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Questo romanzo è dedicato a:
mio figlio Mirko perché cresca con la giustizia nel cuore
mia moglie Rossella che mi sostiene da sempre
mio Padre e mia Madre
a tutte le persone che lottano ogni giorno contro la pedofilia
NOTA
Questa è un’opera di fantasia e ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è del tutto casuale.
PROLOGO
Albania, 2 maggio 2009
Gabriel sfruttò la porta spalancata e schizzò via nella notte nera in cerca di un rifugio. Ci sarebbe riuscito? In cuor suo sperava di sì.
Tarin Gjoka fissava l’oscurità della notte attraverso la fiamma del suo accendino mentre l’umidità delle campagne albanesi penetrava le ossa, era fermo davanti a un casolare semi abbandonato e l’unico indizio della sua presenza era dato dal puntino rosso della sua Marlboro. Sentì chiamare il suo nome e si girò nella direzione del suono, uno dei suoi sottoposti era uscito di corsa dal lato destro del casolare, attese che arrivasse davanti a lui e chiese cosa voleva. L’uomo finì di parlare, Tarin lo colpì al volto facendolo cadere in terra e scattò verso l’edificio, varcò la soglia di quello che era un vecchio fienile e torcia alla mano si mise a contare le creature ammassate in un angolo. Imprecò, ne mancava una. «Trovatelo!» gridò in albanese, «e portatelo vicino al carro abbandonato.» L’ordine mise in moto cinque uomini in nero mentre altri quattro scagnozzi tenevano sotto controllo il carico, Tarin si diresse verso la porta dalla quale era entrato e mentre usciva avvitò un silenziatore alla canna della pistola, si avvicinò al carro e attese. La sagoma del mezzo era appena visibile, nella notte, ma si capiva che era un residuato bellico della guerra che c’era stata anni prima durante la scissione della ex Jugoslavia, nessuno sapeva come fosse arrivato fin lì ma di giorno si poteva notare che era stato saccheggiato di tutto ciò che era
possibile rivendere al mercato nero. Non dovette attendere molto affinché i suoi tirapiedi trovassero e portassero il fuggiasco davanti a lui. Uno dei suoi lo spintonò obbligandolo a inginocchiarsi, aveva le mani legate, Tarin tagliò il nastro e poi chiese a uno degli uomini di prendere alcuni prigionieri e di portarli davanti al carro. Una manciata di secondi dopo un drappello di creature fu schierato a pochi metri da Gjoka. Il gruppetto non capiva la lingua degli aguzzini ma aveva imparato, in quei pochi giorni, a leggere l’espressione dei volti, a capire i gesti che il capo faceva loro; l’avevano imparato sulla loro pelle e dal dolore per le ferite subite, quando venivano costretti a spogliarsi e a farsi scattare delle fotografie come se fossero giocattoli di un catalogo, oppure se venivano torturati con degli strani oggetti. Tarin li osservò ancora per qualche secondo, poi con un gesto fece alzare il fuggiasco e lo guardò dritto negli occhi indicandogli, con un movimento della testa, di andarsene. Il prescelto si guardò intorno, girò le spalle all’uomo e iniziò ad allontanarsi a o lento come se non credesse in quel dono, eppure la distanza aumentava e nessuno lo aveva ancora fermato, prese coraggio avanzando a o più deciso verso il buio e fu così che iniziò a correre verso quella che pensava fosse la libertà. Tarin sollevò il braccio destro all’altezza della spalla, era teso come a indicare la sagoma che correva ma dalla sua mano scaturì un lampo che per una frazione di secondo illuminò i presenti, il fuggitivo barcollò, s’irrigidì e stramazzò al suolo in una posizione innaturale mentre la luce della luna piena iniziava a filtrare dalle nuvole. Gjoka fece segno di riportare gli spettatori all’interno del casolare e si avviò verso il corpo a o lento infilando la pistola nella fondina ascellare nascosta sotto il giubbotto di pelle, si fermò a pochi centimetri dalla sagoma fissandola come se potesse rialzarsi da un momento all’altro. Si trovò a pensare che in pochi giorni aveva già ucciso due bambini colpevoli solo di essere scappati al destino che lui aveva riservato loro, si domandava fino a che punto si sarebbe spinto per i soldi che riceveva dai suoi clienti, forse un giorno, quando ne avrebbe avuto abbastanza di quei porci miliardari, avrebbe dovuto eliminare tutti i suoi contatti nelle altre nazioni e soprattutto in Italia dove aveva creato una vera e propria rete di fornitori. Tarin era lì a pensare e non si era ancora accorto delle sagome che lo stavano
osservando a poche decine di metri, stava per compiersi il suo destino. E il fato non sarebbe stato meno crudele di lui.
1
Bologna, 23 aprile 2009
Il soggetto investigato (S.I.) si trovava nel suo ufficio e ci sarebbe rimasto tutto il pomeriggio, ormai l'indagine proseguiva da diverse settimane senza sviluppi ma non sarebbe stata archiviata tanto presto, almeno finché chi l'aveva commissionata era intenzionato a pagare. Davide faceva questo lavoro da diversi anni e non gli dispiaceva, in fondo poteva gestirsi gli orari, aveva una nicchia di clienti che pagava bene e si occupava molto spesso di indagini per grosse industrie che tenevano sotto controllo i propri dirigenti sospettati di comportamenti pericolosi. Molti casi avevano portato a licenziamenti eccellenti e aveva anche incastrato un politico locale che corrompeva dei piccoli industriali per lo smaltimento dei rifiuti; purtroppo i pedinamenti erano la cosa più noiosa del suo lavoro perché si protraevano per ore e ore con attese a volte snervanti, ma doveva farli per capire le abitudini dell'S.I. e per trovare delle prove. Aveva sempre con se la sua reflex con teleobiettivo pronta per lo scatto, i tempi delle pellicole ormai erano lontani e ora, con i sensori digitali molto evoluti, si potevano scattare migliaia di fotografie senza doverle sviluppare tutte per vederne il risultato. Davide Marchi aveva prestato servizio per diversi anni nell'esercito italiano, era stato in Iraq, Afganistan e nell’Ex-Jugoslavia proprio a inizio carriera. Poteva vantare un fisico asciutto e muscoloso grazie al jogging e alle arti marziali che praticava nel tempo libero. I suoi occhi nocciola erano sempre attenti a scrutare ogni movimento o dettaglio in tutto ciò che lo circondava, l'esperienza in zone di guerra gli aveva insegnato a guardarsi le spalle, a non dare niente per certo e che dietro ad ogni cosa poteva esserci molto di più. Era sposato con Sara da cinque anni, aveva lasciato l'esercito quando si era reso conto che non poteva portare avanti il progetto di una famiglia standosene in giro per il mondo, aveva visto morire troppi colleghi a causa degli attentati e molti erano giovanissimi.
Così aveva deciso di congedarsi ottenendo, in seguito, la licenza d’investigatore privato, un lavoro che gli era sempre interessato fare fin da ragazzo quando era rimasto affascinato dai film dove venivano usate tecnologie avanzatissime per fare le indagini e dove gli investigatori erano dotati di fascino, carisma ed erano sempre circondati da belle donne. Ma la realtà non era proprio così, molti investigatori si occupavano spesso di tradimenti e l'unico scopo era incastrare la moglie o il marito infedele. Lui, invece, aveva scelto una clientela di tipo diverso fatta di intrighi commerciali, multinazionali che cercavano di togliersi di mezzo dipendenti corrotti e acquisizioni sospette; questa volta però aveva fatto un strappo alla regola accettando d’indagare su un assicuratore che aveva insospettito la moglie. La donna aveva deciso il prezzo e tremila euro al mese non erano da buttare, si fidava ciecamente di lui e avrebbe continuato a pagare fino alla chiusura dell'indagine. Il problema era che fino a quel momento non aveva uno straccio di prova e voleva terminare il lavoro a fine Aprile dicendo alla signora che il marito era pulito. Eppure era incredibile, un mese di pedinamenti e non aveva indizi, non gli era mai successa una cosa del genere, stava iniziando ad arrabbiarsi e a pensare che stava facendo una pessima figura. Aprile e la sua aria mite mettevano a dura prova la permanenza in macchina per lunghi periodi al sole, così, Davide, aveva deciso di vestirsi leggero. Il pullover azzurro poteva finire sopra un sedile in caso di necessità e la sua camicia bianca avrebbe fatto il resto permettendo alla pelle di respirare un po’. Non era sicuro di aver fatto la scelta giusta indossando i suoi jeans Lee preferiti ma gli piacevano troppo per via della scampanatura un po’ anni settanta. Ogni tanto usciva e andava a fare due i per il quartiere che ormai conosceva bene, dal fioraio sotto i portici del palazzo in fondo alla strada al negozio d’intimo dalla parte opposta, agli schiamazzi dei ragazzi dell’oratorio della vicina chiesa, al bar dove pranzava tutti i giorni da un mese. D'un tratto il cellulare prese a suonare, guardò il display e vide che era sua moglie, così decise di rispondere. «Ciao tesoro è successo qualcosa?» Sara non chiamava mai quando era impegnato nei pedinamenti. «No niente volevo solo ricordarti che devi are da tua madre questa sera, cerca di non fare tardi.» «Cavoli me ne ero quasi dimenticato, fortuna che ci sei tu. Ok, allora o da lei
alle sette e poi vengo a casa. Ci sentiamo più tardi, ti amo.» chiuse la comunicazione. Marchi guardò l'orologio, era mezzogiorno e cominciava a sentire i morsi della fame, decise di andarsi a prendere un panino al bar come al solito, tanto l'S.I. non sarebbe uscito prima delle sette di sera e aveva molto tempo da are in macchina. Uscì dall’abitacolo e si diresse verso il locale, era di fronte all'edificio che teneva sotto controllo, le dimensioni erano modeste ma allo stesso tempo si mostrava accogliente con un bancone dalla forma curvilinea colorato di rosso pastello. Decise di sedersi a uno dei tavoli fuori, arrivò subito la barista e Davide scelse un panino con cotto e brie accompagnato da una birra media. Aveva notato gli occhi ramati della ragazza fin dal primo giorno, quella mattina le rotondità del seno erano messe in risalto da una camicetta rossa e Marchi, da buon osservatore, si era accorto che molto spesso lei lo guardava intensamente. L’unica nota stonata era il grembiule azzurro da barista legato ai fianchi leggermente pronunciati. Succedeva così da quando aveva ato i trentacinque anni, ogni volta che incontrava qualche donna si accorgeva di piacerle e questa cosa lo imbarazzava ma allo stesso tempo lo faceva sentire ancora giovane, era sposato e fedele, non avrebbe mai approfittato di quelle situazioni ma rimpiangeva il fatto che non fossero mai successe diversi anni prima quando ancora si faceva bloccare dalla sua timidezza, perché Marchi era intelligente, coraggioso e furbo, quanto timido. Il giornale che trovò sul tavolo riportava le ultime notizie sul sisma avvenuto in Abruzzo il 6 di Aprile, parlava di distruzione e soprattutto rabbia per gli studenti universitari morti sotto le macerie di un palazzo con problemi di manutenzione. Pensò che se fosse stato ancora nell'esercito sarebbe stato lì a dare una mano aiutando le persone che avevano perso tutto a ricominciare a vivere. Un rumore gli fece notare un tizio appoggiato al palo di un cartello stradale che picchiettava con il tallone il o in ferro. Davide fu colpito dal trench in pelle nera decisamente fuori stagione, i guanti poi erano inutili in quel periodo. Certo che se quel tizio voleva are inosservato aveva sbagliato completamente abbigliamento e Marchi era fermamente convinto di questa sua teoria. Tenne d'occhio quel tizio perché aveva un atteggiamento che non gli piaceva per niente, ormai conosceva a vista tutti gli abitanti della strada e quello non l'aveva mai visto. Marchi si fece portare il conto al tavolo e ne approfittò per fare alcune domande alla ragazza.
«Mi dica un po', quel tizio si è mai visto da queste parti?» «Non mi sembra e comunque non è della zona.» «Ha qualcosa che non mi convince.» «Mah, vede questa è una zona di aggio io ormai non mi stupisco più di nulla. Però la sera, delle volte, ho paura di andare a casa da sola.» Davide sentì il peso di una richiesta d’aiuto ma che lui non poteva offrire. «Ah capisco, grazie per l'informazione... mi scusi ma non mi ha mai detto il suo nome.» «Mi chiamo Paola.» «Io sono Davide è un piacere, se vuole possiamo darci del tu.» le strinse la mano mentre lei arrossì. «Per me va bene tanto, ormai, ti vedo qui tutti i giorni da un mese... ma che lavoro fai?» «Beh... E’ un segreto.» «Uhm, gli uomini misteriosi sono intriganti...» Paola ammiccò sorridendo «Io sto studiando psicologia, ormai sono fuori corso ma mi mancano solo quattro esami e, credimi, potrei analizzarti da cima a fondo.» «Ah sì? Sono un tipo tosto io. Quando pensi di riuscire a laurearti?» «Spero entro l’anno prossimo ma non ne sono sicura.» improvvisamente fissò il pavimento. Davide si accorse immediatamente della lacrima che precipitò in terra. «Scusa, credo di aver commesso un errore.» «Forse è meglio smettere di parlarne, ora devo tornare al bancone, è stato un piacere parlare con te. A domani.» Paola si allontanò in fretta mentre Davide si diresse verso il posto di osservazione.
Si sedette di nuovo in macchina continuando a fissare il tizio notando che componeva un numero sul cellulare. Il fatto che il contatto non fosse nella rubrica del telefono indicava che stava chiamando un estraneo, lo seguì con lo sguardo mentre si spostava lungo il marciapiede senza parlare, chiuse subito la comunicazione e Davide capì che era un segnale. Si mise a ridere e pensò di essere ormai alla frutta, stava fantasticando su un tizio che non aveva mai visto e che non c’entrava nulla con la sua indagine, ma la sua espressione cambiò improvvisamente, prese al volo la macchina fotografia e iniziò a scattare, il tizio aspettava il suo S.I. Mentre la sua mente stava lavorando freneticamente alla ricerca di risposte per l'improvvisa apparizione, seguì i movimenti dei due e si accorse che l'assicuratore stava facendo salire in auto lo straniero, Marchi si trovò a dover decidere cosa fare, poteva seguirli o approfittarne per provare a entrare nell'ufficio e indagare. Optò per la seconda possibilità e rimase a guardare i due che si allontanavano, preparò la sua attrezzatura, scese dall'auto e si avviò verso l'ingresso.
2
Il palazzo moderno di sei piani, con la facciata tinteggiata di giallo, era circondato da una recinzione molto alta in acciaio lucido. Oltreò il cancelletto pedonale e si ritrovò a seguire un vialetto di ghiaia che portava all'ingresso principale, notò un secondo viale alla sua sinistra che doveva portare a un parcheggio sotterraneo o a un garage. Mentre camminava velocemente pensò che il sistema automatico per l’irrigazione era troppo visibile e deturpava il giardino ben curato. Marchi arrivò dove erano esposte le targhette relative alle varie società presenti nel condominio e controllò a che interno doveva recarsi, notò che l’ultimo piano era interamente occupato da una società di recupero crediti, il quinto da un poliambulatorio medico mentre gli altri piani erano suddivisi in diverse attività di servizi. Al pianterreno c’era anche un locale destinato a una società di vigilanza che si trovava al pianterreno poco distante dal locale del portinaio, la targhetta sulla porta era talmente evidente che l’avrebbe vista pure un cieco. Ora c'era da dribblare proprio il portiere che lo stava già osservando, si guardò un po' intorno con fare annoiato per ingannarlo e poi mentre lo vide distrarsi si allontanò in fretta per cercare un ingresso secondario. Iniziò la ricerca dal lato sinistro dello stabile dove aveva visto il viale per le auto, seguendolo trovò uno scivolo, in parte coperto da una tettoia, che portava ad un parcheggio sotterraneo. Trovò il modo di entrare ando per l'ingresso pedonale rimasto aperto e decise che avrebbe dato meno nell'occhio usando le scale che tra l'altro scoprì essere nascoste alla vista del portinaio. Arrivò al primo piano, doveva cercare l'interno quattro, proseguì fino alla fine del corridoio e lo trovò, aveva una banale porta non blindata e, come visibile dai bigliettini gialli in terra, nella notte c'era la vigilanza. Questo giocava a suo favore soprattutto in termini di tempo, si stava cronometrando da quando l'S.I. si era allontanato ed erano ati già sette minuti, non poteva prevedere quando sarebbe rientrato l'assicuratore e quindi ogni minuto era vitale. Estrasse una tessera telefonica plastificata e la ò nella fessura tra il battente e la cornice, con movimento ormai esperto la porta si aprì e Marchi scivolò dentro
richiudendosela alle spalle. Controllò eventuali vie di fuga e constatò che poteva uscire dalla portafinestra del balcone e da lì saltare sulla tettoia del piano inferiore. Cominciò a estrarre la microcamera wireless e decise di piazzarla tra la libreria alle spalle della scrivania e il muro, aveva lo spazio giusto per nasconderla alla vista, accese il monitor remoto e la puntò per osservare lo schermo del computer, la fissò con della plastilina al muro e ricontrollò l'immagine. La tecnologia moderna era uno spettacolo, la microcamera era grande poco più di un moneta da un euro, spessa cinque millimetri era dotata di un sensibile sensore CCD coperto da una lente che consentiva di regolarne la messa a fuoco e nascosta in una fessura diventava praticamente invisibile. Controllò il cronometro, erano ati già dieci minuti e ora doveva scegliere se andarsene o provare a perquisire il locale alla ricerca di informazioni. Scartò le due ipotesi e decise di accendere il computer sperando che non fosse protetto da , fortunatamente il PC non era bloccato e si mise a vagare tra file e documenti; solo che c’era talmente tanta roba che non sapeva da che parte iniziare, ci sarebbero volute ore. Il cronometro segnava quattordici minuti e una manciata di secondi, “aveva ancora tempo?” si chiese, ma la risposta non tardò ad arrivare. Sentì una voce provenire dal corridoio esterno, si affrettò a recuperare le sue cose, spense il computer strappando e reinserendo la spina e si precipitò fuori sul balcone socchiudendo la portafinestra dietro di se. L'assicuratore era tornato in ufficio e non potendo fare altro Davide decise di scavalcare il lato destro del balcone e lasciarsi cadere sulla tettoia. Si accovacciò sotto il ballatoio nel caso che l'S.I. si fosse affacciato scoprendo la finestra aperta, arono alcuni minuti e, non vedendo nessuno, scese dalla tettoia ritrovandosi sullo scivolo che portava al parcheggio sotterraneo, risalì i pochi metri che lo separavano dal cortile e uscì dal cancello principale ritornando verso l'auto. Ora doveva solo mettersi comodo e accendere il monitor. Collegò l'uscita al Pc portatile per registrare quello che stava osservando, la stanza appariva vuota ma Davide sapeva bene che la microcamera non copriva tutta l'area. Si sentivano dei rumori provenire fuori campo e non ci mise molto a capire che doveva esserci un bagno, notò che il computer era ancora spento nonostante fossero già ati parecchi minuti e si stava chiedendo cosa stesse facendo l'assicuratore. Finalmente una figura entrò nel campo ottico della telecamera con in mano un pacchetto che appoggiò sulla scrivania e, mentre il computer eseguiva le procedure di avvio, si avvicinò alla portafinestra. Marchi sorrise pensando alla reazione della persona nello scoprirla a aperta, invece l'S.I. non si scompose, forse credeva di averla lasciata così quando se ne era andato. Intanto il computer stava completando l'avvio,
“dannato sistema operativo” pensò Marchi, stava facendo dei controlli a causa dello spegnimento avventato e ci stava mettendo una vita. Ma l’assicuratore guardava nel vuoto imbambolato e non si stava curando affatto del pc, probabilmente se Marchi fosse rimasto nella stanza non si sarebbe accorto nemmeno della sua presenza. Intanto notò dei particolari che nella fretta non aveva visto, nella parete opposta a quella dove aveva piazzato la microcamera c'era una libreria dove erano messi con precisione meticolosa diversi libri, un piccolo televisore con sotto un lettore DVD e alcune fotografie. L’arredamento era in stile moderno, curato nei particolari, con colori tenui che restituivano all’osservatore un impressione di pace e serenità. L’indagato era ancora fermo a guardare fuori come se non appartenesse più a questo mondo. La telecamera continuò a riprendere la scena per parecchi minuti, Davide era davanti al display del piccolo computer aspettando un qualche tipo di movimento ma niente, addirittura non si era presentato nessuno in quell’ufficio, “perché” pensò, “perché non arriva nessun cliente, possibile che il pomeriggio non ricevesse nessuno?”. La cosa non aveva senso e decise che doveva ritornare lì dentro per capirci qualcosa di più ma il problema era come. Si mise a vagliare diverse ipotesi, poteva fingersi un nuovo cliente interessato a stipulare una polizza oppure uno in cerca di lavoro ma in quel modo poteva farsi solo un’idea del personaggio, non di quello che esattamente faceva. La soluzione era un’altra e lo sapeva già anche se detestava doverlo ammettere. Doveva intrufolarsi nel locale di notte, lo aveva già fatto in altri casi quando non poteva infiltrarsi facendosi assumere come dipendente o non riusciva a ottenere un’amicizia con l’indagato per poi fregarlo. Il problema era legato al fatto che fosse presente una vigilanza interna e che quello che doveva fare non era legale, se veniva scoperto si sarebbe giocato la licenza, ma era un rischio che aveva corso in ato e l’aveva sempre ripagato bene, molto bene. Finalmente l'assicuratore si spostò dalla finestra, raggiunse la libreria e ne estrasse un libro sparendo di nuovo dalla scena, Marchi rimase ad aspettare altri venti o trenta minuti ma dell'uomo nessuna traccia. Dedusse allora che doveva esserci un'altra stanza dove probabilmente era presente un divano per leggere e riposarsi qualche minuto, questo lo rese nervoso, voleva osservare da subito il comportamento dell'S.I. e non voleva aver sbagliato la posizione della microcamera. Controllò l'orologio un'altra volta erano già le diciassette e si
ricordò che doveva are da sua madre per le diciannove, non aveva molto tempo e così decise di rimandare tutto a un altro giorno. Continuò ad osservare il monitor fino alle diciotto e l'indagato non rientrò più nel campo visivo del dispositivo, ogni tanto si sentivano dei rumori in lontananza ma niente di più. Era ancora in ufficio visto che la sua auto era sempre parcheggiata fuori dallo stabile, ma Davide doveva andarsene e per il momento l'indagine doveva fermarsi.
3
L’uomo in giacca e pantaloni del colore del fumo era seduto ad una scrivania sgombra da fogli e altro materiale tipico da ufficio, la usava quando aveva voglia di leggere un libro o, quando ancora gli affari andavano bene, per incontrare i clienti. Alto circa un metro e settanta, in sovrappeso come tutti quelli che vivono una vita sedentaria, Mario Baldi era un broker di assicurazioni di successo, almeno fino a due anni prima, poi arrivò il declino causato esclusivamente da se stesso. Aveva perso la voglia di imporsi con tutti i mezzi possibili nel mercato assicurativo, non aveva più stimoli nella vita e si stava allontanando persino dalla bella donna che aveva sposato; tutto per un vizio, un’ossessione che si insinuava nella sua mente da tempo e che aveva accettato come una parte di se stesso. Ed era così, aveva sempre represso quel sentimento eppure ci conviveva da quando aveva vent’anni; si era persino innamorato e sposato ma non era servito a cambiare il suo stato. Non poteva cambiarlo in nessun modo. Così, da due anni, aveva deciso di non sopprimere più quell’istinto, anzi di alimentarlo, di goderselo finché ne avesse avuto voglia. Per troppo tempo l’aveva represso. L’incontro avvenuto alcune ore prima confermava che era stato accettato in un gruppo di élite, dove altri come lui condividevano la stessa malattia; sì perché per la popolazione normale i soggetti come lui erano malati. Baldi invece era convinto di essere nel giusto, le persone che giudicavano quelli come lui non capivano la bellezza dei sentimenti che potevano provare e che erano destinati solo a pochi eletti. Come per i preti verso Dio anche lui aveva sentito la chiamata ma non si trattava
di religione. Lo straniero che aveva incontrato faceva parte di una società attiva in otto nazioni europee, Italia inclusa, che si dedicava alle adozioni dei bambini meno fortunati, uno scopo nobile, che aveva colpito fin da subito Baldi e che decise di diventarne un sostenitore. Il lavoro che dovevano svolgere gli adepti era semplice, ricevevano delle foto di alcuni bambini e dovevano contattare i futuri genitori adottivi, persone selezionate per l’amore che dimostravano verso i piccoli, e in cambio ricevevano denaro e un pacco particolare. Quando Baldi conobbe meglio quella società si rese conto che in fondo quelle creature venivano comprate ma almeno sarebbero state trattate bene e non avrebbero mai più sofferto fame e povertà; “chi se ne frega”, si diceva a ogni affare concluso, “in fondo andranno a stare meglio.” In quel momento, mentre la sua mente vagava nei ricordi, era intento a fissare il pacco che aveva lasciato sulla scrivania del computer, lo vedeva attraverso l’apertura della porta che metteva in comunicazione le due stanze; era lì che lo chiamava. Ne conosceva il contenuto, anche se era diverso ogni volta, e il genere era sempre lo stesso ma in quel momento non aveva voglia di aprirlo. Lo straniero voleva delle certezze in merito a un affare in corso e lui aveva risposto che era in contatto con una ragazzina ma era ancora presto per convincerla a incontrare qualcuno. Aveva chiesto tempo e lo aveva ottenuto. Sapeva che il gioco si era fatto più pericoloso e che quella società benevola famosa in Europa, era una facciata per altre attività poco dignitose delle quali un giorno, forse, si sarebbe pentito. Viveva tra rimorsi ed esami di coscienza da due anni e questo lo aveva portato ad abbandonare quasi completamente il lavoro, aveva comunque delle entrate copiose dall’organizzazione e la moglie, dalla quale si stava allontanando sempre di più, sembrava non accorgersi di nulla. Si alzò e vagò in cerchio per qualche minuto, poi si avvicinò alla grande finestra e si mise a guardare fuori verso il cortile della vicina chiesa. Le creature erano lì come ogni giorno, impegnate a relazionarsi tra loro con giochi più o meno violenti; tutte a portata di mano, poteva osservarle senza essere visto e fantasticare su di loro.
Alla fine non resistette, si allontanò dalla finestra e si diresse al computer, si sedette e aprì il pacco che conteneva il solito DVD. Lo inserì nel lettore, la luce verde nel frontale dell’apparecchio prese a lampeggiare freneticamente, le immagini iniziarono a scorrere a intervalli regolari davanti ai suoi occhi. Baldi iniziò il suo viaggio personale nel mondo incantato del sesso infantile, quella droga aveva il potere di eccitarlo, cosa che non avveniva più da tempo con la sua compagna, e infine di rilassarlo e far svanire tutti i suoi dubbi e i rimorsi per le azioni compiute. Lo spettacolo durò la solita mezz’ora poi copiò tutto il contenuto del disco in una cartella protetta del calcolatore e spezzò il o in quattro parti rendendolo inservibile. Quelle precauzioni gli erano state impartite dalla società segreta, ogni associato doveva rispettare in modo incondizionato ogni direttiva impartita altrimenti sarebbe finito in pasto all’opinione pubblica e forse anche peggio. Una volta entrati non si poteva più uscirne. Molto spesso pensava a come fosse stato facile, la solita ricerca in internet di contenuti particolari, un sito, poche immagini, un indirizzo di posta elettronica e il gioco era fatto. Quello che successe dopo fu solo una successione di eventi che si incastrarono alla perfezione come le tessere di un puzzle che si conosce a memoria. Aveva iniziato a frequentare una chat-line dove conobbe una persona che si proponeva come il capo del clan, il canale era segreto e l’aveva ottenuto dopo aver risposto a diverse e-mail dove gli venivano chiesti i suoi gusti sessuali e molte cose relative ai bambini. Ci fu poi un incontro dove venne messo al corrente di quello che era realmente l’organizzazione e capì che non vi era più via d’uscita, quell’istinto lasciato libero lo aveva portato a loro legandolo sempre di più al mondo parallelo della pedofilia, ma la cosa non gli dispiaceva affatto. Si svegliò dai suoi pensieri con ancora in mano il cd distrutto mentre il pc ormai era spento, si allontanò dalla scrivania gettando nel cestino i resti del o, prese l’impermeabile grigio chiaro appeso a un appendi abiti vicino all’ingresso e uscì dall’ufficio. Chiuse la porta a chiave e si avviò verso l’uscita, doveva andare a casa. Erano le diciannove, era ora di tornare a illudere la sua compagna raccontandole
dei suoi ultimi affari andati a buon fine. Non poteva immaginare di essere un sorvegliato speciale.
4
24 aprile 2009
I fiori primaverili stavano abbellendo le aiuole del giardino di casa Marchi e il sole di aprile riscaldava a dovere l’aria già alle otto del mattino. La giornata era splendida per stare all’aria aperta e Davide aveva deciso di non seguire l’indagato ma tentare di procurarsi alcune informazioni altrove. Quale informatore poteva essere migliore della donna che aveva commissionato i pedinamenti? Marchi ò l’intera notte a pensarci su, aveva avuto anche una discussione con Sara, sua moglie, che non trovava necessario andare avanti con un’indagine che sembrava non avere fine. Eppure era convinto che qualcosa gli stesse sfuggendo, era il suo istinto che si faceva sentire e di solito non sbagliava. Percorse la strada che portava da casa sua all’abitazione dell’assicuratore, come avveniva ogni mattina da alcune settimane, ma questa volta non l’avrebbe seguito. Arrivò a destinazione poco prima delle nove e rimase fuori ad aspettare, per la prima volta poteva osservare bene l’imponente villa di tre piani circondata da un muro di recinzione con mattoni a vista molto alto. Un bagliore attirò il suo sguardo verso l’ingresso chiuso da un cancello in acciaio talmente massiccio che sembrava poter schiacciare una persona, vide dei pini ergersi ai lati come imponenti colonne e altri seguire l’andamento del vialetto d’ingresso visibile tra le sbarre lucide. Cercando di misurare l’altezza degli alberi si accorse del terrazzo che dominava l’ultimo piano e poco sotto i balconcini curvilinei del primo piano. Aveva parcheggiato l’auto dal lato opposto della strada in modo che potesse controllare l’ingresso senza essere notato, uscì dal veicolo e si appoggiò alla fiancata con un giornale in mano fingendo di leggere. L’attesa non durò molto e dopo alcuni minuti l’indagato varcò il o carraio con la sua berlina per recarsi
al lavoro, Davide attese di essere superato, ripose il giornale in auto e si avviò verso il citofono dell’abitazione. Schiacciò il pulsante e attese una risposta.
5
La musica si diffondeva nel salone illuminato da un finestrone ad arco con ampi vetri, una donna sulla quarantina era in piedi vicino a una colonna piena di cd musicali intenta a sceglierne alcuni. Indossava una vestaglia di seta bianca e stava preparandosi per fare un bagno caldo, i lunghi capelli corvini scendevano delicatamente lungo la schiena fino alla vita e sembravano voler indicare le curve delineate dall’abito. Scelse quattro album di artisti diversi e inserì i dischi nel caricatore dell’impianto stereo, pigiò alcuni tasti e la musica cessò per essere sostituita da una canzone di Whitney Houston che riempì subito l’aria. La donna si spostò nel bagno dove la musica arrivava dal sistema di filodiffusione presente in tutte le stanze del piano terra, aprì il rubinetto dell’acqua calda e iniziò a preparare il necessario per rilassarsi. Le piaceva iniziare sempre la giornata in modo tranquillo, a volte sceglieva un bagno caldo, altre semplicemente il divano e la musica classica. Stava miscelando l’acqua quando il citofono strillò per annunciare qualcuno alla porta, sapeva che non poteva essere il marito appena uscito e questo l’innervosì, “perché proprio ora!” pensò. Uscì dalla stanza a o veloce per andare a rispondere. Alzò il ricevitore e il monitor si illuminò mostrandole il viso dell’ospite, un leggero sorriso le si disegnò in viso, era sorpresa e soprattutto era curiosa di conoscere il motivo della presenza dell’uomo alla sua porta. «Buon giorno signor Marchi, che sorpresa! Segua il vialetto ed entri pure la porta è aperta. Si accomodi su uno dei divani, mi ha colto impreparata sarò da lei tra cinque minuti.» il tono era cordiale. Appena riposta la cornetta corse subito in bagno a chiudere il rubinetto dell’acqua e si spostò in camera da letto alla ricerca qualcosa da indossare al
volo per l’occasione. Il diversivo le piaceva come l’affascinava l’investigatore, dal primo istante in cui l’aveva incontrato per commissionargli il lavoro era rimasta estasiata da quegli occhi nocciola sempre attenti a ogni movimento. Si era sorpresa spesso nel fare pensieri erotici su un possibile incontro romantico anche se sapeva che lui era sposato e che l’evento era quasi impossibile. Ora, però, voleva godersi quel momento particolare e si sentiva come una ragazzina al suo primo appuntamento. Trovò l’abito adatto, lo indossò in pochi secondi e si truccò in modo leggero come faceva da sempre, aveva sempre pensato che le donne pesantemente truccate non facevano altro che deturpare se stesse. Si guardò ancora un secondo allo specchio e uscì dalla stanza quasi librandosi in aria dall’eccitazione. Quel diversivo inaspettato la faceva sentire viva.
6
Davide Marchi varcò la soglia dell’ingresso e pensò di essere finito in una pianura innevata, quel marmo bianco era la fine del mondo. Si guardò intorno esaminando la stanza, era circolare anzi no, vagamente esagonale e la luce del giorno che, dall’enorme finestra ad arco, picchiava sul pavimento era quasi accecante. Tanto che non si era quasi accorto dei divani e delle poltrone in pelle mimetizzate perfettamente nell’ambiente. Nella parte bassa di un mobile altissimo si poteva notare l’impianto stereo con un caricatore di cd audio che stava diffondendo un pezzo di Whitney Houston. Davide, invece di sedersi, si avvicinò al mobile per curiosare tra le fotografie disposte in modo preciso e addirittura in ordine cronologico su di una mensola che divideva la parte ad ante superiore con la zona sottostante completamente a vista. Le fotografie mostravano la coppia in momenti felici e in posti sempre diversi, valutandole meglio si poteva notare anche che erano state quasi scattate a intervalli regolari e alternate tra montagna e mare. Ne prese una tra le mani per osservarla meglio, la cornice argentata era stata lavorata con cura ed era identica alle altre, i due coniugi sorridenti erano abbracciati ai piedi di un grande pino marino con alle spalle il mare. Davide si accorse della figura in piedi sulla diagonale destra al limite del suo campo visivo ma continuò come se niente fosse aspettandosi una reazione. Che non tardò ad arrivare. «Signor Marchi le piacciono quelle foto?» chiese la donna con tono allegro. «Beh sono molto belle ed è interessante notare che sono in ordine cronologico e alternate tra mare e montagna.» si voltò sorridendo e ammirando il contrasto dei capelli corvini lasciati cadere sulla camicetta bianca. La signora Baldi si avvicinò e Davide dovette abbassare leggermente la testa per poter guardare quegli occhi di ghiaccio, pensò che dovesse fare molta attività fisica visto il corpo longilineo e ben proporzionato. La donna si allungò verso lo
stereo e abbassò il volume della musica. Whitney Houston cantava “The Bodyguard” e senza dubbio era il pezzo ideale per l’occasione, lo pensò Marchi senza sapere che la signora Baldi era della stessa opinione. «Non le sfugge proprio niente!» esclamò «E’ una fissa di mio marito, l’ordine e la precisione prima di ogni cosa.» rise portandosi una mano davanti alla bocca. «Prego si accomodi pure.» lo invitò a sedersi su una delle due poltrone e si sedette sul divano alla sua destra. «Mi dica che cosa la porta qui, non dovrebbe essere dietro a mio marito?» fissò Marchi dritto negli occhi. «Per oggi ho fatto uno strappo alla regola e ho preferito venire a farle alcune domande, mi scusi se non l’ho avvisata prima.» «Oh si figuri! Sono sempre da sola, un diversivo ogni tanto fa piacere!» si sporse leggermente in avanti per mettere in risalto la scollatura, stava già sognando un altro tipo di diversivo. «Bene sono lieto di non darle fastidio.» Davide si sentì in difficoltà davanti alla scollatura e le rotondità del seno. «Vorrei chiederle alcune cose su suo marito e non le nascondo che l’indagine non sta affatto progredendo.» la sua espressione divenne cupa. «Che cosa significa questo?» «Che non ho alcuna prova reale su suo marito, non esce mai dall’ufficio e sembra non ricevere nessuno.» «E’ impossibile, ieri sera mi ha raccontato del suo ultimo contratto con una grande azienda del sud Italia che ci farà guadagnare parecchi soldi!» il tono era diventato teso. «Signora Baldi...» «Preferirei che lei mi chiami Rebecca.» intimò la donna. «Va bene, allora è autorizzata a chiamarmi Davide.» e riprese il filo del discorso
«Come dicevo, da quando ho iniziato l’indagine, ho visto solo ieri uscire Mario dal suo ufficio nel pomeriggio e ad attenderlo c’era un personaggio particolare sicuramente non italiano.» non aveva intenzione di raccontarle che si era introdotto nell’ufficio. «Lo conosce?» mostrò una delle foto alla donna. «Mai visto, non è uno dei suoi amici, almeno non di quelli che vengono qui a cena ogni tanto. Ha dei sospetti in merito?» «Per la verità nessuno in particolare, almeno per il momento, ma sono saliti in auto e sono ritornati una decina di minuti dopo.» «E non poteva essere un cliente perché non l’ha fatto entrare in ufficio» aggiunse Rebecca. «Esatto. Ho come la sensazione che suo marito sia impegnato in qualche altro tipo di affari.» La donna abbassò lo sguardo iniziò a tormentarsi i capelli poi si alzò e si portò davanti la finestra , voltando le spalle a Marchi. «Lei mi sta dicendo quindi che mio marito non mi sta tradendo ma forse compie azioni poco legali...», sospirò, «mi sembra così assurdo...» ritornò a sedere fissano gli occhi di Davide, «Mario è sempre stato onesto, ha vinto le sue battaglie commerciali evitando i giochi sporchi e non è facile nel suo lavoro. Tutto quello che vede qui è solo merito suo e della sua tenacia.» «Capisco Rebecca, ma non le è sembrato diverso ultimamente?» «A parte il fatto che viene sempre più tardi a casa, non ho notato comportamenti anomali, mi racconta sempre tutto e io gli credo. Pensavo che i ritardi fossero legati ad una relazione... che stupida, come ho fatto a dubitare di lui, ha sempre dimostrato di amarmi.» una lacrima le rigò il viso. «Mi scusi non volevo turbarla, pensavo che la notizia le sarebbe piaciuta» «No non è colpa sua e poi questa è gioia.» rispose Rebecca. «Ho notato che non avete bambini posso chiederle perché?»
«Purtroppo ho perso le ovaie a ventitré anni per un cancro e quando Mario mi chiese di sposarlo disse che non era importante se non potevamo avere figli, ma forse adesso le cose sarebbero diverse.» “Di male in peggio” pensò Davide, “come mi vengono certe domande?” «Che cosa intende fare per l’indagine?» la donna giocava con la fede nuziale. «Continuerò a tenere sotto controllo Mario per un altro mese e poi, se non avrò ancora prove, dovrò chiudere l’inchiesta.» «Se è una questione di soldi sono disposta a pagare di più.» «No, non è una questione di denaro, è che sono abituato a chiudere le indagini in fretta e secondo me suo marito non ha un’altra donna» si alzò «ora devo andare a tenere sotto controllo Mario, le farò sapere.» «Allora mi aspetto che venga nuovamente a trovarmi.» in cuor suo Rebecca desiderava che restasse ancora. «Certamente.» sorrise Davide «Appena avrò novità, arrivederci e buona giornata». Uscì dalla casa e si accorse che Rebecca era rimasta sull’uscio ad osservarlo finché non si era richiuso il pesante cancello dietro le spalle, salì in macchina e se ne andò.
7
Rebecca rimase ancora un paio di minuti sull’uscio pensando alle parole di Marchi, “Mario non ha una relazione con un’altra donna, sono stata una stupida!”, quella frase le rimbalzava nella testa. Decise che la sera avrebbe parlato con l’uomo per capire su che cosa stesse lavorando e per rendersi conto se l’investigatore aveva visto giusto. Chiuse la porta e ritornò in camera da letto per spogliarsi e prepararsi per il bagno. Si soffermò a guardarsi allo specchio, il corpo longilineo sottolineava il tempo dedicato all’esercizio fisico e soprattutto non le faceva mostrare la sua vera età, all’occhio altrui sembrava avere, sicuramente, meno di quarantacinque anni e questo le piaceva. La sua personale lotta contro l’avanzare degli anni dava i suoi frutti ma rispetto alle sue amiche, Rebecca, aveva scelto la via salutare della ginnastica e dell’alimentazione corretta al posto del bisturi e del chirurgo plastico. Poteva permettersi tutti ritocchi che avesse desiderato ma le ripugnava l’idea di mettere in mostra un corpo che non era il suo. “Mario non mi tradisce” risuonava ancora quel pensiero, eppure lei ne aveva avuto la certezza fino a dieci minuti prima e aveva persino cominciato a fare pensieri su un altro uomo. Era questo che l’aveva turbata, il fatto che pensasse già a un sostituto. Nel frattempo la musica di Whitney Houston aveva lasciato il posto ai Dire Straits, la donna entrò nel bagno, la vasca era pronta, Rebecca lasciò cadere in terra l’asciugamano che le ricopriva il corpo e si immerse nel liquido caldo. Un’ondata di piacere invase il suo corpo.
8
Il telefono cellulare emise un timido bip, il display si accese lampeggiando per alcuni secondi e la vibrazione lo fece ruotare su se stesso, una mano molto curata si allungò per afferrarlo. Era un SMS. Il testo sul display diceva di incontrarsi entro mezz’ora al bar Laguna Blu per ricevere nuove istruzioni, “ma quali nuove istruzioni?” pensò il destinatario, “è ancora in città, di solito non resta più di un giorno, che vuole da me ancora?” Il bar citato nel messaggio era dall’altra parte della strada e Baldi sapeva che poteva lasciar are alcuni minuti prima di uscire e incontrare l’uomo del messaggio. Si stupiva della presenza prolungata del tizio in città, non era mai successo da quando lo aveva conosciuto e lo incontrava sempre e solo una volta al mese per ricevere il proprio compenso. Decise che poteva uscire solo in camicia tanto la giornata era calda, recuperò la sua ventiquattrore, infilò il cellulare in tasca e lasciò l’ufficio. Attese l’arrivo dell’ascensore rileggendo mentalmente l’SMS e continuava a non capirne il significato; uscì dallo stabile salutando il portinaio avviandosi verso il aggio pedonale. Attraversò la strada ando dietro una fiat seicento in cui un uomo era intento a trafficare con un cellulare, “ridicolo” pensò “non saper usare un cellulare è veramente ridicolo”, aprì la porta ed entrò nel bar. Il contatto lo stava già aspettando, era vestito come il giorno precedente.
9
Davide stava osservando il monitor remoto quando vide l’uomo dal trench nero, lo seguì con lo sguardo mentre nascondeva in fretta l’attrezzatura sotto il sedile della seicento, ò accanto al suo finestrino e gli mise i brividi, aveva un’espressione feroce. L’osservò entrare nel bar a o spedito e sedersi a un tavolo nella zona delle vetrate, allo stesso tempo notò Baldi attraversare la strada e are dietro la vettura. Decise di seguirli nel locale, prese da una valigetta un microfono miniaturizzato e una piccola radiolina FM che sintonizzò con precisione, per completare l’operazione occorsero pochi secondi ma a Davide sembrarono un’eternità. La radio aveva la capacità di registrare per un tempo massimo di quattro ore su un o digitale di tipo SD (secure digital) molto usato per le fotocamere digitali. Ora doveva trovare il modo di far arrivare il microfono il più vicino possibile ai due uomini ma aveva già in mente come fare e la cameriera del bar non avrebbe avuto problemi nel dargli una mano. Scese dalla vettura e si avviò deciso verso il locale, aprì la porta e si guardò intorno alla ricerca di un tavolo in una posizione che non destasse troppi sospetti. Intanto la barista lo aveva già salutato con un largo sorriso. Sedendosi gli balenò in testa l’idea di posizionare il radiomicrofono miniaturizzato in un porta tovaglioli di carta. Ne prese uno da un altro tavolo e lo svuotò completamente, adagiò sul fondo del contenitore il piccolo apparecchio e lo riempì di nuovo di tovaglioli, si infilò le cuffie e constatò che la ricezione era perfetta. Fece un cenno con una mano e Paola arrivò subito da lui. «Ciao, di nuovo qua?»
«Beh ho una sete impressionante sarà stato il panino con la porchetta che mi hai preparato un paio d’ore fa.» «Eh si era bello carico.» ammiccò gioiosa. «Mi porti una birra per favore?» chiese Davide. «Vuoi la solita?» «Sì e poi dovrei chiederti un favore un po’ particolare.» Paola arrossì, «Di che genere di favore hai bisogno?» «Potresti portare questo sul tavolo vicino a quello dove sono seduti quei due la?» indicò il posto con un leggero cenno del capo. «Perché ti interessano quei due?» chiese facendo finta di scrivere sul taccuino. «Non potrei dirtelo però mi fido di te, mi interessa il tizio col trench nero, è un sospetto spacciatore di un nuovo tipo di droga molto pericolosa.» Davide non poteva raccontare la verità alla ragazza perché forse conosceva Baldi, in questo modo invece avrebbe ottenuto una collaborazione involontaria. «Uhm... Allora sei un poliziotto...» «Non posso dirti nulla. Il problema reale è che la vendono ai ragazzini nelle discoteche di quasi tutta l’Italia.» «Uhm però l’altro lo conosco, è l’assicuratore che lavora nel palazzo qui di fronte. Che strano, possibile che sia coinvolto con la droga?» «Dell’altro non so niente.» Davide si concentrò sui due poi riprese il discorso, «Ascoltami bene, non devi farti notare quando scambi i due porta tovaglioli, in questo c’è un microfono miniaturizzato col quale devo ascoltare cosa si dicono.» «Ok, ho capito. Starò attenta a come mi muovo.» raccolse l’oggetto e si avviò verso il tavolo ricordandosi di non aver ancora chiesto ai due cosa volessero bere e questo le venne utile.
Si avvicinò con fare disinvolto appoggiò il porta tovaglioli nel posto indicatole da Marchi e rivolse un delicato sorriso ai due chiedendo se volessero ordinare qualcosa. Si accorse che l’uomo con il trench la guardava in modo particolarmente duro ma allo stesso tempo la stava spogliando con lo sguardo e si sentì a disagio. L’altro chiese un caffè corretto con grappa mentre il primo si limitò semplicemente a farle un segno eloquentemente chiaro: “vattene”. Paola scrisse l’ordinazione sul blocco, recuperò al volo l’altro contenitore di tovaglioli e se ne andò, sembrava che i due non si fossero accorti dello scambio quando si sentì richiamare; la voce parlava un italiano stentato con un accento dell’est. Si voltò lentamente, incrociò lo sguardo dello straniero che le chiese di aggiungere all’ordinazione una vodka non aromatizzata e senza troppi giri di parole le chiese se voleva fare sesso con lui quando staccava. Paola lo guardò in modo minaccioso e lui si mise a ridere di gusto per la bravata appena compiuta. Portò prima la birra all’investigatore e poi il resto ai due uomini seduti davanti alla vetrata principale, lo straniero le rifece la stessa domanda e a quel punto lei lo mandò a quel paese. I due ripresero la discussione. «Ho già detto che ancora non è pronta.» disse Baldi con apprensione. «Io ti paga, non interessa me di tuoi problemi, quando voglio merce ottengo merce.» era un lupo pronto a sbranare qualcuno. «Devo lavorarci ancora un po’, non si fida totalmente di me.» Lo straniero alzò le spalle, «Me non importa tuoi problemi, merce deve essere pronta prima possibile» «Ma allora non mi vuoi capire!» Baldi alzò la voce.
«Abbassa voce idiota» lo fulminò con uno sguardo, «tu sapeva cosa succede quando aderisci a nostra società, noi diamo soldi, grano, tu dai merce in tempo quando richiesto. Chiaro?» «Ma gli accordi erano...» Baldi s’interruppe vedendo are Paola poco distante. «Ehi!» strillò lo straniero, «donna porta tuo sedere qua!» “Questo me le ha proprio rotte, ma che cosa vuole ancora!” pensò mentre si spostava al tavolo. «Un’altra Vodka e subito!» “Che stronzo!” il pensiero si sostituì alle parole. Pochi secondi dopo la ragazza era di nuovo lì con un altro bicchiere, lo appoggiò con decisione sul piano e una mano le afferrò il polso in una morsa potente. «Ehi lasciami, mi fai male!» «Allora tu esce con me stasera? Io bravo a letto, meglio di italiani.» l’uomo la guardò dritto negli occhi. «Non pensarci nemmeno e lasciami il braccio!» «Voi italiane solo volgari puttane.» il tono era minaccioso. La mano destra di Paola partì nel più classico degli automatismi di difesa e si schiantò sulla guancia destra dello straniero, ma il polso non si liberò e la donna si ritrovò con il viso a pochi centimetri da quello dell’uomo. Marchi, che era seduto a guardare la scena, scattò in piedi e si avvicinò alla ragazza tenendo sempre lo sguardo fisso sul prepotente. «Lasciala subito.» «Oh cos’è tuo fidanzato?» rispose l’altro con ironia. Davide non rispose e fece partire un destro sul fianco scoperto.
L’uomo imprecò lasciando la presa sulla ragazza, Marchi notò un movimento quasi impercettibile ma pericoloso e anticipò l’avversario assestandogli un altro destro ma in pieno volto. Lo straniero barcollò cadendo sul tavolo mentre Baldi si era rifugiato contro il vetro poco distante, Marchi tirò il tizio per il bavero del trench e lo buttò in terra. «Adesso o te ne vai subito o ti faccio a pezzi, chiaro?» «Tu non sa chi sono io!» il disprezzo riempiva lo sguardo, «attento prima o poi tu paga per questo!» si alzò fissando Davide come un lupo fa con la preda. Nel frattempo Marchi continuò a tenere sotto controllo le mani dello straniero pronto a cogliere ogni singolo movimento sospetto ma l’altro decise che era meglio andarsene. «Non finisce qui» poi guardò Baldi «mi farò sentire io.» e si avviò velocemente verso la porta. Baldi si scusò per l’accaduto, pagò il conto e se ne andò. «Tutto a posto?» chiese Davide mentre recuperava la sua attrezzatura. «Si tutto a posto grazie, quello è un vero bastardo!» «Non ho scoperto molto, purtroppo, ma non potevo restare a guardare. Tieni questo è il mio numero, se si dovesse ripresentare chiamami subito.» «Così ora so chi sei, un investigatore privato, un affascinante investigatore privato.» gli occhi ramati emanavano una luce nuova. “Non farti strane idee” pensò Davide poi la guardò negli occhi «Ascoltami bene, deve restare un segreto tra noi due, quando mi vedi nel bar o fuori sono un tuo amico, sono sotto copertura e non posso permettermi errori.» «Ho capito, non ne parlerò con nessuno. Nemmeno con mio padre.» la ragazza infilò il biglietto in tasca. «Che mi dici invece dell’altro, come hai detto che si chiama?»
«Mah, che dire, fino a un paio di anni fa era un frequentatore assiduo del bar, poi sempre meno. Veniva a offrire da bere ai suoi clienti quando concludeva ottimi affari, così diceva. Si chiama Baldi, il nome non lo so. Comunque so che ha un mucchio di soldi e una moglie bellissima, l’ho vista solo un paio di volte.» «Di più non riesci a dirmi? Che so voci di corridoio, magari di qualche cliente che lo conosce?» La ragazza si portò l’indice della mano destra sul labbro inferiore con fare pensieroso, «No non mi viene in mente niente, ma se vuoi posso farti parlare con mio padre.» «No, lascia stare tanto quel tizio non mi interessa. Grazie comunque.» Davide finì la birra e pagò. «Ciao, ci vediamo.» Paola rispose con un cenno mentre lavava il bicchiere. Marchi salì in macchina e riaccese il monitor per vedere cosa stesse facendo l’assicuratore, che, come al solito, doveva essere nell’altra stanza. Decise che c’era una sola via d’uscita, detestava doverlo fare, ma l’unica era entrare di nuovo in quell’ufficio ma di notte, quando avrebbe avuto molto più tempo per indagare. E lo avrebbe fatto la sera stessa.
10
Nel tragitto per tornare a casa, Davide, continuò a ripensare a quello che era successo quel giorno e in quelli precedenti. Aveva capito che Baldi conduceva affari poco chiari con il tizio dell’est ma non riusciva ad immaginare quali. “Il lavoro di assicuratore era solo una copertura?” continuava a domandarsi, “Possibile che la moglie non sapesse nulla?”. C’erano troppe cose non chiare. Ma il problema in quel momento era un altro, far digerire a sua moglie l'uscita imprevista di quella notte. Entrò con l'auto nel vialetto di casa e la infilò nel garage accanto alla villetta attendendo che la porta automatica si richiudesse completamente, la sicurezza non era mai troppa e da qualche anno le villette erano prese d'assalto da ladri organizzati provenienti spesso dai paesi dell'est. Aveva persino obbligato sua moglie a prendere il porto d'armi e a tenere a portata di mano una rivoltella, ma sperava che non dovesse mai averne bisogno perché sapeva che cosa si prova la prima volta che si spara a qualcuno. Entrò in casa ando dalla porta interna del garage, salutò Sara con un abbraccio e un bacio come faceva ormai da quando la conosceva, compreso il matrimonio stavano insieme già da quindici anni. Si ricordava bene il giorno del loro primo incontro in un pub del centro, lui era appena ritornato in Italia da una missione e quella sera aveva deciso di uscire un po’ con degli amici. Per qualche motivo sconosciuto si era voltato verso l’ingresso del locale nello stesso istante in cui due occhi trasparenti come l’acqua lo fissarono. La biondina sorrise aggiustandosi l’abito e Marchi si estasiò seguendo la silhouette disegnata dal vestito. Si avvicinò al tavolo, che lei condivideva con altre ragazze, invitandola a bere qualcosa sperando che non rifiutasse e arono due ore in cui lui le raccontò del suo lavoro da militare e del fatto che era sempre lontano da casa. Lei in compenso parlò dei suoi studi di veterinaria, che le sarebbe piaciuto aprire un suo studio e dedicarsi ai cavalli. A fine serata si scambiarono i numeri di
telefono con la promessa di risentirsi, Davide era stato benissimo insieme a Sara e il giorno dopo non resistette nel chiamarla. Uscirono ancora insieme e in appena una settimana decisero di formare una coppia per conoscersi meglio. Davide qualche giorno dopo ritornò in missione e rimase lontano dall’Italia per tre mesi, quella lontananza non fece altro che rafforzare il loro rapporto e così si fidanzarono. Si capivano al volo spesso senza neanche aprire bocca e difficilmente litigavano per motivi futili. Dopo otto anni di fidanzamento decisero di fare il grande o e allo stesso tempo lui lasciò l’esercito italiano. Il profumo del pollo arrosto aveva invaso la casa, Davide accompagnò il boccone con un sorso di vino, un rosso rubino di una cantina locale. Stavano discutendo sulle ferie estive quando Davide decise di spiegarle che sarebbe dovuto uscire per l'indagine e che sarebbe tornato tardi. «Ci sono dei problemi con questo lavoro?» chiese Sara «Non segui mai gli indagati di sera a meno che non ci sia sotto qualcosa di grosso.» «Oggi il tizio ha incontrato una persona molto sospetta e per di più era sicuramente dell'est europeo.» «E pensi che questa sera si incontrino nuovamente?» «No, questa sera voglio entrare nell'ufficio per fare delle verifiche. Ieri pomeriggio sono riuscito a introdurmi senza difficoltà e ho piazzato una microcamera.» «Lo sai che non mi piace quando fai queste cose, se ti trovano dentro finisci nei guai!» «Purtroppo non posso farne a meno questa volta.» rispose Davide sconsolato «Non aspettarmi sveglia.» L’investigatore si alzò dalla tavola e si diresse nel suo studio dove mise insieme l'attrezzatura per il lavoro che avrebbe svolto. Recuperò la sua beretta dal cassettino con doppio fondo della scrivania, mise in uno zainetto mimetico nero il amontagna, i guanti, una torcia, la macchina fotografica e vari attrezzi da scasso. Si infilò la tuta mimetica che usava nelle partite di soft air, salutò Sara e uscì di casa prendendo la moto al posto dell'auto. Col naso al cielo cercò la via lattea nella notte senza luna, ma l’inquinamento
luminoso gli non permetteva di distinguere nulla tranne l’orsa maggiore. “Chissà se nella nostra galassia esisterà un pianeta senza guerre”, pensò, “e noi umani smetteremo mai di tentare di annientarci?” Non era il momento per simili pensieri, accese la moto e si avviò verso la sua destinazione finale percorrendo la strada che lo separava dall'ufficio dell'S.I. con molta tranquillità, con tutta la notte davanti era inutile correre. Arrivò in prossimità del cancello principale dell'edificio che, come si aspettava, era chiuso. Decise di svoltare in una delle vie laterali alla ricerca di un posto dove nascondere la moto e scavalcare la recinzione senza essere visto. Scoprì una piazzola nascosta da una siepe, il posto era perfetto. Scese dal mezzo, recuperò lo zaino e lo aggiustò sulla schiena, prese la sua Beretta 98 stock e la applicò alla fondina da caviglia. Era il suo portafortuna e la compagna di avventure, quell'arma lo aveva salvato almeno un paio di volte sul campo di battaglia quando il fucile d'assalto non aveva più munizioni. Si diresse verso la recinzione dello stabile in cerca di un punto dove scavalcare senza essere notato. Lo trovò dal lato opposto all'ingresso principale in una zona buia, con un salto si aggrappò alla recinzione e si arrampicò fino alla sommità lasciandosi cadere dall'altro lato. Era dentro e restò in attesa per essere sicuro che non ci fosse nessuno nei paraggi.
11
L’uomo in divisa blu scuro con contrassegni arancioni sul petto svoltò l’angolo del palazzo puntando la torcia verso i cespugli e la rete di recinzione. Il turno di notte era di una noia mortale, difficilmente accadeva qualcosa di interessante a parte qualche gatto che si infilava nei cespugli. L’uomo voltò ancora l’angolo e si trovò a percorrere il lato lungo posteriore dell’edificio a pianta rettangolare, doveva arrivare davanti all’ingresso principale e poi invertire il giro. I cespugli sembravano tutti uguali e le ombre generate dall’illuminazione apparivano come polipi dai lunghi tentacoli. Procedeva con calma ando in rassegna ogni angolo del parco interno con la sua torcia, aveva l’obbligo di non allontanarsi dall’area illuminata e se veniva insospettito da qualcosa doveva chiamare l’altro collega e i carabinieri. Valerio lavorava in quell’istituto da due anni, aveva fatto diversi lavori da precario prima di ottenere un contratto fisso e non intendeva farsi licenziare o riprendere per aver fatto il suo lavoro troppo in fretta. Arrivò alla fine del muro, svoltò l’angolo iniziando a percorrere l’ultimo tratto di strada che lo avrebbe riportato all’ingresso principale dello stabile, in quella zona l’illuminazione scarseggiava per la presenza di una strada laterale con degli alberi ad alto fusto e l’idiota che aveva progettato lo stabile non aveva pensato a un sistema di illuminazione di quella parte del parco. Un rumore lo incuriosì e puntò la torcia nella direzione del suono. Il cerchio luminoso danzò lungo la recinzione, poi si spostò sull’erba e saltellò sui cespugli ma non trovò nulla, “Bah sarà stato un gatto.” pensò incurante della sagoma che lo stava osservando nell’ombra.
12
Marchi si accovacciò dietro un cespuglio e rimase in attesa, da lì poteva osservare buona parte dell'ingresso principale che si trovava alla sua sinistra e il lato destro dell'edificio fino al punto dal quale era entrato, dopo alcuni secondi emerse una figura dal fondo dello stabile, gli veniva in contro. Una luce lo investì spegnendosi quasi istantaneamente quando il tizio della vigilanza superò il rifugio improvvisato. Davide uscì dal cespuglio e si portò vicino all'ingresso principale che, come aveva notato all'arrivo, non era molto illuminato. Provò ad aprire la porta, come ipotizzava era aperta, dentro sicuramente avrebbe potuto trovare anche altri vigilanti ma in quel momento decise di non preoccuparsene, si infilò nel box del portinaio e rimase fermo nell'ombra ad aspettare l'ennesimo aggio dell'uomo all'esterno. Alla prima occasione raggiunse le scale immerse nella penombra salendo con cautela fino al pian superiore, osservò il corridoio parzialmente illuminato da piccoli faretti incastonati nel soffitto. Diventò tutt’uno con l’ombra ai lati del aggio e avanzò verso l’ufficio di Baldi. Improvvisamente si bloccò appiattendosi il più possibile nell’oscurità, quel rumore gli era familiare e lo riportò indietro nel tempo. Proveniva della scale, ne era sicuro. La ricetrasmittente gracchiò di nuovo e ora riusciva a capire le parole. «Non capisco, che c'è di strano Valerio? o» «Forse abbiamo un intruso, ho trovato delle foglie qui all'ingresso principale che non c'erano quando sono ato prima. o.» «Le avrà portate il vento, non trovi? o.» «No, non è forte abbastanza per trascinarle qui, entro nell'atrio a verificare, o.»
«Ok, devo scendere a piano terra? o.» «No, me la cavo da solo, chiudo.» Marchi guardò verso il pianerottolo delle scale e vide un oggetto scuro dalla forma inconfondibile. Era certamente una foglia. Un uomo spuntò dal buio e la vide, si fermò un attimo a pensare, poi estrasse la radio e aprì la comunicazione. «Valerio ne ho trovata una anche qui al primo piano, o.» «Ok allora vengo lì, qua non c'è nessuno, chiudo.» La guardia riattaccò la trasmittente alla cintura ed estrasse la pistola avviandosi verso Marchi. Davide estrasse lo storditore elettronico ma doveva creare un diversivo per far girare di spalle il vigilante. Prese il mazzo di chiavi che aveva in una tasca laterale dello zainetto e lo lanciò in direzione dell'uomo sperando di aver calcolato bene la forza, l'oggetto ò sopra la testa del guardiano per ricadere poco più avanti. L'uomo si girò di scatto e Marchi non perse neanche un secondo, gli si avventò contro e lo stordì con una scarica elettrica, osservò il corpo in terra scosso dai tremori, raccolse le chiavi e si diresse correndo in fondo al corridoio, doveva aprire la porta prima che l'altro vigilante salisse al primo piano. S’infilò i guanti in lattice e provò con la tesserina che aveva usato la prima volta ma non era sufficiente, la porta era chiusa a chiave e quindi decise di provare con i suoi attrezzi da scasso. Lavorava guardando in continuazione verso la scala, la serratura scattò e la porta si aprì, in quel momento apparve dalla scala l'altro vigilante. Marchi allora decise che doveva mettere fuori combattimento anche quest'ultimo, rimase nell'ombra fuori dall'ufficio, allungò il braccio nel tentativo di trovare l'interruttore della luce e ci riuscì, il varco divenne luminoso e l’uomo che stava componendo un numero sul telefono cellulare, estrasse la sua pistola e rimise il telefono in tasca. «Fermo dove sei!» gridò «E non si farà male nessuno!» Il vigilante si avviò velocemente verso l’ingresso con l’arma spianata, varcò la
soglia e non vedendo nessuno si bloccò subito oltre, Marchi, che era ancora nel corridoio, lo stordì con una scarica elettrica, gli sfilò i lacci degli anfibi e lo legò mani e piedi. Se lo caricò in spalla e lo depose in un lato scuro del pianerottolo della scala, fece lo stesso con l'altro, trovò del nastro adesivo da imballaggi nella guardiola del portinaio e l’usò per tappare la bocca ai due uomini in modo che non potessero gridare. Si avviò con calma verso l'ufficio e si richiuse la porta alle spalle. Spense la luce e accese la sua torcia dirigendosi verso il computer, sentiva in circolo l’adrenalina ed era molto tempo che non succedeva, i battiti accelerati, i sensi attivati al massimo della loro efficienza, era dai tempi delle missioni speciali dell’esercito che non provava quella sensazione e un po’ gli piaceva. Quando aveva scelto di servire la patria pensava di diventare come gli eroi dei film, di essere freddo come una macchina, coraggioso e sprezzante del pericolo e di essere sempre dalla parte dei giusti. Presto però aveva imparato a confrontarsi con la paura e averne rispetto, essa lo accompagnava in molte missioni ed era per questo che si era sempre salvato. Perché quel sentimento ti fa pensare prima di agire e non è un limite, aguzza i sensi e fa emergere l’istinto. Marchi aveva imparato ad ascoltare il suo istinto e a sfruttarlo, aveva capito che il coraggio può diventare imprudenza e aveva visto diversi commilitoni pagarne il prezzo. Si ritrovò nuovamente a vagare nei ricordi del ato, la verità era che quella vita gli piaceva, non era stato facile decidere di smettere ma aveva dovuto farlo per quel rapporto creato con Sara e per non farla diventare , prima o poi, una giovane vedova. Si avvicinò alla libreria dove aveva collocato la microcamera, la staccò ripulendo il muro dai residui del collante, l'indomani sarebbero arrivate sicuramente le forze dell'ordine a perquisire i locali. Fece vagare la luce della torcia intorno a se mentre accendeva il computer e decise intanto di andare a vedere che cosa c'era nell’altra stanza. Varcò la soglia e percorse il perimetro della stanza, col fascio di luce, vide che c'era un'altra scrivania senza computer, un divano a tre posti in pelle bianca, un tavolino in vetro che lo separava da un secondo divano identico e un armadio. Vide anche un’altra porta in fondo alla stanza. Forse era il bagno.
Aprì l'armadio con la speranza di trovare qualche cosa di interessante ma c'erano solo raccoglitori legati all'attività dell’assicuratore, erano messi in ordine di anno e divisi in trimestri. Partì a consultare quello relativo al primo trimestre dell'anno in corso ma vide che conteneva pochi fogli, magari l'assicuratore non aveva ancora archiviato nulla del nuovo anno e provò con il precedente. Anche questi contenevano poco, la cosa cominciava a puzzare e Marchi non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che l'S.I. avesse delle risorse finanziarie abbastanza copiose, con la moglie che aveva a disposizione un conto corrente personale apparentemente senza limiti. Trovò la risposta nei successivi, nel duemilaotto i contratti erano diminuiti parecchio e addirittura nei primi tre mesi del duemilanove si erano ridotti ad una decina. Il pc, intanto, si era avviato, Davide guardò l'orologio e vide che erano ati appena venti minuti, si ricordò che il sistema non era protetto da . Iniziò a controllare ogni cartella sul desktop senza trovare file interessanti, ma una ricerca approfondita avrebbe richiesto troppo tempo. Doveva trovare un altro modo e mentre pensava al da farsi aprì il gestore di e-mail scoprendo che era protetto da , mentre continuava a perlustrare il computer trovò una cartella compressa chiamata “Father Hand” provò ad aprirla ma era criptata e questa situazione lo insospettì. Decise di copiarla su una pendrive, ci avrebbe lavorato a casa con l’aiuto di qualche esperto. Purtroppo aveva solo delle conoscenze basilari di informatica e quello non era il suo pane, continuò a frugare nel sistema ma senza successo. Ben ventidue giga byte, un file così grosso era un vero mistero. L’indagine era ad un punto morto, non sapeva chi fosse l’uomo dell’est, non sapeva che traffici avesse col suo indagato e non aveva uno straccio di prova concreta da poter analizzare. Il recupero dei dati da quella cartella era difficile, lo sapeva bene. Tutto pulito, tutto immacolato, eppure qualcosa doveva esserci.
13
Rebecca sorrideva come non faceva più da diverse settimane, visibilmente rilassata stava gustando insieme al marito la cenetta preparata per buona parte del pomeriggio. La crosta annerita sul bordo della lasagna era invitante e Baldi l’adorava, osservò il colore del vino illuminato dalla fiamma della candela bianca accesa a centro tavola. Era un appuntamento come il primo con Rebecca avvenuto molti anni prima e dall’altra parte della fiamma c’era una donna che non aveva mai smesso di stargli accanto. «Come mai questa sorpresa?» «Perché non sei contento?» rispose Rebecca in tono malizioso. «Si mi fa piacere, era da un po’ che non succedeva.» «Allora non mi devi raccontare nulla?» chiese lei versandosi del vino. «Mah... che ne so, ah sì forse ho concluso un buon affare oggi pomeriggio e se va in porto arriveranno dei bei soldini.» «Non ti vedo molto convinto.» replicò Rebecca fissandolo negli occhi. «Beh, è un periodo un po’ calmo per il settore assicurativo, speriamo che non duri troppo.» si era accorto di non essere convincente e fissò il bicchiere ancora pieno. «Se serve mi cerco un lavoro.» «No, lo sai che non voglio. Devi curare la nostra casa come hai sempre fatto fino ad oggi, non siamo ancora messi così male.»
Rebecca aveva smesso di lavorare dopo il matrimonio e tutto quello che riguardava la manutenzione della villa, le modifiche, le pulizie e la gestione economica erano di sua competenza. Le piaceva molto farlo e in quel modo sentiva la casa essere parte di sé, la viveva tutto il giorno, poteva girarla al buio senza inciampare né sbattere contro un muro e poi ogni ospite che la visitava aveva la sensazione che fosse molto vivibile. «Cosa facciamo questo week end?» chiese Rebecca. «Non ne ho idea ma si potrebbe uscire all’aria aperta, le previsioni del tempo promettono sole e ormai è primavera.» «Mi piacerebbe andare al mare.» «Va bene, chiamo il mio amico a Rimini e mi faccio assegnare la junior suite del suo albergo. Tanto è quasi sempre libera.» si alzò per raggiungere il telefono. Rebecca iniziò a sistemare la tavola, mise piatti, bicchieri e posate sporchi nella lavastoviglie, selezionò il programma per i carichi leggeri e si avviò verso la camera da letto. Mario, intanto, aveva finito di parlare col suo amico che era stato felice di potergli dare la suite richiesta, non si vedevano da un paio di anni e sarebbe stata una bella occasione per chiacchierare un po’ della vita. Ritornò nella sala da pranzo e non trovandoci Rebecca la chiamò. «Sono in camera tesoro!» Mario diede le solite quattro mandate alla serratura della porta blindata, controllò che tutte le persiane fossero chiuse e raggiunse la compagna. Un girocollo in perle era sospeso in aria mentre Mario varcava la soglia della camera da letto, era quello che aveva regalato a Rebecca per i dieci anni di matrimonio. Ammirò il corpo longilineo della sua compagna di vita e la sua mente formulo un desiderio. Rebecca si voltò e lasciò cadere la vestaglia in terra, indossava un reggiseno rosa a balconcino e un perizoma dello stesso colore. Mario rimase a bocca aperta per lo stupore, lei si avvicinò e cominciò a sbottonargli la camicia senza fretta iniziando dall’alto verso il basso.
«Ho programmi speciali questa sera per noi due, lascia fare a me.» disse quasi sottovoce in modo sensuale. Sganciò l’ultimo bottone della camicia e fece in modo che Mario se la sfilasse di dosso, poi ò al bottone del pantalone e l’uomo si lasciò andare. Spensero la luce e si abbandonarono alla ione.
14
Due ore erano volate via come il vento e Davide era ancora intento a frugare all’interno dell’ufficio nella speranza di trovare qualcosa, in quel momento era nella seconda stanza dove aveva controllato i fascicoli dei contratti. Girò intorno alla scrivania vuota e iniziò ad estrarre i libri dallo scaffale per verificare se ci fossero foglietti nascosti tra le pagine, tutto ciò che toccava lo rimetteva esattamente com’era. Esaminò tutti i libri uno ad uno e impiegò quasi un’ora senza trovare nulla, ò allora agli oggetti appoggiati sulle varie mensole perfettamente allineati e addirittura alla stessa distanza. Aveva già notato questa forma maniacale anche in casa di Baldi quella mattina ed era rimasto colpito dalla disposizione meticolosa delle fotografie. Il suo orologio segnava l’una di notte, non sapeva se i due vigilanti ricevessero il cambio e quindi doveva affrettarsi, tre ore lì dentro erano troppe. Aprì i due cassetti della scrivania in cerca di fortuna, ma urtò qualcosa con un piede. Aveva ribaltato il cestino della spazzatura, “dannazione!” pensò, “devo stare più attento!”. Si mise a raccogliere i vari fogli per ributtarli dentro il contenitore quando trovò un pezzo di compact disc o almeno così sembrava, incuriosito si mise a frugare all’interno del cestino e ne trovò altri tre. Su ogni pezzo era presente una sequenza di lettere apparentemente senza senso, dispose le parti sul piano di vetro del tavolo e ricompose il disco. Lesse la scritta la prima volta senza quasi prestare attenzione al senso, poi la rilesse una seconda e una terza volta. Prese la sua macchina fotografica, una Canon EOS40D, illuminò con la torcia il disco appena ricomposto e scattò. Si assicurò che la foto fosse venuta bene, gettò le parti del disco nel cestino e rilesse di nuovo quelle tre parole “The father’s hand”. Gli rivenne in mente la cartella appena copiata dal computer, pensò che potesse esserci un nesso con il DVD e scoprire quella dannata divenne di primaria importanza. Abbandonò la stanza convinto che non ci fosse più niente da scoprire, si riportò al computer dove avviò una ricerca di tutti i file con estensione relativa ad un documento e attese che la lista prendesse corpo. Si trovò davanti un elenco di
centodue file, iniziò aprendo quelli che sembravano promettenti ma, giunto alla fine, non trovò niente di particolare. Non poteva restare un minuto di più. Schiacciò il pulsante di arresto del computer e attese la fine dell’operazione. Spense la torcia e aprì la porta dell’ufficio, il silenzio era rotto soltanto dai lamenti delle due guardie imbavagliate abbandonate in un angolo buio del pianerottolo. Prima di lasciare l’ufficio, richiuse la porta e fece vagare il fascio di luce all’interno della stanza, non doveva lasciare niente fuori posto. Uscì dall’ufficio cercando di fare meno rumore possibile nel chiudere il battente, restò distante dai faretti accostandosi alle pareti del corridoio e arrivò vicino ai due uomini legati. Li osservò per qualche secondo notando che non si erano accorti della sua presenza, scese le scale e uscì dal palazzo. In giro non c’era anima viva, svoltò a sinistra e si ritrovò davanti alla recinzione dal quale era entrato. Si arrampicò lasciandosi cadere dall’altro lato, si sfilò i guanti in lattice gettandoli in un tombino poco distante e ritornò alla moto nascosta in una piazzola buia vicino a dei cespugli. La Ducati si avviò subito, Davide indossò il casco, salì sul mezzo e si avviò con calma verso la strada principale. La sagoma scura appollaiata sul mezzo incuriosì un ante che pensava di trovarsi sul set di un film d’azione. Marchi arrivò a casa, entrò nel garage e dopo aver atteso la chiusura completa della porta varcò la soglia di casa. Sistemò la sua attrezzatura cercando di non fare troppo rumore, erano le due di notte e aveva detto a Sara di non aspettarlo sveglia. Aprì la porta della camera da letto scoprendo che sua moglie era intenta a leggere un libro. «Ehi, sei ancora in piedi?» «Non riuscivo a dormire, tutto a posto?» chiese infilando un segnalibro tra due pagine. «Si tutto ok, a parte il fatto di aver dovuto legare due guardie notturne, ma sono due imbranati.» sorrise. «Mica sono tutti ex militari come te... ma ti hanno visto in faccia?» posò il libro sul comodino.
«Direi che più che altro hanno visto un’ombra, comunque tutto liscio come l’olio.» concluse Davide prendendo il pigiama dal cassetto. «Hai almeno scoperto qualcosa dopo questa bravata?» «Direi di si, almeno mi sono imbattuto in un altro mistero. E comunque il tizio non la racconta giusta. Deve essere finito dentro qualche giro losco, da circa due anni non fa più molti contratti e non capisco da dove arrivino tutti quei soldi. Boh devo capirci di più.» «Va beh dai, adesso vieni a letto che è tardi.» «Davide si infilò sotto le coperte, spense la luce e diede il bacio della buona notte a Sara.» Ma il suo sonno sarebbe stato tormentato da dubbi e domande.
15
25 aprile 2009
La sveglia suonò alle sette in punto del mattino annunciando agli occupanti della casa che era ora di prepararsi, Mario e Rebecca avevano deciso di are il week end fuori da Bologna per distrarsi e are un po’ di tempo da soli. In meno di dieci minuti erano pronti tutti e due in abbigliamento sportivo e scarpe comode, sapevano che avrebbero camminato parecchio sul litorale e per le vie cittadine. Stavano prendendo le ultime cose, la macchina era stata caricata la sera prima, quando un cellulare prese a squillare ed era quello di Baldi. «Pronto, parla Baldi.» L’uomo alzò il sopracciglio destro «Quando sono entrati?» «Non vedo cosa cercassero, non tengo denaro in ufficio.» «Ok arrivo subito, ma facciamo in fretta stavo partendo.» Mario chiuse la comunicazione e si rivolse a Rebecca che lo stava guardando in modo enigmatico. «Sono entrati dei ladri in ufficio» disse con aria seccata. «Quindi non partiamo più?» «Partiamo comunque, andiamo un attimo in ufficio così risponderò alle domande. Dovremmo cavarcela in fretta tanto sembra che non sia stato toccato nulla.» «Ok, va bene» Salirono entrambi in macchina e Mario si avviò verso il suo luogo di lavoro.
Tra i due era sceso il silenzio. Coprirono il tragitto in meno di dieci minuti, notarono subito la presenza dell’auto dei carabinieri e di una del servizio di vigilanza notturno ma fuori non c’era nessuno ad attenderli. Mario parcheggiò la macchina nel cortile interno, scesero entrambi dal veicolo e si diressero verso l’ingresso principale. Scelsero le scale, avrebbero impiegato meno tempo, e arrivati al pianerottolo notarono delle stringhe da scarpe a terra. Un carabiniere stava piantonando la porta dell’ufficio. Il militare li bloccò per accertarsi della loro identità e rimase imbambolato davanti ai pantaloncini corti, bianchi e molto attillati indossati dal Rebecca. I coniugi entrarono nell’ufficio dove l’altro agente stava interrogando i due vigilanti. «Buon giorno, voi dovreste essere i coniugi Baldi giusto?» «Si, siamo noi. Mi spiega che cosa è successo?» Mario stava guardandosi intorno. «Questa mattina i vigilanti che dovevano dare il cambio ai loro due colleghi qui presenti, li hanno trovati legati sul pianerottolo delle scale. Per quello che abbiamo appreso sono entrati intorno alle ventidue, forse due persone. Sembra però che se ne siano andati subito, visto che l’ufficio è in ordine. Non ci sono segni di effrazione, sembra che avessero le chiavi per aprire.» «Ma le chiavi dell’ufficio le abbiamo soltanto io e il portiere del palazzo.» rispose Mario infilando le mani in tasca. «Questo significa che, se non le hanno prese al portinaio, non erano degli sprovveduti ma professionisti del furto. La domanda è: perché non hanno toccato nulla?» L’agente osservava Rebecca che intanto aveva occupato uno dei divani bianchi. «Magari hanno sbagliato ufficio, io non tengo denaro ne cose di valore qui dentro. Potrei svolgere il mio lavoro benissimo da casa ma è più appariscente avere un luogo dove ricevere i clienti.» «Abbiamo verificato gli altri locali di questo piano e sembra che siano a posto.
Mi fa presumere che volessero entrare proprio qui da lei. Ha ricevuto telefonate strane o visite in questi giorni?» il carabiniere prese un blocco per i verbali e iniziò a compilarlo. «No niente di strano da segnalare, tra l’altro questo è un periodo un po’ tranquillo rispetto al solito e i clienti che incontro sono quelli con cui ho rapporti ormai da diversi anni.» Mario però cominciava ad avere dei sospetti su chi fosse entrato ma non poteva dirlo, sapeva che sarebbe finito in un guaio ancora più grosso. «Lei signora, ha ricevuto telefonate a casa?» l’agente si rivolse alla donna che ascoltava dal divanetto. «No, a parte quelle di mio marito.» «Neanche una persona che ha sbagliato numero?» «No perché?» Rebecca si alzò. «Beh sa, molto spesso telefonano fingendo di aver sbagliato numero per vedere se c’è in casa qualcuno e poi fanno una telefonata in ufficio o nel negozio e se non risponde nessuno tentano il colpo.» l’uomo ammirò la silhouette della donna che si spostava vicino alla finestra. «Posso aprire la finestra per far entrare un po’ d’aria?» «Certamente, tanto abbiamo già provveduto a rilevare le impronte ma ovviamente abbiamo trovato solo quelle di suo marito.» sorrise, poi si rivolse a Mario «Devo farle firmare il verbale con la deposizione dei due vigilanti, direi che le conviene comunque fare una denuncia contro ignoti. Se si dovesse accorgere della mancanza di qualcosa le servirà per un’eventuale assicurazione. Ah mi scusi, dovrebbe saperlo meglio di me, è il suo lavoro.» Mario lesse lo scritto con attenzione, lo firmò e poi, lui e Rebecca, uscirono dall’ufficio, risalirono in macchina in silenzio e partirono in fretta verso la riviera dove avrebbero ato il fine settimana pensando solo a loro. Un ombra li stava osservando da lontano, il cellulare di Baldi emise un bip che indicava l’arrivo di un messaggio. Portò il telefono all’altezza del volante e lesse il testo, ma decise di non
rispondere. Avrebbe chiamato il tizio senza farsi notare. Eliminò il messaggio e spense il telefono, intanto Rebecca stava osservando la natura dal finestrino dell’auto.
16
Il sabato mattina era ato in fretta, Davide aveva cercato in rete un software in grado di trovare la del file recuperato dal computer dell’indagato, purtroppo senza alcun risultato interessante. Decise allora di consultare dei forum o dei siti che trattassero argomenti del genere ma si imbatteva sempre in pagine troppo complicate per le sue conoscenze e molto spesso non relative a quello che voleva sapere. Per non parlare poi delle innumerevoli discussioni sull’etica della violazione di file protetti e sul fatto che la percentuale di riuscita era comunque bassa. “Balle!”, pensava, “in un mondo dove molti cercano fregare gli altri, questi si fanno i problemi etici sulla violazione di un file!” “A me quella serve e in fretta!” Immise una nuova frase nel motore di ricerca e analizzando i risultati trovò un sito che sembrava promettente, parlava di sicurezza informatica e truffe on-line. Lesse un po’ di discussioni legate alle più disparate problematiche informatiche e trovò molte guide sulla protezione del computer da virus e simili, il tutto era firmato quasi sempre da un certo DevilKid che era anche uno degli amministratori del sito. Completò l’iscrizione e creò una discussione inerente al suo problema sperando che la risposta fosse velocissima. Nel frattempo Sara stava preparando il pranzo, guardò fuori dalla finestra notando gli alberi completamente ricoperti di foglie segno che l’inverno era ormai alle spalle. Il sole illuminava con i suoi potenti raggi il giardino mentre un gatto randagio si stava godendo il caldo, la natura si stava risvegliando. «Davide è quasi pronto!» Marchi si alzò dalla scrivania, era inutile continuare ad aggiornare il browser nella speranza di una risposta e raggiunse la compagna per pranzare. «Ti va di mangiare sotto il portico?» chiese Davide.
«Per me va bene, apparecchi tu? Ah guarda che fuori c’è il tuo amico.» fece un cenno con la testa verso il giardino e si mise a ridere. «Ancora quel gatto?» si precipitò alla finestra. «Sì, ti vuole bene è sempre qui.» «Adesso gli faccio are la voglia!» aprì la portafinestra e uscì sul portico. Puntò il gatto avanzando a grandi i con aria minacciosa, l’animale lo guardò incuriosito e poi scattò via saltando la rete di recinzione finendo nel campo di un agricoltore locale. Davide tornò indietro, si mise ad apparecchiare la tavola usando piatti di ceramica rettangolari in stile asiatico e posate in acciaio. La tovaglia azzurro cielo spiccava circondata dalle sedie rosso mogano e il gelsomino formato gigante, che circondava buona parte del portico, aveva ancora parecchie foglie rosse ma in un paio di mesi si sarebbe riempito di fiorellini bianchi molto profumati. Nel frattempo Sara aveva già spento i fornelli, gli spaghetti aglio, olio e peperoncino avevano un aspetto magnifico. La donna riempì i piatti, si sedette e si versò un bicchiere d’acqua. Per secondo aveva preparato dell’affettato locale con formaggio e insalata. «Niente di nuovo sul fronte assicuratore?» Davide mandò giù il boccone e trangugiò senza prendere fiato un bicchiere d’acqua. «Li hai fatti potenti questa volta eh?» tergiversò riempiendo di nuovo il bicchiere. «Deve essermi scappato qualche pezzetto di troppo nel soffritto. Comunque non mi ha risposto.» «Ho recuperato una cartella dal computer del tizio ma non riesco a vederne il contenuto, c’è una che non ho trovato da nessuna parte all’interno dell’ufficio. Poi ho trovato, per caso, un DVD fatto a pezzi nel cestino della spazzatura. Ho messo insieme le parti e sopra c’era scritto “The father hand” e
gli ho fatto una foto.» «Secondo te cosa può essere?» Sara intanto stava aspettando che Davide finisse di vuotare il piatto. «Non ne ho idea, però la cartella protetta si chiama allo stesso modo. E’ questo che mi incuriosisce.» «Ma se non puoi vederne il contenuto non ti serve a niente quello che hai trovato.» «Infatti sto cercando qualche esperto che mi spieghi come riuscirci, ma in internet trovo solo guide di gente che ne sa meno di me o che fa crociate sulla privacy. In un mondo pieno di telecamere si fanno problemi per una cartella criptata.» attaccò il formaggio con la spatolina ricurva. «Potrebbe essere qualcosa di poco pulito?» Sara si servì un po’ d’insalata. «Credo che possa essere contrabbando di droga o roba del genere.» «Beh spiegherebbe il tenore di vita.» «Se non riesco a cavarci niente mollo tutto e o la palla agli amici della polizia, loro hanno la postale per fare questi lavori.» «Hai già collaborato con loro diverse volte in ato, perché non gli chiedi una mano? Qualche favore te lo devono.» «Il problema è spiegare come ho avuto il materiale protetto, non posso dire che mi sono intrufolato di notte in un ufficio, ho messo ko due guardie e ho ato diverse ore a perquisire l’appartamento.» Marchi le fece l’occhiolino. Anche se non voleva ammetterlo era soddisfatto della bravata fatta, era ritornato a provare sensazioni abbandonate ormai da diversi anni e non riusciva ancora ad abituarsi alla realtà; l’esercito era un ricordo ancora vivo. «Pensi che in ato non si fossero posti delle domande su certe informazioni di cui eri in possesso? Eppure nessuno ti ha fatto mai il terzo grado. Sei uno dei pochi investigatori privati stimato dalle forze dell’ordine e non credo che sia dovuto solo al tuo ato,» Sara gli prese la mano «quindi perché non
chiedere?» «Facciamo così, vado avanti ancora per qualche giorno poi mollo tutto, o le informazioni alla polizia e vedo che ne esce fuori.» I due proseguirono il pranzo e la discussione si spostò sul programma domenicale, Sara voleva are un po’ di tempo all’aria aperta lontano dalla città e per Davide era un buon modo per rilassarsi e non pensare all’indagine. Decisero di andare nella casa di campagna dei nonni di Sara, non vi tornavano da almeno due anni e non sapevano che cosa avrebbero trovato. Davide tornò davanti al display del computer sperando in una risposta.
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Osimo, 25 aprile 2009
Erika stava chattando come ogni giorno, aveva molti amici on-line e li conosceva tutti di persona ma da un paio di mesi aveva un nuovo contatto che si era presentato improvvisamente e aveva chiesto la sua amicizia. Il software che usava per chiacchierare in rete era il più diffuso a livello mondiale, si potevano inviare perfino file all’altra persona e usare una webcam. C’era anche la possibilità di chiudere il proprio contatto agli estranei rendendo invisibile il proprio al resto del mondo ma Erika non l’aveva fatto, un po’ per curiosità e un po’ proprio perché sperava di conoscere nuove persone, magari distanti e straniere. Così aveva creato il suo profilo in modo molto preciso includendo la sua età, il giorno del suo compleanno, la città in cui viveva, una sua foto come “avatar” e tutto ciò che amava e odiava. Lui era arrivato il giorno del suo compleanno, spuntando dal nulla le aveva fatto gli auguri e, dopo cinque o sei minuti di conversazione, l’aveva colpita al cuore. Erika era rimasta affascinata dal modo di fare di questa persona con un alone di mistero addosso e il profilo compilato in parte dove apparivano solo la sua età, la città dove risiedeva e un avatar tratto da qualche fumetto. Era intrigante e gentile anche se appariva molto imbranato con il computer, più di una volta aveva raccontato dei disastri che combinava e di suo padre che si arrabbiava perché doveva chiamare un tecnico. Era assorbita anima e corpo dal nuovo amico senza volto, le compagne di giochi non esistevano più, sostituite dai discorsi da adulti che faceva insieme al ragazzo di internet che non poteva trascurare. Era qualcosa di intimo mai provato prima. L’adolescenza era l’età dei grandi cambiamenti e lo stava sperimentando sulla sua pelle, ogni volta che si ammirava allo specchio studiando il suo corpo modellato dalla pallavolo, ormai quello di una donna.
Assomigliava molto a sua madre ma l’altezza doveva averla ereditata dal padre che era un avvocato molto stimato in città, se non fosse riuscita a emergere nel suo sport preferito avrebbe fatto lo stesso lavoro della mamma, la pediatra. Le piacevano molto i bambini e come la maggior parte delle donne sognava di averne uno prima o poi e di vederlo crescere. Molto precisa e ordinata sia nello studio che nelle cose di tutti i giorni, la sua stanza non aveva niente fuori posto e la puliva sempre da sola. Il papà le aveva permesso di scegliere il colore delle pareti e dei mobili e lei aveva optato per il verde. La stanza era divisa in due parti ben distinte, c’erano una zona studio e una zona notte e relax, da un lato aveva la scrivania per studiare con un computer portatile e una stampante. La libreria era posizionata a fianco del tavolo ed era carica di libri, sia scolastici che di narrativa, in più erano montate delle mensole con sopra i trofei e le medaglie vinte con lo sport. Nella parete opposta aveva posizionato il letto e poco più avanti l'armadio che faceva angolo e proseguiva nella parete perpendicolare dove si trovava la porta d'ingresso. Di fronte a questa c'era una grande finestra con le imposte in legno bianco e le persiane dello stesso colore che dava sul giardino di casa, molto ampio e ben curato. Anche se suo padre poteva permettersi un giardiniere si divertiva a fare lui quel lavoro, lo rilassava e quindi ava diversi sabati a curare le piante, potare gli alberelli, la siepe di cinta e a tagliare l'erba. Il suo cellulare emise un suono, Erika si alzò per andare a prenderlo nella sua borsetta e lo portò vicino al computer, era un messaggio di testo della sua amica Michela che le ricordava di vedersi alle diciotto al centro storico per fare due i nel corso principale del paese. L'orologio segnava le sedici e aveva ancora due ore per farsi la doccia, scegliere un vestito e avviarsi a piedi verso il centro, non abitava distante e le piaceva molto camminare. Prese un paio di slip, il reggiseno e si diresse verso il bagno, era sola in casa perché sua madre era di turno in ospedale e suo padre era al lavoro. Aprì la porta e si diresse verso il box doccia, si tolse i vestiti e li gettò nel cesto della biancheria sporca, si guardò allo specchiò e scorse il suo corpo dalla testa ai piedi. Il seno stava su da solo e fianchi si stavano assottigliando, aveva ancora un po' di pancia ma non le interessava molto, in fondo aveva quattordici anni, stava ancora crescendo e il tempo per farlo non le mancava di certo. Però si rendeva conto che si osservava allo specchio nuda sempre più spesso e in più cominciava ad avere una certa attrazione per i ragazzi, questo delle volte la
spaventava. Aprì il rubinetto ed entrò nella cabina, chiuse la porticina di cristallo che si riempi subito di goccioline d'acqua e di vapore, impiegò un po' di tempo per lavare i capelli lunghi perché lo shampoo, come al solito, sembrava non volersene andare. Finalmente riuscì ad uscire dalla doccia, si asciugò, indossò la biancheria intima e si mise a pulire lo specchio dal vapore. Ora arrivava la parte più noiosa, quella che le portava via sempre un sacco di tempo, l'asciugatura dei capelli. Appena un’ora dopo Erika era già pronta, visto che il clima cominciava ad essere mite decise di indossare qualcosa di leggero, la gonna azzurra che le piaceva tanto era l’ideale. I brillanti occhi smeraldo controllarono meticolosamente l’abbigliamento allo specchio e le mani aggiustarono il bavero del giubbotto blu. Uscì di casa e percorse velocemente il vialetto fino al cancello dell'abitazione che dava su una stradina che si collegava con la strada principale, via Guazzatore. L’attraversò per imboccare una viuzza che l'avrebbe portata fin sopra alla famosa Fonte Magna e da lì avrebbe raggiunto il centro facilmente, doveva coprire circa un chilometro a piedi ma per lei non era un problema. Quindici minuti più tardi era già nella piazza principale del paese e si stava avviando verso il loggiato del municipio. Osimo emanava un’aura di antichità con i suoi archi, le alte mura di cinta e le strade del centro in pavè, così Erika l’adorava e poter vedere il Cònero, con il mare, dalle mura romane era un privilegio. Si mise ad aspettare davanti all'edicola sotto il loggiato osservando i ragazzi e le ragazze più grandi seduti ai bordi della fontana ottagonale al centro della piazza, le giornate si stavano allungando e stavano diventando sempre più miti. Dei capelli rossi a spazzola spiccavano in mezzo alle altre persone come i jeans pieni di strappi e il collarino in pelle nera. La ragazza molto esile camminava con disinvoltura e sicurezza come se non ci fosse nessuno nella piazza ad osservarla, aggirò una delle colonne del loggiato da un lato dove Erika non potesse notarla e le si avvicinò con o felpato alle spalle. «Guarda che ti è andata male, ti ho vista arrivare.» Erika si voltò e i suoi occhi smeraldo incontrarono quelli verdi della sua amica. «Cavoli stai diventando furba eh! Di solito ti frego sempre in qualche modo!»
«Beh, finché andrai in giro con quella maglietta degli Iron Maiden e quei capelli, ti riconoscerei anche a un chilometro.» ammiccò e Michela rispose sorridendo. Le due si incamminarono in direzione del corso dove avrebbero fatto diverse vasche, così le chiamavano, fino alle diciannove quando sarebbero tornate a casa. Nonostante la diversità nel vestire e nel vedere la vita, Erika e Michela erano molto amiche e si capivano al volo, si conoscevano da quando erano piccole perché Michela era vissuta vicino a Erika fino all'età di nove anni e poi si erano tenute in contatto frequentando due classi diverse nella stessa scuola media. Si trovavano a circa la metà del corso quando Michela cambiò discorso. «Allora come va con il personaggio misterioso?» «Vi siete scritti oggi?» Le due domande a raffica fecero arrossire Erika che prese fiato per rispondere. «Beh, a parte oggi che doveva andare al mare con i suoi, ci scriviamo ormai tutti i giorni e devo ammettere che comincia a piacermi, solo che non potrò mai conoscerlo di persona, lo sai che abita lontano.» «Non hai neanche un po' di paura non sapendo esattamente chi è?» «Sai che non ne ho? Sembra strano anche a me però mi fido, quello che ci diciamo è molto intimo e lui sembra capirmi. Ho sempre pensato che i ragazzi non potessero capirci e invece mi sbagliavo. Sa tanto su di noi.» «Se non ricordo male è di Bologna non è che poi sia così lontano.» «E' vero hai ragione ma ha la nostra età e scommetto che prima o poi si scorderà di me.» «Mi fai paura, tu ragioni troppo da grande! Sembri mia madre. Guarda che hai quattordici anni mica trenta e poi spiegami perché con tutti i ragazzi che ti stanno dietro ti vai a immischiare con questo qua che a me non ispira per niente fiducia.» La discussione aveva fatto diventare tesa l'aria intorno alle due ragazze, Erika sapeva bene che la sua amica le spiattellava in faccia sempre quello che pensava ed era questo che le legava, la sincerità. Non sapeva cosa risponderle perché in
effetti aveva ragione allora ò al contrattacco. «Te l'ho detto non lo so. E tu quand'è che ti decidi ad uscire con Luca? Ti tampina da un anno.» «Ma che dici? Quello è ancora un bambino, pensa solo a giocare a calcio, tra l'altro io quello sport lo odio. Io voglio trovare subito quello giusto, non voglio are per una che va con tutti, già mi guardano male per come mi vesto!» «Ma sì, è solo perché siamo circondate da gente che guarda solo l'aspetto esteriore, io in te non ci vedo niente di strano.» «Dillo a miei! Mia madre mi riprende sempre per come vado in giro e per la musica che ascolto. Per fortuna che vado bene a scuola, se no sai che casino!» «Tutti i genitori sono apprensivi e poi lo sai che ti vogliono bene.» La campana sulla torre del municipio stava rintoccando le diciannove ed era ora di tornare a casa, Erika salutò Michela con l'impegno di riprendere il discorso alla prossima uscita, era sabato e i suoi avevano invitato a cena degli amici. Mentre tornava a casa ripensò alle parole dell'amica ma non riusciva a vedere niente di male e di sbagliato in quello che stava facendo. Arrivò davanti casa e vide scendere da un'auto gli amici dei suoi genitori, all'improvviso i suoi pensieri scomparvero di colpo e un sorriso raggiante le illuminò il viso, c'era anche Andrea il figlio della coppia che era molto simpatico, carino e aveva soltanto due anni in più di lei. Li attese sull'ingresso e li invitò ad entrare, ora si sentiva più felice
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Osimo, 27 aprile 2009
Era un ladro, acquattata dietro a quel cespuglio di mattina presto non poteva assomigliare ad altro. Lo stupore per il messaggio arrivato la sera precedente aveva lasciato il posto all’irrequietezza ma le parole continuavano a frullarle in testa. “Domani, finalmente, lo incontrerò. Viene apposta per conoscermi!”, era troppo strano. Erika le aveva detto che non si sarebbero mai incontrati e due giorni dopo, magicamente, salta fuori l’appuntamento. L’aveva chiamata tentando di farle capire che non era saggio ma Erika aveva insistito dicendo che doveva farsi i fatti propri, che non sarebbe successo nulla e che era solo gelosia. Erika non la voleva tra i piedi. Lui era stato categorico, doveva incontrarla da sola per via della sua timidezza. Erika gli credeva. Così, Michela, decise di uscire molto presto la mattina seguente, marinare la scuola e nascondersi vicino casa della ragazza per seguirla fino al luogo dell’appuntamento. Erika poteva prendere solo l’autobus o andare a piedi e non sarebbe stato difficile starle dietro, il problema era non farsi notare perché non era il giochino che facevano nella piazza del paese e se fosse stata scoperta sarebbe stato un bel guaio. Con addosso un abbigliamento classico si sarebbe mimetizzata bene e avrebbe potuto seguire l’amica senza essere notata al primo sguardo. Questo aveva pensato guardandosi allo specchio dietro gli occhiali da sole, vecchi di almeno vent’anni, con la montatura in plastica bianca. Il cappello da cowboy preso in prestito al padre era perfetto, era irriconoscibile o almeno sperava di esserlo. L’unica cosa che poteva tradirla erano le scarpe da ginnastica nere consunte che
avevano degli anellini attaccati alle stringhe e che la sua amica conosceva bene, per il resto sembrava proprio una normale ragazza e non la metallara che Erika conosceva. Si guardò bene allo specchio e decise che il travestimento poteva funzionare e, se pur odiava quel tipo di abbigliamento, dovette ammettere che la camicetta chiara le donava e la rendeva molto carina. Più difficile invece era stato uscire alle sei del mattino senza farsi scoprire dai suoi, immaginava già la faccia della madre quando un’ora e mezzo dopo avrebbe trovato il letto rifatto e della figlia nessuna traccia. Era certa che si sarebbe beccata una bella tirata d’orecchi ma non poteva evitare di saltare la scuola per essere sicura che la sua amica non si cacciasse in qualche guaio. Finalmente Erika uscì di casa, erano le sette del mattino, l’orario in cui doveva prendere il solito autobus per la scuola, dieci minuti dopo il lungo mezzo arrivò ma quando ripartì la ragazza era ancora sul marciapiede. Michela continuava ad osservare l’amica che a questo punto avrebbe preso sicuramente un altro mezzo ma per quale destinazione? Era già stata dura sgusciare fuori dal letto alle cinque del mattino, vestirsi senza fare rumore e coprire a piedi i circa nove chilometri che c’erano tra casa sua e quella di Erika; ora doveva seguirla magari per mezza provincia, “Ma chi me lo fa fare?” pensò. Un altro autobus arrivò poco dopo, la ragazza lesse le destinazioni sul cartellino posto sul parabrezza accanto all’autista, “Ma certo! Quale posto migliore per un incontro di quel genere se non il mare?” mentre finiva di formulare il pensiero anticipò la mossa della sua amica sgattaiolando fuori dal cespuglio ed entrando dalla porta in coda al mezzo, si sedette negli ultimi posti sapendo che Erika avrebbe scelto quelli in prossimità dell’autista per via del mal d’auto. Tenne d’occhio la ragazza per tutto il viaggio, per capire se sospettasse qualcosa ma dalla partenza non si era mai voltata verso il fondo dell’autobus. Michela sapeva che a breve sarebbero giunti a destinazione, era questione di pochi minuti e poi avrebbe visto il fantomatico ragazzo di internet. Il camlo della richiesta di fermata suonò, era stata Erika, il mezzo si fermò dopo alcuni secondi e la ragazza scese. Michela attese ancora un po’ e poi si precipitò all’esterno poco prima della chiusura delle porte. Erika aveva scelto una località molto conosciuta nella zona, una piccola frazione
chiamata Marcelli, appartenente al comune di Numana. Il posto, in estate, pullulava di turisti e vacanzieri che affittavano degli appartamenti col solo scopo di svegliarsi la mattina e scendere comodamente in spiaggia attraversando la strada che alla sera era chiusa al traffico per permettere alle persone di eggiare in libertà. Prima dell’estate, invece, era deserta e frequentata solo da gente del posto per portare a so il cane o are qualche minuto di relax nella pausa pranzo. La strada a senso unico era piena di stabilimenti balneari, negozi e ristoranti, c’era anche una piazzetta a ridosso della spiaggia che veniva usata in estate per mercatini e spettacoli d’intrattenimento. Michela si rese conto però che la sua amica non aveva scelto di incontrare lì quel ragazzo, ma aveva optato per uno stabilimento poco più avanti. Del misterioso ragazzo di internet neanche l’ombra. La costa deserta, tipica dei giorni lavorativi primaverili, mostrava tutta la sua bellezza senza le file di ombrelloni, la pace regnava sovrana e il rumore delle ondicelle era rilassante. Il Cònero dominava la scena a nord mostrando la sua faccia massiccia e il profilo che assomigliava a un gorilla, erano visibili anche gli scogli delle “Due Sorelle” immersi parzialmente nell’acqua. Erika era in piedi sul bagnasciuga e stava contemplando il mare, assorta come se fosse ipnotizzata non si era accorta di essere osservata e Michela era pronta a scommettere che poteva arle dietro a pochi centimetri senza che lei se ne accorgesse. Si guardò intorno e decise che la fila di cabine scolorite sulla destra era perfetta per nascondersi e osservare, non restava altro che attendere gli eventi. Un misto di curiosità e angoscia la pervase.
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Ancona, 27 aprile 2009
L’informatico stava digitando codici al computer da diverse ore, si era svegliato molto presto e, nonostante la fatica e la sicurezza che il suo lavoro fosse perfetto, aveva voluto provare tutti i tipi di attacchi conosciuti al mondo con tutte le varianti. Il sistema era impenetrabile e si disse soddisfatto della sua opera. Mirko, classe millenovecentosettantasei, aveva sempre amato l’informatica e la programmazione fin da quando aveva meno di dodici anni e ora era un affermato professionista che si occupava di sicurezza. All’inizio fu un hacker, una di quelle persone che vengono etichettate come pirati informatici, aveva trovato molte falle nei più noti sistemi operativi ma gli interessava soltanto farle correggere, così le rendeva pubbliche in modo che i produttori potessero rimediare ai loro errori. Per la rete era DevilKid, l’aveva vista nascere, modificarsi e diventare tanto bella quanto pericolosa e a diciotto anni decise che quella era la sua strada e che doveva diventare il difensore di quel mondo. Terminate le prove decise che doveva rilassarsi un po’ e così aprì il browser e consultò la posta, non era arrivato nulla di interessante e allora andò a fare due chiacchiere su un portale che frequentava ormai da un anno. Il forum si occupava di sicurezza informatica e truffe on-line; aperto da poco più di un paio d’anni aveva ottenuto già un discreto successo e lui era uno dei i con diverse pubblicazioni di guide e manuali sulle spalle. Molti degli utenti erano professionisti come lui ed era molto bello e interessante confrontarsi su temi legati alla sicurezza. Ogni utente aveva le sue manie non tanto diverse dalle sue e ogni volta che parlava con uno di loro si trovava a farsi un esame di coscienza sulla sua vita. Aveva trentatré anni ed era single, ormai il termine scapolo non si usava più, per scelta o almeno si definiva così. Si era innamorato a scuola di una compagna di classe ed era stato insieme a lei cinque mesi, poi per una stupida lite si erano
lasciati. Finita la scuola si persero di vista e ognuno andò per la sua strada, lui si laureò in ingegneria informatica e di lei non seppe più nulla. Veronica, ogni tanto pensava a lei e ai suoi occhi azzurri, era una ragazza minuta ma i suoi capelli biondi, il suo modo di fare e l’allegria che aveva sempre addosso l’avevano fatto innamorare. Non aveva mai capito cosa invece li avesse avvicinati, in cinque anni di scuola superiore si erano veramente conosciuti solo nell’ultimo e un giorno, durante l’intervallo, senza alcun motivo si erano baciati e iniziarono i cinque mesi più belli che Mirko potesse ricordare. Dopo quell'esperienza aveva avuto delle storie ma mai degne d’importanza e delle volte pensava proprio di essere stupido perché tutte le donne con cui era stato le aveva paragonate alla cara Veronica. Perché bruciava ancora? Perché non riusciva a sostituirla? Tutte domande senza risposta. Si scosse dai suoi pensieri stava di nuovo vagando nei ricordi e allora decise di uscire a fare due i, la giornata era bella e andò a eggiare nella zona del etto. Il mare emanava il suo colore preso dal cielo azzurro, l’odore salmastro penetrava nelle narici mentre scendeva la scalinata che portava allo spiazzo sottostante. Si fermò a contemplare la distesa d’acqua appena increspata pensando a quante volte c’era stato con Veronica e i ragazzi seduti sulle scale circolari del monumento al etto avevano risvegliato vecchi ricordi. Mirko si allontanò per andare verso piazza Cavour, alto e non in sovrappeso come molti dei suoi colleghi che avano la vita davanti al monitor del computer, amava camminare e fare un po’ di sport. Tra l’altro le sue idee migliori arrivavano proprio mentre faceva jogging o nuotava in piscina dove scaricava le tensioni accumulate durante il giorno. Raggiunta la piazza si guardò in torno per cercare una panchina libera su cui sedersi a leggere un quotidiano. Saltò subito le pagine sulla politica, non gli interessavano le liti tra destra e sinistra tanto il bel paese andava avanti ugualmente, per poter leggere i fatti di cronaca e soprattutto le ultime notizie sul recente sisma avvenuto in Abruzzo e che si era sentito bene pure lì. Quasi trecento vittime e una città parzialmente distrutta stavano tenendo impegnati migliaia di volontari, forze dell'ordine e vigili del fuoco. Quello che era successo gli ricordava il sisma del novantasette
tra l'Umbria e le Marche che li aveva fatti ballare parecchio. Come al solito erano in atto le solite polemiche a caccia del capro espiatorio per i crolli avvenuti. Andò avanti a leggere le notizie e trovò un trafiletto che parlava di una bambina molestata da un pedofilo, “che cosa schifosa” pensò, “che ci trovano questi nei bambini di dieci, dodici anni?” La panchina che aveva scelto non era più in ombra e il sole si faceva sentire, si alzò, chiuse il giornale e si avviò per ritornare a casa, aveva ancora del lavoro da fare. Lavorare come libero professionista era uno so perché decideva lui gli orari e spesso finiva i progetti in anticipo riuscendo ad avere un paio di giorni per riposarsi prima di are ad altro. Arrivato davanti alla sua abitazione cercò le chiavi nel borsello tra il netbook, ultima moda in fatto di computer portatili, il portafoglio e il cellulare, aprì la porta ed entrò. L'appartamento che aveva acquistato qualche anno prima era situato vicino alla piazza delle tredici cannelle, quelle brutte facce di bronzo attiravano i turisti che conoscevano quella vasca antica con il nome di fontana del calamo. Un server campeggiava nello studio che aveva ricavato da quella che doveva essere una cameretta, quella macchina teneva in piedi il suo sito web, gestiva la posta elettronica e molte altre cose, poco distante c'era una postazione con il computer per eseguire i lavori che gli commissionavano. Il locale era climatizzato perché il server sempre scaldava la stanza che d'estate diventava un forno. Era tempo di rimettersi a lavoro.
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Marcelli di Numana, 27 aprile 2009
Il mare calmo e di un azzurro intenso emanava un’aura di tranquillità, solo l’orizzonte era segnato da nubi basse e minacciose ma ancora troppo lontane per rovinare tutto. Erika iniziò a eggiare sulla battigia guardando verso il Cònero, la sabbia compatta rendeva facile spostarsi e le impronte appena visibili venivano cancellate da rare onde più lunghe. Si era stupita del fatto che il ragazzo misterioso conoscesse la zona a tal punto da scegliere Marcelli per l’incontro, non gli aveva chiesto il perché pensando semplicemente che fosse venuto in vacanza in quel posto anni prima e poi poteva anche aver visto la foto su internet. Mancava ancora mezz’ora all’appuntamento, prese il telo da mare che aveva nello zainetto e lo stese con cura dove la sabbia era più morbida, appoggiò le sue cose in un angolo e si sedette ad aspettare. Onde di marea, i pensieri erano onde di marea. Improvvisi e irrequieti, forti e poi deboli come le onde dell’immenso blu che aveva davanti. Le cose nascoste prima o poi vengono scoperte, nulla resta introvabile e i suoi genitori presto avrebbero saputo dell’incontro. Ancora un’ondata e arrivò Michela, la sua amica d’infanzia sapeva tutto ma lei l’aveva tenuta lontana nascondendole il posto dell’incontro e mentre il pensiero legato alla ragazza dai capelli rossi si affievoliva ecco spuntare quello sul ragazzo misterioso, forse era meglio che lui non si presentasse più, forse era più giusto che tutto restasse ancorato e nascosto in internet. L’idea che si era fatta poteva non corrispondere alla verità e sarebbe rimasta delusa. Ma non poteva più tornare indietro. Il sole basso all’orizzonte le ricordava che era ancora presto e sperava che quella pazzia non fosse stata del tutto inutile.
Si alzò, prese alcuni sassi e iniziò a lanciarli cercando di farli rimbalzare sull’acqua, i pensieri si stavano facendo troppo incalzanti e quello era un buon metodo per spostare la sua attenzione da qualche altra parte. I due si erano accordati su come riconoscersi, lei avrebbe portato con se un peluche e l’avrebbe lasciato in vista, lui si sarebbe limitato ad avvicinarsi chiamandola per nome. Si guardò un po’ intorno, cercò fra le cabine e sulla strada ma non vide nessuno, Michela aveva proprio desistito nel seguirla e questo la rendeva insicura, troppo insicura. La sua amica doveva essere proprio arrabbiata visto che non aveva ancora il cellulare, forse il danno che aveva combinato sarebbe stato difficile da ripagare. Michela non poteva valere meno di un ragazzo sconosciuto. Prese un sasso e lo lanciò in acqua, nell’ultima mezz’ora aveva ripetuto quel gesto innumerevoli volte, tanto che le si era indolenzito il braccio destro, al quarto rimbalzo si senti chiamare per nome. Si voltò di scatto e rimase impietrita.
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Definire strano l’uomo che era appena sceso da una BMW nera equivaleva a dire ai suoi che aveva dieci in tutte le materie. Un’assurdità. Dire che era italiano ancora peggio. No era straniero, spaesato continuava a guardarsi attorno. In più la maglietta bianca spiccava dietro il giubbotto in jeans scuro. Ma la targa dell’auto era italiana. Era certa di non essere stata notata come del fatto che quell’uomo nascondesse qualcosa appeso al fianco destro sotto il giubbotto. E successe una cosa imprevista, il tizio puntò dritto e a o svelto verso Erika, Michela capì immediatamente che la sua amica era l’obiettivo di quel personaggio strano, i conti non tornavano più e si fece la domanda più stupida che potesse farsi in quel momento, “Ma non doveva avere la nostra età?” L’uomo nel frattempo si era avvicinato alla sua amica e l’aveva chiamata per nome, ormai era certa che era quella la persona che Erika doveva incontrare e poi vide lo stupore nel suo viso appena si voltò. Non era ciò che Erika si aspettava, anzi dallo sguardo della ragazza capì che era pericoloso. Un movimento colpì la sua attenzione. «Ma che cazzo, quella è una pistola!» L’esclamazione le morì in gola dalla paura, doveva fare qualcosa e subito, il cellulare era spento e avrebbe impiegato troppo tempo per accendersi e poter chiamare qualcuno, doveva agire, subito!
Non pensò a sé o alla morte, contava solo Erika. Partì a razzo agitando lo zainetto all’altezza della testa, voleva tentare di colpire l’uomo in qualche modo per poi tentare la fuga. Ma non era così che poteva funzionare, aveva sbagliato tutto. Lui la vide arrivare, distolse lo sguardo da Erika, si rese conto di ciò che stava accadendo e spostò subito la pistola in direzione di Michela che capì senza tanto sforzo che cosa stava per accadere. Cambiò direzione e gettò via lo zainetto per correre il più veloce possibile verso le cabine prima della strada, si maledì per aver lasciato il cellulare nella sacca. Altra mossa sbagliata. Perché non era facile come nei film dove la persona braccata riusciva almeno a nascondersi per qualche minuto attendendo l’arrivo dell’eroe? Perché semplicemente la vita non era un film, ma cosa facevano nei film quelli che cercavano di schivare le pallottole? Ah sì, zigzagavano come pazzi. Allora forse poteva funzionare. I pensieri innescati dall’adrenalina e dalla paura rimbalzavano come fulmini tra le sinapsi del cervello e i fasci di nervi che attraversavano la spina dorsale facevano muovere i suoi arti in modo veloce e organizzato, ma nei film chi sparava sembrava sempre mezzo cieco e chi fuggiva indovinava sempre dove si sarebbero schiantate le pallottole. Forse però aveva una possibilità. Cambiò ancora direzione ma non sentì alcuno sparo e questo era molto strano, si stava allontanando in fretta quando udì lo schiocco. Non se lo aspettava così acuto, nei film sembrava che sparassero sempre con dei cannoni al posto delle pistole. Un secondo dopo dovette ammettere che quello che succedeva nei film era solo pura e vera finzione.
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L’uomo non perse il controllo e puntò l’arma verso l’estranea maledicendosi per non averla notata prima. Quella buttò tutto in terra e iniziò a scappare cambiando direzione continuamente, il giochino lo divertiva e quasi lo faceva sentire onnipotente. “Dove credi di andare ragazzina?” pensò nella sua lingua natia. “Ma che ti dice quella testolina?” “Non ti hanno spiegato che i proiettili sono più veloci degli esseri umani?” “Perché non ti sei fermata dov’eri? Ora mi tocca sparare...” Tenne l’arma puntata seguendo senza difficoltà i cambi di direzione senza senso che la ragazzina stava compiendo, militari non si nasce. Troppi film che fanno pensare che ogni persona possa essere un eroe, ma la vita vera è molto diversa e l’uomo dell’est lo sapeva bene, lo aveva imparato nella guerra civile, dai massacri di innocenti, le pulizie etniche e le fosse comuni piene di bambini e adulti. Tutto era il risultato della follia umana, delle incomprensioni razziali, delle religioni estremiste. Esseri umani, una bella parola per descrivere degli animali con intelligenza superiore. Perché in fondo siamo solo animali più evoluti. E decise, perché non poteva correrle dietro e lasciare la vera preda nella possibilità di scappare nella direzione opposta, aveva pochi secondi e l’effetto sorpresa stava già svanendo. Trattenne il respiro, irrigidì il polso e tirò indietro l’indice che eseguì un movimento lento e preciso. Sì, perché nella realtà, puntare un’arma da fuoco e andare a segno non è facile come tutti pensano. E il proiettile partì. Veloce coprì la distanza dal suo bersaglio.
E colpì. Senza alcuna pietà, il piombo non ha pietà ne sentimenti. Ma l’uomo dell’est? Lui sì, li aveva e sapeva bene come reprimerli, non era la prima volta che succedeva, nella guerra civile si era impresso bene nella mente i volti di chi cadeva a causa sua, aveva deciso arbitrariamente il destino di diverse persone, come fece in quell’istante. Poteva lasciarla scappare? Probabilmente si. Lui si sarebbe dileguato prima che le forze dell’ordine riuscissero a mettere in piedi i necessari posti di blocco e nessuno si sarebbe fatto male, ma la decisione più logica era stata di non lasciare un testimone scomodo. Era stato giusto così. E non era colpa sua se quella non si era fatta i fatti propri. Ecco il modo per scaricarsi dalle malefatte, spostare il baricentro della colpa sulle sue vittime, era facile, indolore e senza problemi di coscienza. Semplice e perfetto, se restavi a casa tua non ti succedeva nulla piccola ragazza ingenua. Si girò verso la preda ammutolita, la prese per un braccio e la trascinò letteralmente via di lì. Era meglio che non continuasse a guardare, certe cose i ragazzini non dovrebbero vederle. Si avviò verso la strada trascinando con se un qualcosa che poteva assomigliare ad un sacco di patate.
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Tutto successe rapidamente, l’uomo che si era avvicinato le aveva puntato quell’arma addosso senza che lei ne conoscesse il motivo, cosa poteva volere un adulto da una ragazza della sua età? Perché era lì? Pensieri che si affollavano nella testa, sgomitavano e rimbalzavano avanti e indietro nel cervello, troppe domande tutte nello stesso istante e quella che ora riconosceva come una pistola era ancora puntata contro di lei. Forse poteva scappare ma non c’erano nascondigli nelle vicinanze. Sì, era veloce nella corsa, era allenata ma poteva fuggire a lungo? E dove? Poi successe l’inaspettato. Un grido giunse dalla strada e a quel punto comparve dal nulla una ragazza che correva verso l’aggressore, indossava dei vestiti strani , un cappello da cowboy, degli improbabili occhiali da sole che sembravano di sua nonna e agitava uno zainetto sopra la testa. Poi la riconobbe. Era il suo angelo custode, l’amica di sempre e l’aveva seguita fin lì. Insieme ce la potevano fare? Domanda stupida perché la risposta era scontata ed era no! L’uomo spostò l’attenzione sulla nuova arrivata, Erika si accorse che anche l’arma aveva seguito il volto del malvagio e non era più puntata verso il suo corpo, nello stesso istante la sua amica gettò lo zainetto a terra e cambiò direzione. Si stava allontanando. I secondi avano lenti, troppo lenti e inesorabili, la ragazza non sapeva cosa fare, notò l’estrema calma dello straniero
e capì. Capì che cosa stava per succedere. Quando si tratta di persone care in pericolo il nostro cervello inizia a lavorare in maniera frenetica e analitica, la nostra chimica interna e la biologia riescono a compiere dei miracoli impressionanti, si possono fare gesti in cui di solito si impiegano secondi ad una velocità tale che può rasentare la soglia dei millisecondi, è una cosa antica, fa parte dell’evoluzione dell’essere umano, è lì nascosta pronta ad entrare in azione all’occorrenza. In alcuni casi la chiamano adrenalina. In altri istinto. La rabbia montò e pervase Erika, la sbloccò all’istante nell’unica mossa che il suo cervello in frazioni di secondo aveva ritenuto logica e funzionante. Colpire. E colpì. Con tutta la forza che il suo corpo di adolescente poteva permettersi tentò di dare una sorta di spallata all’uomo, il risultato fu deludente ma andò a segno sul fianco sinistro e la reazione, seppur leggera, si verificò. Lo scoppio assordante le rimbombò nella testa, l’odore di bruciato si propagò nell’aria circostante, guardò verso la sua amica e la vide a terra, immobile. Ammutolita provò a muoversi ma le gambe non rispondevano, nulla rispondeva ai suoi comandi, il volto s’inumidì, erano lacrime. Il dolore s’impossessò di lei, non riusciva a togliere lo sguardo da quel corpo, non troppo distante, finito in una posizione innaturale. Sperava che si muovesse, che si rialzasse anche se la risposta la sapeva già. La risposta era stata lo scoppio precedente. Aveva azzerato ogni possibilità di reazione, di sopravvivenza, era finita così. Una vita era finita così. La sua amica era morta così. E si sentì profondamente in colpa, desiderava morire anche lei, che l’essere ignobile che aveva ucciso Michela sparasse anche a lei. Ma questo non avvenne,
non era nelle intenzioni di quell’uomo. Si sentì presa per un braccio, la morsa era potente, e fu trascinata via da lì, verso la strada. Non riusciva più a respirare, singhiozzando spasmodicamente si abbandonò al vuoto incolmabile lasciato da quell’evento e si afflosciò al suolo, sentiva la sabbia insinuarsi tra i capelli, entrare nelle scarpe, sembrava volerla seppellire. Ma l’essere ignobile sollevò il suo corpo da terra con una delicatezza inaspettata, aprì la portiera del veicolo e la posizionò sul sedile posteriore. Lui le legò le mani con del nastro adesivo marrone, fino a quel momento non aveva mai parlato. Fissò Erika dritto negli occhi, lo sguardo era duro ma sembrava dirle “stai tranquilla”, le porse un fazzoletto che lei usò in modo maldestro per asciugarsi il viso e poi lo lasciò cadere sul sedile accanto. L’uomo chiuse la portiera, salì al posto di guida e avviò la macchina. «Non doveva succedere.» disse con un accento strano. Innestò la marcia e il veicolo prese a muoversi.
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L’aria sparì all’improvviso, un pugno, sembrava che le avessero dato un pugno in piena schiena e i polmoni le si erano svuotati completamente. E poi dolore, da un punto imprecisato del corpo arrivò alle gambe che si afflosciarono facendola finire a terra in una posizione talmente scomoda che non riusciva nemmeno a muoversi. Ma la realtà era un’altra, semplicemente non aveva la forza per farlo. Era una marionetta senza fili, così sembrava, un pupazzo abbandonato al suo destino. Si era addensata la nebbia ma sapeva che erano gli occhi a non rispondere più e la natura si era ammutolita. Le onde del mare, dov’era finito il rumore del mare? Nonostante tutto il cervello funzionava ancora e lei riusciva a ragionare sulla situazione, allora perché era lì a terra come un sacco di patate? Semplice e disarmante. Era stata colpita. E sarebbe morta. Ma quanto le restava ancora? Non voleva, non era giusto, era giovane e amava la vita, voleva crescere e provare a cambiare il mondo, non doveva finire così. Era trafitta da mille aghi a ogni nuovo respiro, e ognuno sembrava dovesse essere l’ultimo. Brividi, sì aveva freddo ma non era tornato l’inverno e sapeva che il sole tentava di riscaldare il suo corpo abbracciandola con la sua calda luce. Arrivò la stanchezza, diversa dalla sensazione provata alla fine di una giornata intensa, semplicemente stava perdendo la lotta contro la morte. La signora incappucciata che campeggiava in quasi tute le sue t-shirt. E la sensazione di freddo aumentava.
«Aiuto.» dopo un’eternità quella parola era rimasta intrappolata in gola. Tentò di nuovo. «Aiuto.» Niente da fare. Era quella la morte? Svuotati da tutte le energie, non essere in grado di far uscire alcun suono, vedere tutto al rallentatore con il tempo che si dilata e smette di scorrere? Questo è il famoso sonno eterno? E arrivò la paura, non sapeva cosa c’era dopo la vita. In effetti non lo sa nessuno, nemmeno i sacerdoti che indottrinano i fedeli sono sicuri di cosa ci sia dopo, bisogna affidarsi alla fede insegnata dalla religione e sperare di andare nel tanto sognato paradiso. Si aspettava di vedersi librare sopra il suo corpo morente come succedeva nei film dove addirittura l’anima o quello che doveva essere, sentiva e vedeva tutto ciò che accadeva, medici che tentavano il miracolo della rianimazione, familiari in attesa, l’orologio che scandiva i minuti ati nel tentativo di salvare una vita e la frase di rito “Mi dispiace ma non c’è più niente che possiamo fare”. Ma non stava avvenendo niente di tutto ciò, era ancora imprigionata in quel corpo morente, restava poco e ne era convinta, voleva solo che i suoi genitori fossero lì per farle coraggio negli ultimi istanti della sua breve vita. Ma era un rifiuto abbandonato. Probabilmente avrebbero trovato il suo corpo entro poche ore e lo avrebbero reso ai suoi genitori che sarebbero crollati sotto il peso del dolore perché, anche se non tolleravano il suo modo di vestire, era sicura che l’amassero come tutti i genitori amano i propri figli. E’ una legge della natura e non ci si può fare niente. L’energia vitale era sparita, anche il dolore non esisteva più. “Forse quando si è vicino alla morte non si sente più male” pensò. Decise che era giunto il momento di lasciarsi andare e cessare la lotta, chiuse gli occhi e ipotizzò il suo funerale. Il lungo viale del cimitero di Osimo e il carro funebre all’ingresso, lento e
silenzioso ava tra i cipressi scortato dal corteo di parenti, amici e compagni di scuola. Suo padre era il bastone di sua madre e accompagnava la donna in prima fila, la coppia sembrava tutt’uno con l’asfalto. Erika, nella folla mancava Erika e la sua assenza era la certezza che il bastardo l’aveva portata chissà dove. Non era riuscita a proteggerla, aveva fallito, aveva infranto la promessa che le due ragazzine si erano fatte da piccole. Ognuna doveva proteggere l’altra e lei non c’era riuscita. “Allora merito veramente la morte.” pensò. “Dio, finirò all’inferno per questo?” Era la prima volta che faceva una richiesta al padre celeste e comunque l’avrebbe scoperto presto. E finalmente scese il buio e si sentì leggera e tranquilla, stava finendo tutto.
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Bologna, 27 aprile 2009
A piedi, era rimasto inspiegabilmente a piedi, non era riuscito a mettere in moto la macchina e aveva ripiegato sulla motocicletta, ma in realtà non gli dispiaceva molto, cominciava a fare caldo e al limite poteva starsene seduto al tavolo del bar, ormai la barista sapeva la sua vera identità e non lo avrebbe sicuramente cacciato via. Che cosa fosse preso invece alla sua auto non gli era per niente chiaro, l’aveva usata per tutto il venerdì precedente senza notare cose strane ma quella mattina non ne aveva proprio voluto sapere. Alla fine, continuando a fare tentativi su tentativi, si era scaricata la batteria e quindi era ufficialmente a piedi. Gli occhi, nascosti dalle lenti rettangolari a specchio dei suoi ray-ban, avano in rassegna ogni riga del quotidiano che aveva in mano, ma chiunque lo avesse visto seduto fuori dal bar avrebbe pensato a un funerale imminente. Era in nero dai capelli ai piedi, anche se in realtà indossava delle scarpe da ginnastica nike bianche che era impossibile non venissero notate. Sullo schienale della sedia che era al suo fianco aveva appoggiato un giubbotto in jeans. Il tepore dei raggi del sole che lo colpivano era veramente piacevole, si stava paragonando ad una lucertola quando si materializzò davanti a lui Paola, la barista, che lo guardò con i suoi splendidi occhi ramati porgendogli una birra. «Offro io!» sorrise ammiccando. «Grazie, come mai?» «Una donna che ti offre una birra ti mette a disagio?» «No, per niente. Lo fanno tutti i giorni. Ho schiere di donne in fila che vogliono offrirmi da bere!» scoppiò a ridere.
«Davvero, è un modo per ringraziarti per aver dato una lezione all’idiota della settimana scorsa.» «Non potevo far finta di niente. E poi quello stronzo meritava di essere preso a sberle.» «Comunque non si è fatto più vivo, quindi tu non sei qui per lui.» appoggiò la birra sul tavolo. «Come pensavo, sei intelligente. Ti ho detto che era un sospetto spacciatore ma in realtà era la persona sbagliata. Forse un complice ma il pezzo grosso, il capo per intenderci, non si è ancora fatto vivo. Eppure ho avuto molte segnalazioni in zona.» “Però aveva una pistola addosso.” Pensò Davide. «Scusa ma non capisco. Come mai allora uno che fa il tuo lavoro si occupa di droga?» «Non mi sembra di aver mai sentito di» abbassò la voce facendola diventare quasi un sussurro «investigatori privati che si occupano di droga.» «Hai ragione, in effetti di solito non mi occupo di queste cose. Sono stato ingaggiato per controllare un ragazzo che lavora in quel palazzo giallo. I suoi pensano che qualcuno gli venda le dosi prima che torni a casa la sera.» Davide bevve un sorso di birra. «Però pagano bene e ho accettato» «Beh sicuramente sarà più interessante che seguire qualcuno che tradisce la moglie o il marito.» Paola intanto si era seduta alla sua sinistra. «Ah, abbiamo questa fama? Guarda che non ci ingaggiano solo i cornuti...» «Scusa non volevo offenderti.» «Non fa niente, in parte è vero quello che dici.» Trangugiò un altro sorso di birra. Visto che si stava annoiando a morte decise che poteva dedicare qualche minuto
alla sua nuova amica. «Sei fidanzata?» «No, non ho trovato ancora quello giusto. Però tu sei sposato, porti la fede.» «Vero, da cinque anni.» nel frattempo si era tolto gli occhiali da sole. «E quanto resterai ancora nei paraggi?» incalzò Paola. «Non molto. Credo di portare a termine l’indagine entro la fine di maggio.» «Peccato, mi sento più sicura sapendo che sei qui intorno tutto il giorno. Polizia e Carabinieri si vedono di rado qui. A parte sabato mattina per via dell’intrusione di non si sa chi nell’ufficio dell’assicuratore, quello che era al tavolo insieme al tuo presunto spacciatore.» disse la frase guardando verso il palazzo di fronte. «Ah si? E cosa è successo? Qualcuno ha raccontato qualcosa?» le chiese con aria stupita. «Mah, di preciso non si sa» Paola tornò a guardarlo negli occhi «sembra che fossero almeno tre e che sono entrati ma non hanno toccato nulla.» «Ah sì? E allora cosa ci sono andati a fare?» «Non ne ha idea nessuno, si sa soltanto che i due vigilantes sono stati trovati imbavagliati e legati con le stringhe dei loro scarponi. E sostengono di essere stati aggrediti da più persone contemporaneamente.» «Mah, entrano in un ufficio e non toccano nulla. Veramente strano.» Davide sghignazzava tra se e se. «Non so, sei tu l’investigatore no?» rimbrottò la ragazza. Qualcosa attirò l’attenzione di Marchi, due sagome scure si erano materializzate in fondo alla strada. Sembravano spaesate, sicuramente non erano di quelle parti perché continuavano a guardarsi intorno come se cercassero di capire dove si trovassero e discutevano animatamente. Arrivati davanti al palazzo giallo si fermarono e controllarono il citofono, erano sicuramente alla ricerca di qualcuno. Uno dei due prese un cellulare, digitò qualcosa e continuò a tenere in
mano l’oggetto per alcuni secondi. «Quei due laggiù sono strani.» commentò Marchi. «Perché?» chiese la ragazza. «Vedi come sono schivi e continuano a guardarsi intorno?» «Sì lo vedo.» «Piccola regola dell’investigatore: Notare sempre i comportamenti altrui, possono regalarti indizi.» «E che cosa ti fanno pensare?» «Che stanno per combinare qualche cosa di losco.» rispose sorridendo. «Ma tu noti sempre tutto di tutti?» «Più o meno, purtroppo è deformazione professionale. Altrimenti non chiuderei nessuna indagine. Vedi ora hanno ricevuto qualcosa sul telefonino e vanno verso l’ingresso. Aspetta un attimo! Ma quello non è quel tizio... sì, come si chiama?» «Baldi.» «Sì quello lì! C’è qualcosa che non torna!» esclamò Davide. «Guarda lo hanno preso per un braccio e stanno per entrare nel palazzo.» indicò Paola. «Devo andare a vedere. Ti spiegherò prima o poi. Grazie per la birra. Ci vediamo.» Lasciò Paola a bocca aperta e senza un filo di voce. Davide si avvicinò in fretta alla sua Ducati nera, aprì il vano sotto la sella e tirò fuori la fotocamera con il teleobiettivo. Inquadrò i tre che si allontanavano e gli venne un dubbio, scattò la foto e la riguardò ingrandita sul display. L’uomo alla sinistra di Baldi aveva un rigonfiamento sul fianco sinistro, era sicuramente una pistola. Doveva intervenire o almeno avvicinarsi il più possibile per carpire qualche informazione, ma non era armato e non sapeva che intenzioni potessero avere i due personaggi spuntati dal nulla. Rimise a posto la fotocamera e chiuse
la sella della moto avviandosi a o veloce verso l’ingresso. Intanto i tre erano entrati nello stabile, decise di tergiversare un attimo fingendo di cercare il nome di un ufficio nei cartelli e poi entrò anche lui. Li seguì a debita distanza con fare disinteressato e finse di proseguire per il secondo piano, attese alcuni secondi e poi tornò sui suoi i. Ora doveva trovare il modo per ascoltare eventuali discorsi e doveva capire cosa stava accadendo, ma cosa poteva escogitare? Nel frattempo la porta era stata chiusa e per giunta a chiave, aveva sentito chiaramente le mandate della serratura. Non c’era nessuno e decise di appoggiare l’orecchio sul legno ma riusciva a captare solo deboli rumori e incomprensibili parole, non andava bene. Niente andava bene. Sentì cadere qualcosa di pesante, poi gli sembrò di udire un grido, poteva anche essersi sbagliato, poi solo il silenzio. Stava escogitando un piano per entrare mentre i minuti scorrevano inesorabili, non poteva abbattere la porta perché i due tizi lo avrebbero steso in meno di dieci secondi con un colpo di pistola, poteva solo aspettare. Teneva ancora l’orecchio appoggiato alla porta quando si rese conto che, dall’altro lato, stava arrivando qualcuno. La chiave iniziò a girare nella serratura, due mandate erano brevi, e Davide scattò in fondo al corridoio fingendo di entrare in un ufficio fra i tre presenti. I due stranieri, nel frattempo, erano usciti e stavano richiudendo il battente a chiave, fece finta di aver sbagliato posto e tornò indietro per provare un’altra porta, continuò ad osservare i due uomini allontanarsi con molta calma. Appena i due iniziarono a scendere le scale si avvicinò all’ingresso dell’ufficio di Baldi e attese, sapeva che non poteva aprire la porta e che Baldi non poteva farlo, le chiavi le avevano i due uomini del mistero, quindi qualcosa non era andato per il verso giusto. Ormai i due dovevano essere fuori dal palazzo e il portinaio non era in guardiola, si allontanò e piazzò un calcio poco sotto la maniglia, facendo saltare la serratura e la cornice adiacente. L’eco del colpo rimbombò per le scale ma sembrò non interessare nessuno. Entrò nella stanza. Era vuota ma sapeva che da qualche parte c’era Baldi, si spostò in quella adiacente dove, nell’incursione notturna, aveva trovato i pezzi del DVD e niente
sembrava fuori posto, ciò che era caduto era stato sicuramente rimesso dov’era. Probabilmente stava contaminando la scena di un crimine, la sua indagine sarebbe saltata e anche il suo ingaggio. Mancava solo il bagno, la porta era chiusa, si avvicinò e l’aprì con delicatezza cercando di fare meno rumore possibile, la maniglia si abbassò senza emettere alcun suono e il battente girò sulle cerniere senza cigolii. Era perfettamente oliata. E vide Baldi. E sul pavimento si stava formando una pozza di liquido scuro. L’uomo era seduto su una sedia di legno bianco, probabilmente era stata presa dalla stanza col divanetto e il liquido a terra era sicuramente era sangue. L’assicuratore respirava ancora e Marchi si avvicinò al corpo. La testa era piegata da un lato e guardava il pavimento, le braccia erano distese sui fianchi della sedia e sulle gambe c’era un biglietto scritto a mano che non toccò. Prese un asciugamano e alzò la testa dell’uomo che tentò di dire qualcosa. Davide non riusciva a capire da dove provenisse il sangue, poi ci arrivò notando le mani completamente rosse. C’erano dei profondi tagli su polsi. Trovò un altro asciugamano e lo avvolse sul polso destro, fece la stessa cosa con il primo asciugamano all’altro braccio, prese il cellulare e compose il numero del centodiciotto. Spiegò la situazione all’operatore del centralino e si assicurò che mandassero un’ambulanza con un medico rianimatore. Baldi emise ancora un suono che sembrava un grugnito, aprì gli occhi ma erano vitrei. Marchi si avvicinò e provò a parlare con l’uomo. «Mi sente? Riesce a dirmi cosa è successo?» Una voce proveniente dagli inferi pronunciò una frase sconnessa. «Mi...a mogl...ie, è... per..icolo. Indir...zo, tav...lo pc. Ai...to» «Mi ascolti, tenga duro sta arrivando l’ambulanza e ora chiamo i carabinieri, ma devo lasciarla solo, devo correre da sua moglie. Riesce a capire?» «Si... G..zie» «Stia tranquillo andrà tutto bene. E’ una promessa.» Davide corse fuori dall’appartamento con in mano il cellulare. Compose in fretta il numero di casa
Baldi sperando che Rebecca rispondesse velocemente. E Rebecca rispose. «Rebecca sono Marchi, non ho tempo per i convenevoli e le spiegazioni, mi ascolti! Chiuda tutte le finestre del pian terreno e la porta d’ingresso. Ha una cantina o qualcosa di simile dove si possa nascondere? Bene si nasconda lì, stanno arrivando degli uomini ma non sanno che ne è al corrente, stia tranquilla e rimanga nascosta. Sto venendo lì e arriveranno anche i rinforzi. Mi raccomando non si muova assolutamente, per nessun motivo. Deve fare in modo che quelli che stanno venendo lì perdano più tempo possibile. Si fidi di me.» chiuse la comunicazione, era arrivato alla moto, indossò il casco, accese il mezzo e fece inversione di marcia. Innestò la prima e partì facendo sgommare la ruota posteriore, la barista lo stava osservando dal bancone mentre serviva il caffè a un cliente ma lui non si accorse di nulla. I due si erano avviati da diversi minuti ma non sapevano dove si trovava esattamente l’abitazione dell’assicuratore, Marchi sì e lui aveva la moto, era più veloce e loro non sapevano che erano seguiti. Effetto sorpresa, ma gli serviva un’arma o qualcosa di simile. Pochi minuti dopo e un semaforo rosso ignorato arrivò davanti l’abitazione, c’era una Mercedes grigia parcheggiata nei pressi del cancello pedonale, la oltreò e svoltò a sinistra in una strada secondaria, spense la moto e la spostò sul marciapiede. Tornò indietro a piedi verso l’ingresso della villa ma il cancello era chiuso, provò a guardare all’interno del cortile, non si vedeva nessuno. Decise di scavalcare. Atterrò sul vialetto e si gettò di lato dietro un cespuglio di ortensie, si mise a controllare meticolosamente tutto ciò che era possibile vedere da quella posizione. Notò che tutte le finestre a vista erano chiuse, come l’ingresso principale. Si avvicinò alla porta blindata e cercò di percepire eventuali rumori, niente da fare. Da lì poteva vedere il lato lungo dell’abitazione e tutto era tranquillo. Era arrivato prima? Poi notò qualcosa che sembrava fuori posto, si avvicinò e scoprì che era una grata.
Bocche di lupo. Si maledì, l’aveva messa in trappola. Non aveva tempo per chiedere aiuto. Doveva fare presto. Scese nel buco con la massima cautela possibile cercando di evitare rumori, c’erano poco più di due metri e quindi il salto era stato minimo. La piccola finestra era aperta, un foro praticato ad arte sul vetro, aveva permesso ai due malviventi di per poter infilare una mano e girare la maniglia. Non si sentivano rumori, entrò anche lui. Dentro non c’era nessuno. I suoi occhi si abituarono in fretta alla scarsità di luce, si guardò intorno alla ricerca di una porta. Un lungo tavolo in legno, al tatto doveva essere massello, occupava buona parte del locale ed era circondato da sedie praticamente identiche al tavolo. Doveva trovare un’arma. Notò un mobile occupare un’intera parete, spiccava per il colore molto chiaro, probabilmente bianco, e dalla parte opposta vide qualcosa che assomigliava a una cucina. Perfetto! Avrebbe trovato sicuramente dei coltelli. Iniziò ad aprire i cassetti finché tastò ciò che cercava, scelse un coltello con la lama lunga più di un palmo di mano e ben appuntita, si avvicinò all’uscio che era aperto e provò a sbirciare sul vano scale. Era buio, non vedeva nessuno ma c’era una curva. Iniziò a salire i gradini con calma, uno alla volta, con la schiena appoggiata alla parete per offrire un bersaglio più piccolo possibile nel caso ci fosse stato qualcuno ad attenderlo più in alto.
Ma non c’era nessuno. La porta che dalla scala dava su quello che doveva essere il soggiorno era spalancata e la stanza scarsamente illuminata, si affacciò dall’apertura e vide uno dei due uomini intento a frugare in un cassetto di un mobile, era quello dove aveva notato le fotografie quando aveva fatto visita alla signora Baldi. L’altro non aveva idea di dove fosse. Doveva attirare il tizio in qualche modo per metterlo in trappola. I due intrusi non sapevano di essere in compagnia. Brutta compagnia. Marchi decise di varcare la soglia, l’intruso gli dava le spalle ed era distante al massimo tre o quattro metri, poteva sfruttare ancora l’effetto sorpresa. Si avvicinò senza fare rumore, allargò le braccia e circuì il corpo dell’uomo appoggiandogli la lama del coltello da cucina sotto la gola e una mano davanti alla bocca. Quello iniziò a dimenarsi violentemente, Davide riusciva a trattenerlo a fatica ma non mollava la presa. Nella lotta fecero cadere un vaso da una delle mensole del mobile, effetto sorpresa svanito nel nulla. Sentì dei movimenti al piano di sopra e un’imprecazione in una lingua sconosciuta, era l’altro intruso. Cercò di trascinare l’avversario verso le scale che portavano nel sotterraneo, voleva avere le spalle coperte prima che l’altro arrivasse lì. Il secondo uomo era salito al piano superiore e sentendo il fracasso scese a controllare, vide il compare goffamente in piedi davanti alla porta della scala che conduceva in cantina, poi si rese conto della realtà e tirò fuori la pistola. Davide offriva ancora un bersaglio facile, era di traverso rispetto alla scala e quando vide il secondo intruso estrarre l’arma capì che doveva fare qualcosa e subito. Raccolse tutte le energie a disposizione e cercò di girare l’uomo in modo che fosse davanti a lui, lo sforzo era immane ma l’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento. Partirono due colpi. E andarono a segno. Qualcuno nascosto nella taverna sussultò a tal punto da far aprire l’anta del mobile che fungeva da nascondiglio, voleva uscire per andare a vedere ma sapeva che non era una buona idea. Richiuse la porticina e si nascose ancora nel
mondo di nessuno sperando di trovare un viso amico quando sarebbe uscito di li. Si rannicchiò in un angolo con la testa sulle ginocchia e restò in attesa tremante di paura. Il torace dell’uomo sussultò, le gambe gli cedettero ma non cadde, anzi iniziò a spostarsi all’indietro in modo strano. Per poi ricadere in avanti come un sacco vuoto. Altri due lampi illuminarono la stanza, Marchi era riuscito nell’impresa e si era precipitato per le scale dando un colpo al battente nel tentativo di chiuderlo. Doveva guadagnare tempo. Ora erano uno contro uno e poteva farcela. I proiettili produssero due fori sul legno ad un’altezza paragonabile alla testa di un uomo. Lo stronzo aveva una buona mira. Arrivò in fondo alla rampa, chiuse anche quella porta e attese in un angolo buio. Sentì il secondo uomo precipitarsi per le scale. L’intruso varcò la soglia arma in pugno confidando di avere la situazione sotto controllo, era armato e il suo avversario non poteva uscire da lì. Avanzò controllando la stanza ma non riusciva a vedere alcuna sagoma e alcun movimento, aveva trovato la luce accesa nella scala ed ora i suoi occhi si dovevano abituare all’oscurità. Davide invece era sceso col buio, aveva la luce prima di chiudere la porta e ci vedeva meglio, sgusciò fuori dal suo nascondiglio, un angolo alla destra dell’uscio e in corsa piazzò un calcio al braccio teso dell’avversario. Partì un colpo e poi l’arma cadde lontano. L’altro si riprese e tentò di dare un pugno in faccia a Marchi ma non andò a segno e prese una pedata sul fianco sinistro. Si piegò in avanti e scaricò la rabbia accumulata buttandosi addosso al suo avversario. Finirono entrambi sul tavolo, l’investigatore cadde sul lato sinistro perdendo il coltello e l’altro uomo sul lato destro dove trovò la pistola. La semi automatica sparò di nuovo, erano già sei i colpi usati, e se il caricatore nell’impugnatura era nuovo ne restavano altri 6. Troppi. Doveva disarmarlo. Ma come?
Marchi girò intorno al tavolo fino a portarsi il più distante possibile dall’aggressore, l’altro lo stava seguendo. Prese una sedia e, calcolando il momento giusto, la lanciò verso l’avversario centrandolo in pieno torace. L’uomo per un attimo barcollò mentre Davide lo aveva già raggiunto brandendone un’altra. E colpì. La sedia si schiantò sul cranio dell’intruso provocando una profonda ferita dalla quale uscì un fiotto di sangue, l’uomo si accasciò sul pavimento che iniziò a macchiarsi del liquido rossastro. Sembrava in preda alle convulsioni, tremava dalla base del collo fino ai piedi e la pozza vicino al viso si stava allargando. L’agonia non sarebbe durata a lungo. Davide guardò quell’essere morire e sapeva che non avrebbe avuto alcuna possibilità di capire chi fossero quei due e come potevano essere collegati a Baldi e alle informazioni ottenute fin’ora. Doveva cercare Rebecca che sembrava non essere in casa. Poi si accorse di un particolare. Cercò l’interruttore e accese la luce. Un’anta del mobile che si trovava dall’altra parte del tavolo si era aperta, ma dentro sembrava non esserci nessuno. Si avvicinò e vide la donna, era in terra appoggiata su un fianco, la camicetta rosa era sporca di sangue, il braccio destro era finito sotto la testa ed era coperto dai capelli, il sinistro era dietro la schiena. Respirava ancora. L’investigatore constatò che non poteva spostarla, il proiettile era entrato sul fianco destro ma era anche uscito e si era conficcato nella schiena del mobile. Doveva essere successo nel momento in cui l’aggressore aveva esploso il colpo dall’altra parte del tavolo, l’anta dell’armadio non era stata in grado di fermare la pallottola e Rebecca era stata colpita. Corse al piano superiore, scavalcò il cadavere alla fine delle scale e cercò il bagno, doveva tamponare la ferita. Trovò un asciugamano, intanto il cellulare era di nuovo coperto dal ripetitore e chiamò i soccorsi, spiegò cosa era accaduto alla polizia, aveva un amico, e si rese
disponibile per rispondere a qualsiasi domanda, ma doveva assolutamente salvare la donna. Ritornò nella taverna, premette l’asciugamano sulla ferita, Rebecca emise un flebile gemito di dolore, rimase in attesa dei soccorsi e iniziò a contare i minuti. Non aveva ancora avvisato Sara, sua moglie, del casino che era successo e forse era meglio attendere. Si chiese se il marito della donna si fosse salvato, i due stranieri avevano messo in scena un suicidio ma avevano commesso l’errore di picchiare l’uomo e i segni sul volto erano ben visibili. Erano dei pivelli. Solo che ora erano tutti e due nel mondo dei morti e non avrebbe cavato alcun indizio da ciò che era successo nella casa, se fosse morto pure Baldi tutto sarebbe finito in un vicolo cieco. E c’era qualcosa che scottava in quella storia. Doveva scoprirlo. Sentì arrivare le sirene dell’ambulanza e della polizia, corse di sopra ad aprire la porta, fece entrare i militari e i paramedici indicando di scendere le scale. Aprì le finestre che erano rimaste chiuse facendo entrare la luce del giorno per permettere ai poliziotti di fare i rilevamenti. Scese le scale per assicurarsi che i paramedici non avessero bisogno di aiuto o spiegazioni. Rebecca venne caricata sulla barella e spostata al piano di sopra dove fu intubata, iniziarono a somministrarle una flebo di fisiologica. «Signore mi scusi...» Davide si sentì chiamare «Mi dica.» «Lei sta sanguinando, venga che controlliamo.» il paramedico lo invitò ad avvicinarsi. Davide si guardò addosso e scoprì che era ferito ad un braccio, non si era accorto di nulla. «Fortunatamente è solo una ferita superficiale, disinfettiamo e mettiamo una
benda.» Il volontario applicò il bendaggio con movimento sicuro. «Grazie, posso andare ora?» «Si, ho finito.» La donna fu caricata sull’ambulanza che partì veloce verso l’ospedale, non c’era tempo da perdere. L’investigatore dovette restare in quella casa per rispondere alle domande e ricostruire gli avvenimenti di quella specie di mattatoio. Il suo racconto durò quasi un’ora, si erano fatte le undici del mattino, aveva spiegato anche ciò che era successo nell’ufficio di Baldi e scoprì che il suo amico in polizia sapeva già tutto, mentre lo interrogavano aveva chiamato i carabinieri che erano intervenuti. L’assicuratore era in ospedale e lottava tra la vita e la morte, aveva perso molto sangue ed era sotto trasfusione. «Non riesci a fare a meno di cacciarti in qualche casino tu?» chiese Luca. «Sembra proprio di no, deve essere deformazione professionale la mia.» «Ascoltami bene, lascia stare questa indagine. Non è adatta a te. I due che hai steso fanno parte di un qualche cosa di grosso. Erano qui per uccidere quella donna. I colleghi che sono intervenuti nell’ufficio hanno detto che è stato simulato il suicidio. Lascia andare avanti noi.» Luca stava frugando nel cadavere al piano terra. «Non posso mollare, lo devo a Rebecca, me la caverò in qualche modo, se scoprirò qualcosa ti avviserò all’istante.» rispose guardando fuori dalla finestra. «Come vuoi, sono ormai quattro anni che ci conosciamo e lo so che sai usare il cervello. Stai attento questa è gente che non scherza e io non posso obbligarti a smettere di svolgere il tuo lavoro. Cerca solo di non farti ammazzare. Non vorrei dover essere io a dirlo a Sara. Se vuoi puoi andare, continuiamo noi qui. Poi ti informerò sull’esito dei rilievi. Ci sentiamo. E salutami Sara, mi raccomando!» «Grazie, lo farò di certo. Ci sentiamo. Ciao.» Davide si avviò verso l’uscita.
26
Riviera del Cònero, 27 aprile 2009
Era decisamente primavera ormai, constatò un uomo attempato in tuta da ginnastica azzurra mentre tentava di osservare il mare e i gabbiani che galleggiavano placidamente sull’acqua. Sotto il caldo sole stava portando a so il suo cane o meglio era il labrador miele a portare a so lui. Si lasciò strattonare fino alla battigia e poi decise di liberare il fido amico per poter riposare il braccio. Fred partì a razzo verso l’acqua, si tuffò e cercò di acchiappare uno dei gabbiani che per tutta risposta si librò in volo emettendo un verso che era a metà tra una minaccia e lo scherno. Il suo padrone lo aveva chiamato in quel modo perché era maldestro come il personaggio della serie animata dei Flinstones. Il cane ritornò a riva e iniziò a correre allegro sulla battigia facendo schizzare l’acqua ovunque ogni volta che le sue zampe toccavano terra, il padrone lo seguiva a distanza. Seppur impegnato nella corsa aveva tutti i recettori olfattivi attenti e annusava l’aria a caccia di odori interessanti. L’uomo lo richiamava se si allontanava troppo e intanto lo seguiva a o svelto. Un forte odore incuriosì Fred che puntò il suo nasone marrone in terra per seguirlo. Il tizio in tuta notò il comportamento del cane e si avvicinò, riagganciò il guinzaglio al collare e iniziò a seguirlo. Camminarono per un paio di minuti, poi Fred lo strattonò iniziando a tirare come un pazzo. L’uomo guardò nella direzione in cui l’animale lo stava trascinando e notò una sagoma sulla sabbia, era ancora troppo distante per capire cosa fosse. Sembrava un sacco della spazzatura. Intanto la distanza si riduceva rapidamente, Fred era incontenibile. No! Sbagliato!
Era una persona. Continuò a seguire Fred avvicinandosi a quello che scoprì essere una ragazzina, la posizione innaturale non presagiva niente di buono e poi si accorse che la sabbia intorno al busto era di colore rosso. L’uomo trasalì. Era sangue, e tanto! Prese al volo il cellulare e chiamò i soccorsi, restò lì ad aspettare cercando di tenere Fred lontano dal corpo. Guardò bene la ragazzina e si accorse che sembrava respirare, forse era solo una sua impressione ma poteva essere ancora viva. Erano ati già diversi minuti e ancora non vedeva nessuno. Iniziò a percepire il suono della sirena e si spostò verso la strada per indicare ai sanitari dove fermarsi. Legò il cane a un paletto di ferro vicino alle cabine di legno. L’ambulanza arrivò e ne scesero due uomini e una donna che indossavano delle divise arancioni con le bande rifrangenti per non farsi investire la notte. «Fate presto è laggiù!» disse l’uomo. Arrivò anche l’auto medica dalla quale scese una donna sui cinquant’anni, sicuramente era un dottore. Seguì i tre volontari fino a raggiungere quel corpo. Si chinò e constatò che i segni vitali erano molto deboli ma c’era ancora una speranza, flebile, ma c’era. Diede le indicazioni ai tre paramedici, li aiutò a girare la ragazzina e a posizionarla sulla barella. L’uomo in tuta aveva recuperato uno zainetto che era poco distante e, pensando che appartenesse alla ragazza ferita, iniziò a svuotarlo. Trovò un cellulare, lo accese e cercò di capire quale numero potesse essere di un familiare. Poi lo vide, il contatto era memorizzato come “Mamma” e il significato era inconfutabile. Decise di chiamare. Nel frattempo i soccorritori avevano collegato una flebo al braccio sinistro della ragazza, sollevarono la barella e si avviarono verso la strada. «Mi scusi dove la portate?» chiese l’uomo
«A Loreto, è il presidio più vicino e non abbiamo tempo da perdere. Se sopravvive la sposteremo dopo. Cerchi di avvisare i genitori.» «Lo sto per fare, vi seguirò a minuti.» L’uomo selezionò il contatto e premette il tasto per avviare la comunicazione. Restò in attesa di una risposta. «No, signora non sono sua figlia, è il numero di sua figlia questo vero?» Attese la risposta. «Io non saprei come spiegarlo, insomma, la ragazzina ha avuto un incidente. Ora è in ospedale a Loreto. Ma cerchi di stare tranquilla e se può venga subito. Mi scusi ora devo andare lì anch’io. Io sono Moreno, mi riconoscerà perché indosso una tuta da ginnastica azzurra.» L’uomo chiuse la comunicazione, nel frattempo, poco lontano, aveva recuperato anche un telo mare e un altro zainetto, Caricò Fred nel bagagliaio, salì al posto di guida, accese il motore e si avviò verso l’ospedale.
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Ospedale di Loreto, 15:25
Un lampo bianco nel buio. Un suono impercettibile, parole incomprensibili e ovattate. Questo era il aggio dalla vita alla morte oppure la sua anima stava fluttuando da qualche parte senza meta? Perché poteva continuare a pensare come se fosse ancora viva? Mentre si domandava questo prese forma una sagoma lattiginosa, un essere di luce circondato dalle tenebre, stava dicendo qualcosa ma le parole erano incomprensibili. Sentiva dolore, le anime provano le stesse sensazioni di quando erano ancora all’interno del corpo? La sagoma assunse delle sembianze più umane, indossava un vestito non meglio definito bianco, no era una divisa, ora la vedeva chiaramente e ne riconobbe il ruolo. L’essere di luce era un’infermiera e la stava guardando sorridendo. Ora riusciva a capire le parole. «Ben tornata tra noi Michela.» Conosceva il suo nome? «Dove sono?» la domanda le uscì in modo strano, la lingua non voleva collaborare. «In ospedale, sei stata trovata sulla spiaggia di Marcelli da un signore che stava portando a so il cane.» l’infermiera si spostò più a destra. Una donna minuta e magra si avvicinò al letto, la camicia bianca era fermata in vita da un borsello da parrucchiera e gli occhi cenere lucidi la stavano fissando.
Le labbra sensuali produssero un sorriso leggermente accennato ma inconfondibile. Era sua madre. Con addosso i soliti jeans sporchi di tinte per capelli. I suoi genitori si erano sposati che erano ancora quasi ragazzini perché Marina era in dolce attesa e il suo fidanzato aveva insistito per le nozze, nonostante la giovane età i due si erano trovati un lavoro e cresciuto lei. Molto spesso lei e sua madre venivano scambiate per sorelle e la gente restava a bocca aperta quando scopriva la verità, la donna aveva solo trentadue anni. «Ciao mamma, ho fatto un casino.» «E’ tutto a posto, stai tranquilla. Il papà non è potuto venire ma lo vedrai presto.» Marina si portò alla destra del letto. «Non riesco a muovere le gambe, non le sento.» cercò di sollevarsi ma non ci riuscì. Intervenne l’infermiera per sollevarle la schiena agendo su un comando elettrico. «Ecco fatto, puoi alzarti e abbassarti con questo. Devo spiegarti una cosa.» Michela prese in mano la pulsantiera. «Sono paralizzata vero?» «Sei una ragazza intelligente, purtroppo non potrai più camminare. Il proiettile ha danneggiato la colonna vertebrale tagliando i collegamenti nervosi con le gambe. Ha mancato di poco il cuore. E’ rimasto incastrato in una vertebra e ha fatto in modo che non perdessi troppo sangue. Altrimenti non saresti qui ora.» «Era meglio se morivo.» disse guardandosi il palmo delle mani «Perché dici questo? Dovresti essere felice, sei ancora con me e tuo padre.» la parrucchiera la fissò con aria triste. «C’era anche Erika con me, uno l’ha portata via. E’ quello che mi ha sparato.
Non sono riuscita a proteggerla, non ho mantenuto la promessa.» il viso era rigato dalle lacrime «Te la senti di parlare un po’ con alcune persone?» «Devo proprio?» «Vorrebbero chiederti cosa è successo questa mattina.» «Va bene posso provarci.» Entrarono due figure in uniforme blu con pantaloni più chiari, erano della polizia, la donna bionda dagli occhi azzurro cielo era chiaramente il capo, il fisico asciutto veniva messo in risalto dall’abito che le stava a pennello, si capiva benissimo che i capelli erano raccolti sotto il baschetto, aveva un o sicuro e deciso. Le parlò con estrema dolcezza. «Ciao Michela, io sono Veronica, vorrei farti delle domande. Te la senti?» si fermò accanto alla parrucchiera. «Credo di si.» «Bene, da dove vuoi iniziare?» Nel frattempo il sottoposto alto e tarchiato con un naso che poteva far invidia ad un tucano si era portato alla sua sinistra e stava iniziando a prendere appunti. «Non lo so, forse è meglio dall’inizio.» spostò lo sguardo verso la madre «Va bene, allora cominciamo. Quando ti sentirai stanca dimmelo che ci fermiamo. Sei pronto anche tu Paolo?» «Pronto.» Michela iniziò il racconto, parlò della sua amica e del ragazzo di internet, di come Erika si fosse legata a questa persona, della decisione di incontrarlo e di farlo da sola. Spiegò di aver voluto seguire la ragazza di nascosto perché non si fidava, della sorpresa quando comparve l’uomo misterioso e di tutto quello che successe prima che perdesse i sensi in seguito alla ferita. Tutto veniva trascritto meticolosamente sul taccuino del poliziotto.
«Te la senti di descrivere questa persona?» chiese Veronica. «Penso di si.» «Ok, Paolo ti farà delle domande. Lui è un bravissimo disegnatore e darà un volto a quell’uomo cattivo.» Il sottoposto iniziò con le domande e lavorava di matita e gomma ad ogni risposta della ragazza. Dopo una ventina di minuti diede una faccia all’aggressore. Michela disse che il disegno era quasi perfetto. Il poliziotto prese in mano una ricetrasmittente e aprì la comunicazione. «Abbiamo l’identikit, vengo lì per trasmetterlo alle volanti.» l’uomo uscì. «Per favore trovate Erika, vi prego.» Michela scoppiò a piangere. «Cerca di non pensarci, ora ho bisogno di avvisare quella famiglia. Qui ho finito. Sorridi che la vita è bella e riserva sempre cose meravigliose.» Veronica strinse la mano alla ragazza e alla madre e si avviò verso l’uscita. «Mamma, come sarà la mia vita da oggi? Avrò sempre bisogno di qualcuno che mi aiuti a fare anche le cose più semplici. Sarò un peso per te e papà vero?» si accorse che la stanza non era poi così brutta, era luminosa e spaziosa. «No, non devi pensare questo. Per noi sarai sempre la nostra bambina.» la donna si sedette per riposarsi un po’. «Non mi vorrà nessuno e resterò da sola.» «Come ti vengono certe idee? Sei giovanissima e hai tutta la vita davanti, vedrai che quando meno te lo aspetti arriverà qualcuno e dimenticherai tutto.» Michela, nel frattempo stava guardando fuori dalla finestra ma non c’era niente di interessante, cercò il fazzoletto, le lacrime erano tornate e doveva soffiarsi il naso. Marina anticipò il movimento e ne porse uno alla figlia. «Non posso dimenticare Erika, quello l’ha portata via!» strinse la mano della donna «Io non sono riuscita a proteggerla, non ho mantenuto la promessa, non posso perdonarmelo.»
La parrucchiera si alzò e si spostò verso la finestra, la socchiuse leggermente, si era formata una corrente d’aria troppo fresca e la Michela non poteva prendere freddo. «Mamma, quanto dovrò restare in ospedale?» «Ancora tre giorni, poi potremo tornare a casa. I medici vogliono essere sicuri che non si formi un’infezione, se non ti verrà la febbre ti dimetteranno. Domani avviserò la scuola, vedrai che i tuoi compagni ti verranno a trovare, così non penserai a questa brutta storia.» «Quando uscirò da qui vorrei che mi portassi in chiesa. Lo so che non ci vado mai, è vero, ma vorrei chiedere un favore a chi sai tu.» «Non c’è bisogno di andare in quel luogo, Dio ti ascolta anche qui, devi solo volerlo. Se ti senti a disagio ti lascio sola.» Marina si avviò verso l’uscita «Quando hai finito basta che mi chiami, sarò vicino alla porta.» varcò l’uscio e si richiuse il battente dietro le spalle. Michela intrecciò le mani e chiuse gli occhi, il suo cuore formulò la richiesta di aiuto e lei sperò che arrivasse il più in alto possibile.
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Bologna, 27 aprile 2009, 17.30
L’odore di disinfettante identificava nel migliore dei modi quel posto, gli ospedali ne sono sempre intrisi. Il bianco alle pareti rendeva tutto più luminoso, peccato che la stanza fosse rovinata dai due letti di un verde pallido che dava l’impressione di un lavoro non finito. Una grande finestra permetteva al sole di entrare liberamente nella stanza. La signora Baldi occupava il letto numero due della stanza ventiquattro. Davide e sua moglie entrarono e trovarono la donna sveglia che guardava il soffitto, si avvicinarono al letto e Sara appoggiò un mazzo di fiori sul comodino lì accanto. Rebecca si girò verso la coppia con le lacrime che le rigavano il viso. «Non ce l’ha fatta, non ci siamo neanche salutati. Se ne è andato senza che potessi parlargli.» «Mi dispiace, non sono riuscito ad intervenire in tempo.» Davide guardò verso la finestra. Non poteva dire alla donna che non aveva la più pallida idea di chi fossero quelle persone. «La polizia ha avviato le indagini, siamo nelle loro mani ora, io non posso più fare niente. Purtroppo.» «Almeno è riuscito a proteggere me, magra consolazione, ma sono in debito con lei.» Rebecca era tornata a guardare il soffitto. «Le presento Sara, mia moglie, ci tenevo che vi conosceste.» «Allora è lei che ha rubato il cuore di quest’uomo, se lo tenga stretto.» abbozzò un leggero sorriso.
«Starò attenta ne sia certa signora Baldi.» Sara le sorrise. «Mi chiami pure per nome, magari un giorno diventeremo amiche.» «Ok, va bene Rebecca. Spero proprio che lo diventeremo.» «Davide, mi deve dire che cosa ne pensa, sono sicura che lei si è fatto un’idea del perché lo hanno ucciso e cercavano anche me.» L’investigatore si portò al fianco destro della donna e la guardò negli occhi «Purtroppo ho poche prove, posso soltanto presumere che avesse qualche contatto con delle persone dell’est europeo, ma non so di cosa si occue. Non erano sicuramente i soliti clienti.» «Lei lo ha visto ancora vivo, vero?» «Si, probabilmente sono stato l’ultima persona con cui suo marito ha parlato. Rebecca, lei è viva grazie a Mario. Non sapeva chi ero eppure mi ha chiesto di venire ad aiutarla. E’ stata il suo ultimo pensiero.» «Vorrei che vada avanti con l’indagine, mi dica quanto vuole per continuare. Faccia in modo che quei bastardi finiscano dietro le sbarre e forse potrò anche perdonarmi di non aver capito che ci fossero dei problemi più seri che una semplice storia con un’altra donna.» Sara guardò il marito negli occhi, era sicura della risposta ma fu più contenta leggendogliela in faccia. «Rebecca non voglio soldi da lei, ora è diventata una questione personale. Avevo già deciso di continuare, ho un amico in polizia che mi farà sapere l’esito dei rilievi fatti sia a casa che nell’ufficio. Spero solo di riuscire a mettere insieme degli indizi utili.» «Davide, mi tolga una curiosità, lei non è un semplice investigatore privato, vero? Quello che ha fatto a casa mia non è da uomini comuni. Insomma, mi hanno detto che ha ucciso due persone.» «Sì,» intervenne Sara «mio marito ha fatto il militare in zone di guerra. Quando ha deciso di smettere si è messo a fare questo lavoro.»
La donna si voltò verso il comodino e visti i fiori abbozzò un sorriso guardando Sara. Iniziava a sentire nuovamente un po’ di dolore, guardò verso l’ingresso della stanza e la moglie di Marchi comprese al volo il bisogno, si avvicinò alla porta e premette un pulsante arancione. In pochi secondi arrivò un’infermiera con addosso un camice verde pastello, spingeva un carrello pieno di scatole di medicinali che fermò accanto al letto di Rebecca. «Ha bisogno di aiuto?» «Sento di nuovo dolore al fianco, potrebbe darmi qualcosa per stare meglio?» «Certo signora, le metto un antidolorifico nell’acqua. Ha bisogno di andare in bagno?» «Si, non so se riesco a scendere da sola.» la donna provò a mettersi seduta ma senza successo. «Aspetta ti aiuto io, dammi la mano.» Sara si prodigò per sollevarle la schiena in modo da farla sedere sul letto. «Forse perderò il rene, il proiettile lo ha danneggiato molto, se non riescono a debellare l’infezione dovranno operarmi. Sara mi accompagneresti in bagno?» Rebecca fissò la moglie di Davide negli occhi, lo sguardo era sofferente. «Certo, tieni le ciabatte e mettimi un braccio intorno alla vita.» Le due donne si avviarono verso la parete opposta al letto, varcarono l’uscio e si richio la porta alle spalle mentre l’infermiera ritornò alle sue mansioni. Qualcosa vibrò nelle tasche dei pantaloni di Davide, era il telefono cellulare. Tornò alla finestra, si appoggiò al davanzale e rispose. «Pronto? Si sono io. Ah grazie, me ne ero dimenticato. Ora sono in ospedale, verrò a recuperarlo. Ok a dopo. Grazie ancora.» si voltò e attese che le due donne uscissero dal bagno. Si ritrovò a studiare nei minimi dettagli tutto ciò che era avvenuto la mattina, i due tizi dell’est, la morte dell’assicuratore e il tentato omicidio di Rebecca che non aveva la minima idea di quello che combinava il marito. Eppure quelli avevano cercato di inscenare un suicidio, che poteva avere un senso, ma perché
uccidere anche la donna? Probabilmente lo scopo era far pensare a un omicidio suicidio ma avevano comunque sbagliato i tempi e il medico legale se ne sarebbe accorto. E’ un po’ difficile che un uomo con i polsi tagliati possa uccidere la moglie. E comunque perché dovevano eliminarli tutti e due? La risposta era una sola. A casa Baldi c’era qualcosa che nessuno doveva trovare. Ora sapeva dove cercare altri indizi. Le due donne uscirono dal bagno, Sara aiutò Rebecca a salire sul letto e le sistemò i cuscini dietro la testa. «Ho dimenticato il mio giubbotto al bar, mi hanno chiamato per avvisarmi» «Vai pure a prenderlo, io resto qui. Mi recupererai al ritorno, ho l’impressione che Rebecca non riceverà molte visite.» La donna guardò entrambi «E’ vero, io e Mario non abbiamo amici. Non ci siamo mai impegnati per averne, ci siamo chiusi nella nostra vita agiata camminando soli per il mondo.» «Allora credo che parlare un po’ con Sara le farà bene. Vado, ci vediamo dopo.» Davide uscì dalla stanza a o veloce, le infermiere stavano già ando col carrello della cena. Raggiunse il parcheggio, salì in macchina e partì in direzione del locale, probabilmente Paola lo avrebbe sommerso di domande alle quali non poteva e non voleva dare risposte. Strada facendo si sarebbe inventato qualche scusa.
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27 aprile 2009, Autostrada
Da quando erano partiti non aveva smesso di piangere finché, esaurite le lacrime, si addormentò. La sua mente continuava a mostrarle frammenti di ciò che era successo, non c’era tregua, vedeva come in un replay senza fine il momento dello sparo e quel corpo inerte a terra. Era solo sua la colpa se Michela ora non c’era più. Si svegliò di colpo. Erano ate diverse ore, aveva quasi perso la cognizione del tempo ma sapeva che era pomeriggio inoltrato e che si trovavano da qualche parte in veneto. Viveva in una sorta di dormiveglia con gli occhi chiusi ma i sensi all’erta, non aveva voglia di guardarsi intorno. Il suo aguzzino le aveva dato da mangiare e da bere, l’aveva fatta scendere dall’auto per fare i bisogni come un cane in qualche piazzola di emergenza per poterla controllare meglio, forse l’uomo aveva paura che nelle stazioni di servizio ci fosse troppa gente che poteva accorgersi di qualcosa. La cosa positiva era che non le aveva fatto del male, anzi era trattata come se fosse un oggetto fragile che poteva rompersi da un momento all’altro, quell’uomo non aveva più parlato dal momento della partenza dal mare e lei non aveva comunque voglia di ascoltarlo. Ebbe una sensazione strana, sembrava che qualcuno fosse accanto a lei, che le parlasse. Ma era del tutto impossibile c’era solo quell’essere spregevole alla guida e la radio era spenta. Ancora la voce. Non poteva essere vero. Stava impazzendo?
O Michela era li con lei? Tutto tornò come prima, questione di pochi secondi, non sapeva cosa pensare, l’avvenimento era stato inequivocabile, era sicura ma allo stesso tempo molto turbata perché tutto quello che era successo rasentava l’assurdo, il mistico, la fantascienza. E le faceva paura. Eppure poteva giurare di aver sentito la voce della sua amica pregare per lei. Era lì accanto? O lo shock per l’accaduto manipolava la realtà e le faceva immaginare tutto? Le sarebbe rimasto il dubbio finché non fosse successo di nuovo, ma poteva accadere ancora? Probabilmente no. Ma in cuor suo sperava il contrario. Ora si sentiva più tranquilla e più forte, immaginare che la sua amica potesse essere lì vicino le infondeva sicurezza. E sperò di sentirla ancora.
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27 aprile 2009, Ancona ore 18
Bip, bibip, bibibip. Chi poteva chiamarlo alle sei del pomeriggio? Si allontanò dal computer portatile, prese il cellulare e guardò il display, Alessandro Stecca. Gli si materializzò un sorriso in faccia, non sentiva il suo amico avvocato da diversi mesi e fare due piacevoli chiacchiere avrebbe fatto riposare un po’ il suo cervello. Schiacciò il simbolo della cornetta verde. «Pronto, Ale qual buon vento?» L’espressione del viso mutò all’istante. «Quando è successo?» iniziò a vagare per la stanza Il suo amico raccontò l’accaduto e non si dava pace, stava parlando di un computer, internet, chat e posta elettronica. Solo che mischiava tutto, si capiva che l’argomento non era il suo pane. «Ok, senti cerca di tenerli buoni. Inventati qualcosa, digli che vuoi parlarne col tuo consulente informatico, insomma trova una scusa.» Dall’altro capo la voce era chiaramente turbata e impaurita, qualcuno piangeva e si sentivano delle voci che cercavano di infondere sicurezza. «Stai tranquillo in mezz’ora sarò lì da te. La polizia postale è in gamba ma hanno troppe procedure da rispettare. Mi basta clonare il disco rigido del computer, poi possono prendersi tutto quello che vogliono.» Mentre ascoltava l’interlocutore cominciò a raccogliere le sue cose, mise il
netbook in una valigetta insieme a un disco USB esterno che doveva diventare un clone, il suo archivio di software per il recupero dei dati, un blocco per appunti e una penna. Sì, perché nell’era in cui tutto era informatizzato, Mirko, usava ancora molto carta e penna. «Sì lo so che non potrei farlo, ma devi dire ai poliziotti di aspettarmi. L’avvocato sei tu no? Ci sarà pure un cavillo per perdere un po’ di tempo. Mezz’ora e sarò lì, poi ci parlerò io. Tranquillo sto arrivando.» si precipitò fuori dall’appartamento, raggiunse la macchina e partì in direzione della casa del suo amico. Non riusciva a crederci, conosceva Alessandro da quando erano piccoli, l’amico aveva sette anni in più ma da piccoli giocavano sempre insieme e si erano frequentati anche nella vita, l’aveva visto sposarsi, diventare padre e perdere il proprio, fino ad affermarsi nel lavoro che aveva sempre sognato di fare. Aveva anche lavorato per lui come consulente in una causa e una volta, Alessandro, lo difese quando un’azienda produttrice di software lo denunciò per aver divulgato un bug potenzialmente pericoloso per la privacy dell’utente finale. E avevano vinto, era stato risarcito con un bel gruzzoletto per i danni morali ricevuti che aveva usato per acquistare un nuovo server. Ora, quella telefonata aveva messo in agitazione anche lui, perché conosceva bene il mondo virtuale di internet, la pericolosità di alcune chat line, i truffatori e i maniaci di ogni genere. Erano stati creati dei siti denominati social network, dove la gente metteva pure quante volte andava al gabinetto e soprattutto inseriva sempre più spesso foto di altre persone, cosa più grave di minori. Questo, per Mirko, era la cosa più sbagliata che potessero fare, come non proteggere in alcun modo i figli che usavano internet, eppure la rete era piena di software gratuiti che, anche se non professionali, limitavano di molto la possibilità di imbattersi in spazi web poco attinenti alle ricerche fatte. Ma la gente, semplicemente, se ne fregava convinta che non potesse mai succedere niente di pericoloso, perché in fondo si era a casa propria davanti a un monitor. Divorò i chilometri che lo separavano dalla destinazione finale, forse aveva preso pure una multa per eccesso di velocità, ma non era importante. Gli premeva capire che cosa diavolo era successo al suo amico e la presenza della polizia poteva essere solo un cattivo segno. Arrivò davanti alla villetta, notò le due pantere azzurre parcheggiate ai bordi della strada e decise di posteggiare una ventina di metri più avanti. Scese e si
avviò verso l’ingresso, pigiò il tasto del citofono e attese. Fuori i vicini erano curiosi e bazzicavano nei dintorni con palese nervosismo. Il cancelletto pedonale si aprì e alla porta d’ingresso vide comparire Alessandro, il volto era contratto da un smorfia che non era ne di dolore ne di rabbia, era indecifrabile. Saltarono a piè pari i convenevoli e varcarono l’uscio che dava nel soggiorno, l’ampio locale stava ospitando quattro uomini in divisa azzurra. Due si trovavano accanto a una grande libreria color ciliegio e stavano parlando tra loro, uno aveva un computer portatile in mano e stava trafficando con un cellulare, l’ultimo era seduto al grande tavolo dalle linee tondeggianti dello stesso colore della libreria e stava scrivendo qualcosa su un blocco per appunti. Non vedeva, Annalisa, la moglie del suo amico ma sentiva la sua voce, rotta dal pianto, provenire da qualche stanza adiacente il locale. Parlava con un’altra donna. «Agenti, è arrivato il consulente di cui vi parlavo prima.» Alessandro indicò la persona al suo fianco Il più alto dei quattro, all’incirca due metri d’uomo, si avvicinò quasi con aria minacciosa. «Il computer è sotto sequestro, lei non è autorizzato a toccarlo.» «Va bene, questo posso anche capirlo, se mi lascia spiegare forse possiamo trovare un accordo.» «Forse non ci siamo capiti» il poliziotto alzò la voce «il computer non si tocca!» «Ascolti, sono un esperto in sicurezza informatica, se vuole prenda i miei documenti e verifichi nei vostri data base. Chiedo solo di poter clonare il disco per controllarne il contenuto, a me il computer non serve a niente. Vi avviserò di qualsiasi cosa troverò al suo interno.» Mirko fece impercettibilmente un o indietro. L’altro si avvicinò di nuovo «Le ho detto di no! Chiusa la questione.» e si allontanò. L’informatico tentò di replicare ma aveva capito che era una battaglia persa. Fece un cenno all’amico per fargli intuire che non avrebbe insistito. In quell’istante, da una delle altre stanze, arrivò una donna in divisa.
«Che cosa sta succedendo qui. Chi è che alza la voce?» La bionda aveva un’aria familiare ma con la divisa e il baschetto non riusciva a mettere a fuoco dove l’aveva vista, poi incrociando il suo sguardo, Mirko, trasalì. Quegli occhi azzurro cielo li conosceva bene, come il piccolo neo sotto l’occhio sinistro. Era Veronica. La ragazza che aveva amato e non aveva più dimenticato. Lei lo riconobbe all’istante e abbozzò un sorriso, si avvicinò al collega che aveva il portatile in mano con aria contrariata. «Non devi alzare la voce qui dentro, non te lo dirò più. C’è gente che sta male.» la voce era quasi un sussurro. «Si, mi scusi dottoressa. Ho esagerato.» l’uomo abbassò lo sguardo. «Bene.» si spostò verso il nuovo arrivato. «Buona sera Mirko, è ato molto tempo come va?» «Tutto sommato direi bene, vedo che sei diventata importante.» fece un cenno verso gli altri poliziotti. «Sì, diciamo di sì. Come mai sei qui?» «Alessandro è un amico d’infanzia e mi ha chiesto spiegazioni sul sequestro del computer della figlia.» guardò lo spilungone vicino al tavolo. «Ho sentito che vuoi clonare il disco, perché?» «Voglio cercare di capire con chi la ragazza si frequentava, visto che al telefono, Ale, mi ha raccontato di un possibile adescatore o qualcosa di simile.» non riusciva a togliere lo sguardo dagli occhi di Veronica. «E tu riusciresti a farlo meglio dei colleghi della postale? Non mi ricordavo che fossi così presuntuoso. O mi sfugge qualcosa?» lo fisso con aria dura. «Sono laureato in informatica e sono esperto in materia di sicurezza. Posso
risalire a molte cose accedendo a quel disco e sicuramente più in fretta di voi.» «Per esempio?» «Posso arrivare a capire la città della persona con cui chattava o se non l’aveva conosciuto in qualche social network posso recuperare qualsiasi dato, anche cancellato, che possa darci delle risposte. Diciamo che potrei già darvi qualcosa di concreto in nottata.» «Allettante ma non si può, violerei le regole e mi giocherei la carriera.» «Quindi la carriera è più importante di una ragazzina che è sparita nel nulla?» si stava innervosendo. «Non volevo dire questo. E’ che ho le mani legate. A meno che... Fammi fare una telefonata. Torno subito.» uscì in strada. Mirko osservò la donna mentre si allontanava e non poté fare a meno di notare che, in divisa, era fantastica. Veronica rientrò dopo pochi minuti sorridendo. «Un funzionario mi doveva un favore, puoi lavorare su quel computer ma in nostra presenza. Quindi, ragazzi,» guardò i due che erano in auto con lei «stasera si resta qui. Gli altri possono tornare in caserma.» «Non so come ringraziarti» disse Mirko. «Lascia stare, vediamo di trovare qualcosa di concreto. Hai solo questa notte per darmi dei veri indizi e dimostrarmi quello che vali. Vedi di non deludermi.» la poliziotta si avvicinò al tavolo e prese posto su una sedia invitando Mirko a sedersi al suo fianco. Dall’altro lato si sedette Alessandro, mentre Annalisa aveva portato dei bicchieri e delle bottigliette d’acqua. Era a pezzi. L’informatico accese il computer e attese che il sistema operativo fosse pronto, nel frattempo aveva preparato i vari software per recupero dati e l’hard disk esterno. «Ok, ci sono pochi software di comunicazione che si sono affermati nel mondo, li possiamo contare sulle dita di una mano, questo che vedi è uno dei più usati.
E’ fatto bene, ti permette di fare tante cose ma dal lato sicurezza e privacy non è affidabile. Per esempio le conversazioni non sono criptate e se è abilitata l’opzione per salvare le sessioni su disco, basta entrare nella cartella principale del programma e aprire il file corrispondente alla data della chiacchierata.» guardò il suo amico. «Quindi possiamo vedere cosa scriveva la ragazzina e a chi, giusto?» chiese Veronica. «Si esatto, come vedi ci sono mesi di registrazioni e c’è di più» un telefonino iniziò a squillare «scusate è il mio, rispondo un attimo.» schiacciò il tasto per accettare la chiamata che era stata deviata dal suo server sulla linea telefonica. Era riuscito a mettere a punto un sistema che inoltrava il flusso dei dati per le chiamate digitali, in voice over ip, sulla comune linea telefonica, se qualche sconosciuto voleva parlare con lui era sufficiente fargli avere il suo name e comunicargli di usare qualunque software di comunicazione, lui riceveva il tutto sul telefonino. In questo modo non doveva dare il suo numero privato a nessuno che non conoscesse di persona e soprattutto, in caso di minacce, era in grado di rintracciare la provenienza della chiamata. «Pronto?» attese che l’altro replicasse. «Sì sono io ma ora sono molto impegnato, potrebbe richiamare domani mattina?» intanto stava controllando i file relativi alle conversazioni. «Ho capito che è importante ma ora proprio non posso, sto facendo un lavoro delicato che non posso interrompere. Domani risponderò a tutte le domande che vuole» l’altro insistette. «No, mi ascolti per favore, lo so chi è lei, ho letto la sua richiesta sul forum ma non posso proprio, sto facendo una cosa molto delicata che devo finire entro questa notte. Mi dispiace deve aspettare domani. Buona sera.» chiuse la comunicazione e si concentrò sul display del computer. «Ci sono parecchi file, dovremo aprirli tutti per farci un’idea delle persone con cui chattava. Sarà un lavoro molto lungo.» iniziò dal più vecchio in ordine di creazione. Mentre leggevano e cercavano di ricostruire i vari legami con gli altri coetanei della ragazza, Veronica inviò i suoi due sottoposti alla ricerca di una pizzeria per
prendere qualcosa da mettere sotto i denti, aveva rifiutato l’offerta di Annalisa che voleva cucinare per lasciarla tranquilla. Gli argomenti delle chiacchierate online erano i più disparati, ragazzi, scuola, professori, cose varie che succedevano nel mondo. Si poteva notare l’estrema intelligenza e sensibilità che caratterizzava Erika e molte delle persone che conosceva. Il tempo ava e i dati che stavano raccogliendo erano interessanti, soprattutto quelli riguardanti un ragazzo che era comparso da poco e aveva conquistato la ragazza con i sui discorsi da adulto. Due ore dopo avevano piuttosto chiara la situazione, Erika doveva incontrarsi con questa persona la mattina appena trascorsa, ora bisognava scoprire che cosa realmente fosse successo. L’amica che era stata ferita aveva fornito a Veronica un identikit di un uomo tra i trenta e i quarant’anni, le discussioni tra i due facevano pensare che ci fosse troppa disparità di età. Insomma questo Angelo, o come si faceva chiamare, ragionava troppo da adulto e spesso, leggendo bene tra le righe, si tradiva. Era chiaro che si trattava di adescamento di minore. «Ok, ora che il quadro è abbastanza chiaro che si fa?» La poliziotta fissò Mirko dritto negli occhi. «Ora dovremo cercare di recuperare in qualche modo l’indirizzo ip di questo tizio. Non sarà facile ma il programma ne tiene traccia da qualche parte. Dovrò spulciare un po’ di cartelle per capire se registra altri dati.» l’uomo distolse lo sguardo e si mise a fissare lo schermo. «E cos’è questo indirizzo ip?» «Ogni collegamento dati tra computer usa un protocollo di comunicazione nato molto tempo fa, ma validissimo ancora oggi, che assegna un indirizzo numerico, fatto in un certo modo e che è univoco durante tutta la sessione di comunicazione e trasferimento dei dati. Possiamo farlo assomigliare all’indirizzo delle nostre abitazioni, se tu devi spedirmi un pacco hai l’obbligo di specificare il mio indirizzo di casa altrimenti il postino non saprà dove consegnarlo. La stessa cosa vale per il trasferimento dati tra elaboratori elettronici e si usano appunto degli indirizzi numerici particolari per identificare con sicurezza un computer tra milioni connessi.» Mirko fece l’occhiolino alla donna. «Per me quello che dici è arabo. Comunque, in base a quello che hai detto si
dovrebbe riuscire a individuare l’esatta posizione di quel computer?» Veronica bevve un sorso d’acqua. «Non è proprio cosi facile perché l’indirizzo varia ogni volta che accendi il modem e ti connetti al tuo fornitore di servizi telefonici. Il modem riceve un indirizzo ip valido da un server e questo varia ad ogni connessione e comunque dopo un certo tempo cambia ugualmente. Quindi bisognerebbe prenderlo nello stesso istante in cui si è collegati con in computer dell’altro interlocutore, che poi è l’indirizzo del modem, non del PC.» «Quindi mi stai dicendo che è tutto inutile e che siamo comunque a un vicolo cieco?» le dita affusolate pizzicarono una delle guance di Mirko. Era un gesto che la donna faceva spesso quando i due si erano innamorati a scuola, significava disappunto. «Ahi! Non hai perso questo vizio, vedo!» si toccò la guancia. «Solo con te.» gli sorrise «Allora come si procede?» «Fammi vedere se riesco a recuperare l’indirizzo ip dell’ultima volta che si sono scritti, con quello potete contattare il fornitore dei servizi e farvi dire a quale abbonato era stato assegnato in quel momento. A voi della polizia non possono dire di no, io dovrei procurarmelo in modo illegale.» le fece il gesto delle sbarre. «Ah quindi sei un mezzo criminale? Vedi di recuperare quell’indirizzo altrimenti toccherà anche all’altra guancia.» Veronica si alzò per andare a parlare un po’ con la moglie di Alessandro. Mirko si sentiva veramente bene accanto a lei, era semplicemente fantastica. Ritornò al suo lavoro, cominciò a perlustrare tutte le cartelle create da quel software, risalì alle impostazioni dell’utente salvate in una sottocartella del sistema operativo ma non trovò niente che indicasse dove cercare eventuali log. Possibile che quel software non salvasse i dati relativi alle connessioni? No, dovevano essere da qualche parte. Per forza. ò un’altra ora, ormai erano le undici di sera, cominciava a sentirsi stanco e gli riusciva difficile concentrarsi. Chiese un caffè e dopo pochi minuti comparve Veronica con due tazzine.
«Come va?» «Niente da fare, sembra proprio che sto cavolo di programma non recuperi alcun dato relativo ai collegamenti.» «Lascia perdere, sarebbe stato troppo facile. Possiamo sempre avvisare i colleghi di Bologna, questo Angelo diceva di essere di quella città.» buttò giù il caffè in un sorso. «Per voi sarebbe come cercare un ago in un pagliaio e poi, se ora è in fuga, non lo troverete più.» Nel frattempo aveva riaperto l’ultimo file relativo alla sera precedente, dove i due si erano dati appuntamento. All’improvvisò notò una cosa che avevano sempre ignorato. Il documento era suddiviso, ovviamente, in righe separate a seconda dell’utente che stava scrivendo, e tra ogni blocco di conversazione c’era una riga vuota. Mirko aveva pensato che fosse un modo per rendere evidente il cambio di utente ma era comunque indicato a inizio riga l’name dello scrivente. Gli si accese la lampadina. «Ho capito! I dati sono stati sempre qui e non li abbiamo visti!» si era alzato in piedi di scatto. «Ma che stai dicendo?» «Ora ti faccio vedere, seleziono la riga e cambio il colore. Il resto lo vedi da te.» «Porca puzzola!» «Eccoti l’ora, il giorno e l’indirizzo ip del fantomatico Angelo.» «Sei un genio!» «Potevo arrivarci prima, in fondo è una tecnica che usano nelle pagine dei siti per mascherare dei link dove, chi sa trovarli, può accedere a pagine nascoste.» fece un sorriso compiaciuto a Veronica. «Giuro che se lo becchiamo ti faccio dare un encomio.» lo baciò su una guancia. Il viso di Mirko assunse una colorazione che avrebbe fatto invidia a un peperone.
Alessandro, che non aveva aperto bocca dall’inizio dei lavori, guardò la donna alzarsi. «Avere quei numeri è una buona notizia vero?» «Signor Stecca, non voglio darle false speranze. Però abbiamo un punto di partenza e dei dati che ci porteranno a un nome e una città precisa. Purtroppo abbiamo solo questo, i posti di blocco non hanno dato risultati ma ce lo aspettavamo perché abbiamo trovato la testimone almeno due ore dopo il fatto. Abbiamo deciso di tentare ugualmente sperando in qualche o falso, che però non c’è stato. Ora abbiamo almeno una traccia, è ato meno di un giorno e stiamo recuperando il tempo perso, abbiamo un identikit della persona e possiamo risalire alla città e probabilmente a nome e cognome. In fondo è un buon risultato e il suo amico aveva ragione, con i nostri protocolli avremmo avuto lo stesso risultato forse tra due giorni. Stia tranquillo e cerchi di vederla positivamente.» «Grazie di cuore per quello che state facendo per noi.» l’uomo strinse la mano di Veronica. «Faremo il possibile, ne sia certo. Comunque ci rivedremo ancora.» guardò i suoi colleghi «Bene ragazzi, direi che abbiamo disturbato abbastanza, il computer viene comunque in centrale. Mirko hai un biglietto da visita? Credo che potremmo collaborare in questa faccenda, lo chiederò domani al mio responsabile.» «Come vuoi tu, ecco il mio numero e la mia mail.» le porse il bigliettino e le strinse la mano. «Grazie, ci sentiamo. Stammi bene.» uscì dalla casa insieme ai due commilitoni. «Anche tu.» Mirko iniziò a recuperare le sue cose mentre il suo amico prese i bicchieri, le bottiglie dell’acqua, gli avanzi della pizza e li portò in cucina. «Ale, io vado. Ti chiamerò per sapere come va. Salutami Annalisa.» «Certo, lo farò domani appena si sveglia. L’ho obbligata a mettersi a letto, è a pezzi.»
«Dai che non è tutto perso. Ora si può solo sperare che le indagini portino a qualcosa.» aprì la porta d’ingresso. «Grazie per essere venuto subito.» «Era il minimo che potessi fare per te, spero che il lavoro di questa sera sia servito realmente a qualcosa.» L’uomo osservò l’amico varcare l’uscio e avviarsi verso l’automobile. Poco dopo scoppiò in lacrime.
31
Bologna, 28 aprile 2009
La giornata era iniziata sotto il segno della pioggia, la notte c’era stato un forte temporale e Davide aveva ato un bel po’ di tempo a rivivere tutto ciò che era accaduto il giorno precedente. Alla fine si era alzato presto come se dovesse andare a lavorare anche se sapeva bene che non aveva nulla da fare, l’ufficio e la casa di Baldi erano sotto sequestro e ci sarebbero voluti giorni prima che potesse rimetterci piede. Aveva solo quell’archivio recuperato dal computer dell’uomo prima che fosse ucciso ma non riusciva a poter accedere ai contenuti, la sera prima aveva contattato il tizio che si faceva chiamare DevilKid ma era stato invitato a richiamare il giorno dopo. Stava perdendo un sacco di tempo e ora, più che mai, voleva sapere il motivo dei fatti avvenuti il giorno precedente. Una semplice indagine su un possibile tradimento si era trasformata in una specie di mattanza. Decise che doveva richiamare l’esperto, si spostò nel suo studio e accese il computer, si mise comodo e attese che tutto fosse pronto per poter avviare la comunicazione. Selezionò il contatto dalla lista e con un doppio click iniziò la chiamata. «Buon giorno sono Marchi, ci siamo sentiti ieri sera. Ha tempo da dedicarmi?» La persona dall’altra parte si scusò e fece capire a Davide che era pronto per valutare la richiesta. «Ok, nessun problema. Come ho scritto sul forum, ho questo archivio protetto. Però è strano perché non è nel formato che sono abituato a usare anch’io. Quando cerco di aprirlo compare un messaggio che mi chiede di inserire la per... aspetti non mi viene il termine, per... ah! Per eseguire la procedura di mount.» nel frattempo stava controllando la sua posta su internet. «Ok, quindi si tratta di una sorta di disco virtuale, credo di aver capito.»
Ascoltò con attenzione le spiegazioni ma l’altro usava dei termini troppo complicati per lui. Non ci stava capendo più niente. «Ascolti, faccio fatica a capire quello che sta dicendo, non è roba per me. Quanto vuole per tentare di recuperare qualcosa? Per me è molto importante.» L’esperto iniziò a spiegargli i vari metodi per il recupero possibili ma non accennava ai costi. «Allora, vuole dirmi quanto devo spendere? O no?» la risposta lo fece innervosire. «Perché le interessa tanto sapere la provenienza dei dati? Io ho bisogno di accedere a quella roba.» doveva cercare di calmarsi. «Senta io capisco che non è legale, è vero quei dati non sono i miei, ma sono morte delle persone e probabilmente a causa di quella cartella.» l’altro continuava a esprimere i suoi dubbi e a quel punto, Davide, gli fece la proposta. «Senta perché non ci incontriamo? Così le posso spiegare la storia e forse riuscirò convincerla che sono nel giusto. Se vuole ci possiamo beccare a metà strada tra Bologna e... Non ho la più pallida idea di dove si trovi lei.» per un attimo dall’altra capo ci fu il silenzio totale, poi ebbe la risposta. «Ok, va bene. Le mando il mio indirizzo via e-mail, mi faccia sapere quando può venire. Però cerchi di farlo il prima possibile. Nel messaggio troverà anche il mio numero di telefono. Grazie.» chiuse la comunicazione constatando che poteva anche andare peggio. Nell’incontro con Devilkid avrebbe dimostrato di essere nel giusto. La mattinata sarebbe stata sicuramente lunga e noiosa, lo sapeva bene, la pioggia non voleva cessare di cadere e Sara era al lavoro. Non aveva nulla di interessante per are il tempo. Decise di uscire per camminare un po’ sotto la pioggia, era una vita che non faceva una cosa del genere. Varcò la soglia dell’abitazione, recuperò l’ombrello che era lì accanto, diede uno strattone alla porta e scese a o svelto i tre gradini che davano sul vialetto. Da giovane eggiava spesso con il ticchettio dell’acqua sull’ombrello, era rilassante e lo aiutava a pensare, sentiva proprio il bisogno di rilassarsi e tornare a sentirsi giovane. Sentì il rumore del battente
chiudersi mentre ava attraverso l’ingresso pedonale, richiuse il cancelletto e si ritrovò in strada. La sua abitazione faceva parte di un gruppo di villette quasi tutte uguali, la via era lunga un paio di chilometri, da un lato vi erano le case e dall’altro dei terreni agricoli. D’estate si poteva ammirare il lavoro dei contadini, il grano che cresceva, i girasoli e la finale mietitura. Decise di andare verso sinistra, il traffico veicolare in quel posto era inesistente, e, camminando con o regolare e tranquillo, cominciò a vagare con la mente rivivendo vecchie esperienze della vita. La pioggia ticchettava sul telo dell’ombrello, il rumore ritmico era rilassante e Davide, dentro il suo impermeabile nero, procedeva lentamente godendosi l’odore di erba e asfalto bagnati. Pioveva anche il giorno più assurdo della sua vita, quello che lo aveva svegliato di colpo proiettandolo nella verità della guerra. Il giorno in cui aveva ucciso per la prima volta. Si trovava a Sarajevo in missione di pace, era ancora un novellino, era stato costretto più volte a sparare per difendere la popolazione locale abbandonata a se stessa e colpita sempre più spesso da atti di pulizia etnica. Quel giorno sembrava tutto tranquillo, anche troppo, non c’era in giro nessuno. Ed era strano. E pioveva, una pioggerella leggera che svolazzava nell’aria e che non era in grado di inzuppare nulla. Lui e i suoi commilitoni stavano ando in una zona di case ormai semidistrutte dai colpi di mortaio, solitamente c’erano almeno una cinquantina di persone in attesa di qualche genere alimentare e acqua, quell’area la battevano tutti i giorni e con qualsiasi tempo. Improvvisamente qualcosa esplose a una trentina di metri dal loro veicolo alzando una nuvola di polvere che si propagò verso di loro sospinta dal vento, scesero tutti dal mezzo cercando di trovare riparo in qualche modo. Non avevano dubbi, si trattava di un’imboscata e loro erano solo in sei. Cominciarono a sentire il rumore dei colpi di arma da fuoco ma non capivano da
dove arrivassero, nel frattempo la nuvola era ata oltre e riuscivano a vedere meglio. Un proiettile si schiantò da qualche parte sul loro veicolo , un altro colpì uno dei suoi compagni alla caviglia. Lui era armato, come i suoi commilitoni, di una mitraglietta Beretta da trentadue colpi a caricatore, una pistola calibro 9mm e indossava il giubbotto antiproiettile. Il soldato ferito fu messo in una condizione di sicurezza nascosto dal blindato, doveva essere medicato ma il kit era nel veicolo che veniva bersagliato di colpi ogni volta che qualcuno provava a mettere il naso fuori dal nascondiglio. Dovevano uscire da quella situazione, il caposquadra scelse lui e un compagno che aveva diversi anni di esperienza e spiegò la sua idea. Avevano visto un muro alto un paio di metri, semi diroccato, non molto distante e dal quale potevano tenere sotto controllo l’area e il veicolo, dovevano anche capire quanti nemici li stavano braccando, avevano individuato almeno un mitragliatore e forse c’era un cecchino da qualche parte. Il suo capo lo fece uscire per primo, avrebbero creato quello che si chiama fuoco di copertura, anche se non sapevano dove mirare. Davide scattò verso l’obiettivo, sentì i colpi partire alle sue spalle, raggiunse il muro e si acquattò in attesa, ora doveva collaborare anche lui. Partì il secondo uomo che lo raggiunse e poi arrivò anche il caposquadra. Il nemico li aveva visti e dei proiettili si schiantarono a pochi centimetri da uno di loro. Gli stronzi si trovavano in alto. Tutti e tre si appiccicarono alla parete per offrire il minor bersaglio possibile, nel frattempo il più esperto tra loro aveva capito dove si trovava chi aveva sparato e decise di provarci, buttò fuori la testa e l’arma da una fessura nella struttura e fece partire una raffica in direzione di una finestra, ci fu una risposta maldestra dall’altra parte e riuscì a vedere con precisione dove il nascondiglio dell’uomo. Puntò la sua arma e sparò un’altra raffica che raggiunse l’obiettivo facendolo precipitare in basso come un manichino. arono pochi secondi e arrivarono altri colpi, provenivano comunque tutti dalla stessa direzione. Davide si spostò in fondo al muro, nel punto più distante e cercò di guardare oltre. Sembrava che nessuno lo avesse visto, ritornò dai compagni e decisero che lui e il caposquadra potevano tentare di aggirare il nemico tentando di arrivargli alle spalle. Rifecero entrambi il giochino precedente e ormai erano sicuri che non li vedeva nessuno. Uscirono da lì e attraversarono la strada. Nessuno sparo.
Avevano visto un’apertura nello stabile poco distante, si precipitarono dentro con le armi spianate, nessuno in vista. Il loro commilitone aveva fatto partire un altra raffica nel tentativo di trascinare qualcuno allo scoperto ma senza successo. C’erano delle scale e iniziarono a salirle con estrema cautela, arrivarono al primo piano ma non trovarono nessuno, il soffitto era parzialmente crollato e potevano vedere una parte del locale sovrastante. Un movimento colpì l’attenzione del caposquadra che spinse Davide un metro più in là, partì una raffica di mitra che colpì al torace il compagno, il giubbotto antiproiettile aveva fatto il suo lavoro ma il contraccolpo tolse il respiro all’uomo. Lui lo trascinò al coperto, non sembrava riprendersi ma non c’era sangue. Guardò in alto e vide un paio di gambe, prese la mira e sparò. L’altro saltellò come se stesse ballando e sparì dalla vista, subito dopo ci fu una pioggia di proiettili. Doveva uscire di lì e salire al piano superiore, magari l’aveva ferito. Prese coraggio e corse verso le scale, iniziò a salire con cautela puntando il mitra in ogni direzione, i battiti cardiaci erano altissimi e sudava copiosamente, aveva paura. Doveva farsene una ragione. Inserì un nuovo caricatore, era meglio avere colpi a disposizione. Arrivò a destinazione, non si vedeva anima viva, eppure sapeva che qualcuno lo stava aspettando. Varcò la soglia di una stanza senza soffitto, non era quella che cercava. Proseguì entrando in un’altra, anch’essa sembrava deserta, poi notò un bagliore strano e si accorse di quello che sta per accadere. Scattò verso l’uscita, senti esplodere un paio di colpi, uno si schiantò sul muro, l’altro gli sfiorò il braccio sinistro ferendolo. Era stato stupido. Restò nascosto dietro la parete e sentì dei i provenire dall’altro lato, vide spuntare una mitraglietta e partì una sventagliata che lo mancò di poco, puntò la sua oltre l’uscio e sparò alla cieca. Sentì cadere un oggetto metallico a terra e poi un tonfo sordo, entrò di nuovo, questa volta controllando ogni angolo e vide quello che era successo. C’era un uomo a terra, lo guardò meglio e scoprì che era giovanissimo, forse minorenne. Aveva i capelli biondo cenere e gli occhi azzurro intenso, stava piangendo e perdeva sangue dalla bocca. Capì che poteva solo guardarlo morire, lo aveva centrato con diversi colpi all’addome e c’era già un
lago di sangue. Rimase a vegliare, aveva gli occhi lucidi e provava una sensazione strana, non riusciva a capire se era dolore per quel ragazzo o odio per ciò che lui gli aveva fatto. Lo guardò esalare l’ultimo respiro e per la prima volta pregò per una persona che non aveva mai conosciuto. Si sentì toccare una spalla, voltandosi riconobbe il suo caposquadra che nel frattempo si era ripreso ed era salito a controllare. Lo guardò negli occhi e scoppiò a piangere. «E’ la prima volta che uccidi, vero?» «Si, sto di merda.» rispose tra le lacrime. «erà, vedrai. Quando succederà di nuovo voltati e vattene, perché la sensazione che proverai sarà sempre questa.» «Era un ragazzino! Perché li mandano a fare queste cose?» «Se in Italia scoppiasse la guerra civile, anche i nostri figli farebbero questa fine. Cerca di non pensarci. Ora andiamocene. Credo fossero solo in due.» scesero le scale e uscirono con cautela allo scoperto. Il caposquadra aveva ragione, non arrivò nessun proiettile. Recuperarono il ferito, lo caricarono sulla camionetta e se ne andarono tutti e sei, veloci, verso il campo base. Negli anni aveva imparato a convivere con quella sensazione ogni volta che era costretto a sparare e uccidere ma il ricordo di quel ragazzino era sempre dentro di lui come un tarlo nel legno. Non era la prima volta che riviveva quel momento, gli capitava di rievocare i ricordi di vita, a volte piacevoli e altre meno, ma quello lo faceva tornare indietro provando gli stessi sentimenti di allora. E puntualmente gli scendeva una lacrima. Nel frattempo aveva raggiunto la fine della sua strada, decise di svoltare a sinistra per farsi un giro nell’isolato. Sentì squillare il telefono, lo prese e aprì la
comunicazione. «Pronto? Si sono io. Ok resto in attesa.» dall’altra parte iniziò a parlare una voce amica. «Ok, senti, spiegami tutto di persona. Hai voglia di incontrarci da me? Ti offro un caffè.» attese la risposta. «Bene ci vediamo tra due ore, ti aspetto. Grazie per l’interesse.» riattaccò e mise il cellulare in tasca. Decise che poteva terminare tranquillamente il suo giro, tanto aveva tempo.
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Ancona, 28 aprile 2009
Non riusciva a dimenticare quegli occhi, in realtà non lo aveva mai fatto. Solo che non pensava di ritrovarseli davanti diversi anni dopo e non poteva immaginare che tutto era rimasto come negli anni verdi. L’orologio segnava le undici appena ate e la mattina stava procedendo con tranquillità, Mirko stava lavorando ad un nuovo progetto per una nota azienda di servizi telematici ma non riusciva a concentrarsi, la sua mente continuava a vagare nei ricordi della sera precedente. Aveva anche ricevuto la telefonata del tizio che diceva di essere un investigatore e che doveva recuperare dei dati da un disco virtuale criptato, si erano accordati per incontrarsi ma non sapeva ancora quando poteva farlo. E in fondo non aveva poi così tanta voglia di farlo. Il cellulare squillò, lo prese e aprì la comunicazione. «Parla Mirko.» un sorriso gli si disegnò sul volto. «Non ho capito, devi venire a prendermi?» la voce dall’altra parte confermò. «Ok, quando arrivi?» inconsciamente si era spostato vicino alla finestra. «Ehi quanta fretta, sono ancora in pigiama, ma tra mezz’ora mi troverai pronto. Ci vediamo tra un po’. Ciao.» chiuse la comunicazione e corse in camera per prendere qualcosa da mettersi per l’occasione. Aprì l’armadio, non era facile scegliere e si accorse che forse doveva aggiornare un po’ il suo guardaroba. Alla fine trovò qualcosa da mettersi comunque. Si guardò allo specchio e si trovò bene, doveva solo mettersi un po’ di gel sui capelli. Iniziò a fare le smorfie simulando un sguardo penetrante con i suoi occhi grigio-azzurri, si era rasato la mattina presto ma doveva ammettere che forse era ora di cambiare stile, portava i baffi e la mosca da troppo tempo. Solo che ormai si era abituato a vedersi così e
non gli dispiaceva, il suo viso completamente rasato non gli era mai piaciuto. Il citofono emise il suo classico ronzio, erano arrivati a prenderlo e lui aveva finito di prepararsi proprio in quell’istante. Decise che doveva farli attendere perché non aveva ancora finito di preparare le sue cose. Si avvicinò al citofono e sollevò la cornetta. «Si, chi è?» attese la risposta. «Credo che dobbiate salire un attimo, non sono ancora pronto. Io sono al primo piano.» schiacciò il pulsante per aprire l’ingresso dello stabile e agganciò la cornetta. Aprì la porta del suo appartamento e si spostò nel suo studio per iniziare a recuperare i suoi strumenti di lavoro. «E’ permesso?» una voce femminile si annunciò alla porta. «Prego entra pure e benvenuta nel mio regno.» «Non sei cambiato per niente, fai sempre aspettare le donne.» «Lo sai che sono un eterno indeciso. Vieni pure, prima stanza a destra.» Vide entrare la donna nello studio mentre stava ancora valutando cosa inserire nella sua valigetta. «Ehi! Che c’è qua dentro?» disse con aria stupefatta. «Ti piace? Io lavoro qui. Quello che vedi alla tua destra è un server, alla tua sinistra c’è la mia postazione di lavoro.» «Uhm notevole, ma io non ci capisco niente.» la donna fece spallucce. «Chissà un giorno, forse, potrei spiegarti qualcosa. Ecco, ho finito e sono pronto.» «Ti devi portare dietro tutta quella roba?» «Non si sa mai, ho pensato che potrebbe essermi utile.» «Va bene, vedo che almeno i tuoi gusti sono migliorati. Hai abbandonato il nero.» lo squadrò dalla testa ai piedi. «E devo ammettere che con la camicia
azzurra e i jeans stai veramente bene.» Veronica ammiccò. «Beh, diciamo che non potevo vestire a lutto per il resto dei miei giorni.» «Vogliamo scendere?» «Si possiamo andare, a proposito dove si va?» «Bologna.» la donna varcò l’uscio dell’appartamento e lui subito dietro chiuse a chiave la porta e inserì l’antifurto. Decisero di usare le scale per impiegare meno tempo e uscirono dal palazzo, la pantera azzurra era lì pronta a partire. Salirono e la vettura si mise in movimento. «Buon giorno signor Fasani.» «Buon giorno.» fece eco Mirko, al volante c’era lo spilungone con cui aveva avuto la discussione la sera prima. «Devo scusarmi con lei per ieri sera.» l’uomo fissò l’informatico dallo specchietto retrovisore. «No è colpa mia. Volevo forzare la mano anche se sapevo che non era possibile trasgredire le regole. Dovrei scusarmi io.» «Ragazzi, non vi metterete a litigare per chi ha la colpa?» Veronica si mise a ridere. «Mi scusi dottoressa.» il poliziotto tornò a guardare la strada. «Luigi smettila di essere rigido, sono un tuo superiore ma siamo anche compagni di squadra. Cerca di essere più sereno, non sentirti sempre messo in discussione.» «Ci proverò.» «Bravo così mi piaci.» si voltò verso Mirko che era seduto dietro «Luigi è appena arrivato, me lo hanno assegnato al posto di un collega che è andato in pensione due mesi fa, deve ancora abituarsi ai miei modi.» «Toglimi una curiosità, come mai in questi anni non ti ho incontrata nemmeno
per sbaglio?» «Semplice, perché sono stata diversi anni a Roma e poi a Milano. Alla fine ha prevalso la nostalgia di casa e ho chiesto il trasferimento.» era tornata a guardare la strada. «Ok tutto chiaro. Avete fatto presto con i dati di ieri.» l’uomo si avvicinò al sedile anteriore. «Si, quando ci muoviamo coordinati siamo rapidi, ma non aspettarti di incontrare il tizio della chat.» «Beh, per forza è in fuga.» Veronica si voltò di nuovo trovandosi il volto di Mirko a pochi centimetri dal suo. «No, è ato a miglior vita ieri mattina. Ora abbiamo un mistero in più da risolvere. Ah stiamo per entrare in autostrada, vedi di allacciarti la cintura di sicurezza.» un sorrisino le si disegno in viso. «Ok, mi siedo meglio e l’allaccio. Allora quello che ha preso Erika non era lui, ora che direte alla famiglia?» «Per ora niente è meglio aspettare.» «Allora perché si va a Bologna?» «Perché lì è successo un casino, i miei colleghi hanno in mano l’indagine sul tentato omicidio della moglie di questo tizio, mentre i carabinieri stanno portando avanti quella sull’omicidio di questo Baldi nel suo ufficio.» «Insomma un bel problema.» Mirko stava guardando fuori dal finestrino. «Si, decisamente.» Nelle due ore di viaggio avevano avuto modo di parlare di tutto tranne che di lavoro, fino a quando Mirko aveva accennato la sua esperienza come hacker. All’inizio la donna gli aveva dato del criminale, poi ascoltando le spiegazioni che le aveva fornito si era corretta. Anche Luigi lo aveva ascoltato con
ammirazione. «Che forza che sei, io faccio fatica a usare il telefonino.» il poliziotto attivò l’indicatore di direzione, stavano uscendo dall’autostrada. «Non tutti sono tagliati per la tecnologia, io per esempio non so come si tiene in mano una pistola e ti dirò di più le armi non posso proprio vederle. Ho una certa avversione per quelle cose.» «Sentite ragazzi» li interruppe Veronica «non so voi ma io un certo appetito, ci fermiamo a mangiare un panino al primo bar che troviamo? Tanto l’appuntamento è per le due e siamo in anticipo di quasi un’ora.» «Per me va bene.» Luigi aveva già puntato un bar. «Ok, ci sto.» Mirko aveva fame da quando erano partiti ma non voleva far pesare la situazione sui suoi compagni di viaggio. «Allora, visto che il buon Luigi ha già trovato un locale, ci fermiamo qui e soddisfiamo i nostri stomaci.» Veronica era sorridente. I tre scesero dall’auto ed entrarono nel bar, avrebbero preferito un tavolo all’esterno ma pioveva e la temperatura fuori non era poi così piacevole. Ordinarono i panini e se li gustarono con tranquillità.
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Bologna, 28 aprile 2009
Marchi aveva ascoltato per un’ora il suo amico della polizia e quasi non credeva alla storia, l’assicuratore aveva adescato in internet una ragazzina facendosi are per un coetaneo di nome Angelo prima di essere ucciso. La ragazzina di nome Erika era sparita nel nulla e non si sapeva dove l’avessero portata. L’unico indizio che avevano era legato a Baldi. L’investigatore non aveva ancora detto al suo amico dei dati trafugati dal computer dell’uomo pochi giorni prima della sua morte, ma prima o poi doveva dirgli per forza la verità e decise che l’avrebbe fatto nell’incontro del pomeriggio. I due erano stati in casa a parlare fino alle tredici, poi avevano preso l’auto e si erano diretti verso l’ufficio del morto, entrarono nel bar davanti all’edificio e ordinarono dei panini alla barista. Paola portò tutto al tavolo e non resistette alla tentazione di chiedere a Davide che cosa fosse successo il giorno precedente. La ragazza in minigonna lo guardo con gli occhi brillanti di curiosità e lui decise che poteva accennarle qualcosa. «Ieri è morto l’assicuratore.» «L’avevo capito, sono arrivati i carabinieri e hanno fatto un sacco di domande a tutti.» decise di sedersi accanto ai due. «Io, purtroppo, sono arrivato tardi e ho chiamato i soccorsi. Poi sono dovuto scappare, ho cercato di raggiungere i due assassini e li ho trovati a casa della moglie.» «E li hai presi?» «Si e no.» le fece cenno che era meglio non parlarne. «Non mi presenti il tuo amico?»
«Ah sì scusa, lui è Luca, è un poliziotto, oggi non è in divisa perché è il suo giorno libero. Siamo qui per parlare con dei suoi colleghi che mi devono fare delle domande.» fece cenno alla donna di portargli un altro panino. «Piacere io mi chiamo Paola.» i due si strinsero la mano e la ragazza andò verso il frigorifero. «Ehi, la stai spogliando con gli occhi.» Davide diede una pacca sulla spalla del poliziotto. «Non è colpa mia se è una bella ragazza.» sorrise. «Dimmi un po’ quante fidanzate hai in questo momento?» «Neanche una da più di un anno.» «Impossibile, uno sciupa femmine come te che sta da solo. Non riesco proprio a crederci.» gli fece l’occhiolino. «Ho deciso che devo mettere su famiglia, sto cercando quella giusta.» «Fingerò che mi stai dicendo la verità.» nel frattempo Paola ritornò con un panino. «Grazie.» Davide gli diede subito un morso. I due continuarono a chiacchierare di qualsiasi argomento tranne dei fatti del giorno precedente, avrebbero avuto tutto il pomeriggio per discuterne. Alla fine Luca riuscì a farsi dare il numero di telefono dalla barista e le promise che si sarebbe fatto vivo il prima possibile. Videro arrivare un’auto dei carabinieri e pochi secondi dopo una della polizia. I militari erano in due, uno era in sovrappeso non troppo alto, l’altro era magrissimo e altissimo, in pratica insieme componevano l’articolo maschile “lo”. Dalla pantera scesero tre persone, due in divisa e una in abiti civili. Tra loro c’era una donna. Marchi non resistette e fece la battuta al suo amico. «Chi scegli ora, la poliziotta o la barista?» «Preferisco comunque la barista.»
«Allora stai veramente mettendo la testa a posto. Credo che sia ora di andare.» i due si alzarono, salutarono Paola e uscirono dal locale, attraversarono la strada e si diressero verso i nuovi arrivati. I carabinieri scortarono gli altri cinque colleghi nell’ufficio di Baldi, rimossero i sigilli e rimasero sulla soglia ad osservare. Avevano avuto l’ordine di lasciar lavorare i poliziotti senza interferire. «Ok, da dove cominciamo?» chiese la donna. «Direi che sia il caso di presentarci.» puntualizzò Davide. «Ok, ha ragione. Io sono Veronica Mancini, commissario e criminologa. Alla mia destra l’agente Luigi De Medici» indicò lo spilungone dal naso enorme. «Piacere, io sono Davide Marchi. Sono un investigatore privato.» strinse la mano ai due poliziotti. «Io sono Mirko Fasani, esperto in sicurezza informatica e ironia della sorte ci siamo parlati questa mattina al telefono.» strinse la mano di Davide. «Piacere di conoscerti. Della mia cosa ne parliamo più tardi, va bene?» fece l’occhiolino all’informatico e l’altro rispose con un cenno del capo. «Io sono Luca Cirani, vice commissario qui a Bologna.» Strinse la mano agli altri tre. «Bene direi che tocca a te Davide, raccontaci della tua indagine.» Luca ò la palla all’amico. «Ok va bene. Mettetevi comodi.» fece cenno agli altri di trovarsi un posto a sedere. Poi iniziò il racconto. «Sono stato ingaggiato dalla signora Baldi perché sospettava di essere tradita dal marito ma la realtà è diversa, probabilmente l’uomo aveva qualche genere di affari poco puliti con un personaggio non italiano. Eccovi le foto.» aprì la sua valigetta e appoggiò sul tavolo una busta dal quale estrasse diverse fotografie. «Questo è il tizio che l’assicuratore ha incontrato pochi giorni fa e qui ci sono i due che lo hanno ucciso.» «Aspetta una attimo! Questo è il nostro uomo!» Veronica era eccitata.
«Non ho capito, perché è il vostro uomo?» chiese Davide. «Perché è quello di questo identikit.» Luigi mostrò a tutti il disegno. La rivelazione sbigottì i presenti, c’era un filo che legava il morto con chi aveva portato via la ragazza e ora Davide doveva per forza tirare fuori la verità. «Ok abbiamo modo di pensare che ci sia qualcosa di più importante sotto, perché, altrimenti, non avrebbe senso l’assassinio dell’assicuratore.» Luca continuava a confrontare la foto e il disegno. «Luca,» l’investigatore riprese la parola «devo dirti una cosa riguardo a questo ufficio e che probabilmente ti farà perdere le staffe.» appoggiò una pendrive sul tavolo. «Non dirmi che l’hai rifatto! Ti prego!» gli altri fissarono i due con sguardi interrogativi. «Ehm, si.» Davide aveva assunto un’aria afflitta ma se la rideva come un matto senza farlo notare. «Tu sei pazzo!» Luca finse di dare un pugno al tavolo e poi si trattenne «Tira fuori l’asso dalla manica forza!» «Scusate volete renderci partecipi della vostra discussione?» la donna li trafisse con i suoi occhi azzurri. «Beh,» riprese Marchi «mi sono introdotto qui, qualche giorno fa per cercare indizi, ho trovato un archivio sul computer che ora è in mano ai Ris e l’ho copiato» assunse un’aria angelica. «Bene abbiamo uno scassinatore, qui.» Luigi lo guardò in malo modo. «Da quando ho iniziato questa indagine» riprese la poliziotta «ho scoperto un hacker e un investigatore che scassina gli uffici, cos’altro dovrò aspettarmi?» guardò tutti negli occhi. Nel frattempo, Mirko, aveva sistemato il suo netbook sul tavolo e stava aspettando che fosse pronto per lavorare. Prese la chiavetta USB e la inserì nell’alloggiamento dedicato, nel frattempo il sistema operativo si era avviato e
poteva finalmente iniziare a lavorare. Tentò di aprire il file, all’interno del o c’era solo un archivio chiamato “The father hand”, ma come già sapeva serviva la . «Certo che è bello grosso!» esclamò l’hacker. Intanto gli altri non lo stavano ascoltando, erano impegnati a seguire la storia dell’investigatore. «Introdurmi qui di notte non è stato difficile, ho immobilizzato i due vigilantes e ho fatto un po’ di ricerche. La cosa interessante è che da almeno due anni gli affari di Baldi vanno male, eppure il tenore di vita dell’uomo e della moglie è sempre lo stesso, anche le entrate sono sempre buone. La signora Baldi, infatti, non sospetta nulla e crede che l’attività del marito vada ancora a gonfie vele. Ah per la cronaca, ho trovato anche questo in un cestino.» mostrò agli altri la foto del DVD spezzato. «Probabilmente era nel pacchetto che l’assicuratore ha ricevuto dall’uomo della foto. Credo che ottenesse regolarmente questi DVD e che ne copiasse il contenuto in quella cartella che ho prelevato dal computer.» Veronica si girò verso Mirko «Che dici, si riesce a vederne il contenuto?» «Probabilmente sì, sto cercando di capire che tipo di algoritmo di criptazione è stato utilizzato perché in base a quello la sarà più o meno complessa. Comunque non aspettatevi un risultato in breve tempo, se devo forzare l’archivio, sperimentando diversi metodi e approcci al problema, potrebbero volerci giorni di lavoro.» le dita volavano sulla tastiera. «Quindi» prese la parola Luigi «siamo di nuovo a un punto morto. Se non riusciamo ad aprire quell’archivio siamo fermi.» «Potremmo anche non trovarci nulla di interessante.» sostenne Veronica. «Questo è vero, ho ato due giorni a cercare di capire perché volessero morta anche la moglie di Baldi, visto che non è a conoscenza di nulla, e mi sono convinto che i due assassini stessero cercando qualcosa che nessuno, a parte loro, deve trovare. Luca, i tuoi colleghi hanno portato via oggetti personali o altro dalla casa?»
«No, dopo il casino che hai combinato ci siamo limitati a porre sotto sequestro l’abitazione.» «Signor Marchi non mi dica che si è introdotto pure in quella casa?» Veronica lo guardò con aria inquisitoria. «Sì, ma lo ha fatto a fin di bene. E’ merito suo se la moglie dell’assicuratore è viva.» Luca indicò l’amico. «Scusatemi ma sto perdendo il filo, i due che hanno ucciso Baldi non li avete presi, allora che tipo di casino è successo?» Luigi aveva un’aria perplessa. «Tecnicamente li ho uccisi.» l’investigatore pronunciò la frase freddamente. «Credo di non aver capito, li ha uccisi?» fece eco Veronica. «Per tentare di difendere Rebecca li ho seguiti, sono entrato e ho cercato di immobilizzare uno dei due, solo che nella lotta è caduto un vaso e dal piano di sopra è sceso anche l’altro che ha sparato centrando il suo compare. Sono scappato al piano interrato, lui mi è corso dietro e l’ho colpito in testa con una sedia. Poi mi sono accorto che la donna era distesa sul pavimento ferita.» «Hai omesso di aver schivato sei colpi di pistola.» Luca abbozzò un sorriso. «Bah, sono dettagli ed è stata solo fortuna.» «Mi scusi Marchi ma non mi tornano delle cose» riprese la poliziotta «o lei ha veramente molta fortuna o nasconde qualcosa, mi illumini per cortesia.» «Ho partecipato a missioni umanitarie in medio oriente ed est Europa per l’esercito italiano, cinque anni fa mi sono congedato e ho iniziato a fare l’investigatore privato.» «Bene, ora capisco molte cose. Anche i sei proiettili schivati.» sentenziò Luigi. «Luca, le indagini sui due assassini a che punto sono?» «Le due pistole che avevano addosso non possiamo controllarle, la matricola è stata abrasa e i bossoli non sono mai stati trovati in rapine o cose simili in Italia. I due tizi avevano un cellulare ma il numero è dell’est, sembra serbo o albanese,
non abbiamo trovato nessun sms memorizzato o chiamate effettuate e ricevute. I miei colleghi hanno già contattato le forze dell’ordine dei paesi sospetti ma ci vorranno giorni per avere qualche riscontro, sempre che salti fuori qualcosa.» Luca si spostò verso il finestrone che dava sul balcone. «Ragazzi devo lavorarci con più calma, questo archivio è ben protetto.» Mirko estrasse la pendrive e la restituì all’investigatore. «Allora che si fa?» chiese Davide. «Potremmo andare a casa Baldi, i due killer cercavano qualcosa, se non ho capito male.» propose Luca. «Direi che è una buona idea.» disse Veronica. «Ok, fatemi fare un paio di telefonate.» Luca prese il telefono e uscì dall’ufficio. Mentre attendevano istruzioni sul da farsi iniziarono a guardarsi intorno e a rovistare in giro nella speranza di trovare qualcosa di interessante, aprirono i cassetti della scrivania, controllarono le mensole e l’interno degli armadi, qualcuno entrò in bagno e rimase a guardare la macchia di sangue rappreso che non era stata ancora pulita. Non trovarono nulla di interessante. Il vice commissario rientrò nel locale facendo cenno ai presenti che potevano andarsene. «Abbiamo l’autorizzazione a togliere i sigilli ed entrare, ho avvisato anche la signora Baldi che è ancora in ospedale e non ha avuto obiezioni. Speriamo solo che ne valga la pena.» I cinque si allontanarono dallo stabile lasciando i carabinieri a sigillare nuovamente l’ufficio, salirono sulle rispettive vetture e si avviarono verso la nuova destinazione. Dieci minuti dopo varcarono la soglia dell’abitazione, accesero le luci e i tre marchigiani rimasero incantati dalla bellezza della casa. «Ok» Mirko interruppe il silenzio «cosa dovremmo cercare?»
«Un momento, è meglio se tutti usassimo questi.» Luca tirò fuori una scatola di guanti in lattice monouso che tutti indossarono. Luigi stava osservando i segni dei rilievi vicino alla scala dove era ben visibile una grossa macchia di sangue e alzando lo sguardo verso la porta notò i due fori sul legno, si rese conto che erano a un’altezza dove poteva trovarsi la testa di una persona. «Eh sì, aveva una mira niente male.» aggiunse Davide. «Non riesco a capire come possa aver ucciso il suo compare per sbaglio.» «Sono stato io fare in modo che lo uccidesse, stavo cercando di immobilizzare il complice quando l’altro è sceso dal piano superiore e ha estratto la pistola, io ho tentato di usare il corpo dell’altro come scudo e ci sono riuscito. Poi ho dato un colpo alla porta e sono sceso al piano interrato, ecco il motivo dei due fori.» «Quindi l’altro ti ha seguito e lo hai fatto fuori di sotto.» «Si, con una sedia.» «Lo sapevi che erano armati?» Luigi lo fissò negli occhi. «Sì, avevo notato uno dei due con la pistola quando hanno preso Baldi e lo hanno costretto a tornare nell’ufficio.» «Tu sei pazzo. Quel sangue poteva essere il tuo.» «Sì è vero, però ho la protezione di una buona stella» fece un sorriso «e un giorno può darsi che ti racconterò una storia.» «Va bene, quando vuoi. Credo che sia meglio che ci mettiamo a lavorare ora.» il poliziotto iniziò a vagare per la stanza. «Direi che sia meglio dividerci e cercare in ogni angolo della casa.» suggerì la criminologa. «Si ma cosa?» l’hacker stava osservando la macchia di sangue. «Qualsiasi cosa che possa essere fuori posto o strana.» fece eco l’investigatore.
«Oh grazie, ora si che mi hai illuminato.» I cinque si separarono e iniziarono a setacciare la casa alla ricerca di qualcosa che potesse far luce sul mistero. Fuori stava continuando a piovere e sembrava che volesse venire giù il diluvio universale. arono più di due ore dove frugarono ovunque senza trovare nulla di particolarmente interessante, tutto sembrava normale, eppure gli intrusi non potevano essere andati lì solo per uccidere una donna che non sapeva nulla dell’attività parallela del marito. Luigi stava rovistando all’interno di una vecchia cassapanca in noce che aveva trovato in un locale ricavato dal sottoscala, si trovava nel piano interrato, quando si accorse di una stranezza. «Ehi!» gridò «Scendete a vedere, credo di aver trovato qualcosa!» Il primo ad arrivare fu l’informatico, dopo alcuni secondi anche l’investigatore e i due commissari si materializzarono dalle scale. «Guardate questa cassa» indicò Luca «e fate caso alle misure esterne. Ora osservate l’interno, c’è un po’ di roba inutile ma» i compagni si affacciarono sull’apertura del contenitore «non vi sembra che sia poco profonda?» «Si, direi che mancano almeno una ventina di centimetri.» la donna ne toccò il fondo. «Allora cerchiamo di scoprire come si apre.» Davide iniziò a svuotare la cassa, tolse delle vecchie coperte, dischi in vinile di almeno trenta anni prima e un paio di borse logorate dagli anni e dall’uso. «Boh, a me sembra che non si possa aprire.» Mirko stava provando a are un dito lungo i bordi del piano. «Perché, in realtà, non è fatta per essere aperta dall’interno.» l’investigatore fece cenno agli altri di allontanarsi «Guardate la cassa, non notate niente si strano?» «Aspetta un attimo, mi sembra che la parte bassa sia di un colore leggermente diverso.» osservò la donna. «E bravo commissario.» Davide sorrise e si avvicinò al contenitore.
Iniziò a are una mano sul legno finché tutti sentirono chiaramente un click. Dalla parte bassa della cassa spuntò un cassetto. «Ecco a voi un nascondiglio perfetto o quasi.» Marchi si sentì alla pari di un prestigiatore protagonista di uno show. «Marchi, lei mi stupisce ogni minuto che a.» la donna lo guardò con ammirazione. «Bene, vediamo che nasconde quel cassetto.» Luca si avvicinò e lo estrasse completamente. All’interno trovò un computer portatile e un foglietto che conteneva una scritta stranissima. “A4q0tsV34*ròù9erTRAWndmkrpl991tasoieWWHHN” la lesse in silenzio chiedendosi che cosa volesse dire. Alla fine mostrò il foglio ai compari. «Che vorrà dire questa scritta?» «Semplice è una ,» sentenziò l’hacker «direi che è meglio accendere il computer e vedere per cosa serve.» Decisero di portare il dispositivo al piano superiore dove c’era più luce, lo appoggiarono sul tavolino di cristallo ovale e si sedettero sulle poltrone bianche, l’informatico schiacciò il pulsante di accensione e restò in attesa che tutto fosse pronto per iniziare a lavorare. «L’accesso al sistema operativo è libero, vediamo che cosa contengono le varie cartelle personali.» Mirko iniziò a navigare alla ricerca di dati utili e dopo aver aperto innumerevoli files e cartelle decise di utilizzare uno dei suoi software di analisi. Infilò il disco nel lettore e attese l’avvio del programma, digitò dei comandi e si mise in attesa. «Ora ho lanciato un software ideato da me, analizza l’intero hard disk in cerca di internet, e-mail e tutto ciò che è stato visionato e scaricato dalla rete.» guardò gli altri. «E sei sicuro di trovare qualcosa?» chiese Luigi. «Non hai idea delle tracce che si lasciano navigando in internet, se uno sa come seguirle può arrivare sotto casa tua e suonare il camlo. Ci vorrà una mezz’oretta credo.» l’hacker si mise comodo sul divano.
«Ok io vado fare due i fuori, finalmente ha smesso di piovere.» disse Luca che si incamminò verso l’uscita. «Vengo anch’io.» Marchi lo seguì a ruota. «Dottoressa, io faccio una telefonata a casa. Sono già le cinque, la mia compagna potrebbe essere in pensiero.» «Certo, vai pure.» la donna si sedette accanto a Mirko. «Tu non esci a fare due i?» le chiese. «Ho voglia di parlare un po’ con te.» Veronica si tolse il baschetto e slegò i capelli che le si appoggiarono delicatamente sulle spalle. «Va bene, comincia tu.» «Guardandoti in questi due giorni mi sono venuti in mente i vecchi ricordi della scuola, io che faticavo a studiare l’informatica e tu che mettevi in difficoltà il professore, si vedeva già qual’era la tua strada.» la donna incrociò le dita delle mani dietro la nuca. «Beh, era la mia ione. Come lo è ora del resto. Come ti è saltato in testa di diventare criminologa?» «Mah, in quinta superiore è iniziato il mio interesse per la psicologia e tutto ciò che riguarda i comportamenti delle persone. Così, dopo la maturità, ho deciso di frequentare l’università e alla fine degli studi ho preso la specializzazione come criminologa e mi sono arruolata in polizia.» Veronica iniziò a torturare una ciocca di capelli. «Io ho scelto ingegneria e sono diventato esperto di sicurezza informatica, sono stato diversi anni nell’ombra della rete come hacker, ho scovato bug e falle in diversi sistemi operativi e software e li ho sempre e prontamente segnalati ai produttori. Non ho mai commesso azioni criminali legate alle mie capacità di programmatore. Devi sapere che non siamo tutti criminali, la parola hacker indica persone in grado di analizzare e capire come funziona una cosa. Si chiama reverse engineering, ovvero ingegneria alla rovescia. Si parte da un qualcosa di finito e si scopre perché funziona in un certo modo e se si può lo si migliora.» digitò una serie di comandi e si appoggiò allo schienale del divano.
«Non ho ancora avuto tempo di controllare la tua fedina penale,» la donna lo guardò sorridente «ma credo che eviterò di farlo. Ogni tanto penso a quei cinque mesi, è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata. Era la prima volta che provavo interesse per un ragazzo ed è proprio vero che non si scorda mai. Ho avuto un’altra storia importante che è durata sei anni, ma lui è morto di un brutto male prima che potessimo pensare al grande o.» il suo sguardo si posò sul display del computer ma in realtà, lei, non stava vedendo nulla. «Bah, io ho avuto qualche storia ma niente di particolarmente interessante. La verità è che ogni volta ho fatto il paragone e nessuna era come te. E’ vero, sono un’idiota.» obbligò la donna a guardarlo negli occhi. «In fondo non stavamo male insieme, ci separò una stupida lite. Io pensavo che... come si chiamava?» «Roberta.» rispose Mirko. «Si, ero convinta che ti pie più di me.» «Lo sai che ora vive negli stati uniti?» «Ah, davvero?» la donna si incuriosì. «Si, ha conosciuto un facoltoso costruttore americano e l’ha sposato.» «E tu come lo sai?» «L’ho incontrata per caso su un programma di messaggistica istantanea simile a quello che ti ho fatto vedere ieri.» I due arrivarono a guardarsi intensamente negli occhi e i loro volti si avvicinarono a pochissimi centimetri l’uno dall’altro, Veronica chiuse gli occhi e si lasciò baciare. «Ehm disturbo?» I due si staccarono immediatamente e diventarono paonazzi. «Marchi lei non ha visto niente.» Veronica fulminò l’investigatore con lo sguardo.
«Ah, per me potete anche continuare.» sorrise alla donna «Tranquilli non parlerò a nessuno del vostro segreto. A che punto siamo con la ricerca?» «Mah, a breve dovremmo avere i primi risultati.» arono ancora alcuni minuti e la lista prese corpo, era divisa in di posta elettronica, registrazioni ai forum, siti internet visitati e varie recuperate dalle cartelle temporanee del sistema operativo e dei vari software utilizzati. «Ok, ho recuperato un bel po’ di roba,» osservò Mirko «inizio con gli di posta elettronica.» «Ma quale di questi?» chiese Veronica. «Escludendo quello dell’ufficio ne restano altri tre.» posizionò il suo netbook sul tavolo accanto all’altro dispositivo, lo accese e collegò il suo telefono a una delle porte usb libere. «Cosa stai facendo?» chiese la donna. «Sto collegando il computer al server che ho a casa attraverso una rete privata virtuale. Questo mi permetterà di accedere agli di Baldi senza lasciare troppe tracce in rete. In pratica il server fa in modo che i pacchetti di dati richiesti rimbalzino in giro per il mondo ando attraverso altri server, così diventa difficile ricostruire il percorso all’indietro fino al destinatario finale.» «Ok, credo di aver capito.» Anche Luca e Luigi rientrarono in casa riprendendo posto sulle poltrone. Tutti notarono il commissario senza baschetto e con i capelli sciolti. Veronica guardò l’investigatore negli occhi e la richiesta era palese, l’altro fece un cenno chiarificatore con la testa. Lei fece un gesto con le dita che stava a significare “Ti tengo d’occhio” e poi sorrise. Marchi alzò le mani e contraccambiò il sorriso mentre gli altri due lo guardarono con aria interrogativa, ma nessuno ottenne risposta. «Bene, proviamo questo e vediamo cosa contiene.» l’hacker ottenne accesso al servizio di posta elettronica grazie a una delle che aveva trovato. Controllò l’oggetto di tutti i messaggi per decidere se valeva la pena o meno
leggerli ma si accorse che quell’indirizzo non era usato da anni e che conteneva solo spazzatura pubblicitaria e false mail dalle banche. Lo scartò e tentò con un altro. «Bene bene, questo indirizzo non viene usato da questo computer altrimenti avrei trovato la chiave di accesso da qualche parte nel sistema, ci lavorerò più tardi con calma. Provo l’ultimo rimasto.» Riuscì ad accedere e controllò tutti gli oggetti dei messaggi come fatto in precedenza, l’indirizzo era molto utilizzato e probabilmente era quello principale. Trovò molti messaggi di un’organizzazione che gli ricordava qualcosa. Decise di leggere una mail risalente a qualche mese prima. «Sentite qua,» iniziò a leggere «Caro affiliato, grazie a sua segnalazione felicità trovato bambino. Lei ricevere domani sua ricompensa. La mano di padre.» «Ma che razza di italiano è?» domandò Luigi. «Quello di uno straniero» rispose Marchi «e vi dirò di più, come si firma alla fine?» «La mano di padre.» fece subito eco Mirko. «Ecco, appunto. The father hand.» disse l’investigatore come se gli fosse scappato un pensiero involontariamente. «E’ l’archivio che hai preso dall’ufficio!» gli occhi di Veronica lo fissarono intensamente. «Aspettate,» l’hacker interruppe la discussione «provo a vedere a quando risale la prima e-mail.» Mirko mise i messaggi in ordine di mittente e andò a ricercare il più vecchio che risaliva a circa due anni prima. «Il messaggio è in inglese e dà il benvenuto al nuovo affiliato, c’è scritto che riceverà una mail all’indirizzo di posta creato appositamente per lui e che riceverà la chiave di accesso sull’ fornito per la registrazione, cioè quello del messaggio che sto leggendo ora, dovrà segnarla da qualche parte ma su
nessun computer e dovrà cancellare il messaggio ricevuto. Poi ci sono solo email relative alle ricompense.» «I messaggi cancellati possono essere recuperati?» chiese l’investigatore. «No, la cancellazione viene gestita dal server e non è annullabile.» «Direi che dobbiamo trovare il modo di accedere a quella casella di posta.» sentenziò Luca. «Chi ha in mano gli effetti personali di Baldi?» il commissario guardò il collega della polizia emiliana. «I carabinieri, per sbloccarli ci vorranno un paio di giorni credo.» «A noi basterebbe il cellulare.» osservò la donna. «Ho capito dove vuoi arrivare! Forse la è in una nota nel cellulare, impossibile capire a cosa serva se non sei il proprietario!» Mirko guardò Veronica con ammirazione. «Abbiamo la strana scritta sul foglietto che era insieme al computer di Baldi.» osservò Luigi. «Sì ma se fosse stata usata su questo computer la troverei tra quelle . Quindi serve per altro o potrebbe essere solo una copia per non perderla, a meno che...» avviò una ricerca sul computer dell’assicuratore e, dopo alcuni secondi in cui regnò il silenzio, trovò quello che stava cercando. «Dicevo, a meno che non serva a questo.» girò il portatile in modo che tutti potessero vedere. «Sbaglio o è una copia del tuo archivio?» lo sguardo trionfale di Mirko si spostò sull’investigatore. «Direi che hai fatto centro!» «Bene, allora proviamo a vedere se quella specie di chiave d’accesso senza senso ci permette di aprire la cartella.» Veronica si avvicinò ancora di più a Mirko. L’informatico provò a inserire la chiave, l’archivio divenne accessibile come un
disco aggiuntivo del computer portatile. I dati erano suddivisi in cartelle che corrispondevano a delle date, tranne una che aveva un nome formato da tre semplici trattini, la cosa incuriosì i presenti e così Mirko la scelse per prima. Si ritrovarono a osservare una lista di documenti che si accorsero essere copie di bonifici bancari destinati a un conto corrente, sicuramente era quello di Baldi. Nella stessa cartella era presente anche un file di testo che una volta aperto si rivelò una sorta di testamento che l’uomo aveva lasciato alla moglie. L’informatico iniziò a leggere. «Cara Rebecca, se stai leggendo questo messaggio significa che hai trovato il computer e che molto probabilmente io non ci sono più. Devi sapere che negli ultimi due anni ho deciso di dare libero sfogo alla mia vera natura, ho resistito per tanti anni finché essa ha preso il controllo della mia vita diventando un’ossessione. Ho conosciuto delle persone come me che mi hanno mostrato un mondo nuovo destinato solo a pochi eletti e io ero uno di quelli. Ciò che troverai ti turberà molto e forse mi odierai con tutto il cuore, ma io non ho mai smesso di amarti, tutto era come il primo giorno che ci incontrammo e spero che tu mi creda e capisca. In questi ultimi due anni ho compreso molte cose sulla mia natura, ho capito che in realtà ero malato, anche se quelli come me sostengono di essere persone normali, ma non esiste una cura per questo male. Le persone che ho conosciuto si nascondono dietro una nobile causa ma in realtà le cose sono diverse e non si può più uscire da questa comunità. Ma forse non troverai mai questo computer o se ciò avvenisse forse non capirai come aprire questo archivio, purtroppo, però, nascondere tutto in un posto difficile da trovare era l’unico modo per proteggerti. E spero di esserci riuscito. So che non capirai ma ricordati che ti ho sempre amato.» «Ok, credo che sia il caso di far leggere questa lettera alla signora Baldi solo tra qualche giorno, almeno dopo il funerale.» propose l’investigatore. «Iniziamo a controllare il materiale?» chiese Luca. L’informatico, nel frattempo, aveva già avviato una ricerca per tipologia di file, così da avere gruppi di documenti già suddivisi e più facili da controllare. Si rese conto che il tutto era composto da centinaia di migliaia tra foto e filmati. Con chi avevano a che fare? La risposta arrivò alla visione della prima immagine che colpì come un pugno allo stomaco i presenti, erano bambini nudi. Ebbero il coraggio di visionare uno dei video, ma dopo pochi secondi decisero che era
meglio non proseguire. Si misero alla ricerca di altri tipi di documenti ma senza ottenere grossi risultati, non riuscivano a determinare la fonte del materiale contenuto nell’archivio. «Questo archivio contiene solo merda, ma niente che ci faccia risalire a questa sorta di comunità di pedofili, perché questo sono e lo era anche Baldi.» il commissario si legò di nuovo i capelli biondi e indossò il baschetto. «Posso provare a cercare i siti maggiormente visitati da questo computer sperando che Baldi non pulisse la cronologia.» l’hacker iniziò a effettuare il controllo. «Ehi che ora abbiamo fatto?» chiese Luigi. «Sono le diciassette e trenta.» fece eco il vicecommissario. «Ho trovato molti siti, ci vorrà un po’ di tempo per analizzarli tutti, che si fa restiamo qui o ci spostiamo altrove?» «Non possiamo portare via il computer, devo farlo avere ai colleghi della postale, quindi dobbiamo restare qui.» Luca si portò vicino all’ingresso principale dell’abitazione, pioveva di nuovo. «Direi che è meglio fare il punto della situazione.» propose l’investigatore «Abbiamo una ragazzina adescata in rete e sparita nel nulla, un pedofilo che fa parte di una non meglio definita comunità che si occupa di procurare bambini in cambio di denaro e materiale pedo pornografico, una foto che dimostra il collegamento tra Baldi e l’uomo che ha preso Erika.» Marchi si spostò verso la scala che portava nel seminterrato «Per qualche motivo a noi sconosciuto questa specie di setta a fatto eliminare l’assicuratore e pensando che la signora Baldi fosse a conoscenza delle attività del marito, sono venuti qui a concludere l’opera.» esaminò i fori di proiettile sulla porta «Posso anche dire con sicurezza che il fuggitivo è già fuori dal nostro paese, ho avuto modo di scontrarmi con quell’essere nel bar davanti all’ufficio di Baldi, ho registrato anche una conversazione avvenuta tra i due ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse, parlavano di merce e ho pensato fossero stupefacenti. Ora sappiamo che discutevano la consegna della ragazzina e che i numeri di telefono portano nell’est Europa. Dobbiamo assolutamente scoprire a che organizzazione appartengono.»
Nel frattempo l’hacker stava continuando a visionare i siti web trovati nella cronologia. «Abbiamo i bonifici sul conto corrente di Baldi, si riesce a risalire a qualcuno?» la domanda di Mirko sembrava quasi fuori posto in quella discussione. «E’ vero, dovrebbe essere possibile risalire a chi ha fatto i versamenti, ma non credo che siano così stupidi da usare dei veri nomi.» sentenziò Luigi. «Ragazzi sono le diciotto e trenta.» la donna mostrò a tutti il suo orologio «Luca, quanto tempo ancora possiamo restare qui?» «Non abbiamo un limite di tempo, solo che una volta usciti devo sigillare di nuovo l’ingresso e mi servirà un’altra autorizzazione per rientrare. Quindi, secondo me, sarebbe meglio restare finché non abbiamo le idee chiare su come proseguire l’indagine.» «Allora facciamo così.» Veronica guardò il collega «Luigi puoi andare via se vuoi, tua moglie ha bisogno di una mano con un neonato in casa. Io resterò qui e mi verrai a prendere domani. Non preoccuparti, avviso io in centrale. Marchi, lei può continuare?» «Io non ho problemi devo solo avvisare mia moglie.» l’investigatore prese il telefono cellulare. «Mirko? Tu sei quello che ci serve di più ora.» «Io posso restare quanto vuoi.» ammiccò alla donna. «Io sono obbligato a rimanere per via dei sigilli e se volete ho due camere a casa. Per la cena non c’è problema, conosco una buona rosticceria.» «Bene allora continuiamo a lavorare, Luigi salutami tanto Angela. Ci vediamo domani.» fece un cenno al collega. «Grazie dottoressa. Buon lavoro a tutti, a domani.» il poliziotto uscì dall’abitazione e chiuse la porta blindata. «Bene ragazzi, rimettiamoci al lavoro. Credo che la notte sarà lunga.»
Tutti ripresero posto intorno al tavolo di cristallo.
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La ragazzina aveva ato la giornata a fingere di dormire, faceva così da quando erano partiti e l’uomo al volante sembrava non curarsene, ora stava guardando fuori da finestrino per cercare di capire dove si trovasse. Durante la notte precedente si era accorta che l’auto stava ando il confine tra Italia e Slovenia, lo straniero aveva deciso di are attraverso un piccolo paese sperando di essere meno visibile, guidava in modo impeccabile rispettando il codice della strada e senza esagerare con la velocità benché fossero chiaramente in fuga e per ora era sempre andato tutto bene. Verso la tarda mattinata erano entrati in Croazia e ora stavano ando nei pressi di una città chiamata Rijeka. Il nome le ricordava qualcosa che aveva studiato a scuola, “ah sì” pensò “si chiamava Fiume una volta”. Il tizio che l’aveva presa continuava a non parlare eccetto per avvisarla quando si fermavano per mangiare e per andare in bagno, il solito cespuglio ai bordi di qualche strada. Continuava a rivivere la morte della sua amica ogni volta che si assopiva e forse non avrebbe mai dimenticato gli ultimi secondi di vita di Michela, non poteva neanche andare a darle l’ultimo addio e questo le procurava un dolore ancora più grande. “Dove sei ora amica mia?” pensò osservando la città sconosciuta che sfilava davanti ai suoi occhi “Sei ancora accanto a me come ieri? Ho bisogno di te, tu eri la parte coraggiosa che io non ho.” gli occhi le si riempirono di lacrime. arono alcuni minuti, Erika si asciugò il viso e decise che era il momento di rompere il silenzio. «Perché proprio io?» la domanda fu quasi un sussurro ma l’altro sentì ugualmente, trovò gli occhi dell’uomo riflessi nello specchietto retrovisore, lo sguardo sembrava meno duro del solito. «Perché tu piace a mio cliente.» «Tu non sei Angelo, vero?»
«Angelo? Non conosco. Io ho persone che lavorano per me in tuo paese, loro trovano bambini per clienti ricchi.» tornò a guardare la strada. «Quindi sono stata comprata?» «Sì, ora stai zitta.» l’uomo pronunciò una qualche imprecazione in una lingua sconosciuta. «Perché hai sparato a Michela? Era così pericolosa? Eh? Ti senti grande a prendertela con noi?» «Ho detto stai zitta! Basta!» il tizio picchiò un pugno sul volante. «Tu sei solo un porco bastardo!» L’uomo accostò la vettura, si voltò e assestò un ceffone alla ragazza. I segni delle cinque dita riempirono la guancia di Erika, ritornò a guardare la strada mentre la macchina riprendeva a muoversi. Erika si lasciò cadere sul sedile usandolo come un letto, desiderò addormentarsi per sempre per diventare inutile al suo carceriere, doveva essere un peso morto senza valore. arono i minuti e sentì l’auto aumentare la velocità dovevano essere nuovamente in autostrada. E allora prese la decisione. Si rimise a sedere e si avvicinò alla portiera, le mani legate insieme tirarono la levetta argentata. L’aria fresca pomeridiana invase l’abitacolo e scompigliò i capelli della ragazzina. «Ho deciso che non mi avrà nessuno. Addio stronzo!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Guardò l’asfalto avvicinarsi mentre si lasciava cadere fuori dall’abitacolo e sentì gridare l’uomo mentre la macchina stava rallentando. Troppo tardi.
“Miky sto arrivando, aspettami.” pensò Erika prima che tutto diventasse buio.
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Loreto
Troppo rumore, decisamente troppo e non si riusciva a riposare decentemente. Gli altri degenti non erano molto contenti del chiasso che c’era nel reparto ma erano tolleranti, in fondo tutti quei ragazzini stavano tirando su il morale a una loro coetanea che se l’era vista brutta. Gli occhi della ragazzina dai capelli rossi a spazzola brillavano di gioia mentre, circondata dai suoi compagni di classe, faceva le prime prove con le sue nuove gambe. Le ruote di una sedia. Sapeva bene che sarebbe stata la sua compagna per il resto della vita e l’unico mezzo per sentirsi almeno un po’ indipendente dagli altri. I suoi compagni le stavano mostrando tutto l’affetto che potevano esprimere e, incredibilmente, si sentiva normale. «Ragazzi siete fantastici!» Michela era raggiante. «Forse stiamo facendo un po’ troppo casino. Finisce che ci sbattono fuori.» sentenziò un biondo dal fisico massiccio. «Proprio tu lo dici? Oh, il bulletto della classe dice che facciamo troppo casino!» un ragazzo mingherlino e con gli occhiali rotondi guardò tutti i presenti. «Zitto tu secchione!» rispose l’altro. «Oh, voi due non riuscite a fare a meno di litigare?» una ragazza minuta dai capelli lunghi color cioccolato indicò i due ragazzi. «Ma quei due, in realtà, sono amici per la pelle.» rispose Michela che stava tentando di girare su se stessa con la carrozzina.
«Dai che prima di arrivare a sessant’anni puoi farcela, ah! ah! ah!» un’altra ragazza scoppiò a ridere. «Sì, sì. Ridi pure, vedrai quando non riuscirai a starmi dietro.» Michela le mostrò la lingua. «Ragazzi è ora di andare via, tra qualche minuto porteranno la cena.» il biondo dal fisico massiccio indicò l’orologio. «Ehi Miky, ci vediamo a scuola.» la ragazza dai capelli lunghi le diede un bacio sulla guancia. «Certo, ci vediamo tra qualche giorno. Ciao e grazie tante per la visita. E’ stata un’ora fantastica.» Michela fece un cenno con la mano ai compagni che stavano abbandonando la camera. Un paio di minuti più tardi, due occhi del colore del cielo varcarono la soglia della stanza, il o era inconfondibile come il naso leggermente schiacciato. Michela fisso con stupore Luca, che apparentemente le stava dietro da mesi e, in quel momento, comprese che il ragazzo dentro quella t-shirt rossa nascondeva qualcosa. «Posso?» «Certo che puoi Luca.» «Come stai?» «Bene, almeno adesso sì.» fece cenno al ragazzo di avvicinarsi. «Se vuoi posso spingerti un po’ nel corridoio. Ti va?» girò dietro la carrozzina e impugnò le due maniglie. «Certo, mi fa piacere.» Michela si stava chiedendo perché quel ragazzo si era presentato lì, in fondo si conoscevano appena. «Ho sentito che non potrai più camminare, mi dispiace molto.» lo sguardo non mentiva. «Sì è così, ma almeno sono ancora viva. Questo dovrebbe bastare per
consolarmi.» «Non è detto che, fra qualche anno, non troveranno una soluzione per far camminare nuovamente le persone.» «Tu dici?» per la prima volta Michela si accorse di quanto fossero belli quegli occhi visti così da vicino. «Sì, sono convinto che succederà.» Luca si sentì in imbarazzo e si raddrizzò sulla schiena immediatamente, non riusciva a sostenere per troppo tempo lo sguardo della ragazza. «Sarebbe la cosa più bella del mondo, aiuterebbe tante persone a tornare normali.» «Ho letto sui giornali anche della tua amica, hanno scoperto qualcosa?» «No, forse non la troveranno mai.» una gocciolina lucente le solcò una guancia. Luca si accorse di aver toccato il tasto sbagliato, ma ormai era fatta. «Scusa, non volevo farti stare male, mi dispiace.» il ragazzo continuava a spingere la sedia a rotelle, erano quasi alla fine del corridoio. «Non è colpa tua, sono io che non riesco a darmi pace. Mi manca tanto, Erika è alla pari di una sorella per me. E’ la parte razionale che non ho e ora non so dov’è. Perché al mondo ci sono persone così cattive?» scoppiò in lacrime. Luca fermò la carrozzina e si spostò davanti alla ragazza, si abbassò appoggiando un ginocchio a terra e offrì la sua spalla destra alla ragazza. «Dai, cerca di non pensarci. Non è detto che sia tutto perso.» accarezzò la nuca di Michela e le porse un fazzoletto di carta. Michela sentì il cuore sussultare e una strana sensazione allo stomaco che non aveva mai provato e che non sarebbe stata in grado di descrivere. Sembrava strano ma si sentiva bene vicino a lui eppure non lo aveva mai preso in considerazione, non sopportava la sua ione per il calcio, i comportamenti spesso infantili, la fissa per lo spazio e le astronavi e che più di una volta le avesse fatto capire di avere un debole per lei. Ma quel giorno si era presentato lì,
aveva dimostrato di essere gentile e di preoccuparsi, senza volerlo le aveva fatto vedere che poteva sorreggerla nei momenti di sconforto, era sincero e si capiva che non si aspettava nulla in cambio. Si chiese come mai non aveva notato quanto fossero belli gli occhi di Luca e soprattutto quanto lui fosse bello. Ma poteva ancora rimediare, “sì perché no?” pensò “in fondo che male può esserci nel concedergli una possibilità?”. Guardò di nuovo il ragazzo negli occhi, la distanza tra i due volti si ridusse drasticamente e le loro labbra si trovarono a pochi centimetri di distanza, entrambi chio gli occhi nello stesso istante. «Ragazzi è ora della cena, per cortesia tornate nella camera.» la voce proveniva pochi metri dietro la schiena di Michela. I due ragazzi ebbero un sussulto, l’incanto del momento si dissolse in una frazione di secondo ed entrambi divennero paonazzi. Luca tonò a spingere la carrozzina verso la camera e piombò il silenzio tra i due finché non raggiunsero il letto. «Ti aiuto a salire o preferisci l’infermiera?» «No, dammi una mano tu. Per favore.» «Mettimi il braccio intorno al collo, uno, due e tre!» Luca prese in braccio Michela e la mise a sedere sul materasso, le porse due cuscini da mettere dietro la schiena e fece scorrere lo strano tavolino con le ruote dal fondo del letto fino al busto della ragazza. In quel momento entrò l’infermiera che chiese al ragazzo di accomodarsi gentilmente fuori. «Va beh allora io vado, ci vediamo presto. Se ti va.» «Sì va bene, mi daresti il tuo numero di telefono?» «Se vuoi...» prese un fazzoletto di carta, vi scrisse sopra il numero e lo porse alla ragazza. «Stavo pensando che magari potremmo mandarci qualche messaggio ogni tanto.» un leggero sorriso le si dipinse in volto. «Va bene, allora aspetto che mi scriva tu per prima. Ciao.» Luca fecce un cenno leggero con la mano.
«Ciao, grazie per essere ato a trovarmi.» Il ragazzo sorrise e uscì dalla stanza. Michela guardò il piatto ma non aveva più fame, rigirò la forchetta nella purea di patate cercando di dare forma alla massa senza successo. Giochicchiò con il cibo una decina di minuti, poi spostò il piatto leggermente più a destra e si mise a leggere un fumetto. Sentì entrare una persona, spostò lo sguardo verso l’ingresso della stanza, era suo padre. Il gessato nero rendeva l’uomo ancora più alto di quanto non fosse già e i capelli biondi spettinati nascondevano le rotondità del viso. Si tolse gli occhiali da sole e i suoi occhi chiari incrociarono lo sguardo della figlia. Michela era orgogliosa di suo padre, a trentaquattro anni era ancora giovanile, curava il suo aspetto esteriore ed era bellissimo; diceva sempre a sua madre che aveva avuto l’occhio lungo quando lo aveva scelto come fidanzato. «Ciao Miky, hai ato bene il pomeriggio?» l’uomo si avvicinò al letto. «Ciao papà! Sono venuti a trovarmi alcuni compagni di scuola e sono stati fantastici, però abbiamo fatto un po’ di chiasso.» «Non hai mangiato niente, non stai bene?» «Sto benissimo invece ma mi è ata la fame, comunque ho sempre i biscotti.» indicò il cassetto del comodino. «Chiamo l’infermiera per farle ritirare il vassoio?» «Sì, grazie, tanto ormai è freddo.» L’uomo schiacciò un pulsante accanto al letto e attese l’arrivo dell’infermiera. «Non ha mangiato niente!» osservò la donna col camice bianco. «No dice che non ha fame, lo può portare via?» l’uomo indicò il vassoio. «Ho capito, è il ragazzino di prima!» l’infermiera se ne andò sorridente mentre Michela diventò rossa in volto.
«Ah, allora c’è un lui. Sono contento, come si chiama?» il papà della ragazzina assunse un’espressione divertita. «Si chiama Luca, ma siamo solo amici.» «Allora deve essere un amico speciale, se ti ha lasciato il suo numero di telefono.» indicò il fazzoletto sul vassoio. «Papà, ma tu e la mamma come avete capito di essere fatti per stare insieme?» «Beh sai, ci si conosce, si esce un po’ e poi succede che ti accorgi che c’è qualcosa in più di una semplice amicizia. Tra me e tua madre quello che si è innamorato per primo sono stato io.» «Pensavo che fosse successo il contrario.» «Bambina mia, nella maggior parte dei casi sono i maschietti che si innamorano per primi. E’ il potere nascosto delle femminucce.» guardò la figlia ammiccando. «Come faccio a capire se è quello giusto?» «E’ una domanda alla quale non posso rispondere, tesoro mio. Devi capirlo da sola ma credo che quando sarà il momento te ne accorgerai. Però questi sono discorsi che dovresti fare con la mamma. Comunque, ascolta il tuo cuore. Ricordalo sempre.» «Va bene papà, cercherò di ascoltare il mio cuore. Come è andata a lavoro oggi?» «Come al solito ho girato metà della nostra regione per vendere qualche strumento medicale e ho portato a casa un po’ di ordini.» l’uomo si portò vicino alla finestra e la chiuse «Io e la mamma stiamo pensando di cambiare casa perché vivere al terzo piano senza ascensore non sarà facile e non posso obbligare il condominio a installare un monta scale.» «Papà, quando ero a terra ferita ho immaginato il mio funerale, ero sicura che sarei morta e avevo tanto freddo.» Michela si stava torturando le dita. «Su, ora non pensarci più. Sei ancora con me e la mamma, questa è la cosa più importante. Vedrai che col tempo andrà meglio. Ora devo andare a casa, domani
mattina verrà qui la mamma per cominciare a raccogliere un po’ di roba perché, forse, dopodomani ti dimetteranno. Buona notte tesoro mio.» l’uomo baciò Michela sulla fronte. «Notte papà, salutami la mamma. Ah! Mi chiudi la porta per favore? Grazie.» Il padre della ragazzina uscì dalla stanza e si chiuse il battente dietro le spalle. Michela sentì il bisogno di restare sola come la sera precedente, unì le mani incrociando tra loro le dita e chiuse gli occhi. All’interno della stanza calò il silenzio.
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Albania, 29 aprile 2009
La donna bassa e tarchiata che presidiava il bancone dell’accettazione era occupata a leggere una rivista e non si accorse dell’ingresso della coppia, la bionda si guardò intorno notando la cura in fatto di design e l’utilizzo estremo delle sfumature dell’azzurro, sia alle pareti dei locali sia per le suppellettili. Quando erano all’esterno, i due, avevano osservato bene la struttura cubica dello stabile a vetri, avevano contato almeno cinque piani e un ragguardevole parco macchine. Sul lato dell’ingresso, tra gli ultimi due piani, campeggiavano due grosse mani che sorreggeva un neonato, ma non vi era alcuna scritta. La coppia era lì per uno scopo ben preciso, volevano adottare un figlio e farlo nel più breve tempo possibile. Quella struttura si vantava di poter dare un pargolo a chi ne avesse il desiderio senza lunghe attese, bastava avere un po’ di soldi a disposizione e tutto era possibile, anche scegliere il colore dei capelli o degli occhi. I due si avvicinarono al bancone e si fecero vedere dalla donna vestita di un tailleur nero che la faceva assomigliare più a una palla da bowling che a un essere umano, fissò i due con i suoi occhi nocciola e posò la rivista sul piano. «Buon giorno.» la coppia tentò con l’italiano. «Buon giorno, italiani sono sempre i benvenuti qui. Noi ha molti clienti che vengono da vostro paese.» sfoggiò il migliore sorriso che poteva simulare e che rispecchiava il suo italiano «Abbiamo visitato il vostro sito internet e vorremmo provare un’adozione con voi. C’è scritto che garantite la massima velocità e il rispetto per la privacy.» l’uomo guardò la compagna. «E’ vero, voi resterà soddisfatti di nostra professionalità. Ora a me servono vostri documenti per annunciare a consulente.»
I due consegnarono i rispettivi documenti di identità alla donna che indicò due divanetti blu scuro alla coppia. «Prego compilare questo questionario che io darà a consulente che farà colloquio per verifica che voi è idonei per adozione.» porse una cartelletta e una penna all’uomo, la compagna si era già accomodata nel punto indicato dalla receptionist. «Ci saranno più di un centinaio di domande, non finiremo mai.» «Beh se mai cominciamo, mai finiamo.» sentenziò la bionda «Forza dai, che sarà mai rispondere a queste domande!» Dopo un’ora ata a scrivere risposte, spesso a domande decisamente idiote, il cellulare dell’uomo vibrò segnalando l’arrivo di un messaggio, gli occhi nocciola fissarono il display e lessero velocemente ciò che vi era comparso. Mostrò l’apparecchio alla compagna che accennò un leggero sorriso. «Ok» sussurrò all’altro «si va in scena.» La donna si alzò e si portò in fretta vicino al bancone, fissò la grassona simulando di essere arrabbiata e le buttò sul tavolo il questionario. «Senta, ma che cavolo di domande fate?» «Io non capisce, nostro questionario è così da molto tempo.» «Ah perché, per voi, è normale chiedere a due coniugi se praticano sesso con altre persone e se provano il desiderio di farlo? Voi siete matti! Vogliamo parlare immediatamente con il consulente!» intanto il compagno le si era avvicinato. «Su, cara, stai calma.» circuì la moglie con un braccio «La scusi» si rivolse alla donna dietro il bancone «ma sono mesi che non facciamo altro che rispondere a test, farci analizzare da psicologi e dottori vari. Siamo stanchi e afflitti, voi siete l’ultima possibilità che abbiamo.» «Ok, no preoccupa, io ora chiamo il consulente.» alzò la cornetta del telefono, compose un numero e attese la risposta, poi farfugliò qualcosa nella sua lingua natia e fece cenno ai due di salire le scale «Stanza numero ventidue. Primo piano.»
«Grazie, è stata molto gentile.» l’uomo prese per mano la donna e si avviò verso la rampa. I due salirono la scala a vista con i gradini in cristallo e arrivarono a una sorta di piano intermedio, a destra videro gli ascensori e una scala che girava dietro al vano delle cabine e saliva al piano superiore. Un cartello in varie lingue indicava che proseguendo ancora avrebbero trovato la stanza che cercavano, videro are un uomo con un carrellino che li guardò e fece un loro un cenno, i due coniugi si guardarono negli occhi e ripresero a salire mentre il tizio col carrello entrò in uno degli ascensori. Arrivarono al primo piano e si ritrovarono all’interno di un’ampia sala d’attesa con diversi divanetti bianchi, contarono altre tredici coppie oltre a loro tutte in attesa di essere ricevute. Scelsero un divanetto nelle vicinanze della stanza che era stata indicata loro e si sedettero. Alcuni secondi dopo, dalla stanza ventidue, uscì un uomo il cui sorriso sembrava poter sciogliere il completo di ghiaccio che indossava. La bionda lo categorizzò come un belloccio viscido, qualcosa di quel tizio non le andava a genio. L’uomo osservò i presenti toccandosi con una mano il nodo della cravatta grigia e sollevò verso il proprio viso un blocco per gli appunti. «I signori Zarelli sono arrivati?» L’uomo dagli occhi nocciola e la bionda si alzarono immediatamente «Siamo noi.» «Prego.» l’altro indicò la porta aperta. I tre entrarono e chio il battente, la coppia si sedette su due sedie chiare di fronte alla scrivania azzurra, notarono che anche in quella stanza predominavano le tonalità dell’azzurro. Il consulente si sedette e aprì una cartelletta con dei documenti. «Bene signori, spero che il mio italiano sia di vostro gradimento, mi chiamo Dejk e vi aiuterò a scegliere il vostro bambino adottivo. Ho avuto modo di leggere il test che avete compilato, anche se non è stato completato, e credo che siate idonei per diventare genitori.» «Grazie di averci ricevuto così in fretta, ma potevamo venire qui solo oggi e siamo disperati perché non riusciamo a farci affidare un bambino.» la donna
fissò il consulente con i suoi occhi azzurri. L’altro ricambiò lo sguardo e ammirò le forme della donna che indossava un tubino rosa che metteva in risalto le curve del seno. Il compagno invece indossava dei jeans neri e una camicia bianca e non sembrava essere il grande industriale descritto nel fascicolo di presentazione. Dejk riprese il discorso «Ho letto le vostre credenziali e potete ottenere ciò che desiderate, abbiamo bambini di varie età ed etnie ma se non avete problemi di denaro potreste voler scegliere anche il loro aspetto esteriore.» L’uomo si alzò e prese un raccoglitore dalla libreria che aveva dietro le spalle, lo appoggiò sulla scrivania aprendolo in modo che la coppia vedesse le foto dal verso giusto. «Questi sono i bambini che abbiamo nel nostro orfanotrofio associato, come vedete sono di razze diverse, questo perché, data la nostra influenza in Europa, molte strutture di altre nazioni ci portano i bambini che non possono tenere in quanto sono in eccesso. Molte coppie che non hanno molta disponibilità economica scelgono il sesso e l’età, poi siamo noi a scegliere un bimbo da provare. Ma voi, se volete, potete scegliere direttamente da questo catalogo. Prego sfogliate pure.» La coppia iniziò a girare le pagine.
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L’uomo in tuta da operaio azzurra ridotta a un colabrodo e tappezzata di toppe aveva raggiunto il quarto piano, le sue Nike nere, se avessero avuto il dono della parola, avrebbero gridato pietà ma lui non poteva ascoltarle e non si curava affatto di come erano ridotte. Nella tasca destra spuntavano dei cacciaviti e un paio di pinze, sul carrello c’erano una scatola con delle parti elettroniche e una borsa in pelle marrone floscia e piena di tagli. L’addetto alle riparazioni percorse un corridoio che lo portò nella zona posteriore all’enorme insegna che occupava buona parte della facciata anteriore tra il quarto e il quinto piano. Aprì una fila di finestroni finché non trovo quello giusto, sfilò dalla tasca di destra uno dei cacciaviti, svitò tre delle quattro viti che fissavano un coperchio metallico alla struttura e lo lasciò penzolare appeso all’ultima. Infilò la testa e un braccio nel buco, strappò un paio di cavi elettrici e li fece penzolare accanto alle finestre, raccolse la borsa in pelle dal carrello e percorse a ritroso il corridoio fino alla sua destinazione finale, i bagni. Entrò in uno degli scomparti e si chiuse dentro, estrasse dalla tracolla un piccolo computer portatile, chiuse il coperchio della tazza e ci si sedette sopra. Aveva poco tempo per portare a termine il suo compito e iniziò a cercare di bucare la rete wireless della struttura. Le sue dita correvano veloci sulla tastiera quando sentì entrare qualcuno, parlava la lingua di quel posto e lui non riusciva a capire nulla, ma era sicuro che stesse cercando una persona e il suo era l’unico scomparto con la porta chiusa. Nel frattempo il programma di sua ideazione era riuscito a ottenere l’accesso alla rete dell’organizzazione ma l’intruso era ancora nel bagno, ora aveva aperto il rubinetto dell’acqua e sembrava non fosse più interessato a lui. L’illusione durò poco e sentì bussare alla sua porta. Non si era accorto di essere stato seguito? O il tizio era lì per caso e aveva visto il carrello abbandonato incuriosendosi? Mentre pensava a come cavarsela in quella situazione gli ò davanti agli
occhi un fotogramma, il suo cervello stava analizzando la situazione e gli ripresentò ancora il pezzo d’immagine, era una cosa che i suoi occhi avevano registrato ma lui non se ne era curato, e aveva fatto male. L’immagine ritornò ancora e si accorse finalmente del dettaglio, una telecamera in fondo al corridoio. “Idiota come hai fatto a ignorarla!” si maledì per quell’ingenuità. L’altro bussò di nuovo e ora stava cercando di aprire il battente con la forza, l’operaio doveva trovare una soluzione in fretta, anche perché lì era in trappola. Si ricordò che la porta si apriva verso l’esterno dello scomparto e pensò che forse poteva sfruttare l’effetto sorpresa, chiuse il coperchio del computer e lo infilò nelle tracolla, si allontanò di un o dal battente gli assestò un calcio con tutta la forza che aveva. Il colpo fece saltare la cornice in legno e la porta si aprì centrando in faccia la persona che era dall’altra parte, quella perse l’equilibrio e picchiò la testa contro uno dei lavandini in ceramica bianca. Il manutentore lo vide contorcersi dal dolore e approfittò per uscire a o svelto dal bagno, chiamò uno degli ascensori che era già lì ad attenderlo, le porte si aprirono, entrò e schiacciò il pulsante per scendere al piano rialzato. La cabina si mosse e lui iniziò a contare i secondi sperando di non trovare nessuno alla fine della corsa. La discesa sembrava non finire mai. Finalmente uno scossone rivelò che l’ascensore era giunto a destinazione e le porte si spalancarono silenziosamente. Uscì dall’ascensore e il piano rialzato era deserto, lanciò un’occhiata alla donna dell’accettazione che stava ancora leggendo la sua rivista e scese la scala, ò dietro una delle colonne che sorreggevano il piano rialzato e attraversò una porta secondaria, questa volta era stato più attento e aveva controllato prima che non ci fossero telecamere. Si trovò nel piazzale alla sinistra dell’ingresso principale e si incamminò verso il luogo dove aveva lasciato l’auto, aprì la portiera infilandosi nell’abitacolo dove si spogliò e si cambiò d’abito, gettò via i baffetti finti e la parrucca, buttò tutto in un sacco nero che finì nel bagagliaio insieme alla borsa in pelle ormai vuota. Prese la ventiquattrore e si avviò con calma verso l’ingresso principale della struttura. Inviò un SMS dal suo cellulare. Varcò la soglia della porta a vetri scorrevoli nello stesso istante in cui due uomini
vestiti di nero si avvicinavano al banco dell’accettazione e chiedevano qualcosa alla cicciona. L’uomo si avvicinò con disinvoltura e attese che la donna lo notasse. Anche i due energumeni lo osservarono e non trovarono niente di strano nel tizio in completo grigio e camicia azzurra. «Mi scusi, cerco i coniugi Zarelli. Sono il loro avvocato. Capisce l’Italiano?» appoggiò le mani sul bancone e fissò la donna negli occhi «Oh si, primo piano stanza ventidue.» «Grazie, è stata molto gentile.» l’avvocato iniziò a salire la scala mentre la donna lo stava mangiando con gli occhi. I due tizi della sicurezza iniziarono a cercare qualcuno nei locali del piano terra. Il nuovo arrivato salì i gradini di cristallo con estrema calma, arrivato al piano rialzato si diresse verso gli ascensori e schiacciò il pulsante di chiamata. Alcuni secondi dopo le porte si aprirono, l’uomo entrando schiacciò il tasto con l’uno e attese di arrivare al piano richiesto. Entrò nella grande sala d’aspetto e notò che c’erano diverse persone, tutte coppie, e lui si sentiva fuori posto. In realtà lo era e lo sapeva bene. Cercò le indicazioni per il bagno e le vide appese a un muro poco lontano dalla sua posizione, si guardò bene attorno e notò che non erano presenti telecamere di sorveglianza. Pensò che nei minuti precedenti era stato veramente sfortunato, prese la direzione indicata dai cartelli appesi al muro e varcò l’ingresso del bagno, inviò un altro SMS e si chiuse dentro uno dei servizi. Doveva riprendere il lavoro e aveva già perso parecchio tempo. Troppo tempo.
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Il cellulare nella tasca vibrò per due volte consecutive. «Tesoro devo andare urgentemente in bagno, continua a sfogliare, io torno subito.» guardò il consulente. «Mi scusi ma ho preso una cistite e sono giorni che mi fa impazzire.» «Oh non c’è problema, esca pure.» Il compagno della bionda uscì dalla stanza e si diresse verso il bagno controllando il cellulare, varcò la soglia del locale e chiuse la porta. «Ehi! Tutto a posto?» si avvicinò alla terza porta che era chiusa. «Sì ma c’è mancato un pelo, ora è meglio che stia qui.» «Beh, come esordio direi che non c’è male. Sto pensando di assumerti.» «Sì, fai pure lo spiritoso. Se mi beccavano ero veramente nei guai. Al piano terra ci sono due tizi enormi che mi stanno cercando.» «Ma alla fine tutto è andato per il meglio, di quanto tempo hai bisogno ancora?» «Sono riuscito a entrare nella rete e sto gironzolando negli hard disk dei vari computer connessi, però vorrei piazzare un programmino spia nel loro server in modo che ci possa fornire un po’ di informazioni utili, almeno ci spero. Direi che mi servirà un’altra ora.» «Uhm, non so se riusciremo a stare lì dentro ancora un’ora.» «Vedi che riesci a fare. A proposito, mi sono spacciato per il tuo avvocato con la tizia della reception.» «Ok, buono a sapersi, può tornarmi utile. Vado a fare la mia parte, ci sentiamo
col solito sistema.» «Ok. A dopo.» L’uomo uscì dal bagno e raggiunse la stanza ventidue, aprì la porta e si sedette accanto alla compagna. «Tutto bene?» chiese la donna. «Sì, ma ogni volta che urino soffro come un cane. Il medico deve darmi una cura più efficace, non posso mancare dal lavoro per troppi giorni.» «Guarda come sono belli questi bimbi.» indicò una pagina con quattro foto che ritraevano una femmina e tre maschi. «Sì, la biondina quasi ti somiglia.» notò l’uomo. «Signori, se volete, potete già scegliere il vostro futuro figlio o figlia e noi, in meno di due giorni, ve lo faremo incontrare.» il consulente si alzò, appoggiò i palmi delle mani sul tavolo e fissò la coppia sorridente. «Che dici caro, proviamo?» «Mah, non so. E’ che non sono molto convinto che sia la strada giusta. Non vorrei che non fosse legale e una volta entrati in Italia andassimo incontro a dei guai.» «Tu dici? Allora che facciamo? E’ l’ultima possibilità che abbiamo.» scese una lacrima che rigò il viso della bionda. «Aspetta, ho un’idea. Ho chiesto al nostro avvocato di raggiungerci, ha preso un volo dopo il nostro e dovrebbe essere da queste parti ormai. Provo a chiamarlo.» guardò il consulente che assentì con la testa. L’industriale cercò il numero nella rubrica del telefono e attese la risposta dall’altra parte. «Avvocato sono Zarelli. Dove si trova ora? Ce la fa a raggiungerci? Ho bisogno di farle alcune domande. Come dice? Ah ok, aspetti un attimo in linea.» l’uomo si rivolse al consulente
«Dovrebbe essere qui tra un’ora o forse meno.» l’altro fece segno che andava bene «Ok, avvocato possiamo aspettare. Grazie.» chiuse la comunicazione e mise il cellulare in tasca. «Caro, ne abbiamo parlato più volte, ma non ho capito se vuoi un maschio o una femmina.» «Quello che scegli andrà bene anche a me, l’importante è che tu stia meglio e che sia finalmente felice.» l’uomo guardò la compagna negli occhi. «Io vorrei una femminuccia. Ma non di età superiore ai tre anni, perché vorrei vederla crescere ed educarla io.» «Purtroppo non ne abbiamo così piccoli in questo raccoglitore. Sa, le persone che adottano, di solito, vogliono bambini più grandi.» l’uomo alzò le mani come ad indicare l’illogicità della cosa «Comunque, domani, dovrebbero arrivare delle nuove foto. Ne riceviamo almeno due volte al mese, gli orfanotrofi scoppiano di bambini abbandonati.» «Che dici Giovanni?» la bionda fissò il compagno «ritorniamo domani?» «Beh, intanto aspettiamo l’avvocato per capire se possono esserci problemi e poi decidiamo, va bene?» «Ok, mi fido di te.» «Signor Dejk, può iniziare a spiegarci come funziona l’adozione da voi? So che solitamete si devono are delle settimane nella terra d’origine insieme al bambino adottivo e poi si potrà avere o meno l’autorizzazione a procedere.» «No, qui non funziona così. I bambini provengono da diverse nazioni dell’Europa, sono stati già tolti dal loro ambiente naturale e possono essere prelevati subito. Poi, signori, diciamoci la verità» il consulente fissò la coppia mostrando il suo sorriso migliore «davanti al dio denaro, tutto è concesso.» La coppia ò ancora un bel po’ di tempo a chiedere informazioni a porre domande ed esporre dubbi, incredibilmente Dejk aveva sempre la risposta pronta. Qualcuno bussò alla porta e fu invitato a entrare, la discussione durò ancora
qualche minuto, finché la coppia e il nuovo arrivato uscirono con dei fascicoli. Si erano accordati per studiarli e dare una risposta il giorno successivo. I tre uscirono dallo stabile e notarono la presenza di due figure massicce sul piazzale che stavano cercando qualcosa o qualcuno, proseguirono con calma incuranti di ciò che stava avvenendo e salirono in macchina. Il mezzo iniziò a muoversi e si diresse verso l’uscita del piazzale, si fermò e attese che la sbarra rossa si sollevasse per farli are, nello stesso istante una BMW nera provenne dal lato opposto e gli specchietti delle vetture arono a pochi centimetri l’uno dall’altro. La donna e l’uomo seduto dietro ebbero l’impulso di guardare verso i finestrini dell’altra auto ma i vetri erano oscurati e non si vedeva nulla. Si immisero sulla strada principale e proseguirono verso l’albergo. Nessuno dei tre occupanti notò la targa Italiana della BMW.
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L’auto grigia presa a noleggio percorreva la strada statale a velocità moderata, erano ati già diversi minuti e finalmente uno degli occupanti ruppe il silenzio. «Allora? Come è andato il colloquio?» l’uomo seduto dietro si avvicinò alle due figure che erano davanti a lui. «Direi che è andato abbastanza bene, alla fine siamo arrivati alla conclusione che è solo una questione di soldi. Più ne hai e maggiori possibilità di scelta ti offrono. Siamo alla pari del commercio, con cataloghi da mostrare e prezzi, ma non mi sembra che ci sia nulla di strano. Tu che dici?» l’uomo al volante spostò lo sguardo verso la donna al suo fianco. «Sì, a parte il fatto che si arricchiscono con le disgrazie altrui, non ho visto niente di illegale. Credo che siano pochi quelli che hanno abbastanza denaro da poter scegliere i bambini di quel catalogo, le coppie vanno in quel posto perché le hanno provate tutte e non sono riuscite a farsi affidare un figlio. E soprattutto sono disperate.» «Io sono riuscito a entrare nel loro server ma in realtà sono due. O meglio, è un unica macchina ma con server virtualizzati.» si appoggiò allo schienale. «Tradotto per noi comuni mortali?» la donna si voltò a fissarlo. «In pratica una macchina può arrivare a gestire più server contemporaneamente, il limite è dato solo dalle caratteristiche elettroniche del computer. Gironzolando per la rete informatica dell’organizzazione mi sono reso conto, appunto, che i server sono due, uno dovrebbe essere quello che gestisce il sito, le e-mail e i vari software per la fatturazione e cose di quel genere. L’altro non ho la più pallida idea di cosa faccia, però sono riuscito a infilare in entrambi il mio programmino e dovrei ricevere i primi risultati a breve.» I tre si misero a discutere di come stavano andando le cose, la sera prima erano
in Italia alla ricerca di indizi in casa Baldi, avevano trovato un computer portatile e si erano imbattuti in un archivio contenente immagini e video legati alla pedofilia, poi si erano messi a cercare dei collegamenti possibili tra l’assicuratore e chi aveva portato via la ragazzina di Osimo. Infine, a notte fonda, legarono Baldi all’organizzazione internazionale di adozioni chiamata “The father hand”. Decisero allora di partire per vedere dal vivo la cosa e ognuno andò a casa per recuperare tutto quello che poteva essere utile. La mattina seguente, Davide Marchi, Mirko Fasani e Veronica Mancini, presero un volo diretto in Albania e atterrarono all’International Airport Nënë Tereza di Rinas, era l’unico che fossero riusciti a trovare in fretta. La sede dell’organizzazione era situata a una trentina di chilometri più a sud, nei pressi di una cittadina chiamata Kavajë che era circondata dalle campagne, presero un’auto a noleggio e prenotarono un albergo nelle vicinanze, chiamarono il numero che avevano trovato sul sito e riuscirono a farsi dare un appuntamento per il pomeriggio stesso. Mentre erano in volo studiarono la parte che dovevano recitare e definirono nei minimi dettagli il piano d’azione calcolando eventuali problematiche e come uscirne. L’esperienza di Marchi nell’infiltrarsi si faceva notare e la poliziotta iniziò ad apprezzare l’uomo che inizialmente le era sembrato solo una testa calda con molta fortuna. L’indagine continuava a proseguire in Italia per le vie tradizionali, mentre loro, apparentemente, erano in quella nazione per motivi personali e quindi non tutelati. Veronica aveva chiesto a Luigi di provare a coinvolgere le forze di polizia locali che stavano già lavorando sui numeri di telefono dei killer sperando di avere un aiuto. Perché ora sapevano con sicurezza che erano albanesi. Davide aveva preferito portarsi la sua attrezzatura da lavoro e anche la sua arma, che considerava più un porta fortuna, invece di uno strumento necessario allo scopo e, grazie al fatto che Veronica fosse della polizia, era riuscito a imbarcarla nella stiva senza troppi problemi. La stessa cosa aveva fatto l’hacker che si era portato tutto l’occorrente per intrufolarsi nelle reti informatiche e soprattutto il suo fido computer portatile. Anche la donna aveva portato l’arma anche se sapeva bene che non sarebbe servita a niente. «Bene ora che si fa?» chiese Mirko.
«Direi di darci al relax.» sentenziò Veronica. «Ah, per me potete fare quello che volete, io vado a farmi una bella dormita. Dopo la scorsa nottata ne ho proprio bisogno.» «Ehi tu!» Veronica squadrò l’investigatore «siamo già divorziati?» e scoppiò a ridere. «Per questa sera sì, ma domani si ritorna alle parti originali.» l’investigatore le fece l’occhiolino. «Allora mi consolerò con il tizio qui accanto.» fece un gesto con la mano e il pollice indicando Mirko. «Beh, grazie per il pensiero.» Mirko si mise a ridere come un matto. «Ok siamo arrivati, prendiamoci ognuno la nostra stanza e alle venti ci troviamo tutti nell’atrio per andare a cena.» Marchi fermò la macchina in uno dei tanti parcheggi disponibili e i tre uscirono dall’abitacolo per recuperare il loro bagagli. Entrarono nella struttura, un albergo a tre stelle che assomigliava a una grande casa di campagna e quando varcarono la soglia della porta a vetri rimasero tutti colpiti dalla bellezza dell’arredamento in stile country. Si avvicinarono al desk della reception e porsero i loro veri documenti di identità alla ragazza bionda e particolarmente bella che li stava attendendo. La sera precedente erano riusciti a modificare dei vecchi documenti d’identità grazie alla bravura di Mirko che aveva preso in prestito delle identità in internet e alle abilità manuali di Marchi nel fare un collage da maestro delle falsificazioni, puntarono sulla distrazione degli operatori addetti alle fotocopie che non controllano quasi mai cosa gli viene dato in mano e si limitano a fare le copie restituendo il tutto. Avevano fatto diverse prove e il puzzle, nelle immagini, non si notava e alla fine la loro teoria si era rivelata esatta. Nessuno si era accorto che le carte d’identità erano false. Presero tutti la loro tesserina magnetica col numero della camera inciso in oro e attesero l’ascensore, si aprirono le porte ed entrarono leggendo il cartello che riportava l’elenco dei piani e le funzioni assegnate. Il primo era riservato alle
camere, il secondo al ristorante e prima colazione e l’ultimo, il terzo, era adibito a centro benessere con sauna, massaggi, solarium e palestra. Uscirono dalla cabina e si diressero verso le rispettive camere, Veronica e Davide avevano le stanze confinanti mentre Mirko era in fondo al corridoio, si salutarono e si divisero. La poliziotta varcò la soglia della sua camera e notò all’istante il letto in ferro battuto che spiccava in contrasto con le pareti chiare, anche la scrivania e i comodini in wengè si facevano notare. Cercò il bagno e lo trovò ando per una rientranza che fungeva da piccolo salotto, aprì la porta e ammirò i cristalli del box doccia perfettamente puliti. Aveva proprio voglia di una bella doccia. Tornò nella camera e sistemò la valigia nel posto contrassegnato dalla scritta “Baggage” e una freccia verso il basso appesa al muro sopra un mobiletto a due ante. L’aprì, recuperò il beauty e la biancheria intima, si sfilò le scarpe bianche col tacco dieci e le mise sopra una piccola pedana rettangolare con la scritta “Shoes” collocata sul pavimento vicino all’ingresso. Si tolse il tubino rosa che sistemò con delicatezza sul letto, lo avrebbe messo a posto successivamente, e si avviò a piedi nudi verso il bagno. Camminare sulla moquette grigia, che rivestiva l’intera stanza, era un piacere. Si portò davanti allo specchio, aveva aperto l’acqua nel box doccia e, in attesa che fosse calda al punto giusto, controllò il suo corpo. Lei si vedeva bella, fin dall’adolescenza era così. Aveva un fisico normale, si definiva una donna con le curve giuste al posto giusto. Il seno era ben proporzionato rispetto al resto del corpo e stava ancora su da solo, anche i fianchi e il sedere non erano male. Ma quello che più le piaceva di se stessa erano le gambe, diritte e senza un filo di cellulite, era la parte del suo corpo invidiata da tutte le sue colleghe e amiche. E ne andava fiera. Mentre attendeva iniziò a farsi un esame di coscienza su come era stata la sua vita fino a quel momento, ciò che era successo negli ultimi giorni aveva toccato un nervo scoperto, non avveniva da parecchio tempo e davanti ai suoi occhi si affacciarono i ricordi, rivisse il momento della morte del suo fidanzato Stefano
con tutto quello che avvenne dopo. Quando lo perse per sempre decise di dedicarsi solo al suo lavoro, era cresciuta e aveva acquisito una certa importanza all’interno del corpo di polizia, cosa non facile per una donna, ma non dimenticava mai la sua voglia di diventare mamma. Nel giro di tre giorni aveva ritrovato un vecchio amico, anzi, la persona amata per la prima volta e che stava riscoprendo. Era confusa, l’aveva tenuto sempre in un angolo del suo cuore, un dolce ricordo da tirare fuori nei momenti di tristezza ricordando quei cinque mesi bellissimi. Le rivennero in mente i giorni successivi al lutto che, seppur atteso per via della malattia, l’aveva investita come un treno. ò tre settimane chiusa in casa, nessuno dei suoi amici riusciva a farla sentire meglio e lei continuava a pensare ai sei anni ati con Stefano, gli ultimi due combattendo una battaglia che sapevano essere persa in partenza. La diagnosi fu di tumore al cervello, ma, molti dicono, la speranza è l’ultima a morire e il compagno le disse che sarebbero riusciti a vincere promettendole che l’avrebbe sposata, solo che, quando anche questo ultimo barlume di pensiero ottimista muore, il dolore è ancora più forte perché mette in evidenza l’essersi aggrappati a un’illusione. Pensava che, in realtà, l’essere umano nascesse così, che non si arrendesse fino alla fine, anche quando sapeva che tutto era perduto e che il risultato finale non si potesse cambiare, andava avanti aggrappato a un filo sottile che si sarebbe spezzato e lo avrebbe fatto precipitare nella sofferenza. Si asciugò una lacrima che le si era fermata sul labbro superiore, si voltò verso il box doccia e si accorse che l’intero bagno era avvolto dal vapore. Si avvicinò al piatto in ceramica bianca ma sentì suonare il suo cellulare, era il suono che l’avvisava dell’arrivo di un SMS, e così ritornò davanti allo specchio appannato e prese l’apparecchio in mano. Lesse il testo due volte, sorrise e rispose. Ma voleva veramente che accadesse? Stefano morì il 10 Febbraio del 2008, proprio quattro giorni prima di San Valentino, ormai era ato un anno abbondante e lei era stata sempre sola, aveva persino chiesto il trasferimento per tornare a casa sua, era scappata da Milano perché era costantemente sommersa dai ricordi e aveva abbandonato il suo amore in un cimitero. Si era allontanata per ricominciare a vivere e si chiedeva spesso se lo voleva veramente, ma aver ritrovato Mirko dopo tanti anni le aveva riportato il buon umore e la voglia di vivere.
Qualcuno bussò alla porta, sapeva bene chi fosse, e incurante della sua nudità aprì all’ospite nascondendosi dietro al battente, per farsi scoprire solo dopo che il resto del mondo sarebbe rimasto chiuso fuori. L’uomo restò inebetito dalla visione e non proferì parola, era paonazzo ma la donna si accorse che, in realtà, era eccitato. Restarono un paio di minuti in silenzio a fissarsi l’un l’altra, finché lui si avvicinò e la baciò toccandola con estrema delicatezza come se rischiasse di romperla. L’uomo si svestì restando attaccato alle labbra della poliziotta e lei si fece seguire in bagno, il box doccia era abbastanza grande per contenere comodamente due persone. Decisero entrambi che quello era il posto perfetto per amarsi.
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Le venti arrivarono in fretta e Marchi, che aveva ato le ultime due ore a ronfare alla stregua di un ghiro in letargo, stava finendo di vestirsi. Sentì bussare alla sua porta, s’infilò le scarpe nere e andò verso l’ingresso, invitò i due compagni a entrare e fece cenno di sedersi sul divano. «Scusate il ritardo, ho dormito un po’ troppo ma ho quasi finito.» «Come sei elegante.» la donna sorrise. «Mai come te, sembra che qualsiasi cosa indossi ti stia alla perfezione.» l’investigatore indicò la gonna rossa che scopriva le ginocchia e la camicetta bianca dalla generosa scollatura. «Grazie, sei davvero gentile.» si voltò verso l’hacker «Dovresti farti dare lezioni di stile, tu.» «Non mi sembra di essere poi così rozzo.» Mirko sorrise e la poliziotta fece lo stesso. Marchi, nel frattempo, aveva finito e accompagnò Veronica e Mirko fuori dalla camera, chiuse la porta e li raggiunse nella zona dell’ascensore ma decisero di usare le scale, tanto dovevano salire solo di un piano. Entrarono nella zona adibita a ristorante e notarono che tutti i tavolini presenti erano rotondi e da quattro posti, ne scelsero uno e si sedettero, alcuni secondi dopo arrivò la cameriera che porse a ognuno un menù in inglese, l’investigatore sobbalzò sulla sedia. «Ahi! Che ti prende?» fissò la poliziotta. «Ops! Scusa tanto ho sbagliato gamba. In realtà era per l’imbambolato accanto a te.» «Perché dovrei meritarmi un calcio?»
«Per come guardavi la cameriera.» la donna fece un cenno col capo. «Ma non l’ho guardata diversamente da come guardo te.» Mirko alzò le mani. «Ecco, appunto. Solo me devi guardare in quel modo.» «Ahi, Ahi. Siamo gelosi.» Davide fece il gesto della sculacciata con la mano. «Bah, lasciamo stare e decidiamo cosa mangiare che ho fame.» la donna aprì il menù, sapeva che era meglio evitare quel discorso con due maschi perché quelli si sarebbero alleati. Consultarono per alcuni minuti il volumetto finché tutti decisero che cosa prendere, chio i libretti e li appoggiarono sul tavolo. C’era un’ampia scelta ma era tutta cucina tipica del luogo e loro non ci capivano nulla, presero qualcosa che doveva assomigliare a della carne e scelsero un vino rosso locale. Non se la sentirono di sperimentare cose strane. «Hai ricevuto qualcosa dal tuo programma spia?» chiese Marchi all’hacker. «Ehm, veramente non ho avuto modo di verificare, sono stato un po’ impegnato oggi pomeriggio.» «Ah, ecco perché voi due siete così rilassati. Maialini.» l’investigatore scoppiò in una sonora risata che incuriosì alcuni presenti. «Ti avevo avvisato che ti avrei sostituito con un altro. Non mi hai lasciato scelta caro signor Zarelli.» Veronica si mise a ridere all’impazzata. «Ragazzi a parere mio siete fatti l’uno per l’altra, vi vedo molto bene insieme, non fatevi problemi con me. So farmi i fatti miei.» «Detto da un investigatore privato è una garanzia, direi.» Mirko fece l’occhiolino a Veronica e si mise a ridere. «Beh, effettivamente non posso darti torto.» Marchi sorrise a sua volta. La serata ò nell’allegria generale, i tre stavano bene in compagnia, era come se si conoscessero da una vita e Davide pensò che era positivo perché una squadra unita è anche vincente. Alle ventitré erano sazi e decisero che potevano
abbandonare il tavolo e trovare altro da fare, la mattina dopo potevano prendersela comoda, l’incontro con il consulente era fissato per il pomeriggio intorno alle quattordici e trenta e per ora non avevano alcun indizio da studiare. Un forte rombo riempì il locale, era un tuono, Marchi si avvicinò a una vetrata del ristorante e diede un’occhiata fuori, stava piovendo molto intensamente. «Bene, signori, direi che la eggiata è da rimandare ma credo che sappiate come divertirvi ugualmente.» si voltò con un ghigno sul viso. «Mah, invece mi metterei a controllare cosa sta registrando il mio software, dovrei avere già un bel po’ di messaggi nella casella di posta elettronica.» si voltò verso la donna. «Ahhh, uomini.» sospirò facendo roteare gli occhi. «Se vuoi puoi farmi compagnia.» «Sì, a morire di noia davanti al computer. Scordatelo.» mise il broncio. «Credo che questo sia il primo litigio da quando siamo insieme e non sono ate neanche ventiquattro ore. Uhm, cominciamo bene.» «Ma dai che sto scherzando, vengo volentieri.» «Bene allora tenetemi informato se ci sono progressi, io cercherò di riordinare un po’ le idee, magari ci è sfuggito qualcosa.» I tre uscirono dal ristorante e usarono le scale per scendere al piano di sotto, Marchi entrò nella sua stanza mentre Veronica e Mirko proseguirono in fondo al corridoio. L’uomo aprì la porta e i due entrarono, la poliziotta notò subito la scrivania preparata come se fosse un ufficio, dove campeggiava il piccolo computer portatile con collegati un dispositivo esterno e una stampante. Rimase impressionata dalla precisione in cui erano posizionati i dispositivi elettronici e del solito blocco degli appunti con accanto la penna. Mirko prese una sedia e la pose accanto alla sua per far sedere la donna, schiacciò un tasto a caso e il computer uscì dallo stato di ibernazione. In basso a destra del display era presente l’icona a forma di bustina da lettere tipica di ogni software per la gestione della posta elettronica e controllare i messaggi fu la prima cosa che l’hacker decise di fare.
«Ci sono molti messaggi.» sentenziò Veronica. «Sì, lo avevo immaginato, il software che ho installato registra tutte le attività del server anche le meno significative.» «E come fai a sapere dove guardare?» «Guarda qui, vedi l’oggetto dei messaggi? Indica l’attività svolta dalla macchina, faccio così» Mirko selezionò un opzione «poi metto tutto in ordine di oggetto e scarto ciò che non è degno di interesse.» «Ok. Quindi ora da dove inizi?» «Dalla corrispondenza, ho la traccia di tutti i messaggi inviati e ricevuti dal loro server di posta, poi andrò a guardare gli accessi al sito web, s comprese. Alla fine mi dedicherò al server misterioso che non sembra lavorare molto. Vedi ci sono pochi messaggi rispetto all’altro.» «Va bene, iniziamo allora.» la donna appoggiò la testa sulla spalla destra dell’informatico. arono le due ore successive a scandagliare tutti i messaggi e tutti gli accessi al sito dell’organizzazione senza trovare niente di interessante, solo richieste di contatto e conferme di appuntamenti, dovettero però ammettere che l’Europa pullulava di coppie che non potevano avere figli. L’infertilità stava diventando una vera e propria piaga sociale in cui scaltri imprenditori si facevano are per benefattori facendo pagare un pezzo di felicità molto caro. E così si arricchivano sulla disperazione altrui. Quello che ò per la testa della poliziotta in quel momento era una semplice analisi del mondo al giorno d’oggi, la criminalità era in costante aumento, i giovani erano deboli e alla continua ricerca di vie di fuga dalla realtà usando pastiglie e tutto ciò che poteva portarli allo sballo e, così, il fine settimana si contavano i morti nelle strade, nelle discoteche per le risse, negli ospedali per le troppe pastiglie e polverine varie. Ma, i giovani, non erano l’unico problema dato che anche gli adulti stavano impazzendo, mariti che uccidevano le mogli in preda a momenti di follia oppure persone che accoltellavano il vicino perché il cane la faceva dove non doveva. Guerre ovunque nel nord Africa, regimi che minacciavo l’uso di bombe atomiche contro gli americani e i loro alleati, era
l’intero pianeta che stava andando verso la follia generale e sembrava non vi fosse rimedio, eppure lei voleva diventare mamma. Ma che mondo avrebbero ricevuto i suoi figli? Non era mai stata molto religiosa ma invidiava tutte le persone di fede che credevano in una fine positiva, perché l’uomo si era sempre fermato a un o dal baratro, prima della distruzione finale. Ma per quante volte ancora sarebbe successo? Prima o poi sarebbe caduto senza possibilità di salvezza. Lei poteva sperare solo che ciò avvenisse il più tardi possibile. Mirko le accarezzò la testa «Ehi, che fai dormi?» «No stavo pensando, solo che ho chiuso gli occhi.» «E quella?» indicò una lacrima ferma ai bordi dell’occhio destro appoggiata al naso. «Oh, niente era un pensiero triste. Ma erà subito.» eliminò la perla lucente con l’indice della mano destra «C’è qualcosa di interessante?» «Mah, il secondo server è strano. Sembra che gestisca un altro sito web ma non riesco a vedere nessuna richiesta di collegamento, ne a visualizzarne il contenuto e questo può significare solo una cosa...» lasciò in sospeso il discorso mentre apriva un altro messaggio. «Scusa ma ti sei interrotto a metà, cosa stavi dicendo?» «Ah sì, stavo per dire questo.» indicò alla donna un link in un messaggio inviato dal server a qualcuno in Europa. La donna staccò la testa dalla spalla di Mirko e si avvicinò così tanto al display che sembrava quasi volerci entrare dentro. «Ma quello è un messaggio simile a quelli di Baldi!» «Si, è l’informativa sull’ingresso nel gruppo dei bastardi pedofili.»
«Puoi salvare tutti i dati da qualche parte?» «Tesoro, lo sto già facendo a casa sul mio server in un’area protetta, dobbiamo avvisare Davide e farlo venire subito qui.» «Ci penso io, vado a chiamarlo. Tu continua a lavorare.» La donna si alzò di scatto e uscì dalla stanza a o veloce, si sentiva il rintocco rapido dei tacchi nel corridoio che non aveva la moquette. Meno di un minuto dopo ritornò indietro con l’investigatore in pigiama. «Veronica mi ha detto che ci sono importanti novità.» l’uomo si avvicinò alla scrivania e attese che la poliziotta si sedesse. «Sì, posso dirti con sicurezza che l’organizzazione è coinvolta con il giro di pedofilia, in che modo non posso dirtelo ora ma sto salvando tutto ciò che sto ricevendo sul mio server a casa. Fece cenno a Davide di prendere una sedia. «Sto in piedi, non preoccuparti. Quindi “The father’s hand” nasconde un’attività parallela come pensavamo.» «Sì e nel suo piccolo, Baldi, ci ha dato l’indizio principale chiamando l’archivio con il nome della società di adozioni. Prima pensavo alla stupidità di far salvare ai propri adepti le immagini usando una cartella con quel nome, ma guardando come è protetto il secondo server e soprattutto come nascondono il link al sito web ho avuto modo di ricredermi. Quello era un segnale dell’assicuratore nel caso che fosse successo il peggio.» «Quindi, i due killer erano interessati all’archivio.» l’investigatore tirò la conclusione più logica. «Forse avevano scoperto in Baldi una possibile mina vagante.» Veronica si alzò per andare a prendere una bottiglia d’acqua e tre bicchieri. «Uhm, ora cominciano a tornare diverse cose, ma non mi spiego il tentato omicidio di Rebecca.» l’informatico aprì un altro messaggio. «Bah forse era semplicemente al posto sbagliato nel momento sbagliato. Io ho chiamato la moglie di Baldi per avvisarla dei due tizi e per farla nascondere. Quando sono arrivato ho trovato i killer divisi, ma non stavano cercando la
donna, visto che quello a piano terra stava frugando nei cassetti di un mobile del soggiorno. Infatti per loro sono stato una sorpresa. Uno sgradevole imprevisto.» «Bene, ora che abbiamo collegato gli assassini con l’organizzazione che si fa?» l’hacker aprì un altra cartella di messaggi. «Per ora niente, dobbiamo capirci di più. Domani ci presenteremo all’appuntamento e vedremo che cosa ci propina quel tizio. Voglio vedere la sua reazione quando gli diremo che non ci interessa più adottare un bambino.» Davide si versò l’acqua nel bicchiere. «E che motivazione tirerete fuori?» «Niente di più semplice» rispose Veronica «abbiamo chiesto un bambino di età inferiore ai tre anni e loro non ce lo possono dare.» «Sì, può funzionare. Io nel frattempo che devo fare?» chiese Mirko. «Se ti fi un altro giro nella rete informatica dell’organizzazione potrebbe venire fuori qualcosa di nuovo?» «Bah, oggi non ho trovato grandi cose, ma ritentare non è un problema.» «Aggiudicato, verrai con noi andoti per il nostro avvocato, ma quando noi entreremo ti chiuderai nel bagno e inizierai il tuo lavoro.» Marchi si appoggiò con gli avambracci allo schienale della sedia di Mirko. I tre amici arono un’altra ora a controllare i messaggi e gli accessi al sito senza trovare altro materiale interessante, scartarono l’ipotesi di farsi are per pedofili perché non erano riusciti a capire come si arrivasse al sito dall’esterno e sicuramente la procedura di ammissione sarebbe stata lunga e loro non avevano tempo da perdere. All’una di notte decisero che era meglio andare a dormire, si salutarono ma solo Davide uscì dalla stanza, Veronica avrebbe ato la notte da Mirko. E sarebbe stata una notte dolce e movimentata.
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30 aprile 2009
La sera prima si erano dati appuntamento per le nove al secondo piano per fare la colazione ma, evidentemente, qualcuno aveva fatto tardi e Marchi si trovava da solo al tavolino da almeno mezz’ora inebriandosi del dolce profumo delle paste appena sfornate. Aveva usato quel tempo per ripensare a tutto quello che i tre avevano scoperto e alle possibili implicazioni. Era anche vero che non tutti gli addetti ai lavori potevano essere a conoscenza del segreto incluso nella struttura organizzativa, ma qualcuno doveva pur sapere la verità. Bisognava solo scovarlo. Due figure si affacciarono all’ingresso tenendosi per mano, la donna era decisamente raggiante, fecero un cenno di saluto all’investigatore che sorrise. «Alla buon’ora! Potevo morire di fame se aspettavo ancora un po’.» «Scusa, ehm non ci siamo svegliati.» Mirko arrossì. «Siete perdonati, io vado a prendere delle brioches. Volete caffè o cappuccino?» I due si guardarono e la donna rispose per entrambi. «Cappuccino, grazie!» Davide, mentre facevano colazione, costrinse Veronica e Mirko a riare le parti per l’incontro del pomeriggio e a studiare eventuali problemi che si sarebbero potuti verificare. «Marchi ma tu sei sempre così analitico?» la donna lo fissò negli occhi. «Credo che sia deformazione professionale.» disse sorridendo.
«Che ore sono?» Mirko diede un morso a una fetta di crostata. «Le dieci e tra un po’ ci cacciano.» la donna si alzò e recuperò la borsetta in pelle bianca dalla sedia alla sua sinistra. Mirko trangugio d’un fiato l’ultimo pezzo di crostata e abbandonò il suo posto. «Visto che non abbiamo niente di meglio da fare, che ne direste di provare l’ebbrezza di un appostamento?» propose Davide. «Ovvero?» Mirko lo guardò alzando un sopracciglio. «Andiamo prima e restiamo fuori, non in vista, e osserviamo chi entra e chi esce e magari facciamo anche delle foto a qualcuno.» «Uuhh, una goduria direi.» sentenziò la donna. «Secondo me ci divertiremo un sacco, io ci sto.» l’hacker sembrava entusiasta dell’idea. «Ok, la maggioranza vince. Tra quindici minuti ci troviamo nella hall e cerchiamo di essere puntuali, per favore.» Davide fissò la coppia. «Stavolta lo saremo, promesso.» Veronica si avviò verso l’uscita con a ruota Mirko e l’investigatore.
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Gli occhi smeraldo si aprirono, la stanza era quella del giorno precedente ma la situazione non era cambiata e anche se aveva dormito molte ore l’incubo non era svanito. La sua condizione di prigionia perdurava. Finalmente le era stato concesso di utilizzare un bagno, l’essere che l’aveva presa si era prodigato per andarle a comprare della biancheria intima, dei vestiti e le aveva fatto mangiare qualcosa di decente diverso da un panino. Era riuscita a ottenere anche una spazzola per pettinarsi, anche se i capelli, ancora pieni di sabbia, avevano bisogno di una lavata e, soprattutto, lei aveva bisogno di farsi una doccia. Le venne in mente ancora una volta il sogno che aveva fatto in macchina, dopo che l’animale le aveva dato un ceffone, dove si era lasciata cadere dall’auto in corsa. Le sembrava incredibile eppure desiderò morire per fare un dispetto al suo aguzzino, si ricordava bene la frase “Ho deciso che non mi avrà nessuno.”, ma sapeva che i suoi genitori la rivolevano indietro e quindi doveva rimanere in vita per loro, per poterli abbracciare nuovamente. Non le interessava quando e se poteva servirle un’intera vita ma, ovunque l’avessero portata, lei sarebbe riuscita a tornare a casa. Lo doveva alla sua amica Michela che aveva perso la vita per lei, non si era preoccupata di quello che le sarebbe potuto succedere e aveva tentato il tutto per tutto per aiutarla. Erika si chiedeva dove fosse in quel momento il suo angelo custode, la stava osservando da qualche posto sopra le nuvole dove tutti sono convinti che si vada dopo la morte? Oppure si era semplicemente spenta senza finire da nessuna parte? Però quello che era successo in auto quando aveva percepito chiaramente la sua voce, continuava a tormentarla e impaurirla. Era stato per lo shock della perdita di Michela che la frase “Dio proteggila” era nata nel suo cervello e aveva preso forma nella voce della sua amica? Non riusciva a darsi alcuna risposta e forse non poteva esistere.
Sentì girare la chiave nella serratura, si voltò nell’istante in cui la porta girò sui cardini e l’uomo dell’est varcava la soglia, era ancora vestito come i giorni precedenti. Lui si avvicinò, la prese per un braccio e la portò fuori, Erika cercò di opporre resistenza puntando i piedi in terra ma l’uomo era più forte di lei. «Dove mi stai portando?» Nessuna risposta. «Ehi! Sto parlando con te! Dove mi stai portando!» la ragazza alzò la voce. «Silenzio, tu devi stare zitta! Ora andiamo a fare fotografie e dopo andiamo via.» l’uomo strattonò la ragazzina con maggior forza mentre percorrevano il corridoio con le pareti azzurre. Quando entrarono in Albania, l’uomo bendò Erika e lei visse al buio per diverso tempo, aveva ritrovato la luce solo all’interno della stanza dalle pareti blu e il letto con la testiera azzurro pastello. Aveva notato la stessa gamma di colori nel bagno e si chiedeva per quale strano motivo in quel posto tutto era intonato ai colori del cielo. Arrivarono in fondo al corridoio e l’essere spregevole aprì una porta, entrarono in una grande stanza tinteggiata del solito colore e la ragazzina iniziava a odiare quelle tonalità, notò che tutto era allestito come se fosse un grande set fotografico. C’era un telo bianco enorme appeso a una parete e dei riflettori a forma di ombrello come quelli che si vedevano nelle pubblicità e nei servizi giornalistici che parlavano di moda. Notò una scrivania con un computer portatile, delle macchine fotografiche, incrociò lo sguardo di un uomo appoggiato a una parete e il suo cuore sussultò, in quel volto non c’era alcuna espressione e le incuteva molta paura. No quel tizio non le piaceva affatto e si aspettava di vederlo sorridere con i denti da vampiro e gli occhi che da neri diventavano rosso fuoco nascosto all’interno del suo completo beige e marrone. Sembrava il male in persona. L’altro la posizionò tra i due ombrelli e il telo e si allontanò, il male si staccò dal muro e prese in mano una delle macchine fotografiche, si avvicinò ponendosi subito dietro i due riflettori e iniziò a scattare. I due uomini parlavano tra di loro in una lingua che Erika non capiva, il suo aguzzino si avvicinò e, lei, si accorse che gli occhi del tizio si spostarono dalla sua testa ai piedi un paio di volte.
«Togli camicetta.» «No!» «Ho detto togli!» «No! Non voglio! Perché dovrei farlo?» la ragazza incrocio le braccia. «Ok» l’aguzzino estrasse una pistola «ora fai cosa io ti dico o sparo!» Erika rivisse la stessa scena dei giorni precedenti al mare, non sapeva cosa fare ma se quello le avesse sparato non avrebbe potuto tentare di tornare a casa. Doveva obbedire per forza. Si tolse la camicetta bianca, lasciò cadere l’indumento a terra e restò in reggiseno, il fotografo le fece cenno di girarsi leggermente da un lato e riprese a scattare fotografie. Andò avanti spostandosi a destra e a sinistra come se cercasse il punto migliore. «Ora togli gonna.» l’uomo continuava a puntarle l’arma contro. Erika lasciò cadere a terra anche la gonnellina rosa e restò in mutandine. Il male iniziò a fare altri scatti allo stesso modo dei precedenti. Poi, l’uomo in nero, la costrinse a inginocchiarsi e a guardare in direzione del fotografo, fece in modo che si mettesse seduta con una posa precisa mente l’altro continuava il suo lavoro. Tutta la scena assomigliava tanto ai back stage delle modelle nei calendari. Era giovane ma non era stupida, quello che stava succedendo non era normale. «Togli il pezzo sopra.» Lei eseguì la richiesta sentendosi privata della sua innocenza, era la prima volta che una persona diversa dai suoi genitori poteva vederla senza vestiti. Quei due la stavano violentando, anche se non fisicamente per il momento, ma era quella la sensazione. Altre foto, altre pose e lei si aspettava di dover togliere anche l’ultima parte. E così avvenne.
L’uomo armato indicò gli slip con in movimento della pistola e lei eseguì, si ritrovò vestita solo delle scarpe bianche e scoppiò in lacrime. Scappò e si rannicchiò in un angolo della stanza con la testa tra le ginocchia, il male imprecò nella sua lingua e l’altro corse a prenderla, la sollevò di peso e la riportò sul set. Ma lei non smetteva di piangere e per tutta risposta si beccò un ceffone. D’istinto si difese sferrando un calcio a caso colpendo una gamba dell’uomo e arrivò un’altra sberla che le fece baciare il pavimento. Fu rimessa in piedi e costretta a stendere le braccia lungo i fianchi, il fotografo riprese il suo lavoro anche se lei stava piangendo e continuò finché non fu soddisfatto. Nel frattempo aveva smesso di singhiozzare per evitare altri atti di violenza sperando solo che tutto finisse in fretta. «Ora metti vestiti.» l’uomo armato si avvicino al fotografo e iniziò a parlare la sua lingua. L’ordine risollevò il morale della ragazza, quella specie di incubo stava finendo e lei voleva uscire in fretta da quel posto. Si rivestì velocemente senza badare troppo a come lo faceva e comunque non c’erano specchi. Intanto i due bastardi ridevano compiaciuti per la loro prepotenza e si girarono di spalle per visionare le immagini. Erika calcolò la distanza tra se e la via d’uscita, si avviò lentamente cercando di fare il minor rumore possibile, impugnò la maniglia e la fece girare. Sembrava che nessuno avesse notato il movimento. La porta si aprì senza fare alcun rumore, non le sembrava vero di poter uscire, fece un o e controllò i due uomini, erano ancora al loro posto. Prese coraggio, varcò la soglia e schizzò via nel corridoio, corse via più forte che poteva. Arrivò in un atrio con due ascensori, schiacciò il pulsante di chiamata e attese. Pochi secondi dopo le porte si aprirono e lei entrò, scelse il numero più basso e attese che la cabina si muovesse. Mentre scendeva sentì sferrare dei colpi che rimbombarono nello scatolotto metallico in cui si trovava. Era stata scoperta. La discesa terminò e le porte si aprirono, uscì lentamente e sembrava che nessuno l’avesse seguita. Si guardò intorno, non sapeva dove si trovasse ma notò che non era al piano terra, si trovava su di una specie di grosso balcone e da lì
poteva vedere cosa c’era sotto. Sentì delle persone parlare, erano dietro di lei ma voltandosi non vide nessuno, ascoltò meglio e sgranò gli occhi. Parlavano italiano. Si accorse che accanto al vano ascensori c’erano delle scale che salivano al piano superiore, non sapeva che fare, si avvicinò ai primi gradini e guardò su. «Scusate.» la voce era bassa perché aveva paura che i suoi aguzzini la sentissero. Nessuna risposta. «Ehi, voi! Nelle scale!» decise di raggiungerli. Stava iniziando a salire quando si sentì strattonare, si voltò e si rese conto che non sarebbe andata più da nessuna parte. L’aggressore le mise la mano davanti alla bocca. «Aiuto!» Erika cadde a terra e la parola le uscì smorzata. Il suo aguzzino la trascinò nella cabina, la rimise in piedi e le assestò un ceffone molto più forte di quelli che aveva ricevuto pochi minuti prima, sentì il labbro inferiore gonfiarsi. Non riusciva neanche a piangere, le faceva male la parte destra del viso e forse le si stava gonfiando anche l’occhio destro. Violenza per violenza, nello spazio angusto dell’ascensore, sferrò un ceffone all’uomo che non sembrò neanche sentirlo ma quel gesto la rese forte. «Quando io avrà finito con te, tu chiederà di morire. Ma tu serve me viva, vali molti soldi.» lo sguardo del malvagio si posò sugli occhi di Erika mostrandole tutto il disprezzo di cui erano capaci. Le porte della cabina si riaprirono al piano dalla quale, Erika, era scappata, l’uomo la tirò con forza lungo tutto il corridoio, venne spintonata e fatta entrare nella stanzetta col letto. Il tizio in nero chiuse a chiave la porta della camera e lei capì che non avrebbe più dimenticato quel giorno.
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La mattina era trascorsa nella noia totale, Mirko non capiva che gusto provasse Davide nel fare gli appostamenti e Veronica si era perfino addormentata. Nell’investigatore aveva notato la capacità di trovare in qualsiasi individuo qualcosa di interessante, osservava ogni comportamento fuori dalla normalità e spesso ci azzeccava. Visto che non stavano concludendo niente chiese a Marchi la ragione che gli aveva fatto lasciare l’esercito. Ascoltò con attenzione tutta la storia, mentre la donna continuava a sonnecchiare spesso sorridendo, e rabbrividì al racconto della prima volta che il soldato aveva ucciso qualcuno. Lui non sarebbe mai stato in grado di farlo, odiava le armi e la violenza in generale ma cosa sarebbe successo se si fosse trovato a dover salvare la propria vita o quella di una persona cara? La risposta non era facile. «Che ne dici se mangiamo qualcosa e svegliamo la bella addormentata?» Davide tirò fuori il sacchetto dei panini che si erano fatti preparare dagli addetti alla cucina in albergo e le birre, una marca locale che non era male. «Ehi voi due, vi sento anche se dormo.» rispose la donna continuando a tenere gli occhi chiusi «Comunque ho fame anch’io e la tua storia, Davide, è veramente interessante. Sei un tipo interessante.» Veronica si avvicinò ai sedili anteriori. «Grazie, detto da una donna è complimento. Prosciutto o salame?» Davide mostrò due panini imbottiti alla poliziotta. «Prosciutto, grazie.» «Quando avrete finito di flirtare gradirei quello al salame.» Mirko si mise a ridere. La giornata era nuvolosa ma almeno non pioveva e in auto si stava bene, erano appostati fuori dal recinto della struttura, in una zona poco visibile ma da lì potevano osservare chi entrava e usciva dall’ingresso principale. E in due ore
non era successo nulla di interessante. Finirono di mangiare, erano già pronti per la recita nei panni del giorno precedente, la coppia alla ricerca di un bambino da adottare con l’avvocato al seguito e molti dubbi sulla legalità dell’operazione. «Tra mezz’ora si entra in scena, domande?» Davide si voltò verso Mirko. «No, nessuna. Io ho il compito più facile.» l’hacker rispose indicando la valigetta in pelle ai suoi piedi. Marchi avviò il motore, la macchina prese a muoversi verso l’ingresso principale, si fermò davanti alla sbarra rossa in attesa che si sollevasse. Alcuni secondi dopo, i tre, avevano trovato un posto, erano scesi e stavano camminando in direzione dell’ingresso della struttura cubica a vetri azzurrati. Oltrearono la porta d’ingresso ritrovando la stessa donna del giorno prima ad attenderli dietro il banco dell’accettazione. Si avvicinarono per annunciarsi. «Buon giorno, siamo i signori Zarelli, abbiamo un appuntamento con il signor Dejk.» Davide guardò la cicciona negli occhi. «Oh, sì! Buon giorno! Ora, io, chiama Dejk per avvisare.» prese il telefono e compose il numero mentre continuava a fissare l’avvocato della coppia. La donna parlò alcuni secondi nella lingua del posto e poi fece cenno ai tre che potevano salire al primo piano. La donna e i due uomini raggiunsero il piano rialzato e, visto che entrambi gli ascensori erano impegnati, decisero di usare le scale. «Avvocato, ho notato che la bellissima donna alla reception ti stava mangiando con gli occhi.» la signora Zarelli sghignazzava. «Non è decisamente il mio tipo e poi potrebbe soffocarmi.» «Ragazzi cerchiamo di entrare nella parte.» «Va bene capo!» rispose la compagna. All’improvviso l’avvocato si girò di scatto verso il fondo della scala.
«Ehi, avete sentito anche voi?» «Che cosa?» chiese la donna voltandosi indietro. «Mi è sembrato di sentire una voce e parlava italiano!» «Io non ho sentito niente.» rispose Zarelli. «Eccola di nuovo, scendo a vedere. Mi sembra che abbia chiesto aiuto.» «Ehi, ora l’ho sentita anch’io!» confermò la signora Zarelli. I tre si precipitarono al piano inferiore ma non trovarono nessuno, l’avvocato vide chiudersi la porte di un ascensore. «Deve essere entrata lì.» indicò il vano delle cabine. «Forse è stata solo una nostra impressione, in questo posto vengono molti italiani.» sostenne Zarelli. «Sì hai ragione, saliamo e andiamo all’appuntamento.» la donna iniziò a salire i gradini. La sala era gremita come il giorno precedente, contarono venticinque coppie a caccia di un’adozione e molte erano giovani. Trovarono dei posti a sedere e attesero di veder spuntare la faccia di Dejk dalla stanza ventidue, quella del giorno precedente. arono diversi minuti, l’avvocato si alzò e si diresse, con la sua valigetta in pelle, verso il bagno e sparì alla vista delle persone in attesa. Finalmente la porta si aprì per far uscire delle persone sorridenti, evidentemente avevano raggiunto il loro scopo, e subito dietro videro il consulente che li chiamò, abbandonarono i loro posti per stringere la mano dell’uomo e chiudersi nel locale con lui. «Buon giorno signori, non vedo il vostro avvocato. Avevo capito che era con voi.» «Sì e qui ma non serve che entri per ora.» Zarelli si sedette. «Oh, non c’è problema. Avete deciso?»
«Sì» rispose la donna «non adotteremo alcun bambino da voi.» «Questa non è un bella notizia per noi, se una famiglia non adotta un bambino significa che non abbiamo fatto del nostro meglio.» il consulente si alzò portandosi davanti a una delle finestre. Guardò fuori pensando ai soldi che stava perdendo, dei minori non gli interessava molto, preparò la migliore espressione di tristezza che poteva emulare e si voltò verso la coppia. «Signori, sono molto rattristato per questo. Posso sapere in cosa vi abbiamo deluso?» «Noi vogliamo un bimbo sotto i tre anni e voi non li avete, tutto qui.» la donna lo guardò con gli occhi languidi. «Noi non trattiamo minori di età inferiore ai sei anni, come ho detto ieri, non sono molto richiesti, ma se lo desiderate possiamo chiedere ai nostri affiliati se ne hanno disponibili, però questo richiederà del tempo.» il consulente guardò entrambi i coniugi sorridendo. «Mah, non saprei.» il signor Zarelli incrociò le braccia. «Ieri avete detto che questa è la vostra ultima possibilità. Perché sprecarla? Solo per fare le cose in fretta?» «Caro, forse ha ragione lui. Perdere ancora un po’ di tempo cosa cambia?» «Se vuoi provare io sono con te, vorrei solo evitare che finisca con la solita illusione perché sappiamo già quanto farà male.» Zarelli prese la mano sinistra della moglie tra le sue. «Io vorrei provare.» «Va bene. Signor Dejk ci può dare tutte le spiegazioni del caso?» «Certamente.» il consulente sfoggiò un gran sorriso e iniziò a istruire la coppia.
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L’avvocato era chiuso nel bagno da un bel po’ di tempo, col portatile sulle gambe stava esplorando per la seconda volta in due giorni la rete informatica della società di adozioni. Aveva creato un software che gli permetteva di memorizzare i nomi dei computer presenti sulla rete, poteva lanciare dei sottoprogrammi diagnostici che mettevano in evidenza porte aperte e software portatori di bachi. Riceveva una notifica a video ogni volta che un computer della lista o un nuovo dispositivo si connettevano alla rete. Notò che c’erano dei nuovi utenti connessi e decise di controllare il contenuto dei loro dispositivi, in più aveva trovato anche il server che gestiva il sistema di video sorveglianza che, stranamente, non teneva sotto controllo tutto lo stabile e nemmeno l’esterno. Iniziò la verifica inserendosi in un computer che sembrava molto attivo nella rete, stava scambiando una grande quantità di dati con l’esterno ma ne riceveva pochi, quindi stava riversando del materiale da qualche altra parte. Decise di verificare che cosa contenesse e iniziò a perlustrare il disco. Lo trovò diviso in due partizioni, una era sicuramente la principale, quella con il sistema operativo, e l’altra doveva contenere i dati. Lanciò un software apposito che cominciò a scansionare la zona del disco sospetta alla ricerca di documenti interessanti che sarebbero stati catalogati per tipologia. arono diversi minuti in cui l’uomo verificò altri computer presenti nella rete, finché arrivarono i primi risultati. Erano solo immagini. Migliaia di foto. Ne aprì una a caso tra le ultime archiviate, aveva ordinato la lista per data di creazione e ne aveva trovate diverse appena memorizzate. Non credeva ai suo occhi. L’immagine mostrava una ragazzina mora intorno ai dodici o tredici anni con indosso solo un paio di mutandine bianche e delle scarpe basse dello stesso
colore, lo sguardo era triste, le braccia erano lungo i fianchi e si notava un rossore sulla guancia destra. Si capiva che era su un set fotografico che doveva trovarsi da qualche parte nello stabile, visto che la foto era stata scattata pochi minuti prima. Si trattava di Erika. L’immagine aveva una risoluzione di ventuno mega pixel, segno che il fotografo usava una fotocamera professionale, e decise di provare a ingrandire la foto per cercare qualche dettaglio. Gli venne in mente che poteva ingrandire la zona degli occhi per vedere cosa mostrava il riflesso della cornea, la ragazza guardava dritto nell’obiettivo e lì poteva essere riflesso il fotografo. Forse poteva dare un volto a qualcuno. Il corpo occupava quasi tutto il fotogramma, ingrandì l’immagine fino a portarla alla sua dimensione reale, gli occhi smeraldo erano ben visibili e si notava una sagoma scura riflessa nell’occhio destro. Ingrandì quella zona aumentandone leggermente la luminosità, il software che usava non era professionale ma era sufficiente per fare alcune cose basilari. Nel riquadro apparve una figura che gli era familiare, non era al massimo della definizione ma si riusciva a vederne i lineamenti del viso. Dove lo aveva visto? Continuò a fissare il display del computer cercando la risposta nel suo cervello, quella faccia non gli era nuova ma l’immagine era sgranata e non riusciva a vedere bene i lineamenti. Decise di inviare la foto al cellulare di uno dei suoi compagni allegando un breve messaggio, poi si dedicò al sistema di sorveglianza mentre inviò alcune delle immagini al suo server personale. Se fosse riuscito a visualizzare i filmati delle ultime ore, forse, avrebbe trovato la risposta al suo tormento. Guadagnò l’accesso all’archivio con una semplicità disarmante, poteva farlo anche un bambino alle prime armi, ma i filmati erano in un formato che non aveva mai visto, sfruttò la rete per effettuare una ricerca in internet e scaricò un software apposito. Visualizzò uno dei filmati che risultavano creati in quel giorno, fortunatamente in basso a destra si poteva vedere l’orario, pensò che fosse meglio scartare tutti quelli creati molto prima del suo arrivo, casomai li avrebbe controllati più tardi. Ne restavano due, quel sistema creava un nuovo file ogni ora e lui era arrivato da appena quaranta minuti, iniziò la visione di quello
che partiva dalle ore quattordici e notò un’altra cosa interessante, c’era solo un piano sorvegliato. Proprio quello dove lo avevano beccato il giorno prima. Cosa c’era di così importante lì? Il video saltava con cadenza regolare da un’ inquadratura a un’altra, segno che le telecamere erano due. Però lui ne aveva vista solo una, anzi il suo cervello ma lui l’aveva ignorata. Aumentò la velocità di riproduzione finché, da delle porte presenti nel corridoio, comparve una ragazza che si mise a correre, l’inquadratura ò da dietro a davanti e la riconobbe, era Erika. Sparì dietro l’angolo nella zona non coperta dalle telecamere, il video proseguì a velocità normale, la scritta in basso a destra indicava le quattordici e dodici minuti, pochi secondi dopo comparve anche un uomo vestito di nero, ancora una volta ci fu il cambio di inquadratura. E lo riconobbe. Era il tizio dell’identikit ed era lì! Doveva avvisare subito i suoi compagni, fermò il video e isolò il fotogramma, lo trasformò in fotografia e la spedì come un messaggio multimediale allegando anche un testo. Inviò il filmato anche al suo server, decise che aveva visto abbastanza, spense il computer riponendolo nella valigetta e uscì dal bagno. Si avvicinò al vano ascensori, lo aggirò e iniziò a salire i gradini per raggiungere il piano superiore e, una volta giunto a destinazione, vi trovò gli uffici amministrativi. Proseguì ancora per raggiungere il livello superiore ma anche in quel caso non trovò nulla di interessante, a parte il fatto che non c’era anima viva. Arrivò al quarto livello, buttò la testa fuori da un angolo del vano scale e controllò la zona degli ascensori, sapeva che non c’erano telecamere, lo aveva capito dai cambi d’inquadratura nel filmato che aveva visto pochi minuti prima ma voleva essere sicuro che non ci fossero persone ad attenderlo. Si avvicinò ai due ascensori e ne chiamò uno, non si sa mai pensò, poi si avviò verso il corridoio che aveva percorso il giorno precedente e si nascose dietro un angolo. Prese il suo cellulare e attivò la fotocamera integrata, fece spuntare dall’angolo solo la parte del dispositivo che conteneva il sensore e osservò la scena sul display. C’erano due uomini di guardia a una porta e si sentivano dei
lamenti che sembravano provenire da quella stanza, qualcuno stava piangendo. Da solo non poteva fare molto, decise di lasciar perdere e di tornare al suo posto. Mise il telefono in tasca e si girò avviandosi verso gli ascensori ma uno dei due si aprì e ne uscì un uomo che sobbalzò alla vista dell’intruso. L’avvocato capì di essersi messo nei guai.
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La spiegazione continuava da più di un’ora, la coppia finse di essere interessata al discorso chiedendo informazioni ed esprimendo dubbi, Zarelli aveva ricevuto dei messaggi sul suo cellulare ma era stato costretto a ignorarli. Qualcosa sopra la scrivania azzurra si mise a suonare, era il telefonino di Dejk che s’interruppe per rispondere. La conversazione si svolse in albanese ma l’espressione cordiale che era stampata sul viso dell’uomo sparì immediatamente per lasciare il posto alla rabbia. Chiuse la comunicazione e fissò la coppia. «Signori, mi hanno appena riferito che una persona non autorizzata è stata trovata al quarto piano. Purtroppo quelli della sicurezza non capiscono bene l’italiano ma dicono che si è presentata come l’avvocato dei signori Zarelli e stava facendo qualcosa con un cellulare.» l’uomo estrasse un’arma puntandola in direzione dei due coniugi che si alzarono di scatto dalle sedie. «Anche ieri, qualcuno ha finto di essere un addetto alle manutenzioni ma è riuscito a scappare. Allora chi siete in realtà?» «Ma lei e pazzo?» gridò la donna. «Mia moglie ha ragione, non sappiamo perché fosse lì, lo abbiamo lasciato nella sala d’attesa! Metta via quella cosa per favore!» «Ora i miei ragazzi lo stanno interrogando ma se parlate forse si salverà.» la pistola era ancora puntata verso la coppia. «Le ho detto che non sappiamo niente.» Zarelli stava valutando eventuali alternative e vie di fuga da quella situazione incandescente, si stava chiedendo anche cosa fosse saltato in testa al suo amico. Dejk aggirò la scrivania per portarsi davanti ai coniugi. «Siete dell’interpol vero?» «Ma di che sta parlando? Noi vogliamo solo adottare un bambino!» la donna
iniziò a singhiozzare fissando il pavimento. «Oh, ma come è commovente la signora, dopo aver sistemato il tuo amichetto mi divertirò un po’ con te.» Dejk si distrasse osservando la donna, proprio ciò che Marchi, alias Zarelli, stava aspettando. In una frazione di secondo assestò un calcio alla mano dell’aggressore che perse l’arma e, approfittando dello sconcerto generato, fece partire un altro colpo all’altezza del rene sul fianco destro. L’uomo di piegò in due dal dolore, Davide raccolse in fretta la pistola, afferrò Dejk da dietro e gli ò il braccio sinistro intorno al collo puntando l’automatica contro la tempia del consulente. «Peccato che le parti si siano invertite. Ora dimmi dove si trova il mio amico altrimenti ti faccio saltare la testa. E pretendo la verità. Forza canta!» L’altro non aprì bocca allora Marchi gli spinse con più forza la canna della pistola sulla tempia. «Allora, vuoi parlare o devo spararti creando un bel po’ di casino lì fuori?» per far capire bene le sue intenzioni, trascinò il consulente vicino a una delle pareti incastrandogli la testa tra la pistola e il muro. «Va bene, parlo. E’ al quarto piano. Ma ormai sarà già morto.» un ghigno si disegnò sulla faccia di Dejk. «Verificarlo spetta a me. Buona notte tesoro.» Davide assestò un colpo alla testa del consulente utilizzando il calcio dell’automatica. L’uomo perse i sensi e finì in terra, la coppia lo immobilizzò legandogli le mani e i piedi con le stringhe delle sue scarpe e, dal bagnetto interno, recuperarono un asciugamano che utilizzarono per imbavagliare il consulente. Veronica prese l’arma e la mise nella sua borsetta, i due uscirono dalla stanza fingendo di salutare e ringraziare la persona al suo interno mentre chiudevano la porta. Si presero per mano e davanti agli ascensori si abbracciarono, molte delle persone presenti osservarono la scena sorridendo e ritornando seri appena i due sparirono entrando nella cabina. Davide schiacciò il tasto con il tre, non potevano arrivare al piano desiderato usando l’ascensore perché non sapevano chi avrebbero trovato nel disimpegno quando le porte si sarebbero aperte. La cabina arrivò al livello desiderato, Davide si affacciò e, non vedendo nessuno, decise che potevano uscire, si fece are la pistola dalla donna e iniziarono a salire le scale con cautela cercando di captare qualsiasi movimento o suono che indicasse la presenza di qualcuno.
Arrivarono al disimpegno dove si trovava il vano ascensori, era deserto. Si accorsero che erano coperti dalla vista di eventuali persone nel corridoio e decisero di approfittare della situazione per spostarsi nella parete che faceva angolo con il aggio. Quel piano, a parte il disimpegno iniziale, sembrava completamente diverso dal livello dove avevano fatto il colloquio con il consulente. Finirono entrambi spalle al muro, Marchi si avvicinò all’angolo e sbirciò oltre notando subito la telecamera in fondo alla corsia e chiedendosi come avesse fatto Mirko a non vederla il giorno prima. Due energumeni, vestiti con giacca e pantaloni neri, sembrava stessero facendo la guardia all’ingresso di quella che doveva essere una stanza. Doveva portarne via uno da lì, non sarebbe riuscito ad affrontarli entrambi. «Entra nella prima cabina e scopri le gambe fino all’altezza degli slip e abbassa una delle spalline scoprendo leggermente il seno.» Marchi fece l’occhiolino alla donna parlando con un filo di voce. «Certo che sei proprio romantico eh.» rispose ghignando. «Voglio vedere se ragionano con la testa o con quello che hanno tra le gambe. Io mi nasconderò in quello di fianco pronto a intervenire. Mi raccomando devi sembrare vogliosa, mi bastano due o tre secondi di stupore e poi lo metterò a nanna.» «Sarà fatto capo.» sussurrò Veronica mandandogli un bacio. I due si nascosero, Marchi diede due colpetti sul metallo della cabina, sentì una specie di grugnito arrivare dal corridoio e poi rumore di i in avvicinamento. Schiacciò il tasto per chiudere le porte e lo “stop” per tenere bloccato l’ascensore, appoggiò l’orecchio alla parete e si mise in ascolto. L’uomo vide le porte di uno degli ascensori aperte e si avvicinò, quello che vide all’interno lo lasciò di stucco. «Ehi, bell’omaccione.» la voce della donna era quasi un sussurro «Vuoi farmi divertire un po’? Mi sto annoiando.» L’energumeno non capiva nulla ma il timbro della voce, la vista della femmina e di una parte del seno scoperto, avevano risvegliato un certo appetito. Il tizio si avvicinò entrando nella cabina.
“Ehi, Davide, vuoi venire fuori di lì o no?” pensò Veronica. L’uomo in nero era arrivato a pochi centimetri dal seno e non si accorse che porte dell’ascensore accanto si mossero, una figura si materializzò alle sue spalle colpendolo in piena nuca. L’energumeno si accasciò esanime. «Hallelujah, per poco mi saltava addosso da quanto era eccitato.» la donna aiutò Davide a spingere il tizio dentro la cabina, chio le porte, lo legarono sfruttando le stringhe delle scarpe e fecero salire l’ascensore al piano superiore. «Hai una certa fissazione sull’uso improprio dei lacci per le scarpe.» «Mi scordo sempre le corde a casa.» Davide sorrise. Arrivarono al livello scelto e spostarono il corpo in modo che restasse a metà tra la cabina e il pianerottolo, così quell’ascensore divenne inutilizzabile. Sfilarono l’arma all’individuo e tornarono al livello inferiore usando le scale. Si appostarono nello stesso punto di prima, Marchi sbirciò nuovamente per vedere se la situazione era cambiata, ma l’altro uomo non si era mosso dalla sua posizione, si era solo voltato nella loro direzione in attesa di un segnale dal suo compare. La coppia si guardò per capire cosa fare con quel tizio, tra l’altro non avevano idea se ce ne potessero essere altri imboscati in qualche stanza. Decisero di aspettare, l’altro uomo doveva pur insospettirsi per il mancato ritorno del compare. Non dovettero attendere molto, l’energumeno si mise a pronunciare delle parole nella sua lingua e sentirono che si stava avvicinando. L’uomo uscì dal corridoio incurante della coppia e quando si accorse degli intrusi era già troppo tardi. Marchi era strisciato alle spalle del tizio con la pistola in pugno e Veronica fece la stessa cosa ma gli si piazzò davanti. L’energumeno restò interdetto per un paio di secondi poi tentò di prendere la sua arma pensando che la donna non fosse una minaccia, finché non sentì la pressione di un oggetto dietro la schiena. Si paralizzò all’istante. «Prova a muoverti e sei morto.» Davide si ricordò che il tizio, probabilmente, non capiva l’italiano ma la situazione non aveva bisogno di parole. L’uomo abbandonò l’idea iniziale di tirar fuori la sua arma e sembrò collaborare alzando le mani.
Davide notò il movimento della gamba destra. Veronica no, era impegnata a controllare che le mani si alzassero. Il tizio si mosse in modo fulmineo, nonostante la sua massa, e piazzò un calcio che si schiantò sul torace della donna togliendole il respiro e buttandola a terra contro la parete, Marchi nel frattempo si era spostato di lato per portarsi fuori tiro. Decise che non poteva fare altro che premere il grilletto. Lo scoppio echeggio nel vano scale e l’uomo stramazzò al suolo faccia avanti. Una pozza rossastra si allargò nella zona del torace. Dal vano scale arrivarono le grida delle persone al primo piano. Ora si che erano nei guai, con tutto quel fracasso avevano svegliato sicuramente il formicaio. Verificò lo stato di salute della donna, l’aiutò a rialzarsi e notò con sollievo che si stava riprendendo. «Forza andiamo a vedere chi c’è in quella stanza, tra poco si scatenerà l’inferno qui.» Veronica non rispose, recuperò l’arma e si limitò a seguirlo. Arrivarono alla porta che era stata presidiata dai due energumeni e la trovarono chiusa a chiave, “Ovvio” pensò Marchi. Si allontanò di un o e sferrò una pedata con tutta la forza che aveva appena sotto la maniglia, il legno intorno alla serratura si spaccò di netto e la porta si aprì. Entrambi entrarono e trovarono Mirko legato mani e piedi in un angolo, era stato pestato per bene ma era cosciente. «Ehi tesoro, devono averti scambiato per un sacco da pugilato.» Veronica si lasciò sfuggire una lacrima «Vieni andiamocene di qui.» Mentre la donna slegava l’informatico Marchi presidiava l’uscita controllando che non arrivassero altri cattivi e si accorse della seconda telecamera posizionata dalla parte opposta rispetto alla prima. Un uomo spuntò da dietro l’angolo, all’inizio del corridoio, mostrando solo la faccia. Davide, nel frattempo, aveva estratto il caricatore per contare i colpi, fortunatamente la pistola era completamente carica e, escluso quello che aveva esploso prima, restavano ancora dieci colpi più uno in canna, ma doveva stare comunque attento a non
sprecarli. Il nuovo arrivato si accorse dell’investigatore e fece partire un colpo che si schiantò due metri più avanti rispetto all’obiettivo. “Pessima mira” pensò Marchi. Attese che l’altro si affacciasse di nuovo per sparare e tirò indietro il grilletto, il colpo partì, scheggiò lo spigolo e colpì l’uomo in piena gola. Quello si portò le mani al collo e cadde su un fianco dimenandosi, pochi secondi dopo l’agonia terminò. Davide si voltò per controllare la situazione all’interno della stanza e vide Veronica che cercava di aiutare Mirko a rialzarsi, tornò a controllare il corridoio nel momento esatto in cui comparvero altri due tizi della sicurezza. I due si separarono, uno si mise in copertura dietro il solito angolo e l’altro si appiattì sul lato del aggio corrispondente alla porta per offrire un bersaglio difficile all’uomo dentro la stanza. Partirono due colpi in sequenza che si schiantarono sul montante sinistro della porta, costringendo Marchi a ricacciare la tesa dentro, aveva perso di vista il tizio schiacciato contro la parete. Valutò la situazione, dentro la stanza vide un lettino e un tavolino. Fece segno alla donna di ribaltare la scrivania cercando di fare il minor rumore possibile, lui, nel frattempo, puntò l’arma a caso fuori dalla porta facendo partire quattro colpi in successione, doveva guadagnare qualche secondo per poter ribaltare anche il letto. Nel frattempo Veronica si era piazzata dietro il tavolo nascondendo anche l’hacker. Marchi si mosse in fretta, mentre nel corridoio echeggiarono gli scoppi di altri tre colpi, trovò l’interruttore per spegnere le luci e ribaltò il letto saltandoci dietro. Lui si trovava sul lato sinistro e Veronica sul lato destro rispetto all’apertura, fece cenno alla donna di fare attenzione al lato della porta che si trovava davanti alla scrivania. Lei appoggiò il calcio della pistola sulla mano sinistra per stabilizzare l’arma e si mise in attesa. Scese un silenzio spettrale e Davide riusciva a sentire il ritmo del suo cuore come se fosse amplificato da un microfono. I due killer stavano, sicuramente, strisciano verso di loro, ma forse erano anche aumentati di numero, non aveva modo si saperlo. Le luci sul soffitto del corridoio proiettarono un’ombra sul lato opposto del muro. Marchi calcolò un’ipotetica distanza tra la proiezione e il
corpo reale, che valutò in un paio di metri. L’ombra si fermò allungandosi oltre l’apertura. “Bene” pensò l’investigatore “sei arrivato.” puntò l’arma all’altezza di tre quarti dell’apertura, mirando vicino alla cornice della porta sul lato destro. E attese. I secondi che arono durarono un’eternità ma alla fine qualcosa spuntò dall’apertura, assomigliava a una testa. Marchi corresse il puntamento e attese. L’altro fece partire due colpi a caso e sfruttò i lampi per cercare di identificare la posizione dell’intruso ma senza successo. Davide vedendo comparire la pistola si era dovuto nascondere per non rivelare al sua posizione, di sicuro l’altro aveva visto il letto e avrebbe pensato di sparare al materasso sperando di colpire il suo bersaglio sfruttando la debolezza del tessuto. Ma per farlo doveva sporgersi di più. E così fece, solo che Marchi era lì ad attenderlo e appena decise che il bersaglio offerto era sicuro sparò centrando in piena faccia l’aggressore che cadde in avanti in una posizione scomposta rivelando schizzi di sangue e altro materiale biologico. Forse ne restava uno soltanto. L’altro arrivò come un fulmine e si buttò a pesce dall’altro lato dell’apertura, doveva aver pensato che il suo compare fosse stato colpito da qualcuno che si trovava sul lato destro della stanza. Davide fece segno a Veronica di sparare un paio di colpi al suo segnale. Scavalcò il letto e diede il via alla donna che sparò due volte in successione mentre l’investigatore si lanciò schiena a terra oltre la porta con la pistola puntata in alto, appena varcò la soglia mirò e sparò centrando poco sopra l’inguine l’uomo. Tre fori si materializzarono sul muro e Marchi si appallottolò sperando di restare coperto all’interno della stanza, riuscì a girarsi e scattò di nuovo verso il letto. “Ma quanti siete?” pensò e si rese conto che il gesto precedente era stato veramente stupido. Mentalmente aveva tenuto il conto dei colpi usati e ne
restavano soltanto quattro, poi avrebbe dovuto recuperare un’altra arma. In più, non sapeva quanti nemici dovevano ancora tenere a bada e se non fossero riusciti a uscire da quella stanza sarebbero durati poco. I tre restarono nascosti tenendo gli occhi puntati verso l’ingresso ma, oltre ai due corpi, non sembrava esserci nessuno. Probabilmente i nuovi arrivati stavano escogitando un modo per stanarli dalla loro posizione, la situazione di stallo poteva durare molto tempo e prima o poi si sarebbero ritrovati accerchiati da chissà quanti aspiranti assassini. Dovevano uscire da lì. Marchi ragionò sul da farsi, dalla porta non si era affacciato nessuno ed erano ati già diversi minuti, poi gli venne un’idea assurda ma se funzionava avrebbe capito quanti uomini c’erano ancora e forse poteva sistemarne almeno uno. Uscì dal nascondiglio, si portò vicino all’apertura e, cercando di rimanere nascosto alla vista, prese uno dei corpi per la giacca e lo trascinò dentro. Altri due spari e i corrispettivi fori si aprirono sulla sinistra del telaio. Prese la rete del letto e la mise in verticale spostandola vicino alla porta, mise in piedi il cadavere facendosi aiutare dalla donna e fece are le braccia del morto tra le doghe in legno. Sembrava che riuscisse a restare in piedi da solo. “Ottimo vediamo se l’inganno funziona” pensò Marchi. Davide fece avvicinare Veronica e gesticolando le spiegò la sua idea, la donna annuì e si mise in posizione. Tutto era pronto, i due si guardarono e mostrarono il pollice verso l’alto. Marchi spinse fuori dalla stanza la rete col morto appeso, come se fosse uscito per guardare il aggio, e, nello stesso istante, Veronica strisciò in terra puntando l’arma attraverso le gambe dell’uomo. Tre spari. La rete sussultò. La sagoma scura in fondo al corridoio rimase stordita dall’evento, Veronica puntò e sparò. E fu un centro in pieno petto.
Il killer barcollò e cadde bocconi sul pavimento, il silenzio tornò a regnare mentre la poliziotta era ritornata dietro al tavolo convinta di veder spuntare qualcuno oltre la porta, ad attenderla trovò anche l’investigatore. «Vado a tastare la situazione e cerco di recuperare qualche proiettile, io sono quasi a secco.» Davide scavalcò il tavolo per avvicinarsi all’apertura. La rete era ancora in piedi e offriva un discreto nascondiglio. Si inginocchiò e guardò tra le gambe del cadavere, il aggio sembrava deserto. Si voltò e sparò contro la telecamera mandandola in pezzi, raccolse una delle pistole che era a portata di mano e controllò il caricatore, otto colpi. Sostituì il suo con quello nuovo, nessuno aveva risposto allo sparo precedente. Forse erano salvi, almeno per il momento. «Bene, andiamocene prima che arrivino i rinforzi.» Davide si girò verso i due compagni. «Il computer, dobbiamo trovarlo. Mi serve.» Mirko si guardava intorno. «Ti ricordi dov’era?» Veronica aiuto l’hacker ad alzarsi da terra. «L’avevano messo sulla scrivania perché volevano controllarne il contenuto, pretendevano le varie ma io non ho parlato.» «Allora deve essere finito in terra quando ho ribaltato il tavolo, spero che non si sia rotto.» «Basta che il disco interno sia intatto. Che dolore, sembra che mi abbia investito un camion e devo avere l’occhio destro molto gonfio perché ci vedo male.» Mirko provò a muoversi ma zoppicava in modo vistoso «Anche la gamba destra non collabora.» «Trovato!» Veronica ò il portatile all’hacker che lo infilò nella valigetta. Marchi controllò nuovamente il corridoio, nessuno in vista, forse potevano farcela. «Possiamo uscire di qui, il problema sarà andarcene dallo stabile senza essere notati.» Davide scavalcò il cadavere che era rimasto davanti alla porta e si avviò lungo il aggio con la pistola in pugno, dietro lo seguiva la poliziotta intenta a sorreggere l’informatico sporco di sangue e col volto tumefatto. Arrivarono al
disimpegno e iniziarono a scendere le scale con cautela, Marchi era in testa al terzetto mentre Veronica restava in retroguardia cercando di tenere Mirko nel mezzo. Al piano sottostante non trovarono nessuno come era successo all’andata, aggirarono il vano ascensori e mantenendo la formazione si apprestarono a scendere di un altro livello. Arrivarono alla fine della scala, non sentivano alcun rumore o voci, provarono ad affacciarsi nel disimpegno e non videro nessuno. arono davanti agli ascensori e notarono che quel piano era identico a quello degli appuntamenti, c’era una grande sala con delle sedie e dei cartelli che indicavano i vari uffici, dalla contabilità alla fatturazione. C’erano perfino degli sportelli relativi ai servizi bancari, probabilmente, i neo genitori, potevano ottenere dei prestiti per l’adozione. Stavano per riprendere a scendere quando una figura femminile uscì da una delle stanze voltandosi proprio nella direzione dei tre compagni che si bloccarono immediatamente sul posto. Marchi incrociò lo sguardo della rossa dai capelli lunghi e ricci, gli occhi cenere si spalancarono per lo stupore quando lei notò l’arma nella mano dell’investigatore. Davide mise l’indice in verticale tra il labbro superiore e quello inferiore, le fece cenno con la pistola di rientrare nel locale ma la ragazza rimase impietrita continuando a fissare i tre estranei mentre torturava dei fogli di carta. Dovevano evitare che si mettesse a gridare per lo spavento. Veronica si portò davanti al gruppetto sorridendo e gesticolando per tentare di calmare la giovane donna, le si avvicinò lentamente continuando a guardarla negli occhi. Raccolse alcuni fogli da terra e li porse alla ragazza facendole segno di rientrare nella stanza, la rossa dagli occhi cenere in tailleur bianco rientrò nel locale e chiuse la porta a chiave. «Brava, sei riuscita a farti capire.» Davide fece l’occhiolino alla poliziotta «Voi restate nella scala, vado prima io per vedere che aria tira. La gente dovrebbe essere corsa fuori dopo gli spari di prima, ma voglio evitare sorprese.» l’investigatore iniziò a scendere le scale. Raggiunse la destinazione, la sala d’attesa era deserta ma dal pianterreno sentiva arrivare delle voci, il tiro al bersaglio con le guardie sarebbe costata la possibilità di uscire tranquillamente dallo stabile. Era nero dalla rabbia, voleva prendere a pugni Mirko per la bravata fatta, ma ne aveva già prese abbastanza e lui non aveva ancora letto i messaggi sul cellulare.
Usciti da lì avrebbe preteso dei chiarimenti. L’unico modo per andarsene consisteva nell’usare le finestre del primo piano, in effetti quattro metri circa di salto non erano un problema per un uomo di un metro e settanta, se si appende al davanzale e si lascia cadere deve coprire un dislivello inferiore ai due metri. L’incognita era data da Mirko che zoppicava vistosamente e non riusciva a stare in posizione eretta. Per uscire da una delle finestre dovevano entrare in uno degli uffici, ma non uno qualsiasi perché dovevano restare nascosti alla vista delle persone nella hall al pianterreno. Cercò di orientarsi, le finestre nella sala d’attesa davano sul lato dell’ingresso principale, doveva controllare le stanze una per volta per trovare quella favorevole. Provò ad aprire una porta sul lato destro della sala, era chiusa a chiave, si portò davanti a quella successiva che si aprì. Sbirciò dentro e la trovò deserta, entrò e raggiunse la finestra, verificò la posizione e decise che poteva andare bene. Uscì lasciando la porta aperta, raggiunse le scale ma qualcosa lo colpì in faccia e perse la presa sull’arma. Era ancora Dejk. Marchi si mise sulla difensiva pronto per il corpo a corpo, l’altro aveva tirato fuori un coltello a serramanico e lo stava brandendo tenendo il braccio teso in avanti. «Hai dormito bene?» lo schernì l’investigatore. Il consulente non rispose e piazzò il primo fendente che andò a vuoto. Sembrava che Veronica e Mirko non si fossero accorti di nulla e lui non capiva da dove fosse uscito Dejk e soprattutto, se era libero, significava che poteva esserci qualcuno nascosto da qualche parte. Marchi si spostò cercando di mettersi con le spalle coperte, riuscì a portarsi vicino alla stanza che aveva aperto schivando un altro affondo. Doveva tentare di disarmare l’avversario sfruttando uno dei fendenti e utilizzando il judo per buttarlo a terra. Davide si concentrò sulla posizione di Dejk, si girò leggermente verso destra e spostò la gamba sinistra indietro preparandosi a ricevere un altro colpo. L’altro convinto di poter ferire l’avversario impresse tutta la forza che aveva a disposizione nel movimento impresso al coltello. Il colpo partì fulmineo verso l’obiettivo.
L’investigatore attese con calma l’arrivo della lama, calcolò l’attimo in cui poteva sfruttare lo squilibrio dell’avversario e girandosi verso sinistra afferrò il polso del consulente continuando il movimento di rotazione, afferrò con la mano sinistra il bavero della giacca e si caricò sulla schiena l’uomo. Dejk volò per un paio di metri e si schiantò a terra picchiando la testa e perdendo l’arma che scivolò lontano. Marchi non perse tempo prezioso e si scagliò sull’avversario bloccandolo sul pavimento, sentì qualcosa sibilargli vicino e le piastrelle poco lontano si scheggiarono. Dovette abbandonare la posizione per buttarsi nella stanza che aveva lasciato con la porta aperta. Un foro si formò sul legno a destra dell’apertura, il nuovo arrivato aveva un silenziatore e lui era disarmato. Dejk si stava rialzando. Niente stava andando per il verso giusto e si chiese se, da quel giorno, Sara sarebbe diventata una vedova. I fori sulla porta gli avevano rivelato la posizione, seppur imprecisa, del nuovo aggressore mentre riusciva a vedere il consulente ancora a terra. Nessuno si avvicinava. Marchi cercò di individuare il punto dove era caduta la sua arma, però non riusciva a vederla e non poteva sporgesi dall’apertura per evitare di essere centrato da qualche colpo. Rovesciò l’unica scrivania che c’era nella stanza e l’usò come nascondiglio, vide il consulente rimettersi in piedi massaggiandosi la testa e facendo un cenno con un braccio. Un uomo massiccio e in abito nero si avvicinò a Dejk porgendogli una pistola. «Bastardo, vieni fuori! Non ho voglia di venire a prenderti.» Come risposta, i due, dovettero schivare una sedia, decisero allora che dovevano porre fine all’assedio, puntarono entrambi le armi verso la scrivania e si prepararono a sparare. Nel piano riecheggiarono due esplosioni in rapida successione e pochi secondi dopo una terza. I tre proiettili centrarono il bersaglio non lasciando scampo alcuno.
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Veronica vide Marchi girare l’angolo e sparire dal suo campo visivo, fece sedere l’informatico sui gradini poco più in basso facendo in modo che stendesse la gamba destra. Mirko non aveva più aperto bocca, era sofferente, teneva stretta a se la ventiquattrore e continuava a respirare con affanno. «Ehi come stai?» la poliziotta parlò a voce bassa fissando l’hacker negli occhi. «Non riesco a respirare bene, forse ho qualche costola rotta.» rispose con un fil di voce. «Perché sei Salito al quarto piano?» «C’era il nostro uomo e anche la ragazzina che stiamo cercando.» «Ne sei sicuro?» «Ho inviato delle foto sul cellulare di Davide, non le ha viste?» «Non credo, eravamo col consulente che dopo una telefonata ci ha aggredito sostenendo che fossimo dell’interpol e dicendo che ti avevano preso. Davide è riuscito a disarmarlo e siamo corsi a cercarti. Sei stato stupido, potevano ucciderti!» Veronica stava piangendo. «Scusa, ma non pensavo di trovare tutta quella gente. Me ne stavo andando quando è spuntato un tizio dalle scale e mi ha puntato una pistola addosso.» La donna si avvicinò «Ora dobbiamo pensare a uscire da questo posto e poi ci servirà aiuto da qualcuno della polizia.» Dal fondo della scala arrivarono dei i e i due compagni pensarono che fosse Marchi di ritorno dalla perlustrazione, ma il rumore si allontanò. Stava succedendo qualcosa di strano.
«Non muoverti scendo a vedere cosa sta combinando Davide, tanto qui sei al sicuro» La poliziotta stava iniziando a scendere quando sentì delle voci, una era dell’investigatore e l’altra l’aveva già sentita, ma dove? Poi le venne in mente, “Che stupida” pensò “era con noi meno di un ora fa” Era Dejk. Si tolse le scarpe, il tacco faceva troppo rumore, e accelerò il o, arrivò in prossimità dell’ultimo gradino e si fermò. Sbirciò oltre l’angolo e vide Marchi impegnato nel tenere a bada il consulente che brandiva un coltello, ma fu il secondo uomo a terrorizzarla. Quello nascosto in un angolo che teneva sotto tiro Davide aspettando il momento giusto per sparare. La pistola era silenziata. Veronica rimase a guardare interdetta, non sapeva che fare perché se avesse sparato al tizio nascosto avrebbe distratto Marchi che poteva essere colpito dal coltello. Decise di puntare la sua arma contro il cecchino e restare in attesa. Nell’androne la lotta si fece più serrata finché Davide atterrò l’aggressore per poi bloccarlo con una presa a terra. Nello stesso istante, l’uomo nascosto sparò, lei vide il lampo e udì il suono smorzato del silenziatore. Gettandosi sul consulente, Davide, si era, senza volerlo, salvato la vita. Aveva incredibilmente scelto il momento preciso nel quale il killer silenzioso tirò il grilletto della sua pistola. Così il proiettile mancò il bersaglio. Veronica vide Marchi precipitarsi all’interno di una stanza e il killer avviarsi verso la sala d’attesa, la donna uscì dal suo rifugio per occupare lo spazio lasciato libero. Da quella posizione poteva controllare meglio la situazione, vide i due uomini portarsi davanti all’ingresso di una stanza. Dejk stava parlando, lei non riusciva a capire bene perché era troppo distante, ma vide una sedia volare fuori dal locale costringendo i due nemici a rompere la formazione per non essere colpiti. Allora si spostarono uno a destra e l’altro a sinistra dell’apertura, ma, dalla sua posizione, Veronica poteva colpire solo l’uomo col silenziatore perché l’altro era coperto dal primo. Vide entrambi puntare le armi all’interno
della stanza. Doveva intervenire subito. Puntò la sua pistola e fece partire due colpi in rapida successione e dal piano terra sentì arrivare delle grida. Il killer col silenziatore si accasciò sul pavimento contorcendosi dal dolore, l’altro si voltò istintivamente nella direzione degli scoppi e la donna tirò il grilletto per la terza volta. Centrò il consulente all’addome, nella fretta non era riuscita a puntare con precisione al torace, ma il risultato finale andava bene ugualmente. Dejk finì in ginocchio con entrambe le mani sulla ferita mentre al piano terra sembrò scatenarsi l’inferno. Veronica sentiva la gente gridare, dovevano aver abbandonato il primo piano dopo il casino che si era scatenato al quarto ma stranamente non erano usciti dallo stabile, sentì dei i veloci provenire anche da un’altra direzione, era qualcuno che correva. E si stava avvicinando. La poliziotta si voltò e vide spuntare la ragazza vestita di bianco, era scesa per le scale e appena vide gli uomini a terra si bloccò di colpo. Gridò così forte che sembrava voler abbattere la struttura con l’onda d’urto della sua voce e poi pronunciò una frase nella sua lingua natia che Veronica non capì. Dejk sfruttò la confusione e sollevò il braccio destro nella direzione di occhi di cenere. La poliziotta intuì subito cosa stava per accadere, scattò verso la ragazza allargando le braccia, l’investì sbattendola a terra perdendo l’arma che finì in prossimità della scala. Nello stesso istante un proiettile ò sopra la testa delle due donne schiantandosi contro il muro. Veronica si aspettò l’arrivo di altre pallottole e loro erano a terra indifese. Un altro scoppio riempì l’aria.
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Erika osservava la campagna scorrerle davanti agli occhi, la macchina avanzava nelle strade secondarie diretta chissà dove e lei aveva ato l’ora di viaggio già trascorsa ripensando a ciò che era successo nel pomeriggio. Infine, l’uomo, l’aveva portata via in fretta dal posto degli orrori sfruttando un’uscita secondaria che dava sul retro della struttura e fu obbligata a salire in macchina, ormai non lottava più ed era stata ridotta ad un essere senza volontà. La punizione inflittale per la sua ribellione era stata pesante e crudele, ma non erano soltanto i segni sulla pelle, il labbro gonfio, l’occhio destro tumefatto e le unghie spezzate a far male, ma il dolore insopportabile arrivava da una parte più nascosta, da un posto che, da sempre, contiene segreti, sogni ed emozioni. Proveniva dal cuore. Dopo il tentativo di fuga andato male, era stata riportata nella stanza dove c’era il lettino, l’uomo in nero l’aveva presa a botte lasciandola a terra dolorante. Dopo essersi sfogato a dovere aveva chiamato uno dei suo scagnozzi, pronunciò parole che lei non capiva e se ne andò chiudendo la porta. Il nuovo arrivato le sorrise, ma in realtà assomigliava più a un ghigno da lupo affamato, la sollevò di peso depositandola sul letto. Erika aveva pensato che fosse un gesto gentile del nuovo carceriere e invece erano i preliminari di ciò che avvenne dopo. Lo scagnozzo le slacciò la camicetta e le sfilò la gonna, Erika lottò e si dimenò graffiando, cercò di difendersi tentando di piazzare una ginocchiata da qualche parte ma l’aggressore era molto più forte di lei e iniziarono i minuti più lunghi della sua esistenza. Mentre lottava pensò di aver sempre vissuto nella convinzione che la sua prima volta dovesse essere con la persona che avesse amato veramente, era una cosa importante da non lasciare al caso, la cui spiegazione le era stata data più volte da sua madre che sosteneva l’importanza di certe cose da donne. Nei minuti interminabili della lotta pensò a Dio e mise in dubbio la sua esistenza chiedendosi perché permettesse che certe cose avvenissero.
E forse, lui, l’aveva ascoltata. L’animale che voleva possederla venne fermato da un suo compare che, proprio nel momento in cui l’aveva ridotta alla ragione e l’aveva in pugno, entrò nella stanza parlando la solita lingua sconosciuta e gli intimò, con evidenti gesti, di seguirlo. Quello si rimise in ordine e corse fuori dalla stanza. Erika voleva lavarsi per strapparsi di dosso la pelle e la puzza di quell’animale, ma il bagno non c’era e allora decise di rivestirsi in fretta e di rannicchiarsi in un angolo. Una manciata di secondi dopo la porta si aprì di nuovo. Questa volta l’animale e il suo compare erano in compagnia di un tizio ben vestito, lo gettarono a terra e gli rifilarono due calci sui fianchi, poi se ne andarono chiudendo la porta a chiave. La ragazza decise di restare in silenzio nell’angolo in attesa di capire se poteva fidarsi o meno dell’uomo in grigio. Però se il lupo si era fermato era per merito di quel tizio, allora forse era una angelo che si era sacrificato per lei, o forse stava semplicemente impazzendo. L’uomo in grigio non aprì bocca e si limitò a osservarla sorridendo, poi tirò fuori un oggetto da una tasca, era un telefono cellulare e cominciò a trafficare con la tastiera del dispositivo. La chiave iniziò girare nella serratura, si guardarono negli occhi e il nuovo arrivato le porse il telefonino facendole capire che doveva nasconderlo e non farlo vedere a nessuno. Lei lo nascose in una tasca, avrebbe cercato un nascondiglio migliore successivamente. Qualcuno aprì violentemente la porta entrando nella stanza quasi correndo, era l’uomo che l’aveva rapita in Italia e dopo aver dato un pugno al tizio in grigio lo interrogò ma quello continuava a rispondere di essere un avvocato e ogni volta la razione di calci e pugni aumentava. Lei si era rannicchiata di nuovo in un angolo con la testa tra le ginocchia perché non riusciva a sopportare tutta quella violenza. Poi tutto era finito, il suo aguzzino la portò via mentre il pestaggio all’interno della stanza continuava e lei pensò che quella persona forse sarebbe stata uccisa. Si chiese perché le avesse dato quel telefono, che cosa fe lì e se tutto fosse
frutto del caso o se c’era un motivo ben preciso. Le domande erano senza risposta o, forse, le spiegazioni che cercava sarebbero arrivate più tardi, per ora poteva solo sperare che il dispositivo affidatole servisse a qualcosa e decise che il nascondiglio migliore erano gli slip. Continuava a pensare all’uomo in grigio. Lei non era mai stata molto religiosa perché, anche se i suoi genitori frequentavano regolarmente la chiesa, non sopportava i preti e il loro continuo giudicare i fedeli. Però credeva che ci fosse un creatore del mondo perché era convinta che tutto quello che la circondava non poteva essere frutto del caso. Solo che non riusciva a capire perché il creatore permettesse alle persone malvagie di vivere. Aveva solo tredici anni eppure si chiedeva spesso quale fosse il suo ruolo nel mondo. “Ma io perché sono al mondo, a cosa servo?” la domanda che la perseguitava si riaffacciò dal profondo della sua mente, erano mesi che non riusciva a trovare una risposta e forse non ci sarebbe mai riuscita. Continuava a guardare la natura che ava di lato, l’uomo in nero era silenzioso come al solito e sembrava essersi dimenticato di averla a bordo, la stava ignorando da quando erano partiti da quel posto maledetto. Erika tornò a pensare all’italiano che forse era stato ucciso, a Michela e ai suoi genitori, si lasciò cadere di lato sul sedile e sfogò il bisogno che aveva di piangere. E lo fece in assoluto silenzio.
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Mirko si vide scavalcato dalla ragazza in bianco, era talmente impaurita che stava facendo le scale saltando alcuni gradini. Lui provò a seguirla ma era troppo lento, quando aveva sentito i tre scoppi si era alzato e stava tentando di scendere al piano sottostante per cercare di vedere che cosa stesse accadendo, la gamba destra gli faceva un male cane e doveva fare un gradino alla volta come i bambini di tre anni. Raggiunse l’ultimo gradino mentre, nell’aria, echeggiava un altro sparo, un rumore metallico attirò la sua attenzione e vide una pistola proprio davanti al suo piede sinistro. Sbirciò oltre l’angolo alla fine della rampa, vide Veronica e occhi di cenere a terra e due uomini sul pavimento della sala d’attesa. Uno dei due aveva il braccio teso nella sua direzione e non bisognava essere un genio per capire cosa stesse pensando di fare. Mirko si trovò a dover prendere una decisione contro la sua natura, lui odiava qualsiasi tipo di arma e violenza ma una persona importante era in pericolo e non poteva stare a guardare. Osservò l’arma che faceva sentire onnipotente qualsiasi persona che sapeva usarla, era un oggetto che permetteva di decidere se lasciar vivere o meno una persona. Il ragionamento avvenne in una frazione di secondo ma sembrava durato un’eternità, il tizio nella sala d’attesa aveva ancora il braccio teso e tremante, l’informatico decise finalmente che cosa fosse meglio fare. Come un automa raccolse l’arma e tese il braccio destro verso l’uomo a terra. Non aveva mai usato una pistola ma il gesto di tirare indietro il grilletto fu così naturale che lo spaventò. Il contraccolpo gli piegò il polso quasi slogandoglielo, il proiettile colpì il pavimento e di rimbalzo centrò Dejk al torace. Era avvenuto l’impossibile. Aveva usato un’arma per uccidere. Si mise a sedere sull’ultimo gradino, l’arma ancora in mano, fissando il pavimento incredulo.
«Io l’ho ucciso.» Mirko non si accorse che Veronica si era rimessa in piedi, occhi cenere era seduta a terra piagnucolante e Davide stava scavalcando due uomini ormai morenti. «Io ho ucciso una persona.» La donna si avvicinò «Ehi, mi hai salvato la vita. Sei stato costretto a farlo.» e s’inginocchiò per guardare negli occhi l’hacker. «Non c’era altra soluzione, questa la prendo io.» «Grazie ragazzi, non li avevo visti. Vi devo la vita.» Davide si era avvicinato ai due compagni ignorando la ragazza vestita di bianco. «Parla con Mirko, ne ha bisogno. Io mi occupo di miss coraggio.» Veronica si avvicinò alla ragazza e questa si raggomitolò con le spalle al muro piangendo più forte. «Ehi, guardami! Look at me!» la donna pensò che l’inglese poteva aiutarla, ma non c’era niente da fare. Decise, allora, di provare a calmarla con il contatto fisico, s’inginocchiò e attirò a se la ragazza che strinse Veronica in un abbraccio potente scoppiando a piangere disperata. La poliziotta riuscì a liberarsi dalla morsa e a guardare in faccia occhi di cenere. «Ehi, io sono Veronica e tu?» pronunciò la frase gesticolando come a un bambino di due o tre anni. «Erina.» la ragazza rispose singhiozzando. «Alziamoci dai.» Veronica per farsi capire da Erina fece un cenno verso l’alto con la mano destra. La ragazza si rimise in piedi ma continuava a guardare i due corpi a terra poco lontano da lì, la poliziotta costrinse Erina a voltarsi e a seguirla verso le scale. Le indicò di andarsene, la ragazza mosse un o incerto, poi un altro, guardò Veronica abbozzando un sorriso e sparì per le scale.
«Ragazzi, credo sia il caso di andarcene.» La poliziotta si stava rimettendo le scarpe. «Sì, emo una delle finestre della stanza dove ero prima.» Davide indicò l’apertura con i due corpi davanti. «Va bene, ma Mirko come farà con quella gamba?» «Se la pianta di darsi dell’assassino ce la può fare.» l’investigatore aiutò l’informatico a tirarsi in piedi. I tre recuperarono il computer e le due pistole, raggiunsero la stanza dove si era nascosto Marchi quando i due killer lo avevano braccato e fecero attenzione a non sporcare di sangue le scarpe scavalcando i due corpi. Non dovevano lasciare impronte che indicassero la loro via di fuga. Raggiunsero la finestra che l’investigatore aveva lasciato aperta e stabilirono l’ordine di uscita. Davide si calò per primo dall’apertura, poi fu il turno di Mirko che fu aiutato da Veronica a scavalcare il davanzale e ad appendersi ad esso. L’informatico si lasciò cadere e Marchi riuscì a evitare che finisse a terra dopo essere atterrato su una gamba sola, la sinistra. Poi venne il turno di Veronica che prima ò agli altri la ventiquattrore, la borsetta e le scarpe, i tacchi non erano pratici per lanciarsi da una finestra, scavalcò il davanzale, si appese e si lasciò cadere. Atterrò piegando le ginocchia e appoggiando le mani a terra. I tre iniziarono a camminare lungo il perimetro della struttura per arrivare dove avevano lasciato la macchina presa a noleggio. Raggiunsero il piazzale anteriore dove avevano parcheggiato l’auto, dopo tutto quello che era successo non trovarono nessuno fuori dal palazzo e questo era molto strano. Decisero di non curarsene e di andarsene il più in fretta possibile. Davide avviò il motore, fece manovra con calma, era sicuro che dall’interno, le persone al piano terra, lo stavano osservando. Come si era aspettato la sbarra biancorossa non si alzò per lasciarli are, lo sapeva fin dall’inizio che non sarebbero riusciti a uscire con l’auto tutta intera, ma non si sarebbe fermato davanti a una sbarra di plastica. Innestò la retromarcia per allontanarsi dall’uscita e, quando decise che la distanza era giusta, inserì la prima e lanciò l’auto verso la sbarra. Lo specchietto destro andò in frantumi, ecco spiegato il motivo della gente ancora dentro. «Giù la testa ragazzi! Abbiamo compagnia.» Davide era riuscito a contare tre uomini ma non capiva da dove fossero spuntati.
Il mezzo sfondò la barriera senza subire danni importanti, il parabrezza era rimasto integro e si era prodotta una lieve ammaccatura sul cofano. Mentre guadagnavano l’uscita due fori si produssero sul lunotto posteriore, Davide, incurante della linea d’arresto, si immise sulla strada principale facendo stridere le gomme e dando gas per allontanarsi il più in fretta possibile. Guardò la strada dallo specchietto retrovisore per capire se qualcuno li stava seguendo e con sua sorpresa non c’era nessuno. «Bene, sembra che si siano arresi.» «Era ora, non ne potevo più di quei tizi poco socievoli.» Veronica tirò su la testa e Mirko fece la stessa cosa. «E adesso, caro genio dei computer, mi spieghi che diavolo ti è saltato in testa!» «Hai visto i messaggi che ti ho inviato?» «No, direi che non ne ho avuto il tempo. Ero impegnato a cercare di non farci ammazzare tutti.» «Scusa, lo so che ho sbagliato. Per favore, leggi quei messaggi.» «Va bene, se proprio insisti.» Davide recuperò il dispositivo dalla tasca destra della sua giacca e selezionò l’area messaggi dal menù. Iniziò a leggere il contenuto, ci furono diversi secondi di silenzio finché, l’investigatore, buttò il telefono sul sedile accanto. «E’ il nostro uomo. Era nella sede dell’organizzazione?» «E’ lui che mi ha pestato insieme ai suoi compari, ma se ne è andato prima del vostro arrivo.» Mirko si stava massaggiando la gamba destra. «Ti devo le mie scuse, anche se quello che hai fatto è stato molto stupido. Racconta tutto dall’inizio, forse potrei trovare qualche indizio nella storia.» «Stavo girovagando per la rete informatica della struttura quando mi sono imbattuto in un computer che stava trasferendo molti dati in internet, probabilmente verso qualche server, e mi sono incuriosito. Ho deciso di farmi un giro nel suo hard disk e ho trovato molte immagini di minori scattate di recente, te ne ho inviata una. Ho trafugato un po’ di materiale e me lo sono spedito al mio
server, ho pensato potesse essere utile in futuro. Ho trovato anche il computer che si occupa della videosorveglianza del quarto piano e ho pensato di farmi un giro pure in quel disco e lì ho visto il nostro uomo, una ragazzina stava correndo per il corridoio e pochi secondi dopo è comparso anche lui. Credo che stesse inseguendo Erika che è in una delle foto che ti ho inviato.» Davide prese il cellulare e mostrò la foto alla poliziotta. «Se penso che era lì insieme a noi mi viene il nervoso.» Veronica continuava a fissare l’immagine. «Il problema è ritrovarla. Non possiamo tornare in quel posto e, anche se potessimo, non credo che quel tizio la riporti lì.» «Ehm, mi sono permesso di trovare una soluzione alternativa al problema. Volevo inviarti un messaggio ma non ho fatto in tempo, sai ero impegnato a farmi prendere a botte per non far accendere il computer a quei bastardi.» Mirko stava guardando fuori dall’abitacolo. «E quale sarebbe la soluzione?» Davide fissava l’uomo dallo specchietto retrovisore. «Ho fatto in modo che si attivasse il blocco per i furti e ora abbiamo un segnale GPS da seguire. La batteria dovrebbe durare tre giorni circa. Il telefono sembra spento e non può ricevere telefonate, ho fatto segno a Erika di nasconderlo e non separarsene mai. Solo che devo andare a comprare un ricevitore satellitare per i computer, ne ho uno ma non ho pensato che potesse servire e quindi è a casa mia.» Mirko sorrideva e guardava Veronica. «E bravo l’hacker, con questa mossa mi hai stupito. Però ricordati che imprudenza e coraggio non sono la stessa cosa. Oggi sei stato imprudente e ti è andata bene, ma non sempre è così. Potrei raccontarti storie di guerra dove ho visto dei miei compagni morire per aver scambiato l’imprudenza per coraggio.» Davide tornò a guardare la strada. «Hai ragione. Dobbiamo trovare un negozio di elettronica altrimenti la mia bravata non servirà a niente.» «Prima dobbiamo parlare con Luca, abbiamo bisogno di una mano e avevo promesso di tenerlo aggiornato sugli sviluppi. Tieni» l’investigatore porse il suo
telefono a Mirko «prova a vedere se riesci a collegarlo col viva voce di questa macchina.» «Dovrebbe essere un gioco da bambini. Attivo il bluetooth e avvio la ricerca dei dispositivi, ecco fatto è connesso.» Mirko restituì il dispositivo a Davide che selezionò un numero e schiacciò la cornetta di colore verde. Il sistema viva voce dell’auto si attivò in automatico sputando fuori il classico suono del telefono libero, pochi secondi dopo una voce familiare ruppe la monotonia. «Pronto, Davide qual buon vento?» «Vento di guai e anche grossi. Abbiamo bisogno di aiuto e in fretta.» «Pensavo avessi buone notizie da darmi.» «Va bene, visto che ci tieni così tanto...» Davide fece una pausa di alcuni secondi per creare un po’ di atmosfera «abbiamo trovato il nostro uomo e la ragazzina.» «Grande! Dov’è l’inghippo che ti fa chiedere aiuto?» «Il problema è dato dal fatto che ci siamo lasciati dietro un po’ di morti. Eravamo all’interno del palazzo della società di adozioni, io e Veronica ci siamo finti una coppia in cerca di un bambino mentre Mirko si è messo a scandagliare la rete informatica della struttura per vedere se c’era qualcosa di losco sotto. Si è imbattuto in immagini di ragazzini nudi e, in un video della sorveglianza, compariva il nostro uomo che correva dietro a una ragazza. Il curiosone si è cacciato nei guai, ha preso un po’ di botte rischiando di farsi ammazzare finché è arrivata la cavalleria, cioè io e Veronica, che l’ha tirato fuori dai guai. Però è stato bravo perché ora abbiamo un segnale GPS da seguire ma non possiamo fare tutto da soli, ci serve aiuto dalle forze dell’ordine locali. Prova a vedere che riesci a ottenerne, noi cominceremo a seguire il tizio, ma il segnale del satellitare sarà disponibile soltanto per tre giorni e dobbiamo fare in fretta perché non sappiamo se si sposteranno ancora.» «Ok, proverò a contattare la polizia albanese. Mandami per SMS il posto dove vi trovate, scommetto che nessuno di quelli nella società di adozioni ha avvisato le forze dell’ordine.» «Esatto! E può significare solo che la maggior parte di quelli che lavorano lì sono a conoscenza delle attività illegali parallele a quelle ufficiali. Ehi, siamo
nelle tue mani, fammi sapere se ottieni risultati.» «Farò del mio meglio, salutami gli altri. Ciao.» la comunicazione si interruppe prima che Marchi e compagni potessero rispondere. I tre erano già arrivati in albergo, decisero di farsi una doccia e cambiarsi prima di uscire alla ricerca di un negozio di prodotti elettronici. Erano le cinque del pomeriggio e al banco dell’accettazione non c’era nessuno, decisero di servirsi da soli e Davide aggirò la scrivania per prendere le chiavi elettroniche delle stanze dalla rastrelliera numerata. Salirono al primo piano e si diedero appuntamento per le diciotto al piano terra, Mirko iniziava a camminare meglio e non aveva più bisogno di essere sorretto da qualcuno. I compagni d’avventura si ritrovarono puntuali all’orario stabilito, Mirko aveva controllato che il computer funzionasse ancora e aveva approfittato dell’occasione per trovare l’indirizzo di un centro commerciale in una cittadina poco distante dall’albergo. Consultando l’elenco dei negozi aveva scoperto che il centro ospitava un negozio di articoli elettronici molto conosciuto anche in Italia ed era sicuro che avrebbe trovato lì ciò che cercava. I tre uscirono dallo stabile, salirono in macchina e si diressero verso la cittadina indicata dall’informatico, il pomeriggio stava cedendo il posto alla sera e il sole basso all’orizzonte, circondato da nuvolette rossastre, allungava le ombre di tutto ciò che era presente sulla terra.
49
La ragazzina stava dormendo, la strada per arrivare al casolare del raduno era ancora lunga e sarebbero giunti a destinazione in tarda serata, poi avrebbero dovuto aspettare ancora un giorno prima di partire per la destinazione finale. Quella mocciosa gli aveva dato del filo da torcere tentando la fuga, poi era comparso quel tizio in giacca e cravatta sorpreso a origliare e infine, come se non bastasse, era stato chiamato dalla sorveglianza dell’organizzazione e informato della sparatoria avvenuta. Un commando formato da un uomo e una donna aveva ucciso sei dei suoi uomini, tra cui suo fratello, e liberato quello che diceva di essere un avvocato. Aveva ascoltato in silenzio la notizia mentre la rabbia per la perdita di Dejk montava e assumeva un volto diabolico, promise a se stesso che, sistemata la ragazzina e il carico, avrebbe dato la caccia a quei tre eliminandoli uno alla volta con le sue mani, non importava se ci sarebbero voluti anni, li avrebbe trovati e uccisi con il gusto macabro di procurare loro indicibili sofferenze. Ma ora la priorità era la consegna. La vendetta doveva attendere. Con questo affare avrebbe guadagnato molto denaro, ma non era ancora soddisfatto, più soldi riceveva e più ne bramava, più il suo conto in banca cresceva e più si sentiva potente e influente. Poteva comprare la fedeltà dei suoi uomini, corrompere politici e pagarsi le donne più belle, ma la cosa più importante era ottenere un posto nell’alta società. Secondo lui chi diceva che i soldi non danno la felicità, parlava con l’invidia di chi è povero e guarda il ricco sognando la bella vita. Ancora tre ore e si sarebbe potuto riposare, non aveva avuto più notizie dei due killer inviati in Italia per eliminare l’assicuratore e sua moglie. Baldi doveva essere ucciso perché aveva tentato di dettare le regole, ma un po’ gli dispiaceva perché in fondo era uno dei migliori contatti che aveva nel bel paese. Nell’ultimo anno, grazie a lui, era riuscito a ottenere quattro ragazzine promettenti per la prostituzione minorile che era diventa la moda del momento nell’est europeo, se
le era fatte pagare molto bene e il suo cliente ne aveva richiesta un’altra. Non riusciva però a capire perché le italiane fossero così richieste ma sfruttare le perversioni delle persone per fare soldi era la cosa più semplice del mondo. L’attrazione sessuale per i bambini sembrava essere la droga del nuovo millennio, milioni di persone, non solo maschi, andavano a caccia di immagini e filmati di minorenni nudi e in atteggiamenti provocatori. Una percentuale molto alta di questi cercava di adescare bambini attraverso i nuovi social network, le chat line e altri canali telematici, sperando, e molto spesso riuscendoci, di poter are alcune ore in compagnia delle loro vittime. Le stanze virtuali erano piene di pedofili che riuscivano a convincere dei ragazzini a spogliarsi davanti a una webcam, a inviare foto delle proprie parti intime oppure farsi riprendere in atteggiamenti provocatori, tutto come se fosse un grande gioco e il premio finale, spesso, era una semplice ricarica telefonica. Guardò il sole che stava scomparendo all’orizzonte, dove il cielo era infuocato, e decise che doveva anticipare i tempi, i tre tizi che avevano seminato la morte negli uffici de “La mano del padre” erano potenzialmente pericolosi. Non poteva essere un caso che si fossero presentati lì proprio pochi minuti prima che lui se ne andasse con la ragazza. Fermò la macchina al lato della strada, aveva bisogno di orinare, scese e si liberò del peso e della sensazione collegata alla sua vescica, tirò fuori il cellulare da una delle tasche dei jeans neri e fece diverse telefonate per cercare di mettere fretta a tutti i componenti della squadra, ma alcuni erano troppo distanti dal punto dell’incontro. Doveva attendere che il carico fosse completo, non aveva scelta. Rientrò nella vettura e ripartì per la sua destinazione, nel frattempo la ragazzina si era svegliata e guardava fuori dal finestrino. L’osservò dallo specchietto retrovisore, forse aveva esagerato nel picchiarla, i segni si vedevano bene ma lui non era colpevole, se quella fosse stata buona non sarebbe successo nulla. Gli venne in mente che l’aveva lasciata nelle mani di Bujet prima della comparsa di quel fantomatico avvocato. L’unico modo che aveva per tenere calmo quel porco era di farlo divertire, ogni tanto, con qualche ragazzina, ma era il migliore tra i suoi uomini e, inoltre, un fedelissimo. E quando erano ancora ragazzini Bujet gli salvò la vita. Quell’uomo aveva avuto sempre problemi con le donne, non riusciva a interagire con loro, in ato gli aveva procurato molte ragazze, tra cui la figlia bellissima
e di ventiquattro anni di un suo amico malavitoso e, quando la ragazza dichiarò di essersi innamorata e di voler mettere su famiglia, quello l’ammazzò perché non voleva legami. L’idiota poteva avere in mano un impero e invece lui dovette fare i salti mortali per calmare il padre della ragazza, gli era costato un mucchio di soldi e l’assassinio di un politico locale, ma alla fine il suo amico malavitoso capì che Bujet era malato e lasciò perdere la vendetta. Mentre si arrovellava il cervello alla ricerca di una possibile spiegazione per la presenza degli sconosciuti, il sole oltreò la soglia dell’orizzonte lasciando il posto all’oscurità che avanzava e nello stesso istante il suo stomaco gli ricordò che non poteva vivere di sola aria. Conosceva bene la zona, al primo incrocio svoltò a destra, dopo pochi chilometri posteggiò l’auto nel parcheggio di un bar e scese per comperare qualcosa da mangiare per se e la sua compagna di viaggio. Allontanandosi dall’auto si accorse che la ragazza lo stava fissando senza alcuna emozione in volto, ignorò quell’atteggiamento e aumentò il o per raggiungere più in fretta l’ingresso del locale. L’unica cosa che gli interessava era quella di rispettare la consegna, per la sua preda non provava ne comione ne pena.
50
Il cielo del mattino prometteva pioggia, le nuvole erano scure e tentavano d’impedire alla luce di vincere le tenebre. Davide era seduto davanti al display del computer con gli occhi fissi su un puntino rosso apparentemente immobile. La sera prima avevano istituito dei turni di guardia per controllare i movimenti del loro obiettivo e decidere se seguirlo oppure no. Sentì un colpetto sulla spalla destra e voltandosi vide Veronica con un vassoio contente tre tazze e dei dolci. «Forza vieni a fare colazione, quel puntino è fermo lì dalle undici di ieri sera e non credo che si muoverà proprio ora.» la donna appoggiò il vassoio sul tavolino della zona relax vicino all’ingresso della camera. «Credo proprio di no. Le ipotesi possono essere due, o si sono fermati a dormire da qualche parte oppure il nostro uomo ha scoperto il telefono e ha pensato di gettarlo dal finestrino.» Davide si alzò mentre Mirko usciva dal bagno. L’hacker stava molto meglio, i segni dei pugni in faccia erano mascherati dal leggero fondotinta abilmente steso da Veronica e solo un occhio gonfio svelava il trucco. Il giorno precedente, i tre compagni si erano recati in un negozio di prodotti elettronici per cercare un ricevitore satellitare da poter collegare al computer, ne avevano bisogno per tracciare la posizione del fuggitivo. In più, Marchi, pensò che potessero essere utili delle radio a bassa potenza PMR, acronimo di private mobile radio, e le apposite cuffiette con microfono. Approfittarono anche dei vari negozi di abbigliamento per trovare qualcosa di più comodo da indossare, quando erano partiti pensavano di stare via un paio di giorni ma ora tutto era cambiato e si sarebbero dovuti fermare qualche giorno in più. L’investigatore aveva chiamato Sara, sua moglie, per raccontarle, in linea di massima, i fatti avvenuti. Per evitare di farla stare in ansia decise di omettere ciò che era successo nella sede de “La mano del padre” archiviandolo con “abbiamo avuto qualche problemino ma niente di grave”, al ritorno si sarebbe beccato la giusta razione di rimproveri e, per farsi perdonare, avrebbe organizzato una cenetta a due in riva al mare. Veronica aveva avvisato la sua stazione di polizia circa l’allungarsi del periodo
di assenza e il suo superiore era intervenuto avvertendola di trovarsi fuori dalla giurisdizione italiana e che, se si fosse ficcata in qualche casino, non potevano aiutarla. Infine l’aveva esortata a rientrare e a are il caso alle forze dell’ordine locali. La donna si rifiutò di mettere in pratica il consiglio del suo superiore perché, secondo lei, potevano essere vicini alla soluzione e anche Veronica evitò di raccontare della sparatoria lasciando le spiegazioni per il ritorno in patria. Contattò anche sua madre per rassicurarla. Mirko non aveva nessuno da avvisare, i suoi genitori erano morti un paio di anni prima in seguito a un incidente stradale e, praticamente, non aveva amici se non il padre di Erika, ma decise che non era il caso di raccontare all’uomo cose di cui non era ancora certo. I tre arono il resto della mattinata aspettando che Luca, l’amico poliziotto di Davide, si fe vivo, pensarono di andare alla stazione di polizia più vicina per farsi aiutare, ma era rischioso perché non sapevano che sviluppi c’erano stati dopo la sparatoria. Tutti quei cadaveri non potevano essere nascosti, qualcuno doveva pur aver chiamato le forze dell’ordine e chissà che cosa aveva raccontato. Marchi realizzò che erano, potenzialmente, dei ricercati e Veronica confermò che l’ipotesi era sicuramente corretta. Quindi dovevano optare per una soluzione diversa. Da quando si erano messi a fare i ragionamenti del caso erano ate due ore e il pallino rosso era ancora fermo, non avevano più molto tempo e, così, decisero di avvicinarsi alla zona indicata dalla mappa satellitare, se il telefono era stato gettato via avevano regalato al fuggitivo un vantaggio enorme e questa volta non potevano sperare di avere nuovamente la fortuna del giorno precedente. Raccolsero il necessario per il viaggio, le radio e il computer lasciando solo le valigie semi vuote, Davide e Veronica si portarono dietro le loro pistole, ormai conoscevano il nemico e sapevano che ne avrebbero avuto bisogno. Uscirono dall’albergo e salirono in auto, il cielo era un telo nero sospeso sulle loro teste, Marchi si mise al posto di guida con l’hacker sul sedile accanto mentre la poliziotta si sedette dietro. L’investigatore impostò il navigatore con le coordinate ricevute dal computer, attese che il dispositivo completasse il calcolo del percorso e constatò che, se il puntino fosse rimasto dov’era, avrebbero impiegato circa quattro ore per raggiungere il loro obiettivo. La vettura uscì dal piazzale e si immise nella strada principale, nel frattempo iniziò a piovere
violentemente e l’ombra nera delle nuvole avvolse la terra. «Bene ci mancava solo la pioggia.» Veronica sbuffò. «Non mi faccio fermare da quattro gocce d’acqua.» Davide aumentò la velocità fino a ottanta chilometri l’ora. «Niente da fare, le mappe satellitari di questa zona fanno schifo, non si riesce a capire se c’è una casa o se si tratta solo di un campo abbandonato. Comunque le coordinate non sono cambiate.» arono la prima ora di viaggio sotto la pioggia battente, si lasciarono alle spalle alcuni paesini immersi nella campagna e dal sapore antico, a un incrociò svoltarono a sinistra abbandonando la strada principale per prenderne un’altra che si inerpicava attraverso le colline. La pioggia divenne più rada e un raggio di sole, filtrando tra le nubi color pece, produsse lo spettacolare effetto dell’arcobaleno che sembrava invitarli a entrare come una porta spalancata. A Veronica venne in mente che, da ragazzina, aveva letto da qualche parte la storia dell’arco dai sette colori come un segno di pace tra Dio e gli uomini dopo il diluvio universale. Il telefono di Davide iniziò a suonare, sul display apparve l’identificativo del chiamante, lo prese in mano e schiacciò il tasto per avviare la conversazione. «Buon giorno Luca. Dammi buone notizie, per favore.» «Mi dispiace ma non lo sono. Buon giorno ragazzi.» la voce proveniva dai diffusori dell’autoradio. «Buon giorno anche a te.» rispose Veronica «Ti ascoltiamo.» «Ho parlato... No, per la precisione, ho cercato di farmi capire da un capo della polizia albanese che dovrebbe essere nella vostra zona e senza prove concrete non si muovono, sembra che “La mano del padre” sia un’organizzazione molto influente temuta dai politici e il tizio con cui ho discusso non vuole rischiare la poltrona.» «Di prove te ne posso dare quante ne vuoi.» asserì Mirko «Ti sto per inviare una e-mail contenente un link al mio server. Troverai dei filmati, delle immagini prelevate da un computer che era nella struttura e un filmato preso dal sistema di
sorveglianza del quarto piano.» l’hacker compose il messaggio e lo inviò. «Va bene, grazie. Gli darò un’occhiata e spedirò a quel tizio ciò che riterrò utile. Vi avverto che la procedura sarà lunga e, a meno che le prove di cui parlate non siano schiaccianti, non posso garantirvi un aiuto immediato.» «Purtroppo non possiamo aspettare, stiamo seguendo il fuggitivo e, per ora, sembra fermo nelle vicinanze del confine con la Serbia. L’autonomia del cellulare che stiamo tracciando è di appena tre giorni e ne sono ati quasi due. Se dovessimo perdere il segnale non li troveremmo più.» «Ho capito, cercherò di fare pressione usando il materiale che mi avete dato. State attenti, siete ricercati e vi stanno facendo are per tre rapinatori che hanno fatto una strage. Ah, un’ultima cosa, per ora qui da me non sa niente nessuno ma non posso tacere ancora per molto tempo.» «Ok, ho capito.» rispose Veronica. «Tenetemi aggiornato. Buona fortuna ragazzi.» «Credo che ne avremo bisogno. Grazie per quello che stai facendo.» Davide chiuse la comunicazione «Bene signori, siamo ufficialmente soli.» «Il problema vero è che non sappiamo cosa troveremo.» la poliziotta si avvicinò ai sedili anteriori. «Sempre che troviamo qualcosa.» fece eco Mirko. «Preferisco fasciarmi la testa dopo essermela rotta, quindi aspettiamo di arrivare e poi tireremo le somme. Anzi, direi di trovare qualcosa da mangiare perché siamo partiti senza pensarci.» «Ci penso io.» le dita dell’informatico correvano veloci sulla tastiera «Tra dieci chilometri eremo in un paesino dove ci sono due bar e una pizzeria. Dobbiamo solo scegliere.» Pochi minuti più tardi si fermarono per prendere il cibo e mangiarono dei panini mentre continuavano il viaggio per perdere il minor tempo possibile, il cielo si manteneva nuvoloso ma non pioveva e le strade si stavano asciugando.
L’indicatore rosso era sempre nello stesso punto, la distanza da colmare diminuiva costantemente ma sembrava che non riuscissero mai ad arrivare alla fine del cammino. Erano già ate quasi tre ore, il navigatore segnalava un’ora all’arrivo e i tre compagni avevano la nausea dei campi, cascine, odore di concime e animali vaganti. Da qualche chilometro la strada si inerpicava su una specie di montagna, erano impegnati nell’affrontare un tornante quando Mirko, guardando verso il basso, notò una vettura affrontare un curvone a velocità sostenuta, tanto che quasi sembrava volersi schiantare contro il muro di pietre al lato della strada. «Ehi, c’è un pazzo poco più in basso che sta venendo su come un missile.» «Quello ci segue da un pezzo.» Davide pronunciò la frase come se non fosse importante «Non vi ho detto niente perché si è sempre tenuto molto distante, me ne sono accorto quando ci siamo fermati a prendere i panini.» «Secondo te è uno di loro?» Veronica stava guardando la strada dal lunotto posteriore. «Può darsi, ma se voleva farci fuori non ci avrebbe seguito. Quindi potrebbe anche essere un terzo incomodo.» «Ora che si fa?» anche Mirko si era girato verso il fondo della macchina per guardare la strada. «Aspettiamo, credo che ce lo porteremo dietro fino a destinazione. Il suo comportamento mi fa pensare che voglia scoprire chi siamo e dove stiamo andando.» Davide iniziò un altro tornante. «Mi tocca deluderti, sta guadagnando terreno.» l’hacker era tornato a guardare verso il basso dal suo finestrino. «Veronica, tienilo d’occhio tu. Io devo pensare a questi tornanti, avvertimi solo se vedi spuntare armi.» «Sarà fatto.» la donna si mise in ginocchio sul sedile posteriore e appoggiò i gomiti sullo schienale per mettersi comoda. Marchi mantenne la stessa andatura per ingannare il loro inseguitore, all’ultimo tornante la sagoma della vettura verde pastello si materializzò una cinquantina di
metri più indietro, aveva fatto una curva facendo stridere le gomme, sembrava che il cacciatore avesse deciso di presentarsi. La distanza si ridusse ancora e Davide non accennava ad aumentare la velocità. «Ehi, ma vuoi farci prendere?» Mirko guardò in faccia l’investigatore. «Secondo te perché non ci spara addosso?» Marchi attendeva una risposta dall’informatico che fu anticipata da Veronica. «Perché conosciamo chi ci sta inseguendo. Ragazzi è Erina.» «Chi è?» Mirko non riusciva a vedere l’inseguitore. «E’ la ragazza del secondo piano, quella che piangeva disperata e che si è quasi fatta ammazzare da Dejk.» «E che diavolo ci fa qui?» «Chiediamolo direttamente a lei, sta lampeggiando con i fari.» l’investigatore si fermò sul lato destro della strada sfruttando una rientranza che poteva ospitare un tir, la piccola Wolkswagen Lupo color verde pastello si fermò poco più avanti. «Restate dentro, è meglio che scenda solo io.» Davide uscì dall’abitacolo e si fermò sfruttando la copertura offerta dallo sportello, tolse la sicura dalla pistola e attese che la nuova arrivata fe la sua prima mossa. Occhi di cenere uscì dal suo mezzo mostrando tutta la bellezza del suo corpo longilineo rinchiuso tailleur grigio scuro, i capelli rossi erano raccolti in una coda riccioluta e si vedeva il leggero rigonfiamento di una fondina sul lato sinistro della giacca. La donna osservò l’uomo fermo dietro la portiera dell’auto nera, capì subito che era sulla difensiva e decise di sollevare le mani mostrandole vuote. Marchi chiuse lo sportello e s’incamminò in direzione della ragazza che abbassò le mani. «Chi sei?» L’altra rispose chiedendo se poteva parlare inglese. «Si va bene.» rispose Marchi «Chi sei?»
«Mi chiamo Erina, sono della polizia. Lascia che ti mostri i miei documenti.» la ragazza attese una conferma dal suo interlocutore. «Ok, ma non fare sciocchezze, sono armato.» La poliziotta infilò la mano destra in una tasca e ne estrasse il portafogli che aprì per mostrare il suo documento di riconoscimento. Marchi si avvicinò e strinse la mano di Erina. «Piacere di conoscerti, ma mi devi spiegare cosa facevi in quel palazzo. A questo punto credo che le lacrime da coccodrillo fossero solo una scenetta per trarci in inganno.» Davide stava rispolverando con un po’ fatica il suo inglese, ma l’altra sembrava capirlo alla perfezione. «Ero in missione sotto copertura, stavo indagando sui rapporti della società “La mano del padre” con la politica. Quell’organizzazione è diventata molto influente e i miei superiori temono che corrompa alcuni politici per aggiudicarsi dei benefici.» «La nostra storia è più complicata, una ragazzina è stata rapita da un uomo albanese, che era in contatto con un assicuratore sotto indagine e che poi è stato ucciso. Io e i miei amici siamo riusciti a legare il nostro uomo alla società di adozioni e stavamo cercando di capirci di più facendo finta di voler adottare un bambino. Solo che uno di noi si è fatto scoprire e, beh, il resto lo conosci già. Ah, non mi sono presentato. Mi chiamo Davide Marchi e sono un investigatore privato.» fece cenno a Erina di seguirlo. Si avvicinarono alla vettura nera e ne scesero una donna e un uomo. «Questi due sono Veronica Mancini, commissario e criminologa, e Mirko Fasani, hacker esperto in sicurezza informatica.» Veronica e Mirko strinsero la mano di Erina e l’hacker si beccò un calcio in uno stinco. «Un altro poliziotto, dall’Italia, sta cercando di convincere un commissario della vostra polizia a darci una mano ma questo si rifiuta, vuole prove certe prima di avviare le indagini contro la società di adozioni. Non mi ha avvisato di essere riuscito nell’impresa e quindi deduco che tu sia qui per altri motivi.» «Sì, è vero. Dopo la sparatoria sono uscita da una porta secondaria senza che mi notassero e ho preso la targa della vostra macchina, ho visto anche i due che vi
hanno sparato addosso mentre uscivate dal piazzale. Ho preso la mia auto, ho atteso che i due tizi della sicurezza rientrassero nello stabile e vi ho seguito fino al vostro albergo. Mi sono presentata all’accettazione clienti e ho chiesto di vedere le copie dei vostri documenti. Poi sono tornata in caserma e ho chiamato la società di noleggio, mi sono fatta dare il nome del cliente che aveva preso l’auto e coincideva con una delle tre persone che alloggiavano nell’hotel. Sono tornata questa mattina e mi sono messa in attesa dei vostri movimenti. Sto cercando di capire come agisca quell’organizzazione da un anno senza arrivare a niente di certo, poi spuntate voi dal nulla, fate una strage e ora state viaggiando con estrema sicurezza in zone che non potete conoscere.» «Stiamo seguendo il segnale del mio cellulare che sono riuscito a dare alla ragazzina tenuta in ostaggio quando mi hanno beccato a origliare. Il resto della storia lo hai visto anche tu, credo.» Mirko cercò di non guardare troppo la ragazza per evitare un altro calcio. Con il tempo si era dimenticato dell’estrema gelosia di Veronica nei suoi confronti. «Credo che sia meglio proseguire con la mia auto, sempre che mi vogliate con voi, perché la vostra è troppo vistosa.» «Si hai ragione. Ragazzi voi che dite?» Marchi fissò i suoi compagni. «Per me va bene.» Veronica sorrise alla nuova arrivata. «Anche per me.» Mirko iniziò a prendere le sue cose. Dopo aver trasferito il necessario nel baule della Lupo verde, Davide spostò l’auto presa a noleggio per cercare renderla meno visibile a eventuali inseguitori e occupò il posto accanto a Erina, Mirko e Veronica si erano seduti dietro. I minuti di sosta non avevano cambiato di molto le cose, il pallino rosso era sempre al suo posto e restava ancora un’ora di viaggio prima di scoprire la verità. Erina, ora, guidava in modo meno nervoso e si capiva che la zona le era familiare, mentre la distanza dall’obiettivo si riduceva le pause silenziose tra un discorso e un altro aumentavano. Alla fine nessuno parlò più. L’ultima ora di viaggio ò nell’assoluto silenzio, i quattro decisero di fermarsi un chilometro prima del punto di arrivo e proseguirono a piedi. Si mossero con
cautela lungo la stradina sterrata finché trovarono molte auto ferme sul ciglio della via. Ne contarono dieci, si acquattarono dietro uno dei veicoli nascondendosi da eventuali anti e osservarono la struttura che si ergeva a qualche centinaio di metri da loro. «Bene, sembra che ci sia una festa.» Erina fissò Davide in modo strano. «Ah, scusa ho usato l’italiano.» guardò la donna sorridendo «Facendo i conti sono almeno in dieci. Restate qui, vado a fare qualche fotografia.» l’investigatore prese la sua macchina fotografica e si avvicinò a quello che risultò essere un vecchio casolare agricolo. Scattò diverse foto con il teleobiettivo, si concentrò sulle finestre, le porte e qualsiasi aggio utile da ricordare nel caso fossero stati costretti a entrare nell’edificio. L’area non era delimitata da alcuna recinzione, lui poteva vedere solo la parte anteriore della cascina e constatò che l’unico ingresso carrabile era fornito dalla strada che avevano percorso. Nei pressi del casolare non c’era anima viva. La cascina era pericolante, almeno così sembrava osservando il primo piano dove il tetto era sfondato in alcuni punti. Il piano terra sembrava tenuto meglio, mancavano le finestre e l’intonaco esterno aveva ceduto formano grandi macchie che lasciavano intravedere il rosso dei mattoni. La struttura era molto lunga, Marchi la catalogò tra i quindici e i venti metri e poco distante si ergeva a fatica un vecchio fienile che sembrava volesse collassare su se stesso da un momento all’altro. Davide tornò al suo posto e decise che era meglio lasciare un ricordino ai proprietari dei veicoli, così si misero sgonfiare due delle quattro ruote di ogni mezzo. «Dobbiamo spostarci, voglio vedere anche gli altri lati di quel rudere.» Davide fece cenno agli altri di seguirlo. I quattro si avventurarono in mezzo ai campi ancora brulli e aggirarono la struttura dal lato destro. Sfruttarono un grosso cespuglio per fare un sosta e restare coperti alla vista, l’investigatore scattò ancora delle fotografie e segnalò agli altri che potevano muoversi nuovamente. Continuando a mantenersi distanti
dalla cascina si ritrovarono al lato opposto a quello di partenza, videro l’aia con un furgone parcheggiato e un uomo che stava appoggiato al tronco di un albero distante pochi metri dal mezzo. Notarono anche un carro armato ridotto a uno scheletro in una posizione che Davide trovò strategica per tenere sotto controllo il casolare. Il gruppetto raggiunse il residuato bellico muovendosi a carponi mentre il sole iniziava a scendere verso la linea dell’orizzonte per lasciare il o alla notte. «Fermiamoci qui e teniamo sotto controllo la situazione, dobbiamo capire quanti sono prima che arrivi il buio.» Davide scattò altre foto alla struttura. «I miei colleghi potrebbero essere qui in fretta nel caso ci serva una mano.» Erina stava trafficando col telefono cellulare. «In quanto tempo possono arrivare se ne avessimo bisogno?» «Un’ora, al massimo due.» «Bene direi che possiamo riposarci un po’, io devo informare Luca della situazione e questo è il posto meno in vista dove possiamo stare.» Davide prese il cellulare e compose il numero del suo amico. Ognuno cercò di mettersi nella posizione più comoda possibile nel tentativo di rilassarsi.
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La latrina in cui era costretta a stare puzzava di urina e feci, l’odore era così intenso da provocarle dei conati di vomito se inspirava profondamente e c’erano escrementi ovunque. Lei era arrivata la sera precedente e aveva trovato altri cinque uomini con altrettanti bambini ad attenderla, aveva perso il senso del tempo ma gli ultimi reclusi dovevano essere giunti lì in tarda mattinata o nel primo pomeriggio. I suoi occhi si erano abituati al buio, aveva riconosciuto quattro femmine e sei maschi, tutti tra i sette e gli undici anni. Nessuno di loro parlava italiano e tutti provenivano da nazioni diverse tra loro. Provò a mettersi in piedi, le mani legate non l’aiutavano, le faceva male il sedere, barcollava perché non mangiava dalla sera prima e non aveva dormito per tutta la notte. Nessuno era riuscito a dormire. Nell’aria risuonavano solo lamenti, singhiozzi e pianti. Si avvicinò all’unica porta presente nel locale, appoggiò l’orecchio destro sul legno e tentò di captare qualche suono senza successo. Era come se li avessero rinchiusi e dimenticati lì, nessuno veniva a controllare o portare qualcosa da mettere sotto i denti per placare i dolori allo stomaco e in più aveva una sete tremenda. Ritornò nel suo angolino ando accanto a una bambina bionda che aveva la testa tra le ginocchia. Fece i conti e in un paio di giorni avrebbe sofferto del fastidio che hanno mensilmente tutte le donne e non aveva niente dell’occorrente per sopperire al problema. Quando le era successo la prima volta si spaventò molto, poi sua madre le aveva spiegato il motivo del sangue e che avrebbe dovuto conviverci per buona parte della sua vita ma che era necessario per regalare alla donna le emozioni legate alla maternità. Si rannicchiò unendo le ginocchia cingendole con le braccia, vi appoggiò il mento e fissò il vuoto nero pensando al fatto che tutti dovremmo avere un angelo custode.
Almeno così le avevano raccontato. Il suo, allora, doveva averla abbandonata, perché, altrimenti, non avrebbe permesso che le succedesse una cosa del genere. A meno che non fosse quel tizio comparso dal nulla e che le aveva dato il telefono ora nascosto nell’auto del suo carceriere. Ma a che scopo l’aveva ricevuto se non funzionava? L’unica raccomandazione che le era stata impartita fu di non portare il dispositivo in un luogo chiuso e lei aveva pensato bene di lasciarlo nell’auto. L’altra cosa strana era che il tizio l’aveva chiamata per nome e il suo viso, per certi versi, le era familiare. E soprattutto era italiano. La bambina bionda poco distante si mise a piangere mugugnando delle frasi in una lingua incomprensibile, forse in tedesco, così Erika abbandonò il suo angolo per andare a consolare un po’ la ragazzina. In quell’istante la porta in fondo alla sala si aprì e un uomo massiccio entrò seguito da altri due scagnozzi, radunarono tutti i presenti offrendo una bottiglietta d’acqua e un tozzo di pane a ciascuno. Erika osservò che la luce filtrante da alcuni fori nei muri perimetrali era diventata molto tenue ed era segno che si stava avvicinando la notte. I tre energumeni uscirono dal locale chiudendo nuovamente la porta a chiave incuranti di aver dovuto usare più forza del solito, ma qualcuno, però, quel dettaglio lo aveva notato. Tutti i carcerati finirono con ingordigia quel pezzo di pane e ingollarono l’acqua fino all’ultima goccia, Erika aveva ancora sete ma era più sopportabile e lo stomaco aveva smesso di brontolare. Ogni volta che faceva due i doveva schivare gli escrementi, anche lei ne aveva lasciato uno in un angolo, la vergogna che provava era indescrivibile e la sensazione di essere trattata come un animale le stava segnando l’anima. Da quando era in quel posto aveva desiderato la morte già due volte e nel contempo aveva chiesto perdono ai suoi genitori per quei brutti pensieri. E Dio? Dov’era Dio?
Possibile che non vedesse nulla? Perché non interveniva in qualche modo? Mentre il suo cervello elaborava ipotesi e formulava domande senza risposta, la stanchezza prese il sopravvento e gli occhi di Erika si chio donando alla ragazzina un po’ di pace interiore. Ma fu un sonno senza sogni.
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Quando i tre uomini chio la porta non si accorsero del sasso che si era incastrato tra il battente e lo stipite, così avevano pensato di aver serrato tutto correttamente. Il giovane maschio belga, vicino alla porta, notò l’evento e vide muoversi quel piccolo blocchetto biancastro verso l’uscita. Andò a tastare la porta e si accorse che era leggermente socchiusa, provò a tirare la maniglia verso di se ma non aveva la forza necessaria per far girare il battente sui cardini e con le mani legate era tutto più difficile. Si guardò intorno ma la luminosità nella stanza era scesa molto nell’ultimo periodo e non riusciva a distinguere più neanche le sagome dei suoi compagni di prigionia. Era impossibile trovare qualsiasi cosa per fare leva, eppure doveva provare a uscire di lì e a portare fuori tutti gli altri. In fondo nei cartoni animati funzionava sempre. Non sapeva quanto tempo fosse ato dai primi tentativi di aprire la porta ma era troppo debole per riuscire a sbloccarla e gli altri che erano con lui sembravano ignorare la sua esistenza. Così decise di rinunciare e di mettersi seduto con la schiena contro il muro per provare a dormire un po’. Pensava continuamente alla sua casa in un paesino del Belgio, ai genitori e ai compagni di scuola che forse non avrebbe più rivisto. Era pieno di ferite come tutti gli altri, lo avevano preso a calci e a pugni perché non voleva farsi fotografare poi era stato costretto a togliersi i vestiti e mettersi in posizioni strane. Infine era stato portato via da quel posto con le pareti tutte azzurre e ora si trovava rinchiuso al buio trattato come un animale. Gabriel voleva tornare a casa sua, doveva riuscire a scappare da lì e avvisare qualcuno. ò ancora del tempo a rimuginare sulla fuga e su come aprire quella porta quando sentì qualcuno armeggiare con la serratura, il battente si spalancò e spuntò uno di quei mostri con in mano una torcia. Stava cercando qualcuno e non si era accorto di lui, vide l’uomo allontanarsi puntando il fascio di luce un po’ a destra e un po’ a sinistra. La via verso la libertà era spalancata e Gabriel non ci pensò due volte, si alzò, varcò la soglia e corse via nell’oscurità. Si ritrovò immediatamente all’aperto, vide un angolo buio e vi si nascose in attesa che
l’essere malvagio uscisse col la sua preda e si allontanasse da lì. Pochi secondi dopo vide l’uomo are tirandosi appresso la ragazza dai capelli neri e lunghi, quella più grande di tutti che aveva la faccia gonfia per le botte. I due entrarono nella casa poco distante e chio la porta, lì fuori sembrava non esserci nessuno e, Gabriel, decise che poteva muoversi. Guardò il cielo e non ci trovò nemmeno una stella, doveva essere nuvoloso, ma non se ne curò più di tanto e cominciò a vagare intorno alla struttura in cerca di una strada o qualcosa di simile da poter seguire e alla fine la vide poco distante. Stava studiando come arrivarci senza farsi vedere ma era impossibile, non c’erano cespugli da usare come nascondigli, quindi decise che avrebbe corso il più velocemente possibile verso la libertà. Indugiò ancora un po’ di tempo, aveva paura perché lì fuori sarebbe stato solo in un paese che non conosceva, ma alla fine aveva vinto il suo cuore che chiedeva di tornare a casa. Iniziò a muovere i primi i sempre più svelti quando sentì delle grida e dei rumori, si voltò e vide numerose luci muoversi all’impazzata in ogni direzione. Era stato scoperto. La paura prese il sopravvento e Gabriel si mise a correre nella direzione dove pensava ci fossero dei campi o dei cespugli, si dimenticò completamente della strada che, invece, poteva essere la sua salvezza. Si nascose nell’ombra disteso tra l’erba alta convinto di poter sfuggire ai cercatori. Il tempo scorreva lentamente e l’incubo sembrava non finire mai, non sapeva quanti minuti erano ati e si chiese per quanto tempo ancora sarebbe dovuto restare nascosto lì prima di poter fuggire, improvvisamente un fascio di luce lo accecò. Era stato trovato. L’energumeno lo obbligò ad alzarsi strattonandolo e facendolo cadere un paio di volte, Gabriel seguì l’uomo fino a una grossa sagoma che non sapeva identificare. L’animale lo spintonò fino a farlo cadere in ginocchio a pochi centimetri dai piedi del sovrano dei malvagi e pensò che si sarebbe beccato un calcio, invece quello gli fece segno di alzarsi tagliando la cordicella che gli stringeva i polsi. Il capo ordinò qualcosa di incomprensibile a uno degli altri cattivi che dopo un po’ tornò con cinque dei suoi compagni di prigionia. Il re dei malvagi guardò i bambini e poi lui facendogli segno con la testa che doveva andarsene. Gabriel fu sorpreso e iniziò a muoversi con i incerti e lenti allontanandosi dall’uomo, arono i secondi e non successe nulla mentre la distanza aumentava, così il ragazzino trovò il coraggio e iniziò a correre verso
quella che pensava fosse la libertà. Pochi i dopo quell’illusione finì.
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2 Maggio 2009
Davide e i compagni avevano trascorso le ultime quattro ore nascosti nell’ombra a discutere sul da farsi osservando continuamente il casolare. Marchi aveva chiamato Luca per aggiornarlo sulla situazione e l’altro gli raccomandò di non fare l’eroe e di ricordarsi di avere una moglie che lo attendeva a casa. Erina aveva ragguagliato la propria squadra sugli ultimi eventi e ottenne la conferma che i suoi commilitoni erano pronti a mettersi in moto alla prima richiesta di aiuto, ma solo se lei poteva fornire delle prove certe e schiaccianti, altrimenti poteva considerarsi sola. Veronica e Mirko, invece, avevano deciso di are un po’ di tempo abbracciati ascoltando gli altri due che discutevano sulla condotta dei colleghi di Erina. Alla fine dei ragionamenti avevano convenuto che era meglio restare a guardare perché i malviventi con le gomme sgonfie non sarebbero andati lontano e avevano bisogno di prove per sperare nell’intervento della polizia albanese. Da qualche minuto era ata la mezzanotte e l’apparente tranquillità fu rotta da una specie di caccia all’uomo scatenata da alcune persone. I quattro fantasmi osservarono le luci delle torce impazzire in ogni direzione finché, dopo alcuni minuti, la caccia terminò. Ciò che avvenne successivamente fu sconvolgente. Videro delle sagome avvicinarsi alla loro posizione, stavano mettendo in conto di dover are all’attacco e farsi scoprire quando i nuovi arrivati si fermarono poco distante dal residuato bellico incuranti di essere osservati. Davide ne contò quattro, uno lo identificò come il capo, insieme ad una persona più minuta, sicuramente un bambino, che fu buttata in terra e costretta a inginocchiarsi. Pochi secondi dopo arrivò un’altra persona con alcuni bambini. Dalla loro posizione, i quattro fantasmi, videro il minore alzarsi e iniziare a camminare allontanandosi dai cinque adulti e dai suoi simili.
Il o incerto si trasformò in una corsa. Osservarono la scena come si guarda un film alla televisione, spettatori ivi senza alcun potere di manipolazione del risultato deciso dal regista, un lampo illuminò brevemente il volto del comandante e il suono attutito del silenziatore rivelò la verità. Il fuggiasco barcollò e finì a terra in una posizione indefinibile. In quell’istante una colonna di luce riuscì a filtrare tra le nuvole scendendo a toccare il corpo, la scena assunse un che di mistico e i presenti pensarono di veder librare verso il cielo l’anima del piccolo. Davide notò un movimento alla sua destra, era Mirko che stava abbracciando Veronica, Erina era come ipnotizzata e fissava la scena incurante di ciò che stava accadendole intorno. L’investigatore le diede un colpetto sulla spalla fissandola negli occhi. «Ora, costringi i tuoi colleghi a venire qui. Quel corpo è una prova più che sufficiente.» La donna prese il telefono e compose un numero che conosceva a memoria mentre il gruppo di spettatori e l’assassino si allontanarono ritornando verso il casolare. «Non possiamo aspettare più, dobbiamo intervenire in qualche modo.» Davide guardò gli altri. «E come? Sono il triplo di noi.» osservò Mirko. «Questo lo vedremo dopo, adesso ci dobbiamo organizzare. Abbiamo tre radio, quindi due di noi devono restare insieme e stavo pensando a Mirko ed Erina. Resterete qui in attesa dei rinforzi e sarete anche i nostri occhi. Io e Veronica cercheremo avvicinarci per valutare la situazione e scoprire quanti uomini sono. Poi faremo il punto della situazione. Che ne dite?» «Va bene.» disse Veronica «Vado a vedere il corpo.» Marchi ò dietro i compagni e coprì la distanza che lo separava dal bambino procedendo accovacciato. Complice la notte e l’abbigliamento scuro sparì alla vista degli altri tre. Si avvicinò al piccolo, accese una piccola torcia e si accorse che il torace si alzava e abbassava. Il minore era ancora vivo, respirava a fatica e perdeva sangue da un punto non definito della
schiena. Davide cercò di girare il corpo per spostarlo e ci riuscì, prese il bambino in braccio e, mettendosi in posizione eretta, tornò a o veloce dietro il carro armato. Appoggiò il piccolo delicatamente a terra mettendolo su un fianco, doveva tamponare la ferita. «Erina, che cosa dicono i tuoi compagni?» L’investigatore si tolse la maglia di cotone e l’appoggiò sulla ferita cominciando a fare pressione. «Li ho convinti a raggiungerci.» «Richiamali, dì loro che serve un’ambulanza ma devono arrivare con le sirene spente.» L’investigatore si fece dare il cambio da Veronica. «Sta perdendo molto sangue, non ce la farà mai.» la donna italiana stava singhiozzando. «Ehi, abbiamo visite.» Davide fece un cenno agli altri per farli guardare oltre il veicolo militare. La luce della luna piena iniziava a filtrare dalle nuvole sempre meno consistenti rischiarando la campagna. Una sagoma scura si stava avvicinando a loro, il tizio basso e tarchiato dall’abbigliamento indefinibile si fermò nel punto dove si aspettava di trovare il corpo del bambino e rimase interdetto. Istintivamente si grattò la testa come a voler seguire un ragionamento che non tornava, si girò verso il casolare e s’incamminò per tornare indietro. Il fantasma uscì dall’oscurità e colpì l’uomo alla schiena con un calcio facendolo cadere faccia avanti, si gettò sul corpo in una morsa al collo che non lasciò scampo alcuno. L’essere si dimenò per alcuni secondi e poi perse i sensi. Davide trascinò l’uomo dietro il veicolo, ora doveva trovare qualcosa per legarlo. «Mi tocca usare il vecchio e collaudato sistema» L’investigatore tolse le stringhe alle scarpe del malvivente e le usò per legargli le mani e le caviglie. «Veronica, andiamo. Se questo tizio fiata dategli una botta in testa.» indicò il corpo. Marchi e la poliziotta si avviarono verso il casolare procedendo accovacciati
sulle ginocchia per tentare di essere meno visibili. Uscirono dal lato sinistro del carro armato, decisero di fare un percorso più lungo per sfruttare altri nascondigli naturali. Raggiunsero un cespuglio che poteva nascondere entrambi e fecero tappa per controllare la situazione. «Marchi a carro. Controllo situazione, o.» «Qui carro» la voce di Erina era suadente «niente da segnalare.» Veronica e l’investigatore abbandonarono la posizione e proseguirono in direzione di un grande albero osservando che il casolare aveva il pianterreno completamente illuminato, segno che doveva esserci un generatore di corrente elettrica da qualche parte. Davide decise che doveva spegnere quelle luci. L’auricolare di Marchi gracchiò «Carro a squadra avete visite alla vostra destra, o.» Davide fece cenno alla poliziotta di rispondere e si allontanò dall’albero. «Ricevuto.» rispose con lo sguardo fisso sulla nuova sagoma scura in movimento. Il nuovo arrivato raggiunse il furgone parcheggiato nell’aia, aprì il portellone e iniziò ad ammucchiare qualcosa di indefinibile nel vano di carico. Marchi strisciò nell’erba alta fino a ridurre la distanza, tra sé e il mezzo, a meno di cinque metri. Pochi secondi dopo si ritrovò Veronica accanto. «Resta in copertura, apri il fuoco solo se è veramente necessario.» «Ok, va bene.» La donna estrasse la sua arma e puntò gli occhi sull’investigatore che nel frattempo aveva ripreso a muoversi. La zona dove sostava il furgone era illuminata da un paio di lampade alogene montate su trespoli di metallo. Non sarebbe riuscito ad avvicinarsi senza farsi vedere. Doveva escogitare un diversivo. Notò una carriola poco distante e gli venne in mente come poteva usarla, si avvicinò all’attrezzo da lavoro e lo ribaltò. Il tonfo incuriosì il tizio dietro il
furgone che abbandonò l’area illuminata per andare a verificare l’accaduto. Arrivò davanti alla carriola e la rimise in piedi imprecando perché il contenuto era sparso per terra, in quell’istante una forbice sembrò tagliargli le gambe e finì in terra. La sforbiciata messa in atto da Davide appena sotto le ginocchia del tizio sortì l’effetto desiderato e quello cadde in avanti, l’investigatore si avventò sulla sagoma e colpì l’uomo in piena faccia con un pugno alla quale impresse una violenza tale che sentì schioccare qualcosa. Il nemico perse i sensi immediatamente e Marchi ò oltre, si avvicinò a una delle due luci e con un pezzo di legno che aveva preso dalla carriola spaccò il vetro di protezione insieme alla lampadina. Fece la stessa cosa con la seconda alogena e pose l’oscurità intorno al mezzo. Decise di rendere inutilizzabile anche quel veicolo sgonfiandone le gomme, poi si mise a seguire il cavo elettrico delle lampade sperando di arrivare al generatore di corrente. «Davide a Veronica, o.» «Qui Veronica, o.» «Spostati davanti al furgone e aspettami lì, forse trovo il generatore di corrente. Sto seguendo uno dei cavi delle lampade che ho rotto, o.» «Ricevuto, chiudo.» Veronica iniziò a spostarsi verso il veicolo. L’investigatore continuò a seguire il cavo elettrico che puntava in direzione del fienile e, arrivato a pochi metri dalla struttura, si accorse che c’erano due uomini appoggiati al muro che parlavano e sghignazzavano. Si sdraiò a terra, i due non si erano accorti della sua presenza ma affrontarli insieme equivaleva a farsi ammazzare e quindi decise di aggirare l’ostacolo. Iniziò a strisciare in senso contrario per tornare indietro quando sentì imprecare in lingua albanese, si voltò e vide uno dei due malviventi che gli veniva incontro a o veloce. Aveva notato le due lampade spente e stava andando a controllare. Pochi secondi ancora e Marchi sarebbe stato scoperto. Doveva inventarsi qualcosa. E in fretta.
La distanza che separava Davide dalla possibile salvezza diminuiva a una velocità nettamente inferiore rispetto a quella macinata dall’albanese e dovette arrendersi alla realtà, non ce l’avrebbe fatta. Il tizio arrivò e vide in terra una massa allungata che identificò in un essere umano. Provò a dare un calcio alla forma di vita ma questa non reagì, allora decise di girare quel corpo per vederne la faccia. Si chinò e tirò un lato dell’uomo per farlo ruotare sul fianco, riuscì nell’intento e si mise a fissare il corpo immobile notando che non respirava. Sembrava morto. Il cadavere aprì gli occhi e le sue braccia afferrarono il nemico per il collo usando un laccio. La morsa fu potente e il vivo, pochi secondi dopo l’attacco, cessò di respirare e si accasciò esanime accanto al fantasma. Davide ritornò a strisciare verso il furgone, doveva arrivare al nascondiglio prima che il secondo uomo si insospettisse del ritardo del compare e si muovesse per controllare la situazione. Raggiunse lo spiazzo, doveva procurarsi un’arma che non fe troppo rumore e pensò di recuperare una delle piantane delle luci. Ribaltò uno dei due trespoli appoggiandolo in terra senza fare rumore, appoggiò il piede sinistro sul o che legava la lampada al bastone e, con un colpo secco, strappò l’alogena dal suo alloggiamento. Lo stativo era composto di due parti che servivano a variarne la lunghezza, riuscì a smontare la parte più sottile superiore e decise di usarla come bastone. Sembrava abbastanza resistente. Sgattaiolò dietro il veicolo dove ritrovò Veronica e si mise in attesa. arono diversi minuti prima che il secondo uomo decise di muoversi, Veronica e Davide spiavano il tizio dai finestrini laterali del mezzo attendendo la reazione alla scoperta del corpo senza vita del suo compare e l’effetto non tardò ad arrivare. Quello arrivò a ridosso della massa umana, si accorse che era il suo compagno e ne verificò la morte. Estrasse da sotto il giubbotto un oggetto che era sicuramente un’arma e la puntò davanti a sé continuando ad avanzare lentamente osservando in tutte le direzioni possibili. Sembrava non esserci nessuno. L’uomo proseguì il suo cammino in direzione dello spiazzo oscurato, il o era lento e guardingo. Aveva deciso di non tornare al casolare a chiedere aiuto. Arrivò allo spiazzo e trovò le lampade divelte, poco distante notò un’altra massa e avvicinandosi si accorse che era un altro compagno, anche questo era privo di
sensi e con la faccia inondata di sangue. Qualcosa non quadrava, rivalutò la situazione e decise che era più saggio tornare a chiedere rinforzi e, arma alla mano, diede le spalle al veicolo fermo muovendo il primo o di quella che doveva diventare una corsa. Nei secondi successivi alla scoperta dell’altro corpo Davide era uscito dal nascondiglio e si era portato a pochi metri dal nuovo nemico. Quando questo si voltò per tornare al casolare, l’investigatore spiccò un balzo e brandendo il bastone improvvisato assestò due colpi all’uomo, uno alla testa e l’altro, come se avesse in mano un fioretto, all’altezza del collo. Il risultato fu la testa fratturata e uno squarcio all’altezza della gola, l’uomo cadde in ginocchio e si ribaltò sul fianco destro. Qualcosa attirò l’attenzione di Veronica, nonostante la scarsa visibilità aveva notato un movimento al limite del suo campo visivo e voltandosi si rese conto della situazione. Un terzo uomo era spuntato dal nulla e stava puntando diritto verso l’investigatore, notò chiaramente il momento in cui estrasse l’arma e si ricordò della parte rimasta del o della luce. Afferrò il bastone sollevandolo sopra la sua testa, saltò fuori dal nascondiglio e colpì la sagoma scura con tutta la forza che aveva in corpo. Lo scontro produsse un tonfo sordo, Davide si voltò nella direzione del suono e vide un’ombra scura cadere al suolo. Scavalcò il corpo e si avvicinò a Veronica. «Grazie, con questa sono due. Ora voglio capire perché non siamo stati avvisati.» schiacciò il pulsante per comunicare presente vicino al laringofono «Marchi a carro, o.» Nessuna risposta. «Marchi a carro, o.» Niente, non potevano essere fuori campo. Era successo qualcosa di imprevedibile. Nel frattempo cinque persone uscirono dal casolare per controllare la situazione probabilmente insospettite dal mancato ritorno dei loro compagni, Davide si rese conto che doveva togliere la corrente, non c’era altra via d’uscita, per il momento, che generare un po’ di scompiglio. Corse verso una delle lampade e strattonò il cavo elettrico fino a strapparlo. Una scintilla azzurra
illuminò brevemente il suolo quando i conduttori di rame si toccarono tra loro. Il sistema funzionò alla perfezione e il generatore si spense per non danneggiarsi. Il casolare piombò nell’oscurità e Davide attorcigliò insieme i cavi strappati in modo da creare una condizione statica. Ora doveva capire cosa fosse successo ai compagni dietro il veicolo militare. Fece segno a Veronica di seguirlo nell’erba alta. Si misero entrambi a strisciare in direzione del vecchio carro arrugginito, fecero una sosta dietro un albero ma non riuscirono a vedere niente. Si mossero usando il metodo precedente e trovarono un cespuglio, da quel punto potevano tenere sotto controllo il casolare e il carro armato. Fuori dalla struttura c’era un viavai di torce elettriche che stavano tentando di ripristinare la corrente, purtroppo dalla loro posizione non erano in gradi di capire quanti individui ci fossero ancora. Questo era un problema, visto che ora erano in allarme, e il secondo dilemma era legato a Mirko ed Erina che non rispondevano alla radio. Per controllare la situazione dei compagni dovevano avvicinarsi di più, si spostarono e ridussero ulteriormente la distanza sfruttando un altro cespuglio. A quel punto fu tutto chiaro. Marchi indicò a Veronica una delle sei sagome, aveva il braccio teso ed era chiaro che stava tenendo sotto tiro qualcuno, non riusciva a capire chi fossero e soprattutto da dove fossero arrivati. Dovevano essere giunti lì dopo di loro, erano altri complici dei trafficanti di vite? Poi avvenne l’imprevisto, una delle figure si spostò e arrivò tremendamente vicino ai due fantasmi. La luce lunare svelò a Veronica che indossava un’uniforme e il collegamento con la polizia fu facile, ma non aveva senso che tenessero sotto tiro i loro amici. Davide si avvicinò al tizio in uniforme e senza tante spiegazioni gli puntò la pistola alla schiena. «Non muovere un muscolo o sei morto.» aveva pronunciato la frase in inglese e l’altro aveva dimostrato di aver capito irrigidendosi. Veronica perquisì il poliziotto albanese sottraendogli l’arma e la radio. «Voglio sapere cosa state facendo tu e i tuoi colleghi, se mi racconti balle ti sparo.» Marchi premette di più la canna della pistola sulla schiena del nemico. «Il caposquadra dice che la nostra collega è una traditrice e quello che è con lei è il suo uomo.»
«Per la donna non posso garantire ma l’altro è uno dei miei. La vostra collega ci stava seguendo, ci ha detto di essere della polizia albanese e si è offerta di darci una mano.» Davide notò ancora una volta i fasci di luce perlustrare il buio attorno al casolare. Per ora erano al sicuro. «Io non lo so, ero a casa e sono stato costretto a rientrare in caserma, non faccio nemmeno parte di questa squadra.» L’investigatore iniziò a fare dei ragionamenti sulla situazione e suppose che la squadra di Erina fosse corrotta, probabilmente avevano fatto fuori un collega che si era accorto del doppio gioco ed erano stati costretti a rimpiazzarlo col primo che aveva risposto al telefono. Ora dovevano eliminare la donna che era riuscita a scovare il nascondiglio dei trafficanti di vite e avrebbero anche eliminato l’ultimo arrivato. Sempre che questo non mentisse. «Cosa sai de “la mano del padre?”» Davide fece la domanda a bruciapelo. «So che alcuni dei miei colleghi stavano indagando su quell’organizzazione di adozioni, ma io mi occupo di droga e prostituzione. Non ho informazioni. Lo giuro. Per favore ho due figli piccoli.» Marchi si trovava al bivio, credere al poliziotto o no? I fasci di luce si stavano avvicinando e a breve i corpi disseminati nel prato sarebbero stati trovati. Doveva prendere una decisione e in fretta. «Ok, ti credo. I tuoi colleghi potrebbero essere corrotti e se ammazzano quei due dietro al carro faranno fuori anche te. Devi darci una mano.» Davide allontanò la canna della pistola dalla schiena dell’albanese. «Come faccio a essere sicuro che non siate voi il nemico?» il poliziotto albanese si girò per potersi trovare faccia a faccia col suo aggressore. «Perché, altrimenti, saresti già morto.» Veronica nel rispondere gli si parò davanti «Dobbiamo muoverci, loro sono in tre e noi anche, basta un colpo ciascuno e ce li togliamo di mezzo, ma dobbiamo fare in fretta non conosciamo le loro intenzioni e quello col braccio teso non mi piace.»
«Va bene vi aiuterò.» il poliziotto allungò il braccio tenendo il palmo della mano verso l’alto intimando la restituzione della sua arma e della radio.» Veronica riconsegnò la pistola all’albanese che, muovendosi fulmineamente, afferrò il braccio della donna tirandola se mentre le bloccò la testa con il braccio sinistro e le puntò l’arma alla testa. Davide restò sorpreso dal gesto, il suo cervello iniziò a elaborare una possibile via di fuga da quella situazione ma non trovava alcun appiglio per evitare l’uccisione della poliziotta. Era costretto ad assecondare quel tizio. «Ora comando io. Butta la pistola in mezzo a quei cespugli, muoviti e non fare scherzi altrimenti l’ammazzo. E tieni in vista le mani.» I tre si avviarono lentamente verso il carro abbandonato, l’investigatore era davanti al gruppetto con le mani in alto e l’aggressore restava coperto con Veronica in pugno. Davide continuava a ragionare sulla situazione dominando la rabbia dovuta al fatto di essersi lasciato fregare con troppa facilità e mentre camminava si guardava intorno col solo movimento degli occhi alla ricerca di possibili soluzioni e movimenti pericolosi. Si accorse che attorno al casolare era ritornata la calma, nonostante la mancanza della corrente, e che le ricerche erano cessate. La distanza dal veicolo si era ridotta in modo tale che potesse identificare le persone e definirne la posizione. Mirko era ancora seduto in terra con la schiena appoggiata al mezzo arrugginito, Erina era in piedi con il braccio teso rivolto verso le altre figure ma una di queste, in realtà, era leggermente defilata e Marchi notò che sembrava stesse tenendo un’arma puntata contro l’hacker. Davide inciampò e cadde in avanti sulle ginocchia, l’uomo che lo seguiva gli puntò l’arma addosso continuando a trattenere la donna per il collo ma la presa era meno vigorosa. «Rialzati! Forza!» Veronica aveva capito il gioco e, sfruttando l’attimo di distrazione del nemico, riuscì a svincolarsi dalla presa liberando la testa e colpendo l’uomo sul fianco sinistro con un pugno. Marchi rotolò di lato centrando la mano destra dell’aggressore con una gamba e facendogli perdere la presa sulla pistola che cadde poco distante, nel frattempo, la donna, estrasse la sua arma e sparò. Lo scoppio si propagò nell’aria circostante, Davide era disteso a terra e la
poliziotta fece immediatamente la stessa cosa. L’erba alta nascondeva parzialmente i due compagni e la scarsità di luce notturna compiva il resto del lavoro rendendoli invisibili. L’investigatore non perse tempo, puntò l’arma e sparò all’uomo che teneva sotto tiro Mirko, Veronica si occupò della sagoma che doveva corrispondere a Erina e andò a segno. I due bersagli si afflosciarono mentre gli altri uomini si gettarono in terra, Davide provò a chiamare l’hacker sperando in una risposta mentre cercava di recuperare la sua beretta. «Davide a Mirko, o.» «Mirko ci sei?» Nessuna risposta, probabilmente la radio era ancora nelle mani di Erina o forse era stata danneggiata dalla donna per tagliare le comunicazioni. Marchi si ricordò del poliziotto corrotto che era steso a terra accanto a lui e della radio che aveva in dotazione, sfilò l’apparecchio dalla custodia attaccata alla cintura del morto e schiacciò il pulsante per aprire la comunicazione. «C’è qualcuno in ascolto?» Davide parlò in inglese. «Sì, chi sei?» «Polizia italiana, non sparate. Stiamo venendo da voi. La persona seduta vicino al carro è uno dei miei colleghi. Nella cascina ci sono dei trafficanti di bambini, cinque o forse di più non siamo riusciti a contarli tutti ma ne abbiamo eliminati cinque per ora. C’è un bambino, l’avete visto?» «Il bambino purtroppo e morto, state usando la radio di un mio collega. Dov’è adesso?» «E’ ato a miglior vita, ha cercato di ucciderci. Era complice di Erina.» Davide stava strisciando con cautela verso il poliziotti, seguito da Veronica che gli fece notare che erano ricomparse le torce. «Il vero nome della donna era Mirnije e la seconda persona alla quale avete sparato era il suo complice.» l’inglese del poliziotto albanese stava migliorando. «Il terzo lo abbiamo fatto fuori noi.» nel frattempo Davide e Veronica giunsero al nascondiglio, trovarono i nuovi arrivati accovacciati e Mirko che fissava il corpo senza vita di Mirnije.
«Per quale motivo siete in Albania?» «Stiamo cercando di riportare a casa una ragazza italiana e le sue tracce ci hanno fatto arrivare all’organizzazione “La mano del padre”.» «Quindi siete voi gli autori della strage di due giorni fa nella sede della società di adozioni. Stavamo tenendo sotto controllo l’organizzazione ma non potevamo sapere che c’erano delle talpe tra noi.» «Come avete fatto ad arrivare senza che nessuno vi vedesse?» «Abbiamo lasciato l’auto in una strada parallela e siamo ati in mezzo ai campi, Mirnije mi ha comunicato la sua posizione ma non ha parlato del bambino. Sospettavo che ci fossero dei poliziotti corrotti perché le indagini proseguivano troppo lentamente, ma non avrei mai pensato che tra questi ci fosse mia nipote.» il poliziotto guardò il corpo «L’ho vista nascere, cosa dirò a mia sorella?» Grida e lamenti interruppero la discussione, provenivano da qualche parte oltre il veicolo semi distrutto ma i presenti non riuscivano a capire nemmeno una parola. I cinque videro un gruppo di sagome, alcune erano molto basse, davanti alla cascina che si muovevano in direzione del furgone. La luna piena si era fatta spazio tra le nuvole e ora rischiarava la campagna con la sua luce riflessa, adesso sarebbe stato più difficile avvicinarsi senza farsi notare. «Ma quelli sono bambini!» osservò con stupore il collega dello zio di Mirnije. «Perché non lo sapevate?» Veronica guardò i due albanesi. «L’indagine era legata alla corruzione di politici locali per ottenere facilitazioni nelle attività di adozione. Sembrava che chiedessero favori a dei politici per accelerare le pratiche adottive e far avere in meno tempo, rispetto alla normalità, i bambini ai futuri genitori.» «In realtà gestiscono parallelamente un traffico di minori che sono probabilmente destinati alla prostituzione infantile e alla pedofilia. Abbiamo raccolto molti indizi, il mio collega» Davide indicò Mirko «si è introdotto nel sistema informatico della società e ha scoperto un server pieno di materiale pedo pornografico.»
«Sono arrivati al furgone e hanno trovato i corpi dei loro compari. Ma che cosa fanno?» Veronica osservava la scena con stupore mentre Mirko si stava riprendendo dalla vista della donna morta e del sangue a terra. L’hacker si alzò e si accostò alla poliziotta italiana per guardare cosa stesse accadendo. «Stanno usando i ragazzini come scudi umani, non possiamo usare le armi.» La donna colpì con il palmo della mano la carcassa del carro armato. «Non possono andare molto lontano, il furgone ha le gomme a terra. Probabilmente ritorneranno dentro la cascina e si barricheranno all’interno con i bambini.» Davide non finì di formulare la frase che il gruppo ritornò verso il casolare, un lampo rischiarò l’aria intorno al carro e il colpo di pistola ruppe il silenzio. Lo zio di Mirnije colpì uno dei trafficanti che era rimasto staccato dal gruppo per recuperare qualcosa da terra e i cattivi risposero al fuoco colpendo la corazza del veicolo senza ferire nessuno. «Questa è stata una mossa stupida, ora sanno dove siamo.» L’investigatore costrinse il poliziotto ad abbassare l’arma «Dobbiamo trovare un modo per andarli a prendere, adesso sono solo in quattro. Le vostre radio sono dotate di auricolari? A proposito io mi chiamo Davide, non ci siamo presentati.» «Io sono Veronica» «Io mi chiamo Mirko.» «Io mi chiamo Donjet.» lo zio di Mirnije strinse la mano agli italiani. «Io sono Urim. Le nostre radio non sono dotate di auricolari.» «Le nostre si, anche se non sono professionali come le vostre possiamo usarle ugualmente. La mia idea consiste nell’avvicinarci al casolare da due lati diversi sfruttando il fuoco di copertura creato da chi resterà qui.» Marchi iniziò a spiegare il piano gesticolando come se l’aria fosse una grande lavagna «Noi siamo qui, questa è la cascina, uno erà dal lato destro e uno dal lato sinistro, chi resterà dietro al carro avrà il compito di sparare alcuni colpi per distrarre i trafficanti e portarli allo scoperto.» «Ovviamente io resterò qui.» asserì Mirko.
«Certamente e con te resteranno Veronica e Urim. Vi occuperete del fuoco di copertura. Io andrò sul lato sinistro e Donjet sul destro.» Davide indicò al poliziotto albanese di prendere la radio dal corpo della nipote, per la prima volta osservò occhi di cenere da quando erano tornati al carro e provò una grande tristezza per la donna. Rivisse le stesse sensazioni provate quando uccise il ragazzino in guerra, un ricordo che ogni tanto affiorava e faceva male, ma questa volta non aveva sparato lui. Lo toccava il fatto che Donjet aveva visto morire sua nipote da criminale e che avrebbe dovuto spiegarne a sua sorella i motivi. Verificarono che i tre dispositivi fossero impostati sulla stessa frequenza e fecero una prova di comunicazione. La radio destinata alla postazione del carro fu affidata a Mirko mentre Veronica occupò la posizione alla sua sinistra e Urim si mise a destra. Davide ebbe uno scambio di sguardi con la poliziotta e poi sparì nel buio alla sinistra del carro. Donjet andò a destra e più nessuno lo vide. Nello scambio di occhiate che Marchi ebbe con Veronica, l’investigatore sperò che fosse ato il messaggio di tenere gli occhi aperti e controllare i movimenti del poliziotto albanese. Non sapeva ancora se poteva fidarsi dei due militari rimasti, per questo motivo aveva scelto di lasciare l’italiana con Mirko e portarsi dietro Donjet. E dovette ammettere a se stesso che il coraggio mostrato dalla donna era fuori del comune. arono alcuni minuti, Davide aveva raggiunto un punto di osservazione a circa metà strada dal casolare e aveva bisogno di conoscere la posizione del poliziotto che era sul lato destro. «Davide a Donjet. Dove ti trovi ora? o.» «Qui Donjet. Sono disteso nell’erba, credo a venti metri dalla struttura, o.» «Bene, io mi trovo a metà strada circa ma dovrò aggirare il fienile. Resta in posizione finché non mi farò sentire io, o.» «Ok, chiudo.» «Davide a Carro, sparate un paio di colpi verso la casa. Vediamo se rispondono, chiudo.» In risposta alla richiesta, dal carro, partirono due colpi di arma da fuoco e subito dopo ci fu la risposta da una delle finestre del casolare. Davide memorizzò
l’apertura in questione e riprese a muoversi verso il suo obiettivo. Arrivò a pochi metri dal fienile, si nascose dietro il tronco di un grosso albero e cercò di capire se ci fosse qualcuno ad attenderlo. Rimase in attesa alcuni secondi e poi sgattaiolò fuori dal nascondiglio appiattendosi contro il muro laterale della costruzione semi diroccata. Decise di aggirare la costruzione ando davanti alla parte anteriore, quella che dava sulla strada dalla quale erano arrivati. «Davide a Donjet, o.» «Qui Donjet, o.» «Puoi muoverti, raggiungi la parte destra della casa ma non avvicinarti alla struttura, devi trovare un modo per nasconderti nello spiazzo anteriore. Io ti aspetto lì. Quando sei in posizione avvisami, o.» «Ok, ho qualche problema con l’audio. Ci sono forti disturbi. Forse sono al limite della copertura.» la voce di Donjet arrivò piena di squittii ma ancora comprensibile. Davide si rese conto che forse erano rimasti isolati dai compagni dietro al carro. «Carro a Davide e Donjet, vi sentiamo ancora bene. Probabilmente tra voi due c'è qualche cosa che disturba la comunicazione, o.» «Qui Davide, ricevuto. L’importante è che non siate tagliati fuori voi. Io e Donjet ci riavvicineremo tra pochi minuti.» Marchi si sentì sollevato alla ricezione della notizia. Davide sbirciò oltre lo spigolo che dava sulla parte anteriore del fienile per vedere se erano presenti dei trafficanti, vide una sagoma spuntare dal fondo dello spiazzo e dirigersi verso una massa informe che doveva essere un grosso cespuglio. Nello stesso istante uno scoppio dilaniò il silenzio e la sagoma cadde in avanti sparendo vicino alla massa. «Donjet, tutto ok?» «No.» l’albanese stava ansimando «Sono stato colpito sotto la spalla sinistra, non respiro, non respiro.» Dalla casa uscì in fretta un’ombra incurante di ciò che gli stava intorno. Marchi la vide puntare il cespuglio, prese la mira e ne seguì con calma i movimenti, poi,
quando fu sicuro di colpire il bersaglio e di non dargli scampo, sparò. L’ombra cadde in terra e non si mosse più. «Carro a Davide, cos’è successo?» «Donjet è stato ferito e ho eliminato quello che gli ha sparato. Donjet come va?» La radio rimase muta. «Donjet ci sei?» Nessuna risposta. Davide era rimasto solo, non poteva andare a verificare la condizione del poliziotto albanese perché era un bersaglio facile e stranamente non c’era stata alcuna reazione dopo che aveva sparato al trafficante. Evidentemente lo stavano aspettando per dargli il ben servito. L’investigatore decise di mettersi con le spalle al muro e di muoversi verso la casa, aveva notato un’apertura in cui poteva nascondersi per valutare la situazione. Coprì la distanza dal suo obiettivo in breve tempo e sembrava che nessuno lo avesse visto. Si fermò poco prima dell’ingresso del fienile e sbirciò all’interno, non riusciva a vedere nulla, il locale era troppo buio. Notò un mattone sporgente, provò a tirarlo e questo si mosse. Lo estrasse dal muro e lo gettò oltre la porta restando in attesa di eventuali reazioni. Che non ci furono. Prese coraggio e s’infilò nell’antro oscuro. L’investigatore attese alcuni secondi ragionando sul da farsi, poi decise di usare la piccola torcia per perlustrare il fienile. Fece danzare il fascio di luce sulle pareti interne, vide dei vecchi attrezzi per lavorare il fieno appoggiati in un angolo e una porta aperta. Si avvicinò e puntò il raggio di luce dentro il locale, nel frattempo un odore nauseante misto a feci e urina investì le sue narici costringendolo a tapparsi naso e bocca. Era uno schifo. Non poteva pensare che dei bambini fossero stati tenuti in quelle condizioni.
Perse alcuni secondi per controllare che il fienile fosse deserto, i malviventi dovevano essersi barricati nella cascina con i minori pronti per usarli come scudi umani. Uscì con cautela dal rudere e si diresse, spalle al muro, verso la cascina. Arrivò alla fine del fienile e sbirciò oltre lo spigolo per verificare che non ci fosse nessuno. Superò in fretta lo spazio che separava il rudere dalla casa e si fermò un attimo, l’ingresso era poco distante e poteva vedere il corpo del trafficante che aveva ucciso pochi minuti prima. Procedette verso la porta con molta cautela guardando continuamente verso le finestre del piano superiore cercando di scovare un eventuale cecchino. Arrivò vicino all’apertura, sbirciò all’interno e l’oscurità opprimeva il locale. Poteva entrare senza essere visto ma anche lui non poteva vedere nessuno. Doveva trovare un sistema per scovare i nemici, dentro c’erano anche i bambini ed era essenziale evitare che venissero feriti o uccisi. Erano rimasti tre trafficanti, se i conti che aveva fatto erano giusti, con almeno una decina di bambini intorno o forse di più. Entrare dentro e sparare alla prima cosa che si muovesse era impensabile. Mentre il cervello di Davide stava lavorando alla ricerca di una soluzione i suoi occhi notarono qualcosa di sottile uscire da un foro praticato nel muro accanto alla porta, si chinò per osservare meglio di cosa si trattasse e capì che era un cavo elettrico. Seguì con lo sguardo il verme di plastica e rame ma si mimetizzava col buio della notte. Marchi pensò che ripristinando la corrente nella casa avrebbe creato un diversivo che poteva tornagli utile, doveva attirare i trafficanti all’esterno per allontanarli dai bambini. Ritornò sui suoi i e si nascose nell’anfratto buio tra le due strutture. «Davide a carro, provo a riattaccare la corrente. Fate attenzione alle finestre e ditemi se vedete qualcuno.» «Ricevuto, avvisaci quando sei pronto, o.» «Ok, chiudo.» Davide accese la torcia e puntò il fascio di luce sul cavo iniziando a seguirlo. Il cerchio di luce si fermò accanto a un albero a pochi metri di distanza dalla struttura e comparvero due fori sul tronco della pianta. Non udì alcuno scoppio segno che il cecchino stava usando un’arma silenziata. I trafficanti, ora,
sapevano che lui era lì fuori ma anche Davide sapeva che uno dei nemici si trovava al piano superiore del casolare. Puntò improvvisamente la torcia verso una delle finestre che erano poste quasi sopra la sua testa e vide una sagoma nascondersi nel buio una frazione di secondo dopo. Ritirò la testa e il braccio nel nascondiglio appena prima che lo spigolo alla sua destra perdesse un pezzo. Ora il cecchino conosceva la sua posizione, uscì in fretta dall’interstizio e si precipitò all’interno del fienile. «Davide a carro, operazione annullata. Uno di loro controlla l’area e non posso stanarlo. Devo trovare un modo per distrarlo o indurlo a uscire, o.» «Ricevuto, hai bisogno di o? Donjet è fuori combattimento, da solo non puoi farcela, o.» Davide decise che ormai poteva fidarsi dei poliziotti albanesi e preferì lasciare Veronica con Mirko. «Ok, comunica a Urim di raggiungermi facendo lo stesso percorso di Donjet, di fermarsi dietro l’angolo e di trovare un modo per non farsi vedere. Non deve uscire perché quella zona è esposta al cecchino. Farò in modo di distrarre il trafficante per fargli recuperare la radio e vedere come sta Donjet che si trova dietro un cespuglio. Non sparate, voglio far credere a quei tizi che sono solo, o.» arono alcuni secondi di silenzio radio in cui Marchi ipotizzò che l’hacker stesse spiegando al poliziotto il percorso e il piano d’azione. «Ok, Urim si sta muovendo, o.» «Perfetto, chiudo.» Ora non doveva far altro che aspettare. Nei minuti successivi, Davide, si concentrò sull’ingresso della cascina, doveva essere pronto nel caso che qualcuno uscisse per coglierlo di sorpresa. I minuti continuavano a trascorrere inesorabili e non c’era ancora traccia di Urim. L’albanese era sprovvisto della ricetrasmittente e non poteva comunicare con gli altri ma quando Marchi lo vide capì che la radio non sarebbe servita. Urim era apparso davanti a lui disobbedendo all'ordine.
Ora l’investigatore era veramente nei guai.
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Veronica e Mirko osservarono Urim allontanarsi dal carro e confondersi con la vegetazione circostante sfruttando l’oscurità. La luna piena, che si era fatta spazio nel tappeto di nuvole ormai quasi diradato, rendeva pallida la vegetazione circostante, creando l’illusione di trovarsi in un mondo in bianco e nero. «Ehi, non posso continuare a vedere il volto di quella ragazza.» Mirko distolse lo sguardo dal corpo di Mirnije per fissare la poliziotta italiana «Non possiamo coprirla o spostarla?» «Non saprei come fare e non possiamo muoverla, modificheremmo una scena del crimine.» Veronica fece spallucce. «Mamma mia quanto zelo, secondo me non faranno neanche i rilievi.» «Tu, te la saresti portata a letto volentieri.» la donna lo fissò dritto negli occhi. «La tua solita gelosia, pensavo che col are del tempo fossi cambiata almeno un po’. Invece sei la stessa di quando eravamo compagni di scuola, ma forse è giusto così, le persone non cambiano mai. Comunque, se ci tieni a saperlo, non l’avrei mai toccata. Nemmeno se me la fossi trovata davanti nuda.» «Mah, faccio fatica a crederti.» «Beh, se questi sono i presupposti, credo che non dureremo molto nemmeno questa volta.» Mirko distolse lo sguardo da Veronica e si sporse leggermente per osservare la scena oltre il veicolo militare. «No, questa volta durerà perché sono intenzionata a cambiare il mio modo di essere e perché ho scoperto di amarti ancora.» la donna obbligò l’hacker a fissarla negli occhi, anche se alla luce della luna sembravano due fantasmi. «Io non ho mai smesso.» l’informatico si voltò verso il casolare. arono diversi minuti in cui Davide non si mise più in contatto con loro,
avevano visto Urim sparire nell’erba alta e non si riusciva a capire se nella cascina ci fosse ancora qualcuno o meno. «Davide non si è fatto più sentire e Urim dovrebbe averlo raggiunto ormai, c’è qualcosa che non va. Provo a chiamarlo.» Mirko prese in mano la ricetrasmittente e schiacciò il tasto per aprire la comunicazione. «Carro a Davide, o.» Silenzio. «Carro a Davide, mi senti?» Nessuna risposta. «Ehi, ci sei?» l’hacker si voltò verso la compagna. «Niente da fare, deve essere successo qualcosa.» «Oppure è semplicemente fuori portata.» Veronica cercò di rassicurare Mirko. «Uhm, può darsi ma aveva detto che forse era stato scoperto.» «Non possiamo muoverci, deve farcela da solo.» Il rumore di uno scoppio si propagò nell’aria, sembrava provenire dal casolare ma i due compagni non videro alcun lampo. Alcuni secondi più tardi ne udirono un altro seguito da alcune grida. «Non possiamo restare qui, sta succedendo qualcosa e Davide non risponde. Dobbiamo muoverci.» Mirko prese Veronica per mano. «Hai ragione, andiamo. Faremo la sua stessa strada.» L’hacker si avvicinò al corpo di Mirnije e prese la pistola che era a terra. «Non eri quello che odiava le armi?» «Si, ma in questo caso potrebbe salvarmi la vita.» Mirko si allontanò dal corpo e raggiunse la poliziotta.
I due si avviarono e si confo tra la vegetazione immersa nella notte.
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Urim era un nemico. La reazione di Davide fu istantanea e consistette nello sfruttare il buio. L’albanese puntò l’arma nella direzione in cui l’uomo si era lanciato e tirò indietro il grilletto. Il lampo illuminò l’oscurità ma non rivelò alcuna forma di vita e il proiettile si schiantò da qualche parte nel locale. Urim si mosse con cautela allontanandosi dall’ingresso e confondendosi nelle tenebre, Davide ricordava di aver visto degli attrezzi da lavoro e iniziò a tastare il perimetro della struttura nella speranza di trovare qualcosa. Poteva usare la sua pistola ma aveva i colpi contati e non voleva sprecarne sparando alla cieca. Sentiva l’albanese muoversi davanti a lui, ne percepiva il o leggermente strisciato e questo gli permetteva di capire quando il nemico si avvicinava troppo. Finalmente la ricerca diede i suoi frutti. Trovò due manici appoggiati al muro, si chinò seguendone la forma e intuì che si trattava di una vanga e un forcone. Preferì il forcone. Impugnò l’arma improvvisata e iniziò a muoversi seguendo il perimetro della stanza, arrivò all’uscita e si fermò. Il nemico era ancora dentro con lui, ne percepiva il ritmo del respiro che era sostenuto, segno che l’uomo era nervoso, e cercava di seguirne il rumore dei i. Il momento atteso arrivò, la poca luce che proveniva dall’esterno gli mostrò una sagoma a poca distanza, abbassò le tre punte del forcone ponendolo in orizzontale rispetto al terreno e affondò il colpo come fanno gli spadaccini. L’albanese emise un grido e sparò un colpo che ferì di striscio Marchi a una spalla, l’azione di affondo continuò finché il manico si spezzò e l’investigatore sentì un tonfo provenire da qualche parte davanti a sé. Udì delle grida provenire dall’esterno, si sporse leggermente dall’uscita e contò quattro sagome di bassa statura che correvano verso gli alberi. “No!” pensò “ Non dovevate uscire!” e gli venne in mente il cecchino col
silenziatore. I bambini, nel frattempo, avevano raggiunto gli alberi e sembrava che non fossero stati notati. Si nascosero nell’erba alta tra due tronchi e sparirono alla vista. Nessuno si precipitò all’inseguimento delle prede e non partirono colpi di arma da fuoco dalle finestre, evidentemente i trafficanti rimasti pensavano che i minori non potessero andare molto lontano, oppure avevano paura di uscire dal loro nascondiglio. Davide sentì aprire la comunicazione nell’auricolare, alcuni minuti prima non aveva potuto rispondere per non farsi scoprire da Urim. «Mirko a Davide, o.» «Qui Davide, non potevo risponderti poco fa.» «Ci siamo spostati per venire a cercarti. Eravamo in pensiero, o.» «Vi avevo detto di non muovervi. Dove siete ora?» «Ci troviamo nel lato di sinistra del fienile. Tu dove sei?» «Sono nel fienile. Restate dove siete, o.» «Ricevuto, cos’è successo?» «Urim era uno dei corrotti, me lo sono trovato davanti con la chiara intenzione di spararmi. Ora non è più pericoloso ma sono ferito a una spalla, comunque non è niente di serio. Quattro bambini sono usciti dal casolare e si sono nascosti nell’erba alta tra due alberi, li sto tenendo d’occhio ma per ora non si sono mossi. Non credo che mi abbiano visto e sto pensando di recuperarli e portarli dentro il fienile ma non so come fare. Non voglio metterli in pericolo e non ho idea della disposizione attuale dei rapitori. Nel casolare ci sono altri bambini e deve esserci anche Erika, o.» «Davide, io direi di creare un diversivo per costringere i trafficanti a venire fuori o a fare un o falso, altrimenti rischiamo di fare mattina e potrebbero arrivare altri loro compari, o.» la voce era diventata femminile, Veronica si era fatta are la radio da Mirko. «Si hai ragione, sono già le tre di notte e tra un paio di ore albeggerà e non avremo più nascondigli.... Va bene bluffiamo, facciamogli credere che sono circondati, o.»
«Ok, allora noi ci sposteremo dall’altro lato della cascina e terremo sotto controllo il lato delle finestre, tu ti occuperai di questo lato. Ci stiamo già muovendo, o.» «Ricevuto, comincia il bluff. Non ate davanti alla casa, fate un giro più largo nell’erba alta e avvisatemi quando sarete in posizione.» arono diversi minuti e il silenzio regnò sovrano, i quattro bambini non si erano ancora mossi ed era un bene, dal casolare non provenivano rumori e nessuno si era più fatto vedere. L’investigatore sentì aprire la comunicazione nell’auricolare. «Siamo in posizione, o.» «Ricevuto.» Davide prese fiato, doveva usare l’inglese in quanto non conosceva la lingua locale e sperava di essere abbastanza convincente. Si affacciò dal nascondiglio e pronunciò la famosa frase che si sente sempre nei film. «Siamo dell’Interpol. Venite fuori con le mani in alto, siete circondati!»
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Tarin Gjoka era nascosto nel buio al piano superiore del casolare di campagna semi abbandonato, l’aveva ottenuto da un tizio che gli doveva dei soldi e non era riuscito a pagare il debito. Quando il debitore gli aveva comunicato che non poteva restituire il denaro preso in prestito Tarin si era messo in testa di ucciderlo. Andò a cercare l’uomo e lo mise alle strette puntandogli la pistola alla testa, nella discussione che s’innescò fatta di suppliche, pianti e singhiozzi venne a conoscenza che l’uomo possedeva una vecchia casa di campagna fatiscente e Tarin aveva bisogno di un posto poco appariscente e che non destasse sospetti per mettere in piedi la sua nuova attività di lucro. Correva l’anno duemilacinque. Ora, a distanza di quattro anni, si trovava in quello che doveva essere il suo quartier generale nonché ultima fortezza prima del confine ed era braccato. Tutte le attività che ormai erano diventate di routine, quella sera, si erano inceppate per cause a lui ancora sconosciute. I suoi uomini erano stati decimati senza troppa fatica e in silenzio, era stato chiamato da Mirnije, la sua compagna, e avvisato che lo stava raggiungendo e che stava seguendo i tizi della strage nella sede de “la mano del padre”. Aveva asserito di poterli eliminare per strada inventandosi qualche trucco ma poi non l’aveva più sentita ne vista arrivare. Quando si era reso conto che qualcosa non stava andando per il verso giusto era troppo tardi, si erano sentiti alcuni colpi di pistola provenire da lontano e aveva deciso di anticipare la partenza. Era uscito insieme agli uomini rimasti e aveva portato il carico fino al furgone, tutto avvenne al buio perché, nel frattempo, il generatore aveva inspiegabilmente smesso di funzionare e l’uomo che era andato a controllarne il motivo non era più tornato. Arrivato al mezzo lo aveva trovato inutilizzabile per via delle gomme a terra e lui, gli uomini rimasti e il carico erano stati costretti a ripiegare verso il casolare, in quel momento un altro dei suoi compari era stato abbattuto e lui non riusciva a capire come potessero essere così vulnerabili ne a determinare quante persone fossero nascoste lì fuori. Si era barricato nella cascina circondandosi dei bambini, era convinto che chi lo stava braccando fosse a conoscenza della presenza dei minori e quindi poteva usarli
come scudi umani per costringere gli aggressori all’attesa. Pensava di aver creato una condizione di stallo da poter sfruttare fino alla mattina, quando con la luce del giorno avrebbe potuto rendersi conto meglio della situazione e valutare il da farsi. Sempre che quelli non decidessero di ridare corrente alla casa e illuminarne l’interno. Ma anche in quel caso la copertura offerta dai bambini gli avrebbe fatto guadagnare tempo, sarebbe bastato metterli alle finestre e alla porta. Anche se alcuni bambocci erano riusciti a scappare, gli altri erano più che sufficienti per garantirsi una protezione dagli assalti. Se solo Mirnije si fosse presentata lì, avrebbe potuto farle chiedere l’aiuto dei suoi compagni corrotti e avrebbe avuto uomini in più, tra l’altro insospettabili, per tirarsi fuori dai guai. Ma la donna non si era fatta più sentire e lui aveva la sensazione che il giorno precedente fosse stato l’ultimo in cui l’aveva vista, forse era stata uccisa da quelli che stava seguendo, come era stato ammazzato suo fratello nella sede dell’organizzazione. Doveva resistere per attuare la sua vendetta che era a portata di mano, gli assassini erano lì fuori, doveva solo trovarli e farli soffrire in modo atroce. Se poi c’era una donna, come gli era stato raccontato da Mirnije, si sarebbe anche divertito un po’. Si trovava al piano superiore e stava tenendo sotto controllo l’ingresso della casa, i due compagni rimasti erano posizionati al piano terra e controllavano le finestre dal lato opposto. Uno degli aggressori era stato colpito da uno dei suoi che poi era uscito incurante di chi ci fosse fuori e da perfetto idiota s’era fatto ammazzare. Tarin aveva notato il cerchio di luce prodotto da una torcia sul tronco di un albero e aveva sparato un paio di colpi, poi aveva visto una figura accanto all’ingresso della casa e aveva sparato di nuovo mancando il bersaglio che si era allontanato. Alcuni minuti più tardi c’erano stati un paio di spari e i bambini si erano messi a urlare, quelli che erano scappati li aveva visti nascondersi tra gli alberi ma era inutile andarli a cercare e comunque non sarebbero andati lontano. Tarin era imbestialito dal fatto che l’artefice di tutto sembrava essere un uomo soltanto. Uno da solo, tutti gli altri erano un semplice contorno. Adesso una voce aveva intimato agli occupanti di uscire con le mani alzate, si
spacciava per uno dell’Interpol e diceva che avevano circondato la zona. Parlava inglese, strano. A meno che arrivasse da un paese esterno all’Albania. La voce, tra l’altro, gli era familiare ma non ricordava dove potesse averla sentita. “Siete circondati... Cazzate bello mio, stai bluffando.” pensò Tarin. Ai suoi compagni impartì l’ordine di non muoversi per nessuna ragione dalla loro posizione e di tenere sotto controllo gli scudi umani. Lui si affacciò alla finestra ma non riuscì a vedere nessuna forma di vita. “Vieni a prendermi se hai coraggio.” pensò spavaldamente.
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Il pesce aveva mangiato l’esca ma non era rimasto attaccato all’amo e dalla casa non era arrivato alcun segnale di resa. “Male, molto male.” pensò l’investigatore. Serviva un piano per sbloccare la situazione ma a Davide non veniva in mente niente di sensato, ogni idea aveva come fine la morte di qualcuno, che fossero bambini o qualcuno della sua squadra. Lui compreso. I minuti correvano veloci e favorivano sempre di più il nemico, Marchi decise di riallacciare la corrente elettrica ma doveva fare un giro più lungo per evitare di essere un bersaglio facile per il cecchino e prima doveva togliere il cortocircuito che aveva creato vicino al furgone. Aprì la comunicazione con l’apposito tasto della radio. «Vado a far partire il generatore di corrente ma dovrò fare un giro più lungo e tornare al furgone per sistemare un cavo elettrico che ho manomesso. Voi cercate un posto dove potete mirare attraverso le finestre e che non sia troppo distante. Io vi avviserò per tempo e quando la luce si accenderà cercate di sparare a qualcuno dei cattivi. Tutto chiaro?» «Si, a parte il fatto che non siamo dei tiratori scelti e che potrebbero aver messo i bambini alle finestre, comunque sparerà solo Veronica, io non sono capace. Ne potremo eliminare al massimo uno solo, non credo che siano così stupidi da restare esposti per troppo tempo, o.» «Si, devo darti ragione. Eliminarne uno potrebbe essere più che sufficiente per cambiare i giochi. Quindi proviamoci. Vi contatterò io appena sarò pronto. Andate a cercarvi un posto ideale per sparare, o.» Davide si stava già muovendo ed era arrivato al lato corto del fienile, svoltò a sinistra e si allontanò
dal muro per andare a confondersi nella vegetazione. «Ricevuto, ci muoviamo.» I minuti avano inesorabili verso il sorgere del sole, Davide doveva fare in fretta e sbloccare la situazione. Finalmente arrivò nello spiazzo dove si trovava il furgone, scavalcò il corpo privo di vita di uno dei malviventi e si avvicinò alla piantana rimasta integra, lì doveva esserci il cavo che aveva strappato e messo in cortocircuito. Iniziò a tastare il terreno con le mani e, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, trovò ciò che cercava. Seguì il filo fino a raggiungerne l’estremità con le mani e staccò i tre conduttori elettrici separandoli in modo che non potessero toccarsi accidentalmente. Ritornò verso la boscaglia, doveva trovare il generatore e farlo ripartire. Aveva notato un cavo elettrico che usciva dalla casa e proseguiva verso degli alberi, probabilmente il dispositivo era stato installato lontano dalla casa per via del rumore generato dal motore a scoppio. Davide arrivò al fienile e lo superò cercando di restare nella vegetazione per non diventare un bersaglio, s’infilò tra gli alberi e girò a destra. Proseguì carponi cercando nell’oscurità qualcosa che assomigliasse a un cavo elettrico, gli era ato per la testa di seguire uno dei cavi delle lampade alogene ma sembrava che fossero collegate da qualche parte nella cascina. Sapeva che poteva incontrare i quattro bambini che erano fuggiti poco prima e doveva stare attento a non spaventarli. Finalmente s’imbatté in quello che assomigliava a un cavo della corrente, lo tastò e si convinse che fosse ciò che cercava. Cambiò direzione seguendo il filo di rame e dopo alcuni metri iniziò a percepire un ronzio sommesso, continuò a muoversi finché urtò una specie di parete con la testa. Accantonò il dolore per la botta e valutò che doveva trattarsi di un locale in legno dove avevano posto il generatore. Si rimise in piedi, doveva cercare la porta sperando che non fosse chiusa a chiave, la trovò sul lato opposto e non aveva alcuna serratura. Aprì la porticina di legno, il rumore prodotto dal motore a scoppio lo investi e notò che non c’era odore. Probabilmente i fumi di scarico erano intubati e portati all’esterno. Mentre si muoveva inciampò contro una tanica rovesciandola e decise che poteva accendere la torcia che aveva con sé. La tanica bianca era chiusa ermeticamente e il contenuto era rimasto all’interno, fece danzare il fascio di luce finché non trovò il quadro elettrico che conteneva il dispositivo salvavita ma con quel fracasso era impossibile comunicare. Uscì dalla casetta e si portò dal lato opposto della porta dove il rumore era
ridotto a un leggero ronzio e prese in mano la radio. «Ragazzi siete in posizione?» «Siamo quasi arrivati, o.» «Bene, io ho trovato il generatore ma c’è troppo rumore per poter usare la radio. Sarete voi a darmi l’ok per accendere le luci, o.» «Ricevuto, ci stiamo avvicinando all’obiettivo. Anzi, secondo Veronica siamo arrivati. Siamo pronti.» «Ok, ritorno al generatore e fra trenta secondi potrete darmi il via, o.» Davide si mosse e rientrò nella casetta di legno, raggiunse l’interruttore principale e attese. Sentì aprire la comunicazione nell’auricolare. «Meno tre... due... uno... Accensione!» L’investigatore portò l’interruttore nella posizione di ON.
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Erika si era rannicchiata in un angolo dopo che gli aguzzini avevano portato lei e gli altri prigionieri fuori dal fienile ed erano stati costretti a ritornare indietro. Qualcosa nei piani di quei criminali era andato storto e forse erano stati scoperti. Questo le rallegrava il cuore, ma non si era ancora ripresa dall’evento avvenuto poche ore prima, l’uccisione del ragazzino di cui non conosceva nemmeno il nome continuava a arle davanti come un replay di una scena di un film ed era seguito dal ricordo vivo dell’uccisione della sua amica speciale. Michela. Se chiudeva gli occhi poteva rivederla vestita da metallara che le sorrideva e le diceva immancabilmente la verità, gliela spiattellava in faccia senza troppi problemi da sempre ed era per questo particolare che Erika adorava la sua amica. Dopo aver visto Michela morire a causa sua, aveva pregato come non era mai successo e per la prima volta in vita sua non aveva pronunciato le parole come un automa. No, le aveva pesate, scandite, assimilate e, tra un singhiozzo e l’altro, percepì che tutto ciò proveniva dal cuore. Era una sensazione nuova, sconosciuta ma arrivava dal quell’organo pulsante che la teneva in vita e di questo ne era certa. Ora, nel buio di quella stanza, stava cercando di rimanere calma nonostante avesse sentito alcuni colpi di pistola provenire sia dall’interno che dall’esterno. Si era spostata con fatica per cercare un posto dove potesse essere al riparo dai proiettili, la cosa importante, in quel momento, era restare viva per fare in modo che il sacrificio di Michela non fosse stato inutile. Lei doveva vivere e tornare a Osimo per andare a trovare la sua amica al cimitero, l’avrebbe fatto tutte le domeniche della sua vita e quella era una promessa che intendeva mantenere. Erika aveva ancora le mani legate e non riusciva a muoversi come voleva, doveva trovare un modo per tagliare il nastro adesivo che non era riuscita a rompere con i denti e al buio era impossibile trovare qualcosa di tagliente. Nella stanza c’era uno degli uomini del re dei malvagi, uno era in un’altra e, anche se non si vedeva niente, l’aveva sentito arle accanto aprendo una porta
cigolante. Dove fosse il capo non lo sapeva ma l’aveva sentito ordinare qualcosa ai suoi scagnozzi dopo aver sentito la voce in inglese, che sembrava provenire dal cielo, e alla quale nessuno aveva risposto. Finché lei e i suoi compagni di prigionia fossero rimasti nella casa quegli angeli, perché questo erano per lei, non sarebbero potuti intervenire e doveva trovare il modo per dar loro una mano. Lei era la più grande, l’aveva capito dai lamenti e verificato quando erano stati portati fuori alla luce della luna per quella che si rivelò essere un’esecuzione. All’improvviso si riaccesero le luci e sentì uno scoppio provenire dall’esterno.
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Veronica fissava una delle finestre del pianterreno seguendo la linea creata dalla canna della sua pistola sperando che fosse quella giusta. La casa venne illuminata un secondo dopo la fine del conto alla rovescia scandito da Mirko alla radio ma la posizione era quella sbagliata. La poliziotta corresse immediatamente la mira puntando l’apertura successiva e tirò indietro il grilletto frettolosamente, vide la sagoma cadere e poco dopo la luce venne a mancare di nuovo. Sentì delle grida provenire dall’interno della casa e qualcuno sparò nella sua direzione mancandola di diversi metri. Si fece are la radio dall’hacker e aprì la comunicazione. «Veronica a Davide, uno in meno. Non so se l’ho ucciso ma credo sia fuori combattimento, o.» «Brava, io mi sono spostato e mi trovo a pochi metri dall’ingresso del fienile, o.» «Quindi non sei stato tu a spegnere la luce, o.» «No, sono stati loro e me lo aspettavo, o.» «Ok, che dobbiamo fare ora?» «Raggiungetemi. Adesso dovrebbero essere solo in due, se ho fatto i conti nel modo corretto, e, dopo l’ultima azione, penseranno di essere circondati veramente. Qualche mossa dovranno pur farla, chiudo.» Veronica e Mirko si mossero, il cielo stava diventando chiaro sulla linea dell’orizzonte a est e la luna piena era solo un ricordo notturno. I due compagni aggirarono la cascina a destra e si trovarono a precorrerne il lato corto, arrivarono all’angolo e si fermarono. Ora erano in contatto visivo con Davide e potevano comunicare a gesti, dovevano scegliere se mettere a rischio la vita dei bambini tentando di entrare oppure attendere una mossa degli occupanti che forse non sarebbe mai arrivata.
Restarono in questa sorta di interdizione per parecchi minuti. Un silenzio surreale li avvolgeva. L’aurora di un nuovo giorno iniziava a rischiarare la scena, la velocità con cui la luce proveniente da un posto indefinito sotto l’orizzonte procedeva a trasformare le ombre in qualcosa di più definito era incredibile. Davide si rese conto che non avevano altra scelta, dovevano entrare prima che il sole varcasse il confine tra cielo e terra. Indicò agli altri che si sarebbe spostato vicino alla porta e di tenersi pronti con la copertura, Veronica sollevò l’indice verso l’alto e negò con la testa per far capire all’investigatore che non poteva tenere sotto controllo le finestre del piano superiore. Marchi scrollò le spalle e prese la torcia dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni, l’impugnò con la sinistra e l’avvicinò alla canna della pistola. Quel metodo lo aveva usato moltissimo durante le missioni di pace quando, di notte, andavano a ripulire gli avamposti nemici, solo che lì era dotato di un fucile mitragliatore, con la Beretta era più difficile ma poteva farcela. Avrebbe la torcia nell’istante in cui puntava la pistola per poi spegnerla subito, così poteva illuminare l’eventuale bersaglio accecandolo e sparando una frazione di secondo dopo l’individuazione. Il problema era rappresentato dai bambini che l’avrebbero obbligato a mirare più in alto, a meno che non fe in modo che si stendessero a terra. Ipotesi piuttosto improbabile. Inspirò aria come se dovesse immergersi in acqua e trattenne il respiro, uscì in fretta dal suo nascondiglio e si avviò velocemente verso l’ingresso della casa restando il più possibile vicino al muro. Riprese a respirare regolarmente. Si sporse leggermente dall’apertura verso l’interno e accese la torcia spazzolando velocemente l’area a un metro circa di altezza, il suoi occhi videro una sagoma alta e il cervello prese la decisione in una frazione di secondo, tutto in autonomia come un programma per computer che trova un dato ricercato. La mano si bloccò in posizione e la torcia si spense, per riaccendersi una frazione di secondo dopo. La sagoma era ancora lì e l’indice della mano destra si piegò sul grilletto facendo partire il colpo. La luce a led si spense e delle urla riempirono l’aria, tre sagome di bassa statura schizzarono fuori dalla casa come se avessero
il diavolo in corpo, si accorsero dell’investigatore e si bloccarono all’istante. Poi un nuovo scoppio. I tre piccoli gridarono nuovamente e tornarono dentro. Davide sentì il sibilo del proiettile argli a pochi centimetri dalla testa, ciò che era successo non lo aveva capito soprattutto perché la pallottola era partita sicuramente dall’arma della poliziotta. Sentì un tonfo dietro le spalle, si voltò lentamente e riconobbe Urim che incredibilmente era uscito dal fienile con in mano il ferro a tre denti del forcone che si era estratto dal ventre. Era steso a terra ormai innocuo. Marchi pensò di essere molto fortunato ad aver trovato dei compagni di squadra come Veronica e Mirko. La ferita che aveva riportato nello scontro precedente con l’albanese gli faceva male ma non sembrava sanguinare più, ritornò a concentrarsi sull’ingresso del casolare, puntò di nuovo torcia e pistola sapendo che l’ultimo rimasto non si sarebbe fatto cogliere impreparato come il primo. Accese il piccolo led ad alta luminosità e scandagliò l’interno della stanza, vide i bambini e ne contò quattro. Erano rannicchiati a terra con le testa fra le ginocchia e avevano i polsi legati. Il legno della porta si scheggiò, l’uomo col silenziatore era lì ma si nascondeva dove lui non poteva trovarlo, Marchi si ritirò istintivamente facendo un o indietro mentre un uomo uscì di scatto dalla casa sparando in direzione della poliziotta e dell’hacker. Veronica si accasciò a terra sotto lo sguardo incredulo di Mirko, Davide sparò due colpi in sequenza centrando alla schiena il killer. Non era l’uomo col silenziatore. Poi si precipitò dall’hacker che era chino sulla donna e stava cercando di girarla a pancia in su. Accese la torcia e notò la smorfia di dolore impressa nel viso di Veronica che però era cosciente, spostò il fascio di luce sul torace fino a scendere verso le gambe e trovò la ferita sul fianco sinistro poco sopra il rene. Il liquido caldo e fonte di vita si stava addensando sulla maglia di cotone scura, Davide ne strappò una manica e l’appallottolò per usarla come tampone, la mise sopra la ferita e ci appoggiò su la mano della poliziotta. Lui e Mirko sollevarono il corpo e lo spostarono in una zona coperta, l’investigatore indicò all’informatico di tenere la
palla di stoffa sul foro e di premere leggermente. Il tempo era scaduto e doveva tirare fuori quel bastardo dal suo nascondiglio. La luminosità era aumentata ancora e l’interno della casa era di gran lunga più nero e buio rispetto all’esterno e lui era diventato molto visibile. Davide raggiunse l’ingresso e, arma e torcia in pugno, si gettò a tuffo nel locale. Rotolò fino a essere fermato dal muro, non riusciva a distinguere nulla se non la porta che dava sull’esterno e se la vedeva lui era lo stesso per i bambini. Sparò un colpo in aria e si spostò subito, un urlo gli sfondò quasi i timpani e poté notare con sicurezza che alcuni dei minori fuggirono verso l’esterno, se aveva contato bene erano quattro. Forse cinque. Ci avrebbe pensato più tardi. Puntò la torcia davanti a se e non riuscì a vedere nessuna forma di vita, iniziò a spostarsi mantenendosi accovacciato finché raggiunse una porta che introduceva in un altro locale. Si affacciò puntando il fascio di luce lungo il perimetro interno, continuò a cercare e lo trovò. L’uomo si trovava di schiena al muro e abbracciava Erika usandola come scudo puntandole la pistola alla tempia. Lo riconobbe, era il tizio dell’identikit, lo stesso che aveva incontrato nel bar di Paola e che aveva fatto uccidere Baldi. Che coincidenza, pensò, proprio quel tizio gli aveva detto che non sarebbe finita quel giorno e dovette dargli ragione. Davide decise che l’inglese non serviva più. «Bene, bene. Ci si rivede.» «Esci da qui o vedrai saltare sua testa!» «Sei rimasto solo dove pensi di andare? Ho diversi uomini che tengono sotto tiro le finestre e la porta, non usciresti vivo comunque. Arrenditi.» l’investigatore parlava con estrema calma sperando che il bluff andasse in porto. «Tu mente!» Tarin era accecato dal fascio di luce ma poteva muoversi.
«Ah si? E secondo te i tuoi uomini sono andati a farsi un giro?» L’uomo per tutta risposta si mosse in direzione della finestra seguito dalla luce e si fermò pochi centimetri prima dell’apertura. Sollevò da terra la ragazza e si buttò fuori di schiena sparendo oltre il davanzale. L’inganno era svanito nel nulla perché fuori non c’era nessuno. Davide si precipitò vicino all’apertura restando coperto, contò i proiettili rimasti nella sua arma ed erano soltanto quattro, tre nel caricatore e uno in canna, sbirciò fuori e vide l’albanese correre verso i campi senza la ragazza. Scavalcò la finestra atterrando sulla ghiaia, trovò la fanciulla appoggiata al muro che si massaggiava la testa e un ginocchio. «Tutto bene?» «Credo di si. Tu sei italiano!» «Si ma ne parliamo dopo, ora vai dietro quell’angolo. Ci troverai due persone, una è ferita. Dà questo al ragazzo che troverai e digli chiamare i soccorsi e dopo Luca. Lui sa di chi sto parlando. Io devo andare ora.» Davide corse via all’inseguimento del criminale. Il sole varcò la linea dell’orizzonte dietro le sue spalle, il nuovo giorno era ormai iniziato ma non per tutti. Il suo obiettivo si stava dirigendo verso il vecchio carro armato, era veloce, poteva sparare ma non era sicuro di colpirlo. Vide l’albanese girare intorno al vecchio mezzo da guerra e sparire alla sua vista, la luce rossastra dell’alba tingeva tutto di colori caldi e vellutati esaltando la ruggine del catorcio abbandonato. Un grido esplose nell’aria. Davide raggiunse il mezzo e si accovacciò vicino al muso grigiastro, da quel punto osservò ciò che stava succedendo dall’altra parte. Il killer era inginocchiato e stringeva tra le braccia il corpo senza vita di Mirnije cullandola come una bambina in fasce. All’improvviso il suo sguardo incrociò quello dell’albanese che appoggiò delicatamente la donna in terra e svuotò l’intero caricatore della sua arma in direzione del suo nemico. Marchi fu costretto a rintanarsi dietro al mezzo abbandonato mentre il ferro rimbombava dei colpi subiti.
Esaurita la scarica, Davide, guardò oltre il muso del carro ma l’obiettivo non c’era più. Si mosse carponi puntando la pistola davanti a sé aggirando il veicolo ma non riusciva a vedere nessuno. Un pensiero gli balenò in testa, aveva appena fatto l’errore più stupido al mondo.
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Mirko stava tamponando la ferita della poliziotta, ma il pezzo di stoffa era impregnato di sangue e sembrava non servire più a niente. Vide spuntare una figura dall’angolo davanti a se e riconobbe la ragazza della cameretta azzurra, la figlia del suo amico. Fece un cenno di saluto con la mano e le sorrise, Erika si avvicinò e inginocchiandosi fissò l’hacker negli occhi. «Ciao, il tuo amico mi ha detto che devi chiamare i soccorsi e un certo Luca. Dice che sai tutto. Ci penso io qui.» Erika si fece are il tampone e ò un cellulare a Mirko. «Ok.» l’hacker trovò il modo di slegare le mani della ragazzina e si allontanò. arono alcuni secondi, Erika osservò l’uomo parlare a più riprese prima in italiano e poi in inglese. La donna tossì e aprì gli occhi. «Ciao Erika, come stai?» la voce era appena percepibile. «Sai il mio nome?» «Si, siamo qui per te.» «Ti fa molto male?» «Beh stavo meglio prima, Mirko dov’è?» «Se parli del tipo che era con te, ora sta telefonando.» «Si parlo di lui. Davide, l’uomo che è entrato nella casa, dov’è?» «Sta inseguendo quello che mi ha portata qui. Ho sentito alcuni spari pochi secondi fa.» «Non hai paura?»
«Prima si, adesso non più. Mi riporterete a casa vero?» «Certo, stiamo aspettando che vengano a prenderci.» «Papà e mamma sanno che mi avete trovata?» «Non ancora, li avviseremo quando tutto sarà finito e sarai al sicuro. Sono molto in pena, soprattutto tua madre. E hai una grande amica che spera di rivederti presto.» Veronica tossì. «Michela è morta, l’ho vista cadere a terra e non rialzarsi più. E’ colpa mia se ora non c’è più.» il viso di Erika si rigò di lacrime. «Devo contraddirti, Michela è viva e spera di rivederti presto. Dovrà abituarsi a una nuova vita ma può farcela, è una ragazza molto forte. Proprio come te.» la donna abbozzò un sorriso ma diventò una smorfia per via delle fitte di dolore. «Davvero? Io... io pensavo di non rivederla più.» Mirko terminò di parlare al cellulare e si avvicinò. «Ehi, come va? Non fare scherzi, devi restare al mio fianco. I soccorsi arriveranno presto, cerca di resistere.» si fece are il tampone da Erika e la fissò negli occhi «E tu, Erika, come stai?» «Sto bene, grazie. Ma io ti conosco, ho avuto questa sensazione anche quando eravamo chiusi nella stanza azzurra e ti stavano picchiando.» «Io ti ho vista nascere. Sono amico d’infanzia di tuo padre ma negli ultimi anni non ci siamo frequentati molto di persona e quindi fai fatica a ricordarti di me.» «Gli altri bambini dove sono?» «Sono nascosti da qualche parte tra gli alberi e l’erba alta, più tardi ci occuperemo di loro. I soccorsi arriveranno presto, resisti Veronica.» Mirko fissò la donna intensamente negli occhi. «Ce la farò, stai tranquillo.» la voce era sempre più un sussurro. Erika e Mirko continuarono a prestare attenzione a ogni minima variazione
percepibile dello stato di salute della poliziotta, ora sembrava che la ferita non sanguinasse più ma Veronica era diventata pallidissima. E per di più nessuno aveva idea di dove fosse finito Marchi.
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Davide si girò di scatto cercando la conferma al suo errore ed era lì. L’albanese aveva un coltello di una ventina di centimetri e gli era ormai addosso. Marchi cercò di schivare l’attacco ma non ci riuscì e si trovò disteso a terra con la lama vicinissima alla faccia. Si liberò dalla presa puntando i piedi sul terriccio e sfruttando una delle tecniche di combattimento a terra apprese nel judo. Ribaltò l’avversario e schizzò in piedi alla ricerca della sua pistola che gli era sfuggita di mano durante l’assalto, il nemico tornò alla carica con un fendente diretto allo stomaco che fu abilmente schivato dall’investigatore. «Devi morire! Tu ha ammazzato Mirnije, ora muori!» Marchi non rispose e si preparò a schivare un’altra coltellata, stava aspettando il fendente giusto per provare a disarmare l’avversario. Questa volta l’obiettivo era il fianco destro e anche in questo caso non andò a segno. «Aaaaahhhh! Devi morire!» l’albanese era in preda all’ira e sprecava energie tirando colpi a raffica senza ottenere risultati soddisfacenti. Ormai era accecato dalla rabbia per la morte della donna e Davide non ebbe alcun dubbio che Mirnije potesse essere la compagna di quell’essere e, chissà, forse pensavano pure di avere dei figli. Non poteva pensarci. L’investigatore indietreggiò avvicinandosi al mezzo corazzato. Finalmente arrivò il fendente giusto, Davide si lasciò oltreare dal braccio del nemico e l’afferrò con la mano destra. Il movimento che eseguì fu fluido e deciso, il risultato di anni ati a esercitarsi in palestra. Tirò il braccio dell’albanese e si girò di schiena, piegando le ginocchia e caricandosi dell’altro come un sacco, in un perfetto Ippon Seoi Nage scaraventando l’uomo contro il carro. Il coltello finì in terra a pochi centimetri dal piede destro dell’investigatore che stava ancora cercando la sua arma, l’uomo si alzò barcollando perdendo sangue dal braccio sinistro, guardò Marchi con espressione feroce e un ghigno malefico gli si materializzò in volto.
Aveva trovato la Beretta. Davide sapeva quanti colpi erano presenti nel caricatore, li aveva contati alcuni minuti prima e si buttò a terra nell’istante in cui l’albanese esplose il primo colpo mancandolo. Trovò un pezzo di ferro lungo una sessantina di centimetri, aveva una delle estremità appuntite e rotolando si nascose dall’altro lato del veicolo militare. Il secondo proiettile rimbalzò su quello che doveva essere stato un cingolo e sfiorò di pochi centimetri la spalla sinistra dell’investigatore. Ne restavano ancora due. E Davide non poteva sperare ancora nella fortuna. Il sole si stava sollevando sull’orizzonte e lui non poteva sfruttare più la scarsa luminosità per nascondersi, ormai la visibilità era ata da pochi centimetri a decine di metri, se decideva di scappare non avrebbe avuto scampo e si sarebbe beccato una pallottola nella schiena. Marchi si appiattì contro il metallo del mezzo corazzato e attese che il suo nemico venisse a cercarlo, iniziò a contare mentalmente i secondi perché sapeva bene che un uomo in preda a una rabbia sfrenata agisce incautamente e in poco tempo. L’aveva imparato nelle missioni di pace, il nemico che non ragiona più è impaziente di compiere le sue azioni e commette imprudenze. Era successo anche a un suo compagno di squadra e aveva pagato con la vita. Arrivò a contare fino a otto quando vide la gamba destra dell’albanese spuntare da dietro il muso del mezzo, ecco l’imprudenza attesa, e Davide gli piantò la parte aguzza del ferro nella coscia estraendo l’arma improvvisata una frazione di secondo dopo. Il nemico gridò dal dolore e finì in terra con la pistola ancora in pugno, Marchi si alzò e sovrastò l’essere inginocchiato piantandogli il ferro nel fianco sinistro. «Questo è per il bambino che hai ammazzato la notte scorsa.» L’uomo emise un altro grido e si ribaltò sul fianco destro portandosi la mano sinistra sulla ferita e abbandonando l’arma a terra. Il foro nella coscia destra emetteva dei fiotti di sangue al ritmo del battito cardiaco che era accelerato, segno che l’arteria femorale era stata recisa, e Davide sapeva bene che in pochi minuti sarebbe tutto finito.
Ma aveva deciso che quell’essere doveva soffrire. I bambini non si toccano. Riprese il ferro e colpì l’albanese alla gamba sinistra poco sopra il polpaccio, lo estrasse e notò che ormai il criminale non gridava e non reagiva più al dolore. Era in stato di semi incoscienza, era ora di piantarla lì e nel vero senso della parola. Il paletto inchiodò il collo dell’uomo in terra. Davide raccolse la sua Beretta, girò le spalle al cadavere e si avviò verso la cascina. In lontananza si sentivano delle sirene, forse stava arrivando l’ambulanza e gli occupanti avrebbero trovato un bel casino. Si mise a correre, coprì la distanza restante in pochi secondi e andò a sincerarsi delle condizioni di Veronica. «Come và?» «E’ molto debole e parla in modo strano.» Mirko stava tremando. «Ho sentito delle sirene, vado in strada per aiutare il paramedici a trovarci.» «Ehi, ma tu sanguini!» Erika puntò il dito verso Marchi. «E’ vero, sei ferito al braccio sinistro.» Davide si toccò la zona indicata dai compagni e sentì un po’ di dolore, era stato colpito di striscio ma non se ne era accorto. L’adrenalina che aveva in circolo non gli permetteva di sentire dolore, almeno non con l’intensità normale, oppure era il cervello che stava ignorando quel segnale per permettergli di usare gli altri sensi al massimo. Più tardi si sarebbe ricordato della ferita. Raggiunse la strada, dalla quale erano arrivati il giorno precedente, nell’istante in cui si materializzò l’ambulanza con i lampeggianti blu e rossi che illuminavano i campi circostanti. Fece dei gesti con le braccia e indicò agli occupanti di dirigersi verso la casa, osservò il mezzo avviarsi con cautela lungo il vialetto e gli corse dietro. Il mezzo si fermò a una decina di metri dal casolare, ne scesero tre uomini in
divisa gialla a strisce arancioni che aprirono i portelloni posteriori e scaricarono una barella, un quarto uomo corse con la valigia di primo soccorso dietro a Davide che gli aveva fatto cenno di seguirlo. La situazione parve meno drammatica di quanto sembrava all’inizio, il medico sollevò la maglia di cotone impregnata di sangue e disinfettò la ferita, applicò una flebo di fisiologica e attese che gli altri compagni infilassero le due parti della barella sotto la schiena della donna bloccandola. Il quarto volontario era già al volante pronto per schizzare via verso il primo ospedale nelle vicinanze. Veronica fu sollevata da terra e trasportata verso il veicolo da soccorso, Mirko le teneva ancora la mano mentre chiedeva in inglese ai portantini se poteva salire. Davide si fece medicare la ferita superficiale al braccio mentre osservava le porte dell’ambulanza chiudersi e il mezzo allontanarsi per portare i suoi compagni di viaggio in ospedale. Il medico era rimasto lì per controllare lo stato di salute dei bambini in attesa di un secondo mezzo di soccorso e della polizia. Davide si mise a cercare i minori cominciando a recuperarne alcuni, notò che Erika era bravissima nel tranquillizzarli nonostante avesse sperimentato la stessa brutta avventura. Probabilmente avrebbe accusato il colpo psicologico nei giorni successivi quando si sarebbe rilassata, ma dimostrava di essere una ragazza molto forte. L’investigatore riuscì a trovare tutti i bambini, ne contò nove, avendo conferma poi da Erika che il numero era di undici, ma uno era stato ucciso e l’undicesima era lei. Mentre il medico si prendeva cura dei minori, lui, andò a cercare Donjet per vedere se era ancora vivo e recuperare la radio. Lo trovò dietro al cespuglio dove lo aveva visto gettarsi mentre veniva colpito dal cecchino, respirava appena e aveva le labbra cianotiche. Corse via e ritornò col medico in meno di un minuto, questo gli strappò la camicia e verificò lo stato della ferita, provò a girare l’uomo sul fianco e Davide gli diede una mano per riuscirci. Il dottore constatò che il proiettile era uscito dall’altro lato, probabilmente il polmone si era riempito di sangue e liquido pleurico. Anche se gli esseri umani possono vivere senza un polmone non è sempre certo che tutti riescano a superare l’improvvisa mancanza di uno dei due e il risultato era evidente sulle labbra bluastre del poliziotto albanese. Il medico tentò di fare il possibile ma senza un’altra ambulanza non poteva sedarlo e collegarlo a un respiratore automatico e forse era già troppo tardi.
Davide e il dottore lasciarono solo Donjet per andare a verificare lo stato degli altri corpi disseminati nell’area, arrivarono fino al carro armato dove il medico trovò il corpo del bambino, dei poliziotti e di una giovane donna. Erano tutti morti e il medico non aveva mai visto tanti cadaveri nello stesso posto. Finalmente arrivò anche la seconda ambulanza accompagnata da tre auto della polizia, il medico si occupò di Donjet mentre Davide si avvicinò ai poliziotti che stavano uscendo dai loro mezzi. C’era anche un funzionario dell’ambasciata italiana che abitava nei paraggi di una località turistica frequentata dai suoi connazionali. Marchi parlò prima con lui in italiano e poi acconsentì all’interrogatorio del commissario della polizia albanese che conosceva la lingua inglese. L’investigatore spiegò la dinamica degli eventi fin dal loro arrivo in Albania, mostrò il punto in cui arrivarono e assistettero all’uccisione del bambino, i poliziotti fecero i primi rilievi sui corpi dei loro colleghi e su quello di Tarin, poi proseguirono il giro dietro a Marchi. Trovarono anche il primo trafficante che Davide aveva neutralizzato, l’unico rimasto in vita. Il tutto portò via un paio d’ore e l’investigatore si chiedeva come stesse Veronica, il suo cellulare era in possesso di Mirko e quello dell’hacker non si sapeva dove fosse. Si ricordò che Erika doveva avere quell’informazione e la cercò per chiederglielo. Alle dieci del mattino tutti i bambini erano stati identificati, tranne quello ucciso, e il commissario autorizzò il trasporto dei minori nel primo albergo disponibile, vennero avvisate le varie ambasciate in relazione alla nazionalità di ogni minore e fu permesso a Marchi di portare via Erika. Riuscì a far togliere dal sequestro il telefono di Mirko che era nell’auto di Tarin e il computer che si trovava nella macchina di Mirnije, recuperandoli per restituirli all’informatico. Si fece accompagnare nel luogo dove aveva lasciato la macchina presa a noleggio e si avviò verso l’albergo. «Erika, ti lascerò in albergo così potrai riposarti un po’. L’impiegato dell’ambasciata farà avere l’autorizzazione alla struttura così avrai la tua stanza. Io andrò in ospedale per vedere come sta Veronica e poi ti porterò dei vestiti nuovi, sperando di azzeccare la taglia.» guardò la ragazza sorridendo. «Va bene, grazie. Solo che avrei una certa necessità da... ehm... da donne. Tra un paio di giorni dovrei avere il nostro problemino tipico.» Erika guardò Davide imbarazzata.
«Non preoccuparti so di cosa stai parlando, sono sposato. Provvederò anche a questo. Poi, nel pomeriggio, parlerai con i tuoi genitori.» «Non vedo l’ora!» Il viaggio di ritorno durò tre ore, Davide chiamò Luca e gli raccontò gli avvenimenti mentre Erika dormiva profondamente. Arrivò in albergo, entrò portando in braccio la ragazza, la sistemò su un divanetto e sbrigò le pratiche per farle assegnare una stanza. L’autorizzazione da parte dell’ambasciata italiana era arrivata e la camera assegnata a Erika si trovava poco distante da quella di Veronica. Alcuni minuti più tardi uscì dalla stanza chiudendosi dietro la porta e entrò nella sua. Alle quattordici e trenta era pronto per uscire e andare in ospedale, aveva ricevuto l’indirizzo da Mirko chiamandolo al cellulare e avvisandolo che era in possesso anche del computer. Uscì dall’albergo e andò in ospedale.
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Il ritorno a casa, 6 maggio 2009
Le dolci e leggere oscillazioni del velivolo erano un toccasana per la mente di Davide e lasciarsi cullare in quel modo era qualcosa di prezioso, poteva sostenere con fermezza che era come ritornare tra le braccia di sua madre. Bastava semplicemente chiudere gli occhi. Era una tecnica che aveva imparato nell’esercito quando era costretto a fare dei lunghi spostamenti per arrivare nelle zone di guerra, ogni velivolo aveva il proprio moto oscillatorio caratteristico e bisognava soltanto seguirlo chiudendo gli occhi. Erika era seduta nel posto dietro, non aveva aperto bocca da quando erano decollati ma sapeva che era sveglia. Mirko si era messo accanto a Veronica immobilizzata sulla barella, non era ancora in grado di stare seduta e i medici dell’ospedale avevano preteso una autorizzazione scritta dall’ambasciata per dimettere la poliziotta. Luca si trovava alla destra di Davide separato dal corridoio, era venuto a prenderli fornendo un’enorme quantità di prove alla polizia albanese che stava già rastrellando la sede de “La mano del padre” e tutte le strutture di adozione consociate. In più era stata avviata un’indagine interna al dipartimento di polizia alla ricerca dei traditori. Il capo dei trafficanti era stato identificato con il nome di Tarin Gjoka, aveva dei piccoli precedenti penali per furto e spaccio ma niente che potesse impensierire la polizia albanese, anche se, dopo i fatti avvenuti quattro giorni prima, stava riaprendo dei casi di omicidio irrisolti che sembravano collegati all’organizzazione capitanata dal criminale. Davide aveva chiamato sua moglie Sara prima di spegnere il telefono, le aveva chiesto come stava Rebecca e quando l’avrebbero dimessa. Lei gli rispose che la donna era a casa da un giorno ma in quel momento erano in insieme in treno dirette all’aeroporto di Fiumicino.
«Ehi, ti stai rilassando in attesa di essere ricevuto da eroe?» Luca interruppe il riposo dell’amico. «Lo sai che odio i ricevimenti in pompa magna.» Marchi non si degnò nemmeno di aprire gli occhi. «Non puoi farci niente, la notizia si è propagata in un lampo e i media sono in fibrillazione. Ieri un quotidiano ha messo un titolone con scritto “tre italiani smantellano una banda di trafficanti di bambini.” e un altro “Nuovi eroi moderni: due uomini e una donna salvano dieci bambini.” Tieni li ho conservati per te.» il poliziotto gettò i due giornali sulle ginocchia di Marchi. «Bah, sciocchezze da giornalisti.» «Perché non vuoi ammettere di essere un eroe?» Luca fissò l’amico che continuava imperterrito a tenere gli occhi chiusi. «Per un motivo molto semplice, tutti quei morti li avrò sulla coscienza per il resto dei miei giorni. Tu pensi che io provi piacere?» «Ma l’hai fatto a fin di bene.» «Il risultato non cambia.» «Tu sei tutto strano, c’è chi sogna di essere come te.» «Sbaglia sogno. E non aspettarti scene da divo, sorrisi o cose simili. I giornalisti resteranno a secco.» «Bah, fai come vuoi. Saranno presenti il capo dello stato, i presidenti del consiglio, camera e senato, i genitori di Erika e le alte cariche delle forze dell’ordine. Si aspettano che tu stringa loro la mano.» «Farò questo sforzo ma non ho intenzione di partecipare a cerimonie di premiazione o simili.» «Bah, rinuncio a farti cambiare idea.» «Bravo, allora ti vedi con Paola o no?» Davide si voltò verso Luca sorridendo.
«Sì, è una ragazza molto interessante e stimolante. Forse ho trovato quella giusta.» Luca si mise a osservare il soffitto della cabina. «Stai attento perché ti terrò d’occhio.» «Tranquillo, questa volta c’è qualcosa di più che non so spiegarti.» «T’illumino io, è una parola che inizia con la a. Maiuscola però.» Davide tornò a concentrarsi sul dondolio ritmico del velivolo e Luca rimase in silenzio per il resto del viaggio. L’aereo toccò terra alle tre del pomeriggio con il sole di maggio che, prepotentemente, disegnava ombre nere e dure sull’asfalto. I piloti eseguirono le manovre di rito e fermarono l’aeromobile in uno spiazzo preparato apposta per quell’evento. L’investigatore detestava questa deviazione non richiesta e il fatto che Sara e Rebecca dovettero sorbirsi un viaggio in treno da Bologna a Roma solo per assistere allo show mediatico imposto da giornali e politici. Il portello si aprì e il rumoreggiare della folla invase la cabina, Luca fece segno a Davide che toccava a lui scendere per primo, doveva ricevere gli onori del caso. Tutto era preparato e confezionato ad arte, gli eroi, la ragazza tratta in salvo e i vari ed eventuali. Luca faceva parte dell’ultima categoria. Marchi si affacciò dal portellone e venne bersagliato di flash e gli otturatori della macchine fotografiche sembravano colpi di mitraglietta. Iniziò a scendere la scala un gradino dopo l’altro, prima lentamente e poi sempre più velocemente, voleva scappare via da quella situazione in fretta. Strinse la mano ai vari politici e militari che erano disposti in ordine d’importanza ignorando i complimenti che sapeva non provenire dal cuore. Tentò di evitare, senza successo, la folla di giornalisti che lo tartassarono di domande, si limitò a rispondere con dei “no comment” e in fine, non potendone più, con “lasciatemi in pace”. Andò a cercare Sara e l’abbracciò regalando altri scatti da copertina agli affamati media nazionali. Strinse la mano alla vedova Baldi che ricambiò con un sorriso e un grazie pronunciato muovendo solo le labbra. La cerimonia stava procedendo con l’assalto dei giornalisti agli altri compagni d’avventura ma Erika fu molto più abile di Davide nel dribblare i giornalisti e
partendo in una corsa da centometrista sfondò la barriera umana per abbracciare i genitori tra gli scatti dei fotografi impazziti. L’investigatore osservò la scena in disparte, non voleva essere al centro dell’attenzione e avrebbe incontrato i genitori della ragazza in un altro momento senza i media tra i piedi. Un’ora dopo era tutto finito, Marchi era in treno con la moglie, la vedova Baldi e Luca mentre Mirko e Veronica stavano tornando nelle marche in ambulanza perché la poliziotta sarebbe dovuta restare in ospedale alcuni giorni, le era stata rimossa la milza a causa della ferita e forse avrebbe subito un nuovo intervento chirurgico. Erika e i suoi genitori restarono a Roma altri due giorni, volevano rilassarsi un po’ per riprendersi dalle ansie e dallo spavento dei giorni precedenti, tra l’altro la ragazzina amava molto la città eterna ma non vedeva l’ora di riabbracciare Michela. L’amica del cuore era viva.
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Numana, 9 maggio 2009
Una battaglia per il pesce era in corso tra i flutti del mare illuminato dal sole caldo di metà mattina, i gabbiani che litigavano emettevano stridule grida mentre piccole onde s’infrangevano sulla battigia. La gonna della ragazza dai capelli rossi si gonfiava alla leggera brezza marina, seduta sulla sedia a rotelle osservava l’orizzonte mentre veniva spinta in avanti da un ragazzo in t-shirt gialla. I capelli color rame della donna minuta, che camminava a loro fianco, spiccavano in contrasto con la sabbia luminosa. «Ce la fai a spingermi?» «Non preoccuparti, finché restiamo sulle lastre di cemento posso farcela.» Luca guardò Michela sorridente. I tre arrivarono al limite della stradina di cemento e si fermarono, Luca si portò davanti alla carrozzina, riuscì a sollevare la ragazza prendendola in braccio e si avviò sulla sabbia lentamente e senza dimostrare fatica nel gesto appena compiuto. Arrivò a qualche metro dall’acqua, posò delicatamente Michela sulla sabbia aiutandola nel mettersi seduta e lui si sedette al suo fianco. La donna rimase in piedi a contemplare il mare azzurro che si fondeva con il cielo. «Mamma, perché ci sono persone che fanno del male ai bambini? Perché Dio permette che uomini come quello che ha portato via Erika esistano? Io non sono religiosa come te e me lo rimproveri sempre ma in ospedale ho pregato e forse sono stata ascoltata, solo che non capisco perché permetta queste cose.» un velo umido coprì gli occhi della ragazza. «Tesoro, non è facile da spiegare ma posso assicurarti che non è come la pensi tu.» Marina fissò la figlia.
«E allora com’è! Spiegamelo per favore!» Michela scoppiò a piangere. Luca fremeva, lui sapeva la risposta ma era anche conscio che il momento non era quello giusto. Restò in silenzio senza fiatare. «Miky, io e te dovremmo leggere alcune cose insieme perché tu possa capire. Questo mondo secondo te da chi è governato?» «In che senso, mamma?» Michela si asciugò gli occhi. «C’è un libro che tutti abbiamo ma non leggiamo mai e in questo volume c’è la risposta. La trovi in un versetto e dice che il mondo, per come lo conosciamo noi, è in possesso di quello che noi chiamiamo comunemente Diavolo. Per la precisione è scritto: “Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno.” E’ una cosa importante da capire ed è qualcosa che può cambiare la visione che hai della vita. Ora ti racconterò una storia, volevo farlo più avanti ma credo che questo sia il momento giusto.» la donna vide lo sguardo incuriosito del ragazzo «Non preoccuparti Luca, puoi ascoltare.» Marina tornò a fissare l’acqua azzurra. «Michela, tu sai che io e tuo padre ci siamo sposati molto presto, ero in dolce attesa e decidemmo entrambi di continuare l’avventura insieme. Eravamo la coppia perfetta, sempre sorridenti e sembrava fossimo senza problemi, ma non avevano fatto i conti con te. Quando sei arrivata hai stravolto la nostra vita, io non lavoravo ancora perché il negozio l’ho aperto alcuni anni dopo la tua nascita, tuo padre era impiegato come facchino, non aveva ancora preso la patente e stava studiando per prendere il diploma. Il primo anno fu molto duro per noi, il secondo un po’ meno ma ormai il danno era fatto e tra una litigata e l’altra stavamo andando verso la separazione.» «Mamma, questo non me lo hai mai detto!» «Beh, come vedi, io e tuo padre siamo ancora insieme. Pensavo di parlartene più avanti ma ho capito che cresci molto più in fretta delle tue coetanee e ho deciso che questo è il momento giusto.» «Ehm, ok va bene.» Michela cercò le mani di Luca.
«Un sabato mattina ero sola in casa e la tristezza mi stava mettendo a dura prova. Stavo pulendo la cucina e, mentre mi chiedevo se il mio matrimonio sarebbe arrivato a fine anno, suonò il citofono. Andai a rispondere ed erano delle persone che di solito cacciavo, spesso in modo poco gentile, ma quel giorno avevo bisogno di parlare con qualcuno e ho aperto la porta.» «Ho capito di chi parli, la nonna non li può vedere.» «Lo so, io e tua nonna ne abbiamo parlato spesso.» Luca stava ascoltando la storia con interesse. «Quella che doveva essere una discussione di cinque minuti durò più di un’ora e ce ne furono altre, queste persone mi colpirono molto insegnandomi che Dio vuole solo il nostro bene. Mi accorsi che stavo cambiando, smisi di litigare con tuo padre e successivamente ne parlai con lui, solo che non siamo tutti predisposti per farci delle domande profonde e così lui piantò tutto.» «E tu?» Michela fissò la madre con gli occhi sgranati. «Io ho proseguito questo studio e lo sto facendo tutt’ora perché non si finisce mai, mi aiuta molto quando sono triste per qualche cosa che non va.» La donna stava osservando il mare che si stava leggermente increspando mentre i due gabbiani continuavano a darsi battaglia per un altro pesce, si voltò verso lo figlia e le sorrise. «Se ne hai voglia posso insegnarti qualcosa.» «Beh, io... non so...» Michela si mise a fissare la sabbia. «Potrai smettere quando vorrai e se un giorno queste persone busseranno alla tua porta lasciale entrare, hanno molto da insegnarti.» Luca trattenne il fiato in attesa della risposta. «Io...» la ragazza guardò l’amico e poi si voltò verso la madre «ok, posso provare.» L’ora successiva trascorse nell’allegria, pranzarono con dei panini e mangiarono
un ottimo gelato, la condizione fisica di Michela sembrava non pregiudicare la sua voglia di vivere e Luca contribuiva alla serenità della ragazza. Marina osservava i due coetanei e ci vedeva la sua storia d’amore ed era sicura che sarebbe stata duratura. Quel ragazzino non parlava molto ma lei aveva intuito che nascondeva un segreto importante ma, soprattutto, faceva sentire bene sua figlia. «Bene ragazzi, è ora di andare.» Marina interruppe il gioco tra i due innamorati «non vorrei far aspettare troppo una certa persona.» «No mamma! Portantino... avanti tutta!» «Agli ordini capo!» Luca prese in braccio Michela e la mise a sedere sulla carrozzina, poi iniziò a spingere la sedia a rotelle sulle lastre di cemento aumentando la velocità ad ogni o. I tre si lasciarono il mare e la spiaggia alle spalle, Luca aiutò la ragazza a sistemarsi sul sedile della macchina mentre Marina piegò la carrozzina e la depose nel bagagliaio. L’auto si avviò verso la cittadina di Osimo mentre il cielo iniziava a velarsi di nuvole. Probabilmente sarebbe piovuto.
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Osimo, casa Stecca.
Il cielo del pomeriggio si stava caricando di nuvole grigiastre tipiche dei temporali primaverili, Erika si trovava nella sua cameretta intenta a sistemare le sue cose, continuava a guardare il vestito con cui era tornata a casa e che Davide le aveva regalato. Per lei significava il ritorno alla vita normale anche se, lo sapeva bene, la ferita interna non si sarebbe rimarginata molto in fretta. Suo padre aveva già contattato una psicologa, con cui lavorava nei casi di violenza e stupri, per farle iniziare un ciclo d’incontri e capire quanto fosse stata toccata dalla vicenda. Erika aveva deciso di raccontare la sua storia in un libro, sarebbe stata dura rievocare quei brutti momenti vissuti ma era convinta che il mondo dovesse essere messo a conoscenza della sua storia e degli altri compagni di prigionia. La mattina era ata in fretta, lei si era svegliata alla nove e dopo la colazione con i genitori aveva ato un po’ di tempo in giardino. I due giorni a Roma erano stati bellissimi, anche se faticosi, la mamma e il papà avevano preso alcuni giorni di ferie per starle accanto e tranquillizzarla nel rientro alla normalità. Michela. Erika aveva pensato a lei costantemente e voleva rivederla. Non poteva inviarle degli SMS perché aveva perso il cellulare in spiaggia il giorno del rapimento e, da quando la bella poliziotta le aveva detto che la sua amica era viva, non stava più nella pelle. Doveva assolutamente vederla. Ripensando alle persone che aveva conosciuto nella brutta avventura si rese conto di essere stata fortunata e che al mondo dovrebbero essercene di più per
combattere il male. L’investigatore, la poliziotta e l’altro ragazzo, di cui non aveva ancora capito l’occupazione, erano comparsi dal nulla nel palazzo a vetri dalle stanze azzurre e l’avevano seguita fino al tugurio per riportata a casa. E per lei erano angeli. Il citofono emise il suo solito trillo. Alcuni secondi dopo sua madre le chiese di raggiungerla in soggiorno perché c’era una persona che voleva vederla. Sperava che non fosse qualche giornalista, stava iniziando a detestarli. Uscì dalla sua stanza, iniziò a scendere i gradini della scala che portava al pianterreno e arrivata a metà strada si fermò. I cuore impazzì, Erika saltò gli ultimi gradini e corse verso l’ingresso della villetta. Michela era lì. Si chinò e cercò di abbracciarla in qualche modo, iniziò a piangere dalla felicità e Michela fece la stessa cosa. Le due amiche erano di nuovo insieme, pronte per iniziare una nuova vita e per rinnovare la promessa che si erano fatte da bambine. L’una avrebbe protetto l’altra. La madre di Erika osservò la scena e si commosse, ora desiderava conoscere la famiglia di Michela che, chissà per quale motivo, non aveva mai frequentato nonostante, sia lei che suo marito, fossero a conoscenza del legame tra le due ragazzine. Sorrise e invitò il terzetto a entrare, strinse la mano alla parrucchiera e pensò che non era mai andata a farsi fare un’acconciatura dal lei. La donna e il ragazzino si sedettero sul divano mentre Erika preferì una sedia accomodandosi accanto alla sua amica. Marina fece notare alla ragazza uno zainetto e le porse un cellulare. «Oh, grazie! Pensavo di averli persi per sempre!» «Li ha recuperati un signore in spiaggia quando è stata trovata Michela.» «Io... Io pensavo di averti vista morire, eri lì sulla sabbia...» la ragazza continuava a piangere. «Beh, alla fine è andato tutto a posto e io sto bene. Anzi adesso sono anche
dotata di ruote.» Michela sorrise mentre Luca le stringeva la mano destra. «Sei coraggiosa, io non riuscirei a essere come te e vedo che alla fine hai seguito il mio consiglio.» Erika guardò Luca che arrossì. «Nella vita bisogna saper cambiare.» Nessuno dei presenti replicò, la risposta della ragazzina dimostrava maturità. Il pomeriggio ò in fretta, le due mamme parlarono delle rispettive famiglie, del lavoro e di capelli. Marina dispensò consigli sulle doppie punte e sul sole estivo che danneggiava i capelli, Annalisa scoprì che era un piacere parlare con quella donna ed era curiosa di conoscere anche il marito. Pensava che tra le due famiglie potesse nascere una bella amicizia. Erika, Michela e Luca trascorsero tutto il tempo in giardino a pianificare le future vacanze estive tra un succo di frutta e un gelato. Le due ragazze avevano molto da raccontarsi su quello che era successo ma decisero di attendere il momento giusto, ora volevano semplicemente trascorrere più tempo possibile insieme. E il tempo non è mai abbastanza.
EPILOGO
Numana, due mesi dopo.
Osservare i maschioni a caccia di fanciulle che scrutavano le due donne al suo fianco era soso, soprattutto perché quella in bichini verde pastello era sua moglie Sara mentre l’altra donna dal fisco perfetto e in bichini bianco era Rebecca. Marchi ammirava la spiaggia dietro le lenti dei suoi Ray-ban respirando l’aria salmastra impiastrata di creme abbronzanti. Aveva deciso di andare in vacanza un paio di settimane nelle Marche con sua moglie e lei volle invitare anche Rebecca per permetterle di svagarsi un po’. Dal momento in cui le due donne si erano conosciute non avevano più smesso di frequentarsi e Sara poteva sostenere con certezza che la vedova Baldi non era la tipica ricca dalla puzza sotto il naso. Tutt’altro, era una donna umile che dava molto peso alla vita e aveva un disperato bisogno di amici. Di quelli veri. Le indagini stavano proseguendo per determinare altri collegamenti de “La mano del padre” in Italia e c’erano stati anche arresti eccellenti tra cui un vescovo nel sud del paese. La rete messa in piedi dall’organizzazione era molto vasta e gli inquirenti iniziavano a sospettare che molte sparizioni di bambine e ragazzini potessero essere legate all’organizzazione albanese. Rebecca aveva scoperto che Mario possedeva un conto segreto in banca e che solo lei poteva accedervi. Lui l’aveva definito un’assicurazione sulla vita, era scritto su un biglietto trovato all’interno di un libro nella cassaforte nel suo ufficio. Baldi aveva messo da parte una bella somma di denaro, la donna aveva deciso di vendere la villa e l’ufficio del marito per prendere una casa più modesta, il resto del ricavato, unito ai soldi del conto segreto, sarebbe servito per avviare un progetto molto importante e alla quale pensava da anni. La casa di Rebecca.
Una serie di appartamenti assistiti da personale infermieristico dove le famiglie, che venivano da lontano, avrebbero potuto soggiornare a costi onesti permettendo ai genitori di seguire le cure antitumorali dei loro piccoli. Davide vide arrivare Veronica e Mirko mentre sotto l’ombrellone che aveva alla sua sinistra c’erano la famiglia di Erika e quella di Michela che chiacchieravano allegramente. Le due amiche erano in acqua con alcuni coetanei e si divertivano un mondo, Marchi notò la grande forza di volontà della ragazza paralizzata alle gambe che stava seduta con l’acqua fino alla vita schizzando tutti gli altri. «Buon giorno e ben arrivati.» la poliziotta fissò Davide attraverso le lenti a goccia dei sui Ray-ban. «Buon giorno e grazie.» osservò il fisico della donna a caccia della cicatrice e fece fatica a trovarla «pensavo che si vedesse di più il ricordino della nostra avventura in Albania.» «Lo pensavo anch’io e invece, i medici, hanno fatto proprio un bel lavoro. Aspetta un attimo...» Veronica si avvicinò all’informatico rifilandogli un calcio poco sopra la caviglia destra. «Ahi! Non sto facendo niente di male!» «Volevo solo ricordarti che sono qui, visto che stai parlando con due belle signore.» Sara e Rebecca scoppiarono a ridere. «Bene tornando a noi, caro investigatore, vorrei proporti un lavoro.» «Uhm, di che si tratta?» «Sto mettendo in piedi un’unità specializzata nella ricerca di bambini scomparsi e che si occuperà anche di pedofilia. Ho pensato che potrebbe interessarti la posizione di consulente esterno, saresti perfetto. Anche Mirko lavorerà nel gruppo come esperto in sicurezza e infiltrazioni informatiche.» «Beh, l’idea non è male. Quando partireste?» «A settembre.»
«Ok, credo che si possa fare cara criminologa.» Il resto della giornata ò in allegria, pranzarono tutti insieme con dei panini fatti ad arte dalla mamma di Erika e un’insalata di riso preparata da Marina, la madre di Michela. Si diedero tutti appuntamento per la sera in una nota pizzeria di Numana per fare una eggiata nel centro del paese. Tutti stavano raccogliendo le proprie cose mentre Erika, Michela e Luca erano seduti sulla battigia a guardare il mare e i gabbiani galleggiare sull’acqua. «Vorrei tanto che tutte le persone malvagie sparissero dalla faccia della terra, soprattutto quelle che fanno del male ai bambini.» Erika fissava un punto non definito davanti a sé. «Uhm, troppo bello per essere vero.» Michela giochicchiava con alcuni sassi. «Sarebbe la fine del mondo.» Luca ammirò in controluce un vetro verde eroso dall’acqua. «Tu dici?» Michela fissò negli occhi il ragazzo. «Sì, e prima o poi succederà.» Luca ricambiò lo sguardo. I ragazzi si voltarono sentendosi chiamare dagli adulti per andare a casa, Luca si alzò e prese in braccio Michela. «Vorrei tanto che fosse vero...» Erika tirò un sasso nell’acqua. I tre amici si avviarono verso i quattro adulti che li stavano aspettando e si lasciarono il mare alle spalle. Per le due amiche stava iniziando una nuova vita.
Indice
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NOTA
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EPILOGO