Gian Piero de Bellis
Libertaria, Volume 1
Una antologia scomoda
Libertaria. Una antologia scomoda.
Volume 1
A cura di Gian Piero de Bellis
Libertaria è stato pubblicato per la collana Eschaton diretta da Raffaele Alberto Ventura
Cover design e impaginazione di Alessio Villotti
Editing e correzione di bozze di Emmanuele J. Pilia
Alcuni diritti sono riservati Questo libro è distribuito con licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0). Puoi condividere, adattare e distribuire il materiale contenuto in questo volume con ogni mezzo e per ogni scopo, tranne che per scopo commerciale. Autori e collaboratori dell'opera devono essere correttamente citati. Ogni opera derivata da quella in oggetto è sottoposta alla stessa licenza Creative Commons.
D Editore
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Tel: +39 3208036613
email:
[email protected]
ISBN: 9788894830712
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Indice dei contenuti
Introduzione all'opera
Parte I - Documenti
Circolare a tutte le Federazioni dell’Associazione Internazionale dei lavoratori
Il Congresso dell’Internazionale Antiautoritaria
Dichiarazione degli anarchici davanti al tribunale correzionale di Lyon
Manifesto sull'educazione integrale
Manifesto dell’Internazionale Anarchica contro la guerra
Parte II - Anarchia
Anarchia, di Charlotte Wilson
Anarchia, vera e falsa, di Henry Appleton
Questioni di Tattica. O L'anarchia senza aggettivi, di Fernando Tarrida del Mármol
L'anarchia, di Errico Malatesta
Le due concezioni anarchiche, di Henry Seymour
L'anarchia, di Elisée Reclus
L'anarchia nascente, di Ricardo Mella
Anarchia: che cosa è e che cosa non è, di Joseph Labadie
La concezione anarchica, di Pëtr Kropotkin
I princìpi dell’anarchia, di Lucy Parsons
Anarchia: cosa significa e cosa propone davvero, di Emma Goldman
Il Manifesto della pan-anarchia, di Abba L Gordin e Wolf L. Gordin
L'anarchia, di E. Armand
Sull'anarchia, di Alexander Berkman
Anarchia: propositi e scopi, di Rudolf Rocker
Sull'anarchia, di Frank Lloyd Wright
Appunti per una problematica dell'anarchia, di Diego Abad de Santillán
Anarchia come autonomia, di Paul Goodman
Fraintendimenti sull'anarchia, di Sam Dolgoff
Parte III - Anarchici
Perché sono un anarchico, di Benjamin Tucker
Perché sono un’anarchica, di Louise Michel
Che cosa ciascuno dovrebbe fare, di Lev Tolstoj
Il processo formativo di un'anarchica, di Voltairine de Cleyre
Iniziamo a realizzare l’anarchia, adesso, di Steven T. Byington
Anarchici, anarchia e anarchismo, di Anselmo Lorenzo
Essere anarchici, di E. Armand
Gli anarchici, di Sébastien Faure
La sintesi anarchica, di Sébastian Faure
La sintesi anarchica, di Voline
Il cretinismo anarchico, di Camillo Berneri
Gli anarchici contro il centralismo e l'autoritarismo, di Emmanuel Mounier
L’operatore umanitario con la ghigliottina, di Isabel Paterson
Ai nuovi giovani anarchici, di Louis Lecoin
Varietà e attualità degli anarchici, di Paul Goodman
Anarchici… e orgogliosi di esserlo, di Amedeo Bertolo
Gli “anarchici” come ostacolo per l’anarchia, di Bob Black
Sei un anarchico? La risposta potrebbe sorprenderti!, di David Graeber
Parte IV - Individualismo – Mutualismo – Collettivismo – Comunismo
Comunismo e mutualismo, di Pierre-Joseph Proudhon
Contro l'individualismo, per il collettivismo, di Mikhail Bakunin
Socialismo di Stato e anarchia Convergenze e divergenze, di Benjamin Tucker
Perché siamo anarchici comunisti?, di Élisée Reclus
Dialogo tra una individualista e una comunista, di osa Slobodinsky e Voltairine de Cleyre
Uno sguardo al comunismo, di Voltairine de Cleyre
Anarchia – socialismo, di Gustav Landauer
La libera cooperazione, di Ricardo Mella
Comunismo e anarchia, di Pëtr Kropotkin
Dall'individualismo alle individualità, di Pëtr Kropotkin
Sull'individualismo e le libere associazioni, di Manuel Devaldès
Anarchia: comunista o individualista? Entrambe, di Max Nettlau
Comunismo e individualismo, di Errico Malatesta
La pratica del mutualismo, di Clarence Lee Swartz
Il posto dell’individuo nella società, di Emma Goldman
Biografia degli autori
Note
Introduzione all'opera
di Gian Piero de Bellis
Nel mese di maggio 2017 è apparsa presso D Editore un’antologia dal titolo Panarchia. In essa, vari autori, dall’Ottocento ai nostri giorni, presentavano un’idea che può apparire a prima vista abbastanza strana, ma che, a un esame più attento, si rivela estremamente interessante. L'idea è che il modo migliore per far convivere, in maniera armoniosa, su uno stesso territorio, persone di diverso orientamento culturale e politico, è far sì che ognuna sia libera di formare o scegliere la comunità di cui vuole far parte, attenendosi alle sue regole e forme organizzative, senza intromettersi od ostacolare i modi di vita dei membri delle altre comunità autonome. Un po’ come si aderisce a una Chiesa, a una religione o come, negli ultimi decenni, si sceglie una tra le tante compagnie telefoniche, la cui sede amministrativa non è o non deve necessariamente essere situata nel paese in cui vive l’utente. Alcuni dei documenti contenuti in quell’antologia sono stati scritti da autori che si richiamavano espressamente alla concezione anarchica. Degno di nota, in particolare, è il caso di Max Nettlau, il massimo storico dell’anarchia e uno dei suoi esponenti più interessanti e anticonvenzionali. Andando a scavare nell’immenso giacimento di scritti anarchici prodotti da centinaia di pensatori e protagonisti della storia dell’anarchia, ho quindi notato sempre più che l’anarchia esprime, in maniera costante, anche se non sempre del tutto evidente, quello che la panarchia indica nel modo più chiaro possibile. E cioè che la libera sperimentazione di comunità volontarie a base non territoriale rappresenta la soluzione migliore (più umana e più funzionale) per la vita in società. Soprattutto in società variamente articolate, estremamente complesse e tecnologicamente avanzate. Ecco allora che è nata l’idea di questa nuova antologia che continua il discorso
iniziato con quella precedente e allarga la visuale per comprendere i molteplici aspetti che fanno parte della vita quotidiana delle persone e delle comunità. Il titolo Libertaria (sulla scia del Libertaire di Joseph Déjacque e poi di Sébastien Faure) intende chiarire fin dall'inizio che il filo conduttore è quello della libertà dell'essere umano, la libertà di sperimentare vari stili di vita e aderire dappertutto a una o più comunità autonome, sulla base di scelte libere e volontarie. Infatti, la libertà del singolo è il presupposto, necessario e indispensabile, per la nascita di molteplici e variegate comunità volontarie, al posto degli attuali stati cosiddetti nazionali, che uniformano le persone e centralizzano le decisioni, imposti a tutti coloro che vivono in un dato territorio. Il progetto iniziale di questa antologia prevedeva la traduzione di alcuni scritti finora non disponibili in lingua italiana o disponibili in versioni ridotte o privi della benché minima nota. Nel corso del tempo e con l’avanzare delle ricerche, il volume unico previsto si è trasformato in cinque volumi con trecento documenti suddivisi in più di ventidue temi. Nonostante la sua ampiezza, che ne fa una delle antologie sull’anarchia più voluminose al mondo, parecchi altri autori e scritti avrebbero potuto trovarvi posto. Ma questo sarà, mi auguro, il compito di futuri ricercatori e traduttori. Il motivo principale che ha spinto alla produzione di questa antologia è costituito dal fatto che molti hanno dell’anarchia una nozione assai superficiale e, molto spesso, del tutto distorta. La propaganda martellante da parte dello Stato nel corso di decenni e l’approccio estremamente ionale e scarsamente razionale di numerosi auto-proclamati anarchici hanno minato alla base l'anarchia, come concezione e come pratica, e la sua capacità di attrazione. Adesso, in una fase storica di crisi profonda dello Stato centrale territoriale, è tempo di riportare alla luce scritti che hanno una freschezza e una lucidità straordinari e che, per questo, costituiranno forse motivo di disturbo teorico e pratico per molti anarchici tradizionalisti e anti-anarchici viscerali. Il sottotitolo Una antologia scomoda chiarisce fin dall’inizio le intenzioni di questa opera. La maggior parte degli scritti contenuti in questa antologia saranno del tutto indigesti per molti anti-anarchici (di professione od occasionali) posti di fronte al messaggio che, quello che vogliono davvero gli anarchici, è di essere lasciati in pace a vivere le proprie convinzioni. Allora apparirà del tutto evidente che il pensiero e la pratica degli anti-anarchici si basa sul riconoscimento, da parte loro, della validità e legittimità di comportamenti autoritari e padronali di cui il loro Stato è la massima espressione. Posizione del tutto sgradevole e
riprovevole per qualsiasi persona morale e razionale. Ma l’antologia sarà indigesta anche a quanti si professano anarchici e pensano che, attraverso comportamenti aggressivi, prepotenti e violenti, saranno in grado di diffondere le loro idee e convinzioni. Costoro hanno rappresentato e rappresentano una sciagura per l’autentica anarchia perché, con il loro modo di fare (egoismo, menefreghismo, violenza gratuita e sconsiderata) giustificano l’esistenza di un potere autoritario, lo Stato, che ha allora buon gioco nel presentarsi come ente benefico, altruista, promotore dell’ordine. Al contrario, coloro che non si definiscono apertamente anarchici o libertari, ma vogliono gestire la propria vita in prima persona, in maniera autonoma, senza sfruttare o essere sfruttati, non troveranno nulla di scomodo in questa antologia. Costoro sono gli individui che, al di là e al di fuori di qualsiasi etichetta e qualifica, costruiranno le future comunità volontarie. A quel punto anche il termine anarchia uscirà di scena perché sarà scomparso il fattore di disturbo e di ostacolo (lo Stato padrone) alla formazione di esseri pienamente umani.
Nota sui documenti e sulle traduzioni Molti testi inseriti nell’antologia sono di autori cosiddetti minori, ma non per questo meno interessanti. In particolare, si è cercato di offrire documenti non disponibili in italiano, tralasciando anche scritti di anarchici italiani che avrebbero potuto ben figurare nell’antologia. Le traduzioni sono tutte opera del curatore se non è precisato altrimenti. Come dice il famoso detto in se: «Traduire, c'est trahir» o, in italiano, “Traduttore - Traditore”. Per cui, si invitano le persone che conoscono le lingue, a leggere i testi nella loro versione originale (per questo si fornisce sempre la fonte). In ogni caso, si è cercato, per quanto possibile di rimanere fedeli al testo ma, al tempo stesso, considerato che il significato dei termini cambia con il are del tempo, taluni vocaboli non sono stati tradotti letteralmente. E questo, si spera, senza tradire il senso che l'autore voleva dare. In particolare, il termine anarchisme – anarchism è stato spesso reso come anarchia perché gli anarchici di una volta, quelli sinceri e preparati, erano molto più interessati alle questioni pratiche e poco o nulla alle diatribe ideologiche, come ben si vedrà leggendo i documenti dell’antologia. In altri casi si è usata l’espressione la concezione anarchica a significare che l’anarchia è un’idea e un ideale pratico e niente affatto una ideologia ben confezionata (un “ismo”) da realizzare attraverso aggi prestabiliti e per mezzo di un partito di militanti ben inquadrati. Tutt’altro. Anche i termini comunismo e uguaglianza vanno chiariti. Qualora impiegati dagli anarchici, non si fa affatto riferimento alla proprietà statale dei mezzi di produzione e nemmeno all'essere tutti simili e identici economicamente, ma all'assenza di padroni e alla fine dei privilegi. Chiarificazioni e spiegazioni si troveranno anche nelle note dei documenti. Il termine autorité – authority è stato in generale tradotto come potere o autoritarismo. Questo perché gli anarchici non sono contro l’autorità intesa come autorevolezza o sapere riconosciuto volontariamente, ma contro il potere imposto dall'esterno, in particolare quello sotto forma di dominio statale e padronale.
La parola Stato è scritta in molti documenti con la lettera maiuscola solo per distinguerla dal participio ato del verbo essere; ciò non vuole assolutamente significare che a questa entità viene attribuita una importanza superiore a quella di un gruppo sociale o comunità. Essendo questa un’opera piuttosto voluminosa, errori e imprecisioni sono assai probabili. Si invita chiunque a segnalarli al curatore tramite il sito dell’editore di modo che possano essere corretti in una eventuale futura edizione.
Ringraziamenti Una antologia come questa ha richiesto non solo la consultazione e selezione di parecchi documenti, ma anche il confronto con traduzioni in altre lingue e varie fasi di rilettura e revisione del testo finale in italiano. A questo riguardo ringrazio, in particolare, Giovanna Trombacca (lettura e correzione generale di tutti i documenti), Jürgen Romberg (revisione dei documenti in lingua tedesca), Luisa de Bellis (revisione dei documenti in lingua spagnola). Un grazie va a Marianne Enckell del Cira ( Centre International de Recherche sur l’Anarchisme) di Losanna e a tutti i suoi collaboratori che mi hanno aiutato nella ricerca dei testi e delle fonti. Un grazie anche a Daniele Leoni che mi ha segnalato e fornito taluni documenti e a tutti coloro che hanno messo sul Web documenti in varie lingue che sono serviti per la redazione di questa antologia. Ringrazio anche i responsabili del Centro Studi Libertari – Archivio Giuseppe Pinelli di Milano, promotori anche della Casa Editrice Elèuthera, che mi hanno permesso l'utilizzo di alcuni saggi di Amedeo Bertolo. Infine, un grazie a tutti gli autori viventi che, senza alcuna esitazione, hanno messo a disposizione i loro scritti perché fossero inclusi in questa antologia. Saint-Imier, gennaio 2020 World Wide Wisdom Research & Documentation Centre
Parte I - Documenti
La storia delle idee anarchiche è inseparabile dalla storia di tutti gli sviluppi del progresso e delle aspirazioni verso la libertà (Max Nettlau, La anarquía a través de los tiempos, 1932-1934)
Documenti Con i documenti qui presentati si vogliono mettere in luce gli aspetti più importanti che caratterizzano la concezione e la pratica degli anarchici. Si evidenziano, in particolare, le seguenti aspirazioni e convinzioni:
Oltre la politica
La distinzione basilare tra anarchici e marxisti non concerne il fine da perseguire (estinzione dello Stato) ma i mezzi da utilizzare. Gli anarchici non ritengono la politica uno strumento di liberazione ma un fattore di manipolazione e oppressione degli individui e delle comunità. Per questo la rifiutano totalmente, come emerge nella Circolare di Sonvilier (Documento 1). Questa posizione è sintetizzata da Bakunin nella sua Circolare ai miei amici d’Italia (1871) quando scrive: «La politica ha per oggetto la fondazione e conservazione degli stati; ma chi dice Stato dice dominazione da un lato, soggezione dall’altro».
Oltre il centralismo e l’autoritarismo
Gli anarchici rifiutano il centralismo e l’autoritarismo a partire dal modo stesso di organizzarsi che, nelle loro intenzioni e per quanto ne sono capaci, dovrebbe prefigurare la società del futuro, priva di dominatori e di sfruttatori. Da qui lo scontro con Marx e con i socialisti autoritari che volevano dirigere il movimento dei lavoratori europei (l’Internazionale) dal centro (Londra). Questa posizione di autonomia è pienamente riaffermata al Congresso di Saint-Imier (Documento 2) che fa seguito all’espulsione degli anarchici avvenuta al Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (L’Aia, 1872).
Oltre lo Stato monopolista
La massima espressione di centralismo e autoritarismo è costituita dallo Stato monopolista (centrale, territoriale) che ha la pretesa di amministrare, cioè imporre il suo volere a tutti coloro che vivono all’interno di un certo territorio, che costoro lo vogliano o no. Contro questa pretesa assurda, davanti al Tribunale di Lyon (Documento 3) si eleva la voce degli anarchici che non sono contro questa o quella forma di Stato, ma contro l’idea stessa di Stato in quanto dominio esterno sugli individui.
Per l’educazione integrale
Per andare oltre lo Stato autoritario a sovranità territoriale monopolista e per conseguire una piena autonomia personale vi è bisogno di esseri umani capaci di interpretare e padroneggiare la realtà, almeno nei suoi aspetti principali. Da qui l’importanza che gli anarchici attribuiscono all’educazione integrale, basata sullo sviluppo di capacità intellettuali e manuali e priva di miti e idee convenzionali volte a manipolare l’individuo (Documento 4).
Contro il militarismo e la guerra
L’anarchico è un sostenitore convinto del principio di non-aggressione. Tra le fila degli anarchici si annoverano numerose figure di non-violenti, pacifisti, antimilitaristi, e notevole è stato il numero degli anarchici ammazzati o incarcerati perché contro l’esercito e contro la guerra. Il Manifesto dell'Internazionale Anarchica contro la guerra (Documento 5), redatto in occasione della Prima Guerra Mondiale, sintetizza queste posizioni. Esse non furono però condivise da tutti gli anarchici in quanto una parte di loro si schierò a favore della Francia e dell’Inghilterra, ritenendo la sconfitta del militarismo prussiano tatticamente più importante ai fini del prevalere in futuro della pace.
Circolare a tutte le Federazioni dell’Associazione Internazionale dei lavoratori
Documento 1 (1871)
Questo importante documento, purtroppo non molto noto, illustra, in termini estremamente chiari, l'involuzione autoritaria dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, sotto la direzione del Consiglio Generale di Londra dominato da Karl Marx. In questa circolare troviamo espresso l'aspetto che differenziava i libertari della Federazione del Jura dai marxisti autoritari e che consisteva nel fatto, sottolineato dagli estensori del documento, che l'emancipazione dei lavoratori non avviene con “la conquista del potere politico della classe operaia”, come sostenuto dal Consiglio Generale, ma con un processo di auto-formazione compiuto attraverso esperienze pratiche ed elaborazioni teoriche. I membri della corrente libertaria dell'Internazionale avevano quindi già previsto tutte le conseguenze nefaste che la pratica del cosiddetto socialismo reale avrebbe generato in futuro. Purtroppo, l'anno successivo (1872) al Congresso tenutosi a L'Aia, Marx riuscì a far espellere gli anarchici dall'Internazionale e questo segnerà la fine della rivoluzione sociale a livello europeo, e la sua trasformazione in una lotta politica elettorale su base nazionale.
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I delegati qui presenti, rappresentanti un gruppo di sezioni dell'Internazionale che si viene a costituire sotto il nome di Federazione del Jura , si rivolgono, con questa circolare, a tutte le Federazioni della Associazione Internazionale dei Lavoratori per chiedere di unirsi a loro in vista della convocazione, in tempi brevi, di un Congresso Generale. Spiegheremo in poche parole quelle che sono le ragioni che ci fanno richiedere questa misura, assolutamente necessaria per evitare alla nostra grande Associazione di essere trascinata, a sua insaputa, verso una china fatale che la porterebbe alla dissoluzione. Al momento della creazione dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, fu istituito un Consiglio generale che doveva, nei termini degli statuti, servire come ufficio centrale di corrispondenza tra le sezioni, ma al quale non fu delegato assolutamente alcun potere, in quanto ciò sarebbe stato in contrasto con l'essenza stessa dell'Internazionale, che non è altro che una vasta organizzazione di protesta contro il potere. Del resto, le attribuzioni del Consiglio generale sono nettamente definite dai seguenti articoli degli Statuti generali e del Regolamento Generale: Statuti generali ART. 3 – È stabilito un Consiglio generale composto da lavoratori che rappresentano le diverse nazioni che fanno parte dell'Associazione Internazionale. Esso raccoglierà nel suo seno, secondo i bisogni dell'Associazione, i membri incaricati, come il presidente, il segretario generale, il tesoriere e i segretari dei diversi paesi. Ogni anno, il Congresso si riunisce per indicare la sede del Consiglio Generale, nominare i suoi membri, lasciando al Consiglio Generale la facoltà di nominare membri aggiuntivi e scegliere la sede della prossima riunione. Al tempo fissato per il Congresso, e senza che sia necessaria una convocazione speciale, i delegati si riuniranno con pieni diritti nel luogo e nel giorno designati. In caso di forza maggiore, il Consiglio generale potrà cambiare il luogo in cui si terrà il Congresso, senza peraltro cambiarne la data. ART. 4 – In occasione della riunione annuale del Congresso, il Consiglio Generale pubblicherà una relazione sulle attività portate avanti nel corso
dell'anno. In casi urgenti, esso potrà convocare il Congresso prima del termine stabilito. ART. 5 – Il Consiglio generale stabilirà relazioni con le differenti associazioni operaie, di modo che i lavoratori di ogni paese siano tenuti costantemente al corrente dei progressi della loro classe negli altri paesi; che un'indagine dello stato sociale sia fatta simultaneamente e con lo stesso spirito; che le questioni proposte da una Società, e la cui discussione è di interesse generale, siano esaminate da tutti, e che, laddove una idea pratica o un problema di carattere internazionale esigerà l'intervento dell'Associazione, questa possa agire in modo omogeneo. Quando lo ritenga necessario, il Consiglio Generale prenderà l'iniziativa di formulare proposte da sottoporre alle società locali o nazionali. Esso pubblicherà un bollettino per facilitare le comunicazioni con gli uffici corrispondenti.
Regolamento ART. 1 – Il Consiglio Generale è tenuto a mettere in atto le risoluzioni del Congresso. Esso riunisce a tale scopo tutti i documenti che gli uffici di corrispondenza dei diversi paesi gli invieranno e quelli che potrà procurarsi con altri mezzi. Esso è responsabile di organizzare il Congresso e di portare il suo programma a conoscenza di tutte le sezioni, attraverso gli uffici di corrispondenza dei diversi paesi. ART. 2 – Il Consiglio generale pubblicherà, tutte le volte che le sue strutture lo consentiranno, un bollettino che includerà tutto ciò che può interessare l'Associazione Internazionale: l'offerta e la domanda di lavoro nelle diverse località; le società cooperative; le condizioni delle classi lavoratrici in tutti i paesi, eccetera.
Il Consiglio Generale fu insediato per il primo anno a Londra, e questo per diversi motivi: è stato da un incontro a Londra che nacque l'idea dell'Internazionale; Londra poi offriva maggiore sicurezza rispetto alle altre città d'Europa, per quanto riguarda le garanzie individuali. Nei successivi Congressi dell'Internazionale a Losanna (1867) e a Bruxelles (1868), il Consiglio Generale è stato confermato nella sede di Londra. Per quanto riguarda la sua composizione, tutti coloro che hanno partecipato ai Congressi generali sanno come sono andate le cose: si votavano sulla fiducia le liste che erano presentate al Congresso, e che avevano per lo più nomi totalmente sconosciuti ai delegati. La fiducia era così grande, che si lasciava al Consiglio Generale anche la facoltà di nominare chiunque volesse; e, attraverso questa disposizione degli statuti, la nomina del Consiglio Generale da parte del Congresso è diventata illusoria. Infatti, il Consiglio poteva, a posteriori, nominare tutto un insieme di persone che ne avrebbe modificato completamente la maggioranza e gli intendimenti. Al Congresso di Basilea, la fiducia cieca ha raggiunto una sorta di abdicazione volontaria del potere di decisione nelle mani del Consiglio Generale. Attraverso risoluzioni amministrative, si attentò, senza accorgersene, sia allo spirito che alla lettera degli Statuti Generali, nei quali l'autonomia di ogni Sezione, di ogni gruppo di Sezioni, era stata chiaramente proclamata. Giudicate voi: Risoluzioni amministrative di Basilea Risoluzione VI – Il Consiglio Generale ha il diritto di sospendere, fino al prossimo Congresso, una Sezione dell'Internazionale. Risoluzione VII – Qualora sorgessero dei contrasti tra società o rami di un gruppo nazionale, o tra gruppi di diverse nazionalità, il Consiglio Generale ha il diritto di decidere sulla controversia, fatto salvo il diritto di appello al prossimo Congresso, che prenderà una decisione in via definitiva.
È stato così messo nelle mani del Consiglio Generale un potere pericoloso, e si è sbagliato a non prevederne le conseguenze. Se vi è un fatto indiscutibile, mille volte comprovato dall'esperienza, è l'effetto di corruzione che il potere produce su coloro nelle cui mani esso è affidato. È assolutamente impossibile che un essere umano che ha potere sui suoi simili rimanga un individuo morale. Il Consiglio generale non poteva sfuggire a questa legge fatale. Composto per cinque anni consecutivi dagli stessi individui, sempre rieletto, e dotato dalle risoluzioni di Basilea di un grande potere sulle sezioni, ha finito per vedersi come il capo legittimo dell'Internazionale. Il mandato di membro del Consiglio Generale è diventato, nelle mani di alcuni, sua proprietà personale, e Londra è sembrata loro come la capitale inamovibile della nostra Associazione. A poco a poco, questi individui, che non sono che i nostri rappresentanti – e la maggior parte di loro non sono nemmeno i nostri rappresentanti regolari non essendo stati eletti da un Congresso – questi individui, diciamo, abituati a marciare alla nostra testa e a parlare in nostro nome, sono stati portati, tramite il flusso naturale delle cose e la forza stessa di questa situazione, a voler far prevalere nell'Internazionale il loro programma speciale, la loro dottrina personale. Divenuti, ai loro stessi occhi, una sorta di governo, era naturale che le loro idee particolari apparissero ad essi come la teoria ufficiale, la sola che avesse diritto di cittadinanza dentro l'Associazione; mentre le posizioni divergenti espresse in altri gruppi sono sembrate loro, non più la legittima manifestazione di una opinione parimenti legittima, ma una vera e propria eresia. Così si è formata a poco a poco una ortodossia con sede a Londra, i cui rappresentanti erano i membri del Consiglio Generale; e presto i corrispondenti del Consiglio, provenienti dai differenti paesi, si sono dati per missione, non più di servire come intermediari neutrali e disinteressati tra le varie Federazioni, ma di essere gli apostoli della dottrina ortodossa, di cercarne altri propagatori dell’ortodossia, e di servire interessi settari a scapito degli interessi generali dell'Associazione. Quale risultato doveva produrre tutto ciò? Il Consiglio generale ha naturalmente trovato una certa opposizione al nuovo cammino intrapreso. L'irresistibile logica lo ha obbligato a tentare di infrangere questa opposizione. Sono quindi iniziate le
lotte, e, con esse, gli accordi tra individui e le manovre di consorteria. Il Consiglio Generale è diventato allora un focolaio di intrighi; gli oppositori sono stati insultati, calunniati; infine la guerra, la guerra aperta, è scoppiata nella nostra Associazione. Dopo il Congresso di Basilea, nel 1869, il Congresso Generale dell'Associazione non è stato più riunito, e negli ultimi due anni il Consiglio Generale si è trovato abbandonato a sé stesso. La guerra franco-tedesca è stata il motivo della sospensione del Congresso nel 1870. Nel 1871, questo Congresso è stato sostituito da una conferenza segreta, convocata dal Consiglio Generale senza che gli statuti autorizzassero in alcun modo tale agire. Questa Conferenza segreta che non ha certamente offerto una rappresentanza completa dei membri dell'Internazionale, dal momento che molte sezioni, le nostre in particolare, non sono state convocate; questa Conferenza, la cui maggioranza era stata ingannata fin dall'inizio dal fatto che il Consiglio Generale si è arrogato il diritto di installare sei delegati da esso nominati con potere di voto; questa Conferenza, che non poteva assolutamente considerarsi come investita dei diritti di un Congresso, ha tuttavia preso delle risoluzioni che costituiscono una grave minaccia agli Statuti generali, e che tendono a fare dell'Internazionale, libera federazione di Sezioni Autonome, una organizzazione gerarchica e autoritaria di sezioni inquadrate, poste interamente sotto il controllo di un Consiglio Generale che può, a sua discrezione, rifiutare l'ammissione o sospendere l’attività delle sezioni stesse. E per coronare la cosa, una decisione di questa Conferenza prevede che il Consiglio Generale fisserà esso stesso la data e il luogo del prossimo Congresso o della Conferenza che lo sostituirà; di modo che adesso noi siamo minacciati dalla soppressione dei Congressi Generali, queste grandi sedute pubbliche dell'Internazionale e dalla loro sostituzione, a discrezione del Consiglio Generale, con conferenze segrete simili a quella tenutasi di recente a Londra. In presenza di questa situazione, che cosa dobbiamo fare? Noi non attribuiamo la colpa alle intenzioni del Consiglio Generale. Le personalità che lo compongono si sono trovate vittime di una necessità fatale: esse volevano, in buona fede e per il trionfo della loro dottrina particolare, introdurre nell'Internazionale il principio di autorità. Le circostanze sembravano incoraggiare questa tendenza, e riteniamo naturale che questa scuola, il cui ideale è la conquista del potere politico da parte della classe operaia, abbia creduto che l'Internazionale, in seguito ai recenti avvenimenti, dovesse cambiare la sua organizzazione originaria e trasformarsi in
una organizzazione gerarchica, diretta e governata da un Comitato. Ma se ci diamo una ragione di queste tendenze e di questi fatti, non ci sentiamo di meno obbligati a combatterli, in nome della Rivoluzione sociale che perseguiamo, e il cui programma è “l'emancipazione dei lavoratori a opera dei lavoratori stessi”, al di fuori di qualsiasi potere di direzione, anche nel caso esso fosse nominato e autorizzato dai lavoratori. Noi chiediamo il mantenimento, nell'Internazionale, del principio dell'autonomia delle parti, che fino ad ora è stato alla base della nostra Associazione; noi chiediamo che il Consiglio Generale, le cui attribuzioni sono state denaturate dalle risoluzioni amministrative del Congresso di Basilea, torni al suo ruolo normale, che è quello di un semplice ufficio di corrispondenza e di statistica; – e questa unità che si vorrebbe stabilire attraverso la centralizzazione e la dittatura, noi la vogliamo realizzare attraverso la libera federazione dei gruppi autonomi. La società futura non deve essere altro che l'universalizzazione dell'organizzazione che l'Internazionale si sarà data. Noi dobbiamo quindi avere cura di avvicinare quanto più possibile questa organizzazione al nostro ideale. Come è possibile volere che una società egualitaria e libera sorga da una organizzazione autoritaria! È impossibile. L'Internazionale, embrione della futura società umana, è destinata a essere, d'ora in poi, l'immagine fedele dei nostri princìpi di libertà e di federazione, ed è tenuta a rifiutare nel suo seno ogni principio tendente al potere e alla dittatura. Concludiamo chiedendo la convocazione, in tempi brevi, di un Congresso Generale della Associazione. Viva l'Associazione Internazionale dei lavoratori! Sonvilier, Jura, 12 novembre 1871
I delegati al Congresso della Federazione del Jura Henri DEVENOGES, Léon SCHWITZGUÉBEL, delegati della Sezione centrale del distretto di Courtelary; Fritz TSCHUJ, Justin GUERBER, delegati del Circolo di studi sociali di Sonvilier; Christian HOFER, delegato della Sezione di Moutier-Grandval; Frédéric GRAISIER, Auguste SPICHIGER, delegati della Sezione centrale di Le Locle; Nicolas JOUKOVSKY, Jules GUESDE, delegati della Sezione di propaganda e d'azione rivoluzionaria socialista di Ginevra; Charles CHOPARD, Alfred JEANRENAUD, delegati della Sezione degli operai incisori e bulinisti del distretto di Courtelary; Numa BRANDT, delegato della Sezione di propaganda di La Chaux-de-Fonds; James GUILLAUME, A. DUPUIS, delegati della Sezione centrale di Neuchâtel; A. SCHEUNER, Louis CARTIER, delegati del Circolo di studi sociali di Saint Imier.
Il Congresso dell’Internazionale Antiautoritaria
Documento 2 (1872)
Dopo l'espulsione degli anarchici al Congresso dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori de L'Aia (2-7 settembre 1872), Mikhail Bakunin, James Guillaume e gli anarchici di altre federazioni e sezioni si ritrovarono nel villaggio di Saint-Imier (Jura) e presero alcune risoluzioni in quello che sarà conosciuto come il Congresso dell'Internazionale Antiautoritaria. ∞
PRIMA RISOLUZIONE La posizione delle Federazioni riunite in Congresso a Saint-Imier, in riferimento alle risoluzioni del Congresso de L'Aia e del Consiglio generale Considerando che l’autonomia e l’indipendenza delle federazioni e sezioni operaie costituiscono la condizione primaria per l’emancipazione dei lavoratori; Che qualsiasi potere legislativo e regolamentare accordato al Congresso sarebbe una negazione flagrante di questa autonomia e libertà: Il Congresso nega in principio il diritto a legiferare da parte di tutti i Congressi, siano essi generali o regionali, non riconoscendo ad essi altra missione che quella di presentare le aspirazioni, i bisogni e le idee del proletariato delle differenti località e paesi, al fine che la loro armonizzazione e unificazione si realizzino per quanto possibile. Però, in nessun caso la maggioranza di un qualunque Congresso potrà imporre le sue risoluzioni alla minoranza. Considerando, d’altra parte, che la istituzione di un Consiglio Generale nell’Internazionale è, per sua propria natura e in maniera fatale, destinata a divenire una violazione permanente di questa libertà che deve essere la base fondamentale della nostra grande Associazione; Considerando che gli atti del Consiglio Generale di Londra che è stato adesso dissolto, sono stati, durante questi ultimi tre anni, la prova vivente del vizio insito in questa istituzione; Che, per accrescere il suo potere, inizialmente molto ridotto, ha fatto ricorso agli intrighi, alle menzogne, alle calunnie più infami, per tentare di insozzare tutti coloro che hanno osato opporsi ad esso; Che, per arrivare alla realizzazione finale delle sue mire, ha preparato da tempo il Congresso de L'Aia, dove la maggioranza, organizzata di proposito, non ha avuto chiaramente altro scopo che quello di far prevalere, all’interno dell’Internazionale, il dominio di un partito autoritario, e che, per raggiungere quell'obiettivo, non ha avuto timore di calpestare ogni traccia di decenza e di giustizia; Che un tale Congresso non può essere l’espressione del proletariato dei paesi che
si sono fatti rappresentare. Il Congresso dei delegati delle Federazioni spagnola, italiana, jurassiana, americana e se, riuniti a Saint-Imier, dichiara di respingere tutte le risoluzioni del Congresso de L'Aia, non riconoscendo in alcun modo i poteri del nuovo Consiglio Generale da esso nominato. E, per salvaguardare le loro rispettive Federazioni contro le pretese governative di questo Consiglio Generale, oltre che per salvare e rafforzare ancor più l’unità dell’Internazionale, i delegati hanno gettato le basi di un progetto di pace e di solidarietà tra queste Federazioni.
SECONDA RISOLUZIONE Patto di amicizia, solidarietà e reciproca difesa tra le libere Federazioni Considerando che la grande unità dell’Internazionale è fondata non sull’organizzazione artificiale e sempre dannosa di un qualche potere centralizzatore, ma, da una parte, sull’identità reale degli interessi e delle aspirazioni del proletariato di tutti i paesi, e dall’altra, sull’associazione spontanea e pienamente libera delle federazioni e delle libere sezioni di ogni paese; Considerando che in seno all’Internazionale vi è una tendenza, apertamente espressa al Congresso de L'Aia dal partito autoritario che è quello del comunismo tedesco, a sostituire il dominio e il potere dei suoi capi al libero sviluppo e all'organizzazione spontanea e libera del proletariato; Considerando che la maggioranza del Congresso de L'Aia ha cinicamente sacrificato, alle mire ambiziose di questo partito e dei suoi capi, tutti i princìpi dell’Internazionale, e che il nuovo Consiglio generale, da essa nominato, e investito di poteri ancora più grandi di quelli che aveva voluto arrogarsi attraverso la Conferenza di Londra, minaccia di distruggere questa unità dell’Internazionale attraverso i suoi attentati alla libertà; I delegati delle Federazioni e Sezioni spagnole, italiane, jurassiane, si e americane riuniti in questo Congresso hanno concluso, a nome di queste Federazioni e Sezioni, e previa loro accettazione e conferma definitiva, il seguente patto di amicizia, solidarietà e reciproca difesa:
Le Federazioni e Sezioni spagnole, italiane, si, jurassiane, americane, e tutte quelle che vorranno aderire a questo patto, avranno tra di loro scambi di comunicazioni e una corrispondenza regolare e diretta del tutto indipendenti da un qualsiasi controllo dall'alto. Qualora una di queste Federazioni o Sezioni si trovasse attaccata nella sua libertà, sia dalla maggioranza di un Congresso Generale, sia dal governo o Consiglio Generale installato da questa maggioranza, tutte le altre Federazioni e Sezioni si proclameranno pienamente solidali con essa.
Essi proclamano in maniera molto chiara che la stipulazione di questo patto ha come scopo principale il bene di questa grande unità dell’Internazionale che l’ambizione del partito autoritario ha messo in pericolo.
TERZA RISOLUZIONE Natura dell'azione politica del proletariato Considerando: Che voler imporre al proletariato una linea di condotta o un programma politico uniforme, come l’unica via che possa condurre alla sua emancipazione sociale, è una pretesa non solo assurda ma anche reazionaria; Che nessuno ha il diritto di privare le federazioni e sezioni autonome del diritto incontestabile di determinare esse stesse e di seguire la linea di condotta politica che esse ritengono migliore, e che ogni tentativo similare ci condurrà fatalmente al più nauseante dogmatismo; Che le aspirazioni del proletariato non possono avere altro oggetto se non la messa in atto di una organizzazione e di una federazione assolutamente libere, fondate sul lavoro e sulla uguaglianza di tutti e pienamente indipendenti da qualsiasi governo politico, e che questa organizzazione e questa federazione non possono essere altro che il risultato dell’azione spontanea dello stesso proletariato, delle associazioni di mestiere e delle comunità autonome; Considerando che qualsiasi organizzazione politica non può essere altro che l’organizzazione del dominio di una classe a detrimento delle masse, e che il proletariato, se si impadronisse del potere, diventerebbe esso stesso una classe dominante e sfruttatrice; Il Congresso riunito a Saint-Imier dichiara:
Che la distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato; Che ogni organizzazione di un potere politico cosiddetto provvisorio e rivoluzionario per conseguire la suddetta distruzione, non può essere altro che l’ennesimo inganno e sarebbe, per il proletariato, cosa pericolosa quanto tutti i governi attualmente esistenti; Che, rifiutando qualsiasi compromesso per arrivare alla realizzazione della
rivoluzione sociale, i proletari di tutti i paesi devono mettere in atto, al di fuori di qualsiasi politica borghese, la solidarietà dell’azione rivoluzionaria.
QUARTA RISOLUZIONE Organizzazione della resistenza del lavoro – Statistiche La libertà e il lavoro sono la base della morale, della forza, della vita e della ricchezza dell’avvenire. Ma il lavoro, se non è liberamente organizzato, diviene opprimente e improduttivo per il lavoratore; ed è per questo che l’organizzazione del lavoro è la condizione indispensabile per l’emancipazione effettiva e completa dell’operaio. Ciononostante, il lavoro non può essere esercitato liberamente senza il possesso delle materie prime e di tutto il capitale sociale, e non lo si può organizzare se l’operaio, emancipandosi dalla tirannia politica ed economica, non conquista il diritto di sviluppare pienamente tutte le sue facoltà. Qualsiasi Stato, e cioè qualsiasi governo e amministrazione delle masse popolari, dall’alto verso il basso, essendo fondato necessariamente sulla burocrazia, sull’esercito, sulla polizia, sul clero, non potrà mai realizzare la società organizzata sulla base del lavoro e della giustizia, dal momento che, per la natura stessa del suo organismo, è spinto a opprimere il lavoro e a negare la giustizia. A nostro giudizio, l’operaio non potrà mai emanciparsi dall’oppressione secolare, se a questo corpo statale che assorbe e demoralizza, non sostituisce la libera federazione di tutti i gruppi di produttori fondata sulla solidarietà e sull’uguaglianza. In effetti, in parecchi luoghi si è già tentato di organizzare il lavoro al fine di migliorare la condizione del proletariato, ma anche la più piccola miglioria è stata ben presto neutralizzata dalla classe privilegiata che cerca continuamente, senza freni e senza limiti, di sfruttare la classe operaia. Nonostante ciò, il vantaggio dell'organizzazione è tale che, anche nella situazione attuale delle cose, uno non potrebbe farne a meno. Essa fa fraternizzare sempre più il proletariato nella comunanza degli interessi, lo allena alla vita in comune, lo prepara per la lotta suprema. E inoltre, essendo l’organizzazione libera e spontanea del lavoro quella che deve sostituire l’organismo privilegiato e autoritario dello stato politico, essa sarà, una volta pienamente funzionante, la garanzia permanente del mantenimento dell’organismo economico contro l’organismo politico. Di conseguenza, lasciando alla pratica della rivoluzione sociale i dettagli
dell’organizzazione effettiva, noi ci prefiggiamo di organizzare e rendere solidale la resistenza su grande scala. Lo sciopero è per noi un mezzo prezioso di lotta, ma non ci facciamo alcuna illusione sui suoi risultati economici. Noi l’accettiamo come un prodotto dell’antagonismo tra il lavoro e il capitale, che ha per conseguenza necessaria il fatto di rendere gli operai sempre più coscienti dell’abisso che esiste tra la borghesia e il proletariato, di fortificare l’organizzazione dei lavoratori, e di preparare il proletariato, attraverso la realtà delle semplici lotte economiche, alla grande lotta rivoluzionaria e decisiva. Tale lotta, distruggendo ogni privilegio e ogni distinzione di classe, darà all’operaio il diritto di godere del prodotto integrale del suo lavoro, e attraverso ciò i mezzi per sviluppare, all’interno della comunità, tutta la sua energia intellettuale, materiale e morale. La Commissione propone al Congresso di scegliere un gruppo di persone che dovrà presentare al prossimo Congresso un progetto di organizzazione universale di resistenza, e delle statistiche esaurienti sul lavoro, dalle quali questa lotta attingerà alcune indicazioni. Essa raccomanda all'attenzione di tutti l’organizzazione spagnola come la migliore, attualmente.
RISOLUZIONE FINALE Il Congresso propone di inviare copia di tutte le risoluzioni del Congresso, e del Patto di amicizia, solidarietà e reciproca difesa, a tutte le federazioni operaie del mondo, e di accordarsi con esse sui temi che sono di interesse generale per tutte le federazioni libere. Il Congresso invita tutte le federazioni che hanno stretto tra di loro questo patto di amicizia, solidarietà e reciproco appoggio, a mettersi d’accordo immediatamente con tutte le federazioni o sezioni che vorranno accettare questo patto, per definire la natura e la data del loro Congresso internazionale, esprimendo il desiderio che esso si tenga non più tardi dei prossimi sei mesi.
I partecipanti al Congresso di Saint-Imier (15 delegati) Sei delegati delle sezioni italiane Mikhail Bakunin (1814-1876) Carlo Cafiero (1846-1892) Andrea Costa (1851-1910) Errico Malatesta (1853-1932) Giuseppe Fanelli (1827-1877) Lodovico Nabruzzi (1846-1916) Quattro delegati delle sezioni spagnole Charles (Carlos) Alerini (1842-1901) Rafael Farga-Pellicer (1844-1890) Nicolás Alonso Marselau (1840-1882) Tomàs Gonzáles Morago (??-1885) Due delegati delle sezioni si Camille Camet (1850-1917) Jean-Louis Pindy (1840-1917) Due delegati della fédération jurassienne James Guillaume (1844-1916) Adhémar Schwitzguébel (1844-1895) Un delegato di due sezioni americane
Gustave Lefrançais (1826-1901) Saint-Imier (15-16 settembre 1872)
Dichiarazione degli anarchici davanti al tribunale correzionale di Lyon
Documento 3 (1883)
L'8 gennaio del 1883, si aprì a Lyon (Francia) il processo detto dei sessantasei contro un certo numero di anarchici accusati «d’essere […] stati affiliati o di avere fatto atto di affiliazione a una società internazionale [l'Associazione Internazionale dei Lavoratori] avente come fine di provocare la sospensione del lavoro, l'abolizione del diritto di proprietà, la fine della famiglia, della patria, della religione, e di avere in tal modo attentato contro la pace sociale». La seguente dichiarazione, redatta principalmente da Pëtr Kropotkin, uno degli accusati, fu letta nell'aula del tribunale il pomeriggio del 12 gennaio da Frédéric Tressaud, uno degli anarchici sotto processo.
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Che cos’è l’anarchia e chi sono gli anarchici, ecco quello che ci proponiamo di chiarire: Gli anarchici, Signori, sono dei cittadini che, in un secolo in cui si predica dappertutto la libertà di opinione, hanno ritenuto loro dovere reclamare la libertà piena. Sì, Signori, noi siamo nel mondo parecchie migliaia, alcuni milioni forse – e non abbiamo altro merito se non quello di affermare ad alta voce ciò che la gente pensa in silenzio – noi siamo parecchie migliaia di lavoratori che rivendicano una libertà piena, tutta la libertà e nient’altro che la libertà! Noi vogliamo la libertà, e cioè, noi esigiamo per ogni essere umano il diritto e la possibilità di fare ciò che gli è gradito e di non fare ciò che gli risulta sgradevole; di soddisfare tutti i suoi bisogni senza porre altro limite se non ciò che è impossibile in natura e il pari rispetto dei bisogni del prossimo. Noi vogliamo la libertà, e crediamo che essa sia incompatibile con l’esistenza di qualsiasi potere dominante, quale che sia la sua origine e forma, che si tratti di una persona eletta o imposta, di un potere monarchico o repubblicano, che si ispiri al diritto divino o al diritto popolare, suffragato dalla Santa Ampolla [1] o dal Suffragio Universale. La storia è davanti ai nostri occhi per insegnarci che tutti i governi si assomigliano e si equivalgono. I migliori sono i peggiori. Un po’ più di cinismo presso gli uni, un po' più di ipocrisia presso gli altri! Alla base troviamo sempre le stesse procedure, sempre la stessa intolleranza. È consuetudine, anche per i finti liberali, tirare fuori, da sotto la polvere degli arsenali legislativi, qualche buona leggina sull’Internazionale [2], da applicare alle opposizioni che creano problemi. In altri termini, il male, agli occhi degli anarchici, non risiede in questa o in quella forma di potere esterno. Esso si trova nell’idea stessa di potere come dominio sugli altri; nel principio di autorità imposta. Il nostro ideale, detto brevemente, consiste nel sostituire, nei rapporti tra le persone, alla tutela amministrativa e legale, e alla disciplina imposta dall’alto, un libero contratto, che può sempre essere modificato e sciolto dalle parti.
Gli anarchici si propongono dunque di mostrare alle persone che possono benissimo fare a meno del governo come iniziano a fare a meno di Dio [3]. L’individuo poi imparerà anche a fare a meno dei proprietari. In effetti, il peggiore dei tiranni non è colui che ci imprigiona ma colui che ci affama; non è colui che ci prende per il bavero, ma colui che ci prende per il ventre. Nessuna libertà senza equità! Nessuna libertà in una società in cui il capitale è monopolizzato nelle mani di una minoranza sempre più esigua e dove nulla è ripartito equamente, neanche l’istruzione pubblica che pure è pagata da tutti. Noi crediamo fermamente che il capitale, patrimonio comune dell’umanità poiché è il frutto della collaborazione tra le generazioni ate e le generazioni presenti, debba essere a disposizione di tutti di modo che nessuno possa esserne escluso; che nessuno possa accaparrarsene una parte a detrimento degli altri. Noi vogliamo, detto in breve, l’equità, nei fatti, come corollario o piuttosto come condizione primordiale della libertà. Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni [4]. Ecco quello che vogliamo sinceramente e fortemente. Ecco ciò che avverrà, perché non vi è potere in grado di prevalere contro rivendicazioni legittime e necessarie. Questo è il motivo per cui ci volete macchiare di tutte le infamie. Ecco gli anarchici, coloro che voi definite scellerati! Noi che esigiamo che tutti possano avere di che nutrirsi, che non ci siano impedimenti allo svolgimento di un’attività produttiva, e che tutti godano dell’autonomia e della giustizia.
Gli esiti del processo Il processo, iniziato l’8 gennaio 1883, si concluse il 19 gennaio con le seguenti condanne:
Toussaint Bordat, Joseph Bernard, Pëtr Kropotkin, Émile Gautier: cinque anni di prigione, 2.000 franchi di ammenda, dieci anni di regime di sorveglianza e cinque di privazione dei diritti civili. Jean-Baptiste Ricard, Pierre Martin, Octave Liégeon: quattro anni di prigione, 500 franchi di ammenda, dieci anni di regime di sorveglianza e cinque anni di privazione dei diritti civili. Auguste Blonde, Benoît Péjo, Claude Crestin, Antoine Desgranges: tre anni di prigione, 500 franchi d’ammenda, dieci anni di regime di sorveglianza e cinque anni di privazione dei diritti civili. Etienne Faure, Jules Morel, Pierre Michaud, François Pautet, Frédéric Tressaud: due anni di prigione, 300 franchi d’ammenda, dieci anni di regime di sorveglianza e cinque anni di privazione dei diritti civili. Félicien Bonnet, Régis Faure, Louis Genet, Antoine Gleizal, Emile H, Jacques Peillon, Pierre Pinoy, Michel Sala, Philippe Sanlaville, Charles Voisin, Jacques Zuida, Joseph Genoud: quindici mesi di prigione, 200 franchi d’ammenda e cinque anni di privazione dei diritti civili. Louis Bardoux, André Courtois, Joseph Bruyère, François Dejoux, Jean-Marie Dupoisat, Victor Fages, Louis Landau, Joseph Trenta, Hyacinthe Jules Trenta: un anno di prigione, 100 franchi d’ammenda e cinque anni di privazione dei diritti civili. Michel (detto Le Jeune) Chavrier, Jean (detto Joanny) Coindre, Joseph Cottaz, Joseph Damians, Nicolas Didelin, Victor Berlioz-Arthaud, Emile Hugonnard, Charles Sourisseau, Emile Viallet, Louis Champalle: sei mesi di prigione, 50 franchi d’ammenda e cinque anni di privazione dei diritti civili. David De Gaudenzi, Joseph Ribeyre, Jean-Marie Giraudon, Jean-Marie Thomas,
César Mathon: assolti .
Gli imputati assenti furono condannati in contumacia.
Louis Dejoux, G eorges Fabre: due anni di prigione, 1.000 franchi d’ammenda e cinque anni di privazione dei diritti civili. Antoine Cyvoc t, Henri Borriasse, Jacques Ebersoldt, l’indicateur de police Georges Garraud (detto Aristide Valadier), Jean Baguet, Joseph Bonthoux, JeanMarie Bourdon, Henry Chazy, Frédéroc Jolly, Adolphe Dard, Jean Renaud, Emile Maurin: cinque anni di prigione, 2.000 franchi d’ammenda e cinque anni di privazione dei diritti civili.
Molti dei condannati fecero appello e un nuovo processo ebbe luogo davanti alla Corte d’Appello di Lyon dal 26 febbraio al 6 marzo 1883. Il tribunale ridusse le pene della maggior parte degli accusati, ma le confermò per Joseph Bernard, Toussaint Bordat, Emile Gautier, Antoine Desgranges, Louis Bardoux, Victor Fages, Michel Chavrier, Jean Coindre, Emile Hugonnard, Charles Sourisseau e Louis Champalle. Pëtr Kropotkin non fece appello contro la sentenza.
Manifesto sull'educazione integrale
Documento 4 (1898)
Questo testo è stato pubblicato come opuscolo allegato alla rivista settimanale Les Temps Nouveaux (16-22 aprile 1898). Il titolo originale era: La liberté par l’enseignement (L’école libertaire) . Fu sottoscritto da varie personalità del tempo.
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Per quanto riguarda l’educazione e l’insegnamento, il Potere ha come finalità quella di accaparrarsi l’essere umano sin dalla sua più giovane età, quando la sua capacità di giudizio non è sviluppata, le sue esperienze carenti, la sua mente ingenua e fiduciosa. Per deprimere la ragione a danno della libertà, il potere si è impossessato dell’intelligenza e della volontà per incatenare gli esseri umani, senza che essi se ne rendano conto, attraverso una lunga pratica fatta di pregiudizi, di paure e di innumerevoli impedimenti. Lo Stato, intuendo assai bene, sulla scia della Chiesa, che l’individuo sente nel corso di tutta la sua vita l’influenza subita durante il periodo scolastico, si è arrogato il diritto di posare la sua mano dispotica sui cervelli e sui cuori per marcarli con la sua impronta indelebile. Insegna la morale? Certo, la sua. Insegna la storia? Sì, la sua ancora. L’istruzione civica, i princìpi elementari del diritto o dell’economia politica, eccetera? Si tratta sempre, ad ogni modo, del panegirico entusiasta delle istituzioni esistenti, della forza eretta a diritto. Un direttore di scuola, assai spesso stizzoso, scorbutico e sgradevole, e che sembra prendere come suo compito quello di fare dei suoi studenti un allevamento di pecore di Panurge [5] in contemplazione della sua infallibilità, è incaricato di inculcare nel cervello del fanciullo una massa di conoscenze poco attraenti in sé stesse e presentate sotto il loro aspetto più sgradevole e il meno facilmente comprensibile. Al ragazzo si ordina di restare immobile per ore intere davanti a una cattedra, un libro o un quaderno. Così facendo l’alunno deve sforzarsi di sopprimere e soffocare, nel più profondo del suo animo, la spinta imperiosa della sua naturale vivacità. Ogni scoppio involontario della sua debordante vitalità è severamente punito. Alla sua età, rigogliosa di energie, si esige da lui che si comporti in maniera seria e posata, alla pari del docente imibile incaricato del suo insegnamento. È forse costui una guida, un consigliere, una persona animata da una vocazione, un amico? Niente di tutto ciò. È un mestierante, un servitore che esegue degli ordini, impossibilitato a esprimere in tutta sincerità ciò che crede essere la verità. La scuola, nella società attuale, non è che l’anticamera della caserma, dove si
compirà alla perfezione l’ addestramento finalizzato all’asservimento. Oltre alla costrizione fisica, ci si adopera a pervertire il senso morale del fanciullo attraverso tutta una serie di esempi storici idioti, una esaltazione costante dei crimini dei potenti e la condanna feroce di tutte le attività che non mirano al profitto. Si eccita la mente del fanciullo descrivendo dettagliatamente scene di carneficina e di violenza che sono abbellite in maniera poetica, presentando in termini eroici la forza bruta, esaltando i furti, i saccheggi e le stragi commesse dallo Stato. Gli si inculca il rispetto del potere e di coloro che lo detengono, l’ammirazione per i grandi conquistatori, il disprezzo per coloro che si ribellano e che soccombono lottando per la loro liberazione; l’amore per glorie fasulle, per i lustrini, i pennacchi, le uniformi, la bandiera. Gli si instilla l’odio cieco e criminale per i popoli che abitano al di là di un certo fiume, l’infatuazione stupida e irragionevole per la propria razza e il disprezzo per tutte le altre. Lo si porta a condannare i poveri, ad adulare i ricchi e a detestare tutte le vittime, ate o presenti, della tirannia, dell'intolleranza, della doppiezza o della vigliaccheria governativa. Un coacervo di veleni, appositamente distillati, per annullare le forze, far scomparire le energie e pervertire gli animi.
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Il nostro approccio educativo intende sopprimere i tre aspetti pesantemente negativi dai quali derivano tutte le iniquità sociali: la disciplina , i programmi , il v oto . La Disciplina imposta, che genera inganni, furberie, menzogne; I Programmi uniformi, che schiacciano la creatività, l’iniziativa, la responsabilità; Il Voto, che produce rivalità, gelosie, odii. Il nostro approccio educativo sarà integrale, razionale, misto e libertario. Integrale — Perché tenderà allo sviluppo equilibrato di tutto l’essere e fornirà un insieme completo, armonioso, sintetico, avanzato in tutti i campi delle conoscenze, intellettuali, fisiche, manuali, professionali, e questo a partire dalla più giovane età. Razionale — Perché sarà basato sulla ragione e sarà in sintonia con i princìpi della scienza attuale e non dei dogmi di fede; mirerà allo sviluppo della dignità e dell’indipendenza personali e non del pietismo e dell’ubbidienza cieca; e tenderà al superamento di un Dio fittizio, pretesto eterno e assoluto di asservimento. Misto — Perché favorirà l’educazione congiunta dei due sessi con una frequentazione costante, fraterna, familiare dei ragazzi e delle ragazze, dando all’insieme dei costumi sociali una sua serenità. Lungi dal rappresentare un pericolo, questa frequentazione allontana dalle menti dei ragazzi le curiosità malsane e diventa, nelle giuste condizioni in cui è praticata, una garanzia di protezione dei fanciulli e di elevata moralità. Libertario — Perché sancirà infine la cessazione progressiva del potere a vantaggio della libertà — lo scopo finale dell’educazione è infatti quello di formare degli esseri umani liberi, pieni di rispetto e di amore per l’altrui libertà. Tale è, a grandi linee, l’approccio educativo e di istruzione del nostro progetto. Noi riteniamo che l’educazione sia un mezzo potente per diffondere e far
crescere negli spiriti le idee di generosità umana. È uno strumento che aiuta, molto più di altri, a elevare il livello morale dei giovani. A causa della suscettibilità e impressionabilità dell’organo sul quale agisce, la sua azione è di primaria importanza. L'educazione può decidere dell’avvenire di una intelligenza, aprendo orizzonti prima sconosciuti. L’insegnamento può essere il motore più attivo di progresso attraverso l’influenza diretta che esercita sulla fioritura delle idee e il loro ulteriore sviluppo. Può diventare la leva che solleverà il mondo e che cancellerà per sempre gli errori, le menzogne e le ingiustizie. La sua portata può essere immensa, la sua missione nobile ed elevata, perché l’educazione deve avere per scopo l'innalzamento dell’umanità. In effetti, il più grande servizio reso all’umanità non è forse quello di strappare il velo che si mantiene ostinatamente sui suoi occhi, e mostrare quali idoli fasulli si insegna ad adorare e la miseria delle argomentazioni in virtù delle quali si pretende di imporre il rispetto? In questi tempi di indifferenza, desolazione, in cui domina la mediocrazia, non è impresa facile quella di fondare una Scuola Libertaria che rompa apertamente con gli antichi modi di procedere. Mettendoci all’opera, noi non ci nascondiamo le difficoltà del progetto. Il compito sarà faticoso e duro, la strada irta di ostacoli. Ma più grandi saranno gli ostacoli, più tenaci saranno i nostri sforzi. Quest’opera non deve essere solo di alcuni ma deve essere e sarà l’opera di tutti: degli spiriti aperti alle innovazioni importanti, delle persone curiose di sperimentare, degli amanti del nuovo, di coloro che sono desiderosi di una giustizia elevata e di moralità sociali. Agli individui ricchi di cuore, a qualunque formazione essi appartengano, chiediamo di darci il loro sostegno morale e materiale. Il Comitato d’iniziativa Elisée Reclus, Louise Michel, J. Grave, J. Ardouin, Ch. Malato, E. Janvion, L. Matha, J. Degalvès, L. Tolstoj, A. Girard, P. Kropotkin, J. Ferrière, L. Malquin.
Manifesto dell’Internazionale Anarchica contro la guerra
Documento 5 (febbraio 1915)
Manifesto pubblicato dal movimento anarchico internazionale, redatto in tedesco, se e inglese, e distribuito sotto forma di volantino.
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L’Europa è in fiamme. Dodici milioni di uomini coinvolti nel più spaventoso massacro che la storia abbia mai registrato. Milioni di donne e bambini in lacrime. La vita economica, intellettuale e morale di sette grandi popoli sospesa brutalmente. La minaccia, ogni giorno sempre più grave, di nuove complicazioni belliche — tale è stato, nel corso di sette mesi, lo spettacolo doloroso, straziante e odioso che ha mostrato il mondo civilizzato. Ma non è qualcosa di inaspettato, almeno per gli anarchici. Per loro non c’è mai stato e non c’è tuttora alcun dubbio — e i terribili eventi in corso rafforzano questa convinzione — che la guerra è in gestazione permanente all'interno dell’attuale sistema sociale. I conflitti armati, di portata limitata o allargata, coloniali o tra potenze europee, sono la conseguenza naturale e lo sbocco inevitabile e fatale di una società basata sulla disuguaglianza economica dei cittadini, sull'antagonismo brutale degli interessi, una società che pone il mondo del lavoro sotto il rigido e scellerato controllo di una minoranza di parassiti che detengono sia il potere politico che quello economico. La guerra era inevitabile. Da qualunque parte abbia preso avvio, essa doveva scoppiare. Non è stato certo un caso che da mezzo secolo vi è stata una preparazione febbrile di enormi apparati militari e un incremento incessante delle spese destinate agli strumenti di morte. Non è certo perfezionando continuamente gli armamenti e concentrando le menti e le volontà di tutti sull'organizzazione meticolosa dell’apparato militare che si opera per la pace [6]. Perciò, è del tutto idiota e puerile, dopo aver moltiplicato le cause e le occasioni di conflitto, cercare di attribuirne la responsabilità a questo o a quel governo. Nessuna distinzione possibile può essere fatta tra guerre offensive e guerre difensive. Nell’attuale conflitto, i governi di Berlino e di Vienna hanno cercato di giustificare il loro operato attraverso prove non meno attendibili di quelle di Parigi e di Pietroburgo. Ognuno fa del suo meglio per produrre i documenti più incontrovertibili e decisivi per mostrare la sua buona fede e presentarsi come l’immacolato difensore del diritto e della libertà, il campione della civiltà. Civiltà? Chi dunque la rappresenta in questo momento? Forse lo Stato tedesco, con il suo formidabile militarismo, così potente da bloccare qualsiasi velleità di ribellione? Forse lo Stato russo per il quale la sferza, la forca e l’invio in Siberia sono i soli mezzi di persuasione? Forse lo Stato se con i suoi bagni penali, le sue conquiste sanguinose nel Tonchino, nel Madagascar, in Marocco, e
l’arruolamento forzato di neri nel suo esercito; quella Francia che, da anni, tiene nelle sue prigioni compagni colpevoli solo di aver scritto e parlato contro la guerra? Forse lo Stato inglese che sfrutta, divide e opprime le popolazioni del suo immenso impero coloniale? No, nessuno dei belligeranti è autorizzato a utilizzare il termine di civiltà o a dichiarare di avere agito per legittima difesa. La verità è che la causa delle guerre, di quella che attualmente insanguina le pianure d’Europa, come di tutte le guerre precedenti, poggia unicamente sull’esistenza dello Stato, che è la forma politica del privilegio. Lo Stato è nato dalla forza militare, si è sviluppato attraverso l’utilizzo della forza militare ed è ancora su tale forza che deve logicamente poggiare per mantenere il suo potere di dominio. Qualunque forma esso assuma, lo Stato non è altro che l’oppressione organizzata a vantaggio di una minoranza privilegiata. Il conflitto attuale lo mostra nella maniera più evidente. Tutte le forme di Stato sono coinvolte nella presente guerra: l’assolutismo con la Russia, l’assolutismo mitigato dal parlamentarismo con la Germania, lo Stato che domina popoli di nazionalità differenti con l'Austria, il regime democratico costituzionale con l'Inghilterra e il regime democratico repubblicano con la Francia. La sciagura dei popoli, che erano profondamente a favore della pace, consiste nel fatto che, per evitare la guerra, essi hanno riposto la loro fiducia nello Stato con i suoi intrighi diplomatici, nella democrazia e nei partiti politici (non escludendo quelli all’opposizione, come i socialisti parlamentari). Questa fiducia è stata deliberatamente tradita e continua a esserlo, allorché i governi, con l’aiuto di tutta la stampa da essi foraggiata, persuadono i popoli dei rispettivi paesi che la guerra è fatta per la liberazione dei popoli. Noi siamo risolutamente contro tutte le guerre tra i popoli, e nei paesi neutrali, come l’Italia [7] dove il governo cerca di gettare la gioventù nella spaventosa fornace della guerra, i nostri compagni sono stati, sono e saranno sempre gli oppositori più energici della guerra. Il ruolo degli anarchici nell’attuale tragedia, qualunque sia il luogo o la situazione in cui si trovino, è quello di continuare a proclamare che vi è una sola lotta di liberazione: quella che è combattuta in tutti i paesi dagli oppressi contro gli oppressori, dagli sfruttati contro gli sfruttatori. Il nostro compito è quello di
fare appello agli schiavi perché si ribellino contro i loro padroni. L’azione e la diffusione della concezione anarchica dovrebbero tendere, con assiduità e perseveranza, a indebolire e infine dissolvere i vari Stati, a coltivare lo spirito di ribellione, e a suscitare lo scontento nei popoli e negli eserciti. A tutti i soldati di tutti i paesi che credono di stare combattendo per la giustizia e per la libertà, noi dobbiamo dire che il loro eroismo e il loro valore non servono ad altro che a perpetuare gli odii, il dispotismo e la miseria. Ai lavoratori nelle fabbriche e nelle miniere è necessario ricordare che i fucili che ora essi hanno tra le mani sono stati usati contro di loro in occasione degli scioperi e delle rivolte legittime e che, in seguito, saranno impiegati ancora contro di loro per costringerli a sottomettersi allo sfruttamento dei padroni. Ai lavoratori delle campagne, è necessario mostrare che, dopo la guerra, essi saranno soggetti, ancora una volta, a sottostare al giogo e a continuare a coltivare la terra dei loro padroni e a produrre cibo per i ricchi. A tutti gli emarginati, va detto che essi non devono consegnare le loro armi fino a quando non avranno regolato i conti con i loro oppressori, fino a quando non avranno sotto il loro controllo la terra e le fabbriche. Alle madri, alle mogli e alle figlie, vittime della miseria e di privazioni crescenti, facciamo vedere chi sono i veri responsabili delle loro afflizioni e del massacro dei loro padri, figli e mariti. Dobbiamo fare leva su tutti i movimenti di ribellione, su tutto lo scontento, in modo da stimolare l’insurrezione e organizzare la rivoluzione a cui aspiriamo, per porre fine a tutte le ingiustizie sociali. Nessuno scoraggiamento, neanche di fronte a una calamità come l’attuale guerra. È in periodi così tormentati, durante i quali migliaia di esseri sono disposti a dare eroicamente la loro vita per una idea, che noi dobbiamo mostrare a costoro lo splendore, la grandezza e la bellezza dell’ideale anarchico: la giustizia sociale realizzata attraverso la libera organizzazione dei produttori; la guerra e il militarismo eliminati per sempre; e una libertà piena conquistata attraverso l’abolizione dello Stato e dei suoi organi di coercizione.
Viva l'anarchia! Firmatari Leonard D. Abbott, Alexander Berkman, L. Bertoni, L. Bersani, G. Bernard, G. Barrett, A. Bernardo, E. Boudot, A. Calzitta, Joseph J. Cohen, Henry Combes, Nestor Ciele van Diepen, F.W. Dunn, Ch. Frigerio, Emma Goldman, V. Garcia, Hippolyte Have, T. H. Keell, Harry Kelly, J. Lemaire, E. Malatesta, H. Marques, F. Domela Nieuwenhuis, Noel Paravich, E. Recchioni, G. Rijnders, I. Rochtchine, A. Savioli, A. Schapiro, William Shatoff, V. J. C. Schermerhorn, C. Trombetti, P. Vallina, G. Vignati, Lillian G. Woolf, S. Yanovsky. Londra, febbraio 1915
Parte II - Anarchia
Bisogna dunque soprattutto considerare l'anarchia come un metodo (Errico Malatesta, L'Anarchia , 1891)
Il termine anarchia, che significa assenza di dominio, cioè rifiuto di una autorità imposta, è stato deformato dal potere stesso e assunto come equivalente all’assenza di regole del vivere civile. Come è stato rilevato: «È comprensibile, dal loro punto di vista, che coloro che vogliono o praticano il dominio sugli altri equiparino una condizione di nondominio al disordine o addirittura al caos, perché, in questo modo, essi possono giustificare il loro potere» [8]. Questo potere invasivo, che ottunde e opprime gli spiriti liberi, genera di sovente e quasi dappertutto una situazione di scontento e di ribellione. Per cui, è ragionevole capovolgere la tesi sostenuta dal potere e affermare che: «Il disordine è sempre la conseguenza di una disputa, e la disputa sorge inevitabilmente in tutti quei casi in cui qualcuno cerca di dominare, cioè di opprimere un'altra persona» [9]. Questi chiarimenti preliminari sono necessari per sgombrare il campo da diffamazioni e deformazioni create ad arte dal potere. Al tempo stesso, vanno messe in luce tre caratteristiche essenziali dell’anarchia:
Anarchia non anarchismo. L’anarchia, come già rilevato in precedenza, è una aspirazione e una pratica di vita, e non l’ideologia di un partito che non esiste e non avrebbe alcuna ragione di esistere perché non vi è alcuna mira di potere. Anarchia senza aggettivi. L’anarchia non ha bisogno di qualificativi che pongano
uno stile di vita o un sistema organizzativo (comunismo, individualismo, mutualismo, eccetera) in posizione preferenziale rispetto agli altri, se non addirittura come l’unico accettabile per tutti. Anarchia come pratica di vita. L’anarchia è una ricerca personale e comunitaria di forme di vita individuale e sociale. Essa si caratterizza quindi per la varietà, volontarietà e sperimentazione delle sue espressioni attuative.
In altre parole, l’anarchia può essere vista sia come una esigenza dell’essere umano dall’inizio dei tempi, che sia come la manifestazione evolutiva dell’umanità tutta, protesa verso l’autonomia degli individui e l’armonia nei loro rapporti sociali.
Anarchia, di Charlotte Wilson
Documento 6 (1884)
Una chiarificazione dell'anarchia presentata come una nuova fase di progresso della civiltà e quindi del tutto priva degli aspetti terrificanti di distruzione e di violenza che taluni sostenitori e moltissimi oppositori vorrebbero attribuire, per ignoranza culturale o per interesse politico, alla concezione e alla pratica degli anarchici. Fonte: Charlotte Wilson, Anarchism, Justice, Volume 1, Numero 43, 8 novembre 1884.
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La parola anarchia si presta a tali e seri fraintendimenti da essere associata al caos o, peggio ancora, ad atti di violenza e di vendetta individuale. Per questo motivo, in assenza di simpatizzanti dell’idea più competenti di me e attualmente disponibili, vi chiedo di permettermi di chiarire ciò in cui crediamo e di spiegare soprattutto i suoi riflessi sull’attività di ricostruzione sociale. Anarchia, come ben si sa, significa semplicemente “senza un dominatore” o un “capo supremo”. Anarchico è quindi il nome preso da una certa tendenza di socialisti che, nelle parole della Dichiarazione degli anarchici al processo di Lyon [10], ritiene che è arrivato il tempo “di mostrare alle persone che possono benissimo fare a meno del governo”, come pure di far vedere a tutti i vantaggi di una proprietà gestita in comune. Gli anarchici ritengono che, giunti allo stadio attuale del progresso, l’unione tra gli individui in società può essere conseguita in maniera stabile solo se si basa su una piena equità economica e su una completa libertà individuale. Essi ritengono inoltre che il marciume e l’ingiustizia della presente organizzazione sociale stia raggiungendo un culmine, che una rivoluzione sia inevitabile, che essa spazzerà via qualsiasi privilegio, monopolio, autorità imposta, assieme alle leggi e alle istituzioni che sostengono tutto ciò, e libererà le energie costruttive sulla base di un nuovo ideale sociale che si sta già sviluppando all’interno delle formule obsolete di una fase della civiltà in via di superamento. La loro concezione della missione rivoluzionaria come un fatto puramente distruttivo, porta gli Anarchici a porsi la domanda concernente un futuro ignoto, non tanto nella forma: Che schema di organizzazione sociale dobbiamo mettere al posto della situazione presente? quanto: Dopo l’annullamento delle attuali istituzioni oppressive, quali forze e condizioni sociali sopravviveranno e come si trasformeranno e si svilupperanno probabilmente in futuro? Non è affatto necessario chiedersi, come sono solite fare alcune persone cavillose, che cosa avverrebbe se l’essere umano civilizzato cessasse di essere un animale sociale e ognuno pensasse solo a sé stesso. Noi non viviamo assieme in società e ci adattiamo e soddisfiamo i reciproci bisogni in modo da rendere possibile una esistenza in comune solo perché costretti a comportarci così da talune leggi e istituzioni. Noi siamo portati a vivere assieme dal nostro istinto di socialità, e siamo formati a vivere in una condizione armoniosa, come quella che abbiamo raggiunto attualmente, attraverso l’influenza che esercitiamo l’uno sull’altro con le nostre continue azioni e reazioni e con le abitudini, affinità e
convinzioni, trasmesse e acquisite. La Rivoluzione, rompendo le forme stereotipate nelle quali alcuni di questi istinti e credenze sociali si sono cristallizzati non può, in alcun modo, distruggere le tendenze stesse alla socialità. Da quando l’individualismo ha infranto la struttura rigidamente regolata della società medioevale, questi istinti sociali sono stati avvertiti in maniera estremamente potente nella crescita di due forze notevoli e in continuo sviluppo, e cioè la Produzione Socializzata e l’Opinione Pubblica. Entrambe sono il risultato diretto dell’influenza della libertà personale e della forza dell'iniziativa individuale sull’agire sociale. La Rivoluzione, diretta contro le imposture e le ipocrisie, lascerà intatte entrambe queste realtà. L’attuale sistema di produzione su grande scala, altamente socializzato, con la sua minuziosa divisione e frammentazione del lavoro, i suoi macchinari, le sue masse concentrate di lavoratori manuali e le sue complesse relazioni industriali, ha insegnato alle persone che esse possono accrescere enormemente il loro controllo sulle forze della natura quando agiscono in maniera cooperativa per produrre i mezzi per vivere. Si tratta già, praticamente, di un sistema attraverso il quale tutti i lavoratori sono al servizio della società nel suo complesso e, in cambio, soddisfano i loro bisogni prendendo quanto serve loro per vivere. Quando il monopolio che un ristretto numero di persone esercita sulla terra e sul capitale e che impedisce ai lavoratori, in primo luogo, di avere il controllo sulle proprie attività, e poi, di soddisfare adeguatamente le proprie esigenze, quando questo monopolio sarà distrutto, lo scopo della ricostruzione sociale consisterà nel permettere di assolvere queste due funzioni nella maniera più agevole e più efficace possibile. La domanda che ci si pone è la seguente: riusciranno la libera cooperazione e i liberi contratti a far sì che i lavoratori effettuino una produzione adeguata ai bisogni, una volta che essi hanno nelle loro mani gli strumenti della produzione, senza che un qualche Stato o una qualche organizzazione e direzione prenda il posto dei monopolisti, dei padroni e degli attuali organizzatori? Noi crediamo di sì. E questo perché deve avvenire, nella mente delle persone, una trasformazione radicale riguardo alla natura della proprietà e dei doveri degli individui prima che la Rivoluzione abbia successo. La famosa affermazione di Proudhon. “La Proprietà è il Furto” è la chiave dell’enigma ugualmente famoso proposto ai socialisti da Saint-Simon quando scrisse la frase: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Quando i produttori capiranno pienamente che, prendendo possesso delle ferrovie e dei mezzi di navigazione,
delle miniere e dei campi, delle fattorie e delle fabbriche, delle materie prime e dei macchinari, e di tutto ciò che è necessario per le attività produttive, essi stanno solo reclamando il diritto di utilizzare liberamente, per il bene di tutti, ciò che è stato prodotto dal lavoro in comune o utilizzato in comune in ato, e che, in cambio della loro attività, essi hanno giustamente il diritto di prendere dall’insieme dei prodotti finiti ciò di cui hanno bisogno, ogni difficoltà sarà superata. E saranno eliminati anche gli ostacoli che esistono riguardo alle necessarie trasformazioni nel funzionamento del sistema produttivo e delle sue relazioni con il consumo, una volta che la creatività di una miriade di persone si applicherà per il loro superamento. Tutto ciò sarà possibile quando ci si renderà conto che, solo in assenza del monopolio sulla terra e sul capitale, i lavoratori possono essere liberi e che, quando costoro hanno un padrone, essi sono come degli schiavi e nessun miglioramento duraturo ed effettivo può essere apportato alla loro condizione. La fatale bramosia di acquisire proprietà si è impadronita talmente delle menti delle persone, che un bene senza un signore che lo possedesse appare adesso a molti come una anomalia mostruosa, al pari di quanto avveniva davanti ai tribunali della Regina Elisabetta, quando compariva un individuo che non era sotto un padrone. Taluni escogitano allora ogni sorta di schemi sofisticati per porre la proprietà comune della gente in un trust, incaricando alcuni amministratori della sua gestione – una forma ingegnosa di servitori che, con tutta probabilità, potrebbero diventare tiranni peggiori di quelli del ato. Noi anarchici non vogliamo né dominare né servire e preferiamo riporre la nostra fiducia nella ragione dei lavoratori, illuminata dall’amara esperienza di secoli di asservimento. La concezione anarchica propone quindi:
Che l’usufrutto derivante dagli strumenti di produzione, inclusa la terra, sia a libera disposizione di tutti i produttori o gruppi di produttori. Che i produttori si associno e gestiscano le loro attività sulla base dei dettami della ragione e delle loro inclinazioni. Che le necessarie relazioni tra le varie industrie e i rami del commercio siano gestite sulla base del principio di volontarietà.
Che i prodotti finiti siano raccolti in depositi e mercati e che si aprano, in località di facile accesso, agenzie che facilitino l’incontro tra produttori e consumatori (ad esempio, impresari edili e falegnami posti in contatto con coloro che sono alla ricerca di un alloggio). Che ogni individuo possa soddisfare i suoi bisogni come gli dettano le sue conoscenze.
Questa è la teoria del laissez-faire, modificata ed estesa per venire incontro alle esigenze del futuro ed evitare le ingiustizie del ato. Essa implica che la maggioranza delle persone sono capaci di agire in maniera abbastanza efficace qualora siano lasciate libere, e ritiene che l’individuo sia il migliore giudice delle proprie capacità. Inoltre, assume che l’interesse personale, intelligentemente perseguito, tende a promuovere il benessere economico generale della comunità. Questa concezione differisce dalla vecchia teoria in quanto pone l’interesse personale dalla parte di una giusta diffusione dei beni, attraverso la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione nelle mani di un ristretto numero di persone, e quindi riesce a neutralizzare i pericoli che derivano dalla presenza nella società di personalità aventi una fortissima inclinazione a considerare esclusivamente i propri interessi, anche a detrimento degli altri. Permette inoltre il libero gioco di quelle affinità sociali la cui influenza, nel determinare il comportamento delle persone, è stata erroneamente ignorata dagli economisti ortodossi. E ritiene che relazioni economiche, eque e benefiche per tutti, sono nell’interesse dell’individuo e che ognuno è in grado di apprendere ciò, se non attraverso lo studio delle scienze e l’insegnamento morale, certo per via delle dure lezioni dell’esperienza. Il processo di apprendimento non è forse già iniziato?
Anarchia, vera e falsa, di Henry Appleton
Documento 7 (1884)
L'autore esprime la convinzione e l’aspirazione fondamentale degli anarchici, che è quella di essere lasciati liberi di organizzare la propria vita e le proprie relazioni sociali attraverso scelte volontarie, invece di essere massificati e irregimentati, come è purtroppo il caso, ancora oggi, in quanto sudditi dello Stato territoriale centrale. Fonte: Henry Appleton, Anarchism, True and False, Liberty, n°50, 6 settembre 1884.
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Sembra che non sia stata scritta ancora la parola fine per quanto riguarda l’esistenza di persone strane, che non concepiscono altro modo di cambiare radicalmente il sistema se non abbattendo, lacerando, riducendo a pezzi o annientando qualcosa, sulla scia di una qualche terribile moda. Queste persone sosterranno che l’anarchico è un puro distruttore – che il suo obiettivo è quello di radere a zero tutte le istituzioni esistenti. Costoro vedono il sangue nei suoi occhi e la dinamite nella sua saccoccia, e chiedono tristemente: “Dunque, che cosa proponete, voi anarchici, in sostituzione delle attuali istituzioni, dopo che le avrete distrutte tutte?”. La filosofia dell’anarchia non ha proprio nulla a che vedere con la violenza, e la sua idea centrale è agli antipodi del livellamento di massa. Anzi, è proprio contro la massificazione livellatrice operata dalle istituzioni repubblicane che l’anarchia leva la sua protesta. Essa si oppone infatti, in maniera radicale, al suffragio universale, lo strumento più dannoso di livellamento nelle mani della repubblica. L’obiezione principale agli stati esistenti è che essi sono tutti notevolmente comunisti, e il comunismo si basa su un tentativo del tutto artificioso di abbassare tutti allo stesso livello, in contrasto con uno sviluppo sociale frutto di una sovranità individuale non ostacolata. Se uno esamina attentamente gli elementi che compongono il governo degli Stati Uniti, si rende conto che esso non è altro che una forma attenuata di socialismo di Stato. Il vero anarchico esprime la sua condanna proprio su questo punto. L’anarchico si oppone a qualsiasi apparato e a qualsiasi metodo di livellamento artificioso. Quanto ridicola è dunque l’ignoranza di coloro che lo accusano di voler livellare ogni cosa, quando la concezione integrale dell’anarchia denuncia proprio questa massificazione livellatrice! È una sfortuna, per la genuinità del vero pensiero anarchico, che esista una classe di esagitati vociferi che si definiscono anarchici, ma non lo sono, i quali, nei fatti, non hanno mai ripudiato l’idea centrale su cui si basa attualmente lo Stato. Come rappresentanti di questo tipo possiamo citare Burnette G. Haskell [11] del giornale di San Francisco “Truth” e Johann Most [12] di “Freiheit.” La classe rappresentata dagli Haskell è quella dei socialisti di Stato i quali, mentre gridano “rivoluzione” ed esigono il rovesciamento delle istituzioni esistenti, non hanno null’altro da proporre nel loro armamentario che un ampliamento del principio centrale distruttore che genera tutto ciò che è reprensibile nell’ordine esistente. Queste persone vogliono più governo, più centralizzazione, più subordinazione delle faccende dell’individuo all’apparato centrale – in poche
parole, in ultima istanza, più interventi politici. Essi non sono anarchici secondo quella concezione che poggia sull’individuo. Essi si appropriano di un vestito che non è il loro. Il signor Most occupa la posizione ancora più ridicola di un Comunista di Stato, se un simile termine ha un qualche senso. Il comunismo è davvero il livellamento, e perciò l’anarchia si oppone ad esso profondamente e radicalmente. Essendo il comunismo impossibile, come fatto spontaneo e naturale, la sua propaganda e proposta di realizzazione non può poggiare altro che sulla violenza. Il signor Most accetta con baldanza questa situazione. Quindi egli vorrebbe distruggere e confiscare la proprietà con tutti i metodi possibili, senza risparmiare il fuoco, la dinamite o qualsiasi altro terribile strumento. Egli ammazzerebbe le persone ricche a decine, e caccerebbe via dalla terra tutti coloro che contrastano i suoi disegni. All’indomani di una rivoluzione riuscita, egli riunirebbe tutti gli affari degli esseri umani in una Comune e uniformerebbe al massimo le condizioni di esistenza di tutti. Nonostante ciò, il signor Most si definisce anarchico. Io non vorrei in alcun modo privarlo della soddisfazione che ricava dall’attribuirsi quella qualifica, se non fosse per la fondata ragione che egli non è affatto un anarchico. Colui che ha scritto Die Eigenthumsbestie [ La bestia della proprietà] dichiara come suoi proprio quei metodi di organizzazione contro i quali si leva la voce e l’azione degli anarchici. Il comunismo tutto, sotto qualsiasi forma si presenti, è il nemico naturale dell’anarchia e un comunista che si presenti sotto la bandiera dell’anarchia è un falso come mai se ne potrebbe inventare uno. L’anarchico non vuole distruggere tutte le istituzioni esistenti con un botto e poi avviare il processo di sostituzione sulle rovine del ato. Egli chiede semplicemente di essere lasciato in santa pace, rimpiazzando, già nel presente, falsi sistemi organizzativi, di modo che poi essi possano gradualmente essere eliminati, pezzo per pezzo, a causa della loro stessa vetustà e inutilità. Egli chiede che gli sia concesso l’umile possibilità di dar vita a una libera banca che sia in pacifica concorrenza con la banca della classe possidente finanziata dallo Stato e situata all’angolo opposto della strada. Egli chiede di avere il diritto di aprire un ufficio postale in leale concorrenza con il servizio istituito dal governo. Egli chiede di essere lasciato tranquillo nel conseguire un titolo di proprietà su un pezzo di suolo attraverso una libera occupazione, coltivazione e uso, e non attraverso un titolo subordinato a oscuri interessi, volti a mantenere le masse prive di terra coltivabile. Egli chiede che gli sia consentito di far sì che i suoi rapporti familiari possano sorgere sulla base del libero amore in pacifica
concorrenza con l’amore sancito dall’ordine ecclesiastico, che è spesso un crimine contro natura e il distruttore stesso dell’amore, dell’ordine e dell’armonia. Egli chiede di non essere tassato su ciò che gli è già stato sottratto da un apparato di potere in cui non ha praticamente né voce né scelta. In breve, l’anarchico chiede la fine dei vincoli sulla terra, sulla moneta, sul commercio, sull’amore, e il diritto di competere liberamente con il sistema esistente, a suo rischio e pericolo. In sostanza chiede semplicemente la libertà. Vi è in tutto ciò un qualche accenno di violenza? Vi è un livellamento artificioso? E infine, vi è una qualche voglia di rimpiazzare al più presto con qualcosa quello che noi condanniamo? No. Tutto quello che chiediamo è il diritto di vivere in pace. La libertà di entrare in onesta competizione con il privilegio. I governi esistenti mirano alla negazione di tutto ciò. Da qui sorge il contrasto che sfocia in una lotta. Chi è la parte che aggredisce e usa la violenza? È forse l’anarchico che chiede semplicemente di essere lasciato solo a occuparsi delle sue faccende, o è il potere che, conscio di non poter sopravvivere sulle proprie gambe, si perpetua utilizzando la violenza, schiacciando tutti i tentativi volti a mettere alla prova, attraverso una pacifica concorrenza, la sua efficienza e le sue pretese?
Questioni di Tattica. O L'anarchia senza aggettivi, di Fernando Tarrida del Mármol
Documento 8 (1890)
In questo famoso, anche se poco letto, scritto di Tarrida del Mármol si ribadisce una idea che ha avuto vita difficile presso molti anarchici attaccati alla concezione di un'unica organizzazione sociale ed economica, quella a loro cara, presentata come panacea valida per tutti. E l'idea è che l'anarchia è un metodo fatto di tolleranza e di rispetto delle libere scelte di ogni individuo e perciò l'anarchico non è interessato a fornire ricette da applicarsi a tutti, siano esse sotto forma di socialismo, comunismo, collettivismo, mutualismo, individualismo, fino all'anarco-capitalismo. Tarrida del Mármol invita quindi gli anarchici a promuovere una anarchia senza aggettivi. Nel rispetto delle scelte volontarie di ognuno, tutti troveranno prima o poi la strada che soddisferà le loro aspirazioni e i loro desideri. Fonte: Fernando Tarrida del Mármol, Questions de Tactique, ou L’anarchie sans adjectifs, pubblicato su La Révolte, (6-12 settembre 1890) (13-19 settembre 1890).
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Compagni de La Révolte [13], Vorrei illustrarvi con chiarezza l'idea che io ho riguardo alla tattica rivoluzionaria degli anarchici si; è per questo che non potendo scrivere una serie di articoli, come sarebbe il caso, vi invio una lettera personale. Voi ne ricaverete ciò che vi sembrerà buono. La decisione rivoluzionaria non è mai stata carente al carattere se, e gli anarchici si hanno dimostrato, in innumerevoli circostanze, che essi non mancano né di agitatori né di rivoluzionari. Il numero degli aderenti al movimento anarchico è abbastanza nutrito, con grandi pensatori, attivisti determinati e sostenitori entusiasti, eppure la Francia, va detto, è il paese dove sono più esigue le azioni a favore dell’anarchia. Questo è il mio rovello. Per questo vi ho detto che io ritengo che la vostra tattica rivoluzionaria non sia quella giusta. Nulla di fondamentale divide gli anarchici si dagli anarchici spagnoli, e tuttavia, in pratica, ci troviamo a una grande distanza. Noi tutti accettiamo l’anarchia come espressione di tutte le libertà, e come loro unica garanzia; come l'impulso e la somma del benessere umano. Nessuna legge imposta, nessuna repressione; sviluppo spontaneo e naturale di tutti gli atti. Né superiori né inferiori, né governanti né governati; solo degli esseri coscienti che si cercano, che si attraggono, che discutono tra di loro, che decidono, che producono, che si amano, senza altro scopo se non il benessere di tutti. È così che tutti noi concepiamo l’anarchia, e che immaginiamo la società del futuro; ed è per la realizzazione di questa concezione che noi tutti stiamo operando. Dove sono quindi le nostre differenze? Io penso che voi altri, tutti presi dalla contemplazione dell’alto fine, vi siete tracciati una linea di condotta ideale, un puritanesimo improduttivo all’interno del quale sprecate una quantità di energie in grado di distruggere gli organismi più forti, e che, essendo tali energie mal impiegate, non arrivano a produrre granché. Vi dimenticate che non siete circondati da esseri liberi, gelosi della propria libertà e dignità, ma da schiavi che si aspettano che qualcuno li liberi. Vi dimenticate che i nostri nemici sono organizzati e si sforzano ogni giorno di rafforzarsi ulteriormente per continuare a dominare. E infine vi dimenticate che anche coloro che operano per il bene vivono nell’attuale disorganizzazione
sociale e sono pieni di vizi e pregiudizi. Da ciò deriva che voi accettate una libertà assoluta e vi aspettate tutto dall'iniziativa individuale, a tal punto che non vi è più accordo o intesa possibile tra le persone. Nessun accordo, nessuna riunione in cui si prendono delle risoluzioni; l’importante, l’essenziale per voi è che ognuno faccia quello che gli piace. Risultato: qualcuno che vorrebbe fare qualcosa di buono, non ha i mezzi per riunirsi con tutti quelli che la pensano come lui per presentare la sua iniziativa, farsi consigliare da loro e contare sul loro appoggio; egli è obbligato a fare tutto da solo o non fare niente di tutto. Creare commissioni per il lavoro amministrativo, fissare dei contributi per far fronte a questa o quella esigenza – tutto ciò è visto come una imposizione. E così, se un compagno o gruppo vuole sviluppare relazioni con tutti gli anarchici di Francia o del mondo per un progetto personale, non ha i mezzi e deve abbandonare l'idea. Tutto ciò che non è la Rivoluzione sociale è per voi una stupidaggine. Che cosa importa agli anarchici del fatto che i salari diventino sempre più insufficienti, che la giornata lavorativa si allunghi, che gli operai siano insultati nelle imprese di produzione, che le donne siano ridotte dai padroni al rango di prostitute? Fino a quando durerà il sistema borghese, questa sarà la realtà e occorre preoccuparsi solo dell'obiettivo finale. In attesa di ciò, la massa di proletari che soffre e che non crede in una prossima liberazione, non presta affatto ascolto agli anarchici. Potrei continuare, facendo altri esempi, e il risultato sarebbe sempre lo stesso: l'impotenza. Impotenza, non perché mancano gli elementi, ma perché essi sono sparsi, senza alcun legame tra di loro. In Spagna, noi seguiamo una tattica completamente diversa. Sicuramente per voi sarà un'eresia degna della più grande scomunica, una pratica ingannevole che occorre estirpare dal campo di azione degli anarchici. Eppure, noi crediamo che solamente così noi siamo in grado di far penetrare le nostre idee tra i proletari e distruggere il mondo borghese. Come voi, anche noi ci teniamo alla purezza del programma anarchico. Non c'è nulla di così intransigente, di così categorico delle idee, e noi non ammettiamo né mezzi termini, né annacquamenti di alcun tipo. Per questo, cerchiamo di essere, nei nostri scritti, quanto più chiari ed espliciti. L'anarchia è il nostro nord, è il punto che vogliamo raggiungere e verso
cui orientare il nostro cammino. Ma sulla nostra strada ci sono vari tipi di ostacoli e per superarli usiamo i mezzi che riteniamo migliori. Se non possiamo adattare il nostro comportamento alle nostre idee, lo facciamo notare e cerchiamo di avvicinarci il più possibile all’ideale. Ci comportiamo come farebbe un viaggiatore che vuole andare in paesi a clima temperato e che, per arrivarvi, deve are attraverso i tropici e attraverso zone glaciali: egli si attrezzerà con indumenti molto pesanti e con vestiti molto leggeri, che metterà da parte una volta giunto a destinazione. Sarebbe stupido, addirittura ridicolo, voler combattere con i pugni contro un nemico ben armato e corazzato. Da quello che ho detto ne consegue la nostra tattica. Noi siamo anarchici; predichiamo l’anarchia Senza Aggettivi. L'anarchia è un assioma; la questione economica è una cosa secondaria. Vi diranno che è attraverso la questione economica che l'anarchia diventa una verità; ma noi crediamo che essere anarchico significa essere il nemico di qualsiasi potere esterno, di qualsiasi imposizione e, di conseguenza, qualunque sia il sistema che uno sostiene, ciò avviene perché lo si ritiene il baluardo migliore a difesa dell’anarchia e non lo si vuole affatto imporre a coloro che non lo accettano. Questo non vuol dire che abbiamo messo da parte la discussione sulla questione economica. Al contrario, ci piace discutere, ma solo per fornire dei dati per la o le soluzioni ultime. Delle cose buone sono state dette da Cabet, Saint-Simon, Fourier, Robert Owen e altri; ma tutti i loro sistemi sono tramontati perché essi volevano rinchiudere la società nelle concezioni del loro cervello. Tuttavia, hanno prodotto cose pregevoli, illuminando il tema. Prendete nota. A partire dal momento in cui ci si propone di offrire le linee generali della società futura, da una parte le obiezioni e le richieste degli avversari, dall'altra il desiderio naturale di fare un lavoro completo ed esauriente, ci portano a inventare, a tracciare, un sistema che, si può essere sicuri, scomparirà come gli altri. Tra l'individualismo anarchico di Spencer e di altri pensatori borghesi (lasciatemi are l’espressione) e gli individualisti-anarchici socialisti (non trovo altra qualifica) c'è una grande distanza, come vi è tra i collettivisti spagnoli e quelli di un'altra zona geografica; come vi è tra i mutualisti inglesi e americani; e tra i comunisti. Kropotkin, ad esempio, ci parla del villaggio industriale, riducendo il suo
sistema, la sua concezione, alla riunione di piccole comunità che producono ciò che vogliono, attuando, per così dire, il racconto biblico del paradiso terrestre con, in aggiunta, i progressi della civiltà; mentre Malatesta, che è anche lui comunista-anarchico, indica la formazione di grandi organizzazioni che si scambieranno i prodotti e che aumenteranno ulteriormente questo potere creativo, questa attività stupefacente che dispiega il XIX secolo, purgata di ogni azione malvagia. Ogni intelletto potente disegna, crea nuove strade per la società futura, e farà degli adepti con la forza ipnotica – se così si può dire – convincendo altri cervelli della bontà delle proprie idee, e noi tutti, in generale, elaboriamo il nostro piano particolare. Accordiamoci quindi, come abbiamo fatto noi in Spagna, nel definirci semplicemente anarchici. Nelle nostre conversazioni, nelle nostre comunicazioni scritte, nelle nostre conferenze, nella nostra stampa, trattiamo sì le questioni economiche, ma questi temi non dovrebbero mai essere causa di divisione tra gli anarchici.
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Per la diffusione delle nostre idee, abbiamo bisogno di conoscerci e di incontrarci e per questo dobbiamo formare dei gruppi. In Spagna ci sono gruppi in quasi tutte le località dove sono presenti degli anarchici, ed essi sono la forza motrice di ogni movimento rivoluzionario. Gli anarchici non hanno soldi o mezzi facilmente disponibili; per ovviare a questo, molti di noi hanno deciso di offrire un piccolo contributo settimanale o mensile; così siamo in grado di mantenere le relazioni necessarie tra tutti i membri, e potremmo essere in contatto con anarchici di tutto il mondo, se le altre regioni avessero una organizzazione similare. Nel gruppo non vi è alcun potere dominante; abbiamo scelto un compagno come cassiere, un altro come segretario per ricevere la corrispondenza, eccetera. Le riunioni si tengono ordinariamente ogni settimana od ogni quindici giorni, e, in via straordinaria, ogni volta che sia necessario. Per risparmiare sulle spese e sul lavoro e anche come misura cautelare per far fronte a eventuali persecuzioni da parte del potere, ci siamo accordati sulla formazione di una commissione che tiene i rapporti nella regione. Questa commissione non ha potere di iniziativa: coloro che la compongono devono contattare il proprio gruppo, se vogliono avanzare dei suggerimenti. La sua missione è di informare tutti gli altri gruppi sulle risoluzioni e sulle proposte espresse da un singolo gruppo, prendere nota di tutti gli indirizzi che sono stati forniti, e inviarli ai gruppi che ne hanno fatto richiesta perché possano mettersi in rapporto diretto tra di loro. Queste sono le linee generali dell'organizzazione, che sono state accettate al Congresso di Valencia, e di cui voi avete parlato in un numero de La Révolte. I benefici di questa forma di organizzazione sono enormi, al fine di dar vita alla diffusione e attuazione delle idee anarchiche. Ma siatene certi, se noi riduciamo la nostra azione all'organizzazione anarchica, otterremo ben poco. Finiremo per trasformarci in una organizzazione che discute su delle idee, degenerando sicuramente in una palestra di metafisici che discettano sulle parole. Qualcosa di simile e persino qualcosa di ancora peggio capita a voi altri. Non impiegando le vostre energie in altra cosa se non discutere sull'ideale, cadete nella trappola delle parole. Alcuni si proclamano egoisti, altri altruisti, ed entrambi vogliono dire la stessa cosa; alcuni si definiscono comunisti, altri individualisti e, sotto sotto, hanno tutti le stesse idee. Va ricordato che la grande massa dei proletari è costretta a lavorare un numero eccessivo di ore, che essa è nella più grande miseria e quindi non può acquistare
i testi di Letourneau [14], Büchner [15], Darwin, Spencer, Lombroso, Max Nordau [16], eccetera, di cui si conoscono solo i nomi. E anche se il proletariato potesse procurarsi i testi, gli manca la preparazione in fisica, chimica, matematica e storia naturale, necessaria per ben capire quello che legge. Il proletario non ha il tempo per studiare con metodo, e il suo cervello non è abbastanza esercitato per poter assimilare bene questi studi. Ci sono delle eccezioni; come quella di Etienne in Germinal [di Émile Zola], menti votate al sapere che divorano tutto ciò che cade nelle loro mani, ma trattengono molto poco di quello che hanno letto. Il nostro campo di azione non è dunque all'interno di questi gruppi, ma in mezzo alle masse proletarie. È nei gruppi sociali che si oppongono all’organizzazione sociale attuale che noi studiamo e prepariamo il nostro piano di battaglia. Questi gruppi esisteranno fino a quando durerà il regime borghese. Ai lavoratori che non sono scrittori, importa poco se c’è o non c’è la libertà di stampa; i lavoratori che non sono degli oratori, non si preoccupano molto della libertà di tenere riunioni aperte al pubblico; essi considerano secondarie le libertà politiche, ma tutti desiderano migliorare le loro condizioni economiche, tutti desiderano scuotere il giogo della borghesia. Per questo ci saranno sempre i sindacati e i gruppi di resistenza, fino a quando vi sarà lo sfruttamento di un essere umano su un altro essere umano. Lì è il nostro posto. Abbandonandoli, come avete fatto voi, i gruppi di resistenza diventano il luogo d’incontro di quattro sfaccendati che, parlando ai lavoratori di socialismo scientifico o di teoria della prassi, di possibilismo, di cooperazione, di raccogliere soldi per sostenere gli scioperi pacifici o di cercare l'aiuto e il sostegno delle autorità, li addormentano continuamente e frenano lo slancio rivoluzionario. Se gli anarchici fossero in questi gruppi, almeno impedirebbero a costoro di fare propaganda contro di noi. E se, inoltre, gli anarchici fossero, come in Spagna, gli esponenti più attivi all'interno di questi gruppi, se fossero coloro che fanno tutto il lavoro organizzativo necessario senza un guadagno monetario, all’opposto dei difensori del doppio gioco, accadrebbe che queste associazioni sarebbero sempre dalla nostra parte. In Spagna sono questi gruppi sociali di resistenza che, ogni settimana, acquistano una quantità di giornali anarchici da distribuire gratuitamente ai soci; sono loro che procurano del denaro per sostenere le nostre pubblicazioni, o per andare in aiuto dei prigionieri e delle vittime del potere. Noi mostriamo, con la nostra condotta in questi gruppi, che lottiamo per amore delle nostre idee;
inoltre, noi interveniamo ovunque ci siano lavoratori, e anche dove non ce ne sono, quando crediamo che la nostra presenza possa essere utile alla causa dell'anarchia. È così che in Catalogna (e ora la cosa si sta facendo strada anche in altre parti della Spagna) non c'è Comune dove non abbiamo creato, o almeno aiutato, dei gruppi sotto la denominazione di circoli, atenei, centri operai, i quali, senza dirsi anarchici e senza esserlo realmente, simpatizzano con le nostre idee. Stiamo promuovendo conferenze puramente anarchiche e mescoliamo la nostra attività rivoluzionaria agli incontri musicali e letterari. Là, seduti al tavolino di un caffè, si discute, ci si vede ogni sera; o si va a studiare in biblioteca. Qui installiamo i redattori dei nostri giornali, e i giornali che riceviamo in cambio dei nostri sono messi nella sala di lettura e tutto ciò sulla base di una organizzazione libera e quasi senza spese. Ad esempio, nel circolo di Barcellona una persona non è nemmeno tenuta ad associarsi; lo sono coloro che lo vogliono, e il contributo di 25 centesimi al mese è volontario. Dei due o tremila lavoratori che vengono nei locali del circolo, solo 300 sono associati. Potremmo dire che questi locali sono il focolaio delle nostre idee; e anche se il governo ha cercato sempre dei pretesti per chiuderli, non ne ha trovati, perché i frequentatori non si dichiarano anarchici e non è in questi luoghi che teniamo incontri riservati. Qui non facciamo nulla che non si farebbe in qualsiasi caffè frequentato dal pubblico; ma dal momento che lì vengono tutti gli elementi attivi, da lì spesso escono grandi cose, senza formalità, sorseggiando una tazza di caffè o un bicchiere di cognac. Noi non trascuriamo nemmeno le società cooperative di consumo. In quasi tutti i comuni della Catalogna – tranne Barcellona, dove è impossibile farlo a causa delle grandi distanze e del modo di vivere – sono state create cooperative di consumo nelle quali i lavoratori trovano prodotti commestibili a un prezzo più economico e di migliore qualità che presso i commercianti; e questo senza che gli associati considerino la cooperazione come l'obiettivo finale, ma solo come un mezzo da cui trarre beneficio. Ci sono cooperative che acquistano all'ingrosso e dispongono di un credito di 50-60.000 franchi, e che sono state di grande utilità negli scioperi, facendo credito ai lavoratori. Negli atenei degli studiosi si discute di socialismo; due dei nostri compagni vanno in seguito a iscriversi come membri (se non hanno i soldi, il gruppo li finanzia) per sostenere le nostre idee. Lo stesso ha fatto la nostra stampa. Non ha mai trascurato le idee anarchiche; ma dà spazio a manifesti, comunicazioni, notizie, che, anche se possono sembrare poco importanti, servono tuttavia per far arrivare il nostro giornale e le nostre
convinzioni in alcuni comuni o in ambienti nei quali nessuno ne aveva conoscenza. Questa è la nostra tattica, e penso che, se la si adottasse in altre regioni, gli anarchici vedrebbero immediatamente espandersi il loro campo d’azione. Si consideri che in Spagna la maggior parte non è in grado di leggere eppure si pubblicano sei giornali anarchici, opuscoli, libri, volantini in gran quantità. Si fanno continuamente incontri e, pur non avendo dei veri agitatori, si verificano fatti molto importanti. In Spagna, la borghesia è spietata e vendicativa e non sopporta che qualcuno della sua classe simpatizzi con noi, e quando un individuo di una certa posizione sociale o molto intelligente si mette dalla nostra parte, lo si contrasta in tutte le maniere, di modo che ci può aiutare solo di nascosto. Al contrario, la borghesia dà a costui tutto ciò che desidera, se si stacca da noi. Così, tutto il lavoro a favore dell’anarchia cade sulle spalle degli operai che devono utilizzare il loro tempo a scapito delle ore di riposo. Se in Francia, Inghilterra, Italia, Svizzera, Belgio, America del Nord, dove ci sono parecchi buoni elementi, si cambiasse di tattica, immaginate quali progressi ci sarebbero! Credo di aver detto abbastanza per chiarire la mia idea. Vostro e per la rivoluzione sociale. Fernando Tarrida del Mármol Barcellona, 7 agosto 1890
L'anarchia, di Errico Malatesta
Documento 9 (1891)
Uno scritto potente e preciso che presenta i tratti fondamentali dell'anarchia e risponde, in maniera estremamente lucida, a parecchie questioni poste dai suoi avversari e critici. Alcune analisi e valutazioni possono apparire in parte superate, ma il testo, nel suo complesso, conserva ancora intatta una sua freschezza e validità. Per quanto riguarda il riferimento, più volte ripetuto, all'abolizione della proprietà, si tratta chiaramente della proprietà dei mezzi di produzione (terra, impianti, macchinari) sotto il controllo di alcuni, favoriti e protetti dallo Stato, tramite concessioni, finanziamenti, agevolazioni, brevetti, eccetera. Fonte: Pubblicato originariamente a Londra dalla Tipografia dell'Associazione, 1891.
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Anarchia è parola che viene dal greco e significa propriamente senza governo: stato di un popolo che si regge senza autorità costituite, senza governo. Prima che tale organamento incominciasse a essere considerato come possibile e desiderabile da tutta una categoria di pensatori, e fosse preso a scopo da un partito, che è ormai diventato uno dei più importanti fattori delle moderne lotte sociali, la parola anarchia era presa universalmente nel senso di disordine, confusione; ed è ancor oggi adoperata in tal senso dalle masse ignare e dagli avversari interessati a svisare la verità. Noi non entreremo in disquisizioni filologiche, poiché la questione non è filologica, ma storica. Il senso volgare della parola non misconosce il suo significato vero ed etimologico; ma è un derivato di quel senso, dovuto al pregiudizio che il governo fosse organo necessario della vita sociale, e che per conseguenza una società senza governo dovesse essere in preda al disordine, e oscillare tra la prepotenza sfrenata degli uni e la vendetta cieca degli altri. L’esistenza di questo pregiudizio e la sua influenza nel senso che il pubblico ha dato alla parola anarchia, si spiega facilmente. L’uomo, come tutti gli esseri viventi, si adatta e si abitua alla condizione in cui vive, e trasmette per eredità le abitudini acquisite. Così, essendo nato e vissuto nei ceppi, essendo l’erede di una lunga progenie di schiavi, l’uomo, quando ha incominciato a pensare, ha creduto che la schiavitù fosse condizione essenziale della vita, e la libertà gli è sembrata cosa impossibile. In pari modo, il lavoratore, costretto per secoli e quindi abituato ad attendere il lavoro, cioè il pane, dal buon volere del padrone, e a vedere la sua vita continuamente alla mercé di chi possiede la terra e il capitale, ha finito col credere che sia il padrone che dà da mangiare a lui, e vi domanda ingenuamente come si potrebbe fare a vivere se non vi fossero i signori. Così uno, il quale fin dalla nascita avesse avuto le gambe legate e pure avesse trovato modo di camminare alla meno peggio, potrebbe attribuire la sua facoltà di muoversi precisamente a quei legami, che invece non fanno che diminuire e paralizzare l’energia muscolare delle sue gambe. Se poi agli effetti naturali dell’abitudine s’aggiunga l’educazione data dal padrone, dal prete, dal professore, eccetera, i quali sono interessati a predicare che i signori e il governo siano necessari; se si aggiunga il giudice e lo sbirro,
che si forzano di ridurre al silenzio chi pensasse diversamente e fosse tentato a propagare il suo pensiero, si comprenderà come abbia messo radice, nel cervello poco coltivato della massa laboriosa, il pregiudizio della utilità, della necessità del padrone e del governo. Figuratevi che all’uomo dalle gambe legate, che abbiamo supposto, il medico esponesse tutta una teoria e mille esempi abilmente inventati per persuaderlo che colle gambe sciolte egli non potrebbe né camminare, né vivere; quell’uomo difenderebbe rabbiosamente i suoi legami e considererebbe nemico chi volesse spezzarglieli. Dunque, poiché si è creduto che il governo fosse necessario e che senza governo non si potesse avere che disordine e confusione, era naturale e logico che anarchia, che significa assenza di governo, suonasse assenza di ordine. Né il fatto è senza riscontro nella storia delle parole. Nelle epoche e nei paesi, in cui il popolo ha creduto necessario il governo di un solo ( monarchia), la parola repubblica, che è il governo dei più, è stata usata appunto nel senso di disordine e di confusione: e questo senso si ritrova ancora vivo nella lingua popolare di quasi tutti i paesi. Cambiate l’opinione, convincete il pubblico che il governo non solo non è necessario, ma è estremamente dannoso, e allora la parola anarchia, appunto perché significa assenza di governo, vorrà dire per tutti: ordine naturale, armonia dei bisogni e degl’interessi di tutti, libertà completa nella completa solidarietà. Hanno dunque torto coloro che dicono che gli anarchici hanno malamente scelto il loro nome, perché questo nome è erroneamente inteso dalle masse e si presta a una falsa interpretazione. L’errore non dipende dalla parola, ma dalla cosa; e le difficoltà che incontrano gli anarchici nella propaganda non dipendono dal nome che si danno, ma dal fatto che il loro concetto urta tutti gl’inveterati pregiudizi, che il popolo ha sulla funzione del governo, o, come pur si dice, dello Stato. * * * Prima di procedere è bene spiegarsi su quest’ultima parola, la quale, a parer nostro, è davvero causa di molti malintesi. Gli anarchici, e noi fra loro, ci siamo serviti e ci serviamo ordinariamente della
parola Stato, intendendo per essa tutto quell’insieme d’istituzioni politiche, legislative, giudiziarie, militari, finanziarie, eccetera, per le quali sono sottratte al popolo la gerenza dei propri affari, la direzione della propria condotta, la cura della propria sicurezza, e sono affidate ad alcuni che, o per usurpazione o per delegazione, si trovano investiti del diritto di far le leggi su tutto e per tutti e di costringere il popolo a rispettarle, servendosi all’uopo della forza di tutti. In questo caso, la parola Stato significa governo o, se si vuole, è l’espressione impersonale, astratta di quello stato di cose, di cui il governo è la personificazione: e quindi le espressioni abolizione dello Stato, Società senza Stato, eccetera, rispondono perfettamente al concetto che gli anarchici vogliono esprimere, di distruzione di ogni ordinamento politico fondato sull’autorità, e di costituzione di una società di liberi e uguali, fondata sull’armonia degli interessi e sul concorso volontario di tutti al compimento dei carichi sociali. Però la parola Stato ha molti altri significati, e fra questi alcuni che si prestano all’equivoco, massime quando essa si adopera con uomini, cui la triste posizione sociale non ha dato agio di abituarsi alle delicate distinzioni del linguaggio scientifico o, peggio ancora, quando si adopera con avversari in mala fede che hanno interesse a confondere e non voler comprendere. Così, la parola Stato si usa spesso per indicare una data società, una data collettività umana, riunita sopra un dato territorio e costituente quello che si dice un corpo morale, indipendentemente dal modo come i membri di detta collettività sono aggruppati e dai rapporti che corrono tra di loro. Si usa anche semplicemente come sinonimo di società. È a causa di questi significati della parola Stato, che gli avversari credono, o piuttosto fingono di credere, che gli anarchici intendono abolire ogni connessione sociale, ogni lavoro collettivo e ridurre gli uomini all’isolamento, cioè a una condizione peggio che selvaggia. Per Stato s’intende pure l’amministrazione suprema di un paese, il potere centrale, distinto dal potere provinciale o comunale; e per questo altri credono che gli anarchici vogliono un semplice decentramento territoriale, lasciando intatto il principio governativo, e confondono così l’anarchia col cantonalismo e col comunalismo. Stato significa infine condizione, modo di essere, regime di vita sociale, eccetera, e perciò noi diciamo, per esempio, che bisogna cambiare lo stato economico della classe operaia, o che lo stato anarchico è il solo stato sociale
fondato sul principio di solidarietà, e altre frasi simili, che in bocca a noi, che poi in altro senso diciamo di voler abolire lo Stato, possono a prima giunta sembrare barocche o contraddittorie. Per dette ragioni noi crediamo che varrebbe meglio adoperare il meno possibile l’espressione abolizione dello Stato e sostituirla con l’altra più chiara e più concreta abolizione del governo. In ogni modo è quello che faremo nel corso di questo lavoretto. * * * Abbiamo detto che l’anarchia è la società senza governo. Ma è possibile, è desiderabile, è prevedibile la soppressione dei governi? Vediamo. Che cosa è il governo? La tendenza metafisica (che è una malattia della mente, per la quale l’uomo, dopo di avere per processo logico astratto da un essere le sue qualità, subisce una specie di allucinazione che gli fa prendere l’astrazione per un essere reale), la tendenza metafisica, diciamo, che malgrado i colpi della scienza positiva, ha ancora salde radici nella mente della più parte degli uomini contemporanei, fa sì che molti concepiscono il governo come un ente morale, con certi dati attributi di ragione, di giustizia, di equità, che sono indipendenti dalle persone che stanno al governo. Per essi il governo, e più astrattamente ancora lo Stato, è il potere sociale astratto; è il rappresentante, astratto sempre, degl’interessi generali; è l’espressione del diritto di tutti, considerato come limite dei diritti di ciascuno. E questo modo di concepire il governo è appoggiato dagli interessati, cui preme che sia salvo il principio di autorità, e sopravviva sempre alle colpe e agli errori di coloro che si succedono nell’esercizio del potere. Per noi, il governo è la collettività dei governanti; e i governanti – re, presidenti, ministri, deputati, eccetera – sono coloro che hanno la facoltà di fare delle leggi per regolare i rapporti degli uomini tra di loro, e farle eseguire; di decretare e riscuotere l’imposta; di costringere al servizio militare; di giudicare e punire i contravventori alle leggi; di sottoporre a regole, sorvegliare e sanzionare i contratti privati; di monopolizzare certi rami della produzione e certi servizi pubblici, o, se vogliono, tutta la produzione e tutti i servizi pubblici; di promuovere o ostacolare lo scambio dei prodotti; di far la guerra o la pace con governanti di altri paesi, di concedere o ritirare franchigie, eccetera. I governanti,
in breve, sono coloro che hanno la facoltà, in grado più o meno elevato, di servirsi della forza sociale, cioè della forza fisica, intellettuale ed economica di tutti, per obbligare tutti a fare quello che vogliono essi. E questa facoltà costituisce, a parer nostro, il principio governativo, il principio di autorità. Ma quale è la ragion d’essere del governo? Perché abdicare nelle mani di alcuni individui la propria libertà, la propria iniziativa? Perché dar loro questa facoltà di impadronirsi, con o contro la volontà di ciascuno, della forza di tutti e disporne a loro modo? Sono essi tanto eccezionalmente dotati da potersi, con qualche apparenza di ragione, sostituire alla massa e fare gli interessi, tutti gli interessi degli uomini meglio di quello che saprebbero farlo gli interessati? Sono essi infallibili e incorruttibili al punto da potere affidare, con un sembiante di prudenza, la sorte di ciascuno e di tutti alla loro scienza e alla loro bontà? E quand’anche esistessero degli uomini di una bontà e di un sapere infiniti, quand’anche, per un’ipotesi che non si è mai verificata nella storia e che noi crediamo impossibile a verificarsi, il potere governativo fosse devoluto ai più capaci e ai più buoni, aggiungerebbe il possesso del governo qualche cosa alla loro potenza benefica, o piuttosto la paralizzerebbe e la distruggerebbe per la necessità, in cui si trovano gli uomini che sono al governo, di occuparsi di tante cose che non intendono, e sopra tutto di sciupare il meglio della loro energia per mantenersi al potere, per contentare gli amici, per tenere a freno i malcontenti e per domare i ribelli? E ancora, buoni o cattivi, sapienti o ignari che siano i governanti, chi è che li designa all’alta funzione? Si impongono da loro stessi per diritto di guerra, di conquista, o di rivoluzione? Ma allora che garanzia ha il pubblico che essi s’ispireranno all’utilità generale? Allora è pura questione di usurpazione, e ai sottoposti, se malcontenti, non resta che l’appello alla forza per scuotere il giogo. Sono scelti da una data classe, o da un partito? E allora certamente trionferanno gl’interessi e le idee di quella classe o di quel partito, e la volontà e gl’interessi degli altri saranno sacrificati. Sono eletti a suffragio universale? Ma allora il solo criterio è il numero, che certo non è prova né di ragione, né di giustizia, né di capacità. Gli eletti sarebbero coloro che meglio sanno ingarbugliare la massa; e la minoranza, che può anche essere la metà meno uno, resterebbe sacrificata. E ciò senza contare che l’esperienza ha dimostrato l’impossibilità di trovare un meccanismo elettorale, pel quale gli eletti siano almeno i rappresentanti reali
della maggioranza. Molte e varie sono le teorie, con cui si è tentato spiegare e giustificare l’esistenza del governo. Però tutte sono fondate sul preconcetto, confessato o no, che gli uomini abbiano interessi contrari, e che vi sia bisogno di una forza esterna, superiore, per obbligare gli uni a rispettare gl’interessi degli altri, prescrivendo e imponendo quella regola di condotta, con cui gli interessi in lotta siano il meglio possibile armonizzati, e in cui ciascuno trovi il massimo di soddisfazione col minimo di sacrifici possibili. Se, dicono i teorici dell’autoritarismo, gli interessi, le tendenze, i desideri di un individuo sono in opposizione con quelli di un altro individuo o magari di tutta quanta la società, chi avrà il diritto e la forza di obbligare l’uno a rispettare gli interessi dell’altro? Chi potrà impedire al singolo cittadino di violare la volontà generale? La libertà di ciascuno, essi dicono, ha per limite la libertà degli altri; ma chi stabilirà questi limiti e chi li farà rispettare? Gli antagonisti naturali degli interessi e delle ioni creano la necessità del governo, e giustificano l’autorità, che interviene moderatrice nella lotta sociale, e segna i limiti dei diritti e dei doveri di ciascuno. Questa è la teoria; ma le teorie per essere giuste debbono esser basate sui fatti e spiegarli e si sa bene come in economia sociale troppo spesso le teorie s’inventano per giustificare i fatti, cioè per difendere il privilegio e farlo accettare tranquillamente da coloro che ne sono le vittime. Guardiamo piuttosto ai fatti. In tutto il corso della storia, così come nell’epoca attuale, il governo o è la dominazione brutale, violenta, arbitraria di pochi sulle masse, o è uno strumento ordinato ad assicurare il dominio e il privilegio a coloro che, per forza, per astuzia o per eredità, hanno accaparrato tutti i mezzi di vita, primo tra essi il suolo, e se ne servono per tenere il popolo in servitù e farlo lavorare per loro conto. In due modi si opprimono gli uomini: o direttamente colla forza bruta, colla violenza fisica; o indirettamente sottraendo loro i mezzi di sussistenza e riducendoli così a discrezione. Il primo modo è l’origine del potere, cioè del privilegio politico; il secondo è l’origine della proprietà, cioè del privilegio economico. Si può anche sopprimere gli uomini agendo sulla loro intelligenza e
sui loro sentimenti, il che costituisce il potere religioso, o universitario; ma come lo spirito non esiste se non in quanto risultante delle forze materiali, così la menzogna e i corpi costituiti per propagarla non hanno ragion d’essere se non in quanto sono la conseguenza dei privilegi politici ed economici, e un mezzo per difenderli e consolidarli. Nelle società primitive, poco numerose e dai rapporti sociali poco complicati, quando una circostanza qualsiasi ha impedito che si stabilissero delle abitudini, dei costumi di solidarietà, o ha distrutti quelli che esistevano e stabilito la dominazione dell’uomo sull’uomo, i due poteri politico ed economico si trovano raccolti nelle stesse mani, che possono anche essere quelle di un uomo solo. Coloro che colla forza han vinti e impauriti gli altri dispongono delle persone e delle cose dei vinti, e li costringono a servirli, a lavorare per loro e a fare in tutto la loro volontà. Essi sono nello stesso tempo proprietari, legislatori, re, giudici e carnefici. Ma coll’ingrandirsi delle società, col crescere dei bisogni, col complicarsi dei rapporti sociali, diventa impossibile l’esistenza prolungata di un tale dispotismo. I dominatori, e per sicurezza e per comodità e per l’impossibilità di fare altrimenti, si trovano nella necessità da una parte di appoggiarsi sopra una classe privilegiata, cioè sopra un certo numero d’individui cointeressati nel loro dominio, e dall’altra di lasciare che ciascuno provveda come può alla propria esistenza, riservandosi per loro il dominio supremo, che è il diritto di sfruttare tutti il più possibile, ed è il modo di soddisfare la vanità di comando. Così, all’ombra del potere, per la sua protezione e complicità, e spesso a sua insaputa e per cause che sfuggono al suo controllo, si sviluppa la ricchezza privata, cioè la classe dei proprietari. E questi, concentrando a poco a poco nelle loro mani i mezzi di produzione, le fonti vere della vita, agricoltura, industria, scambi, eccetera, finiscono col costituire un potere a sé, il quale, per la superiorità dei suoi mezzi, e la grande massa d’interessi che abbraccia, finisce sempre col sottomettere più o meno apertamente il potere politico, cioè il governo, e farne il proprio gendarme. Questo fenomeno si è riprodotto più volte nella storia. Ogni volta che, con l’invasione o con qualsiasi impresa militare, la violenza fisica, brutale ha preso il disopra di una società, i vincitori hanno mostrato tendenza a concentrare nelle proprie mani governo e proprietà. Però sempre, la necessità per il governo di conciliarsi la complicità di una classe potente, le esigenze della produzione,
l’impossibilità di tutto sorvegliare e tutto dirigere, ristabilirono la proprietà privata, la divisione dei due poteri, e con essa la dipendenza effettiva di chi ha in mano la forza, i governi, da chi ha in mano le sorgenti stesse della forza, i proprietari. Il governante finisce sempre, fatalmente, coll’essere il gendarme del proprietario. Ma mai questo fenomeno si era tanto accentuato quanto nei tempi moderni. Lo sviluppo della produzione, l’estendersi immenso dei commerci, la potenza smisurata che ha acquistato il denaro, e tutti i fatti economici provocati dalla scoperta dell’America, dall’invenzione delle macchine, eccetera, hanno assicurato tale supremazia alla classe capitalistica, che essa, non contenta più di disporre dell’appoggio del governo, ha voluto che il governo uscisse dal proprio seno. Un governo che traeva la sua origine dal diritto di conquista ( diritto divino, dicevano i re e i loro preti) per quanto sottoposto dalle circostanze alla classe capitalistica, conservava sempre un contegno altero e disprezzante verso i suoi antichi schiavi ora arricchiti e aveva delle velleità d’indipendenza e di dominazione. Quel governo era bensì il difensore, il gendarme dei proprietari, ma era di quei gendarmi che si credono qualche cosa, e fanno gli arroganti colle persone che debbono scortare e difendere, quando non le svaligiano e ammazzano alla prima svolta di strada; e la classe capitalista se ne è sbarazzata o se ne va sbarazzando, con mezzi più o meno violenti, per sostituirlo con un governo scelto da essa stessa, composto di membri della sua classe, continuamente sotto il suo controllo, e specialmente organizzato per difendere la classe contro le possibili rivendicazioni dei diseredati. Di qui l’origine del sistema parlamentare moderno. Oggi il governo, composto di proprietari e di gente a loro ligia, è tutto a disposizione dei proprietari, e lo è tanto che i più ricchi spesso disdegnano di farne parte. Rothschild non ha bisogno di essere né deputato, né ministro; gli basta tenere alla sua dipendenza deputati e ministri. In molti paesi, il proletariato ha nominalmente una partecipazione più o meno larga all’elezione del governo. È una concessione che la borghesia ha fatto, sia per avvalersi del concorso popolare nella lotta contro il potere reale e l’aristocrazia, sia per distogliere il popolo dal pensare a emanciparsi col dargli un’apparenza di sovranità. Però, che la borghesia lo prevedesse o no quando per la prima volta concedeva al
popolo il diritto al voto, il certo è che quel diritto si è mostrato affatto irrisorio, e buono solo a consolidare il potere della borghesia col dare alla parte più energica del proletariato la speranza illusoria di arrivare al potere. Anche col suffragio universale e, potremmo dire, specialmente col suffragio universale, il governo è restato il servo e il gendarme della borghesia. Che se fosse altrimenti, se il governo accennasse a divenire ostile, se la democrazia potesse mai essere altro che una lustra per ingannare il popolo, la borghesia minacciata nei suoi interessi s’affretterebbe a ribellarsi, e adopererebbe tutta la forza e tutta l’influenza che le viene dal possesso della ricchezza, per richiamare il governo alla funzione di semplice suo gendarme. In tutti i tempi e in tutti i luoghi, qualunque sia il nome che piglia il governo, qualunque sia la sua origine e la sua organizzazione, la sua funzione essenziale è sempre quella di opprimere e sfruttare le masse, di difendere gli oppressori e gli sfruttatori; e i suoi organi principali, caratteristici, indispensabili, sono lo sbirro e l’esattore, il soldato e il carceriere, ai quali si aggiunge immancabilmente il mercante di menzogne, prete o professore che sia, stipendiato o protetto dal governo per asservire gli spiriti e farli docili al giogo. Certamente a queste funzioni primarie, a questi organi essenziali del governo altre funzioni e altri organi si sono aggiunti lungo il corso della storia. Ammettiamo puranco che mai o quasi ha potuto esistere, in un paese alquanto civilizzato, un governo che oltre le funzioni oppressive e spogliatrici, non se ne attribuisse altre utili o indispensabili alla vita sociale. Ma ciò non infirma il fatto che il governo è di sua natura oppressivo e spogliatore, e che è, per l’origine e la posizione sua, fatalmente portato a difendere e rinforzare la classe dominante; anzi lo conferma e aggrava. Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezioni delle foreste, eccetera, apre orfanotrofi e ospedali, e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s’intende, a protettore e benefattore dei poveri e dei deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato dallo spirito di dominazione, e ordinato a difendere, allargare e perpetuare i privilegi
propri, e quelli della classe di cui egli è il rappresentante e il difensore. Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale; esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti. «La legge – dice Kropotkin, e s’intende coloro che han fatta la legge, cioè il governo – ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo per far are insieme ai precetti di morale che l’uomo accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro di cui egli si sarebbe ribellato». Un governo non può volere che la società si disfaccia, poiché allora verrebbe meno a sé e alla classe dominante il materiale da sfruttare; né può lasciare ch’essa si regga da sé senza intromissioni ufficiali, poiché allora il popolo si accorgerebbe ben presto che il governo non serve se non a difendere i proprietari che l’affamano, e si affretterebbe a sbarazzarsi del governo e dei proprietari. Oggi, di fronte ai reclami insistenti e minacciosi del proletariato, i governi mostrano la tendenza a intromettersi nelle relazioni tra padroni e operai; con ciò tentano di deviare il movimento operaio, e di impedire, con qualche ingannevole riforma, che i poveri prendano da loro stessi tutto quello che spetta loro, cioè una parte di benessere eguale a quella di cui godono gli altri. Bisogna inoltre tenere in conto, da una parte che i borghesi, cioè i proprietari, stanno essi stessi continuamente a farsi la guerra e a mangiarsi tra loro; e dall’altra parte che il governo, per quanto uscito dalla borghesia e servo e protettore di essa, tende, come ogni servo e ogni protettore, a emanciparsi e a dominare il protetto. Quindi quel giuoco d’altalena, quel barcamenarsi, quel concedere e ritirare, quel cercare alleati tra il popolo, contro i conservatori, e tra i conservatori contro il popolo, che è la scienza dei governanti, e che fa illusione agli ingenui e ai neghittosi, i quali stanno sempre ad aspettare che la salvezza venga loro dall’alto. Con tutto questo il governo non cambia natura. Se si fa regolatore e garante dei diritti e dei doveri di ciascuno, esso perverte il sentimento di giustizia: qualifica reato e punisce ogni atto che offende o minaccia i privilegi dei governanti e dei proprietari, e dichiara giusto, legale, il più atroce sfruttamento dei miserabili, il lento e continuo assassinio morale e materiale, perpetrato da chi possiede a
danno di chi non possiede. Se si fa amministratore dei servizi pubblici, esso mira ancora e sempre agli interessi dei governanti e dei proprietari, e non si occupa degli interessi della massa lavoratrice se non in quanto è necessario perché la massa consenta a pagare. Se si fa istitutore, esso inceppa la propagazione del vero, e tende a preparare la mente e il cuore dei giovani, perché diventino o tiranni implacabili, o docili schiavi, secondo la classe a cui appartengono. Tutto nelle mani del governo diventa mezzo per sfruttare, tutto diventa istituzione di polizia, utile per tenere il popolo a freno. E doveva esser così. Se la vita degli uomini è lotta tra uomini vi sono naturalmente vincitori e perdenti, e il governo che è il premio della lotta, e un mezzo per assicurare ai vincitori i risultati della vittoria e perpetuarli, non andrà certo mai in mano a coloro che avranno perduto, sia che la lotta avvenga sul terreno della forza fisica o intellettuale, sia che avvenga sul terreno economico. E coloro i quali hanno lottato per vincere, cioè per assicurarsi condizioni migliori degli altri, per conquistare privilegi e dominio, non se ne serviranno certo per difendere i diritti dei vinti, e imporre dei limiti all’arbitrio proprio e a quello dei loro amici e partigiani. Il governo o, come dicono, lo Stato giustiziere, e della lotta sociale, amministratore imparziale degli interessi del pubblico, è una menzogna, è un’illusione, un’utopia, mai realizzata e mai realizzabile. Se davvero gl’interessi degli uomini dovessero essere contrari gli uni agli altri, se davvero la lotta fra gli uomini fosse legge necessaria delle società umane e la libertà di uno dovesse trovare un limite nella libertà degli altri, allora ciascuno cercherebbe sempre di far trionfare gli interessi propri su quelli degli altri, ciascuno tenterebbe di allargare la propria libertà a scapito della libertà altrui, e si avrebbe un governo, non già perché sia più o meno utile alla totalità dei membri di una società averne uno, ma perché i vincenti vorrebbero assicurarsi i frutti della vittoria, sottoponendo solidamente i vinti, e liberarsi dal fastidio di star continuamente sulla difesa, incaricando di difenderli degli uomini, specialmente addestrati al mestiere di gendarmi. Allora l’umanità sarebbe destinata a perire, o a dibattersi perennemente tra la tirannide dei vincitori e la ribellione dei vinti. Ma per fortuna più sorridente è l’avvenire dell’umanità, perché più mite è la legge che la governa.
Questa legge è la solidarietà. L’uomo ha, come proprietà fondamentali, necessarie, l’istinto della propria conservazione, senza del quale nessun essere vivo potrebbe esistere, e l’istinto della conservazione della specie, senza cui nessuna specie avrebbe potuto formarsi e durare. Egli è spinto naturalmente a difendere l’esistenza e il benessere di sé stesso e della propria progenitura, contro tutto e tutti. Due modi trovano in natura gli esseri viventi per assicurarsi l’esistenza e renderla più piacevole: uno è la lotta individuale contro gli elementi e contro gli altri individui della stessa specie o di specie diversa; l’altro è il mutuo appoggio, la cooperazione, che può anche chiamarsi l' associazione per la lotta contro tutti i fatti naturali contrari all’esistenza, allo sviluppo e al benessere degli associati. Non occorre indagare in queste pagine, e non potremmo per ragione di spazio, quanta parte hanno rispettivamente nell’evoluzione del regno organico questi due principii della lotta e della cooperazione. Ci basterà constatare come nell’umanità la cooperazione (forzata o volontaria) sia diventata il solo mezzo di progresso, di perfezionamento, di sicurezza; e come la lotta – resto atavico – sia diventata completamente inetta a favorire il benessere degli individui, e produca invece il danno di tutti, e vincitori e perdenti. L’esperienza, accumulata e tramandata dalle generazioni successive, ha insegnato all’uomo che, unendosi agli altri uomini, la sua conservazione è più assicurata e il suo benessere ingrandito. Così, in conseguenza della stessa lotta per l’esistenza, combattuta contro la natura ambiente e contro individui della stessa sua specie, si è sviluppato negli uomini l’istinto sociale, che ha completamente trasformato le condizioni della sua esistenza. In forza di esso l’uomo potette uscire dall’animalità, salire a potenza grandissima ed elevarsi tanto al disopra degli altri animali, che i filosofi spiritualisti han creduto necessario inventare per lui un’anima immateriale e immortale. Molte cause concorrenti han contribuito alla formazione di questo istinto sociale che, partendo dalla base animale dell’istinto della conservazione della specie (che è l’istinto sociale ristretto alla famiglia naturale) è arrivato a un grado eminente in intensità e in estensione, e costituisce ormai il fondo stesso della natura morale dell’uomo.
L’uomo, comunque uscito dai tipi inferiori dell’animalità, essendo debole e disarmato per la lotta individuale contro le bestie carnivore, ma avendo un cervello capace di grande sviluppo, un organo vocale atto a esprimere con suoni diversi le varie vibrazioni cerebrali, e delle mani specialmente adatte per dar forma voluta alla materia, dovette sentire ben presto il bisogno e i vantaggi dell’associazione; anzi si può dire che solo allora potette uscire dall’animalità quando divenne sociale, e acquistò l’uso della parola, che è nello stesso tempo conseguenza e fattore potente della sociabilità. Il numero relativamente scarso della specie umana, rendendo meno aspra, meno continua, meno necessaria la lotta per l’esistenza tra uomo e uomo, anche al di fuori dell’associazione, dovette favorire molto lo sviluppo dei sentimenti di simpatia e lasciar tempo che l’utilità del mutuo appoggio si potesse scoprire e apprezzare. Infine la capacità acquistata dall’uomo, grazie alle sue qualità primitive applicate in cooperazione con un numero più o meno grande di associati, di modificare l’ambiente esterno e adattarlo ai propri bisogni; il moltiplicarsi dei desideri che crescono coi mezzi di soddisfarli e diventano bisogni; la divisione del lavoro che è conseguenza della sfruttamento metodico della natura a vantaggio dell’uomo, han fatto sì che la vita sociale è diventata l’ambiente necessario dell’uomo, fuori del quale esso non può vivere e, se vive, decade allo stato bestiale. E, per l’affinarsi della sensibilità col moltiplicarsi dei rapporti, e per l’abitudine impressa nella specie dalla trasmissione ereditaria per migliaia di secoli, questo bisogno di vita sociale, di scambio di pensieri e di affetti tra uomo e uomo, è diventato un modo di essere necessario del nostro organismo, si è trasformato in simpatia, amicizia, amore, e sussiste indipendentemente dai vantaggi materiali che l’associazione produce, tanto che per soddisfarlo si affrontano spesso sofferenze di ogni genere e anche la morte. Insomma i vantaggi grandissimi che l’associazione apporta all’uomo; lo stato d’inferiorità fisica, affatto proporzionato alla sua superiorità intellettuale, in cui egli si trova di fronte alle bestie se resta isolato; la possibilità per l’uomo di associarsi a un numero sempre crescente d’individui e in rapporti sempre più intimi e complessi fino ad allargare l’associazione a tutta l’umanità e a tutta la vita, e forse più di tutto la possibilità per l’uomo di produrre, lavorando in cooperazione cogli altri, più di quello che gli occorre per vivere, e i sentimenti affettivi che da tutto questo derivano, han dato alla lotta per l’esistenza umana un
carattere affatto diverso dalla lotta che si combatte in generale dagli altri animali. Quantunque oggi si sa – e le ricerche dei moderni naturalisti ce ne apportano ogni giorno nuove prove – che la cooperazione ha avuto e ha nello sviluppo del mondo organico una parte importantissima che non sospettavano coloro che volevano giustificare, ben a sproposito del resto, il regno della borghesia colle teorie darwiniane, pure il distacco tra la lotta umana e la lotta animale resta enorme, e proporzionale alla distanza che separa l’uomo dagli altri animali. Gli altri animali combattono, o individualmente, o più spesso in piccoli gruppi fissi o transitori, contro tutta la natura, compresi gli altri individui della loro stessa spese. Gli stessi animali più sociali, come le formiche, le api, eccetera, sono solidali tra gli individui dello stesso formicaio o dello stesso alveare, ma sono o in lotta, o indifferenti verso le altre comunità della loro specie. La lotta umana invece tende ad allargare sempre più l’associazione tra gli uomini, a solidarizzare i loro interessi, a sviluppare il sentimento di amore di ciascun uomo per tutti gli uomini, a vincere e dominare la natura esterna coll’umanità e per l’umanità. Ogni lotta diretta a conquistare dei vantaggi indipendentemente dagli altri uomini o contro di essi, contraddice alla natura sociale dell’uomo moderno e tende a respingerlo verso l’animalità. La solidarietà, cioè l’armonia degli interessi e dei sentimenti, il concorso di ciascuno al bene di tutti e di tutti al bene di ciascuno, è lo stato in cui solo l’uomo può esplicare la sua natura e raggiungere il massimo sviluppo e il massimo benessere possibile. Essa è la meta verso cui cammina l’evoluzione umana; è il principio superiore che risolve tutti gli antagonismi attuali, altrimenti insolubili, e fa sì che la libertà di ciascuno non trovi il limite, ma il complemento, anzi le condizioni necessarie di esistenza, nella libertà degli altri. «Nessun individuo – diceva Michele Bakunin – può riconoscere la sua propria umanità né per conseguenza realizzarla nella sua vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non solo nell’idea ma nel fatto, se non quando la mia libertà e il mio diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini miei uguali». «M’importa molto ciò che sono tutti gli altri uomini, perché, per quanto
indipendente io sembri o mi creda per la mia posizione sociale, fossi pure Papa, Czar, Imperatore o anche primo ministro, io sono incessantemente il prodotto di ciò che sono gli ultimi tra loro: se essi sono ignoranti, miserabili, schiavi, la mia esistenza è determinata dalla loro schiavitù. Io, uomo illuminato o intelligente, per esempio, sono – se è il caso – stupido per la loro stupidaggine; io coraggioso sono schiavo per la loro schiavitù; io ricco tremo dinanzi alla loro miseria; io privilegiato impallidisco innanzi alla loro giustizia. Io che voglio esser libero, non lo posso, perché intorno a me tutti gli uomini non vogliono ancora esser liberi, e non volendolo, divengono contro di me degli strumenti di oppressione». La solidarietà dunque è la condizione nella quale l’uomo raggiunge il massimo grado di sicurezza e di benessere; e perciò l’egoismo stesso, cioè la considerazione esclusiva del proprio interesse spinge l’uomo e le società umane verso la solidarietà; o, per meglio dire, egoismo e altruismo ( considerazione degli interessi altrui) si confondono in un solo sentimento, come si confondono in uno l’interesse dell’individuo e l’interesse della società. Sennonché l’uomo non poteva d’un tratto solo are dall’animalità all’umanità, dalla lotta brutale tra uomo e uomo, alla lotta solidale di tutti gli uomini affratellati contro la natura esteriore. Guidato dai vantaggi che offre l’associazione e la conseguente divisione del lavoro, l’uomo evolveva verso la solidarietà; ma la sua evoluzione incontrò un ostacolo che l’ha deviata e la devia ancora dalla mèta. L’uomo scoprì che poteva, almeno fino a un certo punto e per i bisogni materiali e primitivi che allora solamente sentiva, realizzare i vantaggi della cooperazione sottomettendo a sé gli altri uomini invece di associarseli; e, siccome erano ancora potenti in lui gl’istinti feroci e antisociali ereditati dalle bestie progenitrici, egli costrinse i più deboli a lavorare per lui, preferendo la dominazione alla associazione. Forse anche, nella più parte dei casi, fu sfruttando i vinti che l’uomo imparò per la prima volta a comprendere i benefizi dell’associazione, l’utile che l’uomo poteva ricavare dall’appoggio dell’uomo. Così, la constatazione dell’utilità della cooperazione, che doveva condurre al trionfo della solidarietà in tutti i rapporti umani, mise capo invece alla proprietà individuale e al governo, cioè allo sfruttamento del lavoro di tutti da parte di pochi privilegiati. Era sempre l’associazione, la cooperazione, fuori della quale non v’è più vita
umana possibile; ma era un modo di cooperazione, imposto e regolato da pochi nel loro interesse particolare. Da questo fatto è derivata la grande contraddizione, che riempie la storia degli uomini, tra la tendenza ad associarsi e affratellarsi per la conquista e l’adattamento del mondo esteriore ai bisogni dell’uomo, e per la soddisfazione dei sentimenti affettivi, e la tendenza a dividersi in tante unità separate e ostili quanti sono gli aggruppamenti determinati da condizioni geografiche, quante sono le posizioni economiche, quanti sono gli uomini che sono riusciti a conquistare un vantaggio e vogliono assicurarselo e aumentarlo, quanti sono quelli che sperano conquistare un privilegio, quanti sono quelli che soffrono di un’ingiustizia o di un privilegio e si ribellano e vogliono redimersi. Il principio del ciascun per sé, che è la guerra di tutti contro tutti, è venuto nel corso della storia a complicare, a deviare, a paralizzare la guerra di tutti contro la natura per il maggior benessere dell’umanità, che solo può avere esito completo fondandosi sul principio tutti per uno e uno per tutti. Immensi sono stati i mali che ha sofferto l’umanità per questo intromettersi della dominazione e dello sfruttamento in mezzo all’associazione umana. Ma malgrado l’oppressione atroce cui sono state sottomesse le masse, malgrado la miseria, malgrado i vizi, i delitti, la degradazione che la miseria e la schiavitù producono negli schiavi e nei padroni, malgrado gli odi accumulati, malgrado le guerre sterminatrici, malgrado l’antagonismo degl’interessi artificialmente creato, l’istinto sociale ha sopravvissuto e si è sviluppato. La cooperazione, restando sempre la condizione necessaria perché l’uomo potesse lottare con successo contro la natura esteriore, restò pure come causa permanente dell’avvicinamento degli uomini e dello svilupparsi del sentimento di simpatia tra gli uomini. L’oppressione stessa delle masse ha affratellati gli oppressi fra loro; ed è stato solo in forza della solidarietà più o meno cosciente e più o meno estesa che esisteva fra gli oppressi, che questi han potuto sopportare l’oppressione e che l’umanità ha resistito alle cause di morte che si sono insinuate in mezzo ad essa. Oggi lo sviluppo immenso che ha preso la produzione, il crescere di quei bisogni che non possono soddisfarsi se non col concorso di gran numero di uomini di tutti i paesi, i mezzi di comunicazione, l’abitudine dei viaggi, la scienza, la letteratura, i commerci, le guerre stesse, hanno stretto e vanno sempre più stringendo l’umanità in un corpo solo, le cui parti, solidali tra loro, possono solo
trovare pienezza e libertà di sviluppo nella salute delle altre parti e del tutto. L’abitante di Napoli è tanto interessato alla bonifica dei fondaci della sua città, quanto al miglioramento delle condizioni igieniche delle popolazioni delle sponde del Gange, di dove gli viene il colera. Il benessere, la libertà, l’avvenire di un montanaro perduto fra le gole degli Appennini, non solo dipendono dallo stato di benessere o di miseria in cui si trovano gli abitanti del suo villaggio, non solo dipendono dalle condizioni generali del popolo italiano, ma dipendono pure dallo stato dei lavoratori in America o in Australia, dalla scoperta che fa uno scienziato svedese, dalle condizioni morali e materiali dei Cinesi, dalla guerra o dalla pace che si fa in Africa, da tutte insomma le circostanze grandi e piccine che in un punto qualunque del mondo agiscono sopra un essere umano. Nelle condizioni attuali della società, questa vasta solidarietà che unisce insieme tutti gli uomini è in gran parte incosciente, poiché sorge spontanea dall’attrito degli interessi particolari, mentre gli uomini si preoccupano punto o poco degli interessi generali. E questa è la prova più evidente che la solidarietà è legge naturale dell’umanità, che si esplica e s’impone malgrado tutti gli ostacoli, malgrado tutti gli antagonismi creati dall’attuale costituzione sociale. D’altra parte, le masse oppresse, che non si sono mai completamente rassegnate all’oppressione e alla miseria, e che oggi più che mai si mostrano assetate di giustizia, di libertà, di benessere, incominciano a capire che esse non potranno emanciparsi se non mediante l’unione, la solidarietà con tutti gli oppressi, con tutti gli sfruttati del mondo tutto. Ed esse capiscono pure che condizione imprescindibile della loro emancipazione è il possesso dei mezzi di produzione, del suolo e degli strumenti di lavoro, e quindi l’abolizione della proprietà individuale. E la scienza, l’osservazione dei fenomeni sociali, dimostra che questa abolizione sarebbe di utile immenso agli stessi privilegiati, se solo volessero rinunziare al loro spirito di dominazione e concorrere con tutti al lavoro per il benessere comune. Ordunque, se un giorno le masse oppresse si rifiuteranno di lavorare per gli altri, se leveranno ai proprietari la terra e gli strumenti di lavoro o vorranno adoperarli per conto e profitto proprio, cioè di tutti, se esse non vorranno più subire dominazione né di forza brutale, né di privilegio economico, se la fratellanza fra i popoli, il sentimento di solidarietà umana rafforzato dalla comunanza d’interessi avrà messo fine alle guerre e alle conquiste, quale ragione di esistere avrebbe più un governo?
Abolita la proprietà individuale, il governo che è il suo difensore, deve sparire. Se sopravvivesse esso tenderebbe continuamente a ricostituire, sotto una forma qualsiasi, una classe privilegiata e oppressiva. E l’abolizione del governo, non significa, non può significare il disfacimento della connessione sociale. Bene al contrario, la cooperazione che oggi è forzata, che oggi è diretta al vantaggio di pochi, sarebbe libera, volontaria e diretta al vantaggio di tutti; e perciò diventerebbe tanto più intensa ed efficace. L’istinto sociale, il sentimento di solidarietà si svilupperebbe al più alto grado: e ciascun uomo farebbe tutto quello che può per il bene degli altri uomini, tanto per soddisfare ai suoi sentimenti affettivi, quanto per beninteso interesse. Dal libero concorso di tutti, mediante l’aggrupparsi spontaneo degli uomini secondo i loro bisogni e le loro simpatie, dal basso all’alto, dal semplice al composto, partendo dagli interessi più immediati per arrivare a quelli più lontani e più generali, sorgerebbe un’organizzazione sociale, che avrebbe per scopo il maggior benessere e la maggiore libertà di tutti, abbraccerebbe tutta l’umanità in fraterna comunanza e si modificherebbe e migliorerebbe a seconda del modificarsi delle circostanze e degli insegnamenti dell’esperienza. Questa società di liberi, questa società di amici è l’anarchia. * * * Noi abbiamo finora considerato il governo quale è, quale deve necessariamente essere, in una società fondata sul privilegio, sullo sfruttamento e l’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo, sull’antagonismo degl’interessi, sulla lotta intrasociale, in una parola sulla proprietà individuale. Abbiamo visto come lo stato di lotta, lungi dall’essere una condizione necessaria della vita dell’umanità, è contrario agli interessi degli individui e della specie umana; abbiamo visto come la cooperazione, la solidarietà, è legge del progresso umano, e abbiamo conchiuso che abolendo la proprietà individuale e ogni predominio, il governo perde ogni ragione di essere e si deve abolire. «Però ( ci si potrebbe dire) cambiato il principio su cui è fondata oggi l’organizzazione sociale, sostituita la solidarietà alla lotta, la proprietà comune alla proprietà individuale, il governo cambierebbe natura e invece di essere il protettore e il rappresentante degli interessi di una classe, sarebbe, poiché classi
non ve ne sono più, il rappresentante degli interessi di tutta la società. Esso avrebbe missione di assicurare e regolare, nell’interesse di tutti, la cooperazione sociale, compiere i servizi pubblici d’importanza generale, difendere la società dai possibili tentativi diretti a ristabilire il privilegio e prevenire e reprimere gli attentati, da chiunque commessi, contro la vita, il benessere e la libertà di ciascuno. Vi sono nella società delle funzioni troppo necessarie, che richiedono troppa costanza, troppa regolarità, per poter essere lasciati alla libera volontà degl’individui, senza pericolo di vedere andare ogni cosa a soqquadro. Chi organizzerebbe e chi assicurerebbe, se non vi fosse un governo, i servizi di alimentazione, di distribuzione, d’igiene, di posta, telegrafo, ferrovie, eccetera? Chi curerebbe l’istruzione popolare? Chi intraprenderebbe quei grandi lavori di esplorazioni, di bonifiche, d’intraprese scientifiche, che trasformano la faccia della terra, e centuplicano le forze dell’uomo? Chi veglierebbe alla conservazione e all’aumento del capitale sociale per tramandarlo arricchito e migliorato all’umanità avvenire? Chi impedirebbe la devastazione delle foreste, lo sfruttamento irrazionale e quindi l’impoverimento del suolo? Chi avrebbe mandato di prevenire e reprimere i delitti, cioè gli atti antisociali? E quelli che, mancando alla legge di solidarietà, non volessero lavorare? E quelli che spargessero l’infezione in un paese, rifiutandosi di sottomettersi alle regole igieniche riconosciute utili dalla scienza? E se vi fossero di quelli che, matti o no, volessero bruciare il raccolto, o violare i bambini, o abusare sui più deboli della loro forza fisica? Distruggere la proprietà individuale e abolire i governi esistenti, senza poi ricostruire un governo che organizzasse la vita collettiva e assicurasse la solidarietà sociale, non sarebbe abolire i privilegi e portare sul mondo la pace e il benessere; ma sarebbe distruggere ogni vincolo sociale, respingere l’umanità verso la barbarie, verso il regno del ciascuno per sé, che è il trionfo della forza brutale prima, del privilegio economico dopo». Queste sono le obiezioni che ci oppongono gli autoritari anche quando sono socialisti, cioè quando vogliono abolire la proprietà individuale e il governo di
classe che ne deriva. Rispondiamo. Prima di tutto non è vero che cambiate le condizioni sociali, il governo cambierebbe di natura e di funzione. Organo e funzione sono termini inseparabili. Levate a un organo la sua funzione, e, o l’organo muore o la funzione si ricostituisce. Mettere un esercito in un paese in cui non ci siano né ragioni, né paure di guerra interna o esterna, ed esso provocherà la guerra o, se non ci riesce, si disfarà. Una polizia dove non ci siano delitti da scoprire e delinquenti da arrestare, provocherà, inventerà i delitti e i delinquenti, o cesserà di esistere. In Francia esiste da secoli un’istituzione, oggi aggregata all’amministrazione delle foreste, la lupatteria ( louveterie) i cui ufficiali hanno incarico di provvedere alla distruzione dei lupi e altre bestie nocive. Nessuno sarà meravigliato apprendendo che è appunto a causa di questa istituzione che i lupi esistono ancora in Francia, e nelle stagioni rigorose vi fanno strage. Il pubblico si occupa poco di lupi, perché vi sono i lupattieri che vi debbono pensare; e i lupattieri fanno sì la caccia, ma la fanno intelligentemente, risparmiando i nidi e dando tempo alla riproduzione, per non rischiare di distruggere una specie così interessante. I contadini si infatti hanno poca fiducia in questi lupattieri, e li considerano piuttosto come i conservatori dei lupi. E si capisce: che farebbero i "luogotenenti di lupatteria" se non vi fossero più lupi [17]? Un governo, cioè un numero di persone incaricato di far le leggi e abilitato a servirsi della forza di tutti per obbligare ciascuno a rispettarle, costituisce già una classe privilegiata e separata dal popolo. Esso cercherà istintivamente, come ogni corpo costituito, di allargare le sue attribuzioni di sottrarsi al controllo del popolo, di imporre le sue tendenze e di far predominare i suoi interessi particolari. Messo in una posizione privilegiata, il governo già si trova in antagonismo colla massa, della cui forza dispone. Del resto, un governo anche volendo, non potrebbe contentar tutti, se pur riuscisse a contentar qualcuno. Dovrebbe difendersi contro i malcontenti, e quindi dovrebbe cointeressare una parte del popolo per esserne appoggiato. E così ricomincerebbe la vecchia storia della classe privilegiata che si costituisce colla complicità del governo e che, se questa volta non si impossessasse del suolo, accaparrerebbe certo delle posizioni di favore, appositamente create, e
non sarebbe meno oppressiva né meno sfruttatrice della classe capitalistica. I governanti, abituati al comando, non vorrebbero ritornare nella folla, e se non potessero conservare il potere nelle loro mani si assicurerebbero almeno delle posizioni privilegiate per quando dovranno arlo in mano di altri. ebbero di tutti i mezzi che ha il potere per far eleggere a loro successori gli amici loro, ed esserne poscia a loro volta appoggiati e protetti. E così il governo erebbe e rierebbe nelle stesse mani, e la democrazia, che è il preteso governo di tutti, finirebbe, come sempre, in oligarchia, che è il governo di pochi, il governo di una classe. E che oligarchia strapotente, oppressiva, assorbente, sarebbe mai quella che avrebbe a suo carico, cioè a sua disposizione, tutto il capitale sociale, tutti i servizi pubblici, dall’alimentazione alla fabbricazione dei fiammiferi, dalle università ai teatri d’operette!!! Ma supponiamo pure che il governo non costituisse già da sé una classe privilegiata e potesse vivere senza creare intorno a sé una nuova classe di privilegiati e restando il rappresentante, il servo, se si vuole, di tutta la società. A che servirebbe esso mai? In che cosa e in che modo aumenterebbe esso la forza, l’intelligenza, lo spirito di solidarietà, la cura del benessere di tutti e dell’umanità futura, che in un dato momento si trovano esistenti in una data società? È sempre la vecchia storia dell’uomo legato, che essendo riuscito a vivere malgrado i ceppi, crede di vivere a causa dei ceppi. Noi siamo abituati a vivere sotto di un governo, che accaparra tutte quelle forze, quelle intelligenze, quelle volontà, che può dirigere ai suoi fini; ostacola, paralizza, sopprime quelle che gli sono inutili od ostili, e ci immaginiamo che tutto ciò che si fa nella società si fa per opera del governo, e che senza governo non ci sarebbe più nella società né forza, né intelligenza, né buona volontà. Così (lo abbiamo già detto) il proprietario che s’è impossessato della terra la fa coltivare per il suo profitto particolare, lasciando al lavoratore lo stretto necessario perché esso possa e voglia continuare a lavorare, e il lavoratore asservito pensa che non potrebbe vivere senza il padrone, come se questi creasse la terra e le forze della natura. Che cosa può aggiungere di suo il governo alle forze morali e materiali che esistono in una società? Sarebbe esso per caso come il Dio della Bibbia che crea dal nulla?
Siccome nulla si crea nel mondo che suol chiamarsi materiale, così nulla si crea in questa forma più complicata del mondo materiale che è il mondo sociale. E perciò i governanti non possono disporre che delle forze che esistono nella società, meno quelle grandissime che l’azione governativa paralizza e distrugge, e meno le forze ribelli, e meno tutto ciò che si consuma negli attriti, necessariamente grandissimi in un meccanismo così artificioso. Se qualche cosa ci mettono del loro, è come uomini e non come governanti che possono farlo. E di quelle forze, materiali e morali, che restano a disposizione del governo, solo una parte piccolissima riceve una destinazione realmente utile alla società. Il resto, o è consumato in attività repressiva per tenere a freno le forze ribelli, o è altrimenti stornato dallo scopo di utilità generale e adoperato a profitto di pochi e a danno della maggioranza degli uomini. Si è fatto un gran discorrere sulla parte che hanno rispettivamente, nella vita e nel progresso delle società umane, l’iniziativa individuale e l’azione sociale; e si è riuscito, coi soliti artifici del linguaggio metafisico, a imbrogliare talmente le cose, che poi sono apparsi audaci coloro i quali hanno affermato che tutto si regge e cammina nel mondo umano per opera dell’iniziativa individuale. In realtà è questa una verità di senso comune, che appare evidente non appena si cerca di rendersi conto delle cose che le parole significano. L’essere reale è l’uomo, è l’individuo: la società o collettività – e lo Stato o governo che pretende rappresentarla – se non sono vuote astrazioni, non possono essere che aggregati d’individui. Ed è nell’organismo di ciascun individuo che hanno necessariamente origine tutti i pensieri e tutti gli atti umani, i quali, da individuali, diventano pensieri e atti collettivi quando sono o si fanno comuni a molti individui. L’azione sociale, dunque, non è né la negazione, né il complemento dell’iniziativa individuale, ma è la risultante delle iniziative, dei pensieri e delle azioni di tutti gli individui che compongono la società: risultante che, posta ogni altra cosa eguale, è più o meno grande secondo che le singole forze concorrono allo stesso scopo, o sono divergenti od opposte. E se invece, come fanno gli autoritari, per azione sociale s’intende l’azione governativa, allora essa è ancora la risultante di forze individuali, ma solo di quegli individui che fanno parte del governo, o che per la loro posizione possono influire sulla condotta del governo. Quindi, nella contesa secolare tra libertà e autorità, o, in altri termini, tra socialismo e stato di classe, non è questione veramente di alterare i rapporti tra la società e l’individuo; non è questione di aumentare l’indipendenza individuale a scapito dell’ingerenza sociale, o questa a scapito di quella. Ma si tratta piuttosto
di impedire che alcuni individui possano opprimere altri; di dare a tutti gli individui gli stessi diritti e gli stessi mezzi di azione; e di sostituire l’iniziativa di pochi, che produce necessariamente l’oppressione di tutti gli altri. Si tratta insomma, sempre e poi sempre, di distruggere la dominazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in modo che tutti siano interessati al benessere comune, e le forze individuali, invece di esser soppresse o di combattersi ed elidersi a vicenda, trovino la possibilità di uno sviluppo completo, e si associno insieme per il maggior vantaggio di tutti. Da quanto abbiamo detto risulta che l’esistenza di un governo, anche se fosse, per seguire la nostra ipotesi, il governo ideale dei socialisti autoritari, lungi dal produrre un aumento delle forze produttive, organizzatrici e protettrici della società, le diminuirebbe immensamente, restringendo l’iniziativa a pochi, e dando a questi pochi il diritto di tutto fare, senza potere, naturalmente, dar loro il dono di tutto sapere. Infatti, se levate nella legislazione e nell’opera tutta di un governo tutto ciò che è inteso a difendere i privilegiati e che rappresenta la volontà dei privilegiati stessi, che cosa vi resta che non sia il risultato dell’attività di tutti? «Lo Stato – diceva Sismondi – è sempre un potere conservatore che autentica, regolarizza, organizza le conquiste del progresso (e la storia aggiunge che le dirige a profitto proprio e della classe privilegiata) non mai le inaugura. Esse hanno sempre origine dal basso, nascono dal fondo della società, dal pensiero individuale, che poi si divulga, diventa opinione, maggioranza, ma deve sempre incontrare sui suoi i e combattere nei poteri costituiti la tradizione, la consuetudine, il privilegio e l’errore». Del resto, per comprendere come una società possa vivere senza governo, basta osservare un po' a fondo nella stessa società attuale, e si vedrà come in realtà la più gran parte, la parte essenziale della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui, e spesso, malgrado e contro di lui. Gli uomini lavorano, scambiano, studiano, viaggiano, seguono come l’intendono le regole della morale e dell’igiene, profittano dei progressi della scienza e dell’arte, hanno rapporti infiniti tra di loro, senza che sentano bisogno di qualcuno che imponga loro il modo di condursi. Anzi sono appunto quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio, che dan luogo a minori contestazioni e si accomodano, per la volontà di tutti, in modo
che tutti ci trovino utile e piacere. Né il governo è più necessario per le grandi imprese e per quei servizi pubblici che richiedono il concorso regolare di molta gente di paesi e condizioni differenti. Mille di queste imprese sono, oggi stesso, l’opera di associazioni di privati, liberamente costituite, e sono, a confessione di tutti, quelle che meglio riescono. Né parliamo delle associazioni di capitalisti, organizzate a scopo di sfruttamento, quantunque esse pure dimostrino la possibilità e la potenza della libera associazione, e come essa può estendersi fino ad abbracciare gente di tutti i paesi e interessi immensi e svariatissimi. Ma parliamo a preferenza di quelle associazioni che, ispirate dall’amore per propri simili, o dalla ione della scienza, o anche semplicemente dal desiderio di divertirsi e di farsi applaudire, meglio rappresentano gli aggruppamenti quali saranno in una società in cui, abolita la proprietà individuale e la lotta intestina fra gli uomini, ciascuno troverà il suo interesse nell’interesse di tutti, e la sua migliore soddisfazione nel far il bene, e piacere agli altri. Le società e i congressi scientifici, l’associazione internazionale di salvataggio, l’associazione della Croce Rossa, le Società geografiche, le organizzazioni operaie, i corpi di volontari che accorrono al soccorso in tutte le grandi calamità pubbliche, sono esempi, tra mille, di questa potenza dello spirito di associazione che si manifesta sempre quando si tratta di un bisogno o di una ione veramente sentita, e non manchino i mezzi. Ché, se l’associazione volontaria non copre il mondo e non abbraccia tutti i rami dell’attività materiale e morale, si è a causa degli ostacoli messi dai governi, degli antagonismi creati dalla proprietà privata, e dell’impotenza e dell’avvilimento, in cui l’accaparramento della ricchezza da parte di pochi riduce la gran maggioranza degli uomini. Il governo s’incarica, per esempio, del servizio delle poste, delle ferrovie, eccetera. Ma in che cosa aiuta realmente questi servizi? Quando il popolo, messo in grado di poterne godere, sente il bisogno di questi servizi, pensa a organizzarli, e gli uomini tecnici non hanno bisogno di un brevetto governativo per mettersi al lavoro. E più il bisogno è generale e urgente, più abbonderanno i volontari per compierlo. Se il popolo avesse facoltà di pensare alla produzione e all’alimentazione, oh! non temete ch’egli si lasci morire di fame aspettando che un governo abbia fatte delle leggi in proposito. Se governo vi dovesse essere, esso sarebbe ancora costretto di aspettare che il popolo abbia prima di tutto organizzato, per poi venire con delle leggi a sanzionare e a sfruttare quello che era già fatto. È dimostrato che l’interesse privato è il gran movente di tutte le attività: ebbene, quando l’interesse di tutti sarà l’interesse di ciascuno (e lo sarà
necessariamente se non esiste la proprietà individuale) allora tutti agiranno, e se le cose si fanno adesso che interessano a pochi, tanto più e tanto meglio si faranno quando interesseranno a tutti. E si capisce a stento come vi sia della gente che crede che l’esecuzione e il regolare andamento dei servizi pubblici indispensabili alla vita sociale, siano meglio assicurati se fatti per gli ordini di un governo, anziché direttamente dai lavoratori, che, o per propria elezione, o per accordi cogli altri, han prescelto quel genere di lavoro e lo eseguiscono sotto il controllo immediato di tutti gl’interessati. Certamente, in ogni grande lavoro collettivo v’è bisogno di divisione di lavoro, di direzione tecnica, di amministrazione, eccetera. Ma malamente gli autoritari giocano sulle parole per dedurre la ragion di essere del governo dalla necessità, ben reale, di organizzare il lavoro. Il governo, è bene ripeterlo, è l’insieme degl’individui che hanno avuto o si son preso il diritto e i mezzi di far le leggi e di forzare la gente a ubbidire; l’amministratore, l’ingegnere, eccetera, sono invece uomini che ricevono o si assumono l’incarico di fare un dato lavoro e lo fanno. Governo significa delegazione di potere, cioè abdicazione della iniziativa e della sovranità di tutti nelle mani di alcuni; amministrazione significa delegazione di lavoro, cioè incarico dato e ricevuto, scambio libero di servigi fondato sopra liberi patti. Il governo è un privilegiato, poiché ha il diritto di comandare agli altri e di servirsi delle forze degli altri, per far trionfare le sue idee e i suoi desideri particolari; l’amministratore, il direttore tecnico, eccetera, sono lavoratori come gli altri, quando, s’intende, lo siano in una società in cui tutti hanno mezzi uguali di svilupparsi e tutti siano o possano essere a un tempo lavoratori intellettuali e manuali, e non vi restino altre differenze fra gli uomini che quelle derivanti dalla diversità naturale delle attitudini, e tutti i lavoratori, tutte le funzioni diano un diritto eguale a godere dei vantaggi sociali. Non si confonda la funzione governativa con la funzione amministrativa, che sono essenzialmente diverse, e che, se oggi si trovano spesso confuse, è solo a causa del privilegio economico e politico. Ma affrettiamoci a are alle funzioni, per le quali il governo è considerato, da tutti coloro che non sono anarchici, come veramente indispensabile: la difesa esterna e interna di una società, vale a dire la guerra, la polizia e la giustizia. Aboliti i governi e messa la ricchezza sociale a disposizione di tutti, presto spariranno tutti gli antagonismi tra i vari popoli e la guerra non avrà più ragione di esistere. Diremo inoltre che nello stato attuale del mondo, quando la rivoluzione si farà in un paese, se non troverà eco sollecito, dappertutto troverà
certo tanta simpatia che nessun governo oserà mandare le truppe all’estero col rischio di vedersi scoppiare la rivoluzione in casa. Ma ammettiamo pure che i governi dei paesi non ancora emancipati volessero e potessero tentare di rimettere in servitù un popolo libero; avrà questo bisogno di un governo per difendersi? Per far la guerra ci vogliono uomini che abbiano le cognizioni geografiche e tecniche necessarie, e soprattutto masse che vogliono battersi. Un governo non può aumentare la capacità degli uni, né la volontà e il coraggio delle altre. E l’esperienza storica ci insegna come un popolo che voglia davvero difendere il proprio paese sia invincibile: e in Italia si sa da tutti come, innanzi ai corpi di volontari (formazione anarchica) crollino i troni e svaniscano gli eserciti regolari, composti d’uomini forzati o assoldati. E la polizia? E la giustizia? Molti s’immaginano che se non vi fossero carabinieri, poliziotti e giudici ognuno sarebbe libero di uccidere, di stuprare, di danneggiare gli altri a suo capriccio; e che gli anarchici, in nome dei loro princìpi, vorrebbero rispettata quella strana libertà, che viola e distrugge la libertà e la vita degli altri. Quasi credono che noi, dopo avere abbattuto il governo e la proprietà individuale, lasceremmo poi ricostruire tranquillamente l’uno e l’altra, per rispetto alla libertà di coloro che sentissero il bisogno di essere governanti e proprietari. Strano modo davvero d’intendere le nostre idee… è vero che così riesce più facile sbarazzarsi con una scrollata di spalle, dell’incomodo di confutarle. La libertà che noi vogliamo, per noi e per gli altri, non è la libertà assoluta, astratta, metafisica, che in pratica si traduce fatalmente in oppressione del debole; ma è la libertà reale, la libertà possibile, che è la comunanza cosciente degli interessi, la solidarietà volontaria. Noi proclamiamo la massima FA QUEL CHE VUOI, e in essa quasi riassumiamo il nostro programma, perché – ci vuol poco a capirlo – riteniamo che in una società armonica, in una società senza il governo e senza proprietà, ognuno VORRÀ QUEL CHE DOVRÀ. Ma se, o per le conseguenze, dell’educazione ricevuta dalla presente società o per malore fisico, o per qualsiasi altra causa, uno volesse fare del danno a noi e agli altri, noi ci adopereremmo, se ne può essere certi, a impedirglielo con tutti i mezzi a nostra portata. Certo, siccome noi sappiamo che l’uomo è la conseguenza del proprio organismo e dell’ambiente cosmico e sociale in cui vive; siccome non confondiamo il diritto sacro della difesa col preteso assurdo diritto di punire; e siccome nel delinquente, cioè in colui che commette atti antisociali, non vedremmo già lo schiavo ribelle, come avviene al giudice di
oggi, ma il fratello ammalato e necessitoso di cura, così noi non metteremmo odio nella repressione, ci sforzeremmo di non oltreare la necessità della difesa, e non penseremmo a vendicarci ma a curare, a redimere l’infelice con tutti i mezzi che la scienza ci insegnerebbe. In ogni modo, comunque l’intendessero gli anarchici (ai quali potrebbe accadere come a tutti i teorici di perder di vista la realtà, per correr dietro a un sembiante di logica) è certo che il popolo non intenderebbe lasciare attentare impunemente al suo benessere e alla sua libertà e, se la necessità si presentasse, provvederebbe a difendersi contro le tendenze antisociali di alcuni. Ma per farlo, a che serve della gente che faccia il mestiere di far le leggi; e dell’altra gente che viva cercando e inventando contravventori alle leggi? Quando il popolo riprova davvero una cosa e la trova dannosa, riesce a impedirla sempre, meglio che non tutti i legislatori, i birri e i giudici di mestiere. Quando nelle insurrezioni il popolo ha voluto, ben a torto del resto, far rispettare la proprietà privata, l’ha fatta rispettare come non avrebbe potuto un esercito di birri. I costumi seguono sempre i bisogni e i sentimenti della generalità; e sono tanto più rispettati quanto meno sono soggetti alla sanzione della legge, perché tutti ne veggono e intendono la utilità, e perché gl’interessati, non illudendosi sulla protezione del governo, pensano a farli rispettare da loro. Per una carovana che viaggia nei deserti dell’Africa, la buona economia dell’acqua è questione di vita o di morte per tutti: e l’acqua in quelle circostanze diventa cosa sacra e nessuno si permette di sciuparla. I cospiratori hanno bisogno del segreto, e il segreto è serbato, o l’infamia colpisce chi lo viola. I debiti di giuoco non sono garantiti dalla legge, e tra i giocatori è considerato e considera sé stesso disonorato chi non li paga. È forse a causa dei gendarmi che non si uccide più di quello che si fa? La maggior parte dei comuni d’Italia non veggono i gendarmi che di tratto in tratto; milioni di uomini vanno per i monti e le campagne, lontani dall’occhio tutelare dell’autorità, in modo che si potrebbe colpirli senza il menomo pericolo di pena: eppure, non sono meno sicuri di coloro che vivono nei centri più sorvegliati. E la statistica dimostra come il numero dei reati risente a pena l’effetto delle misure repressive, mentre varia rapidamente col variare delle condizioni economiche e dello stato dell’opinione pubblica. Le leggi punitive, del resto, non riguardano che i fatti straordinari, eccezionali. La vita quotidiana si svolge al di fuori della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per tacito e volontario assenso di tutti, da una quantità di
usi e costumi, ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del Codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di ogni sanzione che non sia quella naturale della disistima in cui incorrono i violatori e del danno che dalla disistima deriva. E quando avvenissero tra gli uomini delle contestazioni, l’arbitrato volontariamente accettato, o la pressione dell’opinione pubblica non sarebbero forse più atti a far aver ragione a chi l’ha, anzi che una magistratura irresponsabile, che ha il diritto di giudicare su tutto e su tutti, ed è necessariamente incompetente e quindi ingiusta? Come il governo in genere non serve che per la protezione delle classi privilegiate, così la polizia e la magistratura non servono che per la repressione di quei reati che non sono considerati tali dal popolo, e solo offendono i privilegi del governo e dei proprietari. Per la vera difesa sociale, per la difesa del benessere e della libertà di tutti, non v’è nulla di più pernicioso che la formazione di queste classi che vivono col pretesto di difendere tutti, si abituano a considerare ogni uomo come una selvaggina da mettere in gabbia, vi colpiscono senza saper perché, per l’ordine d’un capo, quali sicari incoscienti e prezzolati. * * * Ebbene sia, dicono alcuni: l’anarchia può essere una forma perfetta di convivenza sociale, ma noi non vogliamo fare un salto nel buio. Diteci dunque dettagliatamente come sarà organizzata la vostra società. E qui segue tutta una serie di domande, che sono molto interessanti se si tratta di studiare i problemi che s’imporranno alla società emancipata, ma che sono inutili, o assurde, o ridicole se si pretende averne da noi una soluzione definitiva. Con quali metodi si educheranno i bambini? Come si organizzerà la produzione? Ci saranno ancora delle grandi città, o la popolazione si distribuirà egualmente su tutta la superficie della terra? E se tutti gli abitanti della Siberia vorranno ar l’inverno a Nizza? E se tutti vorranno mangiare pernici e bere vino del Chianti? E chi farà il minatore o il marinaio? E chi vuoterà i cessi? E i malati saranno assistiti a domicilio o all’ospedale? E chi stabilirà l’orario delle ferrovie? E come si farà se a un macchinista vengan le coliche mentre il treno sta in marcia? E così di seguito fino a pretendere che noi possedessimo tutta la scienza e l’esperienza di là da venire e che, in nome dell’anarchia, prescrivessimo agli uomini futuri a che ora debbono andare a letto e quali giorni si debbono tagliare i calli.
Veramente se i nostri lettori aspettano da noi una risposta a queste domande, o almeno a quelle tra esse che sono veramente serie e importanti, che sia più che la nostra opinione personale di questo momento, vuol dire che siamo mal riusciti nel nostro scopo di spiegar loro che cosa è l’anarchia. Noi non siamo più profeti degli altri: e se pretendessimo dare una soluzione ufficiale a tutti i problemi che si presenteranno nella vita della società futura, noi intenderemmo l’abolizione del governo in un senso strano davvero. Noi ci dichiareremmo governo, e prescriveremmo, a mo’ dei legislatori religiosi, un codice universale pei presenti e pei futuri. Fortuna che, non avendo noi roghi e prigioni per imporre la nostra Bibbia, l’umanità potrebbe ridere impunemente di noi e delle nostre pretese! Noi ci preoccupiamo molto di tutti i problemi della vita sociale, e per l’interesse della scienza e perché facciam conto di vedere l’anarchia attuata e di concorrere come potremo all’organizzazione della nuova società. Abbiamo quindi le nostre soluzioni che, secondo i casi, ci appaiono definitive o transitorie e ne diremmo qui qualche cosa, se non cel vietasse lo spazio. Ma il fatto che noi oggi, coi dati che possediamo, pensiamo in un dato modo sopra una data questione, non vuol dire è così che si farà in avvenire. Chi può prevedere le attività che si svilupperanno nell’umanità quando essa sarà emancipata dalla miseria e dall’oppressione, quando non vi saranno più schiavi né padroni, e la lotta contro gli altri uomini, e gli odii e i rancori che ne derivano, non saranno più una necessità dell’esistenza? Chi può prevedere i progressi della scienza, i nuovi mezzi di produzione, di comunicazione, eccetera? L’essenziale è questo: che si costituisca una società in cui non sia possibile lo sfruttamento e la dominazione dell’uomo sull’uomo; in cui tutti abbiano la libera disposizione dei mezzi di esistenza, di sviluppo e di lavoro, e tutti possano concorrere, come vogliono e sanno all’organizzazione della vita sociale. In tale società tutto sarà fatto necessariamente nel modo che meglio soddisfaccia ai bisogni di tutti, date le cognizioni e le possibilità del momento; e tutto si trasformerà in meglio, a seconda che crescano le cognizioni e i mezzi. In fondo, un programma che tocca le basi della costituzione sociale non può far altro che indicare un metodo. Ed è il metodo quello che soprattutto differenzia i partiti e determina la loro importanza nella storia. A parte il metodo, tutti dicono di volere il bene degli uomini e molti lo vogliono davvero; i partiti spariscono e con essi sparisce ogni azione organizzata e diretta a un fine determinato. Bisogna
dunque soprattutto considerare l’anarchia come un metodo. I metodi dai quali i diversi partiti non anarchici si aspettano, e dicono di aspettarsi, il maggior bene di ciascuno e di tutti si possono ridurre a due, quello autoritario e quello così detto liberale. Il primo, affida a pochi la direzione della vita sociale e mette capo allo sfruttamento e all’oppressione della massa da parte di pochi. Il secondo s’affida alla libera iniziativa degli individui e proclama, se non l’abolizione, la riduzione del governo al minimo di attribuzioni possibile, però siccome rispetta la proprietà individuale ed è tutto fondato sul principio del ciascun per sé e quindi della concorrenza fra gli uomini, la sua libertà non è che la libertà pei forti, pei proprietari, di opprimere e sfruttare i deboli, quelli che non hanno nulla; e, lungi dal produrre l’armonia, tende ad aumentare sempre più la distanza tra i ricchi e i poveri, e mette capo esso pure allo sfruttamento e alla dominazione cioè all’autorità. Questo secondo metodo, cioè il liberalismo, in teoria è una specie di anarchia senza socialismo, e perciò non è che una menzogna, poiché la libertà non è possibile senza l’eguaglianza, e l’anarchia vera non può esistere fuori della solidarietà, fuori del socialismo. La critica che i liberali fanno del governo, si riduce a volergli levare un certo numero di attribuzioni e chiamare i capitalisti a contendersele, ma non può attaccare le funzioni repressive che formano la sua essenza; poiché senza il gendarme il proprietario non potrebbe esistere, e anzi la forza repressiva del governo deve sempre crescere, a misura che crescono, per opera della libera concorrenza, la disarmonia e la disuguaglianza. Gli anarchici presentano un metodo nuovo; l’iniziativa libera di tutti e il libero patto, dopo che, abolita rivoluzionariamente la proprietà individuale, tutti sono stati messi in condizione eguale di poter disporre delle ricchezze sociali. Questo metodo, non lasciando adito alla ricostituzione della proprietà individuale, deve condurre, per la via della libera associazione, al trionfo completo del principio di solidarietà. Così considerate le cose, si vede che tutti i problemi che si mettono avanti per combattere le idee anarchiche sono invece un argomento in favore dell’anarchia, perché questa sola indica la via per la quale essi possono trovare sperimentalmente quella soluzione che corrisponde meglio ai dettami della scienza e ai bisogni e ai sentimenti di tutti. Come si educheranno i bambini? Non lo sappiamo. E poi? I genitori, i pedagogisti e tutti coloro che s’interessano alle sorti delle nuove generazioni si
riuniranno, discuteranno, s’accorderanno o si divideranno in diverse opinioni, e metteranno in pratica i metodi che crederanno i migliori. E colla pratica quel metodo, che davvero è migliore, finirà col trionfare. E così, per tutti i problemi che si presenteranno. * * * Risulta da quello che abbiamo detto finora che l’anarchia, quale l’intende il partito anarchico, e quale solo può essere intesa, è basata sul socialismo. Anzi, se non ci fossero quelle scuole socialiste, che scindono artificiosamente l’unità naturale della questione sociale e ne considerano solo qualche parte staccata, e se ci non fossero gli equivoci coi quali si cerca d’intralciare la via alla rivoluzione sociale, noi potremmo dire addirittura che anarchia è sinonimo di socialismo, poiché l’una e l’altro significano l’abolizione della dominazione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia che vengano esercitati mediante la forza della baionette sia mediante l’accaparramento dei mezzi di vivere. L’anarchia, al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà. Essa non è la perfezione, essa non è l’ideale assoluto che, come l’orizzonte, si allontana sempre a seconda che ci avanziamo; ma è la via aperta a tutti i progressi, a tutti i perfezionamenti, fatti nell’interesse di tutti. * * * Assodato che l’anarchia è il modo di convivenza sociale che solo lascia aperta la via al raggiungimento del maggior bene possibile degli uomini, poiché essa sola distrugge ogni classe interessata a tenere oppressa e misera la massa; assodato che l’anarchia è possibile poiché, in realtà, non fa che sbarazzare l’umanità di un ostacolo, il governo, contro cui ha dovuto sempre lottare per avanzare nel suo penoso cammino, gli autoritari si ritirano nelle loro ultime trincee; dove sono rinforzati da molti che pur essendo caldi amatori di libertà e di giustizia, han paura della libertà, e non sanno decidersi a immaginare un’umanità che viva e cammini senza tutori e senza pastori, e, incalzati dalla verità, domandano pietosamente che si rimetta la cosa al più tardi, al più tardi possibile. Ecco la sostanza dagli argomenti che in questo punto della discussione ci vengono opposti.
Questa società senza governo, che si regge per mezzo della cooperazione libera e volontaria; questa società, che s’affida in tutto all’azione spontanea dagl’interessi ed è tutta fondata sulla solidarietà e sull’amore, è certamente, essi dicono, un ideale bellissimo ma, come tutti gli ideali, sta nelle nuvole. Noi ci troviamo in una umanità che ha sempre vissuto divisa in oppressi e oppressori; e se questi sono pieni dello spirito di dominazione e hanno tutti i vizi dei tiranni, quelli sono rotti al servilismo e hanno i vizi anche peggiori che produce la schiavitù. Il sentimento della solidarietà è lungi dall’essere dominante tra gli uomini attuali, e se è vero che gli uomini sono e diventano sempre più solidali tra loro, è anche vero che quello che più si vede e più lascia l’impronta sul carattere umano è la lotta per l’esistenza, che ciascuno combatte quotidianamente contro tutti, è la concorrenza che incalza tutti, operai e padroni, e fa che ogni uomo diventi il lupo dell’altro uomo. Come mai potranno questi uomini, educati in una società basata sull’antagonismo delle classi e degli individui, trasformarsi d’un tratto e divenire capaci di vivere in una società in cui ciascuno farà quel che vorrà, e dovrà, senza coercizione esterna, per impulso della propria natura, volere il bene degli altri? E con che coraggio, con che senno affidereste voi le sorti della rivoluzione, le sorti della umanità, a una turba ignorante, anemizzata della miseria, abbrutita dal prete, che oggi sarà stupidamente sanguinaria, e domani si farà goffamente raggirare da un furbo, o piegherà servilmente il collo sotto il calcagno del primo uomo d’armi che oserà farsi padrone? Non sarà più prudente avviarsi all’ideale anarchico ando per una repubblica democratica o socialista? Non sarà necessario un governo educatore, composto dei migliori, per preparare le generazioni ai destini futuri? Anche queste obiezioni non avrebbero ragion di essere se noi fossimo riusciti a farci capire e a convincere i lettori in quello che abbiamo detto più avanti; ma in ogni modo, anche a costo di doverci ripetere, sarà bene rispondervi. Noi ci troviamo sempre di fronte al pregiudizio che il governo sia una forza nuova, sorta non si sa di dove, che aggiunga per sé stesso qualche cosa alla somma delle forze e delle capacità di coloro che lo compongono e di coloro che gli ubbidiscono. Invece, tutto ciò che si fa nell’umanità, si fa dagli uomini; e il governo, come governo, non ci mette di suo che la tendenza a far di tutto un monopolio a favore di un dato partito o di una data classe, e la resistenza contro ogni iniziativa che sorge fuori della sua consorteria. Abolire l’autorità, abolire il governo non significa distruggere le forze individuali e collettive che agiscono nell’umanità, né le influenze che gli uomini
esercitano a vicenda gli uni su gli altri: questo sarebbe ridurre l’umanità allo stato di ammasso di atomi staccati e inerti, cosa che è impossibile, e che, se mai fosse possibile, sarebbe la distruzione di ogni società, la morte dell’umanità. Abolire l’autorità, significa abolire il monopolio della forza e dell’influenza; significa abolire quello stato di cose per cui la forza sociale, cioè la forza di tutti, è stata strumento del pensiero, della volontà, degli interessi di un piccolo numero d’individui, i quali, mediante la forza di tutti, sopprimono, a vantaggio proprio e delle proprie idee, la libertà di ciascuno; significa distruggere un modo di organizzazione sociale col quale l’avvenire resta accaparrato, tra una rivoluzione e l’altra, a profitto di coloro che sono stati i vincitori di un momento. Michele Bakunin, in uno scritto pubblicato nel 1872, dopo aver detto che i grandi mezzi d’azione dell' Internazionale erano la propaganda delle sue idee e l’organizzazione dell’azione naturale dei suoi membri sulle masse, aggiunge: «A chiunque pretendesse che un’azione così organizzata sarebbe un attentato contro la libertà delle masse, un tentativo di creare un nuovo potere autoritario, noi risponderemmo ch’egli non è che un sofista e uno sciocco. Tanto peggio per quelli che ignorano la legge naturale e sociale della solidarietà umana, al punto da immaginare che un’assoluta indipendenza mutua degl’individui e delle masse sia una cosa possibile, o almeno desiderabile. Desiderarla significa volere la distruzione della società, poiché tutta la vita sociale non è altra cosa che questa dipendenza mutua, incessante degli individui e delle masse. Tutti gli individui, siano pure i più intelligenti e i più forti, anzi soprattutto i più intelligenti e i più forti, ne sono, in ogni istante della loro vita, nello stesso tempo i produttori e i prodotti. La stessa libertà di ogni individuo non è che la risultante, riprodotta continuamente, di questa massa d’influenze materiali, intellettuali e morali, esercitate sopra di lui da tutti gli individui che lo circondano, dalla società in mezzo a cui egli nasce, si sviluppa e muore. Volere sfuggire a questa influenza, in nome di una libertà trascendentale, divina, assolutamente egoista e bastante a sé stessa, è la tendenza al non essere; volere rinunziare a esercitarla sugli altri, significa rinunciare ad ogni azione sociale, all’espressione perfino dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, e si risolve pure nel non-essere. Questa indipendenza, tanto vantata dagl’idealisti e dai metafisici, e la libertà individuale, concepita in questo senso, sono dunque il niente. Nella natura, come nella società umana, che non è altra cosa che questa stessa natura, tutto ciò che vive, non vive che alla condizione suprema d’intervenire,
nel modo più positivo e tanto potentemente quanto lo comporta la sua natura, nella vita degli altri. L’abolizione di questa influenza mutua sarebbe la morte. E quando noi rivendichiamo la libertà delle masse, non pretendiamo per nulla abolire nessuna delle influenze naturali che individui o gruppi d’individui esercitano su di esse: ciò che noi vogliamo è l’abolizione delle influenze artificiali, privilegiate, legali, ufficiali» (Vedi: Protestation de l'Alliance, 1871, in Oeuvres, Tome VI). * * * Certamente, nello stato attuale dell’umanità, quando la grande maggioranza degli uomini, oppressa dalla miseria e istupidita dalla superstizione, giace nell'abiezione, le sorti umane dipendono dall’azione di un numero relativamente scarso d’individui; certamente non si potrà, da un momento all’altro, far sì che tutti gli uomini si elevino al punto da sentire il dovere, anzi il piacere di regolare tutte le proprie azioni in modo che ne derivi agli altri il maggior bene possibile. Ma se oggi le forze pensanti e dirigenti dell’umanità sono scarse, non è una ragione per paralizzarne ancora una parte e per sottoporne molte ad alcune di esse. Non è una ragione per costituire la società in modo che, grazie all’inerzia che producono le posizioni assicurate, grazie alla eredità, al protezionismo, allo spirito di corpo, e a tutta quanta la meccanica governativa, le forze più vive e le capacità più reali finiscono col trovarsi fuori del governo e quasi prive d’influenza sulla vita sociale; e quelle che giungono al governo, trovandosi spostate dal loro ambiente, e interessate anzitutto a restare al potere, perdano ogni potenza di fare e solo servano di ostacolo agli altri. Abolita questa potenza negativa che è il governo, la società sarà quello che potrà essere, ma tutto quello che potrà essere, date le forze e le capacità del momento. Se vi saranno uomini istruiti e desiderosi di spandere l’istruzione, essi organizzeranno le scuole e si sforzeranno per far sentire a tutti l’utile e il piacere d’istruirsi. E se questi uomini non vi fossero o fossero pochi, un governo non potrebbe crearli; solo potrebbe, come infatti avviene oggi, prendere quei pochi, sottrarli al lavoro fecondo, metterli a redigere regolamenti che bisogna imporre coi poliziotti, e da insegnanti intelligenti e ionati farne degli uomini politici, cioè degli inutili parassiti, tutti preoccupati d’imporre le loro fisime e di mantenersi al potere. Se vi saranno medici e igienisti, essi organizzeranno il servizio di sanità. E se non vi fossero, il governo non potrebbe crearli; solo potrebbe, per il sospetto,
troppo giustificato, che il popolo ha contro tutto ciò che viene imposto, levar credito ai medici esistenti, e farli massacrare come avvelenatori quando vanno a curare i colerosi. Se vi sono ingegneri, macchinisti, eccetera, organizzeranno le ferrovie. E se non vi fossero, ancora una volta il governo non potrebbe crearli. La rivoluzione, abolendo il governo e la proprietà individuale, non creerà forze che non esistono; ma lascerà libero campo all’esplicazione di tutte le forze, di tutte le capacità esistenti, distruggerà ogni classe interessata a mantenere le masse nell’abbrutimento, e farà in modo che ognuno potrà agire e influire in proporzione della sua capacità, e conformemente alle sue ioni e ai suoi interessi. E questa è la sola via per la quale le masse possano elevarsi, poiché è solo colla libertà che uno s’educa a esser libero, come è solo lavorando che uno può imparare a lavorare. Un governo, quando non avesse altri inconvenienti, avrebbe sempre quello di abituare i governati alla soggezione, e di tendere a diventare sempre più opprimente e farsi sempre più necessario. D’altronde, se si vuole un governo che debba educare le masse e avviarle all’anarchia, bisogna pure indicare quale sarà l’origine, il modo di formazione di questo governo. Sarà la dittatura dei migliori? Ma chi sono i migliori? E chi riconoscerà loro questa qualità? La maggioranza sta d’ordinario attaccata a vecchi pregiudizi, e ha idee e istinti già sorati da una minoranza meglio favorita; ma fra le mille minoranze che tutte credono di aver ragione, e tutte possono averla in qualche parte, da chi e con qual criterio si sceglierà, per mettere la forza sociale a disposizione di una di esse, quando solo l’avvenire può decidere fra le parti in litigio? Se pigliate cento partigiani intelligenti della dittatura, voi scoprirete che ciascuno di loro crede che egli dovrebbe, se non essere proprio il dittatore, o uno dei dittatori, almeno trovarsi molto vicino alla dittatura. Dunque, dittatori sarebbero coloro che, per una via o per un’altra, riuscissero a imporsi; e, coi tempi che corrono, si può esser sicuri che tutte le loro forze sarebbero impiegate nella lotta per difendersi contro gli attacchi degli avversari, lasciando in dimenticanza ogni velleità educatrice, se mai ne avessero avute. Sarà invece un governo eletto a suffragio universale, e quindi l’emanazione più o
meno sincera del volere della maggioranza? Ma se voi considerate questi bravi elettori come incapaci di provvedere da loro stessi ai propri interessi, come mai essi sapranno scegliersi i pastori che debbono guidarli e come potranno risolvere questo problema di alchimia sociale, di far uscire l’elezione di un genio dal voto di una massa di imbecilli? E che ne sarà delle minoranze che pur sono la parte più intelligente, più attiva, più avanzata di una società? Per risolvere il problema sociale a favore di tutti non vi è che un mezzo: scacciare rivoluzionariamente i detentori della ricchezza sociale, mettere tutto a disposizione di tutti, e lasciare che tutte le forze, tutte le capacità, tutte le buone volontà esistenti fra gli uomini agiscano per provvedere ai bisogni di tutti. Noi combattiamo per l’anarchia e per il socialismo, perché crediamo che l’anarchia e il socialismo si debbano attuare subito, vale a dire che si deve, nell’atto stesso della rivoluzione, scacciare il governo, abolire la proprietà e affidare i servizi pubblici, che in quel caso abbracceranno tutta la vita sociale, all’opera spontanea, libera, non ufficiale, non autorizzata di tutti gl’interessati e di tutti i volenterosi. Vi saranno certamente difficoltà e inconvenienti; ma essi saranno risolti, e solo potranno risolversi anarchicamente, cioè mediante l’opera diretta degli interessati e i liberi patti. Noi non sappiamo se alla prossima rivoluzione trionferanno l’anarchia e il socialismo; ma certamente se dei programmi cosiddetti di transazione trionferanno, sarà perché noi, per questa volta, saremo stati vinti, e mai perché avremo creduto utile lasciare in vita una parte del mal sistema, sotto cui geme l’umanità. In ogni modo avremo sugli avvenimenti quell’influenza che ci verrà dal nostro numero, dalla nostra energia, dalla nostra intelligenza e dalla nostra intransigenza. Anche se sarem vinti, la nostra opera non sarà stata inutile, poiché più saremo stati decisi a raggiungere l’attuazione di tutto il nostro programma, e meno proprietà e meno governo vi sarà nella nuova società. E avrem fatto opera grande, perché il progresso umano si misura appunto dalla diminuzione del governo e dalla diminuzione della proprietà privata. E se oggi cadremo senza piegar bandiera, possiamo esser sicuri della vittoria di domani.
Le due concezioni anarchiche, di Henry Seymour
Documento 10 (1894)
In questo breve testo sono presentate, in maniera un po’ estremizzata, due concezioni del variegato mondo dell’anarchia: il comunismo e il mutualismo. Considerato il fatto che il segno distintivo dell’anarchia è la scelta volontaria dell’organizzazione personale e sociale, queste due forme dovrebbero essere entrambe accettate e accettabili qualora siano praticate liberamente e volontariamente nell’ambito della propria comunità. Infatti, qualsiasi imposizione per far prevalere il proprio modello organizzativo sarebbe del tutto in contrasto con i princìpi teorici e pratici dell’anarchia. Nonostante ciò, questo scritto rimane interessante perché mostra i contrasti tra le varie anime della concezione anarchica. Fonte: Henry Seymour, The two anarchisms, Oriole Press, New Jersey, 1935.
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Gli anarchici si dividono in Mutualisti, che cercano di attuare la loro organizzazione economica attraverso una Banca di Scambio e una moneta libera; e comunisti, il cui motto è: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. ( Hazell’s Annual Encyclopedia, 1886) Ci sono due concezioni dell’anarchia e cioè due scuole. Una è comunista e l’altra mutualista. Una è emotiva, l’altra filosofica. Una è utopista, l’altra pratica. Una è dogmatica, l’altra razionale. Una è distruttiva, l’altra è costruttiva. Una è rivoluzionaria, l’altra evolutiva. Una si basa sulla logica della forza, l’altra sulla forza della logica. Una crede che lo Stato sia la causa della condizione economica delle persone. L’altra che la condizione economica delle persone sia il frutto della loro ignoranza in materia di economia. Entrambe concordano che lo Stato genera ogni sorta di mali, e che l’attuale amministrazione della giustizia è una impostura. Una vorrebbe distruggere lo Stato di colpo, l’altra ritiene che altri mali di pari grandezza deriverebbero da una simile fretta. Una pensa che l’anarchia sia una condizione in grado di essere realizzata subito, l’altra la vede come un ideale verso il quale l’umanità tende inconsciamente, ma che può essere raggiunto in modo permanente solo attraverso una serie di sviluppi di ordine economico e morale, in sintonia con tale ideale, e che operano lungo linee di minima resistenza. Una si propone di sostituire il potere dello Stato con un controllo diretto da parte
della “comunità”, l’altra si oppone sia al dominio dello Stato che a quello della massa. Entrambe hanno un solo obiettivo: la piena libertà e autonomia. Una lascerebbe a tutti la libertà di lavorare quando, dove e come ciascuno vuole, e consumare tutto quello che ognuno vuole prendendolo dalle risorse in comune; l’altra è contro lo sfruttamento del lavoro industriale da parte dei parassiti, e del talento da parte degli incompetenti. Una ritiene che tutti lavorerebbero piacevolmente in presenza del comunismo, l’altra non nutre la stessa fiducia nel fatto che le persone non cerchino di evitare il lavoro soltanto perché lo si rende più gradevole. Entrambe credono nell’eguaglianza. Una crede nell’eguaglianza dei beni, l’altra nell’eguaglianza dei diritti, la qual cosa offrirebbe a ognuno l’opportunità di godere equamente dei beni materiali. Una vede nella proprietà la causa fondamentale della povertà e della disuguaglianza generata ad arte, l’altra pone l’accento sul fatto che è il monopolio la causa di tutto ciò. Una vorrebbe abolire la proprietà, l’altra vorrebbe renderla possibile per tutti. Una desidera espropriare tutti, l’altra vorrebbe rendere proprietari tutti i produttori. Una afferma: “Tutto ciò che è prodotto spetta alla comunità, e a ognuno è dato secondo i suoi bisogni.” L’altra sostiene: “Ciò che è prodotto spetta al produttore e a ognuno è dato secondo la sua attività.” Una ritiene la concorrenza un male, l’altra vede nell’emulazione la fonte del progresso. Una ritiene che la fine della concorrenza renderebbe possibili i miglioramenti sociali, l’altra che produrrebbe la stagnazione sociale. La prima vorrebbe sopprimere le leggi dell’economia, l’altra vorrebbe dare loro libero gioco eliminando i vincoli introdotti per legge, che sconvolgono il vero sviluppo e, di conseguenza, generano fenomeni abnormi.
Una afferma che la concorrenza tiene bassi i salari al livello di sussistenza, l’altra sostiene che i salari sono mantenuti bassi per via del monopolio che le classi privilegiate hanno sulla gestione della moneta come indicatore di ricchezza. Una nega che sia possibile misurare accuratamente il valore del contributo di ognuno alla produzione, l’altra afferma che ciò è del tutto fattibile attraverso l’introduzione di strumenti di scambio che rappresentino una misura veritiera e sensata. Una dichiara il denaro la fonte di ogni male, l’altra sostiene che il male ha parecchie fonti. Una attribuisce l’esistenza di eccessi di produzione e povertà al sistema monetario in sé, l’altra attribuisce il fenomeno a un sistema monetario basato sul privilegio. Una vorrebbe eliminare il denaro in blocco, l’altra è favorevole all’introduzione di un mezzo di scambio libero basato su tutti i VALORI, invece di assegnare alla moneta una supremazia arbitraria su tutti gli altri beni che hanno ugualmente valore. Una pensa che questo sistema diventerà alla fine pessimo come quello che l’ha preceduto, l’altra saprebbe come abolire immediatamente l’interesse sul denaro, e tenderebbe ad abbassare sempre più la rendita per poi, alla fine, eliminarla del tutto. Una dichiarerebbe la guerra civile e confischerebbe la ricchezza esistente come pure i mezzi di produzione, l’altra organizzerebbe pacificamente delle Banche di Scambio attraverso le quali gestire il credito ed effettuare le transazioni, permettendo a ciascuno di avviare subito delle attività produttive e rimuovendo, gradualmente ma sicuramente, tutti gli ostacoli alla futura produzione, senza effettuare alcuna confisca. Una vorrebbe che la famiglia allargata fosse la base della struttura sociale, l’altra vorrebbe che lo fosse la giustizia. Entrambe credono nel libero amore. Una favorisce la promiscuità priva di responsabilità nelle relazioni sessuali (dal
momento che la comunità è responsabile dell’educazione dei nuovi nati), l’altra è favorevole a liberi accordi relazionali che danno, a entrambe le parti, uguali libertà e reciproche responsabilità. Una vorrebbe quindi distruggere il matrimonio e la famiglia nucleare, l’altra vorrebbe rafforzarla. Una vorrebbe cancellare l'imposizione fiscale attraverso l’eliminazione del governo, l’altra attraverso un libero governo (le cui funzioni si limiterebbero a garantire la conservazione per tutti di pari diritti) i cui costi amministrativi ricadrebbero su coloro che commettono azioni criminali e lo rendono, per questo, necessario. Una ritiene che l’abolizione dello Stato e il conseguente libero accesso per tutti ai mezzi per vivere ridurrebbero immediatamente il crimine a un minimo, l’altra pensa che un gran numero di atti criminali sarebbero evitati con la fine dello Stato, ma che è solo con l’educazione della specie umana che il crimine può essere eradicato del tutto e con esso la necessità dello Stato. Ho sostenuto fin qui che esistono due concezioni anarchiche. Concludo affermando che c’è una sola concezione dell’anarchia logica e coerente, e questa alla fine prevarrà.
L'anarchia, di Elisée Reclus
Documento 11 (1894)
Elisée Reclus tratteggia la concezione anarchica in termini apionanti in quanto l’anarchia è innanzitutto una scelta etica personale e poi una maniera estremamente interessante e appagante di auto-organizzazione della propria vita in società. Fonte: Elisée Reclus, L'Anarchie. aggi estratti da una conferenza tenuta dall’autore ai membri della loggia massonica “Les amis philanthropes” a Bruxelles il 18 giugno 1894.
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L’anarchia non è affatto una teoria nuova. La parola stessa presa nel suo significato di “assenza di governo”, di “società senza capi”, è di antica origine e fu utilizzata molto prima che lo fe Proudhon. D’altronde, che importanza hanno le parole? Ci sono stati degli acrati [18] prima degli anarchici, e gli acrati non avevano ancora trovato il loro nome scientifico prima che innumerevoli generazioni si fossero succedute. In ogni epoca ci sono stati esseri umani liberi, persone che non hanno tenuto in alcun conto regole provenienti dall’esterno, individui che vivevano senza sottomettersi ad alcun padrone, seguendo il diritto primordiale a una propria esistenza e a un proprio pensiero. Persino nelle prime fasi della storia troviamo dappertutto delle tribù composte da individui che si organizzano a loro modo, senza leggi imposte, non avendo altra regola di condotta se non “la loro volontà e il franco discernimento”, per dirla con Rabelais, e che erano spinte anche dal desiderio di fondare una “fede profonda” come i “cavalieri tanto prodi” e le “dame tanto gentili” che si erano dati convegno nell’abbazia di Thélema [19]. Ma se l’anarchia è antica come l’umanità, nondimeno coloro che la rappresentano contribuiscono ad apportare qualcosa di nuovo nel mondo. Essi sono del tutto consapevoli del fine perseguito e, da una estremità all’altra della Terra, si mettono d’accordo sulla base del loro ideale per respingere ogni forma di dominio. Il sogno della libertà, dappertutto nel mondo, ha cessato di essere una pura utopia filosofica e letteraria, come lo è stato per i fondatori della Città del Sole o di una Nuova Gerusalemme. Esso è divenuto lo scopo pratico che una moltitudine di persone si sforzano di attuare assieme, individui che cooperano con fermezza per la nascita di una società nella quale non vi sarebbero più padroni, o burocrati preposti alla pubblica morale, né carcerieri o carnefici, né ricchi né poveri, ma solo fratelli che dispongono tutti dei mezzi di sostentamento quotidiano, pari nei loro diritti, vivendo in pace e in armonia non per l’obbedienza cieca a delle leggi accompagnate sempre da terribili minacce di pene, ma attraverso il rispetto reciproco degli interessi e l’osservanza scientifica delle leggi naturali. Indubbiamente, questo sembra a molti di voi un ideale chimerico, ma sono anche sicuro che esso appare desiderabile alla maggior parte delle persone e che voi intravedete a distanza l’immagine di una società pacifica in cui le persone, oramai riconciliate, faranno arrugginire le loro spade, faranno fondere i cannoni e porranno in disarmo le navi da guerra. D’altronde, non siete forse voi coloro
che, da molto tempo, da migliaia di anni, come siete soliti dire, operate a costruire il tempio dell’uguaglianza? Voi siete dei “liberi muratori” che stanno costruendo un edificio di proporzioni perfette, dove entrano solo gli individui liberi, uguali e fratelli, che operano incessantemente a perfezionarsi e a rinascere spinti dalla forza dell’amore di una vita nuova, fatta di giustizia e di bontà. Non è questo il vostro ideale? E in questo non siete i soli. Voi non pretendete di avere il monopolio dello spirito di progresso e di rinnovamento. Voi correttamente dimenticate i vostri avversari particolari, coloro che vi maledicono e vi scomunicano, i cattolici focosi che condannano all’inferno i nemici della Santa Chiesa, ma che, nondimeno, profetizzano la venuta di un’era di pace perenne. sco d’Assisi, Caterina di Siena, Teresa d’Avila e molti altri ancora tra i testimoni di una fede che non è la vostra, hanno di certo amato l’umanità dell’amore più sincero e noi dobbiamo contarli nel numero di coloro che vivevano per un ideale di felicità e serenità universali. E al giorno d’oggi, milioni e milioni di socialisti, a qualsiasi tendenza essi appartengano, lottano anch’essi per un futuro in cui il dominio del denaro sarà infranto e le persone potranno infine dirsi “uguali” senza che ciò appaia come una presa in giro. Le finalità degli anarchici sono quindi comuni con molte altre persone generose, che appartengono alle religioni, alle sette e ai partiti più diversi, ma che si distinguono nettamente per i mezzi proposti, come indica, nella maniera più chiara, l'appellativo di ciascuno di questi gruppi. La conquista del potere è stata quasi sempre la preoccupazione maggiore dei rivoluzionari, anche di quelli che avevano le migliori intenzioni. L’educazione ricevuta non consentiva loro di immaginarsi una società libera che funzionasse senza un governo regolare e quindi, non appena erano riusciti a disfarsi di padroni odiati, si affrettavano a rimpiazzarli con altri padroni destinati, secondo la formula consacrata, a “operare per il bene del popolo”. Di solito, non si osava nemmeno preparare un cambiamento di principe o di dinastia regnante senza aver fatto prima una dichiarazione di sottomissione a un qualche futuro sovrano: “Il re è stato ucciso! Viva il re!”, gridavano i sudditi sempre fedeli a un padrone, anche nei momenti di rivolta. Durante i secoli questo è stato immancabilmente il corso della storia. “Come si potrebbe vivere senza padroni!”, affermavano gli schiavi, le loro spose, i loro figli, i lavoratori nelle città e nelle campagne; e, deliberatamente, ponevano il capo sotto il giogo come fa il bue quando tira l’aratro. Ci ricordiamo degli insorti del 1830 che volevano “la migliore delle repubbliche” rappresentata da un nuovo re, e i repubblicani del 1848 che rientravano in silenzio nelle loro
catapecchie dopo aver dedicato “tre mesi di miseria al servizio del governo provvisorio”. Alla stessa epoca, una rivoluzione scoppiava in Germania e un parlamento popolare si riuniva a Francoforte: “l’antico potere è ridotto a un cadavere”, affermava con forza uno dei rappresentanti. “Sì – replicava il presidente – ma noi lo faremo risuscitare. Chiameremo delle persone nuove che sapranno ristabilire con la loro autorità la potenza della nazione”. Non è forse il caso qui di ripetere i versi di Victor Hugo: “Un vecchio istinto umano porta a commettere cose infami?”. Contro questo istinto, l’anarchia rappresenta davvero uno spirito nuovo. Non si può affatto rimproverare ai libertari che essi cerchino di sbarazzarsi di un governo per sostituirsi a lui: “Levati di là che mi ci metto io!”. Questa è una frase che gli anarchici avrebbero orrore a formulare e, a priori, essi disonorano e disprezzano, o quanto meno sentono della pietà per colui che, colpito dalla bramosia del potere, si lasciasse tentare dall’occupare una qualche carica con la scusa di fare, anche lui, “il bene dei suoi concittadini”. Gli anarchici riconoscono, sulla base dell’osservazione della realtà, che lo Stato, e tutto ciò che si ricollega ad esso, non è una pura entità o una qualche formula filosofica, ma un insieme di individui posti in un ambiente del tutto particolare e che ne subiscono l’influsso. Coloro che sono elevati su un piedistallo, con poteri straordinari, e con un trattamento speciale, al di sopra dei loro concittadini, sono inevitabilmente costretti, per così dire, a credersi superiori alla gente comune, e al tempo stesso, le tentazioni di ogni tipo a cui sono soggetti li fanno cadere quasi fatalmente al di sotto del livello generale. Per questo noi ripetiamo incessantemente ai nostri amici – talvolta dei fratelli nemici – i socialisti statalisti: “Fate attenzione ai vostri capi e rappresentanti! Come voi, essi sono animati di certo dalle migliori intenzioni; essi vogliono ardentemente la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello Stato tirannico; ma i rapporti, le condizioni nuove in cui arrivano a trovarsi, li modificano a poco a poco. La loro morale cambia con i loro interessi e, credendosi sempre fedeli alla causa del loro mandato, finiscono inevitabilmente per tradirla. Anch’essi, detentori del potere, dovranno servirsi degli strumenti del potere: l’esercito, la propaganda, i magistrati, i poliziotti e le spie. Tremila anni fa, il poeta indù che ha redatto il Mahâ Bhârata [20] ha sintetizzato a questo riguardo l’esperienza di secoli: “L’essere umano che viaggia su una portantina non sarà mai amico di quello che va a piedi!”. Così, gli anarchici hanno, riguardo allo Stato, i princìpi più netti: secondo loro la
conquista del potere non può servire che a prolungarne la durata in vita, assieme alla schiavitù che ne risulta. Non è quindi senza motivo che il nome di “anarchici”, che ha un significato negativo, è quello con il quale noi siamo universalmente qualificati. Ci potrebbero definire “libertari” come molti di noi si qualificano volentieri, o anche “armonisti” a causa del libero accordo che, secondo noi, dovrebbe caratterizzare la società futura. Ma questi termini non ci differenziano abbastanza dai socialisti. È proprio la lotta contro ogni potere imposto che ci distingue essenzialmente. Ogni individualità ci appare come il centro dell’universo, e ognuno ha gli stessi diritti a uno sviluppo integrale, senza le interferenze di un potere che lo diriga, lo rimproveri, lo castighi. Voi conoscete il nostro ideale. Ora, il primo interrogativo che si pone è il seguente: “Questo ideale è veramente nobile e merita il sacrificio da parte di persone devote e i terribili rischi che tutte le rivoluzioni portano con sé? La morale anarchica è qualcosa di puro? Nella società libertaria, una volta formata, l'essere umano sarà forse migliore di quanto sia nella società che poggia sulla paura del potere e delle leggi? Io rispondo con tutta sicurezza, e spero che anche voi ben presto risponderete allo stesso modo: “Sì, la morale anarchica è quella che meglio corrisponde alla concezione moderna della giustizia e della bontà”. La base dell’antica morale, voi lo sapete, non era altro che il timore, il “tremare di paura”, come dice la Bibbia e come vi hanno insegnato in gioventù attraverso innumerevoli precetti. “Il timore di Dio è l’inizio della saggezza”; questo fu, un tempo, il punto di partenza di ogni processo educativo. La società, nel suo insieme si fondava sul terrore. Gli individui non erano dei cittadini ma dei sudditi o delle pecore; le spose erano delle serve, i figli degli schiavi sui quali i genitori avevano, come nell’antichità, un diritto di vita e di morte. Dappertutto, in tutte le relazioni sociali, apparivano rapporti di dominio e di subordinazione; e ancora ai giorni nostri, il principio stesso su cui si regge lo Stato e tutte le entità statuali che lo costituiscono, è la gerarchia, o la “santa” archia, l’autorità “sacra” – questo è il vero senso del termine. E questo dominio sacro-santo comporta l'esistenza di tutta una serie di classi, e quelle poste in alto hanno il diritto di comandare, mentre quelle poste in basso hanno il dovere di obbedire. La morale ufficiale consiste nell’inchinarsi davanti al superiore e nel comportarsi con sfrontatezza davanti ai subordinati. Ogni persona deve avere due facce, come Giano, due sorrisi, l’uno adulatore, sollecito, talvolta servile, l’altro superbo e di un’altezzosa condiscendenza. Il principio autoritario – così si chiama – esige che il superiore non dia mai l’impressione di avere torto e che, in tutti gli scambi verbali, egli abbia sempre l’ultima parola. Ma, soprattutto, occorre che i suoi
ordini siano osservati. Questo semplifica tutto: non c’è più bisogno di ragionamenti, spiegazioni, esitazioni, discussioni, dubbi. Le faccende procedono, male o bene, sulla base di automatismi. E quando non è direttamente presente un padrone per comandare, non ci sono forse formule belle e fatte, degli ordini, dei decreti o delle leggi, promulgate da padroni assoluti o da legislatori a vari livelli? Queste formule rimpiazzano gli ordini diretti e sono osservate senza chiedersi se sono conformi alla voce interiore della propria coscienza. Tra persone uguali le cose sono più difficili ma anche di una sostanza più elevata: occorre ricercare ardentemente la verità, individuare quali sono i doveri personali, imparare a conoscersi, educare sé stessi in permanenza, comportarsi nel rispetto dei diritti e degli interessi altrui. Solo allora si diventa realmente un essere morale, si acquisisce la coscienza della propria responsabilità. La morale non è un comando al quale ci si sottomette, una formula che uno ripete, un fenomeno esteriore all’individuo; essa diventa parte dell’essere umano, un prodotto stesso della vita. È così che intendiamo la morale, noi anarchici. Non abbiamo quindi il diritto di confrontarla, con soddisfazione, con quella che ci è stata tramandata dal ato? Mi darete forse ragione? Ma anche qui, molti di voi penseranno che sia una chimera. In questo caso sarei contento se, in questa concezione, voi vedeste almeno una nobile chimera. Ma io vado ancora più oltre e affermo che il nostro ideale, la nostra idea della morale è qualcosa che si colloca nella logica della storia, un prodotto naturale dell’evoluzione dell’umanità. […] Là dove la pratica anarchica trionfa è nel corso ordinario della vita, tra le persone del popolo che, di certo, non potrebbero sostenere la terribile lotta dell’esistenza se non si aiutassero l’un l’altra, spontaneamente, ignorando le differenze e le rivalità di interessi. Quando uno di loro si ammala, altri si prendono cura dei suoi bambini, si preoccupano di preparare il cibo, dividono tra di loro i pochi viveri, cercando di occuparsi anche delle proprie faccende, raddoppiando le ore di lavoro. Tra i vicini si crea una sorta di comunismo, prestandosi le cose a vicenda, con un va e vieni di tutti gli utensili casalinghi e delle provviste. La miseria unisce i sofferenti in una comunità fraterna: assieme essi hanno fame, assieme essi si sfamano. La morale e la pratica anarchiche sono la regola anche quando i borghesi si
riuniscono, pur se questi aspetti potrebbero sembrare del tutto assenti. Potete voi immaginarvi una festa campestre nella quale qualcuno, l’ospite o uno degli invitati, ostenti un’aria da padrone, assegnandosi la licenza di comandare o di far prevalere in maniera sfacciata i suoi capricci! Non sarebbe questa la fine di un ritrovarsi con gioia, con gusto? Non c’è felicità che fra esseri uguali e liberi, tra persone che possono divertirsi come piace a loro, per gruppi distinti, se così vogliono, ma vicini e mescolati a modo loro, gli uni con gli altri, perché così le ore trascorse assieme appaiono più dolci. Qui mi consentirete di raccontarvi un’esperienza personale. Stavamo navigando su una di quelle navi moderne che fendono superbamente i flutti alla velocità di quindici-venti nodi all’ora, e che percorrono una linea diritta da continente a continente, malgrado i venti e le maree. L’aria era calma, la serata dolce e le stelle splendevano a una a una nel cielo scuro. Si conversava a poppa, e su cosa si poteva discutere se non di questa eterna questione sociale, che ci tiene avvinti e ci stringe alla gola come la sfinge di Edipo [21]. Il conservatore che faceva parte del gruppo era incalzato dai suoi interlocutori, tutti più o meno socialisti. A un tratto, si rivolse al capitano della nave, colui che rappresentava il potere sulla nave, sperando di trovare in lui un difensore naturale dei “sani” principi: “Voi qui comandate! Il vostro potere non è forse sacro? Cha cosa avverrebbe se la nave non fosse diretta dal vostro costante volere?”. “Voi siete una persona parecchio ingenua”, rispose il capitano. “Detto tra di noi, posso dirvi che io non servo assolutamente a nulla. Il marinaio al timone mantiene la nave nella sua giusta direzione; tra qualche minuto un altro pilota lo sostituirà, e poi altri ancora prenderanno il suo posto, e noi seguiremo, senza il mio intervento, la rotta stabilita. In basso, i fuochisti e i macchinisti lavorano senza la mia assistenza, senza le mie indicazioni, e meglio di quanto potrebbero fare se io mi intromettessi a consigliarli. E tutti questi marinai sanno quello che c’è da fare e, all’occasione, non ho che da coordinare la mia piccola parte di attività con la loro, che è più faticosa e meno retribuita della mia. Indubbiamente si pensa che io debba guidare la nave. Ma non vedete forse che si tratta di una semplice apparenza? Le mappe per la navigazione sono là e non sono io che le ho disegnate. La bussola ci dirige e non sono io che l’ho inventata. Qualcuno ha scavato per noi l’accesso al porto da cui siamo partiti e quello a cui arriveremo. E questa meravigliosa nave, che sotto i colpi furiosi delle onde non fa una piega, dondolandosi maestosamente sull’acqua, navigando potentemente spinta dai motori, non sono io che l’ho costruita. Chi sono io a confronto delle grandi figure morte, degli inventori, degli scienziati, di coloro che ci hanno preceduto,
di tutti quelli che ci hanno insegnato a traversare i mari? Noi siamo tutti degli associati, noi, i miei compagni marinai e anche voi eggeri, perché è per voi che cavalchiamo le onde e, in caso di pericolo, contiamo su di voi per un aiuto fraterno. La nostra opera è comune, e siamo tutti solidali gli uni con gli altri!”. Tutti rimasero in silenzio. Io ho conservato preziosamente nella memoria le parole del capitano, questo essere fuori del comune. Così, questa nave, questo mondo galleggiante nel quale le punizioni sono sconosciute, costituisce una repubblica modello che attraversa l’oceano malgrado una gerarchia bizantina. E questo non è un caso isolato. Ognuno di voi conosce, almeno per il racconto di altri, esempi di scuole in cui il professore, nonostante la severità dei regolamenti, sempre inapplicati, si comporta nei confronti degli alunni con familiarità, come se fossero collaboratori contenti di apprendere. L’autorità competente tutto prevede per domare i piccoli ribelli, ma il loro grande amico, l’insegnante, non ha bisogno di questo armamentario repressivo. Egli tratta i ragazzi come persone mature, facendo costantemente appello alla loro buona volontà, alla loro capacità di comprendere le cose, al loro senso di giustizia, e tutti rispondono con gioia. Una piccola società anarchica, profondamente umana, si trova così formata, sebbene tutto sembri congegnato nell’ambiente circostante per impedirne la nascita: le leggi, i regolamenti, i cattivi esempi, l’immoralità statale. Nuovi gruppi anarchici sorgono di continuo, malgrado i vecchi pregiudizi e il peso morto degli antichi modi di essere. Il nostro nuovo mondo spunta intorno a noi, come germinerebbe un fiore nuovo fra vecchie macerie. Non solamente non si tratta di una chimera, come si ripete di continuo, ma, questo nuovo mondo si mostra già sotto mille forme; cieco è colui che non sa vederlo. Invece, se c’è una società campata per aria, impossibile a far funzionare, è proprio questo pandemonio assurdo nel quale viviamo. Voi riconoscerete che io non ho abusato della critica, pertanto così facile a farsi nei confronti del mondo attuale, come è stato istituito sotto il cosiddetto principio autoritario e di lotta feroce per l’esistenza. Ma se è vero che, in base alla definizione stessa, una società è un gruppo di individui che si uniscono e si mettono d’accordo per il bene comune, non si può dire di certo che la massa caotica che ci circonda costituisca una società! Secondo i suoi sostenitori – in quanto anche le cattive cause hanno dei sostenitori – essa avrebbe per scopo l’ordine perfetto per il soddisfacimento
degli interessi di tutti. Ora, non è questa forse una assoluta presa in giro dal momento che noi vediamo una società, organizzata nell’ambito della civiltà europea, che è affetta da una serie continua di drammi interni, omicidi e suicidi, violenze e sparatorie, decadenza e miseria, ruberie, frodi e inganni di ogni tipo, fallimenti, crolli e rovine. Chi di noi, uscendo da questa sala, non vedrà sorgere, accanto a lui, gli spettri del vizio e della fame? Nella nostra Europa ci sono cinque milioni di uomini in uniforme militare che attendono solo un segnale per scagliarsi contro altri uomini, per ucciderli e bruciarne le abitazioni e i raccolti; dieci altri milioni sono tenuti in riserva, fuori delle caserme, in attesa solo di essere chiamati per compiere la stessa opera di distruzione; cinque milioni di sventurati vivono o vegetano nelle prigioni, condannati a pene diverse; dieci milioni di persone muoiono ogni anno di morti premature; e su 370 milioni di abitanti, 350, per non dire tutti, fremono di inquietudine per cosa riserverà loro il futuro. Malgrado l’abbondanza delle ricchezze sociali, chi di noi può affermare che un brusco cambiamento della sorte non gli farà perdere tutti i suoi beni? Questi sono dei fatti che nessuno può contestare, e che dovrebbero, a mio parere, ispirare a tutti noi la ferma risoluzione di cambiare tale stato di cose, foriero di sconvolgimenti incessanti [22].
L'anarchia nascente, di Ricardo Mella
Documento 12 (1903)
Questo articolo è il seguito di un altro ( La bancarrota de las creencias ) che era stato pubblicato l’anno precedente. Ricardo Mella riafferma, con parole forti, l’ideale di una sintesi anarchica, al di fuori di qualsiasi dogmatismo e settarismo, atteggiamenti purtroppo diffusi anche presso molti che si definivano anarchici. Fonte: Ricardo Mella, El Anarquismo naciente, Valencia, 1903.
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Le seconde parti non sono mai state buone. Ma i miei cari amici che, avendo giudicato con favore il primo scritto, hanno deciso di pubblicarlo in un opuscolo, mi chiedono di estendere l'argomento di qualche pagina, e non posso né voglio rifiutare Ho scritto La bancarotta delle credenze [23] in un momento di sensazioni dolorose dovute al crollo di qualcosa che vive nell'illusione, ma non nella realtà, che a volte gioca con le idee e i sentimenti per darci il tormento della nostra impotenza e della nostra fallibilità. La verità non cede la sua potestà alle convenienze ideologiche, e quelli di noi che si vantano di coltivarla, non per un sentimento di solidarietà, e tanto meno per spirito di partito, debbono sacrificare anche la più piccola parte di ciò che credono essere al di sopra di tutte le dottrine. Chiunque sia stato attento al graduale sviluppo delle idee rivoluzionarie, soprattutto della concezione anarchica, avrà visto che, nel corso del tempo, alcuni princìpi si sono cristallizzati nel cervello come condizioni infallibili di verità assoluta. Avrà visto come sono stati elaborati piccoli dogmi e come, per l'influenza di uno strano misticismo, si è alla fine arrivati all'affermazione di credenze chiuse, rivendicando nientemeno che il possesso di tutta la verità, la verità di oggi e di domani, la verità di sempre. E avrà visto come, dopo le nostre divagazioni metafisiche, siamo rimasti con i termini, con i nomi e completamente svuotati di qualsiasi idea. Al culto della verità è succeduta l'idolatria della nomenclatura sonora, la magia delle parole a effetto, quasi la fede nella combinazione fortuita delle lettere. È il processo evolutivo di tutte le credenze ideologiche. La concezione anarchica, che nasce come critica, si trasforma in un'affermazione che tocca i confini del dogma e della setta. Sorgono i credenti, i fanatici, gli apionati dell’individuo. E sorgono anche i teorici, che fanno dell’ANARCHIA un credo individualista o socialista, collettivista o comunista, ateo, materialista, di questa o di quell'altra scuola filosofica. Infine, nel seno della concezione, nascono particolarismi per la vita, per l'arte, per la bellezza, per la super-umanità o per l'irriducibile egoistica indipendenza personale. Così la sintesi ideale è parcellizzata e, a poco a poco, ci sono tante cappelle quanti sono i propagandisti, tante dottrine quante sono gli autori. Il risultato è fatale: cadiamo in tutte le volgarità dello spirito di partito, in tutte le ioncelle del personalismo, in tutta
le bassezze dell'ambizione e della vanità. Come si può mostrare la piaga senza fare riferimento alle persone, senza trasformare il problema in una pietra dello scandalo, in una materia di nuove accuse e insulti? Che la concezione anarchica sia arrivata a essere per molti un credo o una fede, chi potrebbe negarlo? Diventando così, ha provocato battaglie accese, divisioni ingiustificate, esclusivismi dogmatici, ed è per questo che, una volta completata l'evoluzione, la bancarotta delle credenze, realtà di fatto, deve essere proclamata apertamente da tutti noi che amiamo la verità. Quando l'anarchia ha guadagnato del terreno doveva sorgere inevitabilmente la crisi. L'iniquità si manifesta ovunque. Libri, riviste, giornali, incontri, riflettono gli effetti del raro contrasto prodotto dallo scontro di tante opinioni che si sono fatte spazio nel campo anarchico. Nella lotta aperta, i particolarismi dottrinali cadono uno a uno nello scontro fra le credenze. Nessuna opinione rimane statica, né può esserlo, o rischia di negarsi da sé. L'illusione di una concezione anarchica chiusa, compatta, uniforme, pura e fissa, come una fede immacolata nell'assoluto, poteva vivere negli entusiasmi del momento, nell’immaginazione febbrile, ansiosa di bontà e giustizia, ma esausta di verità e di ragione. Muore fatalmente quando la comprensione diventa chiara e l'analisi strappa le viscere dell'idealismo. E poi arriva il momento ultimo di infrangere le proprie convinzioni, di disfarsi delle cianfrusaglie ideologiche acquisite leggendo questo o quell'autore, invaghendosi di questa o quell'altra tesi sociale o filosofica. Perché celarlo? Perché continuare a combattere per conto di puerilità pseudo-scientifiche e terminologiche? La verità non è racchiusa in un punto di vista esclusivo; non si conserva in una cassetta di legno fragile; non è lì a portata di mano o alla portata del primo temerario che decide di scoprirla. Come le scienze, come tutto ciò che è umano è in formazione, la verità sarà sempre in formazione. Siamo e saremo sempre obbligati a camminare alla sua ricerca, andando a tentoni, perché non c'è altra via per generare il flusso della conoscenza e le basi del sapere. Questo è il modo in cui l'anarchismo sarà superato. E quando parlo di anarchismo, e dico che, qualcosa di incomprensibile al mondo che muore, si agita in molti cervelli, e che una luce si avverte al di là dell’ANARCHIA, una luce che nasce perché, nel susseguirsi del tempo non c'è tramonto senza alba, io
parlo dell’anarchismo dottrinale, che forma una scuola, che costruisce cappelle, che costruisce altari. Sì, al di là di questo necessario momento di bancarotta delle credenze, c'è l'ampia sintesi anarchica che raccoglie tutti i particolarismi dichiarati, tutte le tesi filosofiche, tutti i formidabili progressi del comune lavoro intellettuale, le verità consolidate ben provate, per la cui dimostrazione ogni lotta è ormai impossibile. Questa sintesi molto ampia, l'espressione compiuta della concezione anarchica che apre le sue porte a tutto ciò che arriva dal domani e a tutto ciò di ieri che rimane stabile e forte e si riafferma nell'assalto dell’oggi che scruta l’ignoto, questa sintesi è la negazione rigorosa di ogni credenza ideologica [24]. Non c'è bisogno di gridare: abbasso le credenze ideologiche! Esse periscono di loro propria mano. La credenza ideologica è un ostacolo alla conoscenza, come la fede cieca. E nel ribollire inquieto di coloro che si definiscono anarchici, le credenze ideologiche vanno a rotoli. Non lo nasconderemo. Lasciate che ognuno si liberi da sé dei vecchi dogmatismi delle sue opinioni, degli amori della sua predilezione filosofica e, lanciando lo spirito lungo le ampie vie della ricerca senza ostacoli, arrivi alla concezione di una anarchia consapevole, virile, generosa, che argomenta solo contro i convenzionalismi e gli errori e ha tolleranza per tutte le idee, ma non accetta, nemmeno provvisoriamente, se non ciò che è ben dimostrato. Questa concezione anarchica è quella che è in formazione silenziosa, è quella che si elabora lentamente nelle credenze capaci di avvertire la pressione degli atavismi che sorgono ovunque, è quella che mi ha fatto scrivere La bancarotta delle credenze: un grido di protesta contro la realtà del gregge anarchico, di incitamento all'indipendenza personale, di espansione per l'ideale che ogni giorno vive più forte in me e mi incoraggia a lottare per un futuro che non godrò, ma che sarà di giustizia, benessere e amore per gli esseri umani di domani. Questa anarchia è l’anarchia nascente, capace di raccogliere nel suo seno tutte le tendenze libertarie, di incoraggiare tutti le nobili ribellioni e di dare agli spiriti generosi l'impulso della libertà in tutte le direzioni, senza restrizioni e senza pregiudizi, alla sola condizione che l'esclusivismo non costruisca muraglie cinesi e che l'intelletto si arrenda interamente e senza riserve alla verità che palpita vigorosamente nelle più diverse modalità del nuovo ideale. E non si chiamerà più anarchia: mai più! La giustizia assoluta, rianimata nel dogma che muore, non sarà che l'obiettivo indeterminato che cambia con l'evolversi della mentalità umana. E non cadremo di nuovo nello strano e
singolare errore di porre un limite, per quanto lontano, al progresso delle idee e delle convenzioni sociali. L'anarchia nascente proclama l'aldilà infinito dopo aver demolito tutte le recinzioni dell'assolutismo intellettuale secolare dei viventi. Non pensate forse che stiano crollando tutti i particolarismi, tutte le teorie, tutte le fabbriche erette maldestramente con materiali di scarto per la gloria di nuovi dogmi? Non pensate che il fallimento delle credenze ideologiche sia l'ultimo anello della catena umana che si rompe e ci offre l'ampio spazio dell'idealismo anarchico, puro e incontaminato? La fede avrà accecato costoro. E faranno bene a rinunciare alla parola libertà; che si può essere un gregge anche all'interno delle idee più radicali. Da parte nostra, ci limitiamo a registrare un fatto: gli anarchici di tutte le tendenze si muovono audacemente verso l'affermazione di una grande sintesi sociale che abbraccia tutte le diverse manifestazioni dell'ideale. Camminare è silenzioso; presto arriverà la rumorosa rottura se c'è qualcuno che insiste nel rimanere legato allo spirito di cricca e di setta. Coloro che non si sono emancipati da soli saranno lasciati indietro dal movimento attuale, e sarà vano per loro cercare dei redentori. Moriranno da schiavi.
Anarchia: che cosa è e che cosa non è, di Joseph Labadie
Documento 13 (1904)
In questo breve scritto l'autore offre una presentazione estremamente chiara e concisa dei fondamenti della concezione anarchica. Fonte: Joseph Labadie, Anarchism: what is and what it is not, Liberty Club, Detroit, 1904.
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Quindi tu vuoi davvero che ti dica che cos'è l’anarchia? Non posso fare altro che un tentativo e, nel modo semplice che mi è proprio, cercare di farti comprendere quanto meno che l’anarchia non è ciò che le persone disinformate e i giornali a diffusione di massa, i bugiardi, gli sciocchi e i mascalzoni generalmente dicono che è. Innanzitutto, lascia che suggerisca a tutti coloro che desiderano conoscere la verità sull’anarchia, di non rivolgersi, per raccogliere informazioni, agli oppositori feroci, ma di parlare con gli Anarchici e di leggere la letteratura anarchica. E, anche in questo caso, non si è sempre sicuri di ottenere per vero quello che uno, due o persino una dozzina di persone possono affermare riguardo all’anarchia, anche se costoro si dichiarano anarchici. Senti quello che un buon numero di loro afferma sull’anarchia e poi cancella quelle affermazioni nelle quali non vi è accordo tra di loro. Ciò che resta è, con tutta probabilità, vero. Prendi ad esempio la domanda, che cosa è il Cristianesimo? Chiedi a una dozzina o più di persone e vedrai che le loro risposte non concordano in ogni aspetto particolare. Tuttavia, esse possono essere d’accordo su talune proposizioni fondamentali. Questa è, molto probabilmente, la posizione corretta sul Cristianesimo piuttosto che le differenti affermazioni fatte da ognuno di loro. Un tale processo di eliminazione costituisce il modo migliore per scoprire il nucleo di verità di ogni filosofia. Questo è quello che io ho fatto nel definire ciò che è l’anarchia, e posso ragionevolmente ritenere di essere giunto abbastanza vicino alla verità. L’anarchia, nel linguaggio di Benjamin R. Tucker, può essere descritta come la concezione che «tutte le faccende che concernono gli esseri umani dovrebbero essere gestite dagli individui o da associazioni volontarie, e che lo Stato dovrebbe essere abolito». Lo Stato è «l’espressione piena del principio di ingerenza nella vita delle persone, o, in altre parole, consiste in una banda di individui che pretendono di agire come rappresentanti o padroni di un intero popolo all’interno di un dato territorio». Il governo è «l’assoggettamento a un volere esterno nei confronti di una persona che non sta compiendo alcun atto aggressivo». Ora, tieni a mente queste definizioni e non utilizzare i termini “Stato” o
“governo” o “anarchia” in alcun altro senso se non quello impiegato dagli anarchici. Le definizioni di Benjamin Tucker sono generalmente accettate dagli anarchici dappertutto. Lo Stato, secondo Herbert Spencer e altri, ha avuto origine da guerre, guerre di aggressione, e dalla violenza, e si è sempre mantenuto attraverso l’uso della violenza. La funzione dello Stato, in ogni momento, è stata quella di dominare e cioè far sì che le classi che non governano eseguano ciò che vogliono le classi al potere. Lo Stato è il re in una monarchia, il re e il parlamento in una monarchia costituzionale, i rappresentanti eletti in una repubblica come gli Stati Uniti d’America, e la maggioranza dei votanti in una democrazia come la Svizzera. La storia mostra che la condizione intellettuale, morale e materiale delle masse migliora quanto più si riduce il potere dello Stato sugli individui. A mano a mano che un essere umano diventa più accorto riguardo ai propri interessi, individuali e collettivi, egli vuole che un potere che si impone a lui con la forza sia abolito. Costui fa notare il fatto che la Chiesa ha migliorato la sua situazione materiale, per non parlare di quella spirituale, a partire dal momento in cui l’individuo non è stato più costretto a sostenerla materialmente e a dover accettare le sue dottrine per non essere dichiarato eretico e mandato al rogo o trattato con brutalità. Un altro dato di fatto che un individuo razionale fa notare è che le persone sono meglio vestite da quando lo Stato ha abolito le leggi che imponevano determinati abbigliamenti; che le persone sono più felicemente sposate da quando ognuno può scegliere liberamente con chi unirsi; che le persone stanno meglio, in ogni senso, da quando sono state abolite le leggi concernenti il taglio dei capelli, le autorizzazioni per gli spostamenti, per le pratiche commerciali o quelle riguardo il numero di finestre permesso per ogni abitazione, il masticare il tabacco, il potersi baciare la domenica, e così via. In Russia e in alcuni altri paesi non è possibile recarsi in una località senza un permesso statale, non è consentito stampare o leggere libri eccetto quelli approvati dalla legge, accogliere una persona a casa propria senza informare la polizia, e in mille modi l’individuo è ostacolato nei suoi movimenti. Anche nei paesi più liberi l’individuo è soggetto al furto da parte dell’esattore delle imposte, è picchiato dalla polizia, è sanzionato e mandato in prigione dai tribunali. In sostanza è intimorito e minacciato dal potere in molte maniere, anche quando il suo comportamento non è né aggressivo né in violazione dell’altrui libertà. È un errore che si commette spesso, anche da parte di alcuni anarchici, l'affermare che l’anarchia mira a introdurre una libertà assoluta. L’anarchia è una
filosofia pratica e niente affatto il tentativo di realizzare l’impossibile. Quello che l’anarchia si propone di conseguire, comunque, è il far sì che la libertà sia appannaggio di ogni essere umano. Sulla base di questa regola, la maggioranza non gode di maggiori diritti della minoranza, o milioni di persone più di un solo individuo. Nella concezione anarchica ogni essere umano dovrebbe avere gli stessi diritti a tutti i beni naturali senza esborso di denaro e senza che si attribuisca ad essi un prezzo da pagare; che quello che uno produce gli appartiene, e che nessun individuo o gruppo di persone, siano essi dei fuorilegge o lo Stato, possa appropriarsi di una qualche parte di tale prodotto a sua insaputa o senza il suo consenso; che ogni persona sia lasciata libera di scambiare i suoi prodotti dappertutto; che sia libera di cooperare con altre persone o di competere con loro, come egli desidera, e in qualsiasi campo egli decida; che nessuna restrizione sia posta su quello che egli stampa o legge o beve o mangia o fa, fino a quando egli non invade i diritti altrui di godere delle stesse condizioni. Si fa spesso notare che l’anarchia è una teoria irrealizzabile, importata negli Stati Uniti da una accozzaglia di stranieri ignoranti. Di certo, coloro che fanno una simile affermazione commettono un madornale errore, come coloro che la ripetono pur essendo consapevoli della sua falsità. La dottrina della libertà personale è prettamente Americana, nella misura in cui si cerca di attuarla, come hanno compreso molto bene Thomas Paine, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson e altri. Anche i Puritani avevano una qualche idea della libertà, dal momento che essi vennero qui per esercitare la libera scelta in materia di religione. Il diritto di libero e personale arbitrio per quanto riguarda la religione costituisce l'anarchia nel campo della religione. Il primo che ha formulato la dottrina della sovranità personale è stato uno Yankee, Josiah Warren, un discendente del Generale Warren che prese parte alla Rivoluzione Americana. L’anarchia è operante nel commercio tra stati, dal momento che il libero commercio non è altro che anarchia commerciale. Nessuno che commetta un crimine può essere qualificato come anarchico, perché questo equivarrebbe ad aggredire e danneggiare un altro – l’antitesi dell’anarchia. Nessuno può uccidere un altro, se non per auto-difesa, ed essere un anarchico, perché questo equivarrebbe a negare l’uguale diritto dell’altra persona a vivere – l’antitesi dell’anarchia. Per cui assassini e criminali sono chiamati anarchici solo dagli ignoranti e dai
maligni. essuno può essere un anarchico e commettere atti che la concezione anarchica condanna. L’anarchia farebbe dell’occupazione e dell’uso del suolo i soli titoli validi per il possesso della terra, abolendo la rendita agraria. L’anarchia garantirebbe ad ogni individuo o associazione il diritto di emettere moneta come mezzo di scambio, abolendo così l’interesse sulla moneta nella misura in cui la cooperazione e la concorrenza rendessero ciò possibile. L’anarchia nega che i brevetti e i diritti d’autore siano cosa giusta, e abolirebbe qualsiasi monopolio, cancellando tali privilegi. L’anarchia nega il diritto di chicchessia di tassare l’individuo per fini estranei alla sua volontà, ma chiede che la contribuzione sia volontaria, come avviene ora per le chiese, le unioni sindacali, le compagnie d’assicurazione e tutte le altre associazioni volontarie. L’anarchia è convinta che la libertà in ogni ambito della vita rappresenti il mezzo migliore per elevare il genere umano a una condizione di maggiore felicità. Si afferma che l’anarchia è qualcosa di diverso dal socialismo. Questo è un errore. L’anarchia è socialismo volontario. Ci sono due tipi di socialismo, quello archico e quello anarchico, quello autoritario e quello libertario, quello statale e quello libero. Qualsiasi proposta di miglioramento sociale significa, nei fatti, o l’aumento o la diminuzione dei poteri di volontà e forza esterne esercitate sull’individuo. Un aumento vuol dire che quei poteri sono archici, una diminuzione significa che sono anarchici. L’anarchia è sinonimo di libertà, autonomia, indipendenza, libero gioco, autogoverno, non-interferenza, badare ai propri interessi e non intromettersi nelle faccende del proprio vicino, lasciar fare, non dominare, e via discorrendo. Ora che ho finito la mia esposizione, scopro che ho prodotto solo una pallida idea di quello che è e di quello che non è l’anarchia. Coloro che desiderano approfondire il tema troveranno cibo per la mente nei seguenti testi: Benjamin Tucker, Instead of a Book; Pierre-Joseph Proudhon, Qu’est-ce que la propriété? e Système des contradictions économiques; Francis D. Tandy Voluntary Socialism;
John Henry Mackay, The Anarchists; Auberon Herbert, Free Life; The Demonstrator; Lucifer, e molti altri libri, articoli e documenti.
La concezione anarchica, di Pëtr Kropotkin
Documento 14 (1905)
Questo testo è stato scritto da Kropotkin come articolo per l'undicesima edizione della Encyclopaedia Britannica. In esso troviamo una sintesi della concezione anarchica esposta da uno dei suoi maggiori pensatori e sostenitori. Fonte: Pëtr Kropotkin, Anarchism, in Roger N. Baldwin, ed., Kropotkin's Revolutionary Pamphlets, Dover Publications, New York, 1970.
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Anarchia (dal Greco αν, e αρχη, contrario al dominio) è il nome dato a un principio o teoria di vita e di condotta nel cui ambito si concepisce una società senza Stato. In tale società, l’armonia tra i membri si consegue, non attraverso la sottomissione a un decreto o l’obbedienza a un potere superiore, ma con liberi accordi conclusi tra i vari gruppi, territoriali e professionali, che si formano liberamente, per finalità di produzione e di consumo, come pure per la soddisfazione di una varietà infinita di bisogni e aspirazioni di un essere civile. In una società sviluppata su queste linee, le associazioni volontarie, che già iniziano a coprire tutti i campi dell’attività umana, si estenderebbero ancora di più fino a sostituire lo Stato in tutte le sue funzioni. Esse rappresenterebbero una fitta rete composta da una varietà infinita di gruppi e federazioni di ogni tipo e grado, locali, regionali, nazionali e internazionali, temporanee o più o meno permanenti, per ogni possibile scopo: produzione, consumo e scambio, comunicazione, sanità, educazione, reciproca protezione, difesa del territorio e via dicendo; e inoltre, per il soddisfacimento di un numero crescente di bisogni scientifici, artistici, letterari e di socialità. Inoltre, tale società non costituirebbe nulla di immutabile. Al contrario – come si vede nel complesso della vita organica – l’armonia sarebbe il prodotto di un equilibrio, sempre in fase di aggiustamento e perfezionamento, tra la moltitudine di forze e tendenze; e questi aggiustamenti sarebbero più facili da conseguire in quanto nessuna delle forze in gioco godrebbe di una protezione speciale da parte dello Stato. Se, come si sostiene, la società fosse organizzata sulla base di questi princìpi, l’essere umano non sarebbe limitato nel libero esercizio dei suoi poteri concernenti l'attività produttiva da un monopolio capitalista, perpetuato dallo Stato; né sarebbe limitato nell’esercizio della sua volontà dalla paura di punizioni, o dall’obbedienza a persone o entità metafisiche, le quali entrambe portano a scoraggiare l’iniziativa e ad asservire l’intelletto. L’essere umano sarebbe allora guidato nelle sue azioni dalla sua comprensione della realtà, che necessariamente genererebbe in lui l’impressione di una dinamica fatta di libere azioni e reazioni tra il suo essere e le concezioni etiche relative al suo ambiente. L’individuo sarebbe allora in grado di conseguire il pieno sviluppo di tutte le sue facoltà, intellettuali, artistiche e morali, senza essere ostacolato da un agire estenuante a vantaggio del monopolista, o dal servilismo e torpore della mente di un gran numero di persone. Egli sarebbe capace di raggiungere la piena
individualizzazione, cosa che non è possibile né sotto il sistema corrente di individualismo, né sotto un qualche sistema di socialismo di Stato nel cosiddetto Volkstaat (Stato popolare). Gli autori anarchici, inoltre, considerano la loro concezione non una utopia, costruita su degli a priori, dopo che alcuni desiderata sono stati assunti come postulati. Essa deriva invece da una analisi delle tendenze che sono già operative, e questo sebbene il socialismo di Stato possa attualmente riscuotere un certo favore presso i riformatori. Il progresso delle tecniche moderne, che semplifica in modo meraviglioso la produzione di tutto ciò che è necessario per vivere; il crescente spirito di indipendenza, e la rapida diffusione della libera iniziativa e della libera conoscenza in tutti i rami di attività – inclusi quelli che erano considerati un tempo la sfera di intervento esclusivo della chiesa e dello Stato – tutto ciò sta rafforzando costantemente la tendenza al superamento dello Stato. Per quanto riguarda le loro concezioni economiche, gli anarchici, in comune con tutti i socialisti di cui essi costituiscono l’ala più avanzata, sostengono che il sistema attualmente prevalente di proprietà privata della terra, e la produzione capitalistica effettuata unicamente alla ricerca del profitto, rappresentano un monopolio che cozza contro i princìpi di giustizia e contro il dettato dell’utilità. Essi costituiscono l’ostacolo principale che impedisce che le moderne tecniche di produzione siano introdotte per il beneficio di tutti, così da dar vita a un generale benessere. Gli anarchici considerano il sistema salariale e il modo di produzione capitalistico come un impedimento al progresso. Ma sottolineano anche il fatto che lo Stato era, e continua a essere, lo strumento principale che consente a pochi di monopolizzare la proprietà della terra, e ai capitalisti di appropriarsi di una parte sproporzionata del sovrappiù prodotto durante l’anno. Di conseguenza, mentre si combatte l’attuale monopolio della terra, e con esso il capitalismo, gli anarchici lottano con lo stesso vigore contro lo Stato in quanto massimo sostenitore di tale sistema. Non questa o quella forma di Stato, ma lo Stato in sé stesso, che sia una monarchia o una repubblica retta dal sistema referendario di democrazia diretta. Lo Stato, in quanto organizzazione, avendo rappresentato, nell’antichità e nei tempi moderni, (l’impero Macedone, l’Impero Romano, gli stati dell’Europa moderna sorti sulle rovine dei comuni autonomi) lo strumento per costituire dei monopoli a vantaggio delle minoranze dominanti, non può essere impiegato come il mezzo per la distruzione di tali monopoli. Gli anarchici considerano
perciò che il trasferire allo Stato tutte le risorse della vita economica, la terra, le miniere, le ferrovie, le banche, le assicurazioni, e via discorrendo, come pure la gestione di tutti i rami dell’industria in aggiunta a tutte quelle funzioni che si sono già concentrate nelle sue mani (istruzione, regolamentazione dei culti, difesa del territorio, eccetera) porterebbe alla creazione di un nuovo strumento di tirannia. Il capitalismo di Stato accrescerebbe soltanto i poteri della burocrazia e del capitalismo. Il vero progresso consiste in una decentralizzazione continua sia territoriale che funzionale, nello sviluppo dello spirito di iniziativa locale e personale, e di libere federazioni, partendo da entità semplici fino a raggiungere formazioni più complesse, al posto dell’attuale piramide gerarchica che parte dal centro per arrivare fino alla periferia. In comune con molti socialisti, gli anarchici riconoscono che, come avviene per ogni evoluzione in natura, il lento sviluppo della società è accompagnato, di tanto in tanto, da periodi di evoluzione accelerata che sono chiamati rivoluzioni; ed essi pensano che l’era delle rivoluzioni non si sia ancora conclusa. Periodi di rapide trasformazioni seguiranno periodi di lenta evoluzione, e questi periodi occorre saperli utilizzare non per ampliare i poteri dello Stato, ma per ridurli attraverso l’organizzazione, in ogni località o comune, di gruppi, sorti dal basso, di produttori e consumatori, come pure di federazioni regionali ed eventualmente anche internazionali, composte da tali gruppi. In virtù dei princìpi fin qui esposti, gli anarchici si rifiutano di prendere parte all’attuale organizzazione statale e di sostenerla apportandovi nuove energie. Essi non cercano di formare partiti politici in Parlamento, e invitano gli operai a fare lo stesso. Conseguentemente, a partire dalla fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori nel 1864-1866, essi hanno cercato di promuovere le loro idee direttamente tra le organizzazioni di lavoratori e di indurre queste associazioni a impegnarsi in una lotta diretta contro il capitale, senza riporre alcuna fede nel parlamento e nelle sue leggi.
Lo sviluppo storico dell’anarchia La concezione di una società anarchica qui abbozzata, e la tendenza, che rappresenta la sua espressione dinamica, sono realtà sempre esistite presso gli esseri umani, in opposizione alla concezione e alla tendenza di una gerarchia governativa. Ora l’una ora l’altra realtà hanno preso il sopravvento in periodi diversi nel corso della storia. Alla prima tendenza dobbiamo l’evoluzione, effettuata dalle masse stesse, di quelle istituzioni, il clan, la comunità di villaggio, le associazioni di arti e mestieri, le città libere del Medioevo, attraverso le quali le masse hanno fatto resistenza contro le invasioni dei conquistatori e delle minoranze avide di potere. La stessa tendenza si è fatta valere con notevole energia nei grandi movimenti religiosi del Medioevo, soprattutto in quelli della riforma e dei suoi predecessori. Al tempo stesso si è chiaramente espressa negli scritti di alcuni pensatori, a partire dai tempi di LaoTze, sebbene, dato il suo carattere non-scolastico e la sua origine popolare, abbia avuto, come era prevedibile, un’accoglienza minore presso le classi colte che non la tendenza opposta. Com’è stato sottolineato dal Prof. Adler nella sua Geschichte des Sozialismus und Kommunismus (Storia del Socialismo e del Comunismo), Aristippus (nato intorno al 430 a.C.), uno dei fondatori della scuola Cirenaica, già ai suoi tempi insegnava che il saggio non deve cedere allo Stato la sua libertà e, rispondendo a una domanda postagli da Socrate, affermava di non desiderare di appartenere né alla classe che governa né a quella che è governata. Ad ogni modo, tale atteggiamento sembra essere stato dettato semplicemente da un atteggiamento epicureo per quanto riguarda la vita delle masse. L’esponente migliore della filosofia anarchica nell’antica Grecia è stato Zeno (342-267 o 270 a.C.), nato a Creta, e iniziatore della filosofia Stoica, che ha sviluppato la sua concezione di una comunità libera senza governo, in contrasto con l’utopia statale di Platone. Egli ha rifiutato l’onnipotenza dello Stato, il suo intervenire e irregimentare, e ha proclamato la supremazia della legge morale dell’individuo, facendo notare già a quei tempi che, mentre l’istinto necessario di conservazione porta l’essere umano a pensare a sé, la natura ha fornito un correttivo dotando l’individuo di un altro istinto – quello della sociabilità. Le persone, una volta divenute abbastanza ragionevoli da seguire le proprie inclinazioni naturali, formeranno una federazione al di là delle frontiere e costituiranno un insieme cosmopolita. Non avranno bisogno né di corti di
giustizia né di polizia, non avranno templi né luoghi di culto, e non utilizzeranno il denaro in quanto gli scambi saranno sotto forma di liberi doni. Sfortunatamente gli scritti di Zeno sono andati distrutti e le sue idee ci sono note solo attraverso citazioni frammentarie. Tuttavia, il fatto che le sue formulazioni siano simili a taluni testi correnti, mostra quanto profonda sia la tendenza della natura umana di cui egli è stato l'espressione. Nell’epoca medioevale troviamo le stesse idee sullo Stato espresse dall’illustre vescovo di Alba, Marco Girolamo Vida, nel suo primo dialogo De dignitate reipublicae (Ferd. Cavalli, in Mem. dell'Istituto Veneto, xiii.; Dr E. Nys, Researches in the History of Economics). Ma è soprattutto in parecchi movimenti dei primi Cristiani, a partire dal nono secolo in Armenia, e nelle predicazioni dei primi Hussiti, in particolare Chojecki, e dei primi Anabattisti, in special modo Hans Denk (cf. Keller, Ein Apostel der Wiedertäufer) che troviamo le stesse idee espresse con vigore – con particolare accento posto sull’aspetto morale. Rabelais e Fénelon, nelle loro utopie, hanno espresso idee simili, che erano correnti anche nel diciottesimo secolo presso gli Enciclopedisti si, come si può ricavare da alcune frasi che si trovano negli scritti di Rousseau, nella Prefazione di Diderot al Viaggio di Bougainville, e via dicendo. Tuttavia, con ogni probabilità, tali concezioni non potevano essere diffuse a causa della rigida censura imposta dalla Chiesa cattolica. Queste idee sono state espresse in seguito durante la grande Rivoluzione se. Mentre i Giacobini fecero di tutto per centralizzare il potere nelle mani del governo, emerge adesso, da documenti recentemente pubblicati, che le masse popolari, nei loro comuni e sezioni municipali, effettuarono un lavoro costruttivo. Esse si appropriarono del diritto di eleggere i giudici, dell’organizzazione dell’approvvigionamento di vettovaglie e materiali per l’esercito, come pure, per le città di grandi dimensioni, si occuparono dell’impiego dei disoccupati, della gestione dell’assistenza, e di altro ancora. Cercarono persino di istituire un rapporto diretto tra tutti i 36.000 comuni di cui è composta la Francia attraverso l’intermediazione di un corpo speciale, al di fuori dell’Assemblea Nazionale (si veda Sigismund Lacroix, Actes de la commune de Paris). È stato Godwin, nella sua Enquiry concerning Political Justice (due volumi, 1793) che per primo ha formulato la concezione politica ed economica
dell’anarchia, anche se non ha dato tale nome alle idee sviluppate in quella sua notevole opera. Le leggi, egli scrisse, non sono il prodotto della saggezza dei nostri antenati: esse sono il risultato delle loro ioni, delle loro paure, delle loro gelosie e ambizioni. Il rimedio da esse offerto è peggiore dei mali che pretendono di curare. Se, e solo se, tutte le leggi e tutti i tribunali fossero aboliti, e le decisioni nelle dispute fossero lasciate a persone ragionevoli scelte a tale scopo, una vera giustizia prenderebbe piede gradualmente. Per quanto riguarda lo Stato, Godwin ne ha apertamente chiesto l’abolizione. Una società, egli ha scritto, può benissimo esistere senza un governo: le comunità dovrebbero allora essere piccole e del tutto autonome. Con riferimento alla proprietà, Godwin affermò che i diritti di ognuno a godere di «ogni sostanza capace di contribuire al benessere di un essere umano» dovrebbero essere regolati soltanto dalla giustizia: il bene in questione deve andare «a colui che ne ha più bisogno». Egli era quindi a favore del comunismo. Tuttavia, non se la sentì di mantenere tale opinione. In seguito, Godwin riscrisse il capitolo sulla proprietà e nella seconda edizione del suo testo (otto volumi, 1796) attenuò le sue idee comuniste. Proudhon è stato il primo a utilizzare nel 1840 (in Qu'est-ce que la propriété?) il termine “anarchia”, facendo riferimento a una società senza Stato. Il nome di “anarchici” è stato comunemente assegnato dai Girondini, durante la Rivoluzione se, a quei rivoluzionari che non ritenevano che gli obiettivi della Rivoluzione fossero stati realizzati con la fine della monarchia e che volevano che una serie di misure di ordine economico fossero prese (l’abolizione dei diritti feudali senza indennizzo, la restituzione alle comunità di villaggio delle terre comunali recintate a partire dal 1699, la limitazione delle proprietà terriere a un massimo di 120 acri, una tassa progressiva sul reddito, l’organizzazione nazionale degli scambi sulla base di un giusto valore, misure tutte che hanno ricevuto una prima realizzazione pratica, e altri provvedimenti ancora). Proudhon era favorevole a una società senza governanti, e ha utilizzato il termine anarchia per descriverla. Egli rifiutava, come ben si sa, tutti gli schemi di comunismo, sulla cui base l’umanità intera sarebbe stata irregimentata in strutture o caserme comuniste, come pure tutti gli schemi di socialismo di Stato o di assistenza statale che erano sostenuti da Louis Blanc e dai collettivisti. Quando egli ha proclamato nel suo primo saggio sulla proprietà che La proprietà è un furto, egli faceva riferimento solo alla proprietà concepita attualmente, sulla base della giurisprudenza romana, caratterizzata dal “diritto di uso e di abuso”; invece, per quanto riguarda i diritti di proprietà intesi nel senso circoscritto di
possesso, egli vi vedeva la migliore difesa contro le intromissioni statali. Al tempo stesso, non voleva espropriare con la forza gli attuali proprietari della terra, delle abitazioni, delle miniere, delle fabbriche, eccetera. Preferiva conseguire lo stesso scopo facendo sì che il capitale non potesse guadagnare un interesse; e questo si proponeva di conseguirlo attraverso la creazione di una banca nazionale che basasse il suo funzionamento sulla fiducia reciproca di tutti coloro che erano impiegati nella produzione, i quali si sarebbero messi d’accordo per scambiare tra di loro i beni prodotti secondo il valore di costo, per mezzo di assegni il cui ammontare indicava le ore di lavoro richieste per produrre ogni specifico bene. Con un tale sistema, che Proudhon ha descritto con il termine “mutualismo”, tutti gli scambi di servizi sarebbero stati strettamente equivalenti. Inoltre, a una tale banca sarebbe stato concesso di prestare denaro senza interesse, chiedendo solo l’1%, o anche meno, per coprire i costi di amministrazione. In tal modo, essendo ognuno posto nella condizione di prendere a prestito il denaro necessario, ad esempio, per comperare una casa, nessuno sarebbe stato più disposto a pagare una rendita annuale per l’uso dell'abitazione. Così, senza un esproprio violento, una “liquidazione sociale” generale sarebbe stata resa possibile. Lo stesso procedimento si sarebbe applicato nel caso di miniere, ferrovie, fabbriche e via dicendo. In una società di questo tipo, lo Stato diventerebbe inutile. Le relazioni più importanti tra le persone si baserebbero sul libero accordo e sarebbero regolate da semplici strumenti contabili. Le dispute sarebbero risolte attraverso arbitrati. Una critica penetrante dello Stato e di tutte le possibili forme di governo centrale, e una profonda comprensione di tutti i problemi economici, queste sono state le ben note caratteristiche dell’opera di Proudhon. È degno di nota che il mutualismo se ha avuto in Inghilterra un precursore in William Thompson che fu un mutualista prima di diventare un comunista, e negli aderenti al suo pensiero, John Gray ( A Lecture on Human Happiness, 1825; The Social System, 1831) e J. F. Bray ( Labour's Wrongs and Labour's Remedy, 1839). Il mutualismo ha avuto anche un precursore in America. Josiah Warren, nato nel 1798 (vedi W. Bailie, Josiah Warren, the First American Anarchist, Boston, 1900), era un membro della colonia New Harmony fondata da Robert Owen. Egli riteneva che il fallimento di quel progetto fosse dovuto principalmente alla soppressione dell’individualità e alla mancanza di iniziativa e responsabilità personale. Egli affermava che questi difetti erano intrinsechi ad ogni schema basato sull’autorità e sulla comunanza dei beni. Sosteneva quindi la necessità di una piena libertà individuale. Nel 1827 aprì, a Cincinnati, un piccolo
negozio che fu il primo Equity Store (Magazzino del Commercio Equo) e che le persone chiamarono Time Store perché si basava sullo scambio di ogni sorta di prodotti in rapporto al tempo impiegato per produrli. “Il costo come misura del prezzo” e, di conseguenza, “no interesse” era il motto del suo negozio e, successivamente, del suo Equity Village fondato vicino New York e che esisteva ancora nel 1865. Anche la House of Equity di Mr. Keith, fondata a Boston nel 1855, è una iniziativa degna di attenzione. Mentre le idee di Proudhon sull’economia, e soprattutto quelle riguardo al mutualismo bancario, hanno trovato sostenitori e persino una applicazione pratica negli Stati Uniti, la sua concezione sociale anarchica ha avuto scarsa eco in Francia dove hanno dominato il socialismo cristiano di Lamennais e quello dei Fourieristi, oltre al socialismo statale di Louis Blanc e a quello dei seguaci di Saint-Simon. Queste idee hanno tuttavia trovato un certo sostegno temporaneo nella sinistra hegeliana in Germania, con Moses Hess nel 1843 e Karl Grün nel 1845, che si dichiararono entrambi a favore dell’anarchia. Oltre a ciò, negli anni 1840, tra i lavoratori svizzeri, Wilhelm Marr espresse la sua opposizione al comunismo autoritario di Wilhelm Weitling. Per quanto riguarda l’individualismo anarchico, esso trovò anche in Germania la sua espressione compiuta in Max Stirner (Kaspar Schmidt), i cui scritti degni di nota ( Der Einzige und sein Eigentum e gli articoli per la Rheinische Zeitung) sono rimasti ignorati fino a quando sono stati portati a conoscenza da John Henry Mackay. Il professore V. Basch, in una penetrante introduzione al suo interessante libro, L'Individualisme anarchiste: Max Stirner (1904), ha mostrato come lo sviluppo della filosofia tedesca da Kant a Hegel, assieme all’ assoluto di Schelling e allo spirito di Hegel, provocarono necessariamente l'affermazione dello stesso assoluto nel campo dei ribelli quando iniziò la rivolta antihegeliana. Questo è stato fatto da Stirner che ha propugnato non solo una rivolta completa contro lo Stato e contro l’asservimento che il comunismo autoritario vorrebbe imporre a tutti, ma anche la liberazione assoluta dell’individuo da tutti i vincoli sociali e morali, la riabilitazione dell’IO, la supremazia dell’individuo, l’amoralità completa e l’ associazione degli egoisti. La conclusione finale di quella sorta di individualismo anarchico è stata indicata dal professor Bash. Si sostiene che lo scopo di ogni civiltà superiore non è quello di permettere a tutti i membri della comunità di svilupparsi in maniera normale, ma di consentire che solo certi individui meglio dotati possano svilupparsi pienamente, anche a costo della
felicità e della sopravvivenza della massa dell’umanità. Si tratta quindi di un ritorno verso il più comune individualismo, come sostenuto da minoranze che si pretendono superiori e alle quali l’essere umano deve, in realtà, proprio l’esistenza dello Stato e di tutto ciò che questi individualisti combattono. Il loro individualismo arriva al punto da finire in una negazione della loro posizione di partenza, per non dire poi altro della impossibilità per l’individuo di conseguire un vero e pieno sviluppo in presenza della oppressione delle masse da parte di “meravigliose aristocrazie”. L’individuo rimarrebbe un essere parziale. Questo è il motivo per il quale questo indirizzo di pensiero, nonostante un sostegno indubbiamente giusto a favore del completo sviluppo di ogni individualità, trova ascolto solo presso una limitata cerchia di artisti e letterati.
L’anarchia nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori Un calo generale nella diffusione delle idee di tutte le componenti del socialismo fece seguito, come ben si sa, alla sconfitta della insurrezione dei lavoratori di Parigi nel giugno del 1848 e alla caduta della Repubblica. Tutta la stampa socialista fu ridotta al silenzio durante il periodo della reazione che durò venti anni. Ciò nonostante, persino il pensiero anarchico iniziò a fare qualche progresso, in particolare negli scritti di Anselme Bellegarrigue, Ernest Coeurderoy, e soprattutto di Joseph Déjacque ( Les Lazaréennes, L'Humanisphère, un’Utopia anarco-comunista, recentemente scoperta e ristampata). Il movimento socialista si riprese solo dopo il 1864, quando alcuni lavoratori si, tutti mutualisti, incontrandosi a Londra, durante l’Esibizione Universale, con i sostenitori di Robert Owen, fondarono l’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Questa associazione si è sviluppata molto rapidamente e ha adottato una strategia di lotta economica diretta contro il capitalismo, senza mischiarsi nelle agitazioni politico-parlamentari. Tale strategia è stata mantenuta fino al 1871. Tuttavia, dopo la guerra FrancoTedesca, quando l’Associazione Internazionale è stata messa al bando a seguito dell’insurrezione della Comune, i lavoratori tedeschi che avevano ricevuto il diritto di voto per il parlamento imperiale di nuova istituzione, insistettero per modificare la tattica dell’Internazionale e iniziarono a costruire un partito politico Social-Democratico. Ciò ha ben presto portato a una divisione all’interno della Associazione Internazionale dei Lavoratori, e le federazioni latine, Spagnola, Italiana, Belga e del Jura Svizzero (la Francia non poteva essere rappresentata), costituirono tra di loro una unione Federale che ruppe interamente con il Consiglio Generale dell’Internazionale dominato da Marx. All’interno di queste federazioni si è sviluppato ora quello che può essere descritto come un pensiero anarchico moderno. Dopo che le qualifiche di “federalisti” e “anti-autoritari” sono state utilizzate per qualche tempo da tali federazioni, l'appellativo di “anarchici”, che i loro avversari hanno con insistenza utilizzato nei loro confronti, è prevalso ed è stato infine adottato. Bakunin divenne ben presto lo spirito guida di queste federazioni latine per lo sviluppo dei princìpi dell’anarchia, con una serie di scritti, opuscoli e lettere. Egli voleva l’abolizione totale dello Stato che, come risulta dai suoi scritti, è un prodotto della superstizione, appartiene a una condizione inferiore della civiltà, rappresenta la negazione della libertà e rovina anche quello che fa in nome del benessere generale. Lo Stato ha rappresentato un male storicamente necessario,
ma anche la sua completa estinzione sarà, prima o poi, ugualmente necessaria. Rifiutando qualsiasi insieme di leggi statali, anche quando esse sono il prodotto del suffragio universale, Bakunin esigeva per ogni nazione, ogni regione e ogni comune la piena autonomia, posto che non rappresentasse una minaccia per i suoi vicini, e la piena indipendenza per ogni individuo, aggiungendo che un essere umano diventa veramente libero solo quando e nella misura in cui tutti gli altri individui sono esseri liberi. Le libere federazioni dei comuni darebbero vita a libere nazioni. Per quanto riguarda la sua concezione economica, Bakunin si definiva, assieme ai suoi compagni federalisti dell’Internazionale, un “anarchico collettivista”, non nel senso in cui si definivano Vidal e Pecqueur negli anni 1840, o i seguaci della moderna Social-Democrazia, ma per esprimere una situazione reale in cui tutti i mezzi necessari alla produzione sono posseduti in comune dai gruppi di lavoro e dalle libere comunità, mentre il modo di compensare il lavoratore, che sia comunista o altro, sarà deciso autonomamente da ogni gruppo. La rivoluzione sociale, che tutti i socialisti, a quei tempi, annunciavano vicina, sarebbe stata il mezzo per realizzare queste nuove condizioni. La Federazione del Jura, quella spagnola, quella italiana e le sezioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, come pure i gruppi anarchici si, tedeschi e americani, sono stati, nel corso degli anni successivi, i centri principali del pensiero anarchico e della sua diffusione. Tutti costoro si astennero dal partecipare alla politica parlamentare, e si mantennero sempre in stretto contatto con le organizzazioni dei lavoratori. Tuttavia, nella seconda metà degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta del secolo diciannovesimo, quando l’influenza degli anarchici iniziò a farsi sentire negli scioperi, nelle manifestazioni in occasione del Primo Maggio, in cui si promuoveva l’idea di uno sciopero generale per una giornata di otto ore, e nella propaganda antimilitarista nell’esercito, violente persecuzioni si levarono contro di loro, specialmente nei paesi Latini (inclusa la tortura fisica nel Castell de Montjuïc a Barcellona) e negli Stati Uniti (con l’esecuzione di cinque anarchici a Chicago nel 1887). Contro questi processi gli anarchici risposero con atti di violenza che furono seguiti, a sua volta, da ulteriori esecuzioni fisiche ordinate dall’alto, e da nuovi atti di risposta commessi dal basso. Questa dinamica ha generato nel pubblico, in generale, l’impressione che la violenza sia l’aspetto caratterizzante dell’anarchia, una immagine che i sostenitori dell’anarchia rifiutano, sostenendo che, in realtà, la violenza è uno strumento a cui tutte le parti sociali fanno ricorso nella misura in cui la loro attività è oggetto di repressione, e allorché leggi
eccezionali ne mettono fuori legge i sostenitori. L’anarchia ha continuato a svilupparsi, sia nella direzione del mutualismo di Proudhon, sia, e principalmente, come comunismo anarchico, a cui si è aggiunta una terza componente, l’anarchia cristiana di Lev Tolstoj, e poi una quarta che potrebbe essere qualificata come anarchia nell’ambito della letteratura e a cui hanno dato vita alcuni scrittori moderni di primo piano. Le idee di Proudhon, soprattutto per quanto riguarda il mutualismo creditizio, in relazione con le idee di Josiah Warren, hanno trovato un largo seguito negli Stati Uniti, formando in un certo qual modo una scuola di cui i maggiori esponenti sono Stephen Pearl Andrews, William Greene, Lysander Spooner (che ha iniziato a scrivere articoli nel 1850, e il suo testo non ultimato, Natural Law, era molto promettente), e parecchi altri i cui nomi sono reperibili nella Bibliographie de l’anarchie di Max Nettlau . Una posizione prominente tra gli anarchici individualisti in America è stata presa da Benjamin R. Tucker, il cui giornale Liberty ha iniziato le pubblicazioni nel 1881; le sue concezioni sono un misto tra Proudhon e Herbert Spencer. Partendo dall’affermazione che gli anarchici sono, in realtà, degli egoisti, e che ogni gruppo di individui, sia esso un’associazione segreta composta da poche persone o il Congresso degli Stati Uniti d’America, si sente in diritto di opprimere tutti una volta che ha il potere di fare ciò, egli sostiene che una simile e uguale libertà dovrebbe essere la regola. Ne consegue che il “badare ognuno al proprio interesse” è la sola legge morale dell’anarchia. Tucker sviluppa tale idea sostenendo che una applicazione generale e completa di questi princìpi sarebbe benefica e non comporterebbe alcun pericolo in quanto i poteri di ogni individuo risulterebbero limitati dall’esercizio di pari diritti da parte di tutti gli altri. Egli poi (seguendo Herbert Spencer) ha mostrato la differenza esistente tra l’invadere i diritti di qualcuno e la resistenza a questa invasione; tra il dominare e il difendersi. Il primo caso è sempre condannabile, sia che risulti essere l’invasione da parte di un criminale nei confronti di un individuo, o di una persona potente nei confronti di tutti, o di tutti nei confronti di uno solo. Invece, la resistenza all’invasione è giustificabile e necessaria. Per la loro auto-difesa, sia il cittadino da solo che il gruppo hanno il diritto di utilizzare la violenza, anche la punizione capitale. Tucker quindi segue le posizioni di Spencer e, come lui, apre un varco (a giudizio di chi scrive) [Kropotkin era simpatizzante del comunismo anarchico e critico dell'individualismo. n.d.t.] per ricostituire, con il pretesto della “difesa”, tutte le funzioni dello Stato. La sua critica della situazione presente è molto
dettagliata, e la sua difesa dei diritti degli individui estremamente potente. Per quanto riguarda la sua concezione economica, B. R. Tucker segue Proudhon. L’anarchia individualista dei Proudhoniani d’America trova, tuttavia, poco seguito tra le masse dei lavoratori. Coloro che professano quella concezione sono soprattutto degli “intellettuali”. Costoro assai presto si rendono conto che l’individualizzazione tenuta in così alta stima non è conseguibile attraverso gli sforzi del singolo e, o abbandonano le fila degli anarchici e sono attratti dall’individualismo liberale degli economisti classici, o si rifugiano in una sorta di amoralità epicurea, o abbracciano una teoria del super-uomo, simile a quella di Stirner e Nietzsche. La stragrande maggioranza dei lavoratori anarchici preferisce le idee del comunismo anarchico che si sono evolute gradualmente a partire dal collettivismo anarchico dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. A questo ramo appartengono, per citare solo gli esponenti più conosciuti dell’anarchia, Elisée Reclus, Jean Grave, Sébastien Faure, Emile Pouget in Francia; Errico Malatesta e Emilio Covelli in Italia; Ricardo Mella, Anselmo Lorenzo, e gli autori per lo più sconosciuti di molti scritti eccellenti in Spagna; John Most tra i tedeschi; August Spies, Albert Parsons e i loro seguaci negli Stati Uniti, e così via; mentre Domela Nieuwenhuis occupa una posizione intermedia in Olanda. La maggior parte degli scritti anarchici che sono stati pubblicati a partire dal 1880 appartengono anch’essi a questa visione, mentre un certo numero di anarchici comunisti hanno aderito al cosiddetto movimento sindacalista. Con questo nome si designa in Francia il movimento non-politico dei lavoratori impegnato in una lotta diretta contro il capitalismo e che, recentemente, è divenuto molto importante in Europa. In quanto aderente dell’anarco-comunismo, l’autore del presente scritto si è impegnato durante parecchi anni a sviluppare le seguenti idee: mostrare l’intima e logica connessione che esiste tra la moderna filosofia delle scienze naturali e l’anarchia; mettere l’anarchia su una base scientifica attraverso lo studio delle tendenze che sono attualmente evidenti nella società e che possono indicare la sua ulteriore evoluzione; e porre le basi di un’etica anarchica. Per quanto riguarda la sostanza stessa dell’anarchia, lo scopo di Kropotkin è stato quello di mostrare che il comunismo – almeno parzialmente – ha più probabilità di essere realizzato del collettivismo, soprattutto nelle comunità che prendono l’iniziativa in questa direzione, e che il comunismo, libero o anarchico, è la sola forma di comunismo che ha la possibilità di essere accettata nelle società civilizzate. Il comunismo e l’anarchia sono perciò i due termini di un’evoluzione che si completano l’uno con l’altro, l’uno rendendo l’altro possibile e accettabile.
L’autore ha inoltre cercato di indicare come, durante un periodo rivoluzionario, una grande città – qualora i suoi abitanti ne abbiano accettato l’idea – potrebbe organizzarsi sulla base del comunismo libero. La città farebbe in modo che ogni abitante disponesse di un’abitazione, di cibo e indumenti in quantità corrispondente a ciò di cui è dotata attualmente solo la classe media, e questo in cambio di mezza giornata o cinque ore di lavoro; e come tutte quelle cose considerate un lusso potrebbero essere ottenute da tutti se una persona si attivasse, durante il resto della giornata, in ogni sorta di libere associazioni, perseguendo ogni varietà di possibili scopi – educativi, letterari, scientifici, artistici, sportivi, e via dicendo. Al fine di mostrare la veridicità della prima di queste affermazioni, l’autore ha analizzato le possibilità offerte da una unione del lavoro manuale nell’agricoltura con quello nell’industria, entrambi associati ad attività intellettuali. E per evidenziare i principali fattori dell’evoluzione umana, egli ha analizzato la parte svolta nella storia dalle agenzie popolari di mutuo appoggio e il ruolo storico tenuto dallo Stato. Pur senza definirsi anarchico, Lev Tolstoj, assieme ai suoi predecessori nei movimenti popolari religiosi del quindicesimo e sedicesimo secolo, come Chojecki [Petr Chelčický], [Hans] Denk, e molti altri, ha preso posizione da anarchico nei confronti dello Stato e dei diritti di proprietà, arrivando alle sue conclusioni mosso dallo spirito generale che pervade l’insegnamento di Cristo e dai dettami necessari della ragione. Con tutta la forza del suo talento egli ha espresso (specialmente nel testo Il Regno di Dio è in Noi) una critica profonda della chiesa, dello Stato e delle leggi, soprattutto di quelle attuali sulla proprietà. Tolstoj ha descritto lo Stato come il dominio dei più malevoli, sostenuti dalla forza bruta. I banditi, egli ha detto, sono meno pericolosi di un governo ben organizzato. Tolstoj ha effettuato una critica dettagliata dei pregiudizi attuali riguardo ai presunti benefici conferiti agli esseri umani dalla chiesa, dallo Stato e dalla ripartizione esistente della proprietà; sulla base degli insegnamenti di Cristo ha ricavato la regola della non resistenza e della condanna assoluta di tutte le guerre. Le sue argomentazioni religiose sono, ad ogni modo, così armoniosamente unite a una osservazione sionata dei mali presenti, che le parti di impronta anarchica della sua opera costituiscono un richiamo anche per il lettore non religioso. Sarebbe impossibile descrivere qui, attraverso un breve abbozzo, la penetrazione, da una parte, delle idee anarchiche nella letteratura moderna, e, dall’altra, dell’influenza che le idee libertarie dei migliori scrittori del giorno d’oggi hanno esercitato sullo sviluppo dell’anarchia. Bisognerebbe consultare i
dieci grandi volumi del Supplément Littéraire al giornale La Révolte e poi i Temps Nouveaux, che contengono le riproduzioni dei lavori di centinaia di autori moderni che esprimono idee anarchiche, per realizzare quanto l’idea anarchica sia collegata a tutti i movimenti di idee dei nostri tempi. I testi di J. S. Mill Liberty, Herbert Spencer, Individual versus the State, Marc Guyau, Morality without Obligation or Sanction, e Alfred Fouillée, La morale, l'art et la religion, le opere di Multatuli (Eduard Douwes Dekker), Richard Wagner, Art and Revolution, gli scritti di Nietzsche, Emerson, W. Lloyd Garrison, Thoreau, Alexander Herzen, Edward Carpenter e via discorrendo; e, nel campo della letteratura, i drammi di Ibsen, la poesia di Walt Whitman, Guerra e Pace di Tolstoj , Paris e Le Travail di Zola , gli ultimi lavori di Dimitry Merezhkovsky, e un’infinità di opere di scrittori meno noti, sono piene di idee che mostrano quanto il pensiero anarchico sia strettamente congiunto con tutte le concezioni che si indirizzano, nell’ambito del pensiero moderno, nella stessa direzione di una liberazione dell’essere umano dalle catene statali come pure da quelle del capitalismo.
I princìpi dell’anarchia, di Lucy Parsons
Documento 15 (1905-1910)
Una testimonianza apionata della evoluzione di una radicale americana, dalla fiducia nella possibilità che lo Stato operi per il bene comune, alla convinzione ferma che lo Stato è il massimo ostacolo alla liberazione delle persone e al progresso della civile convivenza Fonte: Lucy Parsons, Writings and Speeches, 1878-1937.
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È stato durante il grande sciopero ferroviario del 1877 che ho iniziato a interessarmi a quella che è nota come “la questione del lavoro”. A quei tempi pensavo, come pensano migliaia di altre persone oneste e sincere, che il potere che opera nella società umana come blocco aggregato e che è chiamato governo, avrebbe potuto costituire uno strumento nelle mani degli oppressi per alleviare le loro sofferenze. Ma uno studio più attento dell’origine, storia e modi di comportamento dei governi mi ha convinto che questo era un errore da parte mia. Sono quindi arrivata a capire come i governi, in quanto istituzioni, utilizzassero il loro potere concentrato per ritardare il progresso. Essi impiegano continuamente i mezzi a loro disposizione per zittire le voci di scontento quando si elevano con proteste vigorose contro le macchinazioni di alcuni intriganti che hanno sempre governato e sempre lo faranno nei parlamenti nazionali, dove il potere della maggioranza è riconosciuto come la sola via per regolare gli affari delle persone. Sono giunta a capire che questo potere concentrato può essere sempre esercitato nell’interesse di pochi e a spese di molti. In fin dei conti il governo non è altro che questo potere dei pochi presentato come un dato di fatto scientifico. I governi non promuovono mai il progresso, lo seguono affannosamente. Quando la prigione, il rogo o la forca non possono più mettere a tacere la voce di una minoranza che protesta, solo allora il progresso fa un o in avanti. Voglio formulare questa affermazione in un altro modo. Ho imparato, attraverso l’esperienza diretta, che non importa quale bella promessa abbiano fatto alla gente gli esponenti di un partito non ancora al potere per assicurarsene la fiducia, allorché essi si installano, in tutta sicurezza, ai posti di controllo degli affari della società. Dopo tutto, sono esseri umani, con tutti gli attributi umani del politico. E tra questi attributi abbiamo: in primo luogo, rimanere al potere ad ogni costo; e questo vale se non individualmente, almeno per quell'insieme che controlla le leve del governo. In secondo luogo, per rimanere al potere, è necessario costruire un potente apparato, che sia abbastanza forte da schiacciare qualsiasi opposizione e far tacere tutti i mormorii di forte scontento, altrimenti il partito potrebbe essere fatto a pezzi e perderebbe quindi il controllo. Quando ho capito che gli esseri umani sono tutti fallibili, preda a errori, debolezze, manchevolezze, desideri e ambizioni, ne ho concluso che non sarebbe affatto saggio per la società, nel suo insieme, consegnare la gestione di tutti i suoi affari, con tutte le loro molteplici diversità e ramificazioni, nelle mani di esseri che soffrono di tutte le umane limitazioni, e farli amministrare dal partito
che ha avuto la fortuna di arrivare al potere in quanto partito di maggioranza. A ciò aggiungo che a me non faceva e non fa tuttora la benché minima differenza quello che può promettere un partito che non è al potere. Queste promesse non contribuiscono a dissipare i miei timori riguardo a ciò che potrebbe fare un partito, una volta installato e ben radicato al potere, per schiacciare l’opposizione e soffocare la voce della minoranza, ritardando così il cammino verso il progresso. La mia mente inorridisce al pensiero di un partito politico che ha il controllo di tutti gli aspetti particolari che formano la somma totale delle nostre esistenze. Immaginate per un momento, che il partito al governo abbia il potere di decidere quali testi debbano essere utilizzati nelle nostre scuole e università, con i funzionari governativi che rivedono, stampano e mettono in circolazione libri di lettura, manuali di storia, riviste e giornali, per non parlare poi delle migliaia di altre attività quotidiane che riempiono la nostra vita e nelle quali sono impegnate le persone in una società civile. Per me la lotta per la libertà è cosa troppo importante, e i pochi i che abbiamo fatto hanno richiesto un sacrificio troppo grande perché la moltitudine delle persone che vivono in questo ventesimo secolo acconsenta ad affidare a un qualsiasi partito politico la gestione degli affari sociali e della produzione industriale. Tutti coloro che hanno una certa familiarità con la storia sanno che le persone abanno del potere una volta che l’hanno ottenuto [25]. Per questi e altri motivi, dopo attenta analisi e non mossa da sentimentalismi, sono ata dall’essere una sincera, ardente, socialista che credeva nella politica, all'aderire a un socialismo non politico, l’anarchia, in quanto ritengo che nella filosofia anarchica posso trovare le condizioni adatte al pieno sviluppo degli individui nella società, la qual cosa non può mai avvenire in presenza di restrizioni governative. La filosofia dell’anarchia è contenuta nella parola “Libertà”. E al tempo stesso, è abbastanza ampia da includere tutto ciò che conduce al progresso. Questa filosofia non pone alcuna barriera al progresso umano, al pensiero, alla ricerca; nulla è ritenuto così vero e così certo che future scoperte non possano accertare essere falso. Perciò, la filosofia anarchica ha un solo infallibile, immutabile motto: “Libertà”. Libertà di scoprire qualsiasi verità, libertà di sviluppare, libertà di vivere in maniera piena e naturale. Le altre scuole di pensiero sono caratterizzate da idee-princìpi cristallizzati che sono assunti e affissi sulle tavole di lunghe piattaforme politiche, e considerati troppo sacri per essere sottoposti a
una profonda analisi che potrebbe scompigliarli. In tutti gli altri casi c’è sempre un limite; una qualche immaginaria linea di confine oltre la quale la mente del ricercatore non osa penetrare per paura che qualche idea a lui cara si sciolga, come avviene per i miti. Ma la concezione anarchica è l’ancella della scienza – il maestro delle cerimonie per tutte le espressioni della verità. Essa è volta a rimuovere tutte le barriere tra l’essere umano e lo sviluppo naturale. Essa elimina, nell’ambito delle risorse naturali, tutte le restrizioni artificiali che potrebbero affliggere il corpo e, per quanto riguarda le verità universali, cancella tutti gli impedimenti che la mente potrebbe sviluppare sotto forma di pregiudizi e superstizioni. Gli anarchici sanno che un lungo periodo di apprendimento deve precedere qualsiasi grande e radicale trasformazione sociale; per questo non credono nel mercimonio del voto, nelle campagne politiche, ma piuttosto nello sviluppo di individui intellettualmente autonomi. Noi anarchici non vogliamo l’assistenza del governo, perché sappiamo bene che la forza (legalizzata) invade la libertà personale dell’individuo, si impadronisce degli elementi naturali e si pone tra la persona e le leggi di natura. Da questa prova di forza attuata per mezzo dei governi derivano tutte le miserie, povertà, crimini e confusioni che esistono nella società. Per questo noi avvertiamo che ci sono ostacoli effettivi e reali che bloccano il cammino, e che devono essere rimossi. Se nutrissimo la speranza che essi scompariranno da soli, o che con il voto o con delle preghierine li si potessero annullare, noi saremmo ben contenti di attendere e votare e pregare. Ma questi ostacoli sono come enormi blocchi di pietra, minacciosi, che si interpongono tra noi e il paese della libertà, mentre dietro di noi si spalancano gli abissi oscuri di un ato tempestoso. Questi blocchi potrebbero sgretolarsi sotto il loro stesso peso e per l’usura del tempo; ma restare quieti sotto di essi aspettando che cadano è come attendere di essere sepolti vivi sotto le macerie. Qualcosa va fatto in casi simili – le pietre devono essere rimosse. Rimanere ivi, mentre la condizione di schiavitù in cui siamo finiti sta rubandoci le nostre vite, è un crimine. […] Da quelle epoche buie – ancora abbastanza recenti – quando molti credevano che l’essere umano fosse totalmente depravato e che esistessero solo impulsi
malvagi; quando ogni azione, ogni pensiero e ogni emozione era sottoposta a controlli e vincoli; quando il corpo umano, ammalato, era lasciato sanguinare, imbottito di farmaci, compresso e tenuto lontano il più possibile da rimedi naturali; quando la mente era tenuta prigioniera e distorta prima che avesse il tempo di formarsi una concezione naturale – da quei tempi fino ai giorni nostri il progresso della filosofia anarchica è stato abbastanza rapido e costante. Appare sempre più evidente che, in qualsiasi circostanza, noi siamo “governati meglio quando siamo governati il meno possibile” [26]. Forse ancora insoddisfatto, il ricercatore osserva i dettagli, analizza mezzi e modi, si chiede il perché e il percome. Quanto a lungo potremo resistere come esseri umani - mangiando e riposando, lavorando e amando, commerciando e operando – senza la presenza del governo? Siamo diventati così usi all’esistenza di un “potere organizzato” in ogni sfera della vita che non possiamo nemmeno concepire che le più comuni attività di una persona possano essere portate avanti senza l’interferenza e la “protezione” del governo. Ma gli anarchici non sono obbligati a delineare lo schema di una organizzazione completa di una società libera. Fare ciò, con una qualche aria di autorevolezza, sarebbe come porre una barriera in più al modo di organizzarsi delle generazioni future. Le migliori idee di oggi possono diventare, un domani, inutili ghiribizzi, e cristallizzare il futuro in un dogma significa bloccarlo. […] Le persone si sono così abituate a vedere, da ogni parte, i segni del potere che la maggior parte di loro onestamente crede che tutti andrebbero totalmente in rovina se non fosse per la presenza del poliziotto con il suo manganello o del soldato con le sue armi. Ma l’anarchico dice: “Rimuovi queste manifestazioni di forza bruta e lascia che gli individui sentano gli influssi vivificanti della responsabilità e del controllo personali, e vedi come essi risponderanno a questi influssi migliori”. […] Quello che noi anarchici sosteniamo è una più ampia possibilità di sviluppo delle unità sociali. Noi crediamo che l’umanità tutta, alla pari di un essere umano sano, possa sviluppare ciò che vi è di più grande, nobile, elevato, migliore, senza alcun ostacolo posto da un qualche potere centrale; e senza che un singolo individuo debba attendere per un permesso controfirmato, sigillato, approvato e
trasmessogli, prima di potersi impegnare in attività che riguardano la sua vita e le relazioni con i suoi simili. Noi sappiamo che dopotutto, mano a mano che diventiamo più saggi in presenza di una maggiore libertà, noi saremo sempre meno ansiosi e preoccupati per quanto concerne l’esatta ripartizione della ricchezza materiale che, ora che siamo allevati a una condotta avida ed egoista, sembra sia impossibile trattare con noncuranza. Al giorno d'oggi, l’uomo e la donna di elevate capacità non pensano tanto alle ricchezze che possono guadagnare attraverso i loro sforzi ma al bene che possono contribuire a generare per i loro simili. Vi è una spinta innata a compiere azioni salutari in ogni essere umano che non è stato schiacciato e afflitto dalla povertà e dalle fatiche fin da prima di nascere, una spinta che lo porta in avanti e in alto. L’essere umano non può rimanere ivo e inattivo, anche se lo volesse. È naturale per lui la voglia di svilupparsi, di espandersi, e di utilizzare le sue energie interiori quando non è represso, così come è naturale per la rosa sbocciare alla luce del sole e spandere il suo profumo attraverso un soffio di vento. Le grandi opere del ato non sono mai state intraprese per amore del denaro. Chi può misurare il valore di uno Shakespeare, di un Michelangelo o di un Beethoven in dollari e cents? Agassiz [27] ha detto che “non aveva tempo per fare soldi” perché c’erano obiettivi più elevati e più interessanti di quello nella vita. E così avverrà quando l’umanità sarà una buona volta sollevata dalla paura pressante della fame, del bisogno, dell’asservimento e sarà sempre meno preoccupata di ammassare e possedere grandi ricchezze. Questi vasti possedimenti non sarebbero altro che un fastidio e una preoccupazione. Quando due o tre o quattro ore al giorno di una attività piacevole, salutare, produrrà tutte le cose necessarie per vivere confortevolmente, e non ci sarà alcun blocco all'agire, le persone non faranno più caso a chi possiede la ricchezza di cui essi non hanno bisogno. […] Se, in presenza dell’attuale disordinata e vergognosa lotta per la vita, quando la società organizzata premia l’avidità, la crudeltà e l’inganno, noi possiamo trovare individui che rimangono distaccati e quasi soli nella loro determinazione di fare del bene piuttosto che fare soldi, che soffrono ristrettezze e persecuzioni piuttosto che abbandonare i loro princìpi, che coraggiosamente subiscono la pena di morte [28] facendo bene al prossimo, immaginatevi cosa potremmo attenderci quando le persone saranno libere dalla soffocante necessità di vendere la migliore parte di sé per procurarsi di che vivere. Le terribili condizioni sotto le
quali si lavora, l’atroce alternativa che si offre a chi non vuole prostituire le sue qualità e i suoi princìpi morali a Mammona [29], e il potere conquistato con una ricchezza ottenuta in modi così ingiusti, tutto questo contribuisce a fare dell’idea di una attività libera e volontaria qualcosa praticamente quasi impossibile. Eppure, ci sono esempi di ciò persino adesso. In una famiglia ben educata ogni membro ha certi compiti da svolgere, che sono eseguiti con gioia, e non sono calcolati esattamente e retribuiti sulla base di qualche parametro predeterminato. Quando tutti i membri della famiglia si siedono intorno a una tavola ben imbandita, il più forte della famiglia non si agita per mangiare la maggior parte del cibo, mentre il più debole ne rimane senza, e il primo non accaparra avidamente per sé più cibo di quanto possa consumarne. Ognuno attende pazientemente ed educatamente che arrivi il suo turno per servirsi, e lascia agli altri ciò di cui non ha bisogno. Egli è sicuro che, quando avrà di nuovo fame, ci sarà abbastanza cibo a disposizione di tutti. Questo principio può essere esteso fino a includere tutta la società, quando le persone saranno abbastanza civili da volerlo. […] Molti pensatori hanno mostrato che le istituzioni ingiuste, che generano così tanta miseria e sofferenza per la gente, hanno radici nel governo, e che esse esistono solo grazie al potere del governo. Ne consegue che, se ogni legge, ogni atto notarile, ogni tribunale, ogni poliziotto e ogni soldato scomparissero domani, di colpo, sarebbe facile immaginare che staremmo meglio di quanto non lo siamo oggi. I beni materiali che esistono attualmente e di cui l’essere umano ha bisogno continuerebbero a esistere. Le sue energie e le sue capacità rimarrebbero e le sue innate inclinazioni sociali conserverebbero la loro forza. E le risorse vitali, rese libere per il godimento di tutti, genererebbero una condizione per la quale non ci sarebbe bisogno di alcuna costrizione, se non la forza dell'opinione sociale, per vedere attuato un comportamento morale e onesto. Liberato dalle strutture che lo hanno reso in ato un disgraziato, l’essere umano non farà di sé un essere ancora più sciagurato in assenza di esse. L'idea che le condizioni ambientali rendono la persona quella che è, e non le leggi e le punizioni introdotte per guidarlo, è cosa più vera di quanto si possa supporre a un esame superficiale. Noi abbiamo abbastanza leggi, prigioni, tribunali, armi e arsenali militari da fare di tutti noi dei santi, se davvero questi fossero gli strumenti per prevenire il crimine. Ma noi sappiamo che tali mezzi non lo
prevengono affatto. Noi siamo consapevoli che la cattiveria e la depravazione esistono nonostante essi, anzi crescono mano a mano che la lotta tra le classi diventa più feroce, la ricchezza più grande e più potente e la povertà più desolata e disperata. Alla classe e al potere l’anarchico dice: “Signori, noi non chiediamo alcun privilegio, non proponiamo nessuna restrizione; né, d’altra parte, acconsentiamo alla presenza di privilegi e restrizioni. Non vogliamo mettere alcuna nuova catena, noi cerchiamo l’emancipazione dalle catene. Non domandiamo alcuna sanzione di legge, perché la cooperazione richiede solo uno spazio libero e nessun favore; e neppure vogliamo una qualche interferenza. Si afferma che nella libertà di ciascuna unità sociale risiede la libertà delle condizioni sociali. Si afferma che nella libertà di possedere e utilizzare il suolo risiede la felicità sociale e il progresso e la fine della rendita. Si afferma che l’ordine esiste solo dove regna la libertà, e che il progresso segue e non precede l’ordine. Si afferma, infine, che questa emancipazione promuoverà la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. Il fatto che il sistema industriale esistente abbia esaurito la sua utilità se mai l’ha avuta - è qualcosa, io credo, che è ammessa da tutti coloro che hanno riflettuto a fondo su questa fase delle condizioni sociali. I segni dello scontento che incombe da ogni parte mostrano che la società è retta da princìpi errati e che qualcosa va fatto presto o la classe salariale sprofonderà in un asservimento peggiore di quello dei servi feudali. Io dico alla classe salariale: pensa lucidamente e agisci prontamente, o sarai persa. Lotta non per ottenere alcuni spiccioli in più all’ora, perché il costo della vita aumenterà ancora più rapidamente, ma lotta per ottenere tutti i frutti del tuo lavoro, e non accontentarti di meno.
Anarchia: cosa significa e cosa propone davvero, di Emma Goldman
Documento 16 (1910)
Un testo potente, ricco di spunti e di riflessioni volti a chiarire a coloro che non sono resi ciechi dai pregiudizi che l’anarchia è davvero la concezione più favorevole allo sviluppo delle migliori potenzialità della natura umana e della varietà necessaria alle sue multiformi espressioni personali e sociali. Fonte: Emma Goldman, Anarchism: what it really stands for, 1910.
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La storia della crescita e dello sviluppo del genere umano è, al tempo stesso, la storia della terribile lotta che deve ingaggiare ogni nuova idea che annuncia il sorgere di un futuro più radioso. Attraverso la sua stretta presa sulla tradizione, il vecchio mondo non ha mai esitato a impiegare i mezzi più disgustosi e crudeli per bloccare il nuovo che avanza, sotto qualsiasi forma o in qualsiasi epoca esso cerchi di affermarsi. Non serve ricostruire le sequenze di un ato lontano per rendersi conto delle enormi resistenze, difficoltà e prove poste sul cammino di ogni idea di progresso. Gli atroci patimenti, le odiose punizioni e l’uso della frusta sono ancora pratica corrente; come pure la divisa del condannato e la collera sociale, tutti uniti contro lo spirito di progresso che avanza serenamente. La concezione anarchica non poteva sfuggire al destino riservato a tutte le idee innovative. In effetti, essendo la concezione più rivoluzionaria e quella priva di compromessi, è assolutamente necessario che essa faccia fronte all’insieme di ignoranza, di superstizioni e di calunnie insite nel mondo che si propone di rinnovare. Per trattare anche solo superficialmente di tutto ciò che viene detto e fatto contro l’anarchia occorrerebbe scrivere un intero volume. Io mi occuperò di affrontare solo due delle obiezioni principali che le vengono mosse contro. In questo modo, al tempo stesso, cercherò di illustrare cosa significa e cosa propone davvero la concezione anarchica. Lo strano fenomeno dell’opposizione all’anarchia fa sì che appaia in piena luce il rapporto tra il cosiddetto sapere e l’ignoranza. Ma ciò non è così strano quando consideriamo che tutte le cose sono relative. La massa ignorante ha a sua giustificazione il fatto che non pretende di possedere la conoscenza o di essere tollerante. Agendo, come fa sempre, sulla spinta del puro impulso, il suo modo di ragionare è simile a quello di un fanciullo, che si pone delle domande e si dà delle risposte semplici e immediate. Nonostante ciò, l’opposizione all’anarchia da parte delle persone ignoranti merita di essere presa in esame alla pari di quella delle persone istruite. Allora, quali sono queste obiezioni? Innanzitutto, che l’anarchia è qualcosa di irrealizzabile, sebbene sia una idea meravigliosa. Inoltre, che l’anarchia è favorevole alla violenza e alla distruzione e, per questo motivo, deve essere rifiutata come qualcosa di ignobile e di pericoloso. Sia la persona informata che la massa ignorante formano il loro giudizio non attraverso una conoscenza
approfondita del tema, ma attraverso il sentito dire o false interpretazioni. Uno schema pratico, sostiene Oscar Wilde, è sia uno già esistente, oppure uno schema che potrebbe essere messo in atto nell’ambito delle condizioni esistenti. Ma è proprio alle condizioni esistenti che gli anarchici fanno obiezione, e qualsiasi schema che accettasse queste condizioni è o errato o ingenuo. Piuttosto, si tratta di vedere se lo schema proposto possiede una energia vitale sufficiente a permettere di abbandonare le acque stagnanti del vecchio mondo, e non solo di costruire ma anche di sostenere una nuova esistenza. Alla luce di questa prospettiva, l’anarchia è qualcosa di eminentemente pratico. Più di ogni altra concezione, essa aiuta a mettere da parte errori e idiozie correnti; più di ogni altra idea, essa è davvero in grado di costruire e sostenere una nuova vita. Le emozioni delle persone ignoranti sono continuamente tenute sotto tensione attraverso la diffusione di storie oltremodo raccapriccianti sull’anarchia. Non vi è diceria più ingiuriosa che non sia stata utilizzata contro la filosofia anarchica e i suoi esponenti. Perciò l’anarchia rappresenta, per coloro che non riflettono, ciò che il proverbiale essere malvagio è per un bambino, vale a dire, il mostro vestito di nero intento a divorare tutto. In una parola, la distruzione e la violenza. Distruzione e violenza! Ma come può la persona comune sapere che la cosa più violenta che esiste nella società è l’ignoranza? Che il suo potere di distruzione è proprio ciò contro cui combattono gli anarchici? Essa non è neppure consapevole che l’anarchia, le cui radici fanno in realtà parte delle forze della natura, elimina non i tessuti sani, ma le escrescenze parassitarie che succhiano l’essenza stessa della vita in società. È solo estirpando le male erbe dal suolo che si possono produrre buoni frutti. Qualcuno ha affermato che ci vuole meno sforzo mentale a condannare che a riflettere. L’indolenza mentale così diffusa che prevale nella società testimonia la verità di questa affermazione. Invece di andare a fondo nella scoperta di una certa idea, esaminandone l’origine e il significato, la maggior parte delle persone o la condannano in blocco o poggiano il loro giudizio su qualche definizione superficiale o su qualche pregiudizio. L’anarchia, al contrario, esorta l’essere umano a riflettere, verificare, analizzare qualsiasi affermazione. Detto ciò, per non affaticare troppo le capacità mentali del comune lettore, inizierò con una definizione e poi procederò illustrandola in maniera più precisa. Anarchia: La filosofia di un nuovo ordine sociale basato sulla libertà, al di fuori
di restrizioni imposte per mezzo di leggi; essa è la teoria che sostiene che tutte le forme di potere poggiano sulla violenza e sono perciò errate e dannose, come pure non necessarie. Il nuovo ordine sociale dovrebbe, di certo, avere come fondamenta la produzione materiale; ma mentre gli anarchici sono concordi nel sostenere che i mali maggiori sono attualmente di ordine economico, essi ritengono che la soluzione a tali mali possa essere apportata solo se si tiene in considerazione ogni aspetto e fase della vita: quella individuale come quella collettiva, quella interna come quella esterna. Un’analisi approfondita della storia dello sviluppo umano rivelerà la presenza di due elementi in forte contrasto l’uno con l’altro; elementi che solo ora iniziano a essere compresi non come estranei tra di loro, ma come strettamente collegati e davvero in sintonia se solo fossero posti nel loro proprio contesto: gli istinti individuali e quelli sociali. L’individuo e la società hanno condotto, nel corso della storia, una battaglia incessante e sanguinosa per la supremazia, e questo perché ognuno era cieco per quanto riguarda il valore e l’importanza dell’altro. Gli istinti individuali e quelli sociali. L’uno come fattore estremamente potente per l’impegno e lo sforzo personale, per la crescita, per l’aspirare a qualcosa, per il realizzare sé stessi; l’altro, un fattore parimenti importante per l’aiuto reciproco e il benessere di tutti. La spiegazione della tempesta che infuria all’interno dell’individuo, e tra lui e l’ambiente circostante, non è difficile da individuare. L’essere umano primitivo, incapace di comprendere il suo essere, e ancor meno l’unità di tutte le forme della vita, si è trovato del tutto dipendente da forze cieche e sconosciute, sempre pronte a prendersi gioco di lui e a deriderlo. Da ciò è nata la concezione religiosa che raffigura l’individuo come mero granello di sabbia, che dipende da poteri a lui superiori, posti molto in alto, e che possono essere placati solo con una totale subordinazione. Tutte le saghe del ato poggiano su questa idea che continua a essere il motivo dominante del racconto biblico [30] che tratta della relazione tra l’essere umano da una parte e Dio, lo Stato e la Società dall’altra. Si sente ripetere di continuo la stessa tesi, che l’essere umano è nulla e che i poteri superiori sono tutto. Per cui Geova [31] accetterebbe l’individuo solo a condizione di una sua resa totale. L’essere umano può godere di tutte le risorse della terra, ma non deve diventare consapevole del suo proprio essere. Lo Stato, la Società e le leggi morali recitano tutti lo stesso ritornello: l’individuo può
godere di tutte le risorse della terra, ma non deve diventare consapevole di sé stesso. L’anarchia è la sola concezione filosofica che sviluppa nell’essere umano la consapevolezza di sé. L’unica concezione che sostiene che Dio, lo Stato, e la Società sono entità che non esistono in sé stesse, e che quello che tali entità promettono è qualcosa di inesistente e di vuoto nella misura in cui può essere realizzato solo attraverso l’assoggettamento degli esseri umani. L’anarchia quindi prospetta l’unità di tutte le forme di vita, non solo nell’ambito della natura ma anche in quello degli esseri umani. Non vi è alcuna contrapposizione conflittuale tra gli istinti individuali e quelli sociali, più di quanta ve ne sia tra il cuore e i polmoni: l’uno è il contenitore dell’essenza preziosa della vita, l’altro il depositario dell’elemento che mantiene l’essenza pura e forte. L’individuo è il cuore della società, preservando l’essenza della vita sociale; la società sono i polmoni che fanno circolare quell’elemento di modo che l’essenza vitale – vale a dire la singola persona – sia pura e forte. “L’unica cosa che ha valore al mondo”, afferma Emerson [32], “è lo spirito attivo; ogni persona lo possiede al suo interno. Lo spirito attivo vede la verità piena e l’afferma e la crea”. In altre parole, l’istinto naturale di ogni individuo è ciò che ha valore al mondo. È lo spirito sincero e veritiero che osserva e genera la verità viva, da cui ha origine una verità ancora più grande, lo spirito sociale rinnovato. L’anarchia è la grande forza liberatrice che allontana i fantasmi che hanno imprigionato l’essere umano; è lo strumento di mediazione e di pacificazione delle due forze in vista dell’armonia tra individuo e società. Per conseguire questa unità, l’anarchia combatte le influenze nocive che hanno impedito fino ad ora di armonizzare gli istinti individuali con quelli sociali, l’individuo e la società. La religione come dominatrice della mente umana; la proprietà come dominatrice dei bisogni umani; e il governo, come dominatore delle azioni umane, rappresentano le roccaforti dell’assoggettamento delle persone e di tutte le orrende realtà che ne derivano. La religione! Quanto domina la mente dell’individuo, quanto umilia e degrada il suo spirito. Dio è tutto, l’essere umano è nulla. Questo è quanto afferma la religione [33]. Ma, da questo nulla, Dio ha creato un reame così dispotico,
tirannico, crudele, così terribilmente esigente che niente se non tristezza, lacrime e sangue hanno dominato il mondo dal momento in cui sono apparse le divinità. L’anarchia stimola l’essere umano a ribellarsi contro questo tetro mostro. Spezza le tue catene mentali, dice la concezione anarchica all’individuo, perché solo quando penserai e giudicherai in maniera autonoma ti libererai dal dominio delle tenebre che costituisce l’ostacolo più grande ad ogni progresso. La proprietà è il dominio esercitato sui bisogni dell’essere umano, la negazione del diritto di soddisfare le sue esigenze di base. Vi è stato un tempo in cui la proprietà di alcuni era proclamata come un diritto divino, utilizzando le stesse espressioni che si applicano alla religione. “Sacrificio! Abnegazione! Sottomissione!” Lo spirito dell’anarchia ha sollevato l’essere umano da questa posizione di prostrazione. Ora l’individuo sta all’impiedi, con il suo viso rivolto verso la luce. Ha imparato a riconoscere la natura della proprietà, insaziabile, divoratrice e devastatrice, e si sta preparando a colpire a morte il mostro. “La proprietà è il furto” ha affermato l’anarchico Proudhon [34]. Sì, un furto, ma senza alcun rischio e pericolo per il rapinatore. Monopolizzando gli sforzi dell’essere umano accumulati nel tempo, la proprietà lo ha privato di diritti di cui dovrebbe godere fin dalla nascita e lo ha reso un povero e un reietto [35]. La proprietà non ha nemmeno la scusa, del tutto logora, che gli individui non producono abbastanza da soddisfare tutti i loro bisogni. Qualsiasi studente di economia a livello elementare sa che la produttività del lavoro nel corso degli ultimi decenni ha superato di gran lunga la normale domanda di beni. Ma che cos’è una domanda normale in presenza di una istituzione abnorme? La sola domanda riconosciuta dalla proprietà dei pochi consiste nel suo insaziabile appetito per una ricchezza ancora più grande, perché ricchezza significa potere; il potere di sottomettere, di schiacciare, di sfruttare, il potere di asservire, oltraggiare, degradare. L’America in particolare si gloria del suo grande potere, della sua enorme ricchezza nazionale. Povera America, a cosa serve tutta questa ricchezza se gli individui che fanno parte del paese sono nella più oscena povertà. Se vivono nello squallore, nel sudiciume, nel crimine, senza né speranza né gioia, un esercito di esseri sottomessi, privi di riparo e di volontà propria, in pasto agli sfruttatori. Si ritiene generalmente che, a meno che i ricavi di ogni iniziativa in affari eccedano i costi, la bancarotta sia inevitabile. Ma coloro che sono impegnati nella attività di produrre ricchezza non hanno ancora appreso neanche questa semplice lezione. Ogni anno i costi di produzione in termini di vite umane
continuano ad aumentare (50mila morti e 100mila feriti sul lavoro in America solo l’anno scorso); invece, i ricavi dei lavoratori che sono attivi nella produzione della ricchezza diventano sempre più esigui. Eppure, l’America continua a essere cieca di fronte a questa bancarotta del nostro modo di produrre. E questo non è il suo solo crimine. Ancora più drammatico è il crimine di ridurre il produttore a mero ingranaggio di una macchina, con volontà e possibilità decisionali inferiori rispetto al suo padrone di acciaio e ferro. L’essere umano è derubato non solo dei prodotti del suo lavoro, ma anche del potere di iniziativa autonoma, di creatività, e dell’interesse o del desiderio riguardo al risultato della sua attività. La vera ricchezza consiste in cose utili e belle, cose che servono a generare corpi forti e meravigliosi, e ambienti attraenti per viverci. Ma se l’individuo è destinato solo ad avvolgere del filo di cotone attorno a un rocchetto, o a scavare il carbone, o a costruire strade per trent’anni della sua vita, non si può certo parlare di ricchezza. Quello che egli dà al mondo sono solo cose tristi e orribili, riflessi di una esistenza smorta e paurosa – un essere troppo debole per vivere, troppo vigliacco per morire. Strano a dirsi, ci sono persone che esaltano questo micidiale metodo di produzione centralizzata come se fosse il risultato più mirabile della nostra epoca. Costoro sono del tutto incapaci di rendersi conto che, se continuiamo con l’essere subordinati alle macchine, la nostra schiavitù risulterà più completa di quanto non fosse il nostro asservimento al sovrano. Essi non vogliono affatto vedere che la centralizzazione del potere non è solo la campana a morte della libertà ma anche il rintocco funebre per quanto riguarda la salute e la bellezza, l’arte e la scienza. Tutto ciò è impossibile da preservare e sviluppare in una condizione umana dominata dal macchinismo [36]. L’anarchia non può fare altro che ripudiare un tale metodo di produzione. Il suo scopo è di sviluppare l’espressione più libera possibile di tutte le energie latenti dell’individuo. Oscar Wilde ha definito una squisita personalità come “quella che si sviluppa in presenza di condizioni ideali, e che non è ferita, menomata o in pericolo” [37]. Una squisita personalità, quindi, è possibile solo in una situazione sociale in cui l’essere umano è libero di scegliere il modo, le condizioni e i tempi del lavoro. Un essere per il quale produrre un tavolo, costruire una casa o coltivare un campo è simile a ciò che fa un artista quando dipinge o uno scienziato quando è impegnato nelle sue ricerche – il risultato di un’ispirazione personale, di un desiderio intenso e di un profondo interesse nella propria attività come forza creatrice. Essendo questo l’ideale dell’anarchia, l’organizzazione economica a cui essa mira consiste nella associazione
volontaria delle persone nell’ambito della produzione e della distribuzione, con lo sviluppo progressivo di una sorta di libera messa in comune delle risorse, per utilizzare al meglio gli strumenti produttivi, con il minor consumo possibile di energia umana. L’anarchia, ad ogni modo, riconosce anche il diritto dell’individuo, o di un gruppo di individui, a organizzarsi, qualora lo volessero, sulla base di altre forme di attività, in sintonia con i loro gusti e desideri. Questa libera pratica delle energie umane è possibile solo in presenza di una piena autonomia, individuale e nelle relazioni sociali. Perciò l’anarchia dirige le sue energie a combattere il terzo e più grande nemico della giustizia nella società vale a dire lo Stato, il potere organizzato o l’oppressione legale, che domina il comportamento degli esseri umani. Così come la religione ha avviluppato la mente umana, e la proprietà riservata ad alcuni come monopolio delle risorse ha sottomesso e soffocato i bisogni degli individui, così lo Stato ha asservito lo spirito degli esseri umani imponendo loro determinati comportamenti in ogni fase della vita. Come afferma Emerson: “Tutti i governi sono sostanzialmente delle tirannie”. Non importa affatto che si governi per diritto divino o sulla base della maggioranza dei suffragi. In ogni caso, l’obiettivo di qualsiasi governo è l’assoluta subordinazione dell’individuo. Riferendosi al governo americano, il più grande degli anarchici americani, David Thoreau, ha affermato: “Che cos'è il governo se non una tradizione, pur recente, che cerca di trasmettersi immutata alle generazioni future, ma perde ad ogni istante brandelli della sua onestà? Non ha né la vitalità né l'energia di un singolo essere umano”. “La legge non ha mai reso la gente più giusta nemmeno di un millesimo; anzi, attraverso l’osservanza della legge, persino individui disposti al bene sono resi quotidianamente agenti di ingiustizia” [38]. E in effetti, la caratteristica principale del governo è l’ingiustizia. Con l’arroganza e la presunzione di un re che si ritiene sempre nel giusto, il governo ordina, giudica, condanna e punisce per le più insignificanti manchevolezze, e al tempo stesso si mantiene al potere compiendo la più grave delle offese, l’annientamento della libertà degli individui. Quindi Ouida [39] è nel giusto quando afferma che “l’unica mira dello Stato è di instillare nel pubblico quelle caratteristiche personali che fanno sì che i suoi ordini siano obbediti e le sue casse siano sempre ricolme di denaro. Il suo massimo risultato è la riduzione dell’umanità a un congegno meccanico. Nell’ambiente da esso prodotto, tutte quelle più fini e delicate forme di libertà, che richiedono cura e spazio per svilupparsi, inevitabilmente rinsecchiscono e muoiono. Lo Stato ha bisogno di
un apparato fiscale senza intoppi, di un Ministero del Tesoro sempre pieno di soldi, e di una massa di persone grigie, obbedienti, senza energia e senza spirito, che si comportano docilmente, come un gregge di pecore che avanza su un cammino delimitato da due muri”. Eppure, anche un gregge di pecore opporrebbe resistenza contro gli imbrogli e i raggiri dello Stato, se non fosse per i metodi corruttori, tirannici e opprimenti che esso utilizza per conseguire i suoi scopi. Per questo Bakunin rifiuta totalmente lo Stato in quanto sinonimo di resa completa dell’individuo o delle piccole comunità – la distruzione delle relazioni sociali, la riduzione se non addirittura la negazione completa della vita degli esseri umani per la sola grandezza del potere. Lo Stato è come l’altare della libertà politica, e come l’altare nelle religioni, è utilizzato con lo scopo di sacrificarvi l’essere umano. In effetti, quasi tutti i pensatori moderni sono concordi nel ritenere che il governo, il potere organizzato, o lo Stato, è necessario solo per preservare o proteggere la proprietà e il monopolio di alcuni [40]. Esso si è mostrato efficiente solo a questo riguardo. Persino George Bernard Shaw, che spera nei miracoli prodotti dallo Stato sotto il Fabianismo [41], nonostante tutto ammette che “lo Stato è attualmente un’enorme macchina per rubare e asservire i poveri attraverso l’uso della forza bruta”. Essendo questo il caso, è difficile comprendere come sia possibile che questo autore così intelligente voglia ancora mantenere in vita lo Stato anche dopo che la povertà ha cessato di esistere. Sfortunatamente, ci sono ancora molti che continuano a professare il credo fatale che il governo poggia su leggi naturali, che esso mantiene l’ordine sociale e l’armonia, che riduce i crimini, e impedisce ai lazzaroni di derubare gli altri. Esaminerò allora queste credenze. Una legge naturale è quel fattore presente nell’essere umano che si afferma liberamente e spontaneamente senza la necessità di una qualche forza esterna, e che è in sintonia con le esigenze della natura umana. Ad esempio, l’esigenza di nutrimento, di gratificazioni dei bisogni sessuali, di luce, di aria, di esercizio fisico. Tutto ciò costituisce una legge di natura. Ma, per la sua espressione, non c’è bisogno di un apparato di governo, non c'è bisogno di randelli, pistole, manette o prigioni. L’obbedienza a tali leggi di natura, se possiamo chiamarla obbedienza, necessita solo della presenza di spontaneità e di libere opportunità. Che i governi non si mantengano affatto sulla base di tali fattori in armonia con la natura umana è testimoniato dall’esistenza di un arsenale terribile di violenza,
forza e costrizione che essi mettono in atto al fine di sopravvivere. Quindi Blackstone [42] è nel giusto quando afferma che “le leggi umane non hanno alcun valore in quanto contrarie alle leggi di natura”. A meno di utilizzare il termine “ordine” come è stato fatto in riferimento al massacro di Varsavia [43] in cui migliaia di persone sono state trucidate, è difficile attribuire al governo una qualche capacità di garantire l’ordine e l’armonia nelle relazioni sociali. L’ordine ottenuto attraverso la sottomissione e mantenuto per mezzo del terrore non costituisce affatto una garanzia sicura. Eppure, questo è il solo ordine che i governi siano mai stati in grado di mantenere. Una vera armonia sociale si sviluppa naturalmente dalla solidarietà degli interessi. In una società in cui coloro che lavorano sempre non hanno praticamente nulla, mentre coloro che non hanno mai lavorato godono di tutte le risorse, non può esistere alcuna solidarietà di interessi. Perciò l’armonia nelle relazioni sociali non è altro che un mito. La sola maniera attraverso la quale il potere organizzato affronta questa grave situazione consiste nell’estendere sempre più i privilegi di coloro che hanno già monopolizzato i beni della terra, e nell’assoggettare ancora di più le masse dei diseredati. A tal fine l’intero arsenale di governo – leggi, polizia, esercito, tribunali, parlamenti, prigioni – è impegnato strenuamente ad “armonizzare” gli elementi più ribelli della società. La scusa più assurda a giustificazione del potere e della legge è che essi servono per diminuire il crimine. A parte il fatto che lo Stato è esso stesso il più grande criminale, infrangendo ogni regola scritta e ogni legge di natura, rubando attraverso l’imposizione fiscale, uccidendo con le guerre e con la pena capitale, esso è arrivato a un punto in cui è del tutto incapace di offrire soluzioni per il crimine. Ha fallito completamente nel cancellare o anche solo ridurre il terribile flagello della violenza a cui esso stesso ha dato vita. Il crimine non è altro che energia mal diretta. Fino a quando, al giorno d’oggi, ogni istituzione, economica, politica, sociale e morale, cospira per indirizzare l’energia umana verso canali sbagliati; fino a quando la maggior parte delle persone sono a disagio, facendo cose che odiano, vivendo una esistenza che detestano, il crimine sarà inevitabile, e tutte le leggi promulgate non potranno fare altro che accrescerlo e mai cancellarlo. Che cosa sa la società attuale della disperazione, della povertà, degli orrori, della lotta spaventosa che costituisce il retroterra attraverso cui deve are l’essere umano incamminato sulla strada del crimine e del degrado? Colui che conosce questo terribile travaglio non può fare a meno di vedere quanto siano vere queste parole di Pëtr Kropotkin:
Coloro che hanno il potere di decidere tra i benefici attribuiti alla legge e alle punizioni e gli effetti degradanti di questi ultimi sulle persone; coloro che sono in grado di valutare la quantità di depravazione introdotta dall’esterno nella società umana dagli informatori della polizia, favorita persino dai giudici, e pagata in denaro sonante dai governi, dietro il pretesto di smascherare il crimine; coloro che visitano le prigioni e vedono in prima persona ciò che diventano gli esseri umani quando sono privati della libertà, soggetti al trattamento di brutali guardiani, sottoposti a imprecazioni volgari e crudeli, a migliaia di umiliazioni sferzanti e pungenti, saranno d’accordo con noi nel riconoscere che l’intero apparato delle prigioni e delle punizioni non è altro che un abominio a cui si dovrebbe porre fine per sempre [44] L’influenza deterrente che la legge ha sulla persona oziosa è una idea troppo assurda perché meriti di essere presa in esame. Se la società fosse sollevata dalle spese e dallo spreco di mantenere una classe di parassiti, e dalle parimenti grandi spese assorbite dall’apparato di protezione che questa classe richiede, ci sarebbe un’abbondanza di risorse tale da soddisfare tutti, inclusi persino gli occasionali individui oziosi. A parte ciò, è opportuno tenere conto che l'ozio risulta o da privilegi speciali concessi ad alcuni, o da carenze fisiche o mentali. L’attuale sistema di produzione del tutto demenziale incoraggia entrambe le forme, e la cosa più incredibile è che, nonostante ciò, le persone abbiano ancora voglia di lavorare. L’anarchia si propone il compito di togliere dal lavoro il suo aspetto monotono e mortifero, la sua tetraggine e obbligatorietà. Si prefigge di rendere il lavoro uno strumento per produrre soddisfazione, energia, creatività, vera armonia, di modo che anche il più umile degli individui possa trovare in esso una sorta di svago e di incoraggiamento. Per conseguire una tale organizzazione, il governo, con i suoi provvedimenti ingiusti, arbitrari, repressivi, deve essere eliminato. Il massimo che esso ha fatto è di imporre a tutti un unico modo di vita, senza tener conto delle differenze e dei bisogni individuali e sociali. Eliminando il governo e le sue leggi, l’anarchia si propone di recuperare per le persone il rispetto di sé e l’indipendenza, al di là di ogni costrizione e ingerenza da parte del potere. Solo in una condizione di libertà l’essere umano può svilupparsi pienamente. Solo nella libertà apprenderà a pensare e ad agire, dando il meglio di sé. Solo nella libertà l’individuo si renderà conto della vera forza rappresentata da relazioni che uniscono le persone tra di loro e che sono la base autentica di una vera vita sociale. E per quanto riguarda la natura umana? Può essere modificata? E se ciò non è
possibile, sarà in sintonia con l’anarchia? Povera natura umana, quali terribili crimini sono stati commessi in tuo nome [45]! Qualsiasi persona stupida, dal re al poliziotto, dal parroco sempliciotto al dilettante che senza immaginazione si occupa di scienza, tutti presumono di parlare in maniera autorevole della natura umana. Quanto più grande si sente di essere il ciarlatano intellettuale, tanto più perentorio è il suo insistere sulla cattiveria e fragilità della natura umana. Eppure, come è possibile parlare così al giorno d’oggi, quando ogni spirito umano è tenuto imprigionato, ogni intimo slancio dei sentimenti sottoposto a vincoli, ferito e mutilato? John Burroughs [46] ha affermato che lo studio sperimentale degli animali tenuti in cattività è del tutto inutile. Il loro carattere, abitudini, appetiti, subiscono una trasformazione completa quando sono strappati dal loro habitat. Con la natura umana imprigionata in uno spazio d’azione ridotto, sottoposta ogni giorno alla sferza per ridurla all’obbedienza e alla sottomissione, come è possibile parlare ancora di potenzialità dell’essere umano? Solo la libertà, lo sviluppo, l’esistenza di opportunità e, soprattutto, la pace e la serenità, possono farci vedere quali sono i fattori principali della natura umana e le sue meravigliose potenzialità. L’anarchia, quindi, significa davvero la liberazione della mente umana dal controllo della religione; la liberazione del corpo umano dal controllo della proprietà; la liberazione dalle catene e dalle restrizioni del governo. L’anarchia significa un ordine sociale basato sulla libera associazione degli individui al fine di produrre la vera ricchezza sociale; un ordine che garantirà ad ogni essere umano la libertà di accedere alle ricchezze della terra e il più completo godimento delle necessità della vita, secondo i desideri, i gusti e le inclinazioni di ciascuno. Questo non è un folle capriccio o un’aberrazione della mente. È la conclusione a cui sono giunti una schiera di pensatori, uomini e donne, in tutto il mondo; una conclusione che deriva dall’osservazione attenta e ravvicinata delle tendenze della società moderna: la libertà individuale e l’equità economica, le due forze gemelle per la nascita di quanto di più bello e autentico esiste nell’essere umano. Veniamo ai metodi. L’anarchia non è, come molti potrebbero supporre, una teoria del futuro da realizzarsi per ispirazione divina. È una forza vivente negli affari della nostra vita, che genera costantemente nuove condizioni. I metodi
dell’anarchia non comprendono quindi un programma rigido da attuare, qualunque siano le circostanze. I metodi devono nascere dai bisogni economici relativi ad ogni luogo e clima, e sulla base delle esigenze mentali e comportamentali degli individui. Il carattere calmo e sereno di un Tolstoj sceglierà metodi differenti di ricostruzione sociale rispetto a quelli proposti dalla personalità intensa e traboccante di un Mikhail Bakunin o di un Pëtr Kropotkin. Inoltre, dovrebbe essere evidente che i bisogni economici e politici della Russia richiederanno interventi più radicali di quelli necessari per l’Inghilterra o l’America. L’anarchia non propone addestramento militare e uniformità; significa invece uno spirito di rivolta, in qualunque forma, contro tutto ciò che ostacola lo sviluppo degli esseri umani. Tutti gli anarchici sono d’accordo su questo punto, così come concordano nella loro opposizione alla macchina politica come mezzo per realizzare il grande cambiamento sociale. “Ogni votazione”, dice Thoreau, “è una specie di gioco, come gli scacchi o il backgammon, un giocare con il concetto di giusto e sbagliato; gli obblighi derivanti dal voto non vanno mai al di là della pura convenienza. Anche votare per il giusto non vuol dire operare per il giusto. Una persona saggia non lascerebbe ciò che è giusto in balìa del caso, né vorrebbe che la giustizia prevalesse attraverso il potere della maggioranza” [47]. Un esame ravvicinato della macchina politica e dei suoi risultati avvalora le argomentazioni di Thoreau. Che cosa mostra la storia della democrazia parlamentare? Nient’altro che fallimenti e sconfitte, neppure una sola riforma tesa a migliorare le condizioni economiche e sociali della gente. Sono stati promulgati leggi e decreti per il miglioramento e la tutela delle condizioni lavorative. Solo lo scorso anno si è visto che l’Illinois, lo Stato con le leggi più severe per la protezione dei minatori, ha vissuto i più grandi disastri minerari. Negli stati in cui prevalgono le leggi contro il lavoro minorile, lo sfruttamento dei bambini è ai suoi livelli più alti, e sebbene da noi i lavoratori godano di piene opportunità politiche, lo sfruttamento capitalista domina nella maniera più sfacciata. Anche se i lavoratori fossero in grado di avere i propri rappresentanti, cosa che i nostri bravi politici socialisti stanno chiedendo a gran voce, che speranze ci sono per la loro onestà e buona fede? Non dobbiamo fare altro che ricordarci dell’agire degli uomini politici per renderci conto che il loro comportamento, fatto di apparenti buone intenzioni, è in realtà pieno di trabocchetti: manipolazioni, intrighi, adulazioni, menzogne e inganni; nella realtà dei fatti,
imbrogli di ogni tipo, grazie ai quali gli aspiranti politici riescono ad avere successo. A questo si aggiunge la completa corruzione del carattere e delle convinzioni degli individui, fino a quando non rimane nulla che possa lasciare ancora sperare di ottenere qualcosa da tali relitti umani. Più e più volte le persone sono state tanto sciocche da fidarsi, credere e sostenere con le loro misere risorse gli aspiranti politici, solo per ritrovarsi tradite e ingannate. Si potrebbe sostenere che uomini integerrimi non si lasceranno corrompere dalla macchina trituratrice della politica. Forse no; ma tali uomini non saranno assolutamente in grado di esercitare la benché minima influenza nell’interesse dei lavoratori, come si è visto in numerose occasioni. Lo Stato è il padrone economico dei suoi servi. Uomini di buona volontà, se mai ne esistono, resterebbero fedeli alla loro fede politica, perdendo così qualsiasi o economico, o resterebbero fedeli al loro padrone economico, diventando pertanto incapaci di fare alcun bene. L’arena politica non lascia altre alternative: si è o tonti o canaglie. La superstizione politica ha ancora il predominio nei cuori e nelle menti delle masse, ma i veri amanti della libertà non vogliono avere più nulla a che fare con essa. Invece, credono con Stirner che l’essere umano ha tanta libertà quanta ha voglia di prendersi. L’anarchia è dunque a favore dell’azione diretta, della ribellione aperta e della resistenza a tutte le leggi e restrizioni imposte, economiche, sociali e morali. Ma la ribellione e la resistenza sono illegali. Proprio in questo sta la salvezza dell’essere umano. Ogni cosa illegale richiede integrità, autonomia e coraggio. In breve, richiede spiriti indipendenti e liberi, “esseri umani che lo siano per davvero, individui che abbiano una vera spina dorsale”. Lo stesso suffragio universale deve la sua esistenza all’azione diretta. Se non fosse stato per lo spirito di ribellione, per la resistenza da parte dei padri della Rivoluzione Americana, i loro posteri indosserebbero ancora la divisa del sovrano. Se non fosse stato per l’azione diretta di John Brown [48] e dei suoi compagni, l’America commercerebbe ancora con la carne dei neri. È vero, il commercio di carne bianca è ancora in corso; ma anche quello dovrà essere abolito dall’azione diretta. Il sindacalismo, l’arena economica del lottatore moderno, deve la sua esistenza all’azione diretta. Solo recentemente i governi e i legislatori hanno cercato di soffocare il movimento sindacale, condannando alla prigione per cospirazione i difensori del diritto dell’individuo a organizzarsi. Se il movimento sindacale avesse cercato di portare avanti la propria causa mendicando, supplicando e scendendo a compromessi, oggi il suo peso sarebbe
nullo. In Francia, in Spagna, in Italia, in Russia, persino in Inghilterra (ne è testimone la crescente ribellione dei sindacati inglesi), l’azione economica diretta e rivoluzionaria è diventata una forza talmente potente nella battaglia per la libertà industriale, da far sì che il mondo si renda conto dell’incredibile importanza del potere dei lavoratori. Lo Sciopero Generale, l’espressione suprema della consapevolezza dei lavoratori, è stato ridicolizzato in America solo poco tempo fa. Oggi ogni grande sciopero, per avere successo, deve comprendere l’importanza della protesta generalizzata e solidale. L’azione diretta, che si è dimostrata efficace in campo economico, è altrettanto potente in ambito individuale. Là dove centinaia di forze abusano dell’individuo, solo la resistenza costante a tali forze riuscirà a renderlo un essere libero. L’azione diretta contro il dominio sul posto di lavoro, contro il potere della legge, contro l’autorità invadente e intrigante del nostro codice morale è il metodo logico e coerente dell’anarchia. Non porterà questo a una rivoluzione? Certo che sì. Nessun cambiamento sociale si è mai realizzato senza una rivoluzione. La gente non ha familiarità con la storia delle rivoluzioni, oppure non ha ancora imparato che la rivoluzione non è altro che il pensiero che si trasforma in azione. L’anarchia, il grande lievito del pensiero, permea oggi ogni fase dell’azione umana. La scienza, l’arte, la letteratura, il teatro, l’impegno per il miglioramento delle condizioni economiche. In realtà, ogni opposizione sociale e individuale al disordine esistente delle cose, è illuminato dalla luce spirituale dell’anarchia. È la filosofia della sovranità dell’individuo. È la teoria dell’armonia sociale. È la grande, nascente, vivente verità che sta ricostruendo il mondo, e che darà avvio a una nuova Alba.
Il Manifesto della pan-anarchia, di Abba L Gordin e Wolf L. Gordin
Documento 17 (1918)
Un manifesto a favore della liberazione di tutti gli oppressi. Gli attacchi alla religione e alla scienza non vanno certo interpretati come inviti all’intolleranza e all’oscurantismo ma come rifiuto dell’asservimento della religione e della scienza al potere, oltre che stimoli a costruire un mondo nuovo, senza oppressioni né manipolazioni di alcun genere. Fonte: A. L. e V. L. Gordin, Manifest pananarkhistov, Mosca, 1918. Ripreso da Paul Avrich, ed., The Anarchists in the Russian Revolution, Thames & Hudson, London, 1973.
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Pan-anarchia significa letteralmente un’anarchia che abbraccia tutto; infatti in greco “pan” significa “tutto”. pan-anarchia è una anarchia onnicomprensiva e articolata. Accanto all’ideale dell’assenza di dominio esterno, o anarchia vera e propria, la pan-anarchia comporta quattro altri ideali:
il comunismo, per cui “tutto appartiene a tutti”; il pedismo [49], ovvero la liberazione dei fanciulli e dei giovani dal giogo di un’educazione volta a farne dei servi; il cosmismo (nazional-cosmopolitismo) cioè l’emancipazione totale delle nazionalità oppresse, e infine, il gineantropismo [50], vale a dire l’emancipazione e umanizzazione delle donne.
Presi assieme questi cinque ideali rientrano sotto la qualifica generale di “pananarchia”. La pan-anarchia implica una sintesi (unificazione) di tutti i principali ideali sociali, di tutte le azioni e le aspirazioni che hanno come obiettivo un capovolgimento radicale e una ricostruzione di tutta la società: l’economia, la famiglia, l’istruzione, le relazioni tra i popoli e le istituzioni governative. Nella sfera economica, la pan-anarchia comporta la sostituzione del capitalismo con il comunismo, l’abolizione della proprietà privata della terra, dei mezzi di produzione e dei beni di consumo. Per quanto riguarda la famiglia ciò significa la sostituzione della poligamia e del mercimonio delle donne con un amore sincero tra uomo e donna, come pure la fine del dominio maschile nella famiglia e nella vita dei sessi in generale, sia di fatto che di norma; inoltre ciò comporta la libera partecipazione delle donne in tutti i rami di attività e nelle espressioni artistiche, e l'uguale godimento di tutti i benefici del vivere in società. Nell’istruzione significa la sostituzione dell’attuale apprendimento libresco che inculca nei nostri giovani pregiudizi di ordine religioso e scientifico, con una istruzione pratica nelle varie tecniche produttive che sarà utile nella vita di tutti i giorni e che permetterà alle persone di essere libere, autonome e darà a ciascuno la capacità di produrre beni in maniera creativa e indipendente.
Significa anche che l’attuale sistema territoriale, con le sue patrie, le sue frontiere e la sovranità territoriale nazionale e privata, sarà sostituito da un insieme nazional-cosmopolita nel quale non ci saranno né patrie né frontiere ma solo libere unioni di liberi popoli a cui la terra appartiene in comune. “Tutta la terra a tutta l’umanità” – questo è il motto della pan-anarchia, che si oppone al territorialismo e all’imperialismo degli stati nazionali predatori che dichiarano che “l’intera terra è nostra”. Nell’ambito delle istituzioni governative e dei rapporti con gli individui, la pananarchia è a favore dell’eliminazione del potere dello Stato e di tutte le forme di dominio: tribunali, prigioni, eserciti, eccetera, e per l’amministrazione delle relazioni sociali attraverso accordi volontari sulla base di libere risoluzioni. La pan-anarchia è l’ideale dell’Unione degli Oppressi: sudditi statali, poveri, giovani, minoranze nazionali, donne. Questo ideale intende riunire tutti gli sfruttati per dar vita a una organizzazione a livello mondiale, un’Internazionale degli Oppressi, un’Unione Mondiale degli Oppressi per la fine del regime esistente basato sulle cinque forme di oppressione precedentemente trattate. La pan-anarchia prende l’iniziativa di promuovere l’unificazione dei cinque gruppi oppressi nell’attuale società al fine di formare un’Internazionale dei LavoratoriSpiriti Liberi, un’Internazionale dei Giovani, un’Internazionale delle Nazionalità Oppresse, un’Internazionale delle Donne e un’Internazionale delle Personalità Individuali, come pure la formazione eventuale di un’Internazionale Unificata degli Oppressi fondata sul principio dell’uguaglianza di tutte le persone sfruttate e vessate. La pan-anarchia vuole la distruzione-eliminazione dei cinque tipi di oppressione nella società esistente. Per questo, lo scopo della pan-anarchia non consiste di certo nella liberazione di un gruppo di sfruttati attraverso lo sfruttamento di altri, come avverrebbe, ad esempio, con l’introduzione della dittatura del proletariato, ma nella liberazione di tutti gli oppressi, di tutta l’umanità, di tutti i reietti. Pan-anarchia inoltre significa la liberazione di tutta l’umanità dall’asservimento al capitalismo e allo Stato, dai vincoli di una istruzione basata su formule stantie, dalle fatiche dei lavori di casa assegnati alle donne, e dalla schiavitù del nazionalismo. La pan-anarchia eliminerà le cinque forme di oppressione esistenti nella società contemporanea: (1) economica, (2) politica, (3) nazionale, (4) educativa e (5)
domestica. Detto in maniera semplice, la pan-anarchia intende sottolineare il fatto che non ci sono né ricchi né poveri, né servi né padroni, né insegnanti che manipolano né allievi che sono manipolati, né padroni maschi né schiave femmine. Per la pan-anarchia ognuna di queste esigenze di liberazione ha uguale importanza. Qualsiasi manifestazione di superiorità di un elemento oppresso sopra un altro, che sia sotto forma di capi o dominatori, la pan-anarchia lo bolla come sfruttamento degli esseri umani a vantaggio di un particolare gruppo o classe. Ma pan-anarchia non significa solo emancipazione dalle cinque forme di oppressione. Significa anche emancipazione dell’umanità oppressa da due inganni: l’inganno della religione e quello della scienza, che sono essenzialmente solo due varietà dello stesso inganno, quello perpetrato dagli oppressori a danno degli oppressi. La pan-anarchia afferma che la religione e la scienza sono state inventate per distogliere l’attenzione dall’oppressione e dal mondo tangibile e reale, sostituendolo con un mondo intangibile, soprannaturale (religione) o astratto (scienza). La pan-anarchia vede la scienza come una religione riformata e la natura come un Dio riformato. La scienza è la religione della borghesia così come la religione era la scienza della nobiltà e dei padroni di schiavi. La pan-anarchia proclama l’universale assenza dello Stato, l’anarchia cosmica, l’anarchia dappertutto! Tutte le forme di religione e di scienza sono solo degli strumenti di oppressione da parte dei borghesi, vincoli e trappole, allettamenti ed esche per gli oppressi. Sono anche aspetti fraudolenti e arretrati, meschini e stupidi, primitivi e risibili, confusi e contraddittori. La scienza è una delle idiozie del selvaggio europeo così come la religione lo è del selvaggio asiatico. Entrambe formano un unico tessuto fatto di confusioni e aspetti contraddittori: Dio e non Dio, causa e non causa; Dio il vero creatore e Dio che crea dal “nulla”, il che significa che egli stesso è l’assoluto nulla, un non-Dio; la causa fatta risalire alla prima causa, che diventa la causa di sé stesso o la non causa. Dio e la Natura sono fatti a immagine dell’essere umano, antropomorfi. Gli eschimesi li rappresentano, a seguito delle loro esperienze di caccia, sotto forma di un orso bianco (il mondo è sorto da un orso bianco); gli Ebrei li raffigurano sulla base delle loro attività (Dio il falegname, il sarto). Newton, Kant e Laplace immaginano la Natura come un meccanismo di tipo europeo, Darwin e Spencer vedono la realtà alla maniera di una riproduzione di cavalli di razza inglese (selezione naturale seguita da forme di selezione artificiale sul modello degli
allevamenti inglesi). Il governo dei cieli e il governo della natura – angeli, spiriti, diavoli, molecole, atomi, etere, le leggi riguardanti Dio nei cieli e le leggi di natura, le forze che influenzano un corpo nei rapporti con un altro corpo – tutto ciò è stato inventato, formato, generato dalla società, sulla base delle forme sociali. Dio è posto a immagine del monarca assoluto degli asiatici. Le leggi del movimento degli astri e delle stelle, l’astrologia degli Assiri e dei Babilonesi, risultano essere le leggi introdotte dagli imperatori. Le leggi della Natura diventano le leggi promulgate dallo Stato; la forza naturale diventa la coercizione. Le forze della Natura assomigliano alle monarchie costituzionali d’Europa e alle loro burocrazie, e la Natura sembra assomigliare al presidente di una repubblica democratica! La pan-anarchia insegna che l'universo non è modellato né sull’essere umano né sulla società. Non ha né inizio né fine, né origine (cosmogonia) né causa, né leggi né forze imperiose. L’universo e ogni fenomeno naturale sono sempre qualcosa in sé stesso, anarchico individualista o anarchico-comunista, per così dire. L’universo e tutti i suoi fenomeni sono realtà spontanee. Nell’universo e in ogni fenomeno non vi è nulla di esterno, nessun ordine coercitivo, ma piuttosto l’assenza di dominio, l’anarchia, vale a dire un ordine interno (immanente), autonomo e spontaneo. Non vi è una forza naturale ma solo azioni e affinità; le entità materiali, le azioni, e le affinità sono realtà identiche. Per la pan-anarchia, l’errore di base della religione e della scienza è che la prima è frutto della fantasia e la seconda è frutto dell’intelletto (configurazioni mentali e astrazioni). La pan-anarchia ritiene che solo ciò che uno sente direttamente, attraverso l’attività dei muscoli e le operazioni della tecnica, rappresenta qualcosa di genuino. La pan-anarchia ritiene che solo la tecnica sia la cultura del popolo, dei produttori, degli oppressi, la tecnica nel suo significato più ampio, che abbraccia tutti i mestieri e tutte le arti pratiche. Proprio per questo la pananarchia chiama ciò la pan-tecnica. Per quanto riguarda lo studio della società, la pan-anarchia rifiuta tutte le leggi sociologiche concernenti l’evoluzione e lo sviluppo sociali, e le sostituisce con la sociotecnica, la costruzione di una società che ha il diritto esplicito di compiere esperimenti sociali, improvvisazioni e invenzioni. La pan-anarchia, nell’ottica della tecnica, non significa solo anarchia integrale e universale, ma anche anarchia subito, adesso. Al posto della evoluzione e delle riforme proposte dai
socialdemocratici, i pan-anarchici propongono la Rivoluzione Sociale, sostenendo la regola d’oro degli anarchici: Avanti tutti assieme verso il nostro scopo! E allora: Lunga vita alla pan-anarchia! I fratelli A.L. e V. I. Gordin Mosca, 1918
L'anarchia, di E. Armand
Documento 18 (1923)
Una presentazione dell'anarchia da una prospettiva in cui l'individuo gioca un ruolo centrale. Notevoli, in questo scritto, i punti di contatto con la metodologia di organizzazione sociale nota sotto il nome di panarchia. Fonte: Il testo completo, da cui sono presi questi aggi, è reperibile nella collezione degli scritti di E. Armand, L'initiation individualiste anarchiste, capitolo III, Éditions La Lenteur & Éditions Le Ravin Bleu, 2014.
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Si è molto cavillato e discusso sul ruolo, il valore e il significato reale del movimento anarchico. Noi cercheremo di fare un po’ di luce in questa confusione voluta da taluni e sfruttata da molti. Definizioni: anarchia, anarchico, concezione anarchica Il termine anarchia viene da due parole greche che significano pressappoco negazione o assenza di un governo, di un potere, di un dominio. È utilizzato talvolta nel senso di disordine, cosa che a noi non interessa affatto. In senso lato, il termine designa una certa concezione filosofica della società o della vita degli individui che esclude l’idea di un governo o di un potere esterni. L’ anarchico è il protagonista, il realizzatore delle idee o delle azioni che hanno come conseguenza o sbocco l’anarchia. La concezione anarchica, esaminata dal punto di vista teorico o pratico o anche descrittivo, costituisce l’insieme delle idee e delle azioni che risultano o portano all’anarchia. Nel senso in cui li intendiamo noi, anarchico e concezione anarchica sono sinonimi di antiautoritario e antiautoritarismo. Praticamente, a nostro avviso, si può considerare anarchico ogni essere che, per temperamento o dopo una riflessione seria e consapevole, arriva a negare e rigettare ogni potere o coercizione a lui esterni, che sia di tipo governativo, etico, intellettuale o economico. Si può commentare questa posizione in vari modi: si può dire che è anarchico chiunque rifiuti consapevolmente il dominio di un individuo su un altro individuo, o il dominio dell'ambiente sociale su un essere umano, e il suo corollario economico: lo sfruttamento di una persona da parte sia di un’altra persona che dell'ambiente sociale. Origini della concezione anarchica È difficile definire l’origine storica del movimento anarchico. Senza dubbio fu anarchico il primo essere umano che reagì consapevolmente contro l’oppressione esercitata da un altro individuo o da una collettività. Le leggende e la storia menzionano alcuni nomi di anarchici: Prometeo, gli angeli ribelli, Socrate, Epitteto, Diogene, lo stesso Gesù, possono essere considerati, da differenti punti di vista, come delle tipologie di anarchici di un tempo. Gli inizi
filosofici del movimento anarchico attuale sembrano risalire al Rinascimento, o più esattamente alla Riforma Protestante che, istillando nelle menti le idee del libero esame e della libera ricerca in materia di sacre scritture, oltreò i confini dei suoi iniziatori e sfociò nella diffusione dello spirito critico in tutte le sfere della vita. Il movimento del libero pensiero era nato ma, invece di svilupparsi, di andare oltre fino alla critica razionale delle istituzioni e delle convenzioni umane, si bloccò nell’esame minuzioso di favole puerili sulle quali i cristiani ortodossi costruiscono le loro credenze. È sorto allora il movimento anarchico, che ha completato e realizzato l’opera dei liberi-pensatori, sottomettendo all’analisi individuale decreti e leggi, princìpi morali e programmi d’insegnamento, condizioni economiche e rapporti sociali di ogni tipo. L'anarchia è diventata il più pericoloso movimento di opposizione con cui le tirannie governative siano state confrontate. La concezione anarchica e la Prima Internazionale Si è soliti collegare storicamente l’anarchia al movimento operaio che, sotto il nome di “Internazionale dei Lavoratori”, fiorì verso la fine del regno di Napoleone III. La cosa è inesatta. L’avversione e le invettive che Karl Marx, il grande profeta del socialismo scientifico, mostrò nei confronti di Mikhail Bakunin non avevano come causa divergenze profonde dal punto di vista intellettuale o etico. Bakunin e i suoi amici furono espulsi dall’Internazionale nel 1872 in quanto federalisti, decentralizzatori, autonomisti, ostili alla strategia statalista di conquista di seggi parlamentari che i partiti socialisti stavano iniziando ad attuare e che sarebbe continuata nel corso dei successivi cinquant’anni. Sono stati i federalisti che hanno tradotto e diffuso nei paesi del Mediterraneo il Capitale, l’opera principale di Marx. Certamente Bakunin è stato un anarchico, spesso con toni violenti e talvolta con grande profondità di vedute, molto più di quanto lo siano parecchi dei suoi seguaci. Ma se si studia attentamente la concezione della Federazione del Jura, vi si ritrovano tutte le reminiscenze del socialismo d’altri tempi: il credere nell’uguaglianza, nella fraternità tra tutti gli esseri umani; l’idea di solidarietà e di amore universali, di società dell’avvenire, di una rivoluzione che salverà e trasformerà di colpo il genere umano – concezioni che non hanno nulla di specificatamente anarchico. La verità è che i federalisti dell’Internazionale si mostrarono anarchici per quanto riguarda la visione della tattica e dell’organizzazione del movimento socialista. Per il resto, nulla li differenziava dai socialisti rivoluzionari di allora.
Gli anarchici e la società Al di fuori di ogni struttura, senza un partito, una sorta di ragazzi perduti, antitesi viva del socialismo, gli anarchici si trovano, su tutti i punti, in disaccordo con l’attuale società. Se gli anarchici negano validità alla legge esterna, si levano contro il potere dei suoi rappresentanti e contro gli atti dei poteri esecutivi, è perché essi affermano di voler trovare da sé le norme e le risorse necessarie per vivere e agire. Le società in cui viviamo attualmente hanno bisogno, per perpetuarsi, per continuare a esistere, di fare appello a mille forme di potere autoritario: il potere di un dio, quello dei legislatori, il potere del denaro, della considerazione sociale, della rispettabilità formale, degli uomini del ato, degli agitatori, dei governanti, dei programmi di ogni tipo. Tutti gli esseri umani accettano di essere influenzati profondamente dall’ambiente in cui vivono; l’anarchico si sforza però, pur tenendo conto dei fattori ineludibili di ordine materiale, di determinare il corso della sua vita, al di fuori di qualsiasi potere dominante. L’individualismo anarchico La concezione anarchica, come abbiamo visto, è la filosofia dell'antiautoritarismo. L' individualismo anarchico è una visione pratica di questa filosofia, che postula il fatto che spetta a ciascuna entità umana, presa nello specifico, di tradurre nella sua vita quotidiana e per quanto la riguarda, questa teoria filosofica in gesti e atti. Proprietà dei mezzi di produzione e libera disponibilità del prodotto L' individualista si differenzia dal comunista anarchico (l'anarchico della Federazione del Jura e dei suoi continuatori) in quanto considera che, oltre alla proprietà degli oggetti di consumo che formano un'estensione della personalità, la proprietà dei mezzi di produzione e la libera disponibilità di quanto prodotto costituiscano la garanzia essenziale dell'autonomia della persona. Resta inteso che tale proprietà è limitata alla possibilità di utilizzare (individualmente, in coppia, in gruppi familiari, eccetera) il terreno o i mezzi di produzione indispensabili alle esigenze dell' unità sociale; e che il possessore non li dia in appalto a un'altra persona o non utilizzi qualcuno al suo servizio per la sua messa in valore.
Gli individualisti e il rivoluzionario sistematico In generale, gli individualisti non sono rivoluzionari nel senso sistematico e dogmatico del termine. Essi non credono che una rivoluzione possa apportare, più di quanto lo possa fare una guerra, un reale miglioramento nella vita degli individui… In tempi di rivoluzione, i fanatici dei partiti rivali e delle scuole in lotta tra di loro si preoccupano principalmente di prevalere l'uno sull'altro e, per raggiungere questo obiettivo, si fanno a pezzi con una violenza e un odio che spesso nemmeno gli eserciti nutrono nei confronti del nemico. Alla pari di una guerra, una rivoluzione può essere paragonata a un accesso di febbre nel corso del quale il malato si comporta in modo molto diverso rispetto al suo stato normale. Una volta che l'accesso è ato, il paziente ritorna al suo stato normale. Così la storia ci mostra che alle rivoluzioni sono sempre seguite delle ricadute all'indietro che hanno portato a deviare dallo scopo originario. È con l'individuo che dobbiamo cominciare. È da individuo a individuo che si deve in primo luogo diffondere l'idea che sia un crimine costringere qualcuno ad agire diversamente da quanto costui ritiene utile, o vantaggioso, o piacevole per la propria conservazione, il proprio sviluppo o la propria felicità. E questo vale sia nel caso che quel crimine sia commesso dallo Stato, o per mezzo della legge, o da una maggioranza o da qualche individuo isolato. È da individuo a individuo che deve essere comunicata l'idea secondo la quale è il fattore individuale che dovrebbe operare sul fattore sociale. Queste concezioni devono essere il frutto della riflessione o il risultato di un temperamento che riflette studiando la realtà, e non la conseguenza di un eccesso di eccitazione eggero estraneo alla natura normale di chi le professa. Fattori di esistenza e di evoluzione dell’individualista L'individualismo anarchico non presenta alcun piano che regoli in anticipo, nei suoi minimi dettagli, l'ambiente in cui vive l'essere umano. In tale ambiente l'individuo gioca un ruolo primario rispetto all'aggregato umano. E dal momento che in tale ambiente l'individuo non vuole né servire né asservire, non si conoscerebbero né il dominio della società o di una persona sull'altra, né il dominio del singolo su un altro singolo o sulla società – né lo sfruttamento dell'uno da parte dell'altro o da parte della società, o viceversa. Sarebbe in sostanza un ambiente in cui, in assenza di un potere dominante o di leggi imposte, ognuno vivrebbe la vita più adatta al proprio temperamento e alle proprie aspirazioni, senza dover rendere conto a nessuno delle proprie azioni, purché ciò avvenga in una condizione di reciprocità nei confronti di tutti gli altri.
Si tratterebbe di un nuovo e profondo orientamento delle mentalità, molto più che la costruzione fasulla di una nuova società. Quando lo si porta a spiegare meglio la sua concezione, l'individualista riconosce francamente che egli non potrebbe logicamente esistere ed evolvere a suo agio se non in mezzo a una umanità in cui operassero, fianco a fianco, un numero infinito di gruppi o di singoli, che si governerebbero come meglio credono, praticando ogni sorta di combinazioni o concezioni, economiche, politiche, scientifiche, affettive, letterarie, ricreative. In sostanza un insieme di realizzazioni di tipo individuale o collettivo. Qui, ognuno riceve secondo i propri bisogni. Là, ognuno acquisisce secondo il suo sforzo. Qui, baratto: prodotti per prodotti. Là, scambio: prodotti in cambio di valori rappresentativi. Qui, la proprietà del prodotto spetta al produttore. Là, la disponibilità del prodotto per tutti. Qui, l'onnivorismo. Là, il veganismo o qualsiasi altra regola di igiene o di alimentazione divenuta un "ismo". Qui, la coppia e la famiglia. Là, la libertà o anche la promiscuità sessuale. Qui, dei materialisti. Là, degli spiritualisti. Qui, il neonato affidato alla madre. Là, i bambini affidati al gruppo. Qui, la ricerca di emozioni artistiche o letterarie. Là, la ricerca della sperimentazione scientifica. Qui, associazioni di piacere. Là, scuole di austerità… A patto che si comprenda che ognuno ha la facoltà di are da un ambiente all'altro o di isolarsi da qualsiasi ambiente. Questo senza la tentazione per i gruppi più forti di prendere il sopravvento sui gruppi più deboli, o per i gruppi di inglobare con la violenza le individualità isolate. La nostra visione dell’individualista L'individualista, come noi lo concepiamo, ama la vita e la vitalità. Egli proclama ed esalta la gioia, il godimento della vita. Riconosce, senza giri di parole, che egli ha come scopo della vita la sua felicità. Non è un asceta e la mortificazione della carne gli ripugna. È apionato. Si presenta senza maschere, con la fronte coronata di tralci di vite e canta volentieri accompagnato dal flauto. Comunica con la Natura attraverso la sua stimolante energia fatta di istinti e di pensieri. Non è né giovane né vecchio! Ha l'età che si sente di avere. E finché ha una goccia di sangue nelle vene, lotta per conquistare o consolidare il suo posto, riscaldato dai raggi del sole. Non si impone agli altri, ma non vuole che altri si impongano a lui. Ripudia i padroni e gli dei. Sa amare, ma sa anche odiare. È pieno di affetto per i suoi, per il suo mondo, ma ha orrore dei falsi fratelli. È orgoglioso e consapevole della sua dignità personale. Si modella internamente e reagisce esternamente. È contemplativo e operativo. Non si preoccupa dei
pregiudizi e ride di ciò che la gente dice. Gusta l'arte, la scienza e la letteratura. Gli piacciono i libri, lo studio, la meditazione, l'attività. È un artigiano, non un manovale. È generoso, sensibile e sensuale. È affamato di nuove esperienze e di fresche sensazioni. Ma, se egli avanza nella vita su un carro veloce come un turbine, è solo perché si sente padrone dei cavalli che lo portano. È animato dalla volontà di assegnare alla saggezza e al piacere, sulla base della sua determinazione, la parte che legittimamente spetta loro nel corso della sua personale evoluzione. Le aspirazioni degli individualisti anarchici In sostanza, gli anarchici individualisti rappresentano: a) Una aspirazione, al tempo stesso umana e morale: l' individualista anarchico è l’essere che nega l’autoritarismo e il suo corollario economico, lo sfruttamento, e si rifiuta di esercitarlo; l’essere umano la cui vita consiste in una reazione continua contro un ambiente che non può e non vuole né comprenderlo né approvarlo, dal momento che le persone che lo compongono sono schiave dell’ignoranza, dell’apatia, delle tare ancestrali, del conformismo verso le convenzioni stabilite. L'anarchico individualista tende alla realizzazione di un tipo nuovo di essere umano: l'individuo che non sente alcun bisogno di regolamentazione o costrizione proveniente dall'esterno, perché possiede un sufficiente potere di volontà per decidere sui suoi bisogni personali e preservare il suo potere di resistenza individuale. b) Una aspirazione al tempo stesso morale e sociale: una concezione di un ambiente individualista anarchico che implica, in particolare, dal punto di vista economico, la proprietà dei mezzi di produzione e la libera disponibilità del proprio prodotto. Questi aspetti sono visti come garanzia essenziale dell'autonomia delle persone. Un tale ambiente è visto esistere ed evolvere nel seno di una umanità le cui componenti costituiscono i soggetti che determinano la loro vita nei suoi aspetti intellettuali, etici, economici, attraverso contratti liberalmente stipulati e applicati, che implicano la libertà di tutti, senza detrimento per la libertà di alcuno. Un’umanità nell'ambito della quale potrebbero fiorire e svilupparsi congiuntamente e simultaneamente tutte le sperimentazioni, tutti i sistemi, tutti gli stili di vita individuale o comunitaria, tutte le associazioni concepibili, senza altra restrizione o limitazione se non l'equilibrio richiesto dal loro rispettivo funzionamento.
c) Una aspirazione al tempo stesso individuale e sociale: l’ associazione individualista anarchica, come garanzia destinata non soltanto ad accrescere e sviluppare al massimo la libertà, l'operatività, il benessere e la gioia di vivere di tutti coloro che ne fanno parte, ma anche per salvaguardare e garantire la loro autonomia personale contro tutte le usurpazioni, invasioni, limitazioni esterne all'io, qualunque esse siano.
Sull'anarchia, di Alexander Berkman
Documento 19 (1929)
Un’apionata introduzione all'anarchia, che cerca di dissipare le paure di coloro che vorrebbero barattare la loro libertà per ottenere una illusoria sicurezza, sotto le ali falsamente protettive del Grande Fratello, lo Stato territoriale. Fonte: Alexander Berkman, What is anarchism?, Estratti dal Capitolo XX e XXI, AK Press, Edinburgh, 2003.
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Che cos’è l’anarchia? «Ci puoi dire in breve – chiede un amico – che cosa è davvero l’anarchia?» Ci proverò. Detto in poche parole, l’anarchia insegna che possiamo vivere in una società in cui non vi sono coercizioni di alcun tipo. Una vita senza coercizioni significa naturalmente libertà; significa essere liberi da imposizioni e costrizioni, e la possibilità di condurre una esistenza come conviene meglio all’essere umano. Non puoi godere di una vita simile se non elimini le istituzioni che limitano la tua libertà e si intromettono nella tua vita, se non cancelli le condizioni che ti costringono ad agire diversamente da quello che tu vorresti. Quali sono queste istituzioni e condizioni? Vediamo che cosa dobbiamo eliminare per assicurare una esistenza libera e armoniosa. Una volta che sappiamo quello che deve essere tolto di mezzo e che cosa ne deve prendere il posto, troveremo anche il modo di realizzare ciò. Quindi, che cosa dobbiamo eliminare per garantire la libertà? Innanzitutto, certamente, la cosa da eliminare è quella più invasiva, che ti ostacola o ti impedisce di agire liberamente; la cosa che interferisce con la tua libertà e ti obbliga a vivere diversamente da come vorresti se potessi scegliere liberamente. Quella cosa è il governo. Osserva attentamente e a lungo e vedrai che il governo è il massimo invasore, in misura maggiore del peggiore dei criminali. Riempie il mondo con la violenza, con la frode e l’inganno, con l’oppressione e la miseria. Come ha detto un grande pensatore del ato: “il suo alito diffonde veleno”. Esso corrompe tutto quello che tocca. «Sì, il governo significa violenza ed è un male», tu lo ammetti. «Ma possiamo farne a meno?» Questo è proprio ciò su cui voglio soffermarmi. Ora, se ti chiedessi se tu hai bisogno del governo, sono sicuro che mi risponderesti che tu non ne hai bisogno,
ma esso è necessario per via delle altre persone. Eppure, se tu chiedessi a uno qualunque di questi “altri” egli risponderebbe come hai fatto tu: direbbe che lui non ne ha bisogno ma che è necessario “a causa degli altri”. Perché ognuno pensa di essere una persona ammodo anche senza la presenza del poliziotto, ma che per “gli altri” il bastone è assolutamente necessario? «Le persone commetterebbero furti e si ammazzerebbero tra di loro se non ci fosse il governo e non ci fossero le leggi». Questo è quello che tu affermi. Se è davvero così, per quale motivo agirebbero in tal modo? Lo farebbero solo perché ciò reca loro piacere o a causa di taluni motivi? Forse se esaminiamo questi motivi, possiamo scoprire la cura a tale comportamento. Supponi che tu, io e un gruppo di altre persone siamo naufragati su una isola ricca di frutti di ogni genere. Certamente ci metteremmo all’opera per raccogliere tali frutti. Ma, supponiamo che una persona del gruppo dei naufraghi dichiari che tutto gli appartiene, e che nessuno possa godere di un singolo boccone se non paga a lui un tributo. Questo fatto ci riempirebbe di indignazione, non è vero? Rideremmo delle sue pretese. Se egli cercasse di causare disordini per fare valere le sue pretese, potremmo gettarlo in mare e questo gli servirebbe di lezione, non è forse vero? Supponi inoltre che noi e i nostri padri avessimo coltivato l’isola e l’avessimo arricchita con tutto quello che serve per una esistenza confortevole, e che qualcuno arrivasse e pretendesse che tutto ciò gli appartiene. Cosa diremmo? Lo ignoreremmo, non è vero? Gli potremmo dire che può godere con noi di quei beni e unirsi alle nostre attività. Ma supponiamo che egli insista a sostenere che tutto gli appartiene e che esibisca un pezzo di carta a prova di ciò. Gli diremmo che è pazzo e continueremmo nelle nostre faccende. Ma se egli avesse un governo che lo sostiene, farebbe ricorso ad esso per la protezione dei “suoi diritti”, e il governo invierebbe poliziotti e soldati che ci caccerebbero via e installerebbero al nostro posto il “proprietario legale”. Questa è la funzione del governo; questo è il motivo per cui esiste il governo e questo è quello che fa tutto il tempo. Ora, tu pensi ancora che senza questa cosa chiamata governo noi ruberemmo e ci
ammazzeremmo l’un l’altro? Non è forse vero che con il governo noi rubiamo e ammazziamo? Perché il governo non ci garantisce nei nostri diritti di possesso ma, al contrario, ci espropria a profitto di coloro che non hanno alcuna legittimità al riguardo. Se dovessimo svegliarci domani mattina per apprendere che non vi è più alcun governo, saresti tu il primo a correre in strada per ammazzare qualcuno? No, tu sai benissimo che questa è una stupidaggine colossale. Chiaramente facciamo riferimento a persone sane di mente, alla gente comune. Il pazzo che vuole commettere un omicidio non chiede prima se c’è o non c’è un governo. Tali persone dovrebbero essere curate da medici e psichiatri; accolte in un ospedale e trattate per la loro patologia. È probabile che se tu o un altro vi svegliaste un bel giorno scoprendo che non c’è più il governo, voi iniziereste a organizzare la vostra vita tenendo conto di questa nuova situazione. Certamente è molto probabile che, se tu vedessi alcune persone rimpinzarsi di cibo mentre tu rimani digiuno, chiederesti di avere anche tu la possibilità di nutrirti e saresti perfettamente nel giusto a questo riguardo. E altrettanto farebbero gli altri, il che significa che le persone non accetterebbero che una persona si appropri di tutte le risorse: esse vorrebbero che fossero condivise. Ciò significa inoltre che i poveri non accetterebbero più di rimanere poveri mentre altri navigano nel lusso. Significa che il lavoratore si rifiuterebbe di cedere i frutti del suo lavoro al padrone che pretende di essere “proprietario” della fabbrica e di ogni cosa che vi è prodotta. Significa che l’agricoltore non permetterebbe che migliaia di ettari di terra giacciano inutilizzati mentre lui non ne ha abbastanza per mantenere sé e la sua famiglia. Significa che a nessuno sarebbe permesso di monopolizzare il suolo o i macchinari per la produzione. Significa che la proprietà privata dei mezzi di produzione, che sono la fonte del vivere, non sarebbe più tollerata. Sarebbe considerato un crimine estremamente grave il fatto che alcuni siano proprietari di beni che non potrebbero utilizzare se vivessero una dozzina di vite, mentre il suo prossimo non ha abbastanza cibo per i suoi figli. Significa che tutti prenderebbero parte alla ricchezza sociale e che tutti contribuirebbero a generarla. Significa, in breve, che quando il governo è eliminato, anche la schiavitù salariale e il capitalismo devono scomparire, perché non possono esistere senza il sostegno e la protezione del governo. Proprio come l’individuo che pretendeva di monopolizzare le risorse dell’isola, a cui ho accennato prima, il quale non
potrebbe far valere le sue assurde pretese senza l’intervento del governo. «Oh, ma questo è il comunismo», esclama il tuo amico, «e tu hai invece sostenuto di non essere un Bolscevico!» No, io non sono un Bolscevico, perché i Bolscevichi vogliono che ci sia un governo potente, cioè lo Stato, mentre anarchia significa fare del tutto a meno dello Stato o governo. «Ma», tu chiedi, «i Bolscevichi non sono comunisti?» Si, i Bolscevichi sono comunisti, ma loro vogliono la loro dittatura, il loro governo, per costringere le persone a vivere sotto il comunismo. Il comunismo anarchico, al contrario, significa comunismo volontario, comunismo come prodotto di una libera scelta. «Vedo la differenza. Certamente non sarebbe una brutta cosa», ammette il tuo amico. «Ma TU pensi davvero che ciò sia possibile?» È possibile l’anarchia? «Sarebbe possibile», affermi tu, «se potessimo fare a meno del governo. Ma, davvero, noi possiamo farne a meno?» Forse il modo migliore per rispondere a questo interrogativo è esaminare la tua propria vita. Quale ruolo gioca il governo nella tua esistenza? Ti aiuta a vivere? Ti nutre, ti veste e ti alloggia? Hai bisogno del suo aiuto quando lavori o ti diverti? Se stai male, chiami il medico o il poliziotto? Può il governo procurarti delle capacità superiori a quelle che ti ha dato la natura? Ti può, ad esempio, proteggere dalla malattia, dalla vecchiaia e dalla morte? Prendi in considerazione la tua vita di ogni giorno e troverai che, in realtà, il governo non è un fattore attivo in tutto ciò eccetto quando inizia a interferire nelle tue faccende, quando ti obbliga a fare certe cose e ti proibisce dal farne altre. Ti costringe, ad esempio, a pagare le tasse e a mantenerlo, che tu lo voglia o no. Ti fa indossare una uniforme e ti arruola nell’esercito. Si intromette nella tua vita personale, ti comanda a bacchetta, ti costringe, prescrive a te come devi comportarti e, in generale, ti tratta come piace a lui. Ti dice anche che cosa devi
credere e ti punisce se pensi o agisci in modo diverso. Ti indirizza su cosa mangiare e bere, e ti mette in prigione o addirittura ti ammazza in caso di disubbidienza. Ti comanda e ti domina ad ogni o della tua vita. Ti tratta come uno scolaretto cattivo o come un ragazzino irresponsabile che ha bisogno della mano ruvida di un guardiano, e se disobbedisci ti ritiene comunque responsabile. Più oltre, esamineremo i dettagli di una esistenza nell'ambito dell’anarchia, e vedremo quali condizioni e istituzioni saranno presenti in quella forma di organizzazione, come funzioneranno e che effetto avranno probabilmente sugli esseri umani. Per ora voglio solo accertarmi che una tale condizione è possibile, che l’anarchia è attuabile. Come vive generalmente l’essere umano al giorno d’oggi? Quasi tutto il suo tempo è occupato dalla necessità di guadagnarsi da vivere. Tu sei così preso dalle preoccupazioni del vivere che a malapena ti rimane il tempo di vivere davvero, di godere della vita. Non ne hai né il tempo né le risorse. Sei fortunato se hai una fonte di reddito, un lavoro. Di tanto in tanto arrivano tempi bui: non c’è lavoro e migliaia di persone perdono il loro impiego, ogni anno, in ogni paese. Quei periodi di depressione economica significano assenza di reddito, di salario. Ne conseguono preoccupazioni e privazioni, malattie, disperazione e persino suicidi. Si assiste alla diffusione della povertà e del crimine. Per alleviare la miseria si costruiscono ricoveri, strutture per i poveri, ospedali che curano gli indigenti, e tutto ciò è pagato con le tue tasse. Per prevenire il crimine e punire i criminali ti è chiesto di sostenere la polizia, gli investigatori, la repressione statale, i giudici, gli avvocati, le prigioni, i carcerieri. Puoi immaginare qualcosa di più insensato e disfunzionale? I deputati promulgano leggi, i giudici le interpretano, i vari burocrati le applicano, la polizia individua e arresta il criminale, e alla fine il carceriere lo prende in custodia. Parecchie persone e istituzioni sono impegnate nel far sì che i disoccupati non rubino e li puniscono se cercano di farlo. Solo allora gli sono garantiti i mezzi per sopravvivere, la cui mancanza aveva spinto il disoccupato a infrangere la legge. Dopo un periodo di detenzione, lungo o breve, ritorna libero. Se non riesce a trovare lavoro il circolo vizioso di furti, arresti, processi e carceri ricomincia di nuovo.
Questa è una immagine molto sommaria ma tipica della stupidità del nostro sistema; idiota e inefficiente. I legislatori e il governo sostengono questo sistema. Non è forse strano che molte persone ritengano che non possiamo fare a meno del governo, quando, nella realtà dei fatti, la nostra vita, quella vera, non mostra alcuna connessione con lo Stato, alcun bisogno di esso, ed è solo disturbata quando la legge e il governo si intromettono nella nostra esistenza? «Ma la sicurezza e l’ordine pubblico», tu ribadisci, «possono forse essere garantiti senza la legge e il governo? Chi ci proteggerà dai criminali?» La verità è che, quello che si chiama “legge e ordine” è, in realtà, il peggiore dei disordini. Quel poco di ordine e di pace che abbiamo adesso sono dovuti al buon senso e allo sforzo congiunto delle persone, per lo più nonostante le intromissioni del governo. Hai forse bisogno del governo per dirti di non attraversare la strada quando ano le auto? Hai bisogno di una legge che ti prescriva di non gettarti dal ponte di Brooklyn o dalla torre Eiffel? L’individuo è un essere sociale: non può esistere in isolamento; vive in comunità o società. Dai reciproci bisogni e interessi comuni derivano modi di organizzazione che ci procurano sicurezza e conforto. Questa cooperazione è libera, volontaria; non richiede costrizioni da parte di alcun governo. Tu diventi membro di una associazione sportiva o di una società canora perché le tue inclinazioni ti spingono a farlo, e cooperi con gli altri partecipanti senza bisogno che qualcuno ti costringa a farlo. Il ricercatore scientifico, lo scrittore, l’artista e l’inventore seguono la loro ispirazione che li porta a impegnarsi in una attività benefica per altri. Le loro inclinazioni e bisogni sono la migliore motivazione: le interferenze di qualsiasi governo o potere possono solo ostacolare i loro sforzi. Attraverso tutte le espressioni della vita scoprirai che i bisogni e le tendenze delle persone li spingono ad associarsi per la reciproca protezione e assistenza. Questa è la differenza tra gestire le cose e governare gli individui; tra il compiere qualcosa per libera scelta e l’essere forzati a farlo. È la differenza tra la libertà e la costrizione, tra l’anarchia e il governo, perché anarchia significa cooperazione volontaria invece di partecipazione obbligatoria. Significa armonia e ordine invece di interferenze e disordine. «Ma chi ci proteggerà contro il crimine e i criminali?», ritorni a chiedere. Piuttosto che porre questa domanda, chiediti se il governo davvero ci protegge
contro di loro. Non è forse vero che il governo genera e mantiene le condizioni favorevoli alla diffusione del crimine? Non sono forse le violazioni della propria sfera personale e le violenze commesse dai governi che generano uno spirito di intolleranza e persecuzione, di odio e di ulteriore violenza? Il crimine non si espande forse con la crescita della povertà e dell’ingiustizia alimentata dal governo? Non è forse il governo stesso la fonte della più grande ingiustizia? Il crimine è il portato di talune condizioni economiche, della mancanza di equità sociale, dei misfatti e dei mali di cui il governo e i monopoli sono responsabili. Il governo e la legge possono solo punire il criminale. Non possono né curare né prevenire il crimine. La sola cura per il crimine consiste nell’eliminare le sue cause, e questo il governo non lo può fare mai in quanto esiste proprio per mantenere quelle cause. Il crimine può essere eliminato solo facendo venir meno le condizioni che lo generano. Il governo non può farlo. L’anarchia significa proprio questo: eliminare quelle condizioni. I crimini che hanno come causa il governo, la sua oppressione e ingiustizia, o che sono generati dalle iniquità e dalla povertà, questi crimini scompariranno con l’anarchia. Essi costituiscono, di gran lunga, la percentuale maggiore dei crimini commessi. Altri rimarranno per un certo periodo, come i crimini che risultano dalla gelosia, dalla ione, e dallo spirito di costrizione e di violenza che domina il mondo attuale. Ma i crimini che risultano dal potere autoritario e dalla concentrazione della proprietà, questi crimini scompariranno gradualmente in presenza di condizioni sane e con la fine di quella atmosfera che li teneva in vita.
Anarchia: propositi e scopi, di Rudolf Rocker
Documento 20 (1938)
Il testo da cui è preso questo scritto fu redatto da Rocker su invito di Emma Goldman e destinato alla pubblicazione presso una casa editrice inglese. L'autore individua nel Liberalismo e nel Socialismo le due correnti di pensiero che hanno ispirato la concezione anarchica che è andata poi ben al di là di queste due espressioni politico-culturali. E in ciò consiste la sua originalità e il suo pregio. Fonte: Rudolf Rocker, Anarcho-Syndacalism. Theory and Practice, Estratti dal Capitolo I, 1938.
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L’anarchia è una precisa corrente intellettuale dei nostri tempi, i cui aderenti sono favorevoli all’eliminazione dei monopoli economici e di tutte le istituzioni politiche e sociali coercitive che esistono all’interno della società. Al posto dell’attuale regime economico capitalistico, gli anarchici vorrebbero che si formasse una libera associazione di tutte le forze produttive sulla base di attività cooperative che avrebbero come loro unico scopo il soddisfacimento delle esigenze necessarie di ogni membro della società, e non più come obiettivo gli interessi particolari di minoranze privilegiate. In luogo dell’attuale organizzazione statale con il suo apparato artificiale fatto di istituzioni politiche e burocratiche, gli anarchici vorrebbero una federazione di libere comunità unite tra di loro da interessi comuni, economici e sociali, e che organizzino le loro attività sulla base di accordi volontari tra le parti e di liberi contratti. Chiunque studi a fondo lo sviluppo economico e sociale dell’attuale sistema riconoscerà facilmente che queste finalità non sono il frutto di idee utopiche nate nell’immaginario di alcuni fertili innovatori, ma sono il risultato logico di un esame dettagliato dei disagi sociali attuali che, in ogni nuova fase delle presenti condizioni sociali, si manifestano in maniera sempre più netta e malsana. I monopoli moderni, il capitalismo e lo Stato totalitario, sono solo le ultime espressioni di una tendenza che non poteva dare che questi risultati. Lo straordinario sviluppo dell’attuale sistema economico, che porta a un enorme accumulo di ricchezza sociale nelle mani di una minoranza privilegiata e a un continuo impoverimento di grandi masse di persone, ha preparato la strada per l'attuale reazione politica e sociale e l’ha favorita in ogni modo. Questo sviluppo ha sacrificato l’interesse generale della società all’interesse particolare di qualche individuo, e ha sistematicamente minato i rapporti tra gli esseri umani. Le persone hanno dimenticato che lo sviluppo industriale non è fine a sé stesso, ma dovrebbe essere solo un mezzo per assicurare alle persone la loro esistenza materiale e rendere loro accessibili le opportunità offerte da una più elevata cultura intellettuale. Quando l’industria diventa tutto e l’individuo è nulla, allora entriamo nell’ambito di uno spietato dispotismo economico il cui agire non è meno nefasto di quello prodotto dal dispotismo politico. I due dispotismi si rafforzano l’un l’altro e si abbeverano alla stessa fonte. La dittatura economica dei monopoli e la dittatura politica dello Stato totalitario
sono il risultato degli stessi obiettivi politici. I padroni che presiedono a entrambe queste dittature hanno la presunzione di tentare di ridurre tutte le infinite espressioni della vita sociale alle cadenze meccaniche della macchina e di adattare tutto ciò che è organico agli ingranaggi artificiali dell’apparato politico. Il nostro moderno sistema organizzativo ha spezzato, in ogni paese, l’organismo sociale, dando vita al suo interno a classi tra loro ostili; e all’esterno ha infranto la comunanza culturale generando nazioni nemiche tra di loro. E sia le classi che le nazioni si confrontano apertamente come avversarie e, attraverso il loro permanente stato di guerra, introducono continue convulsioni nella vita sociale. L’ultima guerra mondiale e le sue terribili conseguenze, che sono in sé stesse solo il risultato dei conflitti ancora in corso per la supremazia economica e politica, sono lo sbocco logico di questa insopportabile situazione che ci condurrà, inevitabilmente, a una catastrofe generale se lo sviluppo sociale non prenderà, quanto prima, un nuovo indirizzo. Il semplice fatto che la maggior parte degli stati sono nell’obbligo di spendere dal cinquanta al settanta per cento delle loro entrate per la cosiddetta difesa nazionale e per il pagamento dei vecchi debiti di guerra è la prova della non sostenibilità della situazione presente, e dovrebbe far capire a tutti che la presunta protezione offerta dallo Stato agli individui esige un prezzo astronomico da pagare. Il potere continuamente crescente di una burocrazia politica senz’anima, che sovraintende e mette sotto tutela la vita delle persone, dalla culla alla bara, sta ponendo ostacoli sempre più grandi a una cooperazione solidaristica tra gli esseri umani e sta soffocando ogni possibilità di nuovi sviluppi. Un sistema che, in ogni atto della sua vita, sacrifica il benessere di larghi settori della popolazione, o meglio, di intere nazioni, alla brama egoistica di potere e agli interessi economici di esigue minoranze, deve per forza dissolvere tutti i legami sociali e portare a una guerra costante di tutti contro tutti. Questo sistema ha semplicemente aperto la strada a quella enorme reazione intellettuale e sociale che trova attualmente espressione nel moderno Fascismo, che supera di gran lunga, quanto a ossessione per il potere, le monarchie assolute dei secoli ati, e che cerca di porre sotto il controllo dello Stato ogni sfera di attività umana. Così come per i vari sistemi teologici, Dio è tutto e l’essere umano nulla, così per la moderna teologia politica lo Stato è tutto e l’individuo è nulla. E come dietro la “volontà divina” giace sempre nascosta la volontà di una minoranza privilegiata, così, al giorno d’oggi, dietro la “volontà dello Stato” vi è solo l’interesse egoistico di coloro che si sentono chiamati a interpretare questa volontà a modo loro e imporla con la forza a tutte le persone.
[…] Nella moderna concezione anarchica, abbiamo la confluenza di due grandi correnti che durante e a partire dalla Rivoluzione se hanno trovato una loro precisa espressione nella vita intellettuale dell’Europa: il socialismo e il liberalismo. Il socialismo moderno si è sviluppato quando osservatori attenti della vita sociale arrivarono a vedere sempre più chiaramente che le costituzioni politiche e i cambiamenti nelle forme di governo non avrebbero mai risolto il grande problema definito con l’espressione “la questione sociale”. I sostenitori del socialismo riconobbero che una vera equità sociale tra gli esseri umani, nonostante le migliori formulazioni teoretiche, non è possibile fino a quando le persone sono separate in classi sulla base del loro disporre, o no, di una proprietà; classi la cui semplice esistenza esclude a priori qualsiasi possibilità di formare una genuina comunità. E allora si sviluppò l’idea che solo con l’eliminazione dei monopoli economici e con la proprietà in comune dei mezzi di produzione, in una parola, solo attraverso una trasformazione completa di tutte le condizioni economiche e delle istituzioni sociali ad esse legate, si può pensare di introdurre una realtà di giustizia sociale, in cui la società diventerà una vera comunità e il lavoro degli individui non sarà più impiegato a fini di sfruttamento ma servirà per assicurare a tutti una abbondanza di beni. Ma non appena il socialismo iniziò a riunire le sue forze e divenne un movimento, subito emersero alcune differenze di opinione dovute all’influenza dell’ambiente sociale nei diversi paesi. È un dato di fatto che tutti i concetti politici, dalla teocrazia al cesarismo e alla dittatura, hanno influenzato alcune sezioni del movimento socialista. Al tempo stesso, ci sono state due grandi correnti di pensiero politico che hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo delle idee socialiste: il Liberalismo, che ha stimolato potentemente le persone culturalmente evolute nei paesi anglosassoni e, in particolare, in Spagna, e la Democrazia, nel senso attribuitogli da Rousseau nel suo Contratto Sociale e che ha trovato i suoi più influenti rappresentanti nei Giacobini si. Mentre il Liberalismo ha preso avvio, nel suo teorizzare sociale, dall’individuo e voleva limitare a un minimo la sfera di intervento dello Stato, la Democrazia ha preso le mosse da un concetto collettivo astratto, la “volontà generale” di Rousseau, e ha cercato di cristallizzarlo nello Stato Nazionale. Il Liberalismo e la Democrazia erano concetti preminentemente politici; la stragrande maggioranza degli aderenti originari a queste due concezioni voleva preservare il diritto di proprietà nel suo vecchio senso, ma dovette poi rinunciarvi quando lo sviluppo economico prese una direzione che non si poteva
riconciliare, nei fatti, con i princìpi della Democrazia e tanto meno con quelli del Liberalismo. La Democrazia con il suo motto “tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”, e il Liberalismo con il suo “diritto dell’essere umano sulla sua persona”, sono stati entrambi sconquassati dalle realtà della forma economica capitalista. Fino a quando milioni di persone, in ogni paese, si trovavano costrette a vendere le loro energie lavorative a una piccola minoranza di proprietari, sprofondando in tal modo nella più squallida miseria qualora non trovassero alcun compratore del loro lavoro, la cosiddetta “uguaglianza di fronte alla legge” è rimasta e rimane un pio inganno, dal momento che le leggi sono fatte da coloro che posseggono la ricchezza sociale. E allo stesso modo, non si può parlare di un “diritto sulla propria persona” dal momento che quel diritto finisce quando si è costretti a sottomettersi, se non si vuole morire di fame, alle condizioni economiche dettate da un altro. L’anarchia ha in comune con il Liberalismo l’idea che la felicità e la prosperità dell’individuo devono essere la misura di tutte le questioni sociali. E ha in comune con i grandi rappresentanti del pensiero liberale l’idea di limitare le funzioni governative a un minimo. I sostenitori dell’anarchia hanno portato questa idea alle sue ultime logiche conseguenze, e vorrebbero eliminare dalla vita sociale qualsiasi istituzione che esercita un potere politico. Quando Jefferson esprime i concetti base del Liberalismo con l’espressione che “il governo migliore è quello che governa di meno”, allora gli anarchici affermano con Thoreau che “il governo migliore è quello che non governa affatto”. In comune con i fondatori del socialismo, gli anarchici chiedono la fine di tutti i monopoli economici e sono per la proprietà comune del suolo e di tutti gli altri strumenti di produzione, il cui utilizzo deve essere disponibile per tutti senza alcuna distinzione; e questo perché la libertà personale e sociale è concepibile solo sulla base di situazioni economiche ugualmente vantaggiose per tutti. All’interno dello stesso movimento socialista, gli anarchici rappresentano il punto di vista secondo il quale la lotta contro il capitalismo deve essere, al tempo stesso, una lotta contro tutte le istituzioni che hanno un potere politico, dal momento che, nella storia, lo sfruttamento economico è sempre andato a braccetto con l’oppressione politica e sociale. Lo sfruttamento dell’individuo da parte di un altro individuo e il dominio di una persona da parte di un’altra persona, sono fenomeni inseparabili e l’uno è la condizione dell’altro. Fino a quando nella società proprietari e non-proprietari si fronteggeranno l’uno contro l’altro come nemici, lo Stato sarà indispensabile alla minoranza
proprietaria per la protezione dei suoi privilegi. Quando questa situazione di ingiustizia sociale svanirà per fare posto a un più elevato ordine di cose, in cui non ci saranno persone con diritti speciali e si riconoscerà l’esistenza di una comunità con i suoi interessi sociali, il governo come dominio sulle persone cederà il o alla amministrazione delle questioni economiche e sociali, o, per dirla con le parole di Saint-Simon: «Tempo verrà quando la pratica di governare le persone scomparirà. Una nuova pratica prenderà il suo posto, quella di amministrare le cose» [51]. E questo fa piazza pulita della teoria, sostenuta da Marx e dai suoi sostenitori, che lo Stato, sotto forma di dittatura del proletariato, è necessario per la fase di transizione a una società senza classi quando, dopo la fine di tutti i conflitti di classe e quindi delle classi stesse, esso si dissolverà e svanirà dalla scena. Questo concetto, che fraintende del tutto la vera natura dello Stato e il significato nella storia del ruolo del potere politico, è solo il risultato logico del cosiddetto materialismo economico che vede, in tutti i fenomeni della storia, solo gli effetti inevitabili del modo di produzione in vigore. Sotto l’influsso di questa teoria, le persone sono arrivate a pensare che le differenti forme di Stato e tutte le altre istituzioni sociali altro non erano che “sovrastrutture giuridiche e politiche” poste sopra “l’edificio economico” della società, e hanno creduto di aver trovato in quella teoria la chiave di ogni processo storico. In realtà, ogni fase storica ci mostra migliaia di casi in cui lo sviluppo economico di un paese è stato ritardato di secoli e costretto a svolgersi in determinate forme a causa di lotte particolari per il potere politico. […] L’anarchia non è la soluzione esclusiva per tutti i problemi umani, non è l’Utopia di un ordine sociale perfetto, come è stata spesso travisata. Infatti, essa, per principio, rifiuta tutti gli schemi e i concetti assoluti. Non crede in verità assolute o in finalità definitive per lo sviluppo umano, ma in una perfettibilità senza limiti della gestione sociale e delle condizioni di vita, sempre alla ricerca di più elevate forme di espressione. Per questo motivo, nessuno può assegnare alla gestione sociale o alle condizioni di vita né un punto di arrivo né un termine ultimo. Il crimine peggiore di qualsiasi forma di Stato consiste proprio nel fatto di voler forzare la straordinaria diversità delle forme di vita sociale in tipi definiti per poi ridurle a un solo tipo particolare, il che non consente visioni più ampie e considera come superati esperimenti che in ato avevano suscitato un certo entusiasmo. Quanto più forti si sentono i sostenitori dello Stato, tanto più essi
riescono a sottomettere al loro servizio ogni sfera della vita sociale, e maggiori sono gli influssi dannosi sull’operare di tutte le energie culturali creative e i guasti arrecati allo sviluppo intellettuale e sociale di una data epoca. Il cosiddetto Stato totalitario, che ora pesa come un macigno su interi popoli, e cerca di plasmare ogni espressione della loro vita intellettuale e sociale sul modello di una mortale ività imposto da una provvidenza politica, sopprime con forza spietata e brutale qualsiasi sforzo volto al cambiamento delle condizioni esistenti. Lo Stato totalitario è un segno funesto del nostro tempo, e mostra con una spaventosa chiarezza dove ci condurrà questo ritorno alla barbarie dei secoli ati. È il trionfo dell’apparato politico sulla ragione, è la configurazione degli intendimenti, dei sentimenti e dei comportamenti umani secondo le regole stabilite dai burocrati. È, di conseguenza, la fine di ogni cultura. L’anarchia attribuisce solo un significato relativo, e non assoluto, alle idee, alle istituzioni e alle forme sociali. Non è quindi un sistema sociale fisso, chiuso in sé stesso, ma piuttosto una tendenza precisa nello sviluppo storico dell’umanità che, in contrasto con il controllo intellettuale esercitato da tutte le istituzioni clericali e governative, si impegna nel dispiegamento, libero da ostacoli, di tutte le energie vitali, individuali e sociali. Anche la libertà è un concetto relativo e non assoluto, dal momento che tende a diventare sempre più ampia e a estendersi a cerchie più vaste di individui in molti e svariati modi. Per gli anarchici la libertà non è un concetto filosofico astratto, ma la possibilità vitale e concreta per ogni essere umano di sviluppare in pieno tutte le potenzialità, le capacità e i talenti di cui la natura umana lo ha dotato, e volgerli a beneficio di tutti. Tanto meno questo sviluppo naturale dell’essere umano è influenzato da controlli clericali o politici, tanto più efficiente e armoniosa diventerà la personalità degli individui e tanto più essa sarà lo specchio della società in cui è cresciuta. Questo è il motivo per cui tutte le fasi di grande fervore culturale sono state anche, storicamente, periodi di debolezza della politica. E questo è abbastanza naturale, in quanto i sistemi politici si preoccupano sempre di ridurre a ingranaggi le forze sociali e non lasciarle sviluppare in maniera organica. Lo Stato e la cultura sono fenomeni profondamente e completamente irreconciliabili e opposti. Nietzsche ha riconosciuto ciò in maniera molto chiara quando ha scritto: Nessuno può spendere più di quanto ha. Questo vale sia per gli individui che per
i popoli. Se uno spende le sue energie per il potere, per la supremazia politica, per l’amministrazione, per il commercio, per il parlamentarismo, per gli interessi militari – se uno abbandona la ragione, l’onestà, la forza di volontà, la padronanza di sé, aspetti che costituiscono l’essenza dell’essere umano, se uno abbandona tutto ciò per ottenere una sola cosa, non avrà l’una attraverso l’altra. La cultura e lo Stato – non illudiamoci – sono entità opposte: la “cultura di Stato” è solamente un’idea recente. L’una di queste entità vive e prospera a spese dell’altra. Tutte le epoche di splendore culturale sono state epoche di declino politico. Tutto ciò che è grande sotto l’aspetto culturale è non-politico, o addirittura anti-politico [52] Un apparato statale potente è l’ostacolo maggiore a uno sviluppo culturale più elevato. Là dove lo Stato decade, dove l’influenza del potere politico sulle forze creative della società è ridotta al minimo, là la cultura prospera al meglio, e questo perché il potere politico cerca sempre di omologare tutto e tutti e di porre ogni aspetto della vita sociale sotto il suo controllo. Così facendo si trova in contraddizione inevitabile con le aspirazioni creative allo sviluppo culturale che sono sempre alla ricerca di nuove forme e campi di attività sociale. La libertà di espressione, le trasformazioni poliedriche e multiformi delle cose, sono realtà vitali e necessarie, così come le forme rigide, le regole obsolete e la soppressione forzata di ogni manifestazione della vita sociale ne sono l'esatto contrario. Ogni cultura, se il suo sviluppo naturale non è bloccato oltremodo da vincoli politici, va incontro a un rinnovamento continuo degli stimoli formativi, e da tutto ciò ne risulta una sempre crescente varietà dell’attività creativa. Ogni opera che ha successo suscita il desiderio di una maggiore perfezione e di una più profonda ispirazione; ogni nuova forma diventa il segno di nuove possibilità di sviluppo. Ma lo Stato non crea alcuna cultura, come invece affermano taluni senza riflettere; cerca solo di mantenere le cose come stanno, bloccate da idee stereotipate. Per questo ci sono state rivoluzioni nella storia. Il potere opera solo in senso distruttivo, intento sempre a costringere ogni manifestazione di vita nella camicia di forza delle sue leggi. Le sue forme di espressione intellettuale sono dogmi morti, la sua forma fisica la forza bruta. E l’idiozia dei suoi obiettivi pone il suo stampo anche sui suoi sostenitori rendendoli stupidi e brutali, anche se essi avevano, un tempo, i migliori talenti. Una persona che spende le sue energie nel forzare ogni cosa all’interno di un
apparato meccanico diventa, alla fine, essa stessa una macchina e perde qualsiasi sentimento umano. È dalla comprensione di tutto ciò che la moderna anarchia è nata e trae la sua forza morale. Solo la libertà può ispirare gli individui a compiere grandi cose e stimolarli a compiere le trasformazioni sociali. La pratica di dominare le persone è qualcosa di profondamente diverso dalla pratica di educarle e ispirarle a plasmare esse stesse la propria vita. Desolanti costrizioni portano solo a un addestramento desolante, che sopprime sul nascere qualsiasi iniziativa vitale e produce solo sudditi e non esseri umani liberi. La libertà è l’essenza vera della vita, l’energia motrice di ogni sviluppo intellettuale e sociale, la spinta creatrice di ogni nuova prospettiva per il futuro dell’umanità. La liberazione dell’individuo dallo sfruttamento economico e dall’oppressione intellettuale e politica, che trova la sua migliore espressione nella filosofia universale dell’anarchia, costituisce il requisito necessario per l’evoluzione verso una cultura sociale più elevata e verso una nuova umanità.
Sull'anarchia, di Frank Lloyd Wright
Documento 21 (1951)
Questo testo è una presentazione fatta da Wright ai partecipanti della Taliesin Fellowship, un gruppo di uomini e donne che venivano a Taliesin (Wisconsin, USA), luogo di residenza di Wright, per studiare architettura sotto la sua guida. Ogni domenica, almeno a partire dal 1948, essi si riunivano per ascoltare un intervento di Wright su uno dei vari temi di sua scelta. Fonte: Frank Lloyd Wright, His Living Voice, The Press at California State University, 1987.
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Non ho mai saputo quale fosse la mia reale convinzione politica. Ho sempre sospettato di essere quello che si chiama un anarchico, ma non ne sono mai stato davvero certo fino a quando ho iniziato a leggere qualcosa sul pensiero e sulle attività dell’iniziatore dell’anarchia negli Stati Uniti [53]. E allora ho scoperto che davvero sono un anarchico e che la concezione anarchica è quella in cui in realtà credo. Vedete, il termine anarchia è stato, come molte altre parole, svenduto dai mercanti di notizie e reso orribile dalle persone che dispongono di notevoli ricchezze e che hanno paura che queste saranno loro tolte. Per cui ci si è dati da fare perché anarchico significasse una persona che uccide, incendia, distrugge, abbatte governi, ammazza donne e bambini. […] Adesso vi dirò qualcosa riguardo a Josiah Warren che fu il primo grande anarchico. Warren credeva che si sarebbe potuta realizzare l’anarchia attraverso un commercio equo, costruendo comunità in cui si praticavano concretamente relazioni giuste. Non era interessato a fare proseliti con la propaganda orale. Nessuno ha potuto mai convincerlo a salire su un palco a parlare. Ma, se le persone si avvicinavano e si sedevano accanto a lui, era sempre disponibile alla conversazione. E così diffondeva le sue idee, oltre che attraverso attività concrete. Era contro le chiacchiere, perché credeva che se avessimo evitato di perderci in chiacchiere, molte cose sarebbero state possibili che ora non lo sono, proprio perché parliamo molto e combiniamo poco. Questo è il tipo di uomo che era Warren. Warren ha aperto empori commerciali che funzionavano secondo il principio che una persona che avesse qualcosa da vendere, inclusa la sua capacità lavorativa – che è poi davvero ciò che ha e ciò che è – se questa persona può vendere un bene a prezzo di costo [54], questo è quanto ha il diritto di chiedere. Se si pretende invece un prezzo superiore a quanto il bene è costato in termini di lavoro, allora si è su un campo minato e ci si sta approfittando dell’altro. Quello che sosteneva Warren è l’esatto contrario del principio su cui si basano attualmente la nostra vita e il nostro lavoro. A tal fine egli emetteva delle note di lavoro ( labor notes) e permetteva a ognuno di ritirare un prodotto finito in cambio di una nota di lavoro. Ad esempio, se uno fosse stato capace di effettuare lavori di intonaco, allora si sarebbe impegnato a fornire un certo numero di ore di intonacatura. Il
lavoro era la valuta di scambio. Il sistema si basava sulla capacità reale degli individui che formavano una comunità di produrre qualcosa. Quindi, invece di avere un gold standard [la moneta certificata da un dato ammontare d’oro], Warren ha introdotto il labor standard [la moneta certificata da una data quantità di lavoro]. Qui si tratta, di certo, di anarchia. Almeno in relazione al nostro sistema attuale. E così era per tutti i princìpi e le iniziative che egli sosteneva e realizzava. C’era questo elemento di assoluta semplicità che relazionava il cosiddetto costo al valore attuale della prestazione. Per cui la cosa era non solo economicamente ma anche moralmente accettabile. Quello che per lui era immorale erano rapporti commerciali basati sull’avidità e sulla cupidigia. Gesù è stato un grande anarchico, e quando ha detto «il regno di Dio è in mezzo a voi» [55], ha espresso qualcosa di grande e di profondamente anarchico. Se il regno di Dio è in mezzo a noi, non abbiamo un governo esterno. Non vi è qualcosa che ci domina al di fuori di noi. Non ci sono individui che si riuniscono e si mettono d’accordo per chiedere la protezione di un potere esterno come la polizia o qualcosa di simile. Per cui il principio della pratica e della teoria anarchica è qualcosa di molto profondo. E sta alla radice di qualsiasi comportamento morale, dell’esistenza umana in tutti i suoi aspetti, qualunque siano le istituzioni esistenti. Lo stesso Gesù ha affermato che non voleva delle istituzioni, non voleva una chiesa istituzionale. Non ha mai considerato la possibilità che sorgessero chiese come organizzazioni consolidate. «Là dove alcuni sono riuniti in mio nome, lì vi è la mia chiesa» [56]. Lo stesso è valido per il principio dell’anarchia, per il principio di Josiah Warren presente in tutto quello che ha fatto e pensato e nel modo in cui è vissuto. È stato un uomo estremamente ingegnoso. Era apionato di stampa perché credeva che le idee che costituivano materia di riflessione e conversazione da parte di molte persone dovevano poi essere preservate e fatte circolare attraverso la stampa. In questo modo, sarebbero state più efficaci, e le persone avrebbero fatto più affidamento sulla parola scritta che su quella semplicemente orale. Su questo non sono del tutto d’accordo. Era comunque un grande esperto di stampa e ci ha dato la macchina per la stampa che è ancora adesso in uso, e cioè la pressa cilindrica, in grado di effettuare sessantacinque impressioni al minuto invece di sei o sette [57]. Quando è riuscito a fare ciò, lui che non amava il puro chiacchierare, ha prodotto una grande quantità di materiale stampato come non se ne era mai visto prima. È stato davvero un uomo geniale e molto coraggioso. Una vera personalità individuale.
Quindi, quale sarebbe in sostanza la base, la norma della sua società? Non i comitati, non i gruppi, non le istituzioni, nulla di tutto ciò. Ma, semplicemente e inevitabilmente l’individuo in quanto individuo. Vedete, l’anarchia è la grande sostenitrice dell’individuo, dei suoi diritti, delle sue responsabilità. Quest’ultima è la parte difficile e onerosa. Quando accettiamo l’esistenza di diritti dell’individuo, non possiamo scinderli dalle responsabilità. E questo è ciò che Warren ha sostenuto nella maniera più chiara possibile. L’anarchia è la fine dell’irresponsabilità. È la fine dei comportamenti sconsiderati. L’anarchia è l’inizio dell’epoca della responsabilità individuale, precisa e diretta. Del tutto differente da come viene solitamente intesa. Ebbene, la difficoltà è la stessa che abbiamo con il termine democrazia. Noi parliamo di democrazia e non ne abbiamo nemmeno l’ombra. E non ci avviciniamo ad essa nemmeno di un o perché non abbiamo lo sviluppo individuale necessario perché tutti si assumano le responsabilità associate con la democrazia [58]. La grande lezione che si apprende da Warren è che, nella vera anarchia, non è possibile fare a meno della responsabilità individuale – non solo verso sé stessi, ma nei confronti di ognuno. L’anarchia è anche la capacità di lasciare a ognuno il diritto di agire come meglio crede, anche se le sue idee sono differenti dalle nostre. Ed è proprio questa capacità di praticare le proprie convinzioni lasciando, al tempo stesso, gli altri liberi di praticare le loro, che costituisce la caratteristica essenziale del vero individuo. Vedete quanto diverso è tutto ciò dalla nostra idea di uomo di partito. Il militante di un partito apparirebbe a Josiah Warren come il diavolo in persona. Perché non vi può essere divisione in sette politiche quando ognuno è fortemente determinato, nel suo animo, a far sì che ciascuno goda dello stesso diritto che lui ha riguardo alle proprie opinioni, al proprio stile di vita, e a tutto il resto. Questo è il motivo per cui la concezione anarchica va così al di là della realtà attuale. A tal punto che è considerato un tradimento persino parlarne in presenza di un potere istituzionale. E questo perché il dare fiducia all’individuo e fare affidamento su di lui ridurrebbe tutte le istituzioni a un semplice riunirsi, come stiamo facendo noi in questo momento, per portare avanti un progetto in comune, in spirito di amicizia e di tolleranza, gli uni nei confronti degli altri. Ora, mettere in pratica un simile elevato ideale ha generato delle persecuzioni per molte grandi personalità. Eppure, immagino che quasi tutte le grandi figure umane, fin dall’inizio dei tempi, si siano dedicate alla realizzazione di questo ideale, in una forma o nell’altra.
Il comunismo [59] è l’antitesi dell’anarchia. E, chiaramente, il comunismo è per individui immaturi. E le istituzioni sono per personalità incomplete, non ancora giunte allo stadio dell’individualità. Senza individualità l’anarchia non è possibile. Per cui, se voi doveste giudicare, tra le persone che conoscete, chi considerereste capace di questo auto-controllo, di questa padronanza di sé e della realtà circostante, il che costituisce la base della concezione anarchica, vedreste quanto distanti siamo da essa. Nonostante ciò, l'anarchia costituisce un nobile ideale da preservare nella vostra mente e nel vostro cuore, soprattutto se siete architetti. Infatti, un architetto è una persona che bada all’essenziale, e tutto ciò che è richiesto da voi è l’essenzialità nel carattere. Dovete essere persone integre, dovete avere le qualità di un individuo, dovete avere questa energia innata, in una qualche forma primitiva, che può diventare sempre più forte.
Appunti per una problematica dell'anarchia, di Diego Abad de Santillán
Documento 22 (1969)
Una ricostruzione del percorso anarchico al fine di offrire una ulteriore conferma che l'anarchia è un metodo di liberazione e una pratica della libertà. Per questo l'autore si unisce a coloro che, già in ato, hanno sostenuto la tesi dell'anarchia senza aggettivi. Fonte: Diego Abad de Santillán, Apuntes para una problemática del anarquismo, Revista Reconstruir, Buenos Aires, N° 60, maggio-giugno 1969, pp. 5-9.
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Si è parlato negli ultimi decenni di crisi della concezione anarchica, di un'ideologia obsoleta, un movimento senza futuro, un albero senza linfa, destinato a morire. Vale la pena soffermarsi un po' a esaminare la verità o falsità di questi annunci spregiativi, denigratori o rancorosi, perché vi è di tutto, secondo la posizione a partire dalla quale si dichiara l'inesistenza e inefficienza dell'anarchia o la soddisfazione per lo spettacolo manifesto del declino di questo mostro leggendario che, nel corso di un secolo, è stato il capro espiatorio per tutti i travisamenti, per tutti i rancori. Se l'anarchia si estinguesse, tramontasse, apisse come avviene per la vegetazione senza la terra che la nutre e senza umidità sufficiente, questo sarebbe un segno infausto per il futuro dell'umanità. Che cos'è l'anarchia? L'essenza dell'anarchia non è quella attribuitagli, senza alcun fondamento, dai rapporti della polizia, dai detrattori di destra e di sinistra, e accettata anche da molti di coloro che si ritenevano o si definivano anarchici. L'Anarchia è una concezione umanistica che si è manifestata in ogni epoca e in ogni circostanza, molto prima che Proudhon afferrasse, con la sua straordinaria capacità dialettica, un’accezione negativa per trasformarla in una soluzione positiva e costruttiva. Nell'uso corrente l'anarchia, l'assenza di governo, la non esistenza del potere di un essere umano che domina altri esseri umani, equivaleva al caos, al disorientamento, al disordine; a partire da Proudhon si chiamarono anarchici coloro che, in precedenza, avevano altri appellativi o si esprimevano con una terminologia differente, ma che, prima e dopo, sono stati i veri amici dell'ordine. E si chiamavano anarchici perché erano amici dell'ordine; dell'ordine basato sulla giustizia, sulla libertà, sulla dignità. Questa reazione morale in difesa dell'essere umano, questo umanesimo, trovò espressioni concrete attraverso la storia, come idea e atteggiamento nel pensiero di filosofi, sociologi, pensatori nelle sfere più elevate, e come azioni che rivendicavano la giustizia in innumerevoli forme. Non ci sarebbe stata una morale umanista, se non ci fosse stata una realtà opprimente dell'essere umano, una struttura antiumana, come non vi sarebbe stato un movimento contro la schiavitù senza la previa esistenza di schiavi. Il nostro amico e maestro, Max Nettlau, ha sintetizzato alcuni antecedenti dell'idea anarchica nel corso dei secoli, nella filosofia orientale e in Grecia; nella Grecia democratica che ha eretto statue per onorare gli assassini dei tiranni; a Roma, nel Medioevo. Il suo Vorfrühling der Anarchie [Le origini dell'anarchia] potrebbe essere ampliato di continuo. La reazione umanista contro l'inumano, contro l'antiumano, si sarà anche attenuata,
avrà anche abbassato la voce in certi momenti, si sarà persino fatta muta dopo pesanti sconfitte, ma è esistita sempre, anche se in maniera latente, ed è stata espressa in molti modi, uno dei quali, uno dei tanti, nelle utopie. Quando non si poteva dire in altro modo che la realtà era intollerabile, iniqua, si cercava un paradiso artificiale in cui si immaginavano condizioni migliori per l'essere umano e la sua dignità; e si collocavano questi paradisi in qualche luogo sconosciuto o lontano. Coloro che erano mossi da una fede religiosa, una teologia, creavano un paradiso dopo la risurrezione, e lo abbellivano con tutti gli aspetti attraenti, non solo spirituali ma anche del tutto materiali, come ha fatto Maometto, con splendidi vergini e fiumi di miele. L'anarchia è una denominazione nuova, dalla metà del diciannovesimo secolo, di un atteggiamento e una concezione fondamentalmente umanisti; difende la dignità e la libertà dell'essere umano in qualunque circostanza; può manifestarsi senza ricorrere o definirsi con questa parola che ha dato origine a tante discussioni e ostilità. Anche se il termine scomparisse, non verrebbe meno la sua essenza, la sua carica, il suo messaggio. L'anarchia non è né un sistema politico né un sistema economico, è una spinta umanista, che non culmina in un ordinamento o in una struttura ideale, perfetta, senza attriti di interessi o ambizioni di potere, in cui gli esseri umani non avranno alcun problema e la vita erà placidamente. Questi paradisi terrestri li costruiscono altri e li presentano come soluzione suprema: l'autocrazia, il sovrano per grazia di Dio, la democrazia corporativa, la dittatura del capo che non sbaglia mai, come pretendono i Papi; la dittatura del proletariato, la dittatura della borghesia finanziaria o industriale; i regimi parlamentari, eccetera. L'anarchia non è legata a nessuna di queste costruzioni politiche, anche se deve vivere e svilupparsi in mezzo a loro, in alcuni casi con più campo d'azione e in altri con meno libertà o addirittura costretta al silenzio. Non è legata ad esse, che siano buone, cattive o mediocri, né propone un sistema che le sostituisca e le superi; si accontenta di portarne alla luce i difetti, le menzogne, le inadeguatezze. Può vedere più giustizia in un regime politico che dia accesso alle entità popolari riguardo alle decisioni sui destini collettivi, essendo esso in tal modo più rappresentativo dei regimi parlamenti in crisi; in una costruzione dal basso verso l'alto, dai comuni, dalle associazioni, dal mondo del lavoro, intellettuale, scientifico, tecnico e manuale. Però, dalla sua, l'anarchia non si impegna a
incoraggiare la formazione di un nuovo organismo politico che eliminerebbe molte tensioni e conflitti e permetterebbe un più giusto ordine delle relazioni sociali e una più equa distribuzione della ricchezza, frutto del lavoro intellettuale e manuale. L'anarchia non è una ricetta politica, un programma perfetto, una panacea. Al di là di ciò che oggi può sembrare meraviglioso, c'è sempre qualcosa di meglio, una spinta invincibile: l'ideale. È stato detto che questa mancanza di programma è la debolezza dell'anarchia; invece è proprio qui la sua forza permanente, la sua vitalità, la sua pietra angolare; vuole difendere la dignità e la libertà dell'essere umano, e questo in tutte le circostanze e in tutti i sistemi politici, quelli di ieri, di oggi, e di domani. Non esaurisce la sua forza con un trionfo eventuale, elettorale o insurrezionale, e seguirà il suo percorso e opporrà la sua resistenza contro ogni forma di oppressione che pochi o molti possono esercitare sull'individuo. Dal punto di vista legale rimangono poche tracce di schiavitù e servitù contro cui si è combattuto per secoli, per millenni; non si può negare il progresso su questo aspetto preciso, e se ieri l'abolizione a livello giuridico della schiavitù poteva essere un obiettivo, l'anarchia ha sempre davanti a sé la missione di portare questa condizione verso un obiettivo più luminoso e più promettente: di diminuire o mettere fine alle nuove forme di schiavitù e di servitù, e, tra le altre, la schiavitù e servitù subita per acquiescenza. L'anarchia non è vincolata a un qualche sistema economico; non lo era nel Medioevo quando dominava il feudalesimo; non lo era alla fine del XVIII secolo quando apparve e trionfò il capitalismo con la macchina a vapore; non lo era quando la cosiddetta dittatura del proletariato fu proposta e attuata. L'anarchia può esistere e pretendere il diritto di esistere con l'aratro romano e la coppia di buoi e con il trattore moderno di molte estensioni agricole; la sua missione è simile nell'era della macchina a vapore e in quella del motore elettrico e del motore a combustione o con la cibernetica moderna e l'energia atomica. Il capitalismo ha rappresentato un progresso sulla tecnica agricola del feudalesimo, e ha elevato il livello di vita di milioni e milioni di quegli esseri sub-umani che non avevano diritti ma solo il dovere di sottomettersi ai loro padroni, i padroni della macchine o i padroni di coloro che monopolizzavano le redini del potere politico. Una rivoluzione di portata inimmaginabile si sta verificando ai giorni nostri con l'esplosione scientifica, tecnologica e demografica che coinvolge prospettive e orizzonti che difficilmente possono essere compresi con il metro temporale del
ato recente o lontano. Figlio del suo tempo, lavorando con i materiali del suo tempo, Proudhon immaginò un'economia mutualistica in cui la persona avrebbe potuto svilupparsi e trarre beneficio direttamente e con maggiore ampiezza e giustizia rispetto al capitalismo monopolistico, basato sul profitto privato e carente di orientamento sociale. Per il capitalismo, il sociale era semplicemente il mercato, una occasione particolare. Mikhail Bakunin, ai suoi tempi, ha favorito una forma di collettivismo, con le stesse aspirazioni; Pëtr Kropotkin ha lanciato la formula del comunismo. Altri proposero differenti modalità affinché il prodotto del lavoro rimanesse nelle mani dei produttori stessi. Gustav Landauer ha suggerito la formazione di comunità che si sviluppano al di fuori dell'economia capitalista. Si diffuse anche l'idea di colonie libere che furono realizzate una po' dietro la spinta del socialismo premarxista di Fourier e di Cabet e un po' per testare la validità della soluzione kropotkiana. La lotta tra i sostenitori dell'anarchia collettivista e di quella comunista fu lunga e dolorosa; alla fine prevalse quest'ultima come formula ideale. Quindi l'anarchia veniva circoscritta a una concezione, a un sistema economico e se, in tal modo, ha potuto guadagnare proseliti, ha perso gran parte della sua essenza. Fu in Spagna che apparve la formula dell'anarchia senza aggettivi economici, con la quale essa riprese la sua tradizione umanista. La difesero, tra gli altri, Fernando Tarrida del Mármol e Ricardo Mella; se ne fece promotore anche Gustav Landauer nel suo giornale Der Sozialist. Proprio Errico Malatesta, portavoce importante del comunismo anarchico, alla cui diffusione ha dedicato la sua lunga e attiva esistenza, arrivò infine a riconoscere il diritto di cittadinanza a tutte le forme storiche dell'anarchia, il mutualismo, il collettivismo, il comunismo, l'individualismo, il cooperativismo; finì cioè per unirsi, di fatto, all' anarchia senza aggettivi. Oggi si parla di anarco-sindacalismo e si vincola così l'umanesimo anarchico al movimento operaio. Questo legame equivale a una riduzione simile a quella del comunismo anarchico. Ci sono ragioni per questo vincolo dell'anarchia cristallizzatasi poi come sindacalismo, perché gli anarchici hanno dato vita al moderno movimento operaio attraverso quasi un secolo di lotte eroiche che sono costate tanto sangue, tanto sudore, tante lacrime. Molti anarchici erano operai e si sono assunti l'arduo compito di insegnare ai loro compagni quello che sapevano: che avrebbero rappresentato una vera e propria forza se si fossero associati, se avessero unito le loro energie in maniera solidale, nei loro luoghi di
lavoro, nelle loro industrie, oltre i confini nazionali fissati arbitrariamente. Costoro furono essenzialmente degli educatori e predicarono con il loro esempio; per questo andarono alla forca o davanti al plotone di esecuzione, patirono molti anni nelle carceri e nelle colonie penali, con processi e persecuzioni e torture; formarono società operaie, organizzazioni sindacali e, oltre a ciò, crearono scuole e biblioteche. Si mostrò con ogni mezzo che cosa poteva essere la società umana articolata sulla base dell'attività di tutti e per tutti; alcuni scritti di tempi non lontani condensano queste prospettive, come quelli di Pierre Bernard [60], e anche i nostri. Abbiamo avuto il privilegio, una volta, di descrivere il modo in cui vivevamo in Spagna e di come avremmo potuto vivere, e poi di verificare tutto ciò nella realtà, con le comunità agricole e con l'economia industriale, commerciale, e dei servizi pubblici gestiti dai lavoratori. Erano soluzioni di ordine pratico, dettate dalle circostanze, non semplici utopie, scaturite da buoni propositi e nobili intenzioni. Detto ciò, l'anarchia non è il sindacalismo, ma non è neppure l'antisindacalismo. Resta l'anarchia senza aggettivi. Favorire un cambio di strutture politiche, economiche e sociali che porti il mondo dei lavoratori a prendere decisioni riguardo ai destini collettivi, non è altro che un imperativo di questi tempi per superare squilibri che, alla lunga, sono dannosi per tutti. Come un giorno la classe media fu incorporata nella vita pubblica ed è stato incrinato il dominio delle oligarchie capitaliste e finanziarie, il periodo in cui ci tocca vivere o sopravvivere impone l'incorporazione del mondo del lavoro, nel suo senso più ampio, ai livelli decisionali riguardanti le realtà future, sociali e umane. L'istituzionalizzazione del movimento operaio, il suo riconoscimento legale, ha dato origine alle potenti organizzazioni sindacali dei giorni nostri, che coinvolgono quasi la metà della popolazione dei rispettivi paesi, organizzazioni gestite da una burocrazia pletorica, che ha gli stessi difetti di qualsiasi burocrazia, e nella quale l'anarchico di un tempo, generoso attivista ed educatore, non trova più una base da cui trarre nuovi sostenitori. Forse l'anarchico non dovrebbe aspirare al ruolo dominante che ha avuto nel periodo della lotta e della resistenza e che ha caratterizzato una volta la sua presenza nelle organizzazioni operaie. Proseguirà e dovrà continuare, nelle organizzazioni operaie, come parte integrante del processo di produzione e distribuzione, ma dovrà fare i conti con un fatto nuovo, di un potere giuridicamente incorporato negli Stati in forme diverse. La sua azione ata appartiene alla storia e gli storici possono esumare ricordi, fatti, atteggiamenti, interventi coraggiosi; ma molte concezioni degli anarchici del periodo in cui hanno agito straordinariamente nel movimento
operaio sono diventate obsolete ed essi devono adeguare le loro tattiche e i loro sforzi alle regole e alle procedure del nuovo sindacalismo, per ridurre il rischio di stagnazioni e deviazioni. Un secolo di lotta, di conflitti, per il rispetto e il riconoscimento della persona umana, in cui gli anarchici hanno occupato le posizioni più rischiose e di maggior sacrificio, hanno dato vita, di fronte al grande pubblico, all'immagine di un’ anarchia eroica. Nessun altro settore di lotta sociale è arrivato al livello di abnegazione di tante migliaia e migliaia di esseri umani che hanno proclamato le loro concezioni libertarie. Si sono moltiplicati gli atti di protesta, le dimostrazioni di risposta, i sacrifici in nome di una profonda solidarietà con coloro che soffrivano l'ingiustizia e l'oppressione nelle sue forme più estreme; e agli anarchici non sono mancati la comprensione e il sostegno morale da parte di coloro che erano a conoscenza delle loro motivazioni altruistiche. Era necessario difendersi contro quanti si avvalevano di tutto il potere dello stato e di tutte le risorse della ricchezza per limitare e combattere delle giuste aspirazioni. Quando il governo della Catalogna in Spagna, organizzò e sostenne, con tutti i mezzi, bande di uomini armati per sterminare i sindacalisti e gli anarchici più noti, e caddero in quegli anni bui diverse centinaia di militanti di grande rilievo, si procedette alla difesa della propria vita con maggiore crudeltà di quanta ne mettessero gli assassini assoldati dal potere e si produsse una situazione in cui la pistola era la ragione suprema del momento. Ad ogni modo, le gesta eroiche a cui hanno preso parte gli anarchici come individui isolati (ad esempio Michele Angiolillo [61] dopo il processo raccapricciante di Montjuïc nel 1897) o a seguito di decisioni collettive, hanno lasciato una immagine leggendaria, di ammirazione o di condanna, secondo i punti di vista; ma l'anarchia è, nella sua essenza, non violenta e favorevole alla non violenza, perché consiste in una disposizione umanista verso tutti gli aspetti della vita. In molti punti si sente il contatto e la continuità coi primi secoli della rivoluzione cristiana. Una situazione di emergenza accidentale condusse l'anarchia spagnola a una guerra di quasi tre anni, in cui fu la principale protagonista delle lotte; in essa perirono centinaia di migliaia dei suoi sostenitori. A dire il vero, la guerra civile spagnola è stata il risultato della prima resistenza degli anarchici alla minaccia del fascismo in Spagna, e non per un sistema politico a cui non dovevano nulla, ma in difesa delle libertà conquistate con molti sforzi a seguito di parecchi decenni di sacrifici.
Gli eventi si sono succeduti negli ultimi tempi a un ritmo vertiginoso; la Seconda Guerra Mondiale ha prodotto, verso la fine, la bomba atomica ed è stato inaugurato un nuovo periodo storico. È necessario lasciare il tempo per far maturare concetti adeguati a questa nuova situazione. L'anarchia è oggi più attuale che mai, più che nel periodo del suo impegno nel movimento operaio, più che al tempo delle esplosioni di eroismo, più che nei comportamenti esemplari durante la guerra contro il fascismo. Si assiste a una sua rinascita nella filosofia moderna, nella teologia, tra i sociologi, tra gli economisti, tra la gioventù non conformista che scuote i vecchi pilastri di una società che non è comunità. Tutto questo deve essere rafforzato dall'anarchia come bandiera umanista, una anarchia senza aggettivi. In essa sta la radice e la forza per costruire un mondo migliore, il mondo del ventunesimo secolo in cui, a quanto pare, già adesso viviamo.
Anarchia come autonomia, di Paul Goodman
Documento 23 (1972)
In questi aggi, Paul Goodman caratterizza l'anarchia come autonomia, e questa è una formulazione sintetica molto interessante di quello che essa è o dovrebbe essere. Fonte: Estratti da Little Prayers and Finite Experience, Capitolo 2, Politics within Limits, Widwood House, London, 1973 e da, Drawing the Line, Paul Goodman's Anarchist Writings, PM Press, Oakland, 2010.
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Io, come chiunque altro, vedo situazioni oltraggiose che mi afferrano alla gola, e non riesco a non identificarmi con esse, proprio come se fossero oltraggi fatti a me. Rappresentano insulti alla bellezza del mondo, e mi indignano. Sono menzogne, vacuità, volgarità che di colpo mi fanno star male. Le autorità in carica non sanno cosa voglia dire essere generosi; spesso sono semplici burocrati e individui sprezzanti. Come soleva dire Malatesta, cerchi una vita migliore e loro si mettono di mezzo, e poi la colpa è tua se c’è uno scontro. Ma quel che è peggio, è chiaro, dal loro comportamento distruttivo che questa gente è insana di testa, malvagia di cuore, e caà la rovina sua e di quanti sono ad essa associati. Per cui talvolta faccio quasi gli scongiuri perché mi trovo anche io a far parte della stessa tribù e a calpestare lo stesso suolo. Le persone hanno il diritto di essere strane, stupide, arroganti. È la loro specialità. Il nostro errore è di dotare qualcuno di un potere sulla collettività. L’anarchia è la sola strada che non ci porta alla rovina. Sopprimere l’indignazione, la nausea, il disprezzo rappresenta un disastro morale. Ma costituisce un disastro politico (e presto anche morale) trasformare tutto ciò in un programma di partito. Il corretto uso degli strumenti politici è puramente negativo, e cioè mettersi assieme, far cessare qualcosa. È un fraintendimento comune il pensare che gli anarchici ritengano che “la natura umana sia buona” e che perciò si possa dare fiducia alle persone riguardo all'amministrazione della società. Invece noi siamo tendenzialmente piuttosto pessimisti. Non dobbiamo fidarci troppo delle persone, e per questo dobbiamo evitare la concentrazione del potere. E le persone al potere sono, in particolare, portate a essere affette da stupidità perché non sono a contatto diretto con la realtà concreta e non fanno altro che interferire con le iniziative degli altri, e ciò rende anche questi ultimi degli esseri stupidi e ansiosi. Immagina cosa significhi per il carattere di una persona essere deificato come Mao Tse-tung o Kim Ilsung. O essere abituati a pensare l’impensabile, come fanno gli uomini del Pentagono. Molti pensatori anarchici hanno come punto d'avvio un desiderio apionato di libertà. Talvolta questo è un imperativo metafisico-morale, con in aggiunta uno zelo missionario; ma per lo più è un grido animalesco o un anelito religioso, come l’inno dei prigionieri nel Fidelio. Essi hanno visto o subito troppe costrizioni – la servitù feudale, la schiavitù in fabbrica, la privazione delle libertà, la colonizzazione da parte di una potenza imperiale, la manipolazione
clericale. La mia esperienza di vita, tuttavia, è stata tutto sommato abbastanza libera. “Loro” [quelli al potere] non sono stati in grado di restringerla troppo, sebbene io abbia subito alcuni dei soliti allettamenti, molte punizioni e parecchie minacce. Non ho bisogno di scrollarmi di dosso le restrizioni per essere me stesso. Quello di cui mi lamento, di solito, non è che sono in una prigione, ma che sono in esilio o che sono nato sul pianeta sbagliato. Il mio vero scontento è che il mondo, per me, manca di praticità; per impazienza e per mancanza di coraggio lo rendo addirittura ancora meno adatto a me di quanto potrebbe essere. Secondo me, il principio cardine dell’anarchia non è la libertà ma l’autonomia, la capacità di iniziare un progetto e di farlo a modo proprio. Senza ricevere ordini dalle autorità che non sono a conoscenza del problema reale e dei mezzi disponibili. Una direttiva dall’esterno può talvolta essere inevitabile, come nel caso di situazioni di emergenza, ma ciò va a scapito della vitalità. Il comportamento delle persone è molto più gentile, vigoroso e selettivo quando non c’è l’intervento dello stato, dei controllori, dei dirigenti di grandi imprese, di pianificatori centrali e di rettori di università. Costoro tendono a creare situazioni di cronica emergenza in modo da essere sempre indispensabili. In molti casi, l’impiego del potere per far eseguire un compito diventa subito qualcosa di inefficiente. Il potere esterno inibisce le funzioni interne. “Lo spirito è un motore autonomo” dice Aristotele. La debolezza della “mia” posizione anarchica basata sull'autonomia, è che, mentre la ione per la libertà costituisce una motivazione potente per la trasformazione politica, ciò non è il caso per l’autonomia. Le persone autonome si difendono in maniera tenace ma con mezzi meno estenuanti, utilizzando parecchio la resistenza iva. L'energia ricca di ione delle persone oppresse ha tuttavia, come risultato, il fatto che, se rompono le loro catene, non sanno poi più cosa fare. Non essendo state autonome, non sanno cosa sia esserlo, e prima che lo imparino, hanno nuovi amministratori che non hanno alcuna fretta di mettersi da parte. Gli individui oppressi sperano troppo da una Nuova Società, invece di essere attenti a vivere la propria vita. Essi devono fare affidamento l’uno sull’altro nel corso della lotta, ma la loro solidarietà diventa una cosa astratta e un comportamento anticonvenzionale è definito attività controrivoluzionaria. Le possibilità offerte dalla mia più debole concezione anarchica basata sull'autonomia, è che le persone autonome potrebbero vedere che la situazione attuale è disastrosa per loro e che la loro autonomia è continuamente erosa. Esse
non possono fare a meno di rendersene conto. Non possono impegnarsi in un lavoro utile per tutti o farlo onestamente o praticare una professione in modo nobile. Le arti e le scienze sono corrotte. Una piccola impresa deve crescere a dismisura solo per sopravvivere. I giovani non possono trovare la strada per realizzare le loro vocazioni. Il talento creativo è soffocato dal bisogno di titoli di studio. I soldi delle tasse sono sprecati per la guerra, per pagare gli insegnanti nelle scuole e per le spese generali. E via di questo o. I rimedi a tutto ciò potrebbero essere introdotti o a o e si potrebbe farlo senza sconvolgimenti drammatici, ma i cambiamenti devono essere radicali perché molte istituzioni non possono essere rimodellate e il sistema stesso è impossibile da far funzionare. Molto può essere fatto semplicemente eliminando parecchia muffa che ci sta attorno.
Fraintendimenti sull'anarchia, di Sam Dolgoff
Documento 24 (1986)
Alcune riflessioni che tendono a precisare che l’anarchia non è né un rigido insieme dottrinale di precetti né un vago sogno utopico prodotto da individui alla ricerca della perfezione sulla terra, ma una realtà sempre più realizzabile e auspicabile. Fonte: Sam Dolgoff, Fragments: A Memoir, Appendix B, 1986.
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L'anarchia non è affatto un individualismo totale antisociale L'anarchia non connota la libertà individuale assoluta, irresponsabile, antisociale, che viola i diritti degli altri e rifiuta ogni forma di organizzazione e di autodisciplina. La libertà individuale assoluta, se mai fosse realizzabile, può essere raggiunta solo in isolamento: «Ciò che veramente cancella la libertà e rende impossibile l'iniziativa è l'isolamento che rende impotenti» [62]. Anarchia è sinonimo di "socialismo libero" o di "anarchia sociale". Come implica lo stesso termine "sociale", l'anarchia è la libera associazione di persone che vivono insieme e cooperano in comunità libere. L'abolizione del capitalismo e dello Stato; l'autogestione dell'industria da parte dei lavoratori; la distribuzione secondo i bisogni; la libera associazione; sono princìpi che, per tutte le tendenze socialiste, costituiscono l'essenza del socialismo. Per distinguersi riguardo alle differenze fondamentali su come e quando questi obiettivi saranno realizzati, così come per differenziarsi dagli individualisti antisociali, Pëtr Kropotkin e gli altri pensatori anarchici hanno definito l'anarchia come «l'ala sinistra del movimento socialista». L'anarchico russo Alexei Borovoi [63] ha dichiarato che la base adatta per l'anarchia in una società libera è l’uguaglianza [intesa come assenza di privilegi, n.d.t.] di tutti i membri in una libera organizzazione. L'anarchia sociale potrebbe essere definita come l'uguale diritto che ciascuno ha di essere diverso. L'anarchia non è la libertà illimitata e neppure la negazione di responsabilità Nei rapporti sociali tra le persone dovranno essere accettate alcune norme sociali volontarie, cioè l'obbligo di rispettare un accordo liberamente sottoscritto. L'anarchia non è assenza di governo. L'anarchia è autogoverno (o il suo equivalente, autoamministrazione). Autogoverno significa autodisciplina. L'alternativa all’autodisciplina è l'obbedienza forzata imposta dai governanti sui loro sudditi. Per evitare questo, i membri di ogni associazione stabiliscono liberamente le regole della loro associazione e si impegnano a rispettare le norme che essi stessi hanno introdotto. Coloro che si rifiutano di essere all'altezza della loro responsabilità di onorare un accordo volontario saranno privati dei benefici di vivere in comunità. Il diritto di secessione
La punizione per la violazione degli accordi è bilanciata dal diritto inalienabile di secessione. Il diritto di gruppi e individui di scegliere le proprie forme di associazione è, secondo Bakunin, il più importante di tutti i diritti politici. L'abrogazione di questo diritto porta alla reintroduzione della tirannia. Non si può secedere da una prigione. La secessione non paralizzerà l'associazione. Le persone con interessi comuni molto forti coopereranno. Coloro che hanno più da perdere dalla secessione attenueranno le loro differenze. Quelli che hanno poco o nulla in comune con la collettività non danneggeranno l'associazione con la loro secessione, ma, al contrario, elimineranno una fonte di attrito, promuovendo così l'armonia generale. La differenza essenziale tra anarchia e Stato La grande differenza tra il concetto anarchico di autorità liberamente accettata in cambio di servizi consiste nell' amministrazione delle cose, e differisce fondamentalmente dal potere dello Stato, che è il dominio sui suoi sudditi, il popolo. Facciamo un esempio banale: riparare il mio televisore; l'autorità del tecnico esperto finisce quando la riparazione è stata effettuata. Lo stesso vale quando io accetto di imbiancare la stanza del tecnico. Lo scambio reciproco di beni e servizi è un rapporto limitato, non personale, di collaborazione, che esclude automaticamente il dominio dell’uno sull’altro. Ma lo Stato, al contrario, è un apparato onnipervasivo, che governa ogni aspetto della mia vita, dal concepimento alla morte, che mi costringe a obbedire ad ogni suo decreto se non voglio subire gravi fastidi, la soppressione dei miei diritti, la prigionia e persino la morte. Le persone possono liberamente staccarsi da una comunità o da un'associazione, anche organizzarne una propria. Ma non possono sfuggire alla giurisdizione dello Stato. Se, alla fine, riescono a scappare da uno Stato ad un altro, sono immediatamente soggetti alla giurisdizione del nuovo Stato. Sostituire lo Stato I concetti su cui si basa l’anarchia non sono stati inventati artificialmente dagli anarchici. Essi derivano da tendenze già all'opera. Kropotkin, che ha formulato la sociologia dell'anarchia, ha insistito sul fatto che la concezione anarchica della società libera si basa su «quei dati che già oggi sono forniti dall'osservazione della vita dei giorni nostri». I teorici anarchici si sono limitati a suggerire l'utilizzo di tutti gli organismi utili della vecchia società per costruirne una
nuova. Che «gli elementi della nuova società si stiano già sviluppando nella società borghese che sta crollando» (Marx) è un principio fondamentale condiviso da tutte le tendenze del movimento socialista. Lo scrittore anarchico Colin Ward [64] riassume questo punto in modo ammirevole: «Se si vuole costruire la nuova società, tutti i materiali sono già a portata di mano». Gli anarchici cercano di sostituire lo Stato, non con il caos, ma con le forme naturali e spontanee di organizzazione che emergono ovunque si renda necessario contare sull'aiuto reciproco e sulla promozione degli interessi comuni attraverso il coordinamento e l’autogoverno. Tutto ciò scaturisce dall'ineluttabile interdipendenza degli esseri umani e dalla volontà di armonia. Questa forma di organizzazione è il federalismo. La società senza ordine (l'ordine è implicito nel termine "società") è inconcepibile. Ma l'organizzazione dell'ordine non è il monopolio esclusivo dello Stato. Il federalismo è una forma di ordine che ha preceduto l'usurpazione della società da parte dello Stato e che sopravviverà ad essa. Esiste a malapena una forma di organizzazione che, prima di essere usurpata dallo Stato, non fosse originariamente di carattere federalista. A tutt'oggi il solo elenco della vasta rete di federazioni e confederazioni locali, provinciali, nazionali e internazionali che abbracciano la totalità della vita sociale riempirebbe facilmente parecchi volumi. La forma di organizzazione federata rende praticamente possibile, per tutti i gruppi e le federazioni, raccogliere i benefici dell'unità e del coordinamento, esercitando al tempo stesso l'autonomia all'interno della propria sfera, ampliando così la gamma delle proprie libertà. Il federalismo – in quanto sinonimo di libero accordo – è l'organizzazione della libertà. Come dice Proudhon: «Chi dice libertà senza dire federalismo, parla a vanvera». Dopo la Rivoluzione La società è una vasta rete interconnessa di attività svolte in cooperazione, e tutte le istituzioni profondamente radicate, che ora funzionano utilmente, continueranno a funzionare per la semplice ragione che l'esistenza stessa dell'umanità dipende da questa coesione interna. Ciò non è mai stato messo in discussione da nessuno. Quello che serve è l'emancipazione dalle istituzioni autoritarie che dominano la società e dall'autoritarismo esistente all'interno delle organizzazioni stesse. In particolare, queste organizzazioni devono essere pervase da uno spirito rivoluzionario e dalla fiducia nella capacità creativa del
popolo. Kropotkin, nell'elaborare la sociologia dell'anarchia, ha aperto un'area di ricerca fruttuosa che era stata in gran parte trascurata dagli scienziati sociali che si occupano di individuare nuove aree di controllo da parte dello Stato. Gli anarchici si sono occupati principalmente dei problemi immediati di trasformazione sociale che dovranno essere affrontati in qualsiasi luogo dopo una rivoluzione. È stato per questo motivo che gli anarchici hanno cercato di elaborare misure per far fronte ai problemi pressanti che, con ogni probabilità, sarebbero emersi durante quello che lo scrittore-rivoluzionario anarchico Errico Malatesta ha chiamato "il periodo della riorganizzazione e della transizione". Qui diamo una sintesi della discussione malatestiana su alcune delle questioni più importanti. Problemi cruciali non possono essere evitati rimandandoli a un futuro lontano – forse un secolo o più – quando l'anarchia sarà stata pienamente realizzata e le masse si saranno finalmente convinte e avranno dedicato le loro energie allo sviluppo di un comunismo anarchico. Noi anarchici dobbiamo avere la nostra soluzione se non vogliamo svolgere il ruolo di "inutili e impotenti brontoloni", mentre gli individui autoritari, più realistici e senza scrupoli, si impadroniscono del potere. Anarchia o non anarchia, il popolo deve mangiare ed essere provvisto delle necessità della vita. Le città devono essere rifornite e i servizi vitali non possono essere interrotti. Anche se mal soddisfatte riguardo ai loro bisogni, le masse popolari, nel loro stesso interesse, non permetterebbero a nessuno di interrompere questi servizi in attesa di una migliore riorganizzazione. Ma questa trasformazione non può essere realizzata in un giorno. L'organizzazione della società anarco-comunista su vasta scala può essere raggiunta solo gradualmente, quando le condizioni materiali lo permettono, e le persone si convincono dei benefici che possono ricavarne e si abituano gradualmente a trasformazioni radicali del loro stile di vita. Poiché il comunismo libero e volontario (sinonimo malatestiano di anarchia) non può essere imposto, Malatesta ha sottolineato la necessità della coesistenza di varie forme economiche – collettiviste, mutualiste, individualiste – a condizione che non vi sia sfruttamento degli uni sugli altri. Malatesta era fiducioso che l'esempio convincente di collettivi libertari di successo attirerà altri nell'orbita della forma collettiva di organizzazione […]. Da parte mia, non credo che ci sia "una" soluzione al problema sociale, ma mille soluzioni diverse e mutevoli, così come l'esistenza sociale è varia nel tempo e nello spazio [65]
L'anarchia "pura" è una utopia L'anarchia "pura" è definita dallo scrittore anarchico George Woodcock come «il gruppo sciolto e flessibile composto da persone affini, che non ha bisogno di un'organizzazione formale e che porta avanti la diffusione dell’idea anarchica attraverso una rete invisibile di contatti personali e di influenze intellettuali». Woodcock sostiene che l'anarchia "pura" è incompatibile con i movimenti di massa come l'anarco-sindacalismo perché questi hanno bisogno di organizzazioni stabili. Proprio perché si muove in un mondo solo parzialmente governato da ideali anarchici […] e scende a compromessi con le realtà quotidiane […], [l'anarco-sindacalismo] deve preservare la fiducia da parte di masse di [lavoratori] che sono solo lontanamente consapevoli dello scopo finale della concezione anarchica [66]. Se queste affermazioni sono vere, l'anarchia è un'utopia, perché non ci sarà mai un momento in cui tutti saranno "puri" anarchici e perché l'umanità dovrà sempre operare dei "compromessi con la realtà quotidiana". Questo non vuol dire che l'anarchia escluda i "gruppi di affinità". Anzi, è proprio l’esistenza di una infinita varietà di organizzazioni volontarie che si formano, si sciolgono e si ricostruiscono secondo i desideri e le fantasie mutevoli dei singoli aderenti come riflesso delle preferenze individuali, che fa sì che tali comunità volontarie costituiscano la condizione indispensabile per la società libera. Ma gli anarchici insistono sul fatto che la produzione, la distribuzione, lo scambio di comunicazioni e gli altri aspetti indispensabili, per i quali è necessario, nel nostro mondo moderno interdipendente, un coordinamento su scala mondiale, devono essere forniti con una certa regolarità da organizzazioni "stabili" e non possono essere lasciati ai capricci fluttuanti degli individui. Sono obblighi sociali che ogni individuo abile deve adempiere se si aspetta di godere dei benefici del lavoro collettivo. Dovrebbe essere assiomatico che tali indispensabili associazioni "stabili", organizzate in modo anarchico, non rappresentano una deviazione dall’ideale anarchico. Esse costituiscono l'essenza dell'anarchia come ordine sociale pienamente funzionante. Tracciare la strada verso la libertà Gli anarchici non sono così ingenui da aspettarsi l'installazione di una società perfetta, composta da individui perfetti che, il "giorno dopo la rivoluzione”, si libererebbero miracolosamente dei loro pregiudizi radicati e delle loro abitudini
superate. Noi non ci preoccupiamo di indovinare come sarà la società in un futuro remoto, quando il paradiso in terra sarà finalmente raggiunto. Ma siamo principalmente preoccupati della direzione dello sviluppo umano. Non esiste una anarchia "pura". C'è solo l'applicazione dei princìpi anarchici alle realtà della vita sociale. L'unico e solo scopo dell'anarchia è quello di stimolare la società in una direzione anarchica. Così vista, l'anarchia è una guida pratica e credibile per l'organizzazione sociale. Altrimenti è condannata a essere un sogno utopico e non una forza vivente.
Parte III - Anarchici
A quale forma di governo va la nostra preferenza? Eh! non c’è bisogno di chiederlo, risponde, senza mostrare alcun dubbio, uno dei miei più giovani lettori: voi siete un Repubblicano. Repubblicano sì; ma questo appellativo non precisa alcunché. Res Publica è la cosa pubblica; ora, chiunque voglia la cosa pubblica, sotto qualsiasi forma di governo, può definirsi repubblicano. Anche i re sono repubblicani. E allora! siete democratico? No. Cosa! Sareste forse monarchico? No. Costituzionalista? Dio me ne guardi. Siete dunque un aristocratico? Niente affatto. Volete un governo misto? Ancor meno. E allora che cosa siete? Io sono un anarchico. (Pierre-Joseph Proudhon, Qu’est-ce-que la propriété, 1840)
Anarchici La prima e più importante costatazione riguardo agli anarchici è che non tutti coloro che si definiscono tali lo sono poi nella realtà. E dal momento che l’anarchia è una pratica di vita, l'agire di ognuno è il criterio essenziale per operare le distinzioni al riguardo. Purtroppo, essendo stata l’anarchia porto di approdo di molti insoddisfatti dalla vita, di individui marginali, di rabbiosi e scontenti e anche di immaturi, egoisti, impulsivi, è successo che bastasse un gesto contro il potere, unito alla giustificazione di averlo commesso in nome dell’anarchia e alla autoproclamazione di essere anarchici, per essere considerati tali da molti simpatizzanti e da tutti gli avversari dell’idea. Questo non è stato e non è né sensato né accettabile. E difatti molte voci si sono levate in ato contro queste mistificazioni. Quando, nel febbraio del 1894, Émile Henry lanciò una bomba al Café Terminus della Gare Saint-Lazare a Parigi uccidendo una persona e ferendone altre venti, Octave Mirbeau, un romanziere di simpatie anarchiche, scrisse: Un nemico mortale dell'anarchia non avrebbe potuto fare di meglio di questo Émile Henry quando lanciò la sua assurda bomba in mezzo a persone pacifiche e anonime che erano entrate in un caffè per bere un boccale di birra prima di andare a dormire In tempi più recenti, Bob Black ha individuato negli “anarchici” il maggiore ostacolo alla realizzazione dell’anarchia (Documento 41). C’è poi il cosiddetto cretinismo anarchico, individuato da Camillo Berneri ² (Documento 35) in quelli che pensano solo ai propri interessi particolari e li vogliono imporre a tutti spacciandoli come manifestazione di sacro individualismo anarchico. Il comportamento di costoro, basato sull’esaltazione del proprio io anche a scapito degli altri, andrebbe più propriamente definito come menefreghismo. Il loro disconoscimento di qualsiasi regola di vita sociale, vista e presentata come imposizione, fa sì che l’anarchia appaia come una idea e una pratica nociva e strampalata. Proprio come è negli intendimenti e nei piani dei suoi avversari.
Parecchi sono anche coloro che, aderendo all’anarchia come a un’ideologia, la vorrebbero imporre a tutti, nel senso che vorrebbero che tutti diventassero anarchici. Costoro non hanno capito che anarchia significa che ciascuno è libero di adottare per sé lo stile di vita scelto e voluto in piena autonomia. Proprio per questo, l'anarchia non è un’ideologia (anarchismo) e nulla ha a che vedere con l’imposizione a tutti di idee e pratiche di vita specifiche, fossero anche ritenute dai più come le migliori al mondo. I documenti presentati su tale tema intendono mettere in luce proprio questi aspetti di varietà, volontarietà, sperimentazione già precedentemente indicati. In particolare, i documenti che presentano la “sintesi anarchica” (Sébastien Faure, Voline) evidenziano la necessità di dare spazio a tutte le differenti posizioni interne al movimento anarchico, ponendo fine a lotte intestine del tutto estranee allo spirito e alla pratica dell'anarchia. Degno di nota è poi il fatto che molte categorie (individualista, comunista, collettivista) applicate a figure classiche del movimento anarchico, mal si adattano a loro, e soprattutto non nella maniera rigida con cui si è usi concepirle e utilizzarle. Il compito futuro degli anarchici è quindi non solo sviluppare la pratica dell’anarchia in tutte le sue molteplici forme, ma anche chiarire apertamente e concretamente che millantatori e provocatori che si comportano in maniera violenta e intollerante non hanno alcuno spazio nell’ambito dell’anarchia in quanto elementi del tutto estranei ad essa.
Perché sono un anarchico, di Benjamin Tucker
Documento 25 (1892)
Una presentazione estremamente convincente del perché una persona adulta, matura e indipendente, dovrebbe essere a favore dell'anarchia, per sé e per gli altri. Fonte: Benjamin Tucker, Why I Am An Anarchist, in The Twentieth Century, New York, 1892, un settimanale di stampo radicale edito da Hugh O. Pentecost.
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Perché sono un anarchico? Questa è una domanda a cui l’editore di The Twentieth Century mi ha chiesto di rispondere per i suoi lettori. Io esaudisco la sua richiesta ma, a essere sincero, lo trovo un compito difficile. Se l’editore o uno dei suoi collaboratori mi avesse rivolto la domanda del perché dovrei essere qualcosa d’altro e non un anarchico, sono sicuro che non avrei difficoltà a trattare l’argomento. E questo fatto non fornisce forse la ragione migliore del perché io sono un anarchico – e cioè l’impossibilità da parte mia di trovare una qualche buona ragione per essere qualcosa di diverso? Mostrare l’assenza di qualsiasi valore nelle pretese poste in essere dal socialismo di Stato, dal nazionalismo, dal comunismo, dalla dottrina della tassa unica [67], dal capitalismo che domina attualmente e da tutte le numerose forme di archismo [68] che esistono o che sono proposte, rappresenta, al tempo stesso, una chiara manifestazione della validità dell’anarchia. Una volta negato l’archismo solo l’anarchia può, logicamente, essere sostenuta. Ma, di certo, in questo modo non risponderei in maniera soddisfacente alla presente richiesta. Gli errori e le puerilità contenute nel socialismo di Stato e in tutte le forme di dispotismo a cui esso assomiglia sono cose dette, ridette ed esposte in maniera efficace in molti modi e luoghi. Non c’è motivo per me di ripercorrere questo terreno con i lettori del Twentieth Century, anche se questo costituirebbe una prova sufficiente a favore dell’idea anarchica. Immagino che occorra presentare qualcosa di più costruttivo. Allora iniziamo con la generalizzazione più ampia. Io sono anarchico perché l’anarchia e la filosofia anarchica conducono alla mia felicità. «Ma certo, se così fosse, tutti noi saremmo anarchici», replicherebbero all’unisono gli archisti, cioè i fautori di un potere statale esterno – o quanto meno tutti coloro che si sono emancipati dalle superstizioni religiose e morali – «ma questa non è una risposta; noi neghiamo che l’anarchia conduca alla nostra felicità». Davvero la pensate così, amici miei? Io non vi credo affatto quando fate simili affermazioni; o, per metterla in maniera più affabile, io non penso che le fareste una volta afferrata la sostanza dell’anarchia. Quali sono le condizioni per essere felici? Per quanto concerne la perfetta felicità, ve ne sono molte. Ma le condizioni primarie ed essenziali sono poche e basilari. Non sono forse la libertà e il benessere materiale? Non è forse essenziale per la felicità di ogni essere umano sviluppato che sia libero e che lo
siano pure coloro intorno a lui; e che lui e le persone intorno a lui non siano affette da ansie per quanto riguarda il soddisfacimento dei loro bisogni materiali? Sembrerebbe inutile negarlo e, in caso qualcuno lo neghi, sembrerebbe ugualmente inutile discutere con costui. Nessun ammontare di prove del fatto che la felicità umana si è accresciuta con la libertà degli individui riuscirebbe mai a convincere una persona incapace di apprezzare il valore della libertà. E a tutti, eccetto che a questa persona, risulta anche assolutamente evidente che di queste due condizioni – la libertà e il benessere materiale – la prima ha la precedenza come fattore che produce felicità. Sarebbe cosa ben misera per la felicità se l'uno dei due fattori, da solo, la potesse generare, e se quel fattore non potesse produrre o essere accompagnato dall’altro. Ma, nel complesso, molta libertà e poca ricchezza sarebbero preferibili a molta ricchezza e poca libertà. Il rimprovero dei socialisti archisti [i sostenitori del socialismo di Stato] che gli anarchici sono dei borghesi è vero fino a un certo punto, ma non oltre – e cioè, che per quanto grande sia la loro avversione per la società borghese, gli anarchici preferiscono la parziale libertà che la società borghese offre, alla schiavitù completa del socialismo di Stato. In questo caso, posso di certo osservare, con maggior soddisfazione – o meglio con minore sconforto – l’attuale frenetica, crescente lotta, in cui alcuni sono in alto e altri in basso, alcuni salgono e altri scendono, alcuni sono ricchi e molti sono poveri, ma nessuno è del tutto incatenato o assolutamente privo della speranza di un futuro migliore. Questa situazione mi genera meno sconforto che non la società ideale di Thaddeus Wakeman [69], formata da una massa uniforme e miserevole di buoi gregari, placidi e ubbidienti. Allora, lo sottolineo nuovamente, io non credo che molti archisti possano essere portati ad affermare con tante parole che la libertà non è il fattore primario della felicità, e quindi essi non possono affermare che l’anarchia, che è un altro nome che si dà alla libertà, non conduca alla felicità. Essendo questo vero, non mi sono sottratto dal rispondere e anzi ho già posto il mio caso su basi sicure. Nulla è più necessario per spiegare le mie convinzioni a favore dell’anarchia. Anche se si potesse inventare una qualche forma di archismo che generasse ricchezza in quantità infinita e la distribuisse in maniera perfettamente equa (scusate l’assurda ipotesi di una distribuzione di una quantità infinita), il fatto di negare la condizione primaria della felicità, vale a dire la libertà, spingerebbe al rifiuto di tale sistema e all’accettazione della sua vera alternativa, l’anarchia. Ma, anche se ciò è sufficiente, non è tutto. Va bene come spiegazione, ma non è abbastanza per offrire una ispirazione. La felicità possibile in una data società
che non migliori la ripartizione della ricchezza rispetto alla situazione attuale può difficilmente essere qualificata come qualcosa di meraviglioso. Nessuna prospettiva futura che non faccia intravedere l’attuazione di entrambi i requisiti della felicità – la libertà e il benessere materiale – può essere davvero attraente. Ora l’anarchia promette la realizzazione di entrambi: il secondo requisito, il benessere, come risultato del primo, la libertà, e, come conseguenza di entrambi, la felicità. Ciò ci porta a trattare dell’economia. In una condizione di libertà, si produrrà in abbondanza e si distribuirà in maniera equa la ricchezza? Questa è la questione che resta da esaminare. Di certo non può essere esaminata in maniera adeguata in un breve articolo di questo settimanale. Quello che si può fare al massimo è presentare alcune generalizzazioni. Qual è la causa della distribuzione non equa della ricchezza? «La concorrenza», strepitano i socialisti di Stato. E se essi avessero ragione, saremmo in una terribile situazione perché, in questo caso, non saremo mai in grado di ottenere la ricchezza senza sacrificare la libertà. E invece è proprio la libertà che dobbiamo conseguire. Ma, fortunatamente, essi hanno torto. Non è la concorrenza ma il monopolio che priva i lavoratori produttivi del frutto del loro lavoro. A parte i salari, le eredità, i doni e i guadagni dai giochi d’azzardo, qualsiasi processo attraverso il quale si acquisisce ricchezza poggia su un monopolio, su una proibizione, su una negazione della libertà. L’interesse e la rendita sugli edifici si fondano sul monopolio bancario, sul divieto di concorrenza nell’ambito finanziario, sulla negazione della libertà di emettere mezzi di pagamento; la rendita sui suoli poggia sul monopolio dei terreni, la proibizione di utilizzare terre disponibili; i profitti straordinari ben superiori ai salari derivano dall’esistenza di barriere tariffarie protezionistiche e di brevetti monopolistici e dalla proibizione o limitazione della concorrenza nelle industrie e nelle professioni. C’è una sola eccezione, ed è una eccezione relativamente triviale. Faccio riferimento alla rendita economica [70] come distinta dalla rendita monopolistica. Essa non poggia su una negazione della libertà ma è una delle disuguaglianze presenti in natura, e probabilmente esisterà sempre. Una piena libertà la attenuerà notevolmente, ne sono sicuro. Ma non mi aspetto che essa scomparirà come prevede con tanta sicurezza Mr M’Cready [71]. Al peggio, sarà qualcosa di poco conto, che non sarà degna di essere presa in esame in rapporto alla libertà se non come il divario, non preoccupante, che esisterà sempre come conseguenza dei diversi livelli di capacità.
Quindi, se tutti questi metodi di estorsione dei frutti del lavoro poggiano sulla negazione della libertà, chiaramente il rimedio consiste nella realizzazione della libertà. Distruggiamo il monopolio bancario, introduciamo la libertà nella sfera finanziaria, e il risultato sarà una diminuzione dell’interesse sul denaro attraverso il benefico influsso della concorrenza. Il capitale sarà reso libero, gli affari fioriranno, nuove attività produttive saranno avviate, i lavoratori saranno richiesti e i loro salari cresceranno fino a raggiungere un livello in sintonia con ciò che producono. E questo si verificherà anche nel caso degli altri monopoli. Aboliamo le tariffe protezionistiche, eliminiamo i brevetti, facciamo cadere gli steccati a recinzione di terre lasciate vacanti, e i lavoratori produttivi accorreranno e ne prenderanno possesso. A quel punto l’umanità vivrà libera e in una condizione di benessere. Questo è quello che voglio vedere; questo è quello che mi piace pensare. E poiché la concezione anarchica aspira a realizzare ciò, io sono un anarchico. Non ho le prove che l'anarchia le realizzerà queste cose, ma non si può nemmeno affermare il contrario. Io mi attendo sempre che qualcuno mi mostri, in base alla storia, ai fatti, o tramite un ragionamento logico, che le persone hanno bisogni sociali superiori al bisogno di libertà e di benessere o che una qualche forma di archia assicurerà loro il soddisfacimento di questi bisogni. Fino ad allora la base delle mie convinzioni sociali ed economiche rimarrà quella che ho messo in luce in questo breve articolo.
Perché sono un’anarchica, di Louise Michel
Documento 26 (1896)
Una dichiarazione apionata sul perché una donna forte e coraggiosa è diventata una anarchica. Fonte: Louise Michel, Why I am an anarchist, Liberty, UK, marzo 1896.
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Io sono un’anarchica perché solo l’anarchia, attraverso la libertà e la giustizia sulla base di una uguaglianza di diritti, renderà l’umanità felice, e perché l’anarchia è l’idea più sublime mai concepita da un essere umano. Essa rappresenta, al giorno d’oggi, il punto più alto dell’umana saggezza, che prelude alla scoperta di un progresso mai sognato verso nuovi orizzonti, a mano a mano che le epoche avanzano e si succedono, in spazi sempre più ampi. L’essere umano conseguirà la piena consapevolezza di sé solo quando sarà libero. L’anarchia perciò costituirà il punto di separazione tra il gregge umano, come esiste attualmente, composto da schiavi e da tiranni, e la libera umanità di domani. Non appena un individuo, chiunque egli sia, arriva al potere, è preda di un influsso fatale e si corrompe. Impiega la forza per difendere la sua persona. Egli diventa lo Stato, che considera come sua proprietà, da utilizzare a suo proprio vantaggio, come un cane ritiene suo l’osso che rode. Se il potere rende l’individuo egoista e crudele, l’asservimento lo degrada. Uno schiavo è spesso peggio del suo padrone; nessuno sa quanto dispotico egli diventerebbe se diventasse un padrone, o quanto spregevole sarebbe il suo comportamento come schiavo, se la sua sorte o la sua vita fossero in pericolo. Per farla finita con l’orrenda miseria in mezzo alla quale l’umanità ha trascinato da sempre una esistenza maledetta e penosa, incitiamo sempre più le persone coraggiose a lottare per la giustizia e per la verità. I tempi sono maturi: scombussolati dai crimini dei governanti, da leggi severe, dall’impossibilità di vivere in queste condizioni, abbiamo migliaia di disgraziati senza speranza di porre fine alle loro sciagure, o con l'illusione di un miglioramento proveniente da istituzioni del tutto incancrenite, attraverso un trao di potere che non è altro che un cambio di scenario delle sofferenze. E tutto ciò in presenza dell’amore naturale dell’essere umano per la vita. In questa situazione, tutti, a qualunque razza appartengano, si guardano attorno per vedere da dove verrà la liberazione dalle loro pene. L’anarchia non farà ripartire di nuovo l’eterno ciclo della miseria. L’umanità, nella sua fuga dalla disperazione, si aggrapperà ad essa per riemergere dal fondo degli abissi. È attraverso una aspra ascesa tra le rocce che arriveremo alla cima. L’umanità non tenterà più di afferrare pietre cadenti e ciuffi di erba che la porterebbero a precipitare continuamente in basso. L’anarchia è il nuovo ideale, il progresso che nulla può arrestare. La nostra epoca
è morta come l’età della pietra. Che la morte sia avvenuta ieri o migliaia di anni fa, le sue tracce di vita sono del tutto perse. La fine dell’epoca che stiamo attraversando costituisce solo una necropoli piena di ossa e cenere. Il potere di dominare, l’autoritarismo, i privilegi, tutte queste cose non esistono per le persone pensanti, per gli artisti, o per chiunque si ribelli contro il male comune. La scienza svela energie sconosciute che la ricerca renderà ancora più chiare. La scomparsa dell’attuale ordine di cose è prossima. Il mondo, che fino a ora è terreno di conquista per alcuni privilegiati, sarà campo di azione per tutti. E solo gli ignoranti si stupiranno del prevalere dell’umanità sull’antica bestialità. Io sono diventata definitivamente un’anarchica quando sono stata bandita nella Nuova Caledonia, trasportata su una nave militare, come punizione per avere lottato a favore della libertà [72]. I miei compagni e io fummo tenuti per mesi in gabbie come bestie feroci. Non vedevamo nulla tranne il cielo e il mare, e di tanto in tanto le bianche vele di una nave all’orizzonte, come le ali di un uccello nel cielo. Queste impressioni e la vastità dello spazio furono cose che ci hanno riempito gli animi. A bordo abbiamo avuto molto tempo per pensare e per mettere costantemente in relazione le cose, gli eventi e le persone. Avendo visto i miei amici della Comune, persone oneste e laborioso e che sapevano solo dedicare le loro esistenze alla lotta perché aborrivano il male, sono rapidamente giunta alla conclusione che le persone oneste al potere sono incapaci di cambiare le cose e che quelle disoneste al potere sono dei mostri. Ho allora capito che è impossibile coniugare la libertà con il potere, e che una rivoluzione, il cui scopo fosse quello di dar vita a una qualche altra forma di governo, non sarebbe che un inganno se solo alcune istituzioni dovessero scomparire, perché ogni cosa nel vecchio mondo è collegata da anelli indistruttibili di una catena, e tutto va eliminato dalle fondamenta se vogliamo che un nuovo mondo sorga felice e libero, sotto un libero cielo. L’anarchia è attualmente il fine che il progresso cerca di conseguire, e quando lo avrà raggiunto si guarderà ancora più in avanti fino a limiti di un nuovo orizzonte che, di nuovo, una volta raggiunto aprirà altri orizzonti, e così per sempre, perché il progresso è eterno. Noi dobbiamo lottare non solo con il coraggio ma anche con la razionalità affinché le masse dei diseredati, che irrorano con il loro sangue ogni o verso il progresso, possano alla fine trarre un beneficio da questa lotta suprema che la ragione umana ha ingaggiato con la forza della disperazione. È necessario che il
vero ideale sia rivelato, più grande e più affascinante di tutte le opere del ato. E anche se il conseguimento di questo ideale fosse lontano nel tempo, vale lo stesso la pena di morire per esso. Ecco perché sono un’anarchica.
Che cosa ciascuno dovrebbe fare, di Lev Tolstoj
Documento 27 (1900)
Uno scritto di una forza inaudita che scuote tutte le possibili giustificazioni per un accomodamento personale con una organizzazione invasiva e violenta quale è lo Stato. Fonte: Lev Tolstoj, The slavery of our times, in Government is violence. Essays on anarchism and pacifism, Phoenix Press, London, 1990.
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«Dicci che cosa fare, e come dovremmo organizzare la società». Questo è quello che le persone appartenenti alle classi benestanti sono solite chiedere. Esse sono talmente abituate a esercitare il loro ruolo di proprietari di servi che, anche quando si parla di migliorare le condizioni dei lavoratori, subito iniziano, come facevano i padroni dei servi prima dell’emancipazione, a immaginarsi ogni sorta di piani per loro, senza però rendersi conto che non hanno alcun diritto di disporre della vita di altre persone. E che il solo modo per fare davvero il bene delle persone, la sola cosa che potrebbero e dovrebbero fare, è cessare di compiere il male che essi stanno adesso infliggendo loro. Quel male è molto evidente e preciso. Non si tratta solo del fatto che essi utilizzano, con la forza, il lavoro dei servi, e che non hanno nessuna intenzione di smettere di fare ciò, ma anche che partecipano alla istituzione e alla perpetuazione del lavoro servile. Ecco quello a cui dovrebbero porre fine. Anche i lavoratori sono corrotti dalla loro condizione di asservimento coatto. Infatti, molti pensano che la loro deprecabile condizione sia causata dai loro padroni, che li pagano troppo poco e che detengono gli strumenti di produzione. Non si rendono conto che la posizione in cui si trovano dipende interamente da loro, e che se solo volessero migliorare la loro condizione e quella dei propri fratelli, e non solo ognuno preoccuparsi di cosa è meglio per sé, la cosa principale sarebbe il non fare male a chicchessia. E il male che essi arrecano consiste nel fatto che, desiderando migliorare la propria condizione materiale, essi impiegano gli stessi mezzi che sono serviti per asservirli. Infatti, per soddisfare le abitudini a cui si sono assuefatti, i lavoratori sacrificano la loro dignità umana e la loro libertà, e accettano occupazioni umilianti e immorali, o producono articoli inutili se non addirittura dannosi, e, soprattutto, mantengono in vita il governo, vi prendono parte sia attraverso il pagamento delle tasse, sia mettendosi direttamente al suo servizio. Il tal modo, sono i lavoratori stessi che si pongono in una condizione di servi [73]. Per cercare di migliorare questo stato di cose, sia le classi benestanti che i lavoratori dovrebbero capire che i progressi non si possono effettuare difendendo accanitamente solo i propri interessi particolari. Operare anche al servizio di tutti comporta sacrificio e perciò, se le persone vogliono davvero migliorare la condizione di una umanità composta da fratelli, e non unicamente la loro
situazione, dovrebbero essere pronti non solo a trasformare il modo di vita a cui sono abituati e perdere taluni vantaggi a cui si sono aggrappati, ma devono anche prepararsi a una intensa lotta, non contro il governo, ma contro sé stessi e le proprie famiglie, ed essere disposti a soffrire una persecuzione a causa del non adempimento delle imposizioni del Governo. Perciò, la risposta alla domanda: Che cosa dobbiamo fare? è molto semplice e non solo in teoria, ma anche in maniera del tutto concreta e praticabile da ognuno. Ed essa non è quella che si aspettano coloro che, come gli appartenenti alle classi benestanti, sono assolutamente convinti di avere ricevuto l’alto compito, non di correggere sé stessi, in quanto si ritengono già di per sé ottime persone, ma di migliorare tutti gli altri. E non è neanche quella che si aspettano i lavoratori che sono sicuri di non avere nulla da rimproverarsi perché ritengono che la colpa della loro cattiva condizione ricada totalmente sui capitalisti e pensano che le cose si possano aggiustare solo espropriandoli di tutti i loro beni e mettendo tutte queste risorse al proprio servizio e uso. La risposta da dare è del tutto chiara, applicabile e praticabile, e richiede l’agire attivo di una sola persona su cui ognuno di noi ha un potere di intervento reale, legittimo e incontestabile, vale a dire sé stessi. Ed essa consiste in questo, che se un individuo, che sia un servo o un proprietario di servi, vuole davvero migliorare non solo la sua condizione ma anche quella delle persone in generale, non dovrebbe commettere azioni riprovevoli che asserviscono lui e i suoi fratelli. Per non fare il male, che produce miseria per sé e per i suoi fratelli, per prima cosa egli non dovrebbe, né volontariamente né obbligatoriamente, prendere parte a una qualche attività governativa, e non dovrebbe mai essere né un soldato, né un ufficiale, né un ministro o un funzionario delle tasse, né un consigliere comunale o un giurato nei tribunali dello Stato, né un governatore o un deputato al parlamento. In sostanza mai ricoprire una carica connessa con una entità violenta quale è lo Stato. Questa è la prima cosa. In secondo luogo, un tale individuo non dovrebbe pagare volontariamente le tasse al governo, sia quelle dirette che quelle indirette. Né dovrebbe accettare denaro strappato attraverso le tasse, sia come salario che come pensione o ricompensa, né dovrebbe fare uso delle istituzioni governative sostenute da tasse prese al popolo con la violenza. In terzo luogo, un tale individuo non dovrebbe fare appello allo Stato con il suo apparato di violenza istituzionale per proteggere le sue proprietà in terreni o altri
beni, né come strumento per difendere sé e i suoi cari. Ma dovrebbe possedere soltanto quella estensione di terra e quella quantità di beni che sono il frutto del suo lavoro o di persone a lui associate, e su cui altri non hanno e non dovrebbero avere alcuna pretesa. «Ma agire così è impossibile. Rifiutare qualsiasi partecipazione nella sfera in cui opera il governo significa rifiutarsi di vivere». Questo è quello che direbbero le persone. Un uomo che si rifiutasse di adempiere al servizio militare sarebbe messo in prigione; una persona che non pagasse le tasse sarebbe punita e l’ammontare non versato sarebbe preso con la forza dalle sue proprietà; un individuo che, non avendo altri mezzi per guadagnarsi da vivere, si rifiutasse di lavorare per il governo, morirebbe di fame, lui e la sua famiglia; lo stesso avverrebbe per colui che rifiuta la protezione del governo per i suoi beni e per la sua persona. Non fare uso di beni che sono il frutto delle tasse, o delle istituzioni governative, è cosa quasi impossibile, come pure è impossibile fare a meno di servizi governativi come le poste e le strade. È abbastanza vero che per una persona dei nostri giorni è molto difficile mettersi da parte e non partecipare affatto alla violenza perpetrata dai governi. Ma il fatto che non tutti possano organizzare la propria vita in modo da non partecipare, in qualche modo, alla violenza governativa, non vuol dire che non è possibile liberarsene progressivamente. Non tutti gli uomini avranno la forza di rifiutare l’arruolamento militare sebbene taluni che lo respingono esistono ed esisteranno sempre. Ma ogni individuo può astenersi dall’abbracciare volontariamente la carriera militare, o diventare poliziotto, o entrare in magistratura o essere esattore delle tasse, e può dare la sua preferenza a una attività meno pagata nel settore produttivo rispetto a un impiego meglio retribuito nel settore statale. Non tutte le persone avranno la forza di rinunciare ai propri possedimenti terrieri, sebbene ci siano persone che lo facciano. Ma ogni individuo potrebbe, una volta che si sia reso conto della non legittimità di possedere estensioni estremamente vaste di terra, diminuire le sue pretese, e avere sempre meno bisogno di una quantità enorme di beni che generano l’invidia delle altre persone. Non tutti i funzionari governativi possono rinunciare al loro stipendio, sebbene vi siano persone che preferiscono soffrire la fame piuttosto che essere impiegati da un governo di ladri e furfanti. Ma tutti potrebbero optare per uno stipendio ridotto, scegliendo compiti che hanno meno a che fare con l’esercizio
del potere e della violenza. Non tutti possono fare a meno di utilizzare le scuole statali, sebbene ci siano alcuni che ci riescono. Ma tutti potrebbero preferire centri educativi fondati autonomamente, e ognuno potrebbe fare un uso sempre più ridotto di beni e servizi prodotti e gestiti dal governo attraverso le tasse. Tra l’ordine esistente, basato sulla forza bruta, e l’ideale di una società fondata su accordi ragionevoli convalidati dai costumi, esistono una infinità di livelli che l’umanità sta ascendendo. E l’avvicinamento all’ideale si realizza solamente nella misura in cui gli individui rifiutano di prendere parte alla violenza, di ricavarne un vantaggio e di abituarsi ad essa. Noi non sappiamo e non possiamo immaginare, e ancor meno possiamo dire, come fanno coloro che si spacciano per scienziati sociali, in che modo questo graduale indebolimento dello Stato e conseguente rafforzamento delle persone avrà luogo. E non sappiamo neanche quali forme nuove prenderà l’esistenza degli individui mano a mano che progredisce la loro emancipazione. Ma sappiamo per certo che la vita della gente che, avendo preso piena coscienza della criminalità e nocività delle attività dello Stato, si sforza di non farne uso o di non esserne partecipe in alcun modo, sarà del tutto differente. Solo allora l’esistenza delle persone sarà in accordo con le leggi della vita e della coscienza degli individui in contrasto con quanto avviene attualmente. Infatti, al giorno d'oggi, le persone, pur prendendo parte all'oppressione statale e ricavandone un vantaggio, pretendono poi di combatterla e cercano di distruggere la vecchia violenza con una nuova forma di violenza. La cosa principale da considerare è che l’attuale organizzazione della vita è cattiva. Su questo tutti sono d’accordo. La causa delle cattive condizioni e dell’asservimento che esiste al giorno d’oggi risiede nella violenza di cui fanno uso gli Stati. C’è un solo modo per abolire la violenza degli Stati e consiste nel rifiutarsi di partecipare alla violenza. Perciò è superfluo chiedersi se sarà difficile o no astenersi dal prendere parte alla violenza degli Stati, oppure se gli esiti positivi dell’astenersi dal fare violenza saranno o non saranno subito visibili. Perché, per liberare le persone dall’asservimento c’è solo quella strada e nessun’altra. In che misura e quando degli accordi volontari, convalidati da costumi radicati, sostituiranno la violenza all’interno di ogni società e nel mondo intero, dipenderà dalla volontà e lucidità delle persone e dal numero di individui che mostreranno queste qualità. Ognuno di noi è un essere distinto e ciascuno può essere un
partecipante attivo a questo cammino di progresso dell’umanità, riconoscendo più o meno chiaramente le finalità che si aprono davanti a noi. Oppure può decidere di essere un avversario del progresso. A ognuno spetta fare la sua scelta: o contrastare la volontà di Dio, costruendo sulla sabbia una casa instabile dove are una esistenza breve e illusoria, oppure unirsi al movimento eterno e imperituro della vera vita, in sintonia con il volere divino. Ma forse mi sbaglio, e gli insegnamenti che dobbiamo trarre dalla storia dell’umanità non sono questi. Forse la razza umana non si sta muovendo verso l’emancipazione e abbandonando l’asservimento. Forse si può affermare con certezza che la violenza è un fattore necessario per il progresso, e che lo Stato, con tutta la sua violenza, è una espressione necessaria della vita, e che sarebbe peggio per la gente se esso fosse abolito e non ci fosse alcuna difesa statale delle persone e delle proprietà. Ipotizziamo che sia così, e sosteniamo, sempre per ipotesi, che tutto il ragionamento precedente è errato. Rimane il fatto che, al di là delle considerazioni generali sull’esistenza umana, ognuno deve confrontarsi sul significato della propria vita e, nonostante tutte le considerazioni sulle norme generali del vivere sociale, un individuo non può fare quello che egli stesso riconosce essere, non solo nocivo, ma del tutto errato. È possibile che il ragionamento tendente a mostrare che lo Stato è una istituzione necessaria per lo sviluppo degli individui, e che la violenza statale è necessaria per il bene della società, possa essere ricavato dalle vicende storiche, è vero. Però ogni persona onesta e sincera del nostro tempo replicherebbe affermando che uccidere qualcuno è un male. Questo io lo so per certo, al di là di qualsiasi ragionamento fumoso. Lo Stato, imponendomi di arruolarmi nell’esercito, o di pagare per assoldare ed equipaggiare dei soldati, o per comperare dei cannoni e costruire delle navi da guerra, vorrebbe fare di me un complice della violenza omicida, e questo non posso e non voglio permetterlo. E neppure vorrei o potrei utilizzare del denaro che lo Stato ha preso da persone indigenti sotto minaccia di morte; né vorrei fare uso di terreni e capitali protetti dallo Stato, perché so che questa protezione poggia sulla violenza. Io potrei agire come se nulla fosse se non mi risultasse chiaro l’aspetto di criminalità dello Stato, ma una volta che me ne sono reso conto, non posso fare
finta di niente e non posso più a lungo esserne complice. Lo so che siamo tutti coinvolti dalla violenza e che è difficile evitarla del tutto, ma, nonostante ciò, farò tutto il possibile per non prendere parte a nessun tipo di violenza. Non sarò un complice dei violenti e non cercherò di utilizzare quello che è ottenuto e difeso con la forza bruta. Ho una sola esistenza. Perché dovrei, durante questa mia breve vita, agire contro la voce della mia coscienza e diventare un complice di atti abominevoli? Non posso e non voglio. Che cosa verrà fuori dal mio rifiuto, non lo so. L’unica cosa che so è che nessun male sarà fatto dal mio agire secondo coscienza Così dovrebbe rispondere, ai nostri giorni, ogni persona onesta e sincera quando qualcuno sostiene la necessità dello Stato e della violenza, e quando gli viene chiesto di prendere parte a ciò. La conclusione a cui dovrebbe condurci il ragionamento generale è quindi confermata, per ogni individuo, da quel giudice, supremo e incontestabile, che è la voce della propria coscienza.
Il processo formativo di un'anarchica, di Voltairine de Cleyre
Documento 28 (1903)
Ricordi di vita che presentano l'introduzione al socialismo e all'anarchia di una delle figure più cristalline e autentiche nella storia del movimento. Interessante la visione umanistica e sperimentale di una anarchia senza aggettivi che potrebbero limitare e vincolare le aspirazioni e i progetti personali. Fonte: Voltairine de Cleyre, The Making of an anarchist, in Selected Works of Voltairine de Cleyre, edited by Alexander Berkman, Mother Earth Publishing Association, New York, 1914.
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Qui c’era una guardia e là, in fondo, ce n’era un’altra; io mi trovavo qui, in direzione opposta al portone. Tu li conosci quei problemi di geometria della lepre e dei cani da caccia che non corrono mai in linea retta, ma sempre ondeggiando per cui, vedi, la guardia non è stata più intelligente dei cani; se avesse corso in linea retta verso il portone mi avrebbe preso. Questo era Pëtr Kropotkin [74] che raccontava la sua fuga dalla fortezza PetroPaulovsky [75]. Tre briciole sulla tavola segnavano la posizione relativa delle guardie battute in astuzia e del prigioniero fuggitivo. La persona che raccontava le aveva prese da un pezzo di pane e le aveva posizionate sulla tavola con un sorriso divertito. Il triangolo che ne risultava era stato il punto di avvio di un lunghissimo esilio del più grande uomo, eccetto Tolstoj [76], che la Russia abbia prodotto: da quel momento iniziarono le molte peregrinazioni in terra straniera e l’assumere il semplice e affettuoso titolo di “Compagno” al posto di quello di “Principe” che era stato abbandonato con sdegno. Ci trovavamo tutti e tre assieme nella semplice casetta di un lavoratore di Londra. Will Wess [77], un tempo calzolaio, Kropotkin e io. Abbiamo sorseggiato il nostro tè, in stile inglese, con fette di pane imburrato e parlavamo di cose vicine al nostro cuore che, in tutti i casi in cui due o tre anarchici si trovano riuniti assieme, significa discorrere sulle espressioni attuali della crescita di libertà e su quello che i nostri compagni stanno facendo in tutti i paesi. E poiché ciò che fanno e dicono spesso li porta in prigione, la conversazione era naturalmente caduta sull’esperienza di Kropotkin e sulla sua audace fuga, che ancor oggi irrita il governo russo. In quel momento il vecchio uomo diede uno sguardo all’orologio e si levò in piedi: «Si è fatto tardi. Arrivederci Voltairine, arrivederci Will. Quale è la via per andare in cucina? Devo salutare Miss Turner e Lizzie» [78]. E si diresse verso la cucina, perché, pur essendo in ritardo, non voleva andarsene senza stringere la mano a coloro che avevano anche solo lavato i piatti per lui. Questo è Kropotkin, un essere umano la cui personalità spicca più di ogni altra nel movimento anarchico. Il più gentile, il più educato e il più invincibile di tutti gli uomini. Comunista e anarchico, i battiti del suo cuore sono ritmati con le grandi pulsazioni comuni delle attività e della vita. Io non sono comunista, sebbene mio padre lo fosse, e suo padre prima di lui, durante i momenti entusiasmanti del ’48 [79], il che costituisce probabilmente la
ragione del fatto che non accetto le cose come sono attualmente: nel fondo, le convinzioni sono per lo più frutto del temperamento. E se cercassi di spiegare le cose su altre basi, finirei per cadere in sconcertanti errori di logica. Infatti, secondo le influenze e l’educazione ricevute in gioventù dovrei essere una suora, e are la mia vita glorificando l’Autorità nella sua forma più intensa, come alcune delle mie compagne di scuola stanno facendo in questo momento all’interno delle case missionarie dell’Ordine dei Sacri Nomi di Gesù e Maria. Ma l’antico ancestrale spirito di ribellione si fece valere quando avevo appena quattordici anni ed ero una allieva nel Convento di Nostra Signora del Lago Huron, a Sarnis, nell’Ontario [80]. Come provo pietà per me stessa, adesso, ricordandomi di quei tempi, io, povera piccola anima solitaria, che lottava tutta sola nel buio della superstizione religiosa, incapace di credere e, al tempo stesso, immersa nella paura costante della dannazione, violenta, terribile ed eterna, se non confessavo e non facevo subito la mia professione di fede! Come mi ricordo bene l’amara energia con cui ho respinto l’ingiunzione della mia insegnante, quando le dissi che non avevo alcuna intenzione di chiedere scusa per una presunta mancanza, dal momento che non ritenevo di avere agito male, e non credevo giusto affermare il contrario. «Non è necessario – rispose l’insegnante – credere in quello che si dice, ma è sempre necessario obbedire ai propri superiori». «Non ho intenzione di mentire», risposi fermamente, e al tempo stesso tremavo per paura che la mia disobbedienza mi consegnasse davvero alle pene dell'inferno! Ho lottato per venirne fuori, alla fine, ed ero una libera pensatrice quando lasciai l’istituzione, tre anni dopo, sebbene non avessi letto un libro o sentito una parola che aiutasse a lenire la mia solitudine. Era stato come attraversare la Valle delle Ombre e della Morte, e ci sono ancora ferite nel mio animo, dove l’Ignoranza e la Superstizione mi hanno consumato con il fuoco dell'inferno durante quei giorni in cui la mia mente si sentiva soffocare. Sono forse una persona blasfema? Queste sono le loro parole con cui sono stata definita, non le mie. In confronto a quella lotta, di quando ero giovane, tutte le altre sono state facili, in quanto tutto ciò che proveniva dall'esterno, era sottoposto ai dettami della mia Volontà. Essa non riconosce alcuna sudditanza, e mai lo farà; ha preso con fermezza una direzione, la consapevolezza e l’affermazione della sua propria libertà, con tutte le responsabilità che ne conseguono. Questa, sono sicuro, è la ragione ultima della mia accettazione dell’anarchia, sebbene l’avvenimento specifico che ha maturato la mia inclinazione in tal senso sia stato l'evento del 1886-87, quando cinque persone innocenti sono state
impiccate a Chicago per l’atto di un colpevole che è ancora ignoto [81]. Fino ad allora credevo essenzialmente nella giustizia della legge in America e del processo con la giuria che emette il verdetto. Dopo quel fatto, non ho mai più potuto credervi. L’infamia di quel processo è ata alla storia, e la domanda che ha suscitato sulla possibilità di avere giustizia in base alla legge è diventata un grido di dolore che echeggia in tutto il mondo. Con questo interrogativo che cercava disperatamente una risposta in un momento in cui, giovane e piena di energia, tutti gli interrogativi si affacciavano con una forza che non si ripeterà mai più nella vita, mi capitò per caso di partecipare a una Paine Memorial Convention in una sperduta località della terra, tra le montagne e le nevi della Pennsylvania. A quei tempi ero una insegnante libera pensatrice, e nel pomeriggio ero intervenuta parlando delle attività e degli scritti di Thomas Paine [82]. La sera mi trovavo nella sala, tra il pubblico, per ascoltare Clarence Darrow [83] che parlava sul socialismo. Si trattava della mia prima introduzione a un qualche piano per il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratici, che forniva anche una spiegazione del corso dello sviluppo economico. Io mi sono accostata a tutto ciò come uno che dal buio corre verso la luce. Mi fa sorridere adesso la facilità con la quale adottai la qualifica di “socialista” e la rapidità con cui l'ho messa da parte. Spero che nessuno segua il mio esempio, ma ero giovane. Sei settimane più tardi fui punita per la mia avventatezza quando ho cercato di sostenere le mie nuove convinzioni con un piccolo uomo, un Russo di origini ebree, di nome Mozersky, in un circolo di discussioni di Pittsburgh. Egli era un anarchico, una sorta di moderno Socrate [84]. Mi pose domande che mi fecero cadere in tutta una serie di contraddizioni dalle quali cercai di uscirne in maniera parecchio goffa, per finire poi in altre contraddizioni che, col sorriso sulle labbra, il mio interlocutore aveva fatto emergere mentre cercavo di districarmi dalle precedenti. La necessità di dare basi più solide alle mie idee divenne chiara; per questo iniziai a studiare i princìpi della sociologia e del moderno socialismo e dell'anarchia come erano presentati nei loro giornali ufficiali. Fu Liberty, il giornale di Benjamin Tucker [85], l’esponente dell’individualismo anarchico, che alla fine mi convinse che «la Libertà non è la Figlia ma la Madre dell’Ordine» [86]. E sebbene io non condivida più del tutto la visione particolare sostenuta da Tucker, l’idea anarchica in sé stessa, come allora concepita, si è allargata, approfondita e intensificata con il are degli anni. Per coloro che non hanno familiarità con il movimento anarchico, i vari termini generano confusione. L’anarchia è, in verità, una sorta di Protestantesimo, i cui aderenti sono fondamentalmente uniti nel credere che tutte le forme di potere
esterno debbano scomparire per essere sostituite dal semplice auto-controllo, ma sono variamente divisi riguardo all'organizzazione della società futura. L’individualismo presuppone che la proprietà privata sia la base della libertà personale; asserisce inoltre che tale proprietà dovrebbe consistere nel possesso assoluto di quanto ognuno ha prodotto e nella ripartizione dei beni naturali sulla base dell'uso personale. Gli anarchici comunisti, dal canto loro, dichiarano che questo tipo di proprietà non è né realizzabile né desiderabile. Per essi solo il possesso e l’uso comune di tutte le fonti e i mezzi di produzione sociale possono garantire l’individuo contro un ritorno della disuguaglianza e dei fenomeni ad essa connessi, il governo e la schiavitù. La mia convinzione personale è che, in assenza di governo, entrambe queste forme, come pure molte altre forme intermediarie, sarebbero sperimentate in varie località, secondo le tendenze e le condizioni materiali di una popolazione, e che obiezioni ben fondate potrebbero essere rivolte a entrambe. Solo la libertà e la sperimentazione possono decidere quale potrebbe essere la migliore forma di società. Perciò non mi do più alcuna etichetta e mi definisco semplicemente un’Anarchica. Non vorrei che la gente pensasse che sono una “anarchica di professione”. Le persone esterne al movimento hanno su di noi idee strane, una delle quali è che gli anarchici non lavorano mai. Al contrario, gli anarchici sono quasi sempre poveri, e sono solo i ricchi che possono permettersi di vivere senza lavorare. Non solo questo, ma noi crediamo che tutti gli esseri umani in buona salute sceglieranno di svolgere un’attività produttiva, come conseguenza del loro proprio agire, ma non certo come avviene oggi, quando le occasioni di realizzare la propria vocazione sono assai scarse. Per cui io, che liberamente avrei scelto un’altra attività, sono una insegnante di lingue. Circa dodici anni fa, trovandomi a Philadelphia ed essendo senza impiego, ho accettato l’offerta di un piccolo gruppo di operai russi di origine ebrea di tenere classi serali di inglese. So molto bene che, al di là del desiderio di darmi una mano a sbarcare il lunario, c’era anche il desiderio che partecii alla diffusione della causa che abbiamo in comune. Ma quello che è stato, all’inizio, un fatto accidentale, si è trasformato in una attività principale, e io ho continuato a essere, da quel momento, un’insegnante di inglese per lavoratori e lavoratrici. In questi dodici anni di vita, di ione e di lavoro con stranieri di origine ebrea, ho insegnato a oltre un migliaio di persone e ho scoperto che, in linea generale, costoro sono gli studenti più brillanti, più tenaci e più volonterosi, giovani sognatori di elevati ideali sociali. Mentre “l’americano saputo” impreca contro questi individui definendoli “ignoranti stranieri”, e il lavoratore dalle vedute ristrette li qualifica come “sporchi ebrei” e rende la loro vita quanto mai intollerabile, questi esseri umani,
disprezzati, operano in silenzio e con pazienza per costruirsi una vita decente, al di là di tutto. Io stessa sono stata testimone di un tale genuino coraggio da parte di ragazzi e ragazze che vogliono ottenere una educazione, e anche da parte di uomini e donne con famiglia, una cosa che le persone comuni faticano a credere. Il freddo, la fame, l’isolamento, il tutto sopportato per anni al fine di ottenere i mezzi per studiare; e, peggio ancora, lo sfinimento del corpo al punto da arrivare a un’estrema magrezza – queste sono realtà comuni a molti lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo a tutto ciò, così fervida è l’immaginazione sociale dei giovani che la maggior parte di loro trova anche il tempo di frequentare i vari circoli e società in cui si discutono idee radicali e, prima o poi, si associano a una Sezione Socialista, o alla Lega Liberale, o a un Club per l’Imposta Unica, o a un Gruppo anarchico. Il maggiore quotidiano socialista d'America è il Vorwaerts [87], fondato da ebrei, e i lavoratori più attivi e competenti sono ebrei. E lo stesso può dirsi per quanto riguarda la componente anarchica. Io non intendo fare propaganda a tutti i costi, altrimenti mi fermerei qui con il racconto della mia esperienza; ma la verità mi spinge ad aggiungere che, con il are degli anni e la graduale penetrazione e assorbimento del modo di vita commerciale americano, i miei studenti diventano dei professionisti di successo e il clima dorato di entusiasmo svanisce. Allora il vecchio insegnante deve rivolgersi, per trovare uno spirito comunitario, ai nuovi giovani che ancora premono per un futuro diverso, con sguardi intensi, e si rende conto di ciò che hanno perso per sempre coloro che il successo ha accontentato e istupidito. La cosa talvolta addolora profondamente, ma come dice Kropotkin, «Lasciamoli andare; abbiamo avuto il meglio di loro». Dopotutto, chi sono davvero i vecchi? Coloro che logorano le loro speranze ed energie, e si accontentano di comode poltrone e di una vita nella bambagia; non Kropotkin, con i suoi sessanta anni, con i suoi occhi luminosi e l’interesse sveglio di un bambino; non John Most [88], «il vecchio cavallo da guerra della rivoluzione», che non si è spezzato dopo dieci anni di carcere in Europa e in America; non Louise Michel [89], con i suoi capelli grigi, con l’aurora del mattino che brilla ancora nel suo sguardo pungente, che osserva la realtà dietro i ricordi della prigionia in Nuova Caledonia; non Dyer D. Lum [90], che ancora sorride nel cimitero in cui è sepolto. Io non penso che costoro siano vecchi o che lo siano Tucker, Turner [91], Theresa Clairmunt [92], Jean Grave [93], o tutti coloro che ho incontrato e di cui ho avvertito le sorgenti della vita pulsare attraverso il cuore e le mani, gioiosi, entusiasti, pronti all’azione. Non sono questi i vecchi, ma coloro il cui giovane cuore fa bancarotta riguardo alla possibilità di una società migliore, marcendo in questa società putrida e senza scopo. Vuoi essere sempre giovane?
Allora diventa un anarchico e vivi una esistenza fatta di fiducia e di speranza, anche quando sei carico di anni. Io dubito che un’altra idea abbia la forza di mantenere accesa la fiamma come l’ho vista nel 1897, quando ho incontrato gli esiliati spagnoli usciti dalla fortezza di Montjuïc [94]. Relativamente poche persone in America conoscono la storia delle persone là torturate, sebbene noi abbiamo distribuito cinquantamila copie delle lettere fatte uscire clandestinamente dalla prigione, e alcuni giornali le hanno ripubblicate. Erano le lettere di individui incarcerati sulla base di un semplice sospetto, per il crimine commesso da una persona ignota, e soggette a torture la cui semplice menzione fa tremare le ossa. Le loro unghie vennero strappate, i loro crani schiacciati in capsule di metallo, le parti più sensibili dei loro corpi attorcigliate tra corde, la loro pelle bruciata con ferri bollenti; nutriti con merluzzi salati dopo giorni e giorni di digiuno, e lasciati poi senza acqua. Juan Ollé, un ragazzo di diciannove anni, è impazzito; un altro ha confessato qualcosa che non aveva mai commesso e di cui non sapeva nulla. Queste non sono solo terribili fantasie. Io stessa che le racconto ho incontrato alcune di queste persone martoriate. In maniera indiscriminata, quattrocento persone di ogni convinzione – repubblicani, sindacalisti, socialisti, Liberi Massoni, come pure anarchici – sono state gettate in prigioni sotterranee e torturate nella sciaguratamente famosa cella “zero”. C’è da stupirsi che molti di coloro che ne vennero fuori diventarono anarchici? Ce n’erano ventotto nel primo gruppo che abbiamo incontrato alla stazione di Euston a Londra quel mattino di agosto, senza un posto dove andare, sperduti nel vortice della metropoli, rilasciati senza processo dopo mesi di prigionia, e con l’ordine di lasciare la Spagna entro quarantotto ore! Essi l’avevano lasciata cantando i loro canti della prigionia; e persino al di là del loro sguardo amaro e pieno di dolore si poteva intravedere il rifiorire di un’eterna primavera. La maggior parte di loro si disperse nell’America del Sud, dove sono sorti quattro o cinque periodici anarchici e sono stati tentati parecchi esperimenti di colonie di tendenza anarchica. Così il tiranno ne esce sconfitto e l’esilio diventa il mezzo per piantare i semi della rivoluzione. Le relazioni tra compagni di tutto il mondo non risvegliano solo coloro che non sono stati ancora toccati dall’idea, ma generano anche una trasformazione dell'intero carattere del movimento a livello mondiale. All’inizio, il movimento anarchico americano, che sorse per merito di Josiah Warren [95] nel 1829, era puramente individualista; lo studioso di economia comprenderà facilmente le cause concrete e storiche di questo sviluppo. Ma, durante gli ultimi venti anni l’idea comunista ha compiuto grandi progressi soprattutto a causa della
concentrazione della produzione capitalistica che ha spinto i lavoratori americani ad afferrare il concetto di solidarietà. Inoltre, un ruolo in tal senso lo ha avuto l’espulsione dall’Europa di attivisti anarchici di orientamento comunista. E poi, un altro cambiamento è avvenuto negli ultimi dieci anni. Fino ad allora i tentativi di attuazione dell’idea facevano riferimento solo a questioni industriali, e le varie scuole economiche si scagliavano l’una contro l’altra. Adesso si sta facendo strada una tolleranza ampia e cordiale. La giovane generazione riconosce l’immensa portata dell’idea attraverso tutte le sfere dell’arte, della scienza, della letteratura, dell’educazione, delle relazioni tra i sessi, e dell’etica personale, come pure dell’economia sociale, e accoglie nelle sue fila tutti coloro che lottano per una esistenza libera, senza distinzioni di campo. Questo è quello che davvero significa l’anarchia, la piena liberazione della vita dopo essere stati incatenati per duemila anni al rigorismo e all’ipocrisia del cristianesimo. Accanto al tema degli ideali, sussistono questioni di metodo. La domanda più ricorrente è: quali sono le tue proposte per realizzare tutto ciò? Anche in questo caso si è verificato un cambiamento. Un tempo vi erano i “Quaccheri” e i “Rivoluzionari”, e ancora ci sono. Ma, pur non pensando tutto il bene di questo mondo l’uno dell’altro, adesso entrambi hanno capito che ognuno ha un ruolo nel grande gioco delle dinamiche sociali. Nessun essere umano è un’isola, e in ogni animo Giove, il dio pagano, ancora battaglia con Cristo, il dio dei cristiani. Nonostante ciò, lo spirito della pace si espande. E mentre sarebbe un po’ troppo affermare che gli anarchici, in generale, ritengono che tutti i grandi problemi della società industriale si risolveranno senza l’uso della forza, sarebbe ugualmente fuori luogo supporre che essi considerano la forza in sé stessa una cosa desiderabile, o che essa fornisca la soluzione ultima ad ogni problema. Solo da una sperimentazione pacifica può venire la soluzione finale, e questo lo sanno e lo credono sia i sostenitori dell’impiego della forza che i seguaci di Tolstoj. Questi ultimi sono però gli unici a pensare che gli attuali dispotismi suscitano una resistenza non-violenta. La diffusione delle opere di Tolstoj, come Guerra e Pace e La Schiavitù dei Nostri Tempi, la crescita di numerosi circoli dedicati a Tolstoj, che hanno per scopo la diffusione degli scritti sulla non-violenza, sono una prova che molti hanno adottato l’idea che la pace è un mezzo più adatto per vincere la guerra. Io sono una di queste. Non vedo la fine delle ritorsioni violente a meno che una parte smetterà di praticarle. Ma nessuno commetta l’errore di prendere ciò per servile sottomissione o timorosa rinuncia. I miei diritti saranno affermati a qualsiasi costo e nessuno li schiaccerà senza che vi sia una protesta da parte mia.
Gli autori di satire ridanciane spesso fanno notare che «il modo migliore per curare un anarchico è farlo diventare ricco». Sostituendo il verbo “curare” con il verbo “corrompere” io mi trovo d’accordo con questa affermazione. E, credendo di non essere meglio degli altri, spero sinceramente che come mi è stato dato di operare, e operare duramente, così possa io continuare sino alla fine. Preferisco di gran lunga mantenere l’integrità del mio animo, pur con tutti i limiti della mia condizione materiale, piuttosto che diventare un essere senza spina dorsale e senza ideali, schiava di bisogni puramente materiali. La mia ricompensa è che vivo in mezzo a giovani; cammino assieme ai miei compagni. Spero di morire ancora in piena attività, con il viso rivolto verso il sorgere del sole e verso la luce.
Iniziamo a realizzare l’anarchia, adesso, di Steven T. Byington
Documento 29 (1904)
Uno stupendo articolo, comparso sul giornale di Benjamin Tucker, Liberty, che invita tutti gli anarchici alla sperimentazione e alla progettualità. Perché questa è la sostanza vera dell'anarchia e la ragione d'essere degli anarchici. Fonte: Steven T. Byington, Beginning Anarchy Now, Liberty, luglio 1904, in, Frank H. Brooks, ed., The Individualist Anarchist. An Anthology of Liberty, Transaction Publishers, New Brunswick, 1994.
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Ci sono poche cose più utili alla nostra causa del fatto di vivere secondo i propri princìpi. Innanzitutto, non vi è nulla come la pratica per generare fiducia, in sé stessi o nelle persone attorno a noi. In secondo luogo, nulla meglio della pratica serve a offrire una visione comprensibile. In terzo luogo, quando arriverà il momento di dare uno sbocco generale alle nostre idee, e incominceremo a vivere nell’ambito di nuove condizioni e a commettere gli errori propri ai principianti e a vedere che l’anarchia inizia a essere discreditata per via degli sbagli associati alla sua realizzazione, allora sarà della massima importanza il fatto che vi siano quante più persone che hanno vissuto, in anticipo e per quanto possibile, una esperienza di vita anarchica. Infine, sembra cosa più piacevole per noi vivere come individui che prefigurano la società che vogliamo, anche se siamo soggetti a una potenza che consideriamo a noi estranea, seguendo i suoi capricci per quanto dobbiamo e i nostri desideri per quanto possiamo, mentre nutriamo speranze e progetti di liberazione, piuttosto che come cittadini di una società che odiamo e vogliamo distruggere. Allora, pur vivendo sotto il dominio di un governo, quale esistenza potrebbe essere considerata ragionevole per un anarchico che vuole essere fedele alla sua libera società in embrione? L’anarchico non parteciperà ad alcun governo. Non accetterà la posizione di colui che deve far rispettare la legge. Non proteggerà il suo commercio, soggetto a licenza, denunciando i concorrenti che agiscono senza licenza. Le ragioni che lo porteranno in futuro ad agire così sono le stesse che lo dovrebbero condurre a comportarsi così adesso. E queste ragioni non avrebbero valore in futuro se non l’avessero nel presente. La tesi che tutti basano il loro comportamento sulla aggressività e disonestà e quindi bisogna pensare a fare i propri interessi agendo senza scrupoli morali come fanno gli altri, per non essere schiacciati, è il massimo della falsità… L’individuo che usa questo pretesto diventa un farabutto peggiore di quelli con cui vorrebbe essere alla pari, ed è, di conseguenza, un fattore particolarmente nocivo che porta a un peggioramento della situazione generale.
[… ] L’anarchico ignorerà le leggi dello Stato, nei casi in cui esse non gli siano imposte con la forza. Egli farà quello che ritiene meglio, non importa se legale o illegale, nella misura che gli consentirà la paura di essere arrestato - e, mediamente, anche un po’ più oltre… Egli non riconoscerà lo Stato né nei suoi pensieri né nelle sue parole. Se gli Stati Uniti dovessero vincere o perdere una battaglia egli non proverà alcun sentimento e non esprimerà alcuna considerazione come avverrebbe se fossero lui e i suoi ad aver vinto o perso una battaglia. Non parlerà delle “nostre” truppe nelle Filippine, sebbene possa usare l’espressione “il nostro governo” allo stesso modo in cui parla del “nostro clima”, delle “nostre zanzare” o dei “nostri barboni”. La cosa è più difficile da attuare di quanto appaia a prima vista, ma è utile farlo. È giusto che egli possa simpatizzare con gli Stati Uniti in una disputa internazionale allo stesso modo in cui potrebbe simpatizzare con il Giappone contro la Russia, ma questo come spettatore e non come membro di tali entità. Egli farà distinzione tra nazioni e stati, come messo in evidenza nei migliori testi di diritto internazionale. Non dirà “nazione” quando intende riferirsi al “governo” o alla “unione degli stati”, né dirà “nazionale” intendendo “governativo” o “federale”. Egli boicotterà il governo in tutti i casi in cui potrà farlo. Non vorrà occupare posizioni governative né ricevere uno stipendio frutto di rapina fiscale. Utilizzerà i servizi postali alternativi invece di quelli statali tutte le volte che i costi e i vantaggi saranno gli stessi. Ma un boicottaggio totale del governo è senza dubbio impossibile come pure l’ignorare del tutto le sue leggi. L’anarchico, quando si rende conto che una cosa andrebbe fatta, cercherà di farla senza l’aiuto dello Stato. Abbiamo qui un punto di difficile attuazione ma di primaria importanza. È attualmente un nostro punto debole. Ci viene chiesto: «Che cosa metterete al posto del governo?», e noi rispondiamo «Che sostituto metteresti al posto di una malattia quando una persona è stata curata e ne è uscita fuori?». E ciò appare ai nostri critici più un’arguzia mordace che una risposta convincente. Riformatori del tipo di Jacob Riis [96] si fanno beffa dei sociologi “scientifici” che si oppongono agli interventi positivi richiesti da persone come lui. “La scienza del far nulla” la definiscono ad alta voce. E noi siamo tra coloro verso cui si indirizza tale sarcasmo.
[…] Il nostro atteggiamento nelle faccende pubbliche è semplicemente quello dell’ostruzionismo. Questo è un modo molto comodo, consapevolmente comodo, di affrontare le cose. Tutti sanno che è molto facile sedersi e rifiutarsi di aiutare, trovando difetti in tutti quelli che fanno qualcosa. E per quanto giusta possa essere questa ricerca degli errori e per quanto sensati possano essere i motivi che portano a criticare una certa azione, non ci sarà mai una inclinazione istintiva generale a rispettare coloro che non fanno altro che questo. Le persone chiuderanno un occhio sul fatto che noi siamo degli eccentrici, degli estremisti, dei dottrinari, degli utopisti. Ma non ci sarà mai perdonato di essere dei parolai che non combinano un bel niente. C’è un futuro radioso per colui che farà sì che gli anarchici si comportino concretamente come tali. Una forte spinta all’introduzione di una moneta alternativa, di un ufficio postale non statale o persino di una grande e prospera agenzia commerciale, al di fuori delle leggi statali: simili progetti e realizzazioni darebbero un volto nuovo alla diffusione delle nostre idee. Ma le opportunità di azione non dovrebbero essere solo nello sfidare o evadere le restrizioni al commercio imposte per legge. Poiché il governo è un dinosauro così grande e complicato, vogliamo “sostituti del governo” in molti campi. Noi vogliamo non solo servizi postali, ma anche statistiche sulla popolazione, bollettini meteorologici e molte altre cose che adesso sono prerogative del governo. Vogliamo servizi medici. Senza dubbio «la cura della salute pubblica è attualmente la scusa preferita per dominare tutti». Una buona giustificazione per comandare fa probabilmente riferimento a qualcosa di utile, in quanto cose inutili non servono altrettanto bene come pretesti. La qualità del latte prodotto, l'installazione di acqua corrente e gabinetti nelle case popolari, l’adeguatezza delle vie di fuga in caso di incendi negli alberghi – queste sono cose per cui sarebbe utile avere delle agenzie specializzate che se ne occuero. Non sarebbe sensato lasciare che ognuno dovesse preoccuparsi individualmente di questioni di sicurezza o affidarsi totalmente all’interesse economico del venditore in una società commerciale, o all’impegno e all’intelligenza dei produttori in una società comunista. Ora, non venitevene fuori con l’idea che io voglia attribuire a qualcuno i poteri che hanno attualmente le agenzie sanitarie dello Stato. Qui sto parlando di anarchia. Nell’ambito di una sfera di azione puramente volontaria vi sono ampie possibilità per il tipo di intervento a cui faccio riferimento. Il compito è stato
affidato al governo in misura tale che le possibilità di azioni non-governative di tipo volontaristico non sono state esplorate. E i servizi pubblici potrebbero offrire agli anarchici un meraviglioso campo di attività in quanto taluni servizi forniti sono estremamente scadenti, e tutti sono realizzati con quella caratteristica rigidità che impastoia gli interventi governativi. Noi dovremmo essere capaci di agire mentre i fautori del governo sono intenti a far are una nuova legge in vista di un nuovo intervento. Noi dovremmo metterci all’opera, essere in prima fila nell’azione, far sì che gli attivisti alla Riis – la cui unica preoccupazione è che qualcosa venga fatto – ci aiutino, in modo che possiamo poi noi prenderci beffa delle autorità statali intente a praticare “la scienza del far nulla”. Rimpiazzare il governo in tutte le funzioni utili facendo le cose meglio di quanto non avvenga adesso: questo è di certo ciò che più si avvicina al modo ideale di realizzare l’anarchia [97].
Anarchici, anarchia e anarchismo, di Anselmo Lorenzo
Documento 30 (1911)
Per l'autore l’anarchia è il nucleo perenne di pratiche volte alla promozione e attuazione della libertà per tutti; mentre l’anarchismo sono le concezioni varie e talvolta fluttuanti che nascono nelle menti di taluni che sono o si dicono anarchici. Fonte: Anselmo Lorenzo, La Anarquía Triunfante, 1911.
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Mi occupo adesso di questa domanda: «L'anarchismo è destinato a scomparire?». Innanzitutto, a coloro che ce lo chiedono si dovrebbe rispondere con un'altra domanda: «Ci sarà sempre un potere dominante?» Quale anarchico oserà rispondere affermativamente? Ma a questo riguardo, il famoso azzeramento del potere non può essere invocato come risposta. Qualunque sia l'opinione di una persona poco sensata, non può avvenire diversamente da ciò che riserva il succedersi naturale degli eventi: se il corso di un fiume non si ferma e nemmeno ritorna verso la sorgente; se la disuguaglianza sociale attraverso l’usurpazione di ricchezza e di potere è sempre più screditata, mentre, al contrario, l'uguaglianza sta emergendo come qualcosa risplendente di ragione e giustizia; se ciò che è di per sé una astrazione intellettuale, un fatto storico e una induzione razionale per il futuro è mal apprezzato e frainteso dagli individui della nostra generazione e anche dagli anarchici dichiarati, a causa della loro scarsa educazione, della loro salute malandata o del loro temperamento mutevole, per l’anarchia, ideale oggi, realtà domani, tutto ciò è cosa assolutamente indifferente. Chiariamo: l'anarchia è una cosa e l'anarchismo è un'altra. L'anarchia è il complemento dell’essere umano, il corso regolare degli eventi, l’opera del tempo e, in ultima analisi, la verità sicura; l'anarchismo è la variabilità degli anarchici. La prima è una roccia inamovibile, lo scoglio a cui aggrapparsi o il porto di approdo, secondo il punto di vista individuale; l'altro è la banderuola che gira sulla spinta dell’entusiasmo giovanile, del tradimento vile ed egoistico o dello scetticismo eggero. Dall'anarchia si riceve ispirazione, perché è la verità che stimola e guida; dall'anarchismo si deve prendere ciò che può dare di buono – diffusione razionale delle idee e iniziative di lotta, dimostrazioni scientifiche, critiche sociali, progressi sociologici, ispirazioni artistiche, eccetera – e si deve rimuovere con cura ciò che può essere dannoso – variazioni individuali, invidia e diverbi tra persone, dogmatismo, settarismo, paura o inerzia mascherata da prudenza, eccetera – cercando di approfittare della lezione che si può imparare da questo contrasto al fine di elevare, ognuno per sé, la propria dignità. La varietà stessa dell'idea anarchica, presentata dai suoi espositori e difensori,
dimostra la vitalità della concezione anarchica, perché ogni differenza rappresenta, più che la diversità dell'idea, una particolarità di apprezzamento per effetto di specifiche circostanze relative alla situazione, al carattere, alla sensibilità, e di conseguenza è il frutto dei giudizi propri di ogni individuo. C'è chi mostra tendenze individualiste esagerate perché, essendo stato sempre ostacolato dalla massa sociale con le sue imposizioni, aspira a un’indipendenza assoluta, impossibile per ciascun individuo a causa dell'insufficienza naturale del singolo; e c'è, al contrario, chi, ferito nel vedere lo spreco di forze che vanno perse a causa dell'ignoranza quotidiana, con il risultato di ottenere solo risultati minimi o di rendere omaggio a pregiudizi irrazionali, si indirizza principalmente verso la riorganizzazione sociale, trascurando preziose idee preziose basate sull'individuo. Non importa: differenze di punti di vista. Insomma, un vantaggio, perché ogni differenza può, in definitiva, servire come una sorta di monografia in cui i sintetizzatori troveranno materiale utilizzabile per il loro lavoro di sintesi, prendendo tutto ciò che è utile, provato, esatto e scartando ciò che è puramente particolare e disgregante. «Gli anarchici di tutte le tendenze – dice Ricardo Mella in Il fallimento delle credenze ( La bancarrota de las creencias, 1902) – camminano risolutamente verso l'affermazione di una grande sintesi sociale che comprenda tutte le diverse manifestazioni dell'ideale. Camminare è silenzioso; presto la rottura rumorosa arriverà se c'è qualcuno che insiste nel rimanere legato allo spirito di cricca e di setta». Inoltre, questa vitalità della concezione anarchica rientra perfettamente nell'ordine di quelle cose che, a detta di un poeta, «sono del colore delle lenti attraverso cui si guarda» [98], perché il loro apprezzamento non dipende da quello che sono veramente, ma dallo stato mentale dell'individuo che giudica, tenendo presente, come dice Büchner [99], che l'intellettualità dipende dalle disposizioni materiali e mentali attraverso l'educazione, l'istruzione, l'esempio, la condizione, la fortuna, il sesso, la nazionalità, il clima, il suolo, l'epoca, eccetera. Ci sono anarchici prepotenti, persone infelici che sono atavicamente dominate dalle loro tendenze autoritarie; condottieri che, senza rendersene conto, guardano per vedere se, dietro di sé, ci sono molti, non che li accompagnano, ma che li seguono; che calcolano con criteri utilitaristici le probabilità di successo o fallimento della loro azione, o perdono tempo a criticare le iniziative altrui,
senza mai venire in loro aiuto. Essi sono sempre pronti a censurare e mai a compiere opera positiva a favore dell'ideale, o dei compagni incarcerati, o per la diffusione dell’idea. Costoro portano dentro di sé un borghese pronto a comandare, e devono perciò essere lasciati indietro, evitando di farsi avviluppare dalle loro parole, non prestando attenzione alla loro ingenua fiducia di fronte alle azioni proposte o alla loro critica moralistica dopo i fatti. Da parte mia, io non li ascolto, e se si presenta un'occasione, come ora, dico loro privatamente o pubblicamente la mia verità, vale a dire ciò che mi sembra vero. Ne deriva, quindi, che l'anarchia è indistruttibile e anche inevitabile, e che l’anarchismo, fino a quando, per compromesso individuale e collettivo, gli uomini e le donne sono quello che devono essere, è la materia degenerata, l’umano che per godere della libertà approvvigiona il regime autoritario del privilegio. Pur essendo così, l'anarchismo non scompare, non può scomparire. Ammettiamo che individui che un giorno brillarono nel campo anarchico spariscano nelle fogne, come i detriti, portati via da una grave malattia che causa la morte o dall'egoismo che corrompe. Tutti loro lasciano nella concezione anarchica ciò che di buono hanno fatto. E se è vero, come tutti riconoscono, che non c'è idea o energia che svanisce, ma che le idee e le energie, accumulate e messe al posto giusto, sono come gli atomi costitutivi del grande corpo del progresso, ciò che gli ex-anarchici hanno fatto per l'anarchia rimane un fatto, e un fatto può più di tutti gli dèi. Un esempio tra tutti. Nei primi anni dell’Internazionale, in Spagna, operava a Sevilla un giovane intelligente, attivo e famoso, chiamato… lasciamo perdere il nome. La sua parola e i suoi scritti commossero profondamente gli operai Andalusi. In seguito, egli rinunciò a quegli ideali e si fece frate, ma i suoi sostenitori hanno continuato la sua opera di informazione irradiandola in tutte le direzioni. Confinato poi quell'infelice in un monastero di Granada, come essere non più attivo, il fiore inestinguibile e continuamente fresco del suo pensiero continua a ravvivare la bella Andalusia operaia, e non sarebbe difficile scoprire che esso influenza, in parte, il mirabile movimento sindacale dell'America Latina, come conseguenza della grande emigrazione di lavoratori spagnoli in quelle terre. E comunque, a quel pensiero umano comune o comunismo intellettuale chiamato filosofia, scienza, arte e progresso, che costituisce il patrimonio di
conoscenze dell'umanità, i giovani si rivolgeranno sempre con il candore dell'innocenza, per sostituire gli anziani che si mettono da parte o muoiono o si ritirano per loro scelta. E quindi, ci sarà sempre per l'anarchia il costante rafforzamento rappresentato da individui di giusto discernimento e di sentimento generoso. Ammettiamo l'assunto assurdo che ci sia un momento in cui la concezione anarchica scompaia, perché tutti gli anarchici del mondo, toccati dallo scetticismo, si ritirano rinunciando a diffondere l’ideale. Che cosa accadrebbe? Le stesse idiozie governative e l'insaziabile avidità degli usurpatori della ricchezza sociale costituirebbero il motivo per il quale, dalla informe massa popolare, sorgerebbe, prima come una protesta clamorosa, e poi come una spinta consapevole e riflessiva, un pensiero, un’iniziativa, un’organizzazione e infine un'azione rivoluzionaria con un carattere necessariamente anarchico. Perché questa è la dinamica della storia. Bisogna riconoscere che, come in dato momento il pensiero anarchico è sorto in virtù di cause che lo hanno prodotto, così si ripeterebbe altrettante volte, quante dovessero essere necessarie; così come avviene continuamente e incessantemente davanti ai nostri occhi, poiché non tutti gli anarchici dichiarati lo sono diventati per contatto diretto con uno dei diffusori dell’ideale. E molti non lo sono diventati nemmeno perché ispirati da una lettura, ma per un puro sentimento di giustizia di fronte a uno degli infiniti soprusi perpetrati dalla tradizione autoritaria. Che i governanti ci temano o meno, quello che è sicuro è che, mentre alcuni anarchici, a causa di una certa debolezza mentale, si scoraggiano e vedono come nero quello che una volta appariva loro come rosa, ci sono uomini di scienza, che non si interessano minimamente alla concezione anarchica, ma che avvallano l'anarchia con il prestigio della loro saggezza esprimendo pensieri chiaramente anarchici, come il seguente: Terra per tutti, energie naturali per tutti, talento per tutti: ecco il bel motto della società del futuro. È quindi urgente reintegrare l’essere umano nelle leggi dell'evoluzione, restituire il capitale, sequestrato a beneficio di pochi, perché diventi patrimonio comune della collettività; far progredire, in pratica, la storia biologica della razza umana, che ristagna a causa dell'egoismo e dell'ingiustizia di tremila anni di civiltà ( L’evoluzione super-organica, Prologo).
Così la pensa un uomo di nome Santiago Ramón y Cajal [100], il cui nome è iscritto nel Libro in cui sono segnati i grandi scopritori degli arcani naturali e non ancora nel registro delle persone sospette, tenuto dalla polizia per la salvaguardia dei privilegiati.
Essere anarchici, di E. Armand
Documento 31 (1911)
Scritto breve in cui si esprime la posizione degli anarchici individualisti in maniera assai chiara e netta. Fonte: E. Armand, Petit manuel anarchiste individualiste, 1911.
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I Essere anarchici significa negare il potere e rigettare il suo corollario economico: lo sfruttamento. E questo in tutte le sfere in cui si esercita l'attività umana. L'anarchico vuole vivere senza un Dio imposto e senza padroni; senza capi né dirigenti; al di fuori delle leggi statali come pure al di fuori dei pregiudizi; senza una morale ufficiale, senza obblighi dettati dalle convenzioni come pure senza una morale impostagli dalla massa. Egli vuole vivere in libertà, per sperimentare la sua personale concezione dell'esistenza. Nel suo intimo è sempre un asociale, un refrattario, una persona in disparte, uno ai margini, un estraneo, che non si adatta al vivere convenzionale. E benché sia obbligato a vivere in una società la cui essenza ripugna al suo temperamento, è da estraneo che egli vi si installa. Se fa a questo ambiente sociale le necessarie concessioni – sempre con l'intenzione, alla lunga, di riprendersi ciò che ha dovuto concedere – lo fa per non rischiare o sacrificare la propria vita stupidamente o inutilmente, è perché le considera come armi di autodifesa nella lotta per l’esistenza. L'anarchico ha per nemico lo Stato e tutte le sue istituzioni, che tendono a mantenere o a perpetuare l'oppressione dell'individuo. Non vi è nessuna possibilità di conciliazione tra l'anarchico e una qualsiasi forma di società basata sul potere, che esso emani da una monarchia, da una aristocrazia o da una democrazia. Non vi è alcuna possibilità d'intesa tra l'anarchico e un ambiente regolamentato dalle decisioni di una maggioranza o i dettami di una oligarchia. L'anarchico si oppone sia all'insegnamento imposto dallo Stato che a quello dispensato dalla chiesa. È nemico dei monopoli e dei privilegi, che siano di ordine intellettuale, morale o economico. In una parola, è l'antagonista irriconciliabile di ogni regime, di ogni sistema di vita sociale, di ogni condizione che implichi il dominio di uno o di un ambiente sull'individuo, e il suo sfruttamento da parte di qualcuno o di un qualche gruppo. L'opera dell'anarchico è innanzitutto opera di critica. L'anarchico avanza, seminando la rivolta contro colui che opprime, ostacola, si oppone al libero sviluppo dell'individuo. È necessario in primo luogo sbarazzare i cervelli da idee preconcette, liberare i temperamenti incatenati dalla paura, far rivivere le menti affrancandole dal timore di cosa diranno gli altri e dalle convenzioni sociali. Solo successivamente l'anarchico spingerà colui che vuole fare lo stesso cammino a ribellarsi praticamente contro il determinismo dell'ambiente sociale, per affermarsi come individualità, per modellare autonomamente la sua
personalità interiore, per rendersi, per quanto possibile, indipendente dall'ambiente morale, intellettuale, economico circostante. L'anarchico stimolerà l'ignorante a istruirsi, l'apatico a reagire, il debole a diventare forte, la persona curva a raddrizzarsi. Spingerà le persone poco dotate e le meno adatte, a trovare in sé stesse tutte le risorse possibili e a non adagiarsi su altri. Un abisso separa l'anarchia dal socialismo sotto i suoi differenti aspetti, incluso il sindacalismo. L'anarchico pone alla base di tutte le sue concezioni di vita il fatto individuale. Ed è per questo che si definisce volentieri anarchico individualista. Egli non ritiene che i mali di cui soffrono le persone provengano esclusivamente dal capitalismo o dalla proprietà privata. Egli pensa che siano dovuti soprattutto al modo di ragionare carente delle persone nel loro complesso. I padroni esistono perché esistono degli schiavi e gli idoli esistono perché ci sono individui che si inginocchiano davanti a loro. L'anarchico individualista non è interessato a una rivoluzione violenta che abbia come scopo una trasformazione del modo di ripartire i beni prodotti, in senso collettivista o comunista. Questa trasformazione non porterebbe affatto a dei cambiamenti nella mentalità generale e non contribuirebbe in niente all'emancipazione del singolo. In regime comunista l'individuo sarebbe subordinato, come adesso, alle scelte impostegli dall'ambiente. Si troverebbe povero e miserabile come è ora. Invece di essere sotto il tallone di una minoranza di capitalisti, sarebbe dominato dall'apparato economico. Nulla gli apparterrebbe. Sarebbe un produttore, un consumatore, uno che contribuisce o uno che prende dalla massa dei beni prodotti, ma mai un essere autonomo.
II L' anarchico individualista si differenzia dall' anarchico comunista perché considera la proprietà personale dei mezzi di produzione e la libera disponibilità di quanto prodotto (oltre agli oggetti di godimento personale che costituiscono un prolungamento dell'individuo) come la garanzia essenziale per l'autonomia della persona. Rimanendo inteso che questa proprietà si limiti alla possibilità di far valere (individualmente, in coppia, nel gruppo familiare, eccetera) una porzione di terra o uno strumento di produzione indispensabile alle necessità dell'unità sociale, senza che il possessore lo affitti ad altri o ricorra, per la sua messa in valore, alle prestazioni di altri posti al suo servizio. L'anarchico individualista non intende campare a qualunque prezzo, come avviene per l'individualista che può anche comportarsi da sfruttatore pur di sopravvivere. Egli non intende, in cambio di una scodella di zuppa, di un vestito e di un alloggio, sottostare a regole imposte. L'anarchico individualista, d'altronde, non si ispira ad alcun sistema che vincolerebbe il suo avvenire. Afferma di porsi in uno stato di legittima difesa nei confronti dell'intero insieme sociale (Stato, Società, Ambiente, Gruppi, eccetera) che dovesse ammettere, accettare, perpetuare, sanzionare o rendere possibile: a) la subordinazione dell'individuo all'ambiente, ponendo il singolo in una condizione di inferiorità manifesta, e cioè non potendo trattare con l'insieme da uguale a uguale, da potere a potere; b) l'obbligo (in qualsiasi sfera sociale) di aiutare, solidarizzare, associarsi; c) la privazione del possesso individuale e inalienabile dei mezzi di produzione e della disponibilità piena e senza restrizioni di quanto prodotto dal singolo; d) lo sfruttamento di una qualunque persona da parte di uno dei suoi simili, che lo farà lavorare al suo servizio e per il suo profitto; e) l' accaparramento, vale a dire la possibilità per un individuo, una coppia, un gruppo familiare, di possedere più di quanto sia necessario per il suo regolare mantenimento; f) il monopolio dello Stato che prende tutte le decisioni che spettano invece
all'individuo, vale a dire l'intervento dello Stato nel ruolo di centralizzatore, amministratore, direttore, organizzatore nei rapporti tra individui, in una qualsiasi sfera di vita; g) il prestito a interesse, l'usura, il profitto finanziario, la mercificazione di tutti gli scambi, le trasmissioni di eredità, eccetera.
III L'anarchico individualista si preoccupa di diffondere le sue idee per rintracciare altri potenziali anarchici individualisti che non sanno di esserlo, e dar vita, quanto meno, a un ambiente intellettuale favorevole al loro sviluppo. I rapporti tra gli anarchici individualisti si formano sulla base della “reciprocità”. La “fratellanza” è essenzialmente di ordine individuale e non è mai imposta. Si tratta di una “fratellanza” che ogni individuo ama praticare, compiendo uno sforzo apprezzabile per vivificarsi, partecipando, in maniera critica ed educativa, alla diffusione delle idee e alla scelta delle persone; rispettando il modo di vivere di ciascuno, non danneggiando lo sviluppo di coloro che gli sono attorno e di quelli con cui ha rapporti più stretti. L'anarchico individualista non è mai lo schiavo di una formula-tipo o di un testosacro. Ammette solo convinzioni personali. Non propone che ipotesi. Non si prefigge alcun punto di arrivo definitivo. Se adotta un modo di vita riguardo a un aspetto specifico, è per assicurarsi una maggiore libertà, felicità, benessere, ma non per sacrificare sé stesso a ciò. E modifica, trasforma le sue abitudini quando si rende conto che continuare a restarvi fedele farebbe diminuire la sua autonomia. Egli non vuole lasciarsi dominare da princìpi stabiliti a priori. È a posteriori, sulla base delle sue esperienze, che fonda la sua regola di condotta, che non è mai definitiva ma soggetta sempre a modifiche, a trasformazioni che possono essere suggerite da nuove esperienze, e dalla necessità di trovare nuovi strumenti nella sua lotta contro un ambiente che lo vorrebbe dominare. E senza mai fare dell' a priori un qualcosa di assoluto. L'anarchico individualista deve rendere conto solo a sé stesso dei suoi fatti e delle sue azioni. L'anarchico individualista considera l'associarsi solo come una convenienza pratica. Non intende associarsi se non quando è necessario, ma sempre volontariamente. Non desidera stipulare dei contratti se non a breve scadenza, dando sempre per scontato che ogni contratto è rescindibile nel momento in cui lede una delle parti contraenti. L'anarchico individualista non prescrive una morale sessuale determinata. Spetta a ciascuno, cioè sia alle donne che agli uomini, determinare la propria vita sessuale, affettiva o sentimentale. L'essenziale è che nelle relazioni intime tra
anarchici non vi siano né violenza né costrizioni. L'anarchico pensa che l'indipendenza economica e la possibilità di essere madre per scelta sono le condizioni preliminari per l'emancipazione della donna. L'anarchico individualista vuole vivere intensamente, vuole poter apprezzare la vita singolarmente, in tutte le sue manifestazioni. Restando pertanto padrone della sua volontà, considerando le sue conoscenze, le sue facoltà, i suoi sensi, i molteplici organi percettivi del suo corpo, come altrettanti servitori a disposizione del suo “io”. Non è per niente un pauroso, ma non vuole affatto abbassare la guardia. Sa molto bene che colui che si lascia trascinare dalle ioni o dominare dalle inclinazioni diventa uno schiavo. Vuole conservare la “padronanza di sé” per lanciarsi verso progetti per i quali sono necessari la ricerca indipendente e il libero esame. Raccomanderà di buon animo una vita semplice, senza bisogni fittizi, superflui, che rendono schiavi. Sarà per l'abbandono delle grandi agglomerazioni urbane; per una alimentazione razionale e per l'igiene del corpo. L'anarchico individualista mostrerà interesse per le associazioni formate da alcuni compagni al fine di allontanarsi da un ambiente che a tutti loro ripugna. Il rifiuto del servizio militare e del pagamento delle imposte riscuoteranno tutta la sua simpatia. Sarà a favore delle unioni libere, tra singoli o tra molti, come protesta contro la morale corrente. Sarà per l'illegalità come rottura violenta (e a certe condizioni) di un contratto economico imposto con la forza. Si asterrà dal compiere azioni, compiti, funzioni che implichino il mantenimento o il consolidamento di un regime intellettuale, etico o economico imposto. Favorirà lo scambio dei prodotti di prima necessità tra anarchici individualisti possessori degli strumenti di produzione, al di fuori di qualsiasi intermediario capitalista. Tutti questi e altri ancora costituiscono atti di rivolta in sostanziale sintonia con il carattere dell'anarchico individualista.
Gli anarchici, di Sébastien Faure
Documento 32 (1920)
Questo è un estratto da un articolo che intende controbattere l'immagine falsa che viene generalmente presentata degli anarchici. L'autore li mostra invece come essi sono nella maggioranza dei casi, e cioè persone semplici, desiderose di migliorare la propria vita al di fuori degli ostacoli posti dallo Stato e dalle consorterie a esso associate. Fonte: Sébastien Faure, Les Anarchistes, ce qu'ils sont, ce qu'ils ne sont pas, 1920.
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Si ha degli anarchici, come individui, l’idea più falsa. Alcuni ci considerano come degli utopisti inoffensivi, degli inguaribili sognatori; ci trattano da spiriti persi dietro chimere, individui dalle idee strampalate; in sostanza, dei semipazzi. Costoro si degnano di vedere in noi persone affette da una malattia mentale che le circostanze possono rendere pericolose, ma non dei malfattori incalliti e convinti. Altri hanno di noi un giudizio del tutto diverso: essi pensano che gli anarchici siano dei bruti incoscienti, dei violenti e dei forsennati, contro i quali le precauzioni non sono mai troppe né gli interventi repressivi sufficientemente implacabili. Entrambi sono nell’errore. Se noi siamo degli utopisti, lo siamo come tutti coloro che ci hanno preceduto e che hanno avuto il coraggio di proiettare sullo schermo del futuro delle immagini che contrastavano con quelle dei loro tempi. Noi siamo, in effetti, i discendenti e i continuatori di quegli individui che, dotati di una percezione e di una sensibilità più vive dei loro contemporanei, hanno avvertito il sorgere dell’alba sebbene fossero ancora immersi nelle tenebre della notte. Noi siamo gli eredi di quelle persone che, vivendo in un’epoca di ignoranza, di miseria, d’oppressione, di lerciume, di ipocrisia, di iniquità e di odio, hanno intravisto una città del sapere, del benessere, della libertà, della bellezza, della sincerità, della giustizia e della fraternità, e, con tutte le loro energie, si sono impegnati alla costruzione di questa città meravigliosa. Il fatto che i privilegiati, i soddisfatti del presente e tutta la schiera di mercenari e servi interessati al mantenimento e preposti alla difesa del regime di cui sono o credono di essere i profittatori, che costoro assegnino sdegnosamente l’epiteto peggiorativo di utopisti, sognatori, spiriti bizzarri, all’indirizzo di produttori intraprendenti e di costruttori accorti di un avvenire migliore, questo è affare loro. Essi sono nella logica delle cose presenti. Nondimeno, senza questi sognatori di cui noi anarchici mettiamo a frutto l’eredità, senza questi costruttori di presunte chimere e queste creatività sofferenti – così in tutte le epoche sono stati qualificati gli innovatori e i loro discepoli – noi saremmo fermi a età da tempo scomparse, di cui a malapena possiamo credere che siano esistite, tanti erano allora gli individui ignoranti, incivili e miserabili!
Utopisti perché vogliamo che l’evoluzione, seguendo il suo corso, ci allontani sempre più dalla schiavitù moderna, il salariato, e faccia del produttore di tutte le ricchezze un essere libero, degno di sé, felice e fraterno? Sognatori perché prevediamo e annunciamo la scomparsa dello Stato, la cui funzione è quella di sfruttare il lavoro, asservire il pensiero, soffocare lo spirito, paralizzare il progresso, spezzare le iniziative, arrestare gli slanci verso il meglio, perseguitare le persone sincere, arricchire gli intriganti, derubare i contribuenti, foraggiare i parassiti, favorire le menzogne e gli intrighi, soffiare sul fuoco delle rivalità assassine? E perché siamo consapevoli che quando i governanti avvertono che il loro potere è minacciato, allora distruggono sui campi di battaglia tutto ciò che una comunità ha di più sano, di più vigoroso, di più bello? Spiriti sognatori, immaginazioni bizzarre, mezzi folli, perché ci rendiamo conto delle trasformazioni lente, a nostro avviso troppo lente, ma innegabili, che spingono le società umane verso nuove strutture edificate su basi rinnovate, e per questo consacriamo le nostre energie a scuotere, e alla fine far scomparire da cima a fondo, l'impalcatura della società capitalista e autoritaria? Noi sfidiamo coloro che sono informati e attenti alle dinamiche attuali ad accusare, con tutta serietà, di squilibrio mentale le persone che immaginano e preparano tali trasformazioni sociali. Al contrario, sono insensati, e non a metà ma del tutto, coloro che pensano di poter sbarrare la strada alle attuali generazioni in cammino verso la rivoluzione sociale, come un fiume che si dirige verso l’oceano. Può essere che per mezzo di dighe potenti e di abili deviazioni, questi dementi possano rallentare, più o meno, il corso del fiume, ma è destino che esso, prima o poi, si riversi nel mare. No! Gli anarchici non sono né degli utopisti, né dei sognatori, né dei pazzi, e la prova è che, dappertutto, i governi li braccano e li gettano in prigione per impedire che le verità, che essi diffondono, possano arrivare liberamente alle orecchie dei diseredati; al contrario, se l’insegnamento libertario fosse una pura chimera o una semplice follia, sarebbe loro facile tacciarlo di irragionevole e assurdo. * * * Alcuni pretendono che gli anarchici siano dei bruti incoscienti. È vero che non
tutti i libertari possiedono la preparazione elevata e l’intelligenza superiore dei Proudhon, Bakunin, Elisée Reclus, Kropotkin. È esatto affermare che molti anarchici, colpiti dal peccato originale dei tempi moderni, la povertà, hanno dovuto ben presto abbandonare l’istruzione e lavorare per vivere. Ma il solo fatto di essersi elevati fino alla concezione anarchica denota una comprensione viva e attesta uno sforzo intellettuale di cui un bruto non sarebbe capace. L’anarchico legge, medita, si educa ogni giorno. Prova il bisogno di ampliare senza sosta l’ambito delle sue conoscenze, di arricchire costantemente la sua documentazione. Si interessa ai problemi seri; si apiona per la bellezza che lo affascina, per la scienza che lo seduce, per la filosofia di cui è assetato. Il suo sforzo verso una cultura più profonda e più estesa non si arresta. Egli stima di non saperne mai abbastanza. Più apprende e più prova gusto a istruirsi. D’istinto sente che se vuole fare chiarezza agli altri, occorre innanzitutto che abbia lui stesso le idee chiare. Ogni anarchico è un diffusore di idee. Soffrirebbe a non comunicare le convinzioni che lo animano, e la sua più grande gioia consiste nell'impegnarsi continuamente a presentare le sue idee alla cerchia di persone intorno a lui. Riterrebbe di avere sprecato il suo tempo se, ogni giorno, non avesse imparato o insegnato qualcosa. Egli coltiva in maniera così elevata il suo ideale che osserva, confronta, riflette, studia sempre, sia per avvicinarsi a quell’ideale e rendersene degno, sia per essere sempre più in grado di presentarlo e farlo amare. E questa persona sarebbe un bruto grossolano? E questo individuo sarebbe uno spaventoso ignorante? Menzogne! Calunnie!
La sintesi anarchica, di Sébastian Faure
Documento 33 (1928)
L'idea della sintesi anarchica, per superare i dissidi teorici e pratici interni al movimento anarchico, è lo sforzo congiunto di Faure e Voline nella seconda metà degli anni '20 del secolo scorso. Fonte: Sébastien Faure, La Synthèse anarchiste,Trait d’union libertaire, n°3 del 15 marzo 1928.
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Le tre grandi correnti dell’anarchia In Francia, come nella maggior parte degli altri paesi, si distinguono tre grandi correnti che si possono designare con i termini: anarco-sindacalismo; comunismo libertario; individualismo anarchico. Era naturale e fatale che, pervenuta a un certo sviluppo, una concezione così grande come quella anarchica sfociasse in una triplice manifestazione di vita. Un movimento filosofico e sociale, vale a dire di idee e di azioni, che si propone di eliminare tutte le istituzioni autoritarie, doveva necessariamente far nascere queste distinzioni che sono il frutto della varietà delle situazioni, degli ambienti e dei temperamenti, unitamente alla diversità delle fonti da cui si alimentano le innumerevoli formazioni individuali e che producono una prodigiosa molteplicità di eventi. Anarco-sindacalismo; comunismo libertario; individualismo anarchico. Queste tre correnti esistono e nulla e nessuno può impedirne l’esistenza. Ciascuna di esse rappresenta una forza che non è né possibile né desiderabile abbattere. Per convincersene è sufficiente collocarsi – da semplice anarchico – nel cuore stesso della gigantesca impresa da compiere di porre fine all’autoritarismo. Allora, si prende coscienza dell’apporto indispensabile che fornisce, nella lotta, ciascuna di queste tre correnti. Esse sono distinte ma niente affatto opposte. Io adesso ho da porre tre questioni: La prima da parte degli anarco-sindacalisti ed è rivolta ai comunisti-libertari e agli individualisti anarchici. La seconda da parte dei comunisti libertari ed è rivolta agli anarco-sindacalisti e agli individualisti anarchici. La terza da parte degli individualisti anarchici ed è rivolta agli anarcosindacalisti e ai comunisti libertari. Ecco la prima questione: «Considerando l’anarchia come un movimento sociale e di azione popolare, che
prospetta un futuro nel quale, necessariamente, vi sarà, nei confronti del mondo capitalista e autoritario, un assalto decisivo definito come Rivoluzione sociale. Può forse l'anarchia fare a meno del concorso di masse imponenti che le organizzazioni sindacali raggruppano al loro interno nell’ambito del lavoro?» Io ritengo una follia pensare di vincere l’autoritarismo senza la partecipazione a questo sommovimento liberatore – partecipazione attiva, efficiente, forte e costante – di queste masse lavoratrici, più interessate, nel loro insieme, di chiunque altro alla trasformazione della società. Non affermo e non penso che, in vista della collaborazione necessaria, in una fase di fermento e di azione rivoluzionaria, tra le forze sindacali e le forze anarchiche, le une e le altre debbano già fin d’ora unirsi, associarsi, mescolarsi, formando un tutto omogeneo e compatto. Ma ritengo e affermo, sulla scia del mio vecchio amico Malatesta: Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo tutto quello che possono perché esso, in cooperazione colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione sociale che porti alla soppressione delle classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace e alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa e debba da sé stesso in conseguenza della sua stessa natura, menare a una tale rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali e immediati (e non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura di cambiamenti in quelli che riescono a ottenere condizioni migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere. Di qui la necessità impellente di organizzazioni prettamente anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati, lottino per la realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione [101] Lo si vede: non si tratta più di legare in maniera organica il movimento anarchico al movimento sindacale o la concezione sindacale a quella anarchica. Si tratta solo di agire, all’interno come all’esterno dei sindacati, per la
realizzazione integrale dell’ideale anarchico. E io chiedo ai comunisti libertari e agli individualisti anarchici, quali motivi di principio o di fatto, motivi essenziali, fondamentali, essi possono opporre nei riguardi di un anarco-sindacalismo così concepito e praticato? Ecco la seconda questione: «Nemico irriducibile dello sfruttamento degli esseri umani messo in atto dal regime capitalista, e della tirannia sugli individui generata dallo Stato, l’anarchia può forse concepire la soppressione effettiva e totale dello sfruttamento senza la soppressione del regime capitalista e la messa in comune (comunismo libertario) dei mezzi di produzione, di trasporto e di scambio? E può forse concepire l’abolizione effettiva e totale della tirannia senza la fine definitiva dello Stato e di tutte le istituzioni che ne derivano?» E io chiedo agli anarco-sindacalisti e agli individualisti anarchici [102] quali motivi di principio o di fatto, motivi essenziali, fondamentali, essi possono opporre nei riguardi di un comunismo libertario così concepito e praticato? Ecco la terza e ultima questione: «Essendo da una parte l’espressione più elevata e più netta del rifiuto dell’individuo nei riguardi dell’oppressione politica, economica e morale che tutte le istituzioni autoritarie impongono su di lui e, dall’altra, l’affermazione la più decisa e precisa del diritto di ogni individuo al suo sviluppo integrale attraverso il soddisfacimento dei suoi bisogni in tutte le sfere della vita, può forse l’anarchia concepire la realizzazione effettiva e piena di questo rifiuto e di questa affermazione con un mezzo migliore di quello di una cultura individuale spinta il più possibile nel senso di una trasformazione sociale che infranga tutti gli apparati di coercizione e di repressione?» E io chiedo agli anarco-sindacalisti e ai comunisti libertari quali motivi, di principio o di fatto, motivi essenziali, fondamentali, essi possono opporre nei riguardi di un individualismo anarchico così concepito e praticato? Si richiede allora che queste tre correnti si combinino dando vita alla sintesi anarchica. Dall’esposizione precedente e, in particolare, dalle tre questioni avanzate più
sopra, ne risulta: 1. che queste tre correnti, anarco-sindacalismo, comunismo libertario e individualismo anarchico, correnti distinte ma non opposte, non hanno nulla che le renda inconciliabili, nulla che le contrapponga sostanzialmente, fondamentalmente, niente che proclami la loro incompatibilità, niente che impedisca loro di convivere in buon accordo, se non addirittura concertarsi per una diffusione della concezione anarchica e per lo sviluppo di azioni in comune; 2. che l’esistenza di queste tre correnti non solo non potrebbe, in alcun modo e in alcun grado, nuocere all’anarchia nel suo complesso, l’anarchia vista giustamente come movimento filosofico e sociale in tutta la sua ampiezza; anzi, l’esistenza di queste tre correnti può e logicamente deve contribuire a rafforzare l’insieme della concezione e dell’azione anarchica; 3. che ciascuna di queste correnti ha il suo posto, il suo ruolo, la sua finalità all’interno del movimento sociale vasto e profondo che, sotto il nome di Anarchia, ha per scopo la formazione di un ambiente sociale che consentirà a tutti e a ognuno il massimo di benessere e di libertà; 4. che, a queste condizioni, l’anarchia può essere assimilata a ciò che in chimica si chiamano composti, vale a dire corpi formati dalla combinazione di vari elementi. Il corpo composto dell’anarchia è costituito dalla combinazione di questi tre elementi: l’anarco-sindacalismo, il comunismo libertario e l’individualismo anarchico. La sua formula chimica potrebbe essere S.2 [Sindacalismo] C.2 [Comunismo] I.2 [Individualismo]. Sulla base degli eventi, degli ambienti, delle molteplici fonti da cui sorgono le correnti che compongono l’anarchia, le quantità presenti di questi tre elementi variano. In seguito a una certa analisi, la sperimentazione rivela un certo dosaggio; a seguito di una sintesi, il corpo composto si modifica e se, in un certo luogo, un dato elemento prevale, può accadere che, altrove, questo o quell’altro elemento abbiano una presenza maggiore. S.3 C.2 I.1; oppure: S.2 C.3 I.1; o diversamente: S.1 C.2 I.3. La formula può mostrare quantità variabili degli elementi a livello locale, regionale, nazionale o
internazionale. Ma avviene sempre che questi tre elementi: l’anarcosindacalismo, il comunismo libertario e l’individualismo anarchico (S.C.I.) sono fatti per combinarsi e per formare, amalgamandosi tra di loro, quella che io chiamo la sintesi anarchica. Allora, come è stato possibile che l’esistenza di queste tre correnti abbia indebolito il movimento anarchico? Giunto a questo punto della mia esposizione, occorre chiedersi com’è avvenuto che, soprattutto durante questi ultimi anni e, in particolare in Francia, l’esistenza di questi tre elementi anarchici, lungi dall’aver rafforzato il movimento libertario, abbia avuto come risultato di fiaccarlo. E questo problema, posto in termini chiari, occorre che sia studiato e risolto in maniera del tutto cristallina. La risposta è semplice, ma essa esige da parte di tutti, senza alcuna eccezione, una grande lealtà. Io sostengo che non è l’esistenza di questi tre elementi: l’anarco-sindacalismo, il comunismo libertario e l’individualismo anarchico che ha causato la debolezza o, più esattamente, l’indebolimento relativo del pensiero e dell’azione anarchici, ma unicamente la posizione presa dai sostenitori di ciascuno di questi elementi in rapporto agli altri: posizione di conflitto aperto, accanito, implacabile. Ogni singola frazione, nel corso di queste nefaste lacerazioni, ha dispiegato un pari astio e una pari cattiveria. Ciascuna si è ingegnata a snaturare le tesi degli altri, a spingere fino al ridicolo quanto gli altri affermavano o negavano, a esagerare o a minimizzare le linee essenziali del loro pensiero fino a farne delle odiose caricature. Ogni tendenza ha indirizzato contro le altre le manovre le più perfide e si è servita delle armi più micidiali. Se, in mancanza di una intesa tra di loro, i sostenitori di queste tre tendenze fossero stati meno rabbiosi nella lotta gli uni contro gli altri; se l'energia sprecata a combattersi, all’interno e all’esterno dei diversi gruppi, fosse stata impiegata a lottare, anche separatamente, contro il nemico comune, il movimento anarchico di questo paese avrebbe assunto, con il favore delle circostanze, una dimensione considerevole e una forza sorprendente. Ma le lotte intestine, di una tendenza contro l’altra, spesso di una personalità contro l’altra, hanno consentito che tutto si guastasse, corrompesse, viziasse e diventasse sterile. Tutto, addirittura anche le campagne che avrebbero dovuto raccogliere attorno alle idee a noi care i cuori e gli animi apionati di Libertà
e di Giustizia che sono, soprattutto in ambienti popolari, molto meno rari di quanto si voglia far credere. Ogni corrente ha sputato, sbavato, vomitato sulle correnti vicine, con l’obiettivo di insozzarle e fare in modo che si pensasse che solo la propria corrente era giusta e pura. E, davanti allo spettacolo di queste divisioni e dei comportamenti odiosi suscitati da una parte e dall’altra, i nostri gruppi, gli uni come gli altri, si sono a poco a poco svuotati dei contenuti migliori e le nostre forze si sono fiaccate nella lotta vicendevole, invece di unirsi nella battaglia da condurre contro il comune nemico: l’autoritarismo. Ecco la verità. Il male e il suo rimedio Il male è grande. Esso può e deve essere solo eggero. E il rimedio è alla portata di tutti. Coloro che hanno letto attentamente e senza partito preso quanto scritto, il rimedio lo immaginano senza alcuno sforzo. Esso consiste nell’appropriarsi dell’idea della Sintesi Anarchica e di applicarla quanto prima e al meglio [103]. Di cosa soffre il movimento anarchico? Delle lotte al coltello che si fanno le tre componenti anarchiche. Se, sulla base della loro origine, carattere, metodi di diffusione dell’idea, forme di organizzazione e di azione, queste tre componenti sono condannate a mobilitarsi le une contro le altre, allora il rimedio che io propongo non vale nulla; è inapplicabile; non sarebbe efficace. Lasciamolo perdere e cerchiamone un altro. Ma, se le contrapposizioni di cui si parla non esistono affatto nella realtà e se gli elementi di cui si discute: l’anarcosindacalismo, il comunismo libertario e l’individualismo anarchico sono fatti per combinarsi e formare una sorta di sintesi anarchica, allora occorre, non domani ma oggi, tentare la realizzazione di questa sintesi. Io non ho scoperto e non propongo nulla di nuovo: Luigi Fabbri e alcuni compagni russi (Voline [104], Fléchine [105], Mollie Steimer [106]) con cui ho discusso a lungo negli ultimi tempi, mi hanno detto che questo tentativo di realizzare una sintesi è stato tentato all’interno dell’Unione Anarchica Italiana e, in Ucraina, nell’ambito del Nabat, e che questi due tentativi hanno prodotto i risultati migliori, che sono stati infranti solo dal trionfo del fascismo in Italia e dalla vittoria del bolscevismo in Ucraina. Esistono in Francia, come un po’
dappertutto, numerosi gruppi che hanno già messo in atto e realizzano i princìpi della sintesi anarchica (non ne voglio citare alcuno per non correre il rischio di ometterne altri), gruppi nei quali anarco-sindacalisti, comunisti libertari e individualisti anarchici agiscono di comune accordo; e questi gruppi non sono né i meno numerosi né i meno attivi. Questi fatti (e potrei citarne altri) mostrano che l’attuazione della sintesi è possibile. Io non dico e non penso che essa si farà prontamente e senza difficoltà. Come tutte le novità, andrà incontro alle incomprensioni, alle resistenze e persino alle ostilità. Se occorre restare imibili, noi lo saremo; se occorre resistere alle critiche e alle malvagità, noi lo faremo. Siamo consapevoli che la nostra salvezza risiede in questa idea e siamo sicuri che, prima o poi, gli anarchici lo capiranno. È questo il motivo per cui non ci lasciamo scoraggiare. Quello che, in circostanze memorabili, è stato fatto in Italia, in Spagna, in Ucraina; ciò che si fa in innumerevoli località della Francia e sotto la spinta degli eventi, si farà un giorno in tutto il paese.
La sintesi anarchica, di Voline
Documento 34 (1934)
Una critica lucida e sistematica degli pseudo-anarchici intenti a voler imporre a tutti l'ideologia particolare della propria corrente spacciandola per la sola e vera anarchia. Fonte: Voline, La synthèse anarchiste. Questo articolo è stato pubblicato nella Encyclopédie Anarchiste, 1934. Esso si riallaccia a un precedente scritto di Voline dal titolo De la Synthèse, uscito su La Revue Anarchiste, marzo-aprile 1924.
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Si designa con l’espressione sintesi anarchica una tendenza che si fa strada attualmente all’interno del movimento libertario, volta a riconciliare e poi sintetizzare le diverse correnti di idee che dividono questo movimento in parecchie fazioni più o meno ostili le une alle altre. Si tratta, insomma, di unificare in una certa misura sia la teoria che il movimento anarchico in un insieme armonioso, ordinato e completo. Io dico: in una certa misura , in quanto, naturalmente, la concezione anarchica non potrebbe né dovrebbe mai diventare un che di rigido, immutabile, stagnante. Essa deve restare flessibile, viva, ricca di idee e di tendenze variegate. Ma flessibilità non deve significare affatto confusione . E, d’altra parte, tra immobilismo e ondeggiamento esiste una condizione intermedia. È proprio questa condizione intermedia che la sintesi anarchica cerca di precisare, delineare e attuare. È stato soprattutto in Russia, in occasione della rivoluzione del 1917, che si è fatta sentire la necessità di una tale unificazione e sintesi. Il movimento anarchico, già nei fatti estremamente debole (pochi aderenti, scarsità di mezzi per la diffusione delle idee, eccetera) in rapporto ad altre correnti politiche e sociali, si è visto ancor più indebolito all’indomani della Rivoluzione russa, a seguito di diatribe interne che lo laceravano. Gli anarco-sindacalisti non volevano intendersi con gli anarco comunisti e, sia gli uni che gli altri, litigavano con gli individualisti (senza parlare di altre tendenze). Questo stato di cose impressionò dolorosamente molti compagni di vario orientamento. Perseguitati e alla fine scacciati dalla grande Russia dal governo bolscevico, alcuni di questi compagni andarono a operare in Ucraina dove il clima politico era più favorevole e dove, d'accordo con alcuni compagni ucraini, decisero di dar vita a un movimento anarchico unitario, accogliendo attivisti seri e volonterosi ovunque si trovassero, senza distinzione di tendenza. Il movimento acquisì immediatamente una ampiezza e un vigore eccezionali. Per radicarsi e affermarsi definitivamente non gli mancava che una cosa: una certa base teorica. Conoscendomi come un avversario deciso delle diatribe nefaste tra le diverse correnti dell’anarchia, sapendo anche che, come loro, ritenevo necessaria una riconciliazione, alcuni compagni sono venuti a trovarmi in una piccola città della Russia centrale dove soggiornavo, e mi hanno proposto di recarmi in Ucraina per prendere parte alla creazione di un movimento unificato, di fornire ad esso una base teorica e di sviluppare il tema nella stampa libertaria. Ho accettato la loro offerta. Nel novembre del 1918, il movimento anarchico
unificato fu definitivamente avviato in Ucraina. Si sono formati parecchi gruppi che hanno mandato i loro delegati alla prima conferenza costitutiva che ha dato vita alla Confederazione Anarchica dell’Ucraina ( Nabat). Questa Conferenza ha elaborato e adottato all’unanimità una Dichiarazione che proclamava i princìpi fondamentali del nuovo organismo. Si è deciso che, in tempi brevi, questa dichiarazione sarebbe stata ampliata, completata e commentata nella stampa libertaria. Gli avvenimenti burrascosi hanno impedito l’effettuazione di questo lavoro teorico. La Confederazione del Nabat ha dovuto condurre delle lotte continue e accanite, ma ben presto è stata liquidata dalle autorità bolsceviche che si sono installate in Ucraina. A parte qualche articolo di giornale, la Dichiarazione della prima Conferenza del Nabat fu e resterà la sola esposizione della tendenza unificatrice (o sintetizzante) nel movimento anarchico russo. Le tre idee-guida che, a seguito della Dichiarazione, dovevano essere accolte da tutti i sinceri anarchici al fine di unificare il movimento, sono le seguenti: 1. Accettazione definitiva del principio sindacalista, che indica il vero modo di condurre la rivoluzione sociale. 2. Accettazione definitiva del principio comunista (libertario) che fissa la base organizzativa della nuova società in formazione. 3. Accettazione definitiva del principio individualista, essendo l’emancipazione piena e la felicità dell’individuo il vero scopo della rivoluzione sociale e della nuova società. Parallelamente allo sviluppo di queste idee, la Dichiarazione si impegna a definire chiaramente la nozione di rivoluzione sociale e di porre fine alla tendenza di alcuni libertari che cercano di adattare l’anarchia a un cosiddetto periodo transitorio. Detto questo, preferiamo, invece di riprendere le tesi della Dichiarazione, sviluppare noi stessi le argomentazioni teoriche della sintesi. La prima questione da risolvere è la seguente. L’esistenza di diverse correnti anarchiche ostili, che si disputano tra di loro, è un fatto positivo o negativo? La scissione dell’idea e del movimento libertario in parecchie correnti che si oppongono le une alle altre, favorisce o, al contrario, ostacola il successo della concezione anarchica? Se è ritenuta un fatto positivo,
allora ogni ulteriore discussione risulta inutile. Se, al contrario, la si considera come nociva, allora occorre tirare, da questa ammissione, tutte le necessarie conseguenze. Alla prima domanda rispondiamo nel modo seguente. All’inizio, quando la concezione anarchica era ancora poco sviluppata e confusa, fu naturale e utile analizzarla sotto tutti gli aspetti, scomporla, esaminare a fondo ciascuno dei suoi elementi, confrontarli, contrapporli gli uni agli altri, eccetera. Questo è stato fatto. L’anarchia fu scomposta in parecchi elementi (o correnti) di modo che l’insieme, troppo generico e vago, fu sezionato a pezzi, e questo ha aiutato ad approfondire e a studiare a fondo sia l’insieme che i suoi elementi costitutivi. A quell’epoca, la dissezione della concezione anarchica fu quindi un fatto positivo. Persone differenti si interessavano a diverse correnti del pensiero anarchico, e sia i dettagli che il complesso delle idee ne hanno guadagnato in profondità e in precisione. Ma, in seguito, una volta che questa prima opera fu compiuta, dopo che gli elementi del pensiero anarchico (comunista, individualista, sindacalista) furono girati e rigirati in tutti i sensi, occorreva pensare a ricostituire, con questi elementi ben strutturati, l’insieme organico di cui essi facevano parte. Dopo una analisi a fondo, occorreva ritornare (coscientemente) a una sintesi fruttuosa. Fatto bizzarro: non si ritenne più che ciò fosse necessario. Le persone che si interessavano a uno specifico elemento del pensiero anarchico, finirono per sostituire quell’aspetto particolare all’insieme. Naturalmente queste persone si trovarono ben presto in disaccordo e, alla fine, in conflitto, con coloro che trattavano alla stessa maniera altri tasselli particolari della verità. Così, invece di accettare l’idea della fusione in un insieme organico degli elementi sparsi (che, presi separatamente, non potevano più servire a gran cosa), gli anarchici si sfiancarono nel corso di lunghi anni nell’impegno sterile di opporre con astio le loro correnti le une alle altre. Ciascuno considerava la sua corrente, il suo orticello, come depositario dell’ unica verità e combatteva con accanimento i sostenitori delle altre correnti. Così iniziò, nelle fila dei libertari, questo immobilismo totale, caratterizzato dalla cecità e dall’animosità reciproche, che continua fino ai giorni nostri e che va considerato come nocivo al regolare sviluppo della concezione anarchica. La nostra conclusione è del tutto chiara. Lo smembramento dell’idea anarchica in parecchie correnti ha esaurito il suo compito. Non è più di alcuna utilità.
Niente può più giustificarlo. Esso trascina il movimento in un pantano, provoca enormi pregiudizi, non offre né può più offrire alcunché di positivo. Il primo periodo, quando la concezione anarchica si formava, si precisava e si frazionava fatalmente per rispondere a questo bisogno è terminato. Appartiene al ato. È tempo di andare oltre. Se la frantumazione della concezione anarchica è attualmente un fatto negativo, dannoso, occorre cercare di porvi fine. Si tratta di prendere cognizione di tutto l’insieme, di unire gli elementi separati, di ritrovare e ricostruire, coscientemente, la sintesi che è stata abbandonata. Un altro interrogativo sorge allora: questa sintesi, è possibile nei fatti? Non sarebbe forse una utopia? Si potrebbe darle una certa base teorica? Noi rispondiamo: sì, una sintesi della concezione anarchica (o, se si vuole, una concezione anarchica sintetica) è perfettamente possibile. Non è affatto utopica. Vi sono abbastanza ragioni di ordine teorico che parlano in suo favore. Elenchiamo brevemente alcune di queste ragioni, le più importanti, nella loro successione logica. 1) Se la concezione anarchica aspira a esistere, se preconizza un trionfo futuro, se cerca di diventare un elemento organico e permanente della vita, una delle sue energie attive, feconde e creatrici, allora deve cercare di rimanere il più vicino possibile alla vita, alla sua essenza, alla sua verità ultima. Le sue basi teoriche devono concordare il più possibile con gli elementi fondamentali della vita. È chiaro, infatti, che se le idee base della concezione anarchica sono in contraddizione con gli elementi reali della vita e dell’evoluzione, l’anarchia non potrà esistere. Ora, che cos’è la vita? Si potrebbe, in qualche modo, definire e formulare la sua essenza, afferrare e fissare i suoi tratti caratteristici? Sì, lo si può fare. Si tratta certamente non di una formula scientifica della vita, formula che non esiste, ma di una definizione più o meno precisa e corretta della sua essenza visibile, palpabile, concepibile. In questo ordine di idee, la vita è soprattutto una grande sintesi: un insieme immenso e complesso, un insieme organico e originale di molteplici e vari elementi. 2) La vita è una sintesi. Quali sono dunque l’essenza e l’originalità di questa sintesi? L’essenziale della vita consiste nel fatto che la stragrande varietà dei suoi elementi, che si trovano, sempre più, in un movimento perpetuo, realizzi al
tempo stesso, e anche incessantemente, una certa unità o, piuttosto, un certo equilibrio. L’essenza della vita, l’essenza della sintesi sublime, è la tendenza costante verso l’equilibrio, vale a dire la realizzazione costante di un certo equilibrio, nella più grande diversità e in un movimento perpetuo (facciamo notare che l’idea di un equilibrio di taluni elementi in quanto essenza biofisica della vita è una idea che trova conferma attraverso esperienze scientifiche nel campo della fisica e della chimica). 3) La vita è una sintesi. La vita (l’universo, la natura) è un equilibrio (una sorta di unità) nella diversità e nel movimento (o, se si vuole, una diversità e un movimento in equilibrio). Di conseguenza, se la concezione anarchica vuole muoversi in sintonia con la vita, se cerca di essere uno dei suoi elementi organici, se aspira ad armonizzarsi con essa e arrivare a dei veri risultati, invece di trovarsi in opposizione ad essa, per essere alla fine rigettata, deve anch’essa, pur senza rinunciare né alla diversità né al movimento, realizzare costantemente, l’equilibrio, la sintesi, l’unità. Ma non è sufficiente affermare che la concezione anarchica può essere sintetica. Deve esserlo. La sintesi dell’anarchia non è solamente possibile e desiderabile. Essa è indispensabile. Pur in presenza della diversità attiva dei suoi elementi, evitando la stagnazione, accettando il movimento, condizione essenziale della sua vitalità, la concezione anarchica deve cercare, al tempo stesso, l’equilibrio in questa diversità e in questo stesso movimento. La diversità e il movimento senza equilibrio sono il caos. L’equilibrio senza diversità né movimento è la stagnazione, la morte. La diversità e il movimento in equilibrio, questa è la sintesi della vita. La concezione anarchica deve essere varia, in movimento e, al tempo stesso, equilibrata, sintetica, unitaria. In caso contrario mancherà di vitalità. 4) Facciamo infine notare che la vera essenza della diversità e del movimento della vita (e pertanto della sintesi) è la creazione, vale a dire, la produzione costante di nuovi elementi, di nuove combinazioni, di nuove trasformazioni, di un nuovo equilibrio. La vita è una diversità creatrice. La vita è un equilibrio in una creazione ininterrotta. Di conseguenza, nessun anarchico potrebbe pretendere che la sua corrente rappresenti la verità unica e costante, e che tutte le altre tendenze dell’anarchia siano delle assurdità. Al contrario, è un’assurdità che un anarchico si lasci prendere dall’immobilismo di una sola piccola verità, la sua, e che dimentichi la grande verità reale dell’esistenza: la creazione perpetua
di nuove forme, di nuove combinazioni, di una sintesi in costante rinnovamento. La sintesi della vita non è stazionaria: essa crea, modifica costantemente i suoi elementi e i suoi rapporti reciproci. La concezione anarchica cerca di partecipare, negli ambiti che le sono accessibili, agli atti creatori della vita. Di conseguenza, deve essere, nei limiti della sua concezione, ampia, tollerante, sintetica, facente parte di un movimento creativo. L’anarchico deve osservare attentamente, in maniera perspicace, tutti gli elementi di un certo valore del pensiero e del movimento libertario. Lungi dal riversare tutta la sua attenzione verso un unico elemento, egli deve cercare l’equilibrio e la sintesi di tutti questi elementi dati. Deve, inoltre, analizzare e verificare costantemente la sua sintesi, confrontandola con gli elementi della vita stessa, al fine di essere sempre in armonia piena con la vita stessa. In effetti, la vita non è un qualcosa di immobile, essa cambia. Di conseguenza, il ruolo e i rapporti reciproci dei diversi elementi della sintesi anarchica non resteranno sempre gli stessi: in diversi casi, sarà l’uno o l’altro di questi elementi che dovrà essere sottolineato, sostenuto, attivato. Alcune parole sulla realizzazione concreta della sintesi. 1) Non bisogna mai dimenticare che la realizzazione della rivoluzione, la creazione di forme nuove di vita, non sarà un compito solo nostro, di anarchici isolati o raggruppati in correnti, ma delle grandi masse popolari che, sole, saranno in grado di realizzare questa immensa impresa di distruzione e di creazione. Il nostro ruolo in tutto ciò si limiterà a essere quello di un lievito, di un elemento che partecipa, consiglia, dà l’esempio. Quanto alle forme in cui si compirà questo processo, noi non possiamo fare altro che intravederle in maniera molto approssimativa. È quindi quanto mai fuori luogo fare diatribe su aspetti di dettaglio, invece di prepararci a uno slancio comune verso l’avvenire. 2) È ugualmente fuori luogo ridurre l’immensità della vita, della rivoluzione, della creazione del futuro, a ideuzze particolari e a grette dispute. Di fronte ai grandi compiti che ci attendono, è ridicolo e vergognoso che ci si occupi di tali meschinità. I libertari dovranno unirsi sulla base della sintesi anarchica. Dovranno dar vita a un movimento anarchico unito, organico, vigoroso. Fino a quando non l’avranno creato, rimarranno estranei alla vita. In quali forme concrete possiamo noi prevedere la riconciliazione e
l’unificazione degli anarchici e, in seguito, la creazione di un movimento libertario unito? Noi dobbiamo sottolineare, innanzi tutto, che non ci immaginiamo questa unità come un montaggio meccanico di anarchici di varie tendenze, in una sorta di insieme eterogeneo in cui ciascuno rimarrà sulle sue posizioni intransigenti. Una simile unificazione non sarebbe una sintesi ma un caos. Certamente, un tale ravvicinamento amichevole di anarchici di diverse tendenze e una maggiore tolleranza nei loro rapporti reciproci (la fine delle violente polemiche, la collaborazione nelle pubblicazioni anarchiche, la partecipazione agli stessi organismi attivi, eccetera) rappresenterebbero grandi i in avanti in rapporto a quello che avviene attualmente tra le fila dei libertari. Ma noi consideriamo questo riavvicinamento e questa tolleranza solo come il primo o verso la creazione di una vera sintesi anarchica e di un movimento libertario unitario. La nostra idea della sintesi e dell’unità va molto più lontano. Essa prevede qualcosa di più basilare e di più organico. Noi crediamo che l’unità degli anarchici e del movimento libertario dovrà avanzare, parallelamente, in due sensi, e cioè: a. Occorre iniziare immediatamente una attività teorica tendente a conciliare, integrare, sintetizzare le nostre diverse idee, che appaiono, a prima vista, eterogenee. È necessario trovare e formulare nelle varie correnti dell’anarchia, da una parte tutto ciò che deve essere considerato come falso, non coincidente con la verità della vita e che deve essere quindi rigettato; dall’altra parte, tutto quello che deve essere accettato come giusto, apprezzabile, ammesso. Occorre, in seguito, combinare tutti questi elementi giusti e validi, formando un insieme sintetico (è soprattutto in questa prima fase di lavori preparatori che il riavvicinamento tra gli anarchici delle diverse tendenze e la loro reciproca accettazione potrebbe avere l’importanza notevole di un primo o decisivo). Alla fine, questo insieme dovrà essere accettato da tutti gli anarchici seri e attivi come base per la formazione di un organismo libertario unito, i cui membri saranno quindi d’accordo su un insieme di tesi fondamentali accettate da tutti. Abbiamo già citato l’esempio concreto di un tale organismo: la confederazione Nabat in Ucraina. Aggiungiamo qui, a quanto già detto in precedenza, che l’accettazione da parte di tutti i membri del Nabat di certe tesi comuni non impediva affatto ai compagni di diverse tendenze di sviluppare soprattutto, nella loro attività e nel loro proselitismo, le idee a loro care. Così gli uni (i
sindacalisti) si occupavano in modo particolare di problemi concernenti il metodo e l’organizzazione della rivoluzione; gli altri (i comunisti) si interessavano di preferenza alla base economica della nuova società; gli altri ancora (gli individualisti) facevano emergere specialmente i bisogni, i valori reali e le aspirazioni degli individui. Ma la condizione indispensabile per essere ammessi nel Nabat era l’accettazione di tutti e tre gli elementi come componenti indispensabili dell’insieme e la rinuncia a uno stato di ostilità tra le diverse tendenze. I partecipanti erano quindi uniti in una maniera organica in quanto tutti accettavano un certo insieme di tesi fondamentali. È così che noi ci immaginiamo l’unità concreta degli anarchici, sulla base di una sintesi delle idee libertarie concordata teoricamente. b. Simultaneamente e parallelamente a questa attività teorica, si dovrà dar vita all’ organizzazione unitaria che poggi su una concezione anarchica intesa in senso sintetico. Per concludere, sottolineiamo ancora una volta che noi non rinunciamo affatto alla diversità delle idee e delle tendenze in seno al movimento anarchico. Ma c’è diversità e diversità. Quella, in particolare, che esiste attualmente tra le nostre fila è nociva e generatrice di caos. Noi riteniamo un errore estremamente grave continuare così. Riteniamo che la varietà delle nostre idee non potrà e non sarà un elemento progressivo e fecondo se non all’interno di un movimento comune, di un organismo unito, costruito su certe tesi generali accettate da tutti i membri e sul desiderio comune di una sintesi. È solo in un clima di slancio comune, in condizioni di ricerca di tesi giuste e della loro accettazione, che le nostre aspirazioni, le nostre discussioni e persino le nostre dispute avranno un loro valore, saranno utili e feconde (ed era proprio così all’interno del Nabat). Quanto alle diatribe e alle polemiche tra piccole sette che predicano ognuna la propria verità a senso unico, esse non potranno produrre se non la continuazione del caos attuale, delle lotte intestine interminabili e la stagnazione del movimento. Occorre discutere sforzandosi di trovare l’unità feconda, senza imporre ad ogni costo la propria verità contro la verità degli altri. È solo la discussione del primo tipo, e cioè la ricerca di una unità feconda, che porta alla verità. Quanto all’altro tipo di discussione, e cioè il tentativo di imporre le proprie idee, essa conduce solo all’ostilità, ai vani scontri verbali e al fallimento.
Il cretinismo anarchico, di Camillo Berneri
Documento 35 (1935)
In questo scritto, Berneri mette in luce la stupidità di taluni pseudo-anarchici che prendono l’anarchia come mezzo per coprire il loro menefreghismo nei confronti di tutti e come scusa per imporre agli altri il loro comportamento da “cafone cretino”, per usare le parole stesse dell’autore. Fonte: Pubblicato nella rubrica “Rilievi” del giornale “L’Adunata dei Refrattari” del 12 ottobre 1935 sotto la firma L’Orso.
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Benché urti associare le due parole, bisogna riconoscere che esiste un cretinismo anarchico. Ne sono esponenti non soltanto dei cretini che non hanno capito un'acca dell'anarchia e dell'anarchismo, ma anche dei compagni autentici che in esso sono irretiti non per miseria di sostanza grigia bensì per certe bizzarrie di conformazione celebrale. Questi cretini dell'anarchismo hanno la fobia del voto anche se si tratti di approvare o disapprovare una decisione strettamente circoscritta e connessa alle cose del nostro movimento, hanno la fobia del presidente di assemblea anche se sia reso necessario dal cattivo funzionamento dei freni inibitori degli individui liberi che di quell'assemblea costituiscono l'urlante maggioranza, e hanno altre fobie che meriterebbero un lungo discorso, se non fosse, quest'argomento, troppo scottante di umiliazione. Il problema della libertà, che dovrebbe essere sviscerato da ogni anarchico essendo il problema basilare della nostra impostazione spirituale della questione sociale, non è stato sufficientemente impostato e delucidato. Quando, in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l'ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene delle compagne presenti e dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la "libertà dell'io", ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur nero per far volare l'unico in questione fuori dal locale o la pazienza di Giobbe per spiegargli che è un cafone cretino. Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di annoiarsi mortalmente. Nelle nostre riunioni bisognerebbe stabilire la regola della condizionale libertà di parola: rinnovabile ogni circa dieci minuti. In dieci minuti, a meno che non si voglia spiegare i rapporti tra le macchie solari e la necessità dei sindacati o quella tra la monere haeckeliana [107] e la filosofia di Max Stirner [108], si può, a meno che si voglia far sfoggio di erudizione o di eloquenza, esporre la propria opinione su una questione relativa al movimento, quando questa questione non sia di… importanza capitale. Il guaio è che molti vogliono cercare le molte, numerose, svariate, molteplici, innumerevoli ragioni, come diceva uno di questi oratori a lungo metraggio, invece di cercare e di esporre quelle poche e comprensibili ragioni che trova e sa comunicare chiunque abbia l'abito a pensare prima di parlare. Disgraziatamente
accade che siano necessarie delle riunioni di ore e ore per risolvere questioni che con un po' di riflessione e di semplicità di spirito si risolverebbero in una mezz'ora. E se qualcuno propone, estremo rimedio alla babele vociferante, un presidente, in quel regolatore della riunione che ha ancor minore autorità di quello che abbia l'arbitro in una partita di football, certe vestali dell'anarchia vedono… un duce. Per chi questo discorso? I compagni della regione parigina che hanno, recentemente, affrontato la spesa e la fatica di recarsi a una riunione da non vicine località per assistere allo spettacolo di gente che urlava contemporaneamente intrecciando dialoghi che diventavano monologhi per la confusione imperante e delirante, si sono trovati, ritornando mogi mogi verso le loro case, concordi nel pensare che la gabbia dei pappagalli dello zoo parigino è uno spettacolo più interessante. Quando degli anarchici non riescono a organizzare quel problema meno difficile di quello della quadratura del circolo, di esporre a turno il proprio pensiero, un regolatore diventa indispensabile. Questa è quella che io chiamo l'autocritica. Ed è diretta a tutti coloro che rendono necessario un regolatore di riunioni anarchiche. Cosa che è ancora più buffa di quello che pensino coloro che se ne scandalizzano. Molto buffa e molto grave. E grave perché resa, molte volte, necessaria proprio là dove dovrebbe essere superflua.
Gli anarchici contro il centralismo e l'autoritarismo, di Emmanuel Mounier
Documento 36 (1937)
In questo estratto, Emmanuel Mounier fa una presentazione molto interessante degli anarchici e della loro concezione in relazione al socialismo autoritario e statalista e alle differenti forme di democrazia (rappresentativa, diretta, rivoluzionaria). Fonte: Emmanuele Mounier, Anarchie et Personnalisme, in Communisme, anarchie et personnalisme, Seuil, 1966.
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A seguito di un incontro a Londra tra mutualisti proudhoniani si ed esponenti delle Trade Unions inglesi, nasce la prima Associazione Internazionale dei Lavoratori [109]. Marx ed Engels sono nel retroscena. Il loro ruolo nella costituzione di questa prima Internazionale, l'energia che essi spendono per assicurarne i primi i, sono realtà indubbie, e Bakunin ha reso a loro un pubblico omaggio. Ma la loro dedizione alla causa non è cosa semplice. Dottrinari, il loro entusiasmo non si indirizza direttamente alle persone e alle loro miserie, ma emerge attraverso il loro sistema di pensiero e sovente si ferma lì. Ogni ideologia (in questo senso) è un fatto autoritario. «Noi possediamo la scienza assoluta della storia. Noi forzeremo dunque le persone, che lo vogliano o no, ad attuare la storia come noi la concepiamo». Essi hanno la coscienza tranquilla perché, nel loro sistema, è la storia stessa che si impone agli individui e non il frutto delle loro fantasie. L'assolutismo, in definitiva, porta con sé l'apparato poliziesco: intrighi, manomissione dei documenti, agenti segreti, infiltrazione di spie, delazioni, le tattiche del Congresso di Londra sono già messe a punto. Marx vuole impadronirsi del Consiglio Generale dell'Internazionale e, attraverso questo organo, imporre le sue direttive all'insieme del movimento. La resistenza si organizza nella stessa Svizzera Romanda [110] dove si sono tenuti i primi congressi. I “personalisti” [111] del movimento operaio danno allora vita all'Alleanza della Democrazia Socialista, che chiede di aderire all'Internazionale e incontra un rifiuto. Allora propongono essi stessi di rinunciare al loro carattere di organizzazione internazionale pur mantenendo le loro sezioni con la loro impostazione e il loro programma. Il Consiglio Generale accetta. Ma arriva la guerra del 1870. Non si sottolineerà mai abbastanza l'influenza che la vittoria della Germania ha avuto sui destini del movimento operaio. Georges Sorel individuava la causa prima dell'imperialismo del proletariato nella lunga assuefazione alla sottomissione e all'autoritarismo che le guerre dell'Impero instillarono nel popolo se. La vittoria del 1871 assicurerà ancor più stabilmente sulla realtà dell'Europa l'egemonia del marxismo autoritario, più di quanto non abbia fatto il militarismo prussiano sull'Europa, come invece appare agli occhi degli osservatori. Fin dai primi mesi della guerra, nel 1870, Marx scrive al comitato del Brunswick-Wolfenbüttel: «Questa guerra ha trasferito il centro del movimento operaio dalla Francia alla Germania». Nel manifesto (scritto di sua mano) inviato il 9 settembre a tutti i membri dell'Internazionale, egli trattiene gli operai si dal «lasciarsi trasportare dai ricordi del 1792»
[112], dal fare della difesa nazionale un tutt'uno con la rivoluzione. Alla fine dello stesso mese, dopo essere stato testimone del fallimento del sollevamento rivoluzionario di Lyon, Bakunin scrive al suo amico Palix queste linee profetiche, se si pensa a ciò che sarebbe diventato il socialismo nazionale tedesco dopo il 1930: Comincio adesso a riflettere su quello che sta avvenendo della Francia […] Essa diventerà un vice-reame della Germania. Al posto del socialismo, vivo e reale, avremo il socialismo dottrinale dei tedeschi, che non diranno più di quanto le baionette prussiane permetteranno loro di dire. L'intelligenza burocratica e militare della Prussia, unita alla frusta ( knout) dello zar di San Pietroburgo assicureranno, almeno per cinquant’anni, la tranquillità e l'ordine pubblico, almeno per cinquanta anni, su tutto il continente europeo. Diciamo addio alla libertà, addio al socialismo, alla giustizia per il popolo e al trionfo dell'umanità Bakunin aveva scelto come titolo per la sua opera principale L'Impero knoutgermanico. Un anno più tardi, André Léo [113] constaterà che sono i tedeschi, che all'interno dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori occupano i ruoli dirigenti nei Consigli Generali e operano per la falsa unità e per la centralizzazione dispotica, mentre i latini oppongono resistenza. «È dunque il Signor Bismarck – si domanda ad alta voce André – che regna al Consiglio di Londra?» (dove allora si trovava il Consiglio Generale). E aggiunge: «Mentre Guglielmo I si faceva imperatore, Karl Marx si proclamava pontefice dell'Associazione Internazionale». Certo, alcune forze storiche più potenti delle semplici cospirazioni di alcune persone giocavano un ruolo in tutto ciò. James Guillaume [114] ha ben visto che in Francia il centralismo aveva fatto il suo tempo, mentre i socialisti tedeschi, in una Germania ancora afflitta da residui feudali, aspiravano a uno Stato fortemente centralizzato come se ciò rappresentasse una liberazione dal ato. La Germania rivoluzionaria, scriveva Guillaume nel Bulletin de la Fédération Jurassienne (Bollettino della Federazione del Jura) attraversa la sua crisi giacobina: «Quasi un secolo separa le nostre idee dalle loro». Singolare lucidità che distingueva nel nascente socialismo tedesco l'impulso, occorre forse dire la necessità storica, che cinquanta anni dopo li farà precipitare nello Stato nazionalsocialista, come se l'avesse fatto cadere in un cesarismo proletario, se Versailles non fosse venuta a giocare un ruolo contro l'Internazionale negli equilibri della storia [115]. Immediatamente dopo il 1870, il dissidio che si era trascinato fino ad allora
giunse a un punto di rottura. La Federazione Romanda si scisse in due: da una parte gli autoritari – quelli dell'Unione Perfetta – e dall'altra gli antiautoritari. Sconfessati dal Consiglio Generale, questi ultimi danno vita, nel novembre del 1871, alla famosa Federazione del Jura che, ben presto, raccoglie intorno a sé – per un certo periodo – tutta l'Internazionale. Essi sottolineano, presso tutti i membri dell'Internazionale, la gestione autoritaria del Consiglio Generale, che cerca di rimandare la convocazione del Congresso per mantenere il suo potere. Marx detta al Consiglio come rispondere, cosa scrivere contro la Federazione ribelle. Egli sente che l'Internazionale gli sta scivolando via tra le dita: i membri spagnoli e quelli italiani solidarizzano con quelli svizzeri. Egli sa bene che l'anarchia, nel senso di una resistenza a qualsiasi forma di oppressione, costituisce l'ispirazione centrale del movimento operaio, ma pretende di credere che i Jurassiani rifiutino qualsiasi tipo di organizzazione. Da un po' Bakunin, in mezzo ai suoi amici svizzeri, è entrato in gioco. La lotta diventa una contesa di personalità: Marx non ha più davanti a lui solo dei ribelli, ma un concorrente diretto, un cervello certo meno preparato del suo, ma un combattente energico e un profeta potente. Da quel momento impreca contro la “sezione russa” di Ginevra, non ha paura di disonorare Bakunin presentandolo come agente dello zar. La Federazione del Jura, stanca degli intrighi, provoca uno scontro a viso aperto proponendo al Congresso dell'Internazionale all'Aia, nel 1872, «l'abolizione del Consiglio Generale e la soppressione di qualsiasi istituzione di potere all'interno dell'Internazionale». Marx si assicura al Congresso una maggioranza fittizia, accusa i federalisti, senza peraltro crederci, di formare una Lega segreta, fa espellere dall'Internazionale Bakunin e Guillaume. Tempra felice di individui liberi: Guillaume, uscendo dal Congresso, scende in strada a respirare la gioia propria di un essere onesto, si ferma a osservare le donne olandesi che lavano le facciate degli edifici con dei getti di acqua che escono da piccole pompe, gusta del «pesce affumicato con un boccale di birra non fermentata e leggera di quelle che bevono gli operai del paese», e la sera, in una di quelle sale, opulenti e austere, piene di mobili di legno, dove si riuniscono le associazioni locali di produttori, gli anarchici che hanno subito l'ostracismo possono, con una calma sicura di sé, con la fratellanza propria di una piccola comunità, godersi con gusto le canzoni dei compagni russi e riscaldarsi per le danze dei compagni spagnoli, mentre da qualche parte i comitati che hanno ottenuto la maggioranza si congratulano per la loro vittoria e si preparano a nuove manovre. Appena rientrati dal Congresso dell'Aia, i Jurassiani si riuniscono a Saint-Imier. Negano che la maggioranza di un Congresso possa mai imporre la sua volontà
alla minoranza [116]. Decidono di intrattenere dei rapporti permanenti con tutte le Federazioni minoritarie. Il Consiglio Generale di Londra invia un ultimatum dando quaranta giorni ai partecipanti al congresso di Saint-Imier per sottomettersi. Ma, durante questo periodo, membri del Belgio, della Spagna, dell'Inghilterra, si associano al campo dei ribelli. Nel gennaio del 1873, il Consiglio Generale pronuncia la sospensione della Federazione del Jura; poi, Marx, ritenendo la misura insufficiente, espelle tutte le federazioni ribelli a cui si sono unite molte altre: in Olanda, negli Stati Uniti, in Italia. Persino Jules Guesde [117] si proclama anticentralista! Le federazioni anti-autoritarie sono diventate così numerose che al loro congresso annuale, nel 1873, la Federazione del Jura può affermare che il solo congresso effettivo dell'Internazionale è oramai quello che sarà convocato dall'insieme delle Federazioni associate, e non dal Consiglio Generale. Ad ogni modo, quest'ultimo convoca un Congresso a Ginevra nel settembre del 1873. Le federazioni autonome decidono di tenere, nella stessa città, un congresso separato sotto il nome di “Settimo Congresso Generale dell'Internazionale”. Il congresso federalista riconosce come unico legame tra i lavoratori la solidarietà economica, dando ad ogni federazione la libertà di seguire sue proprie linee di condotta. Il congresso vota l'abolizione del Consiglio Generale e introduce nuovi statuti per l'Internazionale. Il Congresso dei centralizzatori riesce a riunire, nonostante grandi sforzi, solo nove delegati, e si vede disconosciuto persino dal segretariato dell'Internazionale. La vittoria della tendenza antiautoritaria sembra da quel momento un fatto acquisito. Al VII Congresso, a Bruxelles, nel 1874, una maggioranza emerge facilmente contro l'idea di uno Stato operaio centralizzatore. Il movimento operaio conserva ancora, al di là del 1871, gli impulsi dei suoi primi tempi. Ma la vittoria dei tedeschi [118] ha cominciato a produrre i suoi effetti. Agli antiautoritari, dopo che la reazione delle forze di Versailles ha cancellato, per un certo periodo, il movimento operaio se dalla carta dell'Internazionale, manca il palcoscenico di un grande paese. Ben presto va loro a mancare anche una grande figura di animatore: Bakunin, stanco e sfiduciato, scompare nel 1876. La Prima Internazionale è definitivamente morta tra le mani di Marx. La Seconda e la Terza Internazionale [119] gli offriranno una rivincita. Eccetto che in Spagna, dove è rimasta vivace e costruttiva, la corrente “anarchica” è stata a poco a poco soppressa dalla socialdemocrazia. Quest'ultima ha sclerotizzato il movimento operaio e l'ha portato a estinguersi negli apparati sontuosi delle grandi masse nazionali incorporate nello Stato.
L’operatore umanitario con la ghigliottina, di Isabel Paterson
Documento 37 (1943)
Questo scritto costituisce una delle migliori riflessioni sulla, sfortunatamente, contro-intuitiva realtà della storia condensata nella frase: “la strada verso l'inferno è lastricata di buone intenzioni”. Frédéric Bastiat ha definito questo atteggiamento malsano “il dispotismo filantropico” ( La legge , 1850). È quindi un dato di fatto increscioso, dovuto forse all'esistenza di troppi individui ingenui e poco riflessivi se persone che, presentandosi come motivate dalle migliori intenzioni, hanno ancora buon gioco nello smerciare le loro cianfrusaglie fatte di illusioni nocive e di inganni costosi. E fino a quando queste persone prevarranno, l'inferno sarà costantemente riprodotto sulla terra da cosiddetti operatori umanitari, che non indietreggeranno di fronte a nulla pur di imporre a tutti noi la loro versione di “Paradiso”, che lo si voglia o no. Fonte: Isabel Paterson, The Humanitarian with the Guillotine. Questo saggio è contenuto nel libro della Paterson, The God of the Machine, 1943.
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La maggior parte del male che esiste al mondo è opera di persone ben intenzionate, e non avviene in maniera accidentale, per errore od omissione. È il risultato di azioni deliberate, continuate nel tempo, che la persona sostiene di compiere essendo motivata da alti ideali in vista di nobili fini [120]. Questo è vero in maniera evidente, né potrebbe essere altrimenti. La percentuale di persone decisamente malevoli, immorali, depravate, è necessariamente esigua, dal momento che nessuna specie potrebbe sopravvivere se i suoi membri fossero abitualmente e consapevolmente intenti a farsi del male l’un l’altro. Distruggere è così facile che persino una minoranza intenta a persistere nel fare il male potrebbe, in breve tempo, sterminare la maggioranza inconsapevole composta da persone ben intenzionate. L’assassinio, il furto, la rapina e la distruzione sono atti che ogni individuo potrebbe facilmente commettere in qualsiasi momento. Se si presume che tali atti siano limitati solo dalla paura o dall’uso della forza, di cosa si avrebbe paura, o chi impiegherebbe la forza contro i perpetratori di tali atti se tutti gli esseri umani fossero disposti alla violenza? Di certo, se il male fatto da criminali intenzionali fosse statisticamente annotato, vale a dire il numero di omicidi e la quantità di danni e di perdite, esso risulterebbe trascurabile in confronto alla somma totale di delitti e devastazioni commessi dagli esseri umani per mano di altri esseri umani. Perciò è ovvio che in epoche in cui milioni di persone sono massacrate, quando si fa uso della tortura, la carestia è imposta espressamente, l’oppressione è pratica politica, come avviene attualmente in molte parti del mondo, e come è avvenuto assai spesso in ato, tutto ciò deve per forza verificarsi per volere di moltissimi individui perbene, e addirittura attraverso il loro intervento diretto, per conseguire quello che essi considerano un degno obiettivo. Quando costoro non sono gli esecutori diretti, risultano essere coloro che approvano, elaborano, giustificano o, altrimenti, avvolgono i fatti in un velo di silenzio, e scoraggiano qualsiasi discussione. È ovvio che questo non può avvenire senza una qualche causa o motivo. E va inteso che, con l'espressione utilizzata più sopra, per individui ben intenzionati intendiamo far riferimento a soggetti perbene che mai intenderebbero fare del male intenzionalmente al resto dell’umanità, né per capriccio né per il loro proprio vantaggio. I soggetti perbene si augurano il meglio per i propri simili, e vorrebbero agire in accordo con tale desiderio. Inoltre, non riteniamo neanche che avvenga una “trasformazione dei valori” che porta a confondere il bene con
il male, o suggerire che il bene produca il male, o che non vi sia alcuna differenza tra il bene e il male, o tra persone benevole e malevole; né si vuole sostenere che le virtù delle persone perbene non siano davvero delle virtù. Quindi, ci deve essere una grave falla nei mezzi attraverso i quali questi individui cercano di conseguire i loro fini. Ci deve essere persino un errore negli assiomi in base ai quali costoro insistono a impiegare tali mezzi. Ci deve essere qualcosa di terribilmente sbagliato, da qualche parte, in questo modo di procedere. Di cosa si tratta? Di certo, i massacri commessi di tanto in tanto dai barbari che invadono regioni abitate, o i capricci crudeli di ben noti tiranni, non coprirebbero un decimo degli orrori perpetrati da governanti mossi da buone intenzioni. Come ci insegna la storia, gli antichi egizi erano resi schiavi dai faraoni attraverso uno schema illuminato avente come obiettivo il “rifornimento costante dei granai”. Si prendevano misure appropriate per evitare le carestie. Per questo il popolo era costretto a barattare proprietà e libertà per garantirsi tali riserve, che erano il risultato di risorse prese da quanto essi avevano prodotto. La disumana spietatezza degli antichi Spartani era praticata come un ideale civico di virtù. I primi cristiani erano perseguitati per ragione di Stato, e cioè per il bene pubblico. Ed essi opponevano resistenza rivendicando i diritti della persona, in quanto ognuno aveva un’anima. Coloro che furono uccisi da Nerone per divertimento erano un numero esiguo rispetto a coloro che furono mandati a morire da successivi imperatori per motivi strettamente “morali”. Gilles de Retz, che ammazzava bambini per soddisfare le sue perversioni bestiali, non ne ha uccisi più di cinquanta o sessanta in tutto. Oliver Cromwell invece ha ordinato, in una sola volta, il massacro di trentamila persone, inclusi bambini nelle braccia delle madri, in nome della giustizia. Anche le brutalità compiute da Pietro il Grande erano commesse con il pretesto di fare il bene dei suoi sudditi. L’attuale guerra [la Seconda Guerra Mondiale], iniziata con la firma di un trattato stipulato disonestamente da due potenti nazioni (Russia e Germania) e finalizzato a schiacciare impunemente i popoli vicini, trattato che è stato poi infranto con un attacco a sorpresa da parte di uno dei due cospiratori, questa
guerra sarebbe stata impossibile in assenza del potere politico all’interno di ciascun paese, potere ottenuto, in entrambi i casi, adducendo la scusa di fare il bene della nazione. Le menzogne, la violenza, gli eccidi, sono stati praticati dapprima sulle popolazioni di entrambe le nazioni dai loro rispettivi governi. Si potrebbe dire, e potrebbe essere vero, che in entrambi i casi i detentori del potere sono degli ipocriti privi di moralità; che le loro finalità oggettive erano malvagie fin dall’inizio. Nonostante ciò, essi non sarebbero potuti arrivare al potere se non con il consenso e l’appoggio delle persone perbene. Il regime comunista in Russia ha ottenuto il controllo promettendo ai contadini la terra, in una forma che, coloro che promettevano ciò, sapevano essere una colossale bugia. Una volta preso il potere, i comunisti hanno espropriato ai contadini proprietari la loro terra, e hanno sterminato chiunque opponesse resistenza. Questo fu fatto metodicamente e intenzionalmente, e la colossale bugia fu apprezzata come “ingegneria sociale” da ammiratori socialisti in America. Se questa è ingegneria, lo è pure la vendita di azioni di giacimenti minerari inesistenti. L’intera popolazione della Russia fu sottoposta a violenza e a terrore; migliaia di persone furono assassinate senza processo; milioni morirono di stenti e di fame in carcere. In maniera simile, l’intera popolazione della Germania fu soggetta a violenza e a terrore, utilizzando gli stessi mezzi. A seguito della guerra, i Russi nei campi di prigionia tedeschi, e i Tedeschi nei campi di prigionia russi, stanno subendo una sorte né peggiore né differente di quella che un gran numero dei loro compatrioti ha sopportato e sta sopportando per mano dei propri governi, all’interno dei propri paesi. Se vi è una piccola differenza, allora si può ben affermare che essi soffrono meno per le ritorsioni di un nemico riconosciuto che per la proclamata benevolenza dei propri compatrioti. Le nazioni vinte in Europa, sotto il tallone russo o tedesco, stanno solo sperimentando quello che russi e tedeschi hanno provato nel corso degli anni, sotto i loro regimi nazionali. Va inoltre aggiunto che le principali figure politiche che sono al potere in Europa, inclusi coloro che hanno venduto il loro paese all’invasore, sono socialisti, ex socialisti, o comunisti. Uomini il cui credo era il bene collettivo. Chiarito tutto ciò fino in fondo, assistiamo allo spettacolo bizzarro dell’uomo
che ha condannato alla fame milioni di persone del suo stesso popolo e che è ammirato da filantropi il cui scopo dichiarato è far sì che ogni persona al mondo possa contare su un litro di latte [121]. Un professionista nel campo dell’assistenza ha trasvolato mezzo mondo per ottenere un’intervista con un maestro nell'arte dello sterminio, per poi scrivere rapsodie sul fatto di aver ottenuto un tale privilegio. Al fine di mantenersi in sella, con lo scopo professato di fare del bene, simili idealisti accolgono calorosamente l’appoggio politico di accaparratori, sfruttatori dichiarati, banditi di professione. L’affinità tra questi tipi di persone si mostra chiaramente alla prima occasione. Ma quale è l’occasione? Come è stato possibile che la filosofia umanitaria del secolo diciottesimo in Europa abbia portato al Regno del Terrore? Questo non è avvenuto per caso; è scaturito dalle premesse, dagli obiettivi e dai mezzi proposti fin dall’inizio. L’obiettivo è di fare il bene agli altri come giustificazione primaria dell’esistere; il mezzo è il potere della massa; e la premessa è che il “bene” è collettivo. La radice del problema è di ordine etico, filosofico e religioso, coinvolgendo il rapporto tra l’essere umano e l’universo, tra le facoltà creative dell’individuo e il suo Creatore. La deviazione fatale avviene perché non si riconosce la norma che sovraintende all’umana esistenza. È ovvio che c’è una grande quantità di pene e di afflizioni intrinseche al vivere. La povertà, la malattia e gli incidenti sono evenienze che possono essere ridotte al minimo ma non certo eliminate del tutto dai rischi a cui va incontro l’essere umano. Ma non sono situazioni desiderabili da produrre o perpetuare. I bambini hanno di solito dei genitori che si occupano di loro, e la maggior parte degli individui adulti sono in buona salute nel corso di gran parte della loro esistenza, e sono impegnati in attività utili che apportano loro i mezzi per vivere. Questa è la norma e l’ordine naturale. Le sventure sono fatti marginali. Possono essere alleviate prendendo dal sovrappiù di beni prodotti; in caso contrario, nulla può essere fatto. Perciò non si può supporre che il produttore esista solo per il bene del non-produttore; colui che è in buona salute per il bene di chi è malato; la persona competente per il bene dell’incompetente; né che una qualsiasi persona esista semplicemente per il bene di un’altra. (Se si sostiene che una qualsiasi persona esiste solo per il bene di un’altra, allora, secondo logica, si dovrebbe accettare ciò che avveniva in società semi-barbare, quando la vedova o
i compagni di un morto erano sepolti vivi assieme a lui nella tomba). Le grandi religioni, che erano anche grandi sistemi intellettuali, hanno riconosciuto sempre le condizioni dell’ordine naturale. Esse invitavano alla carità, alla benevolenza, come obblighi morali da compiere prendendo dal sovrappiù prodotto. Esse ritenevano ciò un fatto subordinato alla produzione, in quanto, inevitabilmente, senza beni prodotti non vi è nulla che possa essere dato. Di conseguenza, le religioni fissavano regole molto severe, basate sulla volontarietà delle offerte, per coloro che volessero dedicare completamente la loro vita a opere di carità. Questa è stata sempre vista come una vocazione speciale, perché non poteva essere considerata un modo di vita generale. Dal momento che colui che si dedica a distribuire le risorse derivanti dalla carità deve ottenere i fondi o beni da coloro che li producono, egli non ha alcuna pretesa da imporre, ma solo semplici richieste. Quando costui toglie dalle risorse raccolte i mezzi per la sua propria esistenza, questi non devono andare oltre il minimo vitale. Come prova della sua vocazione, deve persino abbandonare la felicità di una vita in famiglia, qualora abbracciasse un ordine religioso. In nessun caso avrebbe dovuto ricavare per sé un benessere derivante dall’altrui miseria. Gli ordini religiosi hanno fondato e gestito ospedali, allevato orfani, distribuito cibo. Una parte delle risorse caritatevoli era offerta incondizionatamente, per far sì che non vi fosse alcun obbligo in cambio dell’assistenza. Non è moralmente giusto che una persona si spogli della sua dignità per ottenere un pezzo di pane. Questa è la vera differenza quando la carità è compiuta in nome di Dio, e non sulla base di princìpi umanitari o filantropici. Se i malati fossero curati, gli affamati nutriti, gli orfani accolti fino a una certa età, questa sarebbe certamente opera buona, e il bene non può essere calcolato in termini puramente materiali. Va comunque notato che l’obiettivo di queste azioni è quello di aiutare a superare un periodo di difficoltà e, se possibile, rimettere la persona beneficiata sulle sue gambe. Se costui poteva, in parte, farcela da solo, tanto meglio, se no, si prendeva in considerazione il caso particolare. La maggior parte degli ordini religiosi si è impegnata anche nella produzione, in modo da distribuire risorse prese dal proprio sovrappiù di beni, oltre che dalle donazioni. Quando essi hanno effettuato attività produttive, come erigere costruzioni, insegnare in cambio di una retta ragionevole, coltivare i campi, o facendo lavori di artigianato, i risultati sono stati duraturi, non solo attraverso i beni particolari prodotti, ma anche attraverso l’ampliamento delle conoscenze e dei metodi di produzione, di modo che, nel lungo periodo, hanno innalzato il livello del benessere. E va notato che
questi risultati duraturi sono derivati da un processo di miglioramento personale. Che cosa può fare un essere umano per un altro essere umano? Egli può dare prendendo dai suoi fondi e dal suo tempo tutto ciò che ha risparmiato. Ma non può trasmettere facoltà che non possiede, né dare ad altri quanto gli serve per vivere senza diventare egli stesso una persona bisognosa di aiuto. Prima di dare, egli deve guadagnare quello che dà. Di certo questa persona ha diritto a una vita familiare se può mantenere una moglie e dei figli. Deve quindi conservare abbastanza risorse per sé e per la sua famiglia in modo da continuare a produrre. Nessuno, anche se il suo reddito fosse astronomico, può prendersi cura di ogni persona bisognosa al mondo. Ma, supponiamo che un individuo non abbia risorse sue proprie, e nonostante ciò creda che egli può fare “dell’aiuto agli altri” lo scopo principale e la sua pratica di vita quotidiana. Questa è in sostanza la dottrina del credo umanitario. Come procederebbe allora? Elenchi sono stati pubblicati con i casi delle persone più bisognose, certificati da fondazioni caritatevoli laiche che pagano molto bene i propri funzionari. I bisognosi sono stati individuati ma non ancora aiutati. Per prima cosa i funzionari si pagano uno stipendio prendendo dalla somma delle donazioni ricevute. Questo è motivo di imbarazzo persino per la corazza robusta del filantropo di professione. Ma come si potrebbe fare a meno di ammettere questo dato di fatto? Se il filantropo potesse avere il controllo integrale sulle risorse del produttore, invece di chiederne una parte, egli potrebbe affermare che la produzione è opera sua, essendo nella condizione di dare ordini al produttore. Allora potrebbe prendersela con il produttore rimproverandogli di non ottemperare agli ordini di produrre di più. Se l’obiettivo primario del filantropo, la sua giustificazione per vivere, è quella di aiutare gli altri, allora l’attuazione del bene come suo fine ultimo esige che altri siano in situazione di bisogno. La sua felicità è il rovescio della medaglia dell’altrui miseria. Se egli volesse aiutare “l’umanità”, l’umanità tutta dovrebbe essere in stato di bisogno. L’umanitario vorrebbe essere il motore principale nella vita degli altri. Non può ammettere l’esistenza di un ordine divino o naturale, per il quale le persone hanno la forza di aiutare sé stesse. L’umanitario pone sé stesso al posto di Dio. Ma è confrontato con due fatti strani. Il primo è che le persone competenti non hanno bisogno del suo aiuto; e il secondo, che la maggioranza delle persone, qualora non manipolate e alienate, di certo non vogliono che l’umanitario “si
occupi” del loro bene. Quando si dice che ognuno dovrebbe vivere principalmente per gli altri, quale specifico tracciato di vita bisognerebbe seguire? Deve ogni persona fare esattamente quello che l’altro vuole che egli faccia, senza limiti o riserve, e proprio soltanto quello che altri vogliono che egli faccia? E cosa accade se persone differenti esprimono comportamenti in conflitto tra di loro? Lo schema è impraticabile. Forse la persona dovrebbe fare solo quello che è davvero “bene” per gli altri. Ma questi altri sanno davvero quello che è bene per loro? No, anche questo è da eliminare in quanto si incorre nello stesso problema irrisolvibile. Allora A dovrebbe fare quello che ritiene sia bene per B, e viceversa? Oppure A dovrebbe accettare solo quello che ritiene sia bene per B, e viceversa? Ma questo è semplicemente assurdo. Di certo ciò che l’umanitario propone, in realtà, è di fare quello che egli ritiene sia il bene per tutti. È a questo punto che l’umanitario mette in funzione la ghigliottina. Che tipo di mondo immagina l’operatore umanitario che gli consente di realizzare pienamente i suoi obiettivi? Potrebbe essere solo un mondo fatto di persone che fanno la fila per il pane e di ospedali per ricoverare i malati, un mondo in cui nessuno ha più la capacità, propria dell’essere umano, di cavarsela da solo o di opporsi a che qualcosa gli sia imposta da altri. E questo è proprio il mondo che l’operatore umanitario organizza quando ha mano libera nell’applicare le sue idee. Quando un operatore umanitario vorrebbe che ognuno avesse per sé un litro di latte, è evidente che egli non ha il latte a sua disposizione, e non può produrlo lui stesso. Altrimenti, il suo non sarebbe solo un pio desiderio. Inoltre, se egli avesse una quantità sufficiente di latte per distribuirne un litro a ciascuno, ma i suoi eventuali beneficiari fossero in grado di produrre il latte da sé e lo producessero davvero, essi gli direbbero: no grazie. Allora come deve agire l’operatore umanitario per fare in modo di disporre di tutto il latte da distribuire e perché ognuno abbia bisogno di latte? C’è un solo modo, e questo è attraverso l’uso del potere politico nella maniera più completa. Per questo l’operatore umanitario si sente pienamente gratificato quando visita o sente di un paese in cui tutti hanno una carta alimentare. Quando i sussidi per sopravvivere sono distribuiti a tutti, allora l’obiettivo tanto desiderato è stato conseguito, quello di un potere superiore che si occupa di “soddisfare” un bisogno generale. L’operatore umanitario in teoria è il terrorista
in azione. Le persone buone gli confidano il potere che lui chiede in quanto esse hanno accettato le sue false premesse. Il progresso della scienza, che si traduce in un incremento di produzione, conferisce a ciò una ingannevole plausibilità. Dal momento che ce n'è abbastanza per tutti, perché non si può provvedere innanzitutto ai “bisognosi”, e risolvere per sempre il problema? A questo punto ci si chiede, come definiamo i “bisognosi” e a partire da quali risorse e da parte di quale potere si provvede a loro. Le persone dal cuore generoso potrebbero allora esclamare indignate: «Questo è un cavillo. Si restringa la definizione quanto più possibile, e una volta ridotta al minimo non si può negare che una persona affamata, vestita di stracci e senza un tetto sotto cui ripararsi è un bisognoso. La fonte da cui prendere le risorse può essere rappresentata solo dalle disponibilità di coloro che non sono in stato di bisogno. Il potere per fare ciò esiste già. Se vi è un diritto a tassare le persone per l’esercito, la marina, la polizia locale, le strade, o per qualsiasi altro scopo immaginabile, di certo vi è un diritto prioritario a tassare le persone per la conservazione della vita stessa». Benissimo. Prendiamo un caso specifico. Nei difficili anni 1890, un giovane giornalista a Chicago era turbato a causa delle terribili condizioni dei disoccupati. Egli pensava che ogni persona onesta che volesse lavorare avrebbe potuto trovare una occupazione; ma, per essere sicuro di ciò, iniziò a fare ricerche e documentarsi. Si imbatté allora nel caso di un giovane che abitava in una fattoria, dove la famiglia aveva forse abbastanza di che nutrirsi ma non c’era altro da fare oltre il lavoro. Il giovane agricoltore era venuto a Chicago per cercare un’occupazione, e avrebbe certo accettato qualsiasi tipo di offerta di lavoro, ma non ce n’era alcuna. Supponiamo che egli avesse chiesto l’elemosina per ritornare a casa; vi erano altri individui che erano lontanissimi da casa e che non potevano intraprendere il viaggio contando solo sulle proprie risorse, questo è sicuro. Non ne avevano più i mezzi. Per questo dormivano nei vicoli, aspettavano di ricevere un pasto caldo presso i centri di assistenza e pativano amaramente. E c’è dell’altro. Tra questi disoccupati vi erano alcune persone, impossibile dire quante, che erano eccezionalmente capaci, dotate e competenti; ed è proprio per questo che si trovavano in una simile situazione. Esse avevano tagliato i legami di dipendenza dalla famiglia in un periodo particolarmente difficile. Avevano
scommesso su un grosso azzardo. Tra i disoccupati si trovano i tipi estremi: il coraggioso intraprendente, la persona semplicemente sfortunata, e il totale imprevidente e incompetente. Un fabbro che lavorava vicino al ponte di Brooklyn e che diede a un vagabondo squattrinato dieci cents per pagare il pedaggio del ponte non poteva sapere che stava aiutando una persona che avrebbe raggiunto l’immortalità come poeta laureato d’Inghilterra. Quel vagabondo infatti era John Masefield. Per cui non si vuole qui sostenere che le persone in stato di bisogno sono necessariamente individui che non meritano di essere aiutati. Ci sono anche persone che vivono nelle zone agricole, in aree colpite dalla siccità o infestate dagli insetti, che sono in stato di necessità estrema, e che sarebbero letteralmente morte di fame se non avessero ricevuto un aiuto. E questo aiuto è stato molto scarso e occasionale. Ma ognuno ha lottato per uscire dalla situazione di bisogno, dappertutto nel paese. Detto incidentalmente, ci sarebbe stata una sofferenza molto più severa invece di una semplice povertà, se non ci si fosse aiutati tra vicini, e questo non è nemmeno definito fare della carità. Le persone sono sempre generose, quando hanno delle risorse da dare. Questo è un impulso dell’essere umano su cui fa leva l’operatore umanitario per i suoi propri scopi. Cosa c’è di male a istituzionalizzare questo impulso naturale in una entità politica? Benissimo! C'è da chiedersi quindi: Il ragazzo che lavorava in campagna ha commesso forse qualcosa di male lasciando la fattoria dove aveva abbastanza di che nutrirsi, per recarsi a Chicago a tentare la sua fortuna in un nuovo impiego? Se la risposta è sì, allora si accetta l’esistenza di un potere che ha il diritto di impedire al ragazzo di abbandonare la fattoria senza permesso. Il potere feudale si comportava esattamente così. Non poteva fare in modo che la gente morisse di fame; semplicemente obbligava le persone a morire di fame là dove erano nate. Ma se la risposta è no, il ragazzo di campagna non ha fatto niente di male, aveva tutte le buone ragioni per tentare la fortuna. E allora, che cosa andrebbe fatto perché uno non si trovi in una condizione di disagio quando arriva a destinazione? Bisogna forse fornire una occupazione a tutti in tutti i luoghi in cui uno decide di andare? Ciò è assurdo. Non può essere fatto. Ha la persona il diritto, in ogni caso, all’assistenza, quando si reca in un posto, per tutto il tempo in cui rimane lì; oppure ha il diritto a un biglietto di viaggio per tornare a casa? Ciò è ugualmente assurdo. Ci sarebbe una richiesta senza limiti e nessuna possibilità di soddisfarla.
E che fare allora per le persone che sono diventate povere a causa della siccità? Non potrebbe essere dato loro un aiuto da parte delle autorità politiche, a certe condizioni? Devono ricevere l’aiuto solo fino a quando sono in stato di bisogno, e fino a quando rimangono nel luogo dove si trovano? (Non si può pagare il loro continuo trasferirsi altrove). Questo è proprio quello che è stato fatto negli ultimi anni; il risultato è stato di mantenere assieme, per alcuni anni, le persone che percepivano il sussidio, in ambienti squallidi, con una perdita di tempo, di energie, di risorse. La verità è che qualsiasi metodo proposto per soccorrere i bisogni e le sventure che fanno parte del vivere umano, stabilendo un carico fisso e costante sulla produzione, sarebbe adottato con totale accordo anche da parte di coloro che sono attualmente contrari, se solo fosse praticabile. Quelli che non condividono queste proposte, lo fanno perché giudicano tali metodi non efficaci nella realtà delle cose. Costoro sono coloro che hanno già messo in essere tutti i rimedi possibili, sotto forma di assicurazioni personali. Essi sanno esattamente quali sono gli inconvenienti perché ne hanno fatto esperienza quando hanno cercato di provvedere ai loro dipendenti. L’ostacolo insuperabile consiste nel fatto che è del tutto impossibile ottenere un sovrappiù di produzione prima di aver provveduto al funzionamento e all’ammortamento dell’impresa stessa. Anche se fosse vero che i produttori in generale, i direttori d’impresa e gli altri che svolgono funzioni dirigenziali, hanno cuori di pietra e non si preoccupano affatto delle sofferenze umane, sarebbe per loro estremamente conveniente se fosse possibile risolvere una volta per tutte, in modo da non pensarci più, i problemi di assistenza, per ogni tipo di situazione difficile, che si tratti di disoccupazione, malattia o vecchiaia. Essi sono sempre soggetti ad attacchi a questo riguardo e le loro preoccupazioni raddoppiano tutte le volte che l’industria va in crisi. Gli uomini politici ottengono i loro voti proprio da queste situazioni di disagio; l’operatore umanitario si ritaglia una posizione lucrativa vantaggiosa come funzionario addetto alla distribuzione dell’assistenza. Solo i produttori, gli imprenditori e i lavoratori, devono sopportare gli insulti e pagarne il prezzo. La difficoltà la si conosce meglio in casi concreti. Supponiamo che una persona che possiede una impresa in condizioni sane, con una lunga storia di buona gestione, volesse fare in modo che la sua famiglia ricevesse un sostegno da tale
attività a tempo indefinito. Egli potrebbe, in quanto proprietario, assegnare delle quote che rendono un certo ammontare, diciamo $5.000 all’anno su un giro d’affari con un profitto netto annuo di $100.000. Questo è il massimo che egli possa fare. E se le sue attività produttive non generassero quei $5.000, la sua famiglia non otterrebbe quella somma di denaro e la cosa finirebbe lì. Si potrebbe avviare una procedura di bancarotta e liquidare il patrimonio, e dopo la liquidazione non resterebbe più nulla. Non si può ottenere qualcosa da una impresa di produzione se non si è prima provveduto al funzionamento dell’impresa stessa. A parte ciò, la sua famiglia potrebbe di certo ipotecare le quote, trasferirne “la gestione” a qualche amico “benevolo”, cosa che si sa essere accaduta, ma anche così non ci sarebbe modo di ricavarne qualcosa. Questo è pressapoco ciò che capita nel caso di organizzazioni caritatevoli che godono di sovvenzioni. I fondi ricevuti permettono di mantenere un numero considerevole di persone amiche in impieghi protetti. Ma cosa accadrebbe se l’imprenditore, per via del calore del suo generoso affetto, decidesse in maniera irrevocabile che sua moglie e la sua famiglia godano di un conto aperto per detrarre dai fondi dell’impresa le somme che a loro convengano. Egli potrebbe essere ingenuamente certo che i suoi familiari non ritirerebbero che piccole somme, per i loro bisogni indispensabili. Ma il momento potrebbe venire quando il cassiere si vedrebbe costretto a comunicare alla moglie spensierata che non ci sono più fondi per coprire un assegno; e, con questo tipo di disposizioni, è certo che quel momento arriverebbe abbastanza presto. In entrambi i casi, quando la famiglia avrebbe più bisogno di denaro, proprio allora l’impresa sarebbe a corto di soldi. Ma la prassi sarebbe completamente folle se l’imprenditore concedesse a una terza parte il potere irrevocabile di ritirare dai fondi dell’impresa quanto da essa voluto, con un accordo non vincolante che questa terza parte mantenga la famiglia del proprietario dell’impresa. E questo è proprio quello che propongono di fare quanti vogliono provvedere ai bisognosi attraverso lo strumento della politica. In questo modo si concede agli uomini politici il potere di tassare senza alcun limite; e non vi è assolutamente modo di assicurarsi che il denaro raccolto vada dove si pretende che vada. In ogni caso, l’impresa [122] non sarebbe in grado di sostenere un simile illimitato drenaggio di risorse. Perché le persone dal cuore tenero fanno appello al potere politico? Esse non
possono negare che i mezzi per l’assistenza devono provenire dalla produzione. E affermano che ce n’è più che abbastanza di beni prodotti. Quindi devono presumere che i produttori non hanno alcuna intenzione di concedere ad altri quello che è “giusto”. Inoltre, danno per scontato che c’è un diritto di tutti a imporre tasse, per un qualsiasi scopo deciso dalla collettività. Essi individuano il titolare di questo diritto nel “governo”, come se questo fosse una entità che esiste autonomamente, dimenticando l’assioma americano che il governo non è qualcosa di separato ma uno strumento prodotto dagli esseri umani, per scopi limitati. Il contribuente spera di ricevere protezione dall’esercito, dalla marina o dalla polizia; egli utilizza le strade. Per questo il suo diritto nel pretendere che vi sia un limite al prelevamento delle tasse è più che evidente. Il governo non ha alcun “diritto” nel decidere altrimenti, ma ha solo un potere delegato. Ma se le tasse sono imposte per provvedere all’assistenza, chi dovrebbe giudicare cosa è possibile e benefico fare? Devono essere i produttori o i bisognosi o un qualche altro gruppo di persone; affermare che devono essere tutti e tre assieme non costituisce una risposta. L’opinione al riguardo deve oscillare tra una maggioranza o una fetta consistente dell’uno o dell’altro gruppo. Devono forse coloro che hanno bisogno di assistenza decidere essi stessi riguardo a quello che vogliono? Devono gli operatori umanitari assegnare a sé stessi il controllo sia dei produttori che dei bisognosi? (Questo è ciò che avviene). Si suppone allora che al governo sia dato il potere di provvedere alla “sicurezza” di coloro che sono nel bisogno. Ma non può farlo. Quello che invece fa è sottrarre alle persone le risorse che esse hanno messo da parte per garantirsi una certa sicurezza, privando quindi tutti della speranza e della possibilità di godere della sicurezza stessa. Il suo intervento non può limitarsi a nient'altro. Coloro che non capiscono la natura delle azioni dello Stato sono come i selvaggi che abbattono un albero per goderne dei frutti. Essi non pensano nel lungo periodo e a largo raggio, come devono fare le persone civilizzate. Nel corso della storia abbiamo visto ciò che di peggio può accadere quando esiste solo l’assistenza a livello personale o attraverso un sussidio locale occasionale e di carattere temporaneo. L’assistenza fornita direttamente dalle persone è casuale e sporadica; non è mai riuscita a prevenire del tutto le sofferenze. Al tempo stesso, non perpetua la dipendenza di coloro che ricevono l'aiuto. Questo è il metodo del capitalismo imprenditoriale basato sulla libertà [123]. È caratterizzato da cicli straordinari di alti e bassi, ma i cicli in ascesa portano, tutte le volte, sempre più in alto e sono di più lunga durata che le cadute verso il basso. E anche nei periodi di maggiore depressione, non c’erano
carestie, disperazione totale, ma uno strano tipo di rabbioso, attivo ottimismo, e una incrollabile fiducia che il futuro avrebbe portato tempi migliori, come poi davvero avveniva. Risorse donate in maniera non ufficiale, sporadica, personale, raggiungevano realmente lo scopo. Il tutto f unzionava, anche se in maniera imperfetta. E invece, che cosa può fare il potere politico? Una delle “vergogne” rimproverate al modo di produzione capitalistico era lo sfruttamento in fabbrica. Gli immigrati arrivavano in America senza un soldo e senza conoscere la lingua e privi di competenze di mestiere; erano presi in fabbrica per salari molto bassi, lavoravano lunghe ore in ambienti insalubri e si diceva che fossero sfruttati. Eppure, misteriosamente, con il are del tempo, essi miglioravano la loro condizione; la grande maggioranza arrivava a conseguire un certo livello di benessere e alcuni diventavano ricchi. Avrebbe potuto il potere politico garantire impieghi lucrosi a tutti coloro che volevano venire? Niente affatto. E nonostante ciò, le persone perbene fecero appello al potere politico perché alleviasse la dura condizione di questi nuovi venuti. Che cosa fece allora il potere politico? Come prima richiesta impose che ogni immigrato portasse con sé una certa somma di denaro. In altre parole, distrusse le speranze delle persone più bisognose di poter venire. In seguito, quando il potere politico in Europa aveva ridotto la vita delle persone a un tetro inferno e, nonostante ciò, un consistente numero di persone avrebbero ancora potuto mettere assieme la somma richiesta per essere ammessi in America, il potere politico qui da noi ridusse semplicemente il numero di persone a cui era consentito l'ingresso, fissando una quota. Quanto più disperato era il bisogno di migliorare la propria vita, tanto meno il potere politico concedeva alle persone in termini di opportunità. Milioni di europei non sarebbero forse stati contenti e grati se avessero potuto continuare a contare sulle possibilità anche miserevoli che offriva loro il sistema precedente, piuttosto che marcire in campi di reclusione, sottoposti a torture, subendo umiliazioni ignobili e una morte violenta? Il datore di lavoro che gestiva una fabbrica non aveva molte risorse. Metteva a rischio il poco che aveva dando lavoro a delle persone. Era accusato di commettere terribili ingiustizie e le sue attività commerciali erano mostrate come indice dell’intrinseca brutalità del capitalismo. Il funzionario politico è abbastanza ben retribuito, con una occupazione per il resto della sua vita. Senza alcun rischio personale, ottiene la sua paga respingendo persone disperate oltre le frontiere, e vi sono anche casi di persone
che stavano affogando, abbandonate al loro destino mentre la nave ava oltre. Cos’altro può fare? Niente. Il capitalista ha fatto quello che poteva fare; il potere politico fa quello che può. Detto incidentalmente, la nave era un prodotto dell'imprenditoria capitalistica. Facendo un confronto tra il comportamento del filantropo e quello dell’imprenditore, prendiamo il caso di una persona che è davvero in una condizione di bisogno, che non è fisicamente disabile, e immaginiamo che il filantropo gli dia del cibo, dei vestiti e un posto al coperto. Quando questi beni si sono esauriti, la persona si ritrova come era prima, solo che adesso potrebbe aver acquisito l’abitudine alla dipendenza. Ma supponiamo che qualcuno, privo di qualsiasi motivo dettato dalla benevolenza, volendo semplicemente che un qualche lavoro sia fatto per motivi suoi, decida di assumere la persona bisognosa pagandole un salario. Il datore di lavoro non ha fatto alcuna buona azione. Eppure, la condizione della persona che ha adesso un lavoro retribuito è cambiata. Qual è la differenza vitale tra le due azioni? La differenza è che il datore di lavoro non filantropo ha riportato la persona da lui assunta nell’ambito della produzione, nel grande circuito della vita attiva; mentre il filantropo può solo deviare l’energia in modo tale che non vi è un beneficio produttivo, e perciò vi sono meno probabilità che l’oggetto del suo atto di beneficienza trovi un lavoro. Questa è la ragione profonda, sensata, del perché gli esseri umani rifuggono l’assistenza e odiano persino la parola. Questo è anche il motivo per cui coloro che compiono atti caritatevoli spinti da un genuino impulso, fanno in modo che questi atti siano occasionali, e sono più contenti se si presenta l’opportunità di fare del bene dietro la possibilità per il beneficiario di effettuare un lavoro in condizioni abbastanza tollerabili. Coloro che non possono evitare di ricevere assistenza ne avvertono e mostrano gli effetti nel loro essere; essi sono tagliati fuori dalla fonte viva del rinnovamento personale delle energie, e la loro vitalità va a picco. Il risultato, se costoro rimangono dipendenti dall’assistenza a seguito di decisioni concertate tra il filantropo e il politico, è stato descritto da un operatore sociale. All’inizio i “clienti” fanno domanda con una certa riluttanza. «Dopo alcuni mesi, tutto ciò cambia. Si scopre adesso che la persona che aveva bisogno solo di una spinta per superare un brutto momento si è adagiata a vivere di assistenza come un fatto naturale». L’operatore sociale che ha fatto queste
affermazioni «viveva lui stesso di assistenza come un fatto scontato»; ma si trovava su un piano di consapevolezza di gran lunga inferiore al suo cliente, in quanto non si rendeva nemmeno conto della sua condizione di assistito. E come riusciva a mascherare la verità? Perché poteva nascondersi dietro il motivo della filantropia. «Noi aiutiamo le persone a evitare la fame, e ci preoccupiamo che abbiano un tetto e un letto come protezione». Se si chiedesse all’operatore sociale: coltivi un campo per produrre gli alimenti, costruisci tu stesso un rifugio per lui, o trasferisci all’assistito parte del tuo denaro, egli non vedrebbe in ciò nessuna differenza con quanto fa adesso. Gli è stato insegnato che è giusto “vivere per gli altri”, per “scopi sociali” e per “benefici sociali”. Fino a quando egli crederà che sta facendo proprio questo, non si chiederà che cosa sta facendo di veramente necessario per questi altri, né da dove provengano le risorse che gli garantiscono di vivere. Se si osservasse la schiera infinita di sinceri filantropi dall’inizio della storia, si troverebbe che tutti assieme, esclusivamente con le loro attività filantropiche, non hanno procurato all’umanità un decimo dei benefici che sono derivati dagli sforzi interessati di un Thomas Alva Edison, per non parlare delle grandi menti che hanno scoperto i princìpi scientifici che Edison ha utilizzato per le sue invenzioni. Un numero enorme di pensatori, inventori e organizzatori hanno contribuito al benessere, alla salute e alla felicità di altri esseri umani – proprio perché questo non era il loro obiettivo diretto. Quando Robert Owen ha cercato di gestire una fabbrica in maniera efficiente, il tentativo ha, tra le altre cose, migliorato il comportamento di alcuni dei suoi lavoratori molto poco promettenti, i quali erano prima assistiti e perciò in una condizione di deplorevole degrado morale. Owen guadagnò del denaro e, mentre era occupato a fare profitti, gli arrivò di scoprire che, se avesse retribuito meglio i suoi lavoratori, avrebbe potuto incrementare la produzione in quanto si sarebbe generato un più ampio mercato. La qual cosa era sensata e rispondente al vero. A quel punto però Owen divenne ispirato da ambizioni umanitarie, e cioè di fare del bene a tutti. E così raccolse molte persone spinte da motivazioni umanitarie e fondò una colonia sperimentale. Tutti costoro erano così intenti a fare l’uno il bene dell’altro, che nessuno si preoccupò di dedicarsi a una benché minima attività produttiva. E la colonia si dissolse in mezzo a mille litigi. Owen fallì e morì leggermente insano di mente. Per cui, quel principio importante che egli aveva intravisto, doveva attendere un secolo prima di essere riscoperto. Il filantropo, il politico e lo sfruttatore si trovano inevitabilmente uniti e
coalizzati perché hanno gli stessi motivi, ricercano gli stessi fini, esistono per gli altri, attraverso gli altri e per mezzo degli altri. E le persone perbene non possono essere assolte per il fatto di sostenerli. Né si può credere che le persone perbene non siano consapevoli di quello che realmente avviene. Ma quando le persone perbene sanno, come di certo lo sanno, che tre milioni di persone (come stima minima) sono morte di fame in un anno [124] applicando i metodi che esse approvano, perché fraternizzano ancora con gli assassini e sostengono queste misure? Lo fanno perché gli è stato detto che la lenta morte di tre milioni di persone potrebbe alla fine essere di beneficio per un più grande numero di persone. Questa tesi si applica molto bene anche a tutte le pratiche di cannibalismo.
Ai nuovi giovani anarchici, di Louis Lecoin
Documento 38 (1962)
Un invito apionato ai giovani a incamminarsi sulla strada interessante e affascinante dell’anarchia. Fonte: Louis Lecoin, Si je mourais demain, in Liberté, giugno 1962. Si veda, Écrits de Louis Lecoin, Union Pacifiste, Paris, 1974.
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A coloro che sono ancora viventi e che da quaranta o cinquanta anni fanno parte degli ambienti libertari, non ho nulla da insegnare. Per costoro non sarà una rivelazione se affermo che un essere umano è privilegiato quando condivide le idee e l’ideale dell’anarchia. Certamente, non tutte le buone fortune sono dalla sua parte; spesso deve affrontare un certo numero di difficoltà perché, divenuto molto perspicace ed estremamente sensibile a causa di un orizzonte più esteso di esperienze e di una conoscenza abbastanza vasta degli accadimenti e dei comportamenti individuali, egli soffre. Soffre vedendo le cose con chiarezza, e se ne risente constatando le bassezze che si diffondono dappertutto. Ma in questo modo si forma anche, diviene davvero adulto. Alla fine, esiste come persona matura. Non è più solamente un numero, è qualcuno di reale. Compagni, quante volte ci siamo consolati con questa constatazione vedendo altri parlare e agire attorno a noi: “In ogni caso, non siamo affatto come loro”. Senza disprezzo per alcuno, sapendo che fino a ieri ci trovavamo in mezzo a loro, utilizzando il loro stesso linguaggio, compiendo identici gesti, in maniera incosciente e idiota come loro. Una evoluzione avviene lentamente. Ricordatevi di E. Armand, che abbiamo commemorato nell’ultimo numero della nostra rivista Liberté. Ha ato sette anni nell’Esercito della Salvezza prima di abbandonarlo. È difficile mettere da parte le scorie. L’antimilitarista e pacifista che sono io adesso era, a diciassette anni, fondamentalmente un nazionalista e un patriota. A quei tempi, aspettavo di raggiungere i diciotto anni per entrare nell’esercito in vista di una carriera militare. Mostriamoci orgogliosi della nostra evoluzione, apprezziamo la felicità che ci ha apportato, ma stiamo attenti a non essere eccessivi, perentori, a crederci fatti di un’altra lega rispetto ai nostri contemporanei. Il nostro merito personale in tutto ciò è pressoché nullo. Ogni essere umano può ben intraprendere la stessa strada se solo riceve un po’ di sostegno – grande anche solo come dei granelli di sabbia. Questa constatazione è rassicurante, sappiatelo! Essa proverebbe almeno che, contrariamente alla corrente di pessimismo dominante, tutto andrebbe meglio se solo gli individui innanzitutto, e poi le minoranze, si dessero da fare e se, dopo aver tanto detto e promesso, non indietreggiassero sempre più, rinnegando di continuo le proprie idee.
È molto vero il detto che solo le minoranze fanno muovere il mondo. E nella società in continua trasformazione, gli anarchici si pongono tra le minoranze più rappresentative di come l’essere umano può trasformarsi in meglio. Di questo noi ne siamo sicuri da tempo, noi i vecchi anarchici. Voi, giovani, non lo sapete. Non ancora. Ma lo capirete se veramente vi sforzerete a interessarvi delle correnti sociali, se dedicherete la vostra attenzione ai problemi sociali che, risolti nella maniera più semplice, faranno della Terra un pianeta che nessuno penserà mai di maledire. Io non mi rivolgo ai compagni di vecchia data, soprattutto in questo momento, benché ci tenga a ringraziarli dell’aiuto che mi hanno dato così di sovente e senza il quale non avrei potuto compiere le rare cose di valore che sono attribuite a mio credito. E vorrei offrire loro anche un addio nel caso di una mia separazione prolungata. I ricordi vi assalgono, vi toccano, ma per quanto ciò sia doloroso, occorre fuggirli. Diamo un arrivederci al ato, senza nostalgie di ritorno, andiamo oltre il presente che non racchiude nulla di straordinario in grado di trattenerci ed entriamo subito nell’avvenire. Spetta a voi farlo, miei giovani compagni anarchici, a voi che balbettate i primi elementi di base dell’anarchia; e spetta anche a voi tutti, giovani, che non siete ancora toccati da questo movimento di idee. Queste idee, le nostre, le idee libertarie, vi condurranno in alto, nonostante la bassezza che vi circonda, quando uscirete dallo stato d’animo incerto dell’adolescenza e dal solco tracciato da coloro che vi hanno preceduto. Lasciate perdere le carriere belle e pronte, la mangiatoia per buoi e il collare per cani. L’indipendenza è ancora più indispensabile all’essere umano che alle nazioni. Anche in un mondo di schiavi siate liberi, almeno per quanto riguarda il vostro spirito. Io, che sono adesso anziano, vi incoraggio giovani amici a incamminarvi sulla strada che ho scoperto anche io un bel giorno. Non pretendo dirvi che vi attenderanno sempre momenti felici; non vi garantisco che non sarete mai delusi. Apprezzerete il valore concreto delle teorie libertarie e scoprirete un ideale di vita che solo la filosofia anarchica permette di concepire. Futuri giovani anarchici, non vi vedrò perché me ne andrò via per sempre – anche se non sarà domani o dopodomani – con il rimpianto di non poter
attendere di conoscervi. Tuttavia, immagino che sarete in tanti a venire in aiuto di quelli che vi hanno preceduti. Fate presto! Altrimenti perderete del tempo perché, credetemi per esperienza, l’anarchia rende la vita più bella. Essa ha abbellito la mia.
Varietà e attualità degli anarchici, di Paul Goodman
Documento 39 (1966)
Una riflessione interessante che individua pratiche anarchiche in comportamenti e conquiste sociali e personali che al giorno d’oggi consideriamo come fenomeni del tutto scontati. Fonte: Paul Goodman, Reflections on the Anarchist Principle, in Anarchy, aprile 1966.
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La concezione anarchica si basa su un’affermazione abbastanza precisa, e cioè che un comportamento apprezzabile ha luogo solo come risposta libera e diretta alle condizioni storiche circostanti, da parte di individui e gruppi che si formano volontariamente. Si sostiene che, nella maggior parte degli affari umani, che siano di natura politica, economica, militare, religiosa, morale, pedagogica o culturale, si producono più danni che non buoni risultati adottando un approccio coercitivo, verticistico, basato su un potere centrale, sulla burocrazia, le prigioni, la coscrizione militare obbligatoria, gli stati, l’omogeneizzazione come principio, la pianificazione eccessiva, eccetera. Gli anarchici vogliono accrescere il funzionamento autonomo e diminuire il potere esterno. Si tratta qui di un’ipotesi sociale e psicologica che ha chiaramente delle implicazioni politiche. A seconda delle diverse condizioni storiche che presentano minacce di vario tipo al principio anarchico, gli anarchici hanno posto l'accento su contesti e aspetti differenti: talvolta nell’ambito agricolo, talvolta nelle libere città e nelle associazioni artigiane; talvolta mostrandosi fautori, e altre volte avversari della tecnologia; talvolta per una proprietà in comune o per la proprietà personale; talvolta individualisti, altre volte collettivisti; talvolta parlando della Libertà come se fosse un dio assoluto, talvolta facendo riferimento solo ai costumi e alla natura umana. Eppure, nonostante queste differenze, avviene di rado che gli anarchici non riescano a riconoscersi tra di loro, o che considerino queste differenze come delle incompatibilità. Prendiamo in esame un tema attuale molto importante, la violenza. La guerriglia è stata una tecnica di lotta classica per molti anarchici; eppure, laddove, soprattutto in presenza di situazioni moderne, qualsiasi atto violento tenda a rafforzare il centralismo e l’autoritarismo, gli anarchici hanno iniziato a vedere la bellezza della nonviolenza. Ora, nel suo complesso, il principio anarchico sembra corrispondere a qualcosa di genuino. E, lungi dall’essere “utopico” o un “glorioso fallimento” esso ha fatto le sue prove e si è dimostrato vincente in molte crisi storiche di ampia portata. Nel periodo del mercantilismo e delle concessioni monopolistiche decise dal monarca, la libera impresa e le compagnie finanziate dai soci erano fenomeni anarchici. La carta dei diritti ispirata da Thomas Jefferson e l’indipendenza dei giudici dal potere esecutivo erano fenomeni sostanzialmente anarchici. Le Chiese Congregazionaliste in cui ognuna si autogestiva erano anarchiche. L’educazione progressista [basata sull’apprendimento personalizzato attraverso
l’esperienza pratica diretta] era anarchica. All'epoca del feudalesimo, le libere città e le norme a difesa delle attività economiche erano anarchiche. Ai tempi nostri, il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti è stato quasi un classico del decentramento e dell’anarchia. E così via, fino a dettagli come il libero accesso alle biblioteche pubbliche. È chiaro che, a storici posteriori, queste cose non sembrano anarchiche, ma a quei tempi erano tutte viste come manifestazioni di anarchia e spesso definite tali, bollate come minacce che avrebbero generato il caos. Questo adattamento relativo del principio anarchico alla situazione corrente costituisce l’essenza dell’anarchia. Non ci può essere una storia della concezione anarchica nel senso di stabilire uno stato di cose definitivo e chiamarlo “anarchico”. Si è sempre attivi per far fronte a una nuova situazione, e si è sempre vigili per essere sicuri che le libertà conquistate in ato non vadano perse, e non si trasformino nel loro opposto come è avvenuto quando la libera impresa si è trasformata nel capitalismo salariale e monopolistico, o l’indipendenza dei giudici è diventata un monopolio basato su tribunali, poliziotti e avvocati, o l’educazione libera si è mutata nell’attuale sistema scolastico controllato dallo Stato.
Anarchici… e orgogliosi di esserlo, di Amedeo Bertolo
Documento 40 (1972)
Una presentazione apionata del movimento anarchico e di cosa significhi essere anarchici. Fonte: Da A, Rivista anarchica, n. 15, ottobre 1972. Il saggio è reperibile nella sua integralità anche nella raccolta di scritti di Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, Elèuthera, Milano, 2017. ∞
Certo, la scelta anarchica, che è scelta globale, coinvolge in larga misura (assai più di altre scelte meramente politiche) anche aspetti esistenziali. Solo noi anarchici sappiamo quanto di “poetico” (cioè di ricerca della bellezza, dell’armonia nei rapporti interumani), di “romantico” (cioè di sentimentale, di emozionale), di “gratuito” (che va oltre cioè l’interesse immediato dell’individuo o della categoria), vi è stato nella nostra scelta iniziale. Ed è certo molto. Più di quanto vorremmo ammettere per un certo pudore e una radicata avversione per la retorica sentimentale e una diffidenza ragionata per “l’irrazionale”. Ma non sono questi i tratti caratteristici dell’anarchismo. Questi sono tratti comuni a tante scelte umane e politiche. Anche la vecchietta monarchica che morendo lascia a Umberto di Savoia quattro soldini, risparmiati a fatica sulla pensione da fame, ha qualcosa di romantico, di gratuito e, in un certo senso, di poetico. Non è l’adesione apionata, disinteressata, di tanti militanti famosi e oscuri a distinguere l’anarchismo (che pure ne è ricco) dalle altre dottrine sociali e in particolare da quelle socialiste autoritarie, ma un complesso originale di ipotesi scientifiche e proposte di lotta, un patrimonio secolare di applicazioni, di approfondimenti, di rettifiche, di arricchimento di tali ipotesi. L’anarchismo è insieme una scienza sociale e un progetto rivoluzionario. È, cioè, da un lato un sistema di ipotesi interpretative della società e della storia (ovvero del mutamento sociale), di analisi che, partendo dal riconoscimento dei mali sociali, risalgono alla natura dello sfruttamento e dell’oppressione, dell’ingiustizia e della diseguaglianza, ne seguono l’evoluzione storica e ne identificano le cause. E dall’altro, esso è anche (e soprattutto) un progetto rivoluzionario, cioè una volontà organizzata di trasformare radicalmente la realtà sociale, sostituendo alla logica gerarchica dei potenti (dei padroni, dei re, dei generali, dei vescovi, dei presidenti, degli alti burocrati…) la tendenza egualitaria e libertaria delle classi sottoposte (dei proletari, degli schiavi, dei servi della gleba, dei sudditi, dei cittadini…). Una volontà organizzata sulla base di scelte operative, strategiche e tattiche, derivate dalle ipotesi scientifiche assunte come fondamentali. Se è da questa volontà che deriva la possibilità di are dall’osservazione della realtà alla sua pratica trasformazione, è dalla validità della scienza sociale utilizzata per il “progetto” che deriva la possibilità di adeguare i mezzi ai fini, di ottenere cioè risultati conformi agli obiettivi posti.
La validità delle ipotesi nel campo delle scienze sociali si verifica non in “laboratorio” (se non per aspetti circoscrivibili a esperimenti ridotti nel tempo e nello spazio e con risultati più indicativi che risolutivi), ma nel “futuro”, cioè nella conferma delle previsioni, nella verifica storica a posteriori. Ora, sono ati cento anni da quando gli antiautoritari della Prima Internazionale (fondatori del movimento anarchico) enunciarono in modo dapprima intuitivo e schematico, poi man mano più completo e articolato, alcune ipotesi scientifiche di base, e a nostro avviso sono stati cento anni di conferme clamorose della validità di quelle ipotesi e di clamorosa condanna delle ipotesi autoritarie alternative. Cento anni di lotte sociali, di sommosse, di rivolte, di rivoluzioni, di esperimenti, di sacrifici, di realizzazioni, di delusioni, di sangue, di Spagna, di Russia, di parlamentarismo, di dittatura proletaria… che hanno verificato puntualmente le previsioni anarchiche e smentito quelle marxiste, che hanno verificato il progetto socialista antiautoritario e smentito quello autoritario. Dimostrazioni palesi, se solo si voglia vedere, dimostrazioni tessute di fatti (e che fatti!) e non parole, dimostrazioni del fatto che, se vi è nel socialismo qualcosa di scientifico, di razionale, di sensato, esso attinge all’anarchismo. Fra le ipotesi scientifiche dei pionieri dell’anarchismo voglio privilegiarne una, che ritengo fondamentale e dalla quale, a mio avviso, si possono derivare quasi tutte, se non tutte, le altre: quella dell’autorità. All’ipotesi economica marxista, che generalizzando una forma storicamente limitata voleva ricondurre alla proprietà dei mezzi di produzione la causa del privilegio e dello sfruttamento, gli antiautoritari opponevano l’ipotesi sociologica della distribuzione ineguale e gerarchica del potere come origine della diseguaglianza sociale. Dall’ipotesi marxista derivò un progetto rivoluzionario che esauriva l’essenza della rivoluzione nell’abolizione della proprietà privata (facendo conseguire automaticamente da questo l’abolizione delle diseguaglianze “sovrastrutturali”) e che si avvaleva di mezzi autoritari (Partito, Stato, eccetera). Dall’ipotesi anarchica derivò un progetto rivoluzionario che, accanto alla socializzazione dei mezzi di produzione, poneva contemporaneamente la distruzione dell’autorità nella sua forma sociale più completa e moderna – lo Stato – e che si avvaleva di strumenti organizzativi e operativi libertari (il mutuo accordo, la federazione, eccetera) in coerenza scientifica tra mezzi e fini. Alla distinzione tra ricchi e poveri, tra possidenti e non possidenti, gli anarchici affiancavano (e,
generalizzando, talora anteponevano, considerando la diseguaglianza economica un aspetto particolare della diseguaglianza sociale e, in certe fasi storiche e probabilmente alle origini, un fenomeno derivato dal potere politico) la distinzione tra governanti e governati, tra quelli che comandano e quelli che devono obbedire. L’ipotesi sociologica anarchica fondamentale comportò sviluppi necessari e fecondi in mille direzioni, arricchendo il patrimonio culturale del movimento anarchico e dell’intera umanità (grazie anche a influssi diretti e indiretti su pensatori “progressisti” e a “recuperi” riformatori del sistema). Si svilupparono così le acute critiche delle istituzioni coercitive, della pedagogia, della religione e della Chiesa, dell’amministrazione della “giustizia”, della repressione sessuale, della famiglia patriarcale, e si svilupparono anche le proposte di integrare la città e la campagna, il lavoro manuale e quello intellettuale… In tanti psichiatri, pedagoghi, sessuologi, urbanisti di avanguardia si ritrova oggi l’ispirazione libertaria (per lo più diluita in modo da perdere il carattere dirompente) di quell’esplosiva fertilissima ipotesi antiautoritaria. Nel campo più strettamente politico, da quelle ipotesi nacquero indicazioni sui modi per distruggere il potere (distribuendolo tra tutti attraverso un’organizzazione decentrata, federalista, basata sugli accordi anziché sulle leggi, sul consenso anziché sulla coercizione) e previsioni sul fallimento necessario del “socialismo di Stato”. L’ipotesi sociologica anarchica sulla natura della diseguaglianza sociale è un’ipotesi che oggi, a cento anni di distanza, trova conferma scientifica nella sua capacità di comprendere e interpretare mutate realtà socio-economiche, mutate forme di sfruttamento, sia nei paesi sedicenti socialisti che nell’Occidente neo o tardo o post-capitalistico (a seconda della terminologia preferita), mentre l’ipotesi marxista non spiega più nulla di fronte a sistemi dove la proprietà privata non esiste più (URSS, eccetera) o dove al potere e ai privilegi da essa derivanti si affiancano quelli derivanti dal controllo esercitato nelle imprese e nell’apparato statale dai tecnoburocrati. Infatti, l’ipotesi sociologica anarchica è ipotesi scientifica generale, applicabile sempre e ovunque, dalla tribù al super-Stato, dall’economia pastorale a quella post-industriale, mentre quella marxista è risultata applicabile (e con talune riserve) alla sola società capitalista classica.
[…] Ecco perché, cento anni dopo, le ipotesi e il progetto di Bakunin, Malatesta, Cafiero e degli altri pionieri dell’anarchismo sono ancora il progetto e l’ipotesi su cui si muove ostinatamente il movimento anarchico: per ostinazione della ragione e non del sentimento. Ecco perché a cento anni di distanza è ancora più che mai valida e insanabile (se non per artifici dialettici) la contraddizione fondamentale tra anarchici e marxisti, tra autoritari e antiautoritari, non per fedeltà a una contrapposizione di personaggi (Bakunin e Marx), ma per fedeltà a una scelta di fondo che si è dimostrata corretta nei fatti. Una scelta che è divenuta pratica di lotta e di organizzazione per centinaia di migliaia di militanti e simpatizzanti, una scelta che, divenuta da intuizione popolare intuizione scientifica (non dimentichiamo che lo stesso Bakunin dichiarò di avere imparato l’anarchismo dagli operai e dagli artigiani del Giura svizzero), è ritornata verità “viva” nella vita e nella militanza di operai, contadini, artigiani, muratori, minatori, nelle epopee rivoluzionarie e nell’oscura attività quotidiana di diffusione delle idee e di agitazione, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle galere, nell’esilio, nelle piazze, nella clandestinità, nelle caserme, nelle campagne, nei gesti vendicatori e nella umanità del gesto quotidiano, nelle rivolte clamorose e nello sforzo educativo e autoeducativo… Nessun movimento sociale ha visto tanta creatività, tanta fantasia rivoluzionaria, tanta varietà di mezzi (nell’unicità del fine e del metodo): dal sindacalismo all’attentato giustiziere o protestatario (non terroristico), dall’impegno pedagogico all’agitazione di massa, dalla propaganda alla fondazione di comunità sperimentali, dall’insurrezione alla nonviolenza… I cento anni vissuti dal movimento anarchico italiano e internazionale dalla Conferenza di Rimini [125] e dal Congresso di Saint-Imier [126] a oggi ci lasciano un patrimonio inestimabile di pensiero e di esperienza, un patrimonio etico-scientifico unico nella storia dell’emancipazione umana, per coerenza e vastità. (Non un'eredità su cui vivere di rendita, beninteso, o peggio su cui sopravvivere stentatamente esaurendola, ma un capitale, mi si perdoni la metafora, da investire nell’azione, nelle lotte, nello studio). I cento anni vissuti dal movimento anarchico sono stati cento anni di sconfitte, di repressioni sanguinose, di errori, ma anche e soprattutto cento anni di conferme esemplari della sostanza dell’anarchismo, una serie di durissime prove di fronte alle quali è già quasi una vittoria che sia sopravvissuto come movimento e come sistema di pensiero.
La scienza sociale e il progetto anarchico, se nelle linee essenziali sono più che mai validi, mostrano certo nel loro sviluppo una povertà e un ritardo che mortificano l’anarchismo e che vanno superati nel pensiero e nell’azione. Ma senza complessi di colpa, perché il movimento anarchico ha fatto quello che ha potuto, immerso nelle lotte e alle prese con la repressione, senza mezzi e senza professionisti del pensiero politico; e senza complessi di inferiorità, perché nonostante tutto il disprezzo degli accademici (che è il disprezzo o la paura per tutto ciò che è semplice perché vero) quella scienza e quel progetto hanno segnato sinora il punto più alto raggiunto dal movimento di emancipazione dell’uomo nella sua millenaria storia di sforzi e fallimenti, di tentativi e sconfitte. Per questo, per quanto oggi il movimento anarchico sia fragile e contraddittorio, appena ripresosi da una crisi che l’ha visto quasi scomparire dalle lotte sociali, per quanto il movimento anarchico sia oggi in taluni suoi aspetti insieme senile e infantile, siamo anarchici e, perdio, orgogliosi di esserlo.
Gli “anarchici” come ostacolo per l’anarchia, di Bob Black
Documento 41 (1985)
Un articolo devastante per taluni cosiddetti anarchici, o presunti tali, visti come i sostenitori di un’ideologia inventata (anarchismo) invece di essere gli sperimentatori di una pratica di libertà (anarchia). Fonte: Bob Black, Anarchism and Other Impediments to Anarchy, 1985.
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Non c’è attualmente alcuna necessità di dare nuove definizioni dell’anarchia. Sarebbe difficile migliorare quelle già formulate da vari illustri protagonisti del ato. E neppure c’è bisogno di soffermarsi sulle varie forme di anarchia, quella comunista, quella individualista, e via discorrendo. I testi esistenti le coprono già tutte. Molto più utile è vedere perché noi non siamo più prossimi all’anarchia di quanto lo fossero Godwin, Proudhon, Kropotkin ed Emma Goldman ai loro tempi. Ci sono molti motivi per questo, ma quelli su cui vale maggiormente la pena di soffermarsi riguardano quegli aspetti che gli anarchici stessi generano. Infatti, se ci sono ostacoli che possono essere rimossi, sono proprio questi. La qual cosa è possibile, ma non è detto che sia probabile. La mia riflessione ponderata, dopo anni di osservazione e, talvolta, di lacerante attività nell’ambito anarchico, è che gli anarchici rappresentano la causa principale – e ho il sospetto, una causa sufficiente – per cui l’anarchia rimane qualcosa che non ha la benché minima possibilità di essere realizzata. La maggior parte degli anarchici, per dirla con tutta franchezza, è incapace di vivere in maniera autonoma e cooperativa. Essi tendono a indugiare nella lettura dei loro autori classici e di testi minori attinenti al tema, senza ampliare le loro conoscenze del mondo più vasto in cui noi tutti viviamo. Sostanzialmente timorosi, essi si associano con persone simili a loro, con il tacito accordo che nessuno metterà a confronto le opinioni e le azioni di un altro facendo riferimento a un metro di intelligenza critica e pratica; che nessuno, con le proprie realizzazioni, arriverà troppo in alto rispetto al livello prevalente di mediocrità; e soprattutto, che nessuno metterà in discussione i dogmi indiscussi dell’ideologia anarchica. L’ambiente in cui vive l’anarchia come ideologia non è tanto una sfida all’ordine esistente quanto una forma altamente specializzata di adattarsi ad esso. È un modo di vivere, o meglio una aggiunta ad esso, con il suo miscuglio particolare di premi e sacrifici. Il vivere da poveracci è come un obbligo, ma in tal modo si elimina fin dall’inizio la questione se questo o quell’anarchico avrebbero potuto essere nient’altro che dei falliti, qualunque ideologia ognuno di loro professi. La storia dell’anarchia è una storia di sconfitte senza precedenti e di martirio. Nonostante ciò, gli anarchici venerano le vittime del ato con una devozione morbosa, la qual cosa genera il sospetto che essi, come tutti gli altri, pensino che l’unico buon anarchico è un anarchico morto. La Rivoluzione – la rivoluzione sconfitta – è gloriosa, ma è qualcosa che appartiene ai libri di storia e a opuscoli vari. In questo ventesimo secolo – la Spagna nel 1936 e la Francia nel 1968 sono
casi particolarmente evidenti – l’insurrezione rivoluzionaria prese alla sprovvista le organizzazioni anarchiche ufficiali che all’inizio si mostrarono restie a parteciparvi e non di grande sostegno, per non dire di peggio. Il motivo non è da ricercarsi in cose strane. Non consiste nel fatto che tutti quegli ideologhi erano ipocriti (alcuni lo erano). Piuttosto, essi si erano costruiti una quotidianità fatta di militanza anarchica, un modo di fare che essi inconsciamente ritenevano potesse durare all’infinito, dal momento che la rivoluzione non è davvero qualcosa di immaginabile qui, nel presente. Ed essi hanno reagito mostrando paura e un atteggiamento difensivo quando gli avvenimenti hanno superato di gran lunga la loro vuota retorica. In altre parole, posti davanti alla scelta tra pratica anarchica (anarchia) e ideologia anarchica (anarchismo), molti anarchici si butterebbero sull’ideologia e sulla sottocultura anarchica invece di fare un salto rischioso verso l’ignoto, verso un mondo di libertà senza lo Stato. Ma, dal momento che gli anarchici sono quasi i soli critici riconosciuti dello Stato, questi esseri timorosi della libertà assumerebbero inevitabilmente un ruolo importante o almeno una notevole visibilità in qualsiasi insurrezione che avesse un carattere antistato. Essendo essi dei gregari, si troverebbero in prima fila in una rivoluzione che metterebbe a repentaglio la loro condizione di accettato immobilismo, non meno di quanto avviene per i politicanti e i benestanti. Allora gli anarchici saboterebbero la rivoluzione, consciamente o no, una rivoluzione che, in loro assenza, avrebbe potuto mettere da parte lo Stato senza perdere il tempo a impastoiarsi nella vecchia diatriba tra Marx e Bakunin. A dire il vero, gli anarchici che si sono appropriati di quella qualifica non hanno fatto nulla per mettere in discussione lo Stato, se non con scritti fumosi, pieni di un frasario illeggibile e indigesto, ma non certo con l’esempio contagioso che sorge dal praticare un modo diverso di relazionarsi con gli altri [127]. Gli anarchici, per come portano avanti l’anarchismo come mestiere, costituiscono la smentita più chiara della concezione anarchica. È vero che, almeno nel Nord America, le strutture federative più verticistiche che pretendevano di organizzare i lavoratori sono crollate a seguito dell’assenza di partecipazione e dei bisticci interni, e questa è una buona cosa, ma la struttura informale dell’anarchia come ideologia (anarchismo) rimane tuttora profondamente gerarchica. Gli anarchici si sottomettono supinamente a quello che Bakunin chiamava un “governo invisibile” che, in questo caso, consiste negli editori (di fatto se non di nome) di una manciata delle maggiori e più longeve pubblicazioni anarchiche.
Queste pubblicazioni, nonostante abbiano profonde differenze ideologiche, assumono tutte, nei confronti dei loro lettori, una posizione del tipo “noi ne sappiamo di più”, e praticano anche un tacito accordo di non permettere attacchi reciproci che metterebbero in luce le rispettive incoerenze e potrebbero minare il comune interesse a essere egemoni nei confronti della base anarchica. È molto strano che, nelle loro pagine, si possa più facilmente criticare periodici come Fifth Estate o Kick It Over [128] che non la pubblicazione anarchica Processed World [129]. Ogni organizzazione ha molti più aspetti in comune con altre organizzazioni che non con realtà non organizzate. La critica anarchica allo Stato, se solo gli anarchici lo capissero, è solo un caso particolare della critica alle forme di organizzazione. E, a un certo livello, persino le organizzazioni anarchiche avvertono ciò. Gli anti-anarchici potrebbero davvero trarre la conclusione che, se la gerarchia e la coercizione devono esistere, si faccia in modo che appaia chiaramente e che sia apertamente qualificata come tale. A differenza di questi sapientoni (i “libertariani” di destra o i mini-anarchici, ad esempio,) io rimango fermo nella mia opposizione allo Stato. Ma non perché, come proclamano assai spesso gli anarchici senza riflettere, lo Stato non è “necessario”. La gente comune rigetta questa affermazione degli anarchici ritenendola ridicola, ed è giusto che sia così. È ovvio che in una società industrializzata basata su classi sociali, come è la nostra, lo Stato è necessario. Il fatto è che lo Stato ha generato le condizioni che lo rendono necessario, e questo perché ha espropriato gli individui e le associazioni volontarie dei loro poteri. Per scendere ancora più al nocciolo del problema, le fondamenta su cui poggia lo Stato (lavoro, moralismi, tecnologia industriale, organizzazioni gerarchiche) sono fattori non necessari ma piuttosto antitetici per quanto concerne la soddisfazione di autentici bisogni e desideri. Sfortunatamente, le varie correnti anarchiche avvallano tutte quelle premesse per poi tirarsi indietro quando sono confrontate con la loro logica conclusione: lo Stato. Se non ci fossero gli anarchici, lo Stato avrebbe dovuto inventarli. Noi sappiamo che in parecchie occasioni lo ha fatto [130]. Noi abbiamo bisogno di anarchici senza la spazzatura ideologica dell’anarchismo. Allora, e solo allora, potremmo davvero metterci all’opera per promuovere e attuare l’anarchia.
Sei un anarchico? La risposta potrebbe sorprenderti!, di David Graeber
Documento 42 (2000)
Un testo breve di una mirabile chiarezza e lucidità. Fa uscire le idee sull’anarchia e sugli anarchici dalla sfera della condanna, frutto di ignoranza o di gretto interesse, per confrontarle con la vita di tutti i giorni e con i comportamenti e valori che tutti noi esprimiamo quotidianamente nei nostri rapporti sociali. Fonte: David Graeber, Are You An Anarchist? The Answer May Surprise You!, 2000.
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È probabile che tu abbia già sentito qualcosa su chi siano gli anarchici e su quello che, si suppone, essi credano. Le probabilità sono che quasi tutto ciò che hai sentito al riguardo siano delle sciocchezze. Molti sembrano pensare che gli anarchici siano sostenitori della violenza, del caos e della distruzione, che essi siano contro ogni forma di ordine e di organizzazione, o che siano nichilisti impazziti che vogliono solo far saltare tutto per aria. In realtà, niente potrebbe essere più lontano dal vero. Gli anarchici sono semplicemente delle persone che credono che gli esseri umani siano in grado di comportarsi in modo ragionevole senza che ci sia bisogno di costringerli. È davvero una idea molto semplice. Ma è una idea che i ricchi e i potenti hanno sempre trovato estremamente pericolosa. Detto nella maniera più semplice, le convinzioni anarchiche si basano su due presupposti elementari. Il primo è che gli esseri umani sono, in circostanze ordinarie, ragionevoli e onesti quanto è permesso loro di essere, e possono organizzare sé stessi e le loro comunità senza bisogno che sia detto loro come fare. Il secondo presupposto è che il potere corrompe. L'anarchia consiste, innanzitutto, proprio nell'avere il coraggio di accettare i semplici princìpi di moralità comune che tutti noi condividiamo, e seguirli fino alle loro logiche conclusioni. Per quanto strano questo possa sembrare, negli aspetti più importanti, tu probabilmente sei già un anarchico – semplicemente non te ne rendi conto. Cominciamo con alcuni esempi presi dalla vita quotidiana. Se c'è una fila per salire su un autobus affollato, aspetti il tuo turno e, anche in assenza della polizia, ti astieni dallo sgomitare per are per primo? Se hai risposto di sì, allora ti comporti abitualmente come un anarchico! Il principio anarchico più elementare è l'autoorganizzazione: la convinzione che gli esseri umani non hanno bisogno della minaccia di essere sanzionati per poter giungere a intese ragionevoli tra di loro, o per trattarsi con dignità e rispetto. Tutti credono di essere in grado di comportarsi ragionevolmente in maniera autonoma. Se pensano che le leggi e la polizia siano necessarie, è solo perché non credono che gli altri siano capaci di comportarsi allo stesso modo. Ma se ci rifletti sopra, non è forse vero che quelle persone provano tutte esattamente la stessa cosa nei tuoi confronti? Gli anarchici sostengono che quasi tutti i comportamenti antisociali che ci fanno ritenere necessario avere eserciti, polizia,
prigioni e governi per controllare le nostre vite, siano in realtà causati dalle sistematiche disuguaglianze e ingiustizie che quegli eserciti, polizia, prigioni e governi rendono possibili. È tutto un circolo vizioso. Se le persone si abituano a essere trattate come se le loro opinioni non contano, è probabile che diventino rabbiose e ciniche, e persino violente – il che naturalmente rende facile per chi è al potere sostenere che le opinioni di costoro non devono essere prese in considerazione. Una volta che le persone capiscono che le loro opinioni contano davvero tanto quanto quelle degli altri, esse tendono a diventare notevolmente comprensive e responsabili. Per farla breve: gli anarchici ritengono che sia il potere stesso, e gli effetti del potere, a rendere le persone stupide e irresponsabili. Sei membro di un club, di un’associazione sportiva o di qualsiasi altra organizzazione di tipo volontario in cui le decisioni non sono imposte da un capo, ma prese sulla base del consenso generale? Se hai risposto di sì, allora fai parte di un'organizzazione che lavora sulla base di princìpi anarchici! Un altro principio anarchico fondamentale è quello dell'associazione volontaria. Si tratta semplicemente di applicare i princìpi della partecipazione alle decisioni [131] concernenti la vita quotidiana. L'unica differenza è che gli anarchici ritengono che dovrebbe essere possibile avere una società in cui tutto potrebbe essere organizzato secondo queste linee, che tutti i gruppi potrebbero essere basati sul libero consenso dei loro membri e, quindi, che tutti gli stili di organizzazione di tipo gerarchico e militaresco, come gli eserciti o le burocrazie o le grandi corporazioni, basati su catene di comando, non sarebbero più necessari. Forse tu non pensi che ciò sarebbe possibile. O forse credi che lo sia. Ma ogni volta che giungi a una intesa attraverso il consenso comune invece che con le minacce, ogni volta che ti assumi volontariamente un impegno nei confronti di un'altra persona, arrivi a un accordo, o raggiungi un compromesso prendendo in dovuta considerazione la situazione o i bisogni particolari dell'altra persona, ti comporti da anarchico – anche se non te ne rendi conto. L'anarchia è proprio il modo in cui le persone operano quando sono libere di agire sulla base delle loro scelte autonome, e quando hanno a che fare con altri che sono ugualmente liberi – e quindi consapevoli della responsabilità che ciò comporta nelle relazioni con gli altri. Ciò conduce a un altro punto cruciale: mentre le persone possono essere ragionevoli e rispettose quando si relazionano con gli altri da pari a pari, la natura umana è tale che non ci si può fidare di
coloro a cui viene dato un potere sugli altri. Concedi ad alcuni una qualche forma di potere, ed essi ne abanno quasi sempre in un modo o nell’altro. Ritieni che la maggior parte dei politici siano degli imbroglioni egoisti ed egocentrici che non si preoccupano realmente dell'interesse generale? Pensi che viviamo in un sistema economico che è stupido e ingiusto? Se hai risposto "sì", allora sottoscrivi la critica anarchica alla società di oggi – almeno nelle sue linee generali. Gli anarchici credono che il potere corrompa e che coloro che ano tutta la loro vita alla ricerca del potere siano le ultime persone che dovrebbero averlo. Gli anarchici credono che il nostro attuale sistema economico sia più incline a premiare le persone che hanno un comportamento egoista e spregiudicato piuttosto che gli individui onesti e generosi. Moltissime persone provano la stessa sensazione. L'unica differenza rispetto agli anarchici è che la maggior parte della gente pensa che non ci sia nulla che possa essere fatto al riguardo, o che comunque – e questo è ciò che i servi fedeli dei potenti sono sempre più propensi a sostenere – qualsiasi cambiamento finirebbe solo per peggiorare ulteriormente le cose. Ma se questo non fosse vero? E c'è davvero qualche motivo per credere che sia vero? Una volta messe seriamente alla prova, gran parte delle previsioni abituali che la gente è solita fare su ciò che accadrebbe in assenza degli stati o del capitalismo si rivelano del tutto false. Per migliaia di anni le persone sono vissute senza governi. In molte parti del mondo la gente vive attualmente al di fuori del controllo dei governi. E non si uccidono l’un l’altro. Per la maggior parte del tempo, cercano di vivere le proprie vite come farebbe chiunque altro. Naturalmente, in una società complessa, urbanizzata e tecnologica, le cose sarebbero più complicate: ma la tecnologia può anche rendere tutti questi problemi molto più facili da risolvere. In realtà, non abbiamo nemmeno iniziato a pensare a come potrebbe essere la nostra vita se la tecnologia fosse davvero indirizzata a soddisfare bisogni umani. Quante ore avremmo davvero bisogno di lavorare per mantenere in funzione una società – cioè, se ci liberassimo di tutte le occupazioni inutili o distruttive come gli imbonitori televisivi, gli avvocati, le guardie carcerarie, gli analisti finanziari, gli esperti in pubbliche relazioni, i burocrati e i politici, e distogliessimo le nostre migliori menti scientifiche dal lavorare sulle armi spaziali o sul mercato borsistico, chiedendo loro di occuparsi di automatizzare compiti pericolosi o fastidiosi come l'estrazione dei minerali o la pulizia dei gabinetti, e
distribuissimo equamente tra tutti il rimanente lavoro? Di quante ore lavorative ci sarebbe bisogno? Cinque? Quattro? Tre? Due ore al giorno? Nessuno lo sa perché nessuno si pone questo tipo di domande. Gli anarchici pensano che queste siano proprio le domande che dovremmo farci. Credi davvero alle cose che dici ai tuoi figli (o che i tuoi genitori hanno detto a te)? "Non importa chi ha iniziato”, "Non è giusto rispondere al male con il male" [132], “Metti ordine nel tuo stesso caos”, "Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”, "Non trattare male le persone solo perché sono diverse da te". Forse dovremmo deciderci una volta per tutte: vogliamo continuare a raccontare delle bugie ai nostri figli quando parliamo loro del bene e del male, o siamo disposti a prendere sul serio le cose che predichiamo. Perché, se tu prendi questi semplici princìpi morali e li porti alle loro logiche conseguenze, arrivi all'anarchia. Considera il principio che non è giusto rispondere al male con il male. Se lo prendi davvero sul serio, questo da solo minerebbe quasi tutte le fondamenta su cui si basano le guerre e il sistema penale. Lo stesso vale per il principio della condivisione: diciamo sempre ai bambini che devono imparare a condividere, a essere rispettosi dei bisogni di ciascuno, ad aiutarsi a vicenda; poi andiamo nel mondo reale, dove diamo per scontato che tutti siano naturalmente egoisti e aggressivi. Ma un anarchico farebbe notare che quello che diciamo ai nostri figli è giusto. Praticamente ogni grande progresso nella storia dell'umanità, ogni scoperta o realizzazione che ha migliorato la nostra vita, è stato il frutto della cooperazione e dell'aiuto reciproco; anche ora, la maggior parte di noi spende più soldi per i propri amici e le proprie famiglie che per sé. Anche se, probabilmente, ci saranno sempre al mondo persone aggressive, non c'è ragione per cui la società debba basarsi sull'incoraggiare tali comportamenti aggressivi, o accettare che le persone si combattano tra di loro per ricavare il necessario per vivere. Questo serve solo agli interessi di coloro che sono al potere, che vogliono che noi viviamo nella paura l'uno dell'altro. Ecco perché gli anarchici sono per una società basata non solo sulla libera associazione ma anche sull'aiuto reciproco. Il fatto è che la maggior parte dei bambini crescono credendo nella moralità anarchica, e poi devono, a poco a poco, rendersi conto che il mondo degli adulti non funziona davvero in questo modo. Ecco perché così tanti diventano ribelli, alienati o adolescenti con tendenze al suicidio; e alla fine, adulti rassegnati e amareggiati. Il loro unico conforto, spesso, è la possibilità di educare i propri figli e fingere con loro che il mondo sia giusto. Ma cosa
succederebbe se potessimo davvero iniziare a costruire un mondo che sia perlomeno fondato sui princìpi della giustizia? Non sarebbe il regalo più grande che potremmo fare ai nostri figli? Credi che gli esseri umani siano fondamentalmente corrotti e malvagi, o che certi tipi di individui (donne, persone di colore, gente comune che non è ricca o altamente istruita) siano tipi inferiori, destinati a essere governati da gente che si presume migliore? Se hai risposto "sì", allora, sembra che tu non sia, dopo tutto, un anarchico. Ma se hai risposto "no", allora è probabile che tu sottoscriva al 90% i princìpi anarchici e, probabilmente, stai vivendo la tua vita in gran parte in accordo con essi. Ogni volta che tratti un altro essere umano con considerazione e rispetto, sei un anarchico. Ogni volta che risolvi le tue differenze con gli altri arrivando a un compromesso ragionevole, ascoltando ciò che ognuno ha da dire piuttosto che lasciando che una persona decida per tutti gli altri, ti stai comportando da anarchico. Ogni volta che hai l'opportunità di costringere qualcuno a fare qualcosa, ma decidi di appellarti al suo senso della ragione o della giustizia, tu sei un anarchico. Lo stesso vale ogni volta che condividi qualcosa con un amico, o decidi assieme a lui chi laverà i piatti, o fai qualsiasi cosa prestando attenzione a ciò che è giusto. Ora, potresti obiettare che tutto questo è buono e bello per piccoli gruppi di persone per organizzarsi tra di loro, ma che gestire una città, o un paese, è una questione completamente diversa. E, naturalmente, c'è qualcosa di vero in questo. Anche se si decentralizza la società e si mette il maggior potere possibile nelle mani di piccole comunità, ci saranno comunque molte cose che devono essere coordinate, dalla gestione delle ferrovie alla decisione su dove indirizzare la ricerca medica. Ma solo perché qualcosa è complicato non significa che non c'è modo di agire dando voce a tutti. Sarebbe solo complicato. Nella realtà dei fatti, gli anarchici hanno elaborato ogni sorta di idee e visioni diverse su come una società complessa potrebbe autogestirsi. Illustrare ciò andrebbe ben oltre la portata di un piccolo testo introduttivo come questo. Basti dire, in primo luogo, che molte persone hanno speso parecchio tempo a elaborare modelli di come potrebbe funzionare una società veramente partecipativa e sana; ma, in secondo luogo, è altrettanto importante sottolineare che nessun anarchico sostiene di avere un progetto perfetto. L'ultima cosa che vogliamo è imporre in qualche modo alla società dei modelli prefabbricati. La verità è che probabilmente non possiamo nemmeno immaginare la metà dei problemi che sorgeranno quando
cercheremo di creare una società partecipativa. Tuttavia, siamo sicuri che, essendo l'ingegno umano quello che è, tali problemi possono sempre essere risolti, purché ciò avvenga nello spirito dei nostri princìpi di base che sono, in ultima analisi, semplicemente i princìpi della fondamentale moralità e dignità degli esseri umani.
Parte IV - Individualismo – Mutualismo – Collettivismo – Comunismo
L’anarchia è troppo preziosa per me perché io possa vincolarla a un’ipotesi economica, per quanto plausibile essa possa apparire attualmente. Le soluzioni uniche non sono mai accettabili, e mentre ciascuno è libero di credere e diffondere le idee a lui più care, non dovrebbe sentirsi in diritto di propagandarle se non come semplici ipotesi. (Max Nettlau, Anarchia: Comunista o Individualista? Entrambe, 1914)
Individualismo – Mutualismo – Collettivismo – Comunismo Il movimento anarchico si è caratterizzato, nel corso della sua storia, per avere espresso una pluralità di esigenze e pratiche di organizzazione personale e sociale, tutte però sotto il segno della libertà-volontarietà di ciascun individuo. Le posizioni principali sono state: Individualismo. Nell’ambito dell’individualismo possiamo distinguere una varietà di gradazioni che vanno da quello estremo di Stirner, a quello più pacato di E. Armand, per arrivare a un individualismo che potremmo chiamare socialista-mutualista come appare negli scritti di Voltairine de Cleyre e Benjamin Tucker. Per questi due ultimi autori, più che di individualismo si potrebbe parlare di favorire la messa in luce delle individualità nell’ambito di relazioni sociali in cui sono del tutto assenti sia il potere esercitato da alcuni che i privilegi goduti da pochi. Mutualismo. La concezione mutualistica è associata soprattutto alla figura di Proudhon. Essa si basa su liberi produttori e sul libero scambio dei loro prodotti e servizi, sulla proprietà intesa come possesso (uso) di strumenti per la produzione e di beni per il consumo personale e della famiglia. Proudhon era inoltre favorevole alla formazione di banche mutualiste dove i soci raccolgono i
loro risparmi in un fondo comune e li investono secondo le necessità produttive dei soci stessi, per il beneficio comune e non per quello di banchieri e finanzieri estranei alla produzione. Collettivismo. Il termine collettivismo ha, nella concezione anarchica, un significato del tutto differente da quello che è venuto assumendo a seguito della Rivoluzione Russa (statalizzazione delle terre). Per collettivismo anarchico si intende che i lavoratori hanno la proprietà ed esercitano la gestione in comune degli strumenti di produzione della loro unità produttiva ma il prodotto del loro lavoro è ripartito in base al contributo dato da ciascuno alla produzione. L’esponente più famoso di questa concezione è stato Bakunin. Comunismo. Il comunismo anarchico, forse la posizione più diffusa a partire dal Congresso tenuto a La Chaux-de-Fonds (9-10 agosto 1880), è associato soprattutto alle figure di Kropotkin e di Malatesta. In aggiunta alla proprietà e gestione diretta e in comune degli strumenti di produzione, i comunisti anarchici ritengono che il progresso scientifico e tecnologico permetterà di arrivare a una produzione di beni e servizi talmente elevata da permettere una loro diffusione e godimento sulla base delle necessità e non più del contributo del singolo alla produzione. Come precedentemente sottolineato, nella concezione degli anarchici nessun potere dominante interviene per la promozione e diffusione di tali ideali la cui attuazione deve essere il frutto degli individui singoli e associati e delle dinamiche storiche che ne conseguono. Va poi aggiunto che non vi è né separazione netta tra queste concezioni né tantomeno contrapposizione. Per fare solo un esempio, Benjamin Tucker è definito (e si definisce) di volta in volta individualista, mutualista, socialista, senza che vi sia contrasto tra queste qualifiche in quanto il nucleo essenziale è sempre rappresentato dalla persona umana e dalle sue scelte libere e volontarie. Lo stesso può dirsi dell’anarchico comunista Kropotkin nella cui concezione la comunità volontaria composta da liberi individui (individualità) ha un ruolo essenziale. Frequenti sono i casi (ad esempio Max Nettlau) in cui un anarchico aderisce inizialmente a una certa posizione per poi arrivare ad accettarne varie, ad esempio sia l'anarchia comunista che quella individualista (Documento 53). Taluni (Temi: anarchia – anarchici) propongono l’anarchia senza aggettivi
(Tarrida del Mármol) o la sintesi anarchica (Sébastien Faure e Voline). E in effetti, come indicato più volte, l’anarchia non può essere incasellata in schemi precostituiti di un futuro definito a priori, dal momento che gli anarchici sono per la libertà di sperimentare tutti i possibili stili di vita e di organizzazione personale e sociale, secondo i desideri e le necessità di ognuno. Pensare che il proprio modello esistenziale e sociale sia il solo valido e proponibile per tutti è stato ed è il frutto dell’ignoranza di molti presunti anarchici o pseudo-anarchici. Su questa ignoranza hanno fatto leva gli antianarchici caratterizzando l’anarchia come caos generalizzato o addirittura come l'imposizione a tutti di un unico e identico modo di vivere. È tempo di andare oltre l’ignoranza e la malafede.
Comunismo e mutualismo, di Pierre-Joseph Proudhon
Documento 43 (1865)
Proudhon pone a confronto il comunismo, come presentato in Francia in quegli anni, specialmente da Louis Blanc, e il mutualismo di cui egli è il principale sostenitore. Fonte: Pierre-Joseph Proudhon, De la capacité politique des classes ouvrières (estratti dai Capitoli III e IV del Tomo I).
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Il comunismo Il sistema del Lussemburgo [133] […], sistema comunista, governativo, dittatoriale, autoritario, dottrinario, parte dal principio che l’individuo è essenzialmente subordinato alla collettività e che solo da essa egli derivi i suoi diritti e la sua vita; che il cittadino appartiene allo Stato come il fanciullo alla famiglia; che è sotto il suo potere e di sua proprietà, e gli deve sottomissione e obbedienza in tutto. In virtù di questo principio fondamentale della sovranità collettiva e della sottomissione individuale, la scuola del Lussemburgo tende, in teoria e in pratica, a ricondurre tutto allo Stato o, il che è lo stesso, alla collettività: lavoro, industria, proprietà, commercio, istruzione pubblica, ricchezza, come pure il potere di legiferare, l’amministrazione della giustizia, la polizia, i lavori pubblici, la diplomazia e la guerra, per poi distribuire tutti questi compiti, in nome della Collettività o dello Stato, ad ogni cittadino, membro della grande famiglia, secondo le sue competenze e i suoi bisogni. […] Qual è il principio fondamentale dell’antica società, borghese o feudale, di diritto divino o nata dalla rivoluzione? È l’autorità, sia che la si faccia discendere dal cielo o che la si deduca, come fa Rousseau, dalla collettività nazionale. Così dicono e così fanno, a loro volta, i comunisti. Essi riconducono tutto alla sovranità del popolo, al diritto della collettività; la loro nozione del Potere o dello Stato è esattamente la stessa dei loro antichi maestri. Che lo Stato si chiami impero, monarchia, repubblica, democrazia o collettività, è chiaramente sempre la stessa cosa. Per gli appartenenti a questa scuola, i diritti dell'essere umano e dei cittadini derivano interamente dalla sovranità del popolo; la sua stessa libertà ne è una emanazione […]. Dall’ordine politico iamo all’ordine economico. Da chi, nell’antica società, l’individuo, nobile o borghese, derivava i suoi titoli, proprietà, privilegi, dotazioni e prerogative? Dalla legge, cioè, in definitiva, dal sovrano. Per quanto riguarda la proprietà, ad esempio, si era potuto, dapprima sotto il regime di diritto romano, poi sotto il sistema feudale, e infine sotto la pressione delle idee del 1789 [inizio della Rivoluzione se], invocare motivi di convenienza, di opportunità, di transizione, di ordine pubblico, di costumi domestici, anche di
industria e di progresso: la proprietà restava sempre una concessione dello Stato, l'unico proprietario naturale del suolo in quanto rappresentante della collettività nazionale. I comunisti hanno ripreso questo principio: per essi era lo Stato che concedeva all’individuo tutti i suoi beni, facoltà, funzioni, onori e persino capacità. La differenza consisteva solo nell’attuazione. A seguito di taluni motivi o necessità, l’antico Stato si era spogliato, in una certa misura, dei suoi poteri. Un gran numero di famiglie, nobili e borghesi, erano più o meno sorte da un insieme sociale primitivo e avevano formato, per così dire, dei piccoli poteri sovrani all’interno di quello più grande. L’obiettivo del comunismo è stato quello di far rientrare sotto il dominio dello Stato tutti questi frammenti del suo antico potere, di modo che la rivoluzione democratica e sociale, nel sistema del Lussemburgo, non sarebbe altro, dal punto di vista dei princìpi, che una restaurazione, vale a dire, il ritorno a una condizione precedente. […] Come strumento per realizzare tutto ciò, indipendentemente dalla forza pubblica di cui non poteva ancora disporre, il partito del Lussemburgo affermava e preconizzava l’associazione. L’idea di associazione non è affatto nuova nel mondo economico. Anzi, sono proprio gli Stati di diritto divino, antichi e moderni, che hanno fondato le associazioni più potenti e hanno teorizzato al riguardo. La nostra legislazione borghese (codice civile e commerciale) ne riconosce parecchie di vario tipo e specie. Che cosa hanno aggiunto i teorici del Lussemburgo? Assolutamente niente. L’associazione è stata per loro, in qualche caso, una comunità di beni e di ricavi (art. 1836 e seguenti); talvolta è stata ridotta a una semplice partecipazione o cooperazione, oppure a una società in nome collettivo e in accomandita. Più spesso si è inteso, per associazioni operaie, delle compagnie potenti e assai grandi di lavoratori, finanziate, organizzate e dirette dallo Stato, che attirano masse di operai, che si accaparrano parecchi lavori e dominano settori di impresa, invadendo ogni sfera industriale, culturale, commerciale, ogni funzione e proprietà; facendo il vuoto nelle organizzazioni e nei commerci privati, schiacciando e annientando intorno a sé qualsiasi azione individuale, qualsiasi possesso distinto, qualsiasi forma di vita, libertà e ricchezza singole, proprio come fanno al giorno d’oggi le grandi società anonime. È così che, nella concezione degli uomini del Lussemburgo, il dominio statale, presentato come dominio pubblico, doveva portare al superamento di ogni proprietà personale; l’associazione doveva condurre alla fine di tutte le
associazioni separate dallo Stato o al loro riassorbimento in una sola grande associazione; la concorrenza, ribaltata del tutto, doveva sfociare nella soppressione della concorrenza; e infine, la libertà collettiva doveva inglobare tutte le libertà di mestiere, locali e particolari. […] Il sistema politico, secondo la teoria degli uomini del Lussemburgo, può essere definito come una democrazia compatta, basata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma dove le masse non hanno altro potere se non quello che serve per assicurare l’asservimento generale, attenendosi alle seguenti formule e massime prese in prestito dall’antico assolutismo: - indivisibilità del potere; - centralizzazione assoluta; - distruzione sistematica di ogni concezione individuale, particolare e locale, ritenuta scissionista; - controllo poliziesco; - abolizione o per lo meno restrizione della sfera di intervento della famiglia e, a maggior ragione, dei lasciti ereditari. Il suffragio universale verrebbe organizzato in modo da servire a sancire, in maniera permanente, questa tirannia anonima, attraverso il peso preponderante dei mediocri o persino delle nullità, che costituiscono sempre la maggioranza rispetto alle persone capaci e ai caratteri indipendenti, dichiarati sospetti e naturalmente di numero esiguo. La scuola del Lussemburgo lo ha dichiarato ad alta voce: essa è contro l’aristocrazia delle capacità. Tra i sostenitori del comunismo ve ne sono alcuni che, meno intolleranti degli altri, non sono totalmente contro la proprietà, la libertà di impresa, il talento dei singoli e l’iniziativa individuale. Costoro non vietano, quanto meno non con leggi precise, l'esistenza di gruppi e di insiemi che si formano spontaneamente, la ricerca del profitto e le ricchezze accumulate dai singoli, e nemmeno la concorrenza alle società operaie privilegiate dallo Stato. Ma combattono queste influenze, giudicate pericolose, con dei mezzi indiretti, scoraggiandole con mille ostacoli burocratici, con vessazioni, tasse, e una quantità di mezzi ausiliari di cui
gli antichi governi hanno fornito la tipologia, e che la morale dello Stato autorizza: - imposta progressiva; - imposta sulle successioni; - imposta sul capitale; - imposta sul reddito; - imposta sugli articoli di lusso; - imposta sulle attività industriali. Per contro, si concedono: - privilegi alle associazioni istituite dallo Stato; - aiuti, sostegni e sovvenzioni alle suddette associazioni; - l'istituzione di pensioni statali per gli invalidi del lavoro, per i membri delle associazioni, eccetera. È, come si vede e come abbiamo già detto, l’antico sistema dei privilegi rivolto contro i suoi vecchi beneficiari; lo sfruttamento degli aristocratici e il dispotismo applicati a profitto della plebe; lo Stato servitore divenuto la mucca da mungere del proletariato, che pascola nei prati e nei campi dei proprietari. In sintesi, un semplice spostamento di favoritismi: le classi in alto gettate in basso e quelle in basso issate in alto. Per quanto riguarda le idee, le libertà, la giustizia, la scienza, nulla di tutto ciò. Su un solo aspetto il comunismo si differenzia dal sistema dello Stato borghese: quest’ultimo sostiene la famiglia mentre il comunismo tende inesorabilmente a sopprimerla. Perché il comunismo si è pronunciato contro l’istituzione matrimoniale, dichiarandosi con Platone e talune sette dei primi cristiani, a favore del libero amore? Il motivo è che il matrimonio, la famiglia, sono la roccaforte della libertà individuale; che la Libertà è la pietra che blocca gli ingranaggi di dominio dello Stato. Per questo, per consolidare lo Stato, per liberarlo da qualsiasi fattore di opposizione, di disturbo e di intralcio, il
comunismo non ha intravisto altra via se non quella di porre sotto lo Stato e di assegnare al controllo della collettività, oltre a tutto il resto, anche le donne e i bambini. Questo è ciò che viene chiamato, con altro nome: Emancipazione della donna. Finanche nelle sue differenze, ci si rende conto che il comunismo manca di creatività e si riduce a una imitazione del ato. Quando si presenta una difficoltà, esso non la risolve ma la sopprime. Questo è, in sintesi, il sistema del Lussemburgo, sistema che, senza sorpresa alcuna, deve avere parecchi sostenitori perché si riduce a una semplice usurpazione e rivincita della plebe, che rimpiazza la borghesia per quanto riguarda diritti, favori, privilegi e impieghi. Sistema di cui le analogie e i modelli si ritrovano nei dispotismi, nelle aristocrazie, nei patriziati, nei regni sacerdotali, nelle collettività, nei ricoveri, ospizi, caserme e prigioni di tutti i paesi e di tutti i tempi. Le contraddizioni di questo sistema sono evidenti; è per questo che non ha mai potuto generalizzarsi e consolidarsi. Esso è regolarmente crollato al minimo tentativo di attuarlo. […] Tuttavia, ci sono due cose che dobbiamo notare a vantaggio del comunismo: la prima è che, come prima ipotesi, era indispensabile per la nascita della vera idea; la seconda è che invece di scindere, come faceva il sistema borghese, la politica e l' economia politica e di farle diventare due ordini distinti e contrari, esso ha affermato l'identità dei loro princìpi e ha cercato di operarne la sintesi. Il mutualismo Il principio di mutualità è stato reso manifesto per la prima volta, con una certa sottigliezza filosofica e spirito riformatore, in questa famosa massima che tutti i saggi hanno proclamato e che gli estensori delle nostre Costituzioni dell’anno secondo e dell’anno terzo introdussero, a loro volta, nella Dichiarazione dei diritti e doveri dell’essere umano e del cittadino: “Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi” “Fate sempre agli altri il bene che vorreste ricevere”. Questo principio, per così dire a doppia faccia, ammirato in tutte le epoche e mai
negato, inciso, come afferma l’estensore della Costituzione dell’anno terzo, dalla natura nel cuore di tutti, suppone che la persona a cui è fatto questo invito 1) sia libera, 2) sappia distinguere tra il bene e il male, cioè che possegga, al proprio interno, il senso della giustizia. Due aspetti, la Libertà e la Giustizia, che ci portano molto lontano e al di là dell’idea di autorità, collettiva o di diritto divino, su cui vediamo basarsi il sistema del Lussemburgo. Finora, questa bella massima non è stata per la gente, secondo quanto affermano i teologi moralisti, se non una sorta di consiglio. Per l’importanza che essa riceve oggi e per il modo con cui le masse operaie ne chiedono l’attuazione, essa tende a diventare un precetto, a prendere un carattere decisamente obbligatorio, in una parola, a diventare forza di legge. Constatiamo innanzitutto il progresso che si è compiuto a questo riguardo tra le classi operaie. Leggo nel Manifesto dei Sessanta [134]: Il suffragio universale ci ha resi maggiorenni politicamente, ma dobbiamo ancora emanciparci socialmente. La libertà, che il Terzo Stato ha saputo conquistarsi con tanto vigore, deve diffondersi in Francia a tutti i cittadini. Un uguale diritto politico implica necessariamente un uguale diritto sociale Facciamo attenzione a questo modo di ragionare: «Senza l’uguaglianza sociale, l’uguaglianza politica non è che una parola vuota e il suffragio universale una contraddizione». Si mette da parte il ragionamento sillogistico e si procede per assimilazione: uguaglianza politica = uguaglianza sociale. Troviamo qui uno spirito nuovo che sottintende, come principio primo, la libertà individuale. La borghesia, che ci ha preceduto nell’emancipazione, dovette, nel 1789, assorbire l’aristocrazia e distruggere privilegi ingiusti. Adesso non si tratta per noi di cancellare i diritti di cui godono giustamente le classi medie ma di conquistare la stessa libertà d’azione E più sotto: Che non ci si accusi di sognare leggi agrarie, un’uguaglianza chimerica che porrebbe ognuno su un letto di Procuste [135]: distribuzione tramite confische, tetto massimo per i ricavi, imposte obbligatorie, eccetera. No, è tempo di finirla con le calunnie propagate dai nostri nemici e accettate dagli ignoranti – La libertà, il credito, la solidarietà, ecco quello che sogniamo di attuare
E conclude con queste parole: «Il giorno in cui questi sogni si realizzeranno non ci saranno più né borghesi né proletari, né padroni né operai» Questa esposizione è un po’ confusa. Nel 1789 l’aristocrazia non è stata ancora spogliata dei suoi beni; le confische sono venute più tardi, come conseguenza della guerra. Ci si è accontentati di abolire taluni privilegi incompatibili con il diritto e la libertà, e che l’aristocrazia si era ingiustamente arrogati; questa abolizione ha determinato l’assorbimento dei nobili nella borghesia. Ora, è chiaro che il proletariato non pretende di confiscare alla borghesia i beni legittimamente acquisiti, né di spogliarla di alcuno dei diritti di cui gode giustamente. Quello che si vuole realizzare, sotto la veste perfettamente giuridica e legale di libertà del lavoro, credito, solidarietà, sono talune riforme il cui esito sarà di abolire i diritti, i privilegi e quant’altro, di cui la borghesia gode in maniera esclusiva. Così facendo non ci sarebbero più né borghesi né proletari. Detto in poche parole: come la borghesia ha agito nei confronti dell’aristocrazia ai tempi della Rivoluzione del 1789, così sarà fatto nei suoi confronti dal proletariato, nel corso della nuova rivoluzione. E poiché nel 1789 non si è commessa una ingiustizia, anche nella nuova rivoluzione, che ha preso a modello quella precedente, non ve ne sarà alcuna. Detto questo, il Manifesto sviluppa il suo pensiero con una forza crescente. Noi non abbiamo voce in capitolo, noi che ci rifiutiamo di credere che la miseria sia stata istituita da Dio. La carità, virtù cristiana, si è dimostrata e ha riconosciuto, essa stessa, di essere impotente come istituzione sociale per la risoluzione del problema. Al tempo della sovranità popolare, del suffragio universale, la carità non può essere che una virtù personale… Noi non vogliamo essere né dei beneficiati né degli assistiti; vogliamo diventare degli eguali. Noi rifiutiamo l’elemosina, noi vogliamo la giustizia Cosa pensate di questa affermazione? Come voi borghesi, nostri predecessori, avete fatto per voi, così noi vogliamo che sia fatto a noi. È chiaro? «Illuminati dall’esperienza, noi non nutriamo alcun odio per le persone; noi vogliamo cambiare le cose». Queste affermazioni sono estremamente nette oltre che radicali. E l’Opposizione, che si pretende democratica, ha respinto delle candidature sostenute da una simile professione di fede!…
Così i Sessanta, con la loro dialettica come pure con le loro idee, si sbarazzano del vecchio andazzo comunista e borghese. Essi non vogliono né privilegi né diritti esclusivi; hanno abbandonato questa uguaglianza materialista che relegava l’individuo sul letto di Procuste. Essi sostengono la libertà del lavoro, condannata dagli uomini del Lussemburgo nella discussione sul lavoro a cottimo; essi ammettono la concorrenza, anche se è condannata dagli uomini del Lussemburgo che la vedono come fattore di spoliazione; essi proclamano sia la solidarietà che la responsabilità; non vogliono più clientele come non vogliono più gerarchie. Ciò che vogliono è l’uguaglianza della dignità, strumento permanente di pareggiamento delle opportunità nell’ambito economico e sociale; essi rifiutano l’elemosina e tutte le istituzioni caritatevoli; al loro posto chiedono l’applicazione della giustizia. La maggior parte di loro è membro delle società di mutuo credito, di mutuo soccorso, e da essi apprendiamo che trentacinque di queste società operano a Parigi, senza che se ne sappia molto. Esse gestiscono compagnie industriali, dalle quali il comunismo è stato bandito, e che si basano sul principio della partecipazione, riconosciuto dal Codice, e su quello della mutualità. Dal punto di vista giuridico, gli stessi operai chiedono che vi siano delle Camere operaie e delle Camere padronali che si completino, si controllino e si bilancino a vicenda; dei sindacati dotati di un certo potere esecutivo e dei probiviri con funzioni di arbitrato. Insomma, una riorganizzazione completa dell’industria sotto la giurisdizione di tutti coloro che ne fanno parte. In tutto ciò, essi affermano che la consultazione e partecipazione di tutti all’interno della fabbrica è la loro regola suprema. Uno dei primi e più potenti effetti deve essere, secondo loro, quello di ricostituire, su basi nuove, i gruppi naturali di lavoro, vale a dire le corporazioni operaie. Questo termine, corporazioni, è tra quelli che fanno arricciare di più il naso. Non spaventiamoci. Seguendo il loro esempio, non giudichiamo le parole ma guardiamo ai fatti [136]. Mi sembra quindi di aver detto abbastanza per mostrare che l’idea del mutualismo sia penetrata, in maniera nuova e originale, tra le classi operaie; che esse l’hanno fatta propria, ne hanno approfondito, più o meno, il concetto, l’hanno messa in pratica in maniera ragionata, ne intravedono il pieno sviluppo, in una parola, ne hanno fatto il loro nuovo credo e la loro nuova visione. Non vi è nulla di più reale e genuino di questo movimento, ancora un po’ debole, che è
però destinato, non solo ad assorbire un ceto aristocratico composto da qualche centinaio di persone, ma anche una borghesia che assomma a milioni di individui. In sostanza, a rigenerare tutta l'umanità. Esaminiamo adesso l’idea in sé stessa. Il termine mutuale, mutualità, mutualistico, che ha per sinonimi reciproco, reciprocità, deriva dal Latino mutuum che significa prestito (per il consumo) e, in un senso più ampio, scambio. Si sa che nel prestito per il consumo l’oggetto prestato è consumato da colui che ottiene il prestito, il quale poi restituisce l’equivalente, sia come un bene della stessa natura, sia sotto tutt’altra forma. Supponete che colui che presta diventi poi anche il richiedente di un prestito; in questo caso avrete una prestazione reciproca e quindi uno scambio: questo è il legame logico che ha fatto sì che le due operazioni ricevessero lo stesso nome. Non vi è nulla di più semplice di questa nozione; per questo non intendo soffermarmi oltre sull’aspetto logico e grammaticale. Quello che ci interessa è sapere come, su queste idee di mutualità, reciprocità, scambio, giustizia, che sostituiscono quelle di autorità, collettività o carità, si è venuti a costruire, nella sfera politica ed economica, un sistema di relazioni che tendono a trasformare da cima a fondo l’organizzazione sociale. Innanzitutto, vediamo a che titolo e sotto quale influsso l’idea di mutualità è entrata negli animi delle persone. In precedenza, abbiamo visto come la scuola del Lussemburgo intendesse i rapporti tra l’essere umano e il cittadino di fronte alla società e allo Stato: secondo la loro concezione si tratta di un rapporto di subordinazione. Da ciò proviene l’organizzazione autoritaria e comunista. A questa concezione governativa si contrappone quella dei sostenitori della libertà individuale, secondo i quali la società deve essere vista, non come una gerarchia di funzioni e di facoltà, ma come un sistema in equilibrio tra energie libere, nel quale a ciascuno è garantito il godimento degli stessi diritti a condizione di osservare gli stessi doveri, di ottenere gli stessi benefici in cambio di servizi equivalenti. Sistema quindi, essenzialmente egalitario e liberale, che esclude qualsiasi privilegio di rango, di classe o di accesso alle risorse. Ecco allora quello che pensano e le conclusioni a cui arrivano questi anti-autoritari o liberali.
Essi sostengono che la natura umana, l’espressione più elevata dell’Universo, per non dire l’incarnazione della Giustizia Universale, e cioè l’essere umano, il cittadino, trae i suoi diritti direttamente dalla dignità della sua natura. Allo stesso modo, successivamente, otterrà il suo benessere in ragione diretta della sua attività personale e del buon uso delle sue facoltà, e in relazione al libero esercizio delle sue qualità e delle sue capacità. Essi affermano allora che lo Stato non è altro che il risultato dell’unione liberamente contratta tra soggetti paritari, autonomi, e tutti amanti della giustizia; che, posto in tali termini, esso non rappresenta che le libertà e gli interessi associati; che qualsiasi discussione tra il Potere e un qualunque cittadino si riduce a un dialogo tra cittadini; che, perciò, non vi è nella società altro aspetto se non la libertà, nessun altro fattore dominante se non l’equità. L’autoritarismo e l’assistenzialismo, essi affermano, hanno fatto il loro tempo. Al loro posto subentra la giustizia. Da queste premesse, radicalmente contrarie a quelle degli uomini del Lussemburgo, essi arrivano a prospettare una organizzazione basata sull’applicazione del principio mutualista su vasta scala. Un servizio in cambio di un altro servizio, un prodotto per un altro prodotto, un prestito per un altro prestito, una assicurazione per una assicurazione, un credito per un credito, un deposito per un deposito, una garanzia per una garanzia: questa è la pratica legittima. È l’antica formula del taglione, occhio per occhio, dente per dente, vita per vita, ma del tutto trasformata, trasferita dal diritto criminale e dalle atroci pratiche della vendetta, al campo del diritto economico, delle attività produttive e dei buoni interventi frutto di una libera fratellanza. Da ciò sorgono tutte le istituzioni del mutualismo: mutue assicurazioni, mutuo credito, mutuo soccorso, mutuo insegnamento; le garanzie reciproche per quanto riguarda gli sbocchi commerciali, gli scambi, il lavoro di buona qualità e un prezzo equo per i beni prodotti, eccetera. Ecco quello che il mutualismo vorrebbe fare, per mezzo di talune istituzioni: un principio, una norma, arriverei quasi a dire, una sorta di morale che regola lo Stato in quanto associazione di cittadini. Il tutto come sistema organizzativo pratico, estremamente semplice e vantaggioso per tutti i cittadini, che non ha bisogno né di polizia, né di repressioni, né di soffocamenti e che non può, in alcun caso, diventare, per qualcuno, motivo di delusione e di rovina. In questo tipo di organizzazione il produttore non è più un servo dello Stato, inghiottito nell’oceano collettivista. È l’essere umano libero, davvero sovrano, che agisce di sua propria iniziativa e responsabilità personale; sicuro di ottenere un prezzo ragionevole per i beni e i servizi prodotti, un prezzo che costituisca
una remunerazione adeguata; e di trovare presso i suoi concittadini, per tutti i beni di consumo, la più completa onestà e garanzia. Al tempo stesso lo Stato, il governo, non è più un sovrano. L’autorità non si contrappone qui alla libertà: Stato, governo, potere, autorità, eccetera. sono in questo caso espressioni che servono a designare, sotto un altro punto di vista, la libertà stessa. Formule generali, prese in prestito dall’antica lingua, attraverso le quali si indica, talvolta, la somma, l’unione, l’identità e la solidarietà degli interessi particolari.
Contro l'individualismo, per il collettivismo, di Mikhail Bakunin
Documento 44 (1871)
Bakunin è il rappresentante di una visione sociale dell'anarchia che si oppone a ogni forma di egoismo (da lui qualificato come individualismo) e che è riconducibile, in parte, ad altri esponenti che appartengono alla grande corrente dell'anarchia, come Max Stirner. Ad esso contrappone il collettivismo inteso come solidarietà sociale e cooperazione nelle attività produttive. Al Congresso della Lega per la Pace e la Libertà del 1868 a Berna, Bakunin si definì "collettivista" e dichiarò: «Voglio che la società e la proprietà collettiva o sociale siano organizzate dal basso verso l'alto attraverso la libera associazione, e non dall'alto verso il basso per mezzo di una qualsiasi autorità. In questo senso sono un collettivista». Estratto da Trois Conférences faites aux ouvriers du Val de Saint-Imier, maggio 1871. ∞
L’individualismo Dal 1830, il principio borghese ha avuto piena libertà di manifestarsi nella letteratura, nella politica e nell'economia sociale. Lo si può riassumere con una sola parola: individualismo. Per individualismo intendo quella tendenza che – considerando l'intera società, la massa degli individui, come esseri indifferenti l'uno all'altro, come rivali, concorrenti, nemici naturali tra di loro, in una parola, come singoli con cui tutti sono costretti a vivere, ma che ostacolano la strada a ognuno – spinge l'individuo a conquistare e conseguire il proprio benessere, la propria prosperità, la propria felicità a dispetto di tutti e a scapito di tutti. È una corsa a ostacoli, un generale si salvi chi può, dove ognuno cerca di arrivare per primo. Guai ai deboli che si fermano, perché saranno superati. Guai a chi, stanco della fatica, cade per strada, perché verrà subito schiacciato. La concorrenza non ha cuore, non ha pietà. Guai ai vinti! In questa lotta è inevitabile che siano commessi molti crimini; d'altronde, tutto questo scontro fratricida non è che un continuo crimine contro la solidarietà umana, che è la base unica di ogni morale. Lo Stato, che si dice sia il rappresentante e il vendicatore della giustizia, non impedisce che tali crimini siano commessi; al contrario, li perpetua e li legalizza. Ciò che esso rappresenta, ciò che difende, non è la giustizia umana, ma la cosiddetta giustizia legale, che non è altro che la consacrazione del trionfo dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri. Lo Stato esige solo una cosa: che tutti questi crimini siano commessi legalmente. Posso rovinarti, posso schiacciarti, posso ucciderti, ma devo farlo rispettando le leggi dello Stato. Altrimenti vengo dichiarato un criminale e trattato come tale. Questo è il significato di tale principio e di tale parola, individualismo. Ora, vediamo come questo principio si è manifestato nella letteratura, in questa letteratura creata dai Victor Hugo, i Dumas, i Balzac, i Jules Janin e tanti altri autori di libri e articoli sui giornali borghesi, che dal 1830 hanno inondato l'Europa, portando depravazione e risvegliando l'egoismo dei giovani di entrambi i sessi, e purtroppo anche del popolo. Prendete un qualsiasi romanzo: cosa ci trovate, oltre a dei grandi e falsi sentimenti, alle belle frasi? Sempre la stessa cosa. Un giovane è povero, incompreso, misconosciuto; è divorato da ogni sorta di ambizioni e di appetiti. Vorrebbe vivere in un palazzo, mangiare tartufi, bere champagne, guidare una carrozza e avere al suo fianco una bella marchesa. Ci riesce attraverso sforzi eroici e avventure straordinarie, mentre tutti gli altri
soccombono. Ecco l'eroe: puro individualismo. Guardiamo alla politica. Come si esprime quel principio? Le masse, si dice, hanno bisogno di essere guidate, di essere governate; sono incapaci di fare a meno del governo, dal momento che sono incapaci di governare sé stesse. Chi le governerà? Non c'è più alcun privilegio di classe. Ogni individuo ha il diritto di elevarsi alle più alte posizioni e funzioni sociali. Ma per farlo, bisogna essere intelligenti e abili; bisogna essere forti e fortunati; bisogna saperci fare ed essere capaci di prevalere su tutti i rivali. Questa è un'altra corsa a ostacoli: saranno gli individui abili e forti che governeranno e toseranno le masse. Consideriamo adesso questo stesso principio nella questione economica, che è fondamentalmente la principale e si potrebbe dire l'unica. Gli economisti borghesi ci dicono di essere i fautori di una libertà illimitata degli individui e che la concorrenza è la condizione di questa libertà. Ma vediamo di quale libertà si tratta. E innanzitutto, poniamoci una prima domanda: è il lavoro separato, isolato, che ha prodotto e continua a produrre tutta la meravigliosa ricchezza di cui si vanta il nostro secolo? Sappiamo molto bene che non è così. Il lavoro isolato degli individui difficilmente potrebbe sfamare e vestire un piccolo popolo di selvaggi; una grande nazione può diventare ricca e sopravvivere solo attraverso il lavoro collettivo, organizzato in maniera solidale. Poiché il lavoro per la produzione di ricchezza è collettivo, sembrerebbe logico – non è vero? – che anche il godimento di questa ricchezza lo dovrebbe essere. Ebbene, questo è ciò che l'economia borghese non vuole, ciò che l'economia borghese odia. Vuole il godimento isolato degli individui. Ma di quali individui? Forse di tutti? Oh, no, niente affatto. Vuole che a godere sia chi è forte, intelligente, abile, baciato dalla fortuna. Ah, sì, soprattutto questi ultimi. Perché nella sua organizzazione sociale, e in conformità con questa legge sull'eredità che ne è il fondamento principale, nasce una minoranza di individui più o meno ricchi e fortunati, e milioni di esseri umani diseredati e sventurati. Allora la società borghese dice a tutti questi individui: lotta, battiti per ottenere un vantaggio, per conquistarti il benessere, per afferrare la ricchezza, per conquistare il potere politico. I vincitori saranno fortunati. C'è almeno uguaglianza in questa lotta fratricida? No, non ce ne è affatto. Alcuni, i pochi, sono armati dalla testa ai piedi, contando su una istruzione e una ricchezza ereditati, mentre milioni di gente comune si presentano nell'arena quasi nudi, con la loro ignoranza e la loro miseria anch'esse ereditate. Qual è il
risultato inevitabile di questa cosiddetta libera concorrenza? Il popolo soccombe, la borghesia trionfa, e il proletariato incatenato è costretto a lavorare come uno schiavo per il suo eterno vincitore, la borghesia. Il borghese è dotato soprattutto di un'arma contro la quale il proletariato rimarrà sempre senza possibilità di difesa, fino a quando questa arma, il capitale – che è diventato, in tutti i paesi civilizzati, l'agente principale della produzione industriale e il mezzo di nutrimento per il lavoro – sarà rivolto contro di lui. Il capitale, così come è formato e viene appropriato oggi, non solo schiaccia il proletariato, ma mette fuori gioco, espropria e riduce in miseria un numero immenso di borghesi. La causa di questo fenomeno, che la media e piccola borghesia non capisce abbastanza, o che ignora, è invece abbastanza semplice. Per via della concorrenza, di questa lotta all'ultimo sangue che, grazie alla libertà conquistata dal popolo a beneficio della borghesia, regna oggi nel commercio e nell'industria, tutti i produttori sono costretti a vendere i loro beni, o meglio i beni prodotti dai lavoratori che impiegano e che sfruttano, al prezzo più basso possibile. Come sapete per esperienza, oggi i prodotti costosi vengono sempre più spinti fuori dal mercato da prodotti a basso costo, anche se questi ultimi sono molto meno buoni dei primi. Questa è la prima fatale conseguenza di tale concorrenza, di questa lotta interna alla produzione borghese. Essa tende necessariamente a sostituire i prodotti buoni con prodotti mediocri, i lavoratori qualificati con i lavoratori generici. Questo modo di produzione riduce, al tempo stesso, la qualità dei prodotti e quella dei produttori. Il collettivismo L'essere umano non crea volontariamente la società: vi nasce involontariamente. Esso è l'animale sociale per eccellenza. Non può diventare un individuo, cioè un animale che pensa, ama, vuole, se non facendo parte di una società. Immaginate una persona dotata dalla natura delle più brillanti facoltà, gettata fuori da ogni società umana in giovane età, abbandonata in un deserto. Se non perirà miseramente, il che è molto probabile, non sarà altro che un bruto, una scimmia, privo della parola e del pensiero – perché il pensiero è inseparabile dalla parola; nessuno può pensare senza fare riferimento a delle parole [137]. Anche se perfettamente isolati, soli con sé stessi, per pensare dobbiamo usare le parole; possiamo anche avere un'immaginazione rappresentativa delle cose, ma non appena si vuole pensare una cosa, occorre usare le parole, perché solo le parole determinano il pensiero, e danno alle rappresentazioni fugaci, agli istinti, il
carattere del pensiero. Il pensiero non è prima della parola, né la parola prima del pensiero; queste due forme dello stesso atto del cervello umano nascono assieme. Pertanto, non c'è pensiero senza parola. Ma cos'è la parola? È la comunicazione, è la conversazione di un individuo umano con molti altri individui. L'animale uomo diventa un essere umano, cioè un essere pensante, attraverso questa conversazione, e solo in questa conversazione. La sua individualità come essere umano, la sua libertà, è quindi il prodotto del vivere in collettività. L'essere umano non si emancipa dalla pressione tirannica esercitata su ogni individuo dalla natura esterna se non attraverso il lavoro collettivo, perché il lavoro individuale, impotente e sterile, non sarebbe mai in grado, da solo, di vincere la natura. Il lavoro produttivo, quello che ha generato tutta la nostra ricchezza e la nostra civiltà, è sempre stato un lavoro sociale, collettivo, ma finora è stato sfruttato ingiustamente da alcuni singoli individui a spese delle masse lavoratrici. Allo stesso modo, l'educazione e l'istruzione che sviluppano la persona umana, l'educazione e l'istruzione di cui i borghesi sono così orgogliosi, e che concedono con tanta parsimonia alle masse popolari, sono anch'esse i prodotti di tutta la società. Il lavoro e, direi meglio, le tendenze istintive del popolo producono tutto ciò, ma finora solo a beneficio dei borghesi. Si tratta quindi, ancora una volta, di uno sfruttamento del lavoro collettivo da parte di individui che non ne hanno alcun diritto. Tutto ciò che è umano nella persona, e più di ogni altra cosa la libertà, è il prodotto di un’attività sociale e collettiva. Essere liberi in un assoluto isolamento è un'assurdità inventata da teologi e metafisici, che hanno sostituito la società degli esseri umani con quella di un loro fantasma, di Dio. Ognuno, essi dicono, si sente libero alla presenza di Dio, cioè del vuoto assoluto, del Nulla; è dunque la libertà del Nulla, o meglio il Nulla della libertà, la schiavitù. Dio, l'invenzione di Dio, è stata storicamente la fonte morale, o piuttosto immorale, di ogni asservimento [138]. Quanto a noi, che non vogliamo né i fantasmi né il Nulla, ma la realtà umana vivente, noi riconosciamo che l'individuo può sentire e conoscere sé stesso come essere libero – e quindi può realizzare la sua libertà – solo in mezzo ad altri individui. Per essere libero, ho bisogno di vedermi attorniato, e riconosciuto come tale, da altri esseri liberi. Sono libero solo quando la mia personalità, riflessa, come in tanti specchi, nella coscienza altrettanto libera di tutti gli individui che mi circondano, ritorna a me rafforzata dal riconoscimento di tutti.
La libertà di tutti, lungi dall'essere un mio limite, come affermano gli individualisti, è al contrario la conferma, la realizzazione e l'estensione infinita della mia libertà. Volere la libertà e la dignità umana di tutti gli esseri, vedere e sentire la mia libertà confermata, sancita, infinitamente estesa dall'assenso di tutti, ecco la felicità, il paradiso umano sulla terra. Ma questa libertà è possibile solo nell'uguaglianza. Se c'è un essere umano più libero di me, sono destinato a diventare suo schiavo; se io sono più libero di lui, costui sarà il mio servo. Quindi l'uguaglianza è una condizione assolutamente necessaria della libertà [139].
Socialismo di Stato e anarchia Convergenze e divergenze, di Benjamin Tucker
Documento 45 (1888)
Questo testo è stato redatto da Benjamin Tucker come risposta a un invito da parte dell'editore della North American Review di scrivere un articolo sulla concezione anarchica. Fonte: Benjamin Tucker, State Socialism and Anarchism. How far they agree and wherein they differ, Liberty, 10 marzo 1888.
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Con tutta probabilità, nessuna agitazione sociale ha mai raggiunto l’ampiezza, sia per numero di partecipanti che per area di influenza, che ha avuto il socialismo moderno. Al tempo stesso, nessuna è stata così poco compresa e così equivocata non solo da persone ostili e indifferenti, ma anche da simpatizzanti e persino dalla grande massa dei suoi stessi aderenti. Questa situazione, infelice e densa di gravi pericoli, è dovuta in parte al fatto che le relazioni umane che il movimento – se di movimento si può parlare in riferimento a qualcosa di così disorganizzato – si prefigge di trasformare, non riguardano una classe speciale o alcune classi di persone, ma letteralmente l’intera umanità; in parte al fatto che queste relazioni sono infinitamente più varie e complesse nella loro natura di quelle che una qualche riforma del tutto speciale ha mai affrontato; e in parte perché le grandi forze formatrici della società, i canali di informazione e di istruzione sono, quasi esclusivamente, sotto il controllo di coloro i cui interessi immediati di ordine monetario sono opposti alla esigenza di fondo del socialismo, e cioè che il lavoro sia messo nella condizione di essere padrone di sé. Quasi le sole persone che, si può dire, abbiano afferrato in maniera approssimativa il significato, i princìpi e gli scopi del socialismo, sono i capi delle ali estreme delle forze socialiste e, forse, alcuni grandi finanzieri. È questo un tema che, di recente, è diventato abbastanza di moda per il predicatore, il saccente, e i giornalisti pagati su commissione. Per la maggior parte, essi hanno fatto un pessimo lavoro, suscitando lo scorno e la commiserazione di quanti sono in grado di esprimere un giudizio. Che le persone a livello intermedio nel campo dei socialisti non abbiano afferrato completamente il tema è evidente dalla posizione che essi occupano. Se non fosse così, se fossero pensatori coerenti e logici, se fossero quello che i si definiscono persone conseguenti, le loro facoltà raziocinanti li avrebbero da tempo condotti all'uno o all’altro estremo. È un fatto curioso che i due estremi delle vaste schiere che qui si esaminano, sebbene unite, come è stato più sopra accennato, dalla richiesta comune che il lavoro diventi padrone di sé, sono più diametralmente opposti l’un l’altro riguardo ai princìpi fondamentali dell’azione sociale e dei metodi da impiegare per conseguire i fini prefissati di quanto non lo siano rispetto al comune avversario, la società attuale. Questi due estremi si basano su due princìpi, il cui conflitto rappresenta quasi la storia universale sin da quando l’essere umano è apparso sulla scena. E tutti i partiti intermedi, incluso quello dei sostenitori dell’attuale società, poggiano le loro convinzioni su un compromesso tra questi
due estremi. È chiaro allora che qualsiasi opposizione intelligente e ben radicata nei confronti dell’ordine di cose prevalente deve venire dall’uno o dall’altro di questi estremi. Qualsiasi idea che scaturisca da una qualche altra fonte, può rappresentare solo una modifica superficiale dell’esistente, tale da essere del tutto incapace di concentrare su di sé l’attenzione e l’interesse profondi di cui il socialismo moderno gode attualmente. I due princìpi a cui si fa riferimento sono il Potere e la Libertà, e i nomi delle due scuole di pensiero socialista che completamente e senza riserve rappresentano l’una o l’altra di queste scuole sono, rispettivamente, il socialismo di Stato e l’anarchia. Colui che sa quello che queste due scuole vogliono e come si propongono di ottenerlo ha capito la natura del movimento socialista. Infatti, proprio come è stato detto che non c’è via di mezzo tra il i Potere e la Ragione, così si può dire che non vi è via di mezzo tra il socialismo di Stato e l’anarchia. Esistono due correnti che si muovono con regolarità dal centro delle forze socialiste e che si concentrano da una parte o dall’altra. E se il socialismo dovesse prevalere, rientra nel novero delle possibilità il fatto che, dopo che questo movimento di separazione è giunto al suo compimento e l’ordine esistente si è ripartito in questi due campi, l’ultimo e più aspro conflitto sarà ancora a venire. In quel caso, tutti i sostenitori delle otto ore di lavoro, tutti i sindacalisti, tutti i Cavalieri del Lavoro, tutti i nazionalizzatori della terra, tutti i sostenitori dell’espansione monetaria del biglietto verde [140] e, in breve, tutti i membri dei mille e un battaglioni differenti che fanno parte del grande esercito del lavoro, avranno abbandonato i loro posti di battaglia e, dopo essersi schierati da una parte o dall’altra, daranno vita alla grande battaglia. Cosa significhi una vittoria dei socialisti di Stato o degli anarchici è compito di questo scritto illustrarlo in maniera sintetica. Tuttavia, per fare ciò, devo prima descrivere il terreno comune ai due schieramenti, cioè le caratteristiche che fanno di ognuno di loro dei socialisti. I princìpi economici del socialismo moderno sono una deduzione logica dal principio formulato da Adam Smith nei primi capitoli della sua Ricchezza delle Nazioni e cioè che il lavoro è la vera misura del prezzo. Ma Adam Smith, dopo aver espresso questo principio nella maniera più chiara e concisa, ha abbandonato ogni ulteriore precisazione al riguardo per mostrare che cosa, nella realtà dei fatti, costituisca la misura del prezzo e come, perciò, si distribuisca attualmente la ricchezza. A partire da allora, quasi tutti gli economisti politici hanno seguito il suo esempio, limitandosi a descrivere la società come essa è,
nelle sue fasi industriali e commerciali. Il socialismo, invece, estende il suo compito alla descrizione della società come dovrebbe essere, e alla scoperta dei mezzi per far sì che tale lo diventi. Poco più di mezzo secolo dopo che Adam Smith ha enunciato il principio più sopra sottolineato, il socialismo lo ha ripreso là dove Smith lo aveva abbandonato e, portandolo alle sue logiche conclusioni, ne ha fatto la base di una nuova filosofia economica. Sembra che ciò sia stato fatto, indipendentemente da tre persone diverse, di tre diverse nazionalità, in tre lingue diverse: Josiah Warren, un americano; PierreJoseph Proudhon, un se; Karl Marx, un Tedesco di origine ebrea. Che Warren e Proudhon siano arrivati alle loro conclusioni da soli e senza contributi esterni, è certo; ma che Marx non abbia un notevole debito intellettuale nei confronti di Proudhon per quanto riguarda le idee economiche, è discutibile. Comunque sia, la presentazione di Marx delle idee è stata, per molti aspetti, così particolare, che è abbastanza giusto fargli credito di originalità. Che l’attività di questo interessante trio abbia avuto luogo quasi nella stessa epoca parrebbe indicare che il socialismo era nell’aria, e che il tempo era maturo e le condizioni favorevoli per l'emergere di una nuova scuola di pensiero. Riguardo alla priorità temporale, il credito sembra appartenere a Warren, l’Americano – un fatto di cui dovrebbero tener conto gli oratori da comizio a cui piace tanto inveire contro il socialismo come merce d’importazione. Tutt’altro, in quanto questo Warren aveva nelle sue vene purissimo sangue rivoluzionario essendo un discendente del Warren che cadde nella battaglia di Bunker Hill. Partendo dal principio enunciato da Adam Smith che il lavoro è la vera misura del prezzo – o, come espresso da Josiah Warren, che il costo è il riferimento necessario per la fissazione del prezzo – questi tre personaggi hanno ricavato le seguenti deduzioni: - che il salario naturale del lavoratore consiste in quanto è stato da lui prodotto; - che questo salario, o prodotto, è la sola e giusta fonte di reddito (lasciando da parte, naturalmente, doni, eredità, eccetera); - che tutti coloro che ricavano un reddito da qualsiasi altra fonte lo ottengono, direttamente o indirettamente, sottraendolo dal compenso naturale e giusto che spetterebbe al lavoro; - che questo processo di estrazione di reddito prende una di queste tre forme:
interesse, rendita e profitto; - che queste tre forme costituiscono tre modi di praticare l’usura, e sono semplicemente metodi differenti di imporre un tributo per l’impiego del capitale; - che, essendo il capitale puramente lavoro accumulato che ha già ricevuto la sua piena ricompensa, il suo uso dovrebbe essere gratuito, sulla base del principio che il lavoro è il solo fattore per la determinazione del prezzo; - che il prestatore di capitale dovrebbe ottenere la restituzione del suo capitale nella sua integrità, e nulla di più; - che il solo motivo per cui il banchiere, l’azionista, il proprietario fondiario, il fabbricante e il commerciante sono in grado di estrarre un guadagno dal lavoratore risiede nel fatto di avere un privilegio legale o monopolio; - e che la sola maniera di assicurare al lavoratore il pieno godimento dei frutti del suo lavoro, e cioè un salario naturale, consiste nell’eliminare ogni monopolio. Non si deve pensare che Warren, Proudhon o Marx abbiano utilizzato esattamente queste parole, o abbiano seguito precisamente tale linea di pensiero, ma queste affermazioni indicano abbastanza bene la base su cui tutti e tre hanno fondato le loro idee, e la sostanza del loro pensiero, fino a dove esso risultava concorde. E, per non essere accusato di aver presentato in maniera erronea le posizioni e le argomentazioni di questi tre personaggi, mi sia permesso di dire, già fin d’ora, che ho trattato le loro idee a grandi linee, con lo scopo di offrire una visione assai netta e vivida, con dei raffronti e contrasti assai pronunciati. Per questo mi sono anche preso delle libertà nel presentare il loro pensiero, organizzandolo in un certo ordine e, spesso, con una fraseologia tutta mia. Al tempo stesso sono convinto di non avere falsato le loro idee in nessun aspetto particolare. È stato a questo punto – riguardo alla necessità di abbattere il monopolio – che le loro strade si sono separate. Qui il percorso si è differenziato in due direzioni. Questi tre pensatori hanno visto che dovevano andare o da una parte o dall’altra – seguire o il cammino del Potere o quello della Libertà. Marx si indirizzò da una parte; Warren e Proudhon dall’altra. Così nacquero il socialismo di Stato e l’anarchia.
Trattiamo per primo il socialismo di Stato che può essere descritto come la dottrina che tutti gli affari delle persone devono essere gestiti dal governo, senza tenere in alcun conto le scelte individuali. Marx, il suo fondatore, arrivò alla conclusione che il solo modo per abolire i monopoli di classe consisteva nel centralizzare e consolidare tutti gli interessi industriali e commerciali, tutte le agenzie di produzione e di distribuzione, in un grande monopolio nelle mani dello Stato. Il governo deve diventare il banchiere, il fabbricante, l’agricoltore, il trasportatore e il commerciante, e in questi ruoli non avere alcuna concorrenza. La terra, gli attrezzi e tutti gli strumenti di produzione devono essere tolti dalle mani degli individui e dati in proprietà alla collettività. Agli individui possono appartenere solo i prodotti di consumo, non i mezzi per produrli. Una persona può possedere i suoi vestiti e il suo cibo ma non la macchina da cucire che serve a fabbricare la sua camicia o la vanga per scavare le sue patate. I beni prodotti e il capitale sono due cose essenzialmente differenti; i primi appartengono all’individuo, il secondo alla società. La società deve afferrare il capitale che le appartiene, per vie elettorali, se possibile, o attraverso una rivoluzione se non c’è altro modo. Una volta in possesso del capitale, lo deve amministrare sulla base del principio di maggioranza, attraverso il suo organo, lo Stato, e lo deve utilizzare nella produzione e distribuzione dei beni, e stabilire tutti i prezzi sulla base della quantità di lavoro in essi contenuto, e occupare tutti nelle sue officine, fattorie, empori, eccetera. La nazione deve essere trasformata in una vasta burocrazia e ogni individuo in un dipendente statale. Tutto deve essere prodotto sulla base del principio del costo, non avendo più le persone ragione alcuna di ottenere un profitto per sé. Non essendo permesso alle persone di possedere del capitale, nessuno può impiegare un’altra persona o operare in maniera autonoma. Ognuno sarà un salariato e lo Stato sarà l’unico datore di lavoro. Colui che non lavora per lo Stato è destinato a morire di fame o, più probabilmente, finirà in prigione. Qualsiasi libertà di commercio sarà abolita. La concorrenza sarà cancellata completamente. Tutte le attività industriali e commerciali saranno concentrate e centralizzate in un vasto, enorme, onnicomprensivo monopolio. Il rimedio per i monopoli è il monopolio. Questo è il programma economico del socialismo di Stato che si ricava da Karl Marx [141]. La storia del suo sviluppo e progresso non può essere qui raccontata. Negli Stati Uniti i partiti che sostengono questo programma sono noti sotto varie denominazioni: il Partito Socialista del Lavoro, che pretende di seguire le indicazioni di Karl Marx; i nazionalisti, che seguono Karl Marx filtrato attraverso Edward Bellamy [142]; e i socialisti cristiani, che seguono
Karl Marx filtrato attraverso Gesù Cristo. Quali altre misure si svilupperanno, una volta che il principio di una Autorità Dominante sarà adottato nella sfera economica, è del tutto evidente, e cioè il controllo assoluto, da parte della maggioranza, sulla condotta di tutti gli individui. Il diritto di esercitare questo controllo è già dato per scontato dai socialisti di Stato, sebbene essi sostengano che, in realtà, all’individuo sarebbe concessa una sfera di libertà più ampia di quanto non abbia attualmente. Ma questo fatto risulterebbe come concessione dall’alto e non come esigenza imprescindibile della persona. La società non sarebbe fondata sulla base della garanzia per tutti della massima libertà possibile. Questa libertà, quand’anche ci fosse, esisterebbe solo dopo un lungo processo di sofferenze e potrebbe essere cancellata in ogni momento. Le garanzie costituzionali non avrebbero alcun valore. Ci sarebbe un unico articolo nella costituzione di un paese a socialismo di Stato: “Il diritto della maggioranza è assoluto”. L’affermazione, da parte dei socialisti di Stato, che questo diritto non si eserciterebbe nelle questioni che concernono l’individuo nelle relazioni più intime e personali della sua vita, non è suffragata dalla esperienza storica dei governi. La tendenza costante del potere è di accrescersi, di allargare la sua sfera di intervento, di sconfinare oltre i limiti che gli sono stati assegnati. E laddove la tendenza a opporre resistenza a tali invasioni non è coltivata, e l’individuo non apprende a essere geloso dei suoi diritti, l’individualità scompare gradualmente e il governo o Stato diventa onnipotente. Il controllo si associa naturalmente alla responsabilità. Quindi, sotto il sistema del socialismo di Stato che considera la comunità responsabile per il benessere fisico, materiale e morale del singolo, è evidente che la comunità, attraverso l’espressione della maggioranza, insisterà sempre più nel prescrivere le condizioni che apportano tale benessere fisico, materiale e morale, compromettendo e alla fine distruggendo l’indipendenza degli individui e con essa ogni senso di responsabilità personale. Quindi, qualunque cosa i socialisti di Stato possano affermare o negare, il loro sistema, se adottato, è destinato a finire in un culto dello Stato, a cui tutti devono dare il loro contributo e al cui altare tutti devono inginocchiarsi; una medicina di Stato, i cui praticanti saranno gli unici a trattare i malati, senza alcuna possibilità di scelta; un sistema statale di igiene che prescriverà a tutti quello che devono o non devono mangiare, bere, indossare e fare; un codice statale di comportamento morale che non si accontenterà di punire il crimine, ma punirà anche quello che la maggioranza delle persone deciderà essere un vizio; un sistema statale di
istruzione che chiuderà tutte le scuole non istituite dallo Stato, le accademie, le università; un asilo materno statale in cui tutti i bambini saranno allevati in comune, a carico di tutti; e, per finire, una famiglia statale e un tentativo di ingegneria genetica o accoppiamento scientifico in base al quale a nessun uomo o donna sarà permesso di avere dei bambini se lo Stato glielo vieta e nessun uomo o donna potrà rifiutarsi di avere figli se lo Stato glielo ordina. In questo modo il Potere raggiunge il suo apice e il Monopolio consegue il suo massimo dominio. Questo è l’ideale che anima la logica del socialista di Stato, questo è l’obiettivo da raggiungere al termine del cammino intrapreso da Karl Marx. Vediamo adesso di seguire le orme di Warren e Proudhon che hanno preso l’altra via, la via della Libertà. Questo esame ci porta alla concezione anarchica che può essere descritta come la dottrina che tutti gli affari degli esseri umani dovrebbero essere gestiti dagli individui o da associazioni volontarie, e che lo Stato dovrebbe essere abolito. Quando Warren e Proudhon, nel corso della loro ricerca della giustizia per i lavoratori, individuarono l’ostacolo rappresentato dai monopoli di classe, essi videro che questi monopoli poggiavano sul Potere, e arrivarono alla conclusione che ciò che doveva essere fatto non era rafforzare questo Potere e rendere quindi il monopolio universale, ma eliminare completamente, alla radice, il Potere e dare pieno corso al principio opposto, cioè la Libertà, diffondendo dappertutto l’emulazione-competizione che è l’antitesi del monopolio. Essi videro nella competizione lo strumento massimo per ridurre i prezzi ai costi di produzione in termini di lavoro. In questo si trovavano d’accordo con gli economisti classici. La domanda che nasceva allora spontaneamente è: perché tutti i prezzi non scendono a livello del costo del lavoro? come mai c’è spazio per un guadagno ottenuto al di fuori di un lavoro produttivo? in una parola, perché esiste l’usuraio, colui che riceve l’interesse, la rendita e il profitto? La risposta fu trovata nell’attuale forma di concorrenza a senso unico. Si scoprì che il capitale ha manipolato a tal punto l’apparato legislativo che una concorrenza illimitata è permessa solo nella fornitura di lavoratori produttivi, il che fa sì che i salari siano mantenuti, per quanto possibile, estremamente bassi, a livello di sopravvivenza; e che una notevole concorrenza è permessa anche nell’ambito commerciale e cioè nel lavoro dei venditori di commercio, abbassando così non i prezzi dei beni ma i profitti effettivi dei commercianti che ammontano quasi solo
a un salario abbastanza decente. Invece, la concorrenza è quasi del tutto assente nella fornitura di capitali, da cui dipendono i lavoratori dell’industria e del commercio per le loro possibilità di riuscita, mantenendo così, al livello più alto sostenibile dal pubblico, sia il tasso di interesse sul denaro che la rendita sulle abitazioni e sui terreni. A seguito di questa scoperta, Warren e Proudhon rimproverarono gli economisti classici di essere stati timorosi del loro stesso insegnamento. Gli esponenti della scuola di Manchester furono accusati di incoerenza. Essi credevano nella libertà di concorrenza tra i lavoratori al fine di ridurre i salari, ma non nella libertà di concorrenza tra i capitalisti al fine di ridurre i ricavi usurai. Laissez-Faire era una salsa molto buona per le oche, i lavoratori, ma non molto adatta per il maschio dell’oca, il capitale. Ma come correggere questa incoerenza, come servire anche al papero questa salsa, come mettere il capitale al servizio degli imprenditori e dei lavoratori a livello di costo, vale a dire, senza guadagni usurai. Questo era il problema. Marx, come abbiamo visto, lo ha risolto dichiarando il capitale cosa diversa dal prodotto e ritenendo che esso appartenga alla società e che dovrebbe essere posto sotto il controllo della società e utilizzato a vantaggio di tutti. Proudhon ha rigettato questa distinzione tra capitale e prodotto. Ha sostenuto che il capitale e il prodotto non sono tipi differenti di ricchezza ma semplicemente condizioni o funzioni alternative della stessa ricchezza; che ogni ricchezza a attraverso trasformazioni continue da capitale a prodotto e da prodotto a capitale, in un processo che si ripete senza fine; che il capitale e il prodotto sono solo termini di uso sociale; che quello che rappresenta il prodotto per una persona diventa immediatamente capitale per un’altra persona, e viceversa; che se esistesse una sola persona al mondo, tutta la ricchezza sarebbe per lui al tempo stesso capitale e prodotto; che il frutto delle fatiche di A è il suo prodotto che, quando è venduto a B, diventa il suo capitale (a meno che B non sia un consumatore improduttivo, nel qual caso si tratta puramente di ricchezza sprecata, che non rientra nell’ambito della economia sociale); che un battello a vapore è un prodotto così come lo è un cappotto, e che un cappotto è un capitale come lo è un battello a vapore; e che le stesse regole di equità si applicano al possesso dell’uno e dell’altro. Per queste e altre ragioni Proudhon e Warren si trovarono nell’incapacità di sanzionare un qualche piano di esproprio del capitale da parte della società. Ma, sebbene contrari a socializzare la proprietà del capitale, essi miravano
nondimeno a socializzarne gli effetti rendendo il suo impiego benefico per tutti invece che un mezzo atto a impoverire molti e arricchire pochi. E quando si verificò la scintilla nelle loro menti, essi videro che la socializzazione degli effetti benefici sarebbe potuta avvenire sottoponendo il capitale alla legge naturale della concorrenza, abbassando così il suo prezzo a livello di costo – e cioè, nulla di più oltre le spese di gestione, vale a dire di registrazione e trasferimento del capitale. Per questo alzarono il vessillo del Libero Commercio Universale: libero commercio all’interno e all’esterno di ogni paese. Essi attuavano pienamente i dettami della scuola di Manchester, facendo del laissezfaire una regola universale. Sotto questa bandiera iniziarono la loro lotta ai monopoli, sia che fosse il monopolio che tutto include, sostenuto dai socialisti di Stato, che i vari monopoli di classe che dominano attualmente. Per quanto riguarda questi ultimi, essi ne distinsero quattro di particolare rilievo: – il monopolio del denaro – il monopolio della terra – il monopolio delle tariffe – il monopolio dei brevetti Primo tra tutti, quanto a influenza nociva, essi hanno ritenuto che fosse il monopolio del denaro, che consiste nel privilegio, concesso dal governo a taluni individui o a talune persone che dispongono di un certo tipo di proprietà, di emettere moneta circolante, un privilegio che è adesso legalmente imposto in questo paese applicando una tassa del dieci per cento su tutti coloro che tentassero di immettere altre monete circolanti, e attraverso leggi statali che giudicano un crimine emettere banconote. Si sostiene che coloro che godono del privilegio monetario controllano il tasso di interesse, il tasso della rendita di case e immobili, e il prezzo dei beni – il primo direttamente, il secondo e il terzo indirettamente. E questo perché, affermano Proudhon e Warren, se l’attività bancaria fosse di libero accesso per tutti, un numero crescente di persone vi prenderebbero parte fino a quando la concorrenza diventerebbe così accesa da ridurre il prezzo di prestare denaro al livello del costo della semplice attività di prestito, e le statistiche mostrano che questo sarebbe tra lo 0,75 e l’1%. In questo caso, migliaia di individui che sono scoraggiati dall’avviare una attività a causa dei tassi di interesse rovinosamente alti che devono pagare per ottenere del
capitale, vedrebbero rimosse le loro difficoltà al riguardo. Se essi hanno una proprietà che non desiderano convertire in denaro attraverso la vendita, una banca potrebbe prenderla come collaterale per un prestito di un certo ammontare del suo valore di mercato, a un tasso di sconto di meno dell’uno per cento. Se non hanno proprietà ma sono industriosi, onesti e capaci, essi sarebbero generalmente in grado di raccogliere attestati di garanzia da parte di un numero sufficiente di altri individui conosciuti che dispongono di risorse proprie; e su tale base sarebbero in grado di ottenere un prestito da una banca a condizioni favorevoli. Allora, l’interesse si ridurrebbe di colpo. In realtà le banche non presterebbero affatto del capitale, ma gestirebbero il capitale dei loro clienti, e la loro attività consisterebbe in uno scambio tra i crediti noti e ampiamente disponibili delle banche e i crediti, non noti e non disponibili, ma ugualmente sicuri, dei clienti. Per svolgere questa attività, le banche applicherebbero un prelievo di meno dell’uno per cento, non come interesse per l’uso del capitale ma come costi di amministrazione. La facilità di dotarsi di capitale darebbe un impulso mai visto alla produzione e, di conseguenza, creerebbe una domanda senza precedenti di lavoro – una domanda che sarebbe sempre in eccesso dell’offerta, in netto contrasto con la situazione attuale del mercato del lavoro. Allora vedremmo attuato quanto sostenuto da Richard Cobden [143], che quando due lavoratori si offrono a un datore di lavoro i salari diminuiscono, ma quando due datori di lavoro si disputano un lavoratore, allora i salari crescono. I lavoratori sarebbero quindi nella posizione di chiedere un certo salario, e riuscirebbero ad assicurarsi una remunerazione naturale e cioè l’intero prodotto. Quindi, lo stesso procedimento che farebbe abbassare il tasso di interesse sul denaro, farebbe innalzare i salari. Ma non è tutto. Si ridurrebbero anche i profitti. Infatti, i commercianti, invece di comperare a credito pagando prezzi elevati, prenderebbero in prestito del denaro dalle banche a meno dell’uno per cento, comprerebbero a prezzi bassi pagando in contanti, e di conseguenza ridurrebbero il prezzo dei beni per i loro clienti. E così sarebbe anche per l’affitto delle case. Perché nessuno che può prendere in prestito del capitale all’uno per cento per costruirsi una propria casa accetterebbe di pagare un affitto elevato. Questo è quanto Proudhon e Warren hanno sostenuto come risultato della semplice abolizione del monopolio monetario. Secondo in importanza è il monopolio sulla terra, i cui effetti nocivi si vedono soprattutto in paesi esclusivamente agricoli come l’Irlanda. Questo monopolio consiste nella garanzia data dal governo a titoli di proprietà che non risultano in una occupazione e coltivazione personale della terra. Era ovvio a Warren e a Proudhon che solo quando le persone non saranno più protette dal potere come
proprietari terrieri, a meno che non utilizzino e coltivino direttamente la terra, solo allora scomparirà l’affitto dei suoli e i guadagni usurai avranno una base di meno su cui reggersi. I loro attuali sostenitori sono inclini a modificare questa richiesta ammettendo che una assai modesta frazione di rendita fondiaria che poggia, non sul monopolio, ma sulla maggiore fertilità del terreno o attrattiva del sito, continuerà a esistere per un certo periodo di tempo, e forse per sempre, sebbene tenda costantemente a ridursi al minimo in presenza di condizioni di libertà. Ma la disparità produttiva dei terreni che origina la rendita economica, come i differenti livelli di capacità produttiva degli esseri umani che dà luogo alla rendita economica derivante dall’abilità personale, non costituiscono motivo di allarme nemmeno per i più accaniti avversari del guadagno usuraio. Non si tratterebbe infatti di un germe che produce altre e più gravi disuguaglianze, ma piuttosto di un ramo che perde progressivamente le forze e che alla fine diventa secco e cade. Il terzo tipo di monopolio è quello tariffario. Esso consiste nel fatto di promuovere delle produzioni a prezzi più elevati e in condizioni sfavorevoli e di imporre delle tasse su coloro che producono a prezzi più bassi e in condizioni migliori. Il danno che questo monopolio causa potrebbe essere definito malusura piuttosto che usura, in quanto costringe i lavoratori a pagare, non proprio per l’uso del capitale ma per il suo cattivo uso. L’abolizione di questo monopolio risulterebbe in una notevole diminuzione dei prezzi di tutti i beni sottoposti a tassazione, e il risparmio per i lavoratori che consumano questi beni rappresenterebbe un altro o per assicurare ai lavoratori il loro salario naturale e cioè l’intero prodotto. Proudhon ammetteva tuttavia che l’abolizione di questo monopolio, prima di quella del monopolio monetario, porterebbe a esiti dolorosi e disastrosi, in primo luogo perché gli effetti negativi della scarsità di denaro, generati dal monopolio monetario, sarebbero intensificati dal deflusso di denaro fuori del paese se le importazioni eccedessero le esportazioni; e in secondo luogo, perché quella quota di lavoratori che è adesso impiegata nelle industrie protette sarebbe mandata allo sbando, in assenza di quella domanda insaziabile di lavoratori che un sistema monetario concorrenziale genererebbe. Proudhon sottolineava il fatto che la libertà monetaria all’interno del paese, che avrebbe reso il denaro e la richiesta di lavoro abbondanti, doveva essere introdotta prima di attuare la libertà di commercio con altri paesi. Il quarto monopolio, quello dei brevetti, consiste nel proteggere gli inventori e
gli autori contro ogni concorrenza per un periodo abbastanza lungo da permettere loro di estorcere dalle persone guadagni di gran lunga eccessivi rispetto al contenuto, in termini di lavoro, dei servizi offerti. Questo avviene, in altre parole, quando si concedono a taluni individui, e per un certo numero di anni, diritti di proprietà su leggi e fatti della Natura, e il potere di pretendere da altri un pagamento per l’uso di questa ricchezza esistente in natura che dovrebbe essere a disposizione di tutti. L’abolizione di questo monopolio incuterebbe ai suoi beneficiari una tale paura della concorrenza che li porterebbe a essere contenti di ottenere per i loro servizi quello che altri lavoratori ottengono per i loro; e ciò li indurrebbe a porre sul mercato, fin dall’inizio, i loro prodotti e le loro attività a prezzi così bassi che i potenziali concorrenti non sarebbero tentati di entrare in quel campo di produzione più che in altri campi. Lo sviluppo del programma economico, che consiste nella eliminazione di questi monopoli e nella sostituzione al loro posto della più ampia competizione, ha condotto i sostenitori di questa idea a rendersi conto che tutti i loro pensieri poggiavano su un principio fondamentale, e cioè la libertà dell’individuo, il suo diritto a essere padrone di sé stesso, di quanto da lui prodotto, dei suoi affari, e la ribellione contro le imposizioni di un potere esterno. Proprio come l’idea di sottrarre i mezzi di produzione agli individui e affidarli in proprietà e gestione al governo ha condotto Marx a fare del governo una entità totalizzante e dell’individuo una nullità, così l’idea di togliere i mezzi di produzione dalle mani di monopoli protetti dal governo e di metterli a disposizione di tutti gli individui ha portato Warren e Proudhon sulla strada che ha come meta ultima la valorizzazione piena degli individui e la riduzione a zero del governo. Se l’individuo ha il diritto di autogovernarsi, allora ogni governo a lui esterno costituisce una tirannia. Da qui la necessità di abolire lo Stato. Questa era la logica conclusione a cui furono indotti a giungere sia Warren che Proudhon, e ciò divenne l’articolo fondamentale della loro filosofia politica. In questo consiste la concezione che Proudhon chiamò anarchia, un termine che deriva dal Greco e che non significa assenza di ordine, come si suppone in genere, ma assenza di dominio. Gli anarchici sono semplicemente dei Democratici alla Jefferson che non hanno paura di arrivare alle conseguenze estreme di quanto da lui sostenuto. Essi sono convinti che “il governo migliore è quello che governa meno”, e che quello che governa meno non è affatto un governo. Anche i semplici compiti di proteggere le persone e le proprietà non sono, secondo loro, da affidarsi a un governo che si regge sulla tassazione imposta a tutti. Essi ritengono che la protezione, per tutto
il tempo che sia necessaria, deve essere assicurata attraverso associazioni volontarie e per mezzo della comune auto-difesa, o come un bene da acquistarsi, come ogni altro bene, da coloro che offrono quel prodotto a migliore qualità e al miglior prezzo. Secondo loro costituisce una ingerenza nei confronti dell’individuo obbligarlo a pagare o a sopportare una protezione che egli non ha richiesto e che non desidera. Inoltre, essi affermano che la protezione diventerà una merce poco richiesta dopo che la miseria e i crimini che ne derivano saranno scomparsi attraverso la realizzazione del loro programma economico. L’imposizione fiscale è ai loro occhi la fonte di tutti i monopoli, ed essi giudicano che una resistenza iva ma organizzata contro la spoliazione fiscale, quando arriverà il momento opportuno per attuarla, sarà uno dei mezzi più efficaci per raggiungere i loro scopi. Il loro atteggiamento nei riguardi di tale problema è un indice chiaro della loro posizione su tutte le altre questioni di natura politica o sociale. Con riferimento alla religione essi sono atei, per quanto li riguarda, dal momento che ritengono l’autorità divina e la sanzione morale della religione come dei pretesti inventati dalle classi privilegiate per esercitare il loro potere umano. “Se Dio esiste”, ha detto Proudhon, “egli è il nemico dell’essere umano”. E, in contrasto con la frase celebre di Voltaire, “Se Dio non esistesse, sarebbe necessario inventarlo”, il grande nichilista Russo, Mikhail Bakunin, formulò questa proposizione opposta: “Se Dio esistesse, sarebbe necessario abolirlo”. Ma, sebbene gli anarchici vedano nella gerarchia divina un fatto contraddittorio rispetto all’anarchia, e non credano in essa, tuttavia sono fermamente a favore della libertà di professare una religione e per questo si oppongono decisamente a qualsiasi negazione della libertà religiosa. E come sostengono il diritto per ogni individuo di scegliersi il suo prete, così essi sostengono l’identico diritto di essere o di scegliersi il proprio medico. Nessun monopolio nell’ambito della teologia, nessun monopolio nell’ambito della medicina. Emulazione-competizione, sempre e dappertutto. I consigli spirituali come quelli medici devono reggere o cadere sulla base del merito. E non solo in medicina, ma anche in igiene, occorre seguire il principio della libertà. L’individuo deve decidere da sé non solo il da farsi per ritornare in buona salute, ma anche il da farsi per mantenersi in buona salute. Nessun potere esterno gli deve imporre quello che deve o non deve mangiare, bere, indossare o fare.
Nell’ambito dell’anarchia non esiste affatto un qualche schema che fornisca un codice morale da imporre agli individui. “Pensa a come condurre la tua vita” è la sola regola morale. L’ingerenza nella vita di un altro è l’unico e solo crimine, e in quanto tale bisogna opporsi ad esso con i mezzi appropriati. In sintonia con questa visione, gli anarchici considerano tutti i tentativi di sopprimere i vizi personali come dei crimini. Essi ritengono che la libertà e il benessere sociale che ne consegue costituiranno una cura certa per tutti i vizi. Per questo riconoscono il diritto del beone, del giocatore d’azzardo, del libertino e della donna di facili costumi, di vivere come sta bene a loro, fino a quando non decideranno liberamente di cambiar vita. Per quanto riguarda il mantenimento e l’educazione dei bambini, gli anarchici non vorrebbero né istituire quegli asili-nido comunitari tanto cari ai socialisti di Stato, né mantenere quel sistema scolastico imposto a tutti, che prevale al giorno d'oggi. La maestra e l’insegnante, come il dottore e il prete, devono essere scelti liberamente, e i loro servizi devono essere retribuiti da coloro che li utilizzano. Le prerogative dei genitori non devono essere loro sottratte, e le responsabilità parentali non devono essere assegnate ad altri. Anche in una faccenda così delicata come i rapporti tra i sessi, gli anarchici non si sottraggono all’applicazione del loro principio. Essi riconoscono e difendono il diritto di un uomo e una donna, o di uomini e donne, di amarsi per tutto il tempo, lungo o corto, che essi possono, vogliono o desiderano. Per essi il matrimonio e il divorzio a norma di legge sono due pari assurdità. Essi immaginano un tempo in cui ogni individuo, sia uomo che donna, sarà autonomo e indipendente, e quando ognuno avrà una sua propria abitazione, sia essa un alloggio separato o delle stanze in una abitazione condivisa con altri; quando le relazioni d’amore tra questi individui indipendenti saranno varie così come lo sono le inclinazioni e le attrazioni; e quando i bambini, nati da queste relazioni, apparterranno alle loro madri fino a quando non saranno abbastanza maturi da appartenere a sé stessi. Queste sono le caratteristiche principali dell’ideale sociale degli anarchici. Vi è un’ampia differenza di opinioni tra di essi riguardo al metodo migliore per attuare tali idee. Non vi è tempo per trattare qui questo tema. L’unica cosa su cui vorrei richiamare l’attenzione è il fatto che l’anarchia è un ideale antitetico a quello dei comunisti che si definiscono anarchici e che invocano al tempo stesso un regime basato su un centro coordinatore che sarebbe dispotico come quello che vogliono i socialisti di Stato. Ed è un ideale che né le idee di Kropotkin
farebbero avanzare né gli spazzoloni di certe Mrs. Partingtons [144] che, utilizzando la legge, mandano gli anarchici in prigione, farebbero ritardare. Un ideale che i martiri di Chicago [145] hanno contribuito a diffondere più con la loro tragica morte sul patibolo per la causa comune del socialismo che attraverso una sfortunata propaganda quando erano in vita; una propaganda basata sull’idea della forza come agente della rivoluzione e del potere come salvaguardia del nuovo ordine sociale. Gli anarchici credono nella libertà sia come fine che come mezzo, e si oppongono a qualsiasi cosa la contrasti. Non avevo l’intenzione di sintetizzare questa già molto breve esposizione del socialismo dal punto di vista della concezione anarchica se questo compito non fosse già stato effettuato da un brillante giornalista e storico se, Ernest Lesigne [146], sotto forma di una serie di nitide antitesi. Sottoponendole alla vostra lettura come conclusione di questo mio scritto spero di mettere ancora meglio in risalto la visione che ho cercato di trasmettervi. Ci sono due socialismi. L’uno comunista, l’altro mutualista. L’uno dittatoriale, l’altro libertario. L’uno metafisico, l’altro positivo. L’uno dogmatico, l’altro scientifico. L’uno emotivo, l’altro riflessivo. L’uno distruttivo, l’altro costruttivo. Entrambi si prefiggono il massimo benessere per tutti. L’uno si propone di conquistare la felicità per tutti, l’altro di permettere a ciascuno di essere felice a modo suo. Il primo vede lo Stato come una società di tipo particolare, composta di una essenza speciale, il prodotto di una sorta di diritto divino al di fuori e al di sopra
di tutta la società, con prerogative sue proprie e capace di esigere una obbedienza perfetta; il secondo considera lo Stato come una associazione alla pari di molte altre, gestita di solito peggio delle altre. Il primo proclama la sovranità dello Stato; il secondo non riconosce alcun tipo di sovrano. L’uno vorrebbe che tutti i monopoli fossero proprietà dello Stato; l’altro vorrebbe l’abolizione di tutti i monopoli. L’uno vorrebbe che la classe subordinata diventasse classe di governo; l’altro vorrebbe la scomparsa di tutte le classi. Entrambi dichiarano che l’attuale stato di cose non può durare. Il primo considera la rivoluzione come l’agente indispensabile dell’evoluzione. Il secondo insegna che è la repressione che trasforma l’evoluzione in rivoluzione. Il primo ha fede in un cataclisma sociale. Il secondo sa che il progresso sociale è il risultato del libero gioco degli sforzi individuali. Entrambi capiscono che stiamo entrando in una nuova fase storica. L’uno vorrebbe che non ci fossero che proletari. L’altro vorrebbe che non ci fossero più proletari. Il primo vorrebbe prendere tutto da tutti. Il secondo vorrebbe lasciare ognuno in possesso del suo. L’uno vorrebbe espropriare tutti. L’altro vorrebbe che ognuno fosse un proprietario. L’uno afferma: “Agisci come vuole il governo”. L’altro dice: “Fai come vuoi tu”. L’uno minaccia di usare provvedimenti dispotici. L’altro promette la libertà. L’uno rende i cittadini soggetti allo Stato. L’altro rende lo Stato un impiegato dei
cittadini. L’uno proclama che i dolori del parto saranno necessari per la nascita di un nuovo mondo. L’altro dichiara che il vero progresso non caà sofferenze per alcuno. Il primo ripone la sua fiducia nella guerra sociale. L’altro crede solo nelle attività di pace. L’uno aspira a dirigere, regolare, legiferare. L’altro vorrebbe che ci fosse il minimo di direttive, regole, leggi. L’uno scatenerebbe la più atroce delle reazioni. L’altro aprirebbe orizzonti illimitati di progresso. L’uno fallirà; l’altro avrà successo. Entrambi desiderano l’uguaglianza. L’uno abbassando le teste che sono arrivate troppo in alto. L’altro innalzando le teste che sono rimaste troppo in basso. L’uno vede l’eguaglianza come un giogo comune. L’altro vuole ottenere l’eguaglianza in presenza di una piena libertà. L’uno è intollerante, l’altro tollerante. L’uno spaventa, l’altro rassicura. Il primo vorrebbe dare l’istruzione a tutti. L’altro vorrebbe consentire a tutti di istruirsi autonomamente. Il primo vorrebbe mantenere tutti. Il secondo vorrebbe che tutti avessero l’opportunità di mantenersi da sé. L’uno dice: La terra allo Stato. Le miniere allo Stato.
I macchinari allo Stato. La produzione allo Stato. L’altro dice: La terra agli agricoltori. La miniera ai minatori. I macchinari ai lavoratori. La produzione ai produttori. Ci sono solo questi due socialismi L’uno rappresenta l’infanzia del socialismo; l’altro la sua età matura. L’uno è già il ato; l’altro è il futuro. L’uno cederà il posto all’altro. Adesso ognuno di noi deve fare la sua scelta per l’uno o l’altro di questi due socialismi, oppure riconoscere apertamente di non essere socialista.
Perché siamo anarchici comunisti?, di Élisée Reclus
Documento 46 (1889)
Le ragioni e gli ideali che portano un grande geografo a essere un anarchico comunista. Fonte: Élisée Reclus, Pourquoi nous sommes anarchistes?, articolo apparso nel periodico La Société Nouvelle, anno 5, 1889.
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Le poche linee che seguono non costituiscono affatto un programma. Esse non hanno altro scopo se non quello di far vedere l’utilità che avrebbe l'elaborazione di un progetto di programma che sarebbe sottomesso allo studio, all’osservazione e alle critiche di tutti i rivoluzionari comunisti. Nel frattempo, queste note forse racchiudono una o due considerazioni che potrebbero trovare posto nel progetto programmatico che ritengo necessario. Noi siamo dei rivoluzionari perché vogliamo la giustizia mentre vediamo regnare dappertutto intorno a noi l’ingiustizia. Vediamo ad esempio che ciò che viene prodotto è distribuito in ragione inversa al contributo lavorativo dato da ognuno alla produzione. L’ozioso ha tutti i diritti, anche quello di affamare i suoi simili, mentre il lavoratore non ha neanche il diritto di morire di fame in santa pace. Infatti, lo si mette in prigione quando lo si ritiene colpevole di sciopero. Persone che si dicono religiose cercano di far credere ai miracoli in modo da asservire le menti. Altri che si dicono re si proclamano sovrani per grazia divina per essere a loro volta padroni di tutto. Altre persone ancora, al servizio del potere, fanno a pezzi, infilzano con le loro sciabole e fucilano senza alcuno scrupolo. Degli individui rivestiti di una toga nera, e che si proclamano supremi amministratori della giustizia, condannano il povero e assolvono il ricco, e assai di sovente trafficano sia con le condanne che con le assoluzioni. Dei commercianti vendono alimenti che avvelenano invece di nutrire; essi ammazzano al dettaglio invece di uccidere in massa, e così facendo diventano degli onorati capitalisti. Un pacco di denaro, ecco chi è il padrone, e colui che lo possiede tiene in suo pugno i destini di altri esseri umani. Tutto ciò ci appare infame e noi vogliamo cambiarlo. Contro l’ingiustizia noi facciamo appello alla rivoluzione. Ma “la giustizia non è che una parola, una pura convenzione”, ci viene detto. Ciò che esiste è il diritto del più forte! Ebbene, se le cose stanno così, noi non siamo da meno rivoluzionari. Delle due cose l’una: o la giustizia è un ideale umano, e allora lo rivendichiamo per tutta l’umanità, oppure è soltanto la forza che governa le società, e in questo caso noi impiegheremo la forza contro i nostri nemici. O la libertà degli uguali o la legge del taglione [147]. Ma perché affrettarsi, ci dicono quelli che, per evitare di agire in prima persona, attendono tutto dal trascorrere del tempo. La lenta evoluzione delle cose sarà sufficiente; la rivoluzione fa paura a costoro. Tra loro e noi la storia ha già
pronunciato il suo verdetto. Giammai alcun progresso, sia parziale che generale, si è mai realizzato per semplice evoluzione del tutto pacifica, ma si è sempre compiuto attraverso una rivoluzione improvvisa. Se il lavoro di preparazione avviene con lentezza, all’interno degli animi delle persone, la realizzazione finale delle idee ha luogo in maniera brusca. L’evoluzione prende forma nel cervello, e poi sono le azioni che fanno la rivoluzione. E come portare a compimento questa rivoluzione che vediamo prepararsi lentamente nella società e per la cui realizzazione noi operiamo con tutte le nostre energie? Mettendoci forse assieme per gruppi assoggettati gli uni agli altri? Prendendo forse a modello il mondo borghese che noi combattiamo, e costituendo un insieme gerarchico con i suoi capi responsabili e i suoi subordinati privi di responsabilità, utilizzati come strumenti nelle mani di una guida suprema? Dovremmo allora cominciare ad abdicare alla nostra libertà al fine di diventare liberi? No, niente affatto, perché noi siamo anarchici, vale a dire individui che vogliono avere la piena responsabilità dei loro atti, che agiscono in virtù dei loro diritti e dei loro doveri che sono inerenti alla persona umana, diritti e doveri che contribuiscono allo sviluppo naturale di ciascun essere e che non ammettono né di avere un padrone né di comportarsi da padroni. Noi vogliamo districarci dalla morsa dello Stato, non avere al di sopra di noi degli esseri superiori che possano comandarci e imporci il loro volere. Noi vogliamo spezzare qualsiasi legge a noi esterna pur attenendoci allo svolgimento consapevole delle leggi morali interne che fanno parte integrante della nostra natura umana. Sopprimendo lo Stato sopprimiamo anche qualsiasi traccia di una morale ufficiale, sapendo fin dall’inizio che non vi può essere moralità nell’obbedire a leggi insensate, a pratiche di cui non si cerca neanche più il significato. La morale può esistere solamente in una condizione di libertà. Ed è anche solo attraverso la libertà che il rinnovamento è possibile. Noi vogliamo preservare il nostro spirito aperto, disponibili fin da adesso a qualsiasi progresso, a qualsiasi idea nuova, a qualsiasi iniziativa generosa. Ma, se noi siamo anarchici, i nemici di ogni padrone, noi siamo anche comunisti internazionalisti, perché siamo consapevoli che l’esistenza umana è impossibile senza l’associarsi in gruppi. Isolati, non siamo in grado di fare nulla, mentre attraverso l’unione fraterna possiamo trasformare il mondo. Noi ci associamo in
quanto esseri umani liberi e uguali, che operano per un progetto comune, regolando i nostri rapporti attraverso la pratica della giustizia e del rispetto reciproci. Gli odi di tipo religioso o nazionalistico non ci possono dividere, perché lo studio della natura è la nostra unica religione e per noi il mondo intero è la nostra patria. Per quanto riguarda l’origine delle violenze e delle meschinità, esse cesseranno di operare nei nostri rapporti. La terra diventerà proprietà di tutti, le barriere e i confini saranno eliminati e il suolo, appartenendo a tutti, potrà essere utilizzato con l’accordo e per il benessere di tutti. I prodotti richiesti saranno proprio quelli che la terra può fornire al meglio, e la produzione risponderà esattamente ai bisogni delle persone, senza che vi siano sprechi, come avviene al giorno d’oggi. Anche la distribuzione di tutte queste ricchezze tra gli individui sarà tolta dalle mani dello sfruttatore privato e si farà attraverso l’operato regolare di tutta quanta la Società. Noi non dobbiamo tracciare fin da ora il disegno della società del futuro. Spetta all’azione spontanea di tutti gli esseri viventi il compito di generare e delinearne la forma. Una forma che d’altronde sarà sempre modificabile come avviene per tutti i fenomeni della vita. Ma quello che noi sappiamo è che qualsiasi ingiustizia, qualsiasi crimine contro la persona umana, ci troverà sempre pronti a combatterlo. Fino a quando ci saranno iniquità, noi anarchici comunisti internazionalisti, rimarremo in una condizione di rivoluzione permanente.
Dialogo tra una individualista e una comunista, di osa Slobodinsky e Voltairine de Cleyre
Documento 47 (1891)
Da questo dialogo emergono le differenze tra i due approcci, differenze che possono essere risolte, come afferma la stessa Voltairine, se ognuno ha la libertà di sperimentare la forma di società che più gli è congeniale, senza imporre a chicchessia le sue idee e le sue pratiche. Fonte: The Individualist and the Communist. A Dialogue, The Twentieth Century, n°15, 18 giugno 1891.
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Individualista: Il nostro padrone di casa è occupato e chiede che io mi presenti. Domando scusa, ma non ho forse già avuto il piacere di incontrare il relatore comunista che è intervenuto nell’incontro tenuto l’altra sera in Blank Street? Comunista: Il vostro viso sembra anche a me familiare. Individualista: Senza dubbio potete avermi incontrata là o in qualche altro posto simile. Mi compiaccio dell’opportunità che ho di parlare con voi in quanto il vostro intervento ha rivelato che siete persona di un certo calibro intellettuale. Forse… Comunista: Ah, adesso vi riconosco. Voi siete la sostenitrice dell’anarchia capitalista. Individualista: anarchia capitalista? Oh, se così intendete chiamarla. Le etichette mi sono del tutto indifferenti. Non ho paura degli orchi. Se vi piace, chiamatela pure anarchia capitalista. Comunista: Bene, allora. Ascolterò quello che avete da dire. Non penso comunque che le vostre argomentazioni avranno molto effetto su di me. Con quale delle vostre Sacre Trinità pensate di iniziare: il libero uso della terra, la libera moneta o la libera concorrenza? Individualista: Scegliete voi. Comunista: Allora iniziate con la libera concorrenza. Come mai avanzate questa proposta? Non abbiamo forse attualmente una libera concorrenza? Individualista: No. Solo uno dei tre fattori della produzione è libero. I lavoratori sono liberi di farsi concorrenza tra di loro, e anche i capitalisti fino a un certo punto. Ma tra lavoratori e capitalisti non vi è affatto concorrenza, perché attraverso i privilegi concessi dal governo ai capitalisti, relativi all’emissione del denaro e alla fissazione del tasso di interesse, si consente ai possessori di capitale di mantenere i lavoratori in una condizione di dipendenza, rendendo così la soggezione salariale un dato permanente. Fino a quando un individuo, o una classe di individui, saranno in grado di impedire ad altri di lavorare per sé in quanto questi ultimi non possono disporre dei mezzi di produzione o trasformare in capitale quello che producono, fino a quel momento i lavoratori dipendenti non saranno liberi di competere pienamente con coloro che hanno il privilegio di
controllare i mezzi di produzione. Per fare un esempio, vedi forse concorrenza tra il proprietario di un terreno agricolo e il suo bracciante? Non pensi forse che quest’ultimo preferirebbe lavorare per sé? Perché il proprietario lo ha assunto? Non è forse per ricavare un profitto dal suo lavoro? E il bracciante gli concede quel profitto perché è di animo buono e altruista? Non preferirebbe forse tenersi tutto il prodotto delle sue fatiche? Comunista: E allora? Che cosa dimostra tutto ciò? Individualista: Ci sto arrivando. Ora, questo rapporto tra proprietario terriero e lavoratore dipendente rassomiglia forse a una attività cooperativa, tra persone uguali, libere di competere, ma che decidono di operare assieme per il reciproco vantaggio? Voi sapete che non è così. Non vedete forse che, dal momento che il lavoratore dipendente non cede, di sua volontà, una larga parte di quanto produce al suo datore di lavoro (e sarebbe fuori della natura umana affermare il contrario) allora ci deve essere qualcosa che lo obbliga a farlo? Non vi rendete conto che la necessità che vi sia un datore di lavoro costituisce una costrizione per il lavoratore dipendente, e che essa deriva dalla sua impossibilità di disporre dei mezzi di produzione? Egli non può lavorare per sé, e quindi deve vendere la sua capacità lavorativa in maniera per lui svantaggiosa a colui che controlla la terra e il capitale. Per cui non è libero di fare concorrenza al suo datore di lavoro non più di un detenuto che non è libero di competere con il suo guardiano nel disporre di una boccata d’aria. Comunista: Certo, ammetto che ciò è vero. Sicuramente il lavoratore dipendente non può competere con il datore di lavoro. Individualista: Quindi ammettete che non vi è libera concorrenza nello stato attuale della società. In altre parole, ammettete che i lavoratori non sono liberi di competere con i possessori del capitale, in quanto non hanno e non possono disporre dei mezzi di produzione. Ora, rispondo al vostro “E allora?”. Ne consegue che, se essi avessero accesso all'uso della terra e avessero l’opportunità di trasformare il prodotto del loro lavoro in capitale, i lavoratori diventerebbero autonomi o, se impiegati da altri, vedrebbero il loro salario o remunerazione aumentare fino a raggiungere il pieno prodotto del loro lavoro [148], dal momento che nessuno lavorerebbe per un altro per meno di quello che otterrebbe lavorando per sé stesso. Comunista: Ma allora il vostro obiettivo è identico a quello dei comunisti!
Perché dunque cercare di convincermi che i mezzi della produzione devono essere tolti dalle mani di una ristretta schiera di individui e dati a tutti? I comunisti credono proprio in questo. È, per l’appunto, ciò per cui ci battiamo. Individualista: Non mi avete allora capito se pensate che noi vogliamo togliere qualcosa a qualcuno e assegnarla a qualcun altro. Noi non abbiamo alcuno schema di redistribuzione. Non sostituiamo nessuno, non facciamo piani al riguardo. Noi facciamo affidamento al necessario equilibrio tra domanda e offerta. Noi affermiamo che, lasciando che ognuno possa disporre dell’opportunità di produrre, la ripartizione del prodotto avrà come tendenza quella di distribuirsi in maniera equa. Ma non abbiamo alcun metodo per ‘imporre’ questa equalizzazione. Comunista: Ma non ci saranno alcuni che sono forti e capaci, mentre altri sono deboli e incapaci? L’uno non farà in modo di prevalere sull’altro in quanto più astuto? Individualista: Impossibile! Non vi ho proprio adesso mostrato che il motivo per cui un individuo domina la vita di un altro è perché egli controlla le opportunità di produrre? Egli lo fa attraverso speciali privilegi garantiti a lui dal governo. Ora, se aboliamo questi privilegi, l'uso della terra diventa libero, e c’è la possibilità di capitalizzare ciò che uno produce, rimuovendo il peso degli interessi finanziari. E anche se una persona è più forte o più astuta di un’altra, costui non può ricavare un profitto dal lavoro di un altro perché non può obbligarlo a non lavorare per sé stesso. Così la causa dell’assoggettamento è rimossa. Comunista: E VOI chiamate questo uguaglianza! Che un individuo abbia più di altri perché è più forte e più intelligente? Il vostro sistema non è migliore di quello attuale. Contro cosa stiamo lottando se non contro le disuguaglianze tra le persone in materia di proprietà? Individualista: Ma cos’è l’uguaglianza? Uguaglianza significa forse che io debba godere di quello che tu hai prodotto? Niente affatto. Uguaglianza significa semplicemente la libertà di ogni individuo di sviluppare le sue capacità, senza ostacoli da parte di chicchessia. E non importa che uno sia più forte o più debole dell'altro. Comunista: Cosa! Voi vorreste che il debole soffra solo perché è debole? Costui
potrebbe aver bisogno quanto un altro, o anche di più, di quello che ha un individuo forte, ma se non è in grado di produrlo, come realizziamo l’uguaglianza? Individualista: Io non ho nulla in contrario che voi dividiate quanto avete prodotto con una persona più debole se lo desiderate. Comunismo: Ecco che ci siamo con la carità. Il comunismo non è per la carità. Individualista: Spesso mi stupisco della peculiarità dei comunisti in fatto di matematica. Voi chiamate il mio gesto carità, ma non si tratta di carità. Se una persona compie un nobile atto, voi lo stigmatizzate; se una sommatoria di individui chiamati una collettività compie lo stesso atto, allora voi lo lodate. Per una sorta di alchimia simile alla trasformazione dei metalli, l’arsenico della carità diventa l’oro della giustizia! Strana metamorfosi! Non vedete che state facendo ancora una volta ricorso a degli spauracchi? Voi cambiate il nome, ma la natura dell’azione non è per questo differente per via del numero delle persone che vi prendono parte. Comunista: Ma non si tratta della stessa azione. Per me portare assistenza a una persona per comione equivale alla carità che un proprietario fa a un poveraccio. Ma fondare la società sul principio: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni” non significa affatto fare la carità. Individualista: Questa è una distinzione davvero sottile che sfida qualsiasi logica. Tuttavia, per il momento, lasciamo da parte il tema della carità, che è in realtà un aspetto trascurabile, come mostrerà il prosieguo della discussione. Comunista: Ma per me è un punto molto importante. Vedete! Qui ci sono due artigiani. Uno può produrre cinque paia di scarpe al giorno; l’altro, forse, non più di tre paia. In base alle vostre idee, l’artigiano meno rapido sarà privato delle gioie della vita o, ad ogni modo, non otterrà tanto quanto l’altro artigiano, e questo a causa di una incapacità naturale, di cui non è responsabile, che non gli permette di produrre quanto il suo concorrente. Individualista: È vero che, come stanno attualmente le cose, sussistono tali differenze in materia di capacità produttiva. Ma queste, in una certa misura, saranno cancellate dallo sviluppo dei macchinari e dalla capacità di utilizzarli in assenza di privilegi. Oggi la maggioranza delle persone compie lavori che non sono loro congeniali. Perché? Perché non hanno né la possibilità di scoprire cosa
sarebbe bene per loro, né l’opportunità di dedicarvisi se lo sapessero. Essi patirebbero la fame mentre sono alla ricerca di questa attività a loro più adatta o, se la trovassero, ciò produrrebbe solo la delusione di essere tenuti fuori da un percorso di vita già troppo affollato. Le professioni sono, per via delle circostanze, quello che erano una volta per legge, e cioè affari ereditari. Io sono un sarto perché mio padre era un sarto, ed è stato facile per lui introdurmi a questa attività che mi garantisce i mezzi per vivere, anche se io non ho particolari attitudini per questo mestiere. Ma, se tutti hanno uguali opportunità, e cioè libero accesso e nessun interesse da pagare sul capitale, qualora una persona si trovasse nella situazione di produrre scarpe meno bene o meno rapidamente di un altro, allora questa persona prontamente cercherebbe di svolgere un’altra attività a lui più congeniale. Comunista: E si sposterebbe da una attività all’altra come una persona senza fissa dimora. Individualista: Oh, no; un tetto lo avrà di sicuro! Allorché avete riconosciuto che non vi è attualmente libera concorrenza, non vi ho forse detto che, quando diventerà libera, una di queste due cose deve per forza verificarsi: o il lavoratore diventerà autonomo, o il datore di lavoro dovrà pagarlo in maniera piena sulla base di quanto prodotto. Il risultato sarà una accresciuta richiesta di lavoro. Una volta in grado di occupare sé stesso, il produttore otterrà per intero i frutti del suo lavoro sia che operi come indipendente, o su contratto, o in cooperativa, dal momento che la concorrenza tra le varie possibili attività, se così possiamo dire, distruggerà l’eventualità di rendite improduttive. Quando il produttore riceverà un compenso pieno per il suo lavoro, ne risulterà un tenore di vita più elevato; le persone vorranno ottenere di più in relazione al loro sviluppo intellettuale. Con il soddisfacimento di taluni desideri, altri se ne presenterebbero e il tutto farebbe sì che vi sia una richiesta costante di lavoro. Perciò anche il vostro vagabondo troverebbe i mezzi per vivere. E poi bisogna considerare il fatto che cambiare mestiere non è più un problema di difficile soluzione, come in ato. Anni fa, si richiedeva a un meccanico o a un artigiano di lavorare sette anni come apprendista. Nessuno era considerato un vero artigiano se non era ato attraverso tutte le fasi del suo lavoro. Al giorno d’oggi abbiamo un sistema produttivo del tutto rivoluzionato. Le persone si specializzano. Un calzolaio, ad esempio, a le giornate a cucire un particolare tipo di scarpe. Ne consegue l'acquisizione di una grande rapidità e abilità produttiva, in un tempo ridotto. Non sono richiesti né molta forza né molta
destrezza; la macchina le ha entrambe. Quindi, attualmente, vi rendete conto che, anche supponendo che un individuo cambi di mestiere una dozzina di volte, dopo un percorso non troppo lungo troverà ciò per cui è portato e in cui può competere con successo. Comunista: Ma ammettendo questo, non credete voi che ci sarà sempre qualcuno che può produrre in quantità superiore ad altri? Che cosa impedirebbe loro di ottenere dei vantaggi a spese dei meno fortunati? Individualista: Certamente io credo che sussistano differenze di abilità, ma non penso affatto che produrranno quelle ingiustizie che voi temete. Immaginiamo che A produca più di B. Ne risulta, forse, allora che il primo danneggia il secondo, posto che A non impedisca a B di esercitare la sua attività, come avviene ora, o in maniera autonoma o stipulando un contratto con altri? Comunista: E questo è quello che voi chiamate un diritto? Qualcosa che produrrebbe sentimenti di reciproca simpatia tra gli esseri umani? Quando vedo che voi godete di cose che io non posso sperare di ottenere, quali pensate siano i miei sentimenti nei vostri confronti? Non dovrei forse invidiarvi e odiarvi, come fanno adesso i poveri nei confronti dei ricchi? Individualista: E perché voi dovreste odiare una persona per il semplice fatto che ha degli occhi più belli dei vostri o è in una condizione fisica migliore? Volete forse bruciare un manoscritto perché la persona che ha redatto il testo è più brava di voi? Siete forse dell’idea che bisogna accorciare i capelli di Sansone e distribuirli tra tutti coloro che hanno i capelli più corti? Vorreste dividere a fette il genio di un poeta e metterlo in un comune deposito di modo che ognuno possa recarvisi e prenderne una parte? Se ci fosse, nel vostro quartiere, una splendida donna che sorride a vostro fratello, dovreste forse diventare furiosa e pretendere che i suoi favori siano distribuiti in parti uguali, secondo i bisogni dei membri della comunità? Le differenze in materia di capacità naturali non sono abbastanza grandi da recare danno a chicchessia o disturbare l’equilibrio sociale. Nessuno può produrre più di tre altri artigiani, e anche ammettendo che ciò fosse possibile, voi potete vedere che non genererebbe mai il divario profondo che vi è tra un Vanderbilt [149] e l’operatore di una delle sue ferrovie. Comunista: Ma, stabilendo una misura uguale per tutti, il comunismo eviterebbe persino la possibilità dell’ingiustizia.
Individualista: Ed è giustizia prendere dalla persona capace e premiare l’incompetente? È giustizia affermare che gli strumenti del lavoro non sono di chi li utilizza, né che il prodotto appartiene al produttore, ma ad altri? È giustizia sottrarre alla fatica qualsiasi incentivo? La giustizia che voi cercate non si fonda affatto su questa ingiustizia, dove l’uguaglianza nelle condizioni materiali può essere raggiunta solo abbassando tutti al livello della assoluta mediocrità. Mano a mano che la libertà di contratto si amplia, si ampliano anche invariabilmente i sentimenti più nobili e le forme di solidarietà. Con la libertà di accedere all’utilizzo della terra e del capitale, non ci saranno più vistose disuguaglianze nella distribuzione dei prodotti. Nessun lavoratore otterrà molto di più o molto di meno rispetto alla media dei guadagni. Nulla, se non il potere di asservire le persone controllando le opportunità di impiego della forza lavoro, potrà mai generare delle disuguaglianze così ampie come esistono attualmente. Comunista: Quindi voi sostenete che il vostro sistema produrrà, come risultato, la stessa uguaglianza che chiedono i comunisti. Ma, anche ammettendolo, ci vorranno un centinaio di anni, o forse, un migliaio di anni per realizzare ciò. Nel frattempo, le persone muoiono di fame. Il comunismo non propone di attendere, ma di intervenire per correggere le cose, qui e ora. Per sistemare il tutto in maniera più equa, adesso che siamo in presenza di queste ingiustizie, e non aspettare fino a quando i nostri nipoti o pronipoti vedranno sorgere qualcosa di dolce e straordinario. Perché non vi unite a noi e non ci aiutate a realizzare qualcosa? Individualista: Di sicuro, noi sosteniamo che arriveremo a una relativa uguaglianza, ma le disposizioni, le istituzioni, le direttive, non portano mai al risultato desiderato: una società libera. Ignorare il fatto che ogni regolamentazione dall’alto è un colpo al progresso, è davvero qualcosa che noi non possiamo fare. I pensieri, come le cose, crescono. Non si può fare un salto dal seme a un albero perfetto in un colpo solo. Nessun sistema sociale può essere istituito oggi che risponderà alle esigenze del domani. Le cose si sistemeranno con la libertà. Questa è la differenza sostanziale tra comunismo e cooperazione. Il comunismo fissa, corregge, dispone le cose e tende alla rigidità, che è la caratteristica propria delle società del ato. La cooperazione fa affidamento alla indubbia capacità di sopravvivenza delle persone e all’ampliamento, attraverso la libertà, dei sentimenti di reciproca comprensione. Io sono sicura che ciò che è in sintonia con il progresso e che tende verso un ideale di industriosità
si realizzerà, liberamente, per via della sua maggiore forza di attrazione. Ora, voi dovrete ammettere che ci saranno, in presenza della libertà, diversi modi di organizzarsi facenti riferimento a forme diverse di società, alcune che si basano sul comunismo, altre del tutto dissimili da esso, e che la concorrenza sorgerà tra di loro, lasciando alle persone la decisione su quale sia la forma migliore, in base ai risultati ottenuti da ciascun modo di organizzazione sociale. Oppure voi dovrete schiacciare la concorrenza, imporre il comunismo, negare la libertà, e distruggere qualsiasi progresso. Ciò di cui abbiamo bisogno, amica mia, non è un nuovo metodo per istituzionalizzare le cose ma la fine delle restrizioni per quanto riguarda le opportunità di sperimentare.
Uno sguardo al comunismo, di Voltairine de Cleyre
Documento 48 (1892)
In questo scritto, Voltairine de Cleyre si prende un po' gioco dei comunisti che vorrebbero assegnare allo Stato il compito di regolamentare la vita economica, cioè la produzione e il consumo. Molto più semplice e fattibile è il lasciare a ciascuno la possibilità di auto-organizzarsi attraverso relazioni contrattuali volontarie. Da qui emerge la costatazione che gli anarchici, pur se classificati tra gli utopisti, sono invece coloro che prospettano soluzioni del tutto pratiche, semplici e soprattutto molteplici e varie su come vivere in società, avendo a cuore il soddisfacimento delle esigenze di ciascuno e di tutti. Fonte: Voltairine de Cleyre, A Glance at Communism, The Twentieth Century, no. 9, 1° settembre 1892.
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Due anni fa, in una piccola sala di città, l’abitazione di un tessitore di Filadelfia, un gruppo di liberi pensatori si riuniva due volte alla settimana per discutere sul contrasto tra “comunismo e individualismo”. Di solito vi erano una quindicina di persone favorevoli al comunismo e cinque o sei sostenitori dell’individualismo. Chiariamo subito il fatto che, pur essendo tutti impegnati in una ricerca sincera della verità, ogni membro dei due gruppi era profondamente convinto che l’altra parte stesse indirizzando la sua ricerca nella direzione sbagliata e, per quanto sono in grado di capire, nessuno di noi ha cambiato idea. Eppure, nel corso di un anno, alcune briciole sono apparse all’esterno del gruppo sotto forma di un dialogo, che ha presentato il nocciolo di quelle discussioni, in un articolo pubblicato nella rivista Twentieth Century [Documento n. 47]. Parecchi giorni sono ati e adesso un nuovo scritto, sotto forma di critica di quel dialogo, è stato pubblicato da M. Zametkin nel numero di People del 17 luglio. Cercando di formulare una risposta breve a questa critica, non presumo di parlare anche a nome di Miss Slobodinsky, che era la co-autrice del dialogo. Essendo io stessa una individualista di tipo non convenzionale, non sono in alcun modo autorizzata a parlare a nome di una “scuola”. Questo è il vantaggio che ho nei confronti dei miei critici. L’individualismo (senza virgolette) può essere benissimo interpretato come un temine qualificativo generale per le persone che concordano su una sola cosa, e cioè sul fatto che non sono obbligate a essere d’accordo tra di loro su tutto il resto. Ma quando uno aggiunge il termine comunismo, iniziamo a pensare a un credo comune a molti altri e se uno non aderisce correttamente a questo credo, deve immediatamente ritrattare le sue idee non ortodosse o essere scomunicato. Immagino che le tesi presentate da un “immaginario comunista”, che erano in realtà un condensato di quelle offerte da quindici comunisti in carne e ossa nelle discussioni a cui si è fatto riferimento prima, dovrebbero essere ritenute eretiche da Mr. Zametkin (nel qual caso egli dovrebbe aggiungere le virgolette), perché ben si sa che lo stesso comunismo è rappresentato nel suo seno da due tendenze, una conosciuta come comunismo di Stato e l’altra come Libero Comunismo. Ora, i miei amici, dei quali l’immaginario comunista era un essere composito, sarebbero assai sorpresi di apprendere, sulla base di una autorità comunista certificata, che essi sono comunisti fasulli. Infatti, essi appartengono alla seconda varietà e sono chiamati talvolta anarchici-comunisti.
Un anarchico-comunista è una persona che è innanzitutto un essere umano e, solo successivamente, un comunista. Di solito si trova implicato in molte situazioni, tra loro non immediatamente conciliabili; egli crede che la proprietà e la concorrenza debbano scomparire e, al tempo stesso, ammette che non ha il potere di sopprimerle; egli è a favore dell’uguaglianza e al tempo stesso nega che sia possibile realizzarla; odia la carità eppure vorrebbe trasformare la società in un vasto Esercito della Salvezza. In breve, detto in termini generali, egli si trova in sella a due cavalli che vanno, contemporaneamente, in direzioni opposte. L'anarchico-comunista non è solitamente riconducibile ai dettami della logica, ma ha un cuore enorme, troppo grande per poter vivere in questo secolo. E, per come la penso io, egli è più prezioso di molti freddi utilizzatori della logica che esaminano la società come un naturalista esamina un insetto, e lo traano con gli spilli dei loro sillogismi, come faceva l’Imperatore Domiziano con le mosche, per suo proprio divertimento. Inoltre, un Libero Comunista, quando lo si mette alle strette, è sempre e innanzitutto per la libertà. Il comunista statalista invece ha la sua logica. Egli crede nel potere e lo afferma apertamente. Egli ridicolizza la libertà individuale che ritiene contraria agli interessi della maggioranza. Egli proclama ad alta voce: “Abbasso la proprietà e la concorrenza” ed è del tutto sincero. Riguardo alla prima la sua ricetta è “confiscarla” e riguardo alla seconda è “sopprimerla”. E questo per dire le cose con la massima franchezza. Ora, esaminiamo “un aspetto” della critica, e cioè gli squilibri tra offerta e domanda nel caso della libera concorrenza, che hanno come conseguenza, di tanto in tanto, la scarsità, e, assai spesso, la sovrapproduzione, il che è sempre qualcosa di negativo per un sistema economico. Il comunismo, da quel che ne so, vorrebbe creare un comitato generale di supervisione, con sezioni dappertutto, che dovrebbero effettuare un censimento riguardo alla domanda di ogni possibile prodotto nell’ambito della produzione industriale, agricola, di legname, di minerali, e per ogni miglioramento nell’istruzione, nello svago e nelle pratiche religiose. Signora, all’incirca quanti palloni i suoi ragazzi perdono ogni anno perché finiscono oltre la siepe del vicino? Quanti bottoni la sua figlioletta strappa dal suo vestitino? Signore, quante bottiglie di birra mette da parte nella sua cantina ogni settimana per la bevuta domenicale? Signorina, ha uno spasimante? Se sì, quante volte gli invia una lettera e quanti fogli usa per ogni lettera inviata? Quanti litri di olio per lampada utilizza nel suo studiolo quando sta alzata tardi
la sera? Tutte queste domande non hanno nulla di personale, ma servono solo per ottenere delle statistiche esatte su cui basare, per il prossimo anno, la produzione di palloni, bottoni, birra, fogli, olio, eccetera. Signor bottegaio, mi mostri i suoi libri contabili perché il governo deve accertarsi che lei non venda di più della quantità prescritta. Signor custode, quante persone sono state ammesse nel Giardino Zoologico la settimana ata? Duemila? Con l’attuale tasso di incremento il governo fornirà un nuovo animale tra sei mesi. Signor curato, il numero dei fedeli sta diminuendo. Dobbiamo fare indagini al riguardo e se la richiesta dei suoi servizi risultasse insufficiente dovremmo abolire la sua posizione Quali provvedimenti saranno presi dal Governo in caso di una carenza naturale, come, ad esempio, per ovviare alla parziale mancanza di gas nei pozzi della Pennsylvania, in modo da costringere questo elemento ribelle a produrre la “quantità prescritta per legge” io posso solo congetturarlo. Il governo potrebbe decretare, per legge, che un’invenzione sostituisca quel bene naturale mancante. In assenza di ciò, non saprei proprio quale piano sarebbe adottato per mantenere l’equivalenza dei costi del lavoro nell'ambito degli scambi, e al tempo stesso soddisfare tutti. Ad ogni modo, l’onniscienza potrebbe trovare sempre una via d’uscita. La legge della concorrenza ha come soluzione il fatto che un bene scarso aumenta di prezzo. La libera concorrenza contrasterebbe con una maggiore produzione una scarsità creata ad arte; ma se la scarsità derivasse da un fattore naturale, il bene costerebbe di più fino a quando non si trovasse un suo sostituto. “Ah”, esclama ad alta voce il comunista, “questa è una ingiustizia”. “Per chi?” “Per tutti coloro che pagano di più per ottenere il bene”. “E voi, che cosa fareste? Fornireste il bene ai primi venuti e gli altri non riceverebbero nulla? Che cosa ne è allora del diritto degli altri che forse avrebbero desiderato pagare un prezzo più alto pur di disporre di quel bene? In questo caso, dove sta l’ingiustizia?” Ma, come può notare il nostro critico, la scarsità di un bene non è il problema maggiore, specie se si tratta di scarsità naturale. Il problema più grande è costituito dal fatto che dobbiamo essere autorizzati, controllati, regolati,
etichettati, tassati, confiscati, spiati e, in generale, essere disturbati di continuo in modo che si ottengano gli esatti dati statistici e che la “quantità prescritta” sia prodotta. Ma non possiamo forse fare affidamento ai produttori perché abbiano sufficiente riguardo ai propri interessi ed evitino di produrre troppo o troppo poco? In sostanza, il dilemma è se possiamo attenderci una regolarità di approvvigionamento da coloro che sono interessati a ciò, oppure se siamo condannati ad accettare un decreto legge che stabilisca le quantità da produrre, emesso da coloro che non sono coinvolti nella produzione e nella vendita. Per quanto mi riguarda, piuttosto che avere una burocrazia invadente che si intromette nella mia cucina, nel mio locale lavanderia, nella mia sala da pranzo, nel mio studio, per scoprire cosa mangio, cosa indosso, come apparecchio la tavola, quante volte mi lavo, quanti libri ho, se le foto che ho sono “morali” o “oscene”, che cosa butto via, eccetera, e questo in continuazione, come avveniva nell’antichità in Perù e in Egitto, accetterei di buon grado che alcune migliaia di cavoli marcissero, anche se si trattasse dei cavoli del mio giardino. Se ciò avvenisse, ne trarrei un salutare insegnamento.
Anarchia – socialismo, di Gustav Landauer
Documento 49 (1895)
Questo scritto chiarisce il rapporto tra anarchia e socialismo. Per molti sarà sorprendente scoprire che per Landauer socialismo significa libera iniziativa dei produttori anche sulla spinta del loro “egoismo” e non certo il controllo statale su tutti e il privilegio di decidere riservato a pochi. Fonte: Gustav Landauer, Anrchismus – Sozialismus, Der Sozialist , 7 settembre 1895.
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“Giornale per l’anarchia e il socialismo” – ecco quanto compare sul frontespizio del nostro foglio. L’anarchia è l’obiettivo che perseguiamo: l’assenza di un potere autoritario, la fine dello Stato e il libero sviluppo dell’individuo. Il socialismo è il mezzo attraverso il quale vogliamo conseguire e assicurare questa libertà: in altre parole, solidarietà, condivisione e cooperazione. Alcuni affermano che abbiamo capovolto l’ordine delle cose, facendo dell’anarchia il nostro obiettivo e del socialismo il nostro mezzo. Costoro vedono l’anarchia come qualcosa di negativo, e cioè la mancanza di istituzioni, mentre il socialismo indicherebbe una organizzazione sociale positiva. Essi pensano che la parte positiva dovrebbe costituire l’obiettivo e quella negativa il mezzo che dovrebbe aiutarci a eliminare qualunque ostacolo si frapponga in vista del conseguimento dell’obiettivo. Queste persone hanno difficoltà a comprendere che l’anarchia non è un puro e semplice concetto astratto della libertà ma che la nostra idea di una esistenza libera e di libere attività include molti aspetti concreti e positivi. Ci saranno attività produttive, svolte da tutti; ma ciò sarà solo un mezzo per sviluppare e rafforzare le nostre risorse, per relazionarci con altri esseri umani nostri fratelli sotto il profilo culturale e naturale, e per godere pienamente di tutte le ricchezze della società. Chiunque non sia accecato dai dogmi dei partiti politici sarà disposto a riconoscere che anarchia e socialismo non sono aspetti opposti ma correlati. Un’attività davvero cooperativa e una vera comunità possono esistere solo là dove gli individui sono liberi, e liberi individui possono esistere solo là dove i bisogni sono soddisfatti attraverso una solidarietà fraterna. È sempre più necessario opporsi alla falsa affermazione dei socialdemocratici che anarchia e socialismo si contrappongano come l’acqua e il fuoco. Coloro che sostengono ciò argomentano, di solito, che socialismo significa “socializzazione”. Con questo intendono dire che la società – un termine vago che solitamente comprende tutti gli esseri umani che abitano la terra – sarà amalgamata, unificata e centralizzata. I cosiddetti “interessi dell’umanità” diventerebbero allora la legge suprema, e gli interessi specifici di alcuni gruppi e quelli di ciascun individuo vi sarebbero sottomessi. L’anarchia, invece, per loro, significa individualismo, vale a dire il desiderio del singolo di affermare il suo potere senza alcun limite; ciò equivarrebbe a far prevalere l'atomizzazione e
l'egoismo. Ne consegue che, viste così le cose, avremmo due idee incompatibili e opposte: da una parte la socializzazione e il sacrificio degli individui, dall’altra il predominio dei singoli e del loro egoismo. Ritengo che sia possibile mostrare i difetti di queste due false asserzioni attraverso una semplice allegoria. Pensiamo a una città che è ogni tanto illuminata dal sole e ogni tanto è bagnata dalla pioggia. Immaginiamo che qualcuno suggerisca che il solo modo per proteggere la città dalla pioggia sarebbe quello di costruire una immensa copertura fissa e permanente, sotto la quale ognuno vivrebbe, anche quando non piove. Questa sarebbe una soluzione “socialista” secondo le idee dei socialdemocratici. Invece, se una persona suggerisse che, in caso di pioggia, ciascuno dovrebbe afferrare uno degli ombrelli a disposizione dei cittadini e che coloro che non si affrettano a prenderne uno, sono semplicemente delle persone sfortunate, questa sarebbe una soluzione “anarchica” come la dipingono i socialdemocratici presentandola come uno spauracchio. Per noi anarchici-socialisti entrambe le soluzioni appaiono ridicole. Noi non vogliamo né costringere tutti sotto una unica copertura né che ci sia una lotta per accaparrarsi un ombrello. Noi pensiamo che, quando utile, possiamo utilizzare una copertura comune, che possa poi essere tolta quando non è più necessaria. Al tempo stesso, tutti possono avere un loro ombrello se lo vogliono. E per quanto riguarda quelli che vogliono bagnarsi sotto la pioggia, nessuno dovrebbe forzarli a comportarsi altrimenti. Mettendo da parte le allegorie, questo è quello di cui abbiamo bisogno: associazioni che coinvolgono tutto il genere umano per problemi che riguardano l’umanità tutta; associazioni di specifiche popolazioni per problemi che riguardano gli interessi di quelle specifiche popolazioni; associazioni di determinati gruppi sociali per problemi che concernono quegli specifici gruppi sociali; associazioni di due persone per problemi che riguardano i loro propri interessi; individualizzazione per quanto concerne i problemi che riguardano gli interessi di una sola persona. Invece di avere solo lo Stato nazionale e lo Stato mondiale, come è nelle intenzioni dei socialdemocratici, noi anarchici vogliamo un’organizzazione libera composta da una molteplicità di associazioni e società di vario tipo, interconnesse tra di loro. Questa forma organizzativa si baserà sul principio che ogni individuo è l’essere più vicino ai suoi interessi e che gli sarà raramente necessario coinvolgere tutta l’umanità per sistemare le proprie faccende in maniera ragionevole e giusta. Per questo, non vi è affatto bisogno di un
parlamento o di una qualsiasi altra istituzione avente carattere universale. Ci sono di sicuro temi e problemi che riguardano tutti, ma in questi casi i diversi gruppi troveranno il modo o i modi per arrivare a una soluzione comune. Prendiamo ad esempio la questione dei trasporti internazionali e del traffico ferroviario con i suoi orari e coincidenze. A questo riguardo, il rappresentante di ogni compagnia dei trasporti nazionale trova la soluzione nonostante l’assenza di un potere supremo di coordinamento. Il motivo è semplice: la necessità lo richiede. Non è quindi affatto sorprendente che io trovi il Reichskursbuch [l’orario delle ferrovie tedesche] la sola pubblicazione burocratica degna di essere consultata. Sono convinto che questa pubblicazione riceverà, in futuro, molti più elogi di tutti i codici di legge di tutti gli stati messi assieme. Altri temi che richiederanno una attenzione generale sono i criteri per effettuare le misure, i termini scientifici e tecnici, e le statistiche, che sono di grande importanza economica e scientifica. Detto ciò, esse sono molto meno importanti di quanto pensino i socialdemocratici che vorrebbero fare dei dati statistici la piattaforma su cui innalzarsi per dominare dall'alto i popoli. Coloro che non sono condannati all’ignoranza dalle condizioni in cui sono costretti a vivere dai potenti, saranno presto in grado di fare un uso conveniente delle statistiche, anche in mancanza di una istituzione superiore. Ci sarà probabilmente una organizzazione che avrà il compito di compilare e comparare i differenti dati statistici, ma, anche operando a vantaggio di tutta l'umanità, essa non avrà un ruolo molto importante e non arriverà mai a essere una potente forza mondiale. Ci sono interessi comuni all’interno di una nazione? Ce ne sono alcuni: la lingua, la letteratura, le arti, i costumi e i riti; tutto ciò ha specifiche caratteristiche nazionali. Ma, in un mondo in cui sono assenti poteri dominanti, privo di “territori annessi” e del concetto di “territorio nazionale”, senza spazi territoriali che devono essere difesi e ampliati, gli interessi sopra elencati non avranno il senso che hanno attualmente. Il concetto di “lavoratori nazionali” ad esempio scomparirà del tutto. Le attività produttive saranno strutturate in modo tale che non si atterranno alla lingua o ai costumi di un gruppo etnico. Per le condizioni di lavoro nelle comunità locali, sia la conformazione geografica che la natura geologica e il clima sono aspetti molto importanti. Ma che cosa hanno a che vedere gli stati nazionali con queste realtà? E per quanto riguarda le differenze linguistiche, esse generano meno difficoltà di quanto comunemente si pensi. Con riferimento all’attività lavorativa, ci sono differenti correnti all’interno del
campo anarchico. Alcuni anarchici sostengono la tesi del diritto a consumare liberamente. Essi ritengono che tutti gli individui produrranno secondo le loro capacità e consumeranno secondo i loro bisogni. Essi sono convinti che nessuno, eccetto la singola persona, può sapere cosa è disposto a fare e quali sono i suoi bisogni. Questi anarchici hanno una visione di magazzini ripieni di merci prodotte attraverso l'impegno lavorativo di gente libera, in base alle loro necessità. Ogni individuo si impegnerebbe in attività produttive perché capirebbe che il soddisfacimento dei bisogni di ciascuno richiede un impegno collettivo. Le statistiche e le informazioni sulle condizioni lavorative nelle specifiche comunità fornirebbero le linee guida su quanto produrre e sull’ammontare di attività produttiva necessaria, prendendo in considerazione sia la tecnologia che il numero di persone atte al lavoro. La necessità di personale sarebbe resa nota a tutti coloro che sono in grado di offrire prestazioni produttive. Coloro che si rifiutassero, parzialmente o totalmente, di impegnarsi in una attività produttiva necessaria, anche qualora fossero in grado di eseguirla, sarebbero socialmente ostracizzati. Penso che questa sia una sintesi accurata e imparziale delle idee dei comunisti. Ora voglio spiegare perché io consideri queste nozioni riguardanti l’organizzazione del lavoro insufficienti e ingiuste. Non le ritengo impossibili da realizzare. Penso che il comunismo e il diritto a un consumo libero siano cose fattibili. Tuttavia, sono dell’idea che molti individui sceglieranno di non lavorare. L’ostracismo sociale non avrà, per costoro, molta importanza – essi possono assicurarsi il rispetto e il o reciproco da parte di persone che la pensano come loro. Ma mi oppongo seriamente anche al diritto al libero godimento dei beni prodotti, perché imporrebbe certamente una nuova morale autoritaria al genere umano. "Chi lavora di più, chi è pronto a eseguire le mansioni più difficili e più ingrate, chi si sacrifica per i deboli, i pigri e gli scrocconi, è il migliore!” Gli obblighi che genera una simile morale e le ricompense sociali che essa promette provocheranno guasti maggiori e saranno ben più dannosi dell’impulso più accettabile che noi tutti conosciamo: l’egoismo. Io sono giunto a questa conclusione dopo aver osservato e riflettuto a lungo. Una società basata su obblighi della morale sarà molto più rigida e ingiusta di una società basata sulla spinta dell’interesse personale.
Gli anarchici che condividono questa convinzione vedono una relazione tra l’attività degli individui e i loro consumi. Essi vogliono che le attività produttive siano organizzate sulla base dell’egoismo naturale. Questo significa che coloro che lavoreranno lo faranno principalmente per sé stessi. In altre parole, coloro che si assoceranno a un particolare progetto lo faranno perché si aspettano di ricevere dei vantaggi personali; coloro che lavoreranno più di altri lo faranno perché essi hanno più bisogni da soddisfare; coloro che eseguiranno le mansioni più difficili e più ingrate (mansioni che dovranno sempre essere eseguite anche se in una maniera meno sgradevole di quanto avviene oggi) lo faranno perché, contrariamente a quanto avviene attualmente, questi lavori saranno i più apprezzati e i meglio pagati. Le obiezioni che possiamo rivolgere a questo tipo di organizzazione del lavoro è essenzialmente di tre tipi: primo, si potrebbe vedere in ciò una ingiustizia nei confronti delle persone fisicamente o intellettualmente deboli; secondo, si potrebbe temere la possibilità che alcuni individui accumuleranno ricchezze e che sorgeranno nuove forme di sfruttamento; terzo, che una esclusiva classe di produttori potrebbe emergere, una classe che si porrà a difesa delle sue conquiste. Io ritengo tutte queste preoccupazioni infondate. È probabile che in futuro si avrà una differenziazione dei lavori. Tuttavia, se le persone sono ben istruite e i loro talenti ben sviluppati, allora ognuno troverà facilmente l’attività che meglio si adatta alle sue capacità. Alcuni si impegneranno principalmente in lavori intellettuali, altri troveranno maggiore soddisfazione in attività manuali, e così via. Coloro che non sono in grado di lavorare – gli anziani, gli invalidi – riceveranno di che vivere sotto varie forme, proprio come avviene per i bambini. Al centro di tutto vi sarà il principio del mutuo appoggio. Sarebbe impossibile per alcuni individui accumulare ricchezze tali da reintrodurre situazioni di sfruttamento. In una società anarchica, ognuno comprenderà che l’uso in comune della terra e dei mezzi di produzione è nell’interesse di tutti gli individui. Di conseguenza, coloro che lavorano più duramente potrebbero conseguire dei vantaggi in termini di proprietà personale ma non controllerebbero gli strumenti di produzione in modo da sfruttare altri. Infine, nessun gruppo otterrebbe dei benefici cercando di praticare il monopolio. Queste persone sarebbero immediatamente boicottate. Se un certo gruppo arrivasse a strappare un vantaggio in una certa area della produzione, nuovi
partecipanti entrerebbero in scena e non erebbe molto tempo prima che si ristabilisca un giusto equilibrio. Quando i lavoratori entrano ed escono liberamente da qualsiasi sfera di attività e quando vi è davvero una libera concorrenza tra persone, allora le disuguaglianze permanenti sono rese impossibili. È pensabile che i due tipi di organizzazione del lavoro, come li ho tratteggiati più sopra, possano coesistere, per un certo periodo di tempo, in regioni diverse o in aree differenti di attività. L’esperienza pratica determinerà ben presto quale sarà la forma più funzionale. In ogni caso, lo scopo delle due forme è lo stesso: la libertà dell’individuo sulla base della solidarietà economica. Non vi è motivo di discettare sui dettagli organizzativi della società futura. È molto più importante unire le nostre forze per introdurre le condizioni sociali che consentano il libero sviluppo di esperienze pratiche che mostreranno le soluzioni ai problemi. L’anarchia non è un sistema statico e astratto di idee già pronte per l’uso. L’anarchia è la vita che ci aspetta dopo che ci siamo liberati dalle catene dell’asservimento.
La libera cooperazione, di Ricardo Mella
Documento 50 (1900)
Per Ricardo Mella, anarchia è la fine dei privilegi e dei vincoli imposti dall'alto. Come poi si svilupperà la società futura è qualcosa che non può essere definito a priori. Infatti, l'autore sottolinea il fatto che “Una volta libero l'individuo e libero il gruppo, niente può costringerli ad adottare questo o quel sistema di convivenza sociale”. Questo è il vero messaggio da cogliere in questo scritto, pur tra oscillazioni varie più terminologiche che sostanziali. Fonte: Ricardo Mella, La Cooperación Libre y los Sistemas de Comunidad. Memoria presentata al Congresso Internazionale Rivoluzionario di Parigi, maggio 1900. ∞
Alcuni amici mi palesano la necessità che questo intervento sia preceduto da un breve sommario che spieghi la posizione reciproca dei partiti comunisti e collettivisti, perché quest'ultimo tipo di anarchia non è molto conosciuto fuori della Spagna, dove si intende sempre per collettivismo il marxismo e non ci si spiega come uno possa essere collettivista e anarchico al tempo stesso. Per gli anarchici appartenenti alla Prima Internazionale, tale chiarimento non è necessario, perché il collettivismo anarchico ricorda i princìpi dell'associazione. Gli anarchici si definivano allora collettivisti così come i marxisti. L'idea del libero comunismo è stata formulata molto tempo dopo, e la Spagna è uno dei paesi in cui è penetrata ancora più tardi. L'antica Federazione dei Lavoratori, affiliata all’Internazionale, si dichiarò anarchica e collettivista e seguì, nella sua quasi totalità, la tendenza di Bakunin fino alla rottura al Congresso de L'Aia. Essa continuò a essere anarchica e collettivista anche dopo lo scioglimento dell'Internazionale. Nel 1882, al congresso di Siviglia, l'idea del comunismo fu formulata per la prima volta, ed era a quei tempi una idea abbastanza autoritaria nella sostanza. Ma il Congresso si pronunciò contro questa tendenza. Naturalmente, l'idea del collettivismo anarchico differisce molto dal collettivismo marxista. Nessuna organizzazione di tipo statale, nessuna forma di remunerazione decisa da organi direttivi nell’ambito dello Stato. La base principale del collettivismo anarchico è il principio del contratto per regolare la produzione e la distribuzione. I collettivisti sostengono la necessità di organizzare, attraverso accordi volontari, grandi federazioni di produttori, di modo che né la produzione né la distribuzione procedano o si svolgano a caso, ma siano il risultato della combinazione delle energie produttive e delle indicazioni di uno studio dei dati della realtà. Il collettivista anarchico non accetta il principio comunista "a ciascuno secondo i suoi bisogni", e anche se all'inizio ha sostenuto l’affermazione "a ciascuno secondo il suo lavoro" ora si accontenta di stabilire che sia gli individui che i gruppi risolvano il problema della distribuzione per mezzo di accordi, liberamente stipulati secondo le loro tendenze, necessità e condizioni di sviluppo sociale. In conclusione, il collettivista anarchico aspira all'organizzazione
spontanea della società attraverso contratti liberi, senza pretendere che vi siano procedure o esiti obbligati. In questo senso, l'attuale tendenza di coloro che si definiscono anarchici senza aggettivi, fa pensare anche al collettivismo. Il comunismo anarchico in Spagna differisce dal collettivismo perché nega, per il presente e per il futuro, ogni forma di organizzazione. Portando all'estremo le conclusioni raggiunte dal comunismo di altri paesi, senza dubbio per antagonismo al collettivismo, esso conduce all'affermazione di un individualismo assoluto. Soprattutto in talune città dell'Andalusia e in alcune della Catalogna, i comunisti sono completamente contrari a qualsiasi azione concertata. Per loro, in futuro non ci sarà che da produrre come ognuno vuole e prendere ciò che è necessario dal mucchio di prodotti. Essi pensano che, nel presente, ogni accordo, ogni alleanza, sia cosa dannosa. In realtà, questo tipo di comunismo è il risultato di una grande mancanza di studio della questione, unita a una buona dose di dogmatismo dottrinale. Naturalmente, in Spagna ci sono comunisti ben coscienti, che non dimenticano le difficoltà e l'importanza del problema della distribuzione; ma con questi, come con i collettivisti che ragionano in maniera imparziale, non c'è spazio per le polemiche, perché vi è accordo sotto molti punti di vista. A parte ciò, possiamo dire che il comunismo in Spagna è troppo elementare, troppo semplice, perché possa essere presentato come una concezione completa della società futura; esso sfiora immediatamente i limiti dell’anarchismo di Nietzsche in quanto si basa sull'autoritarismo più dannoso. Di fatto, il collettivismo e il comunismo soffrono dei difetti che derivano da qualsiasi polemica che dura nel tempo: esagerazione e fanatismo dottrinale. Forse a causa della esagerazione di metodo del collettivismo, si verifica nel comunismo una esagerazione atomistica che riduce la vita sociale all'assoluta indipendenza del singolo, l'uno dall'altro. Potrebbe essere che, senza l'antagonismo delle due scuole, ogni differenza sarebbe ridotta a una questione di parole; ma al momento le due tendenze si contrappongono del tutto. Da un lato la necessità di organizzare e di coordinare tutta la vita sociale; dall’altro l'affermazione che attraverso la produzione e il consumo spontanei, come ognuno lo intende, si otterrà l'armonia sociale desiderata. Nei dettagli e nelle questioni procedurali le due parti divergono ancora di più, al punto che, non senza ragione, l'organo del socialismo marxista in Spagna – che si qualifica indifferentemente collettivista e comunista – sostiene che noi anarchici perdiamo vergognosamente tempo a discutere sulla quintessenza di un futuro che nessuno può determinare in anticipo o a priori. È tutto quello che posso dire per quanto
concerne la rispettiva posizione dei due partiti o scuole, nei limiti ristretti di questo intervento. Io intendo per cooperazione libera il concorso volontario di un numero indeterminato di esseri umani per uno scopo comune. Per comunità, qualsiasi metodo di convivenza sociale che poggia sulla proprietà comune delle cose. E ogniqualvolta io faccia uso dell’espressione "sistemi comunitari", sarà per designare alcuni o tutti i modelli di comunità previsti, o, che è lo stesso, definiti a priori. Faccio questi chiarimenti perché è fondamentale capirsi sul significato delle parole. Ci sono, tra di noi, anarchici comunisti, collettivisti e anarchici senza alcun aggettivo. Sotto il nome di "socialismo anarchico" c'è un gruppo abbastanza consistente che rifiuta ogni esclusivismo dottrinale e accetta un programma abbastanza ampio attraverso il quale, inizialmente, si annullano tutte le divergenze. La denominazione socialista, a causa della sua genericità, è più accettabile di qualsiasi altra. Ma poiché, di fatto, le differenze dottrinali persistono, è conveniente analizzare le idee, senza alcun imbarazzo, e tentare di trovare un accordo eliminando le cause della divergenza. A parte la frazione individualista, noi anarchici siamo tutti socialisti e siamo tutti per la comunità. E dico tutti, perché il collettivismo, come inteso dagli anarchici spagnoli, è un tipo di comunità, anche se gli anarchici che si dichiarano comunisti non la vedono allo stesso modo. C'è insomma un principio comune. I diversi nomi che utilizziamo evidenziano solo interpretazioni distinte, perché per tutti è fondamentale il possesso comune della terra, degli strumenti del lavoro, eccetera. Le differenze sorgono non appena si discute del modo o dei modi di produrre e distribuire la ricchezza. La differenza di opinioni diventa marcata perché, a causa della nostra formazione, tendiamo al dogma, e ognuno cerca di sistematizzare, già fin d’ora, la vita futura, senza preoccuparsi molto del necessario rapporto con le idee anarchiche. Non è ragionevole, a mio parere, una tale disparità di opinioni che portano a dare la preferenza a determinati sistemi. Io ritengo che il far prevalere uno di questi sistemi sugli altri è in contrasto con il principio radicale della libertà e, per di più, non è indispensabile alla diffusione delle nostre idee. È vero che è più facile far capire alle persone meno istruite che le cose saranno fatte, in futuro, in questo o quel modo; ma far loro credere che si
faranno così e non altrimenti equivale a rafforzare la loro educazione autoritaria. Si afferma, con estrema facilità, che ognuno potrà godere del pieno prodotto del suo lavoro, o che ciascuno prenderà ciò di cui ha bisogno, dovunque lo trovi; però non si spiega altrettanto facilmente come questo sarà fatto senza pregiudizio per alcuno, né come tutti gli individui si conformeranno ad agire in un modo o nell'altro. Bisogna, al contrario, stimolare le persone all’idea che tutto dovrà essere fatto secondo la volontà degli associati, in ogni momento e in ogni luogo; dobbiamo far comprendere il più possibile la necessità di lasciare alle persone la totale autonomia d'azione; e non è certamente riempiendo i cervelli della gente con piani preconcetti che saranno educati ai princìpi anarchici. Questo impegno è più complicato dell'altro; far capire che anarchia significa autonomia di pensiero e di azione è cosa più difficile; ma ciò corrisponde meglio all'affermarsi di un modo migliore di comportamento attraverso il quale l'autorità costituita viene ridotta a zero. E poiché questo modo di intendere la diffusione delle idee anarchiche è, di sicuro, comune a tutti noi, e si è dato inizio a una corrente favorevole alla estensione del concetto nella sfera economica, ritengo salutare che tutti contribuiscano affinché la diffusione della concezione si orienti sempre più in senso antidogmatico e antiautoritario. Questo è ciò che mi propongo di fare trattando il tema che serve come titolo a queste mie righe. Se affermiamo la libertà, nel senso che ogni individuo e ogni gruppo possa funzionare in maniera autonoma, in ogni momento, e noi tutti sosteniamo ciò, è chiaro che desideriamo anche i mezzi affinché tale autonomia sia praticabile. E poiché li vogliamo, questi mezzi, noi siamo, senza dubbio, socialisti, cioè, affermiamo la giustizia e il necessario possesso comune della ricchezza, perché senza la comunità, che significa uguaglianza nella dotazione dei mezzi, l'autonomia sarebbe impraticabile. Intendiamo, credo senza distinzione, per comunanza della ricchezza, il possesso comune di tutte le cose, in modo tale che siano liberamente disponibili, per gli individui e per i gruppi. Ciò presuppone che sarà necessario stabilire una intesa appropriata per far uso, in maniera razionale, della facoltà di disporre liberamente delle cose. Le diverse scuole menzionate hanno origine proprio dalla ricerca riguardante le possibili forme di una intesa necessaria. Si tratta, insomma, di questioni di pura forma. Sarà necessario, prendendo avvio dalle nostre affermazioni genuinamente socialiste, sistematizzare la vita in generale sulla base della piena anarchia?
Sarà necessario accordarsi fin da ora a favore di un sistema puro di pratica comunista? Sarà necessario operare per l'attuazione di un metodo esclusivo? Se così fosse, ci si potrebbe chiedere se sia giustificata l'esistenza di tanti partiti anarchici così come tante sono le idee economiche che dividono le nostre opinioni. Ponendoci tali interrogativi mostreremmo però che vogliamo raggiungere qualcosa di più dell'uguaglianza nel disporre dei mezzi come garanzia di libertà: mostreremmo che stiamo cercando di dare una regola alla libertà stessa; o piuttosto, al suo esercizio. Sistematizzare l'esercizio dell'autonomia è contraddittorio. Una volta libero l'individuo e libero il gruppo, niente può costringerli ad adottare questo o quel sistema di convivenza sociale. Niente sarà di per sé abbastanza forte da determinare una direzione uniforme nella produzione e nella distribuzione della ricchezza. Dal momento che noi affermiamo la totale autonomia individuale e collettiva, dovremmo anche ammettere la facoltà, dappertutto, di procedere come ciascuno desidera, la possibilità che qualcuno operi in un modo e altri in un altro, la manifestazione di molteplici pratiche, la cui diversità non sarà un ostacolo alla conseguente armonia e alla pace sociale a cui aspiriamo. Dovremmo accogliere, in sostanza, il principio della cooperazione libera, basata sull'uguaglianza dei mezzi, senza necessità di andare oltre nelle conseguenze pratiche dell'idea. Perché l'anarchia dovrebbe essere comunista o collettivista? La mera enunciazione di queste parole produce nel sentire comune l'immagine di un piano prestabilito, di un sistema chiuso. E noi anarchici, non siamo a favore di sistemi chiusi, non raccomandiamo panacee infallibili, non costruiamo su sabbie mobili castelli che si rovesciano al minimo soffio di un prossimo futuro. Proponiamo la libertà di fatto, la possibilità di agire liberamente in ogni momento e in tutti i luoghi. Questa possibilità sarà reale per le persone non appena prenderanno possesso delle risorse e potranno disporne senza che niente o nessuno le ostacoli. E sarà tanto più efficace quanto più la gente potrà liberamente mettersi d'accordo sui mezzi per gestire la produzione e la distribuzione della ricchezza a loro disposizione. Noi, anarchici, potremmo allora dire al popolo: “Fai quello che vuoi; associati come ti pare; organizza le tue relazioni per l'uso delle risorse come credi conveniente: organizza la vita in
libertà come sai e puoi”. E sotto l'influenza di opinioni diverse, sotto l'influenza del clima e delle caratteristiche etniche, dell'ambiente fisico e dell'ambiente sociale, l'attività si svilupperebbe in molteplici direzioni, sarebbero applicati metodi diversi e, col tempo, l'esperienza e le esigenze generali determinerebbero soluzioni armoniose e universali di convivenza sociale. Otterremmo attraverso l’esperienza, in parte, per lo meno, ciò che non riusciremmo a conseguire con tutte le discussioni e tutti i possibili sforzi intellettuali. L'affermazione che "tutto appartiene a tutti" non implica che ognuno possa disporre di tutto arbitrariamente o secondo una regola determinata. Significa solo che, essendo le risorse a libera disposizione degli individui, spetta a questi organizzare il godimento delle stesse. L'indagine sulle modalità di organizzazione di questo godimento è certamente utile e necessaria, soprattutto a titolo di studio, ma non come imposizione dottrinale. Però questa stessa ricerca non darà, né è necessario che dia, come risultato, una unanimità di opinioni, né è auspicabile che produca un credo sociale. Per quanto riguarda le opinioni, è indispensabile rispettarle tutte. La libertà di metterle in pratica è la migliore garanzia di questo rispetto. In una società come quella che auspichiamo, la natura diversa delle attività obbligherà, in alcuni casi, che ci si assuma a turno l'esecuzione di determinati compiti; in altri casi richiederà l’impegno volontario. Sarà necessario che un gruppo si occupi con continuità di effettuare un certo lavoro; e che altri lavori siano eseguiti, in maniera alterna, da diversi gruppi. Qui la distribuzione potrà avvenire secondo la procedura comunista, facendo affidamento alle necessità, o, per meglio dire, alle decisioni degli individui. Là, sarà appropriato attenersi volontariamente a una qualche regola, sulla base della logica o di qualcosa di simile. Nessuno è in grado di prevedere tutta la vita futura! Mi si potrà dire che tutto ciò che è stato qui esposto è, semplicemente, il comunismo. Supponendo ciò, il collettivismo è anche comunismo e viceversa. C'è solo una differenza di grado. E ciò che cerco di dimostrare è la contraddizione in cui si cade quando la parola anarchia è associata a un sistema chiuso, invariabile, uniforme, soggetto a regole predeterminate. Può esservi nel cervello di tutti noi questo spirito di ampia libertà, questo criterio generale che designo con il nome di cooperazione libera; ma i risultati concreti mostrano che, più o meno, ai termini comunismo, collettivismo, eccetera, si associa l'idea di un piano completo di convivenza sociale, al di fuori del quale tutto è considerato errato. Gli scontri tra di noi derivano proprio dall’associazione di alcune idee a
determinate parole in cui l'esclusivismo la fa da padrone. E quando alla propaganda si associano particolarismi settari, i risultati sono fatali, perché invece di sviluppare anarchici coscienti, noi produciamo fanatici del comunismo A o fanatici del comunismo B. In ogni caso, fanatici del proprio dogma, qualunque esso sia. Ai motivi, che potremmo chiamare di ordine interno, già esposti, dovrò aggiungerne altri di ordine generale che corroborano le mie convinzioni. L'esperienza attuale e quella della storia – di cui l'esperienza del futuro non sarà che il corollario – ci serviranno come indicazioni. Ovunque si desideri che un sistema abbia predominato o predomini, i fatti sono ben lungi dal seguire regole invariabili. Il principio è generalmente uno; le esperienze pratiche variano notevolmente, allontanandosi dal punto di partenza. Solo una immagine ideale può essere ottenuta dal comunismo di alcuni popoli. Nei fatti non esiste un comunismo uguale a un altro comunismo. Ovunque si fanno concessioni all'individualismo, ma in misura molto diversa. La regolamentazione della vita spazia dal libero accordo al dispotismo più ripugnante. Tra gli Eschimesi, che vivono in comunità libere, e il comunismo autoritario dell'antico impero del Perù, la distanza è enorme. Eppure, le pratiche del comunismo derivano da un unico principio: il diritto eminente della collettività. Questo principio, tuttavia, non esiste senza limiti sostanziali. Ovunque le garanzie a beneficio dell'individuo sono numerose. Talvolta la casa e il giardino sono di proprietà privata; in altri casi, la comunità dispone solo di una parte della terra, riservando le altre parti allo Stato e ai sacerdoti o ai guerrieri. Infine, gli eschimesi, nelle loro comunità libere, riconoscono all'individuo il diritto di separarsi dalla comunità e di stabilirsi altrove, sopportando tutti i rischi che potrebbero derivare da una caccia e da una pesca condotte da solo. Chiunque potrebbe, esaminando i materiali offerti dalla ricerca sociologica e storica, convincersi di quanto sia difficile spiegare come delle pratiche talmente opposte possano derivare da un principio comune. Allo stesso modo, il regime individualista è in alcune regioni più vicino al comunismo che all'individualismo propriamente detto. La proprietà, in molti casi, si limita al possesso o usufrutto che lo Stato, a suo arbitrio, concede o ritira. In altri casi l'uso della terra avviene attraverso distribuzioni periodiche, in quanto teoricamente si afferma che il terreno appartiene a tutti. Se analizziamo l'attuale esperienza di individualismo industriale o agricolo,
vediamo che il principio o la regola è una: il diritto di proprietà esclusiva e assoluta sulle cose, ma i metodi di applicazione variano da paese a paese e da città a città. Nonostante gli sforzi di unificazione dei legislatori e il potere assorbente e unificante dello Stato, le leggi sono un vero mare magnum e gli usi e costumi nell’industria, in agricoltura e nel commercio, sono così contrastanti tra di loro che ciò che è ritenuto equo in un luogo è considerato ingiusto in un altro. Ci sono paesi in cui l'associazione opera miracoli e altri dove ognuno preferisce combattere da solo per il proprio esclusivo beneficio. Il suolo di regioni intere, in una stessa nazione, appartiene a una dozzina di individui, mentre, in altre è suddiviso in piccolissime parcelle. Qui prevale la grande industria; là perdura il vecchio artigiano che lavora nella sua piccola officina. La trasmissione della proprietà mostra le forme più varie. Quanto ai guadagni che vanno a colui che gode del diritto eminente di proprietà, essi sono scomparsi o sono stati trasformati in alcuni luoghi, mentre persistono invariati in altri. È forse necessario far notare che nessuno Stato cosiddetto civilizzato è completamente a favore dell'individualismo proprietario? Infatti, nonostante l'esistenza del diritto all'uso e all'abuso delle cose di cui si è proprietari, il potere pubblico invade regolarmente il diritto dei singoli cittadini. Per motivi di utilità generale si decide un esproprio, ripristinando nuovamente il principio comunista del diritto eminente della collettività. Inoltre, una quota notevole della ricchezza è di uso comune nei paesi civilizzati; e vi è anche un gran numero di istituzioni collettive e comunità che vivono in mezzo all'individualismo moderno. Penso che sia inutile apportare testimonianze che sono a disposizione di tutti. Mi limito a indicare un processo e a trarre delle conclusioni. Dalle esperienze esposte concludo che il futuro si svilupperà seguendo un principio generale: la proprietà comune o collettiva – i termini sono per me equivalenti – delle risorse. Nella pratica, questo principio si tradurrà in metodi diversi di produzione, distribuzione e consumo, tutti basati sula libera cooperazione. Questa stessa deduzione risulta immediatamente dal principio della libertà che ci è così caro. E ora posso aggiungere che la diversità delle esperienze individualiste e comuniste esistenti nel ato e nel presente, non sono altro che la conseguenza necessaria del principio della libertà, sopravvissuto negli esseri umani nonostante tutte le costrizioni. L'individuo, così come il gruppo, tendono sempre a darsi le proprie regole di vita, a governarsi secondo le proprie convinzioni, i propri gusti ed esigenze. E anche quando una persona è sottomessa alle imposizioni di un sistema, essa condurrà la propria vita all'interno del sistema, contravvenendo il più possibile ad esso con stratagemmi e seguendo i propri desideri, necessità e
opinioni. Così è avvenuto in ato, così avviene adesso, così pensiamo avverrà in futuro. Contro l'invariabilità sistematica, contro ogni esclusivismo dottrinario, penso di aver mostrato che il corollario dell’anarchia è la libera cooperazione, all'interno della quale ogni pratica di comunità trova uno spazio adeguato. E penso che sotto il nome di "socialismo anarchico" potremmo e dovremmo unirci tutti. Gli scontri dell'esclusivismo dottrinale sembrano adesso venir meno; il mio desiderio è di aver contribuito alla loro completa scomparsa. L’affermazione del metodo della libera cooperazione è genuinamente anarchica e insegnerà, a coloro che vengono da noi, che non decretiamo né dogmi né sistemi per il futuro e che l'anarchia non è una parvenza di libertà, ma la libertà in azione.
Comunismo e anarchia, di Pëtr Kropotkin
Documento 51 (1901)
L'interesse di questo scritto risiede in tre aspetti principali: 1. l'avvertenza che il comunismo può essere sia di tipo autoritario che libertario; 2. la messa in luce degli aspetti e delle tendenze di tipo comunista all'interno dello stesso capitalismo industriale; 3. la somiglianza notevole del comunismo sostenuto da Kropotkin con il mutualismo e con altre correnti cooperativistiche in cui individui liberi, associati in comunità volontarie, giocano un ruolo determinante. Fonte: Pëtr Kropotkin, Communism and anarchy, Freedom, London, luglioagosto 1901 In se: Pëtr Kropotkin, Communisme et anarchie, Les Temps Nouveaux, Paris, 1903 e nella raccolta di scritti La Science Moderne et l'Anarchie, Paris, 1913 edizione ampliata.
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Il comunismo autoritario Molti anarchici e pensatori, in generale, pur riconoscendo gli immensi vantaggi che il Comunismo può offrire alla società, considerano però questa forma di organizzazione sociale un pericolo per la libertà e lo sviluppo autonomo degli individui. Anche molti comunisti riconoscono questo pericolo e, preso nel suo insieme, il problema andrebbe affrontato con quell’altro grande tema che il nostro secolo ha prospettato in tutta la sua ampiezza: la relazione dell’individuo con la società. La sua importanza non ha bisogno di essere sottolineata. Il problema è stato offuscato in vari modi. Quando si parla di comunismo molte persone pensano al comunismo, più o meno cristiano e monastico, dal carattere autoritario, sostenuto e praticato nella prima metà del secolo diciannovesimo in alcune comunità. Queste comunità presero la famiglia come loro modello e cercarono di formare “la grande famiglia comunista” finalizzata a “riformare l’essere umano”. A questo scopo, oltre a lavorare in comune, esse imposero una pratica di vita strettamente comunitaria, come in una famiglia, con l’isolamento o la separazione della colonia dalla civiltà esistente. Questo finiva per portare a una totale intromissione dei “fratelli” e delle “sorelle” nella vita intima di ogni membro della colonia. In aggiunta a ciò, non si sottolinerò abbastanza la differenza tra le comunità isolate, fondate durante gli ultimi tre o quattro secoli, e le numerose comunità federate che sorgeranno, con tutta probabilità, in una società che si prepara a compiere una rivoluzione sociale. È quindi necessario esaminare, uno a uno, cinque aspetti del tema: 1) La produzione e il consumo in comune; 2) La vita domestica in comune (coabitazione: è necessario oppure no configurarla sul modello della famiglia attuale?); 3) Le comunità isolate dei giorni nostri; 4) Le comunità federate del futuro; 5) Il comunismo riduce necessariamente l’individualità? In altre parole, quale è il ruolo dell’individuo in una società comunista.
Un vasto movimento di idee si è sviluppato nel corso del secolo diciannovesimo sotto la qualifica generale di socialismo, a partire da Babeuf, Saint-Simon, Fourier, Robert Owen e Proudhon che hanno espresso le correnti predominanti del socialismo, e a cui sono succedute numerose altre figure in Francia: Victor Considerant, Pierre Leroux, Louis Blanc; in Germania: Karl Marx, Friedrich Engels; in Russia: Nikolay Chernyshevsky, Mikhail Bakunin; eccetera, che hanno operato sia nel popolarizzare le idee dei fondatori del socialismo moderno sia nel porle su una base scientifica. Queste idee, prendendo forma precisa, hanno dato vita a due correnti principali: il comunismo autoritario e il comunismo anarchico. E anche a una serie di concezioni intermedie volte a trovare una via di mezzo, come ad esempio il capitalismo di Stato, il collettivismo, la cooperazione. Tra gli operai queste concezioni hanno prodotto un formidabile movimento che ha cercato di organizzare l'insieme dei lavoratori per mestiere, nella lotta contro il Capitale. Questo movimento è diventato sempre più internazionale a seguito di rapporti frequenti tra lavoratori di differenti paesi. I seguenti tre punti essenziali sono divenuti patrimonio di idee e di azione da parte del movimento operaio e sono penetrati ampiamente nella consapevolezza delle persone: 1) L’abolizione del lavoro salariato, forma moderna dell’antico servaggio; 2) L’abolizione della proprietà individuale dei mezzi di produzione; 3) L’emancipazione dell’individuo e della società dall’apparato politicoburocratico, vale a dire dallo Stato, che interviene per perpetuare la schiavitù economica. Su questi tre punti, tutti sono d’accordo, anche coloro che sono a favore dei “buoni del lavoro” o quelli che, come Paul Brousse [150], vorrebbero che tutti fossero “funzionari”, vale a dire impiegati dello Stato o del Comune. Essi ammettono che, quando sostengono uno di questi punti, lo fanno solo perché non vedono la possibilità di realizzare subito il comunismo. Per cui accettano dei compromessi come espedienti temporanei, ma il loro scopo finale rimane sempre il comunismo. E, per quanto riguarda lo Stato, anche il più fervido partigiano dello Stato, del potere, persino della dittatura, riconosce che, con la scomparsa delle classi che esistono attualmente, anche lo Stato cesserà di esistere. Per questo possiamo affermare, senza esagerazione, quanto importante sia la
nostra componente – la componente anarchica – nell’ambito del movimento socialista, e questo nonostante tutte le differenze esistenti tra i vari rami del socialismo (differenze basate, soprattutto, sul carattere più o meno rivoluzionario dei mezzi di azione scelti da ogni componente). E possiamo anche affermare che tutte le componenti, per voce dei suoi esponenti, riconoscono nell’evoluzione verso il Comunismo Libero e Volontario la finalità del socialismo. Tutto il resto, come ammettono essi stessi, non sono altro che momenti di aggio verso questo fine. Sarebbe inutile soffermarsi su questi momenti di aggio senza esaminare prima le tendenze dello sviluppo della società moderna. Produzione e consumo in comune Di queste differenti tendenze, due, innanzitutto, meritano la nostra attenzione. Una consiste nella crescente difficoltà a determinare la quota da assegnare a ogni individuo nell’ambito della moderna produzione. L’industria e l’agricoltura sono diventate così complesse, così interconnesse, tutte le imprese sono così dipendenti l’una dall’altra, che il pagamento a un lavoratore-produttore sulla base dei suoi risultati diventa impossibile quanto più si sviluppa l’industria; è per questo che il versamento di un salario mensile ha, in via generale, sostituito la remunerazione sulla base delle quantità prodotte. I salari, d’altra parte, tendono a uniformarsi. Di certo, rimane la divisione dell’attuale società borghese in classi e c’è una notevole parte di borghesi che guadagna sempre più pur producendo sempre meno. La stessa classe operaia è divisa in quattro grandi componenti: 1) le donne; 2) i lavoratori agricoli; 3) i lavoratori comuni; 4) i lavoratori specializzati. Queste divisioni rappresentano quattro diversi livelli di sfruttamento e non sono altro che il risultato dell’organizzazione produttiva messa in atto dalla borghesia. In una società di persone con pari dignità, in cui tutti possono apprendere un mestiere e in cui cesserà lo sfruttamento delle donne da parte degli uomini e del contadino da parte dell'industriale, queste classi scompariranno. Ma, anche al
giorno d’oggi, i livelli salariali all’interno di queste classi tendono a unificarsi. Questo ha fatto dire che “una giornata lavorativa di un marinaio ha lo stesso valore di quella di un gioielliere”, e ha portato Robert Owen a concepire i suoi “buoni del lavoro” pagati a tutti coloro che avevano effettuato un certo numero di ore nella produzione di beni necessari. Ma se volgiamo lo sguardo a tutti i tentativi fatti in ato in questa direzione, troviamo che, a eccezione di alcune migliaia di agricoltori negli Stati Uniti, i “buoni del lavoro” non si sono più diffusi dopo i primi decenni del secolo diciannovesimo [151] quando Owen ne aveva sperimentato l’introduzione. Le ragioni di ciò sono state esaminate altrove (vedi il capitolo: Il sistema salariale nel mio libro La conquista del pane, 1892). D’altra parte, assistiamo a un gran numero di tentativi di socializzazione parziale che vanno nella direzione del comunismo. Centinaia di comunità comuniste sono state fondate quasi dappertutto nel corso di questo secolo diciannovesimo e, attualmente, ne conosciamo oltre un centinaio che sono più o meno su basi comuniste. È nella stessa direzione del comunismo – comunismo parziale, diremmo noi – che si indirizzano quasi tutti i numerosi tentativi di socializzazione che vediamo nella società borghese, sia tra individui sia con riferimento alla socializzazione nell'affrontare problemi da risolvere nell’ambito di un Comune. Grandi alberghi, navi, case di accoglienza, sono tutti esperimenti nella direzione della socializzazione, messi in atto dalla borghesia. Durante una buona parte del giorno una persona ha la possibilità di scegliere tra dieci o quindici piatti di cibo, in un grande albergo o su una nave, e non vi è nessuno che controlli quanto un individuo abbia mangiato. Questo modo di organizzare le cose avviene addirittura a livello internazionale; prima di lasciare Parigi o Londra si possono comperare dei buoni (a 10 franchi al giorno) che permettono a una persona di soggiornare a sua scelta in centinaia di alberghi in Francia, Germania, Svizzera, eccetera, tutti facenti parte di una catena internazionale. La borghesia ha pienamente compreso i vantaggi di un comunismo parziale, associato a una libertà quasi illimitata dell’individuo per quanto riguarda i consumi. In tutte queste località, pagando una quota mensile fissa, si potrà godere di vitto e alloggio, con la sola eccezione per quanto riguarda degli extra (vino, stanze più spaziose) che sono addebitati separatamente.
L’assicurazione sugli incendi, sui furti e sugli incidenti (soprattutto nei piccoli centri dove la similarità delle situazioni permette di applicare la stessa tariffa a tutti gli abitanti); gli accordi attraverso i quali grandi magazzini inglesi forniranno, dietro pagamento di una quota settimanale, tutto il pesce che una famiglia può consumare; i club; le innumerevoli società di assicurazione contro la malattia, eccetera. Questa massa di istituzioni create durante il diciannovesimo secolo costituisce delle tendenze verso il comunismo che riguardano una parte dei nostri consumi totali. Infine, vi è una vasta serie di istituzioni comunali – acqua, gas, elettricità, abitazioni popolari, treni con tariffe di viaggio uniformi, bagni pubblici, lavanderie comunali, eccetera, in cui simili esperienze di consumo socializzato sono praticate su scala crescente. Tutto ciò non è certamente ancora comunismo. Lungi da ciò. Ma il principio interno a queste istituzioni è in parte di tipo comunista: con una quota fissa annuale o per giorno (di denaro oggi, di lavoro domani) una persona ha diritto di soddisfare – fatta eccezione per articoli di lusso – una certa categoria di bisogni. Tali avvicinamenti al comunismo differiscono dal vero comunismo sotto vari aspetti, e soprattutto per i seguenti motivi: 1) il pagamento avviene in denaro invece che sotto forma di lavoro; 2) i consumatori non hanno voce in capitolo nell’amministrazione dell’attività produttiva. Tuttavia, se la tendenza di queste istituzioni fosse ben compresa, non sarebbe difficile anche oggi avviare, a seguito dell'iniziativa di un individuo o di un gruppo, una comunità che introducesse il primo dei princìpi a cui si è fatto cenno, vale a dire, la produzione e il consumo in comune. Supponiamo che vi sia un territorio di 500 ettari su cui sono costruite 200 piccole abitazioni, ognuna con il suo giardino o un frutteto di un quarto di ettaro. L’amministrazione permette ad ogni famiglia che occupa una abitazione di scegliere, da una lista di 50 piatti preparati ogni giorno, quelli che essa desidera, oppure fornisce alimenti come pane, verdure, carne, caffè, per una preparazione a casa. In cambio si richiede o un versamento annuale di una certa quantità di denaro o un certo numero di ore di lavoro, secondo la scelta del consumatore, da effettuare a vantaggio di uno dei dipartimenti produttivi dell’agglomerato: agricoltura,
allevamento del bestiame, cucine, servizi di pulizia. Questo schema si potrebbe mettere in pratica domani se ci fosse una domanda, e ci si dovrebbe chiedere come mai una fattoria/residenza/centro di produzione orticola non sia stato ancora aperto dall'intraprendente gestore di un albergo. Si potrebbe di certo obiettare che è proprio a questo riguardo, vale a dire l’introduzione di una attività in comune, che i comunisti sono generalmente andati incontro al fallimento. Eppure, questa obiezione non regge. Le cause del fallimento sono state sempre altre. Innanzitutto, quasi tutte le comunità sono state fondate sulla spinta di un entusiasmo quasi religioso. Alle persone è stato chiesto di diventare “faro dell’umanità”; di sottomettersi agli imperativi di una puntigliosa moralità, di diventare, in un certo qual modo, esseri rigenerati da una vita secondo i dettami del comunismo, di dare tutto il loro tempo, ore di lavoro e di svago, alla comunità, di vivere interamente per la comunità. Questo significava agire semplicemente come monaci ed esigere dalle persone – senza alcuna necessità – di essere quello che non sono. Solo recentemente abbiamo avuto comunità che sono state fondate da anarchici impegnati nella produzione, senza alcuna pretesa stravagante, e sulla base di motivazioni puramente economiche, per sottrarsi allo sfruttamento capitalistico. Vita domestica in comune Il secondo errore è consistito nel desiderare di amministrare la comunità come se fosse una famiglia, di volerne fare “una grande famiglia”. Le persone vivevano tutte nella stessa casa ed erano quindi obbligate a essere continuamente in contatto con gli stessi “fratelli e sorelle”. È spesso difficile, anche per due veri fratelli, vivere assieme nella stessa casa, e l’esistenza familiare non è sempre armoniosa; per questo, è stato un errore fondamentale imporre a tutti il modello della “grande famiglia” invece di tentare, al contrario, di assicurare ad ogni individuo il massimo di libertà e di vita domestica personale. Inoltre, una piccola comunità non può perpetuarsi a lungo. “Fratelli e sorelle” obbligati a vedersi di continuo, con una scarsità di nuove esperienze, finiscono per detestarsi l’un l’altro. Se due persone, diventano rivali o semplicemente non si piacciono, esse sono in grado, con le loro divergenze, di portare una comunità alla dissoluzione. Perciò, il mantenere in vita per molto tempo di tali comunità
sarebbe cosa molto strana, soprattutto se si tiene conto che tutte quelle che sono state fondate fino a ora si sono isolate dalla società. È una conclusione scontata che una associazione assai ristretta di 10, 20 o 100 persone non può durare più a lungo di tre o quattro anni. Sarebbe persino deplorevole che durasse di più, perché questo vorrebbe solo dire o che tutti gli individui sono caduti sotto l’influsso di uno di loro o che tutti hanno perso la loro individualità. Per cui, dal momento che è certo che, nel giro di tre, quattro o cinque anni, una parte dei membri di una comunità sentirebbe il desiderio di partire, dovrebbero esistere almeno una dozzina o più di comunità federate in modo che coloro che, per un motivo o per l’altro, volessero lasciare una comunità, potessero entrare a far parte di un’altra comunità, ed essere sostituiti da nuovi venuti, provenienti da altre località. Altrimenti, l’alveare comunista deve necessariamente morire oppure (cosa che avviene quasi sempre) cadere nelle mani di un individuo – generalmente il più scaltro dei “fratelli”. Le comunità isolate dei giorni nostri e le comunità federate del futuro Infine, tutte le comunità fondate fino a ora, si sono isolate dalla società. Ma la lotta, una vita fatta di lotte, è cosa di cui un essere umano attivo sente il bisogno, più che di una tavola ricolma di cibo. Il desiderio di vedere il mondo, di sperimentare le sue correnti di vita, di condurre le sue battaglie, è un richiamo pressante per le giovani generazioni. Da questo ne deriva, come sottolineato da Tchaikovsky sulla base della sua esperienza, che i giovani, all’età di 18 o 20 anni, necessariamente abbandonano una comunità ristretta, che non include l’insieme della società. È necessario poi aggiungere che i governi, di qualsiasi tipo, hanno costituito i peggiori ostacoli per tutte le comunità. Quelle comunità che hanno avuto meno governo o nessun governo (come è mostrato nella Giovane Icaria) [152] sono quelle che hanno avuto più successo, ed è facile capire il perché. L’odio politico è uno dei più violenti nel suo genere. Noi possiamo vivere nella stessa località con i nostri avversari politici se non siamo obbligati a vederli sempre. Ma come è possibile la vita in una piccola comunità dove ci incrociamo ad ogni istante? Il contrasto politico farebbe la sua apparizione durante lo studio, sul posto di lavoro, nei momenti di svago, e la vita diventerebbe impossibile. Invece, è stato attestato che il lavoro in comune, la produzione in forma comunista, funziona a meraviglia. In nessuna impresa commerciale è stato aggiunto così tanto valore alla terra attraverso il lavoro in comune come è
avvenuto in ognuna delle comunità fondate in America e in Europa. Errori di calcolo possono avvenire dappertutto, come si verificano anche in tutte le imprese capitalistiche; ma, sapendo che durante i primi cinque anni dalla sua fondazione, quattro imprese commerciali su cinque fanno bancarotta, occorre riconoscere che nulla di simile o che si avvicina a ciò si è verificato nelle comunità di tipo comunista. Per cui, quando la stampa borghese fa delle battute e parla di offrire agli anarchici un’isola dove fondare la loro comunità, sulla base della nostra esperienza siamo pronti ad accettare l’offerta, posto solo che questa isola sia, ad esempio, l'Île-de- [153] e che, sulla base della valutazione del capitale sociale noi riceviamo la nostra parte. Ma, dal momento che sappiamo che né l'Île-de- né la nostra parte di capitale sociale ci saranno dati, noi ci prenderemo, un bel giorno, sia l’una che l’altro, direttamente, per mezzo di una Rivoluzione Sociale. Parigi e Barcellona nel 1871 [154] non erano molto lontane dall’attuare ciò – e le idee si sono fatte strada da allora. Il progresso ci permette di vedere innanzi tutto che una città isolata, che proclami la Comune, avrebbe notevoli difficoltà a esistere. L’esperimento, quindi, andrebbe fatto su un territorio – ad esempio, uno degli Stati occidentali degli Stati Uniti d'America, l’Idaho o lo Ohio – come suggeriscono i socialisti americani, ed essi hanno ragione. Su un territorio sufficientemente grande, e non nei limiti di una sola città, dobbiamo un giorno iniziare a praticare il comunismo del futuro. Abbiamo mostrato così tante volte che il comunismo di Stato è cosa impossibile, per cui è inutile soffermarci ancora sul tema. Per di più, una prova consiste nel fatto che coloro che credono nello Stato, i sostenitori del socialismo di Stato, non credono affatto nel comunismo. Un buon numero di loro è interessato alla conquista di una parte del potere nello Stato attuale – lo Stato borghese. Essi non si preoccupano affatto di chiarire se la loro idea di un socialismo di Stato sia diversa da un sistema di Capitalismo di Stato sotto il quale tutti sarebbero impiegati dello Stato. Se gli si dice che questo è il loro scopo, si mostrano irritati; eppure, essi non spiegano quale altro sistema di società vorrebbero istituire. Dal momento che non credono nella possibilità di una rivoluzione sociale nel prossimo futuro, il loro fine è quello di diventare una componente del governo dello Stato borghese di oggi e lasciano che il futuro decida dove porterà tutto ciò. Quanto a coloro che hanno tentato di delineare i tratti di un futuro Stato socialista, costoro rispondono alle nostre critiche affermando che tutto quello che
essi vogliono sono uffici di statistica. Ma questo non è che un gioco di parole. D'altronde, attualmente si riconosce che le sole statistiche valide sono quelle fornite dagli individui stessi quando dichiarano la loro età, occupazione e posizione sociale, o fanno la lista di ciò che è stato venduto o comprato, prodotto e consumato. Le domande da porre agli individui sono generalmente elaborate da volontari (studiosi, società di statistica) e il lavoro degli uffici di statistica consiste attualmente nel far circolare le domande, e tabulare e sommare automaticamente le risposte. Ridurre lo Stato, cioè i governi, a questa funzione e affermare che, per “governo” si intende solo questo, non significa altro, per dirla con tutta sincerità, se non concedere al governo una onorabile ritirata. E, in effetti, dobbiamo ammettere che i Giacobini di trenta anni fa si sono notevolmente ricreduti riguardo ai loro ideali di dittatura e di centralizzazione socialista. Nessuno più osa dire che la produzione e il consumo di patate o di riso devono essere regolati dal Parlamento dello Stato Popolare Tedesco ( Volkstaat) a Berlino. Queste idiozie non sono più sostenute. L’individuo in una società comunista Lo Stato Comunista è dunque una idea fantasiosa abbandonata già da un pezzo dai suoi aderenti, ed è adesso venuto il tempo di andare oltre. Un tema molto più importante da esaminare è questo: se il comunismo anarchico o comunismo libertario non porti necessariamente a una diminuzione della libertà degli individui. Il fatto è che, in tutte le discussioni sulla libertà, le nostre idee sono rese confuse dalla sopravvivenza del retaggio di secoli ati di asservimento e di oppressione religiosa. Gli economisti hanno descritto il contratto che si instaura tra il padrone e il lavoratore, e che nasce da rapporti di forza squilibrati, concluso sotto la minaccia di morire di fame, come una condizione di libertà. Gli uomini politici, anche loro, hanno fatto lo stesso con riferimento alla condizione attuale dei cittadini che sono diventati sudditi e contribuenti dello Stato. I moralisti più avanzati, come John Stuart Mill e i suoi numerosi discepoli, hanno definito la libertà come il diritto di fare tutto salvo l’invadere l’altrui spazio di libertà. Il fatto è che il termine “diritto” è un termine poco chiaro, tramandatoci dal ato, che significa o nulla del tutto o qualcosa di troppo. La definizione di Mill ha poi
permesso al filosofo Herbert Spencer, a numerosi pensatori e persino a taluni anarchici individualisti, di ricostituire i tribunali e riproporre le punizioni per legge, fino alla pena di morte – il che vuol dire, in ultima analisi, la necessaria reintroduzione dello Stato che essi stessi avevano criticato in modo così ammirevole. L’idea della libera volontà rimane poi celata dietro tutti questi ragionamenti. Vediamo, allora, che cos'è la Libertà? Se mettiamo da parte tutti gli atti non coscienti e prendiamo in esame solo le azioni volute espressamente (essendo solo queste quelle che la legge, la religione e il sistema penale cercano di influenzare) troviamo che ogni azione di questo tipo è preceduta, nel cervello umano, da una qualche riflessione. Ad esempio, qualcuno pensa tra sé: “Uscirò e farò una eggiata”. “No, ho un appuntamento con un amico” oppure, “Ho promesso di finire un certo lavoro” oppure ancora, “Mia moglie e i miei figli non vorrebbero restare soli a casa” oppure “Perderò il mio impiego se non vado a lavorare”. L’ultima riflessione implica la paura di una punizione. Nei primi tre casi l’individuo ha a che fare solo con sé stesso, le sue abitudini di lealtà, le sue simpatie. E in questo consiste tutta la differenza. Noi diciamo che una persona costretta a pensare che deve abbandonare questo o quest’altro proposito per paura di una punizione, non è una persona libera. E affermiamo che l’umanità può e deve liberarsi dalla paura della punizione; che essa può formare una società anarchica nella quale la paura di ricevere una punizione e persino il dispiacere di essere biasimati, scompariranno. Noi avanziamo verso questo ideale. Ma noi sappiamo anche che non possiamo emanciparci dalle nostre abitudini di lealtà (mantenere la parola data) né dalle nostre simpatie (il timore di ferire le persone che amiamo e che non vogliamo addolorare e nemmeno deludere). A questo riguardo l’essere umano non è mai libero. Robinson Crusoe nella sua isola non era libero. Nel momento in cui ha cominciato a costruire la sua imbarcazione, a coltivare il suo orto o a mettere da parte le provviste per l’inverno, egli era già preso e assorbito dal suo lavoro. Se si fosse sentito pigro, e avesse preferito rimanere sdraiato nella sua grotta, nonostante ciò, dopo un momento di esitazione, sarebbe andato avanti con il suo lavoro. Quando ha avuto la compagnia di un cane, di due o tre capre e, soprattutto, dopo che ha incontrato venerdì, non era più assolutamente libero nel senso in cui si impiega talvolta
questo termine nelle discussioni. Aveva degli obblighi, aveva da pensare all'interesse di altri, non era più quel perfetto individualista che talvolta ci aspettiamo di trovare. Nel momento in cui ha una moglie e dei figli, educati direttamente da lui o affidati ad altri (la società), nel momento in cui ha un animale domestico, o anche solo un orto che richiede di essere innaffiato regolarmente – da quel momento egli non è più colui che può dire “non è compito mio”, non è più “l’egoista”, non è più “l’individualista” che talvolta viene raffigurato come l’esempio classico di essere umano libero. Né sull’isola di Robinson Crusoe e né tanto meno in una qualsiasi società, esiste questa tipologia di individuo. L’essere umano prende e prenderà sempre in considerazione gli interessi degli altri nella misura in cui si stabiliranno dei rapporti di mutuo interesse tra di loro, e tanto più quando queste altre persone faranno conoscere i loro propri sentimenti e desideri. Per questo non troviamo altra definizione della libertà se non la seguente: la possibilità di agire senza essere influenzati in queste azioni dalla paura di punizioni da parte della società (vincoli fisici, minaccia di patire la fame o persino il biasimo, a meno che ciò non provenga da una persona amica). Se comprendiamo la libertà in questo senso – e dubitiamo che si possa trovare una definizione più ampia e al tempo stesso più concreta – possiamo affermare che il comunismo può diminuire, persino annullare del tutto la libertà individuale, e in molte comunità comuniste questo è stato tentato; ma può anche accrescere la libertà fino ai suoi massimi livelli. Tutto dipende dalle idee di base sulle quali si fonda l’associazione. Non è la forma di una associazione che determina l’esistenza della schiavitù; è l’idea della libertà individuale che portiamo con noi all’interno dell’associazione che determina il carattere più o meno libertario di tale associazione. Questo vale per tutte le forme di associazione. La coabitazione di due individui sotto lo stesso tetto può portare all’assoggettamento di uno al volere dell’altro, come pure alla libertà per entrambi. Lo stesso vale per una famiglia o nel caso dell’attività in comune di due persone che curano un giardino o pubblicano un giornale. Lo stesso può avvenire in riferimento ad associazioni grandi o piccole, in ogni istituzione sociale. Quindi, nel decimo, undicesimo e dodicesimo secolo, troviamo comunità di uguali, formate da persone ugualmente libere – e quattro secoli più tardi vediamo le stesse comunità che vogliono che tutto il potere sia affidato nelle mani di un ecclesiastico. I giudici e le leggi sono rimaste; l’idea del
diritto Romano, dello Stato, è diventata dominante, mentre sono scomparse le idee di libertà, di risolvere le dispute per via di arbitrati e di attuare il federalismo nella forma più estesa. Da qui è sorto l’asservimento. Ebbene, tra tutte le istituzioni o forme di organizzazione sociale che sono state sperimentate fino ad oggi, il comunismo è quella che garantisce la sfera maggiore di libertà individuale – posto che l’idea che dà vita alla comunità sia quella di Libertà, l’anarchia. Il comunismo è capace di assumere tutte le forme di libertà o di oppressione, cosa di cui le altre istituzioni sono incapaci. Può produrre una comunità di monaci in cui tutti implicitamente obbediscono agli ordini di un superiore, e può produrre una organizzazione assolutamente libera, lasciando all’individuo una piena libertà d’azione. In questo caso l’associazione rimane in vita solo fino a quando i suoi membri hanno l’intenzione di restare uniti, non imponendo qualcosa a chicchessia, e anzi, disposti tutti a difendere, ampliare ed estendere in ogni direzione la libertà dell’individuo. Il comunismo può essere autoritario (nel qual caso la comunità deperirà ben presto) o può essere anarchico. Lo Stato, al contrario, non può essere altro che autoritario oppure cessa di esistere in quanto Stato. Il comunismo garantisce la libertà economica meglio di ogni altra forma di associazione, perché può provvedere al benessere delle persone, persino alla dotazione di beni di lusso, in cambio di alcune ore di lavoro, invece di una lunga giornata di fatiche individuali. Ora, l’avere ogni giorno dieci o undici ore dedicate a sé stessi su sedici ore che costituiscono la parte attiva di una giornata (contando otto ore per il sonno) significa ampliare la libertà dell’individuo, conseguendo ciò che è stato per migliaia di anni uno dei massimi ideali dell’umanità. Oggi questo può diventare realtà avendo a disposizione i moderni mezzi di produzione, frutto della meccanizzazione. In una società comunista l’individuo può disporre di almeno dieci ore di svago. Questo significa emancipare l’essere umano da uno dei compiti più onerosi che lo affliggono. Costituisce un accrescimento della libertà. Riconoscere a tutte le persone pari dignità e rinunciare al domino dell’uomo sull’uomo costituisce un altro ampliamento della libertà a un livello che nessuna altra forma di associazione ha mai concepito, neanche nei suoi sogni. Ciò
diventa possibile solo dopo che il primo o è stato compiuto: quando l’individuo ha la garanzia di disporre dei mezzi di esistenza e non è obbligato a vendere le sue capacità fisiche e mentali a coloro che sono pronti a sfruttarlo. Infine, occorre riconoscere che la possibilità di una varietà nelle occupazioni costituisce la base di ogni progresso, e per questo bisogna organizzare le cose in modo tale che l’individuo possa essere pienamente libero durante le ore di svago e possa anche cambiare di attività produttiva, sulla base di una educazione che lo prepari a ciò fin dalla prima infanzia. Tutto questo può essere realizzato facilmente in una società comunista. Si tratta, ancora una volta, di emancipare l’individuo e spalancare davanti a lui le porte, per il suo pieno sviluppo, in tutte le direzioni. Per quanto riguarda il resto, tutto dipende dalle idee sulle quali la comunità è fondata. Sappiamo di una comunità religiosa nella quale alcuni membri erano scontenti e questo appariva chiaramente sui loro volti; un loro confratello era solito rivolgersi a costoro dicendo: “Tu sei triste e, nonostante ciò, mostrati allegro altrimenti affliggerai gli altri fratelli e sorelle”. E sappiamo di comunità composte da sette membri uno dei quali chiedeva che si formassero quattro comitati: per il giardinaggio, per le provviste, per la contabilità e per la vendita all’esterno, con poteri assoluti per il presidente di ogni comitato. Sono certamente esistite comunità fondate o dominate da “autorità criminali” (un tipo speciale da sottoporre all’attenzione del Signor Lombroso) [155] e un certo numero di comunità sono state avviate da persone folli che richiedevano che l’individuo fosse totalmente assorbito dal gruppo. Ma queste comunità non erano il prodotto del comunismo ma del cristianesimo (eminentemente autoritario nella sua essenza) e del diritto statale romano. L’idea di base delle persone che sostengono che la società non può esistere senza la polizia e i giudici, vale a dire senza lo Stato, costituisce un pericolo per qualsiasi forma di libertà. Nulla a che vedere con l’essenza del comunismo che consiste nel consumare e produrre senza calcolare esattamente, con precisione matematica, quanto toccherebbe a ciascun individuo. Questa idea è, per l’appunto, una idea di libertà e di emancipazione dai vincoli imposti. Siamo arrivati quindi alle conclusioni seguenti. I tentativi di comunismo sono finora falliti perché:
- erano basati su una spinta di carattere religioso, invece di prendere in considerazione una comunità come un semplice strumento per meglio organizzare la produzione e il consumo; - queste comunità si sono formate in isolamento dalla società; - erano imbevute di uno spirito autoritario; - erano isolate invece di essere federate; - richiedevano ai membri uno sforzo lavorativo eccessivo tale da non lasciare loro del tempo libero per lo svago; - erano modellate sulla forma della famiglia patriarcale invece di avere come finalità la massima emancipazione possibile dell’individuo. Il comunismo, essendo principalmente una forma di organizzazione economica, non pregiudica in alcun modo la sfera di libertà garantita all’individuo, colui che promuove nuovi progetti, il ribelle contro ogni cristallizzazione dei costumi. La comunità comunista può essere autoritaria, il che conduce necessariamente alla scomparsa della comunità stessa, oppure può essere libertaria, il che, nel secolo dodicesimo, anche in presenza di un comunismo parziale nei comuni di nuova formazione, portò alla creazione di una civiltà giovane, piena di vigore, una nuova primavera della vita in Europa. Ad ogni modo, la sola forma duratura del comunismo è quella nella quale, attraverso lo sviluppo di una stretta intesa tra le persone, tutti gli sforzi saranno fatti per ampliare la libertà degli individui in tutte le direzioni. Con queste condizioni, sotto l’influsso di questa idea, la libertà dell’individuo, cresciuta già notevolmente per via del tempo libero che ha saputo conquistarsi, non sarà limitata in alcuna maniera; non più di quanto si potrebbe sentire limitato qualcuno, al giorno d'oggi, in presenza di una distribuzione del gas sotto il controllo municipale, della consegna di cibi a domicilio da parte di grandi distributori, dell'esistenza dei moderni alberghi, o del fatto che, durante una giornata lavorativa, ci impegniamo a operare accanto a migliaia di altre persone attive come noi. Con l’anarchia come fine e come mezzo, il comunismo diventa possibile, Senza l’anarchia, il comunismo diventerebbe una schiavitù e non potrebbe esistere.
Dall'individualismo alle individualità, di Pëtr Kropotkin
Documento 52 (1902)
L’anarchico comunista Kropotkin sottolinea in questa lettera a Max Nettlau la sua adesione a una società in grado di consentire il massimo sviluppo delle individualità. Al tempo stesso, differenzia la sua visione da quella dei sostenitori dell’individualismo che, secondo l'autore, avrebbe come risultato la diffusione di un gretto egoismo e lo sfruttamento dei molti da parte di pochi. Fonte: Estratto da Letter to Max Nettlau. Si è fatto riferimento anche al testo in se Une lettre inédite de Pierre Kropotkine à Max Nettlau, 1902. La lettera è conservata presso l’Istituto internazionale di Storia Sociale di Amsterdam.
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Quello che finora è stato chiamato "individualismo" non era altro che un egoismo idiota che porta all'indebolimento del singolo. Idiota, perché non si trattava affatto di individualismo. Non ha portato a quello che ci si era posti come obiettivo: lo sviluppo completo, ampio e perfettamente realizzabile dell'individualità. Nessuno, tranne Ibsen, è riuscito, mi sembra, a elevarsi alla concezione del vero individualismo; e anche lui, dopo averlo intravisto attraverso una visione geniale, non è stato in grado di esprimerlo in modo da farsi capire. Tuttavia, c'è in Ibsen una certa visione dell'individualismo futuro, che scorgo, e che consisterà nell’affermazione massima dell'individualità – così diversa dall'individualismo misantropo borghese come dal comunismo dei primi cristiani, e parimenti ostile a entrambi, poiché entrambi sono di ostacolo al pieno sviluppo dell’individualità. L'individualismo, che credo diventerà l'ideale della filosofia nel prossimo futuro, non cercherà la sua espressione nell'appropriazione di qualcosa di più di quanto spetta, ad ogni individuo, come giusta parte, del patrimonio comune della produzione (l'unico patrimonio che la borghesia ha preso in considerazione); non consisterà nella creazione in tutto il mondo di una folla di schiavi al servizio della nazione eletta ( individualismus o pro sibi Darwinianum o meglio Huxleianum) [156]; non sfocerà nell'individualismo sensuale e nella "liberazione dal bene e dal male” [157], che alcuni anarchici si ci hanno propagandato – meschine riflessioni dei nostri padri, gli "esteti", gli "ammiratori del bello", i poeti che si ispirano alle figure di Byron e di Don Giovanni, che hanno predicato anch’essi questo tipo di individualismo. E non si baserà nemmeno sull'oppressione del vicino ( individualismus Nietzscheanum) [158] che riduce "la bella bestia bionda" allo stato di bue in un branco di buoi – ma su una sorta di individualismus [159] o personalismus [160] o pro sibi communisticum, che io vedo venire, e che cercherei di definire più precisamente se potessi dedicarvi il tempo necessario. Ciò che è stato rappresentato finora come individualismo era qualcosa di miserabile, meschino, minuscolo – e ciò che è peggio, contenente in sé la negazione dello scopo, l'impoverimento dell'individualità, o almeno la negazione di ciò che è necessario per ottenere la più completa fioritura dell'individuo. Abbiamo visto re che erano ricchi e si ingozzavano per are il tempo, e ci si è affrettati a rappresentare l'individualismo come la tendenza a diventare ricchi come un re, circondati da schiavi come un re, vezzeggiati dalle donne (quali donne! chi le vorrebbe tali donne?) come un re, mangiando lingue di usignolo
(fredde e sempre con la stessa salsa!) in piatti d'oro o d'argento, come un re! Eppure, cosa vi è al mondo di più banalmente borghese di un re! E, peggio ancora, qualcuno più schiavo di un re! La “bestia bionda” di Nietzsche mi fa ridere [161]. Eppure, grazie a tutta una fraseologia perversa prodotta dalla letteratura dell'epoca (gli anni dal 1820 al 1830) questi signori esteti volevano farvi credere che essi rappresentassero un tipo superiore di umanità. E noi continuiamo a ritenere ingenuamente che quei signori che chiedevano di poter abusare dei piaceri (“A me i piaceri!” recita un’aria del "Faust" di Gounod) [162], abbiano rappresentato uno sviluppo superiore dell'individualità, il progresso, un desideratum – le perle della razza umana! Fino ad ora, a questi sostenitori dell'individualismo si è opposto solo il predicatore cristiano, che invitava all'annientamento della personalità [a favore della comunità, N.d.T.]. Quindi essi avevano buon gioco. Demolendo il cristianesimo, Nietzsche, dopo Fourier, compie un lavoro superbo. È la stessa cosa di quando si opponeva all'egoista, l'altruista, e il primo faceva bella figura nel dimostrare che anche l'altruista era guidato dall’egoismo. Invece, all’egoista idiota, incapace di comprendere il proprio interesse e simile a quel re Zulu che credeva di "affermare la propria personalità" mangiando 1/4 di bue al giorno, era necessario opporre (come ha fatto Tchernychevsky) [163] l'egoista perfetto. In altri termini, il "realista pensante" di Pisarev [164], che è stato capace di un bene sociale infinitamente più grande dei più forti altruisti cristiani o comtiani [165] – pur affermando e sapendo di essere sempre guidato da null’altro che dall'egoismo. Da queste poche e rapide indicazioni capirete probabilmente cosa intendo per personalismus o pro sibi communisticum: l'individualità che raggiunge il più alto sviluppo personale possibile, attraverso la pratica, per ciò che concerne quei pochi bisogni fondamentali, e che, nelle sue relazioni con gli altri in generale, esprime la più alta socialità comunista. Il borghese aveva affermato che per l'emergere della sua personalità aveva bisogno di schiavi, che doveva sacrificare gli altri (non sé stesso, eccetera…), e il risultato è stato la riduzione delle individualità, come ben appare nella attuale società borghese. È questo l’individualismo?! Oh, quanto ne avrebbe riso Goethe, dotato di una vera individualità! Ma prendete in esame Goethe stesso, questa individualità così fortemente marcata. Se avesse avuto un compito da eseguire insieme ad altri, si sarebbe tirato indietro? No. Avrebbe reso felici i suoi compagni di lavoro!
Avrebbe portato in quella sua attività una enorme gioia di vivere, allegria, vivacità, spirito comunitario e socievolezza. E, al tempo stesso, non avrebbe perso nulla della sua immensa capacità poetica e filosofica: sarebbe risultato ancora una volta vittorioso, sviluppando un nuovo aspetto del genio umano. Osservate la sua gioia nello sperimentare l'aiuto reciproco, la gioia di godere del compimento di un' opera in comune. La sua persona, la sua individualità, sviluppandosi in tal modo in questa nuova direzione (nulla di umano gli era estraneo), avrebbe aggiunto un'altra corda agli accordi del suo strumento. E ho conosciuto, nella vita delle comunità russe, queste individualità che, pur essendo quelle che i russi chiamano mirskoi tchelovek (persone comuni) nel pieno senso del termine, erano anche personalità singole che hanno rotto con tutti i pregiudizi del loro villaggio e hanno camminato da soli, per la loro strada – che si trattasse di una rivolta politica individuale, di una rivolta della morale personale, di una rivolta antireligiosa, di una faccenda amorosa o altro. Ecco perché l'individualismo di cui i giovani anarchici si ci hanno parlato per un po' di tempo, lo trovo meschino, piccolo e falso, perché non coglie proprio l'obiettivo che si prefigge. E tutto ciò risuona al mio orecchio ancora più falso e stonato perché vi erano allora individui che, in quello stesso momento, stavano consapevolmente salendo sul patibolo per la causa comune, dopo aver affermato con forza la loro personalità. È solo perché il concetto di “individualismo” è così poco compreso che altri, definendosi individualisti, hanno creduto di appartenere alla stessa sfera intellettuale e politica di questi esseri che hanno sacrificato la loro vita. […] Considerazione di Max Nettlau In alcune considerazioni alla lettera di Kropotkin, Nettlau sottolinea ancora di più il pregio della unicità degli individui che possono anche non riconoscersi nella «individualità comunista» sostenuta da Kropotkin e vogliono percorrere strade del tutto nuove. Secondo Nettlau anche la ricerca di costoro è degna della massima attenzione e della massima libertà. “Io non sono mai stato affascinato da qualche variante dello pseudoindividualismo, e riconosco la bellezza dell'individualismo comunista che Kropotkin intravede. Ma anche l’essere umano maggiormente ispirato dal sentimento sociale e il più socievole può talvolta desiderare di procedere in
modo più individuale e indipendente, separandosi per un certo tempo dalle strade percorse da altri. Questo era ciò che doveva essere detto in maniera molto chiara per dissipare l'impressione che il comunismo libertario avrebbe automaticamente assorbito le iniziative e gli atti individuali indipendenti. Se un individualismo sincero e altruista trova soddisfazione nell'individualismo comunista di Kropotkin, tanto meglio per la realizzazione delle sue idee, ma solo l'esperienza potrà chiarire ciò”.
Sull'individualismo e le libere associazioni, di Manuel Devaldès
Documento 53 (1910)
Questa è la parte iniziale e finale di un articolo in cui l'autore a) opera la distinzione tra individualismo libertario e individualismo autoritario, di modo che non vi siano ambiguità associate all'uso del termine; b) smaschera la contrapposizione fasulla tra interesse individuale e interesse generale, dal momento che quest'ultimo, correttamente inteso, non è altro che il soddisfacimento degli interessi di ogni individuo, nella maniera più completa e ampia possibile. Fonte: Manuel Devaldès, Réflexions sur l'individualisme, Le Libertaire, 1910.
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Individualismo libertario e individualismo autoritario Ci sono poche parole che sono più variamente interpretate del termine “individualismo”. Ne consegue che ci sono poche idee peggio definite di quelle che fanno riferimento a questo vocabolo. L’opinione più diffusa, che i testi comunemente utilizzati per l’insegnamento si incaricano di confermare, è che l’individualismo consiste in un «sistema di isolamento dell’essere umano nelle sue attività e sforzi, sistema opposto all’associazione». Bisogna riconoscere che questa è la concezione volgare dell’individualismo. Essa è falsa e, per di più, assurda. Certo, l’individualista è l’essere umano “solo” e non lo si può concepire altrimenti. L’essere umano più forte, è l’essere più solo, ha affermato Ibsen. In altre parole, l’individualista, l’individuo maggiormente cosciente della sua unicità, colui che ha saputo realizzare al meglio la sua autonomia, è l’essere più forte. Ma può essere “solo” nel bel mezzo della folla, in seno alla società, al gruppo, all’associazione, eccetera, perché è “solo” dal punto di vista morale, e qui il termine è ben sinonimo di unico e di autonomo. L’individualista è in tal modo una unità, invece di essere, come il non-individualista, un frammento dell’unità. Ma la grossolanità di coloro che non ne hanno afferrato il senso ha fatto sì che essi non siano riusciti a vedere il significato particolare di questa solitudine, ciò che ha di specificatamente relativo alla coscienza dell’individuo, al modo di pensare dell’essere umano. Il senso è stato ribaltato e, per l’abitudine al dogmatismo e all’assolutismo, alcuni hanno attribuito la solitudine ai comportamenti economici dell’individuo in ambito sociale, facendone un asociale, un eremita – e da qui sorgono le menzogne e le assurdità della definizione sopra riportata. Che si usi la parola “solo” come fa Ibsen o “unico” come fa Stirner, per caratterizzare l’individualista, gli ignoranti prenderanno la lettera e non lo spirito di tali termini. La loro incapacità di interpretare correttamente la parola ha generato l’errore, che è interesse di alcuni far sorgere, mettendo da parte la verità. Se questa concezione volgare dell’individualismo è falsa, non è perché le persone che, attualmente, si dicono individualiste vivono anch'esse come gli altri in società. Al giorno d’oggi le società impongono all’individuo un tipo determinato di associazione: il singolo subisce questa associazione, e lì si ferma la sua partecipazione, che non è affatto volontaria. Dal che si può dedurre che
l’individualismo non è, di conseguenza, l’opposto dell’associazione, se si tiene poi conto che un buon numero di anarchici comunisti, che danno al termine “comunismo” un senso meno religioso, meno cristiano, affermano, al tempo stesso, di essere individualisti. Lo stesso Max Stirner, uno dei più lucidi sostenitori della filosofia individualista, prefigura nel suo memorabile testo L’unico e la sua proprietà (1844) “l’associazione degli egoisti”. La cosa più convincente consiste, alla fine, nell'approfondire il tema, dopo di che, ci si rende conto che, dato il carattere dell’individualismo, questa concezione non esige affatto, nella pratica, l’isolamento fisico o economico degli individui e quindi non si oppone al loro associarsi. La gran parte delle opinioni e delle convinzioni della “maggioranza compatta” sono basate su definizioni di questo tipo che, assumendo la dignità di un luogo comune, arrivano a formulare pregiudizi difficilmente sradicabili. Pregiudizi che l’ignoranza pretenziosa di certi “intellettuali”, e anche l’interesse di certi altri più consapevoli, trasmettono all’ignoranza umile delle persone che formano il gregge. Anche gli intellettuali, in quanto esseri umani, sono sottoposti alle leggi di natura. Ora, secondo l’ordine naturale, il forte è destinato ad assorbire il debole. È così che alcuni intellettuali possono apparire come dei mezzi sapientoni agli autodidatti apionati della verità. Ma quello che questi ultimi sono arrivati ad apprendere e ad afferrare, i mezzi sapientoni di cui qui si parla non lo ignorano affatto. La differenza è che costoro tali cose non le diranno mai perché hanno interesse, ciascuno a suo modo, che lo stato corrente di cose, da cui provengono i loro privilegi borghesi, continui all’infinito. E dal momento che questa situazione si perpetua grazie alla scienza monca servita alle masse o, per meglio dire, grazie alle menzogne, essi tacciono o fanno apparire solo delle verità incomplete. Osservate nelle società attuali la differenza di educazione tra i proletari e i privilegiati. Scoprirete là tutto il segreto del metodo. Un uomo del popolo, che ha avuto solo un insegnamento elementare, ignora, come conviene ai fautori dello stato di cose presente, ciò che è realmente l’individualismo e, soprattutto, su cosa esso si fondi. Quindi non si ispirerà mai ad esso come linea guida per la propria esistenza. Egli è destinato a essere succube dei più forti, la qual cosa fa comodo alla perfezione allo Stato, o piuttosto a coloro che potrebbero dire a ragione: “lo Stato siamo noi”. Invece, una persona che appartiene alla “élite”, formata dall’insegnamento secondario o superiore, possiede l’idea esatta di cosa è l’individualismo e delle sue basi scientifiche. Tale idea rappresenta per lui la verità, ma la verità che egli cela e tiene per sé. Ecco il combattente per
eccellenza! Egli può prevalere: dispone di armi mentre gli altri sono disarmati. E questo dato di fatto lo terrà presente in tutte le occasioni, per far avanzare al meglio i suoi interessi; e riprodurrà, nei confronti del gregge, i comportamenti fuorvianti dei suoi predecessori. Non è bene dire tutta la verità… Dell’individualismo che è, per sua natura, libertario, egli ne farà una filosofia bastarda e ambivalente (attività autonoma nelle alte sfere, fatalismo ivo alla base della società), giustificando tutti i misfatti della classe dirigente. Da qui la distinzione, relativamente corretta, che si è costretti a fare tra l’individualismo libertario e l’individualismo borghese o autoritario. Ma, in definitiva, non vi è che un solo individualismo, che è essenzialmente libertario, profondamente anarchico. L’individualismo libertario, quello reale, rafforza i deboli dando loro degli strumenti, non perché poi, una volta divenuti forti, opprimano a loro volta gli individui che sono più deboli di loro, ma affinché non si lascino più assorbire sotto il controllo dei più forti. Al contrario, il preteso individualismo borghese o autoritario si preoccupa unicamente di legittimare, attraverso artificiosi sofismi e una falsa interpretazione delle leggi di natura, le azioni violente e l’inganno trionfante. Lamarck, Malthus, Darwin e i loro successori non immaginavano mai che un giorno le loro scoperte, da cui trae origine direttamente la filosofia individualista, avrebbero potuto servire a un bisogno così meschino; eppure era ineluttabile che i forti si accaparrassero le loro idee, fin dall’inizio, per piegarle al proprio vantaggio, come hanno fatto per tutte le cose. Ma ogni verità racchiude in sé il germe di un bene futuro, nel senso che la ricchezza della loro opera e gli effetti che ne derivano tendono poi a realizzarsi. Al giorno d’oggi, l’essere umano proveniente dal popolo si istruisce, da solo o in gruppo; si familiarizza con l’analisi, il ragionamento e la critica; si preoccupa di conoscere la propria natura, i moventi dell’azione umana, i meccanismi e le forze che sono all’opera per opprimere i deboli, le leggi naturali e le realtà sociali. Il gregge si individualizza. L’individuo tende a realizzarsi come essere unico e autonomo. Ciò che avviene è che egli si convince progressivamente di queste verità primordiali: Il sapere è forza. L’ accettare ivamente una credenza è debolezza. * * *
La libera associazione degli individui Abbiamo visto che l'individualismo si oppone nettamente all'associazione obbligatoria imposta al giorno d'oggi dallo Stato e che imporrà anche lo Stato del futuro. Però accetta, che dico, fa propriamente sua, l'associazione liberamente contratta tra individui. All'associazione coatta contrappone l'associazione libera. L'individualista non vuole affatto essere servo dell'associazione considerata come un fine ultimo, non vuole sacrificare una qualche parte della sua individualità per l'interesse illusorio dell'associazione, secondo i princìpi del socialismo autoritario. Ma vuole che l'associazione gli sia utile, in quanto considera l'individuo come un fine. Egli vuole impiegare l'associazione secondo il suo interesse reale. Questo è il principio individualista e libertario. In sostanza, l'associazione è per lui un mezzo di vita e non lo scopo della sua vita. Con il socialismo, Religione della Società (socialismo capitalista al giorno d'oggi, espressione cinica dell'egoismo oppressore del borghese attuale, del borghese possidente – o socialismo collettivista di domani, espressione velata dello stesso egoismo oppressore dei nuovi borghesi, i rappresentanti trasformati in dirigenti), l'individuo viene sacrificato nel nome di un preteso interesse generale o collettivo del tutto illusorio. Quello che invece prevale con la forza è l'interesse dei possidenti o dei dirigenti, dei padroni, delle persone forti, in una parola, dei potenti. Spetta allora all'individuo rendersi forte e potente come costoro, e gli basterà averne la volontà attiva per diventarlo. A quel punto diventerà padrone di sé e, inoltre, con la generalizzazione di una tale condizione di padronanza di sé, l'armonia si svilupperà automaticamente nella società. Sotto il regime socialista (capitalista o collettivista) preconizzato dai sacerdoti dell'idea religiosa di Società, la prosperità dell'associazione è lo scopo di vita dell'individuo e l'esistenza dell'individuo diventa lo strumento dell'associazione. Gli sfruttatori approfittatori si celano nel retroscena. Con l'individualismo libertario, il singolo, sgombrato il terreno da credenze illusorie, non deve più immolarsi all'associazione poiché la sua partecipazione avviene sulla base della sua libera volontà e nella misura dei suoi bisogni. La prosperità della sua vita è lo scopo del suo associarsi. E l'associarsi diventa il mezzo per conseguire tale prosperità. Gli sfruttatori approfittatori scompaiono.
Il sacrificio dell'individuo al fantasma della Società si ottiene attraverso uno di quegli inganni che necessitano l'esistenza, presso la vittima, di una assoluta ingenuità. Consiste nel presentare come fatto positivo la “subordinazione dell'interesse particolare all'interesse generale”. L'interesse generale – che altro non è che una astrazione – non dovrebbe mai essere in discordanza con gli interessi degli individui, di cui dovrebbe essere, in un mondo ben organizzato, l'esatta espressione. Ma se così fosse, non sarebbe necessario invocarlo. L'interesse generale è quindi una menzogna; infatti non esistono che interessi individuali. Eppure, ammettiamo per un istante la sua esistenza. Vi è attualmente una notevole differenza tra il preteso interesse generale invocato per ottenere il sacrificio dell'individuo e l'interesse di quest'ultimo. La prova di ciò consiste nel fatto che i moralisti insegnano alle persone a “volgere lo sguardo più in alto della loro minuscola persona” e affermano apertamente che il “bravo cittadino deve subordinare il suo interesse personale all'interesse generale” (vale a dire all'interesse della Società, della Patria, eccetera). Ma guardate bene che cosa dissimula questo preteso “interesse generale”: gli interessi particolari dei padroni, dei loro compari e degli altri servitori consorziati nello Stato. Lo Stato non è altro che una ridicola setta in cui si celebrano i riti della “ragione collettiva”. Lo Stato è una “banda di malfattori”. Ogni volta che il vostro interesse personale non concorda con l'interesse generale, come presentato da qualcuno e al quale qualcuno vuole sacrificarvi, andate a rintracciare per bene chi sono i parassiti che approfittano di questa presunta discordanza. Tradotta la cosa in denaro contante, andate a vedere quanto entra nelle loro casse… Per finire, inutile insistere su quello che nessuno intende negare: che l'essere umano è un animale socievole per natura, non solo per un bisogno morale e affettivo, ma anche fisico, economico e intellettuale. È inutile ripetere quello che ciascuno sa bene: che l'associazione moltiplica le opportunità di godimento degli individui, riducendone al tempo stesso le pene. Sia per interesse riflesso che per tendenza istintiva, l'associazione si presenta dunque all'individuo come un mezzo per vivere una esistenza più completa e più elevata. La saggezza individuale non porterà mai il singolo a ripudiare il principio di associazione con il pretesto che, fino a oggi, tale principio è stato snaturato, ma
al contrario lo inciterà a organizzare la sua associazione in modo tale che essa sia davvero una cosa sua e che egli non possa essere sacrificato, in nome dell'associazione, all'interesse altrui.
Anarchia: comunista o individualista? Entrambe, di Max Nettlau
Documento 54 (1914)
Un invito chiaro e preciso a superare le contrapposizioni, inutili e dannose, che hanno come unico risultato di restringere le scelte e quindi non rappresentano in alcun caso lo spirito e la realtà dell'anarchia. Fonte: Max Nettlau, Anarchism: Communist or Individualist? Both, Mother Earth, luglio 1914.
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La concezione anarchica non è più né giovane né immatura. Forse è tempo di chiedersi come mai, con tutte le energie spese per disseminarne le idee, essa non si diffonda più rapidamente. Infatti, anche quando l’attività, in una certa località, è molto forte, i risultati sono scarsi, e in zone molto grandi l'idea anarchica non è mai penetrata. Discutendo di questo problema, non intendo affrontare il tema del Sindacalismo che, assorbendo così tanta attività e simpatia da parte degli anarchici, non può, proprio per tale motivo, essere considerato come qualcosa che fa avanzare la causa dell’anarchia in senso stretto, per quanto grandi siano i suoi meriti. Cercherò anche di non ripetere tesi prospettate in altri articoli scritti negli anni scorsi e che trattavano dei possibili mezzi per sviluppare l’attività degli anarchici. Poiché i miei suggerimenti non sono stati accolti in ato non posso, in ogni caso, essere ritenuto responsabile di aver ostacolato il progresso delle nostre idee. Esaminerò solo le teorie anarchiche. A questo riguardo sono stato a lungo colpito dal contrasto tra l’ampiezza degli scopi dell’anarchia – la massima realizzazione possibile della libertà e del benessere per tutti – e la ristrettezza, per così dire, del suo programma economico, sia esso individualista o comunista. Sono incline a pensare che il sentimento di inadeguatezza della sua base economica – o solo comunismo o solo individualismo, secondo i dettami delle rispettive scuole – costituisca un ostacolo per coloro che vorrebbero accostarsi all’anarchia, le cui finalità generali attirano molte persone che la vedono come un ideale magnifico. Io stesso non mi sento né comunista né individualista se una di queste fosse la sola forma economica per attuare la libertà, la quale richiede sempre una varietà nella scelta dei percorsi, una pluralità di possibilità. Lo so che i comunisti, quando interrogati al riguardo, affermano che essi non hanno alcuna obiezione al fatto che gli individualisti continuino a vivere come piace loro, senza creare nuovi monopoli e nuovi poteri dominanti. E lo stesso avviene se si pone la domanda agli individualisti. Ma questo raramente viene detto in maniera schietta e cordiale. Entrambe le scuole sono assolutamente e fin troppo convinte che la libertà è possibile solo se si attua il loro specifico schema. Io ammetto di buon grado che ci sono comunisti e individualisti per i quali le loro rispettive dottrine, e solo queste, offrono una soddisfazione completa e, a loro parere, sono in grado di risolvere tutti i problemi. Costoro non dovrebbero essere ostacolati, in alcun caso, nella loro adesione costante a un unico ideale economico. Ma essi non dovrebbero immaginare che tutte le persone sono fatte secondo il loro schema e aderiranno con tutta probabilità alle loro idee, oppure rimarranno avversari “irriducibili”, non degni di alcuna simpatia. Facciamo in modo che costoro
osservino la vita vera, che è accettabile solo quando è varia e multiforme, in contrasto con l’uniformità ufficiale imposta dal potere dominante. Noi tutti vediamo la sopravvivenza di antiche forme di comunismo, il lavorio molteplice della attuale solidarietà da cui possono prendere sviluppo nuove forme di comunismo nel futuro – tutto ciò pur in presenza di quello spietato individualismo di tipo capitalistico che predomina adesso. Ma questo miserabile individualismo borghese, se genera un desiderio di solidarietà che conduce al comunismo, crea certamente anche il desiderio di un individualismo genuino, libero, generoso, in cui la libertà di azione non sarà più impiegata malamente per schiacciare il debole e per formare nuovi monopoli, come avviene al giorno d’oggi. Né il comunismo né l’individualismo scompariranno mai; e se, a seguito di qualche azione di massa, si gettassero le basi di una forma dura di comunismo, l’individualismo risorgerebbe più forte che mai, proprio in opposizione ad esso. In tutti i casi in cui prevalesse un sistema uniforme, gli anarchici, se hanno a cuore lo sviluppo delle loro idee, andrebbero oltre ciò e non si lascerebbero trasformare in sostenitori fossilizzati di un dato sistema, fosse anche il comunismo più puro e nobile. Saranno allora, gli anarchici, persone sempre insoddisfatte, sempre in lotta, mai tranquille? Essi potrebbero sentirsi a loro agio in una condizione della società in cui tutte le potenzialità economiche potessero esprimersi pienamente, e quando le loro energie potessero essere applicate a una pacifica emulazione e non più a una continua lotta per distruggere l’altro. Questa condizione sociale desiderabile la si potrebbe preparare fin da ora se gli anarchici capissero, una volta per tutte, in maniera molto chiara, che sia il comunismo che l’individualismo sono ugualmente importanti e ugualmente duraturi. E che il predominio esclusivo di una di queste tendenze costituirebbe la più grande sfortuna che potrebbe colpire l’umanità. Quando ci sentiamo soli cerchiamo rifugio nella socialità; quando siamo circondati da troppo mondo, cerchiamo sollievo nello stare un po’ da soli. Sia la socialità che l’isolamento costituiscono per noi, ognuna al momento opportuno, forme di libertà e di benessere. Tutta l’esistenza umana vibra tra questi due poli con infinite varietà di oscillazioni. Lasciatemi immaginare, per un momento, di vivere in una società libera. Svolgerei di certo differenti attività, di tipo manuale e intellettuale, che richiedono energia e perizia. Sarebbe davvero desolante e monotono se i tre o
quattro gruppi all’interno dei quali svolgessi la mia attività (perché spero non ci saranno più sindacati di lavoratori!) fossero organizzati secondo lo stesso modello. Penso piuttosto che prevarrebbero diversi gradi o forme di lavoro in comune. Ma, non potrebbe avvenire che io mi stancassi di ciò e desiderassi momenti di relativo isolamento, di lavoro individuale? Per cui potrei indirizzarmi verso una delle molteplici possibili forme di individualismo sulla base di “scambi paritari”. Può essere che gli individui agirebbero in un certo modo quando sono giovani, e in un altro modo quando sono meno giovani e più esperti. Coloro che sono dei semplici operai, indifferenti alla natura specifica delle loro attività, continueranno a lavorare nei loro gruppi di origine; quelli che sviluppano una notevole capacità operativa si stancheranno di operare sempre con principianti e si metteranno in proprio, a meno che una inclinazione molto altruista farà loro apprezzare il fatto di agire da insegnanti o consiglieri per i più giovani. Io penso anche che all’inizio adotterei il comunismo con gli amici e l’individualismo con gli sconosciuti, e modellerei la mia vita futura sulla base dell’esperienza. Quindi, un aggio libero e semplice da una varietà all’altra di comunismo, e poi verso qualsiasi varietà di individualismo, e così via. Questa sarebbe la cosa più ovvia ed elementare che si potrebbe verificare in una società veramente libera. E se un gruppo di persone cercasse di bloccare questa dinamica, di rendere un sistema dominante ed esclusivo, sarebbe combattuto aspramente come fanno i rivoluzionari nei confronti del sistema attuale. Perché allora gli anarchici si dividono in due campi ostili di comunisti e individualisti? Io ritengo che ciò sia dovuto alle deficienze del fattore umano da cui nessuno è esente. È abbastanza naturale che il comunismo faccia presa su alcuni e l’individualismo su altri. Cosicché ogni componente elaborerà la propria tesi economica con forza e convinzione, e ciascuna di loro, rafforzata via via nella sua opinione dall’opposizione di altri, arriverà a considerarla l’ unica soluzione valida e rimarrà fedele ad essa, nonostante tutto. Per questo le teorie dell’individualismo, da circa un secolo, e quelle del collettivismo e del comunismo, da circa cinquanta anni, hanno acquisito un certo grado di stabilità, certezza, apparente fissità nel tempo, che non avrebbero mai dovuto assumere, perché la stagnazione – questo è la qualifica che le caratterizza – è la morte del progresso. In pratica non è stato fatto alcuno sforzo per eliminare le differenze tra le scuole, per cui entrambe hanno avuto ampio spazio per crescere e per diffondersi, quando lo potevano. Con quale risultato?
Nessuna di loro poteva sconfiggere l’altra. Laddove vi sono comunisti, là gli individualisti emergeranno nel mezzo stesso di quell’idea; al tempo stesso, nessuna ondata di individualisti potrà abbattere la roccaforte comunista. E mentre l’avversione o l’inimicizia esiste tra persone che sono così prossime le une con le altre, vediamo il comunismo anarchico quasi venir meno di fronte al Sindacalismo, non disprezzando più il compromesso ma accettando più o meno le soluzioni offerte dai Sindacalisti come un inevitabile momento di aggio. Dall’altra parte vediamo gli individualisti quasi ricadere in atteggiamenti borghesi fallaci – tutto questo in un periodo in cui i misfatti del potere e la crescita invasiva dello Stato offrono una occasione migliore e un campo di intervento più ampio che mai per una vera e franca diffusione della concezione anarchica. Siamo arrivati al punto che, al Congresso dei Comunisti Anarchici si tenuto a Parigi l’anno scorso, l’individualismo è stato stigmatizzato e, con una risoluzione ufficiale, posto al di fuori della sfera dell’anarchia. Se mai un Congresso Internazionale degli anarchici si svolgesse su queste linee, approvando un simile atteggiamento, io direi addio a tutte le speranze poste in tale tipo di anarchismo settario. Con questo non intendo difendere o combattere il comunismo o l’individualismo. Personalmente trovo molte cose positive nel comunismo; ma l’idea di vederlo generalizzato dappertutto suscita in me una protesta. Non mi piacerebbe ipotecare il mio futuro, e ancor meno vorrei coinvolgere gli altri nel restringere le opzioni a una sola. La questione rimane pienamente aperta per me; l’esperienza indicherà quale soluzione ultima o quale delle molteplici possibilità intermedie sarà la migliore in ciascuna occasione e in ciascun momento. L’anarchia è troppo preziosa per me perché io possa vincolarla a una ipotesi economica, per quanto plausibile essa possa apparire attualmente. Le soluzioni uniche non sono mai accettabili, e mentre ciascuno è libero di credere e diffondere le idee a lui più care, non dovrebbe sentirsi in diritto di propagandarle se non come semplici ipotesi. Purtroppo, ognuno sa che gli scritti degli anarchici, comunisti e individualisti, sono ben lontani dall’attenersi entro questi limiti. Tutti noi abbiamo commesso errori a tale riguardo. Nei aggi precedenti ho utilizzato i termini “comunista” e “individualista” in una maniera generale, volendo mostrare l’inutilità e l’aspetto disastroso dell’esclusivismo di frazione diffuso tra gli anarchici. Se alcuni individualisti hanno detto o fatto cose assurde (sono forse i comunisti esenti da errori?)
mostrarle non servirebbe a confutare il mio pensiero. Quello che vorrei vedere è che tutti coloro che si oppongono al potere operino su una base di generale solidarietà invece di dividersi in piccole sette all'interno delle quali ognuno è convinto di possedere la soluzione corretta al problema sociale. Per lottare contro il potere nel sistema capitalista e in quello futuro del socialismo di stato, o nel sistema sindacalista, o in entrambi, o in tutti e tre uniti, occorre una ondata poderosa di sentimenti anarchici, ancor prima di affrontare il tema dei rimedi economici. Solo se comprendiamo ciò, potremo generare una vasta sfera di solidarietà che, di fronte a tutti, renderà il comunismo anarchico più forte e più luminoso di quanto non lo sia adesso. * * * Ps: Dopo aver scritto queste note, ho trovato un articolo di uno dei primi anarchici si da cui traduco il seguente aggio: Quindi, coloro che si sentiranno portati a ciò, si uniranno per una vita in comune, con comuni doveri e attività, mentre coloro ai quali il più piccolo atto di sottomissione a un gruppo creerebbe disagio rimarrebbero individui autonomi. Il principio vero [della concezione anarchica] è molto lontano dal richiedere l’attuazione di un comunismo integrale. Ma è anche evidente che, per lo svolgimento funzionale di alcuni tipi di attività, molti produttori si uniranno sfruttando i vantaggi della cooperazione. Ma, ripeto ancora una volta, il comunismo non sarà mai un principio fondamentale [nel senso di unico e obbligatorio], e questo a causa della diversità delle nostre facoltà intellettuali, dei nostri bisogni e delle nostre volontà Questa citazione (le parole in parentesi quadra sono mie precisazioni) è presa da p. 72 di quella che potrebbe essere una delle più trascurate pubblicazioni anarchiche, che ha attratto la mia attenzione su una bancarella dieci giorni dopo aver scritto l’articolo presentato qui sopra. Il titolo della pubblicazione è Philosophie de l’lnsoumission ou Pardon a Cain, di Felix P. (New York, 1854, iv. 74 pp., 12mo) – e cioè “Filosofia della non sottomissione”, come l’autore chiama l’anarchia. Io non so chi sia stato Felix P.; apparentemente uno dei pochi socialisti si, come Déjacque [166], Bellegarrigue [167], Cœurderoy [168] e Claude Pelletier [169], per i quali la lezione del 1848 e altre esperienze contribuirono a far compiere un salto coraggioso e arrivare all’anarchia attraverso percorsi vari e
indipendenti da Proudhon. Nella citazione qui riportata l’autore sintetizza il concetto, equilibrando tra di loro comunismo e individualismo. Questo è proprio quello che penso anche io nel 1914, sessanta anni da quando questo aggio è stato scritto. Le predilezioni personali di ciascuno rimarrebbero immutate e non scalfite, ma l’esclusivismo sarebbe eliminato e i due princìpi essenziali della vita coopererebbero tra di loro invece di guardarsi di traverso, opponendosi l’un l’altro.
Comunismo e individualismo, di Errico Malatesta
Documento 55 (1926)
Una riflessione sulle varie posizioni e contrapposizioni interne al movimento anarchico che dovrebbero risolversi attraverso la ricerca di una intesa comune perché, come dice l'autore “nessuno può essere assolutamente sicuro di aver ragione, e nessuno ha sempre ragione”. Fonte: Pubblicato in Pensiero e volontà, 1° aprile 1926, sotto il titolo: Comunismo e individualismo – Commento all'articolo di Nettlau (Documento n. 53).
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Nettlau suppone che la ragione, o almeno una delle ragioni per cui l'anarchismo, dopo tanti anni di propaganda, di lotta, di sacrifici, non è ancora riuscito a attirare e sollevare le grandi masse sta nel fatto che gli anarchici delle due scuole, comunisti e individualisti, hanno presentato ciascuno la sua teoria economica come unica soluzione del problema sociale, e non sono perciò riusciti a persuadere la gente della realizzabilità delle loro idee. Io credo in verità che la ragione essenziale del nostro scarso successo sia il fatto generale che nell'ambiente attuale, cioè date le condizioni materiali e morali in cui si trova la massa dei lavoratori e di quelli che pur non essendo lavoratori produttivi sono vittime lo stesso dell'attuale organizzazione sociale, la nostra propaganda non può avere che una portata limitata, la quale si riduce a poco o nulla in certe regioni più disgraziate e in certi strati della popolazione più tormentati dalla miseria fisica e morale. E credo che solamente a misura che l'ambiente cambia e ci diventa favorevole (il che può specialmente avvenire nei periodi rivoluzionari e per il nostro impulso) le nostre idee possono conquistare un numero sempre più grande di aderenti e una crescente possibilità di realizzazione. La divisione tra comunisti e individualisti c'entra per poco, poiché essa realmente interessa solo quelli che già sono anarchici e quella piccola minoranza che è in condizione di poterlo diventare. Ma con tutto ciò resta vero che le polemiche tra individualisti e comunisti hanno spesso assorbito gran parte delle nostre energie, hanno impedito, anche quando era possibile, una franca e fraterna collaborazione fra tutti gli anarchici e hanno tenuti lontani da noi molti che se ci avessero veduti tutti uniti sarebbero stati attirati dalla nostra ione per la libertà. E quindi Nettlau fa bene quando predica la concordia, dimostrando che per esservi veramente libertà, cioè anarchia, bisogna che vi sia possibilità di scelta e che ciascuno possa accomodare come crede la propria vita, abbracciando la soluzione comunista o quella individualista, o un qualunque grado o una qualunque miscela di comunismo e di individualismo. Però Nettlau si sbaglia, secondo me, quando crede che il contrasto tra gli anarchici che si dicono comunisti e quelli che si dicono individualisti si basi realmente sull'idea che ciascuno si fa della vita economica (produzione e distribuzione dei prodotti) in una società anarchica. Queste, dopotutto, sono questioni che riguardano l'avvenire lontano; e se è vero che l'ideale, la mèta ultima, è il faro che guida, o dovrebbe guidare, la condotta degli uomini, è anche
più vero che ciò che determina più di tutto l'accordo o il disaccordo non è quello che si pensa di fare domani, ma quello che si fa e si vuol fare oggi. In generale, ci si intende meglio, e si ha più interesse a intendersi con quelli che percorrono la stessa via nostra pur volendo andare in un sito diverso, anziché con quelli che pur dicendo di voler andare dove vogliamo andar noi, si mettono per una strada opposta! Così è avvenuto che anarchici delle varie tendenze, malgrado che in fondo volessero tutti la stessa cosa, si son trovati, nella pratica della vita e della propaganda, in fiera opposizione. Ammesso il principio basilare dell'anarchismo e cioè che nessuno dovrebbe avere la voglia e la possibilità di ridurre gli altri in soggezione e costringerli a lavorare per lui, è chiaro che rientrano nell'anarchismo tutti, e solamente, quei modi di vita che rispettano la libertà e riconoscono in ciascuno l'eguale diritto a godere dei beni naturali e dei prodotti della propria attività. È pacifico tra gli anarchici che l'essere concreto, reale, l'essere che ha coscienza e sente, e gode e soffre è l'individuo, e che la Società, lungi dall'essere qualche cosa di superiore di cui l'individuo è lo strumento e lo schiavo, non deve essere che l'unione di uomini associati per il maggior bene di ciascuno. E da questo punto di vista si potrebbe dire che siamo tutti individualisti. Ma per essere anarchici non basta volere l'emancipazione del proprio individuo, ma bisogna volere l'emancipazione di tutti; non basta ribellarsi all'oppressione, ma bisogna rifiutarsi a essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici. E questa non è questione di assetti economici: è questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione di etica. Dati tali princìpi e tali sentimenti, comuni, malgrado il diverso linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà. Quegli anarchici che si dicono comunisti (e io mi metto tra essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che più gli uomini sono affratellati e più intima è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti gli associati, più grande è il benessere e la libertà di cui ciascuno
può godere. L'uomo, essi pensano, se anche è liberato dall'oppressione dell'uomo, resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch'egli non può vincere da solo, ma può col concorso degli altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere. Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra, rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe a una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti umani […] e non riuscirebbe sempre a sfamarsi. È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento, sottoposti alla regola comune, al pasto e al vestito uniformi, eccetera; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch'essi vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni degli altri, del diritto di tutti a una eguale libertà. Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli anarchici uno dei più apionati e il più eloquente propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo grande apostolo dell'indipendenza individuale e voleva con ione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche, unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale per diventare uomini nel senso più elevato della parola. Di più, i comunisti (anarchici, s'intende) credono che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione, quel volontario comunismo universale che essi considerano quale l'ideale supremo dell'umanità emancipata e affratellata. E arrivano quindi a una conclusione che potrebbe esprimersi colla formula: quanto più comunismo è possibile per realizzare il più possibile di individualismo, vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo di libertà. D'altra parte gl'individualisti (parlo, s'intende, sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario – che è stato nella storia la prima concezione che si è presentata alla mente umana di una forma di società razionale e giusta e che ha influenzato più o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione – per reazione, dico, contro il comunismo autoritario che in nome dell'eguaglianza inceppa e quasi distrugge la personalità umana, hanno
dato la maggiore importanza al concetto astratto di libertà e non si sono accorti o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la libertà reale è condizionata dalla solidarietà, dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno ingiusto il pensare che essi vogliano privarsi dei benefizi della cooperazione e condannarsi a un impossibile isolamento. Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente e che l'uomo, per assicurarsi una vita umana e godere materialmente e moralmente di tutte le conquiste della civiltà, o deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi suoi simili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, debbono necessariamente convenire che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un grado e una forma qualsiasi di comunismo volontario. Sul terreno economico, dunque, che è quello che apparentemente divide gli anarchici in comunisti e individualisti, la conciliazione sarebbe presto fatta, lottando insieme per conquistare delle condizioni di vera libertà e lasciando poi che l'esperienza risolvesse i problemi pratici della vita. E allora, le discussioni, gli studi, le ipotesi, i tentativi possibili oggi e perfino i contrasti fra le varie tendenze sarebbero tutte cose utili per preparare noi stessi ai nostri compiti futuri. Ma perché dunque, se davvero sulla questione economica le differenze sono più apparenti che reali e sono in ogni modo facilmente superabili, perché quest'eterno dissidio, questa ostilità che qualche volta diventa vera inimicizia tra uomini che, come dice Nettlau, sono tanto vicini e sono tutti animati dalle stesse ioni e dagli stessi ideali? Gli è che, come ho detto, la differenza tra i progetti e le ipotesi sulla futura organizzazione economica della società auspicata non è la ragione vera della persistente divisione, la quale invece è creata e mantenuta da più importanti, e soprattutto più attuali, dissensi morali e politici.Non parlerò di quelli che si dicono individualisti anarchici, e poi manifestano istinti ferocemente borghesi, proclamando il loro disprezzo per l'umanità, la loro insensibilità pei dolori altrui e la loro voglia di dominio. Né parlerò di quelli che si dicono comunisti anarchici, e poi in fondo sono degli autoritari che credono di possedere la verità assoluta e si attribuiscono il diritto di imporla agli altri. Comunisti e individualisti hanno spesso avuto il torto di accogliere e riconoscere
come compagni alcuni che non hanno in comune con loro che qualche espressione verbale e qualche apparenza esteriore. Io intendo parlare di quelli che considero veri anarchici. Questi sono divisi sopra molti punti d'importanza reale e attuale, e si classificano comunisti o individualisti, generalmente per tradizione, senza che le cose che realmente li dividono abbiano nulla da fare colle questioni riguardanti la società futura. Tra gli anarchici vi sono i rivoluzionari, i quali credono che si debba colla forza abbattere la forza che mantiene l'ordine presente per creare un ambiente in cui sia possibile la libera evoluzione degl'individui e delle collettività – e vi sono gli educazionisti i quali pensano che si possa arrivare alla trasformazione sociale solamente trasformando prima gl'individui per mezzo dell'educazione e della propaganda. Vi sono i partigiani della non-resistenza, o della resistenza iva che rifuggono dalla violenza anche quando serva a respingere la violenza, e vi sono quelli che ammettono la necessità della violenza, i quali sono poi a loro volta divisi in quanto alla natura, alla portata e ai limiti della violenza lecita. Vi sono dissensi riguardanti l'attitudine degli anarchici di fronte al movimento sindacale; dissensi sull'organizzazione, o non organizzazione, propria degli anarchici; dissensi permanenti, o occasionali, sui rapporti tra gli anarchici e gli altri partiti sovversivi. È su queste e altre questioni del genere che bisogna cercare d'intenderci; o se, come pare, l'intesa non è possibile, bisogna sapersi tollerare: lavorare insieme quando si è d'accordo, e quando no, lasciare che ognuno faccia come crede senza ostacolarsi l'un l'altro. Poiché, tutto ben considerato, nessuno può essere assolutamente sicuro di aver ragione, e nessuno ha sempre ragione.
La pratica del mutualismo, di Clarence Lee Swartz
Documento 56 (1927)
Una esposizione delle idee e delle pratiche del mutualismo, con riferimento particolare alla società dei tempi dell’autore, ma con suggerimenti estremamente validi anche ai giorni nostri. Fonte: Clarence Lee Swartz, What is Mutualism?, Mutualist Associates, USA, 1927. Estratto dal Capitolo 10.
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MUTUALISMO – Un sistema sociale basato sulla pari Libertà, Reciprocità e Sovranità degli Individui riguardo a sé stessi, i propri affari e i beni da essi prodotti. Il tutto realizzato attraverso l'iniziativa individuale, i liberi contratti, la cooperazione, la competizione e l'associazione su base volontaria per la difesa contro i poteri invasivi e per la protezione della vita, della libertà e della proprietà legittimamente ottenuta. Il merito principale del mutualismo consiste nel fatto che il suo programma è in sintonia con il precedente sviluppo della società. Nel Medioevo i rapporti tra le persone erano fissi, le loro idee, vocazioni, luoghi di residenza, guadagni, in breve, la loro vita economica e sociale era più o meno statica – determinata dalle tradizioni e dall'autorità. Il grande progresso ottenuto da allora è dovuto all'aumento della libertà personale nelle varie sfere dell'attività umana. Il mutualismo si propone di estendere ulteriormente la libertà, conformemente a questo sviluppo storico. Quindi, il programma del mutualismo per l'immediato è il seguente: Nella sfera sociale, la formazione e la promozione di associazioni volontarie in grado di andare oltre l'attuale sistema coercitivo; nella sfera economica la formazione e promozione di agenzie volontarie capaci di affinare l'iniziativa e la responsabilità individuale, e di liberare la vita economica dal peso opprimente del potere e del privilegio. Come è avvenuto in ato, il progresso sarà lento e laborioso, quasi impercettibile a un osservatore contemporaneo. Non sarà nulla di spettacolare, come invece è per una rivoluzione gloriosa ma futile. Consisterà in un forte impegno, nell'applicazione del buon senso e di una vigilanza permanente. Questo è il solo modo attraverso il quale tutti i miglioramenti personali e sociali hanno mai avuto luogo. Il mutualismo rimuoverà, per il beneficio di tutti i produttori, le attuali artificiose limitazioni alla produzione di tutti i beni, e porrà fine allo sfruttamento, senza assoggettare le persone alla schiavitù di un comunismo coercitivo. Per questo il mutualismo dovrebbe attirare coloro che preferiscono il variegato mondo della libertà alla insipida mediocrità dell'essere tutti uguali. Il sistema attuale è in via di trasformazione, e la domanda a cui ciascuno dovrà rispondere è la seguente: le persone dovrebbero dar vita a forme volontarie e autonome di organizzazione o
dovrebbero accrescere i poteri di una vetusta autorità e accettare le sue regole e i suoi regolamenti su come ciascuno deve vivere? Un segno di speranza della vitalità del genere umano è costituito dal fatto che, nonostante tutte le interferenze paternalistiche da parte dello Stato che, attraverso il suo intrico di leggi e regolamenti, tende a minare e soffocare l'iniziativa, scoraggiando l'individualità e il prezioso senso di responsabilità personale, esiste ancora un numero consistente di attività e associazioni del tutto volontarie. La differenza principale tra queste attività e quelle dello Stato è che alla base delle prime abbiamo l'iniziativa personale e la conseguente osservanza del principio di cooperazione volontaria; invece, la natura dell'intervento dello Stato consiste in una imposizione arbitraria, in obblighi ineludibili di appartenenza e di contribuzione, pur in presenza di desideri e inclinazioni difformi e anche di sdegnate proteste. Questo vale per qualsiasi funzione che lo Stato arroghi a sé, che sia nella sfera della religione, dell'istruzione, dell'arte, del commercio o dell'industria. Nell'ambito della religione, per il momento si nega allo Stato il diritto di intervenire. Ma sarà necessaria una posizione ferma e decisa da parte delle persone di vedute aperte per porre un freno alla richiesta, da parte dei capi religiosi, di introdurre una istruzione religiosa obbligatoria nelle scuole statali, e per contrastare la ridicola opposizione, negli stati culturalmente arretrati, contro l'insegnamento della teoria dell'evoluzione nelle scuole superiori. Nel campo dell'educazione vi sono organizzazioni come la Società per la Promozione della Semplificazione dell'Ortografia, la Società per il Progresso della Scienza, e un gran numero di musei e di associazioni educative di differenti dimensioni e peso, e tutti sono intenti a sviluppare l'iniziativa personale e un crescente senso di responsabilità tra i loro membri. Tutte queste organizzazioni sono degne di essere sostenute. Qualsiasi persona di orientamento liberale o radicale avrà il desiderio di far parte di una o più di tali società, come mezzo per istruire le persone. E promuoverà soprattutto le società locali che hanno necessariamente un potere di attrazione più ridotto e sono quindi maggiormente bisognose di sostegno. Bisogna infatti tenere a mente che l'attività di maggior valore a favore della libertà ha luogo nel campo dell'educazione, e di ciò non ve ne è mai abbastanza. Altre espressioni valide dell'iniziativa personale sono i molti ospedali, sanatori, e ricoveri, fondati e finanziati da organizzazioni caritatevoli e da gruppi religiosi.
Queste associazioni sono di solito migliori delle istituzioni statali, e la loro crescita dovrebbe essere vista con favore in quanto tenderebbero a ridurre il bisogno e l'importanza di istituzioni statali elefantiache, affette da lungaggini burocratiche. Un'altra indicazione incoraggiante si trova nel mondo degli affari, dove vi è un numero crescente di compagnie di ogni tipo in cui la proprietà è condivisa tra molte persone. Le forme correnti di organizzazione produttiva rendono possibile dar vita a progetti di notevole scopo e ampiezza che anche lo stesso governo esiterebbe a intraprendere. Eppure, fino a poco tempo fa, un tale accumulo di capitali e di risorse era ritenuto impossibile e tutte le imprese, di qualsiasi dimensione, erano solite fare appello allo Stato per essere aiutate prima di avviare simili operazioni, ritenendosi non in grado di portarle a buon fine senza la sua assistenza. Al giorno d'oggi le cose si sono capovolte, e invece di essere le imprese a chiedere l'aiuto dello Stato, esse sono diventate così ricche e potenti che il potere dello Stato è sollecitato per tenerle a freno. E tuttavia, non è la struttura delle grandi imprese che occorre combattere, ma lo sviluppo e la permanenza di ogni sorta di abusi che sono resi possibili attraverso la concessione di speciali privilegi da parte dello Stato. In assenza di licenze monopolistiche, di interessi usurai, di brevetti e diritti d'autore, di tariffe “protettive” e di proprietari terrieri assenteisti, le imprese al servizio del pubblico sarebbero spinte, ad esempio, a provvedere in maniera soddisfacente ai bisogni dei loro clienti, fornendo un servizio a prezzo di costo. In caso contrario, altre iniziative sorgerebbero, promosse da individui insoddisfatti del servizio o da qualsiasi altro gruppo di persone autonome, con il risultato che una grande impresa sarebbe obbligata a migliorare il suo prodotto o ritirarsi dal campo. Il Programma Il lettore che è arrivato fin qui avrà capito che i Mutualisti ritengono che i loro ideali si possano attuare, per una notevole parte, anche sotto l'attuale regime governativo, e nonostante le molte disposizioni di legge attualmente in vigore. Al tempo stesso, non si intende sostenere che l'intero programma e piano del mutualismo possa essere realizzato in tal modo, ed è chiaro anche al lettore casuale che esistono molte leggi che costituiscono dei grossi impedimenti. Perciò i Mutualisti cercano di rimuovere questi blocchi. Soprattutto nel caso del Credito Mutualistico ( Mutual Banking), sarebbe
difficile compiere notevoli i in avanti in presenza di una legge federale che, attualmente, impone una tassa del dieci per cento su tutte le emissioni di denaro che non siano quelle effettuate dal governo stesso o da banche nazionali riconosciute dal governo. In aggiunta a ciò, vi sono, in molti stati, leggi che criminalizzano l'emissione di banconote che possano essere utilizzate come denaro. Ora vi sono parecchi modi in cui queste leggi inutili e dannose possono essere eliminate. Il primo, che balza all'attenzione di coloro che credono nell'efficacia dell'azione politica, è quello della abrogazione attraverso decisione parlamentare. Questo o potrebbe essere fatto, anche con buoni esiti. Infatti, è un procedimento ammirevole e potrebbe essere prescritto addirittura in molti altri casi, a parte quelli che riguardano direttamente la promozione del mutualismo. Ma va fatto notare che esiste una certa prassi consolidata che milita contro questo tipo di intervento. È assai raro che una qualche legge sia stata soppressa di colpo. È nozione comune che nessuna legge venga eliminata dal repertorio legislativo a meno di non metterne un'altra al suo posto. Questa è stata la storia del processo legislativo nel ato, e ci sono scarsi segni di cambiamento al riguardo. Nonostante questa tetra prospettiva, c'è da impegnarsi in tal senso. Laddove sono state introdotte – per ignoranza o deliberatamente – leggi che bloccano la realizzazione degli ideali dei Mutualisti, si deve provvedere in qualche modo alla loro abrogazione o annullamento. Quando gli ostacoli sulla via del progresso non possono essere superati, essi vanno rimossi. Che lo Stato nasca da aggressioni, come sostenuto da Oppenheimer [170] e da una scuola di sociologi, o che si sviluppi, secondo altri studiosi e ricercatori, a seguito di rozzi tentativi di associarsi per la difesa, rimane il fatto che, attualmente, il suo agire risponde più all'analisi della prima che non dell'altra scuola. Mentre alcune delle attività necessarie per la realizzazione del mutualismo possono essere attuate pur in presenza delle attuali leggi vigenti, parecchi e ancor più sostanziali aspetti sono del tutto vanificati e talvolta del tutto impediti da queste misure di legge, come è il caso del Credito Mutualistico. Ma dovrebbe essere tenuto a mente che è difficile suscitare un qualche entusiasmo nei legislatori che porti all'abrogazione di qualche legge, per il semplice motivo che raramente vi è una richiesta pressante e insistente a tal fine. La maggior parte delle persone ritengono che i mali che affliggono la società possano essere curati da ulteriori leggi. Quando una legge fallisce nel suo
compito, viene dimenticata, e solo quando, invece di produrre risultati positivi dà vita a danni intollerabili, solo allora si fa pressione sui legislatori perché sia abrogata subito e senza condizioni. Un altro elemento che tende a far sì che l'abrogazione sia difficile è il fatto che la maggior parte delle leggi generano un certo numero di posti di lavoro per amministrarle e applicarle. E questi posti sono assegnati ai sostenitori di deputati e uomini politici. Se questi uffici fossero aboliti dall'abrogazione di una legge, i funzionari e gli impiegati che sono stati installati in quei posti perderebbero le loro occupazioni, e i capi sarebbero costretti a trovare loro altre sistemazioni. La cosa non è così semplice; ed è per questo che i capi sono estremamente riluttanti a trovarsi nella condizione di dover far fronte a tale incombenza. In altre parole, questo è uno dei motivi principali per i quali essi sono piuttosto freddi di fronte a qualsiasi proposta di abrogazione di una legge. E attualmente la politica non offre alcuna soluzione riguardo a questo problema. Crearsi un lavoro produttivo per guadagnarsi da vivere onestamente non rientra nei piani di questo tipo di persone. Un altro ostacolo formidabile che è sempre presente e che blocca qualsiasi tentativo di abrogare leggi indesiderate consiste nel fatto che, nell'ambito della popolazione di questo paese, uno su dieci risulta lavorare per la burocrazia. Costoro sono occupati ad amministrare e far rispettare le molteplici leggi, e la paura di perdere il loro posto di lavoro li fa unire saldamente contro qualsiasi ipotesi di cancellazione. Nella mente dell'individuo un po' superficiale, anche se impregnato del desiderio di porre fine ai danni provocati dal privilegio e dal monopolio, sembra che si annidi sempre l'idea che l'umanità può essere resa “buona” attraverso le leggi. Per costui, ci deve essere un rimedio per tutti i mali sociali sotto forma di legge. Il Mutualista, invece, sa che le persone non migliorano a furia di leggi; anzi, le leggi tendono persino a ritardare lo sviluppo nell'individuo di tendenze sociali più elevate [171]. I Mutualisti ribadiscono un dato di fatto, già ampiamente accertato, ossia che la libertà, associata, come deve essere, con la responsabilità, rappresenta il vero motore del carattere e il fattore di sviluppo dell'iniziativa personale, dell'autonomia, dell'onestà, dell'integrità morale e della cura per gli altri. E questo perché l'essere umano libero è l'artefice della sua propria vita e deve rendersi conto che è il diretto responsabile di tutte le sue azioni e delle sue conseguenze.
Perciò il pensiero dei Mutualisti è riassumibile con queste parole: opposizione a nuove leggi e abrogazione di quelle vecchie. L'impegno dei Mutualisti consiste nel promuovere il messaggio di un illuminato laissez-faire, sulla base del principio che è più importante trattenersi dall'intervenire quando in una azione si riscontrano elementi di invasività, che non dare corso a quella azione, anche se quell'intervento potrebbe apparire benefico o è compiuto con tutte le migliori intenzioni. Perciò, se possiamo fermare il confezionamento di sempre più leggi, e se quelle che sono già state promulgate possono essere progressivamente eliminate (iniziando con le più dannose), preparando in questo modo il terreno per l'eventuale soppressione di tutte le leggi inutili, il mutualismo sarà in grado di mostrare che anche le attività utili effettuate adesso in maniera grossolana dallo Stato, inclusa la protezione della vita e della proprietà delle persone, possono, col tempo, essere assolte da associazioni volontarie e da un impegno comune. Quindi, i Mutualisti propongono la formazione di associazioni volontarie che possano mostrare praticamente che i vari servizi e le varie funzioni compiute dai governi possono essere forniti e assolti, meglio e a miglior prezzo, da tali associazioni. Bisognerebbe iniziare con le funzioni economiche – quelle che hanno a che fare con la produzione, la distribuzione e il finanziamento delle attività – molte delle quali sono state assunte indebitamente dai governi. Poi sarà la volta dell'istruzione e infine si proseguirà con quelle attività che riguardano la protezione della vita e della proprietà. Ad ogni stadio, tutte le roccaforti del privilegio e del potere saranno gradualmente smantellate. Metodi appropriati per la condotta degli affari e un interesse personale intelligente faranno da guida, invece del sistema inefficiente e farraginoso praticato dallo Stato, carico come è di una infinità di aggi burocratici e intrinsecamente così poco dotato di capacità di cambiamento e di miglioramento. Allora il governo sarà rimpiazzato, quasi senza accorgercene, da associazioni semplici e dinamiche, altamente specializzate e sulla base di specifiche necessità. Il lettore potrebbe essere ben disposto ad accettare l'eventualità che associazioni
volontarie si prendano carico di effettuare quelle attività commerciali e industriali che si presume attualmente siano compiti del governo. Tuttavia, il promulgare leggi, l'amministrare la giustizia, l'istruire tribunali e l'impiegare poliziotti, gli paiono essere funzioni essenzialmente statali per cui trova difficile pensare che possano essere delegate ad associazioni volontarie. Eppure, bastano pochi esempi per mostrare come anche queste funzioni possano essere meglio effettuate in modo differente. La Borsa azionaria, con le sue disposizioni e regolamenti, può disciplinare i suoi membri molto più rapidamente ed effettivamente di quanto possa avvenire attraverso un procedimento giudiziario. Le decisioni dei gestori della Borsa sono più rispettate e temute di quelle di un tribunale. Inoltre, sono prive dei tecnicismi, sofismi e lungaggini di cui sono pieni i nostri tribunali. Se le associazioni produttive e gli uomini d'affari adottassero il metodo dell'arbitrato per risolvere le dispute, il numero dei processi diminuirebbe rapidamente. La materia concernente la protezione della proprietà è attualmente compito del governo federale, statale, della contea e del comune; eppure un cittadino, per ottenere davvero una certa protezione, deve fare ricorso a guardie di sicurezza da lui direttamente pagate [172]. A queste più economiche agenzie non-statali di protezione, il cittadino fa maggiore affidamento, dal momento che le altre sono state incapaci di proteggerlo davvero, sebbene egli sia costretto a pagare, a tale scopo, tasse esorbitanti. Ignorare le leggi La massima dimostrazione, in questo paese, del pessimo uso del potere politico che la storia moderna presenti l'abbiamo con la legge che vieta la produzione e la vendita di bevande alcoliche. Quell'abuso di potere è sostenuto e approvato in maniera assoluta solo da una minoranza, eppure si tratta di una minoranza fanatica ed estremamente decisa. Per questo la maggioranza viola totalmente e continuamente la legge, o di nascosto e timidamente, o apertamente e sfacciatamente, secondo le circostanze. Consapevole che così facendo nessuno viene danneggiato, essa non ha, al riguardo, alcuno scrupolo di coscienza. Prima dell'introduzione del proibizionismo, si sosteneva che i locali di ritrovo come i bar, con i suoi effetti sulla politica, costituissero un fatto estremamente negativo. Si decise allora di mettere fuori legge tutte le attività che avevano a che fare con l'alcol. Ma mettendo fuori legge i locali che vendevano alcolici, è la
comunità stessa, che si ritrovava in quei luoghi, a essere stata messa fuori legge. E i distillatori e distributori illegali di alcol hanno assunto un ruolo e un potere di influenza sulla politica ben più grande di quanto lo avesse il gestore di un bar. Questo è il risultato di rendere illegale un comportamento non aggressivo, e in presenza anche di un sentimento del pubblico non decisamente a favore della legge. Il che mostra come sia possibile ignorare e rendere nulla una legge invasiva allorché essa è rigettata da un numero sufficientemente grande di individui. Quando le persone realizzeranno finalmente che il proibizionismo ha generato molta più corruzione di quanta ne abbiano prodotta i locali di spaccio dei liquori, il Diciottesimo Emendamento [173] sarà soppresso o diventerà lettera morta, in quanto risulterà praticamente inapplicabile. Un altro notevole esempio di quello che può fare un cambiamento del sentimento pubblico per rendere nulla una legge, concerne il matrimonio. Nel corso degli ultimi decenni il sentimento pubblico riguardante le relazioni coniugali tra uomo e donna ha subito un cambiamento significativo. Infatti, molte regole imposte dalla Chiesa e dagli Stati sono diventate del tutto obsolete e raramente qualcuno pensa di attenersi totalmente ad esse. Evolvendo, l'esperienza umana ha scoperto che le convenzioni del ato sono, per molti versi, inadatte alle situazioni presenti. Ma, dal momento che sussiste ancora un sentimento pubblico abbastanza forte da ostacolare l'abrogazione o la modifica radicale di tali leggi, non rimane altro da fare, da parte di coloro che trovano intollerabile conformarsi ad esse, se non ignorarle, evaderle e persino violarle in quanto ingiunzioni opprimenti. Molte persone non si preoccupano affatto di attenersi alle ingiunzioni della legge concernenti le loro relazioni coniugali in quanto trovano quegli obblighi troppo onerosi. Lo sviluppo della concezione della libertà a questo riguardo è stato così grande, in anni recenti, che a un gran numero di persone, che non si possono neanche definire come estremamente avanzate nel loro modo di pensare, le leggi sul matrimonio appaiono, in molte disposizioni, una violazione flagrante della libertà personale. Costoro ritengono tali leggi una ingerenza intollerabile dello Stato in quella che considerano una relazione contrattuale, del tutto personale ed essenzialmente mutualistica, stipulata tra due individui. Negli ultimi cinquant’anni, alcune modifiche sono state introdotte negli statuti dei vari stati per quanto concerne le leggi sul matrimonio e sul divorzio. Ma è il
modo in cui le disposizioni sono state interpretate e applicate dai tribunali che indica che una vera rivoluzione sta avvenendo. Alcuni anni fa le procedure di divorzio erano laboriose e si svolgevano di fronte ai membri di una giuria, e il giudice riteneva fosse suo compito evitare una separazione. Negli stati progressisti, adesso, tutto ciò è cambiato e quando la parte citata in giudizio non si presenta, il procedimento si svolge solo davanti al giudice. Se non vi sono basi legali riconosciute per il divorzio, la parte che promuove la causa ingigantisce le accuse di “crudeltà”, “abbandono”, mancato sostegno”, eccetera, e il giudice acconsente alla richiesta di divorzio. L'intero processo dura solo alcuni minuti. La concessione di alimenti all’ex moglie sta diventando meno frequente, soprattutto nei casi in cui non vi sono figli e quando la donna è capace di mantenersi da sé e non vi è necessità di un aiuto esterno. Qui possiamo addirittura vedere l'abbandono di vecchie tradizioni, senza che i conservatori e i sostenitori delle antiche pratiche si rendano conto dei cambiamenti che stanno avvenendo, di continuo, in tutte le istituzioni. Le leggi sul traffico sono un altro insieme di regole che, assieme a molte disposizioni sagge e utili, ne contiene molte altre stupide e davvero dannose, che tutti trasgrediscono quando non sono sotto l'occhio del vigile. Un tale tipo di violazione costituisce la prova più evidente che, nonostante ciò, si rimane dei buoni cittadini, se non fosse per il fatto negativo che tali comportamenti portano la persona irriflessiva e priva di scrupoli a disattendere anche quelle disposizioni che tutti riconoscono essere state introdotte per la sicurezza generale e a vantaggio di tutti. È proprio l'enorme numero di regole che sconcerta il cittadino che non sa più distinguere tra quelle utili e quelle insensate. Quindi, per via della quantità e complessità delle regole della circolazione risulta difficile, per un guidatore, sapere cosa fare, soprattutto quando a da una giurisdizione all'altra, con regole differenti. Molte leggi di scarsa importanza sono apertamente e candidamente ignorate e disattese ogni giorno, per non parlare poi della costante e rilevante evasione nel pagamento delle tasse da parte di ricchi e poveri, di persone timorose e di spavaldi, senza che vi sia in loro il benché minimo sentimento di aver fatto qualcosa di male. Ma quanto detto in precedenza dovrebbe essere sufficiente a far capire il motivo del rifiuto da parte delle persone di sostenere o riconoscere una autorità che nega il godimento di una uguale libertà per tutti o che non è capace di fornire una prestazione, sotto forma di servizi, equivalente alle somme versate. Il mutualismo sottolinea il fatto che i suoi princìpi si basano sulla “norma della equità pura”. Va quindi notato che tutte quelle leggi, che si violano,
si evadono o si ignorano, costituiscono esse stesse delle negazioni dell’equità pura e dell'iniziativa individuale, dei liberi contratti e delle associazioni volontarie, aspetti tutti su cui si basa il mutualismo. La resistenza iva Fino a quando una maggioranza di persone non si renderà conto della necessità di abrogare un certo numero di leggi, la resistenza iva sarà il mezzo migliore per garantirsi un certo sollievo dall'oppressione esercitata da talune disposizioni. Questo è un metodo a cui sembra ricorrere più prontamente l'Americano medio, dal momento che egli è sempre pronto a ignorare ed evadere qualsiasi legge che non riceva l'appoggio di una fetta preponderante di opinione pubblica. Egli non ha molto rispetto per simili leggi, incoraggiato nella sua inosservanza dal fatto di vedere l'impunità con la quale tali leggi e regolamenti sono, in molti casi importanti, violati e sbeffeggiati. Inoltre, egli si rende conto che una gran parte delle leggi sui consumi di lusso e altre norme parimenti odiose, ricevono solo un sostegno ipocrita da parte di coloro che si sono attivati per la loro introduzione. E questo riduce decisamente il loro rispetto per tali leggi. Si apre quindi la via per rendere una legge talmente impopolare che la comunità non acconsentirà alla sua applicazione. Quando, come è successo di recente, gli abitanti di un grande Stato hanno votato in un referendum, con una maggioranza di tre a uno, di richiedere al governo federale il diritto di annullare l'applicazione, al loro interno, di un importante Atto del Congresso, con quale speranza di successo si può tentare di imporre tale legge in quello Stato? A tutti gli effetti la legge Volstead [174] è lettera morta nello Stato di New York e non vi è alcuna probabilità di una sua resurrezione. Coloro che sono incaricati della sua applicazione devono fare tutti gli sforzi per tentare di punirne i trasgressori, ma avranno enormi difficoltà ad assicurarsi delle condanne davanti a una giuria. Altre leggi possono essere rese così odiose, e quando ciò avviene non fa alcuna differenza se si è ati attraverso la formalità di abrogarle oppure no. Certamente è ovvio che una vera resistenza iva significa astenersi piuttosto che agire. Per cui è sempre più difficile per un governo punire una persona che si trattiene dal commettere un atto piuttosto che colui che lo commette. L'individuo che si rifiuta di obbedire quando gli viene ordinato di agire ha meno probabilità di finire in prigione di colui che si avventura in ambiti proibiti. E ugualmente, colui che apre troppo la bocca per parlare ha maggiori probabilità di avere problemi con la polizia di colui che tiene la bocca chiusa. È difficile per uno zelante impiccione statale fabbricare una accusa contro una persona che rimane
immobile nel suo rifiuto. Questa, detta in breve, è l'essenza della resistenza iva – fare assolutamente nulla. Rifiutarsi di farsi coinvolgere in uno qualsiasi degli atti invasivi del governo può, a volte, essere ritenuto come una trasgressione punibile. Ma, quando un numero sufficientemente grande di persone rifiuta in maniera persistente di conformarsi, il potere costituito è impotente e, alla fine, se il rifiuto è mantenuto fino in fondo, deve soccombere. La forza rappresentata da un vasto numero di resistenti ivi è praticamente irresistibile. Per di più tale forza ha il vantaggio aggiunto di essere non-invasiva. Il mutualismo, ad esempio, sostiene che nessun titolo di possesso del suolo vada riconosciuto a meno che non si basi sull'occupazione e sull'uso del suolo stesso. Immaginiamo allora un certo numero di persone senza fissa dimora e prive di mezzi di sostentamento che, in sintonia con i princìpi mutualisti, si insediassero su un pezzo di terra abbandonato, e che è nelle mani di qualche proprietario assenteista, ad esempio, una grande compagnia ferroviaria. Se costoro, mandati via con la forza dallo sceriffo, ritornassero a utilizzare quel terreno quanto più prontamente e ripetutamente possibile, questo sarebbe allora un esempio perfetto di resistenza iva, posto che subissero lo sfratto ogni volta senza una risposta violenta da parte loro. L'effetto provocato da tutto ciò sarebbe quello di sconcertare e fare pressione su un potere invasivo, proprio come le tattiche di rifiuto di pagamento dei fitti agrari messe in atto dalla Lega della Terra in Irlanda [175] nel secolo scorso sconcertarono e misero pressione sul governo inglese, e questo fino a quando gli affittuari furono traditi dai loro capi e fu ingiunto loro di sottomettersi. Se non si conseguono risultati immediati attraverso l'uso di questi metodi, almeno si espongono al discredito i poteri invasivi e li si smaschera come oppressori di persone indifese. In sostanza, la consueta e generale politica di aggressione sarebbe spogliata dei suoi simboli gloriosi e sarebbe mostrata la sua vera faccia di insensata criminalità. La resistenza iva non deve però essere confusa con la non-resistenza. Per di più, è abbastanza facile distinguere tra le due. La non-resistenza è proprio quello che dice la sua etimologia – non opporre alcuna resistenza. La resistenza iva invece è decisamente una resistenza, ma non attraverso azioni manifeste. È un agire in negativo. È l'astensione, la non-partecipazione, e coloro che utilizzano questo metodo non fanno qualcosa ma si astengono dal compiere qualcosa. Vi è
inoltre un'altra distinzione da fare tra resistenza iva e non-resistenza. La prima è considerata dai suoi sostenitori uno strumento quanto mai opportuno; essi la ritengono il più efficace di tutti i metodi. La non-resistenza, dall'altro lato, è vista comunemente, da coloro che la sostengono, come un simbolo, un qualcosa celebrato come un rimedio universale per tutte le forme di aggressione. In quanto tale è promossa soprattutto da coloro che hanno una prospettiva religiosa. Resistere ivamente fa sì che il peso dell'aggressione ricada su coloro che vogliono imporre con la forza la cosa a cui si resiste. Tale resistenza può prendere la forma di rifiutarsi di obbedire a qualsiasi tipo di comando, soprattutto quando l'obbedienza si dovrebbe tradurre nel compiere qualcosa che non si vorrebbe fare. La resistenza può naturalmente arrivare fino al punto in cui colui che resiste accetta di subire le conseguenze del suo rifiuto, tenendo a mente che la punizione non è, di solito, così dura come quando si commette un atto proibito. Gli scioperi, nella loro forma semplice, sono un vero tipo di resistenza iva. Non è ancora un crimine – in tempo di pace – astenersi dal lavoro. Ma coloro che sfruttano i lavoratori stanno compiendo degli sforzi perché lo sciopero sia considerato un crimine punibile per legge; e alcuni “rappresentanti” del popolo nel Congresso e nelle varie sedi legislative stanno tentando in continuazione di far are simili leggi. Il picchettaggio – inteso come sforzo verbale di persuasione nei confronti dei lavoratori perché si uniscano allo sciopero e per dissuadere altri a lavorare al posto degli scioperanti – rappresenta una estensione logica della resistenza iva, e non costituisce affatto una violazione del principio di pari libertà. Quando il picchettaggio è accompagnato dalla violenza o da minacce di violenza, sotto qualsiasi forma, come ad esempio bloccare con la forza il lavoratore che si rifiuta di scioperare o impedire l'accesso a coloro che vogliono lavorare al posto degli scioperanti, o colpendo una persona che non vuole farsi convincere, non siamo più nel campo della resistenza iva. Tutto questo costituisce una violazione del principio di pari libertà e il Mutualista si distanzia chiaramente e nettamente da ciò. I mutualisti però non ritengono giustificate quelle decisioni dei tribunali e quelle affermazioni dei datori di lavoro che sostengono che i cosiddetti scioperi di sostegno siano una violazione del principio qui avanzato, posto sempre che non
vi sia alcun contratto che risulti violato a seguito di tali scioperi. Sospendere il lavoro costituisce, in maniera estremamente chiara, l'esercizio semplice di un diritto indiscusso di astenersi dal compiere un atto che, per quanto lontano dal motivo principale che ha spinto alla cessazione del lavoro, non può essere mai ritenuto come una negazione della libertà di qualcuno. Sostenere il contrario equivarrebbe ad accettare la schiavitù del lavoratore – nulla di più e nulla di meno. Un esempio di come la resistenza iva abbia portato all'abrogazione di una legge impopolare è costituito dal caso della tassa sulle persone, il cosiddetto “testatico” ( poll tax). L'evadere il pagamento di questa tassa e i vari ostacoli posti alla sua riscossione, hanno reso estremamente difficile imporre tale legge, a tal punto che è stata abrogata in molti se non in tutti gli stati americani. Questo è solo un esempio della messa in atto, con successo, della resistenza iva. Dopo che tutti gli sforzi per ottenere l'abrogazione di talune leggi hanno conseguito il massimo risultato possibile, dopo che l'ignorare, l'evadere e il violare leggi del tutto abominevoli, assieme all'impiego quanto più possibile della resistenza iva, hanno prodotto i massimi risultati ottenibili, rimangono ancora altri mezzi per conseguire la fine di quelle leggi assurde che ancora sono in vigore. Ad esempio, si può discreditare in vari modi una specifica legge. Involontariamente, gli stessi tribunali stanno facendo molto in tal senso. Esempi evidenti possono essere visti nelle varie decisioni prese contro le cosiddette cospirazioni. I tribunali hanno sostenuto di frequente che molti atti, se compiuti da una sola persona, possono essere giudicati come pienamente legali, ma quando sono effettuati da due o più persone diventano una “cospirazione” e tutte le cospirazioni sono considerate illegali. Il fatto che i giudici sostengano che il semplice numero di persone che prendono parte a una azione ne determini il carattere ridicolizza la legge. Infatti, basta portare il loro ragionamento fino al suo logico estremo per mostrare l'erroneità o, forse, la parzialità dei giudici. A nessun tribunale verrebbe in mente di prendere la decisione che, sebbene un individuo possa praticare la sua fede innocentemente all'interno della propria dimora, nel momento in cui si reca in chiesa e si unisce ad altri nella celebrazione religiosa, egli diventa un cospiratore e dovrebbe essere trascinato in carcere. Eppure, si ha una perfetta analogia con
questo caso quando un operaio cessa di lavorare e rientra a casa. In tale evenienza, la sua rettitudine non viene minimamente messa in discussione, mentre, se avvenisse che egli, assieme ad altri operai, affittasse una sala per discutere di un problema, allora lo si considererebbe impegnato in una cospirazione e sarebbe soggetto a una pena. Questa è la sconcertante incoerenza della mente giuridica! Lasciamo che i tribunali moltiplichino simili assurdità e la legge diventerà una sorta di barzelletta. La propensione a evadere il fisco A tutti è nota la riluttanza con la quale il cittadino medio si pone di fronte all'esattore fiscale. Evadere le tasse, per quanto possibile, è una pratica che coinvolge, senza alcuna distinzione, le persone in alto e quelle in basso della scala sociale, i ricchi e i poveri, le persone pie e quelle che pie non sono. E, in tutti i casi, senza il minimo senso di colpa. Dal momento che questo comportamento abituale è praticato da persone che non danno altri segni di disonestà, si potrebbe credere che il motivo non risieda nel fatto di sottrarsi a un giusto obbligo, ma che vi sia una quasi generale percezione che non si riceve mai l'equivalente in cambio di quello che si è dato. Questo scetticismo è dovuto alla comune nozione che gli uomini politici che amministrano il governo sono di rado persone capaci di gestire gli affari. Quando devono spendere i soldi dei contribuenti, essi sono influenzati principalmente da considerazioni politiche o da motivi di prestigio personale, e sono soggetti a innumerevoli tentazioni di diventare estremamente generosi nello spendere del denaro che non è il frutto dei loro propri sforzi e attività. Anche il più disinformato dei cittadini è consapevole che tutti i progetti governativi sono portati avanti in maniera incompetente, che i soldi dei contribuenti sono dissipati a destra e a manca, che ci sono, in tutte queste operazioni, orde di profittatori che bisogna foraggiare e che i favoritismi, a discapito dell'efficienza, sono dappertutto la regola piuttosto che l'eccezione. All'opposto, ogni imprenditore con una certa esperienza sa che nessuna impresa economica potrebbe mai essere condotta con successo utilizzando i metodi impiegati dalla politica nella gestione e nel controllo, e che, in assenza di una riserva continua di fondi per coprire i deficit incolmabili dei governi, fondi che
sono resi disponibili dal potere coercitivo della tassazione, qualsiasi progetto governativo andrebbe incontro alla bancarotta. C'è quindi poco da stupirsi che il contribuente, tartassato e tormentato, si volga prontamente e naturalmente verso l'unico modo per mitigare la sua pena, che è l'evadere, per quanto possibile, il pagamento delle imposte. L'imposta sulle persone ( poll tax), la più oppressiva forma di tassazione mai concepita, è stata adesso abbandonata in molti stati dal momento che un numero crescente di cittadini riusciva ad evaderla attraverso il semplice accorgimento di non registrarsi nelle liste elettorali e astenersi dal voto. Infatti, le liste elettorali erano il mezzo su cui si faceva affidamento per individuare le persone tassabili prive di proprietà imponibili. L'ingegnosità, questa amica sempre fedele dell'evoluzione e del progresso, ha mostrato nuovamente la via verso una sensata e utilizzabile forma di resistenza iva. Perciò, ritirando il proprio sostegno allo Stato, laddove ciò possa essere fatto con impunità, e ignorandolo in tutti i casi possibili, e quando la sua mano grava più pesantemente sull'inerme cittadino, si può alleggerire la dura interferenza governativa nei confronti della libertà degli individui e della pratica dei princìpi del mutualismo, creando così un vuoto intorno all'arci-aggressore Stato.
Il posto dell’individuo nella società, di Emma Goldman
Documento 57 (1940)
Emma Goldman leva alta la sua voce celebrando l'individuo come l'iniziatore e l'autore di ogni impresa e invenzione esistente sulla faccia della terra. Lo stato e la società sono astrazioni a cui i governanti vogliono sacrificare l'individuo. Ma, nonostante tutti gli ostacoli: «La ricerca della libertà da ogni costrizione è eterna. Essa deve continuare e continuerà, per sempre». Fonte: Emma Goldman, The Place of the Individual in Society, Chicago, 1940.
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Le menti delle persone sono in uno stato confusionale perché le fondamenta stesse della nostra civiltà sembrano vacillare. Molti non hanno più fiducia nelle istituzioni esistenti, e i più intelligenti si rendono conto che il capitalismo industriale viene meno agli scopi che si era prefisso di raggiungere. Il mondo cerca una via d’uscita. Il parlamentarismo e la democrazia sono fenomeni in declino. Si cerca la salvezza nel Fascismo e in altre forme di governo “forte”. La lotta tra opposte idee che si sta conducendo a livello mondiale riguarda problemi sociali che richiedono urgentemente una soluzione. Il benessere dell’individuo e la sorte dell’umana società dipendono da una corretta risposta a quei problemi. La crisi, la disoccupazione, la guerra, il disarmo, le relazioni internazionali e altro ancora, sono tra quei problemi. Lo Stato, il governo con le sue funzioni e i suoi poteri, è diventato adesso il tema di interesse vitale di ogni essere umano pensante. Gli sviluppi politici in tutti i paesi civilizzati hanno posto all’attenzione delle persone taluni interrogativi. Dobbiamo avere un governo forte? La democrazia e il governo parlamentare sono da preferire, oppure il Fascismo o un qualche tipo di dittatura, monarchica, borghese o proletaria, rappresentano la soluzione agli assilli e alle difficoltà che affliggono la società attuale? In altre parole, dobbiamo curare i mali della democrazia con dosi maggiori di democrazia, o dobbiamo tagliare il nodo Gordiano del governo popolare con la spada della dittatura? Io sono contraria sia all’una che all’altra ipotesi. Sono contro la dittatura e il Fascismo così come sono contro il regime parlamentare e la cosiddetta democrazia politica. Il Nazismo è stato giustamente qualificato come un attacco alla civiltà. Questa caratterizzazione si applica, con pari forza, a qualsiasi forma di dittatura; in effetti, si applica a qualsiasi tipo di autorità oppressiva e coercitiva. Infatti, che cosa è la civiltà nel senso vero del termine? Qualsiasi progresso è stato essenzialmente un ampliamento delle libertà dell’individuo con una corrispondente diminuzione del potere esercitato su di lui da forze esterne. Questo vale sia nell’ambito della sfera materiale che in quello della politica e dell’economia. Nel mondo fisico l’essere umano ha progredito nella misura in
cui ha sottomesso le forze della natura e le ha rese utili a sé. L’uomo primitivo ha compiuto un o sulla strada del progresso quando ha prodotto il fuoco e ha vinto il buio, e quando ha padroneggiato il vento o incanalato l’acqua. Che ruolo ha svolto il potere o il governo nello sforzo umano di miglioramento, nelle invenzioni e nelle scoperte? Praticamente nessuno, o, almeno, non ha dato alcun contributo utile. È sempre stato l’individuo che ha realizzato qualsiasi prodigio in queste sfere di attività, e di solito nonostante i divieti, le persecuzioni, le interferenze da parte dell’autorità, umana e divina. Parimente, nella sfera politica, la strada del progresso consiste nell’allontanarsi sempre più dal potere del capo tribù o del clan, del principe e del re, del governo, dello Stato. Dal punto di vista economico il progresso ha significato un maggiore benessere per un sempre più ampio numero di persone. Dal punto di vista culturale ha costituito il prodotto finale di ogni altra conquista – maggiore autonomia, politica, intellettuale, psichica. Visto da questa prospettiva, il problema del rapporto tra gli esseri umani e lo Stato assume un senso del tutto diverso. Non si tratta di vedere se la dittatura sia preferibile alla democrazia, se il Fascismo Italiano sia superiore all’Hitlerismo. Una domanda di più ampio raggio e di maggiore portata si pone: è il governo politico, è lo Stato un fattore benefico per il genere umano, e in che modo esso influisce sull'individuo nello schema sociale delle cose? L’individuo è la vera realtà esistenziale. Un universo in sé stesso, l’individuo non esiste per lo Stato né per quella astrazione chiamata “società” o “nazione”, che è solo un insieme di individui. L’essere umano, l’individuo, è sempre stato e necessariamente è la sola fonte e la sola forza che anima l’evoluzione e il progresso. Il processo civilizzatore è consistito in una lotta continua dell’individuo o di un gruppo di individui contro lo Stato e persino contro la “Società”, e cioè contro la maggioranza soggiogata e ipnotizzata dallo Stato e dal culto dello Stato. Le più grandi battaglie dell’essere umano sono state intraprese contro gli ostacoli posti da altri esseri e contro i blocchi artificiali imposti alle singole persone al fine di paralizzarne la crescita e lo sviluppo. Il pensiero umano è stato sempre falsato dagli usi e costumi, e da una educazione erronea e fuorviante, nell’interesse di coloro che godono del potere e dei privilegi. In altre parole, dallo Stato e dalle classi dominanti. Questo conflitto,
costante e incessante, ha costituito la storia dell’umanità. L’individualità può essere descritta come la presa di coscienza dell’individuo, di chi è e di come vive. Essa è intrinseca ad ogni essere umano ed è una componente della crescita. Lo Stato e le istituzioni sociali vanno e vengono, ma l’individualità rimane e persiste. La vera essenza dell’individualità è l’espressione della personalità; il senso di dignità e di indipendenza rappresentano il terreno su cui essa fiorisce. L’individualità non è quella cosa impersonale e meccanicistica che lo Stato tratta come un “individuo”. L’individuo non è semplicemente il risultato dei caratteri ereditari e dell’ambiente, della dinamica di causa ed effetto. Egli è questo e anche molto di più e molto altro. L’essere umano vivente non può essere definito; egli è la sorgente di tutto ciò che esiste e di tutti i valori; egli non è una semplice parte di questo o di quello, ma un insieme, un individuo-tutto, che cresce, che cambia e che continua a essere sempre un tutto. L’individualità non va confusa con le varie idee e concetti di individualismo; e ancor meno con quel “rude individualismo” ( rugged individualism) [176] che è solo un celato tentativo di schiacciare l'individuo e la sua individualità. Questo cosiddetto individualismo, che si presenta come laissez-faire nella sfera sociale ed economica, si traduce poi nello sfruttamento di classe delle masse attraverso imbrogli legali, svilimento morale e indottrinamento sistematico allo spirito servile che va sotto il nome di “educazione”. Questo “individualismo” corrotto e perverso rappresenta la camicia di forza dell’individualità. Ha trasformato la vita in una corsa degradante per conseguire dei premi sotto forma di beni materiali, prestigio sociale e dominio sugli altri. La sua massima formula di saggezza è: «che ognuno pensi a sé e tanto peggio per gli altri». Questo “rude individualismo” ha condotto come risultato, nell’epoca moderna, alle più grandi forme di asservimento, ai più volgari divari di classe, gettando nell'indigenza milioni di persone [177]. Il “rude individualismo” ha significato un “individualismo” totale per i padroni, mentre la gente era inquadrata e confinata in una casta inferiore, al servizio di una ristretta cerchia di “superuomini” interessati solo al loro esclusivo vantaggio. L’America è forse la rappresentante più evidente di questo tipo di individualismo, nel cui nome la tirannia politica e l’oppressione sociale sono difese e sostenute come se fossero delle virtù. Al tempo stesso, ogni aspirazione e ogni tentativo da parte delle persone di conquistarsi la libertà e l’opportunità sociale di vivere a modo proprio, sono denunciati come “non Americani” e dannosi, nel nome di quello
stesso individualismo. Vi è stato un tempo quando lo Stato era una entità ignota. In questa condizione naturale l’essere umano conduceva la sua esistenza senza che vi fosse lo Stato o un governo organizzato. Le persone vivevano in piccole comunità; lavoravano la terra e praticavano l’artigianato. L’individuo e, in seguito, la famiglia, rappresentava l’unità della vita sociale, e ognuno era libero e alla pari con il suo vicino. A quei tempi la società umana non era uno Stato ma una associazione volontaria per la protezione e il benessere reciproci. Gli anziani e le persone di maggiore esperienza erano le guide e i consiglieri della gente. Essi davano una mano nella gestione degli affari, non per dirigere e dominare l’individuo. Il governo politico e lo Stato apparvero in una fase di gran lunga posteriore, emergendo dal desiderio dei più forti di avvantaggiarsi dei più deboli, o di pochi di prevalere sui molti. Lo Stato, ecclesiastico o secolare, serviva per dare una apparenza di legalità e di diritto alle malefatte di alcuni nei confronti di molti. Dare forma giuridica a questi soprusi era necessario per dominare più facilmente la gente, perché nessun governo può esistere senza il consenso delle persone, consenso manifesto, tacito o inteso come implicito. Il costituzionalismo e la democrazia sono le forme moderne di questo presunto consenso. Esso viene inoculato attraverso l’indottrinamento chiamato “educazione”, a casa, in chiesa e in ogni fase della vita delle persone. Questo consenso consiste nel credere in un potere esterno e nella necessità della sua esistenza. Alla base sta la dottrina che l’essere umano è malevolo, immorale e del tutto incompetente e ignorante riguardo a ciò che è bene per lui. Su queste convinzioni si fondano tutti i governi e tutte le oppressioni. Dio e lo Stato esistono e sono sostenuti perché si crede in questo dogma. Eppure, lo Stato non è altro che un’etichetta. Un’astrazione. Alla pari di altre simili concezioni – la nazione, la razza, il genere umano – non ha una realtà organica. Dire che lo Stato è un organismo rivela una malsana tendenza a trasformare le parole in feticci. Lo Stato è un termine che si applica all’apparato legislativo e amministrativo attraverso il quale certi affari della gente sono gestiti, in maniera pessima per dirla in tutta sincerità. Non vi è nulla di sacro, puro o misterioso riguardo a ciò. Lo Stato non ha una coscienza o una missione morale superiore a quella che potrebbe avere una agenzia affaristica che gestisce una miniera o una ferrovia.
Lo Stato non esiste più di quanto possano esistere gli dèi o i diavoli. Essi sono il riflesso e la creazione dell’essere umano che è la sola realtà. Lo Stato non è altro che una proiezione umana, la proiezione della sua opacità, ignoranza, paura. La vita inizia e finisce con l’essere umano, l’individuo. Senza di lui non vi è razza, umanità, Stato. Neppure la “società” è possibile senza l’essere umano. È l’individuo che vive, respira, soffre. Il suo sviluppo, i suoi progressi, sono il risultato di una lotta continua contro i feticci che egli stesso ha generato e, in particolare, il feticcio “Stato”. In ato l’autorità religiosa modellava la vita politica sull’immagine della Chiesa. L’autorità dello Stato, i “diritti” dei governanti provenivano dall’alto; il potere, come la fede, aveva caratteristiche divine. I filosofi hanno scritto pagine su pagine per certificare la santità dello Stato; alcuni l’hanno persino rivestito con la prerogativa dell’infallibilità e gli hanno assegnato attributi quasi divini. Taluni sono arrivati a considerare lo Stato come un essere “sovrumano”, la realtà suprema, l’ assoluto [178]. Lo spirito di ricerca era condannato come un fatto blasfemo. Il servilismo era lodato come massima virtù. Sulla base di tali precetti e ammaestramenti, alcune cose sono state assunte come auto evidenti, come verità sacre, a seguito di un martellamento persistente e ripetuto. Ogni progresso è stato essenzialmente un processo di smascheramento della “divinità” e del “misterioso”, di ciò che era ritenuto sacro, delle “verità” eterne. Il progresso ha operato una eliminazione graduale delle idee astratte, e una sostituzione, al suo posto, del reale, del concreto. In breve, i fatti invece delle fantasie, la conoscenza invece dell’ignoranza, la luce invece del buio. Quella lenta e faticosa liberazione dell’individuo non è stata compiuta con l’aiuto dello Stato. Al contrario, è attraverso un conflitto continuo, una lotta mortale con lo Stato, che sono state guadagnate anche le più piccole porzioni di autonomia e di libertà. L’umanità ha pagato in termini di tempo e di sangue per assicurarsi quel poco che ha strappato da re, zar e governi. L’essere umano è stato la grande eroica figura di quel lungo Golgota [179]. È sempre stato l’individuo, spesso del tutto solo, altre volte assieme e in cooperazione con altri simili, che ha lottato e sofferto nel corso di una lunga battaglia contro la repressione e l’oppressione, contro i poteri che lo rendono
servo e lo degradano. Ancor più e ancor meglio: è stato l’essere umano, l’individuo, che per primo si è ribellato contro l’ingiustizia e lo svilimento della persona; è stato l’individuo che, per primo, ha concepito l’idea della resistenza nei confronti di condizioni che ne impedivano lo sviluppo. In breve, è stato sempre l’individuo che è l’autore delle idee come pure delle azioni di liberazione. Si fa qui riferimento non solo alle lotte politiche, ma all’intero spettro della vita e degli sforzi umani, in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini. È sempre stato l’individuo, l’essere dotato di un intelletto forte e di una forte volontà di essere libero, che ha preparato la strada a tutti i progressi umani, ad ogni o verso un mondo più libero e migliore, nelle scienze, nella filosofia, nelle arti, come pure nell’industria. Il suo genio lo ha lanciato verso nuove altezze, concependo l’ impossibile, visualizzandone la realizzazione e contagiando altri con il suo entusiasmo per attuarlo e conseguirlo. Con riferimento alla società, l'individuo è sempre stato il profeta, il visionario, l’idealista, colui che ha sognato di un mondo che rassomigliasse ai desideri del suo animo e operasse come un faro sulla strada di realizzazioni sempre più grandi. Lo Stato, qualsiasi governo, in qualunque forma, carattere o colore – sia esso assoluto o costituzionale, monarchico o repubblicano, fascista, nazista o bolscevico – è per sua propria natura conservatore, statico, intollerante e opposto ai cambiamenti. Qualunque trasformazione esso subisca, è sempre il risultato di pressioni esercitate su di lui, pressioni abbastanza forti da spingere i governanti a sottomettersi pacificamente o, “in altro modo”, vale a dire attraverso una rivoluzione. Inoltre, il conservatorismo, intrinseco al governo, al potere di ogni tipo, non può non diventare inevitabilmente reazionario. E questo per due ragioni: primo, perché è nella natura del governo non solo conservare il potere che ha, ma anche rafforzarlo, ampliarlo e perpetuarlo, a livello nazionale e internazionale. Più si rafforza il potere, più grande è lo Stato e la sua sfera di influenza, meno può accettare che una pari autorità o potere politico esista accanto ad esso. L'atteggiamento mentale del governo esige che la sua influenza e il suo prestigio crescano costantemente, all’interno e all’esterno, e perciò sfrutta qualsiasi opportunità per accrescerli. Questa tendenza è motivata dagli interessi finanziari e commerciali che sostengono il governo e che sono da esso rappresentati e aiutati. La fondamentale ragione d’essere di ogni governo, di fronte alla quale gli storici del ato hanno volontariamente chiuso gli occhi, è diventata adesso fin troppo ovvia perché possa essere ignorata anche dagli
studiosi. L’altro fattore che spinge i governi a diventare sempre più conservatori e reazionari è la loro insita sfiducia nei confronti dell’individuo e la paura delle individualità. L’attuale schema politico e sociale non può permettersi di tollerare l’individuo e la sua costante ricerca di innovazione. Perciò, come “autodifesa”, lo Stato sopprime, perseguita, punisce e addirittura priva l’individuo della sua vita. Per compiere ciò è sostenuto da qualsiasi istituzione favorevole alla preservazione dell’ordine esistente. Lo Stato fa ricorso ad ogni forma di violenza e di pressione, e i suoi sforzi sono sostenuti dalla “indignazione morale” della maggioranza che è contro gli eretici, i dissidenti sociali e i ribelli politici – una maggioranza manipolata per secoli a venerare lo Stato, addestrata alla disciplina e all’obbedienza, e sottomessa dal timore e dalla venerazione dell’autorità, in casa, a scuola, in chiesa e nella stampa. Il baluardo più forte a difesa del potere è rappresentato dal conformismo. Divergere dalle credenze delle masse è il massimo dei crimini. La sempre più estesa meccanizzazione della vita moderna ha aumentato enormemente il conformismo. Esso è presente dappertutto, nelle abitudini sociali, nei gusti, nel modo di abbigliarsi, nei pensieri e nelle opinioni. Il concentrato maggiore di ottusità è chiamato “opinione pubblica”. Pochi hanno il coraggio di opporsi a essa. Colui che rifiuta di sottomettersi è immediatamente etichettato come un tipo “strano”, un “diverso”, e bollato come un elemento di disturbo del confortevole ristagno che è la vita moderna. Forse, ancor più dell’autorità costituita, è proprio il conformismo e l’omologazione che vessa di più l’individuo. La sua propria “unicità”, “separatezza” e “differenziazione” lo rendono un estraneo non solo nel suo luogo di nascita, ma anche tra le mura domestiche. Spesso in misura ancora maggiore rispetto allo straniero che si adatta alle regole stabilite. Nel verso senso della parola, la propria terra natale, con il suo retroterra di tradizioni, impressioni ricevute in giovane età, reminiscenze e altre cose simili che sono care alla persona, non è sufficiente a far sì che una persona sensibile si senta a casa sua. Una certa atmosfera di “appartenenza”, la consapevolezza di essere un “tutt’uno” con le persone e l’ambiente circostante, sono aspetti più importanti per sentirsi a casa propria. Questo vale nelle relazioni all’interno della propria famiglia, della ristretta sfera a livello locale, come pure in riferimento a un lungo periodo della propria esistenza e delle proprie attività, che fa sì che uno
sia comunemente identificato con un certo paese. L’individuo, la cui visione abbraccia l’intero mondo, spesso si sente sperduto e spaesato, non in sintonia con l’ambiente circostante, e questo proprio nella sua terra natia. Anteriormente alla Prima Guerra Mondiale, l’individuo poteva almeno fuggire la noia rappresentata dalla nazione e dalla famiglia. Il mondo intero si apriva alle sue voglie e alle sue ricerche [180]. Adesso il mondo è diventato una prigione, e la vita una reclusione continua e solitaria. Questo è vero soprattutto a partire dall’avvento delle dittature di destra e di sinistra. Friedrich Nietzsche ha definito lo Stato un gelido mostro [181]. Come avrebbe chiamato questa bestia ripugnante sotto le spoglie della dittatura? Il governo non ha mai concesso ampio spazio all’individuo; ma i campioni della nuova ideologia statale gliene concedono ancor meno. “L’individuo è nulla”, essi dichiarano, “la collettività è ciò che conta”. Solo la completa capitolazione dell’individuo può soddisfare l’appetito insaziabile delle nuove divinità. In maniera abbastanza strana, i sostenitori più vociferi di questo nuovo vangelo si trovano tra gli intellettuali inglesi e americani. Proprio ora essi esprimono la loro ione per la “dittatura del proletariato”. Soltanto in teoria, di certo. In pratica preferiscono ancora alcune libertà nei propri rispettivi paesi. Essi vanno in Russia per una breve visita o come commessi viaggiatori della “rivoluzione”, ma si sentono più sicuri e più a loro agio nel proprio paese. Forse non è la mancanza di coraggio che trattiene questi bravi inglesi e americani nelle loro terre natie piuttosto che nel paese del sol dell’avvenire. Sotto sotto, in maniera inconscia, potrebbe nascondersi la sensazione che l’individualità rimane l’aspetto fondamentale di ogni associazione umana, soppresso e perseguitato ma mai sconfitto e, nel lungo periodo, vittorioso. Il “genio umano”, che è un altro modo di chiamare la personalità e l’individualità, si fa strada attraverso il buio dei dogmi, le mura spesse della tradizione e delle usanze, sfidando tutti i tabù, annullando il potere opprimente, affrontando le ingiurie e la morte, per essere poi, alla fine, salutato come profeta e martire dalle generazioni future. Se non fosse per il “genio umano”, questa qualità intrinseca e persistente dell’individualità, saremmo ancora a vagare nelle foreste primordiali. Pëtr Kropotkin ha mostrato quali risultati meravigliosi ha conseguito questa
forza unica rappresentata dall’individualità umana quando è rafforzata dalla cooperazione con altre individualità. La teoria di Darwin della lotta per la vita, teoria parziale e del tutto inadeguata, ha ricevuto da quel grande scienziato e pensatore anarchico la sua integrazione sotto l’aspetto biologico e sociologico. Nella sua penetrante opera, Mutual Aid (Il Mutuo Appoggio), Kropotkin mostra che nel regno animale, come pure nella società umana, la cooperazione - in contrasto con le lotte e le contese intestine – ha operato per la sopravvivenza e l’evoluzione della specie. Egli ha fatto vedere, con degli esempi presi dalla storia, che solo l’aiuto reciproco e la cooperazione volontaria – non lo Stato onnipotente e distruttore – possono costituire le basi per una esistenza individuale e associativa libera. Attualmente, l’individuo è una pedina dei fanatici della dittatura e dei parimente ossessionati fanatici dell’individualismo duro e puro. Il pretesto dei primi è che essi offrono un nuovo obiettivo. Gli altri non pretendono nemmeno di presentare qualcosa di nuovo. In realtà, il “rude individualismo” non ha imparato nulla e nulla ha dimenticato. Sotto la sua guida, lo scontro brutale per la sopravvivenza fisica continua imperterrito anche se la necessità della sua presenza è del tutto scomparsa. In realtà, la lotta viene fatta proseguire in maniera manifesta proprio perché non ve ne è affatto bisogno. Non ne è prova la sovrapproduzione? La crisi economica a livello mondiale non è forse una dimostrazione eloquente che la lotta per l’esistenza è fomentata dalla cecità del “rude individualismo” anche a rischio della propria distruzione? Una delle insane caratteristiche di questa lotta è la negazione completa della relazione tra il produttore e quello che egli produce. Il lavoratore medio non ha un punto di contatto personale con l’industria nella quale lavora ed è un estraneo rispetto al processo di produzione di cui rappresenta una componente di tipo meccanico. Come ogni altro ingranaggio della macchina, è sostituibile in ogni momento con altri esseri umani similmente spersonalizzati. L’intellettuale proletario, sebbene pensi scioccamente di essere un agente libero, non si trova in una situazione migliore. Anche per lui ci sono poche possibilità di scelta o di autonomia nell’ambito della sua particolare attività, come per colui che svolge un lavoro manuale. Considerazioni materiali e il desiderio di un prestigio sociale maggiore sono, di solito, i fattori che fanno abbracciare una attività intellettuale. In aggiunta a ciò, vi è la tendenza a seguire le orme della tradizione familiare, e allora si diventa dottori, avvocati, insegnanti, ingegneri, eccetera. Il solco già tracciato richiede meno sforzo e originalità. Ne consegue
che quasi tutti sono fuori posto nell’attuale schema delle cose. Le masse tirano avanti, in parte perché i loro sensi sono stati resi ottusi da un lavoro monotono che uccide la creatività, e anche perché devono guadagnarsi da vivere. Questo è vero ancor più se si fa riferimento all’attuale sovrastruttura politica. Non vi è spazio, in questo ingranaggio, per la libera scelta di un pensiero e di una attività autonomi. C’è posto solo per marionette che votano e pagano le tasse. Gli interessi dello Stato e quelli dell’individuo differiscono e si contrappongono in maniera fondamentale. Lo Stato e le istituzioni politiche ed economiche che esso sostiene possono esistere solo modellando l’individuo ai fini particolari di tali entità: addestrandolo a rispettare “la legge e l’ordine”, insegnandogli l’obbedienza, la sottomissione e la fede, che non va messa in discussione, e istruendolo nella saggezza e giustizia del governo. In particolare, ingiungendogli di essere fedele e di sacrificarsi completamente quando lo Stato glielo ordina, come in caso di guerra. Lo Stato colloca sé stesso e i suoi interessi persino al di sopra delle esigenze della religione e di Dio [182]. Esso punisce scrupoli religiosi o di coscienza, combattendo ogni forma di individualità, perché non c’è individualità senza libertà, e la libertà è la più grave minaccia al suo potere. La lotta dell’individuo contro queste tremende avversità è quanto mai difficile – spesso pericolosa per la sua vita e la sua incolumità – in quanto non sono il vero o il falso che fungono da criterio per i suoi oppositori. Non è la validità o utilità del suo pensare o agire che suscita contro di lui la forza dello Stato e della “pubblica opinione”. La persecuzione che subisce l’innovatore o colui che protesta è stata sempre ispirata dalla paura, da parte dell’autorità costituita, che la sua infallibilità venga posta in dubbio e il proprio potere minato alla base. La vera liberazione dell’essere umano, a livello individuale e collettivo, consiste nella sua emancipazione dal potere e dalla fede stessa nel potere. Tutta l’evoluzione umana è consistita in una lotta in quella direzione e per quell’obiettivo. Non sono le invenzioni o i congegni meccanici che rappresentano lo sviluppo. La capacità di viaggiare alla velocità di cento miglia all’ora non è segno di persona civilizzata. La vera civiltà si misura attraverso l’individuo, l’unità di ogni forma di vita sociale; si misura attraverso la sua individualità e nella misura in cui la persona è libera di crescere e svilupparsi senza essere impedita da un potere invasivo e coercitivo. Dal punto di vista sociale, il parametro della civiltà e della cultura è il grado di libertà e di opportunità economiche di cui gode l’individuo; è l’unità e la
cooperazione sociale, anche a livello internazionale, di cui egli dispone, al di fuori di decreti o altri ostacoli artificiali imposti da taluni; è l’assenza di caste privilegiate e la presenza di libertà e di dignità umane. In breve, la vera emancipazione dell’individuo consiste nella civiltà e nella cultura. L’assolutismo politico è stato abolito perché gli esseri umani hanno capito, nel corso del tempo, che il potere assoluto è un male che distrugge. Ma questo vale per qualsiasi potere, che sia il potere basato sul privilegio, sul denaro, sulla religione, sulla politica o sulla cosiddetta democrazia. Per quanto riguarda i suoi effetti sulla individualità, importa poco il carattere specifico della coercizione che sia nera come il Fascismo, bruna come il Nazismo o pretenziosamente rossa come il Bolscevismo. È il potere in sé stesso che corrompe e degrada sia il padrone che lo schiavo, e non fa differenza che il potere sia esercitato da un autocrate, dal parlamento o dai soviet. Più dannoso del potere di un dittatore è quello di una classe. Il potere più terribile di tutti è la tirannia della maggioranza [183 ]. Il lungo processo della storia ha insegnato che la divisione e i conflitti significano morte, e che l’unità e la cooperazione fanno progredire la causa dell’essere umano, ne moltiplicano l’energia e ne sviluppano il benessere. Lo spirito del governo ha sempre operato contro l'applicazione alla società di questa lezione vitale, eccetto nei casi in cui tornava utile allo Stato e lo aiutava nei suoi particolari interessi. Questo spirito antiprogresso e antisociale, proprio dello Stato e delle caste privilegiate, è responsabile dello scontro feroce tra gli esseri umani. L’individuo e anche gruppi più ampi di individui stanno iniziando a rendersene conto, al di sotto dei mascheramenti operati dall’ordine stabilito delle cose. Individui e gruppi non sono più così accecati, come in ato, dal bagliore e dal luccichio dell’idea di Stato, e dalle “fortune” che arreca il “rude individualismo”. L’essere umano tende verso relazioni umane di più ampio raggio che solo la libertà può offrire. E la libertà, quella vera, non è un semplice pezzo di carta chiamato “costituzione”, “diritti legali” o “legge”. Non è una astrazione che deriva dalla non-realtà nota sotto il nome di “Stato”. Non è un che di negativo, come l'essere libero da qualche cosa, perché con tale libertà si può morire di fame. La libertà reale, quella vera, è qualcosa di positivo: è la libertà di fare qualcosa; è la libertà di essere. In sintesi, la libertà di cogliere opportunità presenti e operanti. Questa sorta di libertà non è un dono: è il diritto naturale dell’essere umano, di ogni essere umano. Non può essere data, non può essere conferita attraverso la
legge o per decreto governativo. Il disporre di essa, l’aspirazione ad essa, è parte integrante dell’individuo. Il rifiuto di ogni forma di coercizione ne rappresenta l'espressione istintiva. La ribellione e la rivoluzione sono i tentativi più o meno consapevoli di conseguirla. Queste due manifestazioni, individuali e sociali, sono le espressioni fondamentali dei valori dell’essere umano. Per coltivare questi valori, la comunità deve rendersi conto che la risorsa più grande e più duratura è rappresentata dal singolo e cioè dall’individuo. Nella religione, come in politica, alcuni parlano di astrazioni e pensano di avere a che fare con realtà concrete. Ma quando si arriva a trattare il reale e il concreto, molte persone sembrano incapaci di rapportarsi ad esso. Questo potrebbe ben derivare dal fatto che la realtà è troppo terra terra, troppo grezza, per entusiasmare l’animo umano, che può essere trascinato solo da fenomeni fuori dell’ordinario. In altre parole, l’Ideale è ciò che accende l’immaginario e gli animi delle persone. Vi è bisogno di un qualche ideale per scuotere l’individuo dall’inerzia e dalla monotonia della sua esistenza e trasformare un servo abietto in una figura eroica. A questo riguardo, naturalmente, si presenta l’obiezione del marxista che è diventato più marxista dello stesso Marx. Per costui, l’uomo è una semplice marionetta nelle mani di quella metafisica Potenza chiamata determinismo economico o, più volgarmente, lotta di classe. La volontà dell’essere umano, individuale e collettiva, la sua vita psichica e il suo orientamento mentale non hanno quasi alcun peso per il nostro marxista e non contano nella sua concezione della storia umana. Nessuno studioso dotato di intelligenza negherà l’importanza del fattore economico nella crescita della società e nello sviluppo dell’umanità. Ma solo un gretto e cocciuto dogmatismo può continuare a restare cieco di fronte al ruolo importante che hanno le idee che sorgono dal pensiero e dalle aspirazioni dell’individuo. Sarebbe inutile e improduttivo cercare di pesare un fattore e opporlo a un altro nell’ambito dell’umana esperienza. Nessun fattore singolo, nell'insieme del comportamento individuale o sociale, può essere designato come quello che ha una importanza decisiva. Sappiamo troppo poco, e forse non sapremo mai abbastanza, della psicologia umana per soppesare e misurare i valori relativi di questo o quell'aspetto nel determinare la condotta umana. Costruire simili dogmi dando loro connotazioni sociali è puro settarismo. Eppure, forse, ciò ha la sua
funzione perché, proprio il tentativo di imporre questo dogma, ha mostrato l’esistenza della volontà umana e ha smentito i marxisti. Per fortuna, anche alcuni marxisti si stanno rendendo conto che non tutto è bene nel credo marxiano. Dopo tutto, Marx era un essere umano – fin troppo umano – e quindi niente affatto infallibile. L’applicazione pratica del determinismo economico in Russia sta aiutando a fare piazza pulita nelle menti dei marxisti più intelligenti. Questo lo si può vedere nella modifica dei valori marxiani che sta avvenendo tra i socialisti e anche tra i comunisti in alcuni paesi europei. Essi stanno lentamente prendendo coscienza che la loro teoria ha ignorato l’elemento umano, den Menschen come si legge in un giornale socialista. Per quanto importante sia il fattore economico, esso non è sufficiente da solo. Il rinnovamento dell’umanità richiede l’ispirazione e la spinta energica di un ideale. Questo ideale io lo vedo nell’anarchia. Per essere chiari, non nei travisamenti così popolari dell’anarchia come sono diffusi dagli adoratori dello Stato e del potere. Per anarchia intendo la filosofia di un nuovo ordine sociale basato sulla libera espressione dell’individuo e sulla libera associazione di individui autonomi. Di tutte le teorie sociali solo l’anarchia proclama fermamente che la società esiste per l’essere umano e non l’essere umano per la società. Il solo legittimo scopo della società consiste nel soddisfare i bisogni e far progredire le aspirazioni dell’individuo. Solo realizzando ciò la società può giustificare la sua esistenza e contribuire al progresso e alla cultura. I partiti politici e gli uomini che si azzuffano selvaggiamente per il potere esprimeranno il loro disprezzo nei miei confronti, come se io fossi una persona che non è affatto in sintonia con i tempi. Io accetto l’accusa, con serenità. Mi conforta il fatto di sapere che i loro strepiti isterici non possono durare nel tempo. La loro esaltazione non è di lunga durata. La voglia di liberazione da qualsiasi dominio e potere esterni, questa voglia che caratterizza l’essere umano non sarà mai acquietata dalle loro stupide perorazioni. La ricerca della libertà da ogni costrizione è eterna. Essa deve continuare e continuerà, per sempre.
Biografia degli autori
Henry Appleton , anarchico individualista americano vissuto nella seconda metà del secolo diciannovesimo. Fu assistente editoriale di Benjamin Tucker per il periodico Liberty a cui contribuì con parecchi articoli. E. Armand (1872-1962) Nome originale: Ernest Lucien Juin. Nato a Parigi. Anarchico individualista, antimilitarista e fautore di una sessualità libera. La sua evoluzione lo porterà in contatto e a sostegno di molteplici posizioni intellettuali ed etiche: cristianesimo, ateismo, comunismo, anticomunismo, pacifismo. Mikhail Bakunin (1814-1876) è stato uno dei massimi protagonisti del movimento anarchico del secolo diciannovesimo. Nato nel distretto di Kuvshinovsky (Russia) in una famiglia di proprietari terrieri, assorbì idee radicali che lo portarono a criticare l’oppressione zarista della Polonia. Fu successivamente imprigionato nella Fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo (1851) e poi inviato in un campo di lavoro in Siberia (1857) da cui riuscì a scappare (1861). Raggiunta l’Europa, partecipò e diede impulso a varie lotte e movimenti. Fu membro dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori da cui fu espulso nel 1872 assieme ad altri anarchici. A partire dal 1870 scrisse alcune delle sue opere maggiori. Morì a Berna, logorato da tante lotte, il 1° luglio del 1876. Alexander Berkman (1870-1936) è stato uno degli esponenti più attivi e apionati del movimento anarchico a cavallo dei due secoli. Nato a Vilnius (attuale Lituania) emigrò negli Stati Uniti nel 1888 e fu a lungo compagno di vita e di lotte di Emma Goldman. Scontò 14 anni di prigione per l’attentato fallito (1892) alla vita dell’industriale dell’acciaio Henry Frick. Espulso dagli Stati Uniti e deportato in Russia (1919), deluso dagli sviluppi della rivoluzione bolscevica, ò in Francia gli ultimi anni della sua vita. Stanco, sfiduciato e sofferente nel corpo, Berkman si uccise a Nice (Francia) nel giugno del 1936. Camillo Berneri (1897-1937) nato a Lodi, fu per alcuni anni insegnante di
filosofia a Camerino. Socialista in gioventù, maturò successivamente convinzioni anarchiche. Per via del suo antifascismo dovette rifugiarsi in Francia nel 1926. Prese parte alla guerra civile spagnola. Durante le giornate di maggio del 1937 a Barcellona fu prelevato da milizie di orientamento stalinista e il suo corpo fu poi ritrovato crivellato di proiettili. Berneri rappresenta l’anarchico critico, anticonformista, come emerge da tanti suoi articoli e scritti brevi. Amedeo Bertolo (1941-2016) autore e attivista anarchico, docente di economia agraria all'università di Milano, è stato l'anima di molte iniziative culturali per la promozione delle idee e delle pratiche anarchiche, tra cui la fondazione della casa editrice Elèuthera nel 1986. Steven T. Byington (1869-1957), saggista e traduttore americano, conoscitore di parecchie lingue, incluse quelle classiche. In associazione con Benjamin Tucker, espresse le posizioni degli anarchici socialisti individualisti, mostrando però piena tolleranza verso tutte le altre concezioni. Bob Black (1951-vivente) anarchico americano, noto soprattutto per la sua critica del lavoro che, pur in presenza di una avanzata tecnologia produttiva, consuma ancora una parte troppo consistente della vita delle persone. Voltairine de Cleyre (1866-1912) anarchica americana impegnata nella lotta per l’emancipazione delle donne. Le sue convinzioni libertarie la portarono a concepire l’anarchia come una forma di organizzazione in cui tutte le tendenze sociali (dall’individualismo al comunismo) potessero trovare espressione su base volontaria. Diego Abad de Santillán (1897-1983) è stata una figura di primo piano del movimento anarchico in Spagna e in Argentina. Fu un prolifico saggista ed editorialista. Fernando Tarrida del Mármol (1861-1915) scrittore e attivista anarchico di origine cubana. È noto soprattutto per essere stato uno dei primi e massimi sostenitori della concezione nota sotto il nome di “anarchia senza aggettivi” tendente a mettere da parte ogni divergenza ideologica per concentrarsi sull’anarchia come metodo di organizzazione volontaria della propria vita,
nella sfera individuale e sociale. Manuel Devaldès (1875-1956) Nome originale: Ernest-Edmond Lohy. Anarchico individualista, antimilitarista. Per le sue idee, dovette abbandonare la Francia. Svolse parecchi mestieri e fu attivo nella diffusione delle idee anarchiche attraverso vari scritti tra cui, il più famoso è Réflexions sur l'individualisme (1910). Sam Dolgoff (1902-1990) di origine Russa, ha trascorso a New York la maggior parte della sua vita partecipando attivamente allo sviluppo della concezione anarchica. Imbianchino di professione, ha curato varie antologie, tra cui una su Bakunin e una sugli anarchici nella Rivoluzione Spagnola. Sébastien Faure (1858-1942) è stato l’iniziatore della Encyclopédie Anarchiste (1925-1934) , in quattro volumi. Ha svolto attività di conferenziere e di educatore libertario. Abbastanza famoso fu il suo esperimento pedagogico La Ruche (1904-1917) nel comune di Rambouillet (Francia). Emma Goldman (1869-1940) è stata una delle massime protagoniste nello sviluppo delle idee anarchiche nel Nord America e in Europa. Nata in Russia, emigrò negli Stati Uniti (1885) dove fu attratta dalle idee anarchiche attraverso la conoscenza di Alexander Berkman e a seguito del processo relativo ai fatti dell’Haymarket. Ebbe una vita avventurosa, piena di ostacoli e divieti per mano delle polizie di vari stati. Fu definita “la donna più pericolosa d’America”. Paul Goodman (1911-1972) critico sociale, poeta, scrittore, docente universitario e altro ancora. Personalità poliedrica, ha ispirato, con le sue idee originali, molte riflessioni critiche, da parte di studenti e lavoratori, nei confronti della società contemporanea. Abba L. Gordin (1887-1964) e Volf's L. Gordin, fratelli anarchici che parteciparono alla Rivoluzione Russa del 1917 contribuendo con i loro scritti al giornale Anarkhiia, pubblicato nel biennio 1917-1918. Nel 1918 promossero il “Sociotechnicum” come centro di attività creative per inventori e sperimentatori. Nel 1919, le loro strade si divisero. David Graeber (1961-2020) antropologo e attivista anarchico. Autore di
parecchi scritti che hanno avuto ampia diffusione . È stata una delle voci più interessanti del panorama anarchico degli ultimi anni. Pëtr Kropotkin (1842-1921) uno dei più brillanti e sinceri esponenti del pensiero e della pratica anarchici. Nato in una famiglia dell’aristocrazia russa, abbandonò una vita di agi per scoprire il mondo e studiarne la realtà. Partecipò a spedizioni geografiche in Siberia, fu imprigionato nella infame Fortezza di Pietro e Paolo. Trasferito in un'altra prigione poco prima del processo, riuscì a scappare con una fuga rocambolesca (1867). ò in Svizzera, Francia e Inghilterra la maggior parte della sua vita rientrando in Russia solo dopo la Rivoluzione di febbraio (1917). Con l’ascesa al potere dei bolscevichi vide gli anarchici arrestati e messi al bando. Morì l'8 febbraio 1921 nella città di Dmitrov. Joseph Labadie (1850-1933) pensatore anarchico, attivista sociale, stampatore, saggista, poeta. Nel corso della sua vita raccolse una notevole collezione di documenti e volantini sul movimento operaio, sul socialismo e sull’anarchia negli Stati Uniti. Scrisse vari articoli per il periodico di Benjamin Tucker, Liberty. Louis Lecoin (1888-1971) una delle massime figure della lotta antimilitarista in Francia. Anarchico, fondatore della Union Pacifiste de , difensore dell'obiezione di coscienza, trascorse in prigione dodici anni della sua vita a causa delle sue idee. Anselmo Lorenzo (1841-1914) figura di spicco del movimento anarchico spagnolo. Autore di articoli e saggi, traduttore ed editore negli anni 18861888 del periodico Acracia a Barcellona. Errico Malatesta (1853-1932) è stato uno dei massimi esponenti dell’anarchia. Spirito libero, incarcerato per più di dieci anni della sua esistenza, ha ato la maggior parte della sua vita errando per sfuggire alla repressione statale. È stato il fondatore e l’animatore di molti giornali anarchici. Ricardo Mella (1861-1925) una delle figure più importanti in Spagna del pensiero e della pratica anarchica a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Louise Michel (1830-1905) educatrice, anarchica, partecipa alla Comune di Parigi (1871) e per questo motivo è deportata nella Nuova Caledonia (1873).
Rientrata in Francia nel 1880, diventa una delle portavoci delle aspirazioni dei lavoratori alla dignità e alla libertà. Famosi anche i suoi interventi contro la pena di morte e il militarismo. Ai suoi funerali a Parigi partecipano migliaia di persone. Emmanuel Mounier (1905-1950) filosofo, all'origine della corrente di pensiero nota come Personalismo. Nel 1932 fondò la rivista Esprit. Max Nettlau (1865-1944) il massimo storico del pensiero e della pratica dell’anarchia. Documentalista poliglotta, si avvicinò sempre più alle posizioni dell’anarchia senza aggettivi, scoprendo anche la panarchia che è la metodologia per superare qualsiasi divergenza ideologica attraverso lo sviluppo di comunità volontarie a-territorialiste (prive di sovranità territoriale). Lucy Parsons (1853 circa-1942) attivista per i diritti dei lavoratori e anarchica. Fu protagonista di molte lotte e contribuì alla causa della liberazione anche con articoli e discorsi. Isabel Paterson (1886-1961) autrice di romanzi, giornalista, critico letterario e pensatrice libertaria. Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) tipografo, critico sociale e la prima persona a definirsi “anarchico”. Autore di parecchi libri in cui espose la sua filosofia basata sul mutualismo e sul federalismo. Élisée Reclus (1830-1905) geografo se, ha partecipato attivamente alla storia del movimento anarchico con pubblicazioni, conferenze, traduzioni. Rudolf Rocker (1873-1958) scrittore e attivista anarchico. Nel suo testo più famoso Nationalism and Culture formulò una analisi approfondita dello stato come organizzazione totalizzante e del nazionalismo come religione politica. Henry Seymour (1861-1938) editore del giornale Anarchist pubblicato a Londra negli anni 1885-1888. È stato anche l’autore di parecchie pubblicazioni sull’anarchia. Rosa Slobodinsky, pseudonimo di Rachelle Slobodinsky Yarros (1869-1946), nacque a Kiev (Russia) e dovette emigrare a causa delle sue idee cha
avevano attratto l’attenzione della polizia zarista. Si impegnò attivamente nelle questioni sociali anche in qualità di medico. Fu la moglie di Victor Yarros che, per un certo periodo della sua vita, scrisse per il giornale Liberty di Benjamin Tucker. Clarence Lee Swartz (1868-1936) anarchico individualista, promotore del Mutualismo negli Stati Uniti. Lev Tolstoj (1828-1910) uno dei massimi scrittori russi. Cristiano, nonviolento, anarchico, educatore. In parecchi saggi Tolstoj ha espresso con estremo vigore le sue idee anarchiche. Fu influenzato dal pensiero di Proudhon che incontrò in Belgio nel 1861. Ebbe contatti con altre figure dell’anarchia come Kropotkin e Tcherkesoff . Benjamin Ricketson Tucker (1854-1939) uno dei massimi sostenitori negli Stati Uniti della concezione anarchica che sviluppò nel corso di parecchi anni come editore del periodico Liberty (1881–1908). Volin o Voline nella grafia se (1882-1945) teorico della sintesi anarchica che sviluppò in Ucraina, dove era nato, e poi in Francia dove continuò la sua attività come scrittore, ricercatore e traduttore. Charlotte Wilson (1854-1944) una delle fondatrici, assieme a Kropotkin, del giornale anarchico Freedom di cui è stata, per molti anni, la curatrice. Frank Lloyd Wright (1867-1959) è stato uno dei massimi architetti americani. La sua visione poggiava sullo sviluppo di comunità decentrate e sulla vicinanza e interconnessione delle attività umane nell’utilizzo dello spazio (abitazione, produzione agricola, produzione industriale).
note
[1] La Santa Ampolla era una fiala contenente olio profumato utilizzato per l'unzione dei re di Francia durante la cerimonia dell'incoronazione.
[2] Si tratta dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori fondata a Londra il 28 settembre 1864 e combattuta da tutti i governi che si definivano “liberali”.
[3] Si fa chiaramente riferimento a un Dio imposto attraverso l'osservanza dei precetti di una Chiesa schierata dalla parte del potere statale. Gli anarchici non sono certo per l’imposizione dell’ateismo.
[4] La prima formulazione di questa aspirazione si può far risalire agli Atti degli Apostoli in cui si descrivono le pratiche delle prime comunità cristiane: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno». (Atti 4:34 - 4:35)
[5] L’espressione “pecore di Panurge” ( moutons de Panurge) fa riferimento a un episodio descritto da Rabelais nel suo Gargantua e Pantagruel, in cui Panurge getta a mare una pecora e tutte le altre la seguono nell’acqua. In tal modo si intende designare una persona che imita senza porsi domande e segue pedissequamente gli altri.
[6] Le spese militari aumentarono considerevolmente tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. In Germania esse arono da 10.800.000 milioni di sterline inglesi nel 1870 a 110.800.000 milioni nel 1914 (una crescita di oltre 10 volte); in Gran Bretagna, durante lo stesso periodo, esse crebbero da 23.400.000 a 76.800.000 milioni di sterline. (Fonte: Encyclopaedia Britannica, 15 th Edition, vol. 19, War and Defense Economics).
[7] Lo Stato italiano sarebbe entrato in guerra alcuni mesi dopo (il 24 maggio 1915).
[8] Solneman, The Anarchist Manifesto, 1972 .
[9] Ibidem.
[10] Dall’8 al 19 gennaio 1883 si tenne a Lyon (Francia) un processo contro 66 anarchici accusati di appartenere all’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Il pomeriggio del 12 gennaio, Frédéric Tressaud, uno degli accusati, lesse una “Dichiarazione degli anarchici davanti al tribunale correzionale di Lyon” che era stata redatta principalmente da Pëtr Kropotkin, anche lui tra gli imputati. (Documento n. 3)
[11] Burnette G. Haskell (1857-1907) era un avvocato, un agitatore sociale e l’editore del giornale Truth. Le sue varie convinzioni lo portarono infine ad abbracciare il movimento nazionalista che propugnava la proprietà e gestione statale degli strumenti produttivi per il bene della nazione.
[12] Johann Most (1846-1906) era l’editore del giornale Freiheit (Libertà) e un sostenitore della "propaganda coi fatti" alludendo, con questa
espressione, ad azioni violente contro i governanti e i proprietari.
[13] Giornale fondato a Ginevra nel febbraio del 1879 da Pëtr Kropotkin e altri con il nome Le Révolté. La redazione si spostò poi in Francia, a Parigi, nel 1885. Nel 1887, per cercare di sfuggire a una persecuzione legale, il giornale cambiò di nome e divenne La Révolte . Nel 1895, ulteriore trasformazione, con la nascita di Les Temps Nouveaux le cui pubblicazioni cessarono nel 1914.
[14] Charles Letourneau (1831-1902) antropologo se.
[15] Georg Büchner (1813-1837) drammaturgo di lingua tedesca.
[16] Max Nordau (1849-1923) medico e studioso di problemi sociali. Autore di un'opera assai nota di critica sociale, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà, 1883.
[17] Tale pratica, che in questo modo permetteva la sopravvivenza dei lupi, si applicava e si applica tuttora anche in quei casi in cui la soluzione radicale di un problema sarebbe utile e necessaria ma ciò metterebbe a repentaglio il posto di lavoro di coloro che sono incaricati ad occuparsi del problema e il cui reddito dipende dalla permanenza del problema stesso.
[18] A-cratos: a privativa = senza; cratos = dominio, potere. È un vocabolo utilizzato come sinonimo di anarchia.
[19] L'Abbazia di Thélema (dal greco θέλημα, "desiderio" o "volontà") appare nell'opera di François Rabelais Gargantua et Pantagruel ed è un luogo in cui vivono in comunità uomini e donne dotati di certe qualità (bontà, bellezza, gentilezza), indipendentemente dalla loro condizione di nascita o stato sociale.
[20] Mahâ Bhârata, poema epico dell'antica India, in lingua sanscrita, che contiene materiali filosofici e di devozione religiosa.
[21] Nella mitologia greca Edipo riuscì a risolvere l'enigma della Sfinge posto all'ingresso della città di Tebe. Coloro che non lo risolvevano venivano strangolati. L'enigma era formulato così: «Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripode?». Edipo sconfisse la Sfinge dando come risposta: l'essere umano, e spiegando che il bambino gattona, l'adulto si muove su due gambe e l'anziano utilizza un bastone per sostenersi meglio quando cammina.
[22] Esattamente venti anni dopo, il 28 luglio 1914, sarebbe scoppiata la Prima Guerra Mondiale.
[23] Ricardo Mella, La bancarrota de las creencias , La Revista Blanca, numero 107, Madrid, 1° dicembre 1902.
[24] Per la sintesi anarchica si vedano, in particolare, i documenti 33 e 34.
[25] Famosa è l’affermazione di Lord Acton nella sua lettera a Mandel Creighton del 5 aprile 1887: "Power tends to corrupt and absolute power corrupts absolutely” (Il potere tende a corrompere e il potere assoluto
corrompe in maniera assoluta).
[26] La frase “The best government is that which governs least” (Il governo migliore è quello che governa il meno possibile) è di solito attribuita a Thomas Jefferson ma sembra che egli non l’abbia mai pronunciata. Il primo che fece tale affermazione fu John ‘O Sullivan, uno dei fondatori e curatori della United States Magazine and Democratic Review nella introduzione al primo numero della rivista nell’autunno del 1837. Ralph Waldo Emerson scrisse qualcosa di simile nel suo Politics (1844): "Per cui meno governo abbiamo, meglio è – più ridotto il numero di leggi e il potere che è delegato”.
Alcuni anni dopo (1848), Henry David Thoreau riprese la frase e la completò affermando: “ Il governo migliore è quello che non governa affatto; e quando gli esseri umani saranno pronti, quello sarà il tipo di governo che essi avranno” ( Sul dovere della disobbedienza civile).
[27] La famiglia Agassiz era una famiglia di origine svizzera a cui appartengono persone di alto rilievo come il biologo Louis Agassiz, l’ingegnere Alexander Agassiz (entrambi emigrati negli Stati Uniti) e il fondatore della fabbrica di orologi Longines, Auguste Agassiz.
[28] Il marito di Lucy Parson, Albert Parson, fu condannato a morte (1887) a seguito del cosiddetto Haymarket affair pur essendo, quasi sicuramente, del tutto estraneo ai fatti.
[29] Nella Bibbia (Nuovo Testamento) Mammona significa il denaro e la ricchezza materiale, o allude a qualsiasi entità che promette beni materiali. Il termine è anche associato alla avidità e alla ricerca esclusiva e ossessiva del guadagno.
[30] La Bibbia, soprattutto nella parte del Nuovo Testamento, fornisce anche materiali che esaltano la persona umana e la sua sacralità. Chiaramente la Goldman fa riferimento all’uso opportunistico che buona parte dell’alto clero ha fatto in ato dei testi biblici.
[31] Geova o Yahvè è il nome di Dio in ebraico ricavato dalle lettere YHWH.
[32] Ralph Waldo Emerson, The American Scholar, Discorso pronunciato davanti alla Phi Beta Kappa Society di Cambridge, Massachusetts, il 31 agosto 1837. Il aggio ripreso da Emma Goldman così recita nella sua versione originale: The one thing in the world of value, is, the active soul – the soul, free, sovereign, active. This every man is entitled to; this every man contains within him, although, in almost all men, obstructed, and as yet unborn. The soul active sees absolute truth; and utters truth, or creates. In this action, it is genius; not the privilege of here and there a favorite, but the sound estate of every man. In its essence, it is progressive
[33] La religione a cui fa riferimento Emma Goldman è quella presentata un tempo dall’alto clero colluso con lo Stato per motivi di quieto vivere o per il godimento di privilegi particolari. Ma nel corso della storia vi sono state anche ribellioni che hanno avuto come iniziatori e protagonisti esponenti religiosi. Inoltre, va sottolineato il fatto che anche nell’ambito dell’anarchia sono presenti figure la cui adesione all’anarchia si basa su motivazioni religiose.
[34] Per Proudhon la proprietà può essere sia un furto ( Qu'est-ce que la propriété? , 1840) che un fattore di libertà ( Théorie de la Propriété , 1866). Per una analisi del tema si rimanda ai saggi contenuti in un altro volume
dell’antologia.
[35] Emma Goldman fa certamente riferimento, tra le altre cose, all’esproprio delle terre comuni (i commons) in Inghilterra e ai privilegi ottenuti dai cosiddetti robber barons negli Stati Uniti (ad es. terreni, concessioni ferroviarie, prestiti a tasso agevolato).
[36] Adam Smith aveva a suo tempo espresso simili concetti e preoccupazioni in The Wealth of Nations, 1776: Col progredire della divisione del lavoro, l'occupazione della maggioranza di coloro che vivono del lavoro, ossia la massa della popolazione, si restringe progressivamente a poche operazioni molto semplici, e spesso a una sola o a due operazioni. Ora, l'intelligenza della maggioranza degli uomini si forma necessariamente con l'ordinaria loro occupazione. L’essere umano che a la vita nel compiere poche semplici operazioni, i cui effetti, inoltre, sono forse gli stessi o quasi, non ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza o la sua inventiva nel trovare espedienti che possano superare difficoltà che egli non incontra mai. Perde quindi naturalmente l'abitudine di esercitare le sue facoltà e in generale diventa stupido e ignorante, come è possibile che diventi una creatura umana. Il torpore della sua mente non soltanto lo rende incapace di gustare o di prendere parte a una conversazione razionale, ma anche di concepire alcun sentimento generoso, nobile e delicato e quindi di formarsi un giudizio giusto persino su molti dei doveri ordinari della sua vita personale. Sui grandi e vasti interessi del suo paese egli è del tutto incapace di esprimere un parere. […] L'uniformità della sua vita statica […] corrompe anche l'attività del suo corpo e lo rende incapace di esercitare la sua forza con vigore e perseveranza in ogni altra occupazione all'infuori di quella cui è stato addestrato. In tal modo pare che la destrezza nel proprio mestiere sia ottenuta a spese delle sue facoltà intellettuali, sociali ed energie fisiche (Libro V, Parte III, Articolo secondo)
[37] Oscar Wilde, The Soul of Man under Socialism (1891).
[38] David Thoreau, On the Duty of Civil Disobedience (1848).
[39] Ouida, pseudonimo della novellista inglese Maria Louise Ramé. La citazione è tratta da The State as an Immoral Teacher, North American Review, Volume 153, pp. 193-204.
[40] Adam Smith era perfettamente consapevole di ciò, come risulta da questo aggio: «Civil Government, so far as it is instituted for the protection of property, is in reality instituted for the defence of the rich against the poor, or of those who have some property against those who have none at all». («Il governo, nella misura in cui è istituito per la protezione della proprietà, è in realtà istituito per la difesa del ricco contro il povero, o di coloro che hanno qualche proprietà contro quelli che non ne hanno affatto»). Adam Smith, The Wealth of Nations, Libro V, Capitolo I, Parte II.
[41] La Fabian Society era una organizzazione inglese di impronta socialista che, ispirandosi alla tattica di Quinto Fabio Massimo (noto come il “temporeggiatore”) basava la sua strategia sul gradualismo e sul riformismo statale.
[42] William Blackstone (1723-1780) giurista inglese. Nei suoi scritti sostiene la tesi del naturalismo giuridico secondo cui una norma che non è conforme alla legge di natura non può essere considerata valida. Egli afferma: This law of nature, being co-eval with mankind and dictated by God himself, is of course superior in obligation to any other. It is binding over all the globe, in all countries, and at all times: no human laws are of any validity, if contrary to this; and such of them as are valid derive all their force, and all their authority, mediately or immediately, from this original
William Blackstone, Commentaries on the Law of England, The University of Chicago Press, Chicago 1979, p. 41.
[43] Il riferimento è probabilmente ai fatti noti come Massacro di Praga (un sobborgo di Varsavia) che ebbe luogo nel 1794, quando l’esercito Russo, per sedare una rivolta, diede l’assalto a quella località massacrando poi più di diecimila persone.
[44] Pëtr Kropotkin parla per conoscenza diretta, avendo sperimentato il carcere sia in Russia che in Francia. Le sue considerazioni sono contenute in parecchi articoli divenuti poi un libro dal titolo In Russian and French Prisons , 1887.
[45] Con questa frase Emma Goldman riecheggia le parole di Marie-Jeanne Phlipon, conosciuta come Madame Roland, che prima di morire ghigliottinata dallo Stato se durante la Rivoluzione (1793) pronunciò una frase rimasta famosa: “Liberté, que de crimes on commet en ton nom!”
[46] John Burroughs (1837-1921) naturalista e saggista americano.
[47] David Thoreau, On the Duty of Civil Disobedience (1848).
[48] John Brown (1800-1859) fautore dell’abolizione della schiavitù in America. Fu impiccato per avere dato vita a una ribellione violenta.
[49] Pedismo, da paideia, formazione e cura dei fanciulli
[50] Gineantropismo dal Greco γυνή, donna, e ἄνθρωπος, essere umano.
[51] Si veda, a questo riguardo: Claude-Henri de Saint-Simon, L'organisateur, vol. I, 1819.
[52] Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Capitolo 9. Quel che manca ai tedeschi, 1888.
[53] Il riferimento è a Josiah Warren (1798-1874).
[54] Per Josiah Warren il costo di produzione rappresenta il limite del prezzo. Questo significa che il prezzo di un bene prodotto dovrebbe essere regolato dal costo di produzione (incluso il ricavo del produttore), vale a dire dal lavoro e dagli sforzi compiuti per produrlo piuttosto che da quanto una persona è disposta a pagarlo.
[55] «I farisei gli domandarono: “Quando verrà il regno di Dio?”. Gesù rispose loro: “il regno di Dio è in mezzo a voi!”». (Luca 17, 20-21).
[56] Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 18,15-20):
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se tuo fratello ha commesso una mancanza contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai
guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”
[57] Josiah Warren non è stato solo un tipografo ma ha anche migliorato la tecnica tipografica attraverso invenzioni che sono state poi universalmente adottate.
[58] Per “democrazia”, Wright intende il potere dei singoli individui associati in comunità. Quindi qualcosa di profondamente diverso dalla attuale democrazia rappresentativa a base maggioritaria.
[59] Ai tempi di Wright il comunismo era l’Unione Sovietica di Stalin, vale a dire uno stato burocratico e totalitario, la netta antitesi dell’anarchia.
[60] Pierre Bernard (1903-1986) è stato un sindacalista se.
[61] Michele Angiolillo, un anarchico italiano che, nel 1897, uccise con un colpo di pistola il primo ministro spagnolo Antonio Canovas, a seguito della repressione da costui promossa nei confronti di anarchici, condannati a morte o imprigionati nella fortezza di Montjuïc a Barcellona.
[62] Errico Malatesta, Life & ideas, Freedom Press, p. 87.
[63] Alexei Borovoi (1875-1935) anarchico, scrittore, insegnante. Nel 1929 fu arrestato dalla polizia segreta dell’Unione Sovietica e condannato a tre anni di esilio lontano da Mosca. In seguito, lavorò come contabile e morì isolato e in povertà.
[64] Colin Ward (1924-2010) anarchico, attivista, saggista. Si è occupato in particolare di questioni relative all’architettura e all’urbanistica. Tra i suoi libri più noti Anarchy in action (1973) .
[65] Errico Malatesta, Life & Ideas, a cura di Vernon Richards, Freedom Press, Londra, pp. 36, 100, 99, 103-4, 101, 151, 159 .
[66] George Woodcock, Anarchism , pp. 273-274.
[67] Single tax (tassa unica): proposta di un sistema di tassazione concernente un solo bene scelto per alcune sue caratteristiche particolari. La single tax spesso riguardava il valore dei terreni.
[68] L'archismo o archia, in quanto antitesi dell'an-archia, è il potere di dominio attribuito ad alcuni individui su tutti gli altri.
[69] Thaddeus Burr Wakeman (1834-1913), un esponente di punta del Positivismo Americano.
[70] Rendita economica è l'extra-profitto di cui gode il proprietario di uno dei fattori di produzione. Ad esempio: la rendita di posizione di un immobile a causa della sua localizzazione, o la rendita di un terreno agricolo per via della sua maggiore fertilità. [5] T. L. M’Cready, pseudonimo di G. O. Warren, un editore associato del settimanale The Twentieth Century.
[71] T. L. M’Cready, pseudonimo di G. O. Warren, un editore associato del settimanale The Twentieth Century.
[72] Per avere preso parte alla Comune di Parigi (1871) Louise Michel fu condannata dal tribunale di Parigi alla deportazione nella Nuova Caledonia (1873-1880).
[73] Con queste considerazioni Tolstoj si avvicina al pensiero di Étienne de la Boetie che nel suo Discours de la servitude volontaire (redatto probabilmente intorno al 1549 e pubblicato nel 1576) aveva già espresso simili idee.
[74] Pëtr Alekseevich Kropotkin (1842-1921). Geografo e geologo. Fece la conoscenza del movimento anarchico durante un soggiorno nel Jura, tra gli orologiai svizzeri. È il massimo esponente dell’anarco-comunismo di impronta comunitaria.
[75] La fortezza Petro-Paulovsky. Dal 1874 al 1876 Kropotkin fu rinchiuso in quella fortezza, trasformata in prigione. Riuscì a scappare con una fuga rocambolesca mentre era ricoverato all’ospedale militare. Questo episodio è rievocato nella sua autobiografia Memorie di un Rivoluzionario (1899).
[76] Lev Tolstoj (1828-1910). Uno dei maggiori scrittori russi. La sua filosofia cristiana si basa sulla non-violenza e sul rifiuto del potere statale.
[77] William Wess. anarchico, membro della Hackney Branch (Londra), della Socialist League e del Freedom group che pubblicava un giornale dello stesso nome.
[78] Mrs.Turner è Mary Turner, la moglie dell’anarchico John Turner e Lizzie è sua sorella, sposata all’anarchico scozzese Thomas Bell che in seguito andò a vivere in America.
[79] 1848. Questo è l’anno delle sommosse sociali e politiche scoppiate in mezza Europa.
[80] Convento di Our Lady of Lake Huron, a Sarnis, Ontario. In questo convento Voltairine de Cleyre frequentò i primi anni di scuola.
[81] L'evento del 1886-87. Si fa qui riferimento allo scontro tra la polizia e i lavoratori che ebbe luogo il 4 maggio a Haymarket Square (Chicago) a seguito dell’uccisione, il giorno precedente, durante una manifestazione, di due lavoratori e il ferimento di molti altri da parte della polizia. In Haymarket Square, la polizia stava cercando di disperdere i pacifici manifestanti allorché qualcuno lanciò una bomba che uccise un poliziotto e ne ferì altri sei. Allora la polizia aprì il fuoco sulla folla uccidendo quattro persone e ferendone circa settanta. Ne seguirono vari scambi di colpi di armi da fuoco a seguito dei quali altri sette poliziotti furono uccisi e circa sessanta feriti (le cifre variano secondo le fonti). Nelle settimane successive, August Spies e altri sette anarchici furono accusati di omicidio. Spies,
Fischer, Engel e Parsons proclamarono la loro innocenza, ma furono impiccati l’11 novembre del 1887. A partire dal 1890 il primo di maggio si commemorano i lavoratori uccisi a Haymarket Square.
[82] Thomas Paine (1737-1809). Nato in Inghilterra, Thomas Paine divenne un ardente sostenitore dell’indipendenza americana, presentando le sue idee in uno scritto ricco di ione, Common Sense, che fu pubblicato nel gennaio del 1776, sei mesi prima della Dichiarazione di Indipendenza.
[83] Clarence Seward Darrow (1857-1938). Un avvocato che si batteva per la causa dei lavoratori e degli oppressi.
[84] Socrate. Il filosofo greco applicava ad ogni discussione un metodo noto sotto il nome di maieutica , che consisteva in una serie di domande che conducevano la persona, o o, alla scoperta della verità.
[85] Benjamin Tucker (1854-1939). Uno dei maggiori esponenti dell’individualismo anarchico. Le sue idee trovarono diffusione attraverso il periodico Liberty di cui fu editore dal 1881 al 1908.
[86] La liberté non pas fille de l'ordre, mais MÈRE de l'ordre (la libertà non figlia ma madre dell’ordine) - Pierre-Joseph Proudhon, Solution du problème social (1848). Questo era anche il motto iscritto sulla prima pagina del periodico di Benjamin Tucker, Liberty.
[87] Il giornale di impronta socialista Jewish Vorwaerts ( Jewish Daily Forward) iniziò a essere pubblicato nel 1897 con Abraham Cahan come editore.
[88] John Most (1846-1906). Un personaggio molto influente presso taluni circoli anarchici. Nato in Germania, si trasferì negli Stati Uniti nel 1882 e lì divenne l’editore del foglio anarchico di lingua tedesca Freiheit.
[89] Louise Michel (1830-1905). Anarchica che fu imprigionata dallo Stato se nella colonia penale della Nuova Caledonia dopo la sconfitta della Comune di Parigi. Nel 1891, una volta liberata, organizzò una scuola internazionale a Londra.
[90] Dyer D. Lum (1840-1893). Un anarchico che fu stretto amico di Voltairine. Si uccise nel 1893. Nel suo discorso funebre, Voltairine lo definì «Lo studioso più brillante, il pensatore più profondo del movimento rivoluzionario americano».
[91] John Turner, anarchico, amico di Kropotkin.
[92] Theresa Clairmunt (Teresa Claramunt) (1862-1931). Subì la deportazione nel 1896 da parte dello Stato spagnolo per le sue attività anarchiche. Di ritorno in Spagna prese parte alla pubblicazione del foglio anarchico El Productor nel 1901.
[93] Jean Grave (1854-1939). Autore di La société mourante et l'anarchie che Voltairine de Cleyre tradusse in inglese. Nel 1895 iniziò la pubblicazione del periodico Les Temps nouveaux a cui Kropotkin contribuì con vari articoli.
[94] Montjuïc. La prigione Montjuïc, fuori Barcellona, fu il luogo dove vennero rinchiusi e torturati dallo Stato spagnolo anarchici, repubblicani, socialisti, sindacalisti e liberi massoni (quattrocento in tutto). Essi erano accusati, senza alcuna prova, di aver fatto scoppiare una bomba durante il corteo del Corpus Christi il 7 giugno del 1896. Alla fine, furono rilasciati senza processo e ingiunti di lasciare il paese entro 48 ore, come ricordato da Voltairine che incontrò un gruppo al loro arrivo a Londra.
[95] Josiah Warren (1798-1874) musicista, inventore, filosofo anarchico e attivista sociale. Fu il promotore di parecchi esperimenti comunitari negli Stati Uniti.
[96] Jacob Riis (1849-1914) giornalista e riformatore sociale che mise a nudo, attraverso articoli e fotografie, le condizioni di indigenza in cui vivevano molte persone a New York.
[97] Questo invito assomiglia a quello che sarà espresso molti anni dopo dal progettista e inventore Buckminster Fuller: «You never change things by fighting the existing reality. To change something, build a new model that makes the existing model obsolete». [Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un nuovo modello che renda la realtà esistente obsoleta].
[98] Ramón de Campoamor (1817-1901), poeta e filosofo. In spagnolo la frase è: Las cosas son del color del cristal con que se mira.
[99] Georg Büchner (1813-1837) poeta e drammaturgo di lingua tedesca. Le sue opere esprimono un pensiero e un animo rivoluzionario.
[100] Santiago Ramón y Cajal, medico e patologo spagnolo, specializzato in particolare nella istologia del sistema nervoso centrale. Nel 1906, assieme a Camillo Golgi, ricevette il Premio Nobel della Medicina, diventando il primo spagnolo a ottenere tale riconoscimento.
[101] Il Risveglio, 1-15 ottobre 1927, N.d.T.
[102] Essendo ben inteso, come i comunisti libertari l’hanno “esplicitamente” dichiarato a Orléans, nel Congresso tenuto in quella città dal 12 al 14 luglio 1926, che all’interno della Comune libertaria, come essi la concepiscono, «tutte le forme associative saranno libere di svilupparsi, dalla messa in comune di tutto fino all’attività e al consumo individuali».
[103] L’espressione sintesi anarchica deve essere intesa nel senso di una unione, associazione, organizzazione e accordo di tutti gli elementi umani che si richiamano all’ideale anarchico. Parlando di associazioni ed esaminando se è possibile e desiderabile che tutti questi elementi si riuniscano, non potevo fare altro che definire tale unione, tale piattaforma organizzativa, con l'espressione di sintesi anarchica. Altra cosa è la sintesi delle teorie anarchiche. Tema estremamente importante che mi propongo di trattare quando le mie condizioni di salute e le circostanze me lo permetteranno.
[104] Voline, vedi Documento 34, N.d.T.
[105] Senya Fléchine (1894-1981) anarchico attivo in Ucraina nella Confederazione del Nabat. Dopo varie vicissitudini si installò a Cuernavaca con la sua compagna, Mollie Steimer, e sviluppò l'attività di fotografo, N.d.T.
[106] Mollie Steimer (1897-1980) anarchica, lottò per i diritti dei lavoratori, contro il militarismo e per la libertà di parola e fu per questo espulsa prima dagli Stati Uniti e poi dall'Unione Sovietica. Alla fine, si installò a Cuernavaca con il suo compagno di vita Senya Fléchine, N.d.T.
[107] Ernest Haeckel (1834-1919) biologo e zoologo, propose nel 1866 un sistema di classificazione nelle scienze naturali che includeva la categoria tassonomica monera.
[108] Max Stirner (1806-1856) filosofo di lingua tedesca che espresse le sue idee individualiste e anarchiche nella sua opera Der Einzige und sein Eigentum ( L’unico e la sua proprietà , 1844).
[109] La riunione ebbe luogo il 28 settembre 1864 nella St. Martin's Hall a Londra.
[110] La Svizzera Romanda o Romandia è formata dai cantoni svizzeri in cui si parla in prevalenza la lingua se.
[111] Con il termine “personalisti” Mounier fa riferimento a coloro che erano interessati alle esigenze degli esseri umani in carne e ossa e non alle ideologie da promuovere a tutti i costi.
[112] Il 1792 è l'anno di inizio delle cosiddette guerre rivoluzionarie (17921802) che trasformarono la difesa della nazione se in una serie di campagne militari contro le monarchie europee, con lo scopo di piantare i
semi della rivoluzione in altri paesi.
[113] Victoire Léodile Béra, detta André Léo (1824-1900), scrittrice, giornalista, femminista e anarchica di orientamento socialista. Partecipò alla Prima Internazionale.
[114] James Guillaume (1844-1916) esponente di spicco della Federazione del Jura e membro della Associazione Internazionale dei Lavoratori fino alla sua espulsione nel 1872.
[115] L'autore fa riferimento alla repressione nei confronti della Comune di Parigi (e quindi dei simpatizzanti dell'Internazionale) promossa dal governo di Adolphe Tiers installato a Versailles nel 1871. A Versailles fu firmato anche il Trattato (1919) che sanzionò la sconfitta dei tedeschi nella Prima Guerra Mondiale e impose loro condizioni talmente severe da far sorgere un revanscismo tedesco che sfocerà nella nascita del Nazional-Socialismo e poi nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
[116] Vedi documento 2.
[117] Jules Guesde (1845-1922) socialista se di impronta marxista. Fu sconfessato da Marx che, verso la fine della sua vita lo accusò di pura e semplice fraseologia rivoluzionaria.
[118] L'autore fa riferimento alla guerra Franco-Prussiana (luglio1870gennaio 1871).
[119] La Seconda Internazionale è stata fondata nel 1889 a Parigi dai partiti socialisti e laburisti europei e si è sciolta praticamente con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (agosto 1914).
La Terza Internazionale, nota anche come Comintern, è stata l'organizzazione internazionale dei partiti comunisti, attiva dal 1919 al 1943.
Sia la Seconda (dominata dai partiti socialdemocratici) che la Terza Internazionale (dominata dai partiti comunisti sotto la guida dei bolscevichi russi) non hanno nulla a che vedere con lo spirito di auto-emancipazione dei lavoratori che ha caratterizzato al suo nascere la Prima Internazionale.
[120] C.S. Lewis ha sostenuto una tesi simile nel suo scritto The humanitarian theory of punishment (1954): «Di tutte le tirannie, quella esercitata con sincerità per il bene delle sue vittime può essere la più opprimente. Potrebbe essere meglio vivere sotto una banda di ladri che sotto moralisti ficcanaso onnipotenti. La crudeltà dei ladri può talvolta assopirsi, la loro avidità può arrivare a un certo punto a essere sazia; ma coloro che ci tormentano per il nostro bene ci tormenteranno all'infinito perché essi agiscono così con l'approvazione della loro coscienza».
In precedenza, David Thoreau aveva affermato che «La filantropia è quasi l'unica virtù che è abbastanza apprezzata dall'umanità. Si può anche dire che è molto sopravvalutata; ed è a causa del nostro gretto interesse che avviene ciò. Una persona robusta, in un giorno di pieno sole qui a Concord, parlando con me ha espresso grandi lodi nei confronti di un nostro concittadino perché, ha detto, era molto gentile con i poveri, intendendo in tal modo, generoso con lui». In un altro aggio, Thoreau dice a chiare lettere cosa egli pensi dei filantropi e della filantropia: «Se sapessi per certo che una persona stesse venendo a casa mia con il preciso proposito di farmi del bene, scapperei via di corsa per mettermi in salvo […] per paura del “bene” che potrebbe riversare su di me». (Walden, 1854).
[121] Il riferimento è probabilmente a Joseph Stalin.
[122] Paterson fa chiaramente riferimento a piccole e medie imprese che non godono di finanziamenti e di assistenza statale e che devono far fronte a carichi fiscali del tutto eccessivi.
[123] Il capitalismo imprenditoriale basato sulla libertà a cui allude la Paterson è un modello ideale praticamente inesistente nella storia, almeno su vasta scala, ma che, se attuato davvero, avrebbe dei punti in comune con la visione di Benjamin Tucker e di molti collaboratori della sua rivista, Liberty, contrari ai privilegi e ai monopoli.
[124] Isabel Paterson fa probabilmente riferimento alla carestia scoppiata nella regione del Bengala (India) nel 1943 che provocò tre milioni di morti. Le cause della carestia sembra siano da attribuirsi alla politica del governo inglese guidato da Churchill che favoriva con tutti i mezzi, anche attraverso la manipolazione della moneta e dei prezzi, il trasferimento della produzione agricola dalle campagne verso le città, a vantaggio dei funzionari governativi, della burocrazia, dell'esercito e dei lavoratori industriali necessari per la produzione militare.
[125] La Conferenza di Rimini, svoltasi dal 4 al 6 agosto 1872, fu il congresso costitutivo della Federazione italiana della Associazione Internazionale dei Lavoratori. È considerata come l'atto ufficiale di nascita del movimento socialista e anarchico in Italia attraverso la netta separazione dal pensiero mazziniano.
[126] Il Congresso dell'Internazionale antiautoritaria tenuto a Saint-Imier
nei giorni del 15-16 settembre 1872 (Documento 2).
[127] A questo riguardo, Gustav Landauer ha scritto: «Lo Stato […] è una relazione, un rapporto fra individui, un modo di relazionarsi fra persone, e lo si distrugge solo sostituendolo con altre relazioni, comportandosi in maniera diversa fra le persone». Gustav Landauer, Uomini di Stato deboli, popolo ancora più debole! (1910).
[128] Due riviste underground americane.
[129] Processed World era una rivista anarchica che criticava l'assurdità del lavoro negli uffici moderni. Fondata nel 1981, l'ultimo numero è apparso nel 2005. (I numeri sono disponibili su Internet al seguente indirizzo: http://www.processedworld.com/index_covers.html).
[130] La storia dell’anarchia è piena di infiltrati, agenti provocatori, attentati istigati o commessi da figure al servizio dello Stato. Tutto ciò è talmente risaputo che ha offerto lo spunto a Joseph Conrad per il suo racconto, The Secret Agent, 1907. E Ignazio Silone fece a suo tempo queste considerazioni: «L'arte dei complotti e attentati è piuttosto delicata e non può essere lasciata al caso. I complotti e attentati meglio riusciti sono naturalmente quelli che prepara la polizia» ( La scuola dei dittatori, 1938).
[131] In questo e in altri punti, laddove vi è in inglese il temine democratic esso è stato tradotto con le espressioni “partecipazione alle decisioni”, “dando voce a tutti”, “società partecipativa” perché questo si ritiene sia il senso attribuito dall'autore, vale a dire “autogestione” e non “rappresentanza”.
[132] Nel testo inglese two wrongs don't make a right. È un proverbio volto a far capire che non è giusto rispondere a una offesa con una offesa, o a una aggressione con una aggressione. Consiste, in sostanza, nel rifiuto dell'idea che se ricevi un danno hai diritto di rispondere causando un danno corrispondente (occhio per occhio, dente per dente).
[133] Il sistema del Lussemburgo è un modello di organizzazione sociale preconizzato dalla commissione del Lussemburgo (dal nome del luogo, il Palais du Luxembourg, in cui si tenevano le riunioni) durante la rivoluzione del febbraio 1848. La commissione svolse i suoi lavori sotto la presidenza di Louis Blanc. Proudhon ne critica le raccomandazioni favorevoli all’intervento dello Stato come tutore-dominatore delle dinamiche sociali e produttive.
[134] Il Manifesto dei Sessanta (1864) fu redatto da Henri Tolain, operaio cesellatore, e sottoscritto da sessanta lavoratori. Presenta un insieme di rivendicazioni sociali per garantire una maggiore sfera di intervento diretto degli operai nella gestione sociale e una maggiore giustizia.
[135] Con l’espressione “Letto di Procuste” si vuole indicare il tentativo di costringere tutte le persone all’interno di un solo modo di pensare e di agire, come faceva Procuste che, a detta della mitologia greca, forzava tutte le persone in uno stesso letto, tagliando le gambe delle persone alte e cercando di allungare a forza il corpo delle persone basse.
[136] Per “corporazioni operaie” dobbiamo quindi intendere “comitati operai” di gestione della produzione e della organizzazione del lavoro.
[137] Questa idea del legame tra pensiero e parola è rinvenibile in scritti di molti autori successivi. Si vedano, in particolare, il pedagogista Lev
Vygotsky e il linguista Benjamin Lee Whorf.
[138] L'affermazione non è del tutto vera perché, nel corso della storia, alcuni movimenti di liberazione dall'asservimento mentale e materiale hanno avuto come protagonisti persone profondamente devote al loro Dio (ad esempio gli Hussiti, gli Anabattisti, i Valdesi, i seguaci di Thomas Müntzer); e anche nell'ambito del movimento anarchico vari sono gli esponenti che credono in Dio (da Tolstoj a Dorothy Day a Ammon Hennacy) e in una rivoluzione morale, culturale e sociale. Detto questo, la critica di Bakunin dell'uso strumentale di Dio e della religione fatta dai ceti dominanti coglie nel segno.
[139] L'uguaglianza per Bakunin non è l'identità delle condizioni economiche ma l'assenza di situazioni di privilegio per alcuni e di sfruttamento per gli altri. In questa visione, libertà e uguaglianza rappresentano le due facce della stessa medaglia.
[140] Greenback (biglietto verde). Moneta cartacea introdotta durante la guerra civile americana. Il termine è diventato sinonimo di dollaro.
[141] Il pensiero di Karl Marx sullo Stato ha però avuto una evoluzione anche a seguito del suo scontro con Bakunin e gli anarchici. Nella Critica del Programma di Gotha (1875), scritto che Benjamin Tucker non poteva conoscere al tempo della redazione di questo articolo perché fu reso noto solo nel 1891, Marx utilizza parole di fuoco contro l'idea socialdemocratica dello “Stato Libero” a cui affidare tutto e da cui attendersi tutto:
«Stato Libero: che cosa è questo? Non è affatto lo scopo degli operai, che si sono liberati dal gretto spirito di sudditanza, di rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo "Stato" è "libero" quasi come in Russia. La libertà, consiste nel
mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa, e anche oggigiorno le forme dello Stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la "libertà dello Stato"» (Karl Marx, 1875).
[142] Edward Bellamy (1850-1898) giornalista americano, autore di un famoso racconto pubblicato nel 1888 ( Looking Backward, 2000-1887) in cui descriveva una società del futuro in cui la nazione diventava unica proprietaria della terra e del capitale.
[143] Richard Cobden (1804-1865) venditore di commercio e poi industriale nel campo dei tessuti. Ardente sostenitore del Libero Scambio, fondò con John Bright la Anti-Corn Law League che aveva come obiettivo l'abolizione della tassa sull'importazione del grano, tassa che favorivano i grandi proprietari terrieri. [5] Mrs. Partington, carattere letterario scaturito dalla fantasia di Benjamin Penhallow Shillaber (1814-1890). A Mrs. Partington si attribuiva l'intenzione di raccogliere con uno spazzolone l'acqua del mare. Per questo la frase “Mrs. Partington e il suo spazzolone” iniziò a essere utilizzata per descrivere una persona che ci cimenta in una attività del tutto futile e impari.
[6] Tucker qui allude al cosiddetto Haymarket affair quando, durante una dimostrazione tenutasi a Chicago nell'Haymarket square il 4 maggio 1886, una bomba fu lanciata provocando la morte di un poliziotto e ferendone altri sei. La responsabilità del fatto fu attribuita agli anarchici e tra essi otto furono imprigionati. Quattro di loro furono successivamente condannati all'impiccagione, eseguita nel novembre del 1887. Nel 1893 il nuovo governatore dell'Illinois, John Peter Altgeld, perdonò gli accusati che ancora si trovavano in carcere, e criticò duramente lo svolgimento del processo.
[7] Testo preso da un articolo di Ernest Lesigne (1850-1928) pubblicato sul giornale di politica e letteratura Le Radical (1881-1931) nella rubrica avente come titolo Lettres Socialistes, apparsa a partire dal febbraio del 1887.
[144] Mrs. Partington, carattere letterario scaturito dalla fantasia di Benjamin Penhallow Shillaber (1814-1890). A Mrs. Partington si attribuiva l'intenzione di raccogliere con uno spazzolone l'acqua del mare. Per questo la frase “Mrs. Partington e il suo spazzolone” iniziò a essere utilizzata per descrivere una persona che ci cimenta in una attività del tutto futile e impari.
[145] Tucker qui allude al cosiddetto Haymarket affair quando, durante una dimostrazione tenutasi a Chicago nell'Haymarket square il 4 maggio 1886, una bomba fu lanciata provocando la morte di un poliziotto e ferendone altri sei. La responsabilità del fatto fu attribuita agli anarchici e tra essi otto furono imprigionati. Quattro di loro furono successivamente condannati all'impiccagione, eseguita nel novembre del 1887. Nel 1893 il nuovo governatore dell'Illinois, John Peter Altgeld, perdonò gli accusati che ancora si trovavano in carcere, e criticò duramente lo svolgimento del processo.
[146] Testo preso da un articolo di Ernest Lesigne (1850-1928) pubblicato sul giornale di politica e letteratura Le Radical (1881-1931) nella rubrica avente come titolo Lettres Socialistes, apparsa a partire dal febbraio del 1887.
[147] La legge del taglione ( lex talionis) è un principio che riconosce alla persona che ha ricevuto intenzionalmente un danno il diritto di infliggere al suo autore un danno uguale all’offesa ricevuta. Il principio è comunemente espresso dalla locuzione occhio per occhio, dente per dente.
[148] La formula “pieno prodotto del lavoro” significa che ciascuno riceve tutto quello che gli spetta in rapporto alla misura del suo operato produttivo. Quindi, nel caso dell'imprenditore, egli riceverebbe quanto il
suo contributo in fatto di progettazione e organizzazione riesce a generare in termini di produzione. Occorre tenere anche conto del contributo dato dai macchinari per cui una certa quota va destinata per il funzionamento, la riparazione e la sostituzione degli strumenti produttivi.
[149] Cornelius Vanderbilt (1794-1877) uomo d'affari americano, riuscì ad ammassare una fortuna occupandosi di navigazione fluviale e di trasporti ferroviari.
[150] Paul Brousse (1844-1912) esponente della corrente socialista dei “possibilisti” che vedevano la realizzazione del socialismo come un cambiamento progressivo e graduale del sistema economico e istituzionale.
[151] All'inizio del 1832, Robert Owen, assieme ad altri, tentò di introdurre “buoni del lavoro” a Londra e a Glasgow, organizzando negozi che li accettavano. Ma l'esperimento durò solo fino al 1834.
[152] Voyage en Icarie (1840). Racconto scritto da Etienne Cabet in cui si descrive la formazione di una comunità gestita su basi comuniste.
[153] Parigi e la sua regione.
[154] Si fa riferimento alla Comune di Parigi (1871) e ai sommovimenti che portarono alla introduzione in Spagna di un regime democratico.
[155] Cesare Lombroso (1835-1909) medico e criminologo le cui teorie sul
carattere ereditario delle tendenze criminali suscitarono parecchio interesse ai suoi tempi e notevoli critiche in epoca successiva.
[156] Kropotkin fa qui riferimento al pensiero di Charles Darwin (18091882) sulla selezione naturale e la lotta per la sopravvivenza. Il più sostenitore di Darwin fu, a quei tempi, Thomas Huxley (1825-1895) da cui il termine Huxleianum utilizzato da Kropotkin.
[157] Al di là del bene e del male è il titolo di un saggio di Friedrich Nietzsche pubblicato nel 1886.
[158] L’interpretazione corrente del pensiero di Nietzsche era che esso poggiasse su un estremo egoismo che arrivava a giustificare lo sfruttamento e l’oppressione dei più deboli.
[159] Molti pensatori, tra cui Carl Gustav Jung, svilupperanno il concetto di “individuation” (individuazione). Per Jung, esso «in generale, è il processo attraverso il quale gli esseri individuali si formano e si differenziano [dagli altri esseri umani]; in particolare, è lo sviluppo dell'individuo psicologico come essere distinto dalla psicologia generale e collettiva». ( Tipi psicologici, 1921).
[160] Emmanuel Mounier (1905-1950) pensatore cattolico, svilupperà alcuni decenni più tardi il concetto di Personalismo, basato sul rispetto e sullo sviluppo della persona umana, al di là dell’individualismo egoistico liberale e dello statismo comunista e fascista.
[161] Nietzsche fa allusione alla “bestia bionda” nel suo scritto Genealogia
della morale (1887). Il concetto è stato inteso sia in termini biologici (l'essere umano superiore di razza bianca) che in termini psicologici (l'essere umano audace e intraprendente, che non si accontenta di una vita comoda).
[162] Il Faust è un’opera in cinque atti del compositore se Charles Gounod (1818-1893).
[163] Nikolaï Gavrilovitch Tchernychevski (1828-1889) scrittore e filosofo russo che nella sua opera più famosa ( Che fare?, 1863) descrisse personaggi caratterizzati da una forte personalità, il cui sviluppo favorisce e promuove, al tempo stesso, quello delle persone attorno a loro.
[164] Dmitry Ivanovich Pisarev (1840-1868) scrittore e critico sociale russo.
[165] Auguste Comte (1798-1857) filosofo se, fondatore del positivismo.
[166] Joseph Déjacque (1821-1865) operaio decoratore e attivista anarchico. Fu il primo a utilizzare il neologismo libertario in opposizione e distinzione rispetto al termine liberale.
[167] Anselme Bellegarrigue, autore anarchico ed editore del giornale Anarchie, Journal de l'Ordre. Di lui non si sa di preciso né la data di nascita né quella della morte.
[168] Ernest Cœurderoy (1825-1862) medico a Parigi, giornalista e scrittore
libertario, propugnava una sintesi del collettivismo e del mutualismo.
[169] Claude Pelletier (1816-1880), deputato all'Assemblea se in un gruppo di estrema sinistra, fu espulso dalla Francia dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte (1851). Si recò quindi negli Stati Uniti dove fece fortuna in una attività industriale.
[170] Franz Oppenheimer (1864-1943) sociologo tedesco, che in un famoso libro, Der Staat (Lo Stato) pubblicato nel 1907 (prima edizione) sostenne la tesi che lo Stato non è il prodotto di un contratto sociale ma il risultato di aggressioni attraverso le quali un gruppo vittorioso impone a tutti gli altri il suo potere di decisione e di sfruttamento.
[171] Già ai suoi tempi, Tacito nei suoi Annali (Libro III, 27 - 114-120 dopo Cristo) avvertiva che: Corruptissima re publica plurimae leges (Molte sono le leggi in uno Stato estremamente corrotto).
[172] «Negli Stati Uniti, già nel 1972, l'industria della sicurezza aveva il doppio del personale e un bilancio di una volta e mezza quello dell'insieme delle forze di polizia locali, statali e federali». (Martin van Creveld, The Rise and Decline of the State, 1999).
[173] Il Diciottesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, redatto e approvato dal Congresso americano nel 1917, sottoscritto poi dai 3/4 degli stati nel 1919, sanciva la proibizione della produzione, vendita, trasporto, importazione ed esportazione di bevande alcoliche nei territori sotto la giurisdizione americana. Nel 1933, il Congresso degli Stati Uniti votò a favore del ventunesimo emendamento che interdiceva ciò che era sancito nel diciottesimo emendamento, cioè di fatto decretava la fine del proibizionismo.
[174] Il National Prohibition Act (1919-1920), comunemente noto come Volstead Act, proibiva la produzione e la commercializzazione di bevande alcoliche.
[175] La Irish National Land League era una organizzazione irlandese attiva verso la fine del secolo diciannovesimo che assisteva gli affittuari agricoli poveri nelle loro lotte contro i grandi proprietari terrieri. Il suo obiettivo principale era che i contadini fossero proprietari della terra che coltivavano.
[176] Rugged Individualism. Un’espressione utilizzata spesso dal presidente degli USA Herbert Hoover che intendeva sostenere l'idea che le persone dovessero essere in grado di provvedere a sé stesse senza ricorrere a eccessivi interventi governativi. Questo invito però era formulato in presenza di privilegi per le classi possidenti e di controlli repressivi sui lavoratori.
[177] Emma Goldman fa probabilmente riferimento, in particolare, alla grande crisi economica iniziata con il crollo della Borsa di New York (ottobre 1929) e continuata nel decennio 1930 e che gettò sul lastrico milioni di persone in tutto il mondo.
[178] Per Hegel lo Stato è la realizzazione dell'idea etica, l'espressione della razionalità assoluta, e il massimo dovere dell'individuo è di appartenere allo Stato. (Si veda: Lineamenti della filosofia del diritto, 1820).
[179] Il Golgota è il luogo, poco fuori Gerusalemme, dove Gesù è stato crocifisso. È inteso qui come sinonimo di calvario.
[180] È solo a seguito della Prima Guerra Mondiale che tutti gli Stati hanno introdotto documenti (aporti) necessari per spostarsi da un territorio statale all'altro, e che hanno limitato notevolmente il movimento delle persone. Si veda al riguardo: John Torpey, The Invention of port. Surveillance, Citizenship and the State, Cambridge University Press, Cambridge 2000.
[181] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1885): «“Stato” si chiama il più freddo di tutti i mostri. È freddo anche nel mentire; e la menzogna ch’esce dalla sua bocca è questa: “Io, lo Stato, sono il popolo!”» .
[182] Sigmund Freud aveva già espresso simili idee all'indomani dello scoppio della Prima Guerra Mondiale: «Il singolo cittadino può con orrore convincersi in questa guerra di ciò che solo raramente gli avverrebbe di pensare in tempo di pace – che lo Stato ha proibito all'individuo la pratica del male, non perché desideri abolirla, ma perché vuole monopolizzarla, come fa per la vendita di sale tabacco. Uno Stato belligerante si permette ogni misfatto, ogni atto di violenza, che disonorerebbe l'individuo». ( Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1915).
[183] a b Quello di “tirannia della maggioranza” è un concetto elaborato da Tocqueville ( De la Démocratie en Amérique, 1835) e reiterato poi da Proudhon: «La democrazia non è altra cosa che la tirannia della maggioranza, la più esecrabile di tutte le tirannie» ( Solution du problème social, 1848).