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NUOVI INIZI

di

Serena Versari

Nuovi Inizi Autore: ©Serena Versari Copyright copertina: 2021 ©Serena Versari

Tutti i diritti sono riservati all’Autore. Pubblicato a maggio 2021 Ogni riproduzione, totale o parziale, e ogni diffusione in formato digitale non espressamente autorizzata dall’autore è da considerarsi come violazione del diritto d’autore, e pertanto punibile penalmente. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza a persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale. ©Serena Versari

INTRODUZIONE

Cos’è la fobia sociale? Se cerchiamo la definizione su internet, troveremo che è la paura marcata, vissuta in situazioni sociali, in cui si teme di essere giudicati. Detta così potrebbe sembrare qualcosa di molto comune. In fondo, a nessuno piace essere giudicato. Ma non è così semplice come sembra e ve lo dice una che ha dovuto conviverci per più di dieci anni con questo problema. Quando questo tipo di fobia entra a far parte della tua vita, cominci a provare una sensazione di ansia dal momento esatto in cui metti piede fuori casa. Hai paura delle persone che ti circondano, le guardi con circospezione e temi sempre che si rivolgano a te facendoti quella fatidica domanda che innescherà poi nel tuo corpo tutta una seria di sensazioni fisiche spiacevoli: tachicardia, vertigini, mal di stomaco, sensazione di soffocamento, sudorazione, vampate di calore, tremori. Avevo circa vent'anni quando tutto cominciò e all’inizio mi sentivo molto spaventata, perché non capivo che cosa mi stesse succedendo. Ero sempre stata una persona socievole, mi piaceva stare in mezzo alle gente, ma poco a poco, iniziai a vedere i contatti sociali come una minaccia. Conobbi altre persone che soffrivano di questo disturbo, e posso affermare che alcuni riuscivano a conviverci prendendo medicine e seguendo un percorso di psicoterapia, altri, dopo aver tentato questo approccio senza risultati soddisfacenti, si affidavano alla chirurgia, nello specifico alla simpaticectomia toracoscopica, usata soprattutto nei casi di eritrofobia (paura di arrossire) e iperidrosi (sudorazione eccessiva). Purtroppo, mi è capitato di imbattermi anche in persone che vedevano il togliersi la vita come ultima via d’uscita, perché non potevano più sopportare il modo in cui vivevano, o non vivevano. E di questo si tratta. Il non vivere.

Perché questa subdola fobia ti chiude agli altri. Solo in casa tua ti senti al sicuro. Non voglio addentrarmi oltre nella spiegazione di questo disturbo, ma ci tenevo a parlarne in uno dei miei romanzi. All’interno del libro ho volutamente affrontato il tema in modo non troppo pesante, probabilmente perché mi piace sempre lasciare una sensazione di speranza. Come ho detto all’inizio, ho convissuto con questa fobia durante più di dieci anni, nei quali ho attraversato momenti molto difficili, ma il desiderio di uscirne per poter vivere una vita piena, mi ha dato la forza di affrontarla e superarla. La vita è così meravigliosa che sarebbe un peccato sprecare anche solo un giorno.

CAPITOLO I

Il mio nome è Joy Huge. È buffo pensare che i miei genitori abbiano scelto per me un nome che significa “gioia enorme”, quando quello che sento, invece, è solo un vuoto immenso che mi scava l’anima. Incrocio le mani sul tavolo, vi appoggio il mento sopra e fisso il piccolo cilindro arancione che contiene le mie pillole contro l’ansia. Un pensiero malsano prende forma tra le pareti del mio cervello. E se le prendessi tutte insieme? Potrebbero rappresentare la fine di questo dolore che mi porto dentro? È la prima volta che mi a per la testa questo tipo di ragionamento. Da quando questa maledetta ansia e fobia sociale si sono impossessate di me, ho sempre cercato di farmi forza, sperando che un giorno sarebbero ate o perlomeno migliorate. Ma ultimamente, sembra esattamente il contrario. E sono stufa. Stufa di svegliarmi ogni giorno e sentire come se stessi sopravvivendo, invece che vivendo. Ogni momento della giornata è scandito da una serie di compiti da svolgere, che eseguo come se mi avessero inserito il pilota automatico. Ogni azione che compio è priva di sensazioni, di emozioni. Ho solo ventitré anni, ma addosso me ne sento molti, molti di più. Afferro il tubetto, svito il tappo e ne rovescio una notevole quantità sul palmo della mano. Percepisco il cuore che aumenta i battiti e una specie di formicolio mi percorrere le gambe e le braccia.

Mi domando se togliersi la vita sia più un gesto di coraggio o di codardia. E in fondo, cosa significa avere coraggio? Se mi butto con il paracadute posso definirmi coraggiosa? E se mi tuffo in mare e nuoto in mezzo agli squali? Per molti, probabilmente, la parola coraggio è associata a imprese estreme. Per me, invece, uscire di casa e vivere una vita normale come tutti gli altri lo è. Dopo tutti questi anni ati a martoriarmi il cervello, mi sembra di avere perso il senso della vita e mi sento incapace di vedere una via d’uscita dalla gabbia mentale che mi sono costruita. Con la mano che mi trema rimetto le pillole dentro il tubetto e lo richiudo. Forse non sono né coraggiosa, né codarda, e per il momento non mi sento in grado di compiere quel gesto estremo. Non mi sento pronta a infrangere il patto stipulato con la vita. Ma cosa farei se decidessi veramente di farla finita? Scriverei un biglietto di addio. Non so se per chiedere perdono o per sfogare tutta la rabbia e la frustrazione accumulata durante un tempo che è sembrato interminabile. Vago con lo sguardo per la stanza, alla ricerca di un quaderno, poi prendo una penna e lo apro alla prima pagina. È come se iniziassi a scrivere un diario segreto e cominciassi a mettere giù tutto quello di cui ho bisogno di parlare. Però questo diario non comincerà con un “Caro” o “Cara”, non esiste nessun destinatario reale. La penna indugia un attimo e poi inizio a scrivere.

Non sono forte Non sono debole Semplicemente…non sono Non ho uno scopo Un motivo per cui valga la pena combattere

Qualcuno bussa con forza alla porta. Faccio un salto sulla sedia e la penna mi scivola dalle mani cadendo a terra. Resto immobile, non sapendo cosa fare, mentre il cuore comincia a galopparmi nel petto come una mandria di cavalli selvaggi. Dopo alcuni secondi bussano di nuovo. Guardo l’orologio appeso in cucina. Sono le 23:57. Chi diavolo può essere? Probabilmente si saranno sbagliati. L’unica persona che si presenta a casa mia è il fattorino del supermercato quando viene a consegnarmi la spesa, ogni lunedì, alle dieci di mattina. «Signorina Huge?» Sono sicura di non conoscere la voce della donna che ha appena pronunciato il mio cognome e questa consapevolezza non fa altro che aumentare la mia ansia. «Apra, la prego, se è in casa, è una cosa importante.» Con uno sforzo enorme chiudo il quaderno, lo nascondo nell’ultimo cassetto della scrivania e, con le gambe che vacillano, mi avvio verso la porta. Guardo dallo spioncino attraverso il quale sono capace di dare un volto alla voce udita poco prima. Mi faccio forza, apro le tre serrature che blindano il portone e lo scosto di dieci centimetri, mantenendo la catenella di sicurezza inserita.

Una folata di brezza estiva mi solleva i capelli regalandomi quasi una sensazione di piacere. «Ah, meno male che è in casa» esclama sollevata la donna, asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «Sono la signora Lopez» continua con un accento sudamericano. La squadro dalla testa ai piedi. Avrà all’incirca quarant’anni. I lunghi capelli mori sono raccolti in una coda di cavallo alta e le ricadono su una spalla. Gli occhi sono di un nero così cupo da ricordarmi gli abissi dei mari, solcati da occhiaie così profonde come se avessero sopportato il peso del mondo. Indossa una tuta da ginnastica macchiata in vari punti, come se fosse uscita di casa solo per buttare la spazzatura, per poi rientrarci immediatamente dopo. Continuo a squadrarla, fino a quando il mio sguardo non si posa sulla ragazzina alla sua destra. Anche lei mi sta fissando, come se stesse cercando di decifrarmi, aumentando il mio disagio. La signora ricomincia a parlare interrompendo quella strana sensazione. «Mi scusi se mi presento a casa sua nel bel mezzo della notte, non lo avrei mai fatto se non fosse stato urgente. Sono un’assistente sociale» spiega mostrandomi un tesserino. Lo leggo velocemente, ma non faccio in tempo a terminare, che la signora se lo infila nuovamente in tasca. «E questa è sua nipote Wendy» continua dandole una piccola spinta dietro la schiena, in modo che avanzi di un o verso di me. Senza accorgermene, tolgo la catenella e scosto di più la porta. Spalanco gli occhi per osservare meglio la ragazzina, alla ricerca di qualche dettaglio che me la faccia riconoscere. In realtà, non so nemmeno io cosa sto cercando. L’unica volta che l’ho vista, era un fagottino rosa avvolto in una coperta e mia sorella la stringeva fra le braccia.

Era nata da pochi giorni e io avevo solo dieci anni. E da allora ne sono ati tredici. «Le dispiace se entriamo un momento?» mi domanda la signora Lopez sollevando il mento in direzione del salone. Non ricordo l’ultima volta che ho lasciato entrare una persona nel mio solitario rifugio, anche il fattorino mi lascia la spesa sempre sulla soglia. Rifletto alcuni secondi, ma sono consapevole che anche se non ho ancora ricevuto nessuna informazione specifica, non posso rifiutare. Davanti ai miei occhi c’è mia nipote, accompagnata da un’assistente sociale, e tutto questo può voler dire solo una cosa: è successo qualcosa a mia sorella. Accantono per un momento la paura, spalanco del tutto la porta e le lascio are. La signora Lopez entra in casa e la prima cosa che fa è scrutare ogni angolo del salone, come se fosse un detective alla ricerca di prove in un caso d’omicidio. Incrocio le braccia e le gambe, mantenendo una certa distanza di sicurezza e attendo il termine dell’ispezione, mentre con la coda dell’occhio continuo a guardare Wendy. «Oh, mi scusi» sussurra rivolgendomi di nuovo la parola. «È semplicemente deformazione professionale» esclama imbarazzata, accennando un debole sorriso. «Non si preoccupi. So che fa parte del suo lavoro» replico distendendo le labbra in una linea orizzontale. Le faccio cenno di accomodarsi sul divano e io mi siedo, o meglio, sprofondo nella poltrona di fronte a loro. Non mi sento affatto a mio agio, ma capisco che la situazione è grave e sento di dover tirare fuori un briciolo di coraggio. Da qualche parte si dovrà pure nascondere.

Vorrei porle una domanda relativa a mia sorella, ma sono bloccata perché ho paura di scoprire una terribile verità. Non credo di essere pronta a ricevere quel tipo di notizia. La signora Lopez deve aver intuito i miei pensieri e si affretta a rassicurarmi: «È stata Felicity a dirmi di accompagnare Wendy qui da lei.» Nell’udire quella frase capisco che mia sorella è viva. Faccio un profondo sospiro e mi faccio risucchiare ancora di più dai cuscini della poltrona. «Però» continua, «si trova in guai enormi.» Immagino di stare per scoprire quello che le è accaduto e mi domando se la ragazzina sia abbastanza forte per ascoltare quello che mi sta per confessare l’assistente sociale. La osservo, ma lei sembra più attirata dalla mia interminabile libreria che dalla conversazione. «Non si preoccupi per lei. Abbiamo parlato durante tutto il viaggio ed è già a conoscenza dell’accaduto. Inoltre, purtroppo, è già stata testimone di molti fatti orribili in tutti questi anni. Da quel che ho potuto constatare, mi sembra una ragazzina forte» mi rassicura. «Posso prendere un libro?» domanda Wendy indicando gli scaffali. La domanda mi coglie impreparata. Nessuno a parte me ha mai toccato i miei libri e, a dire il vero, non so se sono pronta a condividere il mio “tesoro” con qualcun altro. Ma come posso rifiutare? Mi trovo di fronte una ragazzina che è stata appena separata dalla madre e che si trova in una casa che non conosce con due perfette sconosciute. «Certo» le rispondo, senza provare un certo tipo di resistenza interiore, «se ti avvicini noterai che sono divisi per genere. Ho messo un’etichetta e un divisore…» non faccio in tempo a terminare che si alza e si dirige verso la libreria.

Avrei voluto dirle di toccarli con cura, di girare le pagine con gentilezza e soprattutto di non lasciare orribili orecchie agli angoli, ma la signora Lopez richiama la mia attenzione e, mio malgrado, devo cambiare la direzione del mio sguardo. «Come le stavo dicendo, sua sorella si è cacciata in guai seri. Mi dispiace informarla che si trova in stato di arresto con l’accusa di omicidio.» Mi porto le mani alla bocca, mentre nella testa mi rimbomba la parola omicidio. «Cosa… cosa è successo?» domando con voce strozzata. «Conosco la storia solamente a grandi linee. Da quanto mi è stato riferito è entrata in casa di un uomo per tentare di rubare qualcosa. Sembra però, che l’uomo si sia accorto dell’intrusione e che lei gli abbia sparato. Aveva molta droga che le scorreva nel sangue e, a quanto pare, nello sparare deve essere caduta all’indietro sbattendo la testa. Il colpo l’ha fatta svenire. I vicini hanno udito lo sparo e hanno chiamato immediatamente la polizia. Mi dispiace molto» termina, appoggiando una mano sulla mia. La ritraggo e me la porto al petto stringendola in un pugno. Ho come la sensazione di essere dentro un film. Non può essere vero. Questa signora non è di fronte a me. Tutto quello che mi sta raccontando è solo frutto della mia fervida immaginazione. Forse ho preso troppe pillole ultimamente. Mi alzo e mi dirigo verso la cucina per versarmi un bicchiere d’acqua. La ingollo con una tale velocità che quasi mi fa male la gola. Appoggio il bicchiere sul tavolo con così tanta forza, che il rumore del vetro rimbomba per tutta la stanza. Mi o le mani fra i capelli e, come nei momenti in cui vengo assalita da attacchi di ansia, comincio a inspirare ed espirare profondamente. Poi, guardo di nuovo verso il divano, sperando che la signora si sia smaterializzata e che sia stato tutto un brutto gioco della mente. Ma i miei occhi incrociano i suoi, neri e profondi, e capisco che è tutto vero.

«Posso comprendere il suo dolore nell’apprendere questa notizia» mormora con un tono comionevole. Resto in piedi, in cucina. Ho bisogno di spazio per respirare. Ho bisogno del mio maledetto spazio. «No, lei non capisce» grido, «Felicity è sempre stata una sorella fantastica con me. È intelligente, simpatica, ha un carattere forte.» «Però so che si è allontanata da lei quando aveva solo dieci anni e so anche che da allora non vi siete più viste» sottolinea la signora Lopez rigirando il coltello nella piaga. «Perché voleva scappare dai nostri genitori. Lei non capisce!» esclamo irritata spalancando le braccia. «Quando hanno scoperto che era rimasta incinta a diciassette anni, volevano…» Torno di nuovo in salotto, mi avvicino alla signora Lopez e con un filo di voce termino la frase. «Volevano che abortisse o che la desse in adozione. Ma lei è stata forte, si è ribellata ai nostri genitori ed è fuggita pur di salvare la sua bambina.» «Signorina Huge, io capisco che lei voglia difendere sua sorella, è davvero ammirevole, ma le cose cambiano e la vita non sempre va come speriamo. Io mi limito a constatare i fatti presenti, e non sono qui per giudicare sua sorella, mi creda. La mia unica responsabilità è quella di trovare un luogo sicuro per Wendy e, prima di affidarla a sconosciuti, abbiamo il dovere di rintracciare le persone che fanno parte della sua famiglia per un eventuale affido parentale. Le dispiace se le porgo alcune domande?» «No» mi limito a rispondere incrociando le braccia al petto. Tira fuori una cartelletta dalla borsa, la apre e lascia scorrere l’indice su un foglio. «So che lei svolge da diversi anni il lavoro di editor.»

Annuisco. «Quindi lavora da casa?» «Sì.» «E questa era la casa di proprietà dei suoi genitori?» «Esatto.» «È single?» «Single» ripeto. Sono un po’ spaventata dal fatto che nonostante cerchi di vivere una vita lontana da tutti, persone estranee possano avere così tante informazioni sul mio conto. «Bene, da quello che posso constatare ha un lavoro che non la obbliga a stare fuori casa per molte ore al giorno, la casa sembra ordinata e confortevole, vive in un quartiere sicuro e non ci sono uomini o donne che entrano ed escono dalla sua vita.» Solleva un sopracciglio in attesa di una risposta. Non capisco perché insista su questa parte. Cosa pensa che faccia, la prostituta? Questo è uno dei motivi per cui non amo parlare con le persone. Sembra sempre che tentino di scavare nella tua vita con l’unico scopo di giudicarti. «Non c’è nessuno» confermo con tono deciso. «Bene!» esclama con tono soddisfatto appuntando qualcosa sul foglio. «Lei possiede alcuni requisiti fondamentali per accogliere sua nipote in questo momento. Ora, la domanda è: se la sente di prendersi cura di lei?» Sinceramente mi aspettavo una conversazione più lunga, domande più accurante e persino alcuni consigli, invece questa signora sembra voler liquidare la questione il più in fretta possibile. Non mi sta chiedendo di potermi consegnare un pacco, mi sta domandando se voglio prendermi cura a tempo indeterminato della figlia di mia sorella, che non vedo da ben tredici anni. Non mi sta lasciando nemmeno il tempo di metabolizzare l’accaduto e la risposta non è così semplice come sembra. Forse lo sarebbe per qualsiasi altra persona, ma non certamente per me.

Io che non sono in grado di badare a me stessa, come potrei mai prendermi cura di una ragazzina adolescente? Infilo le dita nel collo della maglietta tentando di scostarlo dalla pelle, come se così facendo fossi capace di allentare la tensione, ma con scarsi risultati. Mentre cerco di elaborare una risposta, mi volto a guardare Wendy. Sembra più interessata alla lettura del libro che alla nostra conversazione. Ed è in quel momento che noto qualcosa di familiare in lei. Non della neonata che ho conosciuto, ma di mia sorella. È seduta sul bordo della sedia, ha le gambe incrociate, tutte le gambe incrociate, anche la caviglia si attorciglia intorno al polpaccio come se fosse un serpente, ma non solo, si morde la parte interna della guancia spostando la bocca dalla parte opposta. Tutti atteggiamenti che aveva anche Felicity. E in quell’attimo diventa tutto più chiaro. Non posso abbandonarla, non posso lasciare che vada a vivere con perfetti sconosciuti. Lei ha bisogno di me, lei è parte della mia famiglia. Mi volto verso la signora Lopez e con un tono di voce deciso che a stento riesco a riconoscere io stessa, rispondo: «Certo che me la sento.» L’assistente sociale sorride soddisfatta e mi allunga alcuni fogli. «Dovrebbe firmare questi documenti, per favore» dice porgendomi una penna. Li firmo e, mentre lo faccio, la mia mente continua a ripetere come un disco rotto lo stesso dialogo interno. La tua vita non sarà più come prima. Non so se prendere il suggerimento come qualcosa di negativo, cosa che normalmente sono propensa a fare, ma per questa volta sono decisa a ignorarlo. «Dove si trova attualmente Felicity?» domando.

«Nel carcere di Phoenix.» Faccio un rapido calcolo mentale. So che si trova più o meno a due ore di distanza da casa mia e mi domando perché siamo state lontane per così tanto tempo quando ci separavano solo cento miglia. «Posso parlare con lei?» «In tutta sincerità, in questo momento non saprei darle una risposta. È accaduto tutto molto velocemente e io sono stata incaricata di trovare una sistemazione per la bambina, ma sono certa che i prossimi giorni le saprò dire qualcosa di più preciso. Prima che mi dimentichi» mormora mentre l’accompagno alla porta, «erò di qui la prossima settimana per controllare che vada tutto bene. In ogni caso mi può telefonare, se dovesse sorgere qualche tipo di problema.» «Certamente, la ringrazio.» Spalanco la porta con la speranza che esca il prima possibile. Ho bisogno di respirare. «Ah» si blocca, «è rimasto il borsone di Wendy in macchina, vado a prenderlo e glielo porto.» «Sì, perfetto» rispondo sospirando. Lo recupera, me lo porge, saluta Wendy con un cenno della mano e si dirige di nuovo verso l’auto. Mette in moto e quando la vedo girare l’angolo della strada richiudo tutto con le tre serrature, inserisco la catenella e appoggio la fronte allo stipite della porta. È stata un giornata intensa, troppo intensa per i miei standard. «Grazie» la voce di Wendy mi riporta al presente. Mi volto verso di lei. «Oh, bè, per me è un piacere averti qui» le rispondo. Si alza dalla sedia e si avvicina. «Non solo per avermi permesso di restare, ma anche per quello che hai detto di mia madre, quando hai cercato di difenderla. Sai, lei non è sempre stata così,

quando ero più piccola era una mamma meravigliosa» sussurra con gli occhi lucidi. «Ne sono certa» replico sollevando gli angoli della bocca. «Posso prenderlo?» mi chiede indicando il borsone. «È l’unica cosa di mia madre che sono riuscita a prendere prima che mi portassero via da casa.» «Il rosso è sempre stato il suo colore preferito» replico porgendoglielo. «Vuoi…» m’interrompe prima che possa formulare qualsiasi domanda. «Dove posso dormire?» «Oh, certamente. Sarai stanca, la giornata è stata lunga.» È una frase idiota da dire in queste circostanze ma non mi viene in mente nient’altro. «Posso portare con me il libro? Non credo che riuscirò a dormire molto.» Vorrei trascorrere più tempo a parlare con lei, chiederle come si sente, poter essere un vero o, ma mi sento veramente esausta in questo momento e lei non sembra aver voglia di aprirsi con me e credo che sia comprensibile. In fondo, ai suoi occhi, sono solo una sconosciuta. «Sì, lo puoi portare. A proposito, cosa stai leggendo?» le chiedo mentre l’accompagno al piano superiore. «Piccole donne. In realtà l’ho già letto molte volte, ma lo adoro.» «Anche a me piace moltissimo» sussurro strizzando l’occhio. Almeno avremo un argomento di cui parlare, penso tra me e me.

Apro la porta di quella che era stata molto tempo prima la camera mia e di mia sorella. Erano diversi anni che non ci entravo più. Da quando sono rimasta da sola a vivere in quella casa, mi sono trasferita nella camera da letto dei miei genitori. Vago con lo sguardo da un angolo all’altro della stanza e nella memoria

riaffiorano piacevoli ricordi di un ato semplice e felice. Mi rendo conto che tutto è rimasto come allora, almeno la metà che apparteneva a mia sorella. I suoi poster dei Duran Duran e la chitarra acustica che tanto amava suonare. «Quello era il suo» dico a Wendy indicando il letto posizionato nell’angolo destro in fondo alla stanza. «Allora sarà anche il mio» afferma senza indugiare. «Perfetto. Prendo le lenzuola dalla cassettiera.» Wendy mi segue e con la coda dell’occhio noto che afferra qualcosa sopra la mia testa. «Carino questo» mormora indicando un peluche a forma di leone. «Oh… questo me l’aveva regalato Felicity prima di andarsene» le spiego afferrandolo, «è il mio segno zodiacale. Quando me lo diede, mi disse che il coraggio faceva parte della mia natura e che sicuramente sarei sempre stata una persona forte.» Ripensandoci, mi sento più come una gazzella, che tenta di sopravvivere tutti i giorni scappando dal predatore che il re della foresta, anche se nel mio caso il predatore non è un animale feroce, bensì la mia mente. «Anche io sono del leone» confessa distogliendomi da quel pensiero. «Adesso che ci penso ricordo che sei nata pochi giorni dopo il mio decimo compleanno. Bè, visto che sei mia nipote, direi che questo a ufficialmente di diritto a te» le dico porgendoglielo. Wendy lo prende fra le braccia e ne accarezza la criniera con dolcezza, come se fosse un vero e proprio cucciolo. «Grazie Joy.» «Di niente» rispondo sorridendo. «E ora andiamo a letto, che ne dici?» Annuisce.

Mi fermo ancora qualche minuto, a osservare gli oggetti racchiusi in quelle quattro mura adolescenziali. Chiudo gli occhi e vado alla ricerca di un ato spensierato che ora non mi appartiene più. Posso rivedere mia sorella, seduta sul letto con le gambe incrociate, intenta a strimpellare una nuova canzone con la chitarra, e me stessa, stesa per terra a pancia in giù, armata di foglio e penna, mentre imbratto la carta, ispirata dalle note che echeggiano nella stanza. Ritorno al presente e mi accorgo che Wendy si è già coricata, così mi avvio verso la porta. Sto per spegnere la luce quando mi porge un'altra domanda. «La mamma ti ha abbandonata quando avevi solo dieci anni. Pensi che farà lo stesso con me?» Mi si stringe il cuore a sentirle pronunciare quelle parole e vorrei tanto che la mia mente partorisse quelle perfette frasi filosofiche che sembrano trasformare i problemi in opportunità di vita. Ma purtroppo non mi viene in mente nessuna storiellina zen che sia adatta per rispondere alla sua domanda. Mi avvicino di nuovo a lei e mi siedo al suo fianco. «L’unica cosa che posso dirti è che quando se n’è andata da questa casa è stato per proteggere te. Quindi, a dire il vero, io non mi sono sentita abbandonata. Anche se ero ancora una bambina e ho sofferto molto la sua mancanza, sapevo che stava facendo la cosa giusta per potersi prendere cura di sua figlia. Lei ti desiderava con tutto il suo cuore.» Non so se le mie parole abbiano sortito l’effetto sperato, Wendy accenna un sorriso, poi si gira da una parte e chiude gli occhi. «Buonanotte» sussurra. «Buonanotte a te, piccola.»

Ho ato le ultime ore con i nervi così tirati che sento il mio corpo senza forze, come se avessi scalato una montagna a mani nude.

Mi butto sul letto, senza nemmeno togliermi i vestiti, e resto con lo sguardo fisso sul soffitto, in attesa che Morfeo venga a prendermi per accogliermi fra le sue braccia. Peccato che Morfeo non sia mai stato uno dei miei migliori alleati, per cui mi rannicchio su un fianco, prendo il libro che è appoggiato sul comodino e lascio che le parole di Philip Roth mi accompagnino in un altro mondo.

CAPITOLO II

Con gli occhi semiaperti guardo la sveglia. Le cifre rosse e luminose segnano le sei e quarantasette del mattino. Mi giro dall’altra parte, coprendomi la testa con il cuscino, nel tentativo di addormentarmi di nuovo, poi un odore particolare attira la mia attenzione. Con un brusco scatto mi alzo dal letto e, senza infilarmi le ciabatte, scendo le scale correndo. «Wendy, che stai facendo?» domando spalancando le braccia. «Sto preparando la colazione» risponde mentre rigira un pancake nella padella. «È praticamente l’alba» le faccio notare, «e inoltre sarei io che dovrei prepararti la colazione.» «E per quale motivo?» domanda guardandomi fissa negli occhi. «Bè, prima di tutto non conosci la cucina e…» «È stato facile trovare tutto l’occorrente, c’è un ordine quasi maniacale dentro i mobili.» «Okay, mi piace tenere in ordine» rispondo incrociando le braccia al petto. «Ah, questo l’ho notato. Tutti i barattoli e le scatole sono girati dalla parte dell’etichetta. Nemmeno al supermercato sistemano la merce con così tanto rigore.» Mi sento un po’ punta sul vivo, ma non mi sembra il caso di darle spiegazioni in merito alle mie manie e svio la conversazione riportandola sulla colazione. «Sembrano ottimi» asserisco indicando i pancake fumanti. «Questo è l’ultimo» afferma impilandolo su un piatto dove ce ne sono già almeno altri cinque. «Andiamo a provarli, così mi dici cosa ne pensi.»

Appoggio due tovagliette di stoffa sulla tavola, una di fronte all’altra, al centro vi posiziono un piatto e infine metto la forchetta a destra e il coltello a sinistra sotto gli occhi stupiti di Wendy. «Che c’è?» le domando bloccandomi con il barattolo di miele a mezz’aria. Solleva le spalle. «Niente, niente» si affretta a rispondere. «Stavo solo pensando che è molto tempo che non faccio colazione seduta a tavola, invece tu sembri curare ogni particolare. E mi piace» conclude sorridendo. «E a me piace essere svegliata con questo buon odorino nell’aria. Non vedo l’ora di assaggiare i tuoi pancake.» Wendy me ne mette uno nel piatto e resta in piedi al mio fianco in attesa della mia reazione. «Wow! Sono davvero ottimi» esclamo, gustandomeli con vero piacere. «Anche la mamma lo diceva. Quando riusciva ad alzarsi dal letto per mangiarli» termina facendo ciondolare la testa verso il petto. Lascio cadere la forchetta sul piatto e stringo le labbra. «Ti va di parlarne?» Avvicino la mano alla sua, spalanco le dita, ma poi le richiudo in un pugno stretto. Anche il contatto fisico non è sicuramente uno dei miei punti di forza. «No, in realtà in questo momento non ne ho voglia» replica sollevando le spalle. «Okay, okay. Ti capisco, ma ricorda che, quando vorrai, mi troverai proprio qui al tuo fianco.» L’entusiasmo iniziale svanisce del tutto, il sapore dolce dei pancake viene sostituito dal sapore amaro dei pensieri, e finiamo di fare colazione in silenzio. Wendy inizia a sparecchiare, ma io la blocco all’istante. «Eh no, tu hai preparato la colazione, quindi tocca a me sistemare la cucina.»

«È la forza dell’abitudine, a casa se non lo facevo io, non lo faceva nessuno.» Povera creatura, chissà cosa ha dovuto sopportare. Vorrei tanto sapere cos’è successo a mia sorella in tutti questi anni, che cosa l’ha cambiata tanto, ma so che non posso parlarne con Wendy, per lo meno fino a quando non sarà lei a decidere di aprirsi con me. So per esperienza che a nessuno piace sentirsi dire quando e come deve fare qualcosa. Per cui, decido di intavolare una nuova discussione. «A proposito», le chiedo mentre raccolgo i piatti, «non devi andare a scuola?» «La scuola finisce fra tre giorni e la signora Lopez mi ha detto che sarebbe andata al mio istituto per parlare con la direttrice.» «Certo, capisco.» Finisco di mettere le tazze nella lavastoviglie e quando alzo la testa Wendy non è più lì, ma di nuovo di fronte alla libreria, alla ricerca di una nuova avventura in cui tuffarsi. Forse, ha ereditato qualcosa da me. Rifugiarsi nei libri è in un certo senso fuggire dalla realtà, lasciare indietro preoccupazioni, immedesimarsi in una vita differente, a volte migliore. Un buon libro è come un buon amico, dispensa consigli senza l’uso della voce, ma solo con parole impresse sulla carta. E ho imparato negli anni che le parole hanno un gran peso, non solo quelle che si dicono, ma soprattutto, quelle che si ha paura di pronunciare.

Finisco di rassettare la cucina e prendo dal cassetto il tubetto contenente i miei beta-bloccanti. «È droga?» Wendy compare alle mie spalle facendomi sobbalzare e per poco non faccio cadere tutte le pillole al suolo. «Certo che no» le rispondo con il cuore che inizia a tamburellare nel petto a un ritmo sempre più veloce. «Anche se lo fosse, non me lo diresti. I drogati mentono sempre.»

Lo dice con una tale sicurezza che mi fa intuire che mia sorella doveva essere caduta vittima di quella dipendenza da molto tempo. Devo riuscire a creare un rapporto di fiducia con lei, il prima possibile. E credo di dover essere io a fare il primo o. Per una persona come me, che si è chiusa al mondo da molto tempo, è un o enorme da compiere, ma mi sento responsabile verso Wendy, e inoltre è la prima volta che la vita mi mette davanti la possibilità di essere di aiuto a qualcun altro. Fino ad oggi, io ero l’unica persona a cui dovevo badare e con scarsi risultati aggiungerei, ma ora ho una piccola possibilità di riscattarmi e di rendermi conto che la mia vita potrebbe essere degna di essere vissuta se avessi la capacità di alleviare le pene di qualcun altro. «Soffro di una forte ansia e di fobia sociale più o meno da cinque anni» le spiego con la massima sincerità, «e sono in cura da una psicologa. Inoltre, una volta alla settimana seguo un gruppo di psico-aiuto. Queste sono pillole che dovrebbero aiutarmi a stabilizzare il mio stato emotivo e le mie reazioni fisiche. Ne prendo una ogni mattina dopo colazione e mi aiutano ad affrontare meglio la giornata, anche se, in situazioni di forte stress, alcuni sintomi si manifestano ugualmente.» «E cosa senti per esempio?» «Dipende, in generale i sintomi più frequenti sono: tachicardia, sudorazione eccessiva, vertigini, dolore allo stomaco, tremore e una maledetta paura.» Wendy segue la spiegazione con interesse. A dire il vero non mi sembra di avere davanti una ragazzina di tredici anni, ma un adulto che ascolta e che cerca di mettersi nei panni dell’altro per poter capire al meglio come si sente. Probabilmente deve essere una di quelle persone dotate per natura di una immensa empatia. «Per colpa di questo disturbo, ho allontanato tutte le persone che conoscevo. Ho mantenuto solo i contatti di lavoro, perché fortunatamente posso svolgerlo da casa, e ovviamente con il mio gruppo di aiuto.» Wendy mi prende la mano e la stringe fra le sue. Quel contatto umano mi fa sussultare. «Grazie per essere stata sincera. Per me è davvero importante.»

Annuisco, sperando che la mia confessione sia la chiave giusta per aprire la porta del dialogo fra noi due. «Forse è arrivato il tuo turno. Ti va di raccontarmi qualcosa di te e della mamma?» Appoggia i palmi delle mani sul tavolo e dandosi una spinta verso l’alto vi si siede sopra. «Se vogliamo che il nostro rapporto funzioni, credo proprio che sia necessario.» Mentalmente emetto un sospiro di sollievo. Seguo il suo esempio, con un salto mi accomodo al suo fianco e lascio che le gambe ciondolino avanti e indietro. «Fino all’età di otto anni, ho vissuto un’infanzia meravigliosa. Eravamo sempre solo io e la mamma. Lei lavorava molte ore al giorno, ma ogni momento libero che aveva lo trascorreva con me. Non avevamo molti soldi a dire il vero, e non potevamo permetterci grandi cose, ma lei possedeva un dono, aveva una grande creatività e inventava quasi ogni giorno un gioco differente. Mi insegnava a utilizzare materiali di recupero e anche la cosa più brutta, una volta che ava tra le sue mani, diventava splendida. Mi diceva sempre che gli oggetti, come le persone, non hanno una sola vita. Anche se a prima vista li butteresti via, puoi sempre riprenderli in mano e rimodellarli, per creare qualcosa di nuovo e dargli una forma migliore di quella che avevano nel ato. Diceva che anche le persone sono così. A volte sembrano rotte, ma se cercano bene, trovano sempre il modo di aggiustarsi e ricominciare da capo.» Tengo le mani incrociate davanti al petto e a ogni parola che giunge alle mie orecchie le stringo sempre più forte, come se le dita volessero scavare nella pelle per raggiungere il cuore. Vorrei trattenermi, ma le lacrime spingono per uscire e iniziano a rigarmi il volto, indugiano sul mento ricadendo sulle gambe, che smettono di muoversi, paralizzate dalle parole di Wendy. «Tutto cambiò quando Bill entrò nelle nostre vite. La mamma, che fino a quel momento si era occupata di me, non era più solo mia. Ero costretta a dividerla con un’altra persona. Lo accettai, anzi, pensai addirittura che per la prima volta nella vita avrei potuto avere un padre. Quindi, tutto sommato, l’idea non mi

dispiacque del tutto. Però, poco tempo dopo, notai che qualcosa stava cambiando. La mamma andava a lavorare sempre meno e ava la maggior parte del tempo in casa, ma non con me. Trascorreva quasi tutto il giorno sul divano e la sentivo ridere a crepapelle con Bill, e io mi sentivo esclusa. Ricordo che in quel periodo le sanguinava spesso il naso e il mobile della cucina in cui prima riponevamo tutti i materiali da riciclo, era stato riempito da un numero interminabile di bottiglie.» Wendy si blocca, solleva lo sguardo e singhiozzando sussurra: «La mamma si era rotta e io non ero capace di aggiustarla.» Quell’ultima frase apre una voragine nel mio cuore, lasciandomi una sensazione di impotenza. Spalanco le braccia e accolgo Wendy nel mio petto. Cominciamo a piangere entrambe, lasciando andare tutte le lacrime accumulate. Non so per quanto tempo restiamo in questa posizione e non so nemmeno chi delle due stia guarendo l’altra. Probabilmente, abbiamo entrambe ferite non visibili sparse per il corpo e, a differenza di quelle visibili, queste sono le più difficili da guarire. Però, una volta cicatrizzate, ci resta l’amara consapevolezza di aver almeno vinto una battaglia e di essere riuscite ad andare avanti, magari zoppicando, ma di essere state capaci di proseguire per la nostra strada. E ogni volta che ci troveremo ad affrontare un’altra sfida, ci ricorderemo di quella battaglia che, pur avendoci colpite duramente, non ci ha sconfitte, e da lì attingeremo di nuovo la forza per andare avanti.

CAPITOLO III

“Daryl mi circonda con il braccio e non appena sento il suo corpo plasmato al mio, una scarica di desiderio si propaga attraverso ogni mia molecola. Le punte delle dita cominciano a informicolirsi, il cuore martella con prepotenza dentro la mia cassa toracica e la respirazione aumenta la sua velocità. Ora capisco perché mio padre scelse quel titolo. Questo è veramente il ritmo dell’amore. Non sono solo note che formano una canzone, ma pezzetti di cuori che si uniscono gli uni agli altri, creando un sentimento indissolubile.”

«Stai leggendo un romanzo erotico?» domanda Wendy alle mie spalle. Abbasso velocemente lo schermo del computer mentre le mie guance prendono fuoco. «Dio mio! Non ti ho sentita. Potresti fare più rumore quando ti avvicini la prossima volta?» le dico sventolandomi il viso nel tentativo di abbassarne la temperatura. «In realtà sono scesa dalle scale correndo, ma credo che tu fossi così presa dalla lettura da non avermi nemmeno sentita.» «Quindi, cosa stai leggendo?» aggiunge appoggiandosi con i gomiti sul tavolo e guardandomi dritta in faccia. «Sto lavorando» preciso, «e non è un libro erotico, ma un romanzo d’amore» le spiego ricomponendomi. «E ti piace?» continua incuriosita.

«Sì, mi piace il modo in cui è stata costruita la storia, come evolve l’amore fra i protagonisti e l’utilizzo di POV alternati.» Mi rendo conto che l’ultima parte della spiegazione è un po’ tecnica, ma Wendy non fa obiezioni al riguardo. Si afferra una ciocca di capelli e l’attorciglia in un gesto ripetuto intorno all’indice. Non è la prima volta che glielo vedo fare e so che è uno dei tanti comportamenti che le persone ansiose hanno per scaricare la tensione. Spero che sia dovuto solamente al periodo di stress che sta vivendo. «Joy, tu credi nell’amore? Intendo quello romantico.» Mayday. Mayday. Deglutisco. Questa volta sono io che devo scaricare la tensione prima di formulare la risposta. «Non sono di certo la persona migliore con cui affrontare questo tipo di argomento. La mia unica relazione amorosa, se così si può chiamare, risale più o meno a quando avevo diciassette anni. In quel periodo frequentavo un ragazzo della mia stessa scuola. Avevamo in comune la ione per il trekking, per cui, la maggior parte delle volte in cui ci vedevamo, andavamo a fare qualche escursione per i boschi. Potrei quasi affermare che eravamo più come amici che si piacevano e che amavano trascorrere del tempo assieme.» «Oh, capisco» sussurra delusa. «Ma ti piacerebbe?» Riparte all’attacco, ma non ho voglia di continuare a parlare di un argomento che mi risulta così spinoso. «Scusami, vorrei tanto proseguire con questo argomento, ma ho davvero bisogno di lavorare. Devo terminare il libro in settimana e sono ancora indietro» mento con un finto sorriso. Wendy abbocca alla mia menzogna e si dirige verso il frigorifero per prendere qualcosa da bere.

Resto per alcuni minuti a fissare la stessa pagina, con il cursore che lampeggia sulla parola “amore”. Ho sempre evitato di pensarci, perché ho sempre creduto che fosse impossibile per una persona come me. Quando si decide di amare qualcuno, si deve essere disposti ad abbassare le proprie difese, ci si deve mostrare per quello che si è, sperando che l’altro ti ami e ti accetti con tutti i tuoi pregi e difetti. Il pacchetto si compra intero, non si può pensare di tenere solo quello che ci fa comodo tentando di cambiare gli altri aspetti. E poi, chi mai potrebbe innamorarsi di me, se io stessa sono la prima a non accettarmi? Come potrei obbligare una persona a prendersi cura delle mie paure? Cosa dovrei dire? “Ehi, la mia ansia mi impedisce di vivere una vita normale, però vorrei essere la persona che ti rende felice.” No, l’amore romantico non farà mai parte della mia vita. Mi dovrò accontentare di viverlo attraverso le pagine di un libro. Qualcuno suona il camlo, distraendomi da quei ragionamenti. «Stavi aspettando visite?» domanda Wendy stringendo in mano una bottiglia di latte. «Deve essere il ragazzo delle consegne» le dico guardando l’orologio, «non mi ero accorta che fosse già lunedì.» Mi alzo per recuperare il portafoglio dalla borsa e la nuova lista della spesa che avevo già preparato alcuni giorni prima per la settimana seguente. Wendy mi segue fino alla porta e prima che la apra mi domanda: «Aspetta un momento. Ti fai consegnare il cibo a casa tutte le settimane?» «Dopo ti spiego. Ora è meglio se recuperiamo la spesa, prima che se ne vada.» Guardo dallo spioncino per sicurezza, anche se sono certa che quello che vedrò

saranno gli occhi color miele di Joshua, e questo mi genera un certo senso di sicurezza. Avere delle certezze, sapere che una determinata persona si presenterà a casa tua a una certa ora, crea un’abitudine che per persone come me sono davvero importanti. Una delle cose che più spaventa le persone ansiose o che soffrono di fobia sociale è non avere il controllo della situazione. E con Joshua, che si presenta tutti i lunedì mattina puntuale alle dieci a casa mia, ho la possibilità di rilassarmi e di lasciar andare il controllo, perché in questa situazione non c’è niente di imprevedibile. «Buongiorno signorina Huge» dice andosi una mano tra i capelli. «Buongiorno a te. Quant’è?» domando aprendo il portafoglio. Joshua si abbassa per recuperare lo scontrino da dentro uno dei sacchetti. «Ottantasette e cinquanta» afferma porgendomelo. Gli allungo una banconota da cento. «Ovviamente il resto è per te.» «Grazie. Sempre molto generosa» replica mettendo il denaro in tasca. «Ci aiuti a portarli dentro, vero?» Una voce dietro le mie spalle mi scavalca, arrivando dritta alle orecchie del mio interlocutore. Mi scosto di lato e lascio avanzare Wendy. «Ehi, penso che sia la prima volta che noi due ci incontriamo. Io sono Joshua.» «Wendy» risponde allungando una mano. Si scambiano una stretta e poi i loro sguardi si appoggiano su di me mettendomi in imbarazzo. «Sembrano pesanti» mormora Wendy, come se cercasse una scusa.

Non voglio mostrare il mio disaccordo per cui cerco di non far trapelare nulla dal mio volto e rispondo con un sorriso forzato. «Mia nipote ha ragione, forse per questa volta potresti aiutarci» mormoro calcando sulle parole “questa volta”. «È diversa da come la immaginavo» afferma Joshua mentre si dirige verso la cucina per appoggiare le buste. I miei occhi devono aver assunto un’espressione interrogativa, per cui si affretta ad aggiungere: «Cioè, non che abbia ato tutto il tempo a immaginare come fosse casa sua. Detta così potrebbe sembrare la frase di uno stalker. Cosa che non sono ovviamente» sottolinea con un tono di voce che sembra sempre più flebile. «Sei diventato tutto rosso» gli fa notare Wendy. «Wendy!» la rimprovero. «Non si mettono in imbarazzo le persone!» «No, non si preoccupi, non mi sono offeso. Sono una persona un po’ timida. È una cosa che mi porto dietro dall’infanzia e ci ho fatto l’abitudine. C’è chi la vede come una debolezza, ma io ho imparato ad accettarla, so che fa parte del mio essere e nel bene o nel male io e la mia timidezza siamo diventati amici, così, mentre prima mi creava diversi problemi, ora ci convivo serenamente e mi sento più felice.» Il mio cervello registra quella locuzione, catalogandola nella sezione “frasi motivazionali”. Non avevo mai pensato prima d’ora che io e la mia ansia saremmo potute diventare amiche e che quindi avremmo potuto stringerci la mano in un atto di pace, invece di combattere una guerra perpetua che mi vede perennemente perdente. Tantomeno non immaginavo che avrei ricevuto una lezione di vita proprio da lui. Mi domando quante conversazioni come questa mi sia persa, evitando a tutti i costi le persone. Questa settimana ne ho fatte entrare due nella mia vita, ed entrambe mi hanno regalato insegnamenti preziosi. «Vuoi un caffè?» domanda Wendy. «Sei molto gentile, ma ora devo proprio tornare al lavoro» risponde Joshua dirigendosi verso l’uscita.

«Grazie per averci aiutate» grido mentre lo vedo partire in macchina. Tira fuori un braccio dal finestrino in segno di saluto. «È stato un piacere.» Wendy mi osserva con uno sguardo mortificato. «Spero di non averti messo in agitazione invitandolo a entrare. Ti giuro che non era mia intenzione, non ho pensato che potesse avere conseguenze sulla tua ansia. Me ne sono resa conto solo in un secondo momento.» Le sorrido, cercando di attenuare il senso di colpa che le si è generato. «Se vuoi saperlo è stato un bene che tu gliel’abbia chiesto. Anche se abbiamo scambiato solo due chiacchiere, ti posso assicurare che mi sono state davvero utili.» «Veramente? Ne sono davvero contenta» esclama meravigliata. «Ora che ne dici se andiamo a preparare una torta? Avevo ordinato gli ingredienti per fare una cheesecake» le propongo. Wendy congiunge le mani e comincia a saltare di gioia. «Sì! È la mia preferita.»

CAPITOLO IV

«Quindi Wendy, ricordi cosa ti ho detto?» le domando controllando per la terza volta il contenuto della borsa. «Certo, me lo hai ripetuto almeno dieci volte oggi» sbuffa spazientita. «Abbi pietà di una povera maniaca del controllo» la supplico scherzando. «Non vale giocare la carta della malata mentale» replica ridendo. «Okay, te lo ribadisco solo per l’undicesima e ultima volta. Fra trenta minuti ho il gruppo di psico-aiuto. Siamo a casa di Abby, che vive esattamente in fondo a questa strada. Normalmente l’incontro dura un paio d’ore. Ti ho lasciato il suo numero vicino al nostro telefono in cucina e in caso di necessità non esitare a chiamare. Ricordati di chiuderti con le tre serrature…» tamburello l’indice sul labbro e mi guardo intorno per capire se ho dimenticato di dirle qualcos’altro. «Joy, ho capito, non ti preoccupare per me. Ho cominciato a badare a me stessa quando avevo solo otto anni. Ormai sono un’adulta, non ho bisogno della baby sitter che mi controlli in continuazione» mi fa notare. Lei lo dice con naturalezza, ma a me fa soffrire sapere che una parte della sua infanzia le è stata portata via e che sia stata catapultata nel mondo degli adulti così presto. Mi domando come faccia a essere così forte Nonostante tutto quello che ha ato. Come fa a non crollare?

Le riunioni si svolgono sempre più o meno nello stesso modo. Ognuno dei presenti racconta un fatto accaduto durante la settimana che gli ha creato ansia o disagio e la reazione che ha avuto rispetto a questo fatto. Cerchiamo insieme di sostenerlo e di fornire alcuni suggerimenti con il o

della nostra psicologa. Alla fine, ognuno se ne torna a casa, in teoria, con un peso sulle spalle un po’ più leggero. Oggi però non sarà una serata come tutte le altre, almeno non per me. Sono desiderosa di condividere con gli altri quello che mi è successo perché, per la prima volta in tanti anni, non sarà qualcosa di cui ho bisogno di liberarmi, ma qualcosa che mi ha fatto sentire meglio quando pensavo di essere arrivata al peggio. Decido di parlare per ultima. Temo che se lo fi per prima manipolerei la serata, e non è di certo mia intenzione. Ci sediamo in circolo e la psicologa prende la parola. «Buonasera a tutti. Chi vuole cominciare per primo oggi?» domanda spostando lo sguardo su tutti i presenti. Abby alza la mano e comincia a parlare. «L’altro giorno mi è successa una cosa terribile» mormora scuotendo la testa. «Sono uscita di casa per andare a comprare un paio di scarpe da ginnastica. Prima di farlo ci ho pensato bene, ma nelle mie si è formato un buco nella suola e non potevo proprio rimandare oltre. Nel momento in cui ho varcato la soglia di casa l’ansia anticipatoria si è impossessata di me, ho cercato di ignorarla, ma quando sono arrivata al negozio avevo già la tachicardia e la nausea. Stavo quasi per tornare indietro, ma poi mi sono fatta forza e sono entrata. Per mia sfortuna, quasi tutti i negozi sono illuminati da quelle odiosissime luci neon, che mi osservano come se non aspettassero altro che la mia eritrofobia si manifesti. Non mi ero tolta gli occhiali e il cappello, perché come sapete, mi trasmettono una certa sicurezza. A quel punto cammino a o svelto fra le varie corsie, tentando di individuare il più rapidamente possibile le scarpe da comprare. Una volta che le adocchio, me le provo alla velocità della luce e, appurato che erano quelle che cercavo, mi dirigo con la mia scatola alle casse. C’è una lunga fila e, come sempre, ho la sensazione che tutti mi stiano osservando. Abbasso lo sguardo, contando i secondi che mi separano dall’uscita. Finalmente arriva il mio turno, appoggio la scatola sul bancone, pago e nel momento in cui sto per uscire suona l’allarme. La scatola mi cade dalle mani, comincio a tremare e percepisco il viso infuocarsi. Attraverso le lenti scure noto che tutte le persone del negozio si sono bloccate e iniziano a scrutarmi, giudicandomi. La commessa

accorre in mio aiuto, mi restituisce la scatola e si scusa, assicurandomi che è solamente un difetto dell’allarme e che quel giorno era già successo a moltissime altre persone» termina la confessione di quella sconfitta, lasciando cadere la testa sul petto e iniziando a singhiozzare. «Sono qui per te» sussurra Vivian. «Sono qui per te» continuo io. «Sono qui per te» è il turno di Dylan «Sono qui per te» termina Ketty. Questa è la frase che Vivian ci ha insegnato a dire ogni volta che qualcuno riporta un fatto che l’ha segnato profondamente. «Grazie ragazzi» risponde risollevando la testa, «non sapete quanto mi faccia bene parlare con voi.» Dopo Abby è Dylan a prendere la parola. Non so perché, ma del gruppo è quello che mi trasmette più tenerezza. Nonostante i suoi trentacinque anni non ha mai avuto una relazione con una donna per colpa della sua iperidrosi. Anche in questo momento, mentre racconta l’ennesima occasione amorosa che si è fatto scappare, noto una grande macchia di sudore che gli si espande sotto le ascelle e le sue mani si inumidiscono talmente tanto che a volte mi sembra di veder cadere da esse alcune goccioline. Dopo Dylan la nostra attenzione si sposta su Ketty. «C’è qualcosa di nuovo che ci vuoi raccontare?» le domanda Vivian. Ketty si accomoda sulla sedia, raddrizza la schiena e accavalla le gambe due volte a destra e poi due volte alla sinistra, come sempre. Fa parte dei sui disturbi ossessivi compulsivi e ormai ci siamo abituati. A quanto pare, questa settimana, ha aggiunto alla sua lista di ossessioni la paura di subire una contaminazione. Ha iniziato a disinfettare e sterilizzare ogni cosa, più volte al giorno, ma non sente mai di aver eliminato tutti i germi presenti nella casa. Così ogni sera va a dormire esausta e la mattina seguente ricomincia da capo tutto l’iter di disinfezione.

«A quanto pare tocca a te» mi esorta Vivian sorridendo. Mi schiarisco la voce e mi inumidisco le labbra. Ho ato tutto il giorno a riflettere su come cominciare questo discorso per me così importante, ma sembra che la mia mente abbia resettato tutte le frasi con cui avevo pensato di iniziare, per cui non mi resta altro che parlare d’istinto. «Credo di avere una buona notizia» esordisco, sapendo che le parole “buona notizia” avrebbero catturato immediatamente l’attenzione dei presenti. La mia affermazione sortisce l’effetto immaginato. «Sei guarita?» mi chiedono in coro. So che la risposta a quella domanda potrebbe rappresentare per ognuno di noi un barlume di speranza. Se uno di noi guarisce, significa che anche gli altri hanno la possibilità di farlo. «Non proprio» mi affretto a rispondere, per non creare false speranze, «però in questi giorni la mia vita ha preso una piega inaspettata e ho cominciato a vedere le cose sotto una luce differente.» Espongo, cercando di essere il più chiara possibile, i fatti accaduti in quell’ultima settimana, tentando soprattutto di trasmettere ai miei compagni che forse una via d’uscita c’è, per tutti. «Noi vediamo le persone che ci circondano come un problema, perché temiamo che siano sempre pronte a giudicarci. Ma non è così. A volte sono proprio quelle persone la nostra guarigione. Non ce ne rendiamo conto perché iamo più tempo in compagnia del mondo interno che ci siamo costruiti, che di quello esterno. E sappiamo bene che quello interno è un gran casino e che ci trascina ogni giorno in un abisso più profondo.» «Abby» continuo rivolgendomi a lei, «quando è suonato l’allarme le persone non ti hanno guardato pensando che fossi una ladra, semplicemente il rumore li ha distratti da quello che stavano facendo, ma sono sicura che pochi secondi dopo sono tornati alle loro faccende dimenticandosi di te.» Lei annuisce timidamente.

«Dylan» proseguo, «sei un uomo di bell’aspetto, intelligente e hai una qualità che poche persone hanno. Sai ascoltare. Sai quante donne sarebbero felici di avere un uomo come te al loro fianco? Probabilmente, se tu ti dessi il permesso di lasciare entrare qualcuno nella tua vita, questo qualcuno ti apprezzerebbe e ti amerebbe per tutte le tue caratteristiche. Inclusa l’iperidrosi» termino scherzando. So che dovrei dire qualcosa anche a Ketty, ma con lei mi risulta più difficile. Noto nei suoi occhi una luce di speranza, per cui mi devo inventare qualcosa. «Ketty, pensi davvero che are tutta la giornata a sterilizzare ti renda più felice? Quante cose potresti fare invece di are il tempo a pulire? Il mondo è pieno di possibilità, è come un pozzo senza fine, a cui possiamo attingere acqua in continuazione. Davvero vogliamo continuare a vivere la nostra vita imprigionati nelle nostre paure?» termino rivolgendomi a tutti. Momento di silenzio. «Per me sei guarita» sbotta Abby sgranando gli occhi. «Vi assicuro che i miei timori sono gli stessi di prima, ma l’incontro con quella ragazzina mi ha davvero aperto gli occhi su qualcosa che prima non potevo e non volevo vedere. Se lei, a soli tredici anni, è capace di combattere in un mondo che le ha tolto tanto, perché io non dovrei essere capace di farlo? Perché noi non dovremmo esserlo?» Adesso sono io che lascio scorrere le lacrime sul volto. A differenza di altre volte, però, non sono lacrime di tristezza, piuttosto di consapevolezza. «Credo che tu abbia cominciato il cammino verso la guarigione Joy. Sono orgogliosa di te.» Vivian si alza in piedi e si avvicina per abbracciarmi, e poco a poco sono sommersa non da due, ma bensì otto braccia.

Cammino trotterellando verso casa. Normalmente dopo ogni riunione mi sentivo più leggera, ma questa volta è come se mi fossero cresciute le ali e stessi cominciando ad imparare a volare.

«Sono a casa» grido richiudendo la porta alle mie spalle. Butto la borsa sul divano e correndo risalgo le scale. «Wendy, dove sei?» Entro nella sua stanza ma non la vedo e le pulsazioni del mio cuore cominciano ad aumentare. Improvvisamente, percepisco un rumore provenire dall’armadio. Mi avvicino con cautela e con un gesto brusco apro l’anta. Wendy è rannicchiata lì, e stringe al petto il peluche di leone mentre piange sommessamente. «Oddio piccola, che ti succede? Ti senti bene?» mi accuccio di fianco a lei e la circondo con le braccia. «Mi manca la mamma» sussurra debolmente. Appoggia la testa al mio petto e posso sentire le sue lacrime che mi attraversano il tessuto della maglietta. «Sono qui per te.» Pronuncio queste quattro parole ogni settimana, ma mai come in questo momento ne avevo sentito la vera forza. Sì, perché sono veramente qui per lei, per sostenerla e per aiutarla ad affrontare tutti i demoni della sua vita. Le accarezzo dolcemente i capelli e non mi sposto di un centimetro, fino a quando non sento che smette di tremare. Mi accorgo che si è addormentata e non ho intenzione di svegliarla per accompagnarla a letto, per cui chiudo gli occhi anche io, nel tentativo di prendere sonno.

CAPITOLO V

Un raggio di sole mi colpisce diretto agli occhi. Li apro di un millimetro alla volta cercando di abituare la vista alla luce. Mi guardo intorno tentando di orientarmi. Wendy è ancora vicino a me, ma durante la notte deve essersi spostata, perché la sua testa è ora appoggiata sulle mie gambe. Sollevo il braccio e ruoto il polso. Devo sbattere le palpebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco l’ora segnata dall’orologio. «Oh no!» esclamo rizzando la schiena, «sono le nove e quarantatré.» Il movimento brusco sveglia Wendy. Puntella i gomiti sul pavimento e mi osserva sbadigliando. «Che succede?» domanda ancora assonata. «Alle dieci arriva la signora Lopez, dobbiamo alzarci e prepararci. E in fretta!» Mi alzo con un gesto agile, ma mi pento subito dopo di averlo fatto, visto che la schiena mi manda un segnale di dolore acuto nella zona lombare. Mi domando come cavolo ho fatto a dormire così tante ore in quella scomoda posizione. Prima di abbandonare la stanza, mi rivolgo a Wendy che in modo diligente si sta già vestendo. «Come ti senti?» Alza le spalle e sospira. «Non credo di avere una risposta alla tua domanda. È un miscuglio di emozioni

a cui nemmeno io so dare un nome. Però ora non ho voglia di parlarne, e in più dobbiamo fare vedere alla signora Lopez che va tutto bene, no?» termina con un sorriso malinconico. «Certo» rispondo uscendo dalla stanza. Ho come l’impressione che tentiamo di far vedere al mondo intero che va tutto bene, anche quando il nostro mondo interiore va a rotoli. In fondo, è così che vanno le cose. Alla domanda “come va” siamo abituati a rispondere sempre “bene” e nessuno si preoccupa di indagare cosa si nasconda in realtà dietro quel “bene”.

Alle dieci in punto il suono del camlo rimbomba per tutta la casa. Io e Wendy ci scambiamo uno sguardo d’intesa e io vado ad aprire la porta. «Buongiorno» esclamo con enfasi, forse un po’ troppa enfasi. La signora Lopez solleva un sopracciglio e risponde. «Buongiorno signorina Huge. Sembra che si sia svegliata di buonumore oggi.» Se sapesse com’è andata la notte appena trascorsa non sarebbe della stessa opinione. La faccio entrare e accomodare sul divano. «Vuole un caffè o un tazza di tè?» Domanda Wendy, affiancandomi. «No, ti ringrazio. Ho appena fatto colazione. Sono a posto così.» Invece noi non ne abbiamo avuto il tempo e lo stomaco mi si sta attorcigliando su se stesso. Il problema è che non sono riuscita nemmeno a prendere la mia pastiglia questa mattina, perché devo obbligatoriamente farlo a stomaco pieno e questo pensiero spinge l’acceleratore sulla mia ansia anticipatoria. «Fa caldo oggi» affermo per trovare una scusa per alzarmi. Mi dirigo verso la

finestra, la apro e faccio un profondo respiro, cercando di abbassare le pulsazioni del cuore. Ritorno a sedere, ma la situazione non sembra migliorare e anche la vista comincia ad offuscarsi. «Si sente bene?» domanda la signora Lopez notando l’agitazione che si sta impossessando di me. «Sì, è che questa mattina mi sono alzata presto per lavorare ed ero talmente concentrata che non ho fatto in tempo a mangiare nulla. Per cui credo di avere un calo di zuccheri.» La scusa più plausibile che mi viene in mente. «Certo, la capisco, anche a me succede a volte» sorride comprensiva, «perché non mangia qualcosa mentre io faccio due chiacchere da sola con Wendy.» «Va bene. La ringrazio molto.» Dopo aver ingoiato due biscotti al massimo della velocità, prendo la pastiglia e il solo fatto di assumerla mi fa sentire già più tranquilla. Ritorno in salotto e la conversazione deve essere meno pesante di quello che pensavo perché, sia la signora Lopez che Wendy, stanno sorridendo. «Come si sente ora?» L’assistente sociale sposta l’attenzione su di me. «Molto meglio grazie. Avevo proprio bisogno di mangiare qualcosa.» «Mi fa piacere. Wendy mi stava raccontando che tutti i giorni andate al parco dove vi fermate sempre a giocare con un cane e che avete intenzione di trascorrere un fine settimana in montagna facendo trekking» esclama entusiasta. Ruoto la testa in direzione di Wendy che mi osserva annuendo con un gran sorriso stampato sulle labbra. Non so perché abbia mentito, ma se l’ha fatto sicuramente è per una buona ragione e io devo reggerle il gioco. «Ma certo! Ho sempre amato camminare per i boschi e pensavo che sarebbe stata un’esperienza entusiasmante anche per lei.»

«Ne sono sicura» conferma con aria soddisfatta. «Ora cara, se puoi lasciarmi sola con tua zia, ho bisogno di parlare un attimo con lei.» Si alza e salterellando risale le scale. «Ho parlato con sua sorella. Le assegneranno un avvocato d’ufficio.» «Come sta?» domando interrompendola. «Di salute meglio di prima, visto che la carcerazione la sta obbligando a disintossicarsi.» «Possiamo andare a trovarla?» «Ecco, stavo arrivando al punto. Ancora non si può, ma ha il permesso di parlare al telefono con lei e sua figlia. Questo è il numero a cui può telefonare. E questo invece è il numero dell’ufficio dell’avvocato.» Mi porge un biglietto da visita e un pezzo di carta su cui ha scritto a mano il numero della prigione. «Come le stavo dicendo, non ho molte informazioni in più su sua sorella, e a questo punto non credo nemmeno che la mia presenza ora sia necessaria. La mia priorità è che la ragazzina stia bene e a quanto pare lei sta facendo un ottimo lavoro. Non sempre è facile trovare una sistemazione immediata in casi come questo» sospira. «Ora devo andare, purtroppo ho un altro bambino da aiutare» mormora sconsolata. «In ogni caso non esiti a chiamarmi se dovesse insorgere qualche problema» termina alzandosi e dirigendosi verso l’uscita. Allunga la mano. «Le auguro buona fortuna.» «Grazie di tutto» rispondo ricambiando la stretta. Wendy scende le scale e mi viene incontro. «È andata bene?»

«Sì, benissimo, a quanto pare le tue bugie hanno funzionato alla grande» rispondo portandomi le mani sui fianchi. «Preferivi che le dicessi che devi prendere tutti i giorni una pastiglia contro l’ansia, che ogni lunedì c’è qualcuno che ti consegna a casa la spesa e che una volta alla settimana frequenti un gruppo di psico-aiuto?» domanda inclinando la testa di lato e alzando le sopracciglia. Alzo le mani in segno di resa. «Okay, okay. Ho afferrato» sbuffo. «Sei troppo intelligente per la tua età. Credo che mi darai del filo da torcere» insinuo scherzando. «A proposito» le dico mostrandole il biglietto e il pezzo di carta che mi ha lasciato la signora Lopez, «qui c’è il numero per poter chiamare la mamma.» Il sorriso sul suo volto si spegne. «Non voglio parlare con lei» commenta con tono deciso. «Non vuoi sapere come sta?» Incrocia le braccia al petto e abbassa la testa. «Lei non sembrava molto interessata a me ultimamente. Perché dovrei farlo io? Era lei la mia mamma, invece in questi ultimi anni mi sembrava di essere io la sua.» Appoggio le mani sulle ginocchia per guardarla dritto negli occhi. «Ascolta Wendy. So che devi sentirti ferita, ma ti posso assicurare che tutti nella vita commettiamo degli errori e la maggior parte delle volte ce ne pentiamo amaramente. Non voglio difenderla solo perché è mia sorella, ma come mi hai confermato tu stessa, nel ato era una mamma amorevole. Sono certa che si sia pentita degli sbagli che ha commesso, e che se tornasse indietro, farebbe le cose in modo diverso, ma non parlarle e allontanarti da lei, non credo che sia la soluzione migliore ai tuoi problemi. Non ti farebbe sentire bene, anzi credo che la rabbia che provi si insinuerebbe dentro di te, scaverebbe sempre più in profondità e alla fine ti farebbe sentire peggio. Fidati, parlo per esperienza personale. Non vorrai ridurti come me a prendere pillole per l’ansia, vero?»

termino cercando di metterla un po’ sul ridere. Il corpo di Wendy si rilassa, abbandona le braccia lungo i fianchi ed emette un lungo e profondo sospiro. «È che sono così furiosa. Con lei per essere cambiata così tanto, con Bill per aver rovinato tutto e con il mondo intero. Stavamo così bene quando eravamo solo io e lei. Perché ha fatto entrare quell’uomo nella sua vita? È stata la fonte delle nostre disgrazie. Lui ha portato la droga in casa, distruggendo la nostra famiglia. E ora che ha ucciso un uomo, sarà costretta a are tantissimi anni in carcere e io dovrò continuare la mia vita senza di lei. È stata egoista. Ha preferito la droga e un uomo a me. Mi ha abbandonata. Capisci?» Le lacrime le solcano il viso e le ricadono sulla punta delle scarpe emettendo un debole suono. «Ascolta Wendy» le dico afferrandola per le spalle, «guardami negli occhi. Capisco la tua rabbia e non ti dico che devi trattenerla, anzi, fai bene a sentirla, accettarla per poi lasciarla fluire fuori da te. Ma ricorda che sul ato non abbiamo controllo. Non abbiamo una bacchetta magica e non possiamo tornare indietro nel tempo per cambiarlo. Quello che conta è quello che decidi di fare oggi, questo sì che ha importanza, perché sono le scelte di oggi che plasmeranno il tuo futuro. Sono le decisioni che prendi ora che influenzeranno la persona che vorrai essere negli anni venturi.» Mi fermo un attimo a riprendere fiato e mi rendo conto che sto parlando come la mia psicologa. Credo finalmente di capire quello che ha cercato di trasmettermi durante tutto questo tempo. «Per quanto riguarda quello che è accaduto la scorsa settimana» continuo, «in realtà non sappiamo esattamente cosa sia successo quella notte. Prima di trarre delle conclusioni affrettate dovremmo parlare con tua madre e con l’avvocato. Sai, non sempre le cose sono come sembrano. La cosa più importante che possiamo fare in questo momento è stare unite e farci forza l’una con l’altra. Va bene?» le domando allungando un mignolo all’altezza del suo naso. «Va bene» risponde stringendolo con il suo. Ci sediamo entrambe sugli sgabelli della cucina e componiamo il numero di telefono della prigione.

Dall’altra capo del filo risponde una donna con un tono duro e forse un po’ scocciato. «Buongiorno. Mi chiamo Joy Huge. Sono la sorella di Felicity Huge. So che è detenuta presso di voi e vorrei parlare con lei, se fosse possibile.» Momento interminabile di silenzio, seguito da una grassa risata. «Signora Huge, qui non siamo in un hotel e lei non sta chiamando la reception, se ne rende conto? Non portiamo il telefono in cella alle prigioniere perché possano farsi due chiacchiere. Mi capisce?» domanda con voce arrogante. «Cert… certamente» balbetto intimorita, come se mi trovassi davanti a un plotone di esecuzione. Sento che la signora emette un profondo sospiro e poi ricomincia a parlare. «Okay. Mi lasci il suo numero telefonico e quando le sarà concesso effettuare telefonate la farò chiamare.» «Oh, sì. Perfetto. La ringrazio molto.» Le detto il numero e riattacco il telefono abbandonando la mano sulla cornetta per qualche secondo. «Quindi?» Domanda Wendy spalancando le braccia. «Richiama lei, quando le sarà concesso di effettuare una telefonata.» «Capisco» risponde delusa, «vado un po’ a leggere.» Inizia a mordicchiarsi l’interno della guancia guardandosi intorno, poi si alza e si dirige verso la libreria. Dopo aver scelto un libro si siede sulla poltrona, mentre io resto immobile continuando a fissare il telefono, nella speranza che suoni il prima possibile.

CAPITOLO VI

Drin drin. Apro gli occhi, d’istinto ruoto il polso per controllare l’ora. Sono le 17.58 e a quanto pare io e Wendy ci siamo addormentate sul divano. «Felicity» esclamo scattando in piedi come un soldatino. «Pronto» rispondo con voce affannata. «Ehi, sorellina.» È ato molto tempo dall’ultima volta che ho udito quella voce, ma non posso scordarla. È la stessa che mi sussurrava di stare calma nelle notti in cui i temporali mi terrorizzavano, la stessa che mi cantava le canzoni per farmi addormentare. «Ciao sorellona» rispondo trattenendo le lacrime. Attimi di silenzio, in cui nessuna delle due sa cosa dire. Me l’immagino, mentre solleva lo sguardo al cielo, nel tentativo di cercare le parole giuste con cui cominciare. «Mi dispiace Joy, davvero. Per tutto. Per essere sparita dalla tua vita per tutti questi anni. E ora, per averti cacciata all’improvviso in questa situazione» sibila con tono desolato. Arrotolo e srotolo l’indice nel filo della cornetta. «Perché lo hai fatto?» «Cosa? Quali delle tante orribili cose che ho commesso mi stai chiedendo?» «Perché te ne sei andata di casa e non sei più tornata?»

Alla fine aveva ragione l’assistente sociale, in un certo senso, anche io mi sono sentita abbandonata da lei. Sbuffa. «Lo sai perché, volevo solo proteggere mia figlia.» «Okay, va bene» sbraito, «ma papà è morto subito dopo la tua partenza, e tu non sei nemmeno venuta al funerale. Sapevamo che saresti rimasta per un po’ a casa della tua amica e gliel’abbiamo riferito, ma non ti sei presentata. Perché?» «Non ho voglia di parlarne» replica tirando su con il naso. «Sono certa che mamma ti avrebbe aiutata.» «No, lei non mi avrebbe aiutata» replica gelida, «nemmeno lei voleva che tenessi la bambina, te lo assicuro.» «Secondo me ti sbagli» protesto. «Sei tu che ti sbagli!» Lo grida con una tale energia che sono costretta ad allontanare la cornetta dall’orecchio. «Scusami Joy» mormora con un tono più dolce, «non volevo risponderti così, è solo che stare qui dentro mi fa impazzire. Come sta Wendy? Posso parlare con lei?» Avrei ancora un milione di domande da porle ma credo che sua figlia abbia più bisogno di lei di quanto ne abbia io. «Certo. Te la o.» Resto al suo fianco, per cercare di captare quello che si dicono e per sostenerla in caso di qualche scatto improvviso di rabbia, ma più che arrabbiata sembra assente. «Sto bene» risponde senza entusiasmo. «Sì, qui da zia Joy mi trovo bene.» Rimane diversi minuti senza parlare ando e arrotolando le dita fra i capelli. Immagino che mia sorella le stia dicendo una serie di cose, che però, non

sembrano scalfire l’animo di Wendy. «Okay. Sì. Anch’io.» Le sue ultime parole prima di riarmi la cornetta. «Mi odia, e ha ragione» sospira sconsolata Felicity. «No, non ti odia, te lo posso garantire. Ma devi darle tempo. Anzi a dire il vero sono stupita di come sta affrontando il tutto. È una ragazzina molto forte» le faccio notare. «Sì, lo è sempre stata, e mi sento in colpa per averle addossato così tante responsabilità quando era solo una bambina. Non sono stata una brava madre» sussurra singhiozzando. «Felicity, lei ti vuole bene. Credimi… ma…» È molto più dura di quanto pensassi farle certe domande. «Ma qui non stiamo parlando solo di droga. Hai ucciso un uomo» sussurro per non farmi sentire da Wendy. «Lo so che non mi crederai mai, ma ti giuro, io non so come sia successo. Non ricordo nemmeno di essere entrata in casa di quell’uomo» confessa. «L’assistente sociale ha detto che eri talmente imbottita di droga che probabilmente non ti ricordi nemmeno i fatti» replico. «Joy, ora devo chiudere, ho finito il tempo a disposizione e la guardia carceraria mi sta incenerendo con lo sguardo. Ci sentiamo il prima possibile. Grazie per tutto quello che stai facendo sorellina. Ti voglio bene.» «Anch’io.» «Hai risposto solo “anch’io” esattamente come Wendy» commenta con tono triste. Immagino che sia perché, nel profondo del nostro cuore l’amiamo, ma siamo entrambe furiose con lei e, in modo inconscio, non dirglielo è un po’ come punirla. «A presto» aggiungo interrompendo la comunicazione.

iamo il resto della serata a guardare la televisione, senza parlare. Credo che in realtà nessuna delle due stia guardando quello che stanno trasmettendo, ma penso piuttosto che siamo entrambe perse nel nostro mondo interiore, fatto di domande a cui non sappiamo dare una risposta. «Vado a dormire» dice Wendy alzandosi dal divano. «Penso proprio che seguirò il tuo esempio, mi sento esausta. Che ne dici se domattina presto andiamo a fare una eggiata per il paese?» aggiungo subito dopo. Mi osserva con sguardo interrogativo come se le stessi svelando chissà quale mistero. «Non ho detto che non esco mai di casa. Lo faccio ogni tanto e negli orari in cui mi sento più tranquilla» mi difendo. «Tipo?» «Tipo alle sei di mattina?» replico sorridendo. Si porta una mano alla fronte e scuote la testa. «Va bene zia Joy, ci vediamo all’alba» risponde sparendo nell’oscurità delle scale.

Anche se siamo in giugno, l’aria del mattino è frizzante ed è piacevole percepire come mi solletica la pelle, facendola sentire viva. «È molto più piccola di Phoenix» mi fa notare Wendy. «Ci sono poco più di quarantamila abitanti. Dove vivevi prima ce ne sono più di un milione e mezzo» le spiego. «Però mi piace camminare a quest’ora» osserva mettendosi le mani nelle tasche dei jeans. «Sì, anche a me» confermo.

Ho sempre affermato di sentirmi più come un animale diurno che notturno. Mi piace camminare per le strade quando la città è ancora addormentata per poter osservare i primi risvegli della mattina. A quest’ora sembra tutto più tranquillo, la gente non è ancora presa dagli affanni della giornata. È come se il risveglio richiudesse in sé la consapevolezza del momento presente. Il primo caffè del giorno, sorseggiato con calma davanti alla pagina di un giornale o la prima eggiata con il cane. Il magico momento dell’inizio. Un nuovo giorno. Nuove opportunità da sfruttare per essere una persona migliore. «A cosa stai pensando?» domanda Wendy distogliendomi dai miei pensieri. Tralascio le mie riflessioni filosofiche per are ad aspetti più pratici. «Oggi voglio contattare l’avvocato della mamma per parlare con lui e sapere come intende procedere» la informo. Calcia un sasso con la punta del piede e si richiude di nuovo nel suo mondo, come se così facendo potesse difendersi da tutto quello che lascia fuori. Da una parte la capisco, perché io reagivo nello stesso modo, ma sto imparando a mie spese, che i muri che erigiamo intorno a noi, possono aiutarci a tenere lontano le paure, le difficoltà, ma quegli stessi muri impediscono anche alla gioia e alla felicità di entrare.

«Buongiorno, potrei parlare con il signor Cooper?» chiedo rigirando il bigliettino da visita fra le dita. «Sono io» farfuglia una voce maschile dall’altra parte del filo come se stesse ingurgitando qualcosa. «Oh, credevo che rispondesse una specie di centralino» replico perplessa. «Bè, non sono ancora un avvocato così famoso da potermi permettere una segretaria personale» mi fa notare.

«Scusi, non volevo essere impertinente» rispondo mordendomi la lingua. «No, no» si affretta ad aggiungere, «non si preoccupi. Stavo scherzando. In ogni caso, di cosa aveva bisogno?» chiede tornando serio. Mi schiarisco la voce. «Sono la sorella di Felicity Huge, mi hanno detto che lei è stato assegnato al suo caso e volevo chiederle…» «Aspetti, aspetti» grida come se avesse scoperto qualcosa. La mia fantasia si mette in moto e comincia a delineare l’aspetto del mio interlocutore. Immagino un uomo di mezza età, con grandi occhiali dalle spesse lenti, che gli ricadono sulla punta del naso a causa del sudore che gli imperla il volto. Stringe fra l’indice e il medio un mozzicone di sigaro e con l’altra mano è intento a rimuovere tutte le cartacce che ricoprono una vecchia scrivania di legno. «È ancora lì?» mi domanda strappandomi dall’immaginazione e riportandomi alla realtà. «Sì, certo!» «Avevo proprio qui sotto il suo indirizzo» mi comunica. L’immagine delle cartacce riaffiora prepotente nella mia mente. «Mi ha letto nel pensiero, perché stavo pensando di chiamarla stamattina per prendere un appuntamento per parlare con lei. Ecco qui la cartella!» esclama infine trionfante. «Joy Huge?» domanda. «Esatto.» «I suoi genitori devono essere davvero persone pervase da pensieri positivi per scegliere di chiamare le proprie figlie “felicità” e “gioia” avendo come cognome “enorme”» scherza di nuovo.

Resto in silenzio senza trovare una risposta adatta. «Non volevo offenderla. È che devo affrontare tutti i santi giorni intricati problemi che talvolta mi piace sdrammatizzare» si scusa. «Non si preoccupi. Non mi sono offesa. Mi stava accennando a un appuntamento» lo incalzo cambiando argomento. Ci accordiamo per incontrarci a casa mia alle cinque del pomeriggio. Non che mi entusiasmi l’idea di avere nuovi contatti umani, ma almeno nel mio rifugio mi sento più a mio agio. Mi accorgo sempre di più che Wendy sta stravolgendo la mia vita. Anni scanditi da insane abitudini mentali, sono stati spazzati via dal suo arrivo. Certo, avrei preferito che accadesse in un contesto differente, ma grazie a lei sento che, giorno dopo giorno, mi sto riappropriando di una forza interiore che avevo perso da tempo. Prima non avevo energie sufficienti per lottare, perdendo molte battaglie personali, però ora, il solo fatto di aver trovato un senso alla mia esistenza mi trasmette la voglia di vincere la guerra.

Il borbottio fastidioso di una macchina che sembra stia arrivando ai suoi ultimi giorni di vita attira la mia attenzione. Mi avvicino alla finestra, scosto le tende e noto che qualcuno sta parcheggiando nel vialetto. È una vecchia Ford Capri degli anni settanta, di colore giallo con il cofano nero. La riconosco perché quando ero piccola ne possedevamo una simile, ma è ato molto tempo dall’ultima volta che ne ho vista una. La portiera si apre e un ragazzo con indosso una felpa grigia e un paio di jeans esce dall’auto. Recupera uno zaino dal sedile posteriore, se lo mette sulle spalle e si avvicina alla porta. Suona e io mi accosto allo spioncino per guardarlo da più vicino. Voluminosi riccioli neri gli incorniciano il viso dove spiccano due profondi occhi blu cobalto. «Chi è?» domando senza aprire.

«Sono l’avvocato Cooper» risponde. L’immagine del vecchio avvocato occhialuto e sudato, svanisce sopra la mia testa come una nuvola di fumo. Apro le tre serrature e scosto la porta lasciando sempre la catenella inserita. «Lei non sembra un avvocato» affermo indicando il suo aspetto. «E lei giudica senza conoscere i fatti» replica portandosi con le dita una ricciolo dietro l’orecchio. «Mi potrebbe mostrare un documento per favore?» insisto. «Lei sarebbe un giurato difficile da convincere» dice mentre estrae il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans, «e in un certo senso è una cosa buona. Vuol dire che vuole verificare a fondo le circostanze prima di prendere una decisione, e sono le persone come lei che mi danno più affidabilità» conclude allungandomi la carta d’identità. Con gli occhi scorro i dati impressi sul documento soffermandosi sulla data di nascita: diciotto dicembre del millenovecento sessantasette. «Ha solo quattro anni in più di me.» I miei pensieri prendono voce e, senza rendermene conto, quello che volevo rimanesse solo un pensiero arriva al mio interlocutore. «Signorina Huge, sta giudicando di nuovo.» È strano. Lotto da molti anni contro una fobia che trova il suo fondamento principale nella paura di essere giudicati e io sto facendo esattamente questo. «Le chiedo scusa» rispondo confusa. Tolgo la catenella, spalanco la porta e lo lascio entrare. «Vuole un caffè?» domando cercando di assumere un tono più gentile e meno sospettoso. «Non bevo quell’acqua sporca che qui in America si è soliti definire caffè, ma se

posso usufruire per cinque minuti della sua cucina, ho portato con me l’occorrente per preparare un vero caffè» dice con orgoglio estraendo dallo zaino una piccola moka, che ricordo aver visto in qualche pubblicità e un sacchettino color argento. Resto a guardarlo interdetta dalla risposta, in attesa di una spiegazione. «Mia madre è italiana e il caffè è stato sempre un rituale sacro in casa nostra. Non era mia intenzione mancarle di rispetto, ma le tradizioni vanno rispettate» termina facendomi l’occhiolino. «Capisco» rispondo accennando un mezzo sorriso. «Posso?» chiede indicando la cucina. Gli faccio strada e resto a osservarlo mentre prepara il caffè. Svita la caffettiera con attenzione e dai lenti movimenti che esegue capisco che per lui è veramente un rituale. «Una volta che lo avrà assaggiato non vorrà più tornare indietro» afferma con decisione. Dopo pochi minuti, la moka inizia a emettere un leggero gorgoglio. Gli allungo due tazze e lui le riempie solo di un quarto. «Se ne beve di più, non dorme per due giorni» spiega sorridendo. Aggiungo un po’ di zucchero e inizio a sorseggiarlo con calma lasciando che quel liquido nero m’invada le papille gustative. «È amaro» esclamo arricciando le labbra. L’avvocato inizia a ridere. Non è un sorriso di circostanza, è piuttosto un sorriso vero, genuino. Noto delle piccole rughe formarsi agli angoli della bocca e mi sovviene la frase di Mark Twain. “Le rughe dovrebbero semplicemente indicare il posto in cui erano i sorrisi”. Mi domando se la persona di fronte a me, abbia avuto un ato felice e, se ora, i segni che porta sul volto ne siano la testimonianza. A poco a poco il suo sorriso

mi contagia e mi rendo conto che sto vivendo un momento di serenità con un perfetto sconosciuto. Una cosa che non avrei mai immaginato possibile. Appoggia la tazza sul ripiano della cucina, intreccia le dita e, stirando le braccia in avanti, le fa schioccare. «Bene, ora che abbiamo rotto il ghiaccio, parliamo di sua sorella.» La sua voce all’improvviso assume un tono più serio riportandomi alla realtà. Ritorniamo in salotto, l’avvocato si siede sul divano e io mi lascio cadere nella mia poltrona “protettiva” di fronte a lui. «Da una prima ricostruzione dei fatti sembra che sua sorella sia entrata in quella casa, che abbia tentato di rubare qualcosa e che il colpo non sia andato a buon fine. Il proprietario l’ha colta in flagrante e lei per difendersi gli ha sparato. In seguito allo sparo sembra che sia caduta sbattendo la testa e che sia svenuta a causa del colpo. A questo punto i vicini, udendo lo sparo, hanno chiamato la polizia che è accorsa immediatamente cogliendola sul fatto.» «Questo è quello che mi hanno già riferito» commento spostandomi sul bordo della poltrona e allungando la testa per sbirciare il fascicolo che stringe fra le mani. «Ma ci sono molti punti che non mi quadrano» asserisce chiudendo con forza la pratica e ignorando la mia affermazione. Si alza in piedi e inizia a camminare per la stanza massaggiandosi la base dal naso con la punta dell’indice e del pollice. «Quali punti?» domando con un filo di voce. Si rimette a sedere e si sporge verso di me, lasciando una distanza di soli trenta centimetri fra i nostri volti. Mi schiarisco la voce. Un’esplosione di calore parte dal centro del petto irrorando tutti i vasi sanguigni del mio corpo e percepisco il volto prendere fuoco. «Si sente bene?» mi domanda notando la mia reazione esagerata.

Maledetta fobia! «Sì, non si preoccupi. Credo che sia l’agitazione per quello che mi sta dicendo» rispondo cercando di trovare una scusa plausibile. Si alza di nuovo in piedi, lasciandomi lo spazio necessario per riprendere il controllo del mio corpo. «Punto uno» comincia a elencare sollevando il pollice «se sua sorella fosse stata veramente imbottita di droga come risulta dagli esami, come avrebbe potuto guidare fino a casa del signor Parker e parcheggiare la macchina perfettamente dentro le linee? Può essere un colpo di fortuna, ma lo trovo davvero improbabile. Punto due: non ci sono infrazioni. Questo significa che la vittima conosceva l’assassino e che l’ha fatto entrare, quindi il proprietario non può essere stato preso alla sprovvista.» «Se fosse vero quello che sta dicendo, non ha nemmeno senso che la casa sia stata messa sotto sopra e che il signor Parker l’abbia scoperta mentre frugava nella sua casa» affermo tentando di seguire il filo del discorso. «Esatto! Sembra che ci sia stato un tentativo di sviare le indagini in quella direzione. Il vero assassino non è stato molto furbo nel ricostruire la scena del crimine, secondo il mio parere.» «Lei pensa che mia sorella si innocente?» domando speranzosa. «Io credo di sì. Ora, la cosa più difficile è dimostrarlo. Alla fine era lei quella stesa per terra, con in mano una pistola e il proiettile che ha ucciso il signor Parker è partito proprio da quell’arma.» Il barlume di speranza che sia era appena viene spento da quell’ultima affermazione. «Joy» sussurra con tono dolce. Il mio nome pronunciato in quel modo mi fa sussultare sulla poltrona. «Non mi arrendo. Credo nell’innocenza di sua sorella e farò di tutto per dimostrarlo» mi rassicura.

Si siede di nuovo di fronte a me e mi scruta negli occhi. «Si fida di me?» Mi fido di lui? Quando è stata l’ultima volta che mi sono fidata di qualcuno? Mi restano solo ricordi offuscati. Mi sono così abituata a fidarmi solo di me stessa che ho perso la capacità di farlo nei confronti degli altri. Ma questa volta è diverso. L’uomo di fronte a me, potrebbe riportarmi indietro mia sorella e potrebbe restituire a Wendy la sua mamma. Per cui non ho altra scelta che riporre in lui tutta la mia fiducia. «Certamente, avvocato Cooper.» «Jack. Chiamami Jack per favore.» Sorrido. «Va bene, Jack.» L’orologio che indossa al polso inizia a emettere una sequenza di bip. «Oh, cavolo! Non posso trattenermi oltre Joy. Devo andare a prendere mio figlio.» Alla parola “figlio” sento una strana stretta al cuore, come se in un angolo remoto, quel muscolo quasi atrofizzato avesse cominciato a sentire una sensazione dimenticata, o forse mai provata. La reprimo, ricacciandola nel luogo in cui è sempre stata. Jack rimette il fascicolo nello zaino e si avvia verso la porta. «La tua moka» grido correndo in cucina per recuperarla. «Tienila tu. Così, la prossima volta che o di qui mi puoi offrire un vero caffè» insinua scherzando. Esce di casa, mette in moto la macchina e parte a grande velocità, lasciandosi dietro una scia di speranza sull’innocenza di Felicity.

CAPITOLO VII

Sfoglio il quotidiano che ogni mattina mi viene recapitato, o meglio lanciato, davanti alla porta di casa. Non leggo mai le pagine di cronaca perché mi trasmettono sempre un senso di angoscia e vado direttamente alla fine dove sono riportati gli avvenimenti culturali. Con la coda dell’occhio sbircio Wendy. È seduta di fronte alla finestra, il mento appoggiato sul palmo della mano e con lo sguardo perso nel vuoto. Mi sento un po’ in colpa. Se fossi stata un altro tipo di persona, l’avrei già portata a fare shopping, o a mangiare da qualche parte, invece la obbligo a are tutta la giornata in casa e non è giusto per una ragazzina di tredici anni e, soprattutto, non è giusto per una ragazzina come lei, con il suo trascorso. Riporto l’attenzione sulla pagina degli spettacoli e decido che è arrivato il momento di interrompere quella routine solitaria. «Che ne dici se andiamo al cinema stasera?» le domando cercando di caricare di enfasi la proposta. Ruota la testa nella mia direzione. «A vedere cosa?» Non credo di essere riuscita a contagiarla con il mio entusiasmo, però non mi arrendo. «Esce un film con uno dei miei attori preferiti, Tom Hanks. Il film s’intitola Forrest Gump e sembra davvero interessante. È tratto dal romanzo di Wiston Groom.» Sono certa che quest’ultima affermazione potrebbe risvegliare il suo interesse. «Fammi leggere la trama» dice balzando giù dalla sedia e afferrando il giornale.

«Sembra triste» commenta, «però interessante. Andiamo» conclude porgendomi di nuovo il quotidiano.

Il cinema è affollato e devo riunire tutte le mie forze per non farmi prendere dall’ansia. Wendy deve accorgersi del mio stato d’animo perché mi prende la mano e sorride. «Non ti preoccupare, ci sono io qui con te.» «Sei un regalo dell’universo» sussurro appoggiandole la guancia sulla testa. «Signorina Huge» sento chiamare alle spalle. Mi volto e intravedo il ragazzo delle consegne. «Ciao Joshua.» Si fa largo in mezzo alla gente e si avvicina. «Anche lei è venuta a vedere il film? Dicono che sarà un gran successo.» «Ti prego, chiamami Joy. Dandomi del lei mi fai sentire un’anziana signora, e invece suppongo che dovremmo essere più o meno coetanei.» Si porta una mano fra i rossi capelli pettinandoli all’indietro. «Va bene, Joy. Ti dispiace se mi siedo con voi? Nessuno dei miei amici era interessato al film, ma sono certo che se ne pentiranno.» Guardo Wendy per ricevere un consenso da parte sua prima di prendere una decisione. «Certo che puoi unirti a noi» gli risponde sorridendo. Durante la proiezione la sala è immersa in un silenzio totale, interrotto ogni tanto dal rumore di qualcuno che mastica popcorn o da un pianto sommesso.

Dopo quasi due ore e mezzo usciamo dal cinema e, non appena siamo lontane dal rumore della gente, io e Wendy ci guardiamo negli occhi e, come se potessimo comunicare in modo telepatico l’una con l’altra, esclamiamo all’unisono: «La vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita.» Ci abbracciamo strette e lasciamo che deboli lacrime scorrano sulle guance, portando via i momenti tristi che ci hanno segnate. La mia scatola era formata da cioccolatini amari che non ero più capace di ingerire, ma giorno dopo giorno, ho iniziato ad accettare quel sapore forte, fino ad arrivare ad apprezzarlo. Ora la scatola ha cominciato a racchiudere cioccolatini dolci e ho la possibilità di assaporarli a fondo provando gioia nel farlo. «Tu sei uno dei miei cioccolatini preferiti» sussurra Wendy fra le lacrime. «Ti voglio bene» le dico stringendola ancora più forte a me. Ritorniamo a casa camminando con molta calma. Per fortuna il cinema dista solo dieci minuti a piedi e sarebbe uno spreco non godere di una eggiata in una notte d’estate come questa. Gli unici rumori che ci accompagnano, sono il fruscio delle foglie degli alberi, che muovendosi come in una danza, si accarezzano l’un l’altra e il verso cadenzato dei rapaci notturni. Alzo lo sguardo e resto affascinata dal cielo che è puntellato da innumerevoli stelle pulsanti. «A Phoenix ci sono meno stelle» commenta Wendy osservando il firmamento. Sorrido al commento. «Il problema è che le luci artificiali della città le offuscano» le spiego. «Oh, che peccato. La gente si perde tante cose meravigliose quando vive in una grande città» afferma. «Sì, lo credo anch’io.»

«Non ho molto sonno» ammette Wendy entrando in casa, «credo che sceglierò un altro libro da leggere.» Sono più che favorevole alla ione che manifesta per la lettura, però non vorrei che asse troppo tempo sola, vorrei piuttosto che condividesse le sue preoccupazioni con me. «Ho un’idea migliore. Siediti sul divano. Torno subito» le suggerisco prendendo una scaletta. Apro lo sportello più alto del mobile del salone ed estraggo un grosso album di fotografie rilegato da una copertina in legno decorata. Torno da Wendy e mi siedo di fianco a lei, appoggiando l’album sulle ginocchia. «Ti presento la famiglia Huge» esclamo sollevando il sottile strato di legno. La foto presente nella prima pagina ritrae i miei genitori nel giorno del loro matrimonio. «Questi sarebbero i miei nonni?» Wendy toglie con cura la fotografia dagli angoli che la racchiude e la porta a dieci centimetri dal volto, per poterla osservare meglio. «Sì, lei è mia madre Abigail e lui è mio padre Elias.» «Lui sembra molto più… vecchio» commenta. Mi stupisce il fatto che Felicity non le abbia mai parlato dei nostri genitori, anche se non andavano d’accordo non mi sembra un motivo sufficiente per cancellare del tutto la propria famiglia di origine. «Sì, hai ragione, avevano quindici anni di differenza. In effetti, quando è nata tua madre, Elias aveva quarantacinque anni e quando sono nata io ne aveva già cinquantadue. A dire il vero, era un po’ strano per quell’epoca diventare genitori a quell’età.» «La mamma assomiglia a vostro padre. Hanno gli stessi lineamenti e lo stesso colore di capelli» constata. «A dire il vero anche tu gli assomigli. Da questa fotografia non si può notare

bene, ma hai gli stessi occhi verdi che aveva lui» le dico indicandoglieli. «Sono morti?» mi domanda rimettendo a posto la foto. «Mia sorella non ti ha mai parlato di loro?» domando stupefatta. «In realtà, ha sempre cercato di evitare di parlarne, per cui non sono mai riuscita a capire se fossero morti o se vivessero da qualche parte lontano da noi» mi spiega. Faccio un profondo respiro e rispondo alla domanda. «Mio padre è morto pochi giorni dopo la tua nascita, invece mia madre è ancora viva. Dopo aver trascorso alcuni mesi di lutto, ha conosciuto un uomo se, e visto che oramai io ero maggiorenne, ha deciso di lasciare Prescott per andare a vivere con lui in Europa.» «Ti manca?» Probabilmente si aspetta una risposta affermativa a quella domanda, ma non sono certa che sarebbe quella corretta. Scrollo le spalle. «Non lo so. Ci sentiamo solo per i compleanni e per farci gli auguri di Natale.» Pensavo che vedere le foto di sua madre da piccola avrebbe rallegrato la serata, ma credo di aver fatto male i miei calcoli e ora non ho più voglia di continuare quella conversazione. «Che ne dici se andiamo a dormire? Sto cominciando a sentirmi davvero stanca.» «Posso continuare a guardare le foto da sola in camera da letto?» mi prega congiungendo le mani. «Certamente.» Le porgo l’album e lei risale le scale correndo.

CAPITOLO VIII

Stringo una penna fra le labbra, mentre con l’altra continuo a correggere le pagine del manoscritto su cui sto lavorando. Non ho mai consegnato un lavoro in ritardo, anche perché trascorrevo intere giornate facendo solo quello, ma ultimamente le cose sono cambiate ed è come se all’improvviso avessi una vita privata che non contempla solo il lavoro. «Quanti segni rossi» esclama Wendy allungando il collo per controllare i fogli. «Mmm, mmm…» è l’unico suono che sono capace di emettere. «Zia Joy.» Se mi faccio distrarre un’altra volta rischio di non terminare in tempo. Devo assolutamente rispedire indietro il manoscritto corretto entro domani. «Ora non posso» farfuglio senza mollare la presa della penna tra le labbra. «Non vorrei disturbarti, ma vorrei farti presente che oggi è lunedì.» Sentirmi dire ad alta voce che giorno è mi mette ancora più pressione. «Lo so, lo so» mi lamento portandomi una mano alla fronte. «E sono le dieci di mattina» continua lei. Sbuffo e lascio cadere entrambe le penne sul tavolo. «E quindi?» Il suono del camlo annuncia l’arrivo di qualcuno. Wendy solleva entrambe le sopracciglia e si porta le mani ai fianchi. «Quindi è arrivata la spesa e tu indossi ancora il pigiama, o quello che è, con il

Bianconiglio» termina incrociando le braccia davanti al petto. Sposto la sedia indietro, per potermi alzare, ma lo faccio con una tale velocità che il ginocchio sbatte nelle parte inferiore del tavolo facendo cadere duecentosessanta pagine di manoscritto per terra. Vorrei tanto gridare una parolaccia, ma non è da me e non risolverebbe comunque la situazione. Resto pietrificata qualche secondo, poi mi accovaccio e inizio a impilare un foglio sopra l’altro in ordine casuale, senza leggere il numero impresso sulle pagine. «Non aprire quella porta» intimo a Wendy alzando il braccio e puntandola con l’indice. Peccato che sia già troppo tardi, perché nel momento esatto in cui pronuncio quella frase, sento il rumore delle tre serrature che si aprono e vedo la catenella libera di dondolare avanti e indietro. La luce del sole entra prepotente nella stanza, illuminandomi come se fossi sotto i riflettori di un teatro. I fogli mi ricadono di nuovo a terra quando realizzo che all’ingresso non c’è solo una, ma bensì due persone che mi stanno fissando con gli occhi sgranati. Vorrei che nella mie mani si materializzasse una pala gigante per potermi scavare una buca da cui non riemergere mai più. Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa di più appropriato con cui coprirmi, ma siamo in piena estate e per dormire indosso sempre e solo una canottiera e un paio di pantaloncini corti, troppo corti a dire il vero. Rivoglio la mia vita solitaria. «Scusa» mima Wendy con la bocca, senza farsi notare dagli altri. Senza proferire parola esco di scena e mi dirigo verso la camera da letto, dove posso indossare qualcosa che copra ogni centimetro della pelle.

Mi metto un paio di jeans, una camicetta a maniche lunghe, raccolgo i capelli in una treccia laterale e per ultimo ma non meno importante, mi lavo i denti. Il modo migliore per reagire a questo tipo di situazioni è fare finta che non sia accaduto niente. Sono certa che anche gli altri faranno in modo di non mettermi in ridicolo, perché in fondo, vige sempre la regola del rispetto. Per cui, con questa sensazione di fiducia nel prossimo li raggiungo. La scenetta che si presenta davanti ai miei occhi è a dir poco curiosa. Joshua tira fuori con cura la spesa dai sacchetti e la porge a Wendy, lei lo ringrazia con un sorriso che le occupa per intero il volto e infine, la ripone nella credenza. Sacchetto. Sorriso. Dispensa. In un loop continuo. «Ad essere sincero preferivo la divisa che indossavi prima» sghignazza Jack alle mie spalle, facendomi sobbalzare. Fine della fiducia nel prossimo. Serro le dita in due pugni stretti, in modo da contenere ogni reazione spropositata del mio corpo e lo sfido, guardandolo direttamente negli occhi, per poi pentirmene subito dopo. Quel blu, così intenso, mi fa venire quasi voglia di naufragarci dentro. Non so spiegarlo, potrei affermare che posseggono un potere ipnotico capace di tranquillizzarmi. Rilasso le dita e mi rendo conto che il sistema parasimpatico che mi gioca sempre brutti scherzi in occasioni imbarazzanti come queste, si è assopito come se fosse andato in letargo. Rido, senza mostrarlo esteriormente, lo faccio dentro di me, perché è una grande conquista, ma intima, non la voglio condividere con il mondo, ma voglio assaporarla lentamente, come quando si fa sciogliere il cioccolato fra la lingua e il palato, senza masticarlo, per gustarlo il più a lungo possibile.

«Posso chiederti che ci fai qui?» gli domando spalancando gli occhi. «Non ricordo che avessimo un appuntamento.» «No, hai ragione, non ce l’avevamo, ma avo da queste parti e ho deciso di fermarmi per aggiornati su alcune cose.» La classica frase da film o da libro che, per esperienza, non rispecchia mai la realtà. Tutto sommato lui è l’avvocato che cerca di aiutare mia sorella a uscire dal carcere, il primo che ha messo in dubbio la sua colpevolezza, per cui, alla fin fine, non mi interessa sapere se mi sta mentendo o dicendo la verità, l’unica cosa che conta è il motivo per cui è ato. Joshua si accorge della mia presenza e mi viene incontro, tralasciando ciò che stava facendo con Wendy. Si sofferma a osservare Jack per una frazione di secondo, poi mi rivolge la parola. «La prossima settimana non sarò al lavoro, e non c’è nessuno che ti potrà consegnare la spesa.» «Non ti preoccupare, ci andrò io» rispondo sventolando una mano davanti al suo volto come se non ci fosse nessun problema. Prendo il portafoglio dalla borsa, lo pago e lo accompagno all’uscita. Si gratta la nuca in un gesto nervoso, mentre i suoi occhi ruotano in tutte le direzioni. «Ah, prima che me ne vada. Magari potremmo andare al cinema un’altra volta, se ti va.» Mi mordo il labbro e arriccio il naso, mentre cerco le parole adatte per rispondere, o meglio, rifiutare, quella proposta. Wendy spunta da sotto il mio braccio e risponde al mio posto. «Certo, mi piacerebbe molto. Cioè, ci piacerebbe» si corregge. La osservo e noto una strana luce brillare nei suoi occhi, uno scintillio tipico dei

primi colpi di fulmine. A questo punto è Joshua ad assumere un atteggiamento difensivo, perché probabilmente ha intuito che quella interessata a lui è la nipote e non la zia. Mi porto una mano a copertura della bocca per mascherare un sorrisino sommesso. «Oddio, sono in ritardo» esclama esaminando l’orologio immaginario che gli cinge il polso. «Ci vediamo presto» termina correndo verso la macchina. «È simpatico, vero?» Chiede Wendy speranzosa, in attesa di una conferma da parte mia. «Sì, mi sembra un bravo ragazzo» asserisco, «anche se forse è un po’ grandicello per te.» S’imbroncia e si drizza sulle gambe, avanzando con il petto, come se volesse sembrare più grande. «Ha solo sei anni in più di me.» Non si rende conto che tra i tredici e i diciannove anni c’è un abisso nel mezzo, ma non voglio smontare le sue fantasie. Con quello che sta vivendo, sono felice che trovi qualcosa di più frivolo a cui pensare. Le circondo le spalle con un braccio e le sussurro all’orecchio: «Sono carine le lentiggini che gli ricoprono il naso.» Il suo volto s’illumina. «Le adoro» ribadisce nascondendosi nell’incavo del mio collo. Jack non sembra essersi reso conto di quello che è successo negli ultimi cinque minuti, perché sta eggiando avanti e indietro per la sala con la testa immersa in un fascicolo. Mi affianco a lui e allungo il collo, nel tentativo di leggere i fogli che stringe fra

le mani. Purtroppo la calligrafia con cui è scritto mi risulta praticamente illeggibile, per cui, non riesco a comprendere nemmeno una parola. «La persona che ha imbrattato questo foglio dovrebbe tornare in seconda elementare per imparare la calligrafia» constato scuotendo la testa. Smette di leggere, ruota la testa verso di me e mi guarda. «La persona che ha imbrattato questo foglio sono io» puntualizza con tono offeso. Mi mordo la lingua, non per modo di dire, me la mordo sul serio, in modo da causarmi dolore, così la prossima volta ci penserò bene prima di esternare un giudizio poco carino. Incrocio le mani in segno di preghiera. «Scusami, io non volevo …» Jack scoppia a ridere e io comincio a sbattere le palpebre perplessa. «Stavo scherzando. È il rapporto medico del coroner.» Quest’uomo mi farà impazzire. Sorvolo sulla battuta ironica e arrivo direttamente al punto. «Ci sono novità?» Jack annuisce sollevando un angolo della bocca. «Secondo il rapporto sono due le pallottole che hanno attraversato il signor Parker.» Si blocca, come per creare un attimo di suspense. Muovo la mano in senso circolare per incalzarlo a proseguire. «Quindi?»

Con o veloce attraversa la stanza, massaggiandosi il mento ricoperto da un sottile strato di barba. «Sono stato a parlare con i vicini di casa e tutti mi hanno confermato di aver udito uno sparo. Uno, capisci? Non due.» Colmo la distanza che ci separa. «Vuoi dire che qualcun altro gli ha sparato prima? Ci sono altre impronte sull’arma?» «No, le uniche sono quelle di Felicity. Di sicuro l’altra persona ha usato dei guanti per proteggersi. Ma sento che siamo più vicini a scoprire la verità» sussurra dolcemente. Appoggia le mani sulle mie spalle, muovendo in modo quasi impercettibile i pollici e io mi irrigidisco. Comincio a inspirare a un ritmo più veloce, come se fossi a corto d’ossigeno, e con un movimento brusco mi sciolgo dalla sua presa. Il cuore si posiziona nella gola e le mani iniziano a tremare. Mi volto di spalle per proteggermi dal suo sguardo. Sono certa che si starà domandando il motivo di questa reazione esagerata, ma non ho nessuna voglia di dargli delle spiegazioni e condividere con lui le mie debolezze. Sento un rumore di i e un attimo dopo noto con la coda dell’occhio che si sta dirigendo verso l’uscita. Apre la porta e restando di schiena mi dice: «Scusami se mi sono presentato a casa tua senza preavviso. Ti prometto che non succederà più.» La richiude e io non mi muovo, fino a quando non odo il rumore dell’auto che si allontana dal vialetto. Una lacrima amara mi riga la guancia. Una lacrima che rappresenta la consapevolezza che la strada per riemergere e ricominciare a vivere per davvero è ancora lontana. Due grandi motori muovono la vita: la paura e l’amore.

E la paura, purtroppo, è come una signora vestita di nero che si presenta alla porta del cuore, la apre, entra e ci si installa dentro impedendo al mondo intero di entrare. Ma cosa succederebbe se l’amore bussasse a quella porta? Cosa farebbe la paura? Lo lascerebbe entrare o si blinderebbe ancora di più?

CAPITOLO IX

Oggi Vivian ha organizzato una giornata di terapia all’esterno. È convinta che abbiamo progredito durante gli incontri serali, e che è giunto il momento di agire sul campo. Arrivo a casa di Abby e noto che Vivian e Dylan mi stanno già aspettando sotto il portico. «Ketty non sarà più dei nostri» ci informa la psicologa, «ha trovato un altro gruppo dove tutti i componenti soffrono di disturbi ossessivi compulsivi e ha deciso di provare con loro.» Non lo dico ad alta voce, ma credo che abbia fatto bene, avevo come l’impressione che non si sentisse del tutto compresa da noi. Abby esce di casa e io mi volto a guardarla. Il marito la saluta sul ciglio della porta, le afferra con dolcezza il mento, le dà un innocente bacio sulle labbra e le dice alcune parole di incoraggiamento. Da quello che ci ha raccontato nei vari incontri serali, si erano sposati otto anni prima e lei, all’epoca, soffriva già di eritrofobia. Lui l’aveva accolta sotto la sua ala protettrice, aiutandola a evitare tutte le circostanze che potevano scatenare in lei il problema, però, così facendo, Abby si era chiusa ancora di più in se stessa, aumentando l’ansia anticipatoria che l’avvolgeva ogniqualvolta doveva affrontare una situazione sociale. Volendo nascondersi al mondo, non mi stupisce che indossi un cappello a falda larga e un paio di occhiali enormi che le occultano la metà del viso. Per quanto riguarda Dylan, ha tentato di mascherare l’iperidrosi mettendo una maglietta e un paio di pantaloncini neri, per fare in modo che le macchie di sudore che gli si formeranno siano meno evidenti. So che non è abituato a uscire alla luce del giorno. Ha scelto di lavorare come

custode notturno in un museo, in modo da non dover interagire con nessuno. Il giorno di solito lo trascorre dormendo, guardando la televisione e parlando solo con la madre durante i pasti. «Allora, siete pronti?» domanda Vivian con un gran sorriso. Rispondiamo di sì in coro, anche se suppongo che nessuno di noi provi entusiasmo all’idea di andarsi a cacciare in situazioni potenzialmente ansiogene. Ci incamminiamo uno di fianco all’altro, fino ad arrivare al Palazzo di Giustizia e ci appoggiamo all’ombra della statua di Bucky O'Neill per riprendere fiato. «Questo caldo non aiuta» commenta Dylan asciugandosi con il dorso della mano il sudore della fronte. «Forse potremmo continuare un altro giorno» suggerisce Abby guardandosi intorno con circospezione. Percepisco una strana sensazione risalire lungo le viscere. Non riesco a identificare se si tratti di adrenalina o qualcos’altro, ma questa emozione indecifrabile che sento mi spinge a tirare fuori tutto quello che penso. Faccio un o, sistemandomi di fronte a tutti loro, in modo che mi possano sentire bene. «No, non continueremo un’altra volta» sbotto, «non tornerò a nascondermi in casa, lasciando che il mondo fuori prosegua senza di me. Sono stanca di vivere a metà, stanca di rinunciare a tutte le meraviglie che la vita ci può regalare, stanca di evitare le persone e i luoghi, in cambio di una effimera sicurezza. Non voglio più essere vittima del timore della critica e del giudizio negativo altrui. Sono stufa di continuare a colpevolizzarmi, di esigere il massimo da me stessa solo per avere in cambio amore.» Una lacrima scende sul mio volto, ma non mi impedisce di continuare. «I miei genitori mi accettavano solo quando facevo quello che si aspettavano da me, e io ho sempre cercato di essere perfetta perché avevo il timore di essere abbandonata. E loro alla fine mi hanno abbandonata lo stesso, tutti lo hanno fatto, anche mia sorella» termino lasciandomi cadere sulle ginocchia e affondando la testa fra esse.

Dylan si accovaccia vicino a me e mi stringe in un umido abbraccio. Gli sono grata che in questo caso, metta da parte il problema del sudore e mi avvolga con le sue braccia grandi e forti per infondermi un po’ di coraggio. «Sono d’accordo con te.» Sollevo la testa e incontro i suoi occhi lucidi che mi osservano con comprensione. «E ora rialzati» sussurra offrendomi una mano, «c’è tutto un mondo da conquistare» termina sollevando gli angoli della bocca. Annuisco e mi faccio aiutare da lui a rimettermi in piedi. Mi asciugo le lacrime e cerco di indossare il mio miglior sorriso. «Lo sapete che siete una grande squadra» esclama Vivian, «e sono certa che fra poco non avrete più bisogno di me» termina portandosi i pugni sui fianchi. «Magari!» esclamiamo in coro.

Ci sediamo in un bar e, come previsto dal piano di azione, Abby è la persona designata per ordinare quattro caffè. Per le persone che non soffrono di quel tipo di disturbo è qualcosa di normale, ma non per lei, che ancora prima di aprire bocca comincia a sentire il corpo che cambia per prepararsi alle situazioni di attacco-fuga. «Non ce la faccio. Ho paura che il mio volto si incendi e tutti lo noteranno» confessa abbassando la falda anteriore del cappello. «Se assumerai un colore più rosso lo noteremo solo noi e stai sicura che nessuno dei presenti ti giudicherà per questo» la tranquillizzo. Il cameriere si avvicina, Abby si schiarisce la voce e ordina i caffè, lui lo scrive su un taccuino e se ne va. «Sei bianca come il latte» le faccio notare.

Sul suo volto si allarga un grande sorriso, il sorriso della vittoria. «Ce l’ho fatta» esclama con gioia. Non si può raggiungere un grande risultato e arrivare alla meta finale saltando tutti i aggi intermedi, ogni o va conquistato, con pazienza e perseveranza, ed è quel piccolo o che compiamo che ci infonde la fiducia necessaria per proseguire e arrivare all’obiettivo finale. La prova successiva è rivolta a Dylan. Avendo più difficoltà a interagire con l’universo femminile, il suo compito è quello di avvicinarsi a una donna per chiederle una semplice informazione. Individuiamo una ragazza seduta su una panchina, intenta a leggere un giornale. «Lei è perfetta» gli dico dandogli una leggera gomitata nel costato. Deglutisce, si infila due dita nel colletto della maglietta per allentarlo e si avvia in quella direzione. Osserviamo la scena da lontano, per non mettergli pressione. Dylan si siede al fianco della ragazza e notiamo che indica qualcosa sul giornale, la ragazza scavalla le gambe e ruota il busto nella sua direzione, mentre lui apre le braccia come se le stesse raccontando una storia. «Secondo voi che sta succedendo?» domanda Abby abbassandosi gli occhiali sulla punta del naso. «Non ne ho la minima idea, ma da questa distanza sembra che se la stia cavando alla grande» affermo. Dylan si alza dalla panchina e ci raggiunge correndo, con un sorriso che gli occupa per intero il volto. Si arresta davanti a noi senza proferire parola. «Allora? Com’è andata?» domando con curiosità. Si agita sul posto come un bambino che vuole correre a giocare.

«Non era una rivista quella che stava leggendo, ma un fumetto della Marvel, e io possiedo una collezione interminabile di quei fumetti. Così ci siamo messi a parlare un po’ di Capitan America e le ho raccontato un aneddoto di quando…» si blocca, probabilmente perché nota un enorme punto interrogativo formarsi sopra le nostre teste. «Okay, non importa» continua sventolando una mano in aria, «in ogni caso ero talmente immerso in quello che le stavo raccontando che per un attimo ho accantonato ogni pensiero sulla fobia.» Ci congratuliamo con lui e proseguiamo il nostro tour per la città. Attraversiamo un parco, dove un gruppo di bambini è intento a giocare a nascondino, mentre un altro sta facendo a turni per salire e scendere dallo scivolo. Scruto anche le mamme che stanno chiacchierano fra di loro, e fra una parola e l’altra controllano ciò che stanno facendo i propri figli. Compio un balzo all’indietro, quando mi rendo conto che fra tutte quelle donne c’è anche un padre, e che quel padre è Jack. È in piedi, lontano dagli altri adulti, con le mani infilate nelle tasche dei jeans, lo sguardo fisso in un punto. Un bambino dall’età di cinque o sei anni corre verso di lui, Jack si abbassa e lo prende in braccio, compiendo un giro su se stesso. Resto in attesa, per verificare se qualcuna di quelle donne li raggiunge. Ma nessuna lo fa. «Sembra che tu abbia visto un fantasma» mi sussurra Vivian all’orecchio. Non ho parlato a Vivian di Jack, di quelle strane sensazioni che ho provato parlando con lui, e di quel fremito che mi ha attraversato il corpo quando mi ha sfiorata. «Mi sembrava di aver visto un vecchio compagno di scuola» mento distogliendo lo sguardo.

Quando mi rivolto in quella direzione sono entrambi spariti. Dylan mi prende sotto braccio, invitandomi a continuare a camminare. «Ora dovrebbe essere il turno di Joy» suggerisce Abby. Vivian arresta il o e noi seguiamo il suo esempio. «Joy non ha bisogno di una prova. Lei è già a conoscenza di quello che deve fare per continuare a progredire. Sa che non deve evitare di fare entrare persone nella sua vita solo perché ha paura di essere giudicata e abbandonata. Non è vero?» domanda inclinando la testa da un lato. Mi domando se abbia notato il punto in cui si era posato il mio sguardo e abbia tratto delle conclusioni errate su Jack. In ogni caso mi affretto a rispondere. «Non so se sono pronta» balbetto. «Joy, mia cara, lo hai già fatto. Hai accolto Wendy a casa tua e le stai dando tutto il tuo amore, pur sapendo che un giorno lei andrà per la sua strada. Wendy ha in parte guarito le tue ferite, come tu stai facendo con le sue, perché in fondo siete due anime affini che, anche se in modo diverso, sono state costrette ad affrontare un destino simile.» So che le affermazioni di Vivian sono corrette, lei capisce la mia parte razionale e anche quella emozionale. Come so che alcune cose della mia vita sono già cambiate, da quando mia nipote ha iniziato a vivere con me, però mi domando quanta forza abbia il mio cuore per accogliere qualcun altro, nel caso in cui lo decidessi. Sollevo il volto verso il cielo, chiudo gli occhi e lascio che il sole mi scaldi la pelle provando un senso di piacere.

CAPITOLO X

Recupero la polaroid, seppellita in un ripostiglio sotto strati di cianfrusaglie. Le do una spolverata, e dopo essermi accertata del suo funzionamento, inizio a scattare delle foto in ogni angolo della casa. «Cosa stai facendo?» mi domanda Wendy corrugando la fronte. «Sto immortalando ogni stanza, perché ho intenzione di vendere o donare la maggior parte degli oggetti presenti. E una volta che l’avrò fatto, voglio comparare il prima e il dopo» le spiego senza smettere di scattare. «E per quale motivo vuoi disfartene?» Abbasso la macchina fotografica e l’appoggio sulla penisola della cucina. «Perché voglio liberarmi del ato e aprirmi al futuro, per cui ho deciso di cominciare da tutte le cose che sono presenti in questa casa che mi tengono ancorata a un ato che voglio eliminare.» Wendy prende l’elastico che le cinge il polso e raccoglie i capelli in una crocchia improvvisata sulla nuca. «Da dove vuoi cominciare?» chiede facendo finta di arrotolarsi le maniche della maglietta. «Direi dalla mia, o meglio, tua camera da letto. È ora di togliere quel poster di Billy Idol che tormentava le mie notti di teenager.» Si sistema alla base delle scale e assume una posizione da centometrista, con il sedere all’aria e puntellando le dita ai lati del piede destro. «A chi arriva prima.» «Ti spiezzo in due» le dico imitando la voce russa di Ivan Drago.

Correndo, risaliamo le scale, e una volta arrivate in camera, ci buttiamo entrambe sul letto di schiena per recuperare il fiato. «A te l’onore» mormora Wendy indicando il poster, «sei arrivata per prima.» «Facciamolo assieme» suggerisco. Conto con le dita e al mio tre lo strappiamo con forza dal muro. Peccato che gli angoli in cui avevo usato il nastro adesivo per attaccarlo alla parete, si portino dietro anche un pezzo dell’intonaco. «Potrei sempre rimediare attaccandone uno dei Take That» mi suggerisce facendo un sorriso che mostra l’intera dentatura. «Puoi fare quello che vuoi, la stanza è tua» le rispondo accartocciando quello che è rimasto di Billy Idol. «A proposito» aggiungo, «stavo pensando di lavare il borsone di Felicity, l’altro giorno spostandolo mi sono accorta che aveva alcune macchie.» Mi chino per raccoglierlo e lo rigiro fra le mani per controllarlo. «Sembra resistente» le dico tastandolo. Mentre compio quel gesto, i polpastrelli rilevano qualcosa di duro. Apro la cerniera per ispezionarne l’interno, senza trovare nulla. Mi avvicino alla luce della finestra e seguendone la traccia con le dita noto una cucitura. Non sembra professionale, sembra piuttosto fatta a mano e di fretta. Tiro il filo rosso con cui è stata fatta e la cucitura si rompe, lasciandomi scoprire una tasca interna. Infilo l’indice e il medio e ne estraggo una chiave. La rigiro fra le dita e poi l’appoggio sul palmo della mano. «Sai per caso cos’è? Era cucita dentro il borsone di tua madre» chiedo a Wendy mostrandogliela. Sporge il labbro inferiore e scuote la testa a destra e a sinistra.

«Non ne ho idea.» Nessuno nasconde una chiave in quel modo, a meno che non sia qualcosa di importante che non vuoi che venga trovato. Mi domando cosa stia occultando Felicity e mi riservo di domandarglielo non appena potrò comunicare di nuovo con lei. Nel frattempo decido di conservarla nel cofanetto in cui ripongo la bigiotteria.

«Direi che abbiamo fatto un ottimo lavoro per oggi» esclama Wendy esausta. «Penso proprio che ci meritiamo una pizza» confermo gettandomi di fianco a lei. «Sì» esclama piena di entusiasmo, «dove la possiamo ordinare?» Visto i cambiamenti che sto effettuando giorno dopo giorno, direi che è meglio proseguire per questa strada. Non voglio continuare a nascondermi, è arrivato il momento di mostrarmi al mondo. «Va a vestirti. Si va in pizzeria!» esclamo balzando in piedi. Wendy non se lo fa ripetere una seconda volta, e facendo gli scalini due a due corre nella sua stanza, come se d’improvviso la stanchezza fosse svanita del tutto. Per l’occasione decido di indossare un vestito che avevo riposto in un angolo dell’armadio e che avevo catalogato sotto l’etichetta “cose che non ò mai più”. In questa categoria avevo riposto tutti quegli abiti che rischiavano di catturare l’attenzione degli altri. Ultimamente avevo optato per una mise nera, per are inosservata, esattamente come un ninja. Ricordo che l’ultima volta che avevo indossato questo vestito, era il giorno del mio diciottesimo compleanno. Avevo trascorso una giornata intera al negozio alla ricerca dell’abito perfetto. Non che fosse qualcosa di eccezionale, però rammento che quando lo indossai, mi trasmise una sensazione di vita. Probabilmente a causa del colore giallo dei girasoli che lo ricoprono.

Alla luce di questi fatti suppongo che non ci sia niente di meglio di un abito che trasmette vitalità per sentirmi di nuovo viva. Mi dirigo in bagno, appoggio i palmi delle mani sul lavandino e mi sporgo in avanti, per poter osservare meglio quell’immagine riflessa nello specchio. Alzo un braccio e con le dita delineo il contorno del mio volto. Per quanto tempo ho guardato questa stessa immagine e l’unica cosa che vi leggevo era tormento, angoscia, una vita vuota e piena di insoddisfazioni. Ma in fondo, se ci penso bene, uno specchio ci trasmette esattamente quello che vogliamo vedere, e quasi sempre quello che vogliamo vedere non corrisponde alla realtà. Non permetterò mai più a questo riflesso di togliermi il sorriso. Sollevo gli angoli della bocca e decido che, d’ora in avanti, quella sarà l’immagine di me che vorrò scorgere tutti i giorni.

La pizzeria è gestita da una famiglia di origini siciliane e la bandiera bianca, verde e rossa che ti accoglie all’entrata ne conferma la provenienza italiana. Il locale sembra intimo e accogliente, illuminato da luci soffuse capaci di creare un ambiente sereno. Ci sono tavoli rettangolari di legno, ricoperti da tovaglie a quadri rossi e bianchi, con al centro una candela in tinta con la tovaglia. Aspettiamo che ci facciano accomodare e, nell’attesa, decido di dare un’occhiata al menu. La prima pagina riporta l’immagine di una testa femminile, i cui capelli sono serpenti intrecciati con spighe di grano e dalla quale partono tre gambe piegate all’altezza del ginocchio. «È la trinacria. È il simbolo impresso sulle bandiere in Sicilia» spiega una voce conosciuta alle mie spalle. Mi scivola il menu dalla mani e mi chino per raccoglierlo, ma una mano più veloce lo fa al mio posto. «Grazie. Jack» sussurro guardandolo negli occhi. Lui sorride e si rialza in piedi.

«Perché non vi unite a noi? Siamo solo in due, per cui ci sono altri due posti liberi al tavolo. Stasera il locale sembra pieno, e temo che dovreste aspettare un po’ prima di sedervi.» Ho un po’ di timore ad accettare, perché non so se l’altra persona con cui è venuto è una donna e non vorrei sentirmi in imbarazzo. Osservo Wendy che incrocia le mani davanti al petto in segno di preghiera. «Dopo avermi fatta sgobbare tutto il giorno, merito di mangiare una pizza il prima possibile.» Mi vedo costretta ad acconsentire, sperando di non cacciarmi in una situazione scomoda. «Okay. Allora Jack accettiamo la tua gentile offerta.» Raggiungiamo il tavolo e con mio gran sollievo la persona seduta è il bambino che avevo visto qualche giorno prima al parco. «Joy, Wendy, lui è mio figlio Nathan.» Il bambino solleva lo sguardo solo una frazione di secondo, per poi tornare a giocare con gli animali di plastica che stringe fra le mani. Sento di dovermi scusare con lui per il modo in cui mi sono comportata l’ultima volta in cui ci siamo visti. «Jack» sussurro giocherellando con il tovagliolo di carta, «mi dispiace molto per come ti ho trattato quando sei ato da me la scorsa settimana. «Joy, non ti devi scusare. A volte credo di essere una persona un po’ invadente. Non mi dovevo presentare a casa tua senza preavviso.» «No, hai fatto bene. Anzi, dovrei ringraziarti per l’interesse che mostri nell’aiutare mia sorella. La porta per te è sempre aperta» termino guardandolo negli occhi. Quale porta gli sto offrendo? Mi sto velatamente riferendo a quella emozionale?

È una domanda a cui nemmeno io in questo momento so dare una risposta. «In ogni caso ti avrei chiamata domani per dirti che avete il via libera per andare a far visita a Felicity.» Wendy capta l’informazione ed esplode in un grido di gioia. «Quando possiamo andare?» domanda saltellando sulla sedia. «Sabato pomeriggio.» Jack chiede un pezzo di carta e una penna al cameriere e vi scrive sopra l’indirizzo della prigione e gli orari di visita. Lo ringrazio, prendo il foglietto, lo piego in quattro parti e lo infilo nella borsa. «Jack, posso chiederti perché fai cento miglia da Phoenix a Prescott per mangiare una pizza?» domando con curiosità. Incrocia le mani sul tavolo, rivolge uno sguardo a suo figlio e poi si gira verso di me. «Perché mio figlio vive qui con sua madre. Vedi, quando sei anni fa rimase incinta decidemmo di sposarci, ma le cose peggiorarono subito dopo la nascita di Nathan. Io stavo ancora studiando all’università per diventare avvocato, mentre la mia ex moglie fu costretta ad abbandonare gli studi. Litigavamo in continuazione e capimmo immediatamente che quella non era l’atmosfera in cui volevamo far crescere nostro figlio Nathan. Così prendemmo la decisione di separarci. Dopo un paio d’anni mi proposero un lavoro a Phoenix e accettai. Abbiamo trovato un equilibrio e tutte le volte che posso ritorno qui a Prescott per are del tempo con lui.» «Mi dispiace Jack.» «Oh, no. Non devi dispiacerti. Le nostre decisioni sono state prese di comune accordo e nessuno cerca di ottenere la custodia esclusiva di Nathan. In fondo vogliamo entrambi la sua felicità.» Mi stupisco della naturalità con cui mi racconta una parte così privata della sua vita. Forse non tutti hanno paura di essere giudicati per le scelte che hanno fatto

e un po’ invidio quel modo di essere. Sollevo la testa, dove la televisione posizionata in un angolo in alto del locale sta trasmettendo le ultime notizie. «Non si fa altro che parlare del caso di O.J. Simpson in questi ultimi giorni. Detto fra noi, non vorrei essere l’avvocato che se ne occupa» dice Jack andosi una mano sulla fronte come se si dovesse asciugare il sudore. Trascorriamo il resto della serata parlando del più e del meno e gustandoci una pizza squisita. Ogni tanto mi soffermo a osservare le persone che sono sedute al tavolo con me e sono grata di poter are qualche ora spensierata in loro compagnia. Solo un mese fa mi sarei preparata una cena da sola e l’avrei consumata seduta sul divano, guardando un film qualsiasi. Quanta vita mi stavo perdendo? Jack rivolge lo sguardo al polso, dove uno swatch nero dal cinturino in pelle segna le dieci in punto. «Ora dobbiamo proprio andare. Ho promesso a sua madre che lo avrei riportato a casa per le dieci e sono già in ritardo» dice alzandosi in piedi. «Grazie per la compagnia. Ci sentiamo presto.» Prende per mano Nathan e si avvia verso l’uscita. Anche io e Wendy decidiamo di tornare a casa. Usciamo dal ristorante e ci avviamo verso la macchina. Infilo le chiavi nella serratura, quando una mano si appoggia sul mio avambraccio trascinandomi verso il basso. «Che stai facendo Wendy?» domando confusa. Si porta l’indice alla bocca come per zittirmi. «Shhh» sussurra, «ho visto Bill.»

«Chi? Dove?» domando muovendo la testa in tutte le direzioni possibili. Solleva lentamente il braccio, indicando dalla parte opposta della strada. Bill è un uomo alto, direi che la sua statura si aggira più o meno sul metro e novanta, ha la testa rasata e una barba nera che gli ricopre la maggior parte del volto. È vicino a una cabina telefonica e quando solleva il braccio per comporre il numero, la luce del lampione che lo illumina, mi dà la possibilità di scorgere il tatuaggio di una vedova nera che gli ricopre il bicipite. Mentre parla si guarda intorno con circospezione, come se avesse il timore che qualcuno fosse capace di intercettare quello che dice. Mi rendo conto che Wendy comincia a tremare, per cui la circondo con il braccio e l’accolgo nel mio petto. «Tranquilla, qui non ci può vedere» la rassicuro. Aspettiamo che termini la telefonata, senza scostarci di un millimetro. Tira fuori dai jeans un pacchetto di sigarette e se ne accende una. Dà due tiri e poi la butta per terra, schiacciandola con la punta dello stivale. Si massaggia la barba pensieroso, poi sale in sella a una moto che mi sembra una specie di Harley Davidson e si immette nella strada principale, sparendo nell’oscurità della notte.

CAPITOLO XI

Lascio la macchina nel parcheggio adiacente il carcere femminile. Scendo dall’auto e mi porto una mano a copertura degli occhi, perché il riflesso del sole mi impedisce di aprirli del tutto. Davanti a me si staglia un edificio di grandi proporzioni, costruito con mattoni rossi e circondato da una rete metallica, rafforzata nella parte superiore da un filo spinato. Avanzo di qualche o, Wendy mi raggiunge e mi afferra la mano. Gliela stringo, come per infonderle coraggio e lei fa lo stesso con me. All’entrata una guardia ci pone qualche domanda e poi ci indica la direzione in cui dobbiamo proseguire. Attraversiamo uno stretto e lungo corridoio, l’intonaco dei muri è sollevato di alcuni centimetri come se sotto nascondesse strati di umidità, mentre le luci neon sopra le nostre testa sfarfallano, come se ci fosse una continua tensione alternata nell’impianto elettrico. Arriviamo davanti a una specie di scrivania, murata nella parte superiore da un pannello di plexiglass. Ci viene richiesto di far are i nostri documenti attraverso una piccola fessura ricavata nel pannello. La guardia appunta qualcosa su una specie di registro e ce li riconsegna. Un’altra guardia mi controlla l’interno della borsa e poi ci ordina di aprire gambe e braccia. Ci ispeziona, tastandoci da testa a piedi, e infine, appurato che non stiamo nascondendo niente di pericoloso, ci fa cenno di seguirla. Continuiamo a camminare durante una manciata di secondi lungo quel lugubre corridoio e finalmente arriviamo davanti a una porta. La guardia la apre invitandoci a entrare. La stanza è abbastanza ampia e luminosa e sembra meno tetra della strada che abbiamo percorso a piedi per raggiungerla. Ci sediamo in uno dei tavoli liberi disponibili, in attesa che arrivi Felicity.

Sono nervosa, perché non so cosa aspettarmi. Non so come sarà rivederla, quali sensazioni mi provocherà. Non so nemmeno qual è il suo aspetto, perché l’unica foto che Wendy possiede di mia sorella è molto datata, ed era più o meno come me la ricordavo quando se ne era andata di casa. Il portone di metallo situato nella parte opposta della stanza si spalanca e una sagoma vestita di arancione muove timidi i. Ha la testa abbassata, per cui non sono capace di riconoscerla, ma Wendy sì, e non appena la vede si alza dalla sedia, appoggia i palmi delle mani sul tavolo, si protende in quella direzione e sussurra: «Mamma.» Come in una scena vista a rallentatore, Felicity solleva il volto e si arresta sul posto. Ha le braccia incrociate dietro la schiena, probabilmente perché i polsi sono ammanettati. Le guance scavate e gli occhi lividi denotano la condotta di una vita sregolata durante un lungo periodo. Porta i capelli cortissimi, come se se li fosse tagliati per intraprendere una carriera militare, quando, nel ato, la sua voluminosa chioma era sempre stata motivo d’orgoglio per lei. Avanza verso di noi, con o lento e stanco. Wendy si muove per andarle incontro ma una guardia le intima di tornare a sedersi. Come si può impedire a una ragazzina di abbracciare sua madre? Mi sembra una crudeltà. Wendy ubbidisce e Felicity ci raggiunge sedendosi davanti a noi. Da questa distanza posso notare i suoi occhi vuoti e spenti. Avevo sempre invidiato il colore azzurro che li contraddistingueva, ma ora quella tinta vivace è stata sostituita da un grigio scialbo. Nessuna trova il coraggio di parlare per prima, anche se gli sguardi che ci stiamo scambiando valgono molto di più di mille parole. Una debole lacrima attraversa la guancia di Felicity, cadendo sulle superficie impiallacciata del tavolo. È lei che trova il coraggio di rompere il ghiaccio per prima. «Sono felice di rivedervi» pronuncia sottovoce mordendosi il labbro inferiore.

«Mi manchi tanto mamma.» Wendy esplode in un pianto soffocato e io le cingo le spalle con un braccio, stringendola stretta a me. «Anche a me manchi» aggiungo. Felicity abbassa la testa, il mento le tocca il petto e scuote la testa. «Non doveva andare così. Ho sbagliato tutto» si rimprovera. «Sono certa che uscirai da qui molto presto. L’avvocato sta indagando per provare la tua innocenza e credo che sia sulla buona strada» tento di rassicurarla. «Ma non posso cancellare il ato» dice rivolgendosi a Wendy. «Sono stata una pessima madre. Avrei dovuto proteggerti sempre e invece non sono stata abbastanza forte per farlo. Volevo un’infanzia differente per te e mi sento terribilmente in colpa di averti privato di quell’innocenza di cui avevi pieno diritto.» Wendy si asciuga le lacrime con il dorso della mano e cerca di sorridere. «Una volta mi hai detto che le persone possono sembrare rotte, ma che se cercano bene trovano sempre il modo di aggiustarsi. E io sono certa che insieme troveremo quel modo.» Il volto di Felicity assume una luce differente. «Ti voglio tanto bene Wendy. Te ne ho sempre voluto, anche quando sembrava che mi fossi persa.» «Anche io te ne voglio e te ne ho sempre voluto.» Che potere immenso ha l’amore. Anche quando tutto sembra perduto, l’amore ha la capacità di far ritrovare coloro che si erano smarriti. Perché, in fondo, quando ami veramente qualcuno non puoi perderlo del tutto, ci sarà sempre un filo sottile che ti legherà a quell’altra persona. Io sento la stessa cosa per mia sorella, mi ero sentita abbandonata fisicamente da

lei, ma sapevo di averla conservata in un angolo del mio cuore. E ora, mentre le sono di fronte, capisco che non mi importa più se si è allontanata da me tredici anni fa, quello che conta è che ci siamo ritrovate. La conversazione diventa più rilassata e Wendy inizia a raccontarle di quello che fa durante la giornata, di tutti i libri che legge e di come mi aiuta a liberarmi degli oggetti che non voglio più conservare. «Quindi voi due ve la sate bene?» domanda Felicity scherzando. «Sì, zia Joy è fantastica anche se è un pochino…» termina roteando l’indice all’altezza della tempia. «Io non sono pazza» m’intrometto dandole una leggera gomitata nel costato. Scoppiamo a ridere tutte e tre, catturando l’attenzione delle altre persone presenti nella stanza. «Ah Felicity, prima che mi dimentichi, l’altro giorno stavo per lavare il tuo borsone rosso che Wendy ha usato per riporre i suoi vestiti quando è venuta da me. Nel tastarlo mi sono accorta di una tasca interna cucita a mano. Ho tagliato il filo con le forbici e dentro ho trovato una chiave. Potrei sapere cosa apre?» Felicity corruga la fronte. «Non ho mai nascosto nessuna chiave, ne sono sicura.» Io e Wendy ci guardiamo negli occhi. «Potrebbe essere stato Bill?» le domando. «Non vedo perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere.» «Qualche sera fa lo abbiamo visto a Prescott» aggiunge Wendy. Decido di indagare più in profondità. «Da quanto tempo non parli con lui?» «Non ci vediamo dal giorno prima del mio arresto.»

«Quindi è sparito del tutto?» domando sorpresa. «Sì, e credo proprio che sia meglio così. Non voglio avere più niente a che fare con lui» replica guardando in direzione della finestra, «anzi, non avrei mai dovuto farlo entrare nelle nostre vite. Sono felice che sia sparito.» «Certo, capisco, ma voglio farti solo un’ultima domanda. Lui sapeva che avevi una sorella a Prescott?» «No, non gli ho mai raccontato del mio ato. Per cui credo che sia stata una pura coincidenza che l’abbiate visto.» Noto con la coda dell’occhio che la guardia carceraria si sta avvicinando al tavolo. «L’orario delle visite è terminato» tuona con voce dura. Felicity annuisce e si alza in piedi. «È stato davvero meraviglioso vedervi.» Wendy non resiste, con uno scatto si alza in piedi e la raggiunge abbracciandola. La guardia tenta di distanziarla, ma davanti a quell’abbraccio innocente si arrende e decide di non intervenire. «Ti tireremo fuori di qui.» Felicity le dà un bacio sulla testa, Wendy abbassa le braccia, la guardia l’afferra per il gomito per scortarla verso l’uscita e sparisce dietro quel pesante portone di metallo da cui era entrata.

Dal vialetto sento il telefono che sta squillando dentro casa. Chiudo in fretta la macchina, tiro fuori le chiavi dalla borsa cercando di aprire il più rapidamente possibile e poi mi tuffo sul telefono. «Pronto» rispondo con il fiatone. «Scusami se ti ho fatta correre, sono Jack.»

Mi ricompongo come se potesse vedermi. «Siamo appena tornate da Phoenix» gli spiego. «Ti avevo chiamata proprio per sapere com’era andata. Sta bene Wendy? E tu?» Non credo che sia normale per un avvocato interessarsi della salute emozionale dei propri clienti, ma suppongo che oramai quello che ci lega non sia solo un contratto lavorativo, ma un’amicizia. «È stata un’emozione forte, ma è stato meraviglioso poterla rivedere» confesso. «Mi stavo domandando…» Pausa. «Domani pensavo di portare mio figlio a fare un’escursione a Watson Lake e volevo chiederti se avreste piacere di unirvi a noi. Anche per aiutare Wendy a distrarsi. Niente di impegnativo. L’idea è fare una eggiata intorno al lago e pranzare con un panino.» Rifletto un secondo. Avevo diciassette anni l’ultima volta che ci sono andata ed ero in compagnia di quello che allora definivo il mio ragazzo. Non so se sia una buona idea accettare, ma d’altronde, se mi tiro indietro, è come se tentassi di ingannarmi da sola. Se ho appena affermato di considerarlo un amico, non ci dovrebbe essere niente di male nello trascorrere una giornata al lago. E poi non saremmo da soli, ci sono anche Nathan e Wendy. «Joy, sei ancora lì?» La voce di Jack interrompe quell’insieme di ragionamenti insani. «Sì, sì, scusami. Stavo solo guardando nell’agenda se avevo qualche scadenza importante di lavoro» mento. «Ci sto. Come hai detto tu, credo che farebbe bene anche a Wendy stare un po’ in mezzo alla natura.»

«Perfetto. o a prendervi domani mattina alle undici.» «Okay. A domani Jack.» «A domani.»

CAPITOLO XII

Scendo in cantina per recuperare gli accessori da escursionismo che conservo in un vecchio armadio. Apro l’anta, una nuvola di polvere si alza e mi entra prepotente nelle narici facendomi starnutire. Riesumo il mio zaino grigio dalle mille tasche e gli scarponi che non utilizzavo da almeno sei anni. «Bentrovati amici miei» li saluto come se potessero sentirmi. Fortunatamente questa zona della casa non l’avevo ancora ata al setaccio e tutto quello che è stato accumulato durante una vita intera giace ancora qui. Sollevo alcune scatole e per fortuna riesco a trovare i miei vecchi scarponi di quando avevo più o meno l’età di Wendy. Soddisfatta risalgo le scale. «Puoi metterti questi» dico a Wendy lanciandoglieli. Lei li afferra al volo e li rigira fra le mani per controllarli. «Mi piacciono» sorride soddisfatta. Infilo cibo, acqua, crema solare e una coperta nello zaino e ci sediamo sul dondolo esterno, sotto la veranda, in attesa dell’arrivo di Jack. «È la prima escursione della mia vita» afferma Wendy, guardandosi i piedi. «Spero proprio che non sarà l’ultima» replico dandole un leggero pizzicotto sul fianco per farle il solletico. «Sai, quando ero più piccola i nostri genitori ci portavano spesso a fare delle eggiate in mezzo alla natura. Sono i ricordi più belli che ho della mia

infanzia a dire il vero, perché erano gli unici momenti nei quali sentivo che la mia famiglia era unita. Quando eravamo in casa, mia madre trascorreva tutto il giorno a occuparsi della casa, mentre mio padre lavorava. Potevano are un giorno intero senza rivolgersi la parola, ognuno immerso nelle proprie faccende. Credo che sia per questo che ho cominciato a leggere libri. Ogni volta che ne aprivo uno, era come conoscere nuovi amici, con cui condividere nuove avventure, sogni e speranze.» Mi alzo in piedi e, muovendo le braccia in modo teatrale, recito un pezzo di un libro che ho sempre adorato. «Qualunque cosa tu faccia non pensare mai a cosa diranno gli altri, segui solo te stesso, perché solo tu nel tuo piccolo sai cosa è bene e cosa è male, ognuno ha un proprio punto di vista, non dimenticarlo mai, impara a distinguerti, a uscire dalla massa, non permettere mai a nessuno di catalogarti come clone di qualcun altro, sei speciale perché sei unico, non dimenticarlo mai» Termino facendo un inchino. Wendy con un salto abbandona il dondolo e si posiziona al mio fianco imitandomi. «Egli imparò a volare, e non si rammaricava per il prezzo che aveva dovuto pagare. Scoprì che erano la noia e la paura e la rabbia a render così breve la vita d’un gabbiano» Spalanco gli occhi e apro la bocca in segno di stupore. «Lo conosci?» le domando. «Il gabbiano, di Jonathan Livingston» risponde, «ho perso il conto di tutte le volte che l’ho letto. La mamma ne aveva una copia.» Vorrei continuare con le citazioni, ma il rumore inconfondibile della macchina di Jack mi distrae. Accosta, scende dall’auto e ci apre la portiera anteriore e posteriore per farci salire. Entro, posiziono lo zaino fra i piedi e mi allaccio la cintura.

Accende il motore e da dentro l’abitacolo, il fracasso si percepisce ancora più forte. «Sicuro che questo catorcio ci porterà a destinazione?» «Scherzi? Quest’auto è un gioiellino» sbuffa spingendo il piede sul gas. Parcheggiamo al Watson Lake Park che rappresenta anche il punto migliore per iniziare l’escursione. Cominciamo a risalire i massi situati lungo il bordo della riva e ogni tanto controllo alle mie spalle, per verificare che vada tutto bene e che nessuno resti indietro. «A quanto pare tuo figlio è un esperto trekker» dico a Jack, notando il modo in cui Nathan si muove fra i massi con disinvoltura. «In effetti ho cominciato presto a portarlo in montagna. Volevo che iniziasse a sentirsi parte della natura fin da piccolo e mi auguro che crescendo continui ad amarla e a rispettarla come ha fatto fino ad ora» replica saltando da un masso all’altro come se fosse un capriolo. «Prima che mi dimentichi, qualche giorno fa ho trovato una chiave misteriosa dentro il borsone che ha usato Wendy per trasferirsi da me, ma che apparteneva a mia sorella. Ne ho parlato con lei durante il nostro incontro, ma mi ha assicurato di non conoscerne la provenienza. Ho pensato che potesse essere stato Bill a occultarla.» Jack si arresta e si volta di centottanta gradi per potermi guardare negli occhi. «Sto indagando su di lui in questi giorni. Ha diversi precedenti penali per spaccio di droga e sembra che dopo l’accaduto si sia volatilizzato nel nulla. Non credo che sia una coincidenza.» Si massaggia la barba, come fa sempre quando si concentra. «Il giorno in cui ci siamo incontrati in pizzeria» gli racconto, «l’abbiamo visto. Era dalla parte opposta della strada impegnato in una telefonata, noi ci siamo nascoste dietro la macchina e lui non ci ha viste.»

Noto il volto di Jack allarmarsi. «Felicity mi ha assicurato di non avergli mai parlato di una sorella che vive qui a Prescott.» Si porta le mani ai fianchi e scuote la testa. «Può averlo scoperto in un altro modo. Quando torniamo indietro vado a parlare con il capo della polizia. Credo che sia meglio non sottovalutare nulla visto le circostanze.» Annuisco e poi gli faccio cenno di proseguire. «Non ho intenzione di farti lavorare anche oggi» dico sorridendo, «meglio se continuiamo e ci godiamo il sentiero.» Si porta una mano all’altezza della fronte e si mette sull’attenti. «Signor sì signora.» Alzo gli occhi al cielo e riprendo a camminare. Enormi formazioni di roccia granitica costeggiano le rive del lago, dove l’acqua è di un colore blu profondo. Risaliamo i massi e le colline arancioni che lo circondano fino a fermarci in uno dei vari punti panoramici. Mi volto e mi accorgo che Wendy è rimasta indietro. «Vado a recuperarla» comunico a Jack. Ritorno sui miei i, cercando di raggiungerla il più in fretta possibile. Peccato che, a causa della velocità, un piede mi scivoli e si incastri in una fessura creata fra due massi, procurandomi un dolore lancinante alla caviglia. Jack, che probabilmente ha osservato la scena da lontano, corre in mio soccorso. «Tutto bene?» domanda spaventato. «Sì, sì, non credo che non sia niente di grave.»

Provo a rialzarmi in piedi ma, nel momento in cui il tallone tocca il suolo, mi accascio di nuovo. «Meglio se andiamo al pronto soccorso» suggerisce Jack. «Che stupida sono stata» mi rimprovero portando le mani fra i capelli. «Sono cose che succedono» mi conforta. Mi aiuta a sedermi su un masso e poi si posiziona lo zaino davanti al petto. «Ora mi accovaccio, così tu potrai aggrapparti alla mia schiena» dice flettendo le ginocchia. «Non ci penso minimamente» esclamo mimando un no con l’indice. «Vedila così. Io ho organizzato l’escursione. Se non fosse stato per me, a quest’ora saresti a casa a sorseggiare una buona tazza di caffè italiano. Mi sento un po’ in colpa per cui, il minimo che posso fare, è accompagnarti in ospedale.» Mi sento in imbarazzo per la situazione che si sta creando ma non vedo altra possibilità. Se dovessi tornare indietro saltellando sull’altra gamba, con ogni probabilità mi slogherei anche quella. Cingo la vita di Jack con le gambe e incrocio le braccia sulla parte superiore del suo zaino all’altezza del collo. Fa scivolare le dita lungo le mie gambe, fino ad assestarsi nell’incavo del ginocchio. Quel fuggevole gesto mi produce una scarica di brividi lungo tutto il corpo e mi domando se Jack sia capace di percepirli sotto i polpastrelli. «Pronta?» domanda ruotando la testa di novanta gradi. Annuisco senza riuscire a proferire parola, come se le corde vocali mi si fossero atrofizzate. Cosa mi sta succedendo? Jack, al contrario, non sembra affatto turbato dalla situazione.

Si muove velocemente, ma con cautela, fra i massi e in poco tempo raggiungiamo di nuovo il parcheggio. Mi fa scendere con dolcezza dalle spalle e mi aiuta a sedermi in auto. Quando arriviamo, il pronto soccorso è quasi deserto. All’entrata un ragazzo mi viene incontro, recupera una delle sedie a rotelle posteggiate all’ingresso, e dopo avermi rivolto alcune domande, mi trasporta in radiologia. «Non c’è nulla di rotto» mi spiega un dottore stringendo fra le mani i risultati della radiografia. «Ha preso una bella distorsione però, quindi dovrà stare al riposo per almeno un paio di settimane. Deve mettersi il ghiaccio cinque volte al giorno per trenta minuti. Le prescrivo anche degli antidolorifici, nel caso il dolore sia insopportabile.» Mi consegna tutto e poi mi affida al ragazzo di prima che mi riaccompagna alla sala d’attesa. Wendy si alza dalla sedia e mi viene incontro preoccupata. «Allora?» «Allora dovrai occuparti di me per un paio di settimane» le dico spettinandole i capelli. «Non temere, mi prenderò io cura di te» replica con orgoglio. «Cercherò di non essere un peso» la punzecchio con voce drammatica. «Oh, lo sarai di certo. Con tutte le manie che hai» ribatte scherzando. «Quali manie?» s’intromette Jack nella discussione. «Wendy! Non si sparla delle persone, a maggior ragione quando queste sono presenti» la rimprovero ridendo.

CAPITOLO XIII

È ata quasi una settimana dal giorno dell’incidente e il dolore alla caviglia mi costringe a usare ancora una stampella. Spalanco la porta, appoggio la terza gamba di metallo alla parete e mi siedo sotto il portico per respirare l’aria fresca del mattino, mentre mi perdo a osservare il mondo che si muove intorno a me. La vicina, una signora anziana, che abita dall’altra parte della strada è intenta a sistemare i fiori nel suo giardino. Mi nota ed alza una mano per salutarmi. Io ricambio, regalandole un sorriso. È bizzarro pensare che trascorrevo così tanto tempo in casa quando potevo uscire, e ora che sono costretta a are la maggior parte della giornata seduta, vorrei alzarmi per andare in esplorazione di tutto quello che mi sono persa. Wendy apre la porta d’ingresso. Sorregge un vassoio con sopra una tazza di caffè, un bicchiere di latte e dei pancake, accompagnati da sciroppo d’acero. «Mi stai viziando» commento mentre la vedo appoggiare con attenzione il vassoio sul tavolino. «In realtà mi piace are del tempo in cucina. Chissà, forse un giorno diventerò una pasticcera» replica sedendosi dall’altra parte del tavolo. «Se lo diventerai, prometto che ti farò da cavia» le dico gustandomi il pancake. Wendy si rigira una ciocca di capelli tra le dita e mi guarda con la coda dell’occhio. «Abbiamo finito il latte. Che ne dici se vado al supermercato dove lavora Joshua a comprarlo?» Da quando si è trasferita da me non l’ho mai fatta uscire da sola perché non mi faceva sentire del tutto tranquilla. Però, a pensarci bene, il negozio dista solo

dieci minuti a piedi e oltretutto, immagino che lei voglia salutare Joshua senza che sua zia le stia in mezzo ai piedi. «Joy, lo so perché ci stai mettendo tanto a darmi una risposta. Il tuo cervello ansioso sta elaborando mille informazioni.» Beccata. «Ormai sono un libro aperto per te.» «Oggi è un mese esatto che viviamo insieme, credo di aver imparato a conoscerti molto bene» puntualizza saltando in piedi. «Credo che tu sia la persona che mi conosce meglio. A parte la mia psicologa» aggiungo. «Sicura che non vuoi fare lo stesso lavoro di Vivian? Ti ci vedrei bene» termino. Apre le mani con i palmi rivolti verso di me. «No, no. Non ho voglia di avere a che fare con dei matti tutta la vita.» «Ehi, mi stai per caso dando della matta?» Scoppiamo a ridere insieme, poi Wendy si avvicina e mi stringe in un abbraccio. «Sei la mia seconda persona preferita.» Non le chiedo quale sia la prima, perché conosco già la risposta, e sono contenta che nonostante tutto, sia legata ancora così tanto a sua madre. «Okay. Mi hai convinta, vai a comprare il latte. Prendi il mio portafoglio dalla borsa.» Wendy rientra in casa e quando esce di nuovo noto che si è messa il lucidalabbra. «L’ho trovato nella borsa. Non ti dispiace se l’ho usato?» domanda guardandomi con un’espressione da cucciolo indifeso. «No, nessun problema.»

Scende saltellando i tre gradini che portano al vialetto, e con o svelto, si dirige verso il supermercato. Prendo in mano la tazza di caffè, che non ho ancora cominciato a bere, e inizio a sorseggiarlo. Il rumore di una moto che si avvicina mi distrae. Abbasso la tazza e l’appoggio sul piattino. Il cuore salta dal petto alla gola, quando intuisco che l’uomo in sella alla motocicletta è Bill. Mi alzo dalla sedia facendo forza sul piede sbagliato. La caviglia invia al cervello un segnale di dolore che mi costringe a sedermi di nuovo. Bill rallenta. Osserva le case. Ha l’espressione di qualcuno che sta cercando qualcosa, e quando arresta la corsa di fronte al mio giardino, capisco mio malgrado, che sono io quella che sta cercando. Deglutisco e nel frattempo spero che Wendy si intrattenga il più possibile al supermercato. Parcheggia l’Harley e la chiude, infilandosi le chiavi nella tasca dei jeans. Butta il mozzicone di sigaretta sul marciapiede non curandosi nemmeno di spegnerlo. Osservo tutta la scena, senza staccare gli occhi dalla vedova nera che si muove sul suo bicipite e che sembra stia venendo da me con l’intenzione di mordermi. Ricordo che durante la correzione di un manoscritto, mi ero imbattuta sulla descrizione di quel ragno. Il suo nome latrodectus mactans, deriva dal latino mactare, che significa uccidere. Un brivido gelato mi percorre la spina dorsale. «Joy Huge?» Mi domanda avvicinandosi.

Non credo sia saggio mentire. Se è arrivato fino a qui è perché ha già scoperto la mia identità, e se gli dicessi una bugia, probabilmente non potrei rispondere con una menzogna alle successive domande, perché non mi crederebbe più. «Sì, sono io. Lei chi sarebbe?» Si siede dall’altra parte del tavolo. «Mi chiamo Bill. Sono un caro amico di tua sorella.» Stringo le dita in due pugni stretti e devo costringermi a trattenermi, perché avrei una gran voglia di stampargliene uno su quella faccia da bastardo. «Non mi ha mai parlato di lei» continuo come se fosse una conversazione normale. «Lei no, ma forse Wendy sì» termina con un ghigno. «Se intende la figlia di mia sorella, si sbaglia di grosso. Non la vedo dal giorno in cui è nata» replico con decisione. Bill si accarezza l’ispida barba in modo nervoso. Appoggia i gomiti sul tavolo e posa gli occhi sul vassoio. «Posso?» chiede indicando l’unico pancake rimasto. «Prego, faccia pure.» Afferra la forchetta e il coltello, con calma ne taglia un pezzetto e se lo porta alla bocca. «Mmm, proprio buono» sussurra indicandomi con la punta del coltello, «mi ricorda tanto quelli che preparava Wendy.» Appoggio le mani sui braccioli della sedia e facendo forza mi alzo in piedi, stando attenta questa volta ad appoggiarmi sul piede sano. «Io penso che lei stia cercando nel posto sbagliato.» Si alza e colma la distanza che ci separa, senza mollare la presa dal coltello.

«E io penso che lei mi stia prendendo per i fondelli.» «Joy?» Una voce familiare grida dalla strada. Bill si fa da parte, dandomi la possibilità di vedere Abby che sta eggiando con il marito. Non posso farmi scappare quest’occasione. «Sì, aspettatemi, arrivo subito.» Mi rivolgo di nuovo a Bill. «Mi dispiace. Come le ho già detto non posso esserle d’aiuto.» Prendo la stampella e con o incerto raggiungo coloro che rappresentano la mia ancora di salvezza. Non voglio dargli delucidazioni sull’identità di quell’uomo seduto sotto il mio portico e non voglio nemmeno mostrarmi preoccupata più del dovuto, perché non desidero coinvolgerli in qualcosa che potrebbe diventare pericoloso, ma ho la necessità di andare incontro a Wendy, almeno prima che lui abbia la possibilità di incrociarla. Abby mi appoggia una mano sulla spalla e inclina la testa di lato. «Tutto bene? Hai una faccia strana.» «Sì, sì, tutto okay» rispondo in modo poco convincente. Il rombo del motore riecheggia dietro le mie spalle e con la coda dell’occhio sbircio in quella direzione. «Grazie dell’ospitalità. Credo che ci rivedremo presto» sogghigna mentre ingrana la marcia. Ruota la manopola del gas e parte in sgommata e a grande velocità, nella direzione opposta al supermercato. Faccio un sospiro di sollievo. Per lo meno non sono costretta a correre incontro a Wendy, soprattutto perché, nelle mie condizioni attuali, sarebbe stato ancora più

arduo. «Chi era quell’uomo?» insiste Abby. «Non lo so. Ero seduta sotto il portico e si è fermato per chiedermi un’informazione, poi ha cominciato ad avere un atteggiamento arrogante e ho iniziato a preoccuparmi. Per fortuna siete ati, così ho preso la palla al balzo per liberarmi di lui» spiego. In quel momento ci raggiunge anche Wendy e ringrazio mentalmente l’universo per averla ricondotta a casa sana e salva. Zoppico verso di lei e sollevo un braccio per poterla stringere a me. «Ehi, sono stata via solo dieci minuti» farfuglia soffocata dal mio abbraccio. «Lei è tua nipote Wendy?» domanda Abby. Le presento, sperando che Wendy, conoscendo i nomi dei partecipanti, non faccia nessuna battuta strana sul gruppo di psico aiuto. Per fortuna non la fa, anzi, in modo educato inizia a farle complimenti sul cappello che indossa. «Ora dobbiamo continuare. Vogliamo andare a prendere un caffè dove siamo state l’ultima volta» dice Abby ammiccando. «Fantastico!» esclamo. «Buona eggiata e ci vediamo presto.» Li osservo mentre si allontanano. Provo una sensazione di gioia nel constatare che anche lei sta riprendendo in mano la sua vita. Dopo quel breve intervallo di serenità, i miei nervi mi riportano a ciò che è successo durante l’assenza di Wendy. «Vieni, dobbiamo sbrigarci a entrare in casa» le dico scrutando a destra e a sinistra. «È successo qualcosa durante la mia assenza? Mi sembri strana.» «Entriamo. Ti racconterò tutto non appena mi sentirò più al sicuro.»

«Ma come ha fatto a trovarci?» grida Wendy spalancando le braccia. «Non ne ho idea. La città non è tanto grande e forse ha chiesto informazioni» rispondo massaggiandomi le tempie. «E per quale motivo è venuto a cercarmi?» mi domanda preoccupata. «La chiave.» Corruga la fronte e spalanca gli occhi. «Quella che hai trovato nel borsone della mamma?» «Sì, proprio quella. Quando ho chiesto a Felicity che cosa aprisse, mi ha risposto che non ne sapeva niente. E se non è stata lei a occultarla in quel punto, vuol dire che l’ha fatto qualcun altro che aveva accesso alle sue cose.» «Se è quella che vuole, perché non gliela consegniamo e ci liberiamo di lui?» propone Wendy come se fosse la cosa più ovvia da fare. «E se quella chiave rappresentasse una prova per scarcerare tua madre?» Wendy inizia a giocherellare in modo nervoso con i capelli, mentre io tamburello le dita sul tavolo, in attesa che mi venga in mente cosa fare. «Devo raccontare tutto a Jack» le dico afferrando la cornetta del telefono, «è l’unico che può aiutarci.»

CAPITOLO XIV

Mi siedo vicino alla finestra che dà sul vialetto e scosto la tenda di pochi centimetri, mentre Wendy sprofonda nella sua poltrona preferita adiacente la libreria. Sceglie un libro e inizia a sfogliarlo. La lentezza con cui gira le pagine, mi fa intuire che non è affatto concentrata su quello che sta leggendo. «Stai fissando la stessa facciata da almeno dieci minuti» le faccio notare. Chiude il libro con un sonoro tonfo e con uno slancio si alza in piedi. Ripone il libro nella libreria e mi raggiunge. «Sto cercando un modo per distrarmi, e pensavo che la lettura mi potesse aiutare, ma dopo tre righe i miei pensieri vagano altrove.» «Che ne dici se prepariamo un dolce?» propongo allontanandomi dalla finestra. «Restare a fissare il marciapiede non mi aiuterà di certo a far are il tempo più velocemente.» «Concordo. Quest’attesa mi sta sfinendo» replica avviandosi verso la cucina. Apre l’anta della credenza e tira fuori la farina e lo zucchero, poi recupera burro e uova dal frigorifero. Pesa gli ingredienti sulla bilancia e poi, seguendo una sequenza ben precisa, inizia a mescolarli in una ciotola. Mi accomodo di fronte a lei dall’altra parte del tavolo e la osservo. «Mi sembrava che avessi detto che dovevamo preparare qualcosa insieme» dice senza smettere di amalgamare il tutto con un cucchiaio di legno. «Sì, ma tu sei più brava di me. Il mio o è solo morale» scherzo immergendo l’indice nella ciotola e raccogliendo un po’ di impasto.

Glielo spalmo sulla punta del naso e lei mi guarda imbronciata. «Vuoi la guerra?» Solleva il mestolo di legno e me lo punta dritto in faccia. Alzo le mani in segno di resa. Wendy abbassa il cucchiaio e sposta l’attenzione verso la finestra del salotto. «Sembra il rumore dell’auto di Jack.» Abbandoniamo l’esperimento culinario e andiamo a controllare. «Sono Jack.» Bussa con forza alla porta, come se volesse sfondarla. «Non c’è bisogno di demolirla» commento mentre apro le serrature e tolgo la catenella. «Scusa, è che sono ate più di due ore da quando ci siamo sentiti per telefono e non sapevo se Bill fosse tornato. Ero solo preoccupato» mi spiega. Lo faccio entrare e accomodare. «Hai scoperto qualcosa?» Jack guarda in direzione di Wendy, come per capire se può parlare apertamente. «Che ne dici di tornare in cucina e terminare il dolce?» le suggerisco. «No» risponde con tono deciso, «voglio sentire con le mie orecchie. Ormai sono grande, non ho bisogno che mi venga raccontata una mezza verità. In fondo sono io quella che ha condiviso una casa per cinque anni con quell’uomo. Lo conosco meglio di voi due.» Non gliel’ho ancora chiesto, perché avevo un po’ paura a toccare quel tema, ma ora sento che è arrivato il momento. «Bill, è stato mai violento con la mamma o con te?»

Fa cenno di no con la testa. Si appoggia con la schiena al muro e fa un respiro profondo, come se dovesse incamerare la quantità di ossigeno necessaria per poter esternare quello che desidera raccontare. «Praticamente mi ignorava. Era solo interessato alla mamma. Quando era in casa, restavo nella mia camera la maggior parte del tempo e ne uscivo solo quando non si udiva più nessun rumore. In quel momento mi azzardavo ad aprire la porta e potevo constatare che si erano addormentati sul divano. La maggior parte delle volte dovevo raccogliere le bottiglie vuote che gli circondavano i piedi e i mozziconi di sigaretta sparsi, che si dimenticavano accesi. Li mettevo in un sacchetto che poi portavo subito fuori nel bidone della spazzatura. Avevo l’impressione che se non avessi lasciato nessuna traccia dei lori vizi, sarebbe stato come se non fosse mai successo. Ma sapevo che stavo solo ingannando me stessa. La pulizia non poteva veramente cancellare quello che facevano. Quando rientravo in casa, restavo a fissarli per qualche minuto, poi davo un bacio sulla fronte a mia madre e le sussurravo la buonanotte all’orecchio. Non credo che se ne sia mai accorta. Erano talmente fatti che non si sarebbero svegliati nemmeno se il tetto fosse crollato.» Un silenzio doloroso inonda la stanza. Ascolto quel terribile racconto, come sospesa in un luogo senza tempo. A ogni parola che emette, sento una stretta sempre più forte alla gola, come se una mano invisibile non mi permettesse di respirare. Credo che per Jack sia lo stesso, perché quando mi volto a guardarlo, noto il labbro inferiore che gli trema e gli occhi ricoperti da una patina lucida. «Scusate» sussurra Wendy asciugandosi le lacrime. La risposta alla domanda è stata più elaborata di quello che avrei voluto.» Si porta una mano alla bocca e inizia a mordicchiarsi le unghie. «Non lo avevo mai raccontato a voce alta e tirarlo fuori, in un certo senso, mi fa sentire meglio.» Apro le braccia e mi corre incontro. «Non sai quanto mi dispiace per tutto quello che hai dovuto are» mormoro

accarezzandole la testa. Si scosta, ruota il capo e guarda Jack dritto negli occhi. «Dobbiamo catturarlo. Non voglio che qualche altra donna o bambina sia costretta a are quello che abbiamo ato noi.» Jack annuisce e appoggia una mano sulla spalla di Wendy. «Lo faremo. Te lo prometto. Ho già parlato con il capo della polizia di Prescott, prima di venire qui, e gli ho spiegato l’intera faccenda. Gli ho detto che vi ha minacciate, che secondo i miei sospetti potrebbe essere implicato nell’omicidio e che voi potreste essere in pericolo se si ripresentasse qui.» «E ti ha creduto?» gli domando speranzosa. «In realtà non poteva fare altrimenti. Proprio ieri ho trovato un testimone che afferma di aver visto la notte dell’omicidio una macchina che parcheggiava di fronte alla casa del signor Parker. È sicuro che la persona al volante fosse un uomo e la descrizione combacia alla perfezione con quella di Bill. Dice che c’era anche un’altra persona seduta di fianco al guidatore, ma non essendo uscita dalla macchina, con il buio, non è stato capace di identificarla.» «È un testimone affidabile?» «Sì. È un senzatetto. Ha detto che sono molti anni che si ferma in quell’isolato per dormire, perché dice che c’è un punto perfetto lontano dalle fonti di luce artificiale, da dove può osservare le stelle. Quella notte non riusciva a prendere sonno e ha notato la macchina che parcheggiava di fronte a casa del signor Parker. » «Ci siamo quasi» affermo. «Credo proprio di sì. In ogni caso, questa sera arriverà un poliziotto e resterà di pattuglia di fronte a casa per tutta la notte. Nel frattempo hanno iniziato le ricerche.» «Sono certa che ritornerà per riprendersi quella maledetta chiave» affermo angustiata.

Jack posa delicatamente una mano sulla mia. «Io resterò qui fino a quando non verrà il poliziotto. Non vi lascerò sole.» «Grazie» sussurro.

«Chi ne vuole uno?» domanda Wendy reggendo un vassoio di muffin al cioccolato. «Devo essere sincera. Mi si era formata una voragine nello stomaco al sentire il profumino che usciva dalla cucina» le dico prendendone uno. Jack si alza in piedi e si stira. «Non si può assaporare un buon muffin se non lo si accompagna con un ottimo caffè…» «Italiano» terminiamo in coro io e Wendy. «Esatto» replica puntando un indice a entrambe. Per un breve lasso di tempo cerchiamo di comportarci come se fossimo una famiglia normale, che sta trascorrendo un piacevole pomeriggio. Jack ci racconta qualche aneddoto divertente sul suo lavoro. È molto bravo a farlo, ha la capacità di imitare le voci e i comportamenti differenti dei vari protagonisti delle sue storie, strappandoci delle risate in continuazione. Un tuono squarcia il cielo e subito dopo qualcuno bussa alla porta. Io salto sul divano e Wendy emette un grido. «Polizia» si sente urlare da fuori. «Che tempismo!» esclamo portandomi due dita al collo per controllare le pulsazioni che sono aumentate a causa dello spavento. È Jack ad alzarsi per andare a controllare.

Scosta la porta senza aprirla del tutto e qualcuno gli porge un tesserino di identificazione. Dopo averlo esaminato con attenzione, lo fa entrare. È un uomo basso, più o meno sulla cinquantina. Ha i capelli brizzolati e una pancia abbastanza pronunciata. Non indossa una divisa da poliziotto ma un paio di jeans e un giubbottino leggero che sembra di una taglia più grande della sua. «Non sembra un poliziotto» commento. Jack mi guarda, come per ricordarmi che avevo fatto la stessa osservazione su di lui, la prima volta in cui ci eravamo incontrati. Me ne rendo conto e cerco di ricostruire la frase in modo da non risultare offensiva. «Intendevo dire» balbetto, «che immaginavo di vederla in uniforme.» «Sì, avevo capito» replica mettendosi le mani in tasca, «ma devo cercare di are inosservato. Se quell’uomo tenta di mettersi di nuovo in contatto con lei e vede una macchina della polizia, sicuramente non si avvicinerà, e per noi sarà più difficile catturarlo.» «Certo, ha perfettamente ragione» gli dico sentendomi stupida per aver fatto quell’osservazione. «Ora, se volete scusarmi, vado a rintanarmi nella mia casa su quattro ruote, prima che scoppi un terribile temporale.» «Un momento.» Wendy prende un piattino su cui appoggia un paio di muffin e versa del caffè in una tazza. «Nel caso le venisse fame signor…» gli dice porgendoglieli. Il poliziotto inchina la testa e la ringrazia. «Sono il sergente Clooney. E grazie, ne avrò bisogno. La notte è lunga.»

«A questo punto credo che me ne andrò anche io. Voglio are da Nathan e poi mi fermerò a dormire in un motel qui vicino. Rio domani mattina» dice Jack mentre raccoglie lo zaino vicino al divano. «Va bene. Grazie mille per essere restato con noi oggi. In ogni caso se non ti andasse bene come avvocato, potresti sempre provare come attore comico» gli dico strizzando un occhio. «In effetti era nella lista che compilai da bambino dei possibili lavori che avrei voluto fare da adulto.» «E quali altri lavori c’erano nella lista?» Domando curiosa. Alza il pollice, come se iniziasse a contare. «Uno. Il custode dei panda. Due. Lo scrittore di biglietti per biscotti della fortuna. Tre. Il cercatore di palline da golf.» Si arresta. «Devo continuare?» «No. Ho già sentito abbastanza assurdità» rispondo scuotendo la testa. «Tu non mi credi, ma sono professioni che esistono davvero.» Mi appoggia una mano sulla spalla e mi dà un delicato bacio sulla guancia. «Buonanotte» sussurra. Sollevo la mano e con le dita tocco il punto in cui le sue labbra si sono appoggiate sulla mia pelle. «Buonanotte» replico con voce flebile. «Avresti potuto invitarlo a restare a dormire qui, invece di mandarlo in un triste motel» bofonchia Wendy alle mie spalle. Mi volto a guardarla e sento che il mio volto comincia a scaldarsi. «Sono diventata rossa, vero?» le domando indicandomi le gote.

Solleva le spalle. «Un pochino, ma io credo che sia normale quando si parla dei propri sentimenti» precisa con tono malizioso. Ora mi sento ancora più in imbarazzo. Zoppicando mi avvicino a lei, prendo un cuscino dal divano e glielo tiro. «Non saresti in grado di vincere» dichiara indicando la mia caviglia. Mi siedo sconfitta, ancora prima di cominciare la battaglia. Wendy con un balzo si accuccia al mio fianco. «Mi sembra una bella persona. E anche un buon papà. Ho osservato il modo in cui si comporta con Nathan. Mi sarebbe piaciuto avere un padre come lui.» Questa volta la sua voce assume un tono triste. «Sì, anche a me sembra una bella persona» confermo.

CAPITOLO XV

La pioggia incessante e il rombo dei tuoni che continuano imperterriti a squarciare il cielo mi impediscono di dormire. Mi alzo e in punta di piedi mi dirigo verso la stanza di Wendy, per controllare che stia bene. Abbasso lentamente la maniglia e la scosto di alcuni centimetri. Un russare debole e ritmico mi arriva alle orecchie. Mi porto una mano alla bocca per trattenere una risata e richiudo la porta. Questa ragazza non si sveglia nemmeno con le cannonate. Scendo per andare a bere un po’ d’acqua e mentre la sorseggio mi avvicino alla finestra. Il poliziotto è seduto in macchina, ma non capisco se stia dormendo o se sia sveglio. C’è troppo buio e la fitta pioggia mi impedisce di vedere chiaramente. Appoggio il bicchiere sul tavolo e decido di ritornare in camera, con la speranza di riuscire a prendere sonno. Prima di farlo, però, recupero dal ripostiglio la mazza da baseball che era appartenuta a mio padre. Probabilmente non servirà a niente, ma mi trasmette una certa tranquillità psicologica. Appoggio la mazza di fianco al letto e scosto le tende in modo che la luce del lampione, posizionato vicino alla finestra, dia una parvenza di luminosità alla stanza. Mi stendo, incrocio le mani sul ventre e decido di fare un esercizio di rilassamento che mi ha insegnato Vivian, basato sulla respirazione.

Inspiro, fino a quando non sento di non poter far entrare più aria nei polmoni, poi espiro, non tutto in una volta, ma lentamente, fino ad avvertire che tutta l’aria che avevo accumulato poco prima si esaurisce. Sento che l’esercizio comincia a fare effetto e che i muscoli del corpo si stanno rilassando, quando un rumore mi fa riaprire gli occhi di colpo. Non si tratta né della pioggia, né dei tuoni, ma sembra piuttosto qualcosa che si rompe. Con uno scatto mi siedo, schiacciandomi alla testata del letto. Premo con forza la schiena sul cuscino, come se volessi nascondermici dentro, e raccolgo le gambe al petto. Agguanto il lenzuolo e me lo porto fino all’altezza della bocca. Il respiro si fa affannato. Ora l’aria esce ed entra nelle narici con un ritmo frenetico. Non dovrei essere così terrorizzata. La presenza di un poliziotto mi dovrebbe tranquillizzare. Ma anche se tento disperatamente di inviare questi messaggi di fiducia al cervello, non riesco a calmarmi. Dovrei alzarmi e correre da Wendy, ma il corpo sembra paralizzato. La pioggia mi impedisce di distinguere altri rumori, ma la fervida immaginazione di cui sono dotata mi proietta l’immagine di Bill che a ritmo cadenzato sale gli scalini, uno alla volta, senza fretta. Sa che la sua preda è ferita e che non ha possibilità di fuga. Noto che la porta inizia ad aprirsi, non di colpo, ma poco a poco, e viene accompagnata da un cigolio sinistro. Nella parte più prossima all’intercapedine, noto una mano con le dita aperte, che sta premendo per spalancarla del tutto. Sembra animata di vita propria, perché il resto del corpo è avvolto nell’oscurità.

Quelle lunghe dita scivolano sulla vernice rossa, scoprendo poco a poco, il resto del braccio. Un fulmine illumina come un flash, per una frazione di secondo la stanza, dandomi la possibilità di scorgere la vedova nera. Ora sembra più grande e minacciosa. «Ti avevo detto che ci saremmo rivisti presto» tuona con voce gutturale. Deglutisco, cercando di accumulare tutto il fiato che ho in corpo per poi farlo esplodere in un grido. Ma è tutto inutile. Mi sembra di essere in uno di quei sogni in cui tento a tutti i costi di urlare, ma dove non riesco a emettere nemmeno un sibilo. «Non avresti dovuto mentirmi. Io non sopporto i bugiardi. So che Wendy vive qui con te. Mi sono informato prima di venire. Davvero pensavi che fossi così stupido?» La stanza si illumina al ritmo dei fulmini, ed è durante uno di quei fugaci momenti che posso notare che nell’altra mano stringe una pistola. Non sono un’esperta in materia, ma ho letto diversi libri gialli e sono certa che l’arma che sta impugnando è dotata di silenziatore. «Hai ucciso il poliziotto?» Non so da dove sono riuscita a tirare fuori la voce, forse è la paura che mi sta facendo parlare. Risponde con un ghigno che mi penetra nelle vene, gelandone il sangue. «Mi prendi per un idiota? Non ucciderei mai uno sbirro. Sono venuto a riprendermi solo quello che mi appartiene.» Abbasso il lenzuolo che mi copriva metà del volto. «La chiave.»

Si siede sul letto, appoggia i gomiti sulle ginocchia e ruota la testa verso di me. «Sai quanta fatica mi è costata ottenere quella maledetta chiave?» «Hai dovuto eliminare un uomo, suppongo» affermo aspettando la sua confessione. Si alza di nuovo, muovendo in modo rotatorio la mano che stringe l’arma, mentre l’altra mano la sfrega ripetutamente sulla parte superiore del capo in un gesto frenetico, come se stesse perdendo la pazienza. Sento che sto perdendo il controllo del respiro e anche quello dei battiti del cuore. Temo che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Tic. Tac. Il tempo è scaduto. La fine è vicina. «Joy, con chi stai parlando?» Wendy compare all’improvviso sul ciglio della porta, sfregandosi gli occhi, ma quando si accorge di Bill, lancia un grido di terrore. Accade tutto in una frazione di secondo. Lui si volta di spalle per intimarle di entrare nella stanza, e io approfitto di quel momento di distrazione per afferrare la mazza e sferrargli un colpo all’altezza della nuca. Bill cade sul pavimento. «Presto, corri a chiamare il sergente» grido a Wendy. Scendo dal letto, con cautela gli strappo di mano la pistola e saltellando su un piede solo scendo le scale. Lo spiffero d’aria che entra solleticandomi la pelle mi fa notare che la finestra vicino alle scale è rotta, ma purtroppo me ne accorgo troppo tardi e un pezzo di vetro mi si conficca nella pianta del piede.

Cado, lanciando un grido di dolore e stringendo i denti tento di estrarlo in un colpo solo. «Dove pensi di scappare?» Avverto un pesante piede sulla schiena che mi schiaccia a terra. Il violento urto mi fa mollare la presa della pistola che si disperde nell’oscurità. Bill mi afferra per le spalle, mi rigira a pancia in su e si siede sul mio addome, mozzandomi il respiro. «Io volevo solo quella dannata chiave. Perché stai rendendo le cose così difficili?» Ha lo sguardo rabbioso e digrigna i denti come se fosse una lupo famelico in procinto di divorare la sua preda. Avvolge le mani attorno al mio collo, ma prima che cominci a stringere, noto la luce di una torcia che lo illumina e un proiettile lo colpisce a una spalla. Un urlo di dolore lacera l’aria. Bill si accascia. Con uno scatto mi metto a sedere e mi massaggio il collo tossendo. «Non ti muovere» intima il poliziotto. «Resta in ginocchio e metti le mani bene in vista.» Bill ubbidisce, senza smettere di lamentarsi per il dolore infertogli dallo sparo. Il sergente Clooney lo ammanetta e nel contempo gli elenca i propri diritti. «Wendy, per favore, chiama il 911» le dice senza abbassare l’arma dalla testa di Bill. «Digli di inviare anche un’ambulanza.» «Come si sente signorina Huge?» Mi alzo in piedi e zoppicando raggiungo il divano.

«Grazie a lei, ora bene» rispondo ancora frastornata.

Il rumore della pioggia si affievolisce e viene sostituito da quello delle sirene. Altri due poliziotti entrano in casa, accompagnati da un paio di infermieri. Il sergente Clooney si allontana da Bill, lasciando che i medici gli prestino un primo soccorso sotto gli occhi vigili degli altri due agenti. Si siede al mio fianco e mi appoggia una mano sulla spalla. «È finita.»

CAPITOLO XVI

Sono alla centrale di polizia, nascosta dietro uno di quegli specchi che impediscono al sospettato di vedere chi si cela dietro a quella finta superficie riflettente. Ho chiesto esplicitamente di poter presiedere all’interrogatorio, perché voglio sentire con le mie orecchie la confessione di Bill. Voglio udire quelle parole che possono scagionare mia sorella. È seduto, con i polsi legati dietro la schiena. Si guarda intorno con circospezione, poi si sofferma nella mia direzione, come se potesse scorgermi. Con un sussulto faccio un o indietro. «Tranquilla, non può vederti» sussurra Jack cingendomi la vita. Il sergente Clooney entra, prende posto di fronte a lui e inizia l’interrogatorio. Prima di porgergli qualsiasi domanda, il sergente gli elenca tutte le prove incriminanti a suo carico. La testimonianza del senzatetto, la scoperta che lui e il signor Parker erano in affari già da diverso tempo nell’ambito del traffico della droga, l’intrusione in casa mia, le minacce rivolte a me e a Wendy e per ultimo ma non meno importante, la famosa chiave. Apriva un magazzino che conteneva una quantità tale di cocaina che lo avrebbe fatto diventare milionario. Per ovvi motivi, aveva il movente perfetto per voler morto il suo socio in affari. Pensavo che Bill tentasse in tutti i modi di difendersi, invece il suo volto diventa sempre più cupo, trasformandosi da cane rabbioso a cucciolo indifeso. Credo che abbia capito di non avere molte speranze. Il sergente Clooney appoggia un registratore sul tavolo.

«Una confessione sarebbe gradita e ti farebbe risparmiare qualche anno di gattabuia» suggerisce con tono vittorioso appoggiandosi comodamente allo schienale della sedia.

Un mese prima

Bill

Parcheggio l’auto di fronte alla casa del signor Parker. L’orologio del cruscotto segna quasi le cinque di notte. Osservo Felicity, seduta alla mia destra. Le afferro il mento fra le mani e le scuoto la testa a destra e a sinistra per poter verificare la sua capacità di reazione. La dose di droga che le ho iniettato, accompagnata dal sonnifero che le ho fatto ingurgitare stanno facendo il loro dovere. Credo che resterà in questo stato catatonico il tempo sufficiente per attuare il mio piano. Mi infilo una paio di guanti in pelle, scendo dalla macchina e mi guardo intorno con attenzione, per verificare che non ci siano occhi indiscreti. Mi dirigo alla porta. Suono due volte. Pausa. Suono altre due volte. Il signor Parker riconosce il codice e dopo pochi secondi viene ad aprirmi. «Che diavolo ci fai qui a quest’ora?» domanda mentre si annoda una vestaglia di seta. «Ho bisogno di parlarti» rispondo invitandolo a farmi entrare con un cenno del

capo. Mi fa accomodare in salotto e mi offre un bicchiere di whisky. Non lo accetto, perché voglio concludere alla svelta questa faccenda. Stringe gli occhi in due fessure strette. «Ci sono problemi con il carico?» «In effetti sì» rispondo estraendo l’arma dalla tasca interna della giacca. Il signor Parker alza le braccia in un gesto automatico. «Perché dovrei accontentarmi del trenta per cento, quando potrei avere il cento per cento?» domando. «In fondo ieri mi hai consegnato le chiavi, quindi sono io il legittimo proprietario della merce» continuo tirando su con il naso. Tenta di farmi ragionare. «Bill, ascolta. Penso che tu abbia preso una dose massiccia di droga e non stai parlando lucidamente.» «E qui ti sbagli. Non sono mai stato così lucido. Addio.» Premo il grilletto e il proiettile gli buca il cranio. Il silenziatore ha svolto egregiamente il suo lavoro, attutendo il rumore. Se qualcuno lo udisse da fuori, potrebbe confonderlo con il frastuono che produce una porta che sbatte. Apro alcuni cassetti e butto per terra le lampade e altri oggetti che riempiono la stanza, simulando una rapina. Cercando di fare il più velocemente possibile ritorno in macchina, prendo in braccio Felicity e la porto dentro casa. Afferro con una mano un tavolino e con l’altra la testa di Felicity. Le faccio colpire la nuca sul bordo, in modo da simulare una caduta con conseguente svenimento, poi la adagio in quel punto.

Tolgo il silenziatore e le metto l’arma in mano, cercando di farle premere le dita sull’impugnatura, in modo che lasci le sue impronte digitali. Mi guardo intorno un’ultima volta per accertarmi di aver creato una perfetta scena del crimine. Mi accovaccio, agguanto il braccio di Felicity, glielo sollevo e le faccio sparare un colpo. Questa volta il rumore del colpo risuona per tutta la sala. Mi affretto e corro verso l’uscita posteriore della casa che so essere completamente immersa nell’oscurità. Corro senza sosta per almeno quindici minuti e mi fermo solo quando sento il rumore delle sirene della polizia in lontananza. Mi tolgo i guanti e li butto in un bidone della spazzatura.

Il sergente spegne il registratore. Soddisfatto si alza dalla sedia ed esce dalla stanza. Mi volto verso Jack e con le lacrime agli occhi gli butto le braccia al collo. «È veramente tutto finito» mormoro pensando al ritorno a casa di Felicity.

Non facciamo in tempo a parcheggiare che Wendy salta davanti al cofano della macchina. «Allora?» grida spalancando le braccia. Scendo dall’auto e sorridendo annuisco. «Ha confessato tutto.» Wendy esplode in un urlo di gioia e inizia a saltare sul posto.

«Quando possiamo andare a prendere la mamma?» domanda rivolgendosi a Jack. «Il capo della polizia ha detto che oggi prepara tutti i documenti per la scarcerazione e che domani mattina potrà già uscire.» «Jack stasera deve tornare a Phoenix e si è offerto di accompagnarla lui qui domani, così abbiamo tutto il tempo per prepararle una bella festa a sorpresa.» «Certo!» esclama Wendy. Ho già in mente di cucinarle i suoi dolci preferiti.» Con uno scatto risale i gradini e sparisce dentro casa. «Mi piacerebbe restare, ma devo proprio tornare in ufficio» dice Jack giocherellando con le chiavi della macchina. «Certo, capisco. Allora, ci vediamo domani» rispondo evitando il contatto visivo con lui. Abbasso lo sguardo e osservo le dita dei miei piedi che si chiudono e si distendono in un movimento ansioso. «Ovviamente se vorrai rimanere con noi per i festeggiamenti sarai il benvenuto.» Le mani di Jack afferrano le mie. Lo fanno in modo delicato come se stringesse qualcosa di cristallo che si può rompere facilmente. Con i pollici mi sfiora il dorso delle mani attivando i miei recettori emozionali. «Non mancherei alla festa per nessuna ragione al mondo.» Sollevo la testa e mi perdo in quei grandi occhi blu, che fin dal principio mi avevano trasmesso speranza. Jack compie un piccolo o rendendo nulla la distanza fra i nostri corpi, e una scarica elettrica mi percorre la spina dorsale. Non so se sono capace di affrontare questo tipo di situazione. È vero che nell’ultimo mese ho attuato una serie di cambiamenti insperati, ma mi domando se sono riuscita a scacciare del tutto i demoni che mi hanno perseguitata per molto tempo.

Ho paura ad aprire il mio cuore e donarlo a qualcuno. Non voglio perdere di nuovo me stessa. Arretro, recuperando la distanza di sicurezza e le mie mani scivolano via dalle sue, nascondendosi nelle tasche dei jeans. «Devo rientrare» mormoro. Le sue labbra che fino a poco prima erano aperte in un sorriso, si richiudono su se stesse, fino quasi a sparire. Risale in macchina e senza aggiungere una parola mette in moto e riparte. Scusami.

Wendy è in cucina e sta cantando a squarcia gola una canzone dei Take That. L’atmosfera leggera e allegra che si respira mi è almeno un po’ di conforto. Do un’occhiata alla scrivania dove mi siedo sempre per lavorare. Negli ultimi giorni l’ho abbandonata a se stessa e ora è un pot-pourri di cartacce varie. Afferro una pila di fogli e apro l’ultimo cassetto, quello in cui di solito metto le cose che non uso mai. Il quaderno appoggiato al suo interno cattura la mia attenzione. Lo prendo e rileggo quello che avevo scritto solo un mese prima.

Non sono forte Non sono debole Semplicemente…non sono Non ho uno scopo Un motivo per cui valga la pena combattere

Una lacrima scende a rigarmi la guancia. Questa volta però, non è di tristezza, ma bensì di gioia. Non mi riconosco più in quelle cinque righe. La Joy di quei giorni ha lasciato spazio a una donna più forte, più consapevole e con più di un motivo per cui vale la pena combattere. Wendy. Felicity. Jack. Mi sono comportata come un stupida con lui poco prima. La vecchia Joy aveva preso il sopravvento. Quella Joy che aveva paura ad aprirsi al mondo, che aveva paura di essere giudicata, che aveva paura di essere messa da parte e abbandonata. Ma io non sono più quella persona, o perlomeno, sono riuscita a sanare una parte delle mie ferite. Voglio smettere di guardare al ato, è arrivato il momento di aprirsi al futuro. Straccio quel foglio scritto dalla vecchia me in mille pezzettini, li lancio in aria, spalancando le braccia e li faccio ricadere sulla mia testa come se fossero dei coriandoli. «Stai bene zia Joy?» domanda Wendy facendo capolino dalla cucina. «Mai stata meglio.»

CAPITOLO XVII

«Aiutami ad attaccare lo striscione» dico a Wendy facendole cenno di afferrarlo per l’altro lato. «Non dovresti salire sulle scale» ribadisce indicando la mia caviglia. Faccio spallucce. «Non ti preoccupare, ormai non sento più dolore.» Scendo dalle scale e mi allontano di un paio di metri per ammirare l’opera. «Che te ne pare?» le domando massaggiandomi il mento. «Non c’è una lettera dritta» mi fa notare. «Mmm… hai ragione. Dipingere non è sicuramente il mio forte.» «Però mi piace il fatto che tu abbia usato tutti i colori che esistono sulla faccia della terra» scherza. «Ho immaginato che i colori potessero rappresentare le nostre possibilità», le spiego. «Se ci pensi, sono proprio queste ultime che ci danno l’energia necessaria per andare avanti. E credo che sia arrivato il momento per tutte e tre di affacciarci al mondo e scoprire tutto quello che ha da offrirci.» La macchina di Jack parcheggia nel vialetto e noi ci prepariamo a correre incontro a Felicity. Scende dalla macchina. I capelli sono un po’ più lunghi dell’ultima volta in cui l’ho vista. Anche il viso sembra meno scavato e con un colorito più brillante. Indossa un paio di pantaloncini corti di jeans e un top che ne evidenzia l’addome piatto.

Lascio che sia Wendy ad abbracciarla per prima. È commovente vedere il legame che si crea tra una madre e una figlia, nonostante la relazione non sia stata semplice. Mi raggiungono sotto il portico e apro le braccia verso di lei. «Bentornata a casa sorellona.» «È bello rivederti sorellina.» Con la coda dell’occhio scorgo Jack. È ancora appoggiato al cofano della macchina, mi osserva tenendo le braccia incrociate e non sembra che abbia intenzione di spostarsi da lì. Sono certa che sia per colpa del comportamento che ho tenuto con lui il giorno prima. «Ti unisci a noi?» gli domando timidamente avvicinandomi. Si aggiusta l’orologio al polso e si distacca dal cofano. «Credo che sia meglio che me ne vada.» «No, aspetta» replico. Forse non sono pronta ad aprirmi del tutto con lui, ma so che c’è una parte di me che non lo vuole lasciare andare via. «Non sei tu, sono io il problema. Probabilmente non è il momento adatto per spiegarti tutto, ma ti prego, non andartene» lo supplico. Si mette le mani in tasca e comincia a dondolare sui piedi, come se stesse decidendo il da farsi. Wendy sbuca dalla porta e ci incita a entrare. «Joy, Jack, che ci fate lì impalati, venite dentro» esclama a gran voce. «Se non lo fai per me, fallo almeno per loro» gli dico.

«Okay.» Wendy sparisce su per le scale per poi ridiscendere subito dopo con in mano la chitarra di Felicity. «Zia Joy mi ha detto che questa era tua. Mi suoneresti qualcosa?» domanda porgendogliela. «Non so se ne sono ancora capace» risponde un po’ imbarazzata. «Ricordo che prima di andare via da casa, suonavi sempre una canzone che mi piaceva tantissimo» le dico. «L’avevo scritta io» commenta sorridendo. Accorda la chitarra, poi suona qualche scala per scaldare le dita. Si schiarisce la voce ed esegue l’arpeggio iniziale, facendo muovere in modo delicato le dita sulle corde.

Quando la vita ti sembra difficile Quando intorno a te il mondo crolla Quando i giorni sono lunghi E le notti interminabili Non mollare

Quando commetti uno sbaglio Quando vorresti tornare indietro Quando desideri cancellare il ato Quando neanche il futuro ti conforta

Non mollare

Ogni persona soffre Ogni persona ha momenti bui E se ti senti sola Prendi la mia mano Non mollare

Ora il buio è svanito Uno spiraglio di luce è entrato La vita ha nuovi colori La speranza ha trionfato Non hai mollato

L’amore ha vinto L’amore ha vinto L’amore ha vinto

Avevo solo dieci anni quando ascoltavo questa canzone, e allora ero più concentrata sulla melodia che sul testo. Non pensavo alla profondità delle parole. Ora che ho avuto la possibilità di ascoltarla per davvero, potrei quasi affermare che sembra scritta apposta per me.

O forse no. Forse è una canzone che si può adattare a tutti. In fondo, chi non ha ato momenti bui nella propria vita? Chi non vorrebbe poter cancellare qualcosa del proprio ato? E chi non continua a desiderare che la speranza bussi alla propria porta? Wendy si alza in piedi e comincia a battere le mani. «Wow, mamma. Sei bravissima» afferma emozionata. Anche io e Jack seguiamo il suo esempio ed iniziamo ad applaudire. «Basta, basta. Così mi fate commuovere» esclama Felicity portandosi le mani sulle guance. «Ora chiudi gli occhi mamma. Ho una sorpresa per te.» Wendy corre in cucina e ritorna stringendo fra le mani una meravigliosa cheesecake al cioccolato decorata con nocciole nella parte superiore. «Ora li puoi riaprire.» Il volto di Felicity si illumina e poi scoppia a piangere. «Che succede mamma?» «Non me lo merito» risponde fra le lacrime, «ho fatto così tanti sbagli. Dovresti portarmi rancore non prepararmi la mia torta preferita.» Wendy fa un profondo respiro e si schiocca le dita, come se si stesse preparando a tenere un discorso importante. «La verità è che per un periodo è stato così. Ti ho quasi odiata perché pensavo che non te ne fregasse niente di me. Ti ho vista buttare via la nostra vita per colpa di un uomo e della droga. Ma, durante questo breve lasso di tempo che ho vissuto qui con zia Joy, e soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti, ho capito che la vita è troppo breve per portare rancori. Tutti sbagliamo e a volte feriamo persone che amiamo, anche se non lo vogliamo davvero, per questo credo che tutti meritiamo una seconda possibilità.»

Mentre Wendy pronuncia quell’ultima frase, il mio sguardo e quello di Jack si incrociano. «Non capita tutti i giorni di farsi dare una lezione di vita da una ragazzina di tredici anni» mi sussurra. «È una ragazzina davvero speciale» confermo. Jack appoggia una mano sulla mia e le nostre dita si intrecciano. Mi piace il modo in cui lo fanno, sembra quasi che siano nate per incastrarsi le une con le altre. «Ehi, voi due piccioncini, volete una fetta di torta?» domanda Wendy facendo l’occhiolino. «Certamente, non stavo aspettando altro» risponde Jack afferrando un piattino. «Stavolta ti sei superata. Penso proprio che fare la pasticciera sia il tuo mestiere.» «Una musicista, una pasticcera e una scrittrice. Non si può dire che questa non sia una famiglia di artisti» esclama Jack. «Io non sono una scrittrice» gli faccio notare. «Lo diventerai presto» termina facendo l’occhiolino. Lo diventerò presto. Magari. «Ora signore, se volete scusarmi, devo andare a prendere Nathan.» Jack si alza in piedi e abbraccia Wendy e Felicity. «Grazie di tutto» gli dice mia sorella. «Sono sempre felice quando la giustizia trionfa. Questo è uno dei motivi per cui ho scelto di fare questo lavoro.»

«Hai fatto bene a supplicarmi di restare» dice Jack mentre l’accompagno all’auto. «Ma io non ti ho supplicato.» «Oh, sì che lo hai fatto» risponde gonfiando il petto. «Ma…» Mi suggella la bocca con un bacio, togliendomi la possibilità di ribattere. Le labbra si distaccano, ma continuiamo a mantenere il contatto con la fronte. «Un giorno, quando te la sentirai, mi racconterai di te, anche di quella parte più oscura che ti fa paura. Non c’è nessuna fretta.» «Grazie Jack. Per tutto.» «Grazie a te per essere entrata nella mia vita.»

«È stata una giornata lunga e piena di emozioni» dico notando che Wendy è crollata sul divano. «Dove posso prendere le lenzuola per farmi il letto?» mi domanda Felicity come se fosse un ospite. «In realtà ti avevo preparato il mio letto nella nostra vecchia camera. Wendy si è impossessata del tuo quando si è trasferita, mentre io sono già diversi anni che dormo in camera dei nostri genitori. Ma se preferisci starle più vicino ti cedo il letto, così state più comode.» «No, non ti preoccupare. Mi sistemerò sul divano.» «Perché?» chiedo non capendo il motivo della scelta. «Diciamo che ho il sonno leggero e molte volte mi alzo durante la notte. Non voglio svegliare nessuna delle due» replica. «Okay. Come preferisci. E io che volevo vedere la tua faccia quando entravi

nella nostra vecchia stanza e scoprivi che non c’era più il tuo prezioso poster dei Duran Duran.» «No! Era storico. Erano agli inizi della loro carriera nel millenovecentottanta.» «Infatti mi sono sempre chiesta come tu abbia fatto a indovinare che sarebbero diventati così famosi in seguito.» «Semplice. Ho fiuto per la buona musica» termina pizzicandomi la guancia. «No, no. Non comincerai a torturami come quando eravamo piccole.» Le nostre risate svegliano Wendy che si mette seduta sul divano stropicciandosi gli occhi. «Che sta succedendo?» «Niente cara, è ora di andare a letto» le risponde Felicity accarezzandole la fronte. Wendy si alza dal divano e muovendosi come uno zombie risale le scale. Nonostante sia tardi non mi sento ancora stanca e non ho voglia di coricarmi. Decido di sedermi alla scrivania per lavorare un po’. Accendo il computer e senza riflettere apro una pagina bianca di word. Il cursore che lampeggia è per me come un invito a scrivere. Appoggio le mani sulla tastiera e digito il titolo provvisorio. Nuovi inizi.

CAPITOLO XVIII

«Ehi dormigliona» bisbiglia Wendy entrando nella mia stanza. Sbadiglio, stiro ogni muscolo del corpo, e facendo leva sulle braccia mi metto a sedere sul letto. «Ieri sera mi sono messa a lavorare perché non avevo sonno e sono venuta a dormire solo verso le quattro di mattina.» «Mi dispiace averti svegliata. Volevo dirti che io e la mamma andiamo a fare un giro in città e volevo chiederti se ti univi a noi.» Sbadiglio di nuovo e mi stropiccio gli occhi. «Meglio se andate solo voi due. Credo che mi alzerò con calma e farò colazione alla velocità di un bradipo.» «Okay. Capisco. Ci vediamo più tardi.» Wendy mi saluta ed esce dalla camera. Resto qualche minuto a fissare la stanza buia, poi con un salto esco dal letto e spalanco le finestre. Il sole di agosto entra prepotente nella stanza e sono obbligata a portarmi una mano davanti agli occhi per non restarne accecata. Vado in bagno e mi lavo la faccia con una buona dose di acqua gelata, sperando che mi aiuti a svegliarmi del tutto. Mi tampono il viso con un asciugamano e quando l’abbasso faccio un sorriso alla Joy riflessa nello specchio. È strano come quel semplice gesto sia capace di donarmi una forza straordinaria.

L’orologio della cucina segna quasi le undici. Afferro un foglio e una penna dalla mia scrivania e scrivo una nota per mia sorella e Wendy, poi lo attacco al frigorifero.

Starò fuori casa per alcune ore. Ci vediamo più tardi. Vi voglio bene.

Salgo in macchina e, seguendo i cartelli stradali, mi avvio verso Phoenix. Mano a mano che mi allontano da Prescott la temperatura si fa sempre più bollente. Mi fermo a un semaforo e volto la testa verso destra, dove l’insegna luminosa di una farmacia riporta un termometro che segna quasi quaranta gradi. Mi sventolo con un ventaglio, sperando di ripartire al più presto. Almeno quando sono in movimento il vento mi regala una sensazione di freschezza. Ricontrollo il pezzo di carta che ho appoggiato sul sedile del eggero, dove ho scritto l’indirizzo e mi accosto per chiedere informazioni a un signore. «Sono solo un paio di isolati a sinistra» mi informa mentre si asciuga la fronte con un fazzoletto. Giungo a destinazione e parcheggio la macchina nel primo posto disponibile. Mi rendo conto di essere praticamente di fronte alla casa del signor Parker. La riconosco perché ricordo di averla vista in un articolo di giornale. Faccio un giro su me stessa, alla ricerca di uno spazio più aperto fra le case. Muovo due i in avanti e mi sembra di individuarlo. Cammino in quella direzione, e quando arrivo, mi imbatto in una panchina con sopra un mucchietto di cose.

Non c’è nessuno, ma sono certa che il proprietario di quegli oggetti sia vicino. Non rischierebbe di perdere ciò che rappresenta tutta la sua vita. «Quella panchina è mia» sento dire alla mie spalle. Mi volto e un uomo intento a tirarsi su la cerniera dei pantaloni mi si avvicina, mantenendo comunque una distanza di sicurezza. Indossa un paio di pantaloncini consumati, una maglietta con un colore che non saprei definire e una paio di sandali rotti in diversi punti. Ha i capelli bianchi e spettinati raccolti in una coda bassa e una lunga barba canuta che potrebbe ricordare quella di babbo natale. «Mike?» domando cercando di sembrare amichevole. Mi scruta dalla testa ai piedi. «Chi sei? Non mi sembra di conoscerti» afferma in modo burbero. «Mi chiamo Joy Huge, sono la sorella di Felicity Huge.» Scoppia a ridere e immagino già perché lo faccia. Ogni volta che pronuncio i nostri nomi, produco una certa reazione di incredulità nelle persone. «Sì, sono nomi strani. No, i miei genitori non erano ottimisti. Anzi, tutto il contrario.» Mike inizia a muovere la testa su e giù. «Ho capito. Sei la sorella di quella donna che avevano messo in prigione con l’accusa di omicidio avvenuto in quella casa» termina indicando alle mie spalle. «Esatto. Sono ata perché volevo ringraziarla di persona. La sua testimonianza è stata davvero preziosa. Grazie a lei mia sorella è tornata a casa.» Mike alza le spalle e si china per rovistare dentro il suo zaino. «Ho riferito solo quello che avevo visto, non ho fatto nulla di speciale.» «No, non è vero. Viviamo in un’epoca individualista. I legami tra le persone

sono sempre più fragili. Tutti vogliono essere ascoltati, ma nessuno ascolta più gli altri. Non c’è più solidarietà e il diverso è visto come qualcosa da evitare, non più un amico da aiutare. Lei avrebbe potuto fregarsene e continuare a vivere la sua vita, invece è stato altruista e con la sua confessione ha fatto in modo che una famiglia un tempo disunita, si ricongiungesse di nuovo.» Mike si blocca, riporta l’attenzione su di me e mi è impossibile non notare una patina lucida ricoprirgli gli occhi. «Mi fa felice sapere di aver contribuito a riunire una famiglia.» Mi domando dove sia la sua. Quale sia la sua storia. Cosa l’abbia portato a vivere una vita come quella. Ma sono domande troppo personali da fare a una persona che si è appena conosciuta. Però, posso fare qualcosa per lui. Vorrei fagli capire che se per molti è diventato invisibile, non lo è per me. Apro la borsa e tiro fuori il portafoglio. «Non voglio i tuoi soldi» dice con tono offeso. «Aspetti, non mi fraintenda. Mi dia il tempo di spiegare prima di rifiutare.» Incrocia le braccia davanti al petto e inclina la testa, facendomi cenno di proseguire. «Dopo domani sarà il mio compleanno. Per la prima volta dopo quattordici anni, lo festeggerò con mia sorella e mia nipote e mi piacerebbe che venisse anche lei. Abitiamo a Prescott e volevo darle i soldi per poter prendere l’autobus. Visto che è mio ospite mi sembra giusto pagarle il mezzo di trasporto.» Appunto l’indirizzo su un pezzo di carta e glielo allungo insieme a una banconota da cento dollari. Lui resta a fissarli, indugiando sul da farsi. Fa un profondo respiro e con fare timido li prende. «Sarà una festa semplice, quindi indossi qualcosa di casual» gli dico scherzando.

Mike intuisce la mia battuta e comincia a ridere. «Allora, spero di vederla presto.» Alza una mano per salutarmi ed io ritorno verso la macchina.

Ventiquattro anni. Questa è la scritta riportata sulla torta ricoperta di glassa al cioccolato. Rivolgo il pensiero all’otto di agosto dell’anno prima. Ero in casa, da sola, come sempre. Non c’era nessuno con cui festeggiare e nemmeno un motivo per farlo. Avevo trascorso tutto il giorno lavorando, evitando di riflettere sul fatto che il tempo trascorreva e che io lo stavo buttando via. «Non dovevi vederla prima di spegnere le candeline.» Wendy compare alle mie spalle, sbuffa e mi sposta dal frigo richiudendo la porta con forza. «Volevo solo prendere un po’ d’acqua» le spiego. «Doveva essere una sorpresa» continua imbronciata. «Quindi ho fatto male a arle un dito sopra per assaggiarla?» Wendy spalanca gli occhi e la bocca. «Cosa. Hai. Fatto?» Mi metto a ridere. «Sto scherzando. Volevo solo stuzzicarti un po’.» «Che sta succedendo qui?» chiede Felicity raggiungendoci. «Una piccola incomprensione familiare» replico facendo l’occhiolino. Il camlo suona, interrompendo quella breve chiacchierata. «E arrivato il tuo innamorato» annuncia Wendy sospirando e formando un cuore

con le mani. «No, non può essere lui. Ha chiamato questa mattina per dirmi che sarebbe arrivato più tardi perché doveva andare da suo figlio.» Mi dirigo verso l’entrata e, prima di aprire, guardo dallo spioncino. È un uomo e non mi sembra di averlo mai visto prima in vita mia. Lasciando la catenella inserita scosto la porta. «Sì?» chiedo scrutandolo dalla testa ai piedi. Spalanca le braccia e accenna un sorriso. «Sapevo che non mi avresti riconosciuto.» L’aspetto non è certo quello di due giorni prima, ma la voce roca è inconfondibile. «Mike?» domando spalancando la porta. «Forse non ti aspettavi che venissi, ma ti assicuro che l’altro giorno sei stata così persuasiva che non me la sentivo di rifiutare. E non potevo presentarmi a casa tua senza darmi una ripulita.» «La barba e i capelli dove sono finiti?» Si massaggia il viso liscio. «Ho pensato che un po’ di sole avrebbe fatto bene alla mia pelle.» «Se posso permettermi, dimostri almeno dieci anni di meno» gli dico facendogli cenno di entrare. «Non so quanti anni pensavi che avessi, ma ne ho solo sessanta. Inoltre, mi hai dato più soldi di quelli che mi servivano per l’autobus, così ho pensato di comprare una maglietta e un paio di pantaloni nuovi.» «Look casual» chioso alzando un pollice.

Mike avanza di qualche o, tenendo le mani incrociate davanti alla pancia. «Felicity, Wendy, questo è Mike.» «Siamo felici di averti qui.» Felicity allunga una mano e Mike ricambia la stretta. «Vuoi una coca cola? O qualcos’altro da bere?» domanda Wendy con il suo solito modo premuroso. «Una coca cola va benissimo.» Ci sediamo tutti e quattro sul divano. Io inizio a giocherellare con il braccialetto che porto al polso, Felicity si tamburella le dita sulla coscia, Mike beve a minuscoli sorsi la sua bevanda e Wendy si scruta le unghie. «Ehi. Mi sembrate il mio gruppo di psico-aiuto la prima sera che ci siamo riuniti» affermo allargando le braccia. Alla mia affermazione noto che tutti si rilassano. «Fatemi capire» inizia Mike, «tu vai a un gruppo di psico-aiuto, lei è stata in carcere e io sono un povero mendicante. Wendy, credo che ti convenga scappare da questa casa il prima possibile, altrimenti non oso immaginare cosa ne sarà di te.» Il commento di Mike ci strappa una risata e ci regala quella confidenza di cui avevamo bisogno per iniziare a parlare. Appoggia i gomiti sulle ginocchia e lascia ciondolare la testa verso il basso, poi la rialza e inizia a parlare. «Prima di tutto vorrei ringraziarvi per avermi invitato oggi. L’altro giorno, quando Joy si è presentata da me, non avevo nessuna intenzione di stare ad ascoltarla, però, poi ha detto una frase che mi ha fatto cambiare idea. Mi ha detto che avevo aiutato una famiglia a riunirsi, dopo ben quattordici anni. Sapete, io ho perso mia moglie e mia figlia ventidue anni fa, in un incidente. Un ubriaco le ha investite, mentre stavano attraversando la strada e poi è scappato. In quel momento ho perso tutto. Il lavoro, la casa, la fiducia nelle persone. Dalla loro

morte ho vissuto in completa solitudine. Sapere di avere aiutato una famiglia a ricongiungersi, mi ha fatto sentire un’emozione che non provavo da tanto tempo.» Si blocca e noto una lacrima rigargli la guancia. Si alza in piedi e si asciuga gli occhi con i palmi delle mani. «Scusatemi. Dovrebbe essere una festa e sto rovinando tutto.» «No, Mike» mi affretto a rassicurarlo. Mi avvicino a lui e gli appoggio una mano sulla spalla. «Se lo vorrai, da oggi potrai considerarci un po’ come la tua famiglia.» Il telefono squilla e Wendy va a rispondere. «È Jack» grida dalla cucina. «Stai arrivando?» domando afferrando la cornetta. Sospira. «Purtroppo le cose stanno andando un po’ per le lunghe. Temo proprio di non riuscire a venire.» Il sorriso si spegne sul mio viso. So che Nathan viene prima di tutti e che sarà sempre così, però ci tenevo che fosse presente, in particolare a questo compleanno un po’ speciale. «Mi dispiace davvero tanto Joy.» «Non ti preoccupare» rispondo cercando di utilizzare un tono il più sereno possibile, «ci sentiamo domani.» Chiudo la comunicazione e ritorno in sala. I presenti non possono non notare l’espressione di delusione dipinta sul mio viso. «È impegnato con Nathan e non riesce a venire» spiego.

«Troverà il modo di farsi perdonare. Ne sono sicura» afferma Wendy. Trascorriamo la seconda parte del pomeriggio raccontando alcuni aneddoti divertenti della nostra vita e cercando di evitare i momenti bui che l’hanno attraversata. «Credo che sia arrivato il momento di andarmene» dice Mike alzandosi in piedi. «Dove pensi di dormire?» gli domando. «Vado a fare una eggiata di perlustrazione e poi deciderò.» «Perché non rimani qui?» suggerisco. Sventola una mano in aria. «È una serata troppo bella, non ho voglia di trascorrerla chiuso dentro una casa. Sono troppo abituato al mio tetto stellato» ribatte facendomi l’occhiolino. «Potresti usare il dondolo sotto il portico» insisto, «così domani mattina possiamo fare colazione tutti assieme con i buonissimi pancake di Wendy.» Mike ci pensa un po’. «Dopo aver assaggiato la torta di compleanno che ha preparato come faccio a rifiutare questa proposta?» «Benissimo» esclamo porgendogli la mano, «affare fatto.»

Sto guardando fuori dalla finestra, quando vedo avvicinarsi qualcuno in bicicletta, ma non è una bici qualsiasi, bensì un tandem costruito con il telaio in legno. Mi porto una mano alla bocca per trattenere una risata, quando noto che la persona che lo sta conducendo è Jack. Si ferma davanti al vialetto e spalanca le braccia. «Buon compleanno» urla a gran voce. «Pronta principessa per andare a

festeggiare?» Agguanto le chiavi di casa ed esco correndo. «E questa da dove l’hai tirata fuori?» domando rimirando quella strana bici. «L’ho costruita insieme a mio padre quando ero un ragazzino, ma se devo essere sincero è la prima volta che la uso. Dai, salta su che andiamo a celebrare il tuo compleanno.» Eccitata monto sul tandem e iniziamo a pedalare verso una direzione a me sconosciuta. Il leggero venticello procurato dal movimento, fa giungere alle mie narici il profumo di Jack. Chiudo per un attimo gli occhi, lasciando che la mente si concentri solo nell’olfatto. Jack arresta la corsa ed io riapro gli occhi. Siamo davanti alla pizzeria siciliana, dove ci siamo incontrati la prima sera in cui ero uscita con Wendy. Smonta dalla bici, facendomi cenno di fare lo stesso. La pizzeria non è molto originale però il mezzo di trasporto lo è stato. Estrae una bandana dalla tasca dei jeans. «Girati.» «Perché vuoi tapparmi gli occhi?» «Se te lo dico che sorpresa è?» Mi volto e lascio che mi leghi quel pezzo di stoffa intorno alla testa. «Dammi la mano.» Mi cinge la vita per guidarmi. «Dobbiamo salire una decina di scalini» mi sussurra all’orecchio.

Non ricordavo che il locale avesse anche una parte nel piano superiore. «Eccoci. Solo un attimo.» Sento un rumore di chiavi e una porta che si apre. Mi invita a compiere un paio di i, richiudendo la porta alle nostre spalle. Un odore di pomodoro e mozzarella m’invade le narici. «Pronta?» domanda posizionandosi alle mie spalle. «Sto morendo dalla curiosità» replico intrecciando le dita in modo nervoso. La bandana scivola via dagli occhi dandomi la possibilità di vedere. Decine e decine di luci come quelle di Natale ricoprono le quattro pareti della stanza creando un’atmosfera magica. Al centro della stanza una tavola, con la tovaglia a quadri rossi e bianchi, e al centro una pizza enorme. «È una pizza al metro» mi spiega «non conosco ancora i tuoi gusti così ne ho fatta preparare una enorme con tutti gli ingredienti possibili.» «Jack…» Le parole mi muoiono in gola. «È così… così meraviglioso.» Jack mi abbraccia da dietro. «Sono felice che ti piaccia» mi sussurra all’orecchio. «Per questo non sei venuto oggi?» Mi volto e lo guardo negli occhi. «Nathan mi ha aiutato nei preparativi.»

«Credo che sia il giorno più bello della mia vita» confesso commossa. «Come credi?» scherza. Mi scappa una risata. «Hai ragione. Non lo credo, lo è per davvero.» Le nostra labbra s’incontrano. Mi bacia lentamente, come se volesse assaporarmi e mi rendo conto che dovevo compiere ventiquattro anni per capire il vero significato di un bacio.

CAPITOLO XIX

Mia sorella è seduta sotto il portico e sta sorseggiando un bicchiere di tè freddo. Da quando è tornata non abbiamo avuto modo di parlare molto noi due sole. Ho preferito che recuperasse il tempo che aveva perduto con Wendy. Ne aveva più bisogno di me. «Posso?» le chiedo indicando la sedia al suo fianco. «Certo. È casa tua.» «Nostra» sottolineo. Appoggia il bicchiere sul tavolo, e continua a fissarlo rigirandolo fra le dita. D’improvviso il suo volto si fa cupo. «Va tutto bene?» domando notando il cambio di espressione. Si gira di scatto, guardandomi fissa. Sono occhi che vogliono confessare qualcosa, ma che hanno paura di farlo. «In realtà…» La voce le trema. Le appoggio una mano sulla sua. Anche le sue dita tremano. «Lo sai che puoi dirmi tutto» mormoro cercando di trasmetterle calma. «Ho un segreto che mi tormenta l’anima da quasi quattordici anni.» Non mi risulta difficile fare i calcoli. Sono gli anni che sta per compiere Wendy.

«Quando te ne sei andata di casa?» le chiedo. Annuisce, chiude gli occhi e abbassa il capo. «Tu avevi solo dieci anni all’epoca e molte cose non le potevi capire e altre probabilmente non le potevi notare.» «Mi stai facendo preoccupare» le dico sentendo l’ansia che comincia a espandersi nel mio corpo. Felicity prende un respiro profondo e si apre, rivelandomi quello che la tormenta. «Avevo quattordici anni la prima volta che è successo. Ero in camera e stavo leggendo una rivista. Tu e la mamma eravate andate a are il pomeriggio dalla sua migliore amica. Io, quel giorno, avevo preferito restare a casa.» Si blocca e si porta una mano alla gola come se qualcosa le impedisse di proseguire. «Nostro padre entrò nella camera e mi chiese se potevamo are un po’ di tempo assieme. Mi sembrava una domanda strana. Sai che non stava praticamente mai con noi. Era impegnato quasi tutto il giorno a lavorare e quando era in casa, si metteva sempre a leggere o a guardare la televisione. Ma quel pomeriggio era diverso. Si sedette sul letto e notai subito che l’alito gli puzzava di brandy.» Afferro i pantaloni e li stringo fra le dita, perché ho paura di quello che mi sta per dire e non so se sono pronta a sentirlo. «Si stese al mio fianco e mi invitò a fare lo stesso. Poi cominciò ad accarezzarmi, prima i capelli, poi scese sempre più giù, fino ad arrivare alle gambe e…» Felicity si porta le mani al viso e scoppia a piangere. Mi alzo dalla sedia e la circondo con le braccia. Le manca il respiro.

A me manca il respiro. Una voragine si sta aprendo nella mia anima. Prendo il bicchiere a l’aiuto a bere. «Ti ha…» Nemmeno io sono capace di finire la frase per lei. «Sì» mormora lasciando cadere la testa nel mio petto. Il bicchiere mi scivola dalle mani, frantumandosi in mille pezzi e il mio cuore fa lo stesso. Restiamo in silenzio, per un periodo che mi sembra interminabile. Ora i pezzi del puzzle stanno tornando al loro posto. Ora, capisco perché era scappata di casa, perché mi aveva abbandonata senza darmi una spiegazione. «È successo altre volte?» balbetto. Felicity si distacca, mi guarda negli occhi e fa un cenno di assenso con la testa. «No, no!» grido portandomi le mani a copertura delle orecchie come per impedirmi di udire quello che mi sta confessando. Con uno scatto mi alzo in piedi inorridita. «Non mi dirai che Wendy è…» «No. Certo che no.» Mi rimetto a sedere vicino a lei e le prendo le mani. «Perché non l’hai detto alla mamma?» «La mamma lo sapeva» continua, «ma ha sempre fatto finta di non vedere.» Percepisco come un lama trafiggermi l’anima. Felicity si alza in piedi e mi afferra per le spalle scuotendole.

«Non devi dirlo a nessuno. Capito? È la prima volta che trovo il coraggio di dirlo ad alta voce. E tu devi restare l’unica custode di questo orrendo segreto.» «Ora capisco perché nostra madre non ha mai voluto parlare della tua fuga. Quando iniziavo a farle delle domande, lei cambiava sempre discorso. Pensavo che lo fe perché soffriva per la tua partenza. Che ingenua sono stata!» esclamo scrollando la testa. «Posso chiederti chi è il padre di Wendy?» «Era un mio compagno di scuola, con cui ho avuto una breve relazione. Appena ha scoperto che ero rimasta incinta, mi ha lasciato.» Annuisco. «E lei lo sa?» «Le ho raccontato che era un ragazzo di cui ero molto innamorata ma che i suoi genitori erano contrari alla nostra relazione, e che, vista la giovane età, non volevano che si rovinasse il futuro per prendersi cura di un figlio. Ho inventato questa versione perché pensavo che in questo modo avrebbe sofferto meno, non volevo che si sentisse abbandonata.» Felicity si morde il labbro, e io capisco che c’è un altro peso di cui si deve liberare. «C’è dell’altro di cui mi vuoi parlare?» Incrocia le braccia al petto e guarda un punto fisso nell’orizzonte. «Esatto, c’è qualcos’altro che devi sapere, ma temo che nel momento in cui te lo confesserò, mi odierai.»

14 anni prima

Felicity

Entro nel salone. Papà è seduto nella sua solita poltrona. Stringo fra le braccia la piccola Wendy. «Ce ne andiamo. Per sempre» gli dico. Lui non si alza. Si limita a guardarmi, quasi con disprezzo. «Avresti dovuto abortire quando l’hai scoperto. Hai solo diciassette anni e non hai nemmeno terminato la scuola. Ora la tua vita sarà rovinata per sempre.» L’odio mi penetra nelle viscere ed esplodo. «Tu mi parli di vita rovinata? Come cavolo ti permetti? Tu mi hai inferto una ferita che mi condizionerà tutta la vita. Che razza di padre violenta la propria figlia?» Mia madre entra nella stanza. Stringe fra le mani uno strofinaccio. La guardo disgustata, perché sa e ha sempre taciuto. Come può una madre permettere che questo accada? Come può nascondere e diventare complice di un’atrocità come questa? La mamma è quella persona che ci dovrebbe proteggere, farci sentire al sicuro, è quella che darebbe la vita per il proprio figlio. La odio per quello che mi ha fatto. Mi aspetto che almeno in questo momento dica qualcosa, mi difenda. Possibile che non abbia un gesto di amore nei miei confronti neanche ora? Non lo fa, si limita a guardarci, come se non volesse vedere la realtà delle cose. «Se continuate a gridare così, sveglierete Joy.» Se ne va, insieme alla sua codardia, lasciandoci di nuovo da soli. In quel momento mi prende il panico. So che lui non ha mai toccato mia sorella

perché era ancora una bambina, ma se io me ne vado, chi la proteggerà? Sono combattuta. Non posso continuare a vivere sotto questo tetto, però non voglio nemmeno abbandonare Joy. Mio padre si alza dalla poltrona e, ignorandomi, esce dalla stanza. Non mi degna nemmeno di uno sguardo, come se fossi trasparente. Fisso quella poltrona vuota e il bicchiere di quello schifoso liquore, appoggiato sul tavolino a lato. Ed è in quel momento che mi viene in mente un’idea, dettata da un istinto di sopravvivenza. Non avevo salvato me, ma dovevo farlo per Joy. Non permetterò che viva l’inferno che ho vissuto io. Apro il cassetto del mobiletto ed estraggo la scatola contenente le pillole che assume per il cuore. Me ne verso qualcuna nel palmo della mano, domandomi quale sia il numero di pastiglie sufficienti per provocargli un infarto. So che ne prende una alla mattina e una alla sera, per cui decido di usarne cinque. Vado in cucina, mi assicuro che mia madre non sia nei paraggi, le trituro e le verso nel brandy rimasto, aggiungendone un altro po’. L’odore del liquore mi penetra nelle narici, provocandomi la nausea. Ogni volta che le sento, nella mente prendono forma le immagini dei suoi abusi. Rimetto il bicchiere al suo posto. Forse stasera non tornerà per finirlo, ma domani mattina lo farà di sicuro. Richiudo la porta della sala e con la bambina in braccio e uno zaino sulle spalle esco da quella maledetta casa.

Per sempre.

Felicity mi guarda. Il suo volto è una maschera di dolore. «Joy. Ho veramente ucciso un uomo. Ho ucciso nostro padre.» La testa mi gira e sono costretta ad appoggiarmi alla parete per non cadere a terra. La mente è impossessata da un tumulto di pensieri, il corpo da un groviglio di emozioni. Cerco le parole da qualche parte, dentro di me, ma non le trovo. È stato come ricevere una pugnalata in pieno petto, che non mi lascia nemmeno la forza di respirare. Credevo che la mia famiglia fosse perfetta e credevo che Felicity avesse commesso un enorme errore andandosene da casa. Ma ora, tutte le carte in tavola sono cambiate. Tutto quello a cui avevo creduto fino ad oggi, era solo un’enorme bugia. Mio padre era un mostro, mia madre era un mostro e mia sorella era stata vittima di qualcosa di orribile. «Dimmi qualcosa, ti prego» mormora Felicitiy. «Mi… mi dispiace.» Sono le uniche parole che sono in grado di pronunciare. «So che mi odi.» «No, non ti odio» mi affretto a risponderle, «come potrei farlo? Eri solo una ragazzina, i cui genitori le hanno distrutto la vita. Hai mantenuto questo terribile segreto per moltissimo tempo e hai tentato di proteggermi, quando temevi che mi sarebbe potuta accadere la tua stessa sorte. Come potrei odiarti?»

Ci stringiamo in un abbraccio che racchiude mille significati. Mi dispiace. Perdonami. Sono qui per te. «Ehi. State bene?» domanda Wendy uscendo di casa. Ci asciughiamo entrambe le lacrime e indossiamo una maschera sorridente, nel tentativo di nascondere il dolore che ci attanaglia. «Stavamo solo ricordando i bei momenti ati insieme e ci siamo commosse» le spiego. Wendy non può sospettare che dietro la mia frase ci sia nascosto dell’altro. Si limita a sorridere e ci corre incontro. «Ora possiamo recuperare tutto il tempo che abbiamo perduto» mormora buttandosi fra le nostra braccia.

CAPITOLO XX

Mi siedo su un masso a osservare la calma piatta del lago. Chiudo le palpebre e mi concentro sulla dolce melodia di alcuni uccellini che cinguettano. «Tua sorella mi ha detto che potevo trovarti qui.» La voce di Jack mi richiama al momento presente. Si siede al mio fianco e mi prende una mano. «Tutto bene?» «Sì, tutto okay.» Non è la verità, soprattutto dopo quello che ho scoperto sulla mia famiglia, ma non posso raccontarglielo. Nessuno lo saprà mai eccetto me e mia sorella. Sarà l’unico segreto che condivideremo tutta la vita e che porteremo con noi fino alla tomba. «Allora perché hai quella faccia così pensierosa?» domanda accarezzandomi la guancia con il dorso della mano. «Stavo riflettendo su alcuni cambiamenti che voglio apportare nella mia vita. Ho deciso di vendere la casa dei nostri genitori.» «Per quale motivo? È una bella casa» commenta, «e immagino che racchiuda molti bei ricordi di te e tua sorella.» E anche atroci. Ma non glielo posso dire. Non voglio costringere mia sorella a vivere in una casa dove si è consumata una violenza perpetua. «Ho semplicemente voglia di creare qualcosa di nuovo. Mi piacerebbe ricominciare un po’ da zero e costruire nuovi ricordi in un posto differente.» «Capisco. Spero almeno che le tue intenzioni non siano anche di cambiare città.

Perché ho appena venduto il mio appartamento a Phoenix per tornare a vivere stabilmente qui a Prescott.» Mi volto a guardarlo. «E come farai con il lavoro?» Alza le spalle e si gira ad osservare il lago. «Ho lasciato anche quello. Ho pensato di aprire un piccolo studio tutto mio qui.» «Stai rinunciando alla tua carriera.» Alza le spalle. «Che me ne faccio di una carriera se sono costretto a stare lontano dalle due persone che più contano per me.» «Jack…» Intreccio le dita fra i suoi morbidi capelli e appoggio le labbra sulle sue. «E se mi dovesse andare male come avvocato, potrei sempre aggiustare biciclette.» Scoppiamo a ridere entrambi. «Te l’hanno mai detto che sei un uomo straordinario?» Appoggio la testa nell’incavo del suo collo e restiamo per un po’ in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. I miei sono rivolti a com’era vuota la mia esistenza prima dell’arrivo di Wendy, di Jack e del ritorno di Felicity. È strano, perché nonostante le cose orribili che sono accadute nel ato, posso percepire una fiammella di speranza quando penso al futuro.

«Perché non possiamo restare qui?» domanda Wendy nell’apprendere la notizia

del nostro trasferimento. Io e Felicity ci scambiamo una fugace occhiata. «Me l’ha suggerito la psicologa. Quando si vuole ricominciare da capo si devono effettuare una serie di cambiamenti, e visto che in questo posto non ho solo ricordi piacevoli, ho pensato che andare in una casa nuova possa essere un o importante per me.» Wendy è stata testimone delle mie ansietà e so che non potrebbe mai contraddirmi se uso questa scusa. «Okay, zia Joy. In questo caso non ho niente da obiettare.» Risale le scale e si rifugia nella sua camera da letto. «Non è necessario» mormora Felicity, stando attenta che sua figlia non possa sentirci. Mi avvicino a lei e le prendo le mani. «Non voglio che tu continui a dormire sul divano perché hai paura di entrare nella nostra camera da letto.» «Quindi, hai capito che è per quello?» «Quando me l’hai detto la prima volta, mi sono bevuta la scusa dell’insonnia, ma ora ho capito. Ora so cosa significa per te quella stanza, e non voglio farti rivivere nella memoria quei terribili momenti.» Felicity mi abbraccia. «Ho buttato via tanti anni della mia vita per colpa di quello che mi ha fatto nostro padre. Odiavo me stessa e odiavo il mio corpo. In un certo senso volevo farmi del male. Quando Wendy era piccola, ho cercato di tenere duro, di resistere. Ma un dolore come quello non puoi cancellarlo, rimane sepolto dentro di te, e prima o poi, ritorna a galla. Ed è stato in uno di quei momenti in cui mi sentivo debole e indifesa che Bill è comparso nella mia vita. Ho cominciato a fare uso di droghe, perché almeno in quel momento non ero costretta a pensare. Credevo di riuscire a controllarmi, ma non è stato esattamente così. La cosa è

diventata sempre più grande e mi è sfuggita di mano. Oh Joy, ho fatto così tanti errori» sussurra piangendo tra le mie braccia. «Non posso nemmeno immaginare quello che hai ato e so che non potrai mai cancellarlo, ma ora hai me e Wendy non ha mai smesso di volerti bene. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di guardare avanti e di creare un avvenire diverso. È nostro dovere costruire insieme nuovi ricordi.» Con i pollici le asciugo le lacrime che le riempiono le guance. «Grazie Joy. Sei una sorella fantastica. Dopo tutto quello che ti ho raccontato, non mi sono sentita giudicata da te nemmeno per un attimo.» Sorrido. «Io e i giudizi non abbiamo un buon rapporto.» Felicity fa un respiro profondo. «Ora basta piangere. Come hai detto tu poco prima, guardiamo in avanti.» «Bene, allora che ne dici se ci prepariamo e andiamo in un’agenzia immobiliare per iniziare la ricerca della casa nuova?» «Mi sembra un ottimo inizio.»

EPILOGO

4 mesi dopo

Prima di entrare, sbircio dalla porta. Il salone è immerso in una calda atmosfera natalizia. Nell’angolo è stato posto un enorme albero di natale, circondato alla base da pacchetti di colori differenti. Dal caminetto pendono tre calze che riportano il mio nome, quello di mia sorella e di Wendy e sulla tavola sono state appoggiate candele di diverse profumazioni. Vivian è seduta sul divano e sta parlando con Abby e il marito. Dylan è in piedi, vicino alla finestra, insieme a Janet, la ragazza che aveva conosciuto nel parco, durante il nostro esperimento di socializzazione esterno. Stanno chiacchierando e ridendo fra di loro. Wendy e Felicity stanno uscendo dalla cucina e reggono in mano due vassoi stracolmi di dolci vari. Mike è in piedi davanti al caminetto, con le mani tese davanti al fuoco. «Sei pronta?» domanda Jack comparendo alle mie spalle. «Sono un po’ nervosa» confesso. «In questa stanza sono racchiuse tutte le persone che ti vogliono bene. Pensa a quando farai la tua prima presentazione davanti ad un pubblico che non conosci.» Alzo gli occhi al cielo. «E questo sarebbe il tuo modo per tranquillizzarmi?» replico dandogli una leggera gomitata nel costato. Mi prende per le spalle e mi costringe a guardarlo negli occhi. «Okay. Allora ti darò alcuni consigli che diedero a me, quando dovetti parlare

per la prima volta davanti a una giuria. Primo. Non sei perfetta. Il fatto stesso che tu creda che quello che dirai debba essere perfetto, non fa altro che aumentare la tua ansia. Secondo. Tu non sei quello che dici. Quindi, non è che se non sei capace di parlare davanti a un pubblico significa che la tua vita è un disastro. Terzo. Non serve a niente memorizzare il discorso che farai. Ti creerebbe solo ulteriore stress. Non aver paura nel manifestare le tue emozioni. Siamo esseri umani e queste ultime fanno parte della nostra natura. Qualunque cosa dirai, se sarà condita da emozioni, arriverà direttamente al cuore delle persone.» Sbatto le palpebre. «Questo sì che è un discorso, Jack Cooper.» Mi rigira verso la sala. «Bene. Ora vai e conquista il tuo pubblico.» Con o deciso entro nella sala e tutti smettono di fare quello in cui erano impegnati. I presenti si siedono, formando un semicerchio, mentre io resto in piedi, in modo da poter osservare i loro volti. «Vorrei ringraziarvi per essere venuti qui oggi a festeggiare questa sera della vigilia di Natale con me e la mia famiglia nella nostra nuova casa. Purtroppo per voi, non siete qui solo per deliziare il vostro palato con le specialità culinarie di Wendy, ma anche per ascoltare la prima presentazione del mio libro.» «Wow. Hai scritto un libro?» esclama Dylan. «Sì, e mi dispiace che tocchi a voi fare da cavie.» La mia battuta solleva una risata. «Ne siamo onorati» mormora Mike al mio fianco. Scruto uno ad uno il volto di quelle persone sedute intorno a me. Ognuna di loro è stato un regalo prezioso, per riconquistare me stessa.

Faccio un profondo respiro e comincio a parlare. «Ho scoperto che il modo migliore per aiutare se stessi è aiutare gli altri. Fino a quando ero concentrata sul mio problema, non riuscivo a trovare una soluzione, ma quando ho spostato l’attenzione sugli altri, la soluzione è giunta da sola. C’è stato un tempo in cui non avevo fiducia nella mie capacità, ero arrivata al punto di credere di non avere più, nemmeno una motivazione per andare avanti. Ma un giorno, una dolce ragazzina entrò nella mia vita, e d’improvviso tutto cambiò. Questa giovane ragazza mi ha contagiato con la sua forza e speranza e mi ha fatto vedere che il mondo poteva offrirmi molte più possibilità di quelle che avrei mai potuto immaginare. Ho deciso di intitolare il mio libro “Nuovi inizi”, perché credo che sia un titolo che si adatti un po’ a tutti. Spesso, ricominciare da capo ci spaventa, perché ci vediamo costretti a lasciare il noto per l’ignoto. Ma se restiamo fermi nel punto in cui siamo sempre stati, potremmo perderci il meglio che la vita ha da offrirci. Certo, non possiamo tornare indietro e cambiare i primi capitoli del libro della nostra vita. Quelli resteranno per sempre lì e a volte ci farà soffrire rileggerli. Ma possiamo scriverne dei nuovi e possiamo decidere il finale.» Faccio una breve pausa per riprendere fiato. «Dobbiamo trasformare gli “avrei voluto” in “voglio” e gli “avrei potuto” in “posso”. Perché, ricordate, c’è sempre tempo per diventare quello che vogliamo essere. Il nostro futuro dipende da ogni singola azione che decidiamo di intraprendere oggi.» Il mio nome è Joy Huge e quello che sento nel cuore è davvero una gioia enorme.

RINGRAZIAMENTI

Prima di tutto, vorrei ringraziare Alby, che mi è stato vicino durante la progettazione del libro dandomi preziosi consigli. Ringrazio i miei genitori, Patty e Silver. Nonostante ci dividano 2500 km avete sempre un posto speciale molto, molto vicino al mio cuore. Ringrazio Bag e Dory, le prime a leggere il libro e a fiutare come due segugi gli errori di battitura. Infine, ringrazio ogni persona che deciderà di trascorrere qualche ora in compagnia delle mie pagine, sperando di riuscire a infondergli una sensazione di speranza, in questo mondo a volte difficile.

DELLA STESSA AUTRICE

Angels Il pozzo delle anime L’ordine del Triangolo Oscuro Maka – Viaggio verso la speranza L’Arpeggio del Cuore Born to love us Rhythm of Love Mi hai ridato la vita L’eco dei nostri i La forma del mio cuore

Contatti: [email protected] Sito: www.serenaversari.com

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