La Fiamma Eterna y62a

La Fiamma Eterna La Compagnia del Viandante, Vol.III

di sco Bertolino

Copyright 2012 sco Bertolino

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Illustrazione di copertina: Giovani Kososki http://giovanikc.blogspot.com.br

Altri titoli dello stesso autore su Smashwords:

“La Città degli Automi” - “La Compagnia del Viandante” Vol.I “La Forgia del Destino” - “La Compagnia del Viandante” Vol.II

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Indice

Prologo I - Nella Foresta II - Sotto Assedio III - Zanne e Artigli IV - Spettacolo di Sangue V - I Figli della Notte VI - Un’Improbabile Alleanza VII - Tulga VIII - Il Golem IX - Compagni di Viaggio X - Antares XI - Gli Indagatori XII - Un Incontro Inatteso XIII - La Festa di Edessa XIV - Cattive Nuove XV - La Rosa dei Venti XVI - Coraggio XVII - La Roccaforte

XVIII - Vecchi Amici XIX - Le Ombre XX - Forze Oscure XXI - Il Cacciatore di Taglie XXII - Catene XXIII - In Fuga XXIV - Le Zanne di Pietra XXV - La Caccia XXVI - Ritratto XXVII - Verso la Luce XXVIII - Nessuna Pietà XXIX - La Fiamma Eterna Epilogo - Raduan Epilogo - Padre e Figlia Epilogo - Luce e Ombra Quattro Chiacchiere

Dedicato a chi c’è e a chi non c’è più, ma continua a vivere nel mio cuore...

Prologo

Da oltre un secolo i due gemelli non si trovavano faccia a faccia in quel modo. Abel squadrò il volto del fratello, tanto simile al suo eppure tanto differente, con il cuore strangolato da un miscuglio di emozioni contrapposte: nostalgia, rabbia, speranza, diffidenza, odio, e persino un briciolo d’amore. Alzò una mano per sfiorargli il viso, finalmente libero dalla maschera di tenebre vorticanti. «Kain…» Il fratello gli frenò la mano a mezz’aria, con presa salda. Al contatto, la pelle di Abel bruciò, ma non per questo si sottrasse al tocco. Kain lo studiò con un sorriso ambiguo, prima di mollare la presa. Abel era ancora sbalordito dalla somiglianza fisica tra sé e il gemello, tanti erano gli anni trascorsi dal loro ultimo incontro. La fisionomia di Kain era indistinguibile dalla sua: stessa altezza, stessa corporatura, identici tratti del viso. Ciò che invece li rendeva dissimili, in modo netto e profondo, era il colore nero, assente nel caso di Abel, presente in tutte le sue sfumature nella figura di Kain. Capelli corvini, pizzo bruno ed occhi nerissimi, persino le labbra ben modellate erano nere come l’assoluta mancanza di luce. La pelle soltanto aveva un tono candido e glaciale, come quella di Abel. «Sembri sorpreso, fratello.» La voce di Kain era bassa, cupa, pareva sorgere dalla roccia sotto i suoi piedi. «Sì» ammise Abel «Non rammentavo più chi fossi, sotto la maschera.» Kain ponderò le sue parole con lo stesso sorriso spento di prima. «Sei tu l’esperto in travestimenti, Bianco Viandante.» L’ironia ferì Abel nel profondo. Possibile che ancora non capisse, anche dopo

avergli aperto il proprio cuore? Non era riuscito a scorgere, intessute nel lungo resoconto del suo ultimo secolo di vita, le ragioni del suo cambiamento? «Il Viandante è il mio vero io» dichiarò, dando forza alle parole con il tono della voce «Ciò che ero prima… Non esiste più. Non sarebbe mai dovuto esistere.» «Non sai quello che dici.» «È vero l’esatto contrario.» Kain ostentava indifferenza, ma il modo in cui aggrottò le sopracciglia tradì le sue emozioni. «Ti viene così facile rinnegare il ato? Rinnegare me, e nostro padre?» Abel scosse la testa. «Siete parte di me, così come io lo sono di voi.» «Perché allora ti ostini a negare la tua natura?» Di nuovo Abel ebbe la tentazione di cercare un contatto fisico con suo fratello, per trasmettergli la sincerità dei propri sentimenti, ma si contenne. «Si può cambiare. Si può apprendere a servire, piuttosto che dominare.» La risata di Kain scosse la terra. «Servire!» Sputò fuori la parola come un boccone disgustoso. «Sei proprio certo di essere tu, fratello?» «Ho imparato molte cose, tra gli esseri umani. Non tutte buone, eppure… La loro fragilità, la tenacia, la capacità di continuare a sperare anche quando è tutto perduto… Ho visto atti di grandi crudeltà, lo ammetto, ma anche gesti di totale altruismo, sacrifici d’amore che non credevo possibili!» Kain restò a bocca aperta, scandalizzato. «Li ammiri! Ti sei innamorato degli insetti che popolano questo pianeta!» Sferrò un pugno alla parete: la roccia si frantumò con una vampata nera,

provocando una pioggia di schegge. Grumi di nebbia nerastra presero forma sulle sue braccia, sulle gambe, attorno al viso, come se la sua pelle sudasse odio. «Ti ho perso, fratello, e tutto a causa di quel maledetto incidente! Quando la nave si è schiantata a terra, l’impatto ti ha strappato alla stasi in modo brutale: la tua mente è andata in frantumi.» Abel pensò alla piccola, gelida sala sigillata nel centro della nave, e ai sette sarcofagi neri che avevano ospitato lui e i suoi consanguinei durante il lungo viaggio. Quando aveva risvegliato Kain, Shem, Caleb e Tevani, senza aver realmente coscienza delle proprie azioni, tre dei recipienti di stasi erano già vuoti. Uno era il suo, gli altri due dovevano appartenere per forza di cose a Nahash e Anasia. «Loro due non contano» affermò Kain, interpretando il corso dei suoi pensieri «Non avrebbero neanche messo piede sulla nave, se nostro padre non l’avesse ordinato.» «Li avresti lasciati morire?» «Lo meritavano.» «Sono sangue del tuo sangue» replicò Abel, contrariato. «Tu sei sangue del mio sangue!» urlò Kain. I grumi nerastri si addensavano sul suo corpo, tessendo filamenti di bruma vischiosa. Il volto cominciò a dileguarsi sotto una matassa lanosa color del carbone. Presto il bozzolo di energia ostile l’avrebbe avvolto per completo, e Kain sarebbe divenuto nuovamente l’Oscuro. «Confessa, Bianco Viandante, paladino dell’umanità, imbevuto di nobili sentimenti d’amore!» Gli si approssimò di un o. «Volevi uccidermi, vero?» Abel lo fissò negli occhi, coperti da un velo di nebbia scura, mentre le sue labbra formulavano la risposta che tanto aborriva: «È così, lo ammetto.» Il silenzio che seguì pesava come una condanna sulla sua anima. Una

giustificazione gli parve inevitabile: «La colpa è tua, Kain, e della tua ambizione. Avresti schiacciato gli uomini come scarafaggi, avresti affogato il loro Regno in un bagno di sangue! Dovevo proteggerli, e l’unico modo era uccidendoti.» Gli occhi di Kain erano due pietre nere e lucide, di incredibile durezza. «Per questo hai messo insieme quella banda di disperati. Organismi adatti a ricevere il nostro potere, armi viventi da utilizzare contro di me.» Abel non negò né affermò nulla: il solo pensare alla Compagnia lo colmava di tristezza e rimorso. Vide are i loro volti, i loro occhi adoranti rivolti a lui in cerca di consiglio e protezione. «Che io sia maledetto!» pensò. «Una buona idea» proseguì Kain «Ma proprio all’ultimo il tuo cuore si è rammollito. Sei venuto da solo.» Le parole si accavallarono nella bocca di Abel: «Non potevo usarli in quel modo, neanche a fin di bene! Era sbagliato, un terribile errore! Io… io li amavo.» «Vigliacco.» Il manto tenebroso di Kain vorticò più in fretta, accompagnando l’impeto delle parole. «Hai scelto di abbandonarli a se stessi, senza il coraggio di forgiarli nell’arma definitiva. Li hai lasciati soli, e per questo sono morti. Il tuo amore li ha uccisi tutti quanti.» «Non tutti» mormorò Abel. Il suo cuore batteva all’impazzata. Erano vere, le accuse di Kain. Aveva sbagliato tutto, e credendo di salvarli li aveva condannati a una morte orribile. Eppure qualcuno era sopravvissuto. Qualcuno lo stava cercando, ne era

convinto. La grande luce della Compagnia del Viandante si era ridotta a un lumicino, ma non si era ancora spenta. Non tutto era perduto. L’Oscuro gli diede le spalle. «Una parte di me sperava di riportarti al mio fianco» disse, non più con la voce umana di Kain, bensì con quella cavernosa del mostro, filtrata dalle tenebre «Mi sbagliavo, adesso lo so.» «Fratello…» «Mio fratello non esiste più. Non so chi tu sia, ma sta pur certo che presto conoscerai il tuo destino.» Era futile cercare di farlo ragionare. Abel stette in silenzio, mentre il turbine d’oscurità scivolava fuori dalla cella, e la porta si richiudeva alle sue spalle. Il suo racconto non era servito a nulla, come temeva. Lo spirito di Kain era ambizione pura, volontà di dominio incarnata. Al contrario di sé, non era per nulla cambiato dopo la fuga dal loro mondo e il naufragio che li aveva intrappolati su quel pianeta, tanto arretrato rispetto al loro. Per lui i popoli del Regno non erano che bestiame da condurre al macello, porci da sgozzare senza un secondo pensiero. Si accomodò a gambe incrociate sul pagliericcio umido. Chiuse gli occhi e si concentrò. Doveva recuperare le forze, nell’attesa che giungesse il suo salvatore. Curvò un angolo della bocca in un sorriso. L’incontro con suo fratello non era andato come sperava, ma la seconda parte del suo piano aveva avuto successo. Se le sue parole non erano riuscite a scalfire la corazza di Kain, l’avevano almeno distratto a sufficienza da impedirgli di leggergli dentro, di cogliere i segni del nuovo potere che andava maturando all’interno del suo corpo. Un grave errore, da parte sua. A tempo debito, se ne sarebbe pentito.

I - Nella Foresta

Il Delta del Tramonto, agli albori del giorno, celava agli occhi degli uomini il suo manto crepuscolare di luce rosata, impreziosito dalle danze dei fenicotteri e dal profumo del ato. Raduan se ne avvide appena oltreati i cancelli di Silon, e ne rimase deluso. Aveva sperato che la sua partenza avvenisse in grande stile, rispecchiando la misura del suo compito e delle sue aspettative. Invece dovette accontentarsi di quel fondale scialbo, velato da un manto di nebbia. «Pazienza» si disse. Cielo rosso fuoco o meno, nulla cambiava. Quel tratto di strada non era che il primo di innumerevoli altri, lungo il cammino incerto che portava alla Valle della Luna e al Bianco Viandante. Spinse il cavallo al trotto. La bestia, grata per la libertà riconquistata, lo ricompensò con uno sbuffo d’entusiasmo. Per troppo tempo era rimasta al chiuso, impastoiata nelle stalle del Grande Tempio e della locanda. Raduan stesso stirò le labbra in un sorriso, quando la brezza gli scompigliò i capelli. La Compagnia del Viandante l’aveva trasformato in un nomade, suo malgrado. I giorni ati al buio, tra le pareti di roccia del Tempio, già cominciavano a sfumare nella sua memoria: nient’altro che un brutto sogno, come l’aspro confronto con suo padre, il Priore di Silon. Ne era pur valsa la pena, pensò, tastandosi la tasca rigonfia sul davanti della giubba. Lì, al sicuro dal vento e dalla pioggia, riposava il prezioso frutto della sua visita a Silon e ai vecchi compagni dell’Ordine di Abidan: poche rarissime pagine, pescate con difficoltà nell’immane dimenticatoio della Biblioteca. E pensare che per poco non era andato tutto in fumo, insieme alle speranze di scovare una traccia che lo conducesse ad Abel! Se all’ultimo non avesse intuito la rete di inganni intessuta dal Priore, se non avesse arrestato la sua mano un istante prima che gettasse alle fiamme le vecchie pagine ingiallite... Meglio non pensarci. Una parte del testo era andata in cenere, ma qualcosa si era salvato e doveva farselo bastare, per quanto misero fosse. Aveva impiegato interi giorni a interpretare e ricopiare lo scritto sdrucito di Helah, dalla grafia quasi

illeggibile. Il diario dell’antico Monaco Viaggiante era forse l’unico trattato al mondo a contenere informazioni attendibili sulla Valle della Luna. Sempre che la Valle esistesse davvero: forse era soltanto il miraggio di un monaco delirante, come i più sostenevano. E che Abel vi fosse tenuto prigioniero, non era che un’ipotesi fondata sulle parole di un moribondo. Non vi erano certezze. Il destriero accelerò, come se gli avesse letto nel pensiero. Il Delta scomparve alle loro spalle, insieme alle torri aguzze della città, mentre il nastro delle Acque Placide li affiancò, inzuppando la terra con la sua linfa. Il grande fiume li avrebbe accompagnati per un bel pezzo, finché non l’avessero attraversato per proseguire verso Nord. Laggiù li attendeva la foresta di Leukania, prima tappa delle sue peregrinazioni, prima tessera del rebus che occultava l’accesso alla Valle della Luna. Raduan aveva riscattato tre brevi parti delle cronache di viaggio di Helah. L’ultima era la più importante, quella che gli aveva aperto i cancelli della speranza. Presa da sola, però, senza uno straccio di contesto, aveva poco significato. L’unica speranza era seguire con ordine i i del monaco, a cominciare dagli indizi racchiusi nel primo spezzone di testo. Con un po’ di fortuna, a Leukania avrebbe recuperato un capo dell’invisibile filo che allacciava i riferimenti del primo brano a quelli del secondo. Dal secondo al terzo, ci sarebbe voluta un’altra ricerca. Poi, forse, l’agognata Valle. Deviò dalla strada di terra battuta per scansare una carovana di carri, uomini e animali diretti in senso opposto al suo. Non erano mercanti, era gente male in arnese che si trascinava dietro quel poco che ancora possedeva, insieme a un ultimo briciolo di speranza nel futuro. Gente in fuga dalla guerra che già divampava a Nord, tra le frontiere dei Principati. Raduan si augurò che Silon accogliesse tra le sue mura quei poveretti, ma ne dubitava. Erano soltanto i primi, molti altri li avrebbero seguiti. E l’altezzosa città delle Gilde non avrebbe facilmente aperto i suoi cancelli a quella folla di disperati e nullatenenti. Rivolse per loro una silenziosa preghiera ad Abidan, senza fermarsi. Aveva molte leghe da percorrere, prima di raggiungere Leukania. Pur non essendoci mai stato di persona, ne conosceva la storia a grandi linee. In ato la foresta era molto più estesa, occupava l’intera metà occidentale del Regno come una

macchia bruna, dal Mare Interno fino all’Oceano. Era famosa per il suo legname pregiato, esportato nelle altre province per via d’acqua e di terra. A quei tempi, la foresta aveva attratto una nutrita comunità di taglialegna, falegnami e artigiani, sedotti dall’inesauribile scorta di materia prima. All’ombra degli antichi alberi, villaggi e piccole città erano sorti come funghi. Era stato eretto persino un monastero dell’Ordine di Abidan, la sua meta. Recitò a mezza voce il primo frammento dello scritto di Helah, le parole risucchiate dal vento non appena si staccavano dalle sue labbra:

“...il monastero resisterà agli anni, ossatura di solida quercia e pareti di abete rosso. È stato un valido investimento, i membri del Consiglio ne saranno soddisfatti. Il bisogno della Legge è palpabile, in queste lande selvagge di Leukania: noi monaci, operai della fucina del Fabbro Celeste, siamo chiamati a forgiare la volontà dei coloni, a condurli con spirito fermo lungo il cammino della civiltà...”

Una lacuna, e poi:

“...ho inoltrato la corrispondenza all’Abate, che si è disposto a consultarla quanto prima. Anche i tomi hanno raggiunto la loro destinazione: un grande salto, dalla nostra gloriosa Biblioteca ai modesti scaffali di questo avamposto. La ritengo comunque una giusta scelta: la parola scritta abbonda al Tempio, mentre qui è una ricchezza rara...”

Un’altra interruzione, e per finire:

“...portato a termine le mie incombenze qui al monastero. L’Abate è una gradevole compagnia, la dimora è accogliente, e la natura selvaggia dei dintorni stimola la nostra curiosità, ma il nostro obiettivo è altrove, non possiamo

indugiare. Le terre inesplorate del Nord attendono solo i nostri occhi per svelare quale sia il loro ruolo nel Grande Disegno del Fabbro Celeste. Sbrigherò oggi stesso le formalità del Libro Mastro, e domani ripartirò col mio piccolo seguito per...”

Ed era tutto. Raduan si morse un labbro, come sempre quando giungeva a quella parte. Possibile che la sorte non gli avesse concesso di decifrare un’altra parola soltanto, il nome di un luogo, una città, un punto marcato sulle mappe? Eppure no, le fiamme avevano divorato giusto quella traccia, e gli toccava cavalcare fin nel cuore della foresta con la speranza di rinvenirla. Il Libro Mastro del monastero era la chiave di tutto. Ogni centro dell’Ordine, dal Grande Tempio al più umile degli avamposti, ne possedeva uno. Da secoli, fin dagli albori del culto di Abidan, i monaci si erano imposti il dovere di registrare in modo minuzioso, con inchiostro indelebile, l’arrivo e la partenza dei confratelli visitatori, la loro provenienza e destinazione, lo scopo del loro viaggio. La Legge non tollerava alcuno spreco di risorse, dunque ogni spostamento dei monaci era sottoposto a rigidi controlli. Raduan coltivava perciò la ragionevole speranza di mettere le mani sul Libro Mastro di Leukania, e qui scoprire la destinazione di Helah. Fino a quel momento, i successivi aggi di testo strappati al diario di Helah non gli sarebbero serviti a nulla. Uno narrava le peripezie del monaco a bordo di una scialuppa, su un mare in burrasca a ridosso di ripide scogliere. Erano citati dei punti di riferimento, ma senza indizi sulla rotta seguita dall’imbarcazione Raduan non aveva modo di situarli. L’altro spezzone del diario - quello che si apriva con la dichiarazione di Helah di aver scoperto un’incantevole e ricchissima valle da sogno, difesa da un letale guardiano - era ancor più astruso. La parte centrale non era neppure una prosa di senso compiuto, bensì una sorta di filastrocca. Raduan la declamò al vento che gli soffiava negli occhi, e scompigliava la criniera del destriero al galoppo:

“Che il coraggio ti aiuti, e poi la scienza, Ai piedi della Fiamma Eterna. Apri gli occhi sul grande mare, Osserva la sua legge naturale. Il cuore del dilemma è alle tue spalle: Risolvilo, e vedrai la Valle.”

Ci si era arrovellato per un bel pezzo, prima di arrendersi all’evidenza: se quei versi avevano un significato, l’avrebbero rivelato soltanto alla fine del suo viaggio, a molte leghe da lì. Il tempo ava rapido, fra un percorso al galoppo e uno al trotto. Il paesaggio era monotono e rilassante: campi fertili, in parte coltivati, in parte abbandonati al dominio della rigogliosa erba selvatica. Il fiume alla sua destra era una costante, e a tratti la strada ava così vicina alle acque cerulee che Raduan riusciva a specchiarvisi con la coda dell’occhio: un cavaliere dal profilo forte, barba folta e capelli corvini fin sulle spalle. Tornò più volte col pensiero a Leukania, preoccupato, e non soltanto dalla consapevolezza che la polvere si stava accumulando da secoli sui i di Helah, cancellandone forse per sempre le orme. La fama sinistra della foresta contribuiva a incupirgli i pensieri. Erano lontani i giorni in cui il nome di Leukania evocava una contrada florida, ricca di vita e futuro. Da generazioni la foresta era oggetto di cupe superstizioni, e veniva evitata da chiunque avesse un briciolo di prudenza. Vi accadevano fatti inspiegabili, gli incauti viaggiatori sparivano nel nulla. Eppure tutto era andato a gonfie vele a Leukania, fino a quando il numero dei taglialegna non era cresciuto oltre misura. I lavoranti abbattevano gli alberi a centinaia, e il raschiare delle seghe procedeva giorno e notte senza posa, finché qualcosa si era spezzato nell’equilibrio naturale. Le leggende al riguardo erano molteplici e fantasiose, ma nessuno sapeva realmente spiegare cosa fosse accaduto. I rari testimoni oculari concordavano su un punto, nei racconti

tramandati ai posteri: le creature della foresta si erano ribellate contro gli uomini, e a guidarle c’era un essere spietato. Un mostro nero come la pece, secondo gli uni, una belva dall’aspetto umano, secondo gli altri. Ai più era apparsa nelle vesti di una donna bellissima, dalla pelle scura e vellutata come il manto di una pantera. L’avevano soprannominata la Strega d’Ebano. Raduan sorrise tra sé. Tutte sciocchezze. Di certo qualcosa di orrendo era accaduto nella foresta, per far sì che nove abitanti su dieci l’abbandonassero senza farvi più ritorno. Ma si potevano trovare spiegazioni ben più plausibili di quello spauracchio da fiabe per fanciulli. Una pestilenza, ad esempio, o un invasione di barbari del Nord, che a quei tempi osavano spingersi molto più a fondo nel cuore del Regno - e il cui aspetto poteva facilmente confondersi con quello di belve assassine. In ogni caso, l’esodo da Leukania apparteneva ad un ato morto e sepolto. Orsi e lupi erano le peggiori insidie che oggigiorno gli potessero capitare, nel varcare la soglia della foresta. Perché allora si sentiva così inquieto? Di certo le notizie trasmessegli da Bertram avevano avuto il loro peso. Il Portiere Anziano era venuto a cercarlo di persona, prima che lasciasse Silon. Non si vedevano da quella notte al Tempio, quando proprio grazie alle intuizioni del suo vecchio amico aveva messo a nudo i raggiri del Priore, e si era precipitato a saldare i conti. Bertram non aveva gradito una separazione tanto repentina, perciò si era dato da fare sino a rintracciare la locanda dove Raduan risiedeva. Erano così riusciti a trascorrere una mezza giornata in compagnia, prima di scambiarsi un forte abbraccio e la promessa di rincontrarsi al Tempio, nel prossimo futuro. In quel mentre, sollecitato dalla sua curiosità, Bertram gli aveva fornito notizie poco rassicuranti su Leukania e sul monastero dell’Ordine. Il vecchio non prendeva alla leggera le dicerie che circolavano sulla foresta, e non aveva apprezzato le sue risate. «Quando arriverai al monastero» gli aveva detto, con sguardo severo «Se arriverai al monastero, vedrai con i tuoi occhi che c’è poco da ridere. Giorni fa un messaggero dell’Ordine è giunto a Silon da laggiù, per chiedere udienza al Priore. Non aveva un bell’aspetto, e le sue parole erano gravi. Sosteneva che la Strega si fosse risvegliata dal suo lungo sonno. Ha affermato che c’è una guerra in corso, e che i monaci sono gli unici rimasti a difendere gli insediamenti degli uomini.»

Il Priore aveva ovviamente sbattuto la porta in faccia al pover’uomo, e l’aveva rispedito al mittente con la seria minaccia di depennare dalla mappa dell’Ordine quello sperduto avamposto di piantagrane. Raduan, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso, magari con un pizzico di cortesia in più - qualità di cui suo padre era sprovvisto - eppure il dubbio restava. Se le storie del messaggero non erano scempiaggini escogitate al solo scopo di procacciarsi fondi, la cavalcata fino al monastero non sarebbe stata priva di pericoli. Doveva munirsi di cautela, prima di metter piede nella foresta. Il destriero era fresco e sprizzava voglia di galoppare, proprio come il cavaliere, per cui macinarono terreno fino al calare delle tenebre, con pochissime soste. Dopo una notte ristoratrice in una locanda di second’ordine, varcarono le Acque Placide sulla zattera di un traghettatore dallo sguardo astuto. L’uomo scucì a Raduan una somma ben più cospicua del normale per una traversata così tranquilla, sostenendo che fosse a causa della guerra. A suo dire, ogni volta che approdava sulla riva settentrionale del fiume rischiava la cattura da parte degli eserciti invasori di Hiram. Una palese fandonia - i soldati nemici non avevano neppure valicato i confini del Principato - ma Raduan fece buon viso a cattivo gioco, piuttosto che mettersi a cercare un ponte chissà quante leghe più a monte. Quando la zattera toccò la riva opposta, un’orda di disgraziati spuntati da chissà dove con i loro fagotti sulle spalle si fiondò avanti, disposta a tutto pur di farsi portare sull’altra sponda. Di certo non avevano le tasche piene di monete sonanti, né la remissività di clienti bendisposti. Dinanzi a quella masnada di profughi, il traghettatore rivolse a Raduan uno sguardo sgomento. Il guerriero spronò il cavallo e lo salutò con un sorriso: «Fatti forza, amico! Ne avrai bisogno per remare.» Giorni dopo, giunse finalmente in vista del nastro verde che tagliava l’orizzonte da Est ad Ovest, segnando il margine meridionale della foresta di Leukania. Era il primo pomeriggio di una giornata uggiosa, e una pioggerella insistente gli aveva inzuppato gli abiti fin dal primo mattino, raffreddando il suo entusiasmo. Starnutì, ed incitò il cavallo a proseguire al trotto. Man mano che si avvicinava alla foresta, gli alberi cominciarono a prendere forma, bassi e ritorti: se non altro gli avrebbero offerto riparo dalla maledetta pioggia. L’intrico di rami creava una densa tettoia, e la poca luce che filtrava non era sufficiente a garantire l’esistenza di un sottobosco.

Mancava un solo o per abbandonare gli spazi aperti della pianura, e il destriero di Raduan lo fece senza esitare. Gli zoccoli produssero tonfi attutiti sul tappeto marrone di aghi di pino. La bestia sbuffò e si agitò nervosa, costringendo il guerriero a strattonare le redini. «Ohh, ohh! Calma, che ti prende?» L’eco delle sue parole risuonò nel silenzio, prima di perdersi nella buia galleria di tronchi. «Che brio...» si disse, dando una pacca sul collo della cavalcatura. Se c’era vita tra quegli alberi, non era in grado di scorgerne le tracce. Forse proprio perché era arrivato lui, un intruso. «Uccelli e scoiattoli trattengono il fiato» pensò, sorridendo dei propri timori. Magari l’avrebbero investito con una pioggia di noci e ghiande, per ordine della Strega. Avanzarono al o, la bestia nervosa e il cavaliere dal sorriso forzato. Non c’era un vero e proprio sentiero, men che meno una strada, benché la boscaglia non fosse fitta al punto di intralciar loro il cammino. Suo malgrado, Raduan rivolse un rapido pensiero a Dorian, che forse in quello stesso momento si trascinava col fango fino alle ginocchia nella giungla acquitrinosa di Draslund, malgrado l’avesse messo in guardia. Rispetto a quella del comandante, pensò, la sua era una eggiata. Diede un’occhiata alla bussola, prezioso regalo di Abel di cui aveva imparato a fidarsi ciecamente, nonostante i dubbi iniziali. Ancora non gli era servita in quel viaggio, ma a partire da lì non poteva permettersi leggerezze, o rischiava di trovarsi a vagare senza meta nel labirinto verde. Era penetrato nella foresta in un punto che gli era parso equidistante tanto dall’estremità orientale che da quella occidentale. Ora non gli restava che seguire dritto verso Nord fino a imbattersi nei primi avamposti civilizzati. Lì avrebbe ottenuto indicazioni più precise per raggiungere il monastero. Sollevò lo sguardo dalla bussola. Gli parve di udire un fruscio, e si voltò di scatto. Niente, la boscaglia era un quadro immobile, da ogni lato. Il cavallo continuò a incedere con o ovattato. Era curioso che non avesse mai messo piede a Leukania prima di allora. Aveva girato mezzo mondo con la Compagnia, sempre alle calcagna dei Demoni,

eppure il Viandante non aveva mai avuto ragione di condurli da quelle parti. Forse anche i mostri mutanti temevano la Strega. Rise, e fu allora che uno zoccolo del cavallo pestò qualcosa di molle. La bestia nitrì e roteò gli occhi. Si impennò con tale violenza che per poco non lo scaraventò a terra. Mentre riprendeva il controllo, Raduan vide con la coda dell’occhio un corpo umano riverso al suolo. «Che diavolo...!» Fece arretrare la bestia a distanza di sicurezza, dove la vista del sangue non le desse alla testa. Balzò giù di sella e allacciò le redini al tronco di un castagno. Poi impugnò la spada con una mano sudata, e tornò sui propri i. Non era una buona idea, se ne rese conto fin da subito. Un individuo dotato di buon senso sarebbe schizzato via in un lampo alla vista della morte; lui no, voleva sapere, come al solito. Avanzò guardingo sino ai resti umani abbandonati tra le foglie. Appartenevano a un taglialegna o a un cacciatore, a giudicare dagli indumenti di pelle e lana ruvida. Quando notò l’ascia infissa in un tronco, pensò che la prima ipotesi fosse quella giusta. Si avvicinò. La lama era conficcata a fondo nel legno, e spruzzata da un flusso di resina rappresa. Tra il ferro e la corteccia era impigliato un lembo di pelliccia insanguinata, spessa e scura. Attorno alla base del tronco, la terra era smossa da una miriade di impronte, alcune umane, altre enormi e unghiate, dal che dedusse che l’uomo aveva lottato contro una o più belve - bipedi, forse, vista l’altezza del colpo di scure. Orsi? Che altro genere di creature era in grado di combattere eretto sulle zampe posteriori? Mentre si arrovellava sulla natura delle orme, cercando di interpretare a quali bestie appartenessero, le sue orecchie captarono un fruscio. In una qualsiasi foresta sarebbe stato il più comune tra i rumori, ma nel silenzio di tomba di Leukania risuonò come un gemito. Strinse la presa sull’elsa della spada e si arrestò, in attesa. Il suono si ripeté istanti dopo, seguito da un altro che pareva un basso ringhio. Un piede davanti all’altro, leggero come un’ombra, Raduan si mosse incontro alla fonte dei rumori. Strisciò contro il tronco di un enorme abete, gli girò attorno, e vide agitarsi il fogliame di un arbusto. I suoi spostamenti si fecero ancor più cauti e misurati. L’arbusto continuava a scuotersi, e i suoni erano sempre più secchi. Quando fu

abbastanza vicino da poter toccare le foglie, Raduan allungò una mano e scostò un paio di rami. Sussultò. C’era un lupo davanti a lui, il muso e la pelliccia chiara del petto lordi di sangue. La belva aveva smesso di cibarsi, e lo fissava con malevoli occhi grigi. Raduan rimase impietrito, quasi ipnotizzato da quello sguardo crudele. Mosse appena gli occhi, e scorse un corpo umano premuto sotto le zampe anteriori del lupo. La belva non gradì l’interruzione del suo pasto. Alzò il muso al cielo e proruppe in un verso agghiacciante, mezzo latrato e mezzo ululato. La vegetazione alle sue spalle si aprì, e ne sgusciarono fuori altri due lupi ancor più grossi. Entrambi avevano il pelo irsuto e gonfio, e sbavavano. La schiuma che colava densa dalle loro fauci mise le ali ai piedi del guerriero, e un concerto di ululati ebbe inizio. Per sua fortuna non si era allontanato troppo dal cavallo: doveva solo raggiungerlo e balzare in groppa. Strisciò tra due tronchi e si mise a correre, sperando che fosse la direzione giusta. Un nitrito del cavallo glielo confermò, e allo stesso tempo gli fece rizzare i capelli. Piombò nella minuscola radura dove l’aveva lasciato, e si arrestò di botto dinanzi all’amara sorpresa di un orso nero ritto sulle zampe posteriori, con gli artigli piantati nei quarti posteriori del cavallo, che scalciava folle di paura. Che diavolo era successo agli animali della foresta? «La Strega!» sussurrò una voce dentro la sua testa. Scacciò l’idea rapidamente come gli era venuta - anche perché non si era scordato di avere tre lupi alle calcagna - e fece la prima cosa che gli ò per la mente. L’orso gli dava le spalle, impegnato nella lotta col povero destriero: si avvicinò in un balzo e gli menò un gran fendente dietro le ginocchia. L’animale lanciò un ruggito di dolore e si girò come una molla, stritolando l’aria con le sue zampe colossali. Raduan, schivato l’abbraccio mortale, si issò sulla sella, recise le redini con un taglio netto, e urlò: «Kyaaah!» stringendo le braccia attorno al collo della bestia. Libero dalle pastoie, il cavallo scalciò a destra e a manca e si fiondò nel primo varco. Aggrappato alla bestia, Raduan si lasciò trascinare via, sballottato come un burattino. I pensieri si accavallavano confusi nella sua mente, mentre il destriero proseguiva la sua folle corsa verso la salvezza. Che assurdità era quella? Mai

nella propria vita aveva incrociato predatori tanto aggressivi - fatta eccezione per il “cucciolo” serpente di Nahash, ma quella era un’altra storia. Quei due taglialegna ridotti a cadaveri ne avevano fatto le spese, e chissà a quanti altri era toccata la stessa sorte. Rabbrividì, pensando agli sventurati abitanti di Leukania. Forse, dopotutto, il messaggero aveva detto il vero. Il cavallo rallentò un poco la sua corsa. Raduan ne approfittò per accarezzargli il collo, e sussurrargli qualche parola di conforto. Un po’ alla volta la bestia si calmò. Continuò al trotto, sbuffando e grondando sangue e sudore. Il cavaliere la lasciò procedere, senza interferire. Lanciò un’occhiata alle ferite sanguinanti: due serie di tagli paralleli, non troppo profondi, che dovevano ardere come l’inferno. Appena ne ebbe l’occasione, scese di sella e agguantò i monconi di redini che pendevano dal muso della bestia. Questa protestò e roteò gli occhi, finché Raduan riuscì a dominarla: era stravolta dalla fatica e dalla paura, i suoi fianchi si gonfiavano e sgonfiavano come mantici anche da ferma. Il guerriero proseguì a piedi, trascinandosela dietro meglio che poté. Doveva fare il punto della situazione, dare un’occhiata alla bussola e cercare di capire se la fuga li aveva portati fuori strada. E il cavallo aveva bisogno urgente di cure. Poteva fermarsi? Si guardò attorno con circospezione. Anche se la zona sembrava tranquilla, non si poteva mai dire. Oltretutto la luce del pomeriggio, già distillata dal fittissimo tetto di rami, stava scemando a vista d’occhio. Un fuoco sarebbe bastato a tenere alla larga quel tipo di predatori, durante la notte? «Calmati, Raduan. Ragiona.» Se l’era cavata in situazioni ben peggiori di quella, senza dover tornare tanto indietro nel ato. Non poteva lasciarsi impaurire da un branco di animali impazziti. Si fermò nei pressi di un rivoletto d’acqua corrente. Il cavallo sbuffò, agitato, ma si lasciò guidare. Infilò il muso nel torrente e cominciò a bere. Raduan ispezionò le sacche appese alla sella: non si erano strappate durante la fuga, il loro contenuto era intatto. Rovistò e ne estrasse un sacchetto di tela dall’odore pungente, e una scatoletta di legno. Sciacquò le ferite del cavallo - impresa che quasi gli costò un calcio nelle costole - poi vi spalmò uno strato dell’olio denso conservato nella scatola, impastato con un pugno delle erbe triturate contenute nel sacchetto. Erano rimedi di ottima qualità che si era procurato nell’erboristeria del Tempio, per ogni evenienza. Li usò con parsimonia. Erano destinati a lui, non

certo all’animale. Sbrigato il compito, consultò la bussola e tirò un sospiro di sollievo: si erano sempre mossi verso Nord, o quasi, il che significava che non si erano allontanati dalla meta. Secondo i suoi calcoli, restava almeno un’ora di luce prima del tramonto. Dovevano continuare, anche al buio se necessario. Se quegli sventurati taglialegna si erano spinti fin là, significava che c’erano delle case nelle vicinanze. In quei frangenti, era obbligato a chiedere ospitalità per la notte. Un ululato squarciò il silenzio, fin troppo vicino. Raduan acciuffò gli spezzoni di redini e balzò in sella. Se non gliel’avessero offerta spontaneamente, si sarebbe preso l’ospitalità a forza, alla prima occasione. Spronò il povero destriero, e si avviarono. Tempo dopo, quando ormai non riusciva più a distinguere il cammino nell’oscurità e stava per rassegnarsi a are una notte insonne attizzando un falò, un vago chiarore ammansì le tenebre. Proveniva dalla finestra di una baracca di legno. Ce n’erano altre tre, disposte a semicerchio, e una calda luce gialla sfuggiva da sotto gli usci e dalle fessure nelle pareti di tronchi. Raduan si sentì percorrere da un’ondata di sollievo. Era da un tratto che gli ululati non lo tallonavano, ma l’idea di una solida parete tra sé e la notte gli sorrideva alquanto. Transitò davanti alla finestra illuminata della prima casa, e una lunga ombra si posò sulla sua figura. Era una bimba dai riccioli rossi, appoggiata coi gomiti al davanzale di una piccola finestra. Stringeva al petto una bambola di stracci, e lo fissava con la bocca spalancata in un “O” di sorpresa. Raduan alzò una mano e le sorrise. Subito la sagoma di un uomo imponente si disegnò alle spalle di lei. Le poggiò una grossa mano sulle spalle e la tirò indietro, incurante del suo piagnucolio di protesta. Si sporse a fissare lo straniero. Lo valutò con espressione seria, scrutò a destra e sinistra nell’oscurità, quindi gli indicò la porta con un cenno del capo. Come Raduan aprì bocca per ringraziarlo, l’uomo stava già serrando le imposte. Il guerriero scese di sella e tirò il cavallo sin davanti alla porta, che si aprì con un cigolio. Ne uscì lo stesso uomo, un boscaiolo alto quasi due metri, con una grossa accetta stretta tra le dita e un’espressione tutt’altro che solare stampata sul volto dalla fronte prominente. «Vi ringrazio di tutto cuore...» cominciò Raduan, ma l’uomo lo zittì con un

gesto. «Parleremo dentro. La foresta odia le nostre voci, soprattutto di notte.» A gesti, si fece seguire sul retro della baracca, dove c’era una stalla minuscola. Alzò la sbarra che bloccava il portone, e invitò Raduan a spingere dentro il suo destriero. C’era fieno in abbondanza, e un vecchio mulo che non si scompose di fronte a quella compagnia inaspettata. Alleggerito il cavallo dal peso della sella, richio il portone e si affrettarono ad entrare in casa. Era un ambiente piccolo e rustico, riscaldato da un focolare scoppiettante. La moglie del boscaiolo, una donna giovane e sciupata, attendeva in piedi davanti al tavolo. La bambina se ne stava con la schiena poggiata alle ginocchia della madre, un pollice in bocca. Lo vagliò con occhi inquieti. «Vi chiedo scusa per l’intromissione» disse Raduan da perfetto gentiluomo, producendosi persino in un breve inchino - forse il primo che la donna avesse ricevuto in vita sua. «L’oscurità mi ha sorpreso durante il cammino. Non sarebbe la prima volta che dormo all’aperto, ma oggi sono stato testimone di eventi che... Beh, immagino lo sappiate meglio di me.» L’uomo annuì, e appurò un’altra volta che la porta fosse ben serrata. La donna, più rilassata, invitò Raduan a prendere una sedia. Il guerriero si accomodò e le sorrise. «È avanzata della zuppa» disse lei, scostandosi dagli occhi una ciocca di capelli color paglia. «Se non è chiedere troppo... L’appetito non mi manca, lo confesso. State pur certi che vi ripagherò prima di partire.» «Non serve» disse il boscaiolo, abbandonandosi su una sedia dirimpetto a Raduan. Il legno gemette sotto il suo peso. «Leukania è cambiata, ma la nostra ospitalità è quella di sempre.» Raduan annuì. La donna poggiò sul tavolo una scodella di legno piena di zuppa fumante, e lui prese a sorbirla con gratitudine. La bambina, aggrappata alla gonna della madre, continuava a fissarlo come se fosse la cosa più strana che avesse mai visto. «Cosa ci facevate da solo nella foresta, in piena notte?» scosse la testa il

boscaiolo «Siete straniero, vero?» «Sì» ammise Raduan, asciugandosi le labbra con la manica della camicia «Uno straniero troppo testardo per credere alle storie.» «Ora, però, ci credete.» «Senza dubbio. Comincio a pensare che persino la Strega d’Ebano sia reale.» L’uomo impallidì e abbassò lo sguardo. «Non nominatela, per favore! Qua dentro siamo al sicuro, ma non so fino a che punto!» «Scusatemi» borbottò Raduan. Mentre terminava il suo pasto, calò un silenzio imbarazzato. La bimba mollò la gonna della madre e si sedette in un angolo a giocare con una bambola di pezza. La grande novità era già sfumata. Il guerriero scostò la scodella vuota e si schiarì la gola. «Mi avete chiesto cosa ci facevo nella foresta. Sono diretto al monastero di Abidan, e a dire il vero qualche indicazione mi farebbe comodo.» Il boscaiolo raddrizzò la schiena e lo fissò negli occhi. «Il monastero, eh? Siete proprio sicuro di volerci andare?» «Perché me lo chiedete?» «Perché è proprio lì che sono cominciati i guai.» La donna si sporse sul tavolo per prendere la scodella. Il marito aspettò che si fe da parte prima di continuare. «Forse conoscerete la nostra storia: i tempi dell’abbondanza, la guerra contro la Strega - nel nominarla si toccò due volte la fronte in segno di scongiuro - e la fuga dei coloni. Oggi siamo pochi, meno di un decimo di quanti eravamo a quei tempi. Comunque molti di più che all’inizio di questo secolo. Troppi, per la foresta.»

Si ò una mano tra i capelli già in disordine. «Sono stati quei monaci, sapete? Finché c’era soltanto qualche famiglia sparsa qua e là, come la mia, la foresta ci lasciava in pace. Poi i monaci hanno cominciato a chiamare gente. Hanno creato un insediamento attorno al monastero, come ai vecchi tempi. Credevano che la foresta non se ne sarebbe accorta, o che avrebbe lasciato correre. Forse pensavano che, dopo tanti anni, il male si fosse assopito. Beh, si sbagliavano!» Sembrava così convinto di quel che diceva, che Raduan quasi non fece caso all’assurdità del concetto di fondo: che la foresta era una cosa viva, senziente, capace di lottare. E odiava gli uomini. Il boscaiolo lesse la perplessità nei suoi occhi, senza prendersela a male. «Non mi credete, lo so. Pensate che sia uno sciocco superstizioso, uno che ha vissuto troppo tempo recluso tra gli alberi. Allora lasciate che vi faccia una domanda: perché tanta fretta di entrare nella mia casa, stanotte? E perché quella faccia da fantasma?» Sorrise di fronte all’imbarazzo di Raduan. «Credete che non abbia notato le ferite del vostro cavallo? Le ha fatte un orso, o qualcosa di peggio. La varietà di predatori è aumentata a dismisura: ate un po’ di tempo nella foresta, e vedrete bestie di cui non avete mai sentito parlare.» «Vi credo sulla parola. Ma, il monastero...?» Il boscaiolo sputò per terra, ignaro dello sguardo di disapprovazione della moglie. «Andava tutto bene, fino a quando quelle tonache non hanno cominciato a radunare gente! Per riportare la civiltà, l’ordine, sapete, sciocchezze di questo genere.» Raduan non le riteneva affatto delle sciocchezze, ma la cortesia gli impose di non ribattere. «La foresta non l’ha presa bene. Gli animali sono... cambiati. Alcuni anche nell’aspetto. Sono diventati belve senza freni. Fino a ieri, per dirne una, non sapevo che i cervi attaccassero gli uomini. Adesso lo so. Uno di loro per poco non mi inchiodava a un albero con le sue corna. Da quel che ho sentito, però, non è niente in confronto a quanto succede al monastero.»

«Spiegatevi, ve ne prego.» «Io ne ho fatte di cose nella vita» continuò il boscaiolo, guardandosi le mani coperte di calli «ma mai il soldato. Per cui non saprei davvero descrivere un assedio. Però è quello che mi è venuto in mente, quando me l’hanno raccontato.» «Il monastero sotto assedio?» sbottò Raduan «Chi mai farebbe una cosa del genere?» «Non chi, che cosa. Sono gli animali, e altre cose che nessuno sa definire. Hanno fatto a pezzi l’insediamento. Hanno messo in fuga uomini e donne - quelli abbastanza svelti da farcela. I monaci hanno cercato di resistere, poi si sono arroccati nel monastero per salvarsi la pelle. A quanto ne so, sono ancora lì dentro, a maledire il giorno che hanno deciso di sollevare questo vespaio.» Raduan inarcò le sopracciglia. Senza che gliel’avesse chiesto, la donna gli piazzò davanti una tazza piena di una bevanda chiara, dall’odore penetrante. Ne porse una uguale al marito, che le cinse la vita con un braccio. «Mi hai letto nel pensiero, donna.» Alzò la tazza, esclamò: «Alla salute!» e la svuotò tutta d’un fiato. Il guerriero lo imitò, con più moderazione. I liquori caserecci erano fuoco liquido, lo sapeva. Tossì mentre la bevanda gli scavava un buco ardente nello stomaco. Era quel che ci voleva, dopo una giornata del genere, e con la triste prospettiva del domani che la conversazione gli aveva lasciato. A meno che il boscaiolo non esagerasse della grossa, raggiungere il monastero sarebbe stato azzardato come aprirsi strada nel cuore di un campo di battaglia. Le sue dita giocherellarono con la pipa, nella tasca della giubba. Gli venne voglia di una bella fumata, ma uscirsene al buio era fuori questione. Si consolò con un’altra sorsata di liquore, però oppose un cortese rifiuto quando il boscaiolo cercò di riempirgli di nuovo la tazza. Conversarono ancora, e continuarono anche quando la donna sollevò tra le braccia la bambina addormentata e si ritirò. Il padrone di casa si dimostrò molto loquace, sia per la scarsità di occasioni di dialogo che la vita gli propiziava, sia per gli effetti del liquore. Quando Raduan ebbe finito di aggiornarlo sulle novità della guerra, l’uomo si permise un mezzo sorriso. «Meglio qui con la Strega, dopotutto» disse. Poi si toccò la fronte tre, quattro

volte, e sbadigliò. Due minuti dopo, stava russando con la testa sul tavolo. Raduan sorrise e si alzò. La donna, premurosa dall’inizio alla fine, gli aveva lasciato una coperta ripiegata accanto al focolare. La stese accanto alle braci del fuoco morente e si sdraiò, godendosi il calore. Ci mise un po’ ad addormentarsi, e i suoi sogni furono zeppi di zanne e artigli. Sullo sfondo, c’era sempre la sagoma nera di una donna, i suoi occhi due fessure giallastre, come quelli dell’Addestratore di Serpenti. Poi Dorian e Kyra comparvero al suo fianco. Lottarono senza tregua, finché i corpi accatastati delle belve formarono una montagna davanti a loro. Ma quando li osservò meglio, scoprì con orrore che erano i membri della Compagnia del Viandante, come quel giorno maledetto a Bezer. Si svegliò di botto, sudato. Il cuore gli martellava nel petto. La casa era immersa nel silenzio, a parte il leggero russare del boscaiolo accasciato sulla sedia. Si girò su un fianco, e richiuse gli occhi. L’ultima cosa che udì prima di riassopirsi fu un ululato lontano. Se nascesse dal buio della foresta, o da un nuovo incubo nella sua mente, non seppe dirlo.

II - Sotto Assedio

Si svegliò di soprassalto, scrollato da una mano forte. «Ma come? Ho appena chiuso gli occhi...» pensò. La luce del giorno gli si insinuò sotto le palpebre, smentendo il pensiero. Si alzò a sedere, con la testa pesante come un masso. Udì la risata del boscaiolo sopra di lui. «Abituato a bere limpaq, eh? La mia roba è un po’ più forte, avrei dovuto avvertirvi!» «Sì, avreste dovuto» gemette Raduan, massaggiandosi le tempie. In realtà sospettava che la sua nottataccia avesse più a vedere con orsi, lupi e streghe che con il poderoso liquore della casa. La moglie del boscaiolo fu così gentile da servirgli una colazione a base di frutta e pane duro come la pietra. Mentre masticava, la bambina si avvicinò di soppiatto fino a pizzicargli una gamba, poi corse via ridendo. Chissà perché ne rimase colpito. La sua vita era così fuori dal comune, che le più semplici scene di convivio familiare lo impressionavano come cose di un altro mondo. Dopo il pasto - e dopo aver ficcato la testa in un secchio d’acqua gelata tirato su dal pozzo - si sentì di nuovo in forma, pronto a ripartire. Gli altri membri della ristretta comunità lo scrutarono con curiosità dalla porta di casa. Di certo sarebbe divenuto il principale argomento di conversazione nei giorni a seguire. Li salutò con la mano, e gli risposero allo stesso modo. Prima che qualcuno cercasse di intavolare una conversazione, sellò il cavallo - che dall’aspetto pimpante aveva avuto una notte migliore della sua, a dispetto delle ferite - e si congedò dai suoi ospiti. A fatica li convinse ad accettare un pugno di monete in cambio della loro gentilezza. Che uso ne avrebbero fatto, era un altro discorso. Nel mezzo della foresta quei soldi erano tanto utili quanto una manciata di sassolini colorati.

«State attento» disse il boscaiolo, poggiandosi l’ascia su una spalla «Fossi in voi, mi troverei un’altra destinazione.» «Lo farei, se potessi» rispose Raduan. «E dite a quei monaci di smetterla una buona volta con le loro provocazioni! Non ci serve una città nella foresta. Vogliamo solo che torni tutto com’era prima.» «Trasmetterò il messaggio. Addio, allora, e buona fortuna.» «Servirà più a voi che a me» sorrise il boscaiolo, sotto la falda del suo cappellaccio. Poco dopo, Raduan e il suo destriero si ritrovarono nel mezzo della foresta silenziosa, del tutto identica al giorno prima, e snervante allo stesso modo. Il guerriero si rese conto che era stata la mano di Abidan a guidarlo verso la salvezza, la notte prima. Quante probabilità c’erano di incappare in quello sparuto gruppo di case, perse nel mezzo della vegetazione? Avrebbe potuto vagare tra gli alberi per giorni, senza incontrare anima viva. Procedendo, la foresta si infittì gradualmente. Dove i ceppi di alberi abbattuti decenni prima affioravano dalla terra, altre quattro o cinque piante crescevano, disputandosi la terra in una muta lotta di radici attorcigliate. Le querce la facevano da padrone, sovrastando alberi di minore statura, carpini, frassini, e diversi altri a cui Raduan non avrebbe saputo dare un nome. Forse la sua era solo suggestione, ma la disposizione delle piante gli richiamò alla mente un esercito, le fila serrate e i battaglioni schierati in posizione di difesa, pronti a reggere l’urto della fanteria nemica. Malgrado la solitudine oppressiva, non trovò ostacoli lungo il cammino mentre proseguiva dritto verso Nord. Solo una volta udì uno sbuffo nelle vicinanze, e arrestò il cavallo dietro al tronco di una quercia secolare. Si sporse sulla sella, fino a intravvedere tra gli alberi il aggio di una creatura bipede che non avrebbe mai voluto incontrare faccia a faccia. Di spalle sembrava un orso nero se mai erano esistiti orsi di quelle dimensioni. Ma quando gli mostrò il muso di profilo, per annusare l’aria, Raduan ebbe un sussulto. Era un muso allungato da lupo, la pelle rosa e glabra fino alla fronte, le zanne tanto grosse da incrociarsi fuori dalla labbra, ben visibili anche a quella distanza. Uno scherzo della natura.

«Un brutto scherzo» pensò Raduan, pregando di essere sottovento, e che il fiuto della bestia non fosse sviluppato quanto i suoi canini. Anche quando questa sparì dalla vista, portandosi dietro i suoi sbuffi e i tonfi pesanti dei suoi i, il guerriero trattenne la cavalcatura per un buon tempo. Più tardi, ebbe la piacevole sorpresa di imbattersi in un assembramento di casette di tronchi simile a quello della notte precedente, ma completamente deserto. C’erano evidenti segni di lotta: porte sfondate, un carro rovesciato, le ossa spolpate di una bestia da soma. Raduan scese di sella per dare una rapida occhiata, senza mai separarsi dal cavallo, memore dei rischi corsi il giorno prima. Rinvenne soltanto altri segni di lotta e di fuga precipitosa, niente che non avesse già visto dalla sella. Se non altro scoprì un susino piantato nello spiazzo tra le case, carico di frutti maturi. Li spartì col destriero, sino a riempirsi lo stomaco. Bevvero acqua dal pozzo, e si avviarono. Trovarono un altro gruppo di case poco più avanti, e non fu l’ultimo. Tutti deserti. Non c’era ombra di abitanti, e nemmeno di nemici. A giudicare dalle impronte, tanto gli uni quanto gli altri si erano precipitati nella stessa direzione che Raduan stava seguendo. Cominciò a preoccuparsi sul serio quando vide il primo cadavere. Era un uomo di mezz’età, vestito alla maniera dei monaci. Giaceva riverso al suolo, la tonaca lacera e inzuppata di sangue. Davanti a lui c’era il corpo di un grosso lupo, con un’accetta piantata nel cranio. L’uomo aveva venduto cara la pelle. «Ehi! Psss!» Il sibilo lo fece sobbalzare sulla sella. Girò il cavallo, con la mano sull’elsa della spada, e vide un volto barbuto affiorare tra i cespugli. «Chi sei?» domandò Raduan. L’uomo spinse le mani fuori dall’arbusto e gli fece cenno di approssimarsi, con gesti impazienti. Il guerriero obbedì, guardingo. Avvicinandosi, notò che l’uomo se ne stava inginocchiato col busto infilato tra le foglie, con l’intenzione di nascondersi, ma il deretano gli era rimasto del tutto allo scoperto. I pantaloni di tela rammendati rivelavano una generosa porzione delle natiche. «Muoviti!» sbraitò costui, sputando foglie dalla bocca «Vieni giù, al riparo! Anche il cavallo!»

«Ti ho chiesto chi sei» ripeté Raduan, perplesso. «Mi chiamano Gonzo, ma sei tu il vero allocco, se te ne resti lì impalato! Diventeremo cibo per lupi, sissignore! E il tuo bel destriero farà da dessert!» Raduan mollò l’elsa della spada. Anche se l’uomo era chiaramente un sempliciotto, poteva venirgli utile. «Gonzo, eh? Parliamo. Esci di lì!» «Stavo per farlo, prima che arrivassi. Ma il tuo baccano ce li farà piombare addosso!» Annusò l’aria, perplesso. «Ha piovuto, o me la sono fatta di nuovo addosso?» «Grande Abidan!» pensò Raduan, roteando gli occhi. «Da quanto sei dentro a quel cespuglio?» domandò. «Da quando i lupi - e le altre cose - hanno azzannato Janos e Timble. Janos è quello lì, in mezzo al cammino. Timble se lo sono trascinato via ancora vivo. Poveretti! Mi erano simpatici. Erano più grassi di me, sarà per questo che li hanno presi. Io invece non sono molto saporito, nossignore! Per fortuna!» «Chi erano? Amici tuoi?» indagò Raduan, sforzandosi di ignorare quel fiume di parole insensate. «Colleghi, direi. Al monastero. Amici no, non mi hanno mai dato un bell’abbraccio. Che strano, perché tra loro si abbracciavano sempre, nella cantina, o in fondo alla scale.» «Fammi capire... Vivi al monastero?» «Sissignore. Se la chiami vita, spazzare i pavimenti, mangiare topi e prendersi un sacco di legnate sulla schiena!» «È lontano da qui?» «Direi di no. Di corsa, un quarto d’ora, se non ti cadono i pantaloni. A me succede sempre.»

Un quarto d’ora! Raduan non poteva sperare in meglio. Temeva che il monastero fosse molto più a Nord, cosa che l’avrebbe costretto a are un’altra pericolosa notte nella foresta. Ma prima di cantar vittoria, doveva saperne di più. Lanciò un’occhiata a Gonzo, che finalmente si era deciso ad alzarsi. Era basso e di carnagione olivastra - a meno che fosse sporcizia rappresa. Vestiva calzoni e camicia di stoffa consunta, e calzava un paio di sandali sdruciti. Il suo volto quasi scompariva in una massa di riccioli e barba nerastri, gonfi come la criniera di un leone, zeppi di foglie e rametti. Aprì la bocca in un sorriso tutto denti, fissandolo con aria idiota. «Dimmi, Gonzo, è vero che il monastero è sotto assedio?» «Verissimo, sissignore. Orsi, e lupi, e linci, e altri che non ho mai visto prima. La buona notizia è che oche e maiali ci sono ancora leali. Beh, lo erano, prima che ce li papimo tutti!» «Un’altra di queste e me ne vado» pensò Raduan. «Se quel che dici è vero, com’è che tu e quegli altri due vi trovavate qua fuori, invece che al sicuro tra le pareti del monastero?» Gonzo si grattò la testa, riflettendo. «Io sono uscito perché ero stufo di mangiare topi. Janos e Timble sono usciti perché gliel’ha ordinato l’Abate. Li ho seguiti per un aggio sotto le cantine. Dovevano portare un messaggio, o qualcosa del genere. Strano tipo l’Abate, mai che sbrighi da solo le sue faccende.» Raduan aggrottò la fronte. Le cose si erano messe molto male, se i monaci erano ridotti a cibarsi di ratti. Il messaggio doveva essere una richiesta d’aiuto, che non sarebbe mai giunta a destinazione. Un lato positivo c’era, però: adesso sapeva come introdursi nel monastero senza dover fronteggiare un’orda dai canini affilati. «Gonzo, puoi portarmi al monastero per quello stesso aggio?» L’uomo mise il broncio come un ragazzino.

«No di certo! Me ne sono appena andato!» «Ti prego, è importante! Ho fatto molta strada per venire sin qui.» «No, no, e poi no!» strillò Gonzo. Mancava soltanto che battesse i piedi. «Indicami almeno il aggio, ci vado da solo.» Gonzo si morse un labbro, e parve sul punto di mettersi a piangere. «L-lo sapevo! Vuoi sbarazzarti di me, come tutti quanti!» «Ma se ti ho appena chiesto di mostrarmi la via!» «Quale via?» «Per il monastero, che diamine!» «Non è una via, sciocco, è un aggio segreto!» Raduan strinse i pugni e respirò a fondo. Per un attimo desiderò aver incontrato una belva feroce, piuttosto che quel citrullo. «Allora, mi ci porti?» «Meglio se ci porta il tuo cavallo, io non ce la faccio a caricarvi tutti e due.» Il guerriero gli tese una mano. «Sali, prima che cambi idea.» Gonzo si guardò attorno, sospirò, poi si decise a salire in sella. «Altri topi, e altre legnate» mormorò, con aria triste. «Se resti qui, prima di notte saranno i topi a mangiare te.» Indicò un tratto di vegetazione. «Per di qua?»

Gonzo fece spallucce. «Se proprio vuoi. Pensavo che andassimo al monastero, dall’altra parte.» Raduan imprecò tra i denti, e spinse il cavallo al trotto. La bestia nitrì di protesta per il peso raddoppiato, ma obbedì al comando. Gonzo continuava a farfugliare cose insensate, senza che il guerriero gli prestasse attenzione. Aveva altro per la testa, come un brutto presentimento. Se erano così vicini al monastero sotto assedio, dov’era il frastuono della battaglia? Quel silenzio era inconsueto. Valicarono una barriera di arbusti, e Raduan arrestò il cavallo di botto, pregando che non gli sfuggisse un nitrito. Si trovavano ai margini di una grande area disboscata, punteggiata di ceppi d’albero e costruzioni diroccate. Alcune sembravano antiche, la maggior parte però pareva demolita di recente. Al centro dello spiazzo sorgeva una massiccia struttura di legno a due piani, vecchia e rattoppata in più punti. Aveva una forma squadrata, priva di fronzoli e senza nessuna concessione al senso estetico. Il monastero di Abidan, senz’ombra di dubbio. Attorno ad esso, sdraiati sull’erba ai tiepidi raggi del sole, c’erano almeno un centinaio di predatori di ogni stazza e colore. Sembrava che dormissero. «Eccolo!» gridò Gonzo, additando il monastero. Cento musi pelosi e ricolmi di zanne si sollevarono di scatto. «Ooops» mormorò Gonzo, abbassando lo sguardo. Il pensiero di gettare l’uomo in pasto ai lupi, e svignarsela mentre lo divoravano, ò per la mente di Raduan, ma lo scacciò subito. «Il aggio!» urlò «Dov’è?» «Dove l’ho lasciato» rispose Gonzo «Dietro a quelle rocce!» Raduan piantò gli speroni nei fianchi del cavallo, facendolo scattare avanti come una saetta. Due belve simili a lupi, con la pelle butterata e priva di peli, si gettarono nel mezzo per azzannare le gambe del destriero, e finirono schiacciate sotto i suoi zoccoli. Un orso si alzò ruggendo sulle zampe posteriori, pericolosamente vicino alla loro traiettoria. La spada di Raduan quasi lo

decapitò, prima che potesse colpirli con le zampe artigliate. Cavalcarono a rotta di collo fin dentro al varco formato da due file di rocce, senza che Gonzo smettesse un attimo di strillare. Quando raggiunsero il fondo, Raduan tirò a sé le redini e frenò il cavallo. Non vide traccia di aggi, solo un mucchio di pietre accatastate l’una sull’altra. Dietro di sé, avverti la masnada di animali inferociti convergere sul varco, tagliando fuori ogni via d’uscita. «Stavolta è fatta» si disse, maledicendo l’attimo in cui aveva dato ascolto a quel mentecatto. «Vacci addosso, là in mezzo!» urlacchiò Gonzo, indicando la roccia più grande, che chiudeva metà del varco con la propria mole. «Preferisci morire spiaccicato?» sbraitò Raduan. «Preferisco vivere, e basta!» Senza preavviso, Gonzo balzò giù dai quarti posteriori del cavallo e si mise a correre goffamente sino al roccione. «Che fai?» gridò Raduan, ma le parole gli morirono in bocca quando al tocco di Gonzo il masso si aprì su dei cardini come una porta, rivelando la bocca scura di un aggio. Era un semplice pannello di legno massiccio, ricoperto di cartapesta e dipinto con maestria per sembrare una roccia come le altre! Urlò di gioia e spinse il cavallo fin dentro al tunnel, facendo del proprio meglio per ignorare i latrati delle belve sempre più vicini, alle sue spalle. Non appena ò dalla luce all’oscurità, Gonzo gli sbatté la porta alle spalle e fece scattare il meccanismo di chiusura. La massa di corpi degli inseguitori si abbatté sullo spesso strato di legno, facendolo vacillare. La barriera però era ben costruita: resistette al primo impatto, al secondo, e ai successivi. I ruggiti si fecero tremendi, ma a nulla valsero, finché scemarono e si spensero. Raduan tornò a respirare. Gonzo si grattò la barba e lo fissò con occhi infelici. «Ecco, sei contento? Sono di nuovo rinchiuso in questa prigione. Topi e legnate, ahimè! Se ti va possiamo dividere, visto che è stata una tua idea!» «Perché no!» rispose Raduan, troppo sollevato per rispondergli male.

Esplorò il buio con lo sguardo. Sulle prime non vide nulla, poi apparve l’alone luminoso di una torcia in movimento. Veniva verso di loro. «Chi va là?» domandò una voce grossa, che apparteneva a un uomo ancor più grosso. La figura stringeva tra le dita il manico di una pesante... padella? «Janos, Timble, siete voi? Che diavolo ci fate già di rit... Tu!» esclamò, quando i suoi occhi si posarono su Gonzo. «Ecco le legnate» disse questi, con un sorriso mesto. L’uomo con la torcia gli lanciò una serie di epiteti poco dignitosi, prima che la sua attenzione si spostasse su Raduan, sceso da cavallo. «E tu chi diavolo sei?» «Raduan della Compagnia del Viandante, un tempo membro dell’Ordine di Abidan, come te. Vengo da Silon per una questione della massima importanza.» L’uomo lo squadrò con la delusione impressa sul volto rude. «Se sei i rinforzi che il Grande Tempio doveva mandarci, la vedo male.» Raduan si spazientì. «Siete tutti così da queste parti? Non sento che scempiaggini da quando ho incontrato questo sciagurato» disse, puntando il dito su Gonzo. «Lui è un caso a parte. Speravo che le maledette belve l’avessero acciuffato, o magari la Strega con quel suo Golem. Gli sarebbe andato di traverso e ci saremmo liberati di entrambi!» «Tu ne sai qualcosa di pasti indigesti, eh cuoco?» replicò Gonzo, in tono offeso «Sono ato ad assaggiare i topi dopo aver provato il tuo stufato. Due mesi prima che iniziasse l’assedio.» «Ma davvero? La prossima volta che ti avvicini alla cucina, vedrai cosa ti faccio mangiare!» «Non ne posso più!» esclamò Raduan, prendendosi la testa tra le mani «Gonzo,

tappati quella bocca! E tu, cuoco o cos’altro, portami dall’Abate, te ne prego. Ho attraversato la foresta per incontrarlo.» Il cuoco ci pensò su un attimo, poi diede una scrollata di spalle. «Va bene, seguimi. Anche tu!» disse poi, rivolto a Gonzo «L’Abate dev’essere ansioso di sapere dove ti eri cacciato, e perché hai mostrato il aggio a un estraneo. Adesso ci toccherà mettere qualcuno di guardia anche qua sotto!» Il sempliciotto chinò il capo e piagnucolò qualcosa, ma quando il cuoco alzò la padella con fare minaccioso, strillò e corse avanti lungo il corridoio. «Con le buone maniere si ottiene tutto. Su, amico, andiamo. E tienti vicino quel cavallo finché puoi.» «È una bestia docile, non preoccuparti.» «Non è questo che mi preoccupa» rispose il cuoco, umettandosi le labbra con la lingua «Le nostre scorte di cibo sono agli sgoccioli, sai... Per una bella bistecca di cavallo, credo che alcuni dei confratelli ti ucciderebbero nel sonno.» Raduan si irrigidì. «Grazie del consiglio.» Percorsero il lungo corridoio sotterraneo in fila indiana, Gonzo due i avanti a tutti, ciondolando la testa come un miserabile, poi il cuoco con la torcia e la padella, infine Raduan conducendo il cavallo per la cavezza. Sfilarono davanti a una cantina. Il guerriero gettò un’occhiata dentro, e vide file di scaffali impolverati carichi di bottiglie. «Ero qua dentro quando ho sentito il vostro trambusto» commentò il cuoco. «A provare i vini per il pasto?» si intromise Gonzo «Meglio un rosso, o un bianco, col topo arrosto?» Il cuoco cercò di rifilargli un calcio nel didietro, che l’altro schivò di un pelo. «Altro che vino» sospirò «Ci siamo bevuti pure l’aceto sul fondo dei barili.»

«E tutte quelle bottiglie?» «Liquore. Ottimo come merce di scambio nei mercati delle città, inutile per scacciare la sete. C’è tanto alcool, là dentro, da bruciare l’intero monastero!» «Sembra rischioso.» «E lo è, quando tipi come questo gironzolano senza una scorta.» Gonzo gli fece una boccaccia. «Quella volta è stato un incidente!» «Vallo a dire a fratello Pardo: le sopracciglia non gli sono ancora ricresciute, sai?» Raduan si morse la lingua: più che un monastero, sembrava un manicomio. Salirono una rampa e sbucarono in una grande sala al pianterreno del monastero. Tutto era di legno robusto e stagionato, dalle pareti, ai mobili, alle suppellettili. La luce entrava dalle fessure nelle imposte delle finestre, raggi dorati nel pulviscolo della sala. Un gruppo di monaci indaffarati con chiodi e martelli interruppe il proprio lavoro per squadrarli con occhi sospettosi. «Questo è il refettorio, anche se negli ultimi tempi lo usiamo più come sala di guerra» disse il cuoco «Se vuoi vedere l’Abate, va’ fino in fondo e prendi la rampa di scale. Le sue stanze sono al piano superiore. Io me ne torno in cucina, sono già in ritardo coi miei doveri.» «Pelare scarafaggi?» esclamò Gonzo, a distanza di sicurezza «No grazie, io vado con lui!» «Fa’ come ti pare, basta che mi stai lontano! Straniero, dammi pure il cavallo. Non c’è una stalla vera e propria, qui dentro: abbiamo messo su un recinto nel chiostro, per tenere le bestie. Ormai non è molto affollato.» Raduan lo guardò di sottecchi. «Quello di prima era uno scherzo.» sorrise il cuoco «Se non ti fidi, portatelo pure dietro. Attento a dove fa i bisogni.»

Il guerriero sospirò, ma si lasciò convincere. Aveva altro da fare che tirarsi dietro un cavallo. Consegnò le redini al cuoco, non senza un briciolo di rimorso, poi si avviò verso l’altro capo della sala, accompagnato dalla figura saltellante di Gonzo. «Pensavo che non ti pie il monastero» osservò Raduan. Salutò con un cenno del capo i monaci che lo osservavano in silenzio, intenti a rinforzare le imposte delle finestre con assi di legno. «Ho deciso: meglio qua dentro che là fuori. L’Abate mi fa paura, ma dubito che cercherà di azzannarmi le chiappe.» «Ben pensato.» Usciti dalla sala, presero la rampa di scale alla loro sinistra. Gli scalini, consunti dall’andirivieni di generazioni di monaci, gemettero come esseri viventi sotto i loro piedi. Più in su, un gradino ogni due era stato divelto dalla base. Anche nel rivestimento delle pareti c’erano delle falle: il legname era più utile per rafforzare le facciate esterne. Possibile che gli assedianti fossero privi di intelletto, per costringere i monaci a tanto sforzo? «Perché è tutto così silenzioso?» chiese Raduan, che aveva temuto drammatiche scene di lotta dentro e fuori dal monastero. «È l’ora del sonnellino» rispose Gonzo «Aspetta solo il calare del sole: quando i cuccioli si risvegliano, hanno sempre fame.» Aveva senso. La maggior parte dei predatori preferiva cacciare durante la notte. Dopo una serie di delicati aggi su travi sospese nel vuoto, misero piede sul pianerottolo. Gonzo gli indicò una porta. «È là.» E la porta si spalancò di botto. Ne schizzarono fuori due monaci pallidi, inseguiti da una sfilza di improperi come Raduan non aveva mai udito in un tempio di Abidan. «La vocetta da usignolo è quella del nostro amorevole superiore» spiegò Gonzo, mentre i due confratelli correvano via a testa bassa, senza neppure vederli. «Ha

un modo tutto suo di distribuire i compiti. A me parla più col bastone che con la lingua. E forse è persino meglio.» L’Abate apparve sulla soglia in quel momento, squadrandoli con cipiglio fiero. Non era alto, ma massiccio come un toro, e aveva la testa calva lucida come una boccia di ferro. Quando riconobbe Gonzo, le sue sopracciglia si piegarono in un angolo torvo. «Tu!» esclamò, alzando un pugno. Dentro la manica della tonaca, stretta in vita da un pezzo di corda, Raduan scorse un braccio muscoloso ricoperto di tatuaggi. «Chi, io?» rispose Gonzo, guardandosi alle spalle. L’Abate gli fu addosso in tre i, e lo acciuffò per la collottola. «Credi di potertene andare a so come e dove ti pare, peste?» gli urlò in un orecchio «E perché mai sei tornato? Ci servono uomini, qui, non patetici codardi della tua specie!» «V-vi ho p-portato una v-visita, signore, maestà!» balbettò Gonzo, sballottato come una bambola. «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così! Se non fosse per la buon’anima di tuo padre, giuro che una volta o l’altra io ti...» Solo allora notò la presenza di Raduan. Mollò Gonzo come un sacco di patate e si voltò a fronteggiarlo. «Una visita, eh, con tutto quel che sta succedendo? Chi siete, se non è chiedere troppo?» Con la coda dell’occhio, Raduan vide Gonzo rialzarsi da terra come una molla, e schizzar via giù per le scale. Si concentrò sull’Abate. Gli ripeté, parola per parola, la frase già rivolta al cuoco. «Sono Raduan della Compagnia del Viandante, un tempo membro dell’Ordine di Abidan. Vengo da Silon per una questione della massima importanza.» Gli occhi dell’Abate brillarono come gemme. Gli posò sulle spalle due mani grosse e pesanti come badili.

«Siete arrivati, finalmente! Quanti siete? Dove sono gli altri?» «Quali altri?» «I rinforzi, che altro? Mi chiedevo perché fratello Roderick ci mettesse tanto a tornare, siamo allo stremo! Proprio oggi ho spedito fuori altri due messaggeri, che Abidan mi perdoni!» All’udire il nome di Roderick, Raduan comprese. Così si chiamava il monaco postulante di cui gli aveva parlato Bertram, quello a cui il Priore di Silon aveva sbattuto la porta in faccia senza tanti complimenti. Se non era ancora tornato, era probabile che fosse diventato terreno per funghi nel mezzo della foresta, come gli altri due. Studiò per un attimo l’espressione esaltata dell’Abate, a una spanna del suo volto, e si chiese perché dovesse toccare proprio a lui portare le cattive notizie. «C’è un malinteso» disse, e spiegò tutto meglio che poteva, senza accavallare le parole. Il piglio dell’Abate, da bellicoso che era, si fece dapprima furente, poi agitato, e infine rassegnato. Sollevò le mani dalle spalle del guerriero, e arretrò di un o, scuotendo la testa. «Mi spiace» mormorò Raduan, non sapendo che altro dire. Di certo non immaginava che il suo arrivo al monastero di Leukania sarebbe avvenuto in quel modo. «Dispiace più a me, statene certo» ribatté l’Abate a mezza voce «Grazie alla testardaggine del Priore, tra un paio di giorni saremo tutti morti.» «Siete sicuro che...» «Sì, sono sicuro. Quanto al cibo ce la potremmo ancora cavare, ma quella dannata Strega è riuscita non so come a far seccare il nostro pozzo. Senz’acqua è finita, non abbiamo speranze.» «Potreste fuggire!» disse Raduan d’impeto «Come Gonzo ed io siamo entrati dal aggio tra le rocce con quei mostri alle calcagna, anche voi potreste...»

Mentre parlava, vide l’Abate abbattersi ancor di più, e si rese conto di ciò che stava dicendo: il aggio! La sua rocambolesca entrata nel monastero aveva svelato al nemico l’unico asso nella manica che i monaci potevano ancora giocarsi. Ora, anche se non potevano penetrare dal aggio, le belve l’avrebbero tenuto sotto controllo, o addirittura ostruito dall’esterno. Non c’era più modo di organizzare una fuga a sorpresa. «Grazie a voi, adesso abbiamo ancor meno speranze» disse l’Abate «Io intendo lasciare il monastero soltanto da cadavere, ma speravo che almeno gli altri potessero farcela.» Raduan arrossì, ammutolito. «Poco importa ormai, non l’avete fatto di proposito» continuò il monaco, voltandogli le spalle per tornare alle sue stanze «E comunque siamo nella stessa barca. Sentitevi libero di frugare tra le nostre carte, se vi può essere d’aiuto. Dubito che ci sopravviveranno. Trovare il modo di portar via le vostre scoperte, però, sarà affar vostro.» Il guerriero si sentì un verme. Rimase immobile dov’era a fissare il pavimento, finché non udì sbattere la porta. Allora percorse a ritroso il cammino che l’aveva condotto fin lì, come un sonnambulo, senza mai alzare lo sguardo. Giunto al refettorio, si abbandonò su una panca con la testa tra le braccia. L’ululato di un lupo, al di là della parete, risuonò come un triste presagio. «Maledizione!» pensò. Non era stata colpa sua, ma non poteva cambiare i fatti. Aveva tagliato l’unica via di fuga ai monaci, e si era cacciato in una situazione a dir poco critica. La sua missione non gli era mai sembrata tanto distante come in quel momento. Ogni sua presente preoccupazione doveva rivolgersi a salvare la pelle, e a fare in modo che nessun altro la perdesse a causa sua. Rialzò il capo. I contorni della sala sfocavano in una penombra grigiastra, segno che restava poca luce prima della notte, e del prossimo assalto. Ringhi, grugniti e ululati, là fuori, annunciavano la fine della tregua. I monaci avevano quasi finito di inchiodare le assi sulle imposte, e non sembravano spaventati, solo stanchi. Chissà da quanto sopportavano con orgoglio quella tensione, senza contare la scarsità di viveri e bevande.

«Va bene» si disse. Volendo o no, il danno l’aveva combinato. Spettava a lui risolverlo. Tornò alle scale e le salì due gradini alla volta. Raggiunse la sala dell’Abate, bussò, ed entrò senza attendere un invito. Il monaco era seduto a un grande scrittoio, con la testa tra le mani. Alzò gli occhi, e quando lo vide le sue labbra si piegarono in una smorfia di disprezzo. «Ancora voi? Non vi ho già detto che siete libero di fare quel che volete? Andatevene!» «Me ne andrò soltanto quando i vostri nemici saranno sconfitti.» L’Abate strabuzzò gli occhi. «Vi ha dato di volta il cervello? Forse avete ato troppo tempo in compagnia di quell’allocco.» «No, non sono matto. Anche se in vita mia ho visto cose che farebbero impazzire più di un uomo, ne sono sempre uscito vivo.» Il monaco rizzò la schiena, pensoso. «Se non sbaglio, prima avete nominato la Compagnia del Viandante...» Come Raduan aveva sperato, quel nome evocava il dovuto rispetto anche nelle lande silvestri di Leukania. «Esatto, e il mio nome è Raduan, lo ripeto. Vorrei conoscere il vostro, e magari darvi del tu, se non vi dispiace. Per facilitare le cose.» «Sono d’accordo, le formalità non hanno senso in questo inferno. Mi chiamo Madara, e ancora non ho deciso se stare ad ascoltarti, o scacciarti a pedate dalla mia stanza.» Raduan si sedette. Guardò a fondo negli occhi dal taglio obliquo dell’Abate sangue barbaro nelle vene? - e capì che non scherzava. «Mandarmi via non risolverebbe niente. Rispondendo alle mie domande, invece,

potresti ricavarne qualcosa di buono.» «Forse. Che vuoi sapere di tanto interessante?» Il guerriero si sporse avanti e poggiò i gomiti sullo scrittoio. «Chi sono davvero i nostri comuni nemici, per cominciare, e cosa vogliono. Quanti sono. Chi li comanda. Quali tattiche usano. Tutto quel che può aiutarci a stabilire una strategia d’attacco.» Madara rise. «Attacco! Dico, ti sei reso conto della situazione?» «Perfettamente. Mio malgrado, ho accumulato una certa esperienza quanto a battaglie e assedi. E una cosa mi è chiara fin da adesso: non è restando asserragliati qua dentro in attesa di un miracolo, senz’acqua e senza cibo, che ce la faremo. Abidan aiuta i coraggiosi.» «E disprezza gli stolti. Che garanzie puoi darmi che una volta fuori con le armi in pugno non verremo tutti massacrati?» «Nessuna. Ed è per questo che ho in mente qualcos’altro.» Madara tacque, e Raduan sorrise dentro di sé. «Sentiamo» disse l’Abate.

III - Zanne e Artigli

Raduan mise un piede in fallo, e imprecò. Per mantenere l’equilibrio si aggrappò al comignolo con le dita, ma un frammento della tegola spezzata scivolò verso il basso. Lui e Ismail la seguirono con occhi atterriti mentre scendeva sempre più veloce. Proprio quando raggiunse il bordo del tetto, cozzò contro un ostacolo, e cessò di muoversi. Tornarono a respirare. Ismail gli rivolse uno sguardo più che eloquente. Un altro o falso e l’avrebbe abbandonato lì da solo. Nel buio della notte senza stelle, del monaco non si vedevano che gli occhi. «Meglio così» pensò Raduan. Entrambi non offrivano un bello spettacolo, ricoperti da capo a piedi dalla fuliggine del camino da cui erano strisciati fuori, e da uno spesso strato di fango rappreso. Era stata una sua idea, per nascondere l’odore del proprio corpo all’olfatto dei predatori. Avevano trovato materia prima in abbondanza sul fondo del pozzo, dove non c’era più una goccia d’acqua, ma la terra era ancora umida. Per sicurezza, Madara aveva anche mandato a chiamare il fratello erborista, che li aveva cosparsi di erbe aromatiche come due fagiani arrosto. Il risultato era notevole: se fossero rimasti accovacciati a terra senza muoversi, pensò, le belve li avrebbero scambiati per due cespugli di rosmarino. Caso contrario, Ismail sapeva correre più rapido di chiunque altro dei suoi confratelli, e per questa ragione si era offerto di accompagnare Raduan nella scorribanda. Il ragazzo era magro come un chiodo - forse anche a causa della dieta forzata degli ultimi giorni - e aveva un volto asciutto e puntuto. Stava sempre all’erta, fin troppo. Un’altra caratteristica essenziale per la missione. Raduan attese che gli occhi si assuefero all’oscurità, ed ecco che la cappa di nuvole che soffocava il cielo notturno si sfaldò sopra la sua testa. Un alone di tenue luce rossastra bagnò il mondo, come un velo di tinta ad acquarello. Il guerriero sollevò il capo e rabbrividì: la Luna di Sangue, il temuto corpo celeste che faceva la sua comparsa una volta ogni sette anni, rifletteva una luce maligna su di lui e su tutto il creato. Era considerata un segno di sventura, profetizzava l’avvento di tempi terribili. Per la prima volta in vita sua, Raduan ammise la

possibilità che non fossero semplici fandonie: se lo sentiva nel cuore e nello stomaco. Tornò a muoversi, malgrado tutto, misurando ogni o con estrema cautela. Il tetto non era molto pendente, tuttavia non si era mai troppo prudenti di fronte alla prospettiva di rotolare tra le fauci spalancate delle bestiacce là sotto. Ismail non aveva problemi: si muoveva con la leggerezza di un gatto. Madara l’aveva obbligato a portarselo dietro, nonostante le sue proteste. Due paia d’occhi vedevano meglio di uno, e potevano guardarsi le spalle a vicenda. Vero. Ma non voleva avere il ragazzo sulla coscienza, se qualcosa fosse andato storto. Raggiunse Ismail sul ciglio del tetto. Guardò di sotto: udì un basso brontolio e vide il dorso peloso di un grosso animale che faceva la ronda attorno all’edificio. Anche quando svoltò dietro l’angolo, rimasero fermi a scrutare nel buio. Appena ebbero la certezza di essere soli, arono alla seconda tappa del piano, quella che Raduan temeva più di tutte. Ad un suo cenno, Ismail indietreggiò di qualche o, prese la rincorsa, e spiccò un balzo nel vuoto. Un istante dopo atterrò a quattro zampe sul ramo più grosso della quercia accanto all’edificio, che ondeggiò appena. Si girò, e sorrise a Raduan mostrandogli il pollice in su. «Fin troppo facile» mormorò il guerriero «Se avessi dieci anni e dieci chili in meno...» Si asciugò i palmi sudati delle mani sui pantaloni, prese lo slancio, e si tuffò, lottando contro la tentazione di chiudere gli occhi. La quercia gli venne incontro troppo rapida: sbatté un ginocchio sulla corteccia ruvida e si abbarbicò al ramo un attimo prima di cadere. Si morse la lingua per non urlare, mentre Ismail lo osservava preoccupato. Appena il dolore si alleviò un poco, riuscì a muovere la gamba senza troppi problemi. Non si era rotto nulla, avrebbe soltanto dovuto sopportare il bruciore. Fece segno a Ismail di proseguire. Il giovane annuì. Si chinò, poggiò i piedi sul primo ramo al di sotto del loro, e prese a scendere con l’agilità di una scimmia. Raduan fece altrettanto, pur con meno maestria e un ginocchio gonfio. Dopo molte imprecazioni soffocate poggiò i piedi a terra, e si appiattì dietro al tronco dove Ismail lo attendeva. Fece il punto della situazione: da lì cominciava la missione vera e propria, per ottenere i ragguagli necessari a spezzare l’assedio. O almeno così si augurava. Quel nemico doveva avere un punto debole, come

ogni altro. Tutto stava a scoprirlo prima che fosse troppo tardi. Per questo aveva agito così in fretta, subito dopo aver conversato con l’Abate. Madara si era mostrato pessimista, ma considerata la mancanza di alternative gli aveva concesso il suo appoggio, e gli aveva fornito ogni informazione in suo possesso. «Chi è veramente il nostro nemico?» aveva chiesto all’Abate. «La foresta» era stata l’improbabile risposta. «Li sento, i discorsi che i miei confratelli fanno sottovoce. Sentivo anche i commenti di quegli sciocchi taglialegna, quando abbiamo ripreso a disboscare. Dicono che abbia peccato d’orgoglio, che abbia snaturato il corso delle cose e mi sia guadagnato l’odio della Strega. Io dico che ho fatto bene, invece, e lo rifarei mille altre volte! Seguirò fino in fondo i precetti del Grande Abidan, non come quei pusillanimi dei miei predecessori. Per generazioni si sono accontentati di sopravvivere come semplici eremiti, privi di fede e del coraggio di perseguire la causa del nostro Dio. La Legge non può tollerarlo! Il Fabbro Celeste pretende case, campi arati, commercio, progresso! Il Fabbro vuole la civiltà!» Aveva sbattuto un pugno sul tavolo, facendolo sussultare. Poi si era calmato, e aveva continuato a parlare. «Io seguo la Legge senza paura, perché so quanto è giusta. E come non potrei? Guardami, e dimmi se non noti il sangue barbaro che mi scorre nelle vene. Mio padre era un razziatore del Nord, una bestia cucita nella pelle di un uomo. Schiavizzò mia madre, una donna del Regno, e la costrinse a partorire i suoi figli. Ho vissuto metà della mia esistenza in un lurido villaggio di selvaggi, picchiato e insultato ogni santo giorno per la sola colpa di essere un mezzo sangue, per cui nessuno venga a dirmi che la civiltà è inutile, o dannosa! La Legge di Abidan è l’unica vera luce di questo mondo, e nessuno mi convincerà del contrario!» Dopo quello sfogo, Raduan gli aveva domandato come fosse cominciata quella strana guerra, e chi fosse veramente a capo delle belve. Lo sguardo di Madara si era fatto cupo. «La Strega, e il suo Golem.» Di fronte allo scetticismo di Raduan, aveva cercato di raccontargli tutto per filo e per segno.

«Eravamo all’opera da qualche mese per fondare una colonia come quelle del ato, il primo nucleo di una nuova città. Abbiamo disboscato, abbiamo coltivato, abbiamo costruito case e aiutato decine di famiglie ad insediarsi qui. La nostra comunità era piccola ma fiorente, destinata a un grande futuro, quando è arrivata lei. La leggenda della Strega d’Ebano è antica, eppure non è soltanto un mito. La donna esiste, l’ho vista con questi miei occhi. Ha la pelle lucida di una pantera, e occhi selvatici che suscitano pensieri inopportuni. Era attorniata da orsi e lupi quando mi ha fatto visita, docili come pecorelle al suo tocco. Mi ha chiesto di rinunciare ai miei propositi, di far sì che tutto tornasse come stava. Le ho detto di no, e lei ha mandato il Golem.» Raduan aveva strabuzzato gli occhi: come se non bastasse la Strega, ecco un’altra assurdità. Un Golem! Aveva già letto quel nome, da ragazzo, quando ava il tempo nella Biblioteca del Grande Tempio alla ricerca di storie proibite e miti aborriti dall’Ordine. Il Golem era una creatura leggendaria, fatta di roccia animata, inarrestabile. Obbediva ad ogni capriccio del suo creatore e padrone, ed eseguiva i suoi ordini senza alcuno scrupolo. Secondo Madara, un Golem era comparso a Leukania. Era il luogotenente della Strega, il braccio inflessibile che conduceva le belve nella guerra contro i monaci, e contro tutti gli esseri umani che avevano osato dissacrare la foresta. Il guerriero non riusciva ad accettare l’idea che ci fosse una creatura di fantasia a capo dell’esercito nemico. Ma, pensandoci bene, un esercito di bestie selvagge, una strega... Sarebbe stato poi così strano? Secondo i libri, però, il Golem aveva un punto debole. Doveva osservarlo da vicino, per averne la certezza. Ed era quello uno dei motivi che l’avevano spinto a quella rischiosa eggiata notturna. Ismail gli toccò un gomito. Era impaziente di darsi da fare, e a ragione. Prima cominciavano, prima potevano tornarsene al sicuro tra le pareti del monastero. Si alzarono, due fantasmi color terra, e si mossero nel buio dal riparo di un tronco al successivo, completando il giro attorno all’edificio. I suoni della lotta si fecero più intensi: era come Madara gli aveva detto, le belve si radunavano sul lato frontale del monastero per sferrare i loro attacchi notturni. Attacchi che consistevano nel cercare di sfondare porte e finestre, e in alcuni casi le pareti stesse, dove il legno era indebolito dagli anni. Fino ad ora non erano riuscite una sola volta a metter piede all’interno, grazie alla caparbietà dei monaci, che di giorno e notte riparavano e rafforzavano le difese con tutto quel che gli capitava

sottomano. Con l’autorizzazione dell’Abate, persino i massicci ritratti dei suoi predecessori erano finiti a ingrossare il cumulo di materiale difensivo. «Faranno più onore all’Ordine inchiodati sopra a un buco, che appesi a una parete dove nessuno li guarda» aveva detto l’Abate. Raduan gli dava ragione. Si appiattirono dietro a un cespuglio. Quando sporse la testa per guardare nello spiazzo di fronte al monastero, il guerriero capì che anche su un’altra cosa Madara aveva ragione. Alla macabra luce della Luna di Sangue, il grosso delle belve se ne stava in panciolle come durante il giorno. Tuttalpiù ululavano, o ringhiavano, senza muoversi più di tanto. Solo alcune tra le creature più imponenti si gettavano contro le pareti dell’edificio, cercando di aprirsi un varco senza troppa convinzione. L’Abate aveva visto giusto: il compito delle belve non sembrava quello di stanarli dal monastero, bensì quello di tenerli sotto tensione tutta la notte, minare il loro spirito mentre la mancanza di cibo e acqua facevano il resto. Pungolavano i monaci, senza fretta, nella certezza che prima o poi avrebbero tentato una sortita disperata. E allora li avrebbero accolti con molto calore... Ismail si sporse accanto a lui. Soffocò un’esclamazione di sgomento. Non fosse stato per lo strato di fango che gli copriva il viso, Raduan era certo che lo avrebbe visto perdere colore come un panno lavato troppe volte. Come dargli torto? Il ragazzo non aveva fatto il callo alla mostruosità dei Demoni, come lui, e lo spettacolo di quel campionario di bestie abominevoli doveva averlo colpito come un maglio. Erano assai diverse da quelle conosciute: enormi, prive di pelo, gli arti lunghi e ritorti, gli occhi neri come pozze senza vita. La varietà era grande: cinghiali scuri imponenti come bufali, con le fauci straripanti di zanne; volpi scheletriche con zampe simili a quelle di un ragno; linci bicefale; gatti selvatici coperti di aculei... Vide un cervo con lo scheletro sviluppato sino a lacerare la pelle, mettendo la carne allo scoperto. Vide un gufo con occhi sporgenti rosso sangue, più grandi della testa. E vide tante altre mutazioni così orribili da rendergli il sonno difficile per giorni. Ismail, come minimo, non avrebbe chiuso occhio per una settimana. Gli fece cenno di restar lì, e cominciare a contare le creature, mentre lui si spostava per osservarle da un angolo differente. Ismail annuì con il capo tremante, e per un attimo Raduan pensò che il ragazzo l’avrebbe trattenuto per la camicia come un bambino spaventato. Scivolò da un albero all’altro con o

leggero, pregando che l’odore non lo tradisse, nonostante gli accorgimenti. Udì un fruscio e si immobilizzò all’istante. A tre i di distanza, un serpente gli attraversò il cammino strisciando in modo innaturale. La sua pelle era sottile e trasparente, tanto che si potevano scorgere gli organi interni pulsanti. Il corpo sinuoso terminava in un paio di pinze rosee, che si aprivano e chiudevano come tenaglie. Raduan pensò di saltargli sopra e schiacciargli la testa. «Ma poi dovrei buttare via gli stivali» pensò, disgustato, e restò immobile finché il rettile non svanì nel sottobosco. Procedette fino al rudere di una casetta di tronchi, si accovacciò dietro a una parete mezzo bruciata. Guardò tra le assi sconnesse: viste da quel lato, le bestie sembravano ancor più numerose. Quelle non impegnate ad infierire contro le pareti del monastero se ne stavano a capo chino con gli occhi semichiusi, ondeggiando lievemente a una musica che soltanto loro riuscivano a udire. Alcune però si aggiravano inquiete, sbuffando e perdendo bava dalla bocca. Un alce dalla schiena deforme andò a sbattere contro un orso colossale, che gli staccò la testa con un solo colpo degli artigli affilati come rasoi. Una masnada di bestioline si gettò sul corpo senza vita per divorarlo. Raduan si rese conto con un brivido che erano scoiattoli, i musetti voraci arrossati dal sangue. Si mise a contare, e fin da subito si rese conto che le speranze dei monaci non erano nei numeri: considerando anche solo gli animali di piccola e media stazza, ce n’erano a sufficienza per mandare all’altro mondo il doppio dei monaci rinchiusi nel monastero. Se fossero stati addestrati come dei guerrieri, avrebbero potuto giocarsi il tutto per tutto sul filo della spada con un contrattacco improvviso. Ma da quel che aveva visto, gli unici in grado di combattere si contavano sulla punta delle dita. No, la soluzione era un’altra, come aveva immaginato sin dall’inizio. Dovevano scoprire chi comandava le belve, e metterlo fuori combattimento. Se quelle creature serbavano ancora un briciolo della loro natura animale, la perdita del capo-branco le avrebbe gettate nella confusione. Ed era in quel momento che sarebbero fuggiti. La parte più difficile sarebbe stata convincere Madara a fuggire insieme a loro: quel pazzo era disposto ad affondare con la nave e tutto, pur di non mostrare la schiena al nemico. Un integerrimo discepolo del Grande Abidan, fino in fondo. Un ruggito violento lo convinse a riportare l’attenzione sul cadavere dell’alce: le decine di bestiole che si contendevano la carne erano svanite, e al posto loro era comparso un obbrobrio alto come due uomini, con svariate paia di braccia e una

testa pelosa incassata nel busto. Voleva la sua parte, ma a quanto pareva un gruppetto di sciacalli dalla pelle purulenta non era d’accordo. In un attimo le belve furono addosso al gigante, artigli che affondavano, zanne che laceravano, mentre il bestione reagiva con altrettanta violenza. Gli altri animali accorsero e si schierarono ai due lati: la notte si riempì dei loro versi e della loro sete di sangue. Si scatenò un putiferio che sarebbe terminato in carneficina. «Su, da bravi, fatevi a pezzi da soli!» esultò Raduan dentro di sé. La speranza durò poco: un mugghio assordante riempì la notte, come due rupi che sfregassero l’una contro l’altra, e gran parte delle belve smise di lottare. Molte fuggirono a gambe levate, con le orecchie basse. La terra tremò una, due, tre volte, gli alberi si spezzarono come fuscelli, e il Golem apparve. Raduan cercò di rammentarsi la più grande creatura viva che avesse mai conosciuto: quell’elefante bianco ai margini del Manto Verde, dieci anni prima, o forse l’immondo gigante delle nevi dei monti Hamlet, che l’aveva quasi soffocato col suo fetore... In ogni caso, a partire da quel giorno c’era un nuovo re: tanto l’elefante come il gigante delle nevi sembravano due nani rispetto al Golem. Rimase a guardare a bocca aperta mentre la montagna di roccia semovente camminava verso l’origine della discordia, alzando piedi squadrati che dovevano pesare un quintale ciascuno. Tutto in lui era spigoloso e spropositatamente grande, braccia, gambe, busto, persino il macigno che aveva al posto della testa. E la sua creatrice non si era neppure presa il disturbo di donargli un paio d’occhi e un naso: il suo volto era la faccia liscia di un cubo di roccia, la bocca un tunnel ovale da cui uscivano gemiti raschianti. Sulla sua fronte poggiava un diadema, una grande gemma nera incastonata in una cornice d’oro. In cinque i il Golem raggiunse i rimasugli del corpo dell’alce, e le belve che si accapigliavano attorno ad esso. Poche a dire il vero, poiché la maggior parte se l’era squagliata in ogni direzione al solo udire il barrito del colosso. Agguantò con una mano la prima bestia che gli capitò a tiro, un puma dal pelo grigio, mentre con l’altra afferrava un paio di sciacalli. Sollevò gli animali come se fossero giocattoli, poi li sbatté tra loro con uno schianto tremendo. Il sangue schizzò così lontano che lo stesso Raduan venne investito da una miriade di gocce calde.

La lotta tra le belve terminò in quel preciso istante, in un corri corri disperato che finì per coinvolgere persino quelle impegnate nell’assalto al monastero. Ma Raduan non si illuse neppure per un istante che le cose volgessero a favore dei monaci. Se il Golem esisteva, l’Abate gli aveva detto il vero anche sul resto: che il mastodonte era l’obbediente creatura della Strega d’Ebano, e come tale avrebbe agito per mantenere l’ordine tra le fila del suo esercito. Immobile al centro dello spazio, il Golem alzò al cielo le braccia possenti. Dalla bocca gli sgorgò una cantilena di versi gutturali, che si diffo sino ad ingoiare ogni altro suono, come una nebbia maligna. Raduan notò che i versi si ripetevano a mo’ di litania, e avevano un effetto calmante sulle belve. Smisero di fuggire, si avvicinarono al Golem a testa bassa, lo circondarono come un gregge di pecore attorno a un pastore di roccia. La gemma nera sulla fronte del colosso prese a brillare, proiettando luce dalle profondità insondabili delle sue sfaccettature. Gli animali sollevarono il capo e ondeggiarono al ritmo della litania del Golem, gli occhi avidamente incollati sulla luce della gemma. Il canto salì di un tono e si raddolcì, come se fosse una soave voce femminile a interpretarlo, attraverso le labbra di pietra del gigante. Raduan sentì una morsa opprimente sulle tempie, come una mano d’acciaio che lo costringeva a fissare la luce, e gli impediva di volgere lo sguardo altrove. «Che mi sta succedendo?» I suoi occhi si abbeveravano alla luce, provò a chiuderli e non ce la fece. Pian piano la realtà perse i suoi contorni, annegata nel biancore, e in esso apparve il volto di una donna dalla pelle nera come l’ebano. I suoi capelli erano raccolti in cento trecce elaborate, aveva un naso sottile e labbra piene, seducenti. Gli occhi erano celeste chiaro, limpidi come pozze d’acqua cristallina, e Raduan ci si perse. «Quegli occhi!» pensò, mentre lo sguardo della donna lo trascinava via dal mondo «Quegli occhi!» Dove li aveva già visti? Dove, si chiedeva, mentre la realtà gli scivolava sotto i piedi come sabbia. Doveva ricordare, o si sarebbe perso per sempre. Occhi celesti, puri, intensi... Occhi azzurri come il cielo...

«Abel!» Come il pensiero si formò nella sua mente, il volto del Viandante si sovrappose a quello della donna, cancellandolo, e l’incantesimo si spezzò. Raduan tornò in sé di botto. Si trovava in mezzo alle belve, distante dal riparo della casa diroccata, e il Golem torreggiava su di lui a pochi i di distanza. Il sangue gli gelò nelle vene, credette che la sua fine fosse vicina. Invece il Golem non si mosse, perso nella propria litania, e nessuna delle bestie notò la sua presenza: erano schiave della luce e del canto, come lui stesso fino a qualche istante prima. Scattò indietro verso il riparo, balzò dietro la parete di tronchi e si accucciò, immobile, il cuore martellante nel petto. Non accadde nulla. Il suo pensiero tornò prontamente alla luce accecante, al volto magnifico e terribile dalla pelle d’ebano. La Strega! Ma come? Arti Arcane? O qualcosa di peggio? Mai nella sua vita si era sentito tanto impotente. Non fosse stato per il ricordo di Abel... I suoi occhi, una copia perfetta di quelli della Strega! Che senso aveva? Dopo un po’ trovò il coraggio di sporgersi a guardare. Il Golem continuava a cantilenare con armoniosa voce femminile, le braccia al cielo, la fronte inondata dalla luce della gemma. Attorno a lui ondeggiava un mare di creature, schiave dell’incantesimo: orsi, lupi, linci, cervi, cinghiali... E Ismail. Non appena lo vide, Raduan gridò il suo nome, dimentico di ogni precauzione. Non servì a nulla. Il giovane barcollava come ubriaco in mezzo alle belve, le membra molli come quelle di un sonnambulo, gli occhi spalancati e fissi, le labbra atteggiate a un sorriso ebete. Era perso nella luce, nella contemplazione del volto della Strega, prigioniero del suo sguardo magnetico. Il guerriero fremette. Doveva fare qualcosa, caricarlo via di peso se necessario! Si alzò per agire, ma in quel momento la litania del Golem si tramutò in un ruggito spaventoso, come di mille voci tormentate che urlavano la propria rabbia al cielo. Raduan ricadde sulle ginocchia, il cuore pieno di sgomento. Le bestie ulularono e si contorsero, i loro corpi già martoriati mutarono ancora, assumendo forme sempre più mostruose. Il guerriero cercò Ismail con lo sguardo, e subito si pentì di averlo fatto. Il monaco era piegato a terra, gli occhi fuori dalle orbite, il volto gonfio come una bisaccia piena d’acqua. I canini gli stavano crescendo tanto da lacerargli le labbra, le unghie di mani e piedi si tramutavano in artigli,

affondando nella terra. Sotto lo sguardo inorridito di Raduan, una protuberanza gli crebbe sulla schiena come un fungo, fino a stracciargli gli abiti, coperta di scaglie e ciuffi di pelo. Il guerriero decise di aver visto abbastanza. Diede le spalle a quella scena da incubo e corse via tra gli alberi. Gli venne l’impulso di continuare a correre fin nel cuore della foresta, lontano da lì. A stento la ragione riuscì a dominare il panico. Che gli avrebbe giovato fuggire da solo, armato soltanto di un pugnale, senza un’idea di dove andare? E poi Madara e gli altri lo attendevano al monastero, doveva tornare a riferire l’accaduto, cercare il modo di sfuggire all’assedio. Glielo doveva, a loro e al disgraziato Ismail. Fece dietrofront, e si rese conto di essersi perso. Nel buio non c’erano punti di riferimento, gli alberi sembravano tutti uguali. Maledisse la propria ingenuità. Cercò con gli occhi i fasci di luce della gemma, tese le orecchie per captare i suoni dell’orrendo rituale, ma non vide né udì nulla. Era già troppo lontano, o era tutto finito? Si aggirò a lungo disperato, senza progressi. Pensò che gli sarebbe toccato strisciare in qualche nascondiglio ad attendere il sorgere del sole. O forse era meglio issarsi sui rami di un albero. Non era futile sperare che non lo scovassero? La foresta aveva occhi e braccia, gli occhi celesti della Strega, le braccia di pietra del Golem. Adesso ci credeva, oh sì, credeva a tutto, e si pentiva amaramente di non aver preso sul serio i racconti dell’Abate. Se l’avesse fatto, forse Ismail non avrebbe perso la pelle, e lui il cammino. Rivolse una preghiera ad Abidan, e rimpianse di non conoscerne almeno una da dedicare a Edessa, la Dea selvaggia della Natura. Chi altri poteva aiutarlo? Quando udì il primo rintocco di campane, pensò a uno scherzo dell’immaginazione. Ma un secondo rintocco seguì il primo, e un terzo, e un quarto. Il monastero! Madara chiamava i monaci a raccolta, qualcosa di terribile stava accadendo. Prima che il suono svanisse, corse nella sua direzione. Con sollievo, lo sentì crescere e crescere, ed ebbe la certezza di essere vicino alla meta. Udì dei botti, e i ruggiti delle belve. Rallentò. Era riuscito a tornare ai margini dello spiazzo disboscato attorno al monastero, grazie ad Abidan, Edessa, o qualsiasi altro Dio

che avesse ascoltato le sue preghiere. Schermato da un arbusto, vide che l’assalto al monastero era ricominciato, più violento di prima. Per questo l’Abate aveva invocato tutte le forze disponibili. Il Golem osservava da lontano il suo gregge scagliarsi contro le pareti di legno massiccio, cercando di sfondarle. Perché non partecipava? Forse perché l’assalto serviva soltanto a far ammattire gli assediati. Doveva raggiungerli, e raccontare ciò che aveva visto. Si mosse lungo il perimetro dello spiazzo, senza mai abbandonare la protezione dei tronchi e degli arbusti, finché la grande quercia apparve davanti a lui. Saltò e si aggrappò al ramo più basso. Tese i muscoli delle braccia per issarsi... e una mano fredda gli strinse una caviglia. Guardò in basso, scalciando, e si trovò faccia a faccia con ciò che restava di Ismail. Il mostro dagli occhi umani, ritorto e peloso, l’aveva atteso al varco. Sapeva che sarebbe dovuto tornare alla quercia, prima o poi. Grugnì qualcosa di incomprensibile tra le labbra spaccate, ma il significato era chiaro: avrebbe trascinato Raduan con sé nel suo inferno. Ce l’avrebbe fatta, se il guerriero non fosse stato quel che era: una macchina da guerra addestrata a combattere i Demoni. Raduan si lasciò cadere, e allo stesso tempo sfilò il pugnale dalla cintura. Come i suoi piedi toccarono terra, roteò su se stesso e conficcò la lama nel collo del mostro. Il ringhio della creatura si spense in un gemito, gli occhi si rovesciarono all’indietro. La lotta era finita ancor prima di cominciare. «Perdonami» mormorò Raduan, mentre lo guardava scivolare a terra. Malgrado il cuore pesante, non poteva indugiare. Girò le spalle al cadavere e riprese l’arrampicata. Non pensò alla fatica, non pensò al rischio di una caduta. L’unico oggetto dei suoi pensieri era il volto di Ismail, e quelli degli altri monaci. Come avrebbe spiegato quel che era accaduto? Era colpa sua, non avrebbe mai dovuto accettare la compagnia del ragazzo! Il ricordo del suo sguardo indemoniato lo perseguì mentre si issava fino ai rami più alti dell’albero, mentre saltava sul tetto, mentre risaliva a i svelti verso il comignolo. Non lo abbandonò nemmeno mentre si calava nella stretta apertura, e strisciava lungo il cunicolo verticale zeppo di cenere. Sgusciò fuori dal camino tossendo, e trovò tre monaci ad attenderlo, armati di

robusti bastoni. Madara era con loro. «Sei tu, grazie ad Abidan! Quelle bestiacce là fuori sembrano impazzite, pensavo che avessero deciso di attaccarci anche dall’alto... Dov’è Ismail?» Raduan scosse la testa, gli occhi pieni di tristezza. -----Tempo dopo, i monaci si riunirono nel refettorio, rischiarato dai raggi dorati dell’alba attraverso le imposte serrate. La tremenda notte di assalti era finita, le pareti avevano smesso di rimbombare sotto i colpi del nemico. Le teste dei monaci erano basse, gli sguardi spenti. Gli uomini raccolti nella sala erano sopravvissuti con coraggio a un’altra notte tormentata, eppure non avevano nulla da festeggiare. Persino Gonzo aveva l’aria di un cane bastonato. La morte aveva reclamato un altro di loro, e presto si sarebbe presa tutti quanti, per fame, per sete, o in modo rapido e brutale. Fu Madara a prendere la parola: «Dì a tutti ciò che hai visto, guerriero.» Raduan annuì e cominciò a parlare, sforzandosi di ignorare il prurito del fango che ancora gli imbrattava il corpo. Non c’era stato tempo, né acqua, per ripulirsi. I monaci lo fissarono in silenzio, mentre spiegava quali e quante belve aveva visto attorno al monastero, com’erano disposte, cosa stavano facendo. Quando espresse i dubbi suoi e dell’Abate sulle vere intenzioni degli assedianti, molti storsero la bocca: erano settimane che la lotta si prolungava notte dopo notte, tra schianti e urla, e da lì dentro l’obiettivo del nemico sembrava fin troppo concreto. Quando narrò del Golem, l’attenzione dei monaci si fece spasmodica. Pochi, a parte Madara, l’avevano visto di persona, ma nessuno sembrava disposto a dubitare della sua esistenza. Forse perché il suo ruggito agghiacciante l’avevano udito tutti, la notte prima, ed era suonato più che reale alle loro orecchie. Raduan raccontò della gemma nera, e di come fosse caduto vittima di una stregoneria. Descrisse il volto che aveva scorto nella luce, i suoi occhi ipnotici. «È lei» affermò Madara, stringendo i pugni «La Strega.»

Raduan cercò di spiegare com’era sfuggito all’incantesimo, dando il merito all’efficace addestramento della Compagnia del Viandante, quando in realtà la cosa non era chiara neanche a lui stesso. Il pensiero di Abel l’aveva salvato, come un’ancora che gli aveva impedito di salpare per sempre dal mondo reale. «Gli stessi occhi» pensò, per la centesima volta «Gli stessi!» «Raccontaci di Ismail» disse Bylak, il cuoco, interrompendo la deriva dei suoi pensieri. Il guerriero sospirò. Tentò di esporre tutto nella maniera più sincera possibile, anche se gli sguardi tristi e atterriti dei monaci quasi lo convinsero a mitigare la storia con qualche menzogna. Non poteva farlo, dovevano avere ben chiaro in mente che tipo di potere li voleva morti, e ciò che avrebbero dovuto affrontare una volta fuori dalla protezione del monastero. Non solo la minaccia fisica delle belve, ma quella ben peggiore della stregoneria, della mutazione senza ritorno. A metà del racconto, Gonzo si alzò col viso bianco come un lenzuolo e una mano sulla bocca. Madara gli lanciò un’occhiataccia, lui gli girò le spalle e corse fuori dalla sala. «Continuate pure senza di me!» gridò dall’uscio «Ho... un appuntamento a sorpresa con la latrina!» L’abate gli rivolse un gestaccio, disgustato. «Continua» disse. Raduan terminò narrando tutto d’un fiato la parte peggiore, quella in cui affrontava e uccideva l’abominazione che era stata Ismail, e tacque. I monaci gli fecero compagnia nel silenzio. Non c’era bisogno di un indovino per capire quel che stavano pensando di sé e del proprio futuro. Tutti, meno Madara. Una luce di coraggio e fermezza brillava negli occhi dell’Abate, quando aprì bocca. «Non è ancora finita, fratelli!» dichiarò «Lasciate che il guerriero vi spieghi i suoi piani, e forse ritroverete la speranza.» Era vero, pensò Raduan. Finora aveva citato soltanto gli aspetti negativi della

situazione, che erano in gran numero. Aveva volutamente lasciato per ultima la questione più importante, dalla quale dipendeva la loro salvezza. «La Strega d’Ebano non l’ho vista in carne ed ossa» affermò «ma il Golem sì. Se è lei che dà gli ordini, è lui che li esegue. Fermiamo il Golem, e fermeremo anche le belve. Forse non basterà, contro i poteri della Strega, però vi garantisco che con il colosso fuori dai giochi la fuga non sarà più una vana speranza.» «Presto fatto» commentò acidamente uno dei monaci, un ragazzo imberbe dal volto butterato «Dobbiamo soltanto farci strada in mezzo a un esercito di mostri assassini, per poi abbattere quel gigante di roccia a randellate! Perché non ci abbiamo pensato prima?» «Nessuno ti ha dato il permesso di aprir bocca, ragazzo! Perché non...» sbottò Madara, ma Raduan lo interruppe nel mezzo della strigliata: «Se il ragazzo si è espresso con insolenza, è perché non sa ancora dove voglio arrivare.» «Diccelo, allora!» lo esortò Bylak. «Da ragazzo, anch’io ero un confratello dell’Ordine, prima che il Grande Abidan mi indicasse un cammino differente. Avevo una ione, quella dei libri. avo tanto tempo nella Biblioteca del Grande Tempio, che alcuni dei bibliotecari cominciarono a ritenermi parte dell’arredamento.» Nessuno sorrise alla battuta. Non poteva biasimarli, vista la situazione. «Adoravo spulciare i libri che non interessavano a nessuno, quelli sui miti, le leggende, le creature fantastiche...» Madara storse le labbra. «Un membro dell’Ordine non può perdere tempo dietro a sciocchezze del genere!» «Eppure la mia curiosità è stata provvidenziale, Abate» ribatté Raduan «o non avrei mai scoperto il punto debole del Golem.» I monaci sussultarono sulle panche. Finalmente aveva ridestato le loro speranze. «Fino a ieri non avrei mai immaginato che una creatura del genere potesse

esistere sul serio. Adesso so che quelle dei libri non erano fandonie. Altri pazzi hanno creato dei Golem in un lontano ato, e altri come noi hanno dovuto affrontarli. Grazie a loro, sappiamo che possono essere sconfitti, e come.» «Non tenerli troppo sulle spine, guerriero» disse Madara. «Un Ricettore» disse Raduan «È così che i libri lo chiamano. È un manufatto innestato sul corpo del Golem, un oggetto che non sia composto della stessa pietra. Uno strumento di controllo, che permette al creatore di tener vivo il proprio legame con la creatura. Se il Ricettore viene strappato via, il Golem torna ad essere quello che era in origine: un ammasso di roccia inoffensivo.» «Per cui» Madara continuò il suo ragionamento «dobbiamo scoprire qual è il Ricettore del nostro Golem, e farlo a pezzi.» Raduan si permise un mezzo sorriso. «Non c’è nulla da scoprire, credo.» Molti dei monaci si illuminarono in volto. «La gemma!» esclamarono all’unisono. Il guerriero annuì. «È la cosa più logica. Dentro di essa ho visto il volto della Strega, ed è con essa che il Golem domina il suo esercito di belve. Distruggendo la gemma, spezzeremo entrambi i legami in un colpo solo.» Il monaco imberbe non parve felice della notizia. «Non cambia nulla... Dobbiamo sempre farci strada fino al Golem, e affrontarlo...» Questa volta Raduan gli rispose con durezza: «Nessuno ha mai detto che sarebbe stata una eggiata, ragazzo. E pensavo che ci fosse almeno una scintilla di coraggio, nel cuore dei discepoli del Fabbro!»

Il ragazzo arrossì, senza ribattere. «Non ha tutti i torti, però» osservò il cuoco «Come faremo ad avvicinarci abbastanza al gigante? E come faremo a strappargli la gemma dalla fronte?» Abbassò lo sguardo. «Coraggio o meno, siamo monaci, non guerrieri come te!» «E questa è la ragione per cui sarò io ad affrontare il Golem» affermò Raduan. Vide il sollievo diffondersi sui volti tirati dei monaci, ma non aveva detto tutto. «Dobbiamo agire alla svelta, oggi stesso, prima del ritorno dell’oscurità. Ho un piano. Per farcela, però, mi servirà uno di voi.» La notizia cadde come una pietra nello stomaco dei monaci. Raduan sperò di non dover costringere nessuno. Cercò un volontario con gli occhi: non appena il suo sguardo si posava sul volto di uno, questi chinava il capo, o gli restituiva un’occhiata piena di sgomento. Stavano pensando a Ismail, era evidente. A come il giovane si era spavaldamente offerto di accompagnarlo nella sua sortita notturna, e all’innominabile fine che gli era toccata. La voce di Madara ruppe quel silenzio imbarazzato: «Sono io la guida di questi uomini. Spetta a me seguirti.» Raduan se l’era aspettato fin dall’inizio, per cui fu celere nella risposta. «Abidan sa quanto vorrei accogliere la tua offerta, Madara. Ma non posso. Proprio perché sei la guida, sarebbe assurdo permetterti di venire con me. Una parte rilevante del mio piano si svolgerà qui dentro, e ho bisogno di te al comando.» «Altri possono farlo, e sono validi quanto me!» «Ne dubito. Se qualcosa dovesse andare storto, sarebbero tutti spacciati senza di te.» «Sarebbero spacciati comunque» replicò Madara. «Non è detto. Forse riuscirò comunque a distrarre il nemico, se non a fermarlo. E in quel momento ci sarà bisogno di te qui, per condurre la fuga.» L’Abate sbatté un pugno sul tavolo.

«Fuga! Non abbandonerò mai il tempio tra gli artigli di quelle belve! Mai!» «Questi uomini sono il tuo tempio, lo sai meglio di me! Sono loro che devi salvare, costi quel che costi.» Madara fece per ribattere, poi il suo sguardo ò sui monaci atterriti e silenti, e capì che Raduan aveva ragione. «Dici il vero, guerriero, però...» «La mia risposta è no, Abate, non insistere. Sei l’unica persona di cui il monastero non possa davvero fare a meno. E, vada come vada, sei l’unico a cui daranno retta al Grande Tempio, quando andrai ad esporre al Consiglio i tristi eventi di Leukania.» Madara strinse i pugni e non disse nulla. Soltanto allora Raduan ebbe la certezza di averlo convinto. Bylak, il più loquace tra i monaci, prese il coraggio di parlare: «Chi, allora, avrà l’onore di accompagnarti, guerriero?» «Forse tu, mastro cuoco?» «Neanche se fosse il Fabbro Celeste in persona a trascinarmi là fuori» ribatté Bylak, senza un briciolo di vergogna. Raduan si diede al lusso di una risata. «Grazie per la tua sincerità! In fondo hai ragione, cuoco: non ha senso che io punti il dito e decida contro la vostra volontà. Lasciamo che sia il Fabbro a scegliere.» Il cuoco inarcò un sopracciglio, confuso. «Un sorteggio» spiegò Raduan «Siamo tutti nella stessa barca, e la barca appartiene ad Abidan. Sarà lui a decidere chi remerà con me per non farla affondare.» L’idea non tranquillizzò nessuno, ma era giusta, e non protestarono. Solo Madara, escluso a priori dalla scelta, borbottò parole aspre. Raduan sfilò una

manciata di fili di paglia dall’imbottitura di una sedia e li tagliò in segmenti di uguale lunghezza. Uno soltanto restò più corto degli altri: al fortunato che l’avesse estratto sarebbe toccato uscire tra le belve insieme a lui. «Quante teste compongono il tuo gregge, Abate?» domandò. L’Abate gli diede il numero, e lui contò gli steli. Chiuse il pugno attorno ad essi, lasciando spuntare solo le estremità. «Cominciamo» disse. I monaci, irrequieti, formarono una fila davanti a lui. Uno alla volta, estrassero un filo. Uno alla volta, sorrisero e tirarono un sospiro di sollievo. Quando fu la volta del ragazzo imberbe che tanto aveva osteggiato le parole di Raduan, un puzzo sospetto si diffuse nella sala. Il Dio lo graziò, e il ragazzo corse via a ripulire la propria vergogna. Per ultimo si fece avanti il cuoco, con il volto bianco come farina. Sfilò dal pugno chiuso di Raduan una paglietta lunga quanto le altre, e si guardò alle spalle, sconcertato quanto il guerriero. Era rimasto un filo, ma nessun monaco per farsene carico. In fondo alla sala, l’uscio si spalancò: Gonzo entrò nella sala, strofinandosi la bocca con una manica della camicia lurida. Vide i monaci raggruppati attorno a Raduan e si grattò la testa. «Mi sono perso qualcosa?» domandò. «No!» urlò Raduan. «No!» gli fece eco Madara. «Meglio così. Ma perché mi guardate tutti in quel modo?»

Il Guardiano gemette di sollievo, quando il tocco gelido della Dama cancellò il buio dalla sua mente, restituì luce alla sua anima. Viveva per quei rari, sublimi istanti, e moriva lentamente tra l’uno e il successivo, consumato da un’oscurità che non comprendeva. Vedeva cose, dentro di sé, cose che non appartenevano alla sua vita e al suo ato, cose che lo riempivano di furia e agonia. Perché? Soltanto quando la Dama veniva a fargli visita, nel cimitero d’armi spazzato dal vento, ritrovava se stesso e il proprio scopo. Era il Guardiano. Nessuno entrava nella Valle. La Valle era la morte. La Dama gli accarezzò l’elmo con le dita sottili. «Alzati. Sei curato.» Curvo sulle ginocchia, si abbeverò all’immagine di lei. La Dama e il Maestro di Metallo gli avevano fatto dono della vita. Ma il Maestro era lontano. Era la Dama che si prendeva cura di lui, adesso. Gli sfiorò il mento, invitandolo ad alzarsi. «Quando arriveranno» domandò «mi proteggerai?» L’avrebbe fatto, come sempre. Li avrebbe uccisi tutti. Qualsiasi cosa, per lei.

IV - Spettacolo di Sangue

I Cacciatori scivolavano come fantasmi di nebbia sul viscido suolo della palude, i i talmente leggeri da non lasciare impronta. Dorian li seguiva alla meno peggio, attento a non farsi risucchiare le caviglie nella morsa del fango. A volte temeva che i due l’avrebbero lasciato indietro, ma era una paura infondata: erano le sue guide, il lasciaare assegnatoli dall’Anziano per aprirgli il cammino fino alle pianure. Li tallonava in silenzio da giorni, ormai, fin dall’alba scura dell’addio a Kyra. A tratti, nonostante l’addestramento impartitogli da Nahash, il caldo e la stanchezza avevano la meglio su di lui. Allora i Cacciatori gli concedevano qualche attimo per riprendere il fiato. Loro non si accomodavano mai: restavano in piedi in silenzio, gli sguardi persi nel manto lucido della selva, finché uno dei due invitava Dorian a proseguire. «Continuiamo, dalyn. Il giorno è ancora lungo.» Dalyn, un titolo riservato ai membri più rispettabili della tribù, ai guaritori, ai battitori più esperti, ai guerrieri più coriacei. In poche parole, ai vecchi. Forse era davvero troppo maturo per quel genere di cose. Forse avrebbe dovuto smettere di combattere, e trovarsi un posticino tranquillo dove invecchiare, ricevendo visita da Kyra, Raduan e nessun altro. Che il Regno se la vedesse da solo con il tradimento, la guerra e i Demoni! Sputò nel fango. No, fermarsi adesso era fuori questione. Era proprio per lei che lo faceva. Per offrirle un mondo migliore dove vivere, e dove un giorno avere dei figli. Kyra. Il pensiero della figlia gli occupava la mente sempre più spesso durante la marcia, col suo ingombrante corredo di rimpianti e rimorsi. Avrebbe voluto farne a meno, ma proprio non ci riusciva.

Se solo le due strane guide, coperte da capo a piedi di pelli di rettile, si fossero degnate di rivolgergli la parola di tanto in tanto, o perlomeno di rispondere alle sue domande con frasi più elaborate di monosillabi... Forse l’Anziano li aveva istruiti in tal senso. Oppure era una sorta di rispetto nei confronti del Sopravvissuto di Ilterya, il grande guerriero che aveva sfidato gli orrori della Città Morta e ne era uscito vivo. Piegò le labbra in un sorriso amaro. Bell’impresa, la sua: aveva risvegliato un mostro millenario da un letargo lungo secoli, e per poco non aveva assassinato Kyra con le sue stesse mani, istigato dalle visioni di Nahash. L’Addestratore di Serpenti, che ava ogni istante della sua squallida esistenza a manipolare la vita altrui, guidato dall’odio e dalla follia... Era una creatura pericolosa, e un giorno avrebbero saldato i conti. Tutto a suo tempo. Per prima cosa doveva lasciarsi alle spalle i fetidi acquitrini di Draslund, e quindi dare il via alla caccia. Shem, Caleb, Tevani, l’Oscuro. Si ripeteva i nomi almeno cento volte al giorno, un mantra di puro odio che lo guidava come una bussola verso Sostar, capitale del Principato di Hiram. Là li avrebbe stanati, intenti a sobillare i potenti del Regno, a spingere l’umanità nel caos con i loro poteri tenebrosi e le loro menzogne. Là li avrebbe fatti scomparire dalla faccia della terra, uno dopo l’altro. Strinse il pugno della mano destra, la pelle fusa al tessuto candido del guanto, regalo dell’Addestratore di Serpenti. Sentì il palmo arroventarsi sotto la punta delle dita, pronto a sprigionare il potere bruciante dell’energia. Doveva calmarsi. Chiuse gli occhi per un istante ed inspirò a fondo l’aria della palude, gravida di mille tanfi. Avvertì con repulsione i piedi fradici dentro gli stivali, la camicia incollata al corpo sudato, la nuca crivellata dai morsi degli insetti. Per tutti gli Dei, quanto odiava quel posto! Aprì gli occhi, e per poco non andò a sbattere contro uno dei Cacciatori, materializzatosi dinanzi a lui con le braccia conserte sul petto. Il giovane lo squadrava con aria incuriosita, cercando di comprendere che cosa non andasse. Dorian aprì un mezzo sorriso, per fargli capire che era tutto a posto. La maschera da rettile annuì, scevra di qualsiasi emozione. «Perché questa sosta?» indagò il guerriero.

Il Cacciatore indicò una cinquantina di i davanti a sé, dove la vegetazione della selva si apriva a guisa di sipario su uno sfondo di luce. «Le pianure» disse, con il tipico accento sibilante della tribù. Era vero: quella luce non poteva che provenire dai campi aperti, baciati dai raggi del sole. Al solo pensiero, le rughe sulla fronte di Dorian si distesero come per magia, e gli parve di avvertire un alito di vento fresco sulle guance, un irresistibile richiamo di libertà. «Addio, dalyn» disse il più maturo dei due Cacciatori, che era anche il meno loquace: tre frasi in tre giorni, un paio in meno del suo estroverso compagno. «Voi non venite?» Era una domanda sciocca, ma non riuscì a trattenerla. Quel popolo gli ispirava curiosità - e una buona dose di incomprensione - col suo modo di vivere zeppo di privazioni, tabù, e silenziosa obbedienza. «Il nostro posto è qui.» «Potreste accompagnarmi ancora un pezzo, se vi va. Può darsi che ci sia una fattoria, o un villaggio, nei dintorni. Avete mai provato del limpaq fatto come si deve?» «Grazie, dalyn, ma non ci è permesso. Dobbiamo tornare.» «Stoccafissi» pensò Dorian. Preferiva quasi la lingua biforcuta del rinnegato Cirin alla personalità mummificata di quei due. Chissà che fine aveva fatto, quel farabutto traditore? «I nostri cammini si separano qui, allora. Vi ringrazio di quanto avete fatto per me. E trasmettete la mia gratitudine all’Anziano: sarò sempre in debito con lui.» «Sarà fatto, dalyn.» Senz’altri commenti, i due simulacri di rettili si inchinarono con reverenza. Poi gli diedero le spalle e si avviarono verso il cuore della palude. Istanti dopo, erano scomparsi. Dorian rimase solo col fango, gli insetti, e i versi frenetici degli uccelli.

«Addio anche a te, inferno schifoso» La luce lo accecò, quando raggiunse il varco luminoso tra gli alberi. Non per questo Dorian si coprì gli occhi: troppo appagante era la vista dei campi verdi distesi fino all’orizzonte in una successione infinita di pianori, vallette, e docili colline. L’odore ricco della terra e la fragrante esalazione degli steli gli colpirono le narici con tutta la forza del desiderio covato per settimane. Basta con l’opprimente cupola di vegetazione di Draslund, basta con il limo traditore, basta con la nebbia appiccicosa e l’ossessivo canto dei rospi! Quello era il suo mondo. Un nitrito alla sua destra lo fece sobbalzare: c’era un cavallo baio legato a un ceppo, sellato ma privo di cavaliere. Si avvicinò per accarezzarne la criniera. L’animale gli leccò la mano, docile come un agnellino. «Che ci fai qui, bello?» Gli occhi lucidi della bestia lo fissarono senza comprendere. Solo allora Dorian notò l’amuleto della tribù appeso al pomello della sella, tre zanne di jakantor allacciate a un cordino di cuoio. Lo soppesò tra le dita, storcendo la bocca in un sorriso. «Un altro debito, Anziano... Ripagarti mi costerà caro!» Non perse tempo a chiedersi come diavolo avessero fatto i Cacciatori a procurargli quel regalo: avevano i loro modi silenziosi. Balzò in sella con entusiasmo, e fu come indossare un paio di vecchi, comodi pantaloni. Giurò a se stesso che non sarebbe sceso di groppa fino al tramonto, per nulla al mondo, e fu di parola: quando la fiamma del sole si spense ad Ovest dinanzi a lui, oltre l’orizzonte del mare verde, aveva divorato leghe e leghe di campi sconfinati. La sua fame di libertà e velocità era stata saziata, a caro prezzo: aveva il fondoschiena in fiamme, e le gambe rigide come stecchi. Maledisse Nahash ad alta voce - lui e la dannata palude, dove andare a cavallo era tanto utile quanto mettersi una pietra al collo. Tutto sommato, era soddisfatto: non aveva trovato ostacoli lungo la strada, la temuta guerra si era fermata più a Sud, dove fili di fumo nero si innalzavano nel cielo come tristi presagi. Dorian si sentì ardere il petto al pensiero del Regno dilaniato dalla guerra civile. Se solo avesse avuto i responsabili dinanzi a sé, in quel preciso istante! La gioia di affondare le dita nel collo del principe Hiram,

vederlo soffocare lentamente... Questa volta, prima che potesse controllarlo, il guanto s’illuminò di azzurro con un crepitio di scintille. Dorian chiuse gli occhi e respirò a fondo, finché la crisi non fu ata. «Stasera non avrò problemi ad accendere il fuoco» pensò, con una smorfia. Malgrado la stanchezza, il sonno tardò a venire. ò lungo tempo desto ad attizzare le fiamme con un rametto, sotto la cupola delle stelle silenziose. Il verso di un predatore si fece sentire un paio di volte, ma mai così vicino da diventare un problema. Il guerriero meditava sul ato e sul futuro, come se il presente non esistesse davvero, come se fosse soltanto una transizione sfocata tra i dolori già vissuti e la promessa di un sanguinoso avvenire. Spesso il volto di Abel gli balenava davanti agli occhi nel gioco delle fiamme: a volte era il viso sereno e imperturbabile a cui aveva affidato la propria vita e il proprio braccio durante i lunghi anni al servizio della Compagnia; a tratti, però, si tramutava nell’odiosa maschera di tradimento e morte scaturita dalle illusioni di Nahash. Quale dei due era il vero Viandante? Raduan l’avrebbe insultato, se solo avesse intuito il corso dei suoi pensieri. Ma Raduan era lontano mille miglia, spinto su un’altra rotta dai venti della sua fede cieca. Un vero peccato. Ora più che mai gli sarebbe servito un alleato, qualcuno di cui potersi fidare senza mezzi termini. Da solo, le cose sarebbero state molto più complicate. I giorni e le notti si avvicendavano rapidi, mentre cavalcava verso occidente. Il pugno di monete che l’Anziano l’aveva costretto ad accettare gli consentì di procacciarsi cibo e bevande nei villaggi che incrociò lungo il tragitto. Preferì dormire sempre all’addiaccio, per risparmiare, eppure il gruzzoletto scemò e si dissolse prima del previsto. Per forza di cose, fu costretto a diminuire il ritmo dell’avanzata verso Sostar: gli toccò cacciare, e più spesso ancora - vista la sua innata incapacità di catturare una lepre, un coniglio o una qualsiasi bestiola svolgere qualche lavoretto per conto dei contadini. Sempre che i bifolchi non se la dessero a gambe ancor prima che aprisse bocca, atterriti dalla vista della sua mole e della spada che cingeva al fianco. La notte in cui comparve il guercio, Dorian si stava giusto godendo i frutti di una giornata massacrante, trascorsa a trascinare un aratro su e giù per i campi alla

stregua di un mulo - mansione ingrata che persino il suo cavallo si era rifiutato di svolgere. L’omiciattolo apparve nel cerchio di luce del falò in sella a un ronzino macilento, proprio mentre il guerriero e un gruppo di campagnoli spezzavano il pane e si avano una brocca di vino. Spaziò con lo sguardo sulla combriccola, soffermandosi un attimo su Dorian, poi spalancò la bocca dai denti guasti in un sorriso ripugnante. «Che fate ancora qui seduti, sciocchi? Non avete sentito dello spettacolo?» I contadini si occhieggiarono l’un l’altro con fare sorpreso, finché uno ebbe il coraggio di chiedergli a che si riferisse. Il guercio si grattò sotto la benda, mentre rispondeva: «Siete proprio gli ultimi a saperlo, allora!» «Che cosa? Diccelo una buona volta!» «Una lotta, amici miei! Una lotta come non se ne sono mai viste!» Gli occhi dei contadini luccicarono di curiosità. Solo Dorian sembrava più interessato a sbocconcellare la propria pagnotta che a dare ascolto a quel topo di fogna. «Dove?» «Al villaggio, e dove sennò? Se vi sbrigate fate ancora in tempo. Uno spettacolo imperdibile, graziosamente offerto da noi Fratelli in Armi. Solo tre monete!» Nell’udire il prezzo salato, l’entusiasmo dei presenti si raffreddò. «Solo tre monete, dice lui!» sbraitò uno, sputando nel fuoco «E che razza di lotta dovrebbe valere tanto?» «Già» rise un altro «Avete portato dei leoni? O un bel paio di amazzoni selvagge?» «Meglio, molto meglio signori!» affermò il guercio, lasciando crescere l’aspettativa. «Cosa c’è di meglio delle amazzoni?»

«Demoni!» Per due battiti di cuore cadde un silenzio assoluto, seguito da esclamazioni soffocate. Al terzo battito, Dorian era già in piedi. Affiancò il guercio in un paio di falcate, lo afferrò per il bavero e lo trascinò giù di sella. Poi, senza lasciargli il tempo di protestare, lo alzò di peso e lo schiacciò spalle a un albero. «Cosa...!» balbettò l’uomo, mentre i contadini balzavano in piedi allarmati. «Dimmi che è uno scherzo» sibilò Dorian, il volto furente a un dito da quello del malcapitato. «N-non capisco!» Dorian lo scosse come un sacco d’ossa. «Hai detto ‘Demoni’, ma non parlavi sul serio, vero?» Malgrado il pessimo frangente, il guercio parve offeso: «Per forza che ho detto il vero! Perché mai dovrei andarmene in giro tra i bifolchi a sbandierare idiozie?» Il guerriero lo fissò nell’occhio buono, sentì il puzzo della sua paura, e l’esperienza gli disse che non stava mentendo. Lo sbatté ancora una volta contro il tronco, poi lo lasciò scivolare a terra con un grugnito. Mentre correva a sciogliere le redini del proprio cavallo, il guercio gli lanciò dietro una lunga serie di ingiurie. «Maledetto, con chi credi di aver a che fare? I Fratelli te la faranno pagare!» Dorian non gli prestò orecchio. Sapeva chi erano i Fratelli in Armi: una delle innumerevoli bande di mercenari che infestavano il Regno come blatte, sempre pronti ad ingrassare sul sangue altrui. Ma se quell’uomo non mentiva, questa volta l’avevano fatta davvero grossa. Demoni! Affondò i talloni nei fianchi della cavalcatura, spingendola al galoppo verso il villaggio. Qualunque cosa quei balordi avessero in mente, forse non era ancora

troppo tardi per fermarli. Udì i versi bestiali non appena balzò giù di sella ai confini del centro abitato, agitato e illuminato a festa come nei giorni sacri dedicati a Edessa. In aggiunta alla folla degli abitanti, che formavano capannelli rumorosi in ogni canto, c’era un nutrito numero di uomini armati e corazzati alla meno peggio, con giubbe sdrucite dello stesso colore grigio di quella del guercio: i Fratelli in Armi. Al centro del villaggio era stata scavata una profonda fossa circolare. I versi provenivano da lì. «Dei, no!» Abbandonò il cavallo dov’era e si aprì la strada a spintoni. Da vicino i versi divennero poderosi come ruggiti, e non c’era modo di sbagliarsi sulla loro origine. Quando finalmente li vide, Dorian digrignò i denti come un mastino rabbioso. I due Demoni, legati mani e piedi ai ceppi sul fondo della fossa, si dimenavano in preda a un raptus senza fine. Erano una visione orrenda: quel poco di umano che restava in loro era stato sopraffatto dalla deformità delle membra, dal colore rosso cupo della pelle scagliosa, dalle zanne ritorte, dagli occhi neri e vacui come eclissi di sole. Eppure la gente si ammassava sul bordo del fossato per ammirarli, le bocche spalancate in espressioni a metà tra la meraviglia e il disgusto. Dorian neanche se ne accorse: la sua attenzione era tutta per le corde che trattenevano i mostri, sottoposte a tremenda tensione dai loro spasmi incontrollati. Sembravano robuste, ma la cosa non lo tranquillizzò. Poche volte nella sua esistenza gli era toccato vedere degli stolti alle prese con la cattura di un Demone vivo, ed era sempre finita allo stesso modo: la creatura in libertà, gli stolti affogati nel sangue. Chi era responsabile di quel disastro annunciato? Girò lo sguardo incattivito sui Fratelli in Armi disposti intorno alla fossa, e notò un paio di individui impegnati in una discussione animata. «Capitano, è una pazzia!» diceva il più giovane dei due, un ragazzone dalle spalle larghe e un accenno di barba nera sulle guance. «Ti avverto, Temar!» sbraitò l’altro, un uomo di mezza età solido e stagionato come un tronco di quercia «Ancora una parola e ti sbatto là dentro in loro compagnia!»

«Avete visto anche voi di cosa sono capaci! Se li liberiamo, potrà succedere di tutto!» «E cosa vorresti farci, allora? Li ammazziamo subito e restituiamo i soldi a questi pezzenti?» «Sarebbe la cosa migliore per tutti.» Il capitano, scuro in volto, lo afferrò per il bavero. «Razza di codardo, ti faccio vedere io cosa sarebbe meglio per tutti!» Una grossa mano guantata di bianco si posò sulla sua: era rovente, come lo sguardo dell’uomo a cui apparteneva. «Il ragazzo ha ragione» disse Dorian «Dovresti dargli retta, se hai un briciolo di cervello.» Il capitano mollò il sottoposto per fronteggiare il nuovo arrivato. Una mezza dozzina di Fratelli in Armi strinse il cerchio attorno a loro, le mani appoggiate sull’elsa delle spade. «Stavi dicendo?» «Non è di me che dovete preoccuparvi, ma di quelle cose laggiù. Uccidetele adesso, prima che sia tardi. E fatelo da lontano.» «Nessuno ha chiesto il tuo parere, sbruffone. Ce l’ho io un consiglio per te: vattene prima che conti fino a dieci, o ti garantisco che diventerai il protagonista a sorpresa del nostro spettacolo!» Dorian rimase a fissarlo in cagnesco, indeciso. Poteva far fuori quelle schiappe con una mano sola, ma rischiava di coinvolgere l’intero villaggio in un tafferuglio inutile. D’altra parte, se non avesse fatto qualcosa... «Lascia perdere» disse una voce rassegnata «E anche voi, capitano, per favore. Non c’è bisogno che finisca male.» Il giovane dalle spalle larghe cercava di calmare gli animi. Il capitano lo squadrò con fastidio, poi fece cenno ai suoi che era tutto a posto.

«Visto che voi due andate così d’accordo, fatemi il favore di sparire insieme dalla mia vista. Andate pure a tremare in un angolo, mentre noi diamo il via alle danze.» Il giovane dovette quasi tirarlo per un braccio, tra le smorfie provocatorie dei compagni, ma alla fine Dorian si decise a seguirlo fino a distanza di sicurezza. «Non te la prendere» disse il giovane, scuotendo il capo «Sono ciechi, e sordi. Lo sapevo fin dall’inizio che non era una buona idea.» Solo allora Dorian gli rivolse la sua attenzione. «Temar, vero?» L’altro annuì. «Dimmi una cosa: come diavolo avete fatto a catturarli vivi?» «Pura... fortuna? Non so se dovrei chiamarla così. Li abbiamo trovati intrappolati sotto le macerie di una casa, due notti fa. Il villaggio era stato devastato dai loro simili. Un vero macello.» «E perché diavolo non li avete fatti fuori subito?» «Era quel che intendevamo fare. Poi il capitano se ne è uscito con questa bella idea dello spettacolo, per spillare quattrini alla gente di campagna, e quegli sciocchi dei miei compagni se la sono bevuta!» «Tu no, però.» Temar sospirò, andosi una mano tra i capelli. «Anni fa, il villaggio dei miei cugini è stato raso al suolo da mostri come quelli. La Compagnia del Viandante non è arrivata in tempo per salvarli, e neanch’io: non dimenticherò mai ciò che ho visto.» Dorian credette di ricordare quell’episodio: uno dei rari casi in cui erano giunti troppo tardi per svolgere il proprio compito. Quella volta non c’era stato tempo per agire. E questa? Curiosamente, anche in quella terribile notte di tanti anni prima la Luna di Sangue splendeva avida nel cielo.

«Che fai?» sbottò Temar, quando lo vide riavviarsi verso la fossa. «Niente paura, non cerco grane. Voglio solo assistere all’esibizione.» Il giovane inarcò le sopracciglia. «Fa’ come ti pare, ma sta all’erta: ho un brutto presentimento!» «Non sei il solo.» Dorian tornò sul bordo del fossato, dal lato opposto a quello dove si erano riuniti il capitano e i suoi sgherri. Gettò tre monete - le ultime che gli restavano - nel cappello che gli piazzarono sotto il naso, e restò in attesa dello spettacolo strizzato tra una donnona assonnata e una combriccola di giovani sguaiati, finché il capitano si schiarì la gola ed annunciò a gran voce che il momento era giunto. Dorian non fece caso alle sue frasi pompose: era troppo concentrato sui Demoni in procinto di guadagnare la libertà, e sulle pareti del fossato. Erano abbastanza alte? La gente era abbastanza lontana dal bordo? Per tutti gli...! Perché quella bambina si era seduta proprio lì, con le gambe ciondoloni? Meno male, la madre la stava già portando via! In quel momento un mercenario si apprestò a tagliare le funi che frenavano i due obbrobri. Si sdraiò sul ciglio e sporse una falce dal manico ingegnosamente allungato, in modo da non doversi avvicinare più del necessario. Sembrava tutto ben organizzato, ma le cose cominciarono ad andar storte dall’istante stesso in cui la prima corda venne recisa: il Demone usò gli artigli della mano libera per strappare la fune dell’altro braccio, poi, prima che il suo liberatore riuscisse a ritrarla, afferrò la falce per la lama affilata e la divelse dalla sua presa. Ruggì e scagliò lo strumento contro il pubblico esterrefatto: un uomo cadde urlante con un orecchio mozzato, sprizzando sangue sui vicini. «Proprio un bell’inizio!» gemette Dorian, stringendo le dita sull’elsa della spada. Mentre i Fratelli in Armi si davano da fare per riportare la calma tra la folla impaurita, il Demone finì di sbrindellare le funi che gli imprigionavano le caviglie. Ignorò del tutto il suo compagno urlante e si scagliò contro la parete della fossa, graffiando e mordendo la terra. Gli spettatori più vicini si ritrassero tra strilli di terrore, qualche bambino cominciò a piangere: nessuno si stava godendo lo spettacolo promesso. Per loro fortuna, però, la parete si dimostrò alta

a sufficienza. Alla fine anche il mostro se ne convinse, e tornò al centro del fossato, dove il suo simile si contorceva in preda a una furia incontenibile. Se gli spettatori credevano che l’avrebbe liberato, per poi dare il via alla lotta tanto attesa, si sbagliavano di grosso: il Demone gli rifilò un paio di violenti calci nello stomaco, poi gli afferrò la testa tra le mani mostruose e girò di scatto. Craack! Il suono del collo che si spezzava riempì la folla di nausea, ma non tanto quanto il fatto che la testa continuasse ad agitarsi, urlare e sbavare. Soltanto il corpo si afflosciò inerte, ora che il cervello non era più in grado di dargli ordini. Non che un cervello fosse strettamente necessario, quando la mutazione assumeva il suo stadio più avanzato: allora gli arti sarebbero tornati a muoversi per proprio conto, come Dorian aveva già avuto la sfortuna di testimoniare. La lotta era finita ancor prima di cominciare, ma il vero spettacolo stava appena iniziando, sotto gli sguardi sgomenti dei presenti, contadini e mercenari, e del capitano, resosi infine conto che le cose stavano sfuggendo al suo controllo. Il Demone lacerò le funi che inchiodavano l’altro al suolo, poi se lo caricò in spalla e lo sistemò contro la parete del fosso. Fatto ciò, arretrò di alcuni i, le fauci spalancate in una smorfia crudele. «Oh no! Non farlo!» gridò Dorian. Il Demone, ovviamente, non lo ascoltò. Prese la rincorsa, balzò sulle spalle del compagno immobilizzato, e lo usò come trampolino per ghermire il bordo del fossato con le dita artigliate. Poi, con una potente trazione delle braccia, si proiettò in mezzo alla folla. Fu il finimondo: uomini, donne e bambini si misero a correre in preda al panico in ogni direzione, spingendo i vicini a terra e calpestandoli, riempiendo la notte di urla. Alcuni mercenari cercarono di farsi avanti, ma la folla li respinse come fuscelli in balia della marea. Altri, più vicini al bordo della fossa, improvvisarono un muro umano, guidati dal loro capitano. «A me, Fratelli in Armi, a me!» gridò, levando alta la spada. La sua fu una fine quasi eroica, sgozzato dagli artigli della belva mentre cercava di inchiodarla con un affondo. Il Demone pareva ignorare le lame e le punte di

lancia che gli mordevano le carni, mentre mieteva vittime senza far distinzione tra le casacche grigie dei mercenari e quelle color terra dei contadini. Nel fosso, il suo consimile paralizzato accompagnava la strage con ruggiti di invidia rabbiosa. Dorian si mosse rapido verso l’epicentro del caos, senza provare soddisfazione alcuna per aver avuto ancora una volta ragione. Uomini e donne in fuga gli sbattevano contro come eri storditi dal terrore, ed era costretto a levarseli di torno a spintoni. Si accorse che anche Temar convergeva sul mostro da un’altra direzione, spada alla mano. Sperò che il giovane sapesse cavarsela meglio dei compagni, massacrati uno dopo l’altro come mosche. Quando fu abbastanza vicino, raccolse un sasso da terra e lo scagliò addosso al Demone, centrandolo in un occhio. La belva mugghiò e spazzò via chi aveva di fronte, decisa a vedersela con lui. Dorian non commise l’errore di entrare nel suo raggio d’azione: gli lasciò l’iniziativa, mentre lo teneva a bada con una continua alternanza di schivate e stoccate fulminee. Il Demone continuò così per un pezzo, graffiando l’aria dove un attimo prima c’era il guerriero e subendone le dolorose punture, sempre più fuori controllo. Vacillò soltanto quando la punta della spada di Temar - sbucatogli alle spalle di nascosto - gli trafisse la schiena da parte a parte, per riemergere rossa di sangue sul davanti. «Adesso!» pensò Dorian. Il Demone, però, non era pronto ad arrendersi: con un balzo strepitoso si sottrasse alla portata delle lame ed atterrò accanto alla stalla, zeppa di bestie impazzite dal terrore. Afferrò un cavallo per le redini e balzò in groppa, un cavaliere umanoide di terribile aspetto e proporzioni. Per un folle attimo Dorian si immaginò la creatura piantare i talloni nei fianchi del destriero e fuggire al galoppo, ma ciò che avvenne dopo superò ogni sua aspettativa. Il mostro affondò le mani artigliate nel corpo del cavallo, fino al gomito, poi fu la volta delle gambe. L’animale lanciò un nitrito di dolore, e invece di stramazzare a terra prese a sobbalzare e a contorcersi nella frenesia più assoluta. La sua pelle si gonfiò e si strappò, per poi richiudersi come un manto sugli arti del Demone, sigillandoli dentro la carne. Quando la ripugnante metamorfosi ebbe fine, cavallo e cavaliere erano diventati una cosa sola, un ibrido quadrupede di inimmaginabile bruttezza.

Dorian osservò la scena a bocca aperta: mai, in tutti i lunghi anni al seguito del Bianco Viandante, aveva assistito a qualcosa di tanto incomprensibile e spaventoso. Il Demone aveva raggiunto uno stadio evolutivo superiore a quello di ogni altro, una fusione di corpi che non aveva precedenti tra le orrende mutazioni della sua razza. Per un attimo, il guerriero si chiese se quell’esemplare fosse il solo ad aver sviluppato quel nuovo potere, da quando il loro unico nemico - la Compagnia del Viandante - aveva cessato di esistere. Poi l’ibrido gli venne addosso al galoppo, e non ebbe più il tempo di pensare a nulla. Cadde in ginocchio, coprendosi il volto con la spada, mentre una tempesta di zoccoli e artigli cercava di schiacciarlo al suolo. Qualcosa di duro come il ferro lo colpì a una tempia e la testa gli risuonò come una campana. «Qui, bestiaccia! Qui!» urlò la voce di Temar, solcata da una vena di paura. Dorian capì che il giovane stava cercando di distrarre il nemico, e gliene fu grato. Riuscì a rialzarsi sulle gambe, stordito e vacillante, in tempo per visualizzare il mostro che si scagliava addosso ai pochi mercenari superstiti, falciandoli come spighe di grano maturo. Temar era proprio sulla linea d’impatto, se non si fosse tolto di mezzo avrebbero dovuto recuperare i suoi brandelli una lega più a valle. Il guerriero serrò la mascella: non gli restava che una cosa da fare. Liberò la furia dentro di sé come un getto di lava rovente, lasciò che fondesse le catene dell’autocontrollo e gli inondasse le vene col suo calore liquido. Alzò il braccio destro e puntò il palmo della mano sulla creatura infernale, giusto prima che l’energia cominciasse a sgorgare: il lampo blu saettò dal guanto al dorso della creatura, infilzandola come una lama di luce sfrigolante. La sollevò da terra e la dilaniò a mezz’aria, riducendola a una pioggia di poltiglia rossastra che si riversò copiosamente sulle teste di bifolchi e mercenari. La testa del Demone rimase intatta, finché Dorian non la raggiunse e la calpestò con lo stivale, facendola esplodere come un melone maturo. Poi mirò sul fondo della fossa, e con un torrente di saette brucianti mise fine all’esistenza del secondo Demone. L’energia era un fonte infinita, Dorian se ne abbeverò con avidità per colmare la propria sete di violenza. Ma più beveva, più la sete aumentava. Voleva bruciare tutto quanto intorno a sé, finché non restassero che ceneri, e poi bruciare anche quelle, e calpestarle, e spargerle al vento!

«No.» Di colpo, ritornò in sé. Era in ginocchio accanto ai resti sfigurati del Demone, ansimante, la mano destra avvolta nel fumo. Se la portò al petto e strinse i denti, finché non smise di pulsare. Era stremato, ma contento: era riuscito a controllare il potere e ad asservirlo ai propri scopi, come voleva. Aveva mantenuto la promessa fatta a se stesso dopo lo scontro con Kyra: mai più l’energia del guanto avrebbe preso il sopravvento sulla sua coscienza. Lei era la serva, lui il padrone. Temar gli venne incontro tra i gemiti dei feriti e i singhiozzi dei sopravvissuti, ma non osò avvicinarsi più di tanto. «Tutto a posto, guerriero?» domandò, squadrandolo con occhi sgranati. Dorian annuì. Aveva la bocca troppo secca per parlare. Temar non riusciva a staccare gli occhi dal suo braccio. «Cosa... cosa è stato, quello?» Quando non ottenne risposta, si rese conto dello stato del guerriero, muto e tremante. Si fiondò avanti per sorreggerlo e chiamò a sé un paio di compagni d’armi, che si aggiravano per lì come spettri allucinati. «Tu, va’ a prendere dell’acqua! E tu, una coperta! In fretta!» I due obbedirono senza proteste. Dorian accettò l’acqua con gratitudine, ma rifiutò la coperta. «Non sono messo così male» gracchiò. «Attento!» disse Temar, abbrancandolo per un braccio un istante prima che piombasse faccia a terra. Dorian capì che non era il momento di fare il duro. Il prezzo dovuto all’uso del guanto era stato enorme, aveva bisogno di sdraiarsi da qualche parte e riprendere le forze. Temar gli lesse nel pensiero. «Vieni con me, la tenda del capitano ha perso il suo occupante. Sarà tua per la notte, è il minimo che possiamo fare per ringraziarti.»

«Ma... la gente... il villaggio...» «Non preoccuparti per loro. I Fratelli in Armi hanno combinato questo macello, per cui tocca a loro - a noi - rimettere a posto le cose.» Dorian concordò con un cenno del capo, troppo stanco per protestare. Il giovane lo scortò nella tenda e lo aiutò a sistemarsi su un pagliericcio, dove restò solo con il variegato bottino del defunto capitano. Poteva udire i pianti e le urla degli abitanti del villaggio, là fuori, e le grida di Temar che si faceva in quattro, ma per quanto volesse dar loro una mano il suo corpo si rifiutava di obbedire. Una cosa era certa: benché il guanto fosse un’arma formidabile, doveva imparare ad usarlo nel modo giusto. Quello della piramide di Ilterya era stato un caso unico: soltanto il pericolo corso da sua figlia gli aveva fatto ritrovare le energie necessarie a sopravvivere. Senza allenamenti costanti, si sarebbe ritrovato in quello stato dopo ogni uso, più indifeso di un coniglio. Rimase supino per un bel pezzo, con gli occhi spalancati, finché udì i i leggeri di qualcuno che entrava nella tenda. La mano di Temar gli toccò una spalla e gli offrì un calice di vino dal sapore dolciastro. «Mandalo giù, ti farà bene.» Dorian accettò di buon grado. Poco dopo, senza neppure accorgersene, scivolò tra le accoglienti braccia del sonno. -----Si ridestò con un impressionante cerchio alla testa, e la sensazione che lo stessero sballottando come un sacco di patate. Le sue narici si arricciarono, colpite da un tanfo insopportabile. «Questa è nuova...» Aprì gli occhi e vide robuste sbarre di ferro. Una rapida occhiata attorno a sé gli rivelò che si trovava dentro una gabbia, su un carro in movimento. Mercenari a cavallo precedevano e seguivano il mezzo di trasporto lungo una strada sterrata piena di buche. «Bentornato nel mondo dei vivi, spaccone!» esclamò una voce sarcastica «Hai

dormito bene nella gabbia dei Demoni? Il profumo non ti ha disturbato?» Dorian si girò di scatto e inquadrò il guercio della sera prima, in sella al suo ronzino. «Te l’avevo detto, no, che i Fratelli te l’avrebbero fatta pagare?» Il guerriero era esterrefatto. «Che diavolo sta succedendo? Voglio una spiegazione!» «E io ti voglio zitto, altrimenti...» Il guercio sollevò la lancia che portava legata alla sella e gli rifilò una botta con il manico. Dorian si ritrasse con un ringhio di rabbia. «Prigioniero!» realizzò «Ma perché? Come...?» Solo allora gli guizzò nella mente l’immagine di Temar che gli offriva il calice di vino. «Drogato!» Non aveva senso, il giovane si era dimostrato suo amico fin dall’inizio! E con tutto quel che aveva fatto per salvare il villaggio dal disastro... «Fatemi parlare con Temar, adesso!» protestò. «Il capitano non ha tempo da perdere con te» grugnì il guercio «E poi ti ho già detto di stare zitto!» «Capitano?» Questa volta il manico della lancia gli affondò tra le costole, strappandogli un gemito. Gli altri mercenari accompagnarono la scena con grasse risate. Il guerriero si morse la lingua: quel che era troppo era troppo. Se non poteva risolvere la faccenda con le buone, allora... Aprì i cancelli all’ira, e subito sentì diffondersi dentro di sé la familiare sensazione di calore rovente, la scintilla che avrebbe incendiato l’intero suo

corpo. Ormai riusciva quasi a vederla, l’energia che fluiva dal centro del suo essere verso il braccio destro ed il guanto di Nahash. Fece per aprire le dita, ma scoprì di non poterlo fare. Una spessa striscia di cuoio avvolta intorno alle falangi gli teneva la mano stretta a pugno, impedendogli di stirare il palmo. «Ingegnoso, non trovi?» Temar trottava accanto alla gabbia, e lo fissava con una luce di malizia negli occhi. «Meglio se ti calmi, o finirai per farti male da solo...»

V - I Figli della Notte

«Non c’è nulla di personale, guerriero. Sei solo capitato nel posto giusto al momento giusto.» Fuori dalle sbarre, Temar lo studiava come un trofeo, un esemplare esotico da esporre in una fiera di stravaganze. Pur se aveva voglia di reagire in altra maniera, Dorian mantenne il sangue freddo e si limitò alle parole: «Intendi dire nel posto e nel momento giusto per salvare la pelle a te e ai tuoi compagni?» Temar mostrò un sorriso tiepido. «Sì, anche per quello, devo farti giustizia. Ma soprattutto per il compimento dei miei piani.» Dorian doveva farlo parlare, se voleva capirci qualcosa. «Scommetto che ne hai fatti parecchi, di piani. Eh, capitano?» «Come corrono la novità! Non lo nascondo, era da un pezzo che attendevo il mio momento. Era destino, quel Demone non ha fatto che accelerare il dovuto aggio di consegne.» «Di certo l’autostima non ti manca...» Il giovane diede un’alzata di spalle. «Diciamo che sono l’unico della compagnia che abbia trovato il fegato di caricarsi sulle spalle il fardello del comando.» Dorian non trattenne il riso. «Diciamo pure che sei l’unico tra questi mentecatti dotato di un briciolo di ambizione!»

Il guercio, che seguiva la gabbia da vicino, gli rivolse uno sguardo assassino, ma non disse nulla. «Pensa quel che ti pare, guerriero. Le tue opinioni non mi toccano. Quel che è certo è che la stupida morte del mio predecessore ha aperto le porte a una nuova era per i Fratelli in Armi.» Si raddrizzò sulla sella, come se stesse elargendo un discorso ad un pubblico immaginario. «Finora abbiamo vissuto degli avanzi caduti dal tavolo dei potenti, tra patetiche scaramucce e vili espedienti. Siamo una compagnia di mercenari, per gli Dei, e non vantiamo neppure uno stendardo, nemmeno uno straccio che raffiguri il nostro onore!» «Uno straccio sarebbe perfetto» pensò Dorian, senza dirlo ad alta voce. «Quei tempi bui finiscono oggi» continuò Temar «Grazie a me... e a te.» Dorian si incupì. «Se questa gabbia è il tuo modo di implorarmi di combattere per voi, sei proprio fuori strada, ragazzo!» Temar rise di gusto. «Bella idea! Non lo nego, sei un combattente formidabile, la tua spada e le tue stregonerie ci tornerebbero molto utili... Ma no, grazie. Ho in mente qualcos’altro per te, qualcosa che mi aiuterà a ottenere molto più in fretta ciò che voglio.» «Ossia?» «Un posto al sole per noi Fratelli in Armi tra le truppe di élite del principe Hiram, per cominciare. Vincerà la guerra, certo come è certo che domani il sole sorgerà ad oriente. Ed io non ho alcuna intenzione di lasciarmi sfuggire la mia fetta di bottino.» «Il tuo sogno è diventare un leccapiedi di Hiram?» sibilò Dorian, disgustato.

«Non proprio, diciamo piuttosto un alleato di fiducia. Qualcuno su cui possa contare per vincere in fretta questa guerra...» «...qualcuno a cui donare un bel castello con delle terre intorno, a guerra finita...» continuò il guerriero. «...e magari un grazioso titolo nobiliare. Sì, sei sveglio, hai capito al volo.» «Ho capito tutto, meno il mio ruolo in questa sporca faccenda!» Era a corto di pazienza. Temar se ne accorse e gli rivolse un sorriso ironico. «Suvvia, non ti offendere, ti dirò tutto!» Calò lo sguardo sul suo guanto candido, e sul pugno imprigionato dalle strisce di cuoio. «Mai visto niente del genere, in vita mia. Se quel che ti porti appresso non è frutto delle Arti Arcane, allora devo essermi sognato tutto, e non mi sono ancora risvegliato! Di per sé la cosa non mi tocca, a dire il vero. Ma so che non lontano da qui, nella città di Rutan, c’è un gruppo di persone fortemente interessate a scovare gingilli come il tuo guanto.» Dorian conosceva il posto: era un centro portuale di medie dimensioni, affacciato sul Mare Interno. Data la collocazione strategica, doveva essere divenuto uno dei punti nevralgici del comando di Hiram. Il che significava che vi erano stanziati numerosi membri dell’alta gerarchia dell’esercito. A parte gli Illuminati - che erano schierati dalla parte di Feledan, a meno che le cose fossero drasticamente mutate dai tempi del suo viaggio a Draslund - conosceva un solo altro gruppo dedicato allo studio delle Arti Arcane. Il pensiero gli fece accapponare la pelle. «Hai già capito, te lo leggo in faccia» disse Temar. «I Figli della Notte...» «Proprio loro. Da quel che ho sentito, godono di un’enorme influenza sul principe. Si può dire che siano i suoi occhi e le sue orecchie.» Dorian non stentava a crederlo. I Figli della Notte erano una confraternita

poderosa, formata da uomini letali e senza scrupoli, proprio il genere di compagnia che un uomo come Hiram sapeva apprezzare. «Capisci anche tu, guerriero, che il tuo guanto costituisce un dono superbo, il salvacondotto perfetto per i miei piani di ascesa. Quando lo riceveranno su un vassoio d’argento, non potranno che baciare le mani che gliel’hanno servito. E accordarmi le umili richieste che intendo fare.» Non era un’idea sciocca, ammise Dorian. Ma se il guanto era la chiave di tutto, si stupì di essere ancora in vita. Si massaggiò il polso, e ancora una volta Temar interpretò senza difficoltà quel che gli ava per la testa. «All’inizio mi sorrideva l’idea di strapparti il braccio e disfarmi di tutto il resto, non lo nego. Poi mi è sovvenuto che il guanto può aver bisogno di un corpo integro per funzionare. Così ho deciso di lasciare i dettagli a chi se ne intende, e portarti a Rutan tutto d’un pezzo. Spero che la cosa non abbia urtato i tuoi sentimenti.» «Tutt’altro, Temar. Grazie per il pensiero.» Dorian curvò le spalle e si abbandonò contro le sbarre. Le cose andavano di male in peggio: era prigioniero di una combriccola di farabutti e sempre più lontano dalla sua meta, senza contare la sorridente prospettiva di cadere nelle mani di una banda di macellai, in qualità di materiale di scarto incollato a un prezioso artefatto. «Con questo credo di aver saziato la tua curiosità, o sbaglio?» chiese Temar. Il guerriero non rispose. «Capisco, hai bisogno di tempo per riflettere, o forse per pregare. Chi non lo vorrebbe, al posto tuo?» Con espressione mogia, come se fosse sinceramente dispiaciuto, diede di sprone al cavallo. «Come ho detto, guerriero, niente di personale!» Mille risposte taglienti danzarono sulla lingua di Dorian, ma decise di non sprecare il fiato. Parlare era inutile, in quella situazione, pregare ancora meno: gli Dei non gli avevano mai rivolto uno sguardo di bontà, non c’era motivo che cominciassero a farlo proprio allora. Era meglio dedicarsi a frenare la rabbia che gli montava dentro, ed evitare così di carbonizzarsi la mano. Anche se forse, alla

fine, era la cosa migliore da fare. Temar e i maledetti corvi dalle vesti nere sarebbero rimasti con un pugno di mosche. E lui con un bel moncone al posto del braccio. Shem, Caleb, Tevani, l’Oscuro. No, il braccio gli serviva ancora. Puntò lo sguardo sull’orizzonte, tra le sbarre, mentre il carro ballonzolava verso Sud a o di lumaca. -----Uno scossone più violento degli altri lo fece risvegliare di botto. Si alzò sui gomiti, stordito: era notte. Aveva tutte le ossa ammaccate e i muscoli anchilosati, dopo i due o tre giorni ati nella gabbia. Gli avevano dato da mangiare poco e male, e quando non era occupato a rosicchiare quei miseri avanzi non gli restava altro da fare che fissare il paesaggio monotono, o dormire. L’unica forma di conversazione impiegata dai mercenari era composta da ingiurie e battutine. Temar non si era più fatto vedere. Per l’ennesima volta, Dorian si ridestò e si stropicciò gli occhi. Il carro aveva arrestato la sua corsa in una piazzetta rischiarata dalle torce, attorniata da case di mattoni. Del cospicuo contingente di mercenari era rimasto soltanto un gruppetto appiedato, composto da Temar e pochi altri. Quando lo vide desto, il giovane gli rivolse la parola: «Siamo arrivati a fine corsa, guerriero.» «Rutan?» grugnì Dorian. «Proprio così.» Non si era neppure accorto che fossero entrati in città. E dire che un altro, nella sua situazione, non sarebbe riuscito a chiudere occhio. «Adesso ti faremo uscire di lì. Prometti di fare il bravo?» Dorian non si degnò di rispondere. Riuscì ad alzarsi a fatica, curvo dentro lo

spazio ristretto della gabbia, mentre uno dei mercenari armeggiava col lucchetto. Non appena poggiò un piede al suolo, gli si fecero attorno in quattro e gli legarono insieme polsi e caviglie con una catena. Poi il guercio diede uno strattone, giusto per il piacere di vederlo barcollare. «Suvvia, non siamo qui per divertirci» lo rimproverò Temar. Il prigioniero alzò lo sguardo, e solo allora si avvide dell’imponente edificio che chiudeva un lato della piazza. Era una fortezza di blocchi di pietra, sul frontone garriva un unico stendardo nero: una sottile luna crescente su un campo di stelle. Il tessuto pendeva inerte dalla sua asta, poiché non c’era un alito di vento a smuovere l’aria pesante della notte. Tutto era oscurità, e silenzio. Avanzarono verso la bocca scura dell’ingresso principale, Temar in testa, poi Dorian trascinato dal guercio, infine gli altri a chiudere la fila. Nessuno venne loro incontro: il portone era spalancato. Transitarono lungo un breve aggio dalla volta bassa, fino a sbucare in un cortile interno. I mercenari si guardarono attorno perplessi: la fortezza sembrava abbandonata. Anche sui bastioni non c’era l’ombra di uomini armati, né una torcia appesa alle mura. Non fosse per quelle che si portavano appresso, avrebbero dovuto camminare a tentoni, poiché persino il volto abietto della Luna di Sangue era occultato dalle nubi. «Sei sicuro che il posto sia questo?» borbottò il guercio. «Non c’è modo di sbagliarsi» rispose Temar, stizzito «E poi, l’avete visto anche voi lo stendardo là fuori.» Dorian lanciò occhiate a destra e a sinistra, ma non c’era luce sufficiente a rischiarare gli angoli bui del cortile. Tutto quel silenzio non gli piaceva. Temar si spostò al centro del cortile. «C’è nessuno?» gridò. Nessuna risposta. «Ehi!» ripeté. L’eco del suo grido si spense nel silenzio.

Si voltò, grattandosi la testa. «E adesso?» chiese uno. «Non capisco... Le indicazioni erano chiare...» «Magari quel soldato si è preso gioco di noi» insinuò il guercio «Ci ha fatti venire apposta in questo postaccio abbandonato, per dispetto!» «Ne dubito. Che motivo avrebbe avuto?» «Bah! Non hai visto come ci squadrava dall’alto in basso, come se fossimo una banda di pezzenti? Solo perché lui vestiva una casacca dell’esercito di Hiram. Ma appena torniamo indietro gli farò vedere che i Fratelli in Armi non scher...» Una folata di vento spense le torce con un sibilo, facendoli sobbalzare. Più d’uno mise mano alla spada. «Che diamine...!» Quando Temar si voltò, si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Dall’oscurità di un androne emerse una figura alta e magrissima, che indossava una veste nera talmente lunga da strisciare sull’acciottolato. Teneva le mani conserte davanti a sé, nascoste dentro le ampie maniche della veste, e sembrava scivolare avanti, più che camminare. Il cranio calvo rifletteva la luce delle torce con un bagliore sinistro. Quando si avvicinò, videro che aveva labbra sottili, esangui, e gli occhi contornati da un pesante alone color del carbone. Nessuno spiccicò parola dinanzi alla spettrale apparizione, finché fu questa a parlare, con voce bassissima ma allo stesso tempo perfettamente chiara: «Chi siete?» Temar si schiarì la gola, ma la risposta fu tremula: «Siamo... Sono Temar, capitano della compagnia dei Fratelli in Armi.» L’uomo continuò a fissarlo con occhi vacui, per nulla impressionato. Temar non si lasciò scoraggiare, e andò dritto al punto.

«Abbiamo viaggiato tre giorni e tre notti per venirvi ad offrire un dono unico, in cambio della vostra intercessione presso il Principe.» Ancora una volta l’altro si rifiutò di premiarlo con una parola o un minimo cenno. «L’esercitò di Hiram ha bisogno di guerrieri abili e coraggiosi, se vuole ottenere una vittoria rapida. Noi Fratelli in Armi siamo giusto ciò di cui avete bisogno.» «Un dono, hai detto?» lo interruppe lo stregone, ignorando per intero il resto del discorso. Temar si morse le labbra, e per un attimo Dorian temette che avrebbe reagito in malo modo. Ma il giovane era più avveduto di quel che sembrasse. «Sì, vi abbiamo portato un omaggio che di certo gradirete, se è vero che vi stanno a cuore le Arti Arcane.» Un lampo ò negli occhi della figura alta e rinsecchita. Scivolò avanti fino a incombere su Temar come un salice ritorto. «Mostramelo» disse. Il giovane deglutì e arretrò di un o, indicando Dorian. «È... È lui... O meglio, il guanto che indossa sulla mano destra. L’ho visto all’opera, con quei lampi di energia! Bruciava ogni cosa sul suo cammino, davvero incredibile! Così ho pensato alle Arti Arcane, anche se, sia chiaro, non me ne intendo.» L’uomo lo oltreò leggero come un fantasma, sbucando dritto davanti a Dorian e ai suoi guardiani, impietriti dalla paura. Squadrò prima il guanto e poi il guerriero con aria di sufficienza, una luce di scetticismo negli occhi. Dorian resse il suo sguardo per lunghi istanti, finché le labbra dell’uomo si incresparono in una smorfia di fastidio. Senza preavviso, il corvo estrasse dalle maniche una mano bianca come l’avorio, dalla dita lunghe e ossute. Poggiò un’unghia affilata, laccata di nero, su una guancia del guerriero, poi premette con forza. L’unghia recise la carne di Dorian e scese lentamente verso il basso, tracciando una linea di sangue.

Dorian cercò di non dargliela vinta. Poteva sopportare il dolore, poteva fingere che quel personaggio e i suoi artigli immondi non esistessero affatto, come i frutti delle illusioni con cui Nahash si dilettava a tormentarlo. Se la stava cavando bene, finché l’uomo non stirò le labbra in un sorriso perverso, godendo della sua sofferenza e del sangue caldo che gli spillava sulle dita. Dorian perse il controllo per un attimo soltanto, ma fu sufficiente perché la sua mano chiusa a pugno sfrigolasse di energia bluastra. Un paio di scintille appena, eppure gli occhi spenti del suo aguzzino presero vita, brillando di cupidigia. Sollevò il dito dalla carne ferita e ritrasse la mano. «Accettiamo il vostro dono» disse. In quello stesso istante, da ogni androne e da ogni angolo buio del cortile, scivolò fuori uno sciame di figure nero vestite, del tutto simili alla prima. Nel giro di attimi, i Figli della Notte circondarono lo sparuto gruppo di mercenari e il loro prezioso prigioniero. «Che significa?» protestò Temar, impaurito. «Significa che potete ritirarvi» sibilò lo stregone. Temar non credette alle proprie orecchie: «Ritirarci? Non avete neppure udito le mie richieste! Non sono disposto a cedervi il prigioniero in cambio di nulla! Voglio trattare con un ufficiale!» «Qui non ci sono ufficiali» dichiarò l’uomo, gelido «Soltanto noi.» «Allora... allora sarete voi a ricompensarmi!» Un mormorio beffardo corse tra le fila degli stregoni dagli occhi di lupo. «La vostra ricompensa è la vita.» Temar gli rivolse uno sguardo confuso. «Avete avuto l’insolenza di invadere la nostra dimora senza invito» continuò il Figlio della Notte «Sareste già morti, se non avessimo gradito il vostro dono. Non fateci cambiare idea.»

Nessuno ebbe il coraggio di replicare, solo Temar impugnò la propria spada. «Come osate trattarci in questo modo? Siamo i Fratelli in Armi!» La reazione dei suoi commilitoni, tuttavia, fu deludente. Il guercio mollò la catena di Dorian e fu il primo a darsela a gambe verso l’uscita, subito imitato dagli altri tre. Temar li fissò incredulo. «Che fate, cani? Restate qui, è un ordine!» «A farci ammazzare? Un’altra volta, capitano!» «Come osate! Tornate immediatamente, o giuro che...!» Ormai stava buttando le parole al vento: l’ultimo dei suoi era sparito di corsa dentro al aggio, senza voltarsi. Era rimasto solo con Dorian, nel mezzo del cerchio nero. Gli caddero le braccia lungo i fianchi. «Fa’ come i tuoi cuccioli, se tieni alla vita» sussurrò lo stregone. Temar digrignò i denti e gli venne il sangue alla testa, ma l’istinto di sopravvivenza lo fece ravvedere. Rinfoderò la spada, voltò le spalle allo stregone e si avviò a o lento verso l’uscita. La sua schiena, dritta come un fuso, voleva dimostrare che se ne andava di propria volontà, senza accettare ordini. Quando ò accanto a Dorian, questi gli regalò un sorriso a tutti denti. «Non è proprio andata come speravi, eh?» Temar gli sputò sugli stivali, senza fermarsi. «Ridi pure, guerriero. Presto ti erà la voglia.» Mentre scompariva alle sue spalle, Dorian pensò che purtroppo aveva ragione: non era né il luogo né il momento di sorridere, visto ciò che lo aspettava. I Figli della Notte lo squadravano con avidità, senza rompere il cerchio, neri lupi in attesa di una mossa del capobranco. Al contrario di Temar, però, Dorian non aveva nulla da perdere. Anche con i polsi e le caviglie legate, avrebbe venduto la pelle a caro prezzo.

«Che aspettate, carogne?» sbraitò «Vi è ato il coraggio di scartare questo bel regalo?» Nessuno mosse un muscolo. Dorian pensò di provocarli ancora, per porre fine in un modo o nell’altro a quello squallido teatrino muto, quando avvertì una presenza dietro di sé. Il verme gli era strisciato alle spalle senza un fruscio! Prima che potesse reagire, dita scheletriche gli piazzarono sul viso un panno umido, maleodorante. L’odore gli penetrò con forza nella bocca e nelle narici, finché si trovò ad annaspare alla ricerca d’aria. Oscillò avanti e indietro come un tronco d’albero reciso alla base, por gli si sdoppiò la vista e crollò faccia a terra. Mentre perdeva conoscenza si girò sul dorso, e scorse l’immagine distorta dei Figli della Notte assiepati su di lui, una famelica parata di crani bianchi e orbite cave, i messaggeri della morte.

VI - Un’Improbabile Alleanza

«Dannato fango, quanto lo odio!» sbraitò Kyra, rialzandosi da terra. Aggrappata al fusto di una pianta, slittava senza ritegno sulla superficie viscosa. Recuperato l’equilibrio, dopo una silenziosa ed avvilente lotta con se stessa, si strofinò il fondo dei calzoni per spazzare via i grumi di fango. L’intruglio marrone le si appiccò alle mani e si incollò alla stoffa come un ripugnante strato di escrementi. «Aaargh!» I due Cacciatori se ne stavano lì impalati a guardarla senza dire una parola, come sempre. Era difficile interpretare le loro espressioni, con i volti celati dalle maschere di pelle di rettile. Di certo si stavano chiedendo il perché di quel comportamento bizzarro, e dentro di sé biasimavano il vecchio per averli mandati a farle da bambinaie. Appena rincasati dal primo viaggio in compagnia di Dorian, e senza neanche il tempo di ristorarsi, erano dovuti tornare sui propri i per scortare lei alla medesima destinazione: le pianure ai confini della palude di Draslund. Non era stato per niente facile convincere l’Anziano a lasciarla andare. La sua prima preoccupazione, una volta sfuggita alla morsa della febbre che l’aveva quasi uccisa, era stata interrogarlo su dove si trovasse Dorian. Durante il delirio aveva provato la sensazione nitida e dolorosa che suo padre se ne stesse andando, che la stesse abbandonando di nuovo, e forse era stata proprio quella la molla che le aveva dato la forza di riemergere nel mondo dei vivi. Purtroppo non era stato soltanto un brutto sogno: Dorian era partito davvero, pochi giorni prima che lei si risvegliasse madida di sudore in quella fornace di capanna. L’Anziano aveva narrato alle sue orecchie incredule come Dorian l’avesse portata sulle spalle fin lì dalle rovine della Città Morta, con l’aiuto dei Cacciatori, e come fosse rimasto inginocchiato giorno e notte al suo capezzale, fino a convincersi che il pericolo era ato. Il racconto non combaciava per nulla con gli ultimi ricordi che Kyra aveva di

suo padre, così crudele da infierire su di lei con ogni mezzo, sulla cima della Piramide di Ilterya. Le parole dell’Anziano confermarono però la realtà di quel che aveva creduto di sognare durante il tormentato sonno indotto dalle erbe: il vero Dorian era tornato, suo padre era tornato! Il pensiero le aveva gonfiato il cuore di nuova speranza, e di una gioia che non provava da tempo. Era scattata in piedi alla prima occasione, contro ogni raccomandazione dell’Anziano, per poi subito crollare faccia a terra e perdere conoscenza. Si era ridestata con un occhio nero e una tremenda emicrania. «Due giorni, due interi giorni buttati via!» pensò con amarezza, mentre Dorian si allontanava sempre più. Oh, l’avrebbe rincorso anche per tutto il Regno se necessario… Pur non spiegandosi il perché, aveva l’impressione che il nome della destinazione di Dorian fosse registrato in fondo alla sua coscienza. Eppure, ogni volta che cercava di stanarlo dal nascondiglio, il nome le sfuggiva come un alito di vento. L’Anziano non aveva saputo dire granché al riguardo, e non sembrava tipo da mentire, malgrado fossero chiare le sue intenzioni di trattenerla nella capanna fino alla completa guarigione. Ma tanto aveva fatto e tanto aveva detto, da esperta scocciatrice qual era, che alla fine il guaritore non era stato soltanto felice di aprirle la porta e sbarazzarsi di lei, ma l’aveva pure affidata alle cure degli stessi Cacciatori che avevano scortato Dorian fuori da Draslund. Uno dei due le porse la mano per aiutarla a venir fuori dalla pozza fangosa dove aveva inavvertitamente messo i piedi - e non era certo la prima volta che accadeva, dall’inizio della loro convivenza forzata. Kyra rifiutò la gentilezza con un gesto nervoso, e si rimise in testa al gruppetto. Potevano anche darle dell’arrogante e della svitata, e scuotere la testa alle sue spalle, se volevano, ma non avrebbe concesso loro la soddisfazione di vederla rallentare il o. Non c’era tempo per gli eccessi di prudenza, anzi, dovevano aumentare il ritmo per recuperare il tempo perduto! L’andatura dei Cacciatori era così lenta e snervante che Kyra non sopportava più l’idea di accomodarsi a testa bassa in fondo alla fila. Era molto meglio correre qualche rischio in più e imporre il proprio ritmo in testa al gruppetto, anche a costo di umilianti cadute. Si aspettò che le suggerissero di andare con calma, come sempre facevano, ma nessuno dei due aprì bocca. Dovevano essersene fatti una ragione. In quella zona della palude non era così necessaria l’esperienza di una guida, lo sapevano anche

loro: la peculiare conformazione del terreno aveva creato una matassa di sentieri irregolari che correvano in bella vista tra l’erba alta, un reticolo di vene sterrate intagliato nel sottobosco di felci, aloe, e altre piante dalle grasse foglie lucide. Seguendo ora l’uno ora l’altro sentiero - con occhio sempre vigile alla presenza di serpi annidate nella massa verdeggiante - non correva il rischio di perdersi o di mettere un piede in fallo. Proseguirono in silenzio per un’altra mezza giornata, oppressi dalla cappa di afa soffocante e dai morsi degli insetti, finché uno dei Cacciatori parve avvertire qualcosa nell’aria: «Attenzione!» esclamò. «A che?» domandò Kyra, mentre scostava dal cammino un paio di foglie colossali, marcate da spesse venature. Le si aprì dinanzi una radura del diametro di venti i, punteggiata da ciuffi d’erba verde smeraldo. Al lato opposto della spianata, i colori delle squame efficacemente dissimulati sullo sfondo della selva, li attendeva un jakantor. Gli occhi giallognoli del rettile erano fissi su di lei, infusi dello sguardo alieno tipico di quella specie di predatori. Kyra si arrestò di botto, subito affiancata dai Cacciatori. Rimasero fermi dov’erano senza flettere un muscolo, i tre esseri umani da un lato e la bestia da quello opposto, finché quest’ultima spalancò le orribili fauci a fisarmonica in un ruggito gorgogliante. Avanzò con calma sulle zampe corte e spesse, agitando la coda squamosa: di certo le sue prede avevano già intuito la sorte che le attendeva, e pertanto non avrebbero cercato di difendersi. Era una legge naturale che toccava ogni essere vivente della palude - compresi gli uomini, di cui il jakantor era predatore incontrastato. Kyra, malgrado tutto, si riteneva un boccone indigesto. Notò che i Cacciatori mettevano mano ai coltelli. Uno dei due tremava visibilmente. Quella non era una creatura che potessero affrontare da soli senza l’appoggio della tribù: era troppo maestosa, un jakantor adulto nel pieno delle sue forze, avrebbe messo in difficoltà anche cinque o sei uomini armati di lance. Con un mostro del genere serviva l’artiglieria pesante. Sbarrò il o ai Cacciatori.

«Lasciatelo a me.» Senza dar loro il tempo di protestare, chiuse l’occhio destro e sciolse il bulbo artificiale dalla prigionia della benda. I variegati colori della selva si fo in un rosso uniforme, il jakantor in avvicinamento si tramutò in una macchia dai contorni blu ben definiti. Kyra alzò il pesante braccio meccanico e lo puntò sul bersaglio, mentre la vista potenziata dai manàlorin le rivelava dettagli del muso della creatura ingranditi una decina di volte. «Perfetto!» pensò, mirando agli occhi del mostro. Con una flessione del polso rilasciò un dardo dritto al globo oculare più esposto. La creatura si torse dal dolore, in un bailamme di versi che sembravano esprimere l’oltraggio di lesa maestà, oltre al tormento. Come a ribadire la propria sovranità sul territorio, si erse sulle zampe posteriori in tutta la sua lunghezza, le fauci spalancate verso il cielo come un orrendo imbuto coronato di zanne. Kyra non si fece impressionare da tanta ostentazione. Corse incontro al jakantor nell’istante in cui questo ricadeva pesantemente sulle quattro zampe, e gli infilò il pugno di metallo nell’enorme bocca dischiusa. Le lame gemelle scattarono dal braccio con un sibilo e attraversarono la testa della creatura fino a spuntarle dalla nuca. La guerriera si ritrasse, e con un o di lato schivò la mole del mostro che si schiantava a terra senza vita. Il tutto non era durato che pochi secondi. Kyra sventagliò l’arto per ripulirlo dal sangue, provocando una pioggerella rosso cremisi. I due Cacciatori la osservavano a bocca aperta, incapaci di muoversi. Nel tempo che era servito loro per impugnare le armi e recitare un paio di silenziose preghiere, la guerriera aveva già abbattuto con le sue sole forze la terrificante creatura. E adesso li fissava con quell’occhio maligno, fuoco pulsante cerchiato d’oro, e un’espressione tutt’altro che gioviale stampata sul volto. Si mise a correre verso di loro, con il braccio di metallo sollevato dinanzi a sé. Congelati dalla sorpresa, i due quasi non trovarono la prontezza di reagire quando lei urlò: «Giù!» Li scavalcò con un balzo mentre si appiattivano al suolo, consci solo in quel

momento dei due smisurati serpenti sbucati dalla vegetazione alle loro spalle. Il primo si fece avanti con uno scatto repentino del capo, e trovò sul proprio cammino il duro acciaio del braccio di Kyra, che gli sfondò il muso con uno scricchiolio d’ossa. Il secondo sguainò gli impressionanti canini grondanti veleno, per azzannarla al collo. Avvisata del pericolo dai segnali dell’occhio artificiale, la guerriera sfoderò lo scudo a ventaglio di metallo sottile ma resistentissimo, che le aveva già salvato la vita in diverse occasioni. Le zanne della serpe s’infransero innocue contro la barriera, mentre Kyra terminava l’opera con una vampata di fiamme che arrostì il rettile vivo. Tornò al centro della radura, scandagliando i dintorni con l’occhio: nessuna macchia blu in movimento - a parte le sagome dei due Cacciatori rannicchiati a terra, e quelle di infinite e minuscole forme di vita che popolavano la palude. Agitò il polso, e le lamine rientrarono nel corpo del braccio meccanico. Solo allora si rese conto di ansimare alla ricerca di ossigeno, malgrado la brevità dello scontro, e di avere le gambe malferme: la lunga febbre stava ancora esigendo il suo prezzo. «Qui abbiamo finito» disse, dissimulando il malessere «Non vedo altri pericoli.» I Cacciatori scattarono in piedi facendo gli scongiuri, e ripetendo a bassa voce una sequenza di parole aspre che avevano tutta l’aria di una litania di protezione dal male. «Beh, che vi succede? Andiamo, non perdiamo altro tempo!» I due la squadrarono con occhi atterriti, poi le mostrarono la schiena e se la diedero a gambe. Kyra, allibita, restò ferma a guardare le macchie blu che si allontanavano a sorprendente velocità, dileguandosi nel folto della selva. «Bel ringraziamento...» mormorò, amareggiata. Finiva sempre così, quando gli eventi la costringevano a mostrare al mondo i temibili artefatti innestati nel suo corpo dal Saggio Nestor. La reazione della gente era sempre la stessa: superstizione, paura, fuga. Anche quando le sue protesi tanto spaventose servivano a salvar loro la pellaccia, come in quell’occasione. Rifletté per un momento se fosse il caso di inseguirli e ricondurli alla ragione,

ma scoprì che la cosa non le interessava: i due erano una pessima compagnia e non sembravano sforzarsi più di tanto per condurla fuori da quella maledetta palude. Ci avrebbe messo meno tempo da sola, con l’aiuto dei manàlorin. Debolezza o meno, non c’era acquitrino o bestiaccia squamosa che potesse impedirle di correre dietro a suo padre! «Dov’eravamo?» pensò, cercando di raccapezzarsi sulla direzione da prendere. Proprio mentre muoveva il primo o, captò qualcosa con la coda dell’occhio, un momentaneo sfarfallio azzurrino sul fondale rosso uniforme. Non era certa di averlo visto, ma nel dubbio diede retta al suo istinto, e scaricò un paio di dardi in quella direzione. Ciò che accadde non aveva precedenti nella sua esperienza con l’occhio artificiale: vide una macchia blu alta e sottile materializzarsi dal nulla nella zona di impatto dei dardi, per poi scattare fuori dal suo campo visivo con una velocità impressionante. I proiettili si conficcarono nel tronco di un albero. Nel silenzio che seguì, Kyra pensò ad allucinazioni causate dai postumi della febbre. «Finalmente ci incontriamo, shhh, Kyra della Compagnia del Viandante...» sibilò una voce alle sue spalle. La guerriera si voltò di scatto, tranciando l’aria con un energico movimento del braccio meccanico. La presenza si sottrasse al colpo con un guizzo prodigioso, e riatterrò leggera dieci i più in là. Non appena aprì l’occhio destro su quella figura alta e dinoccolata dalla pelle olivastra, con le pupille da rettile, la bocca larga e sottile, e l’inquietante copricapo da giullare, Kyra intuì chi aveva di fronte. «Tu!» gridò, facendosi avanti. Nahash drizzò le lunghe braccia, le labbra violacee atteggiate in un turpe sorriso: «Calma, siamo qui per conversare, shhh!» Kyra non rallentò il o. «Conversare? Per questo hai mandato quelle bestiacce ripugnanti a darci il benvenuto?»

«Nient’altro che una piccola prova, shhh, per scoprire di che pasta sei fatta. Eravamo curiosi, sai?» Le lame di Kyra scattarono fuori dal loro alloggiamento. Ancora tre i e le avrebbe conficcate nel ventre di quel verme traditore. «Soddisfatto, almeno?» «Oltre ogni aspettativa, shhh!» rispose allegramente l’Addestratore di Serpenti, agitando il capo con un tintinnio di sonagli «Forse abbiamo scelto l’uomo sbagliato per prendersi cura delle nostre faccende...» Kyra sentì la furia gonfiarle dentro, al pensiero di quanto suo padre avesse sofferto - e ancora stesse soffrendo - a causa della gabbia di menzogne costruita intorno a lui da quell’essere. Gli aveva avvelenato la mente al punto di metterlo contro di lei, di convincerlo che non fosse più sua figlia, ma un semplice ostacolo sul suo cammino, una nemica da spazzare via senza pietà! Balzò avanti con un urlo, decisa a spiccare la testa dal corpo di Nahash. Il bersaglio blu sfarfallò e scomparve, e le lame non tagliarono che l’aria. «Quanta rabbia, shhh! Ci piace!» sibilò la voce, questa volta alla sua destra. Quando i loro sguardi si incrociarono, Kyra avvertì una sensazione sgradevole, simile a un capogiro, come unghie che le graffiavano il cervello. Il piano della realtà ondeggiò davanti a lei, cercando di tramutarsi in qualcosa di diverso - o almeno, quella fu l’unica spiegazione che riuscì a trovare. Chiuse l’occhio destro per istinto, affidandosi soltanto a quello artificiale, e il malessere svanì nel giro di istanti. Nahash chinò la testa di lato e strinse le labbra, perplesso. «Davvero dei gran bei giocattoli, i tuoi. Chi te li ha dati, shhh?» «Non sono affari tuoi, mostro! Affrontami una buona volta, o fatti da parte e sparisci: non ho tempo da perdere con te!» Tentò un altro affondo, ma di nuovo l’avversario svanì dinanzi a lei come un fantasma. Girò la testa di scatto, e lo vide in cima a un masso. Stava in equilibrio su una gamba sola, le gengive in mostra nella bocca sdentata. Kyra si morse un

labbro e resistette all’impulso di sprecare altri dardi: il maledetto li avrebbe schivati con la stessa facilità con cui aveva eluso gli altri colpi. «Dorian mi ha quasi ucciso, per colpa tua!» urlò, dando sfogo all’ira «Mio padre! Cosa gli hai fatto, dannato mostro?» «Noi?» si schermì lui «Noi non abbiamo fatto niente, shhh, a parte indicargli un cammino intravisto tra le nebbie del futuro.» «Non venirmi a dire che non ne sapevi nulla!» Una luce di divertimento sfavillò nei suoi occhi a fessura. «Forse qualcosa sapevamo, shhh... Ma abbiamo commesso diversi errori. Non abbiamo compreso la tua forza, per cominciare. E abbiamo creduto che il legame tra voi fosse più debole, shhh, che spezzarlo non si rivelasse tanto traumatico per il nostro campione.» Kyra era sbigottita. «Pensavi che Dorian mi avrebbe estirpato dalla sua vita come un dente cariato, è così? E poi?» «Poi avrebbe compreso che non eri importante per lui, shhh, che nessuno lo era, che poteva dedicarsi anima e corpo alla vendetta nel nostro nome, senza insulsi legami a frenare la sua collera!» La guerriera aggrottò la fronte, mentre il suo pensiero coglieva il parallelo con gli Automi di Caleb. Era proprio quello che Nahash voleva, a modo suo: un soldato senz’anima da asservire ai propri scopi, un burattino pronto a eseguire ogni capriccio del suo folle padrone… «Perché?» domandò, con voce rabbiosa. «Perché abbiamo nemici poderosi, shhh!» affermò l’Addestratore, accovacciandosi sulle lunghe gambe da insetto «Nemici che odiamo e che vorremmo vedere morti, ma che non possiamo combattere da soli!» «E questo cos’ha a che vedere con mio padre?»

«Più di quanto immagini, bambina. I nostri nemici sono i suoi nemici, i tuoi nemici, shhh!» Kyra sfogò la sua incomprensione sull’albero più vicino, sfracellandone il tronco con un violento manrovescio. Le schegge volarono in ogni direzione. «Stai mentendo!» Nahash saltò giù dal masso con la leggerezza di una libellula, senza neanche infangarsi i piedi. «Mentire? Noi?» rise «Come puoi pensare una cosa del genere, shhh?» Ghermì un grosso insetto alato con un gesto fulmineo della mano, e se lo cacciò in bocca. Kyra avvertì lo scrocchio del corpo che si frantumava tra le gengive dell’Addestratore di Serpenti, e non poté sottrarsi al pensiero del sapore della poltiglia che gli scivolava giù per la gola. «Lo sai cos’è successo alla sventurata Compagnia del Viandante, shhh?» «Lo so, e faresti bene a scegliere con cura le tue prossime parole, verme schifoso.» La risata seccò sulle labbra di Nahash. «Se le tue armi sono affilate come la tua lingua, potrai davvero esserci utile, shhh! Sono stati proprio i nostri nemici a massacrare la Compagnia, gli stessi a cui Dorian sta dando la caccia. Sa chi sono, shhh, e sa dove trovarli, grazie a noi.» «Sarebbe a dire?» «Taci e ascolta, bambina. È tempo che anche tu sappia, shhh, se davvero vuoi aiutare tuo padre.» Kyra trovò in qualche modo la calma necessaria per restarsene ferma ad ascoltare la voce da serpe dell’Addestratore, che le narrava dei Quattro demoni nell’ombra e del pericolo che essi rappresentavano per l’intero genere umano. Nella sua mente si formarono una dopo l’altra le odiose immagini del gobbo Shem, boia della Compagnia, di Tevani, mortale illusionista, e dell’Oscuro che li

comandava. Nahash lasciò per ultimo il nome di Caleb, per godersi l’espressione di puro odio che le contorse il viso. «Supponiamo che ti creda» disse Kyra, quando il racconto ebbe fine «Quei mostri sono tuoi fratelli, e tu non sei meglio di loro. Cosa mi impedisce di far fuori te per primo, seduta stante? Dobbiamo pur cominciare da qualche parte, per ripulire il Regno dalla vostra feccia!» Le pupille da rettile di Nahash si strinsero sino a diventare due impercettibili fessure, e Kyra avvertì una pesante minaccia nell’aria, come se mille occhi crudeli la stessero osservando, e mille orrende creature fossero sul punto di balzarle addosso dalla selva chiusa intorno a lei. Malgrado tutto Nahash riuscì a dominarsi, e i suoi lineamenti alieni si distesero nella parvenza di un sorriso. «Metti a dura prova la nostra pazienza, shhh! Tale padre, tale figlia... Non capisci che il nostro obiettivo è lo stesso? Raggiungere Dorian, aiutarlo a eliminare i Quattro, prima che siano loro a scovarlo e a farlo fuori?» «Ne parli come se le tue intenzioni fossero diverse dalle loro» sbottò Kyra «ma non credere di potermi ingannare come hai fatto con lui. Io non mi faccio manovrare da nessuno, tantomeno dalla tua lingua biforcuta. Per cui te lo ripeto: se non sei qui per combattere, levati di torno, e lasciami fare quel che devo.» Nahash assaggiò l’aria con la lingua viperina. «Un giorno, forse, combatteremo. Augurati che non giunga troppo presto, shhh! Per ora ti lasceremo andare, come desideri. Ma prima...» con un movimento repentino, tanto veloce che nemmeno la vista potenziata di Kyra poté accompagnarlo, l’Addestratore di Serpenti le si fiondò accanto e le sistemò un braccio intorno al collo. La guerriera congelò sul posto, atterrita dalla terrificante prossimità di quella creatura infernale. «Così veloce!» fu l’unica cosa che riuscì a pensare. «...facci almeno la cortesia di accettare questo umile dono, shhh! Ti aiuterà nella ricerca.» Sempre tenendola stretta in quell’inquietante abbraccio, Nahash le piazzò davanti agli occhi un oggettino tondo, non più grande del palmo di una mano.

«Tanta scena soltanto per darmi una bussola?» osservò Kyra, sprezzante, simulando una freddezza che non possedeva «Potevo procurarmene una nella prima città.» «Questa non è una comune bussola, shhh! Qualcosa del genere, sì, ma fatta apposta per le tue necessità. Vedi dove punta l’ago?» Kyra annuì. «Vuol dire che Dorian si trova da qualche parte in quella direzione, shhh. E quanto più ti approssimerai, tanto più il colore dell’ago si avvicinerà al rosso.» «Mi prendi in giro?» Nahash aumentò lievemente la pressione sul suo collo, un gesto che solo uno sciocco avrebbe scambiato per affetto. «Per nulla, shhh! È frutto di una semplice precauzione, pensata nell’eventualità di una situazione come questa.» Kyra mise in moto la materia grigia, e trovò in fretta la risposta che cercava. «Il guanto... Gli hai messo qualcosa nel guanto, vero?» La lingua biforcuta dell’Addestratore saggiò l’aria nel suo fulmineo andirivieni. «Molto perspicace, shhh! Non tutti i manàlorin hanno lo stesso scopo...» «E lui lo sa?» «Risponditi da sola.» Per un attimo Kyra si chiese se Nestor non le avesse fatto lo stesso scherzo, se in quel momento, a Dekka, qualcuno non stesse appurando i suoi i a sua insaputa. Scacciò il pensiero come una mosca fastidiosa: erano amici fidati, il vecchio Saggio e Leon, era assurdo compararli con quella creatura maligna. «Quindi dovrei soltanto seguire l’ago, e troverò mio padre?» «Proprio così. Adesso il suo colore è nero, shhh, perché la distanza che vi separa è grande. Quando diverrà rosso, sarete molto vicini.»

Kyra aveva i suoi dubbi, ma non si trovava nella miglior posizione per discutere. Strappò la bussola dalle dita di Nahash e la intascò senza tanti complimenti. «Meglio se la tengo io» disse. Finalmente Nahash si ritrasse da lei, lento e sinuoso come un serpente, lasciandole addosso una sensazione di freddo viscido. «Buona fortuna, allora, Kyra della Compagnia del Viandante. Siamo compiaciuti di aver raggiunto un accordo, shhh! Sei libera di andare.» «Alla buon ora» rispose lei. Chinò lo sguardo sulla bussola, e notò che l’ago continuava a puntare nella stessa direzione, pressappoco dove il quadrante marcava l’Ovest. Non poté negare un certo apprezzamento per quell’aiuto inatteso, eppure non riusciva a fidarsi, vista la fonte. E se fosse stata un’altra delle sue trappole? Se la bussola l’avesse condotta in pasto ai lupi, invece che sulle tracce di suo padre, come promesso? Le serviva qualche garanzia in più. «Dimmi una cosa» domandò, alzando il capo, ma si accorse che stava parlando da sola: di Nahash non c’era più l’ombra. All’erta, scandagliò il circondario con la vista artificiale: le molteplici macchie blu pulsanti di vita non erano più grandi di un topo o di una lucertola. L’Addestratore di Serpenti si era dileguato nel suo elemento senza lasciar segno del suo aggio. Kyra si rilassò, come non riusciva a fare da giorni. Era sola, finalmente, sola con i propri dubbi e le proprie angustie, ma libera dall’assidua esigenza di conservare le apparenze. Celò l’occhio artificiale sotto la benda e si appoggiò a un tronco, grata alla pianta per la forza che le imprestava. Era stravolta, a dir poco. Ancora qualche minuto e non sarebbe più riuscita a tenere in piedi quella sceneggiata: Kyra la grande guerriera, l’invincibile eroina che ha tutto sotto controllo e dispone di infinite scorte di energia... La realtà era ben diversa. Per poco non era franata boccheggiante ai piedi di Nahash, dopo averlo ripetutamente sfidato con la sola ottusità del suo orgoglio! Aveva il fiato corto, le gambe tremanti, la testa confusa. Si ò il dorso di una mano sulla fronte: era rovente.

«È il caldo di questo inferno» si disse «e la tensione. Presto uscirai di qui, e starai meglio.» Di due cose aveva la certezza. La prima: non sapeva dove fosse Dorian, né sapeva se la bussola di Nahash l’avrebbe in qualche modo aiutata. Ma sapeva che i Quattro esistevano davvero almeno uno di loro, che purtroppo conosceva bene. Accarezzò con le dita la cicatrice che le ancorava il braccio meccanico al gomito, nel punto dove il mostruoso Caleb le aveva strappato via metà dell’arto. A volte doleva ancora, ma non era nulla rispetto al dolore che si portava dentro per esserselo lasciato sfuggire, quando aveva l’opportunità di cancellarlo dalla faccia della terra. Sapeva anche che doveva andarsene al più presto da quella palude, o le forze l’avrebbero abbandonata una volta per tutte. Negli spazi aperti dei campi la natura le avrebbe concesso la possibilità di sopravvivere, di cacciare qualche bestiola, procacciarsi della frutta, o come minimo incrociare il cammino di altri esseri umani. Nella bolgia fangosa di Draslund, invece, sarebbe diventata cibo per insetti nel giro di una notte. Quando sentì di potercela fare, raccolse le forze e scollò la schiena sudata dal tronco. Ebbe subito un capogiro, che controllò a malapena. «Puoi farcela, Kyra! Forza!» Strinse i denti e si infilò nella selva a i incerti, la bussola di Nahash stretta tra la dita a indicarle il cammino. -----Quando scorse lo squarcio di luce dorata che lacerava il tessuto uniforme della selva, Kyra ringraziò gli Dei per la prima volta da tempo immemore. Era la luce del sole al tramonto, non c’erano dubbi! Avrebbe voluto saltellare fin là come una bambina, ma sapeva di dover conservare le forze. Si terse il sudore dalla fronte rovente: per quanto continuasse a ripeterselo, non riusciva più a convincersi che fosse soltanto il calore della palude, o la fatica del continuo movimento. La febbre era tornata a tormentarla, inutile nascondersi davanti alla realtà.

o dopo o, fermandosi a respirare quando necessario, raggiunse la breccia che segnava i confini della feroce massa di vegetazione. Le vennero le lacrime agli occhi quando vide i campi aperti, spiegati fino all’orizzonte nella luce calda del tramonto. Inspirò a fondo l’odore dell’erba e della terra, si beò alla danza degli steli ondeggianti sotto la spinta della brezza vespertina. «Ce l’ho fatta!» Dieci i dopo, si voltò a guardare Draslund un’ultima volta: il blocco verdastro si protendeva verso di lei come un’enorme lumaca velenosa, pronta a ghermirla con le sue protesi di fango vischioso. Arretrò, come se la minaccia fosse reale - e per una parte della sua mente, offuscata dai principi del delirio, lo era. Continuò a camminare a marcia indietro finché fu certa di trovarsi a distanza di sicurezza, quando sentì che la palude rinunciava a riacciuffarla con i tentacoli putridi, per trascinarla indietro nel suo cuore corrotto dalla maledizione della Città Morta... Si rivolse al futuro, verso Dorian e le pianure senza fine. Procedette a i incerti, usando un bastone come appoggio quando le mancavano le forze. Ebbe l’accortezza di sbrogliare la manica destra della camicia, arrotolata sopra al braccio artificiale, e stenderla a coprire la protesi meccanica. Se dentro la palude era bene tenere l’arma pronta per ogni evenienza, non altrettanto si poteva dire della campagna. Desiderava soltanto trovare una fattoria o un villaggio dove poter riprendere le forze in sicurezza: se qualcuno avesse scorto il braccio, o l’occhio, poteva scordarselo fin da subito. Rischiava persino di trovarseli addosso con le torce e con i forconi! Percorse meno strada di quanto avrebbe voluto, prima che il buio calasse sulla terra e le foderasse la pelle come una membrana gelida. Cominciarono a tremarle braccia e gambe, al punto che non fu più in grado di coordinare i movimenti. Allarmata dai segnali del proprio corpo, sondò i dintorni alla ricerca di un luogo adatto a pernottare. Per quanto la piatta distesa dei campi offrisse poco o nulla in termini di riparo, notò una minuscola conca ai piedi di una collinetta che poteva fare al caso suo. Zoppicò fin là con lenta caparbietà, e i suoi sforzi vennero premiati da un pizzico di fortuna: qualcuno aveva già sfruttato il luogo come campo base, abbandonandovi lo scheletro incenerito di un falò e una piccola catasta di rami e

rametti ancora inutilizzati. «Che gli Dei ti benedicano!» esultò Kyra, augurando ogni bene allo sprovveduto che aveva raccolto tanta più legna del necessario. Si sedette con la schiena addossata al fianco della collinetta, grata alla massa di terra e roccia che la riparava dai morsi del vento. Se fosse stata in salute, avrebbe persino gradito quella rinfrescante brezza serale: nelle sue attuali condizioni, invece, si sentiva quasi aggredita dal soffio gelido dell’inverno. Sciolse i lacci della sacca, prelevò dall’interno quel poco che era avanzato delle provviste donatele dai Cacciatori, e si sforzò di ingoiare tutto quanto, benché l’attività le desse la nausea. Terminato il magro pasto, si affrettò a disporre la legna all’interno del cerchio di pietre, per attizzare un fuoco. Preferiva di gran lunga la luce calda e dorata delle fiamme a quella aliena della Luna di Sangue, comparsa sopra la sua testa con il calare delle tenebre. Erano sette anni che non la vedeva, ma non ne sentiva affatto la mancanza. Quando le fiammelle cominciarono a dar vita a una timida danza, tornò a sedersi con le ginocchia al petto, dondolando su e giù nell’attesa che una traccia di calore venisse a percorrerle le membra. Cavò di tasca la bussola di Nahash, la studiò per la centesima volta da quando l’aveva ricevuta. L’ago puntava sempre ad Ovest, ed era sempre tinto di nero. Sarebbe stata troppa grazia divina, scoprire che Dorian si era fermato appena fuori dalla palude. Questa volta sarebbe andata meglio, quando si fossero riuniti. Nessuna lotta, nessuna incomprensione. Avrebbero conversato da padre a figlia, come ai vecchi tempi, si sarebbero capiti e perdonati a vicenda. Poi, venisse pure quel che doveva succedere. Non le importava, purché lo affrontassero insieme. Rimase a studiare inebetita il quadrante della bussola, proiettandovi i suoi sogni e i suoi desideri, finché la testa cominciò a ciondolarle sul petto. Le avanzò appena il tempo di ritirare il prezioso oggetto, che il sonno ebbe la meglio su di lei. -----«i» fu il primo pensiero confuso dal sonno, quando le sue orecchie

captarono il suono ovattato di suole strascicate sull’erba. E poi venne l’odore, il puzzo acre di corpi sudati. Aprì gli occhi, ma fu lenta, troppo lenta. Nell’atto di sguainare uno dei pugnali gemelli, una violenta botta su una spalla un calcio, forse - la sbatté a terra. Qualcuno la prese per i capelli e la sollevò di peso, strappandole un grido di dolore. Un braccio peloso spesso come un tronco le si strinse attorno alla gola, avvertì la pressione di un volto barbuto contro il suo. L’uomo mugolò qualcosa di indecifrabile, a cui risposero dal buio aspre risate e commenti in una lingua gutturale che Kyra non era in grado di comprendere. Tre uomini, oltre a quello che la teneva immobile, apparvero nel cerchio di luce del falò. Erano simili tra loro come gocce d’acqua: bassi, tarchiati e muscolosi, gli occhi vagamente a mandorla, i volti spigolosi ricoperti da uno strato di barba irsuta. Ogni capo di vestiario che indossavano era confezionato con pelli di animali, dai morbidi stivali fino ai copricapi puntuti. Portavano al collo e ai polsi monili ciondolanti fatti di ossicini e zanne di bestie feroci. I loro occhi luccicavano come quelli di lupi in caccia, e Kyra si sentì perduta: erano barbari, selvaggi delle tribù del Nord, nativi delle steppe gelate al di là della Catena di Hamlet! Che cosa ci facevano tanto a Sud, in pieno territorio del Regno? Si agitò nella presa d’acciaio del suo aguzzino, inutilmente: era debole come una formica, non si sarebbe neppure retta sulle gambe se l’uomo l’avesse mollata all’improvviso. Sentì il suo muso immondo che l’annusava, le labbra ruvide che le premevano contro la pelle di una guancia, poi la voce roca che le mormorava in un orecchio parole rozze, ma tristemente comprensibili: «Tu molto bella... Tu venire con me, diventare mia schiava...» Davanti a loro, i tre selvaggi sollevarono il capo all’unisono e ulularono con gioia animalesca ai loro Dei oscuri, nascosti nelle profondità del cielo notturno.

VII - Tulga

Kyra si sentì svenire nella stretta del barbaro: la febbre l’aveva debilitata a tal punto che non provò nemmeno ad abbozzare una reazione. Non era la vera lei, in quel momento, o il maledetto avrebbe pagato quell’affronto con la vita! Lui e quegli altri, che ululavano nella notte come bestie senz’anima... Un’altra figura fece la sua comparsa nell’alone luminoso proiettato dal falò: era uno di loro, ma in qualche modo diverso. Decisamente più minuto, per cominciare, portava un paio di baffi lunghi e sottili che gli scendevano fin sotto al mento. Indossava un bizzarro copricapo cornuto più alto della propria testa: Kyra si sorprese a chiedersi se non fosse destinato a conferirgli una maggiore statura agli occhi dei nemici, per compensare la tragica svista di madre natura. Quando l’uomo posò gli occhi su di lei, le sue pupille si dilatarono come quelle di un gatto: era sorpresa, paura, ammirazione? I compagni accolsero il nuovo arrivato con totale indifferenza. L’energumeno che la teneva stretta gli rivolse una serie di epiteti dall’aria poco amichevole, forse rimproverandolo di essere rimasto indietro. Il mingherlino non ribatté: era troppo occupato a fissarla con occhi sgranati. Fu l’ultima cosa che Kyra notò prima che il suo mondo si capovolgesse, catapultandola contro una schiena larga e sudata. Quel dannato se l’era caricata in spalla come un fagotto! Cominciò a scalciare e ad urlare la propria indignazione, senza ottenere altro risultato che un rimbombante scapaccione sulle natiche e un coro di rauche risate. L’uomo gracchiò un ordine nella sua strana lingua, e si incamminarono nel buio. Pochi i furono sufficienti perché Kyra si sentisse stordita e nauseata, con il sangue alla testa e le narici piene del puzzo animalesco del suo aguzzino. Le due o tre volte che riuscì a inarcare il collo per guardarsi attorno, vide gli altri quattro selvaggi camminare a o svelto alle loro costole, il piccoletto davanti a tutti. Continuava a fissarla in quel modo inquietante. «Cos’hai da guardare, nano?» sbraitò, con la gola secca. Una rivincita piccola e

inutile, che non la fece sentir meglio e non persuase l’uomo a desistere. Il nauseante dondolio la fece sprofondare in uno stato ancor più pietoso di prima. A tratti la febbre aveva il sopravvento: sveniva, si ridestava, sveniva di nuovo. Il tempo e la realtà acquisivano significato soltanto a sprazzi, un torturante collage di scene slegate tra loro, in cui si risvegliava immancabilmente a testa in giù nella stessa, insopportabile posizione. All’inizio il cielo era nero come il carbone, poi venne schiarito dai caldi raggi del sole, ma continuava a danzarle attorno senza punti fissi. L’ultima volta che riprese i sensi, con gli occhi ancora chiusi, avvertì qualcosa di strano. Ci mise un po’ a capirlo: il mondo aveva smesso di muoversi! Quando la sua mente ebbe dipanato la confusa matassa degli eventi della notte precedente, si sentì pronta a dare un’occhiata ai dintorni. Sollevò appena le palpebre, per non dare a vedere che si era ripresa. Il sole era già alto, doveva essere mattina inoltrata. Era sdraiata su un manto d’erba, sul bordo di un laghetto dalle acque limpide che riflettevano il cielo azzurro punteggiato di nuvole. Quattro uomini sguazzavano nell’acqua alta fino in vita, spruzzandosi e duellando tra loro come fanciulli: fanciulli muscolosi, dai corpi striati di cicatrici, che l’avevano rapita e trascinata fin lì senza traccia di rimorso. Il capo - perché tale doveva essere l’uomo che se l’era issata in spalla come un fuscello - si divertiva come un ragazzino. Mosse appena la testa, e ciò che vide le riempì il cuore di una feroce speranza. Armi e vestiti dei selvaggi erano stati abbandonati sul ciglio del lago a un o da lei. Ammonticchiate lì accanto, c’erano le sue cose: la sacca, la fiaschetta dell’acqua, la bussola di Nahash, e persino i pugnali gemelli, buttati lì come gingilli inoffensivi. Kyra valutò le proprie forze. La risposta non le piacque, ma un’occasione del genere non si sarebbe ripresentata: doveva tentare. Spostò il braccio in maniera impercettibile, un millimetro alla volta, lo sguardo sempre fisso sui barbari. Le sue dita si approssimarono di una spanna ai tanto agognati pugnali. «Ancora un po’...» Quando finalmente riuscì a sfiorare un’impugnatura con la punta delle dita, una mano apparsa da chissà dove le serrò il polso: voltò la testa di scatto e si trovò faccia a faccia col barbaro piccoletto. Seduto sui talloni, l’uomo scosse la testa in

un gesto di silenziosa ammonizione, poi le indicò con un cenno i quattro bruti dentro al laghetto e si ò un dito sulla gola. L’avviso era chiaro. Una volta certo che avesse recepito il messaggio, il piccoletto le mollò il polso. Kyra ritrasse il braccio e restarono a guardarsi in silenzio. Lui mormorò qualcosa nella sua strana lingua e andò a prendere un otre. Glielo porse. La guerriera bevve avidamente l’acqua fresca, rendendosi conto solo allora di quanta sete avesse. Ne vuotò almeno un terzo, prima di asciugarsi la bocca con il dorso della mano. Ringraziò l’ometto con un cenno. Quel breve scambio di civili cortesie venne bruscamente interrotto da uno strillo: il capo e gli altri tre si erano accorti del suo risveglio. Le vennero incontro quasi di corsa, nudi e gocciolanti, i visi contorti in espressioni di turpe aspettativa. Il capo si piazzò a gambe larghe davanti a lei e al piccoletto, svettando su di loro come una montagna. Urlò in faccia all’ometto, gli rifilò uno spintone che lo mandò gambe all’aria. Gli altri tre completarono l’opera scacciandolo a pedate. Kyra, circondata, li affrontò a testa alta. Il capo non sembrava animato da cattive intenzioni - non ancora, almeno: «Fare bagno con noi!» la esortò, accennando al lago. L’invito le fece venire la pelle d’oca. L’idea era esclusa a priori: sguazzare nell’acqua con quei quattro, senza vestiti addosso, avrebbe di certo condotto a conseguenze molto spiacevoli. Uno dei selvaggi scalciò il pelo dell’acqua, spruzzandola da capo a piedi. Era gelata! Un motivo in più per rafforzare la sua decisione. Il capo fece per accarezzarle i capelli, ma lei lo respinse senza mezzi termini. Il volto di lui si incupì di botto. Kyra non fece in tempo a ripensare il proprio atteggiamento, che ricevette un ceffone in piena guancia. Il colosso la sollevò di peso, le afferrò la camicia per il bavero e la strappò nel mezzo, prima di spingerla di nuovo a terra. Umiliata, Kyra si coprì alla meno peggio con le braccia, le uniche parti ancora protette dal tessuto stracciato. Tremava di rabbia impotente, mentre le risate dei quattro la ferivano come altrettante pugnalate. Se solo quella febbre sciagurata non le avesse risucchiato ogni briciolo di energia! Inaspettatamente, una parte delle risa si tramutò in grida di dolore, quando un sasso colpì uno degli aggressori in piena fronte. Un altro si accasciò a terra

l’istante successivo, la faccia ammaccata da un secondo proiettile di pietra. Un terzo sasso sfrecciò verso il capo, ma sfiorò appena il bersaglio. Tanto Kyra come l’aguzzino si voltarono a cercare con lo sguardo il responsabile: altri non era che il piccoletto, furente, una pietra stretta in una mano e un pugnale nell’altra. Il capo sgranò gli occhi, poi presero a scambiarsi una serie di frasi rabbiose. Ogni tre parole uno dei due indicava Kyra, sempre più inquieta. L’ultimo barbaro rimasto in piedi a fianco del capo raccolse un’accetta e si diresse verso l’ometto, deciso a fargli pagare l’insubordinazione col sangue. Kyra cercò di approfittare del momento per dileguarsi, ma il capo la frenò nell’atto e la scosse come un sacco di patate, prima di rifilarle un tremendo manrovescio. Di nuovo a terra, Kyra assaporò il gusto del sangue e della propria collera. I piedi nudi del capo erano proprio accanto al suo naso: alzò la testa e lo vide gravare sopra di sé con i pugni chiusi, pronto ad affibbiarle un’altra dose di botte. Il sorriso arrogante che gli vide stampato in faccia fu la goccia che fece traboccare il vaso. Rastrellò ogni singola fibra di energia che le restava, le bruciò al fuoco della sua furia - alimentato dal suo istinto di sopravvivenza - e si erse a fronteggiare il nemico da pari a pari. Con una movenza fluida si strappò di dosso quel poco che le restava della camicia, e tirò via la benda dall’occhio artificiale. Quando si trovò dinanzi la guerriera seminuda con quell’assurdo braccio di metallo infisso nel gomito, e l’occhio rosso pulsante puntato su di lui, il capo arretrò tra imprecazioni soffocate. Kyra diede sfogo a tutta la sua rabbia in un urlo liberatorio. Con uno scatto secco del polso estrasse le lame gemelle e tagliò l’aria due, tre volte, prima di sventagliare una sfilza di dardi alla cieca. Per pochi istanti tornò a sentirsi una guerriera onnipotente, padrona del campo di battaglia e del proprio destino. Per pochi istanti appena, e venne meno. Cadde sulle ginocchia, interamente svuotata. Si aggrappò all’ultimo briciolo di coscienza, decisa a guardare in faccia il triste fato che l’attendeva, e pregando che fosse una morte onorevole.

Con sorpresa, vide il terrore negli occhi del suo avversario, lo vide voltarle la schiena e darsela a gambe, seguito a ruota da due scagnozzi. Malgrado tutto, la sua reazione era stata abbastanza vigorosa da spaventare quei selvaggi! «Fuggite, vigliacchi!» pensò, mentre una confusa sensazione di trionfo le scaldava il corpo. Sentì un urlo agghiacciante dietro di sé, dove il piccoletto e quell’altro se la stavano vedendo con le armi in pugno. Si augurò che l’urlo appartenesse al secondo, e svenne a faccia in giù nell’erba. -----Riprese conoscenza con una piacevole sensazione di calore sulla pelle, fasciata da un manto morbido. Aprì l’occhio e scoprì che era di nuovo notte. O forse no: stava fissando la volta rocciosa di una grotta, irradiata dal riverbero delle fiamme di un falò. Si alzò sui gomiti, provando un leggero giramento di capo. Era sdraiata tra due strati di pelliccia, e qualcuno l’aveva vestita con una casacca di pelle più grande del dovuto. Avvertì la familiare benda sull’occhio sinistro ancor prima di palparla con le dita: il suo benefattore si era preoccupato anche di quello. Si girò. La bussola, i pugnali e gli altri suoi effetti personali erano disposti in fila accanto a lei. Sulle prime non notò il piccoletto accovacciato al lato opposto del falò, impegnato ad attizzare le fiamme con un rametto. Gli occhi dell’uomo erano puntati su di lei, come sempre. Kyra si guardò attorno intimorita, cercando i suoi compari, ma non avvistò nessuna presenza ostile tra le ombre. L’ometto si raddrizzò e le venne incontro. Le tastò la fronte con un gesto lento e delicato, per evitare di allarmarla. «Febbre diminuita» sillabò, con grande sorpresa di Kyra. «Tu parli la mia lingua!» «Parlare poco» annuì lui. «Perché non l’hai fatto prima?» «Capo non piacere questo. Lui volere essere solo a parlare lingua dei Sottomessi.

Se anche io parlare, lui molto arrabbiato!» Kyra storse il naso: non immaginava che persino tra i popoli barbari esistessero meschinità del genere. Guai se un sottoposto dimostrasse di saperne tanto quanto chi era al comando! «E chi sarebbero i Sottomessi?» domandò. L’ometto le rivolse un sorriso divertito. «Voi essere.» «Perché mai?» «Voi non piacere libertà, voi sempre vivere sotto re, principi, nobili, governatori... Tenere testa sempre bassa, come schiavi.» Un’analisi fin troppo spietata della società del Regno, a giudizio di Kyra. «Che mi dici allora del tuo capo? Tu e quegli altri gli scodinzolavate dietro come cagnolini!» Un’ombra ò sul volto di lui, ma fu questione di attimi prima che tornasse a sorridere. «Meno male che tu ucciso lui. Io, Tulga, libero, grazie a te!» «Ucciso?» pensò lei. La notizia non trovava riscontro nei suoi ultimi ricordi. Un altro scherzo della febbre? «Senza mia ribellione, però, tu morta, o peggio.» «Non hai tutti i torti, Tulga. A proposito, mi chiamo Kyra. Grazie per ciò che hai fatto per me.» Si grattò la testa. «A proposito, vorresti spiegarmi come sono finita qua dentro?» «Tu svenuta» spiegò Tulga «Io caricato te fino a grotta. Vestito te con giubba di compagno morto, coperta con pelli. Tu tremare molto.» «E che ne hai fatto degli altri?»

«Tu dire a me. Io ricevuto colpo forte in testa, svenuto. Quando risvegliato, mio avversario già morto: mio pugnale dentro sua pancia. Capo Bleda scomparso, altri due anche. Tracce di sangue.» «Li ho feriti con i dardi...» immaginò Kyra. Tulga disegnò due cerchietti concentrici nella polvere, quindi alzò la punta del rametto verso la sua benda. «Tu avere occhio di lava, braccio di acciaio. Tu sconfiggere tre figli di tribù Pietre Nere senza fatica...» Si morse le labbra, timoroso di continuare. «Quindi?» lo invitò Kyra. Lo sguardo di Tulga si riempì di reverenza, e chinò leggermente il capo prima di continuare. «Tu Malakai, vero? Incarnazione di Spirito della Battaglia?» Kyra scoppiò a ridere, facendolo sobbalzare. «Certo che no, sciocco! Sono una semplice donna! Una guerriera, sì, soltanto che il mio arsenale è un po’ più ricco del comune.» La sbirciata che lui le rivolse di sottecchi lasciò trasparire una notevole dose di incredulità. «Semplice donna?» «Sì, Tulga, semplice donna. E la febbre mi avrebbe fatto fuori, se tu non mi avessi soccorso. Per cui, grazie di nuovo.» Gli sorrise con sincerità. «Perché l’hai fatto?» Lui diede un’alzata di spalle. «All’inizio pensato che tu molto bella. Voler fare te mia schiava al posto di Bleda.» «Cosa?!?» sbottò Kyra, sbalordita da tanta faccia tosta.

Tulga mise subito le mani avanti e cercò di rimediare alle sue goffe parole. «Non schiava picchiata, come Bleda! Concubina, ricca, ben trattata...» La spiegazione non servì a raddolcire il cipiglio della guerriera. «Poi io riconoscere tua forza, Malakai, io riconoscere te!» «Te l’ho già detto, non so chi sia questo Malakai! Smettila di chiamarmi così!» «S-sì!» Il barbaro si piegò a terra con tanta foga che lei si pentì di aver alzato la voce. «Su, rialzati, non sono arrabbiata» gli disse, con voce zuccherina. Tulga sollevò lo sguardo, felice di non essere uscito dalle sue grazie. «Adesso io tuo servo! Tu salvato mia vita con tuoi poteri. Io obbedire te fino a giorno che ripagare debito.» «Direi che è vero il contrario» ribatté lei, senza capire «Sei tu che mi hai salvato, ricordi?» Lui si lisciò i lunghi baffi e sorrise. « Comunque dover stare vicini. Uno aiutare altro, uno proteggere altro.» Kyra cominciò a dubitare di tutto quel discorso sull’incarnazione dello Spirito della Battaglia e l’obbligo di ripagarle un debito di vita. Era molto più credibile che l’uomo si fosse invaghito della sua persona, e stesse accampando scuse per non doversi separare da lei. Tulga parve ricordarsi di qualcosa. Andò a prendere un recipiente di metallo incassato tra le braci ardenti, da cui emanava un odore intenso e sgradevole. «Tu bere questo.» Lei si ritrasse arricciando il naso. «Cos’è?»

«Ricetta di sciamano, lui insegnato me. Buona per febbre.» Kyra mandò giù tutto in tre sorsi, pur di non sentirne l’odore, ma il saporaccio le appestò la bocca. «Ingredienti buoni» disse Tulga «Ridotto un poco quantità di escrementi di vacca, per sapore migliore.» Quando vide l’espressione sul volto di lei, scoppiò a ridere. «No, non vomitare! Scherzo, soltanto scherzo!» «Bel senso dell’umorismo avete voi del Nord!» tossì Kyra «A proposito, toglimi una curiosità: cosa ci facevate tanto a Sud, tu e quel gruppo di balordi?» «Bleda figlio del capo villaggio» rispose lui «Testa calda, fin da piccolo. Lui udire di nuova guerra contro Sottomessi e decidere cercare onore, ricchezze. Creare nome famoso tra Cento Tribù e Figli della Notte. Così trascinare amici quaggiù. E me.» «Perché tu?» «Io pessimo giocatore di dadi. Dovere a lui una fortuna. Così obbligato a seguirlo.» Kyra aprì un mezzo sorriso, lanciando occhiate a destra e sinistra nella grotta. «Beh, dov’è finito il bottino? O avete pensato soltanto alla gloria?» Tulga sputò per terra. «Bah! Bleda coraggioso solo a parole, o con donne indifese! Capi tribù capire subito, e mandare noi fare lavoretti senza importanza, badare animali, portare cose, pulire...» «Non proprio le basi di fama e successo.» «Io approfittare bene viaggio, vedere cose nuove, imparare nuova lingua. Molto meglio che villaggio tribù, pieno di neve e capre! Invece orgoglio di Bleda ferito, amici stanchi, loro decidere tornare a casa.»

«Dei disertori, dunque.» «È parola giusta, sì?» «È stato quando mi avete trovata? Marciavate col favore delle tenebre?» «Sì. Se Figli della Notte scoprire noi fuori da accampamento, appendere a testa in giù e sgozzare noi come maiali.» «Capisco» osservò Kyra. Rimase in silenzio per un pezzo, valutando Tulga con lo sguardo. «Dimmi, vuoi davvero venire con me?» Il volto di lui si illuminò, mentre assentiva a ripetizione. Kyra si accigliò. «Posso fidarmi?» Il barbaro aggrottò le sopracciglia. «Io difeso te, curato te quando svenuta! Tu ancora dubitare?» «Senza offesa, Tulga, ma da quel poco che so di te, posso dire che sei un giocatore d’azzardo, un disertore, e un ribelle. Come posso sapere che non mi volterai le spalle quando ti farà comodo?» Tulga si rizzò in piedi, squadrandola con intensità. Si mise una mano sul cuore, prima di parlare: «Io consegnare mia vita in tue mani, Malak... Kyra! Io morire per te, se necessario!» Lei si mordicchiò un’unghia, indecisa. Tulga era un personaggio ambiguo, era palesemente attratto da lei, e in più continuava a considerarla una sorta di semidea, o qualcosa del genere! Valeva la pena sobbarcarsi la presenza di un individuo del genere, soltanto per il desiderio di un po’ di compagnia? Tossì, squassata da brividi repentini. Persino restare seduta era uno sforzo, nelle sue condizioni. Tulga se ne avvide, perché accorse prontamente a sostenerla con un braccio. Kyra gli fece segno che andava tutto bene, finché lui, a malincuore, si allontanò

di un o. «Bevanda di sciamano fare bene presto» la consolò il barbaro. Kyra sospirò. Non poteva mentire a se stessa: in quello stato, la compagnia di qualcuno non era un semplice sfizio. Ne aveva bisogno, fino a quando non fosse stata di nuovo in grado di cavarsela da sola. Era stata fin troppo fortunata, a trovare un uomo come Tulga sul proprio cammino: caso contrario, a quell’ora il suo corpo sarebbe stato cibo per i corvi. Gli tese una mano, che lui squadrò senza capire. «Avvicinati, su. Stringimi la mano.» «Perché?» «Significa che facciamo un patto davanti agli Dei: che ci guarderemo le spalle a vicenda, e che nessuno dei due cercherà di raggirare l’altro.» Tulga prese la mano nella sua, perplesso, e la strinse delicatamente. Kyra gli sorrise. «Bene, adesso siamo ufficialmente compagni di viaggio!» -----Tulga si chinò per entrare nella bassa fenditura nella roccia, stringendo un carico di rami secchi tra le braccia. Un sottile strato di fumo aleggiava vicino alla volta, perdendosi nelle numerose crepe grandi e piccole che intaccavano la pietra. Nella grotta, il calore doveva restare più intenso che all’esterno, per aiutare Malakai nella sua silenziosa battaglia contro la malattia. La guardò con un misto di reverenza e ammirazione, placidamente assopita accanto al fuoco. La sua bellezza selvaggia l’aveva colpito sin dal primo istante, ben prima della scoperta che il grande Spirito della Battaglia albergava in lei. Persino in quel momento avrebbe voluto accarezzarla, percorrere con le dita la sottile cicatrice che le solcava la guancia sinistra, per poi sfiorarle quelle labbra generose con le sue...

Si riscosse. Come poteva pensare a una cosa del genere? Doveva rispettarla, e soprattutto temerla. Per qualche ragione Malakai si rifiutava di rivelarsi a lui apertamente: pretendeva di chiamarsi ancora Kyra, ma quella donna non esisteva più. Aveva cessato di vivere quando lo Spirito l’aveva posseduta, per sgominare gli aggressori con le sue tremende armi. Lui era stato testimone di tutto quanto, attimi prima di perdere i sensi: l’occhio infiammato di furia palpitante, il braccio di metallo che seminava morte, l’irresistibile forza combattiva che emanava da quella figura snella e seminuda... «Basta!» si impose, dandosi un pugno in testa. Non poteva continuare a pensare a lei in quel modo! Era irrispettoso, e pericoloso. La osservò: sembrava così dolce e indifesa, nel sonno. Ma lui conosceva la sua potenza, e la sua crudeltà. Per un capriccio del destino, aveva scoperto da sé la verità. Stava raccogliendo legna nei dintorni, poco prima, quando il suo sguardo era caduto su una macchia di sangue rappreso. Ce n’erano altre, lì vicino. Le aveva seguite fin dietro una cortina di arbusti, dove si tramutavano in una traccia spessa, coperta di mosche. La traccia terminava bruscamente in un avvallamento, dove i corpi di Bleda e dei suoi due compari giacevano a pezzi in una massa sanguinolenta, quasi impossibili da riconoscere. Perché Malakai gliel’aveva nascosto? Probabilmente non l’avrebbe mai scoperto: gli spiriti dell’Oltremondo non condividevano le loro ragioni con i semplici mortali. Si accovacciò accanto a Kyra, davanti al fuoco, conteso tra la voglia di sfiorarla e il terrore di fare una brutta fine, come i suoi compagni. «Io non ti deludere, Malakai» sussurrò, abbastanza piano da non disturbare il suo sonno «Io servire fedelmente, sempre!» Indugiò a fissarla con occhi pieni di devozione, mentre le fiamme crepitavano nella loro danza di luci ed ombre.

VIII - Il Golem

«Vi sembra solida, questa barriera?» sbraitò Madara. Sferrò un calcio alla sedia più vicina, facendola cascare. Le altre crollarono come tessere di domino, e così il tavolo che stavano puntellando. Uno dei monaci inveì in maniera poco consona alla tonaca che vestiva, mentre i compagni evitavano lo sguardo dell’Abate, imbarazzati. «Ve lo ripeto» disse Madara «Quando apriremo il portone, la barriera sarà l’unica cosa tra noi e le zanne di quelle bestiacce! Metteteci più impegno, per Abidan! Dove sono le funi che vi ho detto di prendere, e le travi? Sedie, bah! Vogliamo metter su uno sbarramento, o una maledetta sala da tè?» Raduan gli poggiò una mano su una spalla. «Non li tormentare, Madara. Faranno un buon lavoro, vedrai, hanno solo bisogno di tempo.» «Tempo che non abbiamo! Non ce la faremo a resistere un’altra notte, senz’acqua e senza cibo!» «Una ragione in più per non maltrattare questi poveretti, non trovi?» I monaci erano ridotti a fantasmi dal volto scavato, tutti occhiaie e schiena curva. Persino i loro movimenti erano lenti e impacciati. Madara era l’unico a conservare un’apparenza decente. «Come vuoi» sbuffò «Andiamo a vedere come se la cavano gli altri.» I membri del secondo gruppo erano in cucina, intenti a fabbricare rudimentali bombe incendiarie con le bottiglie di liquore prelevate dalla cantina. Uno forava il sughero dei tappi, un altro strappava lenzuola per ricavarne degli stoppini, un terzo li infilava nelle bottiglie: il lavoro procedeva spedito. Raduan approvò con un cenno del capo. Aveva covato l’idea fin dalla prima occhiata alla catasta di bottiglie nella cantina.

Si avvicinò all’uomo che infilava le micce, e gli trattenne la mano. «Già che ci vorrà del tempo per ultimare la barriera, approfittiamone per dare un tocco in più a questi giocattoli. Abate, come stiamo a provviste d’olio?» «Ne abbiamo ancora una mezza damigiana. Perché?» Raduan sorrise: «Un trucco che ho imparato nella Compagnia. Svuotate un terzo di ogni bottiglia, e aggiungete a ciascuna un bicchiere d’olio.» «A che pro?» «Quando la bottiglia si spezzerà, l’olio si spargerà addosso al bersaglio insieme all’alcool in fiamme. Non c’è verso di toglierselo di dosso.» L’abate storse la bocca in un sogghigno. «Sei sicuro di essere stato un confratello? Queste diavolerie sono degne di un Figlio della Notte!» «Non hai idea delle cose che si imparano, girovagando per il mondo.» Madara rise. «Non ne dubito. L’avete sentito, fratelli! Olio e liquore, e che quelle bestiacce vadano all’inferno assieme alla Strega!» «Sissignore!» Lasciarono i tre intenti all’opera, e si allontanarono dalla cucina. Gruppetti di monaci correvano su e giù per i corridoi e le scale, trascinando materiale per la barriera. «Mi auguro che sia sufficiente» mormorò Madara. «Lo sarà, non temere» lo rassicurò Raduan «Gonzo ed io agiremo in fretta, non avranno mai il tempo di sfondare.» Si ò una mano tra i capelli corvini. «A proposito di Gonzo... dove si sarà andato a cacciare?» «Nel buco più nascosto di tutto l’edificio, senza dubbio. Ti sarà più difficile trovarlo e legarlo alla sella del cavallo, che sconfiggere il Golem.»

«Allora è meglio che mi metta a cercarlo» sospirò. «Tra tutti quanti, mi chiedo perché sia dovuto toccare proprio a lui.» Madara alzò un sopracciglio. «Sei tu che dovrai rischiare la pelle insieme a lui, là fuori. Se intendi ripetere il sorteggio, hai solo da dirlo.» Raduan ci pensò su, poi scosse la testa. «No. A dire il vero è stata la prima cosa che mi è venuta in mente, quando Gonzo è apparso in quel modo. Non sarebbe giusto nei confronti degli altri, però. E poi...» «È stato Abidan a sceglierlo, vero?» «Credo di sì. Sembra assurdo, ma lo credo. Non sarebbe la prima volta che vedo il Fabbro agire per vie misteriose. Dobbiamo avere fede.» Madara annuì, pensoso. «Il Fabbro vede molto più lontano di noi. Chi lo sa, forse è proprio per questo che ha condotto tra noi quel povero disgraziato.» Benché non fosse l’ora più appropriata, Raduan sentì nascere la curiosità sul ato di quello strano personaggio. «Qual è il suo vero nome, Madara? Chi è, veramente?» «Il nome non l’ho mai saputo. Lui si rifiuta di pronunciarlo, se ancora se lo ricorda, e suo padre non ha fatto in tempo a dirmelo, prima di morire.» «Suo padre?» «Sì, fratello Albrecht. Ha vissuto qui con noi per diversi anni. Un brav’uomo, convertito all’Ordine in età già avanzata. Non amava parlare del proprio ato, ma come sai non chiudiamo la porta in faccia a nessuno. Soltanto verso la fine mi confessò di provenire da una nobile famiglia di Sostar.» Raduan fece tanto d’occhi.

«La capitale di Hiram...» «Proprio così, la corte più ricca e potente del Regno. Albrecht era un pezzo grosso, a suo dire faceva parte del Gran Consiglio del principe. La cosa non mi sorprese troppo, era un uomo di enorme intelligenza e capacità.» «Cosa mai spingerebbe un uomo del genere a lasciare la corte per la tonaca?» «Un ricatto, nel suo caso. Dopo una catastrofica campagna militare contro i barbari, Hiram aveva bisogno di un capro espiatorio per non perdere la faccia di fronte ai sudditi. Scelse Albrecht. I primi a pagare furono i suoi familiari: sua moglie sparì senza lasciar traccia, i suoi due figli maggiori furono imprigionati e giustiziati senza processo.» Raduan fece il parallelo tra quella disgrazia ed il tragico ato di Dorian, e si sentì ribollire di sdegno. Hiram era un cancro che bisognava estirpare dal mondo. «Ma il principe non era ancora soddisfatto, oh no!» continuò Madara, con voce piena di disprezzo «Non poteva spingersi oltre, correva il rischio di provocare un sentimento di rivolta tra gli altri nobili, così costrinse Albrecht a indossare la tonaca dell’Ordine, e si tenne il figlio minore come ostaggio. Se Albrecht avesse cercato in qualsiasi modo la vendetta, persino il suo ultimo figlio avrebbe pagato con la vita.» «Non c’è limite alla crudeltà degli uomini» mormorò Raduan. «Si, guerriero, a volte mi chiedo perché il Fabbro ci abbia creati così imperfetti. Comunque, immagino che tu abbia intuito chi fosse il figlio minore.» «Gonzo.» «Esatto. Secondo suo padre, fin da piccolo era sempre stato... diverso. Non era stupido, però la sua mente seguiva percorsi tortuosi. Non gli importava nulla della ricchezza e dei doveri legati al suo sangue nobile, trascorreva giorni interi contemplando un nido di formiche, o le nuvole nel cielo.» «Non sembra cambiato.» «Non lo è. Per me è un enigma costante. A volte penso che abbia la stoffa del

genio, eppure non sono mai riuscito ad affidargli alcuna responsabilità. Persino con una scopa in mano fa più danni che altro, per Abidan! E la sua lingua è più tagliente di una spada, quando vuole! Non fosse stato per il suo povero padre, ne avrebbe pagato il prezzo.» «Perché, cosa accadde?» «A Hiram non bastò tenerlo prigioniero. Come somma umiliazione, volle farne il suo buffone di corte. Devo dire che Gonzo ha la stoffa giusta per il ruolo, che Abidan mi perdoni. Però non riesce a capire quando è ora di frenare la lingua. Un giorno, durante un grande banchetto alla presenza delle famiglie più potenti del Regno, osò rivolgere una battuta impudente al principe. Dev’essere stato un vero colpo di genio, perché a suo dire gli invitati risero fin quasi a strozzarsi.» «Hiram non deve averla presa bene...» «Proprio per niente. Lo fece sbattere in cella, dove riceveva visite quotidiane dai torturatori. Per sua fortuna, Albrecht aveva mantenuto in segreto qualche amicizia a corte: un messaggero giunse qui trafelato pochi giorni dopo il fatto. Albrecht impazzì all’idea di perdere il suo ultimo figlio. Tentai di farlo ragionare, ma non mi valse a nulla. Rubò un cavallo e galoppò fino a Sostar, senza dare ascolto a nessuno. Pregai a lungo per lui. Come per miracolo, tornò al monastero un paio di settimane più tardi. Portava con sé Gonzo, e una brutta ferita all’addome.» «Stento a credere che c’è l’abbia fatta, da solo!» «Erano ottimi amici, quei pochi che aveva lasciato a corte. Fu grazie a loro se riuscì ad entrare a palazzo senza essere riconosciuto, e ad ottenere l’accesso alle prigioni. Purtroppo per lui, qualcosa andò storto durante la fuga, e ne ricavò una pugnalata allo stomaco. Avresti dovuto vederlo, Raduan, quando arrivò. Doveva aver patito le sofferenze dell’inferno per portare suo figlio fin qui.» Un velo di turbamento gli coprì gli occhi, mentre ricordava. «Con le sue ultime parole, mi fece giurare su tutto ciò che avevo di più caro di accogliere suo figlio al monastero, di nasconderlo, e di farlo vivere tra noi. Glielo promisi, e morì con un sorriso sulle labbra.» «Una storia davvero triste...»

«E pericolosa. Giorni dopo ricevemmo la visita di un drappello di guardie di Hiram. Sostenevano che nascondessimo il ragazzo, ed erano disposti a metter sottosopra l’intero monastero pur di trovarlo e trascinarlo indietro in catene. La nostra salvezza fu il coraggio dell’Abate del Tempio di Sostar, non certo un pusillanime come il Priore di Silon - che Abidan perdoni la mia insofferenza, è così che la penso. Fece pressione sul principe con tutta l’autorità dell’Ordine, e lo convinse a lasciar perdere. Ancora oggi mi chiedo che tipo di ricatto abbia usato, per riuscire a farlo desistere.» Raduan era altrettanto sorpreso. «È bello sapere che anche Abati e Priori hanno un cuore. Senza offesa, Madara.» «No, capisco bene quel che vuoi dire. Resi grazie ad Abidan per quell’epilogo incruento, e mi dedicai a Gonzo. Era in pessimo stato: aveva la schiena solcata dalle frustate, e marchi di ferro ardente su braccia e gambe. Il suo recupero fu lento e doloroso. Urlava il nome di Albrecht, nel sonno. Non so se ce l’avrebbe fatta, senza quella sua mente stravagante. A volte la follia è un toccasana, quando ci impedisce di sprofondare nella disperazione.» «Spero che anche oggi gli sia d’aiuto. Io non sono per niente tranquillo.» «Abidan l’ha scelto, l’hai detto tu stesso, guerriero! Su, va a cercarlo. Io torno alla barriera.» Raduan lo salutò, e si mise a cercare Gonzo lungo i corridoi. Nessuno dei confratelli l’aveva visto. Infilò la testa in ogni sala del pianoterra, trovandole vuote. Si arrischiò anche a scalare lo scheletro della rampa di scale fino al secondo piano: nulla, i monaci erano tutti di sotto, indaffarati con i preparativi. «Non mi resta che un posto...» pensò. Caso contrario, potevano darlo per disperso, e gli sarebbe toccato trovarsi un nuovo aiutante. Tornò sui propri i fino al chiostro, che prima aveva ignorato. Era un cortile quadrato, circondato da un portico di colonne di legno tozze e senza orpelli, nel pieno stile dell’Ordine. Nel mezzo c’era un pozzo, diventato inutile da quando la provvista d’acqua era seccata. C’erano mucchi di paglia e fieno qua e là, mangiatoie, e uno sgradevole puzzo di stalla. Era lì che i monaci avevano tenuto gli animali, dall’inizio dell’assedio. Ormai c’era soltanto il suo cavallo. Quando lo vide, l’animale gli venne incontro sbuffando. Raduan gli accarezzò il muso, e

ricevette un morso delicato sulle dita. «Ti sono mancato, eh?» Diede un’occhiata alla ferita del destriero: sembrava ben cicatrizzata, le erbe e le cure dei monaci avevano fatto il loro dovere. Ma di certo la bestia soffriva la sete come tutti quanti. «Devi sentirti male, amico, qui tutto da solo... Oggi cavalcheremo di nuovo, te lo prometto.» Il che gli fece ricordare che era lì per Gonzo. Non riuscì a vederlo, forse si era nascosto tra le colonne. Lo chiamò per nome un paio di volte, senza ottenere risposta. «E adesso, maledizione?» Raccolse un sasso e lo scagliò nel pozzo. Si aspettava di udire il clank della pietra sul fondo roccioso, invece udì un tonfo e un grido attutito. Stirò le labbra in un sorriso. Quando si sporse dal bordo del pozzo, Gonzo lo fissò con aria colpevole, massaggiandosi la testa con una mano. Si era calato sul fondo con una fune, e se ne stava lì, seduto nel fango. «B-ben trovato Raduan!» disse «Cosa ti porta da queste parti?» «Cercavo una persona» rispose il guerriero. «Beh, quaggiù ci sono soltanto io, mi spiace.» «Mi accontento. Vieni su.» «Non so se ce la faccio, la roccia è molto scivolosa.» «Vedi quella cosa lunga e sottile che ti penzola davanti agli occhi? Si chiama corda. Afferrala, che ti aiuto a salire.» Gonzo si morse le labbra e obbedì a malincuore. Quando fu su, si sedette sulla cornice del pozzo e diede una bella scrollata alle gambe: il fango volò dappertutto, anche in faccia a Raduan. Ancora una volta, il guerriero non si scompose:

«Grazie per la rinfrescata Gonzo. E adesso, se non ti dispiace, dobbiamo prepararci.» Incapace di fargli perdere la pazienza, Gonzo tentò la carta della pietà: si gettò faccia a terra e prese a frignare come un bambino. «Non voglio, non voglio, non vooooogliooooo!» Raduan lo lasciò fare, in silenzio, finché Gonzo smise di colpo e alzò gli occhi da terra: quando vide il suo cipiglio, mise su un broncio fanciullesco e si sedette a gambe incrociate. Il guerriero non diceva nulla, perciò fu lui stesso a parlare, con voce stranamente seria: «Insomma, cosa vuoi da me?» In quel momento, Raduan riuscì a scorgere uno scampolo dell’uomo che si nascondeva al di sotto di tanti strati di stravaganze, buffonate e capricci bambineschi. «Voglio che tu sia coraggioso, come tuo padre lo è stato per te.» Gonzo s’incupì. «Che ne sai, tu?» «Abbastanza da sapere che il sangue non mente. Abidan ti ha scelto per un motivo.» «Morire come un cane?» «Combattere, e se necessario morire con valore, Gonzo, per i tuoi confratelli. Ti chiedo solo questo.» «Hai detto poco!» Raduan gli appoggiò le mani sulle spalle. «Preferisci restare per sempre Gonzo, lo stolto, il codardo che si succhia il pollice nascosto in fondo a un pozzo? Perché non dimostrare agli altri che sei un uomo come loro?»

«Non mi stavo succhiando il dito! Avevo qualcosa tra i denti...» «Lascia stare i giochetti, e rispondi: vuoi essere considerato un uomo, o un pagliaccio?» Gonzo abbassò lo sguardo. Quando lo rialzò, oltre alla stanchezza e alla paura c’era l’ombra di qualcosa di nuovo nei suoi occhi: orgoglio? «Dimmi cosa vuoi che faccia» sussurrò. Raduan gli diede una pacca sulle spalle. «Così si parla! Sapevo di non sbagliarmi su di te.» «Certo, certo...» Gonzo si strinse il corpo tra le braccia. «Sto tremando, non so se di freddo o di sano terrore. Se vinceremo, posso prendermi una pelle di lupo? Meglio ancora, una bella pelliccia d’orso, folta e calda!» «Tu chiedi pure, magari un orso lo convinci.» Gonzo aprì bocca, poi si accorse che Raduan tratteneva a stento le risa. «Non vale!» disse «Sono io quello che fa le battute!» «Va bene, va bene!» rispose Raduan «Ma adesso stammi a sentire, il tempo stringe...» Gli mise un braccio sulle spalle, e camminarono conversando lungo il colonnato del chiostro. Il cavallo li seguì per un tratto, dando spintarelle con la testa tra le scapole del suo padrone. Poi, visto che Raduan non gli dava retta, si fermò a masticare un po’ di fieno. Tempo dopo, Madara venne a cercarli. La barriera era pronta. «Già?» esclamò Raduan, sorpreso. «So come incentivare le persone» sorrise Madara «Ho detto che Gonzo si stava preparando per la sua missione da vero eroe, mentre loro cincischiavano come dei ragazzini. Avessi visto come si sono messi all’opera!» «Ehi, smettetela di tirarmi in ballo!» si lamentò Gonzo. Più che l’aria dell’eroe,

aveva quella del cane bastonato. L’Abate sorrise e gli strinse un gomito: «Una battuta sciocca, lo ammetto. Se non altro, quando diciamo sciocchezze, ci dimentichiamo per un po’ del pericolo e delle tristezze della vita.» «Parole sante, Abate! Peccato che alla fine arrivi sempre qualche guastafeste a farceli ricordare... Vero, Raduan?» «Verissimo. Anzi, visto che la barriera è in piedi... e solida, vero Abate?» «Reggerà per il tempo necessario.» «È quel che speravo di udire. Andiamo Gonzo, è tempo di mettere in pratica il nostro grande piano.» «Sissignore. Posso esprimere un ultimo desiderio?» «Quale?» «Non averti mai incontrato, accidenti a te!» Raduan fece una smorfia e se lo tenne appresso per un braccio, prima che cercasse di svignarsela un’altra volta. Strinse la mano all’Abate, con forza. «Buona fortuna, Madara. Con l’aiuto di Abidan, presto ci ritroveremo per festeggiare la vittoria.» «Così sia, guerriero.» «Così sia.» «Aspettate il mio segnale.» Madara tornò alla barriera, dove gli altri monaci lo attendevano per dare il via alle danze. Il piano era rischioso, ma quali alternative c’erano? Raduan e Gonzo scesero la rampa che portava alle cantine, il primo ben concentrato sulla linea d’azione da lui stesso ideata, il secondo tra alte lamentele e strascicando i piedi.

Bylak li aspettava accanto al cavallo. Sembrava di umore cupo. Indicò il varco camuffato con un cenno del capo. «Quelle bestiacce se ne stanno sdraiate qua davanti come rettili al sole. E sono tante!» Raduan poggiò l’occhio sulla fessura che intaccava la superficie di legno del portone. Scorse almeno una decina di belve adagiate all’esterno, proprio all’imbocco del aggio tra le rocce. Parevano assopite, ma era pronto a scommettere che fosse tutta finzione. «Abboccheranno» disse, cercando di sembrare più convinto di quanto realmente fosse. Bylak grugnì qualcosa in risposta. Diede una pacca sulle sacche allacciate ai fianchi del cavallo, dietro la sella. «Dovrebbe esserci tutto. Da’ un’occhiata, per sicurezza.» Raduan frugò nelle sacche, mentre il cuoco rimproverava a Gonzo il pallore e il vistoso tremore delle gambe. C’era tutto: un grande rotolo di corda robusta un’estremità annodata a formare un largo cappio - e una piccola scorta di bottiglie incendiarie. Scacciò l’immagine di Gonzo che inciampava e dava fuoco a se stesso, a lui, e al cavallo. «È tutto a posto» disse, balzando in sella con agilità. Tese una mano a Gonzo, che si sistemò alla meno peggio alle sue spalle. D’un tratto la sua lingua era inaridita come un torrente in secca. «E adesso?» biascicò. «Adesso aspettiamo. Non per molto, credo.» Fu di parola: attimi dopo, udirono uno schianto provenire dal piano superiore, seguito da urla di paura, incoraggiamento, e da altre che di certo non erano umane. «È cominciato!» esclamò Bylak. Incollò un occhio alla fessura e rimase ad osservare, teso. Raduan vide un sorriso incredulo piegargli un angolo della bocca.

«Funziona, che io sia dannato, funziona!» urlò il cuoco. Si girò verso i due a cavallo con l’espressione felice di un bambino. «Le bestiacce hanno abboccato all’amo, altro che addormentate! Sono scattate via per dar man forte alle altre!» «Bene!» esclamò Raduan, afferrando le redini «Tocca a noi!» Il destriero nitrì, eccitato quanto lui. Gonzo aveva il colore e la consistenza del marmo bianco. Il cuoco tirò via le travi che bloccavano il portone, e lo spalancò con uno strattone. La luce del giorno invase il tunnel insieme a una zaffata d’aria fresca, investendo cavallo e cavalieri. «Che il Fabbro vi assista!» gridò Bylak, toccandosi la fronte con due dita. Raduan nemmeno gli rispose: piantò gli speroni nei fianchi del cavallo, che scattò avanti nella luce. Mentre sfrecciavano nello stretto aggio tra le rocce lo stesso che appena un giorno prima avevano percorso in senso opposto con le belve alle calcagna - Gonzo lanciò una rapida occhiata alle proprie spalle e accompagnò la chiusura del portone con un gemito. Quando tornò a guardare avanti, vide subito il muso spelato e coperto di cicatrici di una belva in attesa all’uscita del aggio: non tutte se n’erano andate! La bestia, grande come un lupo di grossa taglia, ruggì e si piazzò nel mezzo. «Che facciamo?» piagnucolò Gonzo. «Sta a vedere!» urlò Raduan, appiattendosi sul collo del cavallo per prendere più slancio «Fatti sotto, bestiaccia! Per Abidan!» Gonzo chiuse gli occhi e si strinse al guerriero, mentre il cavallo piombava addosso alla belva senza neanche accennare a schivarla. Udì soltanto un guaito e uno schiocco nauseante di ossa spezzate, e quando riaprì gli occhi, erano già fuori dalla strettoia. Raduan spinse il cavallo in una traiettoria curva, finché il monastero apparve alla loro sinistra. All’estremità più lontana era in corso una lotta furibonda tra le belve e i monaci di Madara, asserragliati dietro la protezione della barriera. Le bestie attaccavano a ondate, ammassi furiosi di pelo e artigli, ma venivano puntualmente ricacciate indietro dalle bottiglie incendiare scagliate dai monaci. L’aria, tramutata in vento tagliente dalla velocità del galoppo, portò chiare alle loro orecchie le urla di incitamento dell’Abate e quelle

di dolore delle belve respinte con il pelo in fiamme. Raduan sorrise: il diversivo stava funzionando alla perfezione, l’attenzione delle belve era tutta destinata al falso tentativo di sortita dei monaci. Finché la barriera reggeva, e finché durava la scorta di bottiglie, ce l’avrebbero fatta. Ma se lui e Gonzo non avessero portato a termine la loro parte il più in fretta possibile, erano tutti spacciati. Spinse il cavallo in un giro largo verso i confini dello spiazzo alberato, dove il Golem aveva fatto la sua entrata in scena la notte prima. L’avrebbero stanato dal suo rifugio tra gli alberi, se necessario. Gonzo puntò il dito davanti a sé, e strillò come un bimbetto. «È lui!» esclamò Raduan, con il cuore in gola. Il colosso era apparso proprio dove speravano, aprendosi la strada tra gli alberi come se fossero fuscelli. Marciava verso il monastero, e non sembrava aver notato la loro presenza. Il rimbombo dei suoi i di pietra fece tremare la terra sotto gli zoccoli del cavallo, costretto da Raduan a non cambiare direzione: puntarono dritti sul gigante, la gemma nera scintillante sulla fronte ai raggi del sole. Per un attimo Gonzo pensò che l’intenzione fosse quella di spazzarlo via come la bestiaccia di poco prima, e non gli parve affatto una buona idea. Poi Raduan gli fece un segno con la mano, e di botto si rammentò qual era la sua parte in quel folle piano: il pensiero gli fece gelare il sangue nelle vene. Non fosse che il cavallo era lanciato al galoppo a una velocità assurda, avrebbe preferito buttarsi a terra. Raduan percepì la sua esitazione. «Se molli adesso, è finita!» urlò, coi capelli appiccicati al volto. Gonzo deglutì a vuoto e colse la gravità del momento. Strinse le gambe attorno ai fianchi del cavallo, infilò una mano tremante in una delle sacche. Ne estrasse una bottiglia incendiaria, tenendola per il collo. Per poco non gli scivolò tra le dita sudate: sarebbe stato un macello. «Sei pronto?» urlò Raduan. «S-sì!» Il Golem era così vicino da inghiottirli con la sua ombra. Gli schizzarono accanto come insetti impazziti, e Gonzo scagliò la bottiglia con un grido, senza

neanche guardare. Il vetro si infranse con un botto sul petto di roccia del gigante, le fiamme dilagarono e gli avvolsero la metà superiore del corpo in un manto rovente. Il colosso cercò di soffocare il fuoco con le mani enormi, anche se non sembrava avergli causato più danni di una puntura. Si era fermato, però, proprio come Raduan sperava. Fece descrivere al cavallo una curva strettissima, e puntò di nuovo sulla schiena del Golem. «La corda!» sbraitò. Gonzo rovistò nella sacca di destra, con le gambe sempre strette come tenaglie attorno alla cavalcatura, e tirò fuori il capo della fune a forma di cappio. Tirò e tirò, finché ebbe diverse lunghezze di corda arrotolate attorno a una spalla, e il cappio ben stretto tra le mani. A due i dalla schiena rocciosa del Golem, Raduan tirò a sé le redini e il destriero frenò fin quasi a fermarsi. «Adesso!» gridò. Gonzo si alzò sulla sella. La nuca squadrata del colosso torreggiava su di lui, vicinissima. «È facile!» si disse «Come acchiappare un bue... Un lento e grossissimo bue...» Lanciò il cappio, trattenne il respiro: la corda sbatté sulla testa di granito e scivolò via. Gonzo la recuperò in pochi attimi, imprecando, ma quando risollevò lo sguardo il Golem si stava già voltando verso di loro. Sentì sul viso uno spostamento d’aria ancor prima di veder arrivare il pugno. Per sua fortuna anche Raduan lo avvertì, e strattonò le redini. Il cavallo scartò di lato un istante prima che le nocche di pietra li schiacciassero come mosche, poi Raduan lo incitò a galoppar via. «S-scusa!» balbettò Gonzo, rivedendo al rallentatore quel pugno smisurato che gli piombava addosso per trasformarlo in marmellata. «Un’altra volta!» gridò Raduan «Sta’ calmo, puoi farcela!» Il Golem girò il suo volto piatto, privo di occhi. Riusciva a vederli? Dalla sua

bocca rotonda e scura uscì un urlo assordante. «E adesso che succede?» gemette Gonzo. «Maledizione!» sbraitò Raduan. Le belve impegnate a lottare davanti al monastero si erano improvvisamente bloccate, con le orecchie tese. Un obbrobrio dal cranio deforme si alzò sulle zampe posteriori e si voltò ad annusare l’aria. Quando i suoi occhi iniettati di sangue si posarono sui due cavalieri, aprì le fauci in un ruggito spaventoso. Una bottiglia incendiaria volò dalla barriera descrivendo un arco ed esplose sulla nuca della creatura, tramutando il suo urlo in un guaito di dolore. Mentre le fiamme la avvolgevano, le altre belve ignorarono la sua fine e volsero le spalle ai monaci, una ad una. La loro attenzione era tutta per il richiamo del Golem. Si lanciarono in corsa. «Aiuto!» tartagliò Gonzo. Quando vide che Raduan non girava il cavallo verso la foresta - come chiunque sano di mente avrebbe fatto in quel momento - si sentì mancare. Stavano davvero galoppando di nuovo incontro al Golem, incontro a quella valanga di mostri in rapido avvicinamento, tutti bava e zanne scoperte? «Preparati!» gridò Raduan, abbastanza forte da sovrastare il vento e l’urlo del Golem «Questa volta non possiamo fermarci, dovrai farlo al volo!» «Come?» «Alzati in piedi sulle staffe, e poggia le ginocchia sulla mia schiena!» «E io che credevo di essere matto!» «Su, fallo! Non c’è più tempo!» Con il cuore in gola, Gonzo obbedì. Ignorò il suolo che scorreva come acqua sotto gli zoccoli del cavallo, ignorò la fiumana di belve già vicina, ignorò la sagoma del Golem che ingigantiva davanti a loro. Concentrò tutta la sua attenzione sulle proprie gambe, rigide come stecchi, e ordinò loro di non tremare. La corda aveva la consistenza di una serpe tra le sue mani sudate.

«Grande Abidan!» strillò «Fammi vivere, e giuro che la smetterò con le bestemmie!» Ormai erano addosso al Golem. I suoi pugni si abbatterono come macine su cavallo e cavalieri, ma Raduan intuì il colpo ancor prima di vederlo partire: il destriero interpretò all’istante la sua volontà, scartando a destra all’ultimo momento possibile. Fu allora che Gonzo compì l’azione più coraggiosa della sua intera vita: chiuse gli occhi, un piede gli scivolò dalla staffa - mentre un pugno grande cinque volte la sua testa gli sfiorava un orecchio - e in quell’istante riuscì a gettare la corda con uno slancio eroico. Il Fabbro Celeste si prese a cuore i suoi sforzi, perché il cappio volò sicuro fin sopra la testa del colosso, e ricadde come una sciarpa attorno al suo collo. Raduan vide tutto con la coda dell’occhio, e quasi non ci credette. «Giù adesso! Stringiti a me più forte che puoi!» Gonzo non se lo fece ripetere: si aggrappò alla schiena di Raduan come una cozza al proprio scoglio, e cercò di non vomitare. Il guerriero pregò Abidan in silenzio. Lo pregò che la corda fosse abbastanza lunga e robusta, che le belve non piombassero loro addosso troppo presto, che gli zoccoli del cavallo trovassero terreno sicuro, che tutto il suo piano non si rivelasse insensato come sembrava... Piegò alla propria sinistra, costringendo il destriero ad invertire il senso di marcia. arono in circolo rasente al Golem, inseguiti dai suoi pugni, una, due, tre volte, sempre più rapidi, sempre più a rischio. La terra schizzava da tutte le parti, il mugghio del gigante riempiva l’aria come un tifone, mentre la corda si avvinghiava attorno al corpo di roccia scorrendo veloce fuori dalla sacca. Al quarto aggio, Raduan puntò sulla macchia d’alberi ai margini dello spiazzo. «Legala!» gridò, frenando accanto a un robusto tronco, e quasi spinse il compagno a terra. Gonzo scivolò sulle ginocchia, si rialzò, afferrò l’estremità libera della corda. Diede un paio di giri attorno al tronco, accavallando due strati di corda in modo che la tensione da sola la fissasse all’albero. «Più in fretta!» urlò Raduan. Le belve stavano arrivando a frotte, avevano già quasi raggiunto il Golem, impastoiato da vari giri di corda attorno alle gambe. Il colosso fece un o, e la

corda si tese con uno schiocco. Se avesse tardato solo un istante, Gonzo ci avrebbe rimesso le dita. Ma l’opera era compiuta, proprio come Raduan aveva sperato: la corda resistette, impacciò il goffo movimento del Golem, che prima di rendersene conto si inclinò e crollò a terra a faccia in giù. Il guerriero capì che non ci sarebbe stata un’altra occasione. Mentre il Golem piombava al suolo come la statua di un Dio rinnegato, piantò gli speroni nei fianchi del destriero e schizzò avanti incontro alla marea di belve. Vide al rallentatore il gigante precipitare sulle fiere, schiacciandone una dozzina. Spinse il destriero nel mucchio di bestie aggrovigliate, e balzò giù direttamente sulla testa del Golem urlante. Il corpo di roccia si agitò sotto di lui come un mare in tempesta, le belve si azzuffavano per saltargli addosso, e un solo o falso l’avrebbe fatto sprofondare verso la fine. Raduan riusciva appena a scorgere, in quella baraonda, il diadema scintillante sulla fronte del Golem, e la gemma nera che pulsava di luce maligna. Il Ricettore! Con una convulsione più violenta delle altre il colosso si rovesciò sul dorso, costringendo Raduan a un numero da acrobata per mantenere l’equilibrio. Crollò in ginocchio, e si trovò faccia a faccia con la pietra nera dai riflessi assassini. Insinuò la punta della spada tra il gioiello e la cornice di metallo dorato, fece leva con tutto il suo peso. La gemma saltò via con uno schiocco e scomparve nel marasma di predatori. Raduan non ebbe il tempo di lanciare un grido di trionfo, che cadde a sua volta nel mezzo di quella massa inferocita. «Sono spacciato» fu il suo primo ed unico pensiero. Un ultimo sussulto di orgoglio lo pervase: era pur sempre un guerriero della Compagnia del Viandante, e come tale avrebbe affrontato la morte! Le belve guaivano di dolore e correvano in tutte le direzioni, si azzannavano e artigliavano tra loro, come impazzite. Ne schivò un paio grandi come orsi, abbracciate in una lotta mortale, poi un cinghiale dal muso deforme gli venne addosso e dovette abbatterlo con un violento fendente. Nel mezzo di quel caos, l’urlo del Golem si spense a poco a poco, le sue membra si afflosciarono, e rimase immobile.

Udì altre grida, alzò la testa, e vide che i monaci stavano correndo fuori dal monastero come una masnada di cani inferociti. Madara precedeva tutti quanti roteando una grossa trave di legno dalla punta infuocata, tallonato da un codazzo d’uomini armati di accette, bastoni, coltelli da cucina e bottiglie incendiare. L’armata di belve era in rotta, il suo piano aveva funzionato! Senza la gemma, il legame tra la Strega e l’esercito si era spezzato! Dov’era finito l’amuleto? Lo cercò con lo sguardo, fino a rintracciarlo tra l’erba, a dieci i da lì. Così vicino, eppur così lontano! Le fiere, pur fuori controllo, non erano meno pericolose di prima, anzi, la furia ne aveva raddoppiato la sete di sangue. Scansò le corna di un alce scheletrico, tagliò la gola di un puma che cercava di prenderlo alle spalle, poi urlò di dolore quando una bestiola dai denti aguzzi gli morse la nuca. Si dimenò fino a scrollarsela di dosso e le schiacciò la testa con uno stivale. Imprecò di rabbia. Non aveva fatto che due i verso la gemma, e con le sue gesta si era attirato l’attenzione delle belve impegnate a trucidare qualsiasi cosa in movimento. Fece fuori un lupo dalle zanne lunghe come il suo avambraccio, ma altri due ne presero subito il posto. Riuscì a tenerli a bada, finché avvertì la presenza di una sagoma enorme alle proprie spalle. Vide con la coda dell’occhio il muso contorto del bestione, sentì il suo alito pestilenziale sul collo. «Via di lì!» strillò una voce. Obbedì di riflesso, buttandosi a terra. Udì un rumore di vetro spezzato, e una vampata di fiamme gli arroventò la pelle. Rotolò sulla schiena, lontano da quel calore infernale. Quando si rialzò su un ginocchio, vide le belve in fiamme, agonizzanti. C’era un uomo accucciato a terra poco più in là, un braccio davanti alla fronte per proteggersi dal fuoco. «Gonzo!» esclamò. «In persona!» tossì lui «Perché non mi hai aspettato? Volevi la gloria tutta per te?» Raduan sorrise: invece di restarsene dov’era, o scappare nella foresta, Gonzo era corso fin lì per aiutarlo! Abidan aveva visto giusto, come sempre: da qualche parte, nel cuore di quell’uomo semplice e bizzarro, si nascondeva un grande coraggio.

«La gemma!» si rammentò poi. Era là dove i suoi occhi l’avevano lasciata. Si chinò sull’erba e la raccolse. Era leggera, e fredda. Tra le sfaccettature gli parve di intravvedere un nucleo vorticante, più nero della notte. Si guardò attorno: le belve superstiti erano poche, ma potevano ancora fare danni. E, per quanto ne sapeva, la gemma ospitava un potere ancora vivo. Doveva farla a pezzi, subito. Non appena formulò il pensiero, il gioiello sibilò e fremette come una creatura viva tra le sue dita. C’era un occhio, dietro le minuscole pareti di cristallo, un occhio celeste che gli sondava l’animo. Sentì una voce dentro di sé, un canto mellifluo e suadente che lo interrogava. «Chi sei?» ripeteva «Chi sei?» La voce lo esplorò, rivoltando come un guanto i recessi più profondi della sua memoria, e d’improvviso tacque. Raduan fissò l’occhio che lo squadrava dal cuore d’ebano della gemma: per quanto assurdo gli sembrasse, avvertì una sensazione di calore. Non c’erano più minaccia e odio nello sguardo della Strega, soltanto qualcosa di simile alla comprensione. Poi l’occhio si chiuse, la gemma si spense. Il guerriero si riscosse: quello che stringeva tra le dita era ormai un comune sasso, prosciugato del potere che l’aveva reso vivo. La Strega se n’era andata. Le belve avvertirono all’istante la sua scomparsa: con un alto ululato, ripetuto fino a che l’eco parve ricoprire la foresta, stramazzarono a terra esanimi. I monaci guidati da Madara sopraggiunsero in quell’istante tra grida di battaglia, brandendo le loro armi rudimentali. Molti di loro puntarono dritti su Gonzo, lo investirono di abbracci e pacche sulle spalle, infine lo sollevarono di peso e lo portarono in trionfo tra le acclamazioni. Raduan cadde sulle ginocchia, stremato. Riempì i polmoni d’aria fresca ed esalò un lungo sospiro di sollievo, poi alzò gli occhi al cielo per ringraziare il Fabbro Celeste.

IX - Compagni di Viaggio

«Davvero ben fatto, guerriero! Un’impresa degna di un eroe!» Madara gli rifilò una pesante manata sulla schiena, facendogli andare di traverso il boccone. Raduan non si lamentò. Avrebbe dovuto essere morto a quell’ora, secondo ogni logica, ma gli Dei gli avevano concesso un’altra opportunità. E così, invece di trasformarsi nel pasto di un branco di belve assatanate, erano lui e i monaci a banchettare a base di succulenta carne di cinghiale, innaffiata di birra. Ne avevano trovata una botte intera, sepolta tra le macerie dell’osteria appena fuori dal monastero. Di quel o non sarebbe sopravvissuta alla notte. Alzò il boccale verso l’Abate, che gli rispose con un sorriso tutto denti. Seduto accanto a lui su un tronco rovesciato, accanto al falò, Madara era davvero molto allegro - o più ubriaco di quanto volesse far credere. «E quel sempliciotto di Gonzo, chi l’avrebbe mai detto!» continuò «Un eroe anche lui, senz’ombra di dubbio!» «Puoi dirlo» concordò Raduan, cercando l’amico con lo sguardo. Gonzo saltellava davanti alle fiamme del falò, rievocando le avventure di quella gloriosa giornata con tutta l’arte di un buffone di corte. Davanti a lui si agitava un pubblico di monaci che ridevano e cantavano a squarciagola, e brindavano al suo nome. Gli stessi monaci che fino al giorno prima lo avrebbero gioiosamente legato e imbavagliato per gettarlo in pasto alle belve, purché se ne stesse zitto. «Ahh, grande Abidan, ancora non ci credo che sia andato tutto a meraviglia! Era quel che si dice un piano suicida... Te ne rendi conto, vero?» «Altroché» rispose Raduan. Mille cose potevano andar storte: se le bestie non avessero abboccato all’esca, se il Golem li avesse schiacciati con uno dei suoi pugni, se la corda si fosse spezzata o il cavallo fosse scivolato, se, se, se... Invece, a parte lo sventurato Ismail che ci aveva rimesso la pelle - e un paio d’altri che giacevano bendati da capo a piedi nel monastero - ce l’avevano fatta tutti quanti. Persino il suo

destriero - la bestia più leale e coraggiosa che avesse mai cavalcato - era tornato illeso qualche tempo prima, dopo aver cercato la salvezza nella foresta quando Raduan l’aveva abbandonato in mezzo alla legione di belve. «Sai, Raduan, quando sei comparso davanti a me la prima volta non sono stato troppo contento di fare la tua conoscenza, tanto più con quella faccenda del aggio segreto. Ma adesso sono convinto che Abidan ti abbia mandato da noi di proposito, in tutta la sua saggezza.» «Anche voi monaci avete fatto la vostra parte, e con grande coraggio.» «Sì, ce la siamo cavata bene» ammise Madara, sminuendo la cosa con un gesto della mano «Senza la tua spada e la tua esperienza, però, non saremmo mai sopravvissuti.» Il suo volto s’incupì. «Saremmo morti come topi in trappola dentro al nostro stesso monastero, e in pochi mesi la foresta avrebbe messo radici sui nostri cadaveri.» «Che razza di pensieri sono questi?» disse Raduan, stringendogli una spalla «La guerra l’abbiamo vinta noi, ricordi?» «Non la guerra, Raduan. Una battaglia. Il vero nemico è tutt’altro che sconfitto.» Il guerriero alzò un sopracciglio. «La Strega?» Nel pronunciare il nome, la sua mente corse alla pietra che portava con sé in una tasca della giubba. Perché non aveva cercato di distruggerla, o di gettarla via? Con tutte le disgrazie che aveva causato, era il minimo che potesse fare. Eppure qualcosa l’aveva convinto a intascarla prima che gli altri se ne accorgessero. Si era persino spinto a mentire, affermando di averla ridotta in frantumi. Per quale motivo? Non lo sapeva. Era soltanto un pensiero confuso, l’ombra di un’intuizione. Sentiva che il ruolo della gemma non si era ancora concluso. Chi era davvero la Strega d’Ebano? «Temo che la rivedremo» disse Madara, invadendo il corso dei suoi pensieri «Non so chi sia, o che cosa sia, ma se è stata capace di attenderci al varco per tanti anni, di assoggettare un Golem e di procreare mostri dalle creature delle foresta, di certo non è umana. Un giorno dovremo affrontarla di nuovo. Non ci

lascerà in pace finché la foresta non ci avrà distrutti. O finché noi avremo distrutto lei.» Raduan poggiò il boccale a terra, tra gli stivali. «Non potete continuare in questo modo. Dovete trovare un’altra via.» L’Abate strinse le dita attorno al boccale con tanta forza da farlo scricchiolare. «Te l’ho già detto, guerriero. Ho giurato a me stesso di portare la luce della civiltà a Leukania, ed è quello che intendo fare!» «Ed è giusto, è quello che il Fabbro vorrebbe da te, come Abate del suo Ordine. Ma...» «Che cosa?» «Portare la civiltà non vuol dire radere al suolo la foresta, Madara, né scuoiare tutti gli animali che ci vivono. Ci vuole equilibrio. Devi insegnare a te stesso e ai tuoi seguaci a vivere in armonia con la natura.» «Puah, mi sembra di sentir parlare uno di quegli eremiti squinternati di Edessa! Abidan mi ha dato il compito di erigere una grande città, non uno squallido villaggio barbaro!» «E allora costruisci la tua città tra gli alberi, non sui loro ceppi! Non servono torri e mura di roccia, né cancelli di ferro, per vivere in pace. La natura saprà essere generosa, se la rispetterete. E la Strega d’Ebano vi lascerà in pace una volta per tutte.» Madara fece una smorfia. «Tu credi? Dopo quel che abbiamo combinato al suo esercito?» «Sì, lo credo» annuì Raduan. Pensava agli occhi della Strega, così simili a quelli di Abel. «Non so dirti perché, ma sono convinto che stia soltanto difendendo la foresta. Se gli uomini smetteranno di ferirla, non avrà più ragione di combattere.» «Io credo invece che si stia leccando le ferite, e che tornerà all’attacco alla prima

occasione. Dobbiamo essere pronti a lottare. Perché non resti con noi, guerriero? Ci farebbe comodo un maestro di scherma!» Raduan si grattò la nuca. «Non posso, lo sai.» «Dimenticavo... La tua missione, vero?» «Quanto prima partirò, meglio sarà.» «Hai trovato quel che cercavi?» «Sì.» Durante il pomeriggio, mentre i monaci erano intenti a festeggiare la vittoria, aveva ottenuto da Madara il permesso di consultare i volumi del Libro Mastro. L’Abate gli aveva consegnato un tomo massiccio e antico, rilegato in cuoio rossastro. Si era sorpreso che fosse un unico volume: in genere i registri di un monastero riempivano decine di libri, testimoni di innumerevoli scambi nel corso dei secoli. Non era il caso di Leukania: qui la frequenza dei contatti con gli altri nuclei dell’Ordine era quasi irrilevante. Raduan ci aveva messo soltanto un paio d’ore a trovare le informazioni che cercava, tra le pagine ingiallite compilate con grafia certosina. Poche note soltanto, risalenti a centinaia di anni prima, che valevano oro:

“789 d.f.R., Brume, VII - XIV Visitanti: sei, al comando di Helah di Silon. Provenienza: Silon. Motivo: in viaggio verso Nord; corrispondenza dal Grande Tempio; volumi dodici per la biblioteca; centotrentaquattro monete d’argento per le casse di Leukania. Destinazione: Antares.

Motivo: prosecuzione viaggio; visita a Mastro Emon della Gilda del Granchio, rinegoziare commissioni per conto dell’Abate Salazar.”

Antares sull’Oceano: ecco dove Helah aveva proseguito il suo viaggio! Stupito dinanzi alla sua fanciullesca esaltazione, Madara gli aveva dato una mano a interpretare le annotazioni, risalenti al mese delle Brume del lontano anno 789 dalla fondazione del Regno. I Monaci Viaggianti, sei in tutto, provenienti da Silon e in viaggio verso Nord, si erano fermati a Leukania per consegnare alcuni dispacci del Consiglio, una dozzina di libri per la sguarnita biblioteca locale, e la consueta quota di denaro versata alle filiali del Grande Tempio - in genere ben meno cospicua dei tributi annuali che facevano il percorso inverso, dalle filiali verso Silon. Nel riprendere il cammino, com’era consueto tra i membri dell’Ordine, i monaci avevano ricevuto un incarico dall’Abate Salazar di Leukania. Madara citò la sua fama storica di superbo amministratore: sotto la sua guida, le finanze del monastero erano pressoché triplicate, grazie all’ideazione del primo mercato regionale e all’intensificazione del commercio del legname. La Gilda del Granchio doveva essere una delle famose Gilde di Navigatori di Antares, i cui bastimenti ancora solcavano le acque costiere dell’Oceano da Nord a Sud, carichi di merci preziose. Secondo Madara, le “commissioni” citate nel registro riguardavano il prezzo del trasporto per mare di legnami pregiati di proprietà dell’Ordine: metà delle facciate dei palazzi di Silon era decorata coi legni malleabili e resistenti provenienti dalla foresta di Leukania. «Devi proprio partire domani? Potresti are qualche giorno qui con noi, riprendere le forze...» «Ti ringrazio, amico, ma non posso. Ne abbiamo già discusso.» Madara scalciò un rametto dentro al falò. «Bah! Tanta fretta, e non mi hai ancora spiegato il motivo!» «La vita di una persona che mi è molto cara dipende dalle mie azioni, Madara. Non chiedermi altro, se mi sei amico.»

Raduan avrebbe voluto confidare all’Abate il vero motivo del suo viaggio, ma le voci correvano rapide di bocca in bocca, e non poteva fidarsi di nessuno. Era un miracolo che la notizia della disfatta della Compagnia, e della scomparsa del suo leggendario condottiero, non si fosse ancora diffusa a macchia d’olio per le lande del Regno. Erano novità pericolose. Con l’inizio della guerra, gli equilibri si erano incrinati: tutti erano a caccia di vuoti di potere da riempire. La fine prematura di Abel avrebbe fatto gola a molti, da un lato e dall’altro delle barricate. Uccidere il solo uomo che ancora cercasse di salvare la vita del Bianco Viandante sarebbe parsa una mossa logica agli avvoltoi. Come se il suo compito non fosse già abbastanza difficile. «Lasciaci almeno rifornirti di provviste per il viaggio» disse Madara «Ci faremo bastare quel che abbiamo recuperato dalle macerie. Abbiamo persino avanzato qualche bottiglia di liquore, se ti va.» «No, grazie. Ha un effetto troppo esplosivo per i miei gusti...» Risero assieme. Attorno al falò, i monaci bevevano e cantavano, felici e ancora increduli della libertà riconquistata. Gonzo continuava la sua allegra pantomima, tra fischi e risate. Madara lo osservò per alcuni istanti, poi girò lo sguardo su Raduan, e un sorrisetto gli increspò le labbra. «Che c’è?» chiese Raduan. «Nulla, guerriero, nulla. Anch’io ho i miei piccoli segreti. Ma questo lo scoprirai da te, domattina.» Raduan alzò un sopracciglio. «Domattina» ripeté Madara. -----E il mattino venne, mai troppo rapido per Raduan. Aveva ato una notte quasi insonne, e non certo a causa della scorpacciata di carne o dei numerosi boccali di birra. L’aspettativa del viaggio lo divorava dal momento in cui aveva posato gli occhi sul Libro Mastro. Mentre svolgeva meccanicamente i preparativi della

partenza, i suoi occhi scorgevano soltanto le scogliere proiettate sulle acque dell’Oceano, i moli carichi di balle di merci, i bastimenti con le grandi vele spiegate. Gli sembrava persino di sentire l’odore salmastro delle acque, la carezza della brezza marina sulla pelle... Non si accorse di Gonzo fino a quando questi non sopraggiunse a cavallo di una bestia macilenta, e la affiancò al suo destriero. Indossava una tunica bordata e dei sandali nuovi, e qualcuno gli aveva misericordiosamente potato la massa informe di barba e capelli. «Ehilà, pronti a partire?» domandò il monaco, tutto sorriso. L’attenzione di Raduan tornò di colpo al presente. «Pronti, hai detto?» «Sì, visto che verrò con te.» Un secchio d’acqua gelata non avrebbe avuto un effetto più brutale sul guerriero. «Che assurdità è questa?» sbottò. Gonzo si fece timido. «M-Madara non ti ha detto nulla?» Raduan ripensò con irritazione alla sera precedente: «Anch’io ho i miei piccoli segreti» aveva detto l’Abate. «Chi ti ha dato un’idea del genere?» domandò. «Io, guerriero» rispose la voce grossa dell’Abate alle sue spalle. Quella mattina Madara aveva un aspetto formidabile nella sua tonaca vermiglia, col cranio lucido come una palla di cristallo. Raduan cominciò a ribattere, ma il monaco coprì la voce con la sua: «È un desiderio di Gonzo, in primo luogo. Ed è anche la mia volontà.» «Non mi piace ramazzare per terra!» disse Gonzo «E ancor meno quando Bylak

usa la scopa per bastonarmi!» «Gonzo può volere quel che gli pare» sbraitò Raduan «e gli sono grato per tutto l’aiuto che mi ha dato. Ma non ha senso che parta insieme a me!» «Ha tutto il senso di questo mondo, invece» disse Madara «Non è uno di noi, lo sai anche tu, ti ho raccontato la sua storia. I voti che ha preso per entrare nell’Ordine erano vuoti di significato, una mera necessità per permettergli di vivere tra noi, al sicuro. In questi giorni mi sono reso conto che non serve più. Molti anni sono ati, e così l’acqua sotto i ponti. È tempo che Gonzo si riprenda la sua vita.» «Ahh!» sospirò Gonzo, inspirando a fondo l’aria fresca del mattino «Potrei spiegare le alucce, se fossi un uccellino. Ma non chiedetemi di cantare, per amor di Abidan e del suo sensibile creato!» Raduan non si arrese. «E cosa c’entro io? Perché non punta il muso del suo ronzino verso Sud? Il Regno è grande, e ricco di bellezze da ammirare!» «Da solo?» chiese Madara. Gonzo si grattò la testa, lievemente a disagio. «Non ce la farebbe mai. Durante tutta la sua vita è sempre stato circondato di persone fidate. Pochi amici, a dire il vero, eppure tutti hanno badato a lui in qualche modo.» «E adesso toccherebbe a me?» Gonzo lo guardò con aria offesa. «Apri il tuo cuore, guerriero!» disse l’Abate «In un paio di giorni hai fatto per lui più di quanto io o chiunque altro abbiamo fatto nel corso di anni! Lo hai convinto ad aprire gli occhi e lottare, gli hai fatto ricordare cosa vuol dire essere un uomo!» «Pensavo di saperlo già: pisciare in piedi, e tutto il resto» mormorò Gonzo, talmente basso che solo il suo ronzino poté udirlo. Raduan scosse di nuovo la testa.

«La mia non è una gita di piacere, Abate! Vado incontro a grandi pericoli, senza una traiettoria precisa, la scoprirò lungo il cammino... Per quel che ne so, potrei essere diretto a uno scoglio in mezzo ai ghiacci!» «Se il cammino si rivelasse troppo difficile, sarà lo stesso Gonzo a scegliere di rinunciare. Fino a quel giorno, potrà esserti d’aiuto, come una specie di scudiero. Anche se ha la testa dura, quando ci si mette sa far di tutto. E pensa a quanto potrà crescere in tua compagnia!» «Non cresco da quando avevo quindici anni» disse Gonzo. «Oltretutto ha il cervello fino» continuò Madara «Purché tu lo convinca a tener la bocca chiusa in presenza di altre persone.» «Fantastico!» esclamò Raduan, levando le braccia al cielo «Visto che non ho già problemi a sufficienza, Abidan mi affibbia uno scudiero chiacchierone e senza rotelle per farmi compagnia!» «Non Abidan, guerriero. Sono io che te lo affido, ma sono certo che il Fabbro Celeste approvi la mia decisione. Allora, accetti?» Raduan imprecò tra i denti, spostando lo sguardo dal sorriso compiaciuto del monaco all’espressione speranzosa di Gonzo. «E va bene! Ma se mi intralcerà anche soltanto una volta, o se non saprà tenere chiusa quella boccaccia quando non è interpellat...» «Uh-uhhhhh!» strillò Gonzo, rizzandosi sulle staffe «All’avventura!» «...appunto» terminò il guerriero, con aria di scorno. «Hai fatto la scelta giusta» approvò Madara con un cenno del capo. Anche gli altri monaci accorsi a salutarli erano d’accordo, a giudicare dagli ampi sorrisi stampati sui loro volti. Il destriero di Raduan sbuffò, agitandosi. «Ora di partire» disse il guerriero «A meno che tu abbia altre sorprese per me, Abate.»

«Soltanto una.» Infilò una mano tra le pieghe della tonaca e ne estrasse un medaglione di metallo brunito, che recava l’immagine di un’incudine circondata da una cornice di stelle. Lo soppesò un paio di volte, poi lo gettò a Raduan, che lo afferrò al volo. Il metallo, freddo e pesante tra le sue dita, gli infuse subito sicurezza. «Il Medaglione dell’Ordine!» esclamò «È il simbolo della tua autorità, Abate. Perché darlo a me?» Madara sminuì il gesto con un sorriso. «Qui sanno tutti chi comanda, non mi serve. E se proprio ne sentirò la mancanza, me ne farò dare un altro dal Consiglio. A te, invece, potrà far comodo. L’emblema del Fabbro apre porte che a prima vista sembrano sbarrate.» Raduan annuì, comprendendo. L’influenza dell’Ordine l’avrebbe aiutato ad aprirsi il cammino tra i meandri della burocrazia delle Gilde di Antares, come minimo. Era una sorta di potente alleato tascabile. Ringraziò con un cenno del capo. «E ti aiuterà a ricordarti di noi» aggiunse l’Abate «Lo rivoglio indietro, intesi? Quando avrai fatto quel che devi, dovrai tornare a restituirmelo.» «Sarà fatto» sorrise Raduan. «E per me nessun regalo, Abate?» protestò Gonzo «Dopo tanti anni di amicizia e amorevole convivenza...» «L’invito a tornare è soltanto per Raduan, lestofante!» scherzò Madara «Tu non farti più rivedere!» Diede una pacca sul posteriore del ronzino, che scattò avanti trascinandosi dietro Gonzo appeso alle staffe. Il poveretto uscì di scena con un alto lamento, seguito dal coro di risate dei monaci. «Addio!» gli gridò dietro Bylak, agitando per aria la sua inseparabile padella. Raduan storse le labbra in un sorriso.

«Meglio che vada anch’io, o lo perderò per strada ancor prima di cominciare!» Si chinò sulla sella per stringere la mano a Madara, poi salutò tutti gli altri con un ampio cenno del braccio, e diede di sprone al cavallo. I monaci rimasero ad osservare in silenzio la figura che si allontanava, finché non venne inghiottita dagli alberi. «E adesso?» chiese Bylak. «Ci rimbocchiamo le maniche» rispose Madara. -----«Ci siamo!» pensò Raduan, quando scorse il torrente di luce che scaturiva dalla breccia tra gli alberi. Gonzo, che trottava accanto a lui, si schermò gli occhi con una mano. «Per la barba del Fabbro!» esclamò «Sta andando a fuoco qualcosa?» «No, Gonzo. È la luce del sole, come non la vedi da tempo.» Lasciò che il cavallo accelerasse attraverso il varco, finché i raggi caldi gli bagnarono il viso. Chiuse gli occhi, inalando l’aroma dell’erba dei campi. Finalmente avevano raggiunto i confini della dannata foresta. Gonzo sporse la testa fuori dall’ultima fila di tronchi e si guardò attorno un paio di volte, semi accecato. Aprì la bocca in un’esclamazione di sorpresa. «Non ricordavo che il mondo fosse così... grande!» «Non è che un pezzettino, amico mio! E non riempirti gli occhi tutto d’una volta. La pianura ci accompagnerà fino a destinazione.» Puntò lo sguardo verso occidente, dove l’Oceano li attendeva oltre la linea dell’orizzonte. Cavalcando di buona lena, ce l’avrebbero fatta in un paio di giorni appena. «Ci saranno delle navi, eh Raduan? Non ne ho mai vista una in vita mia... Scommetto che sarei un ottimo capitano!»

Un soffione gli si posò sul naso, mentre parlava, facendogli storcere lo sguardo. Starnutì con tale violenza che gli vennero le lacrime agli occhi. «Andiamo, lupo di mare!» scherzò il guerriero, dando un leggero strattone alle redini. Se Dorian fosse stato al suo fianco, avrebbero certamente lanciato i destrieri in una corsa forsennata. Con Gonzo era meglio non provarci, era già tanto che fosse giunto fin lì senza incidenti. A parte il giorno prima, quando era rimasto appeso a un ramo. Stirò le labbra in un sorriso. Fino ad allora quello strano personaggio non gli era stato d’impiccio, anzi aveva contribuito a tenergli alto il morale con la sua bizzarra compagnia. O era soltanto l’effetto benefico dell’essersi lasciato alle spalle il buio della foresta? Per l’ultima volta spinse lo sguardo tra i grandi alberi e le loro radici ritorte, mentre la sua mano correva alla pietra nera nascosta nella giubba. La superficie liscia e fredda non diede segni di vita. Cavalcarono tutto il giorno verso Ovest, inseguendo il sole nel suo lento corso. Gonzo parlò meno del solito, assorbito dal luminoso paesaggio dei campi - o forse per aver inghiottito l’ennesimo moscerino risucchiato dal vento. Raduan scrutava instancabilmente i dintorni, conscio della prossimità della zona di guerra. In effetti scorsero più di una nube di fumo nero in lontananza, e la sera videro formarsi un mare di luci tremolanti, là dove un battaglione aveva piantato le tende. Si tennero il più possibile alla larga, nonostante Gonzo vantasse una curiosità degna di un bambino. Di notte, accanto al falò, il guerriero dovette riempirgli la testa di orribili immagini di guerra e distruzione, per convincerlo a rinunciare al proposito di ammirare l’esercito da vicino. Funzionò, ma fino all’alba dovette sorbirsi i rantoli del sonno agitato del suo impressionabile compagno di viaggio. Verso il mezzodì del terzo giorno, già in ritardo rispetto alla tabella di marcia che Raduan si era prefissato, si trovarono il cammino sbarrato da un’inattesa fila di carri, cavalli e gente appiedata. La massa umana copriva la strada maestra in tutta la sua larghezza, e avanzava con una lentezza esasperante. Il cigolio di mille ruote e il marasma di voci concitate non riuscivano ad eclissare del tutto i lamenti di dolore dei molti feriti, sdraiati sui carri o zoppicanti nel mezzo della folla. «Che succede?» domandò Gonzo.

«Guai in vista, temo» mugugnò Raduan. Scese di sella e, tirando il cavallo per la cavezza, affiancò qualcuno per chiedere ragguagli. L’uomo girò la testa avvolta in una benda macchiata di sangue, e rivolse al guerriero l’unico occhio scoperto. «È un posto di blocco» disse, con voce raschiante «Quei maledetti non vogliono lasciarci are!» A Raduan venne subito in mente la massa di profughi diretti a Sud, verso Silon, e non gli fu difficile cogliere il parallelo. «Tutta questa gente è diretta ad Antares?» chiese, sapendo già la risposta. «Puoi crederci, amico. È l’unica città sicura del Regno, per quanto ne so.» Raduan concordò con un cenno del capo. «Che diamine sta dicendo?» gli sussurrò Gonzo, avvicinandosi. «No, ha ragione, avrei dovuto immaginarlo.» «Cos’ha questa città di tanto speciale? Maghi? Navi sputafuoco? Mura alte come montagne?» «Meglio ancora: la garanzia di non subire attacchi da nessuna delle parti in guerra.» Gonzo fece tanto d’occhi. «Le Gilde dei Navigatori.» spiegò Raduan «Antares vive di spedizioni per mare, in tempo di pace come in tempo di guerra. Anzi, forse è proprio durante i conflitti che raggiunge l’auge della sua ricchezza.» «Quei bastardi fortunati!» sbraitò il ferito, che accompagnava i loro i «Nessuno come loro è in grado di dominare le correnti dell’Oceano, così i Principi se li devono tener buoni! Chi altri, sennò, muoverebbe i loro eserciti da Nord a Sud, e viceversa? Chi trasporterebbe le vettovaglie e tutto il resto, con tanta velocità e sicurezza?»

«Proprio così» annuì Raduan «Se già in condizioni normali i loro servigi sono essenziali ai Principati, immaginatevi adesso.» «E allora perché uno dei principi non mette la città a ferro e fuoco?» disse Gonzo «Taglierebbe le vie di mare al nemico!» «E le proprie al tempo stesso, senza ricavarne vantaggio. No, Gonzo, le Gilde hanno svolto un eccellente lavoro lungo i secoli. Si sono rese così indispensabili al resto del Regno, che oggi possono godersi la guerra da una posizione di assoluta tranquillità, e lucrarci sopra.» «Bastardi fortunati!» ripeté il ferito. «Da dove venite?» gli domandò Raduan, scrutando le persone che avanzavano strascicando i piedi tutt’intorno a loro. «Un po’ da tutte le parti. La maggior parte, come me, viveva nei campi. Contadini, allevatori, carpentieri, fabbri, e così via. Io badavo a un gregge, mi vantavo di aver l’occhio più abile del Regno nello scorgere i predatori!» Così dicendo, sfiorò con le dita l’orbita coperta dalle bende. «Mai che lupi o sciacalli mi abbiano divorato un agnello, lo giuro! Poi sono arrivati quei maledetti con le loro spade e le loro corazze, e mi hanno portato via tutto in una volta sola...» «Tutto no» cercò di consolarlo Raduan «Hai ancora la tua vita.» «Per quello che vale» rispose l’uomo «E non la conserverò ancora a lungo, di questo o. Chi ci garantisce che i soldati non ripiegheranno fin qui per fare piazza pulita? Anzi, adesso che ci penso, potrebbero chiamarli proprio da Antares, per evitarsi il problema di doverci ospitare tutti quanti. Una bella strage notturna, e tutto risolto!» Gonzo si toccò la fronte con due dita, in segno di scongiuro. «Finora alla mia gente è andata fin troppo bene» continuò l’uomo «Alcuni sono morti, sì, abbiamo perso tutto e ci hanno scacciati dalle nostre terre, però... ad altri è andata peggio. Vedete quel povero disgraziato laggiù?» Indicò con un cenno del capo un giovane dalle vesti stracciate, che camminava ciondolando con lo sguardo perso nel vuoto. «Ogni tanto balbetta qualcosa, o urla, ma dubito che tornerà mai in sé.»

«Che gli è successo?» «Demoni» disse l’uomo, abbassando la voce. Raduan sentì i brividi corrergli lungo la spina dorsale. Demoni. Non faceva a tempo a scacciarli dalla propria mente, che i dannati mostri tornavano a rendergli la vita un inferno. Se soltanto la Compagnia... Se Abel... Gonzo lo squadrò con preoccupazione, vedendolo digrignare i denti. «Qualcosa non va?» «Non c’è nulla che vada, a dire il vero. Su sbrighiamoci.» «Ma...» «Resta pure qui, se ti pare. Io vado avanti.» Senza aspettare una risposta, Raduan montò a cavallo e spronò la bestia fuori dalla strada di terra battuta. Tra le proteste della folla, prese a scavalcare la fila trottando lungo il margine erboso. «Che fa? Che gli è preso?» sbottò il ferito. «Non lo so, però è lui che comanda» disse Gonzo, con una scrollata di spalle «Addio e buona fortuna, amico! Anche se non sei sulla buona strada, lasciatelo dire.» «Ehi!» Saltò in sella con una risibile imitazione dello slancio atletico di Raduan, e per poco non capitombolò a terra con l’arcione e tutto. In qualche modo, riuscì a partir dietro al guerriero tra gli improperi dello sciame di profughi, e le mani robuste di un contadino che cercò di strappargli via una caviglia. Quando riuscì a ricongiungersi al compagno di viaggio, si trovavano già a ridosso del posto di blocco. Raduan puntò dritto sul nutrito contingente di guardie che sbarrava l’accesso alla moltitudine urlante.

«Altolà!» sbraitò un ufficiale, e subito una folta schiera di alabarde costrinse i due cavalieri a fermarsi. «Aprite il o!» ribatté Raduan in tono non meno autorevole «Siamo diretti ad Antares, per conto dell’Ordine di Abidan!» «Chi, tu e quella scimmia ammaestrata?» reagì il soldato, senza mascherare il proprio disprezzo. «Non sapevo che fossimo parent...» cominciò Gonzo, prima che Raduan lo zittisse con un’occhiata fulminante. «Se non credi a me, crederai a questo» disse, e tirò fuori il medaglione donatogli da Madara, mostrandolo teatralmente col braccio rivolto al cielo. L’ufficiale non sembrò per nulla impressionato. Tra la folla e i soldati sorse invece un mormorio, e metà delle alabarde si piegarono a terra. «Che fate, incapaci?» urlò l’ufficiale. «Sergente, il simbolo di Abidan il Grande!» disse un soldato a mezza voce, puntando l’indice sul medaglione come se il suo superiore non l’avesse notato. «Il Fabbro è dalla nostra parte...» osò aggiungere un altro. Il sergente strinse i pugni e imprecò tra i denti, ma dopo aver ato gli occhi sui suoi sottoposti non ebbe nulla da replicare. Rivolse a Raduan una smorfia rabbiosa, e a Gonzo un’occhiata che gli fece accapponare la pelle. «ate, e levatevi di torno. Non ringraziate il vostro Dio, ma la devozione di questi sciocchi!» Raduan chinò il capo e proseguì, mentre la selva di punte acuminate gli si apriva dinanzi. Gonzo lo seguì a testa bassa. «Portate il capo con voi al tempio, qualche volta» accennò ai soldati «Gli farebbe un gran bene.» Raduan gli diede uno scappellotto, ringraziando in cuor suo Madara e l’eccellente iniziativa di consegnargli il medaglione. Con la coda dell’occhio,

vide la massa di disgraziati agitarsi alle loro spalle, indignati dalla facilità con cui erano riusciti a are. Chiuse le proprie orecchie e il proprio cuore ai lamenti di protesta, e rivolse una silenziosa richiesta di perdono al Fabbro. Era stato necessario. Tutto era necessario, per salvare Abel.

X - Antares

Il sentiero si inerpicava sul colle in ampie spire, vigilato ogni cento i da coppie di soldati pesantemente armati. Da quel lato del posto di blocco, osservò Raduan, i viandanti non erano che una minima frazione della fiumana di disperati che attendeva il proprio turno all’esterno. Erano comunque troppi per la larghezza del aggio, per cui dovette rassegnarsi a proseguire al o, col ronzino di Gonzo incollato al fianco. L’ex-monaco aprì la bocca in uno sbadiglio. «Andiamo tutti nella stessa direzione.» «Sì. Chi già si trova ad Antares non abbandonerà di certo il posto. A meno di trovare una nave che lo porti il più lontano possibile dal fronte.» Come sempre, all’udire la parola “nave”, gli occhi di Gonzo si illuminarono. «Credi che anche noi viaggeremo per mare, Raduan?» «Può darsi. Tutto dipende da quel che scopriremo nei registri della Gilda.» Gonzo si grattò la testa. «Questo tuo amico perduto... com’è che si chiama...?» «A... Artemis.» Sarebbe rimasto in compagnia di Gonzo per molto tempo ancora, perciò aveva deciso di rivelargli lo scopo del viaggio, omettendo però il vero nome di Abel. Un nome troppo importante e conosciuto, che non doveva giungere alle orecchie sbagliate. «Ecco, Artemis. Dev’essere davvero una brava persona, per spingerti a fare un viaggio del genere.» «Più di quanto immagini, Gonzo. Spero che tu lo possa conoscere, un giorno.»

«Credi che diventeremo amici?» «Non solo. Credo che troverà persino il modo di riempire di buon senso quella tua zucca vuota.» «Ehi, vacci piano! Sono appena un individuo eccentrico!» «Se fossi ricco e potente saresti eccentrico, amico mio. Invece sei solo matto da legare.» «Matto da legare un Golem, vorresti dire.» «Bella risposta!» rise Raduan. L’allegria durò poco, incolonnati dietro quella fila di gente stanca e silenziosa, che seguiva il sentiero con o meccanico. Quanti di loro avevano perso tutto a causa della guerra? Quanti avevano dovuto scegliere tra la fuga e la morte? Raduan avrebbe voluto confortarli, convincerli che c’era ancora speranza. Tutto inutile a parole. Il meglio che potesse fare era rintracciare Abel sano e salvo, e riaccendere la sua luce nel mondo. All’imbrunire, quando raggiunsero il punto più alto del cammino, la fila dei rifugiati si era sfoltita: pochi disponevano di un cavallo o di un mulo, gli altri rallentavano il o lungo la salita. Raduan spinse il destriero fin sul ciglio dello strapiombo che marcava il versante opposto del colle, scendendo fino alla cittadina abbarbicata sulle pareti di un fiordo. Gonzo lo seguì con esagerata prudenza, e si fermò dietro di lui. «Il mare!» sussurrò, osservando a bocca aperta la distesa d’acqua scura, su cui splendeva uno spicchio di luna nuova. «Il Grande Oceano» lo corresse Raduan. Le acque sembravano tranquille a quella distanza, ma era certo che lungo la discesa avrebbero cominciato a udire il fragore delle onde e a scorgere il candore della schiuma. L’Oceano era una fiera selvaggia e indomabile, dinanzi alla sua immensità anche i più scafati navigatori del Mare Interno tremavano come marinai d’acqua dolce. «Le navi!» strillò Gonzo, con tale entusiasmo da far voltare tutti i viandanti di

aggio. Era vero. Anche Raduan sorrise allo scorgere le sagome galleggianti, che da quella distanza parevano barchette giocattolo. «Vuoi vederle da vicino?» disse. «Eccome!» «Allora stammi appresso con quella tua bestiaccia, se non vuoi che ti lasci indietro.» Gonzo seguì le istruzioni fin troppo alla lettera. «Non così appresso, dannazione! Vuoi farci rotolare giù dal pendio?» «Sarebbe il modo più rapido...» «Per spezzarci l’osso del collo! Su, muoviamoci, sarà già notte quando arriveremo.» Mentre scendevano lungo il sentiero stretto e tortuoso, a ridosso della parete rocciosa, gli astri sorsero nel cielo come un campo di fiori d’argento. La loro luce soffusa, insieme a quella delle torce piantate a intervalli regolari lungo il percorso, permise loro di scendere a valle in sicurezza. Le prime case della città apparvero all’improvviso, costruzioni dai tetti aguzzi fatte della stessa roccia grigiastra del colle. A tratti erano così numerose e vicine tra loro da far pensare alla scia di massi causata da una valanga. Il sentiero si appianò e divenne una stretta via tra le abitazioni, bagnata dai fasci di luce che sfuggivano dalle finestre e dagli usci spalancati. La stagione era calda, buona parte degli abitanti di Antares si godeva il fresco della notte sedendo all’aperto sui gradini di casa, o bighellonando davanti alle osterie. C’era musica e movimento, lo spettro della guerra sembrava lontano, esiliato oltre le ripide pareti del fiordo insieme al resto del mondo. «Qual è il cammino più rapido per il porto?» domandò Gonzo. «Non lo so, e a dire il vero per stasera non mi interessa.»

«Ma... le Gilde! Le navi!» «Avremo tempo domani.» «Ma...!» «Niente ma, Gonzo. Si è fatto tardi. Non sappiamo che tipo di gente bazzichi i moli a quest’ora. O meglio, un’idea ce l’ho. Dammi retta, meglio aspettare le luce del sole.» Gonzo fece per aprir bocca, ci ripensò, e mise su il broncio. Rimase in silenzio lungo tutto il percorso, mentre Raduan cercava una locanda dall’aspetto decente. Si fermarono davanti alle stalle dell’ “Anemone Rossa”, una costruzione a tre piani che aveva visto giorni migliori, ma che a paragone di tante altre pareva quasi lussuosa. Un ragazzo prese i loro cavalli - dovette quasi strappare le redini di mano al sospettoso Gonzo - ed entrarono nella sala comune. Manco a dirlo, era affollata e chiassosa oltre ogni misura. Il fatto più preoccupante era che buona parte degli avventori fossero soldati, le cui livree sfoggiavano i colori più diversi: il blu notte di Gomer, il terra bruciata di Hiram, persino il verde di Feledan. Sedevano a tavoli separati, si lanciavano occhiate minacciose e improperi, eppure nessuno si stava scannando. Miracoli della neutralità. A scanso di guai, Raduan guidò Gonzo a un tavolo d’angolo isolato, occupato soltanto da un ubriaco che russava con la testa sul tavolo. Ordinarono limpaq e due scodelle di stufato. L’oste li servì senza nemmeno guardarli in volto: era troppo occupato a seguire con la coda dell’occhio quel che accadeva ai tavoli dei soldati. «Non potevano trovarsi un altro posto?» mormorò tra i denti, mentre quasi versava una scodella addosso a Gonzo. Raduan riuscì a chiamare la sua attenzione soltanto quando poggiò un mucchietto di monete sulla superficie graffiata del tavolo. Chiese ed ottenne una stanza con due letti al secondo piano, l’ultima libera in tutta la città, a dire dell’oste, che propose un prezzo assurdo. Dopo una snervante serie di negoziazioni, che Gonzo ignorò del tutto con la faccia dentro la scodella, il guerriero riuscì a strappare un valore accettabile. L’oste si allontanò scuotendo la testa, pur non sembrando così scontento. Al contrario del suo compagno di viaggio, Raduan mangiò con tutta calma, un

boccone dopo l’altro, studiando l’interno della sala e i suoi occupanti. Indicò a Gonzo una grossa tela dipinta che campeggiava sulla parete alle spalle del bancone. I soggetti del dipinto, un ritratto di gruppo tracciato con vivaci colori ad olio, erano personaggi autorevoli e allo stesso tempo stravaganti. Vestivano riccamente, ma portavano strani accessori, baffi arricciati e barbe a punta, e un curioso campionario di cappelli. «Sai chi sono quelli?» domandò. «Il Pirata Barbacane e i suoi fratelli?» «Non proprio, ci sei andato vicino. Sono i Sette Capitani di Antares.» «Chi?» «I reggenti della città, quelli che mandano avanti le cose.» «Non hanno l’aria dei nobili.» «E infatti non lo sono. Ognuno di loro è a capo di una Gilda dei Navigatori. Fanno soldi a palate con i loro commerci, leciti o meno. La nobiltà non è di loro interesse. Si accontentano delle navi, del lusso e delle belle donne.» «Chiamali stupidi...» Raduan storse il naso. «Ricordati che eri un monaco fino all’altro ieri.» «Anche tu lo eri, e la cosa non ti impedisce di scolare un boccale dopo l’altro!» Il guerriero arrossì dietro ai tre boccali vuoti. «Questo cos’ha a che vedere...» protestò, quando un piatto s’infranse sulla parete sopra la sua testa. In un attimo fu il finimondo: un gruppo di mastodonti con le uniformi di Hiram si alzò a fronteggiare una tavolata piena di soldati di Feledan, che li accolsero a pugni e pedate. In breve anche un paio di guerrieri di Gomer si gettarono nel mezzo, e cominciarono a volare oggetti da tutte le parti. Prima che i litiganti

sguainassero le armi, l’oste si portò un fischietto alle labbra. La nota acuta richiamò immediatamente un drappello di guardie cittadine, appostate in strada fuori dalla locanda. Il tafferuglio prese i toni di una battaglia in miniatura. Raduan non si scompose più di tanto: si era aspettato qualcosa del genere fin da quando avevano messo piede nell’ “Anemone Rossa”. Pescò Gonzo da sotto il tavolo dove si era andato a nascondere, tirandolo per il colletto della tunica, e lo spinse su per le scale. «È tardi, andiamo a nanna.» «D’accordo!» annuì Gonzo, livido in volto. Aveva l’aria di rimpiangere la tranquillità del monastero. Salirono due rampe di scale scricchiolanti, scavalcarono un ubriaco disteso in mezzo al corridoio, e presero possesso della loro camera: un bugigattolo delle dimensioni di uno stanzino delle scope, con le pareti scrostate e le imposte dell’unica finestra legate assieme da una corda. «L’ultima stanza libera della città!» sentenziò Gonzo. «Preferirei dormire in stalla con i cavalli» commentò Raduan. Presto la stanchezza fece loro dimenticare ogni difetto di quella maleodorante sistemazione, nonché il frastuono della lotta che proseguiva al piano terra. Ciascuno si sdraiò sul proprio letto - non prima di aver spazzato via gli scarafaggi che vi abitavano - e in pochi attimi la stanza si riempì dell’eco del loro russare. -----Raduan si svegliò di botto nel cuore della notte, senza una ragione precisa. Fu subito colpito dalla totale assenza di suoni: la locanda era silenziosa come una tomba, e dalla strada non proveniva un solo miagolio. Sbadigliò e si girò su un fianco, nella speranza che il sonno lo riaccogliesse tra le sue braccia. I suoi occhi, prima di richiudersi, si posarono sul letto di Gonzo. Non c’era.

Il torpore svanì dalle sue membra in un lampo. Si rizzò a sedere sul letto, preoccupato. Sul pavimento c’erano due vasi da notte, le sacche da viaggio, la spada, e i suoi stivali. Quelli di Gonzo erano scomparsi insieme al padrone. Attese seduto e sveglio per almeno mezz’ora, prima di cominciare a preoccuparsi davvero. Non riusciva a smettere di pensare all’ossessione di Gonzo per le navi, e a quanto fosse rimasto contrariato dal suo rifiuto di accompagnarlo al porto. Possibile che...? «Se l’ha fatto lo ammazzo!» pensò, mentre balzava giù dal letto e infilava gli stivali. Spalancò la porta. Anche il corridoio era immerso in un profondo silenzio, rotto soltanto dall’eco di un leggero russare dietro le porte. Raggiunse le scale a tentoni e scese al pianoterra, guidato da un flebile alone di luce. Nella sala comune l’oste ramazzava il pavimento in beata solitudine, fischiettando. Quando lo vide arrivare, raddrizzò la schiena con uno schiocco. «Che c’è, non riesci a dormire?» gli chiese, sprezzante «L’ho detto e lo ripeto, non servo da bere dopo mezzanotte. È la legge.» «Non sono qui per quello» rispose Raduan «Il mio compagno di stanza è... sparito.» «Avete litigato?» domandò l’oste con un sorriso malizioso. «Non fare lo spiritoso, non sono in vena! Dimmi, per caso è sceso qui in basso?» L’oste fece spallucce. «Non saprei. Credi che mi ricordi tutte le facce di chi entra ed esce dalla locanda?» Raduan glielo descrisse meglio che poté, ma l’altro sbuffò infastidito. «Può darsi che l’abbia visto, può darsi che no. Comunque gli ultimi rompiscatole se ne sono andati da poco. Erano ubriachi, li ho sentiti straparlare del fascino dei moli di notte, e altre sciocchezze. Magari quel tuo amico era con loro, fai ancora in tempo a andargli dietro.»

Il guerriero sentì un peso nello stomaco. Possibile che Gonzo fosse ancor più ingenuo di quel che sembrasse? «Da che parte?» chiese, già diretto alla porta. «Per i moli? Gira a destra e prosegui sempre dritto, non puoi sbagliare. Fa attenzione, non è un bel posto dove eggiare, a quest’ora!» Raduan lo ringraziò con un cenno del capo e si fiondò fuori dalla porta, nell’oscurità della notte. La temperatura era gradevole, in perfetto accordo con la stagione. La cosa neanche ò per la testa del guerriero, che prese a marciare a o rapido nella direzione indicatagli, tra le mute facciate di case e palazzi. Vide di scorcio due o tre guardie impegnate a pattugliare le vie, e si tenne alla larga: a quell’ora era più facile che lo arrestassero per fargli il quinto grado, piuttosto che aiutarlo a cercare Gonzo. Camminò svelto, e raggiunse il porto prima di quanto avesse sperato. Dalla banchina di pietra, decine di moli sorretti da tronchi di legno si addentravano nelle acque sino a perdersi nel buio. Vicino a riva erano ormeggiate barche e golette, ma alla distanza si potevano intravvedere le sagome - alcune gigantesche - dei bastimenti d’alto mare. Gli scafi, grandi e piccoli, rollavano lievemente sul tappeto scuro del mare. Non c’era nessuno in vista. Raduan tese l’orecchio. Dapprima udì soltanto il cigolio del legno, gli schiocchi di vele e cordame, lo sciabordio delle onde. Poi, finalmente, una serie d’imprecazioni ad alta voce, risate, e un rumore di vetri rotti. Scattò in quella direzione, portando la mano al fianco... e solo allora si rese conto di essere uscito disarmato: spada e pugnali erano rimasti in stanza assieme a tutto il resto. Continuò a correre, dandosi dell’idiota. I suoni erano più vicini, provenivano da un gruppo di baracche addossate alla banchina. Svoltò derapando sulla suola degli stivali, e si ritrovò in un vicolo cieco. Ai margini dell’alone di luce prodotto da un lampione ad olio, vide le schiene di tre individui impegnati a schiacciare qualcuno contro il muro. Uno di loro agitava per aria un collo di bottiglia dai bordi acuminati. Raduan lanciò un grido di battaglia e si scagliò sui tre, atterrando con le ginocchia sulla schiena di quello che stringeva la bottiglia. L’uomo rovinò a terra e lasciò cadere la sua arma rudimentale. Il guerriero assalì a calci e pugni gli altri due, tempestandoli di botte. Appena ci riuscirono, i balordi gli diedero la schiena

e scapparono a gambe levate, senza guardarsi indietro. Raduan tornò a fronteggiare il primo, che si stava rialzando a fatica sulle ginocchia. L’uomo gli rivolse un sorriso sdentato, le braccia in alto in segno di resa. Il guerriero ringhiò come un mastino, e il poco di buono si rizzò in piedi e fuggì a rotta di collo, incespicando ogni tre i. «Ubriaconi buoni a nulla...» grugnì Raduan. Si voltò a soccorrere la vittima, pronto a coprirla di meritati insulti, quando si avvide con un sussulto che non era Gonzo. Era un nano, talmente rattrappito su se stesso da sembrare un bambolotto gettato in un angolo della strada. Raduan, nonostante la sorpresa, non dimenticò le buone maniere: gli tese una mano e gli fece segno di alzarsi. «È finita, sta’ tranquillo.» L’ometto si rialzò sulle gambe traballanti e lo fissò con occhi impauriti. Quando si convinse che il peggio era ato, fece un profondo respiro e si scostò una ciocca di capelli dalla fronte prominente. Si rassettò i vestiti prima di rivolgere la parola a Raduan: erano abiti di ottima qualità, che denotavano un certo livello sociale. «Ti devo la vita, amico!» dichiarò il nano, tendendogli una mano dalle dita tozze cariche di anelli. Raduan la strinse son un mezzo sorriso. «La vita forse no, ma di certo ti ho evitato un brutto guaio.» «Come minimo. Sono proprio un idiota! Come se non sapessi quant’è rischioso camminare da soli a quest’ora! Soprattutto per uno come me. Ma quei dannati conti proprio non mi tornavano, e prima che me ne accorgessi la mezzanotte era ata da un pezzo...» Raduan gli rivolse uno sguardo incuriosito. «Non sai di che sto parlando, ti chiedo scusa» si schermì il nano «Mi chiamo Vilk, tanto per cominciare. Sono il capo contabile di una Gilda, lavoro qui vicino. Come dicevo, oggi mi sono perso nei miei calcoli, ho fatto ben più tardi di quel che pensassi, e questo è il risultato! Non fosse stato per te...»

«Felice di esserti stato d’aiuto. A dire il vero neanch’io avo di qui per caso: hai per caso visto un uomo di bassa statura, barbuto, con una tonaca da monaco?» «No, non l’ho visto. Non che prestassi molta attenzione a quel che facevo. Quei dannati mi sono piombati addosso senza che nemmeno me ne accorgessi!» Raduan annuì. Dove diavolo si era cacciato Gonzo? «Va bene» disse «Non importa. Sono contento di averti aiutato, ma adesso devo andare.» «Certo amico, certo! Non finisce così, però, meriti una ricompensa, parola mia! Promettimi che domani verrai a farmi visita alla Gilda. È proprio qua dietro, come ti ho detto.» Il guerriero quasi non gli prestò attenzione: la sua mente era troppo impegnata altrove. «D’accordo» disse. Lo salutò con un cenno della mano e corse via. «Chiedi di Vilk, il contabile!» gli gridò dietro il nano. A seguire, Raduan setacciò buona parte dei moli e delle viuzze prossime alla banchina, senza risultato. Alla fine si diede per vinto e tornò sui propri i fino all’ “Anemone Rossa”, col cuore pesante. Quando entrò, il salone era illuminato dalla luce tenue di una candela poggiata in mezzo a un tavolo. Un uomo russava della grossa, stravaccato all’indietro su una sedia. Sulle prime Raduan pensò che fosse l’oste, poi riconobbe la tonaca da monaco. «Gonzo!» urlò, avvicinandosi coi pugni serrati. Il poveretto si svegliò con un grido e si schiantò a terra con la sedia e tutto. Si rialzò a sedere sul pavimento, massaggiandosi la testa. «Che succede? Il sole è già sorto?» biascicò, la voce impastata dal sonno. «Succede che questa volta ti strappo la testa dal collo, mentecatto!» ringhiò il guerriero «Dove diavolo ti eri cacciato?»

«Ah, quello!» sorrise Gonzo «Mi ero alzato per andare alla latrina - sono troppo timido per i vasi da notte - e sono finito in cantina. Mi sono imbattuto in fiaschi di ottimo vino, così mi sono trattenuto a conoscerli meglio. Il tempo è volato. Peccato che l’oste mi abbia interrotto sul più bello.» «Che...?» «Quello stolto! Prima si dimentica di chiudere la porta a chiave, e poi se la prende con me per averne approfittato! Comunque ha messo i fiaschi sul nostro conto. Gli ho detto di non preoccuparsi, che avresti pagato tu. Ho fatto bene?» Il guerriero non sapeva se ridere, piangere, o dargliene un sacco e una sporta. Alla fine chinò il capo e si diresse alle scale senza una parola. «Che fai?» domandò Gonzo. «Me ne torno a dormire. È stata una lunga notte, spero che l’alba non arrivi troppo presto.» «Aspettami, vengo anch’io! Ero in pensiero, sai? Dove sei stato, da solo nel cuore della notte? Non lo sai che è pericoloso?» «Grande Abidan, dammi la forza!» implorò Raduan, imboccando stancamente la rampa di scale. -----All’indomani, nonostante tutto, si alzarono di buon ora. Questa volta fu Raduan a tenere il broncio col suo compagno, e per pura ripicca si rifiutò di nuovo di portarlo a vedere le navi. «Abbiamo ben altro da fare.» L’unica cosa che potesse restituirgli un po’ di buonumore, quella mattina, era scovare i registri di viaggio di Helah. Il Libro Mastro di Leukania faceva riferimento alla Gilda del Granchio: siccome non aveva idea dove trovarla, avrebbe iniziato dallo stesso punto della notte precedente. Il nano - Flik, si chiamava? O era Filk? - lavorava in una Gilda nei pressi, se aveva detto il vero. Era un buon posto dove cominciare a chiedere.

Ripercorse i i della sua avventura notturna, fino alla banchina, quindi si trascinò dietro il recalcitrante Gonzo tra le case del porto. «Le navi!» «Saranno ancora lì, più tardi. Su, sbrigati!» Svoltarono in una piazzetta dall’odore salmastro, e per la prima volta da quando si era svegliato Raduan aprì la bocca in un sorriso. Il nano non gli aveva mentito, la Gilda c’era davvero! Porte e finestre, le pareti, persino il tetto, erano modellati in una malleabile roccia rossastra venata di bianco, e dappertutto sorgevano statue e bassorilievi in forma di granchio. Granchi grandi come massi e granchi minuscoli come puntali. Granchi che dormivano e granchi che correvano, granchi che scavavano e granchi che lottavano. Alcuni sembravano in attesa ai piedi delle mura, altri si arrampicavano sulle pareti, altri ancora facevano capolino dalle finestre rotonde, simili a oblò. O gli aveva dato di volta il cervello, o quella era la sede della Gilda del Granchio. Gonzo rimase a fissarla a bocca aperta, e smise una buona volta di lamentarsi a proposito delle navi. Raduan lo fissò con la coda dell’occhio: in un certo senso era grazie a quell’allocco se aveva trovato la Gilda al primo colpo, e se si era già fatto un amico al suo interno. Possibile che Abidan continuasse ad agire per vie misteriose, attraverso l’indole di quello strano personaggio? «Entriamo?» domandò Gonzo, tirandogli una manica. «Sì.» Si accodarono alla fiumana di persone che già a quell’ora sciamava dentro e fuori dalla Gilda, ognuno concentrato sui propri affari. Raduan notò con sollievo che i militari si contavano sulla punta delle dita. I più sembravano comuni mercanti, coi loro ridicoli abiti dai colori sgargianti. «Cerco Filk, il contabile» disse al primo uomo della Gilda che gli si parò dinanzi. «Vuoi dire Vilk?»

«Credo di sì: un tipo... ehm... di statura moderata...» L’uomo sorrise. «Evita questo tipo di commenti davanti a lui, se ti sono cari i timpani. Comunque sì, è proprio lui. Prendete quel corridoio, svoltate a sinistra, è la seconda porta.» «Vi ringrazio.» Seguirono le indicazioni spremendosi nel mezzo della calca, e raggiunsero la saletta del capo contabile. Vilk era seduto su una poltrona imponente, eclissato dalla montagna di carte impilate sullo scrittoio. Una penna d’oca si muoveva a straordinaria velocità tra le sue dita, facendo la spola tra il calamaio e i fogli sparsi davanti a sé. Alzò appena il capo quando li sentì entrare, pronto a rimbeccarli; non appena si rese conto che quello in piedi sulla soglia era il suo salvatore, ripose la penna e gli donò un enorme sorriso. «Ah, sei venuto amico mio! Ne sono felice! Entra, entra, accomodati pure... se trovi un posto sotto questa montagna di scartoffie! E lui chi è? Il tizio che cercavi ieri notte?» «In persona» rispose Gonzo appoggiando il gomito su un’instabile colonna di fogli. La quale, ovviamente, piombò giù e si sparse sul pavimento. «Ooops.» «Non fa niente, non fa niente! Sedetevi, su! Che vi posso offrire?» «Nulla, grazie» rispose Raduan, appollaiandosi sul bordo di un divanetto semisommerso dai frutti della burocrazia della Gilda. «Per farla corta, sono venuto a sincerarmi se vi foste ripreso dalla disavventura di ieri. E se avreste modo di ricambiare con un piccolo favore.» Vilk aggrottò le sopracciglia. «Non c’è bisogno di tergiversare, né di darmi del “voi”, amico. Sono in debito con te, il minimo che possa fare è darti ascolto.» Raduan annuì, e in poche parole espose tutti i dettagli di cui Vilk aveva bisogno per aiutarli nella loro ricerca. Il nano ascoltò con attenzione quel che aveva da dire, e alla fine schioccò le dita.

«Conosco il posto che state cercando. Venite!» Si lasciò scivolare giù dalla mastodontica poltrona e li precedette col suo corto o fuori dalla saletta. Scostando senza troppi complimenti chi gli si parava davanti, li condusse fino in fondo al corridoio, e poi giù per una rampa di scale scivolose. Quell’area dell’edificio era ben meno affollata. Sulle pareti sbocciavano come fiori grosse macchie d’umidità. «Questo è il cuore della nostra vecchia Gilda» spiegò Vilk «Molti preferiscono dimenticarsi del ato, badare solo alle opportunità del presente, ma non io! Mi piace are il tempo tra gli archivi, comprendere meglio la nostra storia. Lo sapete che qui dentro» e nel dirlo girò una chiave nella toppa di una vecchia porta «sono conservati registri che risalgono a secoli fa?» «Proprio quello che speravo di sentire» commentò Raduan. Entrarono in un’ampia sala stipata di scaffali, carichi di volumi rilegati e plichi di fogli sparsi. Il soffitto era a botte, bassissimo, tanto che dovettero chinarsi per procedere. «Adesso so perché ti piace questo posto» insinuò Gonzo, schivando la gomitata di Raduan. Vilk rise. «Beh, è uno dei motivi, lo ammetto. Non sono tutte rose, però.» Indicò il suolo, e i due notarono che in molti punti, tra i piedi degli scaffali, il pavimento era coperto d’acqua. «In certi angoli arriva fin sopra alle caviglie» disse il nano, scuotendo il capo «Una vera tragedia, dal mio punto di vista. Abbiamo già cominciato a perdere intere sezioni della nostra storia, ma il Capitano è sordo. Guarda solo al futuro e ai profitti, va a finire questa stanza la farà svuotare lui stesso per metterci i suoi lingotti!» Raduan si sentì inaridire la bocca. La frustrante sensazione di fallimento provata nella Biblioteca del Grande Tempio di Silon era troppo recente per averne scordato il sapore: era lo stesso che sentiva adesso. E se i registri del viaggio di Helah fossero già andati perduti? Se le preziose pagine fossero marcite per

sempre sotto una misera spanna d’acqua salata? «Animo!» gli disse Vilk, notando la sua preoccupazione «Sono certo che troveremo quel che cercate. Per di qua, datemi una mano. Mastro Emon, avete detto, e una negoziazione per conto dell’Abate Salazar di Leukania?» «Esattamente. Le negoziazioni non mi interessano, a dire il vero. La mia speranza è che, una volta risolta la faccenda, Helah ne abbia approfittato per contrattare una nave della Gilda, e proseguire il suo viaggio verso Nord.» Vilk si lisciò i baffetti con le dita. «Dipende dall’esito delle negoziazioni. Se le cose non sono andate come i monaci speravano, è facile che Helah abbia cercato la sua nave altrove.» «Lo so, ma una volta tanto preferisco essere ottimista.» «Ben detto! Diamoci da fare!» arono il resto della mattinata scandagliando decine di scaffali sotto l’instancabile guida di Vilk. Il nano giunse al punto di farsi issare sulle spalle di Raduan per poter cercare meglio sui ripiani più alti. Prendeva un volume, lo sfogliava con movimenti nervosi, poi lo metteva da parte e ne afferrava un altro. Benché la scena si ripetesse all’infinito, Vilk non pareva perdere il proprio entusiasmo, e Raduan non era da meno. Gonzo gironzolava qua e là senza una metà, chiaramente annoiato. Si mise a correre dietro a un granchio - uno vero che si era chissà come infiltrato negli archivi della Gilda. Finalmente Vilk stirò le labbra in un sorriso, e piazzò un volume aperto sotto gli occhi di Raduan. «Trovato!» Al guerriero venne voglia di strizzare in un abbraccio quel suo nuovo piccolo amico, ma si contenne. «Tratta proprio di quelle negoziazioni: doveva essere un affare di quelli grossi, all’epoca, perché è descritto con abbondanza di dettagli. Non starò ad annoiarti con una lettura completa, vediamo solo se c’è qualche riferimento a un viaggio successivo...»

Raduan restò ad osservare il nano con il cuore in gola, mentre questi scrutava i registri con espressione seria. Poi il suo volto si illuminò. «Ecco fatto, lo sapevo! Questi registri sono una miniera di informazioni, davvero non capisco perché lasciarli andare in malora!» «Allora?» «Avevi ragione: Helah ha preso a nolo il vascello Orca Azzurra per un mese, per conto del Grande Tempio di Silon. E io so dove cercare i bollettini di viaggio del capitano. Aiutami a raggiungere quello scaffale là dietro. Sì, quello in alto.» Vilk rovistò tra i volumi rilegati in pelle marrone, e ne pescò uno nel mezzo della fila. Consultò l’indice, sfogliò rapidamente le pagine, e infine esibì un sorriso di trionfo. «Lascia che te lo legga. Poi, se vuoi, potrai portarti via le pagine. Tanto a nessuno importerà.» Gonzo si avvicinò ai due con aria incuriosita. Il guerriero non stava più nella pelle. «Va avanti, ti prego!» Il nano si schiarì la gola. La sala era poco luminosa, per cui la lettura avanzò a o di lumaca:

“789 d.f.R., vascello Orca Azzurra, Capt. Smolensk

Brume, XXV Partenza da Antares Sei Monaci Viaggianti sotto la guida di fratello Helah In esplorazione per conto del Grande Tempio di Silon

Brume, XXVI 40° 43’ N 74° 04’ O, tempo stabile Navigazione tranquilla, niente da segnalare Monaci affascinati dal lavoro dei marinai.

Brume, XXVII 42° 21’ N 75° 56’ O, tempo stabile Navigazione tranquilla, niente da segnalare Monaci indagano struttura della nave.”

Vilk continuò a leggere a bassa voce, poi alzò gli occhi dal libro, con una smorfia: «Vi risparmio i prossimi quattro o cinque paragrafi: è sempre la stessa storia, la navigazione procede tranquilla e i monaci ficcano il naso in tutto quello che possono... senza offesa naturalmente...» «Continua, per favore» lo incitò Raduan. «Certo, certo... vediamo, dov’ero arrivato...» ò l’indice sul testo, fino a recuperare il segno. «Ecco qua!»

“Frimaio, IV

51° 33’ N 76° 11’ O, tempo instabile Acque agitate, Monaci sottocoperta, qualche malore.

Frimaio, V 52° 20’ N 76° 00’ O, tempesta Acque molto agitate, Zanne di Pietra vicine Doppio turno di lavoro per la ciurma.

Frimaio, VII 54° 85 N 73° 15’ O, tempo stabile Usciti quasi indenni dalla tempesta Rotta alterata contro la nostra volontà Rinnovato interesse dei monaci per i dintorni.

Frimaio, VIII All’ancora, tempo stabile Monaci insistono per esplorare regione Organizzata spedizione con due scialuppe.

Frimaio, XI All’ancora, tempo stabile Una scialuppa ha fatto ritorno Seconda scialuppa risucchiata dalla corrente Uomini validi a bordo, non perdiamo le speranze.

Frimaio, XV All’ancora, tempo stabile Ancora nessuna notizia Il tempo è buono, perseveriamo.

Frimaio, XX All’ancora, tempo instabile Mare agitato, speranze affievolite Monaci insistono: attendiamo.

Frimaio, XXIII All’ancora, tempo instabile Helah ha fatto ritorno! Solo, su una zattera di fortuna Narra di eventi e luoghi fuori dal comune

Temiamo abbia perso il senno Compagni di scialuppa scomparsi Facciamo ritorno.

Niveo, I 42° 54’ N 74° 41’ O, tempo stabile Monaco Helah agitato, tensione tra i marinai Ci affrettiamo verso casa.

Niveo, III All’ancora, tempo stabile In porto sani e salvi Monaco Helah farneticante Esito della missione negativo.”

Raduan assorbì le parole come una spugna, associandole a quanto riportato da Helah nel secondo brano che era riuscito a recuperare dal Volume IV delle Esplorazioni. Il quadro adesso era chiaro: Helah e i suoi monaci avevano viaggiato a bordo del vascello Orca Azzurra fino alle Zanne di Pietra. Qui, incuriositi dalla natura del luogo, avevano intrapreso un’esplorazione della zona a bordo di scialuppe - certamente i varchi tra gli scogli dovevano essere troppo stretti e infidi per consentire il aggio della nave. Raduan si immaginò l’avventura attraverso gli occhi di Helah, scorse i punti di riferimento che questi citava: uno scoglio dalla forma bizzarra, un grosso abete curvo abbarbicato sul fianco di un roccione...

Ovviamente il resto dell’esplorazione era andato male: Helah era riuscito a malapena a far ritorno alla nave, solo e senza uno straccio di prova a conferma delle sue farneticazioni sulla Valle della Luna. Come non dare ragione al capitano Smolensk, che aveva deciso di fare dietrofront ad Antares e abbandonare la missione prima che le cose prendessero una piega ancor più spiacevole? Il capitano gli aveva fatto comunque un enorme favore: aveva annotato con grande precisione la rotta seguita dall’Orca Azzurra, fino al punto delle Zanne di Pietra in cui l’esplorazione dei monaci aveva avuto inizio! Proprio quel che gli serviva. Le annotazioni di Helah e un po’ di sana fortuna l’avrebbero aiutato con il resto. «So cosa stai pensando» disse Vilk, squadrandolo a fondo. «Sei anche indovino?» commentò Gonzo. «Non è difficile da immaginare» disse Raduan «Adesso ho una rotta precisa da seguire, mi serve solo...» Vilk alzò una mano per interromperlo. «Ho quel che fa per te, amico. Proprio quel che fa per te!»

Chiuso al mondo, il Guardiano attendeva. Presto o tardi sarebbero giunti, la Dama l’aveva predetto. Doveva solo attendere. Attendere. Attendere. Era arduo, quel giorno. Aveva sognato. Nel sogno c’erano altri come lui, un intero popolo. Erano venuti nella Valle da molto lontano. Secoli dopo erano partiti, per non morire. Soltanto lui e l’Angelo erano rimasti a guardia delle porte sbarrate e del segreto che custodivano. Dovevano tornare per loro, ma non l’avevano mai fatto. Poi l’Angelo era morto. Una fitta crudele gli traò il cervello: avrebbe urlato, se avesse saputo come fare. Quando il dolore cessò, l’unico volto che ricordava era quello della Dama. Non c’era nessun popolo, nessun Angelo, non c’erano mai stati. Quella era la sua unica vita, la ragione della sua esistenza. Doveva solo attendere. Attendere. Attendere.

XI - Gli Indagatori

Una secchiata d’acqua gelida riportò Dorian alla realtà: con occhi velati dal sonno, vide una sala dal soffitto a botte e pareti di mattoni giallastri, appena rischiarata dalla tenue luce di lampade ad olio. Aveva il braccio destro sospeso all’altezza del naso, imprigionato al polso da un anello di metallo, a sua volta appeso a una catena che pendeva dal soffitto. Fece per scrollarselo di dosso ma scoprì di non potersi muovere, con il braccio sinistro e le caviglie legati al palo di legno infisso dietro la sua schiena. Grugnì un’imprecazione. «Si è svegliato» commentò una voce sottile. «Alla buon’ora» replicò un’altra, più rude. Due Figli della Notte entrarono nel suo campo visivo, uno basso e tarchiato, con braccia spesse come tronchi, l’altro diafano come un fantasma. Dorian notò subito i loro grembiuli di cuoio nero, macchiati di fluidi che temeva di riconoscere. «Stavo già perdendo la pazienza» disse il mastino. L’altro strinse tra le dita il mento del guerriero e gli sollevò la testa lentamente, fissandolo negli occhi semiaperti. «Non si è ancora del tutto recuperato» osservò. «Ringraziate il vostro veleno» biascicò Dorian. Spostò lo sguardo dall’uno all’altro: «Dove mi trovo? E voi chi siete?» Pensò che non gli avrebbero risposto, ma il tarchiato prese la parola: «Sei nello stesso posto dove ti hanno lasciato, solo qualche livello più in basso. Io sono l’Indagatore Korell, e questi è il mio Maestro, Saliban.» Si avvicinò al guerriero, arrestandosi a una spanna dal suo volto. Aveva capelli radi, una barba malfatta, e un occhio bianco come porcellana. Il suo profumo forte, muschiato, sembrava voler coprire altri odori, non certo gradevoli.

«Ci aspettiamo da te il massimo della collaborazione» disse. Dorian lo fissò dall’alto della sua statura, chiedendosi con repulsa cosa fosse un Indagatore. Quando espresse il suo dubbio a parole, la bocca di Korell si torse in un mezzo sorriso. «Curioso... Gli altri, a questo punto, stavano già piangendo, o implorando pietà, o entrambe le cose...» «Non sono nuovo a questo tipo di esperienze.» Era la seconda volta nel giro di poche settimane che Dorian si risvegliava alla mercé di un sadico. La terza, se contava l’illusione proiettata da Nahash nella sua mente, con Abel nelle vesti di chirurgo diabolico. «Premierò la tua freddezza con una risposta» disse Korell «In ogni caso, le mie parole non lasceranno questa stanza.» Dorian cercò di non pensare alle implicazioni di quell’ultima frase. «Lo studio delle Arti Arcane è la linfa che scorre nelle vene di noi Figli della Notte» continuò Korell «Sono il mistero dei misteri, la chiave di tutti i poteri, la vera ragione della nostra esistenza. Cerchiamo i loro segni in ogni angolo del mondo, dai recessi più impervi tra le montagne, ai vicoli fetidi delle città degli uomini. Ma hai idea di quanto sia difficoltoso? Di quante volte sprechiamo il nostro tempo prezioso correndo dietro a chiacchiere insulse e artefatti fasulli?» Il guerriero non si sforzò di rispondere. Korell schioccò le dita, rivolgendo un sorrisetto crudele al suo braccio sospeso a mezz’aria. «Ogni tanto, però, mettiamo le mani su qualcosa di autentico.» La voce esile del Maestro si intromise nel suo monologo: «Spetta agli Indagatori giudicare quali manifestazioni di Arti Arcane siano reali e degne di interesse, per dare il via allo studio vero e proprio.» Korell chinò il capo. «In essenza, noi Indagatori scaviamo. A volte troviamo qualcosa, più spesso no.

Nel tuo caso, il Primo Fratello ci ha assicurato che avremo successo.» Dorian si sentì la gola secca. Il Primo Fratello doveva essere l’inquietante individuo che gli aveva perforato la guancia con un’unghia, prima che lo trascinassero in quel posto. E non gli era piaciuto l’uso del verbo scavare riferito alla sua situazione, anche perché il carrello stipato di attrezzi affilati, posto proprio sotto al suo naso, lasciava poco spazio all’immaginazione. O fin troppo, a seconda dei punti di vista. Mosse lievemente le caviglie, per verificare se i legacci fossero ben saldi. Korell se ne accorse, e il suo sguardo si indurì. «Scordatelo, guerriero. Il massimo che possiamo prometterti è una morte indolore, se collaborerai.» «Non lo chiamerei proprio un incentivo...» «Ma lo è, stanne certo.» L’uomo scelse un minuscolo coltello tra gli strumenti di morte, e lo rigirò tra le dita: la lama perfetta rifulgeva persino nella semioscurità. Sfiorò con la punta il guanto di Dorian, prima di rivolgergli la parola. «Cominciamo dalle domande semplici: a cosa serve?» Neanche per un attimo Dorian si sognò di spiegarglielo: quanto prima avesse dato le risposte, tanto prima sarebbe morto. Si guardò i piedi, in silenzio. «Da dove viene? Chi te l’ha dato?» proseguì Korell, facendo strisciare la lama fredda lungo il dorso del suo avambraccio. Dorian rise tra i denti. «Mi fa il solletico» spiegò, senza alzare lo sguardo. «Capisco» disse Korell, ritraendo la lama. Un istante dopo, un pugno grosso e duro come un mattone colpì Dorian al mento, facendogli vedere le stelle. Mentre sputava un filo di sangue, Korell lo afferrò per i capelli e lo costrinse ad alzare il capo. «Ricominciamo» disse «A cosa serve?»

«Tu che ne pensi, Indagatore?» rispose Dorian, stirando il labbro tagliato in un sorriso sprezzante. Korell arricciò il naso. Gli rifilò un pugno nello stomaco. E un altro. E un altro ancora. Poi ripeté la domanda. Dorian tossì a lungo, prima di restituirgli lo stesso sorrisetto di prima. «Sarebbe troppo facile se te lo dicessi subito, no?» L’Indagatore lo colpì di nuovo, due, tre volte. Dorian trattenne un gemito quando avvertì lo schiocco del proprio naso che si rompeva sotto quelle nocche dure come l’acciaio. Non era la prima volta che gli succedeva, ma di quel o sarebbe stata l’ultima. «Basta!» ordinò il Maestro Saliban, dopo l’ennesimo fallimento di Korell nell’ottenere una risposta sensata. Gli occhi dell’Indagatore scagliavano lampi di furia, quando arrestò il pugno a mezz’aria. Saliban gli poggiò una mano sul braccio, facendoglielo abbassare. «Il funzionamento del guanto può dipendere dall’integrità del portatore... Se muore troppo in fretta, potremmo ritrovarci con un pugno di mosche. Credi che il Primo Fratello accetterebbe di buon grado il nostro fallimento?» «Che cosa suggerite, Maestro?» grugnì Korell. «Fatti da parte.» Korell si scostò, aprendo e chiudendo le grosse mani macchiate del sangue di Dorian. «È tutto vostro.» Saliban si piazzò dinanzi allo stordito Dorian e gli scostò i capelli dalla fronte sudata, finché questi gli restituì lo sguardo. Strinse il naso del guerriero tra le dita e glielo raddrizzò con uno schiocco. Dorian urlò, la mente improvvisamente lucida per il dolore. Il volto del Maestro Indagatore era una maschera pallida e inespressiva, ma nei suoi occhi brillava un’intelligenza viva, pericolosa. «Resistere è inutile» gli disse «Per quanto tu faccia, prima o poi sarai costretto a

dirci tutto. Solo un miracolo potrebbe impedirlo.» Piegò la testa da un lato, riflessivo. «Ma qui dentro i miracoli non accadono.» Ancora una volta Dorian si rifiutò di rispondere. Dopo tante botte, i percorsi del suo pensiero non erano più retti come all’inizio. Soltanto un punto gli era ancora chiaro: parlare significava accelerare la propria morte. Saliban non perse la pazienza: «Non vuoi dirci come hai ottenuto il guanto? Va bene, lo farai un’altra volta.» La sua voce era suadente, colava come miele nelle orecchie del guerriero. «Mostraci almeno come funziona. Una volta soltanto sarà sufficiente, poi potrai riposarti. Devi essere stanco, e assetato.» Per poco Dorian non gli diede retta, solo all’ultimo decise di resistere. Forse quel corvo aveva ragione, prima o poi avrebbe dovuto sputar fuori la verità. Ma avrebbero dovuto cavargliela con le tenaglie roventi. E forse, a quel punto, la morte gli sarebbe parsa desiderabile. Korell si fece di nuovo avanti. «Pensi davvero di poterci ignorare? Peccato per te, abbiamo tutto il tempo del mondo. Ricominciamo!» Alzò il pugno per rifilare a Dorian un’altra dose del suo rude metodo di indagine, quando Saliban si sporse a sussurragli qualcosa in un orecchio. L’Indagatore abbassò il braccio e diede un’alzata di spalle. «Se lo dite voi...» Dorian si preparò a subire chissà quale sofisticata forma di tortura, invece i due Figli della Notte lo ignorarono per completo e si allontanarono alle sue spalle. Udì lo stridio di una porta che si apriva e chiudeva sui cardini, poi soltanto il silenzio: se n’erano andati, lasciandolo solo. Ringraziò gli Dei: in qualche modo, si era guadagnato preziosi attimi di tregua. Si rilassò, nei limiti consentiti dalla sua posizione. Aveva in bocca il sapore del sangue e respirava con difficoltà dal naso tramutato in un focolaio di dolore pulsante. Eppure se l’era cavata bene: nessun arto spezzato, nessun taglio profondo, nessuna ustione. Sputò un grumo rossastro, maledicendo l’ora in cui si

era fidato del balordo Temar. Mai abbassare la guardia in compagnia di estranei, mai! E dire che non era un novellino... Ora la sua intera missione era gravemente compromessa - per non parlare della sua stessa vita. Che poteva fare, con la sua arma migliore, il guanto, puntata su un’inutile parete? Cercò di smuovere il braccio dall’anello di acciaio che lo imprigionava, senza successo. La mano sinistra e i piedi erano in condizioni anche peggiori, strizzati da una fune che gli mordeva la carne e minacciava di bloccargli la circolazione al minimo movimento. Stizzito, proruppe in una serie di feroci imprecazioni. Se Raduan fosse stato al suo fianco fin dall’inizio, nulla di tutto ciò sarebbe accaduto. Niente Draslund, niente trabocchetti mentali dell’Addestratore di Serpenti, niente duello con Kyra... e di certo non si sarebbe fatto ingannare da quel poppante di un mercenario! Con la forza del suo guanto, unita alla sagacia e al coraggio di Raduan, loro due da soli avrebbero potuto annientare i Quattro e tutti i loro scherani! Ma già, senza Nahash non ci sarebbe stato alcun guanto di potere, né alcuna rivelazione sull’Oscuro e i suoi fratelli. Sarebbero rimasti al punto di partenza, a deambulare come sciocchi da un lato all’altro del Regno dietro al fantasma di Abel, con le anime dei compagni d’armi sulla coscienza... Sbatté la nuca sul palo un paio di volte, in preda alla frustrazione. Doveva fuggire in qualche modo, fosse anche soltanto per ritrovare Raduan e spiegargli la verità sul Bianco Viandante. Il manto di Abel non era poi così candido come avevano creduto. Il tempo non ava, mentre si arrovellava su tali questioni, ma se non altro la mente impegnata gli consentiva di dimenticare per un po’ quella lugubre cantina impregnata di morte. Oltre al dolore delle botte ricevute, cominciò a sentire anche quello delle giunture anchilosate dallo stare in piedi immobile in quella posizione. Quindi venne la sete a inaridirgli la gola, la fame a stringerli lo stomaco, il freddo a gelargli la pelle, e il tempo si fermò del tutto. Ad un tratto ore dopo? Giorni? - svenne senza neanche accorgersene, per rinvenire minuti dopo con la fronte coperta di sudore gelido. Non riusciva più a pensare lucidamente, la sua mente era ridotta a un misero bersaglio per le stoccate di dolore inviategli dal corpo a intervalli sempre più frequenti. Prese a mugolare, finché i mugolii divennero lamenti, e i lamenti si tramutarono in urla.

Doveva sfuggire a quella situazione, o sarebbe impazzito. Ma come? Come? Mise a fuoco il braccio sospeso davanti al suo naso. Fu invaso da una tale rabbia che l’energia si ammassò nel guanto in un istante, assorbita dai recessi più reconditi del suo corpo, e travasò dal palmo della mano come un fiume in piena, andando a investire la parete lontana in una pioggia esplosiva di scintille blu. Riuscì appena a intravvedere i calcinacci anneriti dietro la nube di polvere e fumo, poi abbassò le palpebre e piegò il capo, prostrato. Istanti dopo, una porticina si aprì con un cigolio nella parete accanto al guerriero, che non ebbe neanche la forza di sussultare. Fatta dello stesso materiale della parete, e dipinta con gli stessi identici colori, la porta era praticamente invisibile. Dall’oscura cavità dietro di essa spuntarono le figure ingobbite di Korell e Saliban. «Ben fatto, Maestro!» disse il primo «Ancora una volta le vostre tecniche hanno avuto successo.» Saliban arricciò il naso. «Ci è voluto fin troppo tempo, avevo quasi perso le speranze.» «Alla fine cedono sempre.» Il Maestro Indagatore sollevò il mento di Dorian col tocco delicato di una mano. «Che ti avevo detto, guerriero? Prima o poi tutti fanno la loro parte.» Si voltò a fissare il cratere nerastro nella parete più lontana. «Davvero straordinario, il Primo Fratello non si sbagliava. Korell?» «Sì, Maestro?» «Va’ a comunicare la nostra scoperta.» Korell mosse lo sguardo da Saliban al prigioniero e viceversa, a disagio. «Ma, Maestro...»

«Adesso» ripeté l’altro, senza degnarlo di uno sguardo. «Come desiderate.» Con uno sbuffo, Korell abbandonò la sala a i pesanti. Saliban aspettò che la porta si richiudesse alle sue spalle, poi si accinse a slegare le funi che intrappolavano le caviglie e la mano sinistra di Dorian. Quando ebbe finito, il guerriero si accasciò al suolo con un gemito, mentre una sensazione di indicibile sollievo gli invadeva le membra. Il braccio destro, imprigionato nell’anello di acciaio, rimase scomodamente sollevato sopra la sua testa, ma era comunque un enorme progresso. L’Indagatore prese un panno, lo inumidì in un secchio d’acqua tiepida, e lo ò sul volto di Dorian. «Come vedi, mantengo le mie promesse. Ti sei guadagnato un po’ di ristoro.» Mentre Dorian recuperava a poco a poco il dominio di sé, Saliban lasciò la sala, per tornare poco dopo con una scodella fumante tra le mani. La poggiò in terra accanto alla mano libera del guerriero, che non perse tempo. La prima, vorace cucchiaiata si sparse più sul pavimento e sul bavero della sua camicia che nella sua bocca: soltanto gli Dei sapevano cosa ci fosse in quell’intruglio, ma a Dorian parve la pietanza più prelibata del mondo. Fu come se il liquido caldo rase via una crosta arida dalla sua povera gola, e sentì lo stomaco rilassarsi con un gemito di piacere. Divorò l’intera scodella a un ritmo ossessivo, e solo allora alzò gli occhi. Saliban, immobile davanti a lui, lo fissava con sguardo indecifrabile. «E adesso?» abbozzò Dorian. Saliban non disse niente. Prese una vecchia coperta da terra e gliela gettò addosso: era lurida e puzzava come un animale morto, eppure Dorian se l’avvolse subito attorno al corpo - lasciando fuori appena il braccio destro, per forza di cose. Saziati per il momento fame e sete, la sua più pressante necessità era il calore. Prima che potesse rivolgergli altre domande, Saliban soffiò sulle lampade e la sala cadde nella completa oscurità. Un fascio di luce si intrufolò all’interno

quando l’Indagatore aprì la porta per uscire, poi Dorian rimase solo nel buio. -----«Sveglia!» L’urlo nelle orecchie lo scosse almeno quanto il ceffone che Korell gli rifilò per dargli il buongiorno. Due grosse mani lo afferrarono sotto le ascelle e lo sollevarono di peso. Le funi tornarono ad azzannargli polsi e caviglie. L’occhio sbiancato e la barba ispida dell’Indagatore, proteso su di lui come un orso, incombevano a una spanna dal suo volto. Un sorriso odioso gli attraversava la faccia da un lato all’altro. «Pronto a ricominciare?» Dorian distolse lo sguardo e sputò per terra. «Ho fame» disse. Korell gli indicò un piatto di legno pieno di carne e fagioli, con due grosse fette di pane bianco inzuppate nel sugo spesso. Lo stomaco di Dorian gorgogliò in segno di protesta. «La colazione è pronta, ma te la devi meritare» disse Korell. «E come?» «Rifai quello che hai fatto ieri» disse Saliban. Accennò al fondo della sala, dov’era apparso un fantoccio imbottito di sabbia, di quelli utilizzati negli allenamenti di scherma. Dorian pensò di rifiutarsi, ma il suo sguardo fu attratto come un magnete dal piatto zeppo di cibo succulento. Diede una scrollata di spalle: avevano visto il guanto in funzione la notte precedente, che senso aveva continuare a opporsi? «Va bene» disse. Saliban e Korell si fecero da parte, senza che il secondo riuscisse a celare la propria aspettativa. Il guerriero distribuì il peso sulle gambe meglio che poté, quindi si concentrò sul guanto. Ormai invocare l’energia non era complicato

come all’inizio: gli era sufficiente pensare intensamente a qualcosa di odioso, qualcosa che risvegliasse i suoi istinti più cupi, e canalizzare l’ira attraverso il corpo fino alla mano destra, alla stregua di una corrente liquida. «Oggi sarà più facile che mai» pensò, lanciando uno sguardo al volto turpe di Korell. Chiuse le dita a pugno. Le fiamme bluastre presero a danzare sul suo braccio quasi all’istante, nutrite dall’astio profondo nei confronti del suo aguzzino. Le lasciò crescere fino a sentir formicolare l’intero corpo, quindi aprì le dita: il raggio, a differenza della vampata incontrollata della sera prima, tagliò dritto come una lancia attraverso la sala e colpì il fantoccio in pieno. Lo traò e si infranse contro il muro già annerito alle sue spalle, provocando una girandola di scintille. Per un attimo il pupazzo sfoggiò un perfetto buco circolare al centro del petto, poi i bordi si incendiarono e il foro si tramutò in una voragine. Dorian si sforzò di tenere alta la testa, nonostante il consueto calo di energie. «Soddisfatti?» domandò. I due Indagatori si scambiarono uno sguardo, poi Saliban annuì. Korell prese il piatto e lo piazzò sotto la bocca del guerriero, senza accennare a slegargli la mano. Dorian non capì. «Beh, non hai fame?» sorrise Korell. Dorian digrignò i denti con rabbia, ma c’era poco che potesse fare. Infilò il naso nel piatto e cominciò a mangiare, come un porco nel suo trogolo. «Ecco, da bravo!» rise l’Indagatore, mentre Dorian valutava l’opportunità di rovesciargli il piatto addosso. I fagioli erano ottimi, però, e decise che non ne valeva la pena. Prima che riuscisse a inghiottire tutto, Korell gli allontanò il piatto dalla bocca. «Ti sei ingozzato abbastanza, è tempo di tornare al lavoro.» Per ore lo costrinsero a ripetere e ripetere l’esperimento: mentre Korell lo stimolava senza troppo tatto, Saliban annotava tutto in una pergamena. In breve la parete di fondo della sala si trovò completamente disastrata, e le energie di

Dorian prosciugate. Il Maestro Indagatore ebbe il buon senso di interrompere la sessione, quando vide che Dorian non aveva più il dominio di sé. «Torniamo alle domande: chi ti ha dato il guanto?» Il guerriero mantenne la bocca chiusa: su quello, almeno, poteva ancora guadagnare tempo. «Come funziona?» insistette Saliban. Dorian guardò altrove e si rinchiuse in un mutismo tenace. «Maestro, posso?» domandò Korell. Saliban fece un cenno affermativo. Korell impugnò un paio di strumenti dall’aspetto bizzarro: uno assomigliava all’Occhio Profondo usato da Zontar nella Torre Grigia, in versione ridotta, l’altro era una specie di uncino sottile con un lungo manico. L’Indagatore accostò l’occhio al beccuccio del primo strumento e cominciò ad analizzare la superficie del guanto. Dorian stesso avrebbe voluto farlo, per vedere con i propri occhi la rete di manàlorin intessuta con maestria da Abel e in seguito potenziata dall’Addestratore di Serpenti. Korell alzò il capo con espressione meravigliata. «Mai visto nulla del genere, Maestro. La densità dei manàlorin, la geometria con cui sono disposti... Molto, molto complesso!» «Continua» disse Saliban. Korell mosse l’Occhio Profondo su e giù per il guanto, sfiorandone la superficie con la punta finissima dell’uncino. Si soffermò sulla parte di tessuto che Nahash aveva fuso alla pelle di Dorian. «Davvero intrigante.» Questa volta, quando la punta metallica dell’uncino gli toccò la pelle, Dorian avvertì una sensazione molto sgradevole, simile alla puntura di un’ape. Cercò di non darlo a vedere, ma quanto più Korell armeggiava con le cuciture, tanto più il suo volto impallidiva, finché non riuscì a trattenere un lamento di dolore. L’Indagatore non ci fece caso, anche quando i lamenti si moltiplicarono. Saliban

osservava da lontano, in silenzio. «Lo sapevo!» esultò Korell «Scommetto che questi sono i canali energetici. Mai visti Calici di queste dimensioni!» Stringendo i denti per il dolore, Dorian rammentò ciò che aveva imparato da Zontar, in quella che sembrava un’altra vita. I Calici erano i manàlorin incaricati di assorbire ed immagazzinare l’energia necessaria al funzionamento dell’artefatto. I Cuori erano quelli che ne attivavano le capacità. Le Corazze avevano funzioni protettive. Combinati nel giusto modo, i tre tipi di manàlorin potevano dar vita a poteri senza eguali. Korell raspò con più forza, e questa volta Dorian cacciò un urlo. «Che mammoletta!» sbraitò l’Indagatore. Il suo divertimento ebbe fine quando, nello stimolare l’ennesima sequenza di manàlorin, un globo di energia azzurra si formò sotto la punta dell’uncino e gli esplose in faccia. Korell gridò e cadde sul fondoschiena, mentre l’Occhio Profondo andava in frantumi. Dorian imprecò, la pelle del braccio arroventata dalla fiammata improvvisa. L’Indagatore si alzò barcollando come un ubriaco, con le sopracciglia abbrustolite e il naso spellato. Lo sguardo che Saliban gli rivolse era vicino al disprezzo. «Me... meglio che io ci vada piano, Maestro...» «Meglio che lasci stare, piuttosto.» «Maestro?» Saliban estrasse un fazzoletto dalle veste e si soffiò il naso, prima di rispondergli. «Dimmi, Korell, avevi mai visto prima d’oggi un artefatto come questo, cucito alla pelle umana?» «No di certo.»

«Anch’io ho visto poche cose simili in vita mia. Quell’elmo dotato di visione notturna, te lo ricordi?» «Molto bene.» «E ti ricordi quel che è successo quando hai infilato il tuo dannato uncino sotto la gorgiera?» Korell si grattò la nuca, imbarazzato. «La testa di quel poveraccio è esplosa come un melone...» «...e per poco il Primo Fratello non faceva esplodere anche le nostre, quando ha saputo che l’artefatto era andato distrutto. Vuoi che accada di nuovo?» «No di certo, Maestro, ma...» Saliban ripiegò il fazzoletto. «Niente ma, Korell. Va’ immediatamente a riferire quel che abbiamo scoperto finora. Se il Primo Fratello desidera che continuiamo, sarà lui stesso a dare l’ordine.» Con un inchino, l’Indagatore lasciò la sala. Saliban girò lo sguardo su Dorian, che stava ancora tossendo per l’esplosione. Gli si avvicinò. «Sei Dorian della Compagnia del Viandante, vero?» Il guerriero strabuzzò gli occhi, pensando che avrebbe dovuto mentire a tutti i costi, ma la sua espressione l’aveva già tradito. «Come...?» «Zitto» tagliò corto Saliban «Abbiamo poco tempo, prima che Korell ritorni.» Si abbassò a slegargli i lacci delle caviglie, poi quello della mano sinistra. «Per l’altro braccio non posso far nulla: Korell ha l’unica chiave. Per cui, quando arriverà, dovrai sfruttare l’occasione. Senza chiave non uscirai mai di qui, e morirai.»

L’esterrefatto Dorian cercò di capirci qualcosa, ma Saliban non gliene diede il tempo. «Preparati» disse, quindi aprì la porticina nascosta nella parete, sgusciò dentro, e se la richiuse alle spalle. «Cosa diavolo sta succedendo?» pensò il guerriero. Era un altro dei loro trucchi, o al Maestro Indagatore aveva dato di volta il cervello? In ogni caso non avrebbe sprecato l’unica chance di lottare. Rimase immobile come prima, tendendo l’orecchio nell’attesa di udire i i di ritorno dell’aguzzino, sovrapposti al battito sordo del suo cuore. Finalmente la porta si spalancò, e Korell piombò all’interno con espressione contrariata. «Il Primo Fratello non è qui, non tornerà prima di... Maestro?» Si guardò attorno perplesso. «Il tuo padroncino è uscito, ma ha lasciato un messaggio per te» sorrise Dorian. Come sperava, l’Indagatore gli venne incontro con aria infuriata e lo afferrò per il bavero. «E sarebbe?» «Che dovresti usare di più la testa. Guarda, adesso ti mostro come si fa!» Con un guizzo del braccio libero Dorian lo attirò a sé e gli rifilò una tremenda testata sul setto nasale. Korell perse i sensi all’istante, ma il guerriero lo tenne saldo. Appoggiò la testa inerte dell’Indagatore sulla propria spalla, come due amanti intrecciati in una danza lenta. «Puah!» sbraitò, disgustato dall’odore rancido della pelle dell’uomo. Gli rovistò nelle vesti con la mano libera, finché trovò quel che cercava: un mazzo di chiavi legate a un anello. Quando le ebbe saldamente tra le dita, spinse via Korell con una ginocchiata e si dedicò alla serratura. Tentò una chiave, poi un’altra e un’altra ancora, senza successo. Al quarto tentativo il mazzo gli scivolò tra le dita sudate e gli cadde sui piedi, rimbalzando lontano. Proruppe in

una serie di ingiurie, sentendosi più stolto che mai. Con suo enorme sollievo, la porticina nella parete si riaprì e Saliban ne uscì con movimenti rapidi. Raccolse le chiavi, le studiò per un momento, ne scelse una e la inserì nella serratura dell’anello d’acciaio, che si aprì con un clack sonoro. Dorian si massaggiò il polso dolorante, mordendosi le labbra alla fastidiosa sensazione del sangue che tornava a circolare normalmente. «Non so perché tu l’abbia fatto, ma grazie» disse. «Niente convenevoli, guerriero, il tempo stringe. Entra nel aggio, sali fino alla biforcazione, svolta a destra, poi a sinistra, e ti troverai davanti a una porta. Aprila. Qualcuno ti starà aspettando.» «Ma...» «Avrai le risposte che cerchi, soltanto non adesso. Un’ultima cosa, prima di andartene.» «Che cosa?» «Colpiscimi» disse Saliban, porgendogli una guancia «Sta attento, però, non c’è bisogno che mi spacchi un osso. Un livido sarà sufficiente.» Dorian non protestò: se l’Indagatore - o chiunque fosse realmente - non fosse fuggito insieme a lui fuori da quelle mura, aveva bisogno di un alibi. Lo ringraziò ancora con un cenno del capo, poi gli sferrò un pugno sulla guancia destra, sotto l’occhio. Saliban crollò a terra con un gemito, coprendosi la faccia con le dita. Dorian gli tese una mano, ma l’altro la rifiutò con un gesto stizzito. «Va’!» Il guerriero obbedì. Si strizzò nella porticina, infilandosi nel tunnel buio scavato nella roccia: era freddo e umido, come una grotta naturale, e saliva verso i livelli superiori della fortezza. Dorian avanzò a tentoni, tastando le pareti irregolari con le mani, finché i suoi occhi si abituarono alla scarsa luce proveniente dalla porta aperta alle sue spalle. Più che scorgere il bivio, andò a sbattere contro lo spigolo di pietra che separava i due nuovi tunnel. Prese quello di destra, seguì la svolta a sinistra poco più avanti, e la luce svanì del tutto. Per un attimo pensò di tornare

indietro, ma a che pro? Imprecò tra i denti, mentre metteva un piede davanti all’altro alla cieca. Possibile che Saliban avesse pensato a tutto meno che alla semplice necessità di luce? Come avrebbe fatto a cavarsi da quell’impiccio? «Ah!» L’esclamazione gli sfuggì dalle labbra quando batté il capo contro una superficie di legno. Sorrise, nonostante il dolore, e cercò la maniglia con le dita. La girò e tirò la porta a sé. Un raggio di luna gli investì il volto, penetrando nell’oscurità del aggio: era candido, al contrario di quelli della Luna di Sangue, misericordiosamente coperta da una nube. Dorian inspirò con gratitudine l’aria fresca dell’esterno, prima di rammentarsi che i frangenti raccomandavano più discrezione. Guardò a destra e a sinistra: era sbucato in un vicolo anonimo alle spalle della fortezza dei Figli della Notte. Un gatto lo fissava inquieto, il corpo paralizzato dalla sorpresa. Dorian svicolò fuori e si richiuse la porta alle spalle. Andò dritto verso la minuscola carrozza in attesa all’estremità del vicolo: era poco più di un guscio, nera, trainata da un paio di cavalli anch’essi neri. Da quella posizione non riusciva a vedere il cocchiere, che lo apostrofò con voce nervosa. «Che stai aspettando? Entra!» Dorian si infilò nello stretto abitacolo tappezzato di stoffe imbottite, e si lasciò cadere su una poltrona. Non appena richiuse lo sportello, udì lo schiocco del frustino, e la carrozza si mise in moto con uno scossone. Mentre il trabiccolo avanzava a sobbalzi sulla pavimentazione irregolare delle vie di Rutan, l’istinto dettò a Dorian di tenersi lontano dal finestrino. Sbirciò fuori una volta sola, e il riflesso della luna sul mare gli riempì il cuore di gioia per la libertà riconquistata. «Almeno per adesso» si ricordò. Le circostanze della sua fuga dai Figli della Notte erano tutt’altro che chiare. Ancora non poteva escludere che fosse una trappola - una trappola molto elaborata, visto che il Maestro Indagatore ci aveva quasi rimesso uno zigomo. Un’idea improvvisa lo fece sobbalzare: perché mai doveva restarsene lì zitto e buono, senza sapere dove lo stessero portando, quando poteva semplicemente spalancare lo sportello e correre via nella notte? Come si alzò per assecondare il proprio istinto, la carrozza si arrestò bruscamente.

«Scendi, veloce!» gli ingiunse la voce del cocchiere. Il guerriero obbedì, trovandosi faccia a faccia con la porta di una casa dall’aspetto anonimo. Senza dargli il tempo di fare domande, il cocchiere fece danzare la sua frusta e la carrozza sobbalzò via lungo la strada bagnata dal chiaro di luna. Dorian la guardò allontanarsi: era rimasto solo. Quale occasione migliore per svanire nella notte? Però... Chi c’era dietro quella porta? Si maledisse nello stesso momento in cui chiudeva le dita sulla maniglia e la girava, ma non poteva proprio farne a meno. Respirò a fondo e spinse: la porta si aprì senza un gemito. La luce calda dell’interno lo abbagliò, costringendolo ad abbassare lo sguardo. «Per tutti gli Dei, sei proprio tu, guerriero! Non mi ero ingannato!» esclamò una voce conosciuta.

XII - Un Incontro Inatteso

A poco a poco gli occhi di Dorian si assuefecero alla luce, permettendogli di distinguere i contorni delle cose. Entrò. Era una stanza piccola e poveramente ammobiliata: una vecchia credenza, un tavolo e quattro sedie. Della legna ardeva in un camino, proiettando ombre sui due personaggi seduti al tavolo: il primo era un giovane mingherlino, che lo fissava con occhi intimoriti; il secondo, sorridente, era un anziano dalla lunga barba argentea. Dorian sussultò al riconoscerlo. «Zontar!» «In persona» rispose il Saggio, strizzandogli un occhio. «Com’è possibile?» mormorò il guerriero, sbalordito. Avanzò di qualche o, per sincerarsi che la vista non gli stesse giocando un brutto scherzo. «Vieni, accomodati» disse Zontar. Gli indicò una sedia tra sé e il giovane. Dorian sedette. «Lascia che te lo dica, guerriero: la tua presenza in questa stanza, in questo preciso istante, mi risulta tanto sorprendente come a te la mia. Non ero affatto certo che fossi tu il prigioniero, ho seguito più che altro il mio istinto.» Dorian si grattò la testa: era evidente che non ci capiva più niente, ragion per cui il Saggio anticipò le sue domande: «Saliban è uno dei miei più fidati collaboratori. Spie, li chiamano alcuni, anche se a me il nome non è mai piaciuto. Da tempo mi a informazioni di grande interesse sui Figli della Notte: con la posizione che è riuscito a conquistarsi, ha accesso a fonti della miglior specie.» Fin qui Dorian ci era arrivato: Saliban non era quel che sembrava essere. Ma che alle sue spalle ci fosse niente di meno che la guida suprema della Confraternita degli Illuminati! Zontar lanciò uno sguardo interessato al suo guanto. «L’arrivo di un prigioniero con un artefatto come il tuo non era certo notizia da

are inosservata, così Saliban l’ha inclusa nel suo rapporto giornaliero. Quando ho udito la descrizione tua e del guanto, ho avuto forti sospetti. Hai idea di quanto tempo abbia trascorso cercandoti, Dorian?» Aggrottò la fronte. «Mi son dato da fare non appena ho saputo della fine della Compagnia del Viandante, e dei due unici sopravvissuti. Sei un uomo difficile da trovare: cominciavo a credere che fossi morto!» «Non eravate così lontano dal vero...» osservò Dorian. Zontar annuì. «Fortuna che ho dato retta al mio istinto, e ho deciso di organizzare la tua fuga con l’aiuto di Saliban. Normalmente non avrei corso un simile rischio, ma qualcosa mi ha detto che ne sarebbe valsa la pena.» Ancora una volta fissò lo sguardo sul guanto candido di Dorian, poi batté le mani un paio di volte. Un uomo si affacciò nella stanza. «Porta una scodella di stufato e una pagnotta per il nostro ospite» ordinò il Saggio. L’uomo si allontanò con un inchino. «Conosco quel guanto» proseguì Zontar «Uno dei misteri che Abel si è sempre rifiutato di spiegarmi. Eppure sembra diverso...» Si sporse avanti per guardarlo meglio. Quando notò le cuciture che saldavano il tessuto alla pelle del guerriero, arricciò le labbra. «Per tutti gli Dei, cosa ti hanno fatto?» Dorian si grattò il braccio. «È una lunga storia.» «Beh, sono certo che potrai rendermi partecipe mentre ti sfami.» Il guerriero lanciò un’occhiata di sghimbescio al giovane seduto alla sua destra, che fino ad allora non si era mosso e non aveva proferito una sola parola. Zontar intuì la sua preoccupazione. «Chiedo scusa, non vi ho presentati. Questi è Delfean, il mio apprendista.» Il giovane rivolse un timido cenno del capo al guerriero, poi tornò a fissare la superficie del tavolo. «È degno di assoluta fiducia, comandante. Puoi parlare senza reticenze, garantisco per lui.»

«Va bene» concordò Dorian, anche se il giovane non lo convinceva, con quell’aria delicata e introversa «Ma prima ho un favore da chiedervi.» «E quale sarebbe?» «Che evitiate di chiamarmi ‘comandante’, d’ora in avanti. Il termine non ha più senso, riferito alla mia persona.» L’ironia dell’Addestratore di Serpenti, nei momenti successivi al massacro della Compagnia, gli bruciava ancora dentro: «Non comandate più un bel nulla!» «D’accordo, mi sembra giusto.» Il servo fece ritorno con una scodella fumante e la piazzò sul tavolo davanti a Dorian. Il guerriero spezzò una pagnotta e la intinse nel sugo spesso. Se la portò alla bocca e masticò lentamente, senza davvero assaporarne il gusto: ogni volta che la sua mente tornava agli eventi delle ultime settimane, pareva che le altre cose perdessero il loro sapore. Zontar e il suo apprendista attesero con pazienza che iniziasse a raccontare, poi lo lasciarono parlare secondo il suo ritmo, senza interromperlo. Udirono così l’atroce fine della Compagnia del Viandante ad opera del mostruoso Shem e della sua truppa d’élite, la scomparsa dello Stendardo, l’improvvisa apparizione di Nahash ed il suo invito a seguirlo nella palude di Draslund. Narrò la sua separazione da Raduan, il viaggio verso Nord, l’incontro con Nahash, le rivelazioni e il duro addestramento nella palude. E poi il guanto fuso alla sua carne, l’esplorazione della Città Morta nel cuore della selva, il malaugurato duello con Kyra. Infine, la partenza verso Sostar e le ultime disavventure che l’avevano condotto fin dentro la sala di torture dei Figli della Notte. Delfean seguì tutto con attenzione, il volto via via trasfigurato da diverse emozioni mentre ascoltava le inusitate avventure del guerriero. Zontar, da parte sua, era una maschera priva di emozioni, che assorbiva ogni parola con spasmodica concentrazione. Come Dorian terminò di raccontare, l’anziano parve afflosciarsi sulla sedia: la quantità di informazioni ricevute era enorme, e ben poche erano di suo gradimento. Ticchettò con le dita sul tavolo, mentre Dorian puliva il fondo della scodella con l’ultimo tozzo di pane. Quando parlò, la sua voce era grave: «Dunque Gomer non mentiva: la presenza oscura che orbita alle spalle di Hiram

è reale.» Il guerriero annuì, rammentando l’episodio in questione: Gomer si era recato alla Torre Grigia per avvisare Zontar della guerra imminente, dando ascolto all’ultimo briciolo di coscienza che gli restava, ma si era rifiutato di schierarsi contro il fratello maggiore, per timore del misterioso potere che lo appoggiava. «Il Male è molto più nero di quanto possiate immaginare» aveva detto, e senza dubbio si riferiva all’Oscuro e ai suoi tre fratelli. «In circostanze normali avrei dubitato dell’esistenza di questi Quattro» commentò Zontar «eppure la realtà conferma giorno dopo giorno ciò che Nahash ti ha rivelato. La distruzione della Compagnia del Viandante in un solo pomeriggio sarebbe già prova sufficiente, senza contare altri eventi inspiegabili accaduti nel Regno prima e durante la guerra.» Si massaggiò le tempie. «Vorrei non credere che i Quattro sono reali e comandano Hiram come un burattino... Vorrei affermare che sono soltanto menzogne, che l’Addestratore di Serpenti si è inventato tutto per usarti e prendersi gioco di te... Ma non posso chiudere gli occhi dinanzi alla realtà.» Scambiò un lungo sguardo con Delfean. Dorian cercò senza successo di indovinare quali pensieri i due stessero condividendo. «Una cosa però mi rifiuto di credere» dichiarò Zontar, lo sguardo improvvisamente duro «Che il Bianco Viandante abbia qualcosa da spartire con i nostri nemici. È impossibile!» Dorian chiuse le mani a pugno. «Cosa vi dà tanta certezza?» mormorò. «Sono vecchio ormai, amico mio, e credo di aver appreso a giudicare la natura delle persone con un buon margine di certezza. Per quanti scheletri Abel abbia nascosti nell’armadio - un armadio che nessuno svuota da più di un secolo nessuna delle sue azioni era rivolta al male, ne sono certo.» «Vorrei condividere la vostra fiducia.» «E dovresti, dopo tanti anni ati al suo fianco! Possibile che non te renda conto? Mi spiace dirlo, ma in questa faccenda mastro Raduan ha dimostrato ben più saggezza di te.»

Il guerriero non disse nulla. In verità era stufo di sentire le opinioni dell’uno o dell’altro sul vero ruolo di Abel nel destino della Compagnia e del Regno. Non erano che vuote supposizioni, come quelle che lui stesso nutriva. L’unica cosa sensata da fare era rintracciarlo e guardarlo negli occhi mentre lo obbligava a raccontare la sua versione dei fatti. Solo così avrebbe saputo. «Che sia, ormai non fa differenza» disse «Ditemi, piuttosto: a cosa devo la vostra presenza a Rutan, e quindi la mia salvezza?» «Alla bontà degli Dei, senz’ombra di dubbio. Un giorno ancora, e non mi avresti trovato più qui.» «Già di partenza?» «Sì, il mio compito qui è terminato. Ho raccolto tutte le informazioni di cui avevo bisogno, e anche di più. Per farla breve, lascia che ti racconti quel che è successo da quando tu e Raduan siete partiti dalla Torre Grigia.» Scegliendo le parole con cura, e riassumendo tutto il riassumibile, Zontar narrò al guerriero la serie di eventi trascorsi nelle ultime settimane. Cominciò dai tentativi frustrati di impedire lo scoppio della guerra attraverso la diplomazia tra i Principati, dalla titubanza del principe Feledan, dalla decisione del Consiglio di inviare il grosso delle truppe al confine col Principato di Gomer, dove gli esploratori avevano avvistato battaglioni nemici in movimento. Con tristezza raccontò l’inizio delle ostilità, la carneficina fratricida, l’importante ma sanguinosa vittoria ottenuta a Cantor, che aveva permesso di ricacciare indietro il nemico. Da allora era lotta senza tregua nell’area orientale del Regno, tra i confini dei due Principati. Vittorie e sconfitte si alternavano quotidianamente, esigendo un prezzo sempre più alto in termini di vite umane, senza che nessuna delle parti riuscisse davvero ad avere la meglio. «Se le cose vanno avanti così » osservò «il nostro futuro si annuncia molto più nero di quello di Hiram. E non mi riferisco soltanto ai poteri che lo appoggiano, alle diavolerie dei Figli della Notte, o agli stramaledetti Demoni - che possano sprofondare nelle viscere della terra! No, la prima minaccia che dovremo affrontare è la superiorità numerica dei nostri avversari: due Principati alleati contro uno, il doppio di uomini abili nel combattimento, il doppio di risorse alimentari e materiali a disposizione.»

«Reggere un fronte è possibile, ma due...» commentò Dorian. «...è estremamente improbabile» completò Zontar «Mi hai letto nel pensiero. La nostra fortuna, finora, è stata che Hiram non abbia ancora dato il via agli attacchi sul fronte occidentale del Regno, attraverso le Acque Placide. Il fiume ci darà una mano a ostacolare l’offensiva, per il resto dovremo affidarci a un miracolo.» Il volto del Saggio venne illuminato da un sorriso inatteso. «Anche se non sarebbe il primo!» Dorian lo squadrò con curiosità. «Considerando le tue recenti vicende, dubito che tu abbia avuto modo di udire dell’insurrezione di Dekka, o mi sbaglio?» «Non sbagliate.» «In poche parole, è stato l’evento chiave che ha intralciato i piani di Hiram, impedendogli di attaccarci a sorpresa dove meno eravamo pronti a respingerlo. Confidavamo che Dekka fosse il nostro invincibile baluardo ad occidente, ma ci sbagliavamo della grossa: il governatore, Dinor, era un traditore della peggior specie. Forniva armi al nemico, e si preparava ad appoggiarlo nell’invasione. Aveva in pugno l’intera Guardia Cittadina, e persino le mie spie, oltre a godere del sostegno di una creatura che - adesso lo so - dev’essere uno dei Quattro che mi hai citato.» «Come ve ne siete liberati?» «Questa è la parte interessante. Dimmi Dorian, quando ci hai raccontato del duello con tua figlia, hai citato due artefatti meccanici impiantati nel suo corpo, un occhio dorato e un braccio meccanico, giusto?» Dorian si agitò sulla sedia. «Giusto, ma non capisco dove vogliate arrivare...» Il Saggio si lisciò la barba con le dita. «La verità è che sappiamo troppo poco della rivolta di Dekka, e di come Dinor

sia stato deposto e rimpiazzato da un membro ignoto di una delle più antiche famiglie della città, un certo Leon. Girano parecchie storie in proposito, ma sono tutte confuse, e francamente difficili da digerire. Si parla di un’inedita alleanza tra bande di criminali in cerca di fama e bottino. Si parla di mostri meccanici partoriti da una Fabbrica colossale, gli Automi, e della creatura di carne e metallo che li comandava. Ma soprattutto si parla di una giovane eroina, armata di un occhio diabolico e un braccio di acciaio brunito, che da sola avrebbe messo sottosopra la città e consegnato le chiavi al nuovo governatore.» La bocca di Dorian si aprì in un ovale di sorpresa. «Non crederete che...!» «Chi altri potrebbe corrispondere a questa fantasiosa descrizione? Sarebbe una coincidenza esagerata. Per quanto improbabile, credo proprio che si tratti di Kyra, tua figlia.» Il guerriero strabuzzò gli occhi, meravigliato. D’altra parte, com’era possibile che delle semplici storie rispecchiassero con tanta precisione quel che aveva visto di sua figlia? Senza contare che il periodo di quegli avvenimenti corrispondeva grossomodo a quello della loro separazione. Alzò lo sguardo dal pavimento, e vide che Zontar lo fissava con un sorriso. «Non c’è che dire, guerriero: il destino dei superstiti della Compagnia del Viandante appare sempre più intrecciato con quello del Regno. Vedo la mano degli Dei all’opera.» Dorian scacciò l’affermazione con un gesto secco. «Io vedo soltanto un fato crudele, a cui intendo porre fine con le mie mani.» Il sorriso scomparve dalle labbra del Saggio. Fin dall’inizio il piano di Dorian di colpire i Quattro con un’azione solitaria non gli era affatto andata a genio. «Permettimi di dubitare della bontà della tua decisione. Comprendo il tuo desiderio di vendetta, ma credi davvero che una missione incauta come la tua possa andare a buon fine? Ho un’altra proposta per te, ben più concreta: unisciti a noi, dona la tua esperienza e la tua forza all’esercito di Feledan! Con il tuo aiuto - e quello della tua arma segreta - potremmo attaccare Hiram a sorpresa sul fianco occidentale, respingerlo fino alla capitale, costringerlo a rintanarsi tra le

sue mura. Allora sì potresti prenderti cura dei Quattro a modo tuo, con un esercito a coprirti le spalle!» Dorian considerò l’offerta per meno di un istante, prima di rendersi conto che non gli interessava. «Venerabile Saggio, con tutto il rispetto, credo che non vi siate ancora fatto un’idea precisa dei poteri contro cui dovremmo scontrarci in campo aperto. Non avete visto coi vostri occhi quello che Shem e gli altri sono in grado di fare… o anche il solo Nahash, che si considera impotente dinanzi a loro.» «Unendo le nostre forze...» «No, lasciatemi continuare. Non ce la faremmo mai con le semplici armi e armature, con la fanteria e la cavalleria, per quanto ben addestrati e ben equipaggiati. Neppure con i vostri artefatti e l’appoggio della Confraternita. Neppure se avessimo a disposizione il doppio degli uomini che abbiamo. I Quattro vanno affrontati per primi, se Feledan vuole avere la minima possibilità di vincere questa guerra. E non vanno affrontati a viso aperto: io da solo, agendo nell’ombra, ho molte più chance di successo che un intero reggimento schierato sul campo di battaglia.» Per la prima volta, il giovane Delfean prese la parola: «Davvero credete che strisciare nel buio come un assassino sia l’unica via? Davvero preferite questa soluzione, quando vi è offerta l’opportunità di inseguire la gloria sul campo di battaglia, dove le vostre gesta rifulgeranno dinanzi all’intero Regno e verranno poi cantate ai vostri figli, e ai figli dei vostri figli?» Per un attimo Dorian rimase sconcertato dall’intervento dell’apprendista. Poi, scoppiò a ridere. «Dammi retta, ragazzo, non c’è alcuna gloria e né ci sarà mai nelle guerre che gli uomini si ostinano a combattere contro se stessi. Soltanto stupidità, morte, e grandi opportunità di ricchezza per gente senza scrupoli.» Delfean aprì bocca per ribattere, ma Zontar lo mise a tacere con un cenno. Il giovane, scuro in volto, obbedì. «Dorian ha bisogno di riposare adesso, non è il momento giusto per discutere.

L’alba non è lontana: lasciamo che si distenda e recuperi le forze. Domattina farà come meglio crede: si unirà a noi, o proseguirà da solo verso Sostar.» «Sì, maestro» sussurrò l’apprendista, tornando a fissare il tavolo. Dorian provò un po’ di rimorso per averlo deriso con le sue parole, ma in fondo era meglio così: il mondo era fin troppo pieno di entusiasmo mal riposto, di giovani illusi dalla promessa di gloria in battaglia e dal mito della guerra giusta. Quanto prima il ragazzo avesse compreso la realtà delle cose, tanto meglio sarebbe stato per tutti. Zontar lo scortò in un’altra stanza, dove si sdraiò su un materasso duro e cadde in un sonno senza sogni. L’ora del risveglio giunse con impensabile sveltezza, sotto forma di scossone: un servo del Saggio cercava di ricondurlo alla realtà. Dopo una parca colazione, furono pronti a lasciare la casa. «Indossa questo» disse Zontar, andogli uno spesso manto con cappuccio. Anche il Saggio, l’apprendista e i due servi che erano con loro si abbigliarono nello stesso modo: una semplice precauzione come quella poteva evitar loro molte grane lungo le vie di Rutan pattugliate dai soldati di Hiram e dai Figli della Notte. Quando misero piede in strada, il sole stava ancora sorgendo, e la foschia dominava il paesaggio urbano. Si incamminarono in silenzio sull’acciottolato umido e scivoloso, diretti al vascello che li avrebbe condotti a Sud attraverso il Mare Interno. Non tutti, però: Dorian ribadì la sua intenzione di proseguire da solo verso Sostar, nonostante gli insistenti tentativi di Zontar di fargli cambiare idea. Infine il Saggio dovette arrendersi: «Come vuoi, guerriero. Immaginavo che non sarei riuscito a invertire la rotta tracciata dalla tua testa dura! Un cavallo fresco ti attende al porto, accanto al vascello: è tuo, puoi disporne come meglio ti pare.» Dorian ringraziò con un lieve inchino. «Ne farò buon uso.» Delfean lo guardò di sottecchi, con aria contrariata, ma non disse nulla. Non c’era anima viva in strada, come se il quartiere fosse stato abbandonato in

tutta fretta durante la notte, e loro fossero gli unici a non sapere della calamità in arrivo. Dorian avvertì una familiare sensazione di freddo allo stomaco, la stessa che da anni lo avvertiva della prossimità di un pericolo. Scelse di ignorarla: con tutto quel che aveva sofferto negli ultimi giorni, era normale che si sentisse teso, tanto più in una mattinata uggiosa e deprimente come quella. Svoltarono all’angolo con la via maestra, e si pentì di non aver dato credito al suo infallibile sesto senso. Videro per primo il corpo appeso ad un pennone nel mezzo della strada, il collo strizzato da un cappio ed il volto gonfio e violaceo. Era Saliban. Subito dietro c’erano i Figli della Notte, una dozzina, disposti a semicerchio ad occupare la strada in tutta la sua ampiezza. Korell era in prima fila, col naso fasciato e una tensione omicida scolpita nel muso da mastino. Fu il Primo Fratello, però, a catalizzare l’attenzione dei cinque viandanti: alto e pallido come uno spettro, la sua presenza evocava quella della Mietitrice in persona. La sua voce aspra tagliò il silenzio: «Davvero pensavi che non me ne fossi accorto, Zontar? Che mi fi prendere per il naso dall’uomo che io stesso ho scelto come Maestro Indagatore?» Il Saggio, ammutolito, non trovò risposta. «Chi credi abbia aiutato quel verme ad avanzare con tanta velocità nei nostri ranghi?» continuò il Primo Fratello «E le importanti informazioni che ti ha snocciolato nelle ultime settimane, al punto da farti accorrere qui di persona? Chi mai gliele avrà fornite?» «Maledetto...» sibilò Zontar, lo sguardo fisso sul cadavere penzolante di Saliban. «Chi di spia ferisce, di spia perisce, mio caro. Il tuo scarafaggio era vigilato, pedinato in ogni o dai miei uomini. Era piuttosto abile a far perdere le sue tracce, lo riconosco, ma non poteva riuscirci per sempre. Quando finalmente ci ha condotti a te, ha perso ogni utilità per noi.» «Guaiva come un cane, quando l’ho appeso lassù!» si intromise Korell, con un sorriso sadico. Il Primo Fratello lo zittì con un cenno delle dita ossute.

«Sai cosa accadrà adesso, Zontar?» «Non è difficile da immaginare.» «No, non lo è. Tu ed il tuo amico Guanto Candido verrete con noi, senza opporre resistenza. Quanto agli altri...» Fece appena un movimento con gli occhi, ma Dorian era pronto a un’evenienza del genere: afferrò Delfean per un braccio e lo spinse via, mentre dal vicolo buio alle sue spalle balzava fuori un uomo vestito di nero da capo a piedi, con una lunga lama ricurva stretta tra le dita. Il guerriero gli rifilò un calcio in pieno petto con la suola dello stivale, mandandolo gambe all’aria. L’apprendista di Zontar imprecò da terra: il cappuccio gli era scivolato giù sulla schiena, rivelando la fronte coperta di sudore freddo e gli occhi stralunati. Non appena il Primo Fratello posò lo sguardo sul volto scoperto del giovane, spalancò le labbra sottili in una smorfia di incredulità, poi una risata gracchiante gli usci dalla gola. «Non credo ai miei occhi! E tu, Zontar, ti proclami un Saggio? L’hai fatta davvero grossa, più grossa di quanto avessi mai potuto sperare!» Si rivolse ai suoi con voce eccitata: «Prendeteli! Il ragazzo lo voglio vivo, a tutti i costi!» Due Figli della Notte aggredirono il gruppetto alle spalle, avventandosi su di loro coi pugnali alzati. I due servi di Zontar sguainarono le spade che cingevano al fianco, celate dallo spesso manto, e pararono i colpi degli assalitori. Un’altra mezza dozzina di stregoni incappucciati abbandonò il fianco del Primo Fratello per gettarsi nella mischia. «Va’ guerriero!» sbraitò Zontar, spingendo Dorian avanti «Tienili a bada finché puoi!» Dorian esitò: era disarmato, eccezion fatta per il guanto, mentre ciascuno dei nemici era dotato di un lungo pugnale. «Prendi tempo!» lo esortò nuovamente il Saggio. Si liberò della sacca che portava in spalla e vi rovistò dentro alla disperata ricerca di qualcosa. Delfean gli si strinse addosso come un bambino impaurito, gli occhi sgranati dal terrore. Il guerriero fece la prima cosa che gli venne in mente: afferrò un barile

appoggiato al muro più vicino e lo scagliò addosso ai nemici in corsa. Il barile si infranse sulle gambe dei primi tre, facendoli rovinare a terra. Gli altri continuarono a correre. Dorian balzò avanti: non appena il più veloce dei Figli della Notte fu alla portata delle sue braccia, gli fece volar via il pugnale e gli sbatté la testa contro un muro. Gettò il corpo inerte tra le braccia del secondo nemico in arrivo, rifilò un pugno sul mento del terzo. Con la coda dell’occhio, vide che Zontar aveva smesso di armeggiare con la sacca e reggeva tra le mani un oggetto luccicante, una specie di sfera di metallo. Quali erano le sue intenzioni? Un dolore lancinante al braccio sinistro lo fece voltare di scatto, e si trovò a fronteggiare l’inferocito Korell. La lama di un pugnale gli aveva scalfito il bracciale di cuoio, graffiandogli appena la pelle sottostante, ma la ferita ardeva come l’inferno. Di certo i maledetti avevano cosparso le loro lame con qualche sostanza proibita, un acido, forse un veleno! Korell affondò di nuovo il pugnale all’altezza delle costole, Dorian schivò con un o di lato, e presero a muoversi in cerchio, impegnati in una danza mortale. Il guerriero percepì che i servi di Zontar avevano ucciso uno degli assalitori, ma altri tre erano accorsi a sostituirlo. Proprio in quel momento una lama squarciò la gola di uno dei difensori: il corpo rotolò fin sui piedi di Delfean, sprizzandogli sangue sugli stivali, e per poco il giovane non si arrampicò sulle spalle di Zontar, sempre indaffarato con la sfera. «Questa volta saremo soli nella camera delle torture» gli sputò addosso Korell «Potrai urlare quanto vorrai, ma nessuno ti sottrarrà al bacio delle mie lame!» Dorian aveva sentito abbastanza: finse un movimento a destra e girò su se stesso infilando il braccio sinistro sotto quello di Korell. Con una violenta torsione gli spezzò il braccio, poi si impadronì della sua arma. Korell gli urlò in faccia i più terribili insulti, ma la sua voce si spense con un gorgoglio quando Dorian gli piantò la lama nei polmoni. La estrasse lorda di sangue per scagliarla contro i nemici che attorniavano il difensore superstite di Zontar, centrandone uno alla nuca. «Ci siamo quasi!» urlò Zontar, totalmente preso dalla sfera. Dorian alzò lo sguardo verso i nemici rimasti e notò con spavento che tra le mani del Primo Fratello era comparsa una lunga asta nera, puntata senz’ombra di

dubbio sul vecchio Saggio. Senza pensare, alzò il braccio destro e gridò, canalizzando l’energia del proprio corpo nel palmo della mano. La vampata bluastra scaturì giusto in tempo per intercettare a mezz’aria il fascio di energia nera vomitato dal bastone del Primo Fratello: quando i due getti si scontrarono, un’esplosione coronata di lingue di fiamma sbatté a terra i Figli della Notte più vicini, dando fuoco alle loro vesti e ai loro capelli. Il guerriero avvertì lungo il braccio e in tutto il corpo la mastodontica pressione dell’energia nera, che minacciava di spazzarlo via come una foglia al vento. Contrasse i muscoli delle gambe, obbligandole a sopportare la tremenda vibrazione. Il Primo Fratello non sembrava in condizioni migliori delle sue: tremava, le labbra esangui strette nello sforzo, le vene pulsanti in evidenza sulla superficie del cranio calvo. Dorian grugnì e avanzò di un o: era come camminare controcorrente dentro un fiume in piena, immerso fino alla cintola. L’aria impregnata di energia aveva assunto una consistenza quasi solida. Un o dopo l’altro, non si arrese. Il suo avversario provò a fare lo stesso, ma per poco non scivolò a terra. La sua forza non era paragonabile a quella del guerriero, tanto che cominciò ad arretrare. Dorian si concentrò per intensificare la forza sprigionata dal suo guanto, senza fermarsi a riflettere sul rischio di prosciugare le proprie energie, senza pensare a nulla che non fosse la necessità impellente di schiacciare il nemico, di vederlo bruciare nell’agonia delle fiamme. «Aaah!!» L’urlo acuto di Delfean lo fece tornare in sé per un istante, sufficiente a constatare che i Figli della Notte si erano sbarazzati del secondo servo di Zontar e avevano strada libera verso il Saggio e l’apprendista. Con uno sforzo mentale sovrumano - la vittoria era così vicina! - rinunciò allo scontro diretto col Primo Fratello: sviò il raggio nero con un movimento repentino del braccio, come per deviare un pugno diretto al suo volto, e scatenò l’energia azzurra sui nemici in corsa, falciandone un paio. Proprio allora l’oggetto tra le mani di Zontar effuse un alone di luce dorata, e il Saggio esultò. «Dorian, a me! Adesso!» gridò. Dorian accorse più veloce che poté: la stanchezza gli era piombata addosso all’improvviso, come un’armatura pesantissima, e la nuca gli formicolava per il terrore che il Primo Fratello lo colpisse alle spalle con la sua arma infernale.

Nulla accadde, e con un ultimo balzo si strinse a Zontar e allo sconvolto Delfean. Schiena contro schiena, i tre si videro circondati senza scampo dai Figli della Notte, e altri ancora stavano sopraggiungendo a dar man forte ai compagni. Il volto del Primo Fratello sembrava intagliato con le fattezze di un Demone, mentre alzava il bastone verso di loro: se l’intenzione iniziale era quella di catturarli vivi, sembrava che nella furia della battaglia i suoi piani fossero cambiati. «E adesso?» mormorò Dorian. «Restate incollati a me!» disse Zontar «Muovetevi quando io mi muovo, fermatevi quando io mi fermo, e non dite una sola parola se vi è cara la pelle!» «Perché...» protestò il guerriero, quando Zontar premette col pollice una sporgenza su un polo della sfera di metallo, e l’alone di luce li avvolse con un bagliore violento. Dorian strizzò gli occhi, accecato. Non appena riuscì a riaprirli, ciò che vide gli diede voglia di prorompere in un’esclamazione di sorpresa, sennonché Zontar gli piazzò una mano sulla bocca. Il guerriero si rammentò della necessità di tacere, e obbedì. In verità non capiva cosa stesse accadendo. I Figli della Notte erano ancora tutti intorno a loro, e invece di stringere il cerchio se ne restavano dov’erano con aria confusa, alla ricerca di qualcosa. A tratti li fissavano esplicitamente, poi subito sviavano lo sguardo in un’altra direzione. Il Primo Fratello ruggì di rabbia: «Cercateli, incapaci! Non possono essere lontani!» Nell’attimo di indecisione che ò tra l’ordine del capo e l’esecuzione dei suoi sottoposti, Zontar afferrò i due compagni per il braccio e si mosse a o felpato verso il vicolo più vicino. Quando uno dei Figli della Notte ò correndo tanto vicino a loro da sfiorarli, il Saggio li fece appiattire contro una parete. Istanti dopo li incitò di nuovo a camminare, senza mai proferire parola, esprimendosi soltanto a gesti e spinte. Si inoltrarono così nel labirinto di viuzze del porto, sempre camminando stretti l’uno all’altro in silenzio, finché i nemici scemarono e le urla inferocite del Primo Fratello si persero in lontananza. Sbucarono infine sulla banchina, dove Zontar li spinse ad accelerare il o verso un piccolo ed elegante vascello ormeggiato a poca distanza. Imboccarono

in fila indiana la erella che levava al ponte, quindi il Saggio li guidò dentro la cabina principale, già occupata da un paio di marinai intenti alle pulizie. I due si mossero nervosi nell’udire l’improvviso scricchiolio del legno sotto i loro piedi, ma quando Zontar premette di nuovo la sfera, e l’alone di luce giallastra si spense, mollarono secchi e scope e spiccarono un salto fino al soffitto con un urlo di sorpresa. «Calmatevi!» ingiunse loro Zontar «Sono io in carne ed ossa, non un fantasma!» Nessuno dei due riuscì a replicare: i loro denti sbattevano come nacchere, e le loro gambe tremavano in modo incontrollabile. Il Saggio fece un o avanti, con cipiglio serio, ed entrambi si ritrassero contro la parete. «Non c’è tempo di scherzare, datevi una mossa! Correte ad avvisare il capitano, ditegli che dobbiamo salpare all’istante!» I marinai non se lo fecero ripetere: scivolarono fuori dalla cabina, sempre spalle alla parete, e si dileguarono. Dorian era come minimo perplesso. Nulla quadrava nella loro incredibile fuga dai Figli della Notte! Pochi minuti prima, circondato da quei dannati corvi, si era dato per spacciato. E adesso erano sani e salvi all’interno di un vascello... Zontar infilò la sfera nella sacca, strizzandogli un occhio con fare cospiratorio: «Anch’io ho i miei trucchetti: questo Artefatto - che ho battezzato Celosfera - ha l’utilissimo potere di celare allo sguardo altrui la presenza di chi lo attiva, e di chiunque egli si porti appresso.» «Volete dire che... eravamo invisibili?» «Come il vetro più raffinato.» Dorian fischiò in segno di ammirazione. «Già» concluse Zontar «Non esco mai senza.» Udirono del vociare fuori dalla cabina, seguito da una voce tonante che dava ordini a destra e manca.

«Il capitano è stato avvisato, presto saremo pronti a partire. È ora di prendere una decisione definitiva, guerriero: ti unirai a noi, o proseguirai per la tua strada?» Dorian stava per rispondere che il suo parere non era cambiato - malgrado la sgradita comparsa di un’orda di Figli della Notte inferociti alle sue calcagna per le vie della città - quando il suo sguardo captò la figura ingobbita di Delfean e si rammentò di una cosa importante. «Un momento» disse, approssimandosi al giovane «C’è qualcosa che non mi quadra, e che sono ansioso di capire. Perché il Primo Fratello ha reagito in quel modo, quando ha scorto il volto di Delfean?» Zontar si rabbuiò. «Con tutto il rispetto, Dorian, la cosa non ti riguarda. Il tuo cavallo ti aspetta sul molo, accanto al vascello: hai preso la tua decisione, è ora che tu ti metta in moto.» Dorian non credette alle proprie orecchie. «E pensate di liberarvi di me in questo modo, senza uno straccio di spiegazione? Sbaglio, o senza di me saremmo morti tutti quanti in mezzo alla strada, prima che riusciste ad attivare quel marchingegno?» «Non fraintendermi, guerriero, ti sono grato dal profondo del cuore per ciò che hai fatto - così come tu dovresti essermi grato per averti sottratto alla prigione dei Figli della Notte. Ma ci sono questioni che neanche tu hai il diritto di conoscere, visto che hai scelto di non accompagnarci a Sud.» «No» lo interruppe Delfean, con voce ferma. Raddrizzò le spalle e squadrò Dorian con sguardo risoluto: «Ci ha salvato la vita, come minimo si è guadagnato la verità.» Il Saggio aggrottò la fronte, preso in contropiede. «Non credo che...» «Fatelo e basta» ordinò il giovane, che all’improvviso non sembrava affatto il timido apprendista del Saggio «Ditegli tutto quanto, o lo farò io.»

Zontar emise un profondo sospiro e tacque, mentre Dorian spostava lo sguardo dall’uno all’altro, in attesa di una spiegazione. Alla fine il Saggio ruppe il silenzio: «Dorian, ho l’onore di presentarti sua Maestà il Principe Feledan, terzo figlio di Re Feldnost, signore legittimo di tutte le terre a Sud del Mare Interno, fino alle steppe di Sulya.» Dorian impietrì dinanzi al giovane, fissandolo a bocca aperta. Quando si riebbe dalla sorpresa, deglutì e cercò di dare un senso alla cosa. «Ma... Il tuo apprendista... Delfean?» Il Principe sorrise: «Ovviamente non è così che mi chiamo. Con un po’ di attenzione, noterai che Delfean è un anagramma del mio vero nome, Feledan. Ingegnoso, non trovi?» Il guerriero non seppe che rispondere. Era troppo assurdo per essere vero! «Come avete potuto?» sbottò, diretto all’anziano Saggio «Condurre il Principe in questo luogo, praticamente tra le braccia del nemico! È una follia! È la cosa più stupida che potesse venirvi in mente!» Zontar arrossì in volto, ma Feledan lo anticipò nella risposta: «Sono stato io a volerlo. Una decisione non priva di rischi, lo ammetto. Ma non è proprio così che i miei soldati affrontano la guerra giorno dopo giorno, correndo dei rischi, mettendo a repentaglio la propria vita? Perché giusto io, il loro Principe, sarei dovuto restarmene rinchiuso in sicurezza tra le mura del mio palazzo, ad Ilkan, mentre loro rischiavano tutto a causa mia?» La risposta non convinse Dorian. «Mio Signore, capisco il vostro stato d’animo, ma non vi rendete conto di cosa accadrebbe se il nemico mettesse le mani su di voi? Pochi minuti orsono, se i Figli della Notte ci avessero catturati... La guerra sarebbe già finita, per noi e per l’interno Principato, capite?» Il Principe si irrigidì.

«Non prendermi per uno sciocco, guerriero, conosco bene le implicazioni e i pericoli della mia presenza in territorio nemico. Ma il motivo che mi ha spinto a venire meritava ogni genere di azzardo!» Abbassò lo sguardo, e il tono di voce. «O almeno era quel che pensavo.» Rivolse un sorriso a Dorian: «Immagino che tu abbia udito della mia ione per la lingua e la poesia. Chiunque ne è al corrente: i più magnanimi mi chiamano il Principe Poeta, molti altri “poetucolo indegno di regnare”, ma la sostanza è la stessa. E cos’è che più affascina ogni poeta e cantore del nostro Regno, cos’è che egli vuole rendere eterno con i propri versi, in modo che il tempo non possa cancellarne la memoria a discapito delle future generazioni?» Dorian avrebbe voluto rispondere “l’amore”, ma dubitava che fosse la risposta voluta, per cui si limitò a tacere. «La guerra! Le gesta eroiche, il sacrificio, la gloria conquistata a duro prezzo sul campo di battaglia!» esclamò Feledan, divertito dallo sguardo perplesso che Dorian gli restituì. «Sì, adesso lo so, guerriero. L’avevo intuito sempre più spesso durante le ultime settimane, sforzandomi di non farci caso, ma oggi ne ho avuto la conferma irrefutabile. La guerra è stupida e dolorosa, e nient’altro, come hai detto tu. Dovrò sostituire il poema epico che avevo in mente con un semplice sonetto.» «La colpa è stata mia» si intromise Zontar, con voce contrita «Sapevo fin dall’inizio che era una pessima idea, ma il Principe si è dimostrato irremovibile nella sua decisione di conoscere in prima persona i luoghi e i protagonisti di questa guerra. Sapevo quanto la realtà fosse differente dalle sue fantasie, e la mia più grande colpa è stata quella di non aver fatto nulla per dissuaderlo.» Fosse il modo di parlare del Saggio, o l’occhiatina che gli lanciò di sottecchi, Dorian colse tutt’altro significato nelle sue parole, rispetto a quel che sembravano voler dire, e cominciò a intendere perché Zontar avesse commesso un’imprudenza colossale come quella di portare Feledan con sé a Rutan. Zontar non era affatto pentito: fin dall’inizio la sua intenzione era stata quella di mostrare la realtà nuda e cruda a quel Principe pavido e indeciso, privo di pragmatismo e di reale interesse negli avvenimenti del Regno. Tuffarlo nel cuore degli eventi era stato l’equivalente di una doccia fredda: l’unico modo efficace di strapparlo ai suoi sogni idilliaci, risvegliare il suo spirito ai bisogni concreti del Principato, e renderlo finalmente partecipe della guerra che era sua responsabilità comandare, e il cui fardello era invece ricaduto interamente sulle

spalle del Consiglio. «Non hai colpe, e sì molti meriti, mio fedele, insostituibile Zontar» disse Feledan, rivolgendo un inchino al Saggio. «Senza di te non avrei mai aperto gli occhi. Dobbiamo tornare ad Ilkan e darci da fare per organizzare al meglio le nostre strategie. I miei fratelli meritano la sconfitta e la morte, per i fiumi di sangue che hanno versato sul nostro pacifico Regno. E quando avrò infilzato le loro teste su due picche, in cima alle mura del castello, maledirò l’insensatezza di questo conflitto con tutti i versi che la mia penna sarà capace di concepire!» «Una lodevole iniziativa, mio Signore» osservò Zontar. In quel momento un marinaio infilò la testa barbuta nella cabina: «Siamo pronti a salpare, al vostro comando.» «Ancora un minuto» disse Feledan «Voglio prima accomiatarmi come si deve da questo nobile guerriero.» Si avvicinò a Dorian e gli offrì la mano. Dorian gliela strinse con onore, imbarazzato da tanta familiarità con il sovrano, poi strinse quella di Zontar, e si preparò a lasciare il vascello. «Un momento» lo fermò il Principe «Non mi sembra giusto offrirti un misero cavallo soltanto, come ricompensa per averci salvato la vita. Cos’altro possiamo fare per te?» «Il cavallo è un dono molto più importante di quanto possiate immaginare, mio Signore. Non desidero altro.» Il Principe parve corrucciato. «Eppure ci dev’essere qualcos’altro...» Zontar si schiarì la gola. «Qualcosa c’è, in effetti.» Gli altri due lo squadrarono con curiosità. «Ustyandé» disse il Saggio.

Dorian alzò un sopracciglio. «Che vuol dire?» «”Ricordati”, nella Lingua Antica. È la Parola di Comando che ti consentirà di accedere al diario segreto di Abel, una volta recuperato lo Stendardo della Compagnia del Viandante.» Le mascelle di Dorian si serrarono alla menzione del diario. Con tutti gli avvenimenti delle recenti settimane, aveva omesso dalla propria memoria il patto stabilito con il Saggio: la Parola di Comando in cambio della possibilità di studiare l’Artefatto senza restrizioni. A quanto pareva, Zontar aveva appena rinunciato alla garanzia che la sua parte venisse rispettata, pur di ripagarlo dell’aiuto offerto al Principe. «Grazie» disse Dorian, chinando il capo. «Non c’è di che, guerriero. Mi auguro che tu possa ritrovare presto lo Stendardo, ascoltare le parole di Abel, e convincerti una volta per tutte che le insinuazioni di Nahash non hanno nessun fondamento.» «Mi auguro che abbiate ragione.» «È così, senza dubbio» affermò Zontar, puntandogli un dito sul petto «Devi soltanto aver fede nel tuo cuore.»

XIII - La Festa di Edessa

Seduta su un masso tondeggiante, Kyra riempì i polmoni di aria fresca. Da lì poteva spingere la vista sui campi verdi fino all’orizzonte, mentre riprendeva fiato e dava un minimo di tregua ai muscoli infiacchiti dalla lunga marcia. Un raggio di sole filtrò attraverso la coltre di nubi grigie, baciandole la pelle. Chiuse gli occhi e sollevò il mento per ricevere il caldo tocco della luce sulla fronte, sulle guance. Per pochi, magici istanti riuscì a scacciare dalla mente il frustrante pensiero della propria debolezza, e a godersi la pace assoluta di quel momento. Quando fu sazia delle carezze del sole, abbassò lo sguardo sui campi. Scorse la figura ancora lontana di Tulga, minuscola come una formica, e la seguì mentre si avvicinava nell’erba alta, lasciando dietro di sé una scia di steli calpestati. Come giunse a destinazione, il barbaro le rivolse un largo sorriso, che lei ricambiò. «Acqua, tu bere» le disse, porgendole la fiaschetta piena fino all’orlo di liquido fresco e trasparente «Trovato ruscello dietro collina.» Kyra accettò di buon grado e bevve a volontà. Ringraziò la sorte che quel mattino le aveva permesso di scambiare la pesante casacca di cuoio con una vecchia camicia dal tessuto un po’ consunto: non era stato facile convincere il mercante, incontrato lungo il cammino, della bontà dello scambio. Ora, se avesse potuto, avrebbe fatto a meno persino della camicia. Il suo corpo era ancora caldo, più del normale, e richiedeva enormi quantità di fluidi. Non fosse stato per le premurose attenzioni di Tulga, sarebbe avvizzita lungo il cammino come una vecchia prugna. «Grazie» gli disse, rinvigorita. «Tu bene?» Lei titubò un istante, prima di rispondergli. «Direi di sì. Ma...»

«Ancora stanca? Noi montare campo qui, oggi?» «No» lei scosse la testa «Posso ancora affrontare parecchie miglia oggi, davvero.» Lo guardò in faccia e capì di non averlo convinto. «Tu ancora debole, non motivo di vergogna. Febbre essere nemico terribile.» «Va tutto bene, credimi» sbuffò lei «Vorrei soltanto essere più forte, ecco tutto.» Estrasse di tasca la bussola di Nahash, la esaminò senza troppo ottimismo: l’ago puntava dritto verso Ovest, ed era nero come sempre. «Di questo o non ce la faremo mai» mugugnò. Tulga incrociò le braccia sul petto e la squadrò severamente. «Meglio tu smettere con lamenti. Meglio pensare star meglio. Poi noi correre giorno e notte, raggiungere lui rapidi come fulmine.» Kyra non poté fare a meno di sorridere del suo entusiasmo. Il barbaro neanche conosceva Dorian, ma la sua devozione per lei l’avrebbe spinto a corrergli dietro fino alla soglia dell’inferno, se necessario. Ormai si fidava di lui senza riserve: in tutti i giorni e le notti ate insieme non le aveva dato una sola ragione di dubitare della sua onestà. Certo, a volte non capiva cosa realmente legasse il suo destino a quello dell’ometto: attrazione, paura, senso del dovere, ciascuno dei tre? Poco importava, era comunque un grande conforto averlo vicino. Stirò gambe e braccia, prima di alzarsi. Si sentiva meglio, molto meglio. «D’accordo, piccoletto, andiamo. Per adesso limitiamoci a camminare, a correre penseremo un altro giorno.» «Domani?» «E chi lo sa» rise lei «Tu resta pronto.» «Io sempre pronto.» «Lo so Tulga, lo so.»

Ripresero la marcia verso Ovest a ritmo lento e costante, con qualche pausa necessaria a Kyra per valutare le proprie forze. La risposta del suo corpo fu sempre positiva: faceva grandi progressi, poteva considerarsi quasi guarita. Una cosa, però, continuava a rimpiangerla: un bel cavallo. Ogni volta che lo faceva presente a Tulga, questi scuoteva la testa: «Figli di tribù Pietre Nere non cavalcare. Terra rocciosa, cavalli rompere gambe e crepare. Noi correre su nostre gambe, più sicuro.» «Per cui non ci sono cavalli nel tuo villaggio?» «Oh, sì. Noi piacere molto cavalli!» «Ma come?» «Alla brace, con erbe selvatiche. Sciamano anche ottimo cuoco.» «Era meglio non chiedere!» Erano un popolo pratico, i barbari del Nord. Alle prime avvisaglie del crepuscolo, la carreggiata semi deserta si infilò dentro un fitto bosco di querce. Fu come are dal giorno alla notte in un istante. Era buio e freddo sotto le fronde degli alberi imponenti, ma l’aria non recava sentore di minaccia, tutt’altro. Sembrava che il bosco volesse accogliere con cordialità chi calpestava la terra sopra le sue profonde radici, e incantarlo con la magia del suo silenzio. Niente da spartire con la selva traditrice di Draslund, dove l’assenza di rumori era avvisaglia di un pericolo in agguato, ed ogni o falso poteva condurti a una brutta fine. I due compagni di viaggio accolsero con gratitudine quella mite atmosfera, e la fecero propria per un lungo tratto, tanto da sussultare quando un inatteso vociare li strappò all’incanto. Rallentarono il o, guardinghi. La strada, ridotta in quel punto a poco più di un sentiero, svoltava dietro un paio di tronchi e proseguiva sino a un ponticello adagiato di traverso su un torrente spumeggiante. Videro un carro con una ruota incagliata tra le assi sconnesse, che non voleva saperne di andare né avanti né indietro malgrado gli sforzi di un mulo e dell’uomo che lo sollecitava a forza di urla e frustate. Kyra e Tulga si approssimarono con una certa dose di prudenza. Non era una

novità, tra le bande di briganti che ammorbavano il Regno, la classica esca del veicolo in panne. Se ricordava bene, Kyra l’aveva visto utilizzare anche dai suoi Ratti di Porto, nelle viuzze di Dekka. Il trucco era semplice: un ante si avvicinava per dare una mano, pieno di buone intenzioni, per poi ritrovarsi sdraiato in mezzo alla strada con un bernoccolo in testa, il borsellino vuoto, e alleggerito dei vestiti. In quel caso, il conduttore dava loro le spalle e non sembrava essersi accorto della loro presenza. Era tarchiato e massiccio, il sudore gli scorreva a fiotti dal cranio calvo mentre faceva pressione sulla ruota incastrata tra le assi. Aveva la testa fasciata e un braccio appeso al collo, non sembrava in grado di risolvere da solo quella spiacevole situazione. «Serve aiuto?» domandò Kyra. L’uomo sobbalzò e si girò di scatto, mostrando un volto dai grossi baffi cisposi. Spalancò gli occhi dalla sorpresa. «Che mi venga...» «...un colpo!» completò Kyra, altrettanto sbigottita «Bantha!» Lo scorbutico capo carovana la prese in contropiede con il più largo sorriso che gli avesse mai visto stampato in faccia, e con un abbraccio degno di un orso delle caverne. Non appena si staccò da lei, però, la letizia svanì dalle sue labbra, e tornò a vestire i panni del personaggio scontroso che Kyra ben conosceva. «Per tutti gli Dei, ragazza, cosa ci fai qui? Credevo che fossi sepolta sotto i cadaveri di Cantor!» «Ed io credevo lo stesso di te! Sbaglio, o l’ultima volta che ci siamo visti eri intrappolato dentro al tuo carro-forte, schiacciato sotto gli stivali della fanteria di Gomer?» «C’è mancato davvero poco! I guaritori di Feledan mi hanno trascinato fuori dai rottami a battaglia conclusa, un attimo prima che sputassi l’ultimo grumo di sangue. Hanno compiuto un miracolo. Poco importa se in cambio si sono intascati tutto quel che c’era nel mio scrigno.» «Che cialtroni senza onore!»

Lui diede un’alzata di spalle. «Mi hanno ridato la vita e un pugno di monete, e tanto mi basta.» Kyra aggrottò la fronte. «Non ti riconosco, devono averti colpito in testa con più forza del dovuto.» Bantha si permise un altro sorriso. «Bah, ho avuto molto tempo per pensare, steso per giorni su una lurida branda, con mezzo corpo fasciato. Sono arrivato alla conclusione che ho sprecato fin troppo tempo in giro per il mondo, con il chiodo fisso di accumulare quattrini, lontano dalla mia famiglia e dalla vita che avrei potuto trascorrere insieme a loro. Adesso basta. Torno a casa, e ringrazio gli Dei per avermi concesso di salvare la pelle, e una manciata di spiccioli per tirare avanti.» «Sagge parole» annuì Kyra «Ma sembra che tu e i ponti non andiate affatto d’accordo.» Proprio su un ponte - anche se ben differente da quello - nel cuore della città di Cantor, la loro carovana era rimasta stritolata nella tenaglia degli eserciti di Gomer e Feledan. Bantha sferrò un calcio alla ruota intrappolata. «Questa maledetta non vuol saperne di uscire, e lo stupido mulo preferisce starsene qua a morire che darsi una mossa!» Kyra rivolse un’occhiata divertita a Tulga, che fece spallucce. «Fatti da parte, ci penso io. Poi converseremo con più calma.» Sulle prime Bantha non capì, poi si rammentò dello spaventoso braccio di metallo con cui Kyra aveva contribuito a salvare la carovana dall’assalto dei briganti della Tigre Bianca, e la lasciò fare. Fu questione di un attimo: Kyra afferrò una fiancata del carro con le dita artificiali, fece forza, e il veicolo si sollevò con la leggerezza di una piuma, accompagnato da uno sbuffo di vapore del braccio meccanico. Visto che c’era, Kyra spinse il carro avanti fin sulla terraferma, costringendo il mulo ad assecondare il movimento con un raglio di

protesta. «Ecco fatto. La ruota non sembra danneggiata, potrai proseguire senza problemi.» Bantha si grattò la sommità del capo, perplesso. «Se non l’avessi visto non ci crederei. Sei davvero un portento, ragazza.» Tulga annuì con vigore, anche lui impressionato da quella manifestazione di forza. «Dunque stai tornando a casa» domandò Kyra. «Proprio così. E tu? Non mi dire che sei sempre alla ricerca di tuo padre?» «Già» ammise lei, con aria triste «Me lo sono fatto sfuggire un’altra volta.» «Poco male, una donna persistente come te non avrà problemi a ritrovarlo. E lui chi è?» si informò, squadrando il barbaro con diffidenza. «Si chiama Tulga, mi sta accompagnando lungo il cammino.» Bantha indicò la collana di zanne e ossicini che pendeva dal collo del barbaro. «Ne ho già incontrata di gentaglia come lui, nei miei viaggi, e non è mai stata una bella esperienza. Sei sicura che non morda?» «Forse provare miei denti su di te» ribatté Tulga, stringendo le pupille. Kyra riappacificò subito gli animi: «Siamo tutti amici, niente litigi.» I due si fissarono in cagnesco per un po’, prima che Bantha lasciasse perdere. «Se lo dici tu. Ma guardati le spalle, non c’è da aspettarsi nulla di buono da un selvaggio del Nord.» Tulga serrò la mascella e non disse nulla, timoroso di infrangere la tregua indetta da Kyra.

«Non vedo altre strade attraverso il bosco, per cui potreste unirvi a me e risparmiarvi una parte del cammino» propose Bantha «È il minimo che possa fare per sdebitarmi, se prometti di tenere d’occhio il tuo selvaggio.» La guerriera concordò senza consultare Tulga, anche se questi avrebbe di certo preferito evitare la compagnia di Bantha. Apprezzava l’opportunità di viaggiare seduta, una volta tanto, e aveva parecchi interrogativi da risolvere con il suo vecchio datore di lavoro. Mentre il carro sobbalzava a o di lumaca lungo la galleria di rami e foglie, Kyra si informò sugli avvenimenti di Cantor, dopo la sua fuga. Seppe così che la battaglia era stata vinta dalle truppe di Feledan, che avevano mantenuto il controllo di quella zona cruciale situata al confine tra i principati. Tutto questo, però, a costo di molte vite, e a spese della carovana di Bantha, che era andata completamente distrutta. Perse tutte le ricchezze accumulate, deceduti i mercanti di Darat che avevano finanziato il viaggio, scomparsi la maggior parte dei membri del gruppo. I pochi che se l’erano cavata si contavano sulla punta delle dita. Tra questi, con grande sollievo di Kyra, Bantha nominò la robusta soldatessa con cui aveva stretto amicizia nei giorni trascorsi come scorta della carovana. La guerriera approfittò della prima pausa nel racconto di Bantha per rivolgergli la domanda che più le stava a cuore, e che allo stesso tempo temeva più di ogni altra. «Hai avuto notizie di Zimri e Rufus?» Bantha scosse la testa. «Nessuna. Ho cercato tra i cadaveri, non c’erano. Nessuno li ha visti, né durante né dopo la battaglia.» «Capisco.» «Però...» le labbra di Bantha si arricciarono in una sorta di sorriso «se fossi in te sarei ottimista.» «Cosa te lo fa dire?» «Storie, a dire il vero, soltanto storie. Di come due ragazzi dagli strani poteri

abbiano tenuto a bada un intero battaglione di Gomer, di come sia scoppiato un incendio che ha raso al suolo l’intero quartiere, e che ha permesso alle truppe di Feledan di riorganizzarsi...» Kyra chiuse gli occhi al ricordo della melodia ipnotica di Rufus e della magica danza di Zimri. I due erano rimasti indietro per permetterle di raggiungere la salvezza, anche a costo della propria vita. Quando si era voltata a guardarli un’ultima volta, i soldati di Gomer si stavano risvegliando dalla prodigiosa illusione. Forse i due ragazzi erano riusciti a fuggire in tempo, ed era probabile che loro stessi avessero causato l’incendio, come forma di diversivo... «Credi pure a quello che vuoi, ragazza» disse Bantha «Io penso che se la siano cavata. Erano due giovani in gamba. Hanno preferito svignarsela senza salutare, ma non posso biasimarli per questo. Con quella storia della taglia sulla loro testa... Io avrei fatto lo stesso, al posto loro.» Kyra annuì. Sì, aveva senso, si augurava fortemente di rivederli un giorno. In quel momento forse stavano girovagando per il Regno, come lei, in cerca del proprio futuro. Ce l’avrebbero fatta, contando l’uno sulla forza dell’altro. Si perse nei propri pensieri, sedata dall’andatura traballante del carro. Tulga, schiacciato tra lei e la fiancata, non aveva detto una parola dall’inizio del viaggio, ancora offeso dal trattamento ricevuto. Bantha teneva lo sguardo fisso sulla strada: le insidie erano sempre più difficili da distinguere nella luce morente del giorno, filtrata dall’intrico di rami del bosco. Quando ormai il paesaggio si era fuso in una tela dai toni opachi, cominciarono a udire la musica. Non una singola melodia, piuttosto un intrico di suoni che giunse alle loro orecchie come un flebile brusio, per poi prendere corpo e sostanza quanto più avanzavano lungo la strada. Erano strumenti, e voci allo stesso tempo. Bantha non disse nulla, ma era evidente dalla sua concentrazione che stava cercando una spiegazione a quello strano evento. Seguirono la scia di musica finché un villaggio prese forma tra gli alberi dinanzi a loro, adorno di festoni, lampade di carta colorata, e della luce di mille candele. «Cosa succedere?» chiese l’esterrefatto Tulga, aprendo bocca per la prima volta.

Bantha si batté una mano sulla fronte. «Ma certo! La festa di Edessa! Con tutti i problemi che ho avuto, mi era ata di mente!» «Una festa? Con la guerra in corso?» si stupì Kyra. «Questo posto ne ha già viste are più di una decina, di guerre, da quando esiste. Ci vorrebbe ben altro per sospendere la famosa festa di Verrhal!» Tulga sgranò gli occhi come un fanciullo, mentre il carro faceva il suo ingresso nel villaggio. Ogni angolo del piccolo centro abitato era invaso da una folla festante, bardi e musici di ogni genere si contendevano lo spazio e gli applausi dei presenti, fiumi di limpaq e idromele scorrevano dalle botti ai boccali. Bantha dovette infierire sul povero mulo per farlo procedere nel mezzo della calca danzante, tra gestacci, imprecazioni e schizzi di bevande. Il contrasto con la quiete del bosco era a dir poco impressionante. «È alla Dea della Natura che stanno brindando» Bantha si degnò di spiegare al barbaro «Credono che la loro allegria sia la forma di devozione più gradita agli occhi di Edessa, e che quanto più la festa sarà viva, tanto più la Dea propizierà i raccolti nella stagione a venire. Un giorno e una notte interi di bagordi, senza il minimo ritegno, in nome della religione. Fesserie, se dai retta a me, ma preferisco di gran lunga questa bolgia festante al mortorio dei templi di Abidan!» Kyra sorrise, pensando alla reazione che Raduan avrebbe avuto a quelle parole. Ah, Raduan il brontolone! Altro che festa, per lui il massimo del godimento era una silenziosa meditazione, con un libro aperto in grembo e la fedele pipa appesa a un angolo della bocca. Quello era sempre il momento giusto per farlo andare su tutte le furie con un commento salace, o un atteggiamento provocante. Represse una risata. Come le mancavano quei tempi! Il carro era praticamente fermo nel bailamme di uomini e donne, molti dei quali erano mascherati come animali selvatici, vestiti con bizzarri costumi di foglie e piante intrecciate, o sfoggiavano frutti e ortaggi pendenti dai corpi come stravaganti accessori. Alcuni indossavano pellicce, cappucci ricavati dalle teste di lupi e volpi, altri portavano sul capo le corna di un bue o le piume di un gallo. Vorticavano nel ritmo vertiginoso dettato da tamburi, liuti e flauti, persi in un’estasi che aveva qualcosa di divino. Tulga, ammaliato, non toglieva gli occhi da quell’allegro carnaio.

Finalmente raggiunsero l’unica locanda del villaggio, dove Bantha sperava di trovare alloggiamento per il carro e per il mulo, oltre che per sé e i due compagni. Sarebbe stata una vera battaglia, in una notte come quella, ma valeva la pena tentare. «Lasciate fare a me» disse, saltando giù dal carro sui piedi di un malcapitato «Conosco il padrone, vedrete che un angolino per stanotte ce lo troverà. Nel frattempo, se volete divertirvi un po’... Io sono troppo vecchio per questo genere di cose.» «Non so se sia il caso» osservò Kyra «Domani ci attende un lungo cammino, e sarebbe meglio farci un sonnellino, finché possiamo. Tu che ne dici, Tulga?» Lo sguardo che lui le rivolse, mentre annuiva obbediente, era languido e triste come quello di un cucciolo. Ci volle un secondo perché Kyra si sciogliesse davanti a quegli occhi imploranti. «Uff! D’accordo, d’accordo! Soltanto un giretto, va bene?» Il volto di Tulga si illuminò all’istante. Prima che lei potesse dire “bah!”, la prese per mano e se la trascinò dietro, tuffandosi nel vortice della moltitudine. Superato il trauma del momento, Kyra cominciò a sentirsi felice e leggera. Come una giovane qualsiasi, che si butta nella festa mano nella mano con il proprio fidanzato - o meglio, nel suo caso, come una madre che accompagna il figlioletto a festeggiare. Si infilarono come anguille nella ressa, seguendo di volta in volta la direzione che Tulga riteneva più interessante, per avvicinarsi a un musico particolarmente abile, per impossessarsi di una mela caramellata, per assistere a balzi e capriole di un saltimbanco. A volte l’obiettivo era approssimarsi a qualche prosperosa giovane in atteggiamento disinibito, ma Kyra scoraggiò l’iniziativa fin da subito con un cazzotto ben dato. Nel suo infantile entusiasmo, Tulga andò a cozzare contro il ventre gonfio di un colossale taglialegna, che lo afferrò sotto le ascelle e lo issò per aria come un fantoccio. «Ma che bel barbaruccio abbiamo qui!» rise l’uomo, sputacchiando in faccia al povero Tulga «Davvero un gran bel travestimento, sembri proprio uno di quei selvaggi schifosi!»

Lo piantò a terra e gli rifilò una tremenda pacca sulla schiena, da fargli sputare i denti. «Ne ho fatti fuori a bizzeffe, ai miei tempi, di quei cani! Attento che non decida di schiacciare anche te, barbaruccio!» Tulga divenne nero di rabbia per un istante, ma Kyra gli strinse una spalla e gli fece cenno di no con la testa. Il barbaro rimase rigido, poi strappò il boccale dalla mano dell’energumeno e lo vuotò tutto d’un fiato. Glielo restituì accompagnato da un roboante rutto. «Questa battaglia vinta io!» dichiarò. La risata dell’omone seppellì tutti quanti. Non permise ai due di andarsene per la propria strada finché non ebbero scolato un altro boccale in sua compagnia. Quando infine riuscirono a svicolare, Kyra aveva già la testa leggera. E dire che un tempo si vantava di saper bere meglio di tutti i suoi fratelli in armi! Come misero piede nella piazzetta centrale del villaggio, la mano di Tulga sfuggì alla sua presa, e in men che non si dica si trovò a volteggiare tra le braccia di un aitante boscaiolo. Stava danzando! Suo malgrado, Kyra venne contesa come una sorta di trofeo dai giovani locali, che la forzarono a ripetuti ed estenuanti giri di danza. Tra l’incessante turbinio del ballo, gli effetti della bevanda, ed il suo cagionevole stato di salute, si ritrovò in breve in preda a un forte capogiro. Alzò la testa al cielo e rabbrividì: la Luna di Sangue la osservava dal firmamento come un occhio rapace. Dovette staccarsi a forza dal suo ultimo pretendente, e appoggiarsi a un muro per non crollare lunga distesa a terra. Appena ebbe la forza di sollevare il capo senza provar voglia di vomitare, cercò Tulga con lo sguardo. L’ometto era svanito, di certo aveva trovato conforto tra le abbondanti curve di qualche paesana. All’improvviso, il suo sguardo si arrestò su un personaggio immobile al lato opposto della piazza. Era appena un volto mascherato, congelato sullo sfondo in perenne movimento della ridda danzante, ma furono i suoi occhi a colpirla allo stomaco, occhi gialli, luminosi come piccole lanterne. Sbatté le palpebre, ed erano scomparsi. Prima che avesse il tempo di riflettere, la mano di Tulga si chiuse sul suo polso, e venne nuovamente trascinata via di peso. «Si può sapere cosa...?» protestò.

«Torneo!» la zittì Tulga, fuori di sé per l’eccitazione «Gare di forza e abilità, noi partecipare e vincere tutti quanti, facile facile!» «Che razza di idea è mai questa? Ne ho abbastanza, voglio andare a dormire! Vacci tu da solo!» «Impossibile. Gare per coppie, non poter fare da solo!» «Cosa?!? E davvero ti aspetti che io gareggi insieme a te come marito e moglie? Devi esserti bevuto il cervello, non farò mai una cosa del genere!» Minuti dopo, quando si preparavano ad affrontare la prima prova, Kyra si chiese come diamine avesse fatto quel piccolo diavolo a convincerla. Doveva essere davvero di buon umore, per accettare di sottoporsi a tanto. Senza contare la “prova d’amore” che avevano dovuto scambiarsi davanti ai giudici, per essere ammessi alla competizione: Tulga aveva udito forte e chiaro la minaccia che gli aveva sussurrato tra i denti nel momento della verità, e si era accontentato di stamparle un innocuo bacetto su una guancia. Meglio per lui. Andarono a piazzarsi insieme alle altre coppie partecipanti in un’area disboscata appena fuori dalla cerchia di case, preceduti da una mezza dozzina di giudici tronfi come solo i protagonisti di una sagra paesana sanno essere - e seguiti dalla folla festante. Ognuno aveva i propri beniamini, che osannava a gran voce a scapito delle altre coppie, bersaglio di fischi e sberleffi. Kyra e Tulga, per essere degli stranieri, arono quasi inosservati, con gran scorno del secondo che avrebbe adorato essere al centro dell’attenzione. Kyra si sentì sulla pelle fin da subito le occhiate inquiete degli altri concorrenti, che non li conoscevano e perciò li temevano più degli altri. Era tutta gente semplice, taglialegna del villaggio, contadini, o allevatori venuti dal circondario. Molti di loro erano già talmente ubriachi che difficilmente avrebbero superato la prima prova, soprattutto se avesse comportato correre su una gamba sola. Uno dei giudici li fece allineare davanti a sé e ricordò con gran pompa la necessità di gareggiare in modo corretto e leale, senza inutili scatti di violenza. Il gran premio per la coppia vincitrice, oltre alla gloria del trionfo in sé, sarebbe stato un grosso maiale dall’aria placida che si aggirava grufolando nei dintorni, ignaro del proprio destino. «Un maiale?» roteò gli occhi Kyra.

«Secondo premio gallina, terzo premio torta appena sfornata!» esultò Tulga. «Adesso sì che mi sento carica...» «Io anche! Noi mangiare fino a scoppiare!» La prima gara si rivelò essere il buon vecchio tiro alla fune: le coppie si affrontarono a due a due, ad eliminazione, finché almeno la metà non venne esclusa. Per Kyra e Tulga fu un gioco da ragazzi: il braccio meccanico di lei, usato con discrezione - senza bisogno di rimboccarsi le maniche - vinse ogni sfida praticamente da solo. Omaccioni nerboruti e donnone dalle gambe spesse come tronchi volarono con la faccia nel fango senza un’apparente spiegazione, mentre Tulga lanciava alte grida di trionfo. Le donne di Verrhal cominciarono a fissare con interesse e ammirazione le sue braccia ossute, chiedendosi dove un ometto così insignificante trovasse tanto vigore. Nessuno sospettò che lo sforzo venisse tutto dalla sua giovane moglie dall’aspetto piratesco. Tulga la ripagò nella seconda prova, il noto albero della cuccagna. Due mariti alla volta si sfidavano arrampicandosi su un’altissima pertica cosparsa di grasso, scivolosa come ghiaccio, finché uno dei due riusciva a impossessarsi della coda di volpe appesa alla sommità. Come se non bastasse, le mogli rendevano la vita impossibile all’avversario tempestandolo di vecchi ortaggi e uova marce, tra le sonore risate del pubblico. Tulga rivelò un’agilità degna di una scimmia: strizzava il palo con braccia e gambe come se da questo dipendesse la propria vita, e si issava a piccoli balzi senza mai perdere terreno. Venne investito da una pioggia di pomodori, cavoli, e persino un paio di dure barbabietole, eppure nulla gli impedì di partire in testa e mantenere il vantaggio sino alla fine. Così, mentre Tulga agguantava la coda là in alto, sopra le teste del pubblico in delirio, il suo avversario rovinò sul mucchio di paglia ammassata ai piedi della pertica, impietosamente abbattuto dai proiettili vegetali di Kyra. Tulga scivolò giù con un sorriso bambinesco stampato sul volto, accolto dall’abbraccio della folla, e strizzò un occhio a Kyra. «Uff! Speriamo che non manchi molto!» borbottò lei, quando in realtà si stava divertendo parecchio. La terza ed ultima prova era una sfida di precisione, una sorta di tiro al bersaglio in cui il marito si posizionava a distanza via via crescente con un cesto tra le braccia, che la moglie cercava di centrare con il lancio di una mela. Le poche

coppie rimaste a contendersi il titolo avrebbero gareggiato una alla volta, per stabilire quale fosse la migliore. Kyra e Tulga, sorteggiati come ultimi, restarono a guardare le prestazioni delle altre coppie, deludenti nella maggior parte dei casi. Un marito si guadagnò addirittura un bernoccolo sulla fronte, un altro franò a terra ubriaco ancor prima che la mela gettata dalla consorte completasse la parabola. Solo una coppia si distinse per bravura: la donna riuscì ad azzeccare il cesto da una distanza tale che, nel buio rischiarato dalle torce, era difficile persino distinguerne la posizione. Compiuta l’impresa, la bionda ò accanto a Kyra e le rivolse un aperto sorriso di sfida. «Non avresti dovuto farlo» sogghignò la guerriera. Piazzò il cesto tra le braccia di Tulga e gli ingiunse di andare ben in fondo, ancor più lontano dell’attuale distanza da primato. «Tu sicura non volere provare da vicino, prima?» le domandò Tulga, sbocconcellando una mela. «Sicura. Su, va’!» Il barbaro ciondolò fino al limite della radura, seguito dalle esclamazioni di incoraggiamento del pubblico. Quando giunse al punto prestabilito, si fermò. Fece per sollevare il cesto, ma si accorse che gli servivano entrambe le mani, e doveva perciò liberarsi della mela. Il frutto era dolce, succoso e rosicchiato appena per metà, per cui invece di gettarlo via se lo sistemò sulla sommità del capo. Alzò il cesto. «Pronto!» urlò. «Anch’io» pensò Kyra, cui era appena venuta un’idea molto creativa. Si rese conto che era frutto dell’alcool nello stesso istante in cui la concepì, ma non le parve una ragione valida per rinunciare. Mentre la moltitudine tratteneva il respiro, in attesa del lancio che avrebbe deciso le sorti dell’intera competizione, Kyra si spostò di alcuni i, in modo da dare la schiena al pubblico. Sollevò di un dito la benda dell’occhio artificiale, fingendo di grattarsi, appena il tempo sufficiente per inquadrare il bersaglio.

Tra le grida atterrite della folla, estrasse dal fodero uno dei pugnali gemelli e lo scagliò a tutta forza contro l’allibito Tulga. La lama fendette l’aria a gran velocità e andò a conficcarsi con assoluta precisione nel torsolo di mela posto sulla testa del barbaro, inchiodandolo al tronco di un albero. Tulga lasciò cadere il cesto e restò lì a bocca aperta, senza nemmeno osar sbattere le palpebre. Dopo lunghi attimi di silenzio sbalordito, la gente prese a battere le mani e a urlare all’impazzata, estasiata da quello spettacolo inedito e sconvolgente, che rendeva del tutto secondario lo stravolgimento delle regole da parte della guerriera. Investirono Kyra e Tulga come un fiume umano, li sollevarono sulle spalle e li portarono in trionfo per le vie di Verrhal, in una baraonda di musica e canti. Quell’edizione della festa di Edessa avrebbe fornito materiale ai menestrelli per lunghi anni a venire. Quando le due ali di folla si ricongiunsero, la guerriera e il barbaro si trovarono fianco a fianco in cima al tappeto d’uomini. Tulga incrociò il suo sguardo con occhi offesi. «Se tu voler uccidere me, dire adesso! Io andare via prima!» Kyra gli rifilò una pacca sulle spalle. «Ma no, piccoletto, sta’ tranquillo, era tutto sotto controllo! Del resto, non sei tu che hai insistito per partecipare al torneo?» «Io voler fare festa, non morire con cranio sfondato!» «Ahahah!» Qualcuno sotto di loro inciampò con un guaito di protesta: si produsse un effetto a catena che fece vacillare la fiumana di gente, e finì per mandare gambe all’aria tanto Kyra come Tulga. La guerriera sgomitò a destra e a sinistra e riuscì a rimettersi in piedi prima di venir calpestata dalla massa. Purtroppo per lei, una mano inopportuna le agganciò un laccio della benda e tirò, strappandolo. L’ovale di pelle le cadde tra le mani, lasciando allo scoperto il cerchio di metallo dorato sottostante, e soprattutto il nucleo di luce rossastra che rifulgeva come brace ardente nella notte.

Non appena se ne accorsero, uomini e donne aprirono il cerchio intorno a lei tra spintoni e urla di terrore. Tutti le puntavano il dito contro, molti gridavano la parola “stregoneria”, mentre i loro sguardi perdevano ogni traccia di benevolenza. Kyra ricoprì l’occhio alla meno peggio, e si sentì sobria all’istante. «Andiamo male...» pensò.

XIV - Cattive Nuove

«Strega!» «Mostro!» «Facciamogliela pagare!» Il coro di voci furenti non lasciava presagire nulla di buono. Kyra, intrappolata nel cerchio degli abitanti di Verrhal, si guardò attorno in cerca di un varco, ma la muraglia umana era così compatta che non sarebbe neppure riuscita a svicolare tra le gambe dei presenti. Sperò di non doversi abbassare a tanto, sarebbe stata un’umiliazione indimenticabile. Fece del suo meglio per riallacciare subito la benda con un nodo grezzo, e se la infilò in testa. La legatura malfatta formava un bozzo fastidioso che le solleticava la nuca, eppure in quel momento era l’ultimo dei suoi problemi. Tulga cercò di farsi strada fino a lei, ma venne subito additato come “marito della strega” e intercettato a metà cammino: mani robuste gli si chio sui polsi, braccia forti gli avvilupparono il collo, finché persino imprecare gli divenne impossibile, e dovette ricorrere ai morsi. «Lasciatelo!» gridò Kyra, la voce sovrastata da quelle della folla inferocita. «Taci, strega!» «Perché sei venuta?» «Volevi corrompere la nostra festa, non è vero? Attirarci la vendetta di Edessa?» «Infame!» Due o tre avanzarono di un o. Uno stringeva una zappa tra le mani, e sembrava disposto a farne uso sulla sua testa. Se non trovava al più presto una soluzione pacifica, avrebbe dovuto ricorrere alla forza.

«Sciocchi superstiziosi!» Cos’aveva mai fatto per meritarsi tanto odio? Potevano ringraziare i numerosi bambini presenti, o ci avrebbe messo un istante a farli pentire della loro stoltezza! Si preparò a difendersi: forse sarebbe stato sufficiente mostrare di nuovo l’occhio artificiale, corredato da una smorfia diabolica, perché se la dessero a gambe. O forse avrebbe fatto ricorso al braccio di metallo, giusto un paio di pugni spaccaossa per convincerli che aggredirla comportava un prezzo molto salato. «Fatevi da parte!» esclamò una voce dura, fuori dal cerchio d’uomini e donne. Le file concentriche vennero squassate dall’energica avanzata di un gruppo compatto, che non risparmiò spintoni e calci a nessuno. Indossavano identiche uniformi grigiastre ed erano pesantemente armati, cosa che dissuase qualsiasi abitante di Verrhal dal protestare. Quando il cerchio più interno si sfaldò, il gruppo penetrò nel mezzo guidato da un giovane di alta statura, dalle spalle larghe e la barba rada. Aveva l’aria brilla e pericolosa, così come i suoi compagni. La gente allargò il circolo, intimorita. Il capo dei guerrieri squadrò la moltitudine con chiaro disgusto stampato sul volto. Sputò a terra, prima di parlare: «Mucchio di vigliacchi, è questo il modo di prendersela con una giovane signora?» Le ammiccò con un sorriso sbilenco che, unito alla voce impastata dall’alcool, diede a Kyra la certezza che fosse ubriaco. Non abbastanza, però, da perdere il senso della propria autorità. «Urlate “strega” e volete fargliela pagare, quando in realtà non avete capito un bel nulla, da bestie ignoranti quali siete!» Qualcuno cercò di ribattere, ma riuscì appena a farsi spaccare un labbro da un manrovescio: i guerrieri, alticci e nervosi, non andavano per il sottile. Il capo si avvicinò a Kyra e le piazzò un indice davanti al naso.

«Una maschera!» sbottò, rivolto al pubblico «Ve la siete fatta sotto per una stupida maschera!» Lo stupore si distribuì equamente sui volti della gente di Verrhal e su quello di Kyra. Dove stava andando a parare quel tipo? «Una scelta poco appropriata per l’occasione, ve lo concedo» continuò lui «Di certo questa poveretta non sa che c’è una bella differenza tra le celebrazioni dei campagnoli e quelle dei centri civilizzati. Ma immagino che nessuno di voi miserabili pezzenti sia mai stato a una festa di quelle, o sbaglio?» Nessuno lo contraddisse: i guerrieri attendevano solo l’opportunità di usare di nuovo la mano pesante. «A Sostar, a Darat, a Ilkan, se ne vedono di maschere come quelle della nostra amica: cose da cittadini, fatte di metallo, luci, cristalli, roba di gran classe, altro che le vostre ridicole corna di cervo! Che ne capireste mai, voi cialtroni?» Molti tra la folla si guardarono i piedi, imbarazzati, altri aggrottarono la fronte, poco convinti. «In che lingua ve lo devo spiegare?» urlò il capo dei guerrieri, mettendo mano alla spada «La ragazza è colpevole di aver indossato la maschera sbagliata, e allora? Volete vedervela con me per questo motivo? Fatevi avanti, oppure levatevi di torno e tornate alla vostra stupida festa!» A poco a poco, la folla si disperse. I più duri di comprendonio vennero incentivati da sberle e piattonate di spada sulla schiena, finché la piazza restò sgombra. Musica e canti ripresero vita con timidezza, poi la gente tornò a bere, ridere e ballare, e l’incidente venne dimenticato. Tulga poté finalmente accorrere al fianco della sua protetta, che lo tranquillizzò con un cenno del capo. I guerrieri rinfoderarono le armi, le si piazzarono attorno, e Kyra sospettò di essere caduta dalla padella nella brace. Il capo si fece avanti, pieno di sé. La guerriera arricciò il naso: da quella distanza poteva sentire il puzzo d’alcool senza nessuna difficoltà. «Tutto a posto?» le domandò l’uomo. Era una pura forma di cortesia, perché dal suo sguardo e dalla sua voce non traspariva alcun reale interesse.

Kyra si schiarì la gola. «Ti sono debitrice. Mi hai risparmiato un sacco di guai.» «Come no» disse lui, infilando i pollici nella cintura «Sei stata molto imprudente, se non fosse stato per me...» Prima che Kyra potesse chiarirsi le idee sul motivo del suo intervento, e su quell’assurda storia della maschera, l’uomo cambiò completamente discorso: «Complimenti per la vittoria nel torneo! Gliel’hai fatta vedere a quei bifolchi!» Si ò una mano tra i capelli. «Un trionfo del genere merita una celebrazione: vieni con me, alla locanda. È l’unico posto decoroso, in questo schifo, dove ci si possa sedere a un tavolo e brindare con gli amici!» Kyra non era sua amica, e fu tentata di declinare l’offerta, ma la locanda era giusto il posto dove intendeva rifugiarsi, dopo quella disavventura. Era ora di riunirsi a Bantha e cacciarsi nel letto, prima che accadesse qualcosa di ancor più spiacevole. Cercò l’approvazione di Tulga, che le rispose senza togliere gli occhi dai guerrieri: «Noi andare.» «Ecco, bravo nanetto» disse il capo mentre prendeva Kyra sottobraccio, immune all’espressione fredda di lei. I guerrieri si piazzarono subito dietro, pigiando il barbaro in fondo alla fila senza troppa cortesia. Tulga mugugnò qualcosa tra i denti, ma si limitò a tallonare il gruppo a testa bassa. A metà cammino, un figuro grassottello trotterellò al loro incontro, portandosi dietro un maiale al guinzaglio. «Aspettate, aspettate! Il vostro premio!» Affidò il guinzaglio a Tulga con un sorriso nervoso, senza osar rivolgere lo sguardo a Kyra. Fece un inchino e se ne andò in tutta fretta. Il barbaro rimase lì di stucco a fissare il porco, assordato dalle mortificanti risate dei guerrieri, e non poté far altro che seguirli insieme alla bestia recalcitrante. Non senza fatica si aprirono il cammino nella calca ammassata dinanzi alla locanda, e all’interno la situazione non era meno caotica: sembrava che il

nocciolo duro dei bevitori incalliti, quelli per cui canti e balli non avevano poi tanta rilevanza in una festa, si fosse concentrato in quello spazio ristretto. Kyra cercò Bantha con lo sguardo e lo vide accomodato a un tavolo d’angolo, dietro una bottiglia. L’amico le indirizzò un’occhiata perplessa: doveva chiedersi il perché di quella scorta armata. La guerriera si voltò a sussurrare nell’orecchio di Tulga, fiduciosa che il frastuono del locale avrebbe camuffato le sue parole: «Va’ da Bantha. Occhi aperti, tienti pronto in caso di guai.» Non si fidava di quell’uomo e dei suoi scagnozzi, per quanto l’avessero tolta d’impiccio. C’era qualcosa di strano nel loro atteggiamento. «Meglio io restare con te» disse Tulga, che condivideva i suoi timori. Lei gli strizzò un braccio. «No, va’. Non baderanno a te, avrai libertà di agire se necessario.» «Qualcosa non va?» si intromise il capo dei guerrieri, con una smorfia di fastidio. «Io portare via maiale» disse Tulga «Troppa puzza.» «Bravo, fa’ così. E resta con lui, visto che ci sei.» Prese Kyra per un braccio e la condusse al tavolo centrale della sala. Era già occupato, ma il guerriero risolse il problema a forza di urla e calci alle sedie, procurandosi in quattro e quattr’otto tutto lo spazio di cui aveva bisogno. Si accomodò e fece cenno a Kyra di sedersi dirimpetto a lui, al lato opposto del tavolo. Gli uomini rimasero in piedi a formare una sorta di cornice intorno a loro. «Limpaq!» urlò il capo, prima di rivolgere l’attenzione alla sua ospite «Non ci siamo ancora presentati, temo. Qual è il tuo nome, bella?» «Mi chiamo Kyra.» «Un nome forte, adatto a una ragazza come te.» Si appoggiò allo schienale e aprì

le braccia: «Io sono Temar, l’unico e legittimo capitano dei Fratelli in Armi.» Fece una pausa scenica, ma la guerriera non parve impressionata. «Non hai mai udito delle nostre gesta?» «Può darsi» rispose lei con prudenza. Mai ferire l’orgoglio di un uomo come quello. «Oggi siamo in pochi» continuò lui, indicando il pugno d’uomini «ma presto torneremo alla gloria di un tempo! Non abbiamo bisogno di quei vigliacchi traditori, anzi, stiamo molto meglio senza di loro, vero uomini?» I guerrieri risposero senza troppa convinzione: solo allora Kyra li osservò meglio e si rese conto del loro aspetto nervoso, insoddisfatto. Due di loro piegarono le labbra in una smorfia disgustata, quando Temar tornò a invocare a gran voce la sua bevanda. «”Capitano”, come no...» pensò Kyra. Quando mai si era visto un capitano a capo di un battaglione di soli sei uomini? Doveva essergli andato storto qualcosa. E da quel poco che aveva conosciuto di lui, non c’era da stupirsi che tutti, tranne quei sei, l’avessero abbandonato: impulsivo, arrogante, ubriacone... Non proprio il genere di uomo a cui affidare la propria vita sul campo di battaglia. Finalmente arrivò l’oste con la bottiglia tanto attesa. Temar se ne scolò una generosa sorsata, prima di ricordarsi di lei con un sorriso storto. «Che scortese da parte mia! Ti faccio portare un boccale, bevi con me!» «Ti ringrazio, stasera ho già fatto la mia parte.» «Neanche un bicchierino?» «No, davvero. Anzi, sono piuttosto stanca. Sei stato molto gentile con me, e te ne sono grata, ma è tempo che mi ritiri. Per cui, se non vi dispiace...» Quando fece per alzarsi, una mano pesante si poggiò sulle sue spalle, obbligandola a sedersi di nuovo. Temar la osservò con freddezza. «Sì, ci dispiace. Nessuno ti ha dato il permesso di alzarti.»

«Come pensavo» si disse Kyra. Il capitano sbatté un pugno sul tavolo, alterato. «Sei proprio un’insolente, lo sai? Sei in debito con me, se non ci hai fatto caso, e vorresti andartene così?» «Va bene, cosa vuoi? Soldi? Non ne ho molti, ma possiamo raggiungere un accordo.» «Soldi, puah!» sbraitò lui, mandando giù un altro sorso di limpaq «Chi credi di prendere in giro? Credi che non sappia delle Arti Arcane? Credi che non abbia riconosciuto quel gingillo che porti sotto la benda?» Kyra trattenne un’imprecazione. Avrebbe dovuto immaginarselo. Perché sennò quella strana storia della maschera, inventata di sana pianta? Quell’uomo aveva i suoi motivi per volerla sottrarre alla folla. Si sporse coi gomiti sul tavolo e cercò di mostrarsi padrona della situazione. «Lo ripeto: cosa vuoi da me?» Temar ignorò la domanda. «Le Arti Arcane mi hanno causato un sacco di problemi, lo sai? Avevo un intero battaglione ai miei ordini, prima che... Bah!» Rifilò un calcio alle gambe del tavolo. Kyra attese che si calmasse, senza dir nulla. «Ho visto le tue prodezze al torneo» continuò lui «Credevi davvero che nessuno si accorgesse di niente? Sei una sciocca.» E lo era, pensò lei, maledicendo il momento in cui aveva dato retta a Tulga. «Quel tuo occhio è speciale, e sospetto che tu abbia altri assi nella manica» disse, scrutando il suo braccio. Le maniche a sbuffo della camicia celavano bene la protesi di metallo, ma questo non impedì a Kyra di nasconderla sotto al tavolo. La movenza involontaria non fece che aumentare i sospetti di Temar.

«Ma certo, nascondi pure i tuoi segreti, finché puoi.» Bevve una sorsata, tossì, e bevve di nuovo. «È per colpa di uno come te se mi sono ridotto a questo, lo sai? Maledetto il giorno che l’ho incontrato!» Kyra sentì una stretta allo stomaco. Possibile che...? «Un altro come me?» «Sì, un tipo grande e grosso con un guanto infernale cucito al braccio sinistro. Un arrogante figlio di buona di donna che mi è costato tutto!» La guerriera dovette trattenersi dal balzargli al collo. «Che fine ha fatto?» domandò. «Che ti interessa? Per quel che mi riguarda è spacciato, ha avuto quel che si meritava.» Questa volta Kyra scattò in piedi, e solo la forza congiunta di tre guerrieri riuscì a rimetterla a sedere. Cercò di scrollarseli di dosso, ma i tre erano persistenti. «Lasciatemi, canaglie!» Temar mollò la bottiglia per la prima volta da quando si era seduto. I suoi occhi luccicavano di malizia. «Guarda guarda, chi l’avrebbe mai detto! Lo conosci, vero?» «Non ti riguarda!» «Mi riguarda eccome. Visto che quel maledetto non è in condizione di risarcire ciò che mi deve, sarai tu a farlo!» Kyra si preparò a combattere. Avrebbe voluto evitarlo, soprattutto perché la locanda era zeppa di gente innocente, e rischiava di coinvolgerla in un bagno di sangue. Ma se era l’unico modo di cavare qualche informazione dalla bocca di quel lurido individuo... Inaspettatamente, Temar tornò a rilassarsi sulla sedia. «Ti va di giocare con me?» domandò.

Lei pensò di aver udito male. «Che cosa hai detto?» «Un gioco, in cambio dei nostri segreti. Non sia mai detto che noi Fratelli in Armi siamo una banda di briganti, disposti a sopraffare con la forza una ragazza indifesa. Se vinci, ti dirò tutto quello che so. Hai la mia parola.» «E se perdo?» Temar le puntò il dito sulla benda, con un ghigno poco rassicurante. «Ti strappo quell’occhio con le mie mani, a pagamento di tutti i fastidi che tu e il tuo amico mi avete causato.» Lei ci pensò su un attimo, per nulla intimorita dalla minaccia. Poteva far fuori quei miserabili con un braccio solo, ma c’era la questione degli innocenti. Le conveniva piuttosto stare al gioco, e vedere che succedeva. L’importante era diffidare della parola di quel soggetto. Temar confuse le ragioni della sua titubanza, e decise di aggiungere pepe al gioco: «Non sei ancora convinta? Va bene, ragazza, facciamo così.» Prese il borsello rigonfio che portava alla cintura e lo sbatté sul tavolo, producendo un tintinnio metallico. «Questi sono i nostri ultimi fondi. Se vincerai saranno tuoi, tutti quanti.» I guerrieri si irrigidirono. Uno di loro osò prendere la parola: «Capitano, non mi sembra una buona idea...» «Zitto!» scattò lui. «Ma, capitano...» disse un altro. «Vi ho detto di tacere, siete sordi?» ribatté Temar con voce rabbiosa, impastata dall’alcool «Vi siete scordati chi comanda?»

I guerrieri tacquero, ma a giudicare dalle loro espressioni non erano affatto contenti dell’imprudente decisione del comandante. «E allora, ci stai?» chiese Temar. In realtà non le lasciava alcuna alternativa. «Va bene» sospirò «A che giochiamo?» «Due Draghi. Lo conosci?» «Rinfrescami la memoria.» Temar posò sul tavolo un mazzo di carte da gioco consunte, accompagnato da un paio di dadi d’osso intagliato. Le carte erano illustrate, come quelle usate da chiaroveggenti e millantatori di tutto il Regno per predire il futuro, e sfoggiavano ritratti di creature mitologiche in posa guerresca. Con l’uso, i colori avevano perso gran parte del loro vigore, ma il tratto fantasioso dell’artista faceva ancora una notevole impressione. Quel mazzo doveva essere costato una fortuna - ammesso che fosse stato comprato, e non ottenuto con altri mezzi. Il capitano sparse il mazzo sul tavolo e le offrì un rapido rio delle regole. Le carte andavano divise in parti uguali tra i due contendenti, come eserciti sotto il comando di generali rivali, ed ognuna rappresentava un combattente o una risorsa da disporre secondo determinate regole sul campo di battaglia - il tavolo della locanda, nel loro caso. «I Goblin sono le creature più deboli, poi vengono gli Orchi, quindi i Troll» snocciolò Temar «Puoi usare uno Scudo per aumentare le capacità di difesa di una creatura, o una Torre per proteggerne un intero gruppo. Spade e Sortilegi potenziano i tuoi attacchi.» Kyra annuì, cominciava a ricordare. Quand’era ragazzina non se la cavava affatto male a quel gioco; amava sfidare gli stanchi guerrieri della Compagnia del Viandante fino a notte fonda, fingendo di non notare i loro sbadigli. «Quando due carte si affrontano, i dadi determinano le sorti dello scontro, giusto?» «Esatto: un buon tiro può garantirti la vittoria anche quando la tua carta è inferiore a quella dell’avversario.» Preso da un entusiasmo quasi infantile, Temar pareva aver recuperato la lucidità. «Non succede spesso, però: la strategia conta

molto più della fortuna in questo gioco. Se ti lasci aggirare o circondare dalle truppe nemiche, neanche il miglior tiro del mondo potrà salvarti.» Era vero: Kyra rammentò quante volte Raduan o suo padre le avevano inflitto amare lezioni, con uno stile di gioco molto più paziente e riflessivo del suo. All’epoca lei non aveva talento per la strategia, preferiva attaccare in massa ed affidarsi alla sorte, o magari ricorrere fin da subito alle carte più potenti, invece che riservarle per il gran finale. Ce n’era una in particolare, che adorava. Sparpagliò le carte sul tavolo, sino a riconoscere l’inconfondibile immagine dai toni cupi: otto zampe nere e pelose, zanne grondanti veleno, un grappolo d’occhi dallo sguardo maligno. «La Regina dei Ragni...» «Proprio lei: la carta più mobile e insidiosa del gioco. Si muove più veloce delle altre, può aggirare i nemici, intrappolarli, avvelenarli, persino sottrarli al comando dell’avversario.» «Peccato che sia molto fragile in difesa.» «Dici bene: i pivelli cercano di usarla fin dalle prime battute, credendo di spaccare il mondo, e finiscono per perderla prima ancora che la vera battaglia abbia inizio!» L’occhio di Kyra cadde sull’immagine più nobile, tra tutte quelle dipinte sulle carte: il Drago. Sfiorò con le dita le scaglie verdastre tratteggiate con maestria, e provò lo stesso brivido che sentiva da ragazzina quando la potente carta le capitava tra le mani. «La preferita di tutti» commentò Temar «Perché mai, altrimenti, il gioco si chiamerebbe Due Draghi?» «Se il Drago muore, il gioco finisce.» «Per questo è bene difenderlo più di tutti gli altri. È imperativo farlo uscire allo scoperto solo al momento giusto: massacri fulminei, rapide sortite per seminare la morte tra i ranghi dell’avversario... Mai esporlo troppo a lungo sul campo di battaglia.»

«Alcuni lo usano fin dall’inizio.» «Per farlo abbattere al primo turno da una masnada di Goblin? No, grazie.» Temar lasciò che Kyra giocherellasse con le carte per qualche istante ancora, prima di raccoglierle e cominciare a mischiarle. «Bando alle ciance: ricordi le regole, adesso? Sei pronta a giocare?» «Sono pronta.» Temar distribuì le carte in egual numero, in modo che ciascuno avesse a disposizione un esercito di pari forza. Entrambi mischiarono di nuovo le rispettive parti, girarono il mazzo sul tavolo, e presero in mano le prime sette carte. Kyra sgranò gli occhi dinanzi alla sua selezione iniziale, ben più magra di quel che avesse sperato: Scudi e Spade in abbondanza, ma soltanto un paio di Goblin da schierare sul campo. «Cominciamo bene» pensò, cercando di non rivelare più del dovuto con la sua espressione abbattuta. «Ahahah!» rise Temar nell’appurare la propria mano, e mandò giù un gran sorso di limpaq. O quello era un magnifico bluff, o gli erano capitate delle ottime carte davvero. I primi turni di gioco rafforzarono la seconda ipotesi: in poche mosse Temar dispose in formazione sul tavolo un agguerrito esercito di creature, al contrario della sua avversaria, che dovette accontentarsi di due miseri Goblin e non ebbe maggior fortuna nel pescare nuove carte. A poco a poco, giacché non era in grado di difendersi, il totale di punti messi a segno dal suo avversario andò a formare una discreta somma. Erano necessari cento punti per vincere - o l’uccisione del Drago avversario - e Temar ne aveva accumulati quaranta nel giro di pochi minuti. «Lo sapevo!» esultò, sempre più brillo «Nessuno mi batte a questo gioco!» Kyra cominciò a preoccuparsi seriamente. Pensò di cercare un vantaggio strategico dando un’occhiata alle carte dell’avversario con l’occhio artificiale ammesso che l’artefatto potesse aiutarla in quella situazione - ma il solo gesto di grattarsi vicino alla benda allarmò Temar.

«Non pensarci nemmeno» la avvertì «Tocca quella benda e hai perso.» Kyra imprecò tra i denti, e tornò a concentrarsi sul gioco. La sorte le riservò finalmente delle buone carte: nel giro di pochi turni riuscì a rinsaldare le proprie difese con un massiccio contingente di Orchi e Troll, che si preoccupò di equipaggiare a dovere, mentre Temar si ostinava ad attaccarla senza tregua. L’uomo giocava in modo impulsivo, guidato da un’eccessiva fiducia in se stesso, o forse istigato dai fumi dell’alcool. Kyra restò sulla difensiva e manovrò le proprie risorse con intelligenza, fino a garantirsi una posizione di supremazia. Solo allora partì al contrattacco, e Temar assisté con incredulità al progressivo sgretolamento della propria armata. Quando il punteggio si fu decisamente ribaltato a favore di Kyra, tanto che un altro paio di azioni ben orchestrate avrebbero potuto consegnarle la vittoria, la fortuna girò di nuovo a favore del suo avversario. Con un’esclamazione di trionfo, ben diversa dalle invettive soffocate degli ultimi minuti, Temar pescò dal mazzo una spaventosa Regina dei Ragni e la piazzò sul tavolo. Kyra non si lasciò impressionare: il suo esercito era grande e compatto, pronto a reggere l’urto. E non solo: tra le dita trepidanti stringeva un Drago! Le era costato non poco conservarlo fino a quel momento, e resistere fu ancor più difficile quando Temar ebbe schierato in campo la sua campionessa oscura. «Non ancora» si disse. Purtroppo per lei, Temar si dimostrò un maestro nell’uso della Regina dei Ragni: mai aveva visto un giocatore sfruttare con tanta disinvoltura le caratteristiche uniche di quella carta! Spinta anche da un’incredibile sequenza di tiri di dadi favorevoli, l’aracnide schizzava da un lato all’altro del campo di battaglia, piombava come un’ombra alle spalle dei suoi soldati per poi metterli fuori gioco o addirittura convertirli alla causa nemica. In preda a una rabbia impotente, Kyra sbatté un pugno sul tavolo. «Calma, ragazza, calma!» la schernì Temar, coprendo le carte per evitare che volassero via «Ancora un paio di turni e la tua agonia avrà fine, te lo garantisco!» Non c’era modo di negarlo, le cose si erano messe male, il maledetto ragno aveva decimato il suo esercito. Era giunto il momento di mettere in campo il Drago, tentare una rimonta disperata? Presto avrebbe perso l’ultima occasione di

farlo. D’altro canto, il Fuoco Magico del re dei rettili poteva essere utilizzato una volta sola, quella decisiva... Con un supremo sforzo di autocontrollo, prelevò un paio di Goblin dalla mano di carte e li posò davanti ai resti malridotti del battaglione. Prese una Torre, l’ultima che le restava, e la collocò a proteggere il gruppo. Non sapeva bene perché l’avesse fatto: la Regina dei Ragni poteva tranquillamente aggirare la barriera, colpire alle spalle gli stupidi Goblin e tutti gli altri. Il Drago era ciò che serviva! Eppure il suo sesto senso l’aveva spinta a trattenersi, ad attendere ancora. Temar gettò indietro il capo e rise, quando vide i suoi Goblin. «Tutto qui? Mi prendi in giro?» Kyra fece spallucce, come se avesse tutto sotto controllo. «Sono ancora in piedi, come vedi. Forse i tuoi attacchi non sono così efficaci come credi.» Temar rise ancor più forte, sputacchiando limpaq. «Efficaci? Ti sto facendo a pezzi, e hai ancora il coraggio di negarlo? Vediamo se ti piace questo, allora!» Con un gesto teatrale, scelse una carta dal mazzo e la posizionò davanti alle altre: era un Drago, uguale a quello che lei aveva in mano. Avrebbe potuto aggredirla di nuovo col ragno, con ragionevole possibilità di chiudere la partita, ma no, voleva distruggerla, umiliarla. Lasciò il ragno dov’era, fece invece avanzare il Drago nella metà opposta del campo di gioco, poi evocò il Fuoco Magico con l’intenzione di spazzare via la Torre e tutto il resto. Peccato che il risultato del tiro di dadi non corrispose alle sue aspettative: più che una fiammata distruttiva, il lancio propiziò appena un’immaginaria fiammella che abbrustolì la superficie della Torre. Temar finse che la cosa non avesse importanza. «Pfff, peccato, sembra che dovrò stritolarli uno ad uno, quei tuoi miserabili

Goblin... Non c’è fretta, comunque. Oste! Un’altra bottiglia!» Kyra aprì un largo sorriso. «Fossi in te aspetterei a fare l’ordine.» Pescò il Drago e lo piazzò sul campo proprio alle spalle di quello di Temar, che si era imprudentemente spinto fin nel suo territorio. L’uomo boccheggiò come un pesce. «Che trucco è mai questo?» sbottò. «Nessun trucco, anch’io ho un Drago a mia disposizione, ricordi?» «Ma... i Goblin... Tutte quelle carte inutili... Avevi praticamente perso! Perché non l’hai usato prima?» «C’è forse una regola che mi obbliga a farlo?» «È... È assurdo, avresti perso la partita con il Drago ancora in mano!» «E invece, guarda un po’!» Lanciò i dadi: uscì un sette. Un numero basso, ma sufficiente per agire da una posizione vantaggiosa come la sua. «Fuoco Magico» disse «Il tuo Drago viene arrostito alle spalle come un pollo.» Prese la carta tra le dita e vi soffiò sopra, simulando l’alito delle fiamme. «Hai perso.» Temar si irrigidì, muto, lo sguardo fisso sul tavolo. Kyra tamburellò sul legno con il bordo della carta. «Mi devi delle risposte, se non sbaglio. E questo.» Allungò la mano per prendere il borsello con gli ultimi risparmi dei Fratelli in Armi, sotto lo sguardo depresso dei guerrieri. La mano di Temar scattò a bloccarle il polso. «Non così in fretta» sibilò, le mascelle tanto strette che parevano sul punto di spezzarsi.

Kyra incrociò il suo sguardo con durezza. «Intendi rimangiarti la parola?» «La tua non è stata una vittoria leale.» «Vorresti dire che ho barato?» Lui distolse lo sguardo per un istante. «Mi hai ingannato, non so come ma l’hai fatto. Nessuno mi ha mai battuto in quel modo!» Kyra non credette alle proprie orecchie. «Se una volta ogni tanto giocassi contro degli adulti, ti accorgeresti che le tue tecniche non sono poi così raffinate.» Una vena pulsò sul collo di Temar, che ruggì e mise mano alla spada. «Adesso basta!» urlò Kyra. Quel che era troppo era troppo. Gli schiacciò la mano col pugno di metallo, disarmandolo, poi lo afferrò per il bavero e gli sbatté la testa sul tavolo. Lo tirò a sé, col naso grondante sangue. La gente vicino al tavolo quasi non prestò attenzione a ciò che accadeva: non era la prima rissa che scoppiava quella notte, e non sarebbe stata l’ultima. Tulga e Bantha, nel loro angolo, furono gli unici a scattare in piedi, decisi a intervenire. «Ti farò sputare le risposte che mi devi insieme ai denti, maledetto spergiuro!» sbraitò Kyra. Temar cercò l’appoggio dei suoi uomini, stordito. Nessuno mosse un dito, sembravano statue di sale. «A-aiutatemi!» Uno dei guerrieri scosse lentamente la testa: «Hai perso, capitano. Devi darle quel che vuole, o ne andrà del nostro onore.»

«Onore?» sputacchiò Temar «Sono i nostri soldi, gli ultimi che abbiamo!» «Per questo avresti dovuto darci retta, prima di metterli in palio.» Con un gesto quasi solenne, il guerriero sollevò il borsello e lo offrì a Kyra. «Prendilo, è tuo.» Kyra scosse il capo. «Non mi interessano i vostri guadagni, potete tenerveli. Voglio soltanto delle risposte.» «Insisto, una promessa è una promessa.» «Tienteli, ho detto!» sbottò Kyra, spazientita «Usali per qualcosa di buono, magari compraci un vero capitano, al posto di questo pagliaccio senza onore!» Chiuse le dita metalliche attorno alla gola di Temar, e cominciò a stringere. «Dimmi tutto, o giuro che asfissierai tra le mie mani. Ed io mantengo le mie promesse, al contrario di te.» «Va... va bene!» si arrese Temar, con un filo di voce. Kyra allentò la presa per permettergli di parlare. Con voce intrisa di veleno, l’uomo le riassunse tutto quel che era accaduto dal suo primo incontro con Dorian, sino a quando l’avevano abbandonato a Rutan, tra le grinfie dei Figli della Notte. La guerriera dovette trattenersi dallo spezzargli il collo seduta stante. «Vuoi dirmi che Dorian è ancora prigioniero in quella città, a Sud di qui?» «Spero che sia morto, per quel che mi riguarda!» sibilò lui «Maledetti mostri, non mi avete causato che grane!» Kyra ignorò l’insulto: era già in preda all’angoscia per la sorte di Dorian, il suo battito accelerava al pensiero che fosse troppo tardi. Rutan, a Sud. Perché mai allora la bussola segnava verso Nord-Ovest, l’ultima volta che

l’aveva consultata? Secondo Nahash, l’ago puntava sempre sul guanto di Dorian... Sul suo braccio. Rabbrividì: e se nei giorni precedenti avesse seguito soltanto quello, il braccio di Dorian, per l’appunto? Orribili immagini di rasoi, torture e amputazioni presero forma nella sua mente. Si sforzò di tornare in sé: Temar stava asfissiando nella sua presa, Tulga e Bantha erano accorsi a soccorrerla e altercavano con i Fratelli in Armi. Prima che corresse sangue, Kyra mollò il vigliacco e cercò di calmare gli animi. «Basta, ho saputo quel che volevo! Che ognuno se ne vada per la sua strada, e speriamo di non incontrarci mai più. Soprattutto tu» disse, puntando il dito sul malandato Temar «Ho un’altra promessa per te: incrocia di nuovo il mio cammino, e morirai.» Mentre l’uomo tossiva con tanta forza da sputar fuori le tonsille, gli diede la schiena e si allontanò, seguita dai due amici. Nessuno dei guerrieri cercò di trattenerla, la loro rigida attenzione era tutta per il capitano. «Tutto bene, Kyra?» si informò Bantha. «Per niente» rispose lei «Ho ricevuto delle cattive nuove su mio padre.» «Fare cosa adesso?» la interrogò Tulga. Lei sospirò, lo sguardo perso nel vuoto. «Adesso dormiamo un paio d’ore, per recuperare un briciolo di energie. Partiamo prima dell’alba.» «Andare dove?» Kyra pensò all’ago della bussola, poi pensò a Dorian prigioniero, con una stretta al cuore. «Non lo so, Tulga. Ancora non lo so.»

-----Il capitano della gloriosa compagnia dei Fratelli in Armi, ubriaco marcio, barcollava verso la sua stanza sorretto da uno dei guerrieri. Il corridoio continuava a girargli attorno vorticosamente, le immagini del presente sovrapposte a quelle dell’avvilente disfatta di poco prima. «Incapaci!» sbottò «È tutta colpa vostra se siamo caduti così in basso! Molluschi senza spina dorsale, lasciare che il vostro capitano venga pestato senza alzare un dito!» Gli uomini continuarono a seguirlo in silenzio, gli sguardi fissi al suolo. «Ve la farò vedere io, domani, garantito! Un po’ di disciplina è quel che vi serve! Poi andremo dietro a quella sgualdrina e gliela faremo pagare. Mi riprenderò tutto, con gli interessi!» Raggiunto l’uscio della stanza, spinse via l’uomo che lo stava sorreggendo e si mise ad armeggiare con la serratura. Riuscì ad aprire al terzo tentativo, dopo una furiosa lotta con la toppa, quando ormai stava per crollare lungo disteso sul pavimento. «Siete ancora qui? Andatevene!» gridò, quando si accorse che i guerrieri erano rimasti fermi ad osservarlo. Barcollò dentro la stanza, blaterando minacce e ingiurie incomprensibili. I guerrieri rimasero dov’erano, immobili e silenziosi. Vi fu un breve gioco di sguardi, poi ciascuno sfoderò la spada che cingeva al fianco. Uno dopo l’altro scivolarono nella stanza alle spalle di Temar, una fila di ombre vendicative, acciaio lucente tra le mani e una decisione dura ma inevitabile nel cuore...

XV - La Rosa dei Venti

«Attento a dove vai!» sbraitò un marinaio, con una cesta enorme in equilibrio sulla testa. «S-scusa!» balbettò Gonzo, e si fece da parte prima di venire calpestato. Raduan lo fissò scuotendo la testa. Avevano fatto si e no cento i lungo la banchina, e Gonzo aveva già sfiorato una dozzina di incidenti. Vilk li precedeva senza guardarsi indietro: la sua figura minuta si infilava senza difficoltà tra la gente che affollava il porto. Il guerriero si scostò una ciocca di capelli sudati dalla fronte. Il sole di mezzogiorno era un faro implacabile, che vanificava l’effetto della brezza marina. Le due sacche da viaggio che aveva in spalla facevano il resto. Purtroppo non c’era stato modo di portarsi dietro i cavalli: li avevano affidati alle cure di uno stalliere dall’aria quasi onesta, che in cambio di un lauto anticipo aveva accettato di prendersene cura per un periodo imprecisato. Quanto sarebbero stati in mare? Due, tre settimane? Non sapeva dirlo, e comunque la prospettiva non gli sorrideva. Trovava inquietante l’idea di uno scafo traballante sotto i piedi, invece della solida terra. Gonzo, al contrario, era entusiasta. Non solo aveva finalmente l’occasione di ammirare da vicino i velieri per cui smaniava da giorni, avrebbe addirittura viaggiato su uno di essi! Non chiedeva di meglio, Raduan glielo leggeva in faccia - e nel modo di camminare, con la bocca spalancata e gli occhi rivolti alle murate dei vascelli, ignaro di dove i piedi lo stessero conducendo. Il porto era molto affollato a quell’ora. Non era grande come quello di Dekka, poiché l’intera città sorgeva all’interno di un fiordo, ma il numero e la varietà di imbarcazioni aveva dell’incredibile. Le palafitte dei moli correvano parallele sulle acque per trecento i e più, protette da un frangiflutti. Tra un molo e l’altro restava appena spazio sufficiente per manovrare le navi, anche se Raduan stentò a credere che i bastimenti più grandi riuscissero a muoversi in quella trappola senza incagliarsi. «Guerra o non guerra, il porto non si ferma mai!» esclamò Vilk, con una nota d’orgoglio.

Impossibile negarlo: le bitte infisse sui moli e sulla banchina di pietra svanivano sotto spessi viluppi di funi d’ormeggio, una selva di corde che si prolungava nel sartiame dei velieri sino a formare un’enorme ragnatela. Vicine al punto di approdo si trovavano le imbarcazioni più piccole: barchette a remi, bragozzi da pesca, golette a due alberi, e persino un paio di galee dall’aspetto antiquato. Spingendo lo sguardo più in là verso il mare, la dimensione delle navi cresceva a vista d’occhio. Gli alberi di corvette, fregate e caravelle si ergevano sulle acque come una foresta, vele ammainate e bandiere colorate al vento. «Guarda quello laggiù!» strillò Gonzo, saltellando e puntando il dito come un fanciullo «È la cosa più incredibile che abbia mai visto!» Indicava un galeone immenso, dall’aspetto formidabile: ricche decorazioni correvano da poppa a prua, sculture dorate, ghirlande di fiori, dipinti e bassorilievi che affioravano persino dalla carena sotto la linea del mare, dove soltanto i pesci potevano ammirarli. Mancavano appena i simboli delle Gilde dei Navigatori - perle, coralli, e stelle di mare, tra gli altri - onnipresenti in ogni angolo del porto, ma non sulle murate di quel bastimento. «Quello appartiene al principe Gomer» disse Vilk «A volte lo usa per i suoi viaggi di piacere. Non ci sono mai entrato, dicono che dia un senso all’espressione “palazzo galleggiante”.» Raduan ricordò con avversione l’arrogante personaggio incontrato alla Torre Grigia. Lo scoppio della guerra era dovuto in buona parte alla sua vigliaccheria, che l’aveva spinto a schierarsi dalla parte di Hiram e del suo oscuro alleato. «Gomer si trova ad Antares?» «Ne dubito» rispose Vilk «A quest’ora dev’essersi rintanato in una delle sue fortezze. Sospetto invece che il galeone sia carico di cibi e bevande raffinati, destinati al suo proverbiale appetito.» «Se non altro ha buon gusto» commentò Gonzo, ancora affascinato dalla visione. «Beh, spero che non rimaniate troppo delusi dal vostro mezzo di trasporto!» disse il nano «Seguitemi, ci siamo quasi.» Lo accompagnarono fino all’estremità orientale della banchina, dove transitarono accanto a una guardiola adornata con il simbolo della Gilda, un

granchio dal carapace rossastro. Due uomini armati di tutto punto vennero loro incontro, ma non appena notarono Vilk fecero dietrofront con l’abbozzo di un inchino. «Questa zona ci appartiene» spiegò il nano «Da qui partono ogni giorno vascelli diretti a Sud, verso Silon, e a Nord, fino ai mari proibiti ai piedi della Catena di Hamlet.» «Proibiti da chi?» chiese Gonzo. «Da se stessi. Cavalloni giganti e scogli affilati sono una combinazione che scoraggia anche il più intrepido dei capitani.» Raduan pensò alle Zanne di Pietra verso cui erano diretti: chissà perché avevano ricevuto un nome del genere... «Eccoci qua!» esclamò Vilk, fermandosi senza preavviso davanti alla sagoma imponente di un vascello. Rivolse loro un inchino scherzoso: «La “Rosa dei Venti”, al vostro servizio!» Gonzo e il guerriero rimasero tutt’altro che delusi: anche se non era paragonabile al galeone di Gomer, si trattava di un veliero di tutto rispetto, dalla sagoma agile e resistente. Qualsiasi navigatore competente ne avrebbe approvato il solido fasciame di quercia nera e i tre alberi in legno d’abete che svettavano orgogliosi sulla tolda, più il bompresso inclinato in avanti a mo’ di lancia. Sotto di esso, la prua era guarnita da una polena dalle forme femminili, una figura leggiadra con la folta chioma sciolta sulle spalle, e uno sguardo triste come il mare in un giorno di pioggia. «Come vi ho detto» continuò Vilk «la nave è diretta a Nord, verso la città di Sunder. È carica di armi e vettovaglie per gli abitanti sotto assedio. La sola fortuna di quei poveretti è che i barbari siano venuti per via di terra. Se avessero stretto il cerchio attorno alla costa con le loro navi, nessuna Gilda sarebbe stata così folle da rischiare un vascello e un intero carico per soccorrerli.» Raduan aggrottò le sopracciglia. I barbari erano stati fin troppo rapidi ad agire, dopo l’annuncio della guerra. Erano calati in massa dal Nord, con le loro asce e i loro crudeli sciamani, scagliandosi come avvoltoi sulle città più settentrionali del Regno - come Sunder - che tutto si aspettavano meno un assalto improvviso delle tribù. Era come se i barbari già sapessero dove e quando colpire. Possibile

che fe tutto parte dello schema di conquista di Hiram? Sarebbe arrivato a tanto, il principe, pur di mettere gli artigli sul Regno? Il Re suo padre si rivoltava di indignazione nella tomba! «Saliamo. La stiva è quasi piena, non vorrei che salero senza di voi.» Seguirono Vilk lungo la stretta erella poggiata su un fianco della nave, schivando i marinai che salivano schiacciati sotto il peso delle balle e riscendevano a mani vuote. Quando mise piede in coperta, Raduan scoprì di non aver mai viaggiato su una nave così tirata a lustro. Il ponte era stato strofinato tante volte da brillare, e correva lucido come un specchio dal castello di prua sino al cassero, a poppa. Sul ponte di comando, nella parte mediana del vascello, una ruota di timone alta quanto un uomo dominava la scena. Un numero imprecisato di marinai correva su e giù per il boccaporto, il ritmo dettato dalle imprecazioni del secondo. Altri badavano al sartiame, altri ancora, in equilibrio sulle cime, appuravano che le vele fossero ben fissate ai pennoni. In mezzo a tutto quel bailamme, un solo uomo restava immobile ad osservare dall’alto del ponte. Era alto e largo di spalle, indossava un soprabito scuro lungo fino alle caviglie e un tricorno. Seguì i tre con uno sguardo duro, mentre gli andavano incontro. Li attese in cima alla scaletta che univa la tolda al ponte di comando, e non si scostò per farli are. «Capitano William» salutò Vilk, torcendo il collo per riuscire a guardarlo in faccia. «Chi è questa gente, nano?» grugnì il capitano, tra le labbra strette in una smorfia di rabbia. Se non gradì l’accoglienza, Vilk riuscì a nasconderlo bene. Li aveva avvertiti che William non era un individuo facile. «Questi è Raduan, della Compagnia del Viandante. Quest’altro è... beh, a dire il vero il nome non lo so.» «Puoi chiamarmi Barbanera, arrr!» disse Gonzo, nella sfacciata imitazione di un lupo di mare. Tese una mano al capitano, che la osservò come se fosse lorda di escrementi. Vilk si schiarì la gola.

«Saranno entrambi tuoi ospiti sulla Rosa dei Venti, William, per cui sforzati di trattarli con il dovuto rispetto.» Il capitano lo fulminò con un’occhiata. «Trovatevi un’altra nave, su questa non c’è abbastanza spazio.» «Ho avuto ben altra impressione» ribatté Raduan, a corto di pazienza. William strinse gli occhi in due fessure, serrando la mandibola sotto la barba mal fatta. «Nessuno ti ha dato il permesso di parlare.» «Né io te l’ho chiesto, mi pare.» Vilk si mise in mezzo, prima che il diverbio degenerasse in una zuffa. Un pugno di marinai si erano approssimati alle spalle del capitano, con sguardo truce. Un giovane mozzo spazzava il ponte ai piedi della scala, lanciando occhiate inquiete di tanto in tanto. «Lascia che ci pensi io, Raduan» disse il nano, spingendolo indietro. Poi fronteggiò il capitano con il petto gonfio, per compensare lo squilibrio di statura. «Capitano William, non lo ripeterò. Questi due uomini sono qui su esplicito invito della Gilda del Granchio, di cui voi stesso siete ancora un membro, se per caso ve ne foste scordato.» «E a cosa dobbiamo questo invito?» Vilk ebbe un attimo di titubanza. Non poteva certo confessare che era un’iniziativa personale, la sua offerta di gratitudine all’uomo che gli aveva salvato la pelle. Così si avvicinò a Raduan, gli fece cenno di chinarsi, e mise in mostra il medaglione dell’Ordine di Abidan che il guerriero portava appeso al collo. «Ti basta come ragione?» disse, con una notevole faccia tosta «O vuoi che scomodiamo un Abate per risolvere i tuoi dubbi? Di certo aggiungeresti un’altra bella paginetta al tuo impeccabile registro di servizio, capitano.» Anche se non capì l’allusione, Raduan colse il tono sarcastico dell’ultima frase:

William doveva essere in cattivi rapporti con le gerarchie della Gilda. C’era da aspettarselo, con un carattere così amabile. Il capitano strinse i pugni, gli occhi rabbiosi fissi sul medaglione. Mentre valutava le sue opzioni, il mozzo si avvicinò al gruppo. Pareva impegnato con la pulizia, ma il suo sguardo era attratto come un magnete da Raduan e dal monile che portava al collo. «E allora?» esclamò Vilk «Accetti, o devo chiamare un mio superiore per risolvere la faccenda? Non è ancora troppo tardi per trovarci un altro capitano...» William diede loro le spalle e sputò sul ponte. «Fate come volete, non m’importa. C’è una cabina libera sottocoperta.» I marinai gli aprirono il cammino, e si allontanò imprecando sottovoce. «Bel tipino. Diventeremo grandi amici, lo sento!» disse Gonzo. «Sbrigatevi a sistemare le vostre cose, piuttosto, prima che il bel tipino ci ripensi. E se fossi in voi non mostrerei la mia faccia in coperta prima che il vascello abbia preso il largo.» Raduan si chinò a prendere le sacche, ma il mozzo fu più svelto: acchiappò anche il bagaglio di Gonzo e rivolse loro un ampio sorriso. «Seguitemi, vi accompagno alla cabina!» Detto fatto, si diresse ad ampi i verso il boccaporto, con le loro cose. I tre stettero a guardarsi per un attimo, poi Raduan si strinse nelle spalle e fece per accompagnare l’inatteso aiutante. «Un attimo, guerriero» disse Vilk, trattenendolo per una manica. «La nave sta per salpare, è ora che io scenda. Spero di aver ripagato il mio debito a dovere.» «Altroché! E non lo considero affatto un debito. Un favore di un buon amico, piuttosto.» Vilk parve arrossire.

«Sciocchezze! Una mano lava l’altra, come diciamo noi della Gilda.» «No, dico sul serio. Sono io, adesso, quello in debito. Al mio ritorno ne riparleremo.» «Volentieri, guerriero. Adesso è meglio se andate dietro al ragazzo, prima che se la svigni con la vostra roba. Che il Grande Oceano vi sia benevolo, e il Fabbro Celeste vi conduca sani e salvi a destinazione!» «Così sia» annuì Raduan. Gli strinse le spalle in un gesto di affetto, poi lo lasciò andare. «A presto!» gli urlò dietro Gonzo «E mangia come si deve, se vuoi crescere alto e forte come me!» «Come no...» sbuffò il nano, prima di dileguarsi dietro la murata. «Che buffo personaggio!» rise Gonzo. «Senti chi parla. Vieni, andiamo.» Imboccarono il boccaporto e discesero con cautela la ripida scaletta. I loro occhi ci misero un po’ ad adattarsi alla semi oscurità. «Per di qua!» esclamò la voce del mozzo. Lo seguirono lungo il aggio arrabattato di cime attorcigliate e ciarpame vario, fino a varcare la soglia di una minuscola cabina. La luce entrava da un oblò, tracciando una scia di pulviscolo nell’aria. L’arredamento era composto da due brande cortissime e un vecchio baule rosicchiato dai topi. Il buon capitano aveva riservato loro una sistemazione davvero privilegiata. «Entrate, prego, accomodatevi!» disse il mozzo con fare gentile. Non colsero traccia d’ironia nell’invito, solo un sincero desiderio di compiacerli. Si strizzarono dentro la cabina. Il giovane continuava a fissarli con aria stolida. Era alto, pallido e di costituzione debole, indossava un camiciotto consunto e brache corte sorrette da un paio di bretelle. Era scalzo. Quando si accorse che non c’era spazio per tutti e tre, scivolò fuori dalla cabina e restò lì a guardarli.

«Grazie» disse Raduan, senza capir bene cosa volesse. Il ragazzo si produsse in un goffo inchino e fece per andarsene, poi ci ripensò e tornò a squadrarli con aria meravigliata. «Siete monaci, vero?» sbottò «Ho visto il medaglione dell’Ordine! È quello che portano gli Abati, con l’immagine dell’incudine del Fabbro, se non mi sbaglio. Non credevo che un giorno ne avrei visto uno di persona! Su questa nave, poi!» Raduan e Gonzo si fissarono a bocca aperta. Il ragazzo era più sveglio di quel che sembrasse. Cosa voleva esattamente da loro? Il fiume di parole non si arrestò: «Mi chiamo Pryce, piacere di conoscervi! Due monaci di Abidan, è fantastico! Scommetto che siete già stati alla Biblioteca del Grande Tempio, giusto? Darei un braccio per poterla visitare! Lo sapete che me la cavo bene con la lettura e la scrittura? So anche far di conto, meglio di chiunque altro a bordo!» «È bello sentirtelo dire, però...» abbozzò Raduan. Pryce non lo lasciò fare. «Vorrei tanto ascoltare le vostre storie!» alzò le braccia al soffitto «Monaci! Quanto vi invidio! Sono felice di viaggiare insieme a voi!» In preda a tanta eccitazione, il ragazzo non prestò attenzione agli sguardi preoccupati di Raduan e Gonzo, né udì i i minacciosi dietro di sé. Quando una mano pesante come un badile gli piombò sul collo, impallidì di botto e le parole gli morirono in bocca. Si voltò al rallentatore, fino a incrociare lo sguardo infuriato del capitano William. «I-io...» balbettò. Il capitano non lo lasciò terminare: lo spinse rudemente, facendolo cadere sul didietro, e gli sferrò un calcio. Il ragazzo guaì come un cane. «Ehi!» sbottò Raduan. Fece un o avanti, ma Gonzo lo trattenne, intimorito dal cipiglio del capitano. «Vorreste insegnarmi come trattare la mia ciurma, per caso?»

«È solo un ragazzo, maledizione!» «È un membro del mio equipaggio, e sta ficcando il naso dove non dovrebbe, invece di occuparsi del suo mestiere. Merita una bella punizione.» «Perché non ci provi con me?» Rimasero a fissarsi in cagnesco, finché Pryce si alzò dolorante, una mano sul fianco, e cercò di appacificare gli animi: «Lasciate stare, signore, il capitano ha ragione.» «Come...!» protestò Raduan. Il capitano lo interruppe con un gesto perentorio: «L’avete sentito, la faccenda è chiusa. Vattene in coperta, ragazzo, se non vuoi prenderne ancora!» «Sì, padre» mormorò Pryce, e corse via con la coda tra le gambe. «Padre?» esclamò Gonzo. «Non sono faccende che vi riguardano» sbraitò il capitano, rosso in viso «Fossi in voi starei lontano da lui, e da chiunque altro. Non vi voglio in giro a infastidire i miei uomini. Vi permetto di restare a bordo, e questo è tutto. Sarete invisibili e silenziosi come fantasmi, e farete soltanto quel che vi si dice, chiaro?» «Altrimenti?» ringhiò Raduan. «Finirete in pasto ai pesci. Dirò alla Gilda che siete caduti in mare durante una tempesta: un increscioso incidente, che la mia ciurma sarà felice di confermare.» «Davvero divertente!» «Non mettetemi alla prova.» Li guardò di sottecchi per un po’, prima di continuare in tono più conciliante: «Come ho spiegato al nano, non mi pare una buona idea che viaggiate su questa

nave. È una missione rischiosa, la nostra, e anche il tempo non promette bene. Meglio che scendiate e attendiate un’altra occasione. Magari a guerra conclusa.» «Perché no?» cominciò Gonzo «Sono d’accordo, andiamo Rad...» Il guerriero lo zittì piazzandogli una mano sulla bocca. «È un lusso che non possiamo concederci. Altrimenti faremmo volentieri a meno della vostra compagnia.» «È l’ultima occasione che vi resta. Siamo pronti a mollare gli ormeggi.» «Che aspettate, allora?» Il capitano rimase a fissarli per qualche istante ancora, poi girò sui tacchi e se ne andò verso il boccaporto. «Mi auguro che non dobbiate pentirvene» disse, senza neanche voltarsi. Quando sparì alla vista - e solo allora - Gonzo gli rovesciò addosso una cascata di fantasiose ingiurie. Raduan lo guardò di traverso: «Perché non l’hai fatto prima?» «Gola secca» rispose Gonzo, con un sorriso disarmante «Adesso va meglio.» «Puah!» Il guerriero rientrò nella cabina e si buttò su una branda, che scricchiolò in modo sospetto. «Quell’uomo mi ha dato veramente sui nervi. Mi servirà del tempo per far sbollire la rabbia.» «Perché non andiamo in coperta a vedere la partenza?» «Vacci tu, se vuoi.» Si voltò su un fianco e gli diede la schiena. Gonzo mostrò la lingua, indispettito, poi se ne andò in punta di piedi sussurrando: «Invisibile! Silenzioso come un fantasma!»

Quando fu certo di essere solo, Raduan tirò un sospiro di sollievo. Da tempo desiderava un momento di pace. Si girò a fissare le assi del soffitto. Sul ponte doveva esserci un bel trambusto, lì sotto invece si sentivano appena i tonfi dei i e un vociare indistinto. Inspirò a fondo. «Rilassati» si disse. Era sulla buona strada, doveva soltanto armarsi di pazienza ed attendere che il vascello lo conducesse a Nord, il più vicino possibile alla sua meta. Il piano originale era quello di convincere il capitano a lasciarli con una scialuppa zeppa di viveri tra le Zanne di Pietra, nel punto in cui Helah e i suoi si erano separati dall’Orca Azzurra. Visto il principio idilliaco della loro convivenza, era meglio cercarsi fin da subito un piano alternativo. Lui e Gonzo sarebbero dovuti sbarcare nel porto più prossimo alle Zanne, e lì cercarsi un’altra imbarcazione. Con un po’ di fortuna, avrebbero trovato una guida disposta ad accompagnarli. Lui sapeva remare, ma non era in grado di leggere una carta nautica con gli strumenti lasciatigli da Vilk: non poteva certo dirsi un lupo di mare. Con l’aiutante che si trovava, poi... Continuò ad arrovellarsi su quella ed altre questioni, mentre le sue dita giocherellavano con la gemma appesa sotto la camicia, finché si sentì la testa pesante. Scivolò nel sonno senza nemmeno accorgersene. -----Si svegliò con la strana sensazione che il mondo stesse ballando sotto la sua schiena. Ci mise un po’, nell’oscurità, a ricordare dove si trovava. Si erse a sedere sulla branda, con uno sbadiglio. Quanto tempo aveva dormito? E dove si era cacciato Gonzo? Se ne sarebbe rimasto a poltrire in cabina, se il pensiero del suo strambo amico non l’avesse spronato a salire in coperta. Fu investito dai colori del tramonto non appena mise la testa fuori dal boccaporto. Un tramonto selvaggio, rosso cupo. Soffiava una brezza fredda, che lo fece rabbrividire. Si strinse addosso il manto e vagabondò lungo il ponte, ignorato dai marinai che badavano alle proprie faccende. Il capitano, occupato a urlare ordini dal ponte di comando, neanche si avvide della sua presenza. Salì sul castello di prua e restò a guardare il tramonto. Cercò la terra con lo sguardo, senza trovarne traccia. Alzò lo sguardo sull’alberatura del vascello: andava tutto a gonfie vele, letteralmente.

Il buio stava calando rapido. Fece dietrofront e scese dal castello, per dirigersi a poppa. Mentre camminava, gli parve di udire una voce conosciuta. Si avvicinò a due marinai incappucciati che confabulavano in un angolo, armeggiando con una cima. «Devi tesare la scotta per cazzare la vela!» stava dicendo uno dei due. «Non le faccio certe cose, io!» rispose l’altro con voce offesa. «No, che hai capito! Vuol dire che devi tirare la corda, se vuoi che la vela si disponga lungo l’asse del vascello, così...» «Perché non l’hai detto subito?» «L’ho fatto, nel linguaggio dei marinai!» «Arr! Non ne posso più, sai? Volevo solo imparare qualcosa, e tu te ne vieni fuori con tutte queste storie di “scotte”, e “orzare”, e “bompresso”...» «Che succede qui?» indagò Raduan, facendoli trasalire. «Non farlo più!» esclamò Gonzo, portandosi una mano al petto. «Shhh!» disse Pryce «Se mio padre ci scopre sono guai grossi!» «Per forza!» si incupì Raduan «Ci ha dato un unico ordine e voi lo state già infrangendo!» «Non facciamo nulla di male! Gonzo voleva saperne di più sul mestiere della navigazione, ed io gli sto insegnando.» «Più o meno...» disse Gonzo. «Comunque mio padre non ci scoprirà, ha ben altro da fare.» «Lui sì, ma dovreste far caso ai suoi occhi di scorta» commentò il guerriero. Indicò con un cenno del capo il marinaio che li fissava dal cassero. «Miseriaccia!» inveì Pryce, e si dileguò all’istante. Raduan e Gonzo rimasero soli sul ponte, senz’altro da fare che aggirarsi da una

punta all’altra dell’imbarcazione. Fu così anche nei giorni successivi: dormivano della grossa in cabina, mangiavano quando davano loro da mangiare, bevevano quando davano loro da bere, e il resto del tempo lo avano osservando il mare o studiando i marinai al lavoro. Il capitano non rivolse loro la parola neppure una volta, fingendo che non esistessero. In compenso due o tre dei suoi scherani non li perdevano mai di vista, gli sguardi piantati come chiodi nelle loro schiene. Pryce, però, era più furbo. Moriva dalla voglia di stare con loro, per cui se lo vedevano apparire dinanzi ad ogni piè sospinto, negli angoli più impensati della nave. Svicolava dal lavoro con abilità consumata, qualsiasi incarico avesse. Una volta Raduan avvertì il suo bisbiglio in un orecchio, in piena notte, nella cabina. Fece per scacciarlo in malo modo, ma Gonzo glielo impedì. Si era affezionato al giovane, amava conversare con lui ogni volta che fosse possibile. Pryce, da parte sua, non si stancava mai di ascoltare i racconti della vita nell’Ordine e le sciocche freddure di Gonzo - era un ragazzo, dopotutto. Il ragazzo più maturo e intelligente che Raduan avesse mai conosciuto, doveva ammetterlo. Intendeva studiare per diventare monaco, e a tratti sembrava già saperne abbastanza. «Perché ti trovi qui?» gli chiese quella notte «Perché non sei in città, o in un monastero, a studiare? Il tuo talento è sprecato su una nave!» «Dillo a mio padre» rispose Pryce, afflitto. «Forse non sono affari miei, ma...» «No, capisco. Deve sembrarvi strano che io sia figlio di quell’uomo. Non ci assomigliamo neppure. Lui è il capitano di un vascello, io non sono che un topo di biblioteca.» «Non era questo che intendevo dire.» «Però devi averlo pensato: nessuno direbbe che siamo padre e figlio. Mio nonno era capitano, e suo padre prima di lui. Io credo proprio che spezzerò la catena.» «Se la vita per mare non ti interessa, hai solo da dirglielo.» Pryce si mise le mani nei capelli, sconsolato. «È impossibile far ragionare mio padre. Si è messo in testa che devo diventare come lui, e non si arrenderà fino a che il suo sogno si realizzi, a costo di

ammazzarmi!» «Non c’è modo di fargli aprire gli occhi?» «Ci ho provato in tutti i modi. Mi disprezza, mi tratta come una donnicciola. L’ultima volta che mi ha sorpreso con un libro in mano, per poco non mi gettava fuori bordo!» «Conosco il tipo...» mormorò Raduan. Il Priore non era stato da meno con lui, libri a parte. Le ferite nel loro rapporto erano ancora aperte, forse non si sarebbero mai cicatrizzate. Gonzo, da parte sua, non disse nulla. Ogni volta che l’argomento era padri e figli si incupiva e restava in silenzio. La sua storia era la più triste di tutte. Pryce sospirò, e si strinse le ginocchia al petto. «Se almeno mia madre fosse ancora viva! Non l’ho mai conosciuta, mi hanno detto che era l’unica in grado di instillare un po’ di buon senso nella testaccia dura del capitano. Lei era la sola cosa che amasse più delle onde del mare!» «Cosa le è successo?» «È morta dandomi alla luce.» Nascose la testa tra le ginocchia. «Un’altra delle ragioni per cui mio padre mi odia. Forse l’unica vera ragione.» Singhiozzò. Gonzo gli accarezzò la nuca in un gesto d’affetto. Il giovane rialzò il capo: si ò il dorso della mano sugli occhi lucidi, per asciugarli. «Avrei tanto voluto conoscerla. Era bellissima, di questo almeno ho la certezza. Vedo la sua immagine ogni giorno.» Raduan inarcò le sopracciglia. «La polena» disse Pryce «Mio padre l’ha fatta scolpire a immagine di lei dal più abile artigiano di Antares. Così può averla sempre accanto. Non l’ha mai confessato a nessuno, eppure tutti lo sanno.» Il guerriero annuì. Cominciava a spiegarsi il carattere di William: un uomo solo, pieno di amarezza, che non riusciva a scorgere un barlume di speranza nel

futuro. L’immagine della crudele fine della Compagnia gli baluginò davanti agli occhi, stringendogli il cuore. E poi Kyra che se andava, Dorian che gli voltava le spalle... Erano poi così diversi, il capitano e lui? «Non è tutto» continuò Pryce. La sua voce si rafforzò, l’attimo di crisi era ato. «Rosa era il nome di mia madre. Per questo il vascello si chiama “Rosa dei Venti”. L’ha voluto lui, la Gilda gli ha dato carta bianca. Da allora non salpa su altre navi che questa.» Per un po’ le loro voci tacquero. Nell’oscurità si udiva soltanto il russare dei marinai, e lo sciabordio delle onde sullo scafo. Raduan si immaginò il capitano in solitudine nella sua cabina, con una candela accesa e una bottiglia di limpaq tra le mani, rimpiangendo il suo amore scomparso. Da quel momento l’avrebbe visto con occhi diversi. Forse avrebbe persino cercato una tregua. «Però a volte si dimentica che la nave non è sua» disse Pryce, con voce dura «Appartiene alla Gilda del Granchio, così come gli uomini che trasporta. Ma mio padre tratta l’una e gli altri come se fossero cose sue! La ciurma non protesta più di tanto, lo conoscono bene ormai. Gli alti scaloni della Gilda, invece... loro la pensano differente!» «Papà ha fatto il cattivello?» domandò Gonzo. «Puoi dirlo. A volte la sua insubordinazione è così palese che mi riempie di vergogna. Crede che alla Gilda siano tutti degli imbecilli, o forse se ne infischia del loro giudizio? Eppure sono loro i padroni di tutto. Non fosse che mio padre è davvero abile nel suo mestiere, se ne sarebbero disfatti da tempo. La sua lista di infrazioni al codice della Gilda è lunga come un tappeto!» «Era a questo che alludeva Vilk, prima della partenza...» «Esatto. Quell’ometto è furbo, ha colpito nel segno. L’unica minaccia che abbia effetto su mio padre è quella di fargli perdere la sua “Rosa”.» «Sarebbe un peccato» ammise Raduan, mettendosi nei panni del capitano. «Forse invece gli farebbe bene» disse Pryce. Si rialzò, spazzando via la segatura appiccicata ai pantaloni. «Se ribaltassero il suo mondo, forse anche lui sarebbe

costretto a cambiare. E lascerebbe cambiare pure me. Ora come ora, non si darà per vinto finché non mi avrà trasformato in un vero uomo!» Raduan guardò con tristezza la figura pallida e dinoccolata del giovane, quasi invisibile nel buio della notte, e rivide se stesso a quell’età. «Per quello che vale, io ti ritengo un ragazzo eccezionale» disse. «Idem!» rafforzò Gonzo. Pryce abbozzò un sorriso. «Grazie, amici. Adesso vi lascio dormire. Buonanotte.» «Buonanotte, Pryce.» Lo rividero spesso, nei giorni successivi, ma non parlò più di sé o del capitano. Metà del tempo la ava a interrogarli, l’altra metà cercando di insegnare qualcosa a Gonzo. Non si arrendeva mai, neppure quando Gonzo quasi si impiccò salendo sulla coffa, o quando tramortì il secondo con una violenta rotazione incontrollata del boma. Era difficile che il capitano, con tutte le sue spie, non si fosse accorto di quanto accadeva. Il più del tempo, però, William sembrava distante, anche dai suoi uomini. Squadrava l’orizzonte, e non diceva una parola. Persino Pryce, avvezzo ai suoi sbalzi di umor nero, cominciava a preoccuparsi. Una sera si presentò a Raduan con una guancia gonfia. «Per una volta che gli dimostro di aver imparato qualcosa...» piagnucolò, mentre il guerriero dava un’occhiata al gonfiore. «Che vuoi dire?» «Si lamenta sempre che ho la testa piena di fantasie, mentre lui alla mia età sapeva già navigare a occhi chiusi! Così, quando ho notato che c’era qualcosa di strano nella nostra rotta, sono corso a dirglielo. Ero certo che mi avrebbe ringraziato - e avrebbe capito che so usare tutti i dannati strumenti - invece mi ha rifilato un manrovescio!» «Questa poi!» commentò Gonzo.

«Bah! Rinuncio a capirlo! Spero almeno che mi dia retta, o domani ci sveglieremo con la nave incagliata sulle rocce. Siamo troppo vicini alla costa!» Raduan diede una scrollata di spalle. «Uomo avvisato...» «...mezzo salvato!» completò Gonzo. Non ci pensarono più, fino a quella notte. Raduan si svegliò di colpo, certo che la “Rosa dei Venti” avesse sbattuto contro uno scoglio. Gonzo continuava a dormire della grossa, con la bocca spalancata. Si era sognato tutto? Eppure la scossa gli era sembrata reale... Sentì le assi del ponte scricchiolare sopra la sua testa, poi di nuovo silenzio. Tornò a sdraiarsi. Stava per riprendere sonno, quando un grido soffocato gli fece rizzare i capelli sulla nuca. Questa volta schizzò in piedi, si infilò i pantaloni, e tastò nel buio alla ricerca della spada. Dove accidenti era? Non la usava da tanto tempo che temeva di averla persa. «Eccola!» pensò, guidato dal riflesso di luce sul metallo dell’impugnatura. Fece per afferrarla, quando la porticina della cabina si spalancò di botto. Un istante più tardi, avvertì la fredda superficie di una lama poggiata sotto il suo mento. Deglutì, cercando l’elsa della spada con le dita. «Fossi in te non lo farei, dolcezza...» sussurrò una voce femminile, nel buio.

XVI - Coraggio

«Adesso fa’ un o indietro, da bravo!» Raduan alzò le mani in segno di resa e obbedì. Arretrò nello stretto spazio della cabina, assecondando la lama che gli pungeva la gola. La padrona della sciabola varcò la soglia, e un riflesso di luce lunare penetrato dall’oblò si posò su di lei: era giovane, alta, e indubbiamente bella. La sua pelle era bianca come il latte, i suoi capelli una cascata di ricci color del rame, trattenuti da una bandana legata sulla fronte. Squadrò il petto nudo di Raduan con occhi maliziosi, e socchiuse le labbra. «Proprio un bell’esemplare...» sussurrò. Gonzo si agitò nel sonno. Solo allora lei parve notarlo. «Il tuo amico è sordo per caso?» Gli rifilò una pedata nelle costole. Calzava stivaletti a punta, e Gonzo se ne accorse perché rotolo sul pavimento con un grido. Alzò la faccia da terra con una smorfia di dolore, e restò a bocca aperta. «Sta’ calmo» gli disse Raduan, ma la giovane aumentò la pressione della lama sul suo collo. «Zitto! E tu, resta lì in ginocchio o ti mozzo un orecchio!» Gonzo frignò qualcosa e rimase dov’era, strizzando gli occhi come per svegliarsi da un brutto incubo. La ragazza si portò due dita alle labbra e fischiò, senza mai distogliere gli occhi da quelli di Raduan. In pochi attimi sopraggiunsero due uomini, barbuti e malvestiti, ciascuno con una lunga sciabola tra le mani. «Tutto bene, Tasha?» domandò uno dei due.

«C’erano dubbi?» lo schernì lei «Occupatevi di quell’altro, piuttosto.» La donna si fece da parte, tirandosi dietro Raduan, e lasciò che i due sollevassero Gonzo da terra come un sacco di patate. L’ex monaco continuava a tenere le palpebre serrate, ripetendosi «Svegliati! Svegliati!» come un ossesso. Li spinsero lungo il aggio senza tanti complimenti. All’interno della nave c’era un gran trambusto: in ogni canto uomini armati soggiogavano e imprigionavano i marinai della Rosa dei Venti. Alcuni non volevano saperne di arrendersi, e continuavano a lottare. Giusto nell’attimo in cui Gonzo aprì un occhio, uno dei marinai venne trafitto da una spada e cadde bocconi sprizzando sangue. Gonzo richiuse l’occhio di scatto, con uno strillo. Vennero trascinati su per il boccaporto, nell’aria fredda della notte. Li costrinsero a disporsi in fila assieme ai marinai che erano già stati catturati. Mentre li tenevano a bada con un campionario assortito di spade, pugnali e scimitarre, un guercio annodò una corda ruvida intorno ai loro polsi. Solo allora la sciabola della giovane di nome Tasha si scostò dalla pelle di Raduan. Gonzo, accanto a lui, tremava come una foglia. Il guerriero si guardò attorno, preoccupato: c’era un’altra imbarcazione, di stazza poco inferiore, agganciata alla “Rosa dei Venti” da una selva di grappini. Gran parte degli uomini coi quali avevano condiviso il viaggio per mare erano prigionieri sulla tolda, bagnati in viso dalla luce argentea della luna piena. Alcuni avevano avuto la peggio durante la colluttazione, e udì i tonfi dei loro corpi senza vita gettati fuori bordo. Altri, però, erano liberi, in piedi accanto ai nemici. Riconobbe una mezza dozzina di marinai che non gli erano mai andati a genio, e tra questi, con sguardo altero e impenetrabile, il capitano William. Comparvero sulla scena due energumeni che trascinavano di peso il povero Pryce, più esangue che mai. Lo mollarono ai piedi di William, dove si accasciò con le membra tremanti. Il capitano lo squadrò dall’alto in basso con disapprovazione. «Alzati!» ordinò. Pryce alzò gli occhi su di lui, poi li mosse da un lato all’altro del ponte, sconcertato.

«C-che sta succedendo, padre? Chi è questa gente?» «Non ci arrivi da solo?» Gli occhi di Pryce si dilatarono per lo spavento. «Pirati!» Suo padre non si mosse, né diede segno di apprensione. «Padre! Non capisco!» William lo ignorò. «Namza!» esclamò «Fatti avanti! Ho rispettato la mia parte dell’accordo, come puoi vedere.» Un mormorio inquieto si diffuse tra i marinai prigionieri. Lo stesso Raduan si sentì invadere dal nervosismo. I pirati, un’accozzaglia di individui dall’aria esotica e pericolosa, si aprirono a ventaglio. Nel varco si fece strada un uomo robusto dalla pelle bianchissima solcata di graffi e cicatrici, dotato di un gran paio di baffi a manubrio rossastri. Usava una bandana verde sotto al tricorno, e dai lobi delle orecchie gli pendevano una dozzina di orecchini dorati. Dietro di lui veniva un altro uomo, la metà sinistra della testa completamente calva, l’altra metà foderata da una lunga frangia di lisci capelli corvini, che lasciavano allo scoperto appena un occhio dal taglio obliquo, privo di sopracciglia. Un bavaglio gli copriva il volto dal naso in giù. Dalla sua schiena spuntavano le else incrociate di due impressionanti scimitarre. Namza, quello col tricorno, si piazzò a gambe larghe dinanzi a William e lo squadrò con occhi glaciali. «La nave è mia, dunque.» «Purché sia io a comandarla» rispose William, senza distogliere lo sguardo. Namza non disse nulla, poi aprì la bocca in un sorriso dai denti dorati.

«Hai fatto la tua parte, io farò la mia» disse. Si rivolse ai suoi uomini con voce tonante: «Il vascello resta sotto il comando del capitano William! Se qualcuno ha qualcosa in contrario, che parli adesso!» I pirati chinarono il capo in silenzio. Raduan notò, con la coda dell’occhio, che Tasha era l’unica ad esibire un sorriso sfrontato. Ma neanche lei aprì bocca. Namza dedicò la sua attenzione ai prigionieri. «Quanto a voi, la scelta è semplice: potete buttarvi a mare, o farci da schiavi, o continuare a navigare agli ordini miei e del capitano William.» I marinai si guardarono tra loro, dubbiosi. «Scegliete in fretta» ribadì Namza «La pazienza non è tra le mie virtù.» «No!» urlò una voce. Si voltarono tutti a guardare: era Pryce, pieno di paura e sdegno. «Padre, che cosa stai facendo?» William gli rispose con voce dura: «Cambio bandiera. La maledetta Gilda ha finito di dettarmi ordini.» «Ma gli uomini... E i monaci!» «Gli uomini possono scegliere come meglio credono, l’hai sentito. Alcuni l’hanno fatto ancor prima di salpare.» Lanciò una rapida occhiata ai sei o sette fedeli che lo attorniavano. «Quanto ai nostri due ospiti, anche loro hanno avuto l’opportunità di scegliere. L’hanno sprecata, adesso è un problema loro.» Pryce incrociò lo sguardo di Raduan e Gonzo, e cominciò a tremare dalla testa ai piedi, dimenandosi come in preda a un raptus. Tasha scoppiò a ridere: «Come tremi, Pulcino! Attento a non lasciarci le penne!» I pirati le fecero eco con una grassa risata. Lacrime di frustrazione presero a

scendere dalle gote di Pryce. «Questa è l’ultima volta che mi metti in imbarazzo, te lo prometto» ringhiò William tra i denti. Poi gli diede le spalle e accennò a Namza. «Abbiamo cose da discutere, capitano.» «Sì, capitano» concordò l’altro «Andiamo nella vostra cabina, se non vi dispiace, mentre gli uomini risolvono le loro... divergenze.» William annuì. Scavalcarono Pryce come se fosse un fagotto abbandonato sul ponte, e camminarono fianco a fianco verso poppa, sempre seguiti come un’ombra dall’inquietante guardia del corpo di Namza, la lunga veste nera svolazzante al soffio della brezza marina. Qualcosa accadde nella mente del ragazzo. Strinse i pugni e ringhiò come un mastino, con uno sguardo che rasentava la follia. Raduan se ne accorse al volo. «Fermo!» gridò. Pryce non gli diede ascolto: scattò in piedi, afferrò un arpione poggiato contro l’albero maestro, e lo scagliò con tutte le sue forze verso il capo pirata. Il proiettile, veloce ma impreciso, sfiorò una spalla della guardia del corpo e sibilò accanto all’orecchio di Namza, squarciandogli una guancia. Il pirata si portò una mano al volto, e la ritrasse lorda di sangue. Fissò Pryce con odio belluino. Mentre estraeva un pugnale dalla cintola, William si aggrappò al suo braccio con un lamento, squilibrandolo e facendogli cadere l’arma. La guardia del corpo reagì all’istante: sguainò le due scimitarre e le affondò a tenaglia nei fianchi di William. «No, Kalis!» esclamò Namza, troppo tardi. L’uomo strappò le lame dalla carne di William, e il capitano si afflosciò al suolo con un gemito. «Padre!» urlò Pryce. Corse da lui, si buttò in ginocchio e gli sollevò la testa dal ponte, appoggiandosela in grembo. Un rivolo di sangue scuro colava dalle labbra del

capitano. «Padre!» ripeté il giovane, fuori di sé. Il capitano sollevò una mano a fatica, e l’appoggiò su una guancia del figlio, come una carezza. La sua bocca si aprì in un sorriso pieno di dolore. «Ho visto... il tuo coraggio...» Il braccio gli ricadde lungo il fianco, e spirò. Pryce chinò la testa sul suo petto, tra i singhiozzi, cullando tra le braccia il corpo senza vita. «Che spreco» disse Namza, scuotendo la testa. Tirò fuori un fazzoletto e si tamponò la ferita. La sua guardia personale, Kalis, rinfoderò le scimitarre con espressione vuota, come se quanto accaduto non lo riguardasse. «Cambio di piani» gli accennò il nuovo capitano. Tornarono sui propri i, tra i marinai. Raduan e Gonzo rimasero a fissare la scena da lontano, inorriditi, senza spiccicare parola. Il guerriero cercò di forzare le funi che gli mordevano i polsi senza risultato, per sua fortuna: la rabbia e il disgusto che lo dominavano l’avrebbero spinto a commettere una pazzia. Osservarono impotenti il pirata che scalciava via Pryce, e gli altri due che afferravano il cadavere del capitano per gli stivali. Lo trascinarono fino alla murata, poi lo issarono sul bordo e lo gettarono in mare. Pryce continuò a piangere in silenzio, senza alzare gli occhi da terra. I pochi fedeli di William rimasero a guardare senza alzare un dito, gli sguardi vacui e i volti pallidi come cenci: la loro lealtà era morta insieme al capitano. I pirati stringevano il coltello dalla parte del manico, non c’era nulla che i tormentati superstiti della ciurma della “Rosa dei Venti” potessero fare. Solo alla fine, quando ognuno dei marinai ebbe compiuto la sua scelta forzata, i pochi ribelli vennero spinti di nuovo sottocoperta e rinchiusi nella stiva dietro una grata, tra un mucchio di barili. Pryce fu buttato dentro insieme agli altri, Raduan

e Gonzo fecero del loro meglio per dargli conforto. Quando finalmente il ragazzo si addormentò, sconvolto ed esausto, Gonzo gli restò vicino. Raduan non poté far altro che stringere le sbarre di ferro fino a sbiancarsi le nocche, e rassegnarsi a are la notte come un animale in gabbia. -----Si svegliò con la sensazione che qualcuno lo stesse prendendo a calci nelle costole. In effetti era così. Fece per afferrare il piede, ma l’uomo fu più svelto di lui a ritrarlo. Raduan balzò in piedi, imbestialito, e infilò le braccia tra le sbarre per agguantarlo al collo. Il pirata fece un o indietro, sottraendosi al suo raggio d’azione. Gli sorrise in modo insolente. «Questo tipo graffia!» «Per questo mi piace» commentò Tasha, mordendosi un labbro. Raduan girò gli occhi su di lei, con un ringhio. Lei resse il suo sguardo senza batter ciglio, a braccia incrociate, la chioma selvaggia sciolta sulle spalle e sul petto. Il guerriero grugnì. La luce diffusa gli disse che era già mattina. Il mal di testa feroce gli disse che il suo sonno era stato sgradevole quanto il risveglio. «Che diamine volete da me?» imprecò, massaggiandosi gli occhi con le dita. «Ti piacerà» rispose Tasha «Allora Brandy, riesci a tirarmelo fuori da solo, o devo farlo io?» Il pirata si grattò la testa, indeciso. Aveva l’aspetto di un barile con indosso una camicia e un paio di brache. «Non lo so, Tasha... Tuo fratello...» «Non ti facevo così vigliacco! E poi Namza ha altro a cui pensare. Se anche uno di questi pezzenti finisse in mare, nemmeno se ne accorgerebbe!» L’uomo sbuffò.

«Mi rifiuteresti questo piccolo favore?» insistette lei. «E va bene, lo faccio uscire.» Tasha gli diede una carezza sulla testa pelata. «Grazie Brandy, sei un tesoro!» «Sì, sì...» borbottò lui «Solo perché ho le chiavi...» Fece girare una grossa chiave nella toppa, e la grata si aprì. Raduan pensò alla fuga: una vera follia. Solo e disarmato su un vascello nel mezzo dell’Oceano, contro decine di pirati armati fino ai denti. Niente da fare. Avrebbe fatto il bravo, almeno per il momento. «Vieni fuori» disse il pirata «Niente scherzi, o finisce male.» Si rivolse a Tasha: «Vuoi che gli sleghi le mani?» «Uhm, sarebbe davvero interessante...» rispose lei «Ma cercherò di farne a meno.» Brandy farfugliò qualcosa sotto i baffi. Uscendo, Raduan si ricordò dei suoi amici: Gonzo dormiva ancora della grossa niente di strano; Pryce invece era sveglio. Sedeva con la schiena addossata alla parete, a fissare il vuoto. Tasha lo notò a sua volta. Un’ombra simile alla comione le ò sul volto. «Mi dispiace, Pulcino» disse «Mio fratello non voleva che finisse così.» Lui la guardò con occhi tristi, senza dir nulla. «Ma quel che è successo, è successo. Fattene una ragione.» Tornò a occuparsi di Raduan. Si approssimò con o felino, gli girò attorno come uno squalo. Raduan continuò a fissare la parete di fronte a sé, anche quando lei accostò il viso al suo collo per aspirare l’odore della sua pelle. Quando lo prese sottobraccio, come se fossero due innamorati a eggio, lui si irrigidì come una statua. Tasha soffocò una risata.

«Sei nervoso, mio bel monaco? Scommetto che al monastero non c’erano ragazze carine come me.» Irrazionalmente, Raduan pensò alle provocazioni di Kyra, al suo sguardo impudente e alla smorfia beffarda delle sue labbra. Si riscosse. Lei era lontana mille miglia, chissà dove. Quella non era che una ragazzina arrogante, senza paura di giocare col fuoco. Tasha gli ò un dito su una guancia, accarezzandogli la barba. «Vieni con me, starai più a tuo agio senza questi brutti ceffi intorno. Brandy!» «Sì, signora!» «Signora, puah! Bada a come parli! Noi andiamo in cabina. Sta all’erta, ma non provare a spiare, o ti cavo quegli occhi da iena!» «Sarà fatto! Cioè, non sarà fatto!» «Bravo, così mi piaci. E se per caso il mio fratellone venisse a mettere il naso qua sotto, fammi un fischio.» Spinse Raduan verso la cabina in fondo al ponte, sempre tenendolo sottobraccio. Lei lo guardava e rideva. Lui non fece nessuna delle due cose. Appena entrati, Tasha si sbatté la porta dietro le spalle. Squadrò il guerriero con occhi talmente avidi da fargli venire un nodo allo stomaco. Si avvicinò di un o. Lui si guardò attorno, fingendo indifferenza. «Tasha, eh?» «Che t’importa del mio nome? Il resto non è di tuo interesse?» Anche se lo fosse stato, non l’avrebbe ammesso neppure sotto tortura. Si schiarì la gola. Che situazione assurda! «Quindi Namza è tuo fratello...» «Preferiresti che ci fosse lui qui con te?» sbraitò la giovane, mettendosi le mani sui fianchi «Forse è vero quello che dicono dei monaci.»

«Perché, cosa dicono?» «Non lo sai?» «No, ma mi piacerebbe.» «Ahh, basta! Parli troppo, prigioniero!» Senza preavviso, Tasha lo spinse sulla branda, poi gli saltò addosso come una gatta, stringendogli i fianchi con le ginocchia. Lo sondò con due grandi occhi verdi, il volto spruzzato di lentiggini a una spanna dal suo. «Che fai?» «Adesso te lo mostro.» Chinò il capo su di lui, coprendogli il viso con la massa di riccioli profumati, e premette le labbra contro le sue. Per un attimo il guerriero fu soggiogato dalla dolcezza di quel tocco, ma soltanto per un attimo. Le morse un labbro, e la respinse via come un fuscello. Tasha volò indietro fino a sbattere la schiena contro la porta, con un gemito. Un istante dopo era già in piedi, furente. Afferrò l’elsa della sciabola che portava al fianco, mentre col dorso di una mano si asciugava il rivolo di sangue che le colava dal labbro spaccato. Brandy e un altro losco figuro sopraggiunsero di gran carriera, spade in pugno. «Che succede? Tasha?» Lei rispose con un mezzo latrato. Puntava Raduan come una belva, le sopracciglia aggrottate, il corpo teso. Con un urlo, alzò la sciabola sopra la testa, pronta a colpire. Il guerriero cercò di ripararsi con le braccia legate, per quel che valeva. La lama piombò giù come una saetta, e si arrestò a un palmo di distanza dai suoi polsi. Tasha esibì un sorriso da lupo. «Di solito sono io a dovermi difendere» disse «Sei interessante, monaco. O troppo stupido per saperti godere la vita.» Brandy si mise le mani nei pochi capelli che gli restavano.

«Sei completamente matta, signora! Ed io più di te, a lasciarti fare! Questo idiota poteva strangolarti senza che neanche ce ne accorgessimo. Poi mi sarei accorto dell’ira di Namza, oh sì!» Lei agitò la punta della sciabola accanto al suo inguine. «Tu digli una sola parola, e da domani canterai nel coro delle voci bianche!» «Non ci tengo affatto! Ma adesso riportiamolo dentro, per favore!» Tasha fece una smorfia da ragazzina capricciosa, soffiò via un ciuffo di capelli, e rinfoderò la spada. Scosse il capo, facendo volteggiare la cortina di riccioli ramati. Guardò Raduan di sbieco e gli fece l’occhiolino. «A casa avremo più tempo per noi, mio bel monaco.» Raduan rigirò gli occhi, e provò l’impulso di sbattere la testa contro uno stipite. Soltanto un giorno prima stava navigando a vele spiegate verso le Zanne di Pietra e la Valle della Luna, senza un solo cattivo pensiero a turbare il suo ottimismo. Era certo di avercela quasi fatta! E invece... Tra lui ed Abel, adesso, c’era quella pazza furiosa. E un’intera banda di pirati.

XVII - La Roccaforte

I prigionieri compresero di aver toccato terra ancor prima di vederlo coi propri occhi: dal loro carcere improvvisato, sottocoperta, avvertirono il tonfo leggero dello scafo contro la banchina. In genere quel suono e quel tremito erano segnali benvenuti, rappresentavano la fine di un lungo viaggio e l’inizio di una serata di baldoria. Quel giorno invece, era il prologo di una vita da schiavi. Gonzo sbadigliò come se niente fosse. Raduan lo guardò con invidia: nessun sentimento di paura o tensione albergava troppo a lungo in quella mente bizzarra, come se questa si adattasse invariabilmente al presente, buono o cattivo che fosse. Lui, al contrario, aveva il morale sotto i tacchi. Pryce era a pezzi. Comprensibile, per chi aveva visto il proprio mondo sgretolarsi nel giro di una sola notte. «Sei riuscito a dormire almeno un po’?» gli chiese. Le occhiaie del ragazzo gli risposero da sole. Raduan gli strinse una spalla. Non c’era nulla che potesse esprimere a parole, per farlo sentir meglio. Solo il tempo l’avrebbe guarito. A parte loro, c’erano altri sette uomini spremuti tra i barili. Gli unici della ciurma di William che avessero scelto la via dura. Non avevano l’aria di combattenti, a dirla tutta. Stanchi e abbattuti come conigli in trappola, forse si erano già pentiti della loro scelta coraggiosa. Impossibile contare su di loro per una fuga a sorpresa. Dall’esterno proveniva l’eco di urla e canti: l’arrivo dei pirati con quel ricco bottino aveva scatenato l’entusiasmo nel resto della comunità. Raduan provò ad immaginarsi il porto: una baia protetta, dalla quale i filibustieri potessero andare e venire senza dare nell’occhio. Una cala stretta e isolata, facilmente difendibile in caso di attacco. Fuggire non sarebbe stato facile, ma decise di cominciare a tessere un piano appena avesse messo piede sulla terraferma.

Dovettero attendere quasi un’ora, prima che una dozzina di pirati capeggiati da quel Brandy venissero a occuparsi di loro. «In fila, uno alla volta, cani! Se qualcuno prova a fare il furbo, ammazzo lui e quello dietro di lui! Tu, soprattutto, non farmi girare le scatole, oppure…!» e rifilò uno spintone a Raduan. «Pazienza» si disse «Verrà il momento.» In coperta li attendeva una giornata di splendido sole, tanto radioso quanto cupo era il loro umore. Il ponte della “Rosa dei Venti” era già deserto, e più sporco di quanto fosse mai stato dall’inizio del viaggio. Una sola notte era bastata perché la nuova ciurma fe rimpiangere la vecchia. Dal ponte, Raduan ebbe modo di gettare un’occhiata d’insieme al rifugio dei pirati: sorgeva all’interno di uno stretto fiordo dalle pareti di roccia ricoperte di vegetazione, un luogo quasi impenetrabile, come si era immaginato. C’era una roccaforte in cima a una bassa collina - una torre di pietra mezzo sgretolata attorniata da una massa di casupole con il tetto di paglia. Nulla di più. Sulla banchina avevano eretto una catasta di legna, forse per accogliere la spedizione vittoriosa con un grande banchetto. Dubitava che vi avrebbe preso parte. Li spinsero lungo la erella e sulla terraferma, per farli allineare sullo spiazzo polveroso davanti alla prima schiera di case. Tasha si avvicinò con un sorriso smagliante. «Benvenuti alla nostra roccaforte!» «Meraviglioso» disse Gonzo «C’è persino mezza torre! E guarda quanta polvere di prima qualità!» Tasha gli afferrò il mento con una mano, strizzandogli le guance. «Che simpatico! Magari adesso ti taglio la lingua, che ne dici?» «Preerifco di no...» riuscì a sputacchiare lui. «Tasha!» La voce, pesante come il piombo, la fece sussultare. Lasciò perdere Gonzo con

un gesto di stizza. Namza si fece avanti insieme all’inseparabile Kalis. Squadrò la sorella con disapprovazione. «Non ti voglio vicino ai prigionieri, te l’ho già detto.» «Cercavo solo di prepararteli, fratellone.» «Capitano.» «Sì, capitano...» Namza girò lo sguardo sui prigionieri allineati. Camminò lentamente avanti e indietro, andoli in rassegna. «Tu, sembri robusto. E anche tu. Visto che vi rifiutate di navigare sotto la mia bandiera, vi spezzerete la schiena per rimettere in piedi la mia torre.» Arretrò di qualche posizione. «Tu invece hai mani da donna. Ti metterò a rammendare le vele. Voialtri farete miracoli con una vanga tra le mani, me lo sento. Questo posto ha bisogno di più latrine. Quanto a te...» E si piazzò di fronte a Gonzo. Lo studiò per pochi istanti e gli toccò la pancia con l’elsa della sciabola, prima di emettere un verdetto. «Sei grasso, scommetto che ti piacciono i manicaretti.» «Sissignore! Ho una fame!» «E sei anche spiritoso, come siamo fortunati. Cucina, per te!» «Cucina?» «Quel verme disgustoso del nostro cuoco - senza offesa, Rat! - ha proprio bisogno di un aiutante. Ti piacerà, anche se assaggerai più bastonate che cibo.» I pirati accompagnarono la battuta con uno scroscio di risate. Gonzo impallidì. «Tanta strada» mormorò «e mi ritrovo al punto di partenza...»

Namza non gli diede più retta. Il suo sguardo era già stato catturato dalla prestanza fisica di Raduan. Gli tastò un braccio, poi studiò da vicino le cicatrici di battaglia che gli segnavano gli arti e il volto. «Se il cuoco può avere un servitore personale» si intromise Tasha «anch’io ne voglio uno. Perché non lui, frat... capitano?» Namza neanche si voltò per risponderle. «Tu vuoi un giocattolo, non un servitore.» Lei s’imbronciò. «E anche se fosse?» «Prenditene un altro, quest’uomo può esserci utile in altri modi.» «Ma se io volessi proprio lui?» «Ci resteresti male, perché non te lo darò. Che ne pensi di uno un po’ più... acerbo?» Indicò Pryce. «Il nostro giovane amico, per esempio. Ha bisogno di qualcuno che gli tiri su il morale, sorella.» Di nuovo i pirati risero in coro, per lo scorno di Tasha. Ma lei si trattenne dallo sfidare il fratello in pubblico. L’aveva fatto altre volte, e non era finita bene. «Come vuoi, lo prendo. E non per il motivo che tu pensi.» «Fa’ come ti pare, non mi interessa» Namza la dispensò con un cenno della mano «Ma non restarci troppo male, sorellina. Ecco, prendi questo.» Ghermì tra le dita il medaglione e la gemma nera che pendevano dal collo di Raduan, e tirò con forza, strappando la catenella. Lanciò la gemma a Tasha, che la prese al volo e la intascò senza neanche ringraziare. Namza tornò a fissare Raduan. «Un monaco, eh?» Sfoggiò due file di denti dorati. «Non ci credo neanche un po’. Che ci facevi su quella nave, guerriero?» Raduan non rispose, continuò a guardare dritto davanti a sé. Kalis fece un o

avanti, Namza lo trattenne. «Fa’ pure il duro. Sarà anche meglio, per il compito che ho in mente per te. A meno che tu voglia riconsiderare l’offerta di ieri, e unirti alla mia ciurma.» Di nuovo Raduan non rispose. «Capisco. Sarai nostro ospite, dunque, e la nostra ospitalità non è gratuita. Dovrai meritartela. Vediamo un po’...» Accennò a uno dei pirati: «Dammi la tua spada.» L’uomo gli porse l’arma per il manico, e Namza la offrì a Raduan. Il guerriero non mosse un muscolo. Namza la gettò in terra ai suoi piedi. «Come vuoi, sarà più divertente.» Fece un o indietro. «Kalis, per favore.» La guardia del corpo non ebbe bisogno di spiegazioni. Impugnò una scimitarra e l’affondò verso il cranio di Raduan. Il guerriero girò i fianchi con un movimento fulmineo, schivando il colpo. Sì piegò sulle ginocchia e agguantò la spada da terra con le mani legate. La sollevò appena in tempo per parare il secondo colpo di Kalis, e il terzo. Al quarto, fece scivolare la lama sotto quella dell’avversario e riuscì a sfiorargli il petto con la punta. Kalis si rifece sotto: i suoi occhi non esprimevano alcuna emozione, dal bavaglio legato sul naso e sulla bocca non usciva un solo verso o esclamazione. «Basta così!» ordinò Namza. Kalis si bloccò all’istante e rinfoderò la scimitarra. Raduan rimase in posizione di difesa, la spada a proteggergli il volto. «Hai tenuto testa a Kalis, e con le mani legate per giunta! Veramente notevole, avevo visto giusto. Sarai perfetto.» Questa volta gli occhi di Raduan tradirono curiosità. Il pirata continuò: «I miei uomini se la cavano bene con le vele e col sartiame, e mi hanno già dimostrato un sano appetito in fatto di arrembaggi e saccheggi.» I pirati concordarono con un ghigno di soddisfazione. «Però molti di loro non sanno che farsene di una spada. La agitano come uno spiedo, i miserabili. Mi serve qualcuno che gli insegni ad usarla decentemente.

Un maestro di spada. Tu, nella fattispecie.» Raduan aggrottò la fronte, e parlò per la prima volta: «Perché non lo fai fare al tuo spaventaeri?» «Ci ho provato. Ma Kalis ha qualche problema a socializzare. L’ultima volta tre alunni hanno perso le braccia, vero Kalis?» L’uomo non si prese nemmeno il disturbo di annuire. «Sempre un burlone, è questo che mi piace di lui» disse Namza «Ma come insegnante non vale niente. Quindi dovrai farlo tu.» «E se mi rifiutassi?» «Saresti morto prima di terminare la frase.» Il guerriero non dovette pensarci su molto. «Come potrei declinare un invito tanto cortese?» «Ne ero certo» sorrise Namza. Soppesò il medaglione di Abidan nella mano, poi lo scagliò verso Kalis, che lo afferrò al volo. «Comincerai domani, schiavo, e il mio spaventaeri non ti toglierà gli occhi di dosso. Una sola mossa falsa e sei spacciato.» Raduan incrociò lo sguardo di Kalis, con una smorfia di stizza. Come sempre, gli occhi dell’uomo erano vuoti di espressione. Con quel tipo alle calcagna le sue speranze di fuga si assottigliavano drasticamente. Peggio ancora: lui e Gonzo sarebbero stati separati. Non se la sentiva di tentare la fuga senza di lui, anche se non aveva promesso niente a Madara. E poi c’era il giovane Pryce. Era solo al mondo, senza nessuna esperienza, e nelle mani della strega dai capelli rossi. Doveva fare qualcosa anche per lui. «Adesso levatemeli di torno!» sbraitò Namza «Abbiamo un banchetto da preparare!»

I pirati esultarono, aprendogli il cammino. Un uomo grande e grosso, fasciato da un lurido grembiule sporco di grasso, ghermì Gonzo per un braccio e se lo tirò dietro. Raduan vide il suo sguardo atterrito, ma c’era poco che potesse fare. Pregò soltanto che l’amico avesse abbastanza sale in zucca da non provocare il cuoco con le sue battute. Se già i monaci a Leukania erano arrivati ai ferri corti con lui, figurarsi quella banda di reietti: una parola di troppo, e Gonzo sarebbe finito in pasto ai pesci. Tasha gli sfilò dinanzi con espressione corrucciata, e gli ò un dito sul petto. «Prima o poi ci rivedremo, stanne certo» gli disse. Si allontanò spingendo Pryce davanti a sé. Il ragazzo non disse una parola, né alzò gli occhi da terra. «Quanto a te, Pulcino, farai bene a tornare tra i vivi. Gli inutili sono i primi a morire, in questo posto!» Gli rifilò uno spintone, costringendolo a camminare. Raduan provò pena per lui, ma di nuovo aveva le mani legate - in tutti i sensi. Venne il suo turno: Kalis gli si parò dinanzi, estrasse dalla veste una mano pallida priva di unghie, e gli accennò di precederlo. Il guerriero non si oppose. Camminarono fino a una baracca di legno separata dalle altre, una struttura cadente messa in piedi con materiali di scarto. Kalis gli prese i polsi e tagliò il legaccio. Poi spalancò la porta con un calcio e lo spinse dentro. L’interno era buio, freddo e umido. C’era un pagliericcio in un angolo, un secchio maleodorante, e nient’altro. La porta si richiuse alle sue spalle, udì lo scatto secco di un chiavistello. Rimase in piedi dov’era, sforzandosi di assorbire quella nuova realtà. Cercò di non pensare, almeno per il momento, ad Abel e alla propria missione: la delusione era troppo cocente. Si abbandonò a sedere sul giaciglio di paglia, la testa tra le gambe, e svuotò la mente. Tempo dopo - quanto, non avrebbe saputo dirlo - la porta si aprì di una spanna e qualcuno fece scivolare all’interno una scodella fumante. La prese e annusò il contenuto, con una smorfia di raccapriccio: nel brodo grasso e torbido nuotavano dei pezzi scuri che non sembravano né carne né pesce. Ne pescò uno, soffiò per raffreddarlo, e lo mordicchiò.

«Puah!» Continuò a masticare soltanto per mancanza di alternative, e perché era a digiuno da troppo tempo. A poco a poco il buio nella capanna si infittì, scese il crepuscolo. Cominciava a far freddo, e si strinse addosso il mantello. Fuori la festa impazziva: una musica allegra e dissonante, prodotta da tamburi e strumenti a corda, faceva da sottofondo a urla, canti e schiamazzi. Raduan si alzò sulle ginocchia cigolanti. Esplorò con le dita le pareti sconnesse, fino a trovare una fessura più grande delle altre. Vi accostò un occhio, e riuscì a spiare fuori tra le schegge di legno. Sulla banchina scoppiettava un grande falò, attorno si dimenavano i pirati, le loro donne, e persino un branco di mocciosi: la comunità al completo. Inutile dire che due terzi dei festanti erano già ubriachi. Raduan si sentì male al pensiero che i barili di limpaq che lo avevano accompagnato sulla “Rosa dei Venti” non fossero mai stati destinati a riscaldare lo stomaco degli assediati di Sunder, come aveva creduto. William aveva pensato a tutto per inaugurare al meglio la sua nuova vita tra i pirati. Peccato per lui. Riuscì a scorgere Pryce in un angolo, abbandonato su un tronco. Tasha danzava davanti a lui con un boccale in mano, la testa gettata all’indietro in un eccesso di risa. Poi, visto che il ragazzo non dava segni di vita, gli gettò in faccia il contenuto del boccale, gli diede un buffetto, e se ne andò. Il ragazzo restò dov’era a capo chino, senza badare al liquido che gli colava sulla camicia. Doveva tutto questo a suo padre, eppure con ogni probabilità dedicava a lui i suoi pensieri in quel momento, e in tutti i momenti che avevano preceduto il loro sbarco. Lo sguardo attratto da un gran scoppio di risa, Raduan notò un uomo accovacciato a quattro zampe come un cane, costretto a raccogliere avanzi da terra. Era Gonzo. Uno dei pirati gli sputò addosso, un altro gli sferrò un calcio nelle reni. Il disgraziato strisciò via e si allontanò zoppicando con un vassoio in equilibrio tra le mani. Raduan smise di guardare. E pensare che non molti giorni prima, attorno a un falò del tutto simile a quello, per la prima volta Gonzo era stato trattato dai suoi simili non soltanto come un uomo, ma come un eroe. La ruota del destino aveva di nuovo compiuto un giro completo. Non era giusto. Tornò a sedersi sul pagliericcio. Piluccò quel che restava del cibo in fondo alla scodella, sorbì il resto della brodaglia ormai fredda. Si avviluppò meglio che

poté nel mantello e si sdraiò, poi rimase sveglio a fissare la paglia del soffitto, le orecchie piene del trambusto della festa, il cuore pieno di incertezza. -----Il mattino dopo Kalis venne a prenderlo dopo il sorgere del sole: il suo volto imbavagliato era una maschera di mutismo e indifferenza, come sempre. Ostentava il medaglione di Abidan appeso al collo, come una sorta di provocazione che Raduan si rifiutò di accogliere. L’uomo mosse le dita per comunicargli di seguirlo, cosa che il guerriero fece con gratitudine, dopo una notte rinchiuso al freddo nella capanna. Fu sufficiente il primo raggio di sole sulla pelle per migliorargli l’umore. Era pronto ad affrontare a testa alta la sua prima giornata da schiavo. Kalis si piazzò alle sue costole e gli fece imboccare un sentiero di terra battuta che si allontanava dalle case, inoltrandosi nel sottobosco. Il tratto di vegetazione si riaprì quasi subito su una scogliera di rocce scure. L’attraversarono balzando da un pietrone all’altro, incuranti delle onde che si infrangevano sotto di loro. La scogliera terminava su una spiaggetta di sabbia grossa, isolata su ogni lato da una fitta barriera di bambù. Alcuni pirati, una ventina in tutto, li attendevano stravaccati sulla battigia. Quando li udirono avvicinarsi a i pesanti sulla sabbia, alzarono gli sguardi su di loro e cominciarono a disporsi in una fila sbilenca. «Alunni disciplinati...» pensò Raduan. Non che gli importasse davvero: gli serviva solo il tempo di guardarsi attorno e studiare un buon piano di fuga, poi li avrebbe piantati in asso tutti quanti, compreso il dannato spaventaeri. «Sei tu il maestro di spada?» indagò un poco di buono dai baffi unti d’olio. «Così mi hanno detto.» Si rivolse a Kalis, in attesa di istruzioni. L’uomo non era più appiccicato alle sue spalle, come credeva. Era andato a sedersi su uno scoglio, silenzioso come un’ombra. La veste nera lunga fino alle caviglie gli dava l’aspetto di un avvoltoio appollaiato su una roccia. Slacciò un’arma che portava al fianco e

gliela gettò: Raduan non si sorprese nello scoprire che era una spada di legno. Era sciocco sperare che gliene affidassero una vera. Non si chinò a raccoglierla. Kalis piegò il capo da un lato, incuriosito. «È troppo presto per questa» spiegò Raduan, prima che il guardaspalle interpretasse male «Voglio vedere come se la cavano col corpo a corpo.» «Corpo a corpo?» esclamò lo stesso pirata di prima «Non siamo qui per azzuffarci come ragazzini, schiavo! Namza ci ha detto che avremmo imparato l’arte della spada!» «Ed io sarò felice di insegnarvela. Prima, però, i fondamentali: equilibrio, resistenza, colpo d’occhio... Niente di meglio della lotta, per sviluppare queste qualità. Senza di esse, nessuno spadaccino è in grado di emergere dalla mediocrità.» Kalis rilassò le spalle: aveva accettato il suo punto di vista. I pirati, invece, sembravano scontenti. Il più grosso di loro si fece avanti: indossava soltanto un paio di pantaloni di tela, e sfoggiava una muscolatura di tutto rispetto. «Io dico che possiamo cominciare subito con le spade» sbraitò. «Ci senti male?» indagò Raduan «Mi pare di aver detto il contrario un attimo fa.» «Facciamo così, allora. Io ti strizzo le ossa, giusto per farti capire il mio punto di vista, poi iamo alle spade, va bene?» «D’accordo» disse Raduan «Fammi vedere.» Il bestione avanzò di un o e gli sferrò una sequenza di pugni, che Raduan schivò con agili movimenti del corpo, senza compromettere la propria postura. «Equilibrio...» disse, mentre piazzava una gamba dietro quelle dell’avversario. Lo spinse indietro con una spallata, e quello crollò schiena a terra con un tonfo. «...cosa che tu non hai.» Imbestialito, l’uomo balzò in piedi. Cercò di afferrarlo, ma Raduan sgusciava via ogni volta, un attimo prima che riuscisse a stringere la presa su di lui, e

immancabilmente gli rifilava una botta nei fianchi, sulle gambe, o sulla testa. «Questo è quello che chiamo colpo d’occhio: prevedere i movimenti dell’avversario, anticiparlo, contrattaccare. Non c’è nulla di più importante con una spada tra le mani... o senza!» e così dicendo sferrò un calcio sulle rotule del bestione, facendolo di nuovo rovinare a terra. Il pirata si rialzò ansimante. Raduan gli donò una smorfia di dileggio, prima di dargli le spalle. «Neanche la resistenza è il tuo forte, a quanto pare. Non ho ancora capito cosa volessi mostrarmi.» Con un urlo, l’uomo si lanciò contro di lui. Raduan si spostò di un o e sollevò il gomito: l’energumeno ci sbatté contro in piena velocità, cadde per la terza volta, e non si rialzò. Un filo di sangue gli scorreva dal naso tumefatto. «Ricapitolando» spiegò Raduan, eggiando a braccia conserte davanti ai pirati esterrefatti «Equilibrio, colpo d’occhio, resistenza, e un poco di sana cattiveria. Avete prestato attenzione, spero?» Uno dopo l’altro, i pirati annuirono, senza staccare gli occhi dal loro compare svenuto. «Consideratela la nostra prima lezione teorica. Adesso, un po’ di pratica. Tu, avvicinati.» Il pirata fece un o indietro; i compagni, più svelti di lui, ne fecero due. «Io?» domandò, con sguardo preoccupato. «Proprio tu. Non aver paura, voglio solo mostrarvi un paio di mosse. Prometto che ci andrò piano.» Non fu di parola. Era vero che si trattava di semplici lezioni di lotta, ma mentre insegnava si tolse la soddisfazione di regalare un bel po’ di lividi ai maledetti che l’avevano fatto prigioniero. Kalis, dal suo scoglio, non mosse un muscolo durante tutta la dimostrazione. Di certo approvava la linea dura. Continuarono così per tutta la mattina: il guerriero spiegava una serie di tecniche

- dimostrandole sui malcapitati nel modo più doloroso possibile - poi si faceva da parte mentre i pirati, divisi a coppie o in gruppi, se le davano di santa ragione. Interveniva soltanto quando uno dei disgraziati esagerava troppo. Per il resto lasciò che si sfogassero, approfittandone per osservare discretamente i dintorni. Cominciava a farsi un’idea più precisa del luogo, e non gli piacque. La scogliera e l’Oceano chiudevano due possibili vie di fuga dalla spiaggia. Gli altri lati erano sbarrati da una massa di vegetazione quasi impenetrabile: poteva escludere di gettarsi nell’intrico verde e scomparire prima che riuscissero ad acciuffarlo. Figurarsi con Gonzo e Pryce alle calcagna, ammesso che riuscisse a condurli fin lì. No, doveva cercarsi un’altra soluzione. A mezzodì, quando i pirati non riuscivano più ad alzarsi da terra - e il sentimento di vendetta del maestro era stato appagato a dovere, almeno per quel giorno Kalis si alzò dallo scoglio. Raccolse la spada di legno, la ripulì dalla sabbia, e la cinse al fianco. Rivolse un cenno al guerriero. «Pare che per oggi abbiamo finito» disse Raduan ai suoi alunni «Ci rivedremo presto, spero, per continuare. Mi auguro che la prima lezione sia stata di vostro gradimento.» Le imprecazioni soffocate e le insolenze a denti stretti con cui gli risposero erano musica per le sue orecchie. Sperò solo che non corressero a lamentarsi da Namza: non voleva che il suo nuovo atempo finisse così presto. Riattraversò la scogliera, sempre col fiato di Kalis sul collo, e fecero a ritroso lo stesso sentiero di quella mattina. Quando sbucarono dal sottobosco, il piccolo centro abitato ferveva di attività: sembrava che avessero già scaricato sulla banchina tutto quello che c’era nella stiva della “Rosa dei Venti”, pile di sacchi e barili che non avrebbero mai raggiunto i loro legittimi destinatari. Scrutò tra la gente alla ricerca di Gonzo o Pryce, senza successo. Kalis lo pungolò tra le scapole: non gradiva che se ne stesse lì a ficcare il naso nei loro affari. Giunsero davanti alla porta della capanna. Kalis aprì e si mise in attesa. Dall’uscio uscì una zaffata d’aria calda: il sole aveva infierito sul tetto e sulle pareti per tutta la mattina, e avrebbe continuato a farlo anche nel pomeriggio. «Di nuovo? No, per favore!» si lamentò Raduan. Kalis poggiò una mano sull’elsa di una delle scimitarre gemelle. Il guerriero sbuffò. «Va bene, ci vado...» Entrò, e il carceriere richiuse la porta alle sue spalle. Il chiavistello

scattò al suo posto. In un angolo, vicino al pagliericcio, c’era la stessa scodella della notte prima: era piena di una pappa di granturco e altri ingredienti indefinibili. «Ci risiamo» pensò Raduan. Dopo lo scarso pasto si sdraiò a riposare. Sperava che non ci mettessero troppo a farlo di nuovo uscire. Era ansioso di guardarsi attorno, cercare altri spunti per mettere in atto la sua fuga. Lì dentro stava sprecando del tempo prezioso. Non perse le speranze durante l’intero, lunghissimo pomeriggio. Ogni volta che udiva un rumore di i fuori dalla capanna, pensava che fosse giunto il momento di uscire, ma erano sempre falsi allarmi. Percorse intere miglia camminando su e giù lungo il minuscolo perimetro della cella. I raggi di luce filtrati dagli squarci nel tetto scemarono sempre più, venne la sera, e Raduan si sentì più prigioniero che mai. Stava per mettersi a urlare e picchiare sulla porta, quando finalmente il chiavistello scattò. «Era ora!» esclamò «Non ce la facevo più a... Gonzo!» L’amico gli rivolse un mezzo sorriso dalla soglia: portava con sé un vassoio carico di fette di pane nero e una scodella fumante. «Spero che sia meglio della sbobba di ieri» disse, con un risolino. Raduan notò subito l’occhio nero e l’espressione sofferente. Le cose non gli andavano troppo bene in cucina. «Che diavolo ti hanno fatto?» gli domandò. Cercò di avvicinarsi, ma una voce appena fuori dalla porta lo dissuase: «Mantieni le distanze, schiavo, se ti è cara la cena!» Era il grassone di nome Brandy. Raduan tenne a bada il sarcasmo, e obbedì. «Il mondo è bello perché è vario» commentò Gonzo, a bassa voce «ma al monastero le mie battute riscuotevano più risate e meno botte.» «Fatti coraggio, in qualche modo ce la faremo...»

«Zitti voi due! agli il dannato vassoio e andiamocene!» Così fece Gonzo. Un rapido scambio di sguardi fu tutto quel che riuscirono a ricavare dal loro incontro, oltre a quelle poche frasi. Gli occhi di Gonzo parlavano chiaro: «Tirami fuori di qui!» Se soltanto avesse saputo come... Il pirata strattonò via Gonzo e sbatté la porta. Raduan restò di nuovo solo, nel buio. Scagliò il vassoio a terra, schizzando se stesso e le pareti di brodaglia bollente, poi si buttò sul pagliericcio con la testa tra le mani e una gran voglia di spaccare tutto. I giorni seguenti obbedirono allo stesso schema del primo: di mattina, lo sfogo delle lezioni sulla spiaggia; di pomeriggio, e di notte, la tortura della prigionia. Gli allievi riuscirono persino ad apprendere qualcosa, anche se a caro prezzo: dopo una settimana i più riuscivano a cavarsela in modo non troppo vergognoso. Quando vide che avevano imparato a controllare meglio i movimenti - e che perciò non soffrivano più come all’inizio - decise che era giunto il momento di are alle spade di legno. Con quelle c’erano mille altri modi di divertirsi. «Proteggete l’elsa, oppure...» (urla di dolore) «...questo è quello che capiterà alle vostre dita!» «Colpite qui...» (guaito) «...o qui...» (blasfemia) «...per farlo zoppicare!» «Le costole...» (scricchiolio di ossa)

«...sono un ottimo bersaglio. Metteteci tutta la forza!» E così via, finché la maggior parte dei suoi pupilli giacque a terra con le lacrime agli occhi. Kalis non si oppose neanche una volta: doveva essere un sadico per approvare il programma confezionato da Raduan. Poi il guerriero si ricordò che le sue lezioni erano a base di arti amputati, e capì perché i pirati non si lamentavano più di tanto del nuovo istruttore. Insegnò attacchi, finte e parate, schiacciando gli alunni sotto caterve di esercizi duri e ripetitivi. Lui stesso ne approfittò per recuperare la forma perduta. Per quanto fosse stancante, non si sarebbe opposto a continuare anche durante il pomeriggio: qualsiasi cosa era meglio che restarsene intrappolato in quell’odiosa capanna. Kalis, però, si ostinava a ignorare il suo suggerimento. Forse, se avesse potuto parlarne direttamente a Namza... Eppure non aveva contatti con nessuno, al di fuori dello spaventaeri. Gonzo era l’unica faccia amica - e sempre più gonfia - che riuscisse a scorgere durante la giornata, quando gli portava il rancio. Di Pryce non aveva notizie. Una notte, mentre marciava in circolo dentro la baracca buia, nell’inutile tentativo di scacciare il freddo e la frustrazione, qualcosa venne finalmente a turbare l’immutabile corso degli eventi. Udì i i di due o tre individui che si avvicinavano alla capanna. «Apri la porta, Brandy!» ordinò una voce femminile impastata dall’alcool. «Ma...!» «Ho detto apri la maledetta porta, o ti mozzo il naso e lo do in pasto ai cani!» «Perché ci vado sempre di mezzo io? Non voglio più saperne di chiavi, e celle, e porte...» «Dammi qua!» «No, lascia stare, lascia... Ahh, va bene, fa’ quello che vuoi, io me ne vado!» «Bravo, e non tornare!»

I i di Brandy si allontanarono. La donna armeggiò col chiavistello, finché la porta si aprì di botto, sbattendo all’interno. La figura snella di Tasha si stagliò sull’uscio, con una bottiglia stretta in una mano e un sorriso ebbro sul volto. Si portò la bottiglia alla bocca, ingurgitò una boccata di bevanda dall’odore pungente. Metà del liquido le colò lungo il mento fino a inzupparle la camicia. «Mio bel monaco!» esclamò. Fece un o, inciampò, e cadde tra le braccia di Raduan. Alzò gli occhi su di lui, aprendo il sorriso. «Non vorrai approfittare di me mentre sono ubriaca! Monaco cattivo!» Il guerriero non perse tempo: la respinse e cercò di guadagnare l’uscita, ma uno stivale di Tasha gli fece lo sgambetto e stramazzò a terra. La ragazza gli saltò sulla schiena, strappandogli un grugnito. Sentì qualcosa di freddo che gli pungeva la nuca: un pugnale. «Non sono così ubriaca, sciocco!» lo schernì la giovane. Lui cercò di sollevarsi sulle braccia, lei non lo lasciò fare. «Credevi che fossi venuta fin qui per farti scappare? No, volevo solo farti una visitina. Sono stufa delle solite facce!» La ragazza accavallava le parole mentre parlava, e la punta del pugnale gli scavava nella pelle: Raduan cominciò a preoccuparsi. «Va bene, mi dispiace! Lasciami alzare, non ci proverò più.» «Lo prometti?» «Sì, lo prometto.» Lei ci pensò su, seria, poi scoppiò a ridere. «Non ci credo!» La lama affilata tracciò una sottile linea di sangue sulla nuca del guerriero. «Ahh! Sta’ attenta, per Abidan!» Tasha cercò di controllarsi, anche se continuavano a sfuggirle risatine dalla bocca. Poi appoggiò un orecchio tra le scapole di Raduan, e d’improvviso si fece triste. Restò lì in silenzio, col volto semi sommerso dai ricci.

«Che fai?» le chiese lui. «Odio questo posto, lo sai?» rispose lei, ignorando la sua domanda «Odio gli sporchi pirati, odio mio fratello, odio tutto quanto!» «Siamo in due, allora.» «“Tasha, non fare questo!”, “Tasha, non fare quello!”, “Tasha, sta’ zitta!”, “Tasha, sta’ ferma!” Cosa crede che io sia, il suo cane? Non lo sopporto più, mi serve spazio!» Raduan la lasciò parlare: il discorso cominciava a farsi interessante. «Mi trattano come una stramaledetta principessina!» continuò lei, con voce piagnucolante «Però nessuno mi rispetta davvero! Se solo potessi fargliela vedere...» Il guerriero colse l’occasione al volo. «Devi diventare più forte, se vuoi che ti rispettino.» Lei tirò su col naso. «Che ne sai tu, monaco?» «Al monastero ero il migliore con la spada. Neanche quel pallone gonfiato dell’Abate osava mettermi i bastoni tra le ruote!» mentì Raduan. «Anch’io me la cavo bene...» «Non quanto me. Pensaci, potrei insegnarti dei trucchi che nemmeno Kalis conosce.» Tasha parve riflettere. La punta del pugnale raspò di nuovo la pelle del guerriero, facendolo rabbrividire. «Hai parato i suoi colpi con le mani legate, questo è vero.» «Posso mostrarti di meglio. Immagina la faccia di tuo fratello, quando darai una lezione alla sua guardia del corpo!»

Lei s’illuminò in volto. «Sì, mi piace! Ma come...?» «Convinci Namza a farmi uscire di qui, per prima cosa. Poi potrò insegnarti tutto quello che vuoi.» «E perché mai dovrebbe darmi ascolto?» «Sei sua sorella, no? Deve pur servire a qualcosa. Fagli credere che l’idea è stata tua, però, o potrebbe insospettirsi.» «Mmm...» mormorò lei, e senza volerlo gli affondò un ginocchio nelle ossa. «Ouch, mi stai spezzando la schiena! Perché non mi lasci riposare e vai a smaltire la sbornia, mentre rifletti sul mio consiglio?» «Te l’ho già detto, non sono ubriaca! Però sì, voglio andarmene a letto...» Si alzò barcollando, Raduan sospirò di sollievo. «È stato bello parlare con te» biascicò lei «Quanto al resto, ti farò sapere. Buonanotte.» «Anche a te. E non dimenticarti della mia proposta!» «Quale proposta?» Il guerriero mostrò un’espressione smarrita, al che lei rise a squarciagola. «Mi ricordo, mi ricordo, non temere!» Arretrò verso l’uscita, senza smettere di puntargli addosso il pugnale. Aprì la porta con un tacco. «Ci vediamo, mio bel monaco, avrai mie notizie.» «Lo spero.» Tasha gli soffiò un bacio, uscì, e si sbatté la porta alle spalle. Raduan si erse sulle ginocchia, facendo scrocchiare le vertebre indolenzite. Sorrise, malgrado tutto:

quella serata era stata ben più produttiva delle precedenti. Ora non gli restava che attendere, e scoprire se il seme che aveva piantato avrebbe dato frutto. -----Due giorni dopo, di ritorno dalla spiaggia, Kalis gli indicò la torre. Raduan finse di non capire, quando in realtà aveva contato i minuti nella speranza che accadesse. Percorsero la viuzza sudicia che tagliava la collina tra le case, in leggera salita. Una donna si affacciò da una finestra e gettò in strada un secchio d’acqua sporca. Un bambino seminudo tagliò loro la strada, all’inseguimento di un pollo striminzito, mentre un gruppo di uomini beveva e rideva della grossa, giocando a dadi. Nel complesso, la roccaforte di Namza sembrava più un rifugio di pezzenti e perdigiorno, che un covo di pirati. Giunti ai piedi della torre, Raduan fece una breve pausa per studiarla dal basso in alto. La struttura era stata vigorosa, in ato: i blocchi di pietra erano massicci e ben tagliati, l’architettura tozza e robusta. Scorse lo stemma di una casata nobiliare scolpito nella roccia, talmente corroso dalle intemperie che non riuscì a identificarlo. Decenni prima quella fortezza doveva appartenere a una famiglia della piccola nobiltà, insieme al villaggio e a tutto il circondario. Erano stati Namza e i suoi a scacciarli dalle loro terre, oppure i pirati si erano semplicemente impadroniti della proprietà già abbandonata? Raduan propendeva per la seconda ipotesi. Kalis lo pungolò alla schiena, ricordandogli che non era lì per ammirare il paesaggio. Continuarono a salire, lasciandosi alle spalle la torre diroccata e gli uomini intenti a rimetterla in sesto - prigionieri della “Rosa dei Venti”, come lui. Dietro la torre sorgeva un palazzetto a due piani, anch’esso fabbricato di blocchi di roccia squadrati. Dalla parte bassa del villaggio non l’aveva potuto notare; di certo era l’edificio più lussuoso dei dintorni, la dimora di Namza e della sua volubile sorellina. Tasha li attendeva a braccia conserte, appoggiata a uno stipite. Da come teneva alto lo sguardo, Raduan dedusse che il ricordo di quella notte di ubriachezza non la imbarazzava neanche un po’. «Grazie di avermelo portato, Kalis.» L’uomo annuì, rivolse uno sguardo tagliente ai pirati di guardia al palazzo, e se

ne andò per la sua strada. Tasha elargì al guerriero un ghigno di ribrezzo. «Non ti vergogni, monaco? Presentarti a una signora in questo stato!» Raduan si rese conto di aver le vesti sporche, stracciate, e piene di sabbia. Oltretutto, puzzava come un animale. Finora gli avevano concesso un unico bagno, nell’acqua fredda e salata dell’Oceano. «Non mi trovo qui in villeggiatura» disse. «Puah! Dovrò tapparmi il naso durante la lezione!» Raduan inarcò un sopracciglio. «Namza ha accettato?» «Sì, dopo averlo assillato a morte giorno e notte. Non perdiamo tempo, voglio vedere quel che sai fare. Per di qua.» Attraversò la porta dietro di lei e la seguì lungo un corridoio basso e stretto. Con la coda dell’occhio, notò che un paio di pirati li tallonava. Namza non si fidava del tutto, e faceva bene. Sbucarono nel cortile interno del palazzo. Un tempo doveva essere stato un giardino fiorito, destinato ai atempi della padrona di casa. Oggi non era che uno spiazzo sterrato circondato di erbacce, e abbrutito dalle macerie di un pozzo ricoperte di muschio. «Raduan!» esclamò una voce «Grazie al cielo stai bene!» Il guerriero si voltò e vide il giovane Pryce venirgli incontro con l’allegria stampata in volto. Il ragazzo quasi lo avvolse in un abbraccio, solo la presenza di Tasha lo trattenne. Raduan gli strinse la mano con enorme piacere. Il suo aspetto era migliorato parecchio dall’ultima volta che l’aveva visto. Aveva ripreso colore, sorrideva persino. «Pulcino, vatti a sedere!» sbraitò la rossa «Ti ho dato il permesso di restare a guardare, non di farci perdere tempo!» «Sì, Tasha» rispose Pryce, senza guardarla negli occhi. Rivolse un altro sorriso a Raduan, poi tornò a sedere su una panca di pietra

nell’unico angolo in ombra del cortile. I due pirati che li avevano seguiti fin lì si appoggiarono spalle al muro, le armi bene in vista. Avevano l’aria scocciata, forse pensavano ai loro compagni che a quell’ora stavano bighellonando e giocando a dadi giù al villaggio. «Allora, cominciamo?» esclamò Tasha. Invitò Raduan a spostarsi al centro del cortile, e si piazzò in postura difensiva, con le braccia davanti al corpo, senza nessuna arma in vista. «Mi sono informata, sai? Corpo a corpo: equilibrio, colpo d’occhio, ecc. Ti avviso: non ti darò vita facile come quei fannulloni giù alla spiaggia!» Il guerriero sorrise suo malgrado: in altre circostanze la ragazza gli sarebbe stata simpatica. «Vediamo se dici il vero, o se parli tanto per parlare.» Le riservò lo stesso trattamento degli altri, senza favoritismi, e dovette ammettere che la ragazza aveva la fibra dura. Sembrava una versione più giovane, e se possibile più spudorata, di Kyra. Cominciarono dalle mosse semplici, per poi are ad alcune prese più elaborate. A tratti si sentiva a disagio: il contatto tra il suo corpo sudato e quello snello e profumato della ragazza era inevitabile. Cercò di ridurre al minimo l’attrito, ma sembrava che lei fe il contrario di proposito. Che ancora non le fosse ata la voglia di giocare con lui? Pryce li osservava a labbra strette. I suoi occhi saltavano dall’uno all’altra con lampi di preoccupazione. Quando Tasha perse l’equilibrio e Raduan le crollò addosso, il ragazzo si lasciò sfuggire un gemito, che subito cercò di mascherare con un colpo di tosse. Tasha balzò in piedi ridendo, e si scrollò la polvere di dosso. «Un attimo di pausa, monaco, per favore! Il tuo fetore mi sta soffocando!» Pryce sospirò di sollievo nel constatare che non si era fatta nulla. «E tu cos’hai da sorridere in quel modo, eh Pulcino? Pensi che sia facile?»

«No, per niente, anzi...!» «Adesso ti insegno io!» Lo sollevò di peso dalla panca e lo abbrancò in una stretta violenta. Pryce divenne rosso come un pomodoro maturo, di certo non solo per la mancanza di fiato. La ragazza, con una risata, gli fece lo sgambetto e lo buttò a terra, poi gli balzò sopra e prese a tempestarlo di pugni scherzosi sulla testa. Lui non si lamentò neppure, pareva estasiato di averla tanto vicino a sé. Raduan scosse la testa e sorrise. Tasha lo trattava come una specie di fratello minore, ma poteva giurare che dal punto di vista di Pryce le cose fossero ben differenti. Adesso si spiegava quel cambiamento repentino nello stato d’animo del giovane, a così poca distanza dalla tragedia che l’aveva investito. Per un ragazzo della sua età, non esisteva al mondo forza più irresistibile dell’amore. E l’amore cura tutte le ferite, anche le più profonde. «Sme-smettila, mi fai male!» «Reagisci, codardo! Reagisci!» «Basta, per favore!» Li lasciò scherzare ancora un po’. Lui stesso aveva bisogno di una pausa. E di riflettere sulla brillante idea che era sbocciata nella sua mente.

Nel cuore di ghiaccio della tormenta, il Guardiano sognava. Le immagini germogliavano come fiori dagli abissi oscuri del suo pensiero, senza che potesse opporvisi. Nel sogno, vide se stesso davanti alle porte della Valle, in compagnia dell’Angelo - così simile a lui, eppure così differente. Avvertiva il suo profumo, la sua dolcezza. Poi giunsero in cinque, affamati di gloria e ricchezze. Li esortarono a rinunciare, poiché non c’era nulla lì, per loro. Uno soltanto udì e comprese. Tentò di dissuadere i compagni, ma essi non gli diedero ascolto. Provò a fermarli, ma essi lo percossero e lo abbandonarono nella neve, in fin di vita. Stolti esseri umani: erano morti tra i lamenti, trafitti dalle sue lame e da quelle dell’Angelo. Soltanto il sopravvissuto si guadagnò il diritto di procedere. Uno ogni cento anni ci riusciva, non con il potere delle armi, ma con la purezza del proprio cuore. L’Angelo curò le sue ferite. Gli mostrò i simboli, tracciandoli nella neve. L’uomo capì che erano la chiave. Quando la porta si aprì per lasciarlo are, né lui né l’Angelo seguirono i suoi i. Fu l’ultimo, prima che... Prima che... Il Guardiano si riscosse, finalmente sveglio. Tornò ad attendere, immobile sotto lo spesso manto di neve. Non c’era nessun ‘prima’, soltanto il presente.

Se solo la Dama fosse venuta a dargli ristoro...

XVIII - Vecchi Amici

Quando avvistò la sagoma di Sostar in lontananza, Dorian avvertì un’ondata di sollievo attraversargli il corpo - in particolar modo le cosce e il fondoschiena massacrati dall’interminabile cavalcata. Aveva perso il conto dei giorni ati in sella, dopo la rocambolesca fuga dalla città di Rutan e dall’abbraccio mortale dei Figli della Notte. Peccato doversi accomiatare con tanta urgenza, senza neanche il tempo di rintracciare Temar e ripagarlo dei bei momenti trascorsi tra le grinfie degli stregoni! Forse era stato meglio così: quante volte in ato il suo dannato temperamento l’aveva spinto a cacciarsi nei guai senza un vero motivo, quando poteva semplicemente voltare le spalle e lasciar perdere? Si terse il sudore dalla fronte e aguzzò la vista per meglio distinguere le forme della capitale, stagliata sullo sfondo delle immani montagne innevate della Catena di Hamlet, all’orizzonte. Da quella distanza non poteva certo riconoscere le migliaia di giardini fioriti che adornavano vie, piazze e palazzi, e che erano l’orgoglio dei cittadini, ma individuò senza difficoltà il grandioso segno distintivo del paesaggio urbano di Sostar: due dozzine di immensi edifici a cupola che si innalzavano a distanza regolare lungo i distretti, come uova colossali dal guscio di pietra. Erano la testimonianza di un ato lontano, reliquie di un’epoca che gli uomini avevano ormai dimenticato. Nessuno sapeva con certezza quale fosse il loro scopo originale. Alcuni erano stati in parte riadattati, tramutati in teatri o residenze nobiliari, altri, coperti di rampicanti e nidi d’uccello, erano caduti in rovina, altri ancora erano tuttora sigillati al mondo esterno, e forse lo sarebbero rimasti per sempre. Cosa si celava al loro interno, sotto gli spessi strati delle mura? Dorian rammentò con un brivido la Piramide di Ilterya, e si augurò che nessuno decidesse di ricalcare gli infelici i del Rak. Alla vista di Sostar, venne assalito da un’ondata di nostalgia per la sua vita ata, quando ancora era un soldato dal futuro brillante, il più giovane Capitano della Guardia che la città avesse mai nutrito nel suo seno. Quando fama e ricchezza lo seguivano come un’ombra dovunque andasse.

Quando Susan e Maikon erano ancora in vita. Scacciò il pericoloso pensiero non appena affiorò nella sua mente. Non poteva permettersi distrazioni, non adesso che era tanto vicino alla meta, né poteva lasciar spazio a ricordi che infiammavano il suo istinto omicida e soffocavano la sua ragione. Mettersi a caccia delle sue prede senza uno straccio di strategia sarebbe stato un suicidio. Un piano iniziale in realtà l’aveva già abbozzato, fin dai lunghi giorni trascorsi al capezzale di Kyra, nella capanna dei Cacciatori, quando la sua unica forma di distrazione era quella di montare schemi di vendetta uno dopo l’altro. Avrebbe cercato l’aiuto del suo vecchio amico Loki. L’amico possedeva una villa e ricchi appezzamenti di terra all’esterno della capitale, se le indiscrezioni udite ai tempi dei vagabondaggi con la Compagnia non erano prive di fondamento. Trovarlo era il miglior punto di partenza per la sua missione: Loki non gli avrebbe negato un minimo di ospitalità, né voci fresche su ciò che avveniva in città. Se il suo carattere non era troppo cambiato dai vecchi tempi, poteva persino sperare in un appoggio più concreto. Avanzò al trotto attraverso i campi coltivati, tenendosi alla larga dalla via maestra e dalle truppe di soldati in movimento. I reggimenti in marcia erano l’unico segno tangibile di attività bellica. Per il resto la vita sembrava scorrere pacifica come sempre nella capitale, così lontana dal fronte che la guerra poteva suonare come una ciarla alle orecchie dei suoi abitanti. Dorian raccolse informazioni dai braccianti che incrociò lungo il cammino. Il nome di Loki - Sir Loki, come lo chiamavano - era noto alla maggior parte, e in breve seppe con precisione quale direzione seguire. Le indicazioni lo condussero lungo un viale alberato che attraversava ettari di campi ben coltivati, sino a una sorta di villaggio con tanto di stalle, mercato, forgia, e persino una piccola locanda. Nella movimentata piazzetta, un gruppo di saltimbanchi dagli assurdi costumi multicolore stava mettendo in scena una commedia di gran successo - a giudicare dalle risate. La trama però lasciava a desiderare: un omaccione peloso inseguiva in ogni angolo del palco una masnada di selvaggi e li seppelliva sotto teatrali colpi di clava, accompagnato da una marcetta allegra e dal chiassoso scherno del pubblico. «Cosa rappresentano?» domandò Dorian.

«La mia preferita!» esclamò un uomo, già alticcio a quell’ora del mattino «”Sir Loki il Terrore dei Barbari!”» Dorian scoppiò a ridere: in effetti la scena gli ricordava parecchio le storie udite sul conto del suo vecchio amico, eroe riconosciuto dell’ultima campagna di guerra contro i selvaggi delle Cento Tribù. Il Terrore dei Barbari! Girò il cavallo, senza smettere di sogghignare. Al centro del villaggio sorgeva la ricca dimora di Loki. Più che una villa, aveva l’aspetto di un piccolo castello, con tanto di mura a proteggere il perimetro esterno. Dorian guidò il cavallo verso i robusti cancelli d’accesso, dove una guardia gli venne incontro. Indossava una livrea bianca e nera, adorna della stessa insegna a scacchiera che si ripeteva ogni dieci i sui gonfaloni appesi alle mura: Loki doveva essere molto orgoglioso dei suoi colori. Il guerriero annunciò il proprio nome e si presentò come amico di lunga data del padrone di casa. La guardia annuì, chiamò a sé un collega più giovane e lo spedì alla villa con il messaggio. Dorian lo vide correre lungo il viale d’accesso, attraverso un prato verde dall’aspetto molto curato, e svanire dentro l’elegante edificio a due piani. Lui e la guardia rimasero in attesa in silenzio per lunghi minuti, finché non udirono un trambusto di urla e improperi proveniente dalla porta della villa, seguito dal messaggero in corsa a testa bassa. Un omaccione comparve sulla soglia e si diresse al cancello ad ampi i, traballando sotto il proprio peso. Per un attimo Dorian pensò che qualcosa fosse andato storto, che l’amico l’avesse dimenticato, o peggio ancora, che non volesse più aver nulla a che fare con lui. Poi, con suo sollievo, l’omone gridò: «Lasciatelo entrare, per tutti gli Dei! Levatevi di mezzo!», e la guardia che gli bloccava il cammino si affrettò a sgusciare via con un inchino e la faccia rossa di vergogna, mormorando una serie di scuse. Dorian avanzò al trotto verso la villa, incontro al gigante zoppicante. Soltanto quando fu a una decina di i di distanza si rese conto con spavento che sì, era lui, Loki! Era cambiato, a dir poco. Nella sua memoria continuava ad essere un imponente guerriero tutto muscoli e criniera al vento, sempre strizzato in un’armatura completa con almeno due armi cinte al fianco. Quello che invece gli veniva incontro a i pesanti era un omone dalla pancia enorme e i capelli radi

spruzzati di grigio, fasciato da sontuosi abiti di seta sgargiante. Due cose soltanto non erano cambiate nel suo aspetto: i fenomenali baffi a manubrio ed il fiero cipiglio. Il guerriero non ebbe che il tempo di smontare da cavallo, che l’amico lo stritolò in un abbraccio poderoso, sollevandolo letteralmente da terra. «Dorian, amico mio! Che sorpresa, che bellissima sorpresa!» «S-sì! Anch’io sono felice di vederti!» Loki lo affrancò dall’amichevole morsa, lasciandogli riempire i polmoni d’aria fresca. «Però, ti trovo rimpicciolito! Cos’è successo, è l’età che avanza o hai smesso di fare esercizio?» «Che faccia tosta!» rise Dorian, dandogli una manata sul ventre prominente «Tu invece ti eserciti parecchio, a tavola!» Loki scoppiò in una risata roboante: «Che ci vuoi fare, mi godo i frutti del mio duro lavoro!» «Beh, ne hai fatta parecchia di strada: una villa, terre, guardie in uniforme...» «E non dimenticare il villaggio, è tutta roba mia! Ma che mi dici di te? Hai accumulato soldi, terre, bestiame?» «Lo vedi questo cavallo?» «Sì: bruttino, e prossimo al collasso.» «È tutto quello che ho.» Loki strabuzzò gli occhi, poi rise più forte di prima. «Sei veramente un bel tipo, caro Dorian! Ma accidenti a me, che ci stiamo a fare qui in piedi al sole? Devi essere stanco per il viaggio. Perdonami se quei dannati incapaci ti hanno fatto attendere» e nel dire ciò, sventolò un pugno in direzione delle povere guardie «In tempi normali la mia casa è molto più ospitale di così,

te lo garantisco! Con la guerra in corso, invece... Dubito che il conflitto giungerà fino alle nostre porte, ma la prudenza non è mai troppa. Su, vieni, entriamo!» Fece un fischio, e uno stalliere accorse a prendersi cura dello stanco destriero di Dorian. Poi Loki lo prese sotto braccio e lo trascinò di peso verso casa, senza smettere un attimo di cicalare su come fosse felice di rivederlo e quante cose avessero da raccontarsi. Mentre percorrevano il viale perfettamente curato, due maschietti e una femminuccia dai capelli biondi sbucarono di corsa da un cespuglio e tagliarono loro la strada, incespicando sui piedi di Dorian. Loki cercò di rifilar loro uno scapaccione al volo, ma i tre furono più svelti e se la svignarono. La bambina si girò e fece loro una boccaccia, prima di svoltare l’angolo dietro gli altri due. «È tutta sua madre!» sbraitò Loki «O è figlia di quell’altra? Bah! A volte perdo il conto...» Dorian scoprì così che l’amico era padre di ben quattordici figli, avuti da cinque mogli differenti, senza contare una ricca prole di illegittimi sparsi per il villaggio e le terre circostanti. Quando vide la sua faccia sbalordita, Loki rise e gli rifilò una tremenda pacca sulle spalle. Dentro la villa la decorazione era ancor più sontuosa di quella esterna, anche se fin troppo carica ed esagerata, indizio di un’ostentazione pacchiana. Tenne ovviamente per sé le sue prime impressioni, ammirò scalinate di marmo, coppe, busti e ghirlande con espressione entusiasta, e si complimentò più volte col padrone di casa per i gusti raffinati. «Non è niente di che, amico mio, niente di che!» si schermì Loki, mentre il luccichio d’orgoglio nei suoi occhi diceva l’esatto contrario «Vieni, accomodiamoci nella sala. Tu, preparaci una bevanda fresca» ordinò a una serva in attesa «E non scegliere la frutta troppo matura, non voglio una marmellata!». La serva scomparve con un inchino. Entrarono in una sala opulenta oltre ogni buon senso, tappezzata di soffocanti tende di velluto e fastosi arazzi rosso-dorati, inondata dalla luce di un finestrone che dava sul giardino interno della villa. Questo sì lasciò Dorian a bocca aperta, con il suo squisito intreccio di siepi, cespugli fioriti ed alberi da frutta. «È la ione della mia ultima moglie» spiegò Loki «Eccola là! Non è uno spettacolo?»

Indicò una giovane bionda dalle curve prosperose, intenta a potare un cespuglio di rose. Quando li vide, la donna si raddrizzò e li salutò con un allegro gesto della mano. Nell’angolo più in ombra della sala, due giovani barbuti, identici di aspetto, sedevano ai lati opposti di una scacchiera, impegnati in una disputa silenziosa. Che avessero udito o meno il loro arrivo, non diedero segno di aver notato la loro presenza. «Scusami un attimo» sibilò Loki. In due i raggiunse il tavolino e rovesciò a terra con una manata la scacchiera con tutte le pedine. «Padre!» si lamentò uno dei giovani, con sguardo offeso. «Proprio oggi che stavo vincendo!» imprecò l’altro. «Brutti mangiapane a tradimento, lo sapete che ore sono? Credete che i campi si sorveglino da soli? O avete tanta fiducia nei braccianti che non c’è neanche bisogno di scomodarvi a uscire?» I gemelli chinarono la testa in un silenzio imbarazzato, finché uno osò aprir bocca: «È gente in gamba, padre, non credo che ogni giorno sia necessario...» «Fuori di qui! Adesso!» urlò Loki, imbestialito. I due scattarono in piedi come molle e inciamparono l’uno addosso all’altro nella foga di sparire. Riuscirono persino a rivolgere un cenno di saluto a Dorian mentre schizzavano fuori dalla sala. «Inetti!» sbraitò Loki «Che gli Dei mi perdonino, ma vorrei proprio sapere come ho fatto a procreare creature tanto avverse al lavoro! E lo stesso vale per i loro fratelli e sorelle! Sembra proprio che nascere nel lusso non faccia bene allo spirito, eh Dorian? Non come noi, che abbiamo dovuto sudarcela la pagnotta! Sediamoci, abbiamo tante cose da raccontarci!» Si accomodarono su un divano enorme, Dorian quasi sprofondò nella ricca

imbottitura di piume. arono i minuti successivi a scambiarsi pacche sulle spalle e a ridere ad alta voce di futili argomenti, mentre sorseggiavano da coppe d’argento la fresca spremuta portata dalla serva. Ma quando il buonumore iniziale si raffreddò, Loki tacque ed il sorriso svanì dalle sue labbra. Rivolse a Dorian uno sguardo improvvisamente pieno di rimorso. «Non pensavo che un giorno ti avrei rivisto» mormorò. Dorian annuì, serio. «Ti chiedo perdono dal profondo del cuore» continuò l’altro «Se solo potessi tornare indietro, Dorian...» Il guerriero lo interruppe con un gesto della mano. «Loki, non ce n’è bisogno... davvero. Lascia che mi goda quest’attimo di pace senza rivangare tristi ricordi. Anzi, facciamo così: visto che ciascuno di noi vuole sapere cos’è successo all’altro in tanti anni di separazione, perché non cominci tu?» Abbracciò l’intera casa con un ampio gesto delle braccia. «Se non altro la tua storia è a lieto fine!» Loki assentì, ancora turbato. «Va bene, facciamo pure così. Anche se la mia storia ha inizio proprio quando... Quando tu sei dovuto sparire...» Ricordi indesiderati invasero la mente di Dorian: la sua caduta in disgrazia, le accuse infondate, l’assassinio della moglie e del figlioletto ad opera del maledetto Hiram... «Se solo ti avessi appoggiato fino all’ultimo!» gemette Loki, prendendosi la testa tra le mani. «Saresti diventato un esule come me, nel migliore dei casi» affermò Dorian «O forse un cadavere galleggiante in un canale della città. No, Loki, hai fatto fin troppo. Sei stato l’unico a credere in me e a non ripudiarmi quando Hiram ha messo in giro le sue sporche menzogne. Solo tu sei rimasto vicino alla mia famiglia.» Loki sferrò un pugno al divano, che attutì il colpo.

«Tu eri il nostro capitano, il migliore che la Guardia abbia mai avuto! Se fossimo rimasti uniti non sarebbe accaduto nulla di male! Perché quegli spregevoli topi di fogna ti hanno voltato le spalle?» Per invidia, per odio, per corruzione, avrebbe potuto rispondere Dorian, ma non lo fece. «Avevano paura» disse «e anche tu avresti fatto bene ad averne. Ma suppongo che il concetto non sia mai entrato in quella tua testaccia dura, vero?» Loki si permise l’ombra di un sorriso. «E dimostrare di esserti da meno? Nossignore!» «Eri l’unico in grado di tenermi testa. Chiunque nella Guardia ti rispettava. Avresti potuto pronunciare una parola, e il titolo di capitano sarebbe stato tuo.» «Se te l’avessi soffiato onestamente, per merito mio, allora sì, l’avrei fatto, e mi sarei goduto l’espressione di sconfitta sul tuo volto. In quel modo, però, neanche pensarci! Dannato vigliacco di un Principe! Spero che non ci conduca alla rovina, ma mi auguro con tutto me stesso che una freccia vagante trovi il bersaglio nel suo cuore putrido!» «Così sia» convenne Dorian, anche se dentro di sé sperava di poterglielo strappare con le sue proprie mani, il cuore. «Per quanto insistessi sulla tua innocenza, nessuno mi prestò orecchio» continuò Loki «Misero in giro la voce che ero un traditore come te, tanto che fui costretto a rintracciare i colpevoli e a spaccare un po’ di teste. Il nuovo capitano, quel verme immondo, non ne fu affatto felice: alla prima occasione mi tolse i gradi e mi spedì a Nord, sul fronte, in prestito all’esercito. Sperava che i barbari mi fero fuori alla prima occasione, ne sono certo. Ma ho la pelle dura, come sai. Cinque anni dopo ero ancora in piedi, e delle Cento Tribù soltanto una decina erano sopravvissute alla mia furia!» Dorian sorrise alla battuta: “Cento Tribù” era il nome che i barbari si attribuivano per ostentare il potere della loro grande nazione nomade, priva di stati e città. All’epoca dei fatti narrati da Loki, le tribù premevano contro i confini del Regno con la forza di mille e più. «Lungo gli anni ho udito narrare attorno al fuoco più di una leggenda sul “Terrore dei Barbari” e sull’”Orso Sterminatore delle Montagne”» commentò

Dorian con un mezzo sorriso. «Bah, nomignoli! Ma devo ammettere che ne ho fatte di cotte e di crude, con quei poveri selvaggi. Verso la fine, non avevo neanche bisogno di combattere: bastava mostrare la mia brutta faccia, che quei codardi se la davano a gambe!» «È stato in gran parte merito tuo, a quanto dicono, se i barbari sono stati ricacciati dietro le montagne, e le pianure restituite ai legittimi padroni. Hai fatto grandi cose.» Loki abbassò lo sguardo, meno compiaciuto di quanto Dorian si aspettasse. «Ho fatto grandi cose e ne ho fatte di terribili, azioni ignobili che popolano i miei incubi. La guerra è una faccenda sporca, non importa da che lato tu combatta, lo sai bene quanto me. Comunque sì, lungo gli anni mi sono conquistato una certa fama, non del tutto immeritata.» «Finché hai deciso di tornare...» «”Deciso” è una parola forte, amico mio. È vero che avevo moglie e figli qui ad attendermi, è anche vero che mi mancavano i colori della campagna, il calore del sole - che sulla Catena è una vista rara, maledette siano quelle nubi sempre cariche di pioggia e neve! Il fatto curioso è che venni richiamato a Sostar giusto prima che gli alti gradi dell’esercito mi promuovessero a generale. Ordine esplicito di Sua Maestà il Principe, mi dissero.» Dorian fece una smorfia, senza interromperlo. «Non nego che sia stata una mossa astuta, da parte sua. Aveva almeno tre valide ragioni per volermi vicino a sé, a corte: tenermi d’occhio, impedirmi di conquistare ulteriore fama al fronte, nonché obbedire alle pressioni politiche di quel branco di cani rognosi che si fanno chiamare nobiltà, sempre accucciati ai piedi del trono in attesa di un osso succulento. Non hai idea dello spettacolo vergognoso che ho dovuto sopportare al mio ritorno a Sostar: quei cani mi contendevano come una bambola di pezza, ciascuno volendo assicurarsi l’appoggio del celebre eroe militare per conquistarsi il favore del popolo!» «E tu come hai reagito?» Loki diede una scrollata di spalle:

«Tutto quel che volevo, dopo anni ati a combattere, era restarmene in pace con la mia famiglia e far fruttare il bottino conquistato in battaglia. Tutto quel che voleva Hiram, invece, era che me ne stessi fuori dai piedi e non gli intralciassi il cammino col mio ato e con la mia nuova influenza. Così riuscii a strappargli un buon accordo: un modesto titolo nobiliare, accompagnato da terre, uomini e proprietà, in cambio della mia rinuncia ufficiale a proseguire nella carriera militare - che mi stava rendendo un uomo troppo potente e pericoloso per i suoi gusti.» «Una scelta intelligente» approvò Dorian. «Da quando Hiram cominciò a dimenticarsi della mia esistenza, ho messo su un piccolo regno tutto mio, come hai potuto vedere. Non ti nascondo che mi riempie d’orgoglio: ho creato sicurezza e prosperità per la mia famiglia e per tutta la mia gente, sono amato e rispettato, e - stupida guerra permettendo - mi sono assicurato un futuro di agi e tranquillità.» Si guardò i piedi. «Eppure, per quanto ami la mia famiglia e le mie ricchezze, per quanto cerchi di convincermi di aver fatto la cosa migliore per tutti... A volte mi sveglio al mattino e le mie conquiste mi paiono prive di valore, come se non le avessi veramente meritate. Il ato mi brucia dentro, capisci?» Rivolse a Dorian uno sguardo pieno di angoscia. «Sono sceso a patti con Hiram proprio quando ero nella miglior posizione per attaccarlo e fargli pagare tutto il male causato a te, alla tua famiglia, alle innumerevoli vittime della sua follia! Se potessi tornare giovane, cavalcherei su Sostar in testa agli eserciti del Nord, piegherei quei nobili codardi alla mia volontà, e deporrei con la forza il maledetto parassita che siede sul trono!» Si abbandonò sul divano, con le mani tra i capelli. «Ma è troppo tardi, non si torna indietro.» Dorian si sporse a stringergli una spalla, per comunicargli la sua comprensione. «No, amico mio, non si torna indietro, e soltanto gli Dei sanno quanto anch’io vorrei farlo.» Fece una pausa, poi stirò le labbra in un sorriso. «Nel tuo caso, tuttavia, credo di poterti aiutare a regolare i conti.» Loki si raddrizzò, incuriosito dalla luce negli occhi di Dorian. «Conosco quello sguardo... Cos’hai in mente?»

Il guerriero si guardò attorno, appurando che non ci fossero altre orecchie in ascolto. «Prima che cominci a parlare, giuri di tenere per te quanto udirai, e di non farne commento ad anima viva?» «Puoi contare sulla mia lealtà e sulla mia discrezione, come sempre» ribatté Loki con voce offesa «Come puoi dubitarne?» «Scusami, amico. È... complicato, e ci sono grandi poteri in gioco, poteri con cui forse non vorrai aver a che fare. Per questo prima di chiedere il tuo aiuto ho bisogno che tu conosca l’intera storia, dall’inizio alla fine. Poi deciderai di conseguenza.» Non era l’unica ragione: da mesi attendeva l’occasione di liberarsi di quel fardello con una persona di fiducia, e Loki era il candidato perfetto. Appena pochi giorni prima aveva fatto un resoconto simile a Zontar, ma col Saggio non era la stessa cosa: per quanto avesse fede in lui, si trattava di un personaggio potente, un politico, un uomo con cui era bene misurare le parole e filtrare i fatti. Con Loki era tutto diverso. Si sentì profondamente grato per essere lì in quel momento, comodo, al sicuro, in compagnia di un amico vero, e quella buona sensazione gli diede la forza necessaria a raccontare tutto. Iniziò dal giorno in cui aveva conosciuto Abel e terminò con il resoconto della fuga da Rutan, senza tralasciare nulla di importante nel mezzo. Quando smise di parlare aveva la gola secca, ed era già pomeriggio inoltrato. Loki fece un fischio di ammirazione, anche se il suo sguardo tradiva una certa tristezza. «Ed io che pensavo che la mia vita fosse stata avventurosa... Hai compiuto imprese davvero incredibili Dorian, incredibili! Eppure sembra che alla fine tu sia sempre destinato a soffrire. Non capisco, non lo meriti affatto.» Dorian alzò il braccio destro e gli mostrò il guanto avvolto da una lieve aura azzurra, per dar credito alle proprie parole. «Ascoltami, Loki. Ho deciso di chiudere questo ciclo di dolore una volta per tutte, non soltanto per me, ma anche per tutti i popoli del Regno. Per riuscirci, però, ho bisogno del tuo aiuto.» Loki assorbì le sue parole a bocca aperta, come ipnotizzato dall’alone luminoso

del guanto. Si riscosse, e fissò Dorian con sguardo deciso. Gli porse il braccio, e l’altro glielo strinse all’altezza del gomito. «Dimmi cosa ti serve, e lo avrai.» «Ne sei certo?» «Qualsiasi cosa, per te. Lo sai.» «Non intendo mettere a repentaglio la tua sicurezza e quella della tua famiglia. Tutto ciò che mi serve sono informazioni.» «Cosa vuoi sapere?» «I Quattro, per cominciare. Sono al servizio di Hiram - o meglio, lui è al loro servizio, senza rendersene conto - per cui devi averli già notati a corte, o devi almeno averne sentito parlare. Mi sbaglio?» «Solo in parte. Se è vero quel che mi hai detto, agiscono in modo molto astuto. Prima di oggi avevo osservato qualcosa di strano, ma mi sfuggiva il quadro complessivo. E dire che ho i miei uomini a corte, tengo occhi e orecchie sempre ben aperti, caso Hiram si ricordi di me all’improvviso e gli venga qualche brutta idea.» «Cosa puoi dirmi, allora?» «Il leader, quello che hai chiamato l’Oscuro, non l’ho mai visto, né ho mai sentito parlare di lui. Lo stesso vale per la donna, Tevani.» «Peccato. E gli altri due?» «Caleb, il mostro di metallo, credo proprio di averlo incrociato una volta nei corridoi del castello. Un incontro del genere è difficile da dimenticare: cosa faresti se ti imbattessi dietro l’angolo in un gigante incappucciato, avvolto da capo a piedi in un manto scuro, con gli occhi ardenti come brace viva? No, non dirmelo! Io mi sono appiattito contro la parete per lasciarlo are, cercando di non farmela sotto. Soprattutto quando ho visto le sue mani. Sì, era lui, ne sono certo.» Dorian annuì, soddisfatto. Per la prima volta riceveva una testimonianza

tangibile dell’esistenza di un secondo fratello di Nahash, oltre a Shem, e questo rafforzava l’intera teoria. «Puoi dirmi altro di lui?» Loki si morse un’unghia. «Non molto. Ho cercato di saperne di più, ovviamente, dopo quello spavento. Tutto ciò che la mia spia a corte ha saputo dirmi, è che quel mostro compare a Sostar a intervalli irregolari, e sempre per pochi giorni di seguito, dopodiché riparte. Si dice che torni a Dekka, ma non posso confermarlo con sicurezza.» Dekka! Dorian rammentò la storia della rivolta, e del supposto scontro tra Kyra e quella creatura. Un altro tassello che andava al suo posto! «Molto interessante... E quanto all’ultimo, Shem?» Il nome gli feriva la lingua ogni volta che lo pronunciava, come un veleno urticante. Loki, invece, sorrise. «Qui potrò esserti molto più utile, amico mio. Pochi conoscono l’esistenza di quel mostriciattolo, ma i bene informati come me sanno che è una presenza costante ai piedi del trono.» «Bene!» esultò Dorian «Sai dirmi quale sia il suo ruolo?» «Sì, purtroppo. Quel soldato morente... Seras? Ti disse che, durante l’assalto a Bezer, Shem era a capo di una piccola forza di guerrieri formidabili, vero? Vestiti di nero, silenziosi e letali?» «È quello che ci ha raccontato.» «Beh, non stava delirando. Shem ha a sua disposizione un formidabile battaglione di soli cinquanta guerrieri - non uno di più, non uno di meno - che lui stesso ha battezzato “le Ombre”. Sono il braccio armato clandestino di Hiram, e obbediscono direttamente a lui. Si occupano delle faccende più... riservate.» Dorian arricciò il naso con repulsione. «Insomma, dei macellai senza scrupoli?»

«Mi hai tolto le parole di bocca. Sono in pochi a saperlo, a Sostar, ma ogni volta che Hiram concepisce una delle sue folli idee, un lavoro sporco che non ammetterebbe mai in pubblico, convoca Shem e le sue Ombre. Non importa che tipo di missione sia, né se coinvolga civili, donne o bambini. Loro obbediscono, senza lamentarsi e senza porre domande.» «È disgustoso.» «Conosci il nostro beneamato Principe meglio di me, da questo punto di vista. E adesso che, grazie a te, so tutta la storia, posso interpretare le cose da un’altra prospettiva: è davvero Hiram che dà gli ordini, o è lo stesso Shem che glieli inculca nella mente, per poi eseguirli come intendeva fin dall’inizio?» Dorian appoggiò il mento sulle mani, pensieroso. «Temo che sia proprio così, Loki. Può darsi che ogni tanto tolgano qualche sfizio al Principe, per tenerselo buono, ma sono pronto a scommettere che gli ordini di un certo peso provengono direttamente dalle labbra dell’Oscuro.» Tacquero entrambi per qualche istante. Dall’esterno, giunsero alle loro orecchie le grida degli instancabili bambini, impegnati a correre e giocare fin dal mattino. «Dorian» disse Loki, rompendo il silenzio «So a cosa stai pensando: come fare ad avvicinarti a Shem, abbastanza da conficcargli un pugnale in gola?» «Proprio così. Con le Ombre sarà ancor più difficile di quanto pensassi.» «E invece saranno proprio loro a offrirti l’occasione buona» sorrise Loki. «In che senso?» «Come ho detto, le Ombre hanno un numero fisso di cinquanta elementi: non so quale sia la ragione, se si tratti di una questione pratica o di una semplice scaramanzia. Fatto sta che quando un’Ombra a a miglior vita, è subito indetta una selezione per trovarle un sostituto. Si tratta di un gruppo elitario, oltre che estremamente segreto, quindi l’accesso alle selezioni non è aperto a tutti. Soltanto una ristretta cerchia di nobili è a conoscenza dello svolgimento di questi eventi, e soltanto loro hanno il diritto di proporre dei candidati.» Dorian cominciò a capire dove Loki volesse arrivare.

«Tu fai parte di questo gruppetto?» «No di certo, anzi. Hiram mi farebbe fuori se sospettasse che ne so qualcosa.» «E allora come faremo, ammesso che tu sia arrivato alla mia stessa conclusione?» «Più di un nobile mi deve dei grossi favori, e uno di loro fa giusto al caso nostro. Sono certo che non mi negherà un favoruccio come questo, e che saprà tenere la bocca chiusa, per il proprio bene.» Dorian sorrise: un piano concreto stava infine prendendo forma, e molto prima di quanto osasse sperare! «Quando avverrà la prossima selezione?» chiese. «Tra quattro giorni: dieci o quindici candidati per due posti liberi. Conoscendoti, direi che hai ottime chance.» «Di certo la mia motivazione non teme confronti.» Loki esitò un istante. «Sei davvero certo di volerlo fare? Una volta là dentro non ci sarà modo di tornare indietro.» Dorian si incupì. «È l’unico obiettivo che mi resta nella vita. Vada come vada, non chiedo che un’opportunità.» «Va bene.» annuì Loki «Stasera stessa invierò un messaggero. Nel frattempo sarai mio ospite, farò in modo che arrivi al giorno della selezione rinvigorito e pronto alla lotta.» «Lo sarò!» Finalmente si alzarono dal sofà, dopo un’intera giornata di conversazione serrata. Loki mandò a chiamare un servo, che mostrò a Dorian il suo alloggiamento, dotato di una sala da bagno privata e di tanti piccoli lussi che non

sperimentava da anni. C’era persino uno specchio. Si trovò invecchiato, ma allo stesso tempo indurito. Aveva lo sguardo di chi non teme più nulla dalla vita, e il fisico tornito di un uomo di vent’anni più giovane. Il tempo ato a Draslund non era andato del tutto perduto. Per quanto soddisfatto della sua propria figura, si rese conto che era meglio non mostrarla troppo in giro, tanto in virtù delle vicende ate, quanto per la sua recente fuga dai Figli della Notte. Se l’avessero riconosciuto per strada nel momento meno opportuno, addio vendetta, addio tutto. «Sì, dei cambiamenti saranno necessari» pensò, andosi una mano nella folta criniera biondo cenere.

XIX - Le Ombre

Quando gli ordinarono di fermarsi, Dorian obbedì all’istante. Cercò di scoprire la propria ubicazione, riesaminando i suoni uditi durante lo scomodo viaggio nel carro: il vociare dei bottegai, lo sbatacchiare dei cerchi delle ruote sul selciato di pietra, i latrati dei cani randagi, a tratti la musica di un liuto... Erano dentro le mura della città, ma dove? Avvertì due mani che afferravano la benda e gliela strappavano dagli occhi, senza alcuna delicatezza. Sbatté le palpebre un paio di volte per assuefarsi alla luce e si guardò attorno: si trovava in un ampio patio rettangolare delimitato su ogni lato da altissime mura verticali. Accanto a sé, allineati a due i di distanza l’uno dall’altro, vide una dozzina di uomini e una donna. Erano seminudi, come lui, e studiavano i dintorni con la stessa aria intimorita. «I miei concorrenti» pensò, sfiorandosi i capelli tagliati cortissimi, a spazzola. Sfoggiava quella nuova pettinatura già da un paio di giorni, ma non si era ancora abituato. Del resto erano almeno dieci anni che portava i capelli lunghi fino alle spalle. Della barba incolta aveva conservato soltanto il pizzo, e anche quello gli dava il prurito. Sentì una punta di tensione al constatare che tutti gli altri candidati erano più giovani di lui, e due o tre anche più prestanti. Indossavano tutti un imbarazzante perizoma ed erano a petto nudo - tranne la donna, che aveva il seno fasciato da una striscia di tessuto. Quanto a lui, grazie ai sotterfugi di Loki e all’influenza del suo nobile debitore, si era fatto un piccolo strappo alle regole: gli era permesso indossare un paio di leggeri guanti di tessuto, lunghi fino al gomito. La ragione ufficiale era una supposta malattia della pelle, che gli impediva di esporre mani e avambracci ai raggi del sole; la vera ragione era, ovviamente, celare la presenza del guanto di Abel. Lanciò un’occhiata d’insieme agli spalti, in alto sopra le loro teste: decine di guerrieri mascherati e vestiti di nero da capo a piedi erano schierati a braccia

conserte lungo l’intero perimetro delle mura, intenti a fissarli con morbosa insistenza. Dorian intuì che se li avesse contati, la somma avrebbe dato quarantotto, l’attuale numero delle Ombre. Ci fu del movimento improvviso, la fila di guerrieri si aprì per cedere il o a due figure. La prima era magra e riccamente vestita, la seconda bassa e ripugnante, avvolta in un sudicio manto nerastro. Quando li riconobbe, Dorian pregò che il guanto non si incendiasse contro la sua volontà, facendogli saltare la copertura. Altri non erano che Hiram e Shem, gli uomini che più odiava al mondo! Il primo, che non vedeva da anni, aveva mantenuto la sua aria efebica e arrogante, sottolineata dal naso perennemente rivolto al cielo. Da quella distanza non poteva distinguere i suoi occhi, ma di certo erano gli stessi di sempre: acquosi, sfuggenti, una finestra aperta sulla sua anima di vigliacco traditore. Shem corrispondeva alle descrizioni fattagli dal moribondo Seras e dall’Addestratore di Serpenti: un nano malevolo dalla schiena piegata a uncino, la deformità del volto appena visibile dentro al cappuccio che per grazia divina risparmiava ai presenti l’orrido spettacolo delle sue fattezze. Mentre Dorian li trafiggeva con lo sguardo, Hiram esaminò il patio con occhi sprezzanti, senza soffermarsi su nessuno dei candidati. Si chinò a sussurrare qualcosa all’orecchio di Shem, poi girò le spalle e se ne tornò da dov’era venuto. Shem batté un paio di volte le mani, troppo grandi rispetto al corpo. Non disse nulla, non ce n’era bisogno: era il segnale che la selezione aveva inizio. Due Ombre si sporsero dal parapetto, sul lato del patio più distante da loro, e rovesciarono giù una massa di oggetti. Durante la caduta libera gli oggetti si dispersero, per poi schiantarsi al suolo e spargersi nel raggio di una decina di i. Dalla foggia e dal riflesso del sole sul metallo, Dorian giudicò che fossero scudi, cinque o sei in tutto. Si stava chiedendo a cosa servissero, quando le sue orecchie captarono un suono che avrebbe fatto rizzare i peli sulla nuca a qualsiasi soldato: corde di archi che si tendevano. Molti archi. Senza più farsi domande, scattò verso gli scudi. Gli altri lo seguirono con qualche attimo di ritardo, alcuni con la sua stessa intuizione, gli altri semplicemente per non restare indietro. Le frecce cominciarono a volare un

istante dopo, e subito si levò un grido di dolore. Dorian, lo sguardo fisso sull’obiettivo, corse con tutto il fiato che aveva in corpo, ma non in linea retta: doveva complicare la vita agli arcieri, se voleva sopravvivere. Decise anche di rallentare un poco, per farsi raggiungere dagli altri concorrenti: era vantaggioso correre in gruppo, protetto dai corpi altrui, piuttosto che offrire un comodo bersaglio solitario. Vide l’uomo alla sua destra crollare con un gemito, l’asta di una freccia conficcata tra le costole. Dietro di lui, un altro franò a peso morto sui suoi talloni, quasi trascinandolo con sé nella rovinosa caduta. Altri avevano messo le ali ai piedi e lo stavano sorando. Gli scudi erano vicini, ma non ce n’era abbastanza per tutti, doveva accelerare! Gemette di fatica, ordinando al proprio cuore di pompare più sangue nelle gambe. Tagliò a destra verso lo scudo più lontano, per evitare la zuffa che stava già prendendo piede nel mezzo. Per sua sfortuna un avversario ebbe la stessa idea, e finirono per ghermire lo scudo nello stesso istante, sui due bordi opposti. Entrambi tirarono con forza, cercando di strappare all’altro quel sottile strato di metallo che poteva significare la differenza tra la vita e la morte. Ad un tratto, guidato da un istinto quasi soprannaturale, Dorian lasciò la presa e si buttò a terra. Subito due frecce fendettero l’aria dove istanti prima c’era la sua schiena, per andare a conficcarsi nel petto del suo avversario. Con gli occhi spalancati per lo stupore, l’uomo mollò la presa e si accasciò al suolo, già privo di vita. Dorian rotolò avanti e si accovacciò sotto lo scudo, nel disperato tentativo di proteggersi da tutti i lati. Ad ogni freccia che colpiva il metallo, la spalla gli collassava all’indietro per l’impatto, finché dovette usare tutte e due le braccia per resistere. La pioggia mortale proseguì per un lungo minuto almeno, portandosi via tra urla e lamenti più della metà dei candidati. Quando cessò, Dorian alzò lo scudo e si guardò attorno: erano rimasti in sei, nell’angolo del patio crivellato di dardi. Osservò il proprio scudo: sembrava un puntaspilli, tante erano le aste di freccia infisse nella superficie di legno e metallo. Non ebbe neanche il tempo di recuperare il fiato, che di nuovo un gruppetto d’Ombre si affacciò sul parapetto più distante degli spalti. «Ancora!» gemette uno dei superstiti.

Questa volta il contenuto dei sacchi che vuotarono nel patio era ben più variegato: armi! Spade, asce, mazze, di tutto un po’, le forme ostili rilucenti sotto i raggi del sole. I sei ripresero a correre. Dorian fu l’ultimo a scattare, perché preferì conservare lo scudo, nonostante il peso. Superata la metà del percorso, visto che gli arcieri non sembravano voler riprendere il loro gioco crudele, decise di trovare un altro uso per quel peso morto. Accelerò sino ad affiancare il corridore più vicino, che si voltò a guardarlo col volto rosso di sudore. «Senza rancore!» esclamò Dorian, mentre gli scagliava lo scudo tra le caviglie. L’uomo crollò a terra tra orribili imprecazioni, mangiando la polvere. Invece di rimettersi a correre, restò dov’era a lamentarsi e ad insultare gli avversari a gran voce. Una freccia scagliata dall’alto lo mise a tacere per sempre. Dorian guardò avanti, cercando di non sentirsi troppo in colpa: ne restavano soltanto quattro davanti a lui. Spremette a fondo l’energia che gli rimaneva nelle gambe, recuperò una, due posizioni. Stava già valutando le armi più vicine, indeciso sulla scelta, quando il suo sesto senso lo salvò ancora una volta: dinanzi a lui era comparsa una fascia di terra smossa, niente di speciale, ma abbastanza per fargli cambiare direzione all’ultimo momento. L’avversario che correva alle sue spalle tirò dritto per risparmiare tempo, infilandosi a rotta di collo nella zona sospetta. Vi fu il secco clack di un meccanismo che scattava come una grossa trappola per topi, poi un’asta di ferro dalla punta affilata schizzò fuori dal suolo e si conficcò nello stomaco del disgraziato, inchiodandolo a terra. Con la coda dell’occhio, Dorian vide un altro concorrente mettere un piede in fallo e piombare in una buca occulta con un prolungato lamento. Fece una smorfia, quando udì il suono nauseante dei pali affilati che si infilzavano nella carne, e il breve grido di agonia del condannato. Continuò a correre con un occhio fisso sugli avversari e uno sul terreno. La donna era di gran lunga la più veloce del gruppo, tanto che aveva già raggiunto il mucchio d’armi. Accanto a sé, Dorian vide un colosso dalla pelle d’ebano - il terzo e ultimo sopravvissuto - che stava guadagnando terreno. «Una spada» pensò «Devo trovare una spada!»

Per poco non vide la punta di lancia che la donna gli mulinava contro, e che dovette schivare con un balzo all’indietro. Gli occhi di lei erano quasi invisibili sotto l’enorme frangia di capelli corvini, ma il sorriso contorto che aveva stampato sulle labbra la diceva lunga sulle sue intenzioni. Incalzò Dorian con una serie di rapidi affondi, lo costrinse ad arretrare sempre più lontano dalle armi. «Maledizione!» inveì il guerriero, quando vide il colosso sollevare da terra con una sola mano una mazza dall’aria pesantissima. «Che aspetti?» gli urlò la donna, con voce velenosa «Fallo fuori, non vedi che è disarmato?» Il gigante la guardò, poi guardò Dorian, infine diede una scrollata di spalle e gli andò incontro: la logica della donna era convincente. Dorian sentì che le cose si mettevano male: da solo, disarmato contro due avversari, e a corto di fiato. Non aveva scelta, avrebbe dovuto usare il guanto per salvarsi la vita, e poi dirigerlo contro Shem nella flebile speranza che andasse a segno, prima di essere crivellato dai dardi degli arcieri. Alzò lo sguardo: il maledetto se ne stava là tranquillo, si godeva la loro sofferenza senza neanche immaginare cosa lo aspettasse... Maledizione! Era troppo lontano da lui, troppo protetto dalle Ombre! No, non poteva sprecare così la sua occasione! Doveva sopravvivere con ogni mezzo, a mani nude se necessario. Come un predatore messo all’angolo da un cacciatore, fissò gli occhi in quelli dell’energumeno in avvicinamento, trasmettendogli tutta la sua rabbia glaciale. Ne avrebbe fatti fuori cento come lui, se necessario, pur di mettere le mani su Shem! Il gigante, che stava transitando accanto alla donna, rallentò il o: era un guerriero esperto, riuscì a fiutare il pericolo che emanava da Dorian in una serie di impalpabili ondate di energia combattiva. Lesse quello che c’era nei suoi occhi, e si arrestò di botto. La donna, che fino ad allora non aveva smesso di ridere sguaiatamente, lo squadrò con disprezzo. «Perché ti sei fermato, vigliacco?» Il colosso non rispose. Continuava a studiare il volto feroce di Dorian, in cerca di un’apertura che non c’era. ò l’arma da una mano all’altra, incapace di

avanzare. «Idiota!» gli urlò la donna «Ci penso io, codardo che non sei altro, lurido verme, stupido ammasso di...» Con un gesto quasi annoiato, come se avesse improvvisamente deciso di schiacciare una mosca irritante, il colosso sventolò il braccio in un ampio arco e affondò la mazza nel viso della donna, sfondandolo come un guscio di noce. Il cadavere rimase appiccicato all’arma per qualche istante ancora, prima di afflosciarsi al suolo con un raccapricciante suono liquido. Senza una parola, il gigante dalla pelle nera rivolse all’avversario un lieve inchino. I lineamenti del volto di Dorian si rilassarono. A sua volta chinò il capo in segno di riconoscenza. Poi entrambi si rivolsero agli spalti, dove Shem e le sue Ombre li osservavano muti. Il mostro aprì bocca, e per la prima volta la sua voce attutita e sepolcrale - come quella di una mummia che parli attraverso le putride bende che le avviluppano il viso - ruppe il silenzio: «La vittoria è vostra!» Le Ombre si batterono il petto tre volte all’unisono, in celebrazione del loro trionfo. «Siete Ombre, da ora fino al giorno della vostra morte!» dichiarò Shem «Vi attende un futuro di lotta e sangue, un futuro di ricchezze e piaceri degni del vostro status.» Dorian smise di ascoltare. Strinse gli occhi, pensando che sì, il suo piacere sarebbe stato enorme, molto più di quanto Shem potesse immaginare... -----Per la terza o quarta volta da quando avevano intrapreso la marcia notturna, Dorian dovette riaggiustarsi il cappuccio sul volto, allineando i fori sugli occhi e sulla bocca. Bruciava dal desiderio di strapparsi di dosso quella stupida maschera, che gli ostacolava la vista e gli rendeva difficile la respirazione. Come facevano gli altri a sopportarla? Li osservò con odio, quarantanove guerrieri

vestiti di nero dalle falde del cappuccio alla punta degli stivali, che marciavano in file ordinate e silenziose, sfiorando appena la notte con la loro effimera presenza. Shem li precedeva tutti, fantasmagorico e irreale sul suo magico tappeto che lievitava a un metro di altezza da terra, scivolando avanti su un cuscino di puro etere. Ancora una volta Dorian si chiese quali immani scorte di energia fossero necessarie per mantenere attivo un artefatto così poderoso. Quali che fossero le sue risorse, Shem era sempre riuscito a tenerle nascoste. Da una settimana Dorian viveva con le Ombre, si esercitava con loro, spezzava il pane con loro, trascorreva insieme a loro ogni singolo istante dal sorgere del sole fino a quando andava a coricarsi - in genere ben prima di tutti gli altri. In fin dei conti non era stata così dura come aveva temuto: quella delle Ombre non era una vita da caserma, zeppa di regolamenti e intimità forzata. L’élite di guerrieri di Shem occupava una sontuosa villa fortificata nel cuore della capitale, isolata dal resto della città da altissime mura, e ciascuno godeva di una stanza e di un bagno privato. Le aree ludiche della casa erano molte e ricche - giardini, sauna, sala dei banchetti, solo per citarne alcune - e ancor più ricchi e spregiudicati erano i lussi e i piaceri offerti su un piatto d’argento ai cinquanta guerrieri. L’unico obbligo che dovevano rispettare era quello di presentarsi puntuali tre volte al giorno, all’alba, a mezzogiorno e al tramonto, per le dure sessioni quotidiane di addestramento. Dal momento che la convivenza non era forzata, Dorian era riuscito ad evitare ogni contatto prolungato con i compagni d’armi, limitandosi a fare la sua comparsa quando imprescindibile, per non suscitare sospetti sulla sua persona. In pochi giorni era riuscito a guadagnarsi il nomignolo di “monaco” per il suo stile di vita parco e regolare. Raduan ne avrebbe riso a crepapelle. Peccato che non fosse lì con lui. Non aveva amici tra le Ombre, né avrebbe cercato di farsene: li odiava tutti, dal primo all’ultimo, e non faceva che immaginarseli morti ai suoi piedi. Più di una volta aveva dovuto trattenersi per evitare di assalirne uno alle spalle, nella penombra dei corridoi della villa. Un paio di cadaveri inspiegabili non avrebbero certo facilitato il suo cammino verso l’obiettivo principale: l’assassinio di Shem. Purtroppo il mostro non si faceva vedere. Al massimo riusciva a scorgerlo in alto sugli spalti del cortile, durante l’addestramento, ma non si era mai presentata

l’occasione di aggredirlo senza trasformare la sua azione in un suicidio immediato. Proprio quando cominciava a perdere la pazienza, e a chiedersi se tutta quella faccenda dell’infiltrazione tra le Ombre sarebbe davvero servita a qualcosa, era giunta la prima vera opportunità, sotto forma di missione notturna. Guardò una fila davanti a sé, dove l’odioso caporale Norq marciava a i vigorosi tra i suoi uomini. Era un essere umano sadico e spregevole, ma era anche il solo che potesse dargli qualche ragguaglio concreto su quel che li aspettava. Aveva cercato di strappargli degli indizi prima della partenza, ma il caporale era stato esplicito, nel suo modo sprezzante e autoritario: un’Ombra non ha bisogno di conoscere i dettagli della propria missione, non prima che essa abbia inizio e forse neanche allora. Un’Ombra deve appena copiare i movimenti di chi comanda, ed eseguire quel che le viene ordinato. Dorian mugolò un paio di ingiurie tra sé e sé. Dove diavolo erano diretti, in piena notte, con tanta segretezza? Non era così convinto di volerlo scoprire. Se solo fosse riuscito ad aggredire Shem alle spalle, per poi dileguarsi nel buio della notte! Ma il maledetto nano non arretrava mai dalla posizione di punta, e la sua sagoma era protetta da decine di schiene. Dorian aveva provato ad insinuarsi un o alla volta tra le schiere, fino a raggiungere la prima. Impossibile: Norq l’aveva individuato durante il suo primo ed unico tentativo, e l’aveva spinto a rientrare nella formazione originale con parole tutt’altro che amichevoli. Una volta poteva anche are, come prova di ardire bellico, ma due sarebbero state troppe, e di certo quel demonio avrebbe sospettato qualcosa. Niente da fare, non gli restava che pazientare ancora, in attesa del momento opportuno. Si concentrò sulla marcia, un’Ombra inquieta tra le dense ombre della notte. Qualche ora più tardi, in piena notte, Shem ordinò l’alt con un cenno della mano deforme. Dorian si sporse dalla sua posizione nella fila, e riuscì a scorgere la palizzata di legno e la torretta difensiva di un villaggio illuminati dalle torce, appena a valle della collinetta su cui si trovavano. Era tutto assolutamente quieto e immobile, con l’eccezione del riflesso della Luna di Sangue sull’elmo di una sentinella. Le Ombre arretrarono e si disposero in cerchio attorno al caporale, che finalmente si degnò di spiegare il significato della loro presenza in quello sparuto villaggio. «Due giorni orsono, a Sostar, gli uomini del Principe hanno colto sul fatto tre

spie di Feledan riunitesi per un incontro segreto. Li hanno inseguiti, ma i maledetti cani sapevano il fatto loro: sono riusciti a fuggire e a varcare i cancelli della città.» Dorian sorrise sotto la maschera, felice che nessuno potesse notare quell’apparente controsenso. «Noi però disponiamo di ottimi segugi» continuò Norq «Hanno colto tracce ancora fresche della loro pista, e le hanno seguite fin qui. I traditori si nascondono nel villaggio, mischiati tra i braccianti accorsi per il raccolto.» Sputò per terra. «Ovviamente il nostro Principe non ha tempo da perdere con interrogatori e perquisizioni, e nella confusione quei tre finirebbero per darsela di nuovo a gambe. Per evitare questo comprensibile fastidio al nostro Signore che ha una guerra da vincere sulle spalle, non dimentichiamolo - dobbiamo rimboccarci noi le maniche.» Cedette la parola a Shem. Il mostro parlò con la sua snervante voce soffocata: «Radete al suolo il villaggio. Uccidete vecchi, bambini e storpi, lasciate in vita gli altri, riuniteli nel granaio. Li voglio per me.» Le Ombre risero di gusto, scambiandosi gesti di entusiastica approvazione, mentre Dorian inorridiva all’idea di dover partecipare al massacro di quella popolazione inerme. Norq rise più forte di tutti gli altri: «Quei fortunati riceveranno l’onore del trattamento speciale!» Shem protese il volto fuori dal cappuccio, la bocca larga piegata in un orribile sorriso pieno di aspettativa, la sua demenza rispecchiata nei grandi occhi piatti da pesce. «Non facciamoli attendere!» Con studiata efficienza, Norq distribuì i compiti ai suoi soldati, alcuni dei quali mostravano difficoltà a trattenere l’entusiasmo per l’imminente carneficina. Dorian, disgustato e rabbioso, ebbe per lo meno la fortuna di venire assegnato con un altro uomo a pattugliare i confini del villaggio, con l’incarico di intercettare ogni tentativo di fuga. Al grosso del gruppo toccò il compito di

stanare gli abitanti del villaggio dalle loro case, per poi spingerli come bestiame fino al granaio, dove certamente li attendeva una fine orribile. Shem si mise in testa al drappello, sottraendosi ancora una volta alla portata di Dorian. «Nessun sopravvissuto, a parte quelli che servono al capo, sono stato chiaro?» sbraitò Norq «Non vogliamo testimoni in questa faccenda. Al sorgere del sole toccherà a Feledan prendersi la colpa di questa incomprensibile tragedia, per bocca del Principe, come sempre.» Le Ombre si dispersero tra sommesse risate, aprendosi a ventaglio per occupare le posizioni prestabilite. Dorian e il compagno si posizionarono nel buio a cinquanta i di distanza dal villaggio, dove potevano godere di una buona vista d’insieme. I pugni stretti per la rabbia, Dorian osservò in silenzio le Ombre che scivolavano agili nel buio fino a raggiungere la palizzata. Udì il sibilo di un dardo scagliato da una cerbottana. Vide la sentinella stramazzare al suolo con un gemito soffocato. Una parte degli assalitori penetrò nel villaggio per l’ingresso principale, in un’unica fila ordinata, mentre altre due file facevano il giro largo attorno alla palizzata per entrare dai lati opposti, come tante formiche ben organizzate. Dopo un breve periodo di silenzio oppressivo, Dorian udì l’inevitabile: le grida degli abitanti, i pianti disperati, le folli risate delle Ombre. «Dannazione!» esclamò il suo compagno, scalciando una pietra «E noi ce ne dobbiamo star qui con le mani in mano!» «Un vero peccato» disse Dorian, mentre la sua mente si intratteneva su decine di appaganti modi per farlo fuori. I minuti successivi furono strazianti per il guerriero, che non riusciva a prendere una decisione concreta: continuare a “fare il bravo”, nell’attesa che si presentasse la tanto attesa occasione di vendetta, o smetterla una buona volta con quella messinscena e buttarsi nella mischia a viso aperto? Più aumentavano le grida e i lamenti provenienti dal villaggio, più si convinceva di aver atteso abbastanza. Ma quando muoversi? E come? Furono gli Dei a fornirgli lo stimolo, quando una donna con un neonato in braccio apparve guardinga nell’alone di luce delle torce della palizzata, e prese a

correre nel buio verso di loro. «Finalmente un po’ di azione!» esultò l’Ombra accanto a lui, sfoderando un pugnale. La donna udì la sua voce nell’oscurità e si arrestò di botto, ma era troppo tardi per tornare indietro. Quando l’Ombra si rivelò con la lama rilucente tra le dita e uno sguardo folle negli occhi, la poveretta cadde in ginocchio con la bocca spalancata in una smorfia di terrore. Tra le sue braccia, il bambino cominciò a strillare. «Ti sei persa, bella mia?» ironizzò l’Ombra «Non lo sai che a quest’ora della notte si fanno brutti incontri?» «La... lasciatemi andare, ve ne prego!» balbettò la donna, fuori di sé dalla disperazione. L’Ombra finse di considerare la sua richiesta, mentre si voltava a consultare Dorian in un gioco sadico. «Tu che ne dici, amico? Le diamo retta?» «Direi proprio di sì» rispose Dorian, e gli affondò un pugnale nei polmoni. L’uomo gli crollò addosso con un sibilo, derubato dell’ossigeno necessario a urlare. Ghermì la giubba nera di Dorian con le dita già rigide, si accasciò contro di lui con la bocca che si apriva e chiudeva a ripetizione, nell’impossibile sforzo di chiedergli perché. Dorian non provò neanche un briciolo di pietà per il guerriero: strappò via il pugnale e lo sbatté a terra, dove si contorse ancora a lungo prima di restare definitivamente immobile. La donna ne aveva approfittato per rimettersi in piedi, col suo fagotto urlante stretto al petto. Sembrava del tutto perduta. «Presto!» la incitò Dorian. Lei continuò a dondolare da un piede all’altro, senza andare né avanti né indietro, troppo intenta a fissarlo con grandi occhi pieni di lacrime. «Vattene ho detto!» urlò Dorian, agitandole il pugnale insanguinato sotto al naso

per rafforzare il concetto. Funzionò: la donna scoppiò in un pianto soffocato e corse via incespicando nel buio. Dorian si augurò che giungesse abbastanza lontano, e non si rompesse l’osso del collo inciampando in una buca. In ogni caso, era una sorte preferibile a quella di cadere nelle mani di Shem e dei suoi neri scagnozzi. Rimase fermo per un istante accanto al cadavere, prima di convincersi che non c’era modo di tornare indietro. Trascinò il corpo fino a un gruppo di rocce, lo incassò in un incavo e occultò il tutto alla meno peggio con rami e arbusti, al solo scopo di evitare sorprese nel caso sopraggiungesse un’altra pattuglia. Ma a missione terminata gli sarebbe toccato rendere conto della scomparsa del compagno. Non c’era più modo di tergiversare: doveva risolvere la faccenda quella stessa notte, bene o male. La sua permanenza tra le Ombre era divenuta troppo improbabile e rischiosa. Camminò verso le case, sollevato e carico allo stesso tempo. «Sto arrivando» pensò, formandosi nella mente l’immagine di Shem ridotto a torcia umana, com’era toccato ai membri della Compagnia del Viandante. Il villaggio era già ridotto a un disastro, quando mise piede nella prima cerchia di abitazioni: carri rovesciati, case e fienili in fiamme, cadaveri di uomini e animali sparsi al suolo, e su tutto l’odore pungente del sangue. Le Ombre si dirigevano una alla volta verso il grande granaio posto al centro dell’abitato, ciascuna trascinando per i capelli uno o due abitanti del villaggio, senza distinzione di sesso o età. I poveretti urlavano di dolore e paura, puntavano i piedi, ma nessuno dei loro aguzzini dava segni di intenerimento. Un ragazzino riuscì a svicolare dalla presa dell’energumeno che lo stringeva, corse verso la palizzata e cominciò ad arrampicarsi con l’agilità di una scimmia: almeno quattro dardi affilati gli si conficcarono nella schiena a poche bracciate dalla salvezza. Rovinò al suolo con un tonfo sordo, e vi rimase accartocciato senza vita. Dorian guardò fisso a terra, per timore che il suo sguardo tradisse qualcosa dell’infinita rabbia che provava dentro di sé. Il battito del cuore gli rimbombava nelle orecchie, stentava a tenere a bada l’energia del guanto, che già sentiva sfrigolare sotto le protezioni di cuoio. «Ancora un po’!» si disse, stringendo i denti.

Cercò Shem con lo sguardo: il mostro era sceso dal suo tappeto - che fluttuava immobile a mezz’aria accanto a lui, come un cane obbediente in attesa di un osso - e si era appostato accanto al portone del granaio. Ogni volta che un’Ombra si avvicinava con un prigioniero, Shem si sporgeva a toccarlo prima che venisse sbattuto dentro con gli altri. Alcuni cercavano di sottrarsi al suo tocco con imprecazioni di disgusto, altri si piegavano senza la forza di protestare, ma tutti finivano per urlare. Dorian si fece avanti, inquieto. Una parte di sé era curiosa di capire cosa stesse accadendo, un’altra invece aveva notato che Shem era interamente assorbito nel suo misterioso compito, e gli dava le spalle. Una rapida occhiata gli confermò che disponeva dello spazio sufficiente per lanciarsi in una corsa sfrenata e dileguarsi nella notte, una volta compiuto il suo dovere. Cominciò a sfilarsi il bracciale protettivo, lo sguardo fisso su un punto nel mezzo della schiena curva del mostro. Era lì che avrebbe colpito, con tutta la rabbia accumulata nelle ultime settimane - o meglio, con tutta la rabbia accumulata da quel maledetto giorno a Bezer... Si avvicinò. Una delle vittime si agitava più del normale, costringendo Shem a voltarsi per fare quel che doveva. «Che diavolo...!» Dorian osservò con raccapriccio l’aculeo puntuto che fuoriusciva dal polso di Shem, come una protuberanza ossea. Dal foro sulla punta dell’aculeo gocciolava un liquido sinistro, simile al veleno sui canini di una vipera. Shem tirò a sé il prigioniero e lo infilzò nel collo, appena sotto l’orecchio. Il poveretto urlò di dolore e sprizzò lacrime dagli occhi. Con uno spintone, l’Ombra lo costrinse a proseguire verso il granaio, mentre il prossimo della fila prendeva il suo posto. Qualsiasi cosa Shem stesse facendo, Dorian sentì che doveva interromperlo al più presto. Come fece due i, quattro Ombre si schierarono compatte tra lui e il suo bersaglio, formando un cordone impenetrabile. Non ebbero bisogno di dir nulla, dalla loro postura e dai loro sguardi taglienti Dorian capì che non avrebbero tollerato un solo altro o in direzione del loro venerato padrone. «Cani efficienti» pensò Dorian, mentre cambiava traiettoria nel modo più casuale possibile, dando a intendere che non era mai stata sua intenzione avvicinarsi a Shem. Deluso, tornò sui propri i. Non si era accorto che il

mostro disponesse di una guardia del corpo di fedelissimi. Era meno imprudente di quel che sembrasse, anche nel seno del suo stesso esercito personale. Fu costretto a unirsi ai compagni in attesa, pur tenendosi il più lontano possibile da Norq: il caporale aveva l’incomprensibile capacità di distinguere i suoi uomini l’uno dall’altro, anche con l’uniforme nera e la maschera indosso, e in quel momento Dorian non avrebbe saputo come giustificare la sua assenza dal gruppo di pattuglia. Sempre più frustrato, dovette far da spettatore all’indegno sopruso finché anche l’ultimo abitante del villaggio venne scaraventato dentro al granaio come una bambola di stracci. Un’Ombra serrò i portoni dell’edificio, mentre altre due raccoglievano da terra una pesante sbarra e la infilavano tra i ganci, per impedire l’apertura dall’interno. Sgomento, Dorian restò ad ascoltare le urla sempre più disperate dei prigionieri. Immaginò con un brivido freddo cosa dovessero provare, rinchiusi lì dentro come bestie, nel buio più completo, in attesa di un fato atroce che non riuscivano a comprendere. Neanche un’ora prima, stavano dormendo sonni tranquilli nei loro letti, immersi in piacevoli sogni. «E adesso?» domandò al vicino, incapace di trattenere l’inquietudine che gli divorava l’anima. «Adesso aspettiamo» gli rispose quello, con un sorriso perverso. E attesero, in silenzio, mentre la notte invecchiava lentamente. Ogni tanto Dorian lanciava un’occhiata di sottecchi a Shem, seduto a gambe incrociate sul suo tappeto, accanto al portone del granaio. Il gobbo se ne stava perfettamente immobile, il volto sprofondato nell’ombra del cappuccio, le mani adagiate in grembo con le dita intrecciate. Intorno a lui, i quattro tirapiedi rimasero tutto il tempo all’erta, senza sedersi né abbassare la guardia. Non c’era niente che Dorian potesse fare, se aveva cara la pelle. Temeva che da un momento all’altro qualcuno notasse la scomparsa del suo compagno di pattuglia, anche se nessuno si sarebbe preso la briga di contare i superstiti di una missione tanto banale. Nemmeno Norq, che continuava a fissare il granaio nella sadica aspettativa di qualcosa, immune alle grida snervanti che si alzavano nella notte. All’inizio Dorian pensava che nascessero dal panico e dalla disperazione, ma non cessavano mai, e infine si convinse che erano urla di dolore.

A poco a poco le urla scemarono, dando un briciolo di pace alle orecchie e al cuore di Dorian. Il suo sollievo, però, durò poco: le urla vennero sostituite da gemiti e lamenti da far accapponare la pelle, e si tramutarono infine in versi animaleschi. Norq si alzò per sgranchirsi le gambe. «Ci siamo!» disse. Le Ombre si diressero verso il granaio, dove anche Shem era uscito dal suo stato di trance. Dorian non trovò la forza di alzarsi. Sudava freddo, e gli tremavano le gambe, mentre dentro di lui si faceva strada la consapevolezza di ciò che realmente era accaduto agli abitanti del villaggio. «Il trattamento speciale...» mormorò con la bocca inaridita, ripensando alle parole di Norq. Conosceva i versi provenienti dal granaio, i ruggiti, i gorgoglii, il mugghiare disumano... Li aveva già uditi in ato, molte, molte altre volte.

XX - Forze Oscure

Kyra si mosse a disagio sulla sella nella rigida stretta delle braccia di Tulga, appiccicato alla sua schiena come una mosca. Come se già non fosse complicato cavalcare in due sulla stessa bestia, il barbaro continuava a strizzarle la vita come un bambino impaurito. Aveva provato a tranquillizzarlo un paio di volte, ma il terrore di cadere era troppo... o forse stava approfittando della situazione per prolungare all’infinito quel contatto fisico! A tratti le veniva una gran voglia di rifilargli una gomitata. Neanche il tempo le era amico: la pioggia, iniziata un’ora prima come una gradevole spruzzata di acqua fresca, si era tramutata in un pesante acquazzone che le inzuppava i vestiti e annullava ogni visibilità. Era stanca, come Tulga, e di certo il cavallo lo era più di loro, sovraccarico e costretto alla continua ricerca di un appoggio sicuro per gli zoccoli, lungo la via maestra coperta di fango. Era un’ottima bestia, la fortuna li aveva assistiti nella compera. Un cavallo per ciascuno sarebbe stato l’ideale, ma il loro potere di acquisto era ridotto al minimo quando si erano messi a negoziare sul prezzo con l’unico stalliere di Verrhal. Potevano ringraziare il florido maiale vinto al torneo della festa di Edessa, se erano riusciti a concretizzare lo scambio - e l’abilità di mediatore di Bantha. L’ex capo carovana li aveva aiutati al massimo delle sue possibilità, burbero e onesto come sempre, prima di riprendere la sua strada. Kyra si augurava di rivederlo, un giorno, e che la vita sedentaria non rammollisse la sua singolare personalità. Strizzò gli occhi: era arduo distinguere i contorni delle cose, tra l’onnipresente cortina di pioggia e il buio plumbeo della notte. Non le restava che assuefarsi a quel trotto snervante, e sperare che Rutan fosse vicina. Sospirò: aveva ato più tempo a rigirarsi nel letto che a dormire, la notte precedente, indecisa su quale direzione prendere. Alla fine, soppesati i pro e i contro, aveva scelto il Sud. Doveva a tutti costi sapere cos’era successo a Dorian, prima di poter affidare le sue speranze alla bussola. Il pensiero ricorrente di suo padre prigioniero e sotto

tortura le martellava dentro, eclissava completamente la già scarsa fede che riponeva nel gingillo di Nahash, e non le lasciava altra scelta che galoppare verso Rutan. Tulga l’aveva seguita senza protestare, come sempre. Aveva persino pensato di abbandonarlo a Verrhal, per poter viaggiare più spedita, ma le era parso crudele liberarsi di lui così su due piedi, adesso che si sentiva meglio e non aveva più bisogno delle sue attenzioni. Ne avrebbero riparlato nel prossimo futuro, una volta ricongiunta a Dorian. L’assiduo martellare della pioggia diede loro una tregua soltanto un paio d’ore più tardi, mentre oltreavano uno sparuto villaggio sorto dall’oscurità ai margini della via maestra. Kyra rinunciò a fermarsi, senza neppure interpellare Tulga: le riusciva più facile tirar dritto verso Rutan che cercare un illusorio riposo su una branda, o su un mucchio di paglia in un fienile. L’insonnia non le avrebbe dato tregua quella notte, né nelle notti a venire, finché non avesse avuto la certezza che suo padre era vivo e vegeto. D’improvviso una figura spuntò correndo nel buio con una torcia in mano, e si piazzò proprio nel mezzo della via. Fortuna volle che l’andatura del cavallo non fosse troppo sostenuta, e Kyra riuscì a frenarlo un attimo prima che travolgesse l’uomo. «Sei impazzito?» urlò «Per poco non ti facevi calpestare!» Alla luce della torcia, l’uomo aveva un aspetto miserabile: sembrava che l’avessero destato in piena notte tirandolo per i capelli, e che gli avessero gettato in faccia un secchio d’acqua gelata. «Soccorso!» piagnucolò. Tulga, che si era in qualche modo assopito aggrappato alla schiena di Kyra come una scimmia, si ridestò di botto con aria allarmata. «Soccorso!» ripeté l’uomo «Mia figlia!» «Calmati» disse Kyra «Cos’è successo?» «Mia figlia, è scomparsa! Non la trovo!» «Che vuoi dire?»

L’uomo aprì e richiuse la bocca, a corto di parole. «Ho... Ho sentito dei i in casa... Ho visto delle ombre... Quando sono entrato nella stanza, la finestra era aperta, e lei era scomparsa! Aiutatemi, vi prego, aiutatemi!» «Vuoi dire che qualcuno è entrato nella tua casa, questa notte, e si è portato via tua figlia?» «Sì, sì! Oh, Vinia, dove sei?» Si mise le mani tra i capelli, rischiando di ustionarsi con la torcia. «Dove ti hanno portata?» Kyra cercò di farlo ragionare: «Ti sei rivolto alle guardie?» «Non ne abbiamo, qui al villaggio... Siamo una trentina di anime, ci conosciamo tutti!» «Sei sicuro che non sia scappata di sua volontà?» L’uomo strinse i pugni, affranto. «Perché mai l’avrebbe fatto?» «Non lo so... Un ragazzo, forse?» «Non la mia Vinia, è una ragazza con la testa a posto, non ha mai pensato a queste cose!» «Come no» pensò Kyra. Se ogni padre avesse conosciuto a fondo i desideri e le abitudini delle proprie figlie, il concetto di “brava ragazza” avrebbe subito una radicale trasformazione... «Quando essere successo?» domandò Tulga, gli occhi ancora annebbiati dal sonno. «Un’ora fa, forse meno...»

«Tu cercato qua attorno?» «Ho setacciato l’intero villaggio, gli altri mi stanno aiutando a cercarla nei boschi! Oh, Dei, cosa posso fare?» Solo allora Kyra notò le torce sparse qua e là nell’oscurità: gli abitanti stavano perlustrando il circondario, i loro richiami risuonavano nella notte come strani belati. Stavano facendo tutto il possibile, prima che sorgesse il sole. Scambiò uno sguardo con Tulga, e vi lesse la sua stessa, amara decisione. «Amico» disse, soppesando le parole «Non abbiamo visto traccia di tua figlia mentre giungevamo qui, e purtroppo non conosciamo affatto questa regione, vi saremmo soltanto d’impiccio nella ricerca. Tutto quel che possiamo prometterti è che terremo gli occhi aperti lungo la strada.» L’espressione dell’uomo si intristì ancor più di prima, ma non disse nulla. «Tutto finirà bene, vedrai. Tua figlia tornerà a casa da sola, quando capirà di aver commesso una sciocchezza.» Lui assentì, poco convinto. Puntò lo sguardo nelle tenebre. «Vinia, dove sei?» gridò, e si allontanò di corsa. Kyra diede di sprone al cavallo. «Pover’uomo» mormorò. «Tu detto bene» commentò Tulga «Ragazza tornare a casa di mattina, vestiti sporchi e segni di baci sul collo. Prendere bella strigliata da padre, non fare mai più.» «Speriamo.» Istanti dopo si lasciarono il villaggio alle spalle, e continuarono il loro viaggio in silenzio. Le pesanti nubi si sfaldarono, la luce rossastra della Luna di Sangue immerse la foresta in un bagno d’irrealtà. Kyra scrutava con attenzione ogni cespuglio ed ogni albero a bordo strada, nella speranza di scorgervi una traccia della fuggitiva. A tratti la testa di Tulga

ciondolava contro la sua schiena, per quanto il barbaro si sforzasse di restare sveglio: di certo era più fiducioso di lei nella versione della fuga. Che fosse l’atmosfera cupa dei boschi ai margini della via, o gli occasionali ululati delle bestie selvatiche, Kyra non si sentiva tranquilla per la ragazza. Quando intravide una sagoma squadrata nel mezzo della carreggiata, qualche centinaio di i dinanzi a loro, pensò a un inganno della vista: era raro incontrare altri viaggiatori lungo la strada, a quell’ora della notte. Soltanto chi avesse molta fretta e poca paura, come loro, si arrischiava a tanto. O chi avesse qualche sporco affare da concludere lontano dalla luce del sole. Diede di gomito nelle costole di Tulga, gli fece cenno di guardare avanti. Il barbaro strabuzzò gli occhi e aggrottò le sopracciglia. L’aveva visto anche lui, dunque non poteva essere uno scherzo della sua immaginazione. Il veicolo procedeva a velocità ridotta, lo raggiunsero rapidamente: era una carrozza squadrata, pesante, completamente dipinta di nero. L’affiancarono senza celare la propria presenza, per evitare di allarmare gli occupanti con il timore di un assalto notturno. Kyra gettò una rapida occhiata dentro al finestrino tondo, dove le parve di scorgere un cranio calvo e un paio di orecchie appuntite. Subito il eggero tirò la tendina, occultandosi alla sua vista. La carrozza era trainata da un quartetto di superbi palafreni color dell’ebano, dalle zampe robuste e lanose. Tulga anticipò la sua sorpresa con un’esclamazione soffocata: al posto di guida, tra due fiammelle ad olio che bruciavano al vento nei loro vasetti, non c’era alcun cocchiere. I cavalli incedevano di propria volontà, senza nessuno a controllarne la velocità e il percorso. Una vista rara, soprattutto di notte e con un veicolo di quella stazza. Kyra accelerò: la carrozza le dava i brividi, non vedeva l’ora di distanziarla e dimenticarsene. Intuì che Tulga condivideva il suo proposito, dalla forza con cui la stringeva in vita. Fu allora che entrambi udirono, brevissimo ma nitido, l’urlo proveniente dall’interno del veicolo: un urlo soffocato, di timbro femminile. La guerriera non rallentò l’andatura. «Anche tu avere sentito?» le sussurrò Tulga.

«Sì.» «Cosa noi fare?» «Ci sto pensando...» Poteva essere una coincidenza? L’urlo, la carrozza misteriosa, la scomparsa della ragazza... No, qualcosa non quadrava. Represse la tentazione di far finta di nulla e proseguire per la propria strada, senza cercare guai. Non era così che Dorian l’aveva educata. Accelerò ancora. «Là, dietro quella curva» spiegò. Dopo la svolta, quando fu certa che nessuno dalla carrozza avrebbe potuto scorgere la loro manovra, infilò il cavallo nel sottobosco, tra gli alberi. Si piazzarono dietro a un tronco, in attesa. «Agguato?» chiese Tulga. Lei strinse le labbra. «Non ancora, prima di agire dobbiamo avere la certezza. Per adesso ci limiteremo a pedinarli, la strada è comunque una sola.» Nel giro di pochi minuti il lugubre mezzo di trasporto sfilò dinanzi a loro rimorchiato dai quattro maestosi cavalli neri, che trottavano con il o simmetrico di bestie ben ammaestrate. I finestrini tondi dell’abitacolo erano ancora protetti dalle tende, Kyra non riuscì a scorgere la pallida apparizione di prima, né a sincerarsi se qualcuno fosse tenuto prigioniero dentro al lustro carapace del veicolo. Non udì voci né rumori sospetti, soltanto il cigolio costante delle ruote dai raggi sottili. Attese finché della carrozza non si scorsero che due fiammelle lontane, quindi spinse il cavallo fuori dai cespugli e cominciò il tallonamento. L’andatura era lenta e snervante, Tulga sbadigliava alle sue spalle. Si chiese se quella perdita di tempo fosse davvero necessaria, tanto più quando Dorian aveva immediato bisogno di lei. Era preferibile tradire i principi che proprio suo padre

le aveva inculcato, e abbandonare la povera ragazza al proprio destino - sempre che ci fosse davvero lei, in quella carrozza - oppure fare ciò che era giusto? Non fosse che la strada da percorrere era la stessa, difficilmente si sarebbe posta il dilemma: la salvezza di Dorian veniva prima di ogni altra cosa. Tediata dalla monotonia dell’inseguimento, quasi non si rese conto che la luce delle fiammelle si era fatta più intensa, né che il cigolio delle ruote era cessato una buona volta: la carrozza si era arrestata senza preavviso ai margini di una radura, innaffiata dalla luce rossastra della Luna di Sangue. Lo sportello si aprì e ne uscirono due figuri incappucciati, che trascinavano di peso una giovane bionda e scalza. La ragazza strascicava i piedi e piangeva, ma i suoi lamenti erano soffocati da un panno stretto intorno alla bocca. «A volte odio aver ragione» mugugnò Kyra, mentre tirava le redini e guidava il cavallo a bordo strada, dove le tenebre erano più dense. Gli incappucciati strattonarono la giovane fino ai piedi di una grande quercia, dove la spinsero rudemente a terra. Lei rimase accasciata tra le radici nodose, tremando e versando lacrime come una creatura disperata, ma i due non si fecero impietosire. «Fa’ in fretta» le ingiunsero. La ragazza mugolò qualcosa, cercò di abbracciare le gambe del più vicino per fare appello alla sua comione, e ne ricavò invece un calcio sul viso. Si piegò al suolo, scossa da tremiti sempre più violenti. Tulga mormorò un’ingiuria nella sua lingua gutturale. «Sì, anch’io ho visto abbastanza» disse Kyra «Tienti forte!» Affondò i talloni nei quarti posteriori del cavallo, che schizzò avanti con un nitrito di sconcerto. I due personaggi incappucciati si voltarono troppo tardi per evitare il proiettile equino scagliato su di loro alla massima velocità: il primo crollò con un gemito sotto gli zoccoli della bestia, l’altro inciampò nelle pieghe della propria veste e rovinò a terra. Tulga, con un’agilità che sorprese la stessa Kyra, estrasse un pugnale e balzò giù dalla sella in corsa. Atterrò sulla schiena del malcapitato e gli affondò la lama nella nuca due, tre volte. Kyra tirò le redini, facendo frenare il cavallo con un’impennata. Tornò sui propri i per finire il primo avversario, ma constatò che questi non si muoveva, e che il suo corpo era

accartocciato al suolo in una posizione innaturale: non costituiva più una minaccia per nessuno. Tulga si avvicinò alla ragazza, che aveva gli occhi dilatati come quelli di un gatto sorpreso nel cuore della notte. «Tu bene?» Lei annuì lentamente, senza togliergli gli occhi di dosso. Poi, di punto in bianco, prese ad agitarsi e a farfugliare con trepidazione sotto al bavaglio. «Calma, noi amici. Tu al sicuro adesso.» La giovane scosse la testa con veemenza, e indicò la carrozza con il mento. Kyra smontò di sella, lo sguardo fisso sullo sportello spalancato. Dall’interno proveniva una luce soffusa, come quella di una candela. La luce sfarfallò, investita da un colpo d’aria, e una figura macabra riempì il vano della carrozza, proiettando su di loro un’ombra più cupa della notte. Una testa calva dalle orecchie puntute varcò la soglia per prima, seguita da mani dalle dita lunghe e affusolate, le unghie laccate di nero. Quando si raddrizzò nella luce spettrale della Luna di Sangue, l’uomo rivelò un fisico alto e sottile, una sorta di spaventaeri maligno dagli occhi infossati e cerchiati di carbone. Tulga rabbrividì nel riconoscere lo spauracchio di ogni barbaro delle terre del Nord, l’incubo che aleggiava come un fantasma sulle capanne dei villaggi nelle notti di luna piena, quando il mondo apparteneva soltanto ai lupi e ai loro simili. «Figlio della Notte!» gracchiò, con voce rotta. Le pupille dell’uomo si fissarono nelle sue come calamite. «Sai chi sono.» La voce era estremamente bassa, ma le parole da essa pronunciate solcavano l’aria fredde e nitide come cristalli di ghiaccio. «S-sì...» «Perché, allora, mi oltraggi in questo modo? Perché getti via la tua vita?»

«In realtà la colpa è mia» si intromise Kyra «Sono allergica ai rapitori di fanciulle indifese.» Il Figlio della Notte le rivolse tutta la sua attenzione, e per un momento fu come se i suoi occhi lampeggiassero nel buio. «Chi sei tu, che sfidi impunemente la volontà della Madre Notte?» «Puoi chiamarmi Kyra, zucca pelata.» Tulga gemette e si coprì le orecchie, come se avesse udito pronunciare la più terribile delle bestemmie al cospetto di un Dio vendicativo. «Kyra» ripeté l’uomo, gelido «È l’ultima volta che il mondo sentirà pronunciare il tuo nome.» Scosse un braccio, e un lungo bastone nero gli scivolò fuori dalla manica. «Bel trucchetto!» rise Kyra «Cos’hai nell’altra, un coniglio?» Il sorriso le si spense sulle labbra, quando la punta del bastone si incendiò con un irreale crepitio di fiammelle nere. «Cosa diavolo...?» pensò, poi l’istinto ebbe il sopravvento sulla logica, e lo scudo a ventaglio del braccio artificiale si aprì spontaneamente, mentre alzava l’arto a difesa del corpo. I lampi neri si infransero sul metallo con uno sfrigolio, propagando la vibrazione dal braccio alla spalla, e da lì al resto del corpo. Tulga strillò, da qualche parte alla sua destra: «Uccidilo, Malakai, uccidilo!» «Via!» urlò lei, sventolando l’altro braccio per fargli segno di fuggire. Il barbaro obbedì con una specie di squittio, mentre lei assorbiva l’impatto di un secondo raggio. Questa volta avvertì una scossa percorrerle la spina dorsale e sfociarle alla base del cranio come il doloroso tocco di una punta di ghiaccio. Il Figlio della Notte godette nel vederla battere i denti, e si preparò a scagliare un

altro lampo. Kyra scostò la benda dall’occhio meccanico e si immerse nel mondo tinto di rosso dai manàlorin: per la prima volta non avvertì l’usale trauma del cambiamento, poiché la Luna di Sangue aveva già steso una mano di vernice rossa su tutto il creato, ancor prima che lei si liberasse della benda. Nell’istante in cui una nuova scarica d’energia saettò dall’estremità del bastone, un segnale luccicante avvertì la guerriera della traiettoria, e le diede la possibilità di schivarla per un pelo. Il nemico ci riprovò, solo per vederla danzare nuovamente fuori dal raggio d’azione della propria arma. Aggrottò la fronte e poggiò la base del bastone a terra. «Arti Arcane» sibilò, lo sguardo attratto come un magnete dalle protesi di Kyra. La guerriera si ricompose, pur rimanendo sulla difensiva. «Anche tu ne sai qualcosa, a quanto pare» disse «Per cui conosci il rischio che corri.» Camminò in cerchio, il o felpato come quello di un felino. «Ascoltami, non c’è ragione di lottare. Lascia la ragazza, e vattene per la tua strada: non ti seguirò.» «Non posso.» «Sì che puoi, basta volerlo.» Il Figlio della Notte scoprì i denti. «Che ne sai, tu, delle brame della Madre Notte? Il suo stomaco è nero e senza fondo come gli abissi del cielo notturno! Solo il sangue puro di questa giovane, versato in sacrificio, potrà placare la sua fame.» La ragazza gemette, incapace di rialzarsi in piedi e fuggire. Kyra scosse la liscia criniera di capelli castani. «Una Dea ingorda e vigliacca, la tua. Dille di cercarsi un pasto altrove, o meglio ancora, di cambiare gusti.» Lo spettrale individuo non si scompose.

«Ringrazio la Madre con tutto il cuore, invece, per averti fatta capitare tra le mie mani: saranno due, stanotte, i sacrifici di carne umana. Mi terrò soltanto le parti di te più interessanti, che lei troverebbe indigeste.» Kyra storse le labbra in un sorriso. «Vieni a prenderle, allora. Sono pronta a riceverti.» Con esasperante lentezza, il Figlio della Notte sollevò il cappuccio che gli pendeva dalle spalle e se lo calò sul capo, celando le fattezze del volto nel cono d’ombra prodotto dal tessuto. Adagiò il bastone sul petto e unì le mani dinanzi a sé, pollice contro pollice, indice contro indice, mignolo contro mignolo. Mormorò una frase nella Lingua Antica, al che i ricami bordati sugli orli della sua veste pulsarono di una luce tenue. Kyra lanciò un’imprecazione, perché davanti ai suoi occhi stava avvenendo qualcosa di incredibile: la sagoma dell’uomo si sdoppiava, da un lato e dall’altro, e i doppioni si frammentavano a loro volta in copie identiche, disponendosi lungo un invisibile arco. Avevano la consistenza dell’aria, ma conservavano la forma e i colori della figura originale. Prima che Kyra potesse riprendersi dallo sbalordimento, le proiezioni chio il cerchio intorno a lei, più realistiche e dettagliate che mai. D’istinto, scagliò un dardo verso la prima immagine, quella da cui tutte le altre avevano avuto origine: il proiettile l’attraversò come se fosse intessuta di puro etere, e si perse nel buio. Le figure presero a ruotarle attorno, metà in una direzione, metà nell’altra, in due anelli concentrici. Una risata le echeggiò nelle orecchie, l’eco sembrava provenire da ogni direzione. «Sono io!» sibilò una voce alle sue spalle. Kyra si voltò di scatto e scaricò un altro dardo, con lo stesso effetto di prima. «O forse io?» strillò una seconda voce. La guerriera si gettò addosso alla figura che aveva aperto bocca, per tranciarla con le lame retrattili del braccio di metallo: l’acciaio tagliò il vuoto, sbilanciandola. «Oppure io!» disse una terza voce.

«No, io, da questa parte!» «Eccomi qui!» E un’altra lugubre risata, che la fece infuriare. L’occhio artificiale non sembrava in grado di aiutarla: le figure rotanti erano del tutto identiche, sagome prive di vita e calore che si fondevano sul panno rosso dello sfondo. Uno dei cloni si staccò dal cerchio e fluttuò sino a lei con un ghigno diabolico: Kyra lo schivò avvitandosi su se stessa, solo per vedersene venire addosso un altro. Scansò anche quello, e un terzo. Il quarto, invece, l’attraversò come un fantasma. Non provò alcuna sensazione fisica, ma la sua visione sfarfallò e la tradì per un istante, lasciandola cieca. Proprio allora sentì un forte bruciore su una spalla e si scostò d’istinto. ò le dita sulla pelle, le ritrasse rosse di sangue: un taglio! Di nuovo le figure fluttuanti la investirono con le loro risate diaboliche, e ogni volta che riuscivano a sfiorarla suscitavano un’interferenza che la privava della vista. Subì un altro profondo graffio su una coscia, prima di convincersi che era diventata un bersaglio troppo facile: prese a muoversi e a saltellare come una matta, per non offrire nessun punto di riferimento al suo avversario. «Arrenditi!» esclamò un coro di voci dissonanti. «Sei cieca!» «Sei fragile!» «Lasciati abbracciare dalla Madre Notte!» I fantasmi l’aggredirono in blocco, mandando in tilt la sua visione potenziata. Sventagliò una serie di colpi alla cieca, ma prima di decidersi a ricorrere al suo occhio ordinario ricevette una botta sulla nuca, e cadde bocconi. «Adesso sei mia!» esultò una voce alle sue spalle, più tangibile delle altre. Kyra si preparò a incassare il colpo, quando avvertì un trambusto improvviso. Una fiammata nera carbonizzò l’erba a due i da lei. «Salvati, Malakai!» urlò la voce tremante di Tulga.

«Miserabile insetto...» «Aargh!» La guerriera non esitò un solo istante per balzare in piedi e allontanarsi di corsa. Per la sua felicità, le figure spettrali erano svanite, e quando l’occhio artificiale riprese a funzionare libero da interferenze, si voltò a far fronte al nemico. Il Figlio della Notte era rimasto dove l’aveva lasciato, a una trentina di i di distanza: stringeva Tulga nella morsa delle sue braccia, schiacciandogli il collo con il bastone messo di traverso. Il barbaro, paonazzo in volto per l’assenza di ossigeno, sgambettava disperato nella presa dello stregone. «Mollalo!» ruggì Kyra. «E perché mai dovrei? Imparerà che quelli come lui non devono intromettersi... e sarà l’ultima lezione della sua vita!» Rafforzò la stretta sul collo dello sventurato barbaro, squassato dalla tosse. Kyra alzò il pugno, infuriata. «È me che vuoi!» «E ti avrò, una volta finito con questo verme.» La mente della guerriera lavorò freneticamente alla ricerca di una soluzione: ne trovò una soltanto, e l’idea non la fece sorridere. Eppure doveva tentare. «Tulga» gridò «Sta’ calmo e immobile, finirà come alla festa di Edessa!» Il barbaro smise di agitarsi e strabuzzò gli occhi. «Una festa? Ne dubito!» rise il Figlio della Notte «A meno che vi piacciano i funerali.» Kyra lo ignorò: «La festa, hai capito?» Con uno sforzo sovrumano, Tulga allungò il collo più che poté nella stretta del

nemico, scostando la testa da quella di lui. «Così!» pensò Kyra «Adesso tocca a me.» Sollevò il braccio meccanico e si affidò alla perizia della vista artificiale, come già aveva fatto molte volte in ato, includendo il brioso torneo di Verrhal. Deglutì a secco: questa volta non era uno scherzo, aveva un unico colpo a disposizione prima che il maledetto si disfe del suo amico. Il Figlio della Notte osservò il braccio puntato su di sé con un lampo di perplessità negli occhi, ma il dardo partì prima che potesse articolare i suoi pensieri: il proiettile solcò le tenebre alla massima velocità, graffiò una guancia del barbaro, e si conficcò nella gola dello stregone con un colpo secco. L’uomo lasciò cadere il bastone. Le forze gli vennero meno nel giro di istanti, mentre un fiore di sangue gli sbocciava sulla pelle. Tulga ne approfittò per sottrarsi alla sua presa e strisciò via piegato in due dai colpi di tosse. Privato del sostegno del corpo del barbaro, lo stregone cadde in ginocchio e si accasciò a terra, una mano stretta sulla gola nell’inutile tentativo di arrestare il flusso del sangue che gli colava abbondante tra le dita. Kyra si avvicinò cautamente, guardandolo come una serpe velenosa stordita da una bastonata. Valutò se dargli o meno il colpo di grazia - sempre che se lo meritasse - ma non ce n’era bisogno: l’uomo non si agitava più, i suoi occhi si stavano facendo vitrei mentre una densa pozza liquida si allargava sotto di lui, il colore vermiglio svilito dalla luce sovrastante della Luna di Sangue. «Tutto bene?» domandò Kyra, approssimandosi a Tulga. «S-sì» gracchiò quest’ultimo, ancora in ginocchio. Si toccò il graffio sulla guancia ed imprecò nella sua strana lingua. «Tu fatto meglio in torneo, Malakai!» affermò, con sguardo accusatore. «Hai proprio ragione» rise lei, nervosamente «Dev’essere che questa volta ero sobria.» Il barbaro sorrise a sua volta, tra un colpo di tosse e l’altro. «E la prossima volta che mi chiami Malakai, farò il tiro al bersaglio con la tua zucca vuota, ci siamo spiegati?»

Tulga arrossì e si grattò la testa, a disagio. Uno dei quattro cavalli neri lanciò un nitrito agghiacciante. Kyra girò lo sguardo sulle bestie scalpitanti e sulla macabra figura del moribondo, e si sentì correre un brivido tra le scapole, dove aveva atteso di ricevere il colpo finale. C’era mancato poco, questa volta. Ma ne era valsa la pena, si disse, avvicinandosi alla vittima del rapimento, che singhiozzava in silenzio accucciata tra due massi. Le sorrise, mentre le toglieva il bavaglio dalla bocca e le tendeva una mano. «Su, è finita. Si torna a casa!» -----Il Primo Fratello avvertì la fredda carezza della Madre Notte penetrargli nelle ossa, cullarlo con le sue dita di gelo. Presto sarebbero stati una cosa sola, nell’eterno abbraccio della morte. Fissò lo sguardo sul filo d’erba che spuntava dalla terra davanti al suo naso, e pensò che in quel momento la sua intera vita gli sarebbe ata dinanzi come una lunga sequenza d’immagini. Non accadde. Riservò gli ultimi pensieri coscienti all’ironia della sorte, che proprio nei giorni conclusivi della sua esistenza gli aveva riservato l’incontro con quei due individui così sorprendenti, e con i loro incredibili artefatti imbevuti di Arti Arcane. Entrambi lo avevano sfidato, unici in tanti anni al servizio della Notte. Entrambi gli erano sfuggiti tra le dita, portandosi via il prezioso segreto del loro potere. Un rantolo gli uscì dalle labbra, a metà tra il sospiro e l’ingiuria. Poco male, si disse, presto avrebbe visto e conosciuto ogni cosa, nel grembo della Madre...

XXI - Il Cacciatore di Taglie

«Vinia!» Il grido del pover uomo fu assordante, quando il cavallo sbucò dalle tenebre con le due donne in sella. Tulga accompagnava a piedi, reggendo le redini. «Padre!» strillò la giovane. Balzò giù di sella senza attendere che il cavallo si fermasse, col rischio di rompersi le ossa, e corse incontro al genitore con tutto lo slancio permessole dalle gambe tremanti. Si gettò tra le sue braccia e caddero in ginocchio, tra urla di gioia e lacrime di felicità. Gli abitanti del villaggio formarono un cerchio di torce intorno ai due, la letizia dipinta sui loro volti come un riflesso dell’amore di padre e figlia. Quando Kyra e Tulga si avvicinarono, il cerchio si aprì per farli are, in una ridda di ringraziamenti, abbracci e pacche sulle spalle. Volò persino qualche bacio all’indirizzo di Tulga, stordito da tanta attenzione nei suoi confronti. Kyra notò con divertimento il suo petto gonfiarsi di orgoglio: dubitava che il piccolo barbaro avesse vissuto altri momenti di gloria come quello, nella sua dura vita tra le tribù del Nord. Dal canto suo, non diede troppo peso alle lodi e ai ringraziamenti: l’importante era la salvezza della ragazza. «Grazie! Grazie!» ripeteva ossessivamente l’uomo, mai sazio degli abbracci di sua figlia. Cercò di asciugarsi il volto con il dorso di una mano, ma una volta infranta la diga delle emozioni non c’era modo di arrestare il torrente di lacrime. Baciò la figlia sulla fronte tre, quattro volte, le prese il mento in una mano e le scostò i capelli dalla fronte. «Chi è stato, Vinia? Chi voleva portarti via da me?» «N-non lo so!» singhiozzò lei «Erano vestiti di nero, mi hanno preso nel sonno. M-mi hanno trascinato nella carrozza, mi stringevano... I loro occhi, oh Dei!» Tremò da capo a piedi, e Kyra temette che sarebbe svenuta.

«Shhh! Shhh! Dimenticali!» mormorò il padre. La ragazza, però, non volle saperne di tacere: fissava il vuoto con occhi sgranati, mentre sputava fuori l’intero fardello di ricordi come un boccone velenoso che le impediva di respirare. «Non c’era aria nella carrozza... Era freddo e scuro, mi sentivo soffocare. Li udivo parlare di cose strane, non capivo! Il più alto parlava di sacrificio, della Madre Notte, diceva che soltanto lei poteva salvarli...» «Salvarli da cosa?» domandò Kyra, incapace di frenare la curiosità. Tutti si voltarono a guardarla, forse giudicando improprio logorare la ragazza con domande di quel tipo, ma questa rispose senza esitazione. «Qualcuno li stava aspettando, a Sostar, per punirli di un errore che avevano commesso. Non hanno detto che cosa, ho capito solo “la fuga di quel maledetto”» Le si incrinò la voce. «Volevano... Volevano che la loro Dea li salvasse... Volevano darmi in pasto a lei in cambio del suo favore!» «Non importa, figlia mia, non importa» le sussurrò il padre con voce carezzevole «Dimentica tutto, adesso sei qui con me.» Alzò lo sguardo su Kyra e Tulga «E soltanto grazie a voi due! Non potrò mai ripagarvi, neanche se vivessi cent’anni!» «Abbiamo fatto quel che era giusto» si schermì Kyra. «Permettetemi di ricambiare come posso: possiedo una modesta locanda qui al villaggio, sarei onorato di offrirvi vitto e alloggio gratuiti per tutto il tempo che vorrete. Sarò il vostro umile servo!» Tulga aprì un largo sorriso, ma Kyra troncò il suo entusiasmo sul nascere: «Grazie per la gentilezza, ma no. Abbiamo delle faccende in sospeso da risolvere, lontano da qui.» Il barbaro aprì bocca per protestare, per poi richiuderla al ricevere un’occhiataccia dalla guerriera. Borbottò tra sé e sé, mentre lei respingeva le insistenze del locandiere, e la seguì fino al cavallo. Kyra infilò un piede nella staffa, si issò... e gli rovinò addosso, schiacciandolo a terra. Gli abitanti

accorsero ad aiutarli. «Tu bene?» domandò Tulga, anche se la risposta era ovvia: Kyra era riuscita a rialzarsi soltanto con l’aiuto delle robuste braccia di due uomini, e aveva chiare difficoltà a reggersi in piedi da sola. «N-non è niente» dichiarò, con voce tremula «Andiamo!» Come fece per riavvicinarsi al cavallo, Tulga le sbarrò il cammino. «Che ti salta in mente?» sbraitò lei. «Tu stanca, malata! Non poter cavalcare neanche un minuto!» «Sciocchezze, levati di torno!» «No!» «No?» «Mmm-mmm!» scosse la testa Tulga. «Il tuo amico ha ragione» intervenne il locandiere, prendendola sottobraccio «Non sei assolutamente in condizione di viaggiare. Accetta la mia offerta, ti prego!» Kyra cercò di scrollarselo di dosso, ma era troppo debole anche per quello. «Devo... devo andare...» insistette, pur non credendoci più neppure lei. Aveva la vista annebbiata, e il terreno le ballava sotto i piedi. Si morse la lingua: aveva creduto di essere guarita ormai, e invece... Lo scontro con quell’ostinato Figlio della Notte l’aveva ricondotta al punto di partenza! Alla fine le raccomandazioni di Tulga e del locandiere ebbero la meglio, e la convinsero a are la notte in un comodo letto. Il barbaro le fece da appoggio mentre camminavano a piccoli i verso la locanda, sempre più lontani dal vociare degli abitanti riuniti intorno alla ragazza. «Fatto buona scelta» approvò lui «Stanotte dormire come pietra, domani svegliare fresca come fiore.»

«Me lo auguro. Grazie per il tuo sostegno Tulga, come sempre.» «Tulga pensare soltanto a tuo bene.» «E immagino che gli ammiccamenti di quelle fanciulle, poco fa, non abbiano nulla a vedere con il tuo intenso desiderio di are la notte qui, vero?» Tulga singhiozzò e quasi soffocò con la propria saliva, provocandole uno scoppio di risa. «Su, eroe, andiamo! Prima mi accompagni a letto, prima potrai andartene in giro a spezzare cuori.» -----Kyra inspirò una gran boccata d’aria fresca e la trattenne nei polmoni per qualche istante, prima di disfarsene con uno sbuffo soddisfatto. Il sole faceva capolino tra le fronde, ancora lucide della pioggia della notte precedente. Gli uccellini cinguettavano festose melodie, e la terra era calda e soffice sotto le piante dei suoi piedi nudi. Insomma, uno scenario da fiaba. «E vissero felici e contenti...» Raschiò la terra con un alluce, strappando un ciuffo d’erba alla radice. La sua storia era ancora ben lontana dal raggiungere il meritato finale, buono o cattivo che fosse. E lei non stava facendo nulla per sfogliare più in fretta le pagine dove gli Dei registravano con minuzia e sottile crudeltà ogni vicenda della sua vita. Si era alzata tardi quel giorno, molto più tardi del dovuto, destata dalle grida dei bambini che si inseguivano nell’aia fra torme di polli infastiditi. E invece di balzare in sella e partire, com’era giusto, si era fatta convincere a riempire lo stomaco con un’abbondante colazione, per poi compiere una rilassante eggiata in quell’incantevole bosco. Rilassante per modo di dire: le rare volte che riusciva a scacciare dalla mente l’immagine di suo padre, tornava col cuore pesante di nostalgia agli amici che aveva abbandonato lungo il cammino. Pensava al vecchio Ezer e a suo figlio, che l’attendevano a Mirna come un membro della famiglia. Lisca, Kwan, Selita, e l’intera banda di farabutti dei Ratti di Porto… chissà se si erano già scordati di

lei e dei gloriosi giorni della rivolta di Dekka? Magari avevano messo la testa a posto, e lavoravano per conto del nuovo governatore, Leon. Quanto a lui, non lo invidiava. Persino con Nestor a fargli da guida, non sarebbe stato facile risollevare la città dall’abisso in cui era sprofondata in seguito alle macchinazioni di Dinor e del maledetto Caleb. Pensò al vecchio che abitava in solitudine tra le mura di Bezer, in attesa di raggiungere i propri cari nell’aldilà. Pensò - con una fitta allo stomaco - al tumulo della Compagnia del Viandante, pensò a Raduan in viaggio in capo al mondo per ritrovare Abel, e infine tornò a Dorian, chiudendo il ciclo. Tirò fuori la bussola di Nahash: puntava dritto a Nord, come il giorno precedente, nonostante lei sapesse che Dorian era tenuto prigioniero a Rutan dai Figli della Notte. Le venne voglia di scagliare l’arnese contro un albero e cancellarlo una buona volta dalla propria memoria, ma a che pro? Era più facile ignorarlo, come aveva fatto sino ad allora. Più facile, o forse più stupido. Arrestò il o dinanzi a un tronco annerito e ritorto, che stonava a vista d’occhio nel gradevole insieme di quello scenario. Le rammentò in qualche modo l’odioso corpo del Figlio della Notte che aveva fatto fuori la notte prima, e che giaceva abbandonato in mezzo alla strada insieme a quelli dei suoi compari, affinché lupi e sciacalli ne fero buon uso: carogne in vita, carogne nella morte. Peccato che i gagliardi destrieri fossero fuggiti trascinandosi dietro la carrozza. Una bestia di quelle avrebbe fatto comodo a Tulga. Nell’osservare la sagoma contorta del tronco, le venne un’idea. Intascò la bussola e sbottonò la manica della camicia che rivestiva il braccio artificiale, arrotolandola sopra al gomito. «Vediamo se hai fatto progressi» proferì a mezza voce. Si concentrò, raccolse le forze, e sferrò un pugno al tronco deforme. La corteccia color del carbone schizzò in tutte le direzioni, rivelando il midollo marcescente sottostante. Un altro pugno ben assestato, e la carcassa si spezzò in due parti. Kyra flesse le dita di metallo un paio di volte, non del tutto appagata: percepiva una sorta di indecisione nel proprio corpo, come se avesse perso la capacità di frenare l’ingordigia dei manàlorin innestati nel braccio meccanico, di dominare il flusso di energia che il magico artefatto tracannava con avidità dalla sua carne

e dal suo sangue... «Debole» si disse, il pensiero come una goccia dal sapore amaro nella sua mente già angustiata dall’inattività. Mentre tornava a coprire il braccio, avvertì un lieve scalpitio di zoccoli dietro di sé. Si voltò, e rimase impietrita dalla meraviglia. A due i da lei, si era materializzato dal nulla un grande cervo bianco, una bestia magnifica dotata di un palco di corna a dir poco maestoso, e coronata da un’indefinibile aura di sacralità. L’animale la fissò negli occhi con neutralità, immoto, a parte un impercettibile incresparsi del muso, e il tempo si fermò. Kyra deglutì a secco, prima di trovare il coraggio di allungare una mano verso la sorprendente apparizione, per sincerarsi che fosse reale. Il cervo non si ritrasse, né avanzò incontro alla mano tesa. Le dita si mossero tremanti, un millimetro alla volta. Uno schiocco risuonò nel bosco, poco lontano, e Kyra si girò di scatto. Quando curvò nuovamente il capo, il cervo era scomparso, svanito nell’aria come un pensiero. Tutt’intorno, soltanto il silenzio, e un’ombra pesante distesa su ogni cosa come un velo mortuario. Kyra si strinse le braccia attorno al corpo, colpita da un freddo improvviso. Dov’era finito il sole? E i canti degli uccelli? Perché la terra tra le dita dei suoi piedi aveva la consistenza del fango? Sbatté le palpebre, e tutto tornò come prima: i suoni, la luce, il calore. «Devo essere impazzita» si disse. Possibile che l’effetto della debolezza fosse tale da alterarle i sensi in quel modo? Sospirò: in quello stato, riprendere il viaggio era impensabile. Non le restava che prolungare il riposo almeno fino a sera. In caso contrario, correva il rischio di cavalcare dritto dentro a un fosso senza nemmeno rendersi conto del pericolo! Recuperò gli stivali che aveva abbandonato in cima a un masso, li calzò con apatia. Ne aveva abbastanza di quel bosco, era meglio tornarsene a letto, dove i sogni ad occhi aperti - e quelli ad occhi chiusi - non sarebbero stati un problema per nessuno. Giunta ai margini del villaggio, scoprì che Tulga la attendeva seduto sul bordo di

un ruscello, intento a lanciare pietruzze nell’acqua con aria assorta. «Non hai trovato modi più interessanti di trascorrere il tuo tempo?» lo canzonò. «Io credere che sì» replicò lui «Grosso sbaglio.» Si voltò di profilo, mostrandole una guancia gonfia e arrossata. Kyra represse una risata di scherno. «Hanno le mani pesanti, le donzelle di questo villaggio!» «Oh, no, loro avere mani dolci e carezzevoli. Madri, invece, avere mani dure e callose.» Questa volta Kyra non riuscì a trattenere l’ilarità. Tra uno sghignazzo e l’altro, cercò di capire se con quel livido la faccenda poteva considerarsi conclusa, o se dovevano aspettarsi nuove ritorsioni da parte degli abitanti del villaggio. Tulga affermò che, da parte sua, ne aveva avute abbastanza: sarebbe stato più che felice di trascorrere il resto della giornata chiuso nella locanda. Sempre che lei non preferisse rimettersi subito in viaggio, con la sua benedizione. arono il pomeriggio tra quattro confortevoli pareti, poltrendo e bighellonando, benché si rivelasse sempre più difficile per Kyra escludere l’immagine di Dorian dalla propria mente. Verso sera, quando capì che non avrebbe potuto tollerare un’altra notte senza rimettersi in moto, comunicò al barbaro che sarebbero ripartiti di lì a poco, dopo una buona cena a spese del locandiere. Tulga annuì, massaggiandosi la guancia con aria meditabonda: il suo momento di gloria era risultato davvero effimero. Scesero nella sala comune e si accomodarono a un tavolo d’angolo, nell’inutile ricerca di un minimo di riservatezza. I pochi tavoli erano tutti occupati da gente del posto, che spesso e volentieri confabulava sottovoce e si voltava a guardarli di sottecchi. Tulga ordinò di tutto un po’, visto che era l’ultimo pasto gratuito a loro disposizione, e prese a ingozzarsi senza vergogna, la faccia infilata nel piatto. Kyra, priva di appetito, cercava più che altro di scansare gli schizzi di olio e vino del suo compagno. Si limitò a spilluzzicare una coscia di pollo e a sorseggiare del limpaq annacquato, ansiosa di partire e allo stesso tempo scocciata dalla pioggia che aveva ripreso a tamburellare con insistenza. A sorpresa degli astanti, la porta si aprì di botto e un individuo zuppo d’acqua

fece il suo ingresso nella locanda. Era intabarrato dalla testa ai piedi in uno spesso manto rosso scuro, la testa protetta da un cappellaccio a larghe falde sormontato da una vistosa piuma vermiglia. Gli unici tratti visibili del suo volto erano un lungo naso a punta e un paio di baffetti sottili, ben curati. Come da programma, tutti i presenti restarono a fissarlo in silenzio. Solo il locandiere gli si fece incontro timidamente, e gli domandò come potesse servirlo. Senza una parola, l’uomo si liberò del manto con un gesto ampio e glielo gettò addosso, subito seguito dal cappello: il locandiere si destreggiò come un acrobata per riuscire ad afferrare tutto al volo, senza lasciar cadere nulla. Il nuovo arrivato esibì un sorriso spavaldo, che ben si combinava con il suo abbigliamento audace: pantaloni eleganti e attillati, giacchetta dal collo alto e maniche strette, tutto rigorosamente rosso. Con un portamento che lasciava trasparire vanità da ogni gesto, afferrò una sedia e si accomodò davanti al camino, appoggiando gli stivali sudici di fango su uno sgabello. «Vino» ordinò, con un superfluo schiocco di dita. Il locandiere, stupito, assentì servilmente e si allontanò a ritroso, sommerso nel fagotto d’abiti. L’uomo non si curò del silenzio e della palese curiosità degli altri avventori: rivolse loro una specie di inchino galante - che Kyra trovò ironico e sprezzante allo stesso tempo - quindi si concentrò sul calore del fuoco, ignorandoli. A poco a poco il chiacchierio riprese forza. «Che tiho maleduhato» commentò Tulga con la bocca piena, lasciandosi sfuggire dalle labbra una generosa porzione di cibo. «Da che pulpito» replicò Kyra, voltando lo sguardo in un’altra direzione. Vuotò le ultime gocce di limpaq dal fondo del boccale, e alzò la mano per chiederne un altro: era l’unica cosa che le andasse giù liscia, quella sera. La bevanda giunse al loro tavolo attimi più tardi, servita dalla giovane figlia del locandiere. Era la prima volta che la ragazza si faceva vedere, aveva ato l’intera giornata chiusa nella sua stanza, a recuperarsi dal trauma del rapimento. Aveva ancora un aspetto pallido ed emaciato, ma pareva che la vita stesse tornando a colorire le sue gote. Si scambiarono un sorriso, anche se la ragazza non resse a lungo il suo sguardo.

«Volevo ringraziarvi un’altra volta...» mormorò. «Non ce n’era bisogno» rispose Kyra «Tuo padre sta già facendo di tutto per farci sentire dei re.» Vinia si lasciò scappare una risatina. «Anch’io voglio ricambiare quel che avete fatto per me.» Si approssimò a Kyra e le prese una mano con delicatezza, poi estrasse un bracciale dal tascone del grembiule e glielo chiuse attorno al polso. Kyra girò il braccio per osservarlo meglio: era un vecchio monile color del rame, non troppo elaborato ma di gradevole fattura. «Tienilo, in segno della mia gratitudine. È un ricordo di mia madre.» Kyra si sentì a disagio e fece per toglierselo, ma Vinia poggiò una mano sulla sua per impedirglielo. «Non posso accettare!» protestò la guerriera. «Fallo, te ne prego. Non è gran cosa, ma per me è molto prezioso. Proprio per questo voglio che lo accetti. Quando lo guarderai, ti ricorderai di quel che hai fatto per me, e saprai di essere una persona eccezionale. Chi altri, al tuo posto, avrebbe corso tanti rischi per strapparmi alle grinfie dei Figli della Notte, e salvarmi la vita con tale eroismo?» Kyra non seppe cosa rispondere, imbarazzata. Tulga, invece, bofonchiò qualcosa sulle ingiustizie della vita, e sul fatto che a lui non fosse toccato nulla. Con un sorriso, Vinia gli fece l’occhiolino e gli stampò un bacio sulla fronte, poi se ne andò con una giocosa riverenza. Al posto suo, comparve la boriosa figura dell’uomo vestito di rosso. Se ne stava in piedi a fissarli, con una coppa di vino tra le dita e una luce di malizia negli occhi. Senza chiedere il permesso, girò una sedia e si accomodò al loro tavolo dirimpetto a Kyra, con le braccia incrociate sullo schienale. «Non ho potuto fare a meno di sentire» commentò «e devo dire che la cosa mi ha incuriosito non poco... Figli della Notte, niente di meno, e siete qua a

raccontarlo, tutti d’un pezzo!» «A dire il vero non stavamo raccontando nulla» osservò Kyra, acida. Quell’uomo non le ispirava la minima fiducia. «Tre contro due, noi sconfiggere loro così» si vantò Tulga, schioccando le dita. Kyra gli lanciò un’occhiata fulminante, ma il barbaro era in vena di darsi arie. «Primi due corvi morire senza neanche sapere cosa colpito loro!» «Dici davvero?» sorrise l’uomo, con le labbra ma non con gli occhi. «Loro capo invece molto forte, dare filo da torcere» continuò Tulga, agitando la forchetta per aria «Lui quasi uccidere noi con sue stregonerie, poi Kyra... ouch!» Dal momento che gli avvertimenti visuali non erano serviti, Kyra aveva fatto ricorso al classico calcione negli stinchi. Il barbaro la squadrò con occhi offesi, senza capire cos’avesse fatto di male. «Sono certa che questo signore ha di meglio da fare che starsene qui a sorbirsi le tue corbellerie» disse lei, augurandosi che l’importuno personaggio riuscisse a leggere tra le righe «Non è vero?» L’uomo non fece cenno di rialzarsi. Si lisciò i baffetti con una mano. «Tutt’altro, cercavo proprio la compagnia di gente interessante come voi. A proposito, perdonate la mia villania, non mi sono presentato: mi chiamo Laban. E voi sareste...?» «Io Tulga, lei M… ehm, Kyra!» rispose il barbaro, prima che lei potesse tappargli la bocca. Non si fidava di quel Laban, e non le piacevano il suo fare indiscreto e i suoi modi affettati. C’era sotto qualcosa. Tulga, invece, si mise a raccontargli di getto l’avventura della notte precedente, con l’aggiunta di qualche particolare fantasioso qua e là, ma in modo sostanzialmente sincero. Sempre più spesso lo sguardo di Laban si posava su di lei, e Kyra cominciò a sentirsi a disagio, finché decise di aver sopportato abbastanza. «Andiamo, è ora di partire» disse, drizzandosi in piedi. Prese Tulga per un gomito e lo costrinse ad alzarsi, sennonché Laban lo agguantò per l’altro braccio

e lo spinse giù a sedere. «È presto, restate ancora un po’. Adesso tocca a me raccontare.» Kyra si preparò a replicare in malo modo, ma l’uomo la fissò con tale risolutezza che finì per obbedire, allibita. «Anch’io conduco una vita piuttosto avventurosa, come la vostra.» Si ò una mano tra gli stravaganti boccoli ramati che gli incorniciavano la fronte. «Non per inclinazione, bensì per mestiere, ahimè. Quali sacrifici ci tocca fare, per guadagnarci da vivere... e per soddisfare qualche capriccio in più, diciamolo!» «Tu mercenario?» domandò Tulga. «No, no, no!» rispose Laban, accompagnando le negazioni con ampi gesti di ripulsa «Non ho nulla da spartire con quella razza di trogloditi!» Infilò una mano nella giubba e ne estrasse un plico di fogli arrotolati, legati assieme da un pezzo di corda. Rimosse il legaccio e poggiò l’involto sulla superficie del tavolo, dove cominciò a spianarlo con le due mani. «Sono un cacciatore di taglie. O meglio, il cacciatore di taglie per antonomasia, visto che i miei concorrenti stentano a tenere il o. Non per vantarmi, ma consegno ai boia del Regno più delinquenti io in un mese, che tutti gli altri in un anno. Che volete farci, sono davvero brillante nel mio mestiere.» «Quali banditi tu catturato?» lo interrogò Tulga. Laban alzò su di lui uno sguardo divertito. «Molti e pericolosi, ogni caso un’avventura degna di essere cantata dai bardi ai quattro venti! Ma a dire il vero preferisco concentrarmi sul presente.» Sollevò dalla pila il primo foglio, su cui era abilmente disegnato un volto barbuto dall’espressione truce, e lo comparò con quello del barbaro. «No» disse quasi subito. Mise da parte il foglio, ne prese un altro, e ripeté la sequenza.

Kyra e Tulga si scambiarono un’occhiata inquieta. «Ci hai presi per dei ricercati?» sbottò la guerriera. Laban non la degnò di una risposta. Stringeva tra le dita il ritratto di una donna, e aveva spostato la sua attenzione su di lei. «No» disse di nuovo, scuotendo la testa. Kyra perse la pazienza: sbatté sul tavolo il pesante braccio artificiale, con un rimbombo che fece sobbalzare tutti i presenti, e spazzò via la catasta di fogli. Laban non reagì, mentre il mucchio di effigi svolazzava qua e là per infilarsi sotto a tavoli e sedie. Con grande flemma, si chinò a raccogliere i più vicini. «Sei molto scortese» osservò, con una smorfia. Mollò sul tavolo il primo plico di fogli stropicciati, sbuffò, e si alzò per raccattare gli altri. Alcuni erano già finiti tra le mani degli abitanti del villaggio, che li squadravano con un misto di curiosità e timore. Kyra decise che non sarebbe rimasta un minuto di più in quel luogo. Afferrò Tulga per un gomito e lo spinse davanti a sé, verso l’uscita. «Vieni, abbiamo già perso troppo tempo. Salutiamo l’amico locandiere e...» L’occhio le cadde sul ritratto posto in cima alla pila: raffigurava un uomo di mezza età, dalla mascella forte, il naso aquilino, e una cascata di capelli biondi. Malgrado qualche dettaglio che non quadrava - le orecchie troppo grandi, per esempio, o gli occhi troppo vicini tra loro - riconobbe al volo l’effige, e provò una fitta al cuore. Ghermì il foglio tra le dita di metallo e lo studiò da vicino con occhi stralunati. Non c’erano dubbi. «Trovato qualcosa di interessante?» la canzonò il cacciatore di taglie. Kyra fece un o avanti e gli piazzò l’immagine sotto al naso. «Perché quest’uomo è ricercato?» grugnì, trattenendosi a stento dal prenderlo per il collo. Laban la guardò come se fosse debole di mente.

«Forse perché ha commesso un crimine? O magari è un semplice caso di antipatia da parte delle autorità...» La guerriera ruggì un’imprecazione e avanzò di un altro o. «Dimmi dove si trova!» A dispetto della foga, avvertì una puntura a livello dello stomaco, e si arrestò. Abbassò lo sguardo: era la punta affilata del fioretto di Laban, premuta contro il suo ventre. Il cacciatore di taglie le rivolse un sorriso torto. «Perché non me lo dici tu, dove si trova? Il tuo amico vale un bel mucchio di quattrini.» «Graaah!» urlò Tulga, e rovesciò il tavolo addosso a Laban. Questi se ne liberò con una spallata e sventagliò il fioretto contro il barbaro: la lama flessibile guizzò come una serpe e gli lacerò il volto, mandandolo gambe all’aria. Kyra approfittò del momento per balzare addosso al cacciatore di taglie e invischiarlo in un corpo a corpo, troppo vicina perché l’altro potesse far buon uso della propria arma. Vi fu un rapido scambio di colpi proibiti, una fulminea serie di leve, prese e contro-prese, finché, tra gli sguardi allibiti dei presenti, i due antagonisti si schiantarono contro una finestra e la mandarono in frantumi: precipitarono all’esterno, nel buio e nella pioggia, allacciati in una stretta furibonda e innaffiati da un rovescio di cocci di vetro colorato. Balzarono in piedi come gatti, pronti a riprendere la lotta. Sottili linee di sangue segnavano braccia e volti dove i frammenti di vetro avevano lacerato la pelle, ma gli spiriti erano intatti. Se il fioretto di Laban balenava come un lampo nella notte, le lame di Kyra, scattate fuori dal braccio artificiale, non erano da meno: alla luce proveniente dall’interno della locanda - in parte soffocata dalle ombre degli uomini affacciati nel vano dagli orli frastagliati, in parte riflessa dai sottili steli d’acqua in fuga dal cielo - ogni impatto era una scintilla, ogni colpo un raschio aspro di metallo contro metallo. A poco a poco i duellanti si distanziarono dalla luce, per spostarsi verso la strada immersa nelle tenebre. Kyra affrontò il cacciatore di taglie con rinnovato rispetto: aveva ritenuto di poterlo dominare in poche mosse, come il classico sbruffone senza arte né parte, ma l’uomo le stava mostrando che la sua spocchia aveva basi solide. Era un eccellente spadaccino, dotato di resistenza e incredibili

riflessi. Solo il suo abbigliamento ridicolo le impediva di provare del sano timore nei suoi confronti. Quello, e gli stupidi baffetti incerati. Siccome Laban riusciva ad intuire ogni mossa del suo braccio, provò ad alterare l’equilibrio della lotta con un calcio assestato a tradimento, ma l’iniziativa causò l’effetto contrario a quello sperato: il piede portante slittò su una pozza di fango e lei scivolò in avanti, addosso all’arma volteggiante del nemico. Schivò la punta per un pelo, inarcando il collo, ma la lama le agganciò un laccio della benda già malconcia, e la strappò via. Nel buio della notte, l’occhio artificiale pulsò come il cuore fiammeggiante di uno spirito maligno. «Che diavoleria è mai questa?» eruppe Laban. Abbassò la guardia per un solo istante, sufficiente a Kyra per prendere l’iniziativa: lo incalzò con un affondo che parò a malapena, seguito da una velenosa stoccata al polso che lo costrinse a mollare il fioretto. Braccato dalle lame di Kyra, il cacciatore di taglie si difese come poté, benché l’esito dello scontro fosse ormai scontato. In breve si ritrovò schiacciato contro il tronco di un albero, il pugno metallico di lei puntato a una spanna dal suo volto. Esibì un sorriso pallido. «Hai vinto, mi arrendo.» «Hai finito di fare lo sbruffone?» ringhiò Kyra «Rispondi alla mia domanda!» «Quale domanda?» La guerriera infilzò il tronco a un millimetro dalla sua testa. «L’uomo del ritratto: dove si trova?» «Mi piacerebbe saperlo, credimi.» «Conterò fino a tre, poi dovrai arrangiarti a parlare senza lingua. Uno, due...» Proprio nel momento meno opportuno, un capogiro: Kyra si afflosciò contro Laban come una bambola di pezza. Il cacciatore di taglie impiegò un istante per

ribaltare la situazione a proprio favore: sgusciò via dalla flebile presa della guerriera e corse a recuperare il fioretto piantato nella terra bagnata. In un batter d’occhio Kyra si trovò intrappolata schiena al tronco, con la lama sottile appoggiata sotto al mento. Il sorriso di arrogante superiorità era tornato a sbocciare sul volto di Laban. «La vita ci riserva sempre qualche sorpresa! Ricominciamo da capo, le domande le faccio io: dimmi tutto quello che sai del ricercato. E niente menzogne, me ne accorgerei. Non vorrei dover aggiungere un altro sfregio alla tua collezione.» Kyra boccheggiò, alla disperata ricerca di un punto d’appoggio che subentrasse alle sue gambe molli come gelatina. «Da brava» la incitò Laban «Non perdiamo altro tempo.» All’improvviso qualcosa catalizzò la sua attenzione: spinse lo sguardo tra le tenebre alle spalle di Kyra, scrutò al loro interno con occhi inquieti. Un attimo dopo, urlò. Fu un urlo da far agghiacciare il sangue, tanto più spaventoso perché inatteso, e accentuato da un’espressione di puro terrore. Laban lasciò cadere l’arma per coprirsi il volto con le mani, crollò in ginocchio ai piedi di Kyra. La guerriera, che non era in condizioni di riflettere sull’accaduto, né di sprecare quell’opportunità, gli si gettò addosso di peso, lo inchiodò schiena a terra e gli rifilò un’abbondante sequela di pugni, tanto con l’arto di metallo come con l’altra mano. «Ba... basta!» bofonchiò Laban, tra le labbra spaccate. Kyra fermò il pugno a mezz’aria, inquadrando il volto gonfio e sciupato del cacciatore di taglie, e decise di dargli retta. Lo afferrò per la collottola della giubba, gocce di sangue rosso sul rosso scuro del tessuto, e gli sollevò la testa dal suolo. «Parla.» Laban espettorò un grumo sanguinolento e mise la lingua all’opera senza ulteriori titubanze. Sotto la vigile guardia dell’occhio infuocato, la rese partecipe

della rocambolesca fuga di Dorian dal covo dei Figli della Notte a Rutan, e di come l’impresa avesse fatto infuriare gli alti gradi dell’ordine, tramutandolo dalla notte al giorno nel ricercato numero uno. La taglia era ricca, faceva gola a qualsiasi cacciatore di taglie, e non solo. Strappando numerose testimonianze lungo il cammino, con le buone e con le cattive, Laban era riuscito a ricostruire i i di Dorian con un discreto margine di certezza, ed era proprio sulle sue tracce che si stava muovendo, quando la pioggia l’aveva costretto a cercar riparo nella locanda. «Sostar» sputacchiò «Mi gioco il cappello che il tuo amico è diretto alla capitale.» Kyra lo mollò senza troppa cortesia. Non aveva bisogno di udire altro. Adesso sapeva che la bussola di Nahash non le aveva mai mentito, e che la sfiducia le aveva fatto perdere del tempo prezioso. Si rimise in piedi sulle gambe traballanti, cercò la benda e la sistemò con un secondo nodo prima di indossarla. Niente più pause, il suo corpo avrebbe dovuto far pace con se stesso durante il viaggio, in sella. Se non altro, la conferma della libertà di Dorian l’aveva riempita di energia positiva. Si sentì improvvisamente in grado di affrontare un’intera notte a cavallo, debolezza o meno. Nel caso peggiore, Tulga l’avrebbe sorretta a forza. Proprio mentre pensava a lui, il barbaro riapparve, furente, un panno lordo di sangue premuto su una guancia. Fece per scagliarsi addosso a Laban, ma Kyra lo intercettò a metà percorso e lo sollevò di peso, per trascinarlo verso il cavallo. «Un’altra volta» gli disse, immune al suo scalciare e al torrente di imprecazioni che gli scorreva dalla bocca. Laban, sempre a terra nel fango, trovò appena la forza di scuotere la testa e sputare un dente. «Ci rivedremo, donna!» esclamò «E questa volta non ci saranno fantasmi né spiriti maligni della notte a darti man forte!» «Cosa lui dire?» domandò Tulga, finalmente decisosi a seguire Kyra con le buone. «Non lo so» rispose lei «Deve aver preso una botta in testa.»

Salirono in sella e si allontanarono nella notte, sotto il costante martellare della pioggia, mentre un capannello di curiosi andava formandosi intorno alla figura malconcia del cacciatore di taglie.

XXII - Catene

«Ridammelo!» strillò la voce di Pryce, più alta di un tono. Tasha entrò di corsa nel cortile con un libriccino tra le mani, ridendo a squarciagola. Lo aprì a caso, senza smettere di correre, e lesse ad alta voce: «...Ser Gregor lanciò il suo destriero al galoppo, il cuore palpitante di bramosia per la damigella dagli occhi blu...» «Smettila!» «...quando pensava a Matilde, poteva cavalcare per una settimana intera senza dormire, e affrontare cento nemici senza batter ciglio...» «Basta, ho detto!» Raduan rimase a guardarli, esterrefatto. Pryce l’aveva quasi acciuffata, ma Tasha lo schivò e cambiò direzione. «Solo un altro po’, sto arrivando alla parte interessante! ...Ser Gregor la prese tra le braccia, e gli parve di stringere al petto la luce delle stelle. Sarebbe stata sua, per sempre! Che gran finale, bravo!» Pryce inciampò, e per poco non capitombolò a terra. Si fermò a riprendere fiato, piegato in due dallo sforzo. «Pe... Perché...?» domandò, ansimante. Tasha smise di correre e gli andò incontro con un sorriso gradasso, andosi il libretto da una mano all’altra come un giocoliere. «Perché cosa, Pulcino?» Lui alzò gli occhi pieni di rabbia. «Perché cerchi sempre di umiliarmi, dannazione! E non chiamarmi così!»

«Ti dà fastidio? Preferisci schiavo?» Gli sporse il libretto. Quando lui fece per afferrarlo, lo tirò indietro all’ultimo momento, e glielo gettò ai piedi. «Hai quasi la mia età, dovresti vergognarti!» rise. Nel frattempo anche Raduan si era avvicinato. «Volete spiegarmi che sta succedendo?» Tasha aprì un sorriso sprezzante: «Succede che Pulcino è patetico: a il tempo a scrivere insulsaggini!» «Non è vero!» «Ah, no? Allora suppongo che il nobile Ser Gregor sia tuo zio, e che questa sia la sua biografia?» «Certo che no! L’ho inventato, come le sue avventure.» «Lo vedi, monaco? Scrive cose senza senso!» Raduan si grattò la testa, senza saper che rispondere. Pryce raccolse da terra il libriccino, soffiò via la polvere, e sfogliò le pagine con grande premura. «Sono novelle» disse, con voce bassa e misurata «Ho iniziato a scriverle sulla nave.» «Sono che?» chiese Tasha «Scritti di fantasia» intervenne Raduan, che di suo non ne aveva mai lette. Era la moda del momento tra i giovani intellettuali del Regno, con grande scorno degli anziani Saggi. «Sì» spiegò Pryce «Sono merce rara, io sono riuscito a leggerne solo una dozzina in tutta la mia vita. Ma sono certo che tra qualche anno riempiranno le botteghe dei librai, e le biblioteche di mezzo Regno!» «Puah!» rise Tasha «Come no! E il mondo intero si inchinerà al genio del nostro

eccelso scribacchino!» «Non c’è nulla di male...» commentò Raduan, ma lei non lo lasciò finire. «Eccome se c’è! Guardati, Pulcino: sei timido e debole come una donnicciola, di questo o ti infileranno una gonna e ti manderanno a raccattare la frutta con le mogli dei pirati!» Pryce fremette di rabbia. Fece un o avanti, poi si rammentò dei due pirati appoggiati al muro: avevano smesso di cianciare tra loro, e li stavano fissando con curiosità. Tasha interpretò la sua esitazione come un’altra manifestazione di debolezza. «Tutta qui la tua reazione, Pulcino? Svegliati! Bisogna affrontarla la vita, senza timore di farsi male! Tanto, anche se cadi, prima o poi ti rialzerai. Te lo dimostro...» Prima che Raduan potesse intervenire, la ragazza fece lo sgambetto al giovane, lo spinse al suolo, e rimase lì a guardarlo con le mani sui fianchi. Pryce singhiozzò un paio di volte, poi si calmò e cercò di salvare quel poco di dignità che gli restava. Si rimise in piedi lentamente, rifiutando la mano tesa di Raduan, e incrociò lo sguardo di Tasha con occhi duri. «Schiavo o no, è ora che qualcuno ti dica la verità: sei solo una ragazzina stupida e arrogante, senza nessuna qualità. Ti credi forte perché tutti si curvano al tuo aggio! In realtà è a tuo fratello che s’inchinano. Se non ci fosse lui, vorrei proprio vedere...» Tasha divenne paonazza. «Come ti perm...» «Non ho finito! Sei un’ipocrita, e per giunta una vigliacca! Dici tanto a me di crescere e di affrontare la vita, quando tu non sei altro che il cagnolino di Namza! Lo segui dappertutto, fai tutto quel che ti dice scodinzolando, e appena gira lo sguardo ti sfoghi sugli altri come un mastino feroce! Brava, che coraggio! Adesso magari insultami, buttami di nuovo a terra, così ti sentirai meglio, poderosa signora dei pirati! Puoi fare tutto quel che vuoi, meno sciogliere il guinzaglio che tuo fratello ti ha stretto al collo!»

Quando il fiume di parole si prosciugò, cadde un silenzio pesante. Tasha guardava a terra, il volto rosso e tremante. Raduan fissò Pryce con nuovo rispetto: aveva detto tutto d’un fiato quel che lui stesso avrebbe voluto rinfacciare da tempo alla petulante ragazza. Il sacro furore del giovane, però, era stato di breve durata: in un attimo la durezza svanì dal suo sguardo, il sangue gli rifluì dal volto, e tornò ad essere lo stesso individuo timido e impacciato di sempre. «Tasha, io...» «Taci» disse lei. «...non volevo… ho esagerato...» «Sparisci, schiavo, e ringrazia che la mia spada non è qui, o mi prenderei la tua lingua in cambio di tanta insolenza!» Lui fece per ribattere, ma Raduan gli fece cenno di no. Pryce sospirò e si allontanò in silenzio, con gli occhi bassi. Sopraggiunsero i due pirati: volevano vederci chiaro. «Tutto bene, Tasha? Per caso quel verme ti ha mancato di rispetto? Dicci solo una parola, e noi...» «Andatevene da qui» ringhiò lei. «Cosa? No, non possiamo, tuo fratello ci ha ordinato di...» «E io vi ordino di levarvi dai piedi, o giuro che la pagherete!» La sua espressione era così eloquente che i pirati arretrarono di un o. Si guardarono tra loro, poi guardarono Raduan - che se ne stava in disparte simulando indifferenza - e infine diedero un’alzata di spalle. «Come vuoi, Tasha. Se hai bisogno di noi, fa’ un fischio.» Lei non rispose, e rimase immobile fino a quando i due non scomparvero dentro al palazzetto. Allora scalciò via un sasso e si annodò i capelli in una coda di cavallo.

«Se vuoi possiamo continuare domani» si azzardò a dire Raduan. «No. Oggi va più che bene.» Afferrò due spade di legno appoggiate alle macerie del pozzo, ne gettò una al guerriero. «In guardia!» disse, e si lanciò all’attacco. Lottarono a lungo senza fermarsi, una sequela ininterrotta di colpi secchi che risuonarono per tutto il villaggio. Quella non era una comune lezione, Raduan lo avvertì nel braccio ogni volta che parava un colpo. Tasha ci stava mettendo tutta la sua forza, tutta la rabbia che aveva in corpo. Se non si fosse protetto, gli avrebbe spaccato la testa senza neanche rendersene conto. Finalmente, quando già cominciava a sentirsi a corto di fiato, la ragazza cedette alla fatica. Non riusciva nemmeno più ad alzare le braccia, il respiro le sfuggiva a rantoli dalla bocca spalancata. Se non altro sembrava che il peggio fosse ato, dentro di lei. «Facciamo una pausa.» «Sì.» Sedettero all’ombra, sulla panca dove in genere Pryce scribacchiava sul suo libriccino, lanciando occhiate discrete alla ragazza senza che lei se ne accorgesse. «Hai combattuto bene oggi, con molta energia» disse il guerriero. «Mmm...» «Però non sono certo di approvare l’origine di tanta forza.» Tasha non ribatté, il che lo impressionò più di qualsiasi altra cosa. Le parole di Pryce dovevano averla ferita più di quanto immaginasse. Si sentì in dovere di dire la sua. «Il ragazzo non diceva sul serio. Era solo infuriato, ecco tutto. Ti ha anche chiesto scusa, l’hai sentito.» Lei si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, e continuò ad evitare il suo sguardo.

«Non mi piace quando parlano di me e di mio fratello. Sembra che sia l’unico atempo degno di nota, in questo maledetto villaggio!» Raduan si lisciò la barba. La curiosità l’ebbe vinta sulla discrezione. «Parlane tu, allora. Raccontami di voi.» «Non sarai per caso un altro di quegli impiccioni, monaco?» «No, ho solo bisogno di riprendere fiato. Niente di meglio che una bella storia per are il tempo.» «Facciamo così: io te la racconto, e tu, in cambio, mi insegni qualche colpo proibito.» «Affare fatto.» «Va bene, allora. Da dove vuoi che cominci?» «Non so. Dalla tua famiglia?» «Puah, proprio un bell’inizio! Non so se i miei genitori siano ancora vivi, ma se lo sono, spero che stiano marcendo in galera!» «Infanzia infelice?» «Puoi dirlo. Nei miei primi ricordi vedo mia madre, ubriaca, che mi copre di insulti, e mio padre che mi pesta senza motivo. Era così tutti giorni. Non fosse stato per Namza... Anche se era solo un ragazzino, lavorava più di mia madre e mio padre messi insieme. Senza di lui non ci sarebbe stato niente da mettere sotto i denti. E mi proteggeva dalle botte, mi nascondeva, una volta mi ha persino portato dei dolci! Li abbiamo mangiati in cantina, nascosti insieme ai topi, mentre mio padre di sopra ci cercava e minacciava di affogarci come cuccioli.» Raduan si inquietò a quell’immagine. Da bambino, al Tempio, non aveva vissuto quel tipo di problemi. Erano gli altri, piuttosto, a dover subire la sua condotta sfrenata: i monaci, Martha, tutti i membri della sua famiglia allargata. «Spesso Namza mi prendeva per mano e mi portava a vedere le navi. Era un

misero porticciolo, nella nostra ancor più misera città, eppure allora i bastimenti mi sembravano colossali. Si fermavano al porto uno, due giorni, giusto il tempo di far rifornimento e poi ripartire per altre destinazioni, ben più importanti.» «Come si guadagnava da vivere, tuo fratello?» «C’erano mille lavoretti da svolgere al porto. Un ragazzino con la sua abilità e la sua voglia di fare non restava mai troppo tempo con le mani in mano. Oggi sospetto che arrotondasse con qualche furtarello, allora non l’avrei mai pensato. Mio fratello era il mio idolo, il mio eroe. Ogni volta che ero triste mi riempiva la testa di storie sul futuro che avremmo ato insieme, io e lui, viaggiando su e giù per il mondo, conoscendo gente di tutti i paesi, vivendo un’avventura dopo l’altra...» La sua espressione si fece triste. «E poi?» «Poi si mise in testa di andare per mare. Non gli era ancora spuntata la barba, quando si imbarcò su un vecchio bastimento e lasciò un vuoto nella mia vita. “Tornerò” mi disse, ed io gli credetti. Ma dovetti attendere per anni, i peggiori della mia vita. Quando ho cominciato a diventare donna, è stato l’inferno. Non fosse che ho giurato di non mettere più piede in quel buco maledetto, partirei oggi stesso per raderlo al suolo!» «Per come vanno le cose, ci penserà la guerra» pensò Raduan, senza dirlo ad alta voce. «Proprio quando stavo per commettere una sciocchezza, Namza tornò. Non era più il ragazzo che conoscevo. Era un uomo, uno sconosciuto. La prima cosa che fece fu darle di santa ragione ai nostri genitori. Poi li trascinò in strada per i capelli e diede fuoco alla baracca.» «Beh...!» «Non dire niente, se lo meritavano. Io l’ho persino aiutato. Soltanto dopo mi sono accorta che non avevo più una casa, né un miserabile giaciglio dove dormire. Ebbi paura. Namza mi abbracciò e disse che avrebbe badato lui a me. Quella notte ci incontrammo con un gruppo di marinai, amici suoi. Erano sudici e puzzavano di limpaq, ma Namza mi disse che potevo fidarmi. Mi condussero

di nascosto a bordo di una nave in partenza. Facevano parte della ciurma, per questo conoscevano il vascello a menadito. Mi nascosero in un angolo della stiva con un po’ di provviste, e Namza mi ordinò di non uscire da lì per nessun motivo, fino a quando non fosse venuto a prendermi. “Per nessun motivo!” mi ripeté, me lo ricordo ancora: non gli avevo mai visto un’espressione del genere, faceva paura.» Raduan allungò le gambe. «Dov’era diretto il vascello?» «Alla perdizione» rispose lei, storcendo le labbra. Era un sorriso, o una smorfia di pentimento? «Una notte, quando ormai veleggiavamo al largo, udii urla atroci provenire dalla coperta. Non mi mossi, come mi avevano ordinato. Ero così terrorizzata che mi tappai le orecchie con le mani. Più tardi Namza venne da me, per la prima volta da quando eravamo partiti. Aveva un grosso taglio sulla fronte, ed era imbrattato di sangue dappertutto. Mi tese la mano, sorrise, e disse: “Ti presento il nuovo capitano”.» Il guerriero cominciò a capire: «Un ammutinamento...» «E dei più sanguinosi. Soltanto dopo seppi che era stata un’idea di Namza, spalleggiato dai suoi compari. Una volta fatto fuori il capitano e i suoi uomini più fedeli, avevano convinto il resto della ciurma ad arrendersi. A suo onore, devo dire che mio fratello lasciò liberi quelli che si rifiutarono di giurargli fedeltà. Gli altri - e non erano pochi - accettarono di seguirlo in una nuova vita.» «Pirati» disse Raduan con disprezzo. «Non giudicarli, monaco. Non hai idea di come fosse la loro esistenza, prima dell’ammutinamento. Erano stanchi di subire, e si sono conquistati la libertà.» «Conosco forme più civilizzate di farlo.» «Beh, non sono tutti perfetti come te. Vuoi sentire il resto della storia, o ne hai già abbastanza?» «No, per favore, continua.» «All’inizio eravamo pochi. Abbiamo ato due anni sempre in fuga, nel timore

che la flotta del principe ci acciuffasse, o che le Gilde si fero giustizia da sole. Dove avamo, però, trovavamo sempre quel che ci serviva: cibo, soldi, e uomini abbastanza coraggiosi da unirsi alla causa.» «Non la chiamerei proprio una causa...» «Ricominci?» «Scusa, mi cucio la bocca.» Lei fece un mezzo sorriso. «No, hai ragione, non abbiamo molto di cui vantarci. Il resto della storia puoi immaginarlo: diventammo sempre più numerosi, finché ci servì un covo. Il Dio Barak ci ha indicato questo posto.» «Come?» «Una tempesta. Il vento ci ha stracciato le vele e ci ha sbattuti dentro l’insenatura. Credevamo di essere morti, invece è stata la nostra salvezza. Namza ha organizzato tutto come se fosse un villaggio. Ha portato le donne - quasi tutte consenzienti, che tu ci creda o no - e il resto è venuto da sé. Ormai siamo ricchi, e quello sciocco capitano della Gilda ha fatto il resto, regalandoci un nuovo vascello. Presto, con il caos della guerra, mio fratello potrà soddisfare le sue ambizioni di potere.» «Non gli basta quello che ha?» Tasha rise, e si coprì la bocca con una mano. «Non lo conosci, monaco! Se lo lasceranno fare, si prenderà tutto il Regno!» «Sa il fatto suo, a quanto pare.» «Più di quanto tu creda.» «E tu?» La domanda cadde come una doccia gelata su Tasha. Fino a quel momento avevano parlato soltanto del ato - o meglio, del ato di suo fratello.

Adesso Raduan la tirava in ballo, senza tante sottigliezze. «Che intendi?» chiese, sulla difensiva. «Ti piace questa vita? Ti senti appagata?» Tasha si stropicciò le mani. «È una domanda difficile. Credo di sì. Anche se...» «Non sei obbligata a rispondermi.» «Non ho nulla da nascondere. È solo che mi aspettavo qualcosa di più. Credevo che avrei visto il mondo, insieme a Namza. Invece tutto quel che gli interessa è l’oro. E l’argento, e i preziosi. A che ci serve accumulare tante ricchezze?» «La libertà non è qualcosa che si possa comprare» concordò Raduan. Lei lo guardò di sottecchi. «Sì, dici bene.» «Posso esprimerti quel che penso, senza remore?» «Provaci pure.» Lui si schiarì la gola. «Credo che Pryce abbia ragione, almeno su un punto. Namza è tuo fratello, non il tuo padrone. Se sei stufa di lui e dei suoi metodi, non hai che da andartene.» Per un attimo pensò che Tasha l’avrebbe aggredito come il ragazzo, ma non accadde. Sembrava turbata. «Anche tu pensi che mi tenga al guinzaglio?» «Solo tu puoi rispondere a questa domanda. Io so soltanto quel che vedono i miei occhi.» «E cosa vedono, monaco?»

«Una giovane tenace, con tutta la vita davanti, che non deve rendere conto a nessuno delle proprie scelte.» Tasha rise. «Non dirmi che anche tu sei uno scrittore, o qualcosa del genere!» «Dico soltanto quel che penso.» «Grazie per la tua sincerità, allora. Rifletterò sulle tue parole. Ma adesso tocca a me fare le domande. Che cosa ci facevi sulla “Rosa dei Venti”?» Raduan decise di buttarsi: non aveva senso temporeggiare, quando la posta in gioco era la sua libertà, e la vita di Abel. Non poteva raccontarle tutto, ma almeno una mezza verità era necessaria, se voleva farsi ascoltare. «Hai mai sentito parlare della Valle della Luna?» «Non è quel vecchio racconto per bambini?» «Proprio quello: un luogo strabiliante, traboccante di meraviglie e ricchezze. È dove sono diretto.» Tasha inarcò un sopracciglio. «Mi prendi in giro?» «Neanche un po’. La Valle esiste davvero. Ho le prove, e... una specie di mappa. Se non ho ancora messo le mani sul tesoro, è soltanto per colpa vostra.» Con tutto quel che gli era successo, era stato fortunato a non perdere i fogli con gli appunti di Helah e le annotazioni della rotta seguita dall’Orca Azzurra. Anzi, più che fortunato era stato previdente: fin da quando aveva messo piede sulla “Rosa dei Venti”, non fidandosi della ciurma di William, aveva tenuto i fogli nascosti nel luogo più sicuro che gli fosse venuto in mente: il tascone interno dei suoi pantaloni. Nessuno dei pirati di Namza era stato tanto audace da rovistarlo proprio lì. «Ammesso che sia vero, perché me ne parli? Namza sarebbe molto più interessato all’argomento.»

«Il tesoro è la cosa meno importante per me, credimi. È la Valle che mi interessa. Voglio essere il primo a metterci piede, dopo non so quanti secoli. Voglio esplorarla da cima a fondo, godermi tutta la sua bellezza. Voglio l’avventura, e la scoperta!» Si augurò di aver interpretato bene il personaggio. Da come lei lo guardava, si sentì ottimista. «Dimentichi di essere prigioniero. Mi preoccuperei di più del presente, se fossi in te.» «E perché credi che ti stia raccontando tutto questo?» Lei si irrigidì. «Che intendi dire?» «O la va, o la spacca» pensò Raduan. «Voglio fuggire, e riprendere la ricerca della Valle. Ma non posso farlo da solo. Mi serve l’aiuto di una persona coraggiosa.» Tasha si alzò dalla panca, l’incredulità dipinta sul volto. «Ho bisogno di te, Tasha.» «Sei impazzito? Non sai chi hai di fronte?» «Lo so benissimo.» «Se una sola parola uscisse dalla mia bocca» ringhiò lei «la tua testa finirebbe infilzata su una picca! Sai anche questo?» Raduan mantenne una maschera di calma e sicurezza. «Non lo farai. Tu vuoi aiutarmi, e partire con me alla ricerca della Valle. È quello che hai sempre voluto, l’occasione che hai sempre atteso. Te lo leggo negli occhi.» «Cosa... come...?»

«Non ne puoi più di questa vita, non negarlo! Spezza le tue catene, Tasha. Conquista la libertà, insieme a me.» Lei rimase a bocca aperta, scuotendo la testa. Lo fissava senza riuscire a spiccicar parola. Il guerriero si alzò, aprì le braccia. «Tasha...» La ragazza arretrò di un o. «Non dire più nulla! Stammi lontano!» «Ascoltami...» «No, basta! La lezione è finita, chiamerò qualcuno per riaccompagnarti.» Gli lanciò un ultimo sguardo pieno di sorpresa e confusione, poi si allontanò ad ampi i. Raduan rimase solo nel cortile. Sospirò. Aveva fatto la cosa giusta ad aprirsi in quel modo? Aveva scoperto le carte troppo presto? O forse la sua non era la mano vincente? Tasha era combattuta tra il legame che la univa a Namza e la volontà di accettare la sua proposta, se lo sentiva. Era proprio su quello che aveva voluto far leva, sin dall’inizio. Il miraggio di un nuovo futuro l’avrebbe trasformata in una preziosa alleata. E se invece avesse vinto in lei la forza del ato? Quanto gli sarebbero costate quelle pericolose confidenze? Preferì non pensarci. Presto l’avrebbe scoperto comunque.

XXIII - In Fuga

Un altro pomeriggio nell’afa soffocante della capanna... Raduan camminava su e giù come un ossesso, cercando di non pensare al sudore che gli inzuppava la camicia, alla sete che gli inaridiva la gola, al timore del fallimento che ardeva come un’ulcera nel suo stomaco. Due giorni erano ati da quando aveva fatto la proposta a Tasha, e da allora non l’aveva più vista. Sia quel giorno che il precedente, dopo l’addestramento dei pirati sulla spiaggia, Kalis l’aveva riaccompagnato alla baracca senza fornirgli nessuna spiegazione. Brutto segno. Tasha aveva aperto bocca con suo fratello? No, in quel caso gliel’avrebbero già fatta pagare. O forse sì, e Namza stava giocando al gatto e al topo, lasciando che si rodesse l’animo in isolamento per qualche giorno, prima di dargli il colpo di grazia. «Basta!» si disse. A cosa serviva torturarsi in quel modo? Eppure non riusciva a far altro. L’unica consolazione la trovava nella preghiera, benché sapesse che era inutile sperare in un intervento diretto del Fabbro Celeste. Abidan non si intrometteva mai nelle faccende degli uomini: aveva dato loro il più grande dei doni, il libero arbitrio, non restava che farne buon uso. La preghiera lo aiutava a svuotare la mente, a scacciare le immagini nefaste che gli inquinavano il sonno e la veglia, visioni di dolore e morte che avevano sempre se stesso come protagonista, o i suoi affetti più cari, Kyra, Dorian, Abel... Sussultò quando udì scattare il chiavistello. Si stropicciò gli occhi e tornò alla realtà: era già buio. Brandy aprì la porta, gli fece segno di arretrare verso il fondo della capanna, poi gli rivolse un sorriso insolente: «Ti abbiamo portato un regalo, rubacuori!» Gonzo entrò a testa bassa con il vassoio del cibo: portava, come al solito, una scodella di brodaglia e qualche fetta di pane nero; questa volta, però, c’era un

fiasco di vino ad accompagnarli. «Un omaggio di Tasha» disse Gonzo, nervoso «come ricompensa per le splendide lezioni di spada.» Brandy rise con malizia, sullo sfondo. Dalla soglia il pirata non poteva accorgersene, ma Gonzo continuava a far scattare gli occhi dal fiasco a Raduan, e viceversa, con la più totale mancanza di discrezione. «Cosa le è successo?» domandò il guerriero «Perché ha interrotto le lezioni, se le piacevano tanto?» «Un... malore. Ma ormai si è ripresa, ed è pronta a continuare.» Raduan annuì, prese il vassoio, e se lo portò in un angolo, come ogni sera. Finse di mangiare normalmente, finché il pirata non richiuse la porta. Poi mise da parte il vassoio e prese ad armeggiare con il fiasco: lo agitò, lo scosse, ma non notò nulla di strano dentro al liquido scuro. Guardò nel tappo e alla base del recipiente, senza trovar niente. Finalmente, quando cominciava a non capirci più nulla, tastò con la punta delle dita un qualcosa incastrato tra la paglia e il vetro: era un minuscolo foglietto ripiegato. Penò per trovare un raggio di luce abbastanza forte da permettergli di leggere il contenuto. C’era scritta un’unica parola: “Domani.” Riconobbe la grafia precisa: l’aveva già vista nel libriccino che Tasha aveva sottratto a Pryce. Dunque, le novità erano due, ed entrambe lo resero felice. Per prima cosa Tasha si era decisa a dargli retta: all’indomani avrebbero dato il via alle danze, doveva tenersi pronto. E Pryce era della partita! In un modo o nell’altro avevano fatto pace, e lei si era confidata, non c’era altra spiegazione! Forse era stato proprio il ragazzo a convincerla. Sorrise. Litigi a parte, soltanto un cieco non si sarebbe accorto che tra i due era nato un legame. Anche Gonzo doveva saperne qualcosa, altrimenti non avrebbe rischiato di mandare tutto in malora con quelle smorfie ridicole. Era un miracolo che il pirata non avesse sospettato nulla! Doveva esserci lo zampino di Pryce nella consegna

del biglietto: non ricordava che Tasha e Gonzo avessero mai fatto conoscenza - a parte quella volta che lei gli aveva sferrato un calcio nelle costole, o quell’altra in cui aveva minacciato di tagliargli la lingua. Si sedette a mangiare, con un raro briciolo di appetito. L’indomani non lo innervosiva, anzi. Non vedeva l’ora di darsi da fare, di menare le mani, se necessario. Quanti giorni aveva perso in quel dannato buco? Abel non poteva aspettare! Quella notte dormì malissimo. Il mattino ò con lentezza esasperante. La parte peggiore, poi, fu salire la collina con Kalis alle calcagna: non c’era modo di capire se quegli occhi spenti lo ignorassero come sembrava, o se invece gli scavassero dentro. Dire che quell’uomo fosse inquietante era poco. Non gli aveva mai sentito rivolgere la parola a nessuno, né mostrare attenzione o entusiasmo per qualsiasi cosa. Era come se vivesse su un altro pianeta, lontano dai comuni mortali. Ma Raduan non avrebbe dimenticato con tanta facilità la spietata esecuzione di William: chiunque fosse davvero quel Kalis, era come minimo un assassino a sangue freddo. Tasha li attendeva all’ingresso del palazzetto, come sempre. Salutò Kalis come se niente fosse, accennò ai due pirati addetti alla scorta, e condusse Raduan al cortile senza fretta. Dai suoi movimenti e dalle sue parole non traspariva nulla di diverso dal solito: era davvero una grande attrice. Raduan si augurò che non avesse ingannato anche lui. Pryce era seduto al suo posto sulla panca, accanto a un paio di grossi fagotti di tela. Il ragazzo gli accennò da lontano, poi riprese a concentrarsi sul libriccino che aveva in grembo. Gli scivolò tra le mani sudate, cadde a terra, lo raccolse, cadde di nuovo, lo recuperò con un gemito. Aveva il volto paonazzo, apriva e chiudeva le gambe a una velocità impressionante. «Alla faccia della discrezione!» pensò Raduan. Se il ragazzo non si calmava, Tasha l’avrebbe costretto a modo suo. E non era bello a vedersi. «Oggi la lezione sarà un po’ speciale, monaco» disse Tasha. «E perché mai?» «Perché ho convinto Namza a lasciarti usare una di queste, in modo che le nostre lezioni non sembrino una farsa. Mi sono davvero stufata di quelle spade

giocattolo!» Gli porse una spada per il verso dell’elsa. Era una spada vera, con la lama di metallo tagliente. Raduan non riuscì a reprimere un sorriso. «Come...?» «Non è stato facile, ma alla fine l’ha ammesso anche lui: mai ha visto un prigioniero comportarsi bene come te, oltre che dimostrarsi tanto utile. Credo che abbia intenzione di proporti la libertà, di nuovo.» «Alle sue condizioni?» «Certo, schiavo, cosa credevi?» Raduan fu tentato di sorriderle, o di farle l’occhiolino: sarebbe stata un’enorme stupidaggine, con i due pirati che li osservavano da vicino. Quel giorno sembravano particolarmente tesi: era inaudito che un prigioniero ricevesse un’arma, tanto più quando c’era di mezzo la sorella del capo! «Sbaglio, o hai appena detto che le nostre lezioni sembrano una farsa?» commentò Raduan, ando un dito sulla lama. Non era troppo affilata, ma poteva servire allo scopo. «Ti ho offeso, monaco? Allora dimostrami che fai sul serio!» «Cercherò di non farti troppo male.» «Ed io cercherò di fartene abbastanza, per toglierti quell’aria da sbruffone. Su, cominciamo!» Fu lei a dare la prima stoccata, che Raduan parò con facilità. Contrattaccò senza troppo impegno, dandole il tempo di alzare la difesa. Poi fu di nuovo la volta di Tasha, e così via. Più che un combattimento era una danza di movimenti orchestrata alla perfezione. Il guerriero riconobbe con un certo orgoglio che la ragazza aveva assorbito bene i suoi insegnamenti, e li stava utilizzando per dare alla lotta una parvenza di realtà, più di quanto fosse necessario. Perché? Un sospetto ce l’aveva. «Mi prendi in giro?» sbraitò Tasha, con rabbia «Io mi do tanto da fare per

procurarti una vera arma, e tu la usi come se fosse un piumino?» Raduan stette al gioco, e le rispose con voce alterata: «Davvero? Perché mi sembra che tu non riesca neanche a vedere i miei colpi. Ho perso il mio tempo con te: dirò a tuo fratello che sarebbe meglio darti un altro atempo, un po’ più femminile.» Tasha simulò un’espressione di offesa incredibilmente convincente. «Ripetilo, e giuro che ti ammazzo!» «Ripetere che cosa? Che sei un’incapace, o che sei una femminuccia senza speranze?» «Aaargh!» gridò lei, e lo attaccò con un fendente a due mani. Raduan lo parò, lei perse l’equilibrio - o finse di farlo - e cadde a terra. «Ehi, vacci piano!» esclamò uno dei pirati, mettendo mano alla spada. Tasha si rialzò e attaccò di nuovo, il volto contratto in una smorfia di furia. Anche questa volta, quando Raduan parò il colpo, lei rovinò a terra con un gemito. «Adesso basta!» urlò il pirata. Sguainò la sciabola, subito imitato dal compagno, e corse verso Raduan. Il guerriero si preparò a riceverli. Tasha, da terra, gli fece un lieve cenno di diniego col capo. Raduan, interdetto, obbedì: lasciò cadere la spada, arretrò con le mani in alto. I pirati lo raggiunsero e gli puntarono le lame alla gola, minacciandolo: «Non ci senti, schiavo? Quando ti dico di andarci piano, devi farlo all’istante, capito? Vuoi che ti cavi un occhio, per fartelo ricordare?» «Un occhio forse è troppo» disse l’altro «Ma di certo non gli servono due orecchie intere, che ne dici?» «Dico che hai ragione, amico! E tu che ne pensi, schiavo? Ti va se ci prendiamo un lobo o du...»

Prima che terminasse la frase, Tasha lo colpì sulla nuca con il piatto della lama, mandandolo faccia a terra. L’altro fece appena in tempo a girarsi, che ricevette a sua volta una piattonata sulla fronte. Ondeggiò come un fuscello, poi crollò al pari di un sacco di pietre sopra al suo compare. Tasha si mise la spada in spalla, soffiò via un ciuffo di capelli dal volto, e rivolse a Raduan un sorriso smagliante: «Bravo, monaco! Bel diversivo!» «La prossima volta avvertimi» grugnì il guerriero. «Non c’era spazio sul biglietto...» «Sbrigatevi, non state lì impalati!» strillò Pryce dal suo angolo. Era balzato in piedi con l’aria di chi sta per avere un collasso, e stringeva tra le braccia uno dei fagotti di tela. Non aveva tutti i torti. «Andiamo» disse Raduan. Tasha lo fermò per un braccio, accennando ai due pirati svenuti. «Aspetta! Qualcuno potrebbe trovarli. Nascondiamoli.» Con l’aiuto di Pryce - tanto nervoso che i suoi denti battevano come nacchere trascinarono i corpi dietro un cumulo di pietre e erbacce, nell’angolo più lontano del cortile. Poi il ragazzo afferrò un fagotto, e invitò Raduan a fare altrettanto. «Nascondi la spada lì dentro» gli disse. Il guerriero infilò l’arma tra le pieghe di una pelliccia, avvolta nella tela insieme a un piccolo campionario di indumenti pesanti. Tasha era stata previdente: affrontare il Nord senza quel tipo di precauzioni poteva rivelarsi fatale. «Il piano è semplice: ce ne andiamo di qui!» spiegò Tasha «Camminiamo con calma fino al molo: io sono la padrona, voi i miei schiavi obbedienti. Se qualcuno ci ferma, voi non aprite bocca. Dirò che mi state aiutando a caricare la barca. Non dovrò neppure mentire!»

«Barca?» «Sì, non è molto grande, ma è maneggevole e robusta. La uso da anni per scorrazzare lungo la costa, non mi ha mai piantato in asso.» «Guidaci, allora.» Percorsero lo stretto corridoio sino all’uscita dell’edificio, Tasha davanti ai due uomini curvi sotto il peso dei fagotti. L’area era quasi deserta, e i pochi presenti non li degnarono di uno sguardo. «Per di qua» ordinò Tasha. All’inizio della discesa, Raduan si rammentò di una cosa molto importante. Accelerò il o per affiancare Tasha, che gli rivolse un’occhiataccia. «Dov’è la cucina?» le domandò sottovoce. «Che ti salta in mente?» rispose lei tra i denti, senza neanche guardarlo in faccia. «Gonzo.» Tasha si sforzò di capire, poi aggrottò le sopracciglia. «Quel mentecatto dell’aiutante del cuoco? Cosa vuoi da lui?» «Non posso lasciarlo qui!» Un gruppetto di pirati comparve all’improvviso da una viuzza laterale, tagliando loro la strada. Il primo, che stringeva una bottiglia tra le dita, imprecò e sputò in terra, ma non appena si rese conto di chi aveva davanti si fece da parte con un mormorio di scusa. I compagni lo spinsero via in un coro di risate e sberleffi. «Sei pazzo!» sibilò Tasha «È troppo rischioso, dobbiamo andare dritti alla barca!» «Te l’ho detto, non me ne vado senza di lui.» «Raduan ha ragione» disse Pryce, sforzandosi di dominare il tremore nella voce «Sarebbe ingiusto lasciarlo qui.»

Tasha si voltò ad affrontarli, col sangue alla testa. Le fu sufficiente un’occhiata, però, per capire che il maestro di spada era inamovibile nella sua decisione, e che Pryce l’avrebbe appoggiato sino all’ultimo. «È un rischio stupido» disse, scuotendo la testa. «L’intero piano lo è» ribatté Raduan, e lei non seppe come negarlo. «Facciamolo, allora, in fretta! E se non lo troviamo in cucina, per me possiamo darlo per perso.» Deviarono dal cammino principale per imboccare un viottolo che risaliva lungo il pendio. Un paio di donne, intente a sbucciare verdure sulla porta di casa, li guardarono incuriosite. Quando i loro occhi incontrarono quelli alteri di Tasha, abbassarono lo sguardo. Il vicolo si stringeva a imbuto sino all’uscio spalancato di una vecchia casa, da cui uscivano odori appena più tollerabili di quelli dei mucchi di sporcizia accatastati tra le abitazioni. «Ugh!» gemette Pryce. «Mi hai tolto le parole di bocca» disse Raduan. «Zitti, schiavi!» li redarguì Tasha, nel caso si fossero scordati della loro parte. Dentro, un’unica sala dalle pareti annerite occupava l’intero pianterreno della costruzione. In un angolo campeggiava una catasta di frutta e verdura dall’odore pungente, sormontata da tranci di carne e grossi pesci appesi a ganci nel muro, e assediati dalla rumorosa danza delle mosche. Nell’angolo opposto c’era un enorme camino pieno di braci roventi, dove il cuoco stava rimestando il contenuto di un pentolone arrugginito. In mezzo alla sala, seduto a un tavolaccio che aveva visto tempi migliori, stava Gonzo: alzò lo sguardo infelice dalla montagna di patate che aveva dinanzi, e gli nacque sul volto un sorriso smagliante. «Lo sapevo!» sbottò, gettandosi alle spalle il coltello che reggeva in una mano e la patata che reggeva nell’altra. Trattandosi di Gonzo, il tubero non poteva che centrare in pieno la nuca del cuoco. L’uomo girò la sua grossa testa sudata, e i suoi occhi porcini si strinsero di rabbia nel vedere la sua cucina invasa da estranei. Mollò il mestolo dentro la

pentola, si tirò su i pantaloni - dalla cintola smodata come il suo giro-vita - e andò incontro ai nuovi arrivati con una serie di violente imprecazioni. Di aggio, rifilò a Gonzo un manrovescio abbastanza forte da farlo ribaltare all’indietro sulla sedia. Il poveretto cadde sulla schiena con un lamento. «Che ci fate qui dentro?» ruggì il cuoco «Non lo sapete che è proibito? Anche per te, principessa!» «Cos’è, hai paura che compromettiamo l’igiene della tua cucina?» lo schernì lei, accennando alla festa di insetti che impazzava sulla carne. «Fai poco la spiritosa, ragazza, o lo dirò a tuo fratello! Chissà che non ti metta a lavorare qui con me, per punizione...» Allungò una mano unta per accarezzarle il volto. Tasha la respinse con ribrezzo. «Nei tuoi sogni! Levati di torno, sono venuta per il tuo aiutante, non per te!» «Cosa vuoi da lui? Non ti bastano i tuoi schiavi?» Squadrò i due con una scintilla di sospetto negli occhi. «E perché mai te li porti dietro così, senza scorta?» «Come vedi hanno le mani occupate. E comunque non sono affari tuoi, cuoco!» «Lo sono da quando hai messo piede qui dentro. Perché ti interessa quel mentecatto?» «Non hai sentito cosa ti ha detto?» sbottò Raduan, a corto di pazienza. Il cuoco sgranò gli occhi, inferocito. «Come osi rivolgermi la parola, schiavo?» gridò, e si gettò addosso al guerriero. Pryce, che era in mezzo, si trovò schiacciato tra Raduan e la massa corpulenta del cuoco, e cominciò a gridare. Tasha sguainò la sciabola e spinse la punta nella schiena del pirata, abbastanza forte da farlo grugnire di dolore. Il cuoco, che sapeva riconoscere il morso di un’arma da taglio, s’immobilizzò all’istante. «Non avresti dovuto farlo, principessa.»

Si girò su stesso con una prontezza del tutto incompatibile con la sua stazza, afferrò la lama con una delle grosse mani, e la strappò dalla presa di Tasha. Aprì un sorriso odioso, incurante del sangue che già cominciava a scorrergli tra le dita. «Questa volta l’hai fatta grossa, ragazza! Ci penserà Namza a farti ricordare la disciplina.» «Te la do io la disciplina, brutto maiale!» strillò Gonzo, comparso alle sue spalle con una padella tra le mani. Quando la calò sulla nuca del cuoco con tutta la sua forza, produsse un suono simile a quello di una campana stonata. Il pirata roteò gli occhi all’indietro e piombò al suolo privo di sensi. Gonzo si mise in posa, un piede sulla testa della preda, il manico della padella stretto tra le mani come se fosse l’elsa di uno spadone. «Giustizia è fatta» proclamò, con fiero cipiglio. Raduan scoppiò a ridere, malgrado la tensione del momento, subito accompagnato da Pryce. Mentre riabbracciavano l’amico, Tasha si diede da fare per recuperare la sciabola sotto la mole inerte del cuoco. Non era in vena di sorrisi, e lo disse chiaro e tondo: «Con tutto il baccano che abbiamo fatto, non mi sorprenderei se avessero già dato l’allarme. Andiamocene!» «Aspettate!» esclamò Gonzo, mentre cercavano di trascinarlo fuori. Corse via e riapparve un istante dopo con un rotolo di salsicce appeso al collo. «Le tenevo d’occhio da un pezzo!» spiegò, leccandosi i baffi. Tasha lo maledisse ad alta voce e varcò l’uscio, senza guardarsi indietro. «Adesso fa’ il bravo» gli disse Raduan, nascondendo le salsicce nel fagotto «La seguiamo tranquilli fino al molo, poi ci porterà via sulla sua barca.» Gonzo non riuscì a nascondere la delusione: «Viene anche lei?» «Ehi!» replicò Pryce, punto sul vivo «Se non fosse per Tasha...» «Ne parliamo dopo, va bene?» tagliò corto Raduan «Su, prima che se ne vada

per conto suo!» Recuperarono il terreno al trotto, raggiungendola giusto all’imbocco della via principale. Tasha non li cercò con lo sguardo, forse per non destare sospetti, forse perché era davvero arrabbiata con loro. arono nello spiazzo davanti alla bettola dei pirati, dove come al solito c’era una piccola folla intenta a bere, giocare a dadi, scommettere sui galli - insomma, a sperperare i propri spiccioli in tutti i modi possibili. I pochi che alzarono la testa per vederli are la riabbassarono subito, troppo concentrati sulle loro faccende. Uno di loro, però, un ometto scalzo con la faccia da faina, li scrutò con più intensità del dovuto. Tasha se ne accorse con la coda dell’occhio. «Accidenti, proprio lui! Credo che ci abbia notati!» sussurrò. «Chi?» domando Raduan, alle sue spalle. «Non so come si chiami, ma è noto come il peggior spione da qui a Sulya.» «Qual è?» «Non voltarti così di scatto, dannazione! È il tappo alla destra del tavolo dei dadi, quello appoggiato alla parete.» Raduan arrischiò un’occhiata. «Non lo vedo...» Tasha lo cercò a sua volta con lo sguardo, solo per scoprire che si era dileguato. «Maledizione! Affrettate il o, ci siamo quasi.» Erano giunti ai piedi del colle, dove sorgevano le ultime case. Al di là di esse c’era soltanto la banchina semi deserta, e le acque luccicanti del mare che li attendevano come una promessa di libertà. Accelerarono il o senza rendersene conto, e stavano quasi correndo quando una dozzina di pirati armati fino ai denti sbucò da dietro le case per sbarrar loro il cammino. Avevano le sciabole sguainate, e degli ampi sorrisi da squalo dipinti sui volti, nella sadica aspettativa di una lotta impari.

Dietro di loro comparvero Namza e Kalis, il primo cupo in volto, il secondo indecifrabile come sempre. Lo spione li seguiva da vicino, con le mani in tasca. Il capitano fissò gli occhi dalle orbite scavate in quelli spaventati di Tasha. «Sono molto, molto deluso, sorellina. Pensavi che non mi fossi accorto delle tue macchinazioni?» Lei abbassò lo sguardo, al contrario di Raduan, che cominciò a studiare gli avversari. «Bene» pensò. Facevano tutti parte del gruppo a cui aveva insegnato l’arte della spada - anche se, a giudicare dalle facce, nessuno coltivava sentimenti affettuosi nei confronti del maestro. «È da un pezzo che vi tengo d’occhio, tu e i tuoi amichetti» continuò Namza «Sei molto prevedibile.» «Io...» La mise a tacere con un solo gesto della mano. «È questa la tua gratitudine? È così che mi ripaghi per aver ato la mia vita a badare alla tua? Scappando come una ladra in compagnia degli schiavi che mi appartengono?» Tasha era sempre più confusa: dinanzi alle accuse del fratello, la sua proverbiale scontrosità si era sciolta come neve al sole. «Ho... Ho diritto alla mia libertà...» «Perché, non ti basta quello che hai? Noi pirati non siamo abbastanza per te? Preferisci la compagnia dei monaci e di quello scribacchino da quattro soldi che ti segue come un cane? Adesso capisco perché ti chiamano principessa!» I pirati accompagnarono le sue parole con grugniti di approvazione. Kalis non mosse neanche gli occhi: Raduan se li sentiva addosso fin dal primo istante, come se l’uomo puntasse a lui soltanto. «Faremo i conti dopo, Tasha» terminò Namza «E prometto che non ti piacerà. Adesso, però...» si rivolse ai pirati ammassati tra sé e i fuggitivi «...uccidete i tre

prigionieri! Che nessuno torca un capello a mia sorella, o se la vedrà con me!» Mentre i pirati avanzavano in una barriera compatta, Tasha si guardò attorno in cerca di una via di fuga che non esisteva. Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Raduan vide in lei paura e smarrimento, e capì che la cosa era seria: la ragazza era lacerata tra l’ambizione di una nuova vita in libertà, e la volontà di compiacere suo fratello, che amava e rispettava più di chiunque altro al mondo. Anche Pryce aveva colto al volo le ragioni del suo turbamento. Raccolse il coraggio, le prese una mano, e la strinse con dolcezza. Tasha si voltò e lo guardò negli occhi con stupore. Qualunque cosa vide nello sguardo di lui, le fece stirare le labbra in una parvenza di sorriso. Annuì, strinse più forte la mano del giovane, e si preparò ad affrontare la prova che il destino le aveva posto dinanzi. «Dovrete uccidere anche me!» urlò, sguainando la sciabola. «Non ascoltatela» rispose Namza, stizzito «La voglio viva, e illesa.» «Provateci, vigliacchi! Posso farvi fuori tutti anche da sola!» «No, non da sola» aggiunse Raduan. Infilò un braccio nel fagotto, ne estrasse la spada che vi era nascosta. Il metallo pesante tra le dita gli diede una sensazione sublime, sentì lo spirito della battaglia fluirgli nelle vene come fuoco liquido. I pirati sussultarono, qualcuno smise di avanzare. Non era nei loro piani affrontare il maestro di spada con una vera arma tra le mani. Brandy, il grassone, se la squagliò con consumata abilità di disertore, senza che né il capitano né i suoi compagni se ne avvedessero. «Avanti, di che avete paura?» sbraitò Namza «Siete molti più di loro, vigliacchi!» Al suo fianco, Kalis incrociò le braccia sul petto, dove il medaglione di Abidan era esposto a riflettere il bagliore del sole. Nello schieramento opposto, Gonzo impugnò saldamente la padella che aveva messo fuori combattimento il cuoco, e si piazzò a gambe larghe davanti a Pryce. «Ci penso io!» disse. Il ragazzo si accucciò contro un muro e cominciò a pregare

tutti gli Dei che conosceva. «Paura?» chiese Raduan alla sua giovane allieva. «Neanche un po’» rispose lei, riscattando la sua tipica sbruffonaggine. «Bene, perché ho bisogno che tu faccia esattamente quel che farò io.» «Perché?» «Fallo e basta, capirai!» I pirati, sempre guardinghi, erano ormai molto vicini. Il guerriero non attese che gli venissero addosso per fare la prima mossa. «Kyaaa!» urlò, fiondandosi sul nemico più prossimo. Cercò di colpirlo sul lato sinistro del corpo, ma il pirata parò con la sua sciabola. Provò sul fianco destro: anche questa volta l’uomo lo anticipò e frappose la sua lama. Aveva appreso a fondo la lezione, ripetuta cento e mille volte sulla spiaggia, fino all’esaurimento delle forze. «Vediamo se l’ha imparata davvero bene!» si disse Raduan. Fece per colpirlo di nuovo a sinistra, ma era solo una finta: all’ultimo la sua spada disegnò un arco fulmineo nel senso opposto e, mentre la sciabola del suo avversario andava a coprire un fianco, affondò la propria nell’altro. La lama non trovò nessuna protezione: imprudenza o pura irresponsabilità? Tant’è che il pirata si trovò a rantolare al suolo in fin di vita. Raduan si scagliò sul secondo della fila e ripeté l’esatta sequenza di colpi utilizzata per abbattere il primo: sinistra, destra, finta, di nuovo destra. Anche questo avversario non vide arrivare il terzo colpo, e venne sconfitto in un batter d’occhio. «Così!» esultò Raduan, con un ghigno di soddisfazione. Tasha affrontò il suo primo avversario. La sua sciabola scattò avanti in una perfetta imitazione dei movimenti di Raduan, finché il nemico cadde a terra trafitto. La giovane schivò il colpo di un altro pirata, arretrò con un balzo, e si

trovò spalla a spalla con il guerriero. «Come lo sapevi?» domandò, senza spostare gli occhi dai pirati, che serrarono i ranghi dove tre di loro erano stati abbattuti in modo ignominioso. Raduan sorrise di sghimbescio. «Ero il loro maestro, no? Peccato che abbia insistito troppo su certe sequenze, e mi sia dimenticato di mostrare le varianti...» Tasha rispose al suo sorriso. «Mai entrare in battaglia senza un asso nella manica, ragazza. Continua a imitarmi!» Si rituffò nella mischia, sfruttando altre combinazioni di colpi rapidi e letali. Tasha mimò i suoi gesti come un’ombra, mietendo vittime con una facilità che la lasciò esterrefatta. Quando la prima dozzina di pirati fu annientata, altri piombarono loro addosso da tutti i lati. Uno, arrivato troppo vicino a Pryce, finì per soccombere ai colpi della padella di Gonzo, tramutata in un mulinello impazzito. Gli altri non riuscirono a valicare la barriera creata dal guerriero e da Tasha, trasfigurata in un demonio dai capelli di fuoco: ebbero tutti la peggio, uno dopo l’altro. Quando anche l’ultimo dei pirati cadde al suolo con un gemito, la ragazza rivolse a Raduan un sorriso raggiante. Il guerriero fece per restituirglielo, quando captò un movimento improvviso dietro di lei. Una figura nero vestita si materializzò alle sue spalle, le rifilò una violenta spallata, e la mandò gambe all’aria, facendole sfuggire la sciabola. «Kalis!» esclamò Raduan. «Vacci piano con lei» rammentò Namza, sempre in disparte. Kalis non diede segno di averlo udito, e comunque la ragazza era già fuori combattimento: giaceva a terra intontita dalla tremenda botta. Gli occhi del misterioso guerriero erano tutti per Raduan. Si strappò il medaglione di Abidan dal collo e avvolse la catenella attorno a un polso, in segno di sfida. Poi sguainò le scimitarre gemelle e restò in attesa.

Raduan non si fece pregare: scattò avanti, le lame cozzarono tra loro sprizzando scintille. Il duello si protrasse in una lunga sequenza di affondi furiosi, parate, balzi, schivate, e colpi proibiti con i gomiti e le ginocchia. I due avversari volteggiavano saltando gli ostacoli con agilità, dimentichi del mondo che li circondava: nient’altro esisteva, soltanto il nemico. Il guerriero dalle vesti di corvo era un osso durissimo, Raduan se ne rese conto fin dai primi scambi di colpi. Non parlava, non ansimava, persino i suoi occhi restavano immobili su un punto fisso. Le sue scimitarre si muovevano agili ed eleganti, come prolungamenti delle braccia. Raduan fu costretto ad arretrare. Se soltanto avesse avuto tra le mani una spada di buona fattura, invece di quell’avanzo di ripostiglio! La lama era smussata, l’elsa consumata e scivolosa, il bilanciamento pessimo. Nel fare un o indietro, poggiò il tallone su un sasso e perse l’equilibrio. Kalis notò l’apertura e vi si buttò, le scimitarre tese dinanzi a sé. Raduan, non tentò un improbabile recupero della posizione, si lasciò cadere all’indietro, accentuando la spinta: le lame mancarono di un soffio il bersaglio, raspandogli il volto. Mentre Kalis gli sfrecciava sopra sospinto dal suo stesso impeto, Raduan alzò una mano. Le sue dita ghermirono un tessuto: tirò e strappò, nella speranza di ingaggiare il nemico in una lotta corpo a corpo. Non ebbe successo: Kalis ò indenne e Raduan si ritrovò in mano un inutile pezzo di stoffa. Balzò in piedi con un colpo di reni, pronto al prossimo assalto. Il grido disgustato di Gonzo e Pryce anticipò la sua smorfia di raccapriccio, quando posò gli occhi sul guerriero. Adesso capiva perché portasse sempre un bavaglio sulla parte inferiore del viso, quello stesso bavaglio che gli aveva appena strappato di dosso... La bocca di Kalis era priva di labbra, e intorno ad essa la pelle era stata scorticata fino al naso, alle guance e al mento, dove le ossa erano allo scoperto come quelle di un teschio. Fissava Raduan con espressione vacua, più simile che mai ad un morto vivente. «I barbari non vanno per il sottile con gli assassini» commentò la voce di Namza. Raduan lo cercò con lo sguardo ed ebbe un’amara sorpresa: il capitano aveva

raggiunto Tasha e la teneva stretta alle spalle in un abbraccio violento, premendole la punta di un pugnale sulla gola. La ragazza, ancora stordita, boccheggiava e faticava a tenersi in piedi. «Aveva talento nell’uccidere, il nostro Kalis, anche se sceglieva i suoi obiettivi a caso, secondo l’ispirazione del momento. Quando quelli della sua tribù l’hanno sorpreso con le mani insanguinate, non hanno dimenticato i disegni che faceva col coltello sulla pelle delle vittime, e hanno deciso di riservargli lo stesso trattamento. Ma anziché morire, li ha ammazzati ed è fuggito. Sta’ ferma!» ingiunse a Tasha, quando questa si agitò nella sua stretta. «Lasciala!» urlò Pryce. Venne ignorato. «Una fuga leggendaria la sua, dalle Sabbie Nere al di là delle montagne fino al Regno. Quando l’ho trovato in un vicolo di Sunder era quasi morto di fame e di freddo, poveretto. Come vedi l’ho trattato bene, e ha recuperato il suo buon umore.» Kalis non reagì in nessun momento durante il racconto, non sbatté neppure le palpebre. Finalmente Raduan sapeva chi aveva di fronte: un folle sanguinario, un mostro che in vita aveva inflitto e subito tanti orribili tormenti da perdere completamente il senso della realtà. Doveva sopprimerlo, se voleva avere la minima possibilità di fuga. Tasha, però... Pryce scattò avanti, sfuggendo alla presa di Gonzo, ma prima che riuscisse ad avvicinarsi, Namza gli puntò contro il pugnale: «Sta’ fermo dove sei, bamboccio, o faccio un buco in questo bel visino!» Pryce si immobilizzò sul posto. «N-non lo farai, è tua sorella!» «Merita un castigo, non trovi? Non mettermi alla prova!» Quel dannato e il suo guardaspalle li stavano tenendo sotto scacco, Raduan se ne accorse subito: presto sarebbero giunti altri pirati a dar loro manforte, e sarebbe stata la fine. Cosa potevano fare?

Tasha gli diede la risposta a modo suo: approfittando della leggerezza del fratello - che le aveva tolto il pugnale dal collo per minacciare Pryce - scaraventò la testa all’indietro e gli rifilò una tremenda botta sul naso. Namza mollò la presa con un urlo, lei gli strappò l’arma e lo respinse con una gomitata. In un attimo i ruoli si erano invertiti: lui a terra, con un rivolo di sangue che gli colava dal naso sul camiciotto bianco, lei che lo squadrava dall’altro, puntandogli il pugnale sotto al mento. «Adesso sei tu che mi sottovaluti, fratellone.» Namza le rispose con un’occhiata furiosa, e gridò: «Kalis!» con voce gutturale. L’uomo corse come un obbediente cane da guardia, ma Raduan gli si parò davanti. «Sono io il tuo avversario» gli ricordò. Kalis lo martellò di colpi, e Raduan gli tenne testa. «Via, via, alla barca!» urlò ai tre compagni, mentre combatteva. Tasha accorse per dargli manforte, ma Raduan la fermò con alte grida: «Sparite! Andatevene!» La ragazza si morse un labbro. Incitò Pryce e Gonzo con un fischio, e li precedette di corsa verso il molo. Raduan era ipnotizzato dai movimenti di Kalis, dalla sua forza, dal suo orrido aspetto. Il medaglione di Abidan ciondolava al suo polso, irridendolo. Cominciava a sentire i morsi della fatica. Presto Namza e i pirati l’avrebbero attaccato alle spalle, e non sarebbe più riuscito a difendersi. Almeno gli altri dovevano farcela, mentre lui li copriva. Peccato per se stesso, e per Abel, che l’avrebbe atteso per sempre... «No!» pensò, e il pensiero gli sfuggì tra le labbra come un grido. La posta in gioco era troppo alta, non poteva dimenticare perché stava combattendo! Dorian, Kyra, lui stesso, erano gli ultimi superstiti della Compagnia del Viandante, e un guerriero della Compagnia non si piegava mai, neppure quando la morte gli soffiava in faccia, neppure quando le urla dei Demoni riempivano la notte ed il sangue inzuppava la terra!

Kalis non sembrava proprio un Demone, con quella smorfia orrenda intagliata nella carne, con quegli occhi privi di umanità e l’anima nera di un corvo assassino? Il pensiero dei compagni d’armi e delle innumerevoli battaglie combattute al loro fianco gli diede la forza necessaria: incalzò Kalis con colpi sempre più rapidi, sempre più potenti. Lo attaccò una dozzina di volte nello stesso punto, come un martello, finché il braccio del nemico cedette e si lasciò sfuggire l’arma. Il fendente successivo gli mozzò la mano all’altezza del polso, strappandogli un grido inumano, il primo verso che Raduan gli avesse sentito emettere in tutti quei giorni di prigionia. La mano roteò in aria per un pezzo, portandosi dietro il medaglione scintillante, prima di ricadere nel fango con un tonfo liquido. Kalis cercò di reagire con l’altra arma, ma il dolore e la furia lo spinsero ad attaccare in modo scomposto. Raduan lo disarmò con facilità, strappandogli anche l’altra mano con una sciabolata impietosa. L’assassino cadde sulle ginocchia, guardandosi i moncherini zampillanti con occhi stranamente vivi, allucinati. Li alzò su Raduan e spalancò la terribile bocca da teschio in un gemito che era metà sofferenza e metà sollievo. Dopo tanti anni, dopo tante torture e tanto dolore, avrebbe finalmente ricevuto il dono sublime, la ricompensa tanto attesa: la morte. Raduan fu lieto di accontentarlo, con un colpo netto, pulito, che lo decapitò all’istante. Era più di quanto avesse meritato. Namza rimase a bocca aperta, incredulo della fine del suo invincibile campione. Sopraggiunse in quel momento un gruppo di pirati urlanti: anch’essi si arrestarono di botto, ammutoliti dinanzi alla sorte di quell’uomo terrificante, che credevano immortale. Raduan colse l’attimo di indecisione per raccattare da terra il medaglione di Abidan e cominciare la sua corsa verso il molo, dove Tasha e compagni stavano già sciogliendo la cima d’ormeggio dell’imbarcazione. «Corri!» gli urlò Gonzo, con le mani a coppa davanti alla bocca. Al guerriero non servivano esortazioni: gettò via la spada, che lo stava ostacolando, e corse a testa bassa con tutto il fiato che gli restava in corpo. «Prendetelo!» gridò Namza, agitando un pugno per aria.

La massa di pirati corse dietro Raduan in un bailamme di minacce e urla feroci, mentre i pochi armati di archi tendevano le corde e scagliavano i dardi verso il fuggitivo. Una freccia cadde in acqua, del tutto fuori bersaglio, un’altra si infisse nel legno a un o dagli stivali del guerriero in corsa. La barca era vicina, si stava già distaccando dal molo. Tasha e Pryce spingevano sui remi, Gonzo lo incitava con le braccia tese e il corpo sporto fuori dalla barca. Raduan corse fino all’estremità del molo, mentre il legno traballava con violenza sotto i i pesanti dei pirati sempre più vicini, alle sue spalle. Spiccò un salto degno di un atleta, e piombò di peso tra le braccia di Gonzo, schiacciandolo sul fondo della barca. «A-Alla buon ora!» gli rinfacciò l’amico, sepolto sotto il suo peso. «Via, adesso!» esclamò Tasha. Balzò in piedi e armeggiò con le scotte che fissavano l’unica vela dell’imbarcazione al pennone diagonale. Una freccia le sibilò accanto, ma Tasha la ignorò. Un attimo dopo, l’ampio triangolo di tela si spiegò con uno schiocco, libero da ogni pastoia, e un vento propizio lo gonfiò fin quasi a strapparlo. Fu come se lo stesso Dio che aveva condotto i pirati alla baia avesse ora deciso di favorire la fuga di Tasha e compagni. In brevissimo tempo la barca prese velocità e distanziò il molo zeppo di pirati infuriati, finché il vento si ingoiò anche le loro imprecazioni. Raduan riuscì a districarsi dalla sua imbarazzante posizione, e aiutò Gonzo a fare altrettanto. Pryce gli strinse un braccio con occhi luccicanti di gioia. «Ce l’abbiamo fatta, per tutti gli Dei, ce l’abbiamo fatta davvero!» gridò. «Se non ci piombano addosso con uno dei vascelli» commentò Gonzo, guardandosi alle spalle. «Non ce la faranno mai! Avete idea di quanto tempo ci voglia a mettere in moto una nave di quelle dimensioni? E poi Tasha sa il fatto suo: conosce la costa come il palmo delle sue mani, e mi ha detto che può condurre questa barca ad occhi chiusi! Non è vero, Tasha?» «Siamo nelle tue mani, ragazza» concordò Raduan.

Lei non rispose: continuò a maneggiare le scotte, senza voltarsi indietro. «Tasha?» indagò Pryce, poggiandole una mano su una spalla. Lei la scrollò via con un gesto di fastidio. «Che le prende, adesso?» chiese Gonzo. Raduan gli fece cenno di tacere, e con lo sguardo ordinò a Pryce di tornare a sedere. Rimasero in silenzio, mentre lo scafo solcava le acque sempre più rapido, allontanandoli dal pericolo, verso la libertà. Tasha sedette a prua, rivolta al mare. Per un attimo mostrò il profilo, senza volerlo: aveva le guance solcate di lacrime. Sospirò, lo sguardo perso nell’orizzonte lontano.

XXIV - Le Zanne di Pietra

Raduan si strinse nel mantello, nel tentativo di imprigionare il calore del giorno morente. Accendere un fuoco era fuori discussione, finché si trovavano tanto vicini al covo dei pirati: l’insenatura era stretta e mascherata dagli scogli, ma la luce di un falò li avrebbe certamente traditi. Quella notte - e molte delle successive, temeva - dovevano comportarsi come se avessero Namza e i suoi predoni alle calcagna. La sua cena, se così si poteva chiamare, era stata poco appagante: sottili strisce di carne salata con pane duro, e un boccale d’acqua per mandare giù il tutto. Moriva dalla voglia di fare quattro chiacchiere per distrarsi dal freddo, nell’attesa del sonno. Con chi, però? Gonzo dormiva già come un fanciullo, infagottato in una pelle d’orso. Pryce, la fronte corrugata dall’apprensione, cincischiava col suo quadernetto, fingendo di scrivere, ma era ovvio che non ci stava riuscendo: i suoi occhi cercavano Tasha in continuazione. Quest’ultima se ne stava in disparte nel buio, appollaiata su uno scoglio con lo sguardo fisso sul mare. Da quando erano fuggiti, aveva scambiato si e no quattro parole con i compagni di fuga. Pryce si accorse dell’attenzione di Raduan, e non riuscì a celargli il proprio turbamento. Richiuse il libretto sulle ginocchia e restituì al guerriero uno sguardo che rasentava la supplica. Raduan si alzò. «Va bene, ci vado» disse. Pryce annuì, grato. Pochi i sulla sabbia umida e raggiunse l’estremità della minuscola spiaggia. Attese che Tasha avvertisse la sua presenza, ma la ragazza non lo degnò neppure di un’occhiata. Sedeva in cima allo scoglio con le ginocchia raccolte al petto, e il mento appoggiato su di esse. «Posso?» si schiarì la gola Raduan. La ragazza alzò le spalle, come a dire: «Fa’ pure.» Il guerriero si accomodò alla meno peggio sul relitto di un tronco trascinato a

riva dalla corrente. Per un po’ non disse nulla, nell’attesa che Tasha si abituasse alla sua presenza. Quando si decise a parlare, andò dritto al punto: «Hai fatto la cosa giusta, Tasha.» Lei lo guardò senza replicare, sistemandosi una ciocca di capelli ricci dietro un orecchio. «E non hai tradito proprio nessuno.» Questa volta Tasha gli regalò un sorriso distorto che pareva una smorfia. «Namza non mi è sembrato dello stesso parere...» «Ovvio: ha ato la vita a tenerti al guinzaglio, perché avrebbe dovuto accettare di buon grado la tua fuga?» «Tenermi al guinzaglio? Vuoi dire nutrirmi, proteggermi, amarmi, e cose del genere?» «Quanto all’amore, credo che fosse più verso se stesso. Ogni uomo vuole vedere allo specchio una buona immagine di sé, quando teme di essersi perduto.» «Che belle parole... Illuminami con la tua saggezza, monaco!» «Non sono un monaco, smettila di chiamarmi così. Dico solo che tuo fratello non è uno stinco di santo. Prendersi cura di te lo aiutava a sentirsi più umano, forse. Tempo fa conobbi un mercante che donava alle sue schiave i vestiti più belli e le gemme più sfarzose. Le ricopriva di doni ad ogni occasione. Era disposto a dar loro qualsiasi cosa, meno la libertà.» Tasha storse il naso. «Non ti sembra un paragone forzato? Stiamo parlando di mio fratello.» «Forse. Quel che voglio dire è che non devi sentirti in colpa per averlo lasciato, non più di un uccello che trovi la porta della gabbia aperta e spicchi il volo.» «Sei proprio ispirato, questa sera.» Raduan sorrise.

«A volte esagero con le parole, però sono certo che mi segui. Avevi tutte le ragioni di andartene.» «Con tre prigionieri?» «Abidan sa ricompensare gli uomini e le donne di buon cuore.» Tasha si portò una mano al petto, con una smorfia di dolore. «Il tuo Dio vale davvero poco, se questa angoscia è il suo dono. Perché mi sento così male, così...?» «Vuota?» «Sì, vuota. Perché?» Lui si lisciò la barba con una mano. «È l’afflizione del distacco, la pena di separarci dalle persone che più amiamo, a volte in modo ben diverso da quel che avevamo immaginato. Non è così che ti sei sentita, quando Namza si imbarcò e ti lasciò sola?» «Forse... Ero piccola...» «Fidati» sorrise lui, amaro «sono un esperto in questo genere di cose.» «Davvero?» Raduan si accorse che quanto più conversavano, tanto più lei sembrava riprendersi. Non amava parlare di sé, ma in quel frangente era il meglio che potesse fare per aiutarla. «Ho abbandonato mio padre, quand’ero giovane. Mi ha fatto infuriare a tal punto che l’ho piantato in asso.» «Se tuo padre era come il mio, direi che hai fatto bene.» «Di recente ho lasciato che il mio migliore amico se ne andasse da solo incontro al pericolo.» Rivide la schiena di Dorian, mentre partiva per Draslund all’inseguimento dell’Addestratore di Serpenti. «Avrei potuto dargli manforte, invece ho preferito fare di testa mia.»

«Non era tuo fratello, però.» «È come se lo fosse. Guai se lo perdessi, non me lo perdonerei mai.» «Qualcun altro da aggiungere alla lista?» «Sì» rispose lui, abbassando il tono. Tasha si sistemò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, divertita. «Una donna, vero?» «Come fai a saperlo?» «L’intuito femminile non sbaglia mai. Come si chiama?» «Kyra.» «Un bel nome. E lei, è una bella donna?» Raduan arrossì e girò il capo, anche se nel buio nessuno avrebbe fatto caso al suo imbarazzo. Tasha rise di gusto, per la prima volta nel corso di quella lunga giornata. «Sei certo di non essere davvero un monaco?» «Non era di te che stavamo parlando, fino a poco fa?» farfugliò lui. Non si era mai sentito a suo agio nel parlare di donne, soprattutto di quelle che gli piacevano davvero. Un retaggio della giovinezza ata tra le mura del Grande Tempio, forse. «La dolce Kyra mi sembra un argomento molto più interessante!» rise lei. «Dolce!» Raduan si lasciò a sua volta sfuggire una risata, ricordando il carattere di lei. “Dolce” era l’ultimo aggettivo che gli sarebbe ato per la mente. «Se vuoi sorridere di qualcosa, ragazza, pensa ai tesori che ci aspettano!»

Tasha distolse gli occhi da lui e li rivolse al cielo. Sul suo volto adesso c’era una parvenza di buon umore. «La Valle della Luna, niente di meno.» Sospirò. «Come ho fatto a darti retta?» «Non mi credi ancora?» Lei temporeggiò. «Sì, ti credo, o almeno credo nella tua convinzione. Anche se non sono del tutto certa dei tuoi motivi.» «Quale dei tre: l’avventura, la gloria, o la ricchezza?» Il vero motivo era un altro, ovviamente, ma era troppo presto per ammetterlo, correva il rischio di soffocare il suo entusiasmo. Gonzo era l’unico a conoscere una parte della verità. Pryce, come la ragazza, si era aggiunto al gruppo in seguito ai giochi del destino. Puro caso, o espressione della volontà del Fabbro Celeste? Non c’era modo di saperlo. Appena si fossero trovati fuori pericolo, avrebbe messo le carte in tavola, in modo che ciascuno scegliesse da sé la propria strada. Con un po’ di incentivo, poteva fare in modo che Tasha e Pryce partissero insieme. E con un po’ di fortuna, Gonzo li avrebbe seguiti a ruota. Rimasero a conversare ancora a lungo, le parole accarezzate dal lento sciabordio delle onde sulla riva. Senza forzare troppo la mano, quella notte Raduan le fece dimenticare i sensi di colpa ed il vuoto che la tormentavano, e incoraggiò la sua sete di avventura. Quando infine cominciò a sbadigliare, e si rese conto di non sopportare più un solo istante quella scomoda posizione, si congedò. Mentre si allontanava, Tasha lo afferrò per un braccio: «Aspetta. Ho qualcosa per te.» Infilò una mano dentro la camicia. Quando trovò quel che cercava, lo affidò alle dita di Raduan. Anche al buio, il guerriero riconobbe la gemma della Strega d’Ebano. «Varrà anche una fortuna, ma non mi piace. È come se... Non lo so, non mi piace e basta. Riprenditela.»

Raduan la soppesò per qualche istante nel palmo della mano, valutando se tenerla o gettarla in mare una buona volta: finora non gli aveva portato che scalogna. Alla fine, decise di obbedire all’istinto, e la riagganciò al suo posto accanto al medaglione di Abidan. «Grazie» disse, prima di allontanarsi. Andò a sdraiarsi accanto a Gonzo e Pryce - che, tranquillizzato dal suo intervento, aveva preso sonno già da un pezzo - e chiuse gli occhi nella certezza di aver compiuto un piccolo miracolo sullo spirito della ragazza. Ne ebbe piena conferma all’alba del giorno successivo. «In piedi, scansafatiche! La Valle della Luna non ci verrà incontro da sola, al contrario di mio fratello!» Tra le palpebre incollate dal sonno, Raduan scorse la figura di Tasha incombere su di loro, splendida e carica di energia come la cascata di capelli rosso rame che le incorniciavano il volto. Un cambiamento impressionante, dalla sera precedente. Pryce scattò in piedi come una molla, pronto a obbedire. Gonzo si rigirò sull’altro fianco, dopo avergli rivolto un’occhiata disgustata: «Lasciatemi dormire ancora un po’. Tanto ci pensi tu alla colazione, vero Fido?» Il ragazzo, interdetto, non si rese conto di quanto fosse ovvia la gioia stampata sul suo volto: gli mancava soltanto una coda per mettersi a scodinzolare come un cane. Tasha si coprì la bocca con una mano per non scoppiare a ridergli in faccia. Mangiarono un boccone, poi spinsero la barca in acqua e saltarono dentro, sistemandosi nel poco spazio libero tra botticelle d’acqua, fagotti di provviste, e rotoli di calde pelli. Una volta ancora Raduan si stupì di come la ragazza avesse organizzato tutto da sola, in così breve tempo. Forse era stato proprio questo ad attirare i sospetti di Namza. Tasha sapeva il fatto suo in mare, ne era certo: l’abilità con cui il giorno prima li aveva sottratti alle grinfie dei pirati aveva dell’incredibile. Abbandonata l’insenatura e usciti allo scoperto, non scorsero nessun vascello all’orizzonte, e puntarono dritto verso Nord come il giorno precedente. La barca, battezzata

“Zefiro” dalla sua padrona, slittava sulle acque veloce e leggera, facendo onore al suo nome. Raduan mostrò alla giovane gli appunti della rotta tracciata dal bastimento “Orca Azzurra” di Helah: lei gli spiegò che non era necessario seguirla alla lettera fin dall’inizio, specie con un’imbarcazione di piccola stazza come la loro. Nei giorni a seguire avrebbero accompagnato la costa verso Nord, per prevenirsi da eventuali tempeste e da un possibile inseguimento dei pirati, e per poter fare provvigione di acqua dolce. Una volta raggiunta la giusta latitudine, avrebbero svoltato verso Ovest, in mare aperto, e inseguito il punto preciso annotato sui registri della Gilda. Molte volte, nei giorni successivi, Raduan e Gonzo ebbero modo di osservare Tasha all’opera coi suoi strumenti di navigazione, anche se Pryce era l’unico in grado di capirci qualcosa e di darle una mano coi calcoli. La ragazza misurava la velocità della barca gettando in mare una cordicella marcata da nodi a intervalli regolari, e ogni notte comparava le sue previsioni con la posizione delle stelle. In questo modo, pur non avendo dubbi sulla direzione da seguire - almeno finché accompagnavano la costa - riusciva a sapere quanto mancasse alla latitudine finale, e se stessero procedendo a un ritmo soddisfacente. Raduan temeva il momento di inoltrarsi tra le Zanne di Pietra, senza più il riferimento della linea costiera. Tasha tentò di rassicurarlo: il sole, le stelle, e la direzione delle onde prodotte dai venti costanti dell’Oceano l’avrebbero aiutata a non perdere l’orientamento. Per quanto si sforzasse di crederle, c’era poco da fare: era una creatura di terra, abituata a varcare mari d’erba selvatica a dorso di cavallo. Non avrebbe mai perso la sua sana sfiducia nei confronti delle acque cupe dell’Oceano. Faceva sempre più freddo, tanto alla luce del sole come durante la notte. Presto una sola pelliccia per ciascuno non fu più sufficiente, poi anche due cominciarono a essere poche. Non nevicò, ma la costa si fece sempre più brulla e spoglia, e dai rami degli alberi scarni pendevano festoni di ghiaccioli. Anche il loro entusiasmo si raffreddò a poco a poco, messo a dura prova dalla routine. Ogni giorno era la stessa storia: sveglia al sorgere del sole, una magra colazione, poi in barca fino a sera - con un’unica sosta per i rifornimenti d’acqua e cibo - e infine una sistemazione di fortuna sulla terraferma gelata, seguita da una rapida cena. Se non altro si concedevano il lusso di un fuoco, per far bollire una zuppa, o per arrostire la misera selvaggina barattata con gli abitanti della costa, ma

soprattutto per scaldarsi le ossa. In barca c’era poco da fare. La più occupata era senza dubbio Tasha, che raramente chiedeva aiuto per manovrare il timone o maneggiare la vela. Raduan sospettava che non fosse tanto una questione d’orgoglio o sfiducia, quanto piuttosto un modo per scacciare il tedio. Lui stesso non sapeva più che fare per costringere il tempo a scorrere più veloce. Gonzo, quando non era occupato a farli impazzire con le sue insensatezze verbali, cadeva in uno stato catatonico a dir poco inquietante: fissava gli occhi su un punto lontano dell’orizzonte e rimaneva così a bocca aperta per un tempo imprecisato, senza muovere un muscolo e senza pronunciare una parola. Raduan provò a imitarlo un paio di volte, senza successo. Pryce almeno aveva il suo libretto e ava le giornate consumando l’inchiostro che si era saggiamente portato dietro nel giorno della fuga. Tutti quanti avevano provato a dargli una sbirciata, ma il ragazzo era intransigente su questo punto: «Potrete leggerlo quando sarà finito, e soltanto allora. Forse.» Navigarono verso Nord in tranquillità, fino al pomeriggio in cui Tasha si trattenne a lungo a poppa a scrutare il mare, le labbra strette e la fronte corrugata. Raduan cercò di capire cosa stesse osservando, senza venirne a capo. «Vedi qualcosa?» «Una nave.» Il guerriero strinse gli occhi. «Io non vedo nulla.» «È appena un punto nero all’orizzonte, laggiù.» «Se lo dici tu. Perché tanta preoccupazione? Non sarebbe la prima che incrociamo. Ti sei già scordata quella corvetta da battaglia, due giorni fa? Se non ci fossimo scostati a tempo, scommetto che ci avrebbero schiacciati.» «Questa nave è diversa. Non chiedermi perché, so soltanto che non mi piace.» Raduan rinunciò a cercare il puntino: era chiaro che Tasha aveva la vista molto

più acuta della sua, o un’immaginazione molto più fervida. «Pensi che sia...?» «Mio fratello? Non mi sorprenderebbe. Quando vuole, sa essere più tenace di un mastino.» «Cosa proponi?» «Niente di nuovo. Si sta facendo buio, dobbiamo trovarci un posto dove are la notte. E fare a meno del fuoco, per questa volta.» Il gemito di Gonzo espresse chiaro e tondo ciò che tutti pensavano: sarebbe stata una lunga, lunghissima notte, a quella latitudine ingrata, privi del benevolo calore delle fiamme. Trascinarono “Zefiro” in secca su una spiaggetta di pietrisco protetta dagli scogli, e montarono il consueto accampamento di fortuna. La cena fu fredda e triste, consumata in silenzio. Gonzo le provò tutte per convincere Tasha che un fuocherello non avrebbe fatto male a nessuno, ma la ragazza si dimostrò inflessibile. Allora cercò l’appoggio di Raduan e Pryce, senza successo, poi si diede per vinto e si sdraiò lontano da tutti, avvolto in un triplice strato di pelli. Gli altri lo imitarono poco dopo: nessuno era in vena di fare le ore piccole conversando - anche perché, dopo tanti giorni convissuti nello stretto spazio dell’imbarcazione, gli argomenti erano agli sgoccioli. Gonzo si rigirò furiosamente nelle pelli, incapace di prendere sonno, tenuto desto dal freddo pungente che gli si insinuava sotto le vesti, e dal placido russare di Raduan che lo riempiva di invidia. Alla fine prese una decisione: si alzò di soppiatto, appurò che Tasha e compagni stessero davvero dormendo della grossa, e si diede da fare. Scivolando come un fantasma da un lato all’altro del misero accampamento, montò un piccolo falò in un angolo della spiaggetta. Riuscì ad accenderlo dopo una decina di tentativi falliti e un centinaio di imprecazioni soffocate, sempre convinto che avrebbe finito per svegliare qualcuno e mandare a monte il suo semplice piano. Quando il fuocherello prese finalmente vita, Gonzo restò a fissarlo con sguardo beato. Si scaldò le mani e i piedi, poi trascinò le pelli il più vicino possibile alle fiamme e si sdraiò. Chiuse gli occhi, rasserenato.

«Così va molto, molto meglio...» si disse, un attimo prima di sprofondare nel sonno. Venne svegliato da un violento scrollone che gli fece tremare le ossa. «In piedi, sciagurato!» gli ingiunse la voce di Tasha, bassa e aspra. Raduan e Pryce, in piedi accanto a lei, scalciavano terra sul fuoco per soffocarlo. «C-che succede?» «Silenzio!» Gli tappò la bocca con una mano e lo costrinse a guardare verso il mare. Dapprima Gonzo non notò nulla di strano, poi spalancò gli occhi per la sorpresa: la sagoma di un vascello, scura e silenziosa, scivolava sulle acque nella loro direzione, come a volerli sorprendere nel sonno. Anche alla fioca luce delle stelle, non c’era modo di sbagliarsi: era la “Rosa dei Venti”. Raduan osservò sconsolato la parete rocciosa che impediva la fuga verso l’interno. C’era un’unica cosa da fare, e la sibilò a Tasha. «Spingiamo “Zefiro” in acqua, in fretta!» Si diedero da fare in tre, in affannoso silenzio, mentre Gonzo raccattava da terra tutto quel che gli capitava sotto mano, pelli, corde e provviste, e lo gettava dentro la barca. «Non c’è tempo!» gli sibilò Tasha, furiosa. La “Rosa” si avvicinava rapida come una nube di tempesta, presto dal ponte sarebbero riusciti a vederli in faccia. Balzarono nella barca con quel poco che ciascuno riuscì a raccogliere, e si misero subito ai remi, mentre Tasha slacciava le scotte. Non appena la vela candida sbocciò come un fiore nel cuore della notte, un urlo squarciò il silenzio dal ponte del vascello. «Addosso!» ruggì una voce poderosa, ben nota ai fuggiaschi. Namza aveva capito che coglierli di sorpresa era ormai fuori questione. «Via!» gridò Tasha.

Riuscirono a sfruttare il minimo vantaggio che avevano - e la grande maneggevolezza della barca - per sgusciare in mare tra gli scogli da un lato e il vascello dall’altro. Una mezza dozzina di frecce sibilarono nel buio, tutte fuori bersaglio, tranne una che aprì un foro nella vela. Prima che la “Rosa” riuscisse a virare completamente, i quattro fuggiaschi si erano dileguati. E l’inseguimento ebbe inizio. Durante un tempo che parve loro infinito, gli occupanti di “Zefiro” lottarono disperatamente per mantenere il vantaggio sulla nave di Namza. La “Rosa dei Venti” era dotata di un’ampia superficie velica, e di una ciurma esperta nelle manovre. Ma Tasha riusciva a compiere miracoli con il timone, insinuandosi nei tratti più pericolosi del litorale e imboccando i canali più insidiosi a ridosso della costa rocciosa. Neanche una volta cedette alla tentazione di virare la prua verso il mare aperto, dove non avrebbero avuto scampo. I tre uomini potevano fare ben poco per la loro giovane capitana, che di minuto in minuto diventava sempre più esausta. Quando i primi raggi di sole colpirono la superficie dell’Oceano, Raduan riuscì a vedere in faccia i pirati assiepati sul castello di prua della “Rosa” che agitavano le sciabole per aria, certi di averli in pugno. Namza era in prima linea, fremente di eccitazione come un lupo di fronte alla preda, curvo in avanti sulla balaustra, pronto ad arrembarli di persona. Udì Gonzo sussultare, e Pryce strillare «Gira!», prima che “Zefiro” desse un sobbalzo violento. Lo scafo raschiò e sprizzò schegge, strizzato nell’infimo spazio tra due colonne di pietra a forma d’artiglio. Raduan si afferrò agli scalmi con disperazione, certo che la barca si sarebbe spezzata in due. Gonzo si coprì gli occhi, mentre Pryce si accucciava sul fondo dell’imbarcazione. Soltanto Tasha, intrepida, rimase in piedi a lottare contro il mare, le dita dalle nocche sbiancate strette sul timone. Un istante appena, e con un gemito ligneo “Zefiro” schizzò libera come un uccello oltre la fitta barriera di scogli. La “Rosa dei Venti” andò incontro alla sua sorte. Namza prese a urlare ordini ai suoi, troppo tardi: il vascello non riuscì a invertire rotta, e rocce acuminate affondarono nel suo scafo come le zanne di un mostro marino. La nave si piegò su un fianco, ferita e irrimediabilmente incagliata. Raduan, sbalordito dal fulmineo capovolgersi della situazione, alzò le braccia al cielo e diede sfogo alla sua felicità in un urlo liberatorio, subito imitato dagli

altri. Mentre la sagoma della “Rosa” si inclinava sempre più, vide Namza urlare e sbattere i pugni sulla balaustra, imbestialito. I pirati, attorno a lui, correvano in tutte le direzioni come uno sciame di api impazzite, cercando di salvare il salvabile. Esaurito l’attimo di gioia incontenibile, Pryce si voltò a guardare Tasha, timoroso che quella situazione le causasse rimorso. La ragazza era stravolta dalla fatica e dalla tensione, e respirava con affanno, ma non sembrava affatto turbata. Rivolse ai tre compagni un sorriso stanco, rispondendo alla loro domanda inespressa: «Non mi preoccupo, Namza se l’è cavata in situazioni ben peggiori di questa. E poi...» scrocchiò le dita delle mani «...questa volta se l’è proprio voluta! Spero che abbia imparato la lezione!» «Ben detto!» la appoggiò Pryce. Raduan concordò soddisfatto: la ragazza aveva davvero rotto i ponti con il ato, potevano contare su di lei fino in fondo. Scampato il pericolo, si dedicarono con ione ad insultare e malmenare Gonzo, e dovettero trattenere Tasha dal gettarlo in mare con un peso legato alle caviglie. Smisero di prendersela con lui soltanto quando la giovane si rimise al lavoro per verificare la loro posizione e scoprire così un fatto incredibile: avevano azzeccato la rotta quasi per completo. Raduan non disse nulla, ma dentro di sé avvertiva che non era stato il caso: ancora una volta Gonzo aveva messo in moto il suo potere speciale, la buona stella che in un modo o nell’altro sempre tramutava le sue sciocche bravate in azioni provvidenziali. Cominciò a pensare che di quel o, una stupidaggine dopo l’altra, quel furfante li avrebbe condotti dritti dritti alla Valle della Luna. L’esaltazione della fuga andata a buon fine si spense a poco a poco durante il resto della giornata, e il morale dei quattro non fece che peggiorare. Avevano dovuto abbandonare gran parte dei viveri e delle pelli nella loro fuga precipitosa, e il freddo e la stanchezza cominciavano a insinuarsi come un morbo nelle loro ossa. Lo spettacolo delle Zanne di Pietra era deprimente: una foresta di rocce aguzze tra acque insidiose, apparizioni spettrali spazzate dai gelidi venti del Nord. Sulla costa, fredda e sterile, i punti di approdo erano rari, se non inesistenti. L’unica fonte d’acqua potabile erano le chiazze di neve e ghiaccio

che macchiavano qua e là il paesaggio, e non c’era neanche l’ombra di un misero roditore da cacciare. Una ragione in più per razionare cibo e acqua, e pregare che le cose non peggiorassero. Non si persero d’animo, diedero subito inizio alla ricerca dei punti di riferimento indicati da Helah nel suo diario di viaggio. Non erano che frammenti di testo, come quelli che avevano guidato Raduan fino a Leukania, ma dovevano bastare. Il guerriero lesse ad alta voce le parti più significative ai membri del suo infreddolito gruppo di avventurieri, poiché quattro paia d’occhi potevano cercare molto meglio di uno.

“...questa regione offre ai nostri occhi uno spettacolo inebriante, limpido esempio dell’estro creativo del Fabbro Celeste, e della potenza della sua visione. Le acque insondabili, le zanne di dura roccia, le alte pareti scoscese, la vegetazione scarna che lotta in mezzo al nulla, e sopravvive! La pietra stessa è plasmata come un essere vivo: ieri abbiamo potuto ammirare un imponente ammasso di roccia pallida scolpito con le strabilianti sembianze di un elefante, con tanto di proboscide e grandi orecchie. Tutto indica che questo è un luogo di potere. Intendiamo esplorarlo con diligenza, certi che Abidan vi abbia inciso innumerevoli lezioni per i suoi umili figli...”

“...la natura ci appare ancor più inconsueta, dal momento che la scialuppa ci consente di inoltrarci a fondo nei suoi meandri. L’inverno qui è perenne, la vita dura come la roccia che ci circonda. Oggi mi sono commosso di fronte all’energia vitale di un grande abete curvo, abbarbicato contro ogni possibilità di sopravvivenza sulla solida scorza di uno scoglio. Come ha potuto, mi chiedo, un minuscolo seme mettere radici nella pietra, crescere, e trionfare? Possiamo, noi esseri umani, seguire il suo esempio e apprendere da lui come affrontare e vincere le avversità della vita? Qual è il messaggio che il Fabbro sta cercando di trasmetterci, attraverso la muta forza di un albero?”

«Quei citrulli vedevano lo zampino di Abidan in ogni buco! Se avessero ato il tempo a pulire le stalle o il pavimento della cucina, come me, mi chiedo cosa ne avrebbero ricavato. Una lode alle ossa di pollo, un’elegia agli escrementi di vacca?» «Sta’ zitto, Gonzo.» «No, dico sul serio! Guardate qui, tra le mie mani! Oh illustre tozzo di pane raffermo, quanti segreti racchiudi, per la gloria del Fabbro Celeste?» «Zitto!» «Va bene, va bene...»

“...come fauci nella nuda roccia! Non si scorge il fondo, soltanto pura oscurità. Ci serve coraggio, coraggio per...”

«E questo è tutto.» Raduan smise di leggere. Tasha si morse la lingua, mormorando qualcosa di ingiurioso contro gli scarni brani di testo che il guerriero aveva spacciato come chiari punti di riferimento. Anche Pryce pareva deluso. «Capisco i primi due segni, ma il terzo è un po’ confuso, non trovate?» «Sono convinto che avrà un senso, quando ce lo troveremo davanti. Helah ne rimase impressionato, qualunque cosa fosse. Di certo stupirà anche noi.» «Vorrei condividere il tuo ottimismo...» «Non serve. È sufficiente che teniamo tutti gli occhi bene aperti.» «Facile. C’è solo un piccolo dettaglio che mi sfugge.» «Quale?»

Pryce si grattò la testa. «Cosa diavolo è un elefante?» Tasha fece spallucce, imitata da Gonzo. Il guerriero dovette descrivere alla meno peggio, aiutandosi con la mimica, l’immane bestione incontrato una volta dalla Compagnia del Viandante appena fuori dall’intrico di vegetazione del Manto Verde, ai confini orientali del Regno. Mentre si sforzava di are il concetto a parole e gesti, Gonzo roteò gli occhi con un sorrisetto, come a dire che l’amico non ci stava con la testa. «Non mi importa se ci credete o no» sbottò Raduan, esasperato «L’avete capito come è fatto?» «Certo, certo: le orecchie enormi, la proborside...» «Alto come una casa...» «Ti faccio un fischio appena ne vedo uno, guerriero!» Raduan andò a sedersi a prua, sforzandosi di dominare il prurito alle mani. Per fortuna dei suoi nervi, la roccia non fu difficile da trovare: descrissero due ampi cerchi a partire dal punto in cui Helah e i suoi avevano lasciato l’“Orca Azzurra” con la scialuppa, e si imbatterono in una formazione rocciosa che corrispondeva come una goccia d’acqua alla descrizione del frammento di testo. Rimasero a fissarla incuriositi: sembrava davvero un pachiderma nell’atto di balzare fuori dall’acqua, pietrificato per l’eternità dentro una corona di spuma biancastra. Pryce si mise a scarabocchiare sul suo libretto, concentratissimo, con la punta della lingua che gli affiorava tra le labbra. Raduan lo guardò incuriosito. «Che fai, ragazzo?» «Facilito la vita ai prossimi che verranno in cerca del tesoro... se gliene lasceremo qualche briciola. Guarda!» Mostrò uno schizzo del roccione, essenziale ma tutt’altro che malfatto. Tasha sorrise meravigliata e lo premiò con un bacio scherzoso su una guancia, che lo fece arrossire fino alla radice dei capelli.

«D-da qui come ci muoviamo?» spiccicò. Raduan ci pensò un attimo. «È probabile che la scialuppa abbia proseguito in linea retta dal vascello fino a qui, e poi oltre, per non rischiare di perdere il cammino di ritorno. Riusciresti a fare altrettanto, Tasha?» «Contaci.» Poco dopo erano di nuovo in moto. Tasha era molto più impensierita dal profilo delle onde e dal colore del cielo, che non dalla rotta da seguire. Raduan non era un marinaio, ma neanche a lui piacque il bagliore dei fulmini in lontananza, né il crescente rollio dello scafo. Per precauzione, Tasha ammainò la vela e proseguirono a forza di remi, sballottati dalle onde. Il vento freddo, cresciuto d’intensità, fischiava come uno spirito maligno tra i tronchi di pietra di quella foresta di scogli. Verso sera, quando ormai tutti e quattro avevano le dita ghiacciate e i palmi delle mani coperti di vesciche dal tanto remare, la costa venne loro incontro in forma di promontorio. Lo costeggiarono, infilandosi con una certa dose di imprudenza nello stretto braccio di mare tra la parete rocciosa e un grosso scoglio che affiorava dalle acque come un dito puntato verso il cielo. Non appena lo ebbero oltreato, Raduan si voltò ad osservarne la faccia nascosta, e sbottò in un’esclamazione di gioia. Appeso alla superficie verticale di roccia, con le radici dure e ritorte come artigli, c’era l’abete curvo descritto da Helah. E c’era davvero da meravigliarsi della sua resistenza, in un clima tanto ostile da spaventare persino la Dea Edessa. Il guerriero le rivolse una preghiera silenziosa. Quante possibilità c’erano che quel miracolo della natura si mantenesse intatto per secoli, al solo scopo di far loro da guida? «Ne manca solo uno!» esclamò Gonzo, battendo le mani per la contentezza. Aveva le orecchie e la punta del naso talmente arrossati dal freddo da sembrare in fiamme. Pryce fece scivolare il suo fedele libriccino fuori dalle pieghe delle maniche, dove aveva protetto le mani intirizzite. «Sarebbe facile da disegnare, se soltanto riuscissi a tener ferme le dita!» si lamentò, mentre la penna d’oca raschiava la superficie di carta ruvida.

L’inchiostro, inspessito dalla temperatura sino a diventare quasi solido, si spalmava in tratti rigidi e imprecisi, strappando imprecazioni al giovane artista. Tasha era la meno entusiasta della scoperta, continuava a guardarsi attorno con diffidenza. Maledisse quel tratto di costa, un solido blocco di roccia verticale senza punti d’approdo visibili. Alla fine si intrufolarono in una concavità della parete, grande a sufficienza da entrarvi con la barca e tutto, e protetta dalle onde da una barriera di scogli. Così, per la prima volta da quando era iniziata la loro avventura in mare, furono costretti a are la notte a bordo, una notte amara e gelida. Per di più, le provviste erano agli sgoccioli. Non fu che il primo assaggio della più tremenda sfilza di giorni che potessero immaginare. Su e giù lungo la costa, all’infinito, alla costante ricerca delle “fauci nella nuda roccia” che si ostinavano a eludere i loro sforzi, e ormai debilitati dal freddo, dalla fame, dalla sete e dalla stanchezza. Ogni tanto la Luna di Sangue faceva loro una sgradita visita, perforando la barriera delle nubi con il suo sguardo di condanna. Gonzo cominciò a supplicare, col filo di voce che gli restava, di tornare verso Sud, alla ricerca di un approdo. Pryce gli faceva coro in modo ossessivo: «Andiamocene da qui, torniamo indietro! Indietro, prima che sia troppo tardi!» Sulle prime Tasha lo insultava e gli dava della donnicciola, poi smise di farlo, e serrò le labbra screpolate in un cupo silenzio. Raduan, guardandola, capì che non aveva più nulla da rispondere a Pryce: era già troppo tardi per volgere la prua di “Zefiro” verso Sud, troppo tardi per sperare di ritrovare il cammino perduto. Avevano ato il punto di non-ritorno. E il mare s’ingrossava a vista d’occhio, il cielo diventava nero e pesante come una cappa di piombo. Fiocchi di neve piovvero dal cielo, scagliati nei loro occhi da venti impietosi. Il guerriero si sferrò un pugno su una coscia, resa insensibile dal gelo. Sua era la colpa. Cosa l’aveva spinto a credere che ce l’avrebbero fatta, senza un’adeguata scorta di viveri e pelli? Perché mai non aveva usato la testa, una volta tanto, invece del cuore? La sua testardaggine l’aveva accecato al punto di mettere a repentaglio non solo la sua vita, ma quella dei compagni! Guardò Gonzo, accucciato sul fondo della barca come un animaletto impaurito. Pryce, imbacuccato a tal punto nelle proprie vesti che si stentava a scorgerne la testa, e nonostante tutto tremava da capo a piedi come un fuscello. Tasha, piegata sul timone con la forza della disperazione, come se fosse questo a sorreggerla, e non

viceversa. Non rimaneva altro da fare che proseguire, implorando Abidan di mostrar loro il cammino. In caso contrario non avrebbero visto l’alba. Strizzò gli occhi, nella speranza di distinguere qualcosa nella tormenta. Stavano ando per l’ennesima volta di fronte a un’alta scogliera coperta di alghe rampicanti, una specie vegetale abbastanza tenace da resistere in quell’ambiente avverso. Il vento ululò e soffiò con tale forza da gettarlo quasi fuoribordo, ma la stessa folata aveva smosso per un istante la cortina verde, mettendo allo scoperto un’ombra scura sulla roccia. Raduan si stropicciò gli occhi. Quando li riaprì, la parete di rampicanti era di nuovo al suo posto. Animato da una speranza improvvisa, sottrasse la barra del timone dalle dita inerti di Tasha, e virò la prua dell’imbarcazione verso la roccia. La ragazza fece per resistere e scoprì di non averne la forza. «N-non farlo!» balbettò «Ci schianteremo!» Come per dar forza alle sue parole, “Zefiro” prese velocità: una corrente improvvisa aveva ghermito lo scafo e li spingeva inesorabilmente verso la parete di roccia coperta di rampicanti. «G-gira, adesso!» Raduan la ignorò. Sapeva di aver visto qualcosa. E in ogni caso, la loro vita era già appesa a un filo. Meglio farla finita in fretta, piuttosto che patire le pene di una morte lenta e dolorosa, strizzati in quel guscio d’uovo. Pryce e Gonzo si rizzarono a sedere con un lampo di comprensione negli sguardi storditi. Fissarono inebetiti la scogliera che veniva loro incontro a velocità folle, come una promessa di morte certa, e non dissero nulla. Tasha chiuse gli occhi, le mani giunte davanti al petto. Raduan drizzò la schiena e tenne gli occhi ben aperti, mentre la prua della barca sfiorava i rampicanti. Swuff! Non si schiantarono. “Zefiro” era scivolata senza danni nel buio di una caverna celata dalla

vegetazione. Una bocca scura senza fondo. Fauci nella nuda roccia. Il guerriero rise, prima timidamente, poi a squarciagola. Pryce e Gonzo, come risvegliatisi all’unisono da un brutto sogno, lo accompagnarono. Erano vivi, vivi e vegeti! E lì dentro non soffiava il vento feroce, le onde non scuotevano la barca. Faceva persino caldo! «Non so come tu abbia fatto» disse Pryce, in tono di riverente ammirazione «ma ti dobbiamo la vita!» Tasha si schiarì la gola. «Non volendo essere una guasta-feste...» C’era una nota di allarme nella sua voce. «È buio pesto. Non so voi, io non ci vedo un accidente. E non mi sembra che stiamo rallentando, anzi.» Raduan concordò con un cenno del capo, anche se non potevano vederlo. «Vuoi dire... dalla padella nella brace?» domandò Gonzo, nel suo classico tono innocente che presagiva sventura. «Lo sentite?» chiese Tasha. «Che cosa?» «Quello.» Tacquero tutti allo stesso tempo, e lo sentirono. Un fragore, lontano ma crescente, nel buio di fronte a loro. Gli stavano sfrecciando incontro senza freni. «Uh-oh!» disse Gonzo.

Il Guardiano odiava quel sogno più di tutti gli altri: era quello in cui l’Angelo moriva. Cercò in ogni modo di svegliarsi, di sfuggire al supplizio, ma non c’era verso. Osservò i quattro venir loro incontro sulla piana innevata, avvolti da un’oscurità innaturale. Avvertì la loro forza smisurata. L’Angelo era debole. Si stava spegnendo, e lui con lei. Da troppo tempo erano lontani da casa. Forse, se le forze non li avessero traditi, avrebbero resistito. Ma quel giorno i quattro piombarono su di loro come falchi assassini, e li annientarono, i primi e gli unici da quando la lunga veglia aveva avuto inizio. L’Angelo gli fece scudo col proprio corpo, per sottrarlo ai colpi dei nemici. Gli sorrise fino all’ultimo, anche quando le lame crudeli le traarono la schiena, uccidendola. In quel soffio di vita, prima che calasse il sipario, il Guardiano scorse i volti degli assassini. E quando il sogno svanì, la rabbia e lo sconcerto si impadronirono di lui, come zanne conficcate nel suo cuore. Due volti, gli stessi che aveva visto nel suo primo istante di vita. La Dama, e il Maestro di Metallo. «Non soffrire» disse una voce. Le mani soavi lo sfiorarono, e il ricordo del sogno si dissolse come neve al sole, insieme al dolore. Alzò gli occhi su di lei, adorante. «Va tutto bene» disse la Dama, accarezzandogli la testa «Ci sono io, al tuo fianco...»

XXV - La Caccia

Infine anche Dorian si alzò, sotto l’occhio vigile e crudele della Luna di Sangue. Si costrinse a mettere un piede davanti all’altro in uno stato di totale incredulità, e seguì le Ombre. Guardò una sola volta il granaio - che gemeva con le voci di cento esseri tormentati, e che tremava sotto i loro colpi - poi abbassò lo sguardo e lo tenne fisso a terra. Demoni! Generati dalla puntura del perverso aculeo di Shem, non c’erano dubbi. Per quasi vent’anni avevano atteso quell’occasione, lui e i fratelli della Compagnia del Viandante: testimoniare la nascita di un Demone, scoprire l’origine della mutazione e il suo perché. Ora che aveva finalmente visto tutto con i propri occhi, non c’era nessuno con cui condividere il momento. «Aprite» sibilò Shem. Dorian alzò gli occhi su di lui e rivide tutte le battaglie, tutte le morti crudeli e inutili, tutti gli anni di sangue versato. Sentì l’odio crescere smisurato dentro di sé, il guanto gonfiarsi d’energia. Nel buio della notte, gli parve di scorgere un alone di luce azzurra filtrare attraverso il cuoio del bracciale. «Controllati!» si impose. Per quanto ogni fibra del suo corpo gli ordinasse di attaccare subito, di porre fine all’esistenza di quel verme miserabile in quell’esatto istante, il momento non era quello giusto: era attorniato da nemici su ogni fianco, senza vie di fuga. Poteva asse Shem prima che se ne rendessero conto, per poi morire a sua volta... Ma trascinare sottoterra uno soltanto dei Quattro era troppo poco! Si unì al semicerchio che le Ombre stavano formando davanti al granaio, inspirò a fondo e fece quel che Nahash gli aveva insegnato nei duri giorni di addestramento a Draslund: entrò dentro se stesso, si rinchiuse nel Luogo Oscuro annidato nei recessi della sua mente. Il mondo si distanziò, divenne separato e

nitido, come un giardino osservato dalla finestra di casa. Il suo odio congelò come una lastra di ghiaccio, e così l’energia che fino a un attimo prima gli bruciava nelle vene. Le emozioni si assottigliarono, lasciando il posto al freddo distacco. Restò immobile ad osservare e ad ascoltare, come un predatore protetto dalle ombre. Ad un cenno di Norq, tre scherani di Shem si staccarono dal gruppo per prendere posto davanti al massiccio portone del granaio, sbarrato da una grossa trave. I Demoni dovettero fiutare la loro vicinanza, perché le urla e i lamenti raddoppiarono d’intensità, così come i colpi sordi che tempestavano le pareti di legno dall’interno. Norq raccolse un forcone abbandonato in terra e si piazzò a gambe larghe al centro del semicerchio d’Ombre, soppesandolo tra le dita. «Avanti» disse. I tre annuirono e si piazzarono contro il portone, sordi al caos incontrollabile che si agitava dentro al granaio. Sollevarono la trave un poco alla volta, con estrema cautela, premendo contro la porta con il proprio peso. Quando la pesante sbarra di legno si sganciò dai i, la tensione nell’aria divenne palpabile - per tutti tranne che per Dorian, che osservava tutto con calma distaccata, protetto dalle invisibili mura del Luogo Oscuro. Il portone si aprì di uno spiraglio, mentre le tre Ombre spingevano e sbuffavano come tori per evitare che si spalancasse. Un volto comparve nell’apertura, pallido come la morte, i capelli appiccicati alla fronte in una massa informe. Sarebbe parso umano, non fossero stati i denti lunghi e affilati che affioravano dalle labbra tumefatte, e gli occhi, i terribili occhi rosso vermiglio che squadravano il mondo con fissità ultraterrena. La creatura sgusciò fuori dall’apertura, spingendosi con le lunghe dita artigliate. Prima che sfogasse la sua ferocia sui tre, Norq richiamò la sua attenzione: «Ehi, mostro! Dico a te!» urlò, agitando il forcone per aria. Il Demone girò la testa di scatto. Aprì e richiuse le mascelle senza che ne uscisse un suono, mentre un filo di bava gli colava dall’angolo della bocca, poi si trascinò verso il caporale con o instabile. «Ecco, da bravo, vieni!» lo incitò l’uomo.

Alle spalle del primo Demone, un secondo si affacciò nello spiraglio del portone, e quindi un terzo - una donna. Nel vedere la povera giovane zoppicante, con gli abiti stracciati e il viso marcato da profondi graffi, per la prima volta Dorian avvertì una sensazione di malessere dentro al suo rifugio. Cercò di scacciarla, ma essa si fissò in un canto della sua mente, un irritante vestigio di comione che gli rese difficile permanere in quello stato di imibilità. I Demoni barcollarono verso Norq, le braccia ciondolanti lungo i fianchi, le orbite profonde come quelle di teschi. Sembravano confusi, forse persino spaventati. Le tre Ombre si misero all’opera per richiudere il portone dietro di loro. Lo sforzo fu notevole, ma ce la fecero senza bisogno d’aiuto, il che confermò l’ipotesi che Dorian stava formando nella propria mente: durante il primo stadio della mutazione i Demoni non possedevano nulla della forza sovrumana che aveva imparato a temere, anzi parevano più deboli e impacciati dei comuni esseri umani. Norq continuò a provocare le creature, che avanzarono verso di lui come sotto ipnosi, ignorando per completo la cornice di Ombre che li circondava. Quando giunsero troppo vicini, Norq li tenne a bada col forcone, alla stregua di cani rabbiosi. I Demoni mostrarono i denti e ringhiarono, alla ricerca di un varco. Il desiderio di avventarsi sull’essere umano dominava per completo la loro volontà, notò Dorian. Proprio come negli esemplari “adulti”, anche se non erano dotati degli stessi mezzi. Shem, che fino ad allora non si era mosso dalla sua posizione, fece un o avanti ed espose alla vista di tutti il medaglione che portava al collo, nascosto sotto le vesti. Più che un oggetto di valore, aveva l’aspetto di un vecchio monile di rame, ornato da una singola pietra opaca nel mezzo. Se lo sfilò dal collo, lo alzò sopra la testa, e mormorò una serie di parole. Il medaglione rispose al richiamo della Lingua Antica con un fioco bagliore verdastro, per nulla impressionante. La reazione dei Demoni fu ben più drastica di quella degli umani: di punto in bianco si arrestarono dov’erano, le teste rivolte alla luce, gli occhi sbarrati e le bocche spalancate come quelle di pesci affamati. Ciondolavano sul posto, mugolando, dimentichi dell’obiettivo di un istante prima. «Li crea e li controlla...» rifletté Dorian, senza togliere lo sguardo dal medaglione.

Come a dimostrargli che aveva ragione, Shem puntò il dito su uno dei Demoni e gli ordinò di attaccare il caporale. Il mostro si riscosse all’istante dallo stato catatonico - al contrario degli altri due - e si avventò su Norq: la sua rabbia e le sue energie erano raddoppiate, la volontà di Shem lo guidava come la mano di un burattinaio. Il caporale si difese con un sorriso stampato sulla bocca: il primo affondo del forcone colpì il Demone a una coscia, affondandogli nella carne più di una spanna. La creatura urlò di dolore e arretrò, mentre il sangue spillava a fiotti dall’orrenda ferita. «Continua» ordinò Shem, senza un briciolo di pietà. Il Demone obbedì, ma il suo secondo assalto non ebbe maggior successo del primo: i rebbi curvi del forcone lo infilzarono tra il petto e la spalla sinistra, aprendogli uno squarcio fino all’osso. Il mostro cercò di sottrarsi con un guaito pietoso, Norq continuò a incalzarlo e ad infliggergli una serie di tagli dolorosi. «Continua!» ribadì Shem, con più forza di prima. La luce del medaglione brillò più luminosa, in accordo con la volontà del padrone. Il comando non parve sortire effetto sul Demone devastato dai colpi dell’avversario, finché senza preavviso balzò avanti con un ruggito, privato del più rudimentale istinto di autodifesa. Cercò di graffiare Norq con gli artigli, di morderlo, di stritolarlo tra le braccia, ma fu tutto inutile. Il caporale delle Ombre lo massacrò meticolosamente, senza fretta, senza neanche lasciarsi sfiorare. Nel giro di pochi minuti il Demone crollò faccia a terra, ridotto a una massa sanguinolenta. E nonostante ciò, continuava a ringhiare, a strisciare sul ventre verso Norq, ad accusarlo con occhi colmi d’ira. Un’onda di involontario ribrezzo colpì Dorian dentro al Luogo Oscuro, incrinando ulteriormente la sua resistenza. Shem studiava la scena con aria compiaciuta, le labbra piegate in un turpe sorriso dentro al cappuccio del suo manto nero. Quando fu soddisfatto del risultato, fece un cenno al caporale: «Finiscilo.» Norq sguainò la spada dal fodero, si avvicinò al Demone steso al suolo e gli schiacciò la testa sotto uno stivale. Sputò a terra, alzò la lama, e un istante dopo era tutto finito: la testa del mostro rotolò via fino al cordone delle Ombre, che

non si mossero di una spanna, né aprirono bocca per esultare. Per loro non era che un esercizio monotono, ripetuto chissà quante volte a scapito di centinaia di vite innocenti. Shem rivolse la sua attenzione ai due Demoni superstiti, ancora imbambolati con lo sguardo fisso sul medaglione. «Combattete» disse, mentre la luce verde pulsava un paio di volte, trasmettendo l’ordine. Le due creature si riscossero dalla trance con un sussulto. Ringhiarono l’una contro l’altra e si separarono con un balzo, poi presero a girare in cerchio, tra sibili e minacce inintelligibili, ma nessuna delle due osò attaccare per prima. Norq le spronò a forza di urla e le pungolò con il forcone, senza effetto. Più che una lotta, sembrava una danza obbrobriosa. «Ho detto combattete!» ribadì Shem, con voce soffocata. L’orrendo sguardo di entrambi i Demoni fece la spola tra l’avversario e il medaglione, in preda a un misto di rabbia e confusione. Shem ripeté il comando una terza volta, e non c’era modo di sbagliarsi sull’impazienza che dominava le sue parole. La luce verdastra pulsò tre, quattro volte. La donna si prese la testa tra le mani e urlò, subito imitata dall’uomo. Dorian provò l’impulso di coprirsi le orecchie per scacciare quei lamenti penetranti, simili ai guaiti di un animale in agonia. «Sta’ calmo» si disse, rallentando il ritmo della respirazione «Sta’ calmo e osserva.» Finalmente la donna attaccò. Si gettò sul compagno in un folle mulinare di braccia e gambe, graffiandolo, scalciandolo, tempestandolo di pugni. L’uomo non reagì come sperato: si limitò a chiudersi a riccio per difendersi dalla grandine di colpi. «Reagisci, cane!» sbraitò Norq, e lo colpì tra le scapole con il forcone. Il Demone balzò avanti con un gemito, ma continuò a subire senza alcuna reazione. I colpi della donna, notò Dorian, si fecero deboli e indecisi, come se cercasse di obbedire all’ordine di Shem e allo stesso tempo non volesse infierire sul suo supposto “nemico”.

Shem decise di are alle maniere forti: «Tu, dalle il tuo pugnale» ordinò a un’Ombra, che eseguì all’istante. L’arma cadde ai piedi della donna. «Prendilo» le ingiunse Shem. La donna si accovacciò e lo prese, con aria inquieta. «Adesso usalo.» Il Demone sembrava in preda a una crisi di nervi, se questo fosse possibile. Era evidente che non avrebbe voluto far uso del pugnale, e che una forza impietosa cercava di costringerla. L’altro Demone la osservava con occhi fissi e lucidi, mugolando da far pietà. La donna provò a resistere, ma perse la battaglia interiore contro Shem: si lanciò addosso al compagno e lo pugnalò a ripetizione, nelle braccia, nelle gambe, nel petto. La vittima perse terreno, sanguinando da decine di tagli. Quando ne ebbe abbastanza, afferrò con violenza il polso della donna, disarmandola. Poi raccolse il pugnale da terra, il volto contorto in un’espressione di odio e paura. «Bene» mormorò Shem «Vendicati! Uccidila!» Il Demone lo osservò, fissò prima il pugnale e poi la donna che come lui stava soccombendo alla tremenda mutazione. Alzò la lama al cielo con un grido bestiale... ...e se la piantò nel cuore. Tra gli sguardi perplessi delle Ombre, la creatura si accasciò al suolo senza un gemito. L’altro Demone si inginocchiò accanto al corpo immobile, tra alti lamenti. Shem fece una smorfia di delusione. Abbassò il medaglione e lasciò che la luce morisse. La testa della Demone si girò di scatto verso di lui, un odio indicibile stampato sul viso deformato dalla mutazione. Shem non le lasciò il tempo di pensare alla vendetta: puntò una mano su di lei, e dal foro annerito che si aprì al centro del palmo - come un’orrenda bocca senza denti - le scagliò addosso un’infuocata saetta di energia. La fiammata colpì la donna in pieno e la arse viva sotto gli sguardi imibili di Norq e delle altre Ombre.

«Vermi inutili» sibilò Shem «Fatene uscire altri, così sapremo se abbiamo di nuovo perso il nostro tempo.» Per Dorian fu l’ultima goccia: al costo di grandi sforzi era riuscito a rimanere in attesa nel Luogo Oscuro, mentre osservava quel mostro infrangere una dopo l’altra tutte le leggi naturali e morali da lui conosciute, compiendo addirittura il miracolo di fargli provare pietà per quei Demoni. Era troppo. Lo avrebbe ammazzato nei prossimi istanti, o sarebbe morto provandoci, non gli importavano più le conseguenze. La permanenza nel Luogo Oscuro gli era comunque servita: vi era entrato animato da una furia quasi incontrollabile, e ne usciva con un piano pronto e la freddezza necessaria a portarlo a termine. Abbandonò il cerchio delle Ombre per avvicinarsi ai tre incaricati del portone del granaio. Sulle prime i loro sguardi tradirono incomprensione, ma un uomo della sua stazza era perfetto per aiutarli a trattenere la spinta della massa di mutanti. Un volontario, per giunta, privo del comune timore di avvicinarsi alle creature. Lo lasciarono fare. Dorian si piazzò in testa al gruppo senza chiedere permesso a nessuno, e si rivolse a Shem in attesa di un ordine. Il mostro accennò con il capo. «Che abbia inizio» pensò Dorian. Lentamente, sollevò la trave insieme agli altri, fino a sganciarla. La porta cominciò ad aprirsi di botto sotto la spinta dei Demoni: Dorian, che era il più vicino allo spiraglio, scorse decine di occhi cremisi all’interno, assiepati contro l’uscita, e avvertì il fiato caldo delle creature sulla pelle. Senza preavviso, rifilò una gomitata sul naso dell’Ombra alle sue spalle e la spinse addosso agli altri, facendoli rovinare a terra con la trave. Poi spalancò il portone e arretrò ad arco facendolo ruotare sui cardini, sino a trovarsi schiacciato tra di esso e la parete: la porta formò così una barriera tra sé, i Demoni e le Ombre. Purtroppo non poté godere della vista dell’espressione di Norq, quando le porte dell’inferno gli si spalancarono dinanzi. Il caporale fece solo in tempo a mettere mano all’elsa della spada, con un grido strozzato in gola, prima che la massa di mutanti lo travolgesse: una montagna di mostri affamati prese forma sul suo corpo agonizzante, e dalla cima sgorgò una sorgente di sangue fresco.

Le altre Ombre reagirono alla minaccia con encomiabile prontezza, ma scelsero il bersaglio errato: invece di preoccuparsi fin da subito dei Demoni, molti di loro preferirono scatenare il loro intero arsenale di dardi e pugnali contro il traditore, non ottenendo altro effetto che crivellare la superficie di legno della porta che gli faceva da scudo. I mostri non attesero un invito per gettarsi su di loro con grida disumane, zanne e artigli pronti a lacerare. In breve fu il caos più assoluto. C’erano almeno tre Demoni per ogni Ombra: una decina di guerrieri soccombette al primo assalto, senza il tempo di estrarre le spade, sopraffatti dalla furia bestiale delle creature. Benché il loro arsenale naturale non fosse ancora sviluppato come quello di un Demone maturo, in termini di crudeltà e astuzia guerriera non lasciavano certo a desiderare. Ogni Ombra sconfitta veniva sistematicamente spogliata delle proprie armi, e un paio di Demoni si spinsero addirittura a indossarne le vesti nere macchiate di sangue per confondersi coi nemici, aggiungendo caos al caos. Dorian sporse la testa dal suo rifugio improvvisato. Vide con piacere che i Demoni e le Ombre erano troppo occupati a combattere tra loro per rammentarsi della sua presenza, e così il maledetto Shem, che scagliava saette infuocate nel mucchio senza fermarsi a distinguere tra amici e nemici. Era il momento perfetto per uscire allo scoperto e fare ciò che attendeva da settimane. Si scostò dalla porta, alzò il braccio destro tanto gonfio d’energia che gli sembrava prossimo a scoppiare, e lo puntò sulla porzione di Shem che riusciva a intravedere attraverso la massa di combattenti. La furia bluastra eruppe dal suo palmo con la forza di un geyser, tranciando uomini e Demoni sul suo cammino. Attraversò carne, cuoio e metallo come morbido burro, si fece strada tra le urla di dolore sino all’esterrefatto Shem, che la vide straripare con occhi sbarrati. Con indicibile soddisfazione Dorian assaporò la visione del suo volto contratto dal terrore, le braccia smunte che si alzavano davanti alla testa nella futile ricerca di protezione. La massa incandescente lo investì e lo avvolse come una torcia... ...ma non bruciò! Incredulo, Dorian vide il fiume di energia aprirsi in due torrenti ai lati di Shem, per ricongiungersi subito dietro, scivolando su un’invisibile barriera di vento generata dalle mani del mostro, che formava una sorta di bozzolo protettivo attorno al suo corpo.

«Impossibile!» urlò. Cominciò a correre verso Shem, senza interrompere il flusso di energia che gli stava svuotando le membra. Ombre e Demoni, inchiodati nella loro lotta sanguinosa, gli aprivano istintivamente il cammino, e quelli che non ci riuscivano venivano ridotti in cenere. Shem adesso lo fissava, cercava di capire chi fosse quell’uomo dotato di un potere in grado di rivaleggiare con il suo. Dorian avrebbe dato tutto pur di poterglielo urlare in faccia, di fargli sapere che la Compagnia del Viandante non era morta, e che era tornata dagli abissi dell’inferno per fargliela pagare! Ma non c’era tempo di togliersi quella soddisfazione: Shem doveva morire, subito. Trovò dentro di sé una forza di volontà immensa, che nasceva dal dolore per la morte dei compagni, dal rimorso per non aver combattuto al loro fianco nel momento decisivo, dall’odio illimitato che nutriva verso quella creatura. Gliela scagliò contro, e la barriera di vento si sfaldò, sbrindellata dalle voraci lingue di fuoco azzurro: con un urlo acuto e prolungato Shem venne sollevato da terra e proiettato lontano dall’impatto esplosivo, lasciando dietro di sé una traccia di sangue e tessuto lacerato. Ricadde pesantemente contro il muro di una casa e rimase accartocciato a terra in un fagotto fumante. Trionfante, Dorian lasciò morire il fascio di energia con una facilità impensabile soltanto qualche giorno prima. Avanzò a grandi i nel mezzo della caotica battaglia tra Ombre e Demoni, come se né gli uni né gli altri meritassero la sua attenzione, schivando l’occasionale fendente mal diretto e rifilando un pugno ben assestato quando necessario. Sperava che Shem fosse ancora vivo: voleva prenderlo per il collo, sollevarlo da terra, e guardarlo negli occhi mentre esalava l’ultimo respiro. La dolce illusione si frantumò come una palla di vetro quando vide Shem riscuotersi e rialzarsi a fatica sulle ginocchia. Il cappuccio era scomparso, fatto a pezzi dall’esplosione, e la sua testa sproporzionata, marcata da radi ciuffi di pelo, era pienamente esposta alla luce delle torce. Dorian squadrò con ribrezzo la pelle giallastra, gli zigomi scomposti e asimmetrici, le labbra gonfie, le orecchie ritorte, e soprattutto i piatti occhi da pesce incassati in un paio di pesanti occhiaie blu notte. C’era ancora vita in quegli occhi, fin troppa per i suoi gusti. Accelerò il o.

Non appena lo vide, Shem si alzò sulle gambe traballanti con enorme sforzo, e cercò di guadagnare il vicolo più prossimo. Ogni tre i si voltava a cercare Dorian con sguardo allucinato: quando vide con che facilità il guerriero si apriva il cammino tra i combattenti, schiacciandoli come sterpi secchi, capì che era inutile cercare la fuga in quel modo, e si fermò. Dorian era ormai a pochi i di distanza, più infuriato e spaventoso di tutti i Demoni intorno a lui. Shem sollevò le braccia, incrociò i polsi davanti al viso, e le sue labbra spaccate mormorarono una serie di parole nella Lingua Antica. Le disgustose bocche nei palmi delle mani si spalancarono e vomitarono un fumo nero che lo avvolse in dense volute, e si propagò tutt’intorno a lui. Dorian piombò di corsa nella cortina fumogena, deciso ad atterrarlo con il proprio peso. Andò a sbattere contro il muro: Shem era già sparito nel mezzo della nebbia artificiale, che continuava a espandersi. Dorian tossì, augurandosi che non fosse velenosa: sarebbe stato un trucco degno del suo avversario, e lui vi si era gettato dentro a capofitto! Coprì bocca e naso nell’incavo di un braccio e guardò a terra. Trovò subito le macchie di sangue, ma prima che potesse lanciarsi all’inseguimento una sagoma massiccia sbucò dalla nebbia davanti a lui e due mani robuste lo afferrarono per il collo. La faccia squamosa del Demone, squarciata da un colpo di spada, venne incontro alla sua per azzannarlo con i denti affilati. Dorian reagì con una testata, che fermò l’attacco ma non fu abbastanza energica da spezzare la presa. Infierì sui gomiti e sui polsi dell’avversario, sempre più stordito dalla nebbia e dalla mancanza di ossigeno, finché sentì la pressione allentarsi. Continuò a colpire alla cieca, disperato: mentre lui era impegnato in quell’inutile scontro, Shem se la stava squagliando in tutta libertà! Quando avvertì uno spostamento d’aria davanti a sé, l’istinto gli ordinò di gettarsi schiena a terra, trascinandosi dietro l’ingombrante corpo del Demone. Fu una mossa tempestiva: Shem comparve a mezz’aria sul suo tappeto, lanciato alla massima velocità, e nel are scagliò una saetta incendiaria. Dorian si fece scudo con il Demone, che assorbì l’impatto con un urlo lancinante. Mentre Shem spariva nella nebbia, diretto verso i campi aperti, il guerriero si liberò del Demone agonizzante e scattò dietro al tappeto. Sbucò fuori dalla cortina fumogena e continuò a correre a perdifiato verso i confini del villaggio, lasciando dietro di sé le grida e il clangore della battaglia che, sospettava, sarebbe terminata nel massacro generale dei contendenti: una

sorta di amara vendetta da parte degli abitanti del villaggio. La sagoma di Shem in rapido allontanamento sul suo tappeto si stagliò nitida contro il disco cremisi della Luna di Sangue, già fuori dall’abitato. Dorian cominciava a disperarsi, quando vide un cavallo legato a una staccionata, che scalpitava innervosito dai suoni e dagli odori della lotta. Il guerriero slegò le redini, balzò in sella e diede di sprone, lo sguardo sempre fisso sulla figura nel cielo. La caccia era cominciata. Shem aveva un buon vantaggio, Dorian non poteva permettersi errori né soste, se non voleva perderlo per sempre. Per sua fortuna il paesaggio era piano e spoglio, non vi erano nascondigli o scorciatoie che Shem potesse utilizzare per seminarlo. Erano troppo distanti tra loro per esserne certi, ma Dorian aveva l’impressione che il mostro si guardasse spesso alle spalle, controllando la sua posizione. Un paio di volte cercò di far perdere le proprie tracce sorvolando macchie d’alberi, ma erano sempre troppo strette e rade perché Dorian non potesse attraversarle o aggirarle al galoppo. L’inseguimento continuò a rotta di collo, la preda sempre in volo, alta nel cielo come un’oca selvatica, il cacciatore alla rincorsa tra le insidie dell’oscurità. Macinò leghe, guadò torrenti, saltò staccionate, spingendo il cavallo ai limiti delle sue possibilità, pregando che non si spezzasse una gamba nel momento meno opportuno. Ad un tratto, per sua grande gioia, il tappeto sbandò e perse quota, avvitandosi verso il suolo con l’occupante disperatamente aggrappato ai bordi. Riuscì a stabilizzarsi a pochi metri dal suolo, ma non a riprendere quota né a riportare la velocità ai livelli di prima. Il guerriero colse l’occasione per ridurre le distanze, poi decise di tentare qualcosa che non aveva mai provato prima: mollò le redini, tenendosi in equilibrio sulle staffe con la sola forza delle gambe, e mirò a Shem con il guanto. Il raggio d’energia ò appena sopra le spalle del mostro, che imprecò e cambiò direzione. Appena poté, restituì l’attacco, e solo lo scatto fulmineo del cavallo lo mandò a vuoto. La caccia proseguì sino ai primi chiarori dell’alba, tra scambi di colpi a distanza, schivate e rincorse, lasciando i due contendenti sempre più esausti. Il mezzo volante di Shem prese a rallentare e a sbandare con maggiore frequenza, così come lo sfinito destriero di Dorian, e nessuno dei due aveva più scorte di energia sufficienti ad alimentare i manàlorin. Sembrava che l’inseguimento non dovesse aver fine, quando il pianoro si

tramutò in un declivio accentuato e la città di Sostar apparve a fondo valle, bagnata dai raggi del sole nascente. Shem esultò: fin dall’inizio quella era stata la sua meta. Soltanto al riparo delle spesse mura della capitale, protetto da file su file di soldati alleati, sarebbe riuscito a disfarsi dell’implacabile cacciatore. La speranza gli diede la forza di accelerare un’ultima volta. Dorian, al contrario, si disperò: lo vide allontanarsi più veloce di quanto il suo cavallo potesse mai andare. Nonostante ciò diede di sprone più e più volte, nell’illusione che la bestia riuscisse a spremere le ultime energie che le restavano. Si dimostrò una vana speranza, quando il povero animale stramazzò senza vita, facendo piombare al suolo il proprio cavaliere. Dorian si alzò sulle ginocchia, con la faccia sudicia di terra e la sensazione di aver la schiena a pezzi. Inquadrò a fatica la sagoma già lontana di Shem, e capì che gli restava un’unica possibilità. «Dei, aiutatemi. Fratelli, aiutatemi!» pensò, alzando il braccio. Il sottile fascio luminoso, appena una scheggia di energia risucchiata dal suo corpo martoriato, solcò l’aria come un filo luccicante e traò il tappeto proprio mentre questo si approssimava alle mura della città. Il tessuto prese fuoco all’istante e il surreale mezzo di trasporto si avvitò verso il basso. Questa volta il suo padrone non poté far nulla se non urlare di collera e fissare sgomento il suolo che si avvicinava a gran velocità. Con un ultimo sussulto di magia il tappeto - ridotto a poco più di un fazzoletto bruciacchiato - riuscì a planare a terra, invece che schiantarsi con violenza, e Shem rotolò su se stesso fino a sbattere ai piedi delle mura imponenti. Soddisfatto ma stravolto, Dorian zoppicò verso di lui, vedendolo strisciare spalle al muro come il verme che era. Degustò ogni istante di panico del suo nemico, mentre la distanza tra loro si riduceva sempre più, o dopo o. Ignorò la possibile presenza di arcieri sui bastioni, completamente assorto nella brama di acciuffare il mostro e farlo a pezzi con le sue mani. Per questo non guardò in alto, e venne colto alla sprovvista. Udì appena un risucchio d’aria sopra la testa, poi scorse un incubo alato pesante come un macigno piombargli addosso dal cielo. Schivò l’attacco per meno di una spanna, e i piedi di metallo del mostro umanoide si piantarono nella terra con un rimbombo. Un attimo di ritardo, e l’avrebbero ridotto in poltiglia.

Stordito, osservò il nuovo arrivato: era alto, possente, la pelle nuda solcata da ampie fasce di metallo rilucente, incise nella carne come perversi tatuaggi. Il mostro gli restituì uno sguardo sprezzante con gli spaventosi occhi rosso cremisi, mentre ripiegava le grandiose ali d’argento. Dorian, annichilito da quella spaventosa apparizione, non tardò a realizzare chi aveva di fronte: Caleb, l’uomo di carne e acciaio, il signore degli Automi, fratello di sangue di Shem e Nahash! «Sei proprio malridotto, fratellino» disse il colosso a Shem, senza neanche rivolgergli lo sguardo «Fortuna che ho udito i tuoi richiami disperati.» Dorian non aveva udito nulla: forse i Quattro comunicavano tra loro per mezzo di un potere silenzioso. Il sollievo dipinto sul volto di Shem si tramutò repentinamente in collera repressa. «Mi... mi ha colto di sorpresa, o altrimenti!» sibilò, sputando sangue. «Davvero una terribile sorpresa, se sei corso fin qui come un coniglio, senza mai voltarti a combattere. Perché non ti sei fermato ad affrontarlo?» E poi, con un sorriso malizioso: «Cosa dirà nostro fratello quando verrà a saperlo?» «Non lo saprà!» sbottò Shem «Perché uccideremo questo traditore adesso, e faremo a pezzi il suo corpo!» Caleb arricciò le labbra: «Non ti reggi in piedi, ci penso io. Mi dovrai un grosso favore.» Dorian approfittò di quella futile conversazione per sguainare la spada e attaccare Caleb con un fendente fulminante. Il gigante parò il colpo con un avambraccio coperto di metallo, e lo respinse. Dorian tornò all’attacco, ma l’avversario riusciva a difendersi a mani nude come se fosse un legnetto a colpirlo, e non una spada. Assorbiva le botte con la sua corazza naturale, schivando soltanto quando la lama si avvicinava troppo ad uno dei sottili ritagli di carne scoperta. Quando ne ebbe abbastanza, afferrò la lama a mezz’aria con le due mani e la spezzò. Dorian osservò senza davvero crederci il moncherino d’arma che gli restava tra le dita, poi un pugno grosso come la sua testa lo investì in pieno stomaco e gli succhiò via tutta l’aria dai polmoni. Cadde in ginocchio. Non aveva nessuna intenzione di darsi per vinto, ma la lunga notte di caccia l’aveva privato di ogni forza.

«Così!» esultò Shem. «Visto? Non era gran cosa» lo sbeffeggiò Caleb. «Che ironia» pensò Dorian «Due di loro qui davanti a me, e non riesco nemmeno ad alzare un dito...» Caleb si avvicinò, sovrastandolo con la sua mole. «Come premio per aver messo in difficoltà il mio fratellino, ti darò una morte rapida e indolore. Ma prima dimmi, guerriero: chi sei?» Dorian sollevò lo sguardo, svuotato di ogni emozione. «Perché non mi uccidi subito, e la facciamo finita?» Caleb lo afferrò per il collo, avvicinò il suo viso dai riflessi metallici a quello del guerriero. «Così non va. Ti ho fatto una domanda. Rispondimi con cortesia, o me la serò con te con molta calma, un arto alla volta, capisci?» «Come vuoi.» Fissò gli occhi induriti in quelli rossastri del nemico. «Sono Dorian, braccio destro di Abel, comandante della Compagnia del Viandante.» Con sua sorpresa, scorse una traccia di paura affiorare sul volto di statua di Caleb. Il gigante si toccò l’orrenda cicatrice tonda che gli marcava l’addome appena sotto al costato. «Ancora voi!» sibilò «Maledetti vermi, non volete proprio decidervi a scomparire dalla faccia della terra!» Si girò di scatto verso Shem, che si era rimesso in piedi con difficoltà. «Non dicevi di averli massacrati tutti quanti?» «Credevo di averlo fatto... Ma sbucano dal suolo come insetti!» «Insetti dal morso velenoso...» «Allora è vero» pensò Dorian, permettendosi un ultimo sorriso. Quella di Zontar non era una storiella, Kyra si era davvero scontrata in duello con quel mostro, e gli aveva mostrato di che pasta era fatta! Di certo quella

cicatrice era un ricordo che lei gli aveva lasciato. «Sono orgoglioso di te, figlia mia...» Adesso poteva morire in pace con se stesso, sapendo che Kyra aveva i mezzi e il coraggio per affrontare i Quattro anche da sola, se necessario. Sarebbe sopravvissuta al cupo futuro che attendeva l’umanità. Forse avrebbe combattuto, avrebbe portato a termine la battaglia che lui era riuscito soltanto a cominciare. Non era una vana speranza! «Hai soddisfatto la tua curiosità, obbrobrio?» si sfogò. Caleb lo trasse a sé, alzò un pugno davanti al volto. Dorian pensò di chiudere gli occhi, ma all’ultimo decise che non l’avrebbe fatto. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Un rumore di zoccoli giunse improvviso alle sue orecchie. Dall’angolo orientale delle mura, comparve un cavaliere lanciato al galoppo, la sagoma fine stagliata contro il disco del sole nascente. Si udì un secco scatto metallico, seguito da un sibilo, e un dardo non più lungo di una spanna si conficcò nella coscia di Caleb, proprio dove la carne era scoperta. Il gigante mugghiò di dolore e arretrò verso le mura, mollando la presa su Dorian. Il destriero sopraggiunse di gran carriera, tagliando nel mezzo tra il guerriero e i suoi nemici. Il cavaliere spiccò il volo dalla bestia in corsa, per atterrare a piè pari proprio davanti a Caleb. «Tu?» sbottò il gigante, preso in totale contropiede. «In persona» rispose il cavaliere, che in realtà era una giovane donna, con il braccio destro rivestito di metallo brunito e un occhio rosso come le fiamme dell’inferno. «Dov’eravamo rimasti?»

XXVI - Ritratto

Raduan sentì il panico prendere forma, come un quinto occupante della barca. Nel buio più completo non poté scorgere le espressioni dei compagni, che di certo erano simili alla sua: una maschera rigida di tensione. «Sta aumentando» echeggiò la voce di Gonzo «Ci viene incontro!» «Siamo noi ad andargli incontro, e veloci!» rispose Tasha. Il fragore aumentava, e aumentava. Non lasciava presagire nulla di buono. «Non potremmo fermarci?» «E come, genio?» «Se almeno riuscissimo a vederci qualcosa...» «Proviamo» disse Raduan. Rovistò in un tascone della giubba, fino a trovare l’acciarino. Lo resse in alto davanti a sé e strofinò la pietra sul metallo. La scintilla si spense rapida, neanche il tempo sufficiente a guardarsi attorno. «Di nuovo. Occhi aperti, tutti quanti!» Raspò il metallo varie volte di seguito, sprizzando schegge di luce nell’oscurità, finché riuscirono a farsi una vaga idea del circondario: pareva un tunnel circolare, poco più largo della loro imbarcazione, solcato da un corso d’acqua. L’inclinazione della galleria generava un’intensa corrente, che aveva ghermito “Zefiro” e la trascinava a tutta forza dentro le viscere della montagna. Il fragore si tramutò in un rombo colossale, tanto che dovettero mettersi a urlare per comunicare. «Non mi piace» cantilenò Gonzo, tappandosi le orecchie con le mani «Non mi piace, non mi piace, non mi piac...»

Gli mancò la terra sotto i piedi, e cominciò a cadere. A metà dello strillo si schiantò dentro la barca con un botto che gli strizzò l’aria dai polmoni. Udì il grugnito di Raduan accanto a sé, poi qualcuno gli cadde malamente addosso. Mise le mani avanti, e tastò qualcosa di morbido. Ricevette uno schiaffo in pieno volto. «Fallo di nuovo e ti ammazzo!» esclamò Tasha, inviperita. «Come faccio a...?» Si appoggiò all’indietro, e anche il nuovo sostegno cedette sotto le sue dita. «Ouch!» gridò Pryce «Non lì, maledizione!» «Fermi!» alzò la voce Raduan «Non muovetevi!» La barca sobbalzava paurosamente, inclinandosi da un lato e dall’altro. Stavano girando in tondo, come formiche aggrappate al dorso di una trottola. L’acqua schizzava loro addosso da ogni parte, inzuppandoli. Magra consolazione: era tiepida. «Reggetevi!» Si accucciarono sul fondo della barca, che scendeva a folle velocità, cozzava sulle pareti di roccia, girava su se stessa, e ogni tanto balzava giù da una rapida, senza preavviso. Quei momenti di caduta libera erano i peggiori in assoluto, perché nessuno dei quattro sapeva quanto ci sarebbe voluto prima di toccare il fondo. Nelle loro menti danzavano orribili caroselli di ossa spezzate e annegamenti, sempre troncati a metà dal tonfo successivo. Tra il panico e il frastuono dell’acqua ribollente, riuscivano a esprimersi soltanto a urla e imprecazioni. Poi, con un ultimo risucchio, venne il vuoto. Il «Noooo!» disperato di Gonzo si protrasse all’infinito nelle orecchie di Raduan, mentre volava giù come un uccello dalle ali strappate. Chiuse il corpo a riccio e pregò Abidan per una fine rapida, più rapida del terrore che lo invadeva. Sì schiantò come una palla di cannone su una superficie liquida, e affondò. Stordito, agitò braccia e gambe nell’acqua calda e densa, lottando per trattenere l’aria nei polmoni. Aprì gli occhi, cercò di capire dov’era il sotto e dove il sopra.

Dopo lunghi attimi di panico, scorse una luce diffusa: le nuotò incontro con la forza della disperazione. Lacerò il velo fluido della superficie proprio mentre svaniva l’ultima oncia d’ossigeno rimastagli nei polmoni. Spalancò le labbra all’aria aperta: ogni boccata gli provocava squarci di tosse, ma c’era mai stato niente di così dolce e puro come quell’ossigeno che gli restituiva la vita? Rimase sdraiato sul dorso a pelo d’acqua, le palpebre serrate e i polmoni in febbrile attività, finché il corpo gli diede il segnale che poteva muoversi, e i suoi sensi si riallacciarono alla realtà. Spalancò gli occhi e si ritrovò... ...sotto un cielo stellato? No, non era il cielo, sembrava piuttosto... una volta, un’altissima volta di pietra cosparsa di macchie luminose! Cosa...? «Raduan! Raduan!» Si girò. Gonzo si stava sbracciando nella sua direzione, imitato da Tasha. I due, fradici da capo a piedi, se ne stavano riversi a pancia in già sui rottami di quello che era stato il loro fedele mezzo di trasporto. Pryce era sdraiato supino accanto a loro, si stringeva un braccio al petto con aria sofferente. Estasiato di trovarli vivi, il guerriero nuotò verso di loro ad ampie bracciate. Lo aiutarono ad issarsi sulla carcassa di legno, benché ci fosse appena spazio per loro. Mentre si aggrappava al bordo di legno spezzato, gli cadde l’occhio sul nome “Zefiro” inciso a fuoco sulla murata. Il vento leggero dell’Ovest aveva soffiato per l’ultima volta. «State bene?» indagò. «Tutto a gonfie vele» rispose Tasha, con un sorriso ironico. «Parla per te» replicò Pryce, con un filo di voce. Era pallidissimo e stringeva i denti per il dolore. «Cos’è successo?» «Il braccio... Ahi! Credo di essermelo rotto. L’ho sbattuto sulla barca quando

sono piombato giù.» Raduan alzò la testa e vide la bocca del tunnel da cui erano caduti, in alto sulla parete dell’immensa caverna: il torrente precipitava da lassù a cascata e si fondeva con le acque del lago in un bianco ribollire di schiuma. Tornò a guardare il ragazzo, preoccupato. «Ce la fai?» «Sì, non temere. Ma non posso muoverm... ahi!» «Sta’ fermo, ci pensiamo noi!» Scrutò la superficie del lago: lungi dalla cascata le acque erano cupe e immote, tranne in un paio di punti, dov’erano increspate da sciami di bolle e sbuffi di vapore. Davanti a loro lo specchio d’acqua si perdeva nell’oscurità. Dietro, si riusciva a malapena a scorgere una linea solida, che poteva essere un punto d’approdo. Raduan la indicò agli altri tre. «Che ve ne pare?» «Guidaci» disse Tasha «Ti affido il comando.» A forza di braccia e gambe, trasportando anche il peso morto di Pryce, spinsero il rottame galleggiante sino alla sponda, una lingua di roccia nerastra che formava una stretta cornice intorno al lago. Aiutarono il ragazzo a sbarcare, poi trascinarono in secca i resti della barca. Gonzo si chinò a toccare terra - o meglio, a baciarla. Quando rialzò il capo, si portò una mano alle labbra. «Che strano... è calda!» Raduan toccò il suolo a sua volta: era una roccia porosa e crivellata di fori, ruvida al tatto. Emetteva calore. «Ah-ah! Ecco cos’è!» esclamò Tasha. Reggeva tra le mani a coppa un batuffolo luminescente, e lo sporse verso di loro. Pryce fu il più svelto a capire.

«Muschio!» Lo toccò con le dita, la bocca aperta in un ovale di meraviglia. Era proprio quel vegetale che, sparso in ogni dove, colmava la caverna di una luce soffusa, come un crepuscolo stellato. Gonzo si avvicinò e ne strappò un pezzo dalle mani di Tasha. «Ehi!» Lo annusò con fare circospetto, poi lo ingoiò e masticò lentamente. Sputò quasi subito, e si pulì la lingua col dorso di una mano. «Puah, che schifezza! Davvero un peccato!» Il suo stomaco emise un brontolio spaventoso. «Ti sembra questo il momento?» lo redarguì Tasha, ma Raduan la interruppe: «No, Gonzo ha ragione. Anche se non ho idea di dove ci troviamo, siamo sani e salvi, e al caldo.» Si spogliò della giacca fradicia per dare forza alle proprie parole. «È ora di pensare al cibo, prima che ci manchino le forze. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo mangiato?» «O bevuto?» gli fece eco Pryce. «Non so voi, ma io credo di aver inghiottito metà del lago, dopo la caduta» disse Gonzo. «Com’era l’acqua?» «Salata, e calda.» «Urgh! No, grazie, non sono ancora così disperato.» Mentre Pryce e Gonzo perlustravano i dintorni, Tasha e Raduan rimestarono tra le assi spezzate della barca. Ben poco si era salvato dal violento naufragio anche perché fin dall’inizio c’era ben poco da salvare. Tra i pochi oggetti utili, rimasti incastrati nel rottame per puro miracolo, c’era la pentolaccia di latta che usavano per la zuppa serale.

Gli altri due ebbero maggiore fortuna: Pryce scovò un filo d’acqua pura che scorreva giù lungo la parete da un foro poco più in alto della sua testa. L’assaggiò con la lingua, e mostrò il pollice in alto a segnalare che era di suo gusto. Nel frattempo, anche Gonzo aveva trovato qualcosa di interessante. «Venite, in fretta!» li chiamò. Lo raggiunsero sulla sponda, dove fece loro segno di fermarsi. «Che mi prenda...!» disse Raduan. Sulla soglia di un buco nella roccia li attendeva una famigliola di granchi dal carapace rilucente come il muschio. Li osservavano incuriositi, allo stesso modo in cui erano osservati, senza mostrare neanche un’ombra di timore. «Dev’essere la prima volta che vedono un essere umano» commentò Pryce, con un sorriso di stupore. «Beh, meglio così» disse Gonzo. Allungò una mano. I granchi si scostarono senza troppa fretta, tanto che ne afferrò uno con facilità. Si ò la lingua sulle labbra, e fece per portarselo alla bocca. Raduan lo bloccò a metà del cammino. «Che diavolo stai facendo?» «Non lo vedi? Muoio di fame!» «Anche noi, ma non per questo ci comporteremo come degli animali! Tasha, Pryce! Ognuno faccia la sua parte, e presto sazieremo i nostri stomaci.» Si divisero i compiti: Pryce, che non poteva fare grandi sforzi a causa del braccio, si limitò ad ammassare muschio per il falò. Gonzo diede fondo alle sue ultime scorte di pazienza per riempire la pentola con il lentissimo filo d’acqua che colava dalla roccia. Il compito più impegnativo toccò a Raduan e Tasha, eppure non rappresentò neanche un briciolo della sfida che si aspettavano: i granchi erano così ingenui che quasi andavano incontro a loro per farsi catturare. In breve ne acchiapparono una dozzina ciascuno, li freddarono a misericordiose sassate, e li gettarono in pentola.

Mezz’ora dopo, l’acqua stava bollendo. Un’altra mezz’ora, e i quattro giacevano sdraiati sulla roccia tiepida, con le pance piene e un’espressione beata sul volto. Rimasero lì senza fretta alcuna, a sonnecchiare e a riprendere le forze. Ognuno di loro era profondamente grato agli Dei per essere sopravvissuto e aver placato i tormenti della fame e del freddo. Persino Pryce sorrideva, nonostante le fitte di dolore che ogni tanto gli strappavano un gemito. «Non mi piace quel tuo braccio» disse Raduan, dopo l’ennesimo lamento. «Figurati a me» rispose Pryce, con un sorriso debole. Aveva l’aria provata, più di quanto fosse disposto ad ammettere. «Rotto o meno, dovremmo steccarlo. Non ho molta esperienza in materia, ma posso...» «Lascia stare» lo interruppe Tasha «ci penso io. L’ho fatto tante volte, per gli uomini di mio fratello, che ormai sono un’artista.» «Di certo il nostro Pryce ne sarà felice» sogghignò Gonzo «Attenti che non si rompa anche una gamba, di proposito.» «Ehi! Brutto...» Raduan ringraziò la ragazza con lo sguardo, sorpreso che si fe spontaneamente carico di un compito tanto ingrato. Immaginava che volesse accompagnarlo nell’esplorazione della caverna, e invece... Lei parve leggergli nel pensiero. «Pulcino non l’ha detta tutta. Si è fatto male per proteggermi, durante la caduta. È inutile che ti giri dall’altra parte, sai? Ho visto tutto: ti sei buttato tra me e la barca!» «Per proteggerti, o per prenderti al volo tra le sue braccia?» «Tappati la bocca, Gonzo, o giuro che...!» Raduan lo afferrò per la collottola, prima che Pryce si rompesse anche una mano per spaccargli il grugno.

«Tu vieni con me, sarà meglio per tutti.» «Dove andiamo?» chiese Gonzo. «A cercare una via d’uscita. Se Helah è riuscito a raggiungere la Valle, e a tornare indietro, dev’esserci un cammino.» «Andate pure» annuì Tasha «Qui ci penso io.» Pryce arrossì e tacque, ma non poté celare un sorriso. Raduan e Gonzo si incamminarono lungo il margine destro della banchina, che a tratti si restringeva fino a costringerli ad entrare in acqua. In breve il paesaggio perse il suo incanto iniziale, e si fece monotono ai loro occhi: roccia nera, muschio luminescente sparso qua e là, acqua immota, e nient’altro. L’aria aveva un leggero sentore di zolfo. Lo sciacquio dei loro i e gli sbuffi di Gonzo erano gli unici suoni a dar vita all’ambiente. Amplificati dall’eco, davano loro la sensazione di essere pedinati da creature invisibili. Per irrazionale che fosse, in un luogo così deserto, la mano di Raduan correva spesso al fianco, alla ricerca di una spada che non c’era: la sua l’avevano presa i pirati, e quell’altra l’aveva gettata via durante l’inseguimento. In ogni caso, l’avrebbe poi persa nel lago durante la caduta, così come aveva perso i fogli con le annotazioni di Helah. Quando se n’era accorto aveva vissuto brevi attimi di disperazione, prima di rendersi conto che ormai, a forza di rileggerli, li sapeva a memoria. Nulla era perduto, nemmeno il medaglione di Madara e la gemma della Strega d’Ebano, che appesi alla catenella gli picchiettavano sul petto ad ogni o. «Guarda!» strillò Gonzo, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. Si voltò di scatto e vide un’ampia macchia luminosa in avvicinamento, appena sotto il pelo dell’acqua. Si appiattirono contro la parete della grotta, in punta di piedi: era il massimo che potessero fare, poiché la cornice di roccia era quasi inesistente. La chiazza si avvicinò a gran velocità, e proprio quando stava per toccare il bordo si scisse in un centinaio di piccole macchie di luce, che si dispersero in ogni direzione, per poi riassumere la formazione e riprendere il largo. Gonzo fece una risatina nervosa.

«Pesciolini! Che simpatici!» Raduan lo strattonò per un braccio, costringendolo a camminare più in fretta. «Se ci sono quelli piccoli, devono esserci anche quelli grandi.» «Quanto grandi?» «È proprio quello che non voglio scoprire. Su, muoviti!» Continuarono così per un bel pezzo, un occhio fisso sul cammino e l’altro sullo specchio d’acqua, bagnandosi soltanto quando fosse inevitabile - o quando un piede inciame nell’altro, nel caso di Gonzo. Ad un tratto, Raduan si fermò e strinse gli occhi per scrutare meglio nella penombra crepuscolare. «Lo vedi anche tu?» domandò Gonzo. «Credo di sì.» Era una macchia tendente al marrone, adagiata sul ciglio di pietra a un centinaio di i da loro. Qualsiasi colore, anche il più smorto, risaltava in modo sospetto su quello sfondo di nero perenne. «Che cos’è?» «Saprò dirtelo soltanto quando saremo vicini. Andiamo.» Raggiunsero il punto senza indugi. Era una sorta di spiaggetta, la prima che avessero trovato lungo il cammino, fatta di sabbia spessa e nera che ad ogni o inghiottiva i loro piedi fino alle caviglie. «Ancora non capisco» disse Gonzo, grattandosi il mento. La macchia marrone, da vicino, non era che un irriconoscibile ammasso di legno putrido. Raduan scostò le assi guaste con la punta di uno stivale, mettendo in fuga la colonia di granchi che vi abitava. Ci mise un po’ ad arrivare a una conclusione sensata. «Una barca! Forse...» Eccitato, si guardò attorno. Addossati alla parete di roccia, vide due monticelli

della stessa sabbia nera di cui era fatta la spiaggia. Si approssimò, e subito notò qualcosa in cima a ciascuno dei monticelli. Prese uno dei piccoli oggetti rotondi, soffiò via la sabbia, e lo sfregò con la manica del camiciotto. Sorrise. «Buone notizie?» lo interrogò Gonzo. «Non per loro, ma per noi sì. Guarda!» Gonzo scrutò l’oggetto con attenzione: era un monile di metallo dorato, su cui si stagliava l’immagine consunta di un’incudine e un martello. Il sorriso apparve anche sul suo volto. «Monaci di Abidan!» «Esatto. Questi devono essere i loro tumuli.» «Quindi Helah è ato di qui!» «Quanti altri monaci conosci, che abbiano esplorato questo posto prima di noi?» «Diciamo... nessuno?» Il guerriero concordò con un sorriso. «Questi due poveracci non ce l’hanno fatta: la caduta dev’essergli stata fatale.» «Ma Helah e gli altri devono aver proseguito in qualche modo. Come?» Gonzo mosse lo sguardo lungo la parete della caverna, finché spalancò gli occhi per la sorpresa. «No, non me lo dire!» «Che cosa?» Gonzo gli accennò il punto con il mento, chiaramente scontento. «Io lì non ci vado, ti avverto!» Finalmente anche Raduan la vide: una ripida, strettissima e interminabile sequenza di gradini intagliati nella parete verticale di roccia nera, che si perdeva

nel buio sopra le loro teste. Solo da vicino il guerriero riuscì a sincerarsi che la scalinata fosse reale, e non soltanto frutto della loro immaginazione. I gradini, grezzi e irregolari, erano stati scavati dalla mano dell’uomo. Gonzo lo affiancò, alzando la testa con sguardo a metà tra l’affascinato e il terrorizzato. «Credi che sia stato Helah?» Raduan si accarezzò la barba. «No, impossibile. Sarebbe stato un lavoro immane per un pugno d’uomini, perdipiù senza strumenti. È un’opera molto più antica.» In cuor suo, vedeva la scala come un cammino dorato che lo conduceva in alto sui i di Helah, fino alla Valle della Luna. Per Gonzo non era che un incubo fatto di vertigini, terrore e ossa rotte. Chissà perché, ad ogni o che lo allontanava da Leukania, sentiva crescere la nostalgia. -----«Ecco fatto!» disse Tasha, stringendo l’ultimo nodo. Era piuttosto soddisfatta della sua opera, messa insieme con stecche di legno e strisce di tessuto sfilacciato ricavati dai resti del naufragio. Anche dopo la sua dipartita, “Zefiro” continuava a rendersi utile. «Grazie» mormorò Pryce con un filo di voce. Cercava di esibire un sorriso da duro, ma Tasha non si fece ingannare: quello che aveva davanti era un Pulcino esausto e sofferente, forse prossimo allo svenimento. Lei ci aveva messo tutta la delicatezza possibile, comunque un braccio rotto era un braccio rotto. E sommandoci tutte le privazioni e la tensione degli ultimi giorni, il danno era fatto. Il ragazzo sbadigliò sonoramente. «Hai bisogno di dormire, Pulcino.»

«Certo che no! Potremmo...» «Certo che sì! E subito!» «Ma...!» «Niente ma: se non ti rimetti subito in sesto, va a finire che dovremo abbandonarti in questo postaccio. È questo che vuoi?» Lui tacque, scontento. Con il labbro inferiore sporto all’infuori, sembrava un bambinetto capriccioso. Piegò la testa all’indietro, e sbatté la nuca contro la roccia. «Ahi!» «Sei proprio un disastro!» sbuffò Tasha «Non alzarti, vado a prenderti un cuscino.» Andò a prendere una delle ultime pelli superstiti del loro vagabondare tra le Zanne di Pietra, rimasta miracolosamente asciutta nonostante le rapide e la spettacolare caduta nel lago. Quando sollevò il rotolo villoso tra le braccia, qualcosa scivolò a terra. Lo riconobbe al volo: era il famoso libriccino di Pryce! Fece per raccoglierlo, ma si bloccò a metà. Con la coda dell’occhio, vide che il ragazzo se ne restava immobile, con le palpebre serrate: non aveva visto nulla. Con la punta del piede spostò il libretto dietro i resti della barca, poi indossò la sua migliore faccia tosta e tornò da Pryce. «Prendi» disse, infilandogli la pelle arrotolata sotto al capo. Il ragazzo la ringraziò con occhi adoranti, tra le palpebre appesantite dal sonno. Lei gli diede un buffetto su una guancia. «Buonanotte - se è notte.» Lui rispose qualcosa di incomprensibile. Richiuse gli occhi e affondò la testa nella pelliccia morbida, con aria appagata. Tasha andò a sedersi un po’ più in là, dove aveva nascosto il libretto. Quando fu certa che Pryce si fosse addormentato, lo prese tra le mani. La sua battaglia interiore tra curiosità e senso di colpa si concluse in un batter d’occhio, con il

facile trionfo della prima. Aprì la copertina di pelle rossastra e fece scorrere tra le dita le pagine coperte fino ai margini da una scrittura densa, disordinata. Leggendo qua e là, riconobbe che non si trattava di un unico filo narrativo, quanto piuttosto di un lungo insieme di racconti brevi, ciascuno corredato da fantasiose immagini a inchiostro. Troppo stanca per mettersi a leggere sul serio, si limitò a sfogliare le pagine senza soffermarsi su nessuna, buttando l’occhio soprattutto sulle figure. La maggior parte non erano che schizzi approssimativi, bozzetti di cose, animali, persone e paesaggi, ma in alcuni casi Pryce aveva davvero dato prova di doti artistiche fuori del comune. Come nel disegno di un gabbiano intento a spiccare il volo con un pesce intrappolato nel becco, o come nell’immagine delle onde che si infrangevano sulle rocce frastagliate delle Zanne di Pietra. Pagina dopo pagina, non fece che provare maggiore ammirazione per le abili dita del ragazzo, e per il suo modo di sentire e dipingere la realtà. Voltò una delle ultime pagine, e le mancò il fiato. Dalla carta, l’immagine del suo stesso volto la fissava come da uno specchio. Non solo era perfetta, nelle proporzioni e nei dettagli: era addirittura più viva della realtà, più bella di quanto lei fosse mai stata! Anche senza l’aiuto del colore, riusciva a distinguere i riccioli ramati, disegnati uno ad uno, radianti di luce; la pelle candida, spruzzata di lentiggini; la fronte alta, gli occhi cristallini, le labbra piene e lucide. C’era amore, in ogni minuscolo particolare. Il cuore prese a batterle più forte, senza che potesse evitarlo. Lesse il titolo del testo nella pagina accanto a quella del ritratto: “La Principessa Pirata”. Si morse un labbro, e cominciò a leggere. Lo stile forse non era dei più ricercati, ma a lei, che non aveva mai letto un racconto in vita sua, e che non era certo cresciuta a pane e libri - poteva ringraziare Namza se oggi sapeva leggere e scrivere senza troppe difficoltà parve favoloso. Come diceva il titolo, era la storia avventurosa di una principessa pirata, una giovane donna forte, coraggiosa, e talmente bella da riempire di lacrime di rabbia e desiderio gli occhi di ogni uomo della sua ciurma. Tasha sorrise, mentre con l’immaginazione accompagnava la ragazza sul ponte del vascello pirata, o tra le squallide bettole del porto, o nella selva impenetrabile che celava tesori senza eguali. Fremette quando l’eroina soffrì

l’insubordinazione dei suoi uomini, avidi e invidiosi, e il suo timore si tramutò in pura rabbia quando la ciurma si ammutinò contro di lei, minacciandola di morte. Quegli scellerati non si rendevano conto che senza di lei non valevano un soldo bucato! Soltanto un giovane schiavo, comprato dalla principessa in una ricca città dei mari del Sud, si oppone alla follia. La aiuta a fuggire, la protegge, ed infine le fa scudo col proprio corpo quando i pirati, accecati dalla rabbia, cercano di ucciderla. Con eroismo, lo schiavo riesce a impadronirsi di una scialuppa, e prende il largo insieme alla sua adorata sotto una pioggia di frecce. Rema, instancabile, grondando sudore e sangue, finché non trovano approdo su un’isola deserta. Qui, sulla sabbia dorata, crivellato di tagli e frecce, lo schiavo muore tra le braccia della principessa. L’ultimo respiro che esala, l’ultimo raggio di luce che cattura con gli occhi, li dedica a lei, l’unica, la meravigliosa creatura per cui è disposto a donare la propria vita. Tasha imprecò, e gettò via il libriccino. «Bah, che mucchio di stupidaggini!» sbraitò, mentre si asciugava gli occhi col dorso della mano. Che diavolo le era preso? Versare lacrime per uno stupido testo di fantasia, scritto da un ancor più stupido ragazzino dall’animo candido come quello di una donnicciola? Lo guardò con rabbia. Dormiva placidamente, la testa reclinata di lato sul cuscino improvvisato. Continuò a fissarlo, cercando di odiarlo, cercando almeno di trovarlo ridicolo. Non ci riuscì. Si alzò e gli si accovacciò accanto, senza far rumore. Rimase a contemplarlo da vicino, persa in pensieri confusi, chiusa al mondo esterno. Studiò il suo profilo delicato, la linea sottile degli zigomi, l’accenno di barba. Era bello, a modo suo. Senza accorgersene, mosse le dita sulle sue labbra tinte di un rosa pallido, poi più in là, verso una guancia. La carezzò con un gesto leggero, come una nuvola di primavera che sfiori i comignoli delle case. Alle sue spalle, qualcuno si schiarì la gola. Si voltò di scatto, e solo allora si avvide che Raduan e Gonzo erano tornati.

«Abbiamo interrotto qualcosa?» indagò quest’ultimo. Sentendosi bruciare di vergogna, Tasha schizzò in piedi, ma le gambe la tradirono e capitombolò in avanti. Due mani la afferrarono per le spalle, impedendole di cadere. Si trovò a fissare da vicino il volto di Pryce, completamente sveglio, gli occhi nei suoi a meno di un palmo di distanza. Rimasero così per un lampo d’eternità, stupefatti e turbati, finché le labbra di Tasha si piegarono in una smorfia. Lo respinse, si alzò con un balzo, e si allontanò ad ampie falcate. Pryce la seguì con lo sguardo, boccheggiando come un pesce. Raduan sferrò un pugno in testa a Gonzo. «Ahio! Ma cos’ho fatto?» Invece di rispondergli, Raduan lo piantò in asso e andò a sincerarsi delle condizioni del ragazzo. Gonzo rimase solo a massaggiarsi il bernoccolo, spiato dagli occhietti inespressivi di un granchio. «Tu fatti gli affari tuoi!» gli ingiunse, scalciandolo via.

XXVII - Verso la Luce

Il tempo trascorse nell’indolenza, mentre si riprendevano dalle fatiche e dagli stenti dei giorni ati. Mangiarono, bevvero e sonnecchiarono, ammansiti dal tepore della roccia. Tasha non si fece vedere, ma nessuno se ne ebbe a male: di certo stava sbollendo la rabbia in solitudine, da qualche parte. Raduan fu il primo a por fine all’ozio. Per prima cosa lacerò quel che restava della vela di “Zefiro”, ricavandone due sacche e alcune corde dall’aspetto poco resistente. Riempì le sacche con le pelli scampate al naufragio, una rudimentale piccozza fabbricata con un asse di legno e dei chiodi, un paio di reticelle piene di granchi, e per finire l’articolo più pesante: un otre pieno d’acqua potabile. Non c’era modo di sapere se avrebbero trovato un’altra fonte, dov’erano diretti. La testa ramata di Tasha spuntò da dietro una roccia poco dopo il risveglio di Gonzo e Pryce - che avrebbero sonnecchiato all’infinito, non fosse stato per il gentile tocco degli stivali di Raduan. La ragazza venne loro incontro con espressione corrucciata, senza guardarli in faccia. Puntò dritta ad una delle sacche e se la issò in spalla. «In che direzione?» domandò. Raduan le raccontò quel che avevano trovato, e lei si mise in marcia ancor prima che avesse finito di parlare. Rimasero imbambolati a guardare la sua schiena che si allontanava dritta come un fuso, poi Gonzo diede una scrollata di spalle e la seguì, imitato da Pryce. Raduan prese l’altra sacca e si unì alla fila. Rifecero l’unico cammino possibile per non dover attraversare il lago a nuoto. Tasha marciava davanti a tutti con o spedito, lanciando qualche imprecazione quando le scivolava un piede in acqua, e senza mai voltarsi indietro. Sembrava quasi che stesse fuggendo da loro. «È cotta!» sussurrò Gonzo, facendo l’occhiolino a Pryce. Schivò la gomitata allo stomaco con un agile o indietro. «Cammina, sciocco!» lo incitò Raduan, con una spintarella.

Proprio quel che mancava alla sua combriccola mal assortita! Un bell’amore adolescenziale, carico di lune storte, silenzi immotivati e scatti di rabbia improvvisa. Con l’aggiunta di un provocatore del calibro di Gonzo. Doveva tenere tutti sotto controllo, o alla prima scintilla la tensione sarebbe scoppiata come una bomba. Un po’ li invidiava, però. Notò che lo sguardo di Pryce era attratto dalla schiena di lei ogni due i, come una calamita. Osservò come Tasha camminava con le spalle rigide, la testa in alto, sprezzante. Erano appena indizi di quel che sentivano l’uno per l’altra, della tempesta fisica e emotiva che li travolgeva. La legge dell’attrazione era scomoda e inarrestabile, lui ne sapeva qualcosa. In ogni circostanza, anche in quel maledetto buco sottoterra. Un profondo barrito interruppe il corso dei suoi pensieri, accompagnato dal movimento di una forma che affiorava al centro del lago. Era una sagoma immensa e lucida, che in un batter d’occhio scivolò sotto la superficie senza neanche sollevare uno spruzzo. L’acqua ridivenne uno specchio immobile. «L’avete visto anche voi?» chiese, ma i compagni erano scattati avanti all’unisono, dimentichi del camminamento scivoloso e stretto. Decise che era una mossa saggia, e fece altrettanto. Giunsero alla spiaggetta di gran carriera, senza fermarsi a riprendere fiato. Pryce, piegato in due dallo sforzo, riuscì appena ad alzare il capo per lanciare un’occhiata alla scalinata scolpita nella roccia. La fila di gradini serpeggiava verso l’alto all’infinito, lungo la parete concava della caverna, come una sottile linea disegnata. «È quella?» gemette. «Ne vedi altre?» commentò Tasha, acida. «Ma... è strettissima! E guardate come si inerpica sulla parete! Non ce la farò mai, non con questo braccio!» «Rilassati» disse Raduan, poggiandogli una mano sul collo «Ti aiuteremo noi.» «E a me, chi mi aiuta?» si lamentò Gonzo. Tasha si avvicinò ai tumuli, saggiò la sabbia con uno stivale. Sembrava più

nervosa di quanto volesse ammettere. «Saranno caduti da lassù?» «Ne dubito» rispose Raduan «È più facile che li abbiano seppelliti prima di affrontare la scalinata.» «Uhm. Ce n’erano altri, vero?» «Oltre a Helah? Sì, altri tre monaci, e due marinai dell’Orca Azzurra. Ammesso che siano arrivati fin qui.» «Speriamo di essere più fortunati di loro.» «La fortuna bisogna aiutarla, Tasha. Su, attrezziamoci.» Prese un rotolo di corda improvvisata dalla sacca. «Legatevela ben stretta in vita, tutti quanti. Ci sarà d’aiuto, se qualcuno mette un piede in fallo.» Si voltarono a squadrare Gonzo. «Ehi! Grazie per la fiducia!» Formarono una fila, Raduan in testa con la sua piccozza di fortuna, poi Pryce, che tremava come una foglia, Gonzo, e quindi Tasha a chiudere la fila. Un’ultima pausa per prendere animo, e finalmente affrontarono la lunga ascesa. Affrontarono i gradini uno alla volta, con grande cautela, come se fossero creature vive da non importunare, piuttosto che rilievi intagliati nella roccia nera. Salirono come granchi, fronte alla parete. Non era facile, ma dava loro sicurezza. Ci misero del tempo a trovare il coraggio di camminar dritti, con lo strapiombo da un lato e la parete dall’altro. Pryce fu il primo a sbirciare giù verso il lago, e fu anche il primo a pentirsene: per poco il capogiro non gli causò un tuffo nell’abisso. La roccia era solida, non cedeva né si sbriciolava sotto le loro suole. A tratti, però, era resa sdrucciolevole dai rivoletti d’acqua che scorrevano lungo la parete, formando trappole invisibili. In tali frangenti Raduan costringeva il gruppo a

rallentare fin quasi a fermarsi. I punti più critici erano quelli dove la roccia della parete diveniva troppo calda per poterla toccare, quasi rovente. In quei tratti erano costretti a rinunciare all’unica cosa che davvero importasse, in bilico su quella serpentina: un sostegno sicuro. Immersi nel crepuscolo di luce soffusa - nera la volta, nero il lago e nere le pareti di roccia - persero la cognizione del tempo e dello spazio. L’aria era calda e pesante, soffocava la respirazione. Presto si ritrovarono gli indumenti appiccicati al corpo, madidi di vapore e sudore. Se non altro, a poco a poco, l’atto dello scalare i gradini divenne meccanico: il tremore e le vertigini cessarono, cedendo terreno al vuoto mentale. Quando giudicò che avessero fatto un buon progresso, Raduan diede l’alt. Sedettero con la schiena appoggiata alla roccia e le gambe penzoloni nel baratro, per rilassare i muscoli e consumare un pasto tutt’altro che gradevole. Ad un tratto la roccia prese a tremare con un brontolio sordo, vibrando sotto le loro gambe. Dalla volta si staccarono grossi sassi, che piombarono nell’acqua con una raffica di tonfi, molto più in basso. I quattro rimasero immobili come statue, senza nemmeno il coraggio di fiatare, fino a che il fremito della roccia si spense. Erano illesi, ma la loro digestione ne uscì del tutto compromessa. Dopo un rapido scambio di sguardi, ripresero il cammino. Finalmente Gonzo tornò a blaterare le sue assurdità, come non aveva più fatto dall’inizio dell’ascesa. Normalmente il cicalio della sua voce gli era insopportabile, eppure in quelle circostanze Raduan lo trovò quasi gradevole: era una specie di ritorno alla normalità, come se stessero eggiando lungo un comodo sentiero, invece che abbarbicati alla roccia come capre. «...e fu allora che capii che il tiro con l’arco non faceva per me...» stava spiegando Gonzo, quando avvertì un rantolo dietro di sé. Si girò a rimproverare Tasha: «Cercavo solo di distrarvi un po’, che diamine! Se proprio non ti va di sentire, perché non ti tappi le orecch... Ehi! Va tutto bene?» La ragazza aveva un aspetto atroce: il suo pallore, accresciuto dalla luce spettrale della caverna, era solcato da rivoli di sudore. Ansimava, più che respirare, schiacciata sotto il peso della sacca. C’erano tutti i sintomi di un attacco di panico, aggravato dal caldo e dalla stanchezza. «Per Abidan, che brutta cera! Su, ami la sacca! Fermiamoci un poco.»

«...no...» mormorò lei, con sguardo duro «...avanti...» «Neanche per sogno, stai male!» Cercò di trattenerla per un braccio. «...lasciami...stare!» Tasha si divincolò con rabbia, ma nel farlo perse l’equilibrio e cadde nel vuoto. La corda di fortuna che la legava a Gonzo si tese all’istante, trascinando anche lui verso il baratro. Proprio all’ultimo fiondò le mani verso il bordo del gradino e riuscì ad afferrarlo con la punta delle dita. Lo strattone si propagò a Pryce, che scivolò a terra con un grido. Raduan si rese conto del pericolo appena in tempo: puntò i piedi, piantò la piccozza nella parete, e strinse i denti. Grazie alla sua prontezza, e alla forza dei suoi muscoli, la corda tesa non riuscì a trascinarlo verso il basso. «Tiratemi... su... per Abidan!» gemette Gonzo, con le vene delle braccia sul punto di scoppiare. Guardò in basso: Tasha dondolava appesa alla corda come un peso morto, e più giù, a una distanza impossibile, la faccia scura del lago inghiottiva l’intero paesaggio. Raduan spinse Pryce da parte e issò Gonzo sul bordo a forza di braccia. Poi, insieme, riuscirono a sollevare il corpo inerte della ragazza fin sui gradini. Era svenuta. «Tasha!» Pryce si fece spazio per sorreggerla tra le braccia, dimentico dei propri acciacchi. «Acqua, presto!» gridò. Raduan si affrettò a obbedire: le annaffiarono il volto col liquido tiepido dell’otre, senza risultato. Pryce prese a darle degli schiaffetti sulle guance, a scuoterla, a chiamare il suo nome. Alla fine Tasha si riebbe: aprì gli occhi per ritrovarsi tra le braccia del ragazzo, una mano di lui che le accarezzava amorevolmente la fronte. Per un attimo soltanto, ancora sospesa tra l’incoscienza e il mondo reale, Tasha si aprì in un caldo sorriso, che fece annodare le viscere di Pryce. Poi si ricordò

chi era e dov’era. Imprecò, scrollò la testa per respingerlo. Pryce, anche se offeso, non lo diede a vedere: la lasciò fare e prese le distanze. Aveva imparato la lezione. «Cos’è successo?» chiese lei, massaggiandosi le tempie «Stavamo salendo, e poi...» «Sei svenuta» spiegò Raduan «Hai preteso troppo da te stessa. Potevi avvisarci che non ti piacciono le altezze.» «Sciocchezze!» Si alzò in piedi di botto, ma un forte capogiro l’avrebbe di nuovo fatta cadere nell’abisso, se il guerriero non fosse stato lesto ad afferrarla. Invece di calmarsi, Tasha raddoppiò gli sforzi per dimostrare che era tutto a posto. «Lasciami andare, ti dico! Sto bene!» Raduan incrociò il suo sguardo furente, e capì che come al solito non c’era modo di ragionare con lei. Il massimo che riuscì a ottenere, nonostante le obiezioni di Pryce, fu di spostarla in mezzo alla fila, e farle cedere la sacca a Gonzo. Quando la ragazza riuscì a convincerli che l’incidente era chiuso, ripresero la marcia insidiosa verso la volta. La scala continuò ad inerpicarsi a chiocciola lungo la parete concava della caverna, così in alto che si formò una nube bianca di vapore ai loro piedi, nel vuoto, celando la vista del lago sottostante. Era come arrancare verso il picco di una montagna, sopra le nuvole. Malgrado la cosa li aiutasse a combattere le vertigini, l’inclinazione della parete aumentava sempre più, obbligandoli a camminare ingobbiti e curvi verso il baratro. Raduan, che era in testa al gruppo, si accorse del termine della scalinata un istante prima di fare un o nel vuoto. Si arrestò di botto, tanto che gli altri andarono a sbattergli contro e per poco non lo scaraventarono giù. «Fermi!» «Che succede?» «I gradini... Sono scomparsi!»

«Come scomparsi?» «La scalinata non c’è più! Finisce qui!» «Oddio!» esclamò Pryce. Gli venne voglia di vomitare, e l’avrebbe fatto, se Tasha non fosse stata alle sue spalle, pallida come un cencio. Rimasero immobili, impauriti e sconcertati. Che scherzo era quello? Cosa aveva fatto Helah a quel punto? Si era volatilizzato? La mente di Raduan andò a mille, mentre si scervellava in cerca di una spiegazione. Alzò gli occhi al cielo - o meglio, dove avrebbe dovuto esserci un cielo - per chiedere consiglio al Fabbro Celeste. E la risposta del Fabbro venne rapida, con le sembianze di una fenditura nella roccia: una cavità scura nella superficie della volta, appena sopra le loro teste, così stretta da confondersi con lo sfondo. Ma abbastanza larga da permettere il aggio di un uomo adulto. «Lassù!» indicò Raduan. Anche gli altri videro, e ripresero un poco di colore. Non era molto, ma era un segno di speranza: nessuno di loro aveva la minima intenzione di intraprendere una discesa di ritorno lungo la stessa scalinata. «Gonzo, avvicinati» ordinò il guerriero «Fammi scaletta.» Raduan si issò all’altezza della crepa, afferrò saldamente i bordi e si spinse su a forza di muscoli. Strisciò verso l’alto fino a liberarsi della morsa della roccia, per sbucare in un ambiente più ampio. In piedi, toccava il soffitto con la testa. L’ambiente era rischiarato appena dalla flebile luce che filtrava dalla fenditura, a malapena sufficiente per guardarsi attorno: si trovava all’imbocco di una grotta naturale che si perdeva nel buio, angusta e costellata di stalattiti e stalagmiti, simili a dita spettrali. Fece un o avanti, attratto da un luccichio. Il cuore prese a battergli più forte, quando strinse tra le dita la forma ormai familiare di un antico medaglione di Abidan, offuscato dal tempo ma ancor vivo nella sua anima di metallo. Non riuscì a trattenere un grido di giubilo, che echeggiò nel tunnel, amplificato e ripetuto all’infinito. «Ehi, tutto bene?» gli giunse la voce tesa di Pryce.

«Altroché!» si disse. Non avevano affatto perso le tracce di Helah, la meta era sempre più vicina! C’era un problema, però. Là dentro, sulle pareti della grotta, non cresceva il muschio luminescente che li aveva guidati fin lì. Non si perse d’animo: come tutti i problemi, anche quello aveva una soluzione. Strisciò indietro nella crepa. Quando videro spuntare il suo volto, i compagni sospirarono di sollievo. Spiegò brevemente quel che aveva scoperto, poi aiutò Pryce e Tasha a raggiungerlo. Ce la fecero con l’aiuto della corda, anche se lo sforzo costò molto al ragazzo: il braccio rotto pulsava come una bolla di lava pronta a scoppiare. Quando anche Gonzo fece per salire, invece di tendergli la corda Raduan svuotò in una sacca il contenuto delle reticelle dei granchi e gliele porse, vuote. «E con queste che ci faccio? Mi curo i riccioli?» «Raccogli il muschio dalle pareti, più che puoi. Mettilo lì dentro. Avremo bisogno di luce, quassù.» Gonzo si illuminò in volto. Era un’ottima idea, in assenza di una vera torcia: lanterne vegetali, fornite con generosità da madre natura! Si mise all’opera, e in breve farcì le reticelle con muschio sufficiente a rischiarare i loro i nell’oscurità della grotta. Lanciò i globi luminescenti a Raduan, poi salì a sua volta, si strizzò nella crepa, e uscì dal lato opposto, dove Tasha e Pryce lo aspettavano da un pezzo. Ripresero la marcia verso il cuore della montagna. Se prima, lungo la vertiginosa scalinata, il problema era l’ampio spazio aperto, qui i giochi erano invertiti: il tunnel era basso, stretto, buio, e molto, molto caldo. Si spogliarono il più possibile e avanzarono guidati dalla luce eterea delle “lanterne” di muschio. Fin da subito, oltre all’afa soffocante, il loro peggior nemico fu la claustrofobia. Strinsero i denti e sopportarono. Ogni tanto, come a ricordare che era viva, la terra tremava sotto i loro piedi, e le pareti vibravano sotto le loro mani. In silenzio, ossessionati dalla necessità di sgusciare fuori da quell’incubo, si ostinarono a piazzare un piede davanti all’altro, assecondando il percorso in leggera e costante salita. Tutto procedette bene finché si trovarono davanti a una biforcazione del cammino: percorsero un tratto del tunnel di sinistra, poi tornarono indietro ed esplorarono quello di destra, nella speranza di trovare una traccia che li guidasse.

Non ebbero fortuna, e dovettero tornare al bivio per riflettere sulla prossima mossa. Un errore poteva costar loro molto caro, in termini di tempo perduto e inutili rischi, senza contare che la minuscola scorta di acqua e cibo si sarebbe presto esaurita. Tasha e Pryce si persero in un’inutile discussione sulla scelta da fare, mentre Raduan sedeva a terra a gambe incrociate, in attesa di ispirazione. Fu Gonzo a risolvere il dilemma senza volerlo, aggirandosi inquieto presso la bocca dei due tunnel: la “lanterna” gli cadde di mano e rotolò in un angolo buio all’imboccatura del aggio di destra. Quando si chinò a raccoglierla, maledicendo la propria goffaggine, scorse un oggetto lucido che affiorava da un mucchio di polvere rocciosa vecchia di secoli. Esultò ancor prima di raccoglierlo, perché in cuor suo già sapeva cosa fosse: un medaglione, che come sempre indicava la via da percorrere. Sogghignò, pensando alle molliche di pane nella famosa fiaba. I tre compagni gli rifilarono affettuose pacche sulle spalle, felici che tutto si fosse risolto grazie all’accortezza di Helah - che aveva segnalato il cammino per facilitare il proprio ritorno, e non certo il loro - e a quel provvidenziale colpo di fortuna. Ormai Raduan non si stupiva più delle sue prodezze: Gonzo funzionava come un talismano vivente! Imboccarono decisi il varco segnato dal medaglione, sempre più ansiosi di raggiungere la prossima “briciola” di Helah, o - perché no! - la meta finale. Marciarono a lungo, in fila indiana, senza quasi rivolgersi la parola. A tratti, ciascuno di loro credeva di scorgere una luce in fondo al tunnel, annuncio di libertà e salvezza, ma erano sempre miraggi indotti dalla mente. Finché anche Raduan ne vide una, si stropicciò gli occhi, e la luce rimase dov’era: forte, dai toni rossastri, nasceva dietro una svolta del tunnel e diffondeva i propri raggi fino a loro. Senza dire una parola, si misero a correre. Dietro l’angolo, li attendeva un’amara e allarmante sorpresa: la fonte di luce non proveniva dal mondo esterno, come avevano sperato, bensì da un torrentello di roccia fusa che scorreva di traverso al aggio, tagliandolo in due. La lava, infuocata e guizzante, illuminava a giorno la grotta. Ci volle un attimo perché Raduan e gli altri mettessero insieme i pezzi del rompicapo: il calore della pietra e dell’acqua, la consistenza della roccia, i tremori, le grotte naturali, la lava...

Si trovavano molto prossimi a un vulcano, forse proprio nei pressi della sua gola ardente. «Beh» commentò Gonzo, con un sorriso tirato «una ragione in più per muoverci!» «Come se non ne avessimo già abbastanza» guaì Pryce. Scavalcare quel primo rivolo di lava non fu difficile. A poco a poco, però, la situazione si fece più scottante: c’erano punti in cui il magma sprizzava a fiotti dalle pareti, e formava pozze insidiose prima di scomparire nella roccia. Il problema della luce cessò di esistere, quello del calore si fece insopportabile. Soltanto le minacce fisiche della piratessa trattennero Gonzo dal denudarsi al completo. La roccia rovente scottava le piante dei loro piedi attraverso le suole, e non c’era tratto di parete che potessero sfiorare con il corpo, pena un fitta di dolore lancinante. Nonostante tutto, Gonzo riuscì a trovare un modo per distrarsi - e al contempo spaventare a morte i suoi compagni di viaggio. Non appena scorgeva un rivolo di lava, o una pozza incandescente, prendeva la rincorsa e saltava, spesso facendo le boccacce o esibendosi in numeri resuscitati dal suo repertorio di saltimbanco. Ad ogni balzo, il cuore di Raduan perdeva un colpo. Peccato che rimproverarlo non giovasse a nulla, e inseguirlo servisse solo a peggiorare le cose. Il guerriero rimase sul chi vive fino all’ultimo, giusto in tempo per salvargli la pelle: lo afferrò per la collottola un istante prima che spiccasse l’ennesimo balzo, con l’intenzione di scavalcare in volo una fossa di fanghiglia ribollente. Gonzo ricadde malamente sul fondoschiena, e chiese spiegazioni con uno sguardo da cane bastonato. «La pelle è tua, ma guarda meglio prima di saltare» disse Raduan, puntando avanti con un cenno del capo. Gonzo guardò, e sbiancò in volto. Appena oltre la pozza, celato da un’inopportuna combinazione di ombre e rilievi, si apriva un crepaccio nel suolo roccioso. Si sporse per vedere meglio: la fenditura era profonda e stretta, dalle pareti frastagliate. Una decina di i più in giù, incastrate tra le fauci di pietra senza fondo, c’erano ossa umane annerite dal tempo. Le orbite vuote del teschio guardavano fisso verso l’alto, anelando la libertà.

«Un altro degli uomini di Helah» commentò Tasha, con una smorfia di disgusto. «Uno sprovveduto... o forse il burlone del gruppo» aggiunse Raduan, ando oltre. A partire da quel momento, Gonzo restò zitto e buono, e la smise una buona volta di saltellare su e giù come una scimmia. Poco dopo lo spiacevole incidente, si accorsero che la “zona calda” era alle loro spalle. Sollevati, apprezzarono l’aria fresca e respirabile, e la roccia non più rovente. Il sollievo durò poco: la loro fonte di luce si stava spegnendo. Il muschio aveva retto quanto poteva una volta strappato alle radici: ormai la sua luminescenza era quasi sbiadita. «Se potessimo portarci dietro un po’ di lava!» si lamentò Gonzo. «Se offri le tasche dei tuoi pantaloni...» ribatté Pryce con un sorriso stanco. «Bravo ragazzo, vedo che cominci a tenermi testa. Ma la risposta è no, grazie.» «Non si può davvero fare» confermò Raduan, scuotendo la testa. Persino la pentola si sarebbe fusa in un batter d’occhio. «Allora non perdiamo altro tempo» li spronò Tasha. L’idea di trovarsi all’improvviso intrappolati nel buio più completo, sotto tonnellate di roccia e terra, non sorrideva a nessuno. Proseguirono a o svelto, pregando tutti gli Dei conosciuti di non privarli della luce proprio sul più bello. Raduan si rammentò di quella volta che, insieme agli esploratori della Compagnia del Viandante, aveva dovuto affrontare un tratto del Manto Verde, territorio delle scimmie-vampiro. Anche allora lo aveva salvato una corsa contro il tempo verso il villaggio più vicino, prima che il sole tramontasse del tutto e li lasciasse in balia delle creature assetate di sangue. Al presente non avevano nessuna bestiaccia alle calcagna, ma quel dedalo di gallerie sconosciute rievocava in modo preoccupante il ventre di un mostro colossale… Un’ora dopo, quando col cuore in gola videro estinguersi l’ultimo barlume di luminescenza delle loro lanterne naturali, si trovarono subitamente di fronte a due novità, una buona e una cattiva.

La buona nuova era che un centinaio di i più avanti lungo la galleria, un fascio di luce chiara fendeva l’oscurità, con tutta l’aria di provenire dall’esterno. E c’era di più, se non si ingannavano: l’ululato del vento! Amplificato dentro la grotta, produceva un rombo molto gradito alle loro orecchie, in quanto presagio di una via d’uscita. La cattiva nuova era che un baratro di larghezza e profondità imprecisate sbarrava loro il o, privandoli di ogni possibilità di avanzare. Nel buio, ci erano quasi piombati dentro. Si chinarono sul bordo, scrutarono verso il fondo e verso il lato opposto della fossa. La luce lontana non era affatto sufficiente a chiarire i loro dubbi. «La corda!» esclamò Raduan, alzando la voce sopra al fischio del vento «Voi tre potreste reggerla, mentre io cerco di raggiungere il fondo. Così ci faremo un’idea della profondità.» «Chi è stato l’ultimo a usarla?» chiese Tasha. «Non io» rispose Pryce. «Uh-oh...» disse Gonzo, quando gli sguardi si posarono su di lui. «Credo di averla lasciata laggiù, quando mi avete issato su per la crepa...» Raduan si morse un pugno, prima di commettere una sciocchezza. «Potremmo buttare giù te, stolto, e attendere il suono delle tue ossa che si schiantano sul fondo!» «E-ehm, meglio di no, ho le ossa fragili, non farebbero più rumore di un cesto di grissini!» Sconsolati, i quattro si sedettero sul ciglio del burrone. Pryce cercò di valutarne la profondità gettando un paio di granchi nel vuoto, inutilmente: ammesso che producessero qualche suono, questo veniva subito ingoiato dall’ululato del vento. Che ironia della sorte! Bloccati in quel modo, a un o dalla meta! Dopo lungo tempo in silenzio, la mente occupata da foschi pensieri, Raduan si alzò. Aveva preso una decisione.

«Salterò.» «Sei pazzo!» sbottò Tasha. «Non ti lasceremo fare una cosa del genere!» rincarò la dose Pryce. Il guerriero era inamovibile, la sua voce risuonò forte e chiara nel buio. «Sono io che vi ho trascinato in questa trappola per topi. Spetta a me tirarvene fuori.» «È assurdo! Cosa speri di dimostrare?» «Come puoi sapere che atterrerai sano e salvo dall’altro lato?» «Sapere non è sempre la risposta, amici miei. A volte è soltanto una questione di fede. Se Abidan ci ha permesso di arrivare fin qui, non avrà certo intenzione di sbarrarci il cammino a un o dalla fine.» «Però devi ammettere che gli Dei hanno uno strano senso dell’umorismo» mormorò Gonzo «Forse è proprio questa la fine che ci hanno preparato!» Raduan arretrò di qualche o, per prendere la rincorsa. «Fortuna che Madara non è qui a sentire le tue blasfemie!» rise, dandosi coraggio «Ti spellerebbe vivo!» Rimase un attimo in silenzio, assorbendo tutto il coraggio di cui aveva bisogno, e restituendolo agli Dei in forma di preghiera. «Buona fortuna, guerriero» disse Tasha «Resterò qui sul ciglio, per indicarti dove spiccare il salto. Spero che ti possa aiutare.» Raduan non indugiò oltre: scattò avanti, e quando la sagoma di Tasha sbucò dal buio accanto a lui, spiccò il balzo più importante della sua vita. Si sbracciò in volo, nel tentativo disperato di guadagnare velocità. Quando raggiunse l’apice della traiettoria, riuscì finalmente a scorgere il ciglio opposto del burrone. Troppo lontano. Piombò giù come trafitto da una freccia, maledicendo la propria fede mal

riposta, ma mentre un urlo gli si allargava in gola toccò terra e rotolò su una superficie cedevole. I compagni gridarono e lo chiamarono a gran voce. Raduan si rialzò sulle ginocchia, stordito, e sputacchiò sabbia dalla bocca. Cominciò a ridere, prima sommessamente, poi sempre più forte, mentre si faceva scorrere tra le dita la rena nerissima e sottile che copriva il fondo del fossato, dando l’illusione di una profondità insondabile. In realtà, il baratro era appena più alto di lui. Tornò indietro verso le voci terrorizzate dei compagni. Nessuno seppe dire cosa fu più traumatico, se la sorpresa di vederselo sbucare all’improvviso dalle tenebre come un fantasma, appena sotto i loro piedi, o la gioia di trovarlo vivo e vegeto, con ottime notizie per tutti. Come esaurirono le risate di allegria, scesero tutti sul fondo del fosso e si aprirono il cammino nella sabbia fino alla sponda opposta, più bassa della prima, dove risalirono senza difficoltà. Accelerarono il o verso la luce e il vento, praticamente di corsa. Questa volta la promessa fu mantenuta: era luce vera, luce solare, così bianca e fulgida da ferire gli occhi. Quanto più si avvicinavano, coprendosi il volto con le mani, tanto più la temperatura crollava, finché si trovarono a battere i denti: il contrasto col caldo della grotta era insopportabile. Raduan fece segno agli altri di attendere, e avanzò nel vento gelido che gli feriva le orecchie. Non c’era nulla da vedere, purtroppo: fuori dalla grotta era in atto una spaventosa tormenta di neve, che riduceva la visibilità a zero e gli avrebbe congelato le ossa, se fosse rimasto lì un minuto di più. Tornò indietro, frustrato, spazzandosi di dosso i fiocchi di gelo. «È impossibile uscire adesso.» affermò «Dovremo armarci di pazienza e attendere, almeno finché la tormenta non si sarà placata.» I tre sbuffarono e imprecarono, ma nessuno di loro ebbe idee migliori. Alla fine si rassegnarono a restare dov’erano, e approfittarne per recuperare le forze. Raduan si sedette contro la parete di roccia tiepida, grato per quella fonte di calore. Gonzo fece altrettanto, accomodandosi dirimpetto a lui. Pryce cercò di imitarli: aveva tutti i muscoli e le ossa doloranti, e il braccio gli faceva un male d’inferno. Più che sedersi, gli sarebbe toccato buttarsi a terra come un sacco di patate. «Aspetta, ti aiuto io» gli disse Tasha, accorrendo a sorreggerlo.

Con presa ferma, lo accompagnò fino a terra, e gli diede una mano a sistemarsi contro la roccia. Poi gli si accucciò accanto, spalla contro spalla. La mente di Pryce fu invasa da un turbine di mille pensieri per ringraziarla e farle capire quanto adorasse la sua presenza accanto a sé. Ma ogni volta che cercava di esprimersi, le parole gli restavano incollate ai denti. Tasha gli mise un dito sulle labbra. «Sta’ zitto, Pulcino.» Appoggiò la testa sulla spalla di lui, sospirò, e chiuse gli occhi. Fuori, il vento continuava a ululare.

L’attesa era finita. Il Guardiano si destò, pensando al viso radiante della Dama. Non aveva fiori di campo da offrirle: le avrebbe donato gli steli recisi di quelle quattro vite.

XXVIII - Nessuna Pietà

Dorian strabuzzò gli occhi, come se avesse visto un fantasma. Kyra gli strizzò un occhio. «Non è poi così facile liberarsi di me, eh padre?» Lui si inumidì le labbra con la lingua. «Sei proprio tu, Kyra?» «In carne, ossa e metallo.» Nel proferire quella risposta, il suo sguardo, pieno di odio e disprezzo, si posò sulla figura abominevole di Caleb. «A proposito di metallo, guarda chi si rivede. Non ci speravo. Sei qui per restare, o pensi di svolazzare via come l’ultima volta?» Caleb strinse i denti con il rumore secco di uno spaccanoci, e il rancore gli contorse il volto a tal punto che Dorian immaginò di scorgere delle crepe nella lustra superficie di metallo. «Tu!» ripeté il gigante, con voce cavernosa. Kyra piegò il capo, scostandosi i capelli dalla fronte. «La ruggine ti ha privato della lingua, mostro?» Caleb si librò per aria con un balzo animalesco, per atterrare con un rimbombo dove un attimo prima c’era la guerriera. Sotto i suoi enormi piedi si aprì un reticolo di crepe che corse fino a Kyra e Dorian, ancora turbato dall’inaudita comparsa di sua figlia. «Come hai fatto a trovarmi?»

«Con tanta buona volontà, come sempre. E con l’aiuto di un… amico in comune.» Era inverosimile riferirsi a Nahash con quel termine. Dorian l’afferrò per un braccio e strinse con più forza del dovuto, ma ignorò la sua smorfia. «Perché sei venuta? Questa non è la tua battaglia!» Kyra scostò la mano con un gesto misurato, senza perdere di vista Caleb. «Ogni battaglia mi appartiene, se ci sei tu di mezzo. Non l’hai ancora capito? Quante volte dovrò correrti dietro per tutto il Regno, per farti entrare il concetto in quella testaccia dura?» «È troppo pericoloso!» disse Dorian. «Allora fammi spazio e lascia che ci pensi io» ribatté Kyra «Non è la prima volta che affronto questo bestione. Abbiamo un conto in sospeso.» «No! Attenta!» La guerriera schivò per un pelo lo scontro con Caleb, scagliatosi su di lei a testa bassa come un toro. Riuscì persino a rifilargli un’avvilente pedata nel fondoschiena, con la suola di uno stivale. Quando riuscì ad arrestare la propria corsa, il mostro aveva gli occhi in fiamme. «Vattene!» urlò Dorian all’indirizzo di sua figlia «È un ordine!» Kyra gli lanciò un’occhiata di sghimbescio. «Dovresti smetterla una buona volta con questa ossessione per la disciplina, padre. Non è il momento di discutere, è il momento di uccidere!» Dorian si morse la lingua. Perché quella pazza non lo stava ad ascoltare? Aveva fatto tanta strada e tanti sacrifici proprio per proteggerla, non certo per restare a guardare mentre si faceva massacrare! «Fatti sotto!» gridò Kyra.

Il gigante raspò la terra con i talloni, sempre più simile ad una belva inferocita. Prima che potesse tornare alla carica, però, una saetta di energia si infranse al suolo davanti a lui. Ne cercò la fonte con gli occhi di brace, e vide il braccio puntato di Shem. «Fratello!» «Lasciali a me.» «Non sei in grado, guarda in che stato...» «Lasciali a me, ho detto!» sibilò la creatura, ingobbita e lacera. Aveva lo sguardo indemoniato di chi è disposto a tutto pur di ottenere una rivincita. Lo smacco ricevuto da Dorian e la velenosa ironia di suo fratello l’avevano rifornito di insospettabili energie. Caleb lo scrutò per alcuni istanti. «Come vuoi» disse. Spiegò le ali possenti e con un paio di battiti volò a ritroso in cima a un masso, posandosi sulla sommità levigata da secoli di vento battente. «Sono tutti tuoi, fratellino, fammi vedere.» Un ghigno malefico prese vita sulle fattezze deformi di Shem, e la pioggia di saette ebbe inizio. Padre e figlia schivarono la prima ondata correndo in direzioni opposte. Girarono in cerchio attorno al nemico come lupi affamati, e ne avevano l’aspetto, sporchi e macilenti. La preda - o era il predatore? - arretrò verso le mura di Sostar, in cerca della protezione dell’immane parete di massi squadrati. I due guerrieri conversero su di lui senza bisogno di parole, i loro movimenti coordinati alla perfezione da semplici occhiate e dalla memoria dei lunghi anni ati a combattere fianco a fianco nella Compagnia del Viandante. Non importava quanti lampi scaturissero dalle mani adunche di Shem, riuscivano sempre a fare un o avanti. Già assaporavano il momento in cui avrebbero affondato le loro zanne d’acciaio nel suo corpo immondo.

Il mostro non attese di trovarseli addosso per reagire, anche perché Caleb esaminava ogni sua mossa dall’alto del masso con una smorfia di malcelato disprezzo, pronto a intervenire. Shem spalancò le braccia con rabbia, e una violenta folata di vento si abbatté su Dorian e Kyra, costringendoli a ripararsi il volto. Shem roteò gli arti come le pale di un mulino, il vento si tramutò in una burrasca: Dorian osservò impotente i propri stivali slittare indietro sul manto d’erba, Kyra perse l’equilibrio e rotolò a terra con un’imprecazione. Soddisfatto, Shem riprese a bombardarli di folgori e li costrinse a rimangiarsi il cammino conquistato fino ad allora. Un lampo raspò la clavicola di Dorian, strappandogli un grido di dolore. «Padre!» gridò Kyra. Quando lui le fece cenno che non era nulla di grave, la guerriera scattò avanti con energia raddoppiata, alimentata dall’ira. Shem, pur boccheggiante per lo sforzo continuo, non era disposto a farla avvicinare: si inginocchiò e spinse i palmi delle mani dentro al terreno, affondandole fino ai polsi. Mugolò una formula dalle parole raschianti: la terra gli rispose con un tremito diffuso, mentre un suono cupo si diffondeva dalle radici oscure verso la superficie. Due fenditure si spalancarono come fauci affamate attorno alle mani di Shem, e corsero incontro ai suoi nemici alla stregua di serpenti impazziti. «Via!» urlò Dorian, ma lo slancio aveva portato Kyra a esporsi troppo. Una delle crepe le strappò l’appoggio da sotto i piedi e la fece crollare. Dorian non ci pensò due volte per lanciarsi in suo soccorso. Anticipò Shem di un solo istante, mentre questi puntava il braccio sulla vittima impotente: si buttò su di lei e la trascinò fuori dal raggio di azione delle saette. Sputando terra, udirono la risata tonante di Caleb. «Quasi, fratellino! Bel colpo!» Kyra fissò suo padre negli occhi, stretta contro il suo petto nell’angusto spazio di una fenditura. Dorian si sforzò di non distogliere lo sguardo da quell’occhio rossastro, alieno, che ancora non riusciva ad associare all’immagine di sua figlia. «L’ho vista!» esclamò lei, serrando le mascelle.

«Hai visto cosa?» «L’energia! Il maledetto la risucchia dal cielo, è come un fiume senza fine!» Questo spiegava perché riuscisse ancora a reggersi in piedi, dopo la fuga durata un’intera notte. Dorian, al contrario, sentiva persino la vista sdoppiarsi. «Come l’hai capito?» «Il mio occhio vede cose che sono celate alla vista degli altri... È una cascata, ti dico, e l’assorbe dalla schiena come una spugna!» «La gobba?» «Esatto» annuì lei «Nasconde qualcosa sotto le vesti. Non so cosa, ma è lì che dobbiamo colpirlo.» «Facile a dirsi...» Kyra accavallò le parole nella fretta: erano bersagli facili per Caleb, in quella posizione. «Dovrai pensarci tu, con il tuo guanto: un colpo preciso, al momento giusto.» Lui inarcò le sopracciglia. «Un sovraccarico... Potrebbe funzionare.» «Funzionerà. Muoviamoci!» Dorian fece per trattenerla. «Aspetta! Come farò a sapere che è il momento?» «Fidati di me, lo saprai.» Si scrollò la sua mano di dosso. «E un’ultima cosa, padre.» «Ti ascolto.» «Qualsiasi cosa succeda, non lasciarti distrarre. Non perdere di vista l’obiettivo.»

«Ma...» «Fidati di me!» Dorian assentì, a malincuore. L’aiutò a strisciare fuori dal buco. Si trascinò dietro di lei a forza di braccia, ma prima che riuscisse a drizzarsi sulle ginocchia Kyra era già scattata via, decisa ad attirare su di sé l’attenzione di Shem. «Maledizione!» pensò. Dovette forzare la sua natura per costringersi a correre nella direzione opposta, invece di lanciarsi a fare da scudo a sua figlia. La sua unica opportunità era che lei fe da esca e lo mettesse in condizione di colpire a distanza con il raggio. Stette a guardare, contro ogni istinto, mentre Kyra volava pancia a terra tallonata da una grandine di fulmini. La vide correre a zig zag, frenare, cambiare direzione all’improvviso, sfruttando ogni espediente che le consentisse di eludere la mira di Shem. Fino a quando avrebbe potuto giocare quel gioco? Cosa sperava di ottenere? Era troppo rischioso! Come se un Dio spietato gli avesse letto nei pensieri, Kyra inciampò e cadde lunga distesa. Si issò sulle ginocchia, col petto ansante. Non sembrava in grado di rialzarsi. «Kyra!» urlò Dorian. Doveva correre da lei, farle da scudo col proprio corpo! Doveva... «Fidati di me!» Le parole di lei erano ancora fresche nella sua memoria. Serrò le mascelle, e invece di accorrere in suo aiuto si mosse nella direzione opposta, sempre più distante dal centro di attenzione di Shem. Non staccò gli occhi da Kyra neppure per un istante, mentre correva. «Andiamo, maledizione! Alzati!» la spronò con il pensiero «Che aspetti?» Shem stava già puntando il braccio nella sua direzione, un sorriso brutale stampato sul volto inguardabile. Era questione di istanti prima che l’energia sfrigolasse dal suo palmo, pronta a incenerire.

All’ultimo momento, Kyra alzò il capo e urlò: «Adesso!» Dorian, che aveva quasi perso le speranze, obbedì all’istante: sprigionò l’energia fuori dal proprio corpo come un getto solido. Una scheggia bluastra, frastagliata come una punta di freccia, volò dritto fino al bersaglio: la schiena ritorta di Shem. Come il proiettile colpì la carne, avvenne una reazione di incredibile violenza, uno scoppio tuonante che avvolse Shem in una cortina di fiamme e lo sollevò da terra, mandandolo a scuotere le mura. Ricadde ai piedi della mastodontica struttura e vi restò, immobile. Dallo squarcio apertosi nel tessuto della veste, si affacciò l’orrenda visione di un dorso adunco ricoperto di peduncoli rosei in frenetico movimento, come le dita protese di una moltitudine di uomini in procinto di affogare. Era quello, dunque, il segreto dell’apparentemente inesauribile energia del mostro, il misterioso apparato che gli conferiva abilità tanto spaventose? Dorian girò lo sguardo, nauseato, ma per la seconda volta non fece in tempo a vedere l’ombra che calava su di lui come quella di un grosso rapace. Il corpo mastodontico di Caleb si abbatté contro il suo con un impatto terrificante: Dorian sentì come se un titano l’avesse inghiottito e masticato fino a spezzargli tutte le ossa e a ridurgli gli organi in poltiglia. E il peso insopportabile, che gli strizzava l’aria dai polmoni! Scorse un circo di luci colorate danzargli davanti agli occhi, due delle quali rosse e impietose, dure come rubini, e credette che fosse l’ultima cosa che avrebbe mai visto. In bilico sulla soglia dell’incoscienza, intuì più che vederli i movimenti di Kyra: la guerriera cominciò a colpire Caleb da lontano, investendolo con una pioggia di dardi, poi lo assalì con l’acciaio delle lame, una serie senza fine di stoccate e fendenti più veloci del suono da essi prodotto. Il gigante, inflessibile, rispose colpo su colpo, senza cedere terreno. Le rare volte che gli attacchi di Kyra trovavano un minuscolo varco, si infrangevano contro ossa robuste come sbarre di metallo. La guerriera contorse il volto in una smorfia di rabbia e fatica. Com’era possibile? Il mostro era ancora più forte dell’ultima volta! Caleb le lesse in faccia la sorpresa, lo stordimento, e persino l’insinuante ombra della paura.

«Lo devo a te, ragazza» la schernì con voce spaventosa «Ero diventato troppo arrogante, troppo sicuro di me... troppo molle! Tu mi hai costretto a ricordare la durezza del metallo.» Sottolineò la frase con un pugno che intaccò la superficie del braccio artificiale di Kyra e la costrinse ad arretrare di parecchi metri. Incredula, fissò la piccola conca scavata nell’acciaio del suo arto. Era la prima volta che le succedeva qualcosa del genere, non l’avrebbe creduto possibile senza vederlo come in quell’istante. «Dobbiamo attaccarlo insieme» mormorò una voce alle sue spalle. Dorian si era rialzato sulle ginocchia. Strizzò gli occhi e scosse la testa un paio di volte, come per scacciare un brutto incubo. Fece leva sulle braccia per alzarsi in piedi, vacillante. «Padre!» protestò Kyra, ma lui la zittì con un gesto della mano guantata. «È il momento di uccidere, l’hai detto tu. O noi, o lui.» La guerriera storse le labbra e concordò, suo malgrado. «Prendi questo, allora, e datti da fare.» Fece volteggiare per aria uno dei fidi pugnali gemelli, lo afferrò per la lama, e lo offrì a suo padre, che accettò con un cenno del capo. Fianco a fianco, si prepararono ad affrontare una volta ancora il più terribile nemico della loro esistenza. Quella che seguì, sotto le mura colossali della città di Sostar, fu una delle lotte più leggendarie a cui gli Dei avessero mai assistito. Per ironia del destino, furono essi gli unici spettatori presenti, assisi sui loro invisibili troni sopra le nuvole innaffiate dalla luce rosata dell’alba. Caleb era solo contro gli sforzi congiunti di padre e figlia, guerrieri formidabili anche senza l’ausilio dei manàlorin. Ma i due erano troppo provati, la loro proverbiale resistenza minata dallo sfinimento e dalla malattia. Combattere contro un intero esercito non sarebbe stato meno arduo che fronteggiare il gigante dalla carne venata di indistruttibile metallo.

Kyra tentò il tutto per tutto infierendo sulla cicatrice nel costato del bestione, ricordo lasciatogli da lei stessa nel loro precedente scontro tra le mura della Fabbrica di Dekka. Sulle prime la tattica parve ottenere risultati, ma Caleb fu rapido nel riadattare il proprio stile di lotta e vanificare ogni suo sforzo. Avvertì un capogiro, non il primo né certamente l’ultimo da quando aveva iniziato a combattere. Cercò Dorian con la coda dell’occhio: se stava meglio di lei, non lo dava certo a vedere, tanto che sventolava il pugnale senza nessuna forza o precisione. Non le restavano che un paio di risorse: le fiamme prodotte dal braccio artificiale, o il braccio stesso utilizzato a guisa di proiettile, come l’ultima volta. Efficace e definitivo, come il pungiglione di una vespa. Caleb non glielo lasciò fare: penetrò la sua difesa e quella di suo padre come un torrente in piena avrebbe sfondato una diga di tronchi putridi, e abbrancò il collo di ciascuno con un’enorme mano. Stretti nella presa ferrea, Kyra e Dorian videro il mostro dispiegare le impressionanti ali di metallo, e i propri piedi abbandonare il suolo. Dorian cercò una futile reazione, sua figlia abbandonò le braccia lungo i fianchi, sconfitta dalla spossatezza. Era finita. «Ti ricorda qualcosa?» la interpellò Caleb, attirandola a sé. E come avrebbe potuto evitare di pensarci? Era così che Caleb le aveva strappato un braccio e la voglia di vivere, nei sotterranei della Fabbrica, in quella che sembrava un’altra vita. Aveva creduto che quei giorni fossero lontani, che la sua storia sarebbe cambiata per sempre, e invece... Il suo occhio artificiale e quelli del nemico si incontrarono, tre pozzi di lava palpitante. «Fallo» disse lei. Caleb le mostrò i denti serrati in un ghigno demente. «No: prima lui!» Kyra si sentì affondare in un abisso di disperazione: poteva accettare il dolore, la sconfitta, la propria morte... ma non la sofferenza di suo padre! Avvertì le dita di

ferro affondarle nella carne tenera della gola, e pregò che Caleb stringesse ancora più forte, che ponesse fine all’orrore una volta per tutte. Non appena ebbe pronunciato dentro di sé la silenziosa preghiera, venne abbagliata da un lampo di luce, e pensò che gli Dei avessero accolto la sua invocazione. Invece, con sua enorme sorpresa, Caleb lanciò un urlo terrificante, il corpo inarcato in avanti in uno spasmo di dolore incontenibile. Una lama di luce, la stessa che l’aveva accecata, gli attraversava le scapole e gli sbocciava dal petto per uno squarcio nello sterno. Il gigante si contorse e perse quota, avvitandosi verso terra con le due vittime ancora intrappolate nella stretta svigorita delle mani. Tanto Kyra come Dorian ebbero la prontezza di riflessi di rotolare via non appena la massa di Caleb si schiantò a terra, evitando così di rimanere schiacciati sotto l’enorme peso. La giovane guerriera si rialzò con un colpo di reni, cercò suo padre con sguardo atterrito. «Va tutto bene» la tranquillizzò lui, stringendosi il busto. Doveva avere almeno un paio di costole rotte. «Ma cosa diavolo...!» I loro sguardi seguirono quello di Caleb, che agonizzava schiena a terra. A ridosso delle mura, il braccio ancora alzato e il palmo della mano fumante, si ergeva Shem, stravolto dalle ustioni. Aveva la bocca spalancata in un’espressione di orrore, e gli occhi gli schizzavano fuori dalle orbite. «Nooo!» urlò, infrangendo la barriera della sua voce attutita. Caleb aprì e richiuse la bocca un paio di volte, prima di riuscire a emettere un suono: «Ma-maledetto! P-perchè?» Shem si prese la testa tra le mani, inorridito. «No, no, no...» continuava a ripetere. Né Dorian né Kyra avevano la minima idea di ciò che stava accadendo, ma la guerriera decise di non perdere tempo.

Raggiunse Caleb in due i e gli balzò a cavalcioni sul petto. Un getto di vapore rovente accompagnò la traiettoria del braccio meccanico, quando Kyra conficcò le lame nel ventre di Caleb con tutta la forza che le restava, traandolo, inchiodandolo al suolo come uno scarafaggio. Lo fissò da vicino negli occhi da Demone, dilatati dal dolore e dalla consapevolezza della morte imminente. «Ti piace la sensazione?» gli ringhiò addosso «Il metallo dentro di te... Non è ancora meglio che sulla pelle?» Caleb, folle di dolore, non riuscì ad articolare una risposta. «Torna all’inferno da dove sei venuto! Per Aren, e per tutti quelli che hai ammazzato!» gridò Kyra. Il braccio scattò in avanti, le lame dilaniarono carne e pelle del ventre di Caleb e schizzarono fuori innaffiandola con una pioggia di sangue bollente. Mentre l’aliena creatura si spegneva con un ultimo verso atroce, Dorian arretrò di un o: stentava a riconoscere sua figlia in quell’immagine di infinità crudeltà, e per un attimo si chiese se non si fossero spinti troppo in là sulla strada della vendetta, se non si fossero trasformati loro stessi in ciò che più odiavano e temevano. Solo l’ossessionante ricordo della pira dei corpi in fiamme della Compagnia del Viandante gli impedì di crollare. «Sangue chiama sangue» cercò di convincersi «È giusto, è quello che vogliamo, è quello che dobbiamo fare!» Il gemito di Shem fu da far accapponare la pelle: il mostro si coprì il volto con le dita piegate ad artiglio, come se volesse cavarsi gli occhi con le sue stesse mani. Dondolando il capo come un ossesso, sussultava in preda alle convulsioni e vomitava una litania di parole incomprensibili. «Poniamo fine alla sua sofferenza» disse Kyra, pulendosi il sangue dal volto con il dorso di una mano. Dorian annuì: toccava a lui.

Era il momento che attendeva da mesi, il momento che aveva sognato notte e giorno senza darsi pace: l’ora della vendetta. Perché, allora, davanti alla miserabile figura del nemico sconfitto, non provava che una profonda tristezza? Non per il mostro, ma per se stesso, per Kyra, per Raduan, per gli amici e compagni scomparsi… Che senso aveva tanta sofferenza? Un movimento improvviso di Shem lo strappò alle sue riflessioni: l’essere puntò qualcosa come un segugio. Gli occhi strabuzzati tra le dita tese davanti al volto, fissava un punto lontano dalle mura, dove l’erba era più alta. Dorian e Kyra accompagnarono il suo sguardo. Videro gli steli agitarsi con un fruscio, e una figura fino ad allora perfettamente dissimulata prese forma davanti ai loro occhi. Shem osservò impietrito per alcuni attimi, poi lanciò un grido di rabbia e paura: «Tu! Non può essere!» La figura emerse dal suo nascondiglio e si elevò per completo, due metri e più di corpo longilineo, arti lunghi e snodati come quelli di un insetto, occhi gialli come il disco del sole che sorgeva alle spalle di Sostar. «Shhh!» sibilò Nahash, aggiustandosi sul capo oblungo il bizzarro copricapo a più punte «Quanto tempo, fratello!» Ignorò Dorian e Kyra, ridotti a statue di sale dalla sorpresa, e avanzò ad ampie falcate verso Shem. Il gobbo si alzò sulle gambe traballanti, si spremette schiena al muro. «Sei stato tu!» gracchiò «Le tue illusioni! L’hai ucciso, maledetto!» «Il colpo è partito dalle tue mani, shhh!» Shem guaì come un cane. «Non è vero! Non era Caleb! Erano loro, lo stavano uccidendo, dovevo… dovevo intervenire… ammazzarli per primo!» «E invece hai assassinato il nostro caro fratello maggiore, shhh! Che tragedia! Ma non ti preoccupare…»

Gli fu addosso e lo agguantò per la gola con una mano dalle lunghe dita. Senza apparente sforzo, lo sollevò da terra. «…lo raggiungerai subito, shhh! Così potrai spiegargli tutto!» «Ghhf! P-pietà!» La larga bocca di Nahash, spesso distesa in un sorriso carico di malizia, si strinse in una linea sottile. Il suo volto dalla pelle olivastra congelò in un’espressione di mortale serietà. «Pietà? Hai ancora il coraggio di implorarci, dopo quello che ci avete fatto? Shhh!» Kyra provò una fitta alle tempie, mentre una sfilza di immagini confuse violava le barriere della sua mente.

Incomprensione, solitudine, dolore…

Una gabbia, volti insensibili affacciati dall’esterno…

Il fuoco, la disperazione…

E su tutto una cappa di odio rovente, un rancore che nutriva e rendeva folli, una brama di vendetta fredda e tagliente come il ghiaccio eterno! Anche Dorian le vide, istantanee dell’infelice esistenza dell’Addestratore di Serpenti prigioniero della sua famiglia di carcerieri e aguzzini, tracce caotiche delle vicende che aveva già vissuto in prima persona mediante le illusioni proiettate nella sua mente dallo stesso Nahash. In quel caso, però, non sembravano frutto di un atto intenzionale, quanto piuttosto effetti secondari prodotti da una mente micidiale, resa folle dall’odio e dalla sete di sangue.

Con assoluta ferocia, le dita di Nahash si strinsero sul collo di Shem, lente e implacabili. Shem mugolò e scalciò, cercò in tutti i modi di arrestare il braccio omicida, inutilmente. La volta celeste, la stessa che sempre l’aveva alimentato e protetto con le sue infinite scorte d’energia, restò a guardarlo imibile, fino a che, con un ultimo rantolò, spirò e si afflosciò nella stretta di Nahash. L’Addestratore tenne il corpo senza vita sollevato per aria per altri lunghi istanti, per poi liberarsene come una vecchia pezza senza valore. Il cadavere malconcio di Shem cozzò contro le mura e rimbalzò a terra con uno scrocchio nauseante. Per uno strano caso del destino, i suoi occhi spalancati si ritrovarono a fissare quelli già vacui di Caleb. Dorian sospirò, canalizzando dentro di sé tutto il sollievo che il Regno avrebbe dovuto provare in quel momento, nei cuori ignari dei propri figli e figlie: due spietati flagelli di vite umane, due esseri immondi privi di ogni senso di misericordia, avevano infine cessato di esistere, liberando il mondo dalla propria intollerabile presenza. Nahash si voltò a fissarlo. Rare volte, da quando lo conosceva, gli aveva visto quell’espressione negli insensibili occhi da rettile. E si rammentò che, per quanto avesse eliminato il loro comune avversario, non significava affatto che le cose tra loro fossero cambiate, né che meritasse il suo perdono. Alzò le proprie barriere mentali, come lo stesso Addestratore di Serpenti gli aveva insegnato. Fece un rapido cenno a Kyra, che balzò lontano dal cadavere di Caleb e si accucciò come un puma, le lame alzate davanti al volto. Non era ancora finita.

XXIX - La Fiamma Eterna

Raduan fu il primo a risvegliarsi dal lungo sonno. Si massaggiò il collo, anchilosato dalla scomoda posizione, e si ripromise di non addormentarsi mai più seduto in quel modo. Aprì gli occhi. Vide Gonzo sdraiato a terra con le ginocchia al petto e un pollice in bocca, sereno come un fanciullo. Più in là, Tasha e Pryce dormivano spalle alla parete, uno addosso all’altra, le teste accostate. Sembravano una giovane coppia di innamorati - e forse lo erano. Tasha aprì un occhio in quel momento, incrociò il suo sguardo con aria confusa. Raduan sorrise, e si alzò. La tormenta era cessata. Sporse il naso fuori dalla grotta e avvertì che la temperatura era salita. Guardò il cielo, una calotta grigia uniforme. La grotta si apriva su uno stretto avvallamento tra due pareti verticali, coperto da almeno un metro di neve. «Un bel cambiamento, rispetto agli ultimi giorni.» La ragazza era giunta silenziosa alle sue spalle, stretta in una pelliccia morbida, e osservava il biancore all’esterno con occhi socchiusi. «Già. Niente più buio, e tunnel. Mi mancheranno» scherzò lui. Lei si soffiò una ciocca di capelli dal naso. «Spiritoso.» «Gli altri sono già svegli?» «No. Dormono come sassi.» «Il sole è già alto, da qualche parte dietro le nuvole. È ora di destare i principini.» «Ci pensi tu?»

«Preferisco occuparmi della colazione. Lascio a te il compito più facile.» «Uhmpf, grazie.» Tasha rientrò. Raduan andò a prendere la pentola e la riempì di neve fino all’orlo. Raggiunse un gruppetto di abeti, affondando fino alle ginocchia ad ogni o. Riuscì a scovare qualche ramo abbastanza secco, e una manciata di aghi vecchi, fra i tronchi quasi sommersi dal manto bianco. Già che c’era, usò un sasso dalla punta affilata per fare un incisione nella corteccia, e raccolse la resina che ne sgorgò: ottima esca per il fuoco. Quando Gonzo e Pryce vennero a sedersi accanto a lui, resuscitati dal mondo dei sogni, il falò stava già scoppiettando e l’acqua cominciava a bollire. Ignorando le smorfie dei due, raccattò gli ultimi granchi dal fondo della sacca e li gettò in pentola. «Non ne posso più...» mormorò Gonzo. «La fuori è pieno di corteccia, se vuoi. Dura e saporita. Accomodati pure.» «Bah!» La polpa di granchio aveva un gusto strano quel mattino, ma nessuno fece commenti. I loro pensieri erano proiettati sulla giornata che li attendeva. Se lo sentivano, Raduan più degli altri: erano a un o dal traguardo, a un o da Abel. Era ora che sapessero la verità. «Non vi ho detto tutto sulla Valle della Luna» esordì, senza preamboli. Gonzo e gli altri due si guardarono di sottecchi, l’ombra di un sorriso sui loro volti. «Mi chiedevo quando ti saresti deciso» disse Tasha. «Anch’io cominciavo a preoccuparmi» aggiunse Pryce. Raduan alzò un sopracciglio. «Davvero pensavi che ci fossimo bevuti quelle storielle di tesori, gloria, avventura?»

«Sei un pessimo attore, lasciatelo dire.» «Io...» «Tranquillo guerriero, se siamo giunti fin qui insieme a te, è perché intendiamo aiutarti a salvare il tuo amico.» Raduan restò a bocca aperta. Quand’era stato che Gonzo aveva spifferato tutto alle sue spalle? «Non guardare me! Avevano già capito da soli che c’era sotto qualcosa. Io ho solo fatto un nome.» «Artemis» pensò Raduan. Aveva fatto bene a non rivelare quello vero. Era comunque irritato dall’indiscrezione del compagno di viaggio. «Grazie tante, Gonzo! Non potevi avvisare anche me, visto che c’eri, e risparmiarmi i sensi di colpa?» Tasha gli strinse un braccio. «Non preoccuparti, abbiamo tutti dei segreti. E non siamo affatto pentiti di averti seguito.» Nel dire ciò, lanciò una rapida occhiata a Pryce, che arrossì e si affrettò a dire la sua: «Sì, Raduan. È un’avventura e tanto. E se riusciremo a uscirne con le tasche piene d’oro, meglio ancora.» «Visto?» sorrise Gonzo. Raduan sorrise a sua volta. «Va bene! Già che sapete tutto...» «Non tutto, a dire il vero. Grazie a te abbiamo tallonato Helah tra le Zanne di Pietra e fin dentro la bocca dell’inferno. Cosa ci aspetta adesso?» «Dove sono finite le tue preziose annotazioni, Raduan?»

«Perdute, nel lago.» «Maledizione!» «Niente paura, le ho lette tante volte che saprei recitarvele a memoria.» «Comincia, allora.» Il guerriero si schiarì la gola. «Siamo molto vicini alla Valle. Helah parla di un campo innevato, della luce del sole fuori da una grotta. Questa grotta, ne sono certo.» «Vuoi dire che è fatta?» «Non proprio: abbiamo ancora due cose di cui preoccuparci, come minimo.» «Nella fattispecie?» «Due guardiani, e una filastrocca.» Lo fissarono in silenzio. «Dei primi non ho ricavato granché. So solo che sono molto pericolosi, e che Helah è riuscito a superarli per miracolo.» «Nient’altro?» «Niente. La mia fonte di informazioni è andata in fumo.» «Occhi aperti, dunque.» «Più che mai. Ma dubito che dopo tanti anni quei guardiani siano ancora in piedi ad aspettarci.» «E la... filastrocca?» «Racchiude le indicazioni per accedere alla Valle. Ascoltate:»

“Che il coraggio ti aiuti, e poi la scienza, Ai piedi della Fiamma Eterna. Apri gli occhi sul grande mare, Osserva la sua legge naturale. Il cuore del dilemma è alle tue spalle: Risolvilo, e vedrai la Valle.”

Tutti ascoltarono in silenzio, riflettendo. Tasha diede una scrollata di spalle: «È carina, però non mi dice niente.» Raduan concordò. «Capiremo solo quando rintracceremo questa Fiamma Eterna. È il modo che Helah ha trovato di tramandare il suo segreto, a mio vedere. Una specie di codice.» «Davvero gentile da parte sua.» «A me piacciono gli indovinelli» commentò Pryce, con un brillio negli occhi. «Sono certo che questo ti metterà alla prova.» Il pasto era terminato. Raccolsero le loro quattro cose e si apprestarono ad affrontare la neve. Nessuno provò nostalgia della grotta. I primi cento i furono i peggiori: lo strato di neve che ammantava ogni cosa era spesso e molle, le gambe vi affondavano fino alle cosce. Oltretutto non avevano le calzature adatte. Gonzo si fermò almeno cinque volte, tra gli sguardi di protesta dei suoi compagni, per cavarsi gli stivaletti dai piedi e svuotarne il gelido contenuto. Dopo un po’, le cose migliorarono: buona parte del terreno roccioso era sgombra dalla neve, che resisteva soltanto a chiazze sparse. Raduan si chinò a toccare terra e risolse facilmente il mistero: il suolo emanava calore, come nella grotta. Erano ancora nel pieno della zona vulcanica.

«Guardate là! Ci hanno steso un tappeto di benvenuto» disse Tasha. Il sentiero di pietra nera, che correva dritto come una freccia nel mezzo dell’avvallamento, era del tutto sgombro dalla neve e aveva forma regolare, come un camminamento costruito dalle mani dell’uomo. Decisero di sfruttare quella pista inattesa, da cui si alzavano sottili fili di vapore, per risparmiarsi il supplizio dei piedi gelati. Nel silenzio irreale, il picchiettio dei loro tacchi sulla pietra suonava estraneo. «I guardiani ci sentiranno da una lega di distanza» mugugnò Raduan. «Se li hanno rimpiazzati, dai tempi di Helah. Lo scopriremo presto.» Poco più avanti, il sentiero di roccia si insinuava nello stretto varco tra due rupi e sboccava fuori dall’avvallamento. C’erano quasi. Un o dopo l’altro, Raduan si scordò della necessità di respirare. Varcarono il aggio. «I-incredibile!» mormorò Pryce, torcendosi il collo nello sforzo di abbracciare l’intero paesaggio con un unico sguardo. Erano sbucati in un ampio pianoro innevato, cinto da un’insormontabile corona di pareti verticali, altissime. L’unica breccia in quella prigione di ghiaccio e neve era un promontorio di roccia nera che si protendeva nel vuoto, sul lato opposto della piana. All’estremità di questo si ergeva una torre d’ebano, alta e sottile, sulla cui cima danzava un fascio di fiamme color sangue. «Sarà...?» «La Fiamma Eterna!» esultò Raduan. In cuor suo non aveva dubbi. «Avviciniamoci» disse Tasha. Il sentiero terminava lì, e furono costretti a rimettere piede sulla neve. Era dura, compatta, simile al ghiaccio. Più di una volta, mentre procedevano cauti, Gonzo dovette aggrapparsi al braccio o alla spalla di qualcuno per non cascare a terra. Vicino al centro, la superficie del pianoro era irregolare. Vi crescevano dei rami solitari, piantati nel gelo come gli ultimi capelli irti sul cranio di un calvo.

«Che razza di piante sopravvivono in un posto come questo?» domandò Pryce. «Non sono piante» ribatté Raduan, che aveva la vista più acuta. Erano lance, spade, asce, martelli. Erano scudi e parti di armatura. Erano ossa. Si arrestarono di botto ai confini di quello spettrale cimitero. «Qui c’è stata una grande battaglia!» «Forse più d’una. Guardate le armi: alcune sembrano vecchie di secoli, altre, invece...» «Non mi piace.» Pryce si guardò attorno. «Forse dovremmo fare il giro largo.» «Sì, hai ragione. Cosa...?» Raduan si portò una mano al petto, strinse le dita attorno alla gemma della Strega d’Ebano che portava appesa al collo. La pietra era calda e fremeva di vita. Il guerriero sondò con lo sguardo le profondità del cristallo, e per un attimo vide affiorare la sagoma dell’occhio ceruleo. Seppe all’istante che si trattava di un avvertimento. «Fermi!» ordinò. Si arrestarono di botto, tramutandosi in statue. Ci fu un ronzio, uno scatto, e il mucchio di neve a tre i da loro si sfaldò come un guscio d’uovo. Ne sorse una figura umanoide, più alta e sottile di un uomo. Era corazzata da capo a piedi con una lucida armatura argentea, aveva spade affilate al posto delle braccia. Sulla cima dell’elmo a becco si ergeva un alto pennacchio celeste, come quelli sfoggiati dai cavalieri durante i tornei. Sotto la visiera non aveva occhi, ma una luce azzurra pulsante che scorreva da un lato all’altro senza posa. Gonzo strillò qualcosa, girò sui tacchi e fece per darsela a gambe; il terreno scivoloso lo tradì e ruzzolò sedere a terra. Il Guardiano non reagì: rimase immobile al suo posto, senza muovere un muscolo. L’unico segnale di vita era la

luce azzurra, nel suo incessante andirivieni. «Con calma» mormorò Raduan, mentre arretrava di qualche o. Tasha e Pryce lo imitarono, senza staccare gli occhi dalla figura corazzata. Arretrando, il guerriero prese lo sgambettante Gonzo per la collottola e lo aiutò a rimettersi in piedi. Quando giudicò sufficiente la distanza, diede l’alt. Ancora nessuna reazione da parte del Guardiano. I tre compagni rivolsero lo sguardo a Raduan. «E adesso?» sussurrò Tasha. «Guardatelo» commentò Pryce «Non sembra neanche umano!» Il guerriero deglutì a vuoto, poi rivolse la parola alla misteriosa comparsa: «Veniamo in pace, non abbiamo cattive intenzioni!» Nessuna risposta. «Ci lascerai are?» Di nuovo niente. Solo il movimento ipnotico della luce azzurra. «Sembra di parlare a una stufa» commentò Gonzo. «La mia stufa non aveva lame al posto delle braccia» rispose Pryce. «La mia non aveva neanche le braccia, se è per questo.» Raduan li zittì con un’occhiataccia. Una cosa era stemperare la tensione, un’altra prendersi gioco ad alta voce di un potenziale nemico. «Va bene, proviamoci» si disse. Con calcolata lentezza, strinse le dita attorno all’asta gelata di una vecchia lancia piantata nella neve, e tirò. L’arma scivolò silenziosamente nella sua mano. Gli altri fecero altrettanto, c’era l’imbarazzo della scelta: Tasha si impadronì di una lama ricurva, Pryce di una spada e uno scudo, Gonzo di una mazza ferrata dovette trascinare l’arma, più che portarla, giacché aveva a malapena la forza di

sollevarla. «Seguitemi, e all’erta» sussurrò Raduan. Invece di andare incontro al Guardiano, tennero le distanze. Il loro obiettivo era raggiungere la Fiamma Eterna, e se avessero potuto farlo senza inutili scontri, tanto meglio. La tattica parve avere buon esito: il Guardiano neanche girò il collo per seguirli, mentre descrivevano un ampio cerchio attorno a lui. «Più facile del previsto!» esultò Gonzo, nel mettere piede sulla linea immaginaria che divideva il pianoro a metà, ando per il Guardiano. In un lampo, il difensore della Fiamma Eterna fu loro addosso, lame in resta. Nessuno l’aveva visto voltarsi, o correre. Si muoveva come il vento sulle sue gambe alte e sottili. «A terra!» Raduan si gettò addosso agli altri, schivando l’attacco. Slittarono sul ghiaccio in un intrico di gambe e braccia, tra mille imprecazioni, prima di rialzarsi con le armi levate. Il Guardiano li fissava, immobile. Non dava l’impressione di volerli attaccare. «Maledizione! Tutto come prima!» «Lasciate che ci provi io, da solo» disse Raduan. Voleva comprovare una teoria. Strinse la lancia con le due mani, e avanzò guardingo verso il Guardiano. L’enigmatica luce azzurra accompagnava ogni suo movimento. A tre i dal nemico, Raduan si fermò e trattenne il fiato. Nulla. Ancora un o. Niente. Così da vicino, incapsulato nella sua elegante armatura d’argento, il Guardiano sembrava più alto, e più letale. «Ci siamo» pensò Raduan. Sollevò appena un piede per fare l’ultimo o, che il Guardiano fiondò una lama verso la sua testa. Raduan alzò la lancia, deviò il colpo, e balzò all’indietro, pronto a difendersi e contrattaccare. Il Guardiano, però, rimase al suo posto, indifferente. Senza interferire, lasciò che Raduan arretrasse fino ai tre compagni, che lo attendevano col fiato sospeso.

«Cos’è stato?» chiese Tasha. «Non capisco...» disse Pryce. Il guerriero si lisciò i capelli con una mano. «È come pensavo. Non intende attaccarci, il suo unico proposito è tenerci lontani dalla torre.» «Per adesso, ci sta riuscendo benissimo» osservò Gonzo. «Che facciamo?» Raduan rifletté un poco, prima di dare una risposta. «È un avversario veloce, senza dubbio, ma non può essere in ogni luogo allo stesso tempo.» «E noi siamo in quattro» continuò Tasha. «Esatto.» «Chi farà da esca?» «Tocca a me. Sono l’unico combattente di professione.» Si guardarono incerti, nessuno aveva un’idea migliore. «E poi?» «Correte verso la torre, mentre io lo tengo impegnato. Nascondetevi, se potete. Io vi raggiungerò subito dopo.» Tasha sorrise di sbieco. «Di certo non ti manca la fiducia in te stesso, guerriero.» «Ne ho viste di peggio. Su, preparatevi.» Raduan si mosse verso destra, mentre gli altri camminavano in direzione opposta, fin quasi a toccare la parete verticale ai margini del pianoro. Il

Guardiano rimase dov’era, nel mezzo. Li stava osservando, da sotto la visiera di metallo? Anche lui stava architettando un piano? Il suo ottimismo forzato di poco prima non era che una menzogna, sentiva il peso del pericolo nell’aria e nelle proprie viscere. Quel nemico non assomigliava a nulla che avesse già affrontato nel corso della sua vita. Dopo una rapida preghiera ad Abidan, scattò avanti. Con la coda dell’occhio, vide che anche il Guardiano era scattato. Verso i suoi compagni. «No!» urlò, piantando i talloni nel ghiaccio. Vide il nemico piombare addosso ai tre in un mulinare di spade. Gonzo tentò di affibbiargli un colpo di mazza sulle ginocchia, ma l’avversario gli rifilò un calcio sulle braccia, facendogli schizzare via l’arma. Pryce si rifugiò dietro la protezione dello scudo, colpendo alla cieca e del tutto fuori misura con l’altro braccio. Tasha era l’unica in grado di offrire una seria resistenza. Anche lei, però, avrebbe avuto scarse possibilità di resistere, quando il Guardiano si fosse liberato degli altri due e avesse concentrato la sua attenzione su di lei soltanto. Raduan accelerò, ogni fibra del suo corpo impegnata nella corsa. Ancor prima di raggiungere la scena dello scontro, prese la mira e scagliò la lancia. L’arma sibilò e si infisse con precisione nella giuntura tra elmo e corazza del Guardiano. La creatura smise di attaccare. Girò il collo, fissò l’asta di metallo infissa nel suo corpo. Mentre la tranciava con un colpo netto, come se fosse bambù, la luce pulsante della visiera, da azzurra che era, si tinse di rosso cupo, il colore del sangue. Insensibile alla tempesta di colpi con cui Tasha ammaccava la sua lucida corazza, virò il torso di scatto e mandò gambe all’aria tanto lei quanto Pryce. Per pura sorte il ragazzo era riuscito ad assorbire l’impatto con lo scudo, altrimenti le lame del Guardiano li avrebbero falciati entrambi senza pietà. La luce cremisi lo testimoniava: era infuriato. Inquadrò Gonzo, tremante come gelatina ai suoi piedi, e si preparò a ridurlo in poltiglia. «Sono io il tuo avversario!» urlò Raduan. Si gettò sulle ginocchia in corsa e strappò un’ascia dal suolo, mentre lo slancio sul terreno ghiacciato lo proiettava incontro al nemico. Gli rifilò un fendente a

due mani dietro le ginocchia, prima di rovinargli addosso. Il Guardiano crollò e lo schiacciò col peso della sua armatura. Un attimo dopo era già in piedi, quasi illeso. Raduan, in compenso, rimase a terra stringendosi il petto: respirava con difficoltà, mentre lo spettro di una costola rotta si faceva strada nella sua mente annebbiata dal dolore. Il Guardiano cercò di infilzarlo come un pesce. Raduan rotolò su un fianco e finì addosso a Pryce e Tasha, ancora a terra dopo la tremenda botta ricevuta. Il ragazzo sembrava svenuto: doveva aver parato il colpo con l’aiuto del braccio già rotto. Tasha era stordita, cercava di alzarsi su un gomito senza successo. Raduan ghermì la spada dalla mano inerte di Pryce e si alzò, appena in tempo per contrastare una grandinata di colpi. Gonzo diede di nuovo fondo alle sue limitate riserve di coraggio, e colpì l’avversario alle spalle con la mazza recuperata. Di nuovo il Guardiano si liberò di lui con un calcio, e tornò a prendersi cura di Raduan. Il guerriero cominciò a perdere colpi. In altre circostanze, forse, sarebbe riuscito a contrattaccare, a scoprire il punto debole del nemico e sfruttarlo a proprio vantaggio. Ma non quel giorno. Non riusciva a respirare, scivolava, aveva le mani ghiacciate e la vista sempre più confusa. Ad ogni colpo del Guardiano, sentiva la fine approssimarsi. «Non qui, Grande Abidan! Non a un o da Abel, ti prego!» Il Dio non lo ascoltò: con una selvaggia sequenza di colpi, il nemico gli strappò la spada dalle mani, e rimase a fissarlo con la sua luce aliena. Con la coda dell’occhio, Raduan cercò i suoi alleati: Gonzo era accucciato a terra, dolorante; Pryce, svenuto; Tasha non riusciva a reggersi sulle ginocchia. Era la fine. Allargò le braccia, rifiutandosi di fuggire. Se non poteva difendere i suoi amici con le armi, lo avrebbe fatto col suo stesso corpo. Il Guardiano alzò le lame sopra la testa, per infliggergli il colpo di grazia.

Quell’uomo, disarmato, proteso davanti ai compagni per difenderli a costo della sua stessa vita...

Aveva già visto quella scena, l’aveva già... sognata? Vissuta? Rivide l’Angelo, gli occhi pieni d’amore, che moriva per lui... I volti degli assassini... Gli occhi della Dama... Quell’uomo... L’Angelo... La Dama... Il Maestro... La morte... La morte... La mor...

Raduan credette di sognare. Il Guardiano era rimasto impietrito dinanzi a lui, con le braccia sollevate sopra al capo. La luce sotto la visiera si era spenta. Per un po’ non osò neanche respirare. Poi si mosse, lo toccò con la punta delle dita. Gli rifilò un pugno nel ventre corazzato, rischiando di rompersi una mano. Il dolore non fu nulla rispetto alla gioia di scoprire che il nemico non reagiva. La battaglia era finita. Non sapeva come, o perché, ma era finita. Si lasciò cadere sulla neve. Gonzo gli venne accanto, inebetito. Anche lui tastò il corpo immobile del Guardiano, poi gli sputò addosso e gli rifilò un calcio negli stinchi. Inutile dire che saltellò via con uno strillo di dolore. Tasha era china su Pryce. Gli scostò i capelli dalla fronte, gli rifilò una serie di

schiaffetti sulle guance, finché lo vide aprire gli occhi. «Tasha... Siamo morti?» «No.» «Abbiamo vinto?» «Sì.» «Come?» «Chiedilo a lui.» Pryce cercò di alzare il capo, quando un violento capogiro gli fece cambiare idea. «Ieri a te, oggi a me» gemette «Perché uno di noi deve sempre svenire?» Tasha sorrise. «Non lo so, Pulcino.» Ci misero un po’ a calmarsi e a riprendere le forze. Nessuno era rimasto seriamente ferito nello scontro, anche se le stecche sul braccio di Pryce richiesero una regolata. In nessun momento staccarono gli occhi dalla sagoma immobile del Guardiano, e appena possibile si rimisero in moto. Dopo un breve dibattito, avevano rinunciato a capire la ragione della propria salvezza. Gonzo aveva proposto di approfittarne per fare a pezzi il corpo del nemico, giusto nel caso. La sua proposta non aveva riscosso successo: e se le botte l’avessero risvegliato, più infuriato di prima? Su una cosa però, erano stati tutti d’accordo: meglio allontanarsi di lì al più presto, prima che il Guardiano decidesse di riprendere vita. Mentre camminavano verso il promontorio di roccia nera dove sorgeva la torre, cominciarono a udire uno sciabordio lontano. Il suono prese volume man mano che si avvicinavano, e si fece ancor più intenso e avvolgente quando misero piede fuori dalla cerchia di altissime pareti, dove il vento ululava con rabbia gelida. Gonzo si sporse a guardare giù:

«Che mi venga un colpo!» esclamò, allontanandosi dal bordo. «Che c’è?» «Guardate anche voi!» La rupe scendeva a strapiombo fino all’Oceano, molto, molto più in basso. Il rumore che sentivano era quello delle onde che si infrangevano ai piedi del dirupo, in un marasma di schiuma. In tacito accordo, tutti e quattro si scostarono dal margine per camminare nel mezzo della lingua di roccia. Lo sguardo di ognuno venne calamitato dalla torre d’ebano, sulla cui cima la Fiamma Eterna sventolava superba. Aveva la parvenza di una costruzione naturale, un pinnacolo di lava creato da un’eruzione secoli o millenni prima, ma la superficie era crivellata di fori circolari e ricoperta di bassorilievi di carattere geometrico - e altri che da quella distanza non riuscivano a distinguere. Su tutti, vicino al pennacchio di fuoco, svettava l’immagine di una mezzaluna, che fece battere più veloce il cuore di Raduan. «Che aspettiamo?» esclamò. Attorno ai piedi della torre si allungava un collare di roccia ancor più nero dei dintorni, come una pesante collana d’onice attorno al collo sottile di una dama. Non c’era modo di proseguire se non attraversandolo. Per una volta fu Gonzo a trattenere il guerriero per un braccio, prima che fe un altro o. «Aspetta!» «E perché mai?» «Gonzo ha ragione, guerriero» disse Pryce «Non mi piace questo cambio improvviso di terreno.» Raduan osservò meglio il suolo: ricordava un’insolita maiolica di piastrelle di svariate forme e dimensioni, montata da un artigiano troppo estroso. Pryce gli ò la lancia che usava come bastone d’appoggio. «Prova con questa.»

Il guerriero tastò la superficie della “piastrella” più vicina con l’asta di legno: non accadde nulla. Ci riprovò, mettendoci più forza: questa volta, con un sinistro scricchiolio, una crepa apparve sulla mattonella. Ancora un cozzo, e la stessa si disfece come una galletta, sbriciolandosi con un sibilo nella pozza di lava sottostante. I quattro osservarono stupefatti mentre lo strato superiore di roccia fusa, a contatto con l’aria gelida, riassumeva consistenza e spessore in un batter d’occhi. Nel giro di pochi attimi, una nuova piastrella si era formata a sostituire la vecchia, come se niente fosse accaduto. «È come il ghiaccio su uno stagno, d’inverno!» «Con la differenza che qui non avresti neanche il tempo di affogare.» Era una trappola bella e buona. Raduan, scocciato, saggiò il terreno con uno stivale. Osò persino muovere un o sul pavimento infido, ma fu costretto a rinunciare: il terreno non era disposto a sopportare il suo peso. «Forse, correndo...» «Non pensarci neanche: al primo balzo finiresti dritto nella lava.» Gonzo lo soppesò con lo sguardo. «Già, sei troppo grasso.» «Sono muscoli, se non l’hai notato.» «Peggio ancora, pesano molto di più.» Raduan si arrovellò il cervello in cerca di una soluzione, che fu Tasha, invece, a servirgli su un piatto d’argento. La ragazza aprì la pelle d’orso in cui era avvolta, per meglio esibire il suo corpo snello. «Cosa vedi?» domandò, puntando un indice su se stessa. Il guerriero esitò. «Una ragazza?» «Grazie tante! Parlavo del mio fisico: sono di gran lunga la più leggera del

gruppo, se ancora non l’aveste notato.» Gli occhi dei tre si puntarono sulle sue curve. «Hai ragione.» «È vero.» «Uh-uh...» Tasha aggrottò la fronte e tornò a coprirsi. «Pulcino, raccogli il mento da terra o ti prenderai una polmonite.» «S-scusa!» Raduan non era del tutto convinto. «Sei sicura che reggerà?» Lei sorrise di sghimbescio. «Vorrei poter rispondere “È una questione di fede!” - come qualcuno che conosco - ma sarebbe ipocrita da parte mia. Facciamo una prova: io cammino sul bordo, e se vedete aprirsi qualche crepa mi tirate su al volo. Prima di abbrustolirmi gli stivali, se possibile: ci sono affezionata.» Così fecero: Tasha eggiò per un po’ sul margine della crosta di lava, con la concentrazione di un’equilibrista, i tre pronti a sollevarla di peso al primo scricchiolio. Non servì, l’esperimento ebbe successo. «Va bene. Penso di poter fare sul serio, adesso.» Pryce deglutì a vuoto, incapace di nascondere l’ansia. «Sei davvero sicura?» «Incrociate le dita.» Si mise all’opera, prima che la tensione le fe cambiare idea: non era nel suo stile rinunciare a qualcosa per semplice paura. Avanzò a piccoli i, leggera

come un gatto, accompagnata dagli sguardi ansiosi di Raduan e compagni. Verso la metà, fece un o troppo deciso, e un buco rovente le si aprì dinanzi. Pryce strillò al posto suo, mentre riprendeva l’equilibrio. Da lì in avanti raddoppiò la dose di prudenza, fino a porre piede sulla roccia solida alle radici della torre. Sventolò le braccia ai compagni, con un sorriso da bambina. «Brava!» «C’è mancato poco! E adesso?» Studiò da vicino la facciata della torre, ò le dita sui bassorilievi di cui era costellata: era roccia lavica, lavorata dalle mani di un abile artista. Sotto, poteva avvertire il calore del magma fuso. Mise le mani a coppa attorno alla bocca, per vincere il fischio del vento. «Qui ci sono un mucchio di disegni di animali! E buchi: uno per ogni disegno!» «Animali?» «“Che il coraggio ti aiuti, e poi la scienza, ai piedi della Fiamma Eterna”...» rifletté Raduan ad alta voce. «Tra quello spauracchio in armatura, e questa trappola di lava, direi che il coraggio è già stato messo alla prova» commentò Gonzo. «Non del tutto, temo» disse Pryce. «Cosa te lo fa pensare?» «Il verso successivo: “Apri gli occhi sul grande mare”. Se è un qualche tipo di istruzione, come sembra, dubito che Tasha riesca ad eseguirla da lì.» Era vero: dal punto in cui la ragazza si trovava, la vista dell’Oceano era preclusa dalla massa della torre. «Ehi, voi, rendetemi partecipe!» urlò Tasha, vedendoli confabulare. Pryce si fece carico di trasmetterle la cattiva notizia. «Devi andare oltre! Ti serve un punto di osservazione sull’Oceano!»

Tasha guardò con orrore il sottile camminamento attorno alla base della torre, a strapiombo sulle acque. Il solo pensiero le fece venire le vertigini. «Siete impazziti?» urlò di rimando. «Il mare: devi cercare qualcosa nel mare! Ricordati la filastrocca!» Se la ricordava bene: “Apri gli occhi sul grande mare, osserva la sua legge naturale”. Che senso aveva? Fece un o verso il baratro, spremuta contro la torre. Un altro o. Non osava neanche spostare gli occhi dalle punte dei propri piedi, altro che guardare il mare. «Coraggio!» le giunse l’urlo di incitamento di Pryce. Riuscì ad avanzare ancora un pezzetto, prima che le gambe l’avvertissero che non era saggio sfidare oltre il suo sano terrore delle altezze. Sbirciò l’Oceano, con il vento negli occhi e lo stomaco nelle ginocchia. «Cosa vedi?» «Cosa diavolo volete che veda?» sbraitò, esasperata «Acqua gelata a perdita d’occhio!» «Nient’altro?» «Un paio di scogli... No, aspettate, c’è anche una roccia più grande! Ci sono degli uccelli sopra... Sono piuttosto bizzarri: tozzi, senza ali...» «Cosa fanno?» «Bah, sembra che prendano il sole - se questo lo chiamate sole. Alcuni si tuffano in acqua, nuotano... Uno di loro è appena risalito, ha in bocca qualcosa che si agita... È un pesce!» Si sforzò di notare altri dettagli interessanti, invano. Quando non ne poté più, strisciò indietro verso la zona sicura e si buttò a sedere schiena alla torre, pallida in volto. «Basta! È inutile!»

«Riposati!» la incoraggiò Raduan. Gonzo era perplesso, come tutti: «Voi ci avete capito qualcosa?» «Se davvero è un indovinello» rispose Pryce «dobbiamo montare tutti i tasselli per arrivare alla soluzione. Cos’abbiamo finora?» «Degli uccelli senza ali...» «Dei disegni di animali, dei buchi...» «Uhm, i buchi. Uno per ogni animale, giusto?» osservò Pryce. Schioccò le dita. «Tasha!» esclamò «Tra le immagini, ce n’è una che assomigli a quegli uccelli?» Lei si alzò e analizzò i bassorilievi con più attenzione. Dopo un po’ sollevò un braccio in segno di vittoria. «È qui, l’ho trovato!» «C’è uno di quei buchi, accanto al disegno?» «C’è. Che vuoi che faccia? Non chiedermi di infilarci una mano, perché mi rifiuto!» «Usa questa! Raduan, per favore.» Il guerriero annuì. Prese la lancia dalle mani di Gonzo, e la scagliò al di là della cornice di lava solida, ai piedi di Tasha. «Bella mira!» disse lei, e la raccolse. Si piazzò di fronte al buco, vi infilò la punta della lancia fino a toccare qualcosa di solido. Spinse, e subito udì un sibilo poco rassicurante. Fu proprio il pensiero assurdo di un serpente velenoso annidato nel cuore della torre a spingerla a mollare il manico della lancia, un istante prima che un fiotto di lava bollente schizzasse fuori dal buco e divorasse l’arma. Sarebbe toccato alla sua mano, se avesse prestato meno attenzione. «Dannazione!» urlò.

Il getto di roccia liquida cessò subito. Nella torre, e nelle vicinanze, non era cambiato nulla. Pryce si grattò la testa, mentre Tasha agitava il moncherino bruciacchiato della lancia nella sua direzione e gli rivolgeva epiteti poco edificanti. «Accidenti, ero sicuro che fosse quello!» «Forse ci è sfuggito un dettaglio» disse Raduan. «Vediamo un po’: la scienza, il mare, la legge naturale, gli uccelli... Non possono volare... Nuotano, pescano...» Si illuminò in volto. «Ma certo!» «Puoi spiegare anche a noi?» «L’unica “legge naturale” che conosco è quella per cui ogni creatura ne caccia altre, ed è a sua volta cacciata. Predatori e prede, capite?» Anche Raduan ci arrivò. «Gli uccelli, e i pesci!» «Esatto, i pesci! Sono loro il primo anello della catena, il “cuore del dilemma”! Mentre Tasha osservava dalla rupe, la soluzione era “alle sue spalle”, ossia l’immagine del pesce si trova da qualche parte sulla parete della torre, possibilmente vicino al margine!» «Sei un genio!» esultò Raduan, rifilandogli una pacca sulle spalle. Lui stesso si preoccupò di aggiornare Tasha. La ragazza si riavvicinò al bordo, a malincuore, e scrutò a lungo le effigi scolpite nella roccia. «C’è più di un pesce qua, e non ce la faccio a guardare in bocca agli uccelli, da questa distanza. Alcuni neanche li riconosco, a dire il vero. Ma credo di aver trovato un buon candidato.» «Sicura?» «Sicura: i maledetti pesci-spina vivono solo al Nord. Li odio, quando ne ho uno nel piatto o più tempo a scartare gli aculei che a mangiare!» «Va bene, provaci!»

Lei guardò il moncone di lancia e sospirò. «Accidenti alla mia linea perfetta! Con qualche chilo in più non mi sarei cacciata in questa situazione!» Più che accompagnare il pezzo d’asta dentro al buco aperto sotto la figura del pesce-spina, lo scagliò. Ci fu un tonfo, e invece del sibilo minaccioso, un rombo nelle profondità della terra. La Fiamma Eterna divenne più alta e forte. Tasha era pronta a riattraversare la crosta di lava correndo, se necessario, ma non ne ebbe bisogno: il tremore cessò, anche se la fiamma non tornò alle dimensioni originali. «Se questo non significa che siamo sulla giusta strada» esultò Pryce «mi mangio gli stivali!» Lanciarono a Tasha altre vecchie armi raccattate dal campo di battaglia, di certo preferibili alle sue braccia per attivare i meccanismi della torre. Dal momento che il pesce-spina aveva funzionato, il o logico successivo era riprovare con l’uccello marino. Tasha esplorò di nuovo la cavità con la punta di una spada arrugginita, pronta ad attivare i riflessi come poco prima. Questa volta la sequenza si rivelò giusta: furono premiati con un altro boato nel sottosuolo, e una nuova impennata della Fiamma. Ormai brillava come un piccolo sole, talmente calda che Tasha dovette liberarsi della pelle d’orso. Si voltò a guardare i compagni, in attesa di nuove istruzioni. «L’uccello mangia il pesce...» disse Gonzo. «...ma chi mangia l’uccello?» completò Pryce. A corto di idee, chiesero a Tasha di descrivere gli altri animali scolpiti sulla torre. La varietà delle bestie era grande, e l’assurdo sembiante di alcune faceva pensare che fossero frutto della fantasia dello scultore. Andarono avanti così per un bel pezzo, finché la voce della ragazza si fece roca. A tratti dibattevano su una delle creature, senza però arrivare a un consenso: o l’animale in questione era troppo piccolo, o era erbivoro, o viveva troppo a Sud, o probabilmente neanche esisteva. Tasha si inginocchiò ad ispezionare un’effigie intagliata nella base della torre, una delle più grandi per giunta.

«È un pesce, e bello grosso, direi! Il dorso è tracciato in modo differente dal resto del corpo, come se fossero due colori diversi, uno chiaro e uno scuro.» «Cos’altro?» «Ha una pinna triangolare sul dorso, come gli squali. E sembra che abbia la bocca piena di zanne... a meno che sia una crepa nella roccia...» Raduan si illuminò in volto. «Credo che ci siamo!» «Hai riconosciuto il pesciolino?» Il guerriero esibì un sorriso enigmatico. «Si può dire che ne abbiamo inseguito uno per giorni, fino alle Zanne di Pietra.» «Uhm...» Pryce era perplesso. «Vi do un indizio. Il vascello di Helah, come si chiamava?» «Orca Azzurra! Orca! Adesso ho capito!» La creatura era piuttosto nota nel Regno, per via delle storie dei marinai: la descrivevano come un mostro assassino dei mari del Nord, spauracchio delle navi di piccola stazza e spietata divoratrice d’uomini. Pochi sapevano che in realtà si nutriva di pesci, uccelli, calamari e piccoli mammiferi. Raduan doveva queste conoscenze ai libri di scienze naturali della Biblioteca del Grande Tempio, e le condivise di buon grado con i suoi compagni. «Proprio quello che stavamo cercando» concordò Pryce «Tasha! È lui, il pesce!» «Agli ordini!» Il buco era tanto basso da costringerla a sdraiarsi pancia a terra per infilarvi la spada. Lo fece con un certo nervosismo, conscia che in quella posizione sarebbe stato molto più difficile sfuggire a un getto di lava rovente. Spinse a fondo. Per una manciata di secondi non accadde nulla: non ci fu né il sibilo della lava, né il

rombo nel terreno, e la Fiamma non mutò. Poi la terra cominciò a tremare, dalla cima della torre sfuggì una nota possente - come dalla bocca del più grande corno da guerra mai costruito - e la Fiamma Eterna raddoppiò all’istante in altezza e vigore. Tasha si strinse alla torre, spaventata, la pelle del volto arroventata dalla prossimità del fuoco. Una crepa si aprì nel suolo gelato davanti a Raduan, che fece appena a tempo a scansarsi e spingere via i compagni, prima che la terra li inghiottisse tutti. La spaccatura corse come una serpe nera dalla torre della Fiamma Eterna sino a un punto nella parete di ghiaccio: un gigantesco blocco di gelo, terra e roccia si staccò e cadde a valanga con un tonfo colossale, facendo tremare l’intero pianoro. Tasha rimase aggrappata alla roccia con le unghie, mentre Raduan e gli altri due, senza sostegno, riuscivano a malapena a stare in ginocchio. Anche quando il sisma cessò, la nube di detriti alzata dalla slavina persistette fino a che il vento ne ebbe ragione, dissipandola. La Fiamma si acquietò e rimpicciolì, tornando alle sue proporzioni originali. Davanti agli occhi meravigliati dei quattro che avevano causato tanto trambusto, affiorò sotto la crosta di ghiaccio un portone immenso di roccia e metallo, alto quanto le pareti che lo circondavano, e antico quanto le origini dell’uomo. Nel mezzo dei giganteschi pannelli, accanto a battenti che solo un titano avrebbe potuto manovrare, spiccavano due grandi mezzelune simmetriche di metallo dorato. Raduan sentì un tuffo al cuore. Era arrivato a destinazione: le porte della Valle della Luna! E dietro di esse, tanto vicino come nei suoi sogni, il Bianco Viandante...

Epilogo - Raduan

«È davvero impressionante...» mormorò Pryce. Le porte della Valle della Luna si innalzavano sopra le loro teste fino al cielo, finalmente libere dalla bara di ghiaccio che per secoli le aveva imprigionate, dopo la venuta di Helah. Erano socchiuse, più che aperte: la morsa del gelo aveva impedito che si schiudessero più di un o, quanto bastava a consentire il aggio dei quattro. «Quindi era a questo che serviva il rompicapo della torre.» «Già: un meccanismo di apertura. Non fosse stato per il ghiaccio, scommetto che le porte si sarebbero spalancate.» «Mi chiedo come abbia fatto Helah a scoprire la soluzione.» «Forse l’indovinello non è invenzione sua. Forse anche lui l’ha rubato a chi l’aveva preceduto.» «Non lo sapremo mai, temo. Raduan, perché quella faccia?» Il guerriero fissava i simboli a mezzaluna incisi nelle porte, identici a quello scolpito nella torre della Fiamma Eterna. «Dunque il nome della Valle ha un fondamento. Niente a che vedere con quella storia del riflesso della luna in fondo al pozzo, l’illusione di uno stolto...» «Ti sorprende?» «Sì, a dire il vero. L’ho sognata, la Valle, molte volte. Ma non ho mai sognato questo.» Pryce annuì, pensieroso. «Anch’io credevo che il Regno fosse l’unico faro di civiltà in questo mondo, a memoria d’uomo. Mi sbagliavo: qualcun altro era già qui, e molto prima di noi,

se queste rovine sono vetuste come sembrano.» I portoni erano antichi, da vicino era semplice notare le ferite inferte dal tempo. Ma erano ancora solidi: chi li aveva costruiti era stato molto abile, forse più degli architetti che tuttora arricchivano il Regno di palazzi, templi e castelli. Mai si era vista una costruzione inusitata come quella mastodontica porta infissa nel ghiaccio ai confini del mondo. Al di là di essa, una scalinata di roccia lavica saliva fino all’orizzonte, incassata tra due pareti verticali. Ogni venti o trenta gradini, il viaggiatore era costretto a sfilare sotto lo sguardo severo di statue dal sembiante alieno. Gonzo si avvicinò alla prima scultura e toccò con un dito la punta di una zanna affilata. La creatura incastonata nella roccia lo fissava con occhi spenti, erosi dal tempo. Non assomigliava a nulla che i quattro compagni avessero mai visto - o volessero vedere - nel corso delle loro vite. Gli altri monumenti, tutti scolpiti con maestria nella stessa roccia nera che affiorava dal terreno, non erano meno spaventosi, o meno diroccati del primo. Il tempo non era stato clemente. «Non è proprio una forma di benvenuto» mormorò Pryce, timoroso di risvegliare le creature di roccia con la propria voce. «Un’altra prova che gli abitanti della Valle non gradivano visite.» «Ne abbiamo già avute abbastanza, per i miei gusti.» Si incamminarono. La salita, lieve e costante, non sembrava aver fine. Tra quelle pareti di roccia incombenti, due sole direzioni erano ammesse: avanti e indietro. Le statue, mute, suggerivano con ostile persistenza la seconda alternativa. Mentre i suoi compagni si scambiavano nervose osservazioni su quel tetro paesaggio, Raduan non proferì parola. Non faceva che pensare ad Abel e ringraziare Abidan per avergli consentito di arrivare fin lì. Chissà se anche il piano di Dorian aveva avuto successo? Chissà se Kyra aveva trovato la lettera, ed era riuscita a raggiungere suo padre? Sospirò. Avrebbe tanto desiderato che fossero con lui, in quel momento. Loro tre, ed Abel: gli ultimi superstiti della Compagnia del Viandante. Sentì un improvviso calore all’altezza del petto, e arrestò il o.

«Cosa c’è?» lo interrogò Tasha. «La gemma...» La sentiva pulsare contro la pelle come un secondo cuore. Non era la prima volta che succedeva, e non era segno di buone nuove. Gonzo cacciò un urlo e puntò un indice al cielo, sulla vetta dell’infinita rampa di scale: Raduan guardò, e si sentì congelare l’anima. Due occhi erano apparsi tra le nubi grigiastre, due occhi smisurati, glaciali, che li fissavano con odio senza fine. Le sue gambe si tramutarono in gesso, mentre una voce di donna, possente come un tornado, si abbatteva su di loro: «Tornate indietro! Tornate, o morirete!» Uno dopo l’altro, incapaci di resistere, i tre compagni del guerriero girarono sulle ginocchia tremanti e presero a scendere a rotta di collo, senza vergogna. Non c’era altro al mondo che desiderassero, se non fuggire da quel luogo il più veloce possibile e non farvi mai più ritorno. Raduan si sentì scoppiare le tempie. Tutto, dentro di lui, gli urlava di dar retta alla voce, prima che fosse troppo tardi. Cercò di corazzarsi con ogni scaglia di caparbietà, con ogni fibra di coraggio che ancora albergasse nel suo cuore, ma la voce era implacabile, inesorabile. Sentì la propria ostinazione sfaldarsi come corteccia sotto i colpi d’ascia di un taglialegna, finché restò soltanto il midollo tenero allo scoperto. La gemma divenne rovente. Chiuse gli occhi e la strinse forte nel palmo della mano, aggrappandosi a quella sensazione. Un’altra voce, anch’essa suadente e irresistibile, cominciò a lottare per il possesso della sua mente. L’aveva già udita, tempo prima, nella foresta di Leukania. Se allora l’aveva combattuta, questa volta lasciò che lo seducesse, che lo avvolgesse nelle sue trame insidiose. Qualsiasi cosa, pur di sottrarsi al comando irrevocabile degli occhi nel cielo, che lo traavano con la loro ira. Per un istante, gli parve che la Strega d’Ebano si materializzasse al suo fianco, bella e terribile. Avvertì le sue dita che gli accarezzavano i capelli, le sue labbra che gli sfioravano un orecchio e gli sussurravano una parola nella Lingua Antica. Spalancò gli occhi e la urlò al cielo, con voce alta e potente come quella di un

titano. Gli occhi colossali tremarono nel firmamento. Con un ruggito di rabbia, e una promessa di vendetta, si diluirono come chiazze di acquarello, fino a dissolversi nel nulla. Tasha, Pryce e Gonzo si arrestarono di botto. L’ombra pesante che gravava sui loro cuori era scomparsa di punto in bianco. Potevano di nuovo controllare le proprie gambe, e le proprie menti. «Cosa... cosa è stato?» balbettò Pryce. «Non voglio saperlo» rispose Gonzo, il viso color sabbia. «Neanch’io. Mai e poi mai. Andiamocene, finché possiamo!» «Sono d’accordo!» disse Tasha «Ma qualcuno vada a dirlo a Raduan.» «Lo faccio io, più che volentieri!» affermò Gonzo «Dov’è finito, per tutti gli Dei?» Tasha strinse le labbra. «Lassù.» Raduan correva, verso la cima. Non gli importava se l’avrebbero seguito, oppure no. Non gli importava la silente minaccia delle statue mostruose, né l’ira di quegli occhi apparsi come un incubo nel cielo. Stringeva la gemma e correva, lo sguardo fisso sull’orizzonte oltre gli ultimi scalini. Questa volta, nulla l’avrebbe fermato. -----Il Guardiano abbassò le braccia.

Si guardò attorno: era solo. La porta era aperta. Aveva fallito. La Dama lo avrebbe castigato. Se lo meritava. Le doveva tutto, eppure l’aveva disattesa con la propria debolezza. Proprio lei, che gli aveva donato la vita. Proprio lei, che aveva ucciso l’Angelo. Era davvero un sogno, solo un sogno? O era una vita ata, la sua prima vita, prima che il Maestro di Metallo riplasmasse il suo corpo e la Dama la sua mente? Si sentì invadere dalla collera, e per la prima volta il pensiero del tocco fresco della Dama gli diede ribrezzo. Si incamminò verso la porta, fino ai suoi piedi. Le orme nella neve erano fresche, i quattro viandanti erano entrati da poco. Per un millennio si era rifiutato di varcare quella soglia. Il suo popolo, prima, e la Dama, poi, gli avevano vietato di farlo. Non era quello il suo compito, la sua ragion d’essere? Non era per quello che l’Angelo era morto? Spaziò con lo sguardo sul cimitero di ghiaccio dove aveva trascorso due intere vite. «Non più» si disse. Fece un o, ed entrò.

Epilogo - Padre e Figlia

Shem e Caleb erano morti. Due fratelli di Nahash, sangue del suo stesso sangue. Erano morti grazie alle sue macchinazioni, e li aveva liquidati dalla propria memoria senza un secondo sguardo. La sua attenzione era interamente dedicata a loro. Dorian deglutì a secco, e si chiese se fossero realmente pronti ad affrontarlo. «Malakai!» gridò una voce, inattesa. «Questa no!» pensò Kyra. Aveva paura di voltarsi, di perdere di vista anche per un solo istante l’insidioso Addestratore di Serpenti - di cui già conosceva la velocità sovrumana. «Malakai!» Questa volta Kyra osò dare una sbirciata: Tulga stava arrivando di corsa, come temeva. L’ultima volta che si erano visti, il barbaro stava svuotando la vescica a bordo strada, a un paio di miglia di distanza, dopo le circa mille volte che l’aveva implorata di fermarsi un attimo. E proprio in quel momento, mentre fissava l’ago rosso della bussola, era arrivata la visione, immagini nitide e impellenti sorte dal nulla dentro la sua mente: Dorian, impegnato in un combattimento mortale sotto le mura della città. Era vicino, era in pericolo mortale! E il suo avversario…!

Aveva dato di sprone al cavallo senza pensarci due volte, sorda alle urla del povero barbaro abbandonato per strada. Perché quello sciocco le era venuto dietro così in fretta? «Resta fermo dove sei!» gridò, riportando lo sguardo su Nahash. Dorian la imitò, sforzandosi di ignorare la distrazione. «Ma…!» strillò il barbaro, rallentando la corsa. «Niente ma! Non devi avvicinarti, hai capito? È un ordine!» Tulga si arrestò di botto, i pugni stretti ai fianchi. «Sì, Malakai…» «Chi sarebbe questo Malakai?» la interpellò Dorian, gli occhi sempre puntati su Nahash. «È una lunga storia.» Finalmente l’Addestratore di Serpenti si decise a sbattere le palpebre. Kyra non si trattenne: «Che ci fai tu qui? Che significa questa comparsata?» Nahash mosse lentamente lo sguardo dall’uno all’altra. «Padre e figlia finalmente insieme, shhh, combattendo fianco a fianco… Che scenetta commovente!» «Ti ha fatto una domanda» ribatté Dorian, duro. «Domande, sempre domande, shhh! Voi fragili, patetici esseri umani non ne avete mai abbastanza. Perché non vi limitate a ringraziarci? Siete ancora vivi, cos’altro vi serve sapere?» Dorian e Kyra si scambiarono un’occhiata tesa. L’Addestratore donò loro uno dei suoi odiosi sorrisi gengivali.

«Ci avete serviti bene, nonostante tutto, shhh. A parte qualche piccolo incidente di percorso.» Fissò Kyra con una smorfia di fastidio. «Sei piuttosto testarda e imprevedibile, bambina. Colpa di un’educazione sbrigativa, shhh? Abbiamo dovuto metterci una pezza, più di una volta.» «Cosa…?» pensò la guerriera, quando una nuova serie di immagini, proiettata nella sua mente da una forza sconosciuta e invadente - la stessa che l’aveva spinta ad accorrere in soccorso di Dorian - diede una risposta a tutti i suoi dubbi inespressi.

Nahash che stordiva Tulga con un colpo alla nuca, per poi finire a colpi di pugnale il suo avversario barbaro.

Nahash che inseguiva il capo Bleda e i suoi due scagnozzi, terrorizzati. Li agguantava, li massacrava con folle gioia, gettava in un fosso i loro corpi ridotti in poltiglia.

Nahash che la pedinava fino a Verrhal, nel pieno della festa notturna. Il suo sguardo avido e impaziente, celato da una maschera e da un velo d’illusione.

«Credevamo che andassi a Nord, dopo la festa. Era quello che la bussola ti stava indicando, shhh, perché non l’hai fatto? Ti abbiamo persa…»

Nahash che si nutriva di carne umana, nelle tenebre della foresta, a due i dalla musica e dalle luci della festa.

«…e per poco non ti facevi ammazzare da quel Figlio della Notte. Avresti rovinato tutto, bambina!»

Nahash che terrorizzava il cacciatore di taglie Laban con un’orrenda visione di spettri assassini, facendolo crollare in ginocchio come un bambino impaurito.

Kyra rimase allibita. Per tutto quel tempo, per tutte quelle leghe, non era mai rimasta sola. L’Addestratore di Serpenti aveva seguito ogni suo o, l’aveva tolta d’impiccio in ogni situazione di pericolo, l’aveva guidata fino a Sostar come un invisibile pastore. Tutto ciò che non era riuscita a spiegarsi, tutti gli strani eventi accaduti lungo il cammino, ottenevano infine quell’amara risposta. Una cosa soltanto non le quadrava. «Il cervo bianco, quel giorno, cosa significava?» Dallo sguardo che le restituì, capì che Nahash non aveva compreso la domanda. Con disgusto, lo sentì infilare luridi tentacoli nella sua mente, strappandole le risposte che cercava. Il volto dell’Addestratore di Serpenti si illuminò di sorpresa. «Interessante, shhh! Un nuovo giocatore è sceso in campo, e pare che abbia preso a cuore il tuo destino. Guarda!»

Una donna, bellissima e altera, pelle d’ebano e profondi occhi celesti. Dietro di lei la casa è in fiamme. Guarda dentro la gabbia, sembra sul punto di scoppiare in lacrime. «È troppo tardi» dice una voce maschile. Due mani sulle spalle, la trascinano via. «No! Non possiamo lasciarlo!» Si scrolla le mani di dosso, corre verso la gabbia, incurante del fuoco che divora le pareti…

«Aargh!» Mondo reale. Kyra si massaggiò le tempie: odiava quelle intrusioni nella sua mente! «Chi è la donna?» «In queste lande la chiamano la Strega d’Ebano. Noi la conosciamo con un altro nome, shhh!» La guerriera cominciò a non capirci più nulla. «Cosa vuole da me?» «Non ne abbiamo idea, shhh. Lo scopriremo solo vivendo.» «Maledizione!» Kyra sferrò un calcio al suolo. «Cosa diavolo volete da me tutti quanti? Perché non mi lasciate in pace?» Nahash scrocchiò le falangi delle lunghe dita. «Non è così semplice, bambina. Avevi un compito, shhh. Avresti accettato di viaggiare insieme a noi? Avresti fatto quello che ti dicevamo?» Kyra scosse la testa con vigore. «No, mai.» «Eccoti la tua risposta, shhh!» «Mi ha manovrata, maledetto! Sapevi già come trovare Dorian, sapevi che ti avrebbe condotto a Shem!» «Ma Dorian da solo non era sufficiente, shhh. Ci serviva un diversivo più efficace, per poter agire indisturbati.» «Schifoso figlio di una…!»

«Sì, lo era, shhh, grazie di avercelo ricordato. Quando è spuntato il nostro caro fratellone testa di ferro, abbiamo temuto che il nostro piano andasse in malora. E invece sono morti entrambi, i miserabili. E voi due, ancora in piedi, shhh! Non ci speravamo, in tutta sincerità.» Neanche il tempo di completare la frase, che le pupille di Nahash si spalancarono per la sorpresa: spiccò un salto, un istante prima che il raggio rovente lo colpisse in pieno petto. Un filo di fumo saliva dal guanto candido di Dorian. «Questa è l’ultima volta che manovri me, mia figlia, o un qualsiasi essere umano» affermò, con voce gelida «Devi morire.» Era rimasto in silenzio fino ad allora, osservando lo scambio di battute tra sua figlia e il mostro, protetto dalle insensibili pareti del Luogo Oscuro. Era la seconda volta che Nahash coinvolgeva Kyra nel suo gioco mortale. Con quello, aveva firmato la propria condanna a morte. Nahash si leccò la sottile linea insanguinata che gli era sbocciata sul collo, con la lingua impossibilmente lunga. Studiò padre e figlia con occhi colmi di fredda collera. Kyra e Dorian non abbassarono lo sguardo. L’Addestratore di Serpenti si drizzò in tutta la sua altezza, la sagoma inquietante stagliata contro la luce del sole nascente. «Significa che non siamo più amici, shhh?» Kyra sollevò il braccio artificiale, come suo padre, e glielo puntò alla testa. Dorian piegò le labbra in un sorriso duro. «Tu che ne dici?»

Epilogo - Luce e Ombra

Nel buio della cella, Abel aprì gli occhi celesti, sfavillanti come schegge di cristallo. Sorrise. Il suo salvatore era quasi giunto: ora toccava a lui. Si alzò, scrollò le gambe anchilosate dal lungo tempo trascorso nella stessa posizione. Misurò le proprie forze con un rapido esame fisico e mentale, e si sentì soddisfatto. Era tempo di mettersi alla prova. Il nuovo potere, che aveva covato dentro di sé nel massimo segreto, avrebbe funzionato? O si era soltanto illuso della sua esistenza, proiettandovi false speranze di fuga? Presto avrebbe avuto le risposte. Si approssimò alla parete di roccia in fondo alla grotta, da cui filtravano sottili lame di luce provenienti dalla selva lussureggiante. Poggiò i palmi delle mani sulla superficie fredda e brulla. «Ci siamo.» Chiuse gli occhi, si concentrò. Per lunghi istanti non accadde nulla. Poi venne la luce. Una luce bianchissima, violenta, che eruttò dalle sue dita con la veemenza del magma nel cratere di un vulcano. Il mondo divenne uno specchio lucido e accecante, insopportabile alla vista persino dietro la barriera delle palpebre serrate. Sotto la punta delle dita, il calore era intollerabile. Abel si costrinse a resistere. Spinse le mani avanti, ed esse affondarono nella

roccia come se fosse burro fuso. Gridò. La luce avvampò come quella di una stella morente, bruciò e bruciò, e finalmente si affievolì. Quando ebbe recuperato il fiato, ed il coraggio di guardare avanti, il Bianco Viandante riaprì gli occhi. Gran parte della parete di dura roccia non esisteva più, si era sciolta in una massa informe attorno ai suoi piedi. «Ha funzionato!» Quasi non riusciva a crederci. «Ha funzionato e sono ancora vivo!» L’odore muschiato della corteccia, il ricco profumo dei fiori selvatici, il concerto di suoni e colori della natura, senza pareti e senza confini… Un soffio d’aria nuova sulla sua pelle sudata fu l’unico invito di cui avesse bisogno, per abbandonare una volta per tutte l’oscurità della cella. Fece un o, e fu libero, nel verde rigoglioso della Valle della Luna. Alzò lo sguardo al sole, chiuse gli occhi, e gli parve di vedere, di sentire attorno a sé un carosello di volti sorridenti, di mani amiche che lo sfioravano e lo benedicevano con il loro calore. Lo avevano perdonato. «Grazie» disse. Il resto della propria vita, l’avrebbe dedicato a meritarsi quel perdono. -----Crawl, grande Sciamano dei Figli della Notte, comandante supremo dell’unione dei barbari delle Cento Tribù, arretrò di un o e si coprì il volto come un bambino impaurito. In quel momento non gli importava nulla di mostrare debolezza dinanzi ai capi riuniti delle tribù, né di aver perso il controllo dei tremiti che lo scuotevano dalla

testa ai piedi. Due erano le sue uniche preoccupazioni: trattenere la vescica, prima di sentirla esplodere indecorosamente sotto le vesti nere, e sopravvivere alla tempesta di furia del Signore Oscuro. Fino a pochi attimi prima, Crawl stava conducendo l’assemblea dei capi con portamento regale, crogiolandosi nel loro timoroso rispetto e nella silenziosa approvazione di colui che li comandava tutti. Poi, senza preavviso, l’Oscuro aveva scosso la terra con un lamento straziante, nel quale Crawl credeva di aver distinto, storpiata dalla rabbia e dal dolore, la parola ‘fratelli’. Ed era iniziato il finimondo. Il manto tenebroso dell’Oscuro si era gonfiato in un globo vorticante di energia distruttiva, che demoliva qualunque cosa trovasse sul proprio cammino. L’urlo del vento cresceva a dismisura, e così la voracità del globo nero. Crawl inviò una silenziosa preghiera alla Madre Notte. Era così che tutto sarebbe finito? Sarebbe stato proprio il suo divino emissario a por fine una volta per tutte alle loro ambizioni di conquista, con quello scoppio di insensata brutalità? Scavò nel proprio cuore alla ricerca di un perché. «Madre, perdonami!» gridò, senza aprir bocca «Sono il tuo servo fedele, il tuo umile schiavo, il braccio obbediente che compie la tua volontà sulla terra! Risparmiami, ti imploro!» Al termine della supplica, la furia dell’Oscuro si placò - anche se Crawl ebbe il peccaminoso pensiero che non vi fosse relazione tra le due cose. Nel mezzo del villaggio sfigurato, tra pile di tende squarciate, montagne di cocci di argilla, e orrendi mucchi di corpi strozzati dalla forza delle tenebre, regnarono i lamenti e le implorazioni dei sopravvissuti. Crawl trovò il coraggio di guardare tra le dita: l’Oscuro torreggiava al centro di un circolo di totale devastazione, dove persino l’erba e le rocce erano stati strappati dalla terra incenerita. Stringeva i pugni talmente forte, che dai palmi sgorgava sangue nero denso come pece. I suoi occhi erano due pozzi bui, finestre aperte sul vuoto dell’abisso.

Lo sciamano cadde in ginocchio. Rimase immobile mentre l’Oscuro gli si faceva incontro, i i pesanti attutiti da sbuffi d’ombra. «Signore» mormorò, senza osare alzare gli occhi da terra. «Guardami» disse l’Oscuro. Crawl avvertì la carezza gelida delle dita di nebbia che gli si insinuavano sotto al mento, costringendolo ad alzare il capo, a squadrare il volto del male con occhi colmi di lacrime di terrore. «Cosa vedi?» tuonò la voce. «Mo-morte!» guaì Crawl. Un suono basso e aspro rombò nella gola dell’Oscuro. «Esistono cose peggiori della morte.» «Ci credo» pensò lo sciamano, sospeso in bilico sull’orlo della follia «Ci credo ci credo ci credo!» La mano di ghiaccio nero ebbe misericordia, lo lasciò andare. Crawl strisciò via come un verme della terra. «Mi seguirai, senza discutere, senza fermarti sino a che tutti i miei nemici affogheranno nella disperazione?» «Sì, mio signore!» gridò Crawl «Fino alla fine, e oltre! Il mio sangue e la mia anima, per te!» Il manto d’ombra dell’Oscuro si inspessì. Alzò lo sguardo allo spazio siderale e giurò sulle anime dei suoi fratelli: di quel mondo, non avrebbe lasciato che polvere e lacrime. Che uomini e donne si disperassero, che strisciassero a nascondersi negli angoli più remoti del pianeta, perché li avrebbe scovati e sterminati uno ad uno, se necessario. La vera guerra aveva inizio in quell’istante.

Quattro Chiacchiere…

Grazie per avermi accompagnato fin qui, gentile lettrice/aitante lettore! Spero sia stata una lettura gradevole e avvincente, donami cinque minuti del tuo tempo per farmi sapere che ne pensi ([email protected]). Accetto lettere ingiuriose soltanto se imbevute di fantasia, e venate di subdola crudeltà, per cui mettici un po’ di impegno!

Ne abbiamo fatta di strada, insieme, ma non è ancora finita… Continua a seguire le avventure di Kyra, Dorian e Raduan nel volume conclusivo della saga, di prossima uscita: la resa dei conti è vicina!

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e quant’altro la mia megalomania metterà a disposizione degli avidi lettori…

Baci, abbracci, e a presto! sco