Giuseppe Gruttadauria
Mille uomini e pochi fucili
Cavinato Editore International
© Copyright 2016 Cavinato Editore International
ISBN: 978-88-6982-219-3
I edizione 2016
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Impaginazione a cura di Simone Pifferi
Indice
SINOSSI MILLE UOMINI E POCHI FUCILI I FATTI STORICI CHE AVEVANO PRECEDUTO LA SPEDIZIONE DEI MILLE COSA ERA SUCCESSO DIETRO LE QUINTE? SULLE COSTE DELLA SICILIA OCCIDENTALE INIZIA L'AVANZATA I MILLE SI SPOSTANO A SALEMI IL SACRARIO E LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI LA PRESA DI PALERMO LA LOTTA TRA CAVOUR E GARIBALDI INIZIA E SI CONCLUDE NEI CORRIDOI DEL PALAZZO DEL PARLAMENTO PIEMONTESE BIOGRAFIA
SINOSSI
Il cronista, un giovane italo-americano, di nome George Parrinello, fa ritorno in Sicilia per le sue ferie e per redarre un servizio che la Comunità Italo-americana gli ha chiesto di fare sulla “spedizione dei mille”. Partendo dal paese di Partinico si reca nei punti più importanti del percorso effettuato dai Garibaldini, interroga alcune persone che custodiscono i racconti sull’epopea dei mille tramandati dagli avi, acquisisce alcuni dati sulla stampa locale dell’epoca ed alla fine della ricognizione è in grado di esprimere un suo giudizio sulla suddetta spedizione. Il lettore avrà modo di avere le sue idee.
MILLE UOMINI E POCHI FUCILI
George Parrinello, una nostra vecchia conoscenza, in qualità di stimato giornalista newyorkese, un vero segugio dedito alla ricerca di gialli storici, ritornò in Italia per il solito periodo di ferie che, anche questa volta, avrebbe trascorso nella casa di famiglia, a Partinico, con una relazione da preparare nell’ambito delle sue ricerche storiche. A fine di luglio, arrivò a Palermo, in un mezzo giorno di fuoco e trovò ad attenderlo all’aeroporto don Fifì, il vecchio chaffeur dei Parrinello, di cui l’unico sopravvissuto, era lo zio Jano, suo mentore e suo prezioso punto di riferimento per le sue ricerche storiche. Infatti, come era accaduto altre volte, la grande associazione di italiani d’America gli aveva affidato il compito di trattare l’argomento dello sbarco dei Mille, al congresso annuale che avrebbero tenuto a Newyork, nel mese di settembre. Lasciato l’aeroporto di Palermo, imboccarono la tangenziale per Trapani e dopo aver attraversato le saline si diressero verso Castellamare del golfo e da lì a Partinico, la sede del suo quartier generale, centro motore di tutte le sue ricerche. Appena giunti davanti al portone del decoroso ma vetusto palazzo di Via Ruggero VII, George si mise a correrre per salire le natie scale per riabbracciare proprio lo zio, unico legame parentale rimastogli, che non vedeva da oltre due anni. L’anziano signore era tutto quello che restava in vita dell’intera famiglia ed era anche il più giovane dei tre fratelli di suo padre, l’unico che nell’infanzia di George era stato sempre presente. Così gli era rimasto nel cuore, non solo per il grande affetto che li leneva uniti per vincoli di sangue, ma anche per la grande sintonia che si era stabilita fra i due, frutto dei meriti che lo zio aveva avuto nelle sue scelte fondamentali di vita, con il suo sostegno morale e non ultimo economico. Ma quello che manteneva ancor più l’amore filiale in George, più della stessa dovuta riconoscenza, era una forte affinità elettiva, che si manifestava con un legame indissolubile fatto di stima ed ammirazione. Come era avvenuto altre volte al suo rientro da Newyork, dopo i saluti e gli abbracci, George esternò l’incarico ricevuto dalla associazione degli italiani d’America e gli fece capire chiaro e tondo che, per portare a termine il mandato,
aveva ancora una volta bisogno di lui. Precisò, ma non ce n’era di bisogno, che ricorreva alla sua saggezza e conoscenza per dipanare i molti dubbi che persistevano sull’evento storico che avrebbe dovuto trattare. Accennò brevemente ad alcune questioni, ma con molta sorpresa si sentì rispondere con voce, roca e traballante, “per adesso mangia e riposati” si fermò un attimo e poi aggiunse “fatti una doccia e sistema i bagagli nella tua camera, ogni tua curiosità sarà presa in considerazione al momento opportuno“. Erano la due del pomerigio di un’ afosa giornata estiva e la stanchezza, dopo una notte di volo e, per di più, in classe turistica, si faceva sentire. Accettò senza fiatare l’invito dello zio Jano e, dopo essersi rifocillato con un piatto di pasta con le sarde ed tre tazze di caffè, si ritirò in camera e senza svertirsi si buttò sul letto per dormire. Già don Fifì gli aveva portato le valige nella stanza, ma non ebbe ne il tempo e neanche la voglia di disfarle, infatti era sprofondato subito in un sonno ristoratore della durata di oltre quattro ore. Al risveglio la calura si era attenuata, grazie ad un salutare venticello che proveniva dal golfo di Castellammare e stendeva un velo pietoso sulla gente di quella torrida piana. Lo zio Jano, già a conoscenza della questione prospettatagli e consapevole del fatto che per dipanarla sarebbe stato necessario molto tempo, si fece trovare pronto a cominciare. Coperto il suo abito estivo di flanella con un vecchio spolverino, calcato in testa un cappellaccio di paglia a tesa lunga, munito di bastone con tanto di pomello argentato, si avviò per aspettare George nell’androne, onde poi invitarlo a fare una eggiata per le strade di Partinico. “Per leggere e studiare buona parte dei documenti che riguardano la tua ricerca, ritengo che tutto il mese di ferie non ti basterà, dunque mettiamoci subito a lavoro!” fece Jano Parrinello dirigendo i i verso il vecchio Palazzo di Città e dando inizio ad una dissertazione proprio sullo stesso, dalle sue origini quando era una Abbazia fino all’attuale Municipio e sulla Fontana Barocca che l’allora sindaco, barone La Loggia, al secolo Don Giuseppe Maria De Francisco, aveva fatto sistemare nella piazza del Duomo nel 1824. Poi, osservando la faccia del nipote che rispettosamene gli faceva notare come queste informazioni già le aveva ben acquisite da suoi precedenti indottrinamenti, cambiò subito strada e si diresse verso piazza del Carmine, divenuta piazza Garibaldi per volontà del sindaco Polizzi nel 1862. “Questa piazza prese il nome del cosìdetto Eroe dei due Mondi perché Partinico, nel bene e nel male, partecipò all’impresa dei Mille,
durante la sindacatura del figlio del Barone La Loggia, Barone Giovan Michele De Francisco, che rimase in carica sino alla conclusione degli avvenimenti del 1860”. George, che era rimasto silenzioso per tutto il tempo in cui lo zio aveva parlato, improvvisamente ruppe gli indugi e disse “ tu sei uno di quelli che nutre molte riserve sull’epopea dello sbarco dei Mille, perché quando hai accennato al nome di Garibaldi, lo hai definito il cosìdetto Eroe dei Due Mondi e in più quando hai parlato della partecipazione di Partinico all’azione del Mille hai usato l’espressione convinta: nel bene e nel male. C’è un motivo reale per giustificare una tal presa di posizione?” “E’ troppo presto, per poterti fare capire molte cose, ne riparleremo tra qualche giorno. Comunque devi sapere che Partinico, con l’allora sindaco Polizzi, non potè fare a meno di intitolare il corso principale Via dei Mille, così come aveva fato per altre vie del paese come via Marsala, via Calatafimi, via Palermo, via Milazzo, via Volturno e dopo, anche altri sindaci, completarono l’opera facendo erigere, poco prima della sua morte, un monumento a Garibaldi nella villa Margherita, servendosi dell’opera dello scultore palermitano Civiletti. Tieni presente che tutto questo si svolgeva mentre il paese languiva nell’abbandono più nero, evidenziato da una completa assenza di tutti i servizi pubblici necessari, da un’igiene disastrosa e da una mortalità altissima, si contavano infatti diciotto morti al giorno in un paese di 25.000 abitanti. Ciò la dice lunga sul fatto che il governo sabaudo si era disinteressato della Sicilia al punto di permettere agli amministratori di allora, inetti ed incapaci, di non saper spendere il denaro pubblico proveniente interamente dalla casse locali che, pur poco che fosse, sarebbe stato meglio spenderlo in ben altre cose! ” Di fronte a queste parole di fuoco e di condanna, George cercò di capire il rancore che permeava l’anima dello zio, ma non se ne riuscì a dare una giustificazione se non invocando l’ignoranza degli addetti alle amministrazioni comunali del ato, si era nel 1860 ed in tema di profilassi e prevenzione pubblica si era fermi in pieno medioevo. La giustificazione data lo tacitò, ma gli fece porre un’altra domanda, rivolta più che allo zio ad un illustre storico, ritenuto un punto di riferimento tra tutti i rappresentanti locali della benemerita società di Storia Patria del paese di Partinico e non solo, ”tu pensi che l’arretratezza di queste zone fosse dovuta al disinteresse dello stato sabaudo per colpa di volontaria omissione o di crassa e
comune ignoranza?” La risposta fu lunga ed articolata “il disinteresse non è mai riconducibile ad unica causa. Escluderei l’ignoranza, perché sarebbe bastata un’infarinatura da scuola dell’obbligo delle conquiste scientifiche greche e latine, per non parlare della civiltà egizia, riguardo alle necessità del loro tempo: la raccolta delle acque, lo smaltimento dei rifiuti, le modalità ed i luoghi delle tumulazioni o delle cremazioni, la tenuta delle aree funerarie, di cui la Sicilia è ricca di testimonianze, per non avere il minimo dubbio su quel che sarebbe stato giusto fare. In linea di massima, nel nostro caso, il disinteresse è riconducibile alla disaffezione del governo sabaudo per quanto aveva ottenuto gratis, senza pagare alcun prezzo ne in termini di vite umane ne in denaro, con l’aggiunta di uno dei vizi capitali, la tirchieria, o chiamala come vuoi spilorceria, o taccagneria del regnante piemontese, specie nei confronti di quella mostrata in una successiva fase, che doveva essere di rilancio sociale ed economico, che avrebbe dovuto portare ad una ripresa generale della Sicilia, da sempre stata oggetto di occhiuta rapina da parte dei governanti stranieri!” “Quindi, tu sostieni che tirchieria, mancanza di larghe vedute, anzi vista che non vede o non vuol vedere oltre il proprio naso e grettezza umana sono state le cause responsabili di certi catastrofici risultati, il cui retaggio ha gravato, grava e graverà sul popolo siciliano?” fece George, sovrapensiero. “Nel nostro caso la risposta è si!” poi taccque per un attimo, ma ben presto aggiunse “nel caso nostro pesa anche l’abbandono e la maccagneria degli amministratori siciliani nei secoli precedenti lo sbarco dei Mille, personaggi modesti, nominati secondo le opportunità ed i desideri dei vincitori, di coloro che invece di concederci libertà e spingerci in avanti con spirito di rivalsa, ci hanno schiavizzato ed oppresso, proprio come, nel secolo precedente, aveva fatto la dinastia Borbonica che, con l’aiuto della nobiltà e del clero locale, ci aveva governato facendo in modo di spremerci come il limone, perseverando in atteggiamenti taccagni e persecutori, così, invece di mostrare comprensione nei confronti dei bisogni del popolo siciliano, ci aveva cresciuti, abituandoci a poco pane e molta galera. Vuoi che ti faccia un esempio perchè ti chiarisca quanto ti ho detto? Quando i Mille partivano da Quarto, una rocciosa costa sulla riviera di Levante e si dirigevano verso Portofino, avrebbero dovuto trovare alcune barche piene di fucili e di munizioni, secondo le promesse fatte dal Comitato Nazionale agli ordini di La Farina, incece lì trovavano solo una cocente delusione, in quanto non c’era niente di quanto promesso, cavandosela con una giustificazione
con cui Vittorio Emanuele II faceva sapere che non sarebbe intervenuto perché non intendeva turbare il momento della raccolta dei frutti della precedente fotunata campagna, al cui successo, per altro, avevano contribuito I Cacciatori delle Alpi, sotto il comando di Garibaldi, gli stessi che, in parte, formavano la colonna dei Mille giovani di belle speranze, la cui adesione rappresenterà, come si vedrà in seguito, lo zoccolo duro delle camicie rosse. Ora partivano all’avventura, salpando con pochi fucili e senza munizioni!” George rimase in silenzio, riflettendo su ogni minimo particolare della lezione impartitagli dallo zio e, men che meno, senza trarre alcuna conclusione sulla parte sociologica e politica, soltanto in attesa, ma con la ferma volontà di fare chiarezza almeno sulla parte militare. Una volta intrapresa la strada del riserbo, guardando il mare luminoso e calmo che si stendeva sino al o dello Zingaro, pensò di introdurre l’argomento principale, cioè la storia militare dello sbarco dei Mille, iniziando dalla grande sorpresa che aveva colto la cittadinanza, pacifica e laboriosa, di Marsala, quando senza un esplicito proclama, senza una dichiarazione di guerra, inconsapevole di quanto stava per accadere, aveva visto spuntare, all’orizzonte dell’azzurro del mare di occidente, in quella splendente mattinata dell’11 maggio del 1860, due piroscafi di grande stazza che si dirigevano verso il capo Lilibeo a gran velocità. La gente del posto non riusciva a darsi una spiegazione sulla velocità con cui procedevano le due navi, ne si sapeva spiegare la presenza all’orizzonte di navi scorta della marineria britannica, del tutto nuova alla loro consuetudine marinara. George ancora si portava dentro il ricordo dei libbri di scuola, che mostravano il mare ondoso sollevato dalla scia della flotta inglese e dalla potenza delle macchine a vapore, che il disegnatore riusciva ad esprimere grazie alle loro fumanti ciminiere. In quella occasione il popolo marsalese prendeva coscienza che era una visione molto diversa da quella che, di solito, ci si poteva aspettare, cioè a quella legata alla presenza delle ben note fregate della marineria borbonica che, negli ultimi tempi, e c’era da aspettarselo, avrebbero dovuto controllare il porto di Marsala e di tanti altri porti dell’isola. A questo punto George dovette ammettere che data e luogo dello sbarco, dovevano essere ben noti a qualche ammiraglio borbonico. Ma anche da questa nuova osservazione non trasse alcuna conclusione, riservandosi però di approfondirla in seguito.
La sera del primo giorno di soggiorno a Partinico, gli lasciava nella mente e nel cuore una profonda voraggine di disillusione zeppa di stimoli, maturata dopo i racconti e le considerazioni dello zio. Tutto sommato gli apparve doveroso programmare di studiare e di scandagliare in profondità e con umiltà, la storia dello sbarco dei Mille con un’ottica diversa, magari più ampia e veritiera di quanto non fosse la tradizionale, per lo meno da come gli era stata presentata dai libri di scuola. George trascorse la notte insonne a causa di questo sopraggiunto travaglio, che lo aveva condotto al lucido ragionamento delle prime ore del mattino. Nella fase di dormiveglia, che abitualmente precede il risveglio, giunse alla conclusione, che gli apparve subito come l’unica strada da percorrere, infatti si vide costretto a revisionare le sue conoscenze scolastiche ed a cambiare i suoi programmi iniziali, al fine di allargare l’ottica di analisi dell’intero evento storico. Avrebbe dedicato alcuni giorni della sua permanenza a Partinco alla rilettura dei libri di storia, in particolare di quelli che trattassero l’argomento in modo controverso, comunque dando la precedenza a testi possibilmente di storici siciliani. Subito dopo avrebbe colmato le lacune residue, iniziando un viaggio a tappe, che lo avrebbero portato sulla scia della colonna dei mille garibaldini, sin dal loro sbarco e sul lungo percorso fatto per portare a termine il loro fine, la liberazione dell’isola. Così, ripercorrendo gli stessi spostamenti dei Mille, sulla loro scia, avrebbe raccolto le testimonianze di quanta più gente qualificata possibile nei luoghi, che erano stati scenario delle azioni militari della spedizione, precisando che si sarebbe rivolto a coloro ai quali avrebbe riconosciuto determinate prerogative di onestà intellettuale. Sarebbe partito da Marsala, poi si sarebbe recato a Salemi, a Calatafimi, a Palermo, ed in ultimo a Milazzo, proprio per capire, se possibile, quello che c’era da capire, senza avere alcun condizionamento da parte di chicchesia. In ultimo, si sarebbe confrontato con lo zio Jano, sempre fermo nelle sue convinzioni, in un altro momento, perché per adesso non lo riteneva opportuno e non si sentiva pronto. A proposito dei dubbi nati la sera precedente, ricordò un ultimo suggerimento dello zio, che tra una notizia storica e l’altra, gli aveva consigliato di rivedere le pagine della Storia del Risorgimento, compilati da alcuni storici siciliani, in particolare dai fondatori dell’Assemblea di Storia Patria, che nel 1863, dopo essersi guadagnata l’ospitalità nella casa dell’erudito palermitano, Agostino Gallo, in un solo anno di lavoro avevano pubblicato un volume di atti e documenti inediti e rari, buona parte dei quali, tutt’ora, erano conservati
gelosamente nella biblioteca personale dello zio, nel palazzo di via Ruggero VII, a Partinico, assieme ad un buon numero di pubblicazioni redatte dall’Archivio Storico Siciliano. Questo importante e benemerito archivio, che a partire dal 1863, data di nascita dello stesso, si era avvalso di cronisti seri e di uomini illustri della intellighentia palermitana, da Raffaele Starabba a Isidoro Carini, a storici più moderni tra cui Isidoro La Lumia, Gioacchino Di Marzo e Giuseppe Spuches principe di Galati. George iniziò il lavoro preventivato, con l’intento di svolgrerlo rapidamente, impiegando solo alcune ore, ma che alla fine si rivelò molto più impegnativo del previsto, per onorare una frase, regalatagli da Niccolò Rodolico, un illustre storico originario di Trapani, dell’inizio del secolo scorso, che gli era rimasta impressa: <se vuoi capire la spedizione dei mille, non puoi prescindere dal conoscere l’intera storia del Risorgimento>.
I FATTI STORICI CHE AVEVANO PRECEDUTO LA SPEDIZIONE DEI MILLE
A George, prima di colazione. nella mattina successiva, guardando il giardino di casa, gli venne subito da pensare quanto era cresciuto quell’albero di melograno che aveva dinanzi, che gli regalavano la vista di frutti tanto rigogliosi e altrettanto buoni da gustare. D’un tratto chiese allo zio che gli stava accanto, quanto tempo avevano impigato a divenire quello che sembravano oggi, al che lo zio gli rispose che ci erano voluti almeno dieci anni. Subito il cronista concluse che analogamente lenta doveva essere stata la maturazione di un avvenimento storico di sì grande portata, come lo sbarco dei Mille e, di conseguenza, arrivò alla decisione che avrebbe riesaminato l’evento storico partendo dagli ultimi dieci anni di storia italiana, precedenti lo sbarco, ritenendo proprio quelli i responsabili del fato che lo avevano fatto maturare. Cominciò all’incirca dalla metà del secolo XIX, partendo dal 1848, quando il popolo italiano, dalle Alpi sino all’estremo lembo della costa Siciliana, aveva tratto la convinzione che era possibile auspicare e, finalmente, coronare il sogno di raggiungere l’unita nazionale. Lo spirito degli italiani si era preparato gradualmente a questo o, non solo con la coscienza politica ma anche con le azioni rivoluzionarie. Già dal 1820, coi primi moti carbonari e, ancor più, 14 anni dopo, con la Giovane Italia, si andava diffondendo l’anelito alla unificazione nazionale sia in seno alla classe borghese che a quella operaia, tanto che entrambi trovavano il coraggio di manifestare le proprie idee nelle piazze. I primi risultati non erano tardati ad arrivare con i movimenti popolari del 48, che erano stati capaci di indurre, a Torino, Carlo Alberto di Savoia e, a Napoli, Ferdinando II di Borbone a concedere contemporaneamente le costituzioni, con il risultato di favorire il popolo unito a dichiarare a gran voce la propria annessione al Piemonte. A Napoli, come vedremo in seguito, questa iniziativa risulterà una bolla di sapone Ma I moti rivoluzionari, veri e propri, iniziavano prima a Venezia, il 17-marzo1848, dove si dava vita, con Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, alla
Repubblica di San Marco, subito dopo a Milano, il 18-marzo, con un moto popolare che costringeva Radetzky a ritirarsi nel quadrilatero costituito dalle fortezze di Verona, Legnano, Mantova e Peschiera. I moti del ’48 non stavano interressando solo il Nord, ma avevano una grande eco pure al sud ed in particolare nel regno delle Due Sicilie. In particolare nella Sicilia occidentale, che veniva toccata dalla scossa rivoluzionaria Europea, che facevano scoppiare sommosse nella città di Palermo, dove aveva, però, una impronta indipendentista tale da indurre Ferdinando II a concedere una nuova carta costituzionale, almeno a parole. Subito dopo, Carlo Alberto, incoraggiato a gran voce dai piemontesi, avviava finalmente la Prima guerra d’Indipendenza. Lo scontro militare tra le due nazioni, Piemonte ed Austria, iniziava bene ma si concludeva male, per le truppe piemontesi. Infatti queste ultime il 26 di marzo varcavano il Ticino, per proseguire indisturbati verso il Mincio e vincere la battaglia di Goito. Il 30-aprile portava una nuova vittoria piemontese a Pastrengo, culminata il 6-maggio con lo scacco di Santa Lucia ed il 30-maggio con la conquista di Peschiera. Ma queste campagne vittoriose, fatti d’armi certo rilevanti, non erano sate seguite da i definitivi, ne da risultati politici importanti. Carlo Alberto inopinatamente aveva fermato l’esercito, purtroppo già convinto di aver ottenuto quella vittoria militare necessaria che serviva a dare incentivi al popolo lombardo-veneto, ancora soggiogato dall’Impero AustroUngarico. La tattica attendistica con cui aveva intenzione di condurre la guerra nelle fasi conclusive, faceva sì che la spinta vitoriosa si arrestasse per essere seguita da un periodo di grigia inerzia, in cui avrebbe prevalso la completa mancanza di iniziativa. La defaiance permetteva al marasciallo Johan Radetsky di riorganizzarsi, serrare le file e vincere a Custoza. Il 25-luglio, come era del tutto prevedibile, si verificava la ritirata dell’esercito piemontese dalla città di Milano, che abbandonata a se stessa, in seguito al ritorno degli Austriaci, reagiva scatenando la propria frustrazione ed i propri rancori su Carlo Alberto costringendolo a fuggire dalla città lombarda ed a far repentino ritorno a Torino. Nella capitale piemontese, frattanto, alcune situazioni politiche erano cambiate. Infatti il re al suo ritorno, trovava un nuovo governo, succeduto a quello del dimissionario Gioberti, a presidenza dei subentranti Chiodo e Rattazzi, che insieme al popolo piemontese, non si stancavano di spingere il re a riprendere la guerra.
L’analisi di questi comportamenti, spinse George a considerare del tutto azzeccato l’epiteto che dopo mezzo secolo gli avrebbe regalato Carducci di
. Una conferma delle scarsa capacità del re, sul piano militare ed organizzativo, si aveva quando, trascorso il periodo di inerzia, il 20-marzo del 1849, ad un anno di distanza dalla fuga da Milano, si aveva la ripresa delle ostilità con l’avvio della seconda fase della guerra iniziata l’anno precedente. Durante questa fase, infatti, iniziava lo scontro militare, con la tattica, che apparirà in seguito completamente sbagliata, attaccando a testa bassa il nemico senza prendere alcuna precauzione. Infatti, attraversato nuovamente il Ticino a Baffalora, veniva accerchiato da Radetzsky e, subito dopo, sconfitto nella battaglia di Novara del 28-marzo. Questa perentoria battuta di arresto imponeva a Carlo Alberto l’immediata abdicazione e la triste scelta della via dell’esilio ad Oporto. Gli succedeva, il 24marzo, come nuovo sovrano Vittorio Emanuele II, che incontrava Radetsky a Vignale ed il 26 firmava in sua presenza l’armistizio di Novara. Si aveva il 6 di Agosto l’ultimo evento, con la sofferta Pace di Milano e così si concludeva la Prima guerra di Indipendenza. In seguito a questa cocente sconfitta, finiva il regno dell’italo Amleto, opportunamente, dagli uomini attenti del suo tempo, soprannominato di Re Tentenna. Nomignolo che si porterà dietro fino ai nostri giorni, come non macò di sottolineare George, quella mattina, in piena coscienza e con animo addolorato. Le fonti consultate, a proposito degli eventi successivi all’amara conclusione delle Prima guerra d’Indipendenza, apparivano chiare ed unanime, tutte concordavano nella descrizione di un lungo periodo di non belligeranza, di un immobilsmo che riguardava l’intera vita politica e sociale del regno piemontese, durata l’arco di tempo di un decennio, 1849-1859. Con Vittorio Emanuele II le cose sarebbero cambiate, e non solo in apparenza, perchè il nuovo re, pur rimanendo a guardare quanto succedeva nel resto dell’Italia e dell’Europa, dove si succedevano eventi storici di primo piano, mirati a sconvolgere la stabilità di intere nazioni europee, il popolo italiano continuava a pensare a come raggiungere l’unità della nazione, e per fare ciò, riteneva ancora una volta che era necessario far sentire, possibilmente più forte, la propria voce ed il proprio anelito alla libertà. Pertanto, i fermenti patriottici, a differenza che nel regno piemontese, nelle altre regioni italiane cominciavano a farsi sentire più forte, come era avvenuto subito dopo la fine delle Prima guerra d’Indipendenza.
A Roma, il popolo proclava la Repubblica. La Costituente Romana, rappresentata dal triunvirato, formato da Mazzini, Saffo e Armellini, dichiarava decaduto il potere temporale del Papa. Al comando delle truppe repubblicane compariva Garibaldi, che prima di giungere a Roma aveva affrontato i contingenti spagnoli e napoletani in marcia verso la cittò eterna, senza ricevere alcun aiuto da parte del re piemontese. Solo quando, spinto dalla reazione dei cattolici si, Napoleone III compariva sullo scenario romano con l’esercito se, al comando del generale Oudinot, gli equilibri militari si alteravano. Infatti, Garibaldi che, in un primo momento, aveva sconfitto borbonici e si il 30-aprile, nella battagliiia di Palestrina, con l’arrivo delle nuove truppe si, veniva a trovarsi di fronte lo strapotere delle nuove forze in campo. Con queste in azione, si venivano a vanificare gli atti di eroismo dei Garibaldini, che negli scontri di Villa Panfili, di Villa Corsini e del Vascello, venivano costretti a rinunciare all’eroica resistenza e ad abbandonare Roma, con la inevitabile conseguenza della dimissione e della fuga dei triunviri mazziniani. A Napoli la pubblicazione della Costituzione subiva un colpevole ritardo, interamente addebitabile al volere del re Ferdinando II che, dell’intera proposta del comparto costituzionale, promulgava solo due leggi: la legge elettorale e la legge sulla guardia nazionale. Mentre la Sicilia, non senza forzature, riusciva ad applicare la Costituzione e lo Statuto che, in un solo articolo, accordava completa autonomia all’isola, in seguito alla quale, lo sesso re veniva dichiarato decaduto. Di fronte alle palesi contestazioni siciliane, il monarca decaduto serrava le fila dei fedelissimi, scioglieva la Camera dei deputati, ricorreva allo stratagemma di ritirare la Costituzione e cacciava l’intero governo Saliceti, a dir suo caotico e inconcludente. In altre parole aveva inflitto un’altra onta ai liberali napoletani che da parte loro volevano addirittura inviare truppe sulla linea del Po, per combattere assieme ai piemontesi. George, andando avanti nella consultazione delle fonti storiche, si accorgeva che la volontà del popolo italiano invece di deprimersi, si rafforzava nel desiderio di raggiungere l’unità nazionale, allargando il suo interesse su tutti i nuovi fronti, capaci di accendere la luce della speranza. In effetti, se il periodo della cosidetta restaurazione (1849- 1859), da un lato coincideva con il rafforzamento dell’assolutismo austriaco, dall’altro costituiva il decennio della preparazione per l’esame finale che doveva portare all’unità dell’Italia. Grazie al fatto che dal 1850 si cominciava a sentire forte l’azione mazziniana, che attravarso la
costituzione d’un Comitato Nazionale lanciava l’idea di finanziare la ripresa della guerra. Ma, questa ed altre iniziative venivano vanificate dall’istruzione di processi legati a fatti contingenti se pur significaivi, quali l’esecuzione dei Martiri di Belfiore, Enrico Tazzoli e Tito Speri ed il processo ai Barabba di Milano del 53, che si era concluso con diverse condanne a morte. Questi episodi scalfivano però solo la credibilità del movimento repubblicano e assegnavano ai moderati, con a capo Cavour, il compito di prendere l’iniziativa di portare avanti il sogno dell’unità nazionale. Contemporaneamente falliva il tentativo di riconciliazione dell’Austria con i milanesi, con la nomina a governatore dell’Arciduca Massimiliano d’Asburgo. A questo punto, anche il regno piemontese faceva la sua parte, concedendo asilo agli esuli provenienti da tutto il territorio nazionale e concedeva un governo liberale, che aveva come presidente Massimo d’Azeglio, che aboliva il diritto d’asilo nelle chiese, nei coventi, il Foro ecclesiastico ed aveva il gran merito di nominare ministro dell’agricoltura Camillo Benzo conte di Cavour. Intanto in Europa, dal 1952 in poi, con la comparsa del secodo impero, si assisteva alla crescita politica ed economica della Francia che iniziava anche una politica coloniale in Algeria, in Senegal, in Cina ed in Siria, a cui si affiancavano numerose ed importanti iniziative commerciali, nell’ambito delle quali si inseriva la mirabolante costruzione del canale di Suez. In tema di politica estera la Francia lasciava intravedere un sostegno ai movimenti nazionalisti dei Balcani, dell’Italia e della Germania, cavalcando l’onda del conflitto anglo-russo ed assumendo il ruolo della grande potenza europea che raggiungeva il suo apice nel 1956 con il Congresso di Pace di Parigi. In Italia, dopo la successione dinastica di Carlo Alberto, dopo il travaglio iniziale, sulla spinta di un rinnovato entusismo non del tutto mai sopito, iniziava l’era del regno di Vittorio Emanuele II, che non si lasciava scappare alcuna nuova opportunità. Trascorrevano anni di silenzio, solo dopo, considerate alcune situazioni favorevoli, Vittorio Emanuele, nel discorso di Capodanno, lanciava in parlamento “il grido di dolore che si leva verso di Noi da più parti d’Italia” con cui annunciava l’imminente guerra all’Austria. A quel punto, si muovevano tutte le diplomazie europee, con l’Inghilterra e la Russia in prima fila, per tentare ogni via di mediazioni per evitare il conflitto. Napoleone III invitava il re piemontese a disarmare le sue truppe. Proprio la richiesta di disarmo veniva fermamente raspinta dal primo ministro del governo, Cavour, che la riteneva una richiesta fallimentare, del tutto contraria alla sua politica, che vedeva un Regno D’Italia
unitario sotto i Savoia. In coseguenza del rifiuto, lo stato maggiore dell’esercito austriaco induceva sco Giuseppe ad inviare, il 23-aprile del 1859, un ultimatum al Piemonte che, tutto ad un tratto, cambiava le carte in tavola, di modo chè da aggressore diventava l’aggredito. Fortunatamnte il corso della seconda guerra di Indipendenza fin dall’inizio aveva un andamento favorevole, con le vittorie di Montebello, Palestro e Magenta e si concludeva con la battaglia di San Martino e Solferino con le sconfitta degli austriaci avvenuta, stavolta definitivamente ed in un modo incontestabile, ad opera dei franco-piemontesi a Custoza. La Lombardia, con la successiva pace di Villafranca, ava nelle mani di Vittorio Emanuele II. Le cose erano andate per il meglio per il re sabaudo, ma si sarebbero concluse solo quando la Francia avrebbe ottenuo la promessa della cessione di Nizza e Savoia. Altri movimenti rivoluzionari intanto si erano verificati, in parte iniziati e non conclusi in tutto il resto dell’Europa. Purtroppo movimenti segnati dagli amari giorni della contro-reazione sostenuta dall’egemonia Austriaca. Moti avevano interessato la Prussia di Bismark, in alune regioni cattoliche tedesche e si erano estese ad Est dello scacchiere europeo, dove da Ungheria, Cecoslocchia e Croazia venivano reclamate ampie autonomie, ma a tutte rispondeva l’Austria con una smaccata reazione assolutista e centralista. George non ritenne di addentrarsi oltre nell’analisi di questo complesso scenario politico e militare, che, tral’altro, vedeva tirata in ballo anche la Russia, smaniosa di allargare il fronte ed a questi complessi eventi storici preferì fermarsi e concludere dicendo <devo pensare soltanto agli eventi che interessano strettamente lo sbarco dei Mille>. Come uno scolaretto si stropicciò gli occhi stanchi per la lunga e faticosa lettura, poi si mosse in direzione della sala da pranzo, dove lo aspettava zio Jano per un frugale pasto. Pronto lo zio non si lasciò sfuggire l’occasione per chiedergli se le tracce che gli aveva fornito, gli erano servite e come risposta ebbe che George subito si profuse in mille ringraziamenti, parlando animatamente di alcuni punti del contesto storico esaminato, sottolineando con soddisfazione la ricchezza di dati delle fonti storiche consigliate e già consultate, ma non andò oltre.
Non appena tornò al tavolo di lavoro dello studio-biblioteca si rituffò nella lettura interrotta, partendo degli avvenimenti storici che risalivano al luglio del 1859 e che avevano visto coinvolto Vittorio Emanuele II, quando già si avvertiva nel paese che la svolta unitaria era matura. Rilesse le pagine che si riferivano al convegno segreto di Plombieres, al famoso patto di Alleanza, che gli aveva dato in contropartita l’appoggio militare dell’imperatore se, purchè dopo avrebbe ottenuto Nizza e Savoia. Comprese finalmente come l’appoggio iniziale offerto dai si ai moti rivoluzionari della Toscana, di Bologna, di Parma e di Modena, era in funzione della visione di una confederazione degli stati del centro Italia sotto l’egemonia della Francia. Ma quando, sotto la spinta dei rivoluzionari locali, si riusciva a scacciare i commissari piemontesi, inviati da Vittorio Emanuele II, nominati dopo i referendum popolari che sancivano l’annessione al Piemonte delle rispettive regioni, veniva colto dal panico. Ora gli appariva evidente che, di fatto, avevano determinato il fallimento dell’ intero disegno Napoleonico di formare una confederazione di stati, sotto la propria egemonia, ma anche che non sarebbe stato facile aver partita vinta con il resto degli italiani. Già, dopo la Lombardia, che la pace di Villafranca aveva ato nelle mani di Vittorio Emanuele II, assieme ai ducati della Toscana, dell’Emilia e delle Legazioni Pontificie dell’Adriatico, ottenute per volontà popolare, usciva allo scoperto la volontà del governo Britannico, che guardava al dominio sul Mediterraneo e che, pertanto, si esprimeva in modo favorevole verso una soluzione unitaria della questione italiana che per realizzarsi doveva seguire un preciso percorso, cioè aveva di bisogno che fosse fatto il resto, cioè annettere il meridione d’Italia, ivi compresa la Sicilia, per infine puntare i piedi per ottenere in un prossimo futuro anche il Veneto ed il Trentino. Per George non c’era molto altro da aggiungere per completare il quadro geo-politico dell’Italia, nel decennio che aveva preceduto la spedizione dei Mille, quando, nello stesso momento, udì aprire la porta dello studio e vide comparire l’unica figura femminile di casa Parrinello, che fungeva da governante e domestica dello zio Jano. La figura arcigna della donna, che si chiamava donna Fina, si fermò a due i dalla porta e cominciò a rimproverarlo, dicendo con voce stridula ma ferma “cose da pazzi, non ho mai visto regnare tanto disordine in questo studio!” L’insalutato ospite si rese subito conto che donna Fina aveva ragione, c’erano, infatti, sul tavolo un numero imprecisato di libri, in parte aperti e in parte no, un computer con la stampante collegata che ticchettava un suono amorfo che
aumentava il disordine, un pacchetto di sigarette insieme e tre accedini, un portacenere pieno di cicche, penne a biro e matite in quantità industriale, allora si sentì in colpa ed intervenne solo con lo scopo di calmare la donna, affermando a voce bassa, come se si stesse rivolgendo ad una collega “mi basta, per ora, che abbia pazienza solo per un altro giorno, perché ho quasi completato le mie ricerche bibliografiche sui testi consigliati da mio zio, mi resta da guardare solo a quel che è avvenuto nel mezzogiorno d’Italia”. Chiuse i libri già consultati, li ripose con cura al loro posto, mentre la serva, ricomposta e soddisfatta, s’allontanò dalla stanza, facendo in modo che si sentisse il rumore dei suoi tacchi svanire nel silenzio della casa. Si girò verso la libreria e bisbigliò “ora non mi resta da fare che una ricognizione, rivolta soltanto al sud del sud dell’Italia, mi auguro di trovare indicazioni sul coraggio dei siciliani, ma anche su altri comportamanti umani”, era chiaro come dovesse ancora analizzare quanto di significativo era accaduto negli ultimi dieci anni, nel regno delle due Sicilie, in particolare in Sicilia, che ricordava come terra travagliata dove, negli ultimi tempi, si erano verificati degli eventi favorevoli all’unificazione d’Italia. Prese i libri che gli interessavano e subito si ritrovò con il tavolo nuovamente pieno di carte. Alcuni erano di storici recenti, altri un po’ meno, aveva trovato certi fogli di giornale che risalivano ad inizio del secolo precedente, altri pochi giornali locali coevi agli avvenimenti, poi, contenuti in una carpetta, altri ancora che indicavano date successive al mese di maggio del 1860 ed erano tutte cronache di eventi legati a personaggi locali di spicco, di solito nobili di provincia, che facevano la voce grossa per rivendicare diritti. “vaglierò anche queste testimonianze“ disse fra se e se George “dopo che ho analizzato gli eventi che hanno preceduto lo sbarco nelle terre conquistate dai Mille” e così dicendo si tuffò nella storia ufficiale di quel periodo. Quando cominciò, però, fece come il gambero, iniziando dal 1860, per poi andare a ritroso. Il primo episodio riscontrato, legato indissolubilmente alla spedizione dei Mille, riguardava la volontà di far conoscere a Garibaldi, e di convincerlo, che la Sicilia era pronta al salto unitario. Il documento era datato 4aprile 1860 e si riferiva alla rivolta della Gancia, allorquando un manipolo di una sessantina di sudditi palermitani, artigiani, operai e membri della minoranza del Comitato Rivoluzionario Palermitano, con a capo il mastro fontaniere sco Riso, si muoveva coraggiosamente, all’alba del 4-aprile, sul versante delle alture di Boccadifalco, affacciate sulla valle di Badia, per ingaggiare uno scontro
frontale con il IX Battaglione del Reale Esercito delle Due Sicilie. Lo breve ed impari attacco causò la morte di cinque insorti e la cattura di altri quattordici rivoluzionari, che il 14-aprile successivo venivano fucilati. Riso, amareggiato della mancata sollevazione popolare dell’intera città, moriva alla fine di aprile consapevole che la rivolta sarebbe servita all’unità d’Italia. Lontano dallo scenario della battaglia, infatti, sco Crispi, che da Genova aveva coordinato l’azione, ne utilizzava l’ epilogo che, a prima vista poteva risultare fallimentare, con il suo intuito aveve compreso che non sarebbe stato così, in quanto la reazione aveva penetrato le maglie rivoluzionarie dell’entroterra siciliano, nonostante avesse evidenziato il tradimento di un frate, un certo frate Michele di Sant’Antonio. Ciò significava che potevano trovarsi ancora del traditori, nel tessuto sociale che doveva insorgere. Il frate aveva agito da un perfetto Giuda, infatti da dentro il convento della Gancia aveva informato, il giorno prima dell’azione, il capo della polizia di Palermo, Salvatore Maniscalco, che operava in modo da non far trovare impreparato il IX battaglione borbonico, tant’è che dopo meno di 48 ore riusciva a sgominare i picciotti di Riso, che pagavano il loro sacrificio con cinque morti sul campo più quattordici arrestati ed alla fine a disperdere i rivoluzionari. Le bande ribelli che erano rimaste dagli scontri con il IX Battaglione borbonico, però, continuavano nell’insurrezione armata, ritirandosi a Piana dei Greci, dove venivano raggiunti da Giovanni Corrao e Rosolino Pilo, per l’occasione tornati in Sicilia, che erano stati capaci di racimolare circa 1.000 proseliti, gli stessi che ritroveremo il 28-maggio ad attaccare, a San Martino delle Scale, dal lato opposto all’attacco dei Garibaldini, i soldati borbonici reduci dalla sconfitta di Calatafimi. In questo scontro Rosolino Pilo perderà la vita mentre Corrao sarebbe stato nominato generale da Garibaldi, quando la vittoria della Spedizione era ormai certa. Prima di continuare su questa onda rivoluzionaria, ritenne opportuno fare un o indiero e si trovò, nel 1859, a Napoli, dove il primo avvenimento rilevante, si riferiva alla successione, al trono di Napoli di so II, dopo la morte del padre Ferdinando II. La presentazione e la storiografia del nuovo monarca, ricavata dalla lettura di storici napoletani coevi, iniziava subito col dire di come ci si trovasse di fronte ad un povero cristo, incapace di gestire la caotica situazione del regno e di mettere ordine al suo interno, più che mai travagliato da miseria, da malattie, da
grande insoddisfazione sociale, quindi a Napoli tagliato fuori per sua incapacità e, per carenze in tema di politica estera ereditate, fuori dalla protezione che avrebbe potuto offrirgli come scudo una parte dello scacchiere internazionale. George lesse con molta attenzione le relative note bibliografiche e dovette prendere atto che il giovane sovrano si portava dietro molti dei dissensi esistenti in precedenza, gli stessi che avevano agitatato la mente e l’animo dei sudditi borbonici, durante il regno di Ferdinando II, il quale aveva avuto il torto di non concedere le riforme costituzionali volute dal popolo e da tutti ritenute necessarie. Anzi, aveva operato al contrario ed aveva contrapposto alle aspirazioni popolari il regime assoluto, consegnando un forte potere, da far esercitare su tutto il territorio del regno, nelle mani della polizia. Le conseguenze di queste inquietanti scelte fatte dal monarca avevano sconvolto la vita di larghe schiere di sudditi, nonostante gli ottimi risultati ottenuti, fin dal 1830, in campo economico, che gli avevano permesso di ridurre il debito pubblico e di raggiungere il riequilibrio del bilancio statale. Tuttavia, anche con questi risultati, non era riuscito a fermare i numerosi complotti liberali che nascevano per ogni dove con l’obiettivo di smuovere le coscienze o fare in modo che non sfociassero in moti popolari. George, in quesi resoconti, inoltre potè notare come gli erano stati fatali i comportamenti assunti nel 1831, durante i moti in Emilia e Romagna, allorquando, pubblicamente. si era espresso a favore dell’intervento austriaco ed aveva mandato in esilio il suo ministro dell’Interno, Nicola Intonti, reo di aver mostrato un certo gradimento nei confronti dei carbonari di quelle regioni. E non era bastato, Infatti, nel momento in cui nel 1832, era scoppiata una sommossa nella terra del Lavoro a causa di una pestilenza, sin dall’inizio aveva impresso una svolta drastica nei confronti di quella gente, che per ignoranza attribuiva agli ufficiali borbonici la colpa di esserne stati gli arefici, proprio come gli “untori” medioevali. La reazione del re fu brutale e si concretizzò dando la stura alla sua ira, facendo cadere sul popolo una reazione rapida e spietata e mettendo in campo metodi carcerari repressivi ed inumani. Tuttavia, accanto a queste decisioni, che avevano urtato i sentimenti deu napoletani, non erano mancate le buone iniziative come, ad esempio, quella del 1838, quando metteva fine all’antica consuetudine dei duelli e stabiliva dei punti fermi con una legge che equiparava i duelli agli omicidi e i ferimenti dei
duellanti ai delitti comuni. Un’altra iniziativa di un grande interesse sociale, ben vista dai sudditi, era stata la sua adesione alla lega degli Stati, volta ad abolire la tratta degli schiavi negri. Di contro, poco dopo, nel 1839, commetteva un altro grande errore, allorquando incappava in una complicata vicenda economico-diplomatica con l’Inghilterra che, sin da allora, poteva sfociare in un conflitto militare tra le due nazioni. La tensione, era arrivata alle stelle ed era, purtroppo, legata a stravolgimenti unilaterali del trattato commerciale sul monopolio concesso all’Inghilterra, per lo sfruttamento delle miniere zolfifere siciliane, che gli inglesi avevano la necessità di adoperare per la produzione di polvere da sparo. Quando George lesse e studiò attentamente le motivazioni, trovò che il comportamento del sovrano non era stato in questa occasione affatto peregrino, ne campato in aria, anzi si schierò dalla sua parte. Era evidente, infatti, che gli inglesi stavano cercando l’occasione per affermare la loro ferma volontà di trovare il modo di litigare per motivi ben più gravi. Andiamo con ordine, seguendo il ragionamento del cronista, per cui si schierava dalla parte del re borbonico. Nella sostanza dei fatti, tutto era dipeso da un aumento imprevisto dell’estrazione di zolfo dalle miniere date in concessione agli inglesi. Solo che Ferdinando riteneva che l’esubero, non previsto nel contratto di concessione non toccava agli inglesi e, sulla base di questa convinzione, unilateralmente, aveva deciso di considerarlo frutto di una attività superproduttiva di una miniera demaniale e, come tale, di sua esclusiva sua proprietà, per cui decideva di venderlo a una compagnia se, senza informare gli Inglesi e neanche il suo ministro degli Esteri, di modocchè le cancellerie di entrambi gli stati risultassero esclusi dalla suddetta vendita. Gli inglesi invece, venuti subito a conoscenza dell’operato, reputavano che. prima di concludere la trattativa con i si, avrebbero dovuto essere inerpellati, e se fossero stati d’accordo avrebbero stipulato un accordo preliminare fra propetario e locatario. Il nuovo contratto, così com’era stato fatto con i si, in pratica determinava la fine del loro monopolio ed aveva l’effetto di farli ritenere raggirati. Infatti, la cessione della quota di seicentomila cantari di zolfo all’anno, qual’era l’esubero, veniva fatta direttamente a favore di una compagnia privata se, libera da ogni vincolo statale in campo commerciale. Di conseguenza, gli altezzosi, per non dire spregiudicati, Inglesi minacciavano di far scoppiare una guerra, che avrebbe condotto alla fine della pace nel cuore
dell’Europa, ma in questo caso si sarebbe trattato di una guerra anglo-napoletana voluta per assecondare ben alri scopi coloniali britannici. Allorchè questa guerra veniva evitata, grazie agli interventi politici-diplomatici delle due cancellerie, mediati anche dalla massoneria internazionale, si ponevano le basi per un’accordo duraturo. Il primo ministro inglese, lord Palmerson, otteneva di rivedere i contratti e di farsi pagare una grossa penale dal re di Napoli. Solo a questa condizione, il Premier ritirava le istruzioni date in precedenza all’ambasciatore inglese, quali l’abbandonare l’ambasciata di Napoli e di rompere le relazioni anglo-napoletane. Alla fine, si concretizzava l’accordo, mentre il re napoletano restava dalla parte di chi, per salvare la propria integrità morale. andava ripetendo che gli Inglesi volevano ad ogni costo la guerra, com il fine ultimo di impadronirsi del Mediterraneo. Dopo questa grave tensione internazionale, il re borbonico pensava di superarla con un gesto a sensazione, infatti nell’ottobre di 1839 inaugurava la ferrovia Napoli-Portici e portava a termine l’illuminazione a gas della capitale. Ma la frattura insanabile con gli inglesi, che miravano principalmente al controllo commerciale che si svolgeva nei porti del Mediterraneo, faceva stare il monarca napoletano sempre sul chi vive, trascurando la tensione interna, che frattanto si era acuita dopo le dimissioni del ministro degli Esteri, principe del Cassero, confinato in Puglia e la successiva nomina di Fulco Rufo al suo posto. Indignati, ancor di più per questo motivo, il 20-marzo-1840, gli inglesi inviavano una squadra navale, agli ordini dell’ammiraglio Stopfort, nel porto di Napoli, contrastata da una vasta operazione affidata all’ artiglieria borbonica, appostata lungo barricate, disposte su tutto il golfo di Napoli, pronta a sparare all’ordine di Ferdinando. Una nuova intermediazione diplomatica se evitava che scoppiasse la paventata guerra anglo-napoletana, risultato che si otteneva mettendo sulla bilancia, da una parte, la modifica dei trattati commerciali sullo zolfo e, dall’altra la concessione di un milionario risarcimento agli inglesi, soluzione che, di fatto, indeboliva il prestigio del re delle due Sicilie. Nel 1844, Ferdinando si trovava di nuovo alle prese con altri moti liberali, questa volta toccava ai fratelli Bandiera, che assieme ad altri sette congiurati venivano fucilati. Come era facile aspettarsi dagli esiti di questi ripetuti moti, negli stessi anni ed
in quelli immediatamente successivi, si andava incontro ad un duro periodo di reazione, durante il quale si inasapriva il regime poliziesco in tutta Europa. Intanto Cavour in Italia diveniva il portavoce delle aspirazioni dei borghesi più illuminati che confluivano sul sentimento di unità nazionale, mentre I liberali napoletani, seguendo l’esempio della Germania, dove le classi più laboriose e radicali, con l’appoggio di intere regioni industriali, tendevano ad una unità nazionale con la proclamazione di una Repubblica Democratica. Nello stesso tempo la più ricca borghesia napoletana e gli intellettuali si limitavano a chiedere riforme più moderate. I moti della Germania si affermavano il 18-marzo, data in cui i dimostranti alzavano le barricate a Berlino, costringendo re Federico Guglielmo IV a ritirare l’esercito dalla città ed a promettere un’assemblea nazionale per l’elaborazione della Costituzione. Ma eventi bellici, la sfortunata campagna Prussiana, e politici, la bocciatura del piano federale, toccavano il re tedesco che subiva l’umiliazione di Olmitz, che gli imponeva il ripristino della Dieta e la rinunzia allo stato egemonico della Germania. L’insurrezione di Vienna del ’48 completava il quadro dei moti popolari Europei che si concludevano con una ferrea reazione dei militari austriaci. A Napoli, avvenimenti di segno contrario accadevano negli anni successivi, tutti a sfavore alla popolarità di Ferdinando II che, quando faceva un o avanti e guadagnava un fugace consenso, subito l’annullava facendo partire iniziative di segno opposto. Come avveniva quando aveva deciso un’azione che avrebbe portato ad un recupero di credibilità, concedendo il permesso che si svolgesse a Napoli il Settimo Congresso degli scenziati italiani nel 1845. A cui faceva seguire, subito dopo nel 46, una scelta di segno opposto che gli faceva fare un o indietro, allorquando si schierava contro l’elezione a Pontefice di Pio IX, ben visto dal popolo e dai liberali, in quanto paladino di sentimenti moderatamente riformisti. In questi anni, l’intera Europa, veniva squassato da crescenti ed inevitabili moti rivoluzionari che, nonostante venissero contrastati da repressioni violente da parte dei monarchi, in linea di massima producevano delle conquiste sociali rilevanti. Ed ecco esplodere la rivoluzione se del febbraio del 1848 che consentiva al popolo di ottenere la libertà di associazione e di stampa, l’istituzione di giurie popolari nei tribunali ed una milizia popolare.
In Austria, però, si produceva soltanto un significativo miglioramento sociale con la scomparsa dei servi della gleba ma, con il successivo avvento di sco Giuseppe, si consolidava la fedeltà agli Asburgo, assolutisti e centralisti. In Italia, nasceva un fulgido esempio di sentimenti antiaustriaci, Camillo Benso conte di Cavour, sempre pronto, nelle più diverse occasioni, a cavalcare gli eventi utili ai propri fini politici, mettendone in risalto quelli più efficaci, come era avvenuto dopo il sequestro, da parte degli Austriaci, dei beni dei patrioti lombardi che si erano trasferiti in Piemonte. Il suo opportunismo si presentava anche sul piano internazionale, allorquando nel 1854 pertecipava alla spedizione in Crimea, con quindicimila bersagliari piemontesi al seguito di Francia e Inghilterra, operazione bellica limitata ma che gli permetteva di attirare, ancora una volta, l’attenzione sulla situazione italiana. Nel 1857, inoltre, sempre Cavour, dava il suo appoggio alla fondazione della Società Nazionale, cui avevano aderito Garibaldi, Manin e Pallavicino, mentre nel 1858 utilizzava l’attentato di Felice Orsini ai danni di Napoleone III per spingere quest’ultimo verso un’alleanza franco-piemontese, da rendere effettiva solo in caso di aggressione austriaca, con la promessa di cessione alla Francia di Nizza e della Savoia. L’atto di alleanza veniva consolidato con la promessa di matrimonio tra Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e Gerolamo Bonaparte, cugino dell’Imperatore. In virtù di questi accordi, il re piemontese, nel 1859, durante il discorso di Capodanno pronunciava il famoso
, Garibaldi si mobiltava, accogliendo volontari provenienti dal nord al sud della nazione, mentre Cavour bocciava la proposta russa di convocare un Congresso Europeo che voleva imporre il disarmo del Piemonte. Il tranello di attirare in trappola gli austriaci, aveva funzionato e il 23-aprile arrivava dall’Austria l’ultimatum grazie al quale il Piemonte veniva a trovarsi nei panni della nazione aggredita e dalla parte del provocatore, inusitatamente vestiva i panni del provocato. Così aveva inizio la II Guerra di Indipendenza, che durava solo due mesi e si concludeva con la ritirata dell’esercito austriaco dopo la battaglia di Solferino e San Martino. A questo punto i si, temendo un intervento prussiano, forti dello scarso favore del suo popolo verso una guerra che non era la loro e preoccupati dall’imminente raggiungimento dell’Unità d’Italia, assieme agli Austriaci
decretavano l’Armistizio di Villafranca e concedevano a Vittorio Emnuele II soltanto la cessione della Lombardia. Per la conclusione di questa prima tappa, segnata dalla dimissione dello scontento Cavour, si apettavano gli effetti delle insurrezioni dell’Italia centrale, di Firenze, di Bologna e delle Legazioni Pontificie, che puntualmente avvenivano ma si imponevano, con una ulteriore affermazione della volontà popolare, che determinava il richiamo a Torino dei commissari piemontesi inviati da Vittorio Emanuele II, in base agli accordi del trattato di Villafranca. Nel mese di gennaio del ’60 tornava al governo Cavour e seguivano le annessioni plebiscitarie, nel marzo del 1860, della Tosacana e dell’Emilia. Con quest’ultima oparazione diveniva chiaro il fallimento dei piani egemonici di Napoleone III sull’Italia, che avrebbero concepito una Confederazione di Stati, compresa l’Italia fino a Roma, sotto la sua protezione. Frattanto il governo Britannico, sempre più interessato al dominio sul Mediterraneo, iniziava un costante lavoro ai fianchi per una soluzione italiana unitaria. Questi erano stati gli eventi accaduti nell’ultimo decennio che avevano segnato la sorte del Regno delle Due Sicilie. Non c’era ombra di dubbio, che questo lungo arco di tempo era stato caratterizzato dall’imbarbarimento reazionario del monarca napoletano che, dopo un’attacco d’ira, raggiungeva effetti impensabili, che si esprimevano a tutti i livelli politici ed istituzionali. Ferdinando II, approfittando dei contrasti feroci che avevano portato ad una delegittimazione della Camera dei deputati, nel marzo del ’49, arrivava a scioglierla, indicendo nuove elezioni che, come si vedrà nel corso degli anni successivi, non si sarebbero mai svolte. L’arma per contrastare i dissidenti era la persecuzione ad oltranza, senza scampo, di solito seguita dall’esilio degli avversari politici e di migliaia di persone che venivano incarcerate nelle fetide prigioni borboniche dove erano costrette a subire un trattamento peggiore di quello riservato ai delinquenti comuni, tanto che, dopo le torture, rischiavano la morte. I rapporti con I sudditi siciliani s’erano fatti più tesi di quanto non lo fossero quelli con il popolo campano, in quanto ai siciliani riservava una continua repressione di tipo militare. Infatti, negli anni trascorsi nel segno di una incomprensibile giustificazione reazionaria, la prima cosa fatta era stata colpire il popolo siciliano con azioni persecutorie. Come era stata la tanto vile quanto vituperevole iniziativa, presa da Ferdinando II nel ’50, con il
bombardamento di Messina, che aveva procurato gravi danni alla città e diverse centinaia di morti. Sempre, tra il ’50 ed il ’51, si vivevano in Sicilia, ancora gli effetti del vecchio contenzioso internazionale sullo zolfo, che aveva consegnato una batosta irreversibile alla sua immagine. Si aggiungeva In tale frangente, l’effetto di una nota inviata al primo ministro inglese, George Hamilton, da parte di un uomo politico che soggiornava occasionalmente a Napoli, un certo Wiliam Ewart Gladstone, in cui si descriveva l’aberrante condizione di vita ed il degrado del regno delle Due Sicilie che veniva definito
. Le dure accuse riguardava lo spreco a Corte delle somme versate dagli Inglesi per l’importazione dello zolfo siciliano, voci che si diffondevano per tutta l’Europa, solo in parte labilmente confutate. Questi fatti raggiungevano lo scopo di favorire la politica estera filo-piemontese degli inglesi, che si estendeva all’intera situazione italiana. Proprio In questa vertenza Ferdinando II rifiutava anche la mediazione della Francia, tanto che Inglesi e si si vedevano costretti a ritirare, nel 1856, i rispettivi loro ambasciatori da Napoli, isolando ancora di più il regno delle Due Sicilie. La rivoluzione industriale, che ormai aveva coinvolto l’intera Europa, interessava al monarca napoletano solo in parte e, quel poco, non raggiungeva buoni risultati poiché, contemporaneamente, non avvertiva la necessità di collocare la sua nazione nel novero di quelle già inserite nella politica degli scambi commerciali internazionali, restando ancorato ostinatamente al settecentesco concetto del protezionismo. Dominava in lui la volontà di imporre dazi superiori al 25% su tutti i prodotti esportati che gravavano specialmente su quelli noti e di largo consumo, quali l’olio di oliva, il vino ed il sapone che, alla fine, gli procuravano gravi ritorsioni sul piano dei rapporti internazionali. La maggior parte delle scelte isolazionistiche nei cofronti dei paesi stranieri, ben si legavano con altrettante iniziative interne, come quelle in campo scolasico, che diveniva appannaggio del clero, improvvisamente assurto al ruolo di unico fruitore dell’intero comparto scolastico. I letterati napoletani avevano torto il naso quando era toccato alla scuola del De Sanctis vedersi chiudere i battenti, assieme a tante altre istituzioni laiche. I madornali errori politici antiliberali, avevano generato, nel popolo e non solo,
un persistente sentimento di odio verso il sovrano, inopinatamente esploso con tutta la rabbia possibile, l’8-dicembre-i856. Durante la messa in onore dell’Immacolata Concezione, a cui il re assisteva con l’intera famiglia e tutto il seguito di corte, fu messo in atto un’attentato contro il re da parte di un soldato calabrese, il mazziniano Agesilao Milano. Costui, che faceva parte del drappello d’onore del sovrano, che lo stava aspettando schierato al Campo di Marte, nel momento del consueto cerimoniale, quale era are in rassegna la truppa, gli si lanciava contro cavalcando al trotto e quando s’era avvicinato al sovrano, riusciva a colpirlo con un violento colpo di baionetta, inferto in pieno torace. L’attentatore calabrese, subito dopo, veniva arrestato e impiccato il 13-dicembre, senza che gli venisse concesso un regolare processo. Il fallito attentato era riuscito a turbare molto l’animo del sovrano e, in più, veniva seguito da una proditoria polemica, fatta ad arte, nei confronti della cittadinanza dell’intero regno, alla quali si chiedeva una forte somma per far erigere un chiesa a Campo di Marte, a memoria della grazia ricevuta. Molti municipi, obbligati a versare un lauto contributo in denaro, si rifiutavano di obbedire pubblicamente. Ma la conseguenza maggiore dell’episodio era legata al fatto che l’evoluzione della ferita al petto andava per il verso storto. Da un parte si acuiva il suo ricordo, che invece di cancellarsi, lo tormentava, giorno dopo giorno, con un lugubre presagio di morte. Dall’altra la grave obesità gli rendeva impossibile la deambulazionen con conseguente aggravamento dello stato di salute generale. Nello stesso periodo il re, nonostante i medici si dichiarassero contrari, intrapendeva l’8-gennaio del 1859 il lungo viaggio cha da Caserta lo avrebbe portato a Bari per assistere al matrimonio del figlio sco, suo erede al trono, con Maria Sofia di Baviera, che in precedenza era avvenuto per procura. Una volta giuto a Bari, veniva visitato dal primo medico della Provincia, Nicola Longo di Modugno, che gli diagnosticava un ascesso inguinale e poneva l’indicazione ad un drenaggio chirurgico. A conoscenza di questa diagnosi e della relativa prognosi, la volontà del re, soggiogato dai parenti più vicini e dai più fidati consiglieri, si opponeva all’intervento chirurgico prospettato da un medico liberale e dopo queste lugubri titubanze, riprendeva, il 7- marzo, la via del ritorno a Caserta. Gravissimo, i medici di corte di cui si fidava, riconosciute giuste la diagnosi e la proposta dell’intervento chirurgico del Longo, tentavano, con due mesi di ritardo, di operarlo ma l’intervento risultava inutile e così il 22maggio presso la regia di Caserta, trovava la morte. Anche sulla sua dipartita si stendeva un velo di sospetto, si diceva, infatti, che era stata causata da avvelenamento, per mano del Vescovo di Ariano, Michele
Caputo, proveniente dalla Diocesi di Oppido Mamertina, un comune agricolo in provincia di Reggio Calabria. Lo stesso giorno gli succedeva al trono del regno delle Due Sicilie, sco II di Borbone all’età di soli 23 anni, che dimostrava subito un’indole pia, incerta ed arrendevole, tanto da spingere la moglie, Maria Sofia di Baviera, a prendere in mano le redini del regno. Questa decisione gli noceva molto, sia agli occhi del popolo sia a quelli della regina madre Maria Teresa che, pur non essendo la madre naturale, che era stata Maria Cristina di Savoia figlia di Vittorio Emanuele I, lo contrastava con veemenza. Durante il breve arco di tempo del suo regno, che durava dal 22-maggio-1859/ al 13-febbraio-1861, nonostante i limiti caratteriali del giovane re, avveniva l’estremo tentativo di salvare il regno borbonico con la concessione di alcune riforme di pregnante significato liberale, quali le leggi che davano più autonomia ai comuni ed, inoltre, emanava provvedimenti di amnistia per pene inflitte in seguito a condanne politiche, riduceva della metà le imposte sul grano macinato, calmierava alcune tasse doganali ed, incentivando gli scambi in borsa, apriva le sedi dei Palazzi della Borsa di Reggio Calabria e di Chieti. Metteva in atto anche altre opere umanitarie, vista la crisi agricola che attanagliava il regno, quali la procedura dell’acquisto di grano all’estero, poi rivenduto sottocosto al popolo o dato gratuitamente ai più bisognosi. Tentava, sul terreno politico estero, l’allineamento con l’Austria e volgeva la speranza verso un improbabile accordo di alleanza col cugino Vittorio Emanule II, nonostante avesse rifiutato in precedenza la proposta di Cavour per un’Italia confederale. Al suo interno, consigliato dal primo ministro, il liberale Carlo Filangieri, riproponeva la Costituzione del ’48, insabbiata dal padre, con un Atto Sovrano emesso il 25giugno-1860, quando gli eventi già erano segnati. Il giudizio della storia che veniva dato sul suo operato, corrispondeva ad una dura condanna di incapacità, che il popolo sanciva per le strade di Napoli, regalandogli l’appellativo < di schiello >. Nello scacchiere politico internazionale ancora si avvertivano difficoltà, la Francia non vedeva di buon occhio un attacco piemontese contro il regno borbone, così come la Russia, che tutelava Napoli sul piano diplomatico, e l’Austria, sempre all’agguato nella speranza che qualcuno compisse un o falso, che le avrebbe permesso di reinserirsi nel gioco politico italiano. La posizione di Vittorio Emanuele II di Savoia, che aveva giurato formalmente amicizia al cugino so II, quando appariva screditato dopo l’armistizio di
Villafranca, serviva a cementare la volontà unitaria del popolo italiano che aveva come simbolo Giuseppe Garibaldi. Nei primi giorni del mese di maggio, Cavour dava l’ordine all’ammiraglio Persano, allorquando fosse partita la Spedizione verso la Sicilia, di seguire da lontano l’impresa dei mille senza intervenire. Non influiva il fatto che il re borbone fosse a conoscenza con precisione della data e del luogo di partenza dei Mille, nonché quelli di arrivo sulle costa siciliane, perché la sua mancanza di organizzazione la diceva lunga sull’inutilità di averli conosciuti per tempo. Non gli sarebbe servito a molto. La flotta del regno delle Due Sicilie, forte di 14 navi che incrociavano il Mediterraneo e che sorvegliava le coste insulari, si dimostrava incapace di arrestare solo due navi con mille volontari. Come mai, perché? Verrebbe da rispondere con una parola sola, la stessa pronciata da schiello < tradimento! >. I mille volontari di Garibaldi erano il meglio della gioventù, nutrita dagli ideali del partito d’azione dello stesso Garibaldi, dei repubblicani mazziniani e dei democratici di Carlo Pisacane, eppure si presentavano con una scarsa e, in certi casi, inesistente preparazione militare, dimostrata singolarmente dalla mancanza di una, anche modesta, capacità tattica ne suffragata dall’esperienza di audacia in azioni pregresse. Tuttavia, con il loro apporto, il progetto dell’Unità d’Italia stava per relizzarsi.
COSA ERA SUCCESSO DIETRO LE QUINTE?
Nel primo pomeriggio del quarto giorno della permanenza di George a Partinico, lo zio Jano ruppe gli indugi e decise di chiedere al nipote a che punto era con la analisi storica, che gli aveva consigliato di fare, in particolare di quella che arebbe dovuto riguardare gli ultimi dieci anni di storia patria, verificatasi prima dello sbarco di Marsala. Lo zio, che s’era dimostrato fino ad allora molto accorto nell’evitare un suo intervento durante l’iniziale fase di studio per permettergli di avere un giudizio personale, ligio a quanto s’erano detti, era rimasto in disparte ed aveva quasi ignorato la sua presenza in casa, nonostante l’affetto che lo legava al nipote, l’unico discendente della famiglia Parrinello, nonchè suo unico nipote. Ma quel giorno, dopo la pennichella post-prandiale, entrò nello studio e, senza tergiversare, con fare indifferente, chiese al nipote “a che punto siamo?” La risposta di George fu altrettanto sollecita e puntuale “credo di aver finito!” e così dicendo gli mostrò il blocco notes su cui spiccavano, sottolineati in rosso, molti nomi e date. Lo zio diede una rapida sbirciata alle carte, nel mentre invitò il nipote a fare una sintesi ed esporgli l’idea che s’era fatta sul decennio indicato. Le conclusioni di George, rimarcavano concetti stereotipati e condivisi, più o meno appresi sui libri di storia, così come gli erano stati presentati da studente, di nuovo c’erano certe osservazioni, scaturite da segnalazioni occasionali, appena accennate e non approfondite. “Sono certo e mi prefiggo di farlo quanto prima di chiarirli, allorchè svilupperò questi ultimi temi che propongono un ulteriore approfondimento!” Le parole con cui George pensava di chiudere il discorso e di allontanare lo zio dalla quiete di quello studio, erano state fraintese. Ben presto si accorse che il vecchio non ne aveva alcuna intensione di mollare, infatti lo stesso reintervenne rincarando la dose e mettendo sul tavolo tutta la sua autorevolezza per farsi sentire “finora, tutto quello che sai sullo sbarco dei Mille, è avvenuto sul palcoscenico di un teatrino che ci ha raccontato quello che ha voluto, non l’intera storia dell’avvenimento. Da ora in poi devi riuscire a conoscere le voci dell’alra campana, cioè di quelli che sono rimasti nascosti dietro le quinte, per fartele porgere alla luce del sole! Mi spiego meglio, portandoti un’esempio riconducibile ad una lettera scritta da Massimo D’azeglio al nipote Emanuele, che ti prego di tenere a mente. Le parole di questo insigne
piemontese, nella lettera scritta a suo nipote Emanuele, recitavano così
. Come al solito, le parole dello zio, gli aprivano un squarcio di luce nel cervello che dava subito inizio ad una reazione a catena, che lo incalzava da presso, tanto da metterlo nell’angolo dell’imbarazzo più totale. Meno male che non gli faceva mancare la presenza di spirito, tanto da fargli rispodere con garbo “ understand”. Lo zio Jano uscì dalla stanza soddisfatto, per quanto era riuscito a fargli capire, cioè che, accanto ad una versione letteraria accreditata, alla quale bisognava far finta di credere, ne esisteva un’altra che avrebbe rimesso in discussione giudizi e, finanche, atti ufficiali, troppo intrisi di retorica. Da quale avvenimento doveva far partire gli approfondimenti, per dedicare questo secondo capitolo alla storia reale, se non dal suo primo giorno? Da quando i due piroscafi, Piemonte e Lombardo dovevano partire da Quarto, con uomini consapevoli di avere poche armi, scarse munizioni, ma con lo spirito non uso a retrocedere dalla strada intrapresa. Anzitutto volle sapere come e cosa aveva fatto Garibaldi per ricevere senza spendere una lira, sic e simpliciter, i due piroscafi, abbastanza agevoli all’impresa, dall’armatore genovese Rubattino? Sviscerando l’identiki di quest’armatore genovese, da principio gli venne da dire che si trattava di un uomo che aveva profondi legami con gli ambienti liberalmassonici della city londinese, comporaneamente frequentata da massoni italiani, tra i cui nomi di spicco si annoveravano Cavour e Mazzini. Rubattino, confluito in questa generazione di massoni genovesi, aveva mostrato i suoi interessi preminenti, mirati allo sviluppo del motore a scoppio nel campo dei trasporti su rotaia, su mare e, non ultimo, nelle miniere di carbone e in altre attività coloniali, tanto fiorenti in Inghilterra. Come se questo non bastasse, Rubattino, oltre che orientato a rimpinzare le casse della sua società di navigazione, appariva molto legato al progetto, poi andato a buon fine, di costituire un trust genovese nelle officine meccaniche di SanPierdarena. Le cronache locali affermavano che lì, aveva riunito un gruppo di
meccanici che avevano imparato, a loro volta, a produrre motori a scoppio dai colleghi inglesi. In questo programma industriale rientravano pure un giovane ingegnere meccanico che, vedi caso, si chiamava Ansaldo e la Banca d’Italia, vedi caso, sotto le ali protetettive di Cavour. La tangente che avrebbe reclamato l’armatore genovese, per la concessione gratuita dei due piroscafi, sarebbe stata il monopolio postale nei mari italiani, con grande scorno degli armatori palermitani Florio, ai quali sarebbe toccato solo il monopolio postale sul sud Italia. In uno primo momento Rubattino pensava di aver trovato il modo di tenere legati a se, sia Cavour che gli Inglesi, in attesa di fare in fine la sua richiesta economica. George, leggendo alcune cronache locali, alla fine era arrivato a una sua conclusione, molto differente dalla versione ufficiale, ad arte diffusa in tutta la nazione, secondo cui i due piroscfi erano frutto di contatti avvenuti tra garibaldini e Giovan Battista Fouchè, amministratore della società di navigazione Rubattino! La trattativa divulgata, sembrava iniziata con l’offerta, presentata al Fouchè, di 100.000 lire per il noleggio di un solo piroscafo, che veniva subito disattesa, con la messa sul tavolo di una controproposta di un fittizio pagamento, sarebbe bastato che i garibaldini avrebbero finto di impossersane con un atto di pirateria, per evitare alla società marittima proprietaria, di correre rischi e di avere grattacapi di ogni specie. L’accordo veniva accettato dai garibaldini, che al momento di partire si accorgevano che un solo piroscafo non sarebbe stato sufficiente, infatti assieme al Piemonte s’impossevano anche del Lombardo. Detta versione, conservata e perpetuata dai libri di storia, per oltre un secolo, veniva presentata come esempio magnanimo di lungimiranza politica. La storia però doveva essere letta meglio, in modo da far emergere altre verità. In primo luogo il perchè Fouchè era stato licenziato, in quanto ritenuto reo di portare avanti iniziative personali, in secondo luogo Raffaele Rubattino, in più occasioni, aveva dato chiari segni di pretendere prebende di varia natura e, non per ultimo, quando si era rivolto per lettera Bixio per dirgli chiaramente che voleva un compenso. “ata la festa, gabbato lu Santu” si limitò a dire George, mentre continuava a leggere quel che avveniva dietro le quinte, cioè che Vittorio Emanuele II e
Cavour sapevano tutto ed avevano deciso di mettere mani al portafoglio. Così, si era potuto dimostrare che i due piroscafi erano stati acquistati mediante un atto pubblico, stipulato il 4-maggio-1860, a Modena, alla presenza del notaio Giovan Vincenzo Baldioli, quando Rubattino aveva inontrato a Modena il re insieme a Cavour e in questa occasione aveva preteso il pagamento almeno di una sostanziosa caparra, cosa che era avvenuta regolarmente nella casa del notaio, dove lo stesso aveva invitato, considerata la delicatezza della trattativa, Giacomo Medici, in rappresentanza di Garibaldi, che ne avrebbe detenuto il possesso. In pratica, l’acquirente era stato il re, il garante il suo primo minisro, in rappresentanza del Governo del Regno di Sardegna. I due accordavano a Rubattino un sostanzioso acconto mentre, per la rimanenza garantivano come fidejussori e fissavano la scadenza del credito entro 180 giorni. In più si ratificava la certezza, che il debito sarebbe stato onorato, che giungeva dalla testimonianza di due uomini del servizio segreto: l’avvocato Fernardo Ricciardi ed il generale Negri di Saint Front, entrambi incaricati dall’ufficio di Alta Sorveglianza Politica e del Servizio Informazioni del Presidente del Consiglio. Per evitare ogni sorta di pettegolezzi Vittorio Emanuele II e Cavour, si fermavano a Modena, facendosi vedere nei salotti e nelle riunioni mondane della città. I giornali dell’epoca sembravano di non occuparsi della questione, la Gazzetta del Popolo in prima fila, dapprima non aveva dato notizie, fingendo di non averne e, solo quando giungevano le prime indiscrezioni sul buon andamento dell’operazione, interveniva sollecitando donazioni in denaro, che giungevano abbondanti da singoli cittadini. Si aggiungevano ben presto diversi circoli patriottici,le società operaie di mutuo soccorso piemontesi e, addirittura, giungevano aiuti finanche da Buenos Aires, somme che venivano consegnate al cassiere ufficiale della spedizione, il signor Barra, uomo di fiducia del Generale. Altro punto oscuro riguardava il rifornimento di armi. Non si capiva come Garibaldi aveva avuto partita vinta nel convincere questi mille e settanta uomini a partire, ben sapendo che la promessa fattagli da La Farina sulla consegna ufficiale di armi sufficienti per affrontare la campagna militare siciliana, da parte del Comitato Nazionale, era naufragata per precisa volontà di Vittorio Emanuele II e di Cavour, che negavano al Generale la promessa di una fornitura di 1000 fucili, frutto di una colletta nazionale, messa a disposizione di Massimo D’Azeglio, governatore di Milano! George, di fronte al nocciolo del problema, che gli imponeva una risposta adeguata, rilevava che, in quel momento, la volontà del sovrano sarebbe stata distorta dal timore della ricomparsa di effetti contingenti e collaterali di natura politica. Paura di nuove tensioni con la
Francia, paura di trovarsi impelagato in un’impresa per nulla dall’esito scontato. A quel punto il re savoiardo avrà pensato che era meglio fare un o indietro, esporsi di meno e godersi, per il momento, i frutti del successo della guerra precedente! Ma I buoni osservatori, a legger bene la storia, s’accorgevano che lo stesso re non digeriva la decisione di operare a favore della spedizione dei garibaldini che avevano a capo un uomo di cui non si fidava, di nome Garibaldi, il condottiero che aveva scritto pagine di eroismo, poco prima, con i suoi Cacciatori delle Alpi. Costui non andava aiutato direttamente. Come aveva reagito Garibaldi in questo frangente? Ignorando il sentimento di gelosia di cui era oggetto e ricorrendo a semplici stratagemmi, creati apposta per la ciurma, a cui si rivolgeva con entusiasmo, affermando la certezza del risultato finale. Cosa gli dava questa certezza? Era sufficiente l’indistruttibile fede nei suoi uomini? George pensava di no. Già da tempo, oltre a Cavour e Mazzini, anche Garibaldi, assieme a molti patrioti, si trovavano in buona compagnia di “fratelli massonici” italiani. Tutti coloro che lo ascoltavano, prestavano fede alle franche parole del Generale e, di conseguenza, si adoperavano perché i suoi disegni giungessero a buon fine. Infatti, appena partiti da Quarto, gli uomini della ciurma, a corto di armi, vagando sui pontili dei piroscafi, si chiedevano come avrebbero potuto combattere le truppe borboniche, rimanendo così male in arnese, senza viveri, senza munizioni e senza carburanti per arrivare in Sicilia? Garibaldi aveva già una pronta risposta! Subito alcuni garibaldini toscani, che coscevano bene la Maremma, facevano sapere al loro Generale, che a Talamone, un piccolo insediamento militare posto sulla costa grossetana, nelle adiacenze di Orbetello, c’erano armi e munizioni, custoditi nel dimenticato forte, che si potevano far consegnare senza fare alcuno sforzo. A più di uno sorse il dubbio che era stato tutto predisposo in precedenza dai Savoia! George concordò in questa occasione con il modo di procedere di Cavour, che era molto diffidente e temeva che la spedizione potesse arrecare nocumento al Piemonte con una eventuale reazione dei si, timorosi di una invasione, a
partenza dal Sud ad opera delle truppe garibaldine che, in definitiva, avrebbero arrecato il danno maggiore a Roma e ai territori vaticani. L’italo-americano concluse che faceva bene il primo ministro piemontese a mantenersi, ancora una volta, dietro le quinte, perchè non si fidava ciecamente del nizzardo che sosteneva. Erano questi convincimenti sospettosi che avevano ispirato S.E. Camillo Benso Conte di Cavour, quando aveva scritto di suo pugno al Generale Persano di <arrestare i volontari partiti da Genova per la Sicilia, ove tocchino qualche porto della Sardegna, ma lasciarli proseguire nel loro cammino, incontrandoli per mare>. Cioè, doveva permetter loro di navigare indisturbati soltanto verso la Sicilia. Quest’ordine perentorio otteneva il risultato di tenere fuori dai giuochi Persano, lasciandolo, a bella posta, a guardia delle coste sarde, per evitargli qualsiasi voglia di intromissione nella spedizione dei mille. Cavour, conoscendo bene il suo pollo, che avrebbe potuto apportare gravi scompensi nelle file garibaldine, era riuscito così a fermarlo. L’11-maggio-1860, Persano chiedeva coferma degli ordini ricevuti. Cavour confermava ed evitava ogni possibile malinteso, che avrebbe potuto danneggiare la spedizione e Garibaldi. Chi erano i mille e settanta uomini che si apprestavano a sbarcare a Marsala? Per molti di loro, fin dalla partenza da Quarto, c’era la certezza di come sarebbe andata l’avventura militare. Ed era possibile fare il loro elenco, perché la maggior parte di loro era formata da gloriosi veterani, massoni e patrioti da tempo. Garibaldi, dopo averli chiamati ad uno ad uno sulla terraferma ligure ed armati come meglio poteva, ava ad organizzare la truppa, dividendola in squadre e compagnie, mettendo al comando gli uomini più fidati. Il comando in capo veniva affidato a Gerolamo Bixio, detto Nino, genovese di nascita e dotato di enorme coraggio, massone affiliato alla loggia “Trionfo Ligure” con la tessera numero 105, già distintosi durante la difesa della Repubblica Romana, durante la quale aveva fatto prigioniero un ufficiale se, inseguendolo a cavallo e afferrandolo per i capelli. Le squadre e le compagnie venivano affidate ad Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini e Benedetto Cairoli.
Lo Stato Maggiore veniva formato da Sirtori, Giorgio Manin, figlio di Daniele, Calvino, Maiocchi, Grizzotti, Bacchetti e Bruzzesi. Erano stati scelti come aiutanti di campo uomini di indiscussa lealtà e coraraggio, come nel caso di Turr, Cerri, Nuvolari e Bandi, mentre Stagnetti veniva assegnato come segretario del generale Basso. La sanità veniva affidata alla responabilità del medico Ripari. Restava di farsi affiancare dal generale Basso e da sco Crispi, come consiglieri politici con il compito di sviluppare la loro azione fra le popolazioni siciliane che via, via, avrebbero incontrate dopo lo sbarco. Crispi era con la sua compagna Rosa Montemasson. Un esiguo manipolo di uomini, al comando di Zambianchi, meno di cento uomini, veniva lasciato negli Stati Pontifici, con il compito di distrarre l’opinione pubblica in special modo quella del Regno di Napoli, dall’obbiettivo vero. Tutti questi movimenti organizzativi, però, non riuscivano a cambiare la convinzione dei repubblicani che sostenevano come non valesse la pena combattere solo per cambiare un re con un altro re. Poco dopo, finalmente organizzati, si dirigevano Marsala, seguendo la rotta stabilita. Garibaldi tacitava i dissidenti dicendo “dopo vedremo, chi vivrà vedrà!” George, a questo punto, fece una riflessione. Desiderava avere chiarimenti sulla qualità dei mille uomini e sull’appellativo di “eroi e volontari”, coevo e postumo, col quale venivano chiamati. Scorgendo la lista, restò molto perplesso quando vide che si trattava, in gran parte, di patrioti, veterani del 1848 e del 1849 e di esuli politici, ma non si sgomentò quando trovò settanta di loro sfuggiti alle forche, alle galere e alle fucilazioni austriache, superstiti delle Cinque Giornate di Milano e quando si accorse che c’erano anche esiliati e profughi papali, borbonici ed estensi dispersi, che provenivano dalle zone di Morozzane, Luino e Curtatone. C’erano inoltre reduci di Rio Grande, di Santa Caterina, di Sant’Antonio del Salto. Continuando a scorrere la lista ed alla fine, fece la conta di 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti e 50 ingegneri, 60 possidenti, ex preti, uno di nome Cusmaroli, un prete spretato di nome Sirtori compariva come prete, oltre ad Ovidio Sermone, fuoriuscito da Salerno. Solo uno, giunti in Sicilia si sarebbe aggregato alla truppa, stavolta un vero prete, frate Giovanni Pantaleo. Ancora, scorrendo la lista, si aggiungevano un prestigiatore, un apparatore di chiese, un girovago ed uno scultore, Giobatta Tassara chiudevano la lista. Una epigrafe scritta a capo della stessa, diceva chi il Generale si sarebbe trovato
accanto: < ci sono giovanetti imberbi, quelli che avevano l’anno prima portato la bandiera vittoriosa di Garibaldi da Varese a Treponti, da San Fermo al Tonale. A questi si aggiungevano uomini illustri per dottrina, ignoti popolani, vecchi canuti e giovani appena puberi, avvocati ed agricoltori, medici ed operai, uomini ricchi ed eleganti assieme a poveri rozzi ed affamati >. George concluse subito che la maggior parte era gente che scappava da qualcuno e da qualcosa: da matrimoni naufragati, da figli illeggittimi, da amanti pretenziose, da processi penali e non sempre di natura politica. Tuttavia, quello che lo stupì era come si fossero stipati tutti insieme negli angusti piroscafi, i più non conoscendo ne la meta ne lo scopo della spedizione. Non se la sentì di concludere in altro modo che dicendo che forse avevano un comune ideale: l’Italia unita! Lo aiutarono a giungere a questa conclusione la presenza dei ragazzini che si trovavano imbarcati: Riccardo Luzzato di 16 anni, che aveva convinto la madre con discorsi patriottici da spezzare il cuore, vaticinio che poi si verificherà al primo assalto nemico. Gaspare Tibelli, Angelo Vai e Luigi Biffi, di 17, 16 e 14 anni, avevano ingannato i genitori pur di partire ed il più giovane, di 11 anni, Peppino Marchetti da Chioggia che aveva costretto il padre a portarselo dietro. In riferimento all’altro aspetto, se chiamarli eroi e volontari, si limitò a dire che almeno non potevano essere considerati mercenari anche perchè, gli parve ragionevole pensare, che solo una parte di loro era stata assunta per fare la guerra, mentre la maggior parte lo faceva per spirito d’avventura, un’altra parte, meno consistente, per spirito patriottico di appartenenza alla leggendaria legione che credeva in un ideale.
SULLE COSTE DELLA SICILIA OCCIDENTALE
La flotta del Regno delle due Sicilie era, sulla carta, la più potente del Medierraneo, anche se la flotta se possedeva una marina più forte e superiore di numero. Però c’era un però, impiegava la maggior parte delle navi per presidiare la costa atlantica, ben più estesa della costa sud- occidentale italiana. Pertanto la sua presenza, sul mare nostrum, risultava insufficiente, mentre era sufficientemente adeguata la presenza di navi e di vascelli inglesi schierati in quest’area, ufficialmente solo per compiti di controllo e di ricognizione. In quel momento il rapporto tra marina franco- inglese e borbonica nel Mediterraneo, era di 4 a 17, eslusi i due piroscafi dei garibaldini ed i due vascelli inglesi di scorta che, nella parte finale della navigazione, li seguivano a debita distanza. Ma c’erano, insolitamente, anche altre imbarcazioni, magari più piccole, che seguivano la spedizione dei Mille, quando in quella notte buia, una notte senza luna e senza stelle, un mare tempestoso si gonfiava dando origine ad onde gigantesche, che s’abbattevano ai fianchi dei due piroscafi, in avvicinamento alla costa. La prima impressione che davano i due piroscafi garibalini, era che avanzavano a tutto vapore e a fari spenti, verso il capo Boeo, come se fossero fuggitivi, inseguiti dalle furie. La ricosruzione scenografica ci dice che erano veramente inseguiti da navi, provenienti dalle Egadi, poi vedremo il perché, con le loro alte alborature e le ciminiere fumanti, delle ben note fregate della marina borbonica, che da parecchio tempo ispezionavano quel tratto di mare, dal 4-aprile, data della rivoluzione di Palermo, dando la caccia a quanto veniva segnalato dal loro servizio segreto. Quella notte, i due piroscafi su cui erano imbarcati I Mille, giungevano nel porto di Marsala in piena bagarre, perdendosi di vista l’uno con l’altro e, mentre i marosi li colpivano ripetutamente, i due equipaggi, credendo che fossero nemici, entrambi si apprestavano a darsi la caccia. Lo scenario improvvasamente cambiava quando si sentiva nell’aria la voce squillante, a tutti ben nota, di Garibaldi, che urlava “olà Nino” e, dall’alto del ponte dell’altro vapore rispondere, con una voce d’acciaio “siamo noi del Lombardo”.
I marsalesi, al risveglio, i pochi affacciati sul mare, ignari di quanto era avvenuto durante la notte, la mattina dell’11-maggio-1860, guardavano sorpresi i due piroscafi che si accostavano al capo Llibeo. George disse fra se “sorpresi ma non impreparati! “ Infatti, da quando era terminata l’Insurrezione della Gancia, del 4-aprile, bande armate vagavano nell’entroterra marsalese e nei dintorni, badando principalmente a non disperdersi e con la loro presenza davano segno di un vero e proprio preallarme rivolto alla gente del posto. Precedentemente, a Palermo e nell’ intera provincia limitrofa di Trapani, le famiglie inglesi dei maggiori capitani d’aziende, avevano acquisito un enorme potere fra le imprese che gestivano certi affari, da cui si ricavava un maggiore profitto. Questo avveniva spesso senza ingaggiare una vera e propria lotta commerciale con i locali, specie nelle quesioni di denaro che richiedevano il massimo impegno. Quindi i loro rapporti erano buoni e tutto faceva intravedere unità d’intendi. Inoltre i massoni siciliani, non pochi, che avevano dovuto sopportare la repressione del ’32 e se l’erano legata al dito ed ancora a non aspettavano altro che togliersi il sassolino dalla scarpa, come avere una efficace rivincita. Quale opportunità migliore ci sarebbe stata se non quella di dare una spallata al traballante trono dei Borboni? C’erano tutte queste condizioni favorevoli che permettevano ai due piroscafi dei Mille di viaggiare senza intoppi sino al porto di Marsala e qui di toccare terra, il mattino dell’11-maggio, senza combattere. Addirittura le cronache locali dicono che, al momento dello sbarco, uno dei due piroscafi, il Lombardo, più agile e più piccolo di stazza, riusciva ad entrare speditamente nel porto, l’altro, il Piemonte, che s’era incagliato nelle secche dei cumuli sabbiosi posti a poca distanza dal porto, aveva bisogno dell’intervento, che avveniva senza nessuna contrarietà, degli uomini della Argus e dell’Intrepid. Queste due navi erano quelle che l’Ammiragliato Inglese aveva affidato al comando di Winnington-Inn la prima e di Marriat la seconda, per seguire la spedizione da lontano ed alla fine, stando fermi all’ancora, gli equipaggi dovevano esser pronti ad intervenire in caso di bisogno. Cosa che avveniva regolarmente, allorquando il mare si calmava e permetteva la navigazione di
alcune scialuppe inglesi, che si vedevano subito dare una gran mano d’aiuto ai garibaldini arenati. Intanto, cosa facevano i marinai della squadra navale borbonica? Navigando sulla presunta rotta delle vaporiere italiane, il Filibustiere, il primo vascello borbonico che da tempo seguiva il Lombardo ed il Piemonte, ancora non era riuscito a capire le esatte intenzioni di chi era a capo dei due piroscofi. L’equipaggio napoletano perdeva molto tempo, quasi ventiquattro ore, per capire le intensioni di Garibaldi, che dopo il rifornimento di vettovaglie fatto a capo Boeo, faceva virare i due piroscafi, invece che verso Marsala, in modo da tirare dritto verso le isole Egadi. Garibaldi, per tutto l’arco della navigazione, tenuto informato dai pescherecci che incontrava e, venuto a conoscenza della presenza di navi borboniche nelle acque di Trapani, decideva di dirigersi verso Marettimo, per raggirare la flotta avversaria ed attirare le grosse navi, arrivate in appoggio, e di obbligarle a vagare in una zona di mare difficoltoso, in mezzo all’arcipelago. Di fronte alla squadra borbonica che, in rotta veloce, si dirigeva verso la Egadi, Garibaldi sperando imminente che la flotta nemica si sarebbe impelagata nella difficile situazione dei fondali, dava l’ordine di spingere al massimo di potenza i motori e di dirigersi verso il capo Lilibeo, in modo da accumulare un vantaggio, che nella realtà si tramutò in un vantaggio di ventiquattro ore. Nell’imminenza dello sbarco, Il porto marsalese diveniva subito una colonia inglese, dove i marinai d’oltre Manica sopravvanzavano gli italiani sbarcati, mentre lo Stromboli, vascello incursore della flotta borbonica, al comando del giovane Guglielmo Acton, s’incagliava, a sua volta, nelle secche antistanti al porto. Analoga sorte sarebbe toccata al Capri, comandato da Caracciolo, che fermava l’avanzata per il pericolo d’incagliarsi nelle secche, così, i due comandanti si limitavano a bombardare da lontano la colonna degli sbarchi. La presenza delle due navi dei Mille, nelle acque antistanti il porto, con il Piemonte in difficoltà per il fondale sabbioso, creava una situazione paradossale, in quanto gli inglesi facevano credere di aver capito che si stesse trattando di una delle solite esercitazioni della marina regia e di fronte agli spari ed alle cannonate dei borboni, mandavano segnali di pericolo intimando di fermare i bombardamenti, fino a quando gli interi equipaggi non fossero risaliti a bordo. Fra gli ufficiali inglesi e borbonici, dalle rispettive posizioni, si iniziava a parlamentare, senza arrivare ad una intesa, secondo le buone regole della marineria. Quando
finalmente riuscivano a capirsi, i Mille erano sbarcati insieme alle vettovaglie ed ai materiali bellici e si defilavano all’interno della città, ancora presidiata da quattro compagnie borboniche che poco onorevolmente lasciavano i presidi cittadini, fuggendo alla rinfusa. Il Lombardo ed il Piemonte, svuotati fino all’ultimo della presenza di uomini e cose rimanevano facile preda degli incrociatori borbonici, che cessata l’opposizione delle corvette inglesi continuavano a lanciare inutilmente bombe sulla città, che risultavano quasi del tutto innocue, ad eccezione di quelle che miravano a colpire un bersaglio fisso, lo stabilimento per la lavorazione del vino della famiglia Woodhouse, che rimaneva danneggiato ed alcune botti distrutte. Il giovane comandante Guglielmo Acton, di origine scozzese, abituato a prendere il te alle cinque del pomariggio, che prima stava dando la caccia alla masnada piemontese, lo ritroveremo, più tardi, a ricoprire l’incarico di
Ma anche se non fosse stato, così genersamente, premiato non ci sarebbe voluto tanto per capire che si trattava di un venduto! Analoga sorte sarebbe toccata a Caracciolo, che si ritrova come ammiraglio predestinato della Marina Italiana. I Mille, intanto, erano entrati a Marsala, sventolando la bandiera tricolore urlando in coro
. La popolazione marsalese gioiva, stanca di soppoprtare il giogo borbonico e fremendo si associava alle speranze patriottiche di rompere i ceppi da molti lustri imposti dai borboni. George si rallegrò della maniera in cui era avvenuto lo sbarco, fino a ridere di cuore quando si accorse, sempre leggendo le sue carte, che a Marsala i mille garibaldini avevano ricevuto la prima paga, una lira a testa, e che da quel momento in poi sarebbero stati pagati regolarmente.
INIZIA L'AVANZATA
George, al solo pensiero che all’indomani si sarebbe mosso ed avrebbe lasciato lo studio, se pur comodo ed avvolgente, visse un attimo di piena soddisfazione e, subito, andò alla ricerca dello zio Jano, per comunicargli la decisione che sarebbe tornato a pecorrere le tappe seguite dai garibaldini, in rigida successione, Marsala, Salemi, Calatafimi e Palermo. “Vediamo a quali conclusioni, fin’ora, sei arrivato” disse lo zio, togliendogli dalle mani il quaderno di appunti ed invitandolo a seguire i suoi i sino al balcone del salotto che dava sul corso principale di Partinico, quando vi giunsero disse “che idea ti sei fatto su quanto il governo piemontese fosse stato responsabile e capace nell’attuare il progetto d’invasione del Sud dell’Italia, nella preparazione della spedizione e nel mettere mani al portafoglio?” “Un’idea ce l’ho già” fece George e poi aggiunse “ma non mi sembra ancora il momento di parlarne!” però, accorgendosi che lo zio Jano ci stava restando male, gli comunicò alcuni dei suoi nuovi convincimenti, affermando “in un primo momento, mi ero convinto che Vittorio Emanuele fosse privo di umanità e profondamente tirchio, ma in seguito, quando l’ho visto brigare per le vie di Modena con Rubattino per l’aquisto dei due piroscafi, mi sono ravveduto e reso conto che aveva messo mano al portafoglio, tanto che la mia convinzione è cambiata all’istante!” “Se leggi meglio ti accorgerai che il re piemontese tentò in tutti i modi di non comparire nell’acquisto dei due piroscafi e chi ti dice che subito dopo, quando arriveranno fondi a favore della Spedizione, non ne avesse preteso la restituzione?” Si fermò un attimo incredulo ma subito riprese a parlare “ Infatti durante e dopo lo sbarco giunsero, a più non posso, somme di denaro per sovvenzionare la spedizione dei Mille, che venivano gestite direttamente, per conto di Garibaldi, da Agostino Bertani rimasto a terra, proprio per poter amministrare la montagna di quattrini che arrivava da tutto il mondo. Comunque era pur vero che al momento del bisogno c’era stato il re di Savoia a metter mani al portafoglio, ma da allora in poi non sarebbe venuta una lira dalle tasche savoiarde. Tu mi chiederai il perchè!
La risposta è presto detta: una meticolosa ricerca negli archivi delle logge massoniche scozzesi di Edimburgo, condotta da Giulio De Vita, ci ha permesso di conoscere che venne organizzata un colletta, che aveva coinvolto anche le comunità inglesi dell’America del Nord e che aveva permesso di rastrellare tre milioni di franchi si, in seguito convertiti in piastre turche, la moneta utilizzata nei porti del Mediterraneo per ogni tipo di transazioni e per il pagamento in nero di affari poco puliti. I rendiconti successivi fecero sorgere dei dubbi e dei sospetti sulla gestione di questa montagna di soldi e molte volte si mostrò che tanti ne avevano approfittato, facendo la cresta sulla spesa. Ti accorgerai fra poco quanto ottenne Garibaldi, comprandosi il tradimento dei comandanti dell’esercito borbonico, quelli che suonavano la ritirata, proprio dove sarebbe stato facile attaccare e vincere”. Dopo questa precisazione, lo zio Jano si chetò e fece al nipote gli auguri per la buona riuscita del tour progettato, raccomandandogli, in particolare, di non trascurare la valenza gastronomica, fatta a base di cuscus, di pesce, di buon pane e di ottimo vino, maturata in virtù della propria esperienza. George fu colto dalla ennesima sollecitazione per effetto di quell’ironia, solita agli uomini di grande intelligenza, dotati di grande cultura, ma non fece una grinza e si limitò a porgere calde parole intrise di graditudine e di riconoscenza. Prima di salutare lo zio, gli venne in testa di chiedere un’ultima cosa, nella speranza di essere esaudito “mi resta insoluto il vero motivo per cui era intervenuta la massoneria inglese a favore dei Mille”, disse guardandolo negli occhi. Zio Jano, pacatamente rispose “ le questioni di interesse, da sempre, prevalgono su ogni altra cosa” si fermò un attimo, poi, rivolto al nipote, disse “torniamo in biblioteca, ti farò leggere un documento inedito”. Lasciarono di buon o il balcone, per avviarsi nella biblioteca, ivi giunti il vecchio si diresse verso uno scrigno, tirò fuori da un taschino del gilè un chiavistello, girò le spalle, come per controllare che non ci fossero estranei, aprì il cassetto centrale e prese in mano un grande plico e, rivolgendosi a George, spiegò che si trattava di un almanacco storico curato da lui e scritto a mano da un loro trisavolo, Parrinello Gaspare, vice intendente delle case circondariali penali borboniche della provincia di Agrigento. Jano che doveva avere tanta dimestichezza con le pagine di quella specie di
diario, trovò subito quelle che gli interessavano ed invitò il nipote a leggerle, mettendo l’indice sulle righe consigliate < 1856: il quadro internazionale appare ormai delineato, il Piemonte ha stretto rapporti di ferro con la Francia, mentre l’Inghilterra ha bisogno di dimostrare, al Regno di Sardegna, altrettanta affidabilità perciò non può, e non deve, perdere l’influenza diplomatica, già guadagnata, nel Sud dell’Italia. Allora si muove per tempo, in vista dello sfacelo incombente e l’apertura del canale di Suez, d’inimmaginabile importanza strategica, come uno snodo nevralgico per l’accesso in Africa. Al fine di non rimanere tagliati fuori, inglesi e Cavour si sono incontrati a Parigi, infatti è noto che Lord Clarendon, in qualità di inviato speciale di Lord Palmerstone, a nome del Governo di Sua Maestà e della Massoneria inglese, comunica le ferme intensioni di Londra, inequivocabili nei confroni del re Borbone. Costui afferma, inoltre, che sia l’ambasciatore di Torino James Hudson quanto l’ambasciaore di Napoli Henry Elliot, sono a conoscenza del progetto e si stanno già preparando alla sua realizzazione. Cavour poi ha fatto il nome di un referente anglosassone in territorio italiano, nella persona di un certo Edwin James, esponente della sinistra liberale inglese e della massoneria inglese, definendolo
. “ Dopo qualche istante, Jano Parrinello rivolse la parola al nipote, sottolineando come fossero stati questi uomini a prendere il timone nelle mani per far realizzare il sogno italiano unitario. Alla fine, esplose, dicendo “hai qualche altro dubbio sul viaggio e sullo sbarco dei mille?” e vedendo che George non rispondeva non ebbe altro modo di sollecitarlo, se non dicendo “ti aspettano giorni ricchi di novità, sono convinto che le troverai superiori alla tue aspettative!” Alle nove in punto del mattino, si presentò l’autista dello zio, per accompagnarlo durante la prima tappa del giro programmato. Don Fifì, quella mattina era particolarmente allegro e disponibile, tanto che George gli chiese il motivo di quella contentezza che gli sprizzava da tutti i pori. La risposta non tardò ad arrivare “prima cosa pirchì
” disse convinto, poi continuò “sento nell’aria un nuovo profumo di conoscenza. Sono analfabeta, so mettere, a mala pena, la firma al posto della croce, ma quando avverto la sensazione di aggiungere qualcosa a quel poco che so, mi sento come libero di volare! Pir chistu sugnu contentu di accumpagnariti, per me è un’occasione pi sentirimi cchiù libero! Chiù cosi si sannu chiù libero ti senti!”
George, esterrefatto, si limitò a dire “ spero di non deluderti”, ma pensò dentro di se, che questo breve colloquio mattutino con don Fifì aveva un’implicita richiesta, quella di essere assecondata ad ogni costo. La breve distanza tra Partinico e Marsala fu coperta in poco tempo, grazie alla guida disinvolta di don Fifì e all’importanza del discorso che aveva intrapreso su capo Lilibeo, una volta saputo che sarebbe stata la prima tappa del viaggio a ritroso di George. “Una volta Lilibeo era una città importante nella storia dell’umanità, che iniziò a perdersi nel tempo, per quasi scomparire insieme allo sfacelo dell’Impero Romano quando cominciarono le invasioni barbariche e tutte le coste siciliane vennero scalzate dal dominio arabo di Siracusa. Dopo quasi un millennio capo Lilibeo, restò solo come il punto dell’isola più vicino all’Africa e costituì per secoli l’approdo naturale per le tribù africane, scacciate dai califfi Arabi. Fin dai tempi delle guerre Puniche, una volta caduta Mozia, è rimasta il punto di approdo più sicuro dell’isola, grazie alla naturale ampia e tranquilla insenatura, che aveva sempre dato sicuro asilo alle navi provenienti dal continente africano e perciò venne chiamata, nel nome benedetto di Allah, MarsAllah, o terra di Dio, nome attuale dell’intera città di Marsala. Giunti al porto George, scese dalla macchina, toccò, entusiato, il suolo di quella riviera, che appariva ormai sopita, priva dello splendore del ato, ma fu altrettanto lieto nel considerarla il punto di partenza della redenzione italiana. Per prima cosa, cercò qualcuno del posto con cui parlare. Intravide dei pescatori, che curavano le loro reti, puntò dritto verso di loro e si avvicinò al più vecchio, un uomo magro, con il volto smunto, pieno di rughe e sdentato, con una folta chioma canuta incolta, che adornava il capo piccolo e cotto dal sole. Il pescatore individuato era silenzioso e lavorava con una sorta di uncino, ricomponendo gli strappi della rete. George lo aggangiò, porgendogli la mano per salutarlo ed espose il motivo della sua presenza, pregandolo di soddisfare la sua richiesta ed iniziare, appena gli fosse stato possibile, un dialogo con le domande che aveva preparato. Il vecchio pescatore si dimostrò subito disposto ad una cordiale chiacchierata, Ma quando cominciò a sciornare qualche risposta, lo fece in uno stretto dialetto non sempre comprensibile per il siculo-americano, che subito si trovò in difficoltà, in quanto era solo riuscito a decifrare, nel corso della presentazione, soltanto il nome di Pasquale. Allora chiamò al suo fianco don Fifì e gli chiese se potesse fargli la traduzione simultanea delle incomprensibili parole che Pasquale usava nel suo incontaminato idioma.
Così venne a sapere che era nato nel 1916 e che aveva sempre fatto il pescatore in quel lembo di mare, dove una volta si pescavano le aragoste, che ora, disse con rammarico, “ si coltivano nelle acquaculture poste a due miglia dalla costa.“ Poi si fermò un attimo pensieroso, quando riprese a parlare fu convincente “oggi Marsala vive con il vino, arriva solo un po’ di pesca, ma da quella fatta dai grandi pescherecci che alcune volte vengono sequestrati nelle acque tunisine, per i pescatori locali non c’è alcuna speranza. Pazienza!” George prese la palla al balzo e gli chiese “cosa sa vossia della sbarco dei Mille? “ Pasquale, rimase interdetto per qualche istante, durante il quale cercò di fare mente locale per pescare nel sacco dei ricordi, poi iniziò a rispondere, Fifì a tradurre e lui a prendere appunti “Garibardu, tanti anni fa, arrivò qui e sbarcò in questo porto, insieme ai suoi mille soldati, raggirando la difesa predisposta da Paolo Rufo di Castelcicala, allora luogotenente generale di tutta la Sicilia, che aveva inviato 14 navi per sorvegliare questa costa. Così diceva mio padre, che l’aveva sentito raccontare dal suo, cioè da mio nonno, che allora aveva visto di persona, quando aveva l’età di vent’anni. Nell’ultimo mese, l’aprile del 1860, il nostro mare era pieno di navi della Real Marina che controllavano ogni mercantile e tutte le barche che incontravano, prima di farli entrare nel porto. Siamo all’inzio della primavera del 1860, quando anche sulla terraferma da Trapani a Marsala, colonne militari guidate dal generale Primerano e altre, arrivate via mare, sotto il comando del generale Letizia, battevano queste coste, per prevenire gli sbarchi e mantenere tranquilla la zona, fronteggiando gli insorti che provenivano da Palermo e dati alla macchia. Verso la fine del mese di aprile, Paolo Ruffo vedendo che la situazione nella capitale siciliana rimaneva agitata e che, nel frattempo Garibaldi era ricomparso a Genova, da dove si presumeva dovesse partire la spedizione, ricevette istruzioni dal comando generale di Napoli, che il banditore diffuse per le strada di Marsala dicendo a gran voce di <evitare ogni compromissione con il Piemonte, paese amico, intervenire a mano armata solo nel caso di sbarchi mirati a sconvolgere l’ordine pubblico. Se si osasse ciò, avete il diritto di affondare le navi e di sparare, salvo i riguardi che si debbono usare verso gli agenti consolari, i commercianti ed i sudditi d’una potenza amica>. George stava in silenzio, mentre Pasquale continuava a parlare “la situazione, da subito appariva ingarbugliata, il luogotenente prevedeva di prevenire lo sbarco con la sorveglianza navale, nel caso che fosse avvenuto, avrebbe inviato una colonna per contrastarlo, facendo accorrere da Palermo, ove sarebbe stato necessario, i rinforzi di Letizia e Primerano e, addirittura, forse anche di quelli di
stanza a Catania e a Messina. Questo indirizzo strategico aveva comportato una dispersione delle forze principali, riducendole a piccole colonne mobili, per cui interveniva ancora Napoli, con nuove disposposizioni, date il 7-maggio, che impedivano al luogotente di eseguire tale strategia. Motivo per cui la mattina del giorno prima, Ruffo, prevedendo uno sbarco tra Trapani e Marsala, faceva partire da Palermo il generale Landi, alla volta di Partinico ed Alcamo, con l’obiettivo di contrastare Garibaldi nel caso in cui sarebbe sbarcato. Il pomeriggio dello stesso giorno, arrivava un telegramma che informava che due vapori della società Rubattino erano partiti da Genova con gente armata, diretti alla volta della Sicilia o della Calabria, al comando di Giuseppe La Masa, mentre Garibaldi era segnalato a Cagliari, per arruolare altri volontari”. Il vecchio Pasquale diede l’impressione di volersi fermare, ma subito intervenne Fifì, con la sua borraccia di vino, che teneva pronta ad ogni evenienza nel porta vivande sotto il cruscotto della macchina, gliela offrì dopo aver rimosso il tappo, ma prima di lascergliela,esclamò con voce autoritaria “voglio sapere come è andata a finire!” Dopo alcuni momenti di pausa, che servirono al vecchio per tirare il fiato e per ingurgitare mezza bottiglia di vino, il silenzio fu rotto “Garibardu, che governava i due vapori, arrubati a Quarto, per evitare le navi borboniche segnalate a Trapani, seguiva una rotta inconsueta, che lo partava verso le Egadi. Durante la notte del 10-maggio, il Piemonte, più veloce, aveva staccato il Lombardo ma, nelle prime ore dell’alba dell’11 maggio, si ricongiungevano fra Favignana e Marettimo, dove c’era ad individuarli un semaforo, alla Punta della Provvidenza. Questa postazione, allo stesso modo, segnalò il loro aggio alle navi da Guerra del Regno delle due Sicilie che, pur essendo lontane di circa 20 miglia, iniziarono a rincorrerle, per impedire lo sbarco, che invece avvenne in solitudine, proprio qui, alle 13 e 30 dell’11-maggio”. George, che gli aveva prestato ascolto con molta attenzione, non continuò a spremere Pasquale, si limitò solo a chiedere, tramite Fifì, che tipo di sbarco avevano effettuato, “con le scialuppe” si affrettò a rispondere il vecchio che di seguito aggiunse “mio padre mi diceva che mio nonno li aiutò a sbarcare materiale bellico e vettovaglie, così come avevano fatto molti altri pescatori del posto con le loro barche. Mentre i due piroscafi si svuotovano dei loro eggeri, senza perdere tempo, veniva dato inizio, davanti alla popolazione
sbigottita per tanta audacia, alla liberazione dell’isola, al grido delle truppe di
, per poi disperdersi disordinatamente per le vie di Marsala!” Il cronista, rimasto soddisfatto da quella prima intervista, si diresse verso la macchina e fece cenno all’autista di muoversi per andare verso il municipio. Zio Jano gli aveva segnalato i nomi di due personaggi del ato ed era lì che intendeva avere le indicazioni necessarie per intervistare almeno qualcuno dei parenti. Il primo nome era quello di Salvatore Castiglia, il secondo quello di Antonio Strazzeri, entrambi vecchi referenti di storia patria negli anni immediatamente successivi allo sbarco. Al municipio ricevette risposte aleatorie, insufficienti per mettersi in contatto con qualcuno dei loro discendenti, ma Fifì non si perse d’animo e lo convinse a permettergli di fare a suo modo. Fortunatamente, subito dopo, riuscì a trovare, come non si seppe e non si saprà mai, un professore di storia di una scuola locale, un vero cultore della spedizione dei Mille, che sarebbe stato in grado di rispondere alle domande di George. Fissò un appuntamento per il primo pomeriggio e fu così che s’incontrarono. Come prima domanda George chiese “che cosa sa sul conto di due marsalesi, uno che di nome fa Salvatore Castiglia e l’altro Antonio Strazzera, di cui mio zio, Jano Parrinello di Partinico, mi ha consigliato di trovare qualche discendente per chiedergli del ruolo avuto dai loro antenati nello sbarco di Mille?” “Io non sono un loro parente ma so che Il primo era un ex ufficiale borbonico, non proprio marsalese che, conoscendo bene la costa ed essendo anche un marinaio amico di Garibaldi, si industriò in mille modi, per dissuaderlo a sbarcare a Porto Palo, la località prescelta tra il trapanese e l’agrigentino, situata a Castellamare del Golfo, che avrebbe consentito ai Mille di individuare anzi tempo l’arrivo dei bastimenti borbonici. Riuscì nella sua opera di convincimento, grazie alla sua conoscenza dei fondali. Non solo ma, subito dopo, obbligò Garibaldi a procedere non più verso Sciacca, ma di puntare verso Marsala, da dove un veliero inglese segnalava che al porto lilibetano non c’era traccia di vascelli borbonici. Inoltre segnalava che nello stesso punto erano presenti due navi inglesi, l’Argus e l’Intrepido. Garibaldi, sempre diffidente, faceva in modo di ascoltare la campana di Antonio Strazzera, capitano di una paranza da pesca di Marsala, che confermava la notizia e contribuiva a convincere Garibaldi a non sbarcare vicino a Sciacca, adducendo il motivo del rischio di arenamento dei due piroscafi, mentre lo
consigliava di dirigersi verso Marsala, confermando l’assenza di navi borboniche. Le testimonianze fin’ora ricevute, esaltarono George in quanto ritenute veritiere e gli fecero prendere atto che anche questo sforzo, la prima tappa del suo tour sulla strada dei mille, andava fatto. Lieto per i risultati ottenuti, pregò Fifì di darsi da fare per cercare e trovare un altro incontro fortunato. Mentre si trastullavano, facendo commenti, in giro per il centro di Marsala, nel pieno della luce pomeridiana, troppo presto per far ritorno a Partinico per la cena, s’imbatterono per caso in un distinto ed anziano signore, che da alcuni minuti li seguiva e che almeno Fifì poteva riconoscere. Fu a quel punto che l’uomo si fermò e, posando lo sguardo sull’autista di casa Parrinello, disse “lei è lo chaffeur di Jano e lei”, spostando lo sguardo verso George, ”dovrebbe essere il nipote americano!” di seguito, vedendo la perplessità disegnarsi sul volto dei due, rivolto a George si presentò dicendo “sono Michele Gargano, cronista del Corrierre di Sicilia, corrispondente da anni dalle sedi di Partinico, Marsala, Salemi e Calatafimi, come sta suo zio Jano, che non vedo da parecchio, da quando non frequento più il circolo di Partinico, dopo che mi sono trasferito a Marsala?” Queste parole giunsero come un lampo nelle orecchie di Fifì e, squarciando il buio della sua mente, gli fecero dire “mi ricordo benissimo di lei e mi ricordo pure che faceva il maesro all’elementari di Partinico e che frequentava spesso casa Parrinello”. La conversazione presto si fece cordiale ed apionata, tanto che George comiciò a parlare della prima tappa marsalese e dei motivi del suo tour garibaldino. “Ora vi faccio leggere il Proclama fatto per i Siciliani, che Garbaldi declamava proprio da questa piazza, a quest’ora del pomeriggio dell’11-maggio-1860: <Siciliani! Io, vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all’eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie Lombarde. Noi siamo con voi! e non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. All’armi dunque: chi non impugna un’arma è un codardo o un traditore della patria. Non valga, come scusa, la mancanza d’armi. Non avremo i fucili, ma per un’ora un arma qualunque ci basta, impugnata dalla destra di un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vecchi derelitti. All’armi tutti!
La Sicilia insegnerà, ancora una volta, come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà di un popolo unito. Firmato, Giuseppe Garibaldi. Si autoproclava quindi, con questo editto, il duce ed il profeta della miracolosa liberazione”. “Lei sa per caso, come mai l’Argus e l’Intrepid incrociavano il porto di Marsala?” incalzò George, non dandogli neanche il tempo fiatare. “Le navi britanniche erano arrivate addirittura tre ore prima dei due piroscafi con i Mille, provenienti da Palermo, almeno così si ritiene.” Per un attimo calò il silenzio, fino a quando, il siculo-americano che, nel frattempo gli si era presentato come cronista e collega, gli chiese, con voce querula, di continuare. “Già, da tempo” riprese l’occasionale e tanto gradito interlocutore “la marina militare britannica teneva sotto controllo la costa tirrenica dell’Italia Meridionale e della Sicilia in particolare, infatti il Controammiraglio George Rodney Mundy, vice comandante della Mediterraneum Fleet, aveva avuto impartito ordini, da tempo, di incrociare il Mar Mediterraneo, fino al canale di Sicilia, e di farsi vedere nei porti a scopo intididatorio. Si diceva anche per tenersi informato su eventuali movimenti della marina borbonica. Il motivo vero e proprio si può addurre al fatto che l’1 maggio il Generale dei Borboni Letizia, su ordine del governo militare napoletano, aveva richiesto a tutti i rappresentanti consolari della provincia di Trapani, la consegna delle armi tenute presso le loro sedi e nelle case dei cittadini stranieri. Al rifiuto di Cossins, rappresentante inglese, Letizia reagiva con l’invio di una patuglia di soldati, che procedevano al sequestro forzato di tutte le armi che trovavano, causando pertanto un incidente diplomatico. Cossins, infatti, non lasciava correre l’affronto subito e chiedeva al governatore di Malta l’invio di navi militari inglesi per tutelare i sudditi britannici. L’Ammiraglito Inglese accoglieva la richiesta ed inviava L’Argus e l’Intrepid.” George, che capì subito di aver colmato anche questa lacuna, cominciò a perdersi in mille ringraziamenti, ma ben presto il collega siciliano lo fermò, aggiungendo che Garibadi, nelle sue memorie, ebbe a dire “la presenza delle due navi inglesi nel porto di Marsala influì alquanto sulla determizione dei
comandanti nemici, che avevano fretta di fulminarci e ci diede tempo di completare lo sbarco, ma soprattutto di evitare un bagno di sangue.” Il cronista americano, al termine di quest’ultima informazione restò senza fiato, ripiombando nel più totale sconforto, perché ancora non aveva compreso se gli inglesi avessero predeterminato il buon esito dello sbarco o solo occasionalmente agevevolato. Dirimere questo dubbio, per George era fondamentale! “Mi fai una domanda difficile” fece costernato il collega siciliano “sempre nelle sue Memorie, Garibaldi afferma che non c’era neanche
. In effetti –affermò—alcuni tabloid inglesi continuano a sostenere che l’intervento inglese era stato voluto dal governo, tanto che alla Camera Dei Comuni, si accese un serio dibattito. Il deputato Osborne accusava il governo di aver deliberatamente dato l’ordine di far sbarcare i Mille a Marsala. Di fronte a queste gravi accuse, Lord Russel rispondeva a tono e sosteneva che erano dichiarazioni del tutto false e che le imbarcazioni inglesi si trovavano al porto di Marsala per proteggere le industrie vinicole di Woodhouse e di Ingham e, ancora aggiungeva, che dalle loro postazioni non avrebbero intralciato le operazioni dei vascelli borbonici, accorsi in ritardo, ma per colpa della loro inefficienza”. George, insoddisfatto, intervenne dicendo “mi risulta che comunque le due navi inglesi, nel loro viaggio di avvicinamento da Palermo a Marsala, non fossero state intercettate dal sistema protettivo realizzato dall’Armata di Mare del Regno delle Due Sicilie, a dimostrazione della propria inefficienza. Questo può significare un an’altra cosa, che la marina napoletana, con i comandanti in testa, non aveva avuto voglia di combattere contro le navi italiane! ” “Sono completamente d’accordo con questa sua ipotesi, tra l’altro confermata dal fatto che i comandanti borbonici, ignorando le segnalazioni del loro servizio segreto, avevano richiamato a Palermo le colonne del generale Letizia e del maggiore D’Ambrosio, dando in questo modo la priorità ad una difesa su Palermo, convinti com’erano di una insurrezione imminente della capitale” Si fermò un attimo per osservare eventuali reazioni da parte di George, che non vennero, quindi riprese a parlare “la aperta neutralità degli inglesi, venne poi confermata dal fatto che la marina inglese si rifiutò di dare polvere da sparo a Garibaldi, che rimastone privo durante la battaglia di Palermo, gliela chiedeva.
Per fare luce definitiva su questo punto, lo storico inglese Geoge Macaulay Travelyan sosteneva che le navi inglesi ancorate al largo del porto di Marsala non fecero niente per aiutare Garibaldi, anche perché tenevano le caldaie spente, per riaccenderle solo quando i marinai scesi sulla riva con le scialuppe, ad una ad una facevano ritorno a bordo e scaricavano l’equipaggio insieme ai loro comandanti in capo Marriat e Winnington-Ingham” “Già” rispose l’italo americano “la loro assenza sulle vavi inglesi, aveva fatto sospendere lo scontro, in conseguenza di una fitta rete di segnali intercorsi tra inglesi e napoletani, dopo i primi spari delle navi da guerra napoletane, la Stromboli, la Partenope ed il Capri, che nonostante il sensibile ritardo erano giunte a Marsala e si apprestavano a combattere, almeno davano l’impressione di volerlo fare!” L’ultima parola spettò al maestro giornalista, che non tirandosi indietro, affermò “si son fatte alcune ipotesi per chiarire questo punto: la Stromboli era comandata dal capitano di fregata Guglielmo Acton, nipote di John e cugino di Lord Acton e questo può dire molto sulla dinamica degli spostamenti. Così come potrebbe dirsi degli altri due comandanti, Franco Cossevich della Partenope e Marino Caracciolo del Capri. Ma a questo proposito un’altra ipotesi, circolata in quei giorni, diceva che il ritardo con cui s’erano mossi poteva essere attribuibile a due motivi tattici, Il primo riguardava l’ordine reale ricevuto dallo scozzese, il 9 maggio, di dirigersi verso Tunisi, ritenuto probabile punto di partenza dei Mille, notizia trapelata dall’attiva propaganda liberale volta al depistaggio. Il secondo, dell’11 maggio, l’imbarco a bordo dello Stromboli di due cannnnoni, che facevano perdere molto tempo, che in pratica aveva impedito ad Acton di intercettare i due piroscafi garibaldini in alto mare. In definitiva, sarebbe risultato comodo far credere che il mancato e convinto attacco della costa marsalese, fosse stato ufficialmente ritenuto un atto di
, come puoi vedere, anche questo punto è gravato da una dose di notevole ambiguità.” “Altrocchè ambiguità!” rispose George affermando “mi sembra quasi il giuoco delle carte che chiamate del tre oro vince e tre oro perde, nel quale i mariuoli sono stati sempre maestri!” “Non solo” riprese il maestro giornalista “il bombardamento napoletano, intervenuto quando i marinai inglesi avevano completato il ritorno sull’Argus e sull’Intrepid, veniva concentrato solo sulle industrie vinicole inglesi e
s’interrompeva quando Marriat accompagnato dal vice console di Marsala, Richard Brown Cossins, arrivava, a bordo di una scialuppa, al cospetto di Acton sullo Stromboli, per dichiararlo personalmente responsabile del cannoneggiamento delle industrie britanniche. Acton sospendeva l’azione intrapresa e richiedeva che venisse fatto accostare ai piroscafi piemontesi, per intimare loro la resa, un ufficiale napoletano. Naturalmente gli Inglesi si rifiutavano e l’Argus contemporaneamente si spostava sulla traiettoria di difesa delle loro industrie vinicole. “E’ stata una grande fortuna incontrarla” disse grato George rivolgendosi all’occasionale interlocutore che, ad un certo punto, trovò giusto presentarsi ed al momento dei saluti, “porti i miei deferenti ossequi a suo zio e gli auguri di tanta salute, gli dica che giungono da parte del maestro Terminella!” Don Fifì, che aveva seguito la lunga chicchierata senza aprire bocca, prese lo spunto da questo affettuoso saluto per dire la sua “ora che ho sentito il suo nome, mi permetto di dire che la rivedo con gran piacere e colgo l’occasione per farle presente che di Emanuele Terminella tutta Partinico ha un bel ricordo, lei deve essere del ’50, è più o meno mio coetaneo, se non mi sbaglio veniva spesso a casa nostraa trovare il professore Parrinello, che anche lei chiamava affettuosamente, come se fosse uno di famiglia, zio Jano.” Gli occhi brillarono ad entrambi dopo lo scambio di queste parole di stima, ma subito Terminella riprese a parlare “è stato come un lampo, il sesto senso mi ha fatto scattare una molla che mi ha detto che eravate facce note ed amiche, possibilmente venute da Partinico e, quando ho capito che barcollavate alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, mi sono deciso a rompere gli indugi e mi sono avvicinato!” “Ed è stata per me una gran fortuna” ribadì George, che aggiunse “lei, è stata una fonte inesauribile di notizie che hanno colmato molte mie lacune. Prima, però, di salutarci e far ritorno a Partinico, voglio chiedervi una ultima cortesia, che riguarda come i marsalesi accolsero i mille garibaldini, nei due giorni di permanenza nella loro città?” “Entrati in città, i Mille furono accolti freddamente dalla popolazione locale, tanto che il garibaldino Giuseppe Bandi scrisse che < i marsalesi hanno accolto i Mille su per giù come si accolgono i cani in chiesa>.
Emanuele Terminella ebbe un attimo di esitazione, ma ben presto fu lieto di continuare “Il mazziniano sco Crispi, presentato da Garibaldi come suo portavoce politico, prese contatto con i rappresentanti del consiglio comunale dei marsalesi, convincendoli a fare una dichirazione al popolo, in cui si faceva presente che la dinastia Borbonica aveva cessato di governare in Sicilia e si proponeva la nomina del generale Garibaldi come dittatore dell’isola. Solo due giorni dopo, a Salemi, il generale si autoproclamava dittatore della Sicilia in nome e per conto di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia, ratificato come primo atto del suo governo Coloniale”. Lungo la via del ritorno a Partinico, a sera ormai inoltrata, non ebbe voglia di parlare con il fido don Fifì e, facendo finta di dormire, rimuginò sull’ultima frase di Terminella, quando gli aveva riferito il pensiero del garibaldino Giuseppe Bandi che paragonava l’accoglienza riservata ai Mille a quella riservata ai cani in chiesa, mentre aveva letto in qualche libro di storia, che Garibaldi non s’era neanche fermato a Marsala. Motivi strategici glielo avevano impedito, non poteva perdere tempo se si voleva avvicinare, quanto prima possibile, alla rivoluzionaria Palermo. Motivo per cui, dopo aver concesso ai suoi uomini solo qualche ora di riposo, s’inerpicava sui sentieri della montagna ed iniziava la sua marcia per giungere a Palermo prima possibile. Questo punto andava chiarito e lo fece quando fu a tavola con lo zio, approfittando della cena. “Anche a distanza di tempo, molti storiografi” rispose lo zio “da quelli che hanno studiato questo avvenimento, riportati dall’Harvard College Library del 1863, a quelli di un periodo intermedio, ad esempio lo storiografo George Macaulay Trevelyan nel 1909, fino ad arrivare agli Autori dei giorni nostri, considerano queste notizie, intrise da una cocente sorta di ambiguità, mentre una posizione equilibrata come la mia, mi porta a dire che quando si svolgevano questi eventi, i napoletani non avevano opposto il minimo impedimento nei confronti dell’invasione e dell’avanzata dei Mille! Sempre a mio modesto parere, visto che me lo chiedi, ti vorrei rispondere in un altro modo, lo sbarco dei Mille è stato a tutti gli effetti
!” Poi, sempre più adirato, aggiunse “e Garibaldi era l’unico burattino che lo poteva fare!” Fu a questo punto che George intervenne, non per contraddirlo in quanto riteneve suo zio Jano un oracolo vivente, ma solo per chiedergli come mai era arrivato a questa conclusione. La risposta sollecita e chiara fu “perché il generale
non era ne un sovrano ne un politico e poteva fare l’invasione di un territorio extranazionale senza una dichiarazione di guerra ed, in più, era un burattino nelle mani di Cavour, di Vittorio Emanuele II e, non ultimi, dei massoni inglesi e non solo!” “L’ ultima parte di questa tua convinzione è un’accusa grave, nei confronti dell’Inghilterra” affermò il cronista americano. “No, è solo la sacrosanta verità! E non è sufficiente, i veri repubblicani si erano fatti sbarcare a Talamone, in terra toscana, quando avevano saputo che il resto della ciurma si dirigevano in Sicilia per conto e nome di Vittorio Emanuele di Savoia. I Mille erano diventati improvvismente 776, ma, sempre improvvisamente, ritornavano ad essere mille, perché la differenza veniva coperta da militari inglesi sbarcati dall’Intrepid, che si mischiavano alle camicie rosse del residuo corpo dei garibaldini rimasti a bordo!” Lo zio era l’oracolo, questa volta aveva parlato chiaro e forte, George non aveva ravvisato altri motivi per chiedere ulteriori chiarimenti e stava per salutarlo, quando si ricordò del cronista, corrispondente del Corriere di Sicilia e gli venne spontaneo chiedere che ricordo avesse sul suo conto. “E’ stata sempre una persona corretta e preparata, è stata e continua ad essere un mio amico fidato, non mi dire che l’hai incontrato casualmente?” Ma lo pronunziò con una voce ironica, al punto di far sospettare o, meglio, capire con certezza che glielo avesse fatto incontrare apposta! Ma il primo giorno a Marsala, considerato di aggio, toccò a sco Crispi, mente attiva della spedizione, svolgere un ruolo politico importante. Infatti, l’ex rivoluzionario palermitano del ’48, che aveva preso parte al Comitato di Guerra voluto da Mazzini, dal quale si era allontanato poco alla volta, corse a rassicurare le autorità locali, in primo luogo, sulla custodia delle casse pubbliche e della posta. Solo dopo apriva le carceri e proclamava l’amnistia concessa da parte di Vittorio Emanuele II re d’Italia e, per lui di Giusepe Garibaldi, dittatore della Sicilia. Infine, lanciò a tutti i comuni della Sicilia l’invito a fare altrettanto ed a mobilizzare le masse per accrescere le file dei garibaldini.
I MILLE SI SPOSTANO A SALEMI
Alle 5.30 del 12 maggio, i Mille si misero in marcia per raggiungere Salemi. A loro si aggiungevano alcuni volontari marsalesi, guidati da Tommaso Pipitone e da frate sco. Le cronache di quei giorni, dicevano che queste truppe erano avanzate senza intoppi e che si erano fermate solo a mezzogiorno, una volta giunti a Bottagana, feudo del barone Chitarra, venivano rifocillati con generosITà e buona accoglienza. Da lì proseguivano fino a Rampaglio, feudo del barone Mistretta, dove venivano accolti dal massaro Antonio Fiore, che dispensava loro adeguato trattamento. Nella notte, erano raggiunti dai due fratelli i baroni di Sant’Anna provenienti da Alcamo, che assieme al barone Mocarta portavano il contributo di una sessantina di uomini armati a cui si erano aggiunti un centinaio di volontari disarmati. George chiese a suo zio se avesse qualche storico affidabile a Salemi, a cui rivolgersi. Aveva infatti pensato di fare questo o per evitare di imbattersi in un altro sconosciuto, messogli alle costole a sua insaputa, come era avvenuto il giorno prima a Marsala, con il maestro Terminella. “A Salemi anche le pietre parlano dei Mille, perciò fai da te e per cominciare, raggiungi l’ultima stanza del museo locale e leggi i giornali locali dell’epoca che si trovano incorniciati e appesi alle mura, che ti diranno tutto” disse Jano Parrinello, convinto di avergli dato la migliore indicazione possibile. L’attento don Fifì, guardando il vecchio Parrinello, abbassò il capo in segno di approvazione e spinse il nipote a salire in macchina, per iniziare la seconda parte del tour. Dopo un lungo tratto di pianura, l’abile guida di don Fifì affrontò una serie di tornanti e ben presto s’inoltrò nella collina di Salemi, fino ad arrivare al culmine della salita, alla piazza del vecchio Duomo, distante una cinquantina di metri dal museo. Saltate a piè pari le prima stanze, si trovò in una stretto corridoio, che portava nell’unica stanza del museo, dedicata ai Mille. Trovarono appese sulle mura del
corridoio, esposti dentro le bacheche, gli articoli dei giornali consigliatigli dallo zio. Erano le pagine di vecchi giornali dell’epoca, che dedicavano ampio spazio allo sbarco e la loro lettura era agevole perché si trattava di pagine ben conservate, incorniciate e ricoperte da vetro trasparente. Posò lo sguardo sul primo di questi, una pagina della Cronaca di Marsala, che riportava la data del 13 maggio. L’articolo era interamente dedicato alla illustrazione del primo atto del governo, l’assunzione della dittatura da parte di Garibaldi in nome di Vittorio Emanuele II Re d’Italia. La stessa pagina lanciava un fervido saluto ai Siciliani, accanto una seconda, rivolta ai soldati dell’esercito borbonico, <cui invitava a far atto d’Italiani con Italiani, abbracciando la causa della Patria>. Poi, sempre nella stessa pagina, comunicava l’incarico conferito a Crispi di segretario per gli affari interni. Seguiva la dettagliata disposizione delle truppe, per gli inevitabili scontri coi quali i soldati borbonici avrebbero tentato di sbarrare ai Mille la strada per Palermo. Un’altra pagina, comparsa su Corriere di Palermo, parlava di una lettera, scritta a Bertani, la mente organizzativa della spedizione e di un’altra, inviata al comando di Medici, che serviva ad infondere coraggio, entusiasmo e speranza alla truppa garibaldina. Sempre dallo stesso giornale, con la data del 15 maggio, la notizia del
. Le notizie pubblicate sulla Cronaca di Salemi del 14 maggio, riferivano che proprio a Salemi, si erano aggregati alcune centinaia di picciotti, condotti dal barone di Sant’Anna che si muovevano verso Calatafimi, dove sapevano che il generale Landi s’era fortificato occupando quelle alture. Di seguito, lo stesso giornale, riportava la notizia che a Sant’ Antonicchio, a metà strada fra Salemi e Calatafimi, mentre Garibaldi s’era fermato ad una gora per abbeverare il cavallo, gli si buttava ai piedi un scano che gli diceva
. Aveva pronunciato queste parole con tanto entusiasmo, che gli occhi brillavano sul volto nobilissimo del giovane frate e colpivano il generale che intuiva l’uomo e
gli stringeva la mano. Così fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, con al suo seguito cento uomini, diventava, con l’ardente e patriottica sua predicazione, il credo di quel misticismo che ancora aveva tanta presa su soldati votati alla morte, tanto fa divenire uno dei più preziosi collaboratori di Garbaldi nella liberazione della Sicilia. Intanto avevano raggiunto e raggiungevano i garibaldini, molte altre squadre di picciotti e volontari. Giuseppe La Masa arrivava da Termini Imerese, con molti uomini, quelli riusciti a farla franca ed a sfuggire alle persecuzioni dei borboni dopo la rivolta della Gancia del mese precedente. Si aggiungevano Giuseppe Boscaino con alcuni picciotti provenienti da Trapani e Giacinto Curatolo, con quanti s’erano arruolati volontari a Marsala, assieme a quelli che erano giunti dai paesi vicini, pronti ad insorgere. Poi, la Cronaca di Salemi, elencava una serie di motivi per cui non si era riuscito a fare più di tanto, nonosante un altro proclama, emesso sempre nello stesso giorno del 13 maggio, avesse chiamato alle armi quanti più volontari possibile. Inoltre, lo stesso articolo, spiegava come sarebbe dovuto seguitare ad avanzare il piccolo esercito di liberatori, composto da due legioni, una al comando di Nino Bixio e l’altra con a capo Giacinto Carini. Questo assetto prevedeva nel primo battaglione, quello di Nino Bixio, le compagnie affidate a Dezza, Forni, Stocco e Anfossi. Nel secodo, le compagnie di Carini, affidate a Sprovieri, Ciaccio, Cairoli,Bassini e Griziotti. La compagnia dei Carabinieri Genovesi, inoltre avrebbe mantenuto al comando Mesto, la mentre la compagnia dei Marinai Cannonieri, composta dagli equipaggi del Piemonte e del Lombardo, veniva assegnata a Castiglia. Ad Orsini e Minutilla rimanevano l’artiglieria, con i suoi cinque pezzi, nello stesso tempo si dava ad Orsini, affiancato da Mustica, il compito di impiantare di sana pianta, l’inesistente genio. Mentre i fratelli Giuseppe ed Achille Campo dovevano organizzare un piccolo arsenale, capace di costruire affusti e, poi, insieme a Ragusin, provvedere ad un laboratorio per la fabbricazione delle cartucce e la fusione delle palle. Intanto, nello stesso giorno, giungevano nuove truppe di volontari, settecento uomini provenienti da monte di San Giuliano, di cui molti a cavallo, che volevano aggregarsi ai garibaldini già organizzati, al momento guidati da Giuseppe Coppola e dai fratelli La Russa. Altre squadre di volontari accorrevano da Santa Ninfa, da Vita, da Partanna e da tutti quei paesi dove La Masa e
compagni avevano innescato il seme della rivolta e costituito “comitati rivoluzionari”e “governi provvisori”. Durante la lettura, George fu distratto da un pensiero farneticante, aveva il bisogno di sentire la voce dissonante di qualcuno che fosse uscito dalla mera cronaca, per dargli notizie sull’umore dei neofiti. L’accomodante don Fifì, come al solito. gli venne subito incontro, facendo avvicinare una giovane donna, che aveva individuato come intelligente e capace guida del piccolo museo. La giovane interpellata, colse al volo l’esigenza dei due visitatori si avvicinò volentieri allo sconosciuto cronista e, con uno smagliante sorriso, si mise a sua disposizione. “Be, vediamo un po’, che cosa si può dire sull’umore dei neofiti?” fece, riflettendo la giovane, che continuò dicendo “Garibaldi faceva conto solo sui 1200 uomini sicuri, gli stessi della spedizione con in più i 250 picciotti di Coppola e, quando con il suo occhio d’aquila capì, prima di giungere sul colle di Vita qual era la dispozione dei soldati borbonici del Generale Landi, che in quel momento disponeva di 3500 soldati, 50 cavalli e quattro pezzi di artiglieria, situati in modo da controllare le vie di accesso al Pianto dei Romani, non lontano dalla città di Calatafimi da dove potevano ricevere sussidi d’ogni genere, decideva che, ad ogni costo, che per andare a Palermo, doveva are al di là e si metteva a riflettere su come poteva farlo. George, intravista la piega che stava per prendere il discorso della giovane guida, la interruppe, forse usando maniere brusche, ma efficaci “le ho chiesto, prima di tutto, di parlarmi dell’umore della gente del posto, poi dei militari, dei volontari, dei picciotti e di quegli altri che a vario titolo s’erano aggregati al corpo della spedizione! Sono curioso di conoscere il loro stato d’animo, perché circolava la voce che ai siciliani non importava nulla della spedizione e che molti non facevano differenza tra i borbonici ed i piemontesi, tanto, affermavano, che sempre di stranieri si sabbe trattato! ” “la verità” rispose la giovane “sull’intera spedizione, come le ho già detto, è che questa gente seguiva ad occhi chiusi Garibaldi, soggiogata dall’ angelica e maschia bellezza che risplendva nel suo volto, dai capelli d’oro scintillanti al riflesso del sole siciliano, ed era pronta ad intervenire in tutti i frangenti con coraggio e con eroismo! Altri, in particolare gli uomini del Barone di Sant’Anna”, disse segnalando con la mano uno dei due ritratti dei fratelli Sant’Anna, in grande uniforme di ufficiali borbonici, appesi sulla parete dirimpetto della stanza riservata all’impresa dei Mille, che concludeva il giro museale. Dopo averglieli mostrati, completò il discorso dicendo “alla vista del
nemico s’erano sparsi quà e là, solo urlando frasi sconnesse ma non arrecando alcun danno al nemico e seguendo il loro esempio, molti altri avevano iniziato ad agitarsi allo stesso modo, seminando il panico tra i borbonici”. La gente del popolo guardava Garibaldi con la devozione che si portava ad un re splendente dell’Olimpo, che in se rappresentava il pegno della vittoria, anche se le classi sociali più evolute, rimaste nell’anonimato, continuavano a considerarlo un avventuriero, un ciarlatano ed un burattino nelle mani dei savoiardi, nonostante il carisma della sua persona. Penso che la mia risposta sia stata esauriente”. Finalmente George apparve risollevato dall’ultime considerazioni, e la pregò di riprendere la descrizione delle posizioni dei rispettivi eserciti, schierati in campo aperto. “Eravamo rimasti al momento in cui Garibaldi aveva localizzato la posizione degli uomini di Landi, al Pianto dei Romani, detto così perché i Romani avevano subito una sanguinosa sconfitta a mano dei Cartaginesi, su di un poggio in cui si trova il paese di Vita e non lontano si staglia il monte Barbaro, sacro alle memorie di Segesta. Il paesaggio è bello, ma si accompagna ad una nota di malinconia, pare che su di esso incomba qualche cosa di fatale, specie quando il sole brilla, spietatamente scottante, come doveva essere quel giorno del 15 maggio 1860, in cui i Mille con il loro sangue posero una delle pietre angolari per l’Unità d’Italia. Quel giorno Garibaldi fece stendere i suoi uomini sul colle di Vita, Carini a destra, Bixio di riserva con i suoi quatro pezzi di artiglieria a sinistra ed egli nel mezzo per dominare e dirigere l’azione. Mentre il generale Landi, che aveva sottostimato il numero dei nemici si accingeva a ordinare l’attacco, facendo scendere dal Pianto dei Romani i cacciatori regi, sostenuti dal fuoco della batteria e da due compagnie di linea. I garibaldini, accovacciati dietro un ripiano naturale a balzo della collina stavano ad aspettarli, in quanto avevano ricevuto l’ordine di cominciare a sparare solo a colpo sicuro, per risparmiare al massimo le munizioni. La scarsa dotazione di munizioni era assillante, tanto che molti volontari se ne lamentavano, a differenza dei veri garibaldini che, memori delle trascorse campagne militari di Roma, di Venezia e della Lombardia, stavano
rigorosamente nel rispetto degli ordini, senza discutere. Solo quando i borboni avevano iniziato l’attacco, nello stesso momento in cui raggiungevano a sicurezza di tiro, i garibaldini cominciavano a sparare e, subito dopo averli sorpresi con una tremenda sparatoria, approfittando dell’effetto sorpresa balzavano fuori ad ondate successive. I borbonici dapprima sostenevano e respingevano l’urto, ma poi i garibaldini rinnovavano l’attacco con rinnovata vigoria e li costringevano a ritirarsi in una posizione difensiva abbastanza protetta. Ma non mi sento in grado di narrare dello svolgimento della battaglia, non è compito mio, vi consiglio di rivolgervi al custode del piccolo mausoleo-sacrario costruito in memoria della battaglia di Catatafimi sull’altura del Pianto dei Romani” Smise di parlare e non ci fu verso di farla retrocedere dalla sua posizione. Don Fifì guardò di traverso la faccia di George e quando si accorse che era abbastanza soddisfatta, si rivolse alla giovane guida per sapere come doveva muoversi per trovare il custode del sacrario. Fu costretto ad insistere su questa richiesta, visto che le idicazioni ricevute non erano state per niente esaustive, ma la giovane se la cavò dicendo che si trattava non di una guida ufficiale, sempre presente sul posto, ma d’un volontario occasionalmente disponibile. Abbandonato il centro di Salemi, si diressero verso il centro di Calatafimi, per raccogliere in loco informazioni più utili e circostanziate su come incontrare il volontario custode. Arrivati nel centro città, nell’antico Corso Garibaldi, che si continua nel corso Vittorio Emanuele, come in una sorta di metaforica nemesi storica, si diressero, senza esitazioni, alla pro loco per chiedere notizie del custode del sacrario del Pianto dei Romani. Seppero da una delle due impiegate presenti che si trattava di “un signore disponibile e gentile di nome Girolamo che fa il custode, a titolo volontario, dell’ossario che contiene i resti di alcuni caduti dei Mille. Non ha on orario d’ufficio, ma in varie ore della giornate, si può incontrare a bordo della sua Panda bianca, in giro intorno all’ossario” aggiunse l’impiegata che dava l’impressione di essere la capa della pro loco. Percosero la statale 113 ed in pochi minuti giunsero al monumentale ossario del Pianto dei Romani.
La costruzione era stata eretta per conto dei cittadini di Calatafimi Segesta, sulla base del progetto dell’architetto palermitano sco Basile e dedicata alla custodia delle reliquie dei caduti della battaglia del 15-maggio-1860, ma veniva inaugurata solo il 15-maggio-1892. George, si mosse con o reverente e con accortezza preparò la macchina fotografica, poi guardò la costruzione da fuori, gli bastò un attimo per vedere che si trattava d’una piramide alta oltre i 30 metri, costruita con pietra calcarea di Alcamo, a base quadrata, raccordata per mezzo di gradini ad un alto obelisco, ornato a metà della sua altezza da una corona di bronzo. Si soffermò ai lati, per fotografare i due gruppi bronzei, uno raffigurante lo sbarco di Marsala, l’altro la battaglia di Catalafimi. Salì la scala e si fermò sulla piazzuola davanti all’ingresso. Subito si rese conto che non sarebbe potuto entrare nel sacrario dove, secondo la brochure della Pro Loco, in due grandi custodie erano conservate le reliquie dei garibaldini e dei borbonici, ma si dovettero fermare perché del Signor Girolamo non c’era traccia e delle chiavi neanche l’ombra.
IL SACRARIO E LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI
Don Fifì si mostrò subito sicuro della imminente arrivo del custode, che riteneva d’aver inconciato, a bordo della sua Panda, vecchio modello, bianca, a pochi chilometri dall’ossario. George gli rimproverò il fatto di non averglielo detto. Entrambi insofferenti, guardandosi in cagnesco, si misero a eggiare, ognuno per proprio conto all’esterno dell’ossario. arono pochi minuti e videro la Panda bianca affacciarsi nell’ultimo tornante della salita, poi comparve un signore percorrere il tratto di strada privata, dopo aver alzato la sbarra divisoria manualmente e si trovarono davanti Girolamo, l’ultimo volontario, un signore di oltre sessant’anni, che gli andò incontro e li invitò a seguirlo. Dopo la presentazione Girolamo si mostrò estremamente soddisfatto per l’occasione che gli dava l’incontro con un giornalista siculo-americano, prese subito le chiavi dalle tasche e si avviò ad aprire il sacrario. Subito partì con l’intensione di fare un’esposizione di livello accademico dell’evento, senza prima demordere dal ricordare ai due che si trattava di un servizio volontario non retribuito e che, inoltre, lo faceva di buon grado. “Ho raccontato molte volte le gesta la battaglia di Calatafimi, l’ho pure descitta al Presidente della repubblica Napolitano, giunto in visita per commemorare il centocinquantesimo anniversario dello sbarco dei Mille.” Esordì, con non celata soddisfazione, “ Il 14-maggio-1860, nel pomeriggio, giungeva notizia a Garibaldi che il nemico si trovava nelle alture di Calatafimi, sotto la guida del vecchio generale Landi. L’intera truppa era composta dall’80^ battaglione Cacciatori con il maggiore Sforza, dal 20^ e dal 10^ battaglione di linea con il tenente colonnello Pini, dal 2^ battaglione dei carabinieri con il tenente colonnello De Cosiron, da una squadra di cacciatori a cavallo e da mezza batteria di montagna, in tutto oltre 3200 uomini. Alle 5 del mattino del 15 maggio, Garibaldi con circa due mila uomini partiva da Salemi ed alle sei e trenta arrivava a Vita, da dove ripartiva dopo mezz’ora, incolonnato nella seguente formazione: in prima linea avanzavano le guide, seguite dal 2^ battaglione composto da artiglieria, genio, marinai cannonieri, il
1^ battaglione con i carabinieri genovesi, mentre ai fianchi marciavano i picciotti. Da questo momento in poi, localizzate le postazioni nemiche, lasciava sulla strada, con la scorta del genarale Anfossi, l’artigliueria ed i bagagli. Faceva disponerre i carabinieri genovesi sui pendii di Pietralunga, il battaglione di Carini dietro il ciglio dell’altura, sul versante di Vita il battaglione di Bixio, con all’estrema sinistra le truppe dei siciliani. Così organizzati, rimanevano in questa posizione, aspettando l’attacco del nemico. Vero le 13, il maggiore regio Sforza, costatando la modestia dello schieramento delle forze garibaldine, muoveva l’attacco, facendo avanzare tre compagnie, mentre ai carabinieri genovesi, dall’altra parte, Garibaldi impartiva l’ordine di non muoversi e di contrattaccare solo quando i borbonici sarebbero giunti a pochi i. Cosa che, puntualmente, si verificava e, dopo pochi alcuni spari della truppa borbonica che non creavano alcun sconvolgimento, i carabinieri genovesi uscivano dalla loro postazione e con le baionette in canna ributtavano i nemici in fondo al vallone. Giunti a questo punto, Garibaldi faceva suonare l’alt, ma i volontari schierati a sinistra non lo sentivano, o facevano finta di non sentirlo e continuavano l’attacco con l’incalzare i borboni, presto imitati dagli uomini di Carini. Quando il generale se ne accorgeva, spostava ancora più a sinistra la compagnia di Bixio e lui stesso abbandonava l’altura di Pietralunga ed entrava nel vivo della battaglia, che già si vedeva indirizzata a loro favore. I borboni lo capivano e ben presto facevano arrivare i rinforzi regi da Calatafimi, tanto che si aggiungevano altre cinque compagnie, ottenendo solo che lo scontro divenisse più violento. Ciononostante i garibaldini ed i volontari siciliani conquistavano, balza dopo balza, l’altura del Pianto dei Romani, anche se lasciavano sul terreno parecchi morti e feriti che cadevano sotto i colpi dell’artiglieria napoletana. Restavano sul campo I corpi di Sartori, Pagani e Montanari, solo feriti Menotti, Nullo, Manin ed Elia, mentre Garibaldi veniva colpito da una sassata alla spalla. Sventolava vittoriosa al vento già la bandiera dei Mille, quando un colpo di fucile abbatteva il portabandera Schiaffino. Recuperato il vessillo, poi ava di mano in mano, fino a quando un cacciatore dell’8^, Giuseppe De Vita, riusciva ad impadronirsene e la guida Damiano riusciva a strappare un nastro, prima che il tricolora cadesse in mano del nemico. Dopo, quando Landi, persa la testa per la sconfitta imminente, aveva a dire che i suoi avevano strappato la bandiera dei garibaldini, ma presto si veniva a sapere che quel mozzicone di bandiera, non era la bandiera della legione, bensì un tricolore che l’intrepido camogliese Simone Schiaffino, amico di Menotti Garibaldi, portava di sua volontà e, issato tra i primi al comando della carica, era caduto crivellato dai colpi nemici.
A Bixio, che in un primo momento voleva ritirarsi, ritenendo impossibile la vittoria, Garibaldi risoluto rispondeva: <no! Qui si fa l’Italia o si muore!> La battaglia, intanto, si era fatta sempre più cruenta, tuonava l’artiglieria borbonica, che aveva però nel frattempo soltanto un cannone, poi finito nelle mani di Enrico Cairoli e di tre studenti pavesi. Gli uomini, d’ambo le parti, dopo questi scontri iniziali apparivano stanchi, ma i garibaldini erano più motivati e capivano che dovevano compiere l’ultimo sforzo per conquistare l’ultima terrazza, la settima, ancora in mano del nemico. Allora accorreva Il generale, che spronava i suoi soldati ad alta voce dicendo:
“Quel pugno di uomini” dirà in seguito Guerzoni “trafelato, pesto, insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di combattimento, ogni uomo trovava in quelle parole ammallianti, la forza di risollevarsi, e come aveva previsto l’eroe, la fortuna tornava dalla loro parte!” I borboni, incalzati da quel branco di indemoniati, che sembrava uscito dalle viscera della terra, con l’irrompere improvviso dei cannoni di Orsini, giunti finalmente in linea, turbati dal clamore crescente dei picciotti ai loro fianchi, rendendosi conto che sarebbe stato impossibile vincere, disperati si davano alla fuga, abbandonando il monte del Pianto dei Romani e ritirandosi precipitosamente verso Calatafimi.” A quel punto, il custode del Sacrario, signor Girolamo, porse a George, un manoscritto di una pagina, ben custodito dentro una busta di plastica, che riportava, redatto in forma tacitiana, la felicità di viverre quel momento da parte di Alberto Mario: <procedevano i garibaldini all’espugnazione del secondo e più elevato riparo. Non frequenti tiri questi facevano con le loro armi di corta gittata e spregevoli, ma a capo chino, muti e fatali, scalavano il monte fidando nel baleno e nella punta della baionetta. Qui si combattè con fermissimo coraggio attorno a un obice, alla perfine strappato al nemico, che risaliva al terzo riparo. Frattanto giungeva in linea Bixio con le sue quattro compagnie sulla sinistra: Garibaldi splendeva come l’Olimpio nella prima fronte ed era pei suoi pegno di vittoria. Egli sospingeva la destra di Carini più verso il piano sinistro dei regi, da metterli in apprensione per la strada ad Alcamo e Palermo. E questo accenno agevolava l’espugnazione della terza, della quarta, della quinta e della sesta posizione, successivamente occupate dal nemico, le cui riserve s’addensavano
sulla vetta ad ingrossare la battaglia. All’ultima posizione i nostri sostarano sfiniti dal caldo, dalla sete e dalla fatica. Impossibile fare un o di più, sparare uno scoppio, vibrare un colpo di baionetta. Garibaldi appoggiato ad un albero, lasciavali pigliar fiato alquanti minuti sotto la mitraglia e studiava il nemico. In quel momento solenne e decisivo, un uomo a lui fra tutti caro, perchè valoroso tra i valorosi, gli s’accosta dicendogli in genovese:< generale, mi pae che qui bisugna retiase!> Garibaldi, sorridente si voltò, e pure in genovese rispose al sua Aiace <e sei vui, Bixio, che ò di? Chì, se fa l’Italia, o si moue!” Guardando in faccia i suo ragazzi continuò <mi occorre un ultima carica disperata. Vi do altri cinue minuti di riposo>. Poi arono, sotto il tuonar dell’artiglieria proteggente, sulla vetta del colle con la carica squillante, intonata dal trombettiere milanese Carabelli. Risuscitarono le forze e la disperata carica fu eseguita. Il nemico restituì botta a botta. Tuonovano due dei nostri pezzi opportunamente appostati, più a terrore che a strage del nemico; ma il furore dei nostri sfondò da ultimo in quella mischia orrenda la linea dei regi, che sconfitti, si ricondussero confusamente a Calatafimi!”. George restituì il foglio, posandolo nelle mani di Girolamo, poi girò all’interno della piccola stanza del Sacrario e osservò i cimeli disposti lungo le pareti con altera semplicità e, dopo una breve meditazione, rivolse all’informatissimo custode la domanda cruciale “quanti uomini erano caduti e quanti ne erano rimasti sul campo del Pianto dei Romani? “ Girolamo, come al solito solerte ed informato, rispose “si danno molti numeri, ma secondo le mie informazioni risultavano, tra morti e feriti, 140 napoletani e 70 garibaldini. C’è da aggiungere, però, dato l’esiguo numero dei combattenti al Pianto dei Romani, che il totale dei caduti è stato altissimo e sta a significare l’accanimento della lotta, avvenuta essenzialmente con una serie di scontri corpo a corpo. Altre fonti, altrettanto attedibili, sostengono che questa battaglia è costata a Garbaldi 32 morti e 182 feriti, mentre ai regi 36 morti e 150 feriti.” George, che intanto aveva preso molti appunti, dopo una breve riflessione chiese “ cosa sostiene la storiografia ufficiale, a proposito di questa battaglia, che lei ha descritto come un miracolo di coraggio e di sagacia militare mentre io ho letto che molti la trattano come se nella realtà fosse stato un evento dal risultato pilotato, frutto di un accordo tra Garibaldi e lo scellerato generale Landi, che in seguito sarà accusato di alto tradimento dal re so II di Borbone?” Girolamo, si sentì toccato sul vivo e replicò “Sforza con i suoi 600 uomini aveva
attaccato i garibaldini, mettendo a rischio la propria incolumità, mentre Bixio chiedeva a Garibaldi di ordinare la ritirata, ma Landi, che aveva già rifiutato l’aiuto del presidio militare di Calatafimi, quando a sua insaputa vide arrivare pl contigente rifiutato con uomini e munizioni, vuolendo scongiurare lo sterminio delle camice rosse, faceva suonare la ritirata, permettendo che si compisse il <miracolo di Calatafimi>. Questa condotta dl Landi fu condannata con l’immediato confino sull’isola d’Ischia che, putroppo durò poco, infatti, solo un anno dopo, l’ex generale di brigata borbonico, venne richiamato col grado di generale di corpo d’armata dell’esercito piemontese e con questo status andò in pensione. Va, però, ricordato ed aggiunto un aneddoto: un giorno Landi si presentò per incassare una polizza di 14.000 mila ducati d’oro, concessagli dallo stesso Garibaldi, ma scoprì amaramente che sulla sua copia, palesemente falsificata, c’erano tre zeri in più. In conseguenza di questo dispiacere, il generale Landi deluso, viene colpito da ictus e muore.” “Come e da chi era stato assoldato il generale Landi?” chiese, all’improvviso, George. “In un primo momento qualcuno diceva che era stato lo stesso Garibaldi a corromperlo, ma quando si calmavano le acque e si vedevano le coste gremite da arrivi sempre più numerosi di inglesi, che portavano armi e munizioni per i rivoltosi nonchè informazioni preziose, s’individuavano diversi traditori venduti ai napoletani, gli stessi che brigavano per fare della Sicilia una colonia britannica. Il tradimento era tanto evidente che si cominciava a pensare all’intervento delle banche di Londra per agire direttamente sui generali borbonici corruttibili. Gli agenti inglesi, infatti, avevano messo a disposizione dei servizi segreti, tutte le informazioni riservate che volevano, per farle risultare credibili”. Girolamo, che riteneva di aver compiuto il suo compito all’interno del sacrario, aveva solo l’obbligo di far percorrere agli ospiti il viale alberato che s’intravedeva alla destra. George accettò l’invito e mentre lo seguiva, sentì Fifì rompere il suo lungo silenzio “ma gli anziani di Partinico, come ben ricordo, dicevano che i regi dopo aver lasciato Calatafimi, nella notte tra il 15 ed il 16 maggio, avevano effettuato una breve sosta, prima ad Alcamo e poi a Partinico. Era proprio in questo paese
che la popolazione, in buona parte filoborbonica, manifestava la propria indignazione contro Landi ed era stata proprio l’indignszione popolare a spingere Landi, sotto il peso di insulti, minacce e sputi, a fuggire ed a ripiegare verso Palermo”. Pronto Girolamo ribattè “è stato così per Landi, ma è d’obligo ricordare che Garibaldi, da parte sua, si muoveva da vincitore ed il mattino del 16 maggio, entrava a Calatafimi. Il 17 andava ad Alcamo, dove incontrava molti contadini, che attratti dalla riforma agraria promessa, confluivano nelle file che come volontari fiancheggiavano i Mille. Mentre sco Crispi, assurto al ruolo di segretario di Stato, nominava i governatori nei ventiquattro distretti, in cui era stata divisa l’isola, ordinando loro di riprendere le leggi, i decreti ed i regolamenti vigenti prima della restaurazione borbonica del 1849. Il 18 maggio i garibaldini entravano a Partinico dove, come non si sa, ma si pensa con l’aiuto di agenti inglesi, si rifornivano di denaro, di armi e di munizioni. Da lì proseguivano verso il o di Renda, dove rimanevano per due giorni, protetti a sinistra da 500 uomini delle squadre siciliane di Rosolino Pilo, a destra dai picciotti aggregatisi a Calatafimi e di fronte da avanposti volontari collocati a Misilcandone. Dopo i due giorni di riposo e di buon cibo, erano pronti a digersi verso Palermo”. Girolamo si fermò per respirare l’aria salubre di quella collina, in quel ratto albarata di pini, ma subito riprese il racconto “ la marina inglese seguiva in parallelo per mare, l’avanzata delle camice rosse su terra, per garantire un uscita di sicurezza”. “Quarchi cosa vossia si la scurdò!” disse Fifì, interrompendo il discorso troppo sintetico e lineare di Girolamo, “si fa troppo presto a dire che il 18 di maggio, i garibardini entravano a Partinico per rifornirsi di denaro,di armi e di munizioni, si scurdò di dire di la spudoratezza ca tinniro i surdati agli ordini di lu generale Landi, che per giustificarsi della sonante sconfitta patita, ivanu parlanno di vittoria e già avivano addrumato li lumini per la morti di Garibardu, di suo figlio Menotti, di Bixio e mettevanu in fuga i nostri picciotti, promettendo il ristabilimente dell’ordine e della pace con il ritorno al paterno regime in tutta l’isola.” Frattanto avevano percoso il lungo viale alberato da due filari di pini, che presentava, ad ogni 10 metri, targhe in vetro semidistrutte dalle barbarie
ignoranti dell’uomo, poste ad eterno ricordo di altri uomini. “La preghiamo di continuare” dissero all’unisono i due, nonostante fossero rimasti senza parole di fronte a quello scempio vandalico. “Bravo a don Fifì” fece Girolamo, mentre si accingevano a completare il percorso di ritorno del viale, “vedo che è ferrato sull’argomento!” “Garibaldi” iniziò don Fifì, smettendo di parlare in dialetto “ la mattina del 16 aveva ragiunto Calatafimi, nella nottata evacuata prudentemente dal Landi e dalle sue truppe, per raccogliere i frutti della vittoria, mentre i regi si riversavano sopra Partinico e Carini, per rifarsi del torto subito a danno degli inermi abitanti, che venivano assaliti e bastonati senza ragione, vittime di vere rappresaglie e spavalderie immotivate, ad opera di una ubriaca soldataglia”. George chiese insistentemente se c’era stato qualche partinicense, in particolare, che avesse versato soldi nelle casse dei garibaldini, e la risposta fu si, secondo una ipotetica versione di Girolamo, espressa più con segni che con parole. Anche Fifì fu pronto a dare una risposta “nessuna istituzione pubblica di Partinico è intervenuta per raccogliere fondi durante quel aggio dal nostro paese, ma già erano sbarcati dai piroscafi inglesi illustri sconosciuti che foraggiavano direttamente Garibaldi. Ricordatevi che lo zolfo di allora, valeva più dell’uranio di oggi.” Poi tacque, mentre Girolamo riprese a parlare. “ando per Alcamo il 17 maggio, lo accolse una folla delirante ed entusiasta, mentre un numero sempre crescente di picciotti si aggregava ai Mille. Garibaldi, dopo essersi recato in chiesa, per intercessione di frà Pantaleo, a ricevere la benedizione, cominciava pubblicamente a dar corpo all’idea di effettuare un colpo di mano su Palermo. Fuori dalla chiesa, davanti alla Matrice, iniziava a parlare, dicendo
. A questo punto veniva interrotto da un certo Mario che dalla folla chiedeva
Garibaldi lo tacitava con la calma, figlia del suo genio strategico e rispondeva <non evvi capitano di nessun secolo che non si farebbe un vanto dell’entrata in Palermo. L’avvenimento trascendente non trova riscontro nella storia militare.>
Dopo Partinico e Carini, il 20 maggio, sotto una pioggia dirotta, giungevano al o di Renne e Garibaldi poteva dominare dall’alto Palermo, meta di ogni suo desiderio”. George, per il momento, volle lasciare il generale nel cuore della Sicilia, ponendosi il solito problema degli aiuti ricevuti da parte degli inglesi e fece una domanda, forse l’ultima che avrebbe rivolto a Girolamo, “come facevano gli inglesi a seguire tutte le mosse di Garibaldi?” La risposta non tardò ad arrivare e fu in questi termini “le navi inglesi avevano preso il controllo delle coste ed erano diventate, non si sapeva come, sempre più numerose e svolgevano un frenetico controllo delle azioni militari del generale. In realtà, la flotta britannica lo aveva o dopo o seguito da vicino. Sempre con questa tattica gli inglesi avevano fatto arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi, denaro e soprattutto informazioni”. Finalmente il cronista siculo-americano parve placarsi, finalmente era riuscito ad avere le idee chiare ed apparve completamente soddisfatto quando seppe che erano arrivate anche le carabine revolver colt americane ed il fucile rigato inglese, modello Enfield 53. Ora finalmente poteva partire prima per Alcamo e poi far ritorno a Partinico, per concludere la sua giornata, così ricca di sconvolgenti appunti su notizie di prima mano mai lette sui libri di storia. Giunti ad Alcamo nelle prime ore del pomeriggio, assieme a don Fifì decisero di andare alla chiesa della Matrice, dove frà Pantaleo aveva condotto Garibaldi per la benedizione. Lì ebbero una gradita sorpresa in quanto incontrarono un prete anziano e ben disposto. “Sono il parroco, padre Vincenzo, sono sempre stato un uomo di Dio, che ha badato poco alle cose terrene, ma devo dirvi che in una cassa, conservata sotto il battistero, ho trovato uno manoscritto che riporta una relazione, fatta da Rosolino Pilo”. La prese da un cassetto, in cui era ben conservato e disse “ Ora leggetelo si parla del moto palermitano del 4 aprile. ” George la prese in mano ed avidamente cominciò a leggerla
di Palermo trovavasi perplesso ad agire contro un nemico che sapeva troppo farsi temere e che, nello stesso tempo, non lasciava penetrare i propri disegni>. Questa volta fu Fifì a chiedere a George di permettergli di dare una rapida sbirciata al manoscritto, ma quando capì che era riferito ad un’episodio precedente alla sbarco dei Mille e che trattava di repentine fughe di sbandati tra Pioppo e Parco, o tra Piana dei Greci e Monreale, affermò “ che si trattava di un falso, messo in giro allora, per confondere ulteriormente le acque agli strateghi borbonici, tattica consigliata dallo stesso Garibaldi” e subito concluse che tanto bastava per classificare il documento. Aveva già saputo da Girolamo che Alcamo, aveva contribuito con un gran numero di picciotti ad allargare le file dei volontari, nel trasferimento verso Palermo, quindi gli parve opportuno interruppe la conversazione. Padre Vincenzo ripose il manoscritto nel cassetto, chiuse la porta dello sgabbuzzino dove li aveva condotti, poi i tre salirono la stretta scala a chiocciola e si trovarono dinanzi all’uscita dalla chiesa. Il padre canonico, mostrando lo spiazzo intorno alla chiesa, confermò che da quel posto Garibaldi, rivolto verso una folla impazzita, comunicava la sua decisione di puntare su Palermo. Erano le sette della sera, il pomeriggio era trascorso in un baleno, George e Fifì avevano fretta di raggiungere Partinico. George sperava di cenare e subito dopo andare a letto, ma suo zio Jano non era della medesima opinione. “Voglio solo capire, se finalmente hai afferrato il senso del gioco delle parti, che tanto ha condizionato l’esito dell’invasione?” Subito arrivava la risposta:“ tutti gli attori, partecipavano alla recita di un canovaccio interamente scritto dagli Inglesi e che riguardava tutti indistintamente infatti, anche se da versanti opposti, erano pronti ad eseguire gli ordini britannici?” fu la risposta di George che voleva uscire dall’equivoco una volta per tutte. “Caro George, analizzare la realtà politica è essenziale! Da un lato ci sono i Savoia, screditati presso l’opinione pubblica italiana per aver ceduto la Savoia e Nizza. Nella primavera del ’60, si dava il caso che l’iniziativa politica asse nelle mani democratiche e repubblicane e pertanto nel partito d’azione che, a sua volta, poteva agire su Garibaldi, libero da ogni impedimento diplomatico e che godeva di un’enorme popolarità. Solo che il partito d’azione era tutt’altro che un
partito omogeneo, come espressione di un ampio consenso politico nazionale, ma piuttosto rappresentava un organismo con diverse anime, che servivano essenzialmente ad agitare le piazze con la propaganda, dove confluivano repubblicani mazziniani e democratici decisi all’azione come Pisacane. Mancava, in altre parole, di una vera guida politica che potesse incidere sulle masse ignoranti ed arretrate del popolo italiano. Ciononostante, quando esplose nell’aprile del ‘60 a Palermo l’ennesima rivolta, il partito d’azione convinse direttamente Garibaldi ad intervenire in Sicilia, evidenziando come Vttorio Emanuele fosse dedito a condurre una sua politica personale, forse solo disposto ad aiutare sotto banco i volontari, contro il parere del primo ministro Cavour, che in quel momento non intendeva compromettere i buoni rapporti con Napoleone”. ”Ma come, pochi gioni fa” intervenne subito George “abbiamo fatto il panegirico di Vittorio Emanuele II e di Cavour, citando il loro intervento per l’acquisto dei due piroscafi, redigendo l’atto notarile con l’armatore genovese Rubattino, a Modena, ed ora tu sconfessi tutto, piemontesi ed inglesi inclusi, per dar merito al partito d’azione!” Zio Jano amava contraddirsi, o per lo meno pensava di confondere le acque, per metterlo in difficoltà. Questa volta George pensò la stessa cosa e, subito, manifestò un’inversione di tendenza e chiese direttamente “una volta per tutte, dimmi finalmente cosa è successo, dove sta la verità?” Seguirono rimbrotti tra il serio e faceto, lo zio era pesante quando voleva o meglio quando ne aveva l’occasione, che di solito cercava, al fine di migliorare l’acume intellettivo del nipote, da troppo tempo degradato dalla semplicità e dalla concretezza americana. In questi casi seguiva i dettami aristotelici dell’insegnamento deduttivo “analizziamo la composizione del numero esatto dei garibaldini che risulta essere di 1088 uomini e di una donna, Rosalia Montemasson, moglie o compagna di sco Crispi, capo storico dell’esterema sinistra democratica, autonomista e mente politica della spedizione. Tutti i partecipanti alla spedizione erano di sinistra. La loro estrazione sociale era composta per metà da soggetti provenienti dal mondo delle professioni e degli intellettuali, l’altra metà da artigiani, affaristi, commercianti, soltanto alcuni operai. Tutti avevano alle spalle pregresse esperienze rivoluzionarie o cospirative, alcuni erano reduci dei Cacciatori delle Alpi ed alcuni siciliani che appartenevano alla schiera dei truffatori, messi al bando dalle autorità borboniche. Non c’era altro e si notava
che quelli che mancavano principalmente erano i contadini ed i braccianti di giornata, gente che sperava in una riforma agraria, che eliminasse sorprusi ed ingiustizie, tutta gente che era pronta ad intervenire. Come puoi constatare, inizialmente la spedizione era voluta solo da una estrema sinistra elittaria, democratica ed autonomista e questo contrasta con quanto dice chi invoca, per tacitare la propria coscienza, i giochetti inglesi e massonici liberali.” Prese fiato e subito dopo continuò ad incalzare il nipote affermando “ricorda che i soldi cominciarono ad arrivare dopo l’invasione dei garibaldini, dopo Marsala e non prima, perché a questo punto tutti cavalcarono, anche quelli di oltre oceano, il rapido successo di Garibaldi.” George, stravolto da queste parole, ebbe una pronta reazione, quasi di sconforto e disse “quindi tutto quello che ho letto, che ho analizzato attentamente seguendo i tuoi consigli, quello che ho sentito uscire dalla bocca di testimoni al di sopra di ogni sospetto, vuoi dire che è falso, non corrisponde a verità?” Fu pronta la risposta “spesso i pensieri che guidano le azioni degli uomini sono ambigui e politicamente, e non solo, scorretti, non ti meravigliare se ti dico questo! Ambiguo e scorretto è stato il comportamento di ognuno degli attori responsabili dell’invasione del Mille, si, proprio invasione, a cominciare da Vittorio Emanuele II, per poi are da Cavour, da sco Crispi, da Nino Bixio, dallo stesso Garibaldi, per parlare solo dei più noti. Continua il tuo viaggio sino a Milazzo, dopo, quando comicerai a ragionare con la tua testa, ne riparliremol” La parca cena dei due, si svolse in un profondo silenzio. George si mise a letto per dormire, ma solo nelle prime ore del mattino riuscì a prendere sonno, perché lo zio Jano era riuscito ad insinuare nel suo animo una serie inesplicabile di dubbi, parte dei quali sarebbero stati affrontati nei giorni immediatamente successivi. La tappa che sarebbe cominciata al suo risveglio, lo avrebbe portato a Palermo.
LA PRESA DI PALERMO
Avevano seguito le tracce dei garibaldini sino ad Alcamo, il 17 maggio, ed a Partinico il 18, ora bisognava ripartire dai due giorni successivi, 19 e 20, definiti di apparente riposo, trascorsi presso il o di Renda, provenendo da Partinico, protetti dalla sinistra, dalle parti di San Martino, da Rosolino Pilo con i suoi 500 uomini, da destra dai picciotti aggregati a Calatafimi e davanti da avanposti armati, collocati a Misilcadone. Da questa postazione vedevano Palermo e Garibaldi si poneva il problema di come assalire una città protetta da 20.000 uomini, dalla esistenza di castelli fortificati e dal mare dove era presente la flotta borbonica, pronta ad intervenire in ogni momento. George, in questa occasione, si prefisse di seguire lo stesso percorso dei Mille, alla volta di Palermo, liggio al testo delle pagine scritte da Guerzoni, ufficialmente considerato lo storico dell’epica impresa. Questi scriveva “Garibaldi a cui riescì fatto col magistero delle sue mosse strategiche di sviscerar Palermo di oltre 16.000 soldati adescandoli parte fra le montagne dell’ovest, parte fra quelle del centro, persuadendo al sonno confidente di inopinato notte tempo. Calò con muti i al crepuscolo dalle sommità di Gibilrossa ed in sull’alba, superata all’arma bianca l’avanguardia al ponte dell’Ammiraglio……..> Queste parole di Guerzoni erano state quelle che avevano guidato i i successivi e lo spirito dei garibaldini. Infatti, quando Garibaldi si accorgeva che l’esercito bobonico, agli ordini dei generali Bosco, Colonna, Salzano, Landi ed altri, pensava di dargli la caccia fuori dalla città di Palermo, predisponeva vari scontri e scaramuccie, in cui i suoi uomini erano maestri, volti a fiaccare coloro che volevano dargli la caccia. Cominciò Inviando un messaggio a Rosolino Pilo, per ordinargli di accendere fuochi e simulare movimenti sulla montagna di San Martino alle Scale, al fine di attirare sempre più da quel lato l’attenzione del nemico, mentre lo stesso Garibaldi, con un folto gruppo di uomini, scendeva fino al villaggio del Pioppo, facendo credere di voler tentare l’assalto di Palermo da quella parte. I borbonici, di conseguenza, uscivano da Monreale per affrontare il nemico nella direzione di San Martinpo, dove avveniva uno scontro solo tra le due avanguardie. Subito
dopo il generale ordinava di tornare al campo di partenza dove, smontate tutte le tende ed i cannoni a sua disposizione, li affidava alle robuste spalle dei montanari, dopo alleggeriva di materiale la colonna di quanto più poteva e, sul calar del giorno, deviava verso l’arsa montagna a destra, camminando tutta la notte nelle tenebre fittissime, sotto un forte diluvio ed in mezzo al fango, sino a quando arrivava, con l’intera colonna nelle opposte alture di Parco, posto a mezzogiorno di Palermo, pronta e disponibile per essere invasa. Garibaldi era esultante per la postazione raggiunta dalla sua colonna, ma, proprio in quel momento, veniva informato che nella stessa giornata, 21 maggio, Rosolino Pilo conte di Capaci, era stato colpito a morte durante lo spostamento nelle alture di San Martino, da lui stesso ordinato. Nella cronaca, Guerzoni scriveva che lo aveva steso una palla borbonica e che era morto sul colpo. L’esultanza iniziale di Garibaldi veniva colpita da un altro duro colpo, la morte presso Parco, di Carlo Mosto, esempio di fulgido eroe della cospirazione repubblicana in Liguria e nobile esempio di combattente, nonché fratello di Antonio, capitano dei Carabinieri Genovesi. Era stato proprio a Parco, il luogo in cui il generale era giunto dopo marce faticose e dove aveva attratto le truppe di Bosco, che nell’occasione riuscivano a circondarlo ed a minacciarlo di eseguire un’improvvisa rappresaglia contro la truppa che lo seguiva. E proprio a quel punto, prendeva un’importante decisione, quella di far credere di non poter accettare lo scontro ed ordinava ad Orsini, con 250 uomini, un marcia simulante la ritirata verso l’interno nella zona di Corleone. Mentre George continuava a leggere le pagine di Guerzoni, Don Fifì, che conosceva quei posti come le sue tasche, trovava il modo di fargli rivivere tutto ciò che stava leggenndo, percorrendo i sentieri e le strade sterrate, verosimilmente le stesse del racconto. George continuò a leggere ed a immedesimarsi visivamente nelle marce desritte, facendo delle considerazioni pertinenti sugli stratagemmi garibaldini, che gli erano noti fin dalle sue battaglie per la libertà in America latina. In particolare ricordò di aver letto che aveva fatto trascinare il suo veliero per 80 miglia, sulla verde radura della campagna brasiliana, adagiato su un carro trainato da buoi, per sfuggire al nemico nelle scogliera oceanica.
Erano fermi a questi commenti, quando incontrarano su una mulattiera, un vecchio contadino che camminava a piedi. Fifì, con molta faccia tosta, dopo aver fatto finta di scanzarlo, scese dalla macchina e gli rivolse la parola, presentantosi e dicendo che forse già si conoscevano. Il contadino, con modi di fare molto garbati, gli confermò che aveva trascoso molti anni nel paese di Partinico e che ora lavorava in un consorzio vinicolo del circondario. Nel frattempo anche George, che era rimasto in macchina per continuare a studiare il percorso dei Mille, come se fosse stato inspirato, improvvisamente, rivolse la parola all’estraneo. Una volta che si furono presentati, fra i due nacque un improvviso feeling, dovuto al fatto che due fratelli del contadino vivevano in America nella medesima città di Newyork. Saputo dell’interesse del giornalista siculo americano, il vecchio disse che si chiamava Simone Bellavia e che il suo consuocero, un barbiere in pensione, residente a Corleone, era un cultore della storia dei Mille, conoscenza fatta di testimonianze originali ed aneddoti locali resisiti al tempo. Da quel momento arono pochi minuti, sino a ritrovarsi sotto un pergolato, attorno ad un tavolo con bicchieri ed una bottiglia di vino novello mantre a lato di George compariva un paniere di gelsi neri. Ebbero solo il tempo di sedersi quando Luigi Miccihè, barbiere in pensione e consuocero di Bellavia, prese la parola e con fare disinvolto affermò, a dimostrazione di che pasta fosse fatto, “avete trovato uno che è meglio della Treccani, fatemi qualsiasi domanda, sugli argomenti che volete ed io sono pronto a rispondere!” “Dopo che aveva raggiunto le alture di Parco e ordinato una ritirata all’Orsini ed ai suoi 250 uomini che avrebbero finto di dirigersi verso Corleone, Garibaldi come pensava di muoversi?” domandò George. “Con la consueta strategia”pronto, ribattè Luigi “dopo la notte di Parco e la successiva tappa di consolidamento sul monte Calvario, il 22 maggio, mentre il generale Orsini, con i cannoni, l’artiglieria, i feriti leggeri, i bagagli ed una scorta di picciotti, ai comandi di Corrao, viaggiavano verso Corleone, Garibaldi, il 24 maggio, scendeva con il grosso delle sue truppe dal monte Calvario, gettandosi per i boschi sulla sinistra ed il 25 maggio raggiungeva Marineo. Con questa mossa, aveva raggiunto due scopi, quella di rendere difficile la vita ai borboni con i continui spostamenti imposti alle truppe e quella di aver sguarnito la difesa di Palermo, con l’allontanamento dalla città di ben 16.ooo uomini, andati ad occupare Parco, ormai abbandonato dai garibaldini!”
George riprese la parola, solo per dire “Garibaldi, con le sue mosse in apparenza contraddittorie, si dimostrò un grande stratega, ma cosa ottenne dall’Orsini, che faceva finta di puntare verso Corleone?” Luigi Miccichè fece una risata prima di rispondere, poi disse “Orsini completò l’inganno, fatto al malcapitato Bosco, che lanciava al suo inseguimento due generali con diverse migliaia di uomini, ma quello che sarebbe risultato più grave era stata l’esultanza con cui il generale Bosco aveva telegrafato a Napoli la notizia che Garibaldi si stava ritirando, di fronte alle forze imponenti dei regi, cercando rifugio verso il centro dell’isola. La notizia rimbalzava e si propagava per tutta l’Europa liberale ma, nello stesso momento, Garibaldi, dall’altura di Gibilrossa stabiliva che l’attacco definitivo a Palermo sarebbe avvenuto l’indomani e si sarebbe avvalso di una avanguardia al comando di Tuckory, formata da due compagnie di Cacciatori delle Alpi e squadre di picciotti di La Masa, più di 2.000 uomini, Bixio coi Carabinieri Genovesi ed il primo battaglione dei Cacciatori delle Alpi, insieme a Garibaldi con tutto lo stato maggiore, mentre Carini con il secondo battaglione dei Cacciatori delle Alpi più la squadra di picciotti del barone Sant’Anna composta da 500 uomini avrebbero proseguito da soli verso Palermo. Risultavano in tutto circa 3.500 uomini che dovevano battersi contro gli 8.000 soldati borbonici, rimasti a Palermo nelle caserme e nelle fortezze, con l’eventuale appoggio della loro flotta, che già era predisposta per il bombardamento dal mare.” Luigi, dopo una breve pausa, gonfiandosi il petto ed ergendo il capo come un pavone, così continuò “notte tempo calò con muti i, al crepuscolo della sommità di Gibilrossa, sino al ponte dell’Ammiraglio, dove superò all’arma bianca la difesa, ch’ei non potè sorprendere a cagione delle grida forsennate delle squadre siciliane che posero il nemico situato nelle barricate sull’avviso. Lo scontro avvenne dirimpetto a Porta Termini, sotto il muso di due pezzi e di un corpo di riserva che protaggevano i borboni da Fieravecchia. Gli assalitori per il breve tempo di un minuto dovettero retrocedere, subendo un movimento aggressivo del nemico sul lato manco, da Porta Nuova che potea evitare l’entrata in città, per cui il Generale profittò egregiamente delle squadre che la mitraglia aveva sparpagliato e raccortele sulla sinistra cuoprirono l’assalto a Porta Termini. Finalmente, ricomposta la colonna, ad un terzo assalto, espugnò le barricata ed alle 5 e mezza antimeridiane, Garibaldi entrò a Palermo!” Questa recitazione fatta con la maestria di un attore dell’opera dei pupi, riuscì a
creare un’atmosfera di entusiasmo ed emozione, durante la quale gli ascoltatori presenti si misero a battere la mani a crepa pelle. George, che aveva le dita delle mani colorate di rosso per il gran numero di gelsi presi dal cesto ed ingurgitati, non trovò il modo per ringraziare Luigi a sufficienza. Tuttavia la sintesi ascoltata, non era riuscita ad essere esaustiva agli occhi del giornalista, che se l’era goduta come fosse stato presente ad un giuoco a liberi tutti, ma che, alla fine, era risultata mancante di quei particolari, magari singoli atti eroici, che avrebbero resa epica la battaglia della presa di Palermo, per cui Garibaldi aveva profferito la fatidica frase
” La testimonianza di Luigi era stata gradita ed accettabile ma non completa, aveva bisogno di altro. Riprese tra le mani il testo di Guerzoni, che aveva trovato ricco di particolari e ricominciò a leggere da dove s’era interrotto
.
George, leggendo la cronaca del Guerzoni, fece esplodere la sua gioia ad alta voce, dicendo “finalmente sto trovando i particolari, di cui avevo bisogno!”, poi continuò a leggere ed a osservare dal finestrino della macchina, mentre don Fifì imperterrito guidò, seguendo pedissequamente le tappe indicate dalla lettura in corso.
chiamava alle armi con un proclama tutti i comuni dell’isola e cominciava ad allargare le zone occupate. Spinto dai garbaldini e dagli insorti, Landi si ritirava dai Quattro Canti a Palazzo Reale, Marulli sgombrava Porta Macqueda, costrettovi dalle squadre siciliane del La Porta, alle 16 i borbonici abbandonavano i Quattro Venti e le Carceri, da cui fuoriuscirono i carcerati, che andarono ad accrescere le file dei ribelli. Si combatteva dapertutto, a piazza Bologna, all’arcivescovato, a Ballarò, al quartiere San Giacomo, ai Benedettini, a San sco di Paola, alla Villa Filippina, al Giardino Inglese. Il rione di Ballarò, abbandonato dal generale borbonico Letizia, cadeva nelle mani degli insorti, come la caserma di Sant’Antonio e, prima di sera, tutta la parte bassa della città, eccettuati il forte di Castellamare e le Finanze, erano in potere di Garibaldi, le cui schiere si ingrossavano per l’accorrere dalla campagna di numerosi contadini e picciotti.
L’indomani, il 28 maggio, i regi ricevettero rinforzi da Napoli, ma la lotta continuò ad essere a loro sfavorevole. Il Monte di Pietà, i conventi dei Benedettini, dell’Annunziata ed il bastione Montalto furono perduti dai Borbonici; Corrao, calato in città dalla parte occidentale con la banda del defunto Pilo, attaccò i regi all’Olivuzza, li respinse verso San Vincenzo di Paola, li scacciò dalla Villa Filippina, entrò da Porta Carini e, occupato il Duomo, fatti salire sul campanile i cecchini, questi cominciarono a sparare sulle truppe del Lanza ammassate nella piazza del Palazzo Reale. Il 29 maggio i regi presero l’offensiva, riuscendo a riprendere qualche località ai garbaldini ed agli insorti; ma, cionostante, la loro situazione era sfavorevole perché la guarnigione del Palazzo delle Finanze era tagliata fuori dal resto delle truppe borboniche, il presidio del forte di Castellamare era senza viveri ed acqua, nelle circostanti campagne le jaquerie erano sempre più numerose, i contadini riuniti in forti bande con ogni tipo di arma iprovvisata, minacciavano i borboni a San Martino, alla Favorita ed a Monreale. Il 30 maggio, Lanza propose a Garibaldi un convegno a bordo della nave inglese Hannibal. Qui si riunirono i generali borbonici Letizia e Chretien, Garibaldi e
Crispi, l’ammiraglio inglese Mundy ed i comandanti delle navi si, americane e sarde, che si trovavano ancorate nel porto. Garibaldi accettò quattro delle cinque proposte avanzate dal Letizia, riguardanti un armistizio di 24 ore, la conservazione delle posizioni, l’imbarco dei feriti, ma rifiutò la quinta, secondo la quale il municipio avrebbe dovuto inviare una petizione a sco II esponendo le richieste della città. L’armistizio fu concluso e Garibaldi, tornato in città, ne diede l’annuncio al popolo da un balcone di piazza Pretorio con queste parole:
. L’armistizio era stato provvidenziale per la rivoluzione perché nelle stessa mattina, reduce da Corleone, dove si era battuto con Orsini, era giunto il Mekel che, con fortunati assalti aveva forzato porta Termini, si era impadronito di Fiera Vecchia e avrebbe potuto capovolgere la situazione, se non avesse ricevuto ordine dal Lanza di rispettare l’armistizio. La tregua il giorno dopo si prolungò fino al 3 giugno. Essendosi nel frattempo il generale Letizia ed il colonnello Bonopane recati a Napoli ed avendo informato il re della critica situazione delle truppe borboniche a Palermo, sco II ordinava di iniziare le trattative per lo sgombero della città. Le suddette condussero ad una convenzione, firmata il 6 giugno, che accordava ai soldati borbonici di lasciare Palermo con armi e bagagli e con gli onori militari. Questa convenzione sanciva la fine del dominio borbonico in Sicilia. Il giorno prima, il 5 giugno, erano entrati nella capitale dell’isola, la colonna Orsini, reduce da Corleone e la colonna Agnetta sbarcata a Marsala con 60 volontari ed un migliaio di fucili ed era giunta in porto la nave di Persano che portava La Farina, emissario di Cavour. Non dimentichiamo che La Farina era Siciliano, era anche un ex repubblicano, ato al parito cavouriano monarchico ed era presidente della Società Nazionale. Se a Torino Cavour, e con lui tutti i conservatori, prima avevano irriso alla affermazione che la spedizione voluta dai democratici sarebbe fallita, sostenendo < che sarebbe bastato solo l’avvento di un’insurrezione e si poteva conquistare la
Sicilia>, finalmente ora capivano che avevano avuto torto. Purtroppo, però, il sogno utopistico del Mazzini, portato a termine dall’ex mazziniano Garibaldi, diventando una realtà appariva un intricato problema. Che Garibaldi fosse d’accordo con Mazzini, Cavour lo pensava notte e giorno e lo temeva anche Persano che da Napoli, l’8 settembre, comunicava di aver saputo da certi ambienti garibaldini, precise intenzioni ostili alla monarchia sabauda, infatti l’intenzione di Garibaldi era quella di marciare su Roma per unirsi a Mazzini. Per far fronte a questi dubbi sollevati da più parti, Cavour con molto tempismo anticipava i timori di Persano, anzi ne approfittava subito, inviando miseri rinforzi in Siciia, ma nello stesso tempo mandava La Farina ad annettere l’isola al Regno di Sardegna. Come atto politico e militare la cosa appariva molto singolare ed unica nel panorama europeo se non per le conquiste coloniali. Era avvenuta un’annessione di un regno sovrano, dovuta ad un’invasione di forze autonome, senza che il Regno Sardo l’avesse pianificata ed organizzata e, tanto meno. avesse dichiarato guerra al regno delle Due Sicilie. Ma spregiudicatamente Cavour non ne teneva conto. Se Garibaldi aveva liberato la Sicilia dal Borbone, Cavour ora la vuoleva liberare da Garibaldi ed, alla fine, prevaleva>. La giornata di lavoro era finita e don Fifì si oppose in malo modo all’idea di fare ritorno a Partinico. Dopo la stizza iniziale, George pensò che era meglio assecondarlo, non tanto per la stanchezza o la distanza da coprire, quanto per la eccellente proposta di cenare in un locale a base di aragoste. Trovarono il vecchio ristorante del centro, dove era solito andare zio Jano, ma non le aragoste e finirono per accontentarsi di un piatto di spaghetti con le sarde. Mentre don Fifì, in cuor suo, decideva di chiudere la serata in casa di una vecchia amica, già George pensava all’indomani perché la sua voglia di conoscere altri particolari non si era ancora saziata del tutto. “Ma se lo sbarco dei mille è già concluso, cosa vuole ancora sapere?”, fece don Fifì, che fino ad ora si era impegnato al massimo, seguendo alla lettera gli ordini impartiti da Jano Parrinello. Con questo spirito riprese ad enunciare il folto
numero di incontri, in parte procuratigli dalla sua abilità percettiva e solo in parte programmati da suo zio, alla fine sospirando, chiese “cosa altro vuol sapere?”, “c’è molto altro da sapere” rispose George e non aggiunse altro.
LA LOTTA TRA CAVOUR E GARIBALDI INIZIA E SI CONCLUDE NEI CORRIDOI DEL PALAZZO DEL PARLAMENTO PIEMONTESE
“Ecco cosa voglio sapere!” disse l’indomani mattina a don Fifì, con tono calmo ma determinato, si riferiva evidentemente al caos politico che doveva essere successo dopo la presa di Palermo. E’ lecito pensare che l’affabile autista non aveva con se una pronta risposta. Per questo si allontanò con una scusa e telefonò allo zio Jano per avere un’idea su come rispondere. “Andiamo all’Istituto di Storia Patria” disse quando ritornò nella hall dell’albergo, tranquillizando George. L’italo americano accettò la proposta di buon grado, riteneva infatti che gli restavano da chiarire almeno due punti fondamentali, che riguardavano le promesse fatte al popolo siciliano, veri patti di onore che aveva il dovere di mantenere prima di far ritorno là da dove era prtito. In primo posto c’era la promessa di una riforma agraria, al secondo c’era l’autonomia che il popolo chiedeva, stanco di servir padroni e, men che meno intenzionato a servire i piemontesi, che di fatto sembrava che sarebbero successi ai borboni. Bisognava ricordare come queste promesse avevano fatto esplodere il sentimento di autonomia e, in conseguenza, chiamato molti picciotti e volontari a far parte delle colonne garibaldine. Questa volta erano quasi tutti contadini. La giovane e solerte segretaria dell’Istituto di Storia Patria, dopo aver ricevuto la richiesta sull’argamento da cercare, tornò con una pila di libbri da far consultare, che avrebbero richiesto almeno tre giorni. Ma gli occhi di George caddero su
pubblicato dall’autorevole Harvard College Library, nel 1863. Fu un vero colpo di fortuna, di cui capì l’entità quando cominciò a leggere: <non poteva essere diversamente, se i cavouriani alla fine prevalsero. Nelle condizioni in cui era la Sicilia, con borghesi e notabili opportunisti da un lato e
contadini delusi dall’altro, pensare l’incontrario era pio desiderio>. La prima mossa di Cavour era stata vincente soprattutto quando aveva inviato in Sicila La Farina, suo uomo fidato, che era incaricato di: a) preparare subito l’annessione della Sicilia al Regno Piemontese, b) mettere in vigore la Costituzione Sabauda e lo statuto albertino, c) convocare i rappresentanti al Parlamento ma…..solo a settembre. Lo sgarro era stato tremendo, sui siciliani era calato il gelo negli ambienti liberali, nei non liberali era salita invece l’ira. Crispi, su posizione democratica, ma anche autonomistica, urlava, e Garibaldi si mostrava seccato. Nessuno dei due voleva farsi scippare l’isola in quel modo; su questo si trovarono tutti d’accordo amici e nemici, a costo di fare un’altra rivoluzione, ma questa volta non interessava questa o quella dinastia, interessava prima di tutto l’indipendenza siciliana. La Farina, nonostante tutte le ostilità che incontrava ad ogni piè sospinto, non demordeva, prendeva tempo intessendo trame, dandosi da fare negli ambienti della vecchia aristocrazia, promettendo chissà cosa, quali privilegi, oppure paventando chissà quali futuri guai e disgrazie inferte dai democratici, o comunisti come li chiamava Pio IX, sulle loro proprietà, ma fondamentalmente premeva su una immediata annessione dell’intera isola. La divergenza di vedute arrivava sino al punto che Garibaldi, il 7 luglio, lo voleva arrestare, accusandolo di cospirare contro il ‘leggittimo governo siciliano’, autonomamente costituito. L’annessione, secondo il Generale, doveva avvenire solo con l’intera Italia unita e con Roma capitale. Ciò significava che Garibaldi stava pensando anche allo stato pontificio, che poi era quello che molti temevano e che avrebbe potuto scatenare l’ira della Francia. Da questa disparità di vedute nascerà il fortissimo contrasto tra Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che si estinguerà solo con la morte dei primi due>. George momentaneamente interruppe la lettura e si pose ad alta voce una domanda “ma se Garibaldi a Salemi si proclamò Dittatore della Sicilia per conto e nome di Vittorio Emanuele II, come mai aveva cambiato opinione, significava forse un suo momento di incoerenza?”, poi borbottando disse “continuiamo a leggere!”
formato un gabinetto di Ministri, nominando: sco Crispi agli interni ed alla sgreteria di Stato, il colonnello Vincenzo Orsini alla guerra ed alla marina, l’avvocato Andrea Guarnieri alla giustizia, il monsignor Gregorio Ugdolena all’istruzione e culto, il barone Casimiro Pisani agli esteri ed al commercio, il possidente Domenico Peranni alle finanze e Giovanni Raffaele ai lavori pubblici.> Anche questa volta George sobbalzò e farfugliò “in questa compagine governativa manca il ministero dell’agricoltura e non c’è nessun contadino ne un operaio siciliano, la compagine governativa risulta composta infatti da un politico, da un militare, da un avvocato, da un monsignore, da un barone e da due possidenti. Alla faccia della democrazia!” Il giornalista sussultò nuovamente, chiedendosi “avrà pensato di far cosa gradita ai piemontesi, ma cosa ha fatto o farà Cavour, perché non ha pensato di fermare le nomine fatte da Garibaldi?” L’analisi dei fatti richiedeva un chiarimento.
. Il re ricevuta la lettera, la ava subito al Farini, aggiungendo
. Via libera insomma. Scavalcando il suo primo ministro, ministro della guerra e degli interni. Cavour, venutone a conoscenza, si era infastidito oltre misura, pensando
che <se Garibaldi a lo stretto, risale la penisola e s’impadronisce di Napoli, divenendo il padrone assoluto della situazione, forse consegnerà -come ha già affermato- il regno a Vittorio Emanuele II. Ma il re sabaudo, come si giustificherà davanti all’Europa? Come Lui, monarchico fa conquiste con i rivoluzionari?> George, stentò a darsi una risposta, ma subitò pensò di consultare le pagine del carteggio fra Costantino Nigra e Cavour, che trovò tra i libbri proposti dalla segretaria ed a tal proposito, lesse un aggio che così recitava
. Ma la preoccupazione più grossa era
A questo punto Cavour convinceva il Re a scrivere a Garibaldi, facendogli capire che stava progettando un intervento dal nord,”salirò se necessario sul cavallo, scendendo dalle Marche e dall’Umbria”. In poche parole sosteneva che la rivoluzione avrebbe avuto un ulteriore sviluppo attraverso lo stato Pontificio, ciò che, nella realtà, autonomamente pensava di fare Garbaldi, dopo Napoli. Al Trecchi, che gli aveva portato la lettera da Milazzo, il Re dava istruzioni per Garibaldi, istruzioni che lo stesso Trecchi sciriveva sul retro della lettera per poi inviarle per telegramma: “appena occupata Napoli, Garibaldi proclami l’unione al resto d’Italia come in Sicilia, impedisca i disordini, tenga compatto l’esercito per unirlo a quello piemontese, lasci fuggire il Re da Napoli. Il Re, Vittorio Emanuele, poi si regolerà secondo opportunità, facendo occupare l’Umbria e le Marche con le sue truppe, o lasciando avanzare i garibaldini”. Si davano istruzioni, appoggio, assistenza, ma nello stesso tempo si parlava di unico potere decisionale e anche di sostituzione>.
George pensò subito ad un giuco sporco: se Garibaldi avesse fallito, sarebbe ato da irresponsabile rivoluzionario, se avesse vinto sarebbe stato messo da parte ugualmente. “Non corriamo troppo” si ripetè il cronista siculo americano “sto tralasciando i particolari di quello che era successo dopo la presa di Palermo, avvenuta il 15 maggio e la successiva battaglia contro l’ultima barrirera, offerta dai regi, a Milazzo nel luglio successivo!” I contadini cominciavano a guardare con diffidenza Garibaldi, il loro iniziale entusiasmo che mirava ad impossersarsi delle campagne del demanio, veniva deluso. In realtà nei politici della sinistra garibaldina e mazziniana prevaleva l’interesse militare per il successo della spedizione. Così, tra la fine di Giugno e tutto luglio, Garibaldi prese a stringere rapporti con i proprietari terrieri, i quali, perché non cambiasse nulla nella sostanza, si mostravano disposti ad assumere atteggiamenti liberali e favorevoli verso i Savoia. Il disgusto esplodeva e la diffidenza raggiungeva atteggiamenti impensabili alcuni giorni prima, quando i garibaldini repremevano i moti rurali dei contadini che, in perfetta legalità, richiedevano la divisione dei latifondi demaniali a suo tempo promessi da Garibaldi. L’episodio più tragico fu quello di Bronte, dove il 4 agosto Nino Bixio reprimeva una rivolta contadina con una serie di fucilazione e di arresti in massa. “Da salvatori ad aguzzini” era stato il commento della gente. Lo stesso Bixio scriveva alla moglie, lamentandosi del fatto che gli era stata affidata una ”missione maledetta” che aveva assolto, però, con violenza e durezza. I fatti di Bronte gli avrebbero consentito di guadagnarsi, in un prossimo futuro, il grado di generale dell’esercito regolare italiano e, successivamente, l’elezione prima a deputato e poi a senatore. Ma torniamo ai Mille, quando la liberazione di Palermo era già avvenuta e Garibaldi poteva dire ai palermitani festanti “popolo delle barricate, che lasciasti rovinare le tue case, innanzi di piegare il capo alle ignominiose proposte dei tiranni, eccoti libero….., ma siamo solo a Palermo!” Frattanto, era fine giugno, il Re napoleano, tentava disperatamente di fermarlo, prima che arrivasse a Milazzo, con la concessione di una tardiva costituzione ed affidando il governo a Liborio Romano. Una speranza vana e una fiducia mal riposta. Il Romano, d’accordo con Cavour cercò di provocare nella città di Napoli, un moto di moderati monarchici, allo scopo di precedere Garibaldi. Ma il moto non approdava alla liberazione del restante regno napoletano. E Garbaldi
doveva ancora risalire lo stretto. Gli inglesi, da parte loro, avevano fatto arrivare in Sicilia, corposi rinforzi, armi e denari per i rivoltosi nonché preziose informazioni, sì da permettere a Garibaldi, rafforzato da uomini e armi di arrivare a Milazzo, con un equipaggiamento individuale sper dotato della sua colonna, non mancavando persino le ultime produzioni delle carabine-revolver americane della Colt e del fucile inglese rigato, modello “enfail ‘53”. Il 25 giugno, sco II, annunciava con un atto sovrano: generale amnistia per i reati politici, incarico al comm. Antonio Spinelli per la formazione di un nuovo ministero, con il compito di compilare subito lo Statuto della Istituzioni governative, di stabilire con il Re di Sardegna un accordo per i programmi cumuni, di fregiare la bandiera dei colori nazionali in tre strisce verticali, con in mezzo solo le armi della dinastia borbonica ed in utimo di concedere alla Sicilia istituzioni rappresentative e un nuovo Vicerè, nella persone di un pricipe di Casa Borbonica. Al che i democratici rispondevano “che ormai era troppo tardi, l’annessione al Piemonte è cosa fatta!” Il ministro napoletano a Torino, Canofari, presentava una proposta ufficiale di alleanza tra i due regni, alla quale Cavour rispondeva “non è possibile accettare una proposta, se prima il governo di Napoli non riconosce ai siciliani il diritto di disporre delle proprie sorti”, affermazione bislacca, perchè era anche vero che la diplomazia se si adoperava per salvare il regno di sco II. Garibaldi doveva fare in fretta. I mezzi non mancavano, anzi di giorno in giorno si facevano più numerosi. Il 19 giugno era arrivata a Castellamare del Golfo ed a Trappeto una colonna di 3.000 volontari, 8.000 carabine rigate e 400.000 mila cartucce, il 7 luglio sbarcava la spedizione Cosenz, forte di 1.500 uomini ed il 10 il capitano Anguissola dava a Garibaldi la corvetta napoletana Veloce, cui era imposto il nome di Tukory, nella seconda metà di luglio giungevano le spedizioni di Dunn e Corte di 900 volontari e di Bacchi con 2.500. In tutto 20.000 volontari, che alcuni affermavano fossero soldati piemontesi travestiti. Garibaldi divideva le forze a sua disposizione in tre colonne e ne affidava il comando a Bixio, al Turr ed al Medici, per consentir loro di seguire tre strada diverse. La prima, la via di Corleone, portava a Girgenti, la seconda, la via di Villafrati, Santa Caterina, Caltanissetta e Caltagirone. a Catania, la terza verso la provincia di Messina, in parte ancora tenuta dai borbonici. Quest’ultima colonna, con i reggimenti di Malenchini e di Simonetta, ando per Termini Imerese e
Patti si portava a Barcellona, piazzava due vecchi cannoni, trovati proprio lì, sul ponte del Mela, e si distendeva, rinforzata da 300 volontari siciliani guidati da Interdonato, tra i villagi di Santa Lucia e di Neri ed a pochi chilometri da Milazzo con gli avanposti tra San Filippo e Coriolo. Qui vi era solo un presidio di 1400 soldati borbonici, al comando del colonnello Pironti, ma il 14 luglio il generale Clary, che si trovava a Messina, saputa dell’avanzata dei 2.500 uomini del Medici, mandava in soccorso della truppa di Milazzo, il colonnello Bosco con 3 battaglioni di Cacciatori, uno squadrone ed una batteria di montagna, circa 3.000 uomini in tutto. Il colonnello Bosco, giunto a Milazzo il 15 luglio, il giorno dopo si schierò alla base della penisoletta naturale, avanposto davanti al mare, occupando con la sua sinistra, assieme al maggiore Marchi, fino alla zona degli Archi. Sempre il Bosco, il 17, per rendersi conto della forza avversaria, attaccava con un battaglione l’estrema sinistra e con un altro l’estrema destra dello schieramento garibaldino. Ma il tentativo durò poco, in quanto i borbonici si ritiravano. Il Medici, a sua volta, temendo un ritorno offensivo dei borbonici, appoggiava la destra posta su S.Filippo, inviava un distaccamento a Coriolo e barricava il quadrivio nei pressi di S.Filippo. Nel pomeriggio dello stesso giorno Bosco tornava all’attacco, con forze raddoppiate, mirando alla destra dello schieramento garibaldino, che resisteva ad oltranza, anzi, sopraggiunte a dar man forte due compagnie sotto il comando di Malenchini, riuscivano a mettere in fuga il nemico dopo un corpo a corpo alla baionetta. Il 18 luglio, giungeva l’avanguardia della divisione Cosenz, il battaglione Dunn con 600 volontari siciliani e la colonna Fabrizi con altri 300 siciliani. Il 19 luglio giungeva Garibaldi da Palermo spinto, a seguito di un telegramma del Medici, a lasciare la città e, dopo aver nominato un pro-dittatore nella persona del Sirtori, si affrettava a correre sul teatro dell’operazioni. Il 20 luglio, alle 5 del mattino, la divisione Medici assaliva il nemico alle ali, a destra, di fronte a S.Pietro con i suoi uomini, a sinistra verso S.Marina, dove si trovava una compagnia regia con Malenchini, con la Colonna del Simonetta. Proprio in quel punto trovavano un accanita resistenza, inizialmente sostenuta da un nutritissimo fuoco, poi caricata dai cacciatori napoletani che riuscivano a scompaginarla. Per sostenere le posizioni iniziali, giungeva il Cosenz, che assumeva il comando della sinistra, contemporaneamente entravano in linea i battaglioni di Vachieri e di Dunn, con i ‘figli della libertà’, cosituiti dai monelli
palermitani, e di Corrao con altri siciliani. In questo frangente Garibaldi con un manipolo di volontari, tra cui alcuni ufficiali, Medici, Missori, Stadella e Breda, quest’ultimo cadeva ucciso dal fuoco nemico, si lanciavano nella mischia e si impadronivano di un cannone nemico. Bosco, in risposta, ordinava ai suoi di riprendere ad ogni costo il pezzo di artiglieria perso, i cacciatori borbonici a cavallo eseguivano l’ordine, mettendo in atto una furiosa carica che puntava direttamente a raggiungere Garibaldi. Ben inteso, quanti erano a lui vicini cercavano di coprirlo, racconta il cronisa ufficiale della spedizione Guerzoni, dalla furia del capitano borbonico Giuliano, che, senza conoscere l’identità del nemico che doveva colpire, galoppava su di lui e, raggiuntolo, menava un terribile fendente da tagliarlo in due, se l’avversario, Garibaldi in persona, non l’avesse schivato con agilità e freddezza e, ribattendo colpo su colpo, non gli avesse rotto la testa. Gli ufficiali del seguito ed i volontari di scorta, contnuavano a difendendersi alla meglio ma, ecco che con l’accorrere in loro soccorso dei carabinieri genovesi, delle guide e dei volontari siciliani di Fabrizi, lo squadrone borbonico veniva a sua volta sbaragliato e messo in fuga decimato verso Milazzo. Dopo questo episodio, nonostante gli sforzi dei garibaldini, i borbonici continuavano a resistere tenacecemente, causando nelle file dei volontari molte perdite, fino a quando non raggiungeva la rada di Milazzo, la corvetta Tukory, sulla cui gabbia dell’albero maestro si arrampicava Garibaldi, per studiare la disposizione del nemico, dopo di che faceva accostare la corvetta per mitragliare la destra borbonica e lanciave tutte le riserve del Cosenz, del Guerzoni e del Fabrizi sulla sinistra, dove costringevano i regi ad indietreggiare. Bosco, che s’era ritirato a Milazzo, per la paura di perdere altri uomini con il cannoneggiamento che proveniva dalla corvetta, si chiudeva nel forte di Milazzo, lasciando i garibaldini con i volontari padroni della città. La battalia era sata sanguinosa e le perdite dei volontari pesanti, si parlava di 750 uomini tra morti e feriti, che pagavano in special modo le squadre siciliane agli ordini di Dunn. Il 23 luglio giungevano nel porto di Milazzo quattro fregate napoletane agli ordini del colonnello di Stato Maggiore Anzani, con il compito di iniziare i negoziati per la capitolazione. Nello stesso giorno veniva stipulato un accordo, che stabiliva i termini della capitolazione: i borboni uscivano dal forte con armi
e bagagli, il forte consegnato con cannoni, munizioni, attrezzi di guerra e quadrupedi, mentre i garibaldini rendevano ai regi gli onori militari. Con la resa di Messina, stipulata il 28 luglio, si permetteva ai borbonici di Sicilia di conservare solo la cittadella messinese, che capitolerà, sebbene accanitamente difesa dal Marasciallo Fergola, nella mani del generale Cialdini, il 12 marzo 1861. L’invasione della Sicilia e la liberazione dai borbonici, erano state portate a termine “dai Mille” con successo! George appariva soddisfatto del lavoro svolto ed ora voleva far ritorno a Partinico al più presto, per sottoporre al parere di zio Jano i risultati raggiunti. Durante il percorso, per tornare a casa Parrinello, non profferì parola, nonostante don Fifì avesse tentato in tutti i modi di estorgliergli almeno parte delle conclusioni a cui era giunto. L’attento autista volle interpetrare quell’ostinato silenzio di George, come una sorta di concentrazione, necessaria per rimuginare in assoluto isolamento e, pertanto, smise di fare domande e lo lasciò per un altro poco tranquillo. La strada continuava a scorrere su una campagna senza alberi, ma in compenso con molte pale eoliche, venute su negli ultimi anni con rapida ed irrazionale abbondanza, restava ancora l’ultima vallata da superare per giungere a Partinico, quando Fifì ebbe un sobbalzo e fermò la macchina in uno spiazzo laterale. “Vuscenza non vonsi parlare, ora parru ìu” esordì, dicendo, poi continuò “c’è picca da capiri!” Seguì un attimo di silenzio, seguito dalla esplosione incontenibile di don Fifì “ho sentito ogni parola e seguito ogni colloquio avuto con le persone giuste, molte volte ha avuto la bontà di comunicarmi il contenuto delle sue letture, per quel poco di ciriveddru che mi resta, anche io ho tratto delle conclusioni. Punto A, o in primis) le masse ignoranti ed arretrate della Sicilia, non ne potevano più di sopportare gli stracanacchi e le soverchierie imposte loro per secoli dai padroni regnanti, verso cui da sempre, il popolo siciliano aveva manifestato rancore ed odio, quasi sempre represso con la forza. Punto B, o in secundis) non ci fu alcun partito d’azione, né di repubblicani o di democratici, a smuovere le acque. Non ci furono le idee di Mazzini né quelle di Cattaneo, né quelle asfittiche di Vittorio Emanuele, che continuava a condurre
una politica personale ed era poco disposto a prendere iniziative in favore delle rivoluzioni, né di quelle di Cavour, primo minisro, che non intendeva compromettere i rappori con Napoleone. Punto C, o in terziis) si diede avvio alla rivoluzione ed all’invasione della Sicilia, quando l’ennesima rivolta di Palermo, dell’aprile del 1860, convinse Garibaldi ad agire sul posto, perché c’erano tutti i presupposti di un successo, a partire dalla presenza del giovane ed inesperto Re di Napoli, sco II. Punto D, o in quartis) che a formare la colonna dei mille c’erano soltanto professionisti, intellettuali, in maggioranza, seguiti da artigiani, affaristi, commercianti, qualche operaio e qualche imbroglione. Solo questo miscuglio erano riusciti a raccattare i vari politici, mentre le masse di volontari, di popolino e di contadini sarebbero giunte dopo, con la promessa di potersi impossessare delle terre demaniali. Ma fu proprio il loro entusiasmo a dare linfa alle prosciugate vene nella battaglia di Calatafimi, la madre di tutte le battaglie. Fu proprio quest’entusiasmo che poi si consolidò con la presa di Palermo. In finis e non ultimus) i tradimenti a catena dell’esercito e l’ammutinamento della potente marina borbonica, che ò al nemico.” A questo punto, il buon Fifì tacque, ma George trovò la voglia di riprendere a parlare “A parte qualche imperfezione del tuo latino, il tuo discorso fila dritto, anche quando fa riferimento al futuro e fa intravedere che il principio monarchico avrebbe avuto partita vinta.” Questo vuol dire che George si sentiva pronto per affrontare prima lo zio e poi la comunità degli italiani d’America.
BIOGRAFIA
Giuseppe Gruttadauria è nato nel lembo di terra più a sud della Sicilia, quello compreso tra Pachino e Marzamemi, prima dello sbarco delle truppe alleate nell'ultima guerra mondiale. Da lì si è trasferito a Catania, dove ha vissuto, studiato, svolto la professione di chirurgo fino al 1997 e dove vive ancora. In questi ultimi anni ha abbandonato, in seguito ad un ictus, il suo lavoro di ordinario di chirurgia presso l’università e si è dedicato alla storia siciliana ed alla scrittura. I suoi interessi culturali, rivolti sempre alla ricerca della verità negli eventi storici più sfuggenti, lo hanno portato a scrivere, seguendo la strada del romanziere di gialli storici, una tetralogia, rivolta solo ai lettori di nicchia, composta da: La tabaccaia della Cipriana (2004), Il trionfo degli opposti sistemi (2006), L'eredità del console italiano (2008), La signorina di se (2010). È già in stampa per i caratteri della Cavinato editore Mille uomini con pochi fucili. Altri due romanzi: Un rapporto confidenziale e Un Viaggio difficile sono in e-book.