OLTRE LE COSE romanzo
Titti Federico
Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2012 Copyright Titti Federico, 2012
Tutti i diritti riservati ISBN: 9788897268673
Meligrana Editore Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV) Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041 www.meligranaeditore.com
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INDICE
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Titti Federico
Oltre le cose
Dedica
INTRODUZIONE
RINGRAZIAMENTI
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Titti Federico
Mi chiamo Concetta Federico, sono nata a Genova il 19/08/62 da genitori napoletani ma abito a Carrara dall'età di due anni. Mi sono laureata nell'87 in lingue e letterature straniere moderne ad indirizzo europeo e insegno lingua e letteratura se presso il liceo linguistico di Massa. Ho pubblicato il mio primo romanzo, “Prima che venga sera”, nel 2008 con la casa editrice Graus di Napoli.
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A mia madre, Enza
INTRODUZIONE
Tutto è cominciato una sera d’estate, cercavamo una fotografia da usare come copertina per il primo romanzo di Titti e, rovistando tra le vecchie foto dei miei, abbiamo trovato una lettera che datava luglio ‘45. Era scritta a mano, e la grafia era quella di mio padre, all’epoca prigioniero di guerra. Il foglio, consumato e ingiallito dal tempo, era sottile come carta velina, l’inchiostro a tratti sbiadito, ma il testo si leggeva ugualmente: mio padre chiedeva notizie della sua famiglia, raccontava di sé e concludeva la sua lettera con una poesia. Quella lettera era un tassello, come ama chiamarli Titti, un frammento significativo di vita che Titti ha messo nella sua valigia dei ricordi e lasciato lì, a riposare per qualche anno. Mi piace pensare che quella sera, con quella lettera, io le abbia fornito il tassello centrale di un puzzle attorno al quale Titti ha aggiunto via via altri tasselli fino a formare un’immagine completa: il suo romanzo. Perché è proprio l’esperienza della guerra e della prigionia che innesca il meccanismo da cui ha origine tutta la storia, semplice e innocente come una storia d’amore eppure complessa, ordita con cura e attenzione intorno a più fili narrativi che solo alla fine si ricongiungono in una trama sapientemente costruita. Credo che l’abilità dell’autrice sia stata proprio questa: trattare il tempo non come un’unica linea rigida ma come una serie di fili flessibili e diversamente colorati: ato, presente, futuro scorrono quasi paralleli ma poi s’intrecciano e si riavvolgono in un tempo circolare, e fine e principio trovano la loro ragione di essere l’uno nell’altro. È così che l’ultimo capitolo si ricongiunge idealmente al primo, e alla fine si comprendono i motivi, si decodificano i gesti e si trovano tutte le risposte. Se dovessi riassumere in un’unica parola questo intreccio di fili narrativi, direi che il romanzo è la storia di un viaggio, di una fuga e di un inseguimento, di due anime che si sfiorano per poi riperdersi per poi ritrovarsi esattamente là dove tutto era cominciato. In effetti il viaggio è un elemento narrativo molto amato da Titti: è stimolante, fecondo, connotativo e denotativo, spaziale e temporale, interiore ed esteriore. Il viaggio è movimento, cambiamento, fonte di vita laddove la stasi è morte. E persino la morte, se si concepisce come viaggio, è feconda e aperta a infinite scoperte. L’importante è riuscire ad andare oltre le cose.
Quando le ho chiesto spiegazioni in merito al titolo, Titti mi ha raccontato che “Oltre le cose” era il titolo della sua tesi di laurea, che analizzava i romanzi di Zola e il suo modo di descrivere gli oggetti inanimati come creature viventi. Titti ha voluto riutilizzare questo titolo perché andare “oltre le cose”, cioè oltre la realtà contingente, è un’esigenza dei suoi personaggi, soprattutto quelli femminili, che permette loro di approdare a una dimensione alternativa, a metà tra reale e magia, una dimensione che non si percepisce con i sensi ma con l’istinto. È proprio in questa dimensione che le cose parlano, gli oggetti si animano, i gelsomini partecipano alle vicende umane, la vita e la morte si toccano, come due modi diversi e complementari di esistere e di interagire con chi resta. Chiara, Margherita, Claire, avvertono tutte il bisogno di credere che le persone che non ci sono più continuino in qualche modo a comunicare con loro. Ma chi di noi non ha mai avvertito un bisogno simile? Claudia Bienaimé
CAPITOLO PRIMO LA FOTO
Carrara, Novembre 1999 Un sole tiepido, il profumo inebriante di fiori di campo misto a quello delle rose, il leggero fruscio della brezza autunnale tra le foglie tenere dei tigli, il verde cupo dei cipressi, austeri e solenni... “Sembra primavera... che beffa!” pensò Claire mentre avanzava a i lenti nel vialetto che la conduceva alla tomba di suo padre. Si sentiva truffata da quell’apparato idilliaco e terribilmente in collera contro quella serena bellezza che la circondava, la cui esistenza era un’offesa al dolore che le pesava dentro. Erano ati poco più di tre mesi e ancora non l’aveva accettata fino in fondo, la morte di suo padre. Aveva sempre pensato che quell’essere così speciale non sarebbe mai invecchiato e non l’avrebbe mai lasciata sola al mondo. L’aveva pensato fin da quando sua madre se n’era andata e lei, adolescente e vulnerabile, si era attaccata a lui in maniera patologica. E così era cresciuta, abbarbicata a suo padre come un’edera secolare al muro di pietra che l’ha vista nascere. Suo padre Luigi Amati, grande scultore carrarese che aveva dato lustro alla sua città con la sua opera, capace di animare la dura pietra marmorea in una forma nella quale anche il più distratto degli osservatori percepiva la vita, vibrante e ostinata... Suo padre, “uomo autorevole e geniale nella cui mani il marmo si faceva cera, creatura straordinaria che brillava di luce propria e riusciva a illuminare il cammino a tutti coloro che avevano avuto il privilegio di avvicinarsi a lui...”, come recitava uno dei numerosi articoli di giornale scritti in occasione della sua morte.
Suo padre, che molti adoravano per quella genialità che lo rendeva una sorta di uomo-dio, e che molti detestavano per quell’autorevole e aristocratica superbia che nasce dalla consapevolezza della propria grandezza... Suo padre se n’era andato, esattamente come tutti gli altri, se n’era andato in una stanza d’ospedale, con un tubo in bocca e due tubicini nel naso, e lo sguardo sgomento e incredulo di un bambino che riceve uno schiaffo doloroso e immeritato. Ricordava quella notte, il primo arresto respiratorio, l’ambulanza che non arrivava, suo padre che le si era accasciato addosso in giardino e lei che lo aveva sdraiato delicatamente per terra, nel buio porticato della loro villa, in attesa di quella maledetta ambulanza... Glielo avevano portato via, e lei aveva seguito quell’ambulanza fino al pronto soccorso, finché la porta non si era chiusa dinanzi a lei. Il tempo ava lentissimo, e lei era rimasta lì, non aveva chiamato nessuno, né parenti né amici, e si era messa a cercare una farfalla... con un’ostinazione maniacale aveva cercato in tutti gli angoli di quello squallido luogo di dolore, e alla fine l’aveva trovata, la sua farfalla, piccola piccola, posata sul vetro polveroso e incrinato di una finestra, immobile che pareva disegnata. E quando la chiamarono per farle vedere suo padre attraverso il vetro della rianimazione, e lei vide quel volto pallido, gli occhi chiusi e tutti quei tubi, invadenti strumenti di tortura che lo aiutavano a sopravvivere, Claire pensò a quella farfallina bianca, e quel macigno di dolore e di pena che le stava bucando il cuore si alleggerì un po’, permettendole di riprendere a respirare. La farfallina le prometteva che suo padre ce l’avrebbe fatta... almeno per quella volta. Sì, perché Claire era così, una creatura bizzarra e singolare come suo padre, piena di fragilità e di sogni, sensibile ai profumi dei fiori e magicamente ricettiva ai muti messaggi delle cose... Da piccola nutriva la convinzione incrollabile che tutti gli oggetti che riempivano la sua casa fossero vivi, e che solo per timidezza si mostrassero inanimati agli umani, e quando parlava con le sue bambole, o accarezzava uno dei suoi pupazzi, o ava le sue piccole dita grassocce sul marmo grezzo che
poi vedeva trasformarsi sotto le mani abili del babbo, era assolutamente certa che le bambole, i pupazzi, e persino quel marmo grezzo apprezzassero il suo gesto, sentissero il suo amore e, in qualche modo conosciuto solo a loro, lo ricambiassero. Era stato il primo insegnamento di suo padre quando, a poco più di tre anni, se l’era portata nel suo laboratorio, lassù, una piccola officina di sogni adagiata nell’abbagliante candore delle cave: “Ricordati, Claire, la bellezza e la poesia sono in ogni cosa che vedi, anche nel più insignificante, misero oggetto di questo nostro straordinario mondo... sta a noi, e solo a noi, tirar fuori quella bellezza, perché le cose ci parlano, ci mandano dei messaggi in codice, e se hai la pazienza di tacere e ascoltarle... bèh, non è difficile comprendere ciò che ci dicono...” Poi le prendeva la mano e la poggiava sul freddo e ruvido blocco di marmo su cui si accingeva a lavorare, le poggiava le labbra all’orecchio e le sussurrava, con una voce che non era la sua: “Aiutami, bambina, c’è l’anima di una fanciulla qua dentro che vuole uscire alla luce, è così bella, ed ha lo sguardo così dolce e innamorato che è un sacrilegio tenerla prigioniera in questa pietra!” E Claire sentiva, e quasi vedeva la fanciulla innamorata prigioniera della pietra, e gridava al babbo: “Falla uscire, papà, falla uscire prima che puoi!” “Perché possa farlo devi aiutarmi, Claire... Dimmi, com’è la fanciulla innamorata?” E Claire gliela descriveva, quella fanciulla dai capelli lunghi e il collo sottile. “E gli occhi, Claire, come ha gli occhi?” “Sono grandi, babbo, e dolci, e guardano il cielo!” Era cominciata così quella magica sintonia tra lei e il babbo, un’intesa speciale in cui padre e figlia dividevano amore, sogno, fantasia, intuizione. Da allora, tutte le volte che suo padre cominciava a lavorare su un blocco, era la mano di
Claire che lo guidava, la sua immaginazione fanciullesca, la sua anima pulita che creava l’idea, e suo padre eseguiva e creava con le mani i sogni di sua figlia e li trasformava in forme purissime. Perciò, tutti coloro che posavano gli occhi su quelle forme non potevano non sentire il fremito della vita e il candore di quel sogno fanciullesco, e l’ emozione che quelle opere d’arte suscitavano era così intensa che quasi faceva male. Era così che Luigi Amati era diventato uno dei più grandi scultori viventi, il Michelangelo del ventesimo secolo. Era così che Claire era diventata una figlia adorante, e aveva cominciato a sentire la voce delle cose. E dopo la morte di suo padre, Claire sentiva che la poesia era morta, la bellezza era morta, e le cose non le parlavano più... Era rimasta sola al mondo, Claire. Certo, c’erano ancora le sue amiche, c’era sua madre, quella madre che era sempre rimasta esclusa dal cerchio magico, quella madre che tanti anni prima aveva deciso di andarsene, logorata dal rapporto invivibile con un uomo che non le era mai appartenuto, e l’aveva supplicata di partire con lei per cominciare una nuova vita in un’altra città, solo loro due, madre e figlia... Ma Claire non poteva lasciare suo padre, lui aveva bisogno di lei... e lei ne aveva di lui. E sua madre se ne era andata, il viso gonfio di rabbia e solitudine. E anche se avevano continuato a vedersi, sua madre non le aveva mai perdonato quella scelta. Solo un mese prima, in ospedale, davanti al vetro della rianimazione, Nicole glielo aveva ricordato, quel rifiuto più doloroso e irreversibile di un cancro che le aveva divorato la vita. Claire aveva risposto nello stesso, identico modo di allora: “Non posso lasciarlo, mamma, non potevo e non posso... lui fa vivere i miei sogni!” “No, lui ti ha plagiato, ha condizionato la tua vita e non ti ha permesso di
crescere, e ora che se ne va, che cosa ne sarà di te? Ti rendi conto che dipendi da lui in maniera morbosa, che lui non ti ha insegnato a camminare, che non ha mai pensato a te in questo vostro assurdo rapporto, ma solo a se stesso? Il suo egocentrismo era talmente forte da distruggere la volontà di tutti coloro che lo circondavano, e tu sei stata la sua prima vittima! Ti ha trasformato in una marionetta, si è sempre servito di te, come si serviva dei suoi strumenti da lavoro!” “Smettila di parlare così, mamma, smetti di parlare di lui come se fosse già morto! Il babbo è ancora vivo e ce la farà, lui è forte!” “Sì, certo, e come fai a esserne così sicura? Quale prodigioso segnale hai avuto, stavolta?” Claire non aveva risposto, mortificata da quel cinismo beffardo che la colpiva in una delle sue convinzioni più tenaci, facendola sentire una specie di visionaria o una patetica quarantenne il cui sviluppo mentale si era arrestato all’età infantile. Come fare a dire a sua madre che aveva trovato la farfalla, e che la farfalla l’aveva rassicurata promettendole che il babbo si sarebbe ripreso, almeno per quella volta? E suo padre si era ripreso davvero, si era svegliato, aveva cominciato a comunicare con lei attraverso quel vetro, servendosi di carta e penna, e le aveva scritto che le voleva bene. Claire portava ancora con sé, come una preziosa reliquia, quel foglio di carta stropicciata, vergato da una scrittura tremolante e quasi incomprensibile, già logoro e ingiallito, e non se ne sarebbe separata mai... Ma non era durato molto, suo padre. Ricordava quell’ultimo giorno, quella frase scritta da Luigi che già vaneggiava, stordito dalla morfina e inebriato dall’odore della morte già così vicina: “Trovalo... dovevo... io.” E alla sua espressione interrogativa, la grafia ancora più incerta di Luigi: “La fanciulla che guarda...”
Non era riuscito a finire la frase, la penna era caduta dalla mano tremante ma Claire aveva capito ugualmente: suo padre, il suo creatore di sogni, l’uomo che l’aveva sempre condotta per mano nella foresta, illuminandole il cammino quando il buio era più nero, e l’aveva protetta con le sue grandi mani magiche quando il sole era più cocente, quell’uomo stava per andarsene per sempre. Questo significava il messaggio di suo padre: lei non aveva bisogno di cercare la scultura della fanciulla che guarda il cielo, perché quella scultura era al sicuro nell’antico laboratorio di Luigi. Lui non aveva mai voluto separarsene, si era sempre ostinatamente rifiutato di venderla, nonostante le numerose e straordinariamente appetibili offerte ricevute nel corso degli anni, perché quella scultura era la sua vera opera prima, segnava la nascita di quella magica collaborazione tra padre e figlia, e il miracolo di quel momento in cui le loro anime si erano fuse era rimasto scolpito, indelebile, nel cuore di entrambi. Negli ultimi istanti della sua vita Luigi stava rivivendo l’intensità di quell’istante, quando la piccola mano di sua figlia si era posata sul marmo a cercare la fanciulla prigioniera, che lui avrebbe poi liberato... No, Claire l’aveva capito immediatamente... non c’era nulla da trovare, se non il ricordo di quell’istante. E dopo averlo ritrovato Claire doveva tenerselo stretto e portarlo nella sua nuova vita, quella che sarebbe continuata dopo la morte di suo padre. Con quel messaggio Luigi la stava salutando. È così che accade quando si sta per morire. Poi, dopo poco, l’ultima crisi: via il respiratore, i tubi, l’ossigeno. Non c’era più bisogno di quegli odiosi strumenti di tortura. Solo la sua mano, che stringeva con tutta la forza di cui Claire era capace, la mano bollente e inerte di suo padre. E mentre stringeva quella mano e guardava quel viso segnato, le guance scavate dal tormento della malattia, le labbra livide, le palpebre abbassate che nascondevano gli occhi azzurri, Claire ebbe un pensiero che le spezzò l’anima: quegli occhi non si sarebbero aperti mai più, e mai più si sarebbero posati su di lei. Solo qualche ora, o forse mezzora, o pochi minuti, e poi mai più. Per tutti gli anni a venire, e fino alla fine dei suoi giorni, mai più.
Mai più. Claire avrebbe voluto fissare quell’istante, arrestare il ciclo dell’universo, bloccare il meccanismo irreversibile dello scorrere del tempo, ibernare suo padre, se stessa e tutte quelle persone ignare, indifferenti, frettolose che le si agitavano intorno... così anche la morte si sarebbe fermata, e non avrebbe raggiunto l’uomo della sua vita. Doveva inventarsi qualcosa per impedire che accadesse. Il respiro affannoso di Luigi gravava sul suo cuore. Poi, quel respiro sembrò diventare meno faticoso, più lieve, più flebile, quasi dolce. Claire sentì il suo cuore più leggero, e provò una sensazione di pace, ma fu solo un breve istante. Poi lanciò un urlo. Due infermiere le staccarono la mano, ancora avvinghiata alla mano di suo padre. Fu come se qualcuno avesse lacerato coi denti un cordone ombelicale. E sentì in gola il sapore del sangue. Dopo, la portarono fuori da quella stanza. E arrivò il buio. Quella notte, una folla intorno a suo padre. Parenti, amici, colleghi, semplici conoscenti, giornalisti. All’alba non c’era più nessuno e lei poté finalmente restare sola con lui. Gli avevano messo l’abito blu e Claire pensò a quanto era elegante e bello il suo papà. Guardò il suo viso e accadde il miracolo: ogni ruga era scomparsa da quel volto, la pelle era liscia, l’espressione era serena, come se tutto il dolore e il tormento della malattia l’avessero abbandonato.
Claire vide suo padre come doveva essere stato a vent’anni, pieno del vigore e dei sogni giovanili, quando la vita è ancora un’avventura straordinaria, tutta da vivere. E capì che era innamorata di lui, che lo era sempre stata. Dopo, prima del sorgere del sole, il primo di una serie infinita e spaventosa di soli che lei avrebbe visto senza di lui, una farfalla bianca, piccola, piccola, si posò dolcemente sulle gambe di suo padre. E Claire sorrise. Nonostante quel dolore che le spaccava il cuore, e quella paura che quasi le impediva di respirare, Claire sorrise.
Imboccò il vialetto che conduceva alla tomba di suo padre. I raggi del sole di novembre, filtrati dalle fronde dei cipressi, sfioravano l’erba disegnando bizzarri giochi di luce, e cadevano sul candore marmoreo delle lapidi fino a esserne assorbiti, in un tripudio di luce che sapeva di miracolo e di immenso. Claire camminava, gli occhi bassi, attenta a quei giochi di luce per cercare un segno, un’immagine da decifrare che potesse portarle un messaggio di suo padre. Perché Claire, nonostante la morte del suo creatore di sogni, non aveva smesso di comunicare con lui, e continuava ad applicare quell’insegnamento di suo padre che era ormai diventato parte di lei, della sua vita di tutti i giorni: Claire cercava ancora, forse più tenacemente di prima, di ascoltare la voce delle cose, di decifrare i segni, i messaggi in codice che fiori, farfalle, oggetti, le trasmettevano. Perché Claire non apparteneva al mondo degli adulti, quello fatto di concretezza, frettolosa indifferenza, superficiale senso pratico. La verità degli adulti non pesava su di lei e Claire era rimasta leggera leggera come lo sono i bambini quando ancora credono solo alla vita. E proprio come i bambini, Claire credeva nella vita, e pensava che la morte non esistesse... fino a che la morte non si era portata via suo padre. E ora Claire stava aspettando che suo padre tornasse da lei... perché lo sapeva che Luigi sarebbe tornato, in un’altra forma, in un altro corpo, dentro il profumo del gelsomino, nella luce di un’alba, nella scia rosa di un aereo, lei lo sapeva e lo stava aspettando. E loro due avrebbero ricominciato il loro gioco...
Assorta nei suoi pensieri, lo sguardo rivolto a terra, non si accorse dell’uomo che camminava frettolosamente, le mani in tasca, il bavero dell’impermeabile rialzato, la lunga sciarpa che ne copriva quasi interamente il viso. Si scontrò con lui e le caddero i fiori. L’uomo si chinò a raccoglierli e glieli porse senza una parola. Fu un attimo brevissimo, i loro occhi s’incontrarono, e prima che lei potesse aprire bocca lo sconosciuto si era già allontanato da lei, ma in quell’attimo Claire avvertì una sensazione di familiarità, talmente intensa da rallentare il battito del suo cuore. Poi si voltò, ma l’uomo non c’era più. Quando arrivò alla tomba di suo padre, imponente e solitaria, si accorse con orrore che la foto di Luigi, riprodotta in ceramica al sommo della lapide marmorea, non c’era più.
CAPITOLO SECONDO LUIGI
Roma, 1938 Aveva solo venticinque anni, un diploma ottenuto con poca fatica all’accademia d’arte di Carrara, e tanta voglia di vita e di successo. Come premio per quell’ambito diploma, i suoi gli avevano riempito lo zaino di soldi e gli avevano concesso di realizzare il suo sogno: vedere Roma, la città eterna, ricettacolo solenne delle più grandi opere d’arte del mondo, dove la grandezza dell’uomo si manifesta più chiaramente che in qualsiasi altro luogo dell’universo. Lo stato d’animo di Luigi mentre varcava la soglia della basilica di San Pietro, non era quello del turista incuriosito e affascinato. Luigi stava cercando una direzione, la meta ultima e definitiva del suo viaggio nell’esistenza, e sapeva che varcare quella soglia gli avrebbe portato la luce. Entrò, e la penombra intrisa dell’odore di incenso lo avvolse, immobilizzandolo per alcuni istanti, poi, quando i suoi occhi si abituarono all’oscurità della basilica, cominciò ad avanzare attraverso la maestosa navata centrale, lo sguardo rivolto verso la prodigiosa cupola che sovrastava l’abside. A un tratto, come per istinto, Luigi voltò il viso e i suoi occhi furono quasi feriti dal candore abbagliante di un gruppo marmoreo che campeggiava, isolato, nella prima cappella a destra della navata. Si avvicinò a i lenti, quasi a voler rendere più lunghi quei momenti e poter godere di quell’immagine che piano piano si avvicinava a lui. Sì, perché in quel momento Luigi ebbe la sensazione che fosse quel miracolo marmoreo ad avanzare verso di lui, e non il contrario. Quando fu di fronte all’opera d’arte, la profonda e quasi fanciullesca commozione non gli impedì di osservare con l’attenzione analitica di uno studente avido di imparare, le fattezze di quei due volti: la madre, il viso giovane
ma segnato da un dolore straziante che non ne cancellava la dolcezza eterea, guardava il volto del figlio, gli occhi chiusi, i lineamenti quasi infantili, abbandonato sul grembo di lei, che sembrava volerlo riprendere dentro di sé per ridargli la vita una seconda volta. La mano destra della madre cingeva la schiena del figlio, mentre la mano sinistra si allargava in un gesto che sembrava invitare a riflettere sull’assurdità di quella morte. Luigi continuò a osservare, quasi ipnotizzato, finché ebbe la sensazione che la mano della Vergine si tendesse verso quel volto esanime come a voler dare un’ultima, struggente carezza alla sua creatura. Davanti a quella straordinaria creazione dell’ingegno umano, Luigi, il giovane ribelle, un po’ anarchico e un po’ sognatore, pieno di belle speranze e della presunzione di chi ha davanti a sé tutta una vita, avvertì una sensazione che partiva dalla gola e arrivava all’anima. Per quella madre e per quel figlio Luigi provò pietà. E capì che la sua meta era la stessa che, secoli prima, il creatore di quell’opera d’arte si era prefissata: toccare l’animo umano e suscitare emozione con un’arte che parlava d’amore e di dolore.
Tornò alla pensione pieno di stupore entusiastico. Gianni, suo amico e compagno di studi, ancora dormiva abbracciato al cuscino. Luigi lo guardò e non poté fare a meno di sorridere di quell’amico così poco equilibrato e così indispensabile per lui. Avevano condiviso tutto, fino a quel momento... “Svegliati, balordo, è mezzogiorno, se sei venuto a Roma per dormire, tanto valeva restare a casa! L’ho vista, sai!” Gianni si mise lentamente a sedere al centro del letto, gli occhi ancora gonfi di sonno, “Cos’è che hai visto, pazzoide rompiscatole?” “La Pietà, la più incredibile opera d’arte mai realizzata, e ho deciso che seguirò
quella strada... voglio che la gente, davanti alle mie creazioni, provi ciò che ho provato io oggi! Voglio l’immortalità!” “Sì, sì, certo, l’immortalità! Mi sembra leggermente pretenzioso il tuo desiderio! Se ti accontentassi di qualcosa di meno, tipo fama, successo, soldi e... donne?” “Tutto questo sarà solo la conseguenza! Io voglio emozionare, commuovere, voglio toccare il cuore della gente oggi, domani, tra cento, mille anni, voglio creare qualcosa che non sarà mai dimenticato!” “D’accordo Michelangelo, ma ora pensiamo a cose più pratiche e... più realizzabili. Per stasera ho combinato: la mia amica Giovanna porta una fanciulla anche per te, una graziosa sina, attualmente in vacanza a Roma.” “Una se? E da dove l’ha tirata fuori Giovanna? Non credo di averne una gran voglia stasera...” Luigi sembrava scarsamente interessato ma Gianni continuò imperterrito: “È un’amica di Giovanna, si sono conosciute a Parigi qualche anno fa e sono sempre rimaste in contatto. Ora Nicole, o qualcosa di simile, è venuta a Roma in vacanza e sta da Giovanna. Dai, Gigi, non fare l’asociale, fai questo sacrificio per me, e può essere che ne ricaverai qualcosa di buono anche tu!” Luigi, rassegnato, si vestì in fretta, senza far caso a quello che indossava: larghi pantaloni blu con le pinces, gli stessi con cui aveva viaggiato in treno, un gilet a quadri scolorito, un trench spiegazzato che sicuramente aveva visto giorni migliori. Gianni lo guardò con aria di disprezzo, ma non disse nulla. Conosceva troppo bene Gigi, suo compagno di baldorie e di ioni, e sapeva che quando il suo amico era in quello stato d’animo, il mondo intorno a lui assumeva contorni sfumati, impalpabili, fino a sparire del tutto. La ione per la scultura creava intorno a lui come una bolla di ione estatica che doveva riassorbirsi lentamente, e per farlo Luigi doveva essere lasciato solo. Forse era il caso di rimandare quella specie di appuntamento al buio anche se, a detta di Giovanna, la sina era davvero notevole... Luigi gli avrebbe fatto fare una gran brutta figura quella sera, avrebbe ignorato loro tre e avrebbe risposto a monosillabi a qualsiasi domanda gli venisse rivolta... Beh, ormai era tardi per disdire quel benedetto appuntamento! Sarebbe toccata a lui tutta la fatica della conversazione, i convenevoli, i complimenti che le ragazze vogliono sentirsi dire al primo incontro!
Si presentarono in Piazza di Spagna, ai piedi della scalinata, con un mazzo di girasoli in mano; era stata un’idea di Gianni, naturalmente. Quando le due ragazze si avvicinarono, Gianni non poté fare a meno di notare la grazia e la bellezza della compagna di Giovanna: anzi, non era bella, non della bellezza procace e calda delle donne italiane, ma era elegante e leggiadra come una cerbiatta. Luigi, naturalmente, non la notò, i suoi occhi, ancora accesi di entusiasmo, quasi la traarono. Si avviarono verso dei tavolini ricoperti di allegre tovaglie a fiori, allettante invito di uno dei tanti bar della piazza ai turisti stanchi e assetati. Sedettero e ordinarono da bere e, come Gianni aveva previsto con precisione matematica, furono lui e Giovanna a sostenere la conversazione. Nicole, così si chiamava la ragazza se, partecipava alla conversazione nei limiti del suo italiano imperfetto, rideva alle battute di Gianni, sorrideva alla sua amica e le lanciava complici occhiate. L’unico che restava in assoluto silenzio, lo sguardo perso nel vuoto, le guance rosse a testimoniare un’eccitazione interiore che nulla aveva da spartire con quella gente, quel luogo, quel momento, era Luigi. “Perdonatelo, ragazze, è un po’ assente, oggi ha visitato San Pietro ed è ancora ottenebrato dal furore dell’arte! Sapete, Michel... ehm, Gigi non è una creatura mediocre come noi, lui è un eletto, colui che ha visto la luce e mostrerà il cammino a tutti noi!” Nicole, ignorando la palese sfumatura ironica di quella battuta, spalancò gli occhi e lo guardò con ammirazione: “Anch’io ho visitato San Pietro ieri e la comprendo se è rimasto commosso... anche per me è stata un’esperienza - Nicole esitò, come a voler cercare le parole più adatte - forte, quasi... dolorosa.” Fu a questo punto che Luigi uscì dalla sua bolla e la guardò: Nicole aveva un viso perfettamente ovale, i lineamenti delicati, due occhi dolci ma vivaci e un’espressione fanciullesca che inteneriva. I capelli erano biondi, ondulati e le incorniciavano con grazia l’ovale perfetto. Indossava una graziosa camicetta bianca impreziosita da un ricamo leggero e una morbida gonna a pieghe. Il quadro d’insieme dava l’idea di una delicata ed elegante femminilità.
“Dolorosa... in un certo senso è quello che ho provato anch’io...” furono le prime parole, stupite, che Luigi le rivolse. “Sì, dolorosa. Perché sono sicura che è questo che Michelangelo provava quando ha scolpito la sua Pietà. Non cercava il riconoscimento, il plauso del pubblico, non voleva essere apprezzato... questo, forse è venuto dopo. Io credo che Michelangelo cercasse l’amore e lo strazio di una madre, e per farlo ha dovuto amare e provare dolore, proprio come quella madre. È così che quell’amore e quel dolore riescono ad arrivare a noi...” Luigi la guardò con maggiore attenzione e il suo sguardo era stupito, quasi incredulo. “Lei è un’attenta osservatrice, signorina. Ha studiato arte?” “Storia dell’arte, a Parigi. Ma ho ancora due anni prima della laurea...” Fu così che Nicole e Luigi cominciarono a parlare, e non si accorsero neanche di essersi alzati, di camminare, non si accorsero del Tevere che diventava d’argento, delle prime stelle che addolcivano il cielo sempre più scuro, della tiepida oscurità che pian piano avvolgeva Roma e loro stessi. Quando arrivarono sotto casa di Giovanna, si salutarono con una stretta di mano, ma gli sguardi di entrambi esprimevano l’identico, sottile dispiacere di doversi lasciare. “La rivedrò, Nicole?” fu Luigi che fece quella domanda che pareva lanciata lì per caso, ma Nicole intuì, da un impercettibile tremore della voce di lui e dagli occhi che la evitavano, l’ansia con la quale lui l’aveva pronunciata, la stessa ansia che lei aveva avuto nell’attendere quella domanda. Fu facile per Nicole rispondere di sì, con gli occhi che le brillavano per la gioia.
Quando Luigi rientrò alla pensione, quella sera, era stranamente silenzioso: “Ehi, Buonarroti, che mi dici della piccola se? Carina, no? Forse un po’ snob; già, ma a te piacciono quelle con la puzza sotto il naso, se non ti conoscessi bene, anche tu mi sembreresti uno con arie da...” Luigi lo interruppe: “Quando vedi una ragazza che invece di mettere in mostra le
forme e aprire bocca per compiacere la tua virilità di uomo superiore, dice cose intelligenti, ecco che scatta in te l’ottuso orgoglio del maschio che teme di essere surclassato dal gentil sesso, e la conclusione è sempre la stessa: la fanciulla è snob, si dà arie da principessa e via dicendo... Sei patetico, Gianni!” “Senti come s’inalbera il mio focoso amico! Non è che la tipa ti ha incantato? Ed io che temevo che non ti saresti neanche accorto della nostra compagnia!” “Incantato lo sono, Gianni, ma da ciò che ho visto oggi a San Pietro! Solo l’arte ha il potere di affascinarmi, lo sai... diciamo che mi ha fatto piacere trovare qualcuno che, diversamente da te, subisce lo stesso fascino e capisce quando parlo del potere sublimante dell’arte!” “Scusa, mio acuto collega, a volte dimentico che tu sei un eletto, diverso da tutti noi comuni mortali! Quanto vorrei essere anch’io toccato da Dio, e divenire un capiente ricettacolo della sua Grazia! Ma ahimè, l’Onnipotente ha fatto di me un banale studente che probabilmente finirà a insegnare storia dell’arte a banali studenti, si sposerà, avrà dei figli, e concluderà la sua esistenza nella maniera più banale e ordinaria, quella riservata ai comuni mortali! Ma tu no, amico mio, tu resterai scolpito nella memoria dei popoli, e questo per l’eternità, beato te! Che ne dici se ci fimo una pizza?” Luigi sferrò all’amico un sonoro calcio nel di dietro e, scoppiando a ridere, si dichiarò disponibile alla pizza. Era questa la bellezza della loro amicizia: diversi, quasi l’antitesi l’uno dell’altro, riuscivano a compensarsi a vicenda nel cameratismo giovanile dei loro anni colorati, e ogni discussione, ogni battibecco più o meno , finiva sempre in una finta scazzottata, in una pedata e una sonora risata. Gianni, costretto da genitori poco disponibili ad ascoltare, a scelte che non si addicevano alla sua gioviale leggerezza, aveva frequentato l’accademia di belle arti di Carrara con risultati tutt’altro che brillanti, ed era riuscito a conseguire un diploma più per le conoscenze di suo padre che per reali meriti. La cosa migliore di quegli anni era stata l’amicizia con Luigi Amati, giovane di buona famiglia ma soprattutto dotato di una grande ambizione e di una volontà ferrea, che aveva mietuto continui successi scolastici ed era riuscito a trascinare nella scia generosa di questi successi anche il suo fedele compagno di banco. I due ragazzi si completavano a vicenda perché, se uno eccelleva in sensibilità artistica e
determinazione ma scarseggiava in senso pratico, l’altro compensava con una buona dose di concretezza e capacità di adattamento alle situazioni più disparate del vivere quotidiano, doti, quest’ultime, che mal si confacevano a un artista in erba. Il connubio dei due, tuttavia, che vivevano in simbiosi e mai si separavano l’uno dall’altro, creava una chimera, un’unica, perfetta creatura che sapeva vivere nel mondo reale, integrarsi perfettamente nella società e adattarsi alla sua anonima normalità pur mantenendo inalterata la sua eccezionalità. Loro due, insieme, erano l’artista perfetto, il veggente che si solleva da terra e mostra il cammino ma che non soffre della solitudine riservata ai diversi, dell’emarginazione cui sono condannate le creature geniali. E quando arrivò la chiamata alle armi, sembrò a entrambi assolutamente naturale partire insieme per una nuova avventura: la guerra.
CAPITOLO TERZO GUERRA
Il duce li aveva chiamati alle armi e loro avevano risposto con l’entusiasmo dei loro giovani anni e delle loro menti pulite. Mussolini aveva fatto tanto per il loro paese, era l’eroe che univa l’energia vincente alla forza del patriota, e avrebbe dato anche a loro l’opportunità di lottare per l’Italia, e di diventare uomini fieri. Quei giovani credevano in quegli ideali con l’ingenuità ignara dei loro anni, perché il fascismo era la promessa di un futuro migliore, di forza, di potenza, di energia, di ritmi veloci... Era una bella favola, e i giovani, come i bambini, non hanno vissuto ancora abbastanza per distinguere la finzione dalla realtà.
Erano partiti per Roma di notte, su un treno militare che ricordava a Luigi i carri su cui i cavatori carraresi caricavano il marmo per mandarlo nelle segherie. Allegri, innamorati, pensierosi, impauriti, ardimentosi, sorridenti, tutti gli stati d’animo e tutte le espressioni avano su quei volti maschili che partivano per la guerra senza sapere se sarebbero mai tornati a casa. Quel viaggio era un salto nel buio, l’ignoto, il nuovo che spezzava la rasserenante monotonia delle loro vite e poteva portarli alla morte. Eppure, nessuno di loro si fermava più di un attimo su quest’eventualità... al di sopra di tutte le paure e le angosce notturne, si avvertiva in quelle carrozze stipate, maleodoranti, dai sedili sfondati e i vetri opachi, la potente energia della gioventù, l’incoscienza goliardica dei ventenni che partono sicuri di spaccare il mondo e tornare a casa da eroi... Luigi osservava i suoi compagni di viaggio con l’acuto spirito di osservazione con cui era solito osservare le sculture raffigurate nei libri di storia dell’arte che avevano accompagnato i suoi anni di studente dell’accademia. Tanti sogni, tanti progetti, e poi la guerra aveva bloccato tutto con la sua dirompente e cruda necessità. Ricordò quell’altro viaggio a Roma, qualche anno prima, quando aveva creduto che si stessero aprendo per lui le porte di un nuovo universo e ora...
Questo era ciò che distingueva Luigi da quella folla di ragazzi che cantavano, bevevano, fumavano per non pensare: lui aveva la consapevolezza lucida di quel momento e di ciò che lo aspettava e voleva prepararsi così, con l’ostinata caparbietà della coscienza, a quell’esperienza inebriante e spaventosa che era la guerra. “Fatti un goccio anche tu, Gigi, non c’è niente di meglio per ammazzare il tempo su questo dannato treno! Così ti togli quella ridicola espressione dalla faccia e ti fai due risate con noi, amico!” “No Gianni, ora no, preferisco restare lucido e osservare le vostre facce, non c’è spettacolo migliore per are il tempo piacevolmente...” Gianni lo guardò perplesso e scosse la testa: “Non ti capisco proprio a te!” e si allontanò. Poco prima di Roma il treno cominciò a rallentare e sulla carrozza scese un improvviso, innaturale silenzio. I soldati smisero di bere e di cantare, le risate rumorose divennero sorrisi stentati, gli sguardi d’intesa divennero interrogativi, e ognuno, piano piano, si chiuse nella sua muta solitudine. Quel viaggio era un’oasi in un deserto di incognite, una pausa del tempo tiranno, un’isola circondata da un mare di tenebre, e ora era giunto il momento di tuffarsi in acqua. Per ognuno di quei ragazzi dagli occhi brillanti, eccitati dalla novità, nulla più, mai più, sarebbe stato come prima.
Roma, 8 settembre 1943 C’era una strana atmosfera quella sera nella caserma Cadorna, dislocata a diciotto chilometri a est di Roma. Gli alti ufficiali erano introvabili e un inquietante silenzio riempiva le camerate. Si vociferava che Badoglio avesse pronunciato un confuso discorso alla radio nel quale parlava dell’arresto di Mussolini e di un armistizio fatto con gli Anglo-americani. I ragazzi della squadra Aquila, decimo reggimento artiglieria, erano confusi, si chiedevano quale sarebbe stata, ora, la loro sorte: alcuni erano sgomenti, altri
eccitati ma nessuno di loro riusciva a comprendere chiaramente che i Tedeschi, adesso, potevano diventare nemici pericolosi. Tutti, tranne il tenente del settimo plotone, Luigi Amati. Fu a lui che si rivolsero i commilitoni della caserma, composta da sette plotoni di cinquanta uomini ciascuno, già distintisi per il valore militare delle loro azioni di guerra. Volevano ricevere ordini chiari, quei soldati, e rimasero increduli ascoltando la risposta del tenente Amati: “Non ho istruzioni in merito, ragazzi...” Il tenente aveva perso lo sguardo deciso, il tono autorevole con cui impartiva gli ordini ai suoi uomini... e neanche li aveva mai chiamati “ragazzi”, fino a quel momento. Fu il sergente Gianni Martini che prese la parola e affrontò il suo tenente, e per la prima volta davanti agli altri lo chiamò per nome, dimenticando il rigido cerimoniale imposto dalla gerarchia militare: “Luigi, non ci prendere per i fondelli! Che cavolo dobbiamo fare adesso? Tira fuori le palle e parlaci chiaramente, almeno tu! Dove sono gli altri, che accidenti succede?” Il tenente Amati continuava a tacere, lo sguardo perso nel vuoto. Gianni, furioso, gli prese entrambi i polsi e lo costrinse a guardarlo in viso: “Ehi, supereroe, ce la vuoi dire questo cazzo di verità? Tu ce la devi, la verità!” Gianni stava urlando, e il suo tono era pieno di rabbia. Poi la sua voce si abbassò, diventò quasi un soffio, tanto che nessuno riuscì a capire le sue parole, tranne Luigi, perché quella richiesta disperata, adesso, era solo per lui, il suo vecchio amico: “Tu me lo devi...” “È finita, Gianni, è finita, non c’è più niente da fare, né ordini da dare...”
Anche la voce di Luigi, adesso, era un soffio appena percettibile. Gianni abbozzò un sorriso, non era sicuro di aver capito: “Finita... la guerra è finita... e lo dici così, signor tenente?” Luigi lo guardò con un sorriso triste, scuotendo la testa: “Come sempre, lei non capisce un cazzo sergente Martini! Non è la guerra a essere finita, ma siamo noi...” Ancora quel tono incolore, quello sguardo che lo traava, come se Luigi non vedesse lui, i suoi uomini, ma qualcosa che era al di là di loro, di quella camerata immersa nella semioscurità, di quella caserma solitaria persa nell’incolore campagna laziale. Gianni non capiva, o forse non voleva capire che Luigi guardava i suoi giovanili sogni di gloria che rovinavano pietosamente al suolo, come la sua fiducia in quel regime che li aveva usati e che ora li avrebbe gettati via, come si fa con le cose che non servono più. Poi, dopo un silenzio che parve a tutti loro interminabile, Luigi alzò gli occhi e li guardò tutti, uno dopo l’altro, quei ragazzi smarriti, e si sentì vagamente responsabile di quello smarrimento, di quella confusione. Sapeva che nulla di quello che sarebbe accaduto loro da quel momento in poi dipendeva da lui, ma sapeva anche che il suo dovere era dare loro delle risposte. Consigli, non più ordini. Non era più tempo di ordini, adesso. Lottò contro il desiderio di girare le spalle e lasciarli lì, si schiarì la voce e deglutì. Era difficile, Cristo, parlare con quel macigno in gola, ma alla fine la sua voce uscì forte, e il suo tono era autorevole e deciso, come sempre: “Sergente” guardava Gianni ma era chiaro che si rivolgeva a tutti loro “la firma dell’armistizio e la caduta del duce sono due eventi che cambiano drasticamente le sorti di questa guerra. Ma questo non significa che sia finita. La guerra
continua, con la differenza che ora il nemico sono i Tedeschi.” Un momento di silenzio, come a voler permettere ai suoi uomini di assorbire il colpo. Poi, Luigi continuò: “E noi siamo diventati la loro preda, i traditori da punire. Se ci prenderanno, ci interneranno nei loro campi di lavoro, se saremo fortunati...” “E se non saremo fortunati che accidenti ci succederà, signor tenente?” “Ci fucileranno, immagino...” “Stai scherzando, Luigi, vero? È un fottutissimo scherzo!” “No, sergente Martini, tu sai che io non scherzo mai!” Gli altri militari tacevano, attoniti, col religioso silenzio di chi assiste a una cerimonia sacra. “E allora, che facciamo, ci facciamo prendere come banditi, dopo tre anni che diamo il nostro sangue per quei bastardi ariani?” Anche il caporal maggiore Pezone pareva aver dimenticato le regole e si era rivolto al suo tenente senza chiamarlo “signore”. “Ognuno è libero di scegliere il proprio destino, caporale Pezone. Ci sono due alternative per noi: darsi alla fuga attraverso le campagne, cercando di spostarsi a Sud. Dicono che gli Americani stanno salendo, cercheranno di are per la Campania e togliere la capitale ai Tedeschi. Se riusciamo a are la linea tedesca e ci consegniamo a loro, forse siamo salvi.” “Oppure, qual è la seconda possibilità?” “Scappare ando per le montagne, nasconderci, tornare a casa...” Il soldato semplice D’Ambrosio, prossimo al ruolo di caporale, educato alla venerazione per la causa fascista fin dalla più tenera età, osò contraddire il suo ufficiale, pur rispettando la ferrea disciplina che gli imponeva di non guardare mai negli occhi un suo superiore.
“No, signor tenente, non accetterò mai di are dalla parte del nemico, sacrificherò la vita alla causa fascista e alla difesa onorevole del nostro Paese, per il quale sono disposto a dare la vita, se necessario, ma almeno l’onore...” Il tenente Amati lo interruppe bruscamente: “Guardami soldato, se tu non fossi così giovane penserei che sei stupido, e forse lo sei davvero. Smettila di fare la scimmia ammaestrata e dì veramente se vuoi morire a vent’anni, fucilato dai nazisti!” Luigi stava urlando. “Io... sono pronto a...” “Tu sei solo un coglione, soldato D’Ambrosio...” Il tenente colse lo sguardo del soldato semplice e qualcosa in quello sguardo lo bloccò, spegnendo in un momento la sua furia. Forse era delusione, forse paura, forse quel ragazzo gli ricordava lui com’era prima della guerra, ma qualunque cosa fosse, il tenente abbassò la voce e il suo sguardo si era addolcito quando riprese: “Non ce l’hai una ragazza, soldato? Non vuoi tornare da lei? Che ti fotte di dare la vita per chi ci ha spremuto come limoni e poi ci butta via quando non serviamo più a nulla? La gloria, il valor militare, l’eroismo che ci renderà immortali, tutte cazzate, soldato. Lo sai perché non si vede nessuno in giro stasera? Sono fuggiti tutti, soldato, ufficiali e comandanti, e non mi stupirei se domani se la battesse anche l’illustre monarca e tutta la sua stirpe reale con lui!” “Lei però è ancora qui, Signore!” “Sì, sono qui, forse perché sono un coglione anch’io...” Stava davvero succedendo qualcosa di grave, l’ordine normale delle cose era totalmente sovvertito quella mattina, se il tenente Amati, temuto come uno dei più intransigenti e severi ufficiale del plotone, si dava del coglione... Eppure, il tenente Luigi Amati non parve mai ai suoi uomini più coraggioso e dignitoso come in quel momento.
“No Signor Tenente, chiedo scusa se la contraddico, ma lei non è un coglione!” “Sì, lo sono, perché non ho mai avuto la testa per essere ufficiale... il sergente Martini lo sapeva, lui che mi conosce dai tempi della scuola... Eppure ho accettato di diventarlo, perché mi faceva sentire potente, e perché credevo... boh, non so più a cosa credevo. Ma so che ora sono qui, e dovrei darvi degli ordini, dovrei guidarvi a Roma, al comando generale, dovrei... ma non ho più voglia di guidarvi, né di dare ordini a nessuno!” Il tenente fece una pausa, si ò le mani tra i capelli, poi riprese, con lo sguardo perso nel vuoto: “La realtà è che non so neanch’io cosa fare...” Ci fu un momento di silenzio angosciante durante il quale, stavolta, nessuno osò replicare, poi Luigi continuò: “Ecco perché sono un coglione... e coglione sei anche tu, D’Ambrosio, che parli d’onore in un momento come questo...” Luigi si interruppe di nuovo, poi, dopo un’altra pausa, riprese a parlare e la sua voce era quasi un sussurro: “L’abbiamo perso l’onore, ragazzi, il nostro paese l’ha perso, ci siamo arresi ai nemici perché erano troppo forti per noi, e abbiamo tradito i nostri alleati perché ci hanno trascinato in una guerra che forse non abbiamo mai voluto veramente. Ci hanno fatto credere che era giusto così, ma questa non era la nostra guerra, i nazisti non erano nostri alleati, e forse non lo saranno neanche gli Americani...” Il tenente tacque di nuovo, guardò i suoi uomini e provò un’immensa pena per tutti loro. Buffo, quegli occhi che lo guardavano, attoniti e smarriti, gli ricordarono il suo cane, un grosso pastore tedesco che, morendo, l’aveva guardato con gli stessi occhi. Riprese a parlare, e ora la sua voce aveva un tono quasi paterno: “Ragazzi, noi siamo alleati di noi stessi, e solo di noi stessi, e responsabili delle nostre vite. E dobbiamo far di tutto per salvarla, questa nostra vita... abbiamo perso anche troppo tempo per quei maledetti bastardi!”
Una voce si alzò dal fondo della camerata: “Io me ne torno a casa, Signor tenente!” “È una possibilità, soldato, tutto sommato la migliore. Buona fortuna, ragazzi!” Con queste parole il tenente Amati congedava il suo plotone. Il giorno dopo arrivò la notizia che il re e Badoglio avevano abbandonato Roma per rifugiarsi a Chieti.
10 settembre 1943 Era quasi mezzogiorno nella caserma Cadorna e uno strano silenzio riempiva la camerata della squadra Aquila, nonostante la presenza dei soldati. Da quando si trovavano in quella caserma mai, a quell’ora, gli uomini si erano trovati insieme in camerata, eppure quel giorno nessuno li aveva svegliati, nessuno aveva dato loro ordini. Avrebbero potuto esultare per quella inconsueta pausa della loro febbrile attività, ma nessuno di loro si sentiva in vacanza: il soldato semplice D’Ambrosio Luca, che sognava di diventare caporale e forse non lo sarebbe diventato mai più, Morone Alessandro, che caporale lo era ed ora sognava solo casa sua, il sergente Gianni Martini, che riusciva sempre a tirare su il morale della squadra con le sue battute sulle donne e i suoi battibecchi con il tenente Amati, suo amico d’infanzia e compagno di studi. E poi Pezone Gianfranco, caporal maggiore in guerra, medico nella vita, che aveva lasciato moglie e tre figli e un popolo di pazienti a Napoli e in quella guerra si sentiva inutile, e il toscano Lamberti Leo, il più giovane della squadra, per tutti “o’ piccirill”come l’aveva ribattezzato il caporal maggiore, che di notte svegliava tutti perché parlava nel sonno e chiamava la mamma. Infine Luigi Amati, personaggio enigmatico per i suoi uomini: il tenente sapeva sorridere e stare alla battuta eppure la sua aria distaccata e vagamente aristocratica non permetteva mai a nessuno di avvicinarsi veramente. Alcuni dei suoi uomini lo detestavano per quella che consideravano un’arrogante aria di superiorità, altri ammiravano la sua capacità di analizzare le situazioni più impreviste con una lucidità e una determinazione che pareva quasi fuori dell’umano.
Una cosa era certa: chiunque fosse agli ordini dell’ufficiale Amati sapeva sempre cosa fare. Eppure la sera prima Luigi Amati si era mostrato diverso... meno lucido, meno determinato, ma anche più vicino a tutti loro, come se la logica e la razionalità avessero lasciato il posto alla solidarietà e alla pietà. Lo cercarono nella caserma ancora più vuota con il timore di non trovare più neanche lui. Tutti gli altri ufficiali erano spariti. Fu Gianni a trovarlo: era nel cortile circostante la caserma, solo, lo sguardo a terra, le mani tra i capelli. “Ehi, Luigi, pensavo te ne fossi andato anche tu...” Il sorriso di Gianni era tirato. Luigi ignorò la battuta: “Dobbiamo andarcene da qui, non abbiamo più molto tempo!” “Sì, ma dove ce ne andiamo? E soprattutto come?” “Verso Sud, possiamo dirigerci verso il distretto di Frosinone, non possiamo andare al Nord, è più facile farci beccare dai tedeschi. Prenderemo un’OM, andremo a piedi, ci nasconderemo nella macchia se necessario, ma da qui dobbiamo andarcene al più presto. Vallo a dire agli altri della squadra, preparate qualche zaino, io vedo se posso fregare qualcosa in dispensa. E non dimenticate una bussola... e una mappa della zona! Un’altra cosa, sergente: dì agli uomini di portare abiti civili. Potremmo averne bisogno.” Gianni non si muoveva. “Muovi il culo, sergente! Vuoi farti prendere e finire in un campo di lavoro tedesco? Lavativo come sei, per te sarebbe meglio la fucilazione!” Il tono di Luigi era duro ma i suoi occhi sorridevano, ironici. Gianni si voltò e cominciò a correre verso l’ingresso della caserma.
Si sentiva il cuore leggero, adesso. Per un momento aveva pensato che il loro tenente li avesse abbandonati, come avevano fatto tutti gli altri. Ma Luigi era lì, e forse con lui ce l’avrebbero fatta.
Erano sull’“OM”, nella campagna laziale, un gruppo di giovani dalla barba incolta, gli occhi stanchi. Eppure ridevano ancora, eccitati da quella che pareva loro una nuova avventura, godendo di un’inebriante sensazione di libertà. Percorrevano uno stretto sentiero che correva grossolanamente parallelo alla Casilina Sud. Secondo la mappa, Cassino era vicino, avevano già oltreato Frosinone e la larga valle del Sacco. Cominciarono a scendere verso la valle del Liri, il sentiero, al margine dell’ampio fondovalle, diventava sempre più tortuoso e una strana inquietudine si impadronì dei soldati. Sopra di loro, un cielo spezzato da nuvole leggere che cominciavano ad assumere i colori rosati del tramonto. Davanti a loro, in lontananza, l’alto sperone roccioso avvolto da una pesante nuvola di fumo nero nascondeva completamente l’abbazia. E ovunque silenzio, un silenzio che pareva una preghiera. “Guardate là!” la voce di Luigi ruppe il silenzio. Poco distante da Cassino, avvolto anch’esso dal fumo, un minuscolo villaggio, o meglio, quello che ne restava. Forse una bomba caduta per errore da un aereo dell’aeronautica americana, che si dirigeva su obiettivi più degni di tanto potere devastante di quel minuscolo, innocente villaggio contadino. Cominciarono ad avvicinarsi in silenzio, attraversarono una porta di pietra che si apriva nella stretta cinta muraria, sulla sommità della quale vi era un’iscrizione. Luigi riuscì a leggere solo la prima frase “Si te grata quies...” Non ricordava molto del latino che aveva studiato a scuola ma fu certo che quella parola, “quies” significasse “pace”, e istintivamente strinse i pugni mentre varcava quella porta di pietra e posava gli occhi su quella devastazione.
Ai ragazzi parve di sentire di nuovo il rombo angosciante degli aerei, l’ esplosione devastante della bomba, e poi videro quel cielo che pareva così pacato scoppiare di luce bianca e subito dopo i casolari, i fienili, i campanili, i ponti che rovinavano al suolo e sparivano nella polvere. Ora, quel silenzio innaturale che odorava di morte. Così, come in un film muto, si apriva dinanzi a loro uno scenario popolato di fantasmi: non più case coloniche, chiese, botteghe, scale, ma tutto ciò che era stato era tornato ad essere materia informe, densa e corposa come il dolore. Macerie. I ragazzi camminavano cercando un varco in quel dolore, protetti dall’incolpevole innocenza di coloro che, vittime, carnefici, eroi, eseguono solo degli ordini. In fondo, erano solo dei soldati. Ed ora quel viaggio come un’oasi di realtà nel mezzo di un incubo: quando eseguivano gli ordini, ognuno di loro era il protagonista di una vita fittizia dove parole, gesti, azioni, non avevano conseguenze reali: erano soldati, addestrati per eseguire nel migliore dei modi ciò che veniva ordinato loro. Erano privilegiati, forse, anche se nessuno di loro ne era consapevole, graziati dall’ignara e leggera irresponsabilità delle marionette. Peccato, colpa, responsabilità, erano i burattinai che dovevano fare i conti con tutto ciò... Ora, mentre fuggivano senza una meta, verso la salvezza o la morte, nessun burattinaio decideva per loro, i burattini erano tornati ad essere uomini e quel breve viaggio verso Sud, con la dirompente forza di un brusco risveglio, aveva svelato l’orrore di quella realtà, di cui tutti erano responsabili. Quello non era un film, quella era la guerra. Luigi osservava con attenzione ma non riusciva a sentirsi protetto dall’abituale corazza di freddo e analitico distacco che teneva lontano da lui il contagio. In quel momento, stranamente, si sentiva vulnerabile...
Ripresero il viaggio in silenzio, senza sapere dove dirigersi, l’“OM” sembrava procedere per forza d’inerzia. Avanti, ancora avanti. Dopo pochi metri dovettero fermarsi di nuovo: l’“OM” fumava e approfittarono della sosta per un paio di tirate all’ultima sigaretta rimasta, che dividevano in quattro. Davanti a loro, la strada polverosa e più avanti, verso il tramonto, le macerie di quello che doveva essere stato un vecchio casolare che sembravano ancora calde. O forse era il sole del tramonto tra i pezzi di nuvole che provocava quello strano effetto, chissà... E tra il fumo, le macerie, la polvere, un gelsomino serpeggiava in tutto il suo innocente e profumato candore. Tutti loro, in quel momento, pensarono a quanto fosse paradossale che una maledetta bomba piovuta dal cielo riuscisse a distruggere delle mura di pietra e lasciasse intatto un gelsomino, ancora fiorito nel mese di settembre... A un tratto, la voce del tenente Amati: “Fermi, ho sentito qualcosa!” il tono era perentorio. Tutti gli occhi si rivolsero a lui, interrogativi. Luigi, ignaro degli sguardi e senza aggiungere una parola, si diresse verso quel gruppo di macerie avanzando lentamente, quasi guardingo. Il o silenzioso, i movimenti controllati, tutti i sensi tesi a percepire qualcosa. Ma il senso che più era in allerta era l’udito. Un suono flebile flebile che si faceva sempre più distinto. Poteva essere il lamento di un animale ferito, il vento tra le macerie, la carrucola del vecchio pozzo che cigolava. Poteva essere una voce. Sì, era una voce. Una voce di donna. E proveniva da là sotto. Cominciò a scavare con le mani, che presto presero a sanguinare, mentre urlava
ordini ai suoi uomini: “C’è qualcuno qua sotto, ed è ancora vivo!” Sollevarono sassi, mattoni, assi di legno, brandelli di quella che una volta era stata una credenza, un vaso di terracotta, frammenti di vite sconosciute che penetravano dolorosi nelle loro mani e si conficcavano impietosamente nelle loro anime... Ci vollero ore, e più quel lamento si sentiva vicino, più i movimenti dei soldati diventavano rapidi, veloci, frenetici, forsennati. Nessuno di loro lo sapeva, in quegli istanti lunghissimi, ma se fossero riusciti a salvare quella vita, anche loro si sarebbero salvati. Luigi era al centro di quel cerchio magico, dove ognuno dei sacerdoti eseguiva un proprio rito per celebrare il trionfo della vita sulla morte. Fu Luigi a vederla per primo, così com’era giusto che fosse. Era stato lui a sentire la sua voce che lo chiamava. Era stato lui a restituirle la vita. “Eccola, è una bambina!” La sollevarono con delicatezza, la portarono via, lontano da quella devastazione, la adagiarono sull’erba, sotto il cielo innocente del tramonto. Quella creatura aveva gli occhi chiusi ed era leggera come una piuma, ma miracolosamente respirava ancora. Il Caporal Maggiore la visitò, sembrava non aver niente di rotto, solo era sfinita e debolissima. Le ripulì il viso, le diede da bere, e solo allora lei aprì gli occhi. Fu Luigi a parlarle: “Non aver paura, il peggio è ato. Sei stata grande a resistere là sotto. Come ti chiami, piccola?” La voce di Luigi non aveva mai avuto quel tono così dolce, carico di tenerezza e
pietà. “Chiara...” “Ciao Chiara, io sono Luigi. Ce la fai a parlare? Da quanto tempo sei là sotto?” “Non so... ore... non so dire quante... Ma che è successo?” “Gli Americani avanzano verso Nord, e bombardano aeroporti e stazioni per bloccare i Tedeschi. E probabilmente non stanno a calcolare le rotte con precisione millimetrica. Poco più in là c’è un intero villaggio bombardato, e anche l’abbazia... E non c’è anima viva in giro.” “Sono sfollati quasi tutti. Neanch’io dovevo essere qui, ma il nonno non voleva lasciare casa sua, ed io...” Chiara parlava con un filo di voce. “Non importa Chiara, ci racconterai più tardi.” Chiara sembrò non aver sentito: “Io non potevo lasciarlo lì. I miei sono sfollati a Potenza ed io avevo promesso... di raggiungerli al più presto col nonno. Mamma non voleva partire senza di me ma io... non potevo... il nonno, dov’è, l’avete trovato?” Gli uomini si guardarono in silenzio. C’erano poche possibilità che qualcuno fosse ancora vivo là sotto, tanto più se si trattava di un vecchio. Poi, Luigi prese il comando, come sempre: “Qualcuno resti con lei, gli altri vengano con me, andiamo a dare un’occhiata.” “Resto io, Signor Tenente!” “Bene, Caporale Pezone, le dia anche qualcosa da mangiare.” “Signor Tenente, la piccola avrebbe bisogno di una visita più approfondita, di riposare in un letto, di mangiare qualcosa di sostanzioso, di flebo di ricostituenti e un’antitetanica, Signore, potrebbe avere un collasso e...” “Caporale, lei è medico, faccia il suo mestiere! Vede un presidio della croce rossa nei paraggi? Al momento faccia quello che può!”
La voce del tenente Amati era dura. “Sissignore!” Il caporal maggiore Pezone era visibilmente contrariato ma scattò ugualmente sull’attenti. Il tenente e i suoi tre uomini tornarono al casolare e ricominciarono a scavare così, a caso, rovistando tra le macerie, e mentre scavavano chiamavano nella speranza che qualcuno, là sotto, potesse ancora rispondere. Dopo un’ora, trovarono il vecchio. Era morto. Tornarono dal caporale Pezone, in silenzio. Non c’era bisogno di parlare, il caporale capì immediatamente dall’espressione dei loro volti ma andò ugualmente a sincerarsi che il vecchio fosse morto. Luigi, invece, restò con Chiara, e toccò a lui dirle la verità. La ragazza cominciò a piangere silenziosamente e Luigi se la strinse forte al petto. Restarono alcuni istanti così, il silenzio rotto solo dai singhiozzi di lei, poi Chiara parlò: “Voglio andare da lui!” “No, piccola, non è un bello spettacolo. Sono sicuro che anche tuo nonno non vorrebbe. Non serve a niente, ti faresti del male, più di quanto non te ne abbia già fatto questo schifo di guerra!” E mentre la stringeva delicatamente a sé, Luigi ricordò quel pomeriggio di sole, l’ombra della basilica, la madre bianca che teneva il figlio abbandonato sulle sue ginocchia. Gli sembrò strano, perché quello era stato uno dei momenti più intensi e belli della sua vita. Poi capì: anche ora, come allora, Luigi provava la pietà dolorosa e impotente, pietà per quella creatura che piangeva silenziosamente tra le sue braccia, pietà per quel vecchio che aveva preferito morire piuttosto che lasciare i ricordi di una vita, pietà per quei quattro uomini confusi e smarriti come lui che ancora lo chiamavano signor tenente, pietà per se stesso, che era il loro ufficiale e avrebbe dovuto guidarli verso la salvezza, e si sentiva più smarrito di loro,
pietà per tutti i soldati come lui, burattini confusi e disperati, abbandonati da burattinai impauriti e sleali. Continuarono a restare così, abbracciati, in silenzio, mentre il cielo si faceva nero e tutto l’orrore alle loro spalle spariva nel buio della sera. La campagna ferita sembrava addormentarsi nella pace di quell’ora, e prodigiosamente ritrovava la sua armonia, fatta di quiete e di silenzio. Nulla turbava quella pace, neanche quelle due figurine abbracciate che si stagliavano nere tra le colline grigie di calcare e l’orizzonte sterminato.
“È ora di muoverci, ragazzi, è pericoloso restare qui!” “E la ragazza, signor tenente?” “La portiamo con noi, la lasceremo nella prima casa abitata che troveremo, dove potranno assisterla come si deve.” Mentre pronunciava quelle parole, gli occhi di Luigi si puntarono severi in quelli del caporal maggiore. Poi, il tenente guardò Chiara e intuì la muta richiesta della ragazza. “Ti accompagno, ma dobbiamo far presto, prima che venga buio sarebbe meglio aver già trovato un posto per la notte...” “Presto, signore, solo qualche foto, credo che sarà facile trovarle, la credenza dove le tiene mamma è ancora intatta...” Mentre si dirigeva con lei verso il gruppo di macerie, Luigi colse uno strano sguardo di Gianni. Forse era disapprovazione quella che vi si leggeva. È vero, non era il caso di perdere tempo, ma non si potevano negare i ricordi a chi ha già perso tutto. Quando salirono sull’“OM”, riuscirono a fare solo pochi metri, poi la camionetta si fermò. “Che diamine succede adesso?”
“La benzina, signor tenente. È finita. Siamo a piedi!” Luigi si sentì esasperato: “Ascoltate ragazzi, prima di tutto, basta con i gradi, da questo momento in poi non ci sono più tenenti, sergenti, caporali e soldati semplici. Ora scendiamo, ci mettiamo abiti civili e...” Avrebbe voluto aggiungere che erano solo quattro disperati che probabilmente si sarebbero fatti ammazzare, ma non lo fece. L’ufficiale che ancora restava in lui non ebbe il coraggio di deprimere ulteriormente l’umore dei suoi uomini. Cominciarono a camminare, mentre la campagna si faceva sempre più nera e più grande davanti a loro. Non c’era traccia di vita in quella desolazione e i quattro uomini non sapevano se rallegrarsene. Luigi ruppe il silenzio rivolgendosi al suo amico: “Ehi, lavativo, cammina, di questo o non arriveremo più!” Gianni, però, non aveva voglia di scherzare e non raccolse la scherzosa provocazione dell’amico: “Perché accidenti dovrei affrettarmi, Luigi, se non so neanche dove stiamo andando? Abbiamo fame, sete, siamo stanchi, e abbiamo una ragazza con noi che non si regge in piedi, e rischiamo di incontrare un camion di tedeschi che non ci prenderanno mai per un gruppo di allegri giovani in vacanza, ‘fanculo!” Luigi non rispose a Gianni, sapeva bene che quando il suo amico era in quello stato d’animo, nulla poteva fargli cambiare umore. Si rivolse, invece, a Chiara: “Piccola, tu sei di queste parti, c’è un paese qui vicino, conosci qualcuno che abita nei dintorni che possa ospitarci per una notte, e di cui ci si possa fidare?” “Sì, c’è un casale, ci stanno i Graziano, sono brava gente, hanno le pecore, ma stanno su, in alto, per le pecore. Si segue il Liri a Nord, poi bisogna salire un po’ ma non è molta la strada. Più avanti dovrebbe esserci un sentiero sterrato, a sinistra, da lì si comincia a salire...” “Quanto ci vorrà, come tempo voglio dire, io non ce la faccio più!” Lamberti sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
“Lamberti, finiscila co’ stu’ latuorno, si’ sempr o’ stess’!” Luigi non aveva mai sentito Pezone parlare nel suo dialetto napoletano, al contrario degli altri, ma la cosa gli piacque, per qualche motivo che in quel momento non si soffermò ad esaminare. “Non è molto, ho fatto spesso questa strada per andare dai Graziano, mia madre mi ci mandava a prendere formaggio e latte, finché...” Chiara tacque, rattristata dalle immagini ancora vivide di quella vita che non sarebbe stata più, quando c’era ancora il nonno, la mamma, la loro casa con i girasoli sulla credenza e il ciliegio nell’orto, il gelsomino sulla facciata che ogni anno, puntuale, annunciava l’estate... Che gioia quel gelsomino, ormai per lei faceva parte della famiglia! E ora... Pezone vide l’espressione di quegli occhi: “Su, piccirì, nun ce penza’!” Chiara, che camminava appoggiata al braccio di Luigi, si rivolse a Pezone: “Signore, tutti voi continuate a chiamarmi piccola, ma io ho diciannove anni!” Fece una pausa, poi aggiunse: “Lo so che sono magra e brutta, ma non ero così prima della guerra, davvero!” e nel dire queste parole guardò Luigi. Luigi sorrise mentre rassicurava Chiara: “Scusali, Chiara, questi caproni non vedono una donna da tre anni, si vede che non sei una bambina, e sei ancora carina, fidati, io me ne intendo...” “Lamberti, invece, non ne ha mai viste di donne, lui ama solo la sua mamma! Mamma, mamma, voglio tornare a casa da te!” Gianni aveva riacquistato il suo buonumore, e trascinò gli altri in una sonora risata, mentre scimmiottava Lamberti, con gli occhi chiusi e le braccia tese verso quella madre che tutte le notti gli appariva nei suoi sonni agitati.
“Andate un po’ a caare, voi altri grulli!” L’aria offesa di Lamberti non frenò i ragazzi. A zittirli, invece, fu Chiara che, all’inizio della salita impallidì improvvisamente, e sarebbe caduta se Luigi non l’avesse saldamente tenuta. In un attimo Pezone la raggiunse, le prese il polso: “La ragazza non ce la fa, poveretta, è stato un miracolo che sia riuscita a camminare fin qui, con quello che... È sull’orlo del collasso, dobbiamo portarla su noi...” Luigi, senza neanche lasciarlo finire, la prese in braccio e cominciò a salire. Ci volle una buona mezzora, durante la quale i ragazzi si alternarono a portare in braccio Chiara. Quando arrivarono erano stremati. Una donna sulla soglia di un casolare di pietra li osservava salire, un po’ incuriosita e un po’ spaventata. Non sembravano soldati, non avevano la divisa, ma erano giovani, ed avevano una ragazza con loro, e quella ragazza aveva l’aria familiare. Luigi si avvicinò alla donna con un timido sorriso, mentre sosteneva Chiara reggendola per la vita. “Chi siete? Io a te ti conosco, sei la figlia di Rosa. Che è successo a valle? Abbiamo sentito...” “Sì signora Tilde, sono Chiara, giù al paese hanno bombardato e questi ragazzi mi hanno salvato la vita.” Non ci fu bisogno di aggiungere altro, la donna non fece domande, e non le fece neanche il vecchio che uscì dal fienile. Guardò quegli uomini attentamente, uno per uno, e poi, semplicemente, li salutò. La donna diede loro pane e formaggio, e riscaldò dell’acqua per Chiara, la lavò, le disinfettò le leggere ferite e le diede degli abiti puliti. Poi, le chiese degli uomini che mangiavano in silenzio nell’altra stanza. “Sono soldati, Tilde, e sono brava gente. Solo questo so. Se sono ancora viva lo devo a loro.”
Dopo mangiato, il vecchio del fienile entrò con un fiasco di vino. E finalmente, dopo qualche bicchiere, i ragazzi raccontarono la loro storia, dissero al vecchio delle notizie apprese alla radio circa il disarmo delle caserme del Nord, della loro caserma abbandonata dagli alti ufficiali, della fuga attraverso la campagna, e di come avevano trovato Chiara. Il vecchio li ascoltò in silenzio, intuendo, nella sua semplice saggezza, che quei ragazzi avevano un disperato bisogno di raccontare la loro storia, come a voler tirar fuori dalla loro carne tutto il dolore, la delusione, la rabbia che avevano compresso dentro di loro. Dopo, fu più facile sorridere: il vino aveva reso tutto più leggero, le battute su Lamberti più spiritose, il cibo più saporito, quella modesta stanza più confortevole, il futuro meno incerto. Andarono a dormire nel fienile, mentre già il cielo si alleggeriva dei colori rassicuranti dell’alba. I ragazzi crollarono all’istante, tutti, tranne Luigi. Cercò di addormentarsi, ma forse era davvero troppo stanco per dormire, o forse era troppo pesante il suo ruolo in quella folle avventura, un ruolo che ormai detestava, perché non ci credeva più, eppure non riusciva a liberarsene, maledizione! Era a capo di quel gruppo di ragazzi disperati, era il loro ufficiale, anche se non portava più le due stellette sul petto, e non c’era nulla, assolutamente nulla che avrebbe potuto fare per strapparsele dalla sua anima. Si sentiva responsabile di quelle cinque vite, non della sua, in fondo, se fosse capitato qualcosa a lui, nessuno avrebbe potuto fargli sentire la responsabilità della sua morte, ma i ragazzi no, lui doveva guidarli e fare del suo meglio per portarli in salvo. Sì, ma dove? No, non sarebbe mai riuscito ad addormentarsi con quei pensieri che gli bruciavano il cervello. Uscì fuori, per sentire sulla pelle l’aria fresca dell’alba settembrina, e fumare una sigaretta, doveva essercene ancora un pezzo nella tasca interna dello zaino di Gianni. Si nascondeva mozziconi di sigarette dappertutto, quel matto, persino nelle mutande, e poi qualcuno glieli trovava e puntualmente se li fumava.
Mentre dava quell’unica tirata, cercando di trattenere dentro di sé il sapore dolciastro del tabacco, sentì dei i leggeri dietro di sé. Si voltò, ma sapeva già. “Chiara, perché non dormi? Hai bisogno di riposare... come ti senti?” “E tu perché non dormi? Anche tu hai bisogno di riposare, eppure sei qui!” Chiara sorrideva, e per la prima volta Luigi la guardò con gli occhi del giovane uomo che era, e si stupì di trovarla così graziosa. Prima, mentre stavano salendo, Luigi l’aveva definita carina, ma l’aveva fatto per galanteria. In realtà fino a quel momento Chiara aveva suscitato in lui solo tenerezza e pietà. Ora era diverso, forse il vino che ancora circolava nel suo sangue, forse la stanchezza, forse un desiderio di fuggire con la testa da tutto quello che gli bruciava dentro... ma si scoprì ad osservare Chiara con attenzione, e guardarla era bello, e gli riscaldava il cuore. Chiara aveva alzato gli occhi, e stava guardando il cielo. “Forse mio nonno è lassù adesso, in mezzo a quelle nuvole rosa, forse è su quella stella, e ci guarda, deve essere così bello guardare il mondo da lassù!” E mentre Chiara guardava il cielo, Luigi si sorprese ad osservare il collo lungo di lei, che aveva la grazia leggera di un cigno, il candore puro della sua pelle, che gli ricordò la luce purissima del marmo della sua terra, e soprattutto i suoi occhi, grandi come quel cielo, spalancati, in attesa di una risposta. In quel momento Luigi ritrovò in sé sensazioni che credeva morte per sempre: la sensibilità e l’emozione che dà la bellezza nel suo sorgere spontaneo, quando non te l’ aspetti, e quella bellezza ti toglie il respiro e ti sorprende. Provò un desiderio irrefrenabile di fermare quell’istante magico, fuori dallo spazio e dal tempo, e fissarlo nella pietra, per sempre. Se un giorno fosse riuscito a tornare a casa, avrebbe scolpito quel viso di fanciulla che guarda il cielo...
La voce di Chiara, venata di malinconia, spazzò via quella sensazione e quel desiderio e lo riportò alla realtà di quel momento: “Il nonno era speciale, sai. Non aveva studiato, sapeva appena leggere, ma era dolce e gentile, ed educato come un gran signore. Quando ero piccola, avevo una bambola di pezza e lui mi prendeva sempre in giro, diceva che la mia bambola era brutta, però quando le si era staccato il braccio ed io ero disperata, lui ci aveva ato un pomeriggio, e me l’aveva tutta ricucita. Sai, era bravo a cucire, di lavoro era ciabattino, aggiustava le scarpe per i signori del paese, e lavorava fino a notte per mandare avanti la famiglia. In tutta la mia vita non l’ho mai sentito gridare contro qualcuno. Solo con la mamma, quando voleva portarselo via da casa per andare a Potenza. Ha detto a mamma che preferiva morire piuttosto che lasciare quella casa, ed è stato proprio così, povero nonno!” Chiara abbassò gli occhi, che si posarono su Luigi: “Però io sono felice di essere viva, Luigi” e dicendo queste parole Chiara gli sfiorò le labbra. Luigi non voleva rispondere al bacio, sapeva che non era saggio, sapeva che Chiara era troppo giovane e spaventata, e che lo vedeva come il suo salvatore e lui non poteva approfittare della sua fragilità, ma anche lui era debole, confuso, e stanco, e aveva bisogno anche lui di un po’ di calore, in mezzo al gelo paralizzante di quella vita. E poi, gli sembravano anni che non toccava una donna... Si amarono così, sotto quel cielo rosa e quell’unica stella, in silenzio, e ad entrambi sembrò di bere dopo una lunga, lunga sete. Dopo, fu Luigi a raccontare di sé a Chiara, della sua ione per l’arte, dei suoi studi interrotti, del suo sogno di scolpire nel marmo purissimo delle sue cave. Poi, finalmente, si addormentarono, Chiara accoccolata sul petto di Luigi.
Più tardi quella mattina, i ragazzi ripartirono, lo zaino carico di un pezzo di pane e una piccola forma di formaggio che li avrebbe sfamati per quel giorno.
Chiara diede un bacio sulla fronte ad ognuno di loro e si lasciò Luigi per ultimo. I ragazzi capirono e uscirono. Luigi la strinse delicatamente a sé, e se la tenne così per alcuni istanti, in silenzio, poi si staccò da lei e si voltò. Chiara lo afferrò per la mano: “Aspetta.” Tirò fuori dalla tasca del grembiule scolorito una foto, doveva averla fatta prima della guerra, era poco più di una bambina, ma gli occhi, e la grazia leggera di quel viso erano gli stessi di ora. “Prendila, così non ti scordi di me... così mi cercherai, quando la guerra sarà finita... prometti...” Luigi pensò alla sua fidanzata che lo stava aspettando, ricordò l’eleganza di Nicole, la loro ione per l’arte, i loro progetti. “Prometto, piccola, quando la guerra sarà finita...”
Ripresero a camminare, ma decisero di cambiare la loro direzione: andare a Sud verso Cassino e il confine significava finire in bocca ai Tedeschi, che sicuramente si stavano concentrando sulla linea Gustav per bloccare l’avanzata degli alleati. Ma quei ragazzi erano stanchi di fare gli eroi, volevano solo allontanarsi da tutto quello che avevano visto quel giorno, via, lontano dalle macerie, dalla polvere, dalla paura, e mettersi in salvo. L’idea era quella di seguire il Liri, proseguire a Est verso Alatri, e arrivare in Abruzzo. Sarebbe stata dura are attraverso le montagne, ma forse in quel modo avrebbero avuto una possibilità. Dovevano evitare i sentieri battuti e procedere nella campagna, cercando ombra e riparo nelle zone dove la vegetazione era più folta. L’umore era migliore, grazie al fatto che avevano mangiato e dormito a sufficienza: “Ehi buffone, il sole ti ha fuso quell’unico neurone che avevi?” Il tono di Luigi era scherzoso ma Gianni ignorò la provocazione dell’amico e si rivolse ai suoi compagni di viaggio:
“Ragazzi, avete visto il tenente com’è allegro oggi? Credetemi, io lo conosco, e so che solo una bella galoppata lo rende così arzillo!” D’Ambrosio, Morone e Pezone sorrisero timidamente, ancora non si azzardavano a ridere del loro tenente, ma non poterono evitare di esplodere in una risata corale accompagnata da fischi quando o’ piccirill’ se ne uscì con un innocente: “Ma c’erano cavalli in quell’ovile? Io ho visto solo pecore!” “Dì, bambinello, ma mammina non ti ha detto nulla?” “A te dovevano riformarti per insufficienza ormonale, te lo dico io, Lamberti!” “Il Lamberti soffre, a mio modesto parere, di un ritardo della crescita, in altre parole, è sviluppato fisicamente ma il suo cervello fatica a tenere il o con suddetto sviluppo, ed è rimasto fermo all’età di sei anni! Sono disgrazie...” “E allora, quando raggiungerà l’età per farsi una sana galoppata anche lui, dottore?” “Ma andatevela a piglia’ tutti n’ culo!” La chiusa dell’offesissimo Lamberti, che aggiunse uno sproloquio di improperi con la sua parlata livornese, scatenò ancora di più l’ilarità dei ragazzi finché Gianni non li mise a tacere e riprese il discorso lasciato interrotto con Luigi: “Allora, te la sei fatta la bimbetta, marpione?” Luigi ebbe una fulminea tentazione di dire la verità, poi decise: “A parte il fatto che Chiara non è una bambina, e comunque no, non ci ho fatto niente, tu hai proprio il chiodo fisso, tre anni di guerra non ti hanno calmato, è vero che chi ne parla tanto...” “Non dire balle, tenente, stanotte mentre Lamberti piagnucolava mi sono svegliato, sono uscito per andare a svuotarmi la vescica e ho visto...” Luigi lo guardò, e i suoi occhi erano duri quando replicò: “Non raccontare cazzate, Martini, non hai visto niente!”
Gianni capì e non aggiunse altro.
Erano ore che camminavano, i ragazzi erano stravolti dalla fatica, anche perché la strategia di Luigi era quella di seguire i percorsi meno battuti, le strade in salita e più impervie, per evitare di incontrare convogli militari. Seguivano il corso del fiume procedendo ad est verso Sora, nella valle del Liri stretta tra verdi colline di castagni. Nei pressi di Posta Fibreno, si aprì d’improvviso ai loro occhi uno spettacolo sorprendente: una piccola isola verde fluttuava mossa dalle acque trasparenti di un lago, che raccoglieva un fiume e un’infinità di canali. E in quelle acque, alimentate da sorgenti sotterranee, ribolliva e pullulava la vita: trote d’argento che guizzavano sinuose a filo dell’acqua, uccelli bruni con grandi ali bianche, rane verdi che gracidavano, lucertole cangianti e immobili sugli scogli calcarei, e persino l’acqua che sgorgava in profondità e arrivava alla superficie, tutto era colorato, mosso, rumoroso come una sonora risata infantile, come la vita, quella buona, quella che i ragazzi avevano lasciato a casa qualche anno prima, quando erano diventati soldati. L’acqua limpida creava effetti suggestivi giocando tra la luce e le zone d’ombra, l’aria era fresca, il cielo di un azzurro intenso che sfumava nel blu, e il vento tiepido di quella serena mattina di metà settembre spostava l’isola verso di loro, come ad invitarli. Questo bastò per far dimenticare la stanchezza e la paura. Si spogliarono rapidamente, si fecero strada tra i canneti e si lanciarono nell’acqua uno dopo l’altro, e mentre il loro corpo beveva quell’acqua pura, i soldati tornati uomini cantavano, ridevano, felici di compiere quel rito catartico che li restituiva alla vita, ai ricordi puliti dell’infanzia, all’innocenza incosciente di chi aspetta con ansia il futuro. Quella fu l’ultima volta che il tenente Amati, il sergente Martini, il caporal maggiore Pezone, il caporale D’Ambrosio, e il soldato semplice Lamberti condivisero un momento di gioia. Quella cascata aveva permesso loro di dirsi addio, nella maniera più bella. Dopo il bagno si sentivano più energici, rinfrancati nel corpo e nell’animo e decisero di proseguire ancora un po’, fino a quando si fosse fatto buio. Allora si sarebbero fermati, e si sarebbero rimessi in marcia il mattino seguente, dopo una notte di riposo.
Nei pressi di Sora, per evitare i centri abitati, seguirono un sentiero impervio, che si inerpicava in salita. Ogni tanto si fermavano a riprendere fiato e a guardarsi le spalle, scrutando la valle che si stendeva in basso, avvolta dal vapore morbido e azzurro della luce serale, interrotto a tratti da un casolare di pietra, un fienile, una baracca. Alla sommità della salita, una radura si stendeva davanti a loro e al suo centro una grezza costruzione in pietra di forma semicircolare, con strette feritoie al posto di finestre. “Un presidio militare, sarebbe ottimo per arci la notte, però...” Luigi non fece in tempo a finire la frase, voleva aggiungere che non era prudente, che poteva essere una trappola, che era meglio tornare indietro... Lamberti si lanciò attraverso gli alti cespugli e i castagni, non gli era mai piaciuto dormire all’aperto, sua madre gli diceva sempre che lo avrebbero riformato perché era debole di petto, e poi, se aveva un tetto sopra la testa avrebbe riposato meglio, e quei maledetti incubi non lo avrebbero tormentato, forse... Udirono l’ esplosione, poi un’altra, poi un’altra ancora, o forse erano le urla di Lamberti, o forse erano i loro cuori che stavano scoppiando, insieme a quelle maledette mine. “La gamba, Gesù, la gamba, non ho più la gamba, aiuto!” Non era Lamberti, non era un uomo, era un animale ferito, una bestia macellata a metà che ancora urla per il terrore della scure, prima dell’ultimo colpo. Gianni fece il gesto di lanciarsi in avanti ma Luigi gli prese le braccia e lo immobilizzò. “Lasciami andare da lui, Cristo, non ce la faccio a sentirlo urlare così!” “Idiota, vuoi finire a pezzi anche tu? Potrebbero essercene altre, capisci?” “Non ce la faccio, cazzo, non ce la faccio a sentirlo!” Gianni stava urlando, come a voler coprire i lamenti disperati di Lamberti,
mentre lacrime di terrore e pietà gli rigavano il volto congestionato. “Neanch’io ce la faccio a sentirlo, ed è per questo che ce ne andiamo, si torna indietro, muovetevi!” In quel momento era tornato il loro ufficiale, duro e freddo come il marmo della sua terra. D’Ambrosio, Martini e Pezone si guardarono in silenzio, ma nessuno di loro si mosse. Lamberti urlava. “Andate voi, io vado da lui!” “Pezone, non dire cazzate e fa come ti dico, è un ordine!” Lamberti urlava. “Amati, tu non sei più il nostro tenente, lo hai detto proprio tu, ricordi? E io non sono più il tuo caporal maggiore. Sono solo un medico, un fottuto medico, e vado da lui. Aspetterò che vi siate allontanati, sarà meno scioccante per voi, nel caso dovessero saltare in aria gambe, braccia o altre parti del corpo...” Luigi vide Pezone sorridere e pensò a quanto fosse grottesco che in quel momento quel folle avesse pure voglia di fare quella battuta del cazzo, poi guardò Gianni che singhiozzava, e D’Ambrosio che tremava, e mentre Lamberti continuava a urlare, capì che aveva fallito. “Iatvenn!” La voce di Pezone era rabbiosa. Luigi gli diede le spalle e cominciò a camminare con i due uomini, ma dopo qualche metro tornò indietro verso Pezone che era ancora là, immobile. Fece il saluto militare, batté i tacchi, la mano alla tempia. Poi si voltò e riprese a camminare. Ritornò col pensiero a quel gesto molte volte negli anni che seguirono, cercando di capirne il senso. Non era nella sua indole agire d’istinto, in lui parole, azioni, gesti erano sempre ragionati, adeguati, mirati. Forse, era stato un modo per
celebrare la fine ingloriosa dei loro ideali, o forse l’unica maniera che aveva trovato per dire addio al compagno di viaggio e per manifestare all’uomo il suo rispetto e la sua ammirazione. Erano scesi di pochi metri, quanto bastava perché la radura non fosse più visibile, quando sentirono l’esplosione.
Campo di smistamento di Duisdorf (Bonn), giugno 1944 Mia cara Nicole, ti scrivo per ricordare a me stesso che sono ancora un uomo. So che questa lettera non ti arriverà mai, e forse anch’io non tornerò più. D’Ambrosio e Gianni, il nostro Gianni, sono già partiti per la destinazione definitiva, come Imi, dicono i tedeschi, internati militari italiani, ma in realtà siamo prigionieri e traditori per i tedeschi, quindi non nutro grandi speranze circa il nostro futuro. Ma ora non mi importa, niente ha più importanza dopo quello che è accaduto, e dopo quello che questa fottutissima guerra mi ha insegnato. Ricordi come ci credevo, allora? Volevo trasformare la mia vita in un’opera d’arte, io stesso mi sentivo demiurgo e creatore della bellezza, e mi pavoneggiavo scioccamente di un potere che in realtà non mi apparteneva. Anche questa maledetta guerra era un’opera d’arte, il palcoscenico straordinario dove avrei mostrato al mondo la mia eccezionalità. Se le cose non fossero andate così, sarei salito agli alti onori delle cariche militari più eccelse, e mi avrebbero chiamato eroe, e non avrei finito i miei giorni rinchiuso in questa lurida fogna. Ma forse è stato meglio così, perché almeno ho aperto gli occhi. Sì, Nicole, ho capito quanto era folle, e stupido credere in un’utopia, e farsi manovrare come burattini dal sorriso dipinto su una faccia di cartone colorato. E sai quando l’ho capito? Quando ho visto vecchi nostalgici morire sotto le loro case bombardate, e quando ho visto soldati poco più che bambini dilaniati dalle mine ed io non potevo far nulla per aiutarli, neanche sparare un fottuto colpo nel loro cranio per farli smettere di urlare, e quando ho visto uomini che sono andati ridendo a morire perché erano medici e sapevano che quella era l’unica cosa
giusta da fare. Se mai riuscirò a tornare a casa, quando questa guerra sarà finita, troverò il modo per raccontare al mondo quanto fragile, e speciale, e grande può essere un uomo. Ti trascrivo i versi di una poesia che ho composto in una delle mie lunghe notti insonni:
“Finestre informi, nere, in mura grigie, feritoie di una pesante guerra di microbi, ferite incise in spregio al cielo... e il nostro pianto dentro. Un giorno, dominerò tutta la vita che è in ogni cosa in me, fatta più grande”
Ti bacio, amore mio. Tuo Luigi
CAPITOLO QUARTO LA RICERCA
Carrara, Novembre 1999 Claire tornò a casa in uno stato confusionale. Era scioccata per quello che era successo, e non riusciva a trovare una spiegazione logica a quell’assurdo furto. Chi diamine poteva essere interessato al furto di una foto su una lapide? Chiunque avrebbe potuto trovare foto di suo padre, qualsiasi rivista di arte ne aveva, soprattutto dopo la sua recente morte. E poi c’era anche qualcos’altro che l’aveva turbata: lo scontro fisico con quell’uomo, quegli occhi puntati su di lei per un istante, quella confusa ma intensa sensazione di familiarità, come se quello sguardo si fosse già posato su di lei, in ato...
Maria, la governante che si occupava della villa e di Claire con la stessa amorevole dedizione di una madre, la vide turbata più del solito: la sua piccola ancora non si era ripresa dalla morte del padre e le si stringeva il cuore a vederla sempre così malinconica e assente. Ma non riusciva ad aiutarla, Maria. Per quella “bambina” ci voleva qualcosa o qualcuno che le restituisse la voglia di vivere, e lei non poteva darle altro che le sue cure ed il suo affetto. Ma questo non bastava a Claire. “Che c’è, tesoro, è successo qualcosa?” “No Maria, scusa, ora devo andare, parliamo stasera.” E prima che Maria avesse il tempo di chiederle qualcosa, Claire era già uscita. Prese la Jeep e si avviò. Il laboratorio di Luigi era arroccato sul punto più alto delle cave, poco prima del paesino di Colonnata, e svettava alto a cercare il cielo, solenne santuario pagano immerso nel candore purissimo delle montagne di marmo. Quando Claire arrivò,
il sole era appena tramontato e quel candore cominciava a sfumare in tinte più rosate, la luminosità quasi dolorosa del giorno si faceva più morbida e confortante per gli occhi. Quella era l’ora che suo padre preferiva per scolpire, e lui e sua figlia si ritrovavano spesso lassù, sulle montagne bianche, in quella silenziosa solitudine riempita solo dal loro entusiasmo e dalle loro voci. Adesso, quella era l’ora in cui Claire sentiva più lacerante l’assenza di suo padre. Non era più stata lassù da quando suo padre se n’era andato. Varcò la soglia del laboratorio e richiuse lentamente il pesante portone di acciaio. Si guardò intorno con una sensazione di inquietudine, ma nulla era cambiato: gli attrezzi da lavoro, i marmi, gli schizzi disegnati da lei, le loro foto, i libri e le riviste di Luigi, le sue farfalle di stoffa azzurra. Tutti quegli oggetti erano lì, come sempre, e solo il sottile strato di polvere bianca che li ricopriva stava a testimoniare che da tempo nessuno li toccava più. E Claire avvertì la loro voce, ed era una voce che parlava di abbandono e di solitudine, esattamente come la sua. Ripensò alla fanciulla che guarda il cielo, l’opera preferita da Luigi, un busto in purissimo bianco di Carrara che suo padre non aveva mai voluto vendere e che aveva conservato gelosamente lì, nel suo laboratorio, nascosto da sguardi indiscreti... Era come se suo padre avesse voluto proteggere quei lineamenti delicati scolpiti nel marmo, quei lunghi capelli che incorniciavano l’ovale perfetto, quegli occhi grandi che parevano vivi, quello sguardo rivolto verso l’alto che cercava la luce. Negli ultimi istanti Luigi le aveva chiesto qualcosa circa quella sua opera, e lei aveva pensato che vaneggiasse, ma forse... A un tratto Claire avvertì confusamente che gli strani avvenimenti di quel giorno erano collegati a quella muta, ultima richiesta di Luigi: “Trovalo... la fanciulla che guarda il cielo.” Era questo il motivo per cui, solo allora, lei aveva trovato la forza di varcare la soglia di quel microcosmo di ricordi... Forse c’era davvero qualcosa da trovare nel laboratorio, qualcosa di prezioso che suo padre aveva conservato per lei tutta la vita e che voleva darle prima di morire. Qualcosa che, in qualche modo,
mantenesse vivo quel legame magico che li aveva sempre uniti. Un soffio leggero di vento si insinuò attraverso la piccola finestra socchiusa, facendo danzare le farfalle di seta azzurra che pendevano dal soffitto e Claire fu certa, assolutamente certa che quella sua sensazione fosse giusta. Doveva trovare qualcosa, lì dentro, perché questo era ciò che suo padre le aveva chiesto. Si sarebbe messa a cercare, ma per farlo aveva bisogno di aiuto.
“Ciao Anna, come va?” “Claire, sei tu tesoro? Io tutto bene, tu, piuttosto, come stai? Ti avrei chiamato oggi...” “‘ È successo qualcosa, Anna, ma non voglio parlartene per telefono. Puoi venire da me stasera?” “Qualcosa di brutto o di bello? Certo che vengo, ma non farmi preoccupare...” “Qualcosa di strano... te ne parlo stasera.” Anna sorrise con tenerezza e scosse la testa. Sempre così quando c’era di mezzo Claire... le cose strane accadevano sempre a lei, o forse era lei che voleva interpretare in quel suo modo poetico e un po’ bizzarro gli eventi della vita, anche quelli più banali. Quella sua amica la preoccupava e la inteneriva: a quarant’anni Claire non aveva ancora avuto una storia seria, solo qualche flirt eggero... un paio di volte sembrava essersi innamorata e voler fare sul serio poi, quando si trattava di decidere per un cambiamento radicale, Claire si tirava indietro, sempre. E la storia finiva. Anna sapeva perché, anche se Claire aveva sempre negato la verità e adduceva motivazioni diverse: in realtà Claire non voleva scegliere, se la scelta comportava rinunciare a quel rapporto esclusivo con suo padre, un rapporto in cui nessuno poteva entrare, tanto meno un altro uomo. In realtà Claire aveva idealizzato quel padre al punto da non perdonare a nessun altro di non essere identico a lui. Dunque, nella sua pratica saggezza, Anna
pensava che la morte di Luigi potesse essere fondamentale per la crescita emotiva della sua amica. Sempre che Claire fosse sopravvissuta alla morte di suo padre.
“Ciao Claudia, sono Claire, come va?” “Io bene, tu come stai Claire? Ti ho chiamato ieri ma non mi hai risposto, cominciavo a preoccuparmi.” “Ho bisogno di parlarti, Claudia, a te e ad Anna. Stasera da me, ok? Ho detto a Maria di preparare qualcosa...” “Avrei avuto una riunione in Comune, ma inventerò qualcosa per non andarci. Va tutto bene, Claire?” “Più o meno... a stasera, Claudia.” Claudia riattaccò, vagamente inquieta. Conosceva Claire da anni, e aveva sempre avvertito un affetto materno per lei, e al tempo stesso una gran rabbia per quella sua incapacità di vivere nel mondo reale, per quella sua ostinazione a chiudersi all’interno di un ovattato microcosmo abitato solo da lei e dal padre. Ed ora che Luigi se n’era andato, Claudia temeva che Claire non ce l’avrebbe fatta da sola, perché quel microcosmo si sarebbe chiuso attorno a lei e l’avrebbe soffocata.
Claire sorrise, dopo aver chiuso il telefono. Era confortante avere amiche come Anna e Claudia. Quelle due c’erano sempre quando lei aveva bisogno di loro, coi loro consigli, il loro affetto, le loro risate. Era buffo come fossero diverse, tutte e tre, eppure così capaci di completarsi vicendevolmente fino a trovare una perfetta sintonia... Anna era inaffidabile, disorganizzata, disinvolta ed estroversa come lei non avrebbe mai potuto essere. Il divorzio, i due figli maschi che crescevano sempre più ribelli e che le complicavano la vita, le innumerevoli storie d’amore fallite
che ogni volta le levavano un pezzetto di cuore, come lei diceva ogni volta che se ne chiudeva una, l’avevano resa un po’ più cinica, un po’ più disincantata, ma Claire sapeva che il cinismo di Anna era solo una maschera. Dietro, c’era ancora una ragazza sincera e pulita, che credeva nell’amore e ancora lo aspettava, quell’amore che fa sognare, quello che ti fa are la voglia di mangiare e di dormire e ti colora le giornate. Ed era questa parte nascosta di Anna che Claire preferiva, perché era quella più simile al suo modo di essere. Quante volte, di notte, alla fine di una di quelle serate in discoteca dove Anna trascinava una Claire recalcitrante e immusonita, allo scopo “terapeutico”, come diceva lei, di farla uscire dalla sua gabbia dorata, avevano poi dormito insieme, nello stesso letto, restando a parlare fino all’alba... Anna rimarcava, in tono di vago rimprovero, l’atteggiamento austero di Claire, che respingeva qualsiasi maschio si avvicinasse loro, anche il più audace. Claire, invece, rimproverava alla sua amica una disinvoltura che definiva “eccessiva” per una donna: “Tu prendi l’iniziativa con gli uomini, e questo non è bello. L’uomo vuole essere cacciatore, non essere cacciato!” “E tu hai idee che ricordano il Medioevo, Chiaretta! Svegliati, tesoro, siamo nel ventesimo secolo!” Eppure, le loro accese discussioni notturne finivano sempre in risate, confessioni intime, ricordi di amori ati... e il giorno dopo, quando si salutavano, e Anna riprendeva la sua vita da lottatrice tenace, col lavoro, i figli, le bollette da pagare, e Claire ritornava nella sua gabbia dorata di figlia amatissima, sentivano entrambe di avere qualcosa in più che apparteneva solo a loro due. Claudia era diversissima, invece, da Anna e Claire. Era più grande, innanzitutto, ma non era questo che faceva la differenza... Claudia era tutto ciò che Anna e Claire non erano: era seria, responsabile, organizzata, affidabile. Avvocato di successo e ragazza madre. Idealista e politicamente attiva. Razionale, talvolta severa. Per restare fedele alle sue convinzioni aveva accolto in casa gente di ogni tipo:
barboni, tossici, extracomunitari, eppure manteneva un atteggiamento aristocratico, quasi snob, che incuteva soggezione e non permetteva di avvicinarsi a lei. Almeno così sembrava... ma Claire si era avvicinata a lei, e sapeva quanto Claudia fosse capace di solidarietà nei confronti del dolore altrui, al punto da star male lei stessa quando vedeva qualcuno soffrire. E davanti al dolore e all’ingiustizia, Claudia si attivava con atteggiamento combattivo e tenace a fianco dei più deboli, sacrificando tempo, energie e denaro per quella che diventava la sua causa. Claudia agiva per amore, solo ed esclusivamente amore, amore per la causa che aveva abbracciato, amore per la giustizia allo stato puro, amore per quello che i cattolici praticanti chiamano “il prossimo”. Il suo modo di amare era scevro da ogni egoismo, e così era stato anche quando Claudia aveva amato un uomo, l’uomo della sua vita, il padre di suo figlio. E in nome di questo amore così singolarmente altruista, Claudia aveva sacrificato tutta la sua vita affettiva a quell’uomo, che neanche se n’era accorto, di quel privilegio e di quel sacrificio... Da quando papà se n’era andato, non era ato giorno che Claudia non fosse andata alla villa, o che non avesse almeno telefonato per avere sue notizie...
Anna, poco affidabile per gli orari, arrivò alla villa in ritardo come sempre, e le trovò già in giardino, sotto il gazebo liberty, che sorseggiavano un aperitivo e confabulavano a voce bassissima. “Eccole, le due cospiratrici, datemi da bere e da mangiare, che sono stravolta! Quei teppisti mi fanno letteralmente uscire di testa, ho bisogno di bere per rilassarmi un po’!” “Ciao Anna, serviti pure” le sorrise Claire indicandole il vassoio ricolmo di invitanti tartine. Anna addentò una tartina e si versò un aperitivo poi, accorgendosi degli strani sguardi che si lanciavano le sue amiche, chiese: “Beh, che c’è ragazze, avete qualche storia intrigante da raccontarmi?, Dio, che
buone queste tartine, se avessi anch’io una come la tua Maria che mi coccola così, avrei risolto tutti i problemi della mia vita... Oddio, proprio tutti no, però...” Claudia, seria e quasi professionale, la interruppe. “Dobbiamo aiutare Claire a risolvere un piccolo mistero, Anna.” Anna, con la bocca piena, farfugliò un “Di che si tratta?”, ma era evidente che in quel momento il suo interesse era tutto per le tartine. “Si tratta di una cosa che mi ha detto mio padre prima di morire, anzi me l’ha scritto quando era in rianimazione e comunicavamo attraverso il vetro.” Claire le mostrò un foglietto di carta spiegazzato, dove Luigi aveva scritto con grafia incerta una frase che sembrava non avere senso. “Trovalo... la fanciulla che guarda...” “Che significa?” “Me l’ha scritto poco prima di morire, ma poi non ho più avuto la possibilità di chiedergli a cosa si riferisse. Pensavo delirasse, papà era sotto morfina in quel momento, e non ci avevo più pensato. Ma oggi al cimitero è successa una cosa strana, e ho ripensato a queste parole di papà...” “Claire, mi stai facendo venire i brividi, che è successo oggi al cimitero?” Claudia intervenne: “Tranquilla, Anna, nulla di soprannaturale, ma sicuramente di strano. Qualcuno ha portato via dalla lapide la foto di Luigi Amati. E Claire pensa che ci sia un collegamento con quell’ultima richiesta di suo padre.” “Come può esserci un collegamento? Il mondo è pieno di vandali che non si fermano neanche davanti ai morti. A mio padre hanno portato via un mazzo di rose finte, pagate un occhio della testa! No, cosa ti viene in mente, Claire? È solo uno dei tanti ignobili gesti vandalici, in fondo tuo padre era una persona conosciuta...” “No, Anna, io l’ho sentito...”
“Ci risiamo, Claire, con le tue percezioni? Tesoro, non credi che questo sia un modo per riempire un vuoto? So cosa significa per te la morte di tuo padre, lo capisco, perché anch’io ho vissuto questa perdita e so che è terribile, però dovresti cercare...” Claudia la interruppe: “Forse hai ragione, Anna, Claire non ha ancora superato il suo lutto, però io le credo, o perlomeno credo che suo padre stesse davvero tentando di dirle qualcosa e comunque, non penso possa farle male cercare di scoprirlo.” “Ma scoprire che cosa? Claudia, Claire, ma vi rendete conto che state delirando? Non sapete neanche che cosa dovete cercare, e da dove cominciare a cercare... per me è tempo sprecato.” “Non so cosa cercare, è vero, ma so che mio padre mi ha chiesto di trovare qualcuno o qualcosa, che in qualche modo è collegato alla sua scultura preferita, quella che lo ha reso famoso, e che lui non ha mai voluto vendere. Finora non ci avevo pensato in questi termini, ma oggi so che devo provarci, perché è quello che voleva mio padre, e lo farò, con o senza di voi!” Nonostante l’agitazione nella sua voce, il tono di Claire era categorico, di quelli che non ammettono repliche. “Claire ha ragione, lo sente come un dovere nei confronti di suo padre, Anna, possibile che tu non lo capisca?” “Io temo solo che Claire così continui a farsi del male... tu sai a cosa mi riferisco, Claudia.” Poi Anna si rivolse a Claire, e la sua voce si fece più dolce: “Claire, ti abbiamo sempre detto che vivevi all’ombra di tuo padre, e che questo ti ha bloccato, ti ha chiuso al mondo esterno. Ora che lui è morto, tesoro, è ora che tu venga alla luce e che impari a vivere senza di lui, in mezzo agli altri...” “Lo so, sono cose che mi hai sempre detto, Anna, ed io... non so, ma credo che se non faccio questa cosa, o almeno non ci provo... non riuscirò mai a... venire alla luce, come dici tu. È come se fosse l’ultima cosa che faccio per lui.”
Anna guardò Claudia, e scosse la testa senza aggiungere altro. Non approvava Claudia, la sua condiscendenza, le sembrava che se avesse accettato di aiutare Claire in quell’ assurda impresa, l’avrebbe fatto solo per assecondarla, come si fa con i matti. E probabilmente anche Claudia la pensava così, ma Claudia aveva sempre bisogno di aiutare e comprendere, da quell’essere superiore che era... certo, Claudia non aveva da fare la guerra tutti i giorni con due figli nell’età in cui i figli diventano nemici, un mutuo, un lavoro precario e tutto il resto... “In fondo non c’è niente di male se dedichiamo qualche ora a questa cosa, no?” Il tono di Claudia era suadente, e in quel momento Anna la detestò. “No, mi spiace, io non ho tempo da perdere. Lo farei se credessi che è una cosa sensata, ma per me è una stupidaggine!” Il tono di Anna era duro, poi si ammorbidì quando si rivolse a Claire: “Claire, lo sai che ti voglio bene, vero? E capisci perché non voglio... partecipare. Ti chiamo presto, d’accordo?” “Capisco quello che vuoi dire, stai tranquilla Anna. Ma spero di dimostrarti che avevo ragione!” Anna salutò Claudia, baciò Claire e se ne andò. Le due donne, rimaste sole, si guardarono con un sorriso impacciato. Poi Claudia fece la domanda: “Allora, quando si comincia?” “Domani sera, verso le sei, se per te va bene...” Claudia esitò, poi fece la domanda: “E... da dove si comincia?” “Dal laboratorio di mio padre, naturalmente.”
Il cielo era di vetro, ripulito dal vento fresco della sera, l’aria del tramonto era dolce sulla pelle e aveva il sapore malinconico e decadente dell’autunno, confortante dopo il caldo faticoso dell’estate. La sensazione era acuita dall’ora, carica del mistero e della pace crepuscolare. Le due ragazze avevano parcheggiato la Jeep e procedevano a piedi nel viottolo stretto e sterrato che si inerpicava in alto, verso il laboratorio di Luigi. Claire era agitata, sentiva il cuore che a tratti dava dei colpi più forti, ma era confortata dalla presenza di Claudia, rassicurante e materna come sempre. Arrivarono al laboratorio, Claire aprì il pesante portone e subito la solennità austera di quel posto colpì Claudia che ne varcò la soglia con la sensazione di profanare un luogo sacro; pur conoscendo le opere di Luigi Amati, Claudia non era mai stata nel laboratorio, la leggendaria officina dove lo scultore creava, e si sentiva intimidita e affascinata da quel luogo dove emozioni e fantasie più intime venivano plasmate per diventare arte universale. Guardò Claire che si muoveva lì dentro con una disinvoltura che non le aveva mai visto fuori, nel mondo esterno, e capì che quel laboratorio arroccato sul punto più alto delle cave, così aristocraticamente superiore al resto del mondo, era per Claire il nido in cui rifugiarsi, l’involucro protettivo con cui schermarsi per proteggersi dai pericoli di un mondo, fuori, troppo grande e troppo aperto per lei, il padre da cui correre quando si ha paura. Dovunque, in ogni angolo, sui pesanti tavoli di marmo, appesi ai muri, sopra il divano in vimini azzurro, sulle rustiche sedie di legno, fogli di carta di dimensioni varie, schizzati a mano dallo scultore, riproducevano le sue sculture, quelle celebri e quelle meno conosciute. Contro la parete centrale, di fronte alla finestra, una sorta di immensa libreria in metallo nero conteneva i calchi in gesso delle opere di Luigi, alcune a grandezza naturale, altre di dimensioni ridotte. Claudia osservò quei calchi, molti dei quali le erano familiari: la danzatrice, l’uomo che corre, il vecchio assorto, il soldato, ma non trovò tra quei calchi la scultura più famosa, quella che serviva per cominciare la loro... ricerca. Claire intuì la perplessità di Claudia e anticipò la sua domanda. “È strano, ma il calco della fanciulla non è qui, sinceramente non so dove sia finito, e quando lo chiesi a mio padre qualche anno fa, lui mi rispose in modo
molto vago, disse di averlo spedito a una vecchia amica... però qui c’è l’originale. Certo, non è esposta agli sguardi di chiunque entri qua dentro. Papà la tiene chiusa in cassaforte.” Si diresse verso la libreria, prese la scala per poter arrivare al ripiano più alto, che quasi toccava il soffitto, lo liberò dai libri e dai bozzetti e, servendosi di un cacciavite, estrasse dalla parete una sottile sfoglia di legno bianca, che nessuno avrebbe individuato tanto si mimetizzava con l’intonaco. Dietro la sfoglia, incassato nel muro, guizzò il metallo di quello che sembrava lo sportello di una cassaforte. Claudia osservava la sua amica che si muoveva con gesti rapidi e decisi, e di nuovo fu colpita da quella Claire così diversa dalla ragazza timida e spesso insicura che conosceva. Claire aveva aperto la cassaforte, ed ora stava estraendo qualcosa, un oggetto avvolto in un telo di velluto blu. Anche a Claudia, l’imperturbabile Claudia, ora il cuore batteva un po’ più forte. Claire scese dalla scala con circospezione, non distogliendo lo sguardo dai propri piedi, mentre teneva l’oggetto con entrambe le mani. Si diresse poi verso il largo tavolo di marmo bianco al centro della stanza, poggiò l’oggetto, guardò Claudia... “È lei, vero, è la fanciulla che guarda il cielo?” Quella di Claudia era più una costatazione che una domanda. L’aveva capito dagli occhi di Claire, che si posavano su quell’oggetto nascosto dall’elegante drappo blu come a volerlo accarezzare, dal leggero tremito delle sue mani mentre poggiavano l’oggetto sul tavolo di marmo e quasi restavano lì, sul velluto, a raccontare il sottile dolore di separarsene. Le mani di Claire si muovevano quasi rallentate mentre svolgevano il velluto poi, dopo alcuni momenti che a Claudia sembrarono eterni, la purezza di quel marmo, la delicata bellezza di quel volto quasi ferì gli occhi di Claudia, che infilò istintivamente le mani nella borsa, per estrarne gli occhiali da sole...
“È... straordinaria, così bella che...” “Lo so, è un’imprudenza tenerla qui, ma papà era irremovibile... pensa che ha rifiutato offerte straordinarie dei migliori collezionisti d’Europa, se ne separava malvolentieri anche per cederla temporaneamente a mostre e musei. Diceva che questa fanciulla era un pezzo della sua vita, era carica dei suoi ricordi più belli, era sua e mia, e nessuno doveva godere della sua bellezza tranne noi... ero molto piccola quando la scolpì, mi poggiò la mano sul blocco e mi chiese cosa vedevo là, dentro quella pietra. Fui io a suggerirle che c’era una fanciulla, o forse fu lui... non ricordo, ma da quel giorno papà non cominciava mai un’opera senza portarmi con lui. Era il nostro... gioco...” Claire tacque, quasi a voler prendere fiato dopo quel fiume di parole e Claudia notò le guance rosse e gli occhi lucidi della sua amica. “Trovalo... la fanciulla che guarda il cielo. Dio, che avrà voluto dire tuo padre? Posso?” Claudia prese la scultura con delicatezza, la studiò, la soppesò. “È troppo pesante per essere cava. Qui è tutto marmo pieno, non può esserci nulla all’interno.” Poi la capovolse e notò che alla base del busto era incollato un panno di velluto blu, lo stesso velluto nella quale la scultura era avvolta quando Claire l’aveva estratta dalla cassaforte. Nulla di anomalo, ricordava di aver visto altre sculture da appoggio, centritavola, vasi, la cui base era protetta da velluto per evitare graffi sui piani d’appoggio, però... Ebbe un’idea. “Claire, hai un paio di forbici sottili, o un qualsiasi strumento che possa tagliare la protezione della base?” “Tu credi...?”
“Che sotto ci sia qualcosa... potrebbe essere, altrimenti non saprei dove altro cercare...” Claire aveva già in mano un affilatissimo strumento di metallo, una specie di bisturi, probabilmente un attrezzo da lavoro di suo padre. “Ecco...” Claudia ebbe un attimo di esitazione, poi cominciò a tagliare: i bordi del velluto erano incollati, ma la parte centrale, dopo l’incisione di Claudia che ne seguiva il perimetro con precisione millimetrica, venne via con facilità. Nulla., solo il marmo bianco, ruvido, della base d’appoggio. “Se almeno ci fosse stata una piccola cavità, uno spazio vuoto, dove Luigi avrebbe potuto nascondere qualcosa...” Le due donne si guardarono, deluse. Forse Anna aveva ragione, forse stavano cercando qualcosa che non esisteva, stavano dando corpo a quello che in realtà era stato solo il delirio di un moribondo. Claire chiuse gli occhi per un istante, e pensò a Luigi. Se Luigi le aveva chiesto di fare qualcosa per lui, adesso l’avrebbe aiutata, doveva farlo... Mentre rivolgeva una muta preghiera a suo padre, l’ultimo raggio del sole che tramontava dietro le montagne di marmo entrò nella stanza diffondendo una morbida luce dorata. Lo sportello di metallo della cassaforte, colpito dal raggio, rimandò indietro quella luce, che colpì gli occhi delle due donne. Claire e Claudia guardarono la libreria, lo scaffale rimasto vuoto, lo sportello socchiuso di nuovo immerso nella penombra. Poi, Claire parlò, e la sua voce era ferma: “È lì dentro!” Claudia ebbe un brivido e capì che l’avevano trovato.
La cassaforte era profonda, e la luce era scarsa. Claire infilò una mano e cominciò a tastare. Claudia la vide estrarre lentamente qualcosa, poi la vide scendere dalla scala. Aveva una busta in mano, ingiallita dal tempo. “Vuoi che la apra io?” “No, devo farlo io!” Con le mani tremanti Claire aprì la busta ed estrasse una foto che ritraeva una ragazza molto giovane, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle esili, il collo sottile, i lineamenti delicati, illuminati da due grandi occhi neri. Era certa di non avere mai visto quella ragazza, eppure c’era qualcosa di familiare in quel volto. Girò la foto: sul retro, una scrittura infantile, simile a quella dei bambini che hanno appena imparato a scrivere e ancora non hanno acquisito una grafia definita, riportava un nome e una data: “Chiara, Sant’Angelo 1938” Claire porse la foto a Claudia. “Sai chi sia?” “No, non ne ho idea, però... il mio nome in italiano è Chiara... forse è una coincidenza, forse no... Sant’Angelo, che posto è, sai dove si trova?” “Sinceramente no, mai sentito, deve essere qualche paesino sperduto da qualche parte in Italia. 1938... un anno prima che scoppiasse la guerra... tuo padre ha combattuto coi tedeschi, vero?” “Sì, era di stanza a Roma, negli artiglieri, credo, fino al ‘43, poi dopo l’armistizio è scappato ma i Tedeschi lo hanno preso prigioniero mentre cercava di are gli Appennini per rifugiarsi in Abruzzo. Però non ne so molto, papà non parlava volentieri di quel periodo della sua vita, credo abbia sofferto molto, e non amava ricordarlo, né voleva che gli fimo domande al proposito.”
“Hai detto che era di stanza a Roma? Può essere che questo Sant’Angelo si trovi nei pressi di Roma... comunque si fa presto a controllare... torniamo a casa e facciamo una ricerca, ok?” Claire guardò Claudia con gratitudine. Avevano trovato un indizio, forse non era molto, ma era sempre un punto di partenza, sufficiente per farle capire che non stava perdendo il suo tempo, che Luigi aveva davvero cercato di dirle qualcosa prima di morire. Si sentiva fiduciosa, ed era felice che Claudia fosse con lei in quella strana avventura.
La prima cosa che fecero tornate a casa fu connettersi ad Internet. Digitarono il nome “Sant’Angelo” e ci vollero diversi tentativi per trovare qualcosa che potesse plausibilmente riferirsi a quel Sant’Angelo della foto. “Eccolo, potrebbe essere questa la località della foto!” La voce di Claire era esultante quando lesse: “Minuscola frazione del comune di Cassino, nella provincia di Frosinone, in Lazio.” L’esultanza delle due donne, però, durò poco. Fino a quel momento la loro attenzione era concentrata sulla ricerca di quel luogo, ma ora che l’avevano individuato, non sapevano più che fare e si sentivano al punto di partenza. Si guardarono perplesse, poi fu Claire a parlare: “E ora?” “Ora ci facciamo una sana dormita, la notte porta consiglio, e magari anche qualche idea sulla prossima mossa... Io me ne vado a casa, ed anche tu Claire, va’ a letto che è stata una serata intensa!” “Ok Claudia, grazie!”
“Ti chiamo domani, ora cerca di riposare.” Le sorrise materna e chiuse la porta alle sue spalle.
Il giorno dopo Claire fu svegliata dal telefono. Era Anna che chiamava dall’ufficio: “Trovato qualcosa, Chiaretta?” “Sì... qualcosa... una foto datata 1938.” “Una foto di tuo padre?” “No...” Claire prendeva tempo per stuzzicare la curiosità dell’amica. In realtà ce l’aveva un po’ con lei perché la sera prima si era tirata indietro, anche se sapeva che le ragioni di Anna avevano una logica. Ma lei non agiva seguendo la logica e questa era sempre stata la differenza tra di loro. Tuttavia, Claire sapeva anche che la razionalità spesso velata di cinismo di Anna le era necessaria per frenare la sua istintività, un’istintività che talvolta l’avrebbe messa nei guai se non ci fosse stata Anna. “E allora di chi? Dai, Claire, non tenermi sulle spine!” “Una foto di donna...” Claire continuava il suo giochetto maligno centellinando le informazioni. “Che donna? La conosci? Una donna giovane, vecchia, dai parla...” “Una donna giovane, mai vista nelle foto di famiglia, anche se...” Stavolta non era per indispettire Anna che Claire aveva taciuto, c’era davvero qualcosa in quella foto che la rendeva perplessa, ma non riusciva a capire cosa. “Anche se... accidenti Claire, ma me lo fai apposta?” “No, Anna, il fatto è che sono sicura di non aver mai visto quella ragazza nelle foto di famiglia, non credo sia una qualche lontana parente, cugina, o simili,
eppure c’è qualcosa in quel viso che... mi è familiare, non so perché, non capisco come. È una sensazione strana.” “Beh, perché non chiedi a tua madre? Chi meglio di lei può darti una risposta?” “No, non è una buona idea. Prima di tutto lo sai che rapporti ho con mia madre. E poi non voglio coinvolgerla in questa storia. So che mio padre non vorrebbe, questa è una cosa che riguarda solo me e lui.” Un momento di silenzio poi Anna riprese la parola: “Claire, ti prego, tuo padre non c’è più, e tu ne parli come se fosse ancora vivo, a condizionare la tua vita...” Claire la interruppe bruscamente: “E tu parli di me esattamente come fa mia madre. Comunque nel ‘38 lei e mio padre si conoscevano già, erano già fidanzati, quindi se mio padre ha conosciuto un’altra donna credo sia normale che mia madre non ne sapesse niente.” “Tu pensi che possa essere stata una... scappatella di tuo padre?” “Forse qualcosa di più... ammesso che sia lei che papà mi ha chiesto di trovare prima di morire... e comunque ha conservato la sua foto tutti questi anni!” “Hai ragione... ma... per trovare questa donna, che ora sarà un’anziana signora, ammesso che sia ancora viva, ti ci vuole nome e cognome. Ti prego, dimmi che conosci il suo nome...!” “Solo il nome, purtroppo...” “Ci risiamo... allora, signori e signore, il suo nome è...” Claire non colse l’ironia di Anna e rispose, con tono di voce incolore: “Chiara...” “Ah!” “Credi ancora sia stata una scappatella di mio padre?”
“No!” “C’era un altro dato, però, il nome di un paesino nell’entroterra laziale, Sant’Angelo. Probabilmente la donna della foto abitava là, se siamo fortunate ci abita ancora. Deve essere un paese di poche anime.” “Mmmh, sai quanti paesi e località ci sono in Italia che si chiamano Sant’Angelo? Come fai a sapere per certo che questo in Lazio è il Sant’Angelo di tuo padre?” “Non ne sono certa, infatti, ma è plausibile, visto che la foto è datata 1938, e mio padre nel ‘40 era in Lazio...” “Bene... quando si parte per questo... Sant’Angelo?” Claire sorrise ed Anna lo intuì, anche se non poteva vederla. “Se Claudia è d’accordo, sabato mattina, che dici?” “Fammelo sapere con sicurezza, che mi organizzo.”
Si organizzarono per quel sabato, alle nove del mattino erano già pronte sul Mercedes di Claire, e si sentivano allegre, eccitate da quel viaggio fuori programma, a metà tra la vacanza e l’avventura. Ridevano di Claudia, del foulard di seta colorato che le copriva i capelli alla foggia delle signore bene anni ‘50. Claudia, imperturbabile, le ignorava. “Claudia, levati quel foulard, ricordi Susan Sarandon in Thelma e Louise!” “E ti pare poco? Voi non sapete cos’è la classe, bambine!” “Mi pare troppo, invece, non ti ricordi che fine hanno fatto quelle due?” “Ricordo che loro stavano scappando da uomini maschilisti che le schiavizzavano, noi stiamo partendo per un’avventura, per risolvere un... mistero!”
“Anch’io sto scappando da due maschi che mi schiavizzano, se proprio devo essere sincera!” Anna si riferiva ai suoi ragazzi, miele e veleno della sua vita, come spesso amava definirli, e le tre donne scoppiarono a ridere mentre Claire ingranava la prima. Avevano deciso di fare una prima tappa a Roma, per riposare, raccogliere le idee e fare un giro per la città. Ognuna di loro era già stata a Roma, ma tutte e tre nutrivano il desiderio di rivederla, e di farlo insieme in quella stagione, l’autunno, quando l’aria è ancora tiepida e conserva qualche traccia dei dolci profumi estivi, e i colori morbidi e malinconici rendono il paesaggio intenso come una tela impressionista. Arrivarono a Roma verso mezzogiorno, e si diressero subito verso San Pietro. Camminavano rasente il muro, lungo i viali Vaticani, sostando davanti alle coloratissime bancarelle che accompagnavano con la loro profana, pittoresca presenza, il pellegrinaggio dei turisti verso la sacralità di Piazza S. Pietro. Arrivate ai colonnati, il candore abbagliante della piazza nell’ora più luminosa del giorno le catturò in tutto il suo incanto e le tre donne rimasero alcuni istanti in silenzio, il naso per aria, gli occhi feriti dalla luce eppure rapiti, a contemplare la piazza. Decisero di visitare la cattedrale, Claudia e Claire volevano vedere la Pietà di Michelangelo e trascinare nella fila anche Anna, che non sembrava particolarmente interessata all’opera marmorea ma accondiscese, rassegnata. L’interno della cattedrale era buio, a paragone dell’abbagliante luce dell’esterno, ma quando le tre donne individuarono la statua, fu come se la luce fosse tornata. Claire, soprattutto, sembrava commossa, quasi adorante. Poi, capirono: “Mio padre mi raccontava sempre della sua prima volta davanti a questa statua. Fu un incontro importante per lui, fu così che decise di diventare scultore. Fu lo stesso giorno in cui conobbe mia madre...” Claudia e Anna si lanciarono uno sguardo d’intesa. Ci sarebbero voluti anni prima che Claire si liberasse dal ricordo invadente del padre. E prima che smettesse di parlarne. Del resto quello stesso viaggio nasceva da lui...
Il giorno dopo, si sentivano eccitate e piene di energia, impazienti di cominciare la loro avventura. Uscire dal raccordo fu facile, perché era domenica, e non c’era traffico. Meno facile fu trovare Sant’Angelo, un minuscolo villaggio a qualche chilometro da Cassino. Varcarono un antico portale di pietra calcarea, che portava sulla sommità un’iscrizione latina di cui ormai non si distinguevano che lettere isolate qua e là. Si incamminarono lungo un ombroso vicoletto chiuso tra casette di pietra, illuminato dal rosso ancora vivo dei gerani sugli stretti davanzali, dal rosa elegante dei vasi di ortensie appoggiati contro le mura grigie, e ascoltarono incantate il fresco silenzio dell’ora meridiana. Il paese sembrava deserto, avvolto da una pace che trasudava quasi tangibile da quelle mura antiche, dagli archi, dalle minuscole scale che si arrampicavano verso misteriose porte ancora più minuscole, e dal profumo di tigli, di ginestre, di pini, che si indovinavano di là da quelle mura, sulla collina che scendeva giù, nella valle. Le ragazze procedevano in silenzio, come a voler rispettare un desiderio di pace antico e solido come quelle mura, finché Anna, notando che Claire era stranamente tesa, attenta a tutto ciò che la circondava, si rivolse a Claudia, bisbigliando: “Ci siamo, è quasi in trance... sta cercando il segno!” Claudia scosse la testa con aria perplessa guardando Claire che aveva preso a saltellare di gioia davanti a un vaso di azalee poggiato sul davanzale di una finestrella. “Eccola, l’ho trovata! Lo sapevo che c’era, doveva esserci, e questo è un messaggio, mio padre mi dice che siamo sulla strada giusta!” Sui petali bianchi di un’azalea a metà sfiorita, una grande farfalla colorata, immobile che pareva dipinta insieme ai fiori. “Ok tesoro, la farfalla ti indica la strada da seguire, e qual è la strada giusta, vuoi illuminare anche noi?” “Potremo chiedere al parroco, sicuramente conosce tutti qui, e saprà raccontarci le storie dei suoi abitanti. Che ne dite, arriviamo alla chiesa?”
Anna e Claudia si guardarono. Tutto sommato non era una cattiva idea, sempre che il parroco anziano non fosse morto e fosse stato appena sostituito da uno giovane, venuto da chissà quale parte d’Italia. Arrivarono alla chiesa che naturalmente era chiusa, data l’ora, ma accanto alla chiesa c’era la canonica. Bussarono alla porta di legno chiaro e dopo alcuni minuti un sacerdote comparve sulla soglia: per fortuna sembrava anziano, molto anziano. Claire gli sorrise e cominciò a spiegare, poi gli mostrò la foto. Purtroppo, il parroco era a Sant’Angelo da qualche anno e la foto non gli ricordava nessuno in particolare. Certo, conosceva quasi tutti in paese e se gli avessero lasciato la foto avrebbe potuto chiedere in giro se qualcuno ricordava, ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo... inoltre, il paese e la vallata erano stati bombardati durante la guerra, insieme a Cassino e all’abbazia, ma questo sicuramente lo sapevano, e molti degli abitanti dell’epoca erano morti, altri erano sfollati... Claire era profondamente delusa. Che stupida era stata a pensare di poter scoprire qualcosa da una foto sbiadita e un nome di battesimo! Claudia percepì la delusione negli occhi di Claire, e ne fu addolorata, perché, da quando era cominciata quella loro avventura, aveva rivisto Claire sorridere, ed ora temeva che la sua amica potesse ricadere in quello stato di malinconica apatia che non l’aveva più lasciata dalla morte di Luigi. Certo, la sua parte razionale non aveva mai creduto nella riuscita di quel viaggio, forse Anna aveva avuto ragione a dire che era una perdita di tempo, forse aveva sbagliato a farsi trascinare in quell’assurda avventura, forse era stato un male assecondare Claire. Fu proprio Anna, che non ci aveva mai creduto, ad avere l’idea. “Mi scusi reverendo, c’è un cimitero qui a Sant’Angelo?” “Certo, proprio qui dietro, è un cimitero molto piccolo, sapete...” “Possiamo farci una visita, reverendo? È aperto?”
“Ho io le chiavi. Se volete vi ci accompagno.” Claire e Claudia guardarono Anna con aria interrogativa. Anna fece loro un gesto di intesa e solo quando il parroco si allontanò per prendere le chiavi spiegò loro la sua idea. “Mettiamo che la donna della foto sia in questo cimitero. Il cimitero è piccolo, guardiamo tutte le foto di donna, e se siamo fortunate troviamo qualcuna che assomiglia alla nostra ragazza, magari invecchiata ma riconoscibile. E se si chiama Chiara, ne saremo anche più sicure. Così avremo anche il cognome e... voilà, il resto sarà molto più facile. Che ne dite, ragazze?” Claire era tornata a sorridere, eccitata da quell’idea che le sembrava geniale, ma Claudia scosse la testa. Non voleva che Claire si illudesse di nuovo, per poi ricevere un’altra cocente delusione... non voleva che tutta quella storia diventasse un’ossessione per lei. “Non so, mi sembra molto improbabile, forse...” Fu interrotta dal parroco, rientrato nella stanza con le chiavi.
Il cimitero di Sant’Angelo era ombroso e sereno: un unico, grande cipresso all’ingresso accoglieva benevolo i visitatori, e dal lato opposto al cancello, una terrazza si apriva sulla vallata sottostante. Tra il cancello e la terrazza, una serie di tombe bianche, e fiori dovunque, a testimoniare l’amore di chi resta. Claire pensò che le sarebbe piaciuto che suo padre fosse sepolto in quel cimitero, perché in quel minuscolo fazzoletto di terra non si respirava la morte, ma solo il profumo delle ginestre, dei gigli, e in estate dei glicini e del gelsomino... Stava pensando a suo padre quando la vide...
CAPITOLO QUINTO CHIARA
Sant’Angelo, settembre 1943 Era rimasta un paio di settimane dai Graziano, il tempo di recuperare le forze per mettersi in viaggio. Il lunedì sarebbe arrivato Vito, un brav’uomo di oltre cinquanta anni che prima della guerra aveva una bottega ad Avigliano, in Basilicata, ed ora si arrangiava come poteva per continuare a vendere ai suoi vecchi clienti. Una volta al mese saliva in Lazio dai Graziano, suoi fornitori di latte e formaggio freschi di prima della guerra, e si caricava il più possibile il carretto per la gioia dei suoi clienti più facoltosi, che ora erano rimasti davvero pochi. Ma Vito, per un quarto di latte che vendeva, ne regalava tre. Era una brava persona, Vito, e Chiara decise che sarebbe ripartita con lui, e una volta ad Avigliano non sarebbe stato difficile trovare il modo di arrivare a Potenza. Quel lunedì alle dieci del mattino il carro di Vito, carico di latte e formaggio, era già pronto per partire. Chiara abbracciò Tilde, diede un bacio sulla fronte al vecchio, salì sul carro e si accomodò accanto a Vito. Non aveva bagagli, solo un vestitino a quadri che le aveva regalato Tilde, e due fotografie, una di lei col nonno, e una del nonno e della mamma sorridenti nell’orto di casa, sotto il ciliegio. Chiara sospirò: il nonno non c’era più, non c’era più il ciliegio e neanche tutta la sua vita laggiù a Sant’Angelo, ed ora stava lasciando tutto quello che apparteneva al suo ato per ricominciare da un’altra parte, in un altro paese, in un’altra casa. Eppure non era triste, perché tutto il suo animo era proteso verso quel nuovo che vedeva davanti a lei, e in quella nuova vita che la aspettava c’era la cosa più straordinaria del mondo, c’era il suo ufficiale, le due stellette sul petto e gli occhi tristi, l’eroe forte e gentile che le aveva salvato la vita, il primo uomo della sua vita...
Ricordò di aver sentito una storia, quando era bambina, che parlava di un principe che salvava la vita a una fanciulla povera e poi i due si innamoravano, si sposavano e vivevano felici per tutta la vita. Perché quando salvi la vita a una persona, quella vita ti appartiene, e rimane legata alla tua per sempre, perché è il destino che lo ha stabilito. Chiara era la ragazza povera salvata dal bel principe e sentiva che la sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stata legata per sempre alla vita del suo principe, e non importa se lui era partito per la guerra, e lei conosceva solo il suo nome, e lui aveva solo una foto a ricordargli di lei, non importa quanto ci sarebbe voluto, mesi, forse anni, Chiara avrebbe aspettato, paziente e fiduciosa, che il suo bel principe tornasse da lei, per portarla via con sé. Era poco più di una bambina, Chiara, e credeva ancora che la vita fosse semplice e colorata come le favole che il nonno le raccontava quando era malata. Chiara non sapeva che il suo bel principe aveva già scelto la sua bella principessa, e quella principessa non era lei, e non sapeva che il suo bel principe aveva progetti ambiziosi per il suo futuro in cui lei non sarebbe mai entrata... però su di una cosa non si era sbagliata, Chiara: da quel momento la sua vita e quella del tenente Luigi Amati sarebbero state legate per sempre. Avevano da poco superato Melfi quando Chiara chiese a Vito di fermarsi. Fece appena in tempo a scendere dal carro e vomitò.
Arrivati ad Avigliano, Chiara si riposò nella bottega di Vito e poi si rimise in marcia per Potenza. Non aveva trovato nessuno che potesse portarla con un mezzo, e poiché Potenza non era molto distante e lei aveva fretta di arrivare da sua madre, decise di incamminarsi a piedi, in fondo poteva trovare un aggio lungo il tragitto, e comunque non era la prima volta che si faceva otto chilometri a piedi. Dopo essersi liberata si sentiva molto meglio, serena e piena di energie. Sapeva che dire alla mamma che la loro casa non c’era più, e soprattutto che il nonno era rimasto sotto le macerie sarebbe stato penoso: tutte le volte che il suo pensiero tornava al nonno, il suo dolce nonno con la pipa in bocca e gli occhiali sulla punta del naso, il suo cuore si contraeva dal dolore. Quel nonno le aveva fatto anche da padre, le aveva insegnato il valore dell’onestà e della gentilezza, le
aveva mostrato con il suo esempio che la violenza e la rabbia non riescono ad ottenere ciò che ottiene un sorriso. Chiara era cresciuta con la convinzione che il nonno fosse un gran signore, nonostante le sue mani callose, ed era fiera di lui. Ed ora continuava ad essere orgogliosa di lui, forse ancora più di prima, perché non era fuggito davanti alla paura, nonno Gaetano, ma aveva preferito morire con le sue cose, con le sue scarpe da riparare, con i suoi attrezzi consumati, con la sua pipa, con il suo albero di ciliegio. E lei non lo avrebbe visto più, mai più... questa era una cosa che Chiara non riusciva a credere, né a capire. La bambina che ancora era in lei si ripeteva che questo non era possibile, la vita non poteva essere tanto crudele da separare in un modo così improvviso e lacerante due persone che si amano, come lei e il nonno si amavano. Era sicura che il nonno fosse ancora lì con lei, a darle la mano quando doveva attraversare la strada, e a medicarle le ferite quando si faceva male. Poi, ebbe un pensiero che la fece sorridere: ecco, era stato il nonno a mandarle il suo principe, perché le salvasse la vita e la aiutasse ad attraversare la strada, e tutto l’amore che lei aveva dato al nonno fino a quel momento non si era dissolto nella polvere come la casa del gelsomino, ma aveva solo cambiato direzione. C’era Luigi, adesso, da amare, e c’era Luigi, adesso, che l’avrebbe amata. E un giorno, dopo la guerra, il bel principe avrebbe sposato la sua ragazza povera, e il nonno da lassù avrebbe sorriso. Camminava veloce sul sentiero battuto che tagliava i campi, il sole basso all’orizzonte allungava le ombre degli alberi che ondeggiavano al vento leggero, e già si vedevano le prime luci della città in lontananza. In un altro momento della sua vita, camminare a piedi circondata dalla sterminata solitudine di quel paesaggio, trascinandosi il peso doloroso della tragedia che aveva colpito la sua famiglia, sarebbe stata un’impresa impossibile per una ragazza della sua età. Il pensiero del pericolo che stava correndo, dei brutti incontri che poteva fare, la fatica del viaggio, tutto sarebbe stato spaventoso e insostenibile. Ma Chiara era innamorata per la prima volta nella sua vita, e quella specie di magia cancellava la paura, attutiva il dolore, riempiva la solitudine, riscaldava il suo cuore, colorava i suoi pensieri e rendeva quel viaggio meno disperato. Perché l’amore è così quando entra nel cuore, soprattutto se quel cuore non ha ancora conosciuto la crudezza della delusione: è una scarica di vita che ti spinge in avanti anche se la strada è tutta in salita e ti fa trovare l’acqua nel deserto e
fiori gialli sulla lava. Quando vide la casa degli zii, il sole era appena tramontato e le prime stelle della sera punteggiavano di lucciole il cielo di un azzurro cupo. La mamma era seduta sotto il portico insieme alla zia, come in attesa, e quando vide quella figurina ancora lontana che si avvicinava la riconobbe subito, si alzò e le corse incontro. Non ci fu bisogno di spiegare, sua madre la guardò e capì immediatamente quello che era successo al nonno. Restarono abbracciate per alcuni minuti, divisero le lacrime in silenzio, mentre il giorno si faceva sera.
Sua madre la stava osservando da qualche giorno e la trovava strana. Sua figlia era svagata, distratta, e lavorare la stancava, nonostante ci fosse ben poco da fare in una casa dove non c’erano più uomini, fatta eccezione per il vecchio zio Giuseppe, che di pretese ne aveva ben poche e non chiedeva altro che un po’ di compagnia. Ecco, questa era l’unica cosa che Chiara faceva volentieri: lunghe eggiate nella campagna con lo zio, ad ascoltare i suoi racconti, le sue avventure di gioventù, i suoi ricordi della guerra, gli amori mai dimenticati. Le storie dello zio erano talmente apionanti che a volte Chiara pensava fossero frutto della sua fervida fantasia da insegnante di lettere in pensione, piuttosto che veri ricordi di vita vissuta. Lo zio fu l’unico a cui Chiara raccontò tutto quello che era successo con Luigi, compresa la notte dai Graziano. Il rapporto con lui era diventato profondo grazie a quei lunghi pomeriggi trascorsi insieme e solo da lui Chiara si sentiva compresa fino in fondo. Era bello poter parlare con qualcuno del suo amore, dei suoi sogni, della sua attesa che lui tornasse, e lo zio la ascoltava in silenzio, sorridendo del suo entusiasmo infantile, facendole domande, dandole consigli. Eppure non fu lo zio Giuseppe a capire. Era un uomo, Giuseppe, e per lui le nausee mattutine di sua nipote, la sua svagatezza, la sua stanchezza cronica erano una semplice conseguenza del trauma subito da Chiara. E neanche Chiara aveva capito, lei che era ata dalle bambole al suo principe. Fu sua madre a capire che Chiara, la sua Chiara, era incinta. Il piccolo venne alla luce una sera di giugno, e il suo primo vagito si confuse con il canto dei grilli. Chiara aveva scelto due nomi, Luigi, come il padre, o Gaetano,
come il nonno, ma sua madre non volle. Alla fine fu lei che decise il nome del nipote: Piero. Tante altre cose Maria decise... Del resto Chiara era lei stessa ancora una bambina e quel piccolo toccava a lei crescerlo, di questo Maria era sicura.
Era ato poco più di un anno, e Piero era un bambino vivace e allegro, che riempiva la casa con i suoi strilli e le sue risate argentine. Chiara stava ancora aspettando notizie di Luigi, era sicura che lui l’avrebbe cercata, ora che la guerra era finita. Sentiva che lui era ancora vivo, e che non l’aveva dimenticata. Gli uomini stavano tornando, ed ogni giorno Chiara si metteva sulla soglia di casa, il bimbo in braccio, e mentre gli raccontava le favole che il nonno aveva raccontato a lei, scrutava l’orizzonte, sussultando ad ogni figura maschile che vedeva avvicinarsi. Sua madre la guardava scuotendo la testa senza parlare, ma tutto nel suo sguardo diceva la disapprovazione. Era delusa, Maria, profondamente delusa da quella figlia che si era rovinata la vita esattamente come aveva fatto lei: anche Chiara si era costruita una prigione con le sue mani, anche lei condannata a vivere ai margini, senza braccia e senza gambe in un mondo di giganti, con un figlio da crescere che l’avrebbe murata viva nella sua solitudine di donna compromessa per sempre, da additare e giudicare... e questa prigione si sarebbe chiusa sopra di lei per non riaprirsi più, mai più, neanche quando avrebbe avuto i capelli bianchi e le ginocchia dure come lei, che ancora era per tutti la ragazza “facile”, quella che aveva avuto un figlio senza avere un marito... No, era troppo crudele, era fallire due volte, era rinnovare la vergogna e tutti avrebbero riso di quelle due donne, madre e figlia, e avrebbero detto che l’animo della puttana si trasmette col sangue, come la malattia. E questo lei non l’avrebbe accettato. Sua figlia doveva salvarsi, era giovane e bella, e se la guerra l’aveva sporcata, ora quella guerra era finita, e si era portata via tutto il suo luridume. Lei era sua madre, e come fanno le madri, l’avrebbe partorita una seconda volta, e poi l’avrebbe ripulita del suo sangue e infine avrebbe tagliato il cordone ombelicale che ancora la teneva legata a sé. E a quel bambino, figlio della guerra. La prima parola del piccolo fu un suono confuso, aperto, e fu la nonna, con commossa soddisfazione, a tradurla: “Chiara, ti ha chiamato, ha pronunciato il
tuo nome!” “Chiara”, non “mamma.” Fu quello che pensarono entrambe le donne. Maria non disse quanto ne fosse felice, e sua figlia non disse quanto ne fosse delusa.
Era la sua prima eggiata con Piero, voleva festeggiare con suo figlio la fine della guerra e la città che tornava lentamente alla normalità, quella normalità fatta di porte aperte, di finestre illuminate e vetrine colorate, di gente che cammina con il sorriso stampato sulla faccia di chi è finalmente uscito dall’incubo e non vuole pensarci più. I cuori erano caldi di pace, ma si andava verso il freddo dell’inverno e Chiara pensò a quel cappottino di lana azzurra che aveva visto nella vetrina del corso, un cappottino perfetto per una bambola, che a Piero sarebbe andato a meraviglia. Aveva cominciato a lavorare, cuciva orli e rammendava vecchi indumenti, era brava in quel lavoro che le aveva insegnato il nonno, perché se sapevi cucire il cuoio, cucire sulla stoffa morbida era una eggiata... ed ora, con i primi soldi guadagnati, voleva comprare qualcosa per suo figlio. Era fiera di quel regalo, ed anche Piero lo era, perché si pavoneggiava nel suo cappottino azzurro che sembrava un re col suo mantello d’ermellino. Gli comprò anche un gelato, grande quanto la sua faccia di bambino che scopre il mondo, e se lo mangiarono in due, una cucchiaiata per uno, e mentre tornavano a casa ridevano felici di quelle loro facce marroni di cioccolato, verdi di pistacchio, rosse di fragola. E siccome Piero adorava vedere ridere Chiara, rincarava la dose schiacciandosi il naso con la punta del dito, o spalancando la bocca e tirando fuori una lingua ancora colorata di gelato. Ridevano ancora quando videro Maria sulla soglia di casa. Li stava aspettando, e non rideva. Da allora non ci furono più allegre eggiate da soli, né altri cappottini azzurri da comprare. La mamma e il suo bambino se ne andarono via per sempre,
risucchiati dal movimento balordo e inevitabile della vita. Tornarono a Sant’Angelo, coi soldi guadagnati da Chiara e quelli che lo zio Giuseppe aveva lasciato loro riuscirono a ricostruirsi un pezzetto di casa proprio lì, sui resti della vecchia casa del gelsomino. Il paese rinasceva piano piano, i vecchi erano tornati quasi tutti, i giovani un po’ meno, ma l’ostinazione di quella gente a ricreare il loro nido in quell’angolo di mondo era tenace come quella delle formiche. E ognuno aveva la sua storia da raccontare, il piccolo miracolo che gli aveva permesso di sopravvivere a quella guerra. Anche Chiara e sua madre avevano la loro storia, quella di un bambino piccolo piccolo, figlio di una lontana parente che la guerra si era portata via. “E come facevamo a lasciarlo solo, in un orfanatrofio, povero piccolo? Ci guardava con quegli occhi grandi e sembrava proprio chiederci di prenderlo con noi. E allora ci siamo dette che se ce la facevamo in due, ce l’avremmo fatta anche in tre. E ce lo siamo portato con noi!” La gente del paese ammirò la generosità di Maria, che per quella buona azione s’era riscattata dei suoi peccati di gioventù. Nessuno notò gli occhi spenti di Chiara, né la tristezza rassegnata del suo sguardo, né i suoi sorrisi tirati o lo sforzo delle sue mani che si tendevano verso il piccolo e ricadevano inerti sui suoi fianchi quando incontrava gli occhi severi di sua madre. Si era rassegnata a quella rinuncia, Chiara, e aveva accolto in sé quel dolore che gocciolava dentro di lei lentamente, senza inondarla come avrebbe fatto uno strappo brusco da quel pezzo della sua carne che era suo figlio. Ma quelle gocce di dolore, giorno dopo giorno, scavavano dentro di lei fino a bucarle l’ anima. Suo figlio era lì con lei, lo vedeva crescere, vide il primo dentino, il primo o, le prime parole, ma quella presenza costante bruciava dentro di lei più di un’assenza. Ogni tanto immaginava di prendersi il piccolo e portarlo lontano, dove nessuno potesse raggiungerli, in un altro emisfero, in un altro pianeta, oppure giù nelle profondità della terra o in fondo al mare, e lì finalmente, gli avrebbe urlato la verità, gli avrebbe detto che si erano scelti, perché madre e figlio si scelgono sempre, e lo avrebbe guardato con gli occhi fieri di una madre.
Altre volte immaginava che Luigi tornasse da lei, e la portasse via insieme a loro figlio. Ormai aveva smesso di dirlo a sua madre, ma ci credeva ancora che Luigi tornasse, e allora tutto si sarebbe aggiustato... Chiara si aggrappava a questa idea con l’ostinazione irragionevole di una donna che non vuole lasciare andar via il suo sogno più bello, l’ultimo frammento d’infanzia. Quel frammento se ne andò via una mattina del ‘49 davanti ad un articolo di giornale che parlava del viaggio a Roma del giovane e promettente scultore Luigi Amati, in procinto di allestire la sua prima mostra nella capitale. L’artista, agli esordi ma già apprezzato per l’intensità e l’originalità delle sue scultureritratto, aveva approfittato di questo viaggio per esaudire quello che dichiarava essere sempre stato il suo sogno fin dalla prima volta che era stato a Roma: celebrare il suo matrimonio in San Pietro. Chiara lesse e rilesse quel trafiletto finché le righe non si accavallarono tra loro e le parole diventarono piccole formiche che si muovevano lentamente sulla pagina bianca. Poi posò il giornale, si alzò e la nausea la invase, una marea verde di bile che cominciò dal basso e salì lentamente fino a farla vomitare. Si appoggiò al gelsomino e vomitò sulla fine insignificante di quella storia d’amore insignificante, vomitò sul suo principe azzurro, sui suoi sogni di bambina, sulla sua maternità negata, e sulla sua stupidità. Vomitò sul gelsomino, e quando smise di vomitare e rientrò in casa il suo stomaco era desolatamente vuoto e le faceva male. Esattamente come la sua anima.
CAPITOLO SESTO RIVELAZIONI
Sant’Angelo, novembre 1999 L’attenzione di Claire fu attirata da un grande salice situato nell’angolo più lontano del cimitero. I rami dell’albero, mossi dolcemente dalla brezza che saliva dalla valle, ondeggiavano sinuosi e paterni a proteggere con la loro fresca ombra una lapide di purissimo bianco di Carrara. Quando la vide, Claire quasi urlò per lo stupore. Era lei, la fanciulla che guarda il cielo, non c’erano dubbi. Non era marmo, era il calco in gesso, ed era poggiato sulla lastra di marmo di quella tomba, protetto da una teca di vetro spesso alcuni centimetri. Dietro la statua, al centro della lapide, una foto ritraeva un’anziana signora dall’aria dolce e vagamente malinconica. Sotto la foto, una croce in rilievo e una scritta: Chiara Bertini 1924-1990. Claire la riconobbe subito, prima ancora di leggere quel nome: nonostante l’età fosse diversa, quei grandi occhi castani che illuminavano il viso erano gli stessi della ragazza ritratta nella sua foto. Claire rimase alcuni istanti immobile, davanti a quella tomba: sentiva il penetrante profumo delle rose, avvertiva, intuendola dai giochi di luce ed ombra sul marmo, la danza morbida dei rami del salice cullati dal vento, percepiva la voce profonda del silenzio che partiva da quell’angolo di cimitero, avvolgeva il piccolo villaggio aggrappato alla collina, scendeva giù, nella vallata, vibrava sofficemente sull’erba dorata dei prati e poi prendeva il volo sempre più in là, sempre più lontano, fino a riempire l’intero universo. In quegli istanti, protetta da quel placido, minuscolo fazzoletto di terra consacrato alla morte, Claire avvertì un fremito, come un brivido di vita che
partiva dalle cose e arrivava fino a lei, penetrando fin dentro la sua anima. Quella foto, quel marmo, quei fiori, i rami danzanti del salice, il silenzio di quella vallata, la voce del vento, tutto le parlava, le raccontava la favola di una ragazza pulita, innamorata perdutamente di un ragazzo partito per la guerra e mai più tornato. Era la favola di un amore innocente nel mezzo di una guerra colpevole, un amore nato e finito in una notte ma durato tutta una vita. In quei magici, lunghissimi istanti, Claire si sentì figlia, madre, sorella di quell’altra Chiara, finché improvvisamente e naturalmente tutto si chiarì: quegli occhi, quel viso, erano quelli che suo padre aveva trovato nascosti nel marmo tanti anni prima e che aveva amato al punto da non volersene mai più separare. Ed ecco perché quella sensazione di familiarità, l’impressione di averla già vista, di averla conosciuta da sempre: quella Chiara era la fanciulla che guarda il cielo.
Il parroco l’aveva conosciuta, e parlò loro di quella donna, una signora dolce e sola, che aveva abitato a Roma, ed era tornata al suo paese in vecchiaia, per poter morire là dove era nata. Era vedova da tanti anni, aveva una figlia che ogni tanto la andava a trovare, lì a Sant’Angelo, ma ora era un po’ che non si vedeva più, da quando avevano venduto la casa. Non ricordava il nome della figlia, ma poteva mostrare loro la vecchia casa del gelsomino appena fuori dal paese, i nuovi proprietari erano brave persone e avrebbero dato loro tutte le informazioni che volevano. Fu facile ottenere il nome della figlia di Chiara Bertini, ed il suo numero. Meno facile fu decidere chi dovesse chiamare e soprattutto come gestire quella telefonata presentandosi a una perfetta estranea. Alla fine, decisero che la cosa migliore era che fosse Claire a presentarsi e a parlare, per non confondere ulteriormente Irene, così si chiamava la figlia di Chiara Bertini. Dopo alcuni squilli, una voce di donna rispose; Claire esitò, in preda alla forte tentazione di chiudere la comunicazione, poi deglutì e cominciò a parlare: “Buonasera signora Bertini, lei non mi conosce, ma ho bisogno di parlare con lei di sua madre. Mi chiamo Claire Amati, mio padre, morto due mesi fa, era Luigi Amati, ed è suo il busto di donna che ritrae sua madre...”
La donna all’altro capo del filo la interruppe e stranamente il tono della sua voce non sembrava sorpreso né diffidente. “Sì, so chi è lei, e so chi era suo padre. Credo che sia il caso di incontrarci, lei sa che io sto a Potenza, ma se potete fermarvi qualche giorno a Sant’Angelo, posso organizzarmi e raggiungervi lì.” “Sì, io credo che... certo, la aspetto, mi faccia sapere quando...” “Se ce la faccio anche domani pomeriggio. Mi dia il tempo di sistemare delle cose... per stasera le do la conferma, d’accordo Claire?” “La ringrazio, signora Bertini, mi spiace sconvolgere i suoi ritmi, ma... è una lunga storia e, ha ragione, non è il caso di parlarne per telefono, ma se può anticiparmi qualcosa... Lei conosceva mio padre?” “Sì e no, diciamo che ne ho sentito parlare molto spesso da mia madre. C’era qualcosa che li univa profondamente, nonostante non si siano visti che un paio di volte in tutta la loro vita. Ma è meglio parlarne domani, d’accordo Claire? Per il resto non si preoccupi, avevo in programma un viaggio a Sant’Angelo per andare a trovare mia madre, ma non mi decidevo mai, lei me ne offre l’occasione...” “D’accordo, a domani allora, signora!” “A domani, Claire.”
Tornarono a Roma, l’albergo era ancora prenotato per una notte e loro erano al colmo dell’eccitazione. Tutto era andato nel migliore dei modi, avevano trovato la ragazza della foto, avevano scoperto che quella ragazza era la fanciulla che guarda il cielo, ed era semplice capire che Luigi e Chiara avevano avuto una grande storia d’amore, forse durante la guerra, una storia finita ma mai dimenticata da nessuno dei due. Ed ora erano a un o da svelare l’ultimo mistero, capire cosa o chi Claire doveva trovare, come suo padre le aveva chiesto poco prima di morire. Si lanciarono nelle più svariate congetture, la prima fu Claudia: “Forse l’abbiamo già trovato Claire, forse dovevi trovare Irene, la figlia di
Chiara, che probabilmente è tua sorella...” Anna la interruppe: “No, non ha senso... Luigi ha scritto trovalo, non trovala e poi anche Irene, se fosse la sorella di Claire, avrebbe parlato più chiaramente, invece ha alluso a qualcosa che li ha uniti... non so, secondo me potrebbe essere un’opera sconosciuta di tuo padre, fatta per Chiara e mai mostrata in pubblico. Qualcosa di talmente bello che tuo padre ha donato a quella ragazza e che lei ha conservato tutta la vita, ed ora che sono entrambi morti tuo padre ha voluto che quest’opera tornasse a te... che ne dici, è plausibile, no?” Claire era perplessa: “Sì, potrebbe essere, ma non mi convince del tutto... papà le ha già dedicato la sua opera prima, la fanciulla che guarda il cielo, non avete capito che Chiara è stata la sua modella? Papà mi chiedeva cosa vedevo nella pietra, ma in realtà lui vedeva il viso di Chiara, ed è quel viso che ha scolpito. E non ha mai voluto venderla perché voleva conservare il ricordo di quella ragazza di cui è stato tanto innamorato, e quando lei è morta ha voluto che la copia della fanciulla fosse lì, sulla sua tomba. Dio, è così romantico tutto questo!” Anna, a concludere la serie di supposizioni, lanciò un’ultima ipotesi, la più inquietante: “E se fossi tu la figlia di Chiara Bertini? Porti il suo nome...” Mentre diceva queste parole, Anna vide Claire impallidire e si pentì di averlo fatto, ma in fondo poteva anche essere possibile... “Che cavolata, Anna, e allora torniamo al punto di partenza, perché Luigi ha scritto Trovalo?” Claudia era ben felice di far notare ad Anna la stessa incongruenza che la sua amica aveva individuato nella sua ipotesi.” Anna si stizzì. A quel punto il gioco delle supposizioni stava diventando una sfida tra loro due. Toccava a lei, adesso, ribattere: “Beh, potrebbe essere, no? Comunque era solo un’ipotesi... un’altra potrebbe essere questa: Luigi ha chiesto a Claire di trovare quella tomba, anzi quel cimitero, perché Claire continuasse a portare fiori alla sua omonima al posto suo. Il parroco ha detto che qualcuno manda fiori bianchi per quella tomba fin dal
‘90, giusto?” Anna pronunciò quest’ultima frase con tono trionfale. Questa sì che era un’ipotesi plausibile, e Claudia non poteva non riconoscerlo, stavolta. Invece Claudia non lo riconobbe, e con aria vagamente disgustata si lanciò in un altezzoso: “Mah, mi sembra un po’ banale come ipotesi...” Anna stava per sbottare, perché quando Claudia assumeva quell’aria saccente, proprio non la sopportava. Ma, fortunatamente, non fece in tempo a ribattere perché Claire le precedette: “No, non credo si tratti di questo, non solo questo almeno, deve esserci qualcosa di più...”
Il giorno dopo, alle 11 del mattino, erano di nuovo a Sant’Angelo, dinanzi all’antica chiesa di pietra. Claire era tesa, ma si sentiva confortata dalla presenza delle sue amiche, che avevano deciso di restare con lei ancora per quel giorno. Claire sapeva che quella decisione non era dettata dalla semplice curiosità: le sue amiche erano restate con lei per proteggerla ed attutire gli eventuali colpi di quella verità che tutte e tre stavano aspettando di conoscere da giorni. La videro arrivare da lontano e la riconobbero subito: una donna di mezza età, piccola e snella, i capelli castani, corti, che incorniciavano un viso grazioso anche se già segnato da qualche ruga profonda. Gli occhi grandi, espressivi, erano quelli di sua madre. La donna si dirigeva verso di loro un po’ affannata e Claire le andò incontro, la mano tesa. “Irene Bertini?” “Sì, sono io, e tu sei Claire!” Gli occhi di Irene scrutavano il viso di Claire, come a cercare una somiglianza, e Claire si sentì leggermente a disagio per quello sguardo che si soffermava sul suo viso, poi Irene le sorrise e posò gli occhi sulle due donne che stavano accanto a lei.
Dopo le presentazioni, mentre Anna e Claudia restavano discretamente indietro, le due donne si incamminarono verso il belvedere che si affacciava sulla vallata, e si sedettero su una panca di pietra ombreggiata da un enorme pino secolare: davanti a loro il verde sinuoso delle colline si fondeva ai caldi colori autunnali degli alberi e alla grigia pietra calcarea. Le due donne osservavano il paesaggio in silenzio, ognuna tesa ad ascoltare il battito del proprio cuore, poi fu Claire a parlare per prima: “Tu non sei figlia unica, vero?” Dopo giorni di ricerche e montagne di supposizioni, Claire aveva capito. In quell’istante di silenzio, con quella sconosciuta seduta accanto, tutto le si era chiarito. Irene abbozzò un sorriso malinconico, poi cominciò: “No, ho un fratello... abbiamo un fratello, Claire!” Irene le raccontò di quel fratello, figlio di sua madre e di Luigi Amati, di una notte lontana durante la guerra, di una ragazza spaventata salvata da un ufficiale bello e triste, e poi le raccontò di una donna coraggiosa, che aveva lottato tutta la vita per proteggere quel figlio, amato più di chiunque altro. E poi le raccontò di un bambino allegro, di una valigia nascosta sotto il letto, di una verità scoperta per caso che aveva cancellato per sempre l’allegria di quel bambino. Le raccontò anche di un ragazzo che amava la pittura, che ava interi pomeriggi a sfogliare riviste di arte e che coltivava il sogno di diventare un grande artista, come quel padre che non aveva mai conosciuto veramente. E infine le parlò di un uomo solo, che girava a vuoto per il mondo senza riuscire a trovare la strada di casa, e che trascinava con sé quella valigia quasi vuota, ma così pesante che ormai era stanco di cercare, i suoi capelli erano quasi tutti bianchi, e lui non ci credeva più. Claire ascoltava, mentre lacrime silenziose le rigavano il viso, poi fece una domanda, l’unica, da quando Irene aveva cominciato a parlare:
“E ora dov’è, mio fratello?” “È questa la cosa più dolorosa, Claire... io... non so dove si trovi. Piero è sempre stato un’anima inquieta, un po’ vagabondo e un po’ hippy senza fissa dimora, nessuno, neanche mia madre è mai riuscito a farlo stare sotto lo stesso tetto per più di qualche giorno. Quando mamma era viva ogni tanto chiamava, qualche volta è anche tornato a Sant’Angelo per incontrarla, ma da quando lei non c’è più... ho quasi del tutto perso le sue tracce. So che stava in Francia, con una donna un po’... bizzarra come lui, avevo anche un numero di telefono, ma sono mesi che non lo sento più. Ho provato a chiamarlo per un po’, ma quel numero non è più attivo. Del resto non c’è mai stato un gran rapporto tra di noi...” Irene tacque un istante e abbassò gli occhi poi riprese: “È andata così, forse è colpa mia, che non ci ho mai provato... eppure lo adoravo, quel fratello più grande, anche prima di sapere... sì, perché ero già quasi una donna quando mia madre mi ha raccontato tutta la verità... ma sai la cosa strana, Claire? Che anche quando non sapevo, lo sentivo vicino a me, a noi, e pure se lui era via, lo sentivo dentro la nostra vita, mia e di mamma, come se lui fosse stato un pezzetto di lei, ed io un altro pezzetto, e insieme facevamo la mamma intera... fantasie di bambina...” Irene guardò Claire, notò la borsa che la donna teneva sulle ginocchia e che stringeva convulsamente come se qualcuno volesse portargliela via. Si rese conto che tutto ciò che aveva appena detto non valeva per Claire. Per lei sarebbe stato tutto molto più difficile perché Piero era davvero un estraneo per lei, e lei lo era per lui. Ma in quel momento Claire non stava pensando a Piero, stava pensando a lui: era difficile pensare a suo padre, fino ad allora sua “proprietà”esclusiva, come padre anche di un altro figlio, di un bambino che era diventato adolescente e poi uomo senza mai vedere suo padre, lo stesso padre che con lei era sempre stato il migliore del mondo, che non l’aveva mai lasciata sola e che lei aveva sempre adorato come un uomo perfetto. Faceva quasi male, e la cosa peggiore era che il suo padre perfetto non avrebbe
mai potuto spiegarle perché aveva deciso di ignorare quel bambino... i figli dovrebbero essere tutti uguali per un padre e una madre. Irene scosse la testa lentamente e continuò a muovere la testa mentre rispondeva a Claire, come se istintivamente volesse negare quella verità dolorosa che le stava raccontando... “E lui ha sempre amato me, ma so che una parte di lui mi detestava per ciò che io ho avuto e lui no... e tu, Claire, sei... speculare a me, ti rendi conto?” Sì, Claire se ne rendeva conto, lei aveva avuto l’altra parte che era stata tolta a Piero. Una metà a Irene, una metà a Claire. Due mezze sorelle che si erano spartite il bottino, una madre e un padre. A Piero, solo a lui, non era toccato nulla. Naturale che Piero le odiasse, quelle due, e che se ne fosse andato via. In quel momento Claire fu sicura che lui non sarebbe mai più tornato. Irene comprese il pensiero di Claire e ne provò comione. Cercò di rassicurarla: “Sono sicura che prima o poi si rifarà vivo e allora gli dirò di te...” Claire scuoteva la testa, rifiutando di arrendersi a quella conclusione così sterile e così assurda. In quel momento, il bisogno di conoscere quel fratello appena trovato e già perso, urlava forte dentro di lei come un dolore fisico: “Ma in Francia, dove? Non hai un indirizzo?” “No Claire, mi dispiace... ultimamente viveva in Bretagna, non so precisamente dove, ma mi disse che cominciava a stancarsi e che forse se ne sarebbe andato anche da lì. So che può sembrarti assurdo, ma lui ha sempre fatto così, e più io e mia madre cercavamo di convincerlo ad una vita più... regolare, più lui fuggiva. L’ultima volta che vide mia madre le disse che se lo amava doveva lasciarlo andare, le disse che lui era come gli ebrei erranti, che cercano tutta la vita la terra promessa, perché quello è il loro destino. Devi solo avere pazienza Claire, prima o poi lui tornerà a casa...”
Claire pensò che sarebbe partita, che avrebbe girato tutta la Francia con la foto di suo fratello in mano, ma sapeva anche che doveva arrendersi, e aspettare che fosse lui ad andare da lei. Sapeva di essere in debito con quel fratello, sapeva che lui aveva aspettato per anni un padre che non era mai arrivato. Quel padre era rimasto con lei, ed ora toccava a lei aspettare.
CAPITOLO SETTIMO LA VALIGIA
Sant’Angelo, giugno 1956 Piero era un ragazzo intelligente e vivace, e la zia Maria lo adorava. Da quando Chiara se ne era andata a Roma, erano rimasti soli, e Maria si chiedeva come avrebbe fatto senza quel nipote che le riempiva la casa e i pensieri. Certo, era dura lavorare ancora alla sua età, ma era fiera di quello che stava facendo con Piero, il bambino cresceva sano e allegro, era bravo a scuola e la aiutava in casa quando lei se ne andava a lavorare nei campi. Era orgogliosa anche di sua figlia, che aveva trovato un buon lavoro a Roma in una sartoria del centro, e si stava costruendo una nuova vita lontano da Sant’Angelo e dal suo ato. Chiara le mancava, ma c’era il bambino a riempirle la vita al posto di sua figlia, e non importa se Piero non la chiamava nonna, lei sapeva che tutto quello che faceva era per suo nipote e questo bastava ad alleggerire le sue giornate e a dare un senso alla sua fatica. Certo, quando Chiara se ne era andata non era stato facile abituarsi alla sua assenza, il piccolo soprattutto sembrava aver risentito di quel cambiamento, ed era stato per farlo sentire meno solo che Maria gli aveva preso un cucciolo di cane, un bastardino color miele dalle orecchie lunghe e dai dolci occhi acquosi. Dopo la scuola Piero si prendeva il suo cane e se lo portava in giro, nella campagna dorata, e restava ore a giocare con lui. Quando poi rientravano a casa perché Piero doveva fare i compiti, Blacky si accucciava ai piedi del piccolo e restava immobile per ore, finché il suo padrone non si alzava dalla sedia per andare in cucina a cercare qualcosa da mettere sotto i denti per sé e per il cane. Poi cominciavano a giocare, una specie di nascondino con regole che conoscevano solo loro due: il cane si nascondeva e Piero cominciava a cercarlo, chiamandolo. Naturalmente era un rito per loro, Blacky usava sempre lo stesso nascondiglio e Piero sapeva perfettamente dove si era nascosto il cane. Tuttavia lo cercava per l’intera casa chiamandolo finché non si stancava del giochino e lo andava a pescare sotto il grande letto della zia. E dopo essersi rotolati per un po’ sul
pavimento, se la filavano tutti e due in cucina dove Blacky riceveva il suo premio. Quel giorno, però, accadde qualcosa di nuovo: sotto il letto, oltre al cane, c’era una piccola valigia di pelle marrone, legata da un doppio giro di spago pesante. La valigia doveva essere vecchia, perché la pelle era lisa e la serratura rotta, e se non ci fosse stato quel doppio giro di spago a tenerla chiusa, forse Piero non avrebbe sentito il desiderio forte di aprirla, ma Piero era un bambino, e quello spago significava un divieto che stimolava la sua curiosità. Non seppe resistere alla tentazione di infrangere quel tacito divieto, in fondo avrebbe potuto dire alla zia qualsiasi cosa per discolparsi, tanto più che lei non gli aveva mai parlato di una valigia nascosta sotto il letto né tanto meno gli aveva vietato di aprirla. E se dentro non ci fosse stato nulla di interessante, l’avrebbe subito richiusa tentando di rifare quei nodi, e con un po’ di fortuna la zia non si sarebbe accorta di nulla... Si procurò un paio di forbici e cominciò a tagliare lo spago, che faceva resistenza perché le forbici erano vecchie e lo spago piuttosto spesso. Dopo qualche minuto, però, lo spago cedette e Piero aprì la valigia. Inizialmente rimase deluso perché dentro non c’era nulla di interessante, solo una serie di fogli ingialliti, e qualche foto di Zia Chiara, della zia Maria, e di lui bambino. Stava per richiudere tutto quando la sua attenzione fu attirata da uno di quei fogli dove gli pareva di aver letto il suo nome. Prese in mano quel foglio e lesse con più attenzione. Sì, era proprio il suo nome quello che era scritto su quel documento, e sopra il nome la sua data di nascita, e sopra la sua data di nascita c’era scritto qualcosa che Piero non riusciva a capire: Maternità: Chiara Bertini. Paternità: ignota. Lesse e rilesse quelle parole ma il senso gli rimaneva oscuro, allora prese in mano gli altri fogli, le foto, e mentre cercava qualcosa che lo aiutasse a capire, la sua mente correva all’impazzata, come il suo cuore. Il cane si era stancato di aspettarlo, voleva andare in cucina a ricevere il suo premio, come era nelle loro abitudini, e cercava di attirare l’attenzione di Piero leccandogli la faccia, e poiché questo non bastava cominciò a guaire, e poi ad abbaiare, finché non si rese conto che era tutto inutile e si accovacciò ai piedi del bambino aspettando
con pazienza che fosse pronto per continuare il loro gioco. Ma Piero non aveva più voglia di giocare e neanche il giorno dopo, né tutti i giorni che vennero da quel momento in poi. Aveva capito, Piero, che Chiara era sua madre, e aveva anche capito che sua madre non lo voleva, perché gli aveva detto una bugia e se n’era andata via, a vivere lontano da lui. Ed anche la nonna gli aveva mentito sempre. Era un bambino, Piero, e il motivo di quelle bugie non gli interessava né forse avrebbe potuto capirlo alla sua età. Tutto quello che capiva era che sua madre non lo aveva voluto. I suoi pensieri cominciarono a correre all’indietro, alla ricerca di sensazioni ate, di ricordi lontani, quando Chiara viveva ancora con lui. Ripensò a quella volta che aveva la febbre alta, e Chiara non si era allontanata da lui neanche per un istante, o a quella volta che si era svegliato nel cuore della notte e l’aveva vista davanti a lui, immobile, che lo guardava con un’espressione strana, e triste. Ricordò il giorno in cui Chiara era partita, l’avevano accompagnata alla stazione, lui e zia Maria, e mentre il treno cominciava a muoversi Chiara si era affacciata al finestrino e l’aveva guardato con la stessa espressione strana e triste di quella notte. E lui aveva pianto, un pianto disperato che neanche la torta al cioccolato della zia era riuscita a calmare. Sentì di nuovo la sensazione di vuoto di allora, come se quella partenza avesse scavato un buco enorme nella loro casa, che partiva dal tetto ed arrivava fino in cantina, e tutta la pioggia, il vento, le nuvole nere e persino il sole, quello cattivo che asciuga la terra e fa seccare le piante, potevano entrare in casa. Ed anche lui si sentiva bucato, vuoto, come se Chiara si fosse portata via con sé tutto quello che c’era dentro di lui. C’erano voluti giorni e giorni prima che Piero si risentisse al sicuro, ed era stato soprattutto grazie a Blacky, il suo grosso cane biondo dagli occhi acquosi, che la casa del gelsomino aveva ricominciato a riempire i suoi spaventosi angoli vuoti. Tutto questo ò nella mente di Piero in quegli istanti, mentre il suo cane guaiva deluso. Restò così a lungo, finché le ombre cominciarono a riempire la stanza. Allora raccolse tutti i fogli sparsi per terra, li riordinò e li sistemò accuratamente nella valigia così come li aveva trovati, poi chiuse la valigia e la riavvolse con lo spago, rifece i nodi e spinse la valigia sotto il letto. Poi si alzò, andò finalmente in cucina seguito dal cane che ora guaiva di gioia, felice che il suo padrone avesse finalmente ripreso il gioco, e diede il suo premio a Blacky.
Mai Blacky fu più felice di ricevere il suo premio, dopo aver aspettato tanto a lungo. Se quel giorno Piero avesse parlato con la nonna, se le avesse chiesto spiegazioni, se avesse chiamato Chiara e le avesse gettato addosso tutta la sua rabbia e la sua delusione, forse avrebbe potuto capire, col tempo, che l’amore di Chiara per lui era esattamente quello di una madre, reso ancora più disperato dalla rinuncia. E forse avrebbe capito che quella rinuncia era stata inevitabile e fatale come lo sono gli accadimenti della vita, buoni o cattivi, gioiosi o dolorosi ma mai prevedibili o controllabili. Avrebbe capito che sua madre era troppo giovane quando l’aveva partorito per poter imporre una volontà ancora tenera come creta, avrebbe capito che la nonna aveva deciso per loro due spinta dal dolore e dalla paura. Avrebbe capito che se entrambe avevano sbagliato, non era stata la loro volontà a spingerle all’errore, ma la vita che si era chiusa su di loro con le sue pareti di paura, di vergogna, di debolezza. E infine avrebbe capito che chi sbaglia perché non ha libertà di scegliere, merita di essere perdonato. Se Piero avesse parlato quella sera, quando la nonna tornò a casa, la sua vita sarebbe stata diversa. Sarebbe diventato un ragazzo aperto e socievole, avrebbe avuto degli amici e un lavoro sicuro. Forse si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli e una casa calda e piena di luce. Ma Piero quella sera non parlò con la nonna, non lo fece allora e non lo fece per tutti gli anni della sua adolescenza. Crebbe così, con quel segreto che gli pesava nell’anima come un macigno, e piano piano si abituò a quel peso fino a non sentire quasi più la fatica di trascinarselo addosso ogni mattina. Quel segreto che teneva chiuso dentro di sé lo fece crescere in fretta, e gli insegnò a nascondere i suoi stati d’animo. Era cominciato come un gioco: la nonna, perché era così che la chiamava dentro di sé, cominciava a preoccuparsi per lui, perché lo vedeva spesso triste e silenzioso, assorto in pensieri che lo portavano sempre più lontano da lei e da tutto ciò che lo circondava. Fu per lei che Piero ricominciò a sorridere, a giocare a pallone, a correre nei prati col suo cane, e lo faceva con la stessa diligenza rassegnata con la quale faceva i suoi compiti, perché se la nonna lo voleva allegro, era suo dovere mostrarsi tale. Se la nonna fosse stata una conoscitrice più attenta dell’animo umano, avrebbe capito
che l’allegria del suo bambino era spesso un po’ forzata, che le sue risate erano troppo fragorose per essere spontanee, ma Piero fingeva bene, e con gli anni imparò ancora di più al punto da apparire a tutti un ragazzo allegro, dalla battuta pronta e la risata contagiosa. E quella maschera piano piano si incollò al suo viso al punto che lui stesso, quando era in mezzo agli altri, non ricordava più che stava recitando. C’era un luogo, uno solo, in cui Piero si concedeva di essere se stesso: la casa della nonna aveva una cucina piccolissima, da cui partiva una scala stretta stretta che portava alla loggia, come la chiamava la nonna. La loggia era in realtà un’ampia terrazza che faceva da tetto a tutta la casa del gelsomino, e che dominava tutta la vallata. Era il regno di Blacky, che aveva lì la sua cuccia e poteva correre quando Piero non lo portava nei campi. Una parte della loggia era coperta da un tettuccio di lamiera ed era là che Piero aveva ricavato un piccolo studio tutto per lui, dove nei pomeriggi tiepidi d’inverno faceva i compiti, leggeva, disegnava, o più semplicemente seguiva con lo sguardo il profilo azzurro delle montagne che sfumavano in lontananza. La malinconica solitudine di quel paesaggio gli era amica, come gli era amico il suo cane, i suoi libri, i suoi fogli bianchi. Su quei fogli ava ore a disegnare, cercando di ritrarre il paesaggio dinanzi a lui, o più spesso volti femminili che si assomigliavano tutti e ricordavano il volto di sua madre.
CAPITOLO OTTAVO LE MONTAGNE AZZURRE
Aveva tredici anni e stava frequentando l’ultimo anno di scuola media. Piero era bravissimo nel disegno e cominciava a mostrare una gran ione per la pittura e la scultura. Nella biblioteca della scuola aveva trovato un libro d’arte con bellissime pagine illustrate che ritraevano le più celebri opere d’arte della storia, dalle sculture dei grandi artisti della Grecia antica alle pitture dei classici, dal Caravaggio a Leonardo fino ad arrivare a Van Gogh. Piero trascorreva i freddi pomeriggi invernali sulla loggia, bardato di sciarpa, berretto e guanti, Blacky sdraiato ai suoi piedi, sotto il vecchio tavolo che era stato del nonno. ava le ore a sfogliare le pagine di quel libro e si incantava ad osservare le immagini delle grandi opere d’arte, si apionava e si emozionava nel leggere la vita dei grandi artisti e non sentiva né il freddo né la fame, né le grida della zia che lo chiamava. Restava sulla terrazza, sotto il tettuccio di lamiera, fino a che il buio della sera che era arrivata senza che lui se ne accorgesse non gli impediva di continuare quel viaggio. Solo allora chiudeva il suo libro e sentiva il freddo pungente della sera invernale, e la fame, e una confusa malinconia. Lo affascinava soprattutto la storia di Van Gogh, il pittore olandese che aveva attinto dalla sua disperata solitudine un’arte sublime che solo la morte aveva strappato all’offensiva indifferenza degli uomini mediocri. Fu su di lui che preparò la tesina di terza media da presentare all’esame di artistica. Il suo professore di disegno, il professor Marchini, era il più giovane di tutti gli insegnanti, e Piero lo adorava, e non solo perché era l’unico professore che sorrideva ai suoi allievi e li faceva ridere con le sue battute. Il suo amore per il professor Marchini risaliva al primo giorno di scuola, quando il professore aveva chiesto a quei ragazzini tutti uguali, con lo stesso grembiulino azzurro, le stesse gambe magre, gli stessi occhi grandi e smarriti, di disegnare quello che ognuno di loro vedeva dalla sua finestra. Piero aveva disegnato le sue montagne, le loro morbide curve che sfumavano in
lontananza, avvolte da quella luce azzurrina che illuminava i suoi lunghi pomeriggi invernali trascorsi sulla loggia. I suoi compagni risero di lui e lo chiamarono stupido: “Le montagne blu! Piero non ci vede bene, le montagne sono verdi, o marroni, o bianche se sono ricoperte di neve... Ma blu!” Tutta la classe aveva riso di lui, fino a quando il professor Marchini non li aveva messi a tacere con il suo sguardo severo. E poi il professore aveva detto una cosa che a Piero era piaciuta tanto: “Ragazzi, gli stupidi siete voi, perché non avete sensibilità artistica, quella di cui invece è dotato il nostro Piero. La prima regola per chi ama e comprende l’arte è che la sensazione è prioritaria rispetto alla realtà...” Il professore lasciò are alcuni istanti, per godersi lo spettacolo di quegli sguardi perplessi e quasi spaventati, poi sorrise e continuò: “Sapete che significa? Significa che il vero artista non è quello che copia ciò che vede come una macchina fotografica, ma è colui che vede e rielabora dentro di sé, modificando ciò che ha visto con la sua sensibilità, la sua fantasia, la sua immaginazione. Vedete, ragazzi, il mondo che ci circonda di per sé non è degno di attenzione, anzi, a dir la verità spesso è proprio bruttino - e qui fece una pausa mentre i suoi ragazzi ridevano -. Ciò che lo rende straordinario e particolare sono i nostri occhi, e la nostra capacità di trasformarlo in qualcosa di diverso.” “Professore, ma allora io posso fare il ritratto del preside e fargli un bel paio di corna, perché io lo vedo così!” Tutta la classe rise alla battuta di Mercadanti, pluri-ripetente quasi diciottenne che ormai aveva ato l’adolescenza e conosceva anche i sassi dell’istituto Leopardi di Sant’Angelo. Anche il professore Attilio Marchini rise alla battuta di Mercadanti e addirittura, con grande stupore dei suoi neo allievi, si complimentò con lui:
“Io lo dico sempre ai miei colleghi che sei un ragazzo intelligente, Mercadanti, e che non meriti di essere ancora qui alla tua età - i ragazzi risero di nuovo -. A parte gli scherzi, figlioli, Mercadanti ha capito perfettamente quello che volevo dire: un pittore, uno scultore, uno scrittore, insomma, un artista vero non deve copiare o imitare ciò che i suoi occhi vedono. Per essere originale e unico, un artista deve interpretare e fare sua quella realtà. È come ciò che accade nel vostro stomaco quando vi mangiate una bella torta al cioccolato: quella torta diventa nutrimento, e si trasforma dentro di voi in energia, e quando l’avete digerita voi siete più forti, più grandi, e persino più allegri. Dunque, per tornare alle montagne azzurre di Piero, - e a questo punto lo sguardo del professore si rivolse al bambino che ricambiò il sorriso del professore, nonostante l’ rossore che dal collo gli arrivava fino alle orecchie - questo disegno è la sua prima opera d’arte, e come tale merita di essere incorniciata e attaccata al muro della nostra classe!” E così fu. Le montagne azzurre di Piero, nella loro candida cornice di legno, campeggiarono fiere sulla parete dell’aula per tutto quell’anno scolastico e per i due anni che seguirono. E così fu che il professor Attilio Marchini si era conquistato Piero e tutta la I A: Piero ammirava la sua cultura, quel modo leggero di spiegare che faceva sembrare tutto così facile, come se imparare nuove cose fosse un fatto spontaneo e naturale, che non implicava nessuno sforzo e dava solo piacere... Ma il momento che Piero preferiva era quando il professor Marchini si avvicinava al suo banco, in fondo all’aula, e gli consegnava i suoi disegni. Il professore era sempre soddisfatto dei compiti di Piero, ma non erano le lodi che Piero amava di più, quanto i consigli, i suggerimenti del professore sul modo migliore di usare i colori, di combinarli per trasmettere sensazioni, o evocare un’atmosfera impalpabile e inesprimibile a parole attraverso una sfumatura leggera come un fremito. Piero superò l’ esame di terza media con ottimi voti ed il suo insegnante di educazione artistica, insieme al diploma, diede alla zia del suo allievo preferito una magnifica enciclopedia illustrata di storia dell’arte, pregandola di consegnarla al nipote da parte sua. A zia Maria, che guardava con una sorta di timore reverenziale il grosso e pesante volume senza quasi osare prenderlo in mano, il professore sorrise: “Signora, suo nipote è sempre stato il mio cruccio e il mio orgoglio. Piero è un
ragazzo che nasconde dentro di sé delle potenzialità straordinarie, i suoi disegni ne sono la prova. Potrebbe diventare un grande artista, ha una grande manualità, un gran senso cromatico, una particolare sensibilità e sa percepire la bellezza e la poesia là dove solo gli spiriti particolarmente ricettivi riescono a coglierla.” Lo sguardo confuso della donna riportò il professor Marchini alla contingente realtà di quel momento, di quel luogo, e gli occhi smarriti di quella vecchia lo fecero vagamente vergognare di se stesso. Un insegnante ha come obiettivo prioritario quello di riuscire a comunicare, e lui, in quel momento, non stava comunicando con quella anziana signora, stava solo facendo uno sproloquio cattedratico sull’eccezionalità del genio artistico che lui, e solo lui, era riuscito ad individuare nell’incolore e uniforme materiale umano su cui aveva lavorato per anni. In fondo, il professor Marchini era ancora giovane e il suo compiaciuto entusiasmo era, in fondo, imputabile alla sua scarsa esperienza in fatto di alunni geniali. Ma il professore era anche un uomo capace di quella squisita umiltà che solo un’intelligenza acuta può far acquisire, e fu con questa umiltà che prese la mano di quella vecchia signora, le sorrise e riprese a parlare: “Signora, le sto dicendo che Piero ha dentro di sé un gran dono, e potrebbe diventare un grande pittore o un grande scultore... sa, signora, è una specie di miracolo, un regalo che il buon Dio fa solo a poche, pochissime delle sue creature... qualcuna di queste fortunate creature di Dio riesce a usare questo dono, e allora il mondo è più bello e tutti gli uomini sono più ricchi, perché è nata un’opera d’arte. Qualcun altro, invece, è più sfortunato, più solo, perché gli uomini non si accorgono del suo dono, non gli permettono di usarlo... e lui diventa come un angelo che non trova le sue ali e resta sulla terra quando sa che potrebbe volare... se solo qualcuno lo aiutasse a ritrovare le sue ali...” Il professore fece una pausa, poi continuò con il tono dolce e suadente che si usa quando si parla coi bambini: “Ecco, Piero è il nostro angelo, e noi dobbiamo aiutarlo a trovare le sue ali, io e lei... mi capisce signora?” In realtà il professore conosceva il desiderio segreto di Piero di continuare a studiare, e sapeva anche che il suo pupillo non osava dirlo alla zia, che aveva per lui altri progetti. A Sant’Angelo non esistevano altre scuole, e dopo le medie
quasi tutti i ragazzini cominciavano a lavorare, ed anche Piero, così abile per i lavori manuali, avrebbe potuto trovarsi un lavoretto... il sogno di zia Maria era quello di vedergli continuare il lavoro di nonno Gaetano. Avrebbe potuto imparare da Giovanni, il calzolaio di Sant’Angelo che aveva lavorato per nonno Gaetano, e poi, una volta imparato il mestiere, con l’aiuto del buon Dio e di quel po’ di soldi che lei aveva già cominciato a mettere da parte, suo nipote avrebbe potuto aprirsi una bottega tutta sua. Questo sognava la nonna, per quel nipote che la chiamava zia, un lavoro onesto e sicuro, una botteguccia accanto alla casa del gelsomino, come quella di nonno Gaetano, e una vecchiaia serena insieme al suo Piero. Ed ora quel professore stava cercando di dirle qualcosa che la sua mente non voleva capire. “Le sto dicendo, signora cara, che Piero deve iscriversi all’istituto d’arte, perché solo continuando a studiare suo nipote potrà trovare la sua strada ed essere felice!” “Professore, ma a Sant’Angelo non ci sono altre scuole...” Zia Maria era sgomenta, e nonostante il caldo pomeriggio di giugno, sentì il freddo che cominciava ad entrare nelle sue vecchie ossa. “Lo so, cara signora, ed è questo che sto cercando di dirle. Piero deve andar via da Sant’Angelo, lei ha una figlia che sta a Roma, vero? Piero potrebbe stare da lei, almeno all’inizio, e poi sistemarsi in qualche pensionato nei pressi del liceo artistico, io conosco parecchi colleghi a Roma che potrebbero darci una mano a sistemare suo nipote. Io stesso sono spesso a Roma e le prometto che seguirò Piero negli studi e non lo abbandonerò!” Il professore lesse lo sgomento negli occhi dell’anziana signora, e provò tenerezza per quella donna e la sua semplice e buona ignoranza contadina. Le prese le mani ruvide e le strinse forte: “Cara signora, io so quanto ama suo nipote e quanto le fa paura la solitudine. Anche a me fa paura, e anch’io, che non ho figli né nipoti, amo i miei allievi come fossero mie creature e tra queste, la creatura che amo di più e che sento più mia è proprio il suo Piero, il nostro piccolo grande pittore impressionista...” Alla vecchia che lo guardò interrogativa il giovane professore sorrise, ma i suoi occhi erano lontani, intenti a cercare un pezzetto di ato:
“Lui mi conquistò fin dal suo primo giorno qua dentro, quando disegnò le montagne azzurre... insomma signora, voglio solo ricordarle qualcosa che lei sa già: amare davvero qualcuno significa volere innanzitutto il meglio per lui, e non importa se questo non coincide con ciò che è meglio per noi... io so quanto lei ama Piero... e so che proprio perché lo ama tanto sarà pronta a rinunciare ad averlo vicino!” Nonna Maria non rispose nulla al professor Marchini. Si infilò nella borsa il pesante libro di storia dell’arte rilegato in pelle, e si avviò verso l’uscita dell’istituto Leopardi. Al professore sembrava più curva ad ogni o che faceva. Pensò che forse aveva sbagliato a consegnare a lei il libro di storia dell’arte. Forse quel libro era troppo pesante per lei. Tre mesi dopo Piero partiva per Roma per cominciare il suo primo anno come studente del liceo artistico Canova.
CAPITOLO NONO LA CONFERENZA
Roma, 1959 La nuova scuola gli piaceva tanto, le materie da studiare lo divertivano quasi tutte, i professori erano tolleranti, i compagni simpatici, e certo nessuno di loro lo avrebbe preso in giro se avesse disegnato delle montagne azzurre... Solo una cosa lo metteva a disagio, anche se non poteva dire che la detestava. Abitare con Chiara... nella sua casa di donna sposata, insieme al marito e alla figlia di sua madre, Irene. Cioè sua sorella... Piero non capiva chiaramente cosa gli desse tanto fastidio in quella casa, perché in fondo il marito di sua madre era un brav’uomo e si comportava bene con lui, ed anche sua sorella non era male, anche se, come tutti i bambini, era estremamente fastidioso averla tra i piedi con tutte le domande che faceva, le continue richieste di giocare e l’attenzione che pretendeva con l’arroganza dei bambini che pensano di essere al centro del mondo... A volte sentiva di detestarla, Irene, quando chiamava Chiara “mamma” e Chiara le diceva “piccola mia”, o quando Chiara la prendeva in braccio e chiudeva la porta della cameretta dietro di sé per addormentarla con una favola, e lui restava fuori da quella cameretta, da quelle favole della buonanotte, da quegli abbracci che solo una madre sa dare. Del resto, ormai Piero era un adolescente, il tempo delle favole della buonanotte era finito per lui, il suo tempo era quello duro, delle fughe, dei silenzi, dei segreti che si confidano solo agli amici, della madre che diventa una nemica, capace solo di rimproveri e sospetti. Ma con Chiara neanche questo... solo un’impacciata cortesia, un amore silenzioso e malato, incapace di manifestarsi, che si nutre di sguardi carichi di rimpianti e di colpa, di domande mute che non trovano risposta. Chiara era gentile e premurosa con lui, lo trattava come un ospite di riguardo, si alzava prima di tutti per preparargli la colazione ed aiutarlo a riempire lo zaino, per ricordargli la cartellina dei disegni, il libretto delle giustificazioni, il diario, l’astuccio dei colori, e lo seguiva fino alla porta di casa con il berretto di lana e i
guanti, perché faceva freddo fuori, e lui era vestito troppo leggero... e quando Piero si allontanava e spariva dai suoi occhi, Chiara restava con quel berretto di lana e quei guanti in mano, e il cuore stretto perché fuori faceva freddo, e lei avrebbe voluto riscaldarlo, il suo Piero, che se ne era andato via da lei, senza berretto e senza guanti... E Piero si allontanava con il cuore gonfio di collera, perché quelle premure lo irritavano, come irritano tutti i figli adolescenti, e avrebbe voluto mandare sua madre a quel paese invece di salutarla con un educato bacio sulla guancia, e poi abbracciarla al suo ritorno da scuola, perché aveva avuto una buona mattinata, la ragazza che gli piaceva gli aveva sorriso e quel pomeriggio non aveva compiti da fare... Questo era quello che avrebbe voluto da sua madre, mandarla a quel paese e poi abbracciarla e sentire ad ogni abbraccio quanto lei fosse più piccola rispetto a lui, che diventava sempre più alto. Se solo lei avesse avuto il coraggio di abbattere quel muro di silenzio che li separava ogni giorno di più, se solo lo avesse preso a schiaffi tutte le volte che lui la provocava, se quegli occhi e il loro dolore muto avessero smesso di perseguitarlo e avessero cominciato ad urlare, se solo avesse tirato fuori la voce, quella stessa maledetta e dolcissima voce con cui raccontava le favole a sua figlia, quell’altra figlia, per chiamare lui, figlio... Ogni giorno che Piero ò in quella casa, ogni singolo giorno di quei cinque anni di liceo, Piero sperò di sentire la voce di sua madre, per potersi sentire meno solo, meno rifiutato, meno maledetto. E quando finalmente Chiara tirò fuori la sua voce, era troppo tardi per suo figlio.
Era l’ultimo mese dell’ultimo anno di liceo, l’ultima conferenza in aula magna prima della tirata finale per la maturità, quella più prestigiosa, riservata solo ai privilegiati dell’ultimo anno: un illustre rappresentante del genio artistico avrebbe parlato del percorso che conduce l’artista dall’idea alla realizzazione dell’opera d’arte. Tutto l’istituto, dal preside ai bidelli, era in fermento per l’eccezionalità dell’evento, poiché mai nessun istituto scolastico aveva vantato l’onore di ospitare un artista tanto celebre: Luigi Amati, lo scultore carrarese di cui parlavano tutti i giornali specializzati, le cui opere pregevoli avevano
catalizzato l’attenzione dei critici più attenti e inesorabili per la sua capacità di fondere e dosare con un equilibrio perfetto avanguardia e classicità, ato e futuro... Il titolo della conferenza, prevista per quel lunedì di fine maggio, racchiudeva in una semplice parola, tutto ciò che aveva fatto il successo di Amati: “Armonia”. Perché questa era la sensazione che le opere di quello scultore trasmettevano al pubblico, fossero esse volti femminili di giovani fanciulle in attesa della vita o volti scavati di vecchi in attesa della morte, o corpi poderosi di divinità metropolitane: la vita riprodotta e cristallizzata nel candore marmoreo si ripuliva di ogni frammento imbarazzante, di ogni particella di immondizia e la realtà ne risultava purgata, purificata, sublimata, pur restando potente e viva... Grazie alla sua arte, Luigi Amati aveva restituito dignità alla realtà, alla gioia, al dolore, alla giovinezza, alla vecchiaia. Quella mattina Piero era stranamente teso, la curiosità di vedere il grande artista era forte e, nonostante la stanchezza di una notte agitata, alle otto era già in aula magna, pronto ad occupare la prima fila per poter vedere da vicino l’illustre personaggio che di lì a poco avrebbe fatto il suo trionfale ingresso nell’istituto Canova di Roma. Erano le nove ate, l’aula era stracolma di allievi, personale docente e non docente, l’impazienza cominciava a serpeggiare tra i docenti, che si rendevano conto che la situazione poteva degenerare da un momento all’altro se quel benedetto illustre ospite non arrivava. Si cominciava a sentire odore di fumo confuso all’aroma del caffè, e qualcuno cominciava a cantare imitato dai compagni, e qualcun altro rideva o intonava cori dissacranti contro l’illustre ospite che tardava in maniera così indecorosa e arrogante, proprio come fanno quelli che si credono al centro del mondo... Erano quasi le dieci quando arrivò. Piero non lo vide entrare ma capì che qualcosa stava accadendo perché un silenzio improvviso era sceso nell’aula magna e tutte le teste si erano voltate verso la porta d’ingresso. Voltò anche lui la testa e solo allora lo vide. Una testa di capelli bianchissimi raccolti in una coda, un fisico massiccio che
contrastava con l’andatura agile e disinvolta, Luigi Amati avanzava sorridendo in un’aula occupata da oltre trecento giovani impazienti e poco avvezzi alla disciplina, incurante del clamoroso ritardo che aveva rischiato di generare una sorta di rivolta. Quando prese il microfono e salutò gli studenti, ottenendo in risposta un clamoroso applauso, Piero poté osservarlo da vicino e rimase colpito dall’energia quasi palpabile che si sprigionava da quell’uomo. Nonostante non fosse più giovane, Luigi Amati emanava vigore e vitalità da tutta la sua persona, e in particolare i suoi occhi, di un azzurro vivido, avevano l’imponente arroganza di chi sa di essere una creatura speciale. Era lo sguardo di chi guarda intorno a sé senza vedere realmente ciò che lo circonda, perché nulla di ciò che è fuori dal cerchio magico di se stesso, è degno di attenzione. Piero percepì immediatamente il superiore distacco di quello sguardo e la sensazione che ne ricavò fu quella di un’istintiva antipatia. Quando Luigi Amati cominciò a parlare, Piero si accinse ad ascoltarlo con diffidenza, deciso a non farsi incantare da quel presuntuoso esemplare dell’egocentrismo umano, ma piano piano, contro la sua stessa volontà, il giovane allievo cominciò a prestare un’attenzione sempre più viva alle parole dello scultore, fino a che gli altri studenti, la ressa, il caldo e l’intera aula magna, tutto scomparve dal campo sensoriale di Piero, occupato solo ed esclusivamente da quell’uomo geniale che raccontava la sua vita e la sua arte, senza fare distinzione tra le due. Amati raccontava come ad ogni episodio banale, ad ogni evento memorabile della sua esistenza corrispondesse un momento creativo. “L’arte non si crea a tavolino, ragazzi, non nasce da un progetto, da un piano predefinito. Tutto questo serve solo a perfezionare, ma viene dopo. È la vita, il dolore, il piacere, l’estasi, la disperazione che ci spingono a creare, anzi, io abolirei anche questo termine. Io non ho mai creato, ho solo risposto a una chiamata. L’arte è nella vita, allo stato grezzo, materia informe, ma è là per noi... ci chiama, come la donna nascosta nel blocco di marmo, e di solito noi non sentiamo quel richiamo, le nostre orecchie sono sorde, troppo intasate di vita per poter sentire, troppo gonfie di banalità quotidiane per poter ascoltare. Poi, un giorno, arriva un’emozione forte che ci squassa l’animo, e le orecchie si aprono. E noi cominciamo a sentire, con tutti i nostri sensi. E così nasce l’arte...” Poi Luigi Amati si addentrò nei dettagli tecnici della sua arte, la scultura, illustrò
i procedimenti operativi, le fasi che lo portavano dalla sbozzatura alla levigatura, il modo di rendere il marmo traslucido per ottenere una grande luminosità o solo una lieve ombreggiatura, illustrò la tecnica di riare sul marmo la cera rosata o l’ambra per ottenere un effetto di morbidezza e flessibilità, e infine mostrò agli studenti i suoi strumenti da lavoro, la prima subbia, la gradina, lo scalpello a tre denti che gli era servito per il viso della sua opera prima, la fanciulla che guarda il cielo. Poi il tecnico accese il proiettore e sul grande muro bianco dell’aula magna cominciarono a scorrere le immagini delle sculture più belle e rappresentative di Amati. Ad ogni immagine l’autore forniva spiegazioni sul processo creativo che l’aveva condotto dall’idea alla realizzazione dell’opera, in un percorso a ritroso nel tempo in cui lo scultore si raccontava ai ragazzi con generosa sincerità, senza omettere i dubbi, le insicurezze, i momenti di sconforto che - diceva - sono parte integrante della carriera di un artista o, come preferiva definirsi lui, un attento riproduttore di un’arte che chiede di essere vista e sentita... La proiezione si concluse proprio sull’opera prima di Amati, la fanciulla che guarda il cielo. Molti conoscevano quell’opera, e forse fu per questo che lo scultore non la illustrò tecnicamente come aveva fatto con le opere precedenti. O forse non si soffermò sulla fanciulla perché, come opera prima, ne riconosceva dei difetti imputabili ad uno scultore ancora dilettante che la sua macroscopica autostima non gradiva sottolineare davanti a quel consesso di giovani adoranti. Così, con l’immagine di quel giovane viso femminile che occupava tutta la parete alle sue spalle, Luigi Amati concluse la sua conferenza al Liceo Artistico Canova, con queste parole: “È stato a questo punto della mia vita che ho compreso, ragazzi. Dolore, impotenza, disperazione, tutto mi conduceva alla morte. Ero in guerra... E invece, miracolosamente, sapete cosa ho trovato? Ho trovato la vita, l’ho trovata nel giovane volto di questa fragile ragazza uscita illesa da un bombardamento. L’ho trovata in una pianta di gelsomini che una dannatissima bomba non era riuscita a distruggere. E ho capito che la vita è sempre più forte, se la sai ascoltare, e vedere, e sentire. Ecco perché vi esorto a sentire, ragazzi. Aprite gli occhi, le orecchie, e tutti i
sensi, accogliete le emozioni... esercitatevi fin da ora, che siete giovani, a sentire la vita!” Un istante di silenzio seguì le ultime parole di Luigi Amati, rotto poi da un applauso fragoroso. Qualcuno si alzò in piedi, un’anziana insegnante prossima alla pensione si asciugò una lacrima, il professore di disegno continuava a prendere appunti a ritmo forsennato, alcuni allievi cominciarono a scattare fotografie anche se, in quella marea di teste, individuare quella di Luigi Amati avrebbe richiesto uno sforzo anche ad una macchina fotografica professionale ultimo modello... Piero non batté la mani, non subito, almeno. I suoi occhi erano puntati sull’immagine proiettata sul muro davanti a lui. Quel viso lo incantava, e gli ricordava il viso di sua madre, o forse era l’espressione di quegli occhi a ricordargli Chiara, quello sguardo malinconico, confuso tra il dubbio e il rimpianto, teso verso l’alto come a cercare una risposta. Dopo aver ascoltato con aria vagamente annoiata gli ossequiosi ringraziamenti del Preside, Luigi Amati, aiutato dal suo fedelissimo segretario tuttofare, cominciò a raccogliere il suo materiale. A Piero parve evidente che lo scultore era desideroso di porre fine a quelle cerimoniose formalità che il Preside, finalmente rilassato dopo la tensione procuratagli dall’eccezionalità di quell’evento, amava invece prolungare. Si alzò in piedi e fu in quel momento, per caso, che i suoi occhi incontrarono quelli di Luigi Amati. Piero tornò a casa con gli occhi lucidi e le guance arrossate per le emozioni di quella mattinata. Chiara si accorse immediatamente che gli era successo qualcosa, ma non gli chiese nulla, perché il suo ragazzo la intimidiva... solo più tardi, quando Piero stava per chiudersi nella sua camera come faceva tutti i pomeriggi, gli prese la mano e osò lanciargli una domanda che sembrava buttata lì per caso: “Tutto a posto, Piero?” Piero la guardò stupito: “Perché me lo chiedi?” “No, nulla, è che... mi sei sembrato un po’ strano oggi a tavola... forse non ti
senti bene?” e allungò la mano per toccargli la fronte. Piero si allontanò istintivamente, come sempre vagamente infastidito da quei gesti premurosi e inutili, e Chiara ritrasse rapidamente la mano, senza aggiungere altro. Stava per chiudere la porta quando incontrò gli occhi di sua madre. Forse fu la mortificazione che lesse in quello sguardo che lo spinse a parlare, e il confuso senso di tenerezza che quella mortificazione suscitò in lui, o forse il desiderio di parlare nasceva da lui, dall’emozione che ancora sentiva attaccata alla sua carne. Cominciò a parlare lentamente, quasi con distacco, raccontò della conferenza cui aveva assistito, tenuta da un celebre scultore che lo aveva affascinato con le sue parole, raccontò dell’aula magna gremita, dell’emozione che serpeggiava quando l’artista aveva concluso la sua lezione, e man mano che raccontava Piero riviveva la sua emozione, e di nuovo sentì il cuore che gli batteva più forte, il sangue che scorreva più veloce, le guance che si arrossavano. Quell’uomo aveva un’aurea intorno a sé, un fascino particolare che tutti percepivano, il dono carismatico di incantare le folle. Piero comprendeva perfettamente di esserne rimasto, lui stesso, soggiogato, eppure, insieme a quel fervore entusiastico che ancora continuava ad eccitarlo, Piero sentiva anche un confuso dolore, di cui non riusciva a comprendere la ragione, né la natura. Era come una puntura che bucava la sua carne, in qualche parte del suo corpo che non riusciva ad individuare, un ago sottile, leggerissimo, che però penetrava sempre più a fondo dentro di lui. Mentre raccontava a sua madre, pensò per un attimo che gli sarebbe piaciuto parlare con Amati, loro due soli, avrebbe voluto uscire dalla folla anonima degli studenti per guardarlo da vicino, e per essere guardato da lui. Mai più gli sarebbe capitata un’occasione così... ecco cosa gli provocava quel sottile dolore... l’idea che non lo avrebbe visto mai più, non così vicino, e non avrebbe potuto parlargli di sé... Chiara lo guardava mentre Piero raccontava di quella straordinaria mattinata, bevendo le sue parole con la sete accumulata in quegli anni di aridi silenzi, sorridendo di quel momento di intimità che il suo ragazzo gli concedeva, finalmente.
Poi, Piero disse qualcosa e il sorriso le si rattrappì sul volto, bloccandosi in una smorfia di incredulità: “Una cosa buffa, Chiara, è che l’opera prima di quello scultore, un busto di donna, mi ha ricordato te... sì, è come se tu fossi stata la sua modella, tanto quel viso di donna ti somigliava... strano, vero?” Chiara deglutì, prima di chiedere con un filo di voce: “Davvero? Ma come si chiama questo scultore?” “Amati, Luigi Amati, ma non credo tu l’abbia mai sentito nominare. È famoso, ma te che ne sai di queste cose?” Ecco, l’incanto era finito, Piero aveva ripreso il tono distaccato e vagamente provocatorio che era solito usare quando parlava con lei, ma in quel momento Chiara non se ne accorse. In quel momento tutti i suoi nervi erano concentrati sul nome che suo figlio aveva appena pronunciato, ed ogni più piccola particella del suo corpo era tesa a cercare il controllo di sé. Aveva voglia di urlare, lasciarsi cadere a terra, abbandonarsi alle lacrime che spingevano dentro la sua gola fino a farle male, e per un momento sentì il bisogno prepotente di prendere suo figlio per le spalle e abbracciarlo, e dirgli tutta la verità. Sarebbe stato così naturale, e bello, potergli dire che quell’uomo era suo padre, quel padre che insieme alla vita gli aveva trasmesso il genio artistico, ecco perché era sempre stato così dotato per il disegno! Sarebbe stato così fiero, il suo Piero, di quel padre che fino a quel momento non conosceva! E poi... gli avrebbe raccontato della guerra, del bombardamento di Sant’Angelo, di come lui l’aveva tirata fuori dalle macerie... e poi... Avrebbe dovuto dirgli che lei, sua madre, lo aveva rifiutato come figlio, che lo aveva ingannato e allontanato da sé, che lo aveva lasciato da solo per costruirsi una vita lontano da lui, per poi accoglierlo quando ormai le sue ossa si erano indurite e il suo cuore abituato alla solitudine dell’abbandono. Ed anche ora, lo costringeva ad assistere al tradimento della maternità negata, quella maternità concessa con tutto l’amore di una madre, alla figlia legittima... E se Piero le avesse chiesto “Perché?”, lei cosa avrebbe risposto? Lo chiese a se stessa, “Perché?”, mentre Piero, farfugliando una scusa, chiudeva
finalmente la porta dietro di sé. “Perché tua nonna non voleva, perché la mia vita sarebbe stata distrutta, perché sarei stata per tutti una ragazza madre, una donna perduta, perché erano tempi difficili, perché ero troppo giovane e non capivo nulla, perché ero stupida, e vigliacca...” No, tutto questo era vero, ma nulla di tutto quello che avrebbe potuto dire a suo figlio l’avrebbe salvata dalle accuse di lui. Una madre non si nega. Lei l’aveva fatto, e se Piero avesse saputo la verità, l’avrebbe odiata e lei non avrebbe avuto neanche quell’affetto distaccato e infastidito che lui le concedeva ora... e forse sarebbe andato via da lei per sempre... No, meglio lasciare le cose come stavano, in fondo Piero era sereno, e lei se lo teneva finalmente vicino a sé, nella sua casa, e poteva augurargli “Buona giornata” tutte le mattine, e dargli la buonanotte ogni sera, e qualche volta guardarlo dormire, di notte, quando il sonno faticava ad arrivare, e lei entrava nella sua stanza per spegnere la luce che lui lasciava sempre accesa... Se avesse parlato allora, forse Chiara sarebbe stata ancora in tempo per riprendersi suo figlio, e forse si sarebbero salvati tutti e due, madre e figlio. Ma Chiara non parlò quel giorno, e neanche il giorno dopo, né il giorno dopo ancora. E quando lo fece, era troppo tardi per lei, e troppo tardi per suo figlio.
CAPITOLO DECIMO PARTENZE
L’esame l’aveva superato brillantemente, la sua tesi sull’artista maledetto, che solo la morte riscatta dalla solitudine e dall’emarginazione, aveva colpito tutta la commissione esaminatrice per la sua originalità e l’intensità con la quale il candidato l’aveva presentata. Era ato dalla poesia provocatoria di Baudelaire agli incubi visivi di Van Gogh, dall’albatro catturato e ridotto a una goffa e spregevole creatura del primo, ai corvi, sinistri presagi di morte in mezzo al grano maturo del secondo. La prova scritta di disegno aveva, allo stesso modo, colpito i docenti esaminatori per la potenza emotiva che sprigionavano le immagini dipinte: un paesaggio solitario, quasi idilliaco ad un occhio inesperto e superficiale, ma la scelta del tutto anomala dei colori, e i dettagli volutamente camuffati dall’immagine d’insieme, trasformavano l’idillio in un immagine inquietante, bugiarda, cattiva e potentemente espressiva. Venne il suo professore di disegno delle medie, Attilio Marchini, ad assistere ai suoi orali. Gli era sempre rimasto vicino, il suo vecchio prof che vecchio ancora non era anche se i capelli cominciavano ad imbiancarglisi sulle tempie, e lo aveva seguito in tutti quegli anni di liceo. Quando andava a Roma per i suoi lavori, non mancava mai di andare a fare una visita al suo ex allievo, il suo piccolo pittore di montagne azzurre, e insieme l’allievo e il professore andavano a farsi una pizza e una birra come due amici, e parlavano di pittura, di scuola, di donne, proprio come due vecchi amici che si ritrovano dopo un po’ di tempo ed hanno tante cose da raccontarsi. Il professor Marchini voleva sinceramente bene a Piero, gliene aveva voluto fin da quando era un ragazzino con i calzoni corti e l’aria spaesata, forse perché, da sapiente conoscitore del genio artistico, aveva subito percepito in lui quel guizzo di originalità e intensità emotiva che distingue le anime più dotate, o forse perché aveva sentito, dietro le sue battute a volte provocatorie, la rabbia di un adolescente solo e disperatamente bisognoso di attenzioni. Se lo era coltivato per
anni, come una pianta spinosa e rara, con i suoi consigli, i suoi suggerimenti, e si era finalmente conquistato la fiducia di Piero. Era stato a lui che Piero aveva raccontato del suo primo amore, della sua prima delusione, e quando quel primo grande amore era finito dopo qualche giorno, il suo vecchio professore gli aveva ridato il sorriso facendogli conoscere l’allegria di un buon bicchiere di vino. Era stato a lui che Piero si era rivolto quando a scuola c’era qualche problema, e il suo professore era sempre riuscito a tirarlo fuori dai guai, ando interi pomeriggi a rivedere con lui le equazioni numeriche, le declinazioni latine, la grammatica italiana. Era stato lui che lo aveva aspramente rimproverato l’anno in cui era stato bocciato per la sua insofferenza alle regole e le numerose assenze. Era stato sempre lui che lo aveva confortato quando era arrivata la cartolina che lo chiamava alla leva, e ancora lui che si era dato disperatamente da fare per evitare che il suo ragazzo partisse, e alla fine, grazie alle sue conoscenze e a una lieve insufficienza toracica di Piero, era riuscito nell’intento. C’era voluto tempo, tanto tempo, ma alla fine fu a quell’uomo che Piero aprì il suo cuore. Quando conobbe il segreto di Piero, il professor Attilio Marchini provò una profonda pena per quel bambino che si era portato addosso per anni un peso tanto grande, e comprese finalmente il motivo della rabbia che quel bambino, diventato adolescente e poi giovane uomo, aveva sempre portato dentro di sé. Avrebbe voluto fare qualcosa per lui, ma Piero gli aveva fatto giurare che non avrebbe parlato a nessuno del suo segreto, e così Attilio Marchini aveva rinunciato a parlare con Chiara, anche se pensava che quella fosse l’unica cosa da fare. Quel ragazzo aveva bisogno di verità per pulirsi l’anima da anni e anni di finzioni, ma Piero non la voleva la verità, diceva che andava bene così, che ormai era tardi per recuperare il tempo perduto, e il professore aveva rispettato il suo desiderio di silenzio e mantenuto la promessa fatta di non rivelare a nessuno il segreto del suo ragazzo.
Dopo l’esame se ne andarono tutti e due al mare a festeggiare. Era una giornata piovosa e fresca, nonostante fosse già luglio, e sulla spiaggia c’erano solo loro due, con la tavolozza, i colori, e un paio di bottiglie di birra. Piero si sistemò sulla riva, così vicino al mare che i suoi piedi scalzi erano bagnati, e cominciò a tracciare sulla tela ancora immacolata schizzi d’azzurro che parevano gettati lì a caso. Il professore osservava attentamente le mani di Piero che correvano sulla tela, e rapidamente, sotto i suoi occhi, quegli schizzi informi d’azzurro si definirono come le onde inquietanti del mare minaccioso, e sotto i suoi occhi nacque quel cielo plumbeo che parlava d’autunno e aveva il sapore malinconico della brezza autunnale. Erano solo rapide pennellate di grigio e d’azzurro ma raccontavano tutta la malinconica solitudine di quella giornata, di quell’estate perduta, e del tempo che a, e si porta dietro i rimpianti per tutto ciò che poteva essere e non è stato. “È bello, ragazzo, bello e intenso. Tu riesci a parlare coi colori, è la tua anima che esce... è un dono raro che hai, lo avevi fin da bambino, ricordi?” Piero pensò a quel primo disegno, che il professore aveva incorniciato e appeso al muro. Da allora c’erano stati anche momenti difficili, spesso qualche brutto voto, ma il suo disegno appeso al muro lo faceva sentire forte e fiero, sicuro che mai nessun rimprovero avrebbe potuto abbatterlo. Non lo aveva più riavuto, quel disegno, neanche alla fine delle medie. “Le montagne azzurre... ricordi prof? Ma che fine hanno fatto?” “Sono in casa mia, nello studio. Dì, Piero, che intenzioni hai, adesso? Lo sai che per te c’è l’accademia, vero?” “E tu lo sai, prof, che iscriversi costa un bel po’ di soldi? A chi li chiedo? A Chiara? Non si è mai visto che una cugina paga le spese universitarie del cugino... e certo mia... nonna a Sant’Angelo non può mantenermi all’accademia!”
La voce di Piero era incolore, come se quei discorsi lo infastidissero. “E invece Chiara ti aiuterà, perché lei è tua madre, e lei questo lo sa... e comunque ragazzo, non usare la tua situazione come un pretesto per fermarti qui. Per legittimare la tua ività! Se vuoi veramente una cosa, nulla ti deve fermare, perché è la volontà che ci definisce e ci forma, non i soldi, le situazioni, la fortuna...” “Io non so se ho voglia di continuare a studiare, di vivere in famiglia e recitare il ruolo del bravo ragazzo, che studia all’accademia e dice sempre la cosa giusta al momento giusto. È tutto così schifosamente borghese, e finto. E io non ho più voglia di fingere, ho solo voglia di andarmene via, mollare tutto e cominciare da un’altra parte. E poi credo che tu, prof, mi abbia sempre sopravvalutato...” “Ecco, è questo il tuo difetto, ragazzo... tu non credi, non ci hai mai creduto in te stesso... ma un artista che non sia dotato di una buona dose di autostima non arriva da nessuna parte!” Attilio Marchini si interruppe, come se l’urgenza delle cose da dire al suo allievo fosse talmente forte da renderlo afasico. Avrebbe voluto dire che Piero era il suo piccolo genio dei colori, l’investimento per il suo futuro, una promessa che la vita gli aveva fatto. La promessa che l’arte non si spreca, si nasconde, forse, si fa attendere, forse, ma poi qualcuno la trova, nascosta dietro gli occhi tristi di un ragazzo rifiutato, e allora il miracolo avviene. Lui l’aveva trovata in Piero, e la sua missione era riportarla alla luce e farla conoscere agli uomini. Non aveva avuto figli, il professore, non si era nemmeno mai sposato, e non aveva piantato un albero... Piero era suo figlio, ed era il suo albero, e se Piero fosse diventato un grande pittore, anche la sua vita avrebbe avuto un senso, e forse anche a lui sarebbe toccato un frammento di eternità. Non poteva permettergli di andare via e non provarci nemmeno... e poi, se perdeva Piero, non sarebbe stato solo un fallimento. Voleva davvero bene a quel ragazzo. “Anch’io sono in grado di aiutarti, Piero, possiedo una litografia di Salvador Dalì con tanto di firma autenticata, la comprai a un’asta qualche anno fa, lo consideravo un piccolo investimento per il futuro. Se sono i soldi che ti frenano,
posso venderla a qualche estimatore...” Il professore vide qualcosa negli occhi di Piero e istintivamente comprese che non era quella la maniera giusta per convincerlo. Tra i tanti difetti, quel ragazzo era anche maledettamente orgoglioso. “E comunque, sei giovane e forte, puoi sempre trovarti qualche lavoretto che ti aiuti a pagare l’accademia...” “Ci penserò, professore!” E così dicendo tracciò l’ultima pennellata al suo mare in tempesta, una pennellata dolorosa come uno schiaffo, e si bevve l’ultimo sorso della sua birra. Quella fu l’ultima volta che Piero e il professor Attilio Marchini si bevvero una birra insieme davanti al mare, come due amici che condividevano una stessa ione. Piero non ci andò all’accademia. ò l’estate della maturità a vagabondare per Roma, con un paio di ex compagni di liceo, e siccome di giorno era troppo caldo, se ne andavano in giro di notte, quando l’aria era fresca e il buio complice. Piero non aveva mai vissuto la notte prima di allora, e ne restò catturato: le immagini incolori e anonime sotto la luce del giorno diventavano magiche di notte, i contorni si sfumavano, i profili diventavano indefiniti, e la bellezza nasceva dalle tenebre come l’acqua delle fontane di Roma, che diventava bianca alla luce della luna. Persino il vino diventava dolce, e il fumo più profumato, sotto il cielo della notte. E fu così che una notte Piero se ne andò da Chiara, senza neanche dirle addio.
L’aveva chiamata durante il viaggio, era con un amico che aveva diviso con lui gli anni di liceo e la rabbia giovanile. Avevano deciso così, in una notte di fine estate, di lasciare tutto e ricominciare da capo, e l’avevano fatto senza pensare a ciò che si lasciavano alle spalle e alle difficoltà che avrebbero trovato per strada. Avevano pochi soldi, una buona dose di coraggio e tanta incoscienza. Erano arrivati a Mantova in treno e da lì Piero le aveva telefonato.
Quando aveva sentito la sua voce, Chiara l’aveva subissato di domande: “Piero dove sei, sono ore che ti aspetto... quando torni a casa? Stai bene? Sei da solo?” era talmente agitata che non gli lasciava neanche il tempo di rispondere. “Sto bene Chiara, non preoccuparti... ma non torno a casa. Non per ora, almeno...” “Ma dove sei? Non hai soldi Piero, come credi di poterti mantenere in giro per il mondo? Torna a casa, ne parleremo, vedremo cosa fare, io voglio aiutarti, dobbiamo pensare al tuo futuro...” Piero la interruppe impietosamente, quasi provando un sottile piacere nel percepire l’ansia che scoppiava nella voce di lei. “No, Chiara, a casa non ci torno, anche perché quella non è casa mia, è casa tua, di tua figlia, di tuo marito. Io sono sempre stato un ospite, lì dentro...” “Non lo dire, Piero, non dirlo, sai che io ti voglio bene, te ne ho sempre voluto come se tu fossi...” “Cosa, come se io fossi cosa, Chiara?” La stava provocando, come se volesse da lei una confessione, ma no, Piero non poteva sapere... Eppure qualcosa nella voce del suo ragazzo la spaventò. Non rispose alla domanda di Piero, non finì la sua frase, come se usare quella parola, “figlio”, potesse tradire il suo segreto. “Torna a casa, Piero, ti prego, non lasciarmi così!” “Come se io fossi cosa, Chiara?” Piero insisteva, esasperato dalla vigliaccheria di lei. Se le fosse stato vicino in quel momento avrebbe potuto stringerle le mani intorno al collo e ucciderla, tanto era feroce l’odio che sentiva per lei. Lei, che continuava a negargli la verità.
Lei, che non lo aveva mai voluto e ancora non lo voleva. Lei, che aveva altre persone da amare che non erano lui. Lei, che lo aveva tradito sempre, e se ne era andata via, e lo aveva lasciato solo. Lei, sua madre. Ora era lui che la lasciava, ed era bello sentirla implorare così, costringerla a pregarlo, umiliarla e percepire l’ansia e la paura nella sua voce. Dopo una vita ata davanti ad una porta chiusa, sapendo che dietro quella porta c’era lei, ora era lei che supplicava dinanzi a quella porta, e lui gliela stava sbattendo in faccia, e si sentiva infinitamente crudele e infinitamente potente per questo. Inebriato da quel potere, Piero sciolse il nodo del silenzio, così, senza decidere, senza studiare le parole, senza prepararsi un discorso adeguato alla solennità di quel momento. Successe e basta, inevitabile come un conato di vomito. Doveva liberarsi dalla rabbia e dal dolore, per continuare a vivere. Vomitare tutto addosso a lei. “Piero, ti prego...” “Come se io fossi cosa? Dillo, maledizione, dillo, sono anni che aspetto di sentirtelo dire!” Chiara cominciò a tremare. Allora lui sapeva... “Torna a casa, non possiamo parlare di questa cosa per telefono... dimmi dove sei, vengo io da te, ma non lasciarmi così!” Chiara balbettava in preda al panico, tra la confusa consapevolezza che suo figlio sapeva, che aveva sempre saputo, e il folle terrore di perderlo per sempre. “Sei una maledetta vigliacca, ed è questo che ti meriti, vigliacca, vigliacca, vigliacca! Non mi hai mai voluto come figlio, e sono io adesso che non ti voglio come madre!” Con questo grido di rabbia Piero chiuse la comunicazione, e finalmente si sentì liberato da quel macigno che si portava sulle spalle sin da quando era poco più
che un bambino. Fu solo un istante, ma in quell’istante Piero assaporò la felicità rabbiosa e visionaria di un prigioniero che spezza le catene di una vita e ritrova l’orizzonte, sterminato, al di là di un muro. Tutto era stato detto ormai, non c’era più nulla da fare, né da dire. Non l’avrebbe chiamata mai più e mai più l’avrebbe rivista.
Il lago era placido nel sereno pomeriggio autunnale. Le ninfee erano candidi grappoli di purezza sull’acqua e rischiaravano il cielo cupo di ottobre, le pietre scure delle sponde, i riflessi neri dei salici e dei pioppi, regalando una luce malinconica a tutto il paesaggio. Poco più in là, nella piazza di S. sco di Mantova, sul sagrato della piccola chiesa in cotto, un giovane dalla barba incolta e i lunghi capelli raccolti in una coda, accovacciato in un angolo del sagrato in mezzo a una miriade di gessetti colorati, dipingeva il volto di una donna con un bambino tra le braccia. I lineamenti delicati di quel volto femminile, lo sguardo dolcissimo che si posava sul piccolo addormentato sul suo seno catturavano l’attenzione dei anti distratti. Una piccola folla si era fermata attorno al madonnaro, e piano piano la sua cassetta di legno si era riempita di monete ed anche di qualche banconota. Ma il giovane madonnaro era troppo preso dal suo lavoro per accorgersi del gruzzolo di soldi che la sua madonna con bambino era riuscita a raccogliere da quella gente distratta, troppo preso anche per sentire i commenti entusiastici, le esclamazioni di stupore, qualche applauso dei più audaci che osavano sfidare la pace crepuscolare della piccola piazza. Era una specie di magia: quando dipingeva niente e nessuno esisteva più, all’infuori di se stesso e della sua opera. E man mano che questa assumeva contorni più definiti, colori più netti, e una fisionomia più precisa, la realtà intorno a lui diventava sfumata, imprecisa, indefinita, fino a scomparire del tutto. Quando poi il buio lo costringeva a lasciare la sua opera, il madonnaro raccoglieva i suoi gessetti riponendoli meticolosamente nel vecchio zaino di cotone grigio ormai logoro, dava uno sguardo distratto alla cassetta di legno che gettava con noncuranza nello zaino, si infilava il giaccone, il berretto, i guanti di lana perché quando calava il sole lassù
faceva freddo e l’umidità ti penetrava nelle ossa, e si incamminava verso l’ostello, in via Acerbi. Una pizza, un paio di birre, qualche volta un po’ di fumo, e la ragazza che aveva trovato per strada, una sera che se ne tornava all’ostello, e che da allora era rimasta sempre con lui. In fondo non gli mancava nulla: amava l’ostello di via Acerbi, lo amava perché in quella stessa strada aveva vissuto il suo grande maestro, il Mantegna, e lui si sentiva una sorta di eletto a camminare sulla pietra dove secoli prima aveva posato i piedi il Maestro, e amava il campanile severo ed elegante di S. Sebastiano che lo salutava quando al mattino apriva le imposte della sua camera. Amava gli ospiti dell’ostello di via Acerbi, tutta gente come lui, giovani e meno giovani, con pochi soldi, nessuna voglia di obbedire, e un gran desiderio di libertà. Da lì nessuno l’avrebbe mandato via, e un letto caldo per lui e Margherita ci sarebbe sempre stato. I soldi per mangiare se li guadagnava ogni giorno con i suoi gessetti. E poi amava il lago, la luce crepuscolare sull’acqua, quando le ninfee si illuminavano come fari bianchi nella notte e riempivano col loro profumo il buio ancora tiepido. Amava l’atmosfera di quel luogo, la dolcezza triste dei suoi tramonti, la struggente malinconia di quelle sere d’autunno, promesse di un inverno imminente che si ripeteva all’infinito, e nel suo ripetersi lo riportava all’adolescenza, alle serene giornate invernali, quando il pomeriggio durava così poco e subito veniva il buio, ed era bello starsene in casa, al caldo, aspettare la cena, e infilarsi sotto le coperte, e spegnere la luce aspettando che lei venisse a dargli la buonanotte. Sì, avrebbe potuto restare là tutta la vita, in fondo non gli mancava niente e lui non aveva bisogno di nessuno, ce la faceva anche da solo... Non aveva bisogno di nessuno, ma ogni tanto avvertiva una puntura leggera leggera, una punta di spillo che a tratti, quando proprio non pensava a nulla, gli sfiorava la pelle e lo graffiava piano. Era cominciato una sera, la prima volta che aveva sentito l’inverno nell’aria fredda del crepuscolo e aveva visto i salici danzare alla brezza pungente. Quella puntura leggera aveva bucato la sua carne
mentre contemplava il cielo rosato, e man mano che il buio della notte si mangiava quella luce rosata, quella puntura era diventata sempre più fastidiosa e insistente. Era ormai inverno, le ninfee erano sfiorite, i fiori di loto non profumavano più, e faceva così freddo che nemmeno i anti distratti si attardavano ad ammirare le sue madonne, quando Piero capì che quella puntura dolorosa era nostalgia. Nostalgia di sua madre.
Gli inverni avano così, tra la nebbia fredda dei brevi pomeriggi sul lago e il calore delle notti d’amore nel piccolo letto dell’ostello dove Piero viveva con la sua ragazza, Margherita. Ormai vivevano lì da qualche anno, Piero si arrabattava con qualche lavoretto che trovava in giro, e nei giorni di festa, se il sole riusciva a sciogliere la nebbia per qualche ora, con i suoi ritratti estemporanei riusciva a racimolare qualche soldo per tirare avanti. Margherita si occupava della cucina, della spesa, dava una mano a rassettare le camere, e con la sua paga, più regolare e consistente, e quel poco che Piero raggranellava, avevano creato una cassa di coppia. Così, riuscivano a guadagnarsi vitto e alloggio all’ostello e a pagarsi anche un po’ di fumo, una bottiglia di vino, un po’ di colori a olio, qualche tela e molti gessetti colorati. Era stata una fortuna trovare Grazia, la padrona dell’ostello, una donna che tirava su da sola un figlio adolescente il cui padre, un giamaicano bello come il sole e inaffidabile come una folata di vento, se ne era tornato al suo paese ancora prima di sapere che sarebbe diventato padre. I genitori di Grazia avrebbero forse imparato ad amare, col tempo, un nipote illegittimo, ma quando videro che il bambino, oltre a nascere bastardo, era pure nero di pelle, non ressero a un tale oltraggio e cacciarono di casa la puerpera e l’oscuro frutto della vergogna. Grazia avrebbe potuto morire per strada col suo piccolo nero, ma fu raccolta da un’anziana coppia senza figli che gestiva una piccola pensione nella parte vecchia della città, in via Acerbi. La pensione era modesta, ma in primavera, nelle giornate di sole, dai graziosi balconcini delle camere la placida distesa grigiazzurra del lago era così vicina che quasi ti veniva voglia di immergerci la
mano. Grazia cominciò a lavorare per loro, e col tempo lei e il piccolo diventarono parte della famiglia e riuscirono a colmare i vuoti e la solitudine dei due vecchi. A distanza di pochi mesi l’uno dall’altra se ne andarono tutti e due, e Grazia sentì di aver perso due genitori, ed anche il piccolo Remo soffrì come se avesse perso i nonni più amorevoli e generosi del mondo. Quello fu il prezzo da pagare per ritrovarsi proprietaria della pensione, che in breve fu trasformata in ostello della gioventù. A Grazia non interessava guadagnare, anche se la pensione, soprattutto grazie alla sua posizione vicino al lago Superiore, possedeva enormi potenzialità. Il ricordo di quei giorni per strada, col suo bimbo nero tra le braccia che strillava per la fame, tornava spesso nei suoi sogni e con l’incubo tornava la paura, l’angoscia impotente della madre che non ha nulla da dare al suo piccolo, e poi il senso di colpa... Ecco perché quella pensioncina graziosa a conduzione familiare, che avrebbe potuto diventare un esclusivo albergo del centro storico, stretto tra la casa del Mantegna e S. Sebastiano, si trasformò in un piccolo ostello aperto a tutti coloro che avevano bisogno di un pasto caldo, di un letto e di un po’ di compagnia. E se qualcuno aveva voglia di raccontare la sua storia, trovava sempre chi era disposto ad ascoltare in silenzio, senza giudicare. Fu a Grazia che Piero raccontò di sua madre, una sera che aveva bevuto una birra in più, e per la prima volta disse tutto, cominciando la sua storia da un bambino sempre sorridente che ava i suoi pomeriggi giocando col suo cane, e che smise di giocare quando trovò una valigia legata con lo spago e nascosta sotto un letto. Raccontare quella storia gli fece tornare un conato di rabbia alla gola, e con la rabbia tornò la voglia di andarsene via, sempre più lontano da quel ato e da lei, per ricominciare di nuovo da un’altra parte. Un ragazzo inglese che stava all’ostello da qualche mese raccontava di un grande raduno che si era tenuto l’anno prima a San Francisco, dove migliaia di giovani con fiori nei capelli cantavano Scott Mackenzie e fumavano LSD. Non avevano bisogno di molti soldi per viaggiare, usavano dei vecchi scuolabus
coloratissimi o facevano l’autostop, e non era difficile neanche trovare da dormire perché quelli come loro erano tanti e potevi trovarli dovunque, in ogni angolo di mondo. Bastava imbattersi in un furgone rosa e verde parcheggiato sul ciglio di una strada, o un autobus azzurro sul bordo di un sentiero ed eri sicuro che avresti trovato da mangiare e da dormire, e se ti andava bene c’erano anche un paio di chitarre e un po’ d’erba per are una buona serata in compagnia. Fu così che Piero e Margherita decisero di partire: era una calda mattina di giugno, il sole sembrava più luminoso e il cielo più azzurro. Misero qualche indumento nei loro zaini, indossarono i sandali più comodi che avevano e lasciarono l’ostello con l’estate nel cuore. Arrivarono in Francia in autostop, in Borgogna trovarono un gruppo di giovani che viaggiavano su uno scuolabus. Erano diretti a Stonehenge, per il raduno del solstizio d’estate. Si unirono a loro dividendo i pochi soldi che erano rimasti, i jeans logori e le canzoni del menestrello e quando arrivarono nel grande recinto circolare e videro il sole tramontare a mezzanotte, quel viaggio che li aveva condotti fino a quel punto non fu più un percorso meramente spaziale. Quel viaggio aveva permesso loro di conoscere e condividere uno spazio interiore che era in ognuno di loro, lo spazio dell’ideale, delle illusioni, della gioia, della voglia di vita che rifiuta il male, il dolore, la morte. Quella sera del 21 giugno 1968 a Stonehenge, davanti alle possenti pietre verdi dell’altare, col vento che soffiava leggero come nella canzone di Bob Dylan, quel gruppo di ragazzi coi fiori nei capelli guardarono il sole senza chiudere gli occhi, e la sua luce nel cuore della notte sembrò a tutti loro la risposta che avevano sempre cercato. Quell’estate d’amore fu il momento più felice della loro vita. Ogni giorno una scoperta, ogni giorno un’avventura, un pezzo di mondo da scoprire, fiori rossi da regalare a chi non ha capito. E tanti, tanti come loro, con le margherite tra i capelli, la barba lunga, le camicie a brandelli, forse, ma colorate che ti mettevano allegria. Li chiamavano hippies, ma quei ragazzi non volevano nomi, etichette, indirizzi, aporti. Erano liberi come il vento, figli della loro anima e delle loro sensazioni. E anche se il mondo intorno era grigio e nero di fango e guerra, loro avrebbero continuato a credere nell’amore e nella pace, finché il grigio e il nero
non fossero diventati luminosi come un campo di grano sotto il sole d’estate. Furono anni intensi, densi di cose e di persone nuove: le dolci colline della Scozia, la verde isola di Wight, le lunghe notti intorno al fuoco, cullati dal suono delle chitarre che si confondeva con il sussurro dell’oceano sulla sabbia nera. Di quegli anni Piero e Margherita si portarono dentro il ricordo dei campi rossi di fragole, delle stelle come diamanti nel cielo, e i raggi di sole nel cuore ad ogni nuova partenza. E i fiori bianchi tra i capelli, lunghi che arrivavano alle spalle. Piero giurò a se stesso che non li avrebbe mai tagliati, in memoria di quegli anni verdi, gli unici della sua vita in cui non si era sentito orfano.
Estate 1973 Dopo quasi cinque anni era tornato a Mantova con la sua Margherita. Dopo anni che non riprendeva una tela in mano, aveva sentito urgente il desiderio di ricominciare, e quel raduno di madonnari che si sarebbe tenuto a Mantova per la prima volta gli sembrò un segno del destino. Non ricordava quanto fossero magiche le notti d’estate sul lago, quando l’aria, dopo la pesante afa del giorno, si faceva più dolce sulla pelle e si riempiva del profumo intenso delle ninfee bianche. Piero si riempiva i polmoni di quel profumo, e avrebbe voluto trattenerlo dentro di sé per poterlo poi riprodurre sulla tela. La notte di Ferragosto, per la festa dell’Assunta, sul sagrato della Madonna delle Grazie, a nove chilometri da Mantova, madonnari provenienti da tutto il mondo avrebbero creato i loro soggetti sacri per tutta la notte. Una commissione composta da esperti di arti pittoriche avrebbe giudicato, a conclusione di tutti i lavori, la creazione più bella, e al pittore in questione sarebbe spettato il compito ambito di rappresentare con una sua creazione la manifestazione dell’anno successivo, oltre al aggio di grado da madonnaro semplice a maestro madonnaro e, naturalmente, agli onori della cronaca locale. Piero decise di partecipare alla competizione più per forza d’inerzia che per un
effettivo desiderio di vincere. Sì, perché dove qualcuno dipingeva doveva esserci anche lui, spinto da un’attrazione istintiva e naturale come i pianeti sono attirati dal sole. Si mise a dipingere che era già quasi sera, ignorando completamento la cerimonia d’apertura e della benedizione dei gessetti. Si scelse l’angolo più esterno della piazza, perché la folla di curiosi lo disturbava e perché la luce, in quell’angolo un po’ isolato, era dorata e tiepida come i colori che voleva usare per il volto della sua madonna. Vicino a lui solo Margherita, seduta per terra con le gambe incrociate e lo sguardo fisso su quel volto che pian piano prendeva forma e acquisiva una fisionomia sempre più definita, come se il suo ragazzo stesse ritraendo a memoria un viso che conosceva perfettamente in tutti i suoi tratti, nella dolcezza armonica dei suoi lineamenti, nelle piccole imperfezioni che lo rendevano reale come una fotografia, nei suoi colori morbidi e rosati che ricordavano i fiori di loto. Non parlava Margherita, sapeva che quando il suo ragazzo dipingeva, tutto ciò che lo circondava, cose e persone, sparivano dal suo campo visivo e tutti i suoi sensi si concentravano esclusivamente su quell’unico oggetto della sua attenzione che era la sua creazione. “È davvero bello, ragazzo!” Forse era solo un ante come tanti altri che si fermavano a commentare, ma qualcosa in quella voce riuscì a penetrare nel microcosmo ovattato dell’artista e ad arrivare alle orecchie di Piero, e dalle orecchie scese giù fino al cuore. Piero staccò gli occhi dalla sua opera e sollevò lentamente la testa. Il collo gli faceva male perché erano ormai un paio d’ore che dipingeva senza staccare gli occhi da terra. Riconobbe la voce, il modo scherzoso e tenero in cui si rivolgeva a lui chiamandolo “ragazzo”. Riconobbe le mani, delicate ed eleganti come le mani di un pittore.
Poi riconobbe il suo viso, i capelli bianchi alle tempie, i suoi occhi acquosi e paterni. Era solo un po’ invecchiato, ma era lui. E per un momento, davanti al suo vecchio professore di disegno delle medie, si sentì di nuovo a casa. “Che ci fai qui, ragazzo, non dirmi che vivi a Mantova...” Dietro il sorriso aperto che conosceva così bene, Piero intuì la tensione emotiva del suo vecchio professore. “Io sto alla grande prof, come vedi, non mi manca niente qui...” e così dicendo sorrise alla sua ragazza, poi riprese: “Tu, piuttosto, che ci fai qui?” “Sono venuto qua spinto dalla curiosità, si parla molto di questo raduno e ci tenevo a vedere se davvero è l’evento così straordinario di cui tutti parlano... e poi sai che sono sempre alla ricerca di artisti in erba... ma non avrei mai immaginato di trovare il mio allievo preferito, dopo tanti anni!” “Invece io credo che tu mi stessi cercando... sbaglio professore? Ti ha mandato lei, vero?” Non era così che doveva andare... ora che aveva avuto la fortuna di trovarlo, dopo anni che lo cercava, doveva fare attenzione, usare le parole giuste, riconquistare la sua fiducia. Non era ancora il momento di parlarne, non lì, in mezzo a tutta quella gente... Alla fine della manifestazione sarebbero andati a farsi una pizza e una birra, come ai vecchi tempi, si sarebbero lasciati andare ai ricordi, e forse Piero l’avrebbe guardato con gli occhi di una volta. Senza il sospetto, la diffidenza di adesso, solo la fiducia e l’affetto. Ma era inutile mentire con Piero, si conoscevano troppo bene, il professore e il suo allievo, anche se erano ati tanti anni... “Se anche fosse, ragazzo, sarebbe naturale, non credi? Sei sparito nel nulla da un giorno all’altro, senza il minimo rispetto per le persone che lasciavi e che sapevi si sarebbero angosciate per te. E non parlo solo di tua madre, accidenti, che nella
tua visione deformata dalla rabbia si meritava di soffrire per te!” Piero osservava il volto congestionato del suo vecchio professore col distacco aristocratico e un po’ sprezzante di uno spettatore che assiste a uno scadente spettacolo teatrale. Ci fu un istante di silenzio, come se Attilio Marchini volesse recuperare l’autocontrollo, ma era difficile. Inspirò lentamente, chiuse un momento gli occhi poi riprese a parlare, e la sua voce aveva ripreso un tono normale, pacato, quasi sorridente. “A dir la verità l’ho sentita più di una volta, tua madre, in questi anni, e ho raccolto le sue confidenze, e la sua angoscia. È vero, le ho promesso che ti avrei trovato, prima o poi, fosse anche l’ultima cosa che avrei fatto nella mia vita! Le hai fatto molto male, lo sai, vero?” Piero si sorprese a gioire intimamente dinanzi all’immagine di Chiara che soffriva e si angosciava per lui. Credeva che dopo quasi dieci anni di lontananza la sua rabbia fosse ata e invece... “Ora come sta?” Il tono era neutro, ma il sorrisetto ironico che Piero aveva stampato sulla sua faccia arrogante gli fece montare la collera e la voglia di prenderlo a schiaffi, proprio lì, in mezzo ai suoi gessetti colorati e a tutte quelle madri disegnate che stringevano dolcissime il proprio piccolo al seno. “Sta come una madre che non sa che fine ha fatto suo figlio! Come diamine vuoi che stia? Accidenti Piero, potevi almeno farle sapere dove ti trovavi! Sarebbe bastato a farla stare meno... disperatamente in ansia per te!” “Era quello che volevo, che stesse in ansia per me... lei doveva pagare!” Il professore era confuso, scioccato dall’odio freddo e calmo di quel ragazzo che non era più il suo Piero. “Ed io? Dovevo pagare anch’io? Almeno a me potevi dirlo che te ne andavi, potevi farmi una telefonata, mandarmi una maledetta lettera, una cartolina, un messaggio in una bottiglia accidenti, e farmi sapere che eri vivo, che stavi alla grande, come dici tu!”
Attilio Marchini pronunciò queste ultime parole tutte d’un fiato, poi si fermò, abbassò gli occhi sul volto della madonna che il suo ex allievo stava disegnando coi suoi gessetti, e senza rendersene conto sorrise, quasi rilassato. Poi continuò: “E soprattutto potevi dirmi che stavi continuando a dipingere le tue montagne azzurre... è un peccato, ragazzo, che alla prima pioggia questo viso di madonna sarà lavato via...”
Era l’alba quando il professore lasciò il suo alunno, la luce bianca dei fari si era appena spenta ma l’aria era ancora fresca della notte. Piero colorava ancora, Margherita dormiva stesa accanto a lui, la madre e il suo bambino si guardavano con amore mentre dietro di loro, in lontananza, le foglie giganti dei fior di loto e le castagne d’acqua spezzavano la distesa azzurra del lago. Quel giorno di Ferragosto l’aria era talmente umida da sciogliere i colori, da trasformare i gessetti in cera, e le zanzare sembravano proliferare a pelo dell’acqua. Eppure, la piazza era gremita, le bancarelle colorate e sonore, e i madonnari sembravano non accorgersi dell’afa che pesava come un coperchio sulla piazza, e continuavano a disegnare. Era quasi sera quando Attilio Marchini arrivò, e trovò solo quella madonna con bambino dalle guance rosa come i fior di loto, ma Piero non c’era più. Quella madonna con bambino avrebbe vinto il primo premio e il suo creatore avrebbe potuto diventare maestro madonnaro, ma poiché il madonnaro in questione non si presentò alla premiazione, il premio fu dato a una giovane canadese dai lunghi capelli biondi. Attilio Marchini cercò per giorni il suo ex allievo, e quando trovò l’ostello gli dissero che Piero e Margherita se ne erano andati. Nessuno sapeva dove, non lo sapevano neanche loro, che se ne erano partiti così, alla ventura. Prima di partire Attilio Marchini tornò alle Grazie e fotografò la madonna con bambino di Piero.
Fu solo dopo, guardando quella foto, quando la pioggia si era già lavata via l’originale, che Attilio Marchini trovò una certa somiglianza tra quel volto di madre e la madre di Piero.
CAPITOLO UNDICESIMO ARLES
Correre, fuggire via, sparire, e come il vento non lasciare traccia di sé, e non farsi prendere mai... era così che si sentiva Piero, elemento naturale, aereo, libero, inconsistente come l’aria e l’acqua, ed ogni corpo solido che tentava di bloccare la sua corsa era un ostacolo da aggirare. Attilio Marchini era quell’ostacolo, quel corpo solido che voleva rinchiudere il vento in una bottiglia di vetro e riportarlo a casa. Era pericoloso, il suo vecchio professore, perché Piero lo amava, perché era l’unico padre che aveva avuto, e la tentazione di farsi chiudere in quella bottiglia di vetro era stata fortissima: approdare, gettare l’ancora, tornare a casa, rivedere il volto di sua madre. Ma era durata poco quella tentazione, il vento aveva ripreso a soffiare forte in direzione opposta, e Piero e la sua Margherita se ne erano volati via di nuovo, su al Nord, in Camargue, nelle sue distese dorate di girasoli e nel profumo azzurro della lavanda. Saintes Maries de la Mer e poi Arles, la città di Van Gogh. Un piccolo pezzo di mondo da vedere, da ascoltare, da respirare, per non sentire il sottile e pungente dolore di aver tradito il suo vecchio professore, di averlo abbandonato in una piazza gremita di gente senza quella pizza e quella birra promessa...
Erano nel cuore della Camargue, al centro dei due bracci del fiume: avevano attraversato le distese dorate del grano e quelle profumate della vite, avevano sentito il sale sulla pelle che parlava di quel mare invisibile ma così vicino, e avevano alzato gli occhi per seguire la cima dei salici, degli olmi, della grandi querce. Avevano attraversato il deserto di sabbia, e assaporato il profumo colorato delle tamerici, dei ginepri, delle erbe aromatiche.
Piero non riusciva a staccare gli occhi da un cavallo bianco che, sicuramente sfuggito al suo gardien, correva nel verde sterminato. Forse si era allontanato dal branco senza accorgersene, forse il suo gardien si era distratto, ma Piero pregò che quel cavallo bianco potesse fuggire via, lontano, sempre più lontano, ed arrivare al mare. La macchina che li aveva condotti a Saintes Maries de la Mer si arrestò e i due ragazzi scesero. Erano ancora a qualche chilometro dalla città ma vollero scendere ugualmente per poter vedere i girasoli da vicino e correre nei campi dorati dal sole. L’estate era alla fine ormai, ma in quel luogo le stagioni sembravano non esistere più, il tempo si era fermato nella direzione del sole, e i fiori stessi lo seguivano, fieri e fiduciosi in quella luce che sembrava non si sarebbe spenta mai. Piero e Margherita lanciarono gli zaini in aria e cominciarono a correre nel campo dorato inseguiti dai girasoli, e poi si amarono dolcemente protetti dai fiori, che discretamente distolsero lo sguardo dai due amanti per seguire il sole e il suo lento allontanarsi verso occidente. La città dei gitani li accolse che era già notte. Affacciata sul mare immobile, profumata di lavanda e fiori di campo, la città nella notte di fine estate era un liquore tiepido e profumato che scese nelle vene dei due ragazzi e li addormentò dolcemente. Il giorno dopo si unirono a un gruppo di gitani che suonavano e ballavano per strada. Margherita indossava un’ampia gonna a balze e danzava leggera come una farfalla, e i suoi lunghi capelli neri sembravano anch’essi seguire il ritmo delle chitarre. Piero disegnava con i suoi gessetti colorati, e la pietra grigia del selciato diventava un campo di iris, un angolo di cielo, una distesa sterminata di grano dorato. Restarono là finché il freddo dell’inverno imminente non spinse i gitani a migrare al caldo.
Rimasti soli, Piero e Margherita si spostarono ad Arles. I soldi stavano finendo ed era necessario trovarsi un lavoro per poter are l’inverno. Fu Margherita che cominciò a lavorare, ottenne un buon posto come cameriera in una romantica caffetteria del Borgo Vecchio. Trovare lavoro per Piero non fu facile: l’aria da hippy gli era rimasta attaccata addosso come una seconda pelle e poteva creare disagio o, peggio ancora, inquietudine nei turisti e negli avventori abituali degli eleganti caffè del centro, e certo Piero non era disposto a cambiare il proprio aspetto, a tagliarsi i capelli che ormai gli arrivavano alle spalle, e a vestire i panni borghesi e rassicuranti del cameriere efficiente e cordiale. Così, come già era successo, Piero continuava a dipingere sul sagrato di Notre Dame de la Major, di St. Honorat, in un angolo del selciato di Place de la République, ovunque ci fosse uno spazio pronto ad accogliere i suoi sogni e la sua fantasia. Margherita, invece, lavava piatti e bicchieri, scriveva ordinazioni e volava leggera da un tavolo all’altro con un vassoio in mano finché non le si gonfiavano i piedi e le si arrossavano le mani. Vivevano nel quartiere de la Cavalerie, nella parte Nord della città, sul Rodano. La loro casa, un minuscolo sottotetto di una palazzina in pietra ormai fatiscente, era nella zona sud del quartiere, la parte vecchia, in uno di quei vicoletti troppo stretti per permettere il aggio di due persone insieme. L’affitto era basso ma non c’era né riscaldamento né acqua calda, e nelle mattine d’inverno faceva freddo lassù, tanto che a volte il vetro della piccola finestra si copriva di brina bianca. Eppure, proprio da quella finestrella si vedevano i tetti di coppi che si allungavano sinuosi nell’azzurro del cielo invernale e arrivavano lontano, laggiù, fino alla striscia azzurra del fiume e ricordavano le onde scure dell’oceano... Nelle belle giornate, poi, il sole batteva sul vetro sciogliendo la brina, ed entrava nella stanza inondandola di luce e di un tepore buono, che consolava i due ragazzi di tutto il freddo della notte. Allora, le travi di legno del basso soffitto inclinato sembravano tornare alberi, e il giallo e l’azzurro ormai stinti della carta da parati ridiventavano l’oro di un campo di grano e il blu luminoso dei
fiori di lavanda. Piero ava il pomeriggio davanti alla tela, la sciarpa di lana grossa che gli copriva il viso fino agli occhi, il berretto calato sulla testa, e la sera, quando Margherita rientrava, Piero le mostrava i suoi progressi, la tela sulla quale, giorno dopo giorno, l’ immagine prendeva una fisionomia sempre più definita e precisa, le spiegava il procedimento che aveva seguito per ottenere quella particolare sfumatura, le illustrava il metodo di mescolare i colori per ottenere la tonalità che aveva in mente. Margherita sorrideva felice, gli poneva domande, ammirava i suoi progressi, lo guardava con amore e poi preparava la cena. Di sé, del suo lavoro, di come un cliente l’aveva umiliata perché aveva sbagliato un’ordinazione, o di quanto era stanca per essere stata in piedi otto ore filate, non raccontava mai, Margherita. E Piero non le chiedeva nulla, non le chiedeva neanche se quella vita le piaceva, se era soddisfatta o avrebbe desiderato qualcosa di più. Una casa più calda e un po’ più grande, un lavoro in cui nessuno potesse umiliarla, un po’ di sicurezza, e magari un figlio per poter legare a sé il suo ragazzo, per sempre. Ma in fondo, lei era felice anche così, perché le bastava avere accanto Piero, e amava la loro vita insieme, amava lavorare per lui, amava trovarlo a casa dopo una giornata di lavoro, amava ascoltarlo parlare, e rannicchiarsi tra le sue braccia la notte, quando fuori pioveva forte e il rumore della pioggia sui coppi del tetto la faceva sentire al sicuro... Era orgogliosa di lui, Margherita, e un po’ lo era anche di se stessa, perché era grazie a lei e ai piatti che lavava, che il suo ragazzo poteva continuare ad inseguire i suoi sogni.
Il cielo era di un azzurro così intenso che sfumava nel blu, in lontananza un covone di grano dorato creava un contrasto netto con il carretto nero, abbandonato nel campo, accanto al quale pascolava pacificamente il cavallo, giallo come il grano. Nell’angolo destro, in basso, i due contadini dormivano abbandonati nella pace sonnolenta del meriggio estivo: la donna, sdraiata sul fianco con la testa tra le braccia, leggermente rannicchiata, aveva la grazia femminile e un po’ fragile della giovinezza.
L’uomo, supino, la testa sulle braccia e il cappello sul viso, era invece disteso al sole con l’atteggiamento spavaldo del maschio consapevole della propria potenza virile. Quel corpo femminile che sembrava chiudersi e cercare riparo all’ombra del corpo maschile, aperto, quest’ultimo, quasi spalancato con arroganza al cielo, come a volerlo sfidare, gli ricordò Margherita, e loro due che dormivano nel grande letto di ottone sotto le travi di legno. Ci ava i pomeriggi all’Espace Van Gogh, dietro il museo di Arte Cristiana di rue Balzac. Era stato fortunato, perché in quel periodo l’Espace aveva accolto, direttamente dal Musée d’Orsay di Parigi, alcuni dei dipinti più celebri del pittore, tra cui i “Contadini in siesta”. Piero contemplava per ore i dipinti, ne studiava i dettagli, esaminava i colori e poi annotava le sue osservazioni su un grande quaderno che si portava sempre dietro. Amava quel luogo, l’antico hôtel-Dieu dove il grande pittore si era rifugiato in preda alla malattia, perché tutto là dentro, non solo i quadri, i bozzetti, i disegni, gli oggetti personali, ma persino l’aria che si respirava in quelle piccole stanze e nel giardino circostante, gli parlava del pittore che tanto ammirava, gli raccontava di quel dolore e di quella solitudine da cui era nata una così straordinaria forma d’arte pittorica. Nei lunghi pomeriggi di primavera, poi, Piero aveva preso l’abitudine di portarsi tela e colori e girare per la città, alla ricerca di un angolo suggestivo da ritrarre. ò più di un mese in Place de la Major, davanti alla piccola chiesa di Notre Dame, e un altro lo trascorse a Les Alyscampes, all’ombra di un cipresso secolare da cui si aveva una perfetta visuale sulla chiesetta incompiuta di St. Honorat e sul suo suggestivo campanile.
Arrivò l’estate e la città si riempì di giovani artisti che suonavano, ballavano e recitavano per strada, e a Piero e Margherita sembrava di essere tornati a Stonehenge. avano le notti per strada, in Place de la République, seduti in cerchio ai piedi
della fontana, e al centro del cerchio uno di loro suonava la chitarra intonando Bob Dylan e tutti lo seguivano, qualcuno chiudendo gli occhi, qualcuno sorridendo, altri prendendosi per mano. Quasi nessuno di quei giovani si conosceva, molti non sapevano neanche il nome del ragazzo che cantava accanto a loro e che ava loro il fumo, molti di quei giovani non parlavano neanche la stessa lingua e probabilmente il mattino seguente si sarebbero salutati per non incontrarsi più, e alla fine dell’estate ognuno sarebbe ripartito per il suo angolo di mondo senza portare con sé neanche un ricordo di quei visi, di quei sorrisi, di quelle mani strette. Ma quelle notti ad Arles, sotto il tiepido cielo d’estate, quei ragazzi che cantavano Bob Dylan erano tutti figli di una stessa madre e di uno stesso padre.
“Oggi è il compleanno di Grazia...” Margherita aprì le imposte e la luce del sole entrò nella stanza provocando la reazione di Piero, non ancora completamente sveglio, che si coprì il viso con il cuscino. Margherita tornò a letto, infilò anche la sua testa sotto il cuscino e ripeté nell’orecchio di lui: “Oggi è il compleanno di Grazia, ricordi? Che ne dici di chiamarla? È stata grande con noi, e si meriterebbe almeno una telefonata.” Piero taceva, e Margherita riprese: “È un anno che siamo partiti e non abbiamo ancora mai chiamato per darle nostre notizie. Abbiamo fatto la figura degli ingrati con Grazia...” In realtà Piero non aveva mai voluto chiamare Grazia, anche se era stato lui, al momento di lasciare l’ostello, a segnarsi il numero di telefono e a promettere che si sarebbero fatti vivi al più presto. Tuttavia, per qualche ragione che lui stesso non aveva chiara, si era sempre tirato indietro dinanzi alle proposte di Margherita di telefonare alla loro amica mantovana. Ora, però, non poteva più temporeggiare, sentiva che Margherita era decisa a
fare quella telefonata, e sapeva che lui stesso non poteva tirarsi indietro. “Cosa c’è che non va, Piero, perché hai paura di fare questa cosa?” Margherita aveva centrato il punto, perché era una ragazza intelligente e sensibile, e lo conosceva profondamente. Piero aveva paura di sentire Grazia, se ne rese conto in quel momento, perché Grazia era l’unico riferimento per la sua famiglia, l’unico possibile punto di contatto tra loro e lui. Il professor Marchini, probabilmente, conosceva l’indirizzo dell’ostello e sicuramente ne aveva parlato a sua madre, e altrettanto sicuramente sua madre aveva cercato di mettersi in contatto con Grazia per avere notizie di lui. Per questo Piero non aveva mai voluto telefonare, per non raccontare di sé, e per non sentire che sua madre lo stava ancora cercando. Fino ad allora Grazia sapeva solo che erano in Francia, niente di più. Chiamarono da un telefono pubblico del centro, e fu proprio Grazia a rispondere al telefono. Fu entusiasta di risentirli, subissò Margherita di domande, poi chiese di parlare con Piero, che ancora non aveva preso la cornetta. “Ciao, Grazia, come va?” la voce di Piero uscì diversa, faticosa. Grazia non rispose alla domanda, e il suo tono era serio e quasi formale quando disse: “Ho bisogno di parlare con te, Piero, sono mesi che aspetto che mi chiami, e se tu mi avessi lasciato un qualsiasi recapito, ti avrei chiamato io già da un pezzo!” “So già quello che devi dirmi Grazia, ma non ne voglio sapere nulla. Ho chiuso con mia madre, il professore e tutto il resto e tu lo sai...” La voce di Piero tremava leggermente. “Mi spiace dovertelo dire così, Piero, ma col professore hai chiuso veramente. È morto due mesi fa.” Grazia tacque un momento, aspettando una reazione di Piero, ma dall’altro capo del filo gli arrivò solo un silenzio doloroso.
“Piero, ci sei?” “Sì, ci sono...” non riuscì a dire altro, perché le orecchie avevano preso a ronzargli e la testa gli girava vorticosamente e se avesse parlato in quel momento, non sarebbe riuscito a sentire il suono della sua voce. Grazia continuò: “Era malato di cancro, lo era già quando venne a Mantova l’anno scorso. Sapeva di avere poco tempo e... credo volesse riallacciare il rapporto con te prima che fosse troppo tardi!” “Come... lo hai saputo?” “Ha chiamato tua madre, ogni mese da quando lui le disse che avevi vissuto qui. Voleva disperatamente parlare con te, ed io la rassicuravo, dicendole che prima o poi mi avresti chiamato... poi due mesi fa mi ha dato la notizia. Devi metterti assolutamente in contatto con lei, Piero, devi farlo per il tuo professore. Credo che ti abbia lasciato qualcosa nel suo testamento.” Grazia si sentì alleggerita di un peso enorme. Aveva fatto il suo dovere, aveva detto tutto quello che c’era da dire. Anche lei era una madre e provava una gran pena per quella donna che chiamava ogni mese nella speranza di avere notizie di suo figlio. Sicuramente aveva fatto degli errori, ma tutte le madri ne fanno, prima o poi, perché nessuno insegna loro ad essere madri. Ora spettava a Piero decidere. Ma se conosceva bene quel ragazzo, sapeva che Piero sarebbe tornato dalla madre. Quando chiuse la comunicazione e le riferì la notizia, Margherita cominciò a piangere silenziosamente. Le tornò alla mente lo sguardo di quell’uomo quando si posava su Piero, rivide il sorriso paterno di quegli occhi, un sorriso carico d’amore, di preoccupazione, di orgoglio. E si sentì colpevole per non aver capito, per non aver costretto Piero a restare, per esser fuggita con lui. Piero, invece, non pianse, erano anni che non piangeva. Si sentiva freddo e duro, come se il suo cuore fosse diventato un blocco di pietra pesante, così pesante che la sua schiena non riusciva a reggere quel peso. Ecco, nessun dolore, solo quel macigno dentro di lui, che rendeva faticoso il suo
respiro e incurvava il suo corpo. Solo una sensazione fisica, ma nessun dolore. Per fortuna. “Piero, vuoi che la chiami io, tua madre? Se non te la senti le parlo io, e dopo decideremo cosa fare.” La voce di Margherita era dolce, la mano che si posò sulla guancia di Piero era calda come una carezza materna. E davanti al silenzio di Piero e al suo sguardo assente, quella voce si fece ancora più suadente e carica di una tenerezza infinita, quella stessa che si usa con i bambini piccoli, troppo piccoli per capire il motivo della loro malinconia. “Tesoro, andiamo a casa, ti preparo un bel caffè e poi ne parliamo con calma, vuoi?” “Sì, Maggie, andiamo a casa a prendere le nostre cose. Domani partiamo. Voglio andare a casa, voglio tornare da mia madre!” Quasi si stupì di quello che aveva detto, come se quelle parole fossero uscite dalla sua bocca autonomamente, senza alcun controllo della ragione e della volontà. E forse era davvero così: la parte di lui ancora infantile, quella che non conosce il rancore e il risentimento, l’orgoglio e il desiderio di vendetta, era stata compressa per anni dalla metà oscura del suo essere, la metà dominata dalla ragione e dalla volontà, la metà adulta. La consapevolezza del torto subito lo aveva costretto ad allontanarsi da lei, non perché lui volesse realmente starle lontano fino a farla uscire dalla sua vita, ma perché lui voleva farla soffrire. E non importa se così soffriva anche lui, se questo era l’unico modo per vendicarsi di lei. Ma ora, il suo vecchio prof se ne era andato per sempre, e con lui l’unico padre che avesse mai avuto. Ecco perché, in quel momento, il bisogno di tornare da sua madre fu più forte di tutto. Margherita, che lo scrutava inquieta per quello strano silenzio, lo vide scuotere la testa e sorridere. Lo guardò con aria interrogativa, ma Piero non si accorse dello sguardo perplesso di Chiara, e non parlava a lei quando disse, piano, così piano che lei non riuscì a distinguere le sue parole: “Ce l’hai fatta dannatissimo rompipalle, a riportarmi da lei! Ed ora te la stai ridendo alle mie spalle... da qualche parte!”
Poi, finalmente, si aggrappò al collo della sua ragazza e cominciò a singhiozzare.
CAPITOLO DODICESIMO IL GELSOMINO
La stazione di Termini era caotica, più ancora di quanto ricordava. Dopo la pace luminosa di Arles, Roma gli sembrò rumorosa e frenetica, ma quella frenesia era familiare, la riconobbe con l’emozione di chi ritrova qualcosa che gli apparteneva e che credeva di aver perso. Quando riemersero dalla stazione della metropolitana che li aveva portati a San Giovanni, la chiesa si offrì loro in tutta la sua imponente e candida eleganza, e in quel momento Piero si chiese come avesse potuto pensare di non tornare mai più a Roma. La casa di Chiara era poco distante, e fu da una cabina telefonica che la chiamarono. Fino a quel momento Piero non aveva voluto farlo, per essere libero di cambiare idea all’ultimo momento, così aveva detto a Margherita. Ma lei sapeva che Piero aveva paura di chiamare sua madre. Ora, però, il momento era arrivato e mentre Piero componeva il numero con la mano che gli tremava, lei gli strinse il braccio e gli appoggiò la testa sulle spalle poi, discretamente, si allontanò da lui, ma Piero la afferrò per il braccio e la tirò nuovamente a sé. “Ciao Chiara, sono io.” Quando, pochi minuti dopo, Chiara aprì loro la porta, Piero si stupì di trovarla così cambiata. I suoi occhi, che Piero ricordava grandi e luminosi, sembravano diventati più piccoli, appesantiti dalle palpebre gonfie e da scure e larghe occhiaie, e lo sguardo aveva perso la luce e si era fatto opaco, quasi inespressivo. Il naso sembrava più lungo e sottile, e sul suo lungo collo da cigno cominciavano a vedersi delle rughe profonde. Sembrava diventata più piccola, più minuta, le spalle le si erano incurvate, e quando Piero la abbracciò, chinandosi per circondarle le vita, si rese conto di quanto fosse dimagrita.
Fu un abbraccio lungo e silenzioso, senza lacrime, denso di un dolore asciutto e spinoso, quasi colpevole, come se ognuno di loro due fosse consapevole del dolore che aveva provocato all’altro. Poi, madre e figlio si staccarono da quell’abbraccio e rimasero così, l’uno di fronte all’altra, tenendosi per le mani, come se avessero paura di perdersi di nuovo, parlandosi con gli occhi. Gli occhi della madre dicevano che avevano pianto tutte le loro lacrime per quel figlio che se ne era andato via senza una parola, quelli del figlio si chiedevano se quella punizione era sufficiente per ricominciare ad amare quella madre colpevole. Margherita, leggermente discosta dal suo ragazzo, osservava la scena e si mordeva le labbra per trattenere le lacrime, pensando che solo quella madre e quel figlio avevano diritto alle lacrime. Fu un momento di dolore e di gioia, breve come una vita intera, lungo come un istante, fuori dal tempo che corre veloce e dallo spazio che limita. Madre e figlio erano approdati, c’era la luce del porto dopo il buio della notte e finalmente l’ancora era stata fissata a fermare la loro corsa. Poi, la vita, il tempo, lo spazio, tornarono inevitabili, e Chiara fece entrare i due ragazzi, baciò Margherita, cucinò per loro, e preparò il letto nella stanza di Piero con le lenzuola di seta bianche, le più belle che aveva nel suo corredo. Ascoltò sorridendo le parole di Piero, che raccontava a sua madre quegli anni di vita trascorsi lontano da lei, e non fece domande. Prima che i due ragazzi chiudessero la porta della loro stanza, ò una mano leggera leggera sui lunghi capelli di Piero, poi la ritrasse quando incontrò gli occhi di lui, quasi vergognandosi di quella carezza rubata. E finalmente, senza dire una parola, tirò fuori dalla tasca una busta e la consegnò a Piero. “È del professor Marchini, tesoro, l’ha scritta per te. E mi ha incaricata di consegnartela non appena ti avessi rivisto.”
Piero entrò nella sua vecchia camera, la lettera tra le mani. Si sedette sul letto, notò il copriletto con le rose, la scrivania di legno chiaro, la sua cartellina dei disegni accuratamente riposta nella libreria, i suoi fumetti. Tutto era rimasto come allora. Cominciò a leggere: “Ciao ragazzo mio... che brutto tiro mi hai giocato! Dopo mesi che ti cercavo, quando finalmente credevo di averti trovato, sei sparito così, accidenti a te, lasciandomi come un coglione davanti a quel dolcissimo viso di Madonna con bambino... Quando non ti ho trovato più la sera dopo in quella piazza piena di gente, ti ho odiato con tutte le mie forze e avevo deciso di andarmene senza una parola per te, così come avevi fatto tu con me. E con tua madre. Poi, tornato a casa, nello studio ho ritrovato le tue montagne azzurre, e ho ripensato a quel bambino dalle gambe magre che uscivano dai calzoni corti, l’aria spaesata, lo sguardo malinconico e un po’ incazzato, e ho riprovato la stessa tenerezza di allora. Così ho deciso che non potevo fare come te, andarmene senza una parola, perché io sono vecchio, e tu sei un ragazzo, perché io ho avuto un padre e una madre, e tu non li hai avuti, perché io sono un uomo comune, e tu sei un albatro elegante e maestoso che sa volare nell’azzurro. E perché in questa vita bastarda che non vorrei lasciare, proprio ora che sto per svoltare l’angolo, sento che tu, con le tue grandi ali bianche da albatro, sei ciò che ha dato un senso al mio aggio. Ho amato tante donne, ma avrei voluto amarne una sola, avrei voluto dei figli e ho avuto solo un ragazzo senza padre e senza madre che amavo come un figlio, ma che non era figlio mio. Ho amato l’arte ma non ho mai creato, ho avuto generazioni di studenti che mi hanno temuto e rispettato, e che sono spariti nella mediocrità grigia e inevitabile della vita. In questi ultimi tempi mi sono sforzato di trovare un senso al mio cammino, e poi ho capito, ragazzo, che quel senso eri tu. Non come sei adesso, ma come so che
potresti diventare. Se lo vuoi veramente. Se ci credi, accidenti a te! Un tempo, tantissimi anni fa, sulla terra vivevano creature divine, che non conoscevano i limiti spaziali, temporali, cognitivi dell’essere umano. Uominidei, beati loro, che comprendevano istintivamente l’armonia dell’universo e conoscevano senza fatica né sforzo. Pensa, ragazzo, il piacere infinito di conoscere, di comprendere, di creare senza sforzo, come se la bellezza nella sua essenza, quella che noi inseguiamo per tutta la vita riuscendo solo, a tratti, ad intuirla, fosse parte di noi, del nostro corpo, come una mano, un piede, un naso, un orecchio! Poi, inevitabilmente, quella microscopica particella di umanità che c’era nell’uomo-dio ha commesso un errore, e tutto è cambiato. Fine della perfezione, della bellezza, dell’onnipotenza, dell’onniscienza! È arrivato l’uomo, meschino, limitato, brutto, inutile... e per giunta infelice e pieno di rimpianti perché quest’uomo ha perso tutto ma non la memoria di ciò che era e che avrebbe potuto continuare ad essere. Che grande fregatura, vero ragazzo? Come se qualcuno da lassù ci prendesse per i fondelli mostrandoci ogni giorno, ogni ora, ogni maledetto istante di questa inutile e brutta vita quello che poteva essere e che non è stato per colpa nostra. Eppure... eppure qualcosa c’è ancora, non tutto è andato perso in quel maledetto errore che ci è costato così tanto. Forse Dio, o chi per lui, ha avuto pietà di noi e ci ha permesso di conservare un pezzetto di divino. Certo, non tutti ce l’hanno quel pezzetto di cielo dentro, anzi, sono pochissimi e si confondono in mezzo al grigio di questa umanità squallida e infelice, si confondono così bene che l’azzurro non lo vedi più... e a volte quel pezzo di cielo va perso. Tu sei uno dei pochi, ragazzo mio, che ha conservato un pezzetto di cielo dentro di sé. Sono le tue mani, quando dipingono le montagne e le colorano di blu.
I tuoi compagni ti presero in giro, perché le montagne blu, ma tu fregatene, perché loro non vedono il cielo. Continua a dipingere le tue montagne blu, figlio mio, e fallo finché tutto il mondo non vedrà quel pezzetto di cielo che c’è in te. Fallo per te. Fallo per tua madre, che ti ama come solo una madre sa amare ed è questo, alla fine, che conta davvero. Fallo per me, perché è così che darai un senso al mio aggio sulla terra. Il tuo prof.”
Porse la lettera a Margherita in silenzio e quando anche lei l’ebbe letta, solo allora, sollevò lo sguardo da terra e fissò gli occhi in quelli di lei, come a chiedere aiuto. Margherita vide ancora quel dolore asciutto e colpevole, e si sentì desolatamente impotente: “Quanto bene ti voleva, Piero! Se lo avessi capito allora, quando venne a Mantova! Mi dispiace tanto di non averti aiutato a fare la scelta giusta, tesoro, tu eri troppo coinvolto ma io potevo essere più obiettiva e...” Piero la interruppe bruscamente, quasi con rabbia: “Ormai è tardi, Maggie, è inutile parlarne... l’ho deluso e gli ho fatto del male, volevo punire Chiara e ho punito anche lui, che non lo meritava, lui che mi è sempre stato vicino e ha sempre creduto in me, e non mi ha mai abbandonato, non sono non mi ha mai tradito come...” “No, non è tardi, amore, c’è ancora qualcosa che puoi fare per lui, che credeva così tanto in te e nelle tue doti artistiche. Riprendi in mano la tua vita, ricomponi il rapporto con tua madre, iscriviti all’accademia e continua a studiare per diventare quello che lui vedeva in te fin da quando eri un ragazzino: un grande pittore! Era questo che lui voleva, e non è troppo tardi per te!”
“Lo è, invece, è tardi per me, perché ho più di trent’anni, è tardi per lui, perché qualunque cosa faccia d’ora in poi della mia vita, lui non potrà mai saperlo!” La voce di Piero era un sussurro di angoscia. “Lui non voleva che tu lo fi per lui, Piero, ma per te stesso, perché ti voleva bene! E continua a volertene, dovunque sia adesso, e a credere in te, perché l’amore non muore, muoiono le persone, ma il bene che ci hanno voluto resta intorno a noi, e ci riscalda quando abbiamo freddo, e ci fa luce quando è buio e abbiamo paura!” Piero scuoteva la testa dinanzi all’ingenuità ostinata della sua ragazza che credeva ancora nelle favole. La verità era che il suo prof non c’era più, e lui non l’aveva neanche salutato, e non gli aveva detto che gli voleva bene come il padre che non aveva mai avuto. Un altro peso da portare sulle spalle, ogni giorno, per tutti gli anni a venire. Era tardi, ormai, tardi per tutto, tardi per dire addio al suo professore, tardi per sua madre, tardi per lui. Questa era la verità. Margherita, che sapeva leggere i pensieri di Piero, riprese a parlare: “Io non credo che sia tardi, amore, non è mai tardi, neanche dopo... Io sono sicura che lui è ancora accanto a te, ti vede, ti accompagna in ogni momento della giornata, e ancora soffre e gioisce per te, come ha sempre fatto quando era vivo. Lo so che non ci credi, amore, per te lui non c’è più, e può darsi che tu abbia ragione, e sia io quella che sbaglia. Ma può essere anche il contrario, non possiamo essere certi di nulla, né della vita, né della morte. Voglio raccontarti una cosa di me che non ho mai detto a nessuno...” Margherita tacque un istante e inspirò lentamente, come per concentrarsi su quel ricordo, poi riprese: “Quando ero piccola e mio nonno morì, era primavera. Adoravo mio nonno, lui mi aveva fatto da padre e da madre, e quando lui se ne andò, solo allora, mi sentii davvero orfana. Rimasi ancora qualche mese nella vecchia casa di campagna, finché gli zii non decisero di venderla. Ricordo quell’estate, il nonno mi mancava tanto, e mi rifugiavo nel suo orto perché quello era l’unico luogo che me lo faceva sentire ancora vicino...
Curavo le sue piante, annaffiavo i pomodori, e mi occupavo del gelsomino. L’aveva piantato il nonno molti anni prima, in un grande vaso che aveva messo sul portico, davanti alle scale, ma quella pianta era il suo cruccio perché, nonostante le sue cure, non riusciva ad “esplodere”, come diceva lui. Aveva sognato per anni di vederla crescere ed espandersi, per ricoprire con i suoi fiori tutta la parete delle scale, avrebbe voluto una cascata di fiori bianchi per riconoscere casa sua anche da lontano, dai campi dove lavorava tutti i giorni. E avrebbe voluto sentire il profumo del gelsomino quando apriva le finestre nelle domeniche d’estate, quando si poteva restare a letto a oziare e poi ci si alzava tardi per andare alla messa di mezzogiorno. Invece, quel benedetto gelsomino stentava a crescere, e quando il nonno morì, in primavera, non arrivava nemmeno al primo gradino. Eppure, alla fine dell’estate, il gelsomino era diventato enorme, tanto che la pietra grigia della parete non si vedeva più, era completamente ricoperta da quella cascata bianca di fiori che arrivavano fino a terra e quando salivo le scale di casa, poggiavo le mani sui fiori... Era proprio come aveva sempre sognato il nonno, casa nostra si distingueva da tutte le altre, era diventata la più bella, e dai campi la riconoscevi, la casa del nonno, grazie a quelle scale di fiori bianchi. Ecco, io quell’estate ho creduto davvero che il nonno fosse andato lì, in mezzo ai gelsomini, nel profumo di quei fiori bianchi e anche ora, quando sento quel profumo, credo che sia lui che mi saluta e mi dice che c’è ancora.” Guardando lo sguardo di Piero, a metà intenerito e a metà perplesso, Margherita continuò: “E ne so un’altra di storia strana. Era proprio il nonno che me la raccontava sempre. La nonna gli faceva il caffè la mattina, e lui diceva che senza quell’aroma di caffè in casa non riusciva ad alzarsi dal letto. Povero nonno, rimase vedovo presto, e mi raccontava che i prima giorni dopo la morte della nonna, la mattina sentiva ancora l’aroma del caffè che si diffondeva in tutta la casa, tanto forte che le prime volte andava in cucina convinto di trovare il caffè sul fuoco e la nonna ai fornelli. Potrei raccontartene un’infinità di storie così... Io credo che sia questo morire: le persone buone continuano a vivere nel profumo di un fiore di gelsomino, o nell’aroma del caffè del mattino... le persone
che abbiamo amato e che ci hanno amato restano sempre accanto a noi ed è dal profumo che ti accorgi della loro presenza... E questo è il loro paradiso. Se solo fossimo più attenti, meno distratti, potremmo sentirle ancora intorno a noi, che continuano ad amarci, e a parlarci attraverso gli oggetti che riempiono le nostre case... non esiste la materia completamente inanimata, amore, tutte le cose hanno un’anima, persino una caffettiera...” Margherita tacque, un po’ a disagio perché questa cosa della sua infanzia era solo sua, e fino ad allora non l’aveva mai raccontata a nessuno, poi vide lo sguardo di Piero e concluse: “Che c’è di male, a pensarla così?” Piero non rispose, e spense la luce. L’ultimo pensiero che ebbe prima di addormentarsi fu che anche sua madre aveva sempre amato il profumo dei gelsomini. Il giorno dopo sua madre gli consegnò un pacco che il professore aveva lasciato per lui: le sue montagne azzurre nella loro vecchia cornice di legno bianco, quella stessa che aveva campeggiato nell’aula di disegno per i tre anni delle medie, e la litografia di Dalì. Piero guardò sua madre con aria interrogativa, cercando di nascondere la commozione, ma prima ancora che Chiara parlasse, aveva capito il messaggio del professore. “Il disegno è tuo, e dice di averne cura come ha fatto lui in tutti questi anni, perché è qualcosa di molto prezioso. La litografia è di valore, e lui vuole che tu ne faccia quello che vuoi... mi ha detto che puoi tenerla, e sarai proprietario di un oggetto di grande valore, ma se venderla può aiutarti a realizzare i tuoi progetti, vendila subito, spara una grossa cifra... e realizza i tuoi progetti. Sai, Piero, credo che sia questo che il professor Marchini volesse più di tutto. Aiutarti a realizzare i tuoi sogni. Ti ha lasciato la cosa più preziosa che aveva, e tu devi farne buon uso.” Chiara esitò, intimorita dallo sguardo impenetrabile e severo di suo figlio, poi il bisogno di aprire il suo cuore fu più forte:
“Anch’io vorrei più di tutto che tu trovassi la tua strada e realizzassi i tuoi sogni... vorrei solo che tu smettessi di fuggire, smettessi di odiarmi e che fossi felice!” Queste ultime parole, Chiara le pronunciò tutte d’ un fiato, con gli occhi bassi e la voce ridotta a un sussurro come si confessa una colpa di cui ci si vergogna, sperando che chi ascolta non riesca a percepire interamente il senso delle nostre parole. Ma Piero comprese tutto, ascoltò e percepì anche quel sussurro, colse il tremito leggero della voce di sua madre, gli parve persino di sentire il battito del cuore di lei che accelerava fino a farle male. E volle continuare a farle male, come stava male lui: “Lui era un padre per me, si è sempre comportato come tale, mi ha scelto e mi ha voluto. Capisci che voglio dire? Lui ha scelto me, ha voluto me. Proprio come un padre. Tu cosa sei, che accidenti sei per me?” Parlarono per ore, la madre e il figlio, e quando smisero di parlare era già sera. La madre raccontò di un giorno di settembre, di un ufficiale coraggioso che aveva salvato la vita di una ragazza, e di come la ragazza si era innamorata di lui e aveva sognato il suo ritorno. Ma lui non era più tornato, la favola era finita, divorata dalla vita amara, banale, prevedibile, e la ragazza era diventata una madre tagliata a metà, una chimera con due teste, un’informe creatura senza ruolo, senza autorità, senza diritti né doveri. Un solo sentimento le apparteneva, unico e composito, radicato nelle sue viscere come un tumore maligno: il rimpianto, la coscienza della colpa, l’amore per quel figlio. Piero non la perdonò, non in quel momento, perché ci vogliono anni per perdonare una madre, e ci vuole la saggezza tollerante di chi ha vissuto e accumulato errori, ma si concesse di ascoltarla senza la diffidenza e la rabbia di sempre. E alla fine decise che era tempo di smetterla di punirla. E di punire se stesso. Fu con dolcezza che le chiese di parlargli di suo padre, e Chiara capì che era arrivato il momento che aveva temuto e aspettato per anni. Piero aveva il diritto di sapere la verità fino in fondo, perché solo così, tornando
alle origini, avrebbe potuto ricomporre i frammenti della sua vita e costruirsi un’identità. Durante quel lungo anno in cui aveva perso ogni traccia di suo figlio, la disperazione aveva spinto Chiara a prendere una decisione che per oltre vent’anni aveva rimandato: rintracciare Luigi Amati. Lo aveva incontrato in un anonimo bar della periferia di Roma e lo aveva messo al corrente dell’esistenza di un figlio. Era stato penoso, imbarazzante per entrambi, e soprattutto rapido come togliersi un dente. Luigi ricordava Chiara, la fanciulla che guarda il cielo, e rimase deluso nel vedere una donna reale, di mezz’età, con le guance scavate e gli occhi spenti. Non appena la vide provò ostilità per lei, che non corrispondeva all’immagine eterea che aveva conservato nella sua memoria e nel nome che aveva scelto di dare a sua figlia. Quando lei cominciò a parlare, si scoprì diffidente e un po’ seccato e trovò paradossale e sconcertante scoprire di avere un figlio maschio già adulto. Chiara, emozionata e tremante all’inizio, convinta che quell’incontro avrebbe radicalmente cambiato la vita di tre persone, rimase delusa da quell’estraneo e dalla sua tiepida reazione. In realtà, il fatto di aver concepito un figlio insieme non li rendeva meno estranei. Dopo aver parlato, solo allora, Chiara guardò gli occhi azzurri di quell’uomo ma non riuscì a trovarvi nulla, neanche un briciolo di curiosità. L’eroe buono che le aveva salvato la vita durante la guerra non era quell’uomo corpulento e arrogante che la guardava dall’alto con la presunzione di chi sa di appartenere all’universo degli eletti dalla vita. Quello sguardo la fece sentire piccola e miserabile, ignorata dagli uomini e dagli dei. “Credo sarebbe meglio per tuo figlio e per mia figlia non rendere pubblica la cosa. Hanno la loro vita, ormai, e tutto si regge su delicati equilibri che
risulterebbero irreversibilmente sconvolti se questa cosa venisse alla luce. Lasciamo le cose come stanno, credo sia meglio per tutti. Mia figlia sta studiando, a breve avrà un esame che la impegnerà molto, e non vorrei che...” Chiara ascoltava in silenzio, gli occhi fissi sulla chiazza scura d’umidità che deturpava la parete alle spalle di Luigi. Una parte di lei avrebbe voluto prenderlo a schiaffi tutte le volte che diceva “mia figlia”, e urlargli che anche Piero era suo figlio, il figlio maschio che la sua compagna ufficiale non era riuscita a dargli, e che quel maschio aveva ereditato la sua ione per l’arte e la sua genialità, cose che la sua legittima figlia probabilmente non aveva avuto in sorte. Sì, sarebbe stato gratificante e consolatorio costringerlo a dire “mio figlio”; forse, se avesse minacciato di mettersi a urlare lì, davanti a tutti, la paura di essere scoperto e di finire sui giornali con uno scandalo familiare gli avrebbe strappato dalla faccia quella maschera da padre di un’unica figlia. Ma c’era un’altra parte in lei, quella razionale che aveva imparato a comprimere le sue emozioni in modo che occuero uno spazio minimo del suo essere, che rifletteva sulla reazione di quello sconosciuto, padre di suo figlio. Lei, che gli era madre, aveva sbagliato, lo aveva lasciato, lo aveva perso e chissà se lo avrebbe mai ritrovato. Lei, che lo amava, era riuscita solo a farsi odiare da Piero... Come poteva pretendere, ora, che quello sconosciuto che scopriva a più di cinquant’anni di essere padre, potesse accettare un figlio che piombava come una pioggia di pietre nella sua bella vita di uomo di successo? Naturale che Luigi fosse diffidente, probabilmente pensava che lei e quel figlio spuntato dal ato mirassero al suo cospicuo conto in banca... Ecco perché gli disse che non voleva nulla da lui, né i suoi soldi né il suo nome, ma solo la promessa che se suo figlio fosse andato a cercarlo, lui l’avrebbe incontrato. Il resto l’avrebbe deciso la vita. Luigi promise e se ne andò. Lei rimase ancora qualche istante seduta davanti alla sedia vuota, gli occhi fissi sulla parete di fronte, come ipnotizzati da quella macchia d’umidità sul muro.
Poi, finalmente, si alzò, prese la sua borsa e si avviò verso la porta. Uscendo, pensò che quella macchia sembrava essere diventata più grande. Fu sicura che se fosse rimasta lì dentro, la macchia sarebbe cresciuta ancora fino a riempire tutta la parete.
CAPITOLO TREDICESIMO L’INCONTRO
Erano disposti ad andare anche a Carrara, dove viveva per la maggior parte dell’anno, ma Luigi preferì incontrarli a Roma, dove faceva frequenti viaggi di lavoro e dove aveva un appartamento in cui risiedeva per lunghi periodi. L’appuntamento, però, era lontano dall’elegante appartamento che lo scultore possedeva a Piazza di Spagna. Fu Amati a decidere che si sarebbero incontrati nello stesso, anonimo bar di un quartiere alla periferia immediata della città, dove lui e Chiara si erano incontrati qualche mese prima. Chiara avrebbe voluto vestire Piero con le sue mani, come faceva quando era piccolo, e mettergli l’abito che aveva comprato per lui, e la cravatta di seta blu notte, ma suo figlio rifiutò il suo aiuto ridendo e indossò il solito jeans. Però si pettinò i capelli e si fece la coda con più attenzione del solito, e questa fu l’unica concessione che fece a sua madre. Voleva portare con sé Margherita, ma sia la ragazza che Chiara gli dissero che era meglio andare da solo a quell’appuntamento. Padre e figlio avrebbero avuto tante cose da dirsi e sarebbe stato più facile per entrambi essere soli. Quando si videro in quel bar di periferia, si riconobbero subito. Piero aveva già visto Luigi Amati quando era studente all’artistico, Luigi non aveva mai visto suo figlio ma, non appena lo vide, fu certo che Chiara gli avesse detto la verità. Quel ragazzo era figlio suo, non perché gli somigliasse in maniera particolare, ma per una specie di aurea che lo circondava, un atteggiamento che lui stesso avrebbe avuto difficoltà a definire... gli fece pensare a qualcuno che ha una gran sete, e che cerca forsennatamente una sorgente d’acqua per calmare quel bisogno che non gli dà pace. La tensione di quello sguardo, il bisogno e la ricerca che si leggevano nei suoi occhi gli ricordarono lui alla sua età, quando ancora la vita non gli aveva regalato nulla. Forse fu grazie a quel fugace riaffacciarsi di sensazioni che gli ricordavano la
sua gioventù, quando tutto è così difficile e così colorato, che Luigi Amati provò un’istintiva simpatia per lui: si aspettava un ragazzo impacciato e si trovò davanti un giovane uomo dignitoso e disinvolto. Gli piacquero anche i suoi jeans sdruciti, la sua aria trasandata, i suoi capelli lunghi. Dopo essersi studiati per alcuni istanti, si strinsero la mano e cominciarono a parlare. Luigi gli chiese dei suoi studi, della sua ione per la pittura, dei suoi progetti futuri. Gli raccontò di sé, dei suoi inizi nella scultura, di quanto era stato difficile iniziare a farsi un nome, e gli spiegò come è importante non demoralizzarsi dinanzi alle difficoltà e ai fallimenti. Gli chiese anche di portargli i suoi lavori, in occasione di un loro prossimo incontro. Li avrebbe valutati e, se li avesse trovati validi, gli avrebbe dato una mano a organizzare una mostra lì a Roma. Aveva molte conoscenze in quel settore, naturalmente, e avrebbe potuto introdurlo con facilità. Prima di congedarsi, Luigi scherzò persino con lui, gli chiese delle ragazze che aveva avuto, gli raccontò di qualche sua avventura ata in una maniera studiatamente goliardica ma così disinvolta che pareva naturale. Era evidente che Luigi voleva conquistarselo, per qualche ragione che lui stesso non aveva chiara. Forse sperava che in questo modo la madre e il ragazzo non gli avrebbero creato problemi in futuro, forse il suo innato narcisismo gli imponeva di piacere a chiunque, o forse stava solo recitando nel migliore dei modi il ruolo del padre ritrovato. Qualunque cosa fosse, Luigi riuscì nel suo intento. Quando padre e figlio si salutarono con una poderosa stretta di mano, rimandando un abbraccio al prossimo incontro, Piero era conquistato da quell’uomo, dalla sua intelligenza e dall’aristocratico anticonformismo che si portava addosso come una seconda pelle. Era talmente evidente la sua consapevolezza di essere al di sopra della gente comune che popola il pianeta, e talmente smisurata la sua autostima, da renderlo quasi surreale. Eppure, Piero lo trovò simpatico e divertente. Non lo avrebbe confessato a nessuno, tanto meno a sua madre, ma si sentiva orgoglioso di quel padre che aveva appena conosciuto, e si scoprì a sorridere mentre, la sera di quel memorabile giorno, raccontando a Margherita stretta a lui sotto le coperte, intravedeva un futuro con lui.
Il suo futuro... ora che aveva un padre, e non un padre qualunque, sarebbe andato all’Accademia, come voleva il prof, avrebbe continuato a studiare per poter diventare un pittore affermato. Ci sarebbero voluti anni ma il lavoro duro non lo spaventava più, perché avrebbe avuto suo padre accanto. Era sicuro che le sue opere lo avrebbero conquistato. Gli avrebbe mostrato tutto il suo lavoro, le tele che si era portato da Arles, i lavori fatti al liceo, persino i disegni fatti alle medie con Marchini. Si mise ad aspettare con ansia quel secondo incontro con suo padre, e a raccogliere con cura tutto il suo lavoro, disponendolo in cartelle numerate per anni, in modo che suo padre potesse avere un quadro preciso dell’evoluzione dei suoi lavori e delle sue potenzialità pittoriche. Si informò per l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti e cominciò a compilare i moduli. Dopo un mese da quell’incontro era tutto pronto ma suo padre non aveva ancora chiamato. Dopo un altro mese fu lui a chiamare al recapito telefonico che Luigi Amati aveva lasciato a sua madre. Gli dissero che il signor Amati era all’estero per lavoro e che sarebbe rimasto a lungo fuori dell’Italia. Non avevano ricevuto l’autorizzazione a trasmettere il suo recapito, pertanto lo scultore era irreperibile, salvo che per i diretti familiari, ovvero la moglie e la figlia. Piero buttò via tutto, i suoi disegni delle medie, le tele di Arles, i moduli per l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti. Tenne solo il disegno delle montagne azzurre, per rispettare la volontà del professore. Si tagliò i capelli e non chiamò mai più suo padre. E suo padre non chiamò mai più lui.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO OLTRE LE COSE
Dicembre 1999 Margherita non voleva che partisse con la moto, non aveva più l’età per fare quelle pazzie da giovane hippy, e poi era dicembre, e faceva troppo freddo, ma lui non era mai stato tipo da macchina, le aveva detto ridendo mentre la salutava e si infilava il casco... Ora, mentre la moto correva veloce sulla A12, Piero non sentiva il freddo pungente che gli tagliava la faccia. Era assorto totalmente nei suoi pensieri, e le immagini della sua vita sfrecciavano velocemente dinanzi ai suoi occhi con la stessa rapidità del paesaggio che si stendeva ai lati dell’autostrada, e nello stesso modo in cui la brina ricopriva la campagna toscana, quelle immagini che nascevano dai suoi ricordi parevano cristallizzate dal tempo e si riproponevano alla sua memoria avvolte dal fascino malinconico del ato. Il professore era stato il primo che aveva deluso, eppure se ne era andato conservando la tenace convinzione che il suo allievo migliore potesse ancora diventare qualcuno. Si trovò a pensare che era stato meglio che Marchini fosse morto, perché così si era risparmiato la penosa rappresentazione del fallimento di tutte quelle aspettative. Il prof non meritava quella delusione, e forse la vita era stata pietosa a portarselo via prima che potesse vedere... Piero, allievo geniale e figlio putativo, aveva gettato nell’immondizia i suoi disegni, le sue tele e i suoi sogni, e aveva rinunciato. Forse perché non ci aveva mai creduto veramente. O forse per punire suo padre.
Suo padre, un uomo troppo in alto per concedersi a un figlio bastardo. L’aveva visto solo due volte nella vita ed entrambe le volte ne era rimasto stregato. L’uomo-dio di cui parlava il professore nella sua lettera non era il figlio, ma il padre, e lui lo aveva riconosciuto, aveva visto il cielo dentro di lui. Ma forse era stato proprio questo il problema con quell’uomo. Era troppo lontano, troppo distante dai figli degli uomini, mediocri e miserabili ai suoi occhi come un verme di terra può apparire agli occhi di una farfalla. Se anche un’impercettibile particella di quella genialità era finita nel sangue del figlio, lui, il figlio, l’aveva deliberatamente calpestata come avrebbe calpestato la boriosa e arrogante genialità del padre, quel padre che non l’aveva mai cercato, che non aveva mantenuto la sua promessa. Che non lo aveva mai abbracciato. E aveva scelto la mediocrità per non essere come lui. Ora suo padre era morto, e Piero si trovò a sorridere pensando allo stupore dell’uomo-dio che si credeva immortale e che muore squallidamente di un cancro ai polmoni come il più miserabile dei mortali. O forse lo aveva fatto per punire sua madre. Piero sorrise di nuovo pensando a lei, ma era un sorriso diverso. Ora, con lei i conti erano pari. Finita la rabbia, il rancore, il desiderio di vendetta, le immagini di sua madre vecchia, curva per il dolore alla schiena, il volto scavato da rughe profonde, le mani che afferrano il bicchiere e che tremano mentre lo avvicinano alle labbra, il respiro che si fa più affannoso ad ogni o, l’avevano riconciliato con lei. La loro storia era semplice come il disegno di un bambino e dolorosa come un chiodo conficcato per errore nel palmo di una mano. Chiara aveva sbagliato, ma era la figlia ad aver commesso quell’errore, non la madre. Dopo, era stato tardi per rimediare, la vita non torna indietro. Però ti fa pagare
tutti i maledetti e irreversibili errori che commetti, con la severità avida e intransigente di un usuraio che prolifera e gode del dolore dei suoi clienti disperati. E Chiara aveva pagato. Con tutto il dolore, quello stesso che le aveva imbiancato i capelli, incurvato la schiena e deturpato il viso con profonde rughe. Aveva pagato con le lunghe attese di un figlio che non ritorna. Soprattutto, aveva pagato con l’amore. Piero lo sapeva, adesso, lo aveva capito quando Chiara era ancora viva, fortunatamente. Forse gli era mancata una madre, ma non l’amore di quella madre. E alla fine quell’amore li aveva salvati, madre e figlio. Il pensiero di sua madre gli riportò alla mente Margherita, la sua Maggie, la ragazza che aveva raccolto lungo il lago in una nebbiosa sera d’autunno a Mantova. Erano ati quarant’anni, ma il viso di quella ragazza, il suo sguardo da bambina che ha perso la strada di casa gli tornò alla memoria come se fosse solo ieri... Ecco, con lei Piero aveva fatto qualcosa di buono, perché se non ci fosse stato lui a riempire la sua solitudine, quella bambina si sarebbe smarrita nel bosco e il buio l’avrebbe inghiottita. Certo, in quel momento della sua vita, Piero non aveva molto da darle, solo un letto in un ostello e la sua compagnia e in fondo anche lui, in quel momento della sua vita, aveva perso la strada di casa. Non avevano altro che loro stessi e le loro solitudini da dare l’uno all’altra, e all’inizio era stato questo che li aveva uniti. Poi, piano piano, era arrivato l’amore, un amore discreto e tenero, che li aveva legati senza che quasi se ne accorgessero, fatto di lunghe notti trascorse a parlare stretti stretti in un letto a una piazza con il materasso sfondato, di partenze improvvise per paesi sconosciuti, di entusiasmi e delusioni, e di milioni di scale da salire per mano. Lei c’era stata sempre quando c’era da affrontare una salita, e le sue parole, le sue carezze, i suoi occhi sorridenti gli avevano reso meno faticose le salite della sua vita.
Margherita era come il professore, aveva pagato senza avere colpe. Dopo, lui aveva deluso anche lei, e le aveva offerto una vita incolore, tanto diversa da quella che avevano immaginato quando ancora viaggiavano come zingari felici da un luogo all’altro, gli zaini sulle spalle e le stelle come tetto. Si erano dovuti fermare troppo presto, i sogni non ti fanno mangiare, e avevano cominciato a vivere la vita di tutti. Un villaggio nella Francia del Nord, a pochi chilometri da Saint-Mâlo per continuare a sentire il profumo dell’oceano, due stanze in affitto, un lavoro per poter mangiare tutti i giorni. All’inizio era stato bello, entrambi avevano avuto l’illusione di essere ancora due figli dell’universo che correvano sulla scia del vento. Avevano scelto la Bretagna, incantati dal rosa delle ortensie e il grigio della pietra, e quando erano arrivati a Saint-Mâlo, dopo una notte di viaggio su una vecchia vespa cinquanta che avevano acquistato usata da uno squattrinato studente di Digione, erano rimasti letteralmente folgorati dalla cittadina bretone. Avevano trovato una camera in un palazzetto scalcinato nei pressi di Porte Saint Vincent e da lì tutti i giorni facevano a piedi il giro delle mura, superavano le torri e la Grande-Porte fino ad arrivare al Bastion de la Hollande. Margherita leggeva René, Piero ascoltava, lo sguardo perso sul mare del Nord, finché lo scoglio di Grand Bé con la tomba del poeta non era visibile ai loro occhi, così vicino che sembrava di poterlo toccare. Allora restavano in silenzio per alcuni minuti, osservavano l’oceano infinito e nero che si perdeva lontano sulla linea dell’orizzonte, spezzato dal candore abbagliante delle onde, e le nuvole color ferro, grandi, così grandi che pareva di poterci entrar dentro, se non fossero state così veloci nella loro corsa. E mentre ascoltavano il lamento del vento, Piero si sentiva ferito come il poeta romantico che riposava su quel minuscolo isolotto in mezzo alle onde, e quella confusa malinconia aveva il sapore del rimpianto. Un giorno, finalmente, la bassa marea permise loro di arrivare a piedi allo scoglio per posare un fiore sulla tomba del poeta. Ebbero la sensazione di camminare sull’acqua, leggeri e liberi come gabbiani, e sentirono per un istante di appartenere all’universo.
Mai, neanche il sole di notte a Stonehenge, o l’ erba della migliore qualità, o la musica dei Pink Floyd, li aveva portati così lontano dalla terra. Il giorno dopo, trovarono la camera di Porte Saint Vincent chiusa a chiave e i loro zaini per terra davanti alla porta. Era un mese che non pagavano e il padrone li aveva buttati fuori. Fu allora che capirono che il tempo dei sogni era finito. Piero aveva cominciato come imbianchino, almeno usava ancora pennello e colori, poi era ato a decoratore e stuccatore di pareti, soffitti, controsoffitti, il che, unito a piccoli lavori edili, gli aveva permesso di guadagnare il giusto per permettere a sé e Margherita una vita dignitosa. Qualche volta, quando girava bene, aveva ottenuto di fare anche piccoli restauri, una volta un antiquario di Caen gli aveva commissionato il restauro di un paio di tele risalenti al periodo impressionista, ed era stato allora che Piero aveva avuto voglia di smettere con quel lavoro e riprovare a inseguire i suoi sogni. Poi, finito il lavoro e consegnate le tele al cliente soddisfatto, Piero si era trovato una bella sommetta in mano, più di quanto non avesse mai guadagnato fino ad allora. Aveva superato i trent’anni, è vero, ma aveva ancora tanto tempo davanti a sé: avrebbe potuto investire quel denaro, vendere la litografia che gli aveva lasciato il professore e riprovarci con la pittura... in fondo Margherita aveva un buon posto come cameriera alla Petite Cuisine e se lui avesse smesso di lavorare per ricominciare a dipingere, almeno per i primi tempi il pane l’avrebbe portato a casa lei... Poi, però, gli avevano commissionato un altro buon lavoro, la tinteggiatura di un grande stabile con decori interni, un lavoro che non si poteva rifiutare, sarebbe stata una follia... Il suo progetto si poteva rimandare di qualche mese, non appena avesse ultimato la tinteggiatura dello stabile, in fondo era lui che sceglieva se, come e quando ricominciare. Così, di mese in mese, di anno in anno, si era illuso di scegliere, e invece era stata la vita che aveva scelto per lui. I pennelli non li aveva mai più presi in mano, se non per tinteggiare pareti e
controsoffitti, e a quel progetto ci aveva definitivamente rinunciato quando la Petite Cuisine aveva lasciato a casa Margherita. Nessun dolore, nessun rimpianto, aveva ripetuto alla sua donna e a se stesso, questo lavoro l’ho scelto io, nessuno mi ha spinto cercando di convincermi che questa era la mia strada. Non ho nessuno da accontentare, nessuno da deludere. Nessuna responsabilità. In Italia ci tornava solo un paio di volte l’anno, per vedere sua madre e sua sorella Irene, e dopo la morte di Chiara anche più di rado, giusto per mettere fiori bianchi sulla sua tomba. Ma gli faceva rabbia vedere quel busto in gesso di Luigi Amati che troneggiava sul marmo della lapide, protetto dalla teca di cristallo. Tutto quell’armamentario disturbava la semplicità pulita di quella tomba, e a Piero sembrava un’intrusione forzata e tardiva nella morte di sua madre. Nella vita di Chiara, Amati non aveva voluto entrare, era entrato nella morte di lei, con quello stupido calco in gesso. Prove tecniche di quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, la sua opera prima, la fanciulla che guarda il cielo. Un abbozzo ancora grezzo, umile, primitivo come un feto abortito da un ventre bilioso che lo vomita fuori ansioso di liberarsene. Quello che era sempre stato lui per suo padre. L’originale, l’opera vera, quella realizzata in purissimo bianco di Carrara era la figlia legittima, nata da una moglie legittima. Era sua sorella, Claire. Ora era da lei che stava andando, da quella sorella che aveva già incontrato qualche mese prima, un giorno di novembre che sembrava primavera. Aveva saputo della morte di suo padre mentre lavorava a degli stucchi di una elegante villa ottocentesca: aveva chiesto dei giornali vecchi da stendere sul pavimento a protezione del lucido marmo calaccato, quando gli occhi gli erano caduti su una foto, proprio lì, vicino al suo piede. Era la foto di suo padre. Ci mise il piede sopra quella foto, e sorrise soddisfatto come un monello che riesce a tirare la coda di un cane, poi la curiosità lo spinse a raccogliere il
giornale e a leggere l’articolo che riguardava Luigi Amati.
Tutto il mondo dell’arte e della cultura piange la scomparsa del geniale artista.
Era stato così che era tornato in Italia. Voleva vedere se l’arroganza quell’uomo se l’era portata anche nella morte. Voleva vedere la sua tomba, sicuramente un monumento alla gloria dell’artista che aveva ato la sua esistenza in alto, tanto più in alto dei comuni mortali, eppure era caduto anche lui, sulla terra umida e fangosa, come tutti gli altri. Come il professore. Come sua madre. Voleva ridere dinanzi alla sua foto, e sussurrargli piano che lui, il bastardo, ora era più in alto di lui. Ancora vivo. Invece, rimase stupito nel vedere la tomba di suo padre. Nessun mausoleo in memoria, nessun cancello da forzare, nessuna cappella di famiglia da profanare. Luigi Amati era sepolto come tutti gli altri, solo un po’ distante, isolato dalle altre tombe, come un’unica panchina in un prato verde. Neanche un albero a fargli ombra, solo una scultura astratta come lapide, che ricordava vagamente un vecchio con i capelli al vento. E sulla base della scultura queste parole: Luigi Amati Scultore Era rimasto a lungo davanti a quella tomba, gli occhi fissi sulla foto di suo padre, riprodotta sul marmo della lapide. Aveva osservato quel volto che ricordava perfettamente in tutti i suoi tratti, anche se erano ati anni ed anni da quell’ultimo incontro a Roma. Gli occhi azzurri, i capelli bianchi raccolti in una coda, la bocca atteggiata a un sorriso ironico, quasi altezzoso. Aveva ricordato quella promessa non mantenuta, quell’abbraccio rimandato a un successivo incontro. Un incontro che non c’era
mai stato. Suo padre era fuggito all’estero, per evitare di vederlo ancora. Vigliacco. Bugiardo. Esattamente come aveva fatto lui, suo figlio, con il professore. E con sua madre. Forse avevano molte cose in comune, lui e quell’uomo, oltre alla ione per l’arte. Forse suo padre gli aveva trasmesso la vigliaccheria, insieme al suo sangue. Era stato colto dalla rabbia, ricordando quell’incontro, le cartellette numerate e divise per anni, i moduli d’iscrizione all’accademia. Aveva preso il piccolo coltello a serramanico che si portava sempre in tasca per ogni evenienza e aveva cominciato a scalzare la foto di marmo dalla lapide. Voleva vendicarsi di quell’uomo, punire le sue bugie, e non aveva trovato altro sistema che quel bizzarro furto di una foto di marmo. Poi, se l’era messa nel portafogli la foto di suo padre, per averla sempre con sé, dovunque andasse. E mentre se ne andava via furtivo, fiero di quel gesto assurdo e di quella foto che gli appesantiva la tasca, si era quasi scontrato con lei, la legittima. Non ne aveva la certezza, era stata più una sensazione, quella di uno sguardo mai incontrato prima, di un viso mai visto nella realtà, ma già presente dentro di lui, nei suoi sogni, nella sua memoria prenatale, nell’angolo più profondo della sua anima. Un volto estraneo, mai visto prima, ma che conosci già, lo avevi dentro prima ancora di nascere. Sua sorella, Claire. Era scappato, allora, quella foto di marmo in tasca lo faceva sentire un ladro. Ora, però, Irene gli aveva detto che quella sorella lo stava cercando e lui aveva deciso di farsi trovare. Per non ripetere più gli errori del ato. Per non essere come suo padre.
La Jeep procedeva a fatica sul tortuoso sentiero sterrato che si inerpicava sulla cava più alta. Aveva oltreato Codena e Bedizzano, ed ora non restava che quella bianca e silenziosa solitudine da scalare. Mentre guidava, Claire osservava quello spettacolo maestoso che conosceva a memoria, ma ancora una volta fu intimidita dalla severa e solenne bellezza delle montagne di marmo. E ancora una volta le cave le ricordarono le cime innevate e inaccessibili dei ghiacciai perenni. Stessa solitudine. Stesso silenzio. Stesso candore incontaminato, come un microscopico paesaggio fiabesco racchiuso in una sfera di vetro, di quelle che se le capovolgi cadono i fiocchi di neve. Un bluff. Solo se non ti avvicini troppo. La distanza le fa sembrare pure, le cave, ma se ci cammini sopra, vedi le pareti delle montagne squarciate, perforate, violentate, depredate e poi abbandonate, quando non c’è più nulla da rubare. Era così che era accaduto anche con suo padre. Il padre migliore del mondo, che le regalava le bambole più belle e ava i pomeriggi a raccontarle favole quando aveva la febbre, finché la febbre non ava. L’artista geniale che le aveva permesso di entrare nel microcosmo magico e incontaminato della sua arte. Una creatura perfetta, che ammaliava e incantava tutti coloro che lo circondavano. Bastava non avvicinarsi troppo, mantenere una certa distanza, altrimenti l’incanto si rompeva e tu vedevi l’uomo e la sua imperfezione. Esattamente come con le montagne di marmo. Era stato abile, suo padre, a mantenere quella distanza, lo aveva fatto con tutti, anche con lei. Le aveva permesso di avvicinarsi solo quando era tardi, troppo tardi perché lei potesse urlargli quanto l’avesse delusa. Gliel’aveva lasciata in eredità, la scoperta drammatica della sua imperfezione. Del suo egoismo. Della sua
vigliaccheria. C’era un figlio maschio, un’altra creatura nata da lui, suo padre lo sapeva eppure non aveva fatto nulla per avvicinarsi a quel figlio, anzi, aveva permesso che vagasse in giro per il mondo come un esule in cerca di patria. Aveva dato tutto a lei, e nulla a suo fratello. Vigliacco di un padre, che ora scaricava su di lei il peso delle sue colpe, e la responsabilità dei suoi peccati! Era ato quasi un mese da quando aveva fatto quel viaggio a S. Angelo, e da allora qualcosa era cambiato dentro di lei: quando aveva saputo dell’esistenza di un fratello era stato come ricevere un regalo, il suo amico immaginario che diventava reale, e questo l’aveva fatta sentire più ricca, meno sola al mondo. Poi, era arrivata la sensazione di impotenza quando si era resa conto che quel fratello era lontano, chissà dove, e lei non aveva grandi possibilità di trovarlo... Certo, avrebbe potuto assumere qualcuno, un investigatore, in fondo qualche elemento concreto lo aveva, ma qualcosa in lei le diceva che quello non era il sistema migliore. Non voleva imporsi a un fratello mai conosciuto, che sicuramente non nutriva uno sviscerato amore per lei. Avrebbe aspettato ancora un po’... Anche le sue amiche le consigliavano di aspettare, almeno per i primi tempi. Le sue amiche. Sarebbe stato tutto molto più difficile senza di loro. Ricordava il viaggio di ritorno in macchina: erano partite di notte, dopo una cena nel miglior ristorante cinese di Roma e un tour notturno attraverso le strade della capitale. Era stata un’idea di Claire, che aveva voglia di vedere l’alba in autostrada ed Anna aveva subito accolto l’idea, perché anche lei voleva vedere l’alba in autostrada e in più voleva risparmiare una notte di albergo. Claudia, invece, non era d’accordo, ma era in minoranza ed era stata costretta a fare buon viso... Anche la cena al cinese non l’aveva entusiasmata, ma ormai per quella sera si era votata al sacrificio in nome dell’amicizia... Claire sorrise ricordando l’espressione sgomenta di Claudia mentre leggeva il menù, e la sua faccia rassegnata quando si era vista arrivare un piatto dal contenuto non ben identificato.
Lei, invece, aveva sempre adorato la cucina cinese, eppure quella sera non riusciva a mandar giù nulla, continuava a fissare l’elegante arazzo sulla parete davanti a lei, mentre Anna e Claudia cercavano inutilmente di farle mangiare qualcosa: “Dai, Chiaretta, almeno un po’ di pollo, su, fai felice la mamma!” Anna aveva preso la sua forchetta con un pezzetto di pollo e aveva cominciato a far roteare la forchetta davanti al naso di Claire mimando con la voce il rumore dell’aeroplano. A Claire era sembrato che la musichetta orientale di sottofondo, il rumore della cucina e persino il chiacchiericcio dei clienti cessasse improvvisamente per permettere a tutti di sentire l’aeroplano che atterrava nella sua bocca. E mentre tutti gli occhi si posavano su di loro, Claudia aveva cominciato a ridere, e poi anche Anna, e finalmente anche lei, che aveva finito persino il suo pollo alle mandorle, con estrema soddisfazione delle sue amiche. Ma quel momento di leggerezza non era durato molto. Si erano messe in viaggio verso l’una, con un gigantesco thermos di caffè e la musica di Battisti, più adatta, secondo Claudia, a un viaggio notturno ma, appena partite, Claire si era chiusa nuovamente in un assorto e doloroso mutismo. Ricordava il suo silenzio assorto e i tentativi patetici di quelle due che cercavano in tutti i modi di farla ridere con le battute più assurde, finché lei non se ne era uscita con una frase secca e dura che le aveva lasciate entrambe sbigottite: “Che stronzo mio padre!” Anna e Claudia si erano guardate allibite anche se, paradossalmente, quella frase a bruciapelo di Claire le aveva alleggerite di un peso. Stava accadendo qualcosa a Claire, quel viaggio l’aveva fatta crescere in maniera brusca e dolorosa ma inevitabile. E nonostante il dolore di quel momento, per le sue amiche fu naturale ed emozionante come assistere a una nascita. Durante quel lungo viaggio verso casa le tre donne parlarono di sé, di tutti gli uomini che avevano amato troppo e da cui erano state deluse, dei loro padri che le avevano amate troppo e poi le avevano gettate nel mondo senza protezione, dei loro figli, che avevano dato un senso alla loro vita e alle storie d’amore finite. Infine, parlarono delle loro madri...
“Ora mi sento terribilmente in colpa nei confronti di Nicole...” Non riusciva neanche a chiamarla “mamma”, eppure, sua madre non aveva colpe nei suoi confronti, e in quel momento capì che anche la partenza di Nicole, che lei aveva sempre considerato un abbandono da parte di sua madre, era stato l’unico modo che quella donna aveva per recuperare la sua dignità. Non perché suo marito avesse continuato a tradirla con altre donne dopo Chiara, questo Claire non lo sapeva, e forse non era davvero importante. Luigi aveva tradito Nicole con il suo egocentrismo, con quel narcisismo esclusivo e impenetrabile che l’aveva lasciata fuori dalla porta per anni e anni, finché Nicole non si era stancata di restare fuori e se ne era andata per sempre. “Strano che mio padre avesse permesso a me di entrare...” “No, Claire, non è strano, e quando avrai un figlio anche tu, perché sei ancora in tempo per farlo, lo capirai, vero Anna?” Anna guardò Claudia e sorrise, poi terminò quello che Claudia aveva cominciato: “Sì, lui ti ha permesso di entrare perché ti vedeva parte di lui, come un braccio o una gamba. Nata da lui, dal suo sangue e dalla sua carne. Preziosa e unica come la sua persona. Tua madre no, tua madre era un corpo esterno, distaccato. Estranea alla sua carne e alla sua eccezionalità. È stato l’unico modo che tuo padre conosceva, l’unico modo in cui sapeva amare. E naturalmente non ha pensato alle conseguenze disastrose che questa dipendenza avrebbe creato in te. Ma stasera hai fatto un primo o per liberarti, Claire. Sarà difficile e doloroso, però devi continuare in questo percorso, finché non riuscirai a camminare da sola. Molte donne devono farlo, prima o poi... Pensa a tua madre...” Anna tacque, rendendosi conto di quanto fosse delicato quel momento per Claire e di come tutto quello che poteva esser detto l’ avrebbe turbata ulteriormente e, forse, l’avrebbe sospinta nuovamente nella sua apatia. Guardò Claudia, che intuì immediatamente la sua paura, e le sorrise mentre proseguiva il discorso di Anna. Strano, Anna e Claudia non si erano mai intese così perfettamente come in quel momento, era come se avessero stabilito un’istintiva sintonia, un patto silenzioso in nome della loro amica. “Povera Nicole, ti rendi conto di quello che deve aver provato per tanti anni?
Credo sia arrivato il momento di rimediare con lei, Claire. Sei ancora in tempo per questo!” Claire ricordò sua madre come l’aveva vista l’ultima volta, l’abito nero, il volto segnato. Elegante anche in quella occasione in cui salutava per l’ultima volta l’uomo della sua vita. Da bambina l’espressione del viso di sua madre l’aveva sempre vagamente infastidita. In quel momento, mentre Battisti cantava le sue emozioni, Claire comprese che quell’espressione raccontava la storia di una donna delusa dall’uomo che aveva amato troppo. Una storia che si ripeteva, la stessa storia di Claudia, di Anna, di Chiara. E la sua. Appena arrivata a casa, avrebbe chiamato sua madre e le avrebbe detto che aveva bisogno di lei. Fuori, il buio della notte senza luna cominciava ad addolcirsi della luce rosata dell’alba.
Claire era talmente assorta nei suoi pensieri che quasi non si accorse di essere arrivata. Parcheggiò la Jeep e si incamminò verso il laboratorio. Aprì la pesante porta di ferro con le mani che le tremavano. Rimase un istante sulla soglia, si guardò intorno come ad accertarsi che tutto fosse al suo posto. Sì, tutto era ancora là, come se nulla fosse accaduto, eppure tutto era diverso. Vide la polvere sulla libreria, qualche ragnatela, il vetro della finestra incrinato da una parte, una macchia di umidità che aveva annerito la parete. Disse ad alta voce: “Mi dispiace, papà, non l’ho trovato...” ed entrò.
Piero imboccò la strada che saliva alle cave di Colonnata.
Il sole era già tramontato, ma il casco e i guanti lo proteggevano dall’aria gelida di dicembre quasi quanto i suoi pensieri. Gli era sempre piaciuta la moto, che sfrecciava veloce e leggera senza lasciare traccia del suo aggio, così come avrebbe voluto fare lui con la sua vita. La strada era in salita, una spirale di tornanti sempre più stretti, che sembravano scalare il cielo. Ai lati, alberi fitti, alcuni ancora ricchi di foglie, altri scarni e pietosamente rinsecchiti. Dopo un ultimo tornante, la strada si allargava in un’ampia piazzola. Piero fermò la moto e tolse il casco. Davanti a lui, uno spettacolo che quasi gli tolse il fiato e gli fece rimpiangere di non aver portato con sé Margherita, per farle condividere quella bellezza. La piccola città di Carrara era una distesa di luci dorate, che ora si allungavano in un viale alberato, ora si stringevano a cerchio, e sembravano sfociare nel mare che si allargava al di là di quel fiume di luce, un mare nero nero come nella canzone di Battisti, ma punteggiato qua e là da stelle eleganti. Buio e luce. Come la vita. Riprese la moto e proseguì. La strada attraversò paesini minuscoli che sembravano di cartapesta, e nel buio della sera le cave sembravano fosforescenti, come montagne dal cuore di luce che la notte non riesce a spegnere. Piero guidava meccanicamente, concentrato unicamente sul paesaggio e sulle sensazioni che quelle immagini gli rimandavano, come un buon pittore che esamina con attenzione il potenziale soggetto della sua opera futura. Lo faceva perché dentro, dopo quasi trent’anni che non dipingeva, Piero si sentiva ancora un pittore. Lo faceva per non sentire l’emozione: se avesse smesso di guardare quei luoghi con gli occhi del pittore, avrebbe pensato a suo padre che lì aveva vissuto e lavorato, usando il marmo e la solitudine di quei luoghi per diventare il grande artista che era diventato. La foto di marmo pesava nel suo portafogli ormai sfondato. L’idea di fare un giro panoramico sulle cave gli era venuta all’uscita
dell’autostrada, quando aveva letto il cartello giallo che indicava la strada panoramica per le cave. Non era ancora pronto per bussare alla porta di sua sorella, doveva pensarci ancora una notte, e decidere se voleva davvero conoscerla, quell’estranea, sicuramente una ricca e viziata quarantenne che lo avrebbe guardato dall’alto con la pietosa condiscendenza con cui le signore di città avvolte nelle loro pellicce borghesi guardano i barboni infreddoliti. E forse avrebbe allungato una mano a dargli qualche spicciolo. Per mettersi a posto la coscienza in nome di suo padre. No, non l’avrebbe incontrata, quella Claire che voleva conoscerlo. Era fuggito da sua madre, dal professore. Aveva deluso loro, perché accontentare lei, che meritava di restare delusa e di are la vita a rincorrerlo? Sarebbe stata la sua vendetta tardiva contro suo padre, fuggire di nuovo, andarsene lontano e non farsi trovare mai... L’indomani sarebbe ripartito. E avrebbe gettato nell’immondizia quella foto di marmo che si portava addosso e che pesava nella sua tasca proprio lì, vicino al suo cuore. Fu nel momento esatto in cui prese questa decisione che vide la luce. Era arrivato, quello era il laboratorio di suo padre, più in alto di tutti gli altri, e avvolto dalla luce perché tutti potessero vederlo. Parcheggiò la moto e cominciò a salire a piedi. Il cuore gli batteva. Il respiro diventò affannoso. Troppo ripida, questa salita, e lui era fuori allenamento, o forse era davvero troppo vecchio, ormai, per queste pazzie... Si avvicinò alla finestra e guardò dentro. E la vide, sua sorella, seduta su una sedia, le mani sul volto, i capelli lunghi e tristi che le ricadevano sulle spalle. Un’ immagine intensamente malinconica. Pensò che era un altro, magnifico soggetto da dipingere, e poi pensò a se stesso, che stava rubando quell’immagine, nascosto dietro un vetro. Come sempre, per tutta la sua vita, aveva rubato immagini nascosto dietro un vetro. E ascoltato
parole d’amore dirette ad altri figli, davanti a una porta chiusa. Istintivamente, la mano andò alla tasca. Estrasse il portafogli, prese la foto di marmo per depositarla lì, su quel davanzale, e liberarsi di quel peso che portava sul cuore da quel giorno di novembre in cui aveva commesso quello stupido e inutile furto. Aveva ancora i guanti di pelle, e le mani non fecero presa. La foto di marmo scivolò via dalle sue mani e si ruppe. Fu come un’esplosione nel silenzio immobile della notte, che inchiodò Piero davanti a quella finestra, paralizzato dalla netta sensazione che la foto di marmo non fosse caduta per un banale incidente. Pensò che suo padre avesse parlato attraverso quell’oggetto, ricordò le poetiche teorie di Margherita sui gelsomini e sulle cose che ci sussurrano messaggi in codice che noi abbiamo paura di ascoltare. E Piero, in quell’istante, si mise in ascolto e gli parve di sentire, oltre quella foto di marmo ridotta in mille pezzi, oltre quel solenne laboratorio arroccato sulla cava più alta e più bianca, oltre le candide montagne di marmo, e oltre tutte le cose che parlavano intorno a lui, la volontà di suo padre. Quella volta, almeno quella volta, Piero non doveva scappare via.
Il rumore scosse Claire dai suoi pensieri. Si alzò, si avvicinò alla finestra da dove aveva sentito provenire quel rumore, e si pentì di essere rimasta lì fino a quell’ora. A un tratto si rese conto della pericolosità della situazione in cui si era cacciata: era buio fuori, e lei era sola, completamente sola in un raggio di chilometri e chilometri, nel laboratorio di suo padre, pieno di oggetti preziosi. Come aveva fatto ad essere così imprudente, e stupida... ma no, forse non c’era nessuno fuori, forse era stato solo un ramo secco caduto da qualche parte, o un gatto randagio attirato dalla luce.
Però doveva aprire il portone per accertarsene. Oppure restare chiusa lì dentro tutta la notte ed aspettare la luce dell’alba. Dio, se ci fosse stato suo padre non avrebbe avuto quella paura folle, che le faceva martellare il cuore nel petto e tremare le gambe... Aprì il portone e vide un’ombra. Restò paralizzata sulla soglia, incapace di urlare, di muoversi, di respirare, anestetizzata dal terrore. L’ombra si avvicinò, le si mise davanti, maestosa e nera. Aveva un casco da motociclista che gli nascondeva la faccia. Claire pensò che non avrebbe mai visto gli occhi del suo carnefice. E pensò anche che era strano morire così, in quel luogo dove aveva trascorso i momenti più belli della sua vita. Morire nel regno di suo padre. L’uomo si tolse il casco lentamente, e quando Claire vide il suo viso, la paura ò. Non ci fu bisogno di presentazioni, perché Claire e Piero si conoscevano già, come due gemelli eterozigoti cresciuti nello stesso ventre e che la vita disperde solo nello spazio. Si riconobbero come due metà di un’unica medaglia, che quando si ricompone ritrova l’unità e il senso profondo del suo esistere. Claire gli tese la mano aperta, in silenzio, e Piero rimase fermo un istante, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Fu solo un istante. Poi, strinse quella mano tesa e varcò la soglia. Fuori, nella gelida notte di dicembre, un profumo intenso di gelsomini ricordava l’estate.
RINGRAZIAMENTI
Grazie a mio padre perché anche il mio gelsomino è fiorito in autunno e la mia casa profuma di caffè al mattino... Grazie a mia madre, la mia ispiratrice e la mia prima e più fedele lettrice. Grazie ad Elvio Maffei, perché le sue “montagne azzurre” sono esattamente quelle che Piero avrebbe dipinto... Grazie ad Ezio Bienaimé, geniale e carismatico come Luigi Amati, e alla sua poesia scritta su un foglio di carta velina... Grazie a Claudia, che mi ha permesso di usare quella poesia e, come la Claudia del romanzo, c’è sempre stata quando ho avuto bisogno di lei. Grazie ad Anita, amica speciale che condivide con me la ione dello scrivere. Grazie a Nunzia, e all’aroma di caffè nella sua cucina... Grazie a Sergio, sca, Gianfranco, per i “tasselli” di vita che hanno riempito e continueranno a riempire la mia valigia dei ricordi... Grazie a Marco, per i suoi preziosi suggerimenti e la sua incrollabile fiducia in me... Grazie a mio figlio Federico, che ha promesso di leggere i miei romanzi, prima o poi... Grazie a Giuseppe Meligrana, il mio editore, per aver avuto fiducia in me e aver reso tutto questo possibile.
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