perché erano indisposte. A me e Roberto non restò che rassegnarci a fare da palo ad Augusto; al momento del commiato chiedemmo a Bruna di dire alle altre che ci saremmo visti il giorno dopo alla messa delle 10 nella cappella del vescovo del Duomo.
Augusto, appena rientrati nella nostra camera, mi disse:
«Ho saputo una cosa che non immagini nemmeno. A detta di Bruna, che è un'altra di quelle con le quali Jamal ci ha provato, lui era disponibile anche ad avere rapporti con i maschi».
«Tu ci credi? Per affermare che qualcuno fa questa cosa strana di andare sia con uomini che con donne, ci vorrebbe qualche prova. A dire che uno che è morto era una checca o che era un pervertito, ci vuole poco; dimostrarlo sarebbe un altro paio di maniche. Sappiamo solo con certezza che aveva perso i testicoli, e niente altro».
Il Licht aus! pose fine al colloquio, che la stanchezza e la tensione ci scoraggiarono dal continuare al buio. Dormimmo a lungo e profondamente, come non ci capitava da diversi giorni; per di più, l’indomani era domenica e quindi avevamo diritto ad un’ora di sonno in più. Alle 10, puntuali, eravamo alla cappella del vescovo, dove le nostre tre conquiste non si fecero attendere. All'uscita dalla messa fissammo un appuntamento per il pomeriggio giù nel bosco, un luogo comodo da raggiungere per tutti. Quel mezzogiorno fu il mio turno di recitare la preghiera di ringraziamento ed evitai proprio per un pelo di restare vittima di un lapsus che mi sarebbe costato caro, perché al posto di Speise[7] stava per uscirmi di bocca Scheiße.[8]
Quando, dopo pranzo, incontrammo le ragazze nel bosco, Roberto, al quale avevamo raccontato tutto, chiese loro che potevano dirci dei rapporti di Jamal con gli uomini. Bruna si schernì: «Dovete chiederlo agli uomini della fattoria. Sono loro, o meglio Franz, che lo ha detto a Erika».
Roberto si volse verso Erika, la quale diventò rossa e farfugliando disse in tedesco:
«Sì, una volta Franz mi ha detto qualcosa in questo senso, ma è stato solo un accenno, non so altro...»
Gabriella tagliò corto, bruscamente, come se quei discorsi la mettessero a disagio:
«Non vogliamo mica are tutto il giorno a parlare dei fatti di Jamal, pace all'anima sua? Se ne dicono tante sui vivi, figuriamoci sui morti!»
Lasciando cadere l'argomento, ci dedicammo alle effusioni con le ragazze, visto che Gabriella ed Erika avevano intenzione di consolarci del loro temporaneo impedimento. Scendendo nel bosco si arrivava ad un corso d’acqua e ad un ponticello che portava ad una casetta che sembrava uscita dalla fiaba di Hänsel e Gretel. La casetta ospitava l’osteria Weisse Schnur,[9] i cui proprietari erano una coppia di coniugi vecchissimi (almeno così sembrava a noi adolescenti). Il locale era frequentato da contadini della zona, soprattutto uomini, che vedendoci entrare ci salutarono con il tradizionale Grüezi wohl.[10]
Ordinammo uno Spezialbrot[11] ed una birra. Eravamo molto soddisfatti di noi stessi, ci sentivamo adulti, “navigati”. Chi, alla nostra età, poteva dire di aver vissuto in un tempo così breve tante esperienze? Al ritorno, le nostre amiche ci accompagnarono fino ai margini del bosco, dove ci separammo per rientrare nelle nostre camere. Ero quasi arrivato al Talsteig con Augusto e Roberto, quando mi accorsi di aver perso lo zippo; perciò, malgrado fosse già abbastanza buio, ritornai dove mi ero fermato con Gabriella durante il nostro scambio di effusioni. Riconosciuto il posto, guardai intorno con la torcia ed ebbi fortuna, perché lo ritrovai vicino al tronco sul quale ci eravamo seduti. Lo raccolsi e mi affrettai a ritornare al collegio. Nel are davanti alla fattoria ebbi un sussulto vedendo Romeo, che sembrava mi stesse aspettando. Mi fermai a salutarlo e lui, un po’ impacciato e teso mi disse:
«Signorino, so che non avrei dovuto, ma... Il tenente mi ha messo talmente alle strette, che alla fine ho dovuto fare qualche ammissione, facendo i vostri nomi. Mi sono limitato a dire che voi mi avete spinto a guardare sotto l’armadio ed a comunicare a loro quello che avrei trovato. Mi scusi anche con gli altri, io non volevo, ma non ho proprio potuto evitarlo». Gli risposi con un mezzo sorriso ed un gesto della mano che significava: non importa, non parliamone più. Ora capivo l'atteggiamento del tenente. Quello che forse non immagina, pensai, è che noi conosciamo il contenuto delle cartelle e della lettera. Quando ci ha fatto il nome di Mustafà, ha tirato a indovinare, per vedere se abboccavamo.
Visto che Romeo appariva ben disposto, provai a interrogarlo sui comportamenti di Jamal.
«Romeo, secondo lei Jamal andava con gli uomini?»
Romeo reagì come se fosse stato punto da una vespa.
«Signorino, non penserà che io c'entri qualcosa solo perché dividevo la camera con lui? Questo, con tutto il rispetto, non lo posso assolutamente accettare».
Mi resi conto che, senza volerlo, avevo urtato la sua suscettibilità e mi affrettai a porvi rimedio.
«Per carità, come può pensare che io abbia lontanamente immaginato una cosa del genere? La mia era una domanda fatta solo perché girano delle voci su Jamal, e lei sa meglio di me che le voci spesso sono mezze vere e mezze false».
Romeo si calmò, ma la sua risposta fu deludente.
«A dire la verità, non ne sono sicuro. In questi due mesi, ogni tanto me ne è venuto il sospetto, per via di qualche discorso o di qualche atteggiamento, ma la certezza... no, non posso dire di averla».
Ringraziai Romeo e risalii di corsa. La cena stava per essere servita ed i ritardi in Svizzera non erano tollerati. Non vedevo l'ora di riferire ad Augusto e Roberto il colloquio con Romeo, ma, siccome il nostro posto era a tavoli diversi, dovetti aspettare la fine della cena.
Quando ebbero ascoltato il mio racconto, cominciarono a farmi domande alle quali non avevo risposta.
«Sei sicuro che si è limitato a dichiarare alla polizia solo quello che ti ha detto? Per tirarsi fuori, non avrà spiattellato che siamo stati noi a trovare le cartelle e la busta ed abbiamo chiesto a lui di denunciare il ritrovamento? Perché Zimmermann è venuto a cercarci e ha fatto tutte quelle chiacchiere in macchina?»
Mi difesi come potevo.
«Io che ne so? Come faccio a stabilire se ha detto a me una cosa e al tenente un’altra? Francamente, non mi pare un fatto importante: in fin dei conti, non abbiamo nascosto niente a nessuno. Eppoi, è colpa loro se non hanno perquisito bene la camera, non farebbero una bella figura se si sapesse che ci abbiamo pensato noi. Mi dà da pensare, invece, la reazione che ha avuto quando gli ho chiesto se, secondo lui, Jamal era un finocchio. Non è facile da spiegare, perché si tratta solo di una sensazione, ma ho percepito che c'era qualcosa che mi sfuggiva». Ci ritirammo nelle nostre camere, la settimana era finita. Che novità aveva in serbo per noi quella che stava per cominciare?
Capitolo 6Romeo riceve un pacco
Risveglio con pioggia, all’alba di una giornata da trascorrere ancora esonerati dalle lezioni. Per la vacanza che ci era stata concessa, saremmo ritornati in classe il mercoledì. Ero io di turno per dare l’aufstehen!,[12] sicché feci il giro delle camere in vestaglia, badando bene a non prendermi qualche oggetto sul viso. Quando ai per la camera di Roberto, che la condivideva con un iraniano, ne approfittai per dargli appuntamento dopo la colazione in camera mia. Nel refettorio Augusto ed io fummo oggetto dell'invidia e dell'acrimonia dei compagni di classe, che ce ne dissero di tutti i colori. Noi lì, a trascorrere la mattinata in panciolle, mentre loro avrebbero dovuto sorbirsi le interrogazioni, e per giunta in misura maggiore del solito, visto che sarebbero stati solo in quattro. Li prendemmo in giro fino all'ora dell'inizio delle lezioni, e poi loro andarono al patibolo, noi ritornammo in camera, dove poco dopo fummo raggiunti da Roberto.
Augusto ci guardò e chiese:
«Allora, che vogliamo fare stamattina?»
«Un'idea l'avrei» rispose Roberto. «Perché non cerchiamo di parlare con Franz e sentiamo cosa ci dice a proposito di Jamal? Secondo le ragazze, è stato lui a mettere in giro la voce che Jamal era una checca».
Augusto scosse il capo, poco convinto.
«Dài! Come vuoi che ci risponda? Affermerà sicuramente che lui non ha mai detto una cosa del genere o che, se l’ha detta, non se ne ricorda più. Con un morto di mezzo, tutti gli inservienti hanno un sacrosanto terrore di essere implicati nella faccenda, per paura di rischiare il posto di lavoro».
Il ragionamento non faceva una grinza. Venne a me un'altra idea.
«Ho io una proposta. Sankt Gallen non è una metropoli e Jamal non era uno che potesse are inosservato. Facendo qualche domanda in giro, potremmo sapere qualcosa di interessante. Andiamo a prenderci un caffè al Weisse Schnur, e chiediamo ai due vecchietti se l'hanno visto qualche volta».
«Mi piace» disse Augusto, «ma ci vorrebbe una foto per far capire facilmente di chi parliamo».
Con un sorriso che mi apriva la bocca fino alle orecchie, rovistai sulla mia scrivania e tirai fuori, sventolandolo, il St. Gallen Nachrichten, che annunciava in prima pagina l’omicidio di Jamal, con tanto di fotografia. Avvolti nei nostri impermeabili, armati di giornale, eravamo pronti per la missione al Weisse Schur. I due vecchi proprietari rimasero sorpresi quando ci videro arrivare, perché non si aspettavano degli studenti durante la mattinata; comunque, ci accolsero sorridendo e ci consigliarono di assaggiare una fetta di torta di mele, ancora calda, fatta dalla moglie, Katerina, con una bella cioccolata calda. Accettammo con piacere e ci sedemmo al tavolo in fondo al locale. La torta era veramente ottima, cosicché gli sperticati complimenti alla signora Katerina furono sinceri; a dimostrazione che l’avevamo veramente gradita, ne ordinammo un’altra fetta. Nichlas, il marito, si affrettò a portarcela, contento di incassare qualche franco in quel mattino umido e senza clienti, e ci chiese come mai non eravamo a scuola.
Roberto, che di noi tre era il più bravo in tedesco, gli offrì la spiegazione:
«Abbiamo avuto tre giorni di vacanza-premio per meriti di studio. Visto il tempo piovoso, abbiamo pensato bene di venire a rifugiarci qua».
Al vecchio Nichlas evidentemente non dispiaceva trattenersi con noi, dal momento che non aveva molto da fare. Non potevamo sperare di meglio. Infatti, strizzando l'occhio cambiò argomento:
«Domenica eravate in dolce compagnia, eh! Nessun premio per le signorine?»
«Ma noi siamo bravi ragazzi, non siamo delle donne… Gli uomini sono più bravi delle donne, non pensa signor Nichlas?»
Lui si mise a ridere.
«Eh, non lo so, giovanotti, se siete in tutto davvero più bravi di loro! Le signorine, le conoscevo già, le avevo viste altre volte. Una in particolare l'avevo notata perché era in compagnia di un forestiero alto e robusto, proprio quell'uomo che poi è stato ammazzato. Quell'arabo, Jemi, Jami o come diavolo si chiamava».
Ci facemmo attenti, ed io dovevo avere un'espressione molto interessata, tanto che lui si rivolse a me.
«La signorina italiana che era con lei domenica è stata qui con quell'uomo meno di un mese fa. Mia moglie ebbe l'impressione che lei non stesse volentieri con lui; non so come dire, sembrava spaventata».
Così dicendo chiamò la moglie perché ci spiegasse quello che lui intendeva. Katerina diede prova di essere una osservatrice più attenta ed acuta del marito.
«Sì, quell’uomo lo avevamo visto altre volte da noi. Cinque o sei volte con delle signorine, due volte con un uomo ed un mese fa con la signorina che era con lei ieri».
Le posi la domanda che mi stava a cuore:
«Suo marito ha detto che lei ha pensato che la signorina avesse paura di qualcosa e non avesse voglia di stare con quell'uomo. Che cosa le ha dato questa impressione?»
Abbozzò un sorriso.
«Intuito femminile. Lo sguardo, il continuo strofinarsi le mani, i gesti nervosi, a scatti di lei e l'espressione di lui, che non mi pareva amichevole. Tanti piccoli particolari».
Capii che non ne avrei ricavato altro, perciò non insistetti. Roberto cambiò obiettivo.
«L’uomo con il quale vedeste Jamal era un vostro cliente abituale? Lo conoscevate?»
Nichlas allargò le braccia.
«Non era sempre lo stesso uomo. La prima volta si trattava di un giovanotto che, credo, lavora al collegio. La seconda volta era uno che non avevamo mai visto prima. Era certamente uno svizzero, molto ben vestito, dall'aspetto distinto, le man beni curate. Insomma, si capiva subito che appartenevano a due classi molto diverse».
Augusto, che di noi tre era il più debole in tedesco, ci suggerì di chiedere se avevano notato qualche atteggiamento strano tra i due.
Roberto, un po’ imbarazzato, tradusse la richiesta. Fu Katerina a rispondere.
«Ragazzi, siete proprio dei curiosoni! Volete sapere da noi se il vostro arabo era “uomo” o…»
Dal nostro sguardo capì che aveva colto nel segno e continuò:
«Quel tale non mi piaceva affatto, aveva un'aria malsana. Fin da quando lo vidi la prima volta mi fece un cattivo effetto. Quando vidi come parlava con il suo compagno, dissi a Nichlas che quell’uomo, secondo me, si faceva vedere con le donne, ma la sua tendenza era un'altra».
In quel momento entrarono due vecchi contadini, ponendo fine alla nostra investigazione. Katerina si scusò e Nichlas si avvicinò ai due avventori con familiarità, come a vecchie conoscenze, a parlare di altro. Ci sentimmo soddisfatti; non era molto, ma avremmo avuto qualcosa da raccontare al tenente.
Uscimmo e constatammo che, fortunatamente, la pioggia era cessata. Davanti alla fattoria trovammo Franz, indaffarato con un trattorino che non voleva saperne di mettersi in moto. Franz era un giovanottone di ventitré anni, alto quasi due metri, fisico atletico, capelli biondo cenere, bei lineamenti, due occhi cerulei e sempre sorridenti, due spalle da lottatore. Il prototipo dell’ariano. Lo salutammo e lui ci chiese se avessimo una sigaretta. Augusto tirò fuori un pacchetto di Marlboro e gliela offerse. Roberto ne approfittò per chiedergli se poteva dirci qualcosa del povero Jamal. Ci furono dei colpi di tosse violenti, provocati dal fumo che era andato di traverso; quando cessarono, Franz riuscì a rispondere:
«Signorini, è stata una cosa orribile, della quale non riesco a capacitarmi. Lo conobbi quasi due mesi fa, quando fu assunto. Siamo andati qualche volta a berci una birra insieme; tutto ciò che posso dire è che non era una cattiva persona».
Fece una pausa, come se stesse cercando le parole adatte.
«Certo, qualche volta sembrava che stesse per diventare violento, ma poi si calmava e si mostrava tranquillo e disponibile con tutti».
Seguì un'altra piccola pausa.
«Non so se faccio bene a dirvelo, ma voi siete abbastanza grandi e intelligenti. A lui piacevano anche gli uomini, se capite che voglio dire. Una sera eravamo andati a bere qualche birra al Weisse Schnur; al ritorno mi chiese senza mezzi termini se... se si poteva combinare qualcosa tra noi due. Non me l'aspettavo; gli risposi che non ero portato per gli uomini. Lui non se la prese, sorrise con amarezza e disse che anche a lui erano sempre piaciute le donne, poi con una smorfia aggiunse che un evento imprevisto lo aveva costretto a prendere in considerazione anche gli uomini».
Salutammo Franz e ritornammo in camera, dove decidemmo di studiare un po’. Ci avevano concesso una settimana di vacanza, ma poi sicuramente avrebbero preteso che sapessimo tutto, con gli interessi.
A mezzogiorno ci recammo a pranzo e dopo ritornammo a studiare fino alle 16, quando decidemmo di accompagnare Roberto ad acquistare un paio di sci nuovi in un negozio di articoli sportivi sulla Multergaße, non distante dalla piazza del Duomo.
Finito l’acquisto, uscimmo dal negozio e, per affrontare la risalita verso il collegio, siccome non avevamo fretta, prendemmo le scale che dalla stazione portano alla Höhenweg, a cento metri dal collegio; facendo così, speravamo anche di evitare un altro incontro con il tenente Zimmermann, che avevamo sempre visto girare in auto. Arrivammo in collegio con il fiato grosso, colpa di quei benedetti 476 scalini. Stavamo scendendo verso il Talsteig, quando Romeo dalla porta della fattoria ci fece dei segnali inconfondibili per invitarci a raggiungerlo. Ci avvicinammo e ci accorgemmo che era molto agitato:
«Signorini, è arrivato un pacco indirizzato a Jamal. Cosa devo fare secondo voi, portarlo alla polizia?»
Questo fatto ci meravigliò. Conoscendo la diligenza delle poste svizzere, non capivamo perché fosse stata effettuata la consegna, dal momento che l'ufficio locale doveva sapere che il destinatario non era più in vita, dopo il gran parlare che ne aveva fatto la stampa regionale. Eppoi, perché consegnarlo a Romeo, e perché questi l'aveva accettato, invece di respingerlo? Augusto diede voce alla nostra perplessità chiedendo esplicitamente a Romeo di spiegarci il suo comportamento. Questi cercò di giustificarsi.
«È successo che il postino, uno nuovo, aveva due lettere per me e il pacchetto per Jamal e mi ha fatto la consegna con dei modi spicci, perché aveva fretta. Non ho avuto il tempo di pensarci, ho preso tutto e solo dopo mi sono reso conto che avrei fatto meglio a rimandarlo indietro».
Volevo ad ogni costo vedere che cosa conteneva il pacchetto per Jamal. Proposi:
«Perché non lo apriamo? Romeo potrà sempre dire di non aver fatto caso che era indirizzato a Jamal e l'ha aperto perché pensava che fosse per lui, anche perché aspettava un pacchetto da casa con delle maglie di lana».
Romeo si agitò ancora di più.
«Signorino, lei vuole mettermi a tutti i costi nei guai con la polizia. Se non c'è altro da fare, preferisco portarlo a loro, almeno non diranno che l'ho tenuto nascosto di proposito».
Roberto, curioso quanto me, ma al tempo stesso cosciente delle buone ragioni di
Romeo, espose la sua idea:
«Romeo, si potrebbe fare così: andiamo tutti in officina e l’apriamo, poi noi tre lo portiamo al direttore affinché lo consegni al tenente. Ci giustificheremo dicendo che l'abbiamo visto preoccupato per averlo aperto senza far caso al nome del destinatario e lei ha pensato di chiederci aiuto, date le sue difficoltà con la lingua».
Ero impaziente, ma mi controllai perché mi resi conto che non ere il momento di forzare la mano. Infatti, Romeo ci pensò un po' su e infine accettò la proposta di Roberto.
Entrammo nell’officina e, deposto il pacco sul banco da falegname, Romeo estrasse il coltello a serramanico Victorinox, uno dei suoi primi acquisti in Svizzera, del quale andava fiero come un bambino. Con quello tagliò prima la corda, poi il nastro adesivo; riuscii a fermarlo in tempo prima che lacerasse la parte dell'involucro che recava il nome e l’indirizzo del mittente. Tutto ciò che riuscimmo a decifrare fu che il pacco era stato spedito da Souk El Arbà,[13] in Tunisia, un mese prima; il resto era incomprensibile. Con cautela, sfilammo da un lato dell'involucro quella che pareva una scatola da scarpe, di cui Roberto alzò delicatamente il coperchio sollevandolo da un angolo. Fece un salto all’indietro, lanciando un grido soffocato, cui seguì una simile reazione da parte degli altri. La scatola conteneva, senza ombra di dubbio, uno scroto essiccato. C’era anche un foglio scritto in caratteri arabi, che nessuno di noi ebbe voglia di toccare.
Romeo era sbiancato in volto.
«Ora sì che siamo nei guai. Che facciamo?»
Roberto non stette a pensarci due volte; si precipitò verso la porta prima che qualcuno di noi potesse fermarlo, avvisando:
«Vado da Rhein e gli dico di telefonare al tenente. Non c'è alternativa».
Superato lo sbigottimento, dissi ad Augusto:
«L’altra volta non abbiamo pensato ad Adkram, il pakistano. Lui conosce l'arabo; vado e mi faccio tradurre la lettera».
La presi per un angolo con il fazzoletto e corsi via senza attendere la risposta. Trovai Adkram che stava facendo finta di studiare, perché quando bussai udii il rumore di un cassetto che veniva chiuso e di una sedia spostata. Entrai e lo pregai di tradurre la lettera. Lui la prese e la scorse; man mano che leggeva la sua espressione si faceva preoccupata.
«Ma con chi hai a che fare? Dove l'hai presa? Sei sicuro che te la devo tradurre?»
Era urgente, così annuii e lui cominciò a dettarmela:
Fratello Jamal, quello che trovi nel pacchetto appartiene a colui che quella sera del 20 settembre del 1954 all’ospedale di Algeri ti causò la perdita della virilità. Siamo
riusciti a ritrovare quel bastardo. Sei stato vendicato. I tuoi fratelli
Adkram alzò la testa dal foglio, sempre più stupito.
«Questo è un affare serio. Che stai combinando? In che pasticcio ti sei messo?»
Mi alzai e lo rassicurai.
«Sta' tranquillo, non sono io quello implicato in questa storia. Ora non ho il tempo, ti spiegherò tutto in un altro momento. Grazie, comunque, sei stato veramente utilissimo».
Me ne andai correndo e riuscii a rimettere la lettera al suo posto esattamente due minuti prima che arrivasse il tenente Zimmermann. Questi con un'aria sorniona prese il pacco e ci chiese di rimanere a sua disposizione il giorno dopo, incurante delle rimostranze del professor Rhein.
Capitolo 7Notizie di Mustafà
Quella sera saltammo la cena. Sia io che i miei amici ammo una notte costellata di incubi; l'immagine di quello scroto essiccato continuava a ripresentarsi ai nostri occhi. Il contenuto del pacco e la lettera che lo accompagnava ci avevano scosso perfino più della morte di Jamal. Sì, perché l'omicidio, per quanto spaventoso, negativo, rientrava ancora nei canoni della società alla quale appartenevamo, mentre la crudeltà della vendetta, l'efferatezza della mutilazione laceravano la parete ovattata e rassicurante che aveva avvolto la nostra vita aprendo uno squarcio su un mondo al quale non eravamo preparati. Il mattino successivo, non eravamo ancora usciti dal refettorio per la prima colazione, che la vettura del tenente era fuori ad aspettarci. Salimmo nell’ufficio del professor Rhein e qui per la prima volta avvertimmo che le nostre iniziative non stavano ando inosservate. Per il buon nome del collegio, il direttore ci difese a spada tratta dalle insinuazioni del tenente, ma non potevamo giocare a fare gli innocentini, altrimenti questi sarebbe stato costretto ad alzare il tiro. Uscimmo, ed una volta rimasti soli con lui, Zimmermann parlò chiaro:
«Signorini, sia voi che io sappiamo che non ve ne siete stati con le mani in mano. È stato meglio per voi che non sia venuto fuori tutto alla presenza del direttore. Ora ritornate ai vostri libri e smettetela di giocare a fare gli investigatori; le vicende connesse a questo caso appartengono a un mondo duro e inumano che non è per ragazzi della vostra educazione e classe sociale. Statene fuori e limitatevi a riferire ciò che vi capita di osservare, senza prendere iniziative. Capito?»
Annuimmo e gli assicurammo che avremmo badato solo a studiare. Mentre parlava, mi chiesi perché non ci aveva messo in difficoltà con il direttore, e come mai non faceva il duro, non ci accusava di intralciare le indagini, o peggio;
conclusi che forse non voleva tenerci del tutto fuori, ma solo fare in modo che restassimo sul binario. Fu per questo che provai a vedere se avrei ottenuto una risposta:
«Signor tenente, potrei soltanto rivolgerle una domanda, compatibile con il suo lavoro?»
«Sentiamo».
«È davvero inattaccabile l'alibi di Mustafà? Si deve credere a quello che hanno detto i suoi compagni?»
Zimmermann aggrottò le sopracciglia. «Signorino Riccardo, posso capire il suo interesse, causato da un evento che vi ha colpito, ma in che lingua devo ripetere che farebbe meglio restarne fuori?»
Poi sembrò ammorbidirsi.
«È ovvio che stiamo facendo i nostri accertamenti. I tre amici hanno cenato nella trattoria gestita da un marocchino, dove tutti, compreso il proprietario, confermano la presenza di Mustafà fino alle 22.30. L’autopsia ha determinato la morte entro le 19.30 e le 20.15. Ora basta, tornate a fare gli studenti e lasciate alla polizia il compito di investigare».
Ritornammo alle nostre camere per studiare, dovendo colmare le lacune dovute ai giorni di vacanza, siccome il giorno dopo saremmo rientrati in classe. Riferii
ai miei due compagni la mia opinione sull'atteggiamento del tenente, facendo notare loro che, nonostante l'apparente cipiglio, aveva risposto alla mia domanda. Questo fu sufficiente a rimettere in moto la fantasia di Roberto.
«Se andassimo a Winterthur per vedere se troviamo Mustafà? Io ricordo che faccia ha dalla foto che abbiamo visto».
Augusto rimase coi piedi per terra.
«Già, e se pure lo vediamo, che concludiamo? Fare qualcosa che non serve a niente, se poi si viene a sapere, sarebbe come correre un rischio inutile. No, è arrivato il momento di ritornare a studiare».
Non potevamo che dargli ragione: una volta che l’avessimo incontrato, cosa avremmo potuto mai dirgli o chiedergli? Abbandonammo l'idea e ammo il resto della mattinata a studiare, arrivando affamati, come al solito, all’ora del pranzo. Ci incontrammo con i nostri compagni di classe e trovammo un Alvise euforico per aver ottenuto un'ottima nota da padre Zill, che per noi equivaleva ad una medaglia. Ettore, invece, aveva avuto due note di demerito, una in storia e l’altra in geografia, tanto per cambiare. Quello sarebbe stato l’ultimo pomeriggio di vacanza, stavamo per tornare alla normalità. Ci aspettavano il mattino dopo due ore di Ragioneria, seguite da se e Fisica; nel pomeriggio, un'ora di Italiano ed una di Inglese. Sergio ci diede le informazioni su cosa c’era da preparare e ritornammo nella nostra stanza per metterci in pari. Il nostro buon proposito era destinato ad essere messo a dura prova. Infatti, nello scendere al Talsteig incontrammo un Romeo più che mai turbato, che non vedeva l’ora di confidarsi con noi. «Signorini, sapeste che mi è capitato! Prima di mezzogiorno ho notato una persona che si aggirava dalle parti della fattoria. Come mi ha visto, si è dileguata, ma io ho fatto in tempo a riconoscerla dalle foto di Jamal, e sono
sicuro di non essermi sbagliato. Mi venga un colpo, signorini, non lo immaginereste mai: era Mustafà».
Augusto non perse la calma.
«Romeo, prima che ci infiliamo tutti in un altro pasticcio, telefoni al tenente Zimmermann e lo informi subito, senza perdere tempo».
Romeo senza proferire parola si precipitò verso la direzione per telefonare. Noi ritornammo ai nostri libri, scossi ma coscienti che non potevamo tirare la corda. Inoltre, come osservò giustamente Augusto, «se questo Mustafà ha ucciso Jamal, è meglio tenercene fuori senza correre degli stupidi rischi mostrandoci interessati alle sue cose, non vi pare?»
Ci sforzammo di studiare e tirammo avanti fino alle 17, quando decidemmo di scendere al Seeger, un bar poco distante dalla stazione, molto frequentato dagli studenti e dai professori del collegio. Stavamo proprio ando davanti alla stazione, quando per poco non ci scontrammo con Mustafà El Jaif, che ci guardò di sfuggita e proseguì per entrare nell'atrio. Roberto corse ad un telefono e chiamò Zimmermann e lo informò dell’incontro, dicendogli che avrebbe potuto trovarci al Seeger. Non erano ati cinque minuti che arrivò un'auto della polizia a sirene spiegate; ne scesero tre poliziotti al comando di Zimmermann, che entrarono nella stazione. Siccome non ci eravamo ancora allontanati, potemmo vedere uscire i poliziotti, compattati intorno a Mustafà.
Al Seeger ordinammo una birra e ci accomodammo ad un tavolo. Si avvicinò a noi il professor Scala, che ci salutò e si sedette accanto a noi chiedendoci come andavano le cose. Inevitabilmente il discorso cadde sull'omicidio, del quale il
professore, allo scopo di rasserenarci, provò a minimizzare la portata e le conseguenze. Eravamo nel bel mezzo dell'argomento, quando entrò il tenente, che guardò in giro, ci vide e si accostò al nostro tavolo. Si presentò al professore e andò subito al punto:
«Signorini, vi ringrazio per la telefonata. Senza il vostro avvertimento, non l’avremmo trovato così facilmente. Allertati da Romeo, avevamo disposto un servizio di sorveglianza, ma, a quanto pare, stava comunque per sfuggirci. Ha fatto un o falso a venire a Sankt Gallen, attirando su di sé l'attenzione, anche se ciò non cambia sostanzialmente le cose, perché non ritengo che l’assassino sia lui». Il professore non poté fare a meno di manifestargli la sua perplessità.
«Tenente, stavo giusto parlando di quello che è accaduto con i ragazzi, che mi paiono alquanto turbati dagli avvenimenti. Credo che sarebbe meglio per loro dimenticare al più presto questa vicenda».
Zimmermann non si scompose.
«Il fatto che questi ragazzi abbiano tenuto gli occhi aperti costituisce una forma di collaborazione con le forze di polizia e manifesta un senso civico che va loro riconosciuto. Mi è parso doveroso rendergliene atto».
Ci sentimmo adulti, importanti come non mai. Saremmo rimasti a goderci l'elogio, ma uno sguardo all'orologio ci disse che era tempo di risalire di corsa, a scanso di punizioni. Il tenente capì il motivo della nostra fretta ed offrì un aggio sia a noi ragazzi che al professore. Gliene fummo grati, perché così riuscimmo ad entrare in tempo nel refettorio. Gli orari andavano puntualmente rispettati, sempre e da tutti, senza eccezioni.
Dopo cena Roberto ed Augusto, avendo ottenuto il permesso, andarono alle docce. Io quella sera proprio non me la sentii; immaginavo Gabriella con Jamal in atteggiamento intimo, e questo mi dava disagio, mi faceva provare una sensazione amara. Perché mi aveva mentito quando le avevo chiesto di lui? Quando Augusto ritornò in camera mi disse:
«Sai, Gabriella, quando non ti ha visto, c’è rimasta male e ha fatto la faccia scura».
Mi dispiacque, pensai che forse l'avevo giudicata male. Ci avrei dormito sopra, e forse il giorno dopo avrei avuto le idee più chiare.
La mattina successiva il ritorno in classe mi assorbì completamente. Dopo le ore di lezione, che nell’insieme erano andate abbastanza bene, trovai un biglietto di Gabriella sulla scrivania:
Perché non ti sei fatto vedere ieri sera? I tuoi amici hanno detto che non ne conoscevano il motivo. Mi è dispiaciuto molto non aver ricevuto neanche una parola di spiegazione. Se c'è qualcosa che non va, o se non vuoi rivedermi, dimmelo chiaramente. Se non è così, allora vediamoci stasera. Gabri.
A pranzo, Augusto, che aveva visto il biglietto, mi punzecchiò:
«Ma quanto ci facciamo desiderare! Adesso ti metti a fare il tombeur de
femmes? Se lo sapessero le ragazze di Sankt Gallen, ti darebbero la caccia. Non darti delle arie, ché se non fossi stato io a spingerti, non ti saresti neanche mosso».
Accettai le parole scherzose, e fui perfino così magnanimo da non ricordargli che era grazie a me se aveva incontrato Bruna. Nel pomeriggio, mentre andavamo a riprendere i libri per partecipare alla lezione in comune, Roberto mi disse:
«Più ci penso, meno ci capisco. Se non è stato Mustafà, chi può essere stato?»
La mia risposta, mentre Augusto ci stava raggiungendo, più che chiudere un capitolo, ne apriva un altro.
«Ci ho pensato ieri sera, mentre voi eravate a sollazzarvi. Secondo me, bisognerebbe dire qualcosa al tenente in merito a quello svizzero di cui ci ha parlato Nichlas. Che ve ne pare?»
Furono d'accordo, sicché decidemmo di cercare il tenente al termine della lezione per riferirgli quel particolare. Così facemmo. Scendemmo in città e ci recammo all’ufficio di polizia, che era in Klosterhofstraße, non distante dal Duomo. Come ci vide, il tenente si mise le mani nei capelli, cortissimi, fingendo di disperarsi:
«Per amor di Dio, quali novità portano questi giovani segugi?» Ci fece accomodare nel suo ufficio e, dopo aver chiesto al piantone di portarci
dei caffè, ci domandò che altro ci fosse capitato. Roberto, il nostro portavoce col tedesco, gli spiegò in poche parole cosa avevamo appreso al Weisse Schnur. La faccia del tenente si fece seria:
«Questo è un particolare che potrebbe rivelarsi importante, dal momento che abbiamo dovuto escludere Mustafà. Non che lui e i suoi due compagni, Alì e Mohamed, siano degli agnellini e non avessero l'intenzione di ammazzare Jamal; sono arrivati secondi, per così dire. Anni or sono, fatti prigionieri, furono seviziati da lui, che secondo la loro descrizione era un sadico, un maniaco, uno che meritava di morire. Brutta storia, senza buoni e cattivi; solo cattivi».
Capitolo 8Una visita inattesa
Quella sera dopo cena eravamo alle docce. Gli occhi chiusi e il capo riverso, restai a lungo sotto il getto dell'acqua, per sentirla scorrere tra i capelli, sul viso e sul corpo come se potessi lavare via il marcio con il quale ero entrato in contatto. Uscivo dalla doccia più rilassato e sereno, quando Gabriella, comparsa dal nulla, mi prese per un braccio e mi tirò dietro la tendina. Lì per lì feci resistenza, ma poi la mia animosità svanì in un amplesso senza riserve, come un inno alla vita. Quando ci fummo placati, come se mi avesse letto nel pensiero, mi disse ciò che aveva taciuto dei suoi rapporti con Jamal.
«Ero uscita con lui perché l’avevo trovato interessante, malgrado la mia amica Giuliana me lo avesse sconsigliato. Mi aveva dato appuntamento fuori dalla fattoria, mi aveva invitata a bere qualcosa al Weisse Schnur e ci eravamo incamminati attraverso il bosco. Lungo il tragitto disse che lui amava le donne, ma… Non completò la frase. Arrivati quasi al ruscello, mi mise le mani addosso; io cercai di scappare, lui mi raggiunse e con una voce che non ammetteva repliche impose: Ora andiamo al bar, beviamo qualcosa e poi ritorniamo. Non dire assolutamente niente nel bar e non fare niente che possa infastidirmi, altrimenti… Tirò fuori da un fodero legato al polpaccio un coltello e me lo fece balenare davanti. Non ebbi il coraggio di ribellarmi; lo seguii, angosciata dalla prospettiva di dover riattraversare con lui il bosco sulla strada del ritorno. Quando uscimmo dal bar e ci incamminammo verso il collegio, proprio mentre avamo sul ponticello che conduce al bosco fummo raggiunti da Bruna e Giuliana che stavano rientrando. Non ho mai incontrato nessuno con tanto piacere, provai un enorme sollievo. Lui si dimostrò gentile come quando ci avevo parlato la prima volta, come se niente fosse successo. Da allora non abbiamo più avuto contatti».
«Perché non mi hai raccontato tutto subito?»
«Che importanza aveva? Avrei rischiato di farti allontanare, mentre io volevo restare con te. Mi piaci troppo».
Così dicendo sfoderò un sorriso malizioso e mi si avvinghiò nuovamente. Dimenticai Jamal. Ritornai in camera in pace con il mondo. La tregua fu interrotta la mattina successiva dal compito in classe di Ragioneria, tre ore di incubo. Per fortuna, a seguire c'era l'ora di Religione, durante la quale don Mario ci parlava non solo del Vangelo, ma anche della vita che i nostri connazionali conducevano a Sankt Gallen. Gli episodi che ci raccontava ci indignavano al punto che qualche volta ci lasciammo coinvolgere in risse tra i nostri connazionali e gli svizzeri nei locali di periferia della città. Dopo il pranzo, essendo il tempo freddo, sì, ma non piovoso, decisi di andare a correre. All’epoca Attilio ed io eravamo i più veloci del collegio, correvamo i 100 metri in 11” netti. Andai in camera, mi vestii adeguatamente e mi diressi al campo di atletica, posto alle spalle dei campi di tennis. ando accanto al campo di calcio, mi fermai qualche minuto per vedere come stava andando la partita che vedeva contrapposte la squadra tedesca e quella anglo-americana. Proseguii, trovai un angolo tranquillo e, calzate le scarpe chiodate, mi portai sulla pista. Dopo qualche giro di riscaldamento, cominciai a provare delle partenze dai blocchi. Ero lì da un quarto d’ora, quando fui raggiunto da Attilio, con il quale continuai l’allenamento. Di solito trovavamo sempre qualcuno che cronometrasse i tempi, ma quel giorno non c’era nessuno da quelle parti, così ci arrangiammo a simulare qualche gara ed a provare partenze. Avremmo partecipato ad una gara cantonale prima di Natale; mancavano meno di due mesi, ma sapevamo che avevamo delle ottime possibilità di vincere. Alla fine, grondando sudore, tornai in camera, presi l'accappatoio e scesi a fare la doccia.
Mentre mi stavo lavando, sentii nel corridoio un trepestio seguito da un suono di voci. Riconobbi quella di Romeo, ma non quella del suo interlocutore, che doveva essere un uomo, a giudicare dal timbro. Fu più forte di me, avvicinai l’orecchio alla porta per sentire cosa dicevano. Restai perplesso: Romeo aveva
sempre dichiarato di cavarsela male con la lingua tedesca, ma ora stava discutendo vivacemente proprio in quell’idioma. Chiusi l'acqua, mi asciugai in fretta e uscii nel corridoio; volevo scoprire chi fosse l’altro uomo. Al vedermi, Romeo tacque sorpreso e imbarazzato, l’altro si girò e mi squadrò. Accennai un saluto a Romeo e gettai uno sguardo allo sconosciuto fissandone l'immagine nella mente. Poteva avere quarantacinque anni, era alto, slanciato; aveva capelli castano chiari su una fronte spaziosa, sopraccigli cespugliosi ma curati sopra due occhi grigio-azzurri penetranti, un naso perfetto, un paio di baffetti alla Clark Gable sulle labbra sottili e leggermente circonflesse. Il suo abbigliamento decisamente non si addiceva al luogo: un elegante completo grigio fumo di Londra, una regimental su una camicia bianca immacolata ed una pochette in tinta con la cravatta che spuntava dal taschino della giacca. Chi era e cosa ci faceva lì una persona del suo ceto? Romeo dovette capire il mio sconcerto e corse ai ripari come poteva:
«Signorino, le presento il dottor Walter Steiner, per il quale ho lavorato prima di venire assunto dal collegio. Il dottore è stato sempre molto generoso con me. Di aggio a Sankt Gallen, è stato così gentile da venirmi a salutare».
Il dottor Steiner mormorò con una voce calda e leggermente gutturale: Grüezi wohl,[14] porgendomi la mano. Ricambiai il saluto e mi allontanai rapidamente, non senza aver notato che la mano che mi aveva teso era ben curata, dalle dita lunghe e affusolate. Non mi sentivo a mio agio in accappatoio, ma soprattutto mi pareva che quegli occhi grigi mi scrutassero come se volessero penetrare nel mio intimo.
Mentre salivo in camera, continuavo a sentirmi stupito della metamorfosi di Romeo e non riuscivo a darmi conto della presenza del suo interlocutore. Era davvero il dottor Steiner, suo precedente datore di lavoro? Il fatto che fosse ato a salutarlo era davvero poco credibile. In camera trovai Augusto che era appena ritornato da una lezione personale d’Inglese con il professor Mills e gli raccontai l’accaduto, aggiungendo:
«Se vai alla finestra, è possibile che tu lo possa scorgere. Qui sotto a l’unica strada per uscire dal Talsteig; il sentiero dell'Ulrichshof è adoperato solo da noi del collegio».
Augusto si mise alla finestra. Poco dopo mi chiamò e mi indicò una figura in cappotto di cammello che stava salendo verso la Höhenweg. Essendo ancora in accappatoio, incitai Augusto a correre giù per controllare se avesse un'auto e, in tal caso, annotarne la targa. Augusto si precipitò, mentre io andai a riferire tutto a Roberto, il quale, senza proferire parola, uscì anche lui di corsa, prendendo il sentiero che dal Talsteig portava all'Ulrichshof. Ritornai in camera e mi rivestii, attendendo con ansia il ritorno dei miei amici. arono circa dieci minuti, durante i quali la mia impazienza crebbe al punto di farmi pensare di andare a cercare i miei amici, quando entrambi rientrarono un po' affannati. Roberto cominciò per primo:
«Quel dottor comesichiama, Stein o Steiner … non si tratta mica male. È andato fino alla Dufourstraße ed è salito su una Mercedes 300SL Ala di Gabbiano, color grigio metallizzato».
A sua volta, Augusto mise sullo scrittoio un foglietto con il numero di targa.
Erano le 15,30 e dovevamo studiare, perché il giorno dopo ci aspettava un'interrogazione di tedesco. Roberto tirò le somme:
«Ora mettiamoci a studiare. Tra un'ora andiamo dal tenente Zimmermann e gli raccontiamo della visita di questo dottore. Quanto volete scommettere che era lui lo svizzero dall'aria distinta che è stato visto al Weisse Schnur con Jamal?» Fummo d'accordo con lui e ci dedicammo al tedesco. Alle 17 entravamo nell’ufficio di Zimmermann per metterlo al corrente delle novità. Il tenente ci ringraziò.
«Ragazzi, siete stati bravi, avete aggiunto un altro tassello alle indagini. Non dimenticate mai, però, che tra le tante persone che avete incontrato o che vi capiterà di notare ce n'è certamente almeno una che non è né buona né brava. Chi uccide, qualunque sia il movente, non può esserlo».
A mo' di ricompensa ci invitò a seguirlo ad un bar lì vicino offrendoci da bere. Poi ci accompagnò in auto fino al collegio, un gesto di cortesia che si stava trasformando in una piacevole abitudine per noi. Mancava poco all'ora di cena, giusto il tempo di assistere al finale di un incontro di ping pong tra Irawan, un indonesiano, e Ludwig, il “campione” della squadra tedesca. Con nostra malcelata soddisfazione, in quanto il nostro “campione” italiano aveva perso contro Ludwig, il terzo set stava volgendo nettamente a favore di Irawan, che poco prima della camla vinse 21 a 15. Durante la cena fui costretto a chiedere il permesso di allontanarmi in anticipo per andare in bagno con urgenza; da lì sarei ritornato in camera. Mentre scendevo al Talsteig lungo il sentiero, mi sentii chiamare. Era Romeo. Mi scusai pregandolo di aspettarmi e di corsa andai a risolvere i miei problemi. Quando ridiscesi, lo trovai in attesa un po’ più in là dell’ingresso della palazzina.
«Tutto bene, signorino?»
«Tutto bene, Romeo. Solo un po' di mal di pancia. Quali novità?» Lui, dopo essersi stropicciato le mani due o tre volte, mi chiese:
«Signorino, che impressione le ha fatto il dottor Steiner? Ha visto che eleganza e che portamento? Sa, ho lavorato come giardiniere e guardiano per due anni nella sua bellissima villa a Rorschach, sul lago di Costanza. Me ne sono andato perché qui il lavoro era più attinente alle mie capacità. Il salario lì era più elevato, ma gli orari non esistevano e non sempre riuscivo a capire il dottore…» Dentro di me mi chiedevo: Dove vuole andare a parare? Perché mi racconta queste cose? Ha paura che io ne parli in giro? Non dissi nulla. Romeo continuò:
«Il dottor Steiner è una persona molto in vista. Se il suo nome venisse associato ad un'indagine di polizia, ne sarebbe molto contrariato. Per questo mi ha chiesto di pregarla di non parlare con nessuno del nostro incontro».
Alla buon’ora, pensai, ecco dove casca l'asino! Perché il caro dottore si preoccupa tanto? Qui, gatta ci cova. Con grande faccia tosta protestai la mia discrezione:
«Romeo, stia tranquillo e dica al dottore che non ne ho fatto parola con nessuno, né ho alcuna intenzione di farne».
La conversazione fu interrotta da Augusto e Roberto, che salutato Romeo, mi ricordarono la necessità di riprendere a studiare. Ci accomiatammo e salimmo nelle nostre camere. Misi al corrente i miei amici della richiesta di Romeo; cominciammo a sospettare sia di lui, sia del dottor Steiner, sia di tutto il personale della fattoria,
anche se non potevamo individuare il loro rapporto con la morte di Jamal. Quella sera non scendemmo alle docce, studiammo fino alle 23. Vedendo le luci accese a quell’ora, arrivò Ulrich per controllare che tutto fosse in ordine; lo rassicurammo mostrandogli l’autorizzazione firmata dal professor Borli. Ci augurò la buonanotte, ed allontanandosi disse:
«Signorini, fate attenzione. Io veglierò sulla vostra sicurezza. Come ho riferito alla polizia, dietro la morte di Jamal c'è qualcosa di brutto che non riesco a capire».
Capitolo 9Una gita al lago
Quella settimana finì con una serie di interrogazioni e di compiti in classe che non ci lasciò molto tempo per le nostre piacevoli escursioni serali alle docce. Il sabato pomeriggio decidemmo di andare al Bodensee,[15] che dista circa 11 km da Sankt Gallen. Roberto riuscì ad avvisare Erika, che informò le altre ragazze; alle 14 ci incontrammo alla fermata degli autobus, non lontana dalla stazione ferroviaria, per prenderne uno che in mezz’ora ci avrebbe depositato nel centro di Rorschach, sulla riva del lago. Discesi dall'autobus, proprio accanto alla fermata trovammo un bar in prossimità del lago che sembrava fatto apposta per noi: piccolo, grazioso e, soprattutto, economico. Ordinammo delle tazze di cioccolata calda con panna e delle Apfelküchlein.[16] In attesa che ce le servissero, Roberto andò nel retro, chiese alla cameriera un elenco telefonico, lo consultò e trovò l’indirizzo del dottor Walter Steiner. Trascrisse tutto su un foglietto e ritornò da noi nello stesso momento in cui arrivavano le ordinazioni. Non avendo molto tempo a disposizione, non volevamo sprecarne una buona parte a cercare un posticino dove appartarci con le nostre amiche; per giunta, ci sentivamo “grandi” e volevamo dimostrare anche a noi stessi di saperci comportare come tali. Perciò pregammo Bruna, che era maggiorenne, di prendere una camera con le sue amiche in una pensioncina non molto distante dal bar, la Alpenruhe, dove le avremmo raggiunte dopo una decina di minuti. Certo, avremmo dovuto sacrificare un po' delle nostre finanze, che non erano molto floride, ma speravamo che ne sarebbe valsa la pena. In effetti, così fu: trascorremmo un pomeriggio mai più dimenticato, anche a distanza di oltre mezzo secolo. Purtroppo, l'autobus per Sankt Gallen sarebbe ato alle 17.10 e non potevamo permetterci di perderlo. A malincuore, uscimmo prima noi ragazzi. Roberto decise che sarebbe andato a dare un’occhiata all’indirizzo del dottor Steiner, mentre noi avremmo aspettato poco lontano dalla pensione le ragazze, con le quali ci saremmo recati alla fermata. A tre minuti dall'orario previsto, Roberto non era ancora ritornato. Ben
conoscendo la precisione elvetica, cominciavamo a preoccuparci, quando scorgemmo Roberto che correva verso di noi a perdifiato. A Sankt Gallen ci separammo con rammarico dalle ragazze, non potevamo tornare insieme in collegio. Una volta soli, Roberto ci riferì l'esito del suo sopraluogo sui dintorni della villa del dottor Steiner. Questa sorgeva non molto distante dalla pensione, nelle vicinanze dell'Arion-Wiese, il parco sul lago. Definirla una villa è dir poco, perché era una splendida costruzione, circondata da un grande parco con piscina che si spingeva fino al lago; nel parco si ergevano anche un altro edificio di dimensioni minori e, leggermente più lontana, la casa del custode. Era evidente che la condizione economica e sociale del dottore era più elevata di quanto avessimo immaginato fino a quel momento. Certamente godeva di amicizie influenti nella comunità cantonale, amicizie che avrebbe potuto adoperare a nostro discapito se si fosse sentito troppo infastidito dalla nostra attenzione.
Stavamo parlando di questo, quando lungo l’ultimo tratto di salita, già quasi all’altezza della Dufourstraße, arrivò alle nostre spalle la vettura del tenente Zimmermann. Tememmo il peggio. Se la polizia ci stava tenendo d'occhio, la nostra scappatella con le inservienti a Rorschach ed i nostri rapporti con loro sarebbero venuti alla luce; ce n'era abbastanza da metterci nei guai con il collegio. Forse al tenente non importava delle nostre avventure galanti, ma non gli sarebbe piaciuto il nostro interesse per la villa del dottor Steiner. L'auto ci affiancò rallentando e il tenente si sporse dal finestrino con aria sorridente.
«Vi ho cercato questo pomeriggio, ma non vi ho trovati. Dove vi siete cacciati?»
Tirammo un sospiro di sollievo, per il momento non eravamo stati scoperti. Gli rispose Roberto:
«Siamo andati fino a Rorschach con il bus, abbiamo eggiato sul lungo lago, abbiamo preso una tazza di cioccolato con delle Apfelküchlein, ed eccoci di
ritorno».
Il sorriso del tenente si spense e la sua voce assunse un tono più formale. «Non sarete andati per caso a disturbare il dottor Steiner? Ditemi che non l’avete fatto. Non sapete di chi si tratta: è un luminare della psichiatria, oltre ad essere un neurochirurgo di fama internazionale che ha dato importanti contributi alla ricerca medica. È proprio lui colui che avete visto a Sankt Gallen, come dimostra il numero di targa dell'auto che mi avete segnalato. Mi risulta che il dottore mantiene degli stretti rapporti con i servizi di informazione nazionali. Il Sicherheit Dienst[17] non scherza e la vostra giovane età non vi metterebbe al riparo dai guai». Leggendo la preoccupazione sui nostri volti, cercò di attenuare la durezza delle sue affermazioni.
«Questo non vuol dire che il dottore sia intoccabile; nessuno lo è nel nostro paese. Vuol dire che non si va a suscitare un vespaio se non ci sono eccellenti ragioni per farlo. Quindi, evitate di ficcarvi a testa bassa in un ginepraio, dal quale farebbe fatica a tirarvi fuori la direzione del collegio, nonostante il suo prestigio».
Fui io che ebbi la prontezza di spirito di dire qualcosa a nostra difesa.
«Tenente, non siamo noi che siamo andati a cercare guai, ma ci siamo trovati catapultati dentro questa storia nostro malgrado. Non parlo solo del rinvenimento del cadavere e del coltello, ma anche del pacco di Romeo e della visita di Steiner. Tutto ciò che abbiamo fatto finora è stato informare la polizia di qualsiasi cosa fosse capitata o avessimo visto. Si può dire che abbiamo eseguito alla lettera la sua raccomandazione di riferirle qualunque cosa avessimo notato». L'arringa fece il suo effetto; più tardi i miei amici mi dissero che ero un attore
nato.
Arrivammo in tempo per la cena, ma nessuno di noi aveva un grande appetito; quella storia cominciava a togliercelo. Il giorno dopo, domenica, pioveva a dirotto. Cosa si poteva fare? Decidemmo che, dopo la messa delle 11 in Duomo ed il pranzo, ci saremo messi in tenuta da pioggia ed avremmo sfidato le intemperie facendo una bella eggiata nel bosco. Questa volta prendemmo la direzione opposta al Weisse Schnur. La stradina portava ad un'ansa del torrente; lì gli alberi si diradavano facendo posto ad un piccolo slargo dove era stata eretta una cappella dedicata a San Colombano. Ci eravamo riparati sotto il tetto per fumare una sigaretta prima di proseguire, quando lo scoppio di uno sparo, seguito da altri quattro in rapida successione, ci fece sobbalzare. Ne fummo terrorizzati; poiché non era la stagione venatoria e il bosco non era un luogo di caccia, capimmo che gli spari erano diretti a noi, gli unici presenti. Il primo pensiero fu che eravamo stati fortunati, perché proprio in quel momento Roberto, che non fumava, si era abbassato per allacciarsi meglio le stringhe, mentre Augusto ed io c’eravamo piegati per accendere le sigarette. Il secondo pensiero fu che dovevamo fuggire via subito, rinunciando a cercare di individuare l'attentatore. Scappammo ciecamente, ciascuno zigzagando nel bosco separatamente; parlandone in seguito, convenimmo che, istintivamente, avevamo fatto la cosa migliore. Il terreno, coperto dagli aghi dei pini, dalle foglie secche e da ramoscelli, era molto scivoloso; un paio di volte ci trovammo distesi per terra, bagnati fino alle ossa e terrorizzati. Di spari non ne sentimmo altri, ma continuammo a correre, graffiati e ansimanti, finché non giungemmo in vista della fattoria. Ritengo che se avessi corso i cento metri con una simile paura, avrei migliorato il record personale. Rincuorati, rallentammo il o; fu allora che sentimmo il rombo del motore di una macchina che si allontanava. Proseguimmo verso il Talsteig e poi ci dirigemmo all’Ulrichshof da frau Reichli, la direttrice di turno, affinché telefonasse immediatamente alla polizia chiedendo del tenente Zimmermann, come se il poveretto dovesse essere costantemente presente. Vedendo il nostro aspetto, lei non perse tempo; dopo una breve attesa, allungò la cornetta a Roberto perché parlasse con il tenente. Roberto gli riferì succintamente l'accaduto; lui non lo lasciò finire:
«Ragazzi, restate dove siete. atemi la direttrice, tra cinque minuti arrivo».
Roberto restituì la cornetta a frau Reichli, che dopo aver scambiato un paio di frasi con il tenente riagganciò e ci invitò a seguirla nel refettorio, dove ci preparò una calda tazza di tè ben zuccherato. Lo stavamo bevendo, quando il tenente arrivò in compagnia di sei agenti; li accompagnammo subito alla cappella, perché stava per scendere l'oscurità, e mostrammo la nostra posizione al momento degli spari. I poliziotti cominciarono ad esaminare i dintorni con l'aiuto delle torce e, servendosi delle nostre indicazioni, videro i fori lasciati dai proiettili. Estrassero tre palle di piombo profondamente conficcate in due travi portanti; le altre due avevano traato delle travi più piccole e si erano perse lì intorno. Due poliziotti, rilevata la posizione dei fori, fecero le loro valutazioni e individuarono la direzione di tiro, che puntava verso una piccola catasta di legna alta e larga circa un metro e mezzo, posta sull'altra riva del torrente ad un centinaio di metri da noi. I poliziotti calzarono degli stivali in gomma a mezza coscia, attraversarono il torrente ed ispezionarono il terreno. Scattarono delle fotografie, rovistarono tra le foglie ed i rami; ci parve che raccogliessero qualcosa. L’oscurità ormai era quasi totale; il tenente sospese le indagini e si avviò verso il collegio, ordinandoci di seguirlo. Eravamo letteralmente zuppi d’acqua, intirizziti e spaventati. Una volta giunti all'Ulrichshof, Zimmermann fece convocare immediatamente il direttore ed il proprietario, che erano stati già informati dell'accaduto da frau Reichli. A loro spiegò che, per la nostra sicurezza, non poteva che portarci con sé alla gendarmeria; il giorno dopo si sarebbe consultato con i suoi superiori per i provvedimenti da prendere. Ci preparammo sotto l'occhio vigile di tre agenti che ci seguirono fin nelle docce; ci rimettemmo in ordine e, tempo mezz’ora, fummo pronti. Poiché si era fatta l’ora della cena, eravamo letteralmente affamati, non saprei spiegare se per reazione alla tensione e alla paura o semplicemente per l’età. Quando ci ripresentammo al tenente, col quale stavamo acquistando una certa familiarità, non facemmo mistero del nostro stato di affamati. Lui sorrise e ci rassicurò:
«Signorini, questa sera cena al ristorante italiano Baratella, offre il Cantone di Sankt Gallen».
Fu una cena memorabile in uno dei più vecchi ristoranti italiani della zona. Il proprietario, Beniamino Marchesoni, era una nostra conoscenza; in particolare, i genitori di Augusto andavano a pranzare da lui ogni volta che venivano a far visita al figlio. Gus, questo era il nome di battesimo del tenente, che ci aveva invitato a mettere da parte le formalità, rimase impressionato da cosa fummo capaci di divorare e bere. Per allentare la tensione con una nota umoristica, ad un certo punto esclamò: «Ragazzi, domani mi volete far licenziare. Il conto che dovrò presentare verrà reputato fasullo dall’ufficio dell’economato cantonale, mi chiederanno se eravamo in dieci!» Dopo cena ci condusse in una pensione adiacente alla gendarmeria, dove si dispose a are la notte con tre agenti sulle poltrone del pianerottolo su cui si aprivano le nostre camere.
La cena pantagruelica seguita al pomeriggio di paura e di tensione ci aveva letteralmente stroncato. Non riuscimmo nemmeno a spogliarci: ci addormentammo vestiti, e solo all'alba ci svestimmo e ci rimettemmo a dormire. Il giorno dopo Gus ci portò in caserma, dove eravamo attesi dal comandante della polizia cantonale, che era stato raggiunto dal dottor Gi, proprietario del collegio, dal professor Rhein e dal console italiano. Noi eravamo frastornati e preoccupati, perché ci pareva che tutti i loro discorsi costituissero una sorta di rituale senza conseguenze concrete, mentre noi avevamo un solo pensiero: qualcuno aveva sparato a noi, proprio a noi, e non si sapeva chi. Finalmente, il comandante di polizia con un ultimo guizzo di retorica approdò alla conclusione che ci riguardava:
«Questi ragazzi, giovani e diligenti, hanno corso un pericolo gravissimo, quasi certamente per aver compiuto il loro dovere, informando la polizia e collaborando ai fini delle indagini. Siamo colpevoli di non aver garantito a sufficienza la loro sicurezza, ma ora reagiremo con tutte le nostre energie, assumendoci la responsabilità della loro protezione. L’autore o gli autori di questo indegno attentato a ragazzi di sedici anni, saranno braccati senza tregua; tutto il personale della polizia criminale ha ricevuto istruzioni in merito. Ragazzi, ora ci sarà un servizio di protezione a vegliare direttamente su di voi; abbiate pazienza e dormite sonni tranquilli».
Pensai che il comandante di polizia era senz'altro carico di buone intenzioni; ma come le avrebbe conciliate con i privilegi di personaggi come il dottor Steiner? Fin dove si sarebbe potuto spingere? Tutti i salmi finiscono in gloria ed anche quello finì con un invito alle 17 al Café Seger, con caffè e pasticcini ed alle 19 al ristorante del Metropol. Alla fine della giornata venimmo scortati alla pensione, dove avremmo trascorso anche i giorni successivi, piantonati da una squadra di gendarmi. Non sapevamo cosa fare, così chiedemmo a Gus il permesso di ritornare in collegio e prendere i nostri libri e quaderni, per potere almeno studiare. Ci fu accordata l'autorizzazione, ed inoltre fu concordato con la direzione del collegio che a turno uno dei nostri compagni ci fe visita per darci le informazioni necessarie per mantenerci al o con lo svolgimento delle lezioni. Non potevamo certo lagnarci delle attenzioni che stavamo ricevendo, qualunque richiesta veniva immediatamente soddisfatta; ma dopo un paio di giorni ne avevamo abbastanza della nostra prigione dorata. Avremmo voluto tornare in collegio alle nostre attività quotidiane e, soprattutto, ai nostri incontri serali. Gus non ce lo consentì, né riuscimmo a tirargli di bocca qualche notizia sul corso delle indagini sull'attentatore. Dopo cinque giorni, era venerdì, ci riportarono in collegio, comunicandoci semplicemente che l’attentatore materiale era stato identificato e non era in condizione di nuocere; non riuscimmo a sapere altro, nonostante l'insistenza. Gus, stringendosi nelle spalle, fu laconico:
«Ragazzi, mi piacerebbe dirvi di più, ma non posso. Però sappiate che sono
personalmente impegnato nella vostra protezione».
Il professor Borli ci colmò di attenzioni, ci diede il permesso di fare la doccia e di tenere accesa la luce tutta la notte. Alle docce trovammo le ragazze, che avevano saputo dell'accaduto e non vedevano l'ora di consolarci della nostra disavventura. Ci riuscirono solo in parte, perché dovemmo constatare che la tensione degli ultimi giorni si era accumulata e non ci consentiva di godere spensieratamente della loro compagnia come in precedenza. Gabriella si dimostrò molto affettuosa, più del solito, ma bastò un suo accenno agli avvenimenti, seguito da un discorso poco chiaro, durante il quale fui colpito da un vocabolo adoperato da lei a proposito di un particolare, per smorzare i miei ardori e farmi sentire angosciato.
Capitolo 10Un’altra vittima
Il giorno del rientro in classe ci vide alle prese con due ore di Italiano, in comune con i ragazzi del liceo, un’ora di Geografia e una di Chimica. Il Borli fu veramente comprensivo in entrambe le sue materie, Geografia e Chimica: non solo non ci interrogò, ma in Chimica fece il rio di un argomento un po’ difficile, che aveva spiegato nella lezione precedente. Ormai eravamo ritornati alla monotonia abituale, rotta soltanto della curiosità dei compagni, che volevano sapere dalle nostre labbra cosa era successo e come ci sentivamo. Nella tranquilla Svizzera gli avvenimenti dei giorni precedenti avevano fatto scalpore e stavano creando qualche problema al collegio. Il dottor Gi era assediato dai genitori, da agenti della sicurezza cantonale e di quella nazionale. Alcuni genitori erano venuti di persona per chiedere assicurazioni in merito alla sicurezza dei propri figli. Eravamo appena andati in camera, quando ricevemmo la visita inaspettata del tenente, il quale un po’ imbarazzato ci disse:
«Ragazzi, siate pazienti, preparate la valigia con l'occorrente per una decina di giorni. Ho l’obbligo di condurvi in un luogo sicuro, vi darò dei chiarimenti una volta in macchina. Vi aspetto davanti all'Ulrichshof».
Dopo cinque minuti ci vennero consegnate le valigie dall'ufficio dell'amministrazione; noi avevamo già messo sul letto ciò che dovevamo portare con noi e alle 14,30 eravamo davanti al tenente pronti per la partenza. Stavamo salendo in macchina, quando mi ricordai di aver dimenticato un libro; chiesi licenza e corsi verso il Talsteig. Ero quasi arrivato all'edificio, quando scorsi più in basso, sulla porta della fattoria, Romeo, che agitatissimo si sbracciava discutendo con qualcuno che non vedevo, perché coperto alla mia visuale dalla siepe laterale; mi fermai di colpo e mi buttai a terra dietro la siepe, per guardare senza essere visto. Proprio in quel momento echeggiarono due detonazioni in
rapida successione e Romeo cadde riverso al suolo. Rimasi fermo dov’ero, senza la nozione del tempo, finché Gus ed altri due gendarmi, sollevandomi, mi scossero dal torpore. Mi chiesero preoccupati se stessi bene; un po’ stordito, li rassicurai e indicai loro che avevo udito gli scoppi provenire dalla siepe sulla nostra destra, all’altezza di Romeo. Arrivarono i rinforzi della polizia e un’autoambulanza, che caricò e portò via a sirene spiegate l'italiano, le cui condizioni apparivano molto gravi. Le due ferite, all'altezza del cuore e del fegato, lasciavano poche speranze. Mentre la polizia cominciava a setacciare i dintorni della fattoria e il bosco, Augusto e Roberto ed io sentimmo un rombo di motore che proveniva dalle spalle del bosco. Quel rombo, Roberto, fanatico di motori, ed Augusto l’avevano già sentito; non volevano are per mitomani, ma erano sicuri che fosse il medesimo. Gus, che si era allontanato, arrivò che stavamo letteralmente esplodendo perché nessuno voleva darci ascolto. Gli dicemmo dell'auto, suggerendogli di mettere immediatamente un posto di blocco sulla Rorschachstraße appena fuori Sankt Gallen, perché era lì che si immetteva la stradina del Weisse Schnur. Il tenente si mosse subito, ed avvisò anche la gendarmeria di Rorschach di controllare se all’indirizzo del dottor Steiner sarebbe rientrata nell'ora successiva la sua Mercedes. Io ed i miei amici temevamo che non arrivassero in tempo all’imbocco della stradina e che l'impegno profuso poi a Rorschach dalla polizia locale sarebbe stato molto scarso, considerato il rispetto di cui godeva il dottore.
Calava la sera e cominciava a piovere, quando Gus riapparve e ci ordinò finalmente di salire in macchina. Intirizziti e storditi da tutto quel carosello di eventi, una volta che la macchina si avviò lungo la breve discesa della Nußbaumstraße per immettersi sulla Dufourstraße, cominciammo a rilassarci. Quando gli chiedemmo dove ci stesse portando, il tenente rispose:
«Andiamo in un posto che certamente vi piacerà. Ora lasciatemi sentire come stanno procedendo le operazioni».
Quindi prese ad armeggiare con la radio, ascoltando i resoconti delle pattuglie e discutendo con loro gli spostamenti ed i controlli da effettuare. Ci disse che non
si era vista nessuna Mercedes 300SL al bivio della stradina del Weisse Schnur e che a Rorschach il guardiano-giardiniere del dottor Steiner aveva riferito che il dottore era stato accompagnato dall’autista verso le 9 all’aeroporto di Zurigo, dove avrebbe preso un volo, non sapeva per quale destinazione. La polizia stava cercando conferme all'aeroporto. Gus riprese ad ascoltare la radio, che ad un certo punto gracchiò qualcosa che non afferrammo. Il tenente impartì un ordine secco all'autista, che accese la sirena e fece una brusca inversione di marcia, dirigendosi a tutta velocità verso la zona ospedaliera. In pochissimo tempo arrivammo al Kantonsspital. Il tenente scese in fretta e mi chiese di accompagnarlo; correndo ci recammo all’entrata e di lì un infermiere ci accompagnò alle sale operatorie che erano allora collocate alla destra dell’ingresso. Mi fecero entrare nella camera post operatoria, dove era ricoverato Romeo, che aveva espressamente chiesto di parlare solo con me, anche se non sapeva se sarebbe sopravvissuto fino al mio arrivo. Sentii come una stretta al cuore davanti al suo viso esangue; non sapendo come rivolgermi a lui mi venne istintivo prendere la mano di quell'uomo, che per me restava l'uomo buono e tranquillo che avevo conosciuto, e stringerla per manifestargli affetto e solidarietà. Lui aprì gli occhi, mi riconobbe, tentò un sorriso e mi chiese con voce flebile di avvicinarmi.
«Signorino, non me ne voglia, non avrei mai voluto che le cose andassero in questo modo…»
«Romeo, cerchi di rimettersi, abbiamo bisogno di lei su al collegio. In questo momento deve solo badare alla sua salute. Mi dica se c'è qualcosa, qualunque cosa, che posso fare per aiutarla».
Mi strinse la mano e continuò:
«Mi scusi anche con gli altri. Prima di morire vorrei che lei sapesse che…»
Diede un colpo di tosse, fece una pausa e riprese:
«Jamal conosceva il dottor Steiner dai tempi dell’Algeria. Quando ero al servizio del dottore… (altra pausa) svolgevo una mansione molto delicata: dovevo organizzare i suoi incontri con delle persone di un gruppo del quale era entrato a far parte Jamal, che abitava nella villa. Me ne andai proprio per questo. Mi creda, la prego; sono un uomo normale, non sopportavo la mescolanza di uomini e donne senza distinzione, e non sono un sadico come…». La voce si affievolì e si spense. Chiamai il dottore, che mi pregò di uscire mentre gli praticava un’iniezione. Aspettammo circa cinque minuti, poi il dottore uscì e ci comunicò che Romeo era mancato. Piansi come un bambino. Quelle ultime parole, che suonavano come un tentativo disperato di alleggerire la coscienza da qualcosa che poteva aver fatto, visto o sentito, mi avevano profondamente commosso. Povero Romeo, chissà cosa voleva dirmi! E perché scegliere di confidarsi proprio con me? Gus mi strinse la spalla per farmi coraggio, rinunciando al momento a pormi domande sulle parole di Romeo. Apprezzai moltissimo la sua comprensione e la sua umanità. Risaliti sull’auto, anche gli altri rimasero in silenzio in attesa che io dicessi qualcosa. Scoppiai di nuovo a piangere a dirotto. Avevo davanti agli occhi il viso esangue di Romeo, la sua flebile voce e la sua mano nella mia; sentivo ancora la sua fiduciosa speranza che confidarmi il suo segreto avrebbe operato il miracolo di sgravarlo del peso che portava nella coscienza. Arrivammo al Lago di Costanza e dopo poco ci trovammo ad un bivio a 3 km dal confine con l’Austria; qui l’autista imboccò una strada secondaria sulla sinistra per Staad, un villaggio a pochi chilometri da Rorschach. Ancora poche centinaia di metri ed arrivammo, con nostra sorpresa, ad un piccolo e grazioso castello. Il portone fu aperto da un inserviente, che scaricò le nostre valigie e le portò al terzo ed ultimo piano. Lo seguimmo attraverso lo spazioso atrio e poi su per le scale, che dal secondo al terzo piano erano in legno e cigolavano sotto i nostri i. Ci trovammo ognuno nella propria camera; erano tutte spaziose, con vista sul lago e sul parco, da ammirare nonostante fosse ormai buio. Sistemai i miei vestiti e gli oggetti personali, mi lavai il viso e scesi con gli altri al pianterreno. Gus aveva fatto preparare un pasto che ci tirò su il morale, reso più gradevole da due bottiglie di Blauburgunder che non erano per niente male.
Alla fine della cena, capii che tutti stavano aspettando che parlassi del colloquio con Romeo. Gus si alzò e si diresse con il suo o dinoccolato verso un salottino con un camino, invitandoci a seguirlo. Le fiamme ardevano lanciando le loro sfavillanti lingue di fuoco che sembrava giocassero, susseguendosi e rincorrendosi. Gus andò a prendere quattro balloon, versò un armagnac invecchiato e permise ad Augusto ed a me di fumare una sigaretta. Dopo un piccolo brindisi, trovai la forza di raccontare cosa avevo sentito da Romeo. Prima riportai fedelmente le sue parole; poi cercai di comunicare quello che la mia sensibilità mi aveva suggerito. Il tenente manifestò apertamente la sua approvazione:
«Bravo, Riccardo! Capisco lo sforzo che hai dovuto fare per evitare di mescolare nella tua relazione i fatti alle impressioni. Questa chiarezza rende molto più agevole il mio lavoro».
La giornata era arrivata al termine e ne ero proprio sollevato: non ne potevo più, le emozioni erano state troppe. Assistere inopinatamente al ferimento di Romeo e vederlo più tardi spirare, tentando di comunicarmi qualcosa d’importante senza riuscirvi, era stato più di quanto riuscissi a sopportare. Mi scusai e salii in camera, mi spogliai, feci una doccia scozzese e mi coricai. Precipitai in un dormiveglia affollato da una ridda di pensieri, da immagini, le più disparate, che poco avevano a che fare tra loro. Mi sembrava di vedere in un caleidoscopio la bocca ed i seni di Gabriella, che scomparivano nascosti dal viso esangue di Romeo, a sua volta coperto dai tratti del dottor Steiner, al quale succedevano le sue mani ben curate, che si dissolvevano accarezzando il pube di Gabriella. Mi sembrava di impazzire per quelle visioni in cui si mescolavano l’erotismo e la morte. Mi riscossi per riemergere alla realtà, mi alzai e spalancai la finestra, per vedere se un po’ d’aria mi avrebbe rinfrescato e disteso. Prima di salire mi era stata consegnata una bottiglia d’acqua; la cercai e ne trangugiai una lunga sorsata. Alla fine, esausto, riuscii ad addormentarmi. Quando mi svegliai, entrava un pallido sole dalla finestra, che avevo dimenticato leggermente aperta. Guardai l’ora e sobbalzai, erano quasi le 11. Non ricordavo
di aver mai dormito tanto, ma non avevo nemmeno mai vissuto frangenti come quelli delle ultime settimane. Mi alzai per chiudere la finestra ed ebbi una visione mozzafiato del parco del castello che scendeva fino al lago, ancora vestito degli ultimi colori dell’autunno avanzato. Alcune piante erano già spoglie, ma il verde degli abeti, il rosso dei larici ed il giallo delle betulle si stagliavano contro il blu del lago; solo la ferrovia, come una profonda ferita, tagliava un pezzo del parco verso il lago.
Mi preparai e scesi nell'atrio, dove trovai i miei due amici, che mi salutarono in tono scherzoso:
«Buongiorno e ben alzato! È l’appetito che ti ha destato?»
Nell’aria aleggiava un profumo di cipolla soffritta che stuzzicava veramente l’appetito, tanto più che era quasi mezzogiorno. Chiesi il permesso di andare nel parco a sgranchirmi le gambe; uscendo, osservai che l’autista di Gus mi seguiva. Feci una breve corsa, quindi uno scatto, per poi continuare con una corsa leggera lungo il viale che conduceva al lago. Il tutto durò dieci minuti, ma rientrai accaldato e più sereno. Andammo a tavola e facemmo conoscenza della cuoca, Pina, originaria di un paesino della Campania in provincia di Salerno; una signora grassottella e paciona sui quarant’anni, con due occhi vispi e acuti e una faccia buona. Portava una zuppiera traboccante di spaghetti alla pommarola e basilico che erano una delizia, tanto che non ne lasciammo d'avanzo; anzi, Roberto fece la scarpetta direttamente nella zuppiera. Nel pomeriggio facemmo una bella eggiata sul lago e poi rientrammo, perché, come spesso accadeva, il tempo in prossimità del lago era balzano: dal freddo al caldo, dal sole alla pioggia senza preavviso. Ci mettemmo comodi nel salottino del camino, quando ricomparve Gus, che si era assentato appena alzati da tavola. Con un’espressione sul viso che non lasciava presagire nulla di buono, si lasciò cadere su una povera vetusta poltrona
e dopo essersi fatto portare un caffè si lasciò sfuggire il motivo del suo disappunto. Il dottor Steiner era davvero partito per partecipare ad un congresso a Miami e non sarebbe tornato prima della fine della settimana successiva; inoltre, i controlli eseguiti all'aeroporto di Zurigo confermavano le dichiarazioni del suo autista: il dottore aveva effettuato il check-in un paio d'ore prima dell'omicidio.
«In conclusione, Steiner non poteva trovarsi all’ora dei fatti a Sankt Gallen. Questo fa ripartire le indagini dall'inizio, con il rischio di aver perso del tempo prezioso».
Avevo una domanda sulla punta della lingua, e gliela feci, approfittando della sua propensione a parlare con noi.
«Gus, quando ci hai riportato in collegio lo scorso venerdì, hai detto che il nostro attentatore non sarebbe stato più in grado di nuocere. Questo ci ha fatto supporre che fosse stato arrestato, o perlomeno individuato. Da quello che ci stai dicendo, si deduce che non sia stato così, e questo spiegherebbe anche perché siamo stati alloggiati qui. Perché non ci è stato detto chiaramente come stavano le cose?»
Il tenente tirò un sospiro e ordinò un altro caffè. Quindi rispose, soppesando le parole:
«Le autorità cantonali ci hanno sottolineato la necessità di evitare che si diffondano eccessivi timori tra i ragazzi e, soprattutto, tra i loro genitori. Il vostro ritorno al collegio avrebbe costituito un segnale di ripristino della normalità».
Il significato della sua dichiarazione si fece strada pian piano nelle nostre menti giovanili e ingenue. Non era vero che l'attentatore era stato reso inoffensivo. Il pericolo, allora, c'era, eccome! E piuttosto che preoccuparsi sul serio per la nostra sicurezza, al cantone stava a cuore innanzitutto salvaguardare i buoni affari del collegio!
Il nostro sconcerto fu tanto lapidariamente quanto coloritamente espresso da Roberto: «Li mortacci tua e de tu madre, bei fiji de ’na grandissima mignotta. Anvedi questi!» Gus rimase perplesso e ci guardò con aria interrogativa; noi fingemmo di non aver inteso la sua richiesta, non per buona educazione, ma perché non ci pareva che meritasse la nostra fiducia.
Capitolo 11Alcune considerazioni
Il lunedì ò tranquillamente e noi cominciavamo a ripigliare fiato e rientrare nella normalità, sebbene ci mancassero un po’ il collegio, gli altri compagni e, soprattutto, le docce. Gus, dopo cena, seduto con noi davanti al camino, ci chiese a bruciapelo tra un tiro e l’altro della sigaretta:
«Ragazzi, come vanno le vostre avventure con le cameriere?»
Non potevamo eludere più di tanto una domanda così diretta: era evidente che era al corrente della nostra storia con le ragazze, restava solo da chiedersi come l’avesse scoperta. Mi venne in mente la nostra visita a quella pensione a Rorschach, dove certamente il nome di Bruna era stato registrato. Di lì, raccogliere qualche testimonianza sulla nostra presenza, risalire ai nostri spostamenti e trarre delle conclusioni non doveva essere stato difficile. Roberto, incassato il colpo, riuscì a mostrarsi disinvolto, e perfino a sorridere:
«Gus, visto che conosci la nostra marachella ma non hai ritenuto necessario renderla pubblica, questi ragazzacci potrebbero chiederti di rimanere altrettanto discreti? Se la cosa venisse risaputa, noi verremmo espulsi e le ragazze sarebbero licenziate in tronco. Proprio non ce la sentiamo di esporle ad un simile rischio: sono qui per mantenere le proprie famiglie, non per studiare e divertirsi a spese dei genitori come noi. E se ogni tanto si concedono anche loro qualche libertà, non è sicuramente un crimine. Pensi di poter evitare, soprattutto a loro, di ritrovarsi nei pasticci?»
Gus ci gratificò di una bella risata in faccia:
«Penso che la polizia non dirà proprio niente, anche perché le vostre fanciulle non hanno nessun ruolo in questa storia. Sì, tutte conoscevano Jamal ed hanno avuto dei contatti con lui, ma non c’è niente finora che le colleghi al suo omicidio. Quanto a voi, le vostre ammissioni, anche se non spontanee, tutto sommato depongono bene. Il rapporto è nel cassetto della mia scrivania e… vi rimarrà».
Tirammo un grande sospiro di sollievo e chiedemmo se potevamo fare un brindisi con l’armagnac della sera precedente. Gus acconsentì bonario, commentando:
«Se i nostri rispettivi superiori assistessero alla nostra conversazione e al brindisi, domani mattina voi ritornereste in Italia ed io andrei a dirigere il traffico».
Si alzò e tornò con la bottiglia di armagnac e quattro balloon su un vassoio. La notte e le giornate successive trascorsero nella monotonia totale. Gus aveva affidato la nostra sicurezza ad alcuni gendarmi molto discreti, dei quali sarebbe stato difficile sospettare la presenza; veniva a farci visita la sera per alleviare il nostro isolamento. Il mercoledì ci portò l’elenco degli argomenti da studiare, insieme con i saluti dei nostri compagni e dei professori; trascorremmo a studiare i due giorni successivi, alla fine dei quali chiedemmo al tenente per quanto avremmo dovuto restare lì e come mai non c’erano sviluppi nelle indagini. La risposta non fu incoraggiante:
«Ragazzi, la polizia deve rispettare le leggi: per procedere nei confronti di qualche persona sospetta occorre raccogliere delle prove convincenti, non bastano degli indizi vaghi. Domani ritornerà dal suo viaggio il dottor Steiner. Non possiamo sottoporlo ad un interrogatorio formale, contestandogli fatti specifici, ma siamo autorizzati ad ascoltare le sue dichiarazioni sui rapporti con il personale del collegio. L’auto è solo un indizio da considerare con prudenza, perché di Mercedes 300SL come quella del dottore Steiner nel nostro cantone ce ne sono quattro. Ne abbiamo identificato i proprietari, e uno di loro ci ha detto spontaneamente che a quell’ora si trovava proprio nel bosco vicino al Weisse Schnur. Si tratta di un cacciatore che frequenta la zona e che voleva verificare in prossimità dell’apertura della stagione venatoria la presenza di un daino che aveva già avvistato. Quel giorno aveva preso la Mercedes, invece della Land Rover che usa abitualmente per la caccia, perché la Land l’aveva sua moglie. Stava guardando con il binocolo in direzione del lago, dove gli era capitato di vedere il daino, quando udì i due spari. Il daino si dileguò, lui pensò che fosse opera di un bracconiere e, arrabbiato, risalì in auto per andare a sporgere denuncia. Infatti, la denuncia risulta registrata secondo la sua dichiarazione».
Mi venne un’osservazione.
«A casa mia sono cacciatori, e i bossoli dei fucili a palla vengono recuperati per ricaricarli con lo stesso tipo di polvere e di palla in modo di avere, così dicono, una maggiore garanzia di precisione una volta tarato l’angolo di tiro del particolare fucile su quel tipo di cartuccia. Se quel signore è un cacciatore, farà lo stesso, e i bossoli che avete trovato nella foresta quando ci hanno sparato potrebbero dare qualche indicazione sul suo coinvolgimento».
«Bravo, vedo che sei informato sui cacciatori e i fucili! Avremmo voluto controllare, ma non abbiamo trovato i bossoli del vostro attentato, possiamo contare solo sulle palle recuperate dalle travi della cappelletta. Il nostro cacciatore, il dottor Jürgen Riegling, possiede tre fucili di calibro diverso, ma non ha in dotazione un fucile militare. Come forse sapete, ogni cittadino svizzero idoneo è soggetto ogni anno ad una ferma che va dai tre giorni alle due settimane
ed ha in casa l’equipaggiamento completo e le armi di fanteria, sottoposte ad ispezioni periodiche. Ebbene, noi riteniamo che il fucile adoperato contro di voi sia un Stgw 57[18] in dotazione all’esercito svizzero».
A quell’età, la mia attenzione era stata attirata dalle armi, alle quali mi interessavo come molti dei miei coetanei facevano con le squadre di calcio. Perciò colsi al volo l’occasione di poter impressionare i presenti sciorinando le mie conoscenze in materia.
«Caspita, lo Stgw 57 è uno dei fucili più precisi del mondo, usato anche per le gare di tiro. Con quello si può colpire un bersaglio di 5 cm di diametro a 300 m di distanza, disponendo di ben venti colpi». Notai con soddisfazione che il tenente era rimasto sorpreso dal mio intervento; ma non altrettanto lo erano stati Roberto e Augusto, che riportarono il discorso sul piano pragmatico:
«Bene, tutto ciò è interessante; ma sarà sufficiente ad arrivare a chi ha sparato o dobbiamo sperare che la prossima volta ci manchi di nuovo?»
Il tenente si fece serio; poi abbassò la voce fino ad un sussurro:
«Una possibilità c’è. Forse. Abbiamo sollecitato un’ispezione militare nel Cantone di Sankt Gallen, che dovrebbe partire lunedì. Ogni cittadino deve rendere conto delle munizioni ricevute in consegna e deve giustificarne l’eventuale diminuzione. Potrebbe saltar fuori qualche cosa. Di più non posso dirvi».
Quella sera Pina ci aveva preparato un minestrone da leccarsi le dita e delle omelette alla gruviera con le immancabili patate; per finire, una eccezionale pastafrolla con marmellata di pesche. Ci alzammo da tavola con fatica, rappacificati con il mondo. Gus, prevenendo la nostra richiesta, si dileguò per riapparire con l’ormai rituale vassoio con i balloon e la bottiglia di armagnac quasi vuota, affiancata da una consorella ancora da stappare.
Una volta seduti davanti al caminetto e dopo aver accennato un brindisi, tirai fuori il pensiero che mi aveva assillato durante la cena:
«Gus, speriamo che l’ispezione dia dei frutti; ma se i bossoli quel figlio di buona donna del tiratore li ha davvero portati via con sé, non se ne caverà nulla. Giusto?»
Per un momento pensammo che il tenente stesse soffocando, tanto gli era andato di traverso l’armagnac. Come riuscì a riprendere fiato, provò a rassicurarci:
«Dannazione, certamente il rischio di fare un buco nell’acqua c’è, ma i bossoli usati più volte si riconoscono. Per di più, è una pratica diffusa soprattutto tra quelli che fanno gare di tiro, che sono tutti iscritti a qualche circolo sportivo. È soprattutto in quell’ambiente che stiamo indagando».
La sua spiegazione servì a sollevarci il morale e ci indusse ad un altro brindisi, dopo il quale, seguendo il filo dei miei pensieri gli rivolsi la domanda che più ci stava a cuore, pur dubitando che non avrei ricevuto una risposta esauriente.
«Perché cercare di eliminare proprio noi? Cosa abbiamo fatto o cosa abbiamo visto che può indurre qualcuno a volerci morti?» Il tenente prese un’espressione molto seria. «Questo è il punto che ci rende perplessi. I colpi sono stati esplosi da una distanza tale che l’attentatore non avrebbe potuto mancarvi, a meno di un brusco movimento imprevedibile. Sono stati esplosi solo cinque colpi, mentre il fucile che riteniamo sia stato imbracciato ne ha a disposizione venti. Perché non ha sparato ancora, fino a vuotare il caricatore, se davvero voleva uccidervi? Siamo sempre più convinti che si sia trattato di un atto intimidatorio».
Rimanemmo pensosi per qualche minuto, poi Roberto ripeté la sua osservazione precedente:
«Non riesco a capire cosa abbiamo visto o sentito che ci abbia reso così pericolosi. Ragazzi, aiutatemi a ripercorrere i fatti e vediamo se ci è sfuggito qualche particolare che possa illuminarci». Augusto, il più paziente e meticoloso di noi, cominciò a ricapitolare la sequenza degli eventi, come se stesse pensando ad alta voce:
«Torniamo da una eggiata dopo cena e ci troviamo davanti Jamal, ammazzato; il mattino successivo chiamiamo la polizia perché abbiamo rinvenuto l’arma del delitto. Riccardo incontra alle docce il dottor Steiner a colloquio con Romeo, il quale in seguito ci offre delle spiegazioni sui suoi rapporti con Jamal e con il dottore, ma non ci dice proprio tutto. Andiamo a fare una eggiata nel bosco e ci sparano addosso, senza che ne riusciamo a capire la ragione; non ci colpiscono, forse di proposito. Riccardo assiste al tentato omicidio di Romeo, ma non vede il suo assalitore. Romeo, in punto di morte, riesce soltanto a farci sapere che esisteva un legame tra il dottor Steiner e Jamal ma non è in grado di completare il suo racconto. Il dottor Steiner, comunque, non può aver partecipato direttamente all’attentato a Romeo, in quanto si trovava in quel momento all’aeroporto di Kloten. Spunta nelle indagini Herr Riegling,
presente nella zona e proprietario di una Mercedes dello stesso tipo di quella del dottor Steiner, sulla quale si allontana dopo gli spari a Romeo. È armato di fucile, ma si può escludere che i colpi diretti contro di noi provenissero da una delle sue armi, perché sono stati sparati da un fucile militare. Quanto all’arma usata contro Romeo, si tratta di una pistola, sulla quale non abbiamo indicazioni. Da tutto ciò mi pare difficile dedurre i motivi per i quali siamo dei testimoni pericolosi».
Seguì ancora un silenzio, poi anche io parlai dando voce ai miei pensieri.
«Non facciamo altro che escludere, ma qualcuno che gira nella fattoria deve pur saperne qualcosa! E il dottor Steiner, anche se non ha premuto lui il grilletto, forse potrebbe aver avuto un ruolo nella faccenda!».
Il tenente si alzò. «Ragazzi, il dottore arriverà domani mattina a Kloten da Miami alle 7,20 e io andrò a raccogliere le sue dichiarazioni. Ora andiamo a dormire, perché dovrò partire alle 6. Buona notte e a domani, sperando in qualche buona novità».
Capitolo 12 Il dottor Walter Steiner
Quella mattina il dottor Steiner era arrivato con una decina di minuti di anticipo all’aeroporto di Kloten. Il viaggio nella prima classe della Swissair era stato piacevole; gli aveva anche permesso di dormire comodamente e di radersi e cambiarsi prima dell’arrivo.
ò il controllo aporti e gli fu consegnato rapidamente il bagaglio; erano le 7,40 quando, fresco e sorridente, fece capolino nell’area degli arrivi, dove c’era il suo autista ad attenderlo. Il suo sorriso non durò molto, perché il tenente Zimmermann gli si avvicinò e molto gentilmente gli chiese di seguirlo. Guardandolo meravigliato, il dottore gli chiese a cosa dovesse quell’incontro. La risposta lo fece trasalire:
«Dottore, anche se me ne rincresce devo porle alcune domande su delle persone decedute negli ultimi giorni con le quali, secondo le informazioni in nostro possesso, lei ha intrattenuto dei rapporti».
Il tenente guidò verso un ufficio della polizia aeroportuale il dottore, che sembrava completamente a suo agio. Appena si furono seduti, fu proprio Steiner ad esordire.
«Tenente, ritengo che vogliate sapere cosa mi legava a Jamal e a Romeo, della cui morte ho appreso la scorsa settimana. Me l’ha comunicata Giovanni, il mio custode e giardiniere. Povero Romeo, era un bravissimo uomo, come ce n’erano un tempo, serio, scrupoloso e timorato di Dio. Veniamo ai fatti. Ho conosciuto
Jamal nel gennaio del 1955, all’ospedale di Algeri dove facevo tirocinio. Era stato portato via elicottero, più morto che vivo; aveva una ferita da arma da taglio sul viso che si estendeva fino al collo e per poco non gli aveva reciso i tendini, ed un’altra ben più grave all’inguine. Intervenimmo immediatamente per evitare il peggio. Durante l’operazione, un infermiere, del quale, come scopersi solo prima del mio ritorno in Svizzera, Jamal aveva violentato la sorella, simulò uno svenimento; nel cadere spinse bruscamente la mano che impugnava il bisturi, provocando un danno irreparabile. Fummo obbligati ad asportare l’apparato genitale esterno ed a compiere un lungo intervento sulla coscia destra. In parole povere, Jamal era stato evirato. La sua degenza durò quasi due mesi, durante i quali facemmo conoscenza e si instaurò un rapporto di confidenza. Non ho difficoltà ad ammettere che nutro interesse sia per le donne che per gli uomini. Perciò mi sentii attratto da quell’uomo, che possedeva una durezza adamantina e una vitalità animalesca. Essendo specializzato in psichiatria, cercai di aiutarlo ad accettare il suo stato ed a ritrovare un equilibrio che gli consentisse di affrontare la vita. Non fu facile, ma alla fine mi parve di essere riuscito nel mio intento. Ci separammo; lui ritornò al suo reparto e si fece sentire solo una volta, due mesi dopo, con una telefonata da Babouch, un villaggio in Tunisia. Gli avevo lasciato il mio recapito in Svizzera, ma non seppi nulla di lui per diversi anni. Poi, quasi due anni e mezzo fa comparve a Rorschach. Intanto la mia vita era cambiata, grazie al successo professionale e grazie anche al patrimonio ereditato da uno zio paterno. Così, quando una sera ricevetti la sua telefonata, fui sinceramente lieto di risentirlo e lo invitai a raggiungermi nella mia villa, dove arrivò un’ora dopo. Era leggermente invecchiato e alquanto male in arnese; inoltre, aveva perso un po’ della sua spavalderia e pareva aver bisogno di un sostegno psicologico. Quel giorno riallacciammo i nostri rapporti ed io gli offrii un lavoro come custode e collaboratore di Romeo. Riprendemmo le nostre pratiche di natura sessuale, che avevano una funzione terapeutica, ospitando giovani ragazze con le quali aveva fatto conoscenza e che con il mio consenso portava alla villa. Purtroppo la perdita della virilità aveva generato in lui la tendenza ad assumere atteggiamenti aggressivi, a compiere gesti sadici. Diverse volte dovetti intervenire per frenare il suo impeto violento, che si esprimeva, per esempio, con morsi e penetrazioni della mano».
«Come mai non è stata mai sporta denuncia da parte di alcuna di queste ragazze?»
«In diversi casi ho dovuto ricompensare le ragazze con somme sufficienti a calmare il loro risentimento. Il mio rapporto con Jamal era piuttosto complesso. Per quell’uomo non provavo soltanto un trasporto affettivo; rappresentava per me anche un caso clinico che mi interessava molto. Inoltre, non potevo liberarmi del tutto da una specie di rimorso al ricordo di quello che era successo all’ospedale, anche se sapevo di non essere colpevole dell’accaduto. E, per finire, non riuscivo a sottrarmi all’ammirazione che suscitava in me il suo coraggio di affrontare la vita con una specie di forza primitiva estranea al mio ambiente ed alla mia formazione. Nessuno aveva mai raccontato a Jamal cosa era successo durante l’operazione; ma una sera, mentre eravamo in intimità, mi sfuggì qualche accenno sull’accaduto e le sue insistenze mi indussero a dirgli la verità. La sua reazione mi spaventò. Il mattino dopo si presentò a me, mi ringraziò per quanto avevo fatto per lui e mi disse che voleva cambiare aria e riflettere un po’ per prendere delle decisioni sul suo futuro. Tutto ciò avveniva esattamente quattro mesi or sono.
Una sera, circa due mesi e mezzo fa, venne a casa mia e mi disse che Romeo gli aveva trovato un lavoro al Rosenberg e che il giorno dopo avrebbe preso servizio. Cenammo insieme e trascorremmo alcune ore in intimità. Da allora non l’ho più visto».
Il tenente digerì il racconto con un po’ di fatica. Non avrebbe mai sospettato che un cittadino elvetico così rispettabile come il dottor Steiner, colto, raffinato, elegante e con una invidiabile posizione sociale avesse delle inclinazioni tanto singolari. Si riprese e chiese:
«Dottore, cosa mi può dire a proposito di Romeo?»
Un velo di tristezza ò negli occhi di Steiner.
«Romeo entrò in casa mia circa cinque anni fa, raccomandato da un mio amico italiano. Come ho avuto occasione di dirle, era un uomo tutto di un pezzo, buono e gentile. Era un amante del verde, cercava di apprendere e migliorare le tecniche per praticare gli innesti sulle piante ornamentali, si dedicava al giardino con ione e capacità. Aveva compreso quali erano le mie preferenze nella vita privata, ma aveva fatto in modo da non esservi mai coinvolto minimamente. Con l’arrivo di Jamal le cose presero una piega che rischiava di travalicare la soglia accettata dalla morale corrente. Una sera, circa due anni fa, Romeo si trovò tra le braccia una delle ragazze che, tutta nuda, correva come impazzita verso la casa del custode dove lui abitava. Questo incidente dovette colpirlo profondamente, perché il giorno dopo si licenziò. Cercai di convincerlo a rimanere, promettendogli che non si sarebbe mai più verificato un episodio del genere. Mi offrii anche di raddoppiargli il salario, ma con gentilezza, com’era nella sua natura, non volle accettare e se ne andò. Avendo ricevuto una richiesta di referenze nel mese di settembre di due anni fa, appresi che era stato assunto al collegio. Ogni anno veniva per farmi gli auguri di Natale ed io in quelle occasioni mi sono dimostrato generoso con lui, come del resto meritava. Un altro al suo posto avrebbe cercato di ricavare un profitto dal suo silenzio, ma non era nello stile di Romeo. Lo sentii due settimane prima della morte di Jamal. Mi telefonò per avvisarmi che sarebbe stato opportuno che lo incontrassi per ascoltare qualcosa che aveva da dirmi. Quando gli chiesi di essere esplicito, mi rispose che Jamal aveva ricevuto una lettera che l’aveva lasciato molto agitato e lui sperava che io potessi calmarlo. Non feci a tempo ad intervenire, perché Jamal morì proprio alla vigilia del giorno in cui avremmo dovuto incontrarci»
Il tenente lo interruppe per chiedergli:
«Romeo era a conoscenza del contenuto della lettera?»
«No, tenente, perché la lettera era in arabo. Me la fece leggere, sapendo che conoscevo l’idioma, due giorni dopo la morte di Jamal. Ero andato a trovarlo per confortarlo, sapendo che per Jamal, lui nutriva sentimenti contrastanti di affetto e
di avversione. Ritornai dopo qualche giorno, sempre per tranquillizzarlo; quella volta incontrai anche un collegiale di ritorno dalle docce, nonostante fosse ora di studio. Romeo me lo presentò ed una volta che il giovane si fu allontanato mi disse che era uno dei ragazzi che avevano rinvenuto il cadavere di Jamal. Per la mia riservatezza, prima di andare via chiesi a Romeo di pregare quel ragazzo di essere discreto e di non divulgare la notizia della mia presenza al collegio. Due giorni dopo ricevetti da lui la telefonata che mi metteva al corrente del macabro pacchetto giunto per posta. Cercai di essere rassicurante, gli ripetei che non aveva nulla da temere perché i suoi rapporti con Jamal erano solo quelli che si stabiliscono normalmente tra colleghi di lavoro».
«Dottor Steiner, mi scusi se la interrompo. Cosa significava quel pacchetto, secondo la sua opinione? Lei conosceva meglio di chiunque Jamal e il suo ato».
«Tenente, suppongo, e sottolineo che si tratta solo di un’ipotesi, che quel macabro pacchetto sia stato spedito da qualche ex compagno d’armi di Jamal, che deve avere rintracciato l’assistente responsabile dell’evirazione di Jamal ed ha applicato la legge del taglione. È probabile che Jamal, dopo aver saputo da me la verità sulla sua menomazione, abbia scritto ai suoi ex camerati ed abbia chiesto loro di vendicarlo».
Dopo queste parole rimasero entrambi silenziosi per qualche minuto. Fu il poliziotto a riprendere la conversazione, quasi parlando a se stesso.
«Probabilmente Romeo è stato ucciso perché aveva scoperto l’identità dell’assassino di Jamal; anzi, sono certo che sia andata così. L’autore di entrambi i delitti deve essere qualcuno al quale Jamal aveva fatto molto male, oppure qualcuno per il quale costituiva un pericolo. E se, invece di “qualcuno”, si trattasse di “qualcuna”?»
«Potrebbe anche essere, ma ci sono almeno due elementi che mi rendono scettico. È difficile attribuire ad una donna la forza fisica e la violenza manifestate nell’omicidio di Jamal. Eppoi, chi ha sparato ai ragazzi deve avere una notevole familiarità con le armi da fuoco; ma non mi risulta che ci siano donne iscritte nei club di tiro del cantone».
Il tenente si alzò, ringraziò il dottor Steiner per la sua collaborazione e gli chiese, molto gentilmente, di rimanere a disposizione della polizia nei giorni successivi e di comunicare qualsiasi particolare che gli fosse tornato alla mente. Poi con aria indifferente, come per soddisfare una curiosità insignificante, chiese:
«Ah, come sa che qualcuno ha sparato ai ragazzi?»
Per la prima volta il dottore perse la sua sicurezza; ma il suo smarrimento durò solo un attimo.
«Già, mi era ato di mente che Romeo mi aveva informato del fatto. Ricordo che al momento pensai che l’attentatore dei ragazzi potesse essere una persona diversa dall’assassino di Jamal, considerate le armi adoperate».
Il colloquio era terminato. Il dottore risalì sulla propria auto e ripartì; anche il tenente montò sull’auto di servizio, ma, invece di ritornare in sede, diede ordine all’autista di seguire con discrezione la Mercedes.
arono Winterthur; l’auto del dottore si fermò nel paesino di Eschlikon e il dottore ed il suo autista scesero ed entrarono in un bar. Dopo meno di cinque minuti arrivò una Chevrolet Impala cabrio nera con cappotta beige, dalla quale scese una giovane donna, alta e flessuosa, molto elegante e molto bella. La
mantella di persiano grigia con un collo di volpe argentata; i piedi calzati in morbidi stivali di camoscio grigio; la testa coperta da un colbacco di volpe argentata come il collo del mantello; tutto nel suo abbigliamento indicava una persona appartenente ad una classe sociale elevata. Aveva dei lineamenti fini, la fronte alta, un nasino all’insù sopra delle labbra sensuali; i sopraccigli biondi e ben disegnati davano risalto a due occhi di un azzurro intenso dalle lunghe ciglia. La donna entrò anche lei nel bar; dopo poco ne uscì in compagnia del dottore, che salì con lei nella Chevrolet, e si diresse verso la vicina Münchwilen, seguita dalla Mercedes guidata dall’autista. Arrivate all’altezza di un viale che portava ad una bella villa, parzialmente nascosta alla vista dai pini e dalle piante spoglie dell’autunno avanzato, la Chevrolet imboccò il viale, mentre la Mercedes proseguì, e così pure l’auto del tenente, che prese buona nota dell’indirizzo. Arrivato in paese, l’autista parcheggiò ed entrò nel Post Restaurant. Il tenente guardò l’ora e decise che era arrivato il momento anche per loro di mettere qualcosa sotto i denti. Guardandosi intorno, scorsero a poca distanza il Linde Restaurant, dove avrebbero potuto rifocillarsi senza perdere di vista l’auto del dottore. Anche loro andarono a mangiare un boccone. Pranzarono tranquillamente e restarono in attesa di rivedere l’autista; era un compito semplice, perché data l’ora, quasi le 14, erano rimasti soli nel locale. Mentre tenevano d’occhio il Post, comparve la cameriera, giovane e graziosa, che con le guance con due pomelli arrossati ed il costume tradizionale sembrava uscire dal cartoon di Heidi. Dopo averli squadrati sospettosa chiese se per caso avevano preso di mira l’auto del dottor Steiner. Per poco il caffè non andò di traverso al tenente, che le rispose:
«Non si preoccupi, non siamo dei malintenzionati, siamo della gendarmeria di Sankt Gallen. Com’è che lei conosce l’auto del dottore Steiner?»
«Oh, qui in paese lo conosciamo tutti, è da qualche tempo che frequenta la principessa Karin, che è molto benvoluta da queste parti. Sarà tornato da uno dei suoi viaggi e la nostra principessa sarà sicuramente contenta».
«Perché la “vostra” principessa? Cosa rappresenta per voi costei?»
“Heidi” non si fece pregare. La domanda le offriva una ghiotta occasione per dimostrare quanto fosse ben informata, a differenza dei due poliziotti.
«La principessa Karin von Thünen und Strucker è arrivata nel nostro paese circa tre anni fa dall’Algeria, ma è di origini tedesche, perché è nata vicino a Berlino. Si è fatta subito notare per la bellezza e l’eleganza, ma si è fatta anche ben volere da tutti per la generosità e l’affabilità. Il padre le ha acquistato la villa all’inizio del paese un mese dopo il suo arrivo; fino ad allora aveva alloggiato in questo albergo. È sempre pronta ad offrire il suo aiuto a chi ne abbia bisogno. Moltissimi amici e conoscenze, quello sì, ma non una relazione stabile con qualcuno, tanto che mi sono permessa di chiederle se non le piacevano gli uomini o se avesse qualche difficoltà con loro. Poi, quasi due anni fa, quando tutti noi eravamo convinti che l’uomo per lei doveva ancora nascere, è comparso il dottor Steiner, che si è dimostrato subito la persona giusta per la nostra principessa. Anche lui si prodigava per chiunque avesse bisogno di aiuto. Hans, il matto del paese, che entrava ed usciva dal manicomio, il dottore l’ha preso sotto la sua tutela ed oggi è qui che lavora e si comporta come se mai avesse avuto degli squilibri mentali. La signora Stüki, rimasta vedova quattro mesi fa con due figli piccoli, lui l’ha sistemata aiutandola ad aprire quel negozio di mercerie all’angolo della Eschlikonstraße. Come vedete, siamo proprio stati fortunati ad ospitare questi due personaggi nel nostro paese».
Proprio in quel momento videro che l’autista stava uscendo dal ristorante; pagarono velocemente “Heidi” ringraziandola per le informazioni e si disposero a seguirlo.
L’auto, uscita dal paese, imboccò il viale della villa e lo risalì. Ai poliziotti non rimase che parcheggiare in una piazzola, in parte occultata da alcuni cespugli, ed attendere gli eventi.
arono circa due ore prima che la Mercedes con a bordo l’autista ed il dottor Steiner uscisse lentamente dal viale e si dirigesse verso Sankt Gallen e poi verso Rorschach.
Capitolo 13La nostra attesa
A Rorschach eravamo impazienti, la nostra curiosità al trascorrere dei giorni era aumentata a dismisura. Nell’attesa della visita serale del tenente, il tempo non ava mai; provai a riempirlo con più di un’ora di allenamento, correndo e simulando partenze, seguita da una lunga doccia. A pranzo facemmo onore al talento di Pina, spazzolando gnocchi di patate al ragù, sella di capriolo con ananas e frutti di bosco e, per finire, la sua favolosa crostata. Ci sembrava di essere a casa, in Italia; se fossimo rimasti lì a lungo, avremmo messo su più di qualche chilo, nonostante lo sport ed il continuo movimento. Nel pomeriggio, ancora un po’ di allenamento.
Avevo appena finito la doccia, quando mi accorsi dallo scricchiolio del ghiaietto sul viale che stava arrivando una macchina, probabilmente quella del tenente. Mi vestii in un battibaleno e corsi nell’atrio, dove si erano già precipitati Augusto e Roberto. Ci accomodammo nel salotto col camino aspettando di conoscere le novità, ma, prima che cominciassimo a parlare, un profumo delizioso di soffritto e l’invito di Pina a metterci a tavola ché la cena era pronta ci indussero a rinviare i nostri discorsi. Dopo cena ritornammo nel salottino; il camino irradiava il suo calore ed il gioco delle fiamme penetrava le nostre menti, come se quei guizzi e le faville delle braci che scoppiettando si staccavano dai ceppi volessero ipnotizzarci. È questa la magia del camino, che comincia col promettere allegria e poi instilla la sottile melanconia dei ricordi cari, degli affetti lontani, del tempo che a. Gus capì dall’aria silenziosa il nostro stato d’animo, si alzò e ritornò con il vassoio dell’armagnac. Quindi prese a parlare, dandoci qualche cenno sulle dichiarazioni del dottore e sull’ingresso in scena della bella principessa, con l’effetto di scuoterci e di risollevarci il morale. Provai a fargli una domanda:
«Hai parlato di Mustafà con il dottore?»
Siccome mi guardarono tutti incuriositi cercai di spiegarmi.
«Vedete, se Jamal è stato tanto in confidenza con il dottore come questi afferma, certamente gli avrà detto della minaccia ricevuta da Mustafà. Non è strano che il dottore, che ha raccontato tanti particolari, abbia dimenticato di riferire un episodio così importante? E non avrà taciuto anche qualcos’altro?»
Il tenente parve a disagio; piuttosto che rispondere alla mia domanda, preferì tagliare corto.
«Ragazzi, smettiamo di parlare di questa faccenda. Godiamoci un attimo di pace, beviamo questo nettare alla nostra salute e poi… tutti a letto. Vi ricordo che sono in movimento dalle 5 di questa mattina».
Il mattino dopo alle 9 in punto ricevemmo la nota degli argomenti da studiare, recata da un messo di eccezione, il direttore in persona, che si intrattenne con noi cordialmente per sincerarsi che fossimo soddisfatti della temporanea sistemazione e non avessimo richieste da rivolgergli. Ritornato in camera, mi sforzai di studiare; ma dopo aver riletto cinque volte una pagina senza riuscire a fissare nulla di ciò che vi era scritto, capii che sarebbe stata tutta fatica sprecata. Allora mi alzai e mi attrezzai per andare a correre, visto che non mancava molto alla gara cantonale. Mentre scioglievo i muscoli e accennavo a qualche scatto di partenza, mi venne un’idea. Terminai l’ultimo giro di corsa e andai difilato dai miei compagni.
Anche essi non erano nella condizione di spirito per applicarsi allo studio, sicché la mia imprevista apparizione, accaldato e agitato com’ero, venne accolta con un sospiro di sollievo, perché dava loro la possibilità d’interrompere i loro sforzi, vani e sfiancanti. Siccome la giornata novembrina era abbastanza bella, uscimmo e ci sedemmo sulle poltroncine del gazebo che da una piccola altura del parco
guardava il lago. Lì cominciai subito ad esporre ai miei amici il pensiero che mi era venuto mentre correvo.
«Ci sono tante cose poco chiare delle quali il tenente non ci ha parlato o non ci ha voluto parlare. Per esempio, chi sono, dove stanno e cosa sanno le ragazze che partecipavano ai festini ed hanno avuto problemi con Jamal? La polizia ha cominciato a cercarle? C’è un punto, poi, che a me pare ancora più importante; per questo sono venuto da voi. È spuntata a sorpresa questa principessa tedesca che viene dall’Algeria, lo stesso paese in cui sono stati anche il dottor Steiner e Jamal. Possibile che si tratti di una semplice coincidenza? Vi ricordate che Romeo aveva accennato ad una principessa amica di Jamal? Più ci penso e più mi convinco che bisognerebbe scavare nel ato di queste persone in Algeria».
Roberto, che durante l’estate aveva visto Beau Geste,[19] e ancora fantasticava di vestire i panni di Gary Cooper, azzardò:
«Perché non andiamo noi in Algeria?»
Augusto ed io lo guardammo trasecolati.
«Sei matto? Ti rendi conto di che sciocchezza hai detto?»
Trascorremmo qualche minuto in silenzio. Fui io alla fine a rompere il ghiaccio.
«Tanto per fare un’ipotesi, se lo fimo, dove andremmo, chi o cosa cercheremmo?»
Augusto ci riportò alla realtà:
«Ragazzi, ci immaginate nella kasba di Algeri a cercare non si sa cosa? No, abbiamo scherzato abbastanza, finiamola con queste stupidaggini».
Ritornammo ai nostri libri, ma l’Algeria continuava a fare capolino nei nostri pensieri. All’ora di pranzo dissi ai miei amici che avremmo dovuto vederci al gazebo subito dopo, e non volli aggiungere altro nonostante le loro pressioni. Augusto e Roberto diventarono talmente impazienti da rinunciare ad assaggiare la divina crostata di Pina, pur di affrettare i tempi. Quando arrivai, accesi la sigaretta e godetti a tenerli sulle spine. Con calma mi sedetti e spiegai che preferivo parlare lì, dove non c’erano altre orecchie che potessero ascoltare.
«Questa estate è stato a pranzo a casa dei miei il distributore di mio padre sul mercato dell’Algeria, Henri Mobon, il quale è un pied-noir[20] che ha molte conoscenze nel paese. Potremmo rivolgerci a lui per ottenere delle informazioni senza doverci recare sul posto. Per farlo, avrei bisogno di una foto di Jamal, ma non possiamo certo chiederla a Gus».
Mi fermai a riflettere, e mi venne in mente la soluzione del problema.
«Sono stato uno sciocco a non pensarci prima: dobbiamo solo trovare un giornale con la sua foto. In casa c’è un portagiornali; mentre voi fate la ricerca, io scrivo a mio padre per farmi dare l’indirizzo di Mobon».
Dopo cinque minuti, Augusto aveva trovato nella biblioteca il giornale con la
fotografia ed io, per guadagnare tempo, avevo telefonato a mio padre ed aspettavo che mi richiamasse per darmi l’indirizzo. Avevo dovuto inventare una scusa per giustificare la mia richiesta, una ricerca sull’Algeria; per mia fortuna, era tanto indaffarato che non aveva tempo per farmi domande.
Dopo dieci minuti ricevetti la telefonata di mio padre, che mi dettò l’indirizzo ed il numero di telefono di Mobon. Ci mettemmo di buzzo buono e scrivemmo la seguente lettera, in se.
Gentile signor Henri Mobon,
spero che lei si ricordi di me: sono il figlio di P*M*, ed ho avuto il piacere di pranzare con lei l’estate scorsa, durante la sua visita in Italia.
La prego di scusare il disturbo che le posso creare, ma conoscendo la sua gentilezza e disponibilità mi permetto di chiedere se le sia possibile reperire delle informazioni su Jamal Ben Yusaf. È stato assassinato nei pressi del collegio dove sto compiendo gli studi; due miei compagni ed io ne abbiamo rinvenuto il corpo, come è detto nell’allegato articolo di stampa, che ne riporta la foto.
Saremmo interessati a sapere qualcosa di più su di lui, non solo perché l’evento ci ha colpiti molto, come lei può immaginare, ma anche perché lo abbiamo conosciuto in vita, abbiamo parlato con lui in diverse occasioni. Abbiamo saputo da lui che aveva militato nella Legione Straniera per diversi anni e ne era uscito, circa quattro anni fa, con il grado di sergente.
Scusandomi ancora per il disturbo, la ringrazio anticipatamente e le porgo, anche a nome dei miei compagni, cordiali e rispettosi saluti.
Riccardo M*
Aggiungemmo in calce l’indirizzo per il recapito della risposta, allegammo il ritaglio del giornale, sigillammo la busta e pregammo Helmut, l’addetto ai vari servizi del castello, di spedirla per posta aerea.
I miei genitori, come quelli di Augusto e Roberto, erano stati informati della situazione dalla direzione del collegio; sarebbero venuti tutti il venerdì e sarebbero rimasti per il fine settimana. Per la verità, la direzione aveva atteso fin troppo; certamente aveva sperato che tutto si risolvesse più rapidamente, per proteggere la reputazione del collegio. Avevamo parlato con le nostre famiglie per tranquillizzarle, e ci proponevamo di mostrarci calmi e sereni al loro arrivo, dissimulando la nostra tensione. Cosa potevamo fare? Eravamo lì, molto ben trattati, ma sostanzialmente agli arresti: non potevamo uscire, parlare con gli altri compagni, vedere le nostre belle ragazze; soprattutto, non potevamo fare nulla per scoprire chi ci aveva sparato addosso e perché. Era un’attesa snervante.
Quella sera, finita la cena e comodamente seduti davanti al camino, Roberto chiese al tenente:
«Si è saputo qualcosa sulle donne che frequentavano la villa di Steiner e sulla principessa?»
«Ne abbiamo identificate sette. Abbiamo interrogato alcune di loro, stiamo cercando le altre. Sarebbe interessante fare una visita alla villa, ma non possiamo certo entrare senza un valido motivo. Domani dovrei ricevere delle informazioni dal consolato se sul soggiorno algerino della principessa e dal consolato tedesco sulla sua famiglia. Vedremo».
Il mattino successivo mi alzai molto presto. Vidi che non c’era nessuno in giro, mi misi a correre e mi diressi al sottoaggio della ferrovia che portava al lago, dove avevo notato giorni prima un sentiero, che imboccai sempre di corsa. Mi voltai per accertarmi che nessuno mi seguisse e, preso coraggio, continuai, gambe in spalla, verso Rorschach. Non avevo un piano preciso, volevo solo rendermi conto di dove abitava il dottor Steiner; Roberto l’aveva visto, io no. Mi riecheggiavano nella testa le parole del tenente: Sarebbe interessante fare una visita alla villa, ma non possiamo certo entrare senza un valido motivo.
Forse voi no, pensai, ma io sì.
Ero già entrato a Rorschach, per le cui strade nessuno si stupiva di vedere un ragazzo in tuta che correva, dal momento che il parco di Arion-Wiese era dalla parte opposta a non più di un chilometro. Senza mai arrestare la mia corsa arrivai in vista della siepe che cingeva la proprietà del dottore. Cosa cercavo esattamente, non lo saprei dire nemmeno oggi, ma avevo come una smania di vedere quel luogo, come se dovesse essere il posto che mi avrebbe ispirato qualche cosa di nuovo. Rallentai e, guardando attentamente, scorsi un piccolo varco nella siepe sulla mia destra attraverso il quale si intravedeva il parco. Con uno scatto di quelli per l’allenamento lo raggiunsi, dopo essermi guardato tutt’attorno, vi penetrai ed ebbi davanti agli occhi il parco e la villa. Roberto non aveva esagerato, la villa era veramente bella e molto grande. C’era una piscina coperta con una struttura facilmente rimovibile per l’estate e un fabbricato adiacente che pareva troppo grande per essere uno spogliatoio; forse vi erano anche le docce e magari una tavernetta. Sul lato lungo il quale mi trovavo, a meno di cento metri c’era la casa del custode, vicina al cancello che dava sulla Thurgaustraße, la ferrovia adiacente ed il lago. Il fabbricato della piscina era quello che maggiormente mi colpì; aveva qualcosa di insolito, che richiamava una piscina termale, di quelle sovente rintracciabili in una casa di cura.
Ebbi una fortuna insperata. Il dottor Steiner stava uscendo in quel momento da una porta laterale dello spogliatoio, seguito da una figura femminile,
completamente nuda, che stava gridando qualcosa che non capivo. Il dottore ritornò sui suoi i e vidi che con fare deciso, ma senza violenza, respingeva la donna verso il fabbricato, le faceva indossare un accappatoio e la adagiava su un lettino; poi si curvò su di lei, nella posizione di chi sta praticando un’iniezione.
Scosso da quella scena, avrei voluto avvicinarmi maggiormente per scoprire di più, ma il buonsenso ebbe il sopravvento; con circospezione uscii in strada e, dopo una rapida occhiata attorno, ripresi la mia corsa per ritornare al castelletto. Macinai quei quattro chilometri con una ridda di pensieri e di supposizioni che non portavano a nessuna spiegazione.
Ritornai in tempo per una doccia e la colazione. Mentre scendevo in fretta, andai quasi a sbattere contro il tenente, che fece la faccia severa.
«Allora, giovanotto, ci siamo dati al mestiere dell’investigatore? Uno dei miei uomini ti ha seguito e mi ha avvisato della tua bravata. Perché andare a spiare il dottor Steiner, con tanto di violazione della proprietà privata? Ti ho già avvisato che non è un gioco».
Lo sguardo dei miei compagni diceva che non mi ero comportato intelligentemente, perché avevo messo in difficoltà quelli che erano responsabili della nostra sicurezza e ora il tenente pareva davvero irritato. Provai a giustificarmi.
«Mi dispiace, non so neanche io perché l’ho fatto. È stato un impulso più forte di me, non avevo intenzione di nascondere nulla».
E per dimostrare la mia buona fede raccontai quello che avevo visto,
concludendo:
«La mia sensazione è che quel fabbricato sia adibito ad infermeria o a clinica o a qualcosa del genere».
Il tenente parve perplesso.
Capitolo 14 Una nuova traccia
I
l tenente ci lasciò per andare in ufficio, ma nel pomeriggio era già rientrato, mentre noi ci sforzavamo di studiare, personalmente con scarsi risultati. Ci chiamò e ci precipitammo nella saletta del camino, diventata la nostra sala riunioni. Aveva l’aria di essere soddisfatto. «Riccardo, forse la tua scappatella è servita a qualcosa. Dopo quello che mi hai riferito mi è parso utile informarmi sull’attività professionale del dottore e chiedergli un appuntamento. Le cose stanno pressappoco come mi hai detto. Il fabbricato accanto alla piscina è una vera e propria piccola clinica, regolarmente registrata presso il comune di Rorschach, specializzata nel trattamento di alcune patologie psicosomatiche. La cura ha dei costi da capogiro, il che spiega perché in questo momento siano ricoverate solo quattro persone, e tutte di ceto molto elevato, anche se la struttura consta di otto camere con servizi, oltre a tre studi ed un laboratorio. E spiega pure come mai il dottor Steiner possa concedersi un tenore di vita così elevato. In totale, il personale della villa e della struttura sanitaria comprende un medico, tre infermiere, due inservienti, la cuoca, il guardiano-giardiniere e l’autista».
Fece una piccola pausa, poi riprese:
«Non è tutto. Questa mattina sono arrivati un telex dal consolato se ed uno da quello tedesco riguardanti la principessa…»
Si fermò, esasperando la nostra curiosità. Non potemmo trattenerci:
«E allora?»
«E allora, la principessa è realmente una principessa, erede di un cospicuo patrimonio familiare. Ha fama di essere attratta da entrambi i sessi e di essere affetta da ninfomania. Proprio per sottrarsi alle critiche che riceveva nel suo ambiente, dove la sua condotta veniva censurata come scandalosa, se ne andò in Algeria per un lungo periodo. Lì incontrò Jamal e ne divenne l’amante. Conobbe successivamente il dottor Steiner e divenne prima sua paziente, poi la sua partner. La coppia ebbe dei problemi con le autorità per via della spregiudicatezza dei loro comportamenti, che non esitavano ad esibire anche pubblicamente. Ad un certo punto si rifece vivo Jamal, trascinandosi dietro tutti quei problemi che noi ora conosciamo. Gli eventi presero una brutta piega, perché dopo una delle loro feste particolari furono trovati morti un ragazzo ed una ragazza algerini. Il fatto venne messo a tacere, grazie all’intervento di amici altolocati, ma il dottore fu invitato a lasciare l’Algeria e la stessa sorte toccò poco dopo anche alla principessa».
Restammo in silenzio. Mi pareva di essere stato catapultato in un libro giallo, in una vicenda confusa, senza capo né coda. Mi aggrappai ad un altro elemento.
«Gus, di Jamal non si sa niente? Quando e perché lasciò l’Algeria?»
Il tenente scosse il capo.
«Mi sono rivolto all’ambasciata se, ma mi hanno risposto che, trattandosi di un ex legionario, le cose sarebbero andate per le lunghe, perché il comando di quel corpo è restio a fornire informazioni sugli uomini della Legione, anche se congedati».
Cambiai direzione.
«Qualcosa sulle inservienti del Rosenberg? Ho avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di falso nei loro racconti, soprattutto in quelli di Gabriella».
«Verrà anche il loro turno. Ora smettiamola con questi discorsi. Ricordatevi che domani arriveranno i vostri familiari; per una questione di sicurezza, dormiranno anche loro qui. Mi raccomando, non spaventateli troppo!»
Prima di andare a dormire, Augusto, Roberto ed io ci accordammo per raccontare la medesima storia ai nostri genitori.
Non avevamo intenzione di mentire, ma solo di tacere un po’ di particolari, in modo che non si preoccuero al punto di ritirarci dal collegio.
Il giorno dopo verso le 12,30 arrivarono mia madre e, successivamente, la madre di Roberto ed i genitori di Augusto. Con loro vennero anche il dottor Lathen, direttore della Sezione Italiana, e sua moglie. Pina superò se stessa: aveva preparato un risotto con lo zafferano che fu molto apprezzato, delle costolette di agnello con bietole in agrodolce e delle crepes alla marmellata di pesca che vennero divorate. Il tenente arrivò verso le 18.30, e dopo le presentazioni rivolse ai nostri genitori un elogio in nostro favore che li lasciò esterrefatti. Dovettero chiedersi se stava parlando dei figli che conoscevano…
ammo quel fine settimana tranquillamente e, grazie alla presenza dei nostri genitori, potemmo uscire dalla clausura ed andare fino a Lindau in Germania e Bregenz in Austria. Alle 14 noi ragazzi fummo accompagnati da due agenti in una sala cinematografica di Rorschach per vedere il film La Battaglia di Alamo, diretto da John Wayne. Nel frattempo i nostri genitori erano riuniti con il dottor Gi, il dottor Lathen, il comandante della polizia cantonale ed il tenente per
fare il punto della situazione.
Quando rientrammo, trovammo che ci stavano aspettando. Gus ci aveva fatto avvisare dal suo assistente: Se volete restare, non tentennate, siate decisi. Perciò, con un certo batticuore, ma fingendo di essere risoluti, al momento in cui venne chiesta la nostra opinione, rispondemmo all’unisono che eravamo determinati a completare l’anno scolastico all’Istituto. La fermezza esibita ci permise di strappare il consenso: Va bene, rimanete. Ritornerete in collegio alla fine della prossima settimana.
Eravamo al settimo cielo, ma non potevamo darlo a vedere, sicché la sera cenammo con tutti gli ospiti mantenendo un profilo basso. Il giorno dopo, i nostri genitori sarebbero ripartiti e li avremmo rivisti il 20 dicembre, quando saremmo tornati a casa per le vacanze di Natale.
I commiati sono sempre tristi; forse è per mascherarne la mestizia che vengono seppelliti sotto una profusione di raccomandazioni che lasciano il tempo che trovano. Mia madre fu saggia; mi abbracciò limitandosi a dirmi: «Riccardo, ti prego solo di stare attento…» La ringraziai, anche per quei 100 franchi che accompagnarono le parole, e restai a guardare con una certa emozione la Flaminia di mio padre, guidata dall’autista Paolo, uscire dalla corte del castello.
Partiti tutti, noi tre ci ritrovammo soli, soddisfatti, ma un po’ depressi. Augusto ed io ci precipitammo a fumare la nostra sigaretta, visto che in quei giorni avevamo dovuto rinunciarvi perché, secondo l’uso dell’epoca, non avendo compiuto i diciotto anni, non ci era consentito. Roberto, che non aveva mai fumato, ci guardava sempre con un sorrisetto di compatimento mentre accendevamo la sigaretta.
Continuammo a sentirci giù di morale per tutto il giorno, fino all’arrivo di Gus,
che salutammo come una liberazione dal nostro isolamento. Il tenente, dopo essersi complimentato con noi per la nostra interpretazione della parte di “studenti modello” del giorno precedente, ci disse:
«Ragazzi, forse c’è una traccia che potrebbe chiarire molte cose e portarci fino al colpevole».
Lo incalzammo, ma lui, quasi si divertisse nel tenerci sulle spine, non volle aggiungere altro:
«A suo tempo vi dirò di che si tratta; ora andiamo a mangiare, ne parleremo davanti al camino».
Eravamo così impazienti che cenammo distrattamente, senza rendere merito alla bravura di Pina. Finalmente, sistemati nelle poltrone con il rituale baloon di armagnac, il tenente si decise a parlare.
«Sembrerebbe che il dottor Riegling, il proprietario della seconda Mercedes 300SL, non abbia detto tutta la verità. Ha denunciato oggi all’ufficio controllo delle armi un fucile Stgw 57, calibro 7,5 x 55, la stessa arma usata per giocare al tiro al bersaglio su voi. Ho immediatamente richiesto delle analisi balistiche, ma ci vorrà del tempo. Non è finita qui, perché Riegling è il medico che lavora presso la clinica di Steiner ed è suo socio; i due sono pure colleghi all’Ospedale Psichiatrico di Zurigo. Li ho convocati entrambi nel mio ufficio per giovedì, nella speranza che i risultati delle analisi balistiche siano pronti».
Ritornai sull’argomento del giorno prima.
«Sulle ancelle hai fatto progressi?»
«No, non è così facile ottenere tutte le informazioni subito. Ho dovuto richiedere le schede contenenti i curricula all’ufficio immigrazioni. Secondo quanto mi hanno detto, domani o dopodomani dovrebbero essere sulla mia scrivania. Almeno lo spero».
Anche Augusto aveva una domanda da porre:
«Avete trovato la pistola che ha sparato a Romeo? Non ne abbiamo mai parlato, ma sicuramente è un elemento estremamente importante».
«È importante, eccome! L’abbiamo rinvenuta sotto un tronco a cento metri dal luogo del delitto. È una copia della Walther PPK 7,65 mm, di produzione ungherese e con i numeri di matricola abrasi, quindi è impossibile risalire al proprietario. Stiamo indagando negli ambienti ai margini della legalità».
Eravamo di nuovo sul mio terreno preferito, e non persi l’occasione per mettere in mostra la mia scienza delle armi da fuoco:
«Rispetto alla versione originale tedesca, questa copia ha subito qualche modifica che la renda più leggera e maneggevole?»
«Perché questa domanda?»
«Ho avuto l’occasione di tenere in mano una PPK originale; pesa circa 650 g. Per un uomo non rappresenta un problema, ma per una donna… Ho sentito dire che ci sono delle copie modificate per renderla più maneggevole, portandola a 450 g. Anche una donna potrebbe usarla senza troppe difficoltà».
Gus si alzò ed andò a telefonare. Ritornò poco dopo e mi disse:
«Bravo, hai fatto centro! La pistola pesa 435 g ed ha subito anche un’altra modifica: è stata adattata per un tiratore mancino. È un altro elemento che certamente ci tornerà utile».
Continuammo a chiacchierare ancora per un po’, poi ci ritirammo nelle nostre camere.
Il giorno dopo, di buon mattino, appena Gus fu partito per recarsi in ufficio, chiesi a Helmut se disponevano di un telex, e ricevuta una risposta affermativa, chiesi se potevo usarlo. Vedendolo esitare, lo rassicurai:
«Devo mettermi in contatto con mio padre, che in questi giorni si trova in Algeria, e telefonicamente non saprei come fare a raggiungerlo».
Mi accompagnò in un ufficio del quale ignoravo l’esistenza e mi indicò il telex. Durante le vacanze estive avevo imparato come si utilizzava; non fu difficile preparare la strisciolina di carta perforata con il messaggio per M. Mobon, che anticipava la lettera già spedita, aggiungendo qualche tocco drammatico per buona misura. La risposta non tardò molto: erano le 17,30 quando Helmut mi
portò il messaggio ricevuto dalla telescrivente.
Caro Riccardo,
mi ricordo molto bene di te e ricordo con piacere la calda ospitalità della tua famiglia. Dal tono del tuo messaggio ne ho compreso l’urgenza, e perciò mi sono messo subito in contatto con un mio caro amico, il colonello Jean C* della Legione Straniera. Ti farò avere un rapporto dettagliato per posta aerea; per ora ecco una sintesi dei dati che mi hai richiesto.
Jamal Ben Yusaf, nato a Djigelli, Algeria, il 3 aprile 1928, frequentò le scuole superiori di Algeri con ottimi risultati. Il 12 marzo 1946 una sua compagna di corso, H*M*M*, fu trovata seviziata ed in fin di vita in una casupola vicino alla scuola. Jamal fu accusato del crimine e venne incarcerato. Dopo un mese evase e si arruolò nella Legione Straniera il 22 maggio 1946. Qui, dopo l’addestramento, venne promosso caporale per le sue doti di forza, disciplina e coraggio. Partì il 18 settembre del 1951 per l’Indocina e ne ritornò dopo un anno con il grado di sergente, diverse menzioni d’onore ed una ferita alla gamba destra. Durante la convalescenza venne in contatto con la principessa Karin von Thünen und Strucker, giovane donna ricca, molto bella ma anche molto chiacchierata, di origini tedesche, e ne divenne l’amante. Al termine dei tre mesi di convalescenza venne inviato al centro di addestramento reclute, il forte di Saidà. Dopo pochi mesi, su sua richiesta venne inviato in una missione molto delicata ai confini con la Tunisia. Qui, in uno scontro con alcuni rivoluzionari del FLN [21]riportò diverse ferite e venne salvato per miracolo. Durante l’intervento chirurgico all’inguine, un infermiere, morto dissanguato due mesi fa per la mutilazione degli organi genitali, ebbe uno svenimento e urtando il braccio del chirurgo causò l’irreparabile perdita dei testicoli di Jamal. In questa fase, Jamal strinse amicizia con uno dei medici curanti, un certo dottor Walter Steiner, svizzero, e rivide la principessa. Dopo circa sei mesi, quando si era già ristabilito, un ragazzo ed una ragazza algerini furono trovati morti una mattina a poca distanza dalla villa della principessa, dove avevano partecipato durante la notte ad una festa alla quale erano stati presenti il
dottore e Jamal. Ancora oggi non si sa esattamente cosa fosse successo. Jamal rientrò in Legione e chiese di essere rimandato tra le fila dei soldati ancora di stanza in Tunisia. Qui un commilitone suo amico fraterno perse la vita una mattina all’alba in uno scontro con un gruppo di rivoltosi, e Jamal, dopo un mese, rientrò a Sidi-Bel-Abbes.[22] La sua ferma scadeva il 22 maggio 1956 e lui, con dispiacere e sorpresa dei suo superiori, non la rinnovò. Da allora nessuno sa dove si trovi, almeno stando a quanto dicono. Ti confermo che Jamal è una persona straordinariamente spietata, ma un ottimo soldato.
Confido di averti dato delle informazioni utili.
Nella speranza di vederti presto in Algeria o in Italia, ti invio cari saluti.
Henri Mobon
Corsi a cercare Augusto e Roberto per leggere loro il rapporto, che aggiungeva nuovi tasselli al nostro mosaico, anche se non completava il disegno.
Quando Gus rientrò, dopo cena gli consegnai il telex ricevuto da M. Mobon. Dapprima infastidito all’idea che mi fossi intromesso nuovamente nelle indagini, infine commentò:
«Questo conferma sostanzialmente lo scenario; purtroppo non contiene indizi sul movente dei delitti».
Mi permisi di obiettare:
«Beh, forse ci vuole un po’ di fantasia italiana per mettere in conto la possibilità che ci sia una storia di ricatti come fattore scatenante degli omicidi».
Non avevo terminato la frase, che già me ne ero pentito, perché mi parve di aver ato il segno della buona educazione, ma il tenente non se la prese a male, e si limitò a correggermi:
«Caro Riccardo, non sono un italiano, e potrei anche rammaricarmene, ma devi tenere presente che l’immaginazione nel nostro mestiere può portare facilmente fuori strada. L’applicazione della legge non si basa su ipotesi o fantasie, ma su fatti provati».
Poi ci informò che il mattino seguente sarebbe andato di persona a Rorschach per parlare con Steiner e Riegling, così avrebbe avuto l’opportunità di gettare un occhio sulla clinica. Avremmo fatto qualunque cosa per accompagnarlo, ma capivamo che non potevamo neanche provare a chiederlo. Perciò, mi limitai ad augurargli buona fortuna, aggiungendo:
«Spiritualmente saremo con te…»
Capitolo 15 La clinica del dottor Steiner
La mattina facemmo colazione con Gus; quando lo vedemmo partire, tirammo un sospiro di sollievo, perché ci era costato fatica resistere alla tentazione di esporre e difendere il nostro punto di vista. Ci eravamo ormai persuasi che il responsabile di tutta la vicenda fosse almeno uno dei tre personaggi più in vista, vale a dire la principessa ed i due dottori, se non tutti e tre.
Quando l’auto del tenente si fu allontanata, proposi ai miei amici:
«Cosa ne dite di fare quattro i nei pressi della villa di Steiner? Ho come un presentimento… Ho notato che c’è un altro cancello sul lato che dalla Seestraße va verso la Seewyndenstraße. Gus sa il fatto suo, ma non può are tutto il tempo a tener d’occhio la villa».
Roberto aderì immediatamente, Augusto invece si oppose con decisione:
«Scusatemi, ma non vi è bastato farvi sparare addosso una volta? Ed ora volete ficcarvi in qualche altro guaio? Ma ci siete o ci fate? Andate, se ne avete tanta voglia; io resto qui».
Così lasciammo il nostro grillo parlante al castello e noi due ci avviammo ad imboccare il sottoaggio della ferrovia per dirigerci verso la villa di Steiner seguendo un percorso più lungo e tortuoso di quello della mia visita precedente,
allo scopo di trarre inganno i nostri angeli custodi. Ci fermammo e ci voltammo spesso durante il cammino, ma non ci parve di essere pedinati. In mezz’ora arrivammo alla nostra destinazione e trovammo un altro punto in cui la siepe era meno compatta, stavolta sul lato opposto del parco, a neanche trenta metri dal cancello che avevo notato durante l’esplorazione precedente. Adoperando molta circospezione, mi infilai io per primo e lanciai un’occhiata, senza scorgere niente di particolare, se non il retro del fabbricato adiacente alla piscina, nel quale si aprivano una porta abbastanza larga da lasciar are un’auto ed una più piccola per le persone. Districandomi dai rami, ritornai indietro per cedere il posto a Roberto. Per non essere guardato con sospetto da eventuali vicini o anti, mi spostai sulla parte opposta della stradina e con aria indifferente un po’ guardavo il lago ed un po’ l’angusto varco dove si era acquattato Roberto. Dopo dieci buoni minuti, mi avvicinai e lo scossi leggermente, per sollecitarlo a farsi da parte. Roberto, nel destreggiarsi per uscire, urtò con il viso un ramo, procurandosi un graffio sanguinante sul mento, il che lo indusse a proferire, sia pure a bassissima voce, una serie di colorite espressioni decisamente più da scaricatore che da collegiale svizzero.
Ripresi il posto di osservazione. Mi stavo giusto chiedendo perché quell’ingresso posteriore fosse incustodito, quando vidi un uomo aprire il cancello e poi andare a spalancare la porta grande notata in precedenza. Mi tirai indietro precipitosamente e andai a raggiungere Roberto sull’altro lato della strada. Udii un rombo che avevo imparato a riconoscere anch’io, quello del motore di una Mercedes 300SL, che con uno stridìo di gomme sulla ghiaia emerse dal cancello e svoltò verso il lago per immettersi sulla Thurgauenstraße. Riuscimmo a malapena a distinguere una chioma bionda al posto di guida e a leggere il numero di targa, poi l’auto scomparve dalla nostra visuale. Ci guardammo l’un l’altro incerti sul da farsi, quindi decidemmo di ritornare sui nostri i.
Percorremmo la strada quasi di corsa, sicché non impiegammo molto per ritrovarci nella camera di Augusto, che vedendoci arrivare trafelati, ci gratificò con un sarcastico: «Ecco i famosi detective… che ritornano con le pive nel sacco!» Non gli rispondemmo a tono, come avrebbe meritato, ma gli raccontammo ciò che avevamo visto. Il nostro amico avanzò un’ipotesi:
«Stai a vedere che era l’auto del dottor Riegling, che l’ha prestata alla principessa…»
«Magari ce ne fossero così poche di Mercedes 300SL da queste parti! Augusto, chiedi pure la versione di Roberto come controprova, ma in una rimessa con le porte aperte ne abbiamo viste due, ed ora ne spunta una terza. Cos’è, il club delle 300SL?»
Roberto si affrettò a confermare.
Elaborammo le più svariate congetture. Io ne feci una che mi pareva più realistica delle altre:
«State a vedere che la principessa, oltre all’Impala cabriolet, possiede anche una Mercedes di color argento metallizzato, identica alle altre due. Chissà se Gus non sta già tenendo sotto controllo il viavai di queste auto. Pareva che non ci fosse nessuno da quelle parti a sorvegliare la villa, ma può darsi che fossero nascosti così bene che non li abbiamo visti».
Aspettammo con ansia il ritorno del tenente, ma si fece sera prima che rispuntasse con un’aria tanto stanca da indurci a procrastinare il nostro resoconto sull’incursione alla villa.
Dopo cena, comodamente seduti nel salottino come al solito, attendemmo che avviasse lui la conversazione. Il tenente esordì apostrofandoci:
«Perché questa mattina siete andati alla villa del dottor Steiner? Pensate che senza di voi la mia squadra non avrebbe intercettato la terza Mercedes 300SL? O volevate ammirare la guidatrice? È mai possibile che non capiate che le indagini non sono compito vostro e che dovete starvene buoni e tranquilli ancora per qualche giorno?»
Ci sentimmo letteralmente degli stupidi e, vergognandoci per la nostra presunzione, non potemmo fare altro che balbettare le nostre scuse. Il tenente riprese i suoi modi gentili e, per mostrare di averci perdonato, ci parlò del suo incontro con i due medici, cominciando con una breve descrizione dell’interno della villa.
Lui ed il suo assistente erano stati introdotti in uno studio che era un vero salone, con il pavimento coperto da una moquette verde che dava la sensazione di camminare su un prato. Mobili pochi, ma di antiquariato; quadri di notevole pregio: tra gli altri, un Picasso di grandi dimensioni, un Renoir ed un Monet. L’unica nota singolare era costituita da un lettino da studio medico, posizionato dalla parte opposta della scrivania, rivestito di cuoio, dalle parti mobili regolabili elettricamente. Come scrivania, una fratina di età barocca, dietro la quale troneggiava una alta sedia a braccioli da cui si godeva la vista sul parco e sulla piscina. Le pareti di color verde pallido comunicavano un senso di serenità.
Dopo un breve scambio di convenevoli, era arrivato anche il dottor Riegling e si erano seduti tutti intorno ad un tavolo da riunioni, dove una graziosa giovane con la divisa da infermiera aveva servito il caffè. Il dottor Steiner aveva anticipato le domande del tenente:
«Comprendo i motivi che l’hanno spinta a chiedere questo colloquio. Siccome desidero con tutte le mie forze che venga identificato l’omicida di Jamal e di Romeo, risponderò a tutto quello che lei vorrà chiedere, senza reticenze».
Gus era rimasto sorpreso dall’esordio del dottore, ma si era ripreso subito ed aveva cominciato a domandargli dei rapporti che intercorrevano tra lui, la principessa Karin, il dottor Riegling, Jamal, Romeo e le cinque donne che avevano partecipato ai loro convegni. Steiner non si era fatto pregare.
«La principessa Karin è da quasi due anni la mia fidanzata. L’ho conosciuta durante il mio soggiorno in Algeria, quando era l’amante di Jamal. Fummo obbligati a separarci in seguito ad eventi che non hanno a che vedere con gli avvenimenti recenti, ci siamo incontrati nuovamente circa due anni fa ad una festa di amici comuni. Da lì nacque la decisione di fidanzarci; molto probabilmente ci sposeremo in giugno l’anno prossimo.
Quanto a Jamal, ho già raccontato in quali circostanze l’ho conosciuto. Durante la sua convalescenza, la principessa e Jamal, che erano follemente innamorati, si ricongiunsero. Rendendomi conto che entrambi cominciavano a soffrire di crisi depressive, alle quali ero soggetto anch’io, per curare il loro ed il mio stato cominciai ad attuare una teoria che avevo elaborato, sottoponendo tutti e tre ad una terapia la quale, tra l’altro, prevedeva sedute in cui si praticavano rapporti sessuali di gruppo cui partecipavano anche giovani donne e uomini. Non entro nei particolari, non per pudore, ma perché non sono attinenti al nostro colloquio.
Dopo pochi mesi dal mio ritorno in Svizzera, tramite il mio vecchio amico e compagno di università qui presente, il dottor Jürgen Riegling, entrai nell’ospedale psichiatrico di Zurigo; due mesi più tardi, ereditai da mio zio questa villa ed un discreto patrimonio. La mia carriera di psichiatra conobbe diversi successi professionali, che mi diedero notorietà sia in Svizzera che all’estero. ato ancora un anno, la comunanza di interessi con il mio collega ci indusse ad associarci ed a ristrutturare questa proprietà per adibirla a casa di cura specializzata nel trattamento di comportamenti sessuali atipici. I nostri pazienti sono persone che hanno tendenze generalmente giudicate, per lo più negativamente, secondo criteri morali, piuttosto che dal punto di vista clinico.
Come può ben capire, questa iniziativa ci ha creato non pochi problemi, perfino nell’ambiente medico, ma ci ha portato una clientela molto scelta, fatta di persone che, data la loro elevata posizione sociale, non possono permettersi di affrontare la censura del loro ambiente. La principessa è stata ed è ancor oggi una nostra paziente; anche se non ha risolto del tutto i suoi problemi, ha compiuto notevoli progressi.
Jamal riapparve circa un mese dopo che l’avevo rivista. Cominciò un periodo molto delicato, perché l’applicazione della mia terapia per il controllo dell’aggressività ci conduce al margine di ciò che la legge e la morale corrente consentirebbero».
Il tenente allora aveva chiesto qualche chiarimento, che l’imperturbabile dottore gli fornì di buon grado:
«Li inducevo ad esprimere liberamente le loro pulsioni negli incontri organizzati con giovani di entrambi i sessi. Mentre la principessa era prevalentemente ninfomane e manifestava occasionalmente dei comportamenti sadici, Jamal era decisamente sadico, perdeva ogni controllo. È evidente che ciò portava alla necessità di remunerare adeguatamente i partecipanti esterni».
«Dottore, le dicono qualcosa i nomi di Violette, Julia, Annemarie, Stefie e Andrea? In quali occasioni sono state sue ospiti, e con quali conseguenze?»
Steiner aveva scosso il capo.
«Non mi dicono niente. Se lei le ha interrogate e le hanno risposto che sono state qui, non ho motivo di dubitare che abbiano detto la verità. In ogni caso, saranno state ricompensate generosamente per la loro partecipazione».
In quel momento era entrata come una ventata la principessa. Nella descrizione che ce ne fece Gus, la prima cosa che si notava di lei era lo sguardo penetrante. Elegantissima nella blusa e nel fuseau che le fasciavano il corpo, comunicava una femminilità aggressiva che spiegava bene come avesse sedotto sia Jamal che il dottore. Aveva elargito uno smagliante sorriso, scusandosi per l’irruzione, si era avvicinata al dottor Steiner con un o felino, e gli aveva scoccato un bacio, accompagnato da una carezza talmente sensuale da mettere in imbarazzo i due poliziotti. Quindi era uscita così come era entrata, e poco dopo si era udito, ovattato, il rombo del motore che denunciava la partenza di una Mercedes 300SL, quella che avevamo visto Roberto ed io.
Non persi l’occasione di prendere un po’ in giro il tenente.
«Gus, pare proprio che la principessa abbia fatto colpo su di te. Non avrai mica perso anche tu la testa per lei?»
Il tenente mi gratificò di un’occhiataccia e di un epiteto prima di riprendere la narrazione.
«Il dottore ci ha invitato a visitare il fabbricato della clinica, nei limiti imposti dal rispetto per i pazienti. Beh, devo dire che non ho mai visto un luogo di cura tanto lussuoso, sia per la struttura che per l’arredamento.
Oltre ad alcune salette per le terapie, c’è addirittura un hammam,[23] con ampi
letti di fogge diverse. Il bagno turco, rivestito da un mosaico che riprende scene pompeiane, può ospitare almeno una trentina di persone. Eppoi ci sono docce, la vasca dell’acqua fredda, una piscina coperta di 12 metri per 6… Basta così, non divaghiamo troppo.
Ritornati nello studio, Steiner ci ha mostrato un album di fotografie, dove lui, Jamal e la principessa erano ritratti con altre persone su una spiaggia algerina. C’erano anche delle altre foto, alcune piuttosto disinibite. In una Jamal posava coperto da un succinto perizoma; sembrava un dio greco e il dottore ebbe un attimo di emozione nel vederla. Un’altra mostrava la principessa e Jamal nudi, ripresi a mezzo busto in un abbraccio che lasciava intuire un vero e proprio amplesso.
La mia attenzione è stata attirata da una foto in cui compaiono Jamal e la principessa in costume da bagno accanto a Romeo che indossa una livrea da fine settecento; sullo sfondo, alle loro spalle, tre ragazze in un succinto costume da odalische e due ragazzi coperti da pantaloni a sboffo che ben poco nascondono. Gli ho chiesto se potevo prenderla per esaminarla meglio; lui ha gettato un’occhiata alla foto, ha abbozzato un sorriso mesto e ha accennato di sì con il capo. Poi, forse perché aveva visto la mia espressione incuriosita, mi ha spiegato: “Vede tenente, questa foto è stata scattata durante una festa a tema, che avevo organizzato in onore di Jamal; si era occupato lui di trovare ragazze e ragazzi compiacenti. Romeo non gradiva queste iniziative; vi era stato tirato dentro da Jamal, che esercitava su di lui un certo potere. L’italiano, che non era affatto omosessuale, era ambivalente nei confronti di Jamal, che suscitava in lui sentimenti misti di attrazione e repulsione. Quella sera avvenne un episodio increscioso. Erano già le due del mattino e tutto era andato bene fino a quel momento; la mia terapia aveva seguito il suo corso con risultati soddisfacenti. Una delle ragazze della foto, non saprei dirle quale, era oggetto delle attenzioni di Jamal. Essendo impegnato con la principessa, non ho visto cosa stesse accadendo, finché non ho udito le urla della ragazza, che scappava spaventata, inseguita da un Jamal sovreccitato, il quale le stava strappando di dosso gli abiti che vede nella foto. Fu in quel momento che Romeo, facendo scudo alla ragazza, si parò davanti a Jamal puntandogli contro una pistola. Per un attimo temetti che succedesse l’irreparabile; invece Jamal come per un miracolo si calmò, guardò
con occhi allucinati Romeo e poi gli disse: È tua, so che ti piace… ma non farlo mai più. E… Non sentii cosa aggiunse; ma il giorno dopo, Romeo mi presentò le sue dimissioni. Povero Romeo!”».
Rimanemmo tutti silenziosi.
Capitolo 16Una visita notturna
Dopo qualche minuto di silenzio, Augusto chiese:
«Gus, non ci hai detto niente del dottor Riegling, che pure era presente. Sospetti che sia implicato davvero anche lui in questa vicenda?»
«Non è semplice intuire il ruolo di Riegling. Fin dall’aspetto fisico la sua presenza mal si accorda con quell’ambiente. È vicino alla cinquantina, alto e corpulento, capelli biondi che cominciano a sbiadire; fronte bassa e sfuggente, sopracciglia molto sottili che poco si addicono ai due occhi bovini verdi intenso, quasi privi di ciglia; il naso grosso su due labbra carnose, un pizzetto sul mento. Mentre Steiner è una persona raffinata, lui richiama l’immagine di un contadino grossolano con il suo corpo massiccio ed i movimenti goffi. Non bisogna commettere, però, l’errore di sottovalutarlo: l’esperienza mi ha insegnato che talvolta dietro una facciata come quella, dismessa e rozza, si nasconde un’intelligenza di tutto rispetto».
Tornai sul mio argomento preferito, le armi.
«Cosa ha detto a proposito del suo nuovo fucile militare? È parso imbarazzato?»
«Nient’affatto. Ha detto che voleva acquistare da tempo uno Stgw 57 ed ha avuto la fortuna di trovarne uno, come nuovo, ad un prezzo veramente conveniente. Glielo ha venduto un vecchio cacciatore, il dottor Schmidt di Münchwilen, che per l’età e la vista ha rinunciato alla caccia, tanto che con il
fucile gli ha regalato l’attrezzatura per caricare i bossoli, un po’ di polvere da sparo e delle palle. Ha aggiunto: “Tenente, ho sparato proprio ieri al daino, che tenevo sotto osservazione da tempo nei pressi del collegio; un tiro da circa 250 metri, ed il daino è crollato, come fulminato. Se accetta, la invito con piacere a mangiare la sella di daino al ristorante dell’hotel Hecht di Sankt Gallen, il prossimo martedì”. Sono state proprio queste le ultime battute scambiate nel corso della visita alla villa. Poi sono ritornato in ufficio».
Con una certa ostinazione, restai sul tema, cambiando bersaglio.
«C’è qualche novità, magari, sul fronte della pistola Walther PPK?»
«Cosa credi, che la gente faccia la fila per portarci informazioni? C’è bisogno di tempo…»
La serata era finita. Ci alzammo ed ognuno se ne andò nella propria camera.
L’attesa si faceva sempre più logorante. C’è bisogno di tempo… Già, il tempo, dover attendere per qualsiasi cosa. Stava diventando quasi insopportabile.
Non riuscendo a prendere sonno, ad un certo punto mi alzai e, indossata la tuta ed un paio di scarpe da ginnastica, scesi nel parco. Non c’era nessuno in giro. Mi avviai a piccola corsa verso il lago per proseguire, senza cambiare il o, verso Rorschach e poi nella direzione della villa del dottor Steiner, come attratto da una calamita. In Svizzera, allora come oggi, dopo una certa ora per le strade non c’era anima viva, era un vero deserto; grazie a Dio non pioveva e la temperatura, sebbene fossimo alla fine di novembre, a causa del phön era molto mite. Arrivato nei pressi della villa, mi guardai intorno e poi, come spinto da una
molla, penetrai nel varco della siepe dalla parte del cancello secondario, mi introdussi nel giardino e mi diressi alla clinica. Nella mia incoscienza, non ero stato neanche sfiorato dall’idea che potessero esserci dei cani da guardia o che il custode tenesse d’occhio il parco.
Mi accostai alla porta dalla quale avevo visto Steiner entrare per poi fare l’iniezione alla paziente, feci qualche giro di manovella alla mia torcia e la puntai sulla serratura. Provai a ruotare la maniglia e con sorpresa mi accorsi che non era bloccata; entrai e feci scorrere velocemente il raggio tutt’intorno. Intravvidi, su un letto molto grande, una figura umana coperta da un piumone, da cui spuntavano dei lunghi capelli scuri. Ancora qualche giro frenetico della manovella e la torcia rischiarò un viso da sogno, incorniciato da una massa enorme di capelli neri corvino, immerso in un sonno profondo. Un nasino perfetto che sormontava due labbra da bambola, mezzo nascoste dal piumone. Doveva avere non più di diciotto anni e non so cosa avrei dato per scoprire il resto del corpo. Il buonsenso m’impose di lasciar perdere e proseguire. Uscii dalla camera e mi trovai in un corridoio abbastanza lungo, fiocamente illuminato, interrotto da porte su ambo i lati. Aprii la porta più vicina alla mia destra ed entrai in punta di piedi. La luce della torcia cadde su un uomo di mezza età che sembrava dormire completamente rilassato. Ero stupito dall’assenza di qualsiasi forma di controllo; in fin dei conti, i ricoverati dovevano essere tutti dei soggetti con problemi psichici.
Delle otto camere che si affacciavano sul corridoio, solo cinque erano occupate. In una c’era una paziente non più giovanissima, dall’aspetto piacente, che al mio ingresso si svegliò e mi chiese se fossi il nuovo infermiere; le risposi di sì, lei si rigirò e riprese a dormire. Il cuore mi batteva all’impazzata. In un’altra camera c’era una ragazza discinta, solo in parte coperta dalla sua lingerie, che nel sonno simulava i movimenti di un amplesso. Trovai ancora un giovane che sembrava in preda al ballo di san Vito: si agitava scompostamente, digrignava i denti ed in un linguaggio incomprensibile mormorava frasi che lasciavano intuire un’enorme agitazione interiore. Altre due camere erano vuote, mi mancava l’ultima camera prima della scala che portava allo scantinato e al piano superiore. Entrai e fui investito da un’ondata di profumo, come se qualcuno avesse versato sul pavimento un’intera boccetta di Chanel N°5. Anche alla luce scarsa della torcia
era evidente che quella camera era più grande e meglio arredata delle precedenti; il colore dominante era l’arancio tenue. Inoltre, era certamente molto più calda, la temperatura sarà stata di almeno 27 gradi. Al centro della stanza c’era un letto circolare, di cui potevo distinguere le lenzuola di raso nero guarnite di arancio; non me l’aspettavo, stavo quasi per sbatterci dentro. Girai ancora rapidamente la manovella e puntai la luce nel mezzo del letto, restando senza fiato, perché il mio sguardo si posò sulla più bella creatura che avessi visto in vita mia. Completamente nuda, le braccia e le gambe divaricate erano legate alle estremità del letto. I capelli erano di un nero corvino e lunghissimi, le arrivavano sicuramente alla vita. Il colore della pelle era ambrato, uniforme su tutto il corpo, senza traccia di biancore neanche sui seni e sul ventre. Il collo alla Modigliani si allungava dal petto dal quale si stagliavano i seni meravigliosamente pieni e sodi con dei capezzoli turgidi come more. Lo sguardo discese al ventre piatto, al pube e a due gambe lunghe e perfette, messe in risalto dalla posizione forzata. L’emozione mi aveva paralizzato le mani, così ricaddi nel buio più completo. Mi rimisi a girare in modo forsennato la manovella, feci ancora un o avanti e puntai la torcia sul viso di quella dea. Avevo perso ogni misura, ogni senso della discrezione. La fronte spaziosa scendeva morbidamente fino ai sopraccigli che parevano dipinti, due occhi verde smeraldo con delle ciglia lunghissime mi stavano fissando. Con voce esitante, in un inglese incerto, mi chiese se ero il nuovo infermiere. Era la seconda volta che mi veniva posta la stessa domanda. Affermai che lo ero e le chiesi se potevo fare qualcosa per lei. Il sorriso che apparve su quelle labbra turgide non lo avrei dimenticato per tutta la vita: il nasino le si arricciò lievemente e delle piccole rughe le incresparono gli angoli degli occhi.
«Ti prego, allentami un poco le cinghie delle braccia e delle gambe. Poi… fai l’amore con me. Amami con tutto te stesso, senza nessun freno, te ne supplico, altrimenti, domani dovrò prendere la mia razione di calmanti che mi stordiscono e mi uccidono. Quando avrai finito, lasciami tornare ai miei sogni».
Rimasi basito, non sapevo che fare. Come si poteva rifiutare l’invito di una donna tanto stupenda? La tentazione era enorme. A fatica, mi riscossi e ricordai a me stesso dove ero e perché ero lì. Mi accostai al suo volto, depositai un bacio su quelle labbra che sembravano fatte solo per quello e le sussurrai:
«In questo momento non posso farlo perché devo finire il mio giro d’ispezione. Torno tra poco, va bene?»
Parve molto contrariata; il suo sguardo si indurì per il risentimento, ma quella reazione durò poco. Mentre ruotavo freneticamente la dinamo per non perdermi niente di quella visione, lei si rilassò nuovamente e fece riaffiorare il sorriso che mi aveva incantato.
«Ti prego, ti scongiuro, torna, fai presto, ho bisogno di fare l’amore… Ti aspetto».
Mentre parlava, il suo corpo a tratti si contraeva e si muoveva seguendo la traccia di chissà quali fantasie erotiche. Uscii con il cuore in tumulto, turbato sia mentalmente che fisicamente. Quanto mi aveva attratto la sua bellezza, tanto mi disturbava il fatto che fosse legata.
Scesi le scale e mi trovai in un ambiente raffinato. Mi sembrava di essere in uno di quei lussuosi bagni termali turchi che avevo visto in alcuni dipinti. La piscina era rivestita con un mosaico che si espandeva a formare il pavimento circostante, per lasciare poi lo spazio al legno ed ai tappeti; vi contai una decina di letti per relax e massaggi. Il locale si apriva su un salone dal pavimento tutto rivestito di moquette, arredato con grandi cuscini e adornato con tappeti alle pareti; immaginai che fosse la sala delle “feste”, o sedute terapeutiche, come le definiva il dottor Steiner. Stavo per cominciare a salire le scale, quando udii un leggero rumore al piano superiore. Istintivamente, m’infilai sotto la scala ed aspettai con il cuore come impazzito. Nel buio completo, non vedevo nulla; tesi le orecchie, ma a lungo non sentii altri suoni. Mi dissi che sarebbe stato difficile udire qualcosa, perché anche al piano superiore c’era una spessa moquette sul pavimento. Dopo un tempo che mi sembrò infinito, uscii e o dopo o cominciai a risalire le scale in punta di piedi. Nessun rumore, niente, il fruscio
dei miei movimenti era ovattato come se fossimo sotto una campana di vetro. Il pensiero di tornare dalla dea continuava a martellarmi in testa, ma alla fine la ragione, o forse la paura, ebbe la meglio e uscii nel prato umido. Di corsa mi precipitai verso il aggio nella siepe per tornare al castello ed alla mia camera.
Quella notte la figura della splendida sconosciuta continuò ad affiorare e a danzarmi davanti agli occhi, a tratti reale, quasi tangibile, a tratti irreale, incorporea, come se l’avessi soltanto sognata. Si erano fatte le due del mattino; mi addormentai cullato dal sogno e dalla speranza.
Quando, la mattina dopo, mi unii agli altri per la colazione, certamente il mio viso doveva portare ancora evidenti segni del turbamento. Il tenente mi squadrò e mi chiese senza tanti preamboli:
«Cos’hai? Lo porti scritto in faccia che ti è successo qualcosa».
Non seppi che rispondere. Abbassai lo sguardo e mi agitai sulla sedia. Gus insistette:
«Avanti, parla. Di qualunque cosa si tratti, sai che prima o poi lo scoprirò».
Deglutii.
«Niente… È che senza volerlo mi è capitato di vedere una persona… una ragazza… bella, molto bella, ma strana, forse malata, o pazza».
«Ti è capitato, eh? Senza volerlo, vero? Non dirmi che questa notte ti è capitato di entrare nella clinica ed hai visto, senza volerlo, la maharani Trishna? Ieri non l’ho nominata per non alimentare la vostra insana curiosità, ma devo constatare che con voi non è possibile stare tranquilli. Riccardo, Trishna è la figlia di un maharaja indiano ed ha solo 15 anni. È, secondo il dottor Steiner, una paziente molto difficile, con la quale dubita che potrà avere successo. Ti rendi conto di aver compiuto un vero e proprio reato entrando senza autorizzazione in una proprietà privata? Cosa sarebbe successo se il custode o un infermiere ti avessero visto?».
Mi resi conto che l’avevo fatta grossa. Mi sentii confuso, ed anche un po’ umiliato. Per riguadagnare la benevolenza del tenente, mi aggrappai ad un particolare che mi era tornato alla mente mentre ero nella clinica per effetto dell’arredamento arabeggiante della piscina e del salone.
«Gus, ti chiedo scusa. È stata una vera sciocchezza; però, forse, aver visto il salone delle feste potrebbe non essere stato del tutto inutile, perché mi ha suggerito un’idea. Potresti, per cortesia, farmi dare un’occhiata alla fotografia che hai prelevato dalla villa di Steiner?»
Mi guardò sorpreso, parve esitare, poi andò nell’atrio a prendere la sua cartella, la aprì e ne estrasse una foto che mi mostrò. Guardai la foto con attenzione, mi spostai verso la finestra per avere più luce e annunciai trionfante:
«Ecco, lo sapevo! Quando ho visto i cuscini e i tappeti mi è affiorata nella mente una parola usata da Gabriella, “odalisca”. Ed eccola qua in questa foto, abbastanza ben riconoscibile!»
Così dicendo la ai ai miei amici, che riconobbero entrambi la “mia” Gabriella in una delle ragazze in posa.
Un buon risultato, avevo guadagnato dei punti; ma, purtroppo, a quel punto non sapevo cosa pensare. Com’era possibile che Gabriella, con quella sua aria da ragazza di campagna, si fosse lasciata coinvolgere in un’orgia? Il termine appropriato per me era quello: orgia; macché terapia! Comprendendo il mio stato d’animo, Gus cercò di calmarmi, promettendomi che la sera avrebbe saputo dirmi qualcosa di più, e con queste parole ci lasciò per andare in ufficio.
Mi sforzai di seguire i suoi consigli e di stare tranquillo, ma con scarso successo. Una ridda di pensieri, di immagini mi agitava la mente; Gabriella, la dea, l’altra paziente e la ragazza del piumone si accavallavano come in un caleidoscopio.
I miei amici mi incalzarono a raccontare cosa avevo fatto nella notte; dovetti cedere e mettere da parte per il momento il groviglio di emozioni. Come ebbi finito, li investii con le domande sulle quali mi stavo arrovellando:
«Aiutatemi a ragionare, a capire. Cosa ci faceva Gabriella in quella foto così agghindata? Certamente era una delle tante ragazze che partecipavano alle cosiddette sedute terapeutiche di Steiner; quindi, lei conosceva Romeo, Jamal, Steiner e la principessa. Perché non me ne ha mai fatto cenno? Romeo che ruolo ha giocato? Scommetto che la ragazza difesa da Romeo mentre stava scappando fosse lei, Gabriella. Se a Romeo piaceva Gabriella, fino a osare di fronteggiare Jamal, perché non c’è stato nessun seguito tra loro? Se invece c’è stato, perché è finito e perché mi ha dichiarato il suo grande amore, avendo alle spalle quella storia tanto ingarbugliata? Chi ci assicura che si trattò di un incidente e non fosse una frequentatrice abituale della villa?»
Mi fermai, perché mi resi conto che stavo affastellando domande alle quali non
avrei trovato risposte, forse per la mia età e la scarsa esperienza delle donne. Sia Augusto che Roberto mi lasciarono parlare, ed essendo emotivamente meno coinvolti, cercarono di offrirmi delle spiegazioni plausibili.
«Mettiti nei suoi panni. Cosa ti doveva dire Gabriella, che aveva partecipato a dei festini rosa? Non sembra una persona doppia. È possibile si sia aggrappata al rapporto con te come a un’ancora per tirarsi fuori dalla situazione precedente. Non potresti biasimarla per questo. D’altra parte, a te ha fatto piacere che fosse molto disponibile; che ti aspettavi, che fosse vergine?»
I loro discorsi, più che aiutarmi, mi frastornarono. Salii in camera, mi cambiai e decisi di fare una bella corsa per allentare la tensione. Arrivai al sottoaggio e nella penombra ebbi la visione del volto sorridente di Trishna; fui assalito da una voglia di rivederla tanto struggente quanto irrealizzabile. Così corsi ancora più forte, sempre più forte, finché mi decisi a ritornare ad un ritmo sostenibile. Dopo un’ora, sfinito e sudato ritornai in camera, mi feci una lunga doccia e cominciai a mettere giù delle annotazioni. Il suono della camla che annunciava il pranzo mi colse di sorpresa, seduto davanti ad un mucchio confuso di fogli, che avrei fatto fatica a riordinare; l’appetito mi indusse a muovermi e scendere nella sala da pranzo. Da quando ero ritornato non avevo incontrato né Augusto né Roberto; non erano nelle loro camere e non li trovai neanche nella sala da pranzo. Uscii e li vidi spuntare dal viale che portava al lago.
Quando arrivarono a portata di voce, non persi l’occasione di prenderli un po’ in giro.
«Scommetto che la descrizione di Trishna vi ha talmente intrigato che vi ha fatto dimenticare quanto siete fifoni».
La risposta di Roberto fu sdegnosa.
«Non siamo come certa gente, che fa le cose, senza avvisare. Siamo andati fino al lago ed abbiamo riesaminato tutto l’accaduto per arrivare ad una conclusione. Perché noi abbiamo un cervello in testa».
«Quale?»
Augusto non si smentì.
«Ora prima mangiamo e poi ne parliamo».
Così pranzammo senza accennare ai problemi, ma è inutile dire che la mia curiosità era cresciuta a dismisura; non vedevo l’ora di confrontare le mie ipotesi con le loro.
Ci recammo al gazebo e, dopo aver le sigarette, Augusto cominciò ad esporre il frutto delle loro elucubrazioni:
«Secondo noi, è stato un uomo l’assassino di Jamal, perché una donna non poteva essere tanto forte da staccargli quasi la testa dal collo con un colpo di coltello. Potrebbe essere stato anche Romeo, atterrito da qualcosa di scellerato che Jamal voleva fargli commettere. Dopo averlo ucciso, ne informò Steiner, con il quale era rimasto in ottimi rapporti; magari non è vero che fossero buoni come dice il dottore, può darsi che Romeo lo ricattava per quello che aveva visto alla villa. Dopo di ciò, qualcuno, uomo o donna che fosse, ha pensato bene di spararci. Qui non abbiamo una spiegazione convincente. Intimorirci, ma perché? Forse, visto che eravamo pericolosamente vicini alle faccende della villa, per via
del nostro rapporto con Romeo e con le ragazze, che allora non sapevamo essere importante, volevano dissuaderci dal ficcare il naso; o forse speravano che lasciassimo il collegio, perché sappiamo qualcosa di cui non apprezziamo ancora l’importanza. Secondo Roberto, ci ha sparato la principessa: nessuno avrebbe sospettato di lei, non era ancora apparsa sulla scena. Certo, sarebbe da considerare pure il dottor Riegling, ma per il momento lo abbiamo escluso, perché, fino a prova contraria, non pare coinvolto come gli altri.
Veniamo a Romeo. Secondo noi è stato ucciso perché deve aver detto a qualcuno che non voleva stare più al gioco, che alla villa si erano spinti troppo oltre. La principessa è la principale indiziata dell’uccisione di Romeo, perché lei, innamorata di Jamal, aveva capito che l’assassino era lui, ed anche perché vedeva delle grosse nuvole addensarsi su tutta la faccenda: la morte di Jamal avrebbe fatto uscire gli scheletri nell’armadio, e Romeo era un testimone scomodo.
Quanto alla storia tra Romeo e Gabriella, poteva essere iniziata per reciproca simpatia e poi era finita quando Jamal, che li aveva raggiunti al collegio, aveva messo al corrente Gabriella dei trascorsi poco lodevoli di Romeo.
Se Romeo, dunque, aveva avuto un ato poco pulito ed era stato l’assassino di Jamal, che ragione aveva di mandarti a chiamare dal letto d’ospedale? C’è una sola risposta possibile: sentendosi in fin di vita, voleva scaricarsi la coscienza, e voleva farlo con l’unica persona con la quale sentiva di aver stabilito un rapporto umano negli ultimi tempi».
L’ipotesi che avessimo visto o sentito qualcosa di cui non capivamo l’importanza mi parve ragionevole. Già, ma cosa? Per quanto mi sforzassi, non mi veniva in mente nulla. Su Romeo, invece, non mi trovavo d’accordo, e lo dissi:
«Romeo un assassino? Proprio non ce lo vedo, per una questione caratteriale dell’uomo Romeo; è vero, una persona non la si conosce mai fino in fondo, ma lui era troppo mite, mai un accenno di rabbia o di aggressività. Io, piuttosto, temo che stiamo dando alcune cose per scontate. Per esempio: la ferita di Jamal è stata realmente causata dal coltello di Le Loup, o l’assassino ha usato un’altra lama e successivamente ha sporcato di sangue il coltello per sviare le indagini? Non è sospetto che il coltello sia stato lasciato dove avrebbe potuto essere facilmente ritrovato?
Io penso che Romeo sia stato ucciso semplicemente per evitare che parlasse. Per me rimane una sola ed unica pista, quella dei due bravi dottori, senza escludere la collaborazione della principessa, la quale potrebbe essere stata l’esecutrice materiale sia dell’attentato che del ferimento di Romeo. I motivi dell’esecuzione di Jamal possono risalire a eventi del ato, difficili da identificare. Romeo, lo ripeto, è stato ammazzato per essere messo a tacere».
Capitolo 17Il dottor Jürgen Riegling
Quella sera la nostra speranza che il tenente ci portasse qualche buona notizia andò delusa; alle 18,30 Gus ci telefonò per dirci che non poteva raggiungerci e che ci saremmo visti il giorno seguente. Dopo cena uscimmo a sgranchirci le gambe e a fumarci una sigaretta, e poi ci sedemmo per una buona ora davanti al camino a rimuginare i nostri pensieri, purtroppo senza il sostegno dell’armagnac. Dissi ai miei amici che mi pareva importante accertare se l’arma adoperata per colpire Jamal fosse stata realmente il coltello di Le Loup, e che avrei chiamato Gus per farglielo presente; mi alzai e andai al telefono. Sentii la voce allarmata del tenente dall’altro capo.
«Che c’è? Cosa è successo?»
«Nulla, nulla, sta’ tranquillo. È solo per riferirti un’osservazione».
Quando l’ebbi messo al corrente del mio dubbio, convenne che era una considerazione interessante.
«Beh, è vero che non abbiamo indagato più di tanto sul taglio, ma posso rileggere con attenzione il referto medico legale; anzi, andrò a parlare con lui domani mattina. Spero che abbia esaminato con cura il taglio; sarebbe troppo tardi pensare di farlo adesso, perché il corpo ormai è in cenere.
Ciao… Ah, quasi dimenticavo: lascia stare Trishna, chiaro?»
Obtorto collo, dovetti prometterglielo.
Visto che Gus non era venuto, decidemmo di giocare a poker. Nel salotto c’era anche un tavolo da gioco; prendemmo le carte e ci dotammo di un fondo di dieci franchi a testa. Per rendere il gioco più vivace, fingendo di essere ricchi scommettitori al casinò, scalammo il valore delle fiche in modo che il loro valore fosse di un milione di franchi. Cominciai col vincere tre mani di fila, ma poi presi a perdere senza tregua, finché alle 10 pagai i miei dieci franchi e me ne andai a dormire.
Anche quella notte fu tormentata dalle figure femminili che avevano attraversato la mia vita in quegli ultimi tempi. Se ne dissolveva una e ne compariva un’altra, protagoniste di fantasie erotiche sfrenate. All’una mi alzai e trangugiai l’intera bottiglia d’acqua; non trovai di meglio che fare una doccia scozzese, alternando getti d’acqua calda e fredda per cinque minuti. Mi sentii molto meglio e riuscii finalmente a prendere sonno.
La mattina caddi in preda di una sorta di irrequietezza. Provai a studiare, ma senza successo; allora bussai alla porta di Augusto, poi a quella di Roberto, per invitarli a farmi compagnia in una eggiata. Tempo cinque minuti, eravamo sul lungolago e, come se avessimo già concordato la meta, ci trovammo davanti alla villa di Steiner. Girammo tutt’intorno e provammo a sbirciare nel giardino attraverso la siepe, prima dalla parte dell’entrata principale e poi dalla secondaria, ma non vedemmo alcun movimento. Alle 11 in punto, mentre stavamo per ritornare, sentimmo il rombo, ormai arcinoto, di una Mercedes 300SL. Ci spostammo sulla Turgaustraße, in modo da tenere d’occhio entrambi i varchi. Dopo qualche istante, vedemmo il cancello principale aprirsi e la Mercedes del dottor Riegling uscire e procedere in direzione di Arbon. Ritornammo alla siepe e constatammo che un’altra Mercedes era parcheggiata nella rimessa. Stavamo proseguendo verso il cancello secondario, quando un nuovo rombo di auto ci spinse a nasconderci frettolosamente dietro gli alberi sul lato opposto della strada. Il cancello si aprì e ne uscì una Mercedes 300 SL, che
si diresse anch’essa verso Arbon. La donna al volante doveva essere la principessa; questa volta riuscimmo a vederla bene, e dovemmo ammettere che il dottor Steiner aveva degli ottimi gusti in fatto di donne, oltre che di arte e di automobili. Ritenendoci ripagati della nostra perseveranza, riguadagnammo la Turgaustraße per ritornare al nostro alloggio; ma non avevamo percorso neanche un centinaio di metri, quando quel rombo inconfondibile ci giunse nuovamente alle orecchie. Ci voltammo e vedemmo la terza Mercedes uscire dal cancello principale e avviarsi verso Arbon. Mi misi a correre, gridando ai miei compagni di seguirmi. Dopo qualche centinaio di metri raggiungemmo il piazzale della stazione ferroviaria, dove erano parcheggiati alcuni taxi. Salii sul primo della fila, seguito da presso da Roberto e da Augusto, e chiesi al conducente di portarci ad Arbon. Entrati nella cittadina, il tassista mi domandò dove dovevamo andare; sul momento non seppi che rispondere, ma Roberto mi venne in soccorso chiedendogli di portarci al migliore ristorante di Arbon. Nel giro di qualche minuto fummo sul lungolago, e mentre il taxi si fermava scorgemmo, quasi come ad un autoraduno, le tre Mercedes ordinatamente affiancate nel parcheggio riservato al ristorante. Vista l’ora, capimmo che non potevamo trattenerci più a lungo e ci facemmo portare velocemente al castello. Se qualcuno degli uomini di Gus ci aveva visti, certamente quella sera ci saremmo beccati una bella ramanzina. Potevo già figurarmela. A che era servita la nostra bravata? Avevamo visto due soci e la fidanzata di uno di loro che erano andati a pranzare insieme nel migliore ristorante di Arbon. E allora? Cosa c’era di sospetto?
Andammo nella sala da pranzo, abbacchiati per la stupidaggine inconcludente, che ci era pure costata la bellezza di quasi dieci franchi. Immerso nei miei pensieri, mi lasciai scappare: «Forse era il momento giusto per vedere Trishna…» Roberto e Augusto mi tirarono un piccolo calcio sotto il tavolo e scoppiarono in una sonora risata, alla quale mi unii.
Dopo pranzo, cominciò un altro pomeriggio che si prospettava interminabile nella sua monotonia; non avevamo alcuna voglia di studiare, ci sentivamo perennemente in attesa di qualcosa, ma non sapevamo neanche noi di cosa. Cercammo l’assistente di Gus e gli chiedemmo il permesso di andare al cinema a Rorschach, dove davano il film La donna che visse due volte[24]con Kim
Novak. Ottenemmo l’autorizzazione e fummo accompagnati al cinema. Al ritorno, falliti i tentativi di dedicarci allo studio accogliemmo con sollievo il rumore sul ghiaietto della corte dell’auto del tenente. Ne discese un Gus dall’aspetto stracco e accigliato. Prima che potessimo aprir bocca ci redarguì:
«Ora basta, state esagerando. Capisco la vostra tensione e la vostra noia, ma quello che avete fatto quest’oggi è veramente pura idiozia. Che bisogno avevate di seguire quei tre? Non vi è ato per la testa che sono sotto sorveglianza?»
Non provammo neanche a giustificarci, ce lo aspettavamo. Ci sedemmo a tavola e la cena non fu delle più allegre; Gus, assorto nei suoi pensieri, disse a malapena due parole. Pensammo che quella sera avremmo dovuto fare a meno dell’armagnac e della rituale riunione del dopo cena. Invece, finita la cena, il tenente si recò nella stanza accanto, prese il vassoio, i balloon e l’armagnac e ci invitò a seguirlo nel salotto.
Una volta seduti, con nostra meraviglia, perché non l’avevamo mai visto fumare, ci chiese una sigaretta, la accese e, finalmente, cominciò a parlare.
«Sono stati due giorni poco piacevoli. Ho dovuto fare i conti con i miei superiori, che hanno messo in dubbio l’efficacia del dispositivo adottato per proteggervi e hanno criticato la lentezza con la quale procede l’inchiesta. È in gioco il mio futuro, c’è poco da stare allegri».
Non gli chiedemmo niente; se voleva, sarebbe stato lui a parlare. Finita la sigaretta e bevuto un secondo armagnac, si rivolse a me.
«Come mai ti è venuto in mente che potrebbe non essere stato il coltello l’arma
usata su Jamal?»
«Si è trattato di una catena di pensieri. Il primo è stato che chi aveva preso il coltello doveva sapere dove Jamal lo custodiva e mi sono pure chiesto che fine avesse fatto il fodero».
«Abbiamo trovato il fodero, era in camera sua. Torniamo, però, alla questione dell’arma».
«Ieri sera, mentre pensavo al coltello, ho rivisto nitidamente quell’orribile taglio, come se stessi osservando una fotografia; un taglio netto, senza le slabbrature che una lama così spessa, per quanto affilata, avrebbe dovuto lasciare. Osservando pure che è stato tanto facile trovare l’arma, mi sono chiesto: E se fosse tutta una messinscena?».
Il tenente annuì.
«Questa mattina sono andato dal medico legale. La sua opinione è che i bordi della ferita sono poco compatibili con il filo del coltello, mentre hanno le caratteristiche di un taglio praticato con una lametta, che però sarebbe difficile da maneggiare, o di un bisturi. Ciò significa che i sospetti si appuntano su un chirurgo o su qualcuno che abbia le stesse abilità manuali ed una discreta conoscenza dell’anatomia. Di qui ad incolpare il dottor Steiner, però, ce ne a. Non ci risulta che abbia un movente, e le sue dichiarazioni di affetto per la vittima paiono sincere».
Mi ricordai della foto con Gabriella.
«Sei riuscito a sapere qualcosa da Gabriella, se è lecito chiederlo?»
«È inutile girarci intorno; tanto vale dirti subito che la tua cara Gabriella ha partecipato ad alcune sedute “terapeutiche”; quella foto fu scattata in occasione della terza ed ultima volta. Ha detto che il dottor Steiner si è dimostrato sempre molto generoso: una di quelle serate le fruttava quanto due mesi di lavoro al collegio. E sì che di soldi ne aveva proprio bisogno, perché sua sorella era morta, lasciandole l’onere di mantenere in Italia la figlia di due anni e mezzo».
«La sua versione dell’incidente occorso l’ultima sera concorda con il racconto di Steiner?»
«Sostanzialmente sì, con l’aggiunta di una quantità di particolari non propriamente edificanti. Quella sera tutto stava andando per il meglio: lei non avrebbe dovuto far altro che la parte dell’odalisca, perché per le prestazioni sessuali erano stati ingaggiati i due ragazzi e le altre due ragazze della foto; sennonché ad un certo punto la principessa si era staccata dal dottor Steiner ed era corsa nelle braccia di Jamal chiedendogli di ordinare a Gabriella che ballasse per lei, la baciasse e la accarezzasse. Lei cercò di rifiutarsi, ma Jamal, stringendole le braccia fino a farle male, la obbligò ad inginocchiarsi davanti alla principessa per praticarle sesso orale. Siccome lei si rivoltò con tutte le sue forze, lui le strizzò i capezzoli, poi le strappò i pantaloni e la penetrò con la mano, causandole un dolore atroce. Si mise a gridare, si divincolò, corse verso l’uscita della sala e si precipitò nel giardino, in preda ad una paura cieca. Si sentì avvolgere con una coperta e si trovò dietro Romeo, che col braccio teso puntava una pistola alla testa di Jamal. In quel momento uscì il dottore, che con voce calma e suadente, in una lingua che lei non conosceva, riportò la calma. Volle che Gabriella rientrasse e la visitò immediatamente, medicandole le contusioni ed i graffi al seno ed ai genitali. Quando lei protestò dicendo che quelli non erano i patti e che il giorno dopo avrebbe denunciato Jamal, il dottore cercò di calmarla parlandole dolcemente ed offrendole 5.000 franchi per farla desistere dallo sporgere denuncia. Lei, che in quel momento voleva solo andarsene,
dichiarò che non ne faceva una questione di soldi, perché era già stata pagata per quella sera e non avrebbe preteso altro; voleva denunciare Jamal solo per impedirgli di comportarsi in maniera bestiale anche con altre donne, magari con conseguenze peggiori per le disgraziate. Per tutta risposta, il dottore le mise in mano 10.000 franchi e le disse che l’avrebbe fatta accompagnare a casa da Romeo. Non ebbe la forza di rifiutare, quella somma per lei era pari ad un anno di stipendio; prese il danaro ed acconsentì a rinunciare al suo proposito».
«Tra lei e Romeo non ci fu nessun altro rapporto? Perché non è venuta a dirti niente di tutta questa storia né dopo la morte di Jamal né dopo quella di Romeo?»
«Tra loro c’era solo quella forte solidarietà che nasce tra conterranei all’estero; entrambi friulani, i loro paesi di origine erano vicini, e lei lo considerava come un fratello maggiore. Fu lui che la fece assumere al collegio, come del resto fece due anni dopo con Jamal. Lei e sua cugina Giuliana, appena arrivate in Svizzera, avevano trovato lavoro come cameriere in un ristorante di Arbon. Fu lì che il dottor Riegling la reclutò per le feste alla villa. Dapprima non ne voleva sapere, ma poi la prospettiva allettante di un facile guadagno e gli incoraggiamenti di Giuliana la convinsero ad accettare. Le serate, tranne l’ultima, non furono mai improntate alla violenza, anche se non si trattava certo di festicciole per educande. Solo una volta il dottor Riegling le dedicò una serie di attenzioni che la misero un po’ sull’avviso, ma niente di troppo spinto».
«Cosa intendi per “troppo spinto”? Qualche cosa in più del semplice sesso occasionale?»
«Riccardo, sei tu che hai chiesto notizie su Gabriella. Che ti aspettavi? Perciò, ora accetta i fatti così come sono e risparmiaci una scena di gelosia».
«Va bene, va bene, starò zitto. Comunque ecco che entra in ballo Riegling come membro attivo della combriccola, come ho sempre sospettato. C’è qualche nuova sul suo fucile?»
Gus riprese, infastidito:
«Andiamo con ordine e, se non ti è di troppo disturbo, non interrompermi ancora.
Per lo più si trattava di assistere a qualche amplesso tra il dottore e la principessa, seguito dall’intervento di Jamal che si univa a loro in pratiche bisessuali. Poi Gabriella e gli altri erano a turno o tutti insieme coinvolti in giochi erotici che implicavano carezze ed amplessi.
A lei, tranne l’ultima sera, non venne mai usata nessuna violenza. Il giorno dopo, si era ai primi di luglio del ’58, si presentò al ristorante di Arbon Romeo, che la informò delle sue dimissioni e della sua decisione di ritornare in Italia per un mese, per poi recarsi a Sankt Gallen, dove aveva trovato un’offerta di lavoro. Così fece, ed entrò al servizio del collegio nel mese di settembre. Nel gennaio del ’59, grazie ai buoni uffici di Romeo, Gabriella e Giuliana vennero assunte al collegio; lei si sentì sollevata, perché non poteva più sopportare i due dottori e la principessa, che tre volte alla settimana andavano a pranzare lì e la pregavano di tornare alla villa.
Questa è la storia di Gabriella, così come è stata messa a verbale. Aggiungo che la poverina era letteralmente distrutta. Provava vergogna per ciò che aveva fatto ed era molto grata a Romeo, che l’aveva aiutata a lasciarsi alle spalle quella squallida esperienza ed a sperare di poter allacciare una relazione sana, pulita. Ecco perché, Riccardo, ti aveva tenuto nascosto il suo ato».
Il tenente fece una pausa, poi riprese:
«Veniamo al fucile acquistato da Riegling. L’esame balistico dice che si tratta proprio dell’arma usata su di voi. Il problema è che il venditore è un anziano medico, cacciatore da lunga data, al di sopra di qualsiasi sospetto. Questo non ci consente di fare progressi.
Quanto alla pistola usata contro Romeo, è un vero gioiello nel suo genere. Vediamo se il nostro esperto di armi indovina da dove proviene».
In quel momento stavo pensando a Gabriella, senza riuscire a togliermi di dosso la sensazione di essere stato abbindolato, ma le parole di Gus mi punsero sul vivo.
«Accetto la sfida. Scommetto che viene dall’Algeria. Gli uomini della Legione ricevono l’armamento della dotazione, ma spesso possiedono anche delle armi depredate, delle quali non devono rendere conto, che, con l’aiuto di qualche officina, modificano e personalizzano. Quando mi hai detto del peso ridotto, ho capito che quella pistola non era di serie, ma si trattava di un’elaborazione opera di una persona molto competente. Per farla breve, la mia ipotesi è che Jamal abbia curato le modifiche necessarie per farne dono al suo amore, la principessa».
Lessi l’ammirazione sul volto dei miei amici; ma il tenente non parve altrettanto impressionato.
«Sulla provenienza, hai fatto centro. Il resto, però, attiene al regno della fantasia. Non c’è alcuna prova che la pistola sia appartenuta alla principessa».
Intervenne Roberto:
«Possibile che non ce ne sia traccia nelle fotografie che ritraggono la principessa con Jamal? Se ha ricevuto la pistola da lui, e l’ha adoperata con Romeo, deve essersi esercitata a sparare, e qualcuno della servitù potrebbe averli visti».
Il tenente scosse il capo in segno di diniego. La serata volgeva al termine, ed io avevo una proposta per il nostro gruppetto:
«Potresti convocare la principessa con un pretesto, parlare di Romeo e farle vedere la pistola; la sua reazione non proverebbe nulla, però potrebbe essere indicativa…
Comunque domani, se non avete nulla in contrario, vorrei invitarvi a pranzo in quel ristorante di Arbon dove Gabriella ha lavorato. Siate gentili, accontentami… Non chiedo poi molto».
L’invito ebbe l’effetto di riportare il buonumore, tanto che Gus riprese il suo abituale piglio ironico:
«Dovremmo estendere l’invito al dottore, chiedendogli di venire con la maharani Trishna nella mise del vostro incontro?»
Scoppiammo tutti in una fragorosa risata.
Capitolo 18La principessa Karin von Thünen und Strucker
A mezzogiorno lasciammo la nostra “prigione” e la vettura dell’assistente di Gus ci accompagnò al ristorante di Arbon. Era veramente un bel ristorante, piuttosto elegante; avrei avuto qualche problema a saldare il conto, se non fossimo stati prudenti con le ordinazioni. Lo dissi sorridendo ai miei amici, che furono davvero molto parchi. Stavamo gustando delle ottime trote del lago accompagnate da un buon bicchiere di Traminer, quando avvertimmo un improvviso silenzio attorno a noi. Alzando gli occhi, vedemmo la principessa. La descrizione che ce ne aveva fatto Gus era fedele, ma non valeva quanto vederla di persona. Per noi incarnava la quintessenza della femminilità. Molto alta, un portamento felino, avanzava su quelle lunghe e splendide gambe muovendo i fianchi in maniera naturale, ma terribilmente sensuale. Gli occhi azzurro intenso sembravano promettere il paradiso; si posavano sulle persone come se non ci fosse nulla di più naturale che guardarle intensamente e quasi sfrontatamente. Terminato il nostro pasto, restammo di stucco nel vedere Roberto alzarsi, avvicinarsi al tavolo della principessa, estrarre un foglietto e chiederle con disinvoltura un autografo. Lei lo squadrò come se lo esaminasse dentro e fuori, poi con un sorriso che la rendeva ancor più bella, attraente e deliziosa, fece segno a Roberto di sedersi accanto a lei. Ad un suo impercettibile cenno un cameriere si affrettò a portare un secchiello con dello champagne e due calici. Stappato lo champagne e versatolo, il cameriere si dileguò come era arrivato. Con una certa invidia vedemmo Roberto brindare con lei e ci rendemmo conto che la situazione stava evolvendo rapidamente. Infatti, dopo un ultimo brindisi, con nostro sommo stupore si alzarono ed uscirono insieme, e dopo un minuto udimmo il rombo inconfondibile della 330SL che usciva dal parcheggio. Avevo già pagato, così uscimmo velocemente a nostra volta e cercammo l’assistente di Gus, al quale chiedemmo di seguire la Mercedes.
In un primo momento pensammo che si sarebbe diretta verso Rorschach e la
clinica, invece al bivio prese la strada per Sankt Gallen. Chiedemmo all’assistente di mettersi in contatto con Gus per informarlo di ciò che stava accadendo e la radio, col suo gracchiare al limite della comprensione, restituì una imprecazione del tenente, seguita dalle istruzioni: «Va bene, seguili, ma non permettere a quelle teste calde di fare nulla senza la mia autorizzazione». Entrammo in Sank Gallen e ad un certo punto l’auto scomparve dalla vista, come se fosse stata inghiottita; incitammo l’assistente ad accelerare e riuscimmo a vedere l’inconfondibile retro dell’auto mentre frenava bruscamente per imboccare la strada per Zurigo. Richiamammo Gus per dirgli che secondo noi stavano andando a casa di lei a Münchwilen; non capimmo bene la risposta, ma vedemmo l’assistente accelerare e portarsi più vicino alla Mercedes.
La donna guidava velocemente con grande perizia. Ecco un’altra delle sue doti, pensai. All’altezza di Uzwill, azzardò un soro da cardiopalma, dopo il quale per un attimo pensammo di averla persa; ma la riavvistammo nei pressi di Rikenbach, dove la vedemmo proseguire verso Will e prendere per Münchwilen. La nostra incoscienza ci faceva invidiare Roberto. Poco prima del paese, l’auto entrò in un viale che portava alla villa che Gus ci aveva descritto. L’assistente si mise in contatto con lui; seguì un incomprensibile gracchiare e poi capimmo che gli aveva ordinato di entrare in paese ed attendere il suo arrivo. Non erano ancora trascorsi quindici minuti, quando vedemmo la sua auto arrivare a grande velocità. Ci guidò al bar della locanda di “Heidi” e, seduti che fummo davanti ad una tazza di cioccolata, esplose:
«Ora sì che mi avete messo nella merda più nera. Che scriverò nel mio rapporto se a quell’incosciente del vostro amico succederà qualcosa? Che la protezione che avevo il dovere di assicurarvi non era adeguata? Che la sorveglianza era insufficiente?»
Augusto cercò di fargli vedere la cosa da un altro punto di vista.
«Ma che potrebbe succedergli? Una visita al letto della principessa? Ne uscirà
più in salute di prima, beato lui! Fossimo noi al posto suo! Anche se la principessa ha il doppio dei nostri anni, è favolosa!»
Gus, in un primo momento sconcertato dal pistolotto di Augusto, si riprese e rientrò nel suo ruolo.
«Ma come fate a non capire che, se i vostri sospetti sono anche solo in parte giustificati, lui è entrato nella tana del lupo? Ora, aspettare vuol dire rischiare, andare a prenderlo significa mettere sull’avviso le persone sorvegliate, compromettendo le indagini…»
A me, come ad Augusto, la situazione non pareva, in fondo, tanto rischiosa.
«Fossi in te, aspetterei. Noi conosciamo bene Roberto: è un ragazzo sveglio, che saprà come cavarsela, se necessario. Vedrai che questa sera farà la ruota come un pavone per la sua avventura da uomo vissuto».
Eravamo lì da un bel po’, quando “Heidi”, che aveva riconosciuto il tenente, si avvicinò e ci chiese se eravamo in attesa di incontrare la “loro” principessa. Colsi la palla al balzo e, gratificandola di un sorriso propiziatorio, le domandai se fosse vero che la principessa era una donna sportiva, molto brava nel tiro a segno.
Mi ricambiò il sorriso.
«Certo che è vero! La nostra principessa fa tutto bene, anzi benissimo».
Insistetti.
«Ma è più brava del dottore Heinrich Schmidt?»
Prese un’espressione un po’ stupita.
«Conosce il nostro dottore? Sì, un tempo era un asso, vinceva tutte le gare di tiro ed era un ottimo cacciatore; ma gli anni pesano, eccome! Un mese fa erano propri seduti qui, la sera che volle scommettere con la principessa il suo fucile contro una cena da offrire a tutti i presenti. La gara sarebbe consistita nel tirare cinque colpi alla distanza di 200 metri ad una moneta da cinque franchi. La domenica mattina alle 10 tutto il paese era presente sul campo di tiro; la maggior parte di noi teneva per la principessa, ma, conoscendo la bravura del dottore, le scommesse erano a suo favore. Entrambi avrebbero dovuto adoperare il fucile del dottore, perché lei, straniera, non aveva ancora ottenuto l’autorizzazione a possedere un’arma. Il dottore, molto cortesemente, le permise di provare il fucile tirando un paio di colpi su un tabellone prima della gara vera e propria.
I tiri di prova furono sorprendenti: il primo foro era perfettamente nel centro, il secondo non lo si trovava. La principessa chiese al giudice di andare al tabellone e con il temperino scavare nel foro del primo colpo. Non ci crederete, ma i due proiettili erano precisamente l’uno sull’altro. La gara cominciò ed entrambi colpirono il bersaglio con i primi tre tiri; poi il dottore sbagliò e cominciò a sudare, mentre la principessa fece centro. Il quinto venne nuovamente fallito dal dottore, ma non dalla principessa, che così realizzò un en plein. Proprio in quel momento arrivarono il dottor Steiner e il dottor Riegling, che non poterono che complimentarsi con la principessa e consolare il loro vecchio compagno di caccia».
«E la scommessa? La vostra principessa non poteva prendere possesso del fucile!»
«Oh, quello! La faccenda fu sistemata da gentiluomini: il dottor Riegling fece un assegno al dottor Schmidt, che lo girò alla principessa, e divenne lui il proprietario del fucile».
Ecco che un'altra tessera del puzzle andava al suo posto. La conversazione fu interrotta dall’assistente, perché dal viale stava uscendo la Chevrolet Impala. Pagammo, salutammo in fretta “Heidi” e corremmo alla macchina; l’assistente, invece, rimase ancora lì a sorvegliare la villa perché il tenente temeva che quella mossa servisse solo per creare un diversivo. Eravamo arrivati a Sankt Gallen tenendo dietro all’Impala, quando la radio gracchiò e l’assistente comunicò che dal viale era appena uscita la Mercedes. Gus, evidentemente molto preoccupato, gli ordinò:
«Cerca di non perderla di vista, c’è già un’altra squadra delle nostre che sta arrivando alla villa».
La Chevrolet, intanto, continuava a procedere ad andatura moderata. Osservai:
«Secondo me non è la principessa al volante, ne sono quasi certo. Va troppo piano e frena troppo nelle curve».
Gus rallentò e parlò nella radio. Eravamo già fuori Sankt Gallen, in direzione di Rorschach, quando due fari apparvero dietro di noi e la voce di un gendarme annunciò che potevamo tornare indietro, ci avrebbero pensato loro a seguire la Chevrolet. Gus si lasciò superare da due macchine, e alla prima stradina invertì il
senso di marcia e ritornò verso Sankt Gallen. In quel momento la radio riprese a gracchiare: era l’assistente, che comunicava che l’auto si era fermata a Uzwill e chiedeva istruzioni. Gus gli chiese:
«I eggeri sono ancora nell’auto o ne sono discesi?»
«È scesa solo la principessa».
«Avvicinati e guarda se c’è qualcuno sul sedile del eggero».
Poi il tenente si rivolse alle due auto che ci avevano sostituito chiedendo dove si trovavano e se potevano confermare la presenza di un ragazzo nella Impala. Arrivò per prima la risposta negativa dell’assistente, poi quella dell’altra squadra: la Chevrolet aveva depositato un ragazzo davanti ad un ristorante di Arbon. Tirammo un respiro di sollievo. Gus partì a sirena spiegata e compì il tragitto fino ad Arbon da pilota di formula uno. Non avremmo mai creduto che quel poliziotto fosse uno svizzero, tanto guidò in maniera spericolata. Arrivammo al parcheggio del ristorante di Arbon e Gus corse ad abbracciare Roberto come se avesse disperato di rivederlo. Ma allora è proprio uno di noi, ci dicemmo. Mentre percorrevamo la strada per il castello, sembrava un’altra persona: guidava con estrema prudenza, osservando scrupolosamente i limiti di velocità e le buone regole, anche se il traffico a quell’ora, erano già le 19.30, era molto scarso. Appena arrivati, ci recammo subito in sala da pranzo; nessuno proferì una sola parola, aspettammo il dopo cena. Nelle comode poltrone, con il caminetto che quella sera sembrava ancora più caldo e vivace del solito, cominciammo a rilassarci e a guardare Roberto. Sia Augusto che io avevamo le nostre sigarette e Gus aveva versato l’armagnac nei balloon quando, finalmente, Roberto cominciò il suo racconto.
«Credo che non vivrò mai più un’esperienza come quella di oggi. Ragazzi, non è
facile spiegare di che è capace quella donna! È meravigliosa, fantasiosa, eccitante… e potrei continuare con aggettivi simili tutta la sera. Cercherò di andare con ordine.
Come avete potuto vedere, l’accoglienza che mi ha riservato quando mi sono accostato al tavolo è stata, a dir poco, insolita: mi offre dello champagne e mi invita a casa sua senza avermi mai visto prima! Una volta arrivati in quella piccola reggia, mi fa visitare alcune sale e poi mi porta in un salottino dove le pareti sono tutt’intorno ricoperte da vetrine contenenti una collezione di statuette e dipinti risalenti al XVI secolo raffiguranti scene del Kama Sutra. La stanza non ha altri mobili, se non un ampio letto circolare posto nel centro. Cogliendomi di sorpresa, mi chiede: “Mi ritieni desiderabile? In tal caso, guarda le statuette e i dipinti e dimmi quale di queste posizioni ti piacerebbe provare con me”. Mi sento come se stessi vivendo un sogno erotico, e mentre mi guardo attorno, lei affievolisce la luce della stanza ed illumina le vetrine. Poi sbottona la camicetta, fa scivolare giù la gonna e mi abbraccia stretto, facendomi sentire le forme del suo corpo. Mi lascia per un attimo, estrae da uno scomparto due flûte che riempie di champagne, me ne porge uno e solleva l’altro in un brindisi, ridendo maliziosa. Non capisco più nulla, sento una stretta alla gola mentre lei riprende a strofinare il suo corpo sul mio e continua a sussurrare: “Scegli, scegli…” Ragazzi, ma che dovevo scegliere, mi si piegavano le gambe! Tralascio il resto per arrivare, dopo due ore di continue scelte e bagni profumati… Ah, questa dei bagni devo raccontarla! Scopro che la porta secondaria della sala immette in una stanza da bagno, per usare un temine riduttivo. Le pareti, il soffitto, il pavimento, i due lavandini, i due water, il bidet e la vasca di tre metri per due posta al centro, tutto è rivestito con un mosaico azzurro e oro. Mai vista una cosa del genere, neanche al cinema. Come vi stavo dicendo, dopo due ore di combattimento chiedo timidamente: “Scusami Karin, potrei avere un panino? Sai, mi è venuta veramente fame”. Lei fa un gesto quasi di stizza, ma si alza, indossa un kimono, anch’esso azzurro e oro, ne dà un altro uguale a me e usciamo da quella camera. Vi dirò solo che facevo fatica a reggermi in piedi. Mi conduce in un altro salottino e suona un camlo; come per miracolo, sulla porta compare… Jamal in una livrea azzurro e oro. Beh, non era Jamal, ma vi giuro che sembrava lui in tutto e per tutto, tranne che per la cicatrice sul collo e lo sguardo meno duro. Sento un tuffo al cuore, lei se ne accorge e mi chiede con quella sua voce roca e sensuale: “Roberto, cosa ti succede? Sembra che tu abbia visto il diavolo, ma è solo Ali!” Cerco di giustificarmi dicendo che ero stato
colto di sorpresa, ma lei mi scruta come se volesse leggermi nella mente, quindi si riprende e mi chiede con una certa dolcezza: “Cosa desideri? Un toast con del salmone o con del caviale e uova sode? So io cosa potrebbe andar bene per entrambi, se ti fidi...”. Si rivolge ad Ali e gli dà una serie di ordini in arabo; lui fa un piccolo inchino e si allontana. Dopo cinque minuti, durante i quali lei continua a stuzzicarmi con carezze e baci, appare una splendida ragazza in costume da odalisca, nelle solite tinte azzurro ed oro. Alta, flessuosa, un seno pieno e sodo, la vita molto sottile, viso ovale da statua, una folta capigliatura corvina ricciuta, una fronte alta, occhi scuri da cerbiatta con ciglia lunghissime. Apparecchia la tavola e poi vi depone una zuppiera, dei piattini contenenti delle salse, un cestino di pane e dei tovaglioli di fiandra, con uno stemma ricamato. Lei vede il mio sguardo di ammirazione per la giovane cameriera e mi dice: “Se Rahma ti piace tanto, dopo questo spuntino si può unire a noi senza problemi. Se vuoi, anche Ali”. Non le rispondo, preferisco mangiare… Rahma mi serve un piatto con il cuscus più buono che abbia mai mangiato, sul quale Karin stessa aggiunge alcune delle salse. Quel profumo di verdure, di semola, di spezie e di montone è proprio quello di cui ho bisogno dopo le fatiche precedenti. Con l’acqua arriva anche una bottiglia di Mouton Cadet 1954, davvero sublime».
Il tenente stava diventando impaziente.
«Roberto, abbiamo capito, e siamo contenti per te; ma, se ti riesce, esci dai panni del viveur e racconta piuttosto qualcosa che possa essere utile in questo dannato caso».
Fu come una doccia fredda per Roberto, che ritornò alla realtà e riprese il suo racconto, questa volta con la faccia seria.
«Quando abbiamo terminato lo spuntino, lei mi ha preso per mano; ho avuto paura che volesse riprendere da dove avevamo smesso, ma non è stato così. Mi ha portato in una saletta dove mi ha mostrato una collezione di pugnali e di pistole veramente notevole. Ha assunto un’espressione di profonda tristezza
mentre diceva: “Sai, in Algeria ho avuto un maestro d’eccezione… che purtroppo è morto. Così va la vita”. Poi ha continuato: “Fu lui ad insegnarmi a sparare. Vieni a vedere, ho nella cantina uno stand di tiro. Prima, andiamoci a vestire, tanto avremo modo di rivederci sicuramente”. Ho tirato un sospiro di sollievo! Dopo esserci rivestiti, siamo ritornati nella sala d’armi. Mentre sceglieva una pistola da adoperare, ha commentato: “Disgraziatamente, da qualche settimana non riesco a ritrovare la mia preferita. Non mi spiego come sia potuto accadere, forse mi è stata rubata. Comunque, non posso denunciarne la scomparsa, perché non mi è ancora consentito possedere armi; sono in attesa del permesso, che dovrebbe arrivarmi a giorni”. Ha scelto per sé quella che ha definito una S&W ultra piatta 38 special e mi ha invitato a fare lo stesso. Non avendo la minima idea di quale prendere, ne ho impugnata una che mi ispirava. Lei mi ha guardato sorpresa: “Ah, la Colt a tamburo 45 Magnum! L’hai scelta perché te ne intendi o per puro caso? È una delle mie preferite, bravo”. Mi sono schernito e le ho risposto che l’avevo scelta perché mi era piaciuta istintivamente. Quindi ha preso le cartucce e siamo scesi nella cantina dove, in un locale insonorizzato, è stato allestito lo stand di tiro. Accidenti, se spara bene! Non me ne intendo, ma vi dico che su dieci colpi a 15 metri, li ha messi tutti nel centro. La mia pistola pesava un’enormità; lei mi ha insegnato come tenerla e mirare. Sono riuscito a mettere tre colpi nel bersaglio, che è stato già un bel risultato: vorrei vedere voi con una come quella che vi continua a toccare, mordicchiandovi il lobo dell’orecchio e sussurrandovi cose irripetibili!
Ad un certo punto ha guardato l’ora e con un gesto di stizza mi ha detto che mi avrebbe fatto accompagnare da Ali ad Arbon, perché lei doveva recarsi ad un appuntamento con un dottore a Uzwill ed era già in ritardo. Prima di salutarci, mi ha informato che un paio di volte alla settimana si reca in quel ristorante e che, quando voglio, posso anche telefonarle».
Si frugò nelle tasche ed estrasse un foglietto con un numero telefonico. Il tenente non pareva soddisfatto.
«Non ti ha detto altro sulla pistola scomparsa?»
«Oh, sì. Non le ho chiesto che modello fosse: per essere diplomatico, le ho chiesto: “È una pistola di valore?” E lei, trasognata come se stesse inseguendo delle immagini nella mente, mi ha risposto: “Ne ha molto per me. È una FÉG PA-63, una replica della Walther PPK; ma non è di serie: fu personalizzata per me dal mio grande amore».
«Hai visto la principessa mentre sparava. È mancina?»
Roberto chiuse gli occhi, poi li riaprì.
«Sì, è mancina».
Avevamo trovato la proprietaria della pistola. Aveva sparato lei a Romeo?
Intervenne Augusto:
«Stabilito che la pistola era stata adattata per un mancino, non si potrebbe seguire questa traccia? Voglio dire che, accertando se oltre alla principessa sono implicate in questa storia anche altre persone mancine, si restringerebbe il numero dei sospetti».
Gli feci presente che se ne sarebbe ricavato solo qualche indizio alquanto debole:
«La faccenda non è così semplice. Una cosa è centrare un bersaglio al poligono, altro è sparare da 10 metri ad una persona. Anche se una pistola è adattata per un mancino, ti assicuro che pure un destrorso può cogliere un uomo con quella stessa arma».
Anche se erano ate le 22, il tenente si alzò di scatto ed andò al telefono. Ci domandammo chi pensava di trovare a quell’ora in Svizzera… Dovemmo ricrederci quando ritornò con un sorriso stampato sul viso:
«Quello che ha detto Riccardo è vero, ma anche l’osservazione di Augusto non è da trascurare. Nella nostra lista degli indagati c’è un altro mancino. Indovinate chi è?»
Roberto ed Augusto dissero all’unisono:
«Il dottor Steiner?».
Io diedi una risposta diversa, e in parte inattesa:
«Il dottor Riegling e… Gabriella».
Gus mi fissò e manifestò la sua perplessità a voce molto bassa:
«Il dottor Riegling è mancino, e questo lo so perché è registrato come tale nel suo club di tiro… ma Gabriella? Che sia mancina, non sta scritto da nessuna
parte, e men che meno nel nostro schedario. Come fai ad asserirlo?»
Feci spallucce ed alzai un sopracciglio.
«Lo so per certo».
«Ah…»
Aveva capito.
Capitolo 19Gabriella
Quella mattina, appena alzato andai a correre e ritornai giusto in tempo per fare la colazione con gli altri. Non ascoltavo le loro parole, i miei pensieri vagavano; c’era qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco Dopo aver cincischiato un poco, feci una richiesta al tenente:
«Devo rivedere Gabriella, devi far in modo che possa incontrarla. Non te lo chiedo per un motivo personale, ma perché penso di poterle cavare qualcosa di più dalla bocca. Per questo motivo, forse sarebbe opportuno che il nostro colloquio venisse registrato, così ci sarebbe anche qualcuno pronto ad intervenire se le cose dovessero prendere una brutta piega».
Gus tirò un sospiro.
«Va bene, ma devo prima interrogare nuovamente il dottor Riegling. Poi mi occuperò di organizzare questa faccenda».
Provai ad esporre le mie idee ad Augusto, ma il mio amico non volle neanche ascoltarmi, perché stufo di quella situazione. Quanto a Roberto, il suo orologio era fermo al pomeriggio del giorno prima: era ancora tanto imbambolato che non valeva la pena di rivolgergli la parola. Di studiare, neanche a parlarne. Erano le 16 quando decisi di andarmene a fare quattro i. Non so se fosse per via del ricordo ancora vivo di Trishna o per la speranza inconscia di imbattermi nella principessa ed emulare Roberto, ma mi trovai senza quasi rendermene conto nei pressi della clinica di Steiner. Ero sul lungolago, parzialmente schermato da un cespuglio, e stavo per portarmi al varco nella siepe scoperto il primo giorno,
quando mi cadde l’accendino e allo stesso tempo avvertii il rumore inconfondibile della 300SL. Mi alzai di scatto e corsi alla siepe. Quello che vidi mi lasciò di sasso, non potevo credere ai miei occhi. Dall’auto stavano scendendo il dottor Riegling e… Gabriella? Sì, era proprio lei, quasi irriconoscibile, avvolta in una pelliccia di giaguaro, che nell’atto di sollevarsi dal sedile le si era aperta mettendo in mostra le gambe strette in un paio di pantaloni di pelle che la fasciavano come un guanto. Gli occhi e le labbra truccati con cura, la “mia” Gabriella stava sorridendo al dottore. Cosa ci faceva lì? A quell’ora del pomeriggio avrebbe dovuto essere alla Lingerie, con indosso il grembiule delle inservienti. Vidi Riegling che le prendeva il braccio e, con una certa familiarità, l’accompagnava verso l’ingresso della villa. Guardai con attenzione per capire se ci fosse anche l’altra Mercedes, ma non la vidi. Il guardiano, intanto, aveva chiuso il cancello ed era rientrato nella sua abitazione. Non potendo fare null’altro, mi districai dai rami della siepe per fare ritorno. Per poco non andai a sbattere contro Gus, che stava sopraggiungendo accompagnato da due gendarmi. Dal suo sguardo capii che era meglio che non parlassi. Mentre i suoi uomini, afferrate le mie braccia, mi stavano quasi sollevando da terra, lui sfoderò un sorriso sarcastico:
«Questo è quello che accade a chi viola le proprietà private; perlomeno, qui in Svizzera è così. Vuoi un avvocato o mi spieghi subito perché sei qui?»
I due allentarono la presa. Io ero troppo agitato per giustificarmi; riuscii solo a farfugliare:
«Hai visto chi è entrato proprio adesso nella villa?»
«Ho visto, ma non è affatto una sorpresa. Stamattina ho convocato Riegling nel mio ufficio; abbiamo chiacchierato un po’ sorseggiando un caffè e gli ho fatto intendere che stavamo per arrivare al bandolo della matassa e che per il ferimento di Romeo i nostri sospetti si appuntavano sulla signorina italiana. Poi gli ho chiesto se la conoscesse; siccome tergiversava, l’ho messo alle strette:
“Dottore, preferisce che lo chieda a sua moglie?” È crollato. “Certo, la conosco, e ammetto che siamo più che semplici amici, se è questo che vuole sapere. Tenente, lasci fuori da questa storia mia moglie, lei è all’oscuro di tutto. Ho avuto la fortuna di sposare una donna ricca, il che mi ha permesso di entrare in società con Walter. Quindi, capisce bene che non posso permettermi di indisporla”. Per mettergli maggiore pressione, ho fatto una telefonata in sua presenza con la quale davo disposizioni affinché entro le 17 fosse prelevata, con molta discrezione, la signorina di cui sapevano. Riegling si è congedato e, ormai allarmato, si è precipitato in collegio, ha prelevato la “signorina” e l’ha portata in un appartamento sulla Rorschachstraße, dove si sono fermati circa mezz’ora. Sono scesi, hanno messo una valigia in macchina e sono venuti qui. Ritenevo che volessero prendere un aereo, tanto che avevo già predisposto un blocco alle accettazioni di Kloten. Il dottor Steiner è anch’egli sotto sorveglianza; oggi è a Zurigo e tornerà solo questa sera. Per quanto riguarda la principessa, è nella sua villa. Il momento di tirar su la rete si sta avvicinando».
Come una luce improvvisa, vidi finalmente il punto che mi continuava a sfuggire. Dissi a Gus:
«Se le cose stanno così, i pesci non possono fuggire. Penso che dovresti organizzare per domani una riunione nella clinica, convocando tutte le persone coinvolte, compresi noi ed il tuo superiore. Prima, però, bisognerebbe completare il quadro».
Lo presi sotto braccio, anche se lui era alto quasi due metri, e lo portai verso il lago. Quando fummo soli, gli chiesi di raccogliere informazioni su due persone che fino a quel momento non erano state prese in considerazione. Non riuscì a farmi dire altro, se non che c’era una buona possibilità che anche quelle persone dovessero essere convocate il giorno successivo.
Erano le 17 quando il telefono squillò ed io mi precipitai a rispondere, sbattendo la porta in faccia ai miei amici che erano accorsi con me. Come mi aspettavo, era
il tenente.
«Riccardo, come ti è venuto in mente che queste persone potessero essere implicate nella faccenda?»
Ero troppo impaziente di ascoltare le notizie, sicché tagliai corto:
«Ti prego, dimmi che hai saputo. Questa sera dopo cena ti racconterò come ho ragionato».
«Bene. Il primo soggetto è un valente tiratore, che ha partecipato a diverse competizioni nazionali, vincendo anche dei premi. Ha partecipato ad alcune “sedute terapeutiche” alla clinica ed è stato diverse volte nella villa della principessa. Per quanto riguarda il secondo individuo, non c’è niente che possa far pensare ad un suo coinvolgimento; è considerato da tutti una persona riservata ed onesta. Ah, per quanto riguarda il primo, non ha nessun alibi per i due delitti…»
Ritornai dai miei amici e cercai di schivare il loro assalto:
«Abbiate pazienza ancora per qualche ora, e poi vi spiegherò che cosa ho in testa».
Mi ritirai in camera e cominciai a mettere nero su bianco un elenco dei fatti e delle deduzioni che ne avevo ricavato. Ero arrivato alla fine, quando sentii l’auto di Gus entrare nella corte. Misi i fogli nel cassetto della scrivania e scesi a cena,
sostenendo con disinvoltura le occhiate poco benevole dei miei amici, che non mi perdonavano di essermi rifiutato di confidarmi con loro. Finita la cena, salii in camera, presi gli appunti e ridiscesi. Erano lì che mi aspettavano impazienti.
Saltando i preamboli, andai subito al sodo, premettendo solo che c’erano alcuni punti che avrebbero dovuto essere verificati.
«Ritengo che Jamal sia stato ucciso per ordine del dottor Riegling da Franz. Sì, proprio da Franz. Anche lui fa parte del giro della clinica, avendo partecipato, come Gus ha potuto accertare, a diverse “sedute terapeutiche”; ma ha un rapporto particolare con Riegling, con il quale condivide la ione per le armi, tant’è che sono entrambi soci dello stesso circolo di tiro. Il motivo? Riegling veniva ricattato da Jamal per la sua relazione con Gabriella, che, se risaputa, gli sarebbe costata la separazione della moglie e la perdita delle risorse finanziarie che lei gli assicura. È vero che il suo lavoro a Zurigo ed alla clinica sono ben remunerati, ma il suo tenore di vita è molto alto e, come se non bastasse, si dice in giro che ha una dipendenza da gioco.
All’assassinio di Jamal fece seguito l’attentato nel bosco. Questa fu opera nuovamente di Franz, che cercò di spaventarci e farci smettere di curiosare, dopo aver notato la nostra attività al collegio e dopo che Gabriella ebbe riferito a Riegling qualcosa che devo averle confidato nei momenti di intimità e che li aveva preoccupati. Riegling decise di adoperare il fucile del dottor Schmidt, che non era stato ancora registrato a suo nome.
Arriviamo così al ferimento di Romeo. Non sappiamo come sia stata sottratta la pistola alla principessa, ma non è difficile immaginare che anche Franz, come il nostro Roberto, sia stato oggetto di attenzioni amorose e ne abbia approfittato per impossessarsi dell’arma. La principessa ed il dottor Steiner, quindi, in tutta questa storia non hanno ricoperto il ruolo di assassini o di mandanti; sono responsabili solo di aver dato vita all’ambiente poco edificante in cui sono maturati i delitti».
«Supposto che tutto ciò non sia solo frutto della tua fantasia, chi avrebbe sparato a Romeo? Sempre Franz?»
«Non credo. Romeo, nauseato e preoccupato dalla spirale di violenza che si stava sviluppando, si era reso conto che Franz era in combutta con il dottor Riegling e lo aveva detto al dottor Steiner. Questi affrontò la questione con Riegling, che negò ogni addebito, ma decise di mettere a tacere il povero Romeo sparandogli di persona.
Ora il dottor Steiner e la principessa sono in pericolo. Entrambi devono essere arrivati alla conclusione che Riegling è il principale responsabile dei delitti e gliene chiederanno conto. Riegling e Gabriella, sua complice, trovandosi nell’impossibilità di calmare Steiner, e meno ancora la principessa, che era follemente innamorata di Jamal, per paura che venga tutto alla luce potrebbero decidere di eliminare quest’ultimo ostacolo dal loro cammino».
Squillò il telefono. Gus si affrettò a rispondere e, dopo due imprecazioni, riagganciò, infilò il cappotto e si precipitò verso l’uscita. Sentimmo l’auto partire a gran velocità.
Ci guardammo l’un l’altro e senza proferire parola indossammo i nostri cappotti ed uscimmo. Nel giro di venti minuti eravamo alla villa di Steiner, dove trovammo un notevole dispiegamento di macchine e uomini della polizia e notammo la presenza di un’autoambulanza. Roberto fece una smorfia: «Non vorrei che avessi ragione tu…» Scivolammo nell’ombra fino al varco nella siepe e, inosservati, ci introducemmo nel giardino, che era illuminato a giorno e animato dalla presenza di gendarmi e di altre persone tutte indaffarate per qualche motivo che non capivamo. Dove andare? Ci spingemmo verso la villa, che era alla nostra destra, tenendoci fuori dalla zona fortemente illuminata. Mentre eravamo lì che osservavamo quell’andirivieni, mi sentii battere sulla
spalla, mi girai di scatto e mi trovai faccia a faccia con Gus.
«Riccardo, almeno in parte hai visto giusto. Il dottor Steiner è stato vittima di un’aggressione, che per fortuna non ha avuto gravi conseguenze, perché i miei uomini sono riusciti ad intervenire in tempo. Ha riportato una ferita al braccio».
«È stato Riegling, vero?»
«Sì».
Intervenne Roberto, preoccupato:
«E Karin? È al sicuro?»
«È al sicuro, non darti pensiero. È tutto sotto controllo».
Chiesi al tenente se poteva confermarmi la riunione concordata per il giorno successivo, e lui mi rispose affermativamente.
Mentre avo di fianco alla clinica, fui preso dalla tentazione di entrare per rivedere Trishna; la semioscurità che avvolgeva il lato dell’ingresso mi avrebbe dato la possibilità di infilarmi all’interno senza essere notato. Dissi ai miei compagni di proseguire, ché li avrei raggiunti più tardi; il loro sogghigno mi fece capire che avevano intuito il motivo della mia decisione. Scivolai lungo il muro molto prudentemente fino alla porta grande sul retro, quella da cui avevamo
visto uscire la 300SL della principessa. Provai ad aprirla, e con sollievo non trovai resistenza. Entrai nella rimessa, che sulla parete di fondo aveva una porta di accesso ad un laboratorio, da cui scoprii che ci si immetteva nel corridoio delle otto camere, proprio accanto a quella di Trishna. Mentre il cuore mi batteva all’impazzata, con molta circospezione spinsi la porta della camera e con l’accendino feci un po’ di luce per non sbattere contro il letto centrale. Lei era lì, gli occhi sbarrati e più bella che mai, come se non si fosse mossa nell’arco di quei tre giorni. Si ripeté la scena del nostro primo incontro, con la differenza che fui io a parlare per primo:
«Trishna, ti ricordi che ti avevo promesso che sarei tornato? Sono qui».
Chiusi a chiave la porta; più sicuro, accesi una abat-jour, che soffuse una luce molto tenue e calda, e mi avvicinai al letto. Il profumo dello Chanel N°5 mi prendeva alla testa, come una droga. Mi abbassai per ridurre la tensione delle cinghie che la tenevano, prima quelle delle gambe e poi quelle delle braccia; forse per un sesto senso, non la liberai completamente.
Lei cominciò ad agitarsi, mescolando un po’ di inglese alle parole della sua lingua, che non capivo; ma l’espressione del viso ed il linguaggio del suo corpo non lasciavano spazio a dubbi.
Mi sedetti accanto a lei, le accarezzai il viso e la testa, e poi la baciai sulla bocca. Fu come ricevere una scossa elettrica. La tensione stava salendo, ma di colpo mi fermai. Lei è malata… io no. Non posso svilire l’attrazione che sento per lei possedendola mentre è legata, anche se me lo ha chiesto. Perché era stata immobilizzata? Non riuscivo ad immaginarne il motivo. Forse fu solo buon senso, ma in quel momento pensai che qualcuno dall’alto volesse aiutarmi. Accarezzai con lo sguardo la figura di quella meravigliosa creatura, le diedi un bacio ed uscii, mentre lei urlava e smaniava, perdendo ai miei occhi quel fascino che aveva esercitato su di me. Come fui fuori dalla stanza, restai sorpreso vedendo che il corridoio era illuminato; voltandomi, mi scontrai con Gus, che,
notata la mia assenza, aveva intuito dove fossi.
«Riccardo, speravo che avresti fatto funzionare il cervello ed avresti capito che non sarebbe stato saggio insistere. Il dottor Steiner mi aveva spiegato i motivi della segregazione e della contenzione di Trishna; se avessi saputo che avevi intenzione di ritornare qui, ti avrei messo sull’avviso. La ragazza è affetta da un disturbo che la porta a mordere rabbiosamente e graffiare con violenza il suo partner, come una pantera; inoltre, se ha le braccia libere, si… ehm… si masturba incessantemente. Il dottore ha provato ad applicare con lei le sue teorie facendola partecipare a qualche “seduta terapeutica”, ma ha incontrato dei seri problemi. Uno dei ragazzi assoldati per la terapia venne ferito in maniera grave con un morso, tanto che dovette ricoverarlo e curarlo per qualche giorno, per non parlare di quanto denaro gli costò evitare che sporgesse denuncia. Questo genere di incidenti si ripeté altre due volte, finché Steiner decise che non era il caso di insistere».
Ero annichilito, non avrei mai pensato che una creatura così meravigliosa potesse essere seriamente disturbata. Feci fatica a obiettare:
«Possibile che non ci siano farmaci o cure che possano guarirla? È veramente terribile vedere una così splendida ragazza in quello stato».
«A detta del dottore, al momento non c’è molto che si possa fare…»
Ci dirigemmo verso la villa, proprio nel momento in cui entrava l’auto che dal Pronto Soccorso riportava il dottor Steiner a casa. Trishna mi aveva fatto are dalla mente il dottor Riegling e Gabriella; il ritorno di Steiner mi riportò alla realtà.
«Gus, dove sono Gabriella ed il dottor Riegling?»
«Sono in stato di fermo in due camere diverse qui nella villa, sorvegliati a vista».
«Domani faremo la riunione con tutte le persone coinvolte?»
«Perché no? Non si tratterà di un processo: quello lo faranno i giudici quando sarà tempo. D’accordo con il mio superiore, ci vedremo tutti domani alle 9 nel salone della villa, con il consenso del dottor Steiner. Vado a chiederglielo, ma non credo che farà obiezioni».
Ero orgoglioso, ritenevo che noi ragazzi avevamo dato un contributo significativo alla giustizia. Allo stesso tempo, non ero sicuro che tutte le tessere del puzzle fossero state sistemate al loro giusto posto, malgrado avessi descritto io stesso, proprio quella sera, il quadro degli eventi. Non era chiaro il movente degli omicidi, né era chiaro perché Gabriella avesse sentito il bisogno di giocare con me il ruolo della fanciulla innamorata. Eppoi, era proprio vero che il dottor Steiner non era coinvolto in nessun modo? Quella sua spavalda ammissione di essere bisessuale non poteva essere un espediente per dare di sé l’immagine di una persona assolutamente sincera?
Una macchina, visto che era cominciato a piovere, mi accompagnò al castello.
Capitolo 20La verità
Quella mattina la nostra agitazione era indescrivibile; divorammo la colazione e alle 8 eravamo già pronti. Chiedemmo il permesso di recarci a piedi alla villa e ci incamminammo subito. Dopo neanche mezz’ora eravamo giunti a destinazione e Gus ci faceva entrare nel salone, dove, con il consenso del dottore, si sarebbero tirate le somme degli eventi delle ultime settimane e delle indagini.
Con la puntualità tipica svizzera, alle 9 in punto Gus, dopo qualche parola di elogio per la collaborazione di noi ragazzi, mi invitò ad esporre la nostra ricostruzione degli avvenimenti. Ci fu una reazione di protesta da parte di Riegling e dello stesso Steiner, i quali opposero che non ritenevano che un sedicenne potesse entrare nel merito della vicenda, ma Gus riportò la calma pregandoli di avere pazienza. Vedendo tutti gli occhi puntati su di me, mi sentii a disagio; feci uno sforzo per concentrarmi su ciò che dovevo dire.
«Non è facile riassumere la rete complessa dei rapporti tra le persone coinvolte in questa faccenda e delle responsabilità che ne derivano.
La principessa, che risiedeva in una villa nei pressi di Algeri, conobbe Jamal in quel paese e ne divenne l’amante; là incontrò anche il dottor Steiner, che prestava servizio in un ospedale del luogo. Avvenne poi che Jamal fu ferito gravemente in uno scontro con i guerriglieri indipendentisti e fu operato proprio dal dottor Steiner. Nel corso dell’intervento chirurgico si verificò un incidente molto sospetto: un infermiere svenne, o forse simulò uno svenimento per vendicare l’uccisione del fratello e, urtando il braccio del dottore, causò irreparabilmente l’evirazione di Jamal. Diciamo subito che tre anni dopo costui, informato dal dottore dell’accaduto, ne mise al corrente i suoi ex commilitoni; da
qui, l’esecuzione dell’infermiere ed il recapito del macabro pacchetto contenente lo scroto essiccato.
Mentre erano ancora in Algeria, durante la convalescenza di Jamal il dottore, che probabilmente è affetto da satiriasi, fece uso delle sue competenze psichiatriche per associarlo alle sue terapie sessuali. La principessa, affetta a sua volta da ninfomania, ospitò nella sua residenza le “sedute” teorizzate dal dottore. Dopo gli inizi a tre, la cerchia dei partecipanti fu allargata con giovani persone reclutate, sembrerebbe, dallo stesso Jamal. Una notte avvenne un fatto tragico: la morte di due giovani, una ragazza ed un ragazzo, i cui corpi furono rinvenuti la mattina successiva a poca distanza dalla villa della principessa. Le autorità locali, considerata la posizione sociale delle persone coinvolte, si limitarono ad espellere il dottor Steiner e, a distanza di circa un anno, fecero pressione affinché la principessa lasciasse l’Algeria. Jamal, rientrato in servizio due giorni dopo il fatto e non accusato da specifiche testimonianze, come legionario era di fatto “intoccabile”».
La principessa e il dottore fecero la mossa di intervenire, ma desistettero, e io potei continuare. Ormai avevo preso coraggio, e la mia descrizione degli eventi divenne più disinvolta.
«Il dottor Steiner, ritornato in Svizzera, prende servizio presso la clinica psichiatrica di Zurigo, grazie ai buoni uffici del suo amico ed ex compagno di corso, il dottor Jürgen Riegling. Alla morte dello zio paterno, che si era preso cura di lui dopo la perdita dei genitori in un incidente, si trova ad ereditare un cospicuo patrimonio immobiliare, comprendente anche questa villa, oltre a un notevole conto in banca. A questo punto il suo progetto di fondare una clinica specializzata nel trattamento di patologie sessuali può realizzarsi, anche perché Riegling, sposato con una signora molto ricca, convince la moglie a fornirgli il capitale necessario per diventare socio del suo amico e collega.
L’iniziativa del dottor Steiner ottiene rapidamente successo, attirando una
clientela di famiglie facoltose, preoccupate per le conseguenze sociali del comportamento disdicevole e imbarazzante dei propri figli. Dopo breve tempo dall’inaugurazione della clinica, il dottor Steiner assume, come guardiano e giardiniere, Romeo, raccomandatogli da un suo amico italiano. Romeo è una persona tranquilla, apionata di piante e fiori, che rimane turbato da ciò che avviene nella villa, ma riesce a dissimulare il suo disagio, sicché tutto pare procedere senza intoppi.
Nel frattempo arrivano in Svizzera prima la principessa, che si sistema in una villa nei pressi di Münchwilen, e quindi Jamal, il quale ha bisogno di un contratto di lavoro per legalizzare la sua permanenza sul territorio elvetico. Viene assunto formalmente dal dottor Steiner, e così il trio si ricompone.
Le cosiddette sedute terapeutiche ricominciano e i nuovi ospiti esterni vengono assoldati da Jamal, che sa bene come avvicinarli e convincerli; forse tenta di persuadere anche Romeo, che però si tira indietro, perché si è reso conto che quelle festicciole stanno assumendo risvolti violenti. Arriva la sera in cui la signorina Gabriella viene aggredita ferocemente e scappa verso la casa di Romeo, che, udendo le urla si era precipitato fuori con una pistola e, coperta la ragazza con la giacca, punta l’arma contro Jamal. In seguito a questo episodio, avvenuto circa due anni or sono, il giardiniere matura la decisione di lasciare il servizio presso il dottor Steiner e, dopo un breve soggiorno in Italia, trova lavoro presso il collegio. Facciamo un piccolo o indietro. Anche il dottor Riegling partecipa ad alcune sedute ed è proprio lui che, invaghitosi della signorina Gabriella, che in quel periodo serviva ai tavoli del ristorante di Arbon, la porta alla villa, dove lei si trova a guadagnare somme impensabili per una cameriera, somme che le fanno molto comodo per mantenere una nipotina di due anni e mezzo, orfana di sua sorella. Come ho già detto, tutto fila liscio fino alla sera dell’aggressione, quando si è rotto l’equilibrio e, presumibilmente, sono cambiati i rapporti tra i protagonisti. Il dottor Riegling, che quella famosa sera non era presente, venuto a conoscenza dell’accaduto, trova una sistemazione per la sua protetta Gabriella, facendola assumere al collegio. Allo stesso tempo preme sul dottor Steiner affinché allontani Jamal, minacciando uno scandalo. Il dottor Steiner, socio di maggioranza e legato sia alla principessa che a Jamal, si rifiuta, contando sul fatto che il dottor Riegling non solo sarebbe coinvolto nello
scandalo, ma, ancora peggio, incorrerebbe nelle ire della facoltosa moglie. Ormai, però, la situazione sta degenerando, ed è facile intuire che gli episodi violenti devono essersi ripetuti, al punto da convincere il dottor Steiner che, almeno per un po’ di tempo Jamal deve cambiare aria. Perciò il dottore parla con Romeo e lo prega di trovare una sistemazione per Jamal. Romeo, che ha conservato un buon rapporto con il dottore e nutre per lui sentimenti di riconoscenza, accetta di fare il possibile e, tre mesi fa, si ritrova Jamal come compagno di lavoro e di camera.
Jamal non ha perdonato al dottor Riegling la sua ostilità e, secondo la nostra ricostruzione, prende a ricattarlo per la sua tresca con la signorina Gabriella. Il dottor Riegling, però, non nuota nell’oro, perché lascia buona parte dei suoi guadagni sui tavoli del casinò di Bregenz. Così spinge il suo amico Franz, socio dello stesso club di tiro, divenuto frequentatore delle sedute terapeutiche, a liberarlo da Jamal, facendo leva sulla sua folle gelosia, perché anche Franz si è innamorato perdutamente della principessa. La sera dell’omicidio Franz ha un appuntamento con Jamal perché insieme devono recarsi alla villa; quando l’algerino arriva, lo affianca e dopo pochi i con il pugnale rubato dalla sua camera gli tira un fendente che stacca quasi il collo dal capo».
La mia sceneggiatura venne interrotta dalla principessa, che si stava lanciando contro i due come una tigre, pronunciando delle frasi irripetibili. Venne fermata da due poliziotti, quindi il dottor Steiner le si avvicinò ed in tono suadente riuscì finalmente a placarla. Essendo stata riportata la calma, potei riprendere a parlare.
«Poi si è verificato quell’attentato a noi ragazzi, che non abbiamo saputo darcene una spiegazione. Gli investigatori hanno ritenuto che i colpi esplosi fossero intimidatori, e si sono persuasi che noi dovevamo aver visto o sentito qualche cosa di troppo».
Mentre parlavo, il mio cervello lavorava alacremente per trovare il modo di non tirare in ballo le nostre avventure amorose al collegio.
«In effetti, il dottor Riegling era venuto a conoscenza del nostro interesse per le indagini sull’uccisione di Jamal attraverso la signorina Gabriella, che per avventura aveva ascoltato i nostri dialoghi mentre eravamo alle docce».
Mi complimentai mentalmente con me stesso per aver trovato quella spiegazione non compromettente e proseguii:
«Il dottor Riegling alcuni giorni prima dell’omicidio di Jamal era venuto in possesso di un ottimo fucile, uno Stgw 57, che la principessa aveva vinto in una gara di tiro al dottor Schmidt. Poiché lei non avrebbe potuto detenerlo legalmente, e quindi neanche alienarlo, era stata simulata la vendita al dottor Riegling dell’arma da parte del suo collega; questi ricevette in pagamento un assegno che girò immediatamente alla principessa.
In mano ad un buon tiratore un fucile tanto preciso è l’arma ideale per spaventare senza il rischio di fare danni reali. Il dottor Riegling fece ricorso di nuovo a Franz e gli affidò l’arma, dandogli l’incarico di limitarsi a simulare un agguato cruento. Il piano, però, non funzionò secondo le aspettative, perché Romeo colse Franz mentre stava rimettendo il fucile nel suo armadio e, sconvolto dalla piega che stavano prendendo le cose, gli disse che era ora di fermarsi e gli avrebbe concesso tre giorni di tempo per costituirsi. Fu una imprudenza che gli costò la vita, perché Riegling decise di sbarazzarsi personalmente di lui. Due giorni dopo il dottore andò a far visita alla principessa e le sottrasse la pistola FÉG PA-63 che lei deteneva illecitamente in attesa dell’autorizzazione. È la pistola che ha usato contro Romeo.
La colpevolezza del dottor Riegling è confermata dal tentato omicidio di ieri sera ai danni del suo collega e socio, il dottor Steiner».
Il dottor Riegling si alzò in piedi di scatto protestando con veemenza:
«Queste sono solo illazioni, che non possono affatto essere provate. In un tribunale nessuna giuria prenderebbe sul serio queste tesi assurde».
Gli fece eco Franz:
«Tenente, per quanto mi riguarda, non c’è una sola affermazione in questo sproloquio che corrisponda alla verità. Io non ho mai ammazzato nessuno, e men che meno Jamal, né ho mai sparato a questi signorini. È vero, ho partecipato ad alcuni incontri nella villa e mi sono innamorato della principessa, ma questo non mi avrebbe mai portato a commettere un omicidio o a sparare per impaurire dei ragazzi».
Il tono di Franz suonava così sincero che non riuscii a trattenermi.
«Se non è stato lei, chi è stato? Lei è legato a filo doppio al dottor Riegling; qualcuno l’ha sentita mentre prendeva le parti del dottore in un diverbio con Romeo…»
Non riuscii a terminare la frase, che avevo buttato là con la speranza di colpire nel segno, perché Franz cercò di gettarsi su di me, subito bloccato dai poliziotti, e prese a gridare:
«Maledetto italiano, di cosa si è impicciato per sconvolgere la vita ad un povero lavoratore svizzero, non la erà liscia! Chieda al dottor Riegling chi ha ucciso
Jamal, non voglio essere accusato di colpe che non ho. L’unica sciocchezza che ho commesso è stata quella di sparare a lei ed ai suoi compagni, ma ero sicuro di non ferire o far del male a nessuno».
Tutti tacquero. Guardai di sottecchi Gabriella, che teneva gli occhi bassi e fino a quel momento non li aveva mai alzati su di me. Il silenzio fu rotto dal dottor Steiner.
«È giunto per me il momento di ammettere le mie responsabilità ed i miei errori. Ciò che è accaduto è derivato in buona parte dalle pratiche che io avevo concepito a fini terapeutici. Jamal, che ho amato, Romeo, che ho rispettato, sono morti perché io non ho considerato a sufficienza quali possono essere le conseguenze dell’assuefazione a comportamenti che trascurano il ruolo dei freni inibitori. Tu, Jürgen, spiegami cosa ti è successo, quali sono stati i motivi di un rancore tanto profondo da darti il coraggio per affrontare ed uccidere Jamal».
Il dottor Riegling capì che la sua rovina era inevitabile; appariva prostrato, l’ombra di se stesso. Con voce bassa, rassegnata, lo sguardo triste, iniziò il suo racconto.
«Fin dai tempi dell’università ho sempre provato una profonda invidia per Walter, compagno di corso benestante, elegante, libertino e dotato di un fascino particolare che colpiva molte persone, sia donne che uomini. Poi, lui partì per l’Algeria, mentre io riuscii ad ottenere una buona posizione presso la clinica psichiatrica di Zurigo. Mi fidanzai con la mia attuale moglie, e il fatto che lei fosse molto ricca mi permise di sollevarmi al livello di Walter. Quando tornò dall’Algeria, non mi parve vero di mettere in mostra il mio nuovo stato sociale facendolo assumere nella stessa clinica. Alla morte dello zio lui ereditò un cospicuo patrimonio e mi fece la proposta di diventare suo socio; accettai con entusiasmo, con l’appoggio di mia moglie. Forse tutto ciò avrebbe potuto rendermi più sereno, ma il mio astio era stato intanto acuito dai suoi successi professionali; angustiato dalla mia dipendenza dal gioco e preoccupato di
nascondere la mia relazione con Gabriella, finii per odiare il mio socio che pareva non avere problemi.
Circa due mesi fa Jamal, avendo compreso la mia situazione, prese a ricattarmi, minacciando di mettere a conoscenza mia moglie e Walter di Gabriella, del gioco e dei miei sentimenti ostili. Non essendo in grado di far fronte alla sua ultima richiesta, persi completamente la testa ed arrivai alla determinazione di liberarmi di lui. Gli diedi appuntamento nella stradina dove è stato ritrovato e convinsi Franz a sottrarre e consegnarmi il coltello di Jamal, facendogli credere di aver sentito l’algerino manifestare l’intenzione di portarlo alla seduta successiva, il che sarebbe stato molto pericoloso.
Quando c’incontrammo nella stradina, io avevo con me una cartella nella quale avevo nascosto un bisturi e il coltello. Lui si avvicinò con quell’andatura leggermente claudicante e quella sua aria arrogante, e mi chiese se avessi portato i soldi. Aprii la cartella come per prendere il denaro, afferrai il bisturi e tirai un fendente con tutte le mie forze, recidendogli di netto la giugulare. Poi estrassi il coltello, lo ai nella ferita per sporcarlo di sangue e approfondire il taglio, lo gettai lontano e corsi via. Vi sentii arrivare mentre scendevo le scale che dalla Höhenweg portano alla Dufourstraße. Quando Gabriella m’informò di aver sentito i vostri discorsi e mi resi conto che avreste potuto giungere fino a me attraverso le confidenze di Romeo, fui preso dal panico; se fossi stato scoperto, il matrimonio, la carriera e la mia relazione con Gabriella, tutto sarebbe finito. Franz sapeva che il coltello era stato nelle mie mani, ma non aveva intenzione di riferirlo alla polizia; gli dissi che voi eravate al corrente dei nostri incontri alla villa e, se aveste spifferato tutto al tenente, sarebbe venuto tutto a galla. Lui accettò di sparare nel bosco perché lo persuasi che un incidente così grave avrebbe spinto i vostri genitori a riportarvi a casa.
Dopo il finto attentato ricevetti una telefonata di Walter: Romeo voleva vedermi al più presto e, non sapendo come raggiungermi, lo aveva pregato di indicarmi il luogo e l’ora in cui avrei potuto incontrarlo. Avendo motivo di temere il peggio, ai da Karin e trafugai una pistola prima di recarmi all’appuntamento. Il
colloquio con Romeo fu drammatico, perché lui non era persona che potesse accettare compromessi. Avendo intuito che ad ammazzare Jamal ero stato io e avendo visto Franz riporre un fucile nel proprio armadio, aveva deciso che il giorno successivo sarebbe andato a raccontare alla polizia tutto ciò che sapeva, a meno che non ci fossi andato io per costituirmi. Disperato, lo minacciai con la pistola; non volle cedere, allora gli sparai.
Così sono andate le cose. È arrivato il momento che tutto questo finisca».
Cogliendo tutti di sorpresa, si lanciò con impeto contro le corna di un capriolo che erano per terra in un angolo in attesa di trovare una collocazione sulla parete. Vedemmo con raccapriccio un corno che spuntava dalla sua schiena al centro di una macchia di sangue che si allargava velocemente. Il dottor Steiner fu il primo a riprendersi. Rigirò Riegling sulla schiena, solo per constatare che non c’era più nulla da fare: il corno assassino di quel capriolo era penetrato diritto nel cuore. Quando l’autoambulanza arrivò, il dottore Jürgen Riegling era già spirato.
Gabriella, che non mi aveva rivolto neanche uno sguardo per tutta la mattina, alzò gli occhi verso di me e vi scorsi una sola lacrima ed una immensa tristezza.
Nessuno parlava, ci sentivamo tutti svuotati. L’indagine era conclusa, l’assassino si era ucciso e questo faceva risparmiare al cantone di Sankt Gallen un processo e diversi interrogatori.
Franz fu arrestato con l’accusa di aver commesso diversi reati, il più grave dei quali era il tentato omicidio. Se la cavò con solo tre anni di carcere, essendo riuscito a convincere la giuria che non aveva intenzione di ferirci.
Quanto a Gabriella, che protestava di non essere al corrente delle intenzioni e dei delitti del dottor Riegling, non essendo facile dimostrare le sue responsabilità se la cavò con un’espulsione dalla Svizzera.
Sia il dottor Steiner che la principessa furono prosciolti in istruttoria, anche se su di loro pesò a lungo la censura morale dei loro comportamenti.
Epilogo
Riccardo aveva finito il suo racconto e vedevo nei suoi occhi una certa malinconia al ricordo di quel periodo che a distanza di oltre cinquant’anni era riemerso in tutti i particolari. Si alzò e versò ancora un goccio di armagnac, di cui ora avevo compreso il significato.
Gli chiesi:
«Hai mai saputo che ne fu, in seguito, della clinica, di Trishna e delle altre persone coinvolte in quella storia?»
Riccardo annuì.
«Con il permesso di Gus, restai solo con Gabriella per alcuni minuti. Lei mi gettò le braccia al collo e scoppiò in lacrime. “Riccardo” mi disse, “capisco il tuo risentimento, ma ti prego di riflettere per un istante su due cose. Che interesse avevo a mentirti? Tu rappresentavi, anche se sei più giovane di me, la speranza di una relazione pura, senza secondi fini. Perdonami, so che ti ho profondamente ferito, ma per me sarai sempre la persona più sincera, pulita, che ho mai incontrato; sei molto migliore di tutti quelli che si atteggiano a duri. Mi sono lasciata trascinare in questa spazzatura dalla necessità, dimenticando quello che la mia famiglia, seppur povera, mi aveva insegnato. Te lo ripeto, cerca, se puoi, di comprendermi e perdonarmi”. Capii che ormai di lei non mi importava più nulla; perciò le dissi soltanto di dimenticare tutto come avrei fatto io.
Rientrai nel salone, mi avvicinai al dottor Steiner e gli chiesi: “Dottore, cosa ne sarà di Trishna? Davvero non c’è nessuna possibilità che migliori? Non potrebbe servire darle affetto?” Il dottore mi guardò pensoso e poi con una voce umile mi rispose: “Ho capito. Se lei se la sente, potremmo provare ad aprire una breccia. Venga, non posso liberare Trishna, ma posso lasciare che lei le parli, sperando in una reazione positiva”. Emozionato, lo seguii verso la camera che ormai conoscevo. Il dottor Steiner mi chiese di attendere qualche minuto e poi, quando uscì, mi invitò ad entrare ed a comportarmi con spontaneità.
Al vedere nuovamente quella splendida creatura, sentii un tuffo al cuore. Mi avvicinai e le dissi sommessamente: “Trishna, sono nuovamente io, e sono tornato solo per te, perché il mio amore per te è senza riserve. Stringerti a me, saperti tranquilla ed in pace con te stessa è l’unica cosa di cui mi importa. La tua guarigione mi darebbe la più grande felicità”.
Per un attimo credetti di essere riuscito a comunicare con lei, ma poi la vidi riprendere a smaniare e dimenarsi come al solito. Allora, chinatomi su di lei, le urlai: “Basta, se vuoi farò l’amore con te fino allo sfinimento… ma perché ti amo, non per quello che mi offri! Non sei un oggetto, sei una persona meravigliosa”. Le ultime parole furono quasi sussurrate. Disperato, stavo preparandomi ad uscire, quando udii una voce del tutto diversa da quella che avevo sempre sentito: “Non andartene. Se davvero mi vuoi bene, che saresti disposto a fare? Non mi hai nemmeno detto come ti chiami”. Le risposi: “Hai ragione, scusami, mi chiamo Riccardo. Sono disposto a starti sempre accanto, a seguire con te la strada che dovrai percorrere, non importa quanto lunga e difficile”. Sentii una nota di implorazione nella voce che amavo: “Riccardo… Allora non lasciarmi sola…”».
Riccardo aveva appena finito di parlare, quando una splendida signora, anche lei non più giovane, fece il suo ingresso nello studio. Ancora commosso dalle ultime parole di Riccardo, mi alzai in piedi, le baciai la mano e l’abbracciai, esclamando, istintivamente, «Trishna!» Lei rimase un attimo stupita e poi corse ad abbracciare il marito; così abbracciati, mi sorrisero entrambi.
Quella sera eravamo a cena al Metropol con tutta la famiglia allargata, il figlio e la figlia con i rispettivi coniugi e i tre splendidi nipotini. Ancora oggi ho davanti agli occhi quella meravigliosa famiglia, dalla quale traspariva in ogni gesto l’amore da cui era nata. Gli comunicai con lo sguardo ciò che avevo nel cuore: ciascuno vorrebbe essere ed avere quello che voi siete ed avete.
Indice
Prefazione 4
Capitolo 1 Inizio dell’anno scolastico 1960-1961 9
Capitolo 2 La Kriminal Polizei di Sankt Gallen 24
Capitolo 3 La storia di Jamal 36
Capitolo 4 La camera di Jamal 48
Capitolo 5 Il tenente Gus Zimmermann 65
Capitolo 6 Romeo riceve un pacco 78
Capitolo 7 Notizie di Mustafà 92
Capitolo 8 Una visita inattesa 102
Capitolo 9 Una gita al lago 112
Capitolo 10 Un’altra vittima 124
Capitolo 11 Alcune considerazioni 136
Capitolo 12 Il dottor Walter Steiner 147
Capitolo 13 La nostra attesa 159
Capitolo 14 Una nuova traccia 171
Capitolo 15 La clinica del dottor Steiner 185
Capitolo 16 Una visita notturna 196
Capitolo 17 Il dottor Jürgen Riegling 212
Capitolo 18 La principessa Karin von Thünen und Strucker 226
Capitolo 19 Gabriella 242
Capitolo 20 La verità 256
Epilogo 270
[1]
La città nell’anello verde .
[2]
Signore benedici questo cibo e noi te ne saremo debitori.
[3]
Spegnere la luce.
[4]
Pianta le cui foglie contengono un alcaloide dall'azione stimolante, che causa stati di eccitazione e di euforia.
[5]
L avoratore straniero .
[6]
Salsiccia bianca di vitello, pancetta e cotica di maiale, aromatizzata con limone e zenzero.
[7]
Cibo.
[8]
Merda.
[9]
Il Cordone Bianco.
[10]
Salve
[11]
Sorta di focaccia rustica.
[12]
Alzarsi!
[13]
Souk El Arbà dal 1966 è stata rinominata Jendouba ed è a circa 130 km da Tunisi.
[14]
Formula di saluto in uso in Svizzera .
[15]
Lago di Costanza.
[16]
Frittelle di mele in pastella.
[17]
Servizio di Sicurezza.
[18]
La sigla Stgw sta per Sturmgewehr (fucile d’assalto).
[19]
Beau Geste è un film del 1939 diretto da William A. Wellman.
[20]
Cittadino di nazionalità se nato in Algeria e rimpatriato dopo l’indipendenza di quel paese.
[21]
Fronte di Liberazione Nazionale
[22]
La principale fortezza della Legione Straniera in Algeria
[23]
Complesso termale adoperato dai musulmani per le abluzioni.
[24]
Titolo originale: Vertigo . Film del 1958 di A. Hitchcock.
Indice dei contenuti
Copyright Prefazione Prologo Capitolo 1Inizio dell’anno scolastico 1960-1961 L Capitolo 2La Kriminal Polizei di Sankt Gallen S Capitolo 3La storia di Jamal Capitolo 4La camera di Jamal Capitolo 5Il tenente Gus Zimmermann Capitolo 6Romeo riceve un pacco Capitolo 7Notizie di Mustafà Capitolo 8Una visita inattesa Capitolo 9Una gita al lago Capitolo 10Un’altra vittima Capitolo 11Alcune considerazioni Capitolo 13La nostra attesa I
Capitolo 16Una visita notturna Capitolo 17Il dottor Jürgen Riegling Capitolo 18La principessa Karin von Thünen und Strucker Capitolo 19Gabriella Capitolo 20La verità Epilogo Indice Note