Piccola Stella Di Mare 3f6740

Roberto De Salvatore

Piccola stella di mare

2014

Titolo | Piccola stella di mare

Autore | Roberto De Salvatore

ISBN | 9788867352463

Prima edizione digitale: 2014

© Tutti i diritti riservati all’Autore

Youcanprint Self-Publishing

Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

[email protected]

www.youcanprint.it

Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

“Ogni riferimento a fatti, luoghi e personaggi di questa storia è puramente casuale, ma non è da escludere a priori che qualcosa di simile possa essere realmente accaduta.”

“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.”

Lev Tolstoj

Nota dell’autore

Con “Piccola stella di mare” concludo la trilogia dedicata alla violenza sulle donne e non ho intenzione, nei prossimi lavori, di proseguire con questa tematica. Solo che mi sembrava giusto chiudere con un altro esempio possibile di donne dalla vita tragica con questa storia dai risvolti drammatici e che nel corso della narrazione si sviluppa fra malinconia, rimpianti, ma anche momenti di gioia, una gioia però sempre minacciata da un orizzonte cupo e gravido di tensione.

Chi non conosce il nostro Salento se non attraverso l’immagine oleografica da cartolina illustrata, buona per i turisti, stenterà a capire come storie come questa possano accadere in un posto fra i più belli e magici della penisola. Visitate uno dei tanti centri salentini, piccoli o grandi, e vi appariranno oasi di pace, borghi sonnolenti dove il tempo sembra scorrere lentissimo e privo di avvenimenti significativi. A chi viene da fuori noi proponiamo sempre la bellezza incomparabile dei nostri paesaggi e una accoglienza fatta di ospitalità, buona cucina e un folclore ormai conosciuti ed apprezzati a livello internazionale, ma siamo poco propensi a raccontare le nostre storie, che teniamo sempre gelosamente custodite nel silenzio della nostra memoria. Eppure, che ci crediate o meno, la nostra terra non è immune dalle tragedie e dalle contraddizioni del vivere, che trovano sempre forme diverse di espressione.

Un’altra figura di donna dalla vita tragica, proveniente da un contesto familiare molto controverso, una donna con le sue insicurezze, le sue angosce, le sue inibizioni provenienti da confusi ricordi di attenzioni illecite da parte di un parente e che la fanno crescere dubitando della sua femminilità, fino a quando una situazione sentimentale non limpida le riempie la vita per la quale trova finalmente un significato, e la trova superata l’età dei trenta anni, quando ormai i suoi orizzonti esistenziali sembravano fissati senza speranza nel grigiore della banalità.

Ho volutamente rimarcato la differenza di ambientazione fra un incipit che descrive il frenetico fluire della vita nella città capoluogo degli anni settanta e lo stagnante ambiente del paesino poco distante, luogo di origine della protagonista e dove la vicenda si dipana e trova il suo tragico epilogo: caotica la vita metropolitana nel pieno della contestazione studentesca della metà degli anni settanta e silenziosa, quasi sonnolenta quella di ambientazione paesana, fatta dei soliti vecchi seduti al bar, di pettegolezzi delle comari fatti a bassa voce e ambiguamente ipocriti. Un ricordo ossessionante di questa donna ancora giovane, incontrata una sola volta dall’io narrante della storia, che ritorna nel corso degli anni sempre più sfocato ma insistente e la scoperta finale della sua tragica fine attraverso le parole del racconto della sua vita narrata dalla sua amica di infanzia e mediate dalle immagini oniriche coscienti che fanno rivivere questa donna lontana ormai nel tempo. Forse un tentativo ingenuo di fare rivivere il tempo della giovinezza che è ato irrimediabilmente, o forse il ricordo della semplicità che della donna era rimasto impresso nella memoria.

Perché questo titolo dato al libro? Perché la donna protagonista della storia, proprio come una stella marina, è come se stendesse i suoi tentacoli con timidezza cercando il tepore dei raggi del sole, consapevole però dei pericoli che la minacciano in ogni momento e della vanità di qualsiasi difesa nel momento in cui il pericolo diviene drammaticamente attuale, proprio nell’attimo di vita piena e felice.

Roberto De Salvatore

1

Non mi è mai fregato nulla della politica. Mi sono trovato si a militare nei primi anni settanta in una organizzazione giovanile di destra, ma militare non è il termine esatto, mi ci ero iscritto quasi trascinato dal mio compagno di banco del liceo, ma come si dice? Chi è più fesso, il cane o chi lo segue? Per me era come appartenere ad un circolo, un club qualsiasi, e la sera dopo i compiti si andava sopra quei locali scuri, male illuminati e polverosi, il mio compagno di banco a giocare a tressette con i vecchi e gli infatuati nostalgici del Duce ed io a guardare la TV mentre fumavo un Reetmester. Alle volte capitava che i “compagni” circondassero l’edificio, posto nel centro storico, e prontamente i questurini si schieravano a nostra difesa, che a quell’epoca i questurini venivano ancora dalle fila della polizia coloniale fascista e adesso che non potevano più avere la tessera del partito e non potevano più scorazzare per le strade di Tripoli o di Addis Abeba a cercare vergini di dodici anni da “sposare”, forse provavano tenerezza a difendere la loro idea di stato, e spesso, quando i compagni erano più incazzati del solito e avevano brutte idee per la mente, io ero in grado di captare il pericolo e convincevo il mio amico a battercela in sordina, e qualche questurino caritatevole ci indicava la via più sicura per squagliarcela.

Lecce in quegli anni non era ancora una grande città. Ancora non c’era stata la devastazione selvaggia degli anni che vennero poi ad opera di ominicchi e donnicchie della politica. Era di solito verso l’inizio della primavera che gli istinti politici bellicosi degli studenti si risvegliavano. Tutte le occasioni erano buone per marinare la scuola, che da noi si dice “nnargiare”, a volte anche per più giorni di seguito, insomma fino a quando i presidi delle scuole non mandavano una lettera ai genitori per informarli della condotta dei loro rampolli, allora si che erano cazzi: “Che se quest’anno ti fai bocciare, il motorino te lo scordi!”. Beh, l’idea di perdere il motorino solo per il dolce “nnargiare” era cosa inconcepibile per noi che in quei pochi chili di metallo e plastica ponevamo tutte le speranze di rimorchiare le ragazzette e allora, con le classi fuori dai cancelli alle otto e trentacinque, io e il mio compagno di banco entravamo a scuola imperterriti e ignorando gli insulti e le minacce di quelli rimasti fuori: “Stronzi, figli di puttana, vi aspettiamo fuori!”. Però poi puntualmente fuori non c’era

nessuno ad aspettarci, in compenso dentro c’erano degli incazzatissimi professori, incazzati perché per colpa di due imbecilli dovevano restare lì. Ma una volta a casa ci dicevano “Bravo, così si fa.”, mica gli potevamo raccontare del tre in latino e del cinque meno meno in matematica. Cazzo! Avere rischiato il linciaggio per salvare il motorino che forse agli scrutini finali avremmo perso ugualmente era stata proprio una stronzata pazzesca. Però alla fine, per il rotto della cuffia, ce la facevamo sempre nonostante i battiti cardiaci accelerati nel momento in cui il professore, che somigliava pericolosamente ad un presidente di tribunale in procinto di leggere una sentenza, leggeva i voti finali, e quando io ed il mio compagno di banco avevamo ascoltato la nostra sentenza assolutoria per “insufficienza di prove”, ci abbracciavamo da seduti nel banco, scambiandoci un bacio sulle guance come due comparielli della mala: “Ehi voi due, la dietro, finiamola!”. Si, si, la finivamo subito e non vedevamo l’ora di tornare a casa a presentare le credenziali per il motorino, almanaccando sul modello e sul colore. La scuola sarebbe durata ancora tre settimane, e quindi potevamo ancora marinare le lezioni, tanto ormai eravamo ati.

La mattina, fuori dal cancello indugiavamo, mentre due o tre compagni del collettivo studentesco distribuivano ciclostilati. Il mio compagno di banco redarguiva aspramente uno dei distributori, una ragazza con i jeans e la camicetta non certo comprati ai grandi magazzini, una ragazza molto bella, che chi sa perché nella sinistra c’erano sempre un casino di ragazze, quasi tutte belle, e nella destra invece quelle due o tre che si stentava a definire ragazze erano racchie e stagionate.

«Affancul’a mammata!» le diceva, e quella gli urlava invasata e con gli occhi di fuori «Fascista del cazzo!». Io lo strattonavo e, quasi scusandomi con lei ammiccandole con l’occhio per farle capire che l’amico non stava tanto in se, mi affrettavo a prendere un volantino. “Che cazzo me ne frega” pensavo, ma avevo evitato una carica dei compagni:

“…Oggi in Aula Magna assemblea generale. organizziamo la nostra lotta nelle scuole. NO alla fascistizzazione dello stato e alla repressione poliziesca, libertà

per i compagni… COLLETTIVI DEL MOVIMENTO STUDENTESCO - Lecce 4-5-1976.”

“Mi sa che il peggio deve ancora venire” pensai dopo aver letto queste frasi roboanti.

«Ma perché non ci andiamo?» dissi al mio amico.

«A fare che, in mezzo a quel casino di comunisti scemi?» rispose accendendosi una sigaretta, tanto non c’erano i nostri genitori.

«E mica ci andiamo per sentire le stronzate che dicono, sai che divertimento sarebbe. Ci sarà un casino di gente da tutte le scuole di Lecce. Magari ci attacchiamo dietro ad un paio di ragazzine di prima. In fondo siamo quasi motorizzati, tempo un mese e ce le carichiamo in sella e ce le portiamo a so.»

«Vabbé, andiamoci, tanto non abbiamo un cacchio da fare.»

E ci incamminavamo dallo Sperimentale Tabacchi, lungo il viale per raggiungere l’università poco distante. Che casino di traffico! Niente vigili naturalmente, automobilisti che urlavano all’indirizzo di studenti in motoretta che sfrecciavano tagliando loro la strada con guizzi improvvisi e lasciando scie di fumo denso, puzzolente di miscela al cinque per cento.

Nell’università la calca delle persone era indescrivibile, appollaiate una

sull’altra, le solite coppie appartate a flirtare con al fianco le borse dei libri di tela verde con qualche foro di pallottola Vietcong, che in quegli anni le potevi trovare ancora al mercato dei “polacchi”, lui capellone e barbuto, lei dal viso dolcissimo e falsamente innocente, insomma due residuati di Woodstock.

«Mortacci suoi!» pensavamo ad alta voce «Ma guarda quello stronzo che bella ragazza che ha, e noi dobbiamo averci il motorino per tentare di rimorchiare.» continuava il mio compagno.

«Mi sa tanto che il motorino non c’entra un cazzo sai?»

«No, no, c’entra, c’entra. E’ che noi siamo due poveracci proletari senza ‘na lira, e per questo le femmine non ci cagano per niente.»

«Ti sbagli. Invece è perché siamo due stronzi e trasudiamo fascio e manganello ad ogni o. Per questo le ragazze ci evitano.»

«Tu dici?»

«Si, io dico, e ne sono convinto, come sono convinto che prima ne usciamo e meglio è.»

«Ma come si fa a rinnegare i nostri ideali?»

«I tuoi ideali! Tu lo sai che a me non me ne frega un cazzo. Anche questi che

oggi giocano a fare i compagni fra dieci anni li vediamo in giacca e cravatta nelle varie professioni liberali e borghesi.»

«Mah, sarà …» disse il mio compagno dubbioso.

«Fidati. Questi se non diventano ingegneri, medici e avvocati, entreranno in banca o nelle università, regione e negli uffici delle tasse, e a parlare con loro saranno sempre di sinistra, ma loro saranno domani al posto di quelli che oggi dicono di combattere.»

«Vabbé» rispose, e cercammo a fatica di farci largo ed entrare nell’aula magna, naturalmente posti in piedi, bella fregatura! Il solito leaderino con il megafono strombazzava le solite frasi roboanti e scontate, sembrava di leggere Lotta continua. Naturalmente i soliti fessi applaudivano ad ogni frase ad effetto. Mi sentii urtare un braccio, e alcuni libri caddero a terra: «Scusami.» era una ragazza bruna con vistosi orecchini a forma di stella marina.

«Figurati.» faccio io galante aiutandola a raccattare i libri. Imbarazzati sorrisi di circostanza, poi scambiai una stretta di mano timida con lei ed anche con la sua amica mingherlina che la accompagnava.

«Piacere Biagio.»

«Piacere Lidia.» disse lei.

«Comunque io sono Anna.» fece la sua amica affrettandosi, temendo di essere

esclusa dalle presentazioni. Il mio compagno si era eclissato, meglio così!

«Tempo perso sentire queste fesserie eh?»

«Già, ma tanto a scuola non ci facevano entrare e la corriera che ci riporta a casa parte all’una.»

Era di un paesino proprio alle porte di Lecce e faceva l’ultimo anno delle magistrali, anche la sua amica, erano compagne di banco e dello stesso paese per giunta.

Uscimmo dalla calca all’aria aperta. Pochissime parole, erano timide. Le ragazze di paese allora erano considerate per bene rispetto a quelle scalmanate e mascoline della città, e questo non mi dispiaceva, ma all’epoca cercavo disperatamente una ragazza qualunque, di paese o di città, con cui fare un “macello”.

«Ti stai già preparando per gli esami Lidia?» Che diamine potevo chiederle se non farle le solite domande a cacchio? Nemmeno io allora ero così esperto di rapporti umani e in special modo con le ragazze, e avevo sempre paura di fare una figura da fesso, come quella volta che mi ero fissato con una di prima nel mio liceo, nemmeno un granché: magrolina, olivastra e con una leggera peluria dietro le guance, ma aveva una camminata e un comportamento che mi faceva perdere la testa. Così le stavo appresso, e poi quel giorno a palazzo Casto, mentre i compagni, i futuri dirigenti sciorinavano le loro teorie marxiste fumose e i fasci provocatori come sempre davano il meglio della loro educazione Oxford, il massimo che potevano concepire le loro teste vuote, mi faceva leggere il suo diario, sai le solite frasi semidemenziali di ragazzina quattordicenne, e ad una frase circondata da cuoricini disegnati in rosso che aveva scritto e che faceva capire il suo interessamento per un ragazzo azzardai qualcosa, non ricordo

nemmeno cosa le dissi, ma forse non lo ricordo per lo shock della sua risposta «Questo non sei tu.» Addio, fine delle illusioni. A casa mi chiusi in un mutismo opprimente e mia madre, notoriamente apionata della privacy, provocava in tutti i modi una mia risposta, una qualsiasi. Due giorni dopo ero ancora così, sprofondato in poltrona nel salotto ascoltavo “Compagno di scuola” di Antonello Venditti e avevo un magone che non si può immaginare. La mamma irrompe nel salotto con la faccia fra l’adirata e l’ironica «Bella proprio! E tu per quella hai perso la testa? Ma sei proprio uno scemo, con tante belle ragazze che ci sono in giro.» Oh cazzo! Ma come aveva fatto? Mia madre, prima che diventassi adulto fatto e quindi liberissimo di cercarmi le avventure con tutte le ragazze che mi fossero venute a tiro “tanto si sa che l’uomo è cacciatore”, era una gelosissima custode anche dei sentimenti più intimi dei propri figli, specie di quello maggiore, e questo la portava naturalmente a diventare, in determinate circostanze come questa, una figura a metà fra il tenente Colombo e l’ispettore Callaghan. O Gesù, però la mamma aveva ragione, quella non era proprio un granché e non mi filava proprio, invece, e questo lo seppi anni dopo, si era innamorata di me (che parola grossa per quella età) la sua compagna di classe, quella bella si, con i capelli corti, il poncho colorato e gli orecchini grandi a cerchio. Ma che fesso eh? Quindi ormai ci andavo con i piedi di piombo prima di prendere altre cantonate.

«Si, sto studiando molto. A giugno sai è meglio arrivare preparati bene agli esami.» rispose Lidia alla mia domanda.

«Certo.» a me sarebbe toccato l’anno seguente avere il problema degli esami di stato.

«Speriamo di farcela. Mi sono sempre piaciuti i bambini. Non mi sembrerebbe vero poter diventare una brava maestra in una classe piena di scolaretti.»

«Ma sicuramente ce la farai se hai questa ione. Ma oltre che studiare spero ti divertirai anche al paese.» Tentavo di trovare un varco che mi consentisse di

rivederla.

«No, ma sai che divertimento in quel paese, un mortorio, e poi tanto i miei non mi fanno uscire quasi mai.»

“Siamo a posto” pensai, contento però: meno uscite, meno rischi di avventure romantiche, il solito discorso talebano insomma, che allora non sapevo nemmeno chi fossero i talebani. Ma era la morale di quei tempi: gli uomini a caccia e le donne a casa. Non è che l’avessi creata io questa morale, però era così.

Dall’università eravamo arrivati vicino porta Rudiae, dove si fermavano le corriere con destinazione i vari paesi della provincia che riportavano a casa gli studenti con dentro autisti annoiati che leggevano il Corriere dello Sport aspettando. Erano l’una meno un quarto e a malincuore dovetti salutare lei e la sua amica, che tutto il tempo aveva detto si e no quattro parole, ma ci guardava sempre con un timido sorriso, chi lo sa, forse si chiedeva come mai non le rivolgessi il discorso più spesso. Ma forse era perché sembrava avere molti meno anni di quelli che in realtà aveva, una ragazzina, e che gli dici ad una ragazzina? Invece Lidia sembrava una donna fatta, era alta e bruna, un seno prosperoso, per quanto non so, aveva l’aria di una ragazza di altri tempi, sembrava uscita da un film neorealista degli anni cinquanta.

«Ciao, magari ci si vede ancora.»

«Ciao e grazie della compagnia, chi lo sa, forse capiterà.»

2

Invece non capitò più. Chi sa che fine aveva fatto Lidia. Però quando arrivò il primo di agosto e salii in sella al mio Satan motocross fiammante, col suo telaio color aragosta e il serbatoio bianco, con l’immancabile scia di fumo denso che si lasciava dietro, che allora non si aveva nemmeno il concetto di ambiente, ci capitavo spesso in quel paese così vicino a Lecce dove abitavano Lidia e Anna nelle mie continue scorribande finché non iniziava la scuola, perché la miscela costava poco nonostante ci fosse stata la guerra dello Yom Kippur e gli arabi avevano capito l’importanza strategica del petrolio come arma di ritorsione contro il sionismo e l’occidente, e infatti il prezzo del greggio cominciò a crescere da allora.

Giravo di continuo per quelle viuzze di paese, ma di Lidia nessuna traccia, e cominciavo a pensare che mi aveva detto una fesseria e chi sa invece in quale paese viveva. Mah, poi non ci pensai più e trascorse un altro anno, un’altra primavera con alle porte gli esami di maturità, con orari di studio e di ripetizione massacranti, fra Pirandello e analisi matematica, teso soprattutto per quest’ultima ovviamente, che si sa, lo scritto di matematica è quello più importante agli esami di maturità per lo scientifico, accidenti a loro, che quell’anno avevano deciso di dare un giro di vite, e quello che uscì agli esami sembrava pensato per Albert Einstein, non certo per noi poveri mortali. Ma comunque, nonostante la tensione tutto andò bene, molto rumore per nulla ovviamente. Peccato però che era finito il periodo più bello della giovinezza, il tempo in cui non hai ben chiaro quello che sarà della tua vita domani. Un tempo di piacevole torpore, quando uno può permettersi qualsiasi o quasi avventatezza, tanto poi alle spalle hai sempre le confortevoli e rassicuranti braccia della famiglia. Ma viene il tempo in cui devi lasciare quel comodo nido e devi andare per le strade del mondo a cercare di definire la tua posizione nella società, magari sbagliando, ma sempre pronto a rialzarti dopo ogni caduta. L’università fuori e il ritorno a casa nei fine settimana. Avevo avuto le mie prime storie con ragazze certo, ci mancherebbe, ormai ero “grande” e portavo la barba e i baffi, ma quello che mi ha sempre fregato è che ogni volta sognavo tutta una vita da vivere insieme alla ragazza del momento, il lavoro, il matrimonio, la casa, i figli,

una vita agiata, una squallida ma tranquilla vita borghese insomma, e scommetto che a questo alla fine siano arrivati anche tutti quelli che negli anni della giovinezza facevano i rivoluzionari e volevano cambiare il mondo, ma il mondo aveva finito per cambiare loro. Quante facce mi ritornavano in mente di quegli anni, chi sa che fine avevano fatto. Dove siete finiti?

Ogni tanto, nei ritorni del fine settimana andavo a trovare la nonna, e la nonna dalla faccia di terracotta e gli occhi dal colore del cielo era sempre immancabilmente chiusa nel suo mutismo siciliano, solo una o due parole per chiedermi come stavo e poi subito si rimetteva a leggere Cronaca Vera, un settimanale in bianco e nero molto in voga in quegli anni, con sempre le stesse storie tragiche nate in ambienti popolari, i cui protagonisti erano quasi sempre operai, muratori o carabinieri che si erano ammazzati fra di loro per problemi di corna. Sempre le stesse facce quelle dei protagonisti di queste storie ancillari per gente semplice. Ogni tanto, per fare compagnia alla nonna ne prendevo una copia dalla grande pila dietro la porta del salotto e indugiavo sulle foto delle protagoniste femminili di queste storie “vere”, foto non molto nitide, ma forse era un trucco fotografico per rendere quei volti più credibili. Volti di donna all’antica, non troverete mai quelle facce in giro per Corso Buenos Aires o in via Montenapoleone a Milano. Oh cacchio, mi ricordavano qualcosa quei volti … si, mi ricordavano qualcuna che … ma si mi ricordavano quella ragazza che avevo conosciuto nel ’76, ma certo, come si chiamava … mannaggia la memoria! Si, ecco, si chiamava Lidia. Chi sa che fine aveva fatto Lidia, chi lo sa se adesso insegnava alle elementari o cosa altro. “Mo sai che faccio? Vado a farmi un giro in quel paesino”, tanto ormai avevo la patente e non era difficile fregare le chiavi della 127 di papà che poveraccio se ne andava al lavoro col motorino o con la bicicletta per risparmiare.

Il paese era rimasto tale e quale me lo ricordavo, con le stradine male illuminate dalla luce giallastra delle lampade stradali. Ma niente. Nonostante girassi anche a piedi perché avevo lasciato la macchina in piazza, la piazza triangolare con al centro su una piccola colonna vicino ad una fontana. Il solito caffè nel bar popolato di vecchietti ciarlieri seduti sulle seggiole, le sigarette comprate nel tabacchino di fronte. Uscendo, mentre mi accingevo ad accendermi una sigaretta, mi sento chiamare per nome. Era un vecchio compagno della prima e

seconda liceo. Saluti fraterni, manco lo riconoscevo per quanto si era ingrassato.

«Biagio e che ci fai qui?»

«Mah, alla ricerca del tempo perduto.» dissi sorridendo. Mi toccò tornare con l’amico al bar per un altro caffè, poi sedendoci sul muretto vicino al bar cominciammo con i ricordi del ato e le esperienze recenti.

«Senti Bruno» dissi all’improvviso, che mi era venuta una idea ripensando al motivo per cui ero andato in quel paese «Ma tu la conosci Lidia?»

«Chi? Boh, ma è una di qui?»

«Così mi disse una volta, tanto tempo fa che la conobbi ad uno sciopero.»

«Mah, questo nome non mi dice niente, però posso provare a chiedere. Ma perché vuoi saperlo? Ti interessa?» disse Bruno ironico.

«No, no, così solo per sapere. Sai all’epoca ci provavo un po’ con tutte. Non è che mi ero fissato, ma mi è rimasta la curiosità.»

«Ma com’era? E certo che ne sono ati di anni, però se me la descrivi come era allora può essere che mi venga in mente chi è.»

«Della nostra età, capelli neri, vestiva in modo non molto appariscente e portava strani orecchini a forma di stella marina. Ti dico come era quel giorno, perché solo una volta l’ho vista. Ah, aspetta, mi ricordo che era in compagnia di una sua amica e compagna di scuola, anche lei di qui, una piccoletta coi capelli castani e gli occhi verdi, Anna si chiamava …»

«Ah l’Anna … si questa la conosco, ero amico di suo fratello, ma non l’ho mai vista insieme ad una che somigliasse alla descrizione che mi hai fatto di questa Lidia.»

«E questa Anna è rintracciabile?»

«Non credo, i suoi sono morti l’anno scorso e lei insegna già da tre anni in una scuola elementare del veronese. Qui di parenti non è rimasto nessuno e la casa l’hanno venduta.»

«A posto! Può essere che anche Lidia se ne sia andata fuori.»

«Ti eri innamorato ah? Làssa perdere che le donne di qui hanno la fama di essere un po’ pazze, non so, forse sarà l’aria.»

«No, ma quale innamorato, solo per curiosità ti dico. Sai quei flash che ti tornano alla mente. Forse allora avrei voluto rivederla, ma oggi che vuoi che sia, dopo cinque anni, se non curiosità.»

«Ah vabbé. Comunque se mi riesce di sapere qualcosa te lo dico, tanto mi hai

detto che sei a Lecce ogni fine settimana no? Fai un salto di tanto in tanto, io abito sempre nella stessa casa. Ciao Biagio, mi ha fatto piacere rivederti.»

«Ciao, allora ci rivediamo quanto prima.» dissi, e salutando il mio amico mi riavviai alla macchina.

Anni che ano, epoche che si chiudono, un tempo nuovo che si affaccia gravido di incognite. Anche se vieni risucchiato dalla corrente del tempo che cambia, ogni tanto devi pur fermarti e pensare. E a che puoi pensare allora? Pensi a quello che è stato, perché quello che è stato oramai non lo cambia più nessuno, e mentre il tempo che vivi è come il magma incandescente e instabile di un vulcano, quello ato si è solidificato, stabilizzato, cristallizzato, con i suoi rimpianti certo ma anche con le sue gioie effimere, i suoi giorni solari, le sue angosce per il futuro che doveva venire. Quando la corrente di questi pensieri attraversava la mia mente, inevitabilmente venivano a galla frammenti di ato come possono essere quegli oggetti che galleggiano sul mare dopo un naufragio, e spesso uno di questi frammenti non era il sorriso di quella ragazza con cui parlavo in quelle mattine solari prima dell’inverno, o quelle tiepide della primavera, quelle giornate nere con pioggia torrenziale come musica di sottofondo ai pensieri dell’anima, cielo nero quando a scuola, sotto la luce fioca e giallastra, eravamo chini sul compito in classe di matematica, che chissà perché il professore ci assegnava sempre in giornate come questa. No, spesso uno di questi frammenti era come quei cammei che portavano le nonne quando erano giovani, con dentro di solito il ritratto della “buonanima”. Il volto che vedevo era sempre quello di una ragazza bruna, semplice, con strani orecchini a forma di stella marina, era il volto di Lidia.

3

Il tempo che cambia senza che te ne accorgi inesorabile, il tuo fisico che cambia dalle morbide rotondità da bambolotto ai tratti spigolosi dell’età adulta. Altri interessi, altre amicizie, altra percezione di sé. I ricordi del ato si erano affievoliti ma non scomparsi del tutto, e mi ci attaccavo nei momenti di stanchezza morale, specie quando mi ritrovavo nel mio piccolo studio della grande casa presa in affitto in un paese a pochi chilometri da Lecce, dopo che mi ero trovato tra mille peripezie un lavoro e mi ero sposato senza molta convinzione con quella ragazza con cui sfortunatamente avevo litigato di meno rispetto alle altre.

Sotto la luce troppo forte della lampada sulla scrivania che potevo fare, oppresso come ero dal magone se non scorrere le foto ancora non troppo ingiallite dal tempo, di quel tempo lontano, spezzoni, frammenti di vita fermati nell’attimo del click della macchinetta fotografica. Malinconia del cazzo! Ma non mi veniva niente di meglio da fare in quel paese senza amici, tutti lontani, chissà dove, e mica c’erano i cellulari e internet allora.

La casa in una strada tranquilla, anche troppo, alla periferia di quel paese sonnolento, come tutti i paesi del Salento, in cui la vita si misurava in quantità di tabacco e olio di oliva prodotti. Vivere veramente, non puramente trascorrere i giorni. Già, parlava bene lui che andava ai safari in Africa a caccia di leoni e leopardi, e qui invece al massimo puoi sparare ai tordi quando è stagione; lui pescava i grandi pescispada al largo di Cuba sulla Pilar e da noi invece ti tocca infilare uno schifosissimo verme sull’amo e gettare la lenza in acqua sperando di pescare qualche saraghetto o qualche cazzo-di-re.

Non c’erano alternative, e mi toccava trascorre puramente i giorni. Volevo scappare, sebbene non sapessi esattamente dove, e allora aspettavo con ansia il momento in cui l’azienda mi avrebbe concesso il trasferimento per la sede

centrale di Lecce, che allora si che avrei ricominciato a vivere veramente i miei giorni e non marcire qui dove al massimo ti potevi fare una eggiata da casa in piazza, quasi sempre semivuota, giusto tre o quattrocento metri. Ma il tempo vola via e si porta dietro anche il magone che poi il tempo, quel tempo, chissà perché lo rimpiangi sempre quando sei ritornato finalmente nella tua città, una città che trovi completamente cambiata e ti rimetti a pensare a quei tramonti silenziosi che guardavi dalla finestra di la oltre il confine dell’abitato verso la sterminata campagna, con lontano la massa scura del convento, i sabati gelidi di febbraio con la brina sul davanzale del balcone dove becchettavano curiosi i pettirossi. Mah, vabbé.

Quando tornai nella mia città dopo il trasferimento e dopo l’acquisto di una piccola casetta, costata anni di sacrifici e risparmi, idealmente oltre al bagaglio materiale, avevo traslocato un bagaglio ancora più voluminoso, quello dei miei ricordi. Non avevo scordato i luoghi a me familiari, e nemmeno mi ero scordato di quel volto del ato, il volto di Lidia. Si, ero andato ancora qualche volta a trovare Bruno, ma della fantomatica Lidia non aveva saputo darmi nessuna notizia. Poi Bruno era diventato ingegnere e chi lo sa dove se ne era andato a vivere.

Ma possibile che dopo venti anni continuassi a pensare ancora ad una ragazza, nemmeno una grande bellezza, che avevo incontrato una sola volta nella mia vita? Adesso poi, anche se l’avessi incontrata per le strade del paesino, sicuramente non l’avrei nemmeno riconosciuta.

«Ma insomma, si può sapere quand’è che le butti via ‘ste due scatolone? Ma che ci avrai dentro, il tesoro di san Gennaro? Non vedi che abbiamo poco spazio? Uno di questi giorni te le butto via io.»

«Non ci provare nemmeno. Pensa alle cose tue che si prendono più della metà dell’appartamento.»

«Uffa!»

Come fai a spiegare che in quelle due grosse scatole di cartone ci hai inzeppato gran parte della tua giovinezza? Foto di quegli anni; i diari di scuola, quelli con le vignette demenziali di Jacovitti; qualche copia di Cronaca Vera della nonna, ormai diventate un raro cimelio da collezionista. E nelle festività o in qualche sabato invernale, che fuori non si poteva proprio andare per il brutto tempo mi mettevo, nella mia stanza che fungeva da studio, al dolce tepore dei termosifoni accesi, a rovistare in quei ritagli di vita. Toh! Una foto della prima liceo, quelle facce di quei giorni, quelle facce da allocco: Giorgio, Piero, Fausto, Ornella, Anna Paola, Lucia … Bruno. Già Bruno, chissà dov’era adesso. Aspetta … ma era diventato ingegnere, e adesso con internet che ci voleva a cercarlo? Comunque prima provai con il suo vecchio numero di telefono che ovviamente risultava inesistente, naturale col casino che c’era stato negli ultimi anni con i rimaneggiamenti dei numeri di telefono, per non parlare del fatto che adesso Telecom non aveva più il monopolio telefonico. Eccolo qui! Nell’elenco dell’ordine degli ingegneri della provincia di Lecce, l’avevo trovato sul web, per lo meno era rimasto in zona. Provai ad andare un sabato mattina nel paesino a cercarlo in quella che probabilmente non era più la sua casa, ma per lo meno avrebbero saputo dirmi qualcosa su dove cercarlo. Mi aprì un uomo anziano:

«Ah si, Bruno adesso sta a Galatina.» Bruno aveva affittato la casa ad una coppia di vecchi pensionati e si era stabilito in quel paese con la moglie che era di la, e a Galatina abitava in una villetta dove ci aveva anche lo studio, casa e bottega insomma.

«Uééé Biagio, nah mannaggia che sorpresa! Come stai? Vieni, vieni, accomodati.»

Quanti anni erano ati, quindici, venti, boh. Eravamo cambiati tutti e due,

ovvio. I discorsi si prolungarono un poco sui nostri ricordi, ma poi inevitabilmente si andò a parare a Lidia.

«Ho capito chi era sai? Dall’ultima volta che ci siamo visti in paese, qui in zona ritornò Anna. Si, quell’Anna amica di Lidia. Aveva avuto il trasferimento in una scuola elementare di Martano. L’ho incontrata nell’ufficio postale due o tre mesi fa, perché qui abita adesso, a Galatina.»

«E’ sposata? Com’è adesso?»

«No, non si è sposata. Com’è? Mah, una normale quarantenne, eh eh. Appena la riconobbi la salutai.»

“Ehi Anna.”

“Nah Bruno, che piacere.”

«E ci mettemmo a parlare un po’ del più e del meno. Chi sa perché poi mi vennero in mente quei discorsi che facevamo un tempo su quella Lidia.»

«E gliene hai accennato?»

«Certo.»

«E lei?»

«Lei si rabbuiò in viso.»

“Ma come, non sai niente? Ma non li leggi i giornali?”

“Veramente Anna sono tornato da Trieste che sono solo due anni, da quando cioè mia moglie ha avuto il trasferimento dall’ufficio INPS”

“Ecco perché non sai … Lidia è morta cinque anni fa.” “Morta? Qualche brutta malattia?”

“E’ morta ammazzata.” “Ammazzata?”

“Proprio così, ammazzata.”

«Oh cazzo!» feci io «Che storia strana, ma ti ha raccontato come sono andate le cose poi?»

«Non c’è stato il tempo perché la fila all’ufficio postale si era esaurita ed era arrivato il nostro turno. Ma ci siamo ripromessi di ritrovarci qualche volta per parlare di Lidia, tanto siamo entrambi qui a Galatina. Ah, però le ho detto di te, di quando mi chiedevi di Lidia.»

«E lei?»

«Lei ha sorriso tristemente, ma quando le ho detto del vostro incontro all’università proprio non si ricordava. Mo sai che sto pensando? Un giorno di questi perché non ci andiamo assieme da Anna? In fondo che male c’è se le chiedi personalmente tu di Lidia, no?»

«Mah, non so. Ci siamo incontrati una sola volta più di venti anni fa. Sono un estraneo per lei. E come si fa a parlare di queste cose con un estraneo?»

«Ma dai, non ti preoccupare, io non sono un estraneo per lei, anche se non ci siamo visti per anni l’amicizia è rimasta. Non ci pensare, glielo chiedo io e le anticipo che tu vieni con me. Non farà storie, è una persona così disponibile e poi, ué, me ne hai portato la testa per tanto tempo con questa Lidia e mo che fai, ti tiri indietro?»

No, no, non mi tiravo indietro, solo che era davvero una strana storia: incontri una sola volta una ragazza, non che ti fosse scattato qualcosa dentro per lei, ma in qualche modo mi era rimasta impressa. E per quante volte avessi fantasticato su questa persona, mi ero immaginato tante esistenze possibili che poteva aver vissuto, ma non potevo immaginare certo che fosse morta, e ammazzata poi, chissà in quale modo. Un incontro avvenuto tanti anni prima, destinato a rimanere l’unico. La curiosità di sapere della sua vita da quel giorno in cui la incontrai fino a quando era morta era davvero tanta. Quante volte l’avevo pensata e, chissà perché, senza motivo, mi era ritornata in mente sempre con quel sorriso pudico e l’aspetto antiquato da brava ragazza di paese, quegli strani orecchini a forma di stella marina. Così dissi a Bruno

«Va bene, ci vengo, fammi sapere quando.» e ci scambiammo il numero di cellulare. Non arono molti giorni e Bruno mi chiamò un venerdì, poco dopo

l’uscita dall’ufficio, e mi disse che Anna ci aspettava sabato pomeriggio se mi faceva piacere. E certo che mi faceva piacere, non vedevo l’ora!

Le ore arono così lentamente che il tempo pareva si fosse fermato. Anche io e mia moglie, come tanta gente che lavora, il sabato mattina lo dedicavamo alla spesa settimanale nei grandi supermercati. Ero distratto e mentre spingevo il carrello con lei davanti di un metro, automaticamente e senza rendermene conto infilavo nel carrello le cose più disparate.

«Ma che fai? Il latte lo abbiamo già preso e tu ne prendi altre cinque confezioni. Ma dove ce l’hai la testa? Dì, ma ti senti bene?» disse adirata, ma anche preoccupata di dovermi soccorrere in caso avessi dovuto sentirmi male, troppo fastidio e poi sconveniente, così davanti a tutti.

«Non ho niente, ho avuto una settimana pesante in ufficio.»

«Tu non me la racconti giusta.» le donne si sa, quando non riescono ad entrarti nella mente, ci schiaffano sempre queste frasi intercalari nei loro discorsi.

«E come vuoi che te la racconti?»

«Mah, sarà …»

La cassiera nanetta ci mise una vita a fare il conto di una anziana che andava cavillando sul prezzo di ogni prodotto che aveva messo sul nastro trasportatore della cassa, e alla fine, ti pareva, pagò con la carta di credito facendo perdere

altri interminabili minuti e io sbuffavo annoiato.

«Con te non ci vengo più a fare la spesa.»

«Meglio, veditela tu la prossima volta. Lo sai che qui il sabato è un casino no? Che cacchio, ma perché non possiamo fare la spesa il lunedì pomeriggio?»

Vabbé, finì in qualche modo, e come Dio volle ritornammo a casa. Non vedevo l’ora che arrivasse il momento di andare da Bruno.

La casa di Anna era nel centro storico di Galatina, una casa insignificante vista dall’esterno, con la classica porta-finestra di ingresso, ma grande all’interno e ben tenuta, con le volte a stella restaurate da poco. Mi colpì l’estrema pulizia e il garbo con cui aveva arredato gli ambienti.

«Prego, accomodatevi.» ci disse facendoci entrare nel salone. Anna era quasi come me la ricordavo quel giorno dello sciopero, è incredibile come certe persone cambino così poco negli anni, sempre piccolina, sempre i capelli tagliati alla stessa maniera, forse qualche rotondità in più dovuta all’età e qualche lieve ruga precoce sotto gli occhi.

«Ecco Anna, questo è quel Biagio di cui ti ho parlato e che ha chiesto spesso di Lidia.» disse Bruno un po’ impacciato.

«Ah, e di me non hai mai chiesto?» disse Anna rivolgendosi a me con un lieve sorriso.

«Si, certo che ho chiesto di te a Bruno, perché mi ricordavo che quel giorno all’università eri con Lidia.» dissi quasi per giustificarmi.

«Perché dopo tanti anni ti è rimasto il ricordo di Lidia?» Anna adesso mi scrutava curiosa.

«Davvero non lo so. Forse allora avevo qualche difficoltà a parlare con le ragazze perché ero timido, e siamo stati a chiacchierare per quasi due ore. Forse mi aveva anche colpito Lidia con il suo comportamento dimesso e timido, i suoi vestiti poco appariscenti e poi quegli strani orecchini.»

«Meglio che te la ricordi com’era quel giorno sai? Lidia da allora era cambiata molto.»

«E’ ato tanto di quel tempo e la sua figura nei miei ricordi è molto sfocata.»

«Mi sono ricordata poi di quel giorno all’università.» disse improvvisamente Anna sorridendo «Ne parlammo di te poi con Lidia e sorridevamo divertite. Ci eri sembrato tanto timido e impacciato veramente, ma ci eravamo accorte del tuo interesse per lei. Ci siamo dette “Un giorno di questi lo vediamo in paese”, ma poi non ti abbiamo più visto. Del resto lei non usciva quasi mai da casa tranne qualche volta per andare in parrocchia o per venire a casa mia. Poi io sono andata via dal paese, però io e Lidia ci scrivevamo spesso, ci raccontavamo tutto.» Era davvero curioso ascoltare quel “Non ti abbiamo più visto”, proprio io che avevo battuto su è giù per le strade di quel paese consumando suole di scarpe e pneumatici.

Mi prese uno strano torpore e continuando ad ascoltare Anna, le sue parole si mescolavano nella mia mente con i miei ricordi.

4

Ogni volta che la primavera copre di verde la campagna ancora annerita dall’inverno, i timidi germogli non vivono una vita tranquilla. In agguato c’è sempre qualche pericolo che minaccia la loro esistenza, e tuttavia l’istinto alla vita è così prepotente che essi continuano imperterriti a sorgere, anche se fra mille che nascono forse solo dieci o venti continueranno a vivere.

La vita di Lidia era stata come quella di uno di questi germogli che vivono una vita precaria. Era nata a Bari, suo padre era una agente penitenziario, che una volta si diceva guardia carceraria, abituato ai trasferimenti, ed era originario della Calabria, sua madre invece era originaria del paese. Ancora piccola si trasferì in paese con la famiglia ed andarono tutti ad abitare in una casa del fratello della madre, lo zio Patrizio, che si era fatto ricco con le speculazioni agricole, quelle immobiliari e finanziarie, e possedeva tante proprietà in paese, e per quella casa vecchia e oscura gli pagavano un affitto non proprio modesto. La solita casa di paese, grande all’interno e con le volte a stella e la porta-finestra di ingresso sulla strada.

La famiglia non si vedeva mai in giro per il paese, e i paesani attribuivano questo al fatto che forse si consideravano forestieri. Lidia non cresceva come le ragazzine della sua età, era sempre chiusa in casa insieme alla madre e al fratello Fernando che era nato due anni prima di lei. Fu mandata a scuola dalle monache, ce la accompagnava suo padre con la seicento prima di andare al lavoro. Lidia non aveva un bel ricordo di quel periodo a scuola, le ragazzine facevano spesso la spia alle monache e queste, severissime, se la prendevano sempre con Lidia mettendola in castigo dietro la lavagna o inginocchiata sui ceci. Ma Lidia si teneva tutto dentro e non piangeva mai, e nemmeno si lamentava con nessuno. Solo la domenica mattina un po’ d’aria, si ma solo per andare alla messa e qualche volta per portare una guantiera di paste allo zio Patrizio. Già, lo zio Patrizio, quello che quando restavano soli le faceva tante carezze, alle volte anche strane carezze e strani discorsi. Ma era troppo piccola per capire certe cose, e scambiava quel comportamento strano dello zio per naturali gentilezze

che fanno gli zii alle nipotine. Solo la nonna aveva tanta tenerezza per Lidia, e spesso la guardava con occhi pieni di tristezza e le regalava qualche bambolina che Fernando puntualmente le sottraeva per farne scempio.

«Tutto quello che ti danno me lo prendo io, hai capito cretina?» le diceva con un ghigno. Allora si che le lacrime non faticavano troppo a sgorgarle dagli occhi e a rigarle il volto. Fernando cresceva in maniera strana, spesso andava sul terrazzo di casa completamente nudo e orinava sui anti cantando a squarciagola. Di frequente scappava da casa e lo rintracciavano i vigili a Lecce che infastidiva i anti chiedendo soldi perché diceva che doveva prendere il treno per andare a trovare la regina che doveva dargli i suoi gioielli. Ma poi, per lunghi periodi Fernando non si muoveva da casa e rimaneva immobile sul letto nella sua camera, completamente vestito e con gli occhi aperti sul soffitto, e dovevano cambiarlo spesso perché si orinava addosso, e mentre lo cambiavano diceva beffardo:

«Non mi ha scritto quella puttana. Deve darmi i suoi gioielli, me lo ha promesso. Domani vado e la prendo a pugni.»

«Ma dove vai Fernando? La regina non c’è più e nemmeno il re.» gli diceva Lidia quietamente.

«Statti zitta cretina. Quella è una puttana, e anche tu sei una puttana. Tutte le donne sono puttane.» e si rimetteva a cantare a squarciagola frasi senza senso «Carabinieri, polizia, finanza, lo stato siamo noi.»

Che strazio quella vita, Lidia voleva scappare via, in qualunque posto non fosse quella casa, quel paese, con quella gente. E la gente diceva che erano persone strane, ma non per la disgrazia di averci un familiare con problemi di mente, che una disgrazia può capitare a tutti, ma proprio perché non cercavano mai la

solidarietà di nessuno. In una piccola comunità ci si conosce tutti, ci si aiuta l’un l’altro, ma loro no, loro avevano creato una barriera che li divideva dalla gente, e non chiedevano mai niente a nessuno.

Il padre morì che Lidia aveva sedici anni e sul letto di morte, circondato da quattro ceri, Fernando si avvicinava con un ghigno e sputando sul cadavere diceva:

«Alzati coglione e vattene fuori da questa casa, tanto lo trovo io dove hai nascosto il tesoro.» dovevano portarlo via con la forza di tre uomini piazzati, perché era già un uomo alto e grosso, prima che la salma subisse ingiurie peggiori.

La madre si chiuse nel mutismo e chiuse anche quella stanza dove aveva visto morto nel suo letto il suo Carmelino. Dove lui aveva dormito, aveva disteso la sua divisa ed il berretto sul cuscino, e così rimase e nessuno doveva entrare più lì.

Per settimane nessuno vide più uscire anima viva da quella casa. Ma chi vi ava accanto sentiva una puzza di spazzatura che si diffondeva per la via. Ci mandarono un vigile a bussare, per vedere che cosa succedeva in quella casa. Aprì Fernando:

«Che volete? Le tasse le abbiamo pagate e il sindaco è un emerito stronzo.»

«Niente Fernando, volevo sapere se stavate bene.» disse il vigile, che intanto sulla soglia cercava di gettare uno sguardo all’interno della casa dove vide agli angoli numerosi sacchetti di spazzatura e buste di rifiuti ammonticchiati. Ecco da

dove veniva la puzza.

«E perché non dovremmo stare bene ? Vogliamo stare così, e la casa la teniamo chiusa sempre, se no entrano mosche e zanzare.»

«Va bene, d’accordo Fernando, ma ogni tanto aprite la finestra per fare entrare un poco di aria fresca che la puzza si sente sulla strada.»

«Pensate alla puzza del sindaco e degli assessori, che quelli puzzano di gatto morto.» Inutile parlare con lui, ma la cosa strana era che né Lidia né sua madre si erano fatte vive. “Che le abbia ammazzate?” pensò il vigile. Ma una sera sul tardi videro uscire dalla casa un’ombra scura di donna anziana che trascinava a fatica dei sacchetti di rifiuti per ammonticchiarli dove c’erano anche gli altri, che l’uso dei cassonetti in quel paese non era ancora praticato. Nessuno però poteva entrare in quella casa per vedere cosa avvenisse fra quella quattro mura.

E intanto avano i mesi, e nessuno capiva cosa fero quelle persone così strane come nel paese non s’erano mai viste, come vivessero, perché si vedessero così raramente in giro, giusto Fernando la mattina quando in giacca e cravatta usciva da casa per andare Dio sa dove. Lidia la vedevano più spesso, quando andava a scuola, ma adesso la scuola l’aveva terminata, e benché si fosse prodigata a mandare lettere su lettere alle scuole e al Provveditorato per supplicare almeno una supplenza, niente di niente. E allora cominciò a frequentare la parrocchia, perché proprio a stare chiusa in quella casa non ce la faceva più, non ce la faceva più a sopportare il mutismo della mamma e le stranezze del fratello, che le provocavano una angoscia senza fine unita al non sapere cosa ne sarebbe stato di lei nel futuro. Il parroco untuosamente le chiese se voleva interessarsi al catechismo dei ragazzi.

«Lidia, figlia mia, c’è tanto da fare qui in parrocchia. Ci sono i bambini che

devono crescere nella conoscenza della legge di Dio. Ti vorresti occupare del catechismo? In fondo sei una maestra, e chi meglio di te è capace di educare?»

«Va bene don Antonio.»

«Ah brava, sapevo che avresti accettato.» e se la portava in sagrestia sotto braccio riempiendola di complimenti per la bella ragazza che era diventata, ma Lidia gli scostava rispettosamente la mano con la quale il parroco sempre più infervorandosi mentre le faceva i complimenti le aveva cinto un fianco. E don Antonio, anche se aveva capito di essere andato oltre, ne rimaneva indispettito e adesso la trattava con fare più distaccato. Comunque iniziò a fare catechismo, e in tutto con Lidia le catechiste erano quattro, e spesso le altre tre, occhialute e non proprio in tenera età, quando lei arrivava la smettevano di parlare e si limitavano a salutarla freddamente e andavano raccogliendo i ragazzini per portarli nelle salette del catechismo. Non c’erano chiacchiere particolari da farsi su Lidia, nessuno poteva dirne bene o male. Ma proprio questo disturbava, che nemmeno un discorso si potesse fare su una persona. E non si capiva come mai una ragazza a quella età fosse da sola, senza nessun uomo che le stesse accanto.

«Non dico un marito, che è ancora abbastanza giovane, anche se io alla sua età ero già sposata e con un figlio in viaggio.» diceva sarcastica Rosa, la più acida delle tre catechiste «Ma nemmeno un giovanotto che le giri attorno. Mah, forse è strana come suo fratello, e quando un uomo le si avvicina chissà lei come si comporta.»

Ma Lidia non era strana come suo fratello. Era chiusa in se stessa, una malinconia senza fine le struggeva l’anima e nemmeno lei sapeva perché. Quanto all’amore, oh si ! ci pensava, e forse diceva a se stessa che era lei a non sapersi comportare come le altre ragazze che dietro hanno sempre qualche giovanotto che le corteggia. Le sue idee sull’amore erano confuse, ed era cresciuta con l’idea che qualsiasi cosa che riguardasse il sesso, che poi alla fine a quello si arriva sempre no? fosse peccato. Non visse serenamente nemmeno il

tempo in cui ò dalla fanciullezza all’adolescenza, quando una donna è come una farfalla che esce dal bozzolo con le ali ancora umide. Ricordava con sgomento quella mattina quando, dopo qualche giorno di mal di pancia e di risposte sgarbate al fratello che la prendeva in giro, si era svegliata tutta imbrattata di sangue giù, e si era messa ad urlare chiamando la mamma.

«Ma che gridi stupida. Succede a tutte le donne alla tua età.» e Fernando dalla porta che rideva sguaiato saltellando «Sporca, sporca …» e lei piangendo gli tirò in faccia un libro.

Ricordi ati, ricordi remoti, come quando vide il suo seno gonfiarsi e i suoi fianchi arrotondarsi e diventare più morbidi. E si guardava allo specchio per ore senza capacitarsi che quella che vedeva riflessa era lei, era lei che stava cambiando, ma invece di gioia ne provava vergogna e si metteva i vestiti meno appariscenti che aveva, sperando almeno che gli altri non la notassero. Ma gli altri se ne accorsero di Lidia, per quanto lei fe di tutto per costringere le sue mammelle gonfie e turgide in reggiseni più stretti di qualche misura, e abiti che le stringessero i fianchi. Ma era peggio, che gli uomini la guardavano ancora di più. E la guardava anche Piero, uno che abitava vicino allo zio Patrizio e che studiava legge a Bari, brutto come la fame, già mezzo stempiato e con gli occhi strabici che non si sapeva mai dove guardassero, tendente alla pinguedine e dai modi untuosi come quelli di don Antonio il parroco. Cominciò dapprima a salutarla cortesemente, poi a rivolgerle la parola quando si incontravano sulla scala di casa di zio Patrizio, i cui affari legali erano curati dallo studio del padre di Piero, avvocato da numerose generazioni. E si faceva sempre più intraprendente, e usciti dall’androne la accompagnava sempre per un pezzo di strada.

«Andiamo sempre di corsa io e te. Quand’è che ti posso offrire un gelato e chiacchierare un po’ insieme?»

«Un’altra volta, grazie. Devo tornare a casa a studiare.» diceva Lidia affrettando

il o a quelle parole. A Lidia Piero non piaceva affatto, ma non tanto per la sua bruttezza, che ancora aveva le idee confuse e nessuna esperienza di uomini, era proprio per i suoi modi fasulli, i modi di chi vuole raggirarti comprando a buon mercato la tua simpatia. Ma Piero non desisteva dal corteggiarla e non capiva la ritrosia della ragazza. “Ma com’è possibile che non mi dia retta?” pensava indispettito “Fra poco sarò avvocato, ed ho già lo studio e i clienti di papà assicurati.” Ne faceva una ragione sociale del fatto che si sentisse parte dei maggiorenti del paese. Per lui era solo una questione di prestigio e di potere, ma non sapeva nulla di quello che pensa una ragazza riguardo ai sentimenti e sugli uomini. Si era anche fatto regalare dal padre uno spider bianco, e ogni volta che tornava in paese faceva apposta il giro di un intero grande isolato per are di continuo vicino alla casa di Lidia per farsi vedere. Nessuno però sapeva o si era accorto che Piero aveva l’occhio lungo su Lidia, e anche se qualche volta Lidia era in piedi vicino all’ingresso di casa e lui rallentava per salutarla con un colpo di clacson, lei lo salutava, così di sfuggita, e subito rientrava dentro.

«Che cosa sia successo ad un tratto proprio non lo so.» disse Anna assorta nei suoi pensieri, mentre continuava il racconto «Ci scrivevamo almeno una volta alla settimana, poi per circa un paio di mesi non ho saputo più niente di lei. Ma un giorno …» si alzò, come se un ricordo all’improvviso le fosse tornato alla mente «Scusatemi un attimo solo.» e andò in un’altra stanza da cui tornò poco dopo con in mano un foglio ripiegato dentro una busta da lettera. Si sedette inforcando degli esili occhiali da lettura «Questa mi arrivò un giorno. La lessi e la rilessi più volte, ricavandone gioia ma anche qualche preoccupazione per Lidia. Ve la leggo.» Aprì la lettera delicatamente, come se fosse un antico e prezioso papiro egizio:

“…Anna, dolce e cara amica mia, perdonami se è tanto tempo che non ti scrivo. Sai che qui in casa non posso chiamarti al telefono. Ti sarai chiesta che fine avesse fatto la tua amica Lidia. Come sia successo proprio non riesco ancora a capirlo, ma … è successo! Ho trovato quello che tanto si cerca, e alle volte inutilmente nella vita, e dopo che lo si trova si guarda indietro e ci si chiede come sia stato possibile vivere fino a quel momento senza: ho trovato l’amore! Mi sento così strana sai? Non pensavo che potesse capitare proprio a me che non ci ho pensato mai se non di sfuggita, a me che nella vita non ho fatto altro

che raccogliere dolori e delusioni. Non lo sa ancora nessuno, solo tu lo sai adesso. Ti ricordi le mattine a scuola, quando c’era sciopero e andavamo a eggiare in viale degli studenti a vedere i cortei di ragazzi e ragazze con i cartelli, che non capivamo mai il senso di quello che c’era scritto? Quelle ragazze scalmanate che urlavano, quei ragazzi belli e alti con gli eskimo e le barbe lunghe, e il traffico che si fermava per farli are? E noi che ci dicevamo che non saremmo mai diventate come quei ragazzi. Eravamo sicure allora che le nostre vite sarebbero state tranquille, e poi prendevamo la corriera per tornare al paese continuando a pensare nei nostri cuori che era ancora presto per pensare all’amore. Ed io a tavola non dicevo certo che a scuola non c’ero andata e che invece ero andata alla manifestazione. E già che a tavola in casa mia non si parlava per niente, ma figurati se lo avesse saputo papà, avrebbe cominciato ad urlare e a dire che ero diventata comunista, Dio ne scampi se avrei mai avuto una simile idea. Ma vedi che sono diventata proprio una stupida? Non so nemmeno io cosa sto scrivendo adesso che provo dentro di me quella emozione segreta di cui gli altri non devono accorgersi, quella emozione che sento per la prima volta a trentadue anni, quando mi dicevo che ormai ero destinata a rimanere zitella, e invece ecco che mi è successa questa cosa bellissima e tremenda che non potevo raccontare ad altri se non alla mia migliore amica. Prima mi prendeva una nostalgia di te e ti confesso che provavo un pizzico di invidia nel pensare a quanto eri stata fortunata tu a potertene andare via dal paese, lontana dalla noia, dalle chiacchiere e dalla maldicenza. Alle volte penso che mamma e papà avessero ragione a non frequentare nessuno qui e a non permetterlo nemmeno a me e al mio povero fratello Fernando. Che tristezza la mia vita di prima, ma adesso ecco che un raggio di sole mi ha raggiunto e mi ha scaldato l’anima. Spero che tu sia tanto felice dove sei e che i tuoi scolari non ti diano problemi, e spero anche di vederti presto. Un grosso bacio dalla tua amica Lidia.”

Anna accompagnò le ultime parole della lettera con un tremore di emozione nella voce, e alla fine tirò un grosso sospiro. Dopo un minuto riprese:

«Non le scrissi subito. Ero contenta per lei si, ma non so definire le sensazioni che mi avevano provocato la sua lettera. Mi ci volle qualche giorno, e ancora piena di dubbi e di interrogativi le scrissi.»

5

“… Lidia, dolcissima amica, quello che mi scrivi è meraviglioso. Hai incontrato l’amore! Che cosa c’è di più bello e tenero nella vita che stringere fra le braccia un uomo e sentire il calore dei suoi abbracci. Fai benissimo a non parlarne con nessuno. Lo so benissimo com’è fatto il nostro paese: sembra che nessuno veda e senta, ma il giorno dopo sei sulla bocca di tutti. Tienitelo ben stretto questo segreto. Non mi hai detto però chi è il fortunato, ma sono sicura che è una persona gentile adatta alla tua dolcezza e sensibilità. Non ti preoccupare di quello che scrivi, anche io sai me li ricordo quei giorni della scuola, quelle ragazze scalmanate dei cortei, ma chi lo sa, forse erano felici così, e forse si saranno realizzate. Noi certo non potevamo essere come loro. Mi dispiace tanto per Fernando, immagino quanta pena provi per lui, e ti sono vicina in questa dura prova. Qui non è tutto rosa e fiori sai? Gli scolari sono dei testoni e faccio fatica a fagli dimenticare il loro dialetto, e per di più i loro genitori sono contadini che vivono la scuola per i loro figli come una inutile perdita di tempo, legati come sono al lavoro e alla produzione. Non sono gente cattiva, ma figurati, sono proprio un’altra civiltà. Spero comunque che mi diano quanto prima il trasferimento che ho chiesto a Lecce o quanto meno nella provincia. Ad ogni modo il mese prossimo tornerò giù per due settimane per le feste natalizie. Ho tanta voglia di rivederti e di abbracciarti, da tanto tempo che non ti vedo. Un bacione grosso grosso dalla tua Anna.”

Anna era inquieta per Lidia, non era mai successo che non si raccontassero tutto nei minimi particolari. Perché aveva taciuto il nome dell’uomo che aveva aperto all’improvviso le porte del suo cuore? Chi era? Era del paese? Era di un paese vicino o di Lecce addirittura? Quanti anni aveva? Che faceva nella vita? Il tono della lettera di Lidia era trasognato, era segno che stava vivendo l’acme della gioia, una gioia improvvisa, e per questo era preoccupata Anna, lei non era coinvolta personalmente in questo rapporto e avrebbe saputo essere sicuramente più lucida nel valutare la situazione.

Erano tanti i bambini che frequentavano il catechismo il sabato pomeriggio.

Erano tutti più o meno di sette o otto anni, e Lidia era felice di quella sua piccola classe di scolaretti, ce n’erano quattordici con lei che facevano il catechismo, tutti bambini bene educati e non chiassosi come quelli affidati alle altre catechiste, e per questo le altre sue colleghe ce l’avevano non poco con Lidia, specie Rosa, la più acida. Ma il parroco aveva deciso di suddividere così i bambini, e a Rosa non andava giù che a Lidia fossero stati affidati i figli dei professionisti e degli imprenditori del paese.

«Hai visto che con quel fare da gatta morta si è accaparrata i ragazzi delle migliori famiglie? Chi sa come ha fatto.» diceva con un velo di ironia maligna sul volto conoscendo l’ambiguità untuosa di don Antonio. Ma forse Rosa non aveva tutti i torti e probabilmente don Antonio aveva davvero affidato a Lidia i pargoli della gente bene del paese per ingraziarsela e farle capire che a lei ci teneva in modo particolare.

Fra i bambini affidati a Lidia c’erano anche Giovanni e Loredana, fratello e sorella con un solo anno di differenza di età fra l’uno e l’altra. Erano i figli di Marcello, un piccolo imprenditore del paese. Marcello aveva un piccolo salone di auto usate da cui ricavava il necessario per una vita dignitosa per se e per la propria famiglia, ma il suo sogno era diventare concessionario di un noto marchio. Aveva cominciato con poco o nulla, più che altro faceva l’intermediario tra chi voleva vendere un’auto e gli acquirenti, ma spesso gli era capitato qualche guaio per via di auto di cui non era ben chiara la provenienza, però ogni volta ne era uscito, anche se a fatica, da questi guai dimostrando la sua buona fede. I soldi per aprire il piccolo autosalone glieli anticipò la famiglia della moglie. Un avvio stentato, fino a quando le cose cominciarono ad andare benino. Sua moglie stravedeva per lui e non gli faceva mai nessun rimprovero quando ancora era meno di zero. Ma lo amava per la sua dolcezza e la sua naturale eleganza nel parlare con le persone, ed era anche un bell’uomo, alto, biondo e con gli occhi chiari. I suoi bambini erano biondi come lui ed avevano ereditato la gentilezza e i bei modi del padre, e Lidia li adorava quando li interrogava e li sentiva rispondere alle sue domande con garbo e intelligenza. Forse prima che l’amore per un uomo, in Lidia cominciavano a risvegliarsi sentimenti di una struggente maternità e pensava a quanto sarebbe stato meraviglioso avere dei figli come quelli.

Marcello andava a prendere i suoi figli il sabato pomeriggio, quando finiva il catechismo e aspettava sorridendo vedendo Lidia avanzare con Giovanni al fianco e la piccola Loredana per mano.

«Buona sera signorina Lidia, come va?» le dava la mano Marcello a Lidia che arrossiva un poco a quel contatto.

«Bene signor Marcello, anche lei?»

«Non ci lamentiamo. Sono questi due diavoletti che mi fanno penare un poco, specie a scuola.»

«Ma no, lei ha due bambini meravigliosi, sono molto attenti in classe e non danno mai una risposta sbagliata. Perché dice così?»

«Perché Giovanni a scuola non va tanto bene in aritmetica e Loredana ha difficoltà in geografia e storia.»

«Va bene, ma sa, alle volte dipende anche dagli insegnanti. L’insegnante deve essere sempre intelligente da stabilire un buon rapporto psicologico con gli alunni, e deve adeguare il suo metodo alla sensibilità di questi.»

«Lei insegna? Voglio dire oltre al catechismo?» chiese incuriosito Marcello.

«Sono diplomata maestra, ma come forse saprà, avere oggi una cattedra è una cosa molto difficile a meno che non si voglia andare fuori, ed io non posso per problemi familiari.»

«Capisco. Senta … ma lei fa anche doposcuola ai ragazzi?» Marcello la guardava sentendo qualcosa di strano dentro di sé mentre Lidia parlava.

«Non me lo hanno ancora chiesto.» rispose Lidia dolcemente, ma aveva già intuito quale sarebbe stata la domanda successiva.

«Glielo chiedo io se mi permette.» Marcello aveva un sorriso disarmante e Lidia sentiva di non avere difese «Sarebbe così gentile da fare un poco di doposcuola a questi somarelli?»

«Si, si papà.» urlacchiò Loredana facendo un piccolo salto.

«Va bene signor Marcello, quando vuole lei.» a Lidia tremavano un poco le gambe. Come fare adesso? A casa di Marcello certo non era proprio da pensare, immagina la gente e le chiacchiere, senza considerare la moglie di lui. No, no, allora a casa sua. A casa aveva il suo studiolo accanto al salone di ingresso, sufficientemente lontano dalle altre camere. La mamma, quando non era in cucina, stava accanto al letto a guardare la divisa del marito sul letto in silenzio e Fernando al pomeriggio non c’era mai in casa.

«Possiamo anche cominciare da lunedì se lei è d’accordo. Glieli porto a che ora?»

«Alle quattro va bene signor Marcello?»

«Perfetto, allora a lunedì e buona domenica signorina Lidia.» le diede nuovamente la mano sorridendo e Loredana volle il solito bacino prima di andare via dalla sua maestra, imitata a ruota da Giovanni. Lidia non sapeva il perché, ma aveva il cuore che le palpitava forte mentre guardava Marcello andare via con i suoi bambini, uno per mano. Restò a pensare tutta la domenica al pomeriggio di lunedì, quando il camlo di casa avrebbe suonato, e già a mezzogiorno di lunedì era in ansia nel decidere come vestirsi mentre si pettinava i lunghi capelli neri. “Madonna, perché sono così agitata?” pensava Lidia, avendo paura della risposta. La rigida morale cattolica in cui era cresciuta in quella famiglia così strana era un muro invalicabile al solo pensare possibile la nascita di un amore con un uomo sposato, e anche se non aveva avuto per la mente ancora questo pensiero aveva spesso sentito dire che esiste un amore a prima vista, e Marcello aveva tutto in regola per impressionare una donna e innamorarla con la sua sola presenza. Ma se già così, senza far parlare di se per cose strane o negative, le chiacchiere e gli ammiccamenti erano tanti, figurarsi saperla invischiata in una storia con un uomo impegnato, con una famiglia e con figli. Cercava però di ragionare Lidia sul fatto che questo sentimento strano era solo nella sua mente, e che invece Marcello sicuramente era un uomo felice con sua moglie e con i suoi bambini. Ma subito dopo, l’apprensione per quella strana cosa che non capiva riprendeva il sopravvento nel suo animo, era più forte di lei, non poteva farci nulla.

Quattro del pomeriggio, il camlo di casa suonò. E Lidia con il batticuore andò ad aprire la porta-finestra e sulla soglia trovò Marcello con il suo meraviglioso sorriso e i due bambini con le cartelline di scuola.

«Buon giorno signorina Lidia, le porto i miei diavoletti, sperando che non la facciano disperare troppo eh?»

«Si figuri signor Marcello, è un piacere per me.» disse Lidia cercando

mentalmente di calmare il suo cuore che batteva all’impazzata, il rossore in viso non avrebbe saputo come evitarlo.

«Ritorno a prenderli alle sei, va bene?»

«D’accordo signor Marcello.»

«Andate bambini, e non fate arrabbiare la maestra. A dopo allora.» disse Marcello dandole la mano. Nel momento in cui sentì il contatto di quella mano calda e robusta, Lidia capì che era inutile andare contro la corrente, e che se quell’uomo le avesse chiesto amore lei glielo avrebbe dato senza nessun problema di coscienza o di morale. Era sua già da quel momento.

arono così diverse settimane, e le lezioni di doposcuola di Lidia ai figli di Marcello migliorarono di molto il rendimento dei due bambini a scuola. Ogni volta una festa per l’otto in aritmetica di Giovanni o il dieci in storia e geografia di Loredana, ed ogni volta una gioia quando all’ora solita i due piccini abbracciavano Lidia saltellando, e Lidia provava un piacere immenso al loro contatto morbido e caldo. E anche Marcello era radioso e non si stancava di guardarla sempre più intensamente.

«Meno male per lei signorina Lidia, meno male.» le diceva stringendole la mano e strofinandole il pollice sul dorso. A quel movimento la testa di Lidia girava vorticosamente. Che dolcezza quel contatto, che struggente tenerezza mai provata prima. Quel chiacchierare sommesso mentre i due bambini mangiavano un pezzetto di crostata e prendevano una tazzina di cioccolata come premio per i loro voti, seduti alla scrivania di Lidia.

«Beh signor Marcello, io ci ho messo tutto il mio impegno, ma c’è da dire che i suoi bambini sono molto intelligenti e non hanno problemi ad apprendere.»

«Lidia …» le disse Marcello dolcemente «Ma non possiamo darci del tu?» Lidia ebbe un tremito, aveva paura che il momento stesse avvicinandosi molto rapidamente, il momento in cui lui le avrebbe chiesto di più.

«Ma certo signor Marcello … ci mancherebbe.»

«Anche questo signor Marcello … chiamami soltanto Marcello e basta, vuoi?» Cuore in gola, salivazione azzerata, ma se ne accorse solo Marcello, perché i due pargoli continuavano a divorare la crostata e a bere la cioccolata. Era sola davanti a quell’uomo, in quel momento nessuno li guardava.

«Ma, io …» arrossì violentemente Lidia.

«Ma dai Lidia considerami un amico, non il papà di Giovanni e Loredana.» le aveva ripreso la mano e la accarezzava dolcemente.

«Va bene Marcello, come vuoi …» Se avesse potuto, Lidia sarebbe fuggita via lontano, in un posto dove non avrebbe potuto vederla nessuno, a piangere le sue lacrime di felicità. Ma davvero era questa la cosa che chiamavano amore? Era questo malessere terribile che faceva vivere una felicità violenta? Queste improvvise sensazioni di caldo e di freddo? Questo giramento di testa e questo cuore impazzito? Se glielo avessero descritto a parole avrebbe riso, avrebbe detto che erano sciocchezze, esagerazioni da melodramma perché come qualcuno, non ricordo chi, ha detto: è difficile per noi italiani così abituati al melodramma, capire la tragedia. E più tragedia di quella che vede la tua vita

sconvolta e i tuoi sensi completamente occupati da questa cosa terribile che ti fa dimenticare tutto il resto, della tragedia che altra definizione uno potrebbe dare?

6

Giovanni e Loredana furono promossi con voti alti quell’anno “Merito delle ripetizioni della signorina Lidia.” disse Marcello alla maestra di Loredana che si complimentava. Lo disse fiero, e certo i suoi occhi parlavano più eloquentemente delle sue parole, e la maestra se ne accorse.

«Ah, bene. Lidia ha fatto un buon lavoro. Vedrò di raccomandarla a qualcuno dei genitori dei miei scolari.» ma dentro di se masticava rabbia perché avrebbe voluto lei stessa fare doposcuola privato e arrotondare il magro stipendio del ministero. Si era accorta dello sguardo di Marcello mentre questi tesseva le lodi della ragazza, e non ci volle molto perché la cosa si propagasse ai suoi conoscenti, condendo il suo racconto di risolini ironici che facevano pensare a qualcosa di preciso, ma raccomandandosi di non dire niente a nessuno, il metodo migliore di diffondere le notizie oltre il ristretto ambito di un discorso fra due o tre persone, come rompere per terra una bottiglia di olio.

Il giorno dopo, alla solita ora in cui i due pargoli si affacciavano sulla soglia della casa di Lidia per il doposcuola, il camlo suonò un paio di volte e sulla porta apparvero tutti e due i bambini: Giovanni portava un gran fascio di rose così grande che gli copriva mezzo volto e Loredana un pacchetto confezionato con cura e con una bellissima coccarda rossa che ne ornava la sommità.

«Questi sono per voi signorina maestra.» disse Giovanni impettito come un ometto.

«Anche questo signorina.» disse Loredana sorridendo, ma leggermente indispettita di essere stata preceduta dal fratellino. Dietro di loro Marcello sorrideva fiero e a Lidia scappò qualche lacrima mentre abbracciava e

sbaciucchiava teneramente i bambini che le raccontavano dei voti finali e della promozione. Evitava di guardare negli occhi Marcello per non stare male al pensiero di non doverlo vedere più fino all’inizio della scuola, adesso che l’anno scolastico era finito. Lidia scartò il pacchetto incitata da Loredana, era una bottiglia di Chanel n° 5 non troppo piccola, Marcello non aveva badato a spese e non voleva per Lidia una delle solite colonie dozzinali.

«Ohhh … vieni qua, dammi un bacio grosso grosso, e anche tu Giovanni.» piangeva e i bambini non capivano il perché se la loro maestra era contenta piangesse.

«Perché piangi signorina Lidia?» chiese la piccina che la abbracciava con la forza di cui era capace il suo tenero corpicino.

«Perché le persone piangono spesso quando sono troppo felici.» disse Lidia asciugandosi le lacrime con un fazzolettino ricamato che aveva tratto dalla manica della sua camicetta.

«Allora mi sa che non voglio essere mai troppo felice.» fece Loredana seriosa, suscitando le risa di Lidia e Marcello.

Lidia dette loro un pezzetto di crostata fatta con le sue mani, come sempre e dell’aranciata. Mentre sistemava i fiori in un vaso le si avvicinò Marcello.

«Grazie di tutto Lidia.»

«E di che cosa Marcello? Era un impegno che avevo preso.»

«Va bene, ma si vede che lo hai fatto con il cuore, come se fossero stati i tuoi figli.» a quelle parole Lidia avvertì un brivido. Si, è vero che ormai si era affezionata ai figli di Marcello proprio come se fossero i suoi, ma sentirselo dire era una emozione struggente. Non rispose, ma Marcello le si fece più vicino.

«Lidia … anche io ho un pensiero per te, ma non voglio dartelo qui, davanti ai bambini. Quando potremmo vederci?»

«Ma … Marcello, tu non devi disturbarti per me. » disse Lidia cercando di vincere una emozione che le faceva tremare le gambe. Si avvicinava quel momento che lei temeva e … sperava.

«Ma che disturbo … dimmi, quando possiamo vederci? Fra non molto porterò alla casa di mare la famiglia, ma io per tutto il mese di luglio terrò il salone aperto e la sera sarò libero.»

«Marcello … io non lo so se …» disse Lidia arrossendo, i due bambini continuavano a ridere e a parlare insieme, con la bocca piena di crostata.

«Ma che c’è di sbagliato Lidia? Non faremo niente di male te lo prometto.» le ò due dita dolcemente sul viso rosso di pudore che lei aveva chinato. Voleva cadere tramortita ai suoi piedi, tanto l’emozione era violenta. Voleva urlare a pieni polmoni “Non mi importa niente se è bene o male, stringimi fra le tue braccia, dammi un bacio da togliermi il respiro, fammi tua per sempre”. In quel momento Lidia non pensava al fatto che Marcello avesse una famiglia, non gliene importava niente. E meno che mai avrebbe pensato alle chiacchiere del

paese, avrebbe gridato in piazza davanti alla gente “Si, e allora? Sono fatti miei se lo amo, a voi che importa? Non siete mai stati innamorati voi?”. In quel momento proprio non riusciva a vedere i volti della gente del paese che si metteva a confabulare quando lei sarebbe ata, le comari che avrebbero abbassato la testa e la voce nei cicalecci alle sue spalle, i vecchi dalla faccia di terracotta e sdentati che le avrebbero sorriso dietro ironici. La faccia di Piero a bordo del suo spider, la faccia dello zio Patrizio, quello di sua madre. E suo fratello Fernando? Come avrebbe reagito Fernando qualora lo avesse saputo? Ma che le importava adesso? Adesso era li che tremava come una foglia al vento di tramontana.

«Marcello …» sussurrò con un filo di voce mentre lo guardava fisso negli occhi, nei suoi occhi dove voleva leggere quello che ava per la mente di quell’uomo dolce e bellissimo ai suoi occhi.

«Non avere paura.» disse Marcello accarezzandole una guancia. Dio, scottava come se avesse la febbre «Sei un fiore di campo bellissimo, non avere paura di me io … io ti voglio bene Lidia.»

Voleva sciogliersi in lacrime, nessuno le aveva mai fatto provare quello che provava adesso, nessun uomo le aveva mai fatto una carezza di affetto, era la prima volta che la carezza di un uomo la faceva tremare. A trentadue anni aveva scoperto l’amore, quando tante sue coetanee alla sua età avevano già altri pensieri: i figli e il ricordo di una fiamma che le aveva bruciate troppo presto. Lei lo provava adesso questo turbinìo nella mente e nel cuore. Gli prese una mano fra le sue tremanti, ma non le riuscì di dire altro, e voleva dirgli tante cose, voleva dirgli “E’ vero Marcello, come hai detto tu sono come un fiore di campo, nessun uomo mi ha mai sfiorata, se sei tu il predestinato ricordati di non farmi del male, io … io non saprei come difendermi da te.”

Marcello sembrava leggerle nella mente, e le appoggiò delicatamente le labbra sulla fronte.

«Non ti preoccupare, tu sei la dolcezza fatta persona, e con dolcezza ti tratterò.»

Le venne spontaneo prendere una mano di Marcello e baciarla. Lei fare questa cosa ad un uomo? Non lo avrebbe mai immaginato possibile nella sua vita, ma tanto è che l’amore fa commettere le cose più strane.

«Sabato mattina porto la famiglia al mare, possiamo vederci la sera. Ti è possibile?»

In condizioni normali non sarebbe stato possibile, ma ormai la madre aveva smesso di interessarsi di tutto e di tutti, e ava intere giornate nel suo sacrario, chissà, forse a parlare mentalmente con il marito morto. Quanto a Fernando, non c’era mai un orario in cui rincasava, poteva fare anche le ore piccole e rientrare a notte fonda, e quando rientrava andava a buttarsi sul suo letto nella sua camera e sprofondava nel sonno tutto vestito. Si, era possibile.

«Va bene, ma che facciamo dopo?»

«Ce ne andiamo un po’ in giro, e poi andiamo a mangiare qualcosa. Tu hai problemi a rientrare tardi?»

«Tardi quanto?» chiese preoccupata Lidia. La preoccupazione era la gente che avrebbe potuto vederla.

«Mah, mi dirai tu quando è tardi per te, va bene?» rispose sorridendo Marcello

«Ehi, e sorridi, sei così bella quando sorridi!»

«Senti Marcello, però … non venirmi a prendere da casa d’accordo? Facciamo così: mi faccio trovare all’ingresso della strada che viene da Lecce, vicino dove fermano le corriere.»

«Va benissimo! Ti o a prendere a che ora?»

«Verso le venti?»

«Ok, sarò puntualissimo.»

Ormai i bambini avevano finito la crostata e l’aranciata e si erano alzati, ed erano venuti vicino al papà. I soliti bacini e abbracci, e la promessa di fare i bravi. Uscirono sull’uscio di casa, e i saluti furono solo cortesi che bisognava guardarsi dalla gente, anche quella non visibile, magari appostata dietro gli scuri delle finestre.

Lidia avrebbe voluto stare sull’uscio di casa fino a quando l’auto di Marcello non avesse svoltato l’angolo, ma anche questo non era prudente. Rientrata a casa corse a chiudersi in bagno. Quel contatto delicatissimo, quel tenero bacio sulla fronte, quelle parole dette con quel tono dolce l’avevano sconvolta e sentiva lo stomaco rivoltarsi sotto-sopra, talmente violenta era stata quell’emozione. Era la prima volta che un uomo le aveva parlato così, che l’aveva accarezzata e baciata. Le ò per la mente che Marcello potesse essere il diavolo, il diavolo che le aveva afferrata l’anima e le avrebbe fatto fare quello che avrebbe voluto. Ma quando si riprese, promise a se stessa che non avrebbe ceduto così facilmente, almeno non la prima sera.

Ma sapeva di mentire a se stessa, però ne aveva bisogno per non sentirsi completamente nel potere di quell’uomo che l’aveva stregata.

Non dormì quella notte, come avrebbe potuto? Si chiedeva sempre, rigirandosi nel letto, se faceva bene. Voleva avere vicino Anna per raccontarle tutto. Ma no! Anna, così sempre piena di dubbi su tutto, l’avrebbe dissuasa da una storia così impossibile, e lei in fondo non voleva essere dissuasa da quel sogno incantato in cui era precipitata. Ma era prepotente l’idea che quello che le stava succedendo era qualcosa sicuramente non giusta. Che diritto aveva lei di insidiare l’armonia di una famiglia? Che le aveva fatto la moglie di lui che nemmeno aveva mai visto? Che diritto aveva di rubare l’affetto di Marcello ai suoi figli che aveva imparato ad amare come se fossero i suoi? La cosa più importante però erano le intenzioni di Marcello. Voleva cominciare una storia con lei? Si, ma che tipo di storia visto che era un uomo sposato? Voleva solo divertirsi con lei o faceva sul serio? E se faceva sul serio, il fallimento del suo matrimonio era scontato. E Giovanni e Loredana? Separazione, liti giudiziarie, divorzio. Gesù che storia stava per nascere! Ma sentiva di non potere più fare a meno di Marcello. Una storia clandestina, si certo, ce ne sono tante e non tutte finiscono male. Sapeva di essere assolutamente inesperta di uomini ma, seppure confusamente, aveva pensato ad una storia normale: un uomo e una donna liberi che si incontrano e decidono di vivere una vita insieme, questa era la normalità che lei conosceva, la normalità che le era stata insegnata. Proprio a lei doveva capitare una storia così!

Mancavano due giorni a sabato, e giovedì pomeriggio doveva andare dallo zio Patrizio per l’affitto del mese. Nell’atrio c’era Piero che aveva appena parcheggiato il suo spider.

«Ciao Lidia, come va? Ti vedo un po’ strana, che hai? Ti è successo qualcosa?»

«No, niente, sono solo un po’ stanca.»

«Andiamo a farci un giretto in macchina? E’ una bella giornata e comincia a fare caldo.»

«No, ti ringrazio, sarà per un’altra volta. Ho molte cose da sbrigare.»

«Va bene, dimmelo tu allora quando potrò avere l’onore di stare un po’ con te.» le disse leggermente ironico Piero, che la studiava attentamente, e gli pareva che non fosse proprio una cosa di stanchezza, sembrava semmai agitata, e non l’aveva mai vista così. Decise di seguirla, una volta che si era allontanata abbastanza da non essere visto. La vide entrare di fretta nell’emporio-merceria che aveva davvero di tutto e con la grande vetrata leggermente opaca dalla polvere mai rimossa dati titolari, la vide al bancone che comprava dei bigodini, della lacca per capelli e dello smalto per unghie. Sospettoso e maligno come era, Piero pensò “Ma per chi ti fai bella, si può sapere, che fai tanto la difficile con me?”

E si fece bella per quanto le riuscì. Non aveva granché di abiti, ma mise quelli che le sembrarono i meno scialbi, e alla fine si mise dietro le orecchie un po’ di Chanel che le avevano regalato. Era già pronta alle diciannove, e la mente non più indaffarata nella frenesia dei preparativi ricominciò a pensare a quell’incontro che doveva avvenire fra poco. Che sarebbe successo? Dove l’avrebbe portata Marcello, e come si sarebbe comportato? Fu sul punto dal decidere di non andarci a quell’appuntamento, era troppa la paura di essere vista da qualcuno. Ma poi pensò alla delusione che avrebbe provato Marcello. No, non poteva deluderlo e poi, va bene era un uomo sposato, ma che male c’era ad uscire con un uomo sposato? Così, da buoni amici, senza che per forza succedesse qualcosa di sconveniente. Ma veramente fra un uomo e una donna ci può essere solo amicizia? E perché no? Pensava con disprezzo alla mentalità gretta e retrograda della gente comune quando vedono insieme un uomo e una donna, specie al sud, specie nei paesi piccoli come il suo. “Ma saremo solo due che fanno una eggiata, che male c’è?”. Cercava un appiglio qualsiasi, perché aveva paura di dire a sé stessa che si era innamorata di quell’uomo, e chi non lo

sarebbe stata di un uomo così?

Uscì di casa alle diciannove e quaranta perché voleva fare il giro più largo in modo da non are dalla piazza, in quel momento molto affollata, e poi sarebbe dovuta are davanti alla casa di zio Patrizio, con il pericolo di incontrare Piero. Camminava di fretta per la lunga e stretta viuzza dissestata da buche e sconnessioni e oltretutto male illuminata. Aumentò l’andatura fino quasi a correre quando dovette are accanto alla salumeria dove la conoscevano bene. Dopo c’erano solo duecento metri fino alla fermata delle corriere. Cominciava già il batticuore “Madonna mia, adesso torno indietro.” pensava fra se, ma le gambe continuavano a portarla dove, fra nemmeno dieci minuti, si sarebbe fermato Marcello con la sua auto. Ma Marcello era già lì. Lo vide da lontano circa venti metri. Accellerò il o, come fa spesso un condannato alla pena capitale quando vede il patibolo, ed entrò nell’auto. I suoi pensieri contraddittori che aveva avuto fino a quel momento svanirono quando Marcello le baciò dolcemente una guancia che profumava di Chanel.

«Sei bellissima, grazie per essere venuta.»

«Andiamo via subito Marcello.» disse Lidia con il cuore in gola.

Era agitatissima, ma Marcello in pochi minuti uscì dal paese svoltando a destra, verso la lunga strada che portava sulla provinciale. Marcello le prese una mano mentre guidava con calma.

«Hai la mano fredda Lidia. Perché sei così agitata? Non facciamo niente di male. Siamo due buoni amici. Perché poi non possiamo fare una eggiata insieme?» il sorriso di Marcello era sereno e rassicurante come sempre, ma Lidia aveva un nodo allo stomaco e pensava “Lo dici tu che non facciamo niente di male. Il male è che ti voglio un bene dell’anima.”

«Scusami, sono stato troppo scontato nel dirti solo che sei bellissima, un po’ banale lo so, ma non mi è venuto di meglio. Non ti avevo mai vista così elegante. Anche io sai, sono molto emozionato. Avevo paura che mi dicessi di no.»

«Dove stiamo andando Marcello?»

«Boh, non so, dimmi tu. Andiamo in un posto di mare, escluso Porto Cesareo ovviamente. Che ne dici, andiamo a Otranto?» l’idea di evitare il versante ionico era buona.

«D’accordo. Otranto va bene.»

Marcello invertì il senso di marcia. Durante il tragitto le parlava dolcemente del più e del meno per tranquillizzarla, mentre nel mangianastri girava una cassetta con le canzoni dei Matia Bazar. Lidia pensava a poco prima, quando vicino alla fermata delle corriere aveva visto l’auto di Marcello, pensava che fino ad una quindicina di anni prima, la mattina lei e Anna aspettavano la corriera per andare a scuola a Lecce. Chi sa che avrebbe detto Anna se avesse potuto vedere adesso.

7

Marcello aveva voluto fare il tragitto più lungo per andare a Otranto, e quindi si era diretto prima a Lecce, e da qui aveva imboccato la strada che da san Cataldo li avrebbe portati ad Otranto. Una dolce brezza accarezzava le fronde degli eucalipti e dei pini sulla litoranea. Non era ancora troppo intenso il traffico, perché ancora dovevano scendere i turisti e gli emigranti, e il tragitto era piacevole.

«Marcello senti, ma che cosa stiamo facendo?»

«Una eggiata Lidia.» disse tranquillamente Marcello.

«Si va bene, ma ti rendi conto della situazione? Voglio dire, tu sei un uomo sposato, hai due figli. Che ne penserebbe tua moglie di quello che stiamo facendo adesso?»

«Ma che cosa dovrebbe pensare? E poi, sai Lidia, ormai il nostro rapporto non è più come agli inizi, non c’è più complicità fra di noi. Ogni cosa sembra scontata. Ormai solo i figli ci uniscono. Non mi dice niente, questo no, ma non credo che mi abbia mai perdonato il fatto che debbo a lei e alla sua famiglia un certo successo che ho avuto negli affari. Le donne amano gli uomini di successo, quelli che gli americani chiamano self-made-man. Io ho avuto bisogno della sua famiglia, è questo che pesa fra di noi. Ma se avrò fortuna e potrò realizzare il mio sogno di avere una concessionaria di un noto marchio, allora si che non dovrò più niente né a lei né a nessun altro.»

Lidia lo guardava con tenerezza incantata, i sentimenti di Marcello le sembravano così virili e dignitosi. C’era dunque un pensiero che turbava Marcello, e avrebbe voluto abbracciarlo e tenerselo stretto, avrebbe voluto fargli coraggio e dirgli “Dai amore mio, che arriverà quel momento, e spero di esserci io allora vicino a te.” Era amore, ma insieme c’era qualcosa di materno, come una madre che guarda negli occhi di un figlio il desiderio di un giocattolo troppo costoso che al momento non può permettersi di comprargli, e sospira, ma nella sua anima si arrovella fino a quando ci riesce a vedere sul volto del suo bambino lo stupore e la gioia di aver visto il suo sogno realizzarsi. Ma vinse a fatica questi sentimenti che non diede a vedere a Marcello, però gli prese una mano.

«Ma forse questo lo pensi tu Marcello, e invece tua moglie ti vuole un gran bene. D’accordo, la sua famiglia ti ha aiutato, però lei ti ha accettato al suo fianco sapendo quello che eri all’inizio no?» cercava di indagare Lidia, come tutte le donne fanno cercando di penetrare nell’anima di un uomo per carpirgli il suo segreto ed avere la certezza assoluta che chi sta al loro fianco non stia mentendo.

«Si, sono pensieri, ma sai difficilmente uno si sbaglia su queste cose. Il mio sogno è quello che ti ho detto, ma voglio realizzarlo con le mie forze, senza chiedere più niente alla sua famiglia, anzi restituendo loro tutto compresi gli interessi. Ma non pensiamo a queste cose adesso. Adesso voglio mostrarti il mio pensiero per te.» disse estraendo dal portaoggetti dell’auto un pacchettino con sopra un adesivo di una nota gioielleria di Lecce sul corso. Appena lesse quel nome Lidia sbiancò.

«Ma, Marcello … che hai fatto?» disse balbettando.

«Non ti preoccupare Lidia, io so sempre quello che faccio. Aprilo»

Le mani che tremavano facevano fatica a scartare l’involucro. Quando ci

riuscirono, da un bel cofanetto comparvero due bellissimi orecchini d’oro a forma di boccioli di rosa con incastonato al centro un brillantino ed una collanina con un péndant a forma di bocciolo di rosa, identico agli orecchini ma più grosso. L’oro e i brillanti luccicavano misteriosi alla debole luce interna dell’abitacolo dell’auto e Lidia non aveva parole. Oro e diamanti hanno un significato inequivocabile, specie quando è un uomo a regalarli ad una donna.

«Marcello …» gli appoggiò una guancia sulla spalla sinistra piangendo quietamente. Si sentiva svenire, ma Marcello con la mano destra le accarezzò la guancia.

«Se mi vuoi fare felice adesso indossali, e tienili sempre addosso quando stiamo assieme.»

Non se lo fece ripetere, e una volta indossata la parure si ammirava sorridendo nello specchietto di cortesia del parasole.

«Devi essere un po’ pazzo, io l’ho capito sai?» fece Lidia teneramente abbandonandosi sulla sua spalla forte, stringendogli i muscoli del braccio e mentre una lacrima di felicità le scendeva in viso.

«Certo che sono un po’ pazzo … pazzo di te.»

«Ma tu che ne sai di me Marcello? Voglio dire che ne sai di com’è la mia vita?»

«Mi basta che sei qui adesso, con me.»

“E dopo?” pensò Lidia “Dopo che succede? Come va a finire questa storia?” Ma Marcello, come sempre, sembrò leggerle nella mente i suoi pensieri.

«Dopo … dopo ti vorrò bene come adesso. Cosa credi, che sia un capriccio?»

«Tu solo lo sai se è un capriccio. Marcello non sono mai stata con un uomo io. Che ne so di cosa pensano gli uomini?»

«Lidia» rispose Marcello un po’ risentito, ma continuando a sorridere

« Hai ragione, nessuno ha mai la certezza assoluta sull’amore. Potrei giurarti sulla vita dei miei figli …»

«No Marcello, non giurare. Giurare porta male. Se mi ami dimmelo e basta, e se è una bugia non dirmelo mai. Lasciami credere che sei sincero. Io… io non posso più fare a meno della tua presenza nella mia vita. Dammi un bacio adesso …»

Marcello rallentò dolcemente e prese per un viottolo ai bordi della strada fino a fermare l’auto fra i pini e grossi cespugli di mortella che la nascosero alla vista dei pochi anti.

Il cuore pazzo di Lidia era in tumulto quando Marcello abbracciandola le appoggiò le labbra sulle sue che lei dischiuse leggermente, lasciando fare alla sua esperienza. Che sensazione nuova il sapore di un uomo nella bocca, le sue

mani forti e delicate che le accarezzavano il corpo e … quel momento tremendo e dolcissimo in cui Lidia divenne donna. Tutto il mondo aveva un significato nuovo in quell’attimo doloroso e sublime. Solo a trentadue anni Lidia aveva capito che cosa meravigliosa è diventare una sola cosa con la persona che si ama più di tutte. Marcello era la sua vita adesso. Non si erano giurati amore eterno con le parole dette, ma con quelle taciute e sconosciute del cuore. Dopo Marcello, sapeva che non ci sarebbe stato posto più per nessun altro.

Quando ebbero finito Marcello non le si scostò, ma continuava a tenerla abbracciata, accarezzandola e dicendole tenerezze, quasi a prolungare la dolcezza all’infinito. Lidia sapeva che sarebbe successo prima o poi, ma forse pensava che aveva ceduto troppo presto, malgrado si fosse ripromessa di resistere fino a quando fosse stata sicura di Marcello. Ma sicura di che cosa? Quel momento non arriva quando decidiamo noi diceva a sé stessa, deve succedere in un momento magico. E quella era stata la magia, quella calma, quella tranquillità, quella dolcezza disarmante di Marcello, quel momentaneo eclissarsi della ragione che non si può spiegare, che succede e basta.

Si ricomposero, ed uscirono di nuovo sulla strada per proseguire la eggiata. Lidia aveva abbandonato la testa sulla spalla di Marcello accarezzandogli il braccio e la gamba destra. Marcello le strofinava i capelli con il mento.

«Ho pensato spesso a quando avrei vissuto questo momento.»

«Non ti è spiaciuto vero? Sono stato abbastanza delicato. Sapevo che era la tua prima volta.»

«Non dicevo di questo, ma di quando fantasticavo da ragazza su questa cosa.»

«Cosa pensavi?»

«Avevo le idee confuse, anche se con le mie amiche ne parlavamo spesso. Mi ero immaginato qualcosa di terribile. Non avrei mai pensato invece che fosse una cosa così bella.»

«E’ una cosa bella quando c’è l’amore Lidia. Molti uomini e donne lo fanno senza amore, solo per abitudine.»

«Hai avuto da me il massimo che una donna può dare ad un uomo. Adesso dimmi, cosa pensi di noi?»

«Che ormai siamo legati per sempre Lidia. E’ come se mi fossi sposato un’altra volta. Questa è una nuova vita che inizia per me, e credo che anche per te sia una nuova vita.»

«Eh, che parolone.» disse Lidia sorridendo e sbaciucchiandolo sul collo «Ma c’è tua moglie Marcello, e soprattutto i tuoi figli. Come pensi di mediare le due cose, visto che non hai il dono dell’ubiquità?»

«Continueremo la nostra vita come prima intanto. Ma la mia vera esistenza voglio viverla con te. Quanto a Giovanni e Loredana da oggi è come se avessero una nuova mamma.»

«I figli cresceranno Marcello. Che penseranno poi di questa cosa quando saranno in grado di capire?»

«Ma non vedi quanto bene ti vogliono? In casa non fanno che parlare di te.»

«Speriamo, speriamo che il diavolo non ci metta la coda. Però dobbiamo essere prudenti. Dobbiamo fare in maniera che nessuno si accorga mai di quello che succede fra me e te.»

«Ci mancherebbe … in quel paese poi, dovremmo andarcene via io e te. Ma non ti preoccupare di questo, amore mio. Questo è il nostro segreto. Ma sapessi quanto mi costa il non poter gridare in piazza che sono innamorato di te.»

«Anche a me Marcello.»

«Ma comunque spero che prima o poi una soluzione si possa trovare, si deve trovare. Io non credo di potere vivere tutta la mia vita senza di te, senza vederti ogni giorno, ogni momento.»

«Devi essere prudente Marcello. Tua moglie e i tuoi suoceri potrebbero prendere molto male questa cosa e fartela pagare.»

«Per questo aspetto il momento che si realizzi il mio sogno. Dopo chi mi potrà separare da te?»

Se lo guardava estasiata mentre guidava, tirava fuori dalla borsa un pettine e gli sistemava i capelli, e lui le prendeva con dolcezza la mano per baciarla. “Arriverà, arriverà amore mio, ci sono io vicino a te. Per te ruberei tutto l’oro del

mondo per vederti realizzato” pensava guardando con tenerezza quell’uomo a cui ormai apparteneva.

8

Era caduta ogni barriera adesso, e Marcello e Lidia vivevano una magia senza tempo, ben sapendo che questa regolarità sarebbe durata poche settimane. La mattina presto Lidia preparava la borsa da mare e andava ad aspettare Marcello davanti alla solita fermata delle corriere. Non c’era niente di strano che una persona stesse lì ad aspettare la corriera per andare al mare, ma quando qualcuno cominciò ad avere la stessa idea dovette pregare Marcello di venirla a prendere lontano da lì, poco lontano, vicino al distributore di benzina.

Che pace quelle mattinate al mare, la dove non li conosceva nessuno, fra gli spruzzi delle onde, le risa, gli abbracci apionati e i baci immersi nel mare caldo. Poi prendevano il sole, facendosi asciugare addosso l’acqua del mare, stesi uno affianco all’altra e tenendosi per mano. Lidia non smetteva di guardarlo mentre aveva gli occhi chiusi, e per scherzo faceva la formichina sul suo torace con le dita, ma Marcello se ne accorgeva e le bloccava le mani e le faceva il solletico fra le urla e le risa di lei.

Le donne in genere non amano il mare quanto gli uomini, ma per Lidia il mare, la campagna e perfino la montagna sarebbero stati la stessa cosa. Il mare, la campagna, la montagna di Lidia erano Marcello. Lei non assorbiva i raggi del sole, né le gocce di mare che le si asciugavano sulla pelle. Assorbiva ogni vibrazione che veniva da quell’uomo. Povera piccola Lidia, che non avevi chiesto molto alla vita, solo di essere amata e di amare. Abituata alla penombra, avevi visto in un istante il sole, eri uscita alla vita tardi e ti dicevi che era bella la vita, era bello guardare il cielo in quegli occhi che ti cercavano, in quelle mani che ti accarezzavano dolcemente cullando i tuoi sogni di bambina e di ragazza poi e di donna adesso, che nascondevi una lacrima di felicità, solo una piccola e tenera lacrima sul tuo viso che aveva visto la malinconia di tanti giorni silenziosi, senza calore e senza una carezza di affetto che compensasse almeno un poco la tua dolcezza, la tua gentilezza che si sprecava nei giorni sempre uguali uno all’altro. Lidia dolce, che quando la mamma ti mandava al forno per comprare il pane e i biscotti al limone facevi il giro largo per non are dalla

piazza, perché avevi paura che la gente ti guardasse, perché della gente ti avevano insegnato ad avere paura, e quando nel forno c’erano tante persone ti mettevi dietro, anche dietro a quelle che erano arrivate dopo di te, perché volevi essere sola quando avresti chiesto quello che ti serviva, perché nessuno ti sentisse parlare, perché nessuno conoscesse la tua voce.

Piccola stella di mare che ti sottrai con fatica ai pericoli e ai raggi troppo forti del sole che ti guarda sorridendo mentre cerchi scampo sotto un anfratto sicuro, ma non fai in tempo perché una mano di bambino ti prende per metterti nel suo secchiello per mostrarti ai suoi amichetti, e ti agiti invano e vorresti pregarlo piangendo “Lasciami, ti prego, lasciami nel mio mare, io sono una stella del cielo che è venuta quaggiù perché mi avevano detto che questo mondo è bello”, ma non arriverai a domani, e domani sarai uno scheletro messo al sole a seccare per ricordare quelle mattinate al mare, e un leggero profumo di salsedine e di morte emanerà dai tuoi tentacoli rigidi, e guarderai fuori da una finestra il cielo da cui sei venuta per conoscere il dolore del mondo, e quando qualcuno ti guarderà non potrai mai fargli sapere quanto amore ti muoveva fra gli scogli del tuo mare.

Una settimana fatta di un tempo incantato. Nessuno l’aveva mai portata al mare tranne sua nonna quando era piccola, con la corriera. La sua pelle diventava dorata, e per questo cercava di farsi vedere il meno possibile facendo le commissioni nel tardo pomeriggio, così che nessuno se ne sarebbe accorto che qualcosa stava cambiando in lei. Non solo la sua pelle dolcemente abbronzata, ma anche il suo volto emanava la luce speciale di ogni persona innamorata e felice. La mamma non diceva niente, non era in grado di capire i mutamenti di Lidia, anche se era sua madre. Solo una volta le chiese:

«Ma dove vai tutto il giorno?»

«A fare ripetizioni mamma. Devo darmi da fare.»

«Lidia, non farmi mai sapere storie sul tuo conto. Non siamo mai stati sulla bocca della gente noi.»

«Ma che dici mamma? La gente non ha proprio niente da dire sul mio conto.»

Invece alla gente non sarebbe parso vero di avere per argomento la sua storia con Marcello. I particolari della relazione in un battibaleno avrebbero fatto il giro del paese. Sarebbe stata additata ogni momento, la sua vita in quel paese sarebbe diventata un vero inferno.

La sera avvolgeva complice i loro abbracci di ione, i loro dolci amplessi, di cui Lidia ormai aveva bisogno come dell’aria che respirava, e appunto quando la furia terminava con un sospiro e Marcello accarezzandola le diceva:

«Vita mia.»

«Respiro mio.» lei gli sussurrava, cercando di aspirare con tutta la capienza dei suoi polmoni il suo aroma, e continuava ad accarezzarlo e a baciarlo, piangendo di gioia e di tenerezza, nell’ora in cui voleva dimenticare la sua vita cupa fino ad allora, le sue tragedie, ma anche il pensiero tormentoso di vedere il suo amante pienamente felice e realizzato nei suoi sogni.

Il tempo a troppo in fretta quando siamo felici, sembra un attimo. Lidia continuò ad andare da sola al mare nel mese di agosto. Stava da sola sulla spiaggia, seduta su un asciugamano a guardare il mare e i bambini che giocavano a palla, e quando il pallone rotolava vicino a lei e un bimbetto andava a

raccoglierlo imbarazzato dicendole “Mi scusi signorina” lei gli faceva una carezza. Quando sarebbe durata ancora l’estate? Troppo sarebbe durata senza di lui. Ma ogni volta che poteva, Marcello disertava la famiglia per raggiungere la sua Lidia, e ormai a Lidia non importava più di rispondere al telefono, tanto anche se la mamma avesse sentito suonare il telefono, lei sarebbe stata veloce a richiudere fingendo uno sbaglio. Marcello per i loro incontri avrebbe voluto usare il suo villino alla periferia, disabitato adesso.

«No Marcello, a casa tua proprio no.»

«Ma perché? Non c’è nessuno.»

Non voleva dirgli che le sarebbe sembrato un sacrilegio, e allora accampava scuse plausibili.

«Ma non pensi che qualcuno possa vederci?»

«E chi, se siamo isolati e tutti sono al mare?»

«Non si sa mai, e poi potremmo lasciare qualche traccia che tua moglie riuscirebbe a trovare, e allora?»

Allora continuarono a fare l’amore in macchina, nelle pinete o nelle campagne lontane dalla strada, con quel caldo opprimente che imperlava la loro pelle di lucide gocce di sudore. Però si ripromisero di amarsi dopo l’estate nel villino di Marcello a Porto Cesareo.

Da noi l’estate muore molto lentamente in una dolce agonia. Man mano che i giorni avano ci si avvicinava al mese di settembre, al mese per molti del rientro. Un giorno sul finire di agosto arrivò trafelata Rosaria, la domestica di zio Patrizio, a casa di Lidia .

«Che è successo Rosaria, perché sei così agitata?»

«Presto, presto signorina Lidia, il signor Patrizio si è sentito male, è caduto a terra e sembra morto. Gesummaria aiutatemi.»

«Ma non hai chiamato nessuno, l’ospedale, il pronto soccorso?»

«Sono corsa subito qui. Madonna che spavento. Signorina Lidia, per l’amore di Dio correte, io non so che fare.»

«Andiamo subito.» Lidia e Rosaria andarono di corsa a casa dello zio Patrizio. Lo trovarono nel salone, riverso a terra, sembrava davvero morto.

«Pronto, per favore mandate subito un’ambulanza, c’è una persona che sta molto male, siamo in via … io scendo giù ad aspettarvi.»

L’ambulanza arrivò in pochi minuti, e due infermieri adagiarono l’uomo incosciente su una barella e prontamente lo caricarono sull’ambulanza che partì subito verso l’ospedale. Lidia e Rosaria tornarono a casa per avvertire la mamma, e tutte e tre salirono in macchina che guidò Lidia fino al pronto

soccorso dell’ospedale.

«E’ stato un ictus.» disse il medico del pronto soccorso a Lidia «Le sue condizioni sono serie. Lo abbiamo messo in rianimazione e aspettiamo che si stabilizzi. Intanto lo abbiamo intubato dopo avergli fatto una TAC per vedere che danni ci sono stati e decidere se operare. Al momento non possiamo dirvi altro, mi dispiace, dobbiamo aspettare. Ma il colpo è stato brutto, speriamo che possa recuperare almeno in parte le sue funzioni.»

Rosaria piangeva inzuppando il suo fazzoletto, e la mamma di Lidia sedette su una sedia della sala d’aspetto prendendo in mano un rosario per pregare. Lei alla morte ormai era abituata, da quando la mattina di tanti anni prima aveva sentito quel tonfo in bagno dove era subito corsa e aveva trovato il suo Carmelino a terra con ancora in mano il rasoio con cui si stava sbarbando per andare al lavoro, fulminato da un infarto. Che cosa aveva da raccontarle ancora la morte? Lidia sedette anche lei in sala d’aspetto, guardando verso un finestrone da cui veniva la luce forte del sole, e sul cui vetro impolverato andava a sbattere sempre un moscone. Nei luoghi dove aleggia la morte trovi sempre un moscone, forse, chi lo sa, deve essere un’anima che lotta disperatamente per uscire, per trovare la libertà verso un’altra dimensione.

I pensieri andavano e venivano dalla mente di Lidia. Ricordi lontanissimi di quando … di quando lo zio Patrizio le faceva quelle carezze strane, che allora non capiva. Ma adesso cominciava a comprendere che non erano gesti di affetto e di tenerezza. E violento il rossore di una rabbia piena di vergogna le imporporava il volto, e si alzava e usciva a camminare per i lunghi corridoi semibui che portavano direttamente dal pronto soccorso alla camera di rianimazione.

“Dove sei Marcello? Dove sei adesso amore mio? Forse sei al mare a fare il bagno con i tuoi bambini e con tua moglie, o forse sei steso accanto a lei a prendere il sole … mi stai pensando adesso?”

Lo aveva evocato con la mente e con il cuore, e Marcello sbucò dal fondo del corridoio avanzando a i rapidi verso di lei. Non c’era nessuno nei dintorni, c’erano solo cinque o sei persone a ridosso della porta a vetri che guardavano verso le camere di rianimazione, dove oltre allo zio Patrizio c’era un ragazzo in coma che aveva avuto un incidente con la moto, quelli erano i suoi parenti che cercavano con trepidazione un minimo segnale di vita, un volto che accendesse la speranza, un volto di un medico o di un infermiere che li avrebbe guardati dicendo loro con gli occhi che forse c’era ancora qualche speranza. La mamma di Lidia e Rosaria erano sedute nella sala d’aspetto.

«Marcello, amore …» fece Lidia sorpresa, con un filo di voce avvicinandosi a lui «Come hai saputo?»

«Ho visto un’ambulanza vicino casa di tuo zio, lì per lì non ci ho badato, poi ando vicino casa tua ho visto la porta chiusa ermeticamente. Sono andato a sensazione. Come sta? È una cosa seria?»

«Non sappiamo ancora, ma il colpo è stato brutto. Ma tu com’è che eri in paese? Avevi qualche commissione da sbrigare?»

«Questo non te lo saprei spiegare. Ad un tratto ho pensato a te ed ho inventato una scusa, cioè che mi aspettava un cliente per una macchina.»

Lidia si avvicinò alla porta della sala d’aspetto per controllare cosa fero le due donne, che non si erano mosse da dove le aveva lasciate, sua madre sempre con il rosario in mano e con il capo chino e Rosaria che continuava a bagnare il fazzoletto di lacrime.

«Senti Marcello, non facciamoci vedere qui, può darsi che arrivi altra gente che ci conosce. Andiamo a prendere qualcosa al bar vuoi?»

«Va bene.» E si incamminarono lungo il corridoio e salirono una scala che li portò al piano rialzato, dov’era la grande hall dell’ospedale con in fondo il bar.

Il bar dell’ospedale era affollato come sempre, e Marcello faticò non poco ad avvicinarsi alla cassa per pagare un caffè e una coca, e poi tutti e due dovettero aspettare che si liberasse un po’ di spazio sul bancone, e aspettarono alcuni minuti perché la gente anche quando semplicemente prende un caffè è capace di metterci delle ore a berlo, chi se ne frega delle persone che aspettano. Molti camici bianchi e medici e infermieri vestiti di azzurro che magari erano usciti da poco da una sala operatoria, forse per un intervento banale o forse anche per qualcosa di serio e delicato che aveva preso delle ore, e adesso chiacchieravano di amenità.

«Ehi Lidia, ciao, come mai qui? La mamma?» era un cardiologo del paese, che aveva la villa alla periferia. Marcello non sapeva cosa fare adesso, era troppo tardi per allontanarsi da Lidia.

«Buon giorno dottore, non è per la mamma, è per lo zio Patrizio che ha avuto un ictus ed è in camera di rianimazione.» Lidia cercò di non mostrarsi agitata per quell’incontro, ma ormai la frittata era fatta, e il medico salutò anche Marcello che lo conosceva per avere comprato da lui un Mercedes quasi nuovo e a buon prezzo. «Ah, va bene, più tardi vado a dargli una occhiata, avranno certo bisogno di una consulenza dal mio reparto. Non ti preoccupare.»

“Non mi preoccupo per niente di lui, anzi non me ne frega niente” pensò Lidia

“Mi preoccupo che tu mi abbia visto con Marcello e che lo vai a spiattellare ai quattro venti.”

Il medico salutò e si avviò.

«Hai visto Marcello? Anche qui tutto è possibile.»

«Certo Lidia, ma dappertutto ci potrebbe essere qualcuno del paese, dovremmo cambiare regione, anzi proprio nazione. Comunque lo conosco come una persona seria e discreta. Ma appunto, non si sa mai.»

« Ecco, non si sa mai. Fammi dare un’occhiata alla mamma e a Rosaria, e poi usciamo sull’ingresso.»

«Va bene, ti aspetto fuori allora.»

La mamma e Rosaria non avevano cambiato né posto né posizione.

« Mamma io sto un po’ fuori, torno dopo. » la mamma annuì lievemente.

9

Uscirono fuori, sullo spazio scosceso dell’entrata dell’ospedale. Lidia era nervosa e Marcello si accese una sigaretta.

«Lidia ma perché sei così agitata, è per il dottore?»

«Non tanto per lui, è che dovunque andremo, dovremo convivere sempre con l’imprevisto di incontrare qualcuno che ci conosce.»

«Va bene, ma oramai è successo. Però non dobbiamo sempre farci prendere dal panico sai? Può capitare come stavolta, ma alla fine che può succedere di tanto grave? D’accordo, ci ha visti insieme, ma non per questo è successa una catastrofe. Stavamo prendendo solo un caffè al bar.»

«Ma non riesci proprio a capire? Io sono preoccupata per te Marcello, che qualcuno possa sapere anche solo di averci visto insieme. Potrebbero saperlo tua moglie, la sua famiglia. Lo capisci questo pericolo?»

«Certo, ma non siamo due ingenui. Se venisse a saperlo mia moglie o la sua famiglia e vabbé, mi sono trovato qui in ospedale a trovare un conoscente.»

«E ti chiederebbero: quale conoscente? E poi avevi detto che ti assentavi per via di un cliente. Li fai così sprovveduti?»

«Ma non ti preoccupare, se dovesse succedere, qualcosa mi invento sul momento. Non voglio vederti così angosciata. Fai stare male anche me. Non c’è motivo di allarmarsi oltre misura.»

Le si avvicinò per abbracciarla, ma lei lo scostò con dolcezza.

«Non qui Marcello, hai dimenticato poco fa?»

«Va bene, hai ragione.»

«Senti Marcello, forse è meglio che vai prima che ci capiti qualche altro imprevisto.» gli disse lievemente guardandolo negli occhi.

«D’accordo amore mio. Ma quando possiamo vederci?»

«Ma tu sei ancora al mare.»

«Dopodomani rientriamo, io devo riaprire l’autosalone domani. Magari possiamo vederci domani sera.»

«Non so Marcello, dipende come sta lo zio.»

«Va bene, se ti è possibile dammi un colpo di telefono all’autosalone. Domani ci

sto tutto il giorno, perché aspetto nuovi clienti.»

«D’accordo vedo come si mette qui e ti faccio sapere.» Prima di andarsene lui le sfiorò dolcemente una mano e lei lo guardò allontanarsi verso i parcheggi. Era ancora turbata Lidia per l’incontro con il cardiologo, tutte le accortezze, la prudenza che avevano sempre avuto non avevano tenuto in conto del caso.

Si, è il caso che fa la storia come aveva detto uno storico greco, e non solo la grande storia ma anche quella minima, banale di tutti noi. C’è chi il caso si ostina a chiamarlo destino, ma il destino è qualcosa di deciso prima, in anticipo, e non ci puoi fare niente per cambiarlo. Il caso è come una grande nube di polvere fatta di milioni di piccoli granelli che vagano qui o lì per il capriccio del vento che li muove, ma la gente continua a parlare di destino perché è più facile parlarne dopo che una cosa è successa, è più rassicurante e ci dispensa da qualsiasi giustificazione del nostro operato.

E fu proprio per il caso che, mentre Marcello e Lidia parlavano fuori sullo spiazzo dell’ospedale, ò attraverso i cancelli, sorvegliati dalle guardie giurate, uno spider bianco, era Piero che veniva a visitare lo zio Patrizio per averlo saputo chissà come. E proprio per un caso non si accorse dei due, perché erano troppo lontani ed il piano di ingresso non lineare non permetteva di vedere bene le persone. Quando Lidia riattraversò il corridoio per tornare nella sala d’aspetto vide Piero entrare. Non sapeva cosa fare, l’ultima cosa che desiderava adesso era vedere Piero con i suoi modi untuosi e la faccia falsamente dispiaciuta, anzi forse non troppo falsamente perché in caso di morte del vecchio lo studio di suo padre, e fra poco anche suo, avrebbe perso uno dei clienti migliori, non solo, ma anche per il fatto che Piero avrebbe avuto minori probabilità di entrare in casa dello zio e trovarci Lidia. Era stato sempre per un caso che Lidia prima di tornare dentro aveva preso dal bar una bottiglia di acqua minerale e qualche bicchiere di carta per la mamma e Rosaria. Piero entrando aveva notato l’assenza di Lidia contrariato, ma si era guardato bene dal chiedere di lei, e lei entrando lo salutò senza manifestare alcuna sorpresa.

«Ciao Lidia, mi dispiace per lo zio. Appena ho saputo sono corso qui. Avete già parlato con i medici? Che dicono?»

«Non dicono niente al momento. Bisogna aspettare e sperare. Un ictus non è mica uno scherzo.»

Piero non sapeva che fare e che dire in presenza delle altre due donne, ci fosse stata solo Lidia allora … allora niente. Lidia provava fastidio alla sua presenza, solo Piero non se ne accorgeva che testardo insisteva a coltivare pensieri su di lei.

Verso sera, quando ormai era scuro fuori, Lidia doveva riportare a casa la mamma che non avrebbe potuto rimanere la notte lì su quella sediaccia. Sarebbe rimasta Rosaria.

«Noi andiamo Rosaria, torniamo domani mattina. Vuoi che ti prenda qualcosa da mangiare dal bar?»

«Niente, niente bella mia. Andate, andate a riposare, non vi preoccupate per me.»

Salutarono Rosaria e Piero e si avviarono.

“Bene, domani ho tutta la giornata per stare con lei, vedremo.” Pensò Piero e se ne andò anche lui, senza salutare Rosaria, eppure la buona Rosaria lo aveva visto crescere, e da bambino, quando col padre andavano dallo zio Patrizio per affari

importanti, Rosaria lo portava con lei in cucina, che non poteva certo restare ad ascoltare i discorsi dei grandi, e lo riempiva di leccornie.

arono otto giorni facendo su e giù dall’ospedale prima che lo zio Patrizio riprendesse conoscenza e fosse portato nel reparto. E Lidia doveva ogni volta sorbirsi la fastidiosa presenza di Piero che ci provava sempre ad attaccare discorso, ma lei si eclissava sempre con una scusa, diceva sempre di dovere andare in bagno temendo che Piero la seguisse, invece prendeva corridoi e faceva scale su scale andando anche nei reparti lontani, ovunque ci fosse un telefono a scheda per telefonare a Marcello.

«Impazzisco senza vederti. Ma come sta?»

«Adesso meglio. Lo hanno portato nel reparto. Impazzisco anche io amore mio, sapessi che peripezie per sfuggire ai controlli di Piero e cercare un telefono per chiamarti.»

«Ancora quello stronzo? Ma che cazzo vuole? Finisce che gli spacco la faccia a quello, parola mia.»

«Non spacchi niente a nessuno. A lui ci penso io, e non dire parolacce se no mi perdi Marcello, capito?» fece adirata Lidia. Lo aveva conosciuto dai modi gentilissimi ed educati, e non sopportava l’idea di sentirlo parlare sboccato.

«Scusami amore mio, scusami davvero. E’ che non sopporto l’idea che questo qui ti ronzi attorno. Sono geloso pazzo di te capisci?»

Lidia sorrise affettuosa «Ma via, sei geloso di Piero? Amore mio, ma che stai dicendo? Io con lui? Sei pazzo si, ma geloso di Piero non ha senso scusa. Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma ne abbiamo tanto. Non essere arrabbiato dai.»

«Non dormo la notte perché penso sempre a te, mannaggia … o nemmeno mannaggia posso dire?»

«Mannaggia si. Dai non brontolare che recuperiamo. Ora devo lasciarti perché il credito sulla scheda sta per finire. Pensami sempre Marcello come faccio io, finirà presto questo inferno vedrai.»

«Speriamo. Va bene Lidia, vai, ci sentiamo nel pomeriggio.»

«Va bene amore mio, a dopo.»

ò un mese prima che un’autoambulanza, facendo il tragitto inverso, riportasse a casa lo zio Patrizio.

Aveva perduto l’uso delle gambe, e sarebbe rimasto per sempre su un letto o su una sedia a rotelle. Triste destino per un uomo ancora pieno di vita, forte ed autoritario, ridiventato un bambino che ha bisogno degli altri. Un uomo sanguigno che oltre al pallino degli affari e delle speculazioni immobiliari, e qualcuno diceva anche dell’usura, aveva una grande ione per la caccia. Camminava all’alba nei boschi dei fondi sterminati per ore, respirando la fredda e umida aria nebbiosa dell’oscurità che lascia il posto alla luce livida che annuncia il mattino. La moglie era morta già da qualche anno, liberandosi forse da una vita accanto a quell’uomo violento che non si preoccupava di nascondere le sue storie con ragazze, più giovani di lui anche di venti o trenta anni,

meritandosi in paese la fama di puttaniere. Quante ragazze aveva rovinato, poche delle quali avevano potuto rifarsi una vita, ma lontano dal paese, dove non le conosceva nessuno.

Finito tutto ormai. A parte l’età c’era quella menomazione che rendeva vana anche la sola idea di ogni rapporto carnale con una donna. Solo ancora Lidia gli rimaneva. La rivedeva bambina, così dolce, morbida e profumata. Quanto avrebbe pagato allora perché Lidia crescesse con lui, per vederla diventare donna vicino a lui.

Lidia cominciò a frequentare più spesso quella casa, per dovere, ma anche per il suo buon cuore. Rosaria era ormai avanti con gli anni ed era ormai Lidia a fare la spesa e a curare, per quello che poteva, gli affari di zio Patrizio. Lui le fece una procura per andargli a prendere ogni mese la pensione, e una delega per il conto bancario e anche per i libretti postali. Quando Lidia arrivava, lui sentendo il trambusto all’ingresso e la sua voce, compiva sforzi immani per sollevarsi sul letto appoggiando la schiena sui tre cuscini che aveva dietro, e si riavviava i capelli per rendersi presentabile per la nipote. Quando lei entrava nella sua stanza sentiva subito il suo profumo e gli si inumidivano gli occhi quando lei gli chiedeva come stava, sforzandosi di sorridere.

«Bella mia, vieni qua e dammi un bacio. Come farei senza di te?» Lidia doveva farsi forza, ma ubbidiva docile, anche se con fastidio.

«Riposati zio, non ti agitare.»

«E che mi agito a fare ormai? Il Padreterno mi ha castigato.» e iniziava a lamentarsi dei suoi malanni, come tutti i vecchi, forse per impietosirla, perché lei gli si attaccasse di più.

«Lidia mia, voglio che tu sappia che quando muoio …» Lidia protestò a quelle parole di malaugurio, ma lui continuava «Lasciami finire, quando muoio tutte le mie proprietà saranno tue: i soldi, questa casa, tutte le case e i terreni, tutto.»

«Va bene zio, da qui a cent’anni. Adesso non fare questi discorsi e prendi le gocce.» lo zio ubbidiva docilmente e provava una dolcezza morbosa quando lei si sedeva sul bordo del letto, sentiva non solo il suo dolce profumo, ma anche il calore del suo corpo. E stava male quando Lidia doveva tornare a casa. E poi finalmente la sera con il suo Marcello ad amarsi dove capitava. Una volta si lasciò convincere e andarono nella villetta di Porto Cesareo di Marcello a fare l’amore sui materassi privi delle lenzuola, ma con le federe che sapevano di umido salino, perché la casa di Marcello era a meno di cento metri dal mare.

Pareva a Lidia, fra gli spasimi del piacere, di sentire lo sciabordio delle onde che le riportavano alla memoria le bellissime mattinate di due mesi prima al mare, e gioiva con frenesia, assecondando e accompagnando gli assalti di Marcello, e nei momenti che precedevano l’appagamento totale, il piacere era così urgente che senza accorgersene gli conficcava le unghie nella pelle delle spalle lasciandogliele segnate, come un marchio di proprietà.

Ma non avevano sempre il tempo di andare a Porto Cesareo, e allora si adattavano nella macchina di Marcello, la loro alcova della prima volta.

10

Diventò bella per lui, anche se non lo era mai stata in maniera speciale, e lei voleva essere speciale per lui. Adesso si curava di più, sempre ben vestita, con le minigonne e gli stivali che lui le regalava. Era il minimo che potesse fare per il suo amore che cresceva sempre di più. La notarono tutti in paese, ma non sapevano a cosa attribuire questo cambiamento. Lo notava anche Piero con crescente nervosismo e iniziando a covare, insieme alla rabbia di vedersi respinto, il sospetto che ci fosse qualcuno che le girava attorno. Ma la prudenza di Lidia e Marcello aveva vanificato fino ad allora la curiosità morbosa di Piero e della gente. Nessuno ne sapeva niente, neppure nella famiglia di lui, e la moglie non sospettava a che cosa fossero dovute quelle frequenti assenze la sera, le attribuiva o voleva comodamente attribuirle ai suoi affari, sapendo anche lei che il sogno di Marcello era quello di aprire una concessionaria di auto di una marca famosa.

Lidia gli chiedeva qualcosa quando, dopo aver fatto l’amore, lui rimaneva con gli occhi trasognati a guardare lontano, chissà dove.

«Ma quanto ci vuole per avere questa concessione Marcello?» gli chiese una volta sommessamente.

«Una grossa cifra Lidia, che io non ho. Ma non ti preoccupare, prima o poi la ruota girerà dalla mia parte.»

Ma Lidia non credeva alla fortuna, e prendeva le parole di Marcello come una battuta per nascondere la sua sfiducia.

«Si, va bene, ma quanto di preciso? Ti sarai fatti quattro conti in tasca no?»

«Beh, come prima cosa ci vuole una struttura sufficiente: la sala da esposizione; un ufficio amministrativo; il deposito e l’officina. Bisogna assumere personale, e poi ci devi mettere anche le spese per la pubblicità che bisogna pure affrontare, il commercio vive sulla pubblicità. Non è mica uno scherzo.»

«Quanto costa tutto questo?»

«Diciamo che con quattrocento milioni sarebbe un buon inizio.»

Lidia rimase esterrefatta dalla cifra. Lei non aveva che una vaga idea del denaro, in casa sua non ne era mai girato che quello sufficiente a campare alla meglio. Dove li trovava lei quattrocento milioni? Non sapeva nemmeno come erano fatti.

«Tanti eh?» disse sorridendo Marcello guardando lo stupore di Lidia, ma Lidia lo abbracciò nascondendo il suo viso fra le braccia di lui. Silenziosa le scendeva una lacrima. Come fare? Dove trovare una somma simile? Lei, piccola donna indifesa e fragile, avrebbe dato fuoco al mondo per vedere un sorriso di felicità su quel viso amato. Maledetti i soldi! Ce li hanno sempre le persone sbagliate, e non quelle che meritano. Storia vecchia come il mondo. C’è gente che non sa che farsene dei soldi tanti ne ha, non li muove, restano lì a crescere alla posta, nelle banche, in case e terreni, per arricchire chi non fa niente tutto il giorno. Prendi lo zio Patrizio, un vecchio odioso, paralitico, ricco da fare schifo, e invece … il mio Marcello, amore mio adorato, quante cose farebbe con quei soldi. Si, lo zio Patrizio, forse … no, ma che vai a pensare? Chiedere una somma simile a lui, e perché? Tutta la storia sarebbe venuta a galla. E allora? Allora … ormai l’idea dello zio Patrizio, dei soldi, di Marcello cominciava a girarle nella mente come il gioco delle tre carte. E girava, girava, e lei si divertiva a pensarci, e ad un tratto la lacrima le si asciugò e cominciò a scherzare con Marcello

facendogli il solletico sotto le ascelle.

«Ah, ah, ah feeerma … non lo sopporto ah, ah, ah.»

Ma lei, sempre più invasata, non smetteva e aggiungeva dei piccoli morsi sulle sue spalle.

«Ma che ti prende piccola mia?»

«Sono felice.»

«Così? Tutta una volta?»

«Si, tutta una volta.»

«E perché?» domandò Marcello insospettendosi ma conoscendo bene i frequenti sbalzi di umore delle donne, però Lidia non era tipo da sbalzi di umore senza una ragione, una ragione l’aveva sempre.

«Perché, forse …»

«Forse? Dai mena, e dimmi.»

«Non ti dico niente, scemotto mio. Vedrai che forse una strada la troviamo. Ma so io e basta, tu non devi sapere niente. Tu devi solo amarmi. Adesso dai, prendimi di nuovo.» e rifecero di nuovo l’amore, e Lidia questa volta ci mise una ione sfrenata che meravigliò Marcello piacevolmente, anche se non sapeva il perché di questo comportamento. Che cosa le era venuto in mente a Lidia?

Lidia aveva la delega su ogni cosa ormai, lo zio Patrizio aveva messo tutto nelle sue mani e non controllava più gli estratti conto della banca e le ricevute della posta, ma diceva sempre a Lidia quello che doveva fare, e lei eseguiva diligentemente, sistemando estratti e ricevute negli appositi raccoglitori tutti in fila numerosi negli scaffali della libreria del salone dello zio, dopo di che riponeva in un cassetto i libretti della posta insieme ai libretti degli assegni bancari e ai buoni del tesoro. Si fidava lo zio Patrizio, tanto era morbosamente infatuato da sua nipote che vedeva farsi di giorno in giorno sempre più bella. Nella sua mente disturbata era convinto che sua nipote lo adorasse, e nemmeno lontanamente pensava di potere fare schifo e ribrezzo ad una giovane donna, da buon maschio meridionale era convinto che le donne naturalmente stiano un gradino al di sotto degli uomini e che naturalmente siano destinate a cadere ai piedi di qualunque uomo con le palle. Insomma aveva fatta sua la massima “basta che voglia l’uomo”.

Ogni fine mese Lidia andava prima in banca a ritirare le cedole degli interessi maturati sui titoli di stato che si erano prodotti semestralmente sui certificati con diverse date di emissione, e le mensilità dei numerosi appartamenti e terreni affittati che venivano accreditati sui conti correnti, e poi si dirigeva all’ufficio postale a versare le somme su tre libretti di risparmio che continuavano silenziosi a maturare interessi su interessi. Lo zio senza accorgersene aveva accumulato una fortuna fra titoli e depositi, immobili e altre proprietà, una fortuna valutabile intorno agli otto miliardi di lire. Lidia non voleva prendere, per i suoi piani, il denaro dalla banca che era anche la banca di Piero e del padre, che sedeva nel consiglio di amministrazione dell’istituto, era proprio esclusa la cosa. Allora pensò ai libretti postali. Su uno di questi erano depositati seicentoventi milioni.

L’impiegato della posta si meravigliò non poco alla richiesta di Lidia di prelevare da quel libretto quattrocento milioni, ma non fece obiezioni, solo Lidia dovette aspettare non poco, perché l’impiegato ò la richiesta al direttore della filiale che era nuovo lì, e che dopo vari minuti fece accomodare Lidia nel suo ufficio a vetri smerigliati. A Lidia batteva forte il cuore mentre attendeva che venisse eseguita l’operazione richiesta e che fosse emesso l’assegno circolare a lei intestato. Lo prese fra le sue mani gelate e lo ripose con cura nel suo portafoglio e, mentre usciva, decine di occhi le si appuntarono addosso. “Madonna mia, speriamo che l’impiegato non dica niente a nessuno.” Ma l’impiegato doveva servire numerosissime persone in fila allo sportello, forse ne avrebbe parlato la sera con la moglie o con gli amici al bar, chi sa, ma per fortuna non era del paese e allora Lidia pensò che poteva stare sufficientemente tranquilla.

«Amore che succede? Perché mi hai chiamato?»

«Marcello, mi serve il tuo numero di conto corrente, sbrigati.» Lidia aveva l’affanno. Telefonava da una cabina pubblica, e aveva preparato un taccuino e la penna.

«Il mio conto corrente? E cosa vuoi farne Lidia?»

«Ma non fare domande e sbrigati.»

«Mah … un attimo che prendo un estratto conto, perché non lo ricordo a memoria.»

I minuti avano interminabili o almeno così le parve con il cuore che le era arrivato in gola “Ma quanto ci mette?” pensava spazientita mentre dalla cabina si guardava attorno per vedere se qualcuno si fosse accorto di lei … nessuno.

«Allora: 506 … scritto?»

«Si, a dopo amore!»

«Ehi aspetta, ma …» ma Lidia aveva riagganciato la cornetta. Bisognava fare in fretta, e presa la macchina andò a Lecce presso la filiale della banca di Marcello. Attesa anche qui. Quando venne il suo turno compilò diligentemente il modulo della richiesta di accredito dell’assegno circolare sul conto di Marcello.

«Quanto ci vuole perché la somma venga accreditata?»

«Due o tre giorni signorina, stia tranquilla, ecco la sua ricevuta.» l’impiegato sorrise e non capiva il fare agitato della donna, lui era abituato in banca a fare operazioni di miliardi ogni giorno.

«Va bene, grazie.»

«A lei. Buona giornata.»

Nemmeno il rumore del traffico e le numerose persone in giro riescono a ménomare la bellezza della luce del sole su piazza Mazzini a Lecce un venerdì

mattina di un giorno di aprile. Uscita dalla grande banca, Lidia tirò un sospiro di sollievo, aveva fatto qualcosa di importante lei, piccola donna, qualcosa che non avrebbe mai fatto in altre circostanze. Ma il pensiero di vedere Marcello felice era stato troppo più forte delle sue paure, e comunque adesso non aveva il minimo rimorso.

Si mise a eggiare per la piazza inebriandosi di felicità e accarezzata dalla dolcezza dei raggi del sole, preludio di un’estate ancora lontana, ma che si annunciava diversa dalle altre. Avrebbe avuto il tempo Marcello di are momenti spensierati al mare con lei? Ma non le riusciva spiacevole il pensiero del suo uomo indaffaratissimo a curare la sua concessionaria, fra tanti clienti, contratti e pratiche amministrative. Adesso bisognava avvertire Marcello, e si divertiva a pensarlo mentre si arrovellava sul perché Lidia le aveva chiesto il suo numero di conto corrente.

“Ora lo chiamo.” E si mise a cercare una cabina telefonica. Si infilò nel punto Telecom sotto la galleria di piazza Mazzini, al riparo da occhi e soprattutto da orecchi indiscreti.

«Lidia, ma dove sei?.»

«Sono a Lecce amore!»

«A Lecce? E a fare che? E perché hai voluto il numero del mio conto corrente?»

«Eh, una domanda alla volta amore mio.»

«Lidia, ma che hai combinato?»

«Una pazzia amore mio, ma i sogni si nutrono di pazzia, non lo sapevi?»

«Insomma vuoi dirmi che hai fatto, si o no? >

«Ho reso realizzabile il tuo sogno Marcello. Fra qualche giorno controlla il tuo conto in banca.» gli disse sorridendo enigmatica.

«Oh Signore, ma che stai dicendo? Che significa?»

«Significa che il tuo sogno adesso non è più soltanto un sogno.» voleva tenerlo sulla corda, alle donne piace farlo spesso agli uomini che amano, agli uomini che per loro sono l’unica cosa che importa.

«Oh Madonna mia, non so se scherzi o fai sul serio.»

«Io non scherzo mai su queste cose. Controlla fra qualche giorno e vedrai se è uno scherzo.»

«Gesù, Gesù, io non so che dire, so solo che sei una sorpresa continua amore mio. Vabbé, ma stasera mi racconti tutto eh?»

«D’accordo, ciao amore mio.»

«Ciao stellina.»

Che cosa gli avrebbe raccontato la sera? Formulò diverse storie, ma tutte le risultarono ugualmente inverosimili: una vincita al lotto? No, la notizia di una vincita colossale doveva pure essere riscontrabile nelle chiacchiere della gente del circondario; un’eredità? Ma da chi? Lidia non aveva zii d’America e zio Patrizio era ancora vivo. Una azione disonesta è sempre qualcosa di terribilmente difficile da nascondere, da occultare con le menzogne. E allora la cosa migliore era dirgli la pura e semplice verità. Chi lo sa come l’avrebbe presa Marcello: un furto, una azione disonesta era il secondo problema morale, dopo quello del loro amore illecito e clandestino, e non era certo di secondaria importanza.

Quella sera, mentre Marcello la prendeva con dolcezza nel tepore della sua auto, Lidia lo accarezzava piangendo quietamente.

«Ma che hai? Ora mi spiegherai quella cosa spero.»

Lidia ebbe paura nel cominciare a spiegare le cose che erano successe, e per un attimo fu presa dal panico, ma poi con coraggio gli spiegò tutto, sperando che lui capisse. Marcello rimase qualche momento attonito non sapendo che dire.

«Ma ti rendi conto Lidia? E se tuo zio se ne accorge?»

«Verrai a portarmi le arance a Natale quando sarò in prigione.» rispose sorridendo dolcemente Lidia mentre gli accarezzava i capelli.

«Dai, ma non scherzare.»

«Non mi importa niente. L’ho fatto per te. Consideralo un prestito Marcello, man mano che gli affari vanno bene me li restituisci poco alla volta e nessuno se ne accorgerà. Ma ci pensi? Nessun prestito da chiedere a banche e finanziarie, nessun interesse da pagare.» Marcello la abbracciò dolcemente.

«Amore mio, non sapevo che tu fossi pazzerella fino a questo punto. Ti amo follemente, forse è davvero la follia che ci accomuna. Hai rubato per me, grazie, ma ti restituirò tutto, te lo prometto.»

«Ma che rubato! Quel vecchio è ricco da fare schifo. Marcello, in quei soldi c’è il sudore e le lacrime di tanta gente che non immagini. E’ solo un prestito a tasso zero. Quei soldi, causa di tanto dolore, adesso servono per fare del bene. E mo basta! Abbracciami e dammi un bacio scemotto mio.»

11

Quei soldi produssero davvero del bene. Marcello fu in grado di realizzare il suo sogno che aveva da giovanissimo. Aveva avuto sempre una grande ione per le auto, e ne aveva possedute tante che non ricordava più, anche macchine sportive a cui si affezionava ogni volta tanto che poi gli era difficile distaccarsene, ma gli affari erano affari, e quello di vendere auto era il suo mestiere.

Scelse per la sua concessionaria un grande stabile sfitto alla periferia del paese, che prima era servito come fabbrica di abbigliamento. Grande a sufficienza per avere tutto quello che occorreva ad una concessionaria di prestigio. L’arredò con cura e cominciò a selezionare il personale giusto: quello amministrativo e quello tecnico. Non mancava che la concessione della ditta madre che arrivò presto, dopo che un paio di funzionari scesero da Milano per un sopralluogo, tutto ok. In poco meno di due mesi tutto era pronto, e già i primi clienti cominciavano a gironzolare nel salone da esposizione a covare con gli occhi le auto nuove di zecca, con ancora i sedili incellofanati. I primi contratti firmati negli uffici, e la gente soddisfatta che parlava con altra gente dicendo che in quella concessionaria le auto avevano un prezzo abbordabile e un servizio di assistenza impeccabile. Di bene in meglio, la concessionaria di Marcello diventò un punto di riferimento in tutta la provincia, e venivano anche da lontano per comperare le sue auto.

Nessun sospetto della moglie e della sua famiglia, del resto a loro non importava molto del come Marcello ci fosse riuscito, e attribuivano la cosa al naturale istinto che aveva per gli affari. Andavano così bene le cose, tanto che ogni due mesi Marcello restituiva una parte dei soldi a Lidia che prontamente andava a depositarli alla posta. Si vedevano di meno adesso, Lidia lo aveva previsto, ma preferiva saperlo felice, e poi ogni volta che potevano incontrarsi era come se fosse la prima volta.

Anche a Lidia le cose cominciarono ad andare meglio, la voce comune degli ottimi risultati che aveva avuto con i figli di Marcello convinse molti genitori ad affidarle i propri figli, ma forse era per una sorta di curiosità morbosa: molti, alquanto vagamente, cominciarono ad avere un leggero sospetto su quella che era stata fino ad allora una realtà gelosamente custodita e probabilmente accompagnavano i bambini da Lidia sperando di incocciare Marcello e studiare gli atteggiamenti dei due. Ma Marcello adesso era troppo impegnato, e i suoi figli ce li accompagnava la tata da Lidia. Il sabato continuava il catechismo e don Antonio sbavava nel vedersela così cambiata, così ben vestita e così sicura di se, così donna.

Ci riusciva Lidia a mettere d’accordo tutti i suoi impegni: il doposcuola, il catechismo, lo zio Patrizio che ormai dipendeva in tutto e per tutto da lei, e ogni istante libero a pensare al suo Marcello, a quando finalmente la domenica potevano stare insieme ed amarsi.

Giorni sereni, di grande fatica, di sforzi caparbi. Marcello ce la metteva tutta la ione nel suo lavoro. Tempo un anno o due e avrebbe restituito tutto il denaro che Lidia gli aveva anticipato. E poi? Poi non avrebbe dovuto più niente a nessuno. Ma non era ancora il momento di fare un o che gli sarebbe costato molto: dire a sua moglie come stavano le cose. Che cosa era stato in fondo? Un uomo e una donna si erano incontrati, avevano formato una famiglia, avevano avuto due figli, ma adesso la storia non funzionava più. E’ la regola della vita che le cose non durino in eterno. Lidia gli era entrata nel sangue. Lo scandalo? E chi se ne frega quando in ballo c’è l’amore vero?

«Ma tu mi ami fino al punto da dare un calcio alla famiglia Marcello? Pensaci.»

Lidia non si stancava mai di provare a saggiare la sua sincerità.

«E per chi lavorerei come una bestia dieci, dodici ore al giorno?»

Le piaceva sentire queste parole, le piaceva sentirsi al centro dei suoi pensieri.

«Piuttosto speriamo di non arrivare tardi.» le disse sorridendo con fare enigmatico.

«Tardi in che senso scusa?»

«Mah, può essere che quel Piero che ti ronza attorno da tempo, abbia la meglio.» Lidia rise di gusto a questa frase.

«Ancora di quel cretino ti preoccupi?»

«Beh, sta messo bene, e poi è libero.»

«A parte che fra poco starai meglio tu di lui. Sai che mi frega. Per quanto riguarda il fatto che sia libero poi, per me può rimanerlo a vita o mettersi con chi vuole, per me è lo stesso, visto che di lui non mi è mai importato niente.»

«Sicura sicura?» ironizzò Marcello per provocarla.

«Sicura sicura, strasicura. E basta dai, abbracciami forte forte.»

Piero però non si era mai dato pace per l’indifferenza di Lidia. La sospettava di un legame misterioso che Lidia aveva iniziato chissà con chi, ma era troppo vigliacco per andare a fondo perché lei se ne sarebbe potuta accorgere e disprezzarlo ancora di più. Ormai si era laureato, a pieni voti manco a dirlo, e cominciava a fare pratica nello studio del padre. Non aveva dimenticato quelli che riteneva affronti da parte di Lidia. Capitava qualche volta a casa dello zio Patrizio per qualche pratica legale rimasta in sospeso.

«Ormai è la mia nipote adorata che si occupa di tutto avvocato. Perciò parla con lei.»

Non chiedeva di meglio Piero, e si informò quando la sua “adorata” nipote sarebbe venuta.

«Fra mezz’ora dovrebbe essere qua.»

Piero aspettò con impazienza. Lidia arrivò verso le undici. Solo un saluto formale fra i due.

«Lidia, vedi che vuole l’avvocato, fai tu. Andate nel salone che voglio riposare adesso.»

A malincuore Lidia si diresse nel salone con Piero.

«Allora? Di che si tratta?» chiese Lidia armandosi di pazienza per dovere

discutere con Piero di affari dello zio. Si trattava di uno sfratto di una famiglia che abitava una casa dello zio, una delle tante. Il povero capofamiglia era rimasto senza lavoro e di colpo la famiglia si era trovata in miseria. Sei mesi prima, il padre di Piero aveva fatto un decreto ingiuntivo e i mobili erano stati sequestrati. Non si sa quale mano benefica permettesse al poveraccio di dare da mangiare alla moglie malaticcia e a tre bambini, ma adesso c’era il pericolo di andare a finire in mezzo ad una strada.

A Lidia questa storia strinse il cuore, buona com’era si sentiva indignata ad ascoltare progetti di altro male su gente derelitta che ne aveva già avuto tanto, ma non dette a vedere la sua emozione e disse dura e decisa:

«Nessuno sfratto, non si fa niente. Ti pare umano infierire contro chi è perseguitato dalla sventura?»

«Ma Lidia, ragiona.» disse stupito Piero, che per deformazione mentale e professionale non recepiva nessun discorso di umanità e comione «Si tratta di tutelare gli interessi di tuo zio. Se cominciano a fare così tutti, a piangere miseria, uno va in fallimento.»

«Non mi rendo complice di questa porcheria. Adesso decido io qui Piero, non so se l’hai capita. Anzi sai che faccio? Il mandato ve lo do solo per fare dissequestrare i mobili di quei poveretti, e poi si fa un contratto di comodato gratuito per la casa fino al giorno in cui il capofamiglia non ritrovi la sua dignità con un nuovo lavoro. Questa è la mia decisione. Se per te e tuo padre questo è un problema me lo fate sapere: vi revoco il mandato e lo affido ad un altro studio legale.»

Piero rimase allibito da tanta determinazione e sicurezza di Lidia. La guardava ammirato come un delinquente incallito guarda un santo, sapendo che c’è un

abisso fra di loro, ma vorrebbe essere al suo posto. Si dannò l’anima per non poter avere ragione di quel cuore grande e generoso. “Che moglie stupenda sarebbe, mannaggia.” pensava Piero.

«Va bene Lidia, facciamo come vuoi tu. Non ti facevo così generosa e altruista.»

«Ed io non ti facevo così cinico e insensibile Piero, mi hai proprio delusa.»

“Maledetta, te la farò pagare un giorno” pensò Piero ingoiando amaro, ma si sforzò di sorridere andandosene.

Lidia era fiera di quello che aveva fatto. Anche se era abituata al dolore, ogni volta le scendeva una malinconia infinita nell’anima nell’apprendere quanta sofferenza ci fosse nel mondo. Da quel giorno, oltre al fastidio di Piero cominciò a provare un maggiore ribrezzo per lo zio Patrizio che sicuramente non avrebbe avuto scrupoli a fare eseguire lo sfratto.

«Che hai amore? Sei assente, è successo qualcosa? Dobbiamo dirci tutto o no?»

Lidia, con la voce che le fremeva per la rabbia e l’angoscia per quei cinque poveretti raccontò tutto a Marcello.

«Che pezzo di merda quel Piero. Scusa ma mi è uscito proprio spontaneo. Ma anche tuo zio, scusami Lidia, e già che è rinomato per queste schifezze.»

«Ma adesso ho la delega io su tutto Marcello, schifezze non se ne faranno più, altrimenti il vecchio se la dovrà cavare da solo, e non è più in grado di farlo.»

«Gesù che porcheria! Senti Lidia, lo conosco quel poveraccio, è un buon uomo e un gran lavoratore, se la cava bene con l’elettronica. Lo assumo io. Ho bisogno di un elettrauto in officina.»

«Davvero Marcello? Sei grande e generoso amore mio. Davvero lo farai?»

«Domani stesso lo mando a chiamare. Lo assumo subito.»

«Amore mio, amore mio.»

«Ho cercato sempre di non comportarmi male con nessuno nella mia vita, ma adesso il tuo cuore mi ha cambiato. Non comportarsi male non basta, bisogna fare il bene.»

Lidia se lo strinse forte al seno. Provava un amore indicibile per Marcello. Adesso non vedeva solo la sua bellezza, era la sua anima che le sembrava immensa. Grazie al suo buon cuore una famiglia avrebbe finito di soffrire. Anzi le disse che aveva anche intenzione di saldare lui ogni debito della famiglia.

«Non voglio che un mio dipendente sia angustiato da problemi. Ogni mio dipendente deve sorridere la mattina quando viene a lavorare da me, e deve andarsene sorridendo.»

«Dio mio Marcello, quanto ti amo.» lo baciò con foga straordinaria. Che meraviglia di uomo aveva scelto di amare, ma che rabbia non poterlo gridare a pieni polmoni.

E Marcello mantenne la parola: l’indomani mandò a chiamare l’uomo che cadde dalle nuvole e non credeva alle proprie orecchie quando Marcello fattolo accomodare nel suo studio alla concessionaria gli disse che aveva bisogno di uno bravo con l’elettronica e gli chiese di portargli i documenti necessari per assumerlo per chiamata diretta. All’uomo spuntarono le lacrime e non riuscì ad articolare parola, tranne «Grazie don Marcello.»

«Niente don!» rispose Marcello sorridendo «Non sono un prete. Chiamami Marcello e basta, come mi chiamano tutti qui. Qui siamo tutti una famiglia. Non devi preoccuparti di niente, so che hai dei problemi, ma ti aiuto io. Nessuno ti manderà via dalla casa, e i debiti te li pago io. Non ti dare pensiero di questo, i soldi me li restituisci quando li avrai. Devi stare sereno e pensare solo al lavoro. Adesso vai da Mimino, il capofficina, ti spiegherà lui quello di cui da domani dovrai occuparti.»

Quante benedizioni sul capo di Marcello quel giorno. Aveva salvato una famiglia dalla miseria. I figli avrebbero potuto avere una vita dignitosa e la moglie del brav’uomo adesso si sarebbe potuta curare meglio e tornare a rifiorire.

Il giorno lo sa ogni volta che alle sue spalle c’è la notte che attende per farlo morire lentamente, è la legge stabilita dall’inizio dei tempi. Non si può fare niente per cambiare quello che è stato stabilito. Ma agli uomini capita di rado di sentire alle spalle il male che si avvicina per spegnere felicità, sogni, tutto. Quante volte non ci si accorge che un sorriso, una stretta di mano o un complimento nascondono il malanimo, l’odio, la gelosia. Piero non si dava pace per essere stato respinto ed anche insultato da Lidia. Aveva giurato di fargliela pagare, a lei e al misterioso uomo che ormai era certo frequentasse. Cominciò ad aguzzare la vista e l’udito e a fare domande in giro, in maniera molto indiretta.

La gettava lì, per caso, parlando del più e del meno con i suoi amici e con gli amici del padre facendo come per combinazione cadere il discorso su Lidia, ma facendo anche intendere che la sua era solo curiosità.

«Ah, quella. Dicono che stia con un tale, ma ancora in giro non si sono visti insieme, che il paese ne avrebbe parlato. Non succede mai un cazzo di niente in questo buco.» disse uno dei tre amici distrattamente, mentre erano seduti al bar più decente del paese.

«Mah, chi lo sa chi è. Forse lui non è nemmeno di qua.» replicò un altro. « Ma se non si sposta quasi mai da casa, dove potrebbe aver conosciuto un uomo?»

«Appunto: quasi mai! Chi lo sa, anche se esce di rado, una volta potrebbe essere capitato.»

«Che ne dite, diamo l’incarico al comandante dei vigili? Può essere che in quattro e quattr’otto lui riesca a risolvere l’enigma.» questa frase provocò le risa generali, ed anche Piero si sforzò di ridere per non ingenerare sospetti. Però l’idea era buona, il comandante dei vigili magari no, era una frase detta per burla, chiaro, ma un investigatore privato magari si, che qui da noi non fanno un cacchio dalla mattina alla sera, al massimo qualche storia di corna, sempre storie di donne naturalmente. Ma anche questa che sembrava una buona idea aveva i suoi aspetti negativi: un investigatore privato potrebbe essere una persona ambigua, che magari si sarebbe venduta l’informazione alla diretta interessata, senza contare che poteva ricattare con fare diplomatico e chiedere soldi in continuazione. No, era meglio non mettere in mezzo nessuno e fare da sé. Ma come? Seguirla? E chi lo sa quando e come decideva di uscire da casa. E poi come diavolo potevano avvenire questi incontri con questo uomo senza volto? Piero non era mica invisibile e Lidia o l’uomo potevano accorgersene e tutto sarebbe finito a puttane. E non poteva nemmeno appostarsi vicino alla casa di lei per ore, magari dalla mattina alla sera. L’idea che questo legame fosse tenuto tanto segreto poi gli aveva dato la certezza che l’uomo del mistero fosse sposato,

altrimenti perché tutta questa cura affinché nessuno potesse sapere? Forse l’uomo era impegnato tutta la settimana con il lavoro e i due potevano vedersi solo il sabato o la domenica.

Cominciò ad appostarsi ad una ventina di metri dalla casa di Lidia il successivo sabato sera e poi la domenica. E così per tre settimane di seguito. Lidia non aveva potuto incontrare Marcello perché semplicemente questo era andato a Milano per discutere con i dirigenti dell’azienda, e poi si era recato al salone dell’auto di Torino. E Piero stava quasi per abbandonare l’idea.

“Mah, chi lo sa come faranno ad incontrarsi. Forse la storia è finita.” E pensava che ancora non tutto era perduto. “Ma forse lui sarà stato impossibilitato o sua moglie ha scoperto la tresca …”

Per puro scrupolo tentò ancora, sempre appostato vicino casa di Lidia, con la Mercedes scura di suo padre, che il suo spider bianco non sarebbe ato inosservato. Erano le venti di un sabato, ecco che la porta-finestra si illumina della luce accesa nella stanza di ingresso. Si apre, e Lidia ne esce con prudenza, guardandosi attorno, chiude la porta dopo aver spento la luce e si avvia camminando con una certa fretta.

“Ti ho beccato puttana, vediamo dove vai.”

Per quanto fosse scuro e le strade male illuminate si vedeva la cura con cui si era abbigliata Lidia prima di uscire: i capelli tagliati con una foggia nuova, corti secondo la moda, la minigonna e gli stivali. Piero mosse molto lentamente appena Lidia svoltò l’angolo, e raggiunto questo si fermò per darle tempo di allontanarsi un altro poco in modo da non destare sospetti, ma al tempo stesso senza perderla di vista.

12

La fermata delle corriere, quella dove tante volte da ragazzina aveva aspettato la mattina la corsa che la portava quotidianamente a scuola, quella dove tante volte negli ultimi tre anni ad aspettarla c’era stato Marcello, come sempre in anticipo. Anche questa volta Marcello l’aspettava nella sua BMW. Piero fermò l’auto e spense i fari.

“Ma chi cazzo è? Chi può essere?” e aspettò che Lidia fosse entrata nella vettura e Marcello muovesse l’auto che aveva messo in moto non appena l’aveva vista arrivare.

Piero si era fermato all’ingresso del paese sulla sinistra, al fianco di una chiesa. Marcello svoltò a destra prendendo la strada che li avrebbe portati a Porto Cesareo. Non guidava eccessivamente veloce e Piero li seguiva agevolmente, senza perderli di vista. Una strada lunga che ancora non erano state costruite le tangenziali. Una volta entrati nella località marina leccese Piero non poteva stare loro troppo appresso. Sulla strada provinciale erano solo i fari dell’auto di Marcello ad essere visibili ad una cinquantina di metri, e la strada non era illuminata. Però nell’abitato la cosa diventava più complicata, anche se Marcello e Lidia difficilmente si sarebbero accorti che qualcuno li seguiva occupati com’erano a parlare e a scambiarsi tenerezze.

Si inoltrarono in un intrico di villette e si fermarono in quella più in disparte che guardava il mare da una leggera altura poco distante dalla spiaggia. Una bella villetta, costruita naturalmente senza permessi una ventina di anni prima, e che invece di essere abbattuta aveva ottenuto il condono a prezzi irrisori, quelli della sanatoria del 1985. Quante volte negli ultimi tempi Lidia e Marcello vi avevano ato ore d’amore, se non felici almeno sereni. Era ancora primavera, chissà quante migliaia di persone avrebbero affollato quei posti fra meno di due mesi. Piero si era fermato a trenta metri, spegnendo l’auto e i fari, aspettando che i due

amanti si decidessero ad uscire. Avrebbe potuto portarsi un binocolo dietro, ma non ce n’era bisogno, la luce dei due lampioni disposti ai lati della villa facevano luce sufficiente a vedere le fisionomie. Pochi istanti, Marcello esce dall’auto dopo Lidia e attiva la chiusura centralizzata della macchina, e dopo si avvicina al cancello per aprire.

“Eccoti bastardo! Ecco chi sei, sei Marcello. Brutto figlio di puttana. Chi sa che cosa racconti a tua moglie poi, il giorno dopo.”

Era stravolto, ma non per via di Marcello in particolare, tanto lo sapeva che c’era un altro, lo sarebbe stato per chiunque. Era che adesso l’uomo fantomatico aveva un volto e un nome. La rabbia lo sconvolgeva in quel momento, pensava a come lui, libero e con una posizione di riguardo, fosse stato rifiutato per uno dal ato oscuro, un ex pezzente che era pure ricorso alla tutela legale dello studio di suo padre quando rischiava una condanna per ricettazione di auto rubate; uno che adesso si era ripulito chissà come e si dava arie da padreterno; un figlio di puttana che si era preso l’innocenza di Lidia, e quella idiota si era fatta fregare dai suoi modi gentili e dai suoi sorrisi da attore americano.

In quel momento un odio indicibile si era impossessato della sua mente sconvolta, aprì il cruscotto della Mercedes e afferrò una 38 special che il padre teneva abitualmente lì. Poteva succedere l’irreparabile. E poi? E poi i carabinieri, i giudici, gli avvocati, le aule di tribunale. No, non poteva finire così semplicemente. “Avanti Piero, ma che ti dice il cervello? Dov’è finita la tua astuzia? Mi vendicherò, si. Li rovinerò tutti e due, ma è lei soprattutto quella a cui devo fare del male. Anche quello stronzo avrà il suo quando sarà tempo.” Tormentava il calcio della pistola, ma poi con una bestemmia la gettò nel cruscotto da cui l’aveva tirata fuori e riavviò la macchina. Voleva andarsene via da quel posto, andare a sfogare la sua rabbia da un’altra parte e a meditare su quello che poteva fare per avere la sua vendetta.

Lidia posò la sua guancia sul torace di Marcello che ansava dopo un’ora

d’amore, e accarezzava quella selva di peluria biondastra e setosa. Non avrebbero immaginato nessuno dei due quello che era accaduto a loro insaputa, ma Lidia ebbe un fremito e si staccò da Marcello, coprendo la sua nudità con la coperta.

«Beh? Che succede adesso? Che hai?»

«Niente … non lo so Marcello.»

«Che significa? Prima dici niente, poi non so … Cosa ti a per la mente che non riesco mai a decifrarti?» Le sorrise, ma era inquieto anche lui.

«Non ti so spiegare … ho avvertito una sensazione di gelo, qualcosa di cattivo che ci era vicino. Come se un nemico invisibile ci guardasse …»

«Oh, ma dai, le tue solite premonizioni. Io credo soltanto a quello che posso vedere.»

«Era solo una sensazione Marcello, ma così viva e repellente … scusami, forse sono solo un po’ stanca. Anche io non credo nelle premonizioni come dici tu, ma … è stato solo un attimo. Dai abbracciami, riscaldami tu.» Se lo trascinò sotto le coperte che alzò al di sopra delle loro teste, e continuarono a nutrirsi di baci, di carezze, di respiro.

La gelosia è un ottimo lievito per far crescere il male. Invece di rassegnarsi e lasciare perdere, Piero continuava a pensare a come fare del male a Lidia.

C’erano tanti modi, ma in un piccolo paese è sempre difficilissimo trovare il metodo migliore senza correre rischi. Poteva mettere con discrezione la voce in giro, ecco una buona pensata. Lasciò are qualche tempo, non poteva certo parlarne alle persone ogni giorno di Lidia, sarebbe stato sospetto questo comportamento. Aspettò che qualcuno riprendesse l’argomento, e non tardò che uno dei suoi amici al bar avviasse il discorso e dicesse:

«Per l’appunto sapete chi ho visto sabato scorso verso sera?»

«Chi? La Madonna o la fata Morgana?» disse ridendo uno degli amici.

«Quasi: ho visto Lidia che usciva di casa, erano circa le otto: tutta agghindata, pareva che andasse ad una cerimonia.» era proprio quello che fino ad allora Lidia era riuscita ad evitare: di essere vista. A Piero questo però non piacque molto, anche lui aveva corso il rischio di essere visto, anche se era a bordo dell’auto di suo padre, ma quello della comitiva si riferiva ad un altro giorno per fortuna.

«Andava forse a celebrare gli imenei ah ah ah …»

«Se, se, quella mi sa che è da un pezzo che li ha celebrati.»

«Perché non l’hai seguita?»

«Eh si, ora mi metto a fare l’investigatore privato.»

«Lo so io dove andava, anzi da chi andava.» disse Piero fingendo noncuranza e continuando a sorseggiare il suo aperitivo.

«Hai scoperto il mistero? Senti senti! E come hai fatto?»

«E’ stato davvero un caso. Venivo una sera da Lecce e l’ho vista salire sulla BMW di Marcello … vicino alla fermata delle corriere. Ho rallentato e, per quanto fosse già buio, li ho riconosciuti tutti e due.»

«Ma no! Non ci posso credere. Ma Marcello è sposato ed ha pure due figli.»

«Eh già , questo secondo te sarebbe un problema?»

«Un problema no, certo, ma sembrava così innamorato della moglie, e poi ha due bei bambini.»

«Vai a capire tu la gente, non è mai soddisfatta.»

«Ma del resto Lidia ormai ha più di trent’anni andava verso lo zitellaggio permanente. C’è sempre almeno una volta per le donne no?» risero tutti a quella frase.

«E poi diciamocelo pure, non è che sia una grande bellezza, anche adesso che si cura di più non è certo una donna per cui fare pazzie. Chi se la sarebbe presa mai?» altre risa, ma stavolta Piero non rise.

«Però mi meraviglio di Marcello, è un bell’uomo, se proprio voleva farsi un’amante poteva scegliere di meglio.»

«Dove c’è gusto non c’è perdenza. Chi lo sa che cosa è capace di fare quella lì, anche se a vederla non si direbbe.» proferì aulico uno della comitiva.

«Anche questo è vero. Chissà se la moglie è al corrente, poveraccia, chissà le palle che le racconta suo marito. Certo, lei si che è una bella donna. Se lo sa, immagino il senso di delusione e di solitudine che prova adesso.»

«Ma perché adesso ti preoccupa la reazione della moglie di Marcello? Che, niente niente vorresti consolarla tu?»

«Mah, ti dirò, non mi dispiacerebbe sai?» risero tutti a questa ultima frase.

La prima mossa era stata fatta. Adesso il mormorio si sarebbe esteso. Piero si raccomandò di non dire che lui aveva fatto questa confidenza, e lo fece con malignità, ben sapendo che una raccomandazione del genere avrebbe sortito l’effetto contrario, ed era quello che voleva.

E la chiacchiera non tardò a propagarsi per il paese. Ne parlavano tutti, sottovoce naturalmente, e ne parlavano anche i genitori dei bambini che frequentavano il catechismo quando il sabato pomeriggio si attardavano a confabulare mentre aspettavano i loro rampolli, e quando Lidia usciva dalla parrocchia decine e decine di occhi la seguivano, chi increduli, chi maligni, chi disgustati.

Rosa, la catechista acida, era la più assidua pettegola e gettava fango su Lidia.

«Ecco la stranezza della famiglia che ritorna. Poteva mettersi insieme ad un uomo libero che poteva sposarla, eh no, no. Doveva rovinare una famiglia per bene.»

«Che schifo proprio.» le faceva eco un’altra delle catechiste.

«Uno scandalo. Una che diventa l’amante del padre di due innocenti che devono fare la cresima. Don Antonio non può permettere che quella schifosa possa insegnare alle creature senza malizia le cose di Dio.»

In breve tempo anche don Antonio fu informato della relazione, non si sa se da Rosa o da qualche altra zelante, magari in confessione. E don Antonio, che non riteneva peccato l’avere concupito Lidia, rimase scandalizzato dalla cosa. In men che non si dica fece chiamare Lidia in parrocchia. Lidia non aveva idea di cosa volesse il parroco e ci andò tranquillamente mezz’ora prima del catechismo. Trovò il parroco in sacrestia, apparentemente indaffarato a leggere documenti. La fece entrare nel suo studio semi immerso nella oscurità.

«Siediti.» le disse, senza un filo di umanità nella voce. Lidia sedette docilmente, interrogandosi sul perché di quel comportamento ombroso di don Antonio.

«Mi dica don Antonio.»

«No, sei tu che devi dirmi qualcosa penso.»

«Non saprei proprio.»

«Ah, non sai? E che mi dici del fatto che sei sulla bocca di tutti?»

«E per quale motivo don Antonio? Ditemi, ho fatto qualcosa di sconveniente? Ho maltrattato qualcuno?»

«Di sconveniente dici? Molto di più che sconveniente: tu sei l’amante di un uomo sposato le cui creature io ti avevo affidato perché mi fidavo di te.

Due bambini innocenti che si apprestano a fare la santa cresima. Hai portato lo scandalo nella comunità e messo in pericolo la santità della famiglia.»

Lidia si fece rossa dalla vergogna, ma con un ultimo rimasuglio di dignità replicò:

«Questi sono fatti miei personali don Antonio. Nessuno è autorizzato ad entrare nella mia vita. I miei sentimenti privati non vengono messi in mostra né in parrocchia e né in paese.»

«E vorrei anche vedere, svergognata! D’ora in avanti ti proibisco di occuparti del catechismo dei bambini, e già che ci sei fai in modo che nemmeno ti veda in chiesa.» disse il prete concitato e con il viso chiazzato di rosso dalla collera per

la risposta di Lidia, ed anche per il vino bevuto a pranzo.

«Questo non me lo potete impedire. Nessuno mi può vietare di partecipare alla messa e di ascoltare la parola di Dio.»

«Tu il Signore lo hai insultato, e non ti venga in mente di venire a fare la comunione in questa chiesa che ti faccio fare una figuraccia davanti a tutti. E adesso vattene via, che non ho tempo da perdere con una sgualdrina come te.»

Lidia a quelle parole si alzò di scatto e corse via piangendo fuori dallo studio di don Antonio, urtò il sagrestano senza chiedere scusa ed uscì fuori, nell’atrio scoperto dove qualche genitore era già arrivato e parlava con Rosa che vista Lidia in quello stato ebbe un moto di gioia dentro di se. “Finalmente hai avuto quello che meritavi, puttana.”

Lidia camminava a o svelto scossa dai singhiozzi e noncurante di chi poteva vederla a quell’ora, pochi in verità, gli unici in piazza alle quindici e trenta erano i sempiterni vecchi seduti al bar, ma lei arrivò a casa da stradine laterali e si chiuse in camera sua a piangere sul letto.

Non uscì dalla sua camera, non mangiò neppure. La sera doveva incontrare Marcello al solito posto ma non andò, e Marcello aspettò invano e in pena, non sapendo cosa stesse succedendo a Lidia. Non aveva mai mancato un appuntamento, quella era la prima volta che succedeva. Ogni volta che lei aveva qualche problema per lo meno avvisava prima. Che le fosse successo qualcosa? Non poteva certo andare a bussare a casa. Telefonare? E se avesse risposto la madre? Pazienza, avrebbe riattaccato.

«Pronto, Lidia sei tu?»

«Si.» rispose Lidia con una voce appena percettibile e resa roca dal pianto.

«Ma che succede? Perché non sei venuta?»

«Perché non mi sento bene.»

«Ma stai scherzando? E’ la prima volta che succede che non mi avverti se c’è qualche problema. Se non so cosa ti succede io impazzisco. Dimmi che hai.»

Lidia non rispose e Marcello capì che qualcosa di grave doveva essere successa.

«Lidia, per l’amor di Dio, non farmi stare male. Dimmi che hai o vengo a casa tua e butto giù la porta.» Marcello in quel momento era davvero capace di tutto.

«C’è che adesso lo sanno tutti.» disse Lidia iniziando a piagnucolare.

«Ma che dici? Che sanno? Chi? Cristo, ma dimmi che è successo.»

«Don Antonio mi ha cacciata dalla parrocchia e …» non poté continuare, i singhiozzi le soffocavano le parole.

«E?.. dai continua.»

«Mi ha dato della puttana.» il pianto divenne dirotto e non poté continuare.

«Ma come si è permesso quel verme? Vado a denunciarlo al vescovo, quanto è vero Dio. Mascalzone farabutto.»

«Ha ragione lui Marcello. Sono una poco di buono. Sono una che rovina le famiglie. Non ho nessuna attenuante io.»

«Non dire stronzate Lidia. Li rovino io quelli che hanno messo in giro i fatti nostri.» disse Marcello, capendo il motivo per cui il parroco si era permesso di maltrattare Lidia.

«Ormai lo sanno tutti Marcello. Io non posso più uscire nemmeno da casa.»

«E pensi che io possa rinunciare a te? E come posso fare, dimmelo tu. Pensi che tutta la nostra storia sia stata una buffonata?»

«Marcello, penso che la nostra storia non abbia un futuro. E’ meglio chiuderla qui, con buona pace di tutto il paese e della tua famiglia. Ho il cuore a pezzi se penso che non potrò più vederti.»

«Questo toglitelo proprio dalla mente. Non mi frega niente né del paese e né della mia famiglia. Tu sei la mia famiglia.»

«Marcello, amore mio, tu non sai quello che dici. Noi non abbiamo un futuro, convincitene.»

«Niente affatto, non ci sto. Non mi arrendo, e non mi fermerò davanti a niente. E’ con te che voglio dividere la mia vita. Freghiamocene del paese e di tutti quanti. Non tarderà molto che metterò tutto in chiaro con mia moglie e la sua famiglia. Sono un uomo libero adesso, e grazie a te, e tu pensi che, quando anche non ci fosse l’amore grande che provo per te, sarei così cinico da non riconoscere quello che hai fatto per me? Non esiste proprio. Adesso devi stare solo calma. I coglioni dei nostri paesani in breve si stancheranno delle chiacchiere, è solo la novità che li ha sconvolti, in questo paese di merda dove non succede mai niente la nostra storia li ha esaltati. Ma la finiranno presto.»

«Ma ogni volta che metterò il naso fuori di casa mi sentirò i loro sguardi maligni addosso. E dove vivo io? Qui vivo.»

«Va bene. Per qualche giorno stai in casa. Pensa però ai momenti belli che abbiamo vissuto insieme e giudica tu se sia il caso di dare un calcio a tutto. Chiamami quando vuoi tu, in ufficio, anche a casa. Almeno fammi sentire la tua voce, non farmi impazzire. Già questi giorni che non ti vedrò per me saranno una tortura.»

13

Ora ate ad aspettare, giorni nell’angoscia. Ma ad aspettare cosa? Che il mormorio si spegnesse? Che la gente la smettesse una volta ata la meraviglia iniziale per una donna, fino ad allora considerata per bene nonostante la sua stranezza e quella della sua famiglia, solo perché era l’amante di un uomo sposato?

Lidia usciva di casa solo protetta dall’ombra adesso, e se proprio doveva farlo a giorno fatto, per fare la spesa che bisognava pur mangiare, prendeva la macchina che aveva parcheggiata sempre vicinissima a casa e andava a farla in un paese vicino o a Lecce. Se andava dallo zio Patrizio faceva giri interminabili, prendeva le strade più deserte per arrivarci, e lo faceva quasi a tappe, fermandosi a guardare in tutte le direzioni per vedere se ci fosse qualcuno che ava o affacciato alla finestra.

Lo zio Patrizio non aveva saputo ancora niente dello scandalo e si comportava con lei nel solito modo mielato. Meglio così! Chi sa come avrebbe reagito il vecchio alla notizia. I soldi, Marcello li aveva restituiti quasi tutti, pericoli fra poco non ce ne sarebbero stati più. Ma vivere così che vita era?

arono i giorni, e il bruciore dello scandalo non faceva più così tanto male. La gente, per quanto maligna, ha anche i fatti propri da pensare. Ma Piero invece ci continuava a pensare. La prima mossa era fatta ed era tornata a vantaggio dei suoi piani squallidi. Non provava un vero rimorso per quello che aveva fatto, no, ma un’uggia, la consapevolezza di aver perduto Lidia per sempre. Non per il fatto di provare un qualche timore di essere individuato come autore del casino che aveva provocato, era stato furbo e guardingo come un serpente, ma il fatto stesso che Lidia, che aveva inseguito nei suoi sogni e nei suoi progetti per anni, si fosse data al primo arrivato era una cosa intollerabile per lui. Si scoprì a pensare che era la donna che aveva sempre sognato, e il risvegliarsi da questo

miraggio che lo aveva illuso per tanto tempo era stato atroce. Per consolarsi si diceva fra se che tutte le donne sono puttane, ma sapeva di mentire a sé stesso: Lidia non era una poco di buono, ma a lui quella etichetta che le attribuiva mentalmente era necessaria, doveva figurarsela come una puttana per poter lenire almeno in parte la rabbia. Se non fosse stato così sarebbe impazzito.

Dovette stare calmo suo malgrado per molto tempo, tanto il più era fatto, e la gente, anche se il ferro non era più così caldo, ogni volta che avesse visto Lidia avrebbe ricordato, l’avrebbe associata sempre al fatto che era l’amante di Marcello. Ma il male si autoalimenta in una replica feconda e continua. Bisognava riportare a galla qualche torbido, magari nella vita di Marcello o qualcosa che ancora fosse un segreto inesplorato fra i due amanti. La fortuna di Marcello ad esempio non era un po’ sospetta? Come aveva fatto ad aprire una concessionaria di prestigio come quella, dove li aveva trovati i soldi? Piero era in un vicolo cieco “Forse c’entra lei. Ma no, lei non ha gli occhi per piangere. E se … e se per esempio con il fatto di avere ormai il controllo totale sugli affari di suo zio … forse ha affondato le mani nel suo portafogli. Ma si, che stronzo che sono! Ormai il vecchio è completamente rincoglionito e pende dalle sue labbra per tutto. Cazzo! Come ho fatto a non pensarci prima?”

Solo che adesso Piero era in difficoltà nel proseguire: non solo non aveva modo di andare in casa dello zio con un motivo plausibile, ma era pressoché impossibile ottenere informazioni dirette sui conti del vecchio. Solo in via confidenziale poteva saperne qualcosa, magari tramite Fabrizio, un impiegato della filiale della banca del paese, dove lo zio di Lidia aveva i conti correnti e dove suo padre stesso sedeva nel consiglio di amministrazione. Con Fabrizio era facile tanto era cretino. Si fece trovare un giorno verso le diciassette vicino alla filiale, aspettando che la banca chiudesse. Vicino alla banca c’era un bar. Piero scese dalla macchina e si incamminò, mentre gli impiegati uscivano e il direttore faceva scorrere la saracinesca automatica.

«Ehi Fabrizio.»

«Ciao avvocato, come va?»

«Non c’è male ringraziando Dio. Che piacere mi fa vederti, so che sei stato poco bene ultimamente.»

«Altroché, una febbre della madonna che non andava più via.»

«Vieni, andiamo al bar che ti offro una cosa calda eh?»

«Con piacere avvocato.»

Fabrizio aveva la testa da ragioniere, tutta conti correnti e altre operazioni di banca, ma astuzia zero. Così che fu facile a Piero rincoglionirlo ancora di più. Però era una persona, sebbene di poca intelligenza, di una fedeltà e riconoscenza assolute, e non aveva dimenticato che il padre di Piero gli aveva salvato il posto quando in filiale era stato rilevato un ammanco di diverse decine di milioni e operazioni a tassi usurari. Naturalmente il responsabile era il direttore della filiale, ma pesce grosso mangia pesce piccolo, però il padre di Piero aveva una spiccata antipatia per il direttore che aveva negato mutui e aumenti di fido ad amici suoi. Così si attivò subito, facendo parte del collegio dei sindaci della banca, e trovò le prove dell’infedeltà del funzionario e contemporaneamente salvò il posto del disgraziato ragioniere, risultato: Fabrizio restò al suo posto; il direttore allontanato e al padre di Piero, come segno di riconoscenza da parte della direzione generale dell’istituto di credito, un posto nel consiglio di amministrazione.

Sedettero ad un tavolino del bar a prendere un tè e a parlare del più e del meno. Così, in apparenza distrattamente, Piero portò Fabrizio sull’argomento che lo

interessava di più oltre al calcio, parlando di auto di cui il ragioniere era apionato.

«Ma hai visto a quel Marcello gli affari come gli vanno bene? Ma come avrà fatto a mettere su quella concessionaria?»

«Eh, avvocato quello con le macchine ci ha sempre saputo fare.»

«Si va bene, ma faceva piccoli affari, cose da poco, da viverci appena. Per aprire una concessionaria del genere ce ne vogliono di soldi.»

«Hai voglia avvocato.»

«Non credo però che con tutto il suo saperci fare potesse essere così affidabile da chiedere i soldi ad una banca eh?»

«Questo no, almeno da noi non è venuto a chiedere niente. » Fabrizio aveva notato l’interesse che Piero aveva per questo argomento, e benché non fosse particolarmente intelligente aveva intuito che forse c’era qualcosa sotto.»

«Senti, so che sei una persona discreta Fabrizio, ti chiedo un piccolo favore se permetti.»

«Ma certo avvocato, ci mancherebbe.»

«Con la centrale rischi che puoi consultare al computer, potresti sapere se ha aperto qualche mutuo o ha avuto qualche prestito presso qualche finanziaria?»

«Niente di più facile avvocato. Le finanziarie le escluderei però, quelle non prestano cifre ingenti, controllerò presso le banche. Ci penso io. Domani mi darò da fare e domani sera vi saprò dire qualcosa.»

«Ti ringrazio Fabrizio, ma … acqua in bocca eh?»

«Non vi preoccupate avvocato, non dico niente nemmeno a mia moglie.»

Continuarono a parlare di altri argomenti ancora per un’altra decina di minuti, poi si salutarono con una stretta di mano e con una strizzatina complice di occhi.

Non rimaneva che aspettare l’indomani. E l’indomani, alla chiusura della banca Piero incontrò ancora Fabrizio nello stesso posto e andarono nuovamente a sedersi al bar.

«Niente avvocato. Alla centrale rischi non risulta censito per nessun mutuo e nessun prestito.»

«Questa è bella! Forse allora avrà trovato un tesoro sepolto in giardino.» disse Piero ridendo.

«E’ probabile avvocato, ma forse è più probabile che si sia rivolto a qualche privato, forse ha anche firmato cambiali a qualche usuraio.»

«Mah, non credo. Marcello non è così sprovveduto da mettersi in mano a pescicani del genere. Penso davvero che abbia trovato un tesoro.» disse Piero dubbioso.

Dunque non aveva chiesto nessun tipo di finanziamento, e allora? “Allora forse lei li ha presi dai depositi del vecchio alla posta. Ecco qual è il tesoro che ha trovato: quella troia.”

Sicuramente l’ufficio postale era quello del paese, era lì che lo zio Patrizio aveva i libretti, che allora potevano essere usati ancora solo dove erano stati aperti. Ma come fare? Altro intoppo. Ma, un momento, c’era Maurizio, un giovane praticante dello studio, che era fratello del direttore dell’ufficio postale, bene! Un giorno Piero e Maurizio scesero a prendere un caffè nel vicino bar. Piero e Maurizio erano abbastanza in confidenza per via delle numerose pratiche legali, anche abbastanza complicate, che il padre di Piero su consiglio di questo affidava al giovane, preparato e volenteroso. Anche Maurizio aveva obbligazioni con Piero. Gli spiegò, quasi confabulandogli all’orecchio, le informazioni di cui aveva bisogno.

«Va bene Piero. Stasera vado a trovare mio fratello e gli spiego quello che mi serve.»

«Si ma, assicurati che nessuno ti senta, d’accordo?»

«Ma naturalmente.» rispose con un sorriso ironico Maurizio, che non essendo

fesso come Fabrizio aveva capito al volo la situazione. Sapeva benissimo che Piero era pazzo di Lidia, e sapeva ogni cosa dello scandalo. Una confidenza segreta come questa ci voleva, Maurizio la sentiva come un aumento di prestigio adesso che Piero gli aveva chiesto una cosa così delicata.

L’indomani che il padre di Piero era a Lecce per cause di importanza, Maurizio bussò alla porta di Piero.

«Vieni, vieni. Beh, allora?»

« Tombola Piero. Dal libretto numero … sono stati prelevati quattrocento milioni due anni fa.»

«‘Azzo.»

«Andò a prelevarli la nipote che aveva la delega. Mio fratello ricorda che la donna era quasi impaurita, e sembrava avere molta fretta.»

«Dunque tutto si spiega adesso …»

«Eh si Piero, adesso sono chiare le fortune di certi personaggi.»

«E tu che ne sai?» disse Piero inarcandole sopracciglia.

«Ma via Piero, vuoi che non abbia capito al volo? Quel Marcello era intraprendente si, ma nessuno lo avrebbe mai beneficato di una cifra simile. Del resto sono tutti e due sulla bocca della gente ormai.»

«Già.» disse pensieroso Piero.

«Io scommetto che ad andare a vedere un estratto del conto corrente di lui, i soldi lei glieli avrà accreditati lo stesso giorno in cui li ha prelevati. Le scottava sicuramente l’assegno nella borsetta.»

«Certo, le cose saranno andate sicuramente così.»

«Vuoi che mi attivi presso la banca del tipo per saperne di più? Qualcuno lo trovo di sicuro se mi dai un po’ di tempo.»

«No, non importa. Le cose ormai sono chiare.»

«Ma la sai la cosa più curiosa?»

«Dimmi.»

«Puntualmente ogni due mesi, oltre agli importi che di solito vengono depositati, su quel libretto viene depositata una somma supplementare più grossa, mai inferiore ai venticinque trenta milioni. Penso che anche se lei glieli ha prestati quei quattrocento milioni, man mano lui glieli stia restituendo. Ormai non è

rimasta che poca roba di quella somma da restituire.»

«Hai fatto veramente un ottimo lavoro amico mio, di te ci si può fidare. Ma mi raccomando acqua in bocca con tutti sai?»

«Scherzi Piero? Sono contento di esserti stato utile. Ma, mi permetti una osservazione, proprio da amico?»

«Ma certo Maurizio, spara pure.»

«Per una donna così, per una che ruba per l’amante, non farei certo le capriole.»

«Ma se li sta restituendo.»

«Si, questo è vero. Ma tu calcola quanti interessi ha perso nel frattempo il vecchio su quella somma. Non è furto questo? Se non vogliamo chiamarlo così possiamo definirlo una appropriazione indebita, e comunque certamente un danneggiamento.»

Aveva ragione Maurizio. Il vecchio chi lo sa che reazione avrebbe potuto avere se fosse venuto a conoscenza di questi altarini alle sue spalle.

Ora restava la mossa finale, quella dello scacco matto. Ma ancora non era il momento, anche se la rabbia invece di sbollire era aumentata.

14

La vita era ripresa, non come prima si capisce, ma l’amore di Lidia per il suo Marcello non era venuto meno. Come avrebbe potuto vivere senza di lui? Che idea le era venuta mai in mente? Come era possibile rinunciare a quell’uomo meraviglioso? E oltre tutto aveva capito che nemmeno lui si sarebbe mai rassegnato al fatto che la loro storia potesse mai finire.

Ricominciarono a vedersi, quando proprio il caso non glielo impediva. Si incontravano, si amavano teneramente non sospettando che un’ombra maligna si era avvicinata alle loro spalle. L’estate era alle porte e sembrava che tutto si fosse acquietato, per lo meno non se ne parlava più tanto. In qualche modo anche la moglie di Marcello era venuta a conoscenza della storia, ma non aveva detto nemmeno una parola, forse lei era di quelle donne che considerano normale che un uomo bello e nel vigore degli anni non si accontenti della propria moglie, a lei andava bene così, tanto più che l’amore fisico negli anni si acquieta normalmente, e poi Marcello non faceva mancare il suo affetto ai figli, che adorava, e assicurava alla famiglia un tenore di vita agiata adesso, e questo per la donna era la cosa più importante. Per lei Marcello avrebbe potuto anche dirle addio, tanto lo sapeva che comunque sarebbe stato sempre presente per i figli. Del resto anche lei era ancora giovane e poteva reclamare una vita nuova con accanto un uomo diverso, ma lontano dal paese, che non avrebbe commesso lo stesso errore di Marcello.

Lui era sempre di più fuori di casa, anche quando non era impegnato nel lavoro, ma anche lei si dava il bel tempo, e iniziò a frequentare un giro di amicizie a Lecce, amicizie altolocate, tutti professionisti, un po’ attempati è vero, ma che importava, l’importante era non dare scandalo nel paese.

I figli erano già più grandicelli, e avevano sempre da fare con il computer che il papà aveva regalato loro. Non sentivano molto la mancanza, sempre più

frequente, dei genitori, e poi per casa c’erano sempre la tata fissa e spesso i nonni.

Don Antonio alla messa della domenica tuonava contro lo sfascio delle famiglie nell’epoca odierna, ma chi lo stava a sentire?

Lo zio Patrizio si inteneriva sempre e sbavava ogni volta che vedeva Lidia, e fingeva malanni immaginari per tenerla sempre più vicina a lui, per sentire il suo profumo, per provare la dolcezza del suo contatto ogni volta che era inevitabile. La sua rabbia era però sapere che non era in condizioni di concludere niente di materiale. Avrebbe potuto quando Lidia era ancora una bambina, ma sebbene la tentazione fosse enorme allora, il pensiero di uno scandalo lo aveva fatto desistere, e poi il padre di Lidia aveva la sua pistola di ordinanza, e si era dovuto accontentare di carezze sconce che turbavano la bambina e a lui provocavano ondate di piacere indescrivibile nel cervello. Solo quello adesso gli era concesso, e cercava con ogni mezzo il contatto di Lidia che la trasformazione aveva reso bellissima ai suoi occhi. Sentiva il suo profumo di femmina ogni volta che gli era accanto, e alle volte si inventava dolori immaginari per supplicarle un massaggio, ma Lidia ogni volta invece del massaggio gli preparava la borsa dell’acqua calda, del vecchio Lidia aveva ribrezzo, lei non aveva dimenticato. Ma anche così lo zio era soddisfatto, specie al pensiero che a lei avrebbe lasciato i suoi beni. La riteneva ormai incatenata a lui.

«A cosa pensi amore mio?» chiese Lidia a Marcello alcuni minuti dopo che avevano fatto l’amore, vedendolo assorto nei suoi pensieri.

«Penso a quando fra poco saremo liberi.»

«Come fai a dirlo, hai parlato con tua moglie?»

«Ancora no, ma per una ragione precisa.»

«Cioè? Che ragione?»

«Penso che lei abbia capito tutto. Le chiacchiere del paese può essere.»

«E lei come si comporta con te?» chiese Lidia apprensiva.

«Niente, proprio niente. Io penso che non abbia perso tempo, e si stia costruendo una nuova vita, meglio così. Mi ha evitato il trauma di doverle parlare in maniera brutale e diretta.»

«Ma come puoi questo? Che riscontri hai?»

«Beh, ormai lei è quasi ogni giorno fuori casa. Credo o che frequenti una cerchia di conoscenze o che addirittura abbia una relazione fissa con qualcuno. Fra poco concorderemo in modo normale la fine del nostro matrimonio.»

Lidia rimase pensierosa, per lei comunque era una cosa sgradevole il pensiero di avere provocato il deterioramento di un matrimonio, ma era stato più forte di lei innamorarsi di Marcello, anche se nessun pretesto le sarebbe servito come alibi. Cercava di immaginare la vita precedente di Marcello con sua moglie, quando si erano incontrati la prima volta, quando era scoccato quel momento in cui due note diverse diventano un suono unico, i momenti di tenerezza fra i due, il piacere di un viaggio, di una vacanza, la gioia infinita di quando una sera lei gli

aveva detto “Marcello, sono incinta.”, e le lacrime quando un affarino si era affacciato alla vita con gli occhi ancora chiusi, con la pelle arrossata e con quella voce che buttava per terra il reparto maternità per reclamare il calore e il cibo della mamma. Lidia si struggeva a questi pensieri, sapeva di non poter dare tutto questo a Marcello, e anche se la speranza che covava nell’anima di dare un figlio al suo uomo, un figlio bello come lui, che futuro poteva avere questa creatura innocente? La cattiveria della gente lo avrebbe additato sempre chiamandolo “bastardo”, non sarebbe mai potuto crescere in quel paese. Ma il desiderio di maternità di Lidia andava crescendo come il suo amore per lui. Era andata perfino da un ginecologo, uno dei migliori, per sapere se mai avesse qualche problema a concepire.

«Niente signora, tutto è a posto, si tratta solo di avere pazienza. Prima o poi capiterà, stia tranquilla.»

«Davvero dottore?»

«Ma si, magari calcoli bene quando ha le mestruazioni. C’è il modo di prevedere quando il momento è favorevole. Sempre che suo marito non abbia problemi con la motilità dei suoi spermatozoi. Ad ogni modo le prescrivo un farmaco che è un toccasana in questi casi e migliora non solo la motilità degli spermatozoi ma tonifica il fisico e il tono dell’umore.»

Lidia sorrise, era compiaciuta che il medico avesse usato quel termine “suo marito”, ma era sicura che non ci fosse bisogno di nessun farmaco, perché Marcello di figli ne aveva già avuti, ma questo non poteva certo dirlo.

Quante le ore ate a fantasticare nei suoi sogni di ragazza l’uomo della sua vita, anche in mezzo ai drammi della sua famiglia, un amore infinito, di quelli che non esistevano più.

Le prendeva le viscere in una morsa il pensiero che un uomo la accarezzasse, la baciasse, la toccasse tutta, e quasi la sensazione diventava realtà alle volte, in quel torpore che la prendeva quando aveva il tempo di abbandonarsi alle sue fantasticherie. Adesso era tutto vero, aveva l’uomo più bello che avrebbe mai potuto desiderare, i suoi problemi erano risolti, era prossimi a sciogliersi dai suoi legami e finalmente restare accanto a lei per sempre.

Non aveva avuto il coraggio di parlare ad Anna degli ultimi sviluppi della situazione, era molto tempo che non si scrivevano. Qualche mese dopo che la storia era cominciata, Anna era scesa giù in paese per le feste natalizie e la andò a trovare subito. Dopo tante insistenza di Anna, Lidia le aveva raccontato tutto, mentre il volto le si accalorava.

«Oh Signore benedetto, che pazza sei Lidia mia.» aveva detto soltanto Anna, rimasta interdetta man mano che il racconto proseguiva e tenendole le mani.

«Se lo conoscessi Anna …»

«Lo conosco di vista e non ho modo di dubitare di quello che mi racconti. Se la ritieni una cosa seria e sei sicura dei suoi sentimenti, fregatene di tutto e pensa a vivere questa storia serenamente. Ma per quanto puoi, evita questo paese malevolo. Non voglio che succeda niente di male a te e a lui.»

Ancora non poteva crederci Anna a quello che Lidia le aveva raccontato. La ricordava da ragazza, quando si affrontavano i discorsi sugli uomini, anche quelli scabrosi, proibiti in pubblico alle ragazze per bene, e Lidia diventava subito rossa e cambiava argomento suscitando le risa di Anna e di qualche loro amica. Adesso, vederla così, una donna fatta e nel pieno del suo vigore e innamorata,

quanto mai avrebbe pensato possibile …

15

Lo zio Patrizio era scosso da sussulti e da tremiti di rabbia mentre rovistava in un cassetto. Aveva inforcato la sedia a rotelle aiutato dalla domestica e furibondo si era diretto nel salone. Lo trovò, il libretto dal quale Lidia aveva tratto i soldi da prestare a Marcello, e attentamente controllò i movimenti e le date. Tutto coincideva con quello che qualcuno gli aveva raccontato. Sbatté il libretto con ira nel cassetto che chiuse con violenza. Non riusciva nemmeno ad urlare tanto il furore gli aveva strozzato la gola, emetteva soltanto un ululato, come di animale ferito. Rosaria si spaventò e corse nel salone.

«Oh Gesummaria, don Patrizio, che avete? Chiamo il dottore?»

«No, non chiamare a nessuno. Riportami a letto.» disse sconvolto.

«Volete che chiami la signorina Lidia?»

«No!» urlò inferocito, digrignando i denti con una faccia spaventosa.

«Madonna del Carmine, e se vi succede qualcosa?»

«Non mi succede niente, imbecille. Riportami a letto, sbrigati.»

Non ci fu verso di fargli uscire un’altra parola. Quando posò la testa sul cuscino,

le lacrime gli sgorgarono copiose dagli occhi. Erano quelle di un uomo offeso, di un maschio tradito, di un amante respinto. Con i nervi contratti allo spasimo lo strafogava la rabbia il pensiero di Lidia fra le braccia di un uomo che non fosse lui, un uomo più giovane e nel pieno vigore, un uomo che la possedeva carnalmente, e lei che ansimava di piacere ogni volta che lui le entrava dentro, e poteva anche metterla incinta.

Meditò di uccidersi nel momento di maggiore esaltazione. Ma poco a poco il furore parve calmarsi, lasciando il posto ad un odio micidiale ma silenzioso. Meditava la sua vendetta, come e quando non sapeva, ma sapeva che un insulto così grande al suo amore disonesto non poteva rimanere impunito. Si sforzò di rimanere calmo quando Lidia veniva, si mostrava tranquillo e perfino alle volte sorridente, però era cessata di colpo quella vertigine che lo prendeva quando la vedeva prima.

«Sei la vita mia Lidia. Quando muoio tutto quello che è mio diventerà tuo.»

«Va bene zio, me lo hai già detto. Adesso però devi pensare a stare bene e non pensare alla morte. E che? La gente muore così?»

«No, no, è meglio sempre essere preparati. Anzi, uno di questi giorni scrivo il testamento e lo faccio autenticare dal notaio in presenza di due testimoni.»

Lidia li aveva già sentiti quei discorsi, tante volte, ci era abituata, ma non si accorse del leggero tono di ironia dello zio quando diceva queste parole stavolta.

La famiglia al mare, il paese semivuoto, i primi bagni al mare fra le risa, le rincorse, gli spruzzi e i baci apionati stesi al sole. Dopo qualche mese la vita

era iniziata di nuovo. A Marcello gli affari erano andati tanto bene che si era permesso l’acquisto di una piccola villetta a schiera alla estrema periferia del paese. L’aveva arredata in modo sobrio ed elegante, e l’idea era quella di andarci a vivere con Lidia in un futuro prossimo.

Anche a Lidia le cose cominciarono ad andare sempre meglio, Marcello aveva mosso mari e monti, e un giorno a Lidia arrivò una raccomandata dal Provveditorato agli studi di Lecce. Le comunicavano che era nella disponibilità della scuola elementare di …, e dal quindici di settembre avrebbe dovuto supplire alla assenza per maternità della titolare di cattedra di una seconda. Le tremavano le mani quando aprì la busta, e gettò un urlo che fece sobbalzare sua madre nell’altra stanza. Le lacrime le scesero copiose e rileggeva di continuo la comunicazione. Non poteva credere ai suoi occhi, e la sera per la contentezza tempestava di baci Marcello che sorrideva vedendola così felice.

«Hai visto che non ci credevi, scemotta mia? Ma adesso calmati che mi stai soffocando, accidenti che forza hai, devo stare attento.»

Lei invece cominciò a spogliarlo con furia e volle fare l’amore fino a quando a Marcello vennero meno le forze e gli si cominciò ad annebbiare la vista.

Nella penombra Lidia su un fianco guardava il suo uomo disteso supino e con gli occhi socchiusi, e pensava a quanto era stata fortunata ad incontrarlo. Che bello sarebbe stato se avesse potuto avere un figlio da lui. Marcello mosse impercettibilmente le labbra ed aprì leggermente gli occhi. Che pensiero gli ava per la mente adesso?

«Lidia …» disse aprendo del tutto gli occhi.

«Siii? Guarda che adesso mi devi chiamare “Signora maestra” sai?» disse Lidia con un dolce sorriso.

«Dai, non scherzare … ma tu da un pezzo dovresti avere avuto il tuo ciclo. Che ti succede?»

«Boh. Sarà un normale ritardo no? Alle donne succede spesso sai? Specie alle donne di una certa età.» disse ridendo.

«E lei continua a scherzare! Dai, dico sul serio. E se mai fosse capitato che …»

«E se anche fosse? Lo troveresti tanto terribile?»

«Ma no, sarebbe bellissimo invece. Solo che bisogna essere sicuri. Perché non compri un test di gravidanza?»

«Uffi che seccante che sei. Va bene, domani vado a Lecce e lo compro. Mo però basta, abbracciami stupidino mio.»

L’idea che a Marcello la cosa sarebbe parsa bellissima le aumentava la felicità e la speranza. A dire il vero non ci aveva badato proprio al fatto che aveva saltato l’ultimo ciclo mestruale, che sarebbe dovuto venirle più di un mese prima, e adesso sperava in cuor suo in un miracolo.

L’indomani comprò un test di gravidanza in una farmacia di Lecce, abbastanza

affollata, ma lei vergognandosi aspettò che una farmacista si liberasse nel punto meno affollato del bancone, e quasi le sussurrò quello di cui aveva bisogno, e la giovane farmacista sorridendo prese da uno scaffale quello che le era stato chiesto incartandolo subito, così che nessuno potesse guardare la scatola. Tornò subito a casa e si rinchiuse in bagno. Quando il contenitore cambiò di colore e le comunicò che in lei era cominciata una nuova vita, rimase attonita. E adesso? Di nuovo le chiacchiere del paese, un altro scandalo? Ma che importava adesso? Marcello sarebbe saltato dalla gioia. Sua madre l’avrebbe cacciata di casa? E lei sarebbe andata a vivere nella casa che il suo uomo le aveva arredato, e poi ormai un lavoro l’aveva, ancora precario d’accordo, ma sufficiente. Nella zona dove se ne sarebbe andata a vivere c’era ancora poca gente e per lo più coppie giovani, disinibite da pregiudizi e convenzioni, e molte, aveva saputo Lidia, neppure sposate, lontani dai vecchi paesani ignoranti. Il pensiero di sua madre sola però la immalinconiva, che vita aveva avuto? Un marito morto ancora giovane, un figlio pazzo e una figlia chiacchierata, rimanere sola, senza l’aiuto della figlia a vivere di una misera pensione, a pagare un affitto non modesto allo zio Patrizio che non si era mai fatto eccessivi scrupoli per i soldi, nemmeno con i propri parenti … e va bene, in qualche modo si sarebbe fatto. Adesso voleva solo essere felice.

«Toccami le mani …»

«Che hai Lidia? Hai un’aria strana …» le sue mani erano gelide.

«Ma tu stai male!»

«No, sono emozionata … abbracciami.»

«Ma insomma, è mai possibile che devo sapere le cose da te una alla volta?» disse Marcello impaziente.

«Hai detto che sarebbe bellissimo …» lo guardò con un sorriso di speranza che quelle non fossero state solo parole.

«No!» urlò Marcello spalancando gli occhi.

«Si invece.» disse Lidia abbracciandolo con un filo di voce e con le lacrime agli occhi.

«Ma è meraviglioso.»

«Tu sei meraviglioso Marcello.» e con le mani frenetiche e ridendo di gioia cercò di sfilargli la maglietta.

«No, ma che fai? Non possiamo adesso.» Lidia non ci aveva pensato, si arrestò continuando a ridere, coinvolgendo nel riso anche Marcello che le accarezzava delicatamente il ventre sfiorandolo con dolcezza, che aveva timore di farle del male quasi che fosse un sottilissimo vetro di Murano.

16

Fra quanto non avrebbe potuto più nascondere ciò che era? Era al secondo mese di gravidanza e la cosa ancora non si notava. Ma ben presto sarebbe stato chiaro come il sole che Lidia aspettava un figlio da Marcello.

«E la scuola adesso?»

«Ci andrai finché potrai. Del resto la titolare rientra a gennaio. Tu non preoccuparti di niente, la scuola non la perderai. La cosa più importante è nostro figlio adesso.»

«Marcello, ma ci hai pensato che dovrò sottopormi a controlli continui? Come faccio con la scuola?»

«La scuola è di mattina.»

«Si, ma anche gli ambulatori degli ospedali lavorano di mattina.»

«Ah, perché, pensi che io possa permettere che tu venga controllata dai mediconzoli della asl?» sorrise Marcello.

«E come si fa allora?»

«Cliniche private e medici a pagamento. Tu e il nostro bambino dovete avere il meglio.»

Era già deciso che Lidia sarebbe andata a vivere nella villetta che aveva acquistato Marcello per loro due, adesso tre, quando la gravidanza non si sarebbe più potuta nascondere. Avrebbe parlato alla mamma, e le avrebbe detto che aveva bisogno di un periodo di riposo. Quando trovò il coraggio di parlarle, sua madre non disse una parola benché lei continuasse a parlarle con dolcezza. Avrebbe pregato Rosaria di andarla a trovare di tanto in tanto, con la scusa di prenderli lei i soldi dell’affitto e vedere casomai avesse bisogno di qualcosa. Alla fine lei doveva vivere la sua vita, e la sua vita non poteva essere condizionata dalla famiglia.

Marcello le aveva affidato quello che mancava a saldare il prestito e, anche se le pesava andare in quella casa dallo zio Patrizio, si fece forza pensando “Ma si, dobbiamo chiudere anche questa storia.”

La fine di agosto è ancora estate qui da noi, ma già si avverte una sorta di malinconia, un disincanto per il periodo più magico dell’anno. Si, la sua vita era cambiata adesso: la scuola, il bambino, il suo Marcello che fra poco sarebbe stato libero e tutto suo. Quella mattina entrò nel grande ingresso, semioscuro come sempre, salutò Rosaria indaffarata in cucina e andò nel salone a cercare nel cassetto solito i libretti postali, ma a lei ne interessava uno in particolare.

“Ma dove sono finiti? Qui non ci sono più”. Chiese a Rosaria, ma anche lei non ne sapeva niente, non si era mai permessa di rovistare in quel cassetto, tanto più che sapeva quello che vi era contenuto.

«Zio, non trovo più i libretti della posta nel cassetto.»

«Ah, non ti preoccupare adesso dei libretti.»

Aveva una espressione strana oggi lo zio. Sotto le coperte appariva evidente un rigonfiamento, ma forse aveva accavallato le gambe.

«Ma oggi è la fine del mese zio.»

«Non ti preoccupare ti dico. Senti … devo dirti che c’è una sorpresa. Ti ricordi che più di una volta ne abbiamo parlato? I documenti che ti dissi sono pronti sai?»

«Quali documenti?» Lidia adesso era stranita, non capendo quella espressione ironica e a tratti beffarda dello zio insieme al suo tono di voce suadente.

«La mia donazione di tutto quello che ho a te, bella mia. Te lo sei proprio meritato. Guarda nel cassetto, sotto quello dei libretti stanno. Portameli qua che te li voglio leggere io stesso.»

«Ma zio …»

«E fai quello che ti dico almeno una volta.»

Anche se non capiva l’insistenza e l’aspetto strano dello zio, Lidia si rassegnò a fare quello che l’uomo le chiedeva. Rovistò nel cassetto che le aveva indicato e dove trovò una grossa busta gialla. Sembrava contenere molti fogli ripiegati e fece per tornare nella stanza dello zio.

Gli istanti parvero rallentare di colpo quando appena oltreata la soglia della porta trovò lo zio seduto sul letto che imbracciava un fucile con uno sguardo da folle. Pietrificata, a Lidia vennero in mente velocissimi gli episodi più importanti della sua vita, specie gli ultimi. E adesso? Dov’è Marcello? Che starà facendo? A che ora si era svegliato stamattina? Così spesso è quando la morte ci guarda con le sue orbite vuote, ci si aggrappa agli ultimi pensieri di vita normale, ci si fanno domande banali si, ma che sono l’estremo tentativo di ignorare quello che sta succedendo, una cosa inconcepibile, un attimo e via, non potremo più pensare, respirare, essere felici o tristi, amare o odiare. Scende un velo nero su tutto e amen.

Pochi attimi soltanto che parvero minuti interminabili, Lidia era paralizzata, il respiro si era quasi fermato. Improvviso le venne in mente un pensiero disperato “Devo salvare il bambino, mio figlio, il figlio di Marcello, la nostra vita.”

Il primo colpo sembrò un tuono che squarciò la quiete di quell’ora di mattina di un giorno tranquillo di fine agosto. La mancò per un pelo, e lei con un balzo felino cercò di girarsi verso la porta per scappare. Ma un secondo dopo senti un fuoco alla testa e alla schiena. Si portò una mano alla nuca e la ritirò piena di sangue. Il vecchio cacciatore non si era lasciata sfuggire la preda. E lentamente Lidia scivolò a terra, non poté sentire le urla di Rosaria e altri rumori di oggetti che sbattevano. Una pace infinita le scendeva dentro e per un attimo, con gli occhi che le si richiudevano tremolanti, cercò di catturare qualche piccolo bagliore di luce mentre con le labbra che non emettevano più alcun suono cercava di chiamare Marcello. Poi … la fine di tutti i dolori ed un’altra luce meravigliosa che le veniva incontro.

L’ultimo colpo il cacciatore lo aveva riservato a sé stesso. Lo zio Patrizio girò fulmineo il fucile infilandosi la canna in bocca. I pallettoni gli devastarono la parte posteriore della testa, e la spalliera del letto diventò scivolosa di sangue e materia cerebrale.

17

Il racconto di Anna era finito, ed io rientrai in me dallo stato di torpore cosciente che mi aveva permesso di associare le parole del racconto alle immagini che si erano formate nella mia mente. Qualche minuto di silenzio, Anna aveva chinato il capo nascondendo una lacrima. Non avrei mai potuto immaginare la vita di questa donna sventurata, una donna che avevo incontrata una sola volta nella mia vita in un giorno solare di tanti anni prima. Pensai a quanto ero stato imbecille a ritenere che queste storie tragiche non possano accadere anche nei paesini più tranquilli e quasi insignificanti come quello di Lidia. E pensai anche a quante e quante volte quel volto, quella figura mi aveva visitato nei ricordi e nei sogni per tanto tempo.

«Non sono andata al suo funerale. Non ne ho avuto il coraggio.» riprese Anna «So che vi è andata pochissima gente però.»

«E’ naturale che fosse così, era la tua migliore amica. E di Marcello cosa ne è stato?»

«Marcello ebbe un malore. Lo soccorsero i suoi dipendenti. Quando riprese conoscenza all’ospedale cominciò a delirare, chiamava Lidia, diceva di voler morire, e per qualche tempo al suo capezzale si alternarono dipendenti, amici e parenti per evitare che fe qualche gesto disperato. Poi, un giorno è semplicemente sparito, la concessionaria venduta e lui andato chissà dove.»

Bruno taceva sempre, ma sembrava molto turbato anche lui dal racconto.

«Povera amica mia. Sono stata male per giorni. So dove è stata seppellita, ma non ho mai avuto il coraggio di andarla a trovare.»

Mi feci dire da Anna dov’era la sua tomba, e non conoscendo il cimitero del paese Bruno disse che sapeva lui dov’era la tomba e che mi ci avrebbe accompagnato quando avessi voluto.

«Mi dispiace Anna, mi dispiace davvero se ti ho costretta a ricordare una storia così brutta. Se avessi immaginato non te lo avrei mai chiesto di raccontarmi questa tragedia.»

«No, invece mi ha fatto bene ricordarla. Anche se per poco, l’abbiamo fatta rivivere. Ricordala com’era quel giorno Biagio, è il regalo più bello che le puoi fare. Chi lo sa, forse in questo momento ci ascolta ed è felice. E poi non possiamo veramente conoscere l’unicità di quei momenti di tenerezza che ha vissuto insieme al suo Marcello, anche se la fine è stata spaventosa ciò che ci capita di bello nella vita non si può distruggere mai. Vi chiedo una cortesia: quando andate a trovarla, portatele anche un saluto e una preghiera da parte mia.»

Ci scambiammo un bacio sulle guance con Anna prima di andarcene. Chi lo sa se l’avrei rivista oppure no. La vita di Lidia ormai era un libro custodito nella mia memoria, non avrei più potuto almanaccare su dove fosse e che cosa fe adesso. Adesso era custodita nel continuo fluire dei ricordi. Ormai quel paese non avrei mai più potuto guardarlo come un tranquillo borgo alle porte di Lecce, il solito paesino, e in fin dei conti quasi noioso. Mi avrebbe sempre ricordato quella tragedia di qualche anno prima, e anche dopo anni e anni il mio ricordo non si sarebbe annebbiato, ne ero sicuro. Ma volevo assolutamente vedere un’ultima volta quel viso, a qualunque costo e Bruno, quasi leggendomi nella mente mi disse lievemente:

«Ci andiamo domattina se vuoi Biagio.»

«Te ne sarò grato Bruno.»

«Ma ti pare. Il racconto di Anna mi ha veramente scosso. Non avrei mai immaginato un casino così. Vabbé, sono stato fuori qualche anno, ma anche da lontano non ne avevo mai sentito parlare di questa storia né da amici né da parenti, e nemmeno quelle volte che sono sceso giù.»

«Era certamente per il fatto che la loro storia Lidia e Marcello l’avevano protetta per tanto tempo, finché avevano potuto, fino a quando non è successo l’inevitabile. Ma anche allora sono sicuro che praticamente nessuno abbia immaginato i retroscena, solo Anna poteva conoscerli. Avranno attribuito tutto ad un attacco di follia del vecchio.»

«Sono sicuro anche io che sia andata così. Era una situazione troppo torbida da potere essere conosciuta ed Anna la conosceva appunto perché era la sua migliore amica, quasi una sorella.»

18

Il piccolo cimitero era immerso nel silenzio solare della domenica mattina, e nonostante fosse domenica c’era ancora poca gente. Il solito odore penetrante di fiori, odore dolciastro di morte. La confraternita non era distante dall’ingresso del cimitero un edificio a volta bassa e forma allungata. La lapide della tomba di Lidia era a poca distanza da una delle porte di ingresso. Eccola! Era lei, anche se sembrava ci fosse molto poco della ragazza di diciassette anni che avevo conosciuto un giorno. Aveva i capelli corti nella foto, un volto di donna fatta, un volto sul quale aleggiava un sorriso ambiguo da Monna Lisa. Gli orecchini che portava ai lobi delle orecchie dovevano essere quelli che le aveva regalato Marcello. La foto con tutta probabilità era stata scattata in primavera inoltrata, ma la cosa strana era che fosse una foto in bianco e nero, sembrava davvero una foto degli anni cinquanta. Dei fiori freschi in un piccolo portafiori posato accanto ad una lampada votiva accesa.

«E questi chi li avrà messi secondo te?» feci a Bruno.

«Boh. Non mi risulta che ci siano più parenti vivi qui, anche il fratello e sua madre sono morti da tempo.»

«Tu pensi che potrebbe essere …»

«Tutto può essere Biagio, ma bisognerebbe mettere una telecamera sempre in funzione per esserne certi.» disse Bruno con un leggero sorriso ironico.

Era bello pensare che qualcuno ancora innamorato portasse dei fiori sempre

freschi sulla tomba di Lidia. Ma che importanza poteva avere ormai? Come aveva detto Anna, quello che ci capita di bello nella vita non si può distruggere mai.

Mi avvicinai alla lapide e notai qualcosa che prima mi era sfuggita, era qualcosa dal colore rosso cupo a malapena distinguibile in mezzo ai fiori, la lampada e le immaginette varie dei santi. Scostai delicatamente i fiori, e fu allora che vidi chiaramente che cosa era. Quella cosa era ciò che più di ogni altra mi aveva sempre riportato alla mente quel volto, era il filo conduttore inconsapevole, una guida che mi riportava sempre a lei e a quel giorno in cui l’avevo incontrata. Era una piccola stella di mare.

INDICE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

18