La scatola dei ricordi
di Mariachiara Marsella
Published by Mariachiara Marsella at Smashwords
E’ un libro che nasce dall’esigenza di liberare alcuni ricordi.
I ricordi prendono vita all’interno del libro e diventano personaggi, con la pretesa di essere persone.
Ringrazio mia madre, mio padre, il mio compagno che ogni giorno mi hanno fatto correggere frasi che avrei capito solo io.
Il libro è gratuito perché non ho la pretesa di essere una scrittrice, ma solo una persona che ama comunicare.
E poi, grazie a Smashwords che consente a tutti di poter esprimersi .
Introduzione
Quante volte abbiamo vissuto ore o addirittura un intero giorno come fossimo estranei alla nostra stessa vita, protagonisti sì, ma senza sapere di esserlo e quando, finalmente, lo abbiamo compreso era, ormai, troppo tardi, la parte già apparteneva a qualcun altro.
Allora è lì che rimpiangiamo d’avere o di non avere fatto abbastanza, per noi stessi o per chi amiamo, che è poi a stessa cosa.
Credo che ognuno di noi conservi in sé un altro se stesso, nascosto in fondo in fondo, ognuno di noi potrebbe essere Macario, Velia, Olga o Fulvia e tanti altri, oppure tutti insieme i personaggi, ognuno di noi, compresa io, potremmo imparare a darci del “tu" senza nemmeno conoscerci ma solo perché fratelli nello stesso mondo.
Le contraddizioni sono parte della vita che è magnifica in ogni suo più breve respiro, più avanza e più torna indietro e così un anziano, spesso, torna bambino con la curiosità che lo assale.
*****
Trascinò il poco fiato …
Trascinò il poco fiato attraverso la fessura delle labbra ciancicate da una notte per nulla tranquilla, intanto sollevava il capo e poi la schiena facendo leva sulle
magre braccia bianche placando la sua ansia, nel buio, per un sogno per niente gentile. Bruttino e striminzito, camaleonte in bianco e nero, un Ciaula pirandelliano che, vinto però dalla debole intelaiatura del suo corpo, non sarebbe riuscito a piangere né a ridere di cuore.
Mani lunghe e affusolate e pelose fin poco prima delle lunette delle unghie.
Ogni fredda o calda mattina Macario, in greco "Felice", restava più che fedele alla routine e anche alla sua attività onirica era stagnante.
eggiava lungo un viottolo di Roma, aveva la sensazione di essere seguito e come un cane su un pavimento di cera braccato dalla sua stessa ombra, scivolava sui sampietrini "traditori": mania di persecuzione.
Si spiaccicava al muro cercando di eludere il suo presunto pedinatore.
Compagna di sempre Benedetta, una dracena (tronchetto della felicità) bastardina trovata vicino ad un secchio dell’immondizia, lo ascoltava canticchiare, recitare poesie, malinconico della sua autorevole autorità da insegnante in latino e greco, andata in pensione già da cinque anni.
Le sue origini, i suoi parenti, il suo ato, tutto, era stato incellofanato più per indifferenza che per preziosità e d'altronde poi, cosa spinge a conservare un quadro d’autore dietro un vetro di sicurezza, un gioiello in una cassaforte? Non credo sia la costosità dell’oggetto quanto l’indifferenza verso esso, tutto va vissuto nulla conservato.
Non valeva la pena, era probabilmente ciò che pensava Macario, ricordare, se non c’erano né orecchie né occhi ad ascoltarlo, c’era Benedetta ma Macario che ne sapeva, una pianta non ha una bocca per dirti: "Ehi ti sto ascoltando".
Cosa avrebbe narrato poi alla sua verde amica sconquassata? L’abbandono dei suoi cari che ha saputo, dai libri, chiamarsi genitori? La "relegazione" nel collegio? La scrivania amata? L’Edipo Re o Cicerone?
Una pianta, soprattutto se bastarda, queste cose già le sa.
"Quando un vecchio muore è un’intera biblioteca ad andare in fumo".
"Questa già l’ho sentita signor Macario, questa non è sua" sorrideva educatamente il macellaio pieno di distinta finezza, cortesia e pulizia anche verbale, che a incontrarlo per strada, fosse pure con un’accetta in mano, avresti pensato a Zorro e mai ad un macellaio. "La carne è tenera e il pollo viene da cultura biologica".
"Coltivano i polli? Per quanto tempo devono stare con le zampe infossate nel terreno come fossero radici?".
Sapeva esattamente cosa significasse quel termine ma desiderava, non che lo fosse davvero, sembrare brontolone o sarcasticamente ironico perché tutti gli uomini, ad una certa età, diventano così e lui non voleva distinguersi.
"Esse oportet ut vivas, non vivere ut edas, che importa quindi se il pollo è stato
concimato o no".
"Speriamo invece – non stupisca l’ottima conoscenza della lingua latina del macellaio – che la gente viva per mangiare e non viceversa altrimenti quale il senso della mia missione? ".
Il signor Giulio, tagliava, affettava, tritava carne e una volta pure un dito, da più di venti anni e da circa quattro viveva combattuto tra gli insaccati e le insalatine ristrette e piuttosto essenziali che sua figlia, Fulvia, masticava a fatica fiaccata da quella bestia immonda che è l’anoressia.
Tutti nel vicolo sapevano, l’avevano vista, anzi intravista, dato che appariva un puntino in lontananza anche ad un ipermetrico, Macario una volta ci aveva anche parlato, di tutto ma non di "quello".
In qualche modo la gente tende a fidarsi maggiormente delle persone bruttine o insignificanti, bruttine e insignificanti come lui.
Tutti sapevano nessuno ne parlava come fosse un segreto, l’omertà e il rispetto sono due paesi confinanti e Macario abitava tra uno e l’altro.
Un villino, quattro stanze in un piano, di tutto rispetto, fiero e datato che, se avesse avuto voce, le sue mura avrebbero cantato la storia atagli accanto o addirittura appoggiatasi ad esse quando i soldati sostavano a breve, cercando riparo dal sole o dalle armi.
Appoggiando l’orecchio e l’attenzione ai rumori di Roma, tra questi, flebili ma chiari come l’eco di un bimbo festoso, si districheranno il calpestio sui sampietri scoppiettanti sotto gli zoccoli dei cavalli, il vociare al mercato dello schiavo, il ruggire dei leoni al Colosseo e così per un udito ancora più attento, addirittura, il silenzio.
"E’ inutile prendersi in giro quelle cose un po’ ovali che terminano a punta e che si aprono per spostarsi, (gli uccelli, insomma) sono diventati muti e pigri, elemosinano briciole o beccano le cartacce agli angoli delle strade".
Dentro se questi ed altri pensieri si mescolavano l’uno all’altro fin quando si scoprì a pensare alla morte dopo un rapido aggio mentale dalle cartacce alle merendine che ricordava come preferite dai suoi alunni, dai suoi alunni a Giulia.
Aveva sedici anni quando andò a vedere il mondo dall’alto e le piacque così tanto che prese lì la sua dimora e non servirono le suppliche snervanti di sua madre, né il rosario recitato dalle parrocchiane, né le lacrime di Federico e di tutti quelli che davanti alla sofferenza di un corpo e di un’anima sacri e inviolabili non possono che bestemmiare il Dio che due minuti prima hanno disperatamente pregato.
Per disattenzione, pensava il professore, si commettono gravi errori e non solo ortografici, così sedici anni di cure e attenzioni si sfracellano sotto le rotaie di un treno in pochi istanti.
"Se la vita fosse una donna, per ogni figlio partorito e strappatole, avrebbe scelto la sterilità" – continuava a pensare.
"E’ meglio non aver niente che perdere tutto quel che si aveva".
"Caro signor Macario pensa di rassicurarmi? Sono belle frasi ma solo per le orecchie e io è da un po’ che non ci sento! ".
"Non credo signora Celestina, lei ci sente benissimo e persino attraverso le porte! ".
"Ah, se si riferisce a quando ho detto al macellaio di tagliarle la carne più tenera per via dello zompetto della dentiera, dovrebbe ringraziarmi e invece".
La vedova Celestina era una delle donne più cicciotte che Macario avesse mai immaginato potere esistere e poter vivere così bene, pur non possedendo molto, tralasciando i suoi cento chili.
Rideva di continuo, né la tangevano gli scherni dei magri, né quelli più cattivi dei bianchi (era di colore) o dei puritani (aveva un figlio gay) o dei romanisti (un altro figlio era laziale) e a detta di tutti: meglio un figlio frocio che laziale, questo c’era scritto sul muro, dirimpetto all’angolo della strada, che conteneva un piccolo alimentari dove però era possibile trovare anche pesci rossi e scarpe usate.
Una sera profumata di cotiche e fagioli e stornelli da osteria, Macario cancellò quella scritta, ma per non compromettere il suo carattere e porlo alla mercé dei buoni e dei più deboli disse che lo aveva fatto solo perché lui era laziale.
Ma immaginare un uomo di una quarantina di chili, rattoppato dalla vita, e tamponato dal vento come un fruscello a terra sospinto da un angolo all’altro al minimo respiro di Eolo, immaginarlo alzarsi scattante per un goal, andava ben oltre la fantascienza e lo esonerava dal dubbio che fosse tifoso e della Lazio e di qualunque altra squadra: se non riesci a fare l’ola non puoi tifare, persino il Papa sa fare l’ola, l’avevano visto tutti al giubileo dei giovani, sbraccicante.
Cattolico non lo era, raccontava spesso di quando il "Papa buono", un giorno girò per le parrocchie romane come il più acclamato delle stars, ma il meno vip di tutte. Macario era lì, tra la folla festosa e amalgamata dallo stesso spirito, santo o no non importava, lì c’era pure chi non credeva o chi, invece, avrebbe voluto.
Lui era lì per capire, come se un uomo vestito di bianco avesse le risposte a tutte le domande di tutti gli uomini che per avere fede devono solo che diventare il dito di San Tommaso conficcato nel costato del "Re", ma molti e così pure Macario se ne tornavano a casa con lo stesso animo di quando erano scesi in piazza.
A settembre i ricordi scolastici nemmeno troppo lontani nel tempo ma lontanissimi quando irripetibili, salivano a galla esplodendo come palline di plastica spinte sott’acqua e poi lasciate improvvisamente e tanto più Macario si sforzava di tenerli sommersi tanto più in alto essi arrivavano sbattendo contro le pareti del cranio e così alla nostalgia del gesso e del cancellino si univa, come inseparabile fratello, un forte mal di testa. Sebbene fosse schivo alle attenzione degli altri, anche a quelle del dottore, le tempie palpitanti lo spinsero fino alla sala d’attesa.
"Deve stare proprio male signor Macario se ha varcato la soglia" la segretaria compilava alcune schede ingombrata da un carnoso petto, continuava "Come mai è qui? ".
"Mal di testa… credo".
Prima che finisse di parlare, uscì un nano con un camice bianco, il dottor Marcello, allungò il collo chiedendo chi fosse la signora con l’emicrania.
"Io" rispose Macario.
"Lei? Un bel coraggio cambiare sesso a sessantasette anni, ma devo darle una brutta notizia: non è cambiato nulla, avevo detto "Signora".
Risero la donnina vicino alla segretaria che intenta a chiacchierare non aveva nemmeno ascoltato, ma ridevano tutti quindi anche lei, la donna gravida e forse anche il nascituro, tutti insomma tranne la signora Velia, lei sorrideva e alzandosi lentamente ma decisa senza che le gambe da quasi settantenne la tradissero, rispose "Sono io, eccomi".
"Sono io, eccomi", "Sono io, eccomi", "Sono io, eccomi".
L’eco di quella voce aveva narcotizzato i sensi di Macario come se la sua età fosse adesso solo la somma delle due cifre.
"Ulisse – pensò – fu avvisato, io no, nessuno mi aveva detto che avrei dovuto tapparmi le orecchie per impedire che quella voce, quel volto mi attraessero a lei rendendomi così imbecille e ipocondriaco nella speranza di rivederla".
Tutto, il macellaio, la signora Celestina, la ata scuola, tutto diveniva sensazionale e tutto, anche la morte di Giulia, trovava risposta e amando gli parve persino di pregare e forse è così.
Lo distrasse dalla sua quiete il silenzio di lei, forse su consiglio di Sofocle quando recitava: "A tutte le donne il silenzio porta abbellimento", lo distrasse la sua essenzialità, forse su consiglio di Plauto quando recitava: "La donna ha un buon profumo quando non ha nessun profumo". Gli contrassero il viso invece, le fangose parole di Publio Siro: "Amare è come un frutto per il giovane, un delitto per il vecchio".
Il miracolo estemporaneo fu le sue risate e i suoi pianti di cuore, ma in silenzio ché nessuno potesse pensare a lui come all’attore del delitto.
Benedetta restava in disparte accartocciata su se stessa privata delle confessioni che egli non osava fare nemmeno a se stesso, le ombre pedinatrici cavalcando le sue fobie tornavano al galoppo nel Limbo; tagliò anche le unghie dei piedi, non che pensasse di fare sesso, tutt’al più avrebbe tenuto i calzini ma ogni cosa si rovesciava su se stessa, un cono senza punta, un cucchiaio bucato, un piatto senza fondo, un pugno senza dita e un corpo senza nervi. Si contraeva schizofrenico, sanguigno e livido il cuore del suo animo al pensarla, era ora, e forse per la prima volta, a disagio nella sua incompletezza.
Avrebbe potuto tradurre dal greco in latino, senza l’ausilio di alcun vocabolario, anche tutta l’Odissea, ma a chiedergli cosa provasse, quale fosse la sua condizione umana attuale, egli avrebbe sperimentato l’afflizione per l’incapacità di esprimersi, bleso e dislessico al contempo, avrebbe indossato il torpore dei suoi alunni accarezzati da Cupido
Pietro e Alessia era stata la prima coppia del quinto Ginnasio, poi tutti, come una vera e propria epidemia.
Quasi tutti si lasciavano e si riprendevano e spesso un ragazzo si fidanzava con la migliore amica della sua ragazza senza nemmeno avvisarla.
Macario, allora, non comprendeva a pieno il perché del rossetto per lei o della smodata quantità di profumo per lui, fatto sta che come in preda ad un’inevitabile metamorfosi, le timidezze, l’impaccio, la riservatezza e pure i capelli delle ragazze, si coloravano di tanta vivacità.
Pietro e Alessia avevano deciso di sedere allo stesso banco, e anche se talvolta la "convivenza" evidenzia, visibilmente, i difetti dell’uno e dell’altra, sembravano andare d’accordo.
Pietro la seguiva ovunque e aspettavano la pausa delle undici e trenta per rubarsi qualche bacio, poco innocente, accanto alle scale e lontano dalla presidenza, ma se fosse capitato, anche davanti a Macario, sapevano che il professore era "uno tranquillo".
Macario, durante la giornata, aveva intravisto Velia per ben tre volte, ma non stava inseguendola, come, invece, avrebbe fatto Pietro, fu il destino che li volle faccia a faccia davanti ad una Chiesa che con le sue campane, rintoccava le dodici e trenta.
"Di nuovo lei, ci saremmo incontrati già un tre o quattro volte, come sta, è ato il mal di testa? ".
"Sì, ma che vuole, signora, alla mia età – "e alla mia" ribatté lei – si accetta tutto come dovuto, lei non dimostra affatto sessantasette anni".
"Infatti, ne ho sessantanove".
Un piccolissimo, breve ma potente sorriso li portò ad una maggiore confidenza colloquiale che li trovò ben lieti e disposti entrambi non più alle formalità ma a chiacchierare e poco dopo a "confessarsi", lei di una fetta troppo abbondante di crostata alle more, lui, invece, dovette inventarsi un peccato.
Una coda ben tirata e raggruppata dietro la nuca era l’unico vezzo che si concedeva, e solo in questo si assomigliavano, robusta e matrona, conteneva in se concretezza e leggiadria.
Pur avendo avuto solo fugaci attrazioni quando l’età giovane glielo consentiva, Macario era un gentiluomo nelle parole e nei gesti, gli bastava fare e dire tutto il contrario di ciò che facevano e dicevano quei maschilisti di greci e latini.
Velia era stata cresciuta in una relativa armonia e tranquillità così che non le pesò mai aver dovuto rinunciare a qualche vestito in più e anzi avrebbe rinunciato a tutto se ciò le avesse permesso di riavere accanto suo fratello, sparito quando aveva solo pochi mesi.
Ascoltare di quelle vicende terribili e infamanti, di coloro che allisciavano puri angioletti candidi, per avere orgasmi putridi e vergognosi che a tagliarli il pene o le mani le forbici si sarebbero retratte e rifiutate di toccare tanta schifezza, la
faceva vomitare, il pensiero di lui palpeggiato e infine ucciso le attorcigliava lo stomaco e le membra come uno spago arrotolato stretto stretto intorno a un pezzo di carne rossa, sanguinante.
Quando, raccontando a Macario del suo defunto marito, gli faceva capire di averlo amato, lui, ingiustamente ma umanamente geloso, avrebbe voluto cancellarle il ato giustificando se stesso con il desiderio di preservarla dal dolore, anche da quello della sterilità.
"Le esistenze si accostano le une alle altre e si sovrappongo solo per pochi minuti che a noi sembrano anni, ma ognuno di noi è solo".
Difficile capire se la tristezza o l’esperienza o entrambi, per chi ha sessantanove anni, fossero sue ispiratrici, difficile capire se quell’affermazione fosse stata, invece, una domanda, una richiesta di aiuto, e comunque Macario, che fino a pochi mesi fa parlava in solitudine, non avrebbe potuto rassicurarla, lui che era solo da sempre e mai in compagnia come in quel momento.
"Sono solo oggi, ci metterò un po’ per tagliarle delle belle fettine, può aspettare? ".
"Certo, certo aspetterò, tanta la discoteca aprirà più tardi".
"Spiritoso?! " la signora Celestina, entrata in macelleria contemporaneamente a Macario ma solo perché Macario era magrissimo, lo osservava come se ad un anziano non fosse dato essere ironico.
Tre gradini, ai quali sino ad allora erano sconosciute suole di scarpe che non fossero quelle di Macario e Velia fu dentro. Aveva accettato l’invito a cena perché aprirgli il cuore le parve la cosa più naturale che avesse mai fatto.
Un bacio le sfiorò la guancia e Macario apparve l’uomo più bello dell’universo. C’è così tanta delicatezza nel cercare compagnia, e tanto più l’animo è aperto tanto più l’animo cresce fino a diventare infinito, un mosaico di esperienze dove ogni tassello ha un posto preciso e dove l’uno integra l’altro affinché quel disegno magico possa esistere: Amare.
Il pomeriggio stava accompagnando la mattina verso sera, le voci si diradavano come echi lontani; questa volta non avrebbero cenato insieme anche se Macario avesse voluto non avrebbe osato chiederglielo due sere di seguito, ma lo avrebbe fatto se lei avesse lanciato un segnale che però non arrivò o non fu recepito, insomma dopo anni e anni di soli se stessi è complicato capire gl’altri.
Un grido di terrore e disperata consapevolezza squarciò il silenzio delle due ate e tutti del vicolo, anche Macario, affollarono la stradicciola: sul marciapiede, accoccolata a suo figlio, la signora Celestina si stringeva in una contrizione di singhiozzi e tremolii e di sì tante lacrime che le consumavano il viso, Federico, un miracolo l’aveva lasciato sopravvivere sino ad allora, diafano, rendeva l’anima a Dio.
"Dio c’è": c’era scritto su quel muro accanto al quale tutti i tossici si adunavano, ma dopo il funerale la scritta venne cancellata… e forse fu Macario.
"Ho letto sul giornale quel che è accaduto, è triste morire a quelli età".
"Vuoi venire con me Velia? Vado a portare del conforto alla mia vicina, siamo buoni conoscenti".
Era ato al "tu" senza rendersene conto, distolto dalle formalità superflue e stonate davanti a quella tragedia, annunciata ma sempre straziante.
"Vorrei, ma temo che non desideri estranei a condividere una sofferenza, insomma anche il dolore è intimo".
"La signora Celestina non ti avrebbe mai dato le sue conserve di pomodoro se ti avesse considerata un’estranea". Ora erano più intimi, il dolore avvicina molto più della gioia.
Macario pensò che Giulia e Federico fossero, ora, insieme solo perché conosceva entrambi ma il modo di vivere dei morti non dipende dai vivi, e aggiunse ad alta voce: "Non è detto che i miei genitori ora siano con i tuoi, Velia, forse non si conoscono nemmeno".
"Può darsi si siano conosciuti quando noi eravamo ancora troppo piccoli per ricordarci l’uno dell’altra".
"Mi sarei ricordati di te, ho una memoria ferrea… almeno per i bei ricordi, e ne ho pochi".
Sebbene la familiarità, con la quale ammansivano il tempo, condisse ogni loro conversazione, quella dell’abbandono era ancora, per Macario, una pietanza
troppo aspra da ingoiare e raccontarne equivaleva a riviverla; Velia, discreta e quindi non innamorata, non pretese oltre.
Si congedarono con un dolce sorridersi, più a lungo, visto che poche ore dopo Velia sarebbe partita per andare a Bologna, dai parenti.
Alcuni giorni più tardi gli arrivò una cartolina: la Torre degli Asinelli offriva una visuale di arte e colline di tetti.
"Non è la prima volta – scriveva Velia – che vengo qui ma è la prima volta che da qui spedisco una cartolina. A presto".
Cercò d’immaginarla, di figurare nella mente il suo trascorrere in quella famiglia "sconnessa", così l’appellò Velia. Una cugina, Erica, agorofobica, un’altra Livia, suora di clausura, ma tutti sospettavano che fosse anche lei, agorofobica se non altro perché erano gemelle.
"Professore, professore!".
Quasi non volle voltarsi per timore che non fosse rivolta a lui quella voce così allegra, agli anziani è di estremo piacere dare gioia più che riceverne.
"Mi guardi bene, non le ricordo nessuno? Le do un indizio: un giorno mi interrogò due volte in un’ora".
"sco Ribeccia" – piacevolmente sorpreso, si girò del tutto e attraversò la strada dirimpetto al cancelletto verde scrostato dopo aver riposto la cartolina nella cassetta postale, forse per poter trovarla una seconda volta.
"Sono ambulante, qui non ci vengo spesso perché non vendo tanto".
"Qui siamo tutti vecchietti, per poter masticare una di quelle noccioline croccanti, dobbiamo sprecare mezzo tubetto di pasta adesiva, lo sai quanto costa, sì?!".
Comprò solo caramelle gommose alle more e dopo qualche breve flashback lasciò l’ex alunno alle prese con due ragazzini e mezzo. Avrebbe voluto comprare anche una crostata alle more, e se li avessero inventati pure gli spaghetti alle more, ma non voleva che al suo ritorno Velia capisse che la sua assenza gli aveva fatto rimpicciolire il cervello e allargare il cuore.
"Il cuore" era il titolo del documentario che trasmettevano in tv quella sera quando sentì più vicina la lontananza e pur se riluttante a tutto ciò che fosse fotogramma decise di guardarlo, visto che, già da un po’, aveva "problemi di cuore".
Scoprì che tra gli invertebrati esiste solo nei molluschi, negli uccelli le due metà sono completamente separate… l’arterio sclerosi è una malattia costituita da indurimento e ispessimento dell’arterie, le palpitazioni sono avvertite più facilmente dagli individui nevrotici, la sincope è un arresto temporaneo del cuore… cominciò a palparsi il petto e sentì spuntare lo sterno, si sentì improvvisamente arterio sclerotico, tachicardico e pure nevrotico, attendeva, in verità, in cuor suo, che qualcuno, il conduttore, il medico o il prete, gli spiegasse perché amore fa rima con cuore.
La solitudine rende schiavi della compagnia, una volta assaporata, poi, se ne ha bisogno, ogni giorno una dose… e non dovette sentirsi troppo dissimile da Federico.
Mestizia e contentezza se ne impadronivano, l’una lo strattonava dall’altra ed allora egli constatava la sua rassegnazione come se fosse inciampato nel cadavere di un uomo che sospettava essere morto, ma sperava non lo fosse.
Mal sopportava l’idea che avesse desiderio di rivedere Velia giacché aveva vivi davanti a se i bei tempi in cui una tazzina di orzo e una manciata di "brutti ma buoni" gli appagavano la vita, dolcetti che per mangiarli si dovrebbe chiudere gli occhi, brutti, irregolari, ruvidi e spigolosi ma molto buoni: noci, pigne, farine e un velo di zucchero racchiudevano in se l’autunno.
"Grazie della cartolina, un pensiero gentile", avrebbe desiderato, invece, dirle "Non te ne andare più, mi sei mancata tanto".
"Hai visto che bella Bologna? Però ho sentito la tua mancanza".
Si gelò, ora non avrebbe più potuto dirle "Anche io" perché se fosse stato così, ed era così, avrebbe dovuto confessarlo per primo, perlomeno è questo il modo in cui si comportano i gentiluomini.
"Come stanno le tue cugine?".
"Tutto sommato bene, con Erica siamo persino andate al circolo degli anziani, c’era una festicciola; Livia, l’ho vista per appena un quarto d’ora e attraverso una grata e poi…" continuò a parlare di qualcosa che a Macario non interessava, ma fingeva il contrario per paura che lei si fosse accorta del cruccio del suo volto quando gli disse di essere andata a quella festicciola.
Che diritto aveva di essere geloso? Nessuno, e forse non lo era nemmeno, ciò che lo disturbava era l’idea che alla sua malinconia fosse corrisposta la spensieratezza di lei. Non poteva essere amore, chi ama desidera l’altrui felicità, incondizionatamente.
Si coricava con difficoltà da quando capì che non l’amava, che sentimento era allora? Era la domanda che s’infiltrava di continuo tra i suoi pensieri, ma tra tutte le supposizioni possibili, nessuna ipotesi divenne tesi.
Quel giorno Roma, smessa gli abiti giubilari, incitava gruppetti di giovani stranieri a zampeggiare come brillanti puledri alla vista dei virenti prati, mentre chi ama Roma avrebbe preferito non abitarvi, per la gioia di esserne turista.
Qualche cinese girava per le vie con tra le braccia una cassetta piena di tipiche orientalità targate "made in Italy", qualche tunisino vendeva rose scongelate, altri chiedevano firme contro la pena di morte.
"Vuole firmare?" una giovane tarchiata, rossa e occhialuta, quasi lo fermò porgendogli, con decisione ma creanza, la cartellina e la penna.
"Fate bene ad impegnarvi così voi giovani… nemmeno Dio punisce con la morte".
"Lei è cattolico?".
"No, altruista" risero, e Macario proseguì, mentre pareva varare una legge di amnistia "i primitivi al pari, erano dei grandi legislatori, e comunque la colpevolezza non giustifica mai l’omicidio".
"Lei sarebbe un oratore veramente gagliardo".
"Di solito, parlando, si impara a parlare ".
Pochi i e udì la voce di Velia:
"Non dirmi che hai firmato?".
"Sì, e pure con gioia".
"Se avessi davanti gli uomini che hanno rapito e certamente ucciso mio fratello non esiterei a fucilarli, o forse li torturerei, dipende".
"Dipende da cosa? Da quante e da che tipo di torture hanno inflitto al bimbo?".
"Certo, e sarebbe tutto duplicato, non ci credo che la vendetta non dia piacere. Ricordo – ora il volto tremolante rimpiazzò l’espressione torva da castigatrice – il dolore dei miei cari, le spiegazioni che non riuscirono a darmi tanto era sommerso il loro animo, mi hanno amata e mi amano ancora, lo so, spero lo abbiano incontrato… i miei cari, tanto l’ho amati tanto l’ho stimati…" la interruppe:
"Sono cresciuto in collegio, mi hanno rispettato".
"Mi dispiace, davvero".
"Del rispetto?".
"No, del mancato amore" il silenzio parlò eloquentemente poi, la dolcezza di Velia rendeva confetto il suo sorriso, Macario sorpreso nel rivelare il suo segreto che di tanto in tanto dimenticava.
"Ho dimenticato di are da Olga, devo andare a trovarla, è stata operata all’anca, vuoi venire Macario?".
"Ti ringrazio ma è già da un po’ che eggio e comincio a sentire la stanchezza".
"Olga, non conosceva stanchezza né abitudini, né compromessi, amava i cani, gatti e tutto ciò che avesse un’anima, credeva negli angeli e di sovente li pregava, si distribuiva tra un seno calato, poppato da cinque bocche affamate,
fianchi potenti e gambe a palizzata, per quasi un metro e settantacinque, la nuca era quadrata piena di capelli che da dietro non avresti pensato ad un’anziana e da davanti non avresti pensato a quanto apparisse giovane da dietro.
"No che non mi vengono a trovare, ma ciò che più mi dispiace è che stanno insegnando ai figli come comportarsi con loro".
Velia sembrava assente e lo era visto che si pronunciò con parole che nulla c’entravano:
"E’ tanto complesso quanto speciale, ma solo per me, credo".
"Ti rendi conto – si pronunciò beffarda – che non ti ho chiesto nulla? Io poi già lo conosco". Mentre spianava lo zinale raggrinzito dal succo di pomodoro, colse l’occasione per chinare il capo e chiederle quel che non sarebbe riuscita a chiederle se mai avesse incontrato i suoi occhi.
"Velia, ma è amore?".
"No".
L’uno indipendentemente dall’altra erano giunti alla medesima conclusione quasi come fosse un procedimento deduttivo, lei non era infervorata e lui ne aveva solo bisogno per completarsi.
Olga aveva vissuto quasi tutta la vita ad accudire anziani, dieci anni fa anche una signora senza gambe, la portava spesso a visitare il marito in carcere e diceva: "Due ore in quel posto corrispondono ad un giorno e mezzo di vita concentrata".
In due ore aveva visto di tutto o quasi, una bambina che aiutava gl’altri visitatori a compilare i moduli, una madre che si disperava, un’altra, muta e assente, perdeva la voglia persino di stare in fila.
La donna senza gambe aveva escogitato il modo per comunicare con il marito: comprava i giornalini di Topolino e di tanto in tanto ne cancellava qualche frase, così non era raro trovare Pluto che inviava messaggi di incoraggiamento.
In carcere ci si può stare per tanti motivi, non ultimo l’innocenza.
Olga aveva ancora in mente la vitalità prorompente di quel mezzo corpo, pronto a lottare quando mutilato nello spirito, e ripeteva a Velia: "Quanto si diventa forti per amore!".
All’indomani, Velia, avrebbe incontrato Macario.
Il mercatino del giorno dopo offrì loro l’occasione per una giornata più lunga delle altre.
Per tutto il perimetro della piazza, che da lontano pareva una enorme giostra, si fiancheggiavano numerose bancarelle, mentre al centro solo tre, che vendevano piante.
"La tua dracena sarebbe contenta di avere compagnia, sai che anche le piante hanno un’anima?".
"Ma piantala – scherzando – Velia, la vicinanza con Olga, prima o poi, ti farà aderire a qualche setta a favore dei sentimenti dei pali della luce".
"Constato con gioia che sei di un particolare buon umore, è dovuto forse a qualcosa che non so?".
Poteva dirle la verità e ammettere che l’aver scoperto di non amarla lo aveva reso più sicuro da una parte, ma più dubbioso dall’altra dato che un forte sentimento pur c’era, ma le rispose che quell’arietta punzecchiante, che a ingoiarla tutta d’un fiato pareva bersi un bicchiere di acqua frizzante, lo distoglieva dal torpore delle nove di mattina.
Porchetta, quadri, zucchero filato, fotografie del tempo ato, e sani tozzi pesci rossi che al pari quelli del bazar all’angolo del vincolo parevano parenti della figlia del macellaio.
Fu istintivo dirigersi verso l’uomo barbuto e pesante, seduto su una sedia di vimini intrecciati, investito, sembrava, dello stesso prestigio di un bibliotecario: fotografie, libricini e libretti, volumi e giornali dell’Ottocento e primo Novecento.
"Quest’uomo fa l’acquaiolo, vendendo acqua non rinfrescava solo i anti ma anche l’immagine di una Palermo fineottocentesca che dopo l’unità volle darsi
un arido tocco di aristocrazia ed eleganza – continuava con la sua "alunna" preferita – questa è bellissima, pare un basso rilievo invece che una fotografia, ma immortala un evento disastroso, il terremoto di Casamicciola del 1883 dove circa duemila persone trovarono la morte.
"Sai perché i napoletani venivano chiamati "mangiafoglie"?".
"Non saprei".
"Nel Cinquecento a Napoli si usava mangiare soprattutto zuppe di verdure, ma già nel Seicento trovarono il modo di essiccare la pasta, e loro, inventarono il pomodoro per spaghetti, beh, questo è proprio un venditore di maccheroni – lo disse poggiando l’indice sul piatto di pasta che uno dei tre garzoni della foto teneva tra le mani, e tanto vera sembrava che ci mancò poco si leccasse il dito – qui puoi dirmi tu qualcosa, sei stata o no una guida turistica per tanti anni?".
"Volentieri, ma credo tu già sappia che questo è il nostro Tevere".
"Si certo, ma mi piace sentirti parlare".
"E’ un Tevere senza muraglioni, furono costruiti dopo l’alluvione del 1870, vedi qui, sono cabine per i bagni fluviali".
Per un attimo rimasero stupiti quando l’uomo barbuto porse loro una fotografia che asseriva essergli stata scattata, ma poi Macario rispose con altrettanta ironia: "Allora lei è Giosuè Carducci?!".
In effetti il venditore ambulante pareva il fratello gemello del premio Nobel: barba lunga, grossa stazza e sguardo penetrante.
"Tre, venticinquemila".
"Un po’ care" intanto sulla sinistra il fuggi fuggi di quattro vucumprà alla vista di un vigile irrequieto.
"Care?!, veda perché quelli scappano? Perché non pagano e sa quanto paghiamo noi di tasse?".
"Va bene, va bene, non mi tiri fuori tutta la storia della sua vita che tanto Carducci l’ho studiato anch’io".
"Alle Terme di Caracalla ho sostenuto una gara di atletica, tanto tempo fa, credo, mi pare, delle provinciali".
"E’ questo che raccontavi ai turisti? Insomma, hai vinto?".
"Sono arrivata seconda, in cambio ho avuto un’ernia inguinale".
Che Velia avesse fatto sport si vedeva e si vedeva pure che lo aveva fatto a livello agonistico.
"Dicono che fare sport aiuti, ma io sono piena di acciacchi".
Restavi acciaccato se per caso cadevi, somigliava ad una sagra, tutti intenti ad adocchiare tutto, qualcuno imbustava qualche ficus benjamin e iflora.
"La iflora è il fiore della ione di Cristo vedi – mostrando il fiore che cresceva su tre livelli – è una sorta di croce".
Una breve pausa di silenzio, troppo lunga in confronto al chiacchiericcio mai interrotto, allontanò l’una dall’altra pur restando vicini mentre osservavano, fintamente incuriositi, un copri-water per giocarci a dama.
"Devo essere sincera con te, è più facile e meno dispendioso essere onesti – parlò come se ciò che stava per condividere con lui, lo avesse, già da tempo, murato nelle pareti di casa come si fa con un prezioso monile e con delle ossa umana – se non ho ricambiato gli inviti a cena è perché – Macario desiderava, ma solo per gentilezza, dirle che non avrebbe dovuto giustificarsi, ma tacque perché lui quelle spiegazioni le voleva – è perché da quando è morto Franco, mio marito, non ho mai fatto entrato nessun altro uomo".
"Velia, siamo un po’ anziani per fare sesso".
Esplosero in una risata argentina tanto che un tizio, a due bancarelle più in là, canuto, alto e pure alticcio, rise con loro credendo che avessero ascoltato la sua barzelletta.
"Sembra una barzelletta, ma sai che tanto tempo fa mi trovavo con un gruppo di turisti di Taranto, allora era come andare all’estero, quando vidi cinque o sei inglesi chiedere ad un uomo, che in quel periodo era il pazzo di Roma, se ci fosse stato un posto dove si mangiasse davvero bene, e lui, serioso e quasi savio, si girò e rispose: "Qui, qui mangiano tutti" indicava il Comune, ridemmo tutti ma a pensarci bene non aveva mica torto".
Differenti e somiglianti al contempo, l’uno si accostava all’altra con l’amabilità di un petalo su una roccia, e lì dove pareva fertile l’aridità, entrambi rifiorivano.
L’affezione è un’infezione cronica all’intelletto, abbarbicata ad esso quanto le radice di una quercia secolare al terreno, e proprio come queste, il voler bene si nutre di tutte le energie della sventurata vittima.
Anche un quasi amore sfianca, deforma, defrauda e violenta con brutalità chi non ne è corrisposto, magnifica, invece, chi lo è; ed essi erano così magnifici protagonisti, tanto spontanei da, quasi, non accorgersene.
Anche quei giorni non trascorsi in compagnia l’uno dell’altra avano veloci al pensiero di ritrovarsi, di rado al loro accomiatarsi seguiva un convenzionale appuntamento, con il tuo più grande amico o con il tuo più grande amore non hai
bisogno di fissare né il giorno né l’ora del prossimo incontro, tanto sei catturato che credi che il tempo e il destino respirino solo per te.
L’inverno tornava a farsi sentire e farsi sentire di più per chi ha più stagioni della vita, Velia aveva deciso di sostituire l’ormai leggero lenzuolo con il piumone d’oca, posto tra le palline di naftalina.
"Ciao Clara, guarda un po’, sopravvivrà?" mostrando il piumone come se fosse prossima una sentenza di morte o di tortura.
"Certo, ma dovrò un po’ torturarlo, e comunque meno di quanto l’abbia torturato tu".
Clara era l’esperta della tintoria "Brillante", riusciva a trasformare bianco il nero e nero il bianco, e poi c’era Serena che avrebbe potuto far diventare il nero rosso, verde, giallo, rosa sfumato di marrone, in cambio però sapeva intrattenere i clienti come la più ciarliera delle parrucchiere.
"Che hai sognato oggi?".
"Nulla, non sapevo che sarei dovuta venire qui".
"Che fai Velia, sogni solo quando vieni in tintoria?".
"Fa lo stesso se te ne racconto uno di qualche giorno fa?".
"Dimmi pure".
"Ecco c’era un treno – la fermò subito "Bene, potenza sessuale" e continuò Velia – era fermo".
"Ritiro tutto allora".
"Fammi finire, tutto intorno delle rovine, di case, palazzi e una panchina, volevo sedermi ma non ricordo di averlo fatto, c’era un gatto sopra".
"Il gatto – Serena pareva un esattore delle tasse – era un maschio o una femmina, e se era femmina era bianco, grigio, nero, dormiva o mangiava oppure miagolava, ma se era maschio era soriano? Perché potrebbe essere 46, oppure 66, 45, 36… insomma…".
"Serena, era un sogno mica un documentario".
"Beh, allora posso dirti che, in sostanza, alcuni ricordi ti stanno opprimendo fino a renderti impossibile il raggiungimento delle serenità, se vuoi riuscirci devi fare piazza pulita di queste rovine".
La rovina poteva essere Macario, ma non poteva essere lui la rovina perché non apparteneva al ato, bensì al presente, mentre risolveva mentalmente questo rebus onirico, si accorse di essere guardata come una che aveva davvero qualche rovina da abbattere.
"Che mi dici ho ragione?".
Tergiversò un po’ e rispose: "Sì, la prossima volta farò più attenzione al sesso del gatto".
Velia uscì dalla "Brillante" dando l’idea di dover fare qualcosa di urgente ma di urgente c’era solo il bisogno di uscire da lì, dove qualcuno aveva tenuto una lezione di anatomia sul suo animo ed ella, come una vergine nuda, aveva raccolto il velo e indossatole di nuovo ché nulla potesse essere scorto.
Quell’inquietudine continua ed erosiva l’accompagnava ovunque e soprattutto tra quelle rovine, … omise di dire che ad accarezzare il gatto c’era un bambino, suo fratello.
Quando nascondeva le sue sensazioni a qualcuno allora comprendeva quanto Macario le fosse vicina, l’esperienza comune di un dolore, pur vissuto diversamente nell’intimo, rende, chi l’ha provato, fraterni.
Macario, lasciato solo per essere accudito in un modo migliore di come avrebbe fatto la pietosa madre povertà, non sentì mai la mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto, e di frequente gli tornavano in mente le parole della signora Celestina e di Eraclito, se non hai mai bevuto non puoi sentire la sete.
La signora Celestina non andava mai al cimitero, convinta che suo figlio fosse ovunque ma non lì, Eraclito da parte sua, insegnava che "tutto scorre", ma questo lei non lo aveva imparato, lo vive giorno dopo giorno.
Giorno dopo giorni l’acne si era attenuata notevolmente, e nei momenti di più ironia, Macario se ne usciva: "E’ acne giovanile".
Dietro i suoi occhi, a dispetto della sua figura, enormi, bellissimi e marroni come la terra più madida e fertile, il suo volto disordinato, si eclissava.
"Chiuso per lutto" e la tranquillità di Macario fu ammaccata dal dubbio che quella serranda muralizzata da una mucca e un prato verde fosse stata tirata giù per il sonno eterno della figlia del macellaio.
Era già stata decretata la sua morte da tutto il vicolo e adiacenti, quando qualcuno la vide e pur se a fatica, la distinse da un fantasma.
"Immaginavo signor Macario, che tutti pensassero a me, ma sa che sto meglio, adesso riesco a mangiare tre chicchi di uva in più".
"Prima quanti ne mangiavi?".
"Nessuno".
"Allora sì, l’importante è decidere qualcosa, un o avanti, il primo quindi il più importante".
"E’ come se morendo mia nonna, la mamma di papà, avesse dato la vita a me, papà è distrutto, non se la sentiva di lavorare".
"Vieni – la condusse con estrema delicatezza, per paura di scheggiarla, verso una panchina di marmo, e per non darle l’impressione che quel gesto fosse stato dettato dal timore che ella potesse frantumarsi irreparabilmente aggiunse – le mie gambe fanno i capricci".
"Posso leggerle una cosa? Sa, vorrei un parere".
"Certo cara, ne sarei orgoglioso".
"Ecco – un po’ vergognosa – si intitola "Quando Gli parlo": il mio cuore è allo scuro di tutto, non sa quanta solitudine è nella mia anima, batte perché questo corpo possa vivere, perché ci sia vita e non si rassegna, entro in punta di piedi nella mia anima e divento nuvola trascinata dal vento, incontro colore che è freschezza e una volta al centro mi inginocchio e davanti a me quella croce: il mio dolore diventa voce, parlo, discuto e racconto e pur se mai una sol risposta ho avuto dinnanzi a quel volto io trovo il solo ed unico saluto".
Fulvia aspettava un’opinione tecnica, ma il professore la guardò con occhi pieni di tenerezza e le chiese: "L’hai scritta appositamente per farla leggere a qualcuno?".
"No, anzi".
"Allora è bellissima".
"Lei crede in Dio?".
"L’uomo è talmente tanto presuntuoso da credere di vivere anche nell’aldilà e talmente tanto fanatico da ritenersi una creazione di Dio".
"Io non sono fanatica, mi guardi, non ci tengo proprio al mio aspetto".
Le rubò la mano che ella stava per nascondere tra le gambe accavallate e la accarezzò delicatamente: "E’ vero, sei guarita".
Poco dopo lasciarono entrambi quel luogo, un parco stretto tra due panchine e poca erba, ma tanta tra le dita dei ragazzi che la notte si riunivano lì, un luogo di confidenze liceali di giorno e di canne e siringhe di notte, un luogo, ora, dove Macario aveva visto, di nuovo, sorridere una vita alla vita.
Dal ventre e naso pronunciati, flemmatico nella gestualità ma vulcanico dentro che già quattro bimbi e un cane avevano trovato accoglienza, don Franco, spazzino, insegnante, allenatore e anche prete della Parrocchietta imbrattata da cuori trafitti che si giuravano eterno amore, come ogni anno, aveva organizzato una gita fuori porta, questa volta ai Castelli, con il treno dalla Stazione Termini solo una trentina di minuti.
Velia pregò Macario di accompagnarla dato che lo scorso anno era mancata e dato che lui non c’era mai andato.
"Sai che la Stazione Termini è la più grande di Europa?".
"Che trasformazioni straordinarie".
"Non ci sei mai stato?".
"L’ultima volta, una decina di anni fa, oggi non saprei dove andare, una volta qui non sarei stato diverso da questi poveri uomini" guardando un letto di cartone inumidito dai corpi rocciosi di due vagabondi. Uno frugava in uno di quei secchioni cilindrici, appiccicati c’erano due volantini: "Vuoi lavorare? Vuoi guadagnare senza fatica e in poco tempo?". E un po’ come dire: "Vuoi dimagrire senza fare alcuna dieta anzi abbuffandoti dalla mattina alla sera stando comodamente seduto a casa tua?"… e intanto quell’uomo disordinato, cercava agli angoli interni delle cartacce, rimasugli di cibo e ci ficcava dentro l’indice con energia e non si curava degl’altri né del loro sconcerto e ribrezzo.
"Eppure – don Franco intervenne quasi per difenderne la dignità – molti di loro hanno scelto di condurre questa vita e dare loro elemosine potrebbe persino infastidirli – e aggiunse quasi proverbialmente – tutti sono fortunati, è che pochi, pochissimi hanno la capacità di accorgersene".
Se non fosse stato quel prete, sconosciuto a Macario, a proferire quelle parole, egli avrebbe pensato che fossero state indirizzate esattamente a lui.
Altri sei, nemmeno tanto anziani, si avviavano davanti a loro con o sostenuto e allegro, quasi che il vino dei Castelli avesse avuto effetto già a pochi
chilometri di distanza.
A pochi chilometri da Frascati, i resti della residenza estiva di Cicerone, Lucullo e Mecenate: il Tusculum
Macario ne sapeva più del prete, ma capiva che delle nove persone solo due, una era lui, sarebbero state interessate ad ascoltarne la storia e gli aneddoti piuttosto che dilettarsi alla ricerca di qualche taverna.
Frascati, d’estate, diventa una sorta di località balneare anche se il mare riesce a intravederlo solo dalla cima più alta del Tuscolo e solo quando il cielo è più che limpido, a Settembre circolano, per di più, ciurme di tedeschi con bandierine alzate, dai nasi rossi e il sorriso che sembrano tanti "Poldo" davanti ad un hamburger e fluiscono, come un fiume in piena.
Il Comune si apre sulla piazza, una rotatoria fiancheggiata da una "eggiata", vetrina di fanciulle spensierate che vestono alla moda e si lasciano guardare da chi siede sulle panchine ai lati della stessa, e poi su verso l’interno, labirinto di viottoli animati da salumerie e lingerie.
Si vociferava (a dirlo era stata la figlia della perpetua) che i vigili, lì, fossero tanto pedanti da aver multato persino il capo dei vigili urbani di Roma.
"Ho la sensazione di conoscere quella ragazza, Velia, forse è una mia alunna".
"Anche lei ti sta guardando, perché non le vai a chiedere chi sia?".
"Stava per recarsi da lei garbatamente quando ella se ne andò: dai capelli ricci e neri, occhi marroni, bassina, si voltò come se avesse saputo, prima che Macario stesso lo avesse deciso, che egli stava avvicinandosi a lei, ma non pareva mossa da timore alcune né da imbarazzo ma quasi dalla convinzione che quello non fosse né il momento né il posto giusto per parlare e si dileguò tra i viottoli di sampietrini.
Macario non ci rifletté su più di tanto visto che a lui bastava l’attenzione di Velia, non era infrequente che gli capitasse di confondere i volti: sessanta ragazzi all’anno per trentacinque anni.
Si riunirono, erano rimasti un po’ indietro, alla compagnia con la quale aveva a spartire assai poco e gli unici brevi sorrisi erano per l’ostessa che continuava a "proferire" ad alta voce al marito: "Non sono femminista, non si può lottare contro qualcosa che non esiste" e guardava la "platea": spallucce, occhiolini, gomitate e qualche calcetto delle signore ai mariti come a dire "ti ci sta bene".
"Meno male che ci sei tu, non conosco nessuno di loro, parlare con don Franco poi mi mette in agitazione".
"Sono un ripiego all’assenza di Olga?". Lo disse ridendo ma temeva un suo silenzio cioè un assenso.
"Certo che sei un ripiego, in fondo non mi sarei mai persa una crociera al Mar Rosso".
Era pienamente soddisfatto perché la risposta di Velia era si impersonale ma estremamente ragionevole, coerente e anche un po’ beffarda.
La signora Celestina aveva preferito cambiare casa, sperando così, di cambiare anche vita e lasciando, credeva, i rimorsi ed i ben più tristi rimpianti ad ammuffire tra quelle mura, lì dove ancora vedeva crescere e poi morire suo figlio. L’altro se ne era andato già da tempo, ma non fu colpa di nessuno e nemmeno della madre diventata assente e rimpicciolita sotto il peso della sua stessa anima colma di parole e parole che avrebbe potuto dire e che non avrebbe detto mai più, nemmeno al suo, ora unico, figlio rimastole.Il macellaio aveva perso la madre ma ritrovato la figlia e a qualcuno ciò non parve casuale, come a dire che il Signore, per una vita, dia in cambio una morte.
Quando si è sereni così come quando si é addolorati tutto ciò che non riguarda la nostra vita ci a accanto sfiorandoci quel tanto da poter dire, con gioia, “ah, quanto sono fortunato" o, con invidia, “perché a me!".
Macario, nulla di tutto questo, almeno per ora non aveva trovato nella sua esistenza qualcosa di così forte da bestemmiare se stesso o da odiare gli altri, il che poi, forse, é uguale.
Il disinteresse totale, almeno sino ad ora, per le sue origini, non appaia contrastante, se nessuno ti pone delle domande, non hai motivo di dare risposte.
Di ricordi ne aveva pochi e neppure troppo entusiasmanti, ma tutti, tre o quattro, non lo sapeva più nemmeno lui, li teneva segregati in una scatola di cartone, di un colore andato a male, soffocata da cinque ate di scotch marrone, da quando, prima di andare a vivere da solo all’età di vent'anni, congedandolo come si fa con un cliente, i preti gliela consegnarono, egli non la aprì mai, non ne sentiva il bisogno o forse se ne era solo convinto, ma spesso i ricordi sono le
peggiori punizioni inflitte ad un uomo.
"Ricordo le carezze e gli abbracci come se le mani e le braccia di mia madre fossero ancora strette intorno a me, ricordo... – Velia parlava rivolta da tutt’altra parte, proprio come se oltre a Macario ci fosse stato qualcuno che stava ad ascoltarla, e quel qualcuno poteva essere suo fratello, sua madre o suo padre, o tutti e tre, così sperava lei – quel bimbo così innocente, così piccolo che voleva amore, ricordo che avrei voluto mio fratello " continuava accorata che pareva scoppiasse di lì a poco e di lì a poco sembrava voler abbracciare tutti e tre i suoi delicatissimi ricordi seduti sul divano.
"Questa casa dà l’idea di essere stata vissuta in tutti i suoi angoli e spazi, come se ogni mattonella, ogni parete avesse assorbito l’amore che vi legava, come se ancora respirasse dei vostri respiri, questa casa, Velia, pare viva".
"Non c’è complimento migliore di questo, ma ciò che più mi dà gioia è che so che tu non fai mai complimenti".
Dopo qualche giorno dall’ultimo incontro Velia invitò Macario per un the,
per una cena era ancora presto.
Le foto sparpagliate per tutte le stanze facevano pensare ad un campo minato, ognuna esplodeva in una miriade di rimembranze che colpivano Velia ferendola di un dolore sottile, quello della rassegnazione dinnanzi al ato che mai, mai più sarebbe tornato.
Macario capiva, ma non del tutto, non aveva ato, e tutto il ato che aveva era rinchiuso nella scatola che non apriva da sempre.
"Questa fotografia è la più bella per me" e pianse, oramai colma e satura poteva, perché in lui aveva trovato un ascolto e mai un giudizio.
In bianco e nero, velata di un’impercettibile nostalgia e patina di amore mancato, mostrava il corpo asciutto e riverso su una culla, di una donna estremamente bella, i cui capelli scendevano a sfiorare le dita tese della piccola manina del bimbo che nell’altra teneva stretto un piccolo cavalluccio marino di legno.
"E’ mio fratello, Mario – la pausa le diede il respiro necessario per aggiungere – pochi giorni prima che sparisse, e quello lo aveva intagliato mio padre per lui, ma irrequieto come era lo torturò da subito, vedi – come se volesse dirgli tutto di tutto, nei minimi particolari così che un po’ del suo dolore fosse anche di Macario – vedi, ha la criniera tutta schiacciata... era un birbantello".
"Era un bambino in piena salute".
"Si, anche se spesso c’è mancato il pane".
"Al collegio non è mancato mai né bere né da mangiare, un abbraccio, quello sì, e quello non te lo vendeva nessuno".
"Non hai nessun ricordo da potermi raccontare come sai fare tu, con tutta quella dolcezza di espressione e di rincuorante calore?".
"Mi pare di vederti già angosciata non vorrei che piangessi anche per me" avrebbe forse dovuto palesare la sua ignoranza proprio su ciò che tutti, anche gli analfabeti, sanno, e confessarle che mai ebbe il benché minimo interesse per la sua vita, almeno non quanto ne aveva per la vita degli altri, latini e greci compresi? Si sarebbe spogliato dei nobili abiti del gentiluomo dotto e rispettoso, che però al momento di parlare di sé declina come fa l’imbroglione? Avrebbe potuto inventare qualcosa come fece quando mentì su un vizio che non aveva, ma la conoscenza era più intima e mentirle non avrebbe dato successo alcuno, così non gli rimase che dire la penosa verità
"Ho studiato, studiavo giorno e sera, non credevo di saper fare qualcos’altro, e nessuno mi aveva detto che, qualcos’altro, esisteva, ma nei mie libri, nelle poesie, nei classici, ho trovato la mia vita, e i brevi amori erano soltanto il mio diventare uomo ma senza esserlo mai abbastanza, perché io non ho mai amato"
"Percepisco che mi vuoi bene e che me ne vuoi molto, e queste tue parole lo confermano ulteriormente".
Aveva temuto di apparire ai suoi occhi apatico e indifferente, ma adesso quelle frasi lo avevano stordito e piacevolmente sorpreso, era stato come parlare in play back ma con la voce di qualcun’altro.
Non importa come e quanto fosse accogliente l’abitazione di Velia, forse non lo era nemmeno e non poteva esserlo perché le tribolazioni di un malato di cancro si erano attaccate alle pareti come segni indelebili, ogni stanza sembrava essere stata sofferta da suo marito e da lei, aleggiava, ancora, quella infelice farfalla fantasma, portatrice di morte.
Le prese la mano con infinita accortezza e naturalezza insieme e le disse: "La prossima volta che vorrai invitarmi sarò più preparato e anche io avrò da novellarti la mia, seppur insipida, esistenza, non lascerò che tutti i tuoi ricordi ti strapazzino in questo modo, ma se ne hai piacere, adesso, parlamene, finché puoi".
"Potrei parlare all’infinito e non dire null’altro che la stessa cosa,anche la mia vita non è stata esuberante,direi,forse,discreta,ma sempre con l’attenzione al ato, a lui" e versò di nuovo lacrime,quando,ancora tra le mani,girò la foto sbiadita,e guardatala come fosse la prima ed ultima volta,la strinse al petto aggiungendo: "non potrei parlarti che per poco di lui,ricordo solo il mio amore e il desiderio di dargliene".
"Possibile, Velia, che per tutti questi anni tu non abbia mai avuto una sola notizia su tuo fratello, i tuoi genitori non hanno provato a rintracciarlo mai?".
"I miei poveri cari erano distrutti dal dolore, ricordo le lacrime, tante, di mio padre, mischiarsi, nei baci, a quelle di mia madre, e sento sul mio viso i loro visi umidi come se anche adesso stessero baciandomi. Hanno tentato,mi dicevano, persino attraverso una specie di 007 all’italiana, hanno tentato tutto, me lo promettevano ogni giorno e ogni giorno vedevo il loro tormento per quella promessa mai mantenuta; a chi dare la colpa, a chi urlare contro, chissà che anche allora non esistessero questi porci pedofili, e pensare che c’è qualcuno che ne difende i diritti!". Fu incredibile il repentino cambiamento delle rughe espressive del suo viso, le lacrime parvero trasformarsi in cicatrici ed ella assunse il volto di un vendicatore spietato.
"Non saprei come consolarti adesso, e quindi preferisco restare in silenzio, cosa che forse avrei dovuto fare già da un po’".
"Mi dispiace Macario, mi duole sentirti parlare così, tu mi consoli già solo a starmi ad ascoltare, sei così paziente e premuroso ".
Il the si era freddato ma nessuno dei due aveva voglia di bere.
Macario evitò di chiederle spiegazioni su altre fotografie che pur attiravano la sua attenzione, come una casa diroccata o quasi, piena di pomodori rinseccoliti in un orto calpestato da due magre galline affamate.
Macario si chiedeva come una povera famiglia potesse aver fatto scattare tutte quelle fotografie in un tempo quando il pane era oro, avrebbe voluto sviscerare questo dubbio, ma non gli sembrò carino rompere quell’atmosfera così spirituale con domande così venali. Ma la risposta ad una domanda mai fatta gli venne quasi subito da Velia, intenta a trafficare in un cassetto, e mostrandone un’altra: "Lui era mio zio, è grazie a lui se ho tutte queste fotografie, sai, faceva il fotografo e non ce ne fece pagare nemmeno una, pace alla sua anima".
Macario ebbe il forte desiderio di dare a Velia quelle stesse sensazioni che egli aveva ricevuto da lei nel mentre si apriva palesando tutta la sua fragilità e dichiarando la sua settantenne infantilità dinnanzi all’impotenza di riuscire a gestire i suoi stessi sentimenti, promise di "studiare" e di riuscire a raccontarle qualcosa in più che dell’abbandono o della paura delle bombe.
Averla vista piangere, dimenarsi, pur restando immobile, tra i ricordi, gli faceva pensare di poter sollevarla da quella pesantezza d’animo attraverso la sua vita, quel ato sconosciuto persino a lui stesso e pur se poca è la soddisfazione di lavarsi la bocca con il sale degli altri, era convinto che narrarle la sua esistenza l’avrebbe, almeno in parte, rincuorata.
La notte si addormentava sotto le lenzuola celesti di un’alba pacata e discreta che gentile filtrava le ombre dei primi cinguettii.
Macario era già sveglio, era stato destato dal dubbio, pensava tra sé "dovrebbe essere nel ripostiglio, accanto al cassettone, tra le conserve di pomodoro..." non dovette rifletterci su più di tanto, l’ipotesi era giusta.
Aprì la porticina laccata di bianco e sotto tante altre scatole la trovò, impolverata, chiusa come uno scrigno.
Non ebbe alcuna emozione, solo la speranza di trovarvi tanto quanto bastava per parlare di sé, non era emozionato, quel cartone non rappresentava altro che uno sterile contenitore di documenti e poche fotografie liceali, dove tutti uguali, i fanciulli allineati, parevano marionette senza fili in un teatro senza pubblico ad applaudire, tristi per la guerra e per la solitudine.
Se non fosse stato per Don Eugenio, Macario avrebbe dimenticato o forse mai più ricordato Ciccio.
Don Eugenio, contro tutte le regole, mosso dalla tenerezza per "quelle anime", scattò a Macario e Ciccio, il suo amichetto, una fotografia e la regalò a Macario quando Ciccio si ammalò.
Ciccio era tondo, ma più che grasso era gonfio, non aveva il roseo colorito di un ragazzino in carne, emaciato e con due vistose occhiaie che pareva essersi stropicciato gli occhi dopo aver pulito il camino.
I suoi genitori non erano in grado di mantenerlo, o forse, temevano di vederlo morire e quando andavano a fargli visita, raccomandavano a Macario: "Tu che sei così maturo, stagli vicino" ed egli si sentiva detentore di una certa autorità, la stessa che compete ad un tutore o solo ad un amichetto più grande, almeno d’età.
Quando Ciccio si stancava, Macario lo obbligava a sedersi e quasi, quasi, nemmeno a respirare e Ciccio restava sui gradini di cemento per circa un’ora , prima che il cuore trovasse pace.
Quando Ciccio ebbe un infarto, Macario stava seguendo l’ora di religione e non lo vide mai più, ma Don Eugenio lo rassicurò, era andato a stare dagli zii in campagna, e dietro quella foto una poesia che il prete aveva scritto per Macario:
Vidi sui colli al di là delle nubi,
nude le valli e irte salite
dove davanti tra alberi alti
scender erranti pastori a salti
che per seguire le bestie amate
paion scivolare giù pe’ le cascate dei verdi mari,
e nel vociare di ogni sua cosa l’errante si ferma e riposa,
mesto e quieto s’accosta il cane
contento e lieto di quel pezzo di pane.
Non seppe mai se Ciccio era sopravissuto davvero, ora l’emozione si appropriò del suo fragile corpo e presa, la scatola, tra le mani, ora tremolanti, gli cadde scivolando lungo la gamba semipiegata e riversandosi a terra, ma nel cadere, un rumore di un qualcosa che non poteva essere un foglio, giacché chiaro e distinto come una pigna precipitata sull’asfalto, rapì la sua attenzione.
Scostate le carte, vide a terra, come fosse alla deriva, un cavalluccio marino in legno, dalla criniera schiacciata.
Potrei, ora, smettere di scrivere e lasciar parlare lui, nella speranza che egli abbia la forza di tradurre in parole quello sgomento che lo azzannava al petto, alle gambe, alle mani, come una belva affamata di viscere umane, come due dita conficcate, con forza, negli occhi di un bimbo, come se tutto il terrore del mondo fosse stato conservato per lui in quella scatola e uno dietro l’altro si rincorrevano e si bastonavano, l’un l’altro, i suoi pensieri, congetture. Una tortura, un anziano violentato e stuprato messo a testa in giù nel fango.
Non piangeva né tremava, restava in piedi a fissare quell’oggetto tra le sue mani e si vide bimbo in una culla e sulle mani i capelli di sua madre.
Si trascinò, appoggiandosi alle pareti, fino in cucina e sedutosi quasi a rallentatore, poggiò il cavalluccio sul tavolo:incisa lungo la coda arricciata: una "emme".
Prese tra le mani le tempie e schiacciandole cominciò a stropicciarsi con veemenza i capelli e il volto, avrebbe potuto bestemmiare ma non lo fece, attonito e sconvolto come un ragazzino davanti ad un "no", attendeva che il suo animo riprendesse fiato.
Le magre braccia non seppero, per la tensione di tutti i nervi, sopportare oltre il fardello e crollarono su quel tavolo palcoscenico di tanta afflizione, dove il sipario pareva restare aperto in eterno, la nuca rimase ciondolante verso il basso.
Il suo animo aveva ripreso fiato, non il suo cervello e quando al forte dolore si univa lo sconcerto le riflessioni su se stesso si quadruplicavano, Velia era sua sorella.
Rimase a ripercorrere ogni istante trascorsole accanto, cercando di capire se la gestualità, almeno quella dato che fisicamente la somiglianza era inesistente, gli fosse comune, nulla, non avrebbe mai potuto sospettarlo anche perché non aveva mai saputo di avere una sorella, era stato defraudato anche del suo amore e a farlo furono proprio quei genitori, che Velia adorava, in nome, così seppe da un prete chiacchierone, della estrema indigenza.
L’impeto fu quello di precipitarsi da lei, ma attese ancora un po’, egli, anche adesso, seppe, in qualche modo, controllare se stesso.
Voleva che Velia divenisse la biografa della sua vita, le avrebbe chiesto ogni tipo di informazione ma, farfugliava tra sé e sé "per prima cosa le dirò di essere Mario"
Come un gigante, lo sconvolgimento, procedeva a i lenti e grevi e gettava le sue enormi braccia sulle spalle spolpate della propria vittima che a fatica riusciva ad aprire il cancelletto verde scrostato e a salire sul marciapiede, ma gli bastò lasciare quella casa perché il gigante di cera cominciasse a sciogliersi sotto i raggi del sole di una mattina d’Ottobre.
Macario procedeva adagio quando una bimba, che salterellava come un gambero, nel voltarsi gli urtò contro e finì con le manine aggrappate ai suoi pantaloni, mentre sul suo visino tondeggiante si faceva largo un latteo sorriso.
Il professore piegatosi leggermente, prese tra le braccia quell’angioletto per renderlo a quelle di sua madre dalle quali, astutamente, si era sottratta pochi istanti prima.
"Grazie e mi scusi" poi, rivolgendosi alla piccola aggiunse: "Come si dice?".
Con la testolina leggermente inclinata a guardare la punta della sua scarpetta gialla che pestava un mozzicone di sigaretta, rispose, non senza averci riflettuto o, almeno, fatto finta: "Grazie, signore".
Macario le accarezzò i capelli neri e corti, sorridendo, ma sempre con tristezza. Poco dopo, inaspettato, l’incontro, lungo lo stretto marciapiede.
"Macario, mio Dio, cosa ti è accaduto?".
Per colpa di quell’angioletto e di qualcosa che nell’adolescenza gli aveva reso l’appellativo di "il quiete", tutti i progetti precipitarono in una pacatezza e cheta insopportabili per chi conserva anche solo un po’ di sano primitivo istinto.
"Ho ato la notte insonne, sono distrutto".
"Ti vedo, caro, torna a casa a riposarti".
"Velia, ho... ho pensato tanto a tuo fratello, mi si attorcigliava lo stomaco".
"Mi dispiace, non avrei dovuto sfogarmi con te, con te che sei così sensibile, aspetta – ora lei fece ciò che lui aveva fatto con la figlia del macellaio – sediamoci".
"Mi sento bene non preoccuparti" pronunciava quelle parole ma in realtà intendeva dire qualcos’altro, avrebbe voluto rassicurarla che il suo amato fratello non era stato vittima né di pedofili né di rapitori, solo dei suoi stessi genitori, ma in tal modo, pur rincuorandola, le avrebbe distrutto l’immagine pura e decantata dei suoi cari che mai avrebbero lasciato un figlio, tutt’al più entrambi, loro che erano così imparziali, probi e retti.
Non seppe far altro che dirle "Hai ragione, torno a casa" e si allontanò quasi fuggendo e solo allora mentre se ne allontanava, forse per sempre, ebbe al contempo, vergogna e consapevolezza e anzi l’imbarazzo lo ebbe perché solo
allora comprese: si può mentire o tacere solo per due motivi, per disonestà o per Amore.
Egli avrebbe voluto essere disonesto piuttosto che innamorato di sua sorella. Possibile che Macario avesse resistito a quell’impulso, che aver trovato il suo stesso sangue, creduto mai avuto, non lo avesse scosso abbastanza?
Macario era una persona incompleta e in sé contraddittoria, manie di persecuzione da una parte, stabilità emotiva dall’altra, acne e rughe, per nulla carino fuori ma bellissimo dentro, non sorprenda, dunque, il suo atteggiamento, è l’unico logico epilogo di una personalità così varia e complessa.
Dopo settant’anni conoscere la storia di tre persone che scopre essere suo padre, sua madre e sua sorella, non gli cambierà la vita ed egli ne è consapevole, penosamente consapevole.
Nessuno lo aveva preso tra le braccia per ripararlo dal terrore delle bombe, e le sue poche primavere diventavano un triste autunno, trovava protezione tra quattro stecche di compensato che sorreggevano un banco scheggiato e quando il Maresciallo Badoglio annunciò: "Il Governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower", nessuno gli spiegò che, almeno quella di guerra, era finita, e forse fu meglio così visto che l’Italia continuò ad essere bombardata da altri nemici, per ben altri due anni.
Entrato,quasi precipitandosi,di nuovo a casa, (il gigante era lì ad aspettarlo) e trovatosi davanti a quella scatola, non azzardò la benché minima reazione, sedette al tavolo e cominciò a scrivere come fosse sotto dettatura: "Cara Velia mi duole lasciarti in questo modo, avrei preferito poterlo fare di persona. Ho tanti ricordi da portare con me in Germania, dove vive un mio cugino molto malato,
quando tornerò faremo ancora quelle lunghe eggiate che ci riempivano la giornata. Un forte abbraccio mi lega a te, non immagini quanto".
Pareva una sentenza piuttosto che una lettera, fredda e quasi impersonale come non era né mai sarebbe stato il suo autore ma egli non sopportava più lo sguardo inquisitorio della sua coscienza; mentendole capì di amarla e amandola sentì su sì di sé il peso dell’incesto, anche se mai consumato, quel che contava era l’intenzione e l’intenzione c’era, c’era il desiderio di accarezzarle i capelli con un amore tutt’altro che fraterno.
Sopportò con rassegnazione e sottomissione quella frustata al petto come fosse un’altra bacchettata sulle mani, quando, bambino distratto e assente, lo schiaffavano nell’angolo dopo le dovute punizioni corporali e verbali che per quanto meno gravi delle prime, restavano dentro come ferite indelebili e infamanti, così la vita stava trattandolo, lo insultava e lo castigava ancora. Non sarebbe andato in Germania, non c’era nessuno ad aspettarlo.
Imbustato il foglio bugiardo e triste, uscì per andare ad imbucarlo, pochi i e sentì chiamarsi...
Eero io.
"Macario, Macario" si voltò come se oramai non gli importasse più di aver qualche sorpresa.
"Ti conosco?".
"Più io che te".
"Sii chiara per cortesia, ho già molti pensieri e alla mia età gli indovinelli non fanno bene".
"Credi che sessantasette anni siano tanti?" Ora, invece si stupì e mi guardò più attentamente, meticolosamente perché cominciava a riconoscermi e, infatti, aggiunse "Ti ho vista a Frascati, come sai la mia età, sei stata forse una mia alunna?".
"So tutto di te – in quello stesso momento scomparvero le case, la luce, il marciapiede. " Chi sei?" – turbato.
"L’autrice della tua vita, io ho creato te, Celestina, Federico, Velia, vi ho creati io, ma non senza una logica".
"Una logica? Allora sai dirmi perché ho questo volto, perché sono infelice e perché ho trovato per poi perdere mia sorella...e perché sei qui?"
"Sono qui per aiutarti ad uscire dal mio libro e renderti libero, per spiegarti le mie scelte, Macario, tutto ha una spiegazione".
"Quanti anni hai?"
"37 e tu molti di più".
"Potevi farmi più giovane."
"Adoro le persone anziane, mi hanno sempre insegnato a vivere nel migliore dei modi, è vero, quando un vecchio muore è un’intera biblioteca ad andare in fumo. Io come la figlia del macellaio ho perso mia nonna, come lei sono stata anoressica e non so davvero cosa sia stato peggio, se vederla immobile senza più un sorriso per me, mentre tra le mani teneva un rosario e sé stessa o ficcarmi un dito in gola per vomitare".
"Anche tu sei atea?".
"Ma tu, Macario, non sei ateo, tu credi nella vita e in Dio, è che come tanti non te ne accorgi".
Macario torna un bambino con la curiosità che lo assale, mi chiede di continuare.
"Non ho mai voluto farti del male, ho solo cercato di renderti migliore attraverso le avversità, ho cercato di farti vivere le stesse esperienze che ho vissuto io".
Macario forse mi odia e forse ne ha tutte le ragioni, se non fosse l’uomo pacato e sottomesso che è, mi avrebbe già assalita.
"Hai insegnato Latino e Greco perché sono state le mie materie preferite; hai una pianta perché credo che esse abbiano un’anima, e talvolta quando sono afflosciate, suono per loro. Ho perso un amico in un incidente stradale, due dei
miei più cari sono omosessuali e una volta mi sono innamorata di un ragazzo che si drogava, ma non ne ho più notizia, e poi c’è... – "e poi c’è Velia, puoi dirlo, sono solo un personaggio e non una persona" – e poi c’è Velia, sì.
Ho una sorella e non ci vado molto d’accordo ma se avessi potuto scegliere avrei preferito incontrala, un giorno, e diventare la sua migliore amica, non so come le nostre vite si siano così allontanate, ma spero di "ritrovarla" proprio come hai fatto tu. Ho scelto di parlare più volte della pedofilia perché avverto questo come il più turpe dei mali e credo che i bimbi siano i sorrisi di questa grande smorfia che è il mondo.
Mi trovavo in una casa di accoglienza per orfanelli, giocavo con loro, quando avvicinai una suora e le chiesi perché quel piccolo cicciottello fosse così manesco e violento, atteggiamenti che non si addicono a nessuno, men che mai ad un bimbo di soli cinque anni, la sua risposta mi gelò: "Ha visto il padre accoltellare sua madre".
Detesto la violenza così come la pena di morte, ma davanti ad un bambino violato nel corpo e nell’animo non sono certa di riuscire a rispettare i miei stessi valori. Tu sei un persona buona, che preferisce al suo bene quello degli altri e mi piace credere che sia questo l’Amore".
"Che fine farà Velia?".
"Velia leggerà la tua lettera e continuerà la sua vita di sempre".
"Non tornerò indietro?".
"No, non tornerai, non dopo che ti ho rivelato la tua natura, come potresti, ora sei libero e chi è libero guarda al futuro non al ato".
Macario si alzò e pose una mano sulla mia spalla poi mi accarezzò il volto con delicatezza e mentre si volatilizzava mi disse. "Sono io che ti ho liberata" e tornò lì da dove era venuto...nella mia coscienza.
Mariachiara Marsella
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