LA ZINGARELLA DI CARAVAGGIO
Romanzo per adulti
AUTORE
Donato Chiaberge
Più di 30 links (collegamenti ipertestuali) ai quadri Numerosi links a wiki-pagine di personaggi storici Numerosi links a siti di monumenti/palazzi romani
l'autore ringrazia la Fondazione Wikimedia per il materiale che ha reso realizzabile questo libro, la cui trama si basa su alcuni quadri del pittore mentre altri ne presentano personaggi/episodi.
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Titolo originale dell’opera: LA ZINGARELLA DI CARAVAGGIO Prima pubblicazione, 2015 © 2015, Donato Chiaberge ISBN 9788892530881
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LA ZINGARELLA DI CARAVAGGIO
Indice
Presentazione
1 Pasqua alla Locanda del Vescovo: Angelica e Lorenzo
2 Una ragazza intraprendente: il Bacchino Malato
3 Costanza Colonna, principessa e… ispiratrice: Morte della Vergine
4 Caravaggio in ospedale: il Ragazzo con cesto di frutti
5 Pegno d'amore per Angelica: l'anello di Lorenzo
6 Caravaggio cerca lavoro: la zingara veggente (Chiamata di Matteo)
7 Un padre violento e incestuoso: la tragedia di Beatrice Cenci
8 Angelica cameriera di Beatrice
9 Giovanni, il falso "Duca di Saluzzo"
10 Giochi di seduzione: la bigamia di Angelica
11 Contraddizioni e sensi di colpa
12 Beatrice e un travestimento... galeotto
13 L'Accademia del Disegno e la Canestra di Frutti di Caravaggio
14 Una cassaforte... di emergenza per l'anello di Angelica
15 Un capolavoro ispirato... dal nemico: Conversione di Saulo
16 Il furto dell'anello: I Bari
17 Pedinamento...con "vista"
18 Sulle tracce dell'anello: ladri, prostitute e ricettatori
19 Frati veri per un ladro e... falsi frati per Caravaggio
20 Un drammatico lunedì di Pasqua
21 Lorenzo nel... fortunale e Caravaggio dal... cardinale
22 Una zingarella... ispiratrice e una governante... cospiratrice
23 Caravaggio regista: la creazione de La Buona Ventura
24 Caravaggio scenografo: un ballo in maschera... per i paggi
25 Un "identikit" davvero... illuminante
26 Una nicchia molto ospitale ma... sovraffollata
27 Traffico intenso nelle "segrete" di Palazzo Cenci
28 Il Grande Inquisitore
Epilogo - la vera storia della copia (del Louvre) de La buona ventura
INDIRIZZI WEB dei QUADRI nel testo
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Angelica e Lorenzo - La buona ventura (Musei Capitolini, Roma)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ac/The_Fortune_Teller_%281594%29_Car
Ragazzo morso da un ramarro
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/17/Boy_Bitten_by_a_LizardCaravaggio_%28Longhi%29.jpg
Ragazzo morso da un ramarro (partic. finestra)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e0/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio__Boy_Bitten_by_a_Lizard_%28detail%29_-_WGA04077.jpg
Autoritratto come Bacchino malato
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/bd/Self-
portrait_as_the_Sick_Bacchus_by_Caravaggio.jpg
Suonatore di liuto
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f1/1596_Caravaggio%2C_The_Lute_Play
La buona ventura (partic.1)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d0/Caravaggio%2C_la_buona_novella%2C
La Buona Ventura (partic.2)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/15/Caravaggio%2C_la_buona_novella%2
Morte della Vergine
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/c5/Michelangelo_Caravaggio_069.jpg
Morte della Vergine (partic.)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/df/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio_-
_The_Death_of_the_Virgin_%28detail%29_-_WGA04161.jpg?uselang=it
Fanciullo con cesto di frutti
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ac/Caravaggio__Fanciullo_con_canestro_di_frutta.jpg
Suonatore di liuto
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/6a/Michelangelo_Caravaggio_020.jpg
Marta e Maddalena
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cc/Caravaggio_Martha%26Mary.jpg
Chiamata di Matteo
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a3/The_Calling_of_Saint_Matthew_by_Ca
Chiamata di Matteo (partic.Matteo)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8e/Vocazione_di_San_Matteo_%28partico
Chiamata di Matteo (partic.Cristo)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/46/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio_ _The_Calling_of_Saint_Matthew_%28detail%29_-_WGA04119.jpg
Cappella Contarelli
http://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_Contarelli
Conversione di Saulo
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/67/Conversion_on_the_Way_to_Damascus Caravaggio_%28c.1600-1%29.jpg?u
I Bari (partic.)
http://www.wga.hu/art/c/caravagg/01/08cardsx.jpg
Maddalena pentita
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/bc/Maria_Magdalene_by_Caravaggio.jpg
S. Caterina della Ruota (o di Alessandria)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cc/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio__St_Catherine_of_Alexandria_-_WGA04100.jpg
Ritratto di cortigiana (Fillide Melandroni)
http://www.wga.hu/art/c/caravagg/03/18phylli.jpg
Giuditta decapita Oloferne
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Caravaggio__Giuditta_che_taglia_la_testa_a_Oloferne_(1598-1599).jpg
Canestra di frutti
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1e/Canestra_di_frutta_%28Caravaggio%2
La Fornarina (Raffaello Sanzio)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/4c/Fornarina.jpg
Giudizio Universale (Michelangelo Buonarroti)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e3/Jugement_dernier.jpg
Riposo durante la Fuga in Egitto
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/72/Caravaggio__Il_riposo_durante_la_fuga_in_Egitto.jpg
Dama con l'ermellino (Leonardo da Vinci)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8f/Leonardo_da_Vinci__Lady_with_an_Ermine.jpg
I Bari
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8e/Caravaggio_%28Michelangelo_Merisi% _The_Cardsharps_-_Google_Art_Project.jpg
I Bari (partic.)
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3a/Caravaggio_Cardsharps_Kimbell_deta
Madonna dei pellegrini (o di Loreto)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a0/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio__Madonna_di_Loreto_-_WGA04156.jpg
Maddalena pentita (Partic.)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/53/Michelangelo_Caravaggio_064.jpg
La Tempesta (Giorgione)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8f/Giorgione_019.jpg
I Musicanti
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cc/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio__The_Musicians_-_WGA04081.jpg
La buona ventura - Roma, Musei Capitolini
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/c9/Caravaggio%2C_la_buona_novella%2
Copia de La Buona Ventura -(Parigi, Louvre)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/14/The_Fortune_TellerCaravaggio_(Louvre).jpg
Giove , Nettuno e Plutone (Roma, Casino Ludovisi)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/2a/Jupiter%2C_Neptune_and_PlutoCaravaggio_%28c.1597-1600%29.jpg
Cena in Emmaus - (Milano, Pinacoteca di Brera)
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/29/Michelangelo_Caravaggio_034.jpg
Copia de La Buona Ventura - Parigi, Louvres
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/14/The_Fortune_TellerCaravaggio_(Louvre).jpg
I Musicanti - (Metropolitan Museum of Art, New York)
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cc/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio__The_Musicians_-_WGA04081.jpg
Copia de La Buona Ventura (partic.) - Parigi, Louvre
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/82/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio_ _The_Fortune_Teller_%28detail%29_-_WGA04093.jpg
Copia de La Buona Ventura (partic.) – Parigi, Louvre
https://.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/68/Michelangelo_Caravaggio_033.jpg
Martirio di Sant'Orsola
http://.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/61/CaravaggioUrsula.jpg
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PRESENTAZIONE
NON SOLO UN "e-BOOK"...MA UN VERO "i-ROMANZO"!! la storia di due quadri...illustrata da più di 20 capolavori del Maestro.
CLICCA SUI LINKS per i QUADRI (più di 20 nel testo) per i personaggi storici e i monumenti romani.
IL GENIO... CINEMATOGRAFICO DI CARAVAGGIO PER UNA VICENDA D'AMORE E MALAFFARE.
I quadri sono un po' come... antenati poveri (e muti) dei film: quando ancora non esisteva il Cinema, a illustrare le storie -vere, immaginarie o sacre- ci pensavano i pittori. Prendiamo, ad esempio, "La Buona Ventura" di Caravaggio (Roma,Capitolini): si tratta della felice riproduzione d'una scena di strada... o di un'intrigante, magistrale "costruzione sul set"? Per chiarirlo dovremo seguire il pittore -all'alba del successo- per vie e piazze di Roma, in cerca d'un lavoro e sulle tracce di un anello, tra bettole puzzolenti e palazzi fastosi. Un romanzo... illustrato, la storia di un colpo di genio... (illuminata) dai più di 20 capolavori nel testo. Quasi un film... appunto.
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Perchè mai i due si guardano intensamente mentre lei tenta di sfilargli l'anello? Non dovrebbero i loro occhi focalizzarsi invece sull'oggetto del furto? Ma... verrebbe da chiedere al pittore- com'è credibile che una zingarella ladra possa
dilungarsi a osservare la propria vittima, invece di strappargli l'anello e darsi alla fuga? E lui?... che la guarda imbambolato... senza tentare di ritrarre la mano? Ma... questo quadro sarà poi davvero la rappresentazione d'un furto? Se anche fosse... perchè poi il pittore si trovava lì con i suoi attrezzi, proprio in quel preciso momento? E se invece ciò non fosse, allora cos'era successo in realtà tra i due? Ne sapremmo certamente di più se, qualche giorno prima, fossimo stati insieme a Caravaggio alla Locanda del Vescovo, quando l'artista schizzava di fretta la scena de "I Bari" (Kimbell Museum, Fort Worth,USA): due malavitosi che truffano alle carte un delicato giovinetto... molto verosimilmente un paggio di grandi signori del rione... per poi rubargli un anello... Eh sì... perchè le "storie" che questo quadro racconta sono almeno tre: quella del baro baffuto, quella del "paggio" e... infine la vicenda d'un anello che lo aveva condotto proprio a "quella" taverna, della quale Caravaggio era cliente abituale! Perchè mai proprio lì?... e che fine farà l'anello? e... chi sarà questo raffinato paggetto? Fu a partire da quest'immagine di frode che il pittore si trovò invischiato in una drammatica vicenda -trascinatovi da due giovani amiche delle quali una tragico personaggio storico- che gli darà fama e ricchezza, proprio grazie alle sue doti di registascenografo e di... detective!
NOTA: alcuni lavori di Caravaggio -menzionati nel testo ma non dipinti negli anni della vicenda (1593-1595)- sono presentati quali ispirazioni avute dal pittore e ricavate da episodi o personaggi del romanzo, ma utilizzate per quadri eseguiti successivamente (es. Conversione di Saulo, Morte della Vergine, Cena in Emmaus, Madonna dei pellegrini, Chiamata di Matteo etc.)
1. Pasqua alla Locanda del Vescovo: Angelica e Lorenzo
Era il giorno di Pasqua 1593: seduto a un tavolo d'una locanda romana in attesa dell'amico pittore Prospero Orsi, il giovane Lorenzo non aveva occhi che per Angelica, l'incantevole figlia sedicenne dell'oste. Nel frastuono della sala, la ragazza roteava leggera fra i tavoli gremiti, reggendo ben alto sopra il capo un vassoio con piatti e boccali e controllando che nessuno richiamasse la sua attenzione. Abbassava lo sguardo di tanto in tanto, stando attenta a non urtare nessuno e a non inciampare sul pavimento in cotto, assai sconnesso e consumato. A Lorenzo non era certo sfuggito come la sua precaria posizione fe risaltare i seni sotto il tessuto della camiciola. Il giovane era talmente rapito da quella visione di garbata efficienza e fiorente bellezza da neppure accorgersi che nella sala s'era fatto ad un tratto silenzio e l'ingresso era piombato nel buio. La massiccia figura di un uomo vestito di nero era infatti comparsa sull'uscio impedendo alla luce del giorno di entrare nel locale, ma soltanto la sua voce potè distogliere Lorenzo dalla contemplazione della figuretta di Angelica: - Buongiorno a tutti, signore e signori! - tuonò il nuovo arrivato. Molte delle signore erano in realtà prostitute del quartiere che accolsero il saluto con rumoroso entusiasmo, riportando il volume del frastuono ai massimi livelli. - Buongiorno a voi, Mastro Orsi! Accomodatevi pure laggiù, dove quel giovanotto vi ha tenuto il posto - gridò l'oste, indicandogli Lorenzo. Poi, rivolgendosi alla figlia - Angelica... un altro piatto di agnello e un boccale di vino per messer Prospero! Dal canto suo, la ragazza aveva subito notato la presenza di Lorenzo: non capitava tutti i giorni un uomo dagli abiti e dal portamento così signorili, ma privo dell'arroganza tipica dei pochi ricchi che le era capitato di servire. Avvicinandosi con le ordinazioni gli aveva sorriso come se fosse un cliente abituale e, vedendo che non ricambiava quella sua attenzione, sulle prime si
risentì. Ma quando poi si fermò accanto a lui, impettita e a braccia alzate, si accorse che il giovanotto la stava fissando in un punto indefinito tra la gola e la cinta. Sorpresa abbassò lo sguardo a verificare di non aver macchiato la camicetta, che aveva indossato contro il volere del padre il quale, suggerendole invece un lungo grembiule, aveva sgarbatamente sentenziato: - Le serve devono vestire da serve e tu sarai sempre una serva e mai una signora. Vedendola tuttavia immacolata, lei rialzò con sollievo gli occhi incontrando quelli di Lorenzo, che subito li abbassò arrossendo. Alla ragazza, imbarazzata, non rimase che poggiare sul tavolo le ordinazioni e, scuotendo il capo con destrezza, spostare sul petto due lunghe trecce di capelli scuri che uscivano dalla cuffia. Nel farlo si assicurò che il padre – di nome Santino – non notasse quel gesto sconveniente ma a Prospero, che seguiva attento la scena, non sfuggì l'improvviso rossore sulle guance del giovane. - E al mio amico Lorenzo non portate nulla, dolce Angelica? - domandò maliziosamente - Anche i miei apprendisti hanno il brutto vizio di cibarsi! Non avrete già finito tutto... mi auguro! - Certo che no, mio Signore! - rispose lei, rivolgendosi poi a Lorenzo con un divertente inchino - Cosa desiderate, Messer mio? Lui dovette schiarirsi più volte la gola prima di rispondere, poichè la voce tradiva la sua emozione e non riusciva a coprire il frastuono del locale: - Lo... hem... lo stesso che avete... hem... portato a Mastro Prospero... grazie! L'oste lo tolse dall'imbarazzo, avvicinandosi al tavolo e apostrofando aspramente la figlia: - Tu, cosa aspetti a correre in cucina? Non vorrai lasciare questo gentiluomo senza cibo, spero! Non ti sei accorta che è qui da un pezzo e non ha neppure un boccale di vino? Forza! Muoviti! E rimetti le trecce nella cuffia, svergognata! Bah! Invece di lasciarti fare la smorfiosa con i clienti, tua madre dovrebbe insegnarti le buone maniere, perdio! - Lei arrossì e corse in cucina. - Ma... veramente, Signor Oste - intervenne Lorenzo - io ho ordinato solo adesso... - E mia figlia sarebbe dovuta venire da voi prima, Signor mio! Ah, quella sgualdrina mi rovinerà!
Poi, rivolgendosi a Prospero, domandò: - E come sta il vostro amico in ospedale, Messer Orsi? Sì... quell'altro pittore... quando avremo l'onore di conoscerlo? - e senza attendere la risposta si volse per immergersi tra i tavoli.
Situata nel rione Parione, nei pressi di Campo de' Fiori, la Locanda del Vescovo occupava un piccolo edificio a tre livelli, il cui piano terra era diviso in due stanze: un'ampia cucina e la sala da pranzo. La cucina godeva di una vista piacevole poichè dava sul retro della costruzione e si affacciava su un giardinetto cinto da basse mura ricoperte di rampicante. Invece l'ingresso dava accesso dal vicolo alla sala da pranzo, con le spoglie pareti intonacate di fresco e un pavimento in cotto dall'aspetto dignitoso, le cui ondulazioni costringevano però chi serviva – Angelica, come si è visto – a badare al proprio equilibrio e chi lo puliva – sempre Angelica, come vedremo – a risistemare poi i tavoli in modo che non traballassero In compenso, però, la stanza vantava un bel soffitto a cassettoni e un camino decorato da un affresco di dubbia qualità con le scolorite insegne del padrone di casa, Vescovo di fresca nomina in un grosso borgo del sud. Si era d'Aprile e in quel giorno di Pasqua la locanda era gremita di avventori del rione richiamati dalla fama del rituale agnello allo spiedo cucinato da Orsolina – la moglie dell'oste – che vi aggiungeva una salsa di sua creazione con vino, mirtilli e spezie: si diceva che avesse un sapore ineguagliabile. Prospero era un cliente abituale dell'osteria e spesso, soprattutto nei giorni di festa, aspettava che gli altri avventori se ne andassero per lanciarsi in lunghe partite a carte o a dadi con Santino, che lo considerava ormai un amico oltre che vicino di casa, avendo egli bottega a qualche isolato di distanza in vicolo delle Grotte ,quelle scavate da poveracci e diseredati fra le rovine sepolte del Teatro di Pompeo. L'Orsi aveva ato la trentina ed era un pittore assai noto negli ambienti artistici romani. Si era, infatti, costruito una reputazione con fregi a fresco che parevano destinati a sostituire sui bordi di pareti e di volte quelli con fiori e frutti, troppo comuni ormai per provare l'opulenza dei padroni di casa. Prospero li eseguiva magistralmente anche a olio su tela, con figure dai lineamenti stilizzati o burleschi, la cui ispirazione si diceva fosse tratta da
antiche decorazioni scoperte nelle grotte sotterranee che nascondevano agli occhi del mondo la favolosa ,Domus Aurea l'immensa dimora dell'Imperatore Nerone; oltre – è sottinteso – a quella di poveracci e diseredati che vi cercavano rifugio. Per questo motivo, i fregi come quelli dell'Orsi venivano da tutti chiamati grottesche. E la rispettosa simpatia di cui godeva il pittore gli aveva procurato un soprannome che, se forse nascondeva un ironico richiamo alla sua considerevole mole, era da tutti usato per identificarlo: Prosperino delle Grottesche. Lorenzo gli era stato da poco presentato dalla Principessa Costanza Colonna, nobildonna assai nota in città e figlia di Marcantonio – Ammiraglio in Capo della flotta papale e vincitore degli infedeli a Lepanto – la cui famiglia affondava radici nel Senato dell'Impero Romano. Prospero non aveva potuto rifiutarsi: stava lavorando in una villa di loro proprietà! Così aveva preso Lorenzo come apprendista nella sua bottega e quando ci ava – poco in verità e sempre di fretta – gli dava qualche suggerimento per i suoi esercizi di pittura, in cambio di pochi denari. E forse proprio per placare i sensi di colpa dovuti alle sue scarse e occasionali presenze aveva invitato il giovane apprendista al pranzo pasquale in trattoria.
- Mah! direi tra non molto. Michele deve star meglio, visto il caratteraccio che ha tirato fuori stamattina! - L'Orsi aveva borbottato tra sè la risposta alla domanda di Santino, il quale era ormai lontano: il fracasso gli avrebbe comunque impedito di udire le sue parole. Vedendolo poi silenzioso, Lorenzo pensò si aspettasse invece una risposta da lui e domandò - Come dite, Mastro Prospero? Scusate... mi ero distratto un attimo. - Eh, lo vedo bene, lo vedo!... Ti dicevo che Michele... sì, insomma, questo Michelangelo Merisi o Caravaggio – come tutti lo chiamano in ospedale – sta migliorando e ha già ripreso a dipingere. Questa mattina Onorio Longhi – sai, l'architetto... la sua famiglia e quella di Michele si conoscevano perchè i loro padri lavoravano entrambi per gli Sforza, su da voi nel milanese – mi ha aiutato
a convincerlo di preparare un dipinto da presentare a eventuali datori di lavoro. Una sorta di... sì insomma, di profilo personale... per un pittore! - E lui? - Ha accettato, naturalmente. Non dimentichiamoci che si è ammalato di fame e di stenti. Solo che... beh, abbiamo avuto qualche discussione sul soggetto da ritrarre, ecco perchè ho tardato. Figurati che lui proponeva un fanciullo... diciamo un pò effeminato in verità (Ragazzo morso da un ramarro) uscito chi sa come da un mazzo di fiori contenuto in un vaso di cristallo. Lo sta finendo proprio ora: dice che voleva rappresentare una persona inorridita e sorpresa... un vero gioiello. Pensa che, riflessa nel vaso, si vede benissimo la finestra accanto al suo lettino d'ospedale! Molto originale e... molto bello, non c'è che dire. Ma improponibile: forse ancora lui non sa che qui a Roma, città dei Papi, i soggetti profani sono poco graditi agli alti papaveri della pittura di Corte... come dire... controriformata! - Proprio non vedo cosa ci sia di male in un fanciullo e in un ramarro. - A Roma? Con l'Inquisizione? Ma dove vivi, ragazzo mio? Qui chi vuole lavorare deve rappresentare santi e castissime vergini in atteggiamenti estatici e fare in modo che queste abbiano perfino i piedi ben coperti! Altro che un giovinetto scamiciato e... femmineo! Ma i modelli costano cari e così Michele... Prospero abbassò la voce: - Pensa che un tal Cardinal Paleotti si è perfino preso la briga di scrivere un manuale su come devono essere atteggiate e vestite le figure umane nei quadri! E tutti, mi pare ovvio, vi si attengono scrupolosamente. Soprattutto quel Giuseppe Cesari, pittore preferito di papa Clemente VIII, che per lui si è pure inventato il titolo di Cavalier d'Arpino come segno della sua benevolenza. È proprio a costui che Onorio Longhi ed io vorremmo presentare Caravaggio: t'immagini come prenderebbe un fanciullo discinto? Michele verrebbe poco poco etichettato come omosessuale... sebbene non ne abbia mai dato prova. No, no... qui ci vuole ben altro! - E lui, allora, quali proposte ha fatto? Prospero tossicchiò: - Mah! che Dio ci aiuti... figurati che ha insistito per il Bacchino malato, sì... proprio quello che tu stai cercando di... hem... copiare nel mio studio.
- Ma è un capolavoro! Voglio dire... l'originale, intendo, è così vivo e reale... oserei dire umano... quasi parlante...un pò come fosse un autoritratto! - Lo è un autoritratto! Non te lo avevo detto? L'ha dipinto quando stava male... Prospero dovette interrompersi: Angelica stava ritirando i loro piatti e riempiendo i boccali ormai vuoti. La ragazza si mosse con gesti veloci e professionali, senza distrarsi nè degnare Lorenzo di uno sguardo e quasi il giovane ne rimase deluso. Ma osservandola attraversare la sala reggendo sul capo un vassoio stracolmo di stoviglie usate e ammucchiate alla rinfusa, non osava augurarsi che si girasse a guardarlo a rischio di provocare una catastrofe e risuscitare l'ira paterna. Giunta nei pressi della cucina, Angelica posò invece il vassoio su un tavolino che serviva d'appoggio per le portate e lanciò un rapido sguardo a Lorenzo, che credette d'intravvedere sul suo volto l'ombra di un sorriso. - Allora, finito lo spettacolo? - domandò Prospero ammiccando. L'altro arrossì. - Ti stavo dicendo - proseguì il suo anfitrione - che Caravaggio avrebbe voluto proporre il Bacchino malato, considerandolo un'opera classicheggiante... pensa un pò te!... e si è pure risentito quando gli ho detto che quell'immagine ambigua di un giovane seminudo e sofferente è un'opera di un realismo troppo audace per essere apprezzata da questi campioni dei castissimi canoni ecclesiastici! Lui si è girato offeso verso la finestra, borbottando: "Io dipingo soltanto la realtà e nel mondo di castissimo c'è ben poco. E poi mica l'ho creato io il mondo!" e con il braccio ha indicato la corsia dell'ospedale. Allora è intervenuto Longhi: "Ascolta, Michelangelo: noi siamo convinti che senza il viatico del Potere nessun pittore, per quanto geniale e dotato, possa accedere alle grandi commesse pubbliche, che qui a Roma sono l'unica vetrina degna di un talento come il tuo e l'unica chiave per aprirti la porta del successo e della fama. La Principessa Colonna ci ha pregato di consigliarti il modo migliore per arrivarci, assicurandoti al tempo stesso un salario per vivere decentemente. Noi possiamo presentarti il pittore favorito di Corte, che non sarà certo l'erede di Raffaello, ma può essere un ottimo trampolino di lancio. Il prezzo che devi pagare però è fare come ti dirà lui, che significa – per lo meno al presente – come ti suggeriamo noi. Sta a te decidere". - E lui ha accettato?
- Sì, ma solo dopo una lunga riflessione: "Avete ragione - ha poi detto - vi prego di scusarmi: nella situazione in cui mi trovo non posso certo far tanto il difficile! Seguirò i vostri consigli dei quali vi sono grato". In quel momento, Angelica servì lo stufato di coniglio con patate: aveva un profumo invitante, ma Lorenzo si chiese come avrebbe fatto a mangiarlo, dopo quel piatto di agnello. Prospero, invece, ne addentò avidamente una coscia, sbiascicando alla ragazza di porgere i suoi complimenti alla cuoca. Poi ingollò un'abbondante sorsata di vino, prima di proseguire il racconto. Disse di aver suggerito a Caravaggio un dipinto più limpido e luminoso del Bacchino, con una figura umana dall'aspetto sano e lieto, le membra coperte e il viso innocente: quasi un angelo, insomma, che avrebbe potuto offrire all'osservatore un rigoglioso cesto di frutti lucenti nei quali peraltro Michele era insuperabile, come dimostrava un quadretto da lui regalato al Priore dell'Ospedale. E, visto che la sua salute migliorava, gli aveva raccomandato di dedicarsi a quell'impegnativo lavoro nelle ultime settimane di degenza, a guadagno di tempo. Prospero confessò tuttavia che, uscendo dall'ospedale, Onorio aveva esclamato: - Però... chi sa dove ha trovato quell'idea del ramarro. Una vera genialata per ravvivare la scena, devo ammetterlo! - e Lorenzo non potè che convenirne.
Il pranzo si avvicinava alla fine e vennero serviti i dolci pasquali di pasta di mandorle, specialità siciliana di cui Orsolina aveva appreso la ricetta da una venditrice di agrumi originaria di Agrigento. I numerosi boccali vuotati da Prosperino lo avevano reso euforico e malizioso. - Perchè non fai un salto in bottega a prendere il tuo liuto? - suggerì infatti a Lorenzo - Potresti suonare e qualcuno... hem... potrebbe forse ballare! Aveva di proposito posato l'accento sulla parola qualcuno ma Lorenzo, pur avendo colto subito l'allusione, non ne voleva ugualmente sapere. - Preferisci forse che te lo faccia chiedere da Angelica? - aveva dunque domandato il pittore con noncuranza e l'altro, senza più replicare, si era alzato
borbottando. - Attenzione prego, un annuncio importante! - proclamò allora Prospero, ergendosi in tutta la sua rispettabile statura - Il mio amico milanese suonerà per voi il suo liuto! - e con il braccio indicò pomposamente il giovane che a stento si faceva strada tra i tavoli verso l'uscita mentre l'entusiastica ovazione dei presenti lo faceva arrossire, questa volta con maggiore intensità. All'applauso, Angelica fece capolino dalla cucina: per un attimo, Lorenzo vide le sue trecce ondeggiare alla luce fioca del focolare che ne esaltava i riflessi rossicci. - Torna subito in cucina, tu! - le urlò Santino - e aiuta tua madre a rigovernare! Mentre si dirigeva all'uscita, il giovane colse lo sbuffo di lei che faceva spallucce.
Lorenzo era un ventunenne riservato, secondogenito di un facoltoso notaio di Milano. Sebbene il fratello maggiore, forte dell'incoraggiamento materno, tentasse più o meno con successo di scimmiottare la personalità dominante del padre, il carattere di Lorenzo non venne penalizzato da tutta quell'arroganza: la sua disposizione per l'arte e la musica ne fece il beniamino di tutte le signore della buona società che frequentavano la casa. Ma la sua timidezza con le donne gli impediva di aggirare la concorrenza del primogenito, lanciato dai genitori sulla via d'un matrimonio di lignaggio. Quasi al termine degli inevitabili studi di giurisprudenza il padre, preoccupato dalla cosa, gli aveva concesso la vacanza romana per dedicarsi alla pittura secondo i suoi desideri e nella segreta speranza che l'assenza di inibizioni familiari consentisse al ragazzo di varcare felicemente la soglia delle grazie di Venere. - D'altra parte - aveva saggiamente pensato il genitore - lo studio lo erediterà il fratello maggiore che già vi lavora e quindi se Lorenzo si diverte un pò nessuno si potrà lamentare. Così, nel marzo del 1593, il ragazzo era giunto a Roma presentato dalla Curia milanese al neo-cardinale e futuro vescovo di Milano Federico Borromeo, che lo
aveva affidato alla sua buona amica, la Principessa Costanza Colonna, Marchesa di Caravaggio in quanto vedova di sco I Sforza. Costanza ospitò il giovane nel palazzo di famiglia e, poichè in quel tempo Prospero Orsi stava decorando una residenza di campagna dei Colonna non lontana da Roma, gli parlò del grande desiderio di Lorenzo: la cosa venne combinata. Per un magro stipendio il giovane lavorava la mattina come tirocinante presso lo studio di un notaio corrispondente del padre e il pomeriggio andava in bottega da Prospero. In quella tiepida domenica di Pasqua, mentre attraversava il centro di Roma brandendo l'amatissimo liuto, il giovane sognava di incantare Angelica con i suoi madrigali d'amore. In fondo si sentiva grato all'amico Prospero per la sua insistenza: - Chi sa se Angelica sa ballare... con la grazia che mette nel servire! - pensava mentre si avvicinava alla locanda. Non appena svoltato l'angolo della via, Lorenzo fu sorpreso dalla vista di tavoli e sedie che alcuni avventori stavano ammonticchiando nel vicolo, accanto all'ingresso. All'interno gli ospiti sedevano l'uno accanto all'altro su sedie e panche allineate lungo le pareti come nei refettori dei frati mentre i tavoli rimasti, accatastati l'uno sull'altro, lasciavano in mezzo alla stanza un pò di spazio per le danze. Inoltre, il camino ormai privo di fiamma e l'apertura della porta sul retro della casa avevano liberato l'ambiente dal fumo acre dei cibi arrostiti. L'Orsi torreggiava in mezzo alla sala dirigendo le operazioni. Lorenzo si fermò sull'ingresso e subito cercò Angelica con gli occhi: stava pulendo i tavoli con uno straccio umido e lui notò con dispiacere che il candore della sua camicetta era stato deturpato da una vistosa macchia di vino, che partiva dal seno e arrivava fin quasi alla gonna. La ragazza sollevò la testa, ricambiò il suo sguardo e sorrise: quel giovanotto portava il liuto con amore, brandendolo delicatamente dall'estremità del manico e circondandone la cassa con un abbraccio protettivo, quasi si trattasse di un neonato. Lui – pensò – non apparteneva certo a quel genere di uomini rozzi o violenti cui l'ambiente della locanda l'aveva da sempre abituata. Prospero interruppe il loro muto colloquio: - Ehi ragazzo... mettiti laggiù! esclamò indicando un grosso tavolo con accanto una sedia nell'angolo del camino. Lorenzo depose sul ripiano strumento e spartiti e sedette a sfogliarli attentamente.
Quando alzò gli occhi si era fatto silenzio: i clienti erano tutti accomodati e, malgrado l'evidente sonnolenza, lo guardavano con curiosità. Prosperino, seduto in prima fila, si godeva il successo del proprio lavoro aggredendo un altro boccale di vino. Mancava solo Angelica. La ragazza aveva silenziosamente lasciato il piano terra per salire a cambiarsi la camicetta imbrattata ma, sentendosi a un tratto molto stanca, ne aveva approfittato per stendersi sul letto. Stava quasi addormentandosi quando le giunse il suono del liuto: era tentata di lasciarsi cullare da lontano da quella melodia, ma dopo poco non seppe resistere. Vedere Lorenzo suonare era l'unica cosa che in cuor suo desiderava davvero: del resto... se il padre l'avesse trovata a dormire apriti cielo! Così si levò e in fretta e furia indossò un'ampia camiciola bianca a maniche larghe e girocollo ricamato, stretto da un grazioso nastrino nero. Si avvolse poi in un lungo drappo nero coi due lembi fermati sulla spalla destra da un doppio gancio e da un nastro. Il drappo era bordato da una fascia d'un rosso un pò spento e ricopriva la gonna tutt'intorno ponendosi di traverso sul petto. Gettata l'odiatissima cuffietta, si sciolse le trecce: la brocca di vetro sul cassettone, piena di fiori di campo colti lungo il fiume, le consentì di rimirarsi mentre con la spazzola si lisciava rapidamente i capelli sulle spalle. Poi li raccolse con una fascia bianca, arrotolandola intorno al capo come un turbante. Molto meglio della cuffia! - pensò, contemplandosi soddisfatta ma già prevedendo i rimbrotti paterni. Sostituiti infine gli zoccoli con un paio di babbucce di pelle leggera, si precipitò da basso mentre ormai si spegnevano le note. Il padre, vedendola arrivare così agghindata, la fulminò con lo sguardo e la afferrò sgarbatamente per un braccio. Si preparava a farle l'ennesima scenata, quando gli avventori, rinvenuti qualcuno dall'estasi musicale e molti dal sonno, scoppiarono in un fragoroso applauso. L'oste s'arrestò, voltandosi verso Lorenzo per unirsi ai generali complimenti, ma si accorse che tutti stavano invece guardando lui e la figlia, alla cui bellezza era chiaramente diretto l'applauso. - Ecco la regina della festa! - esclamò Prosperino che per via del vino in eccesso e del posto in prima fila pareva aver risentito del brano musicale, essendosi con tutta evidenza sforzato di restare sveglio per non offendere il suonatore. Santino fu costretto a far buon viso a cattivo gioco e ordinò alla figlia di portare altro vino. Quando Lorenzo riprese a suonare, la sua musica parve a tutti un ottimo invito
alla danza: erano opere di musicisti fiamminghi, si e italiani, pezzi famosi a Milano e a Venezia ma del tutto sconosciuti al popolo romano: nella città eterna era ufficialmente ammessa soltanto la musica sacra, per lo più esclusivamente vocale, che aveva il suo astro in Giovanni da Palestrina, direttore dell'Accademia Musicale di S. Giovanni in Laterano. E mentre proprio la danza era di fatto rigorosamente vietata al popolo – per il suo subdolo invito al contatto carnale – la stessa veniva invece praticata nei festini della nobiltà e dell'alto clero, che godevano della benevolenza papale e dei mezzi per procurarsi musiche profane più adatte allo scopo. Ma poiché neppure i tiranni riescono a soffocare del tutto le aspirazioni naturali dell'uomo, alla Locanda del Vescovo non si dovette attendere molto perché i pochi rimasti sobri accennassero qualche o. L'oste e alcuni avventori come lui poco interessati alla musica si erano sistemati alla chetichella sui tavoli spostati nella via e alternavano un sorso di vino a un lancio di dadi, confidando che in quel giorno di festa gli sbirri avrebbero forse chiuso un occhio sul gioco d'azzardo, anch'esso severamente proibito a chi non fosse ricco a sufficienza. Sollevata dalla latitanza paterna, Angelica si occupava di servire i clienti e partecipava alla festa sotto lo sguardo della madre, sfinita dalle fatiche culinarie. Così, quando qualcuno tra i presenti chiese a Lorenzo di mostrar loro come si danzasse una Pavana, lei non disdegnò di accettare l'invito e il giovane la prese per mano, accompagnandola con la voce e guidandola a ripetere le mosse delle signore milanesi che egli deliziava alle feste di casa. Di tanto in tanto, da dietro le spalle del suo cavaliere, lei sbirciava incuriosita i misteriosi segni sugli spartiti aperti sul tavolo. Lorenzo le aveva spiegato che quegli strani quadratini neri con una sottile gambetta, sistemati su cinque righe orizzontali, erano le note musicali che lui riproduceva con il liuto. La ragazza le fissava affascinata senza capire e in una pausa gli mormorò con un sospiro: - Vorrei tanto imparare a suonare! Lorenzo allora le prese la mano e, indicando le note col dito di lei, ne riprodusse il suono con la voce: - Se volete, vi insegnerò volentieri - le sussurrò infine all'orecchio. Per un attimo l'indice di Angelica si intrecciò con il suo prima di
liberarsi dalla presa. La festa aveva ormai superato il suo apogeo e la stanchezza iniziava a decimare i ballerini, che poco a poco si rifugiavano sulle panche mentre le prime ombre della sera calavano sul vicolo. Seduta accanto al suonatore, la ragazza a quel punto si levò, cominciando a muoversi con armoniosa leggerezza. Roteava su se stessa con grazia, sollevando in alto le braccia che le larghe maniche della blusa lasciavano scoperte, e ondeggiando i fianchi con garbo. Allora l'improvvisata pista da ballo si svuotò e gli spettatori osservarono in silenzio, rapiti dalla sensualità della scena. A un tratto lei balzò sul tavolo con agilità, spostando i boccali e gli spartiti che vi erano appoggiati: Lorenzo provò ad accelerare il ritmo, la ragazza gli rivolse un sorriso d'intesa e lo seguì roteando. Era una di quelle serate romane in cui il cielo luminoso è percorso da basse nuvole bianche che odorano di mare e sembrano quasi sfiorare la città. Batuffoli leggeri che diffondevano un fresco profumo di primavera sulla candida e possente cupola di Michelangelo e sulle brune e gloriose rovine ammuffite dal tempo. I raggi del sole calante tingevano di rosa le nubi e i muri delle case mutavano colore. Nella locanda era come se la luce tenue che ancora illuminava la scena fosse interamente assorbita dalla camiciola di Angelica, mobile macchia bianca nella penombra della sala. La ragazza danzava sul tavolo e la sua mantellina, sollevata dalle rapide evoluzioni, a volte pareva un ombrello aperto sulla testa di Lorenzo seduto lì accanto. I due si guardavano per accordarsi sul tempo: il ragazzo aveva girato la sedia per meglio godersi lo spettacolo, incurante di volgere le spalle agli spettatori. Questa sua posizione impedì a tutti di notare i suoi occhi scintillanti e le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. In sala nessuno fiatava: i presenti ammiravano estasiati la grazia con cui Angelica muoveva il proprio corpo. La danzatrice si sciolse i capelli liberandoli con un rapido gesto dalla fascia che li stringeva e lentamente si chinò ripiegando le braccia sul seno. Poi con un ultimo scatto del capo allargò la lunga chioma
prima di abbassare il viso sul petto, lasciandola ricadere fin quasi a nascondere la camicetta. I suoi capelli parvero un ventaglio di alghe spiaggiate dalle onde in tempesta. Lorenzo aveva smesso di suonare qualche istante prima del gran finale e ora se ne stava seduto a guardarla, temendo di rompere l'incanto del momento con un gesto o una parola. Poi nel silenzio assoluto lei si rialzò, si ravviò i capelli e con un sorriso si accinse a scendere dal tavolo: - Mi aiutereste, Messere? - disse rivolta al giovane, che non esitò ad alzarsi per offrirle la mano con un elaborato inchino. La ragazza saltò a terra ma, non si sa se con intenzione o perchè ancora stordita dall'ultima piroetta, perse l'equilibrio e... si ritrovò tra le braccia di Lorenzo. Lui non ebbe il tempo di gioire dell'inaspettata fortuna: due braccia vigorose lo alleggerirono bruscamente del gradito fardello e il silenzio incantato che ancora regnava nella sala venne interrotto dal sonoro schiocco d'un ceffone. - Svergognata! - tuonò la voce di Santino, impastata per il troppo vino - Come osi dar pubblico scandalo in casa mia? - disse mentre la sua mano si alzava minacciosa per colpirla ancora. - Non mi toccare! - gridò lei divincolandosi - Mica l'ho fatto apposta!... Non facevo nulla di male e poi... sono una donna ormai! - aggiunse con voce alterata e occhi fiammeggianti, mentre retrocedeva a piccoli i tendendo le braccia in posizione difensiva. In silenzio alcuni clienti guadagnarono l'uscita. Prosperino si alzò per intervenire, facendo cenno a Lorenzo di togliersi di mezzo. - Non sei altro che una sgualdrina, invece! - continuò l'oste - Guarda che se ti butto fuori di casa finirai agli Ortacci con le altre bagasce come te! - e le si avventò addosso brandendo un pesante sgabello. Angelica s'infilò sotto il tavolo con l'agilità di un gatto, mossa forse non troppo congeniale a chi ormai è una donna, ma alla quale era particolarmente avvezza fin da bambina. Da quel familiare rifugio, trovò il coraggio di gridare al padre: -
Possibile che non mi possa mai divertire? O forse anch'io sono destinata a farti da serva tutta la vita come mia madre? In risposta, Santino colpì violentemente il tavolo con lo sgabello. L'oste, che le eccessive libagioni avevano liberato dalla censura impostagli da Orsolina, chiamava in soccorso tutti i santi del paradiso mentre sventolava il panchetto sotto il tavolo alla ricerca di quella sgualdrina, senza tuttavia che il ventre prominente gli consentisse di chinarsi a sufficienza per raggiungerla. Lo sgabello sbatteva sulle gambe del tavolo risuonando cupamente. Fu dopo uno di questi colpi che Lorenzo, con gesto fulmineo, riuscì a strappargli il panchetto dalle mani: le fatiche musicali del giovane non gli avevano evidentemente appannato i riflessi come invece il vino quelli dell'oste. La sorpresa di Santino fu tale che subito si arrestò zittendosi. Prospero ne approfittò per abbracciarlo con fare amichevole dicendo: - Suvvia, lascia perdere, non è successo niente. La ragazza non ha fatto nulla di male... dopotutto ha soltanto ballato per noi! - Quella... quella mi vuole rovinare - sbraitò ancora l'oste, tentando di liberarsi dalla ferma presa dell'Orsi. - Con le strane idee che si è messa in testa guarda cosa mi combina... c'è mancato poco che non mi ammazzasse un avventore! E tu, vieni fuori di lì che ti faccio vedere io... - Ma no, ma no - insistè il pittore - ti assicuro che si è soltanto appoggiata a lui per non cadere a terra. - Tu... fila subito di sopra! - urlò Santino alla figlia, ma con tono meno aggressivo - e non voglio vederti mai più comportare da scostumata! Per punizione domani non uscirai di casa e pulirai tutta la locanda! Da sotto il tavolo, nessun segno di vita. L'oste si chinò per vedere dov'era Angelica senza accorgersi che la moglie, inginocchiata dietro di lui, gli stringeva le gambe singhiozzando e implorandolo di non percuotere la figlia: i fumi del vino e le braccia di Orsolina lo fecero barcollare e il pover'uomo rotolò a terra accanto alla sua innocente compagna. Mentre la danzatrice sgattaiolava fuori dal rifugio per raggiungere le scale,
Lorenzo aiutò Orsolina a rialzarsi e Prospero risollevò con fatica il padrone di casa. Santino si guardò intorno con sguardo confuso: i pochi avventori rimasti lo osservavano, in un pesante silenzio di riprovazione. Lorenzo uscì tra altri clienti che commentavano l'accaduto a bassa voce: il suo unico pensiero era come rivedere Angelica lontano dalla locanda.
2. Una ragazza intraprendente: il Bacchino Malato
Mentre serviva i due amici e i tavoli vicini, Angelica aveva udito Prospero raccontare a Lorenzo di un pittore lombardo ricoverato all'Ospedale dei poveri. Incuriosita, la ragazza aveva mandato tra sè a quel paese gli altri avventori poichè il loro forte brusio le impediva di seguire il discorso dei due. Con suo gran disappunto si era dovuta accontentare di qualche parola captata di quando in quando, con l'unico risultato di accrescere la propria curiosità. Era sempre stata attratta da argomenti fuori dalla sua portata e la pittura era uno di questi: ma – al pari dello squallido ambiente della locanda – l'ignoranza era per lei una zavorra cui tentava di rimediare ascoltando all'occasione i discorsi altrui. Tempo prima Mastro Prospero Orsi, divenuto ormai cliente abituale, le aveva mostrato un pezzo di gesso lungo poco più di un braccio e da lui decorato a grottesche come campionario per un importante cliente. La ragazza era rimasta affascinata dalla fantasia con la quale egli dava vita a quelle figure impossibili, talvolta a metà strada tra l'orrido e il ridicolo, ma in fondo tutte di aspetto innocuo. Fu allora che nacque in lei il desiderio di guardare un pittore dipingere. Desiderio sempre rimasto inespresso per pudore femminile e dunque insoddisfatto. Angelica ricordava sorridendo l'episodio, mentre lavava il pavimento della cucina: aveva trascorso il suo intero giorno di punizione pulendo a fondo la locanda e si sentiva esausta. Ma intanto era soddisfatta di aver messo a punto un accurato piano per vedere il quadro di quel Caravaggio, che l'Orsi aveva descritto a Lorenzo in termini entusiastici e che – aveva aggiunto – si trovava nella sua bottega, a due i dalla trattoria: l'occasione era troppo ghiotta! A detta di Prospero doveva trattarsi di un quadro straordinario. Lo aveva sentito lodare le albicocche che sembravano appena colte, oppure il riflesso della luce sugli acini d'uva che parevano gioielli tanto erano splendenti e facevano venir voglia di staccarli. - Sai, l'idea fissa di Michele sta nel ritrarre dal vero - aveva detto l'Orsi a Lorenzo, mentre lei depositava con studiata lentezza tre piatti di stufato di coniglio sul tavolo accanto - Lui rifiuta di inventarsi figure immaginarie come i
santi o i personaggi biblici, che qui a Roma vanno tanto di moda... e pretenderebbe di ricostruirne episodi di vita da scene casuali o montate in qualche modo da lui. Ma si era purtroppo persa il resto del discorso per soddisfare le richieste di un altro commensale che protestava villanamente di non essere stato ancora servito. Al suo ritorno, la ragazza aveva trovato i due amici che ridevano di gusto mentre Prospero concludeva: - ... pensa che aveva convinto il Priore dell'Ospedale a spostare lo specchio e a dirigere il raggio di sole sui colombi che, svolazzando, si appollaiavano tra le travi del soffitto: voleva ritrarre lo Spirito Santo dal vero! Con suo grande dispiacere Angelica non aveva potuto cogliere la comicità della trovata, poichè la chiesa che un tempo frequentava con sua madre le pareva non avesse dipinti di nessuna sorta, tantomeno con colombe: del resto lei, al suo interno, era costretta a coprirsi il capo con un velo e a tenere gli occhi bassi. Ma ciò che più l'aveva colpita erano state le parole di Prospero a riguardo di quel quadro straordinario che lui teneva in bottega: aveva detto che su quella tela c'era un giovane che reggeva il grappolo d'uva e che fosse il ritratto dello stesso Michele... possibile? Ripensandoci, Angelica si era convinta di aver capito male: - E dove mai avrebbe potuto trovare uno specchio grande abbastanza per starci tutto? - si era chiesta, non conoscendo altro che i piccoli specchi da toeletta in metallo lucidato visti da un bottegaro di vicolo degli Specchi, un giorno che accompagnava la madre al grande mercato di Piazza Navona. E poi quella frase sibillina, udita mentre a fine pasto serviva i dolcetti di mandorle, riguardo alla posizione del busto del ragazzo che... pare offrire e insieme negare quel grappolo a chi gli sta di fronte! Davvero intrigante, aveva pensato cercando velocemente una scusa per soffermarsi più a lungo nei pressi. Ma un malaugurato richiamo del padre l'aveva purtroppo privata del seguito e lasciata con un interrogativo in più. - Che Caravaggio avesse voluto rappresentare la titubanza del giovane, indeciso se offrire l'uva a qualcuno o mangiarsela lui? - si chiedeva adesso, appoggiata allo spazzolone con aria pensierosa.
Se fosse stato così, non riusciva a capire come l'artista avesse potuto riprodurre su tela quei sentimenti: qual era, dunque, il segreto di quel quadro che tanto aveva affascinato Messer Prospero? Doveva assolutamente riuscire a vederlo. - Brav'uomo, quell'Orsi - pensò - Perfino i suoi fregi con mostriciattoli sono come lui: troppo bonari per intimorire... chi sa, forse lui sarebbe felice di mostrarmi il capolavoro di questo Michele... Caravaggio. Il padre però non le avrebbe mai consentito di chiederglielo: l'Orsi era un cliente importante e un pittore arcinoto in città, mentre lei era solo una donnetta ignorante. - Quelle sono cose da uomini! - sarebbe stata la sua sprezzante conclusione. Al pensiero di tanta grettezza Angelica, stizzita, scaraventò a terra la ramazza. - Ricordati che sei nata povera e che non sarai altro che una serva - le diceva Santino fin da bambina - Perchè questo è quello che devono fare le donne. E dopo qualche anno, quando era ormai una ragazzina, aggiungeva - ... quelle che non fanno le puttane, s'intende - No, con l'Orsi non ci poteva proprio provare. E con questo Michele? Lei non lo aveva mai visto, neppure in compagnia di Prosperino: sapeva soltanto che era ricoverato in ospedale e in conseguenza di ciò non aveva partecipato al pranzo pasquale. Dunque, nulla da fare neppure con lui. Restava solo Lorenzo: era apprendista nella bottega dell'Orsi, ma non frequentava la locanda. Tuttavia... si era offerto di insegnarle le note! Allora, chi sa...magari avrebbe potuto... Ma sì, dopotutto ormai si conoscevano e il giovane sembrava un tipo così garbato. Sarebbe però stato in grado di mantenere il segreto? No, no, no... era davvero troppo rischioso: Lorenzo avrebbe potuto dirlo a Prosperino e lui, tra un bicchiere e l'altro, poteva riferirlo a suo padre. Sarebbe successo il finimondo: - meglio lasciar perdere Lorenzo! - aveva convenuto sconsolata mentre si accingeva a lavare le immense pile di stoviglie.
Angelica decise infine di agire da sola e il giorno dopo approfittò dell'assenza
pomeridiana del padre per recarsi al mercatino di Campo de' Fiori. Ogni pomeriggio di bel tempo, infatti, Santino si recava all'osteria di un amico al Bordello, il quartiere più malfamato di Roma ma anche il più frequentato di giorno e... soprattutto di notte. Lì giocava a carte o a dadi per un paio d'ore, protetto dalla malavita locale che usufruiva d'un efficiente servizio d'allarme anti-guardie, mentre la moglie – cui l'assenza del marito compensava ampiamente il carico di lavoro – riordinava la cucina e le figlie ripulivano la sala. La ragazza si accordò con la madre e, in cambio di un lavaggio di stoviglie al posto suo, ottenne un piccolo barattolo di marmellata di mirtilli che ogni estate Orsolina preparava in quantità per averne a sufficienza fino alla Pasqua successiva. Lo avvolse in uno straccio e uscì, immergendosi nel tepore di quel pomeriggio di sole, diretta alla piazza del Campo. Angelica amava quel piccolo mercato assai più di quello in Piazza Navona, congestionato a tutte le ore da gente d'ogni tipo che gridava o si pigliava a spintoni per farsi largo. A Campo dei Fiori, invece, tutti si conoscevano e i suoi colori la affascinavano: era per così dire più intimo e lei – ogni volta che vi accompagnava la madre per le compere – si riprometteva di tornarci da sola, per avere il tempo di girarlo con la dovuta calma. Ma neppure quel giorno potè soddisfare questo suo desiderio: aveva un obiettivo preciso e doveva affrettarsi, se voleva riuscire a trovare la persona che cercava. ò accanto a un pescatore che, vista la calda giornata e la scarsità di clienti, stava salvando il salvabile e caricando il suo maleodorante carretto con alcuni cesti semivuoti. Scavalcò un mucchio di cavoli invenduti, che una povera donna stava malinconicamente riponendo in una gerla più grossa e pesante di lei. Sfiorò con la gonna il ripiano di legno sul quale un vecchio aveva disposto in bell'ordine alcune file di dolci d'aspetto un po' rinsecchito, sicuri avanzi d'un pranzo di Pasqua. Poi finalmente la vide: la vecchina delle spezie era al solito posto, in fondo alla piazza, quasi all'angolo tra via dei Cappellari e via dei Galli, rannicchiata su uno sgabello e circondata da anfore e coppe disposte su un vecchio tappeto scolorito e con i bordi smangiucchiati dai topi. Col tempo, la ragazza aveva imparato a riconoscere alcune delle spezie che vi
erano raccolte e ogni volta chiedeva alla vecchia di fargliene annusare una nuova, poichè adorava i nomignoli esotici che la donna pronunciava con fare misterioso e che sembravano saltati fuori da chi sa dove. Foglie sminuzzate di mandragola e camomilla per favorire il sonno, distillato d'assenzio per aromatizzare i vini, polvere di mirra per creme e profumi. La vecchia sosteneva arrivassero dall'Egitto o dall'esotica Mesopotamia e perfino dalla favolosa India: c'erano le droghe contro i vermi e quelle per il malocchio, i rimedi per la febbre e il raffreddore, quelli per l'impotenza maschile e le erbe contro la dissenteria. C'erano pure delle spezie, dicevano, che servivano a preparare filtri d'amore o a scacciare i demoni, ma la vecchia non ne parlava mai, poichè proprio al centro del Campo si ergeva una lugubre catasta sempre pronta, che di tanto in tanto faceva salire nel cielo un fil di fumo nerastro che si sussurrava sapesse di zolfo, se ad arrostire ci mettevano una donna. Angelica si avvicinò e cominciò a fiutare quà e là tra i vasi: la vecchia la lasciò fare per qualche minuto, osservandola in silenzio con i piccoli occhi sepolti tra le rughe. - Che stai cercando, figliola? Mi pare tu abbia già annusato tutte le spezie che compri di solito per cucinare, quindi immagino tu abbia altro in mente. Dimmi, cara, cosa ti serve? Per tutta risposta la ragazza offrì alla donna il barattolo di mirtilli, esclamando: - Tieni, ti ho portato un regalo! - Ti ringrazio molto ma adesso dimmi: che posso fare per te? - insistette la vecchia. Angelica si guardò intorno sospettosa e poi, rassicurata, rispose a bassa voce: - Vedete, da qualche tempo mio padre non riesce a dormire e mia madre è assai preoccupata; mi manda a chiedervi se conoscete qualche erba che lo possa aiutare a prender sonno. - Eeeeh, come la fai lunga! Lasciamo stare i tuoi genitori e dimmi, piuttosto: è per una persona adulta o per un ragazzino? E quanto a lungo dovrebbe dormire?
Angelica arrossì, per essere stata smascherata tanto facilmente. - Beh... ecco... veramente... si tratta di un adulto alquanto robusto, dovrebbe addormentarsi dopo pranzo e dormire per il tempo di una messa o poco più. - Allora ho proprio quello che fa per te, ragazza mia! La donna prese una piccola coppa di coccio, vi mise dentro due erbe differenti, mescolò il tutto con cura e lo porse alla giovane con le istruzioni per l'uso: - Fai bollire un pò d'acqua e aggiungici un cucchiaio di questa mistura per farne un decotto, poi scola il liquido e lascialo freddare. Versane due cucchiai nel vino o nella zuppa e non tarderai a vederne l'effetto. - Potrei sapere cosa ci hai messo dentro? - Beh, sarebbe un segreto... diciamo che c'è un pò di mandragola con un'altra erba che si chiama... ma stai tranquilla, non è mica un veleno! - Ti ringrazio, però non ho soldi per pagarti. - Non fa nulla, figlia mia, e poi per così poco! Facciamo che in cambio tu mi hai dato la marmellata di mirtilli e così siamo pari! Angelica avvolse con cura la coppetta nello stesso straccio usato per la marmellata, ma questa volta lo pizzicò sotto il braccio per evitare di rovesciarne il prezioso contenuto. Dopo aver salutato allegramente la vecchia, si stava voltando per avviarsi verso casa quando la udì mormorare: - E fammi sapere se ha funzionato! Io so mantenere i segreti... Lei la guardò sorpresa: in quegli occhietti stretti a fessura le parve di vedere un lampo di maliziosa curiosità, unico segno di emozione su quel volto imibile.
La mattina della domenica successiva era stata buia e piovosa e Angelica si avvolse in uno scialle per uscire dalla locanda, nel primo pomeriggio. Era una di quelle giornate di primavera che, per via della penetrante umidità e degli ultimi soffi di tramontana, fanno pensare che il vecchio inverno sia tornato
di sorpresa per assistere al festoso arrivo di quella bellissima fanciulla ricoperta di fiori, che tutti dicono prenda il suo posto ma che lui non è mai riuscito a vedere. Dopo pranzo aveva smesso di piovere e, sebbene grosse nuvole nere si accavallassero disordinatamente una sull'altra forse nella fretta di sfuggire ai raggi del sole incalzante, laggiù in fondo al vicolo, verso ponente, già si vedeva uno squarcio di sereno. La ragazza conosceva la strada per la bottega di Prospero, avendovi riaccompagnato l'Orsi in un paio di occasioni – ovviamente diurne – quando il vino in eccesso ne aveva reso insicuro l'equilibrio. - Se sono fortunata avrò luce a sufficienza per osservare bene il quadro... sempre ammesso che riesca a entrare - pensava saltellando tra le vaste pozzanghere. A casa, Prosperino e l'oste dormivano della grossa. Angelica aveva dovuto drogare anche il vino del padre il quale, dopo qualche bicchiere, aveva espresso alla moglie l'intenzione di salire in camera per un sonnellino anzichè raggiungere i soliti amici in osteria. - Tanto mi sa che, con questo tempaccio, oggi non ci sarà nessuno - aveva bofonchiato, traballando sui gradini e dando libero sfogo alla propria rumorosa aerofagia a mezzo di entrambi gli orifizi in dotazione. L'Orsi si era invece addormentato direttamente sul tavolo, le braccia vigorose ripiegate sotto la testa a far da cuscino, ma Angelica non era riuscita a trovargli addosso le chiavi della bottega: non erano nella lunga giacca nera, appoggiata allo schienale della sedia, nè appese come di solito alla cintura del pittore. Era rimasta delusa: tanto lavoro per nulla! Avrebbero potuto trovarsi nella tasca dei calzoni ma, sebbene i pochi avventori se ne fossero andati da un pezzo, non se l'era proprio sentita di frugare da quelle parti. Dopotutto, c'era sempre la madre in cucina e se l'avesse sorpresa mentre... no, no... neanche a pensarci! Orsolina si era già insospettita per tutti quei suoi movimenti: - Si può sapere a cosa serve quella pentola d'acqua che hai messo a scaldare? - le aveva domandato a un tratto.
- Pensavo potesse servire per lavare i piatti, ma oggi col maltempo c'è stata meno gente del previsto - aveva risposto lasciando la cucina, armata di secchio e spugna per pulire i tavoli. Ripresasi dallo sconforto per il fallito furto delle chiavi, l'intraprendente ragazza aveva deciso di recarsi comunque alla bottega. - E se Prosperino avesse lasciato la porta aperta prima di venire a fare colazione? - si era domandata. Tentar non nuoce, aveva pensato, e poi chissà quanto avrebbe dovuto aspettare per riprovarci... mica poteva drogare l'Orsi tutte le volte che veniva in trattoria! Aveva dunque estratto la chiave della credenza in sala da pranzo e, terminate le pulizie, era rientrata in cucina. - Prima di addormentarsi Messer Prospero mi ha chiesto di portare questa chiave alla lavandaia, perchè deve are da casa sua a ritirare i panni sporchi. Aveva detto alla madre con grande naturalezza. Orsolina l'aveva guardata: - Figlia mia, mi sembra che per oggi tu abbia già fatto abbastanza stranezze, che dici? E ora anche Messer Orsi che si addormenta qui! - Ma, madre, si è tanto raccomandato perchè gli fi questo favore... La donna, dopo essersi asciugata le mani con uno strofinaccio e aver dato un'aggiustata al vestito, aveva borbottato: - Ora gli parlo io - e si era diretta verso la sala da pranzo. Ma, prima ancora di entrarvi, aveva udito un fragoroso russare, segno indiscutibile di come il sonno di Prosperino fosse ormai entrato nella sua fase più profonda. Angelica ne fu sollevata, poichè di fronte a ciò la madre non pensò neppure a svegliarlo e dovette darle via libera, raccomandandole di non stare fuori a lungo e confidando nel pisolino del marito per non avere guai.
L'arrugginita maniglia in ferro battuto cigolò sotto la mano di Angelica che spinse risoluta la porta, certa di trovarla chiusa a chiave: invece questa si aprì, con sua grande sorpresa. La giovane dovette mordersi le labbra per soffocare un grido di gioia: aguzzò le orecchie e trattenne il respiro, ma dall'interno non giungeva alcun suono.
Allora spalancò l'uscio, illuminando l'oscura stanza con la luce tenue di quella giornata nuvolosa. Fece capolino dalla porta e attese che gli occhi si abituassero alla penombra: il locale era ingombro oltre ogni dire, ma non c'era anima viva e lei vi entrò lasciando aperto per fare un poco di luce. Il soffitto era basso, con grosse travi in legno: la penombra accentuava il senso di oppressione che ne derivava e un odore di polvere ristagnava nell'aria. Tra l'ingresso e la finestra a inferriate, due cavalletti in legno ricoperti da teli dovevano celare dei quadri e contro al muro un tavolaccio ospitava una tondeggiante assicella bucata con grosse macchie di colore, un mucchio di stracci e pennelli di vario tipo e dimensioni contenuti in un boccale di bronzo. Qua e là sul pavimento c'erano figure di stucco bianche o colorate, una colonna di gesso in parte dipinta a imitazione di un marmo e lunghi pezzi di forme diverse ricoperti di grottesche solo in parte ultimate. In un angolo, una tenda nascondeva un pagliericcio con due cuscini sdruciti e una vecchia coperta del cui colore si era da tempo perduta memoria. All'angolo opposto, contro la parete di fondo era appoggiata una bassa credenza sul cui ripiano stavano allineati alcuni barattoli in terracotta che Angelica pensò contenessero i materiali per preparare i colori, come un giorno le aveva spiegato Prosperino. Mentre si avvicinava al cavalletto più vicino all'uscio, la ragazza si chiedeva come Lorenzo potesse starsene rinchiuso lì dentro tutto il pomeriggio. Poi con cautela sollevò un angolo del telo: doveva fare in fretta. Dapprima vide solo una macchia scura: poteva trattarsi del famoso dipinto? Sollevò ancora e, a un tratto, su uno sfondo più chiaro le apparve una foglia di vite, di cui poteva distinguere le venature e i bordi. Fu tentata di toccarla tanto le sembrava fosse vera, ma si trattenne e continuò a sollevare il lenzuolo. Quando fu tutto raccolto tra le sue braccia, Angelica aveva il volto arrossato e gli occhi luccicanti per l'emozione. Rimase incantata a osservare il quadro, mentre le labbra le si schiudevano dallo stupore: tutto corrispondeva esattamente alla descrizione fatta da Prospero a Lorenzo, che lei aveva udito a spezzoni mentre serviva. - E così, questo sarebbe il famoso Michele! - si disse: Bacco-Michele non guardava verso di lei ma ne attirava magneticamente lo sguardo.
- Dunque è proprio vero! Aveva ragione Messer Prospero! - pensò, stranamente turbata. Allungò timidamente una mano verso il volto del Bacco, quasi a sfiorargli le labbra. - Non si devono toccare i capolavori! - proruppe in quella un'allegra voce maschile alle sue spalle. Angelica trasalì, con un grido lasciò cadere a terra la coperta e saltò sul pagliericcio, tirando subito la polverosa tenda. - Non fatemi del male, Messere, vi prego! Non lo stavo toccando, ve lo giuro su mia madre. - Non ne ho alcuna intenzione - esclamò Lorenzo, che era rimasto immobile sull'uscio, incorniciato dal vano come fosse anche lui in un quadro. - Tuttavia, vi siete introdotta in casa d'altri senza esservi stata invitata... o mi sbaglio? La ragazza scoppiò in singhiozzi. - Volevo soltanto vedere il quadro di cui parlavate con Messer Prospero il giorno di Pasqua, ma non ho osato chiedervelo perchè mio padre non me lo avrebbe permesso - confessò in lacrime - vi prego, non denunciatemi o mi riempirà di botte!- Lorenzo non faticò a crederle. Si avvicinò al giaciglio e riaprì d'un colpo la tenda: Angelica era seduta sulla paglia e abbracciava le ginocchia piegate: lanciò uno strillo e si coprì il volto con le mani, nel modo ingenuo dei bambini che credono di nascondersi così agli sguardi. Il giovane scoppiò in una risata. - Non lo farò, potete starne certa: suvvia, rialzatevi... mia Regina! - disse, porgendole una mano per aiutarla a sollevarsi e un fazzoletto pulito perchè si asciugasse le lacrime. Esagerando i singhiozzi, lei si alzò cautamente appoggiandosi al braccio di Lorenzo e lo guardò di sottecchi: indossava un mantello di velluto scuro gettato sulle spalle a coprire un'elegante giacca in tessuto damascato giallo bruno. Il cappello piumato e la spada al fianco gli conferivano un'aria da perfetto gentiluomo: .era l'abito che portava al pranzo di Pasqua.
- Mi avete proprio spaventato, sapete? - disse Angelica, asciugandosi il viso e sforzandosi di assumere un tono di offeso rimprovero. - Beh, ve la siete cercata: ero andato a casa per pranzo e avevo dimenticato di chiudere la porta a chiave. Se lo sapesse l'Orsi me la vedrei proprio brutta!... A quanto pare dobbiamo entrambi coprire una magagna dell'altro: come vedete siamo pari. Ma ditemi, piuttosto, cos'era che tanto vi affascinava del quadro di Michele? La ragazza glielo spiegò. - È vero - commentò lui - ma per discuterne a fondo occorrerebbe del tempo e forse voi avete fretta di rientrare, se temete di venir sorpresa... Angelica fece un profondo respiro e sorrise: - Veramente - sussurrò - a questo punto... tanto vale che ve lo dica... ehm... ecco io di magagne da coprire ne avrei altre due... per l'esattezza! Lorenzo la guardò stupito senza fare domande. - Eh sì, vedete - continuò la ragazza, ormai rinfrancata - per fare questa scappatella ho dovuto dare un sonnifero a mio padre e a Messer Prospero. - Ah... questa poi! Ma dite sul serio? Ascoltando il racconto di Angelica Lorenzo rimase senza parole e insieme si divertirono a immaginare cosa avrebbero pensato le vittime al loro risveglio. Dopo poco, però, si ritrovarono nuovamente davanti al quadro: il giovane spostò allora il cavalletto più vicino all'uscio, poichè il cielo si stava pian piano schiarendo e dunque lì c'era luce sufficiente per un'accettabile osservazione. Angelica finse di non accorgersi che Lorenzo le aveva preso la mano per posizionarla alla giusta distanza e constatò lusingata che pareva non avesse intenzione di lasciare la presa. - Il segreto è la luce, Angelica. Nessun pittore al mondo la usa come Michele, nessuno riesce a sfruttarla come lui per dar vita alle immagini: Caravaggio sostiene che la luce sia materia che esce dal buio, così mi ha detto Prospero. Per
questo, forse, preferisce usare sfondi così scuri. È il contrasto luce-ombra a far sì che gli acini sembrino veri... tanto reali che vien voglia di toccarli! - Ma se la luce dà vita ai frutti e alle foglie, come fa a esprimere i moti dell'animo? Mica può illuminare quel che abbiamo dentro! Il giovane sorrise: un'osservazione ingenua ma sensata. Ne approfittò per stringere la mano di Angelica. - Vedi... Michele si è volutamente messo un pò di profilo, di tre quarti, illuminando la spalla e il busto per concentrare la nostra attenzione sul gesto che sta compiendo. È un pò come se volesse volgersi verso di noi per offrirci il grappolo oppure... - Oppure si preparasse a darci la schiena per impedirci di prenderlo - aggiunse prontamente lei con un sorriso, ricordando l'osservazione fatta dall'Orsi. Lorenzo ne approfittò per intrecciare le dita con le sue in segno di approvazione. - È proprio questo, credo, a rendere...hem...ambigua l'espressione di Michele: potrebbe significare che vuole offrire anche se stesso, oltre all'uva, chi sa... sicuramente il quadro contiene un messaggio ma... - Par quasi che dica: "Vi piacerebbe vero? Ma dovete accontentarvi di guardare". - Già, senza precisare se si riferisca ai frutti o a se stesso - sussurrò Lorenzo, pensieroso. - Insomma, è così che Michele usa la luce, per rappresentare... l'ambiguità, dico bene? - Beh... sì, forse, in questo caso... un'ambiguità sofferente: non vedi com'è verde in volto? Come chi soffre di coliche. Ci credo che sia poi finito in ospedale! - Quanto deve aver patito! - mormorò Angelica. - Sai, Michele sostiene che la natura e il mondo che ci circonda siano la migliore fonte d'ispirazione per un pittore. Pensa che questo Bacco, a sentir l'Orsi, lo ha concepito una sera in una bettola malfamata del Bordello, osservando un
avventore ubriaco che si era spogliato e barcollava fra i tavoli vuotandosi addosso i fondi delle caraffe: gridava di voler fare il bagno nel vino! - E perchè allora Michele vi ha ritratto se stesso e non quel tale? - I modelli costano... lo sanno anche gli sbronzi come quello e Michele non ha mai un soldo in tasca. Oppure perchè voleva ritrarsi sofferente e... appunto un pò ambiguo... forse allora si sentiva così. Comunque sia doveva pur esserci una ragione! Secondo Prosperino l'originalità della pittura di Michele, a suo dire rivoluzionaria, sta proprio nel mettere al centro della sua arte l'essere umano con i suoi drammi e le sue ioni. I due giovani restarono così, riverenti e muti davanti alla tela, le loro dita intrecciate quasi a trasmettersi l'un l'altro l'emozione che provavano. Angelica si scosse per prima: - Devo andare - gli disse - mi ero quasi dimenticata di avere pure una madre, che è rimasta ben sveglia e potrebbe a dir poco rimproverarmi se tardo. Si avviò verso la porta, trascinandosi dietro Lorenzo che aveva rafforzato la stretta. - A presto... - fece lei sull'uscio. - Quando e come? Angelica si fermò, liberò dolcemente le dita da quelle del ragazzo e alzò gli occhi al cielo sospirando: - Non so, in trattoria oppure... stiamo così vicini che, vedrete, ci incontreremo presto! - Ascolta... e se la prossima volta ti insegnassi a leggere le note musicali? Il volto di Angelica si illuminò: era ormai sulla soglia, ma si volse e rientrò nella stanza con o svelto. - E Messer Prospero? Se mi vedesse qui potrebbe dirlo a mio padre e sarei finita. - Beh, dovremo assicurarci che non ci sia. Lui lavora quasi sempre nelle abitazioni dei suoi clienti e di solito la mattina mi lascia un messaggio per
comunicarmi dove si trova e quando tornerà. - Fammi sapere quando non c'è, ma... in che modo? Lorenzo chinò il capo, pensieroso; ma subito sorrise con aria trionfante. - Vieni con me! - esclamò, rimpossessandosi della mano di cui ancora sentiva nel palmo il tepore: incurante delle proteste di lei, la trascinò in fondo alla stanza dove, in un angolo buio dietro la credenza, si celava una porticina che Angelica non aveva notato nella sua sommaria esplorazione. Questa si apriva su una ripida e stretta scala a pioli che portava a una soffitta nel sottotetto. Nell'appartamento a fianco vivevano gli anziani padroni di casa e Lorenzo fece cenno ad Angelica di non fare rumore. Dopo due rampe i ragazzi giunsero a un angusto pianerottolo in legno, dotato di una piccola e bassa finestrella che dava sul retro dell'edificio. Il giovane l'aprì e si inginocchiò, poi richiamò l'attenzione della compagna esclamando: - Guarda un pò cosa si vede laggiù? Angelica si abbassò: proprio diritto davanti a lei, oltre un gruppo di case, riconobbe il muricciolo del suo giardino e il retro della locanda ricoperto di rampicanti. Lorenzo avvicinò il viso all'orecchio della fanciulla per non farsi udire dai proprietari e sussurrò: - Se domani c'è via libera, esporrò a questa finestra uno straccio bianco. Lei non rispose, ma scosse il capo affermativamente quando ancora Lorenzo non si era ritratto, così che le labbra di lui le sfiorarono l'orecchio. - E questa come l'hai scoperta? - domandò Angelica a bassa voce. Il ragazzo non si mosse dalla privilegiata posizione acquisita... e lei neppure. - Il lunedì di Pasqua, pensandoti sola e triste per via di tuo padre, sono salito quassù per vedere se si scorgeva casa tua. Mi sentivo solo anch'io, sai... La fanciulla girò lentamente la testa verso di lui e le labbra di Lorenzo strisciarono sul suo volto, carezzandone prima la morbida guancia e poi
scontrandosi con il naso, sul quale si soffermarono per un attimo prima di scendere a cercare la bocca. - Basta così! - mormorò lei con tono sbarazzino, dopo un lungo bacio Arrivederci, Messere! - e si rialzò sorridendo.
3. Costanza Colonna, principessa e ispiratrice: Morte della Vergine
L'intuizione di Lorenzo che, con il Bacchino, Caravaggio intendesse trasmettere un preciso messaggio era in realtà quanto mai azzeccata. Giunto a Roma nell'autunno/inverno del 1592/93, Michelangelo Merisi si era presto trovato in difficoltà. Ospite nell'abitazione di un tal Monsignor Pucci, in una zona della città che anticamente ospitava le esercitazioni militari delle legioni romane – e per questo denominata Campo Marzio in onore di Marte, dio della guerra – il giovane artista era tenuto a pagare una pigione. Questo gli procurava non pochi grattacapi, soprattutto dopo che un ladruncolo gli aveva rubato i pochi averi di famiglia salvati dal lungo viaggio. Come se non bastasse, il giaciglio che Monsignore gli aveva rifilato abbondava di pulci, pidocchi e zecche che gli tormentavano il sonno e spartivano con la tenia le poche sostanze nutrienti che il giovane riusciva ad assimilare. Infatti – altra munificenza di Monsignore – l'unico cibo che questi gli elargiva era in pratica costituito da verdure, il che valse al religioso il nomignolo di Monsignor Insalata appioppatogli dal giovane ospite. Non c'era peraltro rimedio, dal momento che, pagato l'affitto, Michelangelo dava fondo ai suoi miseri guadagni con i materiali per dipingere: componenti per i colori, tavolette, pennelli. Per non parlare di quando abbisognava d'un modello, cosa cui ben presto dovette rinunciare. Inoltre le continue guerre religiose avevano impoverito il popolo di Roma ancora convalescente da una annosa carestia, di modo che le lunghe giornate sulla strada a cogliere ispirazione, mentre esponeva i suoi lavori pittorici, non gli procuravano denaro sufficiente a migliorargli la vita. Si prese prima una bronchite – e ci era abituato per via del clima invernale di Milano – che gli lasciò una tosse secca e persistente che non lo lasciava dormire. La dissenteria era fenomeno assai frequente, vista la carente alimentazione, ma il colpo di grazia glielo diede la tenia, che in fatto di presenze veniva subito dopo l'uomo nel lunghissimo elenco di parassiti che si aggiravano per la Città Eterna.
Caravaggio si rendeva conto di aver bisogno di aiuto e, prima che la situazione si fe tragica, decise di prepararsi un profilo personale... un pò fuori dall'ordinario. Un gentile specchiaro del Campo Marzio gli consentiva di utilizzare i suoi prodotti per effettuare esperimenti con fasci di luce diurna, che il pittore proiettava sul fondo della bottega a illuminare i soggetti – soprattutto stoviglie o fiori – che poi ritraeva. Così almeno poteva lavorare al coperto e senza venir disturbato dai pestilenziali ragazzini di strada. Utilizzando tre grandi specchi commissionati da un alto prelato per i suoi sollazzi erotici con fanciulli implumi si fece dunque un autoritratto, che necessariamente lo raffigurò com'era: un pallido giovane con labbra esangui e colorito verdastro per le ripetute crisi di vomito e diarrea. Quando i dolori e la debolezza lo convinsero finalmente a cercare aiuto, decise di fare l'unica cosa sensata che avrebbe sempre rimpianto di non aver fatto prima. E dunque in un giorno d'inverno, con quella tela avvolta in stracci e arrotolata sotto il braccio, si coprì come meglio potè e attraversò il centro della città, scivolando più volte per i mancamenti di forze ma riuscendo sempre a salvare il dipinto dal fango. Quella fredda mattina di febbraio '93 la pioggia era sferzante e folate di tramontana sospingevano grosse nuvole nere nel cielo di Roma. Le guardie di servizio all'ingresso principale di Palazzo Colonna erano più divertite che irritate: ma chi credeva di essere, quello straccione inzuppato fino alle ossa, per chiedere di venir ricevuto nientemeno che dalla Principessa Costanza? Per qualche istante nessuno seppe cosa dire, tanto la situazione pareva irreale. Poi, profondendosi in un inchino, una guardia più maligna delle altre esclamò: Ma certo, mio Signore, e... sarete atteso, immagino! - Avete un appuntamento, vero? - gli fece eco un altro ridendo, mentre numerosi colleghi si radunavano sperando in un sollazzo imprevisto a mitigare la noia.
Avevano di fronte un pallidissimo giovane, miseramente vestito e fradicio di pioggia, che barcollando era andato ad appoggiarsi con aria sofferente a uno dei pilastri. - No, ma la Principessa mi conosce - rispose costui con un filo di voce. Lo sconosciuto reggeva con un braccio uno strano involucro tubiforme, mentre con l'altra mano si massaggiava il ventre. - Ma è ovvio! Ne eravamo tutti certi!... e a tuo parere la nostra padrona dovrebbe ricevere così, su due piedi, un pezzente come te! Ma cosa credi? Che la Principessa non abbia niente di meglio da fare che strizzare gli abiti dei miserabili? Gli altri armigeri si sbellicarono, per nulla impietositi da un attacco di tosse che pareva soffocare lo straccione e non finiva mai. - Ma... veramente la mia famiglia è di Caravaggio in Lombardia, sapete, su nei pressi di Milano... e la Principessa Costanza era la nostra Signora Marchesa e io... io sono a Roma da pochi mesi e... - ma la voce gli mancò. Uno dei giannizzeri lo prese per i lembi della casacca sollevandolo a due palmi da terra con una sola mano: la vecchia giacca inzuppata si strappò e il poveraccio finì lungo disteso sul pavimento fra risa di scherno. Altri due lo rialzarono sgarbatamente e il prepotente di prima lo apostrofò: - Ascoltami bene, amico, finora abbiamo solo scherzato, ma se non sparisci subito faremo sul serio, chiaro? Un'altra guardia si era impadronita dell'involucro rotolato via nella caduta e faceva il gesto di gettarlo a terra sulla strada in pendenza, trasformata in ruscello dalla pioggia. - No! Vi prego, quello no! È un dono per la Principessa! Il malcapitato tentò invano di agitarsi per impadronirsene. Le risate di scherno che seguirono furono tuttavia interrotte dalla comparsa di un personaggio dall'aria solenne e con una divisa importante: il Capo delle guardie
di casa Colonna. Costui aveva udito le ultime parole dell'intruso, mentre accorreva per verificare la ragione dell'assembramento. Con un gesto fece sgombrare la zona dai curiosi superflui e poi chiese cosa contenesse l'involucro: - Mai trascurare oggetti in consegna per i Signori! Chiunque li porti, lo sapete! Prima di tutto verificarne sempre il contenuto! E poi, eventualmente, requisire... in specie se si tratta di sconosciuti! Quindi scrutò lo sventurato giovane, aggrottando perplesso le sopracciglia e senza nascondere la propria sorpresa per la sua arrogante richiesta. - Contiene un mio quadro - spiegò flebilmente lo sconosciuto, che due guardie trattenevano per le braccia con la schiena contro il muro. Il capo controllò, svolgendo parzialmente lo straccio incerato che fungeva da involucro. Vide un rotolo di tela e con l'aiuto di un lume armeggiò per guardare all'interno. Dopo qualche istante gli sfuggì un'esclamazione di meraviglia: - Ho visto un grappolo d'uva e due albicocche che sembrano veri! Siete voi l'autore? Come vi chiamate? - Sì, Messere, sono pittore e il mio nome è Michelangelo Merisi... vengo da Milano. Il comandante imbracciò il dipinto e si rivolse ai suoi uomini: - Che cosa temete? Non vedete che manco si regge in piedi? Lasciatelo! - poi, rivolto al pittore: - E voi aspettate qui, nella mia guardiola! Andrò a verificare personalmente e... guai se avete mentito... intesi? - Grazie, Messere - esalò Michelangelo, guardandolo scomparire in un lungo porticato. Subito dopo svenne e, privo ormai del o dei due armigeri, scivolò lentamente lungo il muro fin sul pavimento lastricato del portone, afflosciandosi come una vela ammainata in tempo di bonaccia.
Una guardia partì subito all'inseguimento del capo per aggiornarlo.
La Principessa Costanza aprì il grosso rotolo con grande curiosità e ai suoi occhi stupefatti apparve il Bacchino malato in tutta la sua misteriosa bellezza, resa ancora più inquietante dal tremolio delle fiaccole accese alle pareti del grande salone. Costanza aveva visto Michele per l'ultima volta parecchi anni prima quando, rimasto orfano di padre per via della peste del 1577, il talentuoso adolescente aveva lasciato il borgo di Caravaggio per tornare a Milano – dove era nato – presso il pittore Simone Peterzano, allievo del grande Tiziano. Ma lo riconobbe ugualmente all'istante: - Dunque è così che si è ridotto, il mio caro...Michelino! - mormorò, intrigata da quell'ambiguo contrasto tra godimento e sofferenza. La nobildonna rimase a lungo in silenzio, osservando con angoscia e ammirazione l'opera del figlio di Fermo Merisi, che ben ricordava nelle sue mansioni di supervisore ai lavori edili nel Marchesato di Caravaggio per conto del marito sco I Sforza, morto di peste nel 1583, proprio come Fermo nel 1577. Costanza era sconcertata: non aveva mai visto un ritratto simile, un dipinto che non si limitasse a riprodurre i lineamenti e il censo, la professione o le imprese di un ricco o famoso personaggio, ma che indagasse invece sull'animo, la storia e le sofferenze di un essere umano. Le sembrava, come dire, un ritratto parlante, che per di più diceva cose molto diverse dal solito! Senza averne la prova, sentiva che quell'effigie del giovane pittore, quell'enigmatico capolavoro riassumeva in qualche modo le drammatiche vicissitudini che lo avevano portato da lei. Vi lesse umiliazione e patimento: come se l'uomo che batteva alla sua porta dicesse: - Vedete come sono ridotto? Sapeste cosa ho dovuto sopportare per seguire i miei sogni di pittore! L'ancor giovane donna si impietosì e si emozionò: quel quadro aveva uno strano fascino, perfino – dovette ammettere – qualcosa di misteriosamente erotico. Controllando a fatica il proprio turbamento, ordinò di far subito entrare il pittore.
Il capo delle guardie si sprofondò in un inchino: - Veramente, Altezza, mi dicono che è svenuto e lo hanno disteso nello stanzino per i turni di notte. - Non mi ero sbagliata, dunque! Fate preparare la mia carrozza, subito! - e, indossato un mantello di scuro velluto rosso con il cappuccio, fece cenno alla sua dama di compagnia preferita di seguirla. Poco dopo, la carrozza si diresse sobbalzando verso la periferia di Roma e ogni volta che sprofondava in una delle numerose pozzanghere, la seguivano le imprecazioni dei popolani inondati dagli spruzzi di fanghiglia. Michele venne portato allo Spedale della Consolazione, l'ospedale dei poveri. Il Priore si prese personalmente cura di lui in virtù dei generosi lasciti in denaro con i quali i Colonna speravano forse di intenerire il Padreterno quando avesse dovuto giudicare i mezzi da essi usati per accumularlo. Naturalmente escludendo Marcantonio, padre di Costanza e Ammiraglio in capo della flotta papale: lui era fuori discussione e perdonato in partenza, avendo massacrato gli infedeli a Lepanto in nome e su incarico di Dio... attraverso il Suo ambasciatore in terra. In omaggio a Costanza – che tutti a Roma conoscevano come Marchesa di Caravaggio – il Priore affibbiò subito al giovane pittore il soprannome di Caravaggio. Michele venne sistemato in una nuova ala dell'ospedale, completamente ristrutturata con i fondi dei Colonna e – meraviglia assai gradita dai degenti – dotata di finestre con vetri, per l'invidia dei loro compagni di sventura che invece vivevano nella fredda penombra della cartapecora o di altri materiali poco o affatto trasparenti. Non appena i progressi del ricoverato lo consentirono, Costanza gli fece portare un'immensa coperta di velluto rosso scuro che ordinò di stendere a mezzo di funi ancorate al soffitto tutt'intorno al suo letto, affinchè il suo protetto potesse godere di una certa riservatezza. E si accertò che il tendone comprendesse anche la finestra per consentirgli di lavorare indisturbato, non appena riprese le forze. La cosa suscitò l'invidia e le proteste dei ricoverati della corsia di fronte: - Ma come! - sbraitavano al Priore - Caravaggio qui e Caravaggio là... e chi diavolo è questo Caravaggio per toglierci la luce?
Il tendone venne più volte smontato nottetempo da ignoti e ogni volta il Priore lo fece risistemare secondo gli ordini della Signora Marchesa, con grande imbarazzo di Michele. Ma quando Costanza venne finalmente a trovarlo – s'era ormai in Aprile – non le occorsero che pochi minuti per dirimere la vertenza: giusto il tempo di compiere un giro del reparto distribuendo di persona frutta e dolci, ovviamente solo a quelli che potevano cibarsene. Agli altri più sfortunati – tra i quali Michele – donò una rosa di buon augurio con le proprie insegne marchiate a caldo su una foglia: una ricercatezza da Gran Dama. In quell'occasione, la Principessa scoprì che il giovane pittore aveva ben colto l'augurio, sottinteso nel dono della tenda, di tornare al più presto a dipingere. Infatti, non appena il suo paggio ebbe sollevato il drappo – così grande che c'erano volute otto persone per appenderlo – vide che il malato stava già lavorando a una tela con gli attrezzi procuratigli dall'abile Priore in cambio della promessa di qualche frutto del suo talento. Il quadro era solo abbozzato: in basso a destra, poggiato su un tavolo, un vaso di vetro rifletteva l'immagine della finestra, deformata dalla curvatura del recipiente. Michele vi stava dipingendo dentro una rosa, fornita anch'essa dal Priore (Ragazzo morso da un ramarro). Lo sfondo della tela era uniformemente scuro, senza altri oggetti o figure: la luce sfiorava appena le foglie del fiore e sembrava far vibrare la superficie dell'acqua nel vaso, quasi esso fungesse da lente per concentrarla tutta al suo interno. Un vero gioiello, tanto che la nobildonna – affascinata dall'originale soggetto – non rimarcò la femmineità nel gesto del modello, assai più palese e marcata che nel Bacchino: - Bellissimo davvero! – esclamò invece - Vedo che l'allievo di Mastro Peterzano ha imparato assai bene l'arte della pittura! Me ne rallegro vivamente! Sorpreso e imbarazzato, il pittore ringraziò la Principessa per il drappo rosso e si inginocchiò a baciarle la mano, facendo uno sforzo per ricordare i pochi precetti di buone maniere non ancora cancellati dalle grame compagnie degli ultimi tempi. - Su... su alzati, Michele! - lo invitò Costanza, aiutandolo a risollevarsi - E dimmi piuttosto, ti piace il rosso del telone? Non lo trovi forse spento o troppo
scuro? - Hem... direi ocra rossa, cinabro e un pò di terra bruna per smorzarlo... mi piace molto, Altezza! Non è quello di Tiziano e neppure il solito rosso dei quadri raffaelleschi. Se mi permettete, è meno vivace e più... più intimo, se così si può dire! - È il mio colore preferito: regale, ma sanguigno come l'Amore! - Sì, ricorda il sangue versato da un eroe. - Ah, non nominare la guerra, ti prego! In casa mia non si parla d'altro... - Beh, allora... - si corresse l'artista, un pò a disagio - diciamo... da un martire. - È violenza pure quella e io la ripudio con tutto il cuore! Non c'è forse già abbastanza sofferenza intorno a noi, senza bisogno di provocarne altra? Così dicendo, sollevò a caso il telo che si aprì come un sipario sulla corsia, illuminando una scena di dolore accanto al letto di fronte: con i piedi nudi in primo piano, il corpo di una giovane donna rivestita di miseri panni rossi giaceva tra la disperazione dei congiunti (Morte della Vergine). Il silenzio calò sui due osservatori che si guardarono addolorati ma ancor più sorpresi: il rosso del suo abito era esattamente quello del telone di Costanza. Caravaggio fu colpito dal contrasto tra lo splendore di lei – i cui neri capelli acquistavano toni rossastri per i riflessi del tendaggio investito dalla luce del finestrone – e il mortale squallore di quei bianchissimi piedi senza vita. - Due donne - mormorò, come parlando a se stesso - entrambi avvolte dallo stesso colore: l' una splendente di nobile vigore e l'altra immobile nel livore della morte. Vedete, mia Signora, come questo vostro drappo rosso sembri quasi voler rappresentare il confine tra la vita e la morte? Voi da questa parte e lei dall'altra: come se il sipario del teatro della vita – che ovviamente non può essere che rosso, come il sangue! – calasse su quella poveretta. Oppure... potrebbe rappresentare la sua anima che s'innalza... quasi fosse sospinta dall'ultimo respiro. Costanza, ammutolita, annuì e lasciò cadere il telo con cautela, religiosamente.
- Hai notato come la compostezza della salma fe pensare a rassegnazione e sfinimento, più che a una tormentosa agonia? - Sì, c'era un che di nobile e di... maestoso in quella scena, incorniciata dall'immenso drappo rosso di vostra Altezza... I due provavano uno strano sentimento, come un imbarazzo, quasi un senso di colpa per aver involontariamente violato una processione la cui dignità sacrale era evidenziata dalla fila di mesti visitatori i cui capi formavano una croce insieme a quelli della defunta e dei tre personaggi in lacrime al suo fianco. - È vero, ma questa maestà contrastava in modo singolare con l'umiltà dei personaggi... compresa la donna morta... - Un pò come se fossero le esequie di una gran Dama caduta nell'indigenza poco prima di morire, oppure quelle di una nobilissima anima staccatasi dal corpo distrutto da un immenso dolore come... come... la perdita di un figlio! Lei lo guardò: l'emozione che stava vivendo il pittore aveva un che di magico, di ultraterreno. - Che cosa vedi, Michelangelo? - domandò turbata, con voce roca. L'artista parve quasi faticare per riaprire gli occhi e rivolgerli a lei, come se la vedessero per la prima volta. - Altezza io credo... io ho visto le esequie di Maria, la madre di Cristo! - rispose poi. Ma subito, forse per l'emozione ma anche perchè indebolito dalla lunga malattia, si sentì improvvisamente mancare e barcollò in cerca di un appiglio. Costanza gli cinse la vita con un braccio e lasciò che Michele si appoggiasse a lei mentre lo riaccompagnava al giaciglio stringendogli una mano. Poi, sistematolo sul letto con l'aiuto del paggio e di un'ancella e assicuratasi delle sue condizioni, si allontanò in fretta con un cenno di saluto. Era pallidissima.
Costanza era stata colpita dalla sensibilità di Caravaggio e dall'inusuale e affascinante contrasto che vedeva in lui: il suo aspetto modesto da un lato, che le
ricordava i contadini delle sue terre lombarde, e l'originale profondità delle sue parole quando parlava di pittura. Chi altro mai avrebbe definito intima una tonalità di rosso? La scena della defunta e lo scambio d'impressioni che ne era seguito l'avevano profondamente toccata: il tono della conversazione le era parso insieme commovente e sublime. Era assolutamente consapevole di aver partecipato al momento d'ispirazione di un grande artista, a quell'attimo miracoloso della creazione che avvicina l'uomo a Dio: le era parso quasi di penetrargli l'anima ed era stata una sensazione indicibile e immensa, come di spazi infiniti. Quant'è diverso – pensava rientrando a casa – dagli uomini, per lo più arroganti e vani, che frequentava a Palazzo e nella cerchia della nobiltà romana! Parlò subito di lui a Onorio Longhi, anch'egli lombardo, la cui operosa famiglia di architetti era in quegli anni protagonista nel grandioso fervore che animava i cantieri romani. Costanza la conosceva fin dai vecchi tempi a Caravaggio, quando il padre di Onorio, Martino Longhi (il vecchio) era Architetto di fiducia degli Sforza. I Longhi abitavano in Piazza S. Apostoli, a un o da Palazzo Colonna, vero centro di gravità per gli emigrati lombardi che avevano in Costanza una potente e disponibile protettrice. Gli consegnò l'autoritratto del giovane ammalato, il cui rivoluzionario realismo – di gusto forse più popolare che classico – non poteva certo venire affiancato ai preziosi arazzi e ai nobili marmi che decoravano Palazzo Colonna. Lo avrebbero guardato tutti con stupita sufficienza, chiedendosi cosa mai fosse preso ai padroni di casa per esibire una simile composizione di dubbio gusto, nella quale la figura del Bacco aveva ben poco di divino. Se ne privò a malincuore, nella speranza che l'autore avrebbe forse trovato un acquirente più sensibile dei suoi familiari o dei loro ospiti e pregò il Longhi di fare il possibile per trovargli un lavoro e un'abitazione. Onorio mostrò il quadro all'amico pittore Prospero Orsi che ne rimase profondamente impressionato e insieme decisero di tenerlo da lui in bottega, in attesa di Michele.
4. Caravaggio in ospedale: il Ragazzo con cesto di frutti
Dalla sua cameretta, Angelica controllava spesso la finestra di Lorenzo. La spiava di nascosto tra le imposte, per evitare – pensava ingenuamente – che nel sorprenderla ad attendere il suo drappo bianco lui si mettesse in testa chissà quali idee... ma il tempo scorreva e l'occasione tardava. Dopo il loro primo bacio, il tempo era stato inclemente: sette giorni di pioggia e vento, quasi il segnale di una primavera tardiva e dal bizzoso carattere. - Ma cosa diavolo lo mette fuori a fare il suo straccio tutti i giorni, quello! Ormai sarà tutto fradicio! - si diceva la ragazza, indispettita dall'attesa - Non ha ancora capito che con questo tempaccio sono bloccata in casa? Non si è mai visto nessuno andare al lavatoio con questa pioggia! Poi ci si mise la febbre della sorellina, che le procurò giorni assai faticosi dovendo farsi carico anche di aiutare la madre con le stoviglie, compito normalmente riservato alla piccola Maria. E come se non bastasse, essendo lei impegnata in cucina il padre doveva gestire da solo il servizio e non poteva concedersi la solita gitarella dopo pranzo. Il che – tra l'altro – lo rendeva irascibile più del solito. Ma in poco più d'una settimana tutto si risolse. Il cielo tornò finalmente terso, Santino potè uscire di casa e Angelica salì di corsa le scale: sotto la lieve brezza, vide il drappo bianco sventolare garbatamente al sole il suo messaggio tentatore. La ragazza raccolse la biancheria sporca che aveva ammucchiato sotto il letto e la mise in una cesta. In cucina, Orsolina stava pelando una montagna di patate con l'aiuto della figlia minore. - Vado al lavatoio per il bucato - annunciò Angelica, facendosi precedere dall'ingombrante carico che reggeva con entrambe le braccia. - Non fare tardi, mi raccomando, altrimenti... chi sa tuo padre se non ti trova al suo rientro! Sai bene com'è nervoso quando torna dal gioco in caso abbia perso;
e poi oggi, col bel tempo, ci sarà movimento alla locanda! - e Orsola alzò il mento a indicare il piano superiore. Angelica posò il cesto e si chinò a darle un bacio sulla fronte prima di uscire. Scelse un percorso assai più lungo del dovuto, visto che qualche pettegola del vicinato si sarebbe potuta insospettire nel vederla, col cesto del bucato sul capo, dirigersi verso il centro della città anzichè verso il fiume,. Indossava i soliti abiti dimessi e i capelli erano raccolti in una lunga treccia, nascosta dalla cuffietta di un triste color topo; calzava gli zoccoli e sopra la camicetta bianca portava un corto giubbotto di pelle marrone, aperto sul petto. Fatti pochi i e svoltato il primo angolo, si tolse bruscamente la cuffia e la gettò nel cesto: non la poteva sopportare, ma non aveva altri copricapo e la madre si ostinava a ripeterle: - Santa Madre Chiesa vuole le donne oneste a capo coperto: degnati almeno di fare questo, visto che a Messa non ci vuoi proprio più venire. Dopo un largo giro di precauzione svoltò a sinistra, lasciando la via de' Pettinari per raggiungere l'angusta stradina della bottega. Su un piccolo spiazzo all'incrocio tra due vicoli alcuni monelli stavano giocando con una palla di stracci fra urla, cazzotti, cadute nella fanghiglia e piagnistei: un fracasso terribile. - Sarà meglio che chiudiamo la porta, altrimenti il liuto chi lo sente più - esclamò ridendo Lorenzo, vedendola entrare. Angelica la richiuse, posò a terra la cesta e ve la spinse contro. - Questo in caso qualcuno volesse.... - e lo guardò con aria complice. Reso impaziente dall'attesa, lui non si soffermò a gustare l'implicita promessa celata da quel gesto inaspettato e si affrettò a chiuderle le labbra con le sue. - Ma, insomma! Basta... cosa credi? Che io venga qui per farmi baciare? E fammi almeno entrare! - protestò lei staccandosi con una fresca risata mentre Lorenzo tentava di far buon viso con un goffo inchino. - Vedo che questa volta la mia regina si è portata pure la corona! - esclamò poi
lanciando un'occhiata divertita alla cesta. - Sciocco! Mi dici quale altra scusa potrei inventarmi per uscire a quest'ora senza destare sospetti? E dovrei pure lavarla, la biancheria, invece di perder tempo con te. - È vero... ma come pensi di fare? Mica la puoi riportare a casa sporca. - Se mi scoprono sono rovinata... ma per una volta posso rischiare. Ci penseremo poi! La luce fioca proveniente dall'unica finestra illuminava a malapena la stanza, ma la ragazza notò che qualcuno aveva spazzato e sistemato da una parte gli scarti di gesso di Prosperino: ora il pavimento era sgombro, fatta eccezione per i cavalletti e il tavolaccio addossato alla parete che dava sulla strada. Il liuto giaceva sul pagliericcio insieme a qualche spartito, ma la vecchia coperta era stata sostituita con un copriletto di lana bianca e la tenda aveva cambiato colore, in virtù di un provvidenziale lavaggio effettuato da una lavandaia di casa Colonna. Lorenzo vi fece sedere la fanciulla e le si accomodò accanto, imbracciò lo strumento e annunciò che avrebbe eseguito per lei un madrigale del fiammingo Jacques Arcadelt: lo spartito giaceva su un tavolino davanti a lui. Angelica ne seguiva con curiosità i movimenti delle dita mentre ascoltava con attenzione. - È tanto difficile? - domandò alla fine, applaudendo. - Non è nè facile nè difficile, basta imparare. Guarda, ti faccio provare. Il giovane si inginocchiò di fronte a lei, quasi appoggiando il ventre alle sue ginocchia; le posò il liuto sulle gambe, dopo avergliele fatte accavallare, e le mostrò come reggere lo strumento. Da quella scomoda posizione, che offriva tuttavia a Lorenzo un contatto assai piacevole, le prese entrambe le mani e cominciò a guidarne le dita sulle corde. Quando, dopo qualche infruttuoso tentativo, riuscì a farle ripetere in lenta
sequenza le prime tre note del motivo che egli aveva appena suonato: la ragazza emise un gridolino di gioia e, per battere le mani, lasciò lo strumento. Il liuto le cadde pesantemente su un fianco, strappandole un breve sussulto più di sorpresa che di dolore. - Vi ha fatto male, mia Regina? - chiese Lorenzo con voce roca, carezzandole le cosce coperte dalla ruvida gonna e avvicinando il capo al suo volto per baciarla. Fu un bacio lungo e dolcissimo, che divenne ben presto apionato: le mani di lui rimossero bruscamente il liuto, che rotolò sul pagliericcio, e ritornarono sul corpo di lei prima percorrendo le braccia e le spalle e poi scendendo sui seni, dove si arrestarono. Ora la ragazza sentiva premere sulle ginocchia qualcosa che aveva perduto l'informe morbidezza di poco prima: ne era incuriosita e lusingata. Sentì le mani di Lorenzo lasciarle il petto e scivolare sui fianchi per scendere lungo le gambe: le desiderava sulla pelle e quando, con sua grande emozione, si infilarono sotto la gonna risalendo audacemente i polpacci, anche lei iniziò a esplorarlo. Ma non appena le frenetiche dita del giovane le carezzarono le cosce tentando di insinuarsi tra loro, lei si interruppe di scatto e staccò le labbra dalla sua bocca sussurrando: - No, ti prego, aspetta... non... non vuoi che danzi solo per te? Sono qui per questo, sai? Le mani di Lorenzo si arrestarono senza spostarsi, ma il ragazzo le sorrise: - I tempi dell'amore sono scanditi dal cuore della donna... facciamo come vuoi tu! Si alzarono lentamente restando vicini e Angelica lo baciò con gratitudine. - Su, su - fece lei - adesso lasciami, altrimenti facciamo tardi. E sciogliendosi dall'abbraccio corse al cesto della biancheria, dal quale tolse un fagotto nascosto sotto le lenzuola.
- Ho una sorpresa per te. Ma devi promettermi che non verrai a sbirciare fino a quando non ti chiamerò. Saltò sul pagliericcio tirando d'un colpo la tenda. Lorenzo, rimasto senza parole, si accorse che prima di scomparire Angelica gli aveva lanciato un bacio con le dita. Nella via erano cessati gli schiamazzi e la stanza buia e silenziosa era una cornice ideale per l'intimità che si andava creando tra i due giovani. In piedi davanti alla tenda, il ragazzo sentiva il fruscio delle vesti e il crepitio della paglia che tradivano i movimenti della fanciulla. Comprese che si stava spogliando per lui, ma non riusciva a immaginare perchè si fosse nascosta: timidezza? Non gli sembrava il tipo e poi, cosa poteva mai contenere quel misterioso fagotto? - Ora puoi aprire la tenda - disse finalmente la ragazza. Lorenzo esitò, come chi si accinge a scoprire un segreto ben sapendo che, con la sua rivelazione, svanirà l'incanto dell'attesa. Avanzò di un o, fece un respiro profondo e scostò i lembi della tenda con entrambe le mani: si ritrovò di fronte la reginetta della festa pasquale, in piedi sul letto con i capelli ramati sciolti sulle spalle, la gonna scura e la camicetta bianca, la fascia chiara avvolta sul capo a mò di turbante. Le tese le braccia per aiutarla a scendere e notò ai suoi piedi le scarpette rosse. - Beh... non dici nulla? - fece lei, piroettando non appena toccata terra. L'aspirante pittore era commosso all'idea che Angelica, tra mille faccende domestiche e correndo il rischio di essere scoperta, si fosse preoccupata di non dimenticare la fascia per i capelli, le scarpette e perfino il nastrino nero da stringere al collo. Non disse nulla: le rivolse un sorriso languido, la prese tra le braccia e la baciò lungamente. Ancora una volta si staccarono, sebbene controvoglia: lui si sedette, imbracciò il
liuto e attaccò un pezzo eseguito alla festa di Pasqua. Alle note dello strumento, Angelica iniziò a muoversi, come aveva fatto in trattoria; ma i suoi movimenti gli parvero più lenti, più sensuali, mentre ondeggiava con i fianchi alzando in sincronia le braccia verso il soffitto. Poi, andogli vicino in una delle sue evoluzioni, gli tolse con garbata destrezza lo strumento dalle mani e ne abbracciò la cassa panciuta con il braccio sinistro, in modo che il manico le poggiasse sulla spalla. Riprese a danzare canticchiando il motivo appena suonato da Lorenzo e poi, ancheggiando con grazia, gli voltò la schiena e accentuò il moto dei fianchi accelerandone il ritmo. Quando si volse verso di lui ammiccando con maliziosa civetteria, impugnò il manico del liuto con la mano destra, spostandolo lentamente per accarezzarne la parte posteriore arrotondata con la sinistra. Il giovane la osservava, provocato dall'erotismo della scena, mentre Angelica ruotava lentamente su se stessa, muovendosi nella stanza con la leggerezza di una libellula e abbracciando languidamente lo strumento. A un tratto, sfiorando Lorenzo nel suo volteggiare, posò il liuto sul letto senza fermarsi e, fatto qualche o, portò una mano alla cinta e cominciò a roteare più velocemente. Gli occhi del giovane furono allora colpiti da un improvviso cambio di scena, un qualcosa che sulle prime non identificò, come un fluttuare di veli che nella penombra si alzavano e si riabbassavano verso terra sfiorando il pavimento senza toccarlo. Solo dopo qualche istante si accorse che Angelica teneva in mano la gonna e la camicetta, slacciate d'un sol colpo: era nuda. Lei gli si avvicinò e con una risata argentina gli coprì la testa con i suoi vestiti, impedendo così di esser vista mentre saltava sul giaciglio. Poi, liberatolo delle proprie vesti, gli poggiò le mani sugli occhi sussurrandogli: - Questi hanno già visto fin troppo, oggi: adesso tocca ai mei!
Quella prima volta, Lorenzo si era innamorato di lei istantaneamente. Sapeva ben poco di amore: qualche bacio rubato alle cugine ancora bambino, d'estate, quando la famiglia si riuniva per le vacanze nel vecchio cascinale dei nonni paterni; uno scambio di carezze nel fienile con la figlia adolescente del fattore, sfortunatamente interrotto dall'improvviso arrivo di un contadino e poco dopo archiviato senza seguiti dalle nozze della ragazza, giovanissima, con l'anziano medico del villaggio. E infine una fuga a precipizio di fronte alla proposta invitante di una giovane amica della madre, sposata a un uomo tanto ricco quanto grasso, che Lorenzo diciassettenne aveva sorpreso nella propria camera durante una festa da ballo nell'atto di slacciarsi il soffocante corpetto. Le sue conoscenze in fatto di sesso si limitavano, dunque, a quello che i ragazzini si raccontavano durante i giochi, per averlo sentito descrivere da giovanotti fanfaroni o visto praticare da adulti poco prudenti. Il ragazzo si era perciò abbandonato alle braccia di Angelica senza malizia e la disinibita spontaneità della ragazza si era fatta carico di supplire alla sua inesperienza. Questa, però, gli aveva purtroppo giocato un brutto tiro: egli aveva, infatti, interpretato l'assenza di richieste da parte di lei non come tenera comprensione, ma come conferma della propria appagante virilità. Finchè un giorno Angelica lo aveva interrotto nell'esercizio di quelle canoniche funzioni, che costituivano l'intero repertorio della sua arte amatoria, per scivolar via da sotto il suo corpo e distendersi sul ventre, ripiegando poi le ginocchia e sollevando ritmicamente il bacino con un invitante moto ondulatorio. Paralizzato in ginocchio dietro di lei, Lorenzo denunciava un evidente imbarazzo, finchè una mano determinata si impossessò di quella parte di lui che guidò rapidamente all'obiettivo. Allora, per la prima volta, udì Angelica gemere flebilmente e fu estasiato più che sorpreso da quel suono delicato: - È come un sospiro musicale - pensò, limitandosi ad assecondare i movimenti dell'amante. Ma quando i deliziosi gemiti di Angelica si fecero più frequenti Lorenzo, incoraggiato e incuriosito dalla sconvolgente novità, fu sopraffatto dall'ansia di
scoprirne le conseguenze e le tolse troppo presto l'iniziativa accelerando il ritmo. Dopo pochi istanti, si accorse di essere lui alle soglie dell'estasi, ma era ormai troppo tardi per rimediare: appoggiò il petto sul dorso di lei e si abbandonò ai suoi moti ondulatori, come una pallida medusa a quelli del mare. Quando emerse dal sogno, si ritrovò tra le braccia della ragazza che gli mordicchiava teneramente un orecchio. Dopo un lungo silenzio, fingendo indifferenza e nascondendo la propria inadeguatezza dietro un geloso sospetto, le domandò a bassa voce: - Dove hai imparato tutte queste cose? - Beh, vedi, la mia stanza ha il pavimento di legno un pò sconnesso e quando una prostituta occupa la camera al piano inferiore... si sente tutto. Ho pure scoperto una larga fessura proprio... sotto il mio letto. - E... cos'altro hai visto? - Voglio mostrartelo poco alla volta, o ti rovinerei la sorpresa. E poi magari, nel frattempo... svilupperai la fantasia che ti manca. - Ah! Vuoi forse dire che non sono capace? - Non ho detto questo, è che... - la sua voce si fece più profonda - ... è che voglio esser io la tua cortigiana - concluse in un soffio, prima di scivolare silenziosamente dal pagliericcio lasciandolo senza parole. Lorenzo rimase a lungo sul letto dopo che lei fu uscita, diviso tra il ricordo delle delizie vissute e il sogno di quelle che la promessa di Angelica gli lasciava sperare. Fu una sensazione di freddo a risvegliarlo da questi piacevoli pensieri: un segno premonitore del gelo che avrebbe provato scoprendo che quella speranza era purtroppo destinata a restare tale per lungo tempo.
Caravaggio si era intanto deciso a seguire i consigli dei suoi due nuovi amici, ma per realizzare un quadro da presentare al Cesari doveva superare una difficoltà
cui non aveva pensato. Abituato com'era a ritrarre dal vero scene che gli capitavano per caso sotto gli occhi, egli non aveva mai dipinto su ordinazione, per così dire. Questo dunque lo costringeva a cercare lui stesso il soggetto e a renderlo accattivante, secondo i consigli di Prospero. Dopotutto doveva imparare e, se mai in futuro avesse potuto accedere alle ricche commesse della Chiesa, un'esperienza come quella gli sarebbe certo stata utilissima. Il Priore dell'Ospedale, ormai assai benevolo nei suoi confronti per via di un certo numero di piccoli quadretti che aveva accettato con piacere, gli aveva garantito di provvedere al cesto di frutti per consentirgli di restare fedele alla sua pittura dal vero. Mancava però il modello dall'aspetto sano e lieto, le membra coperte e il viso innocente come aveva suggerito l'Orsi. Reperirlo non fu cosa facile né immediata, soprattutto in quell'ambiente triste e popolato da persone indigenti e ammalate, tra le quali il sorriso era raro come un'eclissi di sole. Il pittore per primo non sorrideva mai: era ricoverato ormai da tre mesi e non sopportava più di vivere in ospedale. Finalmente scovò un modello accettabile in un adolescente ricoverato ai primi di giugno per un fastidioso ascesso in critica posizione anale che gli impediva di sedersi, tormentandolo con fitte lancinanti e costringendolo spesso a sdraiarsi sul ventre per far defluire il sangue dalla zona infetta. Un giorno, Michele lo vide correre tra le corsie ululando per il dolore finchè non trovò un lettino libero e vi si gettò prono, restandovi a lungo. Colpito dalla sua bellezza, il pittore lo convinse poi a farsi ritrarre facendo astutamente leva sull'evidente narcisismo del ragazzo. Ma, per seguire i consigli dell'Orsi, il poveretto avrebbe dovuto anche sorridere, cosa che proprio non gli riusciva malgrado l'ammirevole impegno. - È stata un'ardua impresa - avrebbe poi confessato Michele a Prospero - perchè ogni cinque minuti il ragazzo posava il cesto e scappava a gettarsi sul giaciglio, poveraccio... ma era esattamente il tipo di fanciullo che cercavo, sai com'è... con
la pittura dal vero bisogna anche sapersi accontentare! Dopo alcuni tentativi infruttuosi decise di ritrarlo nel momento di sollievo che seguiva una fitta, quando lo sfortunato giovane stava per qualche istante immobile a bocca aperta prima di riprendere quasi incredulo a respirare (Fanciullo con cesto di Frutti). Il lavoro si protrasse per buona parte del mese di giugno anche perchè il miglioramento dell'infiammazione aveva diminuito la frequenza delle fitte, rendendo possibili sedute ritrattistiche più frequenti e quasi prive di interruzioni. Proprio durante una di queste, annunciata da un paggio era inaspettatamente riapparsa Costanza Colonna, venuta ad assicurarsi che le condizioni del suo protetto fossero effettivamente migliorate e che la sua dimissione fosse imminente come le aveva comunicato il Priore. Sotto la leggera mantellina del solito rosso, il suo abito era rigorosamente scuro come si addiceva all'occasione, ma i pochi gioielli che portava le davano un aspetto luminoso, abbellito dall'ampio sorriso con cui si piegò su Caravaggio, per aiutarlo a rialzarsi dopo l'inchino. Lo sguardo del pittore venne attratto dalla sua scollatura, alquanto sobria per la verità ma generosamente offerta ai suoi occhi dalla visitatrice piegata su di lui. - La vostra visita è una graditissima sorpresa, Signora Marchesa. Mi dispiace solo che il quadro non sia ancora terminato - poi, dimenticandosi del fanciullo ormai da troppo tempo immobile, l'artista prese a illustrarne il contenuto e lo scopo. Costanza lo ascoltava in silenzio osservando quel capolavoro ancora in via di creazione, incuriosita dall'espressione stranamente imbarazzata del fanciullo. E il compiacimento per i progressi di Caravaggio, dovuti anche al suo aiuto, le procurò nuovamente quello stesso inaspettato turbamento provato quando il pittore le aveva stretto le mani, indugiando con lo sguardo sui suoi seni. Ma improvvisamente un forte mugolio di dolore li interruppe e il povero modello ò accanto a loro come una saetta per scomparire dietro la tenda, travolgendo il paggio della nobildonna. Costanza lanciò un grido di spavento portandosi le mani alle guance e guardò
Michele con espressione interrogativa: il pittore, un pò imbarazzato ma assai divertito, si cimentò in un impegnativo esercizio di virtuosismo verbale per spiegarle il pietoso motivo dell'incidente. Poco dopo, da dietro la spessa cortina rossa, il paggio udì i singhiozzi della padrona che rideva a più non posso, malgrado tentasse in tutti modi di trattenersi. Fu così che nacque il Fanciullo con cesto di Frutti, splendido ritratto di una fresca e fiorente giovinezza, della quale purtroppo Caravaggio non potè immortalare il sorriso. Ma quell'espressione indefinibile e non priva di una certa sensuale ambiguità, in perfetto equilibrio tra classica bellezza e intrigante innovazione, era quel che ci voleva: un pò sulla stregua del Bacchino, ma molto più linda e accattivante. Esattamente come voleva Prospero. E poi di quei frutti... sembrava quasi di sentire il profumo: un vero capolavoro, insomma. Tanto che l'Orsi, avendo notato che il Priore girava intorno alla tela più che tra i malati delle corsie, si insospettì e convinse l'amico a farla sparire non appena ultimata. - Quel vecchio accaparratore può già ritenersi soddisfatto di tutti i quadretti che gli hai donato - aveva sancito senza esitazioni. Così, la notte precedente la sua dimissione, Michele attese nel buio della corsia addormentata il segnale della lanterna di Prospero. Protetto dal tendone di Costanza, Caravaggio accese un cero trafugato la notte precedente da un cospicuo mazzo che anneriva una pessima effige di San Giovanni Battista sullo scalone principale dell'edificio. Visto dalla corsia immersa nell'oscurità, il suo studiolo avrebbe potuto ricordare un nero pentolone colmo di braci, per via del debole alone che lo incoronava reso rossastro dal riflesso del telo. La luce del cero era invece ben visibile dall'esterno, favorita da una notte senza luna, forse perdutasi anche lei nel buio pesto della periferia romana. Dal canto suo il pittore intravvedeva un lumino muoversi sulla strada, ma non poteva esser certo si trattasse proprio della lanterna di Prospero. Sventolò allora cautamente il cero un paio di volte e subito la lanterna si mosse nella sua direzione: cominciava la parte più delicata dell'impresa.
Gettò le lenzuola annodate dalla finestra trattenendone un'estremità e poco dopo sollevò un'improvvisata intelaiatura di legno in cui depose la tela appena terminata. L'avvolse in una coperta e la calò nella strada sottostante. Tutto si era svolto nel massimo silenzio. Dopo qualche minuto, nell'oscurità che circondava l'Ospedale, Michele vide un'ombra munita di lanterna scomparire dietro un angolo con il suo quadro sotto braccio e si augurò che fosse Prospero... con tutti i delinquenti che c'erano in giro! Il mattino seguente il giovane artista, che malgrado l'indigenza non disdegnava le burle e l'arte drammatica, si presentò al Priore per essere dimesso e lamentò, con espressione addolorata e risentita, il furto della sua ultima fatica, probabilmente dovuto alla scarsa vigilanza del personale ospedaliero durante la notte. L'innocente Priore, che aveva per la verità accarezzato l'idea di accaparrarsi quella meraviglia per poi prudentemente rinunciarvi, non potè far altro che esprimere il proprio rincrescimento e assicurarlo che avrebbe immediatamente avviato un'indagine. Ma Caravaggio era talmente accigliato che il brav'uomo si sentì in dovere di rincuorarlo con una frase spiritosa e, ridendo forzatamente, esclamò: - Mica crederete che sia stato io, vero? Dopo un attimo di esitazione Michele scoppiò in una fragorosa risata, la prima dopo molti mesi ati in solitudine e in preda alla tristezza e alla sofferenza. Rise così di gusto, ripiegandosi su se stesso e tenendosi il ventre con le mani, che il Priore, dapprima un pò interdetto, si fece contagiare e lo imitò senza capire. Poco dopo il giovane artista lasciò l'ospedale per immergersi finalmente nel sole.
L'Orsi gli aveva procurato una stanza nel Palazzo di Monsignor Fantin Petrignani in Piazza San Salvatore in Campo, nel quale anche Prospero risiedeva con la madre e il fratello di lui. Il prelato era Arcivescovo di Cosenza e, se nulla capiva di arte, mostrava invece un discreto talento nell'accumular denaro senza peraltro cadere nell'avarizia o, tanto meno, nell'indifferenza per i problemi altrui. L'Orsi aveva garantito per l'amico in difficoltà, assicurando Monsignore che
Caravaggio gli avrebbe pagato l'affitto non appena stabilito il nuovo rapporto di lavoro con il Cavalier d'Arpino. Michele posò, dunque, la bisaccia e i pochi indumenti che possedeva nella sua nuova casa e si avviò subito alla vicina bottega dell'amico, dove un certo Lorenzo era incaricato di custodire i suoi quadri e dove aveva appuntamento con Prospero per un'ora imprecisata del pomeriggio.
5. Pegno d'amore per Angelica: l'anello di Lorenzo
Annoiato dalle mansioni di custode e per nulla entusiasta all'idea di esercitarsi sul Bacchino malato, Lorenzo se ne stava invece accovacciato nel sottotetto, accanto alla finestrella spalancata cui aveva appeso il consueto drappo bianco per l'amata Angelica. Quel convenuto segnale dell'assenza di Prospero avrebbe dovuto invitarla a raggiungerlo, cosa che di recente avveniva raramente, con suo grande rammarico. Non poteva negare che quell'imprevedibile e trasgressiva ragazza lo avesse del tutto stregato. Così quello straccio bianco, con la speranza d'amore che rappresentava, lo aiutava a scacciare il nodo alla gola che provava ogni volta, entrando in bottega, alla vista della rosa ormai secca che aveva colto per lei ma che Angelica non aveva mai voluto portarsi via. Era ata una settimana dall'ultima volta che si erano visti dopo quasi quindici giorni di latitanza della ragazza, ed era come se la rosa rossa lo osservasse con commiserazione. Il rifiuto di lei a impegnarsi in anticipo a rivederlo era per lui un tormento insopportabile. Se con cautela sondava le previsioni di Angelica riguardo a un loro successivo incontro, le sue risposte si facevano irritate, lapidarie o evasive, lasciandolo ogni volta con una lista di punti interrogativi ben più lunga di quando lei era arrivata e alimentandogli una crescente gelosia. Dopo un battibecco a metà giugno, l'unico segno di lei era stata la sua sciarpina da capelli legata alla porta della bottega il giorno successivo e rimastagli tra le mani senza un seguito, quasi avesse voluto infliggergli una punizione con una dolce promessa non mantenuta. Poi, improvvisamente, l'ultima domenica di quello stesso mese... A un tratto il cigolio della porta al piano terra lo fece sussultare, interrompendo i suoi ricordi: non osava sperare fosse lei. Il cuore gli balzò in gola e si precipitò giù per le scale, piombando nello studio con un sorriso luminoso a dispetto della penombra che vi regnava.
Ma esso si spense non appena il giovane vide un inatteso e sconosciuto visitatore al quale non sfuggì la sua evidente delusione: - Aspettavate forse una dolce fanciulla? - domandò costui con una risata: ignaro, il nuovo arrivato aveva subito centrato il bersaglio. Lorenzo osservò quel giovane pallido e un pò emaciato, dai lunghi capelli ondulati che gli incorniciavano il volto dalla barbetta cresciuta di recente. Vestiva in modo dimesso, con un paio di braghe rattoppate e una larga camicia dalle maniche a sbuffo. Il collo era stretto da un nastro che gli pendeva fino alla cintola e i calzoni erano sorretti da un cordone in vita, come quello dei scani. E ai frati facevano pensare anche i suoi vecchi sandali in cuoio, evidenziati dai corti calzoni arrotolati sui polpacci alla maniera dei pescatori, forse con l'intento di celare qualche vistoso strappo difficilmente rimediabile. - Ma... veramente... ecco, io... - balbettò il ragazzo, colto di sorpresa. In quel momento, si ricordò di non aver neppure letto l'abituale biglietto di Prospero prima di correre di sopra a esporre il segnale per Angelica: confuso, rimase senza parole. - Grazie a dio lei non si è fatta viva... sai che guaio! - pensò. - Mi chiamo Michelangelo Merisi - proseguì lo sconosciuto - e ho appuntamento nel pomeriggio con Prospero Orsi. Ma voi... siete forse Messer Lorenzo? - Sì, per servirla, onoratissimo... Mastro Michele. Lorenzo spostò d'istinto lo sguardo preoccupato sul telaio dove la sera precedente aveva posato la sua copia abbozzata del Bacchino malato, ma notò con sollievo che essa era ben coperta da un vecchio telo. - Mastro io?... e di che? Ah!... Mastro di miseria, sicuramente! Lorenzo s'informò della sua salute e poi indicò un cavalletto: - Il vostro quadro è lì, ma aspettate... tolgo la mia copia per far posto anche all'altra tela che Prospero mi ha detto avreste portato qui oggi - e, così dicendo, abbracciò il quadro per spostarlo ma l'affanno lo tradì e la copertura scivolò a terra. La debole luce rivelò il fascino un pò inquietante del Bacchino malato.
- Ma perbacco! È una copia perfetta! Complimenti davvero! - esclamò da lontano Caravaggio sinceramente ammirato, mentre si avvicinava per esaminarlo meglio. Lorenzo rimise il Bacchino al suo posto, balbettando: - No, no, un momento devo... devo essermi sbagliato... questo è il vostro... eppure il mio l'avevo messo qui... mah! Forse mi sarò confuso... allora sarà su quest'altro cavalletto... - e sollevò timidamente un lembo del telo che lo ricopriva. Il giovane apprendista intravvide uno splendido cesto di frutti e rimase di sasso. Ridendo di cuore, Caravaggio liberò il quadro dal telo e Lorenzo si trovò davanti il Fanciullo con cesto di Frutti invece della propria tormentata copia del Bacchino. - Dunque voi non siete al corrente di nulla, vedo! - esclamò Michele ridendo - c'è stato un cambio di programma: permettetemi di aggiornarvi. E gli narrò del nuovo ritratto e del suo sfortunato modello, del Priore burlato e di come Prospero avesse portato il dipinto in bottega nel cuore della notte. Mentre ascoltava il suo racconto, Lorenzo aveva trovato e letto il biglietto dell'Orsi che lo informava di aver aggiunto una tela di Michele e di aver appuntamento con lui nel pomeriggio; inoltre lo pregava di sorvegliare quei due capolavori. Il giovanotto si sentì in colpa: aveva tradito la fiducia che Prospero gli aveva dimostrato affidandogli i quadri di quel grande artista e suo protetto. Appena entrato, infatti, era corso su per la scala senza curarsi di eventuali messaggi né tanto meno di verificare che l'originale del Bacchino fosse intatto al suo posto. Era molto dispiaciuto di are da sciocco o da sprovveduto agli occhi di Caravaggio, il quale gli aveva anche affidato quell'altra tela così preziosa per il suo futuro: non solo Lorenzo aveva lasciato incustoditi i due dipinti ma – ancor peggio – aveva omesso di chiudere la porta della bottega, mentre se ne stava di sopra alla finestra... e meno male che Angelica non s'era mostrata neppure questa volta!
Il ragazzo sentiva di potersi fidare di Michele, non tanto perchè suo compatriota e quasi coetaneo, ma perchè lo avevano colpito la sua modestia e il suo sguardo intelligente. - Vi devo una confessione... e le mie scuse - gli disse a un tratto, quasi bruscamente. Gli raccontò di getto cosa stesse facendo al piano superiore prima del suo arrivo e il motivo per cui aveva trascurato il messaggio dell'Orsi posato sul tavolaccio e ben visibilmente pizzicato sotto il boccale dei pennelli. Ma si guardò bene dal rivelare l'identità dell'amata. L'altro non fece caso alle scuse e mostrò, invece, curiosità per l'amore di Lorenzo: - Ma... e questa ragazza la incontrate qui? - domandò guardandosi intorno. - Sì, e devo chiedervi di mantenere il segreto anche con Prospero; dopotutto è casa sua e non vorrei la prendesse male, sapete... - Ma voi due la tenete bene in ordine... si vede che qui c'è la mano di una donna! - No, no, veramente è opera mia!... sapete, nessuno pulisce mai qui dentro e poi... pensavo fe piacere anche a Prospero. - Va bene... vuol dire che quando avrò una mia bottega saprò a chi rivolgermi per un praticante tutto fare! Ma allora ditemi... raccontate pure se vi fa piacere. E vi garantisco che sarò una tomba. A Lorenzo non faceva semplicemente piacere, ma ne aveva un gran bisogno: non gli sembrava vero di potersi confidare con qualcuno. Erano ormai due mesi che l'amore gli era scoppiato dentro e poi, al loro ultimo incontro, Angelica gli aveva dato quella notizia...
La ragazza era entrata in bottega quasi correndo: era tutta bagnata per via del temporale che si era abbattuto all'improvviso dopo pranzo. I fulmini erano ancora frequenti e il bagliore dei lampi rompeva l'oscurità della stanza.
Lorenzo era rimasto sorpreso dallo stato di agitazione di Angelica, che attaccò subito a raccontargli di una lite col padre, senza fermarsi neppure quando lui le coprì la testa con uno straccio per asciugarle i capelli fradici. Il suo vigoroso massaggio le procurava un tremito nella voce e le frasi concitate uscivano dalla sua bocca comicamente balbettate. Era una storia squallida e, per la verità, alquanto lacunosa: un avventore ubriaco le aveva palpato i glutei mentre lei serviva nella locanda di famiglia e suo padre, per giustificare la mancata difesa della virtù della figlia, non aveva trovato di meglio che accusarla di provocare i clienti. - Su, su, calmati... ora sei qui con me... non vedi come sei bagnata? Prenderai un malanno se non lasci che ti asciughi, aspetta che accendo il braciere - l'aveva rassicurata l'innamorato con grande dolcezza. Ma Angelica non era certo tipo da fermarsi mentre raccontava qualcosa, soprattutto le rare volte in cui le riusciva di parlare di sè: e adesso stava vuotando il sacco, anzi lo stava letteralmente rovesciando addosso a Lorenzo. Parlava con affanno, mentre il giovane tentava di farla sedere sul letto per toglierle le scarpe: - Il giorno dopo mi ha cacciata di casa, voleva che me ne andassi via subito e mi dava della bagascia - raccontò mentre lacrime di rabbia le rigavano le guance. Lui terminò di asciugarle i piedi e le sedette accanto per cingerle le spalle con un braccio: mentre con una mano le asciugava una guancia, baciava l'altra teneramente. Angelica fece una breve pausa per soffiarsi il naso: - Mia madre però è riuscita a convincerlo a mandarmi a servizio presso una famiglia... sai, c'era stata la visita di quella donna... la governante dei Cenci, gente molto ricca che abita non lontano da qui, in un grande palazzo ai bordi del ghetto. Se tutto andrà bene, potrei diventare la cameriera personale di Beatrice la figlia più giovane. Inizierò domani, primo luglio... Lorenzo stava nervosamente armeggiando con il braciere e ben presto il crepitare della fiamma avvolse i due giovani in un piacevole tepore. - E tu come l'hai presa?
- Beh, in casa la situazione era ormai insostenibile. Certo, mi dispiace per la mia sorellina, che è ancora piccola e dovrà farsi carico del mio lavoro. - Riuscirai a vedere tua madre e tua sorella? La ragazza si sporse in avanti e tese le braccia verso il fuoco: - Avrò la domenica libera e andrò ad aiutare in locanda. Il giovane si accorse che la gonna e la camicia di Angelica erano fradice e si inginocchiò sul letto per prenderle la coperta. Incurante delle sue manovre, la ragazza disse d'un fiato: - Non so se riusciremo ancora a vederci - e abbassò lo sguardo sul pavimento, dove un lampo rivelò la pozza d'acqua che si era formata ai suoi piedi. Lorenzo si voltò a guardarla, incredulo: - Neanche la domenica? - Beh, la domenica forse sì... ma nel frattempo... Angelica si tormentava le mani. - Nel frattempo faresti bene a toglierti la camiciola, così la metto ad asciugare. Lorenzo le coprì le spalle con la coperta. La ragazza vi si avvolse e continuò: - Temo che mio padre mi controllerà ancora più di prima. Sai, non vuole altri scandali e i Cenci sono una referenza importante per lui. E poi mi pagheranno bene e so che quei soldi sono l'unica ragione per cui ha acconsentito. Lorenzo distese la camicia sullo schienale di una sedia che sistemò davanti al braciere: - E adesso togliti anche la gonna che devo strizzarla. Angelica eseguì meccanicamente: - Sono felice di andarmene di casa, ma non vorrei sentirmi più in gabbia di quanto non lo sia adesso. Dopotutto, chissà come sono questi Cenci? Si dice in giro che lui sia un prepotente. E in settimana partiremo per la loro residenza di campagna: più di due mesi segregata laggiù.... Lorenzo stava strizzando la gonna in un catino mentre Angelica si era
raggomitolata nella coperta, seduta sul letto a gambe incrociate. Nel bagliore del temporale, con la coperta a incappucciarle il volto come una Madonna, la ragazza gli ricordò una donna velata in un immenso arazzo raffigurante l'harem di un Sultano, che ricopriva un'intera parete di Palazzo Colonna. E non potè frenare un certo turbamento al pensiero che anche Angelica, come le odalische dell'arazzo avvolte di veli trasparenti, sotto il rozzo tessuto era nuda. La sua voce era un pò arrochita, mentre saliva sul pagliericcio e si sistemava dietro di lei per frizionarle le spalle e la schiena: - Non ti devi preoccupare... mica ti mangeranno. E poi al ritorno sarai vicina a casa e anche... vicino a me. E si chinò a mordicchiarle un orecchio. Lei si voltò di scatto verso di lui. - Sì, è vero ma... non so, ho uno strano presentimento... e se in caso di necessità io non potessi uscire per qualche motivo? Ho paura, Lorenzo. E tacque, pentendosi subito della debolezza dimostrata. Il giovane si sedette alla turca sul letto, nell'ombra della loro alcova: i suoi piedi sfioravano i polpacci di Angelica. Il braciere diffondeva un tepore discreto ma ormai percepibile. Posandole le mani sulle spalle, Lorenzo la attirò a sè e la baciò in silenzio. La ragazza rispose con bramosia, quasi volesse risucchiare quel coraggio che le stava venendo meno e che l'amante le trasmetteva con il suo atteggiamento misurato e l'affettuosa sicurezza della sua voce. Poi Lorenzo si staccò e disse: - Dammi la mano -. Le bianche dita di Angelica fecero subito capolino tra i lembi della coperta e il ragazzo le baciò a lungo. Quindi sfilò dalla mano sinistra il proprio anello e lo mise al dito medio di Angelica, più idoneo a ospitarlo del suo troppo affusolato anulare. - È un anello di famiglia, apparteneva a mia nonna. Voglio che lo porti sempre con te, come pegno del mio amore.
Lei abbassò gli occhi per osservarlo: alla luce dei lampi vide un anello d'oro, il cui spessore crescente consentiva di alloggiare, nella parte superiore, una pietra dal colore sanguigno sorretta da sottili graffette dello stesso metallo. Angelica non aveva mai visto nulla di così bello in vita sua. - Lo porterai fino a quando mi amerai - soggiunse il giovane - e, se avrai bisogno di me, potrai affidarlo a una persona sicura che me lo consegni. La ragazza non potè ignorare il significato di quel dono – testimonianza dell'amore di Lorenzo – né il suo scopo, che era quello di ricordarle come in qualsiasi momento potesse contare su di lui. Ne fu al tempo stesso lusingata e rassicurata. Ma se la gratitudine temperò l'affanno per le incognite che l'attendevano, essa non sortì lo stesso effetto con il senso di colpa che l'affliggeva per avergli invece nascosto la verità. Temendo di dover rispondere a domande imbarazzanti, gettò le braccia al collo del giovane e le loro bocche si unirono. Aveva di proposito esagerato quel gesto improvviso, scostando bruscamente i lembi della coperta che le era scivolata dalle spalle e si era ammucchiata sul letto dietro di lei. Quando sentì le mani di Lorenzo sulle cosce, si abbandonò alle sue carezze, offrendogli la propria tiepida nudità. Più tardi, mentre Angelica indossava in fretta gli abiti ormai asciutti, lui giaceva supino e immobile, con solamente un angolo di lenzuolo sui fianchi. La osservava con aria talmente estatica, che la ragazza non poté fare a meno di inginocchiarsi al suo fianco e sussurrargli: - Addio, mio cerbiatto... quest'ultima freccia ti sarà mortale! Poi lo baciò ardentemente e scappò via.
La voce di Caravaggio riportò Lorenzo sulla terra: - Bellissima storia, davvero! E... a quando risale questo episodio dell'anello? - È ata solo una settimana ma... - E da allora? - Più nulla, sparita! Aveva detto che in settimana sarebbe partita per la campagna
con i suoi padroni e solo dio sa quando torneranno. - Già...ora capisco come tutto il resto sia ato per voi in secondo piano. Comunque avete... anzi - se permetti - hai la mia parola di conterraneo che tutto quanto mi hai detto resterà un segreto tra gentiluomini. I due giovani si strinsero la mano con calore. In quel momento, sull'uscio rimasto aperto apparve l'imponente figura di Prosperino delle Grottesche. - E allora, Lorenzo, hai mostrato il tuo lavoro a Michele? - chiese allegramente, entrando nella bottega. Il ragazzo esitava e Caravaggio lo tolse d'imbarazzo: - Veramente io sono arrivato da poco e stavamo facendo conoscenza, ma sarò lieto di dargli un'occhiata, se Lorenzo è d'accordo. - Sì, certo, hem... con piacere, ma non trovo più la mia tela! - Non ti preoccupare amico mio - l'Orsi rideva di cuore - non sei ancora così famoso da dover temere un furto. L'ho arrotolata e appoggiata al muro, accanto alla madia. Sai... per far posto al nuovo dipinto di Michele. Poco dopo, dunque, Lorenzo si sottopose al più temuto degli esami da quando aveva messo piede a Roma; ma il grande artista fu prodigo di incoraggiamenti, tenuto conto che fino a poco prima il ragazzo sapeva a malapena impugnare il pennello. - Considerando che hai cominciato a dipingere da poco ed essendo il tuo Maestro sempre impegnato a imbrattare i muri a casa di qualche riccone, direi che... insomma... con i frutti te la sei cavata benino. Tu che ne pensi, Prospero? E guardò Lorenzo con aria complice, mentre il giovane osservava mesto il deludente risultato dei propri numerosi tentativi di ricreare gli occhi del Bacchino che nella sua copia sembravano cisposi, da quanta vernice aveva ammucchiato a forza di ritocchi. Lo sguardo perplesso di Prospero si spostava dall'uno all'altro per smascherarne l'intesa, ma Lorenzo non ci fece neppur caso: con la mente rivedeva quel pomeriggio di maggio in cui, mano nella mano, lui e Angelica erano rimasti a
lungo in silenzio a contemplare l'originale e poi.... Già rattristato dal racconto fatto a Caravaggio, non resse alla dolcezza di quel ricordo e corse via, uscendo di bottega come una furia, senza neppur salutare. Dei due esterrefatti compagni, solo Michele intuì che la causa di quella fuga non poteva essere un'uscita di senno né una colica improvvisa.
Più tardi, sulla riva del Tevere ai confini col ghetto, agli occhi di Lorenzo comparve la massiccia mole di Palazzo Cenci – un vasto complesso di edifici sorto su una collinetta di rovine romane e medievali – che gli segnalò di aver percorso un bel pezzo di strada da quando aveva lasciato la bottega: si trovava ormai nel rione Regola, di fronte all'Isola Tiberina. Fece un giro del caseggiato, notando che un arco in muratura collegava la costruzione principale con un'altra più piccola sul retro, recente e in perfetto stile rinascimentale. All'ombra d'un porticato situato nella piazzetta antistante a questa, il giovane si attardò a osservarlo. Ne ammirò i vetri colorati alle finestre del primo piano, che Angelica gli aveva descritto con stupore, secondo solo a quello in lei suscitato dalla vasca in rame nella sala da bagno di Beatrice e dalla latrina a sedile bucato. Tuttavia l'edificio gli procurò una stretta al cuore: il complesso aveva un che di sinistro, accentuato da quel pesante arco. - Sembra una prigione - pensò il giovane, rabbrividendo a un acuto grido di donna che gli parve provenisse da quelle mura. Non potè fare a meno di pensare al nuovo mondo di Angelica facendo propri i timori della ragazza, che la vista del palazzo non contribuiva certo a scacciare. S'intenerì al pensiero dell'amata che, la sera, si ritirava nella sua stanzetta rimpiangendo forse il frastuono degli avventori alla locanda, le corse in cucina a rifornirsi di vino e di cibo, le arrampicate su per le scale a prendere la biancheria pulita. - Le mancherò? - si chiese: avrebbe proprio voluto saperlo... se lei non fosse
stata già lontana da Roma... Ma d'un tratto, quasi fosse un sogno, la vide e sentì il cuore balzargli in gola: sbucando da un vicolo alla sua destra, una figura che avrebbe riconosciuto tra mille stava attraversando la piccola piazza, camminando veloce e leggera sull'acciottolato ancora rovente. - Oh Santa Vergine! - pensò Lorenzo, non sapendo chi altri chiamare in causa che storia è mai questa? - e d'istinto si nascose dietro una colonna del portico. - Perchè poi non l'ho fermata? - si domandò quando la ragazza era ormai lontana. Ma si convinse di aver fatto la cosa giusta. Riusciva facilmente a immaginarsi la reazione irritata di Angelica: - Mi stavi forse spiando? Sai che non tollero che ti impicci degli affari miei: cosa diranno a Palazzo se qualcuno ci vede dalla finestra? Mi vuoi far cacciar subito, appena preso servizio? - E sarebbe corsa via, lasciandolo nell'angoscia per tutta l'estate. Eppure c'era qualcosa in fondo alla sua anima che lo faceva sentire a disagio, quasi l'ombra di una colpa non confessata. Si accorse di dover combattere contro un certo rifiuto di approfondire, che cresceva in lui mano a mano che uno spiacevole sospetto si faceva strada nella sua mente contro la sua stessa volontà. Mentre Angelica bussava a una porticina che dava su una viuzza laterale, Lorenzo ammise a malincuore di aver subito pensato che lei gli avesse mentito: per questo si era nascosto. Tra tutte le possibili cause della sua inaspettata presenza a Roma, egli aveva istintivamente dato credito all'ipotesi di una menzogna e si era comportato come un amante deluso, sorpreso mentre pedina l'amata in cerca d'una prova del suo tradimento. L'accaduto lo gettò nella prostrazione più nera: era chiaro che non si fidava di lei. Il sospetto dell'esistenza di un altro uomo si era ormai consolidato in lui al punto da condizionarne pensieri e comportamenti. La vide ancora bussare alla porta con un pesante battaglio di metallo e poco dopo essa si aprì per inghiottire la servetta.
- Avrò capito male: forse la partenza non era prevista per la settimana scorsapensò il giovane, che quando le cose non funzionavano tendeva sempre a incolpare se stesso, anche per via della sua natura mite e d'un ambiente familiare assai avaro di spazio per il suo ego. Ma ricordando perfettamente le parole di Angelica scartò subito l'ipotesi: da una settimana infatti continuava a ripetersele, mentre rivedeva le tenerezze di quando le aveva consegnato l'anello. - O forse si sarà sbagliata di settimana - ... ma subito il debole lume della speranza si spense sfrigolando sotto un gelido spruzzo di realismo: - No, ci dev'essere stato un cambio di programma o un imprevisto.. chi sa... magari partiranno domani! - concluse tra sé senza troppa convinzione. E s'avviò mestamente verso casa Colonna, ignorando che il Fato gli avrebbe consentito di chiarire ogni dubbio in breve tempo.
6. Caravaggio cerca lavoro: la zingara veggente(Chiamata di Matteo )
Pochi giorni dopo, i tre amici pittori transitavano nei pressi di Piazza Navona per prendere Via della Scrofa in direzione di Santa Maria del Popolo. Era una mattina di sole ma, a dispetto della prevedibile calura nelle ore più mature, l'Orsi non aveva rinunciato alla sua abituale tenuta nera, mentre Michele aveva recuperato un paio di larghi calzoni color verde scuro, mantello nero e cappello a larga tesa d'un colore che si avvicinava a quello delle braghe. Il giovane artista era senz'altro presentabile grazie a Lorenzo, che gli aveva prestato gli abiti essendo press' a poco della sua taglia, e i suoi malconci sandalacci erano stati sostituiti da neri stivaletti in pelle, pure quelli di provenienza lombarda. Sotto il braccio portava con gran cura un grosso rotolo legato con nastri, che doveva abbracciare di frequente per proteggerlo dalla folla pittoresca di gente d'ogni genere che a quell'ora sciamava per i vicoli del centro. Era il Fanciullo con canestra di frutti, che finalmente avrebbe mostrato al Cavalier d'Arpino nella speranza di venire assunto quale aiuto di bottega. Lorenzo s'era unito, poiché lo studio del Notaio si trovava nello stesso quartiere. Nei pressi del Pantheon i tre si dovettero arrestare davanti a un imponente Palazzo perchè la ressa impediva loro di procedere: due file di armigeri erano disposte ai lati del portone per trattenere i anti che s'accalcavano con rumoroso vociare, qualche protesta e molta curiosità. Ne uscirono alcuni cavalieri dai lussuosi paramenti, seguiti da una carrozza con fregi dorati e trainata da quattro cavalli che, sollevando un gran polverone, subito svoltò per scomparire velocemente nella stessa direzione seguita dai tre amici. Sulla carrozza e sui ricchi pennacchi che ornavano le teste dei cavalli molti riconobbero il prestigioso stemma dei Medici di Firenze, il casato più celebre e potente d'Italia.
Celato agli sguardi da pesanti tende ai finestrini, la carrozza trasportava infatti il fiduciario del Granduca Ferdinando di Toscana, inquilino della lussuosa residenza di Palazzo Firenze in qualità di suo ambasciatore presso la corte papale: il ricchissimo e potentissimo Cardinale di Borbone, sco Maria Del Monte di Santa Maria, imparentato nientemeno che col Re di Francia Enrico IV di Borbone. Caravaggio era fra quelli che più inveivano per la prepotenza delle guardie che ancora impedivano il aggio, e manco s'accorse che una vecchia zingara gli s'era avvicinata forse perchè attirata dal suo vistoso bagaglio e stava chiedendogli qualche soldo in cambio d'una finestra aperta sul suo futuro. Incurante delle proteste di lui che era ansioso d'allontanarsi, la donna gli prese la mano e ne studiò con attenzione le linee. Poi disse, con voce che tradiva stupore: - Vedo un anello... una zingarella... vi aprirà le porte di questo Palazzo e segnerà la vostra Buona Ventura e poi, ecco... vedo il giglio di Francia... una chiesa buia... e il grande Re ugonotto che siede in abiti borghesi al tavolo d'una taverna nei panni di Matteo, guardando stupito e incredulo la mano di Cristo – invisibile agli altri – chiamarlo al suo fianco... Senza badar più che tanto a quelle parole, Prospero le allungò una moneta per togliersela di torno, ma la donna ritrasse la mano - No, non voglio nulla! protestò - la mia questua di oggi è l'incontro con il vostro amico.... Perchè egli è portatore di cose meravigliose. E, inchinatasi a Caravaggio con un cenno di buon augurio, si dileguò tra la folla. I tre uomini si guardarono stupiti, ma l'appuntamento col Cesari li spinse a proseguire senza ulteriori ritardi, non badando più che tanto alle misteriose parole della zingara. - Beh, dopotutto non ci ha neppure lanciato il solito malocchio! - disse Michele facendo spallucce. E l'episodio si chiuse con una risata. Ma il vino ben invecchiato non premia mai chi lo beve troppo in fretta. Infatti, l'ansia d'incontrare il futuro padrone gli impedì di notare che, qualche o più oltre, il portale spalancato come una nera bocca era quello della Chiesa di S. Luigi dei si (Cappella Contarelli), luogo di culto per i si di Roma. Anzi, egli neppure ci badò, tirando diritto senza collegare il tempio alle
profetiche parole della donna: stava finalmente recandosi dal pittore preferito del Papa per ottenere un lavoro e questo soltanto contava. Poco dopo i tre amici raggiunsero la località detta La Torretta nella zona dell'antico Campo Marzio, teatro delle esercitazioni militari della Roma imperiale: erano giunti a destinazione.
Giuseppe Cesari non era propriamente vestito da pittore, quel giorno: ormai in vista della sua bottega, Prospero lo riconobbe sulla porta mentre conversava con un uomo già più che maturo ma ancora di bell'aspetto e di notevole prestanza, i cui abiti eleganti parevano quasi modesti a fronte del pomposo abbigliamento dell'artista. A Michele non ci volle molto per capire che l'altro personaggio era un cliente importante. Alto e vigoroso sebbene ormai incanutito, il volto di costui era caratterizzato dal naso adunco e da folte sopracciglia, il cui candore evidenziava la vivacità degli occhi scuri; la bocca era regolare con labbra sottili che raramente si distendevano in un sorriso... intrigante perchè nulla concedeva a dolcezza o allegria. Era il volto arrogante d'una persona senza scrupoli, senza Dio e senza freni nel soddisfare le proprie voglie, un uomo cui la sterminata ricchezza dava un grande potere facendone uno tra i più temuti protagonisti della vita romana del tempo, violenta e scostumata. Prospero aveva trattenuto Caravaggio per un braccio, sussurrandogli all'orecchio: - È... è il Barone sco Cenci!... Meglio attendere che se ne vada. A quelle parole Lorenzo si fece più attento. Il Cenci era assai noto in città per tre meriti eminentissimi. Il primo era l'aver sposato in prime nozze una donna molto ricca che aveva avuto il buon senso di dimettersi, nel senso di morire di febbre dopo il dodicesimo parto; il secondo era che la sua opulenza gli permetteva di prestar danaro al
papa, acquistandone in tal modo la benevola protezione; in terzo luogo, e in conseguenza di ciò, costui usciva regolarmente indenne dalle denunce di violenza sessuale alla figlia maggiore -sporte per lettera al papa dalla seconda moglie del Cenci, Lucrezia Petroni- nonchè da denunce di omicidio o di vitio nefando con ragazzini in erba, versando ingenti cifre nelle casse del papa – la cosiddetta Camera Apostolica – per guadagnarsi l'assoluzione. Degno erede della lussuria e dell'immoralità dei Borgia, egli aveva piena coscienza del desiderio di molti di vederlo morto a qualunque costo e – con ragione – sospettava dei suoi stessi familiari al punto di esigere la prova della credenza dalla figlia minore Beatrice, costringendola a inghiottire il cibo che gli veniva servito prima di farlo lui stesso. Mentre lo osservava accommiatarsi dal Cesari, Lorenzo notò come quel suo piglio padronale e i gesti decisi di chi è uso al comando evidenziassero per contrasto i modi ossequiosi del pittore mentre lo accompagnava alla lussuosa carrozza che lo attendeva nella via, con gli armigeri di scorta già in sella ai loro impazienti cavalli. Dai portelli spalancati, si vedevano all'interno due giovanissime donne difendersi dalla crescente calura con il variopinto sfarfallio di preziosi ventagli. Erano molto avvenenti. - Chi sa se una di loro - pensò Caravaggio - è la figlia Beatrice, di cui tutti celebrano la grande bellezza? - Ma le sciocche risatine delle due, che stavano osservando lui e i suoi amici lo disillo subito: - No, no. Troppo stupide... e poi non credo che Beatrice sia molto incline al riso, visto il trattamento che il padre riserva alla sorella maggiore... bah, queste saranno cortigiane. - Siamo d'accordo, Mastro Cesari - disse in quella il Cenci accomiatandosi inizierete dunque la decorazione del soffitto dopo la partenza di mia moglie per la campagna, a fine luglio. Sapete cosa fare. E per il compenso pattuito vi farò contattare dal mio contabile. Il pittore si sprofondò in un inchino. - Vi ringrazio, Barone Cenci, è per me un grande onore servirvi e sono grato a Sua Santità per avervi suggerito il mio nome. I tre pittori s'erano arrestati a una certa distanza, non però tale da impedir loro di udire il colloquio dei due. Alle parole del Cenci, Michele sentì la mano di Lorenzo attanagliargli un
braccio: si girò a guardarlo e lo vide sbiancato. - Tutto bene? - Sssì... bene... solo che... devo andare... s'è fatto tardi e mi aspettano... - rispose l'altro e scappò via, lasciando l'amico alquanto perplesso. Michele non ebbe tempo per meditarci: con un cenno della mano il Cavalier d'Arpino li aveva invitati a entrare nella sua bottega. La carrozza del Cenci era partita di scatto fra le grida della scorta che chiedeva strada ai anti, urtandone alcuni e lasciandoli avvolti da una nuvola di polvere. Caravaggio mosse qualche o prima di voltarsi un istante a guardare ancora l'amico, che in quel momento stava scomparendo dietro un angolo: gli parve che barcollasse.
Lorenzo, svicolando alla prima opportunità di scomparire alla vista, si sedette a una provvidenziale fontana per bagnarsi le tempie e fermare il mondo, che gli pareva lo avesse scambiato per il sole tanto gli girava vorticosamente intorno. Vivissima, aveva ancora negli occhi la scena della ata domenica, quando per caso aveva visto Angelica rientrare a palazzo Cenci mentre lui la credeva già fuori Roma, se doveva stare a quanto lei gli aveva detto. Nella mente gli risuonavano ossessivamente le parole del Barone: - ...dopo la partenza di mia moglie per la campagna a fine luglio... e non nella prossima settimana come la ragazza gli aveva annunciato l'ultima domenica di giugno. C'era un mese di differenza! La testa gli martellava: - Allora mi ha mentito! Doveva sapere benissimo che sarebbe partita soltanto a fine luglio... ma dunque?! - Proprio non poteva crederci. Le gambe non lo reggevano e l'aria che faticosamente inspirava pareva non ne volesse sapere di raggiungere i polmoni per via d'un groppo alla gola: sudava copiosamente pur tremando di freddo.
Si ritrovò supino, avvolto dal buio e in preda all'angoscia perchè Angelica gli aveva sistemato sul petto un pesante masso che gli impediva di muoversi e di parlare: la giovane si allontanava da lui dandogli le spalle e apriva un'invisibile porta dalla quale gli giunsero scrosci di acqua gelata che lo intirizzirono. Lorenzo voleva fermarla, voleva chiederle la ragione per la quale non gli avesse detto la verità... perché non gli avesse dato fiducia... e perché, invece, avesse tradito la sua... ma proprio non ci riusciva... quel maledetto macigno non gli consentiva di parlare. Poi Angelica sparì lasciando al suo posto un grande punto interrogativo debolmente luminoso, che sotto gli spifferi e gli spruzzi si spegneva per poi riaccendersi un istante prima di estinguersi nuovamente. - Perchè? Perchè? - continuava a domandarsi Lorenzo. - Mah!... sarà qualcosa che avete mangiato che vi avrà fatto male, giovanotto! sentì dire da una cordiale voce maschile che gli pareva venisse dal fondo d'un pozzo. Poco a poco il milanese s'accorse d'un uomo chino su di lui, che gli premeva ritmicamente il torace, appoggiandovisi con entrambi le mani. Si rese conto che qualcuno gli spruzzava acqua sul viso ma non vide chi fosse... invece l'uomo lo stava ora schiaffeggiando gentilmente. - Siete stato fortunato, amico mio - disse poi costui - io sono medico e vi ho visto crollare: per miracolo non avete battuto la testa sul bordo della fontana! Lorenzo si stava riprendendo. Il soccorritore gli fece alcune domande, gli osservò occhiaie e gola e gli tastò il polso: il respiro era quasi tornato regolare e l'oppressione al torace era sparita. Bevve abbondantemente da un boccale che una donna gli porse e dopo un pò si sentì in grado di rialzarsi con l'aiuto dei soccorritori. - Fatevi fare una tisana di salvia o ancor meglio d'assenzio... ehm... se ne avete suggerì il medico ammiccando - con il caldo occorre prudenza... anche ai baldi giovani come voi! Non appena riacquistata l'autonomia, il gentiluomo andò a informare il Notaio del malore e tornò a casa Colonna dove giacque a letto per tre giorni, con febbre
e dissenteria. Al quarto venne a cercarlo Michele, preoccupato di non averlo più visto in bottega. Lorenzo non gli disse una sola parola a riguardo di Angelica e, per evitare domande, s'informò sull'incontro dell'amico con il Cavalier D'Arpino.
La bottega dei fratelli Cesari – Giuseppe e Bernardo – era ben diversa dal povero e mal illuminato studio dell'Orsi. Essa occupava il piano terra di una grande casa, da una parte e dall'altra di un ampio portone che conduceva al cortile interno, ingombro di tavole in legno, lastre di pietra e mattoni: due muratori stavano lavorando a una serie di piccoli tabernacoli, sul cui soffitto attaccavano una strana nicchia rettangolare in muratura, poco profonda e incorniciata in gesso dorato, della quale Caravaggio non riuscì a immaginare la funzione. In un angolo della corte, accanto al portone, due ragazzi caricavano un carro con scale e tavole di legno, funi e carrucole, casse con stracci e pennelli e vasi contenenti vernici di vari colori che essi richiudevano incerandone i coperchi prima di assicurarli con giri di fune alle sponde del veicolo, cui era attaccato un grosso cavallo da tiro dal manto marrone pezzato di bianco. All'interno della grandiosa bottega alcuni giovani erano invece intenti a dipingere, chi su tela, chi su tavola e chi ancora su fregi in gesso come quelli che usava Prosperino. Il D'Arpino spiegò che erano apprendisti incaricati delle parti decorative quali fiori e frutti o nuvole e alberi, rocce e animali: questi solitamente popolavano l'ambiente di contorno alle figure di santi o di grandi personaggi che egli eseguiva invece di persona. In un'altra stanza, alcuni lavoranti più esperti stavano dipingendo un certo numero di piccole tavolette rettangolari in legno, messe in fila l'una all'altra su cavalletti allineati: i soggetti erano Santi, Sante e Martiri di vario genere. Tutte queste figure erano vestitissime per non mostrare alcun lembo di pelle e
figuravano soggette ad atroci tormenti fisici... che però, stranamente, esse parevano sopportare con apparente gioia, i volti raggianti d'ineffabile beatitudine mentre i loro sguardi erano rivolti al cielo. Michele collegò immediatamente: - Ecco cosa va a finire nelle cornici sui tabernacoli! - pensò ammirato. Ce n'era davvero per tutti i gusti, poichè guai a loro se i Cesari avessero mai fornito a due ricconi lo stesso prodotto, in quell'epoca di competizione sfrenata ma ristretta a una cerchia di persone che necessariamente si frequentavano, per motivi politici o per interessi d'affari. Spesso per entrambi. Accanto a una grande finestra, una giovane donna di diafano aspetto e avvolta di veli teneva a fatica gli occhi rivolti al soffitto impugnando un crocefisso con una mano, il braccio teso verso l'alto e sorretto da un lungo ramo tagliato a forcella e ben piantato nel pavimento, che nel quadro era però sostituito da candide nubi. Tre giovani pittori la ritraevano sullo sfondo azzurro del cielo: fra essi, il D'Arpino avrebbe scelto l'aiutante per una grande pala d'altare che gli era stata commissionata da un Ordine Religioso. L'impressione che Caravaggio ebbe di tutto ciò fu non tanto quella d'uno studio d'arte, quanto piuttosto di un efficiente opificio. E ciò malgrado il Cesari avesse omesso di confessare – certo per pura smemoratezza – una cosa che tutti in città sapevano benissimo. Che cioè egli poi sceglieva le migliori opere dei suoi lavoranti per rivenderle sul mercato di quei privati -benestanti ma non opulentiansiosi di possedere una tela di prestigiosa provenienza senza però potersi permettere la sua costosissima firma. Il Cavalier d'Arpino esaminò con sufficienza il dipinto che Michele aveva dispiegato su un tavolo, senza neppure degnar d'ascolto Prosperino che tentava di fargli notare l'effetto di plasticità creato dalla luce sul busto del fanciullo e la straordinaria perizia tecnica dimostrata da Caravaggio con l'incredibile verismo di quei frutti. Il celebrato pittore tacque a lungo, combattendo per nascondere a fatica l'ammirazione che provava davanti alla spontaneità quasi parlante del ritratto: nella sua folgorante carriera, il non ancora trentenne Giuseppe Cesari mai aveva incontrato un talento comparabile, e la sua coscienza del proprio ormai solido successo vacillò sotto il possente maglio dell'invidia e del timore concorrenziale.
- Questi lombardi! - commentò poi con marcata sufficienza - sono bravi a ritrarre le cose dal vero... ma saprebbero forse rappresentare scene e personaggi sacri alla nostra maniera, là dove invece ci vuole molta immaginazione? E poi, il ragazzo del quadro... sì, insomma, come dire... ha uno sguardo quasi lascivo... non saprei se il nostro Principe dell'Accademia... - e si rivolse pomposamente all'Orsi - ... avete saputo, vero, che Sua Santità ha conferito a Sua Eminenza il Cardinale Federico Borromeo l'incarico di Protettore del Sodalizio di San Luca per la rifondazione dell'Accademia Romana del Disegno? Prospero, colto impreparato, si limitò a far desolatamente un cenno negativo con il capo. - Sì... e ieri ha nominato suo Principe il nostro decano Federico Zuccari... conoscete vero? - Ho avuto occasione...- mentì l'altro, tanto per non are da sprovveduto. Infatti lo Zuccari era creatura d'un altro pianeta, uno di quelli che viaggiavano a un palmo da terra e che i modesti pittori come lui manco li degnavano d'uno sguardo. - Ecco! dicevo dunque che non so se lo Zuccari approverebbe quest'opera di sapore, devo dire, marcatamente profano: egli è infatti convinto sostenitore delle teorie pittoriche del Cardinale Paleotti, che nel suo trattato raccomanda che ogni novità, anche se riguarda cose profane, deve essere avuta molto sospetta; il che mi trova assolutamente d'accordo, s'intende! Prosperino, ben conoscendo l'insofferenza di Michele per ogni forma di stupidità, gli allungò un leggero pestone per invitarlo a tacere e disse: - Credo anch'io, Messer Cavaliere, ma il lavoro ha il solo scopo di mostrarvi la perizia di questo giovane, il quale è ancora inesperto di regole e usi pittorici qui a Roma: sarete voi, nel caso, a poi dargli le disposizioni esecutive che più riterrete idonee. - Avete altro, giovanotto? - domandò allora il D'Arpino con tono annoiato. Mentre Prospero scuoteva il capo in segno di diniego, - Beh... veramente
qualcos'altro ce l'avrei... - rispose Michele e, dopo aver trafficato alquanto, estrasse di sotto il mantello un rotolo di tela che aveva tenuto nascosto agli sguardi. Un'occhiata dell'Orsi lo fulminò, ma era ormai troppo tardi per intervenire e Prospero si limitò ad alzare anche lui gli occhi al cielo sospirando, forse ispirato dai personaggi di santi che abbondavano tutt'intorno. Apparve così il Bacchino malato, che il Cesari agguantò con prontezza buttando là un'occhiata: - E questa roba sarebbe vostra? - sbottò poi con sufficienza, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto mascherare un malcelato disprezzo. - Ecco vede... Maestro, io... - ma l'autore dovette interrompersi perchè un secondo e questa volta crudele pestone dell'Orsi lo privò del fiato necessario a proseguire. - Maestro - continuò l'amico in vece sua - si tratta di un esercizio di pittura, di una prova... sì insomma... di un divertissement... come direbbero i si. Infatti, come potete vedere da voi si tratta di un autoritratto, nel quale il giovanotto qui presente si è sbizzarrito a immaginarsi nei panni di Bacco ubriaco... he he... figuriamoci... ! Ammutolito dallo stupore, Cesari finse la noia con un gesto del braccio che forse preludeva a una qualche arrogante sortita e si dedicò a riarrotolare con cura la tela. Infatti, di fronte a un rivoluzionario e originale capolavoro come quello non c'era proprio nulla che lui potesse dire. L'atmosfera silenziosa e alquanto imbarazzata venne fortunatamente turbata dall'arrivo d'un quarto personaggio. Questi era un giovane di aspetto distinto ma cordiale, non privo d'una certa baldanza che gli conferiva il piglio sicuro di chi è avvezzo a trattare con i potenti pur senza esserne pari, conscio del proprio valore e del rango conferitogli da un nome rispettato. Vestiva un abito grigio con calzoni attillati e stivali da cavaliere; la giacca, senza chiusura ma stretta in vita alla moda se, copriva un'elegante camicia di pizzo. Portava una corta barbetta biondiccia come i capelli, a compensare solo in parte l'aria da giovane scanzonato che aleggiava sul volto sorridente. In una mano reggeva il cappello piumato, grigio anch'esso, e con l'altro braccio teneva un rotolo di disegni, che posò sul tavolo con gesto disinvolto.
Il nuovo venuto salutò Michele e Prospero con simpatica affabilità e si rivolse poi al padrone di casa - E allora, Mastro Giuseppe, che ve ne pare del mio amico? A differenza che nei riguardi dell'Orsi, Giuseppe Cesari ben sapeva di essere debitore verso Onorio Longhi e la sua famiglia, che più volte in ato gli avevano procurato importanti commesse come quella i cui progetti stavano nel rotolo portato dal giovane Architetto per discuterne di lì a poco con lui. Cambiò dunque d'un tratto atteggiamento e, inchinandosi profondamente, rispose: - Un grande talento senz'alcun dubbio, Mastro Longhi, un grande talento! Si stava ancora parlando di teorie pittoriche, per la verità, ma avrei subito affrontato il tema che vi sta a cuore. Poi si rivolse a Michele con tono più cordiale: - Se anche non mi aveste mostrato opere così degne, Messere, a Mastro Longhi non potrei certo nascondere la mia necessità d'un aiutante di talento come voi. In specie se ci aggiudicheremo i lavori per discutere i quali ora vi dobbiamo con rincrescimento lasciare ma che inizieremo, mi auguro, subito dopo l'estate. Tornate dunque a settembre e sarò lieto di avervi al mio fianco qui in bottega: se vi aggrada, concorderemo a quel tempo il vostro salario. Caravaggio era rimasto senza parole al brusco cambiamento del suo futuro padrone. Non avrebbe saputo se ringraziare il Cavaliere oppure l'amico Onorio e non si decideva, anche perchè nel frattempo si chiedeva come avrebbe potuto campare di lì a settembre. Guardò prima il Longhi quasi a cercar lumi e poi Prosperino che lo incoraggiò con una lieve mossa del capo in direzione del Cesari: infatti, Michele non poteva che accettare. - Vi ringrazio, Messer Cavaliere, farò come voi dite. - Benissimo, allora siamo d'accordo! concluse l'altro e si affrettò ad arrotolare con cura il Fanciullo con canestra, spiegando: - Questi due li tengo io, se permettete, per mostrarli a un cliente che penso potrebbe essere interessato ad acquistarli.
Michele, stupefatto da quella faccia tosta, restò senza parole e il discorso fra i due fu concluso ancor prima di venire cominciato. Manco a dirlo, quella fu l'ultima volta in cui egli vide i suoi due capolavori. Si consolò pensando che ciò gli avrebbe almeno alleviato la eggiata di ritorno, sebbene i pestoni di Prospero lo avessero praticamente azzoppato. Sulla strada di casa si ritrovò a fiancheggiare Palazzo Firenze e ricordò la zingara con la sua predizione: - Cominciamo bene, sorella! - pensò sospirando.
7. Un padre violento e incestuoso: la tragedia di Beatrice Cenci
La Baronessina Beatrice Cenci non aveva ancora quindici anni, ma era ormai una donna: gli occhi penetranti e nerissimi, il portamento nobile e elegante ma privo di arroganza, il volto serio dai lineamenti perfetti la facevano più adulta di quanto non denunciasse il pur rigoglioso fiorire delle forme del corpo. E l'intrigante alternanza tra lampi di fanciullesca allegria e lunghi momenti di cupa apatia che ne appannavano di tristezza lo sguardo, contribuiva a darle quell'aspetto tenero e insieme intrigante di bambina precocemente cresciuta. A ciò non erano state certo estranee le violenze paterne sulla sorella maggiore Antonina, che ben presto avevano privato Beatrice di illusioni e spensieratezza, quasi lei presagisse un identico destino per se stessa. E ben poco valeva, a mitigare il suo sconsolato timore a riguardo di quello, l'affettuosa comprensione della seconda moglie del padre, Lucrezia Petroni, alla quale le figlie del Cenci erano legate da sincero affetto, consolidato dalla solidarietà femminile di fronte a prepotenze e turpitudini del capo famiglia. Costui aveva pure turbato profondamente la vita dei fratelli di Beatrice, due dei quali avevano trovato pace in una prematura morte, accolta con sollievo da quel padre snaturato che sulla lastra tombale del primogenito aveva dichiarato essere quella la sua destinazione preferita per i frutti del suo sangue. Due erano però sopravvissuti, per sua ma soprattutto per loro sfortuna: il secondogenito, Giacomo, e il piccolo Bernardo. Il primo viveva ormai per proprio conto, grazie all'intervento del papa affinchè il dispotico padre gli concedesse il denaro necessario. Ma il suo legame con le sorelle era forte al punto da frequentarle a palazzo, avendo cura di evitare la presenza paterna soprattutto durante l'estate, quando le visitava nella residenza estiva alla Rocca di Petrella Salto, non lontano da Rieti. Purtroppo, il più delle volte non riusciva neppure qui a evitare la losca e fastidiosa presenza di Gertrude, governante di casa e spiona di fiducia di sco, che faceva la spola con Roma.
I figli Cenci odiavano da sempre quella donna, che sapevano dalla matrigna essere delatrice del padre, e tra loro usavano riferirsi a lei come a l'infida serpe. Nel nuovo Palazzo (che per le sue dimensioni tutti in città chiamavano Palazzetto Cenci poichè quello vecchio era più grande) la baronessina occupava – al pari della sorella maggiore – un piccolo appartamento al secondo piano, dove pure il fratellino disponeva di una camera con bagno e di una saletta per i giochi. Le stanze di Beatrice erano costituite da un ingresso o anticamera, da un ampio salotto che le fungeva da studio nelle ore di lezione col Precettore e due camere da letto di cui lei occupava la più grande, dotata di sala da bagno. In questa si dedicava ogni mattina al lungo rito della toeletta e della vestizione, aiutata dalla vecchia nutrice che aveva consumato la vita a crescere i piccoli Cenci e che, per dedizione a questi, non aveva lasciato la famiglia neppure dopo la morte della sua amata padrona, la prima moglie di sco e madre dei suoi figli. La sua età ormai avanzata aveva suggerito a Madonna Lucrezia di prevederne la sostituzione con persona più giovane e ciò sarebbe dovuto avvenire alla fine dell'anno, quando la nutrice si sarebbe ritirata – a spese dei Cenci – nella tenuta di Petrella Salto, dove sarebbe stata ospitata nell'alloggio del fattore e accudita dalla famiglia di lui. Lucrezia si accingeva a questa faticaccia con la dovuta flemma. Invece tutto accadde con largo anticipo sul previsto: un'astuta mossa strategica che però richiedeva tempi lunghi... Certa del favore del padrone, Gertrude le rubò l'iniziativa e si fiondò alla locanda del Vescovo, visto che Beatrice diffidava di tutto lo staff di casa. Con tuttavia un'unica eccezione: il paggetto personale di Madonna Lucrezia, di nome Matteo. Anni addietro, infatti, la Baronessa ne aveva intuito l'affettuosa simpatia per la figliastra e lo aveva favorito, facendolo adibire ai propri appartamenti per liberarlo dai rigidi controlli che la governante riservava ai membri del personale domestico.
In tal modo, la nobildonna se n'era guadagnata la devota gratitudine. Beatrice, non insensibile alle attenzioni di lui, aveva da subito ricambiato la simpatia del coetaneo, che si trovava sempre nei paraggi quando lei circolava per il palazzo nelle ore libere dallo studio: e l'antipatia di entrambi per Gertrude li aveva fatti complici, malgrado ciò fosse rigorosamente proibito dall'abisso sociale tra servi e padroni. A volte i due fanciulli giocavano innocentemente a rincorrersi nelle stanze immense o esploravano insieme le buie scale che portavano alle soffitte, immaginando tesori nascosti o simulando danze di ninfe e folletti tra i vecchi mobili impolverati. Ma il loro gioco preferito era costituito dalla vera meraviglia di casa: il montacarichi che dalle camere di Madonna Lucrezia portava alle cucine a piano terra. Anni prima, infatti, non appena la nobildonna aveva cominciato ad amaramente scontare l'errore commesso sposando il Cenci, s'era industriata a difendersi dalla presenza di lui inventandosi furiose emicranie che la costringevano a letto per intere settimane. Manco a dirlo queste crisi si facevano tanto più rare quanto più il marito stava lontano da casa per i suoi viaggi d'affari o di losche faccende. Tuttavia lei non si curava dei puntuali rapporti al riguardo, che non dubitava egli avrebbe ricevuto da Gertrude al ritorno: dopotutto la testa era sua e dentro non ci stava nessuno a provare l'inganno. In tali circostanze non poteva certo consumare i pasti insieme al resto della famiglia e lo scarso cibo che riusciva ad ingerire le veniva allora servito a letto sebbene sovente lo rifiutasse, non sopportando per l'intollerabile dolore neppure che i tendaggi alle finestre venissero scostati quanto bastava a discernere la scodella dal cucchiaio. Nella dietetica oziosità di quei giorni, lei si confortava al pensiero che un pò di moderazione nel cibo avrebbe forse giovato a frenare quella sfortunata tendenza alla pinguedine di luoghi esposti, che aveva ormai conferito alla sua bellezza d'un tempo un forse troppo florido aspetto matronale.
- Senza esagerare col dimagrire però! - si diceva nella solitudine ambrata della sua stanza- per non risuscitare la libido di quel porco: diomiscampi! Recentemente era stato dunque installato un marchingegno a fune – sul tipo di quelli dei pozzi – per facilitare il trasporto dei pasti alle sue stanze: il compito di azionarlo era privilegio di Matteo, il che gli compensava la fatica che ci faceva. Nascosto da un falso armadietto a muro con ante di legno elegantemente intarsiate, l'aggeggio era sistemato nello spogliatoio privato di Lucrezia che si trovava tra la sua camera da letto e la stanza da bagno. Beatrice faceva frequenti visite alla matrigna nel suo letto di dolore e Lucrezia volentieri le concedeva di aiutare per gioco il giovane paggio, spingendo insieme a lui la lunga maniglia che arrotolava la fune su un cilindro per sollevare il cassone porta vivande. Finchè la bambina, un pomeriggio nel quale Lucrezia dormiva profondamente, vi si rannicchiò dentro e Matteo l'aiutò a raccogliere le vesti lunghe e preziose: con il garbo che in questo tipo di operazioni caratterizza i gesti dei fanciulli, il risultato fu che l'aspetto di Beatrice, così pressata nel contenitore, ricordò a Matteo quei panni ammucchiati nelle ceste che occasionalmente vedeva in lavanderia nei giorni di bucato. Limitandosi con fatica a un rispettoso sorrisetto, richiuse il portello e, manovrando cautamente il freno a pedale, la calò fino a piano terra per un breve collaudo. La ragazza fece scorrere la parete a listelli, alla maniera di certi scrittoi, e si ritrovò in una parte sconosciuta del palazzo: nella semi oscurità si vide circondata da provviste di ogni genere, sacchi che la bianca polvere sparsa sul pavimento denunciava per contenenti farina, vecchie botti, un frantoio per olive, enormi mucchi di patate e di mele. A qualche distanza da lei, alla sua sinistra, s'allargava l'immensa cucina silenziosa, nella quale ancora stagnavano gli odori del recente mestiere, mentre dall'altro lato un corridoio si perdeva nel buio senza svelare la propria destinazione. Fedele all'impegno preso con il compagno, resistette al brivido di curiosità che la invitava a scendere a terra per continuare l'avventura: diede un paio di strattoni
alla corda e richiuse il portello, mentre già la cassa iniziava la lenta e cigolante risalita. Ma la scoperta più eccitante fu quando, in un pomeriggio invernale di pioggia, Beatrice attese Matteo giù da basso, nascosta dietro una botte nel deposito provviste, per esplorare il corridoio misterioso. Il paggio la raggiunse scendendo le scale del palazzo e attraversando cautamente le buie cucine che sapeva a quell'ora deserte. Avvezzatisi all'oscurità, i loro occhi distinsero una piccola porta che terminava il corridoio e che doveva dare sull'esterno, forse sul vicolo: dai bordi di essa filtrava infatti una sottile lama di debole luce. I due si presero per mano e il ragazzo precedette la padroncina avanzando a tentoni rasente al muro, un piede alla volta per non inciamparsi in invisibili ostacoli: come il gradino che sporgeva e poco mancava li fe cadere entrambi. Questo si trovava lungo il muro e era il primo di una stretta scala a chiocciola : quando il paggio brancicò in cerca d'appoggio per ritrovare l'equilibrio, senza l'aiuto di Beatrice che prontamente lo trattenne sarebbe andato a sbattere i denti sui gradini successivi. La stretta scala subito s'incurvava, salendo verso il piano superiore dal quale ben presto cominciò ad arrivar fino a loro un debole chiarore. Giunti in cima, Matteo si accorse di essere arrivato a un'estremità del corridoio che, al piano ammezzato, divideva le camere dei servi partendo dalla scala di servizio. Davanti a loro c'era la porta dell'ultimo alloggio: le due stanzette nelle quali viveva Gertrude, che da quella posizione poteva rapidamente raggiungere le cucine sottostanti senza esser costretta a fare il giro di mezzo palazzo. E dalla finestrella che dava luce al corridoio i due fanciulli ebbero conferma che, da quella parte della casa, c'era lo stretto vicolo cui avevano subito pensato. Soddisfatti per aver compiuto una scoperta strategica, non sfidarono più oltre la sorte e s'immersero nuovamente nell'ombra per ritornare donde erano venuti. Da quel giorno essi spartirono dunque un grande segreto che conservarono gelosamente anche nei confronti di Lucrezia, certi che quella via nascosta
sarebbe prima o poi tornata loro assai utile per spiare i movimenti del nemico. Nei mesi successivi ebbero modo di perfezionare la tecnica: Matteo imparò a manovrare il montacarichi senza più farlo urtare contro le pareti e a tenere ben oliata la ruota della carrucola e i perni del cilindro affinchè non cigolassero; così come un pò di grasso di maiale provvide la silenziosità del portello scorrevole. E, vero capolavoro di ingegneria, aggiunsero un sistema di comunicazione sonora a mezzo d'un cavetto che consentiva a Beatrice di far tintinnare un piccolo camlo fissato al muro, accanto al rullo di avvolgimento: uno strappo tirami su, due strappi calami giù e così via. Alla casuale scoperta di quella innovativa comodità Lucrezia aveva abbozzato una inconsistente rampogna tanto per darsi un contegno, conscia del fatto che l'ultima cosa da fare coi ragazzini è complimentarsi per una loro idea trasgressiva. Ma la prima a non esserne convinta era lei: dopotutto, quel segnale sonoro sarebbe potuto riuscire utilissimo nei trasporti di stoviglie e vivande durante le sue emicranie! La Baronessa chiudeva dunque volentieri un occhio, in cambio di qualche libro che Beatrice prelevava di nascosto dalla biblioteca paterna per consentirle d'ammazzare il tempo nei giorni di sofferenza. Il Cenci, infatti, s'era fatto arredare uno studiolo in legno – un pò a imitazione di quello famoso di Federico da Montefeltro Duca di Urbino – e ne aveva fatto riempire gli scaffali con pesanti volumi che non aveva mai letto nè toccato: molti di essi mancavano addirittura delle pagine. D'altra parte l'unico vero scopo della biblioteca del Barone era quello di far invidia ai numerosi patrizi suoi conoscenti che ancora non ne disponevano. Di acculturarsi, il Barone manco si sognava! Nessun altro in famiglia dunque, oltre a Beatrice, sapeva che la nobildonna leggeva avidamente mentre rifiutava il cibo prostrata dall'emicrania: fra le due donne, le angherie del rispettivo padre e marito avevano fatto nascere una complicità affettuosa e benefica per entrambi, tant'è vero che nessun altro oltre a Lucrezia sapeva dell'innocente amicizia tra Beatrice e il paggio Matteo. Per sfortuna dei due ragazzi, tuttavia, la pubertà doveva presto por fine a quelle loro scorribande avventurose in giro per il palazzo.
Infatti, qualche anno prima dell'arrivo di Angelica, alcuni segnali nel corpo di Beatrice avevano suggerito a Lucrezia di alzare il livello di vigilanza e accadde che un giorno lei sorprese i due adolescenti nelle soffitte. Lui la inseguiva correndo intorno a un grande divano ricoperto da un telo. Era d'estate e faceva temporale ma lassù, sotto il tetto spiovente dal quale qua e là cadevano sul pavimento pesanti gocce d'acqua, la temperatura era torrida. I ragazzini ridevano, entrambi accaldati, e al vederla si zittirono di colpo, fermandosi come fulminati. - Non facevamo nulla di male, credetemi, Madonna Lucrezia - proruppe Beatrice con voce implorante - vi prego, non ditelo al mio Signor padre per carità!... che ne sarebbe di lui? - aggiunse indicando il giovinetto: i suoi bellissimi occhi scuri erano sgranati dal terrore. Lucrezia guardò Matteo: gli occhi bassi, il petto ansimante, le mani che si tormentavano l'una con l'altra la intenerirono, sebbene un rigoglioso gonfiore nei calzoni le fornisse ampia conferma ai suoi timori, già rafforzati dall'affannata e non richiesta giustificazione della figliastra. La nobildonna non potè trattenere un compiacente sorriso, soltanto increspato da una vena d'invidiosa nostalgia. Pensò alla punizione che sarebbe toccata al ragazzo e decise che non si poteva permettere di rovinare – con un vile gesto di arroganza su un adolescente inerme – quella devozione sincera che lui le dimostrava e sulla quale lei sentiva di poter sempre contare. E soppesò pure il fatto che il secondo piccione catturato con la medesima fava sarebbe stata la sicura gratitudine della figliastra. Parlò dunque ai due, insieme prima e poi separatamente, spiegando a Beatrice le crudeli regole della società dell'epoca circa i rapporti personali tra servi e padroni – soprattutto se questi erano femmine – e descrivendo a Matteo il futuro di Beatrice quale moglie di un nobiluomo di rango, che non concedeva alcuno spazio per lui se non – nel caso più favorevole – per severissime punizioni corporali. Per la verità i due giovinetti non avevano compreso gran che dei discorsi di Lucrezia, ma una cosa era loro ben chiara: se, invece di lei, a scoprirli fosse stata
Gertrude, Matteo se la sarebbe vista assai brutta prima di venire cacciato di casa, come minimo di pena e massimo di fortuna. Essi rigarono dunque diritto per circa due anni, durante i quali dovettero comunicarsi le amorose tentazioni reciproche per mezzo dell'eloquente ma inappagante linguaggio degli sguardi, ogni qual volta s'incontravano negli alloggi di Madonna Lucrezia. Tanto bastò comunque perchè Matteo, assistendo alla nascita di Venere con la metamorfosi della fanciulla, ne fosse presto pazzamente innamorato al punto che per lei avrebbe compiuto qualsiasi follia, con buona pace della sua Signora padrona.
Gli unici giorni relativamente sereni per la disgraziata famiglia erano quelli che ogni anno trascorreva d'estate a Petrella Salto, piccolo borgo sulle boscose pendici dell'appennino laziale non lontano da Rieti. Era un luogo dimenticato da Dio ma non dagli uomini, che nei secoli si erano battuti per il suo possesso: certamente solo per goderne gli ameni panorami dal suo turrito castello, costruito su un alto sperone di roccia e dominante la vallata... Si diede il fortunato caso che all'incirca mezzo secolo prima il territorio di Petrella fosse diventato feudo dei Colonna, per motivi – a voler essere ottimisti – forse legati all'origine del detto popolare piove sempre sul bagnato. E verso la fine di quello stesso secolo, l'amicizia tra il Cenci e il Principe Marzio Colonna aveva in pratica trasferito al primo l'uso del castello. Il Barone sco era certamente soddisfatto di poter piazzare la famiglia su un nudo cocuzzolo sperduto tra i boschi, mentre lui se la sava sfrenatamente in quel di Roma. La rocca gli procurava inoltre un rifugio sicuro e fuori mano, nel frequente caso di concittadini vendicativi intenzionati a ucciderlo per qualche sua delittuosa intemperanza, o di creditori esasperati dalla sua riottosità nell'estinguere i debiti. Le vacanze alla Rocca di Petrella erano dunque l'unica occasione nella quale l'intera famiglia Cenci si trovava perfettamente d'accordo: il Signor Barone per
meglio farsi i fatti suoi a Roma, e gli altri disgraziati componenti per poter tirare un pò il fiato, liberi dalla sua odiata e ingombrante presenza. Negli ultimi giorni di Luglio di quell'anno 1593 Angelica, appollaiata sui sacchi della biancheria con alcuni colleghi servi, viaggiava verso Petrella su un grosso e pesante carro che aveva lasciato Roma alle prime luci dell'alba. Un secondo carro li seguiva con abbondanti provviste di vivande e tre guardie di scorta. All'arrivo li avrebbe attesi Gertrude, già sul posto da qualche giorno: poi la donna sarebbe tornata a Roma per badare alle necessità del padrone. Dopo alcune ore, il carro stava procedendo tra boschi e campi coltivati, punteggiati qua e là da rare case coloniche e da campanili che spuntavano come spaventaeri da un mare di messi, quando sopraggiunse una guardia dei Cenci segnalando l'imminente aggio della carrozza dei padroni con le donne di casa, il figlio più giovane Bernardo e, naturalmente, il paggetto Matteo che la Signora Baronessa voleva sempre al suo fianco. Il carro si fece da parte al primo spiazzo e si arrestò, con gran gioia dei viaggiatori per i quali la pausa significava interrompere – seppur per poco – il tormento di urti e scossoni provocato dalla traballante andatura. Il caldo feroce, invece, non pativa purtroppo interruzioni. Quando ripartirono Angelica stava piangendo. Era la sua prima volta lontana da casa. La madre le mancava moltissimo: il mezzodì si avvicinava ormai e se la immaginava, seduta accanto alla finestrella a grata, mentre pelava la solita montagna di patate tenendo d'occhio l'arrosto di maiale. - Chi sa come sarà stanca, la sera - pensava - con l'unico aiuto della piccola Maria! Io non potrò esserci manco più la domenica... speriamo che quel taccagno di mio padre le abbia trovato qualcuno... o al mio ritorno a Roma la troverò in ospedale! Nascose il volto contro un sacco di farina per singhiozzare e poco dopo s'addormentò. La risvegliarono le grida dei compagni di viaggio alla vista di un torrente ricco di acqua che scendeva tumultuoso dalle colline coperte di boschi fino a precipitare in una cascata spumeggiante: stavano salendo da un pezzo, la strada s'era fatta ancor più stretta e gli scossoni parevano a volte voler rovesciare il carro. Angelica non aveva mai visto un torrente in vita sua. E tanto meno minuscoli laghetti come quelli che esso formava in fondo alla valle prima del
salto: era una visione incantevole, l'aria era fresca e limpida e il frastuono delle acque era per lei un'inattesa novità. - Beh! - si disse, per consolarsi - almeno vedo cose meravigliose - e il suo pensiero rivolto a Roma le proiettò per un attimo la visione limacciosa e giallastra del Tevere con le sue rive puzzolenti di sozzura. Ricordò quella cesta sul capo e ricordò pure quella prima volta con Lorenzo, nella bottega di Prosperino... stava per ricadere nella nostalgia di casa quando un grido festoso dei compagni di viaggio la riscosse: quelli tra loro che non erano nuovi al luogo avevano intravisto di lontano, dall'altra parte della vallata, il borgo di Petrella. Dopo una curva poté finalmente scorgerlo anche lei: lassù, sopra le modeste case in pietra vide la Rocca, un turrito castello appollaiato su uno spuntone di roccia che dominava la valle. Erano finalmente arrivati. Il cuore di Angelica prese a battere come un tamburo, quasi lei presagisse intense emozioni: il luogo era affascinante e il panorama era la visione più dolce e serena che le si fosse offerta in vita sua, ma quel piccolo, antico maniero incombente aveva un che di tetro e minaccioso che la turbava.
Dopo un paio di settimane, il Barone comparve una sera al tramonto. La ragazza, che dormiva in una piccola stanzetta del primo piano, non lontano dagli appartamenti padronali, aveva notato che all'arrivo del padre, Beatrice e la sorella si erano subito ritirate per la notte nelle loro stanze al secondo piano. - Che strano - aveva pensato - dovrebbero non aver neppure terminato la cena... Dopo qualche tempo, fu risvegliata nel primo sonno dalle grida di sco che, palesemente alticcio, maltrattava la moglie nella sala da pranzo. Lucrezia strillava. Angelica ne fu sorpresa: aveva sempre creduto che la violenza fosse una prerogativa dei poveracci ignoranti come suo padre e che invece i nobili e i ricchi avessero maggior rispetto per le donne o per lo meno le trattassero civilmente, come le pareva evidente dagli inchini e dai complimenti che dedicavano loro in pubblico.
Incuriosita, seguì gli sviluppi senza sforzo per star sveglia, aiutata in questo dal rumoroso sbraitare del Cenci e dal frastuono delle stoviglie che si frantumavano sul pavimento. - Uomini! - pensò - sono tutti uguali! - senza ancora sapere che questo era forse uno dei peggiori esemplari sfuggiti al Creatore nella sua lunga carriera, pur nella Roma che ancora ben ricordava le nefandezze di papa Borgia e della sua corte. Sentì la donna abbandonare singhiozzando il salone; poi ne uscì sco, gridando insulti da avvinazzato al suo indirizzo e Angelica s'accorse con stupore che invece egli saliva al secondo piano del castello: ne poteva sentire i i pesanti lungo la stretta scala che confinava con la sua cameretta. - E che ci andrà a fare? - si domandò – Lassù ci sono solo le stanzette dei figli... Udì la voce, alta e prepotente, sbiascicare un ordine alla guardia di turno... poi alcuni colpi violentissimi... come se qualcuno volesse abbattere una porta... Più vicini a lei, gli strilli isterici di Lucrezia ripresero... Angelica tremava di paura. Poi tutto cessò come per incanto e la notte sembrò finalmente avvolgere la lugubre Rocca nella sua quiete ristoratrice. La ragazza stava ancora tentando di calmarsi per riprender sonno quando il silenzio venne a un tratto squarciato da un urlo lacerante, da uno straziante e acutissimo grido di donna, nel quale era espresso un orrore disperato: le raggelò il sangue. Era il grido di una donna giovanissima... forse Beatrice? La servetta gridò e tentò vanamente di difendersi portando le mani alle orecchie: poi cacciò il volto nel cuscino e prese a tremare incontrollatamente, in preda al terrore. A un tratto udì pesanti i maschili – che attribuì al Barone – giù dalle scale, dopo di che un pesante uscio venne sbattuto con violenza. Angelica era ormai certa dell'orrendo delitto del padrone e il disgusto s'impossessò di lei. Avrebbe voluto poter uscire, affrontarlo, ucciderlo... e
stringeva i pugni, battendoli furiosamente sul pagliericcio, dicendo a se stessa di fuggire da quella casa infernale che il repentino, assoluto silenzio ora popolava con i mostruosi fantasmi della più vile omertà. Dovette affrettarsi nel buio a trovare il catino per vomitare. Le ci volle molto tempo per calmarsi e riprendersi: allungata nel letto, pensava a Beatrice e provava ribrezzo per le altre due donne di casa che l'avevano abbandonata. Ma che avrebbero potuto fare? Dopotutto erano serve pure loro. Esattamente come la sua mamma. E come anche lei. - Si vede che è il destino di tutte concluse amaramente. La ragazza era troppo disgustata e adirata per piangere: invece a notte fonda decisa si rivestì e con cautela aprì pian piano la porta. Le finestre, molte delle quali lasciate aperte, facevano entrare il chiarore lunare nella rocca addormentata: Angelica manco fece caso a quell'ambiente affascinante e si mosse al lume delle rare torce. In fondo al lungo corridoio due guardie dormivano, su sedie sistemate ai lati d'una porta, che lei dedusse esser quella del padrone. Salì silenziosamente al piano superiore, si avvicinò con cautela all'uscio della camera di Beatrice e vi appoggiò l'orecchio: dall'interno non giungeva alcun rumore. Appoggiò le mani alla porta e questa si aprì con un leggero cigolio. Tutto era immerso nella penombra e, alla luce d'un debole lume ancora , il letto sfatto le apparve vuoto; brandì la lanterna e entrò nella toeletta. La baronessina era accovacciata in un angolo, nuda sul freddo pavimento in coccio e tremante come una foglia: le braccia strette intorno alle gambe, il mento appoggiato alle ginocchia, gli occhi sbarrati e senza lacrime, la ragazza fissava senza vederla una luna ormai prossima al tramonto. Angelica prese dalla madia un largo telo e ve l'avvolse con cura, inginocchiandosi accanto a lei che non dava segno di essersi accorta della sua presenza.
L'abbracciò e prese a massaggiarle dolcemente la schiena, le braccia e le gambe. Stette in quella posizione a lungo, finché Beatrice non si mosse per poggiarle il capo sulla spalla: cominciò a piangere silenziosamente e senza singhiozzi, mentre la domestica le asciugava delicatamente le lacrime con un lembo del telo. Quando il pianto cessò la servetta andò a prendere un pò d'acqua. Beatrice bevve a lungo. Poi Angelica le lavò il viso e quindi le prese le mani, carezzandole con dolcezza e sistemandole addosso una leggera coperta: - Desiderate tornare a letto? Vi farebbe bene un pò di sonno -. La povera fece segno di no con il capo e gli occhi le si sgranarono per l'orrore: l'altra non insistette e le cinse le spalle con un braccio, in silenzio. Più tardi la lasciò per dotare di coperta e cuscino un grande divano nel vestibolo, sul quale finalmente Beatrice acconsentì a coricarsi. Ma quando vi fu sdraiata trattenne la mano della ragazza attirandola verso di sé e la costrinse a distendersi accanto. Poco a poco le due giovani s'appisolarono così, abbracciate l'una all'altra: a occidente la luna era tramontata da un pezzo. Quando Angelica aiutò la sventurata padroncina a far toeletta era ormai giorno inoltrato e il Barone Cenci galoppava verso Roma: l'antica Rocca era ancora avvolta dal silenzio irreale che s'addice alla scena d'un delitto.
8. Angelica cameriera di Beatrice
Dopo quella notte da incubo il Cenci non s'era più mostrato a Rocca Petrella e le settimane di vacanza erano state serene per Beatrice, soprattutto grazie all'autorizzazione di Lucrezia a tenere con sé Angelica anche la notte. Al riguardo la moglie di sco aveva dovuto argomentare con Gertrude, che però faceva la spola con Roma per accudire al padrone e non aveva dunque potuto insistere più di tanto. Anche perchè Lucrezia, infastidita da quelle che le parevano pretestuose scuse, aveva troncato la discussione ordinando che Angelica asse sotto la sua diretta – e unica – responsabilità. Come aveva già fatto in precedenza per Matteo. La nobildonna aveva in tal modo raggiunto due obiettivi: non darla vinta alla infida serpe e favorire Beatrice, lenendo la pena che provava per lei e il proprio senso di colpa derivante dall'impotenza di fronte all'odioso delitto del marito. La giovinetta, presente al colloquio, ne aveva festeggiato l'esito facendo le boccacce a Gertrude, che già aveva voltato loro le spalle per ridiscendere a prepararsi i bagagli. Raccontando la cosa a Angelica, Beatrice s'era lasciata trasportare dall'entusiasmo e – Avresti dovuto vederla, quella strega, come faceva scrocchiare le dita! – le aveva detto, per subito precisare: - È un suo vizio ogni qual volta si sente a disagio e... se io sono nei paraggi lo fa sempre! Lo sai che lo fa anche con quelle degli altri? Deve essere una cosa così fastidiosa! Pare la usi soprattutto con le femmine più giovani: deve essere una specie di tortura che infligge a chi le sta antipatica... stacci attenta, tu! In quelle dolci serate di fine estate, le due ragazze avevano consolidato l'affetto istintivo che si era creato tra loro nel momento in cui Beatrice imboccava contro la sua volontà un'angosciante strada di turpitudini e violenze da incubo. A far nascere fra loro una sincera amicizia, molto avevano contribuito le lunghe ore che la baronessina dedicava alla servetta per insegnarle lettura e scrittura, e le dolci serate a chiacchierare sul terrazzo affacciato all'abisso roccioso.
Quando tutti erano a letto e la rocca restava buia e silenziosa come una tomba, le due giovani ancora indugiavano a guardare le stelle... mentre Angelica raccontava a Beatrice della locanda, della sua storia con Lorenzo e della bottega dell'Orsi, del padre rozzo e prepotente, del quadro di Michele... Finché una notte buttò là timidamente: - Baronessina... vi devo confessare che il mio arrivo nella vostra casa non è stato soltanto per via di Gertrude...hem... L'altra s'era subito fatta attenta. - No... ecco, vedete... il fatto è che mia madre avrebbe voluto, ma mio padre non era per nulla d'accordo a lasciarmi andar via per l'aiuto che davo in locanda... ma poi, prima ci fu la visita di quella donna in trattoria a propormi questo lavoro e... sapete, era giugno e... e poi... - Sì lo so... e ti confesso che mi è parso un pò strano: la mia nutrice non si ritirerà qui che a fine anno e la ricerca di una cameriera per me è sempre stata prevista non prima di ottobre, dopo il nostro prossimo rientro a Roma... ma vai avanti, ti prego... mi hai messo curiosità... su, comincia da Gertrude: allora...?
La mattina del primo giorno d'estate la famiglia di Angelica era al solito affaccendata. La ragazza stava lavando il pavimento della sala da pranzo quando qualcuno bussò alla porta ancora chiusa. - Vado io... tu continua, che tra poco arriveranno i clienti! - le intimò il padre. Malgrado fosse chinata dietro un tavolo, Angelica poté intravvedere un lungo abito nero stagliarsi nel riquadro dell'uscio spalancato e, incuriosita, si rizzò per osservare meglio. La donna avrebbe potuto avere quaranta come sessant'anni: era alta e magra, i capelli raccolti sotto una cuffia di pizzo nero contornata da un merletto dello stesso colore che terminava annodandosi sotto il collo, stretto da un rigido colletto bianco. L'aspetto era severo e il volto pallidissimo aggiungeva un che di sinistro
all'austerità della figura. - Siete voi l'oste? – domandò senza preamboli la sconosciuta, dopo aver ato lo sguardo in giro per la stanza soffermandosi un attimo su Angelica che fingeva di lavorare ma era tutt'occhi e tutt'orecchi per non perdersi l'insolito avvenimento. La voce della donna era aspra e secca come colpi d'archibugio. - Sì, mia Signora, che posso fare per voi? - Mi hanno detto che avete una figlia... quella ragazza immagino... che è in età da andare a servizio. È esatto? - Per essere esatto lo è ma, vedete, lei lavora qui con noi aiutando mia moglie e me nelle faccende di locanda... forse... potrei chiedere con chi ho l'onore di parlare? Santino diede la voce a Orsolina che subito accorse. - Sono la governante di casa Cenci, che si trova... - Ah! sono grandi signori, quelli! - proruppe lui rivolto alla moglie, col tono di chi conosce. - Sì... e io sono incaricata di trovare una cameriera per le stanze della figlia minore. A quelle parole Angelica interruppe le pulizie per avvicinarsi, ma il padre le lanciò un'occhiataccia che la respinse subito al suo posto di lavoro. Rivolto all'ospite, Santino continuò: - Se non sono indiscreto, mi potreste dire come vossignoria è venuta a conoscenza di noi e della nostra figliola? - Messere, la vostra locanda gode di qualche reputazione qui in quartiere... e poi mi ha parlato di voi il Signor Duca di Saluzzo che è vostro cliente e amico del mio padrone.
- Ah! Perbacco... il Signor Duca! Ma che squisita cortesia a ricordarsi di noi miserabili! L'oste era letteralmente esploso per l'entusiasmo e, gongolando, si era rivolto alla figlia: - Angelica, te lo ricordi il Signor Duca, vero? Hai sentito che è stato tanto gentile da fare il tuo nome a questa Signora per un lavoro a servizio? Sì, la ragazza se lo ricordava, il Signor Duca: anzi, se lo ricordava benissimo... ma si limitò ad accennare un inchino alla visitatrice e continuò il lavoro. Il padre riprese la conversazione: - La Signora ci permetterà di parlarne in famiglia, spero! Sapete com'è, se fosse stata una sconosciuta avremmo rifiutato subito; ma... prima di respingere una gentile offerta di chi si presenta a nome di Sua Eccellenza il Signor Duca ci vorremmo pensare. - Certo, per carità! E poi non c'è nessuna fretta, dal momento che la famiglia non lascerà la città per le vacanze che alla fine di Luglio. Se deciderete di accettare, basterà che vi presentiate al portone del palazzo e chiediate di Gertrude: mi conoscono tutti. Gli osti ringraziarono e s'inchinarono rispettosamente, mentre la donna aggiungeva: - Ah!... quasi dimenticavo: lo stipendio sarà di sei corone al mese. Poi si voltò verso la porta e se ne uscì impettita dalla locanda: non aveva mai sorriso.
L'oste aveva notato l'interesse di Angelica e la guardò con cipiglio: - E tu non ti credere, sai! Ho detto così per trattar bene una famiglia importante ma non ho nessuna intenzione di lasciarti andare: qui abbiamo bisogno di te e, dunque, non ci pensare nemmeno. Adesso torna subito al tuo lavoro! Quella sera, nel letto, la moglie non mancò di fargli notare come sei corone al mese avrebbero fatto molto comodo, dato che vitto e alloggio per la figlia erano
assicurati: - Con quelli potremmo pagare una sguattera con gran sollievo per le mie mani e... ancora ne avremmo d'avanzo. E poi Maria potrebbe imparare ad aiutare anche lei nel servizio. L'oste bofonchiò qualcosa d'incomprensibile e si girò dandole la schiena, nel suo gesto abituale che sanciva la fine della conversazione serale e apriva il sipario sui sogni. Ma Orsolina era un tipo cocciuto, quando si metteva in testa qualcosa. In questo caso, aveva deciso che la proposta dei Cenci era una buona cosa per tutti: innanzitutto per Angelica, che avrebbe fatto un'importante esperienza in una casa signorile, frequentata da gente ricca e importante e, di conseguenza, "per bene". È vero, c'erano in giro certe voci che... - ma si sa come sono i pettegolezzi pensava. E poi il marito avrebbe forse sentito la mancanza di quel peperino a volte un pò insolente, soprattutto nei lavori di locanda dove la sua grazia e la sua pronta intelligenza erano di grande aiuto con gli avventori. Per lui sarebbe stata una buona lezione. Certo non le sorrideva l'idea di perdere l'aiuto della figlia preferita, ma le faceva piacere che – a differenza di lei – Angelica potesse vedere ambienti nuovi e magari crearsi una vita indipendente dalla rozza e arrogante tutela paterna. Fu così che l'oste, nelle sere che seguirono la visita di Gertrude, si dovette più volte sorbire nel buio dell'alcova le ragioni a favore dell'accettare l'offerta. Santino non l'aveva mai sentita così determinata: le stava provando proprio tutte! La donna aveva perfino escogitato il modo di utilizzare a favore della figlia quel lato violento di lui che tanto le faceva soffrire entrambi: - Sai - gli aveva sussurrato una notte - nostra figlia sarà sotto buona scorta, con quella Gertrude che non mi par troppo tenera, in verità. E... non credi che le farà bene provare i comandi di un'estranea un pò scorbutica, lei che tanto contesta quelli di suo
padre? Lui aveva accusato il colpo, tacendo e fingendo di russare. E finalmente arrivò la trovata di Orsolina che lo chiuse nell'angolo: - E poi - gli chiese una sera con voce melliflua - hai provato a pensare al prestigio che ne verrebbe alla locanda, se si sparge la voce che nostra figlia è donna di camera della baronessina Cenci? Ne parlerà tutto il quartiere... e anche quelli vicini! Santino era esasperato da quell'insistenza che non dava requie, anche perchè gli scocciava dover ammettere che le ragioni per la sua decisione di rifiutare cominciavano ormai a scricchiolare. Così una sera sbottò violentemente: - E basta porc... - gridò bestemmiando - non ne posso più di questa storia! Adesso sveglio Angelica che venga qui, così dico a tutt'e due che ve lo togliate dalla testa: lei a lavorare fuori casa non ci va e basta... capito? E che non se ne parli più una buona volta, per la miseria! Si alzò furibondo, avviandosi al corridoio brancicando per non sbattere la faccia. La moglie non si mosse: c'era aria di tempesta per casa e Orsola si rimboccò il lenzuolo fin sul capo, attendendo l'evolversi degli eventi. L'oste procedette a tentoni nel buio in direzione della camera della figlia: avanzava con grande cautela, non tanto per non far rumore di cui non gl'importava, inviperito com'era, quanto per non inciamparsi in un asse sconnesso o non ferirsi con gli spuntoni di legno che qua e là sporgevano dalle pareti del vecchio sottotetto. Al fondo del corridoio c'era una bassa finestra, ma era una notte senza luna e, se Santino fosse stato visibile, con quel suo agitare le braccia davanti a sé sarebbe potuto sembrare un enorme granchio che brancicava nella nera nube di inchiostro d'una seppiolina sfuggita al suo agguato. S'avvicinò alla porta di Angelica ma per l'oscurità la urtò rumorosamente: sentì un tramestio seguito da un grido della figlia e spalancò l'uscio con violenza. La finestra era aperta e un lembo di cielo stellato faceva da sfondo a due ombre stagliate contro di essa: la ragazza stava concitatamente spingendo qualcuno
fuori di casa, gridando: - Via! Fuori di qui, mascalzone! Badate che urlo e chiamo mio padre! Quel padre non fu neppur sfiorato dal sospetto che l'uomo potesse essere per lei uno sconosciuto male intenzionato introdottosi nella sua stanza senza autorizzazione. - Sciaguraaata! - gridò con quanto fiato aveva nei polmoni, slanciandosi sull'oscura massa dei due: ma s'inciampò nella sedia e rovinò fragorosamente sul pavimento. L'intruso, in procinto di entrare, aveva ancora una gamba sul rampicante che ricopriva il retro della casa: s'approfittò dell'incidente per ricalarsi nel giardino, saltando a terra quando fu a metà strada. L'oste si rialzò dolorante e, strattonata la figlia che era riuscito ad agguantare per la gonna mentre rotolava a terra, la scaraventò sul letto precipitandosi alla finestra: udì soltanto i i dello sconosciuto dopo che il rumore d'un tonfo lo aveva informato che quello, superato d'un balzo l'ostacolo del muretto, se la stava svignando giù per il vicolo. - Farabutto!... fatevi ancora vedere, che vi rompo quel vostro sporco muso! Ma per sfogare la sua ira non gli restava ormai che un unico bersaglio. Si scagliò sulla ragazza colpendo all'impazzata e vomitando insulti d'ogni genere: - Brutta bagascia che non sei altro!... anche in casa mia te li porti, i tuoi clienti... proprio come le puttane eh? Ma quelle almeno la camera me la pagano sai? ...Ahhh! Pure le unghie tiri fuori eh? Ma io ti ammazzo! T'ammazzo e poi ti caccio di casa, lurida sgualdrina! Fuori di sé, l'uomo non aveva neppure badato a dare un ordine temporale corretto a quei due terribili provvedimenti che così si escludevano comicamente l'un l'altro. Angelica si era accartocciata su se stessa, offrendo le ginocchia e le parti morbide alle percosse e piegando le braccia a proteggersi il capo.
Era terrorizzata e gridava singhiozzando, ma di quando in quando cercava di piazzare una ditata là dove sospettava si potessero trovare gli occhi del genitore: gli graffiò il naso e centrò la bocca spalancata, dalla quale però tolse subito le dita in tempo ad evitare il morso che invece pizzicò crudelmente la lingua di Santino. - Dimmi chi era, maledetta... voglio sapere chi era! - biascicò quello vincendo il dolore lancinante; e giù altre botte, con maggior rabbia. - Madre, aiuto! Mi ammazza! Mi ammazza! Orsolina, buttatasi giù dal letto al primo urlo del marito, s'era precipitata nel corridoio, sbattendo però il capo su un paio delle sporgenze di cui s'è detto e cadendo a terra. Rialzatasi a fatica, giunse a tentoni di fronte alla stanza della tragedia scontrandosi con Maria, alzatasi a vedere la ragione del fracasso. La madre le gridò: - Corri a prendere la lucerna, presto! - e affrontò il problema di come dividere i due e calmare il marito: ne sortì un pianto disperato a denunciare la sua totale impotenza e la buona donna se ne stette lì impietrita, morsicandosi le nocche delle dita mentre fissava il buio. Ma un qualche nume tutelare della loro famiglia ebbe pietà della sua angoscia e l'oste, improvvisamente, si sentì male. Nell'oscurità si fece di colpo silenzio, rotto soltanto dai singhiozzi di Angelica e dai gemiti di sua madre. In quella si udì un vociare dalla stradina, accompagnato da un bagliore di torce: - Eilà, locandieri! Che accade? Un'aggressione di malviventi? - gridò uno dei birri di ronda. Orsolina si sforzò di rispondere, brandendo la lucerna e mostrandosi alla finestra: - No, no... soltanto una lite in famiglia! Ma ora è tutto a posto, grazie! La donna ben sapeva che sarebbe stato meglio tenere comunque fuori di casa quei brutti ceffi. Santino giaceva riverso sul letto della figlia e, al fioco lume della lampada, la
moglie ne vide gli occhi sbarrati e i denti digrignanti, mentre il respiro affannoso gonfiava la bava che gli usciva dalla bocca. Angelica gli slacciò prontamente i nodi del camicione, che gli stringevano il collo. Con una mano Orsola prese a massaggiargli lo stomaco, mentre con l'altra si abbassò la berretta da notte per tamponarsi la fronte che sanguinava copiosamente da un taglio poco sotto l'attaccatura dei capelli, ricordo dei legni sporgenti del corridoio. Maria riprese la lanterna e fu spedita a prendere acqua dal catino che, miracolosamente, era rimasto ben saldo sul treppiede malgrado il trambusto: la bambina vi intinse un lembo della camiciola e si sedette sul letto, andolo sulla fronte e sul livido volto del padre. Lentamente, la situazione tornava alla calma: il suo respiro si fece più regolare e mentre Angelica scendeva a preparare un decotto il locandiere riguadagnava un pò di colorito. Donna Orsolina mandò le figlie a dormire nella cameretta di Maria: - E chiudetevi dentro! È meglio che, quando gli torneranno forze e parola, tu non ti faccia trovare - suggerì alla primogenita. Poi chiuse le imposte e i due sposi restarono così, fianco a fianco nel letto di Angelica, per il resto di quella drammatica notte. La mattina seguente Santino parlava ancora a fatica, come a fatica era riuscito a riguadagnare il proprio letto, sorretto dalla moglie da un lato e da Angelica dall'altro. Ma trovò il fiato che gli occorreva per comunicare alla figlia di considerarsi cacciata di casa: - Domani tua madre ti accompagnerà da Madama Gertrude perchè tu prenda al più presto servizio dai Cenci. E queste sono le ultime parole che tu udrai da tuo padre, svergognata. Il giorno dopo due donne in abiti dimessi si presentarono sottobraccio all'ingresso d'un noto palazzo del quartiere al confine con il Ghetto: alla più anziana, lo scialle intorno al capo non consentiva di nascondere una vistosa fasciatura.
Ai bravacci di guardia chiesero timidamente della Signora Gertrude.
Durante tutto il racconto, Beatrice aveva notato che Angelica teneva per lo più gli occhi bassi e che il tono della sua voce era piatto, un pò come quello di chi si confessa. - Strano! - pensava - Che si vergogni per aver portato Lorenzo in camera sua?... dopotutto Lorenzo è persona dabbene, mica un ladrone... e se invece le bruciasse ancora la fuga di lui che quella notte se l'era filata dalla finestra abbandonandola fra le sgrinfie del padre inferocito? E... dopo, l'avrà ancora rivisto? Attese ancora un pò e glielo chiese. Angelica non alzò lo sguardo mentre le rispondeva: - Ma, Madamigella Beatrice... non avete capito... ecco, vedete, il fatto è che... quell'uomo della finestra... sì... insomma, non era Lorenzo ma... in verità era... era Giovanni, il Duca di Saluzzo! Beatrice restò senza parole: - Ma... ma... ma Saluzzo è un Marchesato... non un Ducato! - fu tutto ciò che riuscì a farfugliare, guardando smarrita la servetta. Quella notte le due giovani si sarebbero coricate soltanto ai primi livori dell'alba.
9. Giovanni, il falso "Duca di Saluzzo"
Angelica aveva conosciuto Giovanni verso la fine di Maggio alla Locanda, in un giorno di grande affluenza di avventori. Uno di questi, di aspetto volgare e in compagnia di un amico e due prostitute imbellettate, aveva da subito infastidito la ragazza con rozzi complimenti e battutacce. Poi, quando l'abbondante vino cominciava a sortire il suo effetto, il cialtrone aveva tentato – goffamente e con dubbi risultati – di affibbiarle un pizzicotto là dove s'ebbe malgrado non si debba. La ragazza fumava dall'ira e l'oste aveva il suo daffare a impedire che la figlia reagisse con violenza o rifiutasse di servirli. - E cosa vuoi che ti facciano? Sei in casa tua e la sala è ancora piena di gente! Fa come ti dico e taci! - le ordinò. Si era ormai alla fine del pranzo ma, mentre gli altri clienti cominciavano a sfollare, il figuro ordinò ancora una scodella di zuppa, che Angelica gli servì di malavoglia. Poi la ragazza si allungò sul tavolo per ritirare le stoviglie usate e l'uomo, ormai alticcio, colse a volo l'occasione per alzarle la sottana fino a rovesciarla sulla schiena. La sua manaccia palpeggiò rumorosamente la nuda pelle delle sue parti più morbide: il villano rise sgangheratamente e i suoi compari gli fecero eco. Lei s'irrigidì ma non diede a vedere di voler reagire: invece si rizzò, riassettò la gonna e senza una parola riprese la scodella rovesciandogliela sul capo. Il brusio dei commensali cessò di colpo all'urlo di dolore del malcapitato che cacciò il volto nel vaporoso corpetto della vicina per detergerne la bollente vivanda.
Santino per la sorpresa lasciò cadere le stoviglie già raccolte e si voltò a guardare la figlia che, dopo un balzo indietro, fissava con odio quel tale mostrando i pugni. Ma vide pure che sulla scena era comparso un nuovo personaggio con baffi e barba, che se ne stava ritto sull'uscio della trattoria osservando il trambusto. Quando il cafonaccio, ripulitosi il volto alla bell'e meglio, si rizzò imbestialito e barcollando fece l'atto di saltare addosso alla ragazza, lo sconosciuto alzò fulmineamente il braccio destro e lo colpì alla mascella con un violento pugno. L'altro rovinò sul tavolo fracassando stoviglie, fra gli strilli isterici delle due compagne. Angelica ne approfittò per riparare velocemente in cucina, occhieggiando però da dietro la madia per non perdersi il resto della scena. L'uomo misterioso, abbrancato quel villano per il colletto e scossolo con forza, lo apostrofò severamente: - Come vi permettete, miserabile gaglioffo, di osar trattare così villanamente una gentil donzella? Potete dirvi fortunato che ora non porto il mio brando lasciato in custodia allo scudiero per recarmi a pranzo, ma sarò a vostra disposizione per regolare la cosa come usiamo fra gentiluomini. E con sussiego sfilò dalla mano destra un vecchio guanto d'un grigio indefinibile e provvisto di vistose prese d'aria sulla punta delle dita, che a ben guardare non parevano tuttavia ricavate di proposito con l'intento di arieggiare i polpastrelli nelle giornate afose. Il guanto schioccò per due volte sul viso del malcapitato cui il troppo vino, l'ustione al volto e la botta alla mascella avevano tolto qualsiasi capacità di reazione. - I miei padrini saranno Messer l'Oste e questo gentiluomo del mio seguito, testimoni della vostra offesa - aggiunse il paladino di Angelica che seguiva lo scontro con grande attenzione. E si volse a indicare pomposamente un giovanetto mingherlino e vestito alla meno peggio, divenuto visibile agli astanti solo nel momento in cui il suo compagno era entrato in azione spostandosi dall'ingresso. - Questa è la mia carta con nome e indirizzo: sarò onorato di ricevere la visita dei
vostri padrini per definire le armi, il giorno, il luogo e l'ora del duello - concluse lo sconosciuto con voce sprezzante, infilando nel giubbotto dell'altro un qualcosa di bianchiccio e stropicciato. - E ora... fuori! - esclamò poi e, presolo per le spalle, lo girò verso l'uscio dal quale nel frattempo il suo compare s'era prudentemente spostato e, accompagnatolo a spintoni fin nella via, gli allungò un violento calcione proprio là dove quello aveva palpeggiato la graziosa cameriera. Sorretto dagli amici, costui si allontanò in fretta lasciando il conto da pagare. Il nobiluomo rientrò mentre Angelica e la madre s'affacciavano dalla cucina, come timidi leprotti che mettono il muso fuori dalla tana ad annusare l'aria dopo il temporale. Si sfregò il dorso delle mani sulle braccia, come a sgrondarle dalla lordura, e lo stesso fece col giubbotto dall'alto verso il basso, mentre un'espressione disgustata gli ripiegava gli angoli della bocca all'ingiù, verso il mento. L'oste, che l'intervento dello sconosciuto aveva trattenuto dal precipitarsi a percuotere la ragazza, pose un ginocchio a terra e gli prese la mano portandosela alle labbra: - Mio signore, vi ringraziamo per averci tolto d'impiccio liberandoci da quel cialtrone che insidiava nostra figlia! Mi avete in questo preceduto - aggiunse mentendo - ma la vostra prestanza è certo superiore alla mia e dunque siete stato provvidenziale. Giovanni non era stato insensibile alla visione dei glutei di Angelica favoritagli dal gesto del triviale avventore: si tolse il cappello e, inchinandosi profondamente davanti a lei, lo portò oltre il fianco sinistro con un largo gesto del braccio destro. - Cosa da nulla, Messer mio, cosa da nulla! - rispose rialzandosi - Desidero scusarmi con questa damigella per la violenza che ho dovuto usare sotto i suoi castissimi occhi, onde dare a quel ribaldo la lezione che si meritava. Ma permettete che mi presenti: Duca Giovanni di Saluzzo... mi ha indirizzato da voi un mio buon amico, il Barone sco Cenci che come saprete risiede poco lontano da qui...
L'uomo pareva più prossimo ai trenta che ai vent'anni, forse per via d'una nera barbetta non troppo curata e accompagnata da baffi a virgola che ne accentuavano l'aria spavalda, contribuendo a dare al personaggio un aspetto che, se non si sarebbe potuto definire nobile, non era però quello d'un bravaccio né tantomeno d'un miserabile. Vestiva d'un modo originale, con abiti malconci ma non privi di qualche ricercatezza, come le maniche a strisce nere e gialle o il panciotto grigio damascato. che portava sotto il mantello. E se il pezzo debole erano i guanti sdruciti, quello forte era un cappello di feltro nero ornato non dal comune pennacchio ma da una piuma d'uccello lunga e sottile, alla maniera se. I suoi gesti plateali e il linguaggio pomposo avevano avuto facilmente buon gioco dell'umile uditorio che non dubitava affatto delle aristocratiche origini dello sconosciuto, sebbene alcuni particolari di cui s'è detto nel suo abbigliamento denunciassero a un osservatore più attento una certa indigenza. Ma per Santino un nobile era pur sempre un nobile, che doveva perciò essere anche ricco. Dunque si diede da fare: - Accomodatevi, Messer Duca, vi prego: sarà per noi un onore servirvi, Eccellenza! Voi, donne, andate a vedere in cucina cosa è rimasto, che vi raggiungo subito. E mentre Angelica prendeva il necessario per pulire il luogo dello scontro dai cocci e dai resti della zuppa sparsi un pò dappertutto, suo padre accompagnò i nuovi avventori al tavolo vicino al camino, proprio quello di Prospero e Lorenzo nel giorno di Pasqua. Gli diede la consueta spolverata con la tovaglietta che nelle ore di servizio mai lasciava il suo braccio sinistro e sistemò la sedia con fare compito sotto il nobile posteriore dell'ospite. Poi, con un inchino, s'avviò verso la cucina rinculando di alcuni i per non dar loro troppo presto la schiena, urtando così alcune sedie che caddero con fracasso. - Questi li servirò io – sancì severo rivolto alla figlia, quando lei terminò le pulizie - tu per oggi hai già combinato abbastanza guai e te ne starai qui in cucina.
La ragazza protestò senza alzare la voce, ma in tono deciso: - Non è colpa mia: quel mascalzone mi ci ha costretto - disse facendo spallucce. - Queste cose ti capitano perchè tu provochi gli avventori! Ti vedo bene, io, come ancheggi quando deponi le portate sui tavoli... vorrei proprio sapere dove hai imparato certi comportamenti da sgualdrina, tu! Sicuramente non da quella povera donna di tua madre, ch'è timorata di Dio! - Se ancheggio è perchè devo magari reggere tre piatti con le mani e infilarmi tra i tavoli; cosa credi, che m'interessi stuzzicare quei bifolchi dei tuoi clienti? - Quei bifolchi di miei clienti, come li chiami tu, sono il pane che tu mangi: ricordatelo bene, madamigella! E se tu con la tua boria me li scontenti, la prima a uscire di qui sarai tu, stanne pur certa... e a calci in culo! - E allora avanti, provaci! - la voce di lei era alterata ma a basso volume per via degli avventori - meglio andarmene che dover servire zotici puzzolenti che non mi rispettano! - Taci sai, brutta zoccola che non sei altro: so benissimo come ti guadagneresti da vivere fuori di qui! Ma che cosa credi di essere? Sei una poveraccia senza istruzione, che tanto alle donne non serve se trovano marito: ma tu non troverai manco quello perchè sei una bagascia... e le bagasce non si maritano. Poi la schiaffeggiò. Angelica salì le scale di corsa, per dar sfogo al pianto in camera sua, ma se avesse dovuto essere sincera avrebbe forse ammesso che le lacrime erano di rabbia per il gesto e gli insulti del padre alla presenza di quel suo nobile paladino. L'oste prese le vivande dalle mani della moglie, che lo guardò con aria di biasimo, e voltandosi per rientrare nella sala, la zittì dicendo - Eh, rispetto, rispetto... chi mai le avrà riempito la testa di scempiaggini a quella là... e a me piuttosto, il conto di quei tali e i danni alle stoviglie chi me li paga? Forse tu o la tua schizzinosissima figlia? Donna Orsolina si vergognò amaramente della propria subordinazione al marito, esempio assai poco edificante per la figlia e senza dubbio causa prima del suo astio verso il padre, che si manifestava all'occasione disprezzando tutto il genere maschile.
E si sentì miseramente fallita nel suo ruolo di madre: poco dopo si alzò per salire dalla ragazza e ricondurla da basso. Arrivarono in cucina contemporaneamente a Santino il quale, eccitatissimo, chiese a Angelica – come se nulla fosse – se avesse rigovernato le camere, quella mattina. Poi, senza attender risposta, si rivolse alla moglie:- Sai... il Signor Duca vuol vederle, in previsione di mandarci un suo importante cliente straniero che verrà in visita a Roma tra pochi giorni... Altro che i quattro soldi che ci danno i clienti delle puttane... puah! Donna Orsola fece spallucce: - Quelli sono il pane di tutti i giorni, non disprezzarli: meglio uno così di tre che arrivano una volta e non tornano mai più! Il marito tacque, non sapendo al solito come ribattere al buon senso di quella donna. Angelica pensò, compiaciuta, che la madre gli aveva reso pan per focaccia in vece sua e si disse che forse era ora d'imparare qualcosa da lei che non fosse solo la sopportazione. Appreso che le camere erano in ordine, il padre si volse subito per tornare dagli ospiti e invitarli di sopra – al tempo più confacente a lor signori –.
A Giovanni non era sfuggito l'alterco in cucina tra l'oste e quel giovane fiore di ragazza, pur senza poterne intercettare il dialogo. E ne aveva tratto ispirazione per realizzare un ambizioso progetto che da qualche tempo gli frullava per il capo. Terminato dunque di pranzare, i due compari si alzarono e Giovanni accompagnò l'altro alla porta, salutandolo ad alta voce per farsi udire dall'oste: Allora siamo intesi: assicurati che la mia carrozza sia pronta per quando dovrò recarmi a Palazzo Farnese, più tardi. Non fece in tempo a voltarsi che il locandiere spuntò al suo fianco in atteggiamento ossequioso: - Se credete, Signor Duca, possiamo salire un momento alle camere - disse con un inchino, e lo guidò su per i ripidi gradini. Le stanze del piano superiore erano due da una parte e una dall'altra di un
angusto corridoio che prendeva luce da una bassa finestrella, situata sul lato di quello che era opposto alla scala d'accesso e dava dunque sul piccolo orto. Due delle camere si trovavano sopra la sala da pranzo e l'altra era in corrispondenza della cucina: - È più calda, in inverno - spiegò l'oste aprendone la porta. - Permettete... - disse e precedette l'ospite, raggiungendo subito la finestra per spalancare le ante di legno e dar luce all'ambiente. Ovviamente a Giovanni la stanza interessava poco o nulla, poichè le sue intenzioni erano ben lontane dal procurare facoltosi clienti alla locanda: ma il suo piano richiedeva di procedere per gradi e dunque esaminò con cura lo scarso mobilio, saggiò con le mani la morbidezza del letto e si complimentò per il lindore delle lenzuola. - A quelle provvede mia figlia Angelica, che Sua Eccellenza già conosce - fece l'oste con sussiego - è lei incaricata del bucato, come pure delle pulizie in camera. Giovanni osservò dalla finestra il giardino sul retro e il viottolo, dove l'erba ancor tenera cresceva abbondante tra i ciottoli a testimonianza della rara presenza di anti. Poi domandò se, oltre a quelle per gli ospiti, allo stesso piano vi fossero altre camere. Avuta risposta negativa, domandò sorpreso - Ma, perdonatemi la curiosità, allora voi e la vostra famiglia dove dormite? - Santino rise e indicò il soffitto in legno: - Le nostre stanze sono al secondo piano: in quella sopra a questa ci dorme Angelica e la bambina sta in quella più piccola di fronte, che ha anch'essa una finestrella sul giardino. All'altro capo del corridoio, nella stanza che dà sulla via, ci stiamo mia moglie ed io. Il visitatore finse imbarazzo: - Non intendevo... dovete scusarmi - farfugliò. - Per carità, signor Duca, ci mancherebbe! Siamo povera gente, ma non ci manca nulla e non abbiamo nulla da nascondere! Giovanni s'informò dei costi (- Per i vostri ospiti, Eccellenza, un prezzo speciale - e in questa non dichiarata gara tra furboni l'oste raddoppiò la tariffa abituale) avviandosi poi verso le scale.
Il padrone di casa si sentiva ormai a suo agio: - E... con gli altri Paesi avete affari continui, caro Duca? - Direi di sì, amico mio: sono appena tornato dalle Fiandre, sapete... un lungo viaggio che faccio regolarmente un paio di volte l'anno, stando via due, tre mesi ogni volta -. Erano nuovamente al piano terra e si affacciarono alla cucina. - Sentito, Orsola, che bei viaggetti si fa il nostro Messer Duca?- Santino gongolava. La donna stava ancora riordinando le stoviglie aiutata da Angelica, mentre Maria, in piedi su uno sgabello, grattava l'interno d'un pentolone più grosso di lei sul cui fondo lo stufato del giorno precedente aveva lasciato generosi ricordi di coniglio abbrustolito. Orsolina si alzò di scatto, a rischio di mancare la presa d'una pesante zuppiera in terracotta che Angelica le stava ando per l'asciugatura; posò con affanno l'oggetto e, rassettandosi il grembiule: - Veramente... veramente no, me ne scuso - mormorò con aria contrita, abbozzando un goffo inchino che confessava la sua scarsa dimestichezza con le pratiche protocollari. Giovanni la tolse però d'imbarazzo: sedette su uno sgabello e cominciò a raccontare della sua recente e sfortunata impresa lungo la via Francigena, gabellandola per viaggio d'affari. Costui era, infatti, un piccolo truffatore da quattro soldi che viveva di espedienti: con dadi truccati spellava ingenui avventori nelle osterie del Bordello, o inventava raggiri ai danni di creduloni cui estorceva danaro garantendo lauti guadagni, per via della sua familiarità con i potenti che ostentava abilmente malgrado fosse del tutto inventata, così come i titoli nobiliari che cambiava ad ogni uscita di galera. In cuor suo, egli sognava d'arricchirsi con epiche imprese tra cui, beninteso, lucrosissimi furti a grandi signori. I risultati erano tuttavia ben lontani dalle sue speranze e di solito le sue iniziative al riguardo lo lasciavano sempre con le mani in mano... nel migliore dei casi. L'ultima sua prodezza risaliva all'anno precedente, quando aveva risposto alla chiamata alle armi di Alessandro Farnese – Duca di Parma e capo dell'esercito
spagnolo in Fiandra – i cui emissari arruolavano truppe per la guerra della Lega Santa cattolica contro gli eretici ugonotti di Re Enrico III di Navarra. Ai volontari, tutti canaglie della peggior specie, il papa garantiva amnistia per i reati commessi e l'indulgenza plenaria del padreterno – chiave delle porte del paradiso – per chi sbudellava i nemici di Santa Chiesa, tra cui molti migliori di lui. Più di quella però, al giovane sorrideva l'idea dell'amnistia, che gli avrebbe consentito di mettere una pietra sopra una discreta lista di denunce per truffe e furtarelli. E, soprattutto, la prospettiva di ricchi bottini di guerra era stata per lui irresistibile così che, un discreto prestito con la madre per coprire le spese di viaggio, era partito soldato per la terra di Fiandra, fiducioso di trovarvi gloria e ricchezza. Purtroppo per lui, la doppiezza imprevedibile di un abile politico privo di scrupoli doveva deludere crudelmente le sue ottimistiche aspettative. Infatti Re Enrico stava soppesando se Parigi valesse o meno una Messa e verso la fine di quell'anno sbalordì tutti, dal Re di Spagna all'Imperatore, comunicando al Papa la sua intenzione di abbracciare il cattolicesimo... e diventare Re di Francia! Più niente scomunica per lui, dunque, e con disappunto di molti nemmeno più guerra: ma soprattutto niente paga per Giovanni dal Farnese, il quale dovette – o meglio fece – comunicare ai volontari che non se ne faceva più nulla. Il giovane se ne tornò così mestamente a casa, spendendo fino all'ultimo centesimo dei soldarelli di sua madre; e gli ci volle qualche mese di altri prestiti e di poco nobili espedienti per riprendersi dalle privazioni e dalle durezze dell'infelice avventura. Ma ecco che ora, alla modesta Locanda del Vescovo, l'ingenuità di oste e famiglia gli offriva un'occasione inattesa per finalmente concretare un progetto di largo respiro, un colpo grosso che accarezzava da lungo tempo – il colpo d'una vita – per risollevarsi le finanze in modo duraturo dopo quella sfortunata impresa.
E per cominciare a realizzarlo sarebbe partito proprio dal racconto di essa. Ne omise dunque premesse militari e... postumi finanziari, ma la nobilitò con i turriti manieri che aveva visto lungo le sponde del Reno, le aggiunse una nota mistica con i magici silenzi delle navate di gotiche cattedrali, la popolò di gnomi e di folletti con le leggende delle nere foreste di Germania, l'impreziosì con la descrizione dei palazzi e delle chiese di Bruges, decorati da sembrar di merletto. I locandieri ascoltavano rapiti: Maria aveva smesso di grattare la pentola per accoccolarsi incantata ai piedi dello sconosciuto e Donna Orsolina si era seduta, appoggiandosi con il gomito al lungo tavolo che le serviva per preparare le vivande da mettere al fuoco. Angelica, un pò contrariata dalla mancata visita a Lorenzo, lì per lì continuò a lavare stoviglie tanto per darsi un contegno, ma smise poco prima dell'arrivo a Losanna del "Signor Duca", incuriosita dalla descrizione dei ghiacciai alpini e di quei grossi cani che i monaci del col di Mont Joux istruivano a soccorrere i pellegrini travolti dalle valanghe di primavera. La ragazza dovette presto convenire che quell'uomo fosse senza dubbio un personaggio interessante e pendette dalle sue labbra come gli altri componenti della famiglia. A differenza da essi, tuttavia, lei provava – e non inconsciamente – una certa attrazione per quelle mani affilate, per il pizzo da soldato e i neri occhi arguti che si spostavano vivaci dall'uno all'altro dei suoi ascoltatori. E subiva il fascino della spavalda sicurezza che egli dimostrava e che lei non poteva sapere quanto fosse in realtà pura millanteria. La cosa un pò la disturbava, perchè era una sensazione del tutto nuova e imbarazzante che le procurava una lieve, incontrollabile stretta fra la gola e il petto. Così quando Giovanni, descrivendo un ballo offerto in suo onore da un amico banchiere di Bruges, le prese deciso una mano per trascinarla in un rapido volteggio di danza stringendola a sé, Angelica non disse né fece null'altro che lasciarsi languidamente trasportare dalle sue forti braccia. L'oste applaudì fragorosamente, travolto dall'entusiasmo. Giovanni s'arrestò e
fece l'atto di baciarle la mano, poi si volse accostandosi a Orsolina e ripeté lo stesso gesto con lei, che si schermì arrossendo e non resistette all'impulso fuori luogo di alzarsi dallo sgabello per lisciarsi con gesto meccanico la povera gonna. Il nobiluomo se ne andò senza che nessuno notasse, tra i bagliori rossastri del focolare ancora , l'imporporarsi delle guance di Angelica quando lui le baciò nuovamente la mano prima d'uscire. Pochi minuti dopo, un volto con mustacchi e ornato di nera barbetta spuntò con cautela dal bordo del muretto ricoperto di edera che cintava il giardino sul retro della casa: studiò attentamente la robustezza del rampicante abbarbicato al muro e registrò le ingombranti presenze di pozzo e carretto nell'orto. Poi Giovanni si ricalò nel viottolo, calzò il suo cappello piumato e si dileguò.
10. Giochi di seduzione: la bigamia di Angelica
Erano forse ati tre giorni quando Angelica venne svegliata a notte fonda da un fastidioso rumore proveniente dalla finestra: come se qualcosa sfregasse contro le imposte, a volte con lunghi intervalli di silenzio e altre invece con un continuo grattare o con un lieve picchiettio. Pensò si fosse alzato il vento e che un ramo del rampicante, scosso dalle folate, sbattesse contro i robusti pannelli: ma di vento non ce n'era – al più forse una brezza leggera – altrimenti lo avrebbe udito fischiare tra le fessure. Si drizzò un paio di volte sui gomiti: il rumore sembrava d'incanto cessare per riprendere quando lei si coricava nuovamente. Con uno sbuffo si girò mettendosi prona e si tirò il cuscino sul capo: debole e attutito, il rumore continuava e lei, ormai ben sveglia, attendeva che riprendesse dopo ogni pausa. A un tratto le parve d'udire come un debole fischio modulato, poi più nulla: anche quell'altro noioso rumore era sparito. A tentoni cercò lo scialle che aveva gettato in fondo al letto come ogni sera: se lo avviluppò intorno alle spalle e, sedutasi, ristette ad ascoltare. Dopo poco il suono si ripeté: modulato come prima, pareva quasi un motivo musicale. - Ma allora c'è qualcuno!- e la ragazza, fra eccitazione e timore, s'immaginò una figura misteriosa attaccata al rampicante nell'atto di sporgersi arditamente a tamburellare contro gli scuri. Al terzo fischio si alzò senza far rumore per avvicinarsi alla finestra e provò a ripeterne la modulazione, ma la cosa le riuscì malissimo anche perchè i tempi nei quali vi si esercitava con gli amici monelli erano lontani e ora in casa non le era concesso. Le parve di udire il proprio nome sussurrato da una voce irriconoscibile, ma fu
un attimo soltanto e la cosa non si ripeté. Nel buio della stanzetta vagò in cerca del pezzo di legno che usava come leva per sollevare le ante malconce quel poco che bastava ad aprirle. La ragazza non avrebbe voluto ammetterlo ma si sentiva un pò agitata: urtò con un piede contro una gamba del letto e dovette mordersi il labbro per non gridare di dolore. Per un attimo rimpianse l'inverno, quando i rossi tizzoni nel braciere le avrebbero consentito di veder qualcosa o almeno di accendere la candela di sego che teneva nella madia per emergenza. Quando finalmente, col cuore in subbuglio, poté spalancare gli scuri e dare un'occhiata là fuori non vide nessuno e, sotto la debole luce della luna occhieggiante fra le rotte nubi, anche il giardino sembrava deserto. Ma oltre il muretto, dall'ombra nera del vicolo qualcuno zufolò in modo a lei ormai familiare e canticchiò a bassa voce - domanii!... -, mentre un rapido rumore di i che s'allontanavano le confermava una misteriosa presenza. Il resto della notte, la ragazza dormì d'un sonno tormentato da frequenti risvegli: un innocuo scricchiolio le pareva un fischio, il rincorrersi dei sorci la svegliava di soprassalto nel dubbio che qualcuno grattasse la finestra, il verso d'un gatto in amore sembrava pronunciare lamentosamente il suo nome. Ogni volta la poverina stentava a riaddormentarsi: accaldata, si alleggerì della coperta, poi si tolse pure la camiciola da notte accorgendosi d'aver sudato, per risvegliarsi dopo poco con una spiacevole sensazione di freddo. Nella veglia, dibatteva tra sé l'identità dello sconosciuto visitatore: Lorenzo? Non le pareva possibile potesse conoscere l'ubicazione esatta della sua camera, dal momento che non ne avevano mai parlato se non quando lei gli spiegò che la famiglia dormiva al secondo piano della casa... senza tuttavia dare altri dettagli. E poi no, Lorenzo non era il tipo da simili imprese, troppo rispettoso e perfino un pò timido... Allora, forse... quel Duca Giovanni? Che fosse riuscito a carpire l'informazione a suo padre senza che lui s'insospettisse? No – concluse subito – lui si sarebbe
insospettito comunque. Certo quello era un uomo audace e forse spregiudicato... e l'aveva guardata a lungo negli occhi mentre le baciava la mano... ma come poteva un nobiluomo, con tutte le affascinanti dame che incontrava nella sua avventurosa vita, invaghirsi d'una ragazza povera fino a... Angelica indugiò a lungo a valutare questa eventualità e ad un tratto il suo corpo nudo fu percorso da un leggero brivido, come di freddo ma che di freddo non era: recuperò la camicia deposta sulle coperte e, indossandola, accusò con sorpresa, quasi fosse la prima volta, la ruvidezza del grossolano tessuto che con mille minuscoli aghi pungeva la sua pelle delicata. Si rannicchiò avvoltolandosi nelle coltri, poco a poco riassaporando il tepore prodotto dal proprio corpo. A un tratto si trovò, chi sa come, in un ricco letto a baldacchino con indosso una lunga veste di seta finissima che le carezzava le membra, avvolgendole nel gradevole calore di un leggero piumino. La stanza era arredata con gran lusso e mille ceri ardevano illuminandola come di giorno. Intorno al letto danzava un piccolo gruppo di dame e cavalieri in abiti sontuosi guidato dal Duca Giovanni, interamente nudo ma col suo cappello piumato sul capo, mentre davanti alla finestra sedeva Lorenzo che, guardandola negli occhi, suonava le danze di Pasqua. Si svegliò come ogni giorno al canto di Amilcare, il gallo del loro piccolo pollaio ricavato con una tettoia in legno, nell'angolo del giardino più lontano dal pozzo. Si sentiva stordita e stette a poltrire qualche minuto, prima di alzarsi a sciacquarsi il viso con l'acqua della brocca: il sogno recente era ancora davanti ai suoi occhi... e lei ne era turbata. Decise che ne avrebbe parlato alla vecchia erborista. - Dopo tutto - pensò aprendo la finestra - lei s'intende pure di erbe allucinogene e dalle allucinazioni ai sogni il o non deve poi esser lungo; chi sa che un pò non s'intenda anche di quelli.
Il pranzo quel giorno fu assai poco frequentato e Angelica attese l'uscita del padre per caricarsi del solito cesto di biancheria e andarsene anche lei, lasciando alla sorellina il compito di rigovernare la cucina insieme alla madre, che la salutò con l'abituale - Non fare tardi! Alla sala da pranzo aveva già provveduto rapidamente lei stessa, data la scarsa affluenza di avventori: - Fortuna che non abbiamo cucinato quel pezzo di cinghiale, sennò sai che spreco! - pensò chiudendosi la porta dietro le spalle.
L'angolo del mercato nel quale la vecchia disponeva le sue cose era solitamente tranquillo di pomeriggio, dal momento che le massaie e i servitori provvedevano in mattinata agli acquisti di alimentari. Quel giorno, poi, il mercato pareva sonnacchioso per via dei pochi acquirenti che vi s'aggiravano con l'aria di chi più che per intenzione ci fosse capitato quasi per caso, alla ricerca d'un'ispirazione mentre vagava senza meta a godersi il sole già caldo. Infatti, verso mezzodì esso aveva finalmente vinto la mano alla sua eterna partita con le nubi. - Non mi meraviglia che alla locanda non ci fosse nessuno - pensò la ragazza mentre, giunta al bordo del Campo, spostava il cesto – assai leggero questa volta – sistemandoselo sul capo a farle da ombrello per proteggersi dai raggi cocenti. Campo de' Fiori splendeva di una luce intensa, che pareva raccogliersi tutta nel terreno gialliccio che ricopriva la piazza, punteggiata dalle macchie vivaci dei teli che i mercanti stendevano sui carri a proteggere i prodotti avariabili. L'ombra sotto di essi pareva quasi luminosa, tanto accecante era il riflesso del sole sul terriccio e sulle facciate variopinte delle case circostanti. La vecchina delle spezie pareva aspettarla: se ne stava seduta fra vasi e coppe, godendosi il sole che le riscaldava le ossa e la salutò con un cenno della mano quando ancora la ragazza non era a portata di voce. - Adesso racconta, figlia mia, che oggi non c'è gente e possiamo parlare - esordì poi senza preamboli. Angelica le disse di Lorenzo, del suo liuto e dello straccio bianco di via libera
per le sue visite alla bottega. L'anziana donna guardava fisso lontano e alla ragazza pareva sorridere. Ma quando le parlò del suo sogno, omettendone per precauzione le premesse, l'altra la guardò facendosi seria. - E... quest'altro uomo era qualcuno che conosci? domandò. - Beh, sì e no... è un avventore mai visto prima che l'altro giorno s'è fermato alla locanda e mi ha liberato da un villano che mi disturbava... sapete, questo è un nobiluomo... e poi ci ha raccontato dei suoi viaggi... - Ah!... un nobiluomo eh?... È capitato anche a me una volta, quand'ero giovane e... ti piace? - Angelica arrossì lievemente. - Mah... non... insomma... l'ho visto appena, sapete. - Mettiamola così: ti piace meno, di più o quanto ti era piaciuto quell'altro... Lorenzo, mi pare? La ragazza avvampò: - Non saprei, sono due tipi così diversi... Lorenzo certo mi piace molto, ma quest'altro... - L'altro... ti turba, forse? Questa domanda della vecchia le procurò una seconda e più intensa vampata di rossore. - Veramente... se turbare vuol dire incuriosire potrei dire di sì... - Eh no, ragazza mia, turbare è diverso... molto diverso: diciamo che la curiosità potrebbe in certi casi essere... sì, quasi come l'anticamera del turbamento, se mi capisci: un pò come un bacio lo può essere di... quello per cui vai a trovare Lorenzo. Angelica sarebbe corsa a nascondersi in camera sua. Ma con la madre non avrebbe potuto affrontare l'argomento in modo così esplicito: e ciò in fondo le faceva piacere.
Si rese conto che Giovanni l'aveva incuriosita e forse anche un pò affascinata, ma dovette ammettere che quella misteriosa presenza nella notte l'aveva turbata e dunque, se questa e quello fossero stati la stessa persona, allora... - Credo di aver capito... dunque, il mio sogno... - I sogni, mia cara, sono lo specchio dei nostri pensieri più segreti: potrebbero rivelare desideri nascosti, come anche paure... ma soltanto tu potrai scoprirlo. - Allora voi mi... sì insomma... che debbo fare? - Nulla. Non fare assolutamente nulla. Aspetta e magari qualcosa succederà, aiutandoti a comprendere se il sogno esprimeva una tua speranza o non, piuttosto, un tuo timore. - Si ma... e Lorenzo? – scappò detto alla fanciulla. Questa volta la donna si fece pensierosa prima di parlare. - La tua domanda risponde da sola alla mia di poc'anzi, ma mi pare che tu stia mettendo il carro avanti ai buoi: certo, se conoscerai altri uomini che ti piaceranno, può essere che tu debba poi fare una scelta, ma prima dovrai conoscere l'amore e per questo ci vogliono tempo e lacrime! - Si, ma... - Con Lorenzo, se proprio vuoi un parere, non c'è motivo che tu cambi nulla: ma da quel che dici è uomo onesto e rispettoso, cosa assai rara con i tempi che corrono e dunque... vedi di non farlo soffrire essendo onesta pure tu. E se io fossi in te... non mi fiderei troppo dei nobiluomini, figliola cara! Angelica s'era levata per andarsene, perché le ultime parole della vecchia le avevano ravvivato il desiderio di vedere Lorenzo e non voleva attardarsi per rientrare a casa. - E adesso che fai così di fretta... corri da lui? - domandò la sua consigliera, sorridendo con la bocca sdentata.
A poca distanza dal mercato, nello studio di Prosperino Lorenzo non sapeva più cosa pensare. Era ormai qualche giorno che Angelica non si faceva vedere e il costante pensiero di lei gli impediva perfino di lavorare alla sua copia del Bacchino malato: l'ora consueta per l'arrivo della ragazza era ata da un pezzo e la sua trepidazione s'era fatta ansiosa. Ancora una volta sbaffò magistralmente un occhio di... Bacco-Michele e gli sfuggì un'imprecazione: più tardi sarebbe arrivato l'Orsi e chi sa cosa gli avrebbe detto! In quell'istante gli parve d'udire qualcuno zufolare nel vicolo. Lì per lì non ci fece molto caso, ma il suono persisteva. Si sarebbe detto provenire dalla porta, lasciata aperta in attesa di lei un pò come le finestre nelle case del Ghetto ebraico che, ogni notte, attendevano invitanti l'arrivo del Messia. - Chi può essere a zufolare questo stupido motivo proprio dietro il mio uscio? si chiese. Sporse il capo e la vide appiattita contro il muro, dietro lo stipite. La tirò dentro per un braccio, chiuse la porta con un calcio e la baciò a lungo. - Si può sapere cosa t'è preso, per metterti a zufolare? Angelica inclinò il capo e alzò il mento con quell'atteggiamento sbarazzino che su di lui aveva un efficacissimo effetto erotico: - Nulla! Volevo essere annunciata dalla musica! Ignaro della verifica cui lei invece lo aveva subdolamente sottoposto, Lorenzo sorrise: - E io ti ho scritto un bigliettino d'amore. La ragazza si vergognò profondamente per averlo raggirato: era, infatti, ben conscia di non aver poi provato una gran delusione dalla prova così ottenuta che il visitatore notturno non fosse Lorenzo. Anzi, doveva confessarsi che ne era stata piacevolmente lusingata... al punto che, sentendosi in colpa nei confronti dell'amante, subì un illanguidimento repentino.
Si avvicinò a Lorenzo offrendogli le labbra. - Basta adesso che mi soffochi! - disse dopo qualche tempo - ... fa così caldo oggi! Ero venuta con l'intenzione di... fare un pisolino con te! - mentì poi la spudorata, liberandosi dall'abbraccio per accostare la cesta alla porta, come di consueto quando volevano proteggere la loro intimità. Si spogliò in un baleno e s'insinuò tra i lembi del tendone per distendersi sul giaciglio. Lorenzo, nella fretta d'imitarla, urtò il cavalletto che si rovesciò sul pavimento. Era un tipo troppo metodico e ingenuo per non chinarsi a raddrizzarlo: aveva da tempo collaudato quel modo di lievitare l'erotismo leggendole frasi d'amore e lei invece era già pronta... lo aveva spiazzato, come sempre, saltando d'un balzo il consueto rituale. Arrivò a tentare una timida protesta - Ma... e il mio biglietto d'amore? Un braccio spuntò dalla tenda trascinandolo sul pagliericcio, mentre un voluttuoso mugolio di compiacimento rispondeva alla sua superflua domanda.
- Dunque doveva essere quell'altro... - pensava Angelica correndo verso casa, per quanto glielo consentiva l'ingombrante cesta sul capo. Fortunatamente, il padre ancora non era tornato e Orsolina stava preparando le verdure per il minestrone: sul fuoco, un pentolone pieno d'acqua risuonava nella penombra come un lontano rullio di tamburi. - Tua sorella e io abbiamo faticato per riempirlo: si può sapere dove sei stata per far così tardi? Ti va bene che tuo padre ha pure lui il suo daffare a farsi i fatti suoi... proprio figlia sua devi essere, tu! La ragazza era ormai sulla prima rampa di scale. - Oggi al lavatoio c'era tutta Roma, con questo sole. Ho dovuto far la fila e aspettare il mio turno. Salgo a stendere!
Le fece eco, da basso, un borbottio della madre che si confuse con quello del pentolone. La biancheria pulita era ormai perfettamente asciutta, avendo ato alcuni giorni a aspettare lei nel sottoscala della bottega di Prospero. Angelica la depose nel vano del sottotetto adibito a ripostiglio senza toglierla dal cesto. - Tanto nessuno mai andrà a controllare: la biancheria è affar mio pensava soddisfatta tornando in cucina. Man mano che il tempo ava e la trattoria prendeva il consueto aspetto serale, la fanciulla sentiva crescere l'agitazione dentro di sé: un adulto, un nobile personaggio la corteggiava e aveva detto - a domani - ! Era incredula, incuriosita e emozionata ad un tempo. All'imbrunire s'accorse che, nell'accendere i lumi a olio, la mano che reggeva lo stoppino impregnato di pece infuocata tremava leggermente. Si diede della sciocca, si disse che no, che la notte precedente doveva essersi sbagliata, che forse quel fischio era il vento e che i i avrebbero potuto essere dei birri... Eppure... quel zufolare modulato e il suo nome come in un soffio... era certa non si trattasse di un sogno. E non si poteva levar di mente la domanda: questa notte tornerà? Continuava a ripetersi che ciò non sarebbe accaduto, ma era ben conscia di farlo per sedare l'ansia, quella strana oppressione subito sotto la gola che provava nelle pause del servizio agli sparuti clienti serali, quando alla sua mente si riaffacciava la curiosità di scoprirlo. Si ritirò molto presto, quella sera: - Madre, ve lo preparate voi l'infuso per la notte? Sono molto stanca e salirei a dormire -. Ma, non appena chiusa la porta dietro di sé, nella semioscurità della sua cameretta Angelica ebbe improvvisamente paura. Si allungò sul letto vestita: dalle fessure tra i legni entrava ancora il lieve chiarore dell'imbrunire.
La ragazza poteva sentir le rondini ritardatarie stridere tornando al nido, quasi a far contrappunto alle rauche grida dei gabbiani che sfioravano le acque del fiume con un'ultima planata a caccia d'un boccone sfuggito ad altri. Non conosceva affatto quell'uomo – decise – e dunque non gli avrebbe aperto... sempre ammesso che tornasse. C'era qualcosa in lui di indefinibile, qualcosa che lei non riusciva a mettere a fuoco ma che la preoccupava, non certo perchè le generasse una senso di disturbo ma in quanto gliene sfuggiva la natura. Il suo era quasi un vago timore, sul tipo di quello che aveva provato la domenica del sonnifero al padre e a Prosperino quando s'era trovata davanti al quadro di Michele. Nei brevi istanti che avevano preceduto l'arrivo imprevisto di Lorenzo, Angelica aveva percepito come un insieme di pena e attrazione per il giovane del ritratto, ma c'era qualcosa in lui che la teneva a distanza, quasi nascondesse un segreto, un pericolo da cui avrebbe dovuto guardarsi. E questo era prevalente. Invece il Signor Duca era un gentiluomo affascinante, certamente di educazione superiore... e poi, se anche avesse avuto un segreto, come avrebbe potuto una persona accolta benevolmente in famiglia far del male a una ragazza nella sua casa e... con i genitori che dormivano a un tiro di voce? - Mi limiterò a chiedergli cosa vuole - decise - dopotutto due parole non hanno mai ucciso nessuno!
Da un pezzo i familiari scricchiolii del pavimento le avevano segnalato i consueti preparativi per il sonno dei suoi e il silenzio ormai era totale, ma la fanciulla restava sveglia. - Così intanto comincio a dimostrargli che sono una donna da rispettare e non una bambina che va a dormire con le galline - pensava mentre tendeva le orecchie in ansiosa attesa di udire un qualche segnale dall'esterno. Combatté a lungo con il sonno, attenta al minimo fruscio. Ma pareva che in giro per la città non ci fossero manco più i gatti, numerosi e discreti testimoni dei foschi delitti che si consumavano nella notte romana.
Finchè la stanchezza non sopraffece la tentazione e la ragazza si addormentò d'un sonno profondo e privo di sogni per risvegliarsi con il sorgere del sole, quando già da un pezzo Amilcare, il gallo di casa, s'era stancato di cantare: era ancora interamente vestita come la sera precedente. Angelica ò la mattina in faccende di locanda. Ripulendo le camere degli ospiti, al primo piano della casa, si dava della sciocca: - Ecco, ben ti sta... così impari a montarti la testa! Di quando in quando, la madre dalla cucina udiva sonori colpi, come di un pavimento in legno battuto con violenza da uno zoccolo. In effetti, la ragazza aveva patito la sua prima delusione con gli uomini e ciò l'aveva fortemente indispettita. Si era precocemente illusa sulle intenzioni d'un fantomatico visitatore notturno e non poteva negare d'averci rimediato soltanto una magra figura di fronte a sè stessa. Curò la sofferenza lavorando intensamente e scaricando su tutti i maschi del globo la responsabilità dell'accaduto, in cui si sforzò di vedere un lampante esempio di quanto essi fossero sempre e soltanto inaffidabili fanfaroni. - Anche se Lorenzo, a dire il vero, non mi sembra tale... - aveva commentato tra sè. Poi però prevalse il disappunto e un rabbioso colpo di zoccolo sulle assi di legno segnalò che neppure Lorenzo era stato graziato. S'avvicinava ormai l'ora dei preparativi per il pranzo e mentre terminava il cambio delle lenzuola questi pensieri bellicosi s'accavallavano nella sua mente: erano come neri nuvoloni nel cielo estivo che prepara il temporale. Si rizzò per girarsi e uscire dalla camera, ma lo fece con stizza e precipitazione, senza notare d'aver lasciato aperta la grossa madia che costituiva il pezzo forte dell'arredo. Sbattè con violenza il capo contro la pesante porta, un'unica tavola di massiccio legno di faggio, e il contraccolpo fu tale da mandarla a sedere sul pavimento travolgendo la sedia.
Orsolina, accorsa a quel fracasso con Maria, la trovò che si teneva la testa con le mani e piangeva silenziosamente: la donna si preoccupò, non sapendo che quelle lacrime, nella realtà, erano soprattutto frutto di delusione. Con uno strofinaccio bagnato fissato alla tempia sinistra da una cospicua bendatura, Angelica poté ugualmente adempiere ai doveri di sala, intingendolo di quando in quando in un secchio d'acqua del pozzo che aveva sistemato in cucina. Più tardi, salita in camera sua dopo l'uscita del padre, constatò senza particolare disappunto l'assenza del segnale di Lorenzo: - Decisamente, oggi non era giornata... - commentò, mentre le sue labbra si distendevano in un amaro sorriso. Quella sera, dopo aver cosparso la tempia d'unguento e infilato una grossa cuffia di tela per proteggerlo, s'addormentò non appena posato il capo sul cuscino. Il mattino seguente si svegliò ansiosa di guardarsi nel vaso di vetro che fungeva da specchio per controllare lo stato delle cose, ma già tastando con cautela attraverso il tessuto della cuffia accusò soltanto un lieve indolenzimento. Tranquillizzata, se ne stette ancora un pò a poltrire prima di alzarsi e aprire la finestra, come d'abitudine: infilata tra le due ante degli scuri, una piuma lunga e sottile cadde ai suoi piedi non appena le dischiuse. La ragazza non poté frenare l'emozione: guardava la piuma, rigirandosela tra le mani in silenzio... era così simile a quella che portava il Signor Duca sul cappello! - Sembra quasi - pensò - che mi abbia voluto lasciare un messaggio... chi sa, forse ha fischiato e io non ho neppure sentito tanto dormivo profondamente... Ma poi ricordò la vana attesa della notte precedente e il consiglio dell'erborista: il suo volto divenne paonazzo. - ... Ah, così si sta prendendo gioco di me... il Signor Duca!! Se avesse bussato o chiamato o zufolato avrei di certo sentito, come l'altra notte: mica sarò diventata sorda, per quella bottarella che ho preso! Inviperita, sbriciolò la piuma con lo zoccolo prima di specchiarsi alla brocca di vetro, che le rivelò un gonfiore bluastro là dove la sua tempia aveva incontrato la madia. - Beh... forse è stato meglio così: avevo bisogno di dormire... che vada
all'inferno! Quel pomeriggio Lorenzo ricevette un dono fuori programma e i tormentosi dubbi delle sue ultime settimane svanirono del tutto.
Ma nel cuore della notte seguente qualcuno bussò nuovamente alla finestra di Angelica, che questa volta non era impreparata: aveva deciso che non avrebbe aperto. Il comportamento di quell'uomo le pareva assai sospetto, non certo per via delle sue intenzioni che le sembravano evidenti, ma piuttosto delle ragioni che le avevano ispirate. Era mai possibile – si chiedeva – che un patrizio istruito e navigato si fosse a prima vista invaghito di una ragazza povera che, non avendo manco aperto bocca in sua presenza, per quanto egli ne sapeva sarebbe potuta essere sciocca o infantile? La risposta negativa le parve ovvia. Ma allora cos'altro voleva da lei, oltre alla sua fresca avvenenza? Quel modo troppo spavaldo le scocciava ma... di provvedimenti non ne sapeva prendere. - Ma cosa crede? di continuare a farsi bellamente i propri comodi perché tanto io sto qui ad aspettarlo? Il dispetto era tale da nasconderle perfino la palese analogia con il proprio atteggiamento nei riguardi di Lorenzo. Si stava nuovamente adirando... ma non appena udì i colpi sulle imposte si rizzò di scatto a sedere, in preda all'emozione. Non avrebbe saputo dire se prima stesse dormendo: avevano veramente bussato oppure era un sogno? Tese le orecchie: l'unico rumore era quello dei battiti accelerati del suo cuore.
- No, non è lui - pensò un pò delusa. Ma subito il segnale si ripeté: la fanciulla emise un breve grido soffocato e si gettò giù dal letto, senza badare d'aver scelto il lato sbagliato di quello e cioè dalla parte della madia anziché della finestra. Inconsciamente, si sfilò di fretta la ruvida camicia da notte di sopra il capo, quasi dovesse rivestirsi, poi prese a cercare a tentoni lo scialle che aveva lasciato sulla sedia nell'angolo vicino alla porta. Erano gesti senza una logica... e intanto i colpi erano cessati. - Oddio... se ne va, sciocca che sono! - e nell'affanno si scordò dello scialle e girò alla cieca intorno al letto per raggiungere la finestra. Finalmente potè accostarsi alle ante e, mentre con un orecchio verificava il silenzio della casa, avvicinò la bocca alla fessura per domandare in un sussurro: - C... Chi siete e che cosa volete? - Un uomo che vorrebbe vedervi, Madamigella. - Ma... io non vi conosco, messere: chi siete? - Se aprite gli scuri ve lo dirò. La ragazza non voleva are da ingenua: - Siete il Signor Duca, vero? ho trovato la piuma... - Ma che Duca! Proprio non saprei di chi stiate parlando, Madonna. Angelica rabbrividì, anche per via d'un refolo fresco che dalla fessura tra i legni le carezzò il ventre scoperto. Solo allora, tastandosi il petto alla ricerca dello scialle per combattere il brivido di freddo, s'accorse di stare completamente nuda a conversare con uno sconosciuto che la voleva senza però poterla toccare e nemmeno vedere. Lei invece poteva osservare l'ombra di lui fra le ante delle imposte, sullo sfondo della luna: non le sfuggì l'erotismo della scena e decise di prolungare il gioco.
- No. Io non apro agli sconosciuti. Vi par questa la maniera di svegliare la gente a notte fonda? Se non mi dite chi siete andatevene o chiamo mio padre! Silenzio totale: l'ombra era scomparsa, mentre lei recuperava lo scialle per avvolgervisi sebbene il brivido provato scoprendosi nuda persistesse e avesse ben poco che fare con il freddo. Attese un istante... nulla. - Omioddio! Che se ne sia andato per davvero? - si domandò preoccupata, scostando di poco le ante senza aprirle per poter occhieggiare all'esterno. Udì una breve risatina sommessa e l'ombra ricomparve: - E se fossi invece il Duca... potrei entrare, di grazia? - Non senza una prova: ditemi che cosa avete mangiato in trattoria. - Un'eccellente porzione di arrosto di maiale, cucinato da vostra madre, Madama. E il tono assai sussiegoso consentì alla ragazza d'immaginarselo mentre, malgrado il precario equilibrio sul ramo del rampicante, si toglieva il piumato cappello e s'inchinava con la pomposa formalità che aveva esibito al suo arrivo in locanda. Lei si tappò la bocca per non tradire il riso: cominciava a prenderci gusto e tacque di proposito per qualche istante. - Allora... si può entrare? - chiese Giovanni, un pò spazientito. - Ho detto che avrei aperto, non che vi avrei fatto entrare. - E dunque apritemi, vi supplico, che il ramo scricchiola e non vorrei spezzarmi l'osso del collo. - Ma... e... se vi apro, voi cosa farete? La voce di Angelica era un pò tremula, ma non era timore come lei avrebbe voluto fargli credere. - Starò a contemplare i vostri occhi sotto la luce della luna.
- E... nient'altro? - Nient'altro. Avete la mia parola di nobiluomo. - Non vi credo - ribattè la ragazza fingendo il broncio - chi sa quante donne avrete raggirato, nei vostri viaggi per il mondo... e io sono solo una ragazza povera e indifesa! - Come vi permettete... mettere in dubbio la mia parola! - il tono era severo badate che vi mando i miei padrini... ! - Chi - fece lei prontissima - mio padre e quello scricciolo del vostro accompagnatore? L'idea suscitò l'ilarità di entrambi, tanto che Angelica dovette zittirlo: - Per carità, per carità, Signor Duca... se si sveglia mio padre sono morta! - Se non mi fate entrare, vi giuro che glielo andrò a dire... dopotutto sono un cliente della locanda e voi mi tenete qui fuori... è un trattamento indegno d'una persona di rango come io sono, Madamigella Angelica. Non mi muoverò di qui finchè non mi aprirete! - Questa volta no, ma vi prometto che domani notte vi aprirò... se ora state buono e mi lasciate dormire... oh, Gesù!... mio padre! - mentì poi con voce terrorizzata - Andate via! Una porta ha cigolato e odo dei i! Se mi scopre con voi m'ammazza! Presto, vi scongiuro, sparite!... a domani notte... Soffocando le risa, la giovane indugiò ad ascoltare il violento frusciare dei rami, scossi dalla precipitosa ritirata di Giovanni: si sentiva in totale controllo della situazione e ciò le dava un piacevole senso di benessere. Poi s'infilò sotto le coltri con indosso il solo scialle, dimenticando la camicia da notte abbandonata nella fretta a terra dall'altro lato del letto. Non riuscendo a riprendere sonno, mise a punto il suo piano per il tiro con il quale intendeva burlarsi del Signor Duca per pareggiare definitivamente il conto.
La sera successiva, l'oste e la moglie gradirono assai una squisita tisana cui
Angelica aveva aggiunto un paio di cucchiai della collaudata pozione della vecchia erborista, congratulandosi con sè stessa per averne conservato gli avanzi in un nascondiglio segreto del sottotetto. La luna stava ormai sorgendo quando lei raggiunse finalmente la sua stanza: per tutta la giornata aveva atteso quel momento, quando sarebbe finalmente stata libera di dedicarsi alla propria vita. Si distese sul letto, seguendo attentamente con l'orecchio i movimenti dei genitori e, quando la casa restò silenziosa per un tempo rassicurante, si alzò senza fretta. Con lacci di tela ricavati da vecchie lenzuola legò la gonna a ciascuna coscia sopra il ginocchio, tenendo sollevata la parte restante di quella che stava fra esse e fasciandole, come se portasse i calzoni. Calandosi per il rampicante fino al giardino, riassaporava il gusto perduto delle scappatelle di quand'era bambina, ma con l'eccitante novità di un gioco da adulti da scoprire. La luna piena era alta nel cielo senza nubi. Ai piedi della pianta sciolse i lacci e li nascose dietro la base del tronco. Il pollaio si trovava dall'altro lato dell'orto, cioè sotto la finestrella della camera di Maria, e s'allungava tra il muro della casa e quello di cinta appoggiandosi a una palizzata che divideva il terreno della locanda da una piccola area coltivata e dunqu e disabitata. Angelica si lasciò il pozzo alle spalle e, traversato il giardino, s'introdusse cautamente tra i dormienti pennuti, suscitando sonori borbottii di protesta che la lasciarono indifferente, poichè la stanza dei genitori si trovava dall'altra parte della casa, sulla via....e Maria aveva il sonno di piombo. Accostò la porta e, occhieggiando tra le assi ad assicurarsi della perfetta quiete che le segnalavano le orecchie, si appoggiò soddisfatta allo stipite. Ma, protetto dall'ombra del vecchio fico che protendeva i suoi rami fin sul vicolo, Giovanni aveva seguito non visto le sue manovre. Attese ancora a lungo, prima di muoversi per scavalcare il basso muro con la facilità ormai consentitagli dagli appigli individuati nelle precedenti missioni. Al vederlo affrontare la scalata alla sua finestra, la ragazza provò un tuffo al
cuore, ma poi un sorriso soddisfatto le stirò le labbra: - Eccovi servito, caro Duca, così imparerete a prendervi gioco di me! - mormorò cercando di dominare quello strano nodo alla gola che già conosceva e che ora si ripresentava tentatore, minando suo malgrado l'intenzione di non dar segno di sè e lasciarlo andar via deluso. L'uomo s'arrampicò fino alla finestra per sfregolare un rametto sugli scuri. Dopo qualche tentativo si spazientì e, battendo sul legno con le nocche, implorò: - Angelica! Vi prego, aprite... lasciate ch'io vi guardi, Madonna, ve ne supplico! E continuò su questo tono per qualche minuto, facendosi via via più esplicitamente ardito, confessando la speranza d'un bacio e giurando di averla sognata tra le sue braccia per tutto il giorno. Malgrado la tiepida nottata, la ragazza non poté frenare un leggero tremito e il lieve scricchiolio della porticina, spostata dall'involontario moto della sua mano, confermò all'uomo che le sue parole stavano colpendo nel segno. Allora, con gesto teatrale, appoggiò il volto agli scuri per deporvi un lungo bacio; sospirò profondamente e si staccò, calandosi dal rampicante e dirigendosi al muro di cinta con un'aria stanca e delusa da muovere a pietà un Lanzichenecco. Angelica era alle prese con le proprie contraddizioni, di fronte a un corteggiatore che l'affascinava con quella stessa spavalderia che generava in lei irritazione e ritrosia: ne era attratta e respinta allo stesso tempo. Incerta sul da farsi, era da un lato tentata di uscire allo scoperto e dall'altro decisa a portar fino in fondo la lezione programmata per quel maschio arrogante. Esitazione fatale: il Signor Duca cambiò improvvisamente direzione e con un balzo raggiunse la porta del pollaio. Angelica fu colta alla sprovvista: mentre lei portava la mano alla bocca per soffocare un grido di sorpresa, Giovanni la rinchiuse dall'esterno con il chiavistello di legno. - Madamigella si trova bene in compagnia delle galline? - domandò poi,
beffardo. La ragazza non sapeva che pesci pigliare: come diavolo aveva potuto smascherarla se non spiandola dal vicolo tutto il tempo? A quel pensiero Angelica s'illanguidì. Invece il Signor Duca raccattò da terra il cappello cadutogli nella corsa e finse di allontanarsi voltando le spalle al pollaio. - Potreste mettervi a gridare e chi sa che un gagliardo cavaliere non i per caso di qui e vi venga a liberare... prima dell'alba. - Per pietà, Eccellenza, non andatevene! Non lasciatemi tutta la notte reclusa! Era spaventata all'idea di averlo veramente indispettito a tal punto. Ma l'altro proseguì, senza cambiare il tono di voce: - Pensate che bella scenetta, quando domattina vostro padre vi troverà lì dentro mentre porterà la zuppa alle galline! - Mioddio, no! Ve ne supplico, Signor Duca, liberatemi... farò tutto ciò che vorrete... - Ah no, carina, adesso non basta più: di voi proprio non mi fido... E s'allontanò per raccogliere i lacci prima usati dalla sua prigioniera. Angelica capì allora di esser stata beffata: quell'uomo era stato a spiarla e poi aveva simulato. Arrossì dal furore, si vergognò della propria ingenuità e infine si consolò compiaciuta al pensiero della lunga attesa di Giovanni nel vicolo. Ma era una ben magra rivincita. In quella lui aprì la sgangherata porta con un calcio e la ragazza diede un balzo all'indietro, inciampando in una tavola che reggeva alcune galline addormentate. Esse fuggirono starnazzando in un turbinio di piume mentre lei finiva gambe all'aria nella paglia.
- Shhh, fate attenzione... potreste svegliare vostro padre! - Non c'è pericolo... gli ho dato un sonnifero...- scappò detto alla ragazza. - Ha haaa! ... e così madamigella vorrebbe... giocare, vero? Le porse le mani per aiutarla a rialzarsi e la strinse tra le braccia. Il bacio che seguì fu apionato e lunghissimo. Quando si staccarono per respirare, fu la ragazza a subito cingergli di slancio il collo, riattirandolo a sé per congiungere le bocche in una frenetica ripetizione che la lasciò senza fiato. Attraverso lo stretto contatto dei due corpi sentiva prepotente il desiderio di lui e ne era lusingata: era in intimità con un uomo pienamente adulto, un uomo grande!... e voleva dimostrargli la propria disinibita ionalità di vera donna. Lo esplorò a lungo, ansimando e gemendo fra i baci, fino a implorarlo di...
Appollaiata sullo sperone roccioso, l'antica Rocca di Petrella era muta. A oriente, il cielo ormai incorniciava di un alone perlaceo il profilo dei monti vicini. A ponente invece, il plenilunio volgeva al tramonto e di lontano, fra i campi sui quali i filari di cipressi tratteggiavano di ombre affilate i prati d'argento freschi di rugiada, già il vento portava le note d'un canto contadino. Angelica spostò lo sguardo sulla bellissima fanciulla che sedeva silenziosa di fronte a lei, accomodata sui cuscini che ricoprivano il gradino di pietra sotto la finestra aperta. Beatrice era abbigliata per la notte con una bianca veste di seta lunga fino ai piedi e il plenilunio faceva risplendere i suoi capelli, che le cadevano sciolti sulle spalle. Il vento di settembre carezzava le colline portando fino in casa il profumo dell'autunno incipiente: la baronessina rabbrividì alla fresca folata che l'avvolse. Una foglia di faggio, precocemente dorata, le cadde sul grembo dopo aver a
lungo esitato, roteando intorno a lei come farfalla notturna che si pavoneggia ai pallidi raggi della luna. Dal vicino bosco s'alzò lugubre il richiamo dell'upupa: era domenica ormai, e il lunedì sarebbe stato il giorno del rientro a Roma.
11. Contraddizioni e sensi di colpa
L'estate di Lorenzo era stata una torrida tortura. Ai primi di Agosto un caldo feroce colpì la città, tanto che la gente usciva in strada di prima mattina o all'imbrunire, senza poter peraltro evitare lo spesso polverone sollevato da carri e cavalli che ristagnava a lungo nell'aria immota e gravida di fetidi miasmi. Neppure la sera il famoso venticello romano si faceva sentire in maniera apprezzabile, se non forse lungo il fiume dove la canicola spingeva i più imprudenti a trascorrere la notte malgrado i morsi delle zanzare: alcuni di essi venivano ripescati al mattino dalle guardie, morti stecchiti e spogliati delle loro poche cose da ignoti delinquenti che poi ne avevano gettato i corpi in acqua. L'immenso palazzo nel quale Lorenzo abitava era per gran parte vuoto causa l'assenza dei padroni e molte stanze erano chiuse. Il calore, del quale le spesse mura s'erano presto impregnate, veniva così conservato come in un gigantesco serbatoio, che poi lo rilasciava in parte e lentamente durante la notte, sì da garantire ai pochi rimasti una temperatura costantemente torrida. All'ultimo piano di casa Colonna, subito sotto le grandi soffitte che ospitavano depositi di mobili, abiti, suppellettili e opere d'arte – nonché disgraziati servitori – a Lorenzo pareva di stare in un forno: ogni sera, allungato nudo sul letto con la finestra spalancata, giaceva immobile fino a notte fonda in attesa di prender sonno. Aveva provato a dormire in bottega da Prospero, confidando nella fortunata esposizione che le negava i raggi del sole tutto il giorno, ma era stato un tentativo disastroso. Infatti, non appena aveva aperto la porta era stato accolto da una vampata di calore, accumulatosi negli ultimi due giorni privi di ricambio d'aria per l'assenza sua e dell'Orsi. Il giovane era corso alla finestra che dava sulla via, ma visti gli scarsi risultati aveva fatto lo stesso per aprire quell'altra su nel sottotetto, sul
retro della casa – dove lui esponeva il segnale per Angelica – nella speranza di convogliare un filo d'aria al piano inferiore. Pessima idea: aveva deciso di dimenticarla da pochi giorni, ma il solo gesto di chinarsi a spalancarla gli ricordò il giorno felice nel quale era nata la sua storia con lei... e Lorenzo si sistemò scomodamente sul pianerottolo, fissando il buio dietro al quale si nascondeva la casa dell'amata. A notte fonda si scosse: era rimasto a lungo accovacciato accanto alla finestrella aperta e si sentiva indolenzito, ma di brezza non c'era alcun segno. Si rialzò e cambiò posizione: sapeva che c'erano orti e alberi, sul retro: un vasto spazio libero che arrivava fin quasi alla locanda del Vescovo e dunque, se mai poteva sperare in un pò d'aria, certamente sarebbe arrivata da quella parte. Il giovane era madido di sudore: s'accorse d'essere ancora interamente vestito come quando era giunto alla bottega. Sospirò profondamente, lanciò una languida occhiata fuori dalla finestra quasi potesse scorgere la Locanda con quell'oscurità... e scese a spogliarsi. Ma non appena si stese sul pagliericcio per tentare di prender sonno, si rese conto che tutto sarebbe stato inutile: quel luogo più d'ogni altro gli parlava di lei! Infuriato con la ragazza e sopraffatto dai ricordi si levò e a tentoni cercò la lanterna, inciampandosi ripetutamente nei cocci di Prosperino, cui la latitanza di Angelica aveva concesso di dilagare nuovamente sul pavimento della bottega. Dopo non molto, rivestito alla bell'e meglio, uscì sconfitto per tornarsene a casa. Tuttavia lo scorrere del tempo manifestò presto anche con lui il suo effetto sedativo sulle umane ioni: a metà agosto, la decisione di dimenticarla aveva ceduto il posto a un bellicoso intento di chiederle, al ritorno, il motivo del suo comportamento. E all'inizio di settembre una più propizia inclinazione di Morfeo nei suoi confronti, favorita dal moderarsi della calura, gli consentiva ormai di trascorrere notti meno agitate, tanto che a volte il pensiero di Angelica svaniva quietamente nel sonno. Finché una mattina: - Non appena ritornerà le dirò che capisco la sua situazione:
certo si renderà conto di aver agito ingiustamente nei miei confronti e mi darà spiegazioni senza che io abbia bisogno di far domande - decise, svegliandosi dopo una bella dormita come da tempo non gli capitava. Si sentì con compiacimento uomo maturo. Ma verso la metà d'ottobre non aveva ancora avuto notizie di lei, sebbene i Cenci fossero dovuti rientrare già da tempo. A dispetto dell'impegno e delle sue buone intenzioni era ormai preda dell'ansia e dello sconforto: doveva sapere. Occhieggiando un paio di volte dall'angolo d'una via adiacente, gli era parso di capire che il Palazzo avesse ripreso la vita normale: ma mica poteva starsene lì a spiare tanto a lungo, col movimento che c'era in quel quartiere... e le guardie del Cenci sempre di vedetta. Così una domenica aveva pensato d'invitare l'Orsi in trattoria e, come da lui sperato, Prosperino aveva chiesto notizie di Angelica alla piccola Maria che serviva il loro tavolo. La bambina si guardò intorno circospetta - Mio padre non vuole più che se ne parli con nessuno - sussurrò poi - perché dice che è la vergogna della famiglia... ma voi non gli farete la spia e dunque sappiate che... lei è su che sta dormendo come un ghiro come la scorsa settimana: arriva non appena terminato il servizio da Madamigella Beatrice poco prima di mezzogiorno e dorme fino all'ora di rientrare a palazzo... mio padre dice che se è così stanca è perché la faranno lavorare anche di notte... - concluse con aria stupita prima di scappar via. Pensando malignamente a quale impegnativo lavoro notturno potesse mai essere adibita Angelica, a Lorenzo era andato per storto il vino ma, con suo sollievo, Prospero non aveva collegato l'incidente alle parole di Maria. Nella tarda mattina della domenica successiva Lorenzo si trovava dunque in uno stato d'animo incerto e tormentato. Ma quando svoltò l'angolo dei Giubbonari imboccando vicolo delle Grotte, a pochi i dall'uscio della bottega rimase come fulminato, riconoscendo la sciarpina per capelli di Angelica non appena alzò gli occhi verso la casa. Partì di scatto, come un puledro sonnacchioso al colpo di sprone del cavaliere. Mentre ne scioglieva il nodo un minuscolo foglietto arrotolato cadde ai suoi
piedi. Senza badare all'approssimata grafia – che però provava un sorprendente apprendimento della scrittura da parte di Angelica – lesse l'annuncio della visita con il cuore in gola e, nel brevissimo tempo che impiegò per salire di sopra a esporre il solito straccio e poi ridiscendere, accaddero due cose. Innanzitutto la sua memoria della patita scorrettezza subì un azzeramento pressoché totale, sì che il saggio proponimento di chiederle spiegazioni venne spazzato via da un'ondata di teneri ricordi. E – seconda cosa – fuori di sé dalla gioia ridiscese dabbasso calpestando crudelmente il proprio cappello, che non aveva posato entrando in bottega e gli era stato portato via dalla furia dell'... ascensione! Uscì di bottega come fuggendo dal fuoco e si precipitò a palazzo Colonna. Chiese di essere ricevuto dalla Principessa, ma gli fu risposto che stava pranzando. Allora salì in camera sua e vergò poche righe su un biglietto, che consegnò agli uscieri degli alloggi padronali con la preghiera di recapitarglielo urgentemente. Poco dopo una sorridente dama, elegantissima e dal portamento regale, scendeva lo scalone e gli si avvicinava dicendo: - Che vi succede, Messer Lorenzo? Conoscendo la vostra discrezione, mi sono preoccupata al vostro biglietto, poiché non è vostra abitudine rivolgervi a me se non per questioni di grande importanza! - Principessa... vi chiedo umilmente di autorizzarmi a recidere una rosa del vostro giardino! - proruppe lui d'un fiato. - Ah, di questo dunque si tratta! Il nostro Lorenzo è innamorato! ... Perché è così, non è vero? Il giovane, arrossendo, annuì: - Sapete, questa domenica non c'è mercato e... ho avuto una sorpresa che... spero comprendiate e possiate perdonarmi! - Dio mio, ma certo! Prendetene quante volete... temevo qualche vostro problema di salute ... vi si vede così poco, di questi tempi! - Costanza lo guardò con un sorriso malizioso.
Il rossore sulle guance di Lorenzo si accentuò a quelle parole, non potendo egli deludere la sua generosa ospite spiegandole che, diversamente da come lei pensava, le sue latitanze estive erano dovute al lato oscuro dell'amore, quello che nessuno vede mai se non ci finisce dentro: un pò come l'altra faccia della luna. Il giovane gentiluomo pensò bene di tacere e poggiò a terra un ginocchio per baciarle la mano inanellata. Poi si rialzò per dileguarsi sotto lo sguardo benevolmente compiaciuto di lei.
Per Angelica nulla era più distruttivo dei sensi di colpa. La ragazza era certa che quella visita di Lorenzo in trattoria avesse avuto uno scopo ben preciso: - Pensa che ha pagato lui il conto! - le aveva detto la madre con aria stupita, rafforzandole i sospetti con quello che così le parve un ovvio invito di copertura a Prosperino per poter indagare su di lei. La cosa l'aveva fortemente irritata. - Dunque - aveva pensato - ora sa che sono a Roma e se mi venisse a cercare a palazzo o anche solo a girargli intorno per spiarmi... sarà meglio vada io da lui... Si sentiva in colpa e, non volendo ammetterlo, era tentata di por fine alla loro relazione rompendo subito i rapporti e scomparendo. Come quando la madre la coglieva, bambinetta, a rubare i fichi secchi: correva a nascondersi e non parlava più fino al giorno appresso, scaricando su Orsolina tutta la rabbia provocata dall'essere stata presa con le mani nel sacco. Con Lorenzo si sentiva in colpa perché gli aveva mentito ed era così giunta alla conclusione che per rimediare non poteva che lasciarlo. Dopo aver bussato, Angelica scostò l'uscio di quel poco che le permettesse d'infilare la testa all'interno per dire con voce seria ma incerta - Disturbo? ... Lorenzo suonava il liuto seduto sul pagliericcio e non rispose. Sul tavolaccio vicino alla finestra, la sciarpina color latte cingeva ora una bellissima rosa purpurea che stava ben ritta nel vaso dei pennelli.
Angelica guardò a lungo il fiore fresco, combattendo uno strano senso di languore che la invitava a sedersi sul letto accanto al musicante. Già non era più tanto sicura di come cominciare il discorso: s'era attesa, anzi si era quasi augurata, un'accoglienza per lo meno fredda e invece trovava musica e fiori. Non voleva esser lei a iniziare le ostilità. Sedette in silenzio sul pavimento poggiando un gomito sul materasso, a fianco del giovane che continuava a suonare. Dal canto suo, Lorenzo era alle ultime note della canzone e sapeva che presto avrebbe dovuto dire qualcosa, ma la presenza di Angelica aveva prodotto in lui un parziale blocco dell'attività cerebrale: la memoria lo tradiva e le frasi bellicose, a lungo ripetute nella solitudine estiva, erano d'un tratto ridotte a un groviglio di concetti ammonticchiati, pezzi d'un mosaico senza schema. Posò il liuto e volse il capo a guardare la ragazza negli occhi: Angelica non sorrideva, ma l'espressione del suo volto era dolcemente pensierosa. - Come stai? ... - si chiesero simultaneamente. Risero entrambi, sebbene con un certo imbarazzo rafforzato dal silenzio che seguì. Lorenzo le prese le mani e sollevandosi dal letto l'aiutò a rialzarsi: ora i due giovani si fronteggiavano, ma Angelica aveva abbassato lo sguardo pur trattenendo tra le sue le mani di lui. - Vorrei chiederti perché... - le parole dell'uno si confo ancora con quelle dell'altra che parlò simultaneamente: - Vorrei spiegarti perché... E l'accenno di risata che seguì fu, questa volta, preludio al conforto di un affettuoso abbraccio. Ma nessuno dei due osava prendere l'iniziativa del discorso. Si staccarono di quel poco che occorreva per guardarsi e scambiarsi un incerto sorriso, poi entrambi si rifugiarono nuovamente tra le braccia dell'altro con un sospiro: conoscevano l'argomento che avrebbero dovuto affrontare e ne erano intimiditi in pari misura, sebbene per opposte ragioni.
Lorenzo aveva la bocca sull'orecchio di Angelica: - Se non ti senti di parlarne lasciamo stare... lo farai un'altra volta - sussurrò e non avrebbe saputo dire se era stato per alleviare l'evidente difficoltà dell'amata o se, invece, per evitare a sé stesso una dolorosa conferma ai propri timori. La ragazza rispose emettendo un suono che non era né sbuffo né lamento, pur avendo tuttavia qualcosa di rassegnato, quasi a indicare l'impotenza di lei di fronte a eventi incontrollabili o a sentimenti che non riusciva a esprimere. Lorenzo cercò la sua bocca, ma lei nascose il volto sulla spalla di lui: - Ti devo dire che c'è un altro uomo nella mia vita... - sussurrò d'un fiato. Il ghiaccio era rotto: la confessione e il silenzio di Lorenzo la incoraggiarono. - È un uomo molto diverso da te... - continuò - sai, è uno che quando dice una cosa poi la fa... così a luglio ho dovuto scegliere il male minore... Lorenzo ebbe un guizzo d'ironia - E meno male!... sai cosa mi sarebbe capitato se avesse scelto il male maggiore! - pensò con amarezza senza tuttavia far domande, conscio della fatica di lei per vincere la tensione che sentiva nella sua voce. - Ho cercato di liberarmene ma non ci sono riuscita... - buttò là la ragazza, mentendo: il silenzio del compagno la disturbava. Lorenzo, sebbene confuso da quelle frasi slegate, percepì tuttavia l'imbarazzo angoscioso che le impediva di comunicargli una decisione palesemente già presa. E l'eventualità di perderla si materializzò lasciandolo preda di quell'incubo che aveva per tutta l'estate contrastato con forzata razionalità. La sua mente era congestionata da mille domande che vi s'accalcavano, tutte cercando la via per trasformarsi in parole ma impedendosi l'una con l'altra di materializzarsi in suoni. Come una mandria di buoi che nella stalla in fiamme si ostacolano l'un l'altro, pazzi di terrore, senza trovare l'uscita. - Perché? - fu tutto ciò che gli riuscì di pronunciare.
La giovane tacque a lungo, prima di rispondere: - Mah!... forse... forse è perché ne sono innamorata... non so - balbettò poi. Lui la strinse più forte a sé. Angelica era confusa: - Perché non gli ho detto che amo quell'altro e basta? - si chiese, turbata da quell'affettuosa stretta. Trattenne uno scatto d'ira, delusa dalla propria incapacità di mostrarsi decisa. Ma, per altro verso, l'abbraccio di Lorenzo la confortava con il calore della sicurezza e la invitava ad abbandonarsi per cercarvi sollievo. Non sapendo più che fare ad un tratto, sommessamente, pianse. Lui se ne accorse dal lieve tremore del suo capo, che la ragazza aveva spostato per appoggiare una tempia sulla sua spalla e voltare il viso a nascondere le lacrime. Il gentiluomo le carezzò i capelli: ciò che provava era un'emozione imprevista e nuova che non sapeva come fronteggiare, ma che ebbe il pregio di placare il tumulto dei suoi sentimenti, come olio versato sulle onde del mare in tempesta. Così quando Angelica alzò il volto a guardarlo, tentando impacciata di sorridergli, egli vide le gote rigate di pianto e fu sopraffatto dalla tenerezza che ebbe d'incanto ragione del suo risentimento. Quelle lacrime silenziose che lei aveva cercato di nascondere gliene rivelavano la confusione e l'incertezza di fronte a una scelta che lei s'imponeva senza forse volerla. E fu per Lorenzo come certe folate di vento che a primavera si scatenano improvvise a sgomberare il cielo dalle nubi. Le asciugò le lacrime con le labbra e, poco a poco, l'opera pietosa di queste si convertì in tiepidi baci, che le raccoglievano su una guancia per deporle sulla fronte, sul collo, sulle labbra di lei, insieme alle parole d'amore che confusamente uscivano dalle sue. Angelica ora gemeva debolmente, fremendo fra le sue braccia. - No, no... ti prego - sussurrò in un singhiozzare che ormai si scioglieva in sorrisi - lasciami... è stato soltanto un momento... adesso è ato... Invece Lorenzo cercò la sua bocca e lei rispose raccogliendo da quella di lui il
sapore lievemente salato del proprio pianto, in un lunghissimo bacio che convertì quello in dolcezza e in languore l'angoscia che aveva colmato l'anima sua. Ma quando poi venne spinta gentilmente a distendersi gli resistette con fermezza, dicendo con tono fra dispiaciuto e adirato - Ti prego di capirmi: quando sto con te sto male... quando sto con l'altro sto male... non so più che fare... non posso vivere due vite parallele con due uomini diversi... mica sono una sgualdrina io... anche se qualcuno forse lo pensa davvero... Lorenzo cercò di calmarla: - Se qualcuno lo pensa - e il ricordo degli insulti dell'oste ubriaco nel giorno di Pasqua gli s'affacciò alla mente - non sono certo io... e poi che importa? ... io ti amo per come tu sei. Ma la ragazza si rialzò bruscamente e uscì come una furia per tornare a palazzo. Angelica non aveva preso con sé la rosa, ma il deluso innamorato non pensò a una dimenticanza: per lui, quella fu invece la prova che l'altro aveva accesso alla sua stanza, nella quale sarebbe stato per lei logico e naturale sistemare il fiore. Chi era costui? Un servo di casa Cenci? Un gentiluomo del seguito? Un membro della famiglia? In giro per Roma si sentivano certe cose sul loro conto... Lorenzo non aveva alcun mezzo per svelare l'identità del suo misterioso e più fortunato rivale: pensò a un possibile aiuto della Principessa Costanza, ma si sentì ridicolo. Era solo con il suo dramma: amava una donna che gli preferiva un altro e da quel giorno sarebbe vissuto in un incubo popolato da un fantasma sconosciuto e sfuggente, che egli poteva attaccare soltanto incolpandolo di tutte le stranezze e le sparizioni di lei. Come la domenica successiva, quando la ragazza non si mostrò lasciandolo tutto il pomeriggio ad attenderla in bottega – dopo averlo avvertito d'una sua visita il giorno prima con il solito messaggio nella sciarpa, questa volta nascosta nel paiolo come convenuto. Le angosce che lo assalirono quella notte gl'impedirono di prender sonno, tormentandolo con immagini crudeli di Angelica tra le braccia dell'altro. E lo fecero pentire di non aver saputo accettare subito la realtà che comunque
emergeva dalle confuse parole di lei. Dopotutto era giovane, benestante e di bell'aspetto, oltre che istruito: avrebbe fatto meglio a pescare tra le tante ragazze di buona famiglia in cerca di marito, invece di torturarsi per un'ignorante servetta con la mania dell'indipendenza. E ricordò l'adagio paterno – mogli e buoi dei paesi tuoi – che predicava tra l'altro una prudente astensione da amicizie eterosessuali non rigorosamente esenti da pericolose diversità sociali tra i due soggetti. L'aspirante pittore rifiutava sdegnosamente di seguire quel consiglio, conoscendone l'ovvio riferimento al reddito quale primo criterio di selezione. Nel giro d'un altro paio di settimane senza notizie di lei – e di parecchie nottate insonni – Lorenzo decise di prendere atto della scelta di Angelica: avrebbe tentato di dimenticarla. Ma esattamente due giorni dopo la ragazza ricomparve. Senza preavviso ma ancora di domenica pomeriggio, quasi sapesse che quella decisione del giovane non poteva essere irrevocabile e lei volesse accertarsene verificando a sorpresa che invece di immergersi nella vita di corte a palazzo Colonna lui fosse ancora lì, isolato dal mondo, ad aspettarla nello studio di Prosperino. Questa volta lei aveva pensato di cambiare strategia e di fare il gioco pesante. - A casa ho detto che dovevo rientrare presto a palazzo... - esordì entrando e vedendolo sorpreso; poi continuò sfruttando il vantaggio acquisito: - Sono venuta a dirti che se non ho fatto l'amore con te, nel nostro ultimo incontro, è perché fra noi quello che non funziona è proprio il sesso... ne sono convinta; sai... tu non hai fantasia, a me piacciono i giochi ma tu non li intuisci e poi sei sempre lì a parlare... ti amo, ti amo... mi ami? mi ami? Se invece stessi zitto e t'inventassi qualcosa ogni tanto... così forse anch'io potrei... sì, insomma... ci sarò arrivata un paio volte in tutto... sai che so! Angelica aveva parlato di getto, tutto d'un fiato: e Lorenzo ci rimase di stucco. Nel silenzio glaciale che seguì la ragazza sedette sul pagliericcio accanto a lui e incrociò le mani sul grembo: si rendeva conto di aver forse esagerato... ma aveva bisogno di una scusa per lasciarlo, magari anche una lite... visto che diversamente proprio non ci riusciva.
Il giovane poco dopo si alzò, posò il liuto sul pavimento e, scelto uno straccio dal mucchio accanto alla tavolozza, cominciò una vigorosa operazione di pulizia della cassa. Poi lasciò lo strumento e prese a misurare la stanza a lunghi i strofinandosi lo straccio sul volto, che decorò così con ampie macchie di colore mentre lei lo osservava attonita senza fiatare. Quindi Lorenzo lo ripiegò come fosse un fazzoletto pulito da riporre e lo poggiò senza apparente ragione sulla maniglia dell'uscio, faticando assai per sistemarlo in equilibrio. Sembrava fuori di senno. Era assolutamente sconvolto da quella lista di lamentele che gli parevano insensate: dopo tutto, ogni volta era la mano di lei a cominciare con intime carezze, segnale che egli attendeva con ansia durante le loro effusioni introduttive e che interpretava come indice del gradimento di Angelica per quella parte di lui che ora accusava di non soddisfarla. - Pensavo che tu volessi sempre mantenere l'iniziativa... - riuscì poi a dire, quasi sorpreso di udire la propria voce. - Ma questo non vuol dire che io non mi aspetti le tue... e ti spiacerebbe venirti a sedere? Mi fai girare la testa con quel tuo vagolare avanti e indietro! Lorenzo l'accontentò. - A una donna fa piacere sentire il desiderio dell'uomo esprimersi attraverso la creatività. Insomma... non sempre la stessa, monotona sequenza di gesti! - Sì, sì... capisco, ma... detto così... - A volte le cose si dicono così per sollevare un problema... per cominciare a parlarne... Lorenzo si rianimò: quelle non erano parole che si dicano rompendo un rapporto. - Vorrei vedere un altro far l'amore con una donna che poi sparisce ogni volta senza dire quando tornerà! Per quel che ne so io potrebbe sempre esser l'ultima; altro che essere creativo... c'è da diventar cretino, piuttosto!...
- Ma sono sempre tornata, no? Anche adesso sono qui, come vedi! Lui pensò che a volte la ragazza non temeva di sconfinare nella spudoratezza. - Già, ma sei qui per dirmi che non vuoi più vedermi. Quella era una posizione troppo chiara da assumere, per Angelica, che non confermò senza tuttavia smentire: un'ambiguità disarmante, anche di fronte alla ghiotta occasione che il giovane le aveva offerto con le sue parole. Il suo silenzio incoraggiò Lorenzo: - Io non credo che il nostro sesso non funzioni, anche se posso ammettere che per te non sia il massimo; credo invece che molto presto ci si sia messo di mezzo quell'altro... e a volte ci pensavo mentre noi... - Ma quell'altro... cosa vuoi che sia... c'è e ci sarà sempre ma... - Ma?... - Ma io sono una donna libera, non dimenticarlo! - Se lo sei veramente, non c'è ragione al mondo che t'impedisca di informarmi dei tuoi piani, anziché lasciare ch'io mi roda pensando a cosa o a chi ti possa tenere lontano da me. La ragazza sentiva che la conversazione scivolava su una china pericolosa: stava perdendo il controllo e, mano a mano che essa procedeva, le pareva che Lorenzo acquistasse determinazione e sicurezza. Infatti il giovane proseguì: - Se si è davvero liberi, primo si sa ciò che si vuole nella vita e, secondo, si rispetta anche la libertà altrui; io credo di avertelo dimostrato. Le sue argomentazioni stavano mettendo in difficoltà Angelica: cominciava a subire il fascino della chiarezza concettuale del suo innamorato. Alla sua maniera, tentò un'uscita disperata da quel vicolo cieco: cercando la lite. - Senti chi parla! ... e spiarmi sotto casa Cenci sarebbe rispettare la mia libertà?
- Io non spiavo nessuno - rispose pacatamente Lorenzo - ero lì perché mi avevi fatto credere di essere già partita coi tuoi padroni e osservavo la casa che mi ricordava te. A una donna libera non occorre mentire: si mente quando non lo si è oppure se ci si vergogna delle proprie azioni. Lei era nell'angolo ma non riusciva ad adirarsi: quell'uomo la irritava perché le fungeva da specchio per la parte di sé che la infastidiva, tuttavia non le sfuggiva che la sua lucida analisi rivelava l'impegno ch'egli aveva profuso per comprenderla. E questa prova d'amore, così nuova e sconosciuta per lei, trasformò in languore quella smania di chiudere il rapporto con la quale era entrata in bottega. Evitò lo scontro rimangiandosi l'idea di lasciarlo. Ma doveva assolutamente fargli smettere le vesti del saggio: lo trovava insopportabile. In questo era abilissima: rovesciò la situazione con un vero e proprio colpo di mano. - Che bella voce hai... sarà per quello che mi piace ascoltarti mentre parli! Specialmente se... - sussurrò lasciando in sospeso la frase. Il suo innamorato si girò verso di lei per guardarla e la ragazza lesse nei suoi occhi incredulità e stupore: - Se cosa?... se, come oggi, non ti chiedo di far l'amore? – suggerì lui. - Nooo! Ma ci sono anche altri modi per introdurre il discorso: non so se te ne sei reso conto, ma noi oggi abbiamo amoreggiato. Il tono della tua voce è profondo... quando mi parli così. E, come fosse la cosa più naturale in quelle circostanze, Angelica posò una mano sul ginocchio di lui. Se l'anatema contro le sue prestazioni sessuali aveva sconvolto Lorenzo raggelandogli il cuore, questa mossa repentina glielo fece avvampare. Esitò ad alzarsi, anche perché quel contatto con la mano di Angelica stava procurando un benefico effetto ricostituente... all'oggetto di contestazione.
- Perché non mi canti quello che stavi suonando al mio arrivo? - continuò lei con fare imperturbabile e, trovandosi più vicina di lui allo strumento, allungò un braccio a recuperarlo avendo cura di non spostare però l'altra mano che, anzi, nei movimenti che seguirono per are il liuto al compagno guadagnò vistosamente terreno. Poco dopo, mentre il giovane suonava e cantava, Angelica si occupava teneramente di lui. Finché il liuto dovette tacere anzitempo e... bruscamente.
12. Beatrice e un travestimento... galeotto
Beatrice era stata fortemente irritata dall'iniziativa di Gertrude che, non autorizzata e assai anzitempo, era andata dagli osti per offrire un lavoro ad Angelica. Inoltre la insospettiva molto il fatto che – a sentire la servetta – la donna si fosse presentata alla locanda poco dopo che quel fantomatico Duca Giovanni di Saluzzo aveva vantato con gli osti nientemeno che... l'amicizia con suo padre sco Cenci! Una semplice coincidenza? Le pareva molto strano, dato che la ricerca d'una nuova cameriera era prevista non prima di ottobre: Roma era appena uscita da anni di dura carestia e la miseria vi era tanto diffusa da far pensare che un posto di lavoro come quello sarebbe stato assegnato in un amen. Perché dunque tanta premurosa sollecitudine per lei, Beatrice, da parte della vecchia vipera che notoriamente la odiava? La baronessina aveva subito pensato che sotto ci fosse del losco. Soprattutto c'era di mezzo quel nome del Duca di Saluzzo, che Gertrude aveva usato come biglietto di presentazione con i genitori della ragazza: ciò bastava a Beatrice per convincersi che fra i due ci fosse un nesso. Ma quale?... e come provarlo? Madonna Lucrezia era stata lapidaria: - Mai sentito nominare - aveva decretato. Una veloce verifica su un libro della biblioteca paterna le aveva confermato che Saluzzo era un Marchesato piemontese e non un Ducato: errore commesso sia dalla governante sia dall'amante di Angelica, quasi si fossero messi d'accordo... certo poteva essere un indizio... ma purtroppo le mancava una prova. Di qualunque cosa si trattasse, Beatrice era certa che suo padre non c'entrasse per nulla: figurarsi se parlava con gli amici dei problemi di servitù... che per di più erano affari di Gertrude!
L'enigma l'apionava e le procurava un'avvincente distrazione dal pensiero della sua squallida esistenza, appiattita dal terrore di quell'unica persona che, oltre a lei, aveva libero accesso alla sua stanza. La ragazza aveva dunque deciso di indagare all'insaputa della sua nuova cameriera. Angelica le pareva, infatti, troppo presa da quest'altro uomo per accusarlo di mentire senza averne la prova e lei non voleva mettere a rischio la recente amicizia con la servetta, cui teneva moltissimo. Aveva fatto un timido tentativo ripetendo una cosa già detta, ma senza successo: - Lo sai che il mio precettore dice che la città di Saluzzo non è un Ducato ma un Marchesato? - Malgrado l'ostentata noncuranza era riuscita petulante ugualmente. Angelica si era risentita: - Io non so neppure dove stia Saluzzo... figuratevi se m'interessa conoscere il titolo nobiliare del suo padrone! - e, recuperato il vassoio della prima colazione, se n'era andata con un inchino ma senza l'abituale - vi auguro buon studio, Baronessina! E neppure le fu d'aiuto il fratello Giacomo che conosceva i gentiluomini della piccola corte paterna, ai quali si univa occasionalmente nelle sue rare apparizioni a palazzo: - Mai sentito - era stato il suo lapidario commento. Una volta però la matrigna le aveva detto che Gertrude aveva un figlio già adulto, del quale lei ogni tanto non poteva esimersi dal vantare con orgoglio materno la brillante intelligenza e il fascino ch'egli esercitava sulle donne: costui veniva talvolta a visitarla, ma sempre nottetempo e ando dalla porticina di servizio sul vicolo. Insomma, nessuno lo aveva mai visto né se ne conosceva il nome. Pungolata dalla curiosità e affascinata dalla prospettiva di poter svelare un segreto dell'infida serpe, la ragazza pensò bene di richiedere l'aiuto e l'omertà di Matteo per investigare segretamente... sebbene durante il giorno, per forza di cose. A tale scopo, si prese la briga di trascorrere di tanto in tanto un pò di tempo accartocciata dentro la cassa del montacarichi, che il suo complice bloccava talvolta al piano ammezzato nei pressi della stanza di Gertrude e talaltra calava
invece al piano terra, cioè vicino all'ingresso sul vicolo. Per la baronessina, quelli erano lunghi minuti di vera tortura: la fioritura del suo corpo aveva infatti aggiunto all'aumento di statura un rigoglioso tondeggiare di aree strategiche che le procurava grandi pene, non tanto per entrare nel montacarichi ma soprattutto per restarvici immobile a lungo. L'impresa richiese qualche settimana, dal momento che per usare in gran segreto il loro ascensore erano costretti ad attendere le non frequenti uscite di Madonna Lucrezia e poi perché i due dovevano evitare di destar sospetti tra il personale con lunghe sparizioni simultanee. Ma finalmente, dopo qualche infruttuoso tentativo, Beatrice fu davvero fortunata. Un giorno buio e piovoso d'autunno, durante un'uscita pomeridiana della matrigna, entrò furtivamente negli appartamenti di Lucrezia insieme con Matteo, che faticava a nascondere la consueta emozione per la vicinanza del frutto proibito nella discreta e invitante penombra di quelle grandi stanze. Ma la piccola Cenci era determinata: aveva un compito da svolgere e non lasciava spazio a distrazioni di sorta. Matteo si sarebbe stupito se un pò più di luce gli avesse permesso di osservare le serrate mandibole e lo sguardo determinato di lei, che egli sognava la notte come angelo di dolcezza. Quando le prese la mano per aiutarla ad accomodarsi nell'angusto rifugio, lei ne gradì la stretta più intensa del necessario, ma non lo incoraggiò col ricambiarla: Mandami giù! - si limitò a ordinare. Giunta a piano terra, attese: la cucina era silenziosa e l'oscurità pressoché totale. La sua giovanissima età provvide a compensare il disagio e la ragazza, malgrado l'incomoda posizione, si addormentò cullata dallo scroscio della pioggia sull'acciottolato del vicolo. Fu svegliata dal forte cigolio della porta sulla strada: chi era entrato si scosse un pò alla maniera dei cani, rumorosamente, e sbatté i piedi contro il pavimento.
- Shhh! Fai piano che a quest'ora non voglio farmi sentire dal personale! - fece una voce di donna. Beatrice riconobbe subito il tono aspro della nemica. Istintivamente strinse fra le mani il cavetto per il camlo, quasi a cercare un segno della presenza di Matteo in quell'emozionante momento. - Spostiamoci un pò - continuò Gertrude - è tanto che non ti vedo! Beatrice udì il frusciare dei i e con orrore sentì i listelli del portello scorrevole scricchiolare sotto il peso di qualcuno che vi si appoggiava: la vipera era accanto a lei! - Ecco, qui va bene! - continuò vicinissima la voce - Bello!... bello di mamma tua! Giovanni... figlio mio! Raccontami... hai trovato un lavoro, finalmente? Sai, ho pensato, potrei proporre al Cenci di prenderti come stalliere: quello vecchio è hem... sparito, dopo che lui l'ha fatto frustare a sangue perché il cavallo che gli aveva approntato per andare a Rocca Petrella gli era morto strada facendo. Beatrice era tutt'orecchi: che questo Giovanni fosse proprio quello che cercava? Sarebbe stato così bello che non ci poteva credere. Il suo cuore si era come arrestato. - No. Lo sai che a lavorare qui io non ci verrò mai e poi mai! Quell'uomo non mi piace. E adesso non ho neppure bisogno di soldi: gli affari stanno andando bene, guarda! Il tintinnio di un bel gruzzolo di monete provò anche a Beatrice che le tasche del figlio di Gertrude dovevano esser ben fornite. - Ah! Bravo! Lo sapevo che saresti riuscito a far fortuna, intelligente come sei! Tutte le sere ti ricordo alla Madonna di Loreto, nelle mie preghiere! - Sì madre, infatti non sono venuto a chiedervi denaro, questa volta! Ma ho bisogno del vostro aiuto per vedere Angelica! Il cuore di Beatrice ripartì con un balzo, quasi finendole in bocca: d'accordo, sarebbe potuto trattarsi di un'incredibile catena di combinazioni, ma lei era certa che invece fosse la prova della fondatezza dei suoi sospetti: il Giovanni di Gertrude era proprio quel Giovanni di Angelica... e lei lo aveva smascherato!
Quasi la ragazza si sarebbe messa a gridare per la soddisfazione. Invece si limitò, prudentemente, a mordersi con forza le dita mentre ascoltava il resto del dialogo. - E che cosa ti serve, figlio mio? - La chiave di questa porta. - Mai! Me lo hai già chiesto tante volte e lo sai che non voglio che tu rubi in questa casa: il Cenci mi ammazzerebbe, con tutto quello che mi paga... a sentir lui! - Ma madre, te l'ho detto, ora i soldi ce li ho, non sarebbe più per rubare... - Allora, di grazia, si può sapere che tipo di lavoro fai? - domandò lei insospettita - se non sai manco leggere... dovresti vergognartene! - Beh... ecco vedi... hem... io commercio... - Che genere di commercio? La voce di Gertrude cominciava a denunciare nervosismo e il portello dietro al quale si nascondeva Beatrice scricchiolava paurosamente. - Presento compratori benestanti a importatori di prodotti del nord, sai quelli che ho conosciuto in quel maledetto viaggio fino in Fiandra... mi danno una parte su ogni affare. - So, so... beh sì certo, tu di conoscenze ne hai molte anche qui in città... giura che è vero! Giuralo sulla Madonna Santissima di Loreto! Il figlio non esitò a esaudirla prontamente. - Domani sera i Signori andranno a una festa, sai com'è... ricchi puzzoni!... sono appena tornati dalle vacanze e... mai che lavorino quelli! - il tono di Gertrude era così acido che Beatrice ne ebbe paura. - Ti farò entrare - continuò la donna - e ti consegnerò la chiave poi ti condurrò dalla ragazza... ma non ti tratterrai a lungo e... guai se rubi... intesi?
Il colloquio terminò: Beatrice udì richiudersi la porticina e poi i i della governante che risaliva la scala a chiocciola smoccolando per l'oscurità ad ogni inciampo. Attese un momento per dare il segnale di risalita, ma era così ansiosa di raccontare tutto a Matteo che sbagliò per due volte il codice stabilito e il camlo, di lassù, continuò a suonare per un pezzo da parer d'essere in chiesa alla consacrazione. Per fortuna il ragazzo intuì che qualcosa d'importante era successo e, senza tentare di decifrare quel frenetico tintinnio, iniziò di buona lena l'operazione di recupero. Aprendosi, il portello del montacarichi gli dischiuse una Beatrice raggiante e divertita, sebbene un pò dolorante e... a corto di fiato per via della sacrificata posizione troppo a lungo sostenuta. Il paggio l'aiutò a scendere, prendendole le mani che poi trattenne tra le sue in quanto la padroncina già aveva iniziato il racconto e la sua eccitazione era tale da non farci neppur caso. Si erano seduti per terra accanto al montacarichi, nello spogliatoio della Baronessa Lucrezia, ma senza chiudere le ante che lo nascondevano alla vista, incuranti del rischio che qualcuno dai piani inferiori potesse ascoltare i loro discorsi. Quando si rizzarono Beatrice s'accorse che gli occhi di lui erano bassi. - Che hai? - gli chiese e, in quella, abbassando i propri s'accorse che lui stava osservando le loro mani ancora intrecciate. - Ho avuto tanta paura per voi... - Mio caro, tenero amico - sospirò lei, allungandosi a baciargli rapidamente le labbra - giurami che tu di questa faccenda di Angelica non sai assolutamente nulla! - Perché? L'avete forse nominata? - esalò lui, sognante. E giurò.
Per amor di verità occorre dire che Giovanni aveva solo in parte mentito alla madre, poiché la sua nuova attività si sarebbe senz'altro potuta definire commercio, sebbene di tipo un pò particolare e che proprio nulla aveva che fare con le Fiandre. E neppure con quel colpo di una vita cui lui aspirava da tempo: un furto coi fiocchi in una casa di grandi Signori. Per lo meno... non ancora. Durante l'estate, infatti, egli aveva conosciuto Anna Bianchini, giovanissima prostituta del bordello, di cui era divenuto amante, protettore e – per così dire – socio in affari. Lei gli dava una parte dei suoi guadagni segnalandogli pure allocchi benestanti da spellare barando alle carte o ai dadi, e lui usava il gioco d'azzardo per trovarle clienti. Anna aveva quindici anni e era nativa di Firenze. Con la sorella undicenne, Immacolata, e il fratellino Andrea era da poco giunta a Roma per essere avviata alla professione di cortigiana, che agli occhi della madre Sibilla – ignorante, poverissima e vedova recente – rappresentava la via più sicura perché la figlia maggiore contribuisse a sostentare l'intera famiglia integrando i suoi miserabili guadagni di lavandaia. Purtroppo però per la ragazzina, la sua modesta intelligenza e lo squallido ambiente familiare non le avrebbero consentito d'elevarsi oltre il rango di prostituta di strada e di bettola, svilendo se stessa con gli individui più turpi che molte volte non esitavano a percuoterla invece di pagarla. I Bianchini abitavano accanto al Tevere in un tugurio malandato e maleodorante di via dell'Armata, non lontano dai fasti di Palazzo Farnese – centro del potere spagnolo in città – e dalla chiesa di S. Caterina della Ruota (o di Alessandria). All'arrivo a Roma, con le Bianchini c'era pure la famiglia di Fillide Melandroni – la modella per Santa Caterina, nonché amica e... collega di Anna – che aveva lasciato la Toscana insieme a loro. La madre di Fillide però, a differenza dall'amica Bianchini, sapeva lavorare sui sogni e aveva ato alla figlia questa sua dote, affascinante ma spesso rischiosa. Dunque la donna decise che avrebbe innanzitutto sperimentato di persona la
professione più diffusa tra le donne romane dai quindici anni in su che non fossero brutte, nobili o ricche, e neppure monache o maritate(a parte le numerose eccezioni). Non voleva salti nel buio per la figlia, ma una carriera pianificata da cortigiana di lusso e lei aveva le doti per guidarcela: fantasia e iniziativa. Sognava per lei grandi cose... chi sa, forse sarebbe diventata una delle cortigiane più note di Roma, amante di personaggi di rango come illustri banchieri... e magari, chi sa?... anche una tra le modelle preferite d'un eccelso pittore che ne avrebbe eternato la bellezza, dandole visibilità agli occhi della Roma che contava. Dunque Fillide si dedicò all'adescamento più tardi dell'amica Anna, dopo opportuni corsi d'istruzione e un apprendistato per così dire pilotato dalla mamma: con maggior preparazione tecnico-commerciale, insomma. E centrò in pieno gli obiettivi prestabiliti a differenza dalla Bianchini, cui il fato riservò invece una breve vita di stenti e di squallore. Giovanni aveva notato Anna sulla porta d'una taverna di infimo ordine, che lui visitava di tanto in tanto nelle sue scorribande alla ricerca di facili guadagni. Studiatene brevemente le mosse, l'aveva presentata a un mercante napoletano conosciuto in osteria, che era a Roma per mantenere una devota promessa fatta alla moglie gravemente ammalata. Subito dopo quell'incontro mercenario, le aveva proposto d'istituzionalizzare la collaborazione commerciale, senza però pretendere prestazioni sessuali per sè. Tanto bastò alla fanciulla per considerarlo un vero gentiluomo, in specie a paragone dei ceffi dei quali la meschina doveva sopportare il peso mentre le ansimavano addosso il loro fiato maleodorante. E bastò pure alla madre di lei per far di Giovanni un benefattore, tanto che non gli occorse neppure d'inventarsi fandonie di sorta per guadagnarsi la fiducia dell'intera famiglia. Veniva talvolta invitato a spartire la loro povera cena, cosa assai da lui gradita poiché sovente nebulizzava in poche ore – grazie a malfattori più abili o fortunati di lui – l'ultimo prestito materno, ritrovandosi così da capo senza risorse.
- Ah!!.. ma non se ne profitta mica mai eh! Un vero signore, quel Giovanni! confidò un giorno la madre di Anna a quella di Fillide - un piatto di trippa ogni tanto e poi via... se ne torna agli affari suoi... ed è pure un bel giovane che... non farebbe mica peccato, sai? In effetti il bellimbusto spariva di frequente, ma non tanto per discrezione quanto perché costretto a cambiar aria da qualche sua truffa – un pò troppo gagliarda e non perfettamente riuscita – che aveva sguinzagliato i birri sulle sue tracce. Giovanni divenne amante di Anna solo dopo qualche tempo. Da prudente imprenditore qual era, aveva prima voluto verificare di persona che l'ancor giovane madre gradisse la cultura che lui intendeva trasferire a lei e alla ragazza con lo scopo di assicurare a tutti loro un reddito accettabile; e in specie a lui, per il tempo che avrebbe dedicato a trovare ricchi clienti per le due donne. A garanzia vantava i suoi contatti altolocati, naturalmente. Di fronte a simili prospettive, l'ingenua Signora Bianchini s'era dannata l'anima per compiacerlo malgrado le ossa rotte dalle quotidiane fatiche, fino al giorno in cui l'uomo, visti i risultati non proprio esaltanti, abbandonò i progetti su di lei e ò a istruire la figlia maggiore. - Tanto fra un paio d'anni resterà ancora quella più piccola! - pensava. Per verità di cronaca occorre dire che la Bianchini non ne fece una malattia e fu anzi assai lieta di non dover confessare all'amica Melandroni di aver lei pure ceduto al miraggio del più antico mestiere del mondo: continuò a lavar panni, ma aveva salvato la faccia. Dunque, la notte dopo il successo investigativo di Beatrice, Giovanni si sentiva bene e soddisfatto di sé mentre tornava da sua madre per rivedere Angelica dopo le vacanze dei Cenci: e ben poco gli pesava l'esser stato costretto, la sera precedente, a requisire il magro incasso della squallida giornata di Anna per provare a Gertrude di aver trovato un lavoro. In verità lo rese alla ragazza il giorno seguente -senza mancare di dedurre la propria quota- dicendo d'aver voluto farle uno scherzo e rimediandoci pure una tazza di zuppa di cavoli e ceci fra le risate delle tre donne, visibilmente sollevate.
Tant'è che lo avevano invitato a fermarsi per la notte, cosa che l'uomo aveva di buon grado accettato non avendo fissa dimora per ragioni economiche ma anche -e soprattutto- prudenziali; e malgrado la scomodità di dover dormire sul pagliericcio tra Anna e la sua sorellina, dal momento che mamma Bianchini già si prendeva con sé il piccolo Andrea. Sotto le povere coperte – a Novembre faceva già freddo, la notte – i tre corpi interamente vestiti erano stretti l'uno all'altro e tutti girati sul fianco destro per occupare meno spazio in quel povero giaciglio che di solito ne ospitava due non di grandi dimensioni. Non fu una notte tranquilla, per i tre coinquilini e soprattutto per Immacolatina, o Tina come veniva da tutti chiamata per brevità. La bambina, infatti, era stata dapprima disturbata da Giovanni che s'infilava sotto le coltri dopo una doverosa visita – peraltro scomoda e affrettata per non svegliare il piccolo – al giaciglio della madre, con il lodevole intento di ringraziarla per l'ospitalità. Poi era stata la volta di Anna, che rientrava dopo il turno di notte: il suo arrivo aveva svegliato Giovanni, che s'era dovuto spostare verso Immacolata per farle posto e così s'era svegliata pure la bambina. Non aveva tardato a riaddormentarsi, ma nel cuore della notte una gomitata di Giovanni seguita da un aspro borbottio aveva nuovamente interrotto il suo sonno. L'uomo, che ora le voltava la schiena, stava contrattando con Anna, che come al solito aveva la voce impastata dal vino. - Nooo! Come te lo devo dire che sono stanca morta? Voglio solo dormire! - Ma dai, su... sii buona... una cosa brevissima, diciamo... solo un colpetto... - Sai che bello!... ma lo sai quanti ne ho fatti oggi di colpetti per darti tutti quei soldi? Ancora non ti basta? E poi... mica sei un cliente che devo per forza soddisfare... no, no! Anna a quel punto si volse a dargli la schiena per chiudere la questione, ma innescò una reazione a catena: colpì infatti Giovanni con una violenta gomitata
al basso ventre, di certo involontaria. Lui gemette, la insultò trivialmente e le diede le spalle di scatto urtando il volto di Tina con una manata. La bambina, avvezza a non far storie per così poco, dovette cercarsi uno spazio meno movimentato voltandosi pure lei sul fianco destro. Dopo un pò Anna russava e Giovanni pareva dormire profondamente. Gli ultimi ubriachi avevano da lungo tempo lasciato la bettola sotto di loro, non senza fermarsi a orinare contro il muro della casa fra risa sguaiate e trivialità sbiascicate per via del troppo vino. Il silenzio adesso era completo, non fosse stato per qualche latrato di cane in lontananza e i richiami dei birri di ronda a intervalli regolari. Ma Tina era ben sveglia, anche perché lui le si appoggiava addosso, forse di proposito, forse irriguardoso o forse semplicemente troppo cresciuto per quel giaciglio così densamente popolato. Fu proprio questa inusuale promiscuità, questo stretto contatto col corpo rilassato d'un giovane uomo robusto, che diede alla piccola l'ispirazione per farsi in qualche modo notare da lui e mostrare la propria riconoscenza a questo benefattore che tanto si prodigava per procurare una vita accettabile a tutte loro. Con una cautela che richiese il suo tempo, si rigirò sul fianco sinistro per mettersi comoda: grazie alle esibizioni propedeutiche degli amici maschi sapeva esattamente cosa fare. Scacciò il pensiero di ciò che avrebbe potuto dire sua madre, si fosse mai accorta che lei stava disturbando il sonno d'un ospite così premuroso con la loro famiglia. Per fortuna, lui pareva proprio dormire come un angelo e Immacolatina ebbe così modo di provargli manualmente la propria gratitudine, esercitandosi a piacimento e pregustando con gioia lo stupore delle amiche quando, l'indomani, avrebbe citato dati tecnici tali da far impallidire quei meschini sbruffoni dei loro coetanei maschi.
In verità occorre dire che la bambina era stata intenzionalmente stuzzicata da Giovanni – finitole addosso dopo la lite con Anna – allo scopo di verificare la sua predisposizione per unirsi – non appena in età – alla sorella e formare un piccolo manipolo mercenario agli ordini di lui. Cosa che l'uomo aveva pregustato con compiacimento mentre, fingendo di russare nei momenti critici, concedeva alla piccola di concludere felicemente prima di accoccolarglisi addosso fino a riprender sonno. Dormirono tutta la mattina, ma Giovanni aveva finto di farlo quando, appena fatto giorno, mamma Bianchini tentò di svegliarli prima di uscire per andare al lavatoio. - Ma guarda un pò quei due - aveva borbottato la donna, vista l'inutile insistenza - par quasi siano padre e figlia, tanto lei gli sta attaccata! Mah! Dopotutto l'età ce l'avrebbero... e a me non dispiacerebbe proprio... - alzò gli occhi al soffitto cadente e - Saresti contento anche tu, buonanima... - sospirò segnandosi. Poi, preoccupata da un malizioso sospetto e da un potenziale conflitto d'interessi tra le due sorelle, scosse il capo mestamente e mandò un bacio a Immacolata sulla punta delle dita distrutte dalla liscivia, prima di uscire dalla stamberga. Due sere dopo, protetto dall'oscurità, Giovanni attendeva nel vicolo il segnale convenuto con sua madre per avvicinarsi alla porticina secondaria di palazzo Cenci. - Usala solo a notte fonda, mi raccomando - gli disse Gertrude seriamente, mettendogli in mano la sospirata chiave. Poi lo guidò su per la scala a chiocciola, a quell'ora tarda praticabile grazie alla flebile luce di due torce, una al piano terra accanto al portello del montacarichi e l'altra nel corridoio al primo piano, poco discosta dal suo appartamentino. Angelica aveva infatti una piccola stanza fra quelle del personale, nell'ammezzato. Era l'ultima al fondo del lungo corridoio, subito prima che questo sbucasse sulla scala di servizio che portava, scendendo, all'ingresso principale del palazzo e invece, salendo, ai saloni da ricevimento e agli appartamenti padronali del primo piano.
- La ragazza si è ritirata presto perché i Signori sono fuori - gli sussurrò la madre indicandogliene l'uscio -ma lei dorme qui solo quando il padrone è in città perché quella strega di Beatrice la vuole con sé se lui è assente... e io non ci posso far nulla: la padrona è d'accordo e il Cenci non ficca becco per farsi i fatti suoi. Devi portar pazienza! Giovanni attese che Gertrude si allontanasse, poi girò la maniglia ed entrò senza bussare.
Le donne di casa Cenci erano state tra le prime a lasciare la festa, quella notte. Tutte annoiate e una particolarmente ansiosa di raccontare ad Angelica la sua grande scoperta, avevano concordato di abbandonare sco a sarsela con alcune cortigiane con le quali lui e i suoi amici davano a vedere una grande confidenza; e se n'erano tornate a palazzo. La carrozza procedeva a scossoni, fra le grida degli uomini di scorta per avvertire i rari pedoni di scansarsi e il cocchiere di quale via fosse più sgombra. Le strade erano vuote e buie. Qua e là gli straccioni dormivano a piccoli gruppi, chi sotto l'arco d'un porticato, chi sulla gradinata d'una chiesa o di un monumento, più per evitare d'essere calpestati da cavalieri arroganti che per il freddo ancora tollerabile. Ma talvolta nel centro d'una piazza o all'estremità d'un ponte qualcuno aveva già un fuoco, anche per segnalare la propria presenza ai prepotenti di cui s'è detto. Le torce proiettavano sui marmi bianchi dei palazzi guizzanti fantasmi di cavalli, mentre nel centro città – dove le strade erano più strette – illuminavano i muri chiari delle case con lampi fugaci, che a volte scivolavano sui neri mantelli di bravacci di ronda o disturbavano gente di malaffare che guizzava a nascondersi dietro le colonne d'un portico. In un vicolo largo a stento da consentire il aggio, alcuni giovani musicanti respinti dalla bella cui avevano dedicato madrigali amorosi approfittandosi della reclusione del marito- tiravano sassate alle sue finestre ben chiuse gridacciando lazzi e oscenità al suo indirizzo. Mentre dalle case vicine qualcuno – anonimo e ben nascosto – invocava ad alta voce l'intervento dei birri.
Le tre Cenci erano silenziose, non tanto per la cupa atmosfera di Roma a quell'ora di notte, ma perché il loro pensiero comune era la speranza che sco o non rientrasse del tutto o rientrasse in tal misura ubriaco da non essere in grado di raggiungere autonomamente la stanza di una di loro. E confidavano nella collaborazione delle cortigiane perché fosse pure sfinito e appagato. Antonina, la figlia maggiore, era già da tempo in età da marito, ma le voci sulle turpi abitudini del Cenci circolavano in città, scoraggiando quei giovani che l'avvenenza di lei e la ricchezza del padre avrebbero potuto invogliare a corteggiarla. Lucrezia le aveva detto che sarebbe occorsa una speciale disposizione papale per vincere l'opposizione paterna a concederle una dote, che le avrebbe procurato un regolare marito disposto a chiudere un occhio sul suo infame ato. Le due donne parlottavano a voce bassa: Lucrezia aveva personalmente scritto al papa per implorarlo a favore della figliastra, e un fido amico della Curia le aveva sussurrato – guardandosi intorno circospetto malgrado si trovasse tra le mura di casa nel suo studio privato – che il Santo Padre stesse valutando la cosa con occhio definito caritatevole senza ulteriori dettagli. Raggomitolata in un angolo del sedile imbottito, nell'oscurità della carrozza Beatrice non provava alcun conforto al pensiero di condividere con le altre due donne l'opprimente angoscia di dover subire le violenze di quell'abbietto individuo. Dopotutto Lucrezia se l'era scelto lei e... ne era pur sempre la moglie! Ma Beatrice aveva fortunatamente un buon argomento per cacciare quei tristi pensieri: era troppo ansiosa di vedere Angelica e allo scopo era attesa da Matteo per scendere negli alloggi della servitù, cosa ovviamente a lei proibitissima, in specie a quell'ora di notte. Avrebbe voluto svelare subito alla cameriera la vera identità del suo nuovo amante, ma i preparativi per la festa l'avevano impegnata tutto il giorno senza che lei potesse trovare modo di farlo, malgrado la servetta le ronzasse intorno di frequente nel via vai di sarte e acconciatrici che avevano invaso le sue stanze fin dalle prime ore del mattino. Per il suo animo disturbato di adolescente schiavizzata ma per questo ancor più
ribelle e vendicativa, le falsità del figlio di Gertrude non meritavano alcuna pietà. Di conseguenza l'irresistibile desiderio di smascherarlo era prevalso su una più prudente considerazione per i sentimenti della servetta, come la rabbia per il raggiro da questa subito aveva soffocato il rispetto dovuto alle cause profonde delle sue ambiguità con gli uomini. Beatrice non poteva, insomma, neppure aspettare il mattino per parlargliene: proprio non stava più nella pelle e, se la sfiorava il timore di poter eventualmente invadere la vita intima dell'amica, lo cacciava ripetendosi la raccomandazione di Gertrude al figlio: - Non ti tratterrai a lungo! A quell'ora Giovanni doveva dunque aver già lasciato il palazzo. Matteo era stato pregato di attenderla e di bussare alla porta del suo appartamento non appena la matrigna si fosse coricata. Il giovane paggio, assicuratosi che il personale di camera si fosse ritirato per la notte, durante l'assenza dei padroni aveva nascosto sotto il letto della padroncina – secondo le sue istruzioni – una rossa divisa da paggio da lui smessa tempo prima a causa della vistosa crescita verificatasi negli ultimi due anni. Quello sarebbe stato il travestimento di Beatrice per la loro impresa notturna. Infatti il sonno di Lucrezia avrebbe impedito alla giovinetta di usare il suo cigolante ascensore personale per raggiungere l'ammezzato, costringendola a are per lo scalone principale dove, malgrado la scarsa illuminazione durante la notte, nessuno avrebbe avuto difficoltà a riconoscerla a distanza, se abbigliata come d'abitudine. Giunta nelle sue stanze, la fanciulla licenziò l'uomo di guardia alla porta e si spogliò per infilarsi nei vecchi panni di Matteo: dopo un paio di tentativi falliti, dovette anche rinunciare a tenere indosso la biancheria intima che con la sua abbondanza di pizzi e merletti impediva ai calzoni di superare la curva dei fianchi per arrivarle alla vita. Ciò malgrado, sui glutei li sentiva stretti fin quasi a scoppiare. Ma il maggior problema fu la già pronunciata tensione esercitata dai suoi seni,
che spuntavano sotto la camicia di Matteo come due arance ben sode, sfuggendo un pò impudicamente alla protezione della giacchetta di velluto priva di chiusura sul petto. Quando il paggio bussò in codice alla sua porta, lo fece subito entrare: - Devi darmi il tuo cinturone! - bisbigliò tenendo uniti con la mano i due lembi della giacca - e stai girato! - ordinò. Il ragazzo obbedì senza capire. Beatrice sparì nel suo spogliatoio, dove una lanterna le permetteva di osservarsi in uno specchio d'argento poggiato su un basso mobiletto: l'ampia fascia di cuoio a bandoliera ben copriva il seno destro, ma il suo peso scostava la giacca dall'altra parte, rivelando così il sinistro. Tornò nell'ingresso. Matteo era ancora rivolto con il viso verso la porta, come lei gli aveva intimato. - Dammi il medaglione - gli disse con voce preoccupata. Lui se lo sfilò dal collo e lo ò senza voltarsi alla padroncina, che nuovamente sparì per tornare a specchiarsi: il nastro era largo a sufficienza ma nel centro del petto si sollevava in avanti spinto dai seni, facendo così spenzolare nel vuoto, poco sotto ad essi, il grosso disco in bronzo dorato. La baronessina risolse il guaio con l'aiuto del complice che, autorizzato a finalmente girarsi, da dietro la schiena di lei accorciò il nastro annodandoglielo sul collo, in modo da alzare il medaglione in una posizione più adeguata. Beatrice spiegò allo sbigottito compagno: - Se qualcuno dovesse mai vederci, che almeno io possa sembrare un paggio vero! E s'aggiustò il voluminoso berretto sulla ricercata acconciatura, assicurandosi che nessuna ciocca dei suoi lunghi capelli fe capolino. - Possiamo andare! - concluse soddisfatta. - Un momento! ... mica posso uscire senza il cinturone! Lei lo osservava ridacchiando. Poi con gesto sicuro strappò da una delle tende che fiancheggiavano l'uscio il cordone colorato che la raccoglieva e lo legò dietro al collo di lui: quindi lo
guidò per mano attraverso le stanze deserte fino al suo specchio. - Vuoi vederti? - gli chiese, divertita. Il paggio si osservò e, con un moto di ribellione, si tolse subito la corda di dosso: - Meglio le sanzioni per una livrea in disordine che quelle per furto delle amanerie di casa! - borbottò seguendola verso l'uscita. Aprirono con cautela la pesante porta e Matteo controllò il corridoio con un'occhiata, prima di far cenno alla ragazza di uscire: poi la seguì, richiudendosi quella alle spalle. Una rampa di scale più in basso la galleria era deserta sotto la volta immensa, e ogni suono rimbombava sui marmi delle altissime pareti e sulle enormi vetrate smontabili che davano sul cortile interno per respingere il freddo. Attesero il aggio d'una guardia di ronda al primo piano. Alla luce delle rare torce che illuminavano il loro cammino giù per lo scalone, il ragazzo godette così d'un'inedita visione della padroncina: i suoi vecchi calzoni si fermavano ben sopra le bianche e affusolate caviglie, mentre la parte di essi che Beatrice aveva faticato a far salire oltre i fianchi li stringeva al punto da metter in mostra tutti i dettagli del tondeggiante contenuto. I due scendevano in punta di piedi, per non far rumore. L'andatura un pò ancheggiante della ragazza – non avvezza a piatte scarpette da paggio – costringeva i suoi glutei a contrarsi a ogni gradino, evidenziando la ridicola cortezza dei calzoni in comico contrasto con l'erotica eleganza di quelle mobili rotondità, illuminate ambiguamente dai riflessi delle torce sul rosso velluto della divisa. Se Matteo non fosse stato del tutto rapito dall'estatica contemplazione, avrebbe forse pensato che l'indossare bandoliera e medaglione mai sarebbe bastato a far are quella formosetta creatura per un vero paggio. Soprattutto agli occhi delle guardie. Giunti al piano terra, là dove la scala sfociava nell'imponente androne d'ingresso, Matteo mostrava tre segni di turbamento ben evidenti, tra cui una goccia di sudore sulla fronte e gli occhi lucidi, che però la ragazza non poteva vedere dal
momento che lo precedeva. Invece Beatrice ebbe modo e tempo per accorgersi del terzo. Infatti, in quell'istante sentirono dei i: non vedevano nessuno, ma pensarono a due guardie di ronda e lei temette di venire scoperta. Allungò il braccio a cercare la mano dell'amico e lo trascinò a sistemarsi alle sue spalle, dietro uno spesso tendaggio fortunatamente a tiro e lungo a sufficienza da coprire le scarpe. Lei gli si appoggiò contro per motivi di spazio, ma anche perché – raggelata nel rendersi conto del folle rischio al quale stava esponendo Matteo – desiderava sentirne la vicinanza. Ma la stoffa tesa e sottile che ricopriva le sue forme le consentì pure di sentire qualcos'altro, nel momento in cui quelle premettero contro il ventre di lui: la presenza delle guardie li costringeva alla totale immobilità, cosa che non fu affatto sgradita ai due ragazzi, sebbene almeno uno di loro stesse rischiando la vita. Gli armigeri s'erano infatti arrestati non lontano da loro parlottando a bassa voce di una servetta procace di cui uno elogiava le prestazioni con dovizia di dettagli. Matteo, cui quel contatto con l'oggetto dei suoi sogni era bastato a perdere la testa, non poté trattenersi dall'osare l'impossibile: circondò con le braccia la vita della padroncina e la strinse a sé sospirandole all'orecchio: - Non abbiate timore... Madamigella Beatrice! Madamigella taceva, piacevolmente lusingata, e si guardò bene dal muoversi. Ma quando i due intrusi ripresero il giro di ronda, girò il capo verso il compagno al quale mormorò sospirando: - Senti... lasciamoli allontanare per benino prima di muoverci... ti va? Lui, incoraggiato da quella che correttamente interpretò come prova di gradimento per la stretta, non resse all'impulso di sollevare lievemente la ragazza per esaltare l'aderenza dei loro corpi: senza parlare, lei contrasse i muscoli e tanto bastò perché il terzo segno di turbamento, fino a quel momento innocuo, producesse conseguenze incontenibili. Beatrice, prontissima malgrado
l'emozione, buttò indietro la testa poggiandola sulla spalla del compagno, che soffocò i gemiti affondando la bocca nel suo copricapo. Entrando dopo qualche tempo nell'area del palazzo riservata alla servitù, Matteo s'impadronì d'una torcia, poiché l'illuminazione di quella parte dell'edificio era volutamente carente. Ma con suo grande rammarico dovette, questa volta, precedere Beatrice su per le strette scale – a lei poco note – che portavano agli alloggi dei servi al piano ammezzato. Il focoso innamorato, infatti, aveva in cuor suo pregustato un'ancor più eccitante visione di lei dal basso, di cui – grazie alla torcia – avrebbe potuto godere durante la salita.
- Non hai un lume? - chiese Giovanni ad un tratto, staccando Angelica da sé voglio guardarti -. Dopo una pausa di sonno, i due avevano ripreso ad amoreggiare. La ragazza cercò a tentoni la piccola lanterna che teneva sulla bassa cassettiera accanto al letto: - Bisogna accenderla, però - disse. - Ho visto una torcia in fondo al corridoio - fece l'uomo - m'infilo i calzoni e vado io: non vorrei che tu ti... raffreddassi... hem! Angelica giocò col corpo di lui, fingendo di volerlo trattenere e mugolando protestò che quella era solo una scusa per lasciarla. Giovanni non le badò e si levò per uscire, brandendo il lume che l'amante gli porse. Quando rientrò l'olio ardeva ormai e subito una calda luce si diffuse nella piccola stanza. Poco dopo Beatrice e Matteo fecero capolino in cima alle scale: si trovavano su una specie di balcone illuminato da una fiaccola attaccata al muro. La camera di Angelica era la prima del lungo corridoio, ma il suo ingresso dava su uno stretto aggio cieco che incrociava quello ad angolo retto, a pochi i dal pianerottolo che dava sulle scale.
Lasciato Matteo a controllarle, la sua compagna d'avventura avanzò cautamente nell'antro buio. Sentì quasi subito strani rumori e un suono di voci e s'arrestò. I suoi giovani occhi si abituarono presto all'oscurità, consentendole di accertarsi dell'assenza di altre porte: i suoni provenivano dunque dalla camera di Angelica e Beatrice divenne facile preda d'una irresistibile curiosità. S'avvicinò ancor più, notando che una sottile lama di luce filtrava da sotto la porta. - Dì che sei la mia puttana! - disse in quella brutalmente una voce maschile, cui rispose un mugolio femminile indistinto. - Ah! Così non vuoi dirlo eh? ... bagascia che non sei altro! - aggiunse la stessa voce, e alle orecchie di Beatrice giunse un suono secco, come uno schiocco, cui seguì un mugolio assai più acuto del precedente dal quale capì trattarsi d'una donna. Accostò un occhio alla serratura, per subito pentirsene: sul letto sistemato di traverso contro il muro di fronte alla porta giaceva Angelica nuda e imbavagliata, il corpo legato da pezzi di lenzuola di modo che le gambe ripiegate fossero strettamente avvinte al busto. Le braccia di lei erano, invece, ancorate alla testata del letto per mezzo di altri stracci, di modo che la posizione della ragazza aveva qualcosa di tragico e di ridicolo insieme, con le braccia distese quasi fosse in croce e il corpo che, nella penombra, pareva privo di gambe. L'uomo stava ritto ai piedi del letto, nudo anch'egli, e impugnava una cinta di cuoio che stava riavvolgendo, simile a quella indossata da Beatrice ma assai più stretta. Il viso di lui era in ombra: la turbata fanciulla che spiava la coppia tentò vanamente di individuare i lineamenti del Duca Giovanni di Saluzzo. Costui si avvicinò alla prigioniera dando le spalle a Beatrice e le sciolse il bavaglio dicendo: - Ripeti un pò che non ho capito bene! cos'hai detto? - e il cuoio schioccò, lasciando una traccia scura sulla coscia di Angelica. - Sì, sì... sono la tua puttana! - rispose lei ansimando, dopo un grido soffocato -
farò ciò che vuoi! chiedimi tutto!... Beatrice corse via sconvolta e raggiunse Matteo. Il paggio, vedendola pallidissima e credendola impaurita, propose di assicurarsi anzitutto che nell'androne non ci fosse nessuno e, mentre la ragazza si appoggiava al muro annuendo in silenzio, discese le scale con circospezione. Giunto al piano terra, occhieggiò dall'apertura di quella stessa tenda – poco prima così ospitale – per verificare la presenza delle guardie nell'androne: tutto sembrava tranquillo. Stava quasi volgendosi per tornare da Beatrice, quando un improvviso scrocchiare di dita, proprio dietro di lui, gli raggelò il sangue: Gertrude! Omioddio sono perduto! - pensò. Fuggire? E dove? Ormai lei lo aveva visto. E certamente lo aveva pure riconosciuto, anche da tergo... anche nella penombra. Non poteva sussistere alcun dubbio: Matteo, infatti, era di pelle nera. La governante, avendo creduto di udire un rumore di i nel corridoio, era uscita dalla sua stanza pensando si trattasse del figlio che se ne andava: le ombre create dalla torcia di Matteo erano ben visibili laggiù in fondo, dov'era la stanza di Angelica. - Giovanni non prenderebbe mai una torcia... e poi dovrebbe esser già uscito da un pezzo quel furfante! - aveva pensato. Insospettita, era calata da basso per la scaletta a chiocciola di fronte alle sue stanze, giungendo così nell'androne a piano terra per la via delle cucine. La donna s'era appostata in un angolo oscuro tra la parete e la prima rampa di scale per osservare non vista chi ormai sentiva le stava scendendo. Riconoscendo il giovinetto privo di medaglia e cinturone, Gertrude pensò che quello, contravvenendo le regole, avesse fatto visita a qualche servetta, lasciando lo stanzone che divideva con gli altri paggi all'ultimo piano del palazzo. Matteo, non volendo tradire la presenza di Beatrice, rispose col mutismo alle domande dell'arcigna donna, contando sul fatto che Gertrude non aveva alcun
potere su di lui, paggio di camera al servizio della Signora Baronessa Lucrezia. Ma la perfida – ben conscia di ciò ma confidando nel suo sonno – chiamò le guardie. Di sopra Beatrice, sconvolta dalla scena tra i due amanti, si sentiva svenire e lo avrebbe desiderato ardentemente. - Uomini... tutti eguali... anche Angelica ha uno che la violenta! - pensava, impotente di fronte a quelli che credeva i patimenti dell'amica. In quella udì il trambusto al piano inferiore. Si fece forza e lasciò il confortevole appoggio del muro per avvicinarsi al parapetto delle scale: occhieggiando tra due colonnine, vide con muta disperazione Matteo allontanarsi tra due robusti bravacci, che l'avevano sollevato di peso tenendolo uno per parte da sotto le ascelle. In quella Gertrude si volse e affrontò decisa la scala per salire dove lei si trovava: Beatrice si sentì raggelare. Si guardò intorno, affannata: nella penombra udiva il lugubre suono dei i, cadenzato dai gradini, mentre le torce proiettavano l'ombra sinistra della governante sulla parete di fronte a lei. Le parve la visione d'una strega tra le fiamme del rogo riprodotta su un libro che aveva procurato alla matrigna. La ragazza non sapeva dove nascondersi: - Così impari, brutta stupida, a ficcare il becco nelle faccende altrui! - pensò, mentre la nemica si avvicinava inesorabile. Col cuore in gola, ritornò allora sui suoi i e s'infilò nell'antro cieco dov'era la porta di Angelica: era l'unico rifugio e andò ad acquattarvisi nell'angolo più buio. - Madonna mia! se questo la frusta proprio adesso Gertrude si volterà e... sarò perduta! - il suo cuore pareva volesse impazzire. Per fortuna nessun rumore proveniva dalla stanza: la donna imboccò il corridoio, si fermò un attimo senza neppur voltarsi, tese l'orecchio, poi fece spallucce e proseguì diretta al suo appartamento. Quando la udì chiudere l'uscio la giovinetta si alzò e, con circospezione,
s'affacciò al corridoio sforzandosi di non udire i sospiri di Angelica, che lei interpretò come lamenti per via della tragica mancanza di esperienza personale. Voleva soltanto fuggire: da un momento all'altro sarebbe potuto tornare suo padre e l'imprevista apparizione della serpe le suonava come un tristo segno premonitore. Invece tutto filò liscio anche senza la torcia che Matteo aveva lasciato nell'androne e che ancora vi bruciava, sfrigolando con gran fumo. Risalì lo scalone padronale di corsa, infischiandosene della prudenza. Entrò nel proprio appartamento, serrò la porta con il chiavistello, vi si appoggiò con la schiena, chiuse gli occhi e cercò di riprender fiato con un lungo, lunghissimo sospiro. Il suo primo pensiero fu per il paggio: di certo il ragazzo avrebbe assaggiato dure frustate, quella notte, laggiù nelle prigioni che il padre aveva voluto per rinchiudervi, all'occasione, servi ribelli o vendicativi parenti di vittime dei suoi delitti. Beatrice non dubitava che Matteo non l'avrebbe mai tradita: ma era angosciata dall'impossibilità di salvare l'amico. Scartò l'idea di svegliare la matrigna: sarebbe stato come confessarle la propria complicità e chiunque avrebbe capito che, a quell'ora di notte, una difesa del paggio prigioniero da parte di Lucrezia poteva soltanto significare che qualcuno assai vicino alla padrona fosse al corrente dei fatti e avesse interceduto per lui. In un amen, quella strega di Gertrude sarebbe arrivata a lei e... se suo padre fosse mai venuto a sapere... Con grande rammarico dovette rinunciare: a Lucrezia ne avrebbe parlato l'indomani, dicendo di averlo saputo dalla servitù. Doveva lasciare Matteo al destino che attende un paggio colto in atteggiamento sospetto nel cuore della notte e con la divisa molto, molto in disordine: Beatrice si nascose il volto tra le mani. Ma dopo qualche istante s'accorse di uno strano senso di freddo al gluteo di cui s'è detto, rimasto a contatto d'una larga lama metallica che fissava l'imbottitura della porta alla quale lei ancora s'appoggiava.
Si spostò e si toccò con la mano, incontrando una vasta estensione di nuda pelle: a confermare la fondatezza delle maliziose aspettative di Matteo poc'anzi deluse, la corsa su per le scale aveva prodotto un largo strappo nei calzoni, la cui stoffa troppo tesa non aveva retto alle prorompenti contrazioni dei suoi muscoli posteriori. Beatrice sorrise amaramente: poco prima era stata assai compiaciuta per l'effetto di quelli sull'amico ma... forse ora lui stava subendo le scudisciate dei bravacci. Quanti rischi, quante emozioni e quanta sofferenza per nulla! Tentò di consolarsi al pensiero di poter l'indomani alleviare, con quel divertente imprevisto dei calzoni, il pessimo umore nel quale avrebbe di certo trovato Matteo... sempre ammesso che fosse in condizioni di riprendere servizio... e, soprattutto, senza svelargli che sotto il costume fuori misura lei era – dioneguardi! –assolutamente nuda. Si dava della stupida per averlo coinvolto in una sua sciocca e infruttuosa iniziativa, il cui esito ora le pesava sul cuore. Ormai non sarebbe più valsa la pena rivelare ad Angelica la vera identità di Giovanni, poiché era certa lei fosse ormai in suo potere e, dunque, non avrebbe risolto nulla. Stanchissima, si spogliò e nascose camicia, divisa e berretto da paggio nel suo guardaroba. Ma il sonno faticava ad arrivare, turbata com'era dalla visione dell'amica in balia delle violenze del figlio di Gertrude. Soffriva per la servetta, che credeva quella sera avesse dovuto suo malgrado abdicare alle proclamate ambizioni di libertà nei confronti degli uomini, dal momento che la sua posizione di forzata immobilità le impediva qualsiasi difesa di fronte alle iniziative di lui. Era comunque stupita da un atteggiamento di Angelica che le pareva impossibile la potesse trovare consenziente: cosa le aveva mai fatto, quel bruto, per ridurla così? La sua triste esperienza personale non poteva giustificarlo con altro che non
fosse vessatorio e ciò rinvigorì il suo risentimento verso Giovanni fino a mutarlo in odio, secondo solo a quello che provava per il proprio snaturato genitore... e naturalmente per Gertrude. Vinta dalla frustrazione, sopraffatta dallo sconforto per l'inesorabile assoggettamento nel quale versavano senza scampo le donne dei suoi tempi, la baronessina si abbandonò ad un pianto desolato finché il sonno la vinse quand'era ormai quasi l'alba.
Mai lacrime furono tanto sincere quanto... propiziatrici! Infatti, Matteo se la cavò con una notte in cella e una ramanzina del capoguardia, come gran parte del personale di casa nemico giurato di Gertrude che aveva perseguitato una servetta di cui lui era invaghito fino a farla fuggire da Palazzo. E poi il paggio era benvoluto da tutti, che diamine, e non c'era alcuna ragione per fare uno sgarbo a Madonna Lucrezia, sempre così gentile... povera Signora Baronessa! Inoltre, quel gioco erotico che era stato per Angelica un'eccitante novità s'era da non molto concluso con le sue implorazioni all'amante di restare mentre lui, liberatole un braccio dai lacci dopo essersi rivestito, usciva indifferente dalla stanza prima che fe giorno. Ma purtroppo Beatrice ignorava tutto questo.
13. L'Accademia del Disegno e la Canestra di Frutti di Caravaggio
Come la mitologica araba fenice, l' Accademia Romana del Disegno– detta di San Luca dal nome del Santo Protettore dei pittori – rinacque dalle proprie ceneri il 31 di ottobre del 1593 per volere di papa Clemente VIII, ufficialmente con lo scopo di promuovere le arti figurative e l'architettura soprattutto fra i giovani che dimostrassero un naturale talento. In accordo con le voci che circolavano in città da qualche tempo, Sua Santità aveva affidato l'Accademia all'alto protettorato del Cardinale Federico Borromeo e nominato Principe della stessa il pupillo Federico Zuccari, primo – benché mediocre – pittore di corte e arido seguace della Scuola di Raffaello. Quale inaugurazione ufficiale di un'Associazione ancora priva di sede, non poteva certo mancare una grandiosa cerimonia religiosa che ebbe luogo il 14 di Novembre nella chiesa di Santa Martina. Michelangelo Merisi se ne ritenne esentato, viste la sua scarsa inclinazione al culto e l'antipatia viscerale per gli alti papaveri della pittura. Ma Onorio e Prospero gliene fornirono ampia relazione poiché entrambi presenti, il primo nella sua qualità di membro fondatore dell'Accademia e il secondo quale suo invitato. Il giorno dopo, quindici di Novembre, il tempo era piovoso. I tre pranzarono alla Locanda del Vescovo e Lorenzo, che da qualche tempo appariva un pò depresso, era stato invitato ad unirsi. Fu il Longhi a cominciare il racconto: - Lo Zuccari ha tenuto un discorso assurdo. Le due cose sulle quali ha più che mai insistito sono state l'obbligo per i soci di partecipare a tutte le funzioni religiose organizzate dall'Accademia e l'invito a essere pii, caritatevoli e...virtuosi! - Proprio roba per te! Puoi far conto che non ti ammetteranno mai! - fu il commento dell'Orsi rivolto a Michele. - Sì... oppure mi ammetteranno... per sbattermi subito fuori con l'accusa di
paganesimo pittorico, nel migliore dei casi...! - Avresti dovuto vederlo lo Zuccari... com'era servile nei suoi abiti pomposissimi (per l'occasione vestiva d'azzurro) mentre predicava la castità delle immagini quale prima regola per l'artista... secondo l'esempio di Raffaello, naturalmente! Ma... dico io, lui il ritratto della Fornarina l'ha visto?... quanto mai seducente e maliziosa! D'accordo, allora si era prima della Controriforma, ma insomma... In realtà, infatti, il malcelato proposito papale era quello di utilizzare l'Accademia per condizionare – se non per reprimere – la libertà dell'espressione artistica con il ricatto delle lucrose commesse vaticane per decorazioni di chiese e palazzi curiali. A Roma c'erano più pittori che ciottoli nelle strade e occorreva dunque scremare o la torta da spartire sarebbe stata insufficiente per tutti... anche perché le fila degli aspiranti al titolo di pittore curiale si ingrossavano di giorno in giorno. Ancor prima della cerimonia d'apertura, si era dunque scatenata una vera lotta di potere, una squallida gara fra i soci fondatori a procurarsi posizioni di rilievo per partecipare alla stesura delle regole che avrebbero determinato, con l'ammissione o meno di un artista, le sue possibilità di lavorare per la Chiesa o per gli ordini religiosi. In definitiva, si stabiliva così anche il valore pecuniario delle sue opere sul mercato dei privati. Prospero con tali ambizioni nulla aveva che fare e continuò un pò annoiato: - Il suo discorso era condito di citazioni dal trattato di Monsignor Paleotti... sai, quel tale che vuol mettere all'indice molte immagini sacre non canoniche, facendole cancellare dalle chiese di Roma con... - la sua voce si fece sussurro - la complicità dell'Inquisizione! - So, so... un vero innovatore rivoluzionario! - Comunque... Paleotti di qui, Paleotti di là, il risultato è che di noi architetti manco se n'è parlato: come se il Disegno non ci riguardasse! - interruppe Onorio risentito. Prospero ridacchiò: - Ma dopotutto San Luca è patrono di noi pittori, mica di voi architetti! Beh... almeno adesso sappiamo che per essere ammesso Michele non potrà certo presentare al Principe un'opera delle sue, che so... il Bacchino malato (quell'idiota farebbe un balzo indietro per l'orrore)e ancor meno il Ragazzo con canestra di frutti: quel suo sguardo un pò lascivo e l'atteggiamento vagamente effeminato... caro il mio Caravaggio... ti
manderebbero dritto dritto davanti al tribunale dell'Inquisizione con l'accusa di sodomia! - Embè? Tanto quel quadro se lo è tenuto il D'Arpino e... chi ne sa più nulla? - Sei ancora troppo poco conosciuto perché lui se ne faccia qualcosa: il problema se lo porrà quando tu diventassi famoso... per ora si è limitato a toglierlo dalla circolazione perché vuole impedirtelo... e l'Accademia non è che lo strumento istituzionale per questo tipo di operazioni... ma su vasta scala, capisci? - Ma allora, insomma, cosa intendono fare per i giovani come me? Sembrava grandi cose... Onorio balzò sul tavolo sorprendendo tutti: - Ooh! Se è per questo il Principe è stato prodigo di incoraggiamenti e di consigli: "Vi invito" ha detto, rivolgendosi agli aspiranti allievi "a frequentare le nostre discussioni sulla teoria dell'Arte, sull'importanza del disegno, su come esso vada inteso, sul decoro delle immagini, sul movimento e altre conversazioni virtuose". E ha poi aggiunto che vi sarà anche un pò di tirocinio per insegnar loro a ben disegnare! Bontà Sua... eccellentissimo Signor Principe dell'Accademia del Disegno! Onorio s'inchinò profondamente in segno di deferenza, prima di saltare a terra. Prosperino, guardandosi intorno circospetto nel timore di possibili delatori tra i presenti, pensò bene di troncare la satira a scanso d'orecchie malevole e si rivolse a Michele: - Allora, che ne diresti di presentare solo un bel cesto di fiori o di frutti senza il ragazzo? - Aaahh! Per favore no! Di fiori e di frutti non voglio neppure sentir parlare: il d'Arpino mi ha tolto dalle figure e messo a far fiori e frutti tutto il tempo... una noia mortale. - Già, quell'affarista ci vuol sostituire le mie grottesche, visto che non sono più tanto gradite nei Palazzi Vaticani... e vai un pò a capire perché! Che lo abbia suggerito lui stesso? Mah! - ... e poi, le sue decorazioni floreali sono stupidi vasetti con mazzetti di fiorellini... Li odio! Meno male che di tanto in tanto m'interrompe per farmi
caricare quel suo maledetto carretto... così magari ci rimedio pure un calcio mentre ci attacco il cavallo! Ma che si crede quello?... per la miseria di paga che mi dà! - Suvvia, Michele! I fiori sono un soggetto molto alla moda... ho saputo che anche il Cardinale Federico Borromeo li ama moltissimo: si dice che stia collezionando numerosi lavoretti di quel fiammingo che era qui a Roma nei mesi scorsi, quel... sì... Jan Bruegel se non sbaglio. Mi pare si chiamasse così: li sfornava uno dopo l'altro, tutti uguali e tutti piccoletti come lui... ma sai a quanto li vendeva!... fra i potenti andavano a ruba solo perché l'autore era fiammingo! Ne ho visti numerosi anche a Palazzo Doria quando decoravo la galleria interna, al primo piano... - A me i fiori m'hanno stufato! - lo stroncò Caravaggio. - E dipingi dei frutti, allora! Un mio cliente, un notaio del Vaticano, mi aveva ordinato un pannellino a grottesche, per coprire un vano in una parete del suo studio che non sa come utilizzare, ma poi ha sentito dire che le mie grottesche a Corte non piacciono più gran che e mi ha annullato la commessa... - E tu? - domandarono all'unisono gli altri tre, protendendosi preoccupati. - Eeeh!... io l'avevo già cominciato, che volete... ma non mi pagherà certo per il lavoro fatto... a meno che... a meno che io non gli proponga invece fiori o frutti, visto che sono richiesti: forse potrei spuntare un piccolo aumento di prezzo e dividere il guadagno con Michele... c'è già perfino la tela che avevo iniziato a usare io!... Pensaci, Caravaggio...
Meno di due mesi dopo, in un gelido mattino del nuovo anno Prospero si affrettava verso la sede provvisoria dell'Accademia dove lo attendeva il Longhi. Nevicava a minuscoli fiocchi, che una gelida tramontana faceva turbinare intorno al pittore a ogni angolo di strada, malgrado egli seguisse prudentemente un percorso segmentato, scegliendo ove possibile vicoli orientati ad angolo retto con la direzione del vento così da garantirgli la protezione degli edifici dalle raffiche. L'Orsi aveva una congenita intolleranza per il freddo, che per sua fortuna a
Roma non era quasi mai durevole: ma quei pochi giorni bastavano perché egli cominciasse a osservare preoccupato l'accorciarsi delle giornate fin dai primi cenni di caduta autunnale di foglie. Con suo gran dispiacere, il due gennaio del 1594 era purtroppo uno di quelli. Quando giunse a Piazza Navona si sentì rabbrividire all'idea di attraversarla: Campo de' Fiori – piazza peraltro assai più piccola – era riuscito a evitarlo, facendo un lungo giro che già lo aveva alquanto attardato, ma ora il tempo stringeva e la scorciatoia offerta dall'ampia superficie spazzata dal vento era ahimè l'unica via. Si avviluppò nel mantello e, calcandosi in testa il nero cappello a larga tesa, - Coraggio, buttiamoci! - disse a Lorenzo che lo seguiva e si lanciò a grandi i, quasi avesse dovuto camminare a piedi nudi sulle braci. Sotto l'ascella, con l'altra mano teneva arrotolata quella sua piccola tela con gli abbozzi di grottesche, sulla quale Michele s'era poi deciso a dipingere una splendida canestra di frutti. Quello era, infatti, il fatidico giorno nel quale Federico Zuccari avrebbe giudicato i lavori presentati dai giovani aspiranti allievi dell'Accademia: come il Cristo di Michelangelo nel Giudizio della Cappella Sistina, avrebbe ammesso i meritevoli e respinto tutti gli altri. Il Principe aveva imbastito una solenne cerimonia nella sede temporanea che aveva improvvisato per l'Accademia facendo riadattare un vecchio fienile, dimenticato al tempo in cui qualche ricco signore aveva eretto un palazzo là dove prima sorgeva un cascinale. La grande stanza era illuminata a giorno da torce sulle pareti e il calore che da esse emanava si univa a quello di alcuni grandi bracieri per dare all'ambiente un accettabile tepore malgrado l'alto soffitto a cuspide, unico pezzo rimasto a testimoniare, con i suoi possenti tronchi a vista, l'impiego originario dell'edificio. Lungo le pareti laterali erano state erette gradinate in legno per il pubblico degli invitati, mentre davanti a quella di fondo vi era la tribuna riservata agli ospiti di riguardo, subito dietro al palco con i due troni dorati sistemati l'uno di fronte all'altro: quello per lo Zuccari e quello del Borromeo.
Il palco e la tribuna erano ricoperti da tessuto a strisce bianche e gialle, i colori del papa sebbene non certo i più adatti a reggere l'impatto della fanghiglia di quel giorno. Faceva loro da cappello un immenso baldacchino, una specie di corona dorata appesa al tetto con robuste funi e decorata da decine di grosse candele, dalla quale scendevano teli di tessuto rosso che s'agganciavano alle pareti in modo da non nascondere la tribuna agli occhi del pubblico. L'effetto della composizione era un pò quello d'una grossa torta di compleanno. Quando Prospero e Lorenzo entrarono mancava ancora quasi un'ora all'inizio della cerimonia, ma le gradinate laterali erano già gremite: l'Orsi fu felice di immergersi nel tepore della grande stanza, malgrado il forte brusio della folla di parenti e amici dei candidati. I due s'intrufolarono a fatica fra quelli per avvicinarsi al palco. Poi cominciarono a giungere i membri accademici, che Prosperino indicava al pupillo uno ad uno, senza risparmiarsi qualche commento salace. Il Longhi, attraversando la sala per prender posto nella tribuna riservata, lo vide e gli fece un deciso cenno d'invito a unirsi a lui. Prospero lasciò dunque Lorenzo e tentò d'infilarsi controcorrente nel corteo di invitati che avanzava lentamente verso il palco: era l'unico a vestire semplicemente di nero e la sua mole lo rendeva chiaramente visibile, come uno spaventaeri tra papaveri e fiordalisi in un campo di grano. Lorenzo lo vide schivare l'ingombrante bardatura sotto la quale si celava un cardinale, poi inchinarsi al Cavalier d'Arpino, allungare una mano a toccare confidenzialmente la spalla del fratello di lui Bernardo e, fattosi largo con difficoltà nella variopinta calca, raggiungere finalmente il giovane architetto lombardo. Ormai stavano entrando i membri della nobiltà e dell'alto clero. Lorenzo era stupito dalla ricchezza degli abiti sfoggiati da quei personaggi. Egli veniva informato dell'identità di ognuno dalla gente accanto a lui, che talvolta non si tratteneva da esclamazioni di stupore o da ammirati commenti: -
Guarda quanto oro porta addosso il Cardinale Odoardo Farnese - esclamava uno - Nulla a confronto della spada del Generale Aldobrandini, nipote del papa e capo dell'Esercito pontificio! - rilanciava un altro mentre un vicino gli faceva notare con una gomitata il Marchese Vincenzo Giustiniani, potente banchiere genovese e ciò nonostante dotto umanista. Un mormorio di ammirazione costrinse Lorenzo a voltare il capo verso l'ingresso quando vi apparve la figura elegante della Principessa Costanza Colonna, accompagnata da alcuni familiari: un paggio l'aiutò a liberarsi del mantello nero con bordature d'ermellino e la nobildonna apparve in un lungo abito di velluto rosso scuro -lo stesso colore dei tendoni del lampadario, notò Lorenzo con stupore. Lui la osservò ammirato e orgoglioso, senza sapere che l'abito era stato fatto confezionare da Costanza nella vana speranza che, indossando il colore della loro complicità, Caravaggio l'avrebbe potuta individuare più facilmente. Il brusio cresceva: si preparava l'ingresso dei responsabili dell'Accademia. Dopo i rettori entrò Federico Zuccari, bardato come un cavallo da parata e seguito da uno stuolo di allievi; poi, finalmente, il Cardinale Federico Borromeo chiuse la sfilata accompagnato dai notai in abito da cerimonia così da parer tanti tacchini. I due protagonisti presero posto sui rispettivi seggi fra gli applausi dei convenuti e il Principe si accinse a pronunciare il suo atteso discorso. Lorenzo faticò a seguirne le parole, mentre i suoi occhi vagavano distrattamente sulla scena, così la visione del giovane chierico dall'aspetto annoiato che in un angolo del palco manteneva l'incensorio facendolo lievemente oscillare, gli fece tornare alla mente il pendolante comportamento che Angelica aveva tenuto con lui negli ultimi mesi.
Quel giorno d'ottobre nel quale il liuto di Lorenzo era stato galeotto, la ragazza era poi uscita di bottega in preda a un'incertezza ancora maggiore di quella che, al suo arrivo, l'aveva assalita alla vista del giovane che suonava senza alzare gli occhi verso di lei. Da allora però i sensi di colpa imperversavano nell'animo suo.
La sua doppia relazione d'amore la tormentava con lo spettro della dannazione che l'aveva accompagnata fin dal battesimo e con il senso di vergogna ispiratole dal sospetto che gli ingiuriosi epiteti paterni potessero a questo punto esser fondati. Ne derivava per lei il dramma di una scelta prematura e forse non necessaria, cui però si sentiva sempre più obbligata malgrado le sue incertezze sentimentali s'accrescessero invece di chiarirsi: su tutto gravavano le sue storiche diffidenze verso gli uomini. Non poteva rischiare che l'atteggiamento civile di Lorenzo divenisse indagatorio: si conosceva e sapeva che il rifugiarsi ancora nella menzogna le avrebbe fatto fare la fine del pesce nella rete, che più si dibatte e più vi s'avvolge. Si nascose a palazzo Cenci per le tre settimane successive e poi, non sopportando più oltre la sofferenza, fece un terzo tentativo di lasciarlo. Si era quasi a metà di Novembre e Angelica cercava ormai la rissa. - Ti devo dire che non ci possiamo più vedere - gli aveva detto subito, seduta sul letto, gli occhi bassi, mentre tormentava una con l'altra le mani che teneva sulle ginocchia. Poi, vedendo che il giovane non rompeva il silenzio, continuò: - Sai... quell'altro... gli ho detto di te... e sai che ha detto? beh... ha detto che allora lui accetterà la proposta del Barone Cenci, che gli ha offerto di far parte del suo seguito: così verrà a vivere a palazzo pure lui. Per l'apprendista pittore fu un duro colpo. - E...tu lo accetti? - Mah!... che posso fare? Mica posso impedirgli di lavorare per chi gli pare! - Va bene, ma non vedi che lo fa per controllarti? per impedirti di vedermi? Ma... e la tua libertà... non la rispetta? Lorenzo si stava riprendendo e, poco a poco, l'ira si stava impadronendo di lui. Sbottò: - A me pare che tu stia usando due pesi e due misure! Io non posso
neppure mostrarmi nel raggio di duecento braccia dalla locanda perché è lesivo della tua libertà... io sto qui aspettando che tu mi dica quando potremo rivederci e quell'altro, invece, decide di venire a vivere sotto il tuo stesso tetto – con ciò impedendoti in pratica di incontrarmi – senza che la cosa ti disturbi! - Non ho detto che non mi disturbi... ho solo detto che non posso farci nulla! - Segno che lui fa quel che gli pare e piace, quando vuole, anche perché glielo lasci fare... oppure perché non sei una "donna libera" come pretenderesti di essere... Angelica, a quelle parole, s'irritò fortemente: Lorenzo aveva toccato un nervo scoperto. Era un altro caso da dita nella marmellata: di fronte all'evidenza di una prevaricazione che aveva comunque il suo gradimento, lei rifiutava di ammettere l'una e l'altro prendendosela con Lorenzo, reo di averla messa davanti allo specchio. - Io lascio fare certe cose a lui e lui lascia fare certe cose a me - proclamò con voce alterata, dal momento che l'entrar nel merito di tali "cose" la imbarazzava fortemente. La vaghezza di quella difesa offrì a Lorenzo lo spiraglio per una stoccata: - Ma non di vedere me, e dunque... - Va bene e allora, se la metti così, sarà meglio che la chiudiamo subito! Tanto a Natale non avrò neppure un giorno di vacanza e non ci potremmo comunque vedere. La ragazza schizzò in piedi e se ne andò con una sonora sbattuta di porta.
A Lorenzo parve di udire ancora quel traumatico frastuono e si riscosse: erano invece i battimano che concludevano il discorso del Principe Federico Zuccari, da lui perduto per intero perché troppo assorto nei suoi pensieri. Per sua fortuna! Infatti, il pittore curiale aveva fatto un paternalistico pistolotto, pieno di esortazioni alla purezza di anima e di corpo, di severi richiami alla castità delle
immagini etc. etc.: insomma, la distrazione di Lorenzo gli aveva evitato qualche minuto di profondissima noia. Ora il Principe stava invitando i giovani candidati – che egli definì ben incamminati per distinguerli da quelli (come Michele) che intendevano l'arte quale libera espressione – a presentargli il disegno di lor mano e di lor fantasia, come era scritto nel bando che superfluamente precisava purché fosse a gusto del Signor Principe dell'Accademia senza fornire altre indicazioni. Tutti in fila, in piedi davanti al palco, gli aspiranti erano emozionatissimi. Chiamati per nome, uno alla volta salivano a porgere il loro lavoro allo Zuccari che lo degnava d'una rapida occhiata, prima di mostrarlo al Borromeo e ai notabili della tribuna. Seguiva una breve discussione fra i membri del comitato, le cui conclusioni venivano poi proclamate pubblicamente dal Principe che in qualche caso non poteva esimersi da un commento finale, sbrodolando il più delle volte la solita predica su purezza e castità che evidentemente erano la sua ossessione. Al quinto allievo Lorenzo sbadigliò: il disegno, per quanto egli poteva vedere da lontano, rappresentava un'altra Natività con tanto di stella cometa sopra la grotta. Era già la quinta a venir presentata e ancora neppure – ad esempio – una bella Fuga in Egitto! Magari con un angelo – dalle nude forme più femminili che maschili – tanto sublime nella posa e nel gesto da quasi lasciar percepire la dolcezza della sua musica che accompagna Maria mentre, sfinita, culla il bambinello. I lavori dei candidati gli ricordarono invece la vigilia di Natale quando egli, non resistendo all'idea di are la festa senza notizie di Angelica, aveva giocato una carta ardimentosa prezzolando uno dei ragazzini del rione perché andasse a consegnarle un proprio messaggio.
Il gentiluomo aveva accompagnato l'improvvisato fattorino fino ai bordi della piazza sulla quale sorgeva palazzo Cenci, fermandosi al portico che già gli aveva dato rifugio quando a luglio aveva scoperto per caso che Angelica era ancora in città.
- Ti aspetto qui - gli disse, battendogli confidenzialmente una mano sulla spalla, e si nascose dietro una colonna, badando per scaramanzia a che non fosse la stessa di quella sfortunata occasione. Il ragazzino varcò il nero portone e scomparve, inghiottito dal massiccio edificio. Non ò molto tempo e Lorenzo lo vide riattraversare la piazza di corsa. - Mi hanno chiamato una Signora, una donna severissima... alta e nera... mi guardava come se avessi mangiato suo figlio brrr..! - raccontò in fretta, restituendo la lettera al gentiluomo. - Ma... come? Non hai potuto consegnargliela? - No, perché la Signora mi ha detto che lei non c'è: dice che è già a casa per il Natale e che non rientrerà prima d'un paio di giorni. Sapete, Messere, voleva sapere chi mi mandava, quella là... - con la testa indicò il palazzo - ma io sono stato una tomba... - e lo guardò ammiccando significativamente. Lorenzo non aprì bocca e si avviò per tornare alla bottega: ricordava perfettamente come Angelica gli avesse annunciato di non avere alcun giorno di vacanza in occasione delle festività di fine anno, prima di uscire sbattendo la porta della bottega di Prospero. Il giovane proseguì senza voltarsi e non s'avvide così che da una delle finestre a grata del piano terra, Gertrude li aveva osservati con curiosità mentre scrocchiava le dita. - Se i suoi padroni hanno cambiato idea poteva ben dirmelo - pensò Lorenzo tristemente, prendendo a calci un ciottolo - bastava un bigliettino... invece nulla!... è mai possibile che ogni volta che si decide a informarmi delle sue intenzioni o racconta frottole o accade poi il contrario di quanto ha detto? Mah! Segno che ormai per lei è proprio finita... non l'ho più sentita e dunque... Intanto il bambino protestava, tirandolo per una manica: - Ehi Signore! ... il mio compenso, Signore! - Poi, intascate le monete, corse via fischiettando allegramente.
Una voce stentorea riportò bruscamente Lorenzo alla realtà: - È ora la volta di Messer Michelangelo Merisi da Caravaggio. A quel nome il gentiluomo sobbalzò riprendendosi dallo stordimento dei ricordi, in tempo per vedere Prosperino farsi largo tra la folla degli invitati sulla tribuna d'onore e dirigersi verso il palco. Forse attratto da un movimento tra il pubblico, Lorenzo diede uno sguardo alla tribuna e notò subito la sua Principessa protendersi in avanti fra due personaggi che stavano sul gradino inferiore. Mentre seguiva con gli occhi i i dell'Orsi il volto di lei era teso per l'attenzione e a Lorenzo parve lievemente arrossato: - Sarà il riflesso del tendone, con tutte queste torce e candele! - pensò. L'amico pittore salì sul palco, s'inchinò davanti al Borromeo e poi, voltatosi verso il Principe, gli porse il telo arrotolato della Canestra di frutti spiegando i seri motivi di salute che avevano impedito a Michele di presenziare personalmente, malgrado <egli ci tenesse moltissimo, al punto che ho dovuto minacciarlo per costringerlo a letto!> In realtà, ricordava Lorenzo, era stato invece Caravaggio stesso a pregare l'amico di fronteggiare per lui le prevedibili critiche degli Accademici: - Io a quegli illustri ignoranti risponderei per le rime perché non li sopporto proprio; e brucerei così le mie già minime possibilità di ammissione - aveva candidamente confessato. Zuccari sciolse i nastri che avvolgevano il quadro e lo distese con le mani. - Per tutti i Santi del Paradiso! Ma... ma questo è un dipinto e non un disegno come da noi richiesto! - esclamò scandalizzato, guardando il Cardinale e poi Prosperino che replicò: - Illustrissimo Signor Principe dell'Accademia, mi permetto di umilmente pregarvi d'aver la bontà di graziosamente perdonare il Merisi perché, vedete... il fatto è che egli ha già studiato a lungo l'arte del disegno nel milanese, sua terra natale, presso la bottega di un certo Peterzano... sapete... un allievo del grande Tiziano... All'udire il nome del Maestro di Michele il Borromeo, che ben lo conosceva, non poté trattenere un moto di apprezzamento.
Zuccari se ne avvide con la coda dell'occhio e parlò con sufficienza: - Conosco... conosco... tuttavia... voi capite che non possiamo fare eccezioni... le regole sono regole e vanno rispettate! Lorenzo alzò gli occhi e vide Costanza aggrottare la fronte. Il Cardinale, seduto sul suo scranno in atteggiamento pensoso, il mento appoggiato su una mano, taceva osservando il quadro con grande attenzione. - Farei notare con il vostro permesso - concluse l'Orsi con tono piatto - che il lavoro di pittura mi pare dimostri una grande valentia nel disegno... ma comprendo certo il vostro punto di vista e accetterò di buon grado le vostre sagge decisioni. Visto l'atteggiamento dell'insigne Protettore dell'Accademia, che gli pareva perplesso, lo Zuccari decise allora di coinvolgere gli altri illustri membri e si rivolse alla tribuna brandendo la tela e muovendo qualche o affinché tutti la potessero vedere: gli accademici rimasero ammutoliti e il silenzio si fece assoluto. La Principessa Costanza fortunatamente s'accorse subito di aver spalancato la bocca per la meraviglia e la coprì con una mano inanellata, guardandosi intorno imbarazzata. In quella, dalla prima fila degli ospiti di riguardo si staccò un personaggio elegante che alcuni tra la folla non tardarono a riconoscere come il Cardinale di Borbone, sco Maria Del Monte di Santa Maria, ambasciatore a Roma del Granduca di Toscana Ferdinando de' Medici. Il Del Monte si avvicinò con decisione allo Zuccari, studiò per un attimo l'illuminazione e poi garbatamente lo invitò a spostare d'un poco la Canestra di frutti verso il pubblico, per poter meglio guardarla alla luce delle candele che decoravano il baldacchino, dopo aver inforcato sul naso gli occhiali estratti con precauzione da una preziosa custodia. Senza toccare la tela indicò annuendo l'ombra dell'aggetto creata dalla sporgenza del cesto rispetto al piano d'appoggio; poi si portò l'indice alla fronte, nel gesto usato per indicare qualcosa di geniale.
Un mormorio di stupore salì dalle gradinate ai due lati della sala e nessuno avrebbe potuto dire se a provocarlo fosse stato il capolavoro di Michele o la meraviglia scientifica sfoggiata dal potente prelato. Questi si rivolse poi al Borromeo protrudendo il mento in avanti per piegare verso il basso gli angoli della bocca ad esprimere ammirazione, mentre gli faceva notare con la mano i segni del tempo sulle foglie apite e sulla mela bacata: se da un lato l'aggetto dava tridimensionalità al quadro, dall'altro Caravaggio era riuscito a raccontare una storia introducendo il tempo quale... quarta dimensione! E tutto ciò con un modestissimo cesto di frutti! Poi il Del Monte calzò il suo voluminoso cappello per subito cavarselo con un inchino dinanzi al quadro; quindi s'avviò a riprendere il suo posto tra gli invitati. Lo Zuccari era rimasto imibile: gli era ben nota la dotta rivalità tra i due porporati, entrambi insigni umanisti e fini intenditori di pittura e, dunque, non voleva da un lato contrariare l'ambasciatore di Casa Medici né confutare dall'altro il parere del Protettore dell'Accademia, suo unico e diretto superiore. E poi c'era fra i due anche un'altra e ben più seria contrapposizione di genere politico, per non farlo. Infatti, se il primo era imparentato con il Re di Francia, del secondo erano invece note le neppur troppo sfumate simpatie politiche per la Spagna, ben consolidate fin dal tempo del suo zio Carlo, ormai assurto alla gloria dei Santi: dionescampi dal sollevare un vespaio internazionale per così poco! Il Signor Principe, quindi, girò con diplomatica abilità la questione ai membri accademici che subito si divisero in due partiti: i contrari all'ammissione di Caravaggio, fra i quali il più sembrava Giuseppe Cesari, e i favorevoli, capeggiati dal Longhi e da Orazio Gentileschi. La dotta diatriba sconfinò ben presto nella rissa verbale, finché il Cardinale Borromeo, che fino a quel momento non aveva mosso muscolo, corrugò le sopracciglia ammiccando allo Zuccari il quale, rivolto a Prosperino, proclamò: - L'assemblea ha decretato che l'opera di Messer Michelangelo Merisi non è idonea a consentirci la sua ammissione. Il candidato potrà ripresentare domanda in futuro, se darà prova di maggiore umiltà attenendosi ai canoni stabiliti dall'Accademia secondo il gradimento e le raccomandazioni del Pontefice. Nel frattempo – e fece cenno a uno dei due paggi ritti ai lati del suo trono – sarà
nostra cura conservare il dipinto, quale grazioso dono del candidato alla rinata Accademia -. E intanto arrotolava celermente la tela. Lorenzo, che seguiva senza perdere una sillaba, dovette trattenersi: guardò Costanza e notò l'espressione di stupore nel suo bel volto, mentre sgranava gli occhi. Pur senza essere in grado di sospettare che la partigianeria di lei non fosse dovuta a semplice amor di giustizia, sarebbe corso ad abbracciarla. - Ma come! - pensò - filibustiere che non sei altro, vorresti accaparrarti un simile gioiello senza spendere un soldo, vero? Michele lo ha prodotto con sacrificio, lavorando anche di notte al lume di candela e senza avere un committente... e tu... brutto ladrone! Anche l'Orsi non poté frenare un commento risentito: - Ah, questo no! proruppe, ma subito si corresse e con un rispettoso inchino proseguì: - Illustrissimo Signor Principe, vi prego di comprendere che non mi è possibile lasciarlo senza il consenso dell'autore! - Come vi permettete!? - esclamò Federico Zuccari con sincero stupore, mentre dal pubblico si alzava un divertito brusio di partecipazione. Ma il Borromeo intervenne sollevando una mano: - È giusto, Signor Principe: il lavoro non accettato deve venir restituito al candidato! - Lorenzo si congratulò mentalmente con il suo prestigioso conterraneo e protettore per la ferma onestà dimostrata, poi girò ancora gli occhi verso la Principessa e la vide sorridere compiaciuta al suo indirizzo. Il giovane non poteva sospettare che Federico, eccellente umanista di certo ma ancor più accorto uomo d'affari, aveva di proposito lasciato decadere la candidatura di Michele a evitare che quel piccolo, sublime capolavoro acquistasse valore commerciale. Fin dalla prima occhiata infatti, egli aveva concepito l'idea di portarselo a Milano, dove avrebbe fatto ritorno non appena ottenuta dal papa l'assegnazione di quella sospirata Diocesi Vescovile, ormai quasi un'esclusiva della sua famiglia.
E, aveva deciso, non ci sarebbe stato nessun Cardinal Del Monte che potesse carpirglielo...e neppure – tantomeno – la stessa Accademia Romana del Disegno!
Evidentemente Lorenzo non era l'unico ad annoiarsi: a mano a mano che lo sparuto gruppetto dei candidati rimasti si assottigliava, l'attenzione del pubblico cedeva alla noia. La cerimonia volgeva al termine e alcuni già si preparavano a uscire. Lorenzo aveva notato una giovane gentildonna, nella prima fila delle gradinate di fronte alla sua: riccamente vestita, non era bella ma il portamento elegante senza alterigia la rendeva attraente, forse per via della bocca ben disegnata e degli occhi nerissimi e intelligenti che teneva costantemente in moto. Costei aveva da poco estratto da qualche anfratto del suo abito un ricercato indumento di lana di pecora nera, una specie di manicotto ricavato da una striscia di pelle dell'animale: vi aveva infilato le mani guantate per proteggerle dal freddo e le teneva sullo stomaco, alla maniera in cui i frati a volte proteggono le loro con le larghe maniche del saio. Improvvisamente la voce del Principe tuonò per sovrastare quelle dei presenti: - Signori... Vi prego!! La cerimonia non è ancora terminata e siete tutti invitati a mantenere il massimo silenzio -. Il brusio cessò di colpo. - Ora - continuò lo Zuccari - verrà celebrata una Santa Messa sulle reliquie di San Luca, per speciale concessione di Sua Santità - e fece un cenno severo al chierico con l'incensorio che, accortosi d'averlo quasi lasciato nuovamente spegnere perché distratto dalla disputa appena conclusa, riprese a farlo oscillare di gran lena. A quelle parole, Lorenzo vide la gentildonna alzare gli occhi al soffitto accennando un lieve gonfiar le gote e poi, mentre la bocca le si schiudeva per la contrarietà, lasciar cadere mollemente le braccia fino a portare il manicotto ben sotto l'ombelico. Alla vista di quel grazioso ciuffo scuro sistemato senza malizia in posizione strategica, la nostalgia di Angelica lo sopraffece e, forse anche per via del forte odore d'incenso che fin da piccolo gli aveva dato grande fastidio, Lorenzo si
sentì mancare. Gli occhi dei presenti seguivano attentamente un secondo chierico avvicinarsi al palco, reggendo con le mani un'urna di cristallo decorata d'argento e d'oro nella quale si poteva indovinare un orecchio umano alquanto annerito; il coro, nascosto dietro la tribuna, aveva intonato un soporifero canto di Palestrina. Grazie al tempismo del malore Lorenzo si perse la raccapricciante visione dell'orecchio, per la quale invece tutti o quasi sgomitavano e si sporgevano in avanti appoggiandosi alle spalle di quelli che occupavano la fila sottostante, a rischio di provocare un disastro. Sorretto da un caritatevole vicino – forse pure lui desideroso di filarsela – il giovane si fece strada nella calca che per lo meno gl'impediva di cadere, fino a raggiungere la zona delle tribune più vicina all'ingresso: era totalmente vuota, poiché il pubblico degli invitati si era compresso come un gregge in direzione del palco degli officianti, non tanto per devozione quanto per gusto del macabro. Lorenzo non poté chiedersi il motivo di quella gradita manovra che gli dava fiato, perché l'improvvisa assenza di ressa gli fece mancare il sostegno: dovette appoggiarsi al braccio dello sconosciuto compagno per raggiungere a fatica la porta e uscire barcollando. Il turbinio di fiocchi e la gelida sferzata di tramontana gli fecero bene: s'infilò i guanti, si avvolse nel mantello e calzò il cappello, dirigendosi poi verso casa. Non se la sentiva di andare in bottega: avrebbe potuto trovarci Michele e aveva bisogno di star solo.
Erano soltanto due giorni che aveva deciso di non più pensare ad Angelica e quella mattina all'Accademia già aveva ceduto più volte: - Vabbè - pensò per giustificarsi - quei barbogi mi ci hanno costretto per non morire di noia e poi... quella donna col suo pelo di pecora... accidenti a lei! - Ma si rendeva conto di cercare scuse. Il fatto era che gli bruciava ancora la beffa di Capodanno, come l'aveva denominata: l'ultimo, crudele tiro di Angelica era cosa di poche ore prima.
La mattina del 31 dicembre, infatti, Lorenzo aveva con gioia trovato nel solito pentolone – che frugava inutilmente ogni giorno – un messaggio di lei: "Auguri felice anno nuovo! Lavoro tutto il tempo... baci". Il giovane era andato su tutte le furie. - Anche gli auguri mi fa, adesso! Sai quanto me ne importa! È un mese che non si fa viva e adesso salta fuori con gli auguri... per me se li può anche tenere. E pure i baci! Si prenda gioco di qualcun altro, ecco! - e il minuscolo pezzo di stoffa aveva subito fatto una fine ingloriosa nel mucchio di spazzatura più vicino. Era quasi l'ora del pranzo e Lorenzo, inviperito, aveva a quel punto deciso di offrirsi un pasto in trattoria: - Quella è capace di raccontarmi di essere a Palazzo e magari se ne sta bella bella in locanda come a Natale! - aveva pensato - meglio controllare, questa volta... tanto per non aver rimpianti! Si rendeva conto del rischio che correva nel caso l'avesse colta in fallo, ma voleva vederci chiaro: ormai non aveva più nulla da perdere. - Così impara a tormentare chi l'ha sempre rispettata! - aveva concluso fra sé, aprendo con decisione l'uscio della Locanda del Vescovo. Di Angelica, nella sala da pranzo non c'era traccia e la piccola Maria lo serviva a tavola. Attese di aver terminato la prima portata, poi - E allora tua sorella lavora sempre, anche durante le feste? - le domandò a bassa voce con aria complice. - Oh no, Messere, adesso è su che dorme. Maria gli mise davanti un piatto di stufato di coniglio che mandava un profumo delizioso. - Ah, davvero? E che... ha di nuovo "lavorato" tutta la notte? Il giovane si pentì subito di aver ceduto a un acido e sprezzante impulso, ma per inadeguatezza anagrafica Maria non poté afferrare il maligno sottinteso e invece buttò l'occhio per assicurarsi che il padre non la udisse.
- Non credo proprio... vedete, il fatto è che più tardi deve rientrare dai Cenci perché questa sera i Signori saranno fuori e nelle scuderie ci sarà gran festa di tutto il personale del Palazzo: ha detto che non rientrerà prima di domattina! E Maria se ne tornò in cucina, ignara di avergli svelato un'altra frottola della sorella. Per poco Lorenzo non si soffocò con l'osso di coniglio che stava rosicchiando, più per darsi un contegno che per reale appetito. - Ah! Ecco perché mi ha detto che se ne starà tutto il tempo a palazzo - pensò altro che lavorare!... - e lo stomaco gli si chiuse definitivamente: l'osso si piantò di traverso. L'aspirante pittore si sentì avvampare di rabbia alla quasi certezza che "quell'altro" fosse ormai in casa Cenci: l'osso non ne voleva più sapere di venir fuori con le buone maniere e il volto di Lorenzo si fece paonazzo. Per fortuna l'oste era occupatissimo e non aveva notato il suo turbamento, così il giovane poté ugualmente completare la delicata operazione aiutandosi con le dita. Tirò il fiato. Si sentiva sfinito, aveva freddo ma sudava e faticava a respirare. Doveva assolutamente uscire dalla Locanda ma non voleva offendere Orsolina lasciando il pasto nel piatto, né tanto meno lasciare traccia di un'inappetenza che avrebbe potuto rivelare il suo stato d'animo se fosse giunta alle attente orecchie di Angelica. Quella era una soddisfazione che proprio non voleva darle. Con cautela, sfruttando la posizione favorevole del tavolo che era il solito in fondo alla stanza, fece scivolare la porzione di coniglio nel cappello appoggiandovi sopra i guanti. Poco dopo chiese il conto, pagò e poi uscì salutando a voce tutta la famiglia, da perfetto gentiluomo. Un pò meno comato fu, invece, il suo comportamento non appena svoltò l'angolo del vicolo: scaraventò a terra prima il cappello, poi anche i guanti pieni di sugo e li calpestò tra imprecazioni d'ogni genere. - Tanto era ora di lavarli! - si giustificò con se stesso.
Il palese tradimento lo distruggeva, ma ciò che più gli faceva perdere la calma era la menzogna infantile con la quale Angelica copriva una sua debolezza a lui peraltro ben nota. - Cosa cavolo le impediva di dirmi la verità? E poi... mica le avevo chiesto nulla, no?!... bastava dire -Non ci possiamo vedere perché vado alla festa del personale! È tanto facile, porc!... Sai che m'importa a me della sua festa... magari saranno in quattro gatti e quell'altro manco ci va... che ne so, io... anche se lei ci si annoiasse a morte... mica m'importa a me, di saperlo... La conclusione del soliloquio fu una lunga fila di epiteti assai irriguardosi, che però ebbe l'accortezza di pronunciare in dialetto lombardo per renderne più difficile la comprensione agli eventuali anti. Lorenzo cominciò il nuovo anno 1594 alla luce d'una torcia, nelle lavanderie di Palazzo Colonna, sgurando di lena guanti e cappello con acqua e liscivia: non se la sentiva proprio di partecipare alla grande festa, cui ovviamente era stato invitato.
14. Una cassaforte... di emergenza per l'anello di Angelica
La mattina del giorno di Capodanno il palazzo era ancora immerso nel silenzio, quando Angelica bussò alla porta di Beatrice. - E che ci fai qui? Non è festa oggi? - domandò questa, senza dare a vedere d'aver subito notato il livido bluastro che ben risaltava sullo zigomo sinistro dell'amica. La servetta sgusciò nella stanza: - Si ma... il fatto è che vedete... stanotte io... ho ... hem... ho ingoiato l'anello di Lorenzo! - Coosa? l'hai...ingoiato? Perché? E come è successo? - Beh... io, ecco... io stavo provando a calzarmelo nel pollice, dato che non è fatto per le mie dita sottili e... non riuscendo poi a sfilarlo, ho provato con i denti così... è venuto via di colpo e... non ho proprio potuto evitarlo, sapete! Nella semi oscurità dell'anticamera la voce di Beatrice risuonò risentita per l'evidente frottola: - Ah sì?... ed è così che ti sei anche procurata quel livido? Angelica scoppiò in lacrime. - Perdonatemi Baronessina, perdonatemi... mi vergogno così tanto... non osavo dirvelo... e non è mica l'unico... guardate qui! - e singhiozzando le mostrò braccia e gambe. Beatrice aveva ancora ben impresse nella mente quelle che lei aveva scambiato per scene di pura violenza e pensò fosse giunto il momento per ricambiare all'amica la sua affettuosa comprensione in quell'orribile notte d'agosto a Rocca Petrella. - Su, su... non piangere... adesso siediti lì che io scosto le tende, così ti guardo meglio. Poi andò in bagno, tornandone con una pezzola bagnata che posò sull'ecchimosi violacea: Angelica si stava calmando, ma alla lieve pressione del panno sobbalzò
con un lamento e riprese a piagnucolare come un cagnolino ferito. Proseguirono così per un pezzo. Beatrice raggelava: era a piedi nudi e, sotto la vestaglia, aveva indosso la sola camiciola da letto la cui lana non riusciva a compensare l'estinzione notturna della fiamma nei camini e nei bracieri dell'appartamento, non ancora riattizzati dalla scarsa servitù. - Aiutami a far fuoco, così non chiamo la serva di turno e tu mi puoi raccontare. Angelica si alzò senza parlare, aspirando dalle nari e ancora scossa dai singhiozzi. Spostarono nel salotto-studio di Beatrice un paio di bracieri montati su trespoli a ruote e li riattizzarono con un piccolo mantice, che poi usarono con il camino, aggiungendovi gradualmente altra legna: in poco tempo un gradevole tepore si sparse all'intorno. La baronessina fece accomodare l'amica sul divanetto e le si sedette ai piedi, raggomitolandosi insieme a lei sotto un unico, enorme piumino. - Quando vuoi - le disse - io sono qui che ti ascolto - e, incrociate le braccia sulle ginocchia di Angelica, vi poggiò sopra il mento. - Beh... ecco... vedete – cominciò l'altra a fatica – noi... cioè... sì insomma... il signor Duca ed io... ecco... ero appena rientrata dalla festa, sapete... e lui è arrivato in camera mia e ci siamo messi a parlare, sapete... e poi... perdonatemi, so che non avrei dovuto, ma... non è che io gli... ecco, sapete... lui arriva sempre a notte fonda quando già dormo e la porta è priva di catenaccio dall'interno... è la verità, credetemi vi prego! ... non ho difese! - E sfido io... Gertrude gli ha pure dato la chiave d'ingresso al palazzo... - pensò Beatrice, chiedendosi quante volte quel bellimbusto si fosse nottetempo aggirato per la sua casa grazie alla protezione della madre: era lei, la perfida serpe, da condannare più di tutti! Sconsolatamente, rimpianse la mancanza d'un padre che amasse sua figlia... come ce n'erano tanti... un padre così, un vero padre, li avrebbe fatti punire a dovere, quei due! - Vai avanti e non ti preoccupare - mormorò.
Angelica confessò che, dopo aver parlato, Giovanni le aveva chiesto del danaro. - Ma è solo un prestito... te lo renderò non appena incasso lo stipendio a fine gennaio - aveva assicurato, sebbene – in qualità di gentiluomo del Cenci – avrebbe dovuto aver appena ricevuto quello di dicembre, essendo ormai la notte dell'ultimo dell'anno. La ragazza aveva rifiutato, spiegandogli che tutto ciò che guadagnava con il suo lavoro doveva consegnarlo al padre, come aveva appena fatto con la paga di dicembre. Giovanni s'era adirato e l'aveva colpita con violenza sulla guancia coprendola di insulti. Poi, come una furia, aveva frugato dappertutto nella stanza: - Non ti credo, ti conosco sai, sgualdrina! - aveva gridato, incurante delle lacrime di lei - dimmi dove li tieni nascosti, brutta zoc... - e aveva rovesciato a terra l'intero contenuto della piccola madia. Angelica lo supplicava di crederle, ma l'uomo continuava a frugare la stanza. Finché aprendo il cassetto del comodino accanto al letto... - Aha! e questo che sarebbe? - esclamò: quel poco di buono stringeva tra le dita l'anello di Lorenzo.
- No, no! Quello è mio e tu non toccarlo! - gridò Angelica, ma il Signor Duca la teneva a distanza con un braccio lasciandola scalpitare mentre, con aria d'intenditore, osservava il gioiello alla debole luce della lampada a olio. - Però, mica male per la figlia d'un oste da due soldi... beh, visto che non hai del danaro mi prenderò questo e lo porterò al Monte. - No! Ti prego, è l'unico gioiello che ho... - la ragazza si scagliò su di lui. Un secondo ceffone, sempre sullo stesso zigomo, la spedì gambe all'aria sul letto. - Invece me lo prendo, capito? ... e tu non cercare d'impedirmelo sai? Altrimenti... e alzò minaccioso il braccio. D'altra parte... sei o non sei la mia puttana? Ti ricordi vero, quando poco fa me lo... domandavi tu stessa? - il bellimbusto sogghignava perfidamente - allora diciamo che te lo concedo. Oggi
mi sento magnanimo! - e avvicinò l'anello alla lampada per continuare tranquillamente la sua perizia. Quell'attimo di distrazione gli fu però fatale: il pugno di Angelica lo colpì con violenza al basso ventre, ancora scoperto e a tiro del suo braccio. Giovanni si piegò senza un gemito, portando le mani alla zona colpita e lasciando cadere l'anello: lei fu lesta a ghermirlo e a buttarsi dall'altra parte del letto, ma l'uomo s'era trascinato fino alla porta bloccandola con il proprio corpo. Il giovane faticò non poco a riprendere il respiro, ma non appena poté si gettò su di lei che, disperata, prima di venir colpita ingoiò il gioiello.
- Puoi risparmiarmi il seguito, tanto credo di immaginarlo! - la interruppe Beatrice - Piuttosto dimmi... mica ti fa male il ventre? - No... sono un pò tutta indolenzita... ma saranno le botte... La sua padrona non ritenne ancora opportuno rivelarle la vera identità di Giovanni: era impietosita dalla cocente delusione che la ragazza confessava, piangendo sconsolata. - Adesso pensiamo a come recuperare l'anello - disse, prendendole le mani. - Non saprei proprio come! - Allegria! Neppure a me è mai successo niente di simile, ma immagino occorra forse un purgante... non ho idea dove trovarlo e oggi non c'è mercato... Madonna Lucrezia!!Ecco sì... lei ci potrà aiutare! A quelle parole, Angelica smise di piangere per un momento, ma subito ricominciò al pensiero che - mica posso presentarmi a lei in questo stato! Beatrice la sollevò quasi di peso e la portò nella sua stanza da bagno: - Tutt'e due abbiamo bisogno di far toeletta - esclamò gaiamente - adesso faremo un bel bagno caldo e poi ti coprirò quel livido con la cipria: nessuno se ne accorgerà, te lo assicuro. È una tecnica sperimentata da molte donne romane di rango per nascondere le percosse che ricevono dai loro uomini.
La grande tinozza di rame era stata riempita di acqua la sera prima, in vista del giorno festivo, e le due ragazze non ebbero difficoltà ad avviare un bel fuoco nel braciere estraibile collocato sotto il fondo della vasca. Ne sistemarono altri due agli angoli della stanza e poi, quando l'acqua cominciò a fumare, Beatrice vi versò un pò d'un liquido profumato che provocava la schiuma. - Ecco... e adesso spogliati - disse poi semplicemente. Angelica la guardò imbarazzata. - Ma Baronessina, devo proprio? In fin dei conti sono da oggi la vostra serva e se qualcuno mai ci vedesse... no, no... io... non oso mettermi nuda davanti a voi! La nobildonna si sfilò velocemente di sopra la testa la pesante camicia da notte: - Ah sì? Allora vuol dire che comincerò a mettermi nuda io... - e si volse per dirigersi alla madia in fondo alla piccola stanza, soggiungendo - ... ma poi, a quest'ora... chi vuoi che ci veda... oggi dormono tutti!... E la porta è chiusa a chiave che ho lasciato nella toppa... almeno per questa volta non... c'è pericolo! Per un attimo la sua voce si velò. La servetta non colse la tragicità di quelle parole, affascinata dalla naturalezza con la quale Beatrice si muoveva sotto i suoi occhi: malgrado la giovanissima età, si poteva ormai dire che le sue forme sarebbero state perfette. Gli occhi della ragazza indugiarono sulle curve dei glutei, ammirandone le aggraziate contrazioni ad ogni o che faceva ondeggiare i capelli lunghi fino ai fianchi e ancora sciolti dopo il sonno. - Sarà una donna bellissima - pensò Angelica, senza trattenere un brivido al pensiero dell'atroce marchio d'infamia che la snaturata lussuria del padre le avrebbe procurato di fronte a tutta Roma, come già era stato per la sorella maggiore. Beatrice tolse dalla madia una pila di panni candidi per asciugarsi e tornò alla vasca, tenendo quelli compressi tra il mento e i seni con l'aiuto delle braccia. Li posò su una panchetta accanto alla vasca e guardò l'amica:
- Beh? Che fai lì imbambolata? Dai su... spogliati che poi togliamo il braciere, poiché l'acqua sarà ormai calda! - e ne controllò cautamente la temperatura con un gomito. Angelica, un pò imbarazzata dalla sua spigliatezza, esitava a obbedire ma poi si rese conto che il veder la padrona senza veli potesse far parte dei compiti abituali della sua cameriera personale. E si accorse che la cosa, dopotutto, non le dava alcun fastidio. - Figurati mi fosse toccata una padrona come Gertrude! - pensò... e finalmente sorrise. Un attimo dopo, la gonna era ammucchiata ai suoi piedi, mentre Beatrice le slacciava la camicetta, sorridendo divertita. - Questo non rientrerebbe nel mio ruolo di padrona - disse con fare sussiegoso ma... visto che dovevi prendere servizio domani perché oggi è festa... e dunque ancora non sei la mia cameriera personale, per questa volta te lo concedo- e scoppiò a ridere. - Anzi - aggiunse con voce improvvisamente profonda - ti voglio are di grado, solo per oggi: fingeremo che tu sia la mia nutrice! - E posando con naturalezza le labbra sul seno dell'amica simulò il gesto del poppante. - Cosa non pagherebbe un uomo per vederci adesso! ...- mormorò poi rialzandosi, con una strana luce negli occhi. Poi l'abbracciò per trascinarla con sé nella grande tinozza. Angelica era rimasta di sasso, colta di sorpresa da quel bacio. Non poteva negare di aver provato un piacevolissimo brivido: era una cosa cui non aveva mai pensato... e ne era stata sorpresa, anzi... l'aveva gradita! Anche perché nella spontaneità di Beatrice non c'era traccia di lussuria, malgrado il gesto avesse un'innegabile valenza erotica... La servetta superò il languore rispondendo al commento dell'amica: - Ah no! Mai e poi mai! Non vorrei occhi maschili d'intorno per tutto l'oro del mondo, in questo momento! Avremo ben diritto a conservare almeno un pò d'intimità, di già che loro ci prendono tutto il resto!
La voce di Beatrice si fece maliziosa: - Ma pensa che bello... fingere che ora ci sia qualcuno a osservarci senza poterci neppure sfiorare... lo faremmo impazzire, quel sudicione! Gli faremmo vedere qualcosa... per poi nasconderla subito subito... oppure come è stato per quel bacio... inventarci qualcosa tra noi... potremmo giocare a torturare un uomo che ci guarda, se vuoi... magari quel tuo Duca Giovanni! Ecco... sì, proprio lui: ora ti bacio tutti i lividi che t'ha fatto sulle cosce, uno per uno. Beatrice eseguì... poi domandò: - Che ne dici?... e fingeremo che lui ci osservi! - Avrebbe solo quel che si merita... ma no... neppur quello... proprio non voglio uomini intorno, oggi... nemmeno immaginari! Il poco riguardo dimostrato da Giovanni per il suo corpo la notte precedente era un ricordo bruciante e ancora troppo fresco. Ma fu l'ultima volta che il pensiero di lui la sfiorò.
Anche la terapia di Madonna Lucrezia per recuperare l'anello fu semplice ed efficace. Le due ragazze avevano dovuto usare prudenza per informarla della loro visita, poiché in quei giorni la Baronessa soffriva di una delle sue terribili emicranie che questa volta l'aveva ormai tenuta a letto quasi due settimane. Infatti la costante presenza del marito, a corto di impegni diurni per via delle festività, l'aveva costretta a quell'unica forma di difesa che le era consentita contro di lui. Ma la nobildonna ne pagava comunque il fio, poiché salvando se stessa le pareva – un pò ingenuamente – di esporre ancor più le due figlie del marito alle turpi violenze di lui, caricandola di rimorsi. Purtroppo per difendersi da quelli non le bastavano i grumi di cera che usava per non udire le grida che a volte risuonavano nottetempo fra le mura del tetro edificio quasi arrivassero dal sottosuolo, facendola tremare fino all'ultima vena. Per la fortuna di Angelica e di Beatrice, la carenza di personale in quella tarda mattina di capodanno fece sì che soltanto Matteo vegliasse sull'infermità della padrona, seduto su una poltroncina nell'ingresso del suo appartamento.
Infatti, durante il giorno e nel caso la voce potente del padrone non fosse stata sufficiente, il giovinetto aveva il preciso incarico di segnalarne l'eventuale arrivo lasciando cadere un oggetto che teneva sottomano a bella posta: a volte un piattino di metallo, altre una pesante chiave... o alla disperata il suo medaglione. Ciò bastava a dar tempo a Lucrezia per ritirare libri e cibi sotto il letto e infilare il capo nella tana sempre pronta tra i cuscini. Precauzione utile sebbene superflua, avendo il Barone ben altri pensieri per la testa che il far sesso con la moglie: ma con quel porco non si sa mai...pensava la sventurata nobildonna. Quella mattina il paggio, assicuratosi dell'identità delle visitatrici, aprì loro la porta con fare circospetto e le fece entrare, trattenendo il sorriso di gioia alla vista di Beatrice finché non ebbe richiuso la porta a doppia mandata. La Baronessa ascoltò attentamente le poche parole di Angelica e s'informò delle dimensioni dell'anello: era divertita, poiché la disavventura della servetta le procurava un insperato diversivo contro la noia. - Non è nulla di grave. Qui ci vuole un buon purgante e io sono per mia sventura un'esperta in materia: ti darò un pò di quell'intruglio di erbe per l'infuso che prendo da anni... fidati di me! Mandò Matteo a cercare chi nelle cucine potesse procurarle dell'acqua bollente e nell'attesa s'intrattenne con Beatrice, informandosi di come andavano le cose a palazzo durante il proprio forzato letargo. Angelica se ne stava silenziosa in un angolo del salotto, ma al ritorno del paggio, che reggeva una fumante caraffa su un pesante vassoio d'argento cesellato... - Oh! Ecco qua... se permettete faccio io, che con i decotti sono... un'esperta! esclamò levandosi in piedi e brandendo la caraffa. La Baronessa la guardò ironicamente, mentre le porgeva il barattolo di erbe: - Spero per te che tu sia più abile che nello sfilarti gli anelli con i denti... - Quello è stato un incidente... ma a casa preparavo ogni sera il decotto di erbe per i miei, che ne erano sempre molto soddisfatti, ve lo assicuro! Un pò a malincuore rinunciò a vantarsi dei successi nel precipitare gli adulti in un sonno profondissimo, all'occorrenza. Ma non ritenne fosse il caso.
Fu Beatrice a sollevare con la matrigna il problema di dove depositare il gioiello, mentre la paziente beveva la sua pozione: non doveva andare perso nelle latrine della servitù! - Ah, per questo non ci sono difficoltà, una volta che il purgante farà effetto! - E Lucrezia le guidò attraverso la grande sala per le visite private, oltre la camera da letto avvolta nel buio quasi completo grazie ai pesanti tendaggi, e poi per l'ampio spogliatoio con il guardaroba e l'immensa specchiera da toilette. Meraviglia delle meraviglie... la luce vi giungeva dall'esterno diffusa, attraverso una lunga fila di spessi vetri rettangolari, murati nella parete poco sotto il soffitto! Infine spinse l'uscio della stanza da bagno e, indicando una sontuosa comoda di legno intarsiato accanto alla finestra dai vetri colorati, esclamò: - Ecco come! Beatrice ne ha una simile, nel suo bagno: anche se non è intarsiata come questa andrà benissimo! Le due ragazze si guardarono e scoppiarono in una complice risatina pensando al motivo che, quella mattina, le aveva distratte dall'arrivare da sole a una soluzione che avevano a lungo avuto sotto il naso. La Signora Baronessa non disdegnò affatto unirsi a loro: calcolò che era ato almeno un mese dall'ultima occasione d'ilarità e ci si mise d'impegno. Ma dentro di sé si chiedeva, perplessa, cosa diavolo avessero combinato – chiuse per gran parte della mattina nelle stanze di Beatrice – per manco vedere la comoda e risolvere da sole il problema. Matteo intanto attendeva discretamente nell'anticamera. Angelica dovette pazientare tutto il pomeriggio, che trascorse nelle stanze di Beatrice. Ne approfittò per raccontarle le difficoltà con Lorenzo, i sensi di colpa che le impedivano di gustare appieno le cose che i due uomini le davano, così terribilmente diverse tra loro da generare nella sua mente una gran confusione. - Credo di non sapere più quello che voglio... in certi momenti penso di amare Lorenzo, ma poi... quell'altro è incontrollabile, così indipendente e privo di
inibizioni... pare faccia ogni volta la cosa che più gli aggrada senza preoccuparsi di nessuno... ammiro la fantasia del suo modo di vivere... e l'audacia e... insomma... lo trovo affascinante... si dice così, vero? - Angelica, quello è un farabutto che ti ha nascosto di essere il figlio di Gertrude!! Li ho sentiti parlare insieme, nascosta nel montacarichi. Qui a palazzo non c'è nessun Duca Giovanni di Saluzzo che lavori per mio padre. Quell'uomo è un impostore e tu non devi più fidarti di lui! La brutale rivelazione colpì la cameriera come una scudisciata. La ragazza lanciò un grido: - Noo! Non è vero! Voi mentite... oh! Scusatemi... perdonatemi, vi prego - e s'inginocchiò piangendo ai piedi di Beatrice - volevo dire che non posso crederlo... e poi cosa c'entra la fiducia con l'amore? Io potrei anche non fidarmi di lui ma... credo di... ne sono innamorata! E forse lo sarei anche se fosse davvero il figlio di quella strega! La baronessina perdonò volentieri poiché capiva di averla ferita duramente e si sentiva in colpa per la mancanza di tatto... ma era tempo ormai... presto o tardi avrebbe dovuto dirglielo e poi... poi proprio non poteva sopportare che l'amica stravedesse in quel modo per un gran mascalzone! - Esserne innamorata potrebbe non voler dire che tu lo ami. Si può forse amare chi ti percuote, chi cerca di derubarti, chi ti racconta un sacco di storie per ottenere da te ciò che vuole o ciò che gli serve? Nell'elencare i torti di Giovanni la voce di Beatrice s'era pian piano indurita: - Odiarlo, dovresti; come si meritano lui e... tutti gli altri uomini padroni di noi donne... a cominciare da mio padre!... io... io... se continua... io so che lo ucciderò. Mia sorella ha finalmente ottenuto, grazie a Lucrezia, il o papale per avere una dote e andar sposa a un forestiero sconosciuto, che chiuderà un occhio sul suo ato arcinoto a tutti qui a Roma ... come vuoi che la gente non senta le nostre grida di là fuori! - e indicò col capo la piazza sottostante - così io... io resterò sola, qui dentro... sola a patire le sue violenze, maledetto! Nella sua voce Angelica avvertì una nota di determinazione che la fece rabbrividire.
Sentì la mano della padroncina stringersi a pugno tirandole i capelli mentre ripeteva: - Lo ucciderò... troverò qualcuno che lo uccida... so ben io come ottenere da un uomo ciò che voglio... sono tutti uguali, quelli... basta che noi... Per il dolore la servetta si mosse e alzò il viso per guardarla... oddio!... i begli occhi di Beatrice erano dilatati dall'orrore e dall'odio: Angelica ebbe paura di quella fanciulla che solo poche ore prima le aveva mostrato di quanta tenerezza fosse capace. La interruppe: - Beh... forse non tutti. Lorenzo è diverso, ad esempio, lui non sarebbe mai violento, ne sono sicura. È così dolce, fino a sembrar debole a volte: sempre disponibile, sempre comprensivo... ecco, lui proprio no, non credo che qualche donna potrebbe mai arrivare a odiarlo. - Ciò malgrado tu preferisci l'altro... sebbene faccia di tutto per rendersi odiosoosservò la Baronessina dopo qualche minuto di silenzio. - L'altro m'intriga... sa come prendermi e... a suo modo mi dà sicurezza: o si fa come vuole lui o niente. - Ma non hai capito che loro giocano proprio sulle nostre debolezze? - È quello che a volte ho pensato, guardando i miei genitori: tanta rabbia per la sudditanza di mia madre! ... ma che altro può fare, quella povera donna? Mica ha un mestiere suo... se non riga diritto mio padre la sbatte fuori... e così è per tutte noi... Beatrice avvicinò le sedie e con aria complice abbassò la voce - Sai, detto fra noi, Lucrezia è nelle stesse condizioni solo che vive nel lusso e nelle comodità a differenza di tua madre: lo vedi? Uguale ricatto. Se avesse coraggio se ne andrebbe, ma dovrebbe lavorare... che so... far le pulizie o peggio... e così accetta tutto e si destreggia con piccoli trucchi come quello del mal di testa. Io le voglio bene ma lei è una gran pigrona... ecco cos'è! ... invece tua madre lavora come una bestia tutto il giorno ma non ha il coraggio di far da sola perché il disprezzo del marito la convince di non essere all'altezza. Io penso che la pigrizia e la poca autostima siano i peggiori nemici di noi donne: ben poche se ne liberano e così tutte subiamo, prima e... anche dopo il matrimonio! Angelica avrebbe voluto chiederle cosa intendesse fare lei, una volta in età da marito e se anche lei avrebbe chiesto soccorso al papa... ma ne ebbe pietà: era un tasto troppo dolente e era pur sempre la sua padrona... a partire dall'indomani.
- Io sono felice di essermi affrancata dalla tutela paterna... e mi ritengo assai fortunata per esser qui con voi, Baronessina! - disse soltanto con voce commossa, ma poi si portò di scatto le mani al ventre ululando per una dolorosa colica. - Bada a non procurarti in cambio la tutela dell'uomo sbagliato, allora! - concluse Beatrice, alzandosi per accompagnarla di corsa in bagno. Quando la tisana sortì l'effetto voluto era ormai buio da un pezzo, ma il fondo in rame del recipiente supplì assai bene alla scarsità di luce, segnalando la missione compiuta con un sonoro botto metallico, che Angelica salutò con un grido di gioia. Fuori dalla stanza, Beatrice applaudì con allegria e mentalmente si apprestò a custodire l'anello di Lorenzo nel cofanetto dei propri gioielli: - Prima però glielo farò ben ben sgurare con spazzola e liscivia e... annegare nel profumo! - pensò ridacchiando, un pò rasserenata.
15. Un capolavoro ispirato... dal nemico: Conversione di Saulo
Era trascorso più d'un mese da questi avvenimenti quando un sabato mattina di buon'ora Lorenzo entrò trafelato in bottega. Prospero e Michele erano affaccendati in preparativi di pittura: - O che! non dovresti star lavorando per il tuo Notaio? - E tu allora? Non dovresti star lavorando dai fratelli Cesari? - rispose ansimando il nuovo arrivato all'indirizzo di Caravaggio. Mentre il grande pittore ridacchiava, fu Prosperino a rispondere: - Non dovrai dirlo a nessuno ma... Michele si sta preparando al gran o... presto li lascerà per mettersi in proprio... ma tu, piuttosto, che è tutta questa agitazione? Lorenzo era trafelato malgrado il freddo: - Ho grandi notizie... ieri sono stato convocato dalla Principessa Costanza nei suoi appartamenti... - Sì, va bene... e allora? - era evidente che l'Orsi andava di fretta. - La sera precedente era stato suo ospite il cardinal Federico e... - le orecchie di Prosperino si fecero più attente, mentre Caravaggio continuava a trafficare come se nulla fosse - ... e la Principessa questa mattina mi ha trasmesso un'ambasciata per voi, Messer Prospero. Lorenzo spiegò al suo Maestro come il Borromeo si fosse informato su di lui da Costanza e, saputo che lavorava in bottega dall'Orsi, le avesse confessato di esser stato assai colpito dalla Canestra di frutti. Insomma, il Cardinale avrebbe molto gradito di venir informato se e quando l'autore decidesse di metterlo in vendita per ottenere – in tale eventualità – una specie di diritto di prelazione. Prosperino si grattò la testa per qualche secondo. - Detto da un tal pezzo grosso, vuol poi dire che ci ordina di non venderlo ad altri, capito Michele? - borbottò - Certo per te è una gran soddisfazione, amico
mio! Stai per diventare ricco e famoso, mi congratulo! Tuttavia... Il brav'uomo sembrava perplesso. Caravaggio tentò di arrivare subito al dunque: - ... tuttavia sarà meglio che della cosa te ne occupi tu, dal momento che io non ci son tagliato... ho tanto bisogno di soldi da esser capace di chiedere a lui quanto vuol pagare! - e guardando Lorenzo proruppe in una risata, mentre l'Orsi rimaneva pensieroso. Poi, a un tratto, Prospero prese un'aria navigata: - Quanto a questo aspetteremo a fargli avere la mia risposta... come se avessimo anche altri acquirenti o come se tu non fossi così in necessità... è un semplice trucco per alzare il prezzo - spiegò con tono confidenziale -... ma ciò che mi preoccupa è ben altro... sono quei due fratelli Cesari. Michele e Lorenzo cessarono istantaneamente di ridere per guardarlo esterrefatti. - E perché mai? Non è mica affare che li riguardi! - Mah... forse è solo un mio sospetto ma in città non si parla che del tuo quadro, dopo la cerimonia del due di Gennaio e... se adesso si sparge la voce che il Borromeo vorrebbe acquistarlo... - Non capisco cosa c'entrino i Cesari, però... - ... qualcuno potrebbe pensare di farlo sparire dalla circolazione per danneggiarti. - Sì, ma allora... questi Cesari... perché poi proprio loro? - insisté Lorenzo. - Beh, il Cavalier d'Arpino è personaggio famoso e le sue ambizioni sono confortate dal favore papale, tuttavia tutte quelle domande su Michele che ieri mi ha fatto suo fratello... devo dire che, dopo la notizia che ci hai dato, potrebbero assumere una nuova luce. L'Orsi raccontò di come Bernardino Cesari, con il quale egli aveva sempre avuto buoni rapporti, lo avesse invitato a pranzo alla trattoria del Turchetto, non lontana dalla loro bottega.
- Non mi ha parlato d'altro che della Canestra tutto il tempo... lodando la tua perizia, Michele... ma domandandomi pure dove vivi, con chi ti accompagni, se qualcuno ti stia affidando delle commesse... mi ha perfino chiesto se ti appoggi alla mia bottega per metterci le tue cose. E sai... tutto questo mi ha un pò insospettito, in specie dopo quella volta che ti... - Ah, sì... per poco non mi accoppavano, facendomi cadere addosso un fascio di pesanti legni da cornice mentre li scaricavamo dal carro... ma mica lo avranno fatto apposta!? - Eh... invece comincio proprio a pensare di sì... il D'Arpino è stato invidioso della tua arte fin dal primo momento, ricordi?... c'era anche Onorio quel giorno... Lorenzo patì una fitta allo stomaco, rammentando il colloquio tra il d'Arpino e il Barone sco Cenci che gli aveva rivelato la prima menzogna di Angelica. - Sì, potrebbe esser vero, visto come mi sta trattando; ma... che vantaggio avrebbe? - Eeeh! ... ma toglierti di mezzo per un pò, mi pare ovvio! - interloquì Lorenzo. - Ascoltami bene, Michele, un talento come il tuo non s'era più visto a Roma dai tempi di Raffaello – continuò Prospero –... e tu credi che il Cesari non se ne sia accorto subito? Pensi forse che il tuo Fanciullo con canestra non gli avesse da subito fatto capire che non avevi nulla da imparare da lui... proprio un bel nulla? Anzi!... Ti ha preso con sé per tenerti d'occhio e impedirti di nuocergli. Tu puoi essere per lui un temibile concorrente, gli puoi rovinare la piazza, come si dice... e ha sempre fatto di tutto per scontentarti... perché tu te ne tornassi sulla strada prima di essere in grado di soffiargli le commesse... altrimenti... insomma, non voleva farsi male da solo, in poche parole. E adesso... con la Canestra di frutti che crea tutto questo rumore... - Ecco!... La Canestra... ma dove diavolo sta il collegamento? Proprio non lo vedo! - Sta nel fatto che potrebbe essere lui, quel qualcuno che temo possa pensare di farla sparire per impedirti di venderla al Cardinale: un Principe della Chiesa - il più importante committente dei fratelli Cesari - che acquista un'opera da un suo lavorante e per di più senza are da lui, che ci avrebbe fatto una cresta appetitosa! Credo proprio ci convenga nasconderla in luogo sicuro... e anche
subito, la tua Canestra! - concluse convinto l'Orsi. Michele si preoccupò: - Ma allora... ma allora dovremmo pure riprendergli il Fanciullo con cesto di Frutti e... il Bacchino malato e quell'altro del Ramarro e... non ce la faremo mai! Dovremmo andarci con un carro... ma io, ma io... io lo ammazzo quel figlio di... - Stai calmo e non ti mettere nei guai! Adesso dobbiamo occuparci di salvare la Canestra: dopotutto mica hai già dei compratori anche per quegli altri, no? Decisero dunque che quella notte stessa Lorenzo con l'aiuto dell'autore avrebbe portato il prezioso quadro in camera sua, a palazzo Colonna.
Prosperino mai avrebbe immaginato quanto era andato vicino alla realtà delle cose. Infatti la sera precedente un losco figuro s'era incontrato con Bernardo Cesari in una bettola del Bordello, assicurandolo di aver l'uomo che faceva per lui: uno sbandato – gli aveva detto – reduce dalla mancata Campagna di Fiandra del Duca Farnese, uno che viveva di truffe e furtarelli e era il magnaccia di una puttanella da quattro soldi che stazionava nei paraggi. - Abbiamo buoni motivi per credere che il dipinto si trovi lì e vogliamo venga distrutto - aveva concluso Bernardo dopo avergli spiegato come raggiungere la bottega dell'Orsi - e, mi raccomando, non ne deve restare traccia: una cosa pulita, insomma... e soprattutto discreta... è per questo che la persona deve agire da sola e rapidamente... nessuno ne dovrà sapere nulla! Il suo interlocutore aveva garantito che il lavoro sarebbe stato eseguito la sera successiva e che gliene sarebbe stata consegnata prova: un brandello del quadro con un frutto o una foglia. Pattuito il compenso, i due si erano separati. Così avvenne che, nel cuore della notte seguente, un'ombra furtiva si profilò d'un tratto nel vicolo delle Grotte, stampata contro il muro della piccola casa dalla luce della luna. Portava un nero mantello per proteggersi dal freddo e il suo capo era coperto da uno strano cappello con una piuma lunga e sottile, del quale il tremolante lume
delle rare torce appese ai muri non riusciva a infrangere l'ombra che nascondeva i lineamenti del viso, decorato da una nera barbetta e da un paio di sottili mustacchi incurvati all'ingiù. Con una mano reggeva una lanterna spenta e in una tasca aveva il necessario per accenderla e gli strumenti da scasso, vinti ai dadi qualche tempo addietro a un collega malfattore, sfortunato come lui ma assai meglio attrezzato. Arrivato a destinazione si nascose in un vano del muro al confine con la casa accanto, attendendo il aggio di una pattuglia di birri nella via principale. Questi sopraggiunsero quasi subito, schiamazzando trivialità all'indirizzo di qualche donna di malaffare e scomparirono dietro un angolo: una vera fortuna, poiché gli dava tempo per lavorare indisturbato prima che arrivasse la ronda successiva. Accese la lanterna ed esaminò la serratura: un gioco da bambini. In un attimo fu all'interno dello studio dell'Orsi. Non c'erano che due cavalletti dove cercare il quadro che gli era stato descritto: tenne sollevata la lampada quel poco che bastò a individuarlo e se ne impossessò spegnendola subito per prudenza, dopo aver verificato il percorso verso l'uscita mentre si affrettava ad arrotolare la tela. Nel vicolo intanto, Michele e Lorenzo si stavano avvicinando alla casa per prelevare il quadro, provenendo dalla direzione opposta a quella da cui era arrivato il ladro. Erano anch'essi muniti di lanterna, ma grossa e accesa, e tacevano entrambi: Prosperino s'era raccomandato - Mi raccomando... non svegliatemi i padroni di casa! Quei due bravi vecchietti potrebbero crepare per lo spavento, se udissero rumori in casa loro a quelle ore di notte! Nell'istante in cui i due amici si rendevano conto della porta spalancata, il ladro vide la luce e s'appiattì contro la parete a fianco dell'uscio. Lorenzo, che in qualità di gentiluomo dei Colonna aveva diritto a portarla, sguainò la spada e fece cenno a Michele di far luce mettendosi a lato
dell'ingresso. Poi infilò l'uscio come un soldato alla carica, in un gesto generoso e ardito che però necessitava d'una buona dose di fortuna per risultare efficace. Infatti l'intruso, protetto dal buio, lo lasciò are e guizzò alle sue spalle nella via, dove trovò Michele che lo agguantò: i due ruzzolarono a terra con la lanterna, il cui rumore di ferraglie fu seguito da un grido di dolore e da imprecazioni. Mentre Lorenzo tornava cautamente sui suoi i per emergere dall'antro buio, il ladro gettò il mantello addosso a Caravaggio che perse così tempo per liberarsene. L'altro si rialzò per primo, ma dovette fronteggiare Lorenzo che si avvicinava puntandogli la spada al petto: per un brevissimo istante i due uomini si guardarono in faccia, alla luce dell'olio in fiamme sparso sulla via dal lume caduto a terra. Con prontezza il malfattore srotolò la tela della Canestra e se ne fece scudo, fermando il gesto di Lorenzo che non poteva certo rovinarla perforandola: il gentiluomo rimase un attimo indeciso e l'altro, fulmineo, gliela sbatté in faccia dandosela a gambe levate. L'intero scontro era durato pochi secondi. Michele si era rialzato: - Occupati del quadro, che io gli corro dietro - gridò a Lorenzo mentre si allontanava. Ma il ladro già era sparito dietro l'angolo: lo inseguì per un altro paio di viuzze finché, ai limiti di una piccola piazza nella quale confluivano altri vicoli stretti e bui, il pittore desistette e si arrestò. Di fronte a lui, dall'altra parte della piazza, riconobbe la facciata di palazzo Cenci debolmente illuminata dalle torce ai lati del portone. Ma del fuggitivo nessuna traccia. Con disappunto tornò sui suoi i e trovò Lorenzo che ancora tentava di calmare un anziano col berretto da notte il quale, reggendo una candela, si sporgeva fra le ante socchiuse d'una finestra al primo piano insistendo per chiamare i birri.
- Ma siamo noi, Messer Pietro... siamo Michele e Lorenzo... i due amici di Prospero... - ripeté ancora il secondo, avvicinando ai loro volti la lampada che finalmente era riuscito a riattivare. - Ah... meno male siete voi... che spavento... credevo fossero i ladri, con tutto quel trambusto! ... - e si ritirò subito a proteggersi dal freddo. Al fioco bagliore della lanterna, tra i segni nerastri dell'olio bruciato sulla via era ben visibile una macchia di sangue, poco discosta dall'ingresso della bottega e forse procurata da un lato tagliente del lume durante la lotta. Ma i due amici erano fortunatamente illesi. Si consultarono e decisero che Lorenzo avrebbe subito portato la tela dai Colonna, dato che l'Orsi ci aveva visto giusto: inutile rischiare che qualcuno ci riprovasse... magari con rinforzi. Ciò fatto però tornò anch'egli alla bottega per trascorrervi il resto della notte, non potendo abbandonare le cose di Prospero alla custodia d'una porta con serratura scassinata. Il tavolaccio puntato di traverso dietro di quella diede loro sicurezza. Michele si sdraiò sul pagliericcio accanto a Lorenzo. - Ahhh! Finalmente ci si distende... o magari preferiresti qualcun altro al posto mio eh? - scappò innocentemente detto a Caravaggio, che se ne pentì subito. L'amico non rispose.
La vigilia di Pasqua, un serio incidente sul lavoro occorse a Michelangelo e buon per lui che uno spadaro siciliano, vicino di bottega dei Cesari, se ne prese cura portandolo all'ospedale su un carretto spinto a fatica attraverso tutta Roma. - Se fosse stato per il D'Arpino starei ancora lungo e disteso nel cortile della sua bottega! - disse a Prospero alla prima visita che l'amico gli fece, dopo pochi giorni. - Ma è mai possibile che tutti gli anni tu faccia in modo di trascorrere la Pasqua in ospedale? - la voce di Prosperino era risuonata sotto le altissime volte del
nosocomio e gli sguardi di tutti i degenti si erano volti in direzione del destinatario, allungato su un letto con la testa fasciata e un sistema di assi e di pesi che gli tenevano sollevata una gamba, anch'essa fasciata. L'Orsi, che negli ultimi tempi era stato occupatissimo tanto da rientrare solo a tarda sera da un lavoro fuori città, aveva diradato le gite al Bordello e le puntate in osteria, perdendo in tal modo la quasi quotidianità di contatti con Michele. Ma non vedendolo per Pasqua alla Locanda del Vescovo come concordato s'era preoccupato e, malgrado i suoi rapporti con i fratelli Cesari non fossero più buoni come un tempo, il Martedì era subito andato da loro alla Torretta per vedere cosa fosse successo. - Ah già, è vero! - raccontò gli avesse detto il Cavalier D'Arpino distrattamente, quando lui gli aveva chiesto notizie di Caravaggio - ha avuto un piccolo incidente in cortile... credo che lo spadaro qui accanto l'abbia accompagnato allo Spedale della Consolazione. - E chiamalo un piccolo incidente, per la miseria!! ... Mi ha quasi travolto con il suo cavallo, quel farabutto... e ti dirò che, ripensandoci, mi son quasi convinto lo abbia fatto apposta: quella mattina aveva una fretta indiavolata e io stavo disponendo i materiali da lavoro sul carretto... che non sarebbe una mia mansione ma quello, chi sa poi perché, lo fa fare a me tutte le volte. Così ero fortemente contrariato e gli risposi in malo modo quando lui mi sollecitò sgarbatamente... - Cioè? - Beh, io... veramente gli dissi che per quel poco che mi pagava poteva ringraziare che io mi prestassi... al che lui strattonò irosamente le briglie, facendo quasi imbizzarrire la bestia che diede uno scarto improvviso gettandomi a terra con violenza... credo d'aver battuto il capo sul selciato: fatto si è che quando mi riebbi la gamba mi doleva terribilmente, la fronte mi sanguinava e la testa... - E perché poi in ospedale ti ci ha portato lo spadaro siciliano? - Ah! Proprio non saprei: quando mi ripresi c'era lui a occuparsi di me e... dei due fratellini... manco più l'ombra!
- Mmmh... qui mi sa che avevo ragione io: per trovare i mandanti del tentativo di furto della Canestra non sarebbe necessario andar tanto lontano... te l'avevo detto che Cesari ti vede come un pericoloso concorrente. - Mi vedeva, vorrai dire... e non mi vedrà più: non ho alcuna intenzione di rimetter piede nella sua bottega quando uscirò di qui... ci andrei soltanto per riprendermi i quadri di cui s'è impadronito quel ladrone!! ... chi sa se ci riproverà ancora con la Canestra... - Già... verrebbe voglia di mettergli in bottega una spia... - Forse... Lorenzo potrebbe... - A proposito! ... quasi dimenticavo: Lorenzo è sparito! - Sparito? ... ma che gli è preso? E dov'è andato? - Se ti dico che è sparito è perché non lo so proprio!! Stamane è arrivato con il quadro, con la tua Canestra voglio dire, dicendo che non poteva più tenerlo perché vien via da casa Colonna... a me è parso un pò sconvolto... era pallido come un cencio! - E che? Se ne torna a Milano? - Questo non l'ha detto... ma vuole cambiar aria... sai, credo ci sia di mezzo una qualche ragazza... una storia sfortunata, forse con una poco di buono... me ne ha solo fatto cenno e io non ho approfondito. A Michele tornò in mente il racconto di quasi un anno prima, quando lui e Lorenzo si erano conosciuti alla bottega; ma non ne parlò. - Ha solo detto - proseguì l'Orsi - che ha bisogno di star solo per un pò... ci prega di capire e di scusarlo... e ti manda i suoi saluti. Credo che, anche se scoprissimo dov'è, non potremmo chiedergli nulla... per il momento la Canestra è al sicuro in casa mia e... sai - soggiunse con un sorriso - mi sembra quasi sia un pò anche opera mia... se penso a quegli abbozzi di grottesche che ci stanno sotto! - Quel dipinto ci ha già procurato troppi guai. Perché non senti se il Borromeo è sempre interessato ad acquistarlo?
- Già... potrebbe esser tempo di chiedergli un incontro: ma ahimè non c'è più Lorenzo a far da intermediario con la Principessa Costanza... bah!Vedrò che posso fare - concluse l'Orsi accommiatandosi.
Il Priore dell'ospedale non aveva mancato d'informare Costanza circa il nuovo ricovero del suo protetto per un non meglio precisato incidente sul lavoro che pareva provocato da un cavallo: la degenza non sarebbe stata breve. Dopo qualche giorno, il pittore ricevette così una graditissima visita, preannunciata dal drappo rosso che una mattina gli venne fatto installare con sua sorpresa e sotto l'ormai esperta direzione del Priore in persona, a scanso di proteste... E buon per Caravaggio che gli altri ricoverati nulla sapevano del precedente, poiché i più contestarono comunque la novità e i malumori contro l'evidente predilezione del Priore per quel giovane sconosciuto sarebbero potuti andar ben oltre i borbottii e i lazzi che accompagnarono l'operazione. Ma l'arrivo di Costanza riportò la serenità nel reparto di degenza per incidentati sul lavoro – che erano numerosi – o durante una rissa, che lo erano molto di più. Memore di quanto accaduto in precedenza la nobildonna si era infatti premunita, arrivando accompagnata da due paggi con cesti di frutti e dolcetti che lei stessa distribuì di letto in letto. Quando insieme alla sua damigella preferita scomparve dietro la tenda che nascondeva Caravaggio, fu salutata da una calorosa ovazione di ringraziamento. Al vederla, Michele si mosse goffamente per tentare di sollevarsi dalla posizione supina, ma Costanza lo fermò con un gesto: - Non devi muoverti!... mi ha detto il Priore; dunque lascia che ti sistemiamo noi... intanto racconta, ti prego, cosa ti è accaduto questa volta!? Il pittore provava un certo imbarazzo nel sentire le mani delle due donne impadronirsi delle sue braccia per spostarlo: - Beh... ecco, vedete... la verità è che ho avuto una visione! - Una visione? Ma... veramente mi avevano detto d'un cavallo... Costanza era un
pò interdetta, mentre controllava che le bendature non fossero fuori posto. - Sì, sì... ciò che sapete del cavallo è tutto vero, ma la visione l'ho avuta dopo! Sull'incidente non ho nulla da aggiungere, tolto che non so se le ferite alla testa mi siano state procurate dalla caduta o piuttosto da... - ... pensi forse... a una zoccolata? (Conversione di Saulo) - L'ultima cosa che ricordo è il cavallo con lo zoccolo alzato sopra di me e una gran luce che mi accecò: non riuscivo a spostarmi... il mio corpo era immobile... e non potevo respirare... il petto come racchiuso in un pesante corpetto metallico, sapete... come quello dei soldati... ero steso a terra e potevo soltanto muovere braccia e gambe nel tentativo di proteggermi... poi fu l'oscurità totale, forse quando persi i sensi. Caravaggio s'avvide che Costanza era impallidita: aveva portato le mani alla bocca e le uniche parole che riuscì a pronunciare furono - Oh Maria vergine! Poteva ammazzarti! Ma... e la visione? - Quella fu la visione, mia Signora! Non una finestra sul futuro, ma la strana sensazione di aver già visto la scena da qualche parte... chi sa... - Vuoi dire... in un'altra vita? Ma... ma non è possibile, Michele... lo dice perfino la nostra Santa Fede cattolica! - e si segnò devotamente, seguita in questo dall'altra dama che ripeté il gesto più volte per maggior sicurezza. Caravaggio non trattenne un sorriso che subito spense, nel rispetto dovuto alla Principessa: - No, no... perdonatemi se sorrido ma non intendevo... no, mi riferivo al fatto che la luce, la mia posizione, il cavallo minaccioso mi ricordano qualcosa... forse una scena che mi ha particolarmente colpito... chi sa dove o in quali circostanze... - Ah! Che Iddio sia lodato! ... Per un istante avevo temuto che... - Che io fossi dedito a riti divinatori? Ma neppure per sogno! Né inferno né paradiso sono nei miei pensieri... ho già abbastanza guai con questo purgatorio di quaggiù...- e si guardò sconsolato la gamba ferita. Poi, temendo di aver ato la misura, si corresse: - Perdonate Signora Marchesa... forse il termine visione è improprio e ispirazione sarebbe stato più
adatto... ma il fatto è che quella scena di qualcuno abbacinato dalla luce mi pareva d'averla già...mah! Continuo a pensarci ma non riesco a focalizzare il ricordo... La visitatrice lo guardava pensierosa. - Forse un disegno o un quadro da te visto in ato? - Impossibile: non è certo qualcosa di recente... - E se fosse un racconto che hai letto? Un qualche episodio cui hai assistito? - Non leggo più dai tempi dell'adolescenza su a Milano... e quanto all'episodio... come sapete dalle nostre parti non si può certo dire che una luce così abbagliante sia cosa frequente...- e la guardò negli occhi ammiccando. Costanza ricambiò lo sguardo complice con un sorriso: - Già... poteva andar bene se invece tu fossi stato sommerso dalla nebbia... per il sole accecante occorre il nostro sud, la Sicilia o magari la Terrasan... ci sono! - esclamò eccitatissima - il cavallo... ma certo! Le Sacre scritture... ehm... le avrai lette, mi auguro: ricordi la... la conversione di Saulo... colui che veneriamo come San Paolo, mentre era sulla via per Damasco? Anche lì c'era un cavallo e -dicono- lui vide una grande luce... - Ecco cos'era! ... avete ragione! Il racconto del soldato che divenne Apostolo... non so più in quale scrittura ... ehm... ma sì, sì... come in un quadro... mi aveva colpito moltissimo da ragazzino. Ma Mastro Peterzano diceva che per cimentarmi con opere di simile impegno avrei ancora dovuto mangiare molte pagnotte... - Forse il momento si sta avvicinando, forse questo è il senso della tua visione: un invito ad aver fede malgrado le avversità... come l'incidente! Chi sa che uno di questi giorni io non... sì, insomma, diciamo che quando sarai guarito mi verrai a trovare a palazzo... così magari parleremo della tua Fede... Ma Caravaggio era ormai lanciatissimo: - Ci vuole un fondo molto scuro per far risaltare la luce sul manto del cavallo, che dev'essere il fulcro del quadro... un cavallo tutto bianco, naturalmente... per riflettere la luce... no, no sarebbe una macchia troppo grande e distoglierebbe lo sguardo dalla figura di Saulo a terra... no... mi squilibrerebbe la scena! Ci vuole un manto pezzato di bianco... proprio
come il cavallo dei Cesari... e la zampa... quasi tutta bianca - quella sì! - come fosse una lancia tra le braccia alzate di lui, che stesse per trafiggergli il cuore: la zampa... il cuore del dipinto... eh sì... perché se il cavallo non lo disarcionava, Saulo non si sarebbe convertito!! - E in attesa che vi convertiate voi... noi ce ne andiamo, Mastro Michele concluse la nobildonna, nascondendo la delusione dietro un sorriso. Gli offrì la mano che lui portò alle labbra con un certo ritardo: - Vi ringrazio, Signora Marchesa - disse. Costanza lo provocò: - Non ringraziare, ti prego... ma... abbi cura di te e... e dimmi, piuttosto... di che colore sarà il manto di Saulo nel tuo capolavoro? domandò con malizia. L'artista allargò le braccia indicando l'immensa tenda rossa, poi ci pensò un attimo e le lasciò cadere dicendo con sincerità: - Mah! ... forse no... forse un pò più chiaro... e un pò più spento: non vorrei che l'attenzione di chi osserva fosse attratta da Saulo e non dal cavallo!... perché è solo in quella zampa – quella che lo ha colpito – che si può vedere la mano di Dio! - Vero!!... - confermò lei, toccata dalla religiosità di quelle parole. Poi piegò graziosamente il capo e scomparve dietro il drappo che il paggio teneva sollevato.
Caravaggio non le aveva di proposito accennato alla faccenda della Canestra di Frutti, malgrado lei gli avrebbe senz'altro potuto combinare subito un incontro col Borromeo. Di fronte a lei Michele si sentiva turbato, non tanto per la differenza di lignaggio di cui era conscio fin dall'infanzia, ma perché quella donna lo lusingava, sembrava pendesse dalle sue labbra e a volte lo guardava in un modo che pareva volergli leggere l'anima. Costanza, con la sua ammirazione per l'Arte, con le domande intelligenti, con le acute osservazioni, non gli permetteva di eludere la propria posizione di Maestro, là dove si parlava di pittura. La sua Signora Marchesa pareva sempre intenta a cercare l'appiglio per starlo ad ascoltare. Questo lo imbarazzava, di lei: Michele non era un gran parlatore, ma questa donna gli faceva sempre tenere il mazzo, come s'usa dire.
E la sua bellezza ancora rigogliosa – malgrado fosse di circa dieci anni più anziana di lui – lo stordiva con i profumi, lo affascinava con l'eleganza degli abiti, lo incuriosiva con la ricercatezza delle acconciature. Ma ciò che più lo turbava quando stava con lei era un che di intimo e di complice, che di certo doveva in qualche modo trarre origine dalla familiarità di suo padre e della sua famiglia con gli ambienti della corte sforzesca nel piccolo marchesato di Caravaggio. All'arrivo di Costanza in ospedale, a Michele si presentava ogni volta la visione di lei giovanissima che lo prendeva per mano e lo portava a so con sé, mentre il marito esaminava con papà Fermo Merisi i progetti dei Longhi distesi su un lungo tavolo in marmo bianco. Insieme a lei girava per il Castello, attraverso corridoi lunghi e bui, piastrellati in cotto e decorati da tenebrosi quadri di antenati; oppure per immensi saloni, grandi da soli come tutta casa Merisi e anche di più, sulle cui pareti erano appese lunghe lance o alabarde che s'incrociavano, accanto a scudi e armature sistemate negli angoli. La voce vi rimbombava come se fossero suoni usciti dagli enormi camini, che poi si riflettevano sui tavoli in legno massiccio per confondere le loro orecchie, quasi provenissero da più direzioni. E antichi affreschi, affreschi tutt'intorno con le insegne degli Sforza e incorniciati da muri bianchi o color mattone, che nella parte più bassa delle pareti lasciavano spazio a decorazioni geometriche in cotto. Michele guardava affascinato quei personaggi dipinti: lunghi cortei di gentildonne, o armate che si sbudellavano in battaglia, una scena di nozze, un morente nel suo letto contornato dai parenti, un Santo che guida la mano d'un Cavaliere a trafiggere il perfido moro, incitato invece da uno stuolo di diavolacci orrendi. Se qualcosa lo intimoriva, sentiva la stretta della mano di Costanza a rincuorarlo. In quelle visite c'era una tappa fissa: un quadro del grande Leonardo, il ritratto di una giovanissima donna con un abito di stoffa lungo fino a terra, rosso e oro davanti, verdazzurro dietro e con preziosi ricami; lei portava i capelli bruni e lisci raccolti da una cuffia a maglia stretta e al collo una doppia collana di pietre nere. In braccio teneva un ermellino. La sua Signora Marchesa gli aveva spiegato trattarsi di un'amica di famiglia, vissuta un secolo prima. Michelino – come lei lo chiamava – sarebbe stato ore ad ammirarla affascinato, chiedendosi cosa mai stesse guardando la bella signora così attentamente. Finché un giorno
aveva concluso che lei stesse cercando di capire cosa mai avesse attirato l'attenzione dell'ermellino, suggerendo che questa fosse stata provocata da un sorcio, uscito a razzo da un immenso camino spento e arrampicatosi fin dentro l'elmo di un'armatura per sfuggire a un grosso gatto. Costanza rideva divertita. E sulla torre, là in alto sugli spalti merlati tra evoluzioni di rondini e fischi di rapaci, Costanza gli mostrava i campi coltivati cui nonno Merisi soprintendeva, o d'estate i covoni dorati. Quando le foglie già eran cadute, il loro sguardo poteva spingersi fino al fiume, lontano nastro d'argento fra le brume autunnali che qui e là ricoprivano i prati. Più grandicello, ma prima di venire ospitato a Milano – già tredicenne – dal Peterzano, Michelangelo spesso mostrava alla Signora Marchesa i propri disegni spontanei, tracciati con un pezzo di carbone su una tavoletta di legno, sul retro di una piastrella rubata ai muratori, o con il gesso su uno straccio ricavato da un vecchio abito dismesso. Lei osservava attenta, commentava e incoraggiava: era a tal punto partecipe, che lui si chiedeva – molti anni più tardi – se dietro al suo soggiorno dal famoso Peterzano non ci fosse stata lei, Principessa Colonna e Marchesa di Caravaggio.
16. Il furto dell'anello: I Bari
Qualche tempo dopo l'artista, ormai quasi ristabilito, era seduto alla Locanda del Vescovo in attesa dell'amico Prospero, reduce dal tanto sospirato incontro col Cardinale Federico Borromeo: era un lunedì e l'estate aveva da pochi giorni preso il posto alla primavera. Caravaggio non perdeva una mossa di ciò che stavano combinando tre personaggi al tavolo in fondo alla stanza presso il caminetto: quello di Prospero, per intenderci. A quell'ora, un pò prima del mezzodì, erano gli unici avventori e l'oste era indaffarato in cucina con Orsola negli ultimi preparativi per il pranzo imminente. Michele era arrivato da poco. Per molti mesi egli vi si era recato di rado, prima perché la bottega dei Cesari si trovava dall'altra parte della città, poi in quanto ricoverato in ospedale e più recentemente, dopo aver lasciato il Cavalier d'Arpino, a causa soprattutto della cronica mancanza di denaro. Sicché in quel tardo mattino di Giugno il pittore era stato accolto da Santino con rumoroso entusiasmo e subito sistemato a un ottimo tavolo: spalle alla cucina e vista su sala da pranzo e ingresso, che provvedeva aria nuova e la gran luce di Roma. L'oste gli aveva subito servito un bicchiere del suo vino dei colli Albani. Chi sa – aveva pensato l'artista al primo sorso – forse il Cardinale sarebbe stato il suo primo cliente di rango! L'Orsi aveva dovuto attendere più di due mesi per venire finalmente ricevuto soltanto la sera precedente. Caravaggio ridacchiò tra sé pensando: - Proprio lui che aveva voluto fingere di non avere urgenza di vendere... mi sa che Sua Eminenza gli abbia insegnato quanto sia inutile mostrare ai gatti a arrampicarsi... come si dice! I tre avventori dell'unico tavolo occupato stavano giocando alle carte.
L'occhio esperto del pittore, il quale spesso e volentieri praticava con gli amici il gioco d'azzardo – sebbene rigorosamente vietato da papa Clemente VIII – capì subito che i tre erano impegnati in una partita di primero spagnolo tra i due giocatori più giovani.Sul tavolo giaceva la scatola intarsiata per un gioco dei dadi. Uno dei tre, un ragazzo dall'aspetto un pò fragile cui il berretto piumato e il corto stiletto al fianco pretendevano di conferire un che di pateticamente adulto, era messo di tre quarti e dava le spalle a Michele. Degli altri due, il più avanti negli anni era un uomo sulla trentina con barba e baffi neri, che se ne stava in piedi con le spalle appoggiate a una parete della stanza: a Caravaggio diede l'impressione d'un tipo già noto e... poco raccomandabile. Costui vestiva un giubbotto grigio chiaro e damascato al quale erano cucite le maniche di un vivace tessuto a strisce gialle e brune. mentre neri erano il cappello ornato d'una lunga e sottile piuma alla moda se... e, ovviamente, il mantello agganciato su una spalla secondo la moda del tempo. Incuriosito, Michele tentò d'identificarlo fra le molte facce di ladroni, magnaccia, truffatori e innocui padri di famiglia che incontrava per le vie del Bordello, perché gli pareva proprio di aver già visto quel volto, da qualche parte... Ma subito se ne dimenticò: la sua attenzione era stata polarizzata dal terzo personaggio, un giovinetto seduto al tavolo e intento a studiare le proprie carte. Forse per vizio professionale ne fu subito attratto, per la grande delicatezza di lineamenti: l'ovale perfetto del viso incorniciava la piccola bocca cui le labbra carnosette davano una forma di cuore, un naso diritto e regolare e le lunghe ciglia a impedire la vista degli occhi, che costui teneva bassi sulle carte. Le orecchie, minute e ben fatte da parer due conchiglie, fermavano un elegante copricapo di velluto scuro, dal quale sfuggiva un ricciolo di capelli. Il suo abito, dello stesso colore del cappello, aveva colletto e polsini di pizzo bianco, qualificando chi lo portava come un giovane raffinato, forse un paggio... se non fosse stato per le sopracciglia e per le mani.
L'arco perfetto delle prime pareva disegnato con un appuntito pezzo di carbone, tant'era sottile; le seconde erano curatissime, con dita lunghe e affusolate... come quelle di una donna! L'occhio di Caravaggio, allenato a studiare lineamenti e pose dei modelli che dal d'Arpino gli avano frequentemente sotto il naso drappeggiati da icone sacre, gli suggeriva l'ipotesi che costui fosse un paggetto adolescente di grandi Signori, cosa di per sé già assai discutibile dal momento che si era in orario di lavoro. Ma il suo istinto, quella sua dote naturale accresciuta dall'applicazione, che gli permetteva di risalire dall'espressione di un volto ai sentimenti che la originano e, al contrario, di rappresentare questi su tela per mezzo di quella, gli diceva doversi trattare d'una femmina: bellissima, giovanissima e...ben illuminata dalla luce proveniente dalla porta d'ingresso, l'ombra del cui arco si proiettava sul muro. Anche perché nulla nel suo aspetto avrebbe potuto benché lontanamente far pensare alle doti più comuni tra i frequentatori delle osterie romane del tempo: arroganza e trivialità. A cominciare dal cappello, decorato da una piccola piuma e di rispettabile volume... - E che ci farà mai una giovanissima donna in osteria con un simile copricapo? - si chiese. Subito si rispose da solo: - Ma ci nasconde i suoi lunghi capelli, naturalmente! Una donna? Possibile? Più che curiosa, la cosa gli sembrava incredibile: una delicata giovinetta gioca a primero nella taverna di Santino... all'ora di pranzo? Forse era solo una sua impressione... eppure più osservava il personaggio e più si convinceva che... bah! avrebbe dato un occhio per poterne aver conferma, in qualche modo. Affascinato dalla sua fresca bellezza, l'artista estrasse dalla bisaccia una larga tavoletta di legno e prese a schizzare il viso di lei con un gessetto: sempre alla ricerca di scene da ritrarre dal vero secondo il suo credo, aveva tutto l'occorrente con sé. Ma non appena abbozzato qualche tratto, un movimento dell'uomo barbuto ne attirò l'attenzione: costui stava, infatti, alzando lentamente un braccio da dietro le spalle dell'ignara giovane. Il pollice d'una mano del personaggio, insieme con indice e medio, tutti distesi a dar luce ai polpastrelli attraverso vistosi buchi nei guanti, formava la rappresentazione muta del numero tre. Michele si fece attento e s'affrettò a fissare sulla tavola la birbantesca espressione di costui: occhi
sgranati e fronte aggrottata mentre traguardava da sopra la spalla di "lei" e la bocca che, quasi seguendo la linea dei baffi ricurvi, si piegava all'ingiù come stirata dal mento, un pò protruso per favorire una miglior visione. Era l'atteggiamento inequivocabile di chi sta consumando l'atto truffaldino di spiare le carte di un altro. In quella il ragazzo con lo stiletto portò la mano destra a una tasca sul retro dei calzoni, dalla quale facevano capolino alcune carte: a riprova della complicità dei due, con le dita si preparava a estrarre un SEI. Michele memorizzò la scena di quell'attimo, avendone tratto ispirazione per un quadro assolutamente originale; ma continuò a schizzare il volto della fanciulla. - Ecco perché non andavo d'accordo col D'Arpino! - pensava ridacchiando - lui sempre lì alle prese con santi e martiri immaginari... con i relativi modelli a pagamento! Mentre io scelgo scene di vita dal vero! Vuoi mettere il divertimento e... la varietà di scelta? Intanto, cercava di non perdere d'occhio la povera vittima, che gli lanciò uno sguardo angosciato quando quel giro di carte finì con la sua inevitabile sconfitta. I tre avevano preso a discutere a bassa voce, ma non tanto da impedirgli di capire che i due bari pretendevano una somma di denaro che il paggio non aveva con sé. L'uomo baffuto era visibilmente alterato e aveva assunto un aspetto minaccioso. Allora l'elegante giovinetto estrasse dall'abito un anello d'oro posandolo sul tavolo: il baro baffuto lo carpì per osservarlo con grande interesse, prima che i tre confabulassero brevemente e la partita riprendesse. Da quel momento – a eccezione di pochi casi provocati ad arte dai due malviventi per dare credibilità all'opera loro – a ogni giro di carte che si concludeva con una vittoria dei suoi avversari, il meschino paggetto alzava disperato gli occhi verso Michele, quasi a chiederne l'aiuto. Il pittore era ben conscio del delitto perpetrato ai suoi danni ma, in specie alla luce del giorno, nella Roma di quei tempi vigeva l'aurea massima di mai ficcare il becco nei casi altrui quando si era soli e disarmati; soprattutto se si volevano
evitare spiacevoli intrusi metallici che, non invitati, procuravano a volte alle interiora qualche non richiesta via d'uscita verso il mondo esterno. Egli dunque osservava senza preoccuparsi d'intervenire e ormai i volti dei due personaggi principali erano abbozzati, con quello del baro già ben delineato. Ad un tratto, le campane di S. Biagio de Oliva – una piccola chiesa dei Barnabiti a qualche isolato da Campo de' Fiori – insieme al mezzodì segnarono pure la comparsa dell'oste, il quale informava con un inchino i presenti che il pranzo era pronto e che - Signor Duca Giovanni, domando scusa ma, se non pensate di trattenervi per il pasto, temo che tra poco avremo bisogno del tavolo. - Signor Duca? - si domandò Michele stupito - Quel losco individuo proprio non mi sembra un Duca... invece mi par tanto di averlo già incontrato... al Bordello! Santino ancora stava parlando che il giovinetto elegante già era scattato in piedi e s'era gettato sull'anello per riprenderselo, urtandolo invece maldestramente e facendolo cadere a terra tra il tavolo e il muro, proprio sotto i piedi del baro alle sue spalle. - Ah nossignore, Signor vostro! Questo è pegno di gioco! - esclamò costui, che con zampata felina aveva subito pizzicato l'anello sotto la scarpa senza che ciò sfuggisse allo sguardo attento di Caravaggio. Visto fallire il tentativo, la vittima del raggiro si girò verso il pittore, elargendogli un'ultima occhiata che era ormai di disperazione senza scampo: Per pietà! - esclamò supplicante. Poi, in lacrime, corse alla porta per sparire nella via, sgusciando tra la parete e la nera figura di Prosperino che entrava in quel momento. - Sono due bari - gridò Michele concitatamente, indicando all'amico i malfattori e confidando nella sua mole per intimidirli - trattienili qui, che io seguo quell'altro! - e si lanciò nella strada. L'Orsi era rimasto per un attimo frastornato da quelle parole, non comprendendo perché mai, dal momento che i malviventi stavano lì in trattoria, egli ne uscisse come una furia per correre dietro a un paggio adolescente dall'aspetto spaventato e inoffensivo.
Ma tant'è, così Caravaggio aveva detto ed egli puntualmente eseguì: si piantò nel mezzo della stanza allargando le braccia ad impedire il aggio, come un Cristo Pantocratore nei mosaici delle absidi bizantine. I due compari, scambiatasi un'occhiata d'intesa, si separarono: il più maturo attaccò sul lato sinistro, mentre l'altro guizzò sotto i tavoli dall'altra parte e in men che non si dica si portò all'uscita. L'oste, imbarazzatissimo, balbettava dalla soglia della cucina: - Ma... Signor Duca... Messer Prospero... vi prego, Signori! - senza a nulla approdare. Lo sconcerto prodotto nell'Orsi dall'accerchiamento subito fu tale che, mentre egli si concentrava su quello dei due che per età doveva rappresentare la mente della truffa e dunque l'ostaggio chiave, non s'avvide che il suo socio aveva brandito una sedia e gli si avvicinava alle spalle. - Mastro Prospero... attentooo! - fu il grido tardivo di Santino: la sedia si abbatté sulla testa del pittore che s'accasciò sul pavimento privo di sensi. Il suo corpo imponente impiegò qualche breve secondo ad assestarsi prima di giacere totalmente immobile e per quell'attimo all'oste ricordò, così tutto nero, una piccola balenottera morta – vista a Pasquetta sul litorale ostiense – che la risacca faceva lievemente ondeggiare sul bagnasciuga. Quando Orsolina, chiamata dal marito, entrò in scena con uno straccio bagnato, del Signor Duca e del suo degno collega non c'era più traccia: solo due bicchieri vuoti e... le consumazioni da pagare.
Fuori intanto, nel luminoso meriggio romano, il paggio misterioso e Michele che lo inseguiva si ponevano entrambi la stessa domanda nei confronti dell'altro: chi sarà mai costui? Al pittore bastarono pochi balzi sulle tracce di quella lenta corsetta a i brevi per decidere che non era il caso di affannarsi. Da una parte il riacutizzarsi del dolore alla gamba convalescente gli ricordò gli
avvertimenti del medico che aveva raccomandato cautela nel camminare, per cui rallentò sensibilmente con grande sollievo. Dall'altra, i vistosi ondeggiamenti del paggio producevano – visti da tergo – un allettante moto di morbide masse tondeggianti, alla cui vista ogni suo dubbio circa il sesso del giovincello e la sua appartenenza a un'elevata classe sociale svanì come vapori nell'aria. A quei tempi, infatti, le donne romane di rango non sapevano correre alzando le ginocchia, non essendovi addestrate in quanto considerato atto non confacente al decoro cui erano tenute. E se per inclinazione o per fanciullesca esuberanza ne erano in grado, ben si guardavano dal darlo a vedere in pubblico per non rovinarsi la reputazione. La fisicità femminile dei ceti elevati era insomma scoraggiata sotto ogni forma eccetto una, a patto che questa fosse piamente limitata al solo adempimento dei "doveri coniugali"; e in numerosissimi casi, celate agli occhi del mondo da grate crudeli, le donne erano pure private di quelli insieme alla loro parte dei beni di famiglia, spesso accaparrata dal convento nel quale consumavano i loro giorni. E le altre femmine senza dote, le popolane e le straccione, che corressero pure se proprio ci tenevano e se ne erano capaci... tanto di loro nessuno si curava. Ne derivava che le più veloci nel correre fossero le puttane, in specie quelle degli Ortacci – la zona lungo il Tevere dove i poveri coltivavano piccoli orti – ben allenate dalla frequente necessità di sfuggire alle retate dei birri dandosela per l'appunto a gambe levate, come si usa dire ancora oggi. Così il pittore, dovendo escludere che tra una giovanissima dama raffinata come quella che gli correva davanti e i due loschi figuri dell'osteria fosse possibile alcun nesso oltre alla truffa palese di quelli, si chiedeva cos'altro mai avesse portato costei alla Locanda del Vescovo in una soleggiata mattina di fine Giugno. Le campane di San Biagio stavano per concludere la prima serie di rintocchi di mezzogiorno quando, superata di slancio la piazza San Salvatore in Campo nella quale Michele abitava, i due...scadenti corridori giunsero al fondo d'un vicolo dove se ne allargava un'altra assai più piccola, sulla quale incombeva la massa un pò lugubre dell'abitazione di sco Cenci.
Michele ricordò che anche quel suo ladro – che a febbraio aveva tentato il furto della Canestra dalla bottega di Prospero – era sparito da quelle parti. - Ma guarda un pò! - pensò - da qualche tempo parrebbe che tutto ciò di malavitoso che mi capita in questo rione debba in un modo o nell'altro condurmi a palazzo Cenci... Vide la sconosciuta in abito da paggio fermarsi dietro un angolo studiando attentamente i movimenti delle guardie all'ingresso principale e poi, camminando veloce rasente i muri, svoltare in una stretta via laterale e raggiungere una porticina secondaria della costruzione. La ragazza bussò e, prima di entrarvi, si volse verso Caravaggio che s'era fermato ad osservarla sotto un porticato, incerto sul daffarsi vista la destinazione dell'inseguita e più ancora per via di quei minacciosi armigeri a pochi i da lui. Mentre la porticina si richiudeva, il pittore vide una mano delicata sporgersi da essa per lasciar ostentatamente cadere qualcosa di candido nella via. Attese qualche istante e poi, mentre le guardie non lo osservavano, guizzò nel vicolo per raccogliere da terra uno dei pizzi che decoravano i polsi della misteriosa giocatrice. Lo intascò e s'affrettò a raggiungere Prospero. Arrivando in prossimità della locanda una strana scena si offrì ai suoi occhi: la porta d'ingresso era chiusa e, davanti a essa, sostava un capannello di avventori visibilmente irritati, i quali stavano commentando l'inopportuna decisione dell'oste che s'era rifiutato di ammetterli adducendo a motivo un malore di chi sa chi. Michele si fece largo deciso e si precipitò alla porta bussando ripetutamente. - È chiusooo! Come vi devo dire che oggi siamo chiusiii? - gridò l'oste dall'interno. - Ho capitooo! ... ma io sono Micheleee! Il pover'uomo tirò il fiato: - Ah! Maria, aprigli... meno male che è arrivato, così si occuperà lui di Messer Prospero e noi potremo dar da mangiare agli affamati!
Lui e Orsolina non ce l'avevano fatta a spostare quel peso morto fin fuori dalla stanza e lo avevano lasciato nel bel mezzo della sala da pranzo: - Su, su, presto! Chiudiamo l'uscio prima che si faccia scandalo! - aveva detto Santino sconsolato, quasi parlando tra sé - tanto chi vuoi che mangi con accanto uno che sembra sia stato appena accoppato... con tutta quella roba già pronta... ce la farà buttare, accidenti... accidentaccio a lui! All'arrivo di Caravaggio, Prosperino però riprese i sensi con gran gioia della piccola Maria che si vantò subito del proprio lavoro d'infermiera. - Zitta tu, mocciosa, che per oggi ne hai già combinate a sufficienza! - la rimbrottò arcigno il padre con le stesse accuse ingiustificate che prima riservava alla figlia maggiore - e comincia piuttosto a mettere il vino sui tavoli, che quello sistema sempre tutto! Infatti un'altra cosa che, per Santino, non guastava mai era rampognare le donne di casa anche senza ragione apparente: e, a chi glielo faceva con le buone osservare, amava rammentare con sollazzo la storiella di quel tale che, rincasando ogni sera, per prima cosa percuoteva la moglie, giustificandosi col fatto che lei ne avrebbe certamente conosciuto la ragione. Con l'aiuto di Michele sollevarono Prospero, trascinandolo fino in cucina e facendolo sedere su una sedia. Poi l'oste si precipitò ad aprire la porta della locanda. Il pittore riprese il soccorso medico che Maria aveva interrotto per il servizio. Poco a poco l'Orsi recuperò il colorito e ben presto accettò un boccale di vino pieno fino all'orlo, che l'oste gli porse dopo un paio di giri per le ordinazioni. Non appena l'amico fu in grado di stare eretto, Caravaggio lo sorresse e insieme si diressero all'uscita accompagnati dalle benedizioni di Orsolina per l'infortunato. - Mioddio....il quadro! - esclamò costui non appena messo piede nel vicolo. Nella confusione della scena nessuno aveva notato, sotto il suo braccio all'arrivo in locanda, un grosso rotolo legato con un nastro che lui s'era visto costretto a deporre a terra per poter contrastare la fuga ai due truffatori.
La Canestra di frutti che Prospero aveva appena mostrato al Cardinale Borromeo per la trattativa finale sul prezzo, era così rotolata ingloriosamente sotto un tavolo inutilizzato nell'angolo vicino all'ingresso. - Cavoli...lo schizzo! - gli fece eco Michele che invece stava dimenticando la tavoletta, abbandonata su quell'altro ch'egli aveva occupato, nella furia d'inseguire il paggio raggirato. Maria provvide al recupero di entrambi con la velocità d'un ratto, seguita dallo sguardo irritato del padre che ovviamente non gradiva la sua distrazione dal servizio. Avviandosi all'abitazione dell'Orsi Caravaggio ragguagliò l'amico sull'accaduto, fino alla sparizione di quella che lui credeva una giovanissima nobildonna in un ingresso secondario di Palazzo Cenci. - Sai, pensavo... anche quel ladro della Canestra era sparito nelle vicinanze di Palazzo Cenci ma... non lo potei vedere bene in faccia, era troppo buio... forse Lorenzo lo vide, lui reggeva la lanterna... tutto quanto ricordo è il cappello piumato che portava, somigliante a quello... ehi! ... a quello del baro, per la miseria!!! Ecco dove lo avevo già visto!... forse... mah! ... e chi può dirlo? Michele fece il gesto di mostrare all'amico il suo ultimo schizzo e, battendo col dito sulla tavoletta - Ah! - aggiunse - come vorrei la conferma di Lorenzo... ma ormai è sparito anche lui e non posso neppure mostrargli questo per vedere se lo riconosce! Prosperino era troppo confuso dalla botta ricevuta per trarre conclusioni di sorta: si limitò a un grugnito di partecipazione mentre apriva la porta di casa e aggiunse - Del Borromeo ti dirò dopo: tutto bene... ma sono stanchissimo e ho un gran mal di testa... scusami!
Caravaggio lo lasciò riposare e decise di appostarsi di fronte a casa Cenci, all'ombra del porticato che prima gli aveva offerto rifugio e che gli pareva fe proprio al caso suo. Che la misteriosa ragazza-paggio fosse mai la giovanissima Beatrice, figlia minore del Barone sco, della quale tutta Roma decantava la straordinaria
bellezza? Ma, a pensarci bene, Lorenzo... non gli aveva detto che la sua ragazza lavorava dai Cenci? E lui... non le aveva regalato un anello? Tuttavia, la fanciulla-paggio della locanda non poteva certo essere la figlia degli osti, né tantomeno poteva far la serva, con quelle mani curate e il portamento da gran dama perfino nel correre: Michele sorrise divertito a quell'immagine, mentre ricordava l'aggraziata pensosità di lei nello studiare le carte. Dunque, l'unica traccia da possibilmente seguire era il polsino di pizzo lasciato cadere a terra per lui: - Quel gesto avrà ben voluto significare qualcosa! - pensò. Valeva forse la pena di attendere.
17. Pedinamento...con "vista"
Quella mattina alla locanda Beatrice aveva accettato la sfida dei bari per non dare nell'occhio a rischio d'insospettire il padre di Angelica. Infatti di mangiar qualcosa non era ancor l'ora e...neppure poteva bersi un boccale di vino, per cui provava un'istintiva repulsione. Neanche vincendo questa – pensava con disgusto mentre smazzava – sarebbe ata inosservata, sola al tavolo con un bicchiere, malgrado il travestimento maschile con una divisa di gala di Matteo ormai troppo piccola per lui. Infatti se questa da un lato poteva trarre in inganno circa il suo sesso, il bicchiere avrebbe invece portato i presenti a chiedersi cosa mai ci fe in osteria, a quell'ora della mattina e in divisa di gala, un raffinato paggio di grandi Signori e in giovanissima età: l'attenzione di tutti sarebbe stata garantita! Proprio com'era accaduto a quel giovane seduto al tavolo vicino all'ingresso, che lei teneva d'occhio da quando era entrato poiché doveva essere pittore... e avrebbe potuto conoscere Lorenzo! Beatrice s'era accorta che costui dava un'occhiata a lei e ai suoi avversari e poi tracciava alcuni tratti di gesso su una tavoletta... la studiava attentamente un altro pò... per subito tornare a concentrarsi sul disegno. Ma non le sembrava insospettito... soltanto interessato, e quasi le teneva compagnia malgrado fosse uno sconosciuto. Santino lo aveva salutato con - Ecco qui il nostro caravaggio!... una parola a lei nota, poiché pronunciata a volte da Lucrezia quando parlava dell'amica Costanza Colonna... ma in questo caso priva di qualsiasi collegamento con lei... figurarsi! La ragazza doveva a tutti i costi attendere l'ora di pranzo sperando si presentasse Lorenzo o, se non lui, almeno quell'altro pittore... quel Mastro Prospero: per riconoscerli contava sul fatto che Santino li avrebbe chiamati per nome, come le aveva garantito Angelica. Non aveva scelta e aveva dunque accettato la sfida dei bari, facendo affidamento sulle nozioni di gioco apprese da Lucrezia nei loro lunghi incontri durante le sue crisi d'emicrania. La Baronessa era infatti un'accanita giocatrice di carte al pari di due sue intime
amiche con cui si riuniva il primo giovedì d'ogni mese, dietro la scusa ufficiale di prepararsi in preghiera alla Santa Comunione precettata dal papa per il giorno successivo. L'intrigante Gertrude aveva invano tentato di scoprire lo scopo segreto di quelle riunioni per riferirne al padrone, ma la copertura di Lucrezia era a prova di bomba: il luogo prescelto era infatti la canonica della vicina chiesa di S. Biagio de Oliva, il cui parroco era padre spirituale della Baronessa ma oltre a ciò – e segretamente pure lui – grande apionato dei vietatissimi giochi di carte. Così quella fatale mattina la giovanissima Cenci proprio non riusciva a capire perché le cose si stessero mettendo così male per lei: da qualche minuto sembrava che l'avversario avesse sempre la carta buona per vincere contro le sue! Era a tal punto assorbita dal gioco che quasi dimenticò la ragione per la quale si era recata in trattoria: - Ma no - pensava - non credo proprio ricorrano a trucchi! Dopo tutto, il mio avversario sembra ancora un bambino e l'altro non dà alcun disturbo... se ne sta lì, un pò dietro di me, tacendo... e poi sembra tanto a modo... Ma all'avvicinarsi del mezzodì le parole dell'oste le avevano fatto come scoppiare un fulmine nel cervello: - Signor Duca...- aveva infatti detto Santino, rivolto al giocatore più vecchio. Un terrificante sospetto la impietrì ma riuscì a controllarsi: poteva solo trattarsi di una ben straordinaria coincidenza, ma il titolo nobiliare le aveva richiamato alla mente quell'orribile scena di violenza con Angelica legata... purtroppo però quel suo Signor Duca non aveva proprio potuto vederlo in viso. - No! - pensò per farsi coraggio - non è possibile... non può essere! Eppure la Locanda del Vescovo non era luogo da ospitare avventori titolati e questo bel tipo proprio non aveva l'aspetto di un Duca: - ma allora potrebbe... o Gesù mio! - pensò, combattendo il bisogno di scoppiare in lacrime. Tentò con sguardi angosciati di attirare l'attenzione di quel pittore, là in un angolo. Nulla da fare: era concentrato su ciò che stava velocemente schizzando.
La calma ostentata da Beatrice aveva ormai ceduto all'angoscia più totale. Quando poi i due malviventi le avevano estorto la promessa di pagare il debito con l'anello (di Lorenzo) si era sentita perduta: se il baro fosse stato chi lei temeva avrebbe potuto riconoscerlo e... dionescampi! Era stato in quel momento che il locandiere s'era rivolto nuovamente allo sconosciuto: - Signor Duca Giovanni... - aveva detto. Quel nome dopo il titolo ducale le aveva dato una seconda scossa, come fa la tromba mattutina con le reclute: ma questa era da sedia elettrica. La Baronessina s'era sentita morire: Questo giocatore era lui, oh Signore! era proprio quel Giovanni...! E pensare che lei era andata in trattoria a cercare quell'altro... Lorenzo! Poi le campane le avevano ricordato l'impegno con Lucrezia di rientrare in tempo per il pranzo, costringendola a lasciare l'anello nelle mani di quel poco di buono. Ma cosa mai avrebbe potuto fare contro due malviventi una povera donna indifesa? Mentre correva verso casa non aveva più dubbi circa il gran guaio che aveva combinato perdendo anello e messaggio, e si disperava: come avrebbe fatto a confessarlo all'amica? Tutte le sue speranze erano riposte nello sconosciuto pittore che ora la stava inseguendo, sebbene – stranamente – non desse a vedere d'aver molta fretta di raggiungerla. Le parve che zoppicasse e questo avrebbe potuto spiegare tutto... D'altra parte lei non poteva certo fermarsi a parlare con lui così vestita, sulla pubblica via e con il pranzo ormai pronto: non le rimaneva che correre a perdifiato. - Fortuna che mi son dovuta travestire - pensava - con una vecchia divisa da cerimonia di Matteo! Pensa dover correre a questo modo con gonna lunga e scarpine eleganti! - ma intanto, giunta alla porta di casa, non osava neppur pensare a come raccontare l'accaduto all'amica.
- Fate presto, Madamigella Beatrice, fate presto per carità che stanno per servire il pranzo! - sussurrò Angelica aprendo la porta di servizio mentre le campane di S. Biagio terminavano la prima serie di rintocchi.
Le due ragazze si rifugiarono dietro al frantoio e lì, nella semioscurità della dispensa, Beatrice si cambiò d'abito in gran fretta, mentre Angelica lo reggeva affinché non si sporcasse di farina strisciando sul pavimento. - Mi spiace ... mi spiace ma... non ho potuto far nulla! Mi dispiace... ti racconterò dopo... c'era lui!... lui! - diceva la baronessina affannata mentre la cameriera la sospingeva nell'angusta cassa del montacarichi, trattenendosi il fagotto dell'abito da paggio. - Ma... Baronessina, perdonatemi...lui chi? - Adesso non c'è tempo... dopo ti racconterò - sussurrò Beatrice a guadagno di tempo. Poi, fissandola con occhi sgranati, tirò con forza la cordicella per dare a Matteo il segnale di risalita. Subito il rudimentale ascensore si mosse, mentre i cigolii della carrucola facevano rabbrividire i tre complici al pensiero che venissero uditi da Gertrude: sco Cenci aveva, infatti, annunciato l'imminente ritorno a Roma per organizzare la grande festa d'estate e la perfida governante aveva drizzato ancor più le sue spionesche antenne. Nella sua fallita spedizione Beatrice aveva dunque dovuto rispettare rigorosamente l'orario di rientro, anche per evitare sanzioni agli altri due membri della banda, Angelica e Matteo. Quest'ultimo era di servizio in sala per assistere la sua padrona durante il pasto, ma avrebbe prima dovuto operare il montacarichi per un rapido e segreto recupero di Beatrice: un ritardo di lei lo avrebbe costretto a presentarsi tardivamente in sala da pranzo sotto gli occhi di tutti e in particolare di Gertrude. Angelica poi, essendo alle dipendenze dirette di Beatrice pagava tal privilegio con un odio crescente da parte della serpe, che avrebbe venduto l'anima al diavolo pur di farle del male: a volte la ragazza temeva di essere anche spiata, negli ultimi tempi. Ma il voluto sincronismo dell'intera operazione con le campane di San Biagio riuscì tanto ben concepito quanto perfetto nell'esecuzione da parte dei protagonisti. Infatti la mente della spregiudicata impresa alla locanda era la Baronessa
Lucrezia alla quale, nell'approssimarsi della ricomparsa del marito, non pareva vero di ancora godersi qualche scampolo di trasgressione seguendo da dietro le quinte le due ragazze con occhio compiacente e fornendo loro all'occasione un aiuto concreto. La gentildonna ben conosceva l'affetto che legava la figliastra a Angelica e, messa al corrente della necessità di questa di rintracciare Lorenzo, s'era assunta l'incarico di stratega pilotando l'intera faccenda dalle sue stanze, rigidamente proibite a Gertrude. Quel giorno però, poco prima del mezzodì, aveva convocato la donna con lo scopo di tenerla impegnata affinché non fosse testimone del rientro di Beatrice per la via del deposito viveri al piano terra. Per prudenza dunque, oltreché per non darle accesso alle sue stanze più intime, Lucrezia ricevette la governante nel salottino accanto alla porta d'ingresso e l'intrattenne in piacevole conversazione, informandosi della casa, delle provviste e del personale, fingendo di volersi assicurare che tutto fosse in ordine per l'arrivo del suo Signor marito. La spiona, sorpresa – anche per via dell'ora – da quell'inusuale iniziativa della padrona, si chiese più volte dove mai volesse andare a parare ma, non trovando risposta, dovette stare al gioco anche quando Lucrezia la trattenne oltre il mezzodì, visto che la seconda razione di rintocchi era ormai cominciata. La Baronessa – pur preoccupata per il ritardo della figliastra – era divertita dal nervosismo che si andava visibilmente impadronendo di Gertrude. Arrivò alla raffinata crudeltà di lasciarla attendere nel vestibolo: - Vogliate scusarmi un attimo, cara Gertrude, vi prego! - disse a un tratto, e sparì. Attraversò tutto l'appartamento e quando vide Matteo già faticare alla maniglia del montacarichi gli sussurrò - Avete via libera ma fate presto per amor di dio, perché adesso non potrò più trattenerla... se vorrete uscire di qui! Poi raccolse da una ciotola accanto alla grande specchiera una piccola spilla d'argento con un ciondolo in smalto bianco a forma di margherita e tornò senza fretta nell'ingresso: trovò la governante ormai prossima all'apoplessia. - Ecco, mia cara, e scusatemi - esordì senza mostrare di averlo notato - volevo donarvi questa spilla, che forse potreste gradire come fermaglio al vostro colletto. Vi prego di accettarla come un segno della mia gratitudine.
E così dicendo mostrò alla donna come applicarla, prima di avviarsi alla porta con lei che era rimasta senza parole. - Dite a Matteo di prendere il mio ventaglio... con questo caldo non credo riuscirei neppure a pranzare, senza un pò d'aria - ordinò poi alla sua dama di camera, uscendo soddisfatta e seguita dall'allibita governante.
Lasciata Beatrice nel suo primordiale ascensore, Angelica si assicurò che in cucina non si fossero accorti di nulla e, tranquillizzata dall'operoso trambusto che vi regnava, girò sui tacchi per salire all'ammezzato dalla scala a chiocciola. Procedeva cautamente data la vicinanza dell'alloggio di Gertrude ma, per fortuna, di lei non c'era traccia secondo le previsioni di Lucrezia, dato che a quell'ora l'infida serpe sarebbe dovuta trovarsi nel salone a controllare i preparativi per il pranzo dei Signori. Mentre saliva, la servetta si chiedeva chi mai avesse potuto terrorizzare la sua padroncina a quel modo, laggiù alla locanda dei genitori: il termine lui avrebbe dovuto indicare Lorenzo, dato che la padroncina era andata lì a cercarlo... ma allora perché mai una persona così mite avrebbe dovuto spaventarla? A meno che... in quei mesi ati senza più incontrarlo fosse cambiato e incattivito al punto da... - No... mi rifiuto di crederlo! - pensò mentre apriva la porta della sua cameretta: d'accordo con Beatrice avrebbe atteso l'ora della siesta per raggiungerla nel suo appartamento... Barone sco permettendo. Si guardò intorno nella penombra: il locale privo di finestre le sembrò triste e cupo al paragone di quello che Beatrice le aveva fatto allestire nelle sue stanze al secondo piano, dove lei si trasferiva ogni qual volta il Cenci si assentava da Roma. Osservando il proprio giaciglio, per un attimo rivide le immagini di scene di sesso vissute con Giovanni: ma senza emozione, quasi non la riguardassero. Le vennero alla mente le violenze subite e scambiate per ione... se non addirittura per amore: - Che stupida sono stata! - pensò - lui arrivava, si prendeva quello che credeva un suo diritto, mi derubava poiché non mi rendeva mai il denaro che gli prestavo, quasi sempre mi percuoteva se non lo esaudivo...
e poi spariva. Non un bacio, non una carezza sul viso quando piangevo, non una parola che non fosse un ordine da eseguire, una voglia da soddisfare... ma come, come ho mai fatto a innamorarmi di lui? E perché non mi sono invece innamorata di Lorenzo, così caro... affettuoso e altruista? - Si rese conto di aver amato chi non lo meritava e, vittima dei sensi di colpa, si vergognò: - Come si fa a esser così stupida? ... - si ripeté, intenzionata a non coricarsi in quel lettino che lei credeva d'amore e invece era diventato di sevizie. Chiuse la porta alle sue spalle e vi si appoggiò: nel buio che l'avvolgeva pianse. Lunghi lacrimoni le scendevano fino al mento. Aspirò con il naso più volte. Singhiozzando, si lasciò scivolare fino a terra, raccolse le gambe e le abbracciò poggiando il capo sulle ginocchia: quasi senza intenzione una parola uscì dalla sua bocca: Mamma! Quel dolce nome le diede coraggio con la certezza di non essere sola; lo ripeté più volte commossa. Pensò alla serenità di quella donna, malgrado le fatiche e i patimenti per le angherie del marito: l'ammirò per lo spirito di sopportazione e per la scaltra abilità che dimostrava nel proteggere se stessa e le figlie per quel poco che le era concesso, senza mai perdere occasione per spiegar loro che dignità non voleva dire mancanza di rispetto per il padre ma coscienza di ciò che dovevano a sé stesse. Ma poi le labbra le si incresparono in un triste sorriso, cogliendo la tragica ironia della relativa sicurezza che il rientro del Cenci avrebbe procurato a lei, Angelica, a spese di Beatrice: Giovanni sarebbe infatti stato troppo impegnato col padrone, per importunarla... e lei avrebbe dormito nell'appartamento del piccolo Bernardo! Con cuore dolente pensò all'amica: quanto aveva rischiato, tentando la carta della locanda! Adesso stringeva i pugni nel buio e digrignava i denti per la rabbia: se qualcuno avesse mai potuto vederla, il suo volto esprimeva risentimento e determinazione. Ma si sentiva serena: il torrente dei suoi sensi di colpa sempre in agguato aveva ora una fonte ben individuata e lei non avrebbe scelto nessun capro espiatorio, questa volta...
A fatica si rizzò e a tentoni raggiunse il giaciglio. Inspirò profondamente prima di gridare con forza: - Giovanni...vaff...! In quell'istante risuonò, quasi stordendola, un fragoroso colpo di gong a segnalare che il pranzo era servito. Ma, attraverso gli spessi muri che separavano gli alloggi della servitù dalla scalinata padronale, quel suono grave e prolungato da echi misteriosi giunse ad Angelica come un segno del destino, quasi un'approvazione fatale alle sue parole: un suono lungo e solenne che chiudeva un capitolo della sua vita. Rasserenata, trovò il coraggio di coricarsi.
Attraversati correndo gli appartamenti della Baronessa Lucrezia, Beatrice si era precipitata nel bagno: prima di raggiungere i familiari per il pranzo doveva ancora riordinarsi i capelli, lavarsi mani e volto e risistemare l'abito, assai spiegazzato dal viaggio in... ascensore. Questa volta temeva non ce l'avrebbe mai fatta a essere puntuale nell'arrivare a tavola. La lenta risalita con quell'afa di giugno era stata per la ragazza un vero tormento infernale: sudava e faticava a respirare, così tutta rannicchiata nel traballante montacarichi dopo la lunga corsa per le vie di Roma. Ora però, malgrado la fresca penombra dello spogliatoio della matrigna, il suo respiro affannoso persisteva soprattutto per un altro motivo. Era preoccupatissima all'idea di dover, dopo pranzo, confessare a Angelica la perdita dell'anello: proprio non ne aveva il coraggio e avrebbe tanto desiderato morire. Neppure Matteo le fu d'aiuto: infatti, non appena lei sbarcò dal montacarichi, il paggio la lasciò per fiondarsi come un lampo giù dalle scale e raggiungere il suo solito posto dietro la sedia di Lucrezia, al tavolo da pranzo. In quella però le campane di S. Biagio ripresero a suonare. Altri dodici rintocchi, con intervalli più lunghi di quanto lo fossero nelle due tornate precedenti. La baronessina era tanto agitata da neppure farci caso: non poteva certo sapere
che questo fatto assolutamente straordinario s'era verificato grazie alla comprensiva bontà del suo parroco tirato in ballo da un biglietto di Lucrezia, preoccupata di concedere a Beatrice qualche minuto extra in caso di intoppi. Mentre si rassettava l'abito in fretta e furia, pensava al guaio in cui s'era cacciata: - Chi me lo avrà fatto fare - si chiedeva - di ficcare il becco in faccende che non mi riguardano affatto? Tutto è cominciato a causa dei miei sospetti sulla lurida serpe, accidenti a lei... e pure a me, che potevo proprio risparmiarmi tutte quelle indagini!... Ma poco prima, ancora raggomitolata nel cassone, aveva pensato che sotto un certo aspetto ne era valsa la pena: dopotutto era grazie alla propria curiosità se aveva scoperto il tallone d'Achille dell'odiatissima nemica: la chiave di casa Cenci consegnata a suo figlio!! Beatrice si sentì confortata dalla certezza che ora la teneva in pugno. Nella stanza da bagno al primo piano del palazzo, si stava ora incipriando in tutta fretta viso, collo e braccia per togliere le tracce di sudore. Poteva immaginarsi Gertrude, in sala da pranzo, roteare gli occhi d'intorno in cerca di lei. Fece spallucce: non aveva neppure appetito... e tornò con la mente al proprio problema. Era ben conscia dell'imprudenza commessa, ma che altro avrebbe potuto fare? - Come avrei potuto lasciare Angelica fra le sgrinfie di quella strega e in balia di quel bruto? - si ripeteva. Ancora una volta, solo per un attimo, sognò di avere un padre normale, uno che semplicemente l'amasse: glielo avrebbe detto e tutto sarebbe stato risolto per il meglio, come con un colpo di bacchetta magica d'una fata delle favole. Invece... - Quanto sono disgraziata... non mi è neppur dato di sognare... pensava. Si guardò allo specchio mentre con qualche colpo di spazzola tentava di riordinare i capelli che, prima compressi dal berretto di Matteo e poi inumiditi dal sudore, parevano in certi punti incollati al cranio tanto s'erano appiattiti.
- Quello della chiave lo definirei un tradimento bello e buono... rischia la testa... il che significa che lei deve aver un piano in mente... a danno di qualcuno di noi... di Angelica o di me... o di Matteo!... Che lei sappia che noi... sappiamo? Lo specchio in argento della matrigna le rimandò un aspetto finalmente accettabile: non poteva far di più se non voleva insospettire oltremodo Gertrude proprio alla vigilia del ritorno del padre. - Tanto valeva, dunque, che m'imbarcassi come ho fatto - concluse tra sé - e devo andare avanti: con il rischio che correrebbe se scoperta, non posso credere che Gertrude abbia dato le chiavi al figlio solo per consentirgli d'abusare di Angelica! La Baronessina arrivò in sala da pranzo ancora un pò accaldata, ma nessuno diede a vedere di farci caso: forse per merito dell'estate incombente l'atmosfera non era ancora gelida come in presenza del Barone, tuttavia pareva quella d'un funerale. Si scusò compitamente con Lucrezia, seduta a capo tavola, e prese posto come al solito sul lato maggiore del lunghissimo tavolo alla sinistra di lei accanto alla sorella Antonina, mentre Bernardo e la sua tata stavano di fronte a loro. Lucrezia stava dunque seduta di fronte al padrone di casa, ma a distanza di sicurezza tale da non poter conversare con lui, che tuttavia poteva tenerli tutti sott'occhio comodamente. sco mantenne quella prudenziale sistemazione anche dopo aver assunto la delicata iniziativa di obbligare Beatrice alla "prova della credenza", assaggiando cioè ogni volta i cibi prima di lui... a scanso di spiacevoli iniziative di avvelenamento nei propri confronti. Due candelabri giganteschi, sistemati sul tavolo a tre quarti della sua lunghezza da una parte e dall'altra di esso, impedivano anche di giorno ai due coniugi di guardarsi o di parlarsi, qualora la distanza tra loro non fosse bastata a scoraggiarli. Ma, almeno su questo, essi si trovavano perfettamente d'accordo. I pasti dei Baroni Cenci venivano, dunque, consumati nel silenzio più opprimente.
Quel giorno il padrone ancora non c'era, ma nell'immensa stanza tirava già una brutta aria, contrariamente a ciò che spesso invece accadeva durante le assenze di lui. Per l'infelice famiglia quelli erano scampoli di serenità, brevi lampi di allegria che però non ne illuminavano l'esistenza fin da quando il suo ritorno incombeva. E Beatrice, tra l'angoscia per il guaio procurato all'amica e l'arrivo del nefando genitore, proprio non si sentiva di deglutire un solo boccone. sco aveva fatto sapere che sarebbe rientrato in tempo per preparare la sua festa d'estate e le donne avevano finito di respirare fin da quella vaga e lapidaria notizia, sebbene la cosa lo avrebbe tenuto occupato lasciando loro un pò di fiato. Non appena Beatrice ebbe preso posto, Gertrude uscì dalla stanza e discese lo scalone per andare a controllare le cucine: l'assenza del padrone le lasciava pregustare anche per quel giorno una prolungata pennichella, poiché nessun altro si sarebbe sognato di chiamarla. Fu in quel momento che le orecchie di tutti vennero lacerate dall'assordante frastuono del gong: il gran botto li colse di sorpresa poiché il capofamiglia ancora non era rientrato, ma a scanso di equivoci il battitore Amir aveva voluto comunque assicurarsi che il padrone sulla via del ritorno lo sentisse, se già nelle vicinanze di casa. Infatti, quel suono lo informava d'abitudine che Gertrude aveva lasciato la sala da pranzo, segno che tutti si erano ormai accomodati e che lui era atteso per la prima portata. All'interno dell'edificio il colpo della mazza di Amir risuonò assordante per scaloni e gallerie: durò tanto a lungo da far quasi pensare che i marmi e i porticati se lo palleggiassero l'un l'altro, prima di lasciarlo uscire attraverso la grande apertura sopra il cortile. Se a Beatrice non fossero bastati l'imminente ritorno del padre e la faccenda dell'anello, a farle are l'appetito ci avrebbe pensato l'inatteso gong di Amir, che la fece letteralmente sobbalzare per lo spavento.
Amir era uno schiavo nubiano: un ciclope nero dal volto inespressivo e dalla forza smisurata, che alle ore dei pasti se ne stava là, piantato a gambe larghe sul pianerottolo tra il primo piano e il pianoterra, rivestito dalla sola pelle di
leopardo legata intorno ai fianchi. Brandiva una clava robusta e pesante, la cui estremità più grossa era accuratamente bendata per proteggere il prezioso disco di rame dai suoi colpi violentissimi. La famiglia aveva tentato di lamentarsi col Cenci, ma naturalmente senza successo: era stato il primo in tutta Roma a far sobbalzare un intero quartiere con un aggeggio come quello e non vi avrebbe rinunciato per tutto l'oro del mondo. Il gigantesco schiavo era anche polo d'attrazione nelle feste, durante le quali egli aveva la virtù di restare immobile per ore, fenomeno da baraccone alla mercé di dame ricchissime e annoiate o di maliziose cortigiane. Tutte, con maggiore o minor ostentazione, facevano a gara per palpeggiarne la possente muscolatura scambiandosi poi occhiate ammiccanti e ironiche all'indirizzo dei loro agiati ma spesso anziani o poco prestanti compagni. sco Cenci lo aveva acquistato a Venezia, da un mercante in arrivo dall'Egitto, attratto dalla mole gigantesca e incuriosito dal fatto che egli reggesse, con una sola mano, un bambinello nero di cinque-sei anni, che si caricava a cavalcioni del collo o sedeva su una spalla a seconda delle circostanze, senza mai abbandonarlo e maneggiandolo con sorprendente delicatezza. - No, non è suo figlio, ma lui non ha voluto saperne di separarsene alla partenza, sebbene alcune donne si fossero offerte di tenerlo - gli aveva detto il mercante e, dunque, o prendete entrambi oppure non se ne può far nulla: quello mi sfascerebbe la nave. Il Barone sco aveva in tal modo assicurato la fedeltà cieca e imperitura di Amir a sé stesso e all'intera famiglia: il nubiano lo seguiva occasionalmente anche fuori città e presto divenne sua guardia del corpo, ogni qual volta lo sciagurato nobiluomo usciva segretamente di casa nottetempo per una delle sue spesso delittuose imprese. Al bimbo fu dato il nome di Matteo e, data la sveglia intelligenza che dimostrava, venne affidato all'anziana governante dei figli Cenci affinché, sotto la tutela della Baronessa Lucrezia, potesse ricevere un'educazione confacente a un paggio di nobili Signori. Al pensiero di Matteo Beatrice alzò gli occhi: il suo amico era immobile e ritto accanto all'alto schienale della sedia di Lucrezia, reggendo con una mano un tovagliolo e con l'altra un piccolo vassoio con gli stuzzicadenti d'argento.
I loro sguardi s'incontrarono e il paggio, assicuratosi della concentrazione dei presenti sui cibi loro serviti, le scoccò un luminoso sorriso che risplendette come un lampo sul suo volto d'ebano. La baronessina si decise a finalmente addentare un boccone di stufato.
18. Sulle tracce dell'anello: ladri, prostitute e ricettatori
- Non ho potuto rifiutarmi di giocare alle carte!... ho dovuto farlo! - confessò disperata Beatrice alla sua cameriera dopo il pranzo, nel silenzio delle sue stanze. - Quando entrai nella locanda c'erano soltanto quei due e... e io dovevo attendere, se volevo sperare di incontrare Lorenzo. Come avevamo stabilito, ricordi? O lui o quell'altro pittore, quel... Prosperino, mi pare. E sai, uno di quelli subito mi venne incontro: - Attendete qualcuno, Messere? - mi chiese con bel garbo - permettete che mi presenti... sono il Duca Giovanni di Saluzzo... Angelica sbiancò: - Oh mioddio, no! ... proprio lui?... sono rovinata!... e poi? - E poi... - lui continuò: - posso chiedervi di sedervi al nostro tavolo, mentre attendete? L'oste, mio buon amico, ha dell'ottimo vino e sarebbe per noi un onore avervi nostro gradito ospite... - e diede una voce a tuo padre che accorse premurosamente. Potevo forse insospettire Giovanni? Quale motivo avrei potuto avere per rifiutare? E poi, come diavolo si fa a sganciarsi da uno così gentilmente insistente e di buone maniere? Angelica dovette ammettere che l'amica aveva ragione: di quelle buone maniere lei ne sapeva qualcosa, sebbene fossero state di breve durata. - Tirarono subito fuori le carte, malgrado io insistessi che non potevo, non avendo denari con me... ma Giovanni notò l'anello al mio dito e, ridendo, disse Per carità, non vi preoccupate per così poco... un gentiluomo come voi pagherebbe sicuramente un debito di gioco con persone dabbene come noi, vero? - e intanto faceva l'occhiolino al suo compare. - Ecco! ... aveva subito riconosciuto il mio anello... sono perduta!! - Allora io lo sfilai e lo misi in una tasca della giubba, pensando di scappar via quando lo avessero preteso in pagamento... o quando, per grazia di Dio, fosse arrivato Lorenzo... o qualcun altro. Invece... - ormai perdevo già vistosamente - entrò un giovane che... insomma
tutto diverso da Lorenzo... però pittore. - Pittore?... era forse grande e grosso? - No, no. Questo era non tanto alto: il volto pallido con un pò di barbetta e... vestiva da poveraccio, con un cappello nero e unto che si vedeva da dove io stavo... prese a tracciar segni con un gesso su una tavoletta e intanto guardava noi... un pò come quando mi fecero il ritratto da bambinetta... è per questo che penso sia pittore. - Beh... veramente un terzo pittore ci sarebbe, nel loro gruppo di amici... un certo Michele, ma... non so neppure che faccia abbia! Beatrice raccontò poi di come il baro avesse preteso che lei gli consegnasse l'anello a saldo del debito di gioco minacciando duelli e padrini (- Ah! È una sua mania! - fu l'amaro commento della servetta), di come pattuirono una sfortunata partita di rivincita per concederle una possibilità di riscattarlo, del drammatico finale con l'ingresso d'uno sconosciuto che poco mancava le impedisse la fuga e infine dell'inseguimento di quell'altro... pittore che le era corso dietro fino a palazzo. Quando Beatrice tacque, la stanza divenne silenziosa come un sepolcro. Le due ragazze avrebbero voluto piangere entrambi ma, da un lato, Beatrice temeva con ciò di peggiorare il già grande abbattimento dell'amica e, dall'altro, Angelica non voleva aggravare con le sue lacrime la frustrazione della padroncina per il fallimento della sua sortita. Stavano entrambi con il viso basso, in silenzio. Poi Angelica non poté evitare di aspirare vigorosamente con il naso e, così facendo, alzò gli occhi avvedendosi di due grossi lacrimoni che scendevano lungo le gote dell'altra. Senza dir nulla, le prese una mano. La sua padrona alzò il viso verso di lei e scosse il capo, desolata: Angelica scoppiò in lacrime e le due si abbracciarono teneramente, concedendosi al pianto senza più freni. - Senza l'anello sono perduta - singhiozzava Angelica - perché Lorenzo era l'unico che potesse togliermi d'impiccio con Giovanni e, dopo quel che gli ho combinato, che prova mai avrà del mio amore se non ho più neppure l'anello
datomi in pegno del suo? Beatrice si pulì il naso con un fazzolettino di seta ricamato in oro: - Me meschina, che per aiutare un'amica le ho procurato maggior disgrazia... proprio nelle mani di Giovanni ho consegnato l'anello... lui lo avrà riconosciuto subito e chi sa adesso cosa ne farà!... - Lo porterà al monte dei pegni o lo venderà... cos'altro volete che ne faccia!... Me lo ha chiesto più volte... almeno avessimo pensato di cercare Messer Prospero, invece... sempre per il mio maledetto timore che mio padre venisse a saperlo... ma quando mai riuscirò a liberarmene? E al ruscello delle sue lacrime di sconforto s'unì quello della rabbia verso se stessa a far più impetuoso il torrente che insieme formarono. - Ma... e se... sì... e se quell'individuo grande e grosso arrivato in locanda mentre ne fuggivo fosse stato Messer Prospero? - singhiozzò a un tratto Beatrice, come stesse interrogando sé stessa. - È vero! Non ci abbiamo neppure pensato! Era forse vestito...? - Di nero!! ... E portava dei grossi baffoni! - che stupida a non averci pensato prima!... ma ero così sconvolta... e poi dovevo correre a casa... le campane... - Ma allora, se quell'altro vostro giovane pittore fosse amico di Messer Prospero... forse, chi sa, potrebbe essere davvero quel Michele... il nostro Michele e potrebbe conoscere pure lui Lorenzo! - Le due ragazze smisero all'istante di piangere. - Lo è, un amico di Prospero, sicuro! ... quando lo vide entrare gli gridò di trattenerli, mentre io m'infilavo tra lui e il muro per raggiungere l'uscita! Dobbiamo rintracciarlo! Beatrice schizzò in piedi come spinta da una molla. - Fermatevi, un momento... Baronessina, non dimenticate che vostro padre sarà di ritorno a momenti e temo che... - ... io non potrò più muovermi... oh!... me disgraziata! - concluse Beatrice con voce rotta, ripiombando a sedere. - ... Ma potrebbe muoversi quel pittore - si tratti o no di Michele - dopotutto gli
avete lasciato un polsino e vorrà forse scoprirne il motivo e allora... Entrambi consapevoli del potere del fascino femminile, le due amiche si precipitarono nello spogliatoio a riordinarsi l'acconciatura, prima di correre a occhieggiare dalle finestre del corridoio che davano sulla piazza antistante il palazzo.
Là fuori Caravaggio, dalla sua postazione all'ombra del porticato, cominciava a scoraggiarsi. Era ormai molto tempo che scandiva con lo sguardo le finestre dei Cenci senza scorgervi segno di movimento: - Sembra una casa di morti - pensava. Michele fremeva, non tanto per la curiosità quanto per il timore che il ar del tempo consentisse al baro di disfarsi dell'anello in modo irreparabile: l'angoscia del... paggetto dopo la perdita di quello lo aveva infatti convinto che esso fosse la chiave della misteriosa storia che aveva portato quella ragazza alla locanda a un'ora inconsueta, da sola e per di più travestita. A un tratto, finalmente notò una bianca figura a una delle finestre del secondo piano: senza ombra di dubbio era una donna giovanissima e da quel che poteva vedere pure molto graziosa. Costei era posta di tre quarti quasi a dar la schiena alla piazza e dai suoi movimenti gli parve ovvio che lo avesse visto, poiché guardava verso di lui di sopra la spalla per poi volgersi a parlare animatamente con qualcuno che il pittore non poteva vedere. Vestiva un ampio abito a drappeggio color panna e portava sul capo un voluminoso turbante della stessa stoffa, che le nascondeva i capelli ad eccezione di qualche ricciolo che le scendeva sul collo. - Bisogna mandargli un biglietto - stava sussurrando Beatrice - corri a prendere l'altro polsino che glielo leghiamo insieme per gettarglielo! Ma e... se lui se ne va? - E voi, Baronessina - Angelica fece un ampio inchino - vedete d'intrattenerlo! e ammiccò divertita correndo via. Beatrice improvvisò allora uno spettacolo a metà fra danza e follia, nel quale
scompariva da una finestra per rispuntare a un'altra, qui piroettando a braccia alzate, lì sciogliendosi il turbante a rivelare gli splendidi capelli che faceva ondeggiare scuotendo il capo. Non comprendendo la ragione di tutto ciò Caravaggio era molto perplesso, ma non faceva alcuna fatica ad apprezzare la leggiadria con la quale la creatura si muoveva, anche perché gli parve che un suo gesto delle mani lo avesse invitato ad attendere. D'altro canto però era in ansia, parendogli quasi di stare a trastullarsi con una bella sciocchina che nessuno gli dava per certo avesse che vedere con l'anello, mentre il tempo ava inesorabile e le ore disponibili per ritrovarlo prima di notte venivano divorate dal gorgo di sabbia della clessidra. Finalmente, dopo un'ultima sparizione a seguito d'un salto a braccia alzate, la bianca figuretta riapparve con accanto un'altra ragazza: questa teneva gli scuri capelli raccolti in una lunga treccia che le girava intorno al capo, in un'acconciatura semplice ma curata. Lo sguardo di Michele si fece attento: istintivamente si ritrasse d'un o nell'ombra. La finestra era aperta e la bella danzatrice si affacciò per un attimo, guardando verso di lui e sventolando qualcosa di bianco, prima di lasciarlo cadere sulla piazza. Nel timore se ne impossessassero le guardie del Palazzo, il pittore non perse un secondo e si lanciò di corsa per raccoglierlo. Ma in quell'istante un gruppo di cavalieri armati irruppe svoltando da una via cui Michele voltava le spalle e, nel fuggi fuggi dei pochi anti, attraversò al galoppo la piazza in direzione di casa Cenci sollevando un gran polverone. Troppo assorto a seguire i gesti delle due ragazze, il giovane pittore non li aveva neppure uditi arrivare! Tentò con un guizzo di riguadagnare il portico, ma uno dei bravacci di scorta a sco lo urtò di malgarbo col braccio, gridandogli: - Villano, fatti da parte! e facendolo rotolare a terra fin contro una colonna.
Dolorante, Michele si mise a sedere tastandosi le membra: ancora fresco era in lui il ricordo di quell'altro cavallo, che solo poco tempo prima lo aveva mandato all'ospedale! Fortunatamente nulla di rotto: e alzò lo sguardo per osservare, dietro la nuvola di polvere, gli ultimi cavalieri della scorta venire inghiottiti dal portone del palazzo. Li accompagnò con una vigorosa bordata d'insulti in lombardo e si drizzò rassettandosi. Sulla piazza non c'era più nessuno, all'infuori di un gruppetto di ragazzini che, all'imbocco del vicolo nel quale era prima sparito il paggio, avevano catturato due gatti randagi e, tra soffi rabbiosi e miagolii di dolore, tentavano di legarli per la coda. - Buon per loro - pensò Caravaggio - che stavano fuori dalla traiettoria di quei prepotenti: non avrebbero esitato un attimo a travolgerli... con i loro poveri gatti! Alzò gli occhi alla finestra: le due ragazze erano scomparse. Si rizzò e di gran carriera attraversò la piazza nel sole, fino a recuperare il fagottino: nel gran trambusto – e nel polverone – nessun armigero lo aveva notato. Non appena svoltato l'angolo lo sciolse, liberando un pezzetto di pergamena sul quale una mano incerta aveva scritto poche parole:
< DOMA TINA MERCATTO SPEZZIALE >
Prudentemente si allontanò avendo cura di fiancheggiare il Tevere, per non dover poi riare dalle parti del palazzo.
All'interno di questo, nel fragore dei cavalli irrompenti nel cortile, Angelica e Beatrice erano corse nelle loro stanze accompagnate dal cupo rumore degli usci che sbattevano, a mano a mano che gli altri membri della famiglia si ritiravano nei loro appartamenti. sco Cenci era tornato anzitempo, dopo aver di proposito disinformato i
famigliari circa i suoi piani per deluderli sadicamente con un arrivo a sorpresa. Quando le ragazze sparirono dietro l'angolo del corridoio, dal fondo di questo un'alta e sinistra figura di donna uscì dal riparo d'una spessa tenda, che le aveva consentito di assistere non vista all'assurda esibizione di Beatrice alla finestra. La fronte aggrottata, si avvicinò a una di quelle e lanciò un'occhiata alla piazza deserta, dove il polverone sotto il sole pareva lo sciogliersi di nebbia giallastra. Poi, scrocchiando le dita, si avviò di fretta giù per le scale incontro al padrone.
Lasciatosi alle spalle Palazzo Cenci e il suo piccolo mistero, a Caravaggio non restava che gettarsi a caccia dell'anello, sempre ammesso che non fosse già tardi. ò a controllare se a Prospero occorresse qualcosa e lo trovò che ancora dormiva profondamente. Avrebbe dovuto attendere la sera per conoscere l'esito del suo incontro con il Cardinal Federico: stava un pò sulle spine, ma era meglio così dato il pomeriggio impegnativo che non gli consentiva distrazioni... di tipo finanziario! Avvolse la tavoletta con lo schizzo del baro in uno straccio e uscì, dirigendosi a i risoluti verso il Bordello, il quartiere più malfamato e caotico della città ma a lui ben noto fin dai suoi primissimi giorni romani. Strada facendo si arrestò un paio di volte a osservare il disegno: aveva già visto quel tale, ne era quasi certo ma... dove diavolo? Decise di fare un giro per bische e taverne, confidando nella fortuna: gli pareva d'averlo incontrato di recente... forse in compagnia di qualcuno che conosceva, ma non riusciva a ricordare dove o con chi. Dopo più d'un'ora di setacciamento tra vicoli maleodoranti, liti sulla via fra prostitute o gente di malaffare e scoppi di violenze domestiche, aveva visitato una decina di osterie e mostrato il disegno del baro a un numero circa triplo di persone. Sì, per alcuni era un viso noto, ma nessuno ne conosceva il nome né aveva idea di dove trovarlo.
Finché sull'uscio basso e malconcio d'una di queste taverne Michele quasi si scontrò con Fillide Melandroni - la puttana bambina, come lui, Onorio e Prospero usavano chiamarla per via dell'espressione pulita, della pelle liscia e delle forme ancora un pò acerbe. Ne usciva in compagnia d'un cliente, un uomo attempato dall'aria agiata che svanì come acqua versata sulle dune di sabbia non appena la ragazza si fermò a salutare il pittore. Fillide piaceva a Michele: oltre a esser bella, la sua intelligenza le dava un che di diverso da molte colleghe, un portamento dignitoso e un modo di vestire che non trascurava i particolari, non certo ricercato ma ben lontano dalla sciatteria di quelle. L'aveva conosciuta tempo prima, un giorno in cui egli transitava davanti a Palazzo Giustiniani: la ragazzina adescava i gentiluomini che entravano e uscivano dall'edificio e il pittore era stato colpito dalla sua grazia seducente nell'approcciarli, tanto che aveva subito schizzato un ritrattino da poi regalarle. Fillide gli sembrava, insomma, una persona di classe: si poteva dire che aveva stoffa e Caravaggio le aveva già chiesto più volte di posare per lui, ma - No, se prima non diventerete ricco e famoso, amico mio! - era stata la scherzosa ma rivelatrice risposta. Michele le mostrò il ritratto abbozzato del baro. Lei lo guardò bene, senza muovere un solo muscolo del volto, mentre l'artista le descriveva brevemente la truffa di quel tale ai danni d'un paggetto all'incirca della sua età. Poi gli rese la tavoletta dicendo - mai visto! - e se ne andò. Deluso, Michele prese via della Scrofa per dirigersi verso casa quando, ando nei pressi della Chiesa di Sant'Agostino in Campo Marzio vide sull'uscio di un'umile casa una giovane donna con in braccio un bambinello mentre una coppia di anziani pellegrini, inginocchiati ai piedi della soglia, protendevano le mani verso di lei con gesto implorante. Era bellissima e aveva una postura molto elegante, sebbene con ogni probabilità fosse pure lei una prostituta. Michele non aveva mai visto una popolana tanto dotata di fascino naturale. La luce le batteva sul ginocchio destro piegato a sostenere il robusto bambino:
ne conseguiva che il piede poggiava al suolo la punta soltanto, conferendo all'intera figura di lei un elegante slancio curvilineo verso l'alto, rafforzato dalla posizione aggraziata del collo piegato verso i pellegrini per meglio udire le loro parole nel frastuono della via. Era un'immagine caritatevole senza essere pia: divinamente sensuale la definì il pittore tra sé, affascinato da tanta spontanea grazia. S'arrestò ad ammirarla, quasi a bocca aperta: - Sembra una Madonna - pensò - ... anzi – visti i due vecchi inginocchiati – ... potrebbe essere perfetta per una Madonna di Loreto... ma dovrei allungarne la figura... e anche quella del bimbo... perché i pellegrini s'inginocchierebbero ai loro piedi come fanno questi due contadini e dunque occorre compensarne la visione schiacciata che ne avrebbero dal basso... anzi, sì... sarà meglio ingrossare un pò anche il corpo del Gesù o lo sguardo dei pellegrini si concentrerà solo su di lei: e... quale ordine religioso mi comprerebbe un'opera il cui l'osservatore quasi possa non accorgersi del Cristo? Folgorato dall'ispirazione, avrebbe voluto ritrarla subito: si guardò intorno alla ricerca di chi gli potesse fornire un gesso, dato che la tavoletta con lo schizzo del baro l'aveva con sé e ne avrebbe potuto usufruire del retro. In quel mentre però si sentì chiamare per nome e vide Fillide che correva verso di lui. Lo raggiunse ansimante: - Vi ho seguito perché laggiù è meglio tacere che parlare, sapete... io non vi ho detto nulla... comunque - e col mento indicò la tavoletta - ... quello è Giovanni, l'uomo di Anna - e fece per scappar via. Lui la trattenne per un braccio: - Anna?... quella che chiamano bel culo, vuoi dire? Alla risposta affermativa di lei - Ecco - pensò, battendosi la fronte con il palmo della mano - dove l'avevo visto, quel farabutto: giocava ai dadi nella locanda dove Anna lavora!... Come non mi sia venuto in mente prima?!... Malgrado la fretta Fillide s'accorse che mentre parlava con lei Michele teneva gli occhi fissi altrove. Si volse nella direzione dello sguardo e capì: - Si chiama Lena - gli disse a bassa voce - se volete ve la presento ma... è ancora più costosa di me! - e scappò via con una risata sbarazzina. Caravaggio lasciò are qualche secondo per darle modo di allontanarsi e ancor più perché tentato di chiedere a Lena di posare per lui ma... non poteva
lasciarsi sfuggire Anna. Si avviò con o deciso sulla strada già percorsa, non senza aver prima lanciato con rimpianto un'ultima occhiata alla sua modella ideale. E, s'intende, ripromettendosi di rivederla.
La taverna era quanto di più infimo si potesse immaginare e, sebbene in quei primi due anni romani Michele avesse toccato con mano quanta umana miseria ci fosse dietro ai fasti gloriosi della Santa Chiesa, pure gli si strinse il cuore al pensiero che una ragazzina di quindici anni consumasse la propria esistenza in quell'ambiente miserabile. Attese un pò fuori dalla porta: alle sue orecchie giungeva il vociare degli avventori che a volte degenerava in litigiose scenate. Due uomini robusti cacciarono dall'osteria altrettanti avvinazzati che continuarono come nulla fosse a darsi botte nella via finché non stramazzarono a terra avvinghiati, giacendovi sfiniti: poco mancò che un ubriaco, uscitone barcollando, vomitasse loro addosso. Ma a sbarazzar la strada ci pensarono i birri: caricati di peso i due litiganti su un carretto, scomparirono svoltando al primo incrocio. Caravaggio immaginò il trattamento che li attendeva nei sotterranei della prigione di Tor di Nona: gli era bastato entrarci una sola volta, arrestato con l'amico Longhi per schiamazzi notturni, avendo fatto una serenata... di gruppo a una bella donna, onesta ma a casa sola e incustodita mentre il marito si trovava appunto in galera. In una breve pausa dei suoni sguaiati che provenivano dall'osteria, gli giunsero le grida e il pianto d'una giovane donna, confusi fra i rumori d'una violenta lite con un uomo: purtroppo non fu in grado di individuarne la fonte. E Anna pareva non volesse saperne di comparire. Dopo un certo tempo il pittore entrò a interrogare l'oste. - È di sopra - rispose questi con malgarbo - salite pure. - Ma... è sola?
- E che credete? Che vi ci manderei se già ci fosse qualcun altro? Andate, andate... che quella sennò mi sta troppo tempo senza clienti! Quando Caravaggio la vide, Anna stava seduta su un basso sgabello in fondo alla stanza, illuminata da un fascio di luce proveniente da una finestrella a filo del soffitto. I capelli sciolti sulle spalle, vestiva un abito di stoffa damascata con il corpetto a bretelle su una bianca camicetta a maniche lunghe e con la larga scollatura ornata da una sottile striscia di pizzo. La ragazza pareva affranta da un dolore muto e privato, come se il mondo non ne fosse causa e tanto meno ne potesse in qualche modo essere partecipe: un dolore profondo ma accettato con rassegnazione perché incomunicabile e dunque senza speranza di conforto. Era la disperazione d'una sciagurata di fronte allo squallore della propria vita. Anna piangeva e teneva le braccia stancamente appoggiate sul grembo avvolto da una stola di uno spento rosso-bruno; la testa era reclinata da un lato e una lacrima luccicava, scendendole dall'occhio destro fin sul naso. Sul pavimento accanto a lei un vasetto di unguento e alcuni monili sparsi, come le fossero stati strappati di dosso con violenza. La scena era desolante: - ... E questa invece sarebbe perfetta per una Maria Maddalena!... - pensò l'artista con comione e rimase in silenzio a osservarla, rapito dall'ispirazione per un ritratto essenziale nel rappresentare il pentimento d'una peccatrice. Decisamente, quello era per lui il giorno di ispirazioni di tipo... religioso... per così dire! Solo quando Anna alzò il capo a guardarlo tentando un triste sorriso, Michele si scosse: poco mancava dimenticasse il motivo della sua visita! La invitò a scendere con lui nella via. Anna si alzò dalla sedia: barcollava leggermente e il suo fiato puzzava di vino. Scesero le scale mentre lei tentava di darsi un contegno con qualche sciocca risatina immotivata. La pietà del pittore venne turbata da un lieve senso di disgusto e poco mancò che egli aggredisse l'oste per le triviali rampogne dirette alla giovinetta, colpevole di uscire con uno d'aspetto squattrinato invece di dedicarsi a fare il suo mestiere.
Appena fuori Michele la prese per un braccio: - Chi ti ha percosso? - le domandò. La ragazza lo guardò con occhi del tutto inespressivi: - Che importanza ha? È appena uscito dalla porta sul retro - rispose - Non c'è soltanto questo porco d'un oste che vive alle mie spalle!... Ma ditemi, piuttosto, che volete da me? - Devo trovare subito Giovanni: sai dirmi dov'è? - disse lui come se lo conoscesse. La ragazza impallidì e il suo sguardo tradì la sorpresa. Aprì la bocca per parlare ma... il dolore delle percosse era ancora vivo e le sue parole non mancarono di seguire le istruzioni dell'amante e protettore, sempre preoccupato di far perdere le proprie tracce a creditori e raggirati: - Non ne ho idea - disse semplicemente. Michele la trascinò dietro l'angolo e la guardò con severità: - Si tratta di truffa e furto e, se non mi rende l'anello che ha rubato entro questa sera, io lo denuncerò. E pure te, se lo proteggerai. Ho amici potenti in città, ormai - si sentiva un miserabile verme senza cuore, ma voleva recuperare l'anello a tutti i costi. - ate da me... domani. - No... questa sera! - ribadì Michele e, vedendo approssimarsi una pattuglia di birri, levò il braccio come per chiamarli. - No, no per carità, Messer Michele, per carità... ne ho prese a sufficienza di botte, per oggi... tornate qui fra un'ora - e scappò via in lacrime, barcollando. I birri avevano notato il gesto del pittore e vennero a chiedergliene ragione. Caravaggio sfoderò il sorriso più ingenuo e innocente del mondo: - Ma che avete creduto? Io chiamare voi? Ma no, no, salutavo... un amico che stava per svoltare l'angolo alle vostre spalle - e diede in una sonora risata. Quelli lo guardarono senza sorridere: fu uno sguardo lungo e sospettoso, uno di quelli che certi gregari del potere costituito sfoderavano a volte per incutere soggezione più che per frugare nelle intenzioni, cosa questa che avrebbe richiesto loro ben altre doti d'intelletto.
Poi, con suo sollievo, i birri preferirono soprassedere e proseguirono per la via. Michele restò per un attimo incerto se mostrare a quei ceffi il ritratto del baro: era quasi sicuro che avrebbero saputo dove andarlo a cercare. - Bah! - pensò - mai abusare della fortuna... sentiamo prima che dirà Anna! - e con una scrollata di spalle s'allontanò. Attese l'ora convenuta con lei girellando per Campo Marzio, cosa che gli consentì prima di dare un'occhiata senza fortuna all'abitazione di Lena e poi, quasi senza intenzione, lo portò nei pressi della bottega del Cavalier d'Arpino. La gamba gli doleva e si sentiva stanco: si sedette su un gradino e appoggiò la schiena alla parete d'una casa: da quel punto poteva osservare il via vai nel portone della bottega, quella che lui chiamava spregiativamente l'opificio. Non essendo particolarmente interessato alla cosa, si abbassò la tesa del cappello sugli occhi e allungò le gambe, cosa ormai consentitagli dal ridotto movimento di carri e di cavalieri in quell'ora matura del pomeriggio. Ripensò alle frustrazioni subite da quei due farabutti dei Cesari... ai loro tentativi di danneggiarlo in tutti i modi... anche fisicamente. - Chi sa... forse ora ne verrò fuori, da tutte queste pene... se solo Prospero avesse combinato qualcosa col Borromeo!... - pensò speranzoso. Ma avrebbe dovuto attendere ancora per saperlo: era quasi tempo di tornare da Anna. Si alzò per andarsene e in quel momento vide con grande sorpresa Lorenzo uscire dalla bottega dei due fratellini Cesari, come lui li chiamava. Michele non poteva attardarsi e, dunque, resse all'impulso di fermarlo: si limitò ad osservarne la stanca andatura e il trasandato vestire, cosa che lo sorprese non poco. Mentre l'amico gli girava la schiena per svoltare verso il centro di Roma, Michele notò sulla sua nuca una vasta chiazza di calvizie, come una larga chierica lucente scavata nei suoi folti capelli. Infatti il gentiluomo non portava l'elegante cappello che indossava d'abitudine quando si frequentavano: sembrava veramente depresso.
Una storia sfortunata... con una poco di buono: ricordando quelle parole di Prosperino, Caravaggio provò pietà per Lorenzo e si ripromise di tornare a cercarlo. Ben sapeva cosa voleva dire la solitudine in terra straniera, quando le cose andavano male!
Giunse all'osteria di Anna quando già il sole aveva percorso la maggior parte del suo viaggio verso occidente e attese, sistemandosi all'ombra protettiva d'un balcone contro improvvisi scarichi di rifiuti e sperando di non incontrare nuovamente i birri, i quali avrebbero senza dubbio chiesto ragione della sua insistente presenza in quei vicoli malfamati. - L'anello è già stato venduto! - gli annunciò la giovane prostituta uscendo dalla taverna - ma sono riuscita a farmi dire a chi: un rigattiere ebreo, giù al Ghetto, proprio nella via dove c'è il Tempio. - Dì a Giovanni che preghi perché io lo trovi ancora... che poi faremo i conti... - Ma... Messer Michele... mi avevate promesso... - Sì sì stai tranquilla, non lo denuncerò... faremo solo i conti, per l'appunto: ma tu ... tu non dirglielo và!... lascia perdere, se temi altre botte! Si separarono, ma lui si volse per richiamarla: - Ehi, Anna bel culo, senti un pò... La ragazza s'arrestò per anticipare con una sconcezza quella che prevedeva potesse essere una battutaccia o un'oscenità: lo squadrò con aria aggressiva. - Se io potessi pagarti - continuò indifferente il pittore - mi faresti da modella nella posa di poc'anzi, quando piangevi nella tua stanza? Anna lo sogguardò intensamente, esitando; poi fece spallucce e - Ma sì - disse in fondo... per campare sopporto di peggio che far ritrarre il mio dolore da un amico! Poi, con un sorriso tirato: - Dipenderà dal prezzo... - aggiunse, prima di scomparire nella lurida tana che ospitava il suo tristo negozio.
Michele si apprestò a riattraversare Roma per la seconda volta in poche ore: il ghetto era vicino a casa e confinante con palazzo Cenci. - E ridalli con questi Cenci! - pensò ridacchiando, malgrado la gamba gli dolesse senza pause. ò dunque a dare un'altra occhiata al sonno di Prospero che gli parve del tutto regolare e s'affrettò a proseguire, nel timore che il rigattiere chiudesse bottega. Il sole ancora non era tramontato sebbene negli stretti vicoli del ghetto, incisi fra le case come torrenti fra gole di montagna, la luminosità del giorno avesse ormai cessato di colare fra gli interstizi dei tetti che quasi si toccavano. La casa era situata nei pressi del Tempio: Michele non ebbe difficoltà a rintracciarla dato che tutti la conoscevano, poiché l'occupante – oltre alla compravendita di oggetti più o meno preziosi e di provenienza più o meno dubbia – svolgeva pure una redditizia attività di prestiti ad usura e di Monte dei Pegni. L'antro – poiché di questo si trattava – del rigattiere si trovava più in basso del livello stradale e vi si accedeva scendendo un paio di vecchi gradini consumati dal tempo, sotto un'insegna ormai arrugginita e quasi illeggibile. Dopo aver spinto un uscio sgangherato che fece tintinnare il camlo, Michele vi si avventurò grazie a quel poco di luce che ancora giungeva dall'esterno e guidato da una lanterna appesa al muro che gli rivelò uno spettacolo incredibile. Il locale era ingombro di ogni sorta di merci, tutte ammucchiate a casaccio e tutte ugualmente ricoperte d'uno strato di polvere giallastra che inoltre attutiva i suoi i, senza peraltro evitare gli scricchiolii prodotti sotto il suo peso dalle vecchie assi schiodate del pavimento. - Avanti!... venite avanti! - strillò una voce chioccia da dietro una pila di tappeti arrotolati. Infilandosi tra una grossa gabbia per volatili e un baule aperto stracolmo di piatti e di suppellettili in ceramica, Michele raggiunse un piccolo spazio, illuminato da un candelabro che, poggiato su un basso tavolo, evidenziava il volto d'un vecchio seduto e intento a scrivere. L'uomo portava la kippah e, cosa assai rara per quei tempi, il suo naso adunco
era decorato da un paio di occhiali rotondi, che lui teneva quasi sulla punta di esso, in modo da poter traguardare l'interlocutore di sopra a quelli. - Che posso fare per voi, mio giovane signore? - domandò. Michele gli mostrò lo schizzo del baro e spiegò lo scopo della sua visita. - Ah, sì... lo ricordo... un bell'anello d'oro... m'è costato una vera fortuna... Il vecchio sgattò in un cofanetto che trasse da un mobile scrittoio ad anta scorrevole. - Eccolo. Dentro nascondeva un biglietto pizzicato sotto la gemma, sapete? Quando ho infilato la punta d'un coltello, la molla è scattata espellendolo. - E c'era scritto? ... - Non saprei... l'ha preso quel tale, a me interessava solo l'anello. All'anziano rigattiere non sfuggì che tanto sollecito interesse per il gioiello appena acquistato – o per quel biglietto – doveva nascondere ragioni che ne avrebbero potuto accrescere il valore ben oltre quello commerciale: - Ehm, dunque, vediamo... considerando che non mi è poi rimasto tra le mani così a lungo, potrei chiedervi soltanto venti scudi, se mi pagate in contanti. Caravaggio lo prese per il collo: era una cifra enorme. - Dannato strozzino! come osi chiedere venti scudi per ciò che hai pagato solo uno? - N... non è vero, Messere... a quel vostro amico ne ho dati otto! Ve lo giuro sulla Bibbia! Il calvo cranio del mercante ondeggiò ancora paurosamente, scosso dalle mani del pittore: - Come hai detto? Quella è merce rubata! ... Bada che ti denuncio per aver tu stesso commissionato il furto! L'artista aveva fatto leva sul timore degli ebrei, mal tollerati dalla Chiesa, di venire indagati dall'autorità inquisitoria.
- Ah! No... avete ragione... forse erano cinque... ma vi prego, lasciatemi! La cifra cominciava ad avvicinarsi al ricavo che tempo prima Michele aveva ottenuto da un orafo del Campo Marzio per un anello di sua madre, nei gramissimi tempi dei suoi primi giorni romani. Il pittore lasciò la stretta e la contrattazione proseguì più civilmente. Tentò d'impietosire il mercante, raccontandogli del furto e dell'adolescente truffato dai bari, celandogliene però il sesso dal momento che una gentildonna che gioca a carte in osteria gli parve poco credibile, sebbene di sicuro effetto. La richiesta s'abbassò a sette scudi e tale rimase. Era una grossa cifra. Caravaggio non aveva contanti con sé, come al solito, ma l'aver ritrovato l'anello in così breve tempo lo aveva incoraggiato; e poi il fatto che esso celasse un misterioso biglietto gli aveva messo addosso una gran voglia d'andare a fondo di quell'intricata faccenda. Voleva l'anello subito... non si fidava dell'usuraio: per costui un cliente valeva l'altro e se, uscito lui dalla bottega, fosse arrivato un altro acquirente... Decise di giocare d'azzardo, confidando nei soliti amici per un aiuto: ma doveva prima convincere il vecchio a fidarsi di lui. In segno di pace riò all'uso del voi: - Sentite... vi propongo un baratto: voi mi date l'anello per sette scudi e io vi lascio in pegno un quadro per qualche giorno... cioè... se poi non pagherò ve lo terrete. - Mmm... mai fatto prima in vita mia, ma... vediamolo pure questo quadro, se proprio insistete. - Aspettatemi qui e non aprite a nessuno! Michele rifece due volte il percorso tra Piazza Santi Apostoli e la bottega, ma questa volta correndo senza badare alla gamba convalescente che lo costringeva a stringere i denti per il dolore. Si ripresentò ansimante al rigattiere reggendo sotto un braccio l'unico tesoro che
gli fosse rimasto dopo le indebite appropriazioni del Bacchino e di altri suoi lavori da parte del Cavalier d'Arpino: la tela arrotolata della Canestra di frutti. Nei minuti che seguirono due occhi cisposi, sgranati dallo stupore, esaminarono una meraviglia dipinta quale non s'era mai vista, mentre l'ammutolito rigattiere spostava il lume tutt'intorno per meglio esaminarla negli incredibili dettagli. - Beh, sì, non c'è male... devo dire che mi pare valga quanto pattuito. Anzi, sentite ... perché non fate che lasciarmelo? voi vi prendete l'anello... e la finiamo lì! Era ben ciò che volevate... no? Michele non abboccò: non aveva la minima idea di quanto avrebbe potuto realizzare con la vendita del quadro, ma se un personaggio ricco e raffinato come Federico Borromeo lo voleva di certo poteva valere molto... e quel molto non gli pareva dovesse necessariamente coincidere con la stima fatta dal rigattiere. - Mi sono già impegnato a darlo a un Cardinale... sapete... non posso mancare. - Ah! Capisco, capisco... e certo io non posso competere con i mezzi di cui dispongono quei Signori... - concluse l'usuraio con un sospiro, tirando fuori penna e pergamena. Redasse il contratto con Caravaggio in base a quanto pattuito: gli concedeva due giorni di tempo per riscattare il quadro al prezzo di sette scudi, oppure per restituirgli l'anello.
- Era ora che tu rientrassi! - sbottò Prospero Orsi all'indirizzo di Michele, quando questi aprì con cautela la porta del modesto alloggio temendo che lui ancora dormisse. - Era ora che ti svegliassi tu, piuttosto! È tutto il pomeriggio che dormi: che è stato? t'hanno forse dato... una botta in testa? Ci risero sopra benché Prospero si lamentasse di dolori in varie parti del corpo oltre al capo, vistosamente fasciato: data l'ora, si avviarono alla Locanda del Vescovo per la cena. In verità l'Orsi non aveva fame sentendosi ancora un pò intontito, ma avrebbe
tenuto compagnia all'amico: il Cardinale voleva concludere al più presto e li voleva suoi ospiti a cena la sera del Mercoledì, dunque dovevano parlarne subito. Strada facendo Michele aggiornò il suo mentore circa il recupero dell'anello e dovette confessargli d'aver lasciato in pegno la Canestra di frutti all'usuraio. Poco mancò che Prosperino perdesse i sensi una seconda volta. Fortuna che erano arrivati e dopo tre sorsate di vino si riprese dal trauma. - Ma sei matto? Ma... dico: non sai di chi è l'anello, non sai chi sia la misteriosa ragazza, non sai cosa c'è dietro a tutta questa storia e lasci un quadro già impegnato con chi sappiamo per prenderti quello stupido gioiello?... e adesso non sai che fartene! Poi si calmò e insieme decisero di affrontare un tema alla volta. Il primo, e più importante, era come ritornare in possesso del quadro, per cui il Cardinale era pronto – disse l'Orsi – a definire il prezzo sulla base d'una sua offerta di dieci scudi. Prosperino raccontò di come avesse tentato di far are la propria richiesta di venti, ma il Borromeo era stato irremovibile: - Mandatemi questo... Caravaggio aveva concluso - e vedrete che noi due... fra lombardi ci metteremo d'accordo! Per riscattare il quadro, Michele avrebbe dunque chiesto all'amico Onorio un prestito da restituirgli immediatamente con il ricavato della vendita di quello al Cardinale. Prosperino approvò con una riserva: - Purché quell'ebreo non ti chieda di più di quanto ti darà il Borromeo! Michele tirò fuori il contratto del rigattiere e videro che ancora ce n'era d'avanzo. - Ma non te n'approfittare per far sconti al Cardinale! Il prezzo di partenza deve essere la nostra richiesta di venti scudi e... ho avuto l'impressione che Sua Eminenza fosse propenso a cedere... - concluse l'Orsi con il tono di chi se ne intende.
Malgrado la botta ricevuta e l'abbondante dose di vino, alla fine del pasto egli trasse lucidamente le conclusioni sulla faccenda dell'anello. Fu rapido e conciso: per prima cosa occorreva sapere con certezza chi era la ragazza dell'anello, poi a chi era diretto il messaggio e cosa riguardava. Senza tali informazioni era inutile far congetture o men che meno piani d'azione. I due amici si separarono per preparare l'intensa giornata dell'indomani, che a Michele avrebbe forse consentito di chiarire il mistero e di vendere il suo primo quadro a un cliente importante. Era ancora chiaro: l'Orsi, senza fretta, si avviò verso casa. Caravaggio invece, pur rinvigorito dall'ottimo pasto, doveva fare più strada di lui per raggiungere casa Longhi in piazza Santi Apostoli e vi s'accinse di malavoglia. Il ginocchio era ormai stabilmente gonfio e lui zoppicava visibilmente. Michele aveva omesso di proposito d'accennare a Prosperino l'ardita ipotesi che l'anello fosse di Lorenzo, dal momento che della storia d'amore di lui l'Orsi non aveva mai dato segno di conoscere nulla più di quel "con una poco di buono" che gli era una volta sfuggito. Aveva dunque creduto indelicato il rivelargli quanto il giovane conterraneo gli aveva a suo tempo confidato in gran segreto. Tuttavia da quando aveva visto Lorenzo quel pomeriggio, più ci pensava e più si convinceva che, dopotutto, un nesso sarebbe potuto esserci: la scena dei bari alla Locanda del Vescovo... l'anello... la giovanissima damigella alla finestra... che fosse proprio lei, quella poco di buono di Lorenzo? Per la verità gli sembrava un angelo ma... mai fidarsi delle apparenze! Di certo era assai graziosa e... tutto ciò avrebbe potuto spiegare lo stato miserando del giovane, se lei lo avesse abbandonato. E lui era fuggito, aveva cambiato zona della città... forse per dimenticare? Gli pareva comunque anche questo un possibile indizio a conforto della sua ipotesi. - E il biglietto? - si chiese ancora una volta - per chi sarà e cosa porterà scritto? Chi sa che io non lo scopra domattina! - pensò mentre infine varcava l'ingresso di Palazzo Longhi con la disinvoltura discreta d'un ospite abituale.
19. Frati veri per un ladro e... falsi frati per Caravaggio
Poche ore prima, mentre Michele era alle prese col rigattiere, Giovanni se ne stava comodamente disteso sull'unico letto di casa di Anna: quello di mamma Bianchini. Le tre donne erano tutte diversamente occupate fuori casa e era una sua tattica abituale quella di darsi alla macchia per alcuni giorni – il che poi significava non uscire prima dell'imbrunire – dopo un'operazione di successo come quella alla Locanda del Vescovo. Sotto questo profilo, l'abitazione delle Bianchini al fondo di Via dell'Armata gli forniva un ottimo rifugio in posizione strategica: costeggiando il Tevere, infatti, egli poteva da lì raggiungere zone importanti di Roma senza dover attraversare il centro della città, con minor rischio di incontrare sbirri e maggior scelta per un'eventuale via di fuga. L'uomo stava cercando con la mente qualcuno che gli leggesse il misterioso bigliettino. Giovanni era analfabeta e non riusciva a decifrarlo, ma l'anello era quello di Angelica, non c'era ombra di dubbio... lo aveva riconosciuto subito! Era ormai tutto il pomeriggio che rimuginava l'enigma del biglietto. La coscienza sporca gli faceva supporre che, di qualunque cosa si trattasse, dovesse celare qualche trama contro di lui e il suo orgoglio maschile gli imponeva di non consentire alla ragazza di prendersi iniziative che lo prevaricassero. - Chi sa poi che ci faceva con l'anello di Angelica - si era domandato - quel silenzioso giovincello in trattoria? E il biglietto... l'aveva scritto lei? Di certo si tratta d'un messaggio per qualcuno: ma per chi? Alla prima domanda rispose senza esitazioni: entrò nei panni del giovincello e concluse secondo la propria morale - ma è ovvio!... gliel'avrà rubato lui! -
Per la seconda, invece, non si pronunciò: di sapere o no se Angelica fosse in grado di leggere e scrivere non gl'importava proprio un accidente. Ma doveva scoprirne il contenuto ad ogni costo: cosa aveva in mente quella sgualdrina? Aveva già ato in rassegna più volte tutte le proprie conoscenze, ma purtroppo non c'era nessuno che sapesse leggere; o, per meglio dire, nessuno che sapesse leggere e che fosse oltre a ciò tanto indenne dalle sue malefatte da rendersi disponibile a fargli un favore. In quella udì suonare le campane del vespro e... fu come colpito da divina illuminazione. - Ma certo - pensò - stupido che sono... come non c'ero arrivato prima?! Un religioso qualsiasi dovrebbe ben saper leggere! Dimenticando ogni prudenza, uscì di gran furia senza attendere l'oscurità. Guidato dai rintocchi, in pochi attimi raggiunse la vicina Chiesa di S. Maria in Vallicella, unendosi alle pie donne che vi si affrettavano per il vespero: non rammentava l'ultima sua visita a una Casa del Signore, ma si ricordò di togliersi il cappello prima di entrare. La chiesa era cupa: la navata principale era avvolta da una densa penombra, nella quale a stento si distinguevano le figure dei fedeli, inginocchiati nei banchi o sul pavimento. Lumi a olio spandevano un pò di luce intorno all'altare, creando un alone misterioso intorno alla figura dell'officiante, un frate alto e magrissimo: dal coro, invisibili cantori rovesciavano torrenti di note che s'insinuavano tra le arcate di pietra, turbinando fra le alte colonne. Giovanni scantonò nell'annessa sacrestia: era spoglia e deserta. Da una porta sulla parete di fondo si accedeva al piccolo chiostro quadrato, costituito da un giardino con basse siepi e circondato da un antico porticato. Il giovane aguzzò la vista, mentre le ultime rondini si affrettavano a rientrare negli ospitali anfratti del vecchio campanile. Un religioso già curvo per gli anni stava sostituendo i ceri troppo consunti in una
fitta selva di lumi che giacevano ai piedi d'una statua della Vergine, in un angolo del chiostro. Giovanni gli si avvicinò e notò che quello raccoglieva con cura devota le numerose monete che i fedeli avevano deposto sulla cera fusa per favorire le intercessioni di Maria, e le lasciava poi cadere dentro una piccola borsa di pelle. - Buona sera, Padre - esordì - perdonate se interrompo le vostre pie meditazioni... - ... e ventidue! - fece l'altro a voce alta, sobbalzando poiché assorto a contare l'incasso - mi avete spaventato... figliolo!... hem... che posso fare per voi? - Ecco, se vi posso rubare un minuto... vedete... avrei bisogno di aiuto per... - Dite, dite... di cosa si tratta?... ricordatemi che ero arrivato a ventidue, per favore! - Certamente... hem ecco... di mia figlia... cioè, per l'esattezza della figlia della donna vedova che ho sposato... vedete... noi siamo povera gente... abitiamo in Via dell'Armata non potendoci consentire di più e la bambina... dodici anni appena... sapete, crescerla in quell'ambiente... - Ah! Per carità di Dio, non avete bisogno di spiegarmi... con i tempi che corrono... - E dunque io le faccio da padre, curando che non faccia brutti incontri e non frequenti coetanei rissosi e senza timor di Dio... - Bene, figliolo, bene... e Iddio ve ne renderà merito! ... Immaginando cosa avrebbe dovuto attendere per veder realizzata la profezia del frate, il giovane fece tra sé gli scongiuri e proseguì: - Beh, insomma, oggi le ho pescato addosso un biglietto e... non sapendo io leggere... sapete, la bambina dice che glielo ha dato un uomo per la via... magari non è nulla di brutto, ma vorrei chiedervi di leggermelo per sapere cosa dice... che so... volgarità... bestemmie... o anche peggio! - Di peggio della bestemmia non c'è nulla! - esclamò severamente il vecchio frate - ma lodo la vostra buona intenzione e questa cancella il vostro debito con
Dio per ciò che avete detto... su avanti, date qua - e allungò la mano. Il coro s'era zittito e il silenzio era calato sul chiostro, rotto soltanto dagli ultimi stridii delle rondini e dal borbottio delle orazioni che proveniva dalla chiesa. Il religioso abbassò gli occhi sul biglietto sportogli da Giovanni, lo guardò, lo rigirò: - Ma, veramente... qui ci vedo solo scritto: AIUTO LORENZO TI AMO!! - Maledetta bagascia porca!! Io l'ammazzo, quella troia! - urlò Giovanni paonazzo dall'ira, strappando il biglietto dalle mani del frate. Questi, scandalizzato, alzò una mano verso di lui a respingerlo quasi si trattasse del maligno in persona, mentre con l'altra si segnava freneticamente. - Per carità, per carità, bravo giovane... questa è Casa del Signore... c'è una funzione, ci sono alcune pie donne... vi prego! - e indietreggiava, quasi temesse che il bravo giovane se la potesse prendere con lui. Giovanni si corresse prontamente, preoccupato di non attirare l'attenzione e assumendo da consumato attore un atteggiamento contrito: - Perdonate, padre, sono desolato, non volevo... anzi, se potessi... gradirei confessarmi per ottenere il perdono e una penitenza che mi mondi dai miei peccati, compresa quest'ultima gravissima incontinenza verbale... Il desiderio di redimersi pareva sincero e l'impossibilità di negare la confessione a chicchessia convinse il frate a condurre Giovanni nella sua cella, al fondo d'un lungo corridoio senza finestre: infatti, le voci profonde dei cantori riempivano nuovamente gli anfratti più remoti della chiesa, rendendovi impossibile la pratica di quel sacramento. Il Signor Duca si sentiva in trappola: - Ma guarda tu che cosa m'è venuto in mente! Voglio sempre strafare e adesso ben mi sta: mai imparerò a morsicarmi la lingua! Ma intanto non sapeva come venirne fuori, anche perché l'altro aveva – com'era tenuto – preso la cosa sul serio e lo aveva fatto sistemare sull'inginocchiatoio di legno che usava quotidianamente per la sua abbondante dose di orazioni. Posata la borsa di monete sul ripiano del tavolino da notte, accanto al lume , il frate indossò la stola dopo averla baciata meccanicamente e gli chiese
da quanto tempo non si fosse confessato. Giovanni s'inventò un intervallo temporale di sei mesi, che gli parve ragionevole. Il frate lo guardò con riprovazione, ma non fiatò: la prima prova era superata. - Dunque, figliolo, vediamo... dimmi un pò: e l'astinenza dal peccato della carne? Silenzio totale: Giovanni stava disperatamente cercando di capire il significato dell'espressione. Il confessore attendeva, paziente, lisciandosi la barba. - Ecco, hem... allora - attaccò titubante il manigoldo - non sempre... sapete... riesco a mangiar pesce di venerdì - e intanto pensava che, il più delle volte, era fortunato se riusciva a rimediare un pasto... sì che stava a guardare se era carne o pesce! - Va bene, questo è peccato veniale... ma io mi riferivo ad altro... alla purezza, al corpo da conservare immacolato... mi spiego? - E no che non ti spieghi, accidenti! - pensò Giovanni e poi buttò là - Bah! padre, anche qui... non è che io, vedete, abbia molte possibilità di lavarmi di frequente... ecco, se volete la verità... proprio immacolato non sono! - rispose, con un sospiro di liberazione. - Ma figliolo, ancora non avete capito... non si tratta di igiene personale! Voi... hem... fornicate? Sussurrò il sant'uomo guardandosi intorno circospetto. Di male in peggio. Il briccone tacque un momento poi, tanto per non sbilanciarsi: - Mi ci faccia pensare... - rispose poi. - Come sarebbe!? - disse l'altro che cominciava a spazientirsi - o lo fate o non lo fate, che diamine! ... ma senti un pò che roba... mi ci faccia pensare!... e chi lo dovrebbe sapere, forse io? Giovanni era a un bivio: doveva operare una scelta, era stato messo al muro. Rifletté rapidamente.
Quell'ignota parola aveva un che di gentile e d'innocuo: doveva certo avere chi sa qual nesso con le formiche e che male potevano mai fare, le piccole e operose formichine? D'altra parte, se per il frate essa compariva in cima alla lista dei suoi possibili peccati, tanto innocente non poteva essere... - E poi - pensò - visto che devo confessare qualcosa, tanto vale seguire il suo suggerimento... dopotutto, mica forMicare vorrà dire uccidere! Per non rischiare più che tanto, decise di tentare una risposta poco impegnativa e buttò là timidamente: - Beh... all'occasione... Tanto bastò a scatenare il pandemonio più totale: Giovanni, del tutto ignorante in materia di culto, era finito nella Chiesa Nuova degli Oratoriani Filippini, ordine fondato da San Filippo Neri, severo promotore delle norme d'umiltà, purezza e preghiera nel rispetto più rigoroso delle disposizioni conservatrici sulla morale promulgate dalla Controriforma del Concilio di Trento, pochi lustri addietro. Al punto da meritarsi il regalo papale dell'isola Tiberina in toto con annessi chiesa e monastero. L'anziano frate balzò in piedi urlando, saltò sul letto e staccato il crocifisso dalla parete lo brandì alto davanti a Giovanni, alternando minacciosi anatemi con invocazioni in latino: - Vade retro, Satana! Oh uomo peccatore, brucerai tra le fiamme dell'inferno! Miserere me, Domine! Fustiga le tue carni, tu che hai ceduto alla tentazione dei sensi! Giovanni per mancanza di pratica ebbe timore che l'altro fosse impazzito e, impadronendosi con gesto fulmineo della borsa di monete, scappò a gambe levate senza fermarsi che quando fu a distanza di sicurezza dalla chiesa, dietro un angolo. Si sporse quel poco che bastava a buttare un occhio: sul portale, nell'ombra della sera, l'invasato ergeva alta la sua croce, gridando a squarciagola terribili anatemi.
A casa Cenci Gertrude lo attendeva: era qualche giorno che il figlio non si
mostrava e il suo cuore di mamma le diceva che quella sera, come di consueto intorno all'ora di cena per la servitù, Giovanni le avrebbe fatto visita. S'era dunque sistemata nei pressi del deposito viveri per subito abbracciarlo, mentre tendeva l'orecchio ad acchiappare qualche discorso dei servi che cenavano in cucina. La donna s'era premurata di mettere da parte un piatto con un'abbondante porzione di agnello arrostito, una pagnotta e un bicchiere di vino, che lui avrebbe consumato come al solito nel piccolo appartamento materno. Quando sentì la chiave girare nella toppa si precipitò alla porta raccomandando di non far rumore, ma Giovanni era fuori di sé dalla rabbia: - Quella bagascia manda messaggi all'esterno chiedendo aiuto: credo contro di me... chi sa cos'ha in mente... guarda! E, sebbene la madre fosse analfabeta quanto lui, le sventolò sotto il naso un malconcio biglietto aggiungendo – ma io l'ammazzo, quella lì! – e poi lo intascò senza spiegarne il contenuto, lasciando Gertrude nella curiosità. Lanciando tutt'intorno sguardi preoccupati, lei lo trascinò nell'oscurità del deposito viveri. - Ah! Sai... la cosa non mi sorprende affatto!... secondo me deve avere un altro uomo... una volta, credo...sì... era la vigilia di Natale e un ragazzino si è presentato per consegnarle un biglietto ma le guardie hanno chiamato me perché lei non c'era... dalla finestra ho visto un elegante gentiluomo, dall'altra parte della piazza, che attendeva il ritorno del messo. È tutto in combutta con quell'altra sgualdrina di Beatrice, puoi esserne certo, figlio mio; sempre insieme tutto il giorno, quelle due piccole streghe, sempre lì a parlottare tra loro e a ridacchiare, le stupide! Ieri le ho sorprese a giocare con qualcuno giù in piazza ... non ho potuto vedere ma... Beatrice saltava e ballava e poi ha gettato qualcosa dalla finestra! L'ho anche detto al padrone ma quello ha fatto spallucce... ah! Come vorrei mi consentisse di provargli che le due sciocchine stanno tramando qualcosa contro di lui... magari con l'aiuto di quella stupida poltrona di Baronessa! Pensa che adesso, visto che il Cenci è rientrato in città e le due ragazze non possono più dormire insieme, Beatrice ha convinto Madama a dare ad Angelica un letto nell'alloggio del piccolo Bernardo! - Ah!... allora non potrò più... dirle ciò che si merita!! Ma è meglio così, mi
vendicherò... ascolta cosa faremo: e Giovanni espose alla madre il suo piano. Mentre lo ascoltava, Gertrude sentiva che il proprio odio per le due ragazze era cresciuto a tal punto da poter ormai accettare perfino l'idea d'un furto ai danni dei padroni... dal momento che la colpa sarebbe stata addossata a Angelica. - Mi pare si possa fare... credo proprio che quella smorfiosa impertinente se la meriti, una bella lezione! Ci mancava soltanto lei, a fare il paio con Beatrice contro di me!... Ascolta: sabato i Signori daranno una festa in maschera per celebrare l'arrivo dell'estate: sarà l'occasione migliore per fare ciò che hai in mente e abbiamo tempo per prepararci a dovere... A suggello del patto, fece scrocchiare le dita più sonoramente del solito ma questa volta Beatrice non era lì a spiarla, compressa nel montacarichi.
La mattina seguente Campo de' Fiori pareva un formicaio scavato nella tavolozza d'un pittore, con i mucchi colorati di frutti e di verdure sistemati qua e là sulla piazza che brulicava di gente: il verde smeraldo e il rosso delle angurie, il giallo dei meloni e poi i mucchi rossi dei pomodori, il viola cupo delle melanzane, il bianco rosato delle pesche. E fiori dappertutto, fiori per l'arrivo dell'Estate. Era una giornata di vento, assai infrequente a Roma di quella stagione. La vecchina delle spezie non aveva esposto come al solito le sue merci: con l'aria che tirava, che ne sarebbe stato di tutte le sue impalpabili polverine e delle foglie sminuzzate nelle giare o nelle tazze di terracotta? Le aveva lasciate tutte sul carretto ben coperte da un telo, per invece offrire agli sguardi i vasi con le pianticelle di gusti che aveva disposto in fila lungo il muro, quasi a sostenersi l'un l'altro come fanno i soldati per reggere, spalla contro spalla, l'urto del nemico. Lo spiazzo che solitamente occupava, con le spezie triturate sul liso tappeto color terra, era dunque vuoto e lei sedeva su uno sgabellino di legno appoggiandosi al carretto, quasi a volersi assicurare in tal modo ch'esso non si rovesciasse sotto le turbinose folate.
Arrivato per tempo, Caravaggio le girava ora intorno, attendendo di capire se in qualche modo la vecchina fosse o meno complice informata dell'incontro in programma. Lei lo aveva notato, ma il suo volto rimaneva imibile o almeno così parve al pittore. D'altra parte, se anche lei avesse – com'è d'uso in questi casi – corrugato ad esempio la fronte, nessuno si sarebbe accorto della presenza di qualche ruga in più, fra le mille che le decoravano il viso. Avendo concluso che la donna fosse del tutto ignara, Michele si era seduto ai piedi del muro non lontano dalle sue pianticelle di gusti, e attendeva pazientemente. Poi vide a distanza la ragazza che s'era esibita alla finestra dei Cenci, o almeno così gli parve... sebbene questa gli sembrasse più alta. Procedeva sicura, traversando la piazza giungendo dai Giubbonari, vestita dello stesso abito panna del giorno innanzi e con lo stesso turbante, che però era disposto in modo da anche nasconderle naso e bocca con un capo della sciarpa. Vista così, da lontano, poteva sembrare un'elegante donna islamica col velo. La osservò fendere la folla, ando tra i banchi affollati con agilità da cerbiatta finché, giunta in prossimità della speziale, s'arrestò guardandosi intorno. Michelangelo si alzò e le arrivò alle spalle: - Madamigella... - sussurrò, tenendo in una mano il bianco polsino con il messaggio per riconoscimento. Quando lei si voltò fissandolo con occhi scintillanti, il pittore vide spuntare dalla sciarpa un naso marcatamente schiacciato e... nero come il carbone. - Seguitemi vi prego, Messere - sussurrò Matteo dopo aver lanciato una rapida occhiata al polsino; e guidò l'esterrefatto artista attraverso la piazza nella direzione dalla quale era arrivato. Presero per via de' Giubbonari finché giunsero dinanzi alla piccola chiesa di San Biagio de Oliva, che da qualche anno i Padri Barnabiti avevano ribattezzato in onore di San Carlo Borromeo – defunto zio del Cardinale Federico – e che
Michele ricordava di aver visto la sera prima mentre si dirigeva di fretta alla bottega del rigattiere. Entrarono: l'interno era fresco e piacevolmente oscuro. Matteo guidò Caravaggio a un confessionale nell'angolo più lontano dai banchi e lo invitò a inginocchiarsi davanti alla grata. Più perplesso e incuriosito che imbarazzato dalla strana procedura, Michele eseguì e poi vide la sua guida scomparire dietro una porticina che s'apriva a fianco dell'altare, al fondo della navata. Poco dopo ne uscì un frate in atteggiamento di preghiera e si diresse al confessionale nel quale si accomodò, aprendo lo sportello della grata tra grandi cigolii. A bassa voce, il religioso domandò - Come vi chiamate? -; malgrado lo sforzo per farla sembrare maschile, era inconfutabilmente la voce d'una giovane donna. Michele provò un tuffo al cuore: che fosse lei... la ragazza truffata... forse, per come si erano messe le cose, la bellissima e chiacchieratissima figlia di sco Cenci? - Sono Michelangelo Merisi, per servirvi. - Una mia amica, che ha grande bisogno di aiuto, crede di avervi visto ieri alla Locanda del Vescovo dove è stata derubata d'un anello da due truffatori. - Allora questa non è la fanciulla della Locanda... - pensò il pittore, confuso sarà quell'altra che ieri era con lei alla finestra... stiamo a vedere! - Per provarmi che voi siete il Messer Michele che cerchiamo, vi prego di dirmi chi era l'uomo vestito di nero che vi ha raggiunto alla locanda. A Caravaggio non sfuggì il tono di comando della donna misteriosa. - Che spudoratezza!... mi fanno correre tutto un giorno e poi mi fanno l'interrogatorio - pensò, faticando ormai a controllare la propria pazienza; ma non aveva scelta, se voleva svelare il mistero.
- Il pittore Prospero Orsi - rispose seccamente. - È il cielo che vi manda, Messer Michele! - esclamò la sconosciuta della quale lui non poteva vedere i lineamenti - la mia... hem... amica m'incarica di chiedervi se avete recuperato l'anello: sapete, è molto importante... ci tiene moltissimo perché le era stato regalato dal fidanzato... e anche per via del messaggio che conteneva. Caravaggio si risentì: aveva l'anello in tasca ma... voleva per lo meno capire cosa c'era dietro. - Ma come! Mi fate venire qui imbastendo tutto questo mistero, m'interrogate senza dirmi chi siete e pretendete ch'io mi sia già dato da fare per ritrovare l'anello? Vi basti sapere che quel mio amico è stato tramortito dai due bari che sono svaniti con esso... senza nemmeno pagare il conto al locandiere! Finse di alzarsi. - Per carità, per carità... non ve ne andate vi prego! Ora vi spiegherò... ma non posso dirvi il mio nome... ehm, cioè... non ancora: potreste risalire alla mia amica che desidera restare in incognito finché... - Uh... quante storie mi fate... ma va bene, va bene... andate avanti! - La mia amica lavora... hem... pure lei presso la famiglia Cenci e... beh, insomma... il fatto è che il figlio della governante di casa... un poco di buono... un ladro, un uomo già maturo sapete... la perseguita con visite notturne senza preavviso poiché la madre gli ha procurato la chiave della porta di servizio e... - Sì, ho capito, ma... a me che importa di tutto ciò? Non crederete che sia io, vero? - È per spiegarvi il motivo per cui la mia amica ha bisogno d'aiuto Messere, se pazientate. Ora il fatto è che questo furfante vorrebbe convincerla a rubare in casa nost... ehm... nella casa dei padroni... pensate che ai suoi rifiuti la riempie di botte ogni volta, poverina! ... Michele non aveva mancato di notare il piccolo lapsus della sua interlocutrice, il cui modo incerto e tortuoso di procedere nel discorso gli faceva sospettare che ingarbugliasse le cose di proposito.
Quell'esitazione prima di informarlo che l'amica lavorava pure lei dai Cenci gli ricordò quanto poco ci avesse messo a intuire che il paggio truffato alla locanda del Vescovo fosse in realtà una gentildonna travestita... e ora costei, con il suo linguaggio forbito gli voleva far credere d'esser pure lei una serva?... no, c'era qualcosa che non quadrava. Alla sua mente si riaffacciò l'idea d'aver che fare con Beatrice, ma pensò bene di non interromperla per chiederglielo, vista la sua riluttanza a identificarsi. - Pensate, Messer Michele... che una notte, credo fosse verso fine febbraio... le arrivò in camera tutto trafelato come dopo una lunga corsa... sanguinava da un largo taglio su un braccio, che le disse gli avessero inferto due malintenzionati con i quali aveva avuto uno diverbio in una viuzza del quartiere... Caravaggio aguzzò le orecchie: quelle parole gli avevano ricordato lo scontro con il ladro per la sua Canestra di frutti... quella macchia di sangue nel vicolo!... la cosa sembrava finalmente farsi per lo meno interessante. Forse. - Vi ascolto... continuate - la incoraggiò con tono più paziente. Quella notte di Febbraio, l'improvvisa sparizione di Giovanni sotto il naso del pittore era facilmente spiegabile: vista la mala parata, egli si era infatti rifugiato a palazzo Cenci. In realtà questa era già la sua intenzione originale, tanto che aveva preso con sé la chiave della porticina sul vicolo. Unico elemento mancante era la tela, che lui avrebbe dovuto nascondere presso la madre fino alla sera successiva, quando l'avrebbe venduta. Infatti, l'euforia per l'imminente impresa ladresca – che gli sembrava un gioco da bambini – gli aveva suggerito di metterci un pò di pepe truffando quei bellimbusti di fratelli Cesari che si credevano il padreterno: aveva un prestito con un ricettatore di sua conoscenza al quale aveva promesso La Canestra di frutti invece di distruggerlo come pattuito con i Cesari. A loro avrebbe mostrato, come prova, un angoletto strappato. - Tanto - aveva ingenuamente pensato - nessun compratore avrà da ridire se gliene mancherà un angoletto... basterà mettere la tela in una cornice! Con quei soldi aveva chiuso un paio di debitucci che gli stavano facendo piovere minacce addosso e poi s'era dato alla pazza gioia con il solito compare di
malefatte scialacquando il danaro, fatta salva una piccola parte da mostrare ad Angelica. Era qualche settimana che la evitava, dopo la scenata di capodanno, e pensava che il mostrarle quadro e denaro fosse una prova dei suoi prosperi affari, aiutandolo così a far pace con lei. Poi la cosa prese invece una piega ben diversa e Giovanni, temendo di essere inseguito non da uno ma da due uomini armati, era così ugualmente riparato a Palazzo ma senza il dipinto e, quel che più lo preoccupava, con un debito che non sapeva più come saldare. Si sedette ansimando sull'ultimo gradino della scala a chiocciola per riprendere un pò di fiato. Sapeva che Angelica doveva trovarsi nella sua stanzetta: era bene al corrente di cosa significava per lei la presenza del Cenci a Roma. Spinse con cautela l'uscio: aveva deciso il da farsi e svegliò dolcemente la ragazza.
- Mi hai perdonato? - le domandò, quando lei dette segno d'intendere. Cadendo a terra nella colluttazione con Michele, si era ferito a un braccio con un'aguzza punta metallica della piccola lanterna che lo aveva tagliato profondamente. Lo strappo alla manica e il sangue divennero così le prove d'un misterioso agguato subito da sconosciuti che gli avevano rubato un quadro, recente acquisto del Cenci. Naturalmente ora non sapeva come dirlo al Signor Barone. Oltre alla realtà della ferita, il giovane pareva sinceramente depresso e Angelica se ne impietosì. Le sue non parevano frottole, questa volta. Si levò, si coprì e scesero silenziosamente nelle cucine, giù per la scala a chiocciola: Giovanni volle esser guidato per mano, dicendo che la via gli era ignota...
Malgrado la cautela, i loro i risuonavano sotto le basse volte del grande locale. Alla luce dell'unica torcia rimasta accesa per la notte, lei gli lavò la ferita, la bendò con un pezzo d'un telo che serviva a filtrare il brodo dei bolliti e lui si scusò per la scenata dell'anello, le chiese perdono, le promise che mai si sarebbe ripetuto. Vedeva che la ragazza stava cedendo. Lei gli chiese se lui l'amasse. Giovanni la baciò ardentemente, assicurandola del suo eterno amore. Mentre sul pavimento, accanto al camino ancora tiepido di braci, i loro corpi si univano a così suggellare il perdono di lei, Angelica sospirò: - Sì, sì... ti perdono... siiì... prendimi così che mi piace tanto! - Faresti anche... per me bruceresti il tuo scialle? Le sussurrò lui all'orecchio, e gettò l'indumento sulle braci. Angelica tentò di ribellarsi senza convinzione: s'irrigidì un istante per poi illanguidirsi nuovamente. - Sì... sì – sussurrò - mi scalderai tu... - E... se fosse... ardere le tue ciabatte? - chiese ancora il suo amante sfilandogliele. - Solo se tu... - rispose lei stando al gioco; e gli sussurrò gemendo un suo desiderio segreto che Giovanni esaudì prontamente facendola fremere di piacere. - E... se fosse... rubare un gioiello di Madama? Angelica ebbe uno scatto improvviso e si staccò da lui: si girò ancora ansimante. Gli affibbiò un sonoro ceffone, la cui eco tra le colonne gotiche diede l'impressione che avesse schiaffeggiato pure quelle, tanto a lungo ne durò l'eco. Angelica scoppiò in lacrime: - Rubare eh? Allora è questo che vuoi da me? No! Mai e poi mai! - gridò cercando di alzarsi per fuggire... ma era nuda e senza
scarpe. Neppure tentò di frenare il pianto: -Ma si può sapere chi sei tu? Un gentiluomo del Cenci che vuol rubare in casa sua? E me lo chiedi mentre facciamo l'amore? - Taci! - le intimò l'uomo sorpreso dalla reazione - vuoi che ci scoprano? Dicevo solo per scherzo... mica ho bisogno di danaro io! - E fece tintinnare le monete avanzate dalla serata di baldoria. Ma per la ragazza l'estasi interrotta era soltanto la minore delle delusioni patite. Quella proposta del furto le bruciava dentro come un fuoco:l e era crollato un mito e non ci vedeva più dalla rabbia. - Dì la verità... tu sei... sei il figlio di Gertrude, vero? - gli gridò allora in faccia, mentre singhiozzava disperata. La sua voce riecheggiava nella stanza oscura, fra le colonne che reggevano le basse volte, eredità dell'antica rocca che aveva preceduto il palazzo. Giovanni temette l'arrivo delle guardie. La colpì con violenza al petto con un pugno e la fanciulla stramazzò battendo il capo contro un grosso tavolo in legno massiccio e scivolando a terra svenuta, mentre l'amante lasciava velocemente il Palazzo per dileguarsi nella notte. Quando finalmente si riebbe, Angelica aveva un gran freddo e tremava battendo i denti, malgrado le braci ancora rosseggiassero sotto la cenere nell'immenso camino. Era tutta pesta, le doleva il petto, si scoprì dei profondi graffi sui seni che non ricordava di aver ricevuto e aveva un grosso bitorzolo sulla nuca che le procurava fitte lancinanti al solo sfiorarlo. Accoccolata sul bordo del camino, ci mise un pò a ricostruire l'accaduto e, non appena le fu possibile, si rizzò per tornare alla sua camera prima che il palazzo si risvegliasse. Stava albeggiando e lacrime silenziose le rigavano il volto. Il suo scialle era incenerito ma le ciabatte erano salve. Si avviluppò in una vecchia coperta che serviva ad avvolgere i piatti di portata per tenerli tiepidi in attesa dei cibi da servire.
Raggiunse la scala e a tentoni salì al piano superiore: non c'era alcun rumore e l'unica torcia illuminava debolmente una piccola parte del corridoio silenzioso. Si gettò sul letto con un lungo e liberatorio sospiro: le sue nuove mansioni, grazie a un orario mattutino meno severo, le consentivano forse qualche ora di sonno. Quando il trambusto casalingo la risvegliò si sentiva la febbre.
Ciò che Beatrice non poté raccontare perché non poteva esserne al corrente fu che Gertrude aveva assistito alla scena: udendo quelle grida di donna, era scesa da basso. Nascosta in una nicchia del muro aveva atteso che Giovanni se ne andasse prima di avvicinarsi al corpo esangue di Angelica osservandolo a lungo senza tradire emozione, come il guerriero vincitore davanti al cadavere del nemico. Era determinata a ucciderla. L'odiata servetta conosceva dunque il suo segreto ma... come l'aveva scoperto? E se dopo la lite con Giovanni la ragazza si fosse mai confidata con Beatrice e questa avesse riferito a Lucrezia, come avrebbe lei potuto giustificare la presenza del proprio figlio nel palazzo a quell'ora di notte senza rivelare il suo tradimento della fiducia del padrone? Al solo pensiero delle conseguenze sentì uno spiacevole brivido gelato lungo la schiena. Si chinò e le strizzò i seni con le dita: quella serva aveva la pelle vellutata d'una gran dama, accidenti a lei! La perfida donna non poté trattenersi dal piantarvici le unghie. Poi fece scorrere le mani su per le spalle e le avvicinò lentamente finché esse si congiunsero intorno al collo... e poi strinse: ma subito in lei prevalse la convinzione che il padrone non avrebbe esitato a credere alle sue parole contro quelle di Beatrice. Se richiesta, avrebbe giurato di non aver mai avuto un figlio. Era sufficiente negare tutto e in questo era abilissima: dunque, non ne valeva la pena. Lasciò la presa. - Ma devo fare in fretta a incastrarti... carina – borbottò a denti stretti. Un pò a malincuore si sollevò, fece sparire le tracce di medicazione cadute a terra e tornò nella sua stanza.
Al termine del racconto di Beatrice, Michele commentò: - Una storia davvero pietosa, ma continuo a non vedere cosa c'entro io e perché vorreste che io ritrovassi l'anello. - La mia hem... collega deve liberarsi di costui, ma nessuno può aiutarla... non certo io o altri nel palazzo... e neppure la sua famiglia che... sono povera gente ignorante, sapete... non oserebbero o non saprebbero da che parte cominciare. - In tutta franchezza... neppure io, se non vi decidete a spiegarmi perché dovrei... Mentre pronunciava queste parole, il pittore pensava: - Ah! Sono poveri ignoranti eh?... forse...proprio come voi, sedicente servetta?... ma a chi crede di darla a bere, questa, con il suo linguaggio forbito? - Vedete, messer Michele... la ragazza in questione ha un altro uomo... un giovane che la ama moltissimo ma che... Michelangelo si fece tutt'orecchi: - Forse ci siamo! - pensò. - ... che lei non vede da qualche tempo e... sì, insomma, vorrebbe rintracciarlo per chiedergli aiuto... noi pensiamo sia l'unica persona che la possa cavare d'impiccio. Così ieri... lei era andata a cercarlo alla Locanda del Vescovo per consegnargli l'anello con il suo messaggio per lui ma ci ha trovato quei due truffatori e... Beatrice scoppiò in lacrime e Caravaggio rifletté rapidamente: se la giocatrice truffata non era lei ma era l'amica, perché allora mettere un biglietto nell'anello quando, se avesse trovato l'ex fidanzato, poteva spiegargli tutto a voce? E poi... perché questa adesso si disperava tanto se a perdere l'anello era stata quell'altra? Michele era turbato e incuriosito, ma la storia non stava in piedi. Decise di rischiare, anche per non perdere altro tempo: - Se la vostra amica ha veramente tanto bisogno d'aiuto per trovare l'altro fidanzato, non pensate sia giunta l'ora di dirmi la verità... Baronessina Beatrice? Calò un silenzio totale. La ragazza aspirò dal naso più volte. - La verità non sono autorizzata a dirvela ma sappiate... che soltanto voi potete trovarlo!
La sua voce era contegnosa se non lievemente risentita: era stata smascherata ma, dopotutto, sempre nobildonna era! Il pittore si stupì: - Io? ... ma spiegatemi almeno il perché! - Perché... perché quell'altro uomo di... della mia amica... voi lo conoscete! - Ah! Ma allora... sta a vedere - pensò l'artista - che se conoscessi questo suo exinnamorato e quello attuale fosse il ladro della Canestra ci sarei proprio dentro fino al collo.... Poi domandò: - E chi sarebbe, di grazia, costui? - Temo lo saprete soltanto domani, Messer Michele, quando incontrerete la mia amica: deve essere lei a parlarvene... io vi ho già detto fin troppo e voi avete perfino scoperto la mia identità che avrei preferito tenere segreta. Se solo mio padre venisse a sapere... mi affido alla vostra discrezione... - Capisco e me ne dispiace... contateci! ... Ma se devo aiutare la vostra amica... - Domani lei sarà qui alla stessa ora... ma vi attenderà nella sacrestia! E adesso vi prego di tardare qualche minuto prima di lasciare il confessionale... affinché io possa uscire per dove sono arrivata...vi saluto Messer Michele e... ego te absolvo!... - Nell'ombra della cella parve a Michele d'intravvedere il candido bagliore d'un sorriso. Poco dopo il pittore si levò e fece per avviarsi all'uscita quando s'accorse di una vecchietta inginocchiata in preghiera in un banco poco discosto dal confessionale, che lo stava fissando con occhi maliziosi. - Però - gli sussurrò quella - di peccatucci ne dovevate aver ben tanti, bel giovanotto, per metterci tutto questo tempo... chi sa che dose di penitenza vi avrà rifilato quel buon frate!... e riprese compunta a sbiascicar giaculatorie. Caravaggio si precipitò fuori dalla chiesa: ci mise qualche pò a superare l'accecamento nel aggio alla luce del sole, ma fece in tempo a scorgere allontanarsi sottobraccio due donne molto eleganti che parlavano fitto fitto mentre un paggio di colore le seguiva reggendo un gran parasole. Michele non poteva sapere che Madonna Lucrezia, messa al corrente degli ultimi sviluppi, aveva eluso i veti del marito con l'unica scusa – incontestabile – che lei e Beatrice si sarebbero recate a un colloquio con il padre spirituale della Baronessa.
Ovviamente il Barone intuiva benissimo che la moglie aveva ottenuto dal religioso l'assoluzione per Beatrice dalle prestazioni sessuali che il padre le imponeva, allo scopo di permettere alla sciagurata adolescente di accostarsi ai Sacramenti: al Cenci nulla sarebbe potuto importare di meno... con tutti gli appoggi di cui godeva a Corte! D'altra parte lo sapeva tutta Roma e molti erano quelli che avrebbero voluto ucciderlo per altri delitti... ma lui ne usciva sempre indenne! Michele poteva invece intuire benissimo che le generose oblazioni di Lucrezia al Barnabita avessero quella mattina garantito a Beatrice la protezione da occhi curiosi e da lingue pettegole a mezzo di un abito monacale, certamente più adatto a un frate confessore delle preziose vesti di lei.
Era ormai quasi mezzogiorno e il giovane artista si diresse alla bottega dell'Orsi: non gli restava che attendere l'indomani, anche perché non prima di allora il Longhi gli avrebbe anticipato il contante per riscattare la Canestra di Frutti. Trascorse il pomeriggio stendendo su tela la scena dei bari, in attesa di Prospero. La figura di Giovanni era quasi completata quando l'Orsi rientrò: - Bel lavoro... Caravaggio! Ma costui... mi pare di averlo già visto, solo... non ricordo dove e quando... chi sarebbe? - Sfido che non ricordi... con la botta in testa che ti hanno assestato ieri lui e il suo compare! Michele ripose gli attrezzi con cura prima di andare a cena con l'amico.
20. Un drammatico lunedì di Pasqua
Caravaggio non poteva nascondersi che il lato per lui più attraente della storia nella quale s'era lasciato trascinare fosse l'eventualità di riuscire a metter finalmente le mani sul ladro mancato della sua Canestra di frutti. Attratto irresistibilmente da tutto ciò che era burla o schiamazzo notturno con gli amici, Michelangelo lo era ancor più dal rendere la pariglia a chi amico non era. Non s'era sbagliato dando retta al suo intuito e seguendo il falso giovinetto truffato dai bari: sentiva che ci poteva esser qualcosa di intrigante da scoprire. - Chi sa che ora non mi si offra l'occasione di saldare quel vecchio conto! pensava dunque con ottimismo la mattina del mercoledì mentre, lasciata la bottega dell'Orsi, s'affrettava ancora una volta verso la chiesa di San Biagio all'ora convenuta con Beatrice. Con quel suo racconto zeppo di reticenze e di contraddizioni, lei era alla fine riuscita a coinvolgerlo: era stato commosso dalla sua pena per l'amica, solleticato dal sospetto che un amante di questa potesse essere il ladro della Canestra, intrigato dalla storia di bigamia che c'era dietro e incuriosito dalla rivelazione di già conoscere uno dei protagonisti! Tentava di mettere insieme i pezzi del puzzle: da un lato c'era – forse – il ladro del quadro, dall'altro c'era un proprio misterioso conoscente... e a chiudere il triangolo c'era l'amica della ragazza travestita da paggio vista alla locanda... Volendo credere al racconto di Beatrice, il filo che li collegava pareva tanto essere quel misterioso anello. Mentre camminava ricordò le parole di Prospero a proposito di Lorenzo... una storia sfortunata con una poco di buono: e se la poco di buono fosse proprio stata lei, l'amica di Beatrice? Allora quel suo conoscente non identificato sarebbe potuto essere Lorenzo... e anche la faccenda dell'anello poteva far pensare a lui, che quando l'aveva conosciuto ne portava uno al dito e poi... ora che lavorava dai Cesari ne era invece privo!
Tuttavia, supponendo d'aver indovinato l'identità dell'amante tradito, chi era invece la misteriosa bigama che lui riceveva segretamente in bottega dall'Orsi? Stando alle parole di Beatrice sarebbe dovuta essere la servetta travestita da paggio, ma... quella sua andatura elegante mentre correva, la finezza dei lineamenti e delle mani che era evidente mai avessero lavorato... no, no: Beatrice doveva avergli ancora una volta mischiato le carte. - E se invece di una serva fosse una sua damigella di compagnia? Dopotutto, quelle due mezze matte alla finestra parevano così amiche... - si chiedeva strada facendo. L'enigma ancora irrisolto gli aveva impedito, quella stessa mattina, di continuare il lavoro sul quadro dei bari, dove il ritratto di Giovanni era ormai quasi completato. La sua concentrazione era venuta a mancare e, per quanto lui si sforzasse, non riusciva a tradurre quello schizzo del paggio, abbozzato con il gesso, in un volto che rispondesse ai lineamenti e più ancora all'espressione dolce e insieme pensosa che tanto lo aveva colpito. Aveva anche schizzato alcuni bozzetti a carboncino, tutti purtroppo deludenti. Era stato un pò come se l'ansia d'incontrare di lì a poco la misteriosa ragazza lo avesse soverchiato, sfocando l'immagine di lei che credeva ben impressa nella sua mente. Il pittore ridacchiò: - Avrei bisogno mi fe da modella... ora come ora le uniche cose che potrei dipingere a occhi chiusi sarebbero i suoi polsini... oltre alle curve... hem... posteriori mentre correva! Era ormai giunto a destinazione: - Bah! andiamo a conoscerla e vediamo cosa ne viene fuori! - concluse di buon umore attraversando la spiazzo davanti alla chiesa. Ma la giovane donna che parlava con il curato non era affatto... il giovinetto truffato che lui aveva visto alla Locanda del Vescovo! Caravaggio s'arrestò un pò deluso sull'uscio, mentre i due si volgevano a guardarlo. Stava per scusarsi dell'intrusione quando – in un lampo – l'acconciatura di lei gli
consentì di riconoscerla per la fugace compagna dell'avvenente danzatrice di casa Cenci: era molto graziosa e teneva un atteggiamento modesto, stando seduta con le mani raccolte sul grembo. Dimenticando poco educatamente di presentarsi, il pittore ragionò in fretta: se ciò ancora non svelava il mistero della sua identità, per lo meno chiariva quella del giocatore truffato che a questo punto doveva essere stato Beatrice, come lui aveva ben presto sospettato. In quella il Barnabita gli domandò: - Siete dunque voi, Messer Michele? Alla sua distratta risposta affermativa: - Allora vi lascio, bravi giovani -ribatté il religioso raccogliendo alcuni oggetti di culto e vado a preparar l'altare per la prossima funzione... non abbiate fretta!- E sparì lasciandoli soli. Dopo qualche attimo d'imbarazzato silenzio la ragazza parlò: - Io sono... sono Angelica, Messer Michele... la figlia maggiore degli osti della Locanda del Vescovo... - Ah!... questa poi!... - pensò Caravaggio restando di sasso: per varie ragioni, i fili dei loro destini non s'erano mai incrociati fino a quel giorno e la vedeva per la prima volta. La misteriosa amica di Beatrice era dunque lei... e poteva forse essere sempre lei la donna amata da Lorenzo? Tutti i pezzi del puzzle si sarebbero incastrati alla perfezione. Sapeva da Prospero dell'avvenenza di Angelica, ma non avrebbe mai immaginato che la persona seduta davanti a lui, finemente acconciata e dal portamento quasi elegante nella sua dignitosa semplicità, potesse esser cresciuta tra rozzi bevitori. Per un attimo il suo pensiero andò al pietoso destino di donne come Anna Bianchini, cui erano stati negati casi fortunati come quello che aveva portato Angelica accanto a una giovinetta colta e sensibile come Beatrice, e le naturali disposizioni che le avevano permesso di trasformarsi grazie alla vicinanza di lei. Come se avesse letto nei suoi pensieri la ragazza continuò: - La Baronessina Beatrice vi avrà accennato alle ragioni della mia disgrazia... e il motivo per cui devo mio malgrado ricorrere a voi per aiuto... Perché si era messa nei guai, grossi guai, e non sapeva come uscirne.
Michele taceva: stava finalmente per chiarire tutto... e non voleva impegnarsi fino ad allora. Si accomodò sulla sedia prima occupata dal frate. La ragazza gli spiegò come avesse pensato di rivolgersi a Prospero, scartando però l'idea nel timore che quello se lo lasciasse scappar detto con il padre. Raccontò brevemente delle fughe per correre da Lorenzo, confermandogli cose di cui egli era peraltro già al corrente; confessò la propria bigamia, gli disse della cacciata di casa e gli parlò di Beatrice, vera anima di tutta l'operazione perché (le aveva detto la giovane Cenci) "è giusto che ognuno di noi, uomo o donna che sia, abbia il diritto di vivere la propria vita liberamente; e quest'altro tuo uomo che non è tuo padre come nel mio disgraziato caso, te lo impedisce". Angelica piangeva, mentre proseguiva la sua storia con le percosse e le insistenze di Giovanni affinché lei rubasse in casa Cenci: - ... e io non posso sfuggirgli, perché sua madre Gertrude, la governante, gli ha dato la chiave e me lo trovo in camera mia... pensate che mi aveva perfino fatto credere di lavorare per il padrone... così poi Beatrice si offrì di andare alla Locanda sperando di rintracciare Lorenzo... ma adesso che non ho più l'anello... - e s'interruppe singhiozzando. - Adesso che non avete più l'anello...? - Se non ritrovo l'anello, Lorenzo non ne vorrà sapere di aiutarmi: era il nostro pegno d'amore e io avrei dovuto tenerlo finché lo avessi amato, o farglielo avere se avessi avuto bisogno di lui... e dunque... - A me pare, a questo punto, che prima che dell'anello dovremmo forse preoccuparci di Lorenzo: avete idea di dove sia? Gli rispose un gemito lacrimoso: - Non ne ho più notizia dal giorno di Pasquetta... Speravo che voi o Messer Prospero lo sapeste rintracciare... - No, purtroppo... ma cosa è successo a Pasquetta? Sono ormai ati tre mesi... - Beh, ecco... vedete... sì, insomma... gliene ho combinata una grossa, ma proprio grossa... io non volevo... non è stata colpa mia... lui lo sapeva che c'era anche un altro ma...
- Domani i miei chiudono la locanda e portano mia sorellina in gita sul Tevere: sai, potrebbero arrivare fino al mare! E io avrò il pomeriggio libero fino a sera aveva detto Angelica non appena ripreso fiato dagli apionati baci di Lorenzo. Erano ati più di tre mesi dalle fatali festività di fine 1593 quando Lorenzo – arrivando alla bottega dell'Orsi la mattina di Pasqua – trovò un biglietto di lei nel solito nascondiglio. I sogni a volte non svaniscono all'alba, e per Lorenzo Angelica era uno di questi: non mancava mai, dunque, di controllare nel paiolo di rame appeso accanto all'ingresso. Era un gesto meccanico ormai, ma in fondo al suo cuore una vocina gli diceva che tra loro non poteva finire così, con lei che pian piano svanisce come neve a primavera. Per cui aveva rinunciato a esporre quell'inutile straccio bianco alla finestra, ma la mano nel paiolo ce la cacciava tutte le mattine. E talvolta anche la sera, se l'assenza dei due amici dava a lui la responsabilità di chiudere l'uscio della bottega per la notte. Lei era arrivata tardi, dopo il servizio di pranzo in trattoria, quel pomeriggio di Pasqua nel quale – in vista della chiusura del giorno successivo – il consueto banchetto era stato abbondante ma rapido: sua madre non doveva sovraffaticarsi in vista dell'indomani. Donna Orsolina aveva tanto insistito: - Non mi porti fuori proprio mai - aveva detto al marito - non un solo giorno in tutto l'anno: questa volta voglio anch'io la gita di Pasquetta fuori porta, come tutti i cristiani che conosco! Lorenzo non credeva alle sue orecchie: Angelica gli stava dicendo che sarebbe stata libera in un giorno di festa. Era una cosa mai vista. Non si montò la testa, memore delle volte in cui s'era prematuramente illuso. - Ah! così... eee... come mai saresti libera? - domandò con studiata indifferenza. Lorenzo s'attendeva la solita risposta evasiva, ma questa volta lei lo colse di sorpresa: si sedette sul letto, le mani compuntamente appoggiate alle ginocchia.
- Allora, ti devo dire che la mia situazione con quest'altro uomo è che ho rifiutato di andare con lui per mia scelta: mi ha deluso per la scarsa considerazione ch'egli ha della mia libertà e gli ho detto che o cambia atteggiamento oppure non sono più disponibile a proseguire la relazione. Il giovane gentiluomo era rimasto senza parole, anche perché un forbito discorso sul tipo di quello l'aveva già sentito, mesi prima, senza che producesse effetti tangibili. - E... se lui non modificasse nulla? - Vorrà dire che, in tal caso, io dovrò fare una scelta tra... questi due uomini della mia vita. Un brivido gelato percorse la colonna vertebrale di Lorenzo: delle velleità di lei di mettere ordine nella propria vita sentimentale gli erano ormai note le turbolente conseguenze. - Ma... forse... non essere precipitosa - gli scappò detto. A quel punto Angelica gli inferse, in totale innocenza, il colpo di grazia: gli prese entrambi le mani e, guardandolo teneramente negli occhi: - Ti ringrazio per il tuo esistere nella mia vita - gli disse, schiudendo le labbra in un invitante sorriso, il cui lieve imbarazzo la rendeva ancor più desiderabile. Lorenzo non poté far altro che baciarla e mai un bacio gli parve così significativamente intenso, tanto che non poté resistere e tentò subito di spingerla sul letto. Ma lei lo fermò: - No, aspetta! dobbiamo fare le cose per gradi!... Assolutamente rapito al pensiero che l'amata potesse davvero considerare di disfarsi dell'altro, e perciò incapace di cogliere l'irrisolta indecisione contenuta in quell'ingenuo proponimento, egli obbedì continuando tuttavia a baciarla con ardore. Lei lo lasciò con la più tenera delle promesse per il giorno seguente: - Verrò da te non appena finisco dai Cenci - assicurò la ragazza al trepidante innamorato. La prospettiva di trascorrere con Angelica un intero pomeriggio festivo, insieme alle battagliere intenzioni da lei espresse nei confronti del rivale, quasi avevano
impedito a Lorenzo di chiudere occhio durante tutta la notte. Le diafane luci dell'alba lo avevano sorpreso mentre, chino accanto alla lucerna, ancora tentava di dare un senso compiuto alle frasi d'amore spezzate che l'insonnia gli aveva consentito di scrivere, appunti slegati che ora giacevano sul foglio come pezzi d'un mosaico da comporre. Più tardi, aspettando l'arrivo di lei alla bottega, non riuscì a trovare la concentrazione anche per via delle frequenti corse su per la scala a spiare l'eventuale presenza di Angelica alla locanda: ma le imposte di tutte le finestre rimanevano serrate. Era appena ridisceso da una di queste escursioni che la porta si schiuse e la ragazza fece capolino: -Che sta scrivendo qui a quest'ora, Signor Pittore, in un giorno di festa? - domandò allegramente avvicinandosi al tavolo. - Un elenco di cose da acquistare per dipingere... - E... di grazia, me lo leggereste, Messere? - Veramente... ecco... avevo scritto soltanto un paio di... Angelica manovrò per sederglisi sulle ginocchia e lo baciò a lungo. Poi lei si staccò e quando Lorenzo tornò sulla terra scorse la ragazza che leggeva il suo racconto di un loro immaginario approccio all'amplesso, in un giorno nel quale non si sapeva se Prospero sarebbe o meno arrivato in bottega. - Si... va bene, ci stavamo accarezzando ma... come finì... la storia? - domandò lei con voce maliziosa, posando le mani sulle spalle di Lorenzo che, ancora seduto, le dava la schiena. - Non me lo ricordo più... ma forse... tu... potresti mostrarmelo... - Aha! ... nossignore! Solo quando vorrò io! La ragazza rise in modo sbarazzino, allontanandosi da lui con una piroetta. Poi si riavvicinò per mormorargli all'orecchio:
- T'era piaciuto vero... quella volta... quando per la fretta... sì... quel giorno in febbraio... non ricordi? quando non sapevamo se Prospero sarebbe arrivato e allora io... ti era piaciuto?... Lui la fece sedere sulle sue ginocchia: la baciò rispondendo con i baci alla domanda, mentre le slacciava la gonna. - No che fa freddo! Brrr... qui dentro si gela... andiamo da me, vieni. Forse in cucina ci saranno rimaste braci nel camino da portare nella mia camera e poi... ci sarà il tepore delle mie coltri!... E non dimenticare il tuo liuto!... - ordinò rialzandosi. I due ragazzi uscirono di corsa dalla bottega e fu un miracolo se Lorenzo si ricordò di chiuderne la porta a chiave. Si presero per mano e, brandendo lo strumento con quella libera, il giovane trascinò Angelica correndo lungo il vicolo deserto, mentre lei protestava ridendo: - Mi fai cadere scioccone! Abbiamo tutto il pomeriggio per noi... aspetta! Ma Lorenzo andava di fretta. Trafelata, Angelica aprì la porta della locanda: lui non le diede il tempo di chiudersela alle spalle e l'abbracciò, spingendola contro la parete. La fanciulla sentiva il desiderio di lui: - Aspetta... saliamo di sopra...- provò a dire incerta, mentre Lorenzo le alzava la gonna sussurrandole: - Dopo... più tardi... ti voglio qui subito... adesso! La sollevò e lei gli circondò i fianchi con le gambe... ma il cigolio d'una porta e poi un forte rumore di i sul pavimento di legno dei piani superiori li fece trasalire. - Omioddio!... Mio padre! - ansimò Angelica, gli occhi sgranati dalla paura. - Non è possibile! - replicò Lorenzo che ricordava tutte le finestre chiuse, solo poco tempo prima. I due giovani si guardarono. Un terribile sospetto, lo stesso per entrambi, ma la paura fu di lei soltanto: erano quasi due mesi che non vedeva più Giovanni e
pensava di esser salva. - Angelica! È un'ora che ti aspetto! - gridò la voce del figlio di Gertrude, il quale ormai stava scendendo la rampa di scale che conduceva alla cucina. Il bellimbusto, ritenendo trascorso un tempo sufficientemente lungo per lasciar sbollire le ire della ragazza, aveva pensato bene di riprovarci, facendo conto su quelle sue doti amatorie che pareva fossero tanto irresistibili da potergli garantire un frequente ricambio delle sue... fonti di reddito mercenario. Aveva saputo dalla madre del pomeriggio di libertà di Angelica e, vista chiusa la locanda, s'era assicurato dell'assenza degli osti dal consueto posto d'osservazione sul retro, salendo poi per l'abituale via e andando ad attenderla nel suo letto, dove s'era appisolato come un angelo. Perfettamente in pace con se stesso, insomma, come se nulla fosse accaduto: si era aperto le ante con l'aiuto d'un legno già usato in ato e opportunamente nascosto dietro il rampicante, e le aveva richiuse una volta dentro. - Vai via, vai via per carità! - supplicò la ragazza spingendo Lorenzo verso la porta - ché se no quello ci ammazza! Il volto di Giovanni si sporse dall'ingresso della cucina. - Ah, sporca bagascia maledetta! Allora è proprio vero... quel che dice mia madre di te... brutta zoccola... ma ti faccio vedere io! - urlò inviperito: si lanciò sui due, mentre ancora la ragazza tentava inutilmente di spingere fuori Lorenzo. Il giovane si divincolò da lei e si preparò allo scontro: lui impugnando il liuto, vestito di tutto punto, la spada al fianco e il cappello piumato in testa; e l'altro nudo come un verme. Mentre Lorenzo sollevava lo strumento sopra la testa, udì da Angelica parole che mai avrebbe potuto dimenticare: - Non è nessuno, non c'è nessuno... farfugliò la ragazza mentre lo tratteneva per la giacca trascinandolo verso la via - non lo conosco neppure... per me ci sei tu solo... ti giuro.... Lorenzo sfasciò il liuto sul capo di Giovanni e mentre quello si accasciava sul pavimento, riudì come in sogno la voce di lei che lo implorava: - Vai via, vai via... te ne prego...
A lui parve che quelle parole uscissero da un nero pozzo senza fondo. Il giovane si sentì mancare le forze e si ritrovò sulla strada, mentre alle sue spalle il pesante uscio si richiudeva fragorosamente. S'appoggiò al muro della casa: tutto gli pareva vorticasse intorno a lui. Vomitò e per qualche istante non udì più nulla. Poi, poco a poco, le grida e i singhiozzi di Angelica gli giunsero nuovamente alle orecchie: - Aiuto!... mi ammazza! - e il sordo rumore dei colpi li coprì. Lorenzo si scosse, si drizzò e a fatica estrasse la spada, battendo l'altro pugno sull'uscio: - Apri, vigliacco, lasciala stare e esci fuori a batterti con me! insistette più volte. Ma la ragazza parlò ancora, a stento... e le parole uscivano mozze, fra le lacrime: - Farò tutto ciò che vorrai... sì, sei il mio signore... no, non c'è nessun altro per me... Lorenzo si arrese: gli occhi gli si colmarono di lacrime e scappò di corsa per non esser costretto a ascoltare ancora una volta il tradimento e il pianto disperato di lei.
Angelica tacque, a capo basso e asciugandosi le lacrime che non aveva trattenuto. Il suo racconto aveva profondamente colpito Michele, che si chiedeva chi dei due avesse più sofferto: se Lorenzo per essere stato costretto a lasciare l'amata o la ragazza, che aveva dovuto umiliarsi fino a una tale confessione – di fronte a un estraneo quale lui era – nella speranza di ritrovare il suo aiuto e il suo amore. Un'altra domanda, tuttavia, stava emergendo dal profondo della sua mente, come una balena che risale dagli abissi e tra gli spruzzi salta fuori dal mare più alto che può quasi volesse andare incontro al sole: - Potrei chiedervi, Angelica, perché mai adesso, tre mesi dopo, vi vorreste rivolgere a lui per aiuto? A me
francamente sembra un pò fuori luogo, dopo ciò che mi avete raccontato. - Perché non riesco a liberarmi di quell'altro: ci ho provato, pensavo di riuscirci, Lorenzo lo sa, gliel'avevo detto... ma quello è più forte di me... mi piomba addosso non appena esco dalla protezione di Beatrice o della signora Baronessa... come a Pasquetta. Mi tratta come un oggetto di sua proprietà... e la madre collabora con lui contro di me. Ho perfino pensato di licenziarmi... ma dovrei raccontare tutto a mio padre e... apriti cielo! - Si, si, capisco. Ma... vi sembra, questo, un motivo sufficiente per richiedere l'aiuto di chi avete abiurato, di colui il cui amore avete disprezzato? - Noo! Non è vero! Non è vero che l'ho disprezzato!... quel suo anello lo tenevo sempre con me e l'ho mandato a cercare perché lui mi aiuti... come mi aveva detto! Si, è vero, mi ero innamorata dell'uomo sbagliato... ma poi ho capito che io voglio essere amata da un uomo. Amata veramente. Non usata soltanto... non solo posseduta a piacimento. Angelica si scoprì le braccia: numerose tracce di ecchimosi erano ancora evidenti. - E questi allora, vi paiono forse una buona ragione? Sono ancora i lividi di Pasquetta. Sono vecchi... e non ce ne sono di più recenti soltanto perché Madonna Lucrezia, non appena ne è stata informata da Beatrice, mi ha messo a dormire nell'alloggio del piccolo Bernardo... quando... ehm - la sua voce si fece sussurro - quando il padrone è in città. - Ve lo siete voluto voi: Lorenzo non ha più nulla che vedere con i vostri fatti privati. - Avevo perso la testa... vi prego di aver pietà. - Né Prospero né io abbiamo più visto Lorenzo da mesi... e se fosse tornato a Milano? La ragazza lo guardò con occhi terrorizzati, poi chinò il volto sul petto e, dopo un lungo silenzio, rispose rassegnata: - Me lo sarei meritato... ma allora, vi supplico, ritrovatemi il mio anello, lo voglio portare giorno e notte... come mi aveva chiesto lui... per ricordarmi della
mia stoltezza nel non aver capito per tempo che, se si vuole conservare l'amore di qualcuno, occorre essere capaci di rinunciare a qualcosa... bisogna saper amare. Mentre grosse lacrime le scivolavano lungo le gote, Angelica si rialzò per andarsene. Michele si palpò il fianco destro a sentire il rassicurante ingombro dell'anello che aveva deposto in un taschino del giubbotto, previo controllo che quello fosse esente da strappi o buchi così frequenti nei suoi abiti: prima di riconsegnarlo alla ragazza avrebbe verificato con Lorenzo se veramente non intendesse più saperne. Ma ora aveva ottenuto la prova che l'orgogliosa giovane aveva compreso di amarlo e si sentì fiero di quell'ardita intuizione che lo aveva dapprima messo sulle tracce di Beatrice e che poi gli aveva perfino fatto rischiare La canestra di frutti con il rigattiere. - Aspettate, Angelica... ma... e per comunicare con voi in caso io riuscissi a rintracciarlo? Negli occhi della ragazza brillò una luce di speranza: - Oh! vi ringrazio tanto... Messer Michele... la vecchia speziale. Io ci erò tutte le mattine: Madamigella Beatrice mi fornirà la scusa per recarmi al mercato. Potrete lasciare un messaggio per me e io farò altrettanto, se voi avrete la bontà di andarci. Grazie! Grazie davvero per... per tutto! Si lasciarono, uscendo lui dalla porticina laterale e Angelica dall'ingresso della chiesa, dopo aver salutato il buon parroco. Questi la coprì di benedizioni, di certo anche in virtù della generosità della padrona ma più ancora forse perché la sua lunga esperienza di umane miserie gli faceva indovinare, dietro la grazia dimessa e le tracce di pianto, un'anima che stava pagando gli errori.
S'era alzato un vento di mare carico di umidità, che pareva presagire la pioggia malgrado il cielo sereno: l'atmosfera era luminosa ma non tersa, e i variopinti tendoni dei mercanti, tesi a proteggere i prodotti dai roventi raggi del sole,
sventolavano da parer quasi i drappi degli sbandieratori in Piazza Navona, il giorno della festa della Madonna d'Agosto. Uscendo di chiesa Caravaggio si diresse alla bottega dell'Orsi, dove ora attendeva l'amico Onorio Longhi con il denaro del prestito per riscattare la Canestra. Si sentiva tra due fuochi: da una parte c'era Angelica con la pena che gli aveva ispirato e che egli avrebbe aiutato volentieri a questo punto, poiché le parole di lei gli erano parse sincere. Dall'altra c'era Lorenzo – una persona che conosceva e stimava – che, a giudicare dall' aspetto, era forse quello che più necessitava d'un amico. E in mezzo c'era lui, Michelangelo Merisi, pittore squattrinato con in tasca un anello di valore ma non suo e, per contro, con la sua Canestra impegnata da un usuraio a rischio di scontentarsi nientemeno che il Cardinale Federico Borromeo, il suo primo cliente importante, al quale avrebbe dovuto consegnare il dipinto quella sera stessa. Michele sentiva di non poter più tirarsi indietro dalla storia dell'anello: volente o no, si sentiva costretto a dipanare la matassa che la trasgressività di Angelica e la sua fallimentare gestione delle proprie aspirazioni di libertà avevano così drammaticamente aggrovigliato. - A cominciare da questo... Giovanni. Chi sa se è poi davvero anche quel ladro... della Canestra - pensò osservando la tela con il ritratto di lui, ormai quasi... parlante - senza dubbio ha proprio l'aria d'un gran filibustiere! In quella arrivò il Longhi, annunciato dal frastuono degli zoccoli del suo bianco puledro, a dorso del quale era solito caracollare per le vie di Roma mentre un garzone gli ansimava dietro reggendo la sua spada con un braccio e -molto spessoun rotolo di disegni con l'altro. La panchina sul fronte della casa, a fianco dell'ingresso dello studio, gli fu provvidenziale per assicurarvi la cavezza del focoso animale. Ma ancor più lo fu per l'esausto scudiero che vi si accasciò sopra con sollievo, sperando che la sosta fosse lunga a sufficienza per riprendersi prima della corsa successiva nel caldo bagliore di giugno.
- Eilà! Eccoti quanto mi hai chiesto, Michelangelo! Onorio lanciò all'amico una piccola borsa tintinnante e domandò com'era andata con le due ragazze. - Beh, una non si è lasciata vedere e l'altra non era quella che credevo, ma... - ... graziosa pure lei? - Sì sì... ma non è questo il punto. Caravaggio illustrò rapidamente l'intricata faccenda senza scendere nei dettagli: il Longhi, che in questioni galanti e risse con mariti gelosi ci sguazzava, ascoltò interessato e partecipe. Da esperto architetto qual era, assunse subito la direzione dei lavori: - Allora adesso tu occupati del quadro, di Lorenzo e dell'anello; io intanto penserò a come sbarazzarci di questo farabutto. Ci vediamo qui domani, alla stessa ora! E con vivo disappunto del garzone che si era appena appisolato rimontò in sella per sparire in una nuvola di polvere inseguito dal servo.
21. Lorenzo nel... fortunale e Caravaggio dal... cardinale
Quando a pomeriggio avanzato Caravaggio giunse in località detta La Torretta, nella zona di Campo Marzio, era all'incirca l'ora alla quale aveva visto Lorenzo uscire dal lavoro due giorni prima. Con i denari prestatigli da Onorio s'era ripreso il suo quadro dal rigattiere ed era ato a posarlo a casa, protetto dal grosso lucchetto che ora serrava la porta. Il tempo girava al brutto e nell'aria cominciava a sentirsi l'odore della pioggia di cui già, oltre il fiume, si scorgeva in lontananza l'oscuro velo distendersi tra la terra e il cielo squarciato di quando in quando da lampi silenziosi. Seduta sul gradino d'un uscio una giovane donna allattava il suo bimbo in fasce, coperta soltanto da un lungo camice aperto sul petto, mentre a pochi i da lei un popolano con un lungo bastone la osservava. Una scena priva della...caritatevole sensualità di Lena – seppur interamente vestita – mentre ascoltava le suppliche dei due pellegrini: questa sotto gli occhi di Caravaggio era invece una visione di serenità su uno sfondo turbolento. Michele ricordò la descrizione che il suo vecchio Maestro lombardo, Simone Peterzano, gli aveva fatto d'un capolavoro di Giorgione che – a sentir lui – era una pietra miliare dell'arte veneta: una scena bucolica accanto a una fonte, sullo sfondo del cielo tempestoso sopra una cittadella murata in riva a un fiume... proprio come quella del papa con Castel S. Angelo, che lui poteva vedere da dove si trovava. Anche lì – a sentir Peterzano – c'era un uomo sorridente con un bastone ma, a differenza di questa, la giovane madre di Giorgione era nuda e indifesa sulla sponda d'una fonte: lontana dalla cupa città degli uomini – imprigionati tra le loro mura e vittime dei loro intrighi – lei sorrideva serena perché si sentiva al sicuro. Tra quelle invece le donne erano vittime – se non artefici – di torbide congiure e di lotte per il potere... malgrado le vesti ricche e pudiche che indossavano.
Il contadino pareva intenerito e agli occhi dell'osservatore sembrava sorridere: il gesto della donna era il più bello al mondo, quello sul quale il mondo si regge.
Michele sedette a una certa distanza dalla bottega dei Cesari e la sua attesa non fu lunga. Questa volta seguì Lorenzo per qualche o, prima di chiamarlo fingendo una lieta sorpresa: - Eilà! Così sei finito a lavorare dai miei grandi amici... i fratelli Cesari? - Bah!... sempre solo fiori e frutti su pezzi di gesso mi fanno fare... una noia! - Dovresti esser bravo, ormai - Michele rise e gli propose un bicchiere di vino. Capì che l'altro non era affatto entusiasta all'idea ma insistette e, in quella, un forte rombo di tuono accompagnò le prime gocce di pioggia. - Suvvia, ripariamoci in un'osteria, intanto che aspettiamo che spiova! Offro io... Caravaggio si sentiva ricco, con quel paio di scudi che l'abile rigattiere gli aveva ancora scontato in cambio della sua promessa di qualche quadretto da vendere. Lorenzo fu costretto a accettare e andarono al Turchetto, dove l'oste Tarquinio, milanese pure lui e amico di Onorio, fu assai lieto di servire due conterranei ai quali procurò un tavolo appartato da quelli degli abituali giocatori con la loro rumorosa compagnia di sguaiate frequentatrici del quartiere. Parlarono del più e del meno, Michele dando all'amico notizie di Prospero e Lorenzo raccontando di come Costanza Colonna gli avesse procurato il lavoro pomeridiano dal Cavalier d'Arpino a condizione che egli non cambiasse residenza: sarebbe sembrato uno sgarbo nei riguardi del Cardinale Borromeo che le aveva raccomandato il giovane. Caravaggio aveva posato rovesciata sul tavolo la tavoletta con lo schizzo dei bari, in attesa d'un momento propizio per mostrarlo a Lorenzo: voleva prendere il discorso alla larga per non sembrare aggressivo tirando subito in ballo l'anello. - Pensi che costui potrebbe essere quel ladro della Canestra? – domandò poi con noncuranza, rivoltando il pezzo di legno sotto gli occhi dell'amico.
Questi l'osservò di malavoglia alla luce d'una folgore. - Mah!.. no... mi pare proprio di no... mai visto in vita mia. Sai, quella notte era così buio e... l'avrò avuto di fronte si e no per un secondo! - Pazienza... spero sempre di riuscire a individuarlo... e vedendo questa faccia da briccone avevo pensato che... Michele aveva avuto la netta impressione che l'altro fosse impallidito, ma la luce era così scarsa che non poteva esserne certo. Avrebbe voluto insistere, poiché sapeva – stando al racconto di Angelica – che Lorenzo aveva avuto una seconda occasione per vederlo meglio, quel tale: e in pieno giorno sebbene... all'interno della Locanda, chiusa per il Lunedì di Pasqua. Ma, visto il pessimo umore dell'amico, non volle rischiare di rovinare tutto e lasciò la propria curiosità insoddisfatta, cambiando subito discorso. I bicchieri erano ancor pieni a metà quando il frastuono della grandine coprì il brusio degli avventori: l'oste portò una lanterna che appoggiò sul tavolo. Con visibile impazienza, Lorenzo guardava fuori attraverso una finestrella a inferriate, ma continuava a diluviare. Allora Caravaggio cavò di tasca l'anello posandolo sul tavolo: - Angelica ti manda questo - disse con voce piatta. Questa volta Lorenzo impallidì visibilmente e non certo per via delle saette: Non l'ho mai visto prima d'ora, io... non so di cosa tu stia parlando - mentì. Michele s'avvide che la mano dell'amico tremava mentre prendeva l'anello per rigirarlo tra le dita, in silenzio. - Ha bisogno del tuo aiuto... - Ahsssiiì?... - il sibilo della voce si confuse con quello d'una saetta che illuminò a giorno la stanza. Quando poi l'assordante rombo del tuono si affievolì il giovanotto aggiunse, come parlando tra sé: - Prima sputa sul mio amore e adesso vorrebbe il mio aiuto?
L'acredine di Lorenzo era quasi palpabile. Le sue dita prendevano e riposavano nervosamente l'anello sul tavolo. - Con tutte quelle che mi ha combinato... - e scosse il capo. - Me lo ha confessato. Sa di avere sbagliato. - Mi ha costretto a odiarla... a volerla veder morta... non doveva farmi questo... pareva volesse lasciare quell'altro e poi, invece... - Lo so... il lunedì di Pasqua... ma... Lorenzo alzò gli occhi su di lui stringendo le palpebre: Michele vi lesse la desolazione di chi ama senza speranza e il risentimento di chi si sente giocato. - Il lunedì di Pasqua eh? Haha! Quella fu soltanto l'ultima goccia... e tutte le altre volte che mi ha menato per il naso le ha forse dimenticate? Il grande pittore taceva, non sapendo come fronteggiare il dolore dell'amico. Lorenzo stava fissando un punto indefinito alle spalle del compagno: - "Se m'innamorerò di te"... mi aveva detto quando...
Fu verso fine febbraio e c'era vento di scirocco... era venuta in bottega un pomeriggio di sabato senza avvisarmi... mi parve agitata e mi confessò di essere insoddisfatta dell'altro suo rapporto... - Ah!... - aveva concluso - ma ora gli farò un bel discorso... non ne caverò nulla ma almeno uno le cose le ha dette, prima di... - Capisci, Michele? questo aveva detto: prima di...! Così io m'intenerii... lei aveva bisogno del mio affetto... ci baciammo e ci... ma io temevo che Prospero potesse arrivare da un momento all'altro, così.... mi sottrassi mettendola in guardia... e lei... per tutta risposta si lasciò scivolare dal pagliericcio dove stavamo seduti e... sì, insomma, tu mi capisci... ecco, lei in ginocchio ai miei piedi che mi... e io carezzavo i suoi capelli senza capire più nulla.
Lorenzo aveva parlato con tono dimesso e a testa bassa, ma non certo per vergogna. Stettero in silenzio qualche minuto mentre Caravaggio sorseggiava il suo vino, conscio della sofferenza che questi ricordi procuravano all'amico. - Poi lei si levò, mi guardò sorridendo e piroettò veloce: roteando, la sua lunga gonna nera a macchie bianche si allargò intorno alle gambe alzandosi fino a scoprirle le cosce come aveva fatto altre volte per me... a cominciare dalla festa di Pasqua, l'anno scorso. E avviandosi alla porta, cinguettò allegramente: "Se m'innamorerò di te... ne vedremo delle belle!!!...", sì... infatti sparì per più di un mese!... tanto per cambiare!
La voce di Lorenzo si fece acida: - Se m'innamorerò di te??? Si chiedeva se si sarebbe innamorata di me? Ma come è possibile chiederselo dopo quasi un anno di amore... di intimità? Ma che? giocava a farmi impazzire? E a Pasquetta poi... ah!... no, no... caro Michele... qui, di belle, mi sa che ne ho viste soltanto io! L'altro non sapeva più che pesci pigliare: - Beh, sì... capisco... che una donna così possa far diventar matti... tuttavia, sai... è ancora molto giovane... forse anche immatura... di certo sarà stata confusa... - Ah! Quanto a ciò lo era di certo... se pensi che quel lunedì di Pasqua, appena arrivata allo studio di Prospero mi aveva ringraziato di esistere nella sua vita! Pensa un pò... mi lascia, poi mi riprende, poi continua così e... alla fine mi ringrazia d'esistere giusto prima di cacciarmi per gettarsi fra le braccia dell'altro! Bah! Ma chi crede di prendere in giro, quella... me o se stessa? Ti dirò io cosa voleva dire, dato che lei ovviamente non lo sapeva: aveva sbagliato il tempo del verbo, ecco cos'era... voleva invece ringraziarmi di essere esistito nella sua vita! Fu un attimo: Lorenzo s'alzò di scatto agguantando l'anello e correndo alla porta. La grandine era cessata, ma lo scroscio violento di acqua che lo investì nell'aprirla lo colse di sorpresa arrestandolo e consentendo a Michele di agguantarlo. - Ti manda l'anello perché è il vostro pegno d'amore: non ricordi le tue stesse parole?
Lorenzo si divincolò e gridò a pieni polmoni: - Non DEVO mai più vederlaaaa!! - mentre si lanciava sotto il diluvio. Dopo tre i era fradicio e l'assenza d'un copricapo fece sì che, nella via che pareva un torrente, la sua nuca glabra luccicasse tristemente sotto i bagliori dei lampi, come fosse un melone in un orto del lungo Tevere allagato dal nubifragio. Caravaggio non lo seguì: non poteva rischiare di rovinare la tavoletta del baro, unico e prezioso identikit a sua disposizione. Si volse e trovò una ventina di occhi che lo stavano osservando, nel silenzio della stanza rotto dai tuoni che con un rombo continuo parevano sottolineare, come in una scena di melodramma, il significato delle ultime parole di Lorenzo. Il pittore guardò gli avventori e si strinse nelle spalle, allargando le braccia in un gesto di sconsolata impotenza: qualcuno scosse il capo, qualcun altro levò gli occhi al soffitto, una prostituta sospirò sconsolata ma poi tutti tornarono ad occuparsi delle carte o dei dadi, che giacevano sparsi sui tavoli. Infatti, con quel tempaccio nessuno si preoccupava dei birri. Michele risedette davanti al suo bicchiere. Aveva perduto l'anello: se lo era ripreso il vecchio proprietario, che non gli era parso avere la minima intenzione di restituirlo ad Angelica. Avrebbe dovuto temporeggiare con lei, non potendo confessarle la scoraggiante verità. Insomma, la faccenda – che pareva ben avviata – era giunta invece a un punto morto. Tuttavia stava comprendendo una cosa con chiarezza: Lorenzo era ancora più che mai innamorato di lei, tanto da non concedere all'odio – che ora lui avrebbe voluto dimostrare per convincere se stesso – di radicarsi nel suo cuore. Per questo il giovane aveva detto che non doveva più vederla, sebbene lo desiderasse: anche forse per timore di farle del male rinfacciandole i suoi comportamenti... quasi lui la mettesse davanti a un magico specchio che assorbisse i suoi pregi e ne riflettesse soltanto i difetti. Michele lo ammirò. Più tardi, a pioggia cessata, si avviò verso casa un pò sollevato: benché piccolo, aveva fatto un o avanti... ma ora doveva dedicarsi ai propri affari personali
che chiamavano lui, umile ragazzo lombardo, a consegnare a un Principe della Chiesa la nuova gemma della sua collezione privata.
Lorenzo era uscito sconvolto da quell'incontro all'osteria. E dopo poco tempo il suo aspetto esteriore da contadino alluvionato – frutto della lunga esposizione alla furia dell'uragano – ben rispecchiava lo stato dei suoi pensieri. Questi erano, infatti, pochi e confusi dalla tempesta di ioni contrastanti che lo agitava, come il diluvio appiattiva squallidamente i suoi ormai rari capelli. Lasciata la taverna, aveva smesso di correre non appena svoltato l'angolo, certo che Caravaggio non l'avrebbe inseguito: si fidava della sensibilità che in altra occasione gli aveva dimostrato. Ed era proprio questo a turbarlo profondamente. Perché se Michele aveva detto che Angelica ancora lo amava, poteva significare che lui se ne fosse convinto non tanto per via delle parole di lei, quanto in virtù di questa sua straordinaria dote, affinata dall'osservazione attenta e professionale dell'espressività quale finestra sull'animo umano. C'era, dunque, una possibilità che lei lo amasse davvero? - Solo ora se ne accorge, quella? - aveva pensato con furore, sferrando una violenta pedata a un vaso in metallo che, trascinato dalla fiumana, giaceva nel bel mezzo della via tra mucchi di spazzatura e putrida fanghiglia. Sfortunatamente per lui, però, il vaso era assai pesante perché pieno d'acqua e ad avere la peggio fu il piede di Lorenzo che perse pure il sandalo, disfatto nell'urto come fosse una buccia d'anguria infradiciata. Malgrado il forte dolore, il giovane lombardo aveva proseguito senza badarci. Era perfettamente cosciente di non aver smesso un solo istante di amare Angelica. Così come sapeva che, se un giorno fosse mai riuscito a dimenticarla, la sua salute fisica e mentale ne avrebbe tratto sicuro giovamento.
Da qualche tempo si stava perciò impegnando in tal senso con nordica metodicità: aveva smesso di suonare il liuto, lo strumento galeotto che aveva decorato di note la sensualità di lei; non leggeva più Dante o altri poeti – minori ma pur sempre impareggiabili ispiratori di lettere d'amore ormai inutili – e evitava le donne giovani e graziose, poiché troppo doloroso era per lui l'immediato confronto con l'amata. Questa lotta di Lorenzo con sé stesso aveva un grande nemico nella solitudine, che egli aveva scelto nel momento in cui, lasciato Prospero per i Cesari, la frequentazione diurna della zona di Campo de' Fiori gli era venuta a mancare. Così dedicava il tempo libero a eggiare per quartieri sconosciuti di Roma: dovunque andasse, però, l'abbondanza iconografica di angeli nei crocicchi delle strade gli richiamava l'adorato nome troppo di frequente per realmente distrarlo. L'aspirante pittore era ben conscio di rischiare la sanità di mente, dilaniato com'era tra risentimento e amore, in assoluto e oppressivo isolamento con se stesso. Ma l'incontro con Michele aveva rotto questo stato insostenibile di precario equilibrio. Tornando a casa sotto l'acquazzone ricordava le parole dell'amico: Lei ti ama ancora e cerca il tuo aiuto. Poteva quello essere il modo di Angelica per ammettere la propria mancanza? - Stiamo calmi - s'era detto Lorenzo a questo pensiero, mentre saltellava tra le pozzanghere senza motivo, avendo i piedi infradiciati e l'unico sandalo assolutamente marcio - vediamola piuttosto come una possibilità di dialogo. Ma dopo un istante nuovamente si stizzì: - Così dovrei aiutarla io, vero? E a me, chi ci pensa? Chi sa cos'ha combinato, quella pestilenza... e ora dovrei provvedere io a trarla d'impiccio? Sentì una stretta allo stomaco: - Mioddio, si dev'essere cacciata in un bel guaio per essere costretta a chiedere il mio aiuto, orgogliosa com'è! Svoltò quasi correndo un angolo della via. Finì sotto uno scarico dai tetti che lo inondò con un torrente d'acqua: la sua mente era così assorta che egli vi si fermò sotto, senza pensarci. Ne approfittò invece per lavare dalla fangosa lordura il piede rimasto senza scarpa, fissandolo
distrattamente durante tutta l'operazione. Dopo poco questo era perfettamente pulito, per quanto ciò importasse con quel diluvio; ma lui continuava a tenerlo sotto lo scarico ugualmente. - Con tutte le volte che mi ha mentito! - pensò più con tristezza che con rabbia. Si rinfrescò pure il capo come se ne avesse bisogno, scuotendolo sotto l'acqua prima di riavviarsi verso casa: - ... amore mio! - sospirò. Era zuppo da torcere. La pioggia era cessata ma il giovane non se n'era accorto e, per raggiungere il palazzo dall'altra parte di piazza Santi Apostoli, invece di attraversarla si tenne accuratamente al riparo dei tetti spioventi, facendo un inutile giro tutto intorno. - Qui, se mi tiro indietro si chiude davvero per sempre - borbottò rabbrividendo, ma non per via dei panni zuppi. Dopotutto il fatto che Angelica lo stesse cercando lo metteva comunque in una posizione di forza. Era, questa, una sensazione del tutto nuova per lui, che non sapeva lì per lì come gestire ma che gli procurò un confortevole senso di sicurezza in sé stesso. S'accorse allora di aver lasciato sgarbatamente Michele, di essersi inzuppato fuori misura, d'aver distrutto un paio di sandali e sconquassato un piede quando, se a avesse parlato con lui, avrebbero subito potuto trarre insieme le conseguenze di un'inevitabile ammissione: un giorno avrebbe forse potuto dimenticare Angelica, ma ora come ora non aveva la forza di abbandonarla al suo destino. Gettò l'unico sandalo rimastogli in un mucchio di spazzatura che si era formato in una nicchia alla confluenza di due vie, dove i vorticosi rivoli formati dal temporale creavano, scontrandosi, una piccola zona di acque chete dove i rifiuti ristagnavano. Poco dopo, agli allibiti armigeri che presidiavano palazzo Colonna si presentò la sorprendente visione di un naufrago, uno sconosciuto e scalzo pezzente bagnato come un pulcino, che con gran dignità e linguaggio forbito si faceva identificare come gentiluomo di casa e ospite di Sua Altezza la Principessa, pretendendo di salire al proprio alloggio.
Alcuni di loro ben ricordavano un episodio simile, quando avevano respinto uno straccione che risultò poi essere un protetto della loro padrona: e ricordavano pure la lavata di capo ricevuta per averlo deriso. Dunque, poiché nessuno di loro voleva assumersi la responsabilità di cacciarlo, prima verificarono prudentemente con il capo turno, che a fatica lo riconobbe.
La residenza romana di Federico Borromeo era a Palazzo Vercelli, una grande ma austera costruzione nei pressi delle regge vaticane. Federico si era trasferito a Roma da Milano nel 1586 per una permanenza di qualche anno soltanto, il tempo necessario per entrare nelle grazie di papa Aldobrandini quel che bastava a ottenere l'investitura del prestigioso vescovado lombardo, sulle orme tracciate dal grande zio Carlo. Di anni ne erano ati quasi otto senza che Clemente VIII lo accontentasse, ma in quel tempo Federico si sentiva ormai prossimo alla nomina, anche perché le prove della stima e della benevolenza papale non gli mancavano di certo: ne era un esempio la prestigiosa carica di Protettore dell'Accademia di San Luca che, come sappiamo, egli aveva da poco tenuto a battesimo. Il porporato godeva fama di uomo coltissimo e di fine intenditore d'arte, oltreché di esperto in materie di fede: era, insomma, un Principe della Chiesa, illuminato per vocazione più ancora che per stirpe. Il giovane lombardo che l'Orsi gli presentò quella sera di giugno aveva per lui un che di familiare: larghi calzoni a metà polpaccio, giubbotto senza maniche, bianca camiciola stretta al collo da un nastro nero e il modesto cappello premuto al petto con una mano. Il tutto bagnato fradicio. A Federico ricordò l'immagine dei ragazzi contadini delle sue parti, quando nei giorni di ricorrenza patronale si recava con altri membri della famiglia in giro per i possedimenti, a portare la sua nobile compiacenza e le benedizioni di rito ai festeggiamenti popolari. Fatto si è che tal vista lo dispose subito favorevolmente. Certo il quadro gli era noto: lo aveva visto in gennaio all'Accademia e lo
giudicava opera di rara maestria, soprattutto se paragonata con quelle sacre mascherate melense dello Zuccari e dei suoi seguaci. Questo di Michele era sicuramente degno di stare accanto ai suoi Jan Bruegel. Fin dal primo sguardo che aveva posato su di esso, l'estremo naturalismo e i toni caldi dei colori gli avevano ricordato le visite alle botteghe dei Maestri di scuola lombarda, così vicini a Tiziano e Giorgione quanto lontani dallo stucchevole manierismo romano. E la modestia dell'artista gli ricordò ancor più la sua terra, la semplicità dignitosa dei suoi abitanti, i suoi panorami dai colori morbidi e addolciti dalle nebbie autunnali, là dove i laghi segnano il confine fra gli aguzzi monti che li colmano di limpide acque e il rigoglioso piano che invece le consegna al Po. Insomma, Michele gli riuscì simpatico istintivamente, allo stesso modo come egli era invece infastidito dalla vuota boria da mercanti arricchiti dei Signori dell'Accademia, che tollerava a stento e solo per necessità – diciamo pure – politica. - E così... questo sarebbe l'autore! - esordì il Borromeo, contornato da cortigiani e seduto al centro di una lunga tavola imbandita, facendo cenno di avanzare ai due pittori che una guardia aveva condotto alla sua presenza, dopo averli ripuliti alla meglio dal fango. Michele era stordito dalla scena, nella stanza illuminata a giorno da fasci di torce alle pareti: queste erano ricoperte da grandi arazzi e il pavimento da soffici tappeti sui quali i paggi si aggiravano tra i commensali reggendo giganteschi piatti di portata che sistemavano sul tavolo. Altri riempivano i boccali con vino che versavano da brocche in metallo lucente, mentre in un angolo della grande sala un gruppetto di musicanti rivaleggiava senza successo con il forte brusio dei convitati per conquistare l'attenzione del padrone di casa. Tuttavia la scena non mostrava traccia di pacchiana ostentazione: soltanto una raffinata seppur opulenta esposizione di cibi variati e ricercati in una luce calda e intensa, con musica a far da sfondo: la cena di un Principe rinascimentale. Poi, a un cenno del Cardinale tutti tacquero e i musicanti scomparvero dietro una tenda. Gli occhi dei presenti erano puntati sui due pittori. Mentre seguiva i i di Prosperino, Michele si sentiva imbarazzato e stordito.
Federico li incoraggiò con un gesto della mano: - Avanti, vi prego... avete già cenato? - domandò poi. Alla risposta negativa dei due amici fece un cenno al capo sala ordinando: - Apparecchiate dunque per noi tre nel mio studio - poi, rivolto ai gentiluomini d'intorno - Lor signori ci perdonino se ci assentiamo ma... abbiamo affari privati da sbrigare e... non vogliamo annoiarvi con i nostri discorsi! - disse alzandosi e, dopo un lungo giro intorno al tavolo, guidò i nuovi ospiti a una porta laterale.
Lo studio del Cardinale era la stanza più straordinaria che Caravaggio avesse visto in vita sua: le immense pareti erano tappezzate interamente di libri, la maggior parte dei quali rilegati con copertine in pelle o stoffa riccamente decorate e tutti allineati in bell'ordine in scaffali di scuro legno scolpito alti fino al soffitto. Il pavimento era invece in tavole di noce, intarsiate con decorazioni di ciliegio. I rari spazi sulle pareti, lasciati vuoti dagli intervalli fra le librerie, erano punteggiati di piccoli quadretti per lo più floreali, alcuni dei quali Prosperino riconobbe come opere di Jan Bruegel, quel fiammingo che aveva conosciuto quando decorava Palazzo Doria. I due amici si trovavano senza saperlo fra i tesori che Federico stava collezionando per poi portarseli a Milano e affinare con essi lo spirito un pò rozzo di molti suoi diocesani, assai poco illuminati dalle tracce lasciate dal genio di Leonardo. Nel mezzo di uno spesso tappeto, una grande scrivania e accanto una sedia in pelle con cuscino rosso scuro, comodi braccioli e un altissimo schienale in cuoio colorato sul quale subito Michele riconobbe lo stemma dei Borromeo. Un grosso calamaio in argento preziosamente inciso gli confermò esser quello il posto di lavoro del porporato. Sospesi all'altissimo soffitto a cassettoni in legno decorato, tre grandi lampadari circolari in ferro battuto illuminavano l'ambiente con la luce di decine di ceri, una luce non certo abbagliante ma sufficiente per leggere.
Dai grandi finestroni entrava ancora l'ultima luce del giorno morente e, accanto a uno di essi, alcuni paggi stavano celermente disponendo le stoviglie su un tavolo rotondo: su esso un candelabro a sei bracci illuminava un vassoio con stufato di vitello e un grosso spiedo di cacciagione variata. Michele e Prospero si accomodarono ai lati del loro ospite, un pò intimiditi entrambi da tanta magnificenza. Federico era un uomo ancora giovane, dal portamento nobile ma senza alterigia: di statura superiore alla media, con i capelli chiari e una barba ben curata sul mento, i suoi occhi vivaci e intelligenti scrutavano i due convitati con aria divertita e indagatrice insieme. Era l'aspetto d'un vero nobiluomo, d'un umanista piacevole, di un letterato amante della classicità ma aperto e interessato all'arte e al pensiero dei suoi tempi. - Allora, Messer... Merisi mi pare? - disse Federico servendosi un'abbondante porzione di cervo arrostito - ho visto come abbiate, dunque, messo assai bene a profitto gli insegnamenti pittorici di Mastro Orsi, al quale su mia richiesta vi aveva indirizzato la pia e buona amica di questo umile servitore di Dio... la Principessa Costanza Colonna!! Michele e Prospero si guardarono esterrefatti e ammutoliti. Infatti, Prosperino non era affatto stato il Maestro di Michele e, per quel che ne sapevano loro, nessuno s'era mai sognato di richiedere l'intervento del Borromeo per sistemare il giovane pittore al suo arrivo a Roma. Non osando contraddire il prestigioso ospite, Michele balbettò: - Ma, veramente... Eminenza... ecco, io non pensavo che la... la Principessa vi avesse informato della mia situazione! Prospero vide le guance dell'amico arrossire lievemente. Ma il Cardinale insisteva: - No, no... forse non mi sono spiegato bene: sono stato io a intercedere per voi presso di lei, dopo che ricevetti la vostra lettera... sarà ato circa un anno, proprio non ricordate? In verità, lo scopo nascosto dell'alto prelato era ovviamente quello di far leva
sulla riconoscenza per ottenere da Caravaggio uno sconto generoso sul prezzo. In quei suoi anni romani aveva aiutato numerosi conterranei e certo non ricordava se con Michele le cose stessero veramente così: ma tanto valeva tentarci lo stesso, contando anche sulla soggezione che la propria autorità avrebbe senza dubbio generato in quel giovane sempliciotto. Costui infatti era più confuso che mai, ma non nel modo sperato da Federico: Eccellenza, perdonate la libertà... ma io mi sono presentato personalmente alla Signora March... hem... Principessa... vedete, ecco... la mia famiglia.. era di Milano ma spesso viveva a... Caravaggio! Il Cardinale accusò il colpo: - Ahem, vediamo... dunque qui parliamo del... oh perbacco!... si si, ahem, parliamo del... - Dell'inverno '92/93 - precisò Michelangelo. - Ecco! Esatto! Vedete che non mi ero sbagliato... dunque ricordavo correttamente... La discussione rischiava di diventare molto impegnativa per i due amici, se volevano evitare di offendere l'illustre ospite e potenziale cliente. Non sapendo tanto che dire l'Orsi tirò il solito calcio a Michele per assicurarsi che te. Poi improvvisamente s'illuminò: - Scusate Eminenza... non è per caso che... perdonate l'ardire, voi vi possiate... ahem... involontariamente confondere con un altro giovane pittore, o per meglio dire aspirante pittore, pure lui milanese, che... Federico si fece attento, corrugando la fronte e impugnando il mento pizzuto. L'Orsi proseguì rinfrancato: - Sì perché vedete... per amor di verità occorre anche dire che a me Messer Merisi lo aveva raccomandato l'Architetto Onorio Longhi... che certo vostra eminenza conoscerà almeno di fama... mentre invece un altro ragazzo lombardo... un certo Lorenzo, figlio d'un Notaio... ecco, di quello mi parlò la Principessa a seguito – così mi disse – del vostro premuroso interessamento. Federico s'appoggiò sorridendo allo schienale e, dandosi un'elegante manata su una coscia, esclamò: - Ma pensa un pò che pasticcio ho fatto!... è vero! Era proprio quel Lorenzo il giovane per il quale chiesi alla Principessa se conoscesse un Mastro pittore cui indirizzarlo! ... Che figura da smemorato! ... - e rise
amabilmente, scuotendo lievemente il capo e alzando il calice, con l'espressione di chi si rende conto di aver mancato un colpo ma intende rimediarvi con lo stile del gran Signore. - Signori! - esclamò dunque con entusiasmo - alla salute della nostra dolcissima Principessa Costanza... nume tutelare degli emigrati lombardi qui a Roma! Sempre attenta ai loro bisogni, sempre disponibile ad aiutare il prossimo suo e... donna molto timorata di Dio! A Prospero parve notare che il disagio di Michele crescesse e si unì subito al brindisi, mentre con un calcio di sotto il tavolo lo invitava a fare altrettanto. Il Cardinale, ormai lanciato, proseguiva nell'equivoco dovuto allo scambio di persona: - Già, già... anche di voi, caro... hem... Merisi, mi parla ogni volta che ci s'incontra: ma cosa avete fatto, giovanotto, a questa santa donna che tanta premura dimostra per voi? L'avete forse stregata con le vostre magie di colori? e ridacchiò compiaciuto. D'accordo – pensava – il tentativo di sfruttare la riconoscenza del pittore gli era andato male ma, accettando il ruolo del distratto e giocando sull'imbarazzo evidente dell'altro, aveva per lo meno salvato la faccia. Quanto al resto, la partita era ancora tutta da giocare. Da grande Signore qual era finse dunque di non avvedersi che Michele a quella sua domanda era avvampato di colpo, tanto che Prospero – a questo punto maliziosamente divertito – allontanò prontamente il candelabro con una scusa, per togliergli la luce dal volto. Ma bene o male ora il ghiaccio era rotto e Federico entrò nel vivo del discorso. - E allora veniamo a noi, Messer Merisi - cominciò - e parliamo di prezzo, sebbene io rifugga d'abitudine dal mercanteggiare... ma sì, devo dire onestamente che si tratta a mio avviso di un'opera davvero pregevole tuttavia non è che... sapete, nella mia qualità di Protettore dell'Accademia di San Luca io non potrei... dopo tutto è stata criticata dai giudici che non vi ci hanno ammesso e, dunque, diciamo che mettermi in casa un quadro rifiutato dalla scuola romana... sono assai perplesso, a dirvi la verità. Questa volta Caravaggio si sentì sbiancare.
Da un lato avrebbe voluto rispondere per le rime all'illustre personaggio, ma dall'altro pensava con angoscia a quanto difficile sarebbe stato restituire al Longhi il denaro per il riscatto dell'anello se mai fosse andata a monte la vendita: non si poteva permettere di mancare a un impegno preso con l'amico! Annusato il vantaggio acquisito, il Cardinal Federico piazzò l'affondo: - Vedete, figliolo - disse con tono paterno - se ancora non l'avete capito, qui a Roma sarà d'ora in poi assai problematico diventare un pittore di grido, se non si seguono i canoni... no, no, mi dispiace ma, pensandoci bene, venti scudi sono veramente troppi... ve ne posso offrire al massimo cinque! Anche senza il soccorso del lume, il prelato s'avvide che l'artista arrossiva nuovamente. Non sapeva però che, questa volta, ciò fosse dovuto al violento sforzo dell'ospite per trattenersi dal rovesciare il tavolo. - Oh... perbacco! - si lasciò sfuggire Prosperino, scandalizzato da una tale impudenza: - Eminenza... noi si era parlato di venti... come cifra minima!! - Ma non si era stabilito nulla... e io ci ho ripensato, alla luce di ciò che vi ho detto. Michele rifletteva: se fosse almeno arrivato a dieci, dedotti i sette per il rigattiere gliene restavano tre di guadagno, molto meno di quanto sperato ma pur sempre la cifra più alta che egli avesse mai intascato per un suo lavoro. Il Borromeo ò al tono confidenziale: - Sentite, caro... conterraneo, vediamo di trovare un accordo, dal momento che il dipinto è di mio gusto... malgrado le perplessità che vi ho confessato e che sono certo capirete, per un uomo nella mia posizione... hem... che ne dite di sette scudi e... per parte mia vedrò cosa posso fare per convincere lo Zuccari a riesaminare la vostra ammissione all'Accademia? A Michele di diventar membro dell'Accademia proprio non importava un accidente, anzi la considerava una congregazione di idioti, fatti salvi pochi membri. Ma rifiutare significava offendere e non sarebbe stato prudente. Guardò Prospero, che sembrava gongolare per la prestigiosa proposta: - Capirai... con una tal presentazione!...- commentò infatti l'Orsi, aiutandosi con un gesto enfatico delle braccia a indicare che nessuno avrebbe potuto opporsi.
- Senza contare - aggiunse poi - che una tua opera in casa di Sua Eminenza non mancherà di procurarti l'ammirazione degli ospiti cui la mostrerà e... Il Cardinale annuì con aria convinta. Michele accettò per subito rituffarsi sul piatto di quagliette allo spiedo lasciato a metà pensando: - Prima che quest'arpia si prenda indietro il cibo che mi offre! E l'affare venne concluso.
Né l'una né l'altra delle promesse di Federico venne poi mantenuta. Infatti, l'illustre Prelato si guardò bene dal perorare la causa di Michele con il Principe dell'Accademia, che lasciò diplomaticamente libero di propugnare il suo insulso manierismo controriformato, tanto caro a certi pezzi grossi vaticani. E si guardò anche bene dal mostrare il suo capolavoro a chicchessia, essendo quella un'opera rifiutata dall'Accademia di cui lui stesso era Protettore. La Canestra finì dunque nel suo spogliatoio privato, dove restò ben nascosta onde rafforzare le smentite con le quali Federico tacitava le voci che a volte circolavano in città circa un acquisto da parte sua; ma più ancora perché in fondo si vergognava del prezzo pagato. In compenso intendeva farne la perla della prestigiosa Istituzione che aveva in mente di fondare, una volta tornato finalmente a casa quale Vescovo di Milano: l'avrebbe chiamata Accademia Ambrosiana. Ma questo Caravaggio non poteva saperlo e, se anche lo avesse invece saputo, non gliene sarebbe potuto importare di meno.
22. Una zingarella... ispiratrice e una governante... cospiratrice
La mattina del Giovedì Caravaggio uscì di casa di buon'ora dirigendosi al mercato a lasciare un messaggio per Angelica, con il quale le chiedeva un incontro. Il pittore era preoccupato: nel pomeriggio si sarebbe dovuto vedere con Onorio e – ne era più che certo – l'amico sarebbe comparso con almeno una brillante proposta per aiutare la ragazza a disfarsi del baro. Lui invece era ancora in alto mare: non aveva neppur deciso se e in che modo comunicarle di temere che l'anello non fosse più recuperabile: dire ad Angelica la verità e cioè che se l'era ripreso Lorenzo, il quale pareva tanto non ne volesse più sapere di lei? Oppure invece... temporeggiare? Nel primo caso ci avrebbe fatto una pessima figura con lei, che tanto confidava nel suo aiuto; nel secondo invece... come metterla con il Longhi che lui aveva tirato pesantemente in ballo, prima con il prestito per l'anello e poi con questa brutta faccenda di Giovanni? Insomma, Caravaggio si trovava in un bel guaio. La sera precedente, tornando a casa dopo la visita al Cardinal Federico, ne aveva parlato con Prosperino: - Dunque era lei - borbottò questi alle rivelazioni dell'amico - la... poco di buono di Lorenzo... avrei dovuto immaginarlo! Quei due se la intendevano così bene, alla festa di Pasqua dello scorso anno... e poi, dopo pochi giorni, la mia bottega diventò uno specchio... quel briccone! ... e briccona pure lei, però! - il brav'uomo pareva perplesso. - Mah! ... è una brava ragazza - proseguì poi - e non vedo motivo per non aiutarla, sebbene... boh!... tanto mi par di capire che da sola non potrebbe cavarsela in alcun modo e dunque... Ormai smaltiti i postumi dell'incidente con i bari, l'Orsi trasse alcune lucide conclusioni: innanzitutto occorreva verificare l'impressione di Michele che Lorenzo fosse ancora innamorato di Angelica; poi, in caso affermativo, dovendo far qualcosa per togliere di mezzo il terzo incomodo – come lui chiamava
Giovanni – Lorenzo avrebbe dovuto essere parte attiva, in primo luogo perché l'intenzione di Angelica era stata quella di chiedere aiuto a lui e poi anche in qualità di... diretto interessato. I due amici s'erano trovati d'accordo nel dare priorità al primo punto, dal momento che sarebbe stato inutile aiutare Lorenzo a recuperare la relazione con la ragazza se il risentimento avesse spento in lui l'amore, come pareva volesse dar a vedere. Ma visto l'esito dell'incontro all'osteria di Tarquinio, Caravaggio era convinto che il ripetere egli stesso un analogo tentativo avrebbe avuto il sapore di un'insistenza fuori luogo con effetto controproducente: sarebbe miseramente fallito. Occorreva escogitare qualcos'altro ma... per tanto che ci avesse pensato prima di addormentarsi, non aveva trovato un'idea convincente. Quella mattina dunque, Michele si avviò al mercato di pessimo umore: a dispetto dell'adagio popolare, il sonno non gli aveva portato alcun consiglio e si sentiva un pò come il naufrago cui lo scorrere del tempo non dona la visione d'un qualcosa cui aggrapparsi. Quando stava per imboccare via dei Giubbonari provenendo dal vicolo degli Specchi, s'era ormai rassegnato all'idea di limitarsi a guadagnare tempo con Angelica, anche a costo di mentirle: occorreva convincerla ad attendere ancora qualche giorno, almeno per dar tempo a Lorenzo di calmarsi. - Ma sì... che si sistemerà tutto! - pensava poco convinto mentre svoltava l'angolo. In quella venne quasi travolto da una ragazzina, una zingarella cenciosa che correva come una forsennata in direzione del ghetto: una palla di cannone lo colpì allo stomaco sbattendolo contro il muro, mentre un forte dolore gli indicava il punto esatto del violento urto con la testa della bambina. Questa subito sparì, svicolando con la guizzante sveltezza d'un ratto, inseguita dal grido di - al ladro... prendetela! - che invece proveniva da dove il pittore era diretto. Senza fiato, Caravaggio s'appoggiò al muro per massaggiarsi il ventre. A pochi i da lui, sulla porta d'una casa un anziano gentiluomo elegantemente
vestito sbraitava: - Mi ha rubato l'anello... inseguitela! - mentre alcuni anti premurosi s'informavano dell'accaduto. Il malcapitato raccontò che prendendogli la mano la zingarella aveva detto: - Vi predico la buona ventura! - e mentre lui con l'altra cercava una moneta nella giacca gli aveva sfilato l'anello dal dito, dileguandosi poi tra la gente che a quell'ora si dirigeva al mercato. Michele non fece tempo a riprendersi per inseguire la piccola ladra, né per vestire i panni del buon samaritano e occuparsi del derubato, il quale peraltro pareva in ottime mani. In verità egli non ci aveva neppur pensato, ma non certo per via della botta ricevuta o a causa della mancanza di fiato. Era invece stato folgorato da un'idea: rivedeva la scena come in un film... - Ma certo!... ecco come verificare l'amore di Lorenzo! - pensò euforico - ... fargli predire la buona ventura da...Angelica, ecco come!Mentre lei gli riprende l'anello! E ricordò le parole profetiche di quell'altra zingara, che un anno prima gli aveva letto la mano davanti a Palazzo Firenze: - Una giovane zingarella vi aprirà le porte di questo palazzo - aveva detto l'indovina, come a presagirgli successo. - Bah!che si riferisse a questa ragazzina? - si chiese - No... proprio non credo: c'è mancato poco che invece mi riaprisse le porte dell'Ospedale... accidenti a lei. Scosse il capo e alzò le spalle. Ma intanto l'idea prendeva corpo nella sua mente: Angelica gli avrebbe potuto dire qualche parola... che so... magari affettuosa... no, meglio qualcosa di intimo, di riservato... bah! Che ci pensi un po' lei, dopotutto! Dopo una rapida spolverata al cappello finito a terra, s'affrettò verso il mercato, facendosi largo nel gruppetto di curiosi che s'era formato sul luogo del misfatto senza neppure degnarlo di uno sguardo, visto che la vittima era illesa. La vecchia speziale sembrava lo stesse aspettando e lo apostrofò senza indugi: - Se voi siete il pittore che era qui l'altro giorno, sappiate che Angelica vi
aspetterà nel solito luogo, oggi all'ora di pranzo. Michele diede un lungo sospiro di sollievo: sembrava che tutto stesse finalmente andando per il giusto verso. La donna ammiccò con aria complice ma anche un pò curiosa anzi, per la verità, più curiosa che complice: - Sapete... è venuto qui quel bel moretto... sì, quel paggio... - Non saprei proprio di chi stiate parlando, nonnina. - Veramente, dovete scusarmi giovanotto ma... darei un occhio per sapere cosa diavolo sta accadendo, con tutti questi movimenti vostri e di Angelica e... - Mah! temo proprio che dobbiate chiederlo a lei, buona donna. - Ah! Ho capito! Guai con gli di uomini eh? Quella cara ragazza ... beh, come dire... forse un pò confusa nelle cose d'amore... che dio la protegga! - la speziale lo guardò speranzosa. Ma Michele era una sfinge e lei non poté far altro che occuparsi, rassegnata, d'una cliente che nel frattempo stava mettendo le mani in tutti i vasi per esplorarne il contenuto. Caravaggio la salutò togliendosi il cappello con un inchino e si mosse per allontanarsi. Quando assai più tardi giunse alla chiesa di San Biagio de Oliva dopo aver lavorato un altro pò al quadro dei bari, vide con sorpresa che chi lo attendeva in sacrestia pareva fosse lo stesso fraticello che lo aveva confessato due giorni prima: - E che ci fa? ... Vuol confondermi le idee ancora di più? - si chiese. - Oh, Mastro Michele, temevo tanto che non vi faceste vedere! Ho grandi novità -esordì invece Angelica togliendosi il cappuccio che le nascondeva il volto. Poi continuò: - Sapete... è l'ora di pranzo, che per me è libera dal lavoro fin dopo la siesta di Beatrice ma... ora c'è il padrone in casa e le guardie stanno più attente che mai!... se mi riconoscessero mentre entro a palazzo dal vicolo sarei fritta... e poi... ho sempre paura che... hem... sì insomma, che quell'altro mi pedini... è capace di tutto, quello!... Ma lasciate che vi racconti.
Beatrice era pronta a scommettere i suoi bei capelli che Giovanni avrebbe comunque tentato di rubare in casa Cenci, con o senza la collaborazione di Angelica: le pressioni di lui sulla ragazza duravano già da troppo tempo per non rivelare una ferma intenzione da parte sua. Questa convinzione le era stata ovviamente rafforzata dall'esperienza diretta della determinazione furfantesca di quell'uomo, da lei vissuta alla Locanda del Vescovo. E poiché senza un complice a palazzo ben difficilmente la cosa gli sarebbe potuta riuscire –dato il numero di guardie che proteggevano sco dai molti nemici in cerca di vendetta – era giunta alla conclusione che chi lo avrebbe aiutato nel suo intento delittuoso poteva solo essere la madre. A quel pensiero la baronessina era avvampata di furore. Se così fosse stato, allora il conto da regolare con la sporca spia s'allungava; e lei ci aggiungeva pure quanto il figlio di lei aveva fatto are ad Angelica. Ma purtroppo le mancava la prova di questa complicità. Fin dal giorno della fallita missione alla locanda aveva dunque rivelato il suo sospetto alla matrigna: - Pensate, mia Signora, se potessimo prenderla con le mani nel sacco! Ci sbarazzeremmo di entrambi d'un sol colpo! - e aveva battuto gioiosamente le mani. - Mah!... - aveva obiettato Madonna Lucrezia - per la verità mi parrebbe un pò azzardato da parte di Gertrude: ci rischierebbe la testa, con tuo padre... Tuttavia, anche lei aveva dovuto convenire con la figliastra che fosse quello il caso più verosimile, soprattutto perché - con quella strega non si può mai dire aveva soggiunto. Fu deciso di limitarsi a tenere gli occhi ben aperti e la cosa aveva deluso moltissimo la baronessina, che faticava a tollerare l'assenza d'iniziative contro il nemico. Ma, finalmente, il giovedì accadde che Matteo dovette cambiarsi di livrea in un'ora inconsueta, avendo Lucrezia rovesciato su di lui la tazza di brodo che le
porgeva per pranzo, mentre da letto lei combatteva con la prima d'una nuova serie di feroci emicranie. In quei giorni, infatti, l'assidua presenza a palazzo del marito la costringeva a una sorta di terapia intensiva per salvare le poche energie rimaste, anche in vista dell'immane fatica richiestale dal solo pensiero dell'imminente ricevimento. Insomma, la Baronessa si stava comportando un pò come quegli atleti che dosano con cura sapiente energie e ricostituenti in vista di un tentativo di record. Il giovedì, dunque, all'ora di pranzo Matteo aveva abbandonato la padrona al suo letto di dolore per salire all'ultimo piano del palazzo. La ragione ufficiale era un cambio di divisa, ma d'accordo con Lucrezia il paggio avrebbe anche dato una bell'occhiata in giro. Con sua sorpresa, trovò l'uscio dello stanzone accostato e, preavvisato dalle raccomandazioni della Baronessa, si fece circospetto. A quell'ora lo stanzone dei paggi all'ultimo piano, di fronte alle soffitte dove Matteo giocava da piccolo con Beatrice, avrebbe dovuto essere deserto: tutti erano impegnati nel servizio di tavola, in specie in presenza del Signor Barone. Aprì cautamente la porta, quel tanto che bastava per infilarci la testa e sbirciare all'interno. Nella penombra, che non era certo sufficiente a rendere gradevole il sottotetto per via della torrida temperatura, vide una figura femminile muoversi silenziosamente aprendo con cautela le cassapanche porta abiti e frugandovi dentro di quando in quando. Matteo riconobbe subito Gertrude con un misto di timore e di intenso piacere, che ebbe il sopravvento sul ricordo delle frustate subite per colpa di lei in quella famosa notte che lui non avrebbe mai dimenticato... ma per motivi ben più piacevoli. - T'ho pescata, carogna - pensò guardandosi intorno in cerca d'un nascondiglio: voleva capire che ci faceva Gertrude nella camerata dei paggi, dal momento che quella non faceva parte delle sue mansioni e lei dunque non aveva alcuna ragione per entrarci.
Dopo qualche tempo, il volto radioso di Matteo spuntò da quel buio antro in fondo al corridoio che i paggi usavano per dare il loro personale contributo alle montagnole di rifiuti che decoravano le strade di Roma in attesa che la pioggia le portasse al fiume. Occhieggiando da una fessura tra le assi della porta di quel maleodorante ma per questo insospettabile luogo di osservazione, il giovane aveva appena visto Gertrude uscire dallo stanzone, richiudersi l'uscio alle spalle e prima di allontanarsi avvolgere in uno straccio un abito che il tono di rosso denunciava senz'ombra di dubbio come proveniente dal guardaroba d'un paggio. Matteo osservò a distanza la sagoma della nemica avviarsi giù per le scale con quel fagotto sotto il braccio: nell'angusto locale il fetore era insopportabile malgrado la finestra aperta, ma il ragazzo non lo percepiva neppure, tanta era la sua eccitazione. Non stava più nella pelle dalla voglia di raccontare la scoperta a Beatrice e, quando il tempo trascorso gli parve sufficiente a garantirgli sicurezza, si precipitò dalla padrona. Lucrezia stava addentando una coscia di tacchino avanzata dalla cena precedente, che lei aveva con previdenza fatto nascondere dal fedele valletto nel suo guardaroba, avendo già in programma la violenta emicrania del giorno successivo, che l'avrebbe costretta a un digiuno forzato. Dopo il racconto di Matteo, la Baronessa ordinò: -Quando ha finito di pranzare, voglio qui Beatrice; e dillo pure a Angelica, ma che non ci vengano insieme!... vedete voi come! - Poi rivolse la sua attenzione ad un cesto di frutti al cui confronto quello riprodotto da Caravaggio sarebbe sembrato Davide di fronte a Golia. - Ma tu - aggiunse poi, dopo il primo morso alla terza pesca - non ti dovevi cambiare la livrea? Guarda in che stato è! E... che è questo cattivo odore? Ma dove diavolo ti sei cacciato? Vai, vai e non comparire più al mio cospetto in queste condizioni – fece un gesto di disgusto con la mano che reggeva la pesca, che le sfuggì dalle dita – Che puzza, per la miseria... su, su... spalanca la finestra!.. e aprimi ancora un poco le tende che qui non ci si vede nulla... e adesso dove diavolo mi sarà caduta la pesca?... accidenti a questo terribile mal di testa!
Matteo sospirò, comprendendo che la padrona era ormai entrata nella parte e ben sapendo che la sua insofferenza sarebbe cresciuta mano a mano che i giorni avano, come ogni volta dopo l'arrivo del marito e fino alla successiva partenza di quello. Si chinò a raccogliere il frutto, finito tra le pieghe del lenzuolo. Dopo una rapida rinfrescata e il cambio d'abito, il paggio andò ad attendere Beatrice al piano superiore, poco frequentato a quell'ora del giorno: era infatti certo che l'amata padroncina sarebbe al solito salita nelle sue camere per la siesta. Per evitare di esser comunque visto, si nascose dietro a uno spesso arazzo che copriva una nicchia e faceva da sfondo a una statua marmorea d'epoca romana sistemata sul pianerottolo in cima alle scale, all'inizio del corridoio che portava agli appartamenti dei figli Cenci. Per la verità la scultura avrebbe dovuto trovar posto nella nicchia ricavata nella parete, ma un malinteso con gli architetti aveva fatto sì che questa risultasse poi assai più piccola del marmo che il Cenci vi aveva destinato. Era stato errore suo e, non potendo con vivo disappunto trucidare i Longhi che dirigevano i lavori, aveva fatto temporaneamente collocare la statua su un piedistallo posto davanti alla nicchia, che gli architetti avevano suggerito di rendere, appunto, invisibile a mezzo d' un arazzo. E, come spesso accade, il provvisorio era poi assurto al rango di definitivo, anche perché il Signor Barone aveva ben presto destinato quell'opera a un suo uso privato e segretissimo che ne vietava qualsiasi spostamento. Beatrice era sola e, giunta in cima alle scale, girò intorno alla statua per imboccare il corridoio: una mano guantata di bianco sbucò da dietro l'arazzo e artigliò il suo braccio con forza, il prezioso tessuto si aprì per subito richiudersi e la fanciulla stupita si trovò nella penombra dell'angusta nicchia... faccia a faccia con Matteo. Il ragazzo le chiuse la bocca con una mano: -Perdonate... ma è importante! Ho fatto una grandissima scoperta sulla lurida serpe e dovete subito andare dalla Signora Baronessa! - Beatrice sentiva una grande eccitazione nella voce dell'amico. E sentiva pure, senza nascondersi il gradevole turbamento che per lei ne
derivava, il muscoloso corpo di lui sotto la leggera livrea estiva premere contro il suo. I loro volti erano vicinissimi. - Sapete... l'ho vista nello stanzone dei paggi, al piano di sopra... La voce di Matteo tradiva un certo imbarazzo che non sfuggì a Beatrice, malgrado la sua attenzione fosse distratta dal noto segno... d'emozione occorrente al compagno. - E... allora? - domandò senza muoversi, ma prendendogli una mano quasi volesse incoraggiarlo a raccontare. - Allora lei ha... - Matteo non terminò la frase: ai suoi occhi sbarrati fecero da specchio quelli di Beatrice, dilatati anch'essi dal terrore. Le voci che giungevano dalla scala li avevano pietrificati: sco Cenci e madama Gertrude stavano salendo a controllare il corridoio in vista dell'imminente ricevimento. - Se ci trovano siamo morti! - mormorarono in un soffio le due bocche, sfiorandosi. Le mani rafforzarono la stretta e i ragazzi rimasero immobili, con il fiato sospeso. - Voglio che il guardaroba degli ospiti venga disposto qui, nel corridoio - stava dicendo il barone - e dunque provvedete affinché vi sia personale incaricato di portarvelo e sistemarlo. Poi fate mettere una cappelliera qui e un tavolo con tovaglie ed essenze per i Cavalieri che dovessero usare i servizi. Le dame anno, invece, quelli del primo piano come già sapete e i musicanti scenderanno al piano terra, come tutto il personale. Ogni ordine era seguito puntualmente dalla voce di Gertrude: - Certo, Signor Barone, come comandate Signor Barone, sarà fatto Signor Barone. - E dove deporrete i bastoni o gli ombrelli in caso di pioggia? - domandò lui. - Pensavo a ceste da disporre qua e là, Signor Barone.
- Mmm... non saprei... sono poco estetiche a vedersi... - Potremmo allora metterli nelle nicchie vuote, Signor Barone! - Ah! Ottima idea! E davanti gli si tira una tenda... o un arazzo come quello... - Certamente, Signor Barone. I due giovinetti si sentirono gelare il sangue: Beatrice impallidì e Matteo, che lo notò malgrado la penombra, cacciò la paura pensando: - Mioddio quant'è bella! Inesorabili, i i dei due si avvicinavano al loro nascondiglio: una fuga era ormai impossibile. Beatrice fu scossa da un fremito, non si sa se di terrore o d'emozione: il suo corpo aderiva a quello del paggio come la pellicola al suo spicchio d'aglio. Anche le loro mani ancora libere si unirono per stringersi fin quasi a farsi male. - No, Signor Barone, permettetemi di dire che questa nicchia non è adatta: ha davanti la statua ed è dunque troppo scomoda da raggiungere. L'altro ne convenne, arrestandosi con sollievo dei due che, nell'attesa dell'irreparabile, si erano abbracciati stretti stretti: - Avete ragione, mia fedele Gertrude, sarà meglio usare le altre, più avanti nel corridoio. Allora siamo d'accordo... pensateci voi. - Non dubiti, Signor Barone. sco, avviandosi verso la scala, aggiunse: - Se mia moglie starà meglio, parlatene con lei, se del caso. La donna questa volta non confermò: ovviamente, non trovava fosse il caso. Dopo qualche istante, l'eco di pesanti i ritmati sui gradini indicò ai due innamorati che gl'importuni stavano scendendo e presto le loro voci svanirono in lontananza. Beatrice e Matteo restarono stretti e muti a lungo, e nessuno avrebbe saputo dire se ciò fosse semplice misura prudenziale, una pausa per riprendersi dal terrore
o non piuttosto il desiderio d'entrambi di assaporare appieno l'erezione occorsa al valletto. Beatrice fu la prima a rompere il silenzio: - ... perché ora non prosegui col tuo racconto? - sussurrò in un soffio senza spostarsi di un millimetro. La penombra cui ormai era assuefatto non impedì a Matteo di notare le gote di lei alquanto arrossate. - Mioddio, così è ancora più bella! - pensò, estasiato dal contatto ma ancor più dal gradimento che lei pareva dimostrare, poiché gli stringeva il collo con le braccia per meglio avvinghiarglisi contro. Il paggio riprese il racconto su Gertrude, ma dopo le prime parole s'interruppe: le labbra di Beatrice ormai si appoggiavano sulle sue e la bocca riarsa dall'emozione gl'impedì di proseguire. - Ho avuto una paura da morire... - sospirò lei sfiorandogli le labbra... le bocche si unirono... e Matteo dimenticò istantaneamente Gertrude e la sua impresa: una morbida lingua forzava con dolcezza la barriera dei suoi denti serrati e il paggio capì subito come quella potesse suggerire alla sua esercizi ben più piacevoli dell'eloquio. Vi si adeguò prontamente e senza sforzo... Ma la guerra non consente distrazioni e Beatrice non tardò a staccarsi. - Adesso fammi andare... che non vorrei tardar troppo a raggiungere Madonna Lucrezia... - Datemi il tempo di prima scendere io a recuperare Angelica. La padroncina rise sommessamente: - Mica vorrai andare in giro con questa sporgenza nei calzoni! avresti subito dietro una fila di servette... e io sono gelosa! Resta qui. E sfiorategli un'ultima volta le labbra con le sue, si dileguò con un lieve frusciare di seta. Facendo violenza a se stesso Matteo si costrinse a concentrarsi sull'immaginaria figura di Gertrude che si spogliava per prendere un bagno: l'espediente funzionò subito e poco dopo il giovane paggio poté presentarsi alle
sue padrone degnamente ricomposto. Le due donne lo guardarono sorprese: - E Angelica? - domandarono. - Uuh! Va... Vado subito a chiamarla! - rispose lui pronto, girando sui tacchi: se n'era completamente dimenticato. Lucrezia si rivolse a Beatrice: - Questo ragazzo!... Deve avere qualche grillo per la testa... da qualche tempo lo vedo così distratto... tu ne sai qualcosa per caso? Beatrice negò, ma all'occhio malizioso della matrigna non sfuggì il suo imbarazzo.
Alla luce della scoperta di Matteo, anche a Lucrezia parve evidente che Gertrude stesse tramando qualcosa, dal momento che gli abiti dei paggi erano sotto la sua giurisdizione solo quando le venivano consegnati per disporne il lavaggio e le eventuali riparazioni. In ogni caso, l'accesso al dormitorio dei paggi le era rigorosamente vietato e dunque il suo gesto era molto sospetto. - La strega vuol vestire da paggio il figlio suo, così potrà girar per casa indisturbato! - Aveva esclamato Beatrice, che nei riguardi della governante seguiva la saggia regola di pensar sempre male. - Ma qualcuno potrebbe riconoscerlo come estraneo e fermarlo - suggerì Angelica, alla quale l'ipotesi della padroncina era subito parsa credibile. - Non se agirà di notte - obiettò Lucrezia - è più difficile... tuttavia le guardie... ma si... è vero, sono sempre di ronda in giro per casa... e quando mai potrebbe? Beatrice scattò in piedi a braccia alzate e gridò, esultante: - Durante la prossima festa! Nessuno gli farà caso, con tutto quel trambusto! Lucrezia la zittì bruscamente, ma dovette convenire che era un'eventualità da non scartare: occorreva saperne di più.
Venne, dunque, deciso che le due ragazze avrebbero a turno soggiornato nella cassa del montacarichi, collaudatissimo punto di ascolto e osservazione per le visite di Giovanni alla madre. Angelica, più voluminosa di Beatrice, si prese i turni più brevi, dietro insistenza di lei. Lucrezia ne fu sorpresa e con ragione, ma naturalmente acconsentì. Infatti la figliastra le spiegò: - Ma io mi ci diverto un mondo laggiù, Madonna! E poi, pensate che bello sarebbe se potessi sorprendere la lurida serpe mentre trama con il figlio alle nostre spalle! E la guardò con un lampo d'innocente entusiasmo negli occhi che commosse la matrigna al pensiero del ripugnante delitto paterno nei suoi confronti. La Baronessa si augurò che il fato, quasi a compensarla in parte dell'orrore domestico riservatole, le concedesse almeno di vedere esaudito quel suo ingenuo desiderio. Poco tempo dopo, mentre il personale cenava in un angolo della grande cucina prima di cominciare il servizio per i Signori e i cortigiani, Beatrice se ne stava nuovamente rannicchiata nel montacarichi al piano terra dove poco prima Angelica aveva terminato il suo turno di sorveglianza. Ad un tratto qualcuno aveva bussato ripetutamente alla porticina e una voce ben nota aveva tuonato dalla cucina: - Nessuno si muova! Vado io. Gertrude le era ata accanto scrocchiando rumorosamente le dita: - Sei nervosa eh?... brutta strega! - aveva pensato la baronessina. Ciò che udì nei brevi minuti che seguirono superava perfino le sue fantasie sulle losche intenzioni della donna: con la complicità della madre, Giovanni avrebbe rubato i gioielli di Madonna Lucrezia nel corso della festa del sabato sera. Certi d'essere protetti dal brusio dei servi e dal tramestio delle cuoche, i due discussero la cosa nei dettagli a cominciare dall'abito da paggio che, come la giovinetta aveva intuito, sarebbe stato il travestimento usato da Giovanni. A missione compiuta, Gertrude avrebbe poi nascosto un gioiello in camera di Angelica e quando l'allarme dato dalla Baronessa avesse scatenato le ricerche per tutta la casa, la vipera lo avrebbe trovato casualmente, mentre ispezionava
le stanze della servitù. Giovanni si sarebbe tenuto gli altri gioielli e Angelica sarebbe stata denunciata per il furto di tutti: e, chi sa, forse anche torturata e uccisa... anzi, magari perfino arsa viva! Alla fine del colloquio Gertrude era tornata alle cucine per terminare la sua cena. Contrariamente alle sue speranze, Beatrice non s'era affatto divertita ascoltando il perfido piano dei due congiurati. Era stata sconvolta dalla loro malvagità e aveva faticato a frenare l'impulso di piangere e gridare il proprio odio con quanto fiato aveva. Ma, in assenza di prove, di denunciare al padre la governante non se ne parlava neppure. Infatti da un lato non avrebbe potuto confessare di averla seguita in aree del palazzo a lei proibite e, dall'altro, Gertrude avrebbe negato tutto: sco Cenci avrebbe creduto a lei. Mentre Matteo la faceva lentamente risalire, la baronessina combatteva con l'angoscia di dover dare all'amica una nuova, crudele evidenza del suo amore immeritato e tradito.
Durante il racconto di Angelica, Caravaggio aveva percepito lo sforzo della ragazza per soffocare le lacrime: contraeva nervosamente le mandibole e deglutiva di frequente, quasi a voler ingoiare quella sofferenza che lui poteva leggerle negli occhi. - Beatrice è stata dolcissima, credetemi, Mastro Michele: non appena risalita si è preoccupata innanzitutto di me, allontanando il povero Matteo per non imbarazzarmi. Poi mi ha rivelato le intenzioni di Giovanni, chiedendomi anche se volevo tornare a casa dai miei per evitare che lui e Gertrude mi fero del male. - E voi? - Che volete... io le ho detto che mio padre mi avrebbe cacciata ancor prima di farmi entrare, se mai avesse già conosciuto la ragione del mio ritorno... e che da... da Giovanni mi sentivo più protetta lì con lei che a casa mia.
Michele le appoggiò una mano sul braccio e Angelica, messo da parte l'orgoglio, pianse sconsolatamente. Il pittore attese che le lacrime cessassero, poi domandò: - E che ne direste, tanto per cominciare, di aiutarmi a recuperare l'anello? Il volto di Angelica s'illuminò: - Ma... dite sul serio? Lo avete trovato? - Beh, sì e no... ma penso che un tentativo sia possibile, se farete come vi dico. - Sì, sì... certo, farò ciò che volete ma... e Lorenzo? È ancora a Roma? Lo avete visto? Come sta? - Appunto... ma ora calmatevi e ascoltatemi. E le spiegò come, dopo aver recuperato il gioiello e aver parlato con Lorenzo, avesse sentore che lui ancora l'amasse; senza celarle il comprensibile risentimento di lui, ma omettendo la descrizione del gesto rabbioso con il quale l'amico s'era impossessato dell'anello per poi fuggire. - Lo ha voluto tenere con sé - mentì - dicendo che, se desiderate il suo aiuto, dovrete chiederglielo voi. Spero che comprendiate come io non abbia potuto rifiutarglielo. Con grande sorpresa di Caravaggio la ragazza scattò in piedi e, forse dimenticando di trovarsi nella sacrestia d'una chiesa, proruppe con veemenza: - Certo che voglio chiederglielo! Mica penserà di lasciarmi in questo guaio senza alzare un dito, quello lì! Non ha fatto nulla per contendermi a quell'altro: anche a Pasquetta si è dileguato... ecco che cos'ha fatto! E io... io allora ho creduto che non... che non gli importasse più nulla di me e così... L'artista lasciò pazientemente che la ragazza si accorgesse da sola di stare mentendo a sé stessa e, quando lei tacque rifugiandosi nuovamente nel pianto, disse con voce pacata: - Ma... permettetemi... e voi... avreste gradito un suo intervento? Gli avreste concesso d'interferire, di venire a trovarvi di sorpresa la notte, di far la posta alla vostra finestra la domenica, di imporvi la sua presenza senza rispetto per la vostra libertà?
Dopo qualche minuto di silenzio Angelica si alzò mogia, come per andarsene: - Scusatemi. Devo essere fuori di me... ho tanta paura, vi prego di perdonarmi. - Se di questo, mia cara, mai si trattasse - e non credo lo sia - non sarei certo io a dovervi perdonare. Avete la mia comprensione. Ma ora sedete, che ancora non abbiamo finito. Le espose il suo piano per il mattino seguente e concluse: - Se funzionerà Lorenzo sarà anche disposto ad aiutarvi... vero? - Mah!... Non siete riuscito a convincerlo voi che siete suo amico... come potete pensare che io abbia qualche potere su di lui, dopo tutto quello che... L'altro la fissò negli occhi per un lungo momento: - Ne siete proprio sicura? insinuò. La ragazza lo guardò seria seria, poi abbassò gli occhi e, arrossendo lievemente, sorrise. - Vi sono molto grata - disse poi - e, sebbene mi sembri una follia, farò come voi dite. Tuttavia non so se... sapete, dovrò aiutare madamigella Beatrice nei preparativi per la festa e... - Vi attenderò sotto casa di prima mattina e non faremo tardi, poiché Lorenzo dovrà recarsi al lavoro dal suo Notaio: dunque... avrete tempo per tutto. I due si separarono prima d'uscir di chiesa e Caravaggio corse alla bottega, dove aveva appuntamento con Onorio e Prospero per finalmente imbastire un piano. Forse si sarebbe anche parlato di menar le mani e, a questo punto, la cosa non gli sarebbe dispiaciuta affatto.
23. Caravaggio regista: la creazione de La Buona Ventura
Il Venerdì il cielo era terso e l'aria tiepida e asciutta che spirava da settentrione pareva quasi voler aiutare i raggi solari nell'ardua impresa di prosciugare le piazze e le strade, ancora fangose dopo il fortunale di due sere prima. Specchiandosi nelle pozzanghere, le figure dei anti vi creavano guizzanti ombre scure in contrasto con le macchie d'azzurro che qua e là le coloravano con frammenti di cielo. La mattina presto, quella parte di Roma compresa tra l'Isola Tiberina, il Pantheon e il Campidoglio era invasa da mercanti e contadini diretti ai mercati. Carri e carretti procedevano a fatica nel fango che colmava le buche e quelli di loro che non fruivano del lusso d'un cavallo o d'un mulo s'arrangiavano alla meglio, aiutandosi l'un l'altro a spingere o tirare perché le ruote non s'impantanassero. Qua e là mendicanti ancora frugavano tra i rifiuti trasportati dall'acqua nel canale al centro delle strade e lì abbandonati dal lento prosciugarsi di quello. Nella fila di contadini che, provenendo dal fiume, procedevano arrancando nei pressi di palazzo Cenci, nessuno fece dunque caso alla coppia di strani personaggi che s'incontrarono in uno stretto vicolo a fianco dell'edificio per poi dirigersi verso via dei Falegnami. Lei era una giovane zingarella molto graziosa, con un bianco turbante annodato sulla nuca che lasciava scoperte le orecchie regolari e la fronte, incorniciata da bruni e lisci capelli dai riflessi ramati. Vestiva modestamente, ma la bianca camiciola denunciava qualche pretesa nella fitta pieghettatura e nel delicato ricamo del girocollo, chiuso da un vezzoso nodino di nastro nero. Un largo mantello scuro fermato sopra la spalla destra da uno spillone le ricopriva il corpo, lasciando scoperte spalle e braccia: quasi a sfumare il contrasto tra il candore della camicia e il nero del manto, il bordo superiore di
questo era segnato da una banda color rosso mattone che partiva dallo spillone per scomparire sotto l'ascella sinistra. Il suo compagno pareva invece uno straccione: la giacca d'un color bigio indefinibile che cadeva a coprire fin quasi al ginocchio gli sdruciti calzoni, dai quali a ogni o faceva capolino una pallida rotula in cerca di sole. Il largo cappellaccio a tesa ne nascondeva parzialmente il volto e la lunga e incolta barba bianchiccia denunciava un'età assai in contrasto con l'andatura spedita e giovanile. Costui stringeva sotto un braccio una tavoletta di legno mentre con l'altro reggeva una borsa rattoppata. Nei pressi della chiesa di S. Caterina dei Funari alcuni mocciosi improvvisavano barchette con pezzetti di legno gettati nello scarico d'una vecchia fontana il cui getto, ingagliardito oltre misura dal nubifragio, la faceva traboccare. Fu in quel punto che i due abbandonarono il flusso del traffico per piegare a sinistra in direzione di Palazzo Venezia, parlottando intensamente a bassa voce: la strada s'era fatta meno congestionata. Angelica e Michele si accingevano ormai a traversare la distesa di ruderi romani che ancora li separava da piazza SS. Apostoli, dove sorgeva la residenza dei Colonna. A qualche distanza, sulla loro destra si innalzava la collinetta del Campidoglio con le sue scalinate e la facciata Michelangiolesca del Palazzo Senatorio, il cui campanile era frutto dell'ingegno di Martino Longhi il Vecchio, padre di Onorio. Avvicinandosi alla meta, Caravaggio rallentò sensibilmente l'andatura; poi prese a zoppicare vistosamente, come meglio s'addiceva a un vecchio malandato. Angelica vi si adeguò... senza però zoppicare. La ragazza si sentiva rassicurata dalla presenza di Michele e quasi protetta dal proprio travestimento, che Beatrice aveva curato nei minimi dettagli fino a mandare Matteo nelle cucine per un pezzetto di carbonella, con il quale aveva poi annerito i bordi delle unghie dell'amica con cura: - S'è mai vista una zingara con le unghie pulite? - aveva poi spiegato. L'ingresso principale di palazzo Colonna non si trovava sulla piazza, ma dava su
una via che scendeva verso il Tevere, quella che i due percorrevano. Tuttavia Lorenzo aveva spiegato a Michele che la propria stanza vi s'affacciava: dunque egli usava l'ingresso secondario che dava sulla piazza e gli abbreviava il cammino, dovendo lui prendere il Corso per raggiungere l'ufficio del suo Notaio. - Emozionata? - chiese maliziosamente il pittore, arrestandosi. Angelica alzò il mento in un gesto a metà tra risentimento e scherzo: - E perché dovrei? - disse con aria seria ma facendo spallucce in modo scanzonato. -Bene, così almeno ricorderete cosa dovete fare. - Certo che lo ricordo: mi sistemerò addossata al muro del palazzo, a sinistra di chi esce dal portone di modo che Lorenzo, uscendo e svoltando dalla parte opposta per andare al Corso, non dovrebbe vedermi. Il tono di voce era un pò petulante, ma il pittore continuò senza badarci: - E per avvicinarlo come programmato attenderete, a qualche o dal portone, il segnale che vi farò con la tavoletta non appena lo scorgerò nell'androne che porta all'uscita. L'artista si sarebbe ovviamente sistemato in faccia a quella. I due si separarono e Angelica si avviò per prima. - Buona fortuna! - le sussurrò il compagno, mentre lei s'allontanava. Senza fermarsi, la fanciulla volse il capo e gli sorrise maliziosamente. - Però - pensò lui - quant'è aggraziata... per essere una... zingara! Ma... ehi!.. un momento... e se quella zingara indovina... adesso che ci penso... sì, sì... e se l'indovina di quel giorno davanti a Palazzo Firenze si volesse riferire a QUESTA come alla zingara che m'avrebbe portato fortuna? - Dovette convenire che, se avesse avuto modo di scegliere, Angelica sarebbe stata di certo la sua zingarella preferita... per farsi aprire le porte di Palazzo Medici, come gli aveva predetto la vecchia. Ma era tempo di agire e fece spallucce pure lui, dimenticando... il proprio futuro. Osservò attentamente la piazza: malgrado l'ora ancora acerba essa brulicava di
accattoni, sistemati a piccoli gruppetti nei punti che dovevano strategicamente incrociare le rotte dei numerosi gentiluomini che presto sarebbero usciti dal portone del palazzo. Sull'angolo con una via stazionavano alcuni straccioni, altri erano sparsi qua e là all'intorno e quattro di essi si erano accovacciati esattamente davanti all'ingresso a pochi i da esso, su una specie d'improvvisato isolotto circondato dalle pozzanghere. Un pò contrariato da questo imprevisto, Caravaggio decise comunque che quello sarebbe stato per lui il miglior punto per osservare e dipingere e vi si diresse con noncuranza zoppicando vistosamente. Angelica se ne stava appoggiata al muro del Palazzo a qualche distanza dall'ingresso senza che nessuno la importunasse, forse per via del suo atteggiamento modesto e degli abiti dignitosi. Il pittore invece si sedette in terra nei pressi dei quattro mendicanti: le occhiate che subito questi gli lanciarono erano assai poco amichevoli. Cavò di tasca un gesso e ne sagomò con cura un'estremità appuntita. Per la prima volta da quando aveva conosciuto Angelica due giorni addietro si rilassò un attimo, pregustando l'espressione di Lorenzo quando avrebbe riconosciuto l'amata. Poi estrasse gli attrezzi da disegno che aveva con sé per fissare il volto di lui in un ritrattino che intendeva regalargli a ricordo del suo soggiorno romano. Ma ad un tratto i suoi quattro colleghi straccioni si rizzarono – compreso un nano storpio con due stampelle più alte di lui – per andare a piantarglisi davanti con fare minaccioso. Prima che quelli gli impedissero del tutto la vista del palazzo, Michele ebbe il tempo di intravvedere la figura di Lorenzo – elegantissimo nella giacca damascata color ocra, armato di spada e di... parrucca – che in quel momento compariva nel portone apprestandosi a uscire: doveva avvisare Angelica immediatamente. - Ehi amico, questo non è tuo territorio dunque fila via, capito? - lo apostrofò in
quella il più giovane dei quattro, un omaccione senza un braccio e privo di un occhio ma armato di un robusto coltello, che per il momento teneva ancora nel fodero attaccato alla cinta. - C'è il rischio che mi mandino tutto in fumo... - pensò Michele senza rispondere. Si rizzò malgrado la gamba dolente e con un balzo sull'altra evitò la barriera formata dagli accattoni, sventolando la tavoletta di modo che Angelica potesse vederla: era il segnale convenuto per informarla dell'arrivo di Lorenzo. - Ehi!.. ma questo mica è zoppo!... stava ritraendo il palazzo per chiedere ai Signori denaro in cambio! Così per noi non resterà nulla! – strillò il vecchietto della compagnia, la quale intanto aveva minacciosamente accerchiato il pittore; e gli strappò di mano la tavola. Nell'attimo in cui Lorenzo metteva il naso fuori di casa, tre di quelli presero a spintonare Michele che finì lungo disteso in una pozzanghera. Gli gridavano pesanti minacce e insulti triviali, mentre il nano insisteva con una stampella a voler dare il proprio contributo di percosse. Altri mendicanti si avvicinavano, chi saltellando sull'unica gamba, chi invece su una specie di carretto perché privo di entrambi. Un non vedente protestava ad alta voce per farsi spiegare l'accaduto. Incuriosito dal trambusto, Lorenzo s'arrestò appena fuori dal portone a osservare la scena. Nel far ciò dovette volgersi un pò verso sinistra, dalla parte dov'era Angelica: ma con un guizzo lei s'era ormai portata alle sue spalle. - Qualunque cosa succeda - le aveva raccomandato Caravaggio - fate ciò per cui siete venuta - così, malgrado vedesse l'artista in difficoltà, fu quello il momento in cui lei si avvicinò al fianco destro di Lorenzo. Nel suo anulare vide con emozione luccicare l'anello. Tentando di fermare il leggero tremito della propria mano, s'impossessò della sua e l'attirò a sé: il braccio di Lorenzo s'allungò un poco verso di lei senza però che lui distogliesse immediatamente lo sguardo dalla scena dell'aggressione. In quella si levò il grido de i birri, i birri!!, lanciato da alcuni monelli che usavano quel trucco per provocare la fuga degli accattoni e aver libera la piazza per i loro giochi: il conseguente fuggi-fuggi attirò ancor più l'attenzione del giovane gentiluomo milanese.
Tuttavia la destra della ragazza non fu lesta come il suo travestimento avrebbe fatto supporre e, forse anche per l'emozione, il suo impacciato tentativo di sfilare l'anello produsse invece una carezza sul palmo di lui che stava volgendosi a fronteggiare... l'importuno. Una voce a lui ben nota lo paralizzò, sussurrandogli vicinissima: - Questo è MIO e lo rivoglio! Lorenzo neppure pensò a un banale tentativo di furto: quella voce l'avrebbe riconosciuta fra mille... così come il tocco di quella mano gli aveva quasi fermato i battiti del cuore. Restò come paralizzato: non solo aveva immediatamente capito di chi si trattasse pur senza vederne il volto, ma aveva perso la battaglia prima ancora di cominciarla: la sfrontatezza della pretesa avrebbe dovuto irritarlo e invece lui s'illanguidì... dov'erano finiti i suoi fermi e dignitosi propositi? Tutte le parole studiate con cura, le domande rimaste senza risposta nelle sue notti turbolente... insomma, tutte le sue intenzioni per un definitivo chiarimento in un colloquio franco e civile erano istantaneamente svanite. Angelica aveva come sempre giocato d'anticipo cogliendolo impreparato, come un allievo disattento interrogato a sorpresa dall'insegnante durante la lezione. La ragazza, vedendolo bloccarsi di colpo mentre stava volgendosi verso di lei, comprese che il momento era critico: il suo intuito femminile le diceva che forse aveva segnato un punto a suo vantaggio. Incrociarono gli sguardi: gli occhi di Lorenzo parevano guardare nel vuoto. - Lo porterò finché ti amerò... ricordi? - continuò Angelica, mentre le sue labbra si stiravano in un incerto sorriso: lei spiava con ansia la reazione del giovane. Fu questo l'istante che Caravaggio colse mentre, liberatosi dall'assedio degli accattoni grazie all'allarme-birri, si rialzava da terra tutto inzaccherato. Ammaliato dall'intensa trepidazione che leggeva sul volto di lei, cambiò subito parere su chi dei due meritasse il ruolo di protagonista del nuovo quadro. Raccolse la tavoletta e prese alacremente a schizzare sul lato pulito quella
straordinaria espressione di Angelica mentre, un pò esitante, dava al suo uomo il colpo di grazia, infliggendogli la più dolce delle sconfitte. Lorenzo stava riassaporando la sensazione di trovarsi in totale balia della ragazza, che riusciva a sedurlo anche mentre tentava di rimediare a una propria – e grave – mancanza. Si sentì incapace di qualsiasi reazione: quella donna l'aveva privato all'istante di ogni capacità d'autodifesa, togliendogli a un tempo anello, parola e... dignità! Purtroppo però, questa volta due birri c'erano per davvero e si avvicinarono ovviamente a Caravaggio, unico rimasto sulla piazza in veste da... pezzente. Lui, rapito oltre le nuvole dall'angelo dell'ispirazione, non s'interruppe neppure quando quelli gli ordinarono di identificarsi, finché con malgarbo tentarono di sequestrargli il disegno: Michele ricordò quell'altra volta nell'androne del palazzo, molto tempo prima, quando le guardie dei Colonna gli avevano requisito il Bacchino malato. - Ah... ma allora da queste parti è proprio un vizio! - pensò con un misto di rabbia e ironia. Protestò a gran voce, dichiarandosi innocente e pretendendo di esser lasciato in pace a finire il suo lavoro. Quelli però non se ne diedero per intesi e, presolo ognuno per un braccio, già lo stavano trascinando via: il cappello era caduto nel fango e Michele aveva perso la barba posticcia, fatto questo che rafforzava il loro sospetto che fosse un impostore. Quando si decise a chiamare Lorenzo, il quale stava nel frattempo mettendo fine alle sue sofferenze tra le braccia di Angelica, accorse pure il capo delle guardie di casa Colonna, che era stato a osservare la scena piantato a gambe larghe sull'ingresso del palazzo. Senza barba e cappello costui lo riconobbe subito, visto che era pittore:- Ma siete dunque sempre a caccia di guai, Messere? Dovete avere una vera predilezione per farvi sollevare di peso dalle guardie, voi! Non mi direte che anche oggi vorreste presentarvi alla nostra padrona in questo stato... hem... se mi posso permettere! Lorenzo allora s'intromise e gli chiese di confermare la propria testimonianza circa la totale innocenza di Michele, assalito dai quattro straccioni mentre se ne
stava seduto a disegnare. I birri proseguirono dunque il loro giro senza neppur chiedersi cosa poi ci fe, così conciato, un noto pittore davanti a palazzo Colonna in quell'ora mattutina. Non potevano certo immaginare che, in realtà, egli stava ritraendo una scena della quale era ideatore, regista e scenografo allo stesso tempo! Michele si rimise subito al lavoro, chiedendo alla modella di ripetere per lui – ancora una volta – i gesti e le parole che avevano sedotto Lorenzo. Incuranti della curiosità dei presenti che formarono subito schiera all'intorno, i due giovani non esitarono a posare per lui, tollerando il bonario scherno di alcune guardie che prendevano di mira Lorenzo per il suo atteggiamento sognante ogniqualvolta volgeva lo sguardo verso la ragazza. Angelica invece era subito entrata nella parte: il perdono era stato per lei liberatorio al punto che avrebbe desiderato continuare a rivivere la scena fino all'indomani. Così, per miracolo, l'incanto di quel sorriso per certi versi un pò... leonardesco si ripeté e l'artista poté fissarlo sulla tavola, incurante della ressa di ammirati osservatori che poco a poco gli si erano affollati intorno. Ben lieto per la ritornata calma tutt'intorno, Caravaggio poté dedicarsi a meglio sfruttare la luce per modellare lo zigomo destro della ragazza, allo scopo di accennare la lievissima contrazione del muscolo facciale nell'esitante sorriso di lei. E ovviamente non mancò d'immortalare... le sue unghie annerite!
24. Caravaggio scenografo: un ballo in maschera... per i paggi
Fin dall'inizio della settimana il popolino del rione aveva avuto sentore che un evento straordinario fosse in preparazione a palazzetto Cenci. C'era un inconsueto via vai di merci e persone durante il giorno e la sera le luci restavano accese fino a tardi: erano stati lavati tutti i vetri alle finestre, riverniciati i fregi nell'androne d'ingresso, lucidati i bronzi del portone e quelli delle inferriate al piano terra. Il giovedì s'era poi sparsa la voce di una grande festa per la sera del sabato, forse grazie a qualche soffiata d'una serva chiacchierona o d'un fornitore poco discreto. Erano arrivati i sarti con gli abiti, il carro con i tappeti per lo scalone e la galleria, quello delle carni sul quale campeggiava la carcassa d'un cervo fra dozzine di lepri, quaglie e fagiani; e i servi portavano cesti di pesci, di verdure e di frutti dal vicino mercato, tanto che a volte parevano file di formiche dirette al nido. Venerdì notte i carpentieri avevano lavorato sul tetto alla luce delle torce fino all'alba, sì che la mattina del sabato la piazza brulicava di curiosi, che le guardie stentavano a tenere a distanza puntando verso di loro minacciose alabarde. Un folto gruppo di ragazzetti s'era sistemato di buon'ora sull'altro lato della piazza, tutti accovacciati per terra con l'atteggiamento di chi non ha alcuna intenzione di perdersi lo spettacolo: si sussurrava addirittura di fuochi d'artificio... A mano a mano che le ore avano, essi erano però costretti a una lenta ritirata per far posto agli adulti che si fermavano a dare un'occhiata. Molte donne, tornando dal mercato o recandosi al lavatoio, notavano con sollievo l'ancora frenetico movimento di carpentieri, fabbri e sarti che avrebbe concesso loro qualche ora in più per sbrigar le faccende e negoziavano con i bambini per assicurarsi di venire subito informate all'arrivo dei primi ospiti.
Così, all'apparire della prima carrozza, un gran numero di staffette partì simultaneamente in tutte le direzioni, come scintille da un ferro rovente sotto il maglio del fabbro. In poco tempo la piccola piazza si riempì, come le formiche invadono un piatto nel quale i gatti hanno lasciato residui di cibo. Le guardie faticarono non poco a respingere la folla quel tanto che bastava a assicurare il aggio degli invitati, che sfoggiavano costumi esotici e abiti ricercati, in uno sfavillio di gioielli sotto gli ultimi raggi del sole calante. Arrivarono le carrozze dei Principi Colonna, da una delle quali scese l'elegante figura di Costanza accompagnata da tre dame di compagnia; poi si videro i Farnese, grandi soldati, il Cardinale Federico Borromeo in un'austera veste da cerimonia, i grandi banchieri genovesi Giustiniani, i Principi Orsini e i Doria, fornitori omologati di Grandi Ammiragli alla flotta spagnola; poi apparve il Principe Camillo Borghese con il nipote Scipione e altri Nobili della Fazione Spagnola per la quale ovviamente simpatizzava il Cenci, essendo essa la più potente e numerosa. La plebe ascoltava in attonito silenzio questi nomi altisonanti mano a mano che gli ospiti entravano a Palazzo annunciati dal Grande Maestro della Festa, che pareva quasi conoscere tutta Roma. Questa era già di per sé una trovata originalissima per intrigare anche gli invitati, che s'interrogavano l'un l'altro: ma chi diavolo era quel pomposo personaggio dalla maschera dorata e armato d'un megafono? Un fremito di stupore misto a panico percorse la folla quando Pietro Aldobrandini – nipote (vero!) del Papa e in odore di Cardinalato – se ne arrivò vestito da Sultano Orientale a dorso d'un elefante condotto da un servo di colore con un bastone uncinato dalla punta d'oro: una vera ricercatezza! Un gruppetto di straccioni, che invano speravano di rimediare qualche elemosina da quei potenti troppo assorti nel loro narcisistico egoismo, venne scacciato in malo modo dalle guardie che pensarono bene di non lesinare alcune pesanti legnate e severe minacce. Tutti gli spettatori mossero prudentemente alcuni i indietro. Ma ormai la sfilata era finita: il crepuscolo già evidenziava un cielo ceruleo e le zanzare lasciavano i loro nidi sulle sponde del fiume per lanciarsi fameliche sulle candide braccia delle nobildonne, ben poco protette dal fumo delle torce accese
con quell'intento nel cortile e nei corridoi. Casa Cenci era splendente come mai s'era visto e ne usciva un forte brusio tanto che, non fosse stato per le risa, le musiche e i rumori di stoviglie, sarebbe potuta sembrare la corteccia di un' enorme zucca perforata, con l'interno illuminato e... pieno di calabroni. Al calare del buio la festa ormai ferveva: nei saloni al primo piano, illuminati a giorno da candelabri d'argento, la servitù aveva rimosso i lunghi tavoli per le portate e poi s'erano aperte le danze, alla musica – ovviamente profana – d'un gruppo di suonatori. I meno giovani affollavano la galleria, chi con il calice e chi ancora addentando un ultimo boccone di selvaggina. Il frastuono man mano cresceva. Sulla piazza centinaia di occhi sgranati riflettevano i bagliori rossastri e parevan di lupi quando nel buio circondano il bivacco dei viaggiatori; ma per un ironico gioco delle parti qui erano invece i lupi veri – sebbene d'aspetto umano – a essere assediati nel palazzo! Al suo interno c'era gente dovunque. Le stanze dei padroni erano aperte agli ospiti: popolate da amici rumorosi, da pezzi grossi della Curia e da cortigiane di lusso quelle del Cenci, mentre Lucrezia era circondata da eleganti nobildonne e alti prelati, sorridenti e ciarlieri ma più dignitosi e moderati. Vi aleggiava un insistente profumo di limone, prodotto della cera fusa di lumi sparsi qua e là negli angoli per cacciare le feroci zanzare, senza peraltro poter evitare che, nelle pause della musica, risuonassero sonori gli schiaffoni con i quali le signore difendevano la delicata epidermide dai loro attacchi impietosi. Ovunque si aggiravano servitori in livrea reggendo vassoi con i dolci o portando caraffe di vino per riempire le coppe, mentre le cameriere rivaleggiavano in equilibrio con i danzatori volteggiando fra gli ospiti, offrendo cibi e bevande e raccogliendo bicchieri vuoti o piatti abbandonati. Vestita con curata sobrietà Angelica era una di queste, malgrado le vane insistenze di Beatrice per arla di grado a sua dama di compagnia. Dopo le prime feste che aveva da poco cominciato a frequentare, la baronessina era infatti ossessionata dal senso di emarginazione e di solitudine che provava in
quelle ricorrenze ufficiali, rendendosi conto che gli altri giovani la evitavano come un'appestata: e le occhiate di sterile bramosia dei maschi le davano più fastidio che il are inosservata. Ma Lucrezia era stata inflessibile: - Una dama di compagnia è prematura per voi e dare a Angelica più importanza di quella compatibile col suo ruolo potrebbe destare sospetti, con quello che c'è in ballo... - aveva detto alla figliastra imbronciata - ma potremmo incaricarla di servirvi... e potrà ogni volta fermarsi un poco con voi, figlia mia cara... Così, gli occhi bassi, la giovanissima Cenci se ne stava in un angolo delle stanze di Lucrezia, osservata ma ignorata da tutti. E se casualmente a una dama di rango fosse mai occorso di posare lo sguardo su quella visione pietosa, essa si sarebbe affrettata a distoglierlo, per ammiccare poi a qualche sua conoscente: entrambi scuotevano il capo desolate e la cosa finiva lì. Dopo tutto era poi solo un segno aberrante dello strapotere maschile, che tutte in un modo o nell'altro subivano e che la più parte accettava per convenienza.
Nascosto nel piccolo appartamento della madre, Giovanni stava per radersi: la festa ferveva e dunque, di lì a poco, sarebbe dovuto entrare in scena. L'uomo era giunto dai Cenci subito dopo pranzo, attendendo nel vicolo finché Gertrude non aprì la finestra della sua stanza per segnalargli il via libera: all'ora della siesta dei padroni la servitù godeva d'un breve riposo e il grande palazzo sembrava assopito... ma questa volta si trattava della classica quiete prima della tempesta. Solo gli addetti alle pulizie stavano ancora lavorando in cortile, negli androni e sulle scale. Prima di riprendere servizio, la governante aveva controllato la divisa del figlio dopo le modifiche da lei apportate, tagliando e cucendo fino a notte fonda, per adattarla alle dimensioni virili di Giovanni. Nel dormitorio dei paggi aveva preso la più grande disponibile, che però gli stava ancora un pò stretta soprattutto alle spalle e sui fianchi, dove lei aveva potuto fare ben poco per carenza di stoffa d'avanzo.
Era invece riuscita a sistemare le maniche e le braghe, aveva spostato bottoni e allargato il colletto: per fortuna il figlio non era corpulento e nel complesso il lavoro fatto gli avrebbe consentito di are pressoché inosservato tra i suoi colleghi di una notte. Il vero problema erano state le scarpe: l'età media dei paggi era quindici anni e il piede di Giovanni non c'era verso che vi entrasse. Mancava il tempo e si doveva trovare una soluzione: Gertrude afferrò le cesoie e tagliò di netto la punta, lasciando così occhieggiare un buon pezzo di calzamaglia color cremisi. Un abile tocco di pece in quelle zone e la cosa era stata risolta: dopotutto nel fervore della festa chi mai si sarebbe preso la briga d'inginocchiarsi a esaminare con cura i piedi dei paggi? Uscita la madre, il baro s'era pure concesso un buon sonnellino ristoratore in vista della laboriosa serata che lo attendeva. Ora stava preparandosi a cancellare accuratamente barba e baffi dal proprio volto per rendersi più difficilmente riconoscibile: - Sai... se per qualche imprevista ragione quella sgualdrina di Angelica ti notasse... - aveva avvertito Gertrude per convincerlo. - i la barba, ma i baffi proprio no! - aveva protestato con veemenza il figlio. Gli spiaceva moltissimo privarsi di quei virili ornamenti molto apprezzati dalle donne giovani che, aveva ben presto scoperto, erano difficilmente affascinate dalla freschezza di un'imberbe carnagione se non compensata da un'aria intrigante o, in mancanza, per lo meno da un cospicuo patrimonio. Problema, questo, da lui risolto al solito a mezzo di frottole... mentre invece i suoi splendidi baffi erano reali. E adesso pareva proprio che avrebbe dovuto immolarli per il successo dell'impresa... Anche per via della maschera... - Già - pensava protrudendo il mento per facilitarvi la rasatura - fantastica quest'idea di mettere la stessa maschera a tutti i paggi!... sembra quasi sia stato fatto per favorire i miei piani!... peccato che la barbetta e soprattutto i miei baffi potrebbero spuntar fuori e allora me la vedrei brutta... altro che giovane paggio!..
Con un'ultima ata di rasoio diede l'addio al pizzo. Ma coi baffi proprio non se la sentiva: quanta cura e quanto tempo gli erano occorsi per farli crescere e sagomarli! - Dopotutto... se li ripiego un pò verranno coperti dalla maschera!... quasi quasi... Contemplò il mento glabro al piccolo specchio metallico della madre: - Che schifo! Almeno tenere i baffi, accidenti! ... Tanto, mascherato potrò girar per casa senza pericoli! ... Con tutto il trambusto che ci sarà, chi vuoi che vada in giro a sollevar maschere per vedere chi ci sta sotto? No... no, bella trovata veramente, Signor Barone... sarà un gioco da ragazzi! - esclamò sogghignando. I suoi baffi vennero così risparmiati, ma ciò che lui non sapeva era che il favorire i suoi piani era esattamente l'intenzione di chi aveva suggerito le maschere. Era stata un'idea saltata fuori quando, il giorno precedente poco prima di pranzo, Onorio e Prospero avevano raggiunto Caravaggio in bottega per decidere le mosse dell'indomani. Il problema era quello di evitare d'esser colti di sorpresa, non avendo la benché minima idea di come e quando Giovanni e sua madre intendessero agire. Ma per tanto si scervellassero, nessuno dei tre amici partoriva un piano che consentisse di togliere l'iniziativa ai due delinquenti, pilotando in certo qual modo i loro movimenti verso una trappola che consentisse di smascherarli. Dopo più d'un'ora i tre artisti cominciavano a scoraggiarsi. Finché: - Ma certo!... quand'è che di solito occorre... smascherare qualcuno? domandò improvvisamente Michelangelo, ridendo e ammiccando. Stupiti dalla strana domanda, i due amici lo guardarono in silenzio con aria interrogativa: il momento era critico e avevano ben poco tempo per scherzare! - Ma è ovvio... quando prima gli si mette sul viso una maschera! - esclamò allora Caravaggio: e illustrò la sua proposta. L'idea piacque moltissimo: - Le cose semplici di solito funzionano - commentò Onorio. I tre amici ci avevano lavorato un pò su così che, poco prima dell'ora della siesta, il Longhi si presentò a casa Cenci, pronto a dare il via alle operazioni.
L'Architetto era ben noto a Palazzo. Questo era sorto sulle rovine di un antico borgo medievale con tanto di Rocca, che aveva occupato una collinetta situata sulla sponda sinistra del Tevere nei pressi dell'isola Tiberina. Le misere case erano scomparse nei secoli sostituite dal palazzo, ma ora una parte della vecchia Rocca era stata utilizzata per erigervi il Palazzo e poi la Cappella di Famiglia di sco Cenci. Per la verità, sco aveva inizialmente pensato di farci costruire il proprio Mausoleo sullo stile degli imperatori romani, ma gli spazi erano ridotti... e poi il papa gli aveva fatto capire che, dopo l'ultima nefandezza perdonatagli, avrebbe gradito una prova d'espiazione con una Cappella, magari dedicata al Santo poverello che portava il suo stesso nome. Clemente VIII era arrivato a ventilargli di presenziare alla sua consacrazione e il Cenci, gongolante al pensiero dell'invidia che ciò avrebbe suscitato, lo aveva accontentato. Quella volta, però, sco aveva lasciato i Palazzi Vaticani assai poco gongolante: in cambio di tanta benevolenza, prima di licenziarlo il Pontefice gli aveva chiesto di cancellargli un debituccio di centomila scudi che avrebbero contribuito a finanziare una Santa Crociata in Ungheria contro i Turchi infedeli, in preparazione per il 1597. - Vuol dire che pregheremo per le anime di quelli che moriranno - aveva concluso il papa con un sospiro addolorato - e... Dio ve ne renderà merito, Messer Cenci! Il Barone aveva affidato ai Longhi il prestigioso incarico della Cappella di famiglia e, nel corso delle discussioni col cliente, Onorio aveva rilevato la sua frustrazione per aver dovuto rinunciare al Mausoleo. Per consolarlo, gli aveva allora proposto di costruire la cappella nella parte rimasta in piedi dell'antica Rocca, collegandola poi al nuovo "palazzetto" a mezzo di un corridoio coperto. - Ecco vede, Signor Barone... vi proporrei... sul tipo di quello che i Medici hanno fatto eseguire al Vasari a Firenze..., per collegare Palazzo Uffizi a Palazzo Pitti...
- Ah!... Certo, certo... conosco molto bene... - aveva spudoratamente mentito il Cenci, che del Vasari aveva si e no sentito parlare. Quanto poi a quei palazzi sconosciuti sapeva soltanto che non dovevano trovarsi a Roma. Del discorso del suo Architetto l'unica parola che gli dicesse qualcosa era il cognome altisonante dei Medici, sufficiente a stimolare la sua boria ignorante con la prospettiva di rivaleggiare in qualche modo con la loro grandezza. Onorio ridacchiava tra sé: - Se gli dico che il Corridoio del Vasari attraversa l'Arno sul Ponte Vecchio...invece di questi pochi metri di macerie, costui è capace di farmi spostare il Tevere fino a qui! Prudentemente, l'abile Architetto non glielo disse.
- Perdonate se interrompo il vostro pranzo, Signor Barone - esordì Onorio con un inchino, quando il nobiluomo gli si fece incontro - ma avrei qualcosa di importante e di... estremamente riservato da comunicarvi. sco lo condusse nel suo studio privato, il luogo meno frequentato della casa – eccezion fatta per le furtive incursioni di Beatrice a caccia di libri per conto di Lucrezia – ma di certo il più adatto a proteggere da orecchie indiscrete. - Ecco, vedete... signor Barone, mai mi sarei permesso di disturbarvi se non fosse che - non domandatemi come, vi prego - sono venuto a conoscenza d'un piano criminoso mirante al furto dei gioielli di vostra moglie... nel corso della festa di domani sera. L'altro sobbalzò sulla seggiola a braccioli in legno scuro ricoperta da cuscini di raso color senape: un ottimo accostamento, sullo sfondo della libreria di cui s'è già detto. Il Cenci non poteva credere alle sue orecchie: - Ma come... chi oserebbe... con tutte le guardie che... ma ne siete sicuro? - Sicurissimo, Signor Barone. L'informazione è di fonte certa... anzi... certissima! - Esigo di sapere tutto, caro Longhi: quel ladro non uscirà vivo di qui, ve lo garantisco! Farò mettere guardie che perquisiscano tutti, perdio! In ogni angolo... e poi all'uscita!
- Non vorrei contraddirvi, Eccellenza, ma mi pare che così facendo non otterreste altro che metterlo in allarme, oltre che indisporre i vostri ospiti... e poi temo non servirebbe a nulla, dal momento che il delinquente già entra ed esce indisturbato dalla vostra casa... godendo di complici fra queste stesse mura... - Tradimento!!!... a me, guardie!... allestite il palco con la garrota... voglio sapere chi sono i colpevoli... certamente quei cospiratori dei miei figli!... avanti, Longhi, fuori i nomi altrimenti chiuderò anche voi nelle segrete della Rocca. Onorio rabbrividì, ma ancor più temette che qualcuno potesse udire il loro discorso, visto che l'altro non risparmiava fiato. S'affrettò a rassicurarlo: - No, no... Signor Barone, state tranquillo... non si tratta dei vostri parenti, ve lo assicuro - disse, abbassando il tono di voce. sco prontamente lo imitò: - Ah!... dunque voi... sapete? - Sì, sì...so chi sono i colpevoli, grazie al lavoro di... alcune persone fidate. Il Cenci sospirò di sollievo e lo guardò con occhi avidi: - Allora il caso è chiuso: ditemi i nomi e vi garantisco che prima di sera le loro carogne saranno fatte a pezzetti e date in pasto ai ratti. - Permettetemi Signor Barone... ma io avrei una cosa diversa da proporvi: in pratica si tratterebbe di utilizzare questo imprevisto per offrire ai vostri illustri invitati... diciamo un eccitante diversivo... una caccia al ladro dal vivo insomma. Queste parole destarono l'attenzione di sco, che interruppe l'elencazione delle indicibili torture alle quali avrebbe sottoposto i rei prima di concedere loro una morte liberatrice. Dopo tutto l'idea di un gioco che non fossero i soliti stupidi indovinelli o i pettegolezzi amorosi gli garbava assai... in specie se più vivace di quella noiosissima caccia all'oggetto in Casa Farnese a Capodanno... proprio non l'aveva potuta evitare, trattandosi forse della famiglia più potente di Roma. - Vi ascolto, Messer Longhi - disse semplicemente, risedendosi. Onorio gli confermò di conoscere l'identità dei colpevoli, tuttavia... - sono certo comprenderete che, in assenza di prove, non mi è possibile rivelarvene i nomi:
sono informazioni avute per caso da personaggi malavitosi - mentì - e, dunque, si sa quanto poco affidabili... - Ma allora... il nostro gioco potrebbe andare in fumo? Preoccupato di dover rinunciare alla carneficina finale sulla quale contava assai, il Barone Cenci aveva aggrottato le sopracciglia. Il Longhi aveva sentito dire che sarebbe stato meglio mai sperimentare di persona le conseguenze della minaccia espressa da quel suo gesto purtroppo frequente. - Posso assicurarvi di no... sebbene rimanga ovviamente un certo rischio, che ardirei suggerirvi di accettare se volete divertire i vostri ospiti in modo inusuale. E lo informò d'aver già pronto un piano per cogliere i colpevoli con le mani nel sacco. L'atteggiamento del padrone di casa era poco a poco mutato da paziente curiosità a seria attenzione, fino a domandare: - Ma come farete, in caso di effettivo furto, a individuare il ladro? Mica sarà un vostro amico... vero? Onorio finalmente si rilassò e si permise una risata, rispondendo: - Ah! Signor Barone...questo è un nostro segreto che conoscerete al momento opportuno. Per ora vi basti la mia parola di gentiluomo che vi recupereremo tutti i gioielli e cattureremo i delinquenti prima che la festa sia finita: vedete... pensiamo di intrappolarli costringendoli ad agire quando vogliamo noi... che sarebbe l'inizio del divertimento per gli ospiti. E abbiamo anche un ritratto del ladro... ma di più non posso proprio dirvi! Il Barone cominciava a eccitarsi: - Grande idea, Messer Longhi! grandissima idea... una caccia al ladro... reale ma pilotata... geniale!... superba! Se non sapessi chi siete non vi crederei: chiamerei le guardie e vi farei sbattere in catene! - la sua sinistra risata fece rabbrividire l'Architetto - ma... andate avanti, vi prego, e ditemi di cosa avete bisogno. Quando Onorio terminò il suo elenco di travestimenti, di strumenti di tortura e di mirabolanti attrezzature il suo cliente era del tutto conquistato:
- Ah! Mio caro Longhi... se andrà come dite tutta Roma parlerà di questo ricevimento per mesi!! - concluse compiaciuto. - Ci conto. E ne sarei lietissimo per voi... ma vi devo chiedere in cambio di non farne parola con alcuno ad eccezione di vostra moglie... e d'un paio di altre persone che dovrò necessariamente coinvolgere per la preparazione di quanto mi chiedete. - D'accordo, ma... e se qualcosa andasse storto? Mica posso deludere gli invitati dopo l'annuncio di una vera caccia all'uomo... - Tanto lì per lì ben pochi ci crederanno... no, l'unica eventualità imprevista è che il ladro non si presenti, cosa che dovrei escludere: ma se ciò capitasse si potrebbe imbastire una finzione, sostituendolo con uno di noi e lasciare i vostri ospiti nel dubbio se sia realtà oppure no! - Mhhm... anche solo un'incertezza di quel tipo varrebbe ad animare la festa... sì, pensate, potremmo... far fare la parte del ladro a... uno dei miei amici... eh?... che ve ne pare? Il Cenci era ormai entrato nello spirito giusto: Onorio era certo che avrebbe dato un occhio per recitarla lui stesso, la parte del ladro! E pensò che, dopotutto, per sco o qualcuno della sua combriccola l'impersonare un modesto ladro sarebbe stato come per un puledro dover correre alla velocità d'una gallina. Ma prudentemente tacque e invece concluse: - Ottima idea, Signor Barone, sempre che se ne ponga il caso. Nel frattempo, se permettete, devo chiedervi di escludere le guardie e di impegnarvi a evitare qualsiasi spargimento di sangue: l'intenzione è quella d'un gioco e riterrei poco opportuno per voi macchiare di violenza la vostra festa sotto gli occhi di mezza Roma. sco dovette convenirne e facendo buon viso a fatica garantì che avrebbe provveduto, limitandosi pure ad assistere in qualità di spettatore fino alla fine. Cosa, questa, che fu per lui il vero prezzo da pagare per il divertimento dei suoi ospiti. Nominò Onorio Gran Maestro della Festa e poi convocò Madonna Lucrezia. All'annuncio della trama ai suoi danni la nobildonna finse prontamente un
malore che la provò del tutto ignara agli occhi del marito, se mai ce ne fosse stato bisogno. Il lungo allenamento per sopravvivere alle sue angherie le consentiva ormai una disinvolta e veritiera recitazione, tanto che si dovette chiamare con urgenza la dama di compagnia affinché provvedesse gli impacchi freddi per rianimarla. Trascorso un tempo ragionevole per rafforzare la credibilità del malore, la Baronessa si riprese e venne messa al corrente del programma di Onorio. Lucrezia parlò con un filo di voce: - Vi ringrazio, Messer Longhi, per l'attenzione che mi dimostrate e spero possiate veramente recuperare i gioielli e catturare i colpevoli. Se vi potessi essere utile... ecco, forse potreste... vorrei chiedervi di inserire nella vostra squadra il mio paggio personale, un giovinetto quasi... di famiglia ormai... assai robusto per l'età e di vivace intelletto... sono certa potrà esservi utile e vi prego di accettare. Il Longhi rispose affermativamente e Lucrezia se ne andò soddisfatta, poiché contava su Matteo per venire sollecitamente aggiornata sul procedere delle operazioni.
Il ricevimento ferveva. La Baronessa sedeva preoccupata nel salone accanto alla sua stanza da letto e alle spalle di lei Matteo brandiva un prezioso ventaglio per difenderla dai morsi degli insetti e dal caldo soffocante, mentre tutt'intorno si beveva e si danzava. Il ragazzo era assai accaldato per via della livrea in velluto e, di conseguenza, attirava su di sé molti insetti diretti sulla padrona ma deviati su di lui dall'irresistibile aroma del suo sudore, non camuffato da belletti e profumi. Da quella privilegiata postazione non staccava gli occhi da Beatrice, provocando le vibrate proteste di Madonna Lucrezia, fastidiosamente punzecchiata per via della distratta vigilanza del paggio che spesso e volentieri teneva fermo il ventaglio. Era da qualche tempo che Matteo sapeva: insospettito dalle ciance di alcune servette, aveva poi meditato con crescente angoscia sui trasferimenti notturni di Angelica dalla sua cameretta agli appartamenti di Beatrice e viceversa, che
sempre coincidevano con gli arrivi e le partenze del padrone. Tormentato da quell'atroce pensiero, aveva posto la domanda diretta alla cameriera e il silenzio imbarazzato di lei gli aveva rivelato la terribile verità. Da quel giorno l'amore del paggio s'accrebbe senza limiti, non solo perché nutrito dall'ammirazione per la dignità con la quale lei accettava il suo tristo destino, ma anche perché infiammato dall'odio verso chi le rubava la vita con la più abbietta delle violenze. E poco gli importava se il Cenci gli avesse procurato un'educazione decente e un lavoro accettabile: lo stava già ripagando con questo e non aveva debiti verso di lui. Così il paggio si era ripromesso di ucciderlo per liberare la luce dei suoi occhi. Nel pieno della festa, Matteo stava dunque contemplando rabbioso l'adorata padroncina sedere in un angolo del salone, le mani in grembo e lo sguardo sul pavimento. Per vincere l'impulso di prenderla per mano e fuggire insieme, prese a considerare piani delittuosi mai purtroppo realizzabili per via della sua disgraziata condizione di servo. A pochi i da lui, due armigeri montavano la guardia incrociando le alabarde sulla soglia delle stanze private di Madonna Lucrezia, accanto ai pesanti tendaggi in broccato che ne coprivano parzialmente la porta. Erano gli unici uomini armati in circolazione nei saloni dove si svolgeva la festa. Data la stagione e l'alto numero di fiaccole e candele, era stato loro concesso di non indossare l'armatura ma soltanto la pesante giubba da parata e il cinturone con spada. Malgrado ciò, gli elmetti con visiera facevano sì che dalle fronti di Michele e di Lorenzo, immobili come statue malgrado gli avidi insetti, colassero rivoli di sudore. I due amici non vedevano l'ora che le musiche lasciassero posto a prestigiatori e saltimbanchi i quali, richiamando gli invitati nella galleria tutt'intorno al cortile, avrebbero concesso loro un pò di respiro. A un tratto Matteo vide comparire Angelica, che reggeva con una mano un cesto di frutti e con l'altra un vassoio carico di calici in cristallo ripieni di vino: seguendo a modo suo le raccomandazioni di Lucrezia, la ragazza aveva pensato
bene di riunire due giri di portate in uno per aver modo di star vicina a Beatrice più a lungo. Ma la sua naturale vivacità, rafforzata dal piacevole senso di sicurezza che le dava la presenza di Lorenzo e di Michele, le suggerì un giro panoramico per stuzzicare il suo innamorato, sempre inerme di fronte a lei malgrado questa volta fosse... ben armato. La giovane fece dunque velocemente il giro della stanza lungo le pareti e, prima di servire gli ospiti della padrona, con un'elegante piroetta fece are il vassoio dei bicchieri sotto il naso di Lorenzo, lanciandogli un'occhiata provocatoriamente sbarazzina. - Le studiate proprio tutte per starmi addosso a controllarmi, vero Messere? - gli sussurrò prima di allontanarsi svelta. Il milanese, la cui traspirazione pareva assai gradita a una zanzara che la forzata immobilità gli impediva di scacciare dal viso, decifrò la sfacciata provocazione solo quando ormai la ragazza era irraggiungibile. Alla vista del vino che oscillava paurosamente nei bicchieri per la criticità della posizione di lei mentre si destreggiava fra gli invitati, Matteo s'illuminò: - Una coppa di vino avvelenato... ecco cosa ci vuole! Come non ci avevo ancora pensato? - e s'immaginò compiaciuto il perfido padrone contorcersi sul pavimento fra gli spasimi, accanto al calice cadutogli dalle mani alla prima lancinante fitta. Il veleno... ne aveva sentito parlare dalla padrona, un giorno che raccontava la storia di una celebre Dama d'inizio secolo... la bellissima figlia d'un papa che portava lo stesso nome di lei... Lucrezia... Lucrezia e poi? Sbragia?... chi sa... Berge? O forse Borgia? Mah! Proprio non se lo ricordava, ma pareva che costei fe largo uso di veleni sciolti nel vino... Chi sa... magari avrebbe potuto chiedere alla vecchia speziale di Campo de' Fiori... ma si sovvenne di essere nero e scartò l'idea: chi avrebbe tenuto un segreto delittuoso per proteggere un misero servo, che il colore della pelle rendeva facilmente identificabile? L'immagine del Cenci dilaniato da un'agonia crudele almeno quanto lui si dileguò con sommo disappunto di Matteo, come nebbia che si scioglie. In quella però vide Angelica fermarsi accanto al gruppetto degli ospiti di
riguardo della Baronessa Lucrezia per offrir loro frutta e vino dai suoi carichi in precario equilibrio. Due di quelli stavano conversando fittamente tra loro, ma il paggio era troppo lontano per sentire cosa dicessero e si limitò a seguire la scena perché colpito dalla nobiltà dei personaggi: un'ancor giovane e piacente nobildonna vestita con sontuosa eleganza (pare una Principessa! pensò) e un prelato d'aspetto distinto. Angelica abbassò il vassoio e lo presentò loro garbatamente, non potendo evitare di udire parte della conversazione: - E che ne è stato di quel giovane, pure lui lombardo - chiese il secondo alla prima - che mi presi la libertà di presentarvi... sì... credo sia almeno un anno fa... ricordate... Marchesa? Mi pare fosse il figlio d'un notaio di Milano... ricordo che avrebbe tanto desiderato diventar pittore... che fine ha poi fatto? La cameriera si sentì venir meno: le mani tremarono leggermente per l'emozione generando un tintinnio di bicchieri, ma lei continuò il proprio lavoro sforzandosi di apparire imibile. Costanza Colonna sorrise un pò tristemente, prima di rispondere: - Ah! Certo che ricordo! Lorenzo... volete dire... è vivo e... per mia insistenza è ancora mio ospite ma non ha fatto una buona fine, no... non credo proprio, Eminenza... sapete... si, insomma, vedete il fatto è che lui... e abbassò confidenzialmente il tono di voce. Il vassoio che Angelica stava offrendo ai due s'inclinò pericolosamente prima da un lato e poi, bruscamente, dall'altro: il tintinnio dei cristalli si fece più forte al punto che perfino Matteo lo udì distintamente. Costanza rifiutò con gentilezza e, mentre il Cardinale allungava una mano per servirsi, proseguì dopo uno sguardo all'intorno -... deve essere incappato in una storia d'amore con una poco di buono... pare che quella se la fe anche con un altro, sapete... sono molto preoccupata per lui... un giovane così a modo... proprio non se lo meritava... non lo si vede manco più in giro per il palazzo... Angelica avrebbe voluto sprofondare e poco valeva il pensiero che quelli non potevano di certo conoscerla: l'ignara Principessa aveva toccato le deboli corde della sua stima per sé stessa. Nella fretta di allontanarsi ritrasse il vassoio prima che la mano del Borromeo impugnasse fermamente il calice, che così ne urtò un
altro versando il contenuto di entrambi. La ragazza tentò di rimediare lasciando cadere la cesta di frutti e prendendo il vassoio con entrambi le mani per ridargli equilibrio: invece, mentre pesche e prugne rotolavano sul pavimento provocando numerose cadute tra i gli illustri ballerini, la brusca inclinazione del vassoio rovesciò il vino sull'abito della Principessa mentre i bicchieri finivano a terra in un crepitio di vetri infranti. La Baronessa Cenci si volse e fulminò Angelica con lo sguardo: la ragazza si era inginocchiata ai piedi di Costanza e, balbettando scuse, tentava goffamente di asciugarle la gonna con un lembo del proprio vestito. Ma il Cardinal Federico si assunse generosamente la responsabilità dell'accaduto e scagionò la ragazza di fronte alla padrona di casa: - Ho fatto tutto da solo... è colpa mia. Ero distratto dall'interessante conversazione della Principessa... e ho urtato un bicchiere provocando un disastro. Vi porgo le mie scuse, Baronessa. Imbarazzatissima, Lucrezia – dimenticando la prudenza raccomandatale – ordinò di aprire la porta della sua camera affinché Costanza vi si potesse accomodare per rimediarsi l'abito. Scambiatisi uno sguardo preoccupato, Lorenzo e Michele non poterono far altro che eseguire l'ordine della loro padrona d'una sera, facendo ala al aggio del piccolo corteo guidato dalla Baronessa. Anche Beatrice e Matteo si scambiarono uno sguardo, ma non propriamente di preoccupazione: la giovane Cenci lasciò subito la sua poltroncina e, girando intorno ai cocci che parevano nuotare nel vino, guadagnò rapidamente alcune posizioni con arditi sori di dame appesantite dagli anni, dal cibo e, soprattutto, dalle goffe imbardature. Così quando furono nella camera di Lucrezia Matteo si trovò non per caso accanto a lei. Costanza, per nulla turbata dall'incidente, seguì l'amica attraverso la soglia e sfiorò con l'ampio abito disastrato uno degli armigeri ai lati di essa. Senza ragione alzò gli occhi e i loro sguardi s'incrociarono per un attimo. La Principessa provò un lieve turbamento ma proseguì senza darlo a notare: Che strano - pensò - mi era parso che quella guardia fosse Michele... sciocca che sono, cosa poi ci farebbe lì così bardato?... Mah! saranno scherzi dei miei
desideri più segreti... Mentre Angelica si occupava dell'abito di Costanza con le sue tre Dame di compagnia che nell'affanno si ostacolavano l'una con l'altra, Madonna Lucrezia si accomodò a dirigere le operazioni da un'alta poltrona, accanto a un tavolino sul quale un'ancella sistemava una brocca d'acqua e alcuni stracci puliti. La Baronessa fece cenno ai due armigeri di chiudere le tende dell'ingresso, dopo aver ripreso il posto che avevano lasciato per procurare dell'acqua su urgente richiesta di lei. Alcune torce alle pareti illuminavano fiocamente la grande stanza, ma l'attenzione dei presenti era concentrata sull'abito della Marchesa di Caravaggio, illuminato dai candelabri che due delle cameriere di Lucrezia reggevano in modo da favorire il lavoro di restauro. Erano tutti impegnatissimi e nessuno s'accorse che, dietro l'alto schienale della poltrona di Lucrezia, una manina bianca stretta a quella nera d'un giovane paggio veniva da questa invitata a stimolare ciò che stava accadendo sotto i lembi della giacca di lui; né tanto meno che, poco dopo, fosse invece il suo turno a guidare quella, nascondendola tra le ampie pieghe d'una gonna azzurra come il cielo. Così quando la Baronessa ordinò a Matteo di andare nel bagno a sciacquare gli stracci sporchi di vino, bastò attendere pochi secondi perché la figliastra, senza dir parola, impugnasse la brocca ormai vuota e lestamente lo seguisse. Nessuno s'insospettì, anche perché lei fu subito di ritorno con l'acqua: il tempo di un apionato bacio nella penombra del bagno, facendo attenzione al suo abito e alla preziosa acconciatura.
La maschera per i paggi era stata per Gertrude una sgradita sorpresa. Due giorni prima aveva ancora rivisto con il padrone tutte le istruzioni relative al personale, che comprendevano anche gli abiti dei paggi e delle guardie, ma il Cenci non ne aveva fatto alcun cenno. Poi, improvvisamente, la mattina della festa l'avevano mandata a chiamare perché si recasse con urgenza dal capo delle guardie su ordine del padrone.
Secondo quanto concordato da Onorio con sco, le maschere in tessuto gessato erano state recapitate a palazzo da un incaricato del Longhi, che le aveva date in consegna al capo delle guardie. - Sono per i paggi. Le ha mandate il Gran Maestro della Festa: il Signor Barone ha ordinato di darle a voi per le bande di fissaggio - aveva detto costui alla governante. La cosa l'aveva indispettita, poiché mai aveva sentito menzionare un Gran Maestro della Festa: - Quel sacco di boria d'un Cenci mi ha tagliato fuori eh? aveva pensato furibonda - Beh...vuol dire che vedremo come andrà a finire... - e sogghignando aveva obbedito in silenzio. Dopo tutto era pur sempre un ordine del padrone! Tuttavia, rientrando in camera sua prima di dare le disposizioni del caso, la donna era accigliata: come avrebbe fatto Giovanni a confondersi con gli altri valletti, se fosse stato privo di maschera? Con affanno contò subito le maschere e trasse un sospiro di sollievo. Sapeva che i valletti sarebbero stati venticinque, ma le maschere erano ventisei. - Si saranno sbagliati... che fortuna! - pensò. Le contò per sicurezza una seconda volta e si rilassò: in fondo, se si tratteneva una maschera per Giovanni nessuno ci avrebbe fatto caso, dal momento che tutti ne sarebbero stati comunque provvisti. Prima dell'arrivo degli ospiti, sco Cenci volle are in rivista tutto il personale di servizio accompagnato da Gertrude e dal Gran Maestro, che a lei ricordò un tipo già visto; ma non riuscì a identificarlo per via della mascherina dorata che costui portava sugli occhi. Dopo i camerieri e le serve venne il turno dei paggi, che il padrone fece radunare nella galleria: a un suo ordine Gertrude, con il cuore in gola, consegnò una maschera a ciascuno di essi e restò a mani vuote. Tutti provarono a indossarle senza commenti e il Cenci espresse la sua soddisfazione, complimentandosi con la governante per l'abile e sollecito lavoro. Onorio, ancor più soddisfatto di lui, si complimentò invece mentalmente con
Caravaggio per la brillante idea: secondo le sue previsioni, Gertrude s'era ben guardata dal far notare la maschera in sovrannumero, che era semplicemente rimasta in camera sua! Doveva averla data al figlio secondo le speranze di Michele: il dado era tratto. - Avevo pensato giusto - si disse invece Gertrude rientrando nelle sue camere - si erano proprio sbagliati, evidentemente! - e, ignara del tranello, ghignò soddisfatta. - Chi sa perché quel Cenci mi ha tirato fuori questo Gran Maestro - disse poi a Giovanni - sarà per via dei giocolieri e dei fuochi d'artificio... quanta pompa per così poco... perfino un Gran Maestro ci doveva mettere!... Bah, quante sciocchezze fanno questi ricconi! - scrollò le spalle e mentre calzava la maschera al figlio non ci pensava già più. Fu così che a festino inoltrato i venticinque paggi mascherati che, sudando copiosamente, trasportavano su e giù per le scale i lunghi vassoi con le vivande o le pesanti caraffe di vino, divennero a un tratto ventisei senza che nessuno se ne accorgesse.
25. Un identikit davvero... illuminante
Brandendo due caraffe di vino, Giovanni salì al primo piano e s'immerse nel vortice di musica e danze per studiare la dislocazione delle stanze di Madonna Lucrezia. Gertrude era stata al riguardo precisa ed esauriente e il giovane non ebbe difficoltà. Con la scusa di servire gli ospiti che fuggivano il gran caldo stazionando in galleria, valutò con attenzione le vie di fuga verso il piano superiore – dove lo avrebbe più tardi atteso la madre – e verso il piano terra, sconsigliabile anche per via del movimento di servi da e verso le cucine. Notò con piacere la totale assenza di guardie nel salone, a eccezione di quelle due ai lati d'una porta che – stando a Gertrude – doveva dare nelle stanze private della Baronessa. Quel particolare dei due armigeri era un intoppo non previsto: e poi… perché proprio lì dove lui avrebbe dovuto agire? - Sarà perché, conoscendoli bene, non si fidano poi granché dei loro ospiti! ... pensò ridacchiando. Decise di attendere, confidando in un'occasione favorevole al furto durante lo spettacolo pirotecnico, quando – a sentire sua madre – avrebbero spento le luci. Nel frattempo, mentre raccoglieva coppe e bicchieri usati, si guardava intorno attentamente… di gioielli indosso alle dame ce n'erano in tale abbondanza che se anche gli fosse andato in fumo il colpo con la Cenci avrebbe sempre potuto rimediare qualcosa, prima di filarsela. Il pensiero lo ringalluzzì e, brandendo una caraffa d'argento, fece un giro di mescite fra i presenti: aveva adocchiato due ragazze sole in un angolo di quello che doveva essere il grande salone della Baronessa, e gli erano parse degne d'uno sguardo ravvicinato. Ma, fatti pochi i verso di loro, s'arrestò di colpo: una di esse era Angelica, smagliante nel suo abito ricamato e con un'acconciatura ricercata che le incorniciava il volto di pietre colorate e scintillanti.
Giovanni girò prontamente sui tacchi pensando – se mi riconoscesse sarei perduto! – e s'allontanò per servire gli ospiti che stavano dall'altra parte della sala. Quando si ricordò d'indossare la maschera si diede però dello sciocco e si volse a guardarla, fingendo tuttavia noncuranza per non dar nell'occhio: era veramente bellissima! La osservò alzarsi, prendere un vassoio colmo di bicchieri vuoti e uscire. - Potrei pedinarti per tutto il palazzo, bellezza - pensò: la sua millanteria, confortata dal travestimento e stimolata dall'acredine per la recente rottura, rinvigorì il desiderio sopito che subito si riaffacciò con prepotenza, attizzato da un maschilismo ferito che chiedeva vendetta. Il giovane accarezzò l'idea di seguirla da basso per poi trascinarla nella sua camera… con tutto quel chiasso nessuno avrebbe potuto udirla: che gridasse pure!! Tuttavia la prudenza e l'avidità lo sconsigliarono: dopotutto era in missione di lavoro… e un altro colpaccio simile chi sapeva quando si sarebbe ripresentato? Continuò comunque a tenerla d'occhio di modo che, quando lei rovesciò il vino addosso a quell'elegantissima Dama che aveva udito qualcuno chiamare Principessa, non perse nulla della scena e udì Lucrezia ordinare di aprire all'ospite le sue camere private. Giovanni si guardò subito intorno, alla ricerca d'un'ispirazione per intrufolarvisi. In quell'istante, amplificata da un megafono a tromba, risuonò la possente voce del Gran Maestro della Festa. In piedi sulla grande pedana eretta nel cortile Onorio Longhi, pomposamente abbigliato – un pò nello stile se con molti merletti, vivaci colori e mascherina dorata sugli occhi – avrebbe potuto competere con il pittore Federico Zuccari nella tenuta indossata all'inaugurazione dell'Accademia di San Luca. L'Architetto non poteva sapere della sciagura appena occorsa a Costanza né del trambusto che l'aveva seguita e dunque, sovrastando a fatica la musica e il brusio, proclamò: - I Signori invitati sono pregati di accomodarsi in galleria per
assistere allo spettacolo di prestigiatori e saltimbanchi!! Questo era l'avviso in codice alle truppe di occupare i posti di battaglia: la prima mossa chiave stava per essere effettuata, per invitare il ladro a entrare in azione. Con qualche difficoltà purtroppo non prevista dal Gran Maestro, ancora all'oscuro del trambusto scoppiato nelle stanze di Lucrezia. La musica tacque e i presenti si riversarono nella loggia, ma nel salone della Baronessa si scatenò un parapiglia: dovendo aggirare l'area disastrata dall'emotività di Angelica, gli ospiti che s'affrettavano all'uscita si scontravano fra loro e con i paggi che ancora stavano ripulendo il pavimento da vino e cocci. Alcuni di questi venivano perfino insultati malamente da dame rese isteriche dal timore di perdere i primi posti in galleria. In un angolo della sala un anziano prelato strillava saltellando, con un piede sanguinante per via d'una bicchiere di cristallo che, cadendo a terra già rotto dall'urto con un altro, gli aveva tagliato scarpa e alluce: la sciagura all'abito della Marchesa di Caravaggio ritardava purtroppo anche i soccorsi al ferito! In quella babele Giovanni si sentì perfettamente al sicuro e, fingendo di raccogliere cocci, si avvicinò gattonando alla stanza da letto nascosto dalle gambe degli ospiti. I due armigeri vi venivano trascinati dentro da Lucrezia, che li aveva apostrofati mentre accompagnava Costanza a rassettarsi: - E voi due… cosa state lì impalati? su... su, fate qualcosa no?... per esempio andate a prendere dell'acqua! - e con gesto padronale aveva loro indicato la direzione della sua stanza da bagno. Giovanni non perse l'attimo: si rialzò, abbrancò una caraffa vuota da un tavolino e seguì quei due attraverso lo spogliatoio della Baronessa, entrando insieme a loro nella stanza da bagno fiocamente illuminata da un candelabro. Nella penombra porse con noncuranza la caraffa a Caravaggio dicendo - vado a prenderne altre - e girò subito sui tacchi, anche perché ansioso di fare una… piccola verifica. Nello spogliatoio deserto, la luce discreta d'una lanterna di stile arabeggiante con lume al profumo di limone gli confermò di non essersi sbagliato: sul mobile
basso a specchiera c'era infatti un cofano di gioielli aperto, invitante e… ricolmo. Giovanni non fu insospettito da quell'esposizione, che avrebbe potuto tentare chiunque a servirsi: imputò quella folle imprudenza all'imprevisto che aveva costretto la Baronessa ad aprire le sue stanze private. Ma si sbagliava. - Perbacco! Con tutti quelli che si porta addosso quella grassona mi sarei aspettato di trovarlo vuoto! Alla faccia della miseria! - pensò invece buttandoci un occhio. Velocemente ne intascò una manciata a casaccio: non avrebbe fatto in tempo a estrarre la sacca di pelle che, attaccata dalla madre al suo collo con un robusto nastro, gli penzolava sul petto sotto la giubba da paggio. - Meglio attendere che spengano le luci, qui c'è ancora troppa gente! - pensò, avviandosi verso l'uscita dell'appartamento senza che nessuno gli badasse: non certo Angelica – alle prese con l'abito di Costanza – né Beatrice, illanguidita dalle carezze con Matteo. Giovanni toccò compiaciuto l'assaggio di bottino che gli pesava gradevolmente nei calzoni: quell'insperato contrattempo gli aveva permesso di prender visione delle postazioni nemiche prima della battaglia e cominciava a pregustare una facile vittoria. Nel salone si unì agli altri paggi per ramazzare e raccogliere i cocci rimasti, mentre dalla galleria giungevano gli applausi entusiastici di chi assisteva allo spettacolo. Ben presto anche Costanza Colonna e le dame che l'avevano confortata nell'immane calamità uscirono a godersi le ultime esibizioni di equilibristi e mangiatori di fuoco. La Cenci era agitatissima e continuava a manipolare la collana di perle i cui cinque giri le celavano sì le rughe del collo ma, con quel caldo, le procuravano una fastidiosa sudorazione. - Mia cara - le sussurrò all'orecchio la Principessa - mi spiace avervi dato tanto disturbo, ma ormai è tutto rimediato… sono cose che capitano e dunque, vi prego, non vi angosciate!
Lucrezia tentò di controllarsi mentre la ringraziava, ammirando distrattamente le capriole d'un acrobata, ma era ormai preda d'una eccitazione incontrollabile: Matteo era scomparso… segno che la trappola per il ladro stava per scattare. Infatti, Michele e Lorenzo avevano nel frattempo sistemato il paggio nell'armadio dello spogliatoio, lasciandogli una fessura dalla quale egli poteva osservare il cofanetto: a furto avvenuto, avrebbe dato l'allarme azionando il camlo del montacarichi. Amir lo avrebbe udito dal portello che stava nell'ammezzato, nel corridoio della servitù dove si era prontamente portato alle parole del Gran Maestro, e sarebbe tornato di corsa alla sua postazione per darne notizia alle guardie improvvisate con un colpo di gong. Un sistema di comunicazione che non poteva fallire! I due amici pittori erano poi usciti – per ultimi – dalle camere private di Lucrezia, riprendendo i loro posti nel salone ormai vuoto, a guardia dell'ingresso di quelle: un'occhiata al cofanetto dei gioielli aveva confermato loro che qualcuno – se non proprio Giovanni – ci aveva già messo le sgrinfie. Michele e Lorenzo s'erano guardati: ma… e quel paggio con la caraffa d'acqua… chi mai l'aveva autorizzato a entrare nel bagno privato della padrona? Ben nascosto dietro un pesante tendaggio, costui intanto li stava osservando. Per la verità avrebbe preferito restare all'interno della stanza da letto di Lucrezia, ma ne era stato dissuaso dalla difficoltà di trovarvi un buon nascondiglio sotto il naso delle dame indaffarate attorno a Costanza; e ancor più dal timore di non poterne poi uscire, una volta che i due armigeri avessero eventualmente ripreso posto ai lati della porta. Sapeva dalla madre che dopo lo spettacolo un colpo di gong avrebbe ordinato ai paggi di spegnere le luci nei saloni e nella galleria per consentire agli ospiti di meglio godersi i fuochi d'artificio; dunque, attendeva fiducioso quell'occasione favorevole per il furto. Poco dopo Amir assordò i convenuti percuotendo il disco di bronzo con grande vigore. Gli invitati non fecero in tempo a riprendersi dallo stordimento che, mentre l'attenuarsi della nota lasciava il campo al crescente brusio, una ad una le luci si spensero.
Questo fatto inaspettato seminò dapprima sorpresa e anche qualche ansietà, ma almeno pose fine ai commenti poco benevoli all'indirizzo di quell'assordante aggeggio. La voce del Gran Maestro tuonò ancora attraverso il megafono: - Seguiranno ora i fuochi d'artificio! Per la loro incolumità i signori invitati sono pregati di allontanarsi dal bordo della loggia! I saloni, la galleria e le scale erano ormai al buio quando anche le torce nel cortile vennero spente, ad eccezione di quelle nell'androne delle guardie. Alla debole luce di queste, gli spettatori scorsero alcune figure spostare in fretta il palco e trascinare al suo posto, nel centro del cortile, alcuni carretti dotati di ruote. Le figure degli addetti si muovevano dall'uno all'altro di essi finché si accese una piccola torcia, che un uomo avvicinò a una serie di strani tubi legati a corti paletti di metallo e montati su uno dei carri.
Il rosso bagliore del primo petardo giunse fino alle stanze di Lucrezia ma non agli occhi di Giovanni protetti dal tendaggio, sì che lui sobbalzò al botto che seguì. Subito altri lampi e altre detonazioni: i colori dei razzi cambiavano continuamente, per la gioia dei molti bambini che sulla piazza antistante il palazzo avevano atteso fiduciosi fino a notte fonda e ora ne osservavano i riflessi sulle basse nubi che arrivavano dal mare. Ogni razzo era seguito dalle loro esclamazioni di stupore. Dalla grande apertura nel tetto uscivano lampi e fumo colorato: ai popolani accalcati all'esterno, il palazzo pareva un piccolo vulcano in eruzione. Il ritorno del buio, che giunse quando i razzi del primo carretto furono esauriti, permise a Giovanni di scostare un pò la tenda per dare un'altra occhiata alle due guardie. Alla scarsa luce delle fiammelle anti-zanzare non vide nessuno.
Attese qualche istante e guardò nuovamente: degli armigeri non c'era più traccia. Stupito, non si lasciò tuttavia trascinare da un facile entusiasmo e attese immobile, attento a tutti i rumori nelle pause tra i botti che erano ripresi. Quei due parevano letteralmente spariti. - Saranno andati a vedersi i fuochi d'artificio pure loro! - pensò mentre attendeva una serie di detonazioni per potersi finalmente muovere. Si sporse dalla tenda quel tanto che bastava per assicurarsi, al lampo verde d'un razzo, che il grande salone fosse del tutto vuoto: dal portale spalancato poteva invece intravvedere, fra le arcate della loggia, la nera massa ondeggiante degli spettatori accalcati. Si lanciò allora verso la camera da letto di Lucrezia dove entrò senza difficoltà correndo per attraversarla, guidato dalla tremula luce del cero al limone che ardeva in spogliatoio. Quando giunse di fronte al bersaglio la sacca di pelle già pendeva dalle sue mani, aperta come le fauci d'un lupo famelico. Matteo, nascosto nell'armadio, osservava attentamente. In un baleno Giovanni svuotò il cofanetto e il sacchetto scomparve sotto la livrea da paggio. Il ladro ebbe un attimo di esitazione: e se all'uscita avesse trovato le guardie? Gli sembrava che fosse stato tutto troppo, troppo facile… e la schiena dell'uomo venne percorsa da un brivido gelato: che gli avessero teso una trappola per pescarlo con la refurtiva? No!... avrebbero dovuto conoscere i suoi piani e, dunque, scartò quell'ipotesi: almeno di sua madre poteva fidarsi. Fuori in cortile i botti si succedevano incessanti. Il ladro oltreò correndo l'uscio della camera da letto, che aveva lasciato spalancato entrandovi. Non c'era nessuno a fermarlo, ma ciò malgrado non perse tempo a guardarsi intorno e in pochi salti attraversò il salone, raggiungendo il maestoso portale che
dava sulla galleria. Si nascose ancora dietro la tenda per riposarsi, più per via della tensione che della breve corsa: stranamente, le stanze della Baronessa erano semibuie, vuote e del tutto incustodite. Provò a mettere il naso nel loggione: dopo due brevi scoppi di petardi luminosi un secondo colpo di gong risuonò sinistramente: preoccupato, il ladro riguadagnò d'un balzo il riparo della tenda. I presenti questa volta si irritarono sul serio, pensando a uno scherzo di cattivo gusto. Le grida di protesta furono robuste, ma si placarono quando gli addetti ai razzi sospesero le operazioni a un gesto perentorio del Longhi: come sorti dal nulla, accanto al Gran Maestro erano comparsi due soldati armati di alabarde. Nel palazzo calò il silenzio. Sulla piazza, tra la folla di pezzenti venivano scambiati sguardi interrogativi e si facevano previsioni sul seguito: a qualcuno pareva d'aver scorto strani movimenti sul tetto del palazzo. Il secondo colpo di gong non aveva sorpreso Giovanni meno degli invitati: Questa poi!... proprio non mi era stata preannunciata... e adesso che succede? La madre non gliene aveva parlato semplicemente perché non ne era al corrente. Infatti – oltre a Onorio, Michele e Lorenzo – solo Matteo e Amir sapevano che quello sarebbe stato il segnale di furto effettuato e, dunque, d'inizio della caccia al ladro. Alle orecchie di Giovanni giunse la voce amplificata del Gran Maestro della Festa: - I Signori invitati sono pregati di mantenere la calma!... Un brusio di preoccupazione percorse la galleria. - ... sta per iniziare un gioco straordinario che la munificenza del Signor Barone sco Cenci ha reso possibile per il sollazzo dei suoi ospiti! - continuò Onorio.
Il brusio si trasformò in applauso, mentre il cortile veniva illuminato da un gran numero di torce. Giovanni, rinfrancato, si affacciò nuovamente sul corridoio. - Per la sicurezza di lor signori, tutte le uscite del palazzo sono state chiuse di modo che nessuno potrà uscire né entrare durante il gioco -. Questa volta, le parole del Longhi suscitarono un più forte brusio di preoccupazione. Giovanni mosse alcuni i verso la folla degli spettatori: l'attenzione di tutti era rivolta al cortile e la galleria era ancora nella penombra. - Infatti, mi duole informarvi che sono appena stati rubati tutti i gioielli della Baronessa Lucrezia! - proclamò il Gran Maestro con voce accorata. Mentre in galleria il brusio diventava un confuso vociare di riprovazione Giovanni, spaurito, guizzò nuovamente nel suo rifugio dietro la tenda. Si chiese come diavolo avessero potuto scoprire il furto, non avendo visto anima viva entrare nelle stanze padronali dopo che lui ne era uscito con la refurtiva. E la sua mente ripercorse in un lampo gli ultimi avvenimenti: la scomparsa delle guardie, le porte di Lucrezia lasciate aperte… con i preziosi in bella vista! Riesaminò l'eventualità d'una trappola e cominciò a sudare copiosamente, malgrado restasse immobile nel buio. In quella si alzò – seppure con qualche ritardo – l'acutissimo grido della Baronessa Cenci, che dopo qualche esitazione non aveva resistito a pubblicamente esibirsi nei panni di prima donna. Con consumata perizia Lucrezia finse poi di cadere svenuta, ma ebbe l'accortezza di finire tra le braccia di Costanza. Lei la guardò con commiserazione, arieggiandola con un prezioso ventaglio cinese: - Una volta per una, mia cara - pensò - questa è toccata a te... ma non mi pare il caso di svenire, se davvero si tratta d'un gioco! Poi, con le altre dame del suo seguito, fece accomodare Lucrezia su un divanetto di legno dorato rivestito di velluto blu, mentre già un paggio accorreva con brocca e bicchiere. Fra le altre donne sfaccendate quel mancamento bastò a provocare un'ondata di
panico: alcune di loro s'affrettarono verso l'angolo dove la Baronessa giaceva: La padrona di casa s'è sentita male… ma che gioco stupido, dico io!! ... Tra gli ospiti serpeggiava il dubbio: - Ma che gioco e gioco!… Questo è tutto vero vi dico... altrimenti perché mai Madonna Lucrezia avrebbe dovuto sentirsi male? - diceva qualcuno più smaliziato degli altri, o forse semplicemente più sobrio. - Signori, vi prego, mantenete la calma… si tratta di un gioco… vi ripeto: non avete nulla da temere! - tuonò ancora Onorio - Il ladro verrà presto catturato con la refurtiva. Ma intanto pensava, preoccupato - Poteva proprio risparmiarselo quella là... sempre per la smania di strafare di certi ricchi... evidentemente lo svenimento simulato di ieri era soltanto una prova! Il brillante Architetto non poteva certo sapere che il gesto melodrammatico di Lucrezia, se da un lato aveva insospettito molti invitati e quasi seminato il panico, dall'altro però aggiungeva quel tocco di veridicità indispensabile a dissipare i timori di Giovanni. Il Longhi proseguì: - Per il divertimento degli illustri ospiti del Signor Barone daremo ora inizio a una vera caccia al ladro, alla quale tutti voi avrete il privilegio di assistere… ma prima ci sarà un'altra sorpresa che definirei… illuminante! - e fece un cenno alle due guardie che gli stavano a fianco. Fra i sussurri di curiosità degli invitati, Michele e Lorenzo si avvicinarono alle funi che – prima della festa – essi stessi avevano legato a una colonna, in un angolo del cortile. Sciolsero i lacci e cominciarono a srotolarle: dall'alto, nel silenzio carico di tensione, rispose il cigolio di una carrucola e alcune fiaccole vennero accese sul bordo del tetto. Fu allora che i presenti s'avvidero di un lungo braccio di legno che calava un misterioso carico rettangolare appeso a una robusta fune: il braccio poteva ruotare intorno a un asse verticale in modo da garantirne l'atterraggio al centro del cortile. Tutto avveniva con lentezza esasperante. Nessuno ancora era riuscito a capire di che si trattasse, quando si fece riudire la voce del Longhi: - Ora tutti i paggi si adunino in fila nella loggia - ordinò - per ricevere le disposizioni del gioco di
guardie e ladri! - Ah! Bene... non mi ero sbagliato, allora è proprio un gioco! - pensò con sollievo Giovanni a quelle parole - Quando mai si sono viste vere guardie prendersela così comoda nel dare la caccia a un ladro vero? Era dallo svenimento della Baronessa che il giovane dibatteva la questione nel buio del suo nascondiglio: se Madama era svenuta era perché non se lo aspettava, ovviamente. In uno slancio d'ottimismo, aveva usato quell'appellativo poco rispettoso che la madre affibbiava alla padrona quando non ce l'aveva con lei al punto da usarne di più volgari. - D'accordo - pensava tuttavia il ladro - ma vorrei proprio sapere perché quel trombone di Gran Maestro si ostini a parlare d'un gioco se il furto invece è stato reale… mah! Evidentemente lui non ne è ancora al corrente, o forse... per un caso che avrebbe dell'incredibile, aveva organizzato per burla lo stesso furto che... io ho effettuato per davvero! Toccò soddisfatto la borsa, al pensiero che se il gioco avesse previsto un finto ladro ci sarebbero rimasti tutti con un palmo di naso, a partire dal Gran Maestro... che il diavolo se lo porti! Il contatto con il sacchetto ricolmo ebbe l'effetto di eliminare quello spiacevole prurito alla nuca che provava pensando a quanto poco probabile fosse una così incredibile coincidenza. - Strano però che nessuno se ne sia accorto… bah! - concluse - quel che sarà sarà… mia madre di certo non ne avrà parlato! Ora i gioielli li tengo io e... pensiamo a uscire di qui. Si sfilò da dietro la tenda con la silenziosità d'una piuma sfuggita da un cuscino. Ancora una volta i saloni erano vuoti come le navate d'una chiesa la notte di carnevale. Non poteva resistere alla tentazione di vedere la sua vittima lunga tirata e priva di sensi: la maschera gli dava sicurezza e si sentiva temerario. Decise di unirsi agli altri paggi seguendo le istruzioni del Gran Maestro: era troppo curioso di vedere – a questo punto – chi sarebbe stato il falso ladro in
quel gioco idiota per ricchi annoiati. -E poi - pensò - se mi confondo con gli altri mi sarà più facile sfruttare il momento propizio per filarmela... di più che se sto qui dentro ad aspettare che m'intrappolino... tanto, mica possono sapere che sono travestito da paggio! A meno che... anche il loro ladro finto lo dovesse essere… no, no, andiamo, tutto ciò non ha senso! Facendo spallucce, uscì tranquillamente nel loggione. La luce che arrivava dalla corte interna gli permise di vedere, alla confluenza con lo scalone, il movimento degli ospiti per far posto al gruppo dei paggi che si andava formando di fronte al parapetto che dava sul cortile. Si unì a quelli che ancora arrivavano, non senza lanciare un'avida occhiata all'invitante esposizione di scollature e di gemme sfoggiate dalle dame fra le quali si facevano largo. Tutto era filato così liscio… quasi quasi prima di tagliare la corda avrebbe potuto cercare di arricchire ancora il bottino… approfittando della confusione. Si guardò intorno in cerca di Madama: quello era certamente il punto focale per la concentrazione di preziosi. In quel preciso istante, il cortile s'illuminò a giorno e Giovanni istintivamente si volse per correre un'altra volta all'ospitale tenda: ma ormai ne era lontano e sarebbe stato notato. Dal tetto pioveva una sorta di coriandoli luminosi, come una splendente cascata d'un bianco accecante che scendeva fino a terra in uno sfolgorio di scintille: quei popolani nella piazza avevano visto bene. Ci fu un'esclamazione corale di stupore per un tale prodigio e improvvisamente il quadro abbozzato de I Bari apparve agli occhi di tutti, montato su un telaio sospeso a mezz'aria nel centro del cortile: il volto del paggio raggirato era solo abbozzato e irriconoscibile, ma la figura di Giovanni era invece parlante. Gli astanti s'ammutolirono per la meraviglia. La Principessa Costanza sentì il cuore balzarle in petto: - Ma questa è opera sua! -pensò con emozione riconoscendo l'arte di Michele - Ma allora
quell'armigero… allora lui... lui è qui!... Non mi ero sbagliata! Unica fra i presenti, si sporse sconvenientemente dal loggione puntando gli occhi sulle due guardie anziché sul dipinto, dopo essersi assicurata che il Cardinale Federico non fosse nelle immediate vicinanze: purtroppo gli armigeri portavano l'elmo... ma uno di loro… sì, avrebbe forse potuto essere lui... e anche quell'altro aveva un aspetto stranamente familiare… visto così in piena luce. Confuso tra gli ospiti del Cenci, un personaggio agghindato con presuntuosa ricercatezza cercò gli occhi d'un altro invitato a pochi i da lui, con il quale scambiò uno sguardo più d'intesa preoccupata che di stupore o ammirazione, come sarebbe stato naturale di fronte a quella meraviglia. Poi, circospetti, si guardarono entrambi d'intorno come a cercare qualcuno tra la folla. Avevano riconosciuto all'istante la mano di chi aveva dipinto la Canestra di Frutti: la stessa del Ragazzo morso da un Ramarro, del Fanciullo con cesta di Frutti e del Bacchino malato. Era quel lombardo dal pessimo carattere che aveva lavorato qualche mese nella loro bottega e del quale avevano prudentemente accaparrato alcuni lavori. Peccato che l'eliminazione da loro commissionata di quel gioiello di Canestra fosse fallita, visto che mediatore e esecutore erano scomparsi nel nulla… I due fratelli Cesari avevano, insomma, la coscienza assai sporca. Ma Caravaggio lì intorno proprio non lo vedevano e questo li tranquillizzò. Senza dir parola si ripararono dietro a un pilastro non lontano dallo scalone per discutere a bassa voce il modo di lasciare la festa senza farsi notare.
In cortile Michele e Lorenzo, irriconoscibili sotto gli elmi, ora manovravano le funi per fare ruotare il quadro affinché tutti lo potessero osservare. Alla vista del quadro poco mancò che gli occhi di Giovanni uscissero dalla maschera per lo stupore: il giovane rimase paralizzato, a bocca aperta. - Ma… e cosa c'entro io in tutto questo? - si domandò guardando il proprio ritratto che oscillava lievemente a pochi metri dal suo naso - e… chi mai mi avrà dipinto? E quando? E dove? ... e perché mai, accidentaccio?
Sconvolto, udì con raccapriccio le parole di Onorio: - Signore e Signori, ho il piacere di presentarvi il ladro, a riprova del fatto che si tratta di un gioco! Egli si trova qui tra noi! Ora i paggi si tolgano la maschera e si dia inizio alla caccia!
26. Una nicchia molto ospitale ma... sovraffollata
- Quello sono io in carne e ossa! Ma che gioco e caccia, dannazione a te! - pensò Giovanni, troppo sorpreso e confuso per cogliere il drammatico avvertimento in quell'ultima parola pronunciata dal Gran Maestro. Continuava a fissare la tela come ipnotizzato: - Forse - pensava - quel tale... alla Locanda del Vescovo, il giorno di quel giovanissimo bamboccio... sì, sì, accidenti a lui... doveva essere un pittore... ma che sfortuna dannatissima però!... infatti... si... stava tracciando dei segni su una tav... Una gomitata del paggio accanto a lui lo richiamò alla realtà. Si volse verso il collega... e ne vide il volto privo di maschera ma totalmente nero di pece! Come ipnotizzato dal quadro, Giovanni non soltanto aveva prestato scarsa attenzione all'annuncio del Gran Maestro, ma s'era anche perso il rapido movimento dei colleghi allineati al suo fianco. Nella luce abbagliante s'avvide di avere centinaia di occhi puntati addosso e che tutti i suoi colleghi di una sera avevano il volto dipinto di nero. Il ladro si sentì perduto: era rimasto l'unico paggio con la maschera e il vicino gli stava facendo segno di cavarsela. Manco a dirlo quella della pece era stata un'altra idea di Caravaggio, avendo in qualche modo... attinenza con la pittura: comunque fossero andate le cose, quello sarebbe stato il modo migliore per individuare Giovanni tra i suoi colleghi. Infatti il Signor Duca si guardava attorno disperato: tutti gli altri mostravano il viso dipinto di nero e lui rabbrividì per la certezza d'esser caduto in una trappola. In cortile, le due guardie si tolsero l'elmo gettandolo a terra con fracasso di ferraglie e corsero verso le scale gridando: - Nessuno lo tocchi! Lasciatelo a noi! Una di loro zoppicava visibilmente sì che dal loggione Costanza riconobbe subito Michele e... ringiovanì d'improvviso, sentendosi emozionata in un modo dimenticato: non lo diede a vedere, ma rimpianse di non essere una popolana per poterlo abbracciare senza badare al protocollo.
sco Cenci invidiava i due falsi armigeri: avrebbe dato un occhio per aver potuto essere lui a pronunciare quelle parole! Il dovere di ospitalità gli impediva di dedicarsi alle sue cortigiane preferite e... si stava proprio annoiando a morte! Tuttavia, vista l'attenta partecipazione degli altri ospiti, seguiva soddisfatto la scena dall'altro capo della galleria rispetto alla posizione dei paggi, che si trovavano nei pressi dello scalone d'onore. Fino a quel momento, il gruppetto di nobili e alti prelati intimi del Cenci era un pò indispettito dal prolungarsi dello spettacolo, per il motivo più sopra menzionato cui si dedicavano ad ogni ricevimento con piena soddisfazione. Ma, alla vista del quadro, anche il più annoiato e insensibile tra loro aguzzò gli occhi: nessuno mai aveva visto una meraviglia come quella. Gli amici del Barone ne rimasero come ipnotizzati pure loro. Vennero distratti dal pandemonio che si scatenò sul loggione quando Giovanni, con uno scatto bruciante, travolse un discreto numero di ospiti per farsi largo fino alla scala tra grida di al ladro! al ladro! prendetelo... è andato da quella parte! Imboccò correndo le rampe che portavano al piano superiore: l'appuntamento con la madre era in un luogo angusto e sconosciuto ai più ma... in quel momento affollatissimo all'insaputa di tutti.
Gertrude – nulla sapendo dei piani del Gran Maestro – aveva concordato con il figlio che durante i giochi pirotecnici sarebbe andata ad attenderlo nella nicchia accanto alla statua romana, al secondo piano del palazzo. Quella zona, infatti, doveva venir frequentata soltanto all'arrivo degli ospiti per depositarvi i loro indumenti superflui e nel pieno della festa sarebbe dunque dovuta essere deserta. La donna sapeva che la nicchia nascondeva un aggio segreto ai sotterranei che avrebbe permesso a Giovanni di sbucare all'aperto, fra le rovine dell'antica rocca. L'aveva scoperto durante una delle sue esplorazioni notturne che ovviamente non risparmiavano neppure il padrone.
Una volta lo aveva sorpreso uscire a notte fonda dalle stanze di Beatrice e dirigersi alla statua abbassandone quel braccio sollevato in un antico gesto di saluto. Al cigolio che ne era seguito, il Cenci aveva staccato una torcia dal muro, scostato l'arazzo ed era sparito nell'apertura, dalla quale subito l'aveva raggiunta un forte spiffero d'aria fresca e odorosa di muffa, facendola rabbrividire. Dato per scontato che un'uscita della galleria fosse nella camera del padrone, dalla quale era meglio stare comunque alla larga se non per ragioni di servizio, la donna aveva dovuto faticare non poco per abbozzare la topografia delle segrete. Finché per caso, frugando in camera di Amir – un piccolo locale sopra le stalle – una sera in cui questi era guardia del corpo per un'impresa nefanda del Cenci, aveva sollevato prima il coperchio d'una cassapanca sgangherata e poi, sotto uno strato di stracci, un pannello di legno che nascondeva alcuni gradini sprofondanti nel buio e nell'umidità. Alla prima assenza da Roma di sco – e del fedele Amir – s'era munita di torcia per esplorare i sotterranei, rinvenendo con raccapriccio i resti di alcune vittime dell'efferato Barone e scoprendo il meccanismo che azionava dall'interno la rotazione della nicchia per consentire l'accesso al secondo piano del palazzo.
La sera della festa, al primo suono del gong Gertrude si era avviata guardinga alla stanza di Amir: lo schiavo nubiano era uno dei poli di attrazione per gli ospiti del padrone e dunque non l'avrebbe disturbata. Sollevato il fondo del baule, la perfida donna s'immerse nei sotterranei. Munita di lanterna, percorse i cunicoli fino all'uscita al secondo piano mentre fuori continuavano i botti e ora, avvolta in uno scialle per proteggersi dall'umidità, stava seduta sull'ultimo gradino con la schiena appoggiata alla sottile parete di fondo della nicchia. Ma dopo qualche tempo, non sentendo arrivare il figlio, cominciò a preoccuparsi. Lanciava ogni tanto un'occhiata alla lanterna nel timore che il suo olio si esaurisse anzi tempo e tendeva le orecchie nel caso lui avesse difficoltà con il
meccanismo d'apertura. Durante un breve intervallo delle detonazioni le parve d'udire come un mormorio e un leggero fruscio provenienti dall'esterno, al di là della sottile parete di gesso che la separava dalla galleria al secondo piano. Non ci fece caso. Ma poi i fruscii si fecero più insistenti e la sua agitazione aumentò: che Giovanni stesse avendo difficoltà ad aprire? Eppure no... non era possibile: bastava abbassare il braccio della statua... glielo aveva spiegato più volte! La ripresa dei botti la lasciò nell'angoscia. A un tratto durante una pausa di silenzio le parve di udire due voci, là fuori, ma subito i petardi ripresero vigore. L'agitazione della governante sfiorava ormai l'isteria, anche perché il tempo ava senza che il figlio desse segno di sé. All'intervallo successivo Gertrude era pronta, l'orecchio appoggiato contro il fondo della nicchia: nitidissimi, giunsero alle sue orecchie... gemiti femminili non proprio di dolore. Dunque, là dietro c'era qualcuno che stava... oh! che spudorata! Date le circostanze, dovette a malincuore scartare l'ipotesi – per lei lusinghiera – che il figlio potesse ingannare l'attesa con una qualche dama annoiata o con una servetta affascinata dallo scintillio dei suoi occhi sotto la maschera. Dopo altre detonazioni le fu possibile riprendere l'ascolto e, tra le incomprensibili parole urlate al megafono, la governante poté decifrare altre parole: - No... no, lasciami - supplicava lei - non possiamo qui, adesso!... attento all'acconciatura!! - la piattaforma di pietra su cui Gertrude sedeva tremolava sensibilmente. Quando tornò il silenzio udì ancora le parole della donna: - Si... mi fai impazzire, si... prendimi adesso... se non lo facciamo ora... quando mai potremo? Gertrude era turbata e incuriosita: chi diavolo c'era nella nicchia? Chi era la femmina che poco prima le era parso dicesse - aspetta... tu alzami la gonna... che ti aiuto io - ? La lurida serpe si sorprese a immaginare cosa quella intendesse dire. Non ne aveva idea, dato che i suoi minimalistici ricordi, avvolti dalle spesse ragnatele di decenni, non le pareva comprendessero alcuna iniziativa erotica da
parte della femmina. Ancora botti... poi un'altra lunga pausa. - Che faranno? - si chiese e cercò d'immaginarlo. Malgrado la criticità del momento, per la prima volta in vita sua Gertrude non resse alla tentazione di un gesto d'autoerotismo: - Mio dio perdonami... ma saranno... più di trent'anni che non... Riudì la voce della ragazza: - Ecco adesso sollevami... non cosiiì, sciocchino!... non dalle ascelle... mi smonti il corpetto... devi alzarmi da sotto... ecco, tieni sollevata la gonna... e bada a non sgualcirla!.. ecco sì... metti le mani lì e sollevami... baciami, baciami... sì... sul collo... dammi mille baci!... Ma bada a non stropicciarmi l'abito... e voglio che tu continui a baciarmi!... Dammi mille baci... Da mi basia mille... così... ohh siiiii!! - Ma in cortile ripresero le esplosioni con disappunto di Gertrude, più che mai incuriosita dall'identità di quella donna misteriosa e apionata. Aveva capito bene? Quelle parole... dammi mille baci... lei le aveva ripetute in un altro modo... forse in latino? Era stato come un sospiro - basia mille... si... da mi basia mille!! - e doveva proprio essere latino, da quel poco che sentiva in chiesa. Ma fra gli inquilini del palazzo (nessun estraneo avrebbe potuto sapere della nicchia!) il latino lo sapeva solo lei... la piccola strega... Beatrice! E quel voglio che tu continui a baciarmi! era un... ordine pronunciato tra spasimi d'amore! Era proprio lei, quella puttana di Beatrice! Quel nome ebbe il potere d'interrompere istantaneamente la sua deludente marcia d'avvicinamento all'estasi erotica: - Ah! brutta stronzetta bagascia che non sei altro... ti ho pescato eh? Te la fai con qualche servo, vero? Lurida troia... aspetta che arrivi mio figlio e vi prenderemo tutti e due, te e il tuo amante! La perfida aveva subito pensato che avrebbe potuto consegnarla al Cenci in cambio d'un salvacondotto per sé e per il figlio... se le cose si fossero messe male. I fuochi d'artificio tacevano nuovamente e Gertrude tornò attenta: - ... ecco, ora devi lasciarmi scendere... ti guido io... così... sii!... adesso sollevami... ti piace?... dimmi che mi ami... che mi adori... dimmi... che sei tutto mio... che sarai solo mio per sempre!... Giuramelo!... Ecco... adesso lasciami andare... ooh!... siì... chiedimi se sono solo tua... te lo ordino!... ripeti dopo di me... sei tutta mia? ...
sii! ... siiii... amore, si... sono tutta tua... chiedimelo ancora!... e ancora! ... si... sì sono soltanto tua... non c'è nessun altro, te lo giuro... ti giuro che vorrei tanto essere... soltanto tua!!... oooh! Mioddio, ti ringrazio!! ... siii... amore!... siiiiii! Un frastuono assordante protesse gli spasimi dei due innamorati mentre Gertrude rinunciava a esplorare freneticamente le fessure tra gli spessi muri e il fondo della nicchia nella speranza di veder qualcosa: buio pesto, nulla da fare. Poi i botti cessarono e un secondo colpo di gong giunse nitidissimo alle sue orecchie. - E questo che vuol dire? - si domandò preoccupata, tornando bruscamente ai suoi guai - nessuno me ne ha parlato... - Provò una spiacevole stretta alla bocca dello stomaco. Appoggiò il dorso alla parete della nicchia prestando orecchio ai pochi suoni decifrabili che le pervenivano dal palazzo: a stento poté percepire la voce del Gran Maestro senza essere in grado di decifrarne le parole. La piattaforma era immobile, ma lei era certa che oltre il muro ci fosse ancora qualcuno. Doveva prendere subito una decisione: Giovanni sarebbe potuto arrivare da un momento all'altro e se si fosse trovata la nicchia ingombra avrebbe perso istanti preziosi, che sarebbero potuti essere fatali a entrambi. Estrasse un corto stiletto che aveva legato alla gamba: di chiunque si trattasse, chi occupava la nicchia andava subito trasportato nei sotterranei. Con gesto sicuro spostò la leva che azionava il meccanismo di apertura: la piattaforma cigolò, la parete della nicchia ruotò lentamente sui cardini e... la lurida serpe si trovò davanti Beatrice, braccia e gambe avvinghiate a Matteo! I due ragazzi, contravvenendo lui alle istruzioni di Lucrezia – che attendeva ansiosamente le ultime notizie in diretta – e lei a quelle del buon senso, avevano programmato di approfittare dell'oscurità e dei botti per incontrarsi nella nicchia, non appena Matteo avesse adempiuto l'incarico di avvisare Amir. Corsa a infilarsi sotto l'arazzo allo spegnimento dei lumi, Beatrice aveva atteso nascosta l'arrivo del compagno: escludendo le soffitte occupate per l'occasione
da carpentieri e artificieri era, quello, l'unico luogo del palazzo nel quale avrebbero potuto amoreggiare senza troppo timore di venire scoperti. Dopotutto aveva già egregiamente funzionato una volta... e in assenza di tutto quel pandemonio!
Giovanni era stato favorito nella fuga dallo scomposto accentrarsi di paggi e spettatori sul luogo della sua presentazione quale oggetto della caccia: i primi – rigorosamente esclusi dal gioco – ingombravano il aggio verso lo scalone, scontrandosi con i secondi che premevano per seguire invece il fuggitivo. E tutti insieme creavano un'enorme confusione. Una grassa nobildonna pavesata come il Re Sole strillava istericamente: - È andato di sopra!! - indicando le scale. Poi s'appoggiò pesantemente al braccio d'un vecchio prelato belando: - Oddio... che emozione! - prima di svenire travolgendolo e avvoltolandolo nel suo strascico. Nel vociare confuso, a tratti emergeva la voce del Gran Maestro che invitava alla calma e a lasciar are le guardie. Lorenzo e Michele -questi seguiva per via della gamba dolorante- dovettero farsi largo con difficoltà per affrontare la seconda rampa dello scalone. Una volta al secondo piano, Giovanni rovesciò un grosso vaso di pietra che rotolò sui gradini fracassandosi con grande rumore: i pezzi più grandi finirono tra i piedi dei due inseguitori, colpendo Lorenzo alla caviglia e facendolo cadere addosso all'amico. Nella fretta di rialzarsi, Caravaggio perse l'equilibrio e rotolò sui gradini trascinando il compagno: un pò ammaccati, tornarono fin quasi all'inizio della rampa, dove si fermarono consentendo al pittore di riscontrare che l'ancora recente ferita gli doleva assai, ma la gamba era tutt'intera. Da qualche gradino più in alto di loro una maschera da paggio, confusa tra i cocci del vaso infranto, pareva osservarli beffardamente. I due amici persero così momenti preziosi e il ladro ne approfittò per introdursi non visto nella nicchia... quasi inciampandosi nel corpo di Beatrice, svenuta per lo spavento alla vista di Gertrude.
Matteo, invece, lottava per disarmare la donna che, accecata dall'odio, s'era avventata su di lui: Giovanni estrasse dal corpetto la borsa con i gioielli e tramortì il paggio con un colpo ben assestato, mentre lei si gettava sulla leva per azionare la rotazione. Sospinto con i piedi il corpo di Matteo sul pavimento tra il corridoio e la statua, il baro trascinò in fretta Beatrice nel cunicolo: le sue vesti erano alquanto sossopra e un lembo della gonna rimase impigliato nella nicchia girevole sì che, quando essa si richiuse, Giovanni dovette strapparla per poter proseguire la fuga. Pochi istanti dopo, agli occhi dei due pittori che finalmente sopraggiunsero, la penombra rivelò un corridoio apparentemente privo di vita. Mentre si guardavano intorno non sapendo dove dirigersi, arrivarono Amir e alcuni ospiti accompagnati da paggi muniti di torce. Alla luce di queste Lorenzo s'avvide che l'arazzo oscillava lievemente: zoppicando si avviò verso la statua e dietro di essa scoprì Matteo a terra, privo di sensi e con la nuca sanguinante. A quella vista Amir diede in escandescenze e, lanciando grida gutturali, prese per la giacca Michele con una mano e Lorenzo con l'altra sollevandoli da terra come fossero fuscelli. Le due guardie improvvisate scalciavano inutilmente, così come inutilmente tentavano di spiegargli che non avevano colpe. La scena era assolutamente comica... ma nessuno rideva. Finalmente sopraggiunse il Cenci con Onorio Longhi e alcuni nobiluomini. Liberati dalla ferrea morsa delle mani di Amir – che s'arretrò di qualche o grugnendo all'ordine del suo padrone – i due amici si occuparono di Matteo. Fu chinandosi a sollevargli il capo che Lorenzo s'accorse d'un refolo d'aria fresca proveniente da sotto l'arazzo. Lo sollevò: pizzicato tra il muro e il fondo concavo del vano, un lembo di preziosa seta azzurra fluttuava leggero nella penombra. Fece un cenno a Caravaggio che si chinò accanto a lui: - Temo che il ladro abbia rapito Beatrice!... Quello mi pare un pezzo del suo abito! - gli disse a bassa voce. L'amico aveva pure lui notato la bellezza di lei in quel vestito color del cielo. Si volsero entrambi a guardare il fondo della nicchia... poi si scambiarono un
cenno d'intesa e portarono un dito alle labbra in segno di silenzio: sarebbe stato difficile far are la cosa come parte d'un gioco... Lorenzo riuscì con abilità a liberare il brandello di stoffa e lo intascò, poi con Michele distesero finalmente Matteo sul divano in cima alla scala, sotto il finestrone che dava sul cortile: Amir lo spalancò, mentre tentava di respingere l'incredibile calca degli invitati curiosi provenienti dai piani inferiori. Il ragazzo non dava ancora segno di riprendersi. In un angolo, Onorio stava parlottando con il Cenci che lo aveva preso da parte. Il Barone tentava con difficoltà di nascondere il disappunto: qualcuno – oltre a Matteo, ma con lui poteva sistemare le cose... – aveva scoperto il suo aggio segreto e lui avrebbe voluto sospendere la caccia per non doverlo rivelare a mezza Roma. Questo al Longhi non poteva dirlo e, dunque, accampava ragioni che non reggevano. Era molto adirato per come si erano messe le cose: e pensare che aveva tanto curato la riservatezza, quando gli avevano risistemato i cunicoli dell'antica rocca collegandoli con il moderno palazzo. Al punto che Amir, non molto tempo prima, aveva ripulito le segrete dalle ossa di quei tre sventurati operai che avevano lavorato uno alla volta alle tre uscite e che il Cenci di persona aveva accoppato per assicurarsene la riservatezza. - Già, Amir... lui solo è al corrente di questo segreto - aveva subito pensato sco alla vista di Matteo esanime accanto alla nicchia - di lui solo posso fidarmi... manco a Gertrude l'avevo detto... dopotutto è pur sempre una donna e avrebbe potuto spifferare. Invece Amir non lo avrebbe mai fatto... ne era assolutamente certo. Anche perché Amir era privo di parola: questa era stata la seconda ragione – dopo la forza – per cui sco lo aveva preso al suo servizio, non dovendo temere che potesse spifferare in giro le sue malefatte. Onorio tentò di convincere il Barone: - Mica possiamo rovinare il grande successo della vostra festa, Messer Cenci... la caccia al ladro deve giungere a conclusione! sco ebbe un'idea, una brillante soluzione al problema di comunque impedire agli estranei di conoscere quel suo segreto: - D'accordo... avete ragione, ma da questo momento se ne occuperà Amir! - disse, pensando che il servo
sarebbe potuto entrare nei sotterranei dall'ingresso della sua stanza, risparmiandogli la rivelazione pubblica del meccanismo della nicchia. Senza attendere la replica del Longhi, si volse chiamando il gigantesco nubiano. Ma Amir era sparito. Il Cenci s'irritò violentemente, lo insultò, lo minacciò di morte, chiamò altre guardie incaricandole di cercarlo, se la prese con un prelato mingherlino – che disse di averlo visto scendere di corsa le scale – perché non lo aveva fermato: costui aprì sconsolato le braccia alzando gli occhi al cielo, quasi volesse girare al padreterno le scurrili proteste del Barone per la sua congenita fragilità. Tutto inutile: del fedelissimo servo di colore non c'era più traccia... Poi sco tacque d'un tratto: aveva capito dove quello si fosse diretto... esattamente dove lo avrebbe mandato lui... in camera sua, per entrare nelle secrete attraverso il vecchio baule! Ma questo sco non poteva renderlo pubblico: era vittima delle proprie malefatte. Intorno a lui s'era fatto un silenzio imbarazzato. Tutti i presenti lo guardavano, chiedendosi se per caso il bel gioco non fosse scappato di mano a qualcuno... e il Cenci taceva, rabbuiato. Lorenzo e Michele fremevano, ammiccando ad Onorio in direzione della nicchia... ma lui, non conoscendone l'esistenza, li guardava con aria interrogativa. Finché si udì la flebile voce di Matteo, rinvenuto grazie agli impacchi d'acqua fredda: - Hanno rapito Madamigella Beatrice... la nicchia... i sotterranei! sussurrò. Le sue parole vennero ripetute di bocca in bocca e in un attimo il panico si sparse. Lucrezia svenne senza un gemito e questa volta per davvero. Costanza non poté sorreggerla: come molte altre dame si era sentita male pure lei. Nel parapiglia che seguì per soccorrerle, il Cenci capì di non potersi sottrarre: della figlia non gl'importava... ma non era decoroso darlo a vedere in pubblico.
Sapeva di non godere la fama di uomo integro e di padre affettuoso, sebbene il suo denaro e la benevolenza interessata del papa gli procurassero speciale indulgenza per i suoi delitti, ma lasciare la figlia minore alla mercé di delinquenti avrebbe fatto inorridire i suoi ospiti... Decise allora di giocarsela alla grande, recitando il ruolo del padre preoccupato: con un grido si lanciò su Matteo, prendendolo per le spalle e scuotendolo violentemente: - Dimmi chi è stato! SONO SUO PADRE!... Ho il DIRITTO DI SAPERE!... Dove l'ha portata? Parla... o ti strozzo, parla... perdio!! - Là... c'è un aggio -rispose il ferito terrorizzato, indicando la nicchia Gertrude... - Gertrude? - ruggì sco che, sorpreso dalla notizia, non trovò di meglio che prendere per il collo il povero paggio - Guardie... a me! La voglio spellare con le mie mani! Tradimento!!... Portatemela viva... è un complotto! Quella parola, se da un lato rianimava i paladini della tesi d'un furto vero, dall'altro provava la sua raggiunta convinzione che Onorio avesse detto la verità. Mentre alcuni ospiti dai pareri discordi stavano quasi per venire ridicolmente alle mani malgrado il dramma in corso, l'Architetto gli si avvicinò dicendo: Signor Barone, capisco la vostra giusta ira ma, permettetemi, se apriste il aggio i miei amici potrebbero forse inseguire quei due delinquenti... s'è già atteso troppo a lungo, non vi pare? - Ma nel frastuono non poté sussurrare queste parole, che i nobiluomini vicini poterono dunque udire: assentirono subito con vigore, incoraggiando il padrone di casa a procedere. Il Barone restò un attimo perplesso: la vita di sua figlia o il segreto del suo meccanismo? Poi, lasciando Matteo più morto che vivo per lo spavento, si raddrizzò e si avvicinò alla statua per abbassarne il braccio con gesto ampio e solenne, mitigando il disappunto con la speranza che quella sua drammatica interpretazione contribuisse a salvargli la faccia. Poco dopo, spade al fianco e una lanterna, Michele e Lorenzo sparivano alla vista dei presenti, inghiottiti dal buio cunicolo. Ora zoppicavano entrambi, ma per fortuna non erano alla partenza d'una gara di corsa.
27. Traffico intenso nelle "segrete" di Palazzo Cenci
Grazie ai tentennamenti del Barone nel render pubblico il aggio segreto, Giovanni e la madre avevano potuto raggiungere indisturbati i sotterranei, malgrado il pesante fardello che si dovevano trascinare giù per le strette scale rese scivolose dalla perenne umidità. Il ladro s'era infatti rifiutato di liberarsi di Beatrice con il metodo sbrigativo che Gertrude gli aveva proposto agitandogli il coltello sotto il naso: - Pazza! La ragazza è il cielo che ce la manda! - aveva detto strappandole l'arma - Non capisci che è il nostro lasciaare per uscirne vivi? E tu... tu adesso vorresti sgozzarla? Quando finalmente si fermarono a prender fiato, là dove il cunicolo si allargava in una caverna nella quale erano state ricavate un paio di anguste e fetide celle, disturbarono un macabro festino di ratti che fuggirono squittendo. - Ora ci sistemiamo in modo opportuno - annunciò Giovanni - e quando verranno a prenderci tratteremo le condizioni: la vita della ragazza in cambio della nostra libertà!... e vedrai che ci terremo anche i gioielli! Sebbene non gliene importi nulla, mica il Cenci lascerà che la figlia venga uccisa senza che lui alzi un dito... di fronte a tutta quella gente! L'umidità sgocciolava dal soffitto della grotta e un pipistrello smarrito sfarfallò rumorosamente accanto alle loro teste, facendo strillare la donna. - Shhh! - le intimò Giovanni volando a tapparle la bocca - vuoi che ci trovino prima che si sia pronti? - Ma noi siamo già pronti! - bisbigliò la madre di rimando e spostò la grossa pietra che chiudeva una cavità, estraendone una balestra carica. - L'ho rubata tempo fa... sapevo che un giorno mi sarebbe potuta tornare utile! esclamò con un'aria non tanto furbesca quanto perfida, che spaventò suo figlio. - Manco per idea! - la deluse subito lui, cui non era sfuggito il lampo di furia omicida nei suoi occhi - se ammazziamo qualcuno non usciremo mai di qui!
Posa subito quell'arma e guai se la tocchi! Poi trascinò Beatrice nel centro del piccolo spiazzo: la giovane cominciava a riprendersi. - Ora è il mio turno a disporre trappole! - borbottò l'uomo, senza che Gertrude capisse. Ordinò alla madre di strapparsi la gonna e farne legacci per mani e piedi della ragazza. I due si misero seduti a terra, ponendo la lanterna tra loro e l'ostaggio, che si trovava a poca distanza dal cunicolo dal quale erano arrivati. La grossa pietra servì a schermare un lato della lanterna: i fuggitivi si sistemarono poi dietro di essa in modo da trovarsi nel cono d'ombra, mentre chi li seguiva sarebbe stato inizialmente abbagliato dal lume. L'attesa non fu lunga. Beatrice stava ormai riprendendo i sensi e gemeva, quando i suoi due soccorritori videro una luce tremolante e spensero il loro lume. Procedettero cautamente fino allo spiazzo: alla vista della ragazza si precipitarono verso di lei trascurando la prudenza. La strategia di Giovanni aveva funzionato. - Siete sotto tiro - intimò costui - posate le spade a terra e mettetevi con il volto alla parete e... le mani bene in vista!! Lorenzo, pur claudicante, non perse tempo: sguainò l'arma, finse di posarla e poi di scatto si slanciò per saltare oltre la lanterna. A un metro da lui, Giovanni vide con la coda dell'occhio la madre gettarsi sulla balestra e puntarla. Con un calcio la urtò deviando il colpo, che tuttavia ferì Lorenzo a una spalla. Il giovane si accasciò ai piedi del ladro con un gemito: sanguinava abbondantemente sebbene, per sua fortuna, la freccia lo avesse colpito di striscio. Michele non si era mosso, sorpreso dalla fulminea iniziativa dell'amico e disturbato dalla luce della lanterna. Ma tra i due rivali in amore gli era chiaro che al momento il baro fosse vincente.
Giovanni non aveva riconosciuto Lorenzo: le due volte che lo aveva incontrato era stato per brevi secondi, la prima da Prospero nella buia notte della canestra e poi nella penombra della locanda del Vescovo in quel giorno di Pasquetta, quando però il gentiluomo lombardo indossava un abito elegante e un cappello. Il ladro insomma non ne aveva mai potuto vedere bene i lineamenti. Si rivolse a Michele: - Ora sapete che non stiamo scherzando: il vostro compare è ferito e lo teniamo sotto tiro: state fermo o partirà una seconda freccia e questa volta sarà diretta al cuore. Dite al Cenci che costui verrà rilasciato solo se ci lascerà uscire senza ostacolarci: noi liberemo la ragazza una volta fuori di qui. Ora Beatrice piagnuccolava silenziosamente: Caravaggio poteva vederla perché lei era al centro della scena e ben illuminata dalla lanterna. La Baronessina gli lanciò uno sguardo implorante: - Fate come vi dice, Messer Michele, ve ne prego! - Il pittore girò sui tacchi rassegnato e si accinse a risalire la stretta scala. Aveva appena poggiato il piede sul secondo gradino quando venne bloccato da un acuto strillo di Gertrude: la donna tremava con gli occhi sbarrati, si mordeva le mani e gridava, paralizzata dal terrore. Un'ombra gigantesca si stava muovendo sul soffitto e sulla parete di fronte a lei. Michele si volse e, impressionato, vide l'ombra ricoprire pian piano l'intero ambiente, finché un grugnito non guidò il suo sguardo sulla figura di Amir che sbucava a fatica dalla galleria alle spalle dei rapitori. Il busto ripiegato in avanti, la testa incassata tra le spalle ma le braccia distese in avanti, il nubiano pareva un gigantesco ragno in procinto di riempire tutta la caverna: sugli ultimi gradini del cunicolo che s'era lasciato alle spalle aveva posato la lanterna che proiettava la sua ombra. Il battitore di gong aveva subito intuito che l'aggressore del prediletto Matteo non poteva che essersi dileguato attraverso il aggio e, senza attendere gli ordini del padrone che vedeva esitante, aveva agguantato una lanterna correndo come una furia nella sua stanza. Non aveva perso tempo a infilarsi nella cassapanca: l'aveva strappata via come
un fuscello e scaraventata in un angolo, infilandosi poi a fatica nel aggio che portava ai sotterranei. Per incontrare i rapitori gli c'era voluto il suo tempo, ma era previsto: in alcuni punti, da quella parte i cunicoli erano veri budelli e il suo corpo enorme ava soltanto carponi o strisciando, millimetro dopo millimetro e grazie all'umidità che rendeva scivolosi pavimento e pareti. Quando vide Beatrice a terra legata, l'uomo lanciò un rabbioso grugnito e, recuperata la propria lanterna, la gettò in fiamme in faccia a Giovanni che emise un urlo di dolore. Intanto Gertrude – superato lo spavento – ne approfittava per ricaricare la balestra lasciata cadere dal figlio. Mentre Michele si toglieva la giubba per spegnere l'olio incendiato addosso al ladro, Amir con un ceffone fece volare l'arma imbracciata dalla madre di lui, che poi abbrancò con entrambi le braccia cominciando a stringerla: si udì un sinistro scricchiolio e la governante urlò di dolore. Lorenzo, da terra, raccolse la spada con il braccio valido puntandola alla gola del rivale che si contorceva sul pavimento. Il gigante nero non mollava la presa e Gertrude scalciava disperatamente. Giovanni si lamentava per le ustioni, mentre Caravaggio gli legava le braccia dietro la schiena con le maniche strappate della camicia: una grossa cicatrice da arma da taglio sul bicipite destro del prigioniero gli confermò l'identità del ladro della Canestra, malgrado il suo viso fosse ora privo di barba e in parte scottato. Gertrude non strillava più: era ormai violacea per l'inesorabile stretta di Amir, che le impediva di respirare. Fu così che li trovò Matteo, sbucando dalla ripida scala che portava alla statua: il Barone sco si era lasciato convincere dal Longhi a non inviare guardie armate in quanto, a causa degli spazi molto angusti, si sarebbero ostacolate una con l'altra. E il brillante architetto ci aveva visto giusto. Entrato com'era nella parte, il Cenci voleva a tutti costi una strage malgrado proprio non gli garbasse che qualcun altro oltre a lui andasse a metter naso là sotto. Per riuscire a convincerlo, Onorio aveva giocato d'azzardo, nella convinzione
che i due rapitori non fossero armati. - Capisco il pericolo che corre il ragazzo - aveva detto - ma meglio lui da solo che rischiare con guardie armate fino ai denti una reazione disperata di quei delinquenti... e poi laggiù sono già in troppi... soprattutto se ci fosse anche il vostro Amir! Questo aveva consentito di raggiungere un compromesso per cui sco e una guardia avrebbero seguito il paggio di Lucrezia solo a distanza di qualche tempo. Era una soluzione soddisfacente per il Barone, che teneva a dimostrare in pubblico la propria intenzione di soccorrere la figlia. Matteo invece non avrebbe potuto spaventare un lattante: aveva il capo fasciato e barcollava, reggendo un lume con una mano e una caraffa d'acqua con l'altra. Scorgendolo, il gigante nero cessò di digrignare i denti e allentò la presa: la donna inspirò rumorosamente mentre Michele tentava di convincere Amir a legarla senza strozzarla. - Dobbiamo consegnarli vivi al Signor Barone - gli disse per persuaderlo. A quelle parole Gertrude – terrorizzata – implorò Amir di farla finita subito, ma nessuno l'ascoltò: l'attenzione di tutti era finalmente rivolta a Beatrice, alla quale si stava dedicando Matteo. Mentre Michele le slegava mani e piedi, il paggio le sollevava delicatamente la testa. Non appena libera lei prese la caraffa portandosela avidamente alla bocca e versandosene addosso il contenuto, ma lui la fermò dicendo: - No!!Aspettate... Baronessina! Frugò un poco nella tasca e – a fatica, per via della posizione inginocchiata – ne estrasse un calice di cristallo, giunto chi sa come intero fin laggiù. Ci versò acqua dalla brocca e lo porse alla padroncina con un sorriso soddisfatto. Caravaggio si rivolse a Beatrice che stava bevendo avidamente: - Io però, se fossi in voi non gli perdonerei di aver dimenticato... il vassoio!! Dopo qualche minuto una sgangherata compagnia sbucò dalla nicchia accanto alla statua.
Non volendo mostrarsi indifferenti, la maggior parte degli invitati era rimasta nella galleria insieme a quelle dame che, una ad una, si riprendevano lentamente dai malori. L'atmosfera era tesa: i presenti si dividevano pressoché equamente tra eccitati e depressi. Alcuni ancora non capivano se si trattasse d'un gioco oppure no... il rapimento di Beatrice poteva benissimo essere una messa in scena... però la botta sul capo di quel paggio nero era stata senza dubbio reale. Madonna Lucrezia e la Principessa Colonna erano sedute su un divano: la seconda confortava amorevolmente la prima, che non poteva darsi pace: - Avrei dovuto tenerla sempre accanto a me, invece di lasciarla in disparte... ma c'era così tanta gente che... - In Costanza si rafforzava il sospetto che in tutta quella faccenda ci fosse ben poco di giocoso. Invece la Baronessa si chiedeva: - Vorrei proprio sapere cosa ci faceva Beatrice da queste parti col buio... e Matteo le gironzolava attorno... come al solito... mah! Il padrone di casa, dal canto suo, non conoscendo l'esito dell'operazione in corso nei sotterranei, non si fidava a prendere posizione per sciogliere, in un modo o nell'altro, quel dubbio che tanto tormentava e divideva i suoi ospiti. Ne era, anzi, intimamente compiaciuto, poiché era indice di successo per la sua festa: un ricevimento decisamente fuori del solito! Così eggiava sorridendo a destra e a manca augurandosi un lieto fine e lanciando alla nicchia frequenti occhiate che ognuno interpretava secondo il partito d'appartenenza. Al comparire per primo del paggio di Lucrezia, il rapido diffondersi d'un mormorio di sollievo soffiò nuova vita nei vasti corridoi del palazzo, un pò come a volte nelle sere d'estate una timida folata di brezza ancora non scaccia la calura ma rincuora i boccheggianti cittadini, ravvivando le loro speranze in un temporale imminente. Poi venne Giovanni, baffi bruciacchiati e legato a dovere, spinto alle terga da Caravaggio che con aria fiera e soddisfatta mostrò ai presenti la borsa dei gioielli prima di consegnarla alla Baronessa.
Lo smagliante sorriso che gli dedicò Costanza lo distrasse alquanto dalle esclamazioni riconoscenti di Madonna Lucrezia. sco Cenci scambiò uno sguardo d'intesa con Onorio e chiamò le guardie. L'apparizione di Beatrice, ancora più bella nel suo diafano pallore, fu salutata da un fragoroso applauso liberatorio, che parve voler scuotere l'intero palazzo dalle fondamenta. Nessuno era rimasto seduto, neppure le dame più malignamente impietose verso di lei. Lucrezia l'abbracciò e scoppiò in lacrime... Ovviamente nessuno ebbe di che spettegolare intorno al suo abito... alquanto in disordine: una ghiotta occasione perduta! Mentre tutti gli occhi erano puntati sulla scena Costanza, che aveva manovrato per avere Michele al suo fianco, lasciò scivolare un braccio lungo l'abito fino a che la sua mano incontrò quella del giovane pittore. Dietro di loro, la bassa balaustra a colonnine li separava dall'oscurità del cortile. Lei allacciò le dita con quelle di lui e le nascose tra le pieghe della voluminosa gonna. Caravaggio si guardò intorno sperduto: era dalla lontana infanzia che la sua Signora Marchesa non lo prendeva per mano, ma non ne aveva un ricordo così sconvolgente. Immobile come un tronco sentì un lieve brivido lungo la schiena e, d'un tratto, il respiro si fece più difficile: se anche avesse trovato qualcosa da dire, il groppo alla gola glielo avrebbe impedito... così dimenticò di avvisare che Lorenzo era ferito. Ebbe giusto il tempo di pensare - mioddio no... sono solo un povero pittore... che la nobildonna sciolse lentamente l'intreccio dopo un'ultima stretta: stava rientrando Lorenzo, zoppicante e con un braccio al collo, immobilizzato alla bell'e meglio da una fasciatura insanguinata. Beatrice avrebbe desiderato soccorrerlo, ma la matrigna glielo impedì con affettuosa fermezza. La Principessa Colonna sussurrò a Michele - Cielo! Cerchiamo subito un medico, presto! - mentre Beatrice chiamava infine Angelica presso di sé ordinandole di prendersene cura: - Ha rischiato la vita per me!... portalo nelle mie stanze.
Costanza aveva ormai riacquistato l'autocontrollo: con gesto perentorio chiamò a sé le sue dame per sostenere Lorenzo e, lanciato ad alta voce l'appello per un medico che poi Lucrezia ripeté più volte, si scusò con lei e si unì ad Angelica per occuparsi del suo ospite. Se la servetta arrossì fortemente al ricordo della propria recente sbadataggine nei confronti di quell'affascinante nobildonna che ora l'affiancava per curare Lorenzo, la principessa si compiaceva invece per la propria corretta intuizione: le parole della giovane Cenci erano, infatti, l'indiscutibile conferma non essersi affatto trattato d'un gioco! Peccato non fossero state udibili a tutti... La comitiva scomparve nelle vicine stanze della Baronessina, subito seguita da un medico accompagnato dal Cardinale Borromeo, che lo lasciò sulla soglia per non mettere in imbarazzo il suo protetto. In quel momento dalla nicchia usciva la governante di casa Cenci, punzecchiata con la spada di Lorenzo da Amir, lasciato per ultimo poiché - con lui a chiudere il corteo sarà come aver murato il cunicolo alle nostre spalle... non riuscirebbe a svignarsela neppure un topo! - avevano stabilito i liberatori. Gli occhi bassi, in un glaciale silenzio denso di disprezzo, Gertrude mosse timidamente un o sul pianerottolo e venne subito presa in consegna da due guardie. Quando fu nei pressi di Lucrezia, questa si staccò dal gruppo di amiche che la circondavano e le si avvicinò con piglio deciso. La Baronessa aveva recuperato la calma, ma la sua voce suonò acrimoniosa quando le disse con un tirato sorriso: - Permettete, mia cara, ma non credo che questa vi possa ancora servire, dove finirete... e dunque me la riprendo! - sibilò allungando una mano verso il collo di lei e strappandone la spilla a margherita che le aveva appena donato. - Invece - continuò poi fra l'interesse generale - tenetevi pure questi! - e le appese al collo la borsa dei gioielli esclamando - Tanto... sono tutti falsi!!... Quelli veri li porto addosso, alcuni in vista e altri...ben nascosti! Quegli ospiti cocciuti che ancora confidavano essersi trattato d'un gioco esultarono, più nella speranza di salvare la faccia che per ferma convinzione.
Costanza, che stava tornando sui suoi i, ci rimase invece malissimo... ma lo stupore che lesse sui visi dei più le fece capire d'essere in buona compagnia. Nel brusio della folla che sciamava verso i saloni al piano inferiore commentando il felice epilogo della vicenda, Michele e Matteo udirono i gemiti di Amir che dopo aver spinto fuori Gertrude era rimasto incastrato all' uscita dal cunicolo e se ne stava così, testa e braccia già nel corridoio ma il resto del corpo ancora dentro. Sfiatato dalla fatica di spostare il grande arazzo per farsi vedere, il nubiano emetteva deboli grugniti ogni qual volta quello gli ricadeva sul volto, producendo un effetto comico irresistibile. Il Barone comprese immediatamente che avrebbe dovuto occuparsi di persona di liberarlo: occorreva infatti andare a spingerlo fuori dall'interno del cunicolo e non poteva certo permettere ad altri di are dalle sue stanze – o da quella di Amir – per raggiungere lo sfortunato servitore. Senza profferir verbo il Barone sparì, avendo cura che nell'euforia generale nessuno se ne accorgesse. Finché una voce come proveniente dagli inferi gridò: - Tirate... tirate, dannazione! io lo spingo... ma voi lì fuori tirate... guarda un pò che mi tocca fare... tiratelo perdio... io continuo a scivolare e a sbattere i denti su questi maledetti scalini umidi! ... ma, dico io, sua madre non poteva farlo almeno un pò più magro? Fu così che, per affrettare le operazioni, il Gran Maestro della festa convinse il padrone di casa a tornare indietro per far are un paio di guardie dai suoi appartamenti privati a dargli man forte, mentre in galleria due robusti armigeri tiravano Amir per le braccia: poco a poco riuscirono a estrarlo... con abbondante uso di grasso di maiale. Il Barone sco era stato dunque costretto a rivelare anche il proprio ultimo segreto, cosa che ovviamente gli scocciò moltissimo. Ma quando, tornato alla luce, venne accolto dal fragoroso applauso della folla di ospiti che nell'attesa aveva congestionato il secondo piano del palazzo, non poté certamente dare a vedere il suo... disappunto, a voler usare un eufemismo. Galvanizzato dalla partecipazione di tutti – segno del grande successo della sua festa – riuscì anzi a mostrarsi sorridente e sollevò le braccia in un gesto di saluto
esclamando ad alta voce: - Eeeh!!... Cosa mai non farebbe un padre per una figlia! Aveva chiaramente ecceduto, tanto da suonare inviperito a dispetto del sorriso. Ma la grande maggioranza dei suoi ospiti non primeggiava certo in sensibilità o finezza psicologica e le sue parole furono seguite da una seconda ovazione.
28. Il Grande Inquisitore
Prima di sparire a cambiarsi d'abito, Onorio Longhi aveva disposto affinché la squadra di carpentieri – che così abilmente aveva maneggiato dal tetto il ritratto del baro – si occue di sgomberare la corte per trasformarla in un'aula giudiziaria. Dopo un breve rinfresco nei saloni superiori, ravvivato da molti brindisi, le torce vennero riaccese in cortile e il Cenci invitò i suoi ospiti a seguirlo da basso per il processo: c'era un'ultima sorpresa per gli invitati e ciò aveva consentito al Barone di rinviare il definitivo chiarimento del dubbio che ancora ne travagliava parecchi. Ancorata alle funi già usate per il quadro dei bari, un'enorme tenda rossa proteggeva il palco, rimesso al suo posto originario. Vi troneggiava un'imponente seggiola in pelle nera, con braccioli e un alto schienale, davanti alla quale erano state montate le gogne per gli imputati che, incatenati l'uno all'altra, fronteggiavano il pubblico in quell'incomoda postura. A un lato della sedia una ruota di carro con punte di ferro era montata su un corto palo piantato nel palco, mentre dall'altro lato era esposta una garrota. Un brivido d'orrore percorse gli ospiti alla vista di quegli atroci strumenti di tortura e di morte. Ai piedi del palco, un tavolino scrittoio al quale era seduto un uomo con penna e calamaio per la stesura dei verbali del processo. Ma la cosa più sorprendente fu che sulla maestosa seggiola al centro del palco c'era il Cardinale Vicario di Roma, il capo del Santo Uffizio delegato dal pontefice all' amministrazione della giustizia: in altre parole il Grande Inquisitore in persona, forse dopo il papa l'individuo più potente e certamente il più temuto della città. Tra gli ospiti del Cenci – quasi tutti membri della buona società romana – nessuno ne aveva mai visto il volto o perché protetto dal potere curiale oppure ancora da motivi politici o finalmente da pura convenienza d'affari (come il Cenci stesso, del resto), sebbene molti di essi lo avrebbero forse meritato. Ma
nessuno dei presenti rimpianse di non riuscire a vederne i lineamenti neppure in quella notte: nella lunga lista di desideri dei romani, questo non stava certamente ai primi posti. Avvolto da un nero mantello, l'Inquisitore portava una mascherina nera sugli occhi e un cappuccio dello stesso colore. Mentre costui elencava freddamente i capi d'accusa, pochi s'accorsero – forse per via della mancanza d'un megafono – che la sua voce somigliava stranamente a quella del Gran Maestro della Festa, poco prima dileguatosi senza salutare. Molti erano inoltre alle prese con il vecchio dilemma che li aveva tormentati fino a poco prima, perché ora si domandavano: ma allora... se davvero si fosse trattato d'un semplice gioco che ci fa qui, adesso, il Grande Inquisitore? Il quesito irrisolto riportò pian piano in maggioranza il partito dei realisti. In piedi accanto al Giudice, un robusto boia incappucciato e nudo fino alla cintola – il che peraltro rivelava una sua preoccupante disposizione alla pinguedine – appoggiava con aria solenne un piede sul ceppo e le mani sul lungo manico d'una mannaia. Il Cenci – ben al corrente del gioco ma a questo punto ormai ato ai realisti nella speranza di rimediarsi un qualche scampolo di violenza – chiese dal loggione il massimo della pena per furto, rapimento, tentato omicidio e tradimento: - Chiedo umilmente a questa Corte di venire incaricato d'eseguire la sentenza! - aggiunse con voce ruggente per l'ira dirigendosi allo scalone, mentre una sadica luce gli brillava negli occhi: incatenata alla gogna, Gertrude tremava e gemeva senza dignità. Il suo accusatore scese fino al palco e, giunto di fronte a lei, alzò minacciosamente il pugno verso il suo volto. Per la donna questo fu davvero intollerabile e il tremito accrebbe d'intensità, tanto che dalla loggia si poteva udire il battito dei suoi denti: una larga macchia di orina si allargò sul palco ai suoi piedi. Per la prima volta Madonna Lucrezia si sentì in accordo con il crudele marito. L'Inquisitore invitò gli imputati a confessare, minacciando la tortura e elencando gli attrezzi al riguardo disponibili quasi fosse stato un oste che propone il menu
del giorno. La donna confessò immediatamente, prima di svenire. Il figlio si convinse non appena le guardie, liberatolo dalla gogna, lo avvicinarono alla ruota. - Ma prima di emettere la mia sentenza - disse a quel punto il Giudice rivolto al baro - voi dovrete ancora chiarire il vostro ruolo in un altro delitto - e fece un cenno a Michele che, recuperati elmo e alabarda, stava ai piedi del palco insieme a Lorenzo, fasciato e seduto. L'artista ci salì, si diresse verso il prigioniero e gli si piantò davanti a gambe larghe. - Confessate - proseguì il Grande Inquisitore - di aver mesi addietro tentato di rubare un quadro rappresentante una canestra di frutti, dipinto da tal Michelangelo Merisi da Caravaggio qui presente? Dal pubblico s'alzò un mormorio: nessuno ricordava d'aver mai sentito quel nome. Costanza invece – per l'emozione – si appoggiò al braccio di Federico Borromeo il quale, gongolante per tanta pubblicità gratuita che valorizzava il suo recente acquisto, manco ci fece caso. Inosservati per via dell'attenzione di tutti rivolta al palco, i due gentiluomini che prima avevano scambiato preoccupati sguardi d'intesa alla comparsa del quadro dei bari ora corrugarono contemporaneamente la fronte: i loro volti si somigliavano come due gocce d'acqua... soprattutto nel pallore che manifestavano. Essi infatti... quel nome lo conoscevano benissimo! Erano fra gli ospiti – alcuni in atteggiamento servile, tra i quali i suddetti – che stazionavano intorno al Cenci dall'altra parte del cortile rispetto allo scalone e cioè non lontano dalle sue stanze private nel vecchio palazzo. Nel parapiglia scatenato dal gioco delle maschere dei paggi, la distanza aveva loro impedito di vedere il volto delle due guardie lanciate all'inseguimento del ladro. Giovanni rispose alla domanda facendo il nuovo: - Mai sentito nominare, Signore.
Michele salì sul palco, si tolse l'elmo metallico dal capo e con la punta della lancia sfiorò la cicatrice sul braccio del baro tra i bisbigli del pubblico incuriosito. I due personaggi di cui s'è detto si guardarono smarriti: chi prima si celava sotto quegli abiti militari era proprio il loro ex dipendente... pluriderubato. Caravaggio dovette soffocare il desiderio di ripetere la domanda a suon di botte, ma si trattenne e invece aggiunse: - E questa non la devi forse a uno scontro notturno nel vicolo delle Grotte, a fine Febbraio, davanti alla bottega del pittore Prospero Orsi che avevi appena scassinato per quello scopo? I fratellini che conosciamo fecero qualche o indietro per rifugiarsi nell'ombra; poi si volsero e con aria disinvolta raggiunsero lo scalone che portava da basso. Alle parole di Michele un fremito d'indignazione aveva percorso la folla degli ospiti. Il nome dell'Orsi era noto... - Ma allora - pensarono i membri del partito del gioco - questo era un ladro di professione, altro che un attore come avevano voluto farci credere! Michele incalzò ancora Giovanni: - Ricordi la lanterna rotolata a terra sulla quale cadesti ferendoti a un braccio? C'era il tuo sangue, sulla via. Caravaggio dovette inginocchiarsi per avvicinare il volto a quello del malvivente: i due si guardarono negli occhi e il ladro confessò: - Eseguivo ordini ricevuti: ero stato pagato - disse con rassegnazione. La dichiarazione fu fatta ripetere due volte. Il pittore si rialzò soddisfatto e ricalcò l'elmo sul capo riprendendo il suo posto. I due fratelli Cesari, Bernardo e Giuseppe – noto come Cavalier D'Arpino per via di quell'onorificenza papale – erano ormai giunti nell'atrio d'ingresso al fondo dello scalone d'onore. Accelerarono silenziosamente guadagnando l'uscita e si dileguarono nella notte, senza che gli armigeri di guardia al riaperto portone li degnassero: erano tutti occupati intorno a un carro che stazionava di fronte all'ingresso del palazzo. La sentenza di morte fu pronunciata dall'Inquisitore fra gli alti lai di Gertrude che, rinvenuta, piangeva senza freni mentre gli invitati di entrambi le fazioni la
deridevano crudelmente: era riuscita subito antipatica a tutti. Per uno sparuto manipolo di giovanissimi, affacciati nel buio della loggia al secondo piano, quella visione pietosa era esaltante: ma dal cortile nessuno poté avvedersi che due di loro, una bellissima giovinetta dall'abito celeste alquanto strapazzato e un giovane paggio nero con la testa fasciata, si tenevano strettamente abbracciati. Né che accanto a loro una graziosa brunetta con un'acconciatura dai rossi riflessi e tempestata di pietruzze lucenti osservasse invece senza sorridere. D'un tratto risuonò ancora cupamente il gong di Amir: questa volta i colpi erano di bassa intensità e cadenzati come i i di un corteo funebre. A un cenno dell'Inquisitore i gendarmi prelevarono dal palco i condannati per condurli al luogo dell'esecuzione. Subito, un cigolio ruppe il silenzio che era calato sul cortile: dal portone stava entrando un piccolo carro tirato da un bue che si fermò accanto al palco. La gente fece ala e i prigionieri in catene vi furono fatti salire accompagnati dal boia e da un fraticello incappucciato: secondo i piani sarebbe dovuto essere Matteo, che la botta ricevuta aveva fatto sostituire da uno sguattero. Gli invitati fecero spazio al veicolo affinché potesse manovrare per uscire: il Grande Inquisitore accompagnato da due guardie fornite di torce lo precedette nella piazza ormai vuota, mentre Caravaggio e Lorenzo – che non si sarebbe perso il finale anche a costo d'andarci in barella – chiudevano il corteo seguiti da alcuni armigeri con altre torce. Il carro svoltò in un vicolo buio e discese verso il fiume traballando rumorosamente. Giunti a distanza dalle case, sulle maleodoranti sponde del Tevere il carro s'arrestò a un ordine di Onorio e tutte le guardie si disposero all'intorno. Le fiaccole illuminavano l'impressionante scena: madre e figlio erano pallidi come cenci. Il boia impugnò la mannaia e le guardie trascinarono i due giù dal carro, facendoli inginocchiare accanto a un masso piatto: Giovanni non ne voleva sapere e tentava di divincolarsi agitando inutilmente le catene. - Ma io... ma io... dopotutto... ho soltanto rubato gemme false! - balbettava.
Mentre il boia posizionava sul masso il capo di Gertrude priva di sensi Onorio, in piedi sul carro, parlò ancora nelle vesti d'Inquisitore: - Avrete entrambi salva la vita - disse - se voi, Giovanni, farete i nomi dei mandanti che vi commissionarono il furto della Canestra di frutti. Il terrore dei prigionieri era tale che il baro neppure si stupì o s'insospettì per il fatto che il Giudice conoscesse il suo nome, né tanto meno andò per il sottile di fronte all'ingiustificata sproporzione tra quella confessione da nulla e la cancellazione d'una pena tanto grave. Rispose immediatamente: - Ho ricevuto i soldi da... hem... si beh... insomma, eseguivo il furto su mandato dei fratelli Cesari... i pittori! Un'esplosione di entusiasmo accolse quell'informazione. Solo le guardie del Cenci non esultarono: su richiesta di Onorio, il Barone aveva loro ordinato di chiudersi le orecchie con la cera durante l'interrogatorio privato che l'Architetto intendeva condurre per chiudere – così aveva detto – una vecchia questione personale con quel delinquente. Il boia si sfilò il cappuccio e apparvero i baffoni di Prosperino, che si congratulò con Michele e Lorenzo prima di sciogliere le catene ai condannati e di far rinvenire Gertrude con una secchiata di acqua del Tevere. Madre e figlio non riuscivano a capire: si guardavano increduli per poi spostare lo sguardo alternativamente sulle guardie, sull'Orsi e su Onorio che, gettato il lugubre mantello e sfilata la mascherina dagli occhi, chiarì: - Questo è quanto volevamo sapere da te, manigoldo! E ora via... sparite! Visto che i due restavano lì imbambolati, Michele diede loro un colpo sul fondo schiena usando l'alabarda di piatto - Via!... sciò, correte!... e non fatevi più vedere da queste parti se non volete che vi consegniamo al Barone! Gli armigeri ne approfittarono prontamente per affibbiare alcune sonore frustate ai delinquenti, comprendendo anche il figlio nel trattamento che in realtà intendevano riservare alla madre: melius abundare... ma poi lasciarono che il buio li inghiottisse.
I giustizieri per burla rientrarono a palazzo quando i primi livori dell'alba schiarivano ormai quella parte di cielo che, dal loro punto di osservazione,
sovrastava i ruderi dei gloriosi Fori Imperiali: i quattro amici chiacchieravano allegramente. Il Barone sco stava nel portone con gli ultimi ospiti che si accommiatavano. Onorio si presentò in calzoni e camicia, portando sul braccio il costume da Grande Inquisitore, ma indossando la mascherina da Gran Maestro della Festa; l'Orsi sfoggiava invece la sua tradizionale giacca nera e teneva il cappuccio da boia arrotolato sulla fronte, un pò come certi buffoni di corte. Erano tutti di ottimo umore... perfino Lorenzo! Vedendoli, il Principe Marzio Colonna esclamò: - Ma allora... allora è vero... era tutto un gioco! - e si rivolse stupito al padrone di casa, visibilmente soddisfatto: Ah! ben congegnato davvero, sco, non c'è che dire!... chi sa che risate si son fatti, tutti costoro!! - Poi, scuotendo il capo e ridendo di gusto, salì sulla carrozza aiutato da due giovanissime cortigiane che squittivano senza interruzione. Lorenzo, un pò risentito per quell'infelice battuta, si toccò la spalla ferita. - Meno male che siete arrivati! - disse sco Cenci che, esaltato dal successo della festa, abbracciò il Longhi - pensate: avevo detto loro che l'esecuzione non sarebbe avvenuta essendo parte del gioco e... non ci volevano credere!... Non mi sono mai divertito tanto in vita mia! - e rise sadicamente, senza comprendere che il vero motivo della sua scarsa credibilità era la sua fama di perverso sanguinario. Intanto un'altra carrozza dei Colonna stava per prendere a bordo Costanza: - Magnifica festa, mia cara... malgrado i vostri svenimenti! - disse malignamente costei abbracciando Lucrezia. Poi si rivolse a Onorio con noncuranza: - Architetto Longhi, potreste cortesemente chiedere all'autore di mostrarmi quel bellissimo quadro non appena lo avrà terminato? Sono certa sia un'opera straordinaria e chi sa... potrebbe interessarmi acquistarlo... Onorio capì subito che lei non voleva dar pubblicamente a vedere di conoscere il pittore. - Certamente, Principessa... anzi se permettete lo faccio adesso, poiché si
tratta di Messer Michelangelo Merisi, qui al mio fianco! - e con un profondo inchino le indicò Michele che si sarebbe sottratto volentieri, visti i numerosi spettatori che li circondavano. - S... sarà un piacere - balbettò lui -... non dubitate... ma, ecco, in verità... ci sarebbe ancora molto lavoro da fare e dunque... non saprei quando... - Benissimo, allora vi aspetto lunedì dopo pranzo a palazzo, Mastro Merisi! L'artista, imbarazzatissimo, sospettava senza averne certezza le intenzioni di Costanza e protestò poco convinto: - ... Ma c'è soltanto più un giorno, Altezza... e sta già nascendo... - E allora? Mica vorrete trattenervi quel telone rosso che ho prestato a Messer Longhi per la vostra messinscena, vero? Se non sarà pronto il quadro... portatemi almeno quello! – ribatté la donna con un piglio di comando che non ammetteva repliche. A Caravaggio non restava che cedere e, senza dir parola, s'inchinò alla sua Signora Marchesa per baciarle la mano. Ma, salendo poi in carrozza con il suo aiuto, lei si volse a sorridergli dicendo a beneficio degli astanti: - Così almeno chiariremo insieme se tutto questo fosse verità o... finzione - e, rendendogli pan per focaccia, lasciò a sua volta Michele nel dubbio d'aver frainteso le sue vere intenzioni. Finalmente l'ultima carrozza di ospiti lasciò la piazza: era quella di Pietro Aldobrandini, Cardinal Nipote di fresca nomina, completamente ubriaco. Vi venne caricato a braccia. Infatti, prevedendo la sbronza del loro illustre padrone, i servi avevano già da tempo provveduto a riportare l'elefante a palazzo. Il Cenci si rivolse agli eroi della serata: - I miei ospiti non ci capivano più nulla! Alcuni stavano quasi per azzuffarsi... credo che si parlerà di questa festa almeno fino a Natale! - Come segno di apprezzamento estrasse una borsa di monete porgendola a Onorio, che la rifiutò elegantemente: - Ma... se il Signor Barone permette... credo che il nostro valente Caravaggio potrebbe forse meritarla, essendo tra l'altro l'autore del quadro che si è rivelato vitale per smascherare il ladro... oltre che per ammutolire d'ammirazione i vostri invitati! Da gran Signore e da fine intenditore d'arte qual era, il Cenci fece spallucce e
gettò con malgarbo il denaro a Michele senza una parola. Tanto meno s'accorse della ghiotta occasione che il Longhi gli offriva per acquistare quel capolavoro in corso d'opera: per nostra fortuna, poiché sco lo avrebbe sicuramente distrutto o nascosto sì che noi posteri non avremmo potuto osservare i veri lineamenti di Beatrice. Mentre Caravaggio si chinava a raccogliere la borsa che –colto alla sprovvista – gli era sfuggita, il Barone si volse senza salutare per raggiungere i suoi appartamenti, seguito da cortigiane e gentiluomini. Per quella notte la sua sventurata figliola avrebbe potuto dormire senza timori.
E P I L O G O
La vera storia della copia de La buona ventura (Museo del Louvre) ovvero Caravaggio costretto a... produrre una copia del suo capolavoro!
Caravaggio ultimò il quadro de I bari soltanto qualche mese più tardi, avendo dovuto attendere prima il ritorno di Beatrice da Petrella e poi che un'assenza da Roma di sco Cenci gli consentisse di completare il volto di lei dal vivo, grazie alla preziosa complicità di Madonna Lucrezia. Quelli delle sedute ritrattistiche furono pochi giorni intensi e spensierati. Il pittore dovette ingegnarsi non poco per evitare ogni volta l'ingresso principale e le guardie, mutando il travestimento per non destare sospetti e avvalendosi dell'ingresso sulla via che la fuga di Gertrude rendeva più agibile e sicuro: all'ora convenuta Angelica lo attendeva ogni volta dalla finestra del corridoio di servizio al primo piano, quello accanto alle stanze prima occupate dalla governante. Invece i suoi attrezzi – in parte smontati – venivano nascosti da Matteo nel cassone del montacarichi – inutilizzato in quanto Madama Lucrezia si sentiva benissimo – sì da essere a portata di mano per le sedute che avvenivano nelle stanze di lei. Beatrice era allegra e sollevata per l'assenza del padre e per la sparizione definitiva di Gertrude, il cui posto di lavoro era ancora vacante. Il Barone aveva tentato di sostituirla, ma il drammatico epilogo di carriera della governante cacciata aveva fatto il giro del quartiere arricchito da impressionanti particolari, con il risultato d'innervosire sco ma ancor più di scoraggiare le potenziali candidate, che si tenevano ben alla larga.
Per i nostri congiurati s'era trattato di una vera operazione di guerra preventiva: Angelica si era incaricata d'istruire l'erborista di Campo Fiori affinché diffondesse informazioni opportunamente addomesticate tra le colleghe del mercato; Lucrezia si occupò invece di far girare la voce a mezzo del suo amico parroco e delle compagne del gioco di carte, mentre Matteo si prese cura d'istruire le cameriere di casa su quanto dovevano riferire nelle loro brevi uscite: una vera propaganda di massa, insomma. Ma la mossa vincente era stata – ancora una volta – un'iniziativa di Beatrice, non appena l'odioso padre aveva lasciato Roma. Infatti l'intraprendente ragazza convinse la pigra matrigna a effettuare in carrozza una rapida visita ai genitori di Angelica: numerosi clienti della taverna provenivano da altre zone di Roma e avrebbero potuto spargere il pettegolezzo nei loro quartieri, infiorandolo magari di significativi dettagli. Le tre donne giunsero alla Locanda del Vescovo sul mezzodì d'un giorno di mercato, poco dopo che Santino aveva cominciato a servire i numerosi clienti. Il frastuono della carrozza – evento assai raro in quella stretta via – attirò subito l'attenzione di costoro, che si precipitarono alle finestre o in strada. L'oste seguì questi ultimi, poiché la calca alle finestre gli impediva la vista. Con sua grande sorpresa e qualche timore vide la vettura ferma a un o dalla porta: il vicolo era troppo stretto e vi si stava ormai radunando una piccola folla mentre da quella scendevano i eggeri. Tentava di uscirne una dama ormai matura e assai corpulenta, vestita in modo ricercato: il cocchiere di pelle nera stava faticando per estrarla dall'abitacolo, ma purtroppo lo sportello non poteva spalancarsi poiché egli si era maldestramente arrestato troppo in prossimità del muro. Dall'interno una giovane damina ben abbigliata spingeva inutilmente la nobildonna che pareva ormai incastrata, con il corpo ancora dentro e il busto mezzo fuori ma pizzicato tra la portiera bloccata e la vettura. La povera era quasi cianotica e respirava a fatica, così compressa tra il portello semiaperto da un lato e le spinte sul fondo schiena da parte dei suoi accompagnatori. Alcuni avventori suggerirono allora di rovesciare la strategia e cioè di risospingere la dama all'interno, per poi spostare la carrozza un po' più avanti dove il vicolo si allargava leggermente: ciò avrebbe dovuto consentire una più agevole
estrazione. Poco dopo fu così possibile spalancare il portello e la piccola Maria accorse con bicchiere e caraffa d'acqua, subito spruzzata generosamente sul volto della nobildonna che nel frattempo aveva perso i sensi. Santino, preoccupato dal prolungarsi della cosa a rischio di far freddare le vivande già servite o pronte per esserlo, invitava i suoi ospiti a rientrare: - Su, su... brava gente, lo spettacolo è finito... vi prego di riaccomodarvi in sala! Nessuno si mosse: avevano tutti udito gli altri eggeri indicare la dama come Signora Baronessa ed erano troppo curiosi di conoscerne l'identità, tanto che ormai erano usciti in strada anche i clienti prima rimasti all'interno della locanda. Fu allora che colei da tutti individuata come Dama di compagnia della nobildonna si avvicinò a Santino e - buongiorno... babbino!! - esclamò. Un mormorio di stupore si alzò nel vicolo mentre lui restava di sasso: non aveva riconosciuto la figlia, tanto era elegantemente agghindata! - La Signora Baronessa ha espresso il desiderio di conoscervi - gli disse Angelica prima di rivolgersi ai clienti: - Se lor signori vogliono gentilmente riaccomodarsi in sala, condurrò i miei genitori alla carrozza per un breve saluto alla mia padrona! L'oste superò lo stupore per quel forbito linguaggio assumendo un'aria d'importanza: - Permettete... solo un momento... ma capirete... è per noi un grande onore!... Sarò subito da voi... e offriremo da bere a tutti!- esclamò rientrando a stanare Orsolina. Nessuno si mosse: lo spettacolo pareva essere appena al primo atto. Anzi, la piccola folla s'accresceva via via che la voce si spargeva nel vicino mercato. Fu dunque Lucrezia – ripresasi dal leggero malessere con il quale peraltro aveva come sappiamo una certa dimestichezza – a sbloccare la situazione. Chiese di scendere dalla carrozza e, una volta a terra, ordinò ad Angelica di accompagnarla all'ingresso della locanda, dove arrivò al suo braccio tra due ali di curiosi, preceduta dal cocchiere di colore e da un altro paggetto dai lineamenti di grande finezza, vestito d' un abito di velluto scuro come il suo copricapo: a Santino parve tanto di averlo già visto... in tempi recenti. Invece, davanti a Lucrezia l'oste restò ammutolito: oltre alla mole di lei, l'opulenza dell'abito e delle bardature di contorno le impedivano l'ingresso.
Qualcuno tra i clienti che ora si trovava chiuso fuori dalla locanda lanciava timide proteste: Santino non sapeva che pesci pigliare. - Or-so-li-na... la Signora Baronessa... Cenci! - riuscì poi a balbettare, volgendosi a chiamare la moglie. Uscendo accaldata dalla cucina, di fronte alla figura imponente della nobildonna la povera – stordita dall'eleganza di quella– non trovò di meglio che stirarsi freneticamente la gonna con le mani nel suo abituale gesto d'imbarazzo, prima di sprofondare in un goffo inchino: Lucrezia, pur incastrata com'era all'altezza dei fianchi, piegò il busto e tese le braccia per aiutarla a rialzarsi. Poi l'abbracciò facendola scomparire agli sguardi dei presenti, così sprofondata fra trini e merletti che ornavano i rigogliosi abiti della Baronessa. Dopo brevi convenevoli, Lucrezia parlò: - Mia cara, vi rubo soltanto un minuto per chiedervi un aiuto. Stiamo cercando una governante di palazzo per sostituire la vecchia strega che malauguratamente era stata con noi per ben dieci anni. Capirete che, dopo la delusione provata, usiamo la massima cautela. Vostra figlia Angelica verrà a trovarvi in orario più discreto e vi fornirà tutte le informazioni di cui avrete bisogno per spargere la voce tra le vostre conoscenze. Vi ringrazio per l'aiuto che ci potrete fornire! Quindi la soffocò con un secondo abbraccio prima di tornare alla carrozza. I pochi clienti rimasti all'interno in silenzio per non perdere una sillaba, erano tentati di seguirla nella via e già c'era chi proclamava di avere un nominativo. Ma Santino questa volta parlò chiaro: - Prego lor signori di riaccomodarsi o dovrò mio malgrado addebitarvi il lavoro che eventualmente necessitasse per riscaldare le vivande una seconda volta. Senza contare che non potrei certo prendere in considerazione qualsiasi protesta sulla qualità dei nostri piatti! Egli infatti ben ricordava le scherzose lamentele dei tre amici pittori la sera di Pasquetta, quando Michele insieme a Onorio e Prospero aveva costruito nella locanda una scena di genere, costringendo Orsolina a lasciar raffreddare l'arrosto. Quella volta però i tre amici erano gli unici avventori!
Le richieste dei clienti stavano allontanando Caravaggio dalle scene di genere che gli avevano dato notorietà, spingendolo suo malgrado verso le storie sacre che egli ovviamente non poteva ritrarre dal vero per motivi comprensibili. E poiché l'imbattersi in scene casuali o di strada che potessero di per sé prestarsi a descrivere episodi del Nuovo Testamento non era certo cosa frequente neppure nella città dei Papi, egli avrebbe dovuto dunque ricostruirle con modelli da lui istruiti e posizionati allo scopo. Ad esempio, una Cena in Emmaus era l'unica già pronta da tempo nella sua mente, con i genitori di Angelica perfetti nei panni di osti, la locanda nella penombra serale un ambiente reso intimo dalla luce del camino e dunque non gli mancavano che i protagonisti...e un committente! Ma inaspettatamente quella sera di Pasquetta del 1595 la cosa si concretizzò. L'Orsi venne infatti pregato dall'oste: - Messer Prospero, se non vi arrecasse disturbo mia moglie avrebbe tanto piacere di sapere cosa ha scritto nostra figlia... sapete... da Milano. Scusateci, ma noi poveri ignoranti non... sì insomma, mi fareste un regalo se poteste leggercela voi... sempre che ai vostri amici non dispiaccia. Come al solito un po' schivo, l'Orsi ò subito l'incarico al Longhi. Caravaggio guardò Onorio che già si stava accomodando e rimase folgorato: il volto pallido e un po' emaciato... la barba lievemente biondiccia... i lunghi capelli fin sopra le spalle e poi... l'amico architetto indossava per l'occasione informale una confortevole tunica invece dei soliti abiti da gentiluomo: era un Gesù perfetto! - E vada al diavolo pure il committente, se mai ne trovassi uno: lo prenderà così come sarà... - pensò Michele, vestendo prontamente i panni del regista: con l'aiuto di Santino spostò il tavolo, di modo che la luce del camino arrivasse dal fianco destro di Onorio per favorirgli la lettura; poi fece portare del pane e una brocca di vino, in attesa dello stinco di maiale che Orsolina stava terminando di preparare. Data un'occhiata al risultato, l'artista si diresse alla porta fregandosi soddisfatto le mani: - E adesso andiamo a cercare un altro discepolo per completare la scena! - esclamò uscendo nel vicolo buio. Santino temette fosse impazzito e si rivolse agli altri due con sguardo tra
preoccupato e interrogativo, che essi gli ritornarono sorridendo per la curiosità. Dopo pochi minuti Caravaggio rientrò insieme a un tale un po' allampanato di nome Luca, volto rugoso e aspetto denutrito. Costui – spiegò il pittore – era indicatissimo, non tanto per il nome assai appropriato quanto per una fame crudele che lo tormentava da giorni e che lo aveva spinto a subito accettare il suo invito per un pasto gratuito. Michele lo aveva rialzato da terra, dove lo aveva gettato con malgarbo l'oste della famosa Locanda della Vacca sull'angolo di vicolo del Gallo, dall'altra parte di Campo de' Fiori rispetto al vicolo delle Grotte. Con una vecchia coperta Orsolina imbastì una tunica per Luca, che fu fatto accomodare alla sinistra di Onorio-Gesù, mentre Prospero andò a occupare il posto rimasto libero di fronte al personaggio principale. Infine Michelangelo sistemò la lettera di Angelica sulla tovaglia, proprio sotto gli occhi dell'Architetto: - Tanto nel quadro non comparirà... poiché sarà invisibile a chi lo osserva, coperta com'è dal pane e dal piatto! - pensò facendo spallucce. Nell'ombra della stanza la calda luce del camino si spandeva discreta sulle figure dei commensali, creando un'atmosfera intima e misteriosa. Dopo pochi minuti la cuoca li raggiunse e si sistemò alle spalle del marito. Nelle sue mani un piatto con un bel pezzo di carne arrostita e fumante che spandeva un delizioso profumo: infatti, dovendo chiedere un così grande favore ai tre artisti, ci aveva aggiunto un po' della sua famosa salsa di mirtilli. Michele la fece spostare sul fianco di Santino e lei – visibilmente imbarazzata dal non trovarsi dietro di lui – tenne umilmente lo sguardo sull'arrosto tutto il tempo, per l'emozione accorgendosi troppo tardi che mentre Michele schizzava la scena la carne si freddava completamente: nel timore di rovinare tutto, la cuoca non si mosse né fiatò, limitandosi a corrugare preoccupata la fronte.
Angelica e Lorenzo si erano trasferiti a Milano da pochi mesi.
La proposta di matrimonio era giunta alla ragazza di sorpresa, qualche giorno dopo la festa d'estate e poco prima della sua partenza per Rocca Petrella. Colta impreparata, Angelica aveva preso tempo. La spaventava l'idea di trasferirsi a Milano, di abbandonare il suo mondo, di lasciare la famiglia, perdere l'amicizia di Beatrice e... privarla della propria. Non si sentiva pronta, insomma. E Lorenzo si preparò mestamente a trascorrere un altro Agosto nella sua torrida soffitta, in attesa d'una risposta che aveva sperato entusiasticamente immediata e che invece tardava, rinnovando il ricordo recente dei patimenti provocatigli dalle incertezze di lei. Si faceva coraggio ripetendosi che, dopotutto, se Beatrice era andata a cercarlo alla Locanda nel giorno de I Bari era stato perché Angelica una decisione l'aveva presa finalmente, scegliendo lui. Ma nonostante la sparizione del rivale il giovane non si sentiva tranquillo. La conosceva troppo bene per non temere qualche esitazione, qualche imprevisto ripensamento che lei avrebbe magari mascherato con argomenti vaghi o accampando scuse poco sostenibili. Si attendeva dunque una risposta che, prevedeva, non sarebbe stata un NO irrevocabile, ma neppure un entusiastico SI. Lorenzo si era confidato con la Principessa Costanza che non gli aveva negato il suo appoggio, consigliandolo di richiedere al padre ancora qualche tempo prima di rientrare a Milano e incaricandosi di fargli recapitare una lettera del giovane con il proprio sigillo a segno di benevolenza. Tuttavia, con sua sorpresa, a settembre Angelica accettò. Durante le vacanze dei Cenci, la ragazza s'era consultata con Beatrice, superando la perplessità nel parlarle di un argomento a questa penosamente proibito anche nei sogni. Temeva che la padroncina potesse soffrirne, non per invidia ma per la prova
della sua condanna a una vita infelice: per la conferma della sua segregazione infamante che ne faceva una donna esclusa con la violenza dall'amore di un marito e dalla gioia d'una famiglia propria. Invece Beatrice la tolse d'impaccio con la spontaneità dei suoi quindici anni e, un giorno in cui erano sole sui bastioni della Rocca, esclamò: - Secondo me, quando torniamo Lorenzo ti chiederà di sposarlo! - Veramente... baronessina - rispose Angelica - se è per questo me lo ha già proposto... - Ah si? Vedi? E non mi dicevi nulla!... perché... tu hai accettato, vero? Di fronte alla titubanza dell'amica, la giovanissima nobildonna l'aveva presa per mano e fatta sedere accanto a sé su una panca di pietra, ricavata tra due merli oltre i quali sprofondava l'abisso boscoso e inaccessibile. Poi - Ascoltami bene, amica mia - aveva detto mentre i suoi occhi si facevano serissimi - l'amore di Lorenzo è stato più forte del turbine che ti ha travolto finché tu non hai deciso che lui era migliore dell'altro e non ne hai cercato l'aiuto. Non te lo ha rifiutato perché non ti voleva perdere. Ora tocca a te decidere se lo ami e smettere di fuggire dalle tue responsabilità. Parole chiarissime ma non per Angelica che ascoltava compunta, gli occhi bassi. Capiva che Beatrice aveva ragione, ma non sapeva che dire: pensava di amare Lorenzo ma... prima era certa di amare quell'altro al punto da preferirlo a lui però poi... aveva dovuto ricredersi e adesso temeva di potersi sbagliare nuovamente. Chi sa – si domandava – era forse quello il senso delle misteriose parole dell'amica? La logica stringente della padroncina la lasciava in balia di colpe che lei faceva sue, ma che sue non erano: le incertezze e la sfiducia in sé stessa tornavano a sopraffarla. - Ma quali saranno poi, queste responsabilità? - si chiedeva senza trovar risposta. Per togliersi d'imbarazzo pensò bene di ribattere sfoggiando un'altra espressione
comunissima, della quale però le era sempre rimasta oscura l'esatta interpretazione: - Avete ragione - disse - vi ringrazio e ci penserò, ve lo prometto... dopo tutto ho diciotto anni ed è giusto che io mi decida a vivere una vita adatta alla mia età! Beatrice le risparmiò ulteriori approfondimenti e l'abbracciò con affetto. Anche Lorenzo rimase alquanto perplesso di fronte a quella stessa frase, con la quale la ragazza – rientrata a Roma – gli annunciò la decisione di diventare sua moglie. Avrebbe preferito una dichiarazione d'amore ma, conoscendo la prudenza di Angelica nell'esternare i propri sentimenti più intimi dei quali faticava a prender coscienza, si limitò a chiuderle la bocca con un lungo bacio che lei, sollevata, restituì apionatamente. Quello stesso giorno, mentre la ragazza rincasava a Palazzo Cenci, Lorenzo era andato alla Locanda per chiedere all'oste la mano di lei. Questi ne fu sorpreso, ma non per le ragioni che potremmo immaginare. - Con Messer Lorenzo? - pensò invece- stai a vedere che adesso quella sgualdrina vorrebbe pure mi sobbarcassi l'onere della dote! Ma se la sogna! - Mia figlia? - esclamò allora con enfatico stupore, tanto per prender tempo - ma quale figlia?... io ne ho una sola, Maria, che ancora non è in età! Lorenzo si sentì arrossire senza comprendere perché. - No, no... ma che dite mai... - disse sorridendo imbarazzato - è Angelica che io amo... da più di un anno. Intanto Orsolina si stava unendo a loro con una caraffa di vino e due bicchieri. - Aha! È così dunque!... da più d'un anno eh? - proruppe Santino puntando un dito contro il petto del giovane - allora eravate voi! Vi ho smascherato finalmente! - e schiumava di rabbia pensando alla famosa notte in cui aveva sorpreso un uomo misterioso in camera della figlia. Una zoccolata della moglie lo raggiunse a un malleolo, costringendolo a
mordersi le labbra per soffocare l'urlo di dolore che avrebbe liberato volentieri. - Ma... veramente... non... non capisco - balbettò Lorenzo - non so di cosa stiate parlando, Signor mio. A dispetto della sua fama di donna obbediente e taciturna, questa volta Orsolina intervenne invece con discreta decisione nei confronti del marito: - Ma caro, ti sembra questo il modo di aggredire Messer Lorenzo? Un gentiluomo come lui... - il figlio d'un Notaio... una persona dabbene... lo conosciamo no? - ti chiede di sposare tua figlia Angelica e tu lo tratti così? Almeno lascialo terminare. Poi, rivolta all'ospite - E voi, Messer Lorenzo, perdonatelo vi prego... oggi è così nervoso... ma suvvia... accomodatevi a bere un po' di vino! - e riempì i due bicchieri. L'oste sudava per il dolore, che gli impediva di scagliarsi come avrebbe voluto su quel bellimbusto arrampicatosi nottetempo fino al letto della figlia, violando la sua casa. - Ma... ma... lui è quel... - cominciò, guardando la moglie e puntando il dito su Lorenzo che continuava a non capire. - Lui è l'innamorato di tua figlia e basta, chiaro? - lo interruppe Orsolina fulminandolo con un'occhiataccia: da sempre aveva accarezzato quell'eventualità che tanto turbava il marito e ora gongolava nel veder confermati i suoi rosei sospetti... fin da quella turbolenta notte della scenata di Santino. Era decisa a imporsi, non volendo che la figlia perdesse una così buona occasione di matrimonio con un uomo di agiata famiglia che lei considerava quasi di casa. - Ma... ma...- tentò ancora il padre della sposa. - Non c'è ma che tenga... adesso ti siedi pure tu e ascolti cosa Messer Lorenzo deve dirci... e sarà meglio che tu lo tratti bene, dal momento che non è un cliente ma un ospite! L'oste capì di essere spacciato: la moglie aveva già deciso. Gli restavano solo due vie: o l'assecondava subito oppure lei gli avrebbe reso
difficile il prender sonno per un'intera settimana con le sue argomentazioni serali. E questa volta l'avrebbe spuntata lei, se lo sentiva. Rassegnato, fece cenno a Lorenzo di proseguire e si sedette davanti a lui: Poteva andar peggio - pensò - dopotutto questo giovane non mi dispiace affatto... però quella svergognata...Ma intanto rifletteva rapidamente: con il matrimonio di Angelica lui avrebbe perduto l'introito del suo salario... e la cosa gli scocciava non poco... ma forse avrebbe potuto rimediare affittando anche la cameretta di lei alle prostitute... - Per provvedere a mia moglie - stava intanto dicendo Lorenzo - penserei di lavorare nello studio di mio padre mentre completo gli studi... per diventare Notaio. Santino si fece attento e l'essudazione cessò. Il futuro genero gli descriveva con modestia la propria famiglia, il palazzotto nel quale abitava, la vita che vi si conduceva e la gente che lo frequentava, appartenente alla clientela paterna composta di nobili e di ricchi borghesi, di proprietari terrieri e di alti funzionari della corte sforzesca. - Caspita! - pensò il futuro suocero - mica si aspetterà una dote principesca, questo qui? - e decise di attendere che venisse lui in argomento. Ma a quel pensiero, sebbene il dolore al malleolo fosse ormai tollerabile, aveva ripreso a sudare. Lorenzo non poteva fallire: il padre aveva risposto alla sua lettera con munifica comprensione ma lui sarebbe dovuto rientrare entro l'anno a Milano, con o senza promessa sposa. Altrimenti che se ne stesse pure a Roma, ma sarebbero stati affari suoi. Orsolina aveva seguito il suo discorso con attenzione e ora taceva: toccava al marito dire la sua... quelle erano cose da uomini. Visto che l'oste esitava, il giovane gentiluomo giocò allora la carta vincente concordata in precedenza con Angelica, timorosa che il chiedergli la dote
avrebbe fornito a suo padre un'ottima scusa per imporre il veto. - Non vogliamo denaro, Messer Santino... desideriamo solamente il vostro consenso di andare a vivere a Milano per... - E che dio vi benedica, Messer Notaio! - lo interruppe l'altro allargando le braccia in un gesto liberatorio, senza dargli tempo di completare la frase. - Orsolina! - proseguì poi, euforico - hai visto che fra noi galantuomini ci si capisce subito e si sistema sempre tutto? Proprio non so perché voi donne vi preoccupiate tanto... fate le cose più difficili di quel che sono, ecco cosa fate! Invece... in due parole il nostro Signor Notaio ed io ci siamo messi subito d'accordo! - Beh... Notaio... io, veramente... non ancora! - precisò Lorenzo. - Ah! No, no... per noi ora voi sarete sempre il nostro Signor Notaio... e che, scherzate? Tanto è solo questione di tempo vero? Sapete... - aggiunse con tono di complicità - le donne ci tengono, al mercato, a dire che la propria figlia è sposata con una persona importante! Lorenzo e Orsolina si guardarono ma nessuno dei due volle contraddirlo.
Con tutto il gran parlare che s'era fatto in città sulla famosa festa d'estate, al rientro a Roma del Barone il quadro de I Bari era già stato venduto a un ignoto acquirente e fatto opportunamente sparire per timore di reazioni da parte del Cenci: se quell'irascibile prepotente vi avesse riconosciuto la figlia sarebbe andato su tutte le furie e... oltre a lei anche Caravaggio se la sarebbe vista brutta! Non si sa se dietro questa vendita ci sia stato lo zampino di Costanza, mentre è pressoché certo che l'ignoto compratore non fosse tra gli invitati alla festa. Non è dato purtroppo di sapere se il Del Monte – dal quale il quadro finalmente approdò a distanza di qualche tempo – fosse presente di persona al sontuoso ricevimento, ma in caso contrario – il Cardinale era filo se! – si può scommettere che ne venne immediatamente informato da persona di sua fiducia. La buona ventura godette invece – e fin da subito – di un successo strepitoso e nel giro d'un paio di settimane tutta Roma parlava del ritratto di Angelica:
pittori e mercanti d'arte ne lodavano la squisita fattura, mentre umanisti e mecenati discutevano gli intriganti risvolti psicologici di quello sguardo esitante, indagatore e insieme languido, anche per via dell'accenno di sorriso. I poeti infine non persero l'occasione di mettere in versi i sentimenti che esso ispirava: Non so qual sia più maga: o la donna, che fingi, o tu che la dipingi. Di rapir quella è vaga coi dolci incanti suoi il core e 'l sangue a noi. (Gaspare Murtola) E quando si sparse in giro la voce – non si conosce la fonte del pettegolezzo, sebbene paia che l'Orsi non fosse estraneo – che la ragazza effigiata fosse sua figlia, il padre di Angelica dovette fronteggiare un inatteso aumento di gentiluomini che andavano in trattoria nella speranza d'incontrarla: restavano tutti delusi, visto che lei stava ando l'estate alla Rocca di Petrella. Santino invece, di fronte all'accresciuto giro d'affari grazie a tanta pubblicità gratuita e inaspettata, rivalutò pubblicamente la figlia, della quale lodava con incredibile faccia tosta la grande diligenza, l'irreprensibile morale, il timor di Dio e il rispetto per i genitori. - Tutto merito del perfetto accordo che è sempre regnato tra sua madre e me per quanto concerneva la sua educazione! - concludeva gongolante di fronte agli ammirati avventori. Non risulta che fra questi ci fossero altri Duchi, ma in compenso erano numerosi i pittori squattrinati che ambivano ad averla come modella. Con questi l'oste mise a frutto l'esperienza maturata con Michele nel giorno de I Bari, imparando subito a distinguerli a colpo d'occhio: se vedeva tavolette,
cartoni o pennelli li cacciava di brutto non appena mettevano piede in trattoria. Gli alti papaveri vaticani, il Santo Uffizio e la banda Zuccari dei pittori manieristi omologati condannavano invece acidamente il fatto che nella tela di Caravaggio non vi fosse il minimo cenno a un qualcosa di pio, di santo, di virtuoso insomma: era soltanto il ritratto di due giovani fra i quali era evidente ci fosse una storia, come si dice... e verosimilmente peccaminosa! Non potendo dunque censurare un capolavoro così inoffensivo agli sguardi, essi boicottavano l'opera e l'autore tanto che uno zelante ammiratore di Michele, temendo rappresaglie dell'Inquisizione, sparse in giro la fola che il quadro contenesse in realtà un invito a non contravvenire il precetto ecclesiastico di non rubare: storia stiracchiata che proprio non stava in piedi, al punto che l'autore della pensata si guardò bene dal rivelarsi. Prosperino, forte della referenza procuratasi con la vendita della Canestra di frutti al Cardinale Borromeo, questa volta si dette un gran daffare per trovare un acquirente disposto a pagare un prezzo degno delle ormai riconosciute doti del suo giovane amico. Fin da principio egli aveva individuato il candidato ideale nel Cardinale di Borbone, sco Maria Del Monte di Santa Maria, non fosse altro che per l'espressione ammirata che gli aveva visto dipinta (... è il caso di dirlo!) sul volto nel giorno della presentazione della Canestra all'Accademia. Ne conosceva i grandi mezzi finanziari e il gusto sopraffino, e sapeva quant'egli amasse decorare con capolavori la propria residenza dove ospitava artisti, letterati e uomini di scienza a imitazione di quei Medici che egli rappresentava alla corte papale e che per primi avevano dato impulso mecenatesco al genio italiano del Rinascimento. Così avvenne che, dopo qualche mese di sue pazienti manovre fra Palazzi romani e mercanti d'arte, alla fine il Del Monte si aggiudicò il famoso quadro con un'offerta che spiazzò i concorrenti: era il gesto del grande Signore, quello che non si può rifiutare. Infatti, oltre a una congrua cifra in contanti egli propose a Michelangelo Merisi di andare a vivere nel suo palazzo come membro stipendiato della sua Corte: un Gentiluomo nei ruoli del Cardinale insomma, titolo che gli dava tra l'altro il diritto di portare la spada. Se questo segno di prestigio – cui Caravaggio teneva moltissimo per ragioni non
proprio prestigiose – non era forse consigliabile per via del suo carattere ribelle e focoso, il privilegio di vivere a Palazzo Medici gli aprì le porte del successo e delle grandi commesse pubbliche.
Tuttavia, ben presto egli ebbe pure modo di sperimentare il rovescio della medaglia, poiché il suo padrone – a tal punto conquistato da La buona ventura da farla sistemare nella propria camera da letto per meglio godersela in privato – non tardò a suggerirgli di produrne una copia che egli intendeva regalare al Granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici. Era un modo elegante per ordinargli di farlo.
Ma Michele detestava le copie. Le aborriva dal profondo del cuore e con tutte le sue forze, poiché egli traeva ispirazione dal vero e dunque mai avrebbe potuto ricreare dal vero la felice congiuntura di fatti e di emozioni che avevano prodotto l'irripetibile magia di quell'istante da lui fissato sulla tela. Col Del Monte ebbe lunghe discussioni anche accese e apionate, fino al punto da suggerirgli di regalare l'originale, se proprio ci teneva così tanto a non far mancare quel soggetto al suo Granduca! Proposta che il porporato cassò con un risentito - ... ma manco per idea! - un pomeriggio in cui aveva raggiunto Caravaggio a quell'edificio sul Pincio chiamato Casino Del Monte e noto ancor oggi come Casino Ludovisi, nel quale l'artista stava affrescando un soffitto con immagini di dei greci. Il grande pittore fu costretto alla resa solo quando il suo Cardinale gli annunciò che il Medici – lusingato dal dono ma non così amante della pittura come il suo ambasciatore romano – gli aveva subito espresso l'intenzione di poi fare omaggio del quadro nientemeno che al Re Borbone, Enrico IV di Francia, suo potente alleato e alla lunga imparentato con lo stesso Del Monte. Con questo argomento pesantissimo, il Cardinale di Borbone spostava sul piano... politico quella che tra lui e il pittore era stata fino a quel momento un'erudita schermaglia sull'arte. Caravaggio venne ben presto messo alle corde dagli incalzanti ragionamenti del suo mecenate, il quale gli spiegò che – nell'ambito delle manovre papali per ridimensionare lo strapotere spagnolo – Enrico di Francia era una pedina
preziosa, con l'unico neo di essere stato scomunicato per eresia in quanto di fede ugonotta. - Ma si sa, queste cose sono rimediabilissime - aveva soggiunto il Del Monte - se c'è una convergenza di interessi come in questo caso: il Re da ugonotto si è fatto cattolico e il Papa in cambio lo ha perdonato ritirando la scomunica... così che ora sono ottimi alleati. Di fronte a Re che cambiano fede religiosa per convenienza di potere e Papi che cancellano le scomuniche per strategia politica, cosa potevano mai contare le convinzioni artistiche di un povero pittore? Michelangelo, peraltro già francofilo sotto l'influenza di Onorio Longhi e, forse più ancora, visceralmente anti-spagnolo anche per via di qualche sua piccola noia con la giustizia lassù nel Nord Italia, non poté che piegarsi alle irriguardose leggi della politica: - Ma sia ben chiaro - aveva detto al suo padrone - che se poi il Re di Francia volesse regalarne una copia a qualcun altro... quella se la dipingerà lui! Purtroppo però s'era quasi all'estate '95 e da alcuni mesi Lorenzo era rientrato a Milano con la sposa: il grande pittore aveva purtroppo perduto i suoi modelli.
La lettera di Angelica non conteneva notizie particolarmente eccitanti. Lei si diceva contenta senza fornire dettagli e domandava invece della salute dei familiari, soprattutto quella di Maria. Poi descriveva con semplici parole la sua nuova vita, che per la verità non sembrava molto esaltante malgrado la novità dell'ambiente. Ma – aggiungeva – aveva tempo per leggere e scrivere, con la supervisione della suocera. Insomma, la giovane pareva un po' annoiata: informava la madre che la conduzione della casa era nelle mani della zia del marito – Emilia Pia – la sorella nubile e più anziana del suocero, che veniva descritta come una versione un po' più vecchia di Gertrude, ma per fortuna non così perfida. Era comunque evidente che fra le due non corresse buon sangue.
La ragazza era convinta che la ragione del malanimo della zia stesse nella sua difficoltà a dare un erede a Lorenzo: Emilia Pia – religiosissima e assidua frequentatrice della Chiesa di S. Eustorgio dei reverendi padri domenicani spagnoli – proprio non riusciva ad accettarlo. - Per rimediare - lesse a quel punto il Longhi - il primo venerdì di ogni mese mi costringe a portare alla coscia un cilicio penitenziale fatto d'un giro di ferretti lunghi quasi quanto un mignolo - e Onorio allargò pollice e indice della mano destra a mostrarne la dimensione. - Che diavolo?... ma non ci posso credere! - proruppe Prospero che gli stava di fronte, aprendo stupito le braccia - accidenti a lei!... ma si faccia gli affari suoi! mentre Luca, gli occhi sgranati per lo stupore, senza attendere suggerimenti abbrancò due angoli del tavolo sì che quasi pareva lo volesse rivoltare. Invece si limitò a protendersi verso il foglio esclamando incredulo: - Coosa? - Sono due mesi che mi sottopongo alla cura - continuò Onorio - che lei sostiene mi ingrazierà la Madonna... ma finora ci ho solo rimediato qualche piaga che la notte non mi lascia dormire e m'impedisce perfino di adempiere - come dice la zia - ai miei doveri coniugali!... altro che aiuto a procreare! L'oste era rimasto senza parole: la fronte aggrottata, fissava incredulo il foglio quasi a verificare le parole del Longhi... malgrado fosse ovviamente analfabeta! Orsolina invece pensava - Povera figlia mia, partita con tante speranze e pure tu finita a provare cosa significa essere donna! Sconsolata, riabbassò tristemente gli occhi che aveva alzato alle proteste degli ospiti e solo in quel momento s'avvide che l'arrosto le si era freddato del tutto. La donna vide Michele ancora intento a dipingere e restò immobile e muta. Poi, quando Caravaggio ripose il pennello per valutare il proprio lavoro, corse in cucina a provvedere, mentre la lettura di Onorio – in verità assai rapida perché affamato – riprendeva ad alto volume affinché pure lei potesse sentire. Le ultime frasi di Angelica parlavano di Lorenzo. La giovane sposa si diceva assai preoccupata per il marito, che trovava trasformato dopo l'arrivo a Milano: stavano sempre bene insieme e si amavano,
ma lui s'era ben presto fatto taciturno e triste. La zia sosteneva trattarsi di delusione per il mancato arrivo di figli a rallegrare la casa, ma dalle segrete confidenze del talamo la ragazza sapeva che Lorenzo pativa invece moltissimo il lavoro arido e noioso, subordinato a padre e fratello. E il Notaio, che conosceva i suoi polli, aveva già prudentemente informato il figliolo che, se per caso avesse mai accarezzato l'idea di tornarsene a Roma, poteva scordarsi qualsiasi aiuto finanziario da parte sua. Pessima notizia questa per Caravaggio, il quale poteva di conseguenza scordarsi a sua volta di recuperare i suoi modelli per la copia del quadro. La cosa lo irritò oltremodo poiché, cambiando quelli, la copia si sarebbe ancor più allontanata da quell'originale secondo il vero che gli avrebbe forse consentito di digerire un incarico molto lusinghiero ma assai poco gradito. D'altra parte, l'idea avanzata dal Cardinale – e cioè di semplicemente copiare il quadro già fatto – era per lui inaccettabile a maggior ragione. - E come potrei - aveva risposto al Del Monte - farmi paladino della pittura dal vero, se poi mando nientemeno che al Re di Francia il ritratto di... una tela da me dipinta? Decise di cercare due modelli per lo meno un po'somiglianti a Angelica e Lorenzo. Il problema non era tanto il gentiluomo: Palazzo Medici brulicava di paggi e di giovani musicanti, dunque egli non avrebbe avuto troppa difficoltà a trovarne uno che in qualche modo potesse replicare quell'espressione imbambolata di Lorenzo. Il vero guaio era la zingarella: dove mai avrebbe incontrato una giovane popolana aggraziata come Angelica e inoltre capace di riprodurre quella sua espressione incerta e trepidante mentre sfila l'anello dal dito di lui? L'artista pensò subito a Fillide Melandroni, l'unica ragazza che gli sembrava possedere tutte le doti necessarie, dalla bellezza alla capacità di entrare nella parte, come si dice. Ma sfortunatamente Fillide aveva iniziato a bazzicare talvolta a palazzo, accompagnatavi da questo o quello dei cortigiani del Del
Monte, e gli avrebbe sicuramente chiesto una cifra considerevole che Michele non poteva pagare poiché il quadro non gli avrebbe procurato alcun incasso... ma solo la noia di dipingerlo. Per settimane girò i mercati cittadini alla ricerca di servette, frequentò locande valutando prostitute alle prime armi, si fece autorizzare a visitare cucine e lavanderie di Palazzi che frequentava al seguito del suo Cardinale. Non trascurò neppure gli accampamenti zingareschi che stavano nei prati fuori le mura e lungo il Tevere, rimettendoci qualche moneta per sedare gli atteggiamenti poco amichevoli con i quali talvolta vi veniva accolto. Tutto invano. E il timore di finire a dover copiare il proprio capolavoro gli aveva procurato un versamento di bile, quasi fosse tornato ai tempi del Bacchino! - Sai una cosa?... ne ho piene le tasche! - esplose finalmente una domenica alla locanda - Le cose stanno così: quel furbastro del mio padrone vorrebbe tenersi l'originale mettendomi nei guai senza sborsare un solo quattrino!! - disse battendo il pugno sul tavolo e facendo sobbalzare l'amico Prospero. - Proprio non capisco perché tu debba angosciarti a cercare cocciutamente l'impossibile. Mi mangerei l'occhio d'un gallo che quel Re di Francia l'originale non lo vedrà mai: sai quanto gliene importa, a simili personaggi!!... il quadro del Granduca Medici lo guarderà si e no una volta all'arrivo, tanto per formalità... e il giorno dopo se ne sarà già dimenticato! Michele dovette convenire che, anche supposto che invece gli pie al punto da imprimerselo nella mente, nel caso assai poco plausibile d'un suo soggiorno a Roma le probabilità che egli si soffermasse nella stanze private del Cardinale di Borbone per fare un paragone con l'originale erano comunque minime. Anzi, conoscendo ormai il proprio padrone era pronto a scommettere che il Del Monte avrebbe fatto di tutto per non mostrarglielo. Infatti quello sarebbe stato tanto migliore della copia che avrebbe rischiato di doversi poi tenere questa lui stesso per non scontentare nientemeno che il Re di Francia, prezioso alleato del suo... principale, il Granduca di Toscana! Irritato, Michele batté un secondo pugno sul tavolo, tanto che Prospero vide l'oste volgersi a guardarli preoccupato (ovviamente per il tavolo). - Sì... lo so - commentò poi, rassegnato - hai ragione: per una volta dovrò fare come il Cavalier d'Arpino e gli alti papaveri dell'Accademia, che dal vero non
ritraggono nulla... e vabbè... vorrà dire che copieremo Angelica e... - Ma no, e perché poi? - lo interruppe l'amico - scegli due modelli qualunque, vestili come Angelica e Lorenzo e ritraili nello stesso atteggiamento... il tuo padrone che vuoi che dica? In fondo questo secondo quadro non è mica per lui... e neppure per qualcuno che già conosce l'originale! Caravaggio ci pensò su, stiracchiandosi i peli del pizzo. Poi bevve un altro sorso, trasse un lungo sospiro e - Bah! - concluse - non mi convince ma forse è l'unica cosa da fare. Dopotutto se l'è voluto lui e finché io sono sul suo libro paghe... Ma allora lo farò alla mia maniera - aggiunse con aria maliziosa - sceglierò i modelli più goffi, inespressivi e impacciati che potrò trovare e... questa sarà la mia vendetta! Che col Medici se la veda poi il mio Cardinale... sco Maria di Borbone del Monte di Santa Maria! Ottenne senza difficoltà da costui l'autorizzazione a ripetere la scena con altri modelli e si accinse all'opera un po' svogliatamente. Come gentiluomo scelse un paggio di casa: il cranio un po' fuori misura e la capigliatura troppo abbondante non consentirono di trovargli un cappello che calzasse a dovere, ma... - pazienza, tanto quello mica è un copricapo alla se... e che ne sanno poi a Parigi se qui a Roma non sia alla moda portare il cappello di sghimbescio? - pensava ridacchiando. In compenso però per esibirsi con un viso imbambolato il nuovo modello non avrebbe neppure abbisognato -come Lorenzo- del potere di seduzione di Angelica: più che ammaliato questo pareva perplesso ma in realtà era imbambolato di natura! E la sua diffidenza verso le ragazze derivava da una sua certa preferenza per i maschietti che frequentava per motivi professionali, oltre che da un suo marcato risentimento nei confronti delle donne che facevano maliziosamente leva sulla sua palese timidezza per prevaricarlo. A partire dalla madre. Il ruolo della zingarella lo affidò invece a una giovane lavandaia che gli parve la meno sgraziata fra il personale femminile del Cardinale il quale, non avendo la diffusa abitudine di violentare a piacimento le serve, non prestava più che tanto attenzione al loro aspetto.
La ragazzotta proveniva da un villaggio sulle prime alture appenniniche, dove i genitori erano contadini in una tenuta del Del Monte, e accettò con emozione la proposta del pittore. Si dimostrò da subito una modella di buon comando, come si usa dire. Per la verità era però alquanto paffutella e le sue dita un po' grassocce mal si prestavano al tocco leggero e svelto con il quale avrebbero dovuto sfilare l'anello dal dito del gentiluomo, tant'è che quello ogni volta le sfuggiva e la ragazza se ne gettava al recupero sul pavimento interrompendo la seduta pittorica, malgrado gli sforzi verbali di Michele per dissuaderla. Ma la cosa che più disturbava l'artista era quell'indesiderata e ben evidente collanina di pelle e grasso che le circondava il volto sotto il mento e le mascelle. Per fortuna ancora di ridotte dimensioni grazie alla giovane età, essa era tuttavia un promettente principio del fenomeno comunemente detto doppio mento, che dovette perciò venir coperto da uno stretto sottogola giustificato dalla necessità di tener fermo il turbante, simile a quello usato a suo tempo da Angelica (che però era privo di sottogola poiché non necessario!) Sfortunatamente la stretta esercitata sul collo da questo rimedio accentuava l'espressione un po' – diciamo – stralunata della ragazzotta, dandole un aspetto ancor più rigido e impacciato. Insomma, Caravaggio lavorò di malavoglia al quadro per alcune settimane. A lato dei modelli – e per dar loro un riferimento – aveva sistemato l'originale, per completare il quale gli erano occorsi soltanto due giorni subito dopo la festa dei Cenci. Ma ogni volta che gli dava un'occhiata per sollevarsi il morale, pensava che la giovane cuoca più che a una maliziosa zingarella poteva semmai somigliare a una... Lucrezia Cenci giovane (ma non bella), visto il suo aspetto prematuramente matronale malgrado la verde età. E Michele ripiombava in depressione. Semplicemente, il pittore questa volta proprio non era ispirato, non sentiva quel dipinto... non lo amava insomma. Ne risultò un quadro eseguito ovviamente con straordinaria maestria, ma che rappresentava due giovani del tutto inespressivi: un'opera senza vita. Quanta trepidazione c'era nel busto inclinato di Angelica che studiava le
reazioni di Lorenzo! – pensava con rimpianto Michele mentre invano tentava di farne imitare la posa alla cuoca, che riusciva soltanto ad apparire insicura sulle gambe. Tanto che, dopo alcuni pestoni al collega che tentava di sostenerla, finì col cadere trascinandolo a terra e l'artista decise così di ritrarla com'era: rigida e impettita. Tra prove e tentativi più o meno svogliati, Caravaggio aveva finito col trascurare la presa di lei sulla mano destra del gentiluomo, che avrebbe invece voluto ben ferma poiché altrimenti mai Angelica sarebbe riuscita a estrarre l'anello dal dito. Così la destra del gentiluomo pare stancamente appoggiata alla sinistra della zingara, che la sorregge senza stringerla... tant'è che nel farlo il suo mignolo sinistro si sporge quasi lei reggesse con delicatezza un fragile calice, in un goffo atteggiamento che ricorda quello dei bevitori un po' rozzi quando vogliono darsi un piglio raffinato. A parziale discolpa della giovane, occorre dire che ciò era anche frutto d'una malattia professionale: una dolorosa tendinite che le impediva di chiudere il pugno, retaggio dei bucati invernali nelle gelide acque del torrente di casa. In compenso però, il suo lavoro le garantiva unghie sempre pulite, non certo come quelle d'una zingara: ma Caravaggio proprio non era preso da questo lavoro e neppure si curò di questo importante dettaglio. E quanta rassegnazione esprimeva nell'originale il capo di Lorenzo, che piegava lievemente verso la ragazza, quasi pensasse: - E va bene, ci risiamo daccapo... so che farai di me ciò che vorrai!... Avanti dunque, colpisci! Ora invece... è vero... il giovane sembra imbambolato... ma non ha l'aspetto stanco e rassegnato di chi subisce senza aver la forza di reagire: è invece rigido come un bastone forse anche per il costante timore d'una caduta, come si è detto. Nel primo quadro era evidente che i due si conoscevano, che erano complici, che tra loro c'era una storia contrastata: Caravaggio aveva fermato sulla tela un attimo di intensa tensione. Un attimo la cui drammaticità veniva evidenziata dal moto reciproco dei personaggi, che da un lato pare si vadano incontro e dall'altro invece si tengano a distanza... timorosi entrambi in ugual modo ma per motivi diversi.
Noi ben sappiamo che questa era la pura verità: il quadro era un'istantanea che raccontava una storia, un capolavoro assoluto per la spontaneità dei gesti e la naturale intensità delle espressioni, in equilibrio perfetto tra sentimenti contrastanti. Nella copia invece, i due sono del tutto inespressivi e lui piega il capo, quasi a rivelare il desiderio d'allontanarsi dall'irrigidita zingarella: - Sbrigati, dunque! sembra dire, tra sorpresa e impazienza: ma intanto guarda altrove. E il volto quasi spaventato di lei è forse proprio il compromesso, faticosamente raggiunto con decine di pose, tra la timidezza della modella e gli inviti di Michele che la spronava vanamente a imitare l'incerto sorriso di Angelica stirando appena le labbra: dopotutto l'originale era lì sotto i loro occhi e lui aveva curato che la luce sullo zigomo della lavandaia fosse perfetta... ma per anche solo l'ombra d'un sorriso non ci fu proprio verso, questa volta! Alla fine Caravaggio era profondamente deluso, al punto che con gli amici si riferiva desolato ai modelli come ai due manichini. Tanto che quando rinunciò ad annerire le unghie di lei, come aveva invece fatto Beatrice con quelle di Angelica, raccontano avesse detto: - È inutile... anche con le unghie nere non sembrerebbe mai una zingara, ma soltanto una lavandaia... con le mani sporche! E, osservando indispettito l'opera sua, si diceva che la pittura era per lui un po' come il sesso mercenario: mancando il coinvolgimento emotivo non ne usciva mai soddisfatto! Di fronte all'opera ultimata, gli amici Onorio e Prospero si guardarono quasi increduli e – ben conoscendone la tribolata storia – faticarono a trattenere le risa. L'Orsi tuttavia ne aggiunse un'interpretazione più sottilmente perfida: - Proprio non ti sei potuto trattenere dal farla in qualche modo pagare al tuo padrone, vero? -commentò sogghignando - questa non è una copia di quel gioiello e nemmeno è un "Caravaggio"... perché gli manca un'anima... ce n'era di più perfino nei frutti bacati e nelle foglie morte della Canestra! Tuttavia la fama dell'originale era ormai tale da predisporre favorevolmente chiunque guardasse anche solo la copia, estorcendone ammirati commenti e lodi sperticate per l'autore. Malgrado... tutto.
Fu così per il Granduca di Toscana, al quale il Cardinale di Borbone – perplesso pure lui sull'opera di Michele ma senza darlo a vedere per via dei sensi di colpa – s'affrettò a spedire il quadro non appena fu ben asciutto. E malgrado lo scetticismo di Prosperino fu così anche per il Re di Francia, che lo ebbe carissimo e lo trasmise ai discendenti con la raccomandazione di averne la massima cura. Cosa che puntualmente avvenne anche con coloro che si succedettero al potere nei secoli successivi fino a Napoleone, alla Restaurazione e poi alla Repubblica dei nostri giorni: il quadro di Michele è oggi una delle perle del Louvre, il più famoso Museo del mondo. E poiché i si sono maestri assoluti e insuperabili nel valorizzare tutto ciò di bello e di buono che il loro Paese produce o possiede, tanto basta a far sì che tutti siano oggi convinti esser quella del Louvre la vera Buona ventura di Caravaggio. Anzi, i più pensano addirittura sia l'unica... e l'ammirano estatici! A riprova del fatto che, a volte, a sancire il successo d'un'opera d'arte val meno la sua intrinseca bellezza del nome dell'Autore... o del suo sponsor.
Perché Emilia Pia acconsentisse ad alleviare Angelica nell'assurdo tormento del cilicio, forse più dell'evidente distrazione di Sant'Eustorgio valse l'intervento della suocera, tirata in ballo da Lorenzo alla terza piaga consecutiva sulle cosce della moglie. Sulle prime la zia fece l'offesa, tanto che occorse la mediazione del padre di Lorenzo per sventare una rottura: venne negoziato un compromesso, secondo il quale ogni tre mesi Angelica avrebbe indossato il cilicio per quattro ore. Per il resto del tempo la zia aveva consigliato di sostituirlo con un'abbondante dose di quotidiane orazioni a Sant'Orsola, che godeva della sua incondizionata fiducia in qualità di protettrice delle vergini: la Santa era infatti la fanciulla che respinse Attila, Re degli Unni e per di più – causa quel suo eroico rifiuto – uccisore di lei. In questo modo, Sant'Eustorgio avrebbe così potuto
in caso di scarsi risultati con Sant'Orsola.
- Credimi Angelica - le aveva detto a prova dell'affidabilità della Santa - da quando avevo dodici anni le recito tre volte al giorno e... vedi un po' tu, mi ha conservato pura fino ad oggi... malgrado tutte le diaboliche tentazioni di questo mondo! Nel suo ingenuo entusiasmo, la zia aveva trascurato il particolare che Angelica era ormai donna sposata e dunque non più vergine: forse fu invece proprio questo il motivo per cui a tutta prima Sant'Orsola parve fallire tanto clamorosamente. La giovane sposa trascorreva le giornate leggendo e collaborando in faccende domestiche o accompagnando al mercato Emilia Pia con una serva, per gli approvvigionamenti settimanali. E tutto ciò malgrado la noia di dover ogni volta fare una tappa alla Chiesa di S. Eustorgio dal padre spirituale di Emilia, per una lunga confessione e conseguente recitativo di penitenza che la zia ripeteva poi per sicurezza ad alta voce sulla via verso casa. Soltanto la domenica, tempo permettendo, i due sposi uscivano per un pomeriggio di eggiate nel centro della città, movimentato senza chiasso, ricco senza magnificenza e povero senza degrado: all'interno della nuova cinta muraria Milano viveva nel cupo rigore dell'Inquisizione di marca spagnola. Angelica accettava insomma di buon grado la sua nuova vita, confortata dall'amore e dalle premure del marito, ma le mancava moltissimo l'atmosfera vivace e rumorosa di Roma. Nel grigio palazzotto di proprietà della famiglia si sentiva reclusa e soffocata al punto da rimpiangere i grandi finestroni delle logge di casa Cenci che, a dispetto della severa facciata, rovesciavano nella galleria e sugli scaloni torrenti di luce a illuminare gli addobbi e a far risplendere i marmi di pavimenti e colonne. A Milano, invece, la luce si arrestava al portone delle case, quasi timorosa di turbare l'ordinata severità dei vecchi arredi e l'intimità borghese dei cortili silenziosi incorniciati da pareti tappezzate di edera; e poi, d'inverno... L'inverno era stato lunghissimo e freddo quell'anno e il maltempo pressoché costante: pioggia e neve a partire da Novembre, con un cielo che quando non era bigio non lo si vedeva del tutto a causa della spessa nebbia.
Perfino col sole Angelica non aveva voglia di uscire, così tutta imbacuccata con mantello, sciarpa e cappuccio che... manco poteva guardarsi intorno. Arrivati a Marzo non ne poteva più di quella fredda umidità e sentiva tanto bisogno di luce e tepore: a Maggio, il tempo più clemente le consentiva qualche eggiata domenicale sulle mura insieme a Lorenzo e la giovane si sentiva meno infelice osservando gli orti lungo i canali, che le ricordavano le sponde del suo Tevere. Non durò a lungo: a giugno si moriva già dal calore e non si usciva che la sera, ma soltanto finché c'era luce e accompagnati comunque da un bravaccio dotato di lanterna... e di pugnale. Manco a dirlo il caldo era tanto umido e afoso che gli abiti le si attaccavano addosso; e poi di notte faticava a respirare perché le zanzare imperversavano, con tutta quell'acqua che i navigli portavano fin quasi al centro della città. Emilia Pia era stata assai criticata per aver proposto senza risultati l'accensione di ceri all'effige di San Rocco, specializzato in protezione da pestilenze ma che, evidentemente, non degnava la malaria di alcuna attenzione. E soprattutto proprio non c'era traccia alcuna di quel dolce venticello di Roma che mai mancava di regalare, la sera, un po' di refrigerio ai cittadini: le strade lastricate del centro di Milano erano roventi e bigie, come i muri dei palazzi tutti simili tra loro. Tanto che, se lei fosse uscita senza essere accompagnata da qualcuno della famiglia, l'uniformità dell'ambiente all'intorno le avrebbe creato più d'un problema per ritrovare la via di casa. Perfino lo stretto vicolo della Locanda del Vescovo le pareva luminoso al confronto, col suo acciottolato immerso d'estate in una polvere giallastra che richiamava il colore di molte case compresa la sua. Insomma per vedere la luce come le piaceva, a Milano si doveva andare al Castello o al Duomo in un giorno estivo di sole... combattendo la calura. E ancora sarebbero mancate le macchie di colore delle bancarelle di Campo de' Fiori. - Dicono che Michelangelo si fosse trasferito a Roma per studiare la luce! E sfido io! Venir quassù non avrebbe avuto senso... qui proprio non sanno cosa sia! - pensava la giovane sposa con nostalgia.
La prima domenica d'estate il sole splendeva su Milano. L'aria era stata rinfrescata nella notte da un forte temporale e finalmente si respirava: era il giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo. In città s'era sparsa la voce dell'arrivo d'una carovana di saltimbanchi, che stazionava nel grande spiazzo di fronte alla Chiesa di Sant'Estorgio, nei pressi delle mura spagnole e della darsena dei Navigli. Una folla di popolani accorreva dalle vie adiacenti e si accalcava negli stretti spazi che dividevano i carrozzoni, dei quali soltanto i primi arrivati si erano potuti sistemare a semicerchio tutt'intorno, su una serie di elevazioni che circondavano come una ciambella un avvallamento del terreno. Gli ultimi, invece, si erano dovuti accontentare della parte centrale, coperta da una fanghiglia densa e nerastra, retaggio delle recenti piogge. Il pubblico prediligeva ovviamente le zone elevate, ad eccezione dei bambini più piccoli che costringevano le madri a corse improvvise per prelevarli dal fango prima che ne venissero ricoperti interamente. Frotte di ragazzini correvano gridando e inzaccherandosi l'un l'altro per poi infilarsi tra le gambe degli adulti che assistevano a uno spettacolo e raggiungere così la prima fila. Nell'aria c'era un odore acre di carni arrostite misto al puzzo di sterco di cavallo. Un frastuono assordante di applausi, grida, risate e scoppi di mortaretti copriva i richiami degli imbonitori che attiravano i anti descrivendo mirabolanti esibizioni di ginnasti, di galline parlanti, mangiatori di fuoco e di raccapriccianti mostriciattoli umani poco cristianamente ingabbiati. Per farsi sentire in quel frastuono alcuni di loro si avvalevano chi d'un megafono, chi dell'assordante richiamo d'un tamburo o di potenti squilli di tromba. Angelica sfoggiava per l'occasione un elegante ombrellino regalatole dalla suocera e un vezzoso copricapo a cuffietta con sottogola annodato – che sarebbe piaciuto molto a Orsolina – e si aggirava tra i carrozzoni al braccio del marito, badando a star lontana dalla spessa fanghiglia poiché la sua gonna di pizzo
leggero arrivava fino a terra. I due coniugi vagavano senza una meta, gettando uno sguardo sugli spettacoli quando le grida del pubblico o degli imbonitori attiravano la loro attenzione. Si arrestarono su una bassa gobba del terreno, di fronte a un gruppo di suonatori che con liuto, flauto e violino eseguivano ballabili e madrigali: una piccola folla danzava intorno a loro. Alle spalle di Angelica e Lorenzo, nella zona più bassa del campo, alcuni curiosi si radunavano di fronte alla gabbia della donna barbuta, i cui piedi erano sommersi dal fango: i numerosi ragazzini presenti non badavano a quello e la dileggiavano, divertendosi agli schizzi che la disgraziata provocava tentando vanamente d'acchiappare d'un balzo il più vicino. Di fronte al carrozzone accanto a quello dei suonatori non c'era invece nessuno, anche perché esso non era un carrozzone vero e proprio, ma un semplice carro da contadini parzialmente coperto da un telo malconcio sorretto da pali: attaccato a esso un ronzino dall'aria malaticcia scacciava con la coda nubi di mosche. Da una piattaforma di fortuna, ricavata con un tavolaccio appoggiato da un lato a due pali affondati nel fango e dall'altro al pianale del carro, un mingherlino dal berretto piumato invitava ad accomodarsi per sfidare a dadi o a primero il suo campione. All'estremità di quell'improvvisato palco stava, in precario equilibrio, un tavolino con due sedie sgangherate e pateticamente vuote. Mentre ascoltava la musica e seguiva le evoluzioni dei danzatori Angelica, un po' impietosita dal totale disinteresse del pubblico per quel poveraccio, di quando in quando controllava con la coda dell'occhio se gli sforzi di lui sortissero un qualche risultato. Finalmente alcuni uomini, che le parvero ubriachi, accettarono la sfida: uno di essi sguazzò con noncuranza nel fango, mise un piede sul mozzo d'una ruota e il piccoletto lo aiutò a salire sulla piattaforma. Tanto bastò perché intorno alla pozzanghera si formasse un gruppetto di curiosi. Quando lo sfidante si fu accomodato tra preoccupanti scricchiolii di palco, tavolo e sedia, dal carro uscì con sussiego il campione.
Una folta barba nera gli nascondeva mento e parte del volto, mentre la bocca era incorniciata da baffi rigogliosi che piegavano verso terra ai lati di essa. Costui portava calzoni al ginocchio, da dove partiva una sfilacciata bendatura che arrivava fino alle scarpe. Dall'apertura della giacca color oro, che le numerose toppe facevano pensare avesse vissuto momenti più gloriosi, s'intravvedeva un giubbotto verdastro. Un vanitoso cappellaccio piumato completava l'abbigliamento, insieme a un bastone in metallo luccicante ma ormai privo di pomo. Insomma, un po' il tipo che oggi potremmo definire uno sfigato... spavaldo. Nel salutare il coraggioso sfidante, il campione si tolse la giacca appoggiandola allo schienale della sedia e il giubbotto si rivelò essere invece una specie di malconcia canotta che lasciava nude braccia e spalle. Come nel lampo d'un incubo Angelica notò il segno scuro sulla spalla destra dell'uomo: malgrado la distanza le parve una grossa cicatrice. Istintivamente strinse il braccio del marito, assorto ad ascoltare una piacevole canzonetta sconosciuta che avrebbe volentieri aggiunto al suo repertorio. Lui si volse a sorriderle per subito tornare a concentrarsi sui musicanti: alla giovane parve che lui non avesse notato nulla... e respirò sollevata. - Non è possibile! - si diceva, dandosi un contegno senza avere il coraggio di riguardare - Eppure... la ferita era proprio in quel punto... Lasciò are qualche istante, poi cedette alla curiosità e volse il capo per gettare un'occhiata: il campione si era seduto e ora poteva vederlo di fronte, mentre con piglio sicuro preparava la smazzata. - No... non è lui - pensò mentre una strana agitazione s'impadroniva di lei questo mi sembra più basso... e poi lui era più muscoloso ma... accidenti a tutta quella barba! In quella l'uomo, terminato di dare le carte, alzò il volto e la vide: i loro sguardi s'incrociarono per un lungo istante... e Angelica perse i sensi.
Al grido di Lorenzo che la sentì accasciarsi, ci fu una gran confusione: mentre qualcuno lo aiutava a trasportarla sotto un albero per toglierla dal sole, altri correvano alla vicina fontana, altri ancora si affannavano per trovare una carrozza libera dove distenderla nell'ombra. Mentre lei si riprendeva, si avanzavano ipotesi sulla causa di quel malore in una donna così giovane: la diagnosi di tutti era una sola e senza ombra di dubbio. A casa, la zia non esitò: Angelica era incinta. Anche questa volta Sant'Orsola non aveva fallito, per quanto in palese conflitto con la sua specializzazione. Mentre Emilia Pia si eclissava nella cappella di famiglia per i riti del ringraziamento, tutti si mobilitavano intorno alla sposa di Lorenzo: la notizia della gravidanza aveva creato una grande eccitazione. Ma la sposa sapeva che questa sarebbe durata ben poco... al più una settimana: proprio quel mese infatti gli aculei della zia erano stati più efficaci del solito. A un angolo dell'incrocio – cui s'affacciava il palazzo – un uomo sbracciato e ansimante per la corsa aveva assistito – non visto – all'ingresso della carrozza nel cortile. Aveva pazientemente atteso le prime ombre della sera e ora stava osservando la grigia costruzione, il robusto portone con pesanti borchie in metallo e le finestre a inferriate del piano terra. Poi studiò con occhio esperto i rampicanti che ricoprivano la facciata d'una spessa coltre di foglie, corrugò la fronte, scosse la testa, si lisciò perplesso i baffi e con aria delusa si dileguò...
Lorenzo era stato ben conscio dell'infelicità di Angelica fin dalla prima nevicata. Lei l'aveva inizialmente ammirata con curiosità e stupore, ma ben presto aveva preso le distanze dalle finestre per rifugiarsi nelle stanze più interne della casa, dove si era piazzata nei pressi del camino avvolta da spesse coperte. Malgrado ciò era perennemente raffreddata come la zia, tanto che le due procedevano costantemente in coppia: seduta di suffumigi, sfregamento di canfora sui fazzoletti o di olio mentolato sulla biancheria, accensione di ceri con essenza di eucalipto e, prima di coricarsi, una vigorosa frizione pettorale con un balsamo di provenienza andina di cui si dicevano miracoli.
E ovviamente orazioni in abbondanza, sebbene la zia non fosse mai stata in grado di individuare un Santo o una Santa specializzati in malattie da raffreddamento. Il giovane sposo, assai preoccupato dalle difficoltà d'integrazione della moglie nel nuovo ambiente, cominciò ben presto a pensare al ritorno a Roma; anche per via della propria insoddisfazione personale che pareva non ricevere alcuna attenzione in ambito familiare... il che voleva poi dire da parte del padre. Così, con la scusa degli auguri per la Pasqua, Lorenzo aveva scritto al Cardinale Borromeo, spiegandogli le loro difficoltà e pregandolo di suggerirgli come salvare il proprio matrimonio e le proprie ambizioni. Il Cardinale, previo consulto con la Principessa Costanza, gli rispose di contare sulla loro benevolenza e il loro appoggio in qualunque momento... e Lorenzo si immerse negli studi, conseguendo finalmente la laurea all'inizio dell'estate 1596. I festeggiamenti furono parchi e brevi. Nulla che vedere con il sontuoso ricevimento che aveva celebrato quella del fratello maggiore al suo rientro dal viaggio premio a Venezia, ospite dell'ambasciatore degli Sforza. Ma in compenso era intervenuta Costanza con una proposta non rifiutabile: oltre a ospitarli a Palazzo Colonna, aveva garantito a Lorenzo un onesto stipendio presso uno dei più stimati Notai di Roma, mentre Angelica avrebbe sostituito una cameriera personale della Principessa andata sposa a un gentiluomo di corte e per questo ata di grado a dama di compagnia. Il padre non si degnò neppure di avanzare una controproposta e così i due giovani sposi raggiunsero la città eterna a settembre dello stesso anno. Si sussurra che dietro a ciò si nascondesse un acido commento dell'arcigna zia con il fratello: - Beh...si vede che a lui andrà bene così, avendo sposato una serva!
Le cronache del tempo non riferiscono di ulteriori contatti di Angelica con Beatrice. Ma a noi piace pensare che invece questi ci siano stati, magari proprio grazie
all'aiuto – ancora una volta prezioso – della Principessa Costanza Colonna. Così come ci riesce facile immaginare che la prima abbia con disperazione seguito per intero la tragedia della seconda, piangendo rabbiose lacrime d'impotenza per l'ingiustizia commessa con avidità crudele contro di lei, pur colpevole, e gli altri innocenti eredi del Barone sco Cenci. E possiamo scommettere che Angelica non ebbe cuore di assistere al supplizio della sua unica e grande amica sul ponte Sant'Angelo, l'11 Settembre del 1599.
Ci sono invece buone ragioni per credere che Caravaggio fosse presente e da ottimo punto d'osservazione: l'esecuzione di Beatrice era infatti pubblica, per dare un segnale inequivocabile alla popolazione romana del terribile castigo che attendeva chi con un delitto infrangeva anche l'ordine gerarchico familiare. Si da' inoltre il caso che il pittore abbia dipinto – verosimilmente in quell'anno 1599 – uno dei suoi capolavori: Giuditta che decapita Oloferne, dove il dettaglio dei particolari anatomici e'preciso al punto da far pensare che egli possa aver assistito – da molto vicino – a un'esecuzione capitale per decollazione. E il fatto che egli abbia scelto l'episodio d'una eroina(Giuditta, interpretata dall'amica Fillide Melandroni) che giustizia l'oppressore inerme potrebbe dirla lunga sui pensieri che turbavano l'animo di Michele in quella tragica mattina: anche l'eroina Beatrice aveva liberato il mondo da un odioso oppressore sebbene non l'unico di quel genere ma, a differenza di Giuditta, non ottenne riconoscimento per il suo gesto coraggioso e venne invece punita con la morte, come Lucrezia – decollata pure lei – e il fratello Giacomo, mazzato e squartato. Invece, il piccolo Bernardo – senza colpa alcuna – venne lasciato marcire nelle prigioni di Tor di Nona... e forse fu quello che ebbe a soffrire più di tutti.