© Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it
[email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867930982 1° edizione cartacea – Novembre 2013 Immagine di copertina e disegni interni | Giada Cattaneo © 2013 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com
MARIAADELAIDE e ANNA GALIMBERTI
LA STELLA DI NATHALIE
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione delle autrici e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
Un particolare ringraziamento a Roberto Kustermann per le preziose informazioni sulla struttura e il funzionamento della barca a vela.
1
La sveglia, che disegna il tempo in un angolo del comodino, proietta le piccole cifre luminose sulla parete di fronte al letto. Sei e dieci. Un altro mattino che arriva troppo in fretta. Inesorabile! Il primo pensiero di Cristina è questo, pungente come una spina, ad annunciare un ennesimo, doloroso, risveglio. Una nuova giornata da affrontare, col suo carico di difficoltà, ansia, tormento. Da qualche tempo si sente così: sfiduciata, preoccupata. Depressa. Lorenzo dorme al suo fianco, il bel volto nascosto dal cuscino. Il respiro regolare, tipico di chi è ancora in una fase profonda del sonno. Lo osserva per un istante, invidia la sua incolpevole serenità e prova un’impercettibile fitta al cuore. Scosta piano il lenzuolo, scende dal letto in punta di piedi, apre con cautela la porta della camera e la richiude, trattenendo il respiro. Non vuole svegliarlo, non ancora. Scende al piano di sotto, dove si trova la cucina, muovendosi furtivamente, come se si dovesse nascondere, come se occhi invisibili la spiassero. Brook, la sua dolce whippet, scivola stiracchiandosi fuori dalla cuccia e le corre incontro, con uno scodinzolio frenetico e gioioso. Il nodo alla gola non si allenta. Rimane alcuni attimi davanti alla finestra, osservando la luce che corre veloce verso il mondo, in quell’alba intessuta di rosa e grigio di primo novembre. Si siede al tavolo, ciondolando, incapace di iniziare veramente la giornata, con tutta quella serie di gesti meccanici, immutati da anni, quasi rituali, come accendere la macchina del caffè. Sei e trenta. C’è ancora un po’ di tempo prima di svegliare Gianluca, un bimbo serio e ombroso di sei anni. Prende la borsa della spesa, quella grande, e ci infila rapidamente delle provviste: scatolette di vario tipo, bibite, pane e formaggio. Scende in garage, preleva da un armadio una bottiglia di acqua e ripone tutto nel bagagliaio della sua auto. Risale in cucina, dove ora la luce si è fatta prepotente ed evidenzia residui della
cena precedente in un angolo del fornello. Non se ne cura. Bruna penserà a rimuoverli. Per precauzione abbassa un po’ la tapparella, affinché la luce meno invadente eviti di rivelare altri odiosi particolari, sollecitando così il disappunto del marito, maniaco dell’ordine e della pulizia e, ultimamente, più irritabile e pedante del solito. Versa il caffè in due tazzine bianche con le iniziali dei loro nomi in oro, dipinte e regalate per le nozze da Martina, la sua migliore amica e testimone, quando si dilettava a decorare la ceramica. Lorenzo si materializza in cucina con i capelli ancora umidi dopo la doccia ma già perfettamente vestito. La bacia meccanicamente sulla guancia e allunga una mano per prendere il suo caffè. Lo sguardo rivolto alla tazzina e l’orecchio alla radio, che trasmette il notiziario del mattino. Poi, già sulla porta, l’avvisa con noncuranza: “Stasera non torno a cena, non aspettarmi.” In un attimo è già scivolato fuori. Lei muove un o per richiamarlo, affrontarlo, gridargli che lo ama e che ha un disperato bisogno di lui. Che sta male! Il suo corpo sembra sospinto verso il marito dalla sola forza del desiderio di raggiungerlo e stringerlo forte. Ma entrambe le azioni restano cristallizzate nel vuoto doloroso della sua mente e qualcosa si frantuma dentro. Sente in bocca il sapore metallico del suo fallimento e ricaccia in gola le lacrime. Non ora, avrò tutta la giornata per piangere − si impone. − Adesso devo svegliare Gianluca, prepararlo e portarlo a scuola. Il mondo va avanti. La vita va avanti. Per un istante, invece, vorrebbe che tutto si fermasse. Tenta di trovare la forza in qualche angolo remoto della mente ma un vortice opaco è annidato dentro di lei e rende difficoltosa la ricerca. È una madre coscienziosa e amorevole e, per indole, altruista e generosa. I suoi bisogni, le sue urgenze non sono mai prioritari. È sempre stato così. Cristina ferma l’auto davanti a un basso e moderno edificio, che ospita la scuola elementare di Gianluca. Le vie di Milano sono ogni giorno più trafficate e, arrivare in orario, è una quotidiana sfida.
Consegna il bimbo alla maestra con le solite affettuose e accorate raccomandazioni. Staccarsi da lui è sempre un momento delicato. Aspetta che tutti gli scolari siano entrati e il suono della seconda camla, prima di tornare all’auto. Il distacco dal figlio, il piazzale della scuola che pian piano si svuota, le voci dei bimbi che si smorzano la fanno sentire sola, sperduta e, in questa cupa mattina invernale, sente in modo particolare tutta la sua incapacità nell’affrontare anche le più piccole azioni quotidiane. Sale in macchina e riparte in direzione di Via Pergolesi. Lì, all’angolo con via Soperga, sa che si trova un parcheggio coperto. Mentre cerca un posto libero, è pervasa da un’ansia inspiegabile, una specie di frenesia, come se le potesse venire a mancare quello che, nell’ultima settimana, è diventato uno degli scopi principali della sua esistenza. Esce correndo sulla via e, finalmente, la vede. La donna sta seduta per terra, accanto al salone di un parrucchiere, appoggiata a uno zaino sudicio. Accanto, Briciola, il suo grazioso barboncino dal musino simpatico e gli occhi dolci, si lecca una zampetta. Il pelo, dal riccio e disordinato colore ambrato, gli dona un aspetto simpatico. Lei è una persona che chiede l’elemosina, ma Cristina pensa che la parola “clochard” o “barbona” non siano adatte a definirla. La povera donna è indifferente, lo sguardo perso nel vuoto. Potrebbe avere una cinquantina d’anni e le si leggono in viso i resti di una bellezza non completamente sfiorita. Porta i capelli cortissimi, un giaccone verde di tre taglie più grande e i pantaloni di una tinta nerastra, informi e sfilacciati. Terminata la pulizia, la cagnetta appoggia teneramente il musino sulla gamba della padrona e rimane tranquilla a osservare la moltitudine di anti frenetici e cinicamente disinteressati. “Briciola, vieni qua.” Cristina la accarezza cautamente e versa una scatoletta di carne e verdure nella sua ciotola malconcia. “Mangia, piccolina. Tranquilla. Tranquilla.” Un particolare stonato, che ha già notato altre volte, attira la sua attenzione.
Intorno al collo del cane un collare assai vezzoso, di pelle color fucsia, decorato da fiorellini di metallo argentato con al centro un brillantino, stride vistosamente con la povertà e lo squallore del resto dell’equipaggiamento. Cristina ha già depositato, accanto allo zaino, il sacchetto della spesa che si è portata da casa e appoggia una banconota da venti euro in un contenitore di plastica, lercio e consumato, ai piedi della donna. Poi si ricorda che è venerdì. Sabato e domenica non potrà venire a trovarla, perché Lorenzo è a casa dal lavoro e deve dedicarsi a lui. Quindi aggiunge altri venti euro. La donna ringrazia con un timido cenno del capo. Non chiede niente. Aspetta paziente un gesto di umanità, con lo sguardo perso nel nulla, o nel punto di confine fra realtà e ato, lasciando affiorare sul volto un rapido sorriso quando intende ringraziare. Cristina, a volte, la immagina curata e ben vestita, pensando a come la sua bellezza potrebbe attrarre lo sguardo degli uomini, gli stessi che ora ostentano la propria indifferenza. Già altre volte ha considerato i modi gentili di lei; i movimenti composti del capo e delle belle mani affusolate, rosse e screpolate, ma piene di grazia. Non ha invece mai udito la sua voce, che però immagina soave. D’improvviso prova l’urgenza di sapere qualcosa di più su quella donna misteriosa e miseranda che, da qualche settimana, è entrata a far parte della sua vita. Tenta un approccio con la prima frase che le viene in mente. “So che la cagnolina è Briciola. Ho sentito un signore chiamarla alcuni giorni fa. Mi piacerebbe sapere anche il suo nome” le chiede nel tono più gentile e affabile che riesca a formulare. La sconosciuta si mette subito sulla difensiva e, per tutta risposta, raccoglie lo zaino e le sue poche cose e si allontana, con frettolosa diffidenza, lanciandole occhiate di rimprovero. Briciola la segue, saltellando. Cristina rimane allibita e mortificata. Come può averla offesa? In fondo le ha chiesto solo il nome! Pensa e ripensa a tutto ciò che ha fatto per quella poveretta negli ultimi giorni, e con quanto amore. Il cibo, i vestiti, il denaro. Proprio non riesce a capire quel comportamento irriconoscente e scostante e prova una fitta di delusione. Rimane lì, in piedi sul marciapiede, con mille pensieri che le frullano per la mente e lo sconforto che le serra la gola, quando sopraggiunge un altro
malessere, questa volta familiare, fisico: sta per avere una crisi di mal di testa. Deve affrettarsi a tornare a casa, prendere un analgesico e sdraiarsi, altrimenti sarà fuori uso per il resto della giornata. Bruna è già arrivata e la casa è gelida: tutte le finestre sono state spalancate per arieggiare i locali. Il ronzio dell’aspirapolvere la costringe ad alzare il tono della voce. “Bruna, sono a casa. Ho un forte mal di testa, vado a stendermi sul letto. Mi prepari una tazza di tè?” Povera cara Bruna! È abituata a queste sue crisi di emicrania. Si prende cura di lei fin da quando era bambina. Prima al servizio dei suoi genitori, ora validissima collaboratrice domestica e meravigliosa tata del piccolo Gianluca. Cristina entra in camera, chiude la finestra e abbassa la tapparella. La penombra le è amica, ottunde le percezioni. Si sdraia sul letto. Il mal di testa intanto è aumentato. Non è mai stata così male. Il dolore forte e pulsante, che avverte al capo, non è nulla in confronto a quello lacerante e profondo che sente al petto. Ha un disperato bisogno di piangere ma anche questo è diventato un lusso e si ritrova con un pugno di lacrime strette in una mano. Un abisso di sofferenza la sta inghiottendo, non è rimasto neanche un brandello di felicità cui aggrapparsi. Anche la casa, caldo nido nel quale aveva riposto la sua anima, il futuro, la sua vita stessa, è diventata una triste e opprimente prigione e, invece di darle conforto, la fa sentire intrappolata in una gabbia di dolore. Deve chiedere aiuto a qualcuno, per non soccombere. Pensa di telefonare a Lorenzo, sfogarsi con lui, chiarire le incomprensioni, aprirgli il suo cuore. Ma detesta chiamarlo sul lavoro, teme che si possa irritare. Si posa una mano sulla fronte, come se il calore del suo palmo potesse procurare un lieve sollievo a tutta la sua sofferenza. Suo padre! Certo lui avrebbe sistemato ogni cosa. Non l’aveva mai delusa, con la sua abilità nel risolvere tutti i problemi; con il suo saldo, enorme affetto. Ma non vuole preoccuparlo, perché ultimamente ha avuto dei problemi di salute. Alla fine, come al solito, decide di rivolgersi a Martina. “Allora, Cri, che succede? Cosa c’è che non va?” le chiede l’amica, accorsa prontamente alla richiesta d’aiuto. Strizzata in un cappottino rosso, non riesce a impedire che l’apparente vivacità
della sua voce tradisca una sincera preoccupazione. “Stai male per colpa di Lorenzo, è successo qualcosa tra di voi? Adesso mi racconti tutto, ti sfoghi e vedrai che starai meglio.” “ Sì… no… c’entra anche Lorenzo certo.” Le riesce difficile affrontare l’argomento, anche perché non ha ben chiara la situazione nemmeno a se stessa. “Il nostro rapporto… ormai siamo come due estranei e io… io non riesco a dire niente, a fare nulla. Me ne sto lì come un vegetale, a guardare quest’unione che si disintegra. E poi sto malissimo…” Ormai è come un fiume in piena. “Aspetto il mattino come una condanna, vivo tutto con angoscia, con questo grande strazio che mi travolge. Non sono più felice, Martina, vorrei solo dormire. Dormire e non pensare. Persino con Gianluca non sto bene, e tu sai com’ero. Stavo con lui tutto il giorno e non mi stancavo mai. Ora invece è tutto così faticoso, doloroso.” Ormai ha rotto anche gli argini e arrivano le lacrime, liberatorie. “Aiutami. Martina, sto sprofondando!” “Povera Cri, da quanto tempo sei ridotta così?” La voce di Martina ha l’effetto tranquillizzante di una ninnananna cantata con voce soave. “Questi sono sintomi inequivocabili di una depressione. Devi curarti. Andremo insieme da un medico; lunedì fisseremo un appuntamento. Un bell’antidepressivo e, in pochi mesi, ti rimetteremo in sesto.” Cristina ormai non ha più freni. Singhiozza convulsamente e si soffia ripetutamente il naso. Brook salta sul letto e comincia a leccarle via le lacrime. L’amica ha completamente preso in mano la situazione, efficiente e pratica come sempre. “Ora riposati un po’. Alle quattro andrò io a prendere Gianluca e poi mi fermerò fino a che non tornerà Lorenzo. Rilassati, tesoro, vedrai che tutto andrà bene.” Sprofondata tra i morbidi cuscini di piuma, Cristina si lascia confortare da quelle parole pronunciate con affettuosa incisività e, un poco alla volta, la crisi si placa. Rovistando fra i ricordi di Martina, si sofferma sulla festa del suo ventunesimo compleanno e la rivede con l’abito di chiffon verde acqua, bellissima ed elegante, come sempre. Si destreggiava tra gli invitati con assoluta naturalezza, nonostante le scarpe dal tacco vertiginoso; si fermava a conversare con tutti,
attenta alle esigenze di ciascuno dei presenti. Ricorda che, in mezzo alla moltitudine degli invitati, era riuscita a malapena a salutarla e le sembra ancora di avvertire il disagio e l’inadeguatezza che aveva provato, per il semplice vestito che indossava e le poco appariscenti ballerine di pelle. Vedendo tutta quella sfilata di abiti vistosi pensò di essere vestita in modo troppo semplice per la festa organizzata dalla sua carissima amica, senza rendersi conto che la sua eleganza e la sua classe, unite all’innato riserbo, la circondavano di una sfera di ineguagliabile originalità. Lorenzo era fra gli invitati. La notò, mentre stava parlando, sorridendo, con un ragazzo olandese. Si avvicinò e si trovarono fianco a fianco, davanti al tavolo del buffet, con un piatto da riempire. Gli occhi scuri incollati nei suoi. “Vino bianco, fermo o mosso?” chiese, ostentando sicurezza. La voce calda, morbida, di quel bellissimo uomo, con la velocità di un lampo, colpì con un sussulto Cristina, che si sentì avvampare. “Bevo solo champagne” rispose e subito si vergognò di quella frase idiota. Le parole le erano sfuggite senza premeditazione e, spesso, quando veniva colta alla sprovvista dall’imbarazzo, non rifletteva su ciò che stava per dire. Allora aveva delle uscite poco felici, come se i pensieri si congiungessero a parole che non erano in grado di esprimerli e ne uscivano così frasi che si rammaricava di aver pronunciato. “Qui non ne vedo, se vuoi vado a comprarne una bottiglia.” Sembrava alquanto divertito. “Ottima idea” rispose lei, nella speranza di creargli qualche difficoltà mentre cercava di districarsi dal suo impacciato e visibile turbamento. Incrociò il suo splendido sorriso e in un attimo pensò che, nei suoi sogni sospesi nella luce del primo mattino e nel buio della notte, l’uomo dei suoi sogni era sempre stato così. Desiderava un compagno esattamente come questo ragazzo. Nel momento in cui inseguiva il suo pensiero, scegliendo una tartina al salmone, lui scomparve. Si ritrovò, frastornata, a continuare il discorso con l’olandese e a cercare con urgenza quei riccioli neri fra le varie teste degli invitati. Dopo una ventina di minuti, stanca di frugare con gli occhi la stanza, uscì in giardino a prendere una boccata e d’aria. E fu allora che, come in un film, Lorenzo spuntò da dietro la siepe di lauroceraso con una bottiglia di champagne. “Per te.” Cristina sorrise divertita e corse a prendere due flute. “Per noi” lo corresse. “Alla nostra amicizia.” Rimasero in giardino a raccontarsi la loro vita, chiusi nei contorni di una favola.
Alle tre di quella calda notte una luna piena dal colore ambrato rischiarava i loro volti, evidenziando i loro occhi raggianti e la bottiglia di champagne ormai vuota. Le loro mani intrecciate stavano tessendo un programma per il futuro e sembrava si conoscessero da sempre. Lorenzo la lasciò alle cinque della mattina davanti al portone di casa, con la promessa di richiamarla la sera stessa. Seguendo il filo dei ricordi, riassapora l’entusiasmante euforia di quei giorni e la sorpresa della proposta di matrimonio, avvenuta solo dieci mesi dopo quella fatidica sera. Poi era arrivato Gianluca a completare una situazione idilliaca e la gioia era stata totale, appagante. Il suo sogno era divenuto realtà. Si godeva quello stato di grazia, come se fosse potuto durare per sempre; come se le fosse stato assegnato dal cielo e, per una legge superiore, nessuno e niente al mondo avrebbe potuto portaglielo via. Non sapeva, allora, che la fortuna è breve, non aveva memorizzato che la felicità non è una condizione duratura di questa vita, non aveva considerato che bisogna essere pronti alla delusione, alla sconfitta, al dolore. La voce rassicurante di Martina le arriva a tratti, da un’ovattata distanza, come una dolce filastrocca che la coccola con la sua musicalità. Adesso è al sicuro. Si raggomitola nel letto, sfiora il cuscino e, finalmente, si addormenta.
2
“Allora, gliel’hai detto?” Il corpo teso, la voce ringhiosa, l’annuncio di nuove ostilità. La segretaria lo affronta proprio sulla porta dell’ufficio, con malcelata urgenza. Lorenzo è colto di sorpresa, ha i nervi a fior di pelle. Ha ato la notte quasi completamente in bianco, a causa del malessere del figlio, che ha pianto spesso, convulsamente. È lunedì mattina e la settimana incomincia malissimo. Simona rimane con la mano appoggiata sulla maniglia, lo fissa negli occhi aspettando la risposta. “Ma Simona, lasciami almeno entrare, non aggredirmi nel corridoio!” La trascina dentro prendendola per un gomito e si affretta a chiudere la porta, per evitare che qualche collega possa captare l’eco di quella sgradevole discussione. Sa che, per quanto siano cauti e dissimulatori nel comportamento, qualche voce comincia già a circolare, nell’ambiente lavorativo, sulla loro storia. “Vieni qua, amore, parliamone…” le dice con voce premurosa, cercando infidamente di calmare la delusione che la tormenta da giorni. Ma lei è caparbia e torna inesorabilmente all’attacco: “Hai promesso che avresti parlato a tua moglie. Quando ti decidi a dirle di noi due? Hai forse paura? Se vuoi posso farlo io.” Questa storia va avanti ormai da giorni e Lorenzo arriva tutte le mattine al lavoro irritato, sapendo di dover affrontare nuove schermaglie ed escogitare bugie sempre diverse. Ma quella mattina si sente stanco, sfinito. Gianluca non ha dormito. Sembrava in preda a un incubo ma in realtà era sveglio e vigile. Sudava e sbatteva le braccia, ripeteva velocemente parole incomprensibili. Non aveva nemmeno una linea di febbre, forse si era stancato troppo a scuola. La maestra aveva deciso di costruire un presepe di carta e tutti i bambini avevano dovuto collaborare portando carte colorate, colla, forbici, paglia, piccoli sassolini bianchi e del sale grosso. Il bimbo si era impegnato con eccessiva diligenza in questo compito.
Lui e Cristina, dopo il breve scambio di idee sul lavoro svolto a scuola, avevano cercato di calmarlo, di fargli bere una tisana di biancospino e melissa. Ma Gianluca continuava a essere agitato. Si era addormentato alle cinque, dopo essere rimasto con lo sguardo fisso, per lungo tempo, sul modellino del veliero in legno. L’avevano costruito insieme il Natale dell’anno precedente. Lì, vicino al modellino, il vecchio libro di algebra era stato sfogliato. “Hai riesumato il libro di algebra, ti serve per i tuoi bilanci?” aveva chiesto, ironica e sorpresa, la moglie a Lorenzo. Ma lui non toccava il libro da anni e quindi avevano pensato che Bruna, nello spolverare la libreria, l’avesse dimenticato sulla scrivania. Ancora con il cappotto addosso si lascia cadere sulla poltrona girevole. La posiziona verso la vetrata e guarda fuori. I rami degli alberi sono cristallizzati e la brina ha ricoperto come un manto bianco il giardino. Di verde è rimasta solo la vecchia panchina in legno dove, nelle tiepide giornate di primavera, soleva sedersi Cristina con Gianluca, ad aspettare che il marito finisse il lavoro, per rincasare insieme. Spesso andavano in Corso Buenos Aires a fare shopping, e poi era d’obbligo la sosta al pub “La Torretta”, a sorseggiare un buon bicchiere di Pinot Grigio. Cerca, osservando la trasparenza dell’acqua ghiacciata che brilla al pallido sole di fine novembre, parole convincenti e originali per smorzare il diverbio che Simona ha intrapreso e che lo disturba. Come vorrebbe essere trasparente e nitido, invece si ritrova incrostato, con le crepe nel cuore. Otto mesi prima, quando era iniziata la relazione con Simona, si era sentito onnipotente: una moglie che lo amava a casa e una segretaria adorante in ufficio. Aveva trascorso mesi frenetici ed emozionanti, insaporiti dal pepe della trasgressione, e raramente i sensi di colpa nei confronti di Cristina avevano albergato nella sua coscienza. Lorenzo si era gettato anima e corpo in quel rapporto, chiedendosi spesso se fosse veramente innamorato della bella segretaria. Ancora adesso non sa darsi risposta. Si gira verso la scrivania e lo sguardo scivola sul volto grazioso della moglie, che gli sorride dentro una cornice d’argento. Un attimo di malinconia, fugace come un battito di ciglia, ma sufficiente per fargli piovere addosso il pensiero di
quello che potrebbe perdere o meglio che, in parte, ha già perso. No, non può rinunciare a Cristina e ormai è troppo tardi per scaricare l’amante. Simona è decisa e spregiudicata e sa esattamente quello che vuole. E ciò che vuole è lui! Realizza, per la prima volta, con spietata consapevolezza, di essersi infilato in una situazione senza via d’uscita. “Simona, ti prego, sii ragionevole. Ti ho spiegato che Cristina è depressa e dunque questo non è il momento migliore per parlarle. In fondo cosa ti chiedo? Solo un po’di tempo. Qualche giorno di pazienza e le dirò tutto. Lo giuro! Lo sai che ti amo.” Afferra le parole a caso, nella matassa intricata della sua mente, sapendole meschine e stereotipate, dettate dall’urgenza di porre fine a questa discussione pericolosa oltre che logorante. Lei sembra ammorbidirsi, nel momento in cui i suoi timpani captano le parole “ti amo”. Gli sfiora una guancia delicatamente, gli accarezza i capelli e gira i riccioli nell’indice della mano sinistra. Il volto si rasserena, finalmente sorride e lo bacia. Ancora una volta è riuscito a blandirla ma queste discussioni stanno diventando, man mano che i giorni trascorrono, inevitabilmente lunghe e velenose e ricomporre l’armonia richiede sforzi sempre maggiori. Sembra quasi che manchi sempre un pezzo del puzzle. Questa situazione è già abbastanza complicata e in più ci sono le tensioni con la moglie, che comincia a mal tollerare le sue frequenti uscite serali e si è messa a fare domande precise sulla sua presunta rivale. Le frecciatine di Cristina rivolte a Simona sono pungenti e allargano le crepe che ormai si sono formate nel suo cuore e nella sua mente. Deve destreggiarsi tra bugie, promesse, smentite. E poi c’è lo strano atteggiamento di Gianluca, è sempre stato un bimbo particolare, serio e riflessivo, solitario, mai esuberante ma ora è diventato assente e apatico, in modo quasi patologico. La tanto attesa prima elementare si sta rivelando difficile per il piccolo: non riesce a relazionarsi con i suoi compagni ma in verità neanche con gli adulti; è incapace di entrare in empatia con le persone. Come se, nel suo mondo, gli altri non contassero nulla, come se fossero di cartapesta, senza un’anima a cui prestare attenzione. A lui interessano i numeri e i modellini di navi e velieri. Ha cominciato a contare tutto in modo maniacale: i i quando cammina, i piselli nel piatto, i chicchi nel risotto. Inoltre, col crescere, i suoi movimenti goffi sono più evidenti e i problemi di coordinazione motoria, invece di migliorare, peggiorano. − Forse sono io che esagero − si ritrova a pensare ma è pervaso da un brutto presagio, come se tutte le cose belle della sua vita si stessero tramutando in
perfide malvagità. La testa gli scoppia e una fitta allo stomaco gli toglie il respiro. I battiti del cuore gli martellano in gola, uno a uno. Il respiro diviene corto e superficiale, suda e trema. Forse sta avendo un attacco di panico ma non è mai stato soggetto a questo disturbo, quindi non ne sa riconoscere i sintomi. Si alza dalla scrivania per uscire e bere un caffè, ma ci ripensa. La caffeina lo ecciterebbe ancora di più. Gli sarebbe più utile un tranquillante. Accende il computer, controlla l’agenda, prende un lungo respiro e cerca di calmarsi. Ma un altro pensiero, che si insinua a tradimento nella sua povera psiche in subbuglio, lo lascia di nuovo senza fiato. Ricorda, infatti, una frase pronunciata da Simona qualche tempo prima, “Se mi lasci, ti rovino!”, alludendo al fatto che, non solo avrebbe messo al corrente Cristina della loro tresca, causando certamente la fine del suo matrimonio ma avrebbe anche spifferato tutto al capo che, guarda caso, è un carissimo amico del padre di lei. Sta rischiando di perdere tutto. Una piccola goccia d’acqua, riscaldata dall’ultimo raggio di sole, abbandona il ramo e scende come fosse una lacrima tremolante. Si sente simile, caduco e insicuro. Vorrebbe tornare indietro, non avere ceduto ai pressanti corteggiamenti di Simona, alle sue lusinghe, ai rapporti frettolosi e rubati in ufficio, alle serate troppo brevi a casa di lei. Sente che è arrivata l’ora del conto. Bisogna pagare e costerà caro. Riporta lo sguardo sul monitor, che gli comunica una giornata densa di appuntamenti e due pratiche urgenti da ultimare. Spera di concentrarsi sul lavoro ma riuscire ora a fare tabula rasa nella sua mente sconvolta è un lusso insperato. La porta dell’ufficio si apre ed entra Simona che, nel frattempo, è tornata a vestire i panni della perfetta segretaria. Il profumo che emana diventa una scia palpabile. È bellissima e sicura di sé, mentre gli comunica: “Il capo vuole vederti.”
Il dr. Rizzi, suo diretto superiore nella filiale della banca di cui Lorenzo è vicedirettore, lo accoglie nel grande e luminoso ufficio, con la solita bonaria
cordialità. Si erano conosciuti quando frequentavano il corso di Marketing alla Bocconi e si erano laureati nella stessa sessione, entrambi brillantemente. Il capo lo conosce bene e lo ritiene un valido collega, intelligente, ambizioso, perspicace ma anche avveduto nella valutazione dei rischi durante l’emissione di mutui e prestiti. Aveva avuto un ottimo intuito quando era capitata l’opportunità di un grosso investimento in titoli di un Paese emergente. La loro banca aveva realizzato un buon interesse e a loro era stato assegnato un premio piuttosto consistente. L’ufficio è al terzo piano di una palazzina dall’architettura all’avanguardia. Le facciate in acciaio, vetro e pietra sono curvate a semicerchio e si affacciano su un giardino che ospita azalee, oleandri, due cedri e una mimosa che, in primavera, diviene ricca di palline gialle profumatissime. Al centro una magnolia, alta quindici metri, è la prima a regalare il profumo dei suoi fiori a coppa. Bianchi e screziati di rosa intenso sembrano, appena sbocciati, dipinti da un abilissimo e sensibile artista. Di fronte la panchina di legno verde. Lorenzo abbina la magnolia, tutte le volte che la osserva, all’inaspettata rivelazione di Cristina. Erano a Padova, nel chiostro della basilica di Sant’Antonio, detto anche Chiostro della Magnolia, per la superba pianta grandiflora che si innalza al centro. Faceva caldo e sua moglie era affaticata dal viaggio, si misero quindi al riparo del vecchissimo albero. Cristina lo fece sedere accanto a sé, gli prese le mani sorridendo, le portò delicatamente sulla sua pancia sussurrando: “Aspettiamo un bambino.” Erano felici e chiesero all’antico albero di proteggerli. Incisero sulla corteccia le loro iniziali, sentendosi due ragazzini spensierati. Sorride, mentre osserva che ai bordi del giardino corre rigogliosa la profumata lavanda, mostrando le sue argentee foglie. Spesso Lorenzo non prende l’ascensore ma si serve delle scale per accedere all’ufficio del direttore, proprio per osservare la vegetazione del giardino perfettamente curato e, quando si faceva tardi, sperava di scorgere Cristina e Gianluca seduti sulla panchina di fronte alla magnolia, ad aspettarlo. Rialza il capo, distoglie stentatamente lo sguardo dalla vetrata e sale lentamente gli ultimi gradini. Si sente tristemente pesante. Poi, davanti alla porta dell’ufficio, prima di bussare, si affaccia alla piccola finestra del pianerottolo. Il
bianco della brina copre ogni cosa. L’ultimo raggio di sole è stato coperto da aggrovigliate nuvole che promettono neve. I rami spogli, scarni, si preparano al gelo. Anche lui ha freddo, dentro. E ha paura. Entra nell’ufficio e, come sempre, viene accolto con calore e immediatezza. Si siede sulla poltrona in pelle nera. Di fronte una veduta ottica raffigurante il Ponte Vecchio di Firenze lo rilassa un poco. “Allora, caro Lenzi, voglio congratularmi per come hai gestito la trattativa con la Banca di Ginevra. Hai svolto un ottimo lavoro.” Lorenzo è molto compiaciuto e si distende, mentre si scambiano battute e opinioni sui rendimenti di alcune obbligazioni e titoli azionari consigliati da un loro collega. Mentre si stanno dirigendo verso il bar interno alla banca per sorseggiare un caffè, Rizzi lascia cadere le parole, come se gli affiorassero alla mente in quel preciso istante: “Hai presente il convegno a Roma di cui ti ho parlato, che si terrà il prossimo fine settimana? Io purtroppo non potrò muovermi da Milano, perché sabato arriverà mia figlia da Londra. Quindi dovresti andare tu, al mio posto.” “Ma… dovrei sentire Cristina…” farfuglia incredulo della proposta. “Potrei mandarci Rivelli ma con te mi sento più tranquillo. E portati Simona, ti sarà utile per la stesura della relazione. Parla con Marilena, lei ha già tutte le prenotazioni. Dai, fammi questa cortesia!” Lorenzo è perplesso ma solo per un istante. Poi l’idea di un fine settimana inconsueto gli sembra ottima e provvidenziale. Roma, lui e Simona insieme, con la benedizione di tutti! Forse riuscirà a fare chiarezza nei suoi sentimenti e a capire quale sarà la donna che continuerà a camminare al suo fianco. Più tardi entra Simona con la posta e si unisce a quell’attimo di entusiasmo. È raggiante, impaziente e trionfante. “Amore, ma ti rendi conto, un intero weekend tutto per noi!” Lorenzo ritorna a casa la sera e la trova piena di calore. Cristina ha portato in salotto gli scatoloni con gli addobbi natalizi, disponendo qua e là qualche pezzo e subito l’atmosfera regala allegria. Ha preparato con cura la tavola e nell’aria si sente il profumo familiare dell’arrosto. Gianluca ha già mangiato e ora gioca con Brook, o meglio, è Brook che gioca con lui mordicchiando le ciabatte di lana cotta. Gianluca sembra non accorgersi, è impegnato a controllare il movimento convulso delle proprie dita. Cristina si
sforza di apparire disinvolta e leggera, parlando dei fatti della giornata trascorsa, ma non riesce a mascherare gli occhi rossi e cerchiati, di chi ha pianto a lungo. Vederla con quella pena così evidente avvilisce Lorenzo, che si appresta a darle il colpo di grazia, comunicandole la novità di Roma. Non gli è mai parsa così devota e fragile e, stupendosi, prova l’irrefrenabile impulso di abbracciarla, tenerla stretta, proteggerla. Forse è ancora innamorato di lei. Eppure deve ulteriormente ferirla, con la notizia che le sta per dare. Non trova le parole e continua a rimandare il momento, cercando nel frattempo di spianare il terreno. Con il figlio è più paziente e affettuoso del solito e Cristina lo osserva a lungo, ponendosi molte domande. Poi, nel letto, si ritrova allacciato alla moglie e allora le scaglia addosso le parole di getto, con apparente noncuranza. La sua stessa voce gli appare aspra e odiosa. “Devo andare quattro giorni a Roma per un convegno. Sarò di ritorno domenica.” “Ma come, così improvvisamente? Avevi promesso di portare Gianluca al lago. E poi sabato ci ha invitati papà, non ti ricordi?” “Devo sostituire il capo, ho provato a protestare ma non ha voluto sentire ragioni.” “D’accordo, non preoccuparti. Il lavoro prima di tutto, ovviamente. Vai pure. Me la caverò.” “Verrà anche Simona” esclama con un filo di voce. Cristina spegne la luce e si gira dall’altra parte. Rimangono solo le piccole cifre luminose proiettate dalla sveglia sulla parete. Spegne anche quella. Ha bisogno del buio per nascondere le guance umide.
3
Il Frecciarossa parte all’inizio del binario 13 e Simona si sta avvicinando alla macchinetta per la timbratura, trascinando un trolley di pelle blu. Indossa abiti sportivi: jeans attillati dall’aspetto costoso, anche se sembrano logori e sdruciti dall’uso, un piumino blu corto in vita e degli stivaletti col tacco basso, una tenuta ideale per viaggiare. Perfettamente truccata e pettinata, appare rilassata e sorridente. Anzi, è decisamente euforica, mentre Lorenzo pronuncia solo monosillabi e sembra di pessimo umore. Questo divario tra i due stati d’animo si mantiene inalterato per tutto il viaggio: lei allegra e ciarliera, lui più interessato alla lettura de Il Sole 24 Ore. Il treno entra nella stazione Termini con mirabile puntualità. Hanno due camere prenotate all’hotel Vittoria, vicino a Piazza di Spagna e si godono la corsa in taxi, attraverso le vie ingarbugliate della capitale, sentendosi come in vacanza. La serata è stupenda, la città è meravigliosa, luminosa e opulenta, addobbata a festa per l’imminenza del Natale. Sono le cinque del pomeriggio, quel momento particolare e struggente di aggio dalla luce alle tenebre e il cielo romano sembra ammiccare alla coppia di amanti in trasferta, mentre si tinge di arancio. Lei gli sfiora il dorso della mano. La carezza scende fino a intrecciare le dita con le sue. Lo guarda. Gli occhi si incontrano e, con le dita unite nel caldo e morbido intreccio, si sorridono. Simona stringe forte la sua mano nella speranza di eternare questo momento idilliaco. L’albergo è lussuoso e le due camere, comunicanti, sono al terzo piano. Lorenzo dovrà ricordarsi di omettere questo particolare, casomai la moglie faccia domande sull’ubicazione delle stanze. Simona, invece, non si pone problemi. È felice. Per lei è scontato e naturale dormire insieme e gli chiede, sempre sorridendo, quale lato del letto preferisce. Intanto toglie dalla valigia alcuni oggetti per la toilette e li dispone in bagno. È spontanea ed esuberante come una bambina, saltella qua e là e non si cura di esternare la sua grande gioia. “Amore, non ci posso credere! Dormiremo insieme e domattina ti saluterò con un bacio. Questo, mi manca, svegliarmi di notte e sentire il calore del tuo corpo, ascoltare il tuo respiro e riaddormentarmi cullata dal suo ritmo. In fondo non
chiedo molto, no?” Lui l’attira a sé. Lei lo stringe, poi si stacca, fruga nella valigia e nasconde le mani dietro la schiena. Gli regala il sorriso più bello: il sorriso della donna innamorata. Gli chiede di chiudere gli occhi e di aprire le mani mettendole vicine. Lui esegue e sente posarsi sui palmi il peso di un pacchettino. Apre gli occhi e la ringrazia. Poi con delicatezza e curiosità toglie la carta dorata. Una stilografica Delta Tuareg in resina e argento, col pennino in oro, luccica fra le sue mani. Sulla fascetta del copri-pennino le loro iniziali si intrecciano. Lorenzo è un collezionista di stilografiche, le adora letteralmente, questa gli mancava. Si trova a pensare che non potrebbe trovare una donna più adorabile e adesso sa che per lei è deciso a lottare. Gli è tornato il buonumore ed è pronto a tuffarsi in quel soggiorno romano, come se fosse l’ultimo felice e spensierato di tutta la sua vita. La abbraccia teneramente. Lei si stacca dall’abbraccio, piena di contagiosa energia. “Dobbiamo assolutamente uscire a fare un po’ di shopping insieme, anche questo mi manca! Poi sarò a tua completa disposizione per il resto della serata. Prima, però, facciamoci una doccia, muoviti!” Si ritrovano abbracciati nelle strade affollate dell’animata e festosa città. Decidono di cenare nel ristorante dell’albergo, perché il giro di compere li ha stancati e frastornati. La sala è raffinata ed elegante, poco affollata. Simona ha infilato una camicetta di seta nera sopra i jeans e sfoggia delle scarpe molto sexy, nere, con un tacco altissimo. Ha appesantito un poco il trucco degli occhi, evidenziandone forma e colore, con una matita scura. Lorenzo la osserva compiaciuto e, una volta ancora, è folgorato dalla bellezza particolare del suo viso: gli zigomi alti, il naso dritto e sottile, le labbra piene. Ma a rendere quel volto un capolavoro sono gli occhi enormi, chiarissimi, irresistibili. Scelgono un menù a base di pesce e mangiano moderatamente. Parlano poco ma il silenzio tra loro non è greve, anzi è rilassante. Dopo le tensioni delle ultime settimane, adesso Lorenzo è finalmente a proprio agio. Milano, la moglie, il convegno, tutto è sfumato, distante. Fatica a delineare i contorni della sua vita familiare, perché in quel momento niente è più veramente reale. Ciò che, fino al giorno prima, era concreto e quotidiano, ora appartiene a un mondo lontano anni luce. Per un lungo istante si sente magnificamente: lieve e flebile, come se anche lui stesse per svanire.
“Grazie” le dice sognante. “Di cosa?” “Di amarmi.” Alza il calice, con movimento lento e solenne, e cerca disperatamente i suoi occhi. “A noi due, amore. Al nostro futuro.”
Cristina non trova la donna al solito angolo di Via Soperga. Si guarda in giro con apprensione e prova a chiamare Briciola ad alta voce, ma ottiene solo di far girare la testa ad alcuni anti incuriositi. Continua la sua perlustrazione nei pressi della stazione Centrale, dove la concentrazione dei barboni è piuttosto elevata. Nulla. Si sposta nelle vie adiacenti alla Stazione Garibaldi. È venerdì mattina e la frenesia convulsa della città sembra un pochino ridotta. La settimana sta scivolando verso il weekend e i ritmi rallentano. Non scorge nessuna sagoma che possa farle riconoscere la clochard. Torna indietro. Si ferma davanti al piccolo pub “La Torretta” e pensa a Lorenzo. Lo immagina con il calice di Pinot Bianco che si inclina verso il suo, mentre esclamano: “A noi.” Si stupisce di non provare la consueta fitta di dolore, segno che i farmaci antidepressivi cominciano a fare effetto. Ormai si è quasi convinta che il marito abbia una relazione con la sua segretaria. Non ha avuto bisogno di indagini o interrogatori mirati per arrivare a questa conclusione. È bastata la lungimiranza propria di una donna ferita. La sera prima, quando hanno parlato al telefono, le era parso teso e innaturale. Era sulle spine e aveva fretta di porre fine alla conversazione. “Sì, certo che sono in camera da solo” le aveva risposto con tono quasi seccato. Ma Cristina aveva avuto l’impressione che con lui ci fosse qualcuno. Mentre questa sensazione si rafforza e si mordicchia il labbro inferiore, urta contro un ante, che impreca e le urla di stare attenta. Il suo pensiero ritorna veloce alla donna con il cane, motivo per il quale si trova a perlustrare i marciapiedi. La sfiora l’idea di averla persa. Una supposizione che la disorienta. Vorrebbe avere più tempo da dedicare alle ricerche ma l’aspetta una mattinata densa di impegni: da Pino, suo parrucchiere da anni, per i colpi di sole e poi si
troverà con Martina per uno spuntino veloce, mentre Bruna avrebbe provveduto a ritirare Gianluca a scuola. L’amica le è stata molto vicina nelle ultime tre settimane, da quando ha iniziato a curarsi per la depressione, scrutandola e interrogandola spesso, per captare anche il minimo segno di miglioramento del suo stato di prostrazione psicologica. Pensa a lei con gratitudine e si sente in pace col mondo. Il cielo, indeciso, alterna momenti di grigio a brevi, luminose schiarite e la città, così mutevole sotto quella luce bizzarra, le appare di rara bellezza. Si sente serena, come non le accadeva da tempo e si abbandona a quel momento inatteso di benessere. L’urgenza di arrivare puntuale dal parrucchiere la spinge a imboccare uno stretto vicolo, che corre sul retro di un ristorante, ingombro di sacchi di spazzatura e scatoloni, dove lo squallore e la sporcizia stridono con l’accurato nitore delle vie più rinomate del centro. Ha il o veloce e rischia di inciampare in un fagotto abbandonato a terra. Riconosce immediatamente lo zaino della sua “amica di strada”, e si ritrova contro la gamba il nasino umido di Briciola. Il cuore palpita veloce, per la gioia di averle ritrovate. “Ciao, piccola,” l’accarezza “è tutta la mattina che vi cerco.” Si gira scrutando lo sguardo della donna per cogliere la sua espressione. Sta fissando il vuoto e Cristina non capisce se è contenta o irritata per averla incontrata. − Non scappare di nuovo − pensa, mentre i guaiti di Briciola la distolgono dalle sue emozioni e vengono interpretati come lamenti di fame. Si ricorda di non avere infilato le solite scatolette nella borsa. “Vado a comprare qualcosa da mangiare, Briciola, tranquilla.” E, rivolgendosi alla donna: “Torno subito, non scappate, non ho certo intenzione di farvi del male.” Pochi minuti dopo Cristina apre una scatoletta di cibo per cani e depone venti euro nel solito piattino sudicio. “Non so nemmeno io perché mi sono affezionata a voi ma mi siete mancate e avevo paura di non vedervi più. Siete diventate parte del mio mondo e in qualche modo della mia famiglia” confessa timidamente, sentendo le guance imporporarsi. Prova subito un senso di leggerezza e soddisfazione per avere
pronunciato in modo lieve ma serio, nello stesso tempo, quel piccolo discorso. Entra trafelata nel salone del parrucchiere, proprio nel momento in cui si sta svolgendo una discussione sui barboni che infestano la via. Pino è intenzionato a richiedere l’intervento della polizia. “Non è più tollerabile una cosa del genere! Se ne stanno via alcuni giorni, poi tornano più sporchi e invadenti di prima! Sono esasperato e dispiaciuto anche per le mie clienti.” “No, no, non chiami la polizia, la prego. Conosco alcuni di loro e le assicuro che sono persone del tutto innocue.” Cristina sfodera tutto il suo fervore per dissuaderlo. “La povera donna col cane è una mia vecchia conoscenza. La prego, lasci perdere.” Pino la osserva incredulo, trova quantomeno curioso che una signora come lei rivendichi simili conoscenze. Cristina esce dal salone trasformata: che miracolo possono produrre un colore nuovo e un taglio accurato! Si è fatta truccare lievemente il viso. Non sa perché ma è piena di energia positiva e sente il bisogno di piccoli cambiamenti. Dovrebbe essere addolorata per Lorenzo, invece quello che prova in quell’istante è molto vicino a un sentimento di felicità. La barbona si è spostata, è sul lato opposto dell’ingresso e sembra volere richiamare la sua attenzione. “La stavo aspettando. Mi chiamo Nathalie.” Poche parole, strette fra i denti ma, per lei, un enorme sforzo. Una mano pulita e curata, con una fede d’oro bianco e un piccolo diamante, ne stringe una ruvida, sporca e stanca. “Io sono Cristina. Sono felice di fare la sua conoscenza. Posso fare qualcosa per lei? Qualsiasi cosa, me lo chieda.” “Ha già fatto troppo per me” sussurra, guardando dolcemente la sua cagnetta. “Per noi, e io non ho la possibilità di ripagarla. Non posso che ringraziarla di cuore.” La voce è calda e leggermente roca, con una forte inflessione straniera che si può far risalire al sud della Francia. Un flashback affolla la mente di Cristina: i freschi effluvi di lavanda e il canto delle cicale la fanno sprofondare nel ricordo di lei e Lorenzo che, abbracciati sul sentiero che unisce Eze-Village con EzeBord-de Mer, ridono e parlano del loro futuro e, su quel magico sperone roccioso, si promettono amore eterno. All’ombra di una vecchia quercia inizia
un lungo bacio profumato di olivi, lentischio, euforbie. Sembrano, ormai, ati mille anni. È Briciola a dissipare le sue elucubrazioni, tossendo così forte da espellere dalla bocca un grumo di sangue e saliva. Cristina comincia ad agitarsi, intuendo la gravità del sintomo, mentre Nathalie rimane distaccata e sembra non rendersi conto dell’accaduto. “Può avere preso una bronchite. In questi giorni è stato piuttosto freddo. Lasci che la faccia curare.” “Non è niente” borbotta la padrona del cane, più che altro per convincere se stessa. “Briciola ha la pelle dura.” “No, insisto. La porto dal mio veterinario. Lei non si muova da qui. Farò in fretta.” E così dicendo, strappa quasi di mano alla donna il guinzaglio e si allontana. Fortunatamente quella mattina l’ambulatorio è poco affollato e il dottore la riceve quasi subito. Si stupisce di vedere Cristina con un cane che non sia Brook, sporco e magro, ma con un collare particolare che in ato doveva essere stato molto costoso, ne riconosce la raffinata pelle e le pietre incastonate. Cerca di indagare, mosso da una naturale curiosità. “Non sapevo che Brook avesse una sorellina. Quando l’ha presa? Ha già il microchip?” “In effetti, l’ho trovata da poco. Ci penseremo a microchipparla un’altra volta, oggi non sta bene.” “Non è possibile, signora Lenzi” insiste il veterinario. “Sa che è obbligatorio, ora lo mettiamo. Ho già i suoi dati per l’inserimento in anagrafe.” Dopo una visita accurata il veterinario pronuncia la diagnosi: “Ha una broncopolmonite. Dobbiamo metterla subito sotto antibiotico. La tenga al caldo e torni a controllo tra tre giorni.” In macchina Briciola si acciambella sul sedile posteriore e si addormenta al calore dell’abitacolo. Non pare troppo felice di lasciare quel tiepido giaciglio per scendere dall’auto. Nathalie non si è mossa dalla sua postazione e un lampo le illumina lo sguardo, quando vede arrivare la cagnolina scodinzolante. È ancora più bella, chiusa nei
suoi cenci, con quella particolare luce che le fa brillare gli occhi scuri. Tremendamente trasandata e incredibilmente bella. “Adesso vado in farmacia a comprare l’antibiotico” spiega Cristina in fretta, per non lasciarle il tempo di obiettare. Sta meditando di portare la cagnetta a casa con lei ma poi cambia idea, perché non è sicura di aver ottenuto la completa fiducia della stracciona. Chi si è scontrato con la durezza del mondo spesso è diffidente. − Comprerò un cappottino caldo e morbido e una casetta mobile ripiegabile in microfibra − pensa, e le sembra un’idea pratica. “Una cosa è risolta, poi penserò al resto” si ritrova a mormorare tra sé.
Cristina adora quei pomeriggi di shopping insieme alla sua amica del cuore, non tanto per la pura smania di dedicarsi alle compere vere e proprie, ma per il gusto di girare per i negozi, curiosando tra le novità e aggiornandosi sul capriccioso andamento della moda. Per consuetudine, almeno una volta al mese, si prendono una mezza giornata tutta per loro e si dedicano alla visita minuziosa dei negozi del centro. Hanno già ato al setaccio alcuni grandi magazzini e un paio di boutique di tendenza, e ora girano svagatamente, soddisfatte della loro giornata. “Quest’anno vorrei fare a Gianluca solo regali utili” dice Cristina, fermandosi ad ammirare un grosso colorificio, che espone in vetrina materiale d’ogni genere, per ogni genere di esigenza artistica. “Guarda quella valigetta in legno: lì dentro c’è ogni ben di Dio, entriamo!” Il negozio è enorme, diviso in vari reparti e le due donne curiosano un po’ in giro. Ci si può trovare di tutto, per ogni tipo di hobby. Martina è attratta dalla ceramica, con i piccoli vasi con l’oro e l’argento, conoscendo per esperienza personale quanto sia difficoltosa e minuziosa l’attività della decoratrice. L’angolo del découpage è invece il preferito di Cristina, perché le fa venire in
mente con una punta di malinconia che, mentre era incinta di suo figlio, ava le giornate a ricoprire ogni sorta di scatola e contenitore con tovagliolini raffiguranti orsetti di peluche. Le due donne si avvicinano al banco, che è momentaneamente sguarnito di commessa, e una delle due prende in mano un volantino che reclamizza un corso di pittura. “Ecco, Cristina, è proprio quello che fa per noi!” esordisce, andole l’opuscolo. “Guarda la foto dell’insegnante, non è bellissimo?” L’amica prende in mano a sua volta il pieghevole e legge ad alta voce: “Leo Orsini. Laboratorio di pittura e decorazione. Inizio corso mercoledì 18 novembre ore 21. Iscrizioni e lezioni Via Pergolesi, 27. Sai, per caso, dov’è questa via?” In quell’istante ricompare dietro il bancone la commessa, giusto in tempo per rispondere alla domanda di Cristina. “La via è proprio questa, poco più avanti. Uscendo dal negozio girate a destra finché vedete un edificio rosa che fa angolo.” Le due amiche si scambiano una scaltra occhiata d’intesa; hanno già preso la decisione, mentre la ragazza formosa dietro il banco continua imperterrita a snocciolare le sue indicazioni: “Al piano terra c’è la segreteria. Chiedete di Leo e ditegli che vi manda Rosanna…” Conclude la frase ma le due donne sono già sulla porta. Escono ridendo, facendo battute sull’avvenenza dell’insegnante e su chi, delle due, avrebbe dovuto accaparrarselo. Sull’onda del visibile entusiasmo, senza fermarsi troppo a riflettere, approdano in segreteria. Il maestro è fuori ma una signora estremamente loquace e cordiale dà loro tutte le informazioni e le aiuta con solerzia a compilare i moduli. Poi, nuovamente in strada, sfogano la loro ilarità, facendo il verso alla garrula segretaria e Martina commenta: “Ecco, adesso siamo iscritte. Ma ricordati che tu sei una donna sposata.”
Le due giornate del convegno sembrano a Lorenzo pesanti e interminabili. Si ritrova spesso distratto e fatica a trovare concentrazione e interesse, anche se i relatori sono tra i più preparati al mondo in materia di economia finanziaria e gli argomenti trattati sono il suo pane quotidiano. Ha promesso a Simona una cena romantica, per celebrare degnamente l’ultima sera di quella breve trasferta romana, scegliendo un rinomato e sfacciatamente caro ristorante giapponese che, dall’albergo, è raggiungibile a piedi. Lorenzo scende in strada per primo, spinto dalla necessità di telefonare alla moglie e dal bisogno di ritagliarsi un lembo di solitudine, al riparo dalle orecchie attente e dallo sguardo ammonitorio dell’amante. È vestito accuratamente, con giacca e cravatta e, con i capelli appena umidi di gel, ha un ottimo aspetto. In quei tre giorni è cambiato molto e sente di essersi affezionato e legato in modo prepotente alla donna che, fino a poco tempo prima, considerava poco più di un piacevole diversivo. E da lì, da quel punto fermo, non può e non vuole fare nessun o indietro. Nonostante l’affetto per la moglie sia tuttora forte, intuisce però che il rapporto con lei stia ineluttabilmente per modificarsi. Gli appare tutto talmente chiaro e trasparente, che chiunque avrebbe dovuto accorgersene. Lei per prima. Gira e rigira il cellulare nella mano, richiama più volte il suo numero sul display ma poi gli manca il coraggio di attivare la chiamata. Teme che la moglie gli legga nelle parole la verità e possa, anche solo facendo trasparire un velo di tristezza nel tono della voce, alterare l’equilibrio che lui ha appena conquistato a fatica. Ha il terrore di cadere di nuovo nel baratro altalenante dell’incertezza. Alla fine prende una decisione, quella più vile, di mandare un breve messaggio. “Tutto bene. Mi mancate. Ci vediamo domani.” Il ristorante è ultramoderno, arredato in uno stile minimalista espresso dagli enormi spazi e dalla prevalenza dei colori bianco e avorio. Al centro del salone quadrato una fontana, dalle forme pulite ed essenziali, domina la scena. Le poltroncine in pelle, le tovaglie, le stoviglie, tutto lascia trasparire gusto, raffinatezza ed eleganza. I tavoli sono grandi e, benché molti siano occupati, il locale appare semivuoto. Ma ciò che risulta più strano è la quasi totale assenza di rumore e di voci, come se tutti bisbigliassero, perché intimoriti dall’algida severità del luogo. In quel paradiso di candore l’unica nota di colore è data dagli
alimenti, piccoli capolavori cromatici di pezzetti di cibo, delle più fantasiose forme geometriche, disposti sugli enormi piatti quadrati, come colori su una tavolozza. Simona si guarda in giro estasiata. Il suo vestito rosso è come un’improvvisa fiammata vermiglia in un cielo bianco di neve. La scelta del menù è un momento di allegria, perché nessuno dei due ha la minima idea di cosa ordinare e, alla fine, decidono di affidare la scelta al caso, limitandosi a puntare il dito con gli occhi chiusi. “MAGURO, ADANANE, GYU TATAKI, MARUMAKI.” “Simo, ho l’impressione che ce ne andremo via di qui ancora affamati” le dice in tono tra scherzoso e allarmato. “A me basta guardarti. Posso anche digiunare” è la risposta divertita di lei. Si prendono in giro e tra loro c’è molta intimità. Ma poi lei gli prende la mano, al di sopra del tavolo, e assume un tono un po’ più serio. “Ecco, vedi, io vorrei… voglio che sia sempre così. Tra me e te intendo. Vivere insieme, uscire a cena. Cose assolutamente normali, ma a noi proibite. Chiedo troppo?” “No, certo che no. Lo desidero anch’io e, adesso, più che mai” la rassicura lui intrecciando la verità a un’affermazione non del tutto autentica. “E ti prometto che presto la nostra vita sarà così, ma…” Lei lo interrompe con un moto di stizza: “Lascia stare, ho già capito. Devo ancora aspettare. Ti prego, non usare più questo verbo, mi viene la nausea!” “Amore, ascolta, devi lasciarmi agire a modo mio…” E, mentre spiega, gli sembra assurdo e inutile che proprio quella sera debbano affrontare una discussione fatta mille altre volte. Le sue stesse parole gli risultano monotone e ripetitive. “Voglio che Cristina e Gianluca soffrano il meno possibile.” Lei comincia ad alterarsi e alza il tono della voce, ma subito si accorge di attirare l’attenzione degli altri commensali e ritorna a parlare a volume basso. “Vedi… vedi che, se lascio fare a te, non deciderai mai niente? Cosa ti impedisce di venire a stare da me domani stesso? Metti due cose in valigia e vieni via da casa tua. Meglio un taglio netto che una lunga, dolorosa agonia.” “Stai correndo. Rallenta, rifletti. Questo non te l’ho mai promesso. Fosse solo
per Cristina… ma ho delle responsabilità verso mio figlio.” Ormai Simona è adirata e la serata irrimediabilmente guastata. Con lo sguardo di sfida e i lineamenti contratti, si sporge in avanti, scandisce lentamente le parole e la voce è poco più di un bisbiglio: “Bene, adesso sai che presto ne dovrai avere anche nei confronti del nostro bambino.”
4
Le ruote del Frecciarossa stridono sul binario 13 e Cristina stringe più forte la mano di suo figlio. “Sta arrivando papà.” Il bimbo si riscuote dal torpore e si guarda in giro con insolito interesse. I treni gli sono sempre piaciuti. Le dita delle manine si muovono velocemente nell’aria, come se tamburellassero su una superficie immaginaria. Le porte si aprono e dal ventre di metallo del convoglio scivolano fuori i primi, frettolosi eggeri. Ognuno diretto verso uno spicchio di mondo, ognuno con una giornata da raccontare, ognuno con una storia da vivere. Cristina allunga il collo per individuare la sagoma familiare del marito tra la folla. È impaziente e turbata, quasi si trattasse di un primo appuntamento e non sapesse cosa aspettarsi esattamente. Poi lo vede, è solo. Agita la mano con grazia, lui accenna un sorriso. Ha il volto stanco e, sul mento, tracce di una barba rasata troppo frettolosamente. Si abbracciano d’istinto e Lorenzo prende subito in braccio il bambino, per descrivergli il treno sul quale ha viaggiato. Gianluca gli cinge il collo con un tenero abbraccio e appoggia il suo piccolo capo nell’incavo della spalla. Il calore di quel gesto gli si irradia in tutto il corpo e vorrebbe restare così per molto, molto tempo. Intanto Cristina si guarda indietro con inquietudine, mentre domande che non osa formulare le affollano la mente. Quando sono ormai lontani dal binario e stanno per raggiungere l’uscita, si gira l’ultima volta, pressata dalla curiosità, giusto in tempo per scorgere Simona che trascina un trolley blu, il capo chino, il o lento. Intuisce che qualcosa di oscuro e sgradevole è accaduto tra il marito e la segretaria e ne è quasi rallegrata. − Non si sono nemmeno salutati − pensa con una punta di soddisfazione, vergognandosi subito dopo. Fuori dalla stazione sosta un gruppetto di senzatetto e il pensiero di Cristina va a Nathalie, la sua povera, cara amica. Ha voglia di conoscere la sua storia ma la sconfortante diffidenza che porta appresso la rende cauta. Si sente simile: fragile e apionata, decisa e tormentata. Rinchiuse
nelle insicurezze e nelle insidie che la vita propone riescono però ad avere lo sguardo pulito, e a diffondere garbo ed eleganza, tipiche di una sensibilità innata, sia nella povertà, sia nella ricchezza. Ma mentre Nathalie cammina da sola, anche se lentamente, nonostante abbia scelto la strada, Cristina senza Lorenzo si sente persa. Si accontenta di attingere da quel rapporto ancora così fragile e particolare, che sta instaurandosi con la donna, l’energia e la forza necessarie per affrontare la vita in modo maturo, per imparare, qualora fosse necessario, a stare in piedi da sola. Come lei. Come Nathalie. Il pomeriggio è gelido, un sole di gesso bianco e opaco sbuca da un cielo lattiginoso e non riesce a riscaldare la città. È un momento in cui tutto è sospeso e anche le domande che attendono un’urgente risposta non le sembrano più così importanti e impellenti. Prende il marito sottobraccio e quel gesto, un tempo consueto, la rassicura. Dalla sera precedente, dopo che Simona si è allontanata dal ristorante, lasciandolo solo e scioccato, Lorenzo vive in uno stato di trance. Respira, si muove, parla e agisce in modo apparentemente naturale, ma non è lui a farlo. In realtà tutto il suo essere è sprofondato in un baratro di dolore e sgomento e solo un residuo di ragione gli urla di resistere, lottare, sforzarsi di continuare a vivere normalmente. Come se, negando l’accaduto, la sgradita realtà si svuotasse di concretezza e rimanesse relegata in un angolo oscuro della sua mente. La casa è piena di allegria e calore. Gli addobbi natalizi sono ultimati e Cristina attende che il marito si sia guardato intorno per raccogliere la sua approvazione. Brook sembra impazzita di gioia per il ritorno del suo padrone, salta da un divano all’altro e gira su se stessa in maniera buffa. La tavola è apparecchiata come per un’occasione particolare. Le poche frasi che si scambiano i due coniugi vengono pronunciate in tono leggero e lasciate svanire nell’atmosfera intima e rassicurante della loro dimora. La conversazione vera, quella seria, sembra continuamente rimandata. Poi Cristina si scuote dal torpore, recupera la forza che le serve per pronunciare quelle scarne parole che arrivano con tutto il loro peso dentro l’animo del marito. “Allora, come è andata a Roma?” “Mi sono stancato. Il convegno era estremamente pesante. Poi, durante la cena con i colleghi, si parlava ancora di lavoro. Sembra che il lavoro sia al centro del mondo ed è per questo motivo che sono contento di essere qui. Sai, cara, sei stata bravissima con gli addobbi di Natale. La casa è stupenda!” Sembra sulle spine, ha fretta di cambiare discorso. “Come è stato Gianluca? Si è comportato ancora
in modo strano?” Quello del bambino è un argomento neutro e non si rischia di finire su terreni pericolosi e scivolosi. “No, è tranquillo. Ma penso che dovremmo portarlo da uno psicologo. Sabato pomeriggio ho invitato a casa Marco, il suo compagno di scuola, che praticamente ha giocato da solo tutto il tempo mentre Gianluca se ne stava seduto sul letto a sfogliare il libro dei velieri. Poi, la sera, mi ha confessato che lui preferisce stare da solo.” “Non preoccuparti,” la rincuora lui “anche a me piaceva stare da solo. È un bambino molto intelligente e con una memoria sorprendente…” “Sì, a volte è proprio la sua memoria a turbarmi.” “Guardala così, dovrà studiare meno e potrà divertirsi di più. Non devi preoccuparti. Per me è geniale e, come tutti i geni, è un po’ strano. Sai pensavo… potremmo iscriverlo a uno sport di squadra, per rendergli la socializzazione con i compagni più semplice, spontanea. Magari basket, adora il canestro, ricordi che quell’estate al mare ava ore cercando di buttarci dentro la palla?” Parole di un padre premuroso, attento, che mascherano l’individuo vile e prostrato che sa di essere diventato. Dal pozzo nero della sua mente affiorano scene e immagini della sera precedente. Simona che si allontana dal ristorante troppo in fretta, facendo cadere la sedia. Lui che gira per la città come un automa, perdendo la cognizione del tempo. La lite furibonda in camera… quando balbetta, con un nodo in gola e la voce rotta, che quel bambino lui non lo vuole. Il pianto isterico e le parole, affilate come lame, di lei, fino a quelle irripetibili minacce. E poi, calata come un sipario di dolore, un’interminabile notte di silenzio e impotenza. “La cena è pronta, venite.” La tavola è apparecchiata con grande attenzione. La tovaglia con le stelle di Natale sembra nuova, Lorenzo non ricorda di averla mai vista e si stupisce di riscontrare dettagli così frivoli. Il servizio, quello delle grandi occasioni, poggia sui sottopiatti dorati. I doppi bicchieri di cristallo, i tovaglioli piegati a ventaglio, tutto evidenzia la cura e l’affetto che la padrona di casa riserva alla sua famiglia. Cristina è indaffarata negli ultimi preparativi. Scola la pasta e affetta il pane e si concentra eccessivamente su quei semplici gesti quotidiani. In realtà cerca di
tenere a bada la violenta scossa emotiva che l’ha travolta poco prima. Mentre disfaceva la valigia del marito, sistemando gli oggetti nell’armadio e separando gli indumenti da lavare, ha trovato confinata in fondo a una tasca una penna stilografica con le iniziali “LS” incise sul pennino d’oro. Lorenzo-Simona. Simona-Lorenzo. Quel binomio le si è stampato nella mente a caratteri di fuoco e, per la prima volta, si è confrontata con la parola “tradimento.” E non è stato come ipotizzarlo nella sua fantasia o come quando, confidandosi con Martina, ne avevano discusso e ci avevano persino scherzato sopra. Adesso capisce che non ha più vie di scampo e che non può continuare a negare la realtà. Guarda la sua bella tavola imbandita, il cibo invitante che ha cucinato, la cena allestita con tanto amore. Ha voglia di piangere, di distruggere tutto, perché intuisce che lui sta trascinando la sua famiglia nel turbinio dell’infedeltà, delle bugie, dei tradimenti. Ma si ferma, lo guarda pensando: − Una sera ancora, e poi affronterò quel che sarà. Non voglio rovinare questa giornata. Deciderò io quando sarà il momento, quando sarò pronta. – Di notte, quando si è soli con i propri spettri e le proprie angosce, i sensi di colpa e i rimorsi prendono forma. Quando tutto si offusca nell’oscurità, lasciando spazio solo alle ombre, l’animo rielabora con sorprendente lucidità l’entità degli errori e delle bugie. Di notte non ci sono le azioni a filtrare i pensieri più terribili. Di notte tutto è agghiacciante in modo reale. Lorenzo si sveglia di soprassalto da quello che gli sembra un lungo, tormentato sonno ma che, in realtà, è durato solo pochi minuti. È sudato, il cuore martella con furia nel petto e nella gola, l’aria fatica a circolare. Si alza dal letto con molta cautela, portandosi appresso gli spettri di tutti i suoi errori e scende sconcertato in cucina per bere dell’acqua fresca. Riesce solo a ingerire un piccolo sorso e subito una forte nausea lo assale. Si immagina, in un attimo di déjà-vu, mentre tiene in braccio un bambino e intanto Gianluca lo fissa, strilla e lo rifiuta. Simona sta preparando il biberon e Cristina sistema la spesa in una confortevole casa di campagna. I volti delle due donne si sovrappongono e si confondono, fondendosi e dividendosi per poi offuscarsi dietro il pianto nervoso dei bimbi. Allora strizza gli occhi come per scacciare un brutto sogno ma si trova maledettamente sveglio, appoggiato al frigorifero. L’attacco d’ansia non è ato, suda e trema. Cerca di bere ancora un sorso ma, mentre versa l’acqua nel bicchiere, la brocca di cristallo cade sul pavimento. Osserva incredulo, in uno stato di impotenza, i frantumi di vetro sparsi attorno ai suoi piedi nudi e lentamente il respiro ritorna normale, così come il battito cardiaco.
Cristina, svegliata dal tonfo, gli sta di fronte. “Non stai bene?” chiede allarmata. “Avevo sete” balbetta lui. Poi si lascia cadere sulla sedia, piega il capo e lo prende tra le mani. “Lorenzo, cosa c’è che non va?” “Credo di avere avuto un attacco d’ansia.” Lascia cadere le braccia lungo i fianchi, in un gesto di grande spossatezza. “Ti prego, dimmi tutto quello che devi spiegarmi. Forse è arrivato il momento di chiarire le cose.” Scosta una sedia dal tavolo e si siede di fronte a lui. “Sono stressato per il lavoro. È un periodo molto faticoso.” La voce trema, e il pomo d’Adamo va su e giù in modo convulso. “Lorenzo, c’è qualcos’altro? Non neghiamoci più dentro la bolla del silenzio. Ti supplico, parliamo.” Lo sollecita prendendogli le mani che lui ha chiuso in un gesto di preghiera, accarezza le nocche e poi le stringe con calore. Guarda quel viso tanto amato, ora mortalmente pallido e sconvolto e ciò che prova non è risentimento e tantomeno odio, ma una totale, sconfinata comione. Sente le lacrime affiorare ma le ricaccia in gola, non vuole scoppiare a piangere. È arrivato il momento di formulare la domanda che le rimbalza in testa da giorni ed è pronta a sopportare la verità, qualsiasi essa sia. È calma e forte e sa che non farà scenate, non griderà. Le lacrime, quando verranno, scorreranno lente dentro e solo lei deciderà se annegare e star male o lasciarle tracimare leggere per lavare via la rabbia e la gelosia e ricominciare a guarire. Cerca un tono neutro e una voce gentile mentre gli chiede: “Mi hai tradito con Simona?” Lui la guarda con gli occhi imploranti, come se la pregasse di porre fine a quel supplizio. Si prende nuovamente la testa fra le mani e, quando parla, la voce sembra sgorgare dalla profondità di un abisso. “Sì ma adesso è tutto finito.” Piano piano si rianima e comincia a parlare a raffica, quasi volesse stipare un’intera vita in poche frasi. Le parole gli bruciano in gola ma ormai il flusso verbale non ha più argini. Mentre si confida con la moglie, sente che l’enorme macigno che gli opprimeva il petto sta diventando più lieve, fino a scomparire del tutto. Scopre che è facile e liberatorio aprirsi con qualcuno che gli vuole bene
e rimpiange di non averlo fatto prima. È pieno di gratitudine per quella donna comprensiva, amichevole e meravigliosa, ed è sincero e disperato quando le dice: “Perdonami, ho bisogno di voi. Se mi lasci anche tu non ce la posso fare…” “Ne parleremo domani, ho bisogno di riflettere” sussurra lei. “Adesso vieni, torniamo a letto. È molto tardi.”
Mercoledì sera, alle otto e trenta, Cristina è puntuale sotto casa dell’amica. Colori, pennelli e tavolozze le attendono nell’atelier di Leo. Martina ha dovuto insistere molto per convincerla ad accompagnarla al corso perché, dopo gli ultimi avvenimenti, non le sembrava più una buona idea. Ma poi anche Lorenzo era intervenuto, asserendo che, secondo lui, era una buona occasione per Cristina di rilassarsi e, alla fine, si era persuasa. La sera dell’iscrizione, sull’onda dell’entusiasmo, aveva provato a scarabocchiare su una vecchia agenda il profilo di Nathalie e si era accorta con compiacimento che le sue mani riuscivano ancora a tratteggiare linee sicure con la matita. Lo studio è al pianterreno di un massiccio edificio d’epoca e consiste in un grande locale, con un pavimento a scacchi bianchi e neri e altissimi, decorati soffitti. L’illuminazione è molto curata e il salone sembra quasi riflettere di luce solare. Sparsi qua e là ci sono tavoli pieghevoli, cavalletti, tele intonse e alcune già dipinte. Nell’aria si avverte un forte odore di trementina. Intorno a un grande tavolo ovale, circa dieci persone, sedute, sollevano lo sguardo sulle due nuove arrivate, facendole sentire le solite ritardatarie, mentre una figura si sposta verso di loro, con la mano tesa. “Benvenute al mio corso, ragazze! Sono Leo Orsini, il vostro insegnante.” L’immagine del volantino prende vita e appare ancora più bella in carne e ossa. Basterebbe il meraviglioso sorriso a rendere quell’uomo, di circa quarant’anni, irresistibile ma in più ci sono un viso dai lineamenti delicati, gli occhi nerissimi e una folta e corta capigliatura corvina scolpita dal gel. Disinvolto ed elegantissimo, veste in modo molto ricercato, con una giacca di
velluto liscio color melanzana e un paio di pantaloni neri attillati. La voce è bassa e flautata. “Accomodatevi dove volete, così possiamo cominciare.” Le due amiche non trovano posto vicine, perché le sedie sono già quasi tutte occupate ma sono costantemente in contatto con lo sguardo, scambiandosi sorrisini complici e occhiate eloquenti. La lezione comincia e Leo si rivela un insegnante interessante e spiritoso e un oratore accattivante e tutti i partecipanti seguono con molta attenzione le sue parole. Esordisce spiegando la linea di chiaroscuro, per la raffigurazione di un oggetto. Cristina non si perde una parola e annota diligentemente le nozioni sulla sua agenda. Comincia a familiarizzare con la lieve inflessione del maestro, il quale, quando intende intensificare l’attenzione, è solito modulare la voce su una tonalità alta e piegarla gradualmente, allungando le vocali. A ogni cambio di inflessione la sua allieva preferita si ritrova a sussultare, evidenziando fragilità e timidezza. Leo scruta attentamente tutti gli allievi e non gli sfugge il riserbo di Cristina e quell’aria di vago disagio dipinta sul volto. Lei è concentratissima a seguire la lezione e questo le evita di riportare la mente alla dolorosa vicenda coniugale, che ogni tanto riaffiora, facendole provare una penosa fitta al petto. Terminata la teoria, gli allievi devono mettere in pratica gli insegnamenti del maestro. Al centro del tavolo è stato posizionato un cesto di frutta, che ciascuno deve provare a riprodurre, avendo a disposizione un foglio bianco e cinque matite. Martina ride e scherza, prendendo tutto in modo lieve e giocoso; l’amica invece è tesa, vorrebbe che il suo foglio bianco diventasse la fotocopia della composizione al centro del tavolo. Se ne sta con gli occhi fissi sulla mela, calcolandone le misure, la profondità, la sfericità, la lunghezza del picciolo e la dimensione della piccola foglia. La fronte corrugata testimonia la massima concentrazione. Si sente osservata da Leo, mentre inizia a tratteggiare con la matita il contorno del cesto e delle mele, poi riporta lo sguardo sulle arance, valutando la loro perfetta rotondità. All’improvviso si sente stringere il polso con fermezza. Solleva lo sguardo e le sue iridi si specchiano in quelle nere del maestro. L’emozione le colora di rosso le guance.
L’insegnante le posa con destrezza la mano sul foglio e, insieme, tratteggiano la prima arancia del cesto. Cristina ammira le sue stupende mani, curatissime, quasi femminili, e nota che porta al polso sinistro diversi braccialetti di cuoio e perline. Avverte, dal suo tocco, il fluire di un’energia positiva. “Ottimo inizio” le dice convinto. “Ora continua da sola.” a da tutti consigliando, correggendo e lei rimane un po’ delusa da quel privilegio riservato anche ad altri. Sente ancora sulla pelle il tocco della mano di lui, calda e sicura. Una mano che le è sembrata buona, sincera. Una mano amica. Osserva soddisfatta il suo disegno che, pur non essendo la fotocopia del cesto originale, le pare proporzionato e armonico. Deve cominciare con il chiaroscuro per dare profondità, delineare le ombre e dar vita alla luce. Riguarda gli appunti e poi a la matita sull’intreccio del cestino. Leo intanto ha fatto partire una musica in sottofondo: un brano che lei conosce, un quartetto per archi di cui non ricorda il compositore. Disegnare, ascoltare quelle splendide note e concentrarsi sulle ombre regalano un momento di pura magia e adesso è grata all’amica per averla portata in quel luogo di delizie. “Io devo sempre darti retta” si rivolge a Martina. “Sembra che tu sappia sempre esattamente ciò di cui ho bisogno.” Poi aggiunge, con affetto: “Però il mio disegno è sicuramente migliore del tuo…” Terminata la lezione, Leo ritira i fogli e saluta soddisfatto la sua classe. “Ci vediamo mercoledì. Grazie e buonanotte a tutti.” Mentre tornano a casa, in auto, le due amiche si scambiano impressioni e commenti, ridono e scherzano, sono rilassate e spensierate. La prima lezione è stata un vero successo. Cristina si accorge che, come quelle del viso, anche le rughe che ha sul cuore, si sono un po’ distese.
5
Seduta al tavolo della cucina, la donna sorseggia un caffè e pensa al figlio. L’ha appena accompagnato a scuola e l’idea di averlo abbandonato in un’aula, con persone estranee alla famiglia, la rende inquieta. Cerca di rilassarsi pensando che il bambino, durante le vacanze di Natale, è parso più tranquillo e normale del solito e quindi è solamente lo stress per l’inizio della nuova esperienza scolastica a causare gli strani e preoccupanti atteggiamenti degli ultimi periodi. Beve un altro sorso di caffè, mentre lo sguardo si posa su un disegno incollato al frigorifero. Riproduce un coloratissimo ed elaborato veliero che Gianluca aveva realizzato i primi giorni di scuola. Prova un moto di affetto per il figlio e si chiede da chi possa aver ereditato la ioni per quelle enormi imbarcazioni. L’illustrazione sembra, alla madre orgogliosa, una prova di grande abilità, soprattutto per un bimbo di sei anni. Spera di aver trasmesso al figlio, insieme all’intero patrimonio genetico, anche la sua ione per la pittura. A lei, infatti, è sempre piaciuto moltissimo disegnare, anche se riconosce di non essere altrettanto talentuosa. A lei riescono bene i paesaggi e i ritratti, i volti in particolare. Si ricorda che, quando andava alle scuole medie, le piaceva tracciare gli schizzi dei visi degli insegnanti, durante le lezioni. Il padre l’aveva incoraggiata spesso a seguire un corso di pittura, per apprendere le varie tecniche ma non aveva mai voluto impegnarsi seriamente. E adesso, quasi, se ne pente. Quella mattina Cristina si è svegliata con una strana sensazione. Qualcosa le impediva di percepire i suoni in modo reale come se, durante la notte, le sue orecchie fossero state ostruite con dell’ovatta. La strada era stranamente silenziosa e, i pochi rumori che rimbalzavano all’interno della casa, sembravano provenire da molto lontano. Quando è scesa in cucina incuriosita e allarmata, con un’occhiata fuori dalla finestra ha intercettato un lembo di cielo vagamente ambrato e una città completamente ricoperta di neve. Sui tetti delle case e sugli alberi lo spessore del candido manto era ben visibile e quella luce opalescente bagnava di sé ogni cosa. Avrebbe preferito che fosse arrivata per Natale, la neve. Ora le sembra fuori tempo, sprecata, beffarda e non le diffonde sensazioni positive. Ormai Natale è ato e con esso tutte quelle giornate dal sapore pigro.
Un periodo strano e altalenante, con istanti di tiepida e confortante familiarità e momenti di struggente malinconia, delusione, rabbia e pesanti silenzi che l’hanno travolta come grosse, enormi onde che arrivano da lontano, sbattendola alla deriva. Assapora un altro sorso di caffè e ricordi, ormai sepolti, affiorano inaspettatamente, come se la mente avesse aperto un file e, su uno schermo immaginario, fossero comparsi fotogrammi di tutti i Natali precedenti. Quelli con Gianluca e Lorenzo, i più recenti. Senza Gianluca, perché non ancora nato. E prima, senza Lorenzo. Ancora indietro e indietro nel tempo, fino ai ricordi sbiaditi di quando era bambina e sentiva nell’aria il profumo di cioccolata calda e percepiva la magia dei doni e delle luci. E poi quest’ultimo Natale, il peggiore della sua vita. Lorenzo aveva preso alcuni giorni di ferie e non si era quasi mai mosso da casa. Il suo disagio era tangibile e cresceva di giorno in giorno. Avevano parlato poco, cercando di non ferirsi. Cristina calma e comprensiva come sempre, aveva osservato il marito chiudersi dolorosamente in se stesso e, con la sua innata discrezione, aveva rispettato il desiderio di non comunicare. Lui, in quell’ultima notte di chiarimenti e spiegazioni, le aveva giurato che la relazione con Simona era stata breve e senza importanza, poco più di un attimo di debolezza e che era finita, per volontà di entrambi. Lei gli aveva creduto e, da quel momento in poi, aveva deciso di perdonarlo e ricucire lo strappo che comprometteva il loro matrimonio. Certo non è stato facile apprendere del tradimento. Dapprincipio il dolore e la delusione non sono esplosi con la veemenza che si sarebbe aspettata. Lo sgomento nell’accogliere la confessione del marito le aveva inflitto una notte insonne, trascorsa a cercare di dare il giusto peso e significato alla nuova realtà che le si era appena palesata. Le parole di Lorenzo le rimbalzavano in testa falsamente leggere e lei le soppesava una a una, cercando nel contempo di minimizzarle e giustificarle. Ma, con le prime luci dell’alba, quando la città si stava pigramente svegliando e i primi rumori prendevano vita nelle strade ancora assonnate, anche nel suo animo qualcosa si era destato e cominciava a far rumore. La gelosia l’aveva travolta, come una marea lenta e oscura, e aveva fatto riaffiorare e deflagrare tutto il suo amore, in modo così intenso da toglierle il fiato. Proprio quell’amore non avrebbe permesso che un sentimento così poco nobile avvelenasse la sua mente e fe emergere gli aspetti più sgradevoli e nascosti del suo essere.
Il mondo andava avanti ignaro della sua sventura e allora anche lei avrebbe finto di ignorarla. Sarebbe rimasta se stessa e con dolcezza, comprensione e altruismo, avrebbe ristabilito l’equilibrio e la stabilità nel rapporto che tanto le stava a cuore. E tutto sarebbe tornato come prima. Agli occhi degli estranei, infatti, nulla era cambiato nel loro modo di stare insieme e persino gli amici, che avevano condiviso con loro alcuni momenti di festa, potevano assicurare di aver cenato con una coppia felice e affiatata. La vigilia di Natale i due genitori, insieme, avevano raccolto sotto l’albero i doni per Gianluca, ritrovando per un lungo istante il sapore di intimità e complicità di un tempo e si erano abbracciati. La mattina dopo il bambino aveva lacerato con frenesia gli involucri di carta che ricoprivano i regali e poi si era afflosciato, incapace di gioire e giocare.
In un’altra cucina, una donna molto diversa siede al tavolo, sfogliando distrattamente una rivista. Non si sente bene ed è restata a casa dall’ufficio. Spossatezza e nausea la costringono a sdraiarsi spesso ed è irritata al pensiero del lungo periodo di gravidanza che l’aspetta. È amareggiata, furiosa col mondo intero e la sua mente elabora solo pensieri ostili. Fin dal suo rientro da Roma ha troncato ogni rapporto con Lorenzo, prendendosi un breve periodo di ferie per non essere costretta a doverlo frequentare sul lavoro. Evita di rispondere al telefono e si è perfino rifiutata di aprirgli il portone quando, un pomeriggio, lui si è presentato, sconvolto, sotto casa e si è attaccato al citofono. Del resto era stata molto chiara quando gli aveva soffiato in faccia le sue condizioni: “Non farti più vedere! O accetti me e il bambino e tronchi il tuo matrimonio immediatamente, o sarà peggio per te! Io non ho nessuna intenzione di vivere nell’ombra, di nascondermi, di imboscare nostro figlio. Voglio vivere alla luce del sole. Non sono stata l’amante di alcune brevi serate e non lascerò che mio figlio cresca chiamandoti zio o non conoscendoti affatto. Se prima ero disposta ad accettare questi compromessi, ora per mio figlio non intendo più sottostare a squallidi sotterfugi. Io soffrirò a testa alta ma non credere che tu ne uscirai incolume, come se nulla fosse successo, come se non ci fossimo mai amati. Non oso pensare che saresti capace di vivere felice con la tua famiglia sapendo che tuo figlio, poco distante da te, sta respirando, crescendo, sorridendo, piangendo. Se sei così meschino, non voglio vederti mai più!”
Ora, oltre al piccolo feto, culla in seno propositi di vendetta ed elabora un piano per riprendersi, a tutti costi, il “suo” uomo. L’uomo, che nonostante tutto, ama. Perché Lorenzo appartiene a lei sola, e non intende dividerlo con nessun’altra al mondo. Lo ama in modo morboso. È diventata quasi paranoica ma la sua prerogativa è proprio quella di inseguire gli obiettivi con una determinazione ossessiva, non sempre agendo lealmente, più spesso conducendo il gioco in modo subdolo e scorretto. Proprio come si propone di fare ora con Cristina che, nella sua mente turbata, viene considerata il vero ostacolo per il raggiungimento del suo scopo. Cerca il numero di telefono di casa di Lorenzo, che una volta aveva annotato su un’agendina, e osserva come ipnotizzata quelle sei cifre tracciate frettolosamente con la penna blu. Una Mont Blanc che il padre le aveva regalato per la laurea, con la quale aveva anche scritto parole intense e cariche d’amore. E, in un momento di gioia, aveva riportato nella piccola rubrica quel numero di telefono, che rappresentava la casa del suo amato, che lo univa a lui e che poteva utilizzare in caso di bisogno. Rigira in mano il piccolo taccuino a lungo, prima di afferrare il telefono e cominciare a digitare il numero. Poi si decide e lo fa, con molta lentezza, come se la tastiera le paralizzasse le dita. Uno squillo. Niente. Migliaia di frasi le affollano la mente, mentre ne cerca una a effetto per esordire. Secondo squillo. Già le sembra di udire la voce interrogativa di Cristina. Terzo, quarto, quinto… Sente delle mani fredde sulla schiena e un brivido le scuote il corpo. Le parole affiorate alle labbra si tramutano in una scurrile imprecazione. Getta il cordless sul letto con un gesto di rabbia ed esclama ad alta voce: “Non finisce qui!” Si butta sul letto e si immagina Cristina abbracciata a Lorenzo mentre eggiano per le vie della città. Sorridono. Sono belli e sereni. La rabbia diventa insopportabile, l’invidia si somma al rancore, alla gelosia e un odioso sentimento di rivalità la invade.
La casa è tranquilla e Cristina si gode il privilegio di quella pace, la solitudine le è amica. Ha lasciato la mattinata libera a Bruna, che ha appuntamento dal dentista. Senza di lei, che riordina e pulisce la casa da tanti anni e si occupa di
ogni cosa, si sente un po’ spaesata ma ha deciso di disfare l’albero di Natale proprio quella mattina e lo farà da sola. Non vede l’ora di rimuovere tutti gli addobbi e i festoni, che ora le sembrano eccessivi e ridondanti. Prima la casa riprenderà l’aspetto sobrio e normale, prima lei si lascerà alle spalle quel brutto periodo, quel Natale orribile che le ha portato un regalo di amara verità, incartato con un velo di dispiacere. Comincia a togliere dall’albero le palle di vetro dorato, riponendole in una vecchia scatola di cartone, avendo prima cura di avvolgerle, una a una, in carta di giornale. L’albero si smonta e si richiude, diventando un cilindro triste e informe e farlo entrare nell’apposito involucro è un’operazione non propriamente semplice. Poi, aiutandosi con una scala, stacca dal muro i festoni argentati. Solo, ogni tanto, si avvicina alla finestra per controllare il cielo, che le ha sempre dato quella rassicurante sensazione di pace, come da bambina, quando alzava il viso verso l’alto e le sembrava che l’infinito risucchiasse tutte le sue preoccupazioni. Il solaio è un posto dove non entra volentieri, perché constatare quanto materiale inutile si accumuli nell’arco di una vita le mette inquietudine. Guardandosi in giro, infatti, nota oggetti polverosi che avrebbe dovuto gettare via da molto tempo. Gli sci di quand’era bambina, il baule con le vecchie Barbie, la culla di Gianluca in vimini, ricoperta da un grazioso tessuto in Pizzo San Gallo. La accarezza ricordando il primo vagito, la prima poppata, il primo versetto. Anche adesso come allora, gli fa una promessa. “Non ti farò soffrire, piccolo mio. Porterò io la sofferenza sulle spalle, ma tu devi crescere felice. Ce la farò” sussurra. Posa gli scatoloni su uno scaffale basso e, per creare un po’ di spazio, sposta un oggetto avvolto in carta di giornale. Riconosce, quasi con commozione, la stalla del presepio che il figlioletto aveva costruito all’asilo, ecco dov’era finita! Ripensa all’espressione orgogliosa con cui il bimbo gliel’aveva mostrata, due anni prima. Rimuove la carta stampata per osservare meglio l’oggetto e lo sguardo si posa sul titolo di un articolo, in verità un brandello di articolo, perché il foglio è incompleto, che riporta: “Scompare dall’ospedale dopo la tragedia.” Un pezzo di fotografia ritrae parte delle gambe di una donna e un cagnolino accovacciato ai suoi piedi. Si lascia scivolare a terra per l’emozione e il cuore comincia a martellare all’impazzata. Si porta una mano alla bocca, cercando di dare un significato a quello che ha appena visto. La mente cerca di elaborare velocemente i pochi elementi appena recepiti ma è in totale confusione.
L’unica certezza è che la somiglianza con la bestiola e il collare in pelle fucsia, così particolare, con quei fiorellini argentati che hanno per corolla un brillantino, non lasciano dubbi. È Briciola. Le gambe appartengono a una donna elegante e lo si evince dai pantaloni di seta e dalle scarpe di pregiata fattura. Possibile che si tratti proprio della barbona? Quale segreto nasconde Nathalie? Il primo impulso è quello di chiamare Martina e metterla al corrente della scoperta ma poi un senso d’urgenza l’assale e la spinge ad agire diversamente. Infila in fretta un paio di scarponcini con il pelo all’interno, un caldo piumino col cappuccio, prepara Brook per l’uscita con un cappottino di lana scozzese e, mentre sta per chiudere il portoncino d’ingresso, sente squillare il telefono all’interno della casa. L’impazienza di correre da Nathalie è più forte della curiosità e non la fa tornare indietro. Mentre scende le scale celermente pensa: − Non sarà una telefonata importante, per le cose urgenti mi chiamano tutti sul cellulare. −
− Tutti dovrebbero avere il conforto di una casa, anche se piccola, sgangherata e umile. La casa racchiude i sogni, custodisce i segreti. Riscalda e protegge. − Così pensando Cristina cammina a o veloce, cercando di mantenere l’equilibrio sul marciapiede scivoloso. La città è coperta da una coltre di silenzio e l’odore buono e inconfondibile della neve ha purificato l’atmosfera. Inspirare quell’aria fresca e pulita dà un senso di benessere. Brook si confronta per la prima volta con la neve, vi sprofonda il musetto in cerca di odori nascosti e non sembra affatto disturbata dal contatto gelido con quella polvere bianca. Cristina spera che Nathalie la stia aspettando e che abbia trovato un posto sicuro per ripararsi durante la notte. Non può più accettare che viva per strada e, da qualche giorno, ha avuto un’idea che sta accarezzando con crescente entusiasmo e che spera di riuscire a realizzare. Vorrebbe offrire un tetto alla sua amica col cane, un monolocale, magari nella zona che lei predilige, anche solo fino alla fine di quel rigido inverno. Conoscendo la grande dignità della donna, sa che dovrà lottare per farle accettare una simile decisione ma è seriamente intenzionata a provarci. Sa di poter contare sull’aiuto economico del padre, col
quale ha un rapporto di totale fiducia. Ed essendo l’unica figlia di un uomo benestante e generoso, non farà fatica a ottenere una discreta somma. A Lorenzo non può chiedere soldi. Lui non capirebbe un gesto di totale generosità nei confronti di una sconosciuta, per di più una clochard. Del resto non gli ha mai accennato della sua amicizia con Nathalie e non intende farlo neanche in futuro. − Telefonerò a papà oggi stesso ma non racconterò neanche a lui quello che mi voglio accingere a fare − pensa. − Voglio che questo resti un segreto. Il mio segreto. Così anch’io avrò qualcosa da custodire e nascondere al mondo. – La barbona se ne sta seduta su una cassetta di plastica, con l’atteggiamento vagamente ascetico di chi fissa nel vuoto e sembra disinteressato a quello che succede intorno. Indossa i vestiti puliti che le ha portato Cristina la volta precedente e ha un aspetto meno trasandato del solito. È intabarrata contro il freddo e un simpatico copricapo di lana azzurra le protegge la testa. Un dono della sua nuova amica, come pure la sciarpa e i guanti da sci. Inoltre ha cominciato a usare le salviettine profumate che l’amica le ha portato in quantità industriale ed emana finalmente un piacevole, fresco profumo. Briciola si è ripresa completamente dalla polmonite, ha acquistato un po’ di peso ed è deliziosa e tenerissima mentre sporge il muso dalla casetta pieghevole. Comincia ad annusare Brook prima con diffidenza, poi con insistenza e infine cinge il suo collo con le zampine e le lambisce il musetto, con piccoli colpi della lingua. Anche tra loro due c’è una simpatica attrazione a prima vista. Nathalie, nonostante non abbia più timore di Cristina, è sempre molto riservata e sfuggente ma riesce comunque a trasmettere la sua sconfinata gratitudine anche con i suoi modi schivi. Una luce azzurrina ha spazzato via il biancore del cielo e lascia intuire che il maltempo sta ando. Rari fiocchi piccoli come spilli volteggiano disordinatamente nell’aria, portati da qualche corrente. “Nathalie, ha avuto freddo stanotte? Dove è andata a ripararsi dalla neve?” La voce racchiude una seria preoccupazione. “Stia tranquilla, eravamo in Galleria del Corso” è la risposta evasiva della donna. La voce sembra provenire da lontano, molto lontano.
“Non riesco a sopportare l’idea che i le notti all’addiaccio. La prego, lasci che mi prenda cura di lei.” Il tono supplichevole è quasi esagerato. “Se le trovassi un locale dove stare per un po’ di tempo, accetterebbe di farsi aiutare?” Gli occhi scuri e dolcissimi della senzatetto hanno un lampo di interesse, poi di colpo tornano a velarsi di tristezza e malinconia. Cristina nota che è colpita da quell’incredibile offerta ma cela la commozione con il suo solito distacco. Ritrova ben presto l’autocontrollo e rifiuta in modo burbero e categorico. Cristina non lascia che il suo entusiasmo venga smorzato dal rifiuto della donna. È convinta che, in un modo o nell’altro, la farà capitolare. Si accovaccia davanti a lei, in modo da avere gli occhi della donna alla portata dei suoi. “Senta,” le dice “so che lei nasconde un segreto.” E le racconta del ritaglio di giornale. Nathalie ha un sussulto, distoglie lo sguardo e sembra molto contrariata. Reagisce in modo brusco e si esprime con evidente disagio, scandendo e soppesando le parole: “La prego di non frugare più nella mia vita. Non voglio essere scortese, lei mi ha aiutato molto, ha salvato la vita a Briciola e le sarò grata per sempre.” Parlare è per lei uno sforzo notevole ed è visibilmente imbarazzata. “È vero, custodisco un segreto ma deve rimanere tale o non mi vedrà mai più.” Quelle parole, pronunciate con enfasi così drammatica, colpiscono Cristina come un pugno allo stomaco. Si rimette in piedi con fatica, turbata, combattuta. In un attimo ritrova calma e padronanza di sé e, con un gesto quasi teatrale, si porta una mano sul cuore e declama: “Lo giuro, Nathalie, non cercherò mai più di scoprire qualcosa di lei. Mi dirà solo ciò che vorrà. Ma non sparisca, vorrei che la nostra amicizia proseguisse.” La misera donna sembra rilassarsi, l’espressione impaurita lascia spazio a un fievole sorriso di sollievo. “Grazie, che Dio la benedica.” E, per la seconda volta, le due amiche si stringono la mano.
Gli incontri del mercoledì sera sono diventati una piacevolissima consuetudine e
Cristina li attende con trepidazione. Le lezioni sono sempre più interessanti e i suoi disegni discreti. Leo le corregge alcuni tratti degli schizzi e lei, a casa, li rifà in modo da guadagnarsi quasi sempre una buona valutazione. L’insegnante la incoraggia, ripetendole che è dotata di grande talento. Si era raggiunta una certa confidenza quando, una sera, lei e Martina lo avevano invitato a bere una birra in un pub, dopo il corso. L’atmosfera calda e accogliente del locale e i discorsi sciolti e spigliati avevano subito messo Cristina in uno stato d’animo gioioso, tanto da riuscire a dimenticarsi completamente le vicissitudini della sua vita familiare e rilassarsi, come non faceva da tantissimo tempo. Leo emanava una sensibilità tangibile e tonica, che la stimolava in senso positivo e la faceva sentire bene. Martina, invece, cercava di flirtare con lui, assumendo atteggiamenti civettuoli, che la facevano apparire buffa e inadeguata agli occhi dell’amica, alla quale aveva poco prima confidato di essere fortemente attratta da quell’uomo bello e gentile, mentre lui sembrava più incline a una simpatia per l’altra donna. Una sera Martina, durante il viaggio di ritorno dopo una lezione, si era lamentata con l’amica: “Comincio a sospettare che sia innamorato di te. Vedo come ti parla, come si incanta a guardarti…” “Smettila, Marti, non fila nessuna delle due. Ha detto di essere single, evidentemente non siamo il suo tipo.” Il mercoledì seguente Martina è a letto con l’influenza e Cristina si ritrova da sola al bar, con Leo e due boccali di birra davanti. Si instaura da subito un clima molto intimo e il contenuto delle conversazioni diventa ben presto confidenziale. Quando il discorso si porta sull’amica malata, Cristina coglie l’occasione per tastare terreno: “Sai, Martina ha un debole per te ma è convinta di non piacerti.” “Mi piace molto, in realtà, ma ho capito che ha delle aspettative, che io non voglio assolutamente incoraggiare. Per cui cerco di sembrare distaccato.” − Il ragionamento non fa una grinza − pensa Cristina, mentre lui prosegue: “Non so perché, ma sento di poter parlare liberamente con te, di aprirmi completamente. Sbaglio?”
La fissa con i suoi begli occhi neri, inclinando leggermente la testa di lato. Poi le prende delicatamente una mano tra le sue, causandole un sussulto di imbarazzo. − Ecco, ci siamo − pensa la donna, irrigidendosi e provando una forte irritazione. − Adesso ci scappa una dichiarazione d’amore. – Leo sembra faticare a trovare le parole, cambia posizione più volte sulla sedia, si sfrega le mani in cerca di ispirazione. Poi, d’improvviso, diventa serio e risoluto. “Spero che tu mi possa capire e non giudicare per la diversa sessualità che mi trovo a vivere e a nascondere.” Il sollievo di Cristina è palpabile; si ritrova padrona della propria respirazione che, per un istante, si era bloccata e si rende conto che la rivelazione di Leo non la stupisce affatto. I loro sguardi si incontrano e restano l’uno nell’altro per un tempo considerevole, cercando e trovando una confidenza e un trasporto che prima non c’era. Leo è il primo ad abbassare gli occhi e, per la prima volta, sembra preda di un forte disagio. Lei cerca di manifestare una briosa leggerezza, per non dare a quella conversazione un tono troppo drammatico. “Tesoro, non è proprio il caso di sentirsi imbarazzato! Credo che riusciremo a volerci bene proprio perché fra di noi non ci sarà la tentazione di cedere a un innamoramento o, anche solo, a un’attrazione fisica, che possa rovinare il nostro affiatamento.” Gli prende la mano e gliela stringe forte. Leo, a quel punto, le schiocca un bacio sulla guancia, visibilmente sollevato. Poi le racconta episodi molto tristi della sua vita ata: quando aveva scoperto la propria omosessualità ed era stato costretto ad abbandonare la famiglia e il piccolo paese in cui viveva, perché vittima di gravi pregiudizi. E della sua vita attuale: una storia che dura da anni con un avvocato molto in vista e, per giunta, sposato, di cui è pazzamente innamorato. Una situazione non facile, costruita su fondamenta mendaci, che portano alla mistificazione quotidiana della propria natura agli occhi del mondo. Poi, preso dal panico, si premura di aggiungere: “Forse mi sto fidando troppo di
te. Guarda che conto sulla tua discrezione.” “Puoi stare tranquillo” si affretta a ribattere lei. “Non lo dirò a nessuno.” “A Martina puoi raccontarlo, non voglio che tra voi nascano per colpa mia spiacevoli malintesi.” Cristina, quella sera, torna a casa con il cuore leggero. Si sente meno sola, per la consapevolezza che nella sua vita è entrata una persona molto, molto speciale.
6
Giovanni, il padre di Cristina, è un bell’uomo sulla sessantina. Alto, solo leggermente sovrappeso, ha uno sguardo magnetico e, su un viso perennemente abbronzato dagli sport all’aria aperta, spiccano due occhi chiari e luminosi, di un particolare e rarissimo verde acqua. Un colore che colpisce chi ha l’occasione di incrociare questi occhi, originali anche nel taglio, poiché cambia d’intensità in base alla luce che li colpisce divenendo al chiarore del sole di un verde acqua chiaro, spruzzato da una miriade di pagliuzze ambrate, che sembrano riprendere i colori usati da Van Gogh nel meraviglioso dipinto Veduta di Arles. Quando il cielo è nuvoloso, i filamenti color paglierino galleggiano su un placido lago alpino, col grigio delle montagne che si riflette dentro. E quando lo sguardo è accompagnato dal suo sorriso si ha l’impressione di perdersi in un meraviglioso prato disseminato da piccolissimi ranuncoli d’oro. Sono occhi che rimangono incollati addosso ed è impossibile dimenticarli. Giovanni è orgoglioso che lo stesso, identico sguardo si possa ammirare nel viso della figlia e del nipote. Grazie al suo carattere amabile, può contare sull’affetto di un buon numero di amici, che gli sono fedeli e vicini fin dalla gioventù. E poi, ovviamente ha Cristina e Gianluca, che adora. Vedovo da dieci anni, vive solo in un attico nel centro della città. Anche lui, come Lorenzo, al quale ha dato una mano per la carriera, è stato direttore di banca. Laureato all’università Cattolica di Milano, subito dopo la laurea in economia era stato chiamato a Nizza presso l’istituto dove lavorava suo zio Vincenzo, fratello del padre, per uno stage di sei mesi. Rivelatosi scrupoloso, preciso e capace, venne assunto per altri due anni. Giovanni accenna di rado al periodo trascorso in Francia, mentre zio Vincenzo ha sempre amato raccontare che era stato un intervallo felice e spensierato per il nipote e anche per zia Marie, sua moglie che, non avendo conosciuto la gioia di essere madre, lo aveva accolto come un figlio e lo presentava a tutte le sue amiche con fierezza e compiacimento. Lo zio era prodigo di aneddoti sulle vicende, soprattutto sentimentali, riguardanti il soggiorno a Nizza del nipote. In
particolare si ricordava di una ragazza, di nome Lie, con la quale Giovanni aveva vissuto un’importante storia d’amore. Gli zii approvavano con enfasi quella relazione in quanto la ragazza, oltre a essere bella, intelligente, altruista e simpatica, apparteneva a una ricca famiglia molto in vista e un eventuale matrimonio tra i due giovani sarebbe stato ambito e auspicato da zia Marie, che già si immaginava i preparativi. Ma la bella storia d’amore era finita all’improvviso, apparentemente senza motivo e senza spiegazione, come era solita narrare zia Marie, o meglio, la tante Marie, masticando malinconie e rimpianti. Giovanni aveva trascorso momenti bui e si era rinchiuso a elaborare il suo dolore nella dependance della villa degli zii, dove viveva. Nemmeno la simpatia contagiosa della zia era riuscita a farlo sorridere e a farlo tornare il bel ragazzo spensierato e allegro che era approdato davanti alla loro porta esclamando: “Ho per caso due zii che mi vogliono adottare per sei mesi?” Poi, un giorno, aveva ritrovato la voglia di sorridere alla vita e, da quel momento in poi, nessuno aveva mai più nominato Lie in sua presenza, anche perché la ragazza, probabilmente per motivi di studio, si era trasferita a Parigi. Il giovane in seguito, sempre grazie all’influenza dello zio, era stato chiamato alla Banca d’Italia di Milano per un periodo di sei mesi, finito il quale sarebbe dovuto tornare a Nizza, dove lo attendevano gli amici, una nuova ragazza e una vita brillante. Nessuno ha mai capito come mai avesse deciso di restare a Milano, ma tant’è che, alla fine, fu assunto definitivamente dall’istituto di credito. Cristina è sempre stata molto interessata alla storia tra suo padre e Lie e, quando andava in vacanza alla villa di Nizza, ava lunghi pomeriggi a discorrere con la tante Marie di ogni cosa, ma poi riportava immancabilmente il discorso su Lie e sembrava che quella storia la toccasse da vicino. Aveva anche chiesto alla zia se, per caso, conservasse una foto della ragazza, ma pareva che il padre, dopo la rottura del fidanzamento, le avesse distrutte tutte. La zia si rammaricava nel raccontare che la famiglia di Lie, ben presto, si era trasferita a Parigi con la figlia e la villa di Nizza era stata venduta a un ricco avvocato e proprio per questo motivo non era più stata in grado di recepire informazioni sulla ragazza, o di rivederla nel periodo estivo. I pochi parenti rimasti a Nizza facevano vita molto ritirata e frequentavano soltanto una piccola
cerchia di amici, nella quale zia Marie non era mai riuscita a entrare, forse a causa della vecchia relazione tra Lie e il nipote. La misteriosa ragazza se ne era andata portandosi dietro il silenzio. A volte, Cristina, si era ritrovata a pensare che, se il padre avesse sposato Lie, lei non sarebbe mai esistita. E da lì era scivolata su riflessioni più filosofiche e profonde sul senso della vita e della nostra presenza nell’universo e si era persa in pensieri cosmici. Ricorda che un giorno aveva chiesto al padre, cercando di mascherare la curiosità dietro un tono faceto e scherzoso, perché fosse finita quella storia d’amore ed era rimasta colpita dalla sua infastidita reazione, che lasciava chiaramente intuire che quel discorso riapriva in lui una ferita, che non si era ancora rimarginata. Zia Marie ora è un’adorabile vecchia signora di ottantacinque anni, con un caschetto di capelli bianchi, una collezione infinita di tailleur dagli improbabili colori pastello e un’aria minuta e fragile smentita solo dalla vivacità magnetica e forte dei suoi occhi grigi. Dopo che zio Vincenzo è mancato, cinque anni prima, non si è mai più mossa dalla splendida villa di Nizza, conducendo una vita serena tra partite di bridge, incontri culturali, concerti di musica classica, tutto rigorosamente organizzato in casa sua. Essendo sempre stata un’abilissima cuoca ora, aiutata da Janice, la colf filippina, è ancora in grado di preparare in poco tempo una cena per venti persone. − Come mi manca zia Marie con la sua allegria contagiosa e la perspicace intelligenza. − È un pensiero che spesso attraversa la mente di Cristina. Quando era stata colta da attacchi di depressione, aveva avuto l’impulso di prendere il primo treno e di andare a buttarsi fra le sue braccia, di piangere sulle sue spalle, di chiedere aiuto e di ascoltare i suoi preziosi e saggi consigli. Ma le forze le erano mancate, la mente si era talmente ingrigita e impigrita che non era riuscita a organizzare il viaggio. Si era recata da lei, l’ultima volta, per il funerale dello zio, soggiornando quattro giorni nella dependance e da allora si sono sempre tenute in contatto telefonico. Ma al telefono certi stati d’animo non si possono raccontare e così parlavano solo dei progressi del figlioletto e delle cene della zia. Marie preferisce scrivere e in effetti, con la penna in mano, riesce ad aprire il suo animo e a lasciarsi andare a confidenze. E così, di tanto in tanto, la nipote riceve delle riconoscibili e
piuttosto desuete buste color lavanda, contenenti delle lunghe lettere manoscritte. Quella mattina Cristina ha appuntamento con il padre in un bar del centro e, quando arriva trafelata per il lieve ritardo, lo trova già seduto a un tavolino intento a leggere il giornale. Lo abbraccia con grande trasporto e considera con ammirazione come sia ancora un bell’uomo. L’affetto che prova per lui si mescola alla preoccupazione di vederlo invecchiare e, ineluttabilmente, di perderlo. “Allora, Cri, come vanno le cose?” esordisce, ripiegando meticolosamente il giornale e chiedendo due caffè macchiati alla cameriera, che sta aspettando composta l’ordinazione. “Bene” risponde lei con una punta di malinconia. “Ti trovo bene, a casa è tutto posto? Come sta il mio piccolo principe?” “Bene, papà, grazie” ripete sentendosi leggermente a disagio. Non è abituata a chiedere favori, nemmeno a suo padre, quindi fatica a trovare le parole. Abbassa lo sguardo, incrocia le dita, le appoggia sul grembo. Poi le parole le escono di getto e, anche se lo volesse, ora non sarebbe più possibile fermarle. “Sai già che sto per chiederti dei soldi e la cosa mi ripugna ma mi servono per una causa molto importante.” “Certo che ti aiuterò, però raccontami tutto” la sprona lui, comprensivo come sempre. Intanto due tazze fumanti sono state deposte sul tavolino; l’aroma è invitante. Lei si mette sulla difensiva: “Ecco, vedi, il punto è proprio questo. Si tratta di beneficenza e vorrei che questo gesto rimanesse nell’intimità.” Sorseggia il caffè, mentre il padre ribatte meravigliato: “Non credo che Lorenzo ti neghi la possibilità di fare del bene.” Sembra perplesso e la scruta negli occhi col volto serio. “C’è qualcosa che non va tra di voi?” “Va tutto bene… È solo che a volte non si ha voglia di pubblicizzare quello che si regala; vorrei che la mia donazione rimanesse segreta…” Cerca le parole a
fatica, con evidente imbarazzo. “Santo cielo, Cristina, ma è tuo marito e parli di pubblicità… non ti comprendo.” È sempre più disorientato e non toglie lo sguardo dal viso della figlia, che si è improvvisamente colorato di rosso. Lei abbassa gli occhi, finisce il caffè e poi osserva la piazza. Lo sconforto e lo sforzo di quella richiesta, dipinti sul suo volto, arrivano dritti al cuore del padre. “Ti voglio aiutare, bambina mia, ma raccontami almeno di che beneficenza si tratta…” Ma lei lo interrompe. Si agita sulla sedia, riporta le mani sopra il tavolino, le apre a libro, si mordicchia il labbro inferiore. “Lascia perdere, papà, mi arrangio da sola.” Lui chiama a raccolta tutta la sua calma, come era solito fare quando lei, da bambina, si innervosiva e si chiudeva in camera sua perché si sentiva offesa. La conosce bene, sa quanto sia cocciuta e le vuole troppo bene, anche solo per contrariarla. Poi il padre improvvisamente ricorda le fotografie, esposte a una galleria d’arte, che immortalavano donne, anziani, bambini di una poverissima località dell’India e che avevano lasciato impietrita sua figlia. L’intensità di quegli scatti che riproducevano la sofferenza e la miseria le aveva spezzato il cuore. Cristina, all’epoca dodicenne, aveva pregato il padre di lasciare una cospicua offerta, per aiutare quel misero paesino così povero. Inoltre aveva voluto a tutti i costi acquistare la fotografia in bianco e nero di una donna anziana che, curva per lo sforzo, trascinava una bambina che teneva stretto nella mano un secchio con dell’acqua. Il dolore e la fatica di una vita consumata e sdrucita dalla tristezza, espressi nel volto dell’anziana, erano stati ripresi con maestria dall’occhio della macchina fotografica, che metteva a nudo anche lo stato di grande denutrizione della bimba ritratta. Aveva voluto esporre in camera sua, sopra la scrivania, la foto acquistata e aveva dato un nome alle donne indiane. Diceva spesso al padre quando entrava a salutarla in camera sua: “La mia amica indiana si chiama Malila e sua nonna Bena. Mi tengono compagnia quando mi sento infelice.” Questo flash back intenerisce il padre a tal punto da pronunciare, senza pensarci due volte, una promessa, per premiare la generosa umanità della sua, ormai
cresciuta, ragazza. “Facciamo così: ti apro un conto corrente bancario e verserò tutti i mesi una somma. Tu sarai la sola a gestirlo per quanto riguarda le uscite. Io mi occuperò ovviamente delle entrate. Aiuta chi ha bisogno, sono fiero di te, piccola mia.” Cristina appoggia il capo sulla sua spalla e sussurra: “Grazie, papà, non mi deludi mai.” Lui le sfiora i capelli con il palmo della mano con un gesto affettuoso e antico, che la induce a pensare se, in ato, avesse accarezzato con tanta tenerezza anche il capo di Lie. Ha l’impulso di chiederglielo quando squilla il cellulare. Sul display appare la scritta “Scuola Gianluca”. Si raddrizza e si irrigidisce. “Pronto?” esclama e il tono della voce è alterato dalla preoccupazione. “Sì, sì. Oddio… Ho capito. Vengo subito.” Giovanni si accorge dello sconvolgimento della figlia, che nell’alzarsi troppo velocemente urta il tavolino e rovescia la tazzina del caffè. Con uno scatto di destrezza la afferra al volo e la rimette sul piattino, poi le si avvicina come per sostenere la giovane donna. Negli occhi una domanda muta e allarmata. “Papà, è la scuola. Hanno appena portato Gianluca al Pronto Soccorso, per quello che sembra un attacco epilettico.” “Ti accompagno. Cerca di stare calma. Anche tu da piccola avevi avuto delle convulsioni e poi non era risultato nulla, solo un banale virus. È inverno e le forme virali sono all’ordine del giorno.” “Papà, guida tu, per favore. Sono troppo agitata. Intanto avverto Lorenzo.”
7
Il traffico rallenta ogni cosa e lascia il tempo a Cristina di essere invasa da tristi pensieri. “Sai se qualche nostro antenato ha sofferto, in gioventù, di epilessia?” chiede allarmata al padre. “Non mi risulta” risponde distratto Giovanni, perché la congestione delle macchine al semaforo richiede parecchia attenzione, da dedicare solo a quel garbuglio di lamiere frettolose. “La zia Marie mi ha raccontato che il figlioletto dei suoi vicini di casa è morto dopo una lunga sofferenza, per un brutto tumore al cervello. All’inizio avevano scambiato quella patologia per epilessia.” Tradurre in parole i suoi pensieri l’aiuta a scaricare la tensione. “Non esagerare. L’epilessia infantile guarisce con l’adolescenza.” “Ora che ci penso, Gianluca è caduto alcuni mesi fa dalla bicicletta, è sempre così scoordinato quando pedala ma Lorenzo dice che è normale alla sua età. Potrebbe essere la conseguenza di quel piccolo incidente?” “Non credo che una banale caduta porti a una crisi epilettica. Più facile che sia una forma idiopatica, senza una causa conosciuta. Io invece so di un bambino che è guarito spontaneamente dall’epilessia. Ci sono forme benigne che non compromettono la crescita.” Una brusca frenata spaventa Cristina. “Scusa papà, non ti distraggo più; concentrati sulla guida”, balbetta la figlia. “Siamo quasi arrivati.” Scende dall’auto con un nodo in gola, l’apprensione accelera il battito cardiaco e la preoccupazione è dipinta sul suo volto. Sente improvvisamente sulle spalle il
peso di tutto il cosmo e prova un’irrimediabile tristezza. Suona con forza il camlo del Pronto Soccorso, non stacca l’indice fino a che la porta di vetro e alluminio non si apre e un’infermiera, con aria interrogativa, le chiede cosa desidera. “Hanno portato qui il mio bambino per un attacco epilettico.” “Signora, stia tranquilla, venga con me per le generalità. Ora gli hanno somministrato un blando sedativo. Si è calmato, è con la maestra. Ha la tessera sanitaria?” Il fatto di vedere l’infermiera tranquilla, sorridente che le chiede gentilmente la tessera del bambino le fa restringere subito quel senso di angoscia che l’aveva attanagliata in macchina, mentre si figurava ipotesi tragiche. Le era balenato per la mente che la patologia potesse essere tanto grave da non potere più comunicare con lui. “Ora venga con me che l’accompagno da suo figlio.” Cristina si alza in piedi e, con che le gambe che tremano ancora per l’agitazione, prende un lungo respiro, poi butta fuori pian piano l’aria e si avvia, appoggiando saldamente i piedi al suolo, verso la sala visite. Sul lettino Gianluca si è assopito, sotto l’effetto del tranquillante che il dottore gli ha somministrato. Respira con regolarità. La maestra gli tiene stretta la manina. Non è sudato. Un lenzuolo azzurrino lascia intravedere il suo piccolo corpo. Ha voglia di stringerlo, di chiamarlo, di sentire la sua vocina. Si avvicina e gli accarezza delicatamente la testa. “Tesoro, la mamma è qui. Stai tranquillo, va tutto bene.” “Cos’è successo?” chiede alla maestra senza distogliere lo sguardo dal bambino. “I bambini stavano facendo un disegno. Gianluca si è messo improvvisamente a colorare con movimenti velocissimi, in modo ossessivo, la matita sembrava impazzita, e quando il foglio si è lacerato ha continuato a scarabocchiare il banco. Mi sono avvicinata per capire cosa stesse facendo nel momento in cui è caduto a terra e sono comparse le convulsioni. Non rispondeva, era incosciente. Ho mandato un compagno a chiamare la bidella, che ha chiamato immediatamente, con il mio cellulare, l’ambulanza. Le convulsioni sono durate
due o tre minuti, non ricordo esattamente, ma mi è sembrato un tempo lunghissimo. Quando è arrivato il personale del 118, la crisi era cessata da un pezzo ma il bimbo era confuso, strano, non capiva dove era e non mi riconosceva. Anche per questo motivo è stato deciso di portarlo d’urgenza al Pronto Soccorso. Gli hanno somministrato subito un sedativo, perché sull’ambulanza si è messo a strillare e le mani, ma solo le mani, si muovevano convulsamente. Stiamo aspettando gli esami del sangue ed è stata richiesta una risonanza magnetica. Il dottore è nella sala da visita numero tre per un’altra emergenza, mi ha detto di suonare questo camlo se compaiono sintomi strani.” Cristina appoggia la mano sulla fronte e lo accarezza con un gesto d’amore dolcissimo. Poi si rivolge all’infermiera: “Esco un attimo in sala d’aspetto a informare mio padre, torno immediatamente.” Quando rientra, è presente il medico con gli esami del sangue e le comunica che non nota nulla di particolare. “Lo portiamo in radiologia per la risonanza magnetica nucleare, la madre può venire.” Cristina saluta e ringrazia la maestra. “Mi devo preoccupare?” chiede al medico con un filo di voce. “Stia tranquilla, lo sottoponiamo a tutti gli esami che servono per formulare una diagnosi. Sicuramente lo ricovereremo alcuni giorni in Pediatria. Mercoledì rientrerà da un corso di aggiornamento in America il dottor Verri, che è un eccellente neurochirurgo e ha molta esperienza nelle patologie infantili. Potrebbe trattarsi di un episodio di epilessia benigna ma non lasciamo niente al caso. Uscirà di qui con la sua diagnosi e, se necessario, la terapia. Ora vada con l’infermiera in radiologia.” Questa infermiera non è carina, sorridente e dolce come quella che l’ha ricevuta e ha registrato i dati di suo figlio nel computer. È grassoccia, quasi scortese, sbuffa mentre trascina la barella e si lamenta che i turni sono pesanti e deve sostituire una collega. “Non ho potuto fare la pausa pranzo, sono sfinita… e qui ogni minuto arriva un’urgenza, non si può più lavorare così…” Parla e brontola, mentre sembra che la barella le scappi via dalle mani. Cristina ha l’impulso di prenderla lei, di guidarla con amore, di cullare quel lettino che trasporta il suo bimbo. Ha paura che la manualità brusca e maldestra
dell’infermiera lo svegli e gli faccia scatenare una nuova convulsione. Capisce che Gianluca deve riposare tranquillo, deve superare quel brutto momento dormendo. Il corridoio le sembra scuro e lungo e l’angoscia la sta di nuovo invadendo quando si sente toccare una spalla. “Ciao amore, tuo padre mi ha messo al corrente ma ho bisogno di sapere tutti i particolari, raccontami quello che ti ha detto il medico.” L’angoscia di colpo svanisce, vicino a Lorenzo si sente subito più sicura. Determinata e diligente gli riporta le parole esatte pronunciate dal dottore pochi minuti prima. Nella piccola sala di attesa della risonanza magnetica, Cristina, attraverso l’unica finestra del locale, osserva il pallido sole di gennaio che si sforza di illuminare e scaldare quella gelida giornata. Lorenzo le sfiora la mano e poi la stringe nella sua. Si fissano negli occhi, lei si appoggia alla sua spalla e gli dice: “Ti prego, non facciamo del male a Gianluca, è tanto debole, stanco. Cerchiamo di essere dei bravi genitori. Ha bisogno di serenità. Ha bisogno di noi.” “Sei una donna forte e anch’io ho bisogno di voi. Il tuo perdono mi darà la forza di essere un bravo padre.” Ma mentre pronuncia queste frasi traboccanti di buoni propositi, un senso di colpa esplode dentro di lui, fino a stringerlo in una dolorosa morsa. Un altro suo figlio si sta formando, sta già vivendo e forse già muove, dentro il caldo liquido amniotico, le minuscole manine. Chissà se anela un abbraccio, l’abbraccio di suo padre. Ha voglia di aprire la finestra e di urlare al mondo la sua rabbia, perché lui non avrebbe voluto che gli eventi si mescolassero, si aggrovigliassero e prendessero una strada diversa da quella che lui da tempo aveva in mente. Gli era mancato il tempo per decidere con calma, valutare, soppesare, staccarsi piano senza provocare dolore alla sua famiglia. Sapeva che ci volevano tempo e pazienza. Ma ora gli è tutto chiaro. Lì, in quella piccola e soffocante sala d’aspetto, capisce che amava tutte e due le donne della sua vita. Solo così si spiegano le contraddizioni, le incertezze, le paure, e il nervosismo che lascia spazio a una quasi esasperata eccitazione, quando le bacia apionatamente. Avrebbe voluto farle felici entrambe, assecondarle ed essere un buon marito e amante. Riesce a soffocare l’urlo che sta per esplodere, stringendo forte la mano della moglie. “Ahi, Lorenzo, che ti prende, mi hai fatto male!” “Scusa, sono preoccupato.”
“Ci vorrà ancora una ventina di minuti e anch’io ho una paura tremenda dell’esito di questo esame. Per fortuna dorme, così non si accorge di entrare nel tunnel radiologico. Gianluca ha il terrore dei posti chiusi, bui. Mi consola che non si dispera e sta fermo, così le immagini saranno nitide.” “Andrà tutto bene.” Poi, accarezzandogli il dorso della mano, gli dice: “Ti amo.” Una piccola, sintetica frase che può racchiudere l’intero universo o essere soltanto un suono privo di musicalità, espresso autonomamente. Parole dette e ridette più volte nell’arco di un rapporto, logorate dall’uso che, con l’andare del tempo, perdono l’originario significato. La prima volta che vengono pronunciate e ascoltate hanno un suono stregato, poi diventano locuzioni comuni, vuote come gusci, al pari di un “ciao”, “come stai?”, “grazie”. Lorenzo sceglie quel frammento di memoria, concentrandosi per riviverlo, in cui lui e Cristina si sono aperti il cuore con la dolcezza fragrante di quel momento e di quelle magiche tre sillabe scaturite dall’amore e rimaste scolpite in maniera indelebile nella sua mente. Adesso, invece, che lei dovrebbe gettargli addosso tutto il suo biasimo e gridare che è un marito ignobile, un verme, che non lo vuole più nella sua vita, gli regala quel “ti amo” sussurrato lievemente e onestamente. E quel semplice suono gli sembra un’eco soave, o un frastuono di mille campane, e si sente traboccare di gratitudine. Mormora, più che altro a se stesso: “Grazie.” Lorenzo le accarezza la mano e le sorride mentre pronuncia quel grazie nel suo tormento emozionale. L’infermiera esce con la barella, con l’aria affaticata e scostante di chi deve prolungare l’orario di lavoro. Gianluca sta ancora dormendo, il visino è rilassato, angelico. “Si sa qualcosa?” pronuncia debolmente Cristina. “Lo portiamo in Pediatria, poi vi raggiungerà il radiologo e vi darà il referto dell’esame.” Queste parole brusche e meccaniche, che non rivelano ancora nulla sul malore del bimbo, preoccupano ulteriormente Cristina, che si lascia cadere sulla sedia devastata dall’apprensione. Lorenzo si china su di lei e la conforta.
“Sembra che non ci siano brutte patologie ma il radiologo deve ancora refertare… stia tranquilla, sembra una banale crisi epilettica” pronuncia svelta l’infermiera, intuendo solo in quel momento la disperazione della madre. Cristina si aggrappa a quella verità e l’infermiera le appare subito meno sgarbata, più umana e sente il bisogno di ringraziarla. Ripete nella sua mente: − Una banale crisi epilettica. – E quelle parole sono come un balsamo lenitivo alla sua pena. Mentre sono sull’ascensore che li porta al reparto di Pediatria, Cristina esordisce dicendo risoluta: “Questa scuola non va bene. Si stanca troppo. Vorrei iscriverlo a un istituto privato, dove diano spazio all’attività ludica e sportiva. Lui non sta mai fermo, ha bisogno di muoversi. Stare sette ore immobile su una sedia davanti a un banco è troppo stressante per lui.” “Ci penseremo” risponde frettolosamente il marito, abituato a ragionare con calma. La moglie si tiene saldamente attaccata a questa sua considerazione, per non crollare sotto il peso di una probabile neuropatologia. Il reparto di Pediatria è confortevole, le pareti sono dipinte con i personaggi dei cartoni animati e di fronte all’ingresso Biancaneve con il suo principe azzurro li attendono. La cameretta è colorata di azzurro e in alto una larga fascia di carta con i personaggi di Disney rallegra l’ambiente. Ci sono due lettini, ma uno è vuoto. “Il bambino del letto accanto è appena stato dimesso, è stato operato d’urgenza di appendicite, ma vedrà che arriverà subito qualcuno, suo figlio non rimarrà solo” li informa l’infermiera del reparto, mentre aiuta a sistemare il piccolo paziente sotto le lenzuola. Gianluca ha un sussulto, agita le mani, ma una volta coperto si riaddormenta. Cristina si ritrova a sperare che la cameretta rimanga vuota perché suo figlio, a causa del carattere molto chiuso, non si rapporta molto bene con gli altri. Lorenzo scende a bere un caffè. L’attesa della diagnosi comporta una tensione enorme. Nel frattempo arriva anche Giovanni, che finalmente può vedere il nipote. Si stringe alla figlia in un lungo e forte abbraccio. Quando giunge il radiologo, con
il referto della risonanza magnetica, sono presenti tutti e tre. “L’esito è negativo, ho trovato solo una leggera asimmetria, peraltro non significativa, a livello dei nuclei della base. Vado a parlare con il primario per l’elettroencefalogramma. Il dottor Severi deciderà se fare un prelievo del liquor e la PET ma secondo il mio parere dovrebbero essere sufficienti questi esami. Vediamo spesso casi di epilessia infantile benigna.” La parola “benigna” tamburella allegramente nei suoi neuroni come una dolce danza e, se un attimo prima aveva avuto paura di svegliarlo per il timore che mostrasse sofferenza, ora lo vorrebbe vedere con gli occhi aperti, sorridere, sentire la sua vocina e fargli capire quanto bene gli vogliono. Vuole festeggiare insieme a lui il buon esito della risonanza e aspetta quindi paziente il risveglio. Sono ati tre giorni dal ricovero di Gianluca. Non ha più avuto crisi, sembra tranquillo. Solo quando la madre lo porta nella saletta con i giochi si elettrizza ma vuole giocare soltanto con delle costruzioni magnetiche. L’interesse stereotipato che ha nei confronti del gioco inquieta la mamma. Prende la scatola e la apre con lo stesso rituale, poi batte ritmicamente le mani sul tavolino e dopo poco costruisce velocemente la solita piramide. La disfa e la ricostruisce, veloce, metodico. Sembra non stancarsi di compiere quei movimenti ristretti e ripetitivi. La mamma di Filippo, un bimbo ricoverato per un principio di polmonite, inventa un gioco con la palla e riesce a coinvolgere anche Gianluca ma a lui la palla sfugge sempre dalle mani e quindi ritorna ombroso al suo gioco. Cristina si appunta mentalmente quegli strani comportamenti e si ripromette di parlarne con il professor Severi, primario di neuropsichiatria infantile, che l’ha letteralmente affascinata per l’alta competenza, la correttezza professionale, la disponibilità nel ricevere i genitori e l’attenzione che manifesta nell’ascoltare tutto ciò che i parenti riferiscono sui loro bimbi malati. La stimola nell’osservare attentamente alcuni gesti del piccolo paziente. Annota con un’armonica calligrafia le osservazioni della madre su un quadernetto e Cristina è felice che le descrizioni e le considerazioni del comportamento del figlio non vengano inserite nel computer, che rende tutto così impersonale. Non vuole che il bimbo diventi un numero in un elenco, che faccia parte di una statistica da esporre ai convegni. Ha un assoluto bisogno di sentire che lo curino
con amore, che lo trattino non come un qualsiasi paziente ma come un bambino che ha bisogno di attenzioni, per poter tornare a sorridere. E questa sicurezza il professore gliela trasmette. E poi è un bell’uomo, dalla voce calda, profonda, che cattura l’attenzione. Lei non si perde nessuna parola dei discorsi che pronuncia, e l’eco della sua voce le rimane impresso per tutta la giornata, comunicandole una tale serenità che riesce a raccontargli anche atteggiamenti forse banali o di poca importanza. Il neuropsichiatra, spesso, capita nella cameretta dei suoi pazienti senza avvisare e Cristina si è accorta di aspettare quelle visite con trepidazione e di pensare a lui come a un amico protettivo, da cui correre nei momenti cupi, il fratello maggiore che ha sempre desiderato. La donna si alterna al capezzale del bimbo con il padre, Lorenzo e Bruna, in modo da riuscire ad avere un po’ di tempo per riposare e per mangiare tranquilla, senza lasciare mai Gianluca solo. Si ritaglia anche gli spazi per incontrare Nathalie, in modo da non trascurare la povera donna. Quel pomeriggio, verso le tre, prima di andare in reparto, deve are dal Pronto Soccorso, in quanto il professore le aveva chiesto il giorno precedente di ritirare gli esami del sangue che erano rimasti nella cartelletta del ricovero. Erano stati trasmessi tramite computer con la posta interna, ma lui voleva inserire nella cartelletta gli originali. “È una delle sue manie” dicono scherzando le infermiere del reparto, che sembrano tutte innamorate del primario. Cristina è nella sala di attesa del Pronto Soccorso quando sente arrivare a sirene spiegate un’ambulanza. Ha un sussulto pensando che anche suo figlio è arrivato con il codice rosso, soltanto quattro giorni prima. − Speriamo che non sia un bimbo − si ritrova a pensare e così, mossa dalla curiosità, si sporge per vedere quando tolgono la barella dall’ambulanza. Nel frattempo medici e infermieri sono accorsi verso la barella e un medico, alzando la voce sopra il brusio che si è creato, esclama: “Avete avvertito in Ginecologia, quale sala operatoria è pronta? La donna sta perdendo troppo sangue, non riusciamo a fermare l’emorragia.” Cristina è bloccata contro la parete ma riesce a scorgere la sagoma del viso pallidissimo, incosciente, che nonostante sia coperto da una mascherina di plastica trasparente per l’ossigeno, ha qualcosa di familiare. Quella cornice di
capelli colore del grano al tramonto sparsi sul lenzuolo bianco è inconfondibile. “Simona” esclama ad alta voce. L’infermiera si volta di scatto: “Lei è una parente?” Nel trambusto emozionale risponde: “Sì.” “Venga con noi. Aspetti in sala d’attesa del reparto di Ginecologia, appena potremo le daremo informazioni.” Si ritrova, senza volerlo, a seguire la barella di Simona come aveva seguito quella di suo figlio. Lo stesso corridoio, lo stesso ascensore ma il piano diverso. Non riesce a staccare gli occhi dal viso emaciato di Simona e chiede timidamente al dottore di che emorragia si tratti. Ma nessuno la sente e le risponde, sono troppo indaffarati a controllare i parametri del respiro, del cuore, della pressione. Aggiungono un farmaco alla flebo. Sono palesemente agitati e Cristina si rende conto, in quel frangente, che Simona è appesa a un filo. Escono dall’ascensore con la barella, chiedendo il numero della sala operatoria. Si sente rimbombare: “La tre.” Pallida ed esangue, Simona sparisce dietro la vetrata e lei rimane pensierosa a fissare perdutamente il soffitto. Osserva la sala d’attesa e nota che ci sono tre pazienti che guardano la televisione e due donne sedute sul divanetto. − E se fossero delle parenti di Simona, come giustifico la mia presenza? − pensa quasi spaventata. Non sa cosa fare, se tornare in Pediatria o rimanere lì e capire cosa sia successo alla sua rivale in amore. Poi, d’improvviso, la gravità dello stato di salute della donna, l’emorragia che non si arresta, le appaiono gravi e reali. Non ha mai desiderato la sua morte ma spesso aveva maledetto il suo fascino e i suoi atteggiamenti provocanti, mentre si sfogava al bar con Martina. − Se sparisse dalla circolazione, forse mio marito tornerebbe a considerarmi e ad amarmi come mi merito − si trovava spesso a pensare e a chiosare con l’amica. E quando Lorenzo ha ammesso la scappatella con la bella Simona, quella notte, tra lacrime e rabbia, l’ha odiata e le ha augurato di essere trasferita in un posto lontano, tanto lontano da non essere raggiungibile da suo marito. Ma non aveva pensato di spedirla dritta all’inferno!
Avverte dei brutti sensi di colpa e decide di fermarsi: deve sapere se Simona si salverà. Chiede gentilmente alle signore se hanno parenti in reparto. Le due donne in coro esclamano: “Stiamo aspettando la nascita del primo nipotino, siamo talmente emozionate e agitate che non riusciamo a parlare.” Dunque non c’è nessuno che aspetta Simona. Poi ricorda che una sera, dopo un’assemblea della banca, era andata con Lorenzo e tutto il gruppo dei colleghi e collaboratori a cena e si era trovata seduta accanto a Simona. In quell’occasione la donna si era lasciata andare a confidenze e le aveva raccontato di quanto fosse stata solitaria e triste la sua adolescenza. La madre era morta quando lei aveva solo dieci anni e il padre, Giacomo, era spesso all’estero per lavoro. L’aveva perciò affidata all’unica zia, una simpatica zitella che abitava a Milano. Ma ben presto la zia si era ammalata di Alzheimer ed era stata messa in un ricovero. Così Simona si era trovata, a soli diciotto anni, a vivere in un bellissimo appartamento in centro, con una specie di governante tuttofare, severa, autoritaria e completamente incapace di darle affetto. Giacomo rincasava il giovedì sera e, quando era con lei, la viziava e coccolava, portandola nei migliori ristoranti e comprandole vestiti costosi. Dormivano insieme nel lettone e quelle notti Simona si sentiva bene e desiderava che il padre non andasse più via. Giacomo, manager di quattro grosse aziende, possedeva una buona liquidità economica, adorava giocare a golf e non disdegnava la compagnia femminile. Era circondato da belle donne, che puntualmente Simona odiava e trovava piene di difetti. Il padre sorrideva e le dava ragione. Ma quando Elisa entrò nel cuore e nella vita del suo meraviglioso papà, lei si sentì abbandonata, tradita, delusa. Elisa era una donna intelligente e dolce ma non riuscì mai a conquistare la figliastra. A quell’ora del pomeriggio c’è Bruna con Gianluca, Cristina le manda un messaggio sul cellulare scrivendole che avrebbe tardato perché è molto stanca e ha bisogno di riposare. Bruna è felice di rimanere con il cucciolo della famiglia, vanno molto d’accordo. Gianluca preferisce giocare e parlare con la tata che con i suoi compagni. Fa lunghissimi discorsi con lei, che non si preoccupa se dice cose strampalate ma ride divertita. E così rimane seduta composta in sala d’aspetto, sfogliando distrattamente una rivista e aspettando notizie. Poi, a un tratto, si chiede se qualcuno ha avvertito il padre, e in che posto del mondo si potrebbe trovare in quel preciso momento. Il pensiero che Simona sia sola in un momento così difficile la porta a sentirsi in
dovere di aiutarla. Deve restare e prega che si salvi. La sua sparizione, o morte, non le interessa più. Sente, seduta su quella sedia, che deve in qualche modo darle una mano. Si sentono dei i, Cristina si alza agitata. “È nato un bel maschietto, pesa quattro chili.” Le nonne si abbracciano e cominciano a parlare ininterrottamente. Le danno fastidio, Cristina guarda l’orologio, sono ate due ore dall’ingresso nella sala operatoria numero tre. Nessuna notizia. Alle sei Lorenzo terminerà il lavoro e si precipiterà subito in ospedale. La donna non sa che bugia inventarsi se l’intervento si protrarrà. Prova a leggere una notizia della rivista che parla di due barboni trovati morti per il freddo. “Un inverno gelido che semina morte fra i senzatetto” è il titolo dell’articolo. La mente corre a Nathalie e, come sempre, pensare a chi è più sfortunato di lei la rasserena e la distoglie dalla preoccupazione di quella nuova brutta vicenda in cui si è trovata coinvolta. È persa nei segreti della clochard, quando uno dei chirurghi la informa che l’intervento è andato bene, l’emorragia è stata tamponata, la paziente è nella camera numero otto.
8
“Papà, vado a fare delle commissioni, non mi allontanerò e non starò via troppo. Se hai bisogno, chiamami al cellulare.” Il tono è tranquillo, ma in realtà Cristina ha l’animo in subbuglio. Le sembra di stare dentro una navicella e avverte l’assenza di peso. Ha la sensazione di essere uscita dal corpo e di aleggiare per la stanza, sopra il letto del bambino, sopra il capo canuto del padre, sopra l’ospedale. Non esiste più nulla che la tenga ancorata a quella sezione di tempo, di spazio, di realtà. Non ha più coscienza di sé, ma è soltanto la percezione di un attimo, poi ritorna la lucidità e si sente, di nuovo, intensamente presente. Invece di imboccare le scale e dirigersi verso l’uscita, entra nell’ascensore e sale di due piani. Il reparto di Ginecologia è tranquillo, contrariamente a Pediatria, costantemente animato e vivacizzato da vocine infantili, vagiti di neonati, chiacchiericcio di genitori e nonni in visita. Il corridoio è deserto e lei sa già esattamente dove fermarsi: davanti alla stanza numero otto. Quando bussa alla porta con un tocco lieve della nocca, il cuore le batte all’impazzata. Dall’interno non proviene alcun suono. Si sarebbe aspettata di udire “avanti”, o comunque un invito a entrare e quel silenzio persistente la confonde, quasi fosse un presagio di qualcosa di sgradevole che sta per accadere. Stringe i denti, prende un respiro profondo per cercare di calmarsi e abbassa lentamente la maniglia della porta. La stanza è immersa nella penombra, in un silenzio denso e l’aria è greve per l’odore di disinfettante e di chiuso. La sagoma nel letto è immobile, fiaccamente appoggiata ai cuscini dietro la schiena. Gli occhi sembrano aperti e fissano un punto immaginario sulla parete. Si sono già incontrate altre volte, lei e Simona, in occasione di cene e riunioni, ma non hanno mai legato molto. Cristina l’ha giudicata una persona sfuggente, troppo concentrata su se stessa e quindi incapace di ascoltare, di prestare attenzione e lasciare spazio a chi le sta vicino. Le è parsa inoltre boriosa ed eccessivamente sicura di sé e ricorda di essersi sentita a disagio. Disagio che ora si trasforma in affanno, mentre si avvicina al letto.
La sagoma rimane immobile, solo gli occhi roteano leggermente e le si puntano in viso, con un lampo interrogativo. “Ciao Simona, come ti senti? Ti disturbo?” L’emozione è fortissima e fatica a formulare anche quella semplice frase, che le esce con la voce strozzata dalla tensione. È in piedi, accanto al letto, e le sembra che il cervello abbia un black out e l’unico segnale che riesca a trasmetterle sia quello di fuggire via. Invece rimane saldamente ancorata al pavimento, come se una forza esterna la tenesse inchiodata lì. “Tu? Cosa ci fai qui?” Appare ancora debole e affaticata per la grave anemia e la sua voce è poco più che un sussurro. Cristina, lievemente a disagio, cerca di fugare la tensione e l’imbarazzo, cominciando a parlare a raffica. Le frasi si inseguono e si inanellano con foga. “Ieri, ho assistito per caso al tuo ricovero e l’infermiera, scambiandomi per una tua parente, mi ha messa al corrente di quello che ti è successo.” “Dunque adesso sai tutto! Sarai contenta…” Lo sguardo emaciato si trasforma in un’occhiata piena di astio. “No, non so nulla, invece. Solo che sei stata soccorsa per una grave emorragia. Non so nient’altro. Se vuoi, puoi spiegarmi tu cosa è successo, non capisco perché dovrei essere contenta…” Ora che gli occhi si sono abituati alla penombra, Cristina riesce a scorgere il viso della donna, mortalmente pallido. Sotto gli occhi due solchi bluastri le conferiscono un aspetto drammatico. L’ago cannula della flebo, infilato nel braccio sinistro, attira l’attenzione con il suo continuo gocciolio. I capelli sono madidi e appiccicati alla fronte e i boccoli hanno perso la loro ampollosità, riducendosi a linee disordinatamente mosse. La guarda perplessa poi, d’istinto, crede alla buona fede della visitatrice e, a fatica, si sistema meglio sui cuscini e comincia a raccontare di come, mentre era in casa da sola, si fosse sentita male improvvisamente, riuscendo appena in tempo a telefonare al 118, dopodiché aveva perso i sensi.
Solo la sera prima, quando si era svegliata dall’anestesia, l’avevano informata che la gravidanza extrauterina aveva lacerato una tuba, che era stata rimossa con un intervento chirurgico. A causa dell’ingente perdita di sangue, era stata sottoposta a diverse trasfusioni. La situazione è resa ulteriormente grave dal fatto che non può contare su alcun appoggio, perché il padre è in Nuova Zelanda e lei non lo aveva nemmeno avvisato della gravidanza. Ultimamente non si sentivano di frequente, c’erano stati degli screzi. La sua unica amica, Marta, è in viaggio di nozze in qualche meravigliosa spiaggia dei Caraibi. Oltre a loro non ha nessuno. Cristina è molto colpita dall’esposizione dei fatti e le prime parole che le vengono in mente sono di conforto, ma Simona la interrompe bruscamente. “Lorenzo non ti ha mai detto nulla?” “Solo che avete avuto una breve storia.” “Ah, breve storia, così l’ha definita? E che altro ti ha raccontato?” “Che è finita.” “Non ti ha detto niente del bambino?” “No.” Una lunga lacrima scende veloce come se volesse inseguire il gocciolio della flebo, ma finisce per svanire nella federa del cuscino. La domanda, che scorre su quella lacrima, ha un effetto deflagrante e colpisce Cristina in pieno petto, facendola vacillare. Adesso ha paura di ascoltare, di sapere e vorrebbe fare come i bimbi, che si tappano le orecchie con le mani e parlano a voce alta, per evitare di sentire quello che non vogliono. Invece rimane immobile e impietrita, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Porta l’unica sedia che c’è nella stanza accanto al letto e si siede, composta. La fredda determinazione riaffiora da un punto remoto della sua mente, dove si era annidata, e da essa riesce ad attingere ancora un poco di coraggio e, con voce solo un po’ titubante, chiede: “Dunque il bambino…”
La paziente appoggia la schiena sui cuscini e, con lo sguardo malinconico, la interrompe esclamando a voce alta: “Era suo.” Nella piccola e quieta stanza numero otto questa frase rimbomba come uno di quei tuoni estivi che sembrano non voler finire mai e lasciano presagire che la parte luminosa ha colpito qualcosa rovinosamente. Proprio con la furia di un lampo, quelle due parole, “era suo”, spazzano via ogni pietoso dubbio. “Ma lui non lo voleva, voleva spingermi a liberarmene. Io… ci tenevo tanto a questo bambino, e adesso non ho più nulla. I medici pensano che difficilmente riuscirò ancora ad avere dei figli.” Ora la disperazione dilaga e risuona in Cristina come il rimbombo dentro una vecchia conchiglia vuota. Sente la testa pulsare e viene colta dalla nausea. È come se perdesse il controllo di se stessa e si sciogliesse insieme alle pareti della stanza, che diventa sempre più piccola, angusta, soffocante. Improvvisamente le manca l’aria e riesce solo a balbettare: “Mi dispiace, io… non lo sapevo, mi dispiace…” E già si ritrova nel corridoio, appoggiata alla parete, travolta dalle vertigini, con enorme difficoltà a riprendere a respirare normalmente. Un’infermiera, che transita spingendo un carrello dei medicinali, si ferma premurosa chiedendole se si senta male. “No,” mente “adesso mi a. Sono solo preoccupata per la mia amica.” Si riscuote al suono di quell’ultima parola da lei pronunciata e si stupisce che la sua mente abbia scelto proprio quel termine. Poi realizza quanto sia simile la loro condizione. La sua disperazione si accomuna con il dolore di Simona, si sovrappone, le avvolge in un’unica bolla tragica. Entrambe sono state tradite nel più subdolo e vigliacco dei modi da un uomo in cui credevano ciecamente e amavano senza riserve. Un uomo spregevole, che ha seminato sofferenza nelle mani di coloro che gli avevano affidato la propria vita. Si sente invadere da una pena immensa, che la schiaccia e la travolge. Un’angoscia universale per sé, per il suo bambino malato, per il figlio di Simona che non vedrà mai la luce, per Simona stessa che, forse, non potrà mai più diventare madre. Per Nathalie e per tutti quelli che soffrono.
Le sembra che al mondo non resti più neanche un grammo di bontà e umanità e che niente potrà mai più incanalarsi in un percorso felice. Quando abbassa, per la seconda volta, la maniglia della porta della camera numero otto, si sente una persona molto meno insicura e dubbiosa. Si avvicina al letto e cerca un contatto visivo ma la donna ha gli occhi chiusi. “Adesso avverto Lorenzo, è giusto che sappia. Ti lascio sul comodino un biglietto col mio numero di cellulare. Chiama per qualsiasi motivo. E… se non ti dispiace, vorrei tornare a trovarti.” Dal letto non arriva alcuna risposta. Solo un leggero rantolo e un respiro regolare e profondo. Simona si è addormentata. Esce dalla stanza in punta di piedi, con l’animo squarciato e un senso di smarrimento che le toglie la percezione della realtà. Non sa cosa fare, dove andare. Ha bisogno di un limbo di intimità dove pensare, di un punto di riferimento, qualcosa a cui appigliarsi, per non andare alla deriva. Costernazione e sgomento superano il senso del dolore e le sembra di avere, al posto del cuore, un pugno di chiodi arrugginiti, che la dilaniano. Comincia a scendere le scale, gradino dopo gradino, sperando che il tempo rallenti o addirittura si fermi. Sono troppe le difficoltà che adesso dovrà affrontare da sola e non è sicura di essere in grado di superarle. Poi ha un’intuizione e una fievole luce si accende nella mente ottenebrata. Affretta il o e si dirige con decisione verso una meta. Spinge con slancio la porta del reparto. La scritta rossa “Neuropsichiatria infantile” le trasmette un’inaspettata sensazione di familiarità. Spera che il professor Severi possa riceverla subito. Il dottore esce dallo studio e si trova davanti Cristina in piena tempesta emotiva. “Signora Lenzi, cosa succede? Mi sembra sconvolta!” L’aspetto è mite e bonario, a dispetto del suo cognome, e ricorda il gigante buono dei cartoni animati. La sua voce baritonale ha un effetto taumaturgico. “Mi scusi, posso parlarle un momento?”
“Ma certo, venga nel mio studio. Si accomodi.” E, dopo un attimo, vedendo che lei esita e si contorce le mani con grande disagio, la incoraggia: “Non abbia paura, mi racconti tutto.” La giovane madre ha un groppo in gola a furia di ricacciare indietro le lacrime e decide finalmente di lasciare libero sfogo al pianto, per essere consolata da quell’uomo buono. Lui la osserva paziente. “Si lasci andare, cara. A volte il pianto serve più di quanto pensiamo. La fretta in questi momenti è nemica e ingarbuglia i pensieri. Parleremo dopo, con calma. Le dico già che, se il problema è Gianluca, le notizie che sto per darle sono positive. Pare che non si tratti di epilessia. Ho deciso di sottoporre il bambino a una visita specialistica con un team di psicologi, per verificare le turbe comportamentali. Dopodiché potrà essere dimesso. Adesso se la sente di raccontarmi cos’è che la preoccupa?” “Mi scusi… ma sono successe così tante cose tutte insieme…” Ha il naso che cola e cerca disperatamente un fazzoletto, poi si ricorda che è venuta senza la borsa. Il dottore, attento e premuroso, le avvicina una scatola di veline. “Ecco… ho gravi problemi familiari e le volevo chiedere se un’eventuale separazione tra me e mio marito possa ripercuotersi negativamente sulla salute di mio figlio.” Il primario ha un attimo di stupore, in quanto i due coniugi gli erano sembrati genitori premurosi e li aveva considerati una coppia affiatata, ma subito la sua grande professionalità e umanità lo riconducono a un atteggiamento neutro. “Vede, riteniamo che un ambiente affettivo e sereno sia la situazione ottimale per far crescere i bambini in generale, anche quelli che non manifestano problemi psicologici. Tuttavia, non conoscendo ancora esattamente l’origine dei disturbi di Gianluca, non posso darle una risposta più precisa. Le consiglio quindi di risolvere i suoi problemi a prescindere dal bambino, cercando di coinvolgerlo e turbarlo il meno possibile. Dovrei riuscire a organizzare il team per domani pomeriggio e vedrà che potrà tornare a casa con suo figlio.” Tace per un istante e la guarda con un’espressione affettuosa e comprensiva. “Va un po’ meglio, adesso?” “Sì dottore, grazie. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, per contenere la rabbia e la delusione. Lei è disponibile e premuroso. Adesso sto meglio. Grazie
di cuore, ora vado e non le faccio perdere altro tempo.” Si alza, mentre pensa che vorrebbe restarsene lì seduta per molto e molto tempo ancora. Severi le porge la mano e lei la stringe, avvertendo un’ondata il calore, da cui attinge un attimo di benessere. Una mano amica, una mano che la può guidare. “Ci vedremo domani, signora Lenzi e stia tranquilla.” Le mani si staccano e lei si sente molto più calma e rincuorata. Si avvia verso l’uscita, seguita dall’eco benevola di quella voce profonda, con il desiderio di correre dal suo bambino. Prima di raggiungerlo in cameretta, manda un messaggio a Lorenzo: “Alle sei non venire in ospedale. Ci troviamo a casa. Dobbiamo parlare.”
Con gli occhi incollati all’orologio a muro, Cristina si perde in considerazioni sull’inesorabile scorrere del tempo. Se ne sta sdraiata sul divano del salotto e quel momento di silenzio, interrotto solo dal ticchettio delle lancette dell’orologio, prelude giornate di solitudine, gravate da pensieri e impegni. I cinque rintocchi del campanile della piazzetta, nella quale si affacciano anche le finestre del suo appartamento, la scuotono. È consapevole che, tra poco, scoppierà una bomba e dall’esplosione usciranno feriti sia lei che il marito. La casa è visibilmente in disordine ma a lei non è mai sembrata così accogliente, gli oggetti cari le tengono compagnia, l’unico elemento di disturbo è una foto che ritrae lei e Lorenzo nel giorno del loro matrimonio. Si alza e la gira contro il muro. Poi si rimette seduta e pensa che, dopo quattro giorni e quattro notti trascorsi in ospedale con mille preoccupazioni e interrogativi, starsene in solitudine a raccogliere le idee, nel calore della sua casa, le sembra quasi un privilegio. Ripensa all’incontro con il professor Severi e sente affiorare la gratitudine per quell’uomo buono e comprensivo ma anche medico rigoroso e competente; è certa che Gianluca sia nelle mani giuste.
Sei meno un quarto, indica l’orologio orgoglioso di scorrere con precisione.
È ancora molto scossa dagli avvenimenti della giornata e la tensione emotiva è stata la causa scatenante della forte emicrania che solo ora, grazie a un po’ di relax e a una doppia dose di analgesici, comincia ad attenuarsi, lasciando come postumi un sordo pulsare delle tempie e una lieve fotofobia. Sei meno cinque. Si affaccia alla finestra proprio mentre Lorenzo parcheggia l’auto nella piazzetta. Si sente decisa e spera che tutto finisca in fretta e che la discussione non trascini troppo dolore. La chiave gira nella serratura, poi la voce di lui riecheggia allegra nell’ingresso. “Cri, amore, eccomi da te.” Si avvicina per baciarla ma lei fa un o indietro, lo spiazza con lo sguardo duro e pungente. “È successo qualcosa a Gianluca?” “Siediti!” gli ordina. Il tono è perentorio e lui comincia a essere confuso e spaventato. Non gli lascia il tempo di sedersi e già gli grida in faccia parole di scherno, senza preamboli, senza che lui abbia il tempo di prepararsi al peggio. Ubbidisce e si lascia cadere sul divano a peso morto, coprendosi il viso con entrambe le mani. Si sente braccato e cerca una via d’uscita mentre lei pronuncia secca: “Lo sai che Simona è in ospedale?” “No… è un po’ che non la vedo” balbetta sempre più confuso. “E quindi non sai che ha perso il bambino che aspettavate?” Lorenzo tace, andosi una mano sulla fronte. “Il tuo bambino, Lorenzo. Tuo! Hai capito bene?” precisa e sottolinea con tutta la voce che riesce a recuperare. Il marito si alza, e dopo alcuni i si riaccascia come un fantoccio sulla poltrona, allenta il nodo della cravatta, perché ora l’aria non scorre verso i polmoni ma è ferma in gola; d’istinto ha trattenuto il fiato. Si sente immerso in una bolla sottovuoto, ma la mente lavora veloce per cercare disperatamente la via di fuga. “Ma Cri, non è come pensi…” “Taci!” gli urla. “E vergognati di tutto il male che stai seminando. Ma che uomo sei, che padre sei? Credevo di conoscerti, ma evidentemente mi sono sbagliata.”
Adesso lui, agitandosi, farfuglia: “Io… non volevo farti del male.” “Forse volevi tutelarmi, a tuo modo proteggermi dai tuoi sotterfugi, ma non posso credere che tu sia stato capace di abbandonare una donna che porta in grembo tuo figlio. Tutto questo è spregevole e lo trovo orribile. Ora ti vedo così: spre-ge-vo-le!” Scandisce bene ogni sillaba per poi continuare a informarlo che non se la sente più di vivere con lui. “Tesoro, per l’amor del cielo, lasciami spiegare…” Adesso Cristina è esausta, il momento dell’ira e dell’eccitazione nervosa è ato e lei, non essendo una persona che grida e si infuria, recupera i suoi toni normali. “Non c’è più nulla da spiegare e non c’è più nulla da dire. Avresti dovuto raccontarmi tutto prima, ora è tardi. È finita, Lorenzo, finita! Adesso andiamo in ospedale perché devo dare il cambio a Bruna e tu vai da Simona. Non mi importa cosa le dirai, cosa deciderete di fare. Non è più affare mio. Ti chiedo solo di comportarti bene davanti a Gianluca e di lasciarlo fuori da questo squallore. Tutto qui. Le scenate melodrammatiche non mi sono mai riuscite bene, quindi chiudo così e vorrei che tu, con maturità, rispettassi la mia decisione.” “Cristina, ti supplico, dammi ancora una possibilità, vedrai che ti dimostrerò che…” “Andiamo, si è fatto tardi” gli dice infilandosi il cappotto e prendendo la borsa. “Risparmia il fiato per lei. Dio sa che ne avrai bisogno!”
9
Cristina arriva trafelata e scombussolata da Gianluca. Il bimbo sta bene e osserva soddisfatto il libro pop-up portato dal nonno. Aprendo il libro compare il modellino in 3D della caracca del navigatore Amerigo Vespucci e, tirando alcune linguette predisposte, si muovono le braccia del nostromo, si sente il suono del fischietto che impartisce gli ordini e le vele si dispiegano. Gianluca spiega alla mamma che ci sono tre alberi, le vele quadre, due castelli, uno a poppa e l’altro a prua. Le indica, con la mano che stranamente non ha movimenti convulsi, la vela più grande sull’albero di maestra, che ora con la linguetta di carta riavvolge, ma le spiega che le manovre del veliero dipendono dalle vele più piccole, quella dell’albero di mezzana e quella dell’albero di trinchetto. Poi fa oscillare il libro come se il veliero si fosse perso in un mare agitato da un forte vento. Ride divertito. Cristina si perde in quel vento chimerico che annuncia la burrasca. Sente lo sbattere delle alte onde contro l’imbarcazione, che sbanda a dritta, e le voci dei marinai che manovrano le vele. Vorrebbe essere lì, su quel veliero immaginario, per varcare confini lontani e toccare paesi sconosciuti. Si sente in perfetta sintonia con la burrasca che le agita l’animo. A un tratto, inaspettatamente, la voce calda del professor Severi la distoglie dal suo viaggio fantastico in mezzo al mare in tempesta. “Un antico veliero! Posso vederlo? Sono un apionato di barche a vela. Tre anni fa ne ho acquistata una piccola. Non è proprio nuovissima, me l’ha venduta un vecchio e caro amico.” “Potrò vederla, quando sarò guarito?” chiede agitato il piccolo. “La tengo sul lago di Garda ma ti prometto che, un giorno, ti ci porterò.” Lo accarezza con tenerezza. “Non ha paura quando il vento soffia forte?” Gianluca comincia ad agitarsi e le mani si muovono velocemente. Il dottore lo osserva attentamente e prosegue con quel discorso che lo sta coinvolgendo. “No, perché quando il mare si agita, increspato dal vento, mi affido alle mie vele; non mi hanno mai tradito!” Mentre parla continua a scrutare il piccolo paziente, registrandone tutti i movimenti.
“Una domenica, il vento soffiava fortissimo. La mia povera e piccola imbarcazione si era, diciamo, distratta un attimo e inclinata. Allora lasciai la scotta della randa e quella del fiocco per far gonfiare le vele, con la barca che planava sulle onde, spinta dal vento che la colpiva al giardinetto, vincendo così l’impeto dell’acqua. Mi sono sentito il re del lago.” Mentre espone la breve avventura, cerca di memorizzare i piccoli e lievi tic di Gianluca. Il bimbo ha ormai perso la concentrazione e si è messo a giocare con il suo libro, entrando nel suo solitario mondo. Cristina si accorge che la presenza del professore calma la tempesta che si è abbattuta sulla sua psiche e la salva dal nubifragio che la sta minacciando. “Sono ato a comunicarle che, domani mattina, il team di psicologi sarà qui alle nove ed è gradita la presenza di entrambi i genitori.” “Sì, certo, ci saremo.” Severi la osserva mentre lei, nervosamente, cerca qualcosa nella borsetta. È visibilmente disorientata. “Bene, a domani. Ciao marinaio, mi raccomando, attento alle onde!” “Grazie dottore” risponde il bambino senza staccare gli occhi dal suo magico libro. Cristina trova il cellulare, che era finito in fondo alla borsa, e manda un messaggio frettoloso al marito, convocandolo per il giorno dopo e chiedendogli di mantenere la calma e la serenità di fronte a Gianluca e ai dottori. Lui le risponde che sta arrivando dal figlio e che erà la notte con lui, in ospedale. Non ha voglia di vederlo. Saluta il piccolo stringendolo forte e chiede alla mamma di Filippo se può guardarlo fino all’arrivo del marito. Esce all’aria aperta, e respira a pieni polmoni, come se avesse bisogno di quell’aria per sopravvivere. È una giornata gelida, intonata alle sue emozioni. Le strade sono ancora ghiacciate. Cammina lenta, cercando di mettere ordine agli avvenimenti che si sono accavallati negli ultimi giorni, e che l’hanno lasciata turbata e sgomenta. L’unica persona che ha voglia di incontrare è la sua amica clochard.
L’aria fredda non ha risparmiato nemmeno la Galleria del Corso, si è insinuata dentro, ignara dei danni che può causare. Nathalie è avvolta in una pesante coperta di lana e, sopra la casetta pieghevole di Briciola, ha steso un vecchio e sporco telo. L’immagine è triste, disperata, comionevole. Le stringe la mano per la terza volta. La mano è freddissima e il piattino vuoto. Le dona i suoi caldi guanti di montone, dicendole che è un regalo di cui vuole sbarazzarsi e, finalmente, riesce a piangere. Si siede lì vicino e Briciola le appoggia il musino sul grembo. In quell’istante non le interessa più il suo mondo perfetto, la sua ricchezza, la sua bella casa, il perbenismo che l’ha sempre circondata, ma ha solo voglia di essere capita e di sfogare la sua disperazione. Nathalie la guarda stupita e le poche parole che riesce a pronunciare, sempre con lo sguardo perso nel vuoto, sono quasi metalliche: “Le persone come lei sono rarissime, sono preziose, ma il destino non sembra curarsene.” − Il destino… − pensa tra le lacrime Cristina. − Il destino è Lorenzo che non si cura di nessuno, nemmeno di se stesso. – Cerca e trova nella borsa i fazzolettini di carta che le aveva offerto Severi e, mentre si asciuga le guance, sente tutto il calore che quell’uomo riesce a infonderle. Si rialza come rianimata e informa Nathalie che andrà subito in agenzia a controllare se c’è un monolocale libero. “Quest’inverno è veramente troppo freddo per resistere accampati in questo modo e Briciola è convalescente” dice lentamente, come se pronunciasse una sentenza. “Solo per i mesi invernali” ribatte la barbona decisa. “D’accordo Nathalie” risponde soddisfatta l’amica. Cristina si ritrova in agenzia a controllare i miniappartamenti, ce ne sono molti disponibili. Chiede di vederne uno in particolare perché è vicino a casa sua. La ragazza dell’agenzia, sbalordita per la scelta rapida, la informa che è possibile visionarlo il pomeriggio del giorno successivo, alle due. Cristina non ha voglia di andare a casa. Bruna ha la serata libera, e sente già pesarle sulle spalle la solitudine che, d’ora in poi, dovrà affrontare.
Comincia a girovagare per le vie di Milano, sentendosi abbandonata e, se non fosse per via del freddo, avrebbe voglia di are la notte all’aperto. Si sente affine alla barbona e comincia a comprenderla sempre di più. Prova un risentimento sordo nei confronti di Lorenzo, odia tutti gli oggetti della casa che hanno condiviso e non ha voglia di tornare in quell’appartamento, che racchiude tanti ricordi felici condivisi. Si ritrova così di fronte all’ufficio di Martina e suona il citofono. “Scendo subito, ho terminato” risponde l’amica, sorpresa e allarmata dall’inaspettata visita di Cristina. Poco dopo si ritrovano sedute al tavolo di un bar a bere tè verde. Cristina, mentre sorseggia quella benefica bevanda calda, racconta tutto in un fiato, con grande eccitazione frammista allo sconforto, le vicende che ha dovuto affrontare. Martina le propone di dormire da lei e accetta volentieri. Capisce che ha bisogno di essere confortata. “Domani pomeriggio sarò libera e ti accompagnerò volentieri a vedere il monolocale. Puoi stare da me quanto vuoi. In questo periodo, come sai, sono assolutamente single.” Cristina ringrazia e lì, in presenza della sua cara amica, sente che le ferite inferte dal marito e la malattia del figlio sembrano meno dolorose.
Alle otto si sveglia e la poca luce che filtra dai forellini della tapparella la disorienta. Si guarda attorno, notando che non è nella sua camera e, in un baleno, gli ultimi avvenimenti le piombano addosso con un’angosciosa sensazione di peso al petto. Fatica ad alzarsi dal letto e si butta subito sotto la doccia, nella speranza che l’acqua bollente lavi via tutti i suoi dispiaceri, ma quelli rimangono ancorati dentro di lei. Si prepara il caffè. Martina è già uscita e le ha lasciato un biglietto che la informa di comportarsi come se fosse a casa sua. Le ha preparato alcuni abiti, scelti con cura nel suo fornito guardaroba. Vicino al biglietto ci sono le chiavi di
casa inserite in un originale portachiavi di cuoio. Lo avvicina agli occhi per decifrare la frase incisa sulla pelle: “Non aver paura”. Le scappa un sorriso ricordando che Marco, uno dei tanti fidanzati di Martina, gliel’aveva regalato in occasione della sua prima giornata di lavoro. Dà un’occhiata all’orologio: sono le otto e mezza. Pensa all’appuntamento con i medici e si sforza di finire il caffè: deve essere lucida. Per la salute di suo figlio non può permettersi distrazioni o stanchezza. Indossa un abito blu con i bordi panna, che non ricorda di aver mai visto sfoggiare dall’amica. Si osserva nello specchio del corridoio e, nonostante le ultime dolorose vicende, vissute fino a sentire la sofferenza all’interno delle ossa, si vede abbastanza in forma. Raccoglie i capelli, poi li scioglie, infine decide di inserire un piccolo fermaglio, per tenere ferma una ciocca ribelle. Si avvia verso l’ospedale pregando che Gianluca non abbia nessuna patologia grave. Non riesce a pensare a Lorenzo, ma solo al suo adorato figlio. Il professor Severi presenta ai genitori due psicologhe e un neuropsicologo, che ha un’alta specializzazione nei disturbi dello sviluppo infantile. Decidono di parlare prima con il piccolo paziente, mentre i parenti rimangono nella stanza del bimbo. Il nonno è visibilmente agitato. Lorenzo ha i segni della stanchezza dipinti sul volto e dice che Gianluca si è agitato nel sonno quasi tutta la notte. Cristina è racchiusa nel suo silenzio, che è dal padre interpretato come paura di apprendere brutte notizie da quel team, che gli è sembrato austero e cerimonioso La donna rimane in piedi accanto alla finestra e osserva le persone che frettolosamente entrano ed escono dall’ospedale, evitando di incrociare lo sguardo del marito. ano tre ore interminabili, durante le quali Cristina sente l’ansia e l’angoscia arrivare a livelli intollerabili. Più volte si alza e si riaccascia sulla sedia ma è incapace di allontanarsi dalla stanza del figlio. Si rimprovera di essere stata una madre superficiale e di aver trascurato troppo a lungo le anomalie nel comportamento del bimbo, che nascondevano una grave patologia. Si sente vergognosamente colpevole. Con Lorenzo e il padre scambia pochissime parole. Oltre alla preoccupazione, anche la tensione tra i due coniugi è tangibile. Ognuno è assorto nei propri pensieri e il tempo si dilata in maniera paurosa. Ogni singolo minuto di attesa sembra durare un’eternità.
Poi il bimbo ritorna, accompagnato da un’infermiera molto premurosa. È tranquillo e non sembra minimamente turbato, segno che gli psicologi hanno usato con lui molto tatto, frutto di anni di esperienza nel trattare con persone problematiche. L’infermiera si rivolge ai genitori: “Il professore vi riceverà nel suo studio, per un colloquio, alle diciassette. Dopodiché potrete tornare a casa con il bambino. Adesso, però, è meglio che lo lasciate tranquillo.” Tutti e tre lo circondano colmi di affetto e vorrebbero porgli mille domande ma seguendo il suggerimento dell’infermiera, si scambiano solo delle occhiate piene di muti e penosi interrogativi. Un’inserviente entra spingendo il carrello con il pranzo e Cristina guarda allarmata l’orologio. “Papà, potresti fermarti qui per un po’? Ho un appuntamento importante e Lorenzo deve andare a dormire almeno un paio d’ore. Hai sentito che non ha chiuso occhio?” chiede frettolosamente, mentre si infila il cappotto. “Ricordati che alle diciassette hai appuntamento con il professore” le dice di rimando il padre. “Certo, per quell’ora sarò sicuramente di ritorno. Grazie, papà. Ci sei stato molto vicino.” Gli dà un bacio e stringe forte il bimbo, scompigliandogli i capelli ricci e neri come quelli di Lorenzo. “Mangia tutto, altrimenti non diventerai mai un vero marinaio.” Il nonno apre il libro pop-up dicendo al nipote che ne ha ordinato uno meraviglioso, che racchiude il modellino della caravella Santa Maria di Cristoforo Colombo. Gianluca allunga le braccia per stringere il nonno ma gli esili arti si fermano a mezz’aria, perché la subdola sindrome li blocca, impietosa. Gli si legge sul visino la delusione e le manine cominciano ad agitarsi in maniera compulsiva. Allora Giovanni lo abbraccia teneramente e gli fa il solletico, facendolo ridere talmente di gusto che un’infermiera accorre per vedere cosa stia succedendo. “Non abbiamo bisogno di nulla. Stiamo solo ridendo. Sa, siamo due mattacchioni…” L’infermiera rimane perplessa sulla porta.
“Non vorrà avvisare il primario perché ridiamo forte…” Lei si gira scuotendo il capo e ritorna al suo lavoro. Cristina si unisce alla risata e capisce in questo momento che può, con l’aiuto di suo padre, tornare a vivere una vita serena. Prende la borsa ed esce veloce, non vuole arrivare tardi all’appuntamento.
Sul marciapiede di Via Nino Bixio trova ad attenderla l’amica che, vedendola arrivare, agita il braccio festosamente in segno di saluto, come sempre briosa e di ottimo umore. Martina ha un carattere eccezionale, esuberante e allegro e, a contatto col suo contagioso e costante buonumore, i momenti di tristezza e le malinconie dei comuni mortali evaporano e si disperdono come brina al sole. Le due donne sono unite da profondo affetto e il loro è uno splendido rapporto, che dura da oltre vent’anni. Si sono trovate per caso compagne di banco alle scuole medie e, da allora, sono sempre state molto legate e presenti l’una per l’altra, nei momenti più importanti della vita. Martina è una bella donna, alta e slanciata, con un grazioso viso ovale incorniciato da capelli scuri, tagliati cortissimi, che la rendono simile a Audrey Hepburn nel film Sabrina. Soprattutto i grandi occhi da cerbiatta ricordano quelli della popolare attrice e, quando capita che qualcuno la paragoni a quell’icona di bellezza ed eleganza, lei si schermisce e si imbarazza. Oltre che bella e intelligente è anche modesta. Cristina ammira in lei la calma e la determinazione, il modo di vedere il lato umoristico delle situazioni, la capacità di risorgere sempre e in ogni modo dalle difficoltà, con il sorriso sulle labbra, evitando di drammatizzare e piangersi addosso anche nei momenti più bui. Oltre a questo le invidia l’ottimo gusto e il senso estetico, che si notano in modo evidente nel vestire, e si avvale spesso dei consigli dell’amica quando vuole fare bella figura in qualche particolare occasione. Quel giorno Martina indossa un cappottino blu, corto e attillato, stivali scamosciati grigi e una borsa abbastanza grande in tinta, portata con disinvoltura infilata nell’avambraccio. L’agente immobiliare sta arrivando in quel preciso istante, puntuale e sorridente. “Signora Lenzi, buongiorno.” È un bell’uomo sulla trentina, con un viso simpatico e abbronzatissimo. “Buongiorno. Le presento Martina, una cara amica.”
Lui porge automaticamente la mano e gliela stringe calorosamente, fissandola con uno sguardo malizioso e ammirato. Cristina strizza l’occhio all’amica, per farle capire che ha rilevato, anche questa volta, che il suo fascino non è ato inosservato. È sempre stato così, tra loro due: Martina risulta la più bella, la più ammirata, la più corteggiata. Ma, nonostante ciò, la sua vita sentimentale è un disastro. Le varie relazioni che ha avuto sono state brevi e insignificanti e non ha mai voluto legarsi seriamente a qualcuno. Forse perché è molto esigente in fatto di uomini, o troppo libera per affrontare rapporti duraturi e importanti. Sostiene di essere allergica alle convivenze e ai legami troppo stretti. Quindi è una single felice, con una vita professionale appagante e tante amicizie interessanti, anche maschili. “Possiamo salire. L’appartamento è proprio in questo edificio, al secondo piano. Ho già avvisato la portinaia della nostra visita” informa l’agente. Entrano nell’atrio di un massiccio stabile d’epoca e Cristina si guarda in giro, notandone rassicurata l’ottimo stato di conservazione. Il ragazzo chiama l’ascensore ma le due donne preferiscono salire a piedi, per verificare le condizioni strutturali interne dell’immobile. Incontrano sul pianerottolo una coppia di persone di mezza età, dall’aspetto distinto e cordiali nel porgere i saluti. Cristina si rallegra che la casa sia ben abitata ma subito pensieri fulminei e pungenti le attraversano la mente e la lasciano perplessa. Nathalie e Briciola potrebbero in qualche modo urtare la sensibilità di tutta questa gente per bene? Come potrà venire accolta una barbona in un contesto così ordinato e curato? Dovrà provvedere a ripulirla nel migliore dei modi e convincerla ad assumere un aspetto decoroso. Le comprerà dei vestiti moderni, la manderà dal parrucchiere e porterà anche Briciola a fare toilette. Certo, avrebbe pensato lei a tutto e l’avrebbe trasformata in una donna nuova, le avrebbe restituito la sua dignità. Questo è il sogno e il segreto di Cristina. L’appartamento è al secondo piano e, mentre salgono le scale, l’agente spiega le condizioni del monolocale, sottolineando che è stato ristrutturato e arredato alcuni anni prima dal proprietario, che l’usava come pied-à-terre per lavoro. Estrae dalla tasca le chiavi e fa notare la porta blindata. “Ora entriamo. Come potete rilevare, gli infissi esterni in doppio vetro sono in pvc, il pavimento è monocottura, l’impianto elettrico è a norma, il riscaldamento è autonomo. L’esposizione a sudest lo rende molto luminoso. Anche il bagno ha la finestra esposta a est.” Descrive le caratteristiche dell’appartamento, come
recitando una poesia a memoria. “Davvero carino! Con una sistemata può diventare molto accogliente” chiosa Martina. Cristina è attratta dal soppalco in legno, al quale si accede tramite una scala dello stesso materiale, che appoggia su dei cassettoni. “Può salire, prego” le dice l’agente, che non toglie gli occhi da Martina e si impegna ad apparire gentilissimo. Un grande materasso, rivestito da una stoffa in cotone a fiorellini blu, è appoggiato al soppalco e, sulla parete in legno, due graziose applique che rievocano lo stile del ato le fanno venire voglia di rifugiarsi in quell’angolo protetto della casa per riposare e meditare sui cambiamenti che inevitabilmente deve affrontare. Un rifugio perfetto, una tana che protegge dall’asprezza degli eventi che la vita, quotidianamente, può riservare. “Va bene questo! Mi dica quanto è l’affitto mensile e mi quantifichi anche le spese condominiali.” L’agente la guarda sbalordito poi, rivolgendosi a Martina, esclama: “Ma la sua amica è sempre così decisa e sicura?” “Sì, Cristina è così.” “Allora ci spostiamo nel mio studio per redigere il contratto.” Dopo la firma dei documenti, le due amiche si trovano nuovamente in strada. È una giornata limpidissima di fine gennaio e il sole, ancora pallido e sbiadito, lascia però fantasticare e prevedere il suo rinnovato vigore. Entrano in un bar, per sottrarsi all’aria gelida e penetrante che, improvvisamente, ha cominciato a soffiare. Il locale è molto piccolo, affollato e troppo riscaldato. Si siedono a un tavolino d’angolo e cominciano a sfilarsi i pesanti cappotti. Ordinano alla cameriera due succhi di frutta e parlano ancora un po’ dell’affare appena concluso, facendo progetti su come abbellire il monolocale e renderlo funzionale al massimo, per accogliere la nuova ospite. Martina, con la curiosità che ha represso a stento fino a quell’istante, chiede: “Senti, come mai non mi hai mai parlato della misteriosa amica che hai
intenzione di sistemare nell’appartamento?” Cristina gode un mondo nel vedere l’amica friggere d’interesse e risponde vaga: “È una storia lunga, al momento opportuno ti racconterò tutto. E poi, cara, ho scoperto che è bellissimo avere dei segreti!” “Ma è proprio un’amica o piuttosto… un uomo?” “Mi ci manca solo un amante! Con tutti i problemi che ho già in questo periodo…” “Vabbè, donna del mistero, però quando riterrai che sarà giunto il momento organizzerai una cena per tutte e tre, promettimelo! Adesso possiamo festeggiare.” “Non è ancora il momento dei festeggiamenti, Marti, oggi ho appuntamento con il dottor Severi per la diagnosi di Gianluca e, anche se mi sforzo di credere che tutto andrà bene, non sono dell’umore giusto per brindare.” Si rabbuia in volto e la giocosità di un attimo prima è spazzata via dal vento gelido che solleva le cartacce per strada e che le è penetrato nel cuore. “Martina, ho paura. Anzi, sono terrorizzata. Non so se ce la farò da sola col bambino.” Ora, oltre che dal vento ghiacciato, si sente invasa dalla nebbia e dallo smarrimento. Le sembra che tutti i pianti non fatti le si siano incrostati nella gola. “Coraggio, sono sicura che si aggiusterà tutto: Gianluca starà bene, e poi non sei sola, ci sono tuo padre, Bruna e… puoi contare su di me. E sono certa che, ato un certo periodo di conflitto, scoprirai che anche Lorenzo potrà essere un buon padre e aiutarti col bambino.” L’amica cerca argomenti per consolarla nel modo più tenero: “E che mi dici di quel medico, il professor Severi? Affermi che è così umano e che ti piace confidarti con lui…” “Sì, in effetti è diventato un po’ il mio punto di riferimento, in questa fase inaspettatamente ingarbugliata della vita. Non ci crederai, ma sono corsa da lui in lacrime, dopo la scenata con Lorenzo. Mi sono sentita così stupida e infantile!”
“Hai fatto benissimo, invece, sei stata sincera.” “Grazie Martina, tu non sai essere critica nei miei confronti. Sei tanto buona. Forse non te lo dico spesso, ma sei un’ottima amica. La migliore che ho.” “Sì, però adesso non rimetterti a frignare. Devo tornare al lavoro e tu in ospedale.” Cristina si alza per andare alla cassa a pagare, poi torna al tavolo ed è riluttante ad abbandonare quel caldo cantuccio, rallegrato da chiacchiere e scambi d’intimità. “A proposito di lavoro, è un po’ che non mi parli del caro buon Luigi, come sta? È sempre in fase di venerazione?” Martina, infatti, lavora in uno studio notarile e, con la sua laurea in giurisprudenza, è molto più di una semplice impiegata. Il titolare dello studio è un anziano notaio, Luigi Boselli, ormai stanco di lavorare, che preferisce dedicarsi al golf e ai nipotini, lasciando a lei incarichi sempre più delicati e di responsabilità. “Certo, pensa che mi ha ancora aumentato lo stipendio e, per Natale, mi ha regalato una borsa di Hermès.” “Marti, ma perché tutti ti adorano?” “E allora com’è che non ho neanche uno straccio di fidanzato? Adesso devo proprio andare. Ci sentiamo stasera. Chiamami appena sai qualcosa di Gianluca.” Quando escono sulla strada, una raffica di aria ghiacciata, sferzante, le colpisce in viso, ricordando a Cristina la dura prova che deve ancora sostenere quel pomeriggio e il freddo che deve affrontare la povera Nathalie. Si abbracciano e si sentono più vicine che mai.
Seduta su una poltroncina di plastica nel corridoio antistante lo studio del professor Severi, Cristina si torce penosamente le mani, aspettando di essere ricevuta. È ovviamente preoccupata ma, a tratti, nella mente turbata affiora la
speranza che la bravura e la grande esperienza del medico riescano a guarire il suo bambino. Gianluca è stato visitato e scandagliato in ogni angolo della psiche da medici valenti e ora è ansiosa di apprendere qualcosa in più sulla personalità di suo figlio che, scopre con grande rammarico, conosce poco. In effetti, è sempre stato uno strano bimbo e, riflettendo intensamente, si accorge che anche il suo rapporto con lui è molto particolare. Gianluca rifiuta i contatti fisici ed essendo così taciturno e chiuso, si fatica a capire cosa gli i per la testa. È davvero singolare: per certi versi assai goffo, ingenuo e infantile, per altri acuto e brillante, troppo per un bimbo della sua età. E poi ha una memoria strepitosa. Martina, quando è venuta a trovarlo in ospedale, gli ha portato un libro sui dinosauri e, in soli due giorni, ha memorizzato i nomi lunghi e complessi di quegli animali ormai estinti, e anche il regime alimentare e il periodo in cui sono vissuti. Chissà se gli psicologi che lo hanno esaminato saranno in grado di spiegare anche questa sua dote innata. La porta dello studio si apre, facendo comparire una donna elegante e vistosa, che accompagna una ragazzina scheletrica, con il volto dolce e due occhi tristi come due pozze scure e profonde. Il dottore invita Cristina a entrare. “Allora, signora Lenzi, finalmente sono in grado di dirle qualcosa di più preciso.” È gioviale come sempre, e lei si sente un pochino più rilassata. Ma la preoccupazione e l’emozione non l’abbandonano, ha bisogno di concentrarsi su particolari normali e permanenti, come i grandi quadri astratti e coloratissimi appesi alle pareti dello studio. La grande finestra dalla quale si vede un’altra ala dell’enorme ospedale attira la sua attenzione e si fissa sulla solidità e stabilità di quella costruzione, soffermandosi a riflettere su quei due sostantivi. Ecco, è proprio ciò di cui ha bisogno in quel momento: solidità e stabilità. Per poter affrontare quella fase così delicata della sua vita, per non soccombere agli eventi. Torna a concentrarsi sul medico e nota che la camicia che indossa sotto il camice, di un azzurro intenso, si intona splendidamente agli occhi che spiccano, mansueti e bonari, dietro le lenti di occhiali senza montatura. È un uomo sulla cinquantina, piuttosto alto e robusto, con i capelli tagliati a spazzola e un’espressione intelligente. Anche se non si può definire bello, Cristina lo trova indubbiamente affascinante. “Si accomodi, prego.”
Si siede rigida, sulla poltroncina in pelle, le mani gelate e un’espressione tesa in volto. In quel momento si sente un lieve tocco di nocche alla porta. “Avanti” esclama il professore. Lorenzo si scusa per il ritardo e si siede accanto a Cristina. I coniugi si salutano con un cenno del capo. “Cominciamo dalle buone notizie. I colleghi e io non abbiamo riscontrato nessun grave ritardo mentale, né patologie a livello cerebrale.” Cristina fissa il professore e quei pochi istanti sono densi d’angoscia. Si sente completamente smarrita e teme di venir meno. In un attimo tutto il suo mondo risulta essere appeso a un filo che il medico, con la sua diagnosi, può recidere di netto, causando un tremendo crollo. Un filo sottile che una sola parola può distruggere, o rendere saldo come un cavo d’acciaio. Dipende completamente da quell’uomo ed è una sensazione che non le dispiace. Potersi fidare di qualcuno, tornare ad aver fiducia in un essere umano è, in qualche modo, rassicurante. Severi apre una cartelletta, legge alcune righe, si schiarisce la voce cercando di renderla morbida. “Riteniamo che suo figlio sia affetto da una malattia imparentata con l’autismo.” La speranza che qualche secondo prima la stava rigenerando scivola via, per lasciare il posto allo sgomento. Lorenzo incrocia lo sguardo della moglie e la vede afflosciarsi sulla poltroncina, con gli occhi umidi. Cristina si sente totalmente impotente e pensa che, in quel frangente, non può far altro che mettersi nelle mani del medico. “No, non vi allarmate più del necessario” prosegue. “Dunque, vi dicevo, la Sindrome di Asperger è caratterizzata da un danno qualitativo nell’interazione sociale. Gli individui affetti da questa patologia vorrebbero relazionarsi con gli altri ma non ne hanno l’abilità e, proprio per il loro modo di approcciarsi, spesso vengono considerati strani. Possono avere un’intelligenza normale o superare la media e, nello specifico, riteniamo che Gianluca sia molto dotato.” “Dottore, ha notato che ha una memoria eccellente?” “Sì, è una caratteristica dell’Asperger. I soggetti hanno capacità mnemoniche fenomenali, anche per quel che concerne numeri e calcoli matematici. A
proposito, il bambino conosce e sa applicare le radici quadrate. Immagino che la materia non rientri nel programma di prima elementare e mi chiedevo… se per caso gli avete impartito voi queste nozioni.” I due genitori si guardano stupiti. “No…” risponde incerta Cristina ma subito si ricorda del vecchio libro di algebra trovato aperto sulla scrivania del figlio. “Credo che abbia fatto tutto da solo.” Il medico continua a parlare in modo professionale ma chiaro e comprensibile. “Inoltre i soggetti con questa sindrome hanno problemi di coordinazione motoria: abilità con la palla, equilibrio, destrezza manuale.” I genitori non possono che riconoscere che tutti i sintomi di quell’impietoso elenco sono aspetti tangibili del comportamento del loro bimbo. Uno sconforto intollerabile addenta lo stomaco di Cristina, che frena con una grande forza di volontà le lacrime che stanno sputando dagli occhi. Si aspetta che, da un momento all’altro, il professore le possa rivelare qualcosa di orribile. “Riteniamo che suo figlio possa recuperare. Certo, ha bisogno di una psicoterapia cognitiva comportamentale seria e continua, per stimolare la regolazione di alcuni meccanismi mentali. Ci sono diversi centri all’avanguardia e noi le forniremo tutti gli indirizzi. Per ora non necessita di farmaci, in quanto non ha manifestato comportamenti aggressivi e autolesionistici. Dobbiamo solo tenere sotto controllo i movimenti compulsivi delle mani.” “Ma allora, dottore, cosa mi devo aspettare? Potrà mai fare una vita normale?” La voce le trema, è appesa a un filo di speranza. “Suo figlio potrà migliorare e condurre una vita normale e felice. Apparirà sempre una persona strana, particolare ma potrà fare di questo un suo punto di forza. Perché strano significa anche originale e speciale.” Un tumulto di pensieri agita la povera madre, attimi di panico e sconforto, ma anche sollievo per avere escluso malattie ancora più gravi. Lorenzo rimane chiuso nel suo silenzio, per lui l’Asperger è l’ennesimo pugno allo stomaco degli ultimi giorni. Le parole del medico sono state ferme e crude, ma lasciano trasparire speranze per il futuro del piccolo.
“Comunque,” conclude il professore Severi “se siete d’accordo, vorrei continuare a seguire Gianluca. Ci vedremo ogni settimana, di mercoledì, alle sedici. Ora andate da lui senza turbamenti.” Cristina si alza e prende la mano che il medico le porge, ricevendo una stretta forte e decisa che, ancora una volta le trasmette una sensazione di grande calore, che si irradia piacevolmente sotto la pelle. “Grazie infinite, dottore.” “Ci vedremo mercoledì e, nel frattempo, continuate a comportarvi normalmente.” Il professore Severi sta parlando con i familiari di un altro paziente e la porta dello studio si è ormai inesorabilmente chiusa dietro Lorenzo. Tutte le sue domande sono rimaste sospese nella sua affaticata mente. Rimane fermo in corridoio a riordinare i pensieri. Sindrome di Asperger. Non ne aveva mai sentito parlare e la non conoscenza di questo disturbo comportamentale lo sconvolge a tal punto da farlo stare male. Avverte i maledetti sintomi dell’attacco di panico. Suda, trema. L’affanno e il dolore al petto lo confondono mentre ha un conato di vomito. Piange. Vede Cristina uscire dalla camera del figlio e dirigersi decisa verso l’ingresso dell’ospedale. Alza una mano per fermarla ma lei non si volta, prosegue dritta e apre la porta. Cerca di seguirla, di urlarle che ha bisogno di aiuto ma la voce non esce, il nodo alla gola lo blocca per la seconda volta durante quella dolorosa giornata. Ha la sensazione di svenire, trova una sedia e si accascia. Percepisce irrealmente che gli sta succedendo qualcosa di orribile e si sente disconnesso dal tempo e dallo spazio. Le mani e i piedi sono gelati. Si avvicina, in quel momento, un papà, lamentandosi che il figlio ha preso un virus tremendo e la diarrea non si arresta. “Deve fare la flebo in vena, ma non sta fermo, è spaventato a morte, poverino.” “L’ha lasciato da solo?” Lorenzo si meraviglia che la voce esca dalla sua gola, dove si era ostinatamente congelata. “No, c’è mia sorella a darmi il cambio. Ho ato qui la notte e sono stanchissimo!” Il breve colloquio è bastato per calmare l’attacco. Ora, però, Lorenzo non sa dove andare.
Il giorno precedente era salito in Ginecologia a trovare Simona. Si era soffermato sulla porta a osservarla. Pallida, sfinita e addolorata. La piccola radio sul comodino commentava le notizie del giorno. Lei era girata verso la finestra e non si era accorta della sua presenza. Allora aveva tamburellato alla porta con la massima discrezione. Simona si era voltata verso di lui ma non erano riusciti a salutarsi, a dirsi nulla. Gli occhi chiari della donna non esprimevano odio, neppure rifiuto, erano due pozze acquose, visibilmente sconsolati e stanchi. Lorenzo era uscito in punta di piedi sperando che lei lo richiamasse, lo invitasse a tornare dentro. La camera era rimasta tristemente silenziosa. Si era seduto in sala d’attesa a pensare. Conosceva la determinazione della moglie ed era cosciente che non sarebbe più tornata indietro. Aveva chiesto un foglio di carta all’infermiera e, con la stilografica, aveva scritto una lettera, nella quale esprimeva tutto il suo dispiacere, il suo rammarico per Simona; riconosceva di essersi comportato come un verme. Le chiedeva di perdonarlo e di continuare ad amarlo. Gli era rimasta solo lei. Non aveva trovato il coraggio di consegnarle personalmente quelle poche righe, sgorgate dal cuore, perciò aveva chiesto all’infermiera di consegnare lo scritto alla signora della camera numero otto. Poi era andato da suo figlio e aveva ato la notte con lui. Simona non l’aveva cercato al cellulare e ora la demoralizzazione lo sta dilaniando. Non gli resta più nulla. Deve riprendere in mano la sua vita, ridotta in frantumi, e ripartire da zero. Seduto, su una rigida sedia di plastica della sala d’aspetto di Pediatria, intuisce che non ha più una casa, una dimora. E ha paura ad andare da Simona, un altro rifiuto lo ucciderebbe. Dovrà trovarsi un albergo e poi andare in agenzia per cercarsi un monolocale. Quindi are da casa a prendere i vestiti e tutto quello che serve. Deve darsi da fare. Ma non ha la forza di alzarsi.
Non ha voglia di are a salutare Gianluca perché sa che il suocero ha intuito tutto e lui non è in grado di dare spiegazioni. Non ora. Si sente come un animale braccato e non gli resta che rimanere lì, afflosciato, con la testa tra le mani.
Rizzi sta discutendo con Lorenzo riguardo alla filiale di Torino, perché l’anziano direttore a breve andrà in pensione e si presenta l’urgenza di trovare un sostituto. ano in rassegna alcuni fascicoli di colleghi molto diligenti. A un tratto, Rizzi abbassa gli occhiali sulla punta del naso, lo fissa ed esclama, mentre controlla la reazione del collega: “Potresti andare tu. È un’ottima filiale. Se ti interessa ne parlerò in consiglio, la settimana prossima.” Potrebbe essere la sua salvezza. Sa che la banca, al direttore, oltre a un ufficio spazioso e ben arredato offre un loft confortevole ubicato nel centro della città. Non ha proprio voglia di mettersi a cercare una casa e sa che Cristina è irremovibile sulle sue decisioni. In quel preciso istante, mentre sta assaporando l’idea di cambiare aria, il bip che avvisa il ricevimento di un messaggio sul cellulare lo distrae. Si scusa con il collega, spiegando che potrebbe essere l’ospedale. “Figurati Lorenzo, per oggi abbiamo finito. Ci sentiremo domani Intanto rifletti con calma sulla proposta che ti ho fatto. La fretta è cattiva consigliera. Mi spiace per tuo figlio ma so, da amici, che a Torino c’è un ottimo centro specializzato in disturbi comportamentali dell’infanzia.” Si scambiano una cordiale stretta di mano. Rientrare al lavoro gli ha fatto bene, per alcune ore non ha pensato alle sue disgrazie. Si ferma sulle scale per leggere il messaggio, è impaziente. Le mani gli tremano ma la speranza lo incoraggia a guardare. È Simona. Vuole vederlo. Fa i gradini a tre a tre, e corre verso l’ospedale. Lo consola sperare che qualcuno possa ancora amarlo, volergli bene. Ha sete di amore, in quel momento, come non l’ha mai avuta. Ha bisogno di un sorriso, di un abbraccio. Ha bisogno di parlare. Poi in auto, mentre guida, l’eccitazione lascia il posto all’avvilimento.
Non è sicuro che l’amante si butti fra le sue braccia, forse vuole solo urlargli la verità che Cristina gli ha messo di fronte e accusarlo di essere un povero uomo spregevole. Rallenta, guida piano, si ferma. Entra in un bar e beve un caffè, poi decide di mandare un messaggio a Simona chiedendole se ha ancora voglia di stringerlo a sé. Lei risponde semplicemente “Ti aspetto”. Ha ancora paura, ma deve andare. Tamburella alla porta della camera numero otto con energia. Questa volta il silenzio lascia il posto a lunghe e calde lacrime. Si abbracciano. Sono tutti e due totalmente soli e sanno che la solitudine, quando cammina su un percorso di dolore e di abbandono, è logorante, intollerabile. Alle sei, come sempre, va a trovare Gianluca, ma si sente freddo e distaccato, a differenza di Cristina. Ha paura della malattia, teme di sbagliare, di dire frasi che possono disturbare la piccola mente, di toccarlo e scatenare quegli odiosi tic. Si limita a sfogliare il libro e ad ascoltare la descrizione della caravella di Colombo che il nonno Giacomo deve avergli insegnato. Pensa che Torino possa essere un’ottima via d’uscita anche per il figlio, così il piccolo apprenderà che il papà non vive più con la mamma per motivi di lavoro. In un attimo prende una decisione. L’indomani a Rizzi darà la sua risposta.
10
Gianluca saltella sulle scale e Bruna, sentendolo arrivare, commossa, apre la porta. Brook scodinzola e lecca festosa il visetto del bimbo. Cristina si sofferma un attimo e aspetta ansiosa che partano i fastidiosi movimenti delle mani di suo figlio. Gianluca corre in casa, inciampa nel tappeto persiano, si rialza e si butta sul letto della sua camera. Fissa le pareti con tutti i suoi disegni, poi si alza di scatto, prende il veliero dalla mensola e lo porta sul tappeto della sala. Apre il libro pop-up e si mette a giocare con le imbarcazioni. Sembra felice e le mani rimangono tranquille. Cristina sospira e si rasserena. “Ho già preparato una bella cenetta e l’arrosto che piace tanto a Lorenzo” informa Bruna, soddisfatta di essere utile in quel particolare momento. “Lorenzo non verrà questa sera a cena, per motivi di lavoro, ma non rattristarti, ho invitato mio padre. Sarà qui a breve.” Cristina cerca un’espressione del volto e un timbro della voce neutri. “Tuo marito lavora troppo. D’altronde, se vuole fare carriera, un po’ di sacrifici bisogna che li faccia.” “Eh, già” risponde Cristina e si affretta ad andare in camera a cambiarsi, per porre fine a quel dialogo che la disturba. Mentre indossa una comoda tuta da ginnastica, pensa che, prima o poi, dovrà mettere al corrente Bruna della rottura con Lorenzo. − Sarà la prima ad accorgersi che qualcosa non quadra, vista la sua presenza costante in questa casa − pensa mentre scende le scale. Gioca con il figlio ma i suoi pensieri si fissano su cosa dire, come e quando informare il padre della fine del suo matrimonio. Non ha voglia di deluderlo e di coinvolgerlo in quella triste storia. − Ci penserò. Per questa sera Lorenzo è a cena con i colleghi e la bugia reggerà − dice a se stessa, perché ha bisogno di are una serata tranquilla. Troppe emozioni e frustrazioni si sono concentrate in pochi giorni. Mentre è persa nei suoi pensieri, arriva Giovanni e si mettono a tavola, cenano tranquilli e Gianluca,
stanco della giornata, si addormenta prima del dolce. Bruna lo mette a letto poi saluta, gentile e ossequiosa come sempre, prima di andare via. Cristina si trova faccia a faccia con suo padre, nel silenzio che si è improvvisamente creato. Fatica a ingerire la torta perché il padre la scruta, come se stesse aspettando notizie. Beve un sorso d’acqua, per mandar giù il boccone che è rimasto fermo tra la lingua e il palato. “Dici che domani Gianluca potrà riprendere la scuola?” Spera di portare il discorso sul bimbo. “Credo di sì. Segui i consigli del professor Severi. Lo trovo, oltre che preparato, un medico-papà che si affeziona ai suoi pazienti.” L’immagine del volto del dottore e la voce baritonale le arrivano al cuore e le infondono sicurezza. “Tesoro, dovremmo parlare” esordisce il padre riportando l’attenzione sull’argomento spinoso, che incombe su di loro come una spada di Damocle. “Ho capito che tra te e Lorenzo c’è tensione ma vorrei delle spiegazioni. Ho sempre creduto in voi come coppia e… poi ora bisogna pensare al bambino e non perdersi in litigi o ripicche.” “Non si tratta di litigi e ripicche, papà. Lorenzo ha un’altra donna.” Ecco, l’ha detto. Ha pronunciato quella frase e non è stato neanche troppo penoso. Il cervello, a volte, adotta strane difese per aggirare il dolore, seguendo il filo della razionalità. È ato pochissimo tempo e ha già in parte assimilato la nuova realtà. “Ha un’altra donna.” La frase suona ormai familiare. La fa rimbalzare nella mente e il senso di disperazione si placa, fino a farle credere di averlo superato. La ripete più volte dentro di sé, cercando di renderla inoffensiva, tentando di farsela amica. Non deve dimenticarla, relegarla in una zona buia della memoria, altrimenti lei diventerebbe facile preda del pentimento e non vuole assolutamente fare un o indietro. Guarda il padre che siede al posto di Lorenzo e ha la percezione di qualcosa di stonato, un particolare fuori luogo, che cambia ineluttabilmente il senso della sua vita. Il marito le manca già ma si conosce troppo bene per sapere che la decisione presa è irreversibile. Ce la farà. La sua vita si incanalerà in un percorso differente, un cammino che lei seguirà da sola, donna matura che non si guarderà alle spalle con commiserazione. Risorgerà dalle difficoltà con il sorriso sulle labbra. Legge negli occhi del padre il suo stesso dolore, buio come le sere invernali ma,
dentro di sé, scorge una fievole luce che le infonde la speranza per un futuro nuovo. Giovanni deglutisce e beve un sorso di vino. “Non immaginavo. Perché non me ne hai parlato prima?” “È da poco che l’ho scoperto. Abbiamo deciso di separarci due giorni fa.” “Continuo a non capire… proprio ora che Gianluca ha bisogno di calore e serenità…” Cristina lo interrompe, non ha voglia di sentire che la separazione dei genitori graverà sul figlio. “Lei ha perso il bambino pochi giorni fa. E questo è inaccettabile. Non posso continuare ad amarlo e neanche fingere di amarlo per nostro figlio. Gianluca con me sarà sereno, non gli farò mancare nulla.” “E suo padre quando lo vedrà?” “Tutte le volte che vorranno.” La voce è tesa e gli occhi le si riempiono di lacrime. “Papà, ti prego, non dire altro. Ormai ho preso la mia decisione.” Giovanni comprende il dolore della figlia e ricorda quello che lui ha provato per la sparizione di Lie. Si era rinchiuso nel suo guscio e il mondo, a parte il lavoro, non gli suscitava più nessun interesse; aveva perso ogni colore. Ricorda che, in quel periodo, mangiava pochissimo, il necessario per la sopravvivenza e il suo cuore non smetteva di amarla. “Papà, avrò bisogno di te. Hai voglia di dedicarti a tuo nipote, rinunciando a qualche partita di golf?” “Prima ci siete voi. Organizziamo i turni. I giorni dispari andrò io a prenderlo a scuola e lo porterò al parco a giocare. I giorni pari tu pranzerai con me.” “Hai paura che non mi nutra?” “È uno dei primi disturbi della separazione dalla persona amata.”
“E come lo sai?” Cristina spera di portare il discorso su Lie. “Reminiscenze di gioventù. Vuoi che dorma qui con voi?” “Sarebbe meglio, le prime notti sono le più dure, poi mi ci abituerò.”
11
“Ecco, questo è l’edificio esterno e qui, al terzo piano, c’è il tuo monolocale. Guarda che carino!” Sono sedute su una panchina in un piccolo parco giochi e Nathalie scorre tra le mani le foto che Cristina le ha appena ato, mentre Briciola e Brook sono impegnate in una strana danza giocosa. “Vedi, qui c’è il cucinino e, in quest’angolo, potrai sistemare la cuccia del cane.” Lo sguardo vacuo e assente della barbona è sparito; l’atteggiamento di chi fissa un mondo irraggiungibile è stato sostituito da un palese interesse, mentre Cristina illustra le immagini. Le spiega che deve pazientare ancora alcuni giorni, solo il tempo di effettuare gli allacciamenti di gas, luce e acqua, poi l’appartamento sarà suo. Nathalie rigira ancora un po’ le fotografie tra le mani, mentre gli occhi le si inumidiscono e borbotta ringraziamenti perlopiù indecifrabili. Solo una frase si percepisce chiaramente in quel marasma di sillabe rotte dalla commozione: “Vedrai che tutto il bene che fai ti tornerà indietro.” Poi si alza e abbraccia Cristina per un lungo, toccante momento, mettendo finalmente da parte l’orgoglio e l’asprezza che avevano sempre costituito una specie di corazza. “Sono io che ringrazio te, per aver accettato, consentendomi di essere una persona migliore. Guarda, questo è mio figlio” le dice mostrandole un ritratto di Gianluca, che fissa l’obiettivo con uno sguardo stupito e divertito. La reazione della barbona è immediata, si irrigidisce di colpo, impallidisce visibilmente e mormora: “Quegli occhi… quegli occhi…” Poi punta lo sguardo sul viso di Cristina e sembra metterla a fuoco per la prima volta. “Anche tu… non avevo mai notato…” mormora, portandosi una mano al petto. “Nat, stai bene? Sei impallidita. Hai freddo?” Nathalie non risponde e lo sguardo ritorna a rintuzzarsi dentro il guscio del suo lontanissimo mondo.
Si alza dalla panchina e la prende per un gomito. “Si gela qui. Vieni, andiamo a bere un tè caldo. C’è un bar proprio qui di fronte.” L’aria è talmente fredda che trasforma le parole in sbuffi di vapore. La donna è remissiva, sembra un automa. Ha subito un cambiamento enorme e ora si lascia guidare come una bimba diligente. Raccoglie, come d’abitudine, lo zaino logoro e sudicio ma Cristina la blocca: “Lascialo qui, torneremo dopo a prenderlo, vedrai che nessuno te lo porterà via. E poi, d’ora in poi non ne avrai più bisogno; nell’appartamento troverai tutto ciò che ti servirà per vivere decorosamente.” Nathalie la guarda con le lacrime agli occhi, prende lo zaino e lo appoggia sulla spalla destra, e solo allora Cristina capisce che è l’unica cosa cara che ha e che all’interno deve contenere qualcosa di molto prezioso. La prende con tenerezza sottobraccio ed escono dal parchetto come due vecchie amiche, come mamma e figlia, seguite dalle cagnette, che cercano di stare vicine. Il bar non è molto affollato e Cristina nota con sollievo che i pochi avventori, persi ciascuno nei propri problemi, non prestano molta attenzione alla strana coppia, evitando di mettere a disagio la senzatetto che, sebbene abbia subito molti cambiamenti e ora indossi vestiti decenti, ha pur sempre l’aspetto arruffato e malconcio. Le due cagnette si accucciano sotto il tavolo, concentrate a fiutare chissà quali odori sul pavimento e alla ricerca di briciole dolci. La cameriera arriva con il vassoio del tè e un piatto di pasticcini, depositando il tutto sul tavolino, con movimenti sicuri e familiari. Cristina osserva incuriosita Nathalie, mentre armeggia con teiera e tazzine, riempiendole con grazia e abilità, la mano ferma ed esperta. La guarda sorseggiare la calda bevanda lentamente, mangiare compostamente i pasticcini a piccoli morsi, sedere dritta, con gli avambracci appena posati sul tavolo. − L’esatta postura consigliata dal galateo. Questa è una donna di classe − pensa, sempre più convinta che quella povera senzatetto, trasandata e apita, abbia alle spalle un’incredibile storia e molto più di un segreto da custodire. “Allora, sei contenta dell’appartamento?” le chiede tanto per rompere il
ghiaccio. “Mi sembra ancora un sogno. Vorrei spiegarti perché ho accettato il tuo aiuto. In realtà ci ho riflettuto molto, poi ho capito che non bisogna mai impedire a qualcuno di fare del bene, se ne è fermamente convinto. Rifiutare è molto più egoista che accettare.” “Ma questa è pura filosofia, Nat, mi stupisci!” La donna sorride maliziosamente e sembra perfettamente rilassata. Dapprima chiede qualche notizia di Gianluca e la conversazione rimane un po’ stentata e ferruginosa. Poi prende ritmo, Cristina comincia a lasciarsi andare raccontando fatti e particolari sempre più personali, mentre la sua interlocutrice ascolta attentamente e interviene in modo acuto e pertinente, dimostrando di avere cultura e intelligenza. Cristina la osserva, stuzzicata da una folata di stupore: una donna sorprendentemente e piacevolmente istruita e ironica che vive di stenti, che ha fatto di un angolo di strada la sua casa. Chi è Nathalie? Sempre più incuriosita, vorrebbe incalzarla di domande ma rimane fedele al giuramento fattole qualche tempo prima e rintuzza la curiosità. Quando le accenna della malattia del figlio, scopre che la donna è molto interessata e rileva, con immensa sorpresa, che è ferrata anche su quella patologia. È sempre più incredula e sconvolta e, probabilmente, queste sensazioni le ano sul volto in modo tanto evidente da spingere la donna a rivelarle in tono amichevole: “Tu non sai nulla di me, per te sono solo una povera, misera creatura, un fagotto di stracci, ma un tempo ero come te. Ti prometto che, un giorno, ti racconterò per intero la mia storia. E, quando saprai, qualcosa ci legherà molto più di ora.” Cristina non dice nulla, si limita ad assentire col capo. Per ora le basta quel rapporto amichevole. Renderle la vita più confortevole la fa sentire bene e le fa dimenticare tutte le altre avversità. Sta imparando a vivere alla giornata, a cogliere l’attimo. Fuori incomincia a imbrunire e un’altra giornata galoppa verso la fine. Il tempo scorre fluido come sabbia tra le mani, senza sosta. Prova un attimo di malinconia, perché l’ora del crepuscolo le trasmette sempre una nota di tristezza, una vaga percezione di solitudine e abbandono. Ma è solo un attimo, come un sussurro nella notte. Poi pensa che il suo mondo è pieno di persone che le
vogliono bene. Abbraccia con la mente e a in rassegna tutti i suoi cari, facendo un improbabile appello. Nel firmamento dei volti cari ora brilla anche la stella di Nathalie.
12
Cristina si dedica con tutte le energie al figlio e, quando è il turno di nonno Giovanni di andare a prendere il nipote, va a trovare Nathalie, e poi si rifugia nel monolocale. Ha fatto ridipingere le pareti, pulire pavimenti e vetri. Ha acquistato tutto quello che serve per cucinare e per mangiare; il corredo per il letto e per il bagno. Mentre sceglie gli asciugamani, che hanno ricamato al centro un mazzetto di lavanda, si immagina l’amica nella piccola abitazione, seduta in cucina a leggere, e si sente pervadere da una calda soddisfazione. Prova tanta tenerezza e comione per quella donna che non vuole svelare il suo ato, che difende a oltranza il suo segreto. Le utenze sono state allacciate, la casa è pronta e Cristina si sente elettrizzata ed emozionata. Questi preparativi l’hanno distolta un poco dal pensare a Lorenzo. Si vedono e si sentono per Gianluca. Riescono a essere cordiali e, davanti al bimbo, si sforzano perfino di sorridere. Mentre è sulla metro per andare a prendere Nathalie, rammenta il pomeriggio del giorno precedente. Lorenzo era in ferie e Bruna si godeva la sua giornata libera. Avevano deciso di incontrarsi a casa perché al marito servivano degli abiti. Era arrivato con una valigia piuttosto capiente e, nel vederlo entrare, una folata di nostalgia l’aveva travolta, anche se aveva cercato di non farlo trasparire. “Ti faccio un caffè ?” gli aveva chiesto, per mascherare l’imbarazzo. “Lo bevo volentieri, grazie.” “Preferirei non essere presente, mentre prepari i vestiti.” “Sì, capisco. Allora salgo.” Il caffè borbottava irrequieto. Cristina aveva preso le tazzine di porcellana e, mentre le posava sul tavolo, si era accorta delle loro iniziali dorate e intrecciate. Le aveva subito cambiate, prendendone due semplicemente bianche, anonime. Aveva versato il caffè e aveva aspettato che il marito tornasse in cucina. Lui
l’aveva raggiunta con l’espressione avvilita, triste, come se fosse stata Cristina a tradirlo. “Perché mi guardi così?” aveva chiesto lei, mentre zuccherava la calda bevanda. “Mi mancate.” Lo sguardo sembrava sinceramente rattristato. “Sarà questione di tempo, ci abitueremo. Dove alloggi?” “Sono da Simona. Si sente terribilmente sola ma, dopo quello che è successo, non è facile per noi condividere la giornata.” Lorenzo era trasparente, stanco di mentire. Sapeva che avrebbe peggiorato il rapporto con la moglie, raccontando infime bugie. “Si è ripresa?” “Fisicamente sì. Va da uno psicologo due volte alla settimana. Non si dà pace.” “La capisco. E tu, mangi?” “Sì, sto bene, non preoccuparti. Volevo dirti… mi hanno offerto un posto da direttore alla filiale di Torino. Ho accettato.” “E Simona?” “Ci farà bene stare un po’ lontani. Abbiamo bisogno di riflettere.” “Forse è la soluzione migliore per tutti. Anche per Gianluca. Lo porterò a Torino in modo che si possa rendere conto di dove lavori. A lui piace viaggiare in treno.” “Sì, è una bella città. Ci sono molte cose interessanti da vedere. Il Museo del Giocattolo, il Museo Egizio…” “Speriamo che ci siano anche dei vecchi velieri in legno, così Gianluca erà una bella giornata.” “Grazie del caffè.” “Quando hai voglia e tempo di vedere il bambino, chiama.” “D’accordo.” Si era chinato leggermente per prendere la valigia, si era soffermato per dare un’ultima occhiata alla cucina e poi aveva dato un frettoloso
bacio sulla guancia alla moglie. La porta si era chiusa e Cristina si era affacciata alla finestra. L’aveva visto aprire il baule e caricare la valigia poi, inaspettatamente, si era girato e aveva guardato all’insù, proprio verso quella finestra attraverso la quale molte volte si erano salutati. Aveva alzato la mano. Cristina aveva appoggiato delicatamente il palmo sul vetro. Erano rimasti un attimo a osservarsi: seri, stanchi, nostalgici. Cristina, colta da una grigia amarezza e da una malinconia che le erano piombate addosso con forza travolgente, aveva chiuso la tenda e si era sdraiata sul divano, dove aveva lasciato scorrere calde, interminabili lacrime. La sua dolce cagnetta si era messa al suo fianco. Si erano addormentate. Si era svegliata poco dopo con la sensazione di aver dormito molto, pensierosa e avvilita. Aveva voglia di farsi un bagno caldo ma doveva vedere Nathalie, per comunicarle che l’indomani avrebbe potuto prendere possesso dell’appartamento. Non vedeva l’ora di sistemarla nel suo nuovo alloggio, di godersi la sua reazione, di sapere finalmente che smetteva di dormire all’addiaccio. L’aveva trovata al solito posto, prostrata e febbricitante, con una bruttissima tosse. Per difendersi dalla morsa del gelo si era intabarrata in una vecchia coperta, che lasciava scoperti a malapena gli occhi, cerchiati e opachi. Pareva invecchiata, improvvisamente, di molti anni e aveva lo sguardo dei primi tempi, assorto in un mondo irraggiungibile. Cristina era rimasta turbata nel vederla così conciata e aveva avuto l’impulso di portarla a casa con sé, ospitandola per la notte. Ma poi aveva realizzato che avrebbe dovuto dare troppe spiegazioni: al padre, a Bruna, persino a Gianluca e il suo segreto avrebbe cessato di rimanere tale. Si era limitata a somministrarle un antipiretico. Per scuoterla da quel torpore infelice, le aveva detto: “Hai finito di lottare con il gelo, domani finalmente avrai il tuo caldo nido. erò a prenderti nel pomeriggio, verso le quattro. Cerca di farti trovare qui.” “Grazie, oggi mi sento tutta rotta, non sai come desidero un po’ di caldo. Troverò il modo di ringraziarti. Vedrai, lo troverò.” “Mi basta vederti star bene.”
Le porte della metro si aprono, fagocitando una massa di persone che si accalca vociante. Il rumore delle ruote che sferragliano sui binari si sovrappone a quel
trambusto. Ancora due fermate, poi raggiungerà Nathalie e le consegnerà le chiavi di casa. La sua casa. È impaziente di arrivare. La prossima fermata sarà la sua e si prepara per scendere. Le porte si aprono di nuovo e lei scivola fuori. In mezzo al frastuono, quasi non si accorge del telefono che squilla. Sul display appare un numero che non conosce e non sa se rispondere. È titubante, pensa che possa trattarsi di qualcuno che ha sbagliato numero. Nell’ultimo periodo ha però sviluppato un’apprensione eccessiva, si sente perennemente in allerta, come se si aspettasse sempre notizie spiacevoli, così decide di prendere la chiamata. “Il canile? Quale scusi?” “È il canile municipale di Milano. L’accalappiacani ci ha portato una cagnetta alcune ore fa e, dalla lettura del microchip, risulta di sua proprietà.” Pensa subito a Brook e i battiti cardiaci si susseguono veloci. “Non è possibile, è sempre in casa, non esce mai da sola…” “Signora Lenzi, risulta suo, se può are al canile l’attendiamo.” “Aspetti un attimo… me la può descrivere?” “Le leggo le informazioni inserite nel computer con il microchip… allora… si chiama Briciola.” “Briciola! Oddio no. Vengo immediatamente.”
13
Briciola è accovacciata su un logoro tappetino nel piccolo ufficio del canile, con gli occhioni malinconici, rassegnata e smarrita, mentre la ragazza dietro la scrivania cerca di tenerla tranquilla, blandendola con la voce: “Stai buona, piccolina, è arrivata la tua padrona.” Vedendo e riconoscendo subito Cristina, si siede di fronte a lei e comincia a emettere guaiti strazianti, per comunicarle il suo senso di dolore e delusione per l’assenza della vera padrona. In quel locale senza finestre i gemiti della bestiola riecheggiano in modo assordante penetrando, oltre che nelle orecchie, anche sotto la pelle, nel cervello, infondendo una grandissima pena. Lella, l’addetta del canile, nel frattempo ha cominciato a battere velocemente i tasti del computer, compilando la modulistica di rito. È una bella ragazza bionda, con due enormi occhi azzurri e un comportamento competente e amichevole. Indossa abiti modernissimi e molto colorati, che si intonano perfettamente all’allegria che traspare dal suo modo di parlare e di muoversi. Da come parla alla bestiola, si deduce che nutra una ione sconfinata per gli animali in genere, in particolare per quelli più sfortunati, e che abbia grande dimestichezza a trattare con essi. Cristina si è accovacciata a terra, coccolando e accarezzando la cagnetta, sussurrandole all’orecchio: “Adesso andiamo da Nathalie.” Nota che l’animale, al suono di quel nome, muta di colpo: diventa improvvisamente attento, le orecchie dritte, il corpo eretto, comincia a fiutare l’aria. Poi aumenta l’intensità dei lamenti, fino a emetterne uno lungo, forte e persistente, che ferisce i timpani e lacera il cuore. La donna non vede l’ora di andarsene da quel posto, di portar via Briciola e porre fine a quei guaiti che la riempiono d’angoscia. Inoltre ha bisogno d’aria; la stanzetta del canile è alquanto angusta e odora di chiuso e urina di cani. “Mi scusi se la interrompo, ma ho urgenza di avere alcune informazioni.” Preoccupazione e impazienza trapelano dalla sua voce. È in uno stato di totale confusione e fatica a stabilire la priorità delle azioni.
“Un attimo solo, finisco di inserire gli ultimi dati e sono da lei” risponde Lella, che vuole concludere il suo lavoro senza interruzioni. “Mi dovrebbe dare la carta d’identità e la tessera sanitaria del cane.” Cristina rovista nervosamente nella borsetta ma poi realizza che non possiede i documenti di Briciola e farfuglia vaghe giustificazioni. “Me la dovrebbe far avere, per favore. Ecco, adesso ho terminato, mi chieda pure tutto quello che vuole” dice l’addetta del canile, molte gentilmente. “Innanzitutto vorrei sapere dove è stata trovata. Se mi può dire con esattezza il posto, per favore.” “Ora guardo la scheda dell’accalappiacani. Dunque… ecco. Galleria di Corso Buenos Aires.” “Ma era sola? Perché l’hanno portata qui?” “Certo che vagava da sola” risponde Lella, perplessa. “Non portiamo via i cani ai loro padroni. Cosa sta cercando di dirmi?” Rendendosi conto di pronunciare delle sciocchezze, Cristina si affretta a concludere la conversazione e chiede quanto deve pagare. Lascia un’ingente offerta per le bestiole abbandonate del canile e si appresta ad andarsene. Quando è già sulla porta, viene bloccata da un dubbio e chiede nuovamente alla ragazza: “Mi saprebbe dire l’ora esatta in cui hanno trovato Briciola?” “Consulto di nuovo la scheda, un attimo solo. Qui c’è scritto alle tredici.” “La ringrazio di tutto, lei è stata veramente gentile.” “Si figuri. Comunque si ritenga fortunata ad aver trovato la sua cagnolina. Non sempre le scappatelle hanno un lieto fine.” “Sì, certo. Un’ultimissima cosa: potrei sapere chi ha avvisato l’accalappiacani?” “Non dovrei dirglielo ma se è per una ricompensa, farò uno strappo alla regola. Si tratta di una certa signora Gresti. Adesso le do il numero.” Una volta uscita all’aperto Cristina comincia a inspirare avidamente l’aria fresca
e si calma un poco, trasmettendo evidentemente quel ritrovato, momentaneo benessere anche a Briciola, che smette istantaneamente di lamentarsi e sembra tornata la cagnetta vispa di sempre ma con gli occhioni scuri e acquosi dilatati dalla tristezza. La carica sul sedile posteriore dell’auto, sopra la coperta scozzese di Brook e l’accarezza per infonderle coraggio. “Ora andiamo a cercare la tua padrona e vedrai che la ritroveremo” le sussurra, come se parlasse a un bambino. Parcheggia al solito posto e comincia a girovagare nelle zone in cui Nathalie è solita are le giornate ma non rileva nessuna traccia della donna. Si dirige verso la stazione Centrale e la perlustra in lungo e in largo; poi si affaccia sulle strade attigue, camminando lentamente e guardandosi in giro con attenzione. Intanto l’angoscia e la preoccupazione sono salite a livelli di guardia e le sembra di muoversi nei contorni evanescenti di un bruttissimo sogno, con l’orribile presentimento di una tragedia imminente. Chiede informazioni a qualche negoziante e persino a due poliziotti che sono fermi appoggiati a un’auto del 113 ma nessuno sembra poterle essere d’aiuto. Ormai è sopraffatta dallo smarrimento e dalla disperazione. La situazione le sta sfuggendo di mano e invece bisogna agire con immediatezza. Siede un attimo su una panchina a riflettere, cercando di essere lucida ma è troppo avvilita e spaventata e pensare razionalmente le risulta impossibile. Prova un’ansia incontenibile e continua a guardare Briciola, come se potesse indurla a parlare e raccontare quello che è successo alla sua padrona. Nathalie non può essersene andata volontariamente, certo non senza la sua amica a quattro zampe. Eppure Cristina cerca di attaccarsi a questa ipotesi, perché tutte le altre appaiono sicuramente più drammatiche e agghiaccianti. Nathalie sparita. Nathalie morta. In quel momento nient’altro le pare possibile e allo sconforto si sovrappone adesso il senso di colpa. È possibile che la barbona sia sparita proprio a causa sua? Forse si è sentita troppo pressata e ha interpretato l’interessamento di Cristina come un voler interferire nella sua vita, o voler indagare per scoprire il segreto che doveva custodire a tutti i costi. E ha deciso di lasciarle Briciola, certa che colei che si definisce sua amica se ne sarebbe occupata a meraviglia. No, non può essere successo questo, non deve ritenersi responsabile. Lei ha fatto solamente del bene e questo non è assolutamente una colpa, da qualsiasi parte si
guardi la faccenda. Ricaccia prontamente le lacrime che hanno cominciato a salirle in gola, decisa a reagire, mentre una fievole speranza ritorna a farle animo. Ogni volta che sta per precipitare nel baratro della disperazione, il cervello le manda dei segnali di fiducia. Forse la donna ha lasciato il suo zaino, contenente magari qualche piccolo elemento che la possa far rintracciare. Deve precipitarsi in Galleria di Corso Buenos Aires, dove la cagnolina è stata trovata, per vedere se ci sono sue tracce. Ormai le sembra di vivere in un film e osserva dall’esterno le sue stesse mosse, come se fosse la protagonista di una storia intricata e misteriosa. Un’eroina tenace e coraggiosa che deve indagare sulla sparizione dell’amica, contando solo sulle sue poche forze. Si sente terribilmente sola, ma l’aver voluto tenere tutto per sé il segreto della barbona l’ha inevitabilmente rinchiusa in una bolla d’isolamento. Mentre percorre la nuova pista, si sente il cuore più leggero, pensa che quell’indagine porterà dei risultati. Si convince che riuscirà a trovare almeno lo zaino, con all’interno qualche documento utile per rintracciare la donna scomparsa, aprendo così la strada a una possibile soluzione del caso. Con il cuore in gola arriva sul luogo del ritrovamento di Briciola e quindi, presume, luogo della sparizione di Nathalie ma non trova nulla: niente zaino, né casetta del cane, neanche la coperta con cui si riparava dal freddo. Avverte qualcosa di stonato: non ha senso che la barbona abbia portato via la cuccia di Briciola, se già aveva intenzione di abbandonare il cane. Più riflette e più l’intera faccenda le appare come un grosso rompicapo. Le sembra di muoversi in un incubo, camminando su un terreno irreale, insidioso e illogico e deve continuamente fissare la mente su elementi reali, come il tram che a, la vetrina di una farmacia, l’odore inconfondibile dello smog nell’aria, per ripristinare il senso di reale che la sta abbandonando. Incombe su di lei un senso di inadeguatezza e di pericolo. Ormai la convinzione di non vedere più la povera amica la fa crollare sotto il peso spietato di una colpa che riconosce solo sua. Non aveva il diritto di intromettersi nella sua vita, di forzarla ad accettare una casa che non voleva, un
modo di vivere che già in ato aveva rifiutato. Una spossatezza fisica e mentale si abbatte su di lei, rendendole difficoltoso anche respirare e pensare. Desidera soltanto sottrarre se stessa e la cagnetta al gelo e all’angoscioso squallore di quella vana ricerca. Ma non vuole ancora darsi per vinta; l’eroina del suo film non avrebbe ceduto così presto. Sente di avere ancora qualche freccia al suo arco e non si ritirerà finché non avrà giocato anche l’ultima carta. Prende dalla tasca il foglietto su cui la ragazza del canile ha annotato il numero della signora Gresti e si appresta a telefonarle. “Pronto, buongiorno. Mi chiamo Lenzi e vorrei sapere se oggi, verso le tredici, ha chiamato l’accalappiacani.” “Sì, sono stata io.” La signora risponde cordialmente e non sembra infastidita. “Dalla finestra sentivo i continui guaiti della bestiola. Sono scesa per fare la spesa e l’ho vista che andava avanti e indietro per tutta la Galleria, zampettando in modo inquieto, come se si fosse persa.” “Appartiene a una barbona che soggiorna spesso da queste parti. Una donna con un bel viso, i capelli corti… Per caso l’ha presente?” “Guardi, onestamente non saprei dirle… In realtà non mi soffermo mai a osservare troppo quelli come lei… Preferisco non incontrare il loro sguardo ed evitarli, così non mi infastidiscono con la richiesta dell’elemosina.” In realtà è un modo un po’ vile ma comodo, per non ammettere una realtà che, invece, è dura e fin troppo concreta. Cristina chiude la telefonata ringraziando, aggiungendo mentalmente un’altra delusione alla lista delle sue investigazioni. Non le resta che Pino, poi ha realmente esaurito le sue chances. Entra nel negozio del parrucchiere con grandi aspettative, ricordando come l’uomo sia attento alla presenza dei senzatetto davanti al suo ingresso. È quasi certa che lui possa esserle d’aiuto e spera che non venga gettata altra acqua sul debole fuoco della sua speranza.
“Cara signora Lenzi, buongiorno!” Pino le va incontro con fare amichevole e zelante. “La solita piega veloce?” Ultimamente, con Gianluca in ospedale, non si poteva concedere lunghe sedute. “No… sì, però ho il cane con me” si ritrova a rispondere senza pensarci. È talmente sfinita che l’idea di sedersi e rilassarsi un attimo le sembra allettante. E poi, con tutta calma, può scoprire un numero maggiore di cose. “Non si preoccupi, se è buono, può stare al suo fianco.” “Buonissima, non si muoverà.” In realtà Briciola si è già accovacciata ai suoi piedi. Mentre Veronica le lava i capelli, Cristina comincia a porle qualche domanda su Nathalie. “Oggi non ho visto la solita barbona…” “Quella del cane? È vero, non l’ho vista in tutto il giorno. Ogni tanto, però, si sposta di zona. Ma sa che il cane sembra proprio il suo?” “In effetti, è proprio lui, anzi lei, è una cagnetta. La sua padrona è sparita. Ti prego, Veronica, dimmi se hai visto o sentito qualcosa stamattina, se per caso l’hanno portata via.” Anche solo parlare con qualcuno di quella storia la fa stare meglio, le restituisce un poco di energia ma la sua voce ha comunque un tono drammatico e implorante e la ragazza ne è profondamente colpita. “No, signora Lenzi, io non so proprio nulla, mi dispiace, ma aspetti che provo a chiedere a Pino. Lui di mattina arriva sempre presto per andare al bar a sentire le novità.” Il parrucchiere non sa nulla ma si offre di andare nel locale a prendere informazioni, mentre Veronica finisce di pettinare la cliente. Briciola, stremata dagli avvenimenti della giornata, si è addormentata ai piedi della poltroncina. Cristina la guarda intenerita e si chiede se è vero che gli animali siano in grado di percepire e fare proprio lo stato d’animo delle persone che stanno loro vicine. Se è così, la povera cagnetta deve sentirsi infinitamente
triste, proprio come è triste, angosciata e sfinita lei. Pino ritorna e l’unica novità che riporta è l’arrivo dell’accalappiacani. In macchina Cristina piomba nuovamente nello sconforto e capisce che non può affrontare da sola quell’angosciosa vicenda. Ha bisogno di aiuto, di un appoggio; da sola non sa come organizzare le ricerche ma in quel particolare momento è consapevole che non può contare su nessuno dei suoi cari. Poi ha un’intuizione: in realtà c’è una persona che si è aperta con lei, confidandole fatti intimi e personali della propria vita. Una persona arguta e gentile, con la quale ha trovato un’affinità d’animo notevole. Un uomo che, ne è certa, non la deluderà.
14
Cristina indossa un tubino aderente, di cachemire nero, leggermente scollato, che le aveva regalato il padre il Natale dell’anno precedente e che lei, purtroppo, aveva avuto poche occasioni di sfoggiare. Davanti allo specchio, con la testa appena un poco piegata, sta cercando di infilare gli orecchini di perle. Infatti è opinione generale che questo ornamento doni luminosità al viso e lei vuole apparire raggiante. Aggancia dietro la nuca una collana fatta con le stesso prezioso materiale e prova a raccogliersi i capelli, sollevandoli leggermente e puntandoli sopra la testa. Dalla sparizione di Nathalie è il primo momento tutto per sé che si concede. Lo specchio riflette un viso pallido e stanco e allora decide di ravvivarlo con un trucco leggero e un filo di rossetto leggermente aranciato. Si sta preparando con troppa cura, neanche dovesse recarsi a un party o a un incontro galante. In realtà deve soltanto portare Gianluca alla solita visita settimanale con il professor Ludovico Severi. È leggermente turbata e si sente inappropriata, eccessivamente elegante per quell’occasione. Toglie collana e orecchini. Cerca, nel primo cassetto del comò in noce dell’Ottocento, un vecchio foulard di Gucci, con lo sfondo grigio e le staffe rosse e nere e lo annoda, lasciandolo morbido. Infila nei lobi delle orecchie due piccoli cerchi in oro bianco. Ecco, così l’effetto è raffinato ma meno elegante e ricercato, la fa sentire più a suo agio. Si sente strana ed emozionata e si è scoperta ad aspettare il mercoledì pomeriggio con impazienza e trepidazione. Gianluca è nella sua cameretta con Bruna, che lo sta preparando per uscire. Anche lui è felice di andare dal dottore. Da quando Severi gli ha confessato di essere apionato di barche a vela e gli ha promesso che, con l’arrivo della bella stagione, lo porterà a fare un giro sulla sua imbarcazione, è diventato il suo idolo. Lo nomina spesso e ripete che è un suo amico. Il professore si dice soddisfatto dei progressi del suo piccolo paziente e, ogni
volta, insegna a Cristina dei trucchi utilissimi per spostare l’attenzione del bimbo su giochi interattivi. Le ha consigliato un libro in particolare, La vita al Castello dei Pioppi. Il bimbo deve ricostruire la giornata che si svolge in un classico borgo medioevale. Dapprima Gianluca non ne voleva sapere ma, con gli accorgimenti e gli stimoli consigliati dal dottore, pian piano ha cominciato ad apprezzare il gioco. Lui rappresenta il signore feudale, la mamma la castellana e Bruna il maggiordomo. Il nonno, dal momento che non è sempre presente, deve impersonare il maresciallo della scuderia. Ci sono da interpretare situazioni del vivere quotidiano, affrontare piccoli problemi, cercando le possibili soluzioni. Cristina si rende conto che il mondo del figlio è costituito esclusivamente da persone adulte e ha provato a invitare a casa qualche compagno di scuola ma Gianluca non lega con nessuno e nessuno dei suoi compagni sembra aver simpatia per lui. La psicologa accompagna il bambino nella sala giochi, mentre Cristina si trova da sola con il professore. “Buongiorno, signora Lenzi, come ha ato la settimana?” “Abbastanza bene, grazie. Gianluca mi è parso tranquillo e piuttosto concentrato negli esercizi. Credo che siamo sulla buona strada. La maestra mi ha riferito che in classe è più attento e meno agitato del solito.” “Ci vuole soltanto pazienza ma poi i risultati non tarderanno a farsi vedere. Lei, piuttosto, come sta? Ha risolto la sua situazione familiare?” “Insomma… io e mio marito abbiamo deciso di separarci ma siamo riusciti a mantenere un rapporto decoroso e, davanti a nostro figlio, ci sforziamo di fingere che non sia cambiato nulla.” Severi sembra cercare le parole con cura; l’argomento su cui è scivolato è più complesso della mera materia medica. Le mani giocano con la penna stilografica, aprendone e chiudendone il cappuccio con grande meticolosità. Non
sembra imbarazzato, soltanto cauto. “Non avevo dubbi. Ho ammirato subito in lei una grande sensibilità e un’ottima apertura mentale. Per il bimbo, in questo particolare momento, è importante la serenità della famiglia. Non devono crollare i suoi punti di riferimento. So che vi aspetta un arduo compito ma per i figli si fanno enormi sacrifici.” “La ringrazio molto, professore. Cerco di fare del mio meglio e spero di non commettere grossi errori.” Si rallegra della piega confidenziale che ha preso la conversazione e cerca di parlare senza freni inibitori. “Sa, mio marito è stato trasferito a Torino per lavoro e penso che questo fatto renda più agevole la situazione. Almeno Gianluca non verrà subito a conoscenza del vero motivo dell’allontanamento del padre. Anzi, è eccitato all’idea di poterlo andare a trovare in un’altra città con il Frecciarossa. Non le ho mai detto che, oltre che di barche e velieri, è anche un grande apionato di treni.” “Bene, bene, cara signora, le faccio tanti auguri. Cerchi di non cadere nel baratro dell’abbandono e della solitudine. Potrà contattarmi in ogni momento e, come ha fatto già una volta, confidarsi con me e chiedermi qualsiasi tipo di consiglio. Ma ora torniamo a Gianluca, c’è ancora tanto lavoro da svolgere. Sono soddisfatto dei progressi ma bisogna fare di più. Sarebbe molto utile se lei riuscisse a invitare, anche solo una volta alla settimana, un compagno di scuola a giocare alla Vita al castello.” “Sì, certo. Mi sono accorta anch’io che il bambino è circondato solo da persone adulte ma lui lega così poco con i suoi coetanei…” “Non si dovrà allarmare se, all’inizio, non accetterà il compagno, considerandolo come un intruso; bisognerà far finta di niente e continuare a giocare. Se la crisi di rifiuto e gelosia fosse troppo violenta, mi potrà telefonare e armi il bimbo. Saprò come tranquillizzarlo.” Cristina pende letteralmente dalle sue labbra. Lo guarda affascinata e lo ascolta, cercando di memorizzare ogni sua parola. La sua voce bassa le entra dentro, si diffonde sotto la pelle come un balsamo benefico e lei si sente completamente rilassata. Non vorrebbe più uscire da quello studio ma, guardando l’orologio, si accorge che il tempo della seduta è terminato. Prima di alzarsi, per una frazione di secondo, il suo sguardo cattura quello del medico e vengono calamitati uno
nell’altro, per un momento tanto intenso quanto fuggevole. Severi si schiarisce la voce con un colpo nervoso di tosse. Poi accompagna Cristina alla porta, mettendole delicatamente una mano sulla spalla, con un gesto di affettuosa familiarità. “A mercoledì prossimo, signora Lenzi; le auguro una buona settimana.” “Grazie, anche a lei” risponde arrossendo. La porta dello studio si richiude e lei rimane qualche istante nel corridoio, sentendo ancora su di sé la lieve pressione della mano del medico, che sembra guidarla e accompagnarla con il suo benefico effetto, come la presenza invisibile di un angelo custode. Nella sala giochi il bimbo è seduto tranquillo a un tavolino e sta terminando un disegno. “Guarda, mamma, cosa mi ha regalato la dottoressa Marta” dice mostrando una scatoletta contenente i pezzi colorati di un puzzle. “È l’Uomo Ragno! Appena arriviamo a casa, lo posso fare?” “Certo, tesoro.” Gli accarezza la testolina riccia e domanda: “Hai ringraziato?” “Sì, le ho detto che è diventata mia amica, come Ludovico.” La psicologa assicura che il bimbo sta migliorando e risponde agli stimoli in modo molto positivo. − Finalmente una buona notizia − pensa Cristina. Ha bisogno che qualcosa cominci a girare per il verso giusto. Saluta e ringrazia la dottoressa e, con il bambino per mano, si dirige verso gli ascensori, per raggiungere l’uscita dell’ospedale. Mentre sta per mettere in moto l’auto, sente squillare il cellulare. Sul display appare la scritta “Simona” e, per un istante, le si gela il cuore al pensiero che possa essere successo qualcosa di grave a Lorenzo. Risponde con la voce tremante. Simona è cordiale, racconta che non sta bene, è depressa. “Vorrei ringraziarti per quello che hai fatto per me quando ero in ospedale, e farti capire che non sono la persona terribile che pensi tu. Ti va di venire a bere un caffè con me, quando hai un attimo di tempo?”
Cristina è colta alla sprovvista dalla telefonata, dalla richiesta, dall’evolversi dell’intera faccenda. “Ci devo pensare” risponde e, nella sua voce, qualcosa vibra. “Ti prego, a parte Lorenzo non ho nessuno.” “Va bene, ci potremo trovare venerdì alle tre al bar della Posta” si lascia sfuggire, riluttante. “Sei molto cara. A venerdì.” Mentre guida verso casa, con il bimbo che si è appisolato sul sedile posteriore dell’auto, analizza il groviglio di sentimenti che la abitano in quel momento e che sono del tutto contrastanti. Da una parte il dolore sempre presente per la scomparsa di Nathalie e dall’altra la piacevole sensazione di calore, di stima e di speranza che le ha infuso Severi. Questo coacervo di emozioni la rende indifferente al prossimo incontro con la nuova donna di Lorenzo. D’un tratto è come se la sua esistenza fosse già sfocata, relegata in un lembo della mente preposto ai ricordi lontani e la relazione col marito le appare come una cartolina ingiallita, infilata tra le pagine di un vecchio libro. Sta elaborando la separazione in un modo completamente inaspettato, quasi indolore, come se la sparizione della barbona avesse occupato tutto lo spazio destinato alla sofferenza, e questo pensiero la solleva da altre mille preoccupazioni. Si ferma in un supermercato sotto casa a fare la spesa e sono ormai le sette quando rientra, appena in tempo per aprire la porta al marito, che è venuto a trovare Gianluca. Li lascia soli nella cameretta del bimbo che, tutto felice, mostra al padre il suo nuovo puzzle. Decide di preparare un aperitivo e si ricorda che in frigorifero c’è una bottiglia di vino bianco dell’Alto Adige, leggermente aromatico e frizzante, che aveva acquistato lo stesso Lorenzo alcuni mesi prima, da un amico apionato di vini e vigneti. La stappa e ne assaggia un sorso, aspettandosi un’invasione di impressioni dolorose e nostalgiche ma l’attacco di malinconia si dissolve con le bollicine nel bicchiere e lei resta fredda e lucida, stupita da quell’improvviso distacco.
Prepara alcune tartine e le patatine per il suo bimbo. Briciola dorme in cucina in una morbida cuccia. È abulica, triste e non sembra gradire nemmeno le effusioni di Brook. Mangia solo se imboccata e fa una grande pena. Cristina si china ad accarezzarla ed ecco che una bruciante malinconia la inonda, come un fiume in piena, lasciandola attonita e senza fiato. Si riconosce in quella travolgente emozionalità, che preferisce di gran lunga all’anestetica apatia di poco prima. Porta il vassoio con l’aperitivo in camera e brinda con Lorenzo alla guarigione del bimbo, contenta di riuscire a fingere davanti agli occhi innocenti di quell’unico figlio, che li unisce ancora. Lorenzo sente il calore di quello che è stato il loro caldo e dorato nido e avrebbe tanta voglia di fermarsi a cena ma la moglie non formula nessun invito e quindi, riluttante, si alza e prende in braccio il bimbo. Lo bacia sulla fronte e gli spiega che deve andare via, perché ha una riunione importante ma che il giorno dopo andrà a prenderlo a scuola. Quando si trova nella piazzetta sotto casa, alza lo sguardo verso la finestra del salotto, dove solo pochissimo tempo prima si affacciava la moglie, quando ne attendeva il ritorno. La finestra è buia e non vi scorge nessuna ombra. Sale in macchina e, prima di accendere il motore, si gira un’ultima volta a guardare verso il primo piano della casa, con una fievole speranza di vedere dietro i vetri il volto amorevole della moglie, ma la finestra è buia, come la sua anima. Capisce all’improvviso quanto sia importante tutto ciò che ha perso. Si sente una nullità, un essere inutile, che ha distrutto il mondo perfetto che si era costruito intorno. Prova pena per se stesso ma anche consapevolezza di essere l’unico artefice della piega dolorosa che ha preso la sua vita. È stanco e nervoso e il rombo della sua auto si allinea a quello della sua rabbia.
Leo non suona il camlo, per paura di svegliare il bambino e manda un
messaggio sul telefonino a Cristina, comunicandole che è fuori dalla sua porta. Lei lo fa accomodare in salotto, scusandosi per averlo convocato in maniera così urgente e misteriosa. Ha disposto sul tavolo birra e salatini per lui, e una tisana rilassante per sé. “Ti confesso che la tua telefonata mi ha lasciato del tutto disorientato, non sapevo proprio che cosa pensare. Però ho capito che era una questione molto importante e che dovevo correre a salvare la mia povera amica” scherza, mentre si accomoda sul divano in pelle e accavalla le lunghe gambe. Come al solito è vestito con una ricercatezza incredibile e originale, con dei pantaloni scozzesi blu e bordeaux e un cardigan blu, che ha tutta l’aria di essere di cachemire. Si guarda intorno incuriosito ed esprime degli apprezzamenti sull’arredamento della casa. Parlano un po’ del tempo e della morsa del gelo che, forse, comincia ad allentarsi e del corso di pittura. Cristina è imbarazzata e non sa da che parte cominciare per arrivare al punto vitale della questione: la sparizione di Nathalie. Leo avverte l’imbarazzo della donna e la incoraggia a raccontare. “Allora, Cristina, bando alle ciance. Dimmi cos’è che ti preoccupa tanto.” “È una storia triste e lunga e ho timore di essere derisa” si schermisce lei. “Dopo le confidenze che ti ho fatto io, come posso permettermi di giudicarti?” “Aspetta di ascoltare la storia…” “Facciamo così: visto che tu custodisci gelosamente nel cuore il racconto della mia vita, d’ora in poi puoi considerarmi il tuo diario. Avanti, comincia a scrivere.” Cristina si scioglie un poco, sorride. Gli presenta Briciola e, dalla cagnetta, comincia a riferire la storia di Nathalie, con tutte quante le sue miserie, i dubbi e le perplessità, la speranza di poter offrire a una misera creatura una vita migliore. Infine gli rivela la paura tremenda di non vederla mai più.
Lui ascolta pietrificato, non la interrompe quasi mai e alla fine è visibilmente commosso. “Avevo intuito la tua sensibilità ma non credevo fosse così grande. Sei una donna stupenda e ti aiuterò, con immenso piacere, a ritrovare quella poveretta.” “Io sono a un punto morto. Non so a chi rivolgermi e come muovermi. Tu hai qualche idea?” “Vediamo… di lei sappiamo solo che si chiama Nathalie, ammesso che sia il suo vero nome, e che ha un cane, Briciola per l’appunto. È un po’ poco, Cristina. Siamo in una grande città ed è come cercare un ago nel pagliaio…” Beve un sorso di birra e sgranocchia qualche nocciolina, giustificandosi: “Sai, non sono riuscito a cenare. Ho finito di lavorare mezz’ora fa.” “Allora ti preparo qualcosa. Ti va un piatto di pasta?” “Adesso stai tranquilla e finiamo di parlare, poi ci pensiamo. Dunque, ti stavo dicendo che la ricerca si prospetta difficilissima. Ci vorrebbe almeno una fotografia, così si potrebbe fare una ricerca in Internet.” “Niente nome, niente foto, niente di niente” si lascia sfuggire Cristina, sconsolata. Leo ha un’idea e, sul filo di quell’intuizione, si anima e chiede a Cristina: “Te la sentiresti di provare a ritrarre il viso della donna? Potremmo poi elaborare il disegno col computer e vedere se ne esce qualcosa di utile per le ricerche.” In un attimo lei torna con la cartelletta e le matite, si concentra un istante per trovare l’ispirazione e poi comincia a tracciare delle linee che dapprincipio sembrano segni astratti, poi prendono lentamente forma, fino al risultato finale. “Caspita, il tuo è puro talento, brava!” si stupisce il maestro. “Sei sicura che assomigli al viso della poveretta scomparsa?” “Non per vantarmi ma credo proprio di sì” risponde la donna con soddisfazione. “Adesso, però, come usiamo questo disegno? A chi lo mostriamo?” Leo riflette un attimo poi prende in mano il cellulare.
“Fammi vedere se, per caso, ho ancora il suo numero… Eccolo, perfetto!” Appoggia il telefono sul tavolo di cristallo e si versa un altro po’ di birra. “Due anni fa ha partecipato al mio corso di pittura una sociologa, molto brava e simpatica. Ricordo che lavorava per il Comune di Milano. Domani la posso chiamare e chiederle come dobbiamo procedere. O almeno, a chi rivolgerci per le prime ricerche.” “Ho una tremenda paura. Penso che Nathalie non avrebbe mai abbandonato Briciola e quindi temo le sia accaduto qualcosa di grave, di molto brutto… insomma, non riesco neanche a pronunciare la parola…” Gli occhi di Cristina si velano di lacrime e Leo si allunga prontamente verso di lei, per prenderle una mano, rassicurandola: “Se necessario, la cercheremo anche là.” Fra loro si sta instaurando un’intima complicità che rende il loro rapporto, migliore e più vero, di un’amicizia che dura da tempo. Osserva l’uomo che siede sul suo divano e le sembra già una presenza familiare e consueta, come quella di un parente stretto, un fratello. Gli rivela questa sua sensazione e lui esclama divertito: “Allora, da oggi, sono il signor Leo Lenzi a tutti gli effetti.” Finisce di bere la sua birra e lascia Cristina verso l’una di notte, dopo aver divorato due piatti di pasta alla carbonara, assicurandole che già all’indomani si dedicherà alla ricerca della barbona. Cristina si affaccia alla finestra e lo osserva camminare a testa china nella piazzetta, poi salire sulla sua auto e diventare un puntino lontano. Un puntino saldo e luminoso, come un faro nella nebbia. Accarezza Briciola energicamente e pian piano la imbocca. Poi la mette a dormire vicino a Brook, affinché non si senta troppo sola durante la notte. Mette nella cuccia un vecchio orsacchiotto di Gianluca, tutto spelacchiato. Sistema ogni cosa, poi si infila nel letto e spegne la luce ma il sonno tarda ad arrivare. Riflette sugli avvenimenti degli ultimi mesi e fa il bilancio di quanto ha perso ma anche delle persone fino ad allora sconosciute, che sono entrate a far parte della sua vita, con il loro carico di umanità e di altruismo e non si sente più sola. La sveglia proietta sul muro le piccole cifre che mutano in fretta, ricordandole
quanto sia prezioso il tempo, nella ricerca di Nathalie. Vorrebbe poterlo fermare a qualche giorno prima, quando era al bar con la barbona, per accompagnarla subito al monolocale, anche se mancavano ancora gli allacciamenti con il gas, la luce, l’acqua. Sarebbe stato comunque un luogo meno freddo della strada e, chissà, forse le cose sarebbero andate diversamente.
15
Il traffico è intenso. L’ingorgo che si è creato si dirada a fatica; clacson impazienti suonano lacerando l’aria e Cristina arriva con cinque minuti di ritardo al bar della Posta. Scende lentamente dall’auto e occhieggia in direzione di Simona, cercando di far naufragare quell’odioso sentimento di gelosia che le si è incollato addosso. Osserva la piazza e le persone che discorrono tranquillamente ai tavolini, con l’intento di assumere una certa indifferenza. Si a le mani tra i capelli; infila la borsa sulla spalla, fingendo con se stessa di dover incontrare una conoscente qualsiasi e non la donna che le ha portato via il marito. Sente le gambe impalate e vorrebbe fare marcia indietro ma si ripete mentalmente di non essere vigliacca. Cosa ci fa qui? Deve innalzare l’apoteosi dell’ipocrisia, per aiutare ancora una volta quello sconsiderato di Lorenzo? Lo ha amato e, forse, lo ama ancora, ma il suo sogno è svanito, crollato a causa di questa donna che ora le sta di fronte, a una manciata di metri. L’osserva e lo sguardo triste e velato di dolore di chi sta chiedendo disperatamente aiuto le fa allungare il o e stringere con riluttanza la mano che le viene porta. La giovane donna sorride mentre la ascolta giustificarsi, in modo goffo e un po’ troppo concitato, per la mancata puntualità. Si siedono a un piccolo tavolo rotondo e ordinano due caffè macchiati. Sono entrambe leggermente imbarazzate e, per rompere il ghiaccio, commentano un poco il traffico, che è ogni giorno più caotico. Simona, tra le due, è quella più a disagio e appare sulle spine: sorseggia svogliatamente il caffè, dopo aver mescolato lo zucchero con il cucchiaino per un tempo eccessivamente lungo. Fissa la sua ex rivale, ponderando cosa dire, sperando di avere comprensione e risposte a tutti i suoi dubbi. Non ha un bell’aspetto: è molto dimagrita e gli occhi, i suoi bellissimi occhi, cerchiati dall’ansia e dal pianto, sono completamente privi di trucco. Alcuni particolari rivelano un’inusuale trascuratezza nell’aspetto: i capelli rossi frettolosamente legati e un giaccone sportivo sopra i pantaloni di una tuta da ginnastica.
“Sei stata molto gentile ad accettare di incontrarmi” esordisce. “Lui mi ha sempre detto che sei una persona generosa e disponibile ma questo gesto nei miei confronti è veramente lodevole.” Cristina si limita a liquidare i ringraziamenti con un gesto della mano. Sentire che Lorenzo la dipinge come una donna sensibile e gentile la colpisce dolorosamente. Ha un momento di scoramento, di complicata nostalgia, trova penosamente difficile continuare a parlare di quell’uomo che tanto l’ha ferita. I loro sguardi si incontrano e, come se fossero l’una lo specchio dell’altra, cercano di spianare la strada alla verità. Lorenzo ha tessuto per mesi una sottile e subdola ragnatela per irretire due donne che hanno avuto la sola colpa di amarlo apionatamente e sinceramente. Cristina ha cercato di liberarsi di questa trappola ma non è facile dimenticare il marito, comandare al cuore di non battere più per lui. “Ho chiesto di vederti per cercare di capire un po’ meglio la personalità di Lorenzo. Tu lo conosci più di me e da molto più tempo. Con me è chiuso, ultimamente nervoso e irascibile, frettoloso e sfuggente; è molto cambiato da quando ti ha lasciata. Viviamo sotto lo stesso tetto, ma in due mondi separati e a due velocità differenti.” Si sporge leggermente verso di lei, sfilandosi il pesante giaccone di lana scozzese. “Mi spiace, ma è tipico di Lorenzo. Devi sapere che il mio… ex marito…” Pronunciare quel termine le costa un certo sforzo. “Fatica a incanalare gli eventi, se non sono decisi da lui. Non sopporta gli imprevisti e tantomeno accetta le imposizioni. In questo caso diventa ancora più indipendente e irascibile, collerico direi che è la parola giusta.” “Quindi mi stai dicendo che dovrei cercare di stargli vicino in modo arrendevole e indulgente, acconsentendo alle sue decisioni e adeguandomi ai suoi cambi di umore?” chiede Simona, ando un dito sul bordo della tazzina. “Purtroppo è così. Lorenzo ha bisogno di un clima sereno e armonioso per dimostrare affetto e amore, diversamente potresti trovarti di fronte un uomo rabbioso.”
La porta del locale viene aperta da un cliente e una zaffata di aria gelida le fa rabbrividire. Le giornate sono ancora molto fredde, anche se il sole sta riacquistando pian piano vigore. “Non è nel mio carattere essere remissiva, mi sono abituata a perseguire i miei obiettivi con tenacia e capacità” riprende Simona che, a quanto pare, non è avvezza ad accettare consigli su come comportarsi. “Allora vedo a rischio la vostra unione, te lo dico sinceramente. Potrei raccontarti tante storielle edulcorate per farti sentire meglio ma non ti sarei di nessun aiuto. Preferisco che tu conosca la verità, in modo da metterti al riparo.” “Aiutami, ti prego. Non posso perderlo. Lo amo troppo! Ho lottato per lui anche contro di te, e ora mi dispiace, ma lo rifarei, per far funzionare questo rapporto.” Pronuncia la frase con un tono così enfatico e con una risoluzione tale, che a Cristina viene la pelle d’oca. L’intera situazione assume un aspetto paradossale. Dovrebbe essere lei a chiedere aiuto, a sentirsi ferita, abbandonata, a dover stravolgere la propria vita. Comincia ad avvertire una leggera irritazione e a mal tollerare tutte quelle lamentele. Vorrebbe dirle di arrangiarsi, come ha sempre fatto lei, ma la sua natura le impedisce di essere sgarbata e le suggerisce: “Adesso sei ancora stressata per la faccenda del bambino, e lui deve ancora superare i sensi di colpa per aver abbandonato Gianluca. Inoltre la convivenza è pur sempre un o delicato da affrontare. Prendetevi un po’ di tempo, cercando di conoscervi, di appianare tutte le difficoltà. Secondo me in questo modo ce la potrete fare.” Pronuncia quel bel discorsetto, consapevole di dire un mucchio di banalità. Nessuno può dare consigli sulle relazioni degli altri. Tantomeno lei, che non è riuscita a far durare il suo matrimonio. Prova comunque pena per Simona che, con tutta la sua boria, si è dovuta sottomettere a chiederle aiuto. “Sì, penso proprio che tu abbia ragione. In fondo sono successe talmente tante cose in pochissimo tempo che avrebbero messo a dura prova anche il rapporto più solido del mondo!” La guarda un attimo negli occhi poi le confida: “Cristina, adesso te lo devo proprio dire, mi sento malissimo all’idea di averti portato via il marito. Io, sicuramente, avrei lottato con le unghie e con i denti affinché ciò non avvenisse ma ti ringrazio, comunque, per come ti sei comportata. Non conosco bene le tue motivazioni, perché Lorenzo sull’argomento ha la bocca cucita ma
sono convinta che tu sia una bella persona. Sicuramente migliore di me.” Ha gli occhi lucidi. “Adesso come te la cavi, stai bene?” “Non credo che la colpa sia tua, è solo mia e di Lorenzo. Evidentemente se lui ha sentito il bisogno di un’altra donna, di un altro amore, è perché il nostro rapporto era guasto. Non sono riuscita a mettere sul piatto i nostri problemi, ho vissuto con la mia depressione e le mie angosce, perlopiù in silenzio ma ora sto meglio. Me la caverò. Stai tranquilla.” “Potrò chiamarti, in caso di necessità?” “Certamente.” Simona le chiede come sta Gianluca e poi le confida che la perdita del suo bambino è dolorosa, inconsolabile. Che comunque hanno intenzione di riprovarci. “Sai,” aggiunge inaspettatamente “non sono una persona amorale. Non lo faccio per vizio di portare via i mariti delle altre… Purtroppo è capitato, vorrei che tu lo tenessi bene a mente.” Sembra davvero dispiaciuta e Cristina si accorge che sotto la sua corazza, come spesso accade, ci sono insicurezza e fragilità. Capisce anche che è terrorizzata all’idea di perdere il suo uomo. Parlano ancora un poco, con quella complicità che, bene o male, si è creata tra loro. Di quanto per Lorenzo sia importante la carriera e del trasferimento a Torino. Lei per ora ha chiesto un’aspettativa, ma sa per certo che presto lo potrà raggiungere ed è impaziente ma anche un poco spaventata, di iniziare la sua nuova vita con l’uomo che ama. Si lasciano dopo circa un’ora, con un abbraccio che suggella la loro neonata amicizia.
Sono le diciassette quando Lorenzo arriva in Via XX Settembre a Torino. Trova subito la casa: un edificio dei primi del Novecento, ristrutturata e ben tenuta. Un grande portone in legno custodisce la sicurezza dei condomini, con il suo aspetto austero e massiccio. I citofoni sono in ottone e, incredibilmente, il suo cognome è già stato inserito da una mano zelante. Lo accoglie una portinaia gentile e ciarliera che sta bagnando le piante nell’ingresso.
“Signor Lenzi, benarrivato! L’aspettavo solo domani.” La voce appartiene a una donna segaligna e spigolosa, con due occhi neri e furbi, che si muove a scatti e sembra molto indaffarata. “Queste povere piante, se non me ne occupo io… Venga, venga che l’accompagno al suo appartamento. Un attimo solo che prendo le chiavi.” Entra nella guardiola e la si sente aprire e chiudere una serie infinita di cassetti. “Ecco, le ho trovate. Quando ci mette mano mio marito… io non trovo più niente! Vedrà che bello, è praticamente nuovo. Ora saliamo.” Nei tre minuti circa di durata del percorso per arrivare al terzo piano, la donna lo tempesta di domande e Lorenzo riconosce subito, con terrore, lo stereotipo della portinaia invadente e ficcanaso. Dovrà cercare di tenerla un po’ alla larga. Finalmente chiude dietro di sé la porta dell’appartamento, stanco per il viaggio e preoccupato per i nuovi delicati incarichi che si troverà a svolgere. Si butta letteralmente sul divano e si guarda in giro ad ammirare la sua nuova dimora. È stupefatto dall’ordine che regna nell’ampio loft e dai colori scelti con cura. All’ingresso un ampio armadio guardaroba, laccato di bianco, tranquillizza subito il suo senso di ordine maniacale. Nel salotto un modernissimo divano in alcantara bianca, di cui ha preso subito possesso, ha il ruolo dominante. Due poltroncine blu, che accerchiano un piccolo tavolino, creano un caldo angolo per la lettura e il relax. A sinistra, sotto un’ampia finestra, è stata posta una scrivania con una grossa lampada a stelo mentre la libreria, sempre candidamente laccata, serve da divisorio per la zona notte, che riprende i colori bianchi e blu del salotto. Nel bagno scopre con soddisfazione una vasca con idromassaggio. Di meglio non poteva sperare. A destra del salotto si trova la cucina moderna e ben attrezzata e si immagina Simona ai fornelli, intenta a preparargli romantici pranzetti. L’immagine lo intenerisce, anche se dubita che la sua compagna sappia cucinare. Di fronte alla cucina il tavolo in cristallo è ben inserito. Un unico quadro, che riproduce L’abbraccio di Picasso, rompe il bianco delle pareti e regala un tocco di grande modernità a tutto l’insieme, che risulta molto ricercato e raffinato e incontra perfettamente il gusto del nuovo inquilino. Si sente soddisfatto, la nuova sistemazione gli piace molto e si trova subito a proprio agio. Disfa la valigia e con meticolosità ripone il vestiario negli armadi e le scarpe nella scarpiera. Telefona alle sue due donne, per avvertirle che ha viaggiato bene, che
è arrivato sano e salvo a destinazione e che l’appartamento è confortevole. Attraverso il cavo telefonico le sente strane e, impercettibilmente, avverte una sensazione di distacco, poco più che un’incrinatura nella limpidezza delle loro voci. Si fa are Gianluca ma quando ascolta alcune frasi incomprensibili pronunciate dal bimbo, si lascia prendere dallo sconforto. Tra lui e il figlio si è creato un muro alto e invalicabile, con il filo spinato sopra, e anche i cocci di vetro, e lui non fa nulla per abbatterlo. Avverte inesorabilmente il suo allontanarsi dal figlio, se ne sta in disparte a guardare, scoraggiato e rabbioso. Non grida il suo affetto, non pronuncia nemmeno il suo nome, per paura di scatenare reazioni strane. Comincia a non capire più quel suo unico figlio, nel quale aveva riposto molti sogni e, invece di sforzarsi per recuperare terreno, fugge via. Teme che Gianluca non potrà avere un futuro normale e questo pensiero lo turba e lo riempie di paura ma anche di sorda collera. Ancora una volta si trova ad ammirare la pacata efficienza della moglie, che sa sempre come parlare al bimbo, come prenderlo, come gestirlo. Lui invece si sente goffo e impotente davanti a quella creatura fragile, e le mille parole tenere che gli scaturiscono dal cuore e che vorrebbe pronunciare, si trasformano in pochi gesti aridi e frettolosi. Decide di uscire e di andare a bere qualcosa in un bar. L’appartamento, oltre a tutti i vantaggi, ha anche quello di essere in centro, quindi, appena svoltato l’angolo, si ritrova in una splendida piazzetta della zona pedonale, con una serie di locali per ogni tipo di necessità. Ne sceglie uno elegante, con pareti e tende di velluto rosso e un’atmosfera un po’ rétro. Si sente solo e ordina un Gin tonic, per allentare la tensione nervosa, che lo sta serrando con una morsa allo stomaco. Si stanca subito di quel posto e decide di fare due i: l’aria fresca della sera lo aiuterà a schiarirsi le idee. Si avvia a piedi verso il centro, dove si rifugia in un altro bar e ordina un bicchiere di vino bianco, per vedere se riesce a rilassarsi. È troppo nervoso per chiudersi in casa ma troppo solo per potersi godere i piaceri di una limpida serata in giro per una nuova città, che non aspetta altro di essere scoperta. Sedute a un tavolino, due ragazze attirano la sua attenzione. Avrebbe voglia di conoscerle per non cenare da solo, per cominciare a socializzare con il nuovo ambiente, iniziando a immergersi nei pettegolezzi e misteri del mondo di provincia. Ma loro sono troppo concentrate a guardare delle foto sul telefonino, e
non sembrano nemmeno notare quel bellissimo uomo, elegante e tutto solo, che sorseggia distrattamente il suo aperitivo. Lorenzo è sempre stato consapevole del suo fascino e del suo potere seduttivo e, con le donne, si è sempre sentito molto sicuro. In un’altra occasione e anche solo pochi mesi prima, avrebbe cercato un pretesto per rivolgere la parola alle due giovani, magari chiedendo di poter offrire loro qualcosa da bere. Ma adesso no, anche se si sente bene, è svuotato e pieno di dubbi. Prova un senso di inadeguatezza e una lieve malinconia, leggera e trasparente come un velo, che lo riporta indietro all’età dei suoi vent’anni. Allora sì che si sentiva un vero dongiovanni, quando gli bastava adocchiare una ragazza che gli piaceva ed essere sicuro che sarebbe riuscito a conquistarla in poco tempo. Ed erano quelli i momenti più inebrianti, gli istanti prima della conquista. Poi c’era stata Cristina e lui, per lungo tempo, era stato fedele ma sempre, nel suo intimo, sentendo un senso di costrizione che lo rendeva a volte scontento e limitato. Dentro di sé ha sempre saputo di essere un cacciatore e il pensiero che il futuro per lui si stia aprendo con nuove prospettive in tal senso, lo fa sentire ancora forte. Adesso c’è Simona, è vero, ma è convinto di non amarla veramente e che la loro relazione sia destinata a finire. Lui non è in grado di regalare quell’amore che tutti gli implorano, né di provare ioni cocenti. Improvvisamente le cose gli appaiono chiare e senza sbavature. Sente di essere predisposto per fare il single e deve rimanere tale. Sa che farà un tentativo di convivenza con la sua nuova donna, perché la sua onestà gli impone questo, ma non si sforzerà più di tanto di far funzionare le cose all’insorgere dei primi problemi. Non è capace di darsi generosamente, di lasciarsi plasmare, di adeguarsi agli altri. Anche con Cristina e Gianluca è sempre stato così. Lui è un essere libero e deve restare padrone incontrastato della sua vita. In quella nuova città si sente un po’ come in vacanza e l’idea che avrà occasione di confrontarsi con persone sconosciute e affascinanti, ambienti completamente nuovi e un lavoro con maggiori responsabilità lo riempie di curiosità e vigore. Sorride alle due ragazze sedute al tavolino vicino al suo e si sente, nuovamente, il ventenne che teneva in pugno il mondo. Un senso di onnipotenza lo pervade. Cenerà da solo, con molta calma, poi andrà a letto presto perché l’indomani lo aspetta una giornata campale.
Il traffico è incredibilmente insopportabile e Cristina arriva trafelata anche da Leo. La irrita notevolmente non essere puntuale, per lei è segno di maleducazione. “Leo, oggi arrivo in ritardo dappertutto e non sai come mi dispiace averti fatto aspettare.” Il maestro la guarda divertito, a lui quel modo concitato di giustificarsi appare buffo e adorabile. In effetti era talmente concentrato nel suo lavoro da non accorgersi del tempo che scorreva. Sta cercando di trasformare il disegno della sua allieva in un’autentica fotografia, con un programma del computer. Siede dietro un’ampia scrivania, nel suo luminoso e moderno studio, super attrezzato, che affaccia sull’atelier. “Sei arrivata giusto in tempo per dirmi se la foto può assomigliare alla tua Nathalie. Guarda attentamente e dimmi cosa ne pensi. Si capisce che è lei?” Cristina si avvicina al monitor e vede un’immagine a dir poco sconvolgente. Il viso, ingigantito, è proprio quello della donna scomparsa. I lineamenti delicati, gli occhi neri e sfuggenti, il naso dritto e ben proporzionato. Sulla bocca, con le sue abili mani, è riuscita a far affiorare un impercettibile sorriso. L’emozione è fortissima e anche la speranza che, con quell’elemento in mano, la ricerca di Nathalie risulti notevolmente più facile. “Adesso faccio una stampa” dice Leo, che si destreggia con perizia tra tasti e pulsanti. “Fatto, guarda, cosa te ne pare?” Lei gira e rigira la foto fra le mani, incapace di credere che quella fotografia non sia stata fatta direttamente al volto della donna ma ricavata da un disegno che lei stessa aveva tratteggiato. Si siede sul divanetto e le lacrime le riempiono gli occhi. “Scusami tanto, Leo, ma sono troppi giorni che mi sforzo di non lasciarmi andare allo sconforto e mi controllo. Non ce la faccio più.” “Piangi pure tranquilla per tutto il tempo che vuoi, sfogati. Fa’ come se io non ci fossi. Soltanto, se hai bisogno di una voce amica, fammelo sapere. Io sono qui.” Cristina ha un terribile presentimento: che sia successo qualcosa alla barbona. Ormai si è quasi convinta che, per un motivo o per l’altro, non la rivedrà più. Quando si rianima un pochino e ritorna in grado di parlare, chiede all’amico
quando le farà incontrare Stefania, l’assistente sociale. “Mi ha promesso che questa sera verso le nove verrà, per parlare della questione e raccogliere informazioni e dettagli. È molto brava e ha ottime conoscenze presso centri di accoglienza e ospedali; penso che voglia cominciare a denunciare la scomparsa alla polizia. Inoltre ha un sito Internet per le persone scomparse.” Nell’udire quelle parole Cristina ha un sussulto, diviene immediatamente nervosa, sfrega le dita contro il dorso della mano, deglutisce e, dopo due colpetti di tosse, riesce a pronunciare, senza mascherare lo stato di ansia: “No, ti prego, la polizia no… e non voglio neanche servirmi di Internet. La ricerca deve essere condotta nella massima riservatezza, altrimenti lascio perdere.” Non ha scordato, infatti, il segreto che Nathalie custodiva tanto gelosamente, le rigorose richieste di silenzio, che non ammettevano replica, e il solenne giuramento che Cristina le aveva fatto di non indagare nella sua vita. Ricorda perfettamente l’espressione di terrore di Nathalie, quando lei le aveva posto delle domande, e poi quella rasserenata e grata, dopo la promessa di rispettare il suo segreto. Comincia a dubitare che, forse, sta coinvolgendo troppe persone in quella ricerca e si pente di essersi confidata con Leo. Deve cercarla da sola. Nathalie sicuramente vuole stare nascosta; avrà i suoi buoni motivi. Ma… se fosse in pericolo? Leo intuisce che l’amica deve avergli taciuto dei particolari riguardo la vicenda, per cui decide di assecondarla. “Capisco tutte le tue paure e, non conoscendo fino in fondo la storia, non posso far altro che adeguarmi a quello che decidi tu. Cerchiamola come vuoi. Tu detta le regole e poi le spiegheremo a Stefania.” Cristina si rilassa e decide di dare fiducia e credito ai suoi collaboratori, soprattutto al suo maestro, che ha già imparato a conoscere e stimare. “Senti, Leo, mi è venuta una mezza idea… Ti dispiacerebbe se stasera ci incontrassimo tutti e tre a casa mia? Bruna deve andare via presto e non posso lasciare Gianluca da solo.” “Sicuramente. o a prendere Stefania e poi veniamo da te.” “Posso preparare qualcosa per cena, dillo anche alla tua amica.”
L’idea di non are la serata da sola la fa sentire un po’ meno ansiosa. L’animo è tornato calmo e chiede a Leo se può avere una foto della donna scomparsa da tenere nel portafoglio. “Posso farti un ingrandimento, se ti serve per sentirla più vicina.” “Grazie, ci penserò, per ora mi basta la foto formato tessera.” “A proposito, visto il tuo talento, che mi ha letteralmente stupito, ti metto al corrente che c’è un corso di disegno ad Amsterdam, della durata di una settimana. Io mi sono iscritto, potrebbe essere un’occasione unica anche per te.” Cristina lo guarda stupita. “Io… ad Amsterdam? Ma come faccio? Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?” Lui sorride e la fissa con uno sguardo malizioso: “Non voglio la tua risposta adesso. Ti ho chiesto solo di pensarci.” Quell’uomo sensibile, equilibrato, con un ottimo carattere le sta chiedendo di andare una settimana in Olanda con lui. In un momento così complicato della sua vita avrebbe tanto bisogno di una vacanza, di uno svago, ma la proposta di Leo è veramente inaspettata e bizzarra. Non sa cosa rispondere, è sorpresa, confusa. Si ritrova a pensare: − Be’, in fondo, perché no? – Poi pensa a Gianluca, alle visite dal professor Severi. Cosa direbbe il medico di una madre che se ne va in vacanza per una settimana con un uomo, infischiandosene delle terapie del figlio? Non deve certo rendergli conto di ogni azione della sua vita… o forse ha paura che perda l’attenzione e la premura che rivolge a suo figlio? No, Ludovico non lo farebbe mai. “Fino a quando posso pensarci?” chiede a Leo, per niente convinta. “Chiudono le iscrizioni la settimana prossima” risponde lui, con una strana luce negli occhi.
16
Lorenzo si rade con cura, sceglie un completo grigio antracite di buon taglio, una camicia bianca perfettamente stirata e annoda meticolosamente la cravatta di seta grigia di Pierre Cardin. Si sente emotivamente carico ma incerto sullo stato del proprio umore. Non ha dormito bene e il mattino l’ha sorpreso un pochino ansioso e penetrato da un vortice opaco. Cerca di riscuotersi, sforzandosi di recuperare il benessere emotivo della sera precedente. In fondo, il suo grande anelito ambizioso è parzialmente soddisfatto: finalmente ricoprirà il tanto atteso ruolo di direttore in una filiale impegnativa, nel cuore di una città importante, che lo affascina, lo attrae. Ed è solo una piccola tappa di un percorso che si immagina lungo e pieno di grandi soddisfazioni. Una scalata al successo desiderata fin da bambino, quando già era determinato e sicuro che in futuro sarebbe diventato qualcuno e non si sarebbe accontentato di una vita mediocre e scolorita. Non vede l’ora di uscire in strada e cercare rifugio nell’aria fresca del mattino. Ripensa alla camminata per le vie del centro del pomeriggio precedente, di come si era sentito disteso e pieno di nuovo vigore. I luoghi visti e le persone incontrate per strada lo hanno irradiato di una luce nuova, dalla quale si appresta ad attingere anche la più piccola goccia di energia, per non lasciarsi sopraffare dagli eventi familiari, che lo hanno portato alla inevitabile separazione dalla moglie e al dolore rabbioso per la patologia del figlio. Il grande specchio moderno vicino all’ingresso gli rimanda un’immagine che lo inorgoglisce. È soddisfatto di se stesso; anche senza l’aiuto di Cristina, per scegliergli i vestiti, è perfetto. Infila il giaccone di Prada nero ed esce, inalando una piacevole aria frizzante, che sta cominciando a caricarsi dei profumi della primavera. C’è un piccolo, elegante bar proprio di fronte al suo palazzo e si ferma per la colazione, considerando che quello sarà il locale deputato a servirgli il primo
caffè della giornata. Osserva i clienti, probabili suoi vicini di casa, e indugia a considerare con chi di loro, in futuro, instaurerà rapporti confidenziali. Ha deciso di raggiungere il suo nuovo posto di lavoro a piedi, per pensare, strada facendo, al discorso che dovrà fare ai colleghi, quindi cammina a testa alta, con l’aria lievemente assorta di chi è concentrato in mille pensieri. In ufficio lo accolgono tutti con premura e calore: i colleghi sembrano cordiali e gentili. La segretaria lo accompagna nel suo ufficio e lui si ferma un attimo sulla porta ad ammirarne l’ordine, la grandezza e la vetrata che gli rimanda un’ottima luce. Da lì si possono osservare le colline che cingono la città, suggestive sotto un cielo lattiginoso, con un sole che lotta per uscire allo scoperto. “Direttore, io sono Miriam, il mio ufficio è proprio qui a fianco, questo è il numero del mio interno e questi sono i miei orari” dice posandogli sulla scrivania degli appunti con i suoi dati. “Fra dieci minuti il suo predecessore verrà da lei per il aggio delle consegne.” La voce è sicura, ferma e cortese. L’atteggiamento, assolutamente professionale, non lascia spazio alle emozioni. “Grazie, è molto gentile, credo che in questi primi giorni dovrò disturbarla parecchio.” “Sono qui per questo, non si faccia problemi.” Non è bella e giovane come Simona, è una donna di mezza età ma dall’aspetto tranquillizzante e sicura del fatto suo. Lorenzo rimane solo per una manciata di minuti, giusto il tempo per orientarsi nel nuovo posto di lavoro, accendere il computer e lanciare una prima occhiata alle cartelle che sono impilate sulla grande scrivania di cristallo. Il direttore uscente si accomoda e, con tono amichevole e fastidiosamente didascalico, gli spiega la situazione attuale della filiale, con i punti forti e quelli deboli. Parla molto bene dei colleghi, esaltandone le doti di lavoratori capaci, spiegando che sono validi collaboratori. “È una buona squadra, potrà lavorare molto bene. Il vicedirettore è una persona della quale si può fidare tranquillamente.”
“Bene, la ringrazio molto per le incoraggianti parole.” “Allora non mi resta che augurarti buon lavoro, caro collega, e permettimi di darti del tu. Mi piacerebbe averti una sera a cena a casa mia e presentarti la mia famiglia” lo invita prima di congedarsi. “Molto volentieri” risponde Lorenzo, compiaciuto. Si butta a capofitto nel lavoro, senza fermarsi neanche per la pausa pranzo, ed è talmente coinvolto dalla nuova realtà che si sorprende quando, al telefono, gli ano Simona. “Cara, scusami se non ti ho chiamato ma sto cercando di capire come funziona questa banca.” Cerca a stento di contenere l’irritazione per quella telefonata che gli rovina la concentrazione. “Non preoccuparti, volevo solo darti la bella notizia che mi hanno concesso il trasferimento a Torino. Il mese prossimo saremo insieme, nel lavoro e nella vita. Sono così felice…” “Ottimo. Vedrai che qui staremo bene…” Ma la voce tradisce un tono spento, metallico, distaccato, che Simona attribuisce alla tensione per la nuova attività. Ormai distratto dalla telefonata, chiama Cristina per sapere come sta Gianluca e le descrive l’ufficio e la prima giornata di lavoro, con entusiasmo. “Spero che la settimana prossima riusciate a venire a trovarmi; vorrei portare Gianluca nel mio nuovo ufficio e mostrargli l’appartamento.” “Bene, ne sarà felicissimo. Gli ho già accennato alla possibilità di un viaggio in treno.” “Allora comincio a organizzare il fine settimana.” “Grazie, ci farebbe un immenso piacere.” Richiama Simona per dirle che nel successivo weekend sarà impegnato con la famiglia, temendo già di suscitare i malumori della sua nuova compagna la quale, invece, si limita a concordare con lui che la trova un’ottima idea e che è giusto che trovi spazio per il figlio.
Il vicedirettore bussa discretamente alla porta per fare la conoscenza del nuovo capo e, dopo aver accantonato le conversazioni e i convenevoli di rito e discusso un poco di lavoro, lo invita a cena a casa sua la sera stessa. Lorenzo accetta volentieri, ha voglia di conoscere persone nuove, è smanioso di essere introdotto in una cerchia di conoscenze che potranno risultargli utili, oltre che socialmente, anche professionalmente. Sono le sette quando spegne il computer e si sente pienamente soddisfatto della prima giornata nella nuova banca. Il tempo è volato, tutto è filato per il verso giusto e si sente ancora magnificamente pieno di energie. Finalmente si alza dalla scrivania e si avvia verso casa. Ha giusto il tempo di farsi una doccia, prima che arrivi Piero, un collega dell’Ufficio Esteri, anche lui invitato dal vicedirettore, che erà a prenderlo con la sua auto per condurlo a cena. Durante il percorso parlano di lavoro e poi Piero gli confida che il vicedirettore è figlio di un grosso imprenditore di Torino e vive in una lussuosissima villa, con la moglie, che in ato ha fatto la modella. L’abitazione di Luciano Manarini, il suo vice, sorge sulle colline intorno a Torino e Lorenzo rimane stupefatto quando si trova di fronte il giardino che circonda un’imponente costruzione dell’Ottocento, completamente restaurata, illuminata da un chiarore ambrato. Sente intimamente che è la casa che ha sempre abitato i suoi sogni di bambino, quando pensava al suo radioso futuro e si immaginava un uomo di successo, con una vita agiata e piena di lussi. Lui e Piero vengono fatti accomodare in un grande salone, dove diverse persone stanno sorseggiando aperitivi e sbocconcellando stuzzichini, conversando distrattamente. Piero, già introdotto nell’ambiente, fa le presentazioni di rito e Lorenzo rileva che tutti sono molto affabili con lui. È affascinato da tanto lusso, ma si sente comunque perfettamente a suo agio. In un’altra sala viene servita la cena e il gruppo degli invitati si raduna intorno a un tavolo ovale. La cena è abbastanza semplice: un risotto con asparagi, filetto in crosta e clafoutis di albicocche. Una cameriera serve in tavola ma l’occhio attento della padrona di casa controlla che tutto avvenga in modo impeccabile. Dopo aver sorseggiato dell’ottimo liquore, le donne si ritirano per giocare a burraco, mentre Luciano invita gli amici in una piccola saletta a fumare e fare una partita a poker.
Si gioca a soldi, la posta è alta. Lorenzo è percorso dal brivido dell’imprevedibile e dall’avidità di vincere. Nella vita si è sempre sentito un giocatore. Di quelli, però, che non amano perdere. Fin da bambino il suo egoismo ed egocentrismo l’avevano portato all’incapacità di subire anche la minima sconfitta e, quando gli eventi lo facevano soccombere, si sentiva così depresso e furioso da ritenere di non riuscire più a risalire la china. E quella sera sta disputando la sua partita personale, nella vita, prima ancora che sul tavolo da gioco. E, anche in questo caso, deve uscirne vincitore. Il caso vuole che la buona sorte sia dalla sua parte e gli regali bellissime carte anche a poker. Si concentra nel gioco e sente riaccendersi in sé un fuoco da tempo sopito. Giocano per circa un’oretta e lui vince quasi sempre. Si sente imbattibile e la delusione è grande quando il suo ospite decide che è venuto il momento di ricongiungersi alle signore, nell’altra sala. Lui vorrebbe continuare a giocare tutta la notte, ma non per il denaro vinto, quello non gli interessa. Ciò che più gli preme è ritrovare quella soddisfazione interiore in cui ultimamente si erano aperte delle crepe; sconfiggere la noia falsificante della quotidianità, dell’ovvietà. Quello che vuole è sentirsi ancora vivo. Sulla via del ritorno commenta con Piero la piacevole serata e gli confessa di essersi divertito molto. “Questo è solo l’inizio” gli dice il collega. “Se ami il gioco d’azzardo, qui ti si aprono mille possibilità.” Lorenzo non sa ancora esattamente cosa vuole ma capisce che le sensazioni sperimentate durante la serata hanno fatto sì che in lui avvenisse come una specie di rinascita. Capisce che accettare il trasferimento a Torino è stata la scelta giusta. Si accomoda meglio sul sedile dell’auto, dando un’ultima occhiata alle colline che scompaiono dietro di sé. “Mamma, il professor Severi mi ha promesso che appena arriva il bel tempo ci
porterà a fare un giro con la sua barca a vela. Vorrei andarci subito, perché aspettare?” insiste Gianluca, mentre Cristina sta cercando un parcheggio. “Tesoro, stai tranquillo e non tediare il dottore con la storia della barca. Deciderà lui quando portarci e oggi comportati bene, perché c’è un bambino nuovo che dovrà giocare con te e la psicologa. Tu sei più grandino, quindi dovrai aiutarlo a costruire il castello” spiega con voce decisa la madre. “Sì, ma io sono il signore del castello e lui se vuole è il cuoco” piagnucola il bimbo. “Gianluca, deciderete insieme alla dottoressa i ruoli, non devi fare i capricci.” “Ma tu vai sempre dal professore mentre io gioco e cosa ti dice?” le chiede con la curiosità naturale dei bimbi. “Parliamo di te, della dottoressa, degli altri bambini e di come stai diventando bravo” lo rassicura Cristina con le guance che si imporporano. Mentre aspetta di essere ricevuta da Severi, pensa e ripensa alle domande che deve porgli. “Cara Cristina, oggi Gianluca è capitato nella giornata giusta: ci sono dei ragazzi, che lavorano in teatro, che si travestono da clown e intrattengono i piccoli ospiti dell’ospedale. Vedrai che si divertirà. Ora ti informo dei progressi di tuo figlio.” Ludovico ha un tono allegro e, vista la consuetudine di incontrarsi tutti i mercoledì, le ha proposto di darsi del tu. Cristina è lusingata e sente che Severi la circonda di un affetto familiare, da cui attinge con avidità, per sconfinare la solitudine e la nostalgia che la stanno circondando. “Volevo chiederti, se dovessi mancare per due settimane, cioè due mercoledì consecutivi, se… se interrompendo la terapia, Gianluca potrebbe retrocedere o bloccarsi, in questo percorso rieducativo.” “È per via di tuo marito?” le chiede il dottore con aria sorpresa e con una vena malinconica nella voce. “No, andrò una settimana ad Amsterdam a un corso di pittura. Mi ha invitato il mio maestro e ho un assoluto bisogno di distrarmi e di rilassarmi” gli confida velocemente. Si è tolta un peso, un fardello.
“Capisco.” La voce del professore è ora turbata, i suoi occhi lasciano trapelare un misto di inquietudine e di rincrescimento. Serra e allenta le mascelle con moto meccanico. Si sente appagato nel proteggere e aiutare Cristina, la vede come una creatura fragile, indifesa, solitaria, amareggiata. Pensare che nella sua vita c’è già un altro uomo non gli fa piacere. Si ricompone subito e, dopo aver emesso due colpetti di tosse, per schiarirsi la voce, le dice che sicuramente stare lontana dalla routine le farà bene e tornerà con molte energie. Suo padre potrà portare Gianluca agli appuntamenti, in modo da non perdere i piccoli i fatti dal bimbo. Cristina si sente più serena ma non gli è sfuggita quell’ombra di rammarico che ha velato lo sguardo di Severi, e avverte una sensazione di imbarazzo. Ludovico ritorna a parlare del paziente e tutto sembra risistemarsi ma, al momento dei saluti, le pone con delicatezza una mano sulla spalla e la accompagna alla porta dicendole: “Non vedo l’ora di portarvi a fare un giro con la mia barca e di are una giornata in compagnia.” Cristina gli chiede timidamente se ha una moglie, dei figli. Negli occhi del medico ricompare un’impercettibile sfumatura di tristezza, già manifestata in precedenza. “Senti, se hai voglia potremmo andare a bere un tè. Gianluca sicuramente si sta divertendo con gli animatori. Così parliamo un po’ delle nostre vite.” E, senza aspettare risposta, la sospinge dolcemente attraverso il lungo corridoio, due rampe di scale e un atrio affollato, verso il bar. “Innanzitutto rispondo alla tua domanda, cara Cristina. No, non sono sposato e non lo sono mai stato. Tutta la mia vita è rappresentata dall’ospedale, dai miei piccoli pazienti; credo che mi basti questo.” “Scusa, non volevo essere invadente ma, devo confessarlo, ero alquanto curiosa” spiega la donna, sentendosi avvampare, come le accade spesso quando è in compagnia di Ludovico. “Non ti devi preoccupare, apprezzo il tuo interessamento. Mi puoi chiedere ciò che vuoi. Cosa ti posso offrire, questo non è certo un bar di lusso, ma un caffè, o un cappuccino…”
“Va benissimo il tè anche per me” risponde Cristina che, non sa spiegarsi perché, sembra sollevata dalla confidenza del dottore. “Guardandoti bene negli occhi, credo che adesso tu abbia proprio bisogno di una fetta di torta alla ricotta. La fanno buonissima qui” le dice lui, guardandola col capo leggermente inclinato e gli occhi che sorridono. “Beh, se me lo prescrive il dottore, non posso certo rifiutare…” Seduti al tavolino di una saletta riservata ai medici, Severi le racconta, in tutta confidenza, la parte più intima della sua vita. Si era innamorato di una bellissima donna, che aveva avuto un ruolo molto importante per lui ma che si era presto stancata del suo andirivieni dall’estero, finendo per convolare a nozze con un suo collega, dopo soli sei mesi dalla fine del fidanzamento. In California, poi, aveva lavorato con una psichiatra altrettanto bella, intelligente e straordinariamente simpatica, con la quale si era lasciato andare a un’intrigante e duratura relazione. Pensava di aver trovato finalmente la donna della sua vita ma, dopo alcuni mesi, la proposta del primariato proprio lì a Milano, in quell’ospedale, lo aveva messo in condizione di dover scegliere tra professione e matrimonio. Lei non se l’era sentita di abbandonare la sua brillante carriera americana, per seguirlo e lui era rientrato definitivamente in Italia. “Dopo queste due donne, che ho tanto amato, ho avuto solo relazioni brevi, più che altro delle storielle senza importanza. Ora mi sento vecchio per mettermi nuovamente in gioco, mi sono abituato alla mia condizione di single. Sono considerato lo scapolo d’oro dell’ospedale” afferma sorridendo, con una strana espressione buffa del viso. “Mi spiace che le tue bellissime donne non abbiano avuto molta pazienza. Penso sinceramente che abbiano perso tantissimo. Quindi niente figli?” chiede Cristina, con tono lieve, portando alla bocca una forchettata di torta. “No, ma i bambini non mi mancano. Seguo i miei piccoli pazienti fino alla maggiore età e qualcuno anche dopo, quindi li considero un po’ le mie creature, visto che insegno loro a crescere, a raffrontarsi con il mondo. Ad alcuni mi sono
particolarmente affezionato. Per esempio ho aiutato, anni or sono, un ragazzo a studiare all’università e ora è un abilissimo ingegnere, ne sono molto orgoglioso e lo ritengo una specie di nipote. Ci vediamo spesso, ogni tanto usciamo a cena. Aveva una situazione familiare disastrosa, madre depressa e padre ubriaco, ma non mi era sfuggita la spiccata intelligenza del ragazzo e ho lavorato molto su questo, aiutandolo a crescere. Ero diventato un punto di riferimento importante per lui e ho cercato di non deluderlo, ma di incoraggiarlo. Si sposerà fra due mesi e mi ha chiesto di fargli da testimone di nozze Questo è il mio figlio adottivo maggiore, poi ne ho altri, una lunga serie.” Cristina lo ascolta intenerita. Ha intuito che dietro gli occhi seri e tanto umani di Ludovico ci sia un mare di generosità e bisogno di fare del bene. Ha l’istinto di abbracciarlo, per premiarlo di quella valanga di amore disinteressato, dettato solo dal cuore, che dispensa nella sua professione. Percepisce che può fidarsi ciecamente di lui e ha tanta voglia di parlargli di Nathalie, ma la confidenza non ancora ben definita le suggerisce di aspettare e di rimandare il racconto. “Mi fa sempre un gran piacere parlare con te” confessa, alzandosi dalla sedia e stringendo la mano che lui le porge, trattenendola più del dovuto per renderlo partecipe di quanto gli è grata, per tutta la premura che riserva a lei e al figlioletto. Negli occhi di Severi ricompare ancora quell’espressione di malinconia. “Cristina se hai bisogno di qualsiasi cosa, chiamami. Anche per un semplice caffè. Mi farebbe molto piacere. Lo riterrei un grande privilegio.” In auto Gianluca racconta con entusiasmo alla mamma l’incontro con gli animatori, batte le manine convulsamente e cerca di riproporre gesti ed espressioni dei clown. È visibilmente eccitato e si è divertito talmente che vuole tornare presto a giocare con la psicologa. “Mamma, domani è già arrivata la bella stagione?” La mente di Cristina, invece, è imprigionata in una ragnatela di sensazioni, occupata da una ridda di pensieri contrastanti. Non riesce ad allontanare quella vena di malinconica inquietudine che ha scorto negli occhi del professore e che le ha lasciato come un’ombra scura sul cuore.
17
“Conosce questa donna?” chiede con cortesia Stefania alla portinaia del centro di accoglienza, mostrandole la foto della clochard. “Mi faccia pensare… sì, però è molto più vecchia e sciupata.” L’addetta alla portineria sembra perplessa. Guarda meglio il viso sorridente ritratto, infilandosi sulla punta del naso un paio di occhiali da lettura. “L’anno scorso, di tanto in tanto, veniva qui per un pasto caldo, sempre insieme alla sua cagnetta. Se non ricordo male il suo nome è Nathalie. Perché me lo chiede, le è capitato qualcosa?” “È sparita e i parenti la stanno cercando” taglia corto l’assistente sociale, pregandola di sforzarsi di ricordare qualche altro particolare sulla donna scomparsa. “In effetti la ricordo abbastanza bene perché, a differenza di tanti altri barboni, aveva un sorriso dolce e un modo di fare estremamente gentile. Ringraziava sempre infinite volte quando le porgevo il pasto mentre, perlopiù, gli altri lo ritenevano un gesto dovuto.” “Le hai mai confidato qualcosa?” “No, questo no. Era molto riservata. Usciva con il piatto e divideva il cibo con la cagnetta. Mi inteneriva il loro modo di spartirsi il cibo e, se sapevo che veniva, le portavo dei dolci da casa. Poi, quando mi ero quasi affezionata a lei, non si è più fatta vedere. Sono più di sei mesi che non frequenta il nostro centro di accoglienza.” “Non ricorda altro? Anche un particolare insignificante potrebbe risultare utile per le ricerche.” “No, mi spiace.” “Le lascio il mio numero di cellulare così, se dovesse ricomparire, mi potrà avvisare.”
“Sì, certamente. Se ha voglia di aspettare una ventina di minuti dovrebbe arrivare la responsabile e forse sarà in grado di dirle qualcosa più di me. “Aspetto” si affretta ad affermare Stefania, con la viva speranza di riuscire a scoprire qualcosa Si accomoda su un logoro divanetto blu e prende in mano distrattamente una rivista. Nelle prime pagine un articolo spiega con dati allarmanti il continuo aumento di senzatetto nella città di Milano e nel resto d’Italia. Ancora immersa in quel tragico resoconto di inquietante attualità, presta attenzione a una donna di mezza età, corpulenta e con una chioma di un orrendo color melanzana, che la invita a entrare nel suo ufficio. Più o meno ripete le stesse cose della collega, senza aggiungere altri particolari. “Non parlava quasi mai, neanche con gli ospiti del centro. In genere sedeva in disparte e, quando abbiamo cercato di sapere qualcosa in più sul suo conto, lei se ne è andata. A volte capita che cambino città, anche senza motivo. Proverò a spargere un po’ la voce.” Leo e Cristina intanto setacciano Via Soperga, percorrono Via Pergolesi, entrando soprattutto nei bar, sempre mostrando la foto della donna scomparsa e porgendo le stesse domande di rito. Sono avviliti e scoraggiati, ma anche increduli che una persona possa essersi volatilizzata così, nel nulla, senza testimoni, senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Lo sconforto di Cristina è tangibile, e nella forza e nella volontà che la animano, cominciano ad aprirsi delle grosse crepe. Ogni volta che riceve in risposta un diniego, o lo sguardo vago di chi non sa nulla, il vuoto dentro di lei si ingrandisce e sul suo volto il malessere si manifesta con una spigolosa plasticità. Si aggrappa al braccio del maestro, per trarre conforto. L’energia che sprigiona da lui è veramente potente e riesce a lenire il senso d’ingiustizia e di solitudine che la stanno attanagliando. La mattina è splendida, luminosa e inaspettatamente tiepida; troppo bella per accompagnarli in quel triste cammino, in quell’angosciosa ricerca.
Decidono di ritornare in Galleria di Corso Buenos Aires, perché è lì che è stata trovata Briciola e quindi sono convinti che, proprio lì, deve essere successo qualcosa a Nathalie. Quel girare senza sosta li ha stancati ed entrano in un bar per bere qualcosa e sedersi un attimo a raccogliere le idee. Quando il cameriere si avvicina, portando le bibite, Leo gli mette sotto il naso, con un gesto ormai divenuto meccanico, la fotografia ricavata dal disegno di Cristina. “Senti, per caso hai visto di recente questa donna?” gli chiede con poca convinzione, perché si è rassegnato a ricevere risposte negative. “Ultimamente, per via del freddo si rifugiava qui con la cagnetta.” Il ragazzo osserva con attenzione la foto, mostrandosi più preoccupato del necessario. Sembra titubante, come se parlare con quegli sconosciuti potesse essere pericoloso. “Sii gentile, si tratta di una nostra parente che è sparita” lo esorta Cristina con calore. Finalmente il ragazzo si lascia andare: “Sì, sì, l’ho vista un sacco di volte, la barbona col cane. L’hanno portata via.” Nella sua voce si è insinuata una nota scostante. “Portata via? Chi, quando?” I due amici saltano sulla sedia e incalzano il poveretto, che comincia a balbettare. “La settimana scorsa, martedì o mercoledì, non ricordo. Sono arrivato qui alle cinque del mattino. Ero di turno e dovevo aprire il bar ma ero maledettamente in ritardo. Camminavo in fretta, trafelato, quando sono stato bloccato all’imbocco della Galleria, perché stavano caricando sull’ambulanza la… la… vostra parente.” “Sei sicuro che fosse lei?” “Sì, sicurissimo. Era incosciente ma era lei. E poi c’era lì vicino anche il cane.”
Cristina lancia uno sguardo di supplica a Leo, e lui le stringe forte il braccio dicendo: “Stai tranquilla, se è in ospedale la troveremo. Almeno adesso sappiamo dove cercare.” Poi, rivolgendosi nuovamente al cameriere: “Non sai di quale ospedale fosse l’ambulanza o almeno in che direzione sia andata?” “No. A dire il vero ero ancora mezzo addormentato. Ecco, ora mi ricordo. Era mercoledì mattina, perché la sera prima ero andato a dormire molto tardi.” Adesso ha nuovamente la situazione sotto controllo e racconta senza più esitazione. “Sono corso ad aprire il bar e, dopo poco, sono tornato per controllare se c’era ancora il cane ma non l’ho trovato. Poi sono cominciati ad arrivare molti clienti e mi sono scordato dell’episodio.” “Ci sei stato davvero d’aiuto” lo ringraziano i due amici, lasciando sul tavolino una consistente mancia. “E adesso che facciamo?” chiede Cristina piena d’ansia. Un’esile speranza di trovare Nathalie ancora in vita è tutto ciò che le rimane. “Chiamiamo subito Stefania, lei ci suggerirà come organizzarci per setacciare gli ospedali.” Stefania rassicura Cristina che, se Nathalie è ricoverata presso un ospedale, riuscirà a trovarla. Ritiene che non sia una notizia negativa, perché in tal caso le ricerche sono molto più mirate. “Mi devo assentare due giorni per un corso di aggiornamento” comunica con rincrescimento. “Ma al mio ritorno vi prometto che comincerò a setacciare gli ospedali. Intanto posso fare un giro di telefonate nei posti dove ho delle conoscenze”.
Venerdì sera Cristina aiuta Gianluca a preparare la valigia per andare a trovare il papà a Torino. Il bimbo vuole portare i libri dei velieri e i suoi giocattoli, protesta per inserire anche vestiti e scarpe. “I vestiti li metti nella tua valigia che è grande, non vedi che la mia è piccolina?”
piagnucola, ma in realtà ha paura di sciupare i suoi bellissimi libri pop-up, che custodisce assai gelosamente tanto che, quando viene qualche amichetto a trovarlo, li nasconde sotto il letto, talmente è preoccupato di rovinarli. Li ha sfogliati decine di volte ma sembrano ancora intonsi, non hanno una piega e, finito di giocare, li ripone con cura maniacale e, con un rituale sempre uguale, infilandoli nel secondo ripiano della libreria. Sono gesti chiaramente compulsivi che non sfuggono a Cristina. Dovrà riferirli a Severi. “Va bene, li metto nella mia valigia, ma tu cerca di stare tranquillo” replica la mamma. Sul treno Gianluca è scostante e agitato, non riesce a stare fermo e manifesta palese nervosismo. Chiede ogni quarto d’ora, pedantemente “siamo arrivati?” ed è incapace di godersi il viaggio. Cristina non riesce a calmarlo e si sente improvvisamente stanca e avvilita. In certi momenti le sembra che i progressi assicurati dal professore siano alquanto esigui e si sente improvvisamente irresoluta e sconfortata. Il benessere che aveva provato la sera prima, pregustando quella breve gita con il figlio, si è liquefatto. L’immagine del nulla che divora le proprie esistenze è ancora lì in agguato e ne avverte la presenza maligna in ogni istante. Cerca di apionare il bimbo con la descrizione dei paesaggi mutevoli che scorrono fuori dal finestrino ma non riesce a distrarlo dalla sua esplicita irrequietezza. Alla stazione il bimbo scorge subito Lorenzo e cerca di staccarsi dalla mano della madre, per corrergli incontro. “Lasciami andare dal mio papà” urla il piccolo ma Cristina lo tiene ben saldo, temendo di poterlo perdere nella marea di gente che cammina frettolosamente davanti e dietro loro. “Ciao, Cristina, grazie di essere venuta.” La bacia velocemente sulla guancia, con un leggero imbarazzo. “Ciao, piccolo mio.” Lorenzo solleva il figlio, che scompare tra le sue forti braccia. “Come stai? Mi sei mancato tanto.” Gianluca lo stringe forte e poi, inaspettatamente, gli morde la guancia. Il padre lancia un’imprecazione, stupefatto e irritato. Lo posa a terra e si porta una mano sulla guancia ferita, dalla quale sgorgano alcune gocce di sangue. S’irrigidisce, è offeso e furente: quel
gesto gli riporta alla mente la malattia del figlio e non sa come deve reagire. Cerca nello sguardo della moglie un segnale, un aiuto. “Non è niente” lo rassicura lei, tamponandogli la piccola ferita con un fazzoletto di carta. “Guarda, è solo un piccolo segno, non voleva farti male. Ha accumulato troppa tensione nel viaggio, non ha saputo calibrare la pressione del suo bacio.” Cristina coglie al volo la tensione che si è creata e prende in mano immediatamente la situazione, proponendo a Gianluca di camminare in mezzo a loro, dando ai genitori la mano e, dopo ogni tre i, sarà sollevato in aria in un grande salto. Severi ha insegnato a Cristina a distrarre il figlio in maniera ludica, quando si trova in un momento di forte emozione o stress. Gianluca saltella felice e sembra tranquillo ma Lorenzo è turbato e deluso. Deve controllare il proprio istinto per non dire cose spiacevoli. Chiede come procedono le terapie del figlio e rimane meravigliato nel sentire Cristina positiva e ottimista. “Sta facendo tanti piccoli progressi. Il professore è soddisfatto e nutre ottime speranze in un suo possibile, parziale recupero.” “Io voglio essere sincero con te, e ti dico di non illuderti troppo. Mi sembri troppo fiduciosa, mentre io constato che non è migliorato affatto. Anzi, secondo me, continua a peggiorare. E non mi riferisco solo all’episodio del morso ma in generale. Gianluca non sta affatto bene e vorrei farlo visitare da un altro medico.” “Ti assicuro che sta facendo dei piccoli i avanti. Tu non te ne accorgi, perché non lo vedi tanto spesso come me.” Al Museo Egizio gli animi sono un po’ più sereni ma Gianluca è interessato soltanto ai modelli di imbarcazioni. Il padre gli spiega che gli antichi egizi credevano che, anche il sole, attraversasse il cielo a bordo di una barca: la barca del dio Ra. Ma il figlio non lo ascolta, corre avanti e indietro a osservare le differenze delle imbarcazioni, rilevando particolari interessanti solo per lui. Si sofferma sulla riproduzione di un battello ornamentale di alabastro, che trasporta tre marinai, vicini all’albero nell’atto di innalzare le vele, per salpare per un viaggio che porterà nell’aldilà l’importante personaggio, probabilmente un
faraone, seduto su un baldacchino istoriato di lapislazzuli. Subito dietro di loro ci sono un timoniere e a prua un gruppo di marinai di sentinella. Le figure indossano un gonnellino bianco pieghettato e sono acconciati con il tipico caschetto degli antichi egizi. I corpi sono scolpiti finemente e l’algida lucentezza della pietra, a dispetto dei secoli, sembra far guizzare i muscoli di quelle millenarie statuine. Gianluca è affascinato da questo modellino e cerca di allungare le mani verso la vetrinetta per toccarlo. “Adesso ti porto a vedere le mummie” gli dice il padre per distrarlo ma lui rimane con gli occhi incollati al piccolo battello di alabastro e sembra estraniato da tutto il resto. Non ascolta nemmeno la dettagliata spiegazione del padre sulle antiche tecniche di imbalsamazione. Lorenzo è stizzito, come se avesse di fronte un comune ragazzino scostante e maleducato e non un bambino affetto da una grave patologia. Cristina, per rasserenarlo un poco, lo prende sottobraccio e gli confida che le sarebbe piaciuto vivere ai tempi dei faraoni. Scherzano un po’ e sorridono, ritrovando la complicità dei vecchi tempi, quando insieme, innamorati e pieni di curiosità, si recavano a visitare mostre e musei. Gianluca, a un certo punto, si mette a frignare. Dice che si annoia e vuole andare nel punto shop per comprare una barca e anche un libro con tutte le foto dei modellini che ha visto. “Cristina, guarda che lo stai viziando troppo. Sembra un bambino di tre anni. Ma il tuo professore dice di assecondarlo sempre in tutti i capricci? A me non sembra giusto.” “Lorenzo, per favore… È spaesato, fuori dal suo ambiente. Forse ho sbagliato a portarlo qui. È ancora troppo presto. Adesso gli compriamo la barchetta e vedrai che starà buono per il resto della giornata.” Nel punto shop, però, i malumori aumentano e, quando il bimbo capisce che i modellini delle imbarcazioni non sono in vendita, la delusione esplode nei movimenti convulsi delle mani, che aumentano progressivamente. Cristina non si lascia prendere dal panico. Ha imparato con l’esperienza come far fronte a quelle piccole crisi: sa che deve distrarlo, dirottare la sua attenzione su qualcosa che riesca a riportare la calma nella disordinata marea della sua
mente confusa. Riesce, comprandogli un libricino raffigurante le principali divinità egizie e un fermacarte a forma di piramide, a calmarlo. Lorenzo è sbigottito dall’atteggiamento ostinato e capriccioso del figlio e ribadisce che, secondo lui, non ha avuto nessun giovamento dalle terapie eseguite dal professore Severi. “Potremmo farlo visitare qui a Torino, ci sono validi specialisti e un buon centro” insiste. “No, cambiare medico e psicologa gli creerebbe solo confusione. Stai tranquillo, ci vogliono tempo e pazienza. Lui si accorge che tu t’innervosisci e si comporta peggio. Lo so, è difficile, ma devi sforzarti di trovare una sintonia; è molto importante.” Lorenzo si sente a disagio e non sa come comportarsi, ha paura di turbare l’equilibrio precario nella mente disturbata del bimbo, quindi cerca di controllare la sua crescente irritazione e rimane indifferente, interagendo pochissimo con lui. Nel loft il figlio fortunatamente ritorna normale, chiede la merenda e, mentre mangia un dolcetto, apre i suoi libri e li sfoglia tranquillamente. Cristina e Lorenzo si ritrovano sul divano a parlare, come non capitava da mesi e si accorgono che, messi da parte rancore e delusione, il loro rapporto è migliorato. Decidono di mangiare in casa, per non sottoporre Gianluca a un ulteriore stress, costringendolo ad abbandonare la calma del loft, nel quale sembra trovarsi pienamente a suo agio. Tanto più che la cucina è perfettamente attrezzata e una breve ricerca negli armadi rivela che il predecessore di Lorenzo doveva prepararsi i pasti da solo, perché ha lasciato del cibo nel congelatore, oltre ai generi di consumo più comuni come olio, sale, pelati, pasta e così via. Cristina scende a fare la spesa in un grande supermercato che si trova proprio sotto casa, mentre Lorenzo finisce un lavoro al computer. Gianluca, sdraiato sul divano, guarda i suoi cartoni animati preferiti. Quando è in strada, telefona a Leo, per sapere se ci sono novità nella vicenda di Nathalie. Neanche quella breve trasferta a Torino è riuscita a placare l’ansia e
l’angoscia per la misteriosa sparizione della sua amica. Sapere che è stata portata via da un’ambulanza non basta a rincuorarla: può essere successo di tutto, anche la più temibile delle ipotesi. Si concentra sulla spesa e acquista delle code di gamberi per fare una pasta e del pesce spada da cuocere ai ferri. Nel frigorifero ha adocchiato diverse bottiglie di vino bianco e pensa che un buon bicchiere servirà, per affrontare la serata in modo più rilassato. Si guarda in giro nella piccola piazza e si accorge di come si stiano allungando le giornate. Sono le sette di sera e la luce del giorno indugia ancora, incerta, all’orizzonte. Si sente nell’aria che l’inverno sta per finire e considera che, in quella stagione bizzarra, sono successi molti avvenimenti che hanno cambiato radicalmente la sua vita. La nuova Cristina è piena di ferite ma si sente di nuovo straordinariamente forte e certa che il percorso che l’attende possa essere ancora molto interessante e pieno di stupende sorprese. Durante la cena discorre amichevolmente con Lorenzo e si confidano le loro nuove realtà. Lui le rivela che non gli dispiace affatto vivere da solo, che si sente bene e ha le giornate piene. Racconta dei nuovi amici e dello stimolante giro in cui è stato introdotto ma omette, ovviamente, di parlare della sua attrazione per il gioco d’azzardo. “E Simona?” gli chiede incuriosita. “Non c’è posto per lei in questa tua nuova vita?” “Simona arriverà a giorni, è stata trasferita presso la mia banca. Ma, a dir la verità, avrei preferito are alcuni mesi distanti, per capire i sentimenti che proviamo.” “Sono certa che lei non ha bisogno di tempo per capire ciò che desidera: è completamente sola, con un aborto alle spalle, credo che abbia bisogno di sentirsi amata, per superare questo difficile momento. Tu… sei tu l’eterno immaturo, egoista e superficiale. Mi sembra che, a questo punto, sia un po’ tardi per tirarti indietro…” “Sì, hai ragione ma ti ho già detto e ti confermo che non sono sicuro di amarla.” “Lorenzo, io proprio non ti capisco. Ti prego, pensa bene a quello che fai. Non distruggere anche questa relazione; ricordati che tutti abbiamo bisogno d’amore.
O finirai irrimediabilmente solo.” Un velo di malinconia a sul volto dell’uomo, mentre guarda distrattamente fuori dalla finestra. La notte ha cominciato a scendere e le luci della città si sono fatte più nette. Gianluca si è addormentato sul divano e in quel loft asettico la situazione è diventata improvvisamente familiare. Sotto una turbata superficie di esperienze sensoriali, sente tutto il distacco da una realtà che non gli appartiene più. Guarda la moglie e, strizzando un pochino gli occhi, pronuncia una frase che ha il tono di una sentenza: “Lottiamo, ci diamo da fare e per che cosa? Siamo tutti irrimediabilmente soli.”
18
Le braccia forti di Lorenzo portano le pesanti valigie di Simona. Lei si ferma sulla soglia e gli scaglia uno sguardo obliquo: “Il nostro nido, finalmente. Non sai quanto ho atteso questo momento. Dovresti prendermi in braccio e, come vuole la tradizione, portarmi dentro.” Lui potrebbe prestarsi a quel momento gioioso di innocente euforia e assecondare i desideri, in fondo legittimi, della donna. Invece commenta spazientito: “Dai, su, entra, comportati da persona seria.” Non c’è spazio per l’allegria e il divertimento, quello che prova è solo irritazione e nervosismo. Sente invadere la tranquillità e la privacy del suo nuovo ritiro e la cosa non gli piace affatto. Si è abituato a rientrare, dopo una giornata di lavoro, in un appartamento perfettamente ordinato e silenzioso e trova tutto ciò un privilegio rilassante e confortevole. D’ora in poi, invece, dovrà spartire lo spazio e la preziosa tranquillità del loft con quella donna esigente. È un piccolo appartamento e non c’è posto sufficiente per isolarsi, o per ritagliarsi anche solo un angolo per sé. Avrà sempre davanti la figura di Simona. Lei si guarda in giro soddisfatta e sembra apprezzare il gusto dei mobili e dei pochissimi, essenziali, oggetti che sono sparsi in giro con grande senso estetico. “Non mi dai un bacio?” gli chiede maliziosamente. Lorenzo appoggia frettolosamente le labbra sulle sue, che invece si aspettano effusioni più apionate. Prende dal frigorifero una bottiglia di vino bianco, che ha messo in fresco, e l’appoggia sul tavolino di cristallo, mentre cerca il cavatappi. “Dobbiamo festeggiare degnamente l’inizio della nostra convivenza” le dice porgendole il bicchiere ma la frase risulta recitata, goffamente priva di entusiasmo. Simona si siede sul divano e ne prova la comodità. “Siediti qui, amore, facciamo
un brindisi come si deve.” Lui è già stanco di tutte quelle smancerie; fingere gli risulta difficile e gli sembra inutile. Ha la testa altrove e la presenza della compagna gli appare, fin da subito, ingombrante. Pensa che lei si aspetti una serata apionata ma la ione l’ha abbandonato da un pezzo. Simona esamina accuratamente gli armadi, lamentandosi del poco spazio per i suoi indumenti quindi, cambiando repentinamente discorso, gli chiede come si trova nella nuova banca e che tipo di lavoro dovrà svolgere lei. “Sarai ancora il mio bel direttore?” domanda, mentre gli si avvicina e lo bacia apionatamente. Lorenzo fatica a partecipare a quel momento affettuoso e pensa che, per colpa dell’intrusa, dovrà rinunciare alla partita a poker serale e se ne rammarica. Prenota la cena presso il ristorante sotto casa, perché Simona dichiara di essere troppo stanca per cucinare. La serata non è particolarmente entusiasmante, la conversazione risulta fiacca e stentata e il cibo messicano del colorato e chiassoso locale non aggiunge niente di piccante a quel rapporto di convivenza che, appena nato, sembra già logorato dalla noia e dalla stanchezza. Rientrano in casa quasi con sollievo e, una volta sotto le coperte, Lorenzo si addormenta quasi subito. La delusione di Simona è profonda. Si aspettava un’accoglienza diversa. Aveva vagheggiato per giorni quel momento, che si era immaginata intenso e pieno di trasporto. Invece si ritrova a fissare la schiena del suo uomo, lasciatosi andare troppo presto al sonno. Abbraccia il cuscino come se fosse un tenero fagotto da cullare e si ritrova a pensare al suo bimbo, morto ancora prima di nascere. S’immagina il volto del piccolo, le sue bianche e delicate manine protese verso di lei. Il desiderio di un figlio è intenso e, nei recessi più profondi della sua mente, è come se una tenera creatura si stesse già formando dentro di lei. È decisa ad affrontare una nuova gravidanza al più presto e ha intenzione di parlarne a Lorenzo.
Lei, Lorenzo e il loro bambino: dentro di sé quell’immagine familiare è già qualcosa di concreto e si sente forte, per quell’unione salda che è certa di aver costruito tra di loro. Trova mille giustificazioni per il comportamento svogliato di Lorenzo e non ha alcun dubbio che il loro rapporto funzionerà. “Solo un po’ di tempo,” ripete più volte con un muto bisbiglio, come per convincere se stessa “e tutto andrà per il meglio. Lorenzo ormai è mio e saprò custodire questo amore.” Lo guarda dormire beato e, improvvisamente, le sembra irraggiungibile. Si sente intrappolata in una bolla di debolezza e si chiede se non sia stato un errore imporgli una convivenza, forse un po’ prematura. Attraverso le tapparelle socchiuse, la luna spande su di lei tutto il suo pallore e un timore sordo si unisce a una sensazione di mesta solitudine. Appoggia le mani sul ventre e immagina che dentro di lei ci sia già qualcosa che cresce. Mentre il sonno sta sopraggiungendo, una fase preonirica confonde nella sua mente realtà e desideri. Prevale ancora qualche attimo la lucidità, poi finalmente, si abbandona al sonno.
Si alza presto e si veste con molta cura. Il tailleur nero le conferisce un’aria manageriale. È tornata quella di sempre: sprezzante, sicura e padrona di sé. In banca Lorenzo la presenta a tutti come un trofeo e l’accompagna personalmente all’Ufficio Esteri, dove è stata assegnata. Lei è inorgoglita da quell’atteggiamento e si ritrova subito in un ambiente familiare. Soprattutto la sua tensione si scioglie quando fa la conoscenza di Miriam, la nuova segretaria del direttore e, prendendo atto della scarsa avvenenza della donna, si convince che non deve temere che il suo uomo possa cadere in tentazione. Le ritorna il buonumore e inizia con meticolosità il nuovo lavoro. Nella pausa pranzo si trova a mangiare un panino nel bar di fronte alla banca con alcuni colleghi appena conosciuti e cerca di mostrarsi cordiale, anche se è un po’ delusa dal fatto che Lorenzo si sia dovuto trattenere in ufficio. Ha deciso di mettere da parte l’aspetto egoista e capriccioso della sua personalità e di adeguarsi alle esigenze del suo compagno. Infatti, rinunciando a una serata tranquilla tra le pareti domestiche, si è lasciata convincere ad andare a cena da Luciano. Vuole evitare ogni possibile motivo di discussione e cercare di essere il
meno spigolosa possibile. Sta seminando armonia, aspettando il momento perfetto, quando gli rivelerà che vuole un bambino. E lui, allora, non potrà dire di no. Alle cinque, finito l’orario di lavoro, raggiunge l’ufficio del direttore, per comunicargli che se ne va a casa. “Io dovrò fermarmi almeno fino alle sette, poi ti raggiungo” la informa Lorenzo, staccando a fatica gli occhi dal computer. “Ricordati che abbiamo una cena importante, mettiti qualcosa di elegante; magari il vestito rosso, quello che indossavi a Roma, ti sta benissimo.” “Sì amore, come vuoi tu. A più tardi” dice di rimando, chiudendo piano la porta.
La sfarzosa villa e l’ambiente elegante in cui l’ha introdotta Lorenzo non inducono nessuna emozione nell’apatico cuore di Simona. Si muove con grazia ed eleganza, doti che le sono innate e, stretta nel suo abito rosso, non sfigura certo con le donne belle ed eleganti che ravvivano il vasto salone. Cerca di ridere e scherzare, ma è assente e contrariata e rimpiange di non essere rimasta a casa a terminare la lettura del libro Io e il mio bambino. Ha deciso che quella sera stessa parlerà a Lorenzo e gli dirà che si sente pronta per affrontare una nuova gravidanza. Dopo cena gli uomini si ritirano nella saletta per il solito poker e le donne, accomodate su confortevoli divani, chiacchierano del più e del meno. Celeste, la padrona di casa, ha preso sotto la sua ala protettiva la nuova arrivata e la tempesta di domande, soprattutto su Lorenzo, per il quale nutre una forte simpatia. La serata sembra non terminare mai e Simona si annoia mortalmente. Pensa che la sua avventura torinese è incominciata nel peggiore dei modi. Beve un caffè dopo l’altro e divora cioccolatini come unico atempo e antidepressivo. Durante il rientro a casa, Lorenzo è euforico per la serata di successo e la somma vinta al gioco, mentre la sua compagna è ombrosa e ostenta un broncio infinito. Parlano, discutono, litigano. Lorenzo l’accusa di essere incapace di divertirsi e,
dopo la perdita del bambino, di essere diventata spenta e noiosa come una persona invecchiata precocemente. Simona riesce a calmarlo con parole gentili, scusandosi per il malumore e attribuendolo all’ambiente nuovo e alla stanchezza per la prima giornata di lavoro. La bufera sembra ata. A casa lei gli comunica che si sente vuota senza un figlio e che vuole averne uno, senza dover aspettare troppo tempo e l’animata discussione riprende. Lui sbotta infuriato che non vuole sentire parlare di bambini, perché ha già abbastanza problemi con Gianluca e, nei momenti liberi, deve potersi occupare di lui. È categorico, non intende sentire ragioni. A Simona sembra di rivivere quella tragica serata a Roma e tutta l’angoscia, che credeva essersi ormai lasciata alle spalle, riesplode con inaudita violenza. In un tragico déjà-vu si rivede in quell’albergo della capitale, ferita a morte, dopo aver rivelato al compagno che portava in grembo la sua creatura. E ancora più a ritroso nel tempo, quando il padre la lasciava sola con Virginia, la governante, e lei provava un forte senso di abbandono. Quella donna non aveva saputo trasmetterle neanche un briciolo di amore e lei aveva ato la sua fanciullezza alla ricerca disperata di affetto. Inoltre, la perfida tata riusciva a spegnere in lei ogni desiderio ed entusiasmo, facendola sentire imprigionata in un’arida gabbia vuota. Stranamente nella vita si creano spesso situazioni artificiali, e il legame con quella governante fredda e autoritaria era quanto di più diverso ci potesse essere da un rapporto tra madre e figlia. Nella mente di Simona riaffiorano le innumerevoli volte in cui aveva pianto, con la faccia riversa sul cuscino, e pregato che venisse in fretta il fine settimana, per buttarsi nelle braccia del papà. Lui la sapeva capire, ascoltare, assecondare, ma la sua assenza pesava mille volte di più della sua presenza. Ora si sente nello stesso modo, incompresa e tradita, ma essere soli all’interno di una coppia è ancora più frustrante. Lorenzo si sovrappone alla tirannia della governante. Neanche lui sembra lasciarle spazio per i desideri e le aspirazioni. Anche lui, a suo modo, è incapace di comunicare amore. Il viso di Virginia si sovrappone a quello di Lorenzo, le voci si confondono e la fanno sentire imbrigliata in un’atroce solitudine senza scampo. Reprime tutto il suo dolore e la delusione in un avvilito mutismo che, tutto sommato, non dispiace a Lorenzo. Lo preferisce senz’altro allo scambio incessante di cattiverie e lo interpreta come una capitolazione, mentre lei si sveste e si strucca
soffocando il pianto, infilandosi poi nel letto senza dire una parola, sola e schiacciata sotto il peso di una gelida indifferenza. Non riconosce più in sé la donna temibilmente sicura, quella che non avrebbe mai accettato un compromesso, quella che dettava le regole del gioco, sempre. Si chiede se quel cambiamento non sia stato causato dall’intensità emotiva per la perdita del bambino. Ora è resa intorpidita dal rimpianto e dall’amore che prova per Lorenzo e, ancora una volta, pensa che forse sia giusto assecondarlo e giustificarlo, armandosi di grande pazienza e spirito di abnegazione, provando a dividere con lui la vita che si è scelto, riducendosi a una specie di ombra. Fatica molto ad addormentarsi, per tutti i caffè ingurgitati e per la cocente delusione di un’altra giornata di fallimenti. Mentre cerca ristoro nel sonno, un impercettibile cambiamento avviene dentro di sé. Sente dapprima nascere intimamente una nuova forza, un’inattesa speranza di riuscire a cambiarlo, con il tempo e con il suo amore. Poi si ritrova perfettamente padrona di sé e riconosce, in quell’ondata di rinnovata consapevolezza, la Simona di un tempo, prima che una serie di eventi spiacevoli la fiaccassero e la riducessero a un essere debole e privo di volontà. Si ritrova ancora pronta a combattere, per la sua vita e per le sue più intime ambizioni. E per quel figlio che desidera a tutti i costi.
19
Il buio è calato di colpo e le loro ombre indistinte si allungano sul ponte inferiore della casa galleggiante. Le stelle e le luci che si riflettono nel canale accompagnano i lunghi, rilassati silenzi. Cristina respira piano, assaporando la brezza leggera che increspa l’acqua e le rimanda l’eco dell’onda, che sbatte contro la costruzione di legno. Si siede su una vecchia panca verniciata di bianco e lascia scorrere i pensieri a ruota libera. L’aria, leggermente agitata, spande intorno il profumo intenso del rosmarino, che sta crescendo in un vaso di latta vicino ai suoi piedi. Il cielo è magnifico e le stelle sembrano ancora più vicine alla Terra. La luccicante immensità della volta celeste aumenta in lei il senso di precarietà, facendola sentire un guscio vuoto, fragile e vulnerabile. E la malinconia diventa ancora più struggente e le artiglia la gola. Leo rientra in salotto e, poco dopo, le note di una dolce melodia di Schumann colorano l’aria con un tocco lieve. Si stringe nelle spalle. L’umidità della notte sul canale si fa sentire ma lei non si decide a lasciare quel magnifico cielo e il panorama notturno di Amsterdam scintillante di luci. Una mano gentile e premurosa le appoggia uno scialle morbido sulle spalle, poi si ritira, senza una parola, come un alito caldo, che la sfiora impercettibilmente. All’interno della casa una piccola lampada, posta su un vecchio cassettone del salotto, irradia una tenue luce rosata. Si abbandona al ricordo della giornata appena trascorsa, la prima del corso, durante la quale tutto aveva costituito una piacevole novità, e rievoca l’impegno riposto nell’apprendere anche la più facile nozione. Nuove tecniche le insegnavano a tradurre sulla tela i propri stati d’animo, le emozioni più nascoste. Disegnava e dipingeva senza alzare mai la testa. Leo la lasciava fare, non la interrompeva, temendo di turbarne la concentrazione. Lui
chiacchierava con gli altri insegnanti e preparava la lezione per il giorno dopo. Visionava i lavori migliori, che sarebbero stati scelti per una mostra. A lei non interessava primeggiare ma solo far vivere le proprie emozioni contrastanti e difficili da incanalare, in quel particolare momento della sua vita. Nel riprodurre il vaso di tulipani, aveva cercato di intridere la tela dell’allegria che la rendeva spumeggiante e il risultato era stato un quadro dalla forza travolgente e dai vivacissimi colori. Poi era uscita nel cortile della scuola, mettendosi all’ombra di alcuni rami carichi di fiori bianchi e da lì aveva osservato il suo maestro che chiacchierava con un gruppo di allievi. Aveva aspettato sotto l’albero che lui si liberasse e la delicatezza di quei candidi grappoli olezzanti le aveva restituito la voglia di sorridere. Si era guardata in giro con occhi diversi: quelli dell’artista. I particolari più insignificanti divenivano subito essenziali e la luce e le atmosfere assumevano una dimensione nuova. Avevano girato un po’ nell’intimità delle strade, dei canali e delle piazze, osservando gli edifici dalle piccole dimensioni e i locali caratteristici, camminando sottobraccio e scambiandosi le emozioni vissute durante il corso. Avevano scelto un piccolo ristorante tipico per pranzare. La barriera protettiva costituita dalla diversità sessuale rendeva il loro rapporto autentico e privilegiato. Cristina si sentiva completamente disinibita e non temeva che certi piccoli gesti affettuosi potessero venire fraintesi. Mentre mangiavano una tipica zuppa di legumi, lei osservò a lungo i lineamenti del maestro, quasi volesse stamparseli nella mente a caratteri indelebili. Non lo aveva ancora dipinto e voleva ritrarlo con l’espressione e la luce di quel preciso momento. Si accorse di sorridere. “Perché mi fissi e ridi, sono forse buffo?” “No, sei adorabile. Sto pensando a una tecnica per dipingere la tua espressione quando sei così, tra lo smarrimento, la curiosità e la concentrazione.” “Allora sono proprio buffo, dovresti farmi una caricatura.” “Sì, ò solo il bianco e l’azzurro. Sono i colori dell’amicizia. Vedrai, sarà un capolavoro!”
Sembravano allegri e ciarlieri ma lo spettro di Nathalie era seduto in mezzo a loro. “Ci pensi continuamente, vero?” aveva chiesto Leo. “Sempre e mi sento in colpa di essere qui, piuttosto che a Milano a portare avanti le ricerche. Dimmi la verità, tu credi che sia viva?” aveva chiesto lei di rimando. “Sono sicuro. Vedrai, la troveremo.” Un brivido la riscuote dal pensiero di quei recenti accadimenti. Da troppo tempo è seduta su quella panca di legno e l’umidità le è penetrata nelle ossa, insieme al freddo che sembra sprigionarsi da quegli astri immoti che ammiccano nella notte cieca. Adesso è ora di spegnere i pensieri, che fanno scorrere la sua vita nella mente come un film. Un film che si è interrotto nel punto cruciale e ora bisogna adattargli un nuovo finale, possibilmente un lieto fine. Il cielo, come un meraviglioso tappeto di stelle, è sempre più basso e immenso e aumenta il senso di solitudine che la attanaglia. E, per un istante, è travolta da una vertigine, al pensiero di far parte di quell’universo. Rimane ancora un momento con lo sguardo incerto rivolto verso l’alto, in preda a un’estasi inconsueta, scegliendo una stella a caso. “Dovunque tu sia, sappi che non ti ho abbandonata” dice tra sé, rivolgendosi al puntino luminoso. E il cielo, per un attimo, si spegne, regalando un buio assoluto al fioco tremolio di quel piccolo corpo celeste, che pare sorridere. L’illusione è perfetta e le scende negli occhi, dove trova una lacrima che sgorga. Sì, la stella di Nathalie sta sorridendo.
20
La pioggia sbatte sui tergicristalli, scendendo copiosa e scrosciante e il vento, con raffiche violente, ulula la sua rabbia. Cristina procede lentamente e cerca di orientarsi in quel pomeriggio buio come la notte, sotto un cielo plumbeo e dentro un mondo deformato e senza confini. Le luci delle auto che ha davanti l’aiutano a localizzare la strada, quasi totalmente allagata. A un tratto le lampadine accese illuminano le molteplici finestre, testimoniando la presenza dell’ospedale. Cristina fissa le mille fessure luminose e tremolanti che bucano l’oscurità, nell’assurda speranza di scorgere il volto di Nathalie dietro a un vetro. All’interno dell’edificio il tempo sembra sospeso, bloccato da un incantesimo beffardo, ma dentro la sua auto i minuti scorrono come sabbia nelle mani, senza sosta, e le intimano di fare in fretta. Il primo piano del parcheggio è completo. Cristina scende al secondo, attraversata da un turbinio di pensieri disordinati, che cavalcano emozioni di speranza. L’urgenza pressante di incontrare Nathalie, di riuscire a comunicare con lei, le fa crescere l’ansia. L’agitazione la porta a imprecare, sbuffare, innervosirsi, poi finalmente nota un posto libero. Parcheggia l’auto ma rimane dentro l’abitacolo a raccogliere le idee, analizzando da un’altra angolazione della mente l’eventualità che l’amica reagisca male al fatto di essere stata rintracciata. Dopo una decina di minuti si sente pronta e determinata. Scende e imbocca il percorso pedonale che la porta al complesso ospedaliero, con o veloce. Prepara un discorso di saluto, poi lo cambia e ancora le pare inadeguato. Decide quindi di affidarsi all’improvvisazione. Estrae dalla borsa un pacchetto di biscotti acquistati in pasticceria, elegantemente incartato e lo stringe forte con una mano, come se le servisse per scaricare un po’ la tensione che si va accumulando e che le rende il respiro corto, mentre si avvicina al reparto di Cardiologia. Nell’altra mano regge un sacchetto con due camicie da notte dai colori tenui, dei capi di biancheria e un paio di pantofole morbide. Stefania le ha comunicato che la donna si trova nella camera numero dieci. Entra titubante nel reparto, percorre il lungo corridoio, rallentando per esaminare i quadrati, riportanti i numeri delle stanze, sopra le porte. Davanti alla numero dieci si ferma un attimo e trae un lungo respiro per cercare di calmarsi, fino a
che il senso di ansia che la pervade si placa quasi completamente. Bussa lievemente con la nocca. Dall’interno non le giunge nessuna voce. Apre piano la porta e si ferma un attimo sulla soglia. Nathalie è distesa in mezzo a candide lenzuola, algida e slavata, avvolta nella nebbia impenetrabile della sua spossatezza. La flebo gocciola lentamente, incanalando un liquido incolore nell’ago infilato nel dorso della sua mano ossuta. La fissa per un muto istante, concentrandosi sulla pelle sottile delle braccia in parte scoperte, che mostrano contorte vene blu, circondate da cianotici ematomi. Una cupa preoccupazione l’attanaglia, colmandola di un tenero e inesorabile senso di impotenza. Lo sguardo risale e si posa sul viso sofferente, spento ed emaciato, con la pelle tanto sottile e diafana da sembrare trasparente, che trasmette all’attenta e avvilita osservatrice la stanchezza e l’amarezza di una vita intera. Dietro le palpebre chiuse gli occhi roteano, evidenziando che sta dormendo profondamente. Un probabile incubo l’agita nel sonno, rendendola preda di un allucinato nichilismo. Nella stanza ristagna odore di vuoto e di sofferenza e il tempo sembra sparire sotto le lenzuola candide, scivolando sulle pareti verdi, inghiottito dalla solitudine, greve e plumbea come una cappa, che si respira all’interno di quell’angusto locale. Il comodino è tristemente spoglio e Cristina vi appoggia il pacchetto che ha portato e subito la stanza sembra meno squallida. Il vuoto si rispecchia nell’allegria della carta colorata e del nastro dorato e il tempo sembra ritrovare il suo ticchettio. Si rammarica di non aver comprato dei fiori che, con la loro vivacità cromatica, avrebbero reso meno malinconico e opprimente l’isolamento e allietato parzialmente quell’ambiente desolato e asettico. Si ripropone, pertanto, di provvedere al più presto. Si siede ai piedi del letto, ordinato e senza colore, mentre cerca le parole da dire all’amica quando uscirà dal sonno, andole una mano calda sul viso, per trasmetterle un po’ di energia, necessaria allo sforzo di farle aprire gli occhi. Il tentativo sembra funzionare, infatti Nathalie muove lievemente le palpebre, scoprendo occhi velati e impauriti. La persistente angoscia del sogno continua a perdurare nella veglia. Cristina ha un nodo in gola e, con tutto l’amore che sente per quella povera
creatura, lascia che le parole le sgorghino di getto dal più profondo del cuore. “Cara, finalmente ti ho trovata. Ho temuto di non rivederti più” le sussurra, avvicinando una sedia al lato del letto. La guarda teneramente, poi si avvicina e le sfiora la mano libera. Nathalie gira il capo verso di lei, cercando di incontrare il suo sguardo. Le loro mani si stringono. Rimangono un attimo in silenzio a osservarsi, cercando di controllare lo scompiglio interiore, finché le emozioni, liberate all’improvviso, colmano il vuoto cupo di quella stanza, tinteggiandola di mille fiori colorati. Sul volto della donna che giace a letto, magro e stanco, una lacrima solitaria lotta per sgorgare ma sembra frenata; poi scende lungo la guancia e si ferma sul mento. “Dimmi di Briciola, ti prego, dimmi che non le è successo niente.” La voce è un sussurro, flebile, sfinito e lo sguardo, dopo essersi puntato su di lei con irrimediabile dolore, torna a perdersi nel suo mondo irraggiungibile, per il timore di ascoltare la risposta. “Briciola sta bene. È a casa con Brook. Ti aspetta” le dice con voce gioiosa. E solo allora le lacrime sgorgano copiose, interminabili, liberatorie. “Grazie, ho solo lei.” “Non è vero. Adesso hai anche me” la corregge, accarezzandole i capelli, consapevole ormai di portare sulle spalle il pesante fardello di quella inusuale amicizia e dividere il peso con lei per il resto della vita. “Come mi hai trovata?” Cristina le racconta gli ultimi avvenimenti, cominciando dalla telefonata del canile, fino al lavoro di ricerca svolto da Stefania. Nathalie ascolta attentamente ma non commenta. Sembra turbata da qualcosa: un pensiero che la opprime ma che vuole scacciare e far dileguare. Riporta il suo dolce sguardo sul viso dell’amica e le dice con un tono quasi mistico, che la fa sembrare un po’ invasata: “Sono i suoi occhi che mi hanno trovata, sono la luce del cielo. Lo sguardo di René, che è tornato dall’altra dimensione, e ora vive dentro di te.”
Cristina è confusa, non capisce il senso di quel palese delirare e teme che l’infarto le abbia lasciato una disorganizzazione mentale. “Ora vado a parlare con i medici” le dice scandendo bene le parole, come se si rivolgesse a un bambino o a un sordo. “Ma torno subito. Adesso che ti ho trovata non ti abbandono più.” La barbona gira di nuovo il capo verso la finestra, tornando nell’esatta posizione in cui Cristina l’aveva trovata. Abbassa le palpebre, per lasciare fuori il mondo. Nella sala medici un giovane cardiologo chiede alla donna, che si guarda in giro incerta e visibilmente impaziente, chi stia cercando. “Sono una parente di Nathalie, la paziente della camera numero dieci, una lontana cugina, e sono qui per avere delle informazioni sul suo conto. Mi dica tutto quello che devo sapere.
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“Cara signora, le posso assicurare che sua cugina è stata molto fortunata. L’infarto miocardico le ha lasciato una piccola zona di necrosi che si sta cicatrizzando e, con una buona terapia, potrà tornare a fare una vita quasi normale.” “Dal punto di vista mentale ha subito qualche danno?” “No, assolutamente. La donna è perfettamente normale. Le abbiamo fatto tutti gli esami del caso.” “Quando potrà venire a casa?” “Potrebbe già essere dimessa ma vista la sua situazione e la vita da senzatetto che conduce, non possiamo metterla su una strada. È in lista di attesa per il ricovero.” “Lasci perdere il ricovero. La porto a casa con me.” “Ma è sicura? Sa che, se dovesse scappare e sentirsi male nuovamente, la responsabilità ricadrà tutta sulle sue spalle? Le consiglio il ricovero. Secondo me e gli altri medici che l’hanno visitata, compreso lo psichiatra, è una personalità borderline, così taciturna e strana. Siamo riusciti a malapena a sapere da lei nome, cognome e data di nascita. Alle altre domande si è sempre rifiutata di rispondere. Custodisce maniacalmente il suo logoro zaino. L’ha chiuso nell’armadietto e non lo fa toccare a nessuno. Non riusciamo a capire se contenga qualcosa di prezioso.” “Mia cugina ha avuto una vita difficile ma con me starà bene. Glielo assicuro. Può chiedere a Stefania, so che la conosce” lo rassicura Cristina. “Sì, Stefania mi ha parlato di lei. Ora espongo la situazione ai colleghi ma l’assistente sociale dovrà avere la possibilità di are una volta al giorno, a verificare come sta la paziente e assicurarsi che assuma i farmaci.” “Sì, certo. Sono disposta a rispettare tutte le regole. L’importante è che la dimettiate al più presto.” Il medico appare dubbioso, segue nella sua mente un pensiero e non tarda a esternarlo: “Non capisco perché non l’ha tenuta con sé anche prima, lasciandola
vagabondare e dormire all’addiaccio, con il gelo dell’inverno scorso.” “Ha ragione, dottore, non mi sono ancora perdonata per questa gravissima mancanza. Ma è una lunga, complicata storia e, mi creda, tutto sommato è finita ancora bene.” Rientra in camera. Posa le labbra sulla ruga del volto più evidente di Nathalie e le dona un bacio veloce e dolce. Lei dorme, raggomitolata nel suo disperato guscio.
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Gianluca corre avanti e indietro nel corridoio, trattenendo a stento una gioiosa impazienza, mentre la madre, scostato un angolo della tenda, controlla dalla finestra le macchine che parcheggiano. “Gianluca scendiamo, è arrivato.” “È arrivato zio Ludovico, è arrivato zio Ludovico!” Il bimbo saltella sulle scale e corre incontro al professore, che lo prende teneramente in braccio e lo fa volteggiare in aria. Occhieggia, visibilmente emozionato, verso il portone, cercando di non perdersi l’attimo in cui Cristina fa la sua comparsa. Gli sguardi si incontrano e i sorrisi che si scambiano sono freschi e frizzanti. Il cuore di Cristina comincia pian piano a uscire dalla prigione dolorosa di un periodo di tristi accadimenti e a sfarfallare in quella limpida e promettente giornata. Il sole è uscito dal suo letargo invernale e si impegna pigramente a riscaldare l’aria, tinteggiando il cielo di un azzurro splendente e terso. Ludovico le porge un delicato e veloce bacio sulla guancia e lei avverte la spontaneità e la gioiosità di quel gesto, come se fosse sgorgato da una fresca cascata. Poi le toglie dalle mani la cesta da pic-nic e la carica nel baule dell’auto. “Alle dieci, mio piccolo marinaio, sarai sulla barca e spiegherai le vele” annuncia, declamando in tono buffo. “Sarai il mio aiutante.” “Però io non voglio essere il nostromo” protesta il piccolo. “Hai ragione. Per oggi tu sarai il Capitano Gian e io eseguirò tutti i tuoi ordini.” Ridono, scherzano e il viaggio verso il lago trascorre veloce, senza ombre. Gianluca sprizza felicità e i suoi occhi sono limpidi e perfettamente rilassati. Sembra che la patologia sia andata in ferie e Cristina, involontariamente, paragona lo stato d’animo odierno di suo figlio con quello manifestato nella gita a Torino. Quando Lorenzo lo aveva preso teneramente in braccio, il figlio gli aveva dato un morso alla guancia, come se volesse punirlo, intuendo che nell’aria c’era qualcosa che non stava funzionando bene. Ora, invece, ha stretto le sue esili braccia intorno al collo del dottore e gli ha dato una piccola e ingenua tirata di naso, provocando uno spontaneo scroscio di risate da parte dei due
adulti. Poi gli aveva porto spontaneamente la manina e avevano camminato così fino all’auto. La vita del porto ha sempre suscitato allegria nell’animo di Cristina che, mentre cammina tra le imbarcazioni, ricorda la romantica giornata in cui lei e Lorenzo avevano fatto il giro del lago col battello, una delle primissime giornate che avevano ato insieme. Ricorda gli odori, la bluastra opalescenza del lago, la felicità sublime di quei momenti. Subito scaccia le lunghe penombre del ato e cerca con tutte le sue energie di vivere pienamente il presente e di godersi quella giornata che si prospetta fantastica. Il sole, che poco prima appariva pigro e titubante, ora è piacevolmente caldo e l’aria è carica dei profumi della primavera. Il lago è perfettamente calmo e Ludovico osserva con disappunto che non c’è traccia di vento. Mentre toglie il grosso e pesante telo che protegge l’imbarcazione Cristina e Gianluca eggiano osservando la sfilata di barche. “Capitano Gian, la sua scialuppa è pronta” urla Ludovico dal ventre della “Almost Blue”. Gianluca corre e con un balzo è all’interno del corpo ondeggiante e osserva l’albero maestro. Il dottore tende la sua forte mano a quella di Cristina, si agganciano e lei si trova in piedi a prua a osservare l’azzurra vastità del lago. Anche ora, come quel magico giorno di anni addietro, è in grado di acquisire la forza dell’imponente massa d’acqua che sta sotto di lei, trasformandola in una benefica serenità. Ludovico accende il motore e si appresta a svolgere la delicata manovra di uscita dal porto. Pare che si stia levando una leggera brezza e confida di riuscire a dispiegare le vele. Il bambino gli siede vicino calmo e concentrato, composto e serio come un adulto, affascinato da tutte quelle novità. “In questo lago,” spiega a Gianluca “soffiano quaranta venti diversi, a volte dolcemente, come una leggera brezza, altre con impeto. Vediamo oggi cosa ci capita…” Quando sono a una certa distanza dal porto, mostra al bimbo come deve tenere il
timone. “Mi raccomando, Capitano Gian, tieni il timone in questa esatta posizione. Adesso ci mettiamo con la prua al vento, così da facilitare la manovra di issata delle vele.” Armeggia con le scotte, spiegando e illustrando al bimbo ogni suo gesto: “Ora la scotta della randa deve essere lascata e la drizza deve essere cazzata, finché la vela non è stata issata fino in testa all’albero. Fatto! Adesso muovi il timone piano verso destra, bravissimo!” Il lago è popolato da imbarcazioni di ogni tipo e Ludovico deve stare molto attento nelle manovre di incrocio. Spiega ogni sua azione al bambino, che segue gli insegnamenti con grande e giudiziosa attenzione e, in certi punti, quando non ci sono pericoli in vista, gli riconsegna il timone. Poi gettano l’ancora in una piccola rada e mangiano l’insalata di pollo che ha preparato Cristina, accompagnata con pane alle noci e una crostata di fragole preparata da Bruna, la pasticciera di casa. Il paesaggio è dolce, dominato dai toni caldi del blu e del verde. I borghi che si scorgono lungo la sponda appaiono avvolti in un’atmosfera quasi malinconica e sognante. Piccoli scrigni che conservano ancora intatti tesori architettonici e artistici. Delicate insenature, porticcioli e strade lastricate che danno l’impressione che il tempo si sia fermato a qualche secolo indietro. Perle incastonate in un mosaico di colori, dove predominano il blu del cielo e dell’acqua, il verde smeraldo della vegetazione circostante, il giallo dei limoni. E l’arancio vivo e senza ombre della felicità di Cristina. Nessun altro al mondo avrebbe potuto organizzare una giornata così perfetta per lei e, soprattutto, per il suo bambino. “Ludovico, ti ho detto grazie un milione di volte, da quando ti sei preso cura di mio figlio e ora questa parola abusata ha perso di significato. Ma non ne conosco altre in sostituzione, quindi permettermi di abbracciarti, per farti sentire quanto tu sia importante per me.” E, così facendo, cerca di esternare la gratitudine all’artefice di quella meravigliosa giornata, ma lui si schermisce e taglia a corto, visibilmente imbarazzato da quel fiume di parole gentili e da quelle braccia esuberanti che lo avviluppano e lo stringono forte. “Dovrei essere io a ringraziare voi; non sapete da quanto tempo non mi diverto così…”
Verso le cinque del pomeriggio il vento comincia a rinforzare e il sole ha perso un po’ del suo vigore. Cristina ha paura che Gianluca possa prendere freddo ed è sollevata quando Ludovico propone loro di rientrare. Durante la gita hanno parlato poco, lei e il professore, perché le attenzioni di entrambi erano rivolte verso il bimbo, affinché asse una giornata speciale e indimenticabile. Ma l’affiatamento tra di loro è perfetto e, in certi casi, le parole sono pleonastiche. Una volta ammainate le vele, il rientro nel porto avviene a motore, anche se il vento è ancora teso e forte. “Mamma, io voglio andare a mangiare la pizza con lo zio!” esclama il bambino con decisione. “Non sono stanco, non voglio ancora andare via.” “Mi sembra che potresti anche accontentarti. È stata una bellissima giornata e ora ce ne torniamo a casa. Lo zio, magari, è stanco di sopportarti.” “Zio, vero che sono stato bravo? Ti ho aiutato tantissimo, dillo alla mamma.” “Vero, sei stato bravissimo. Ti meriti una pizza!” Cristina gli lancia uno sguardo obliquo, come per dire “non sentirti obbligato” ma lui le fa segno che è tutto a posto. Durante il ritorno in macchina ci sono molte occasioni per parlare: Gianluca si è addormentato sul sedile posteriore, stremato dall’intensa giornata all’aria aperta. A tavola aveva un aspetto sano e raggiante. Col viso leggermente colorito dal sole e gli occhi che sorridevano ancora, aveva divorato la sua pizza con molto appetito. Poi, appena partiti per il viaggio di ritorno, aveva smesso di parlare e, ben presto, si era appisolato. Cristina ringrazia ancora il dottore, parlando sottovoce, e lo invita a raccontarle qualcosa di lui, della sua famiglia, della sua vita. Lui espone brevemente dei dettagli sulla sua famiglia, accennando a un fratello dentista che vive a Roma, e le confida il suo rammarico per la scarsa frequentazione, dovuta perlopiù alla lontananza. Soprattutto gli mancano molto
le due nipotine adolescenti, che adora. Cristina si gira a controllare il figlio che dorme e lo osserva con amore. Gli a l’indice sulla fronte, quasi volesse benedirlo, in attesa del miracolo della guarigione. Questo gesto non sfugge a Ludovico, che avverte in quel preciso istante la delicatezza e la straordinarietà di quella donna che gli siede accanto. Si sente in dovere di proteggerla dai piccoli e grandi dispiaceri della vita, come una sorta di angelo custode, e non vede l’ora di farlo. Lei e Gianluca sono entrati nella sua vita prepotentemente e le hanno dato un senso più definito, anche se ancora un po’ confuso, per la non chiara classificazione dei rapporti e sentimenti che si sono instaurati tra loro. “Adesso parla un po’ tu, raccontami di Amsterdam, del tuo maestro.” “Però, come sei curioso!” scherza. “Leo è un uomo bellissimo e dolcissimo ma, sfortunatamente, è gay. Ad Amsterdam è stato tutto molto bello e interessante, soltanto che avevo la testa altrove…” E così, d’impeto, quasi senza rendersene conto, gli racconta la storia di Nathalie. “Domani pomeriggio la dimettono. Sono così felice che mi abbiano permesso di portarla a casa. La potrò seguire personalmente e mi verrà data la possibilità, finalmente, di regalarle il calore di una casa e tutto il mio affetto. Avrà di nuovo una famiglia. In questi ultimi periodi è successo tutto così precipitosamente che ho il timore che possa ancora capitare qualcosa di strano e vivo nella paura di non rivederla più.” “Certo che faccio fatica a capire cosa ti possa legare a una barbona in modo così profondo. Sei sicura che non sia una sbandata? Non ti metterai nei pasticci?” “Ti ringrazio per la premura ma questa è una persona fuori dal comune: è bella, educata, colta. In più ha alle spalle una storia misteriosa e inquietante, che custodisce gelosamente.” “Io non so cosa dirti; certo non sei una sprovveduta ma tutta questa vicenda mi sembra inverosimile. Tuo marito cosa ti ha detto?” “Per carità, lui non capirebbe mai! Lo sa solo Leo e, adesso, tu. Ti prego, non giudicarmi una pazza. So quello che faccio.” “Va bene, Cristina cara, ti appoggio. Conta pure su di me. Resto comunque dell’idea che è una storia che ha dell’incredibile…”
“Ho con me la foto, la vuoi vedere?” dice Cristina togliendo dal portafogli la fototessera che le aveva dato Leo. Accende la luce di cortesia e la mette sotto gli occhi del guidatore. Ludovico la osserva per un istante, poi torna a guardare la strada e infine la prende con una mano e se la porta nuovamente davanti agli occhi. “Hai ragione, è molto bella. Strano, però,” dice perplesso “mi sembra di averla già vista. Non ricordo se qui o in America ma sono quasi certo di aver già incontrato questa persona. Hai detto che si chiama Nathalie?”
23
La pioggia della notte precedente ha spazzato via tutte le nubi, lasciando un cielo terso e senza ombre. L’aria è fresca e sottile e una giornata così bella mette addosso una violenta malinconia. La primavera, con i suoi repentini mutamenti climatici e le giornate che si allungano, ha sempre indotto un leggero turbamento nella psiche di Cristina. Anche il suo umore è bizzoso come il tempo, e si sente pervasa da un’ansia lieve. Sul binario 9 aspetta il treno proveniente da Torino e rivive un’attesa di solo qualche mese prima, che però le sembra appartenere a un ato lontanissimo. La sera precedente, mentre a casa di Nathalie stavano gustando il primo gelato della stagione, aveva ricevuto la telefonata concitata e accorata di Simona, che la pregava di incontrarla l’indomani. Aveva accennato solamente a un problema relativo a Lorenzo e ora Cristina, non sapendo cosa pensare ma congetturando le ipotesi più drammatiche, aspetta l’arrivo della nuova compagna di suo marito. Si guarda in giro distrattamente, mentre lascia vagare il pensiero agli ultimi avvenimenti della giornata e, in particolare, a uno strano episodio accaduto durante la mattinata. Aveva accompagnato Nathalie a fare una breve eggiata, con i cani. Discorrendo come due vecchie amiche, si erano sedute su una panchina del parco e avevano liberato dal guinzaglio Brook e Briciola, che si erano messe a correre felici. “Mio marito ha dei problemi, credo seri. Oggi incontrerò la sua nuova compagna, che vuole parlarmi. Sono preoccupata, è sempre il padre di mio figlio e vorrei tanto che stesse bene e fosse felice” si era confidata Cristina con l’amica. “Sai, cara, nonostante i nostri sforzi, le nostre fatiche, le nostre rinunce, non credo che sia possibile cambiare alcune persone che privilegiano il loro ego, la loro voglia di primeggiare, la loro smisurata ambizione” aveva replicato
Nathalie, in tono un pochino didascalico, dimostrando di aver inquadrato perfettamente la situazione e la personalità di Lorenzo, nonostante Cristina vi avesse fatto solo dei brevi accenni. Aveva poi continuato con lo stesso tono esplicativo: “Lascia scorrere la sua vita come lui ha deciso; tieniti lontana, se non la condividi e vivi la tua, come stai facendo, all’insegna dell’onestà e dell’amore, che sono le forze trainanti di questo povero, assurdo, doloroso mondo.” “Nat, tu mi stupisci! Sei disperatamente taciturna o lucidamente saggia. Non è facile interpretarti ma penso che, d’ora in poi, farò tesoro dei tuoi consigli.” Cristina era rimasta seriamente colpita da tanto buonsenso e stava considerando, ancora una volta, che quella donna era un groviglio di contraddizioni e sorprese, quando si era accorta dell’agitazione dell’amica. “Lo zaino!” l’aveva sentita sbottare in tono concitato. “Ho dimenticato lo zaino a casa!” “Calmati, non te lo porta via nessuno. Bruna è una persona fidata, non fruga nelle cose altrui.” Aveva cercato di calmarla e di farla ragionare ma Nathalie sembrava sconvolta e sopraffatta da un panico improvviso. “Nat, non puoi correre, fermati. Ma sei impazzita? Vuoi farti venire un altro attacco di cuore?” Invece lei si era diretta frettolosamente verso casa. Non aveva voluto aspettare l’ascensore e si era inerpicata per le scale ansimando, entrando poi nell’appartamento in uno stato di grande prostrazione. Lo zaino era nell’armadio, al suo posto, dove nessuno l’aveva toccato. Nathalie lo aveva preso in braccio come fosse stato un bambino, poi si era lasciata cadere sul letto, visibilmente sollevata ma fisicamente distrutta. Lo sferragliare del treno in arrivo distoglie Cristina da quei ragionamenti, lasciandole addosso un senso di inquietudine misto a curiosità. Si chiede quando potranno cadere quelle barriere di diffidenza, che ancora costituiscono un muro invalicabile fatto di misteri e reticenze, che la dividono dall’amica. Ma si chiede anche, più banalmente, cosa possa contenere di tanto prezioso e importante quella lacera e consunta sacca.
Cerca Simona con gli occhi, in un déjà-vu che, per un attimo, le comunica l’irreale percezione che la matassa del tempo si sia riavvolta e si stupisce di come, in breve tempo, certe situazioni si ribaltino, cambiando i legami e gli affetti, sconvolgendo la vita. Poi la individua, mentre scende dal treno e si dirige verso di lei. Non ha bagaglio e il volto appare teso e preoccupato. Si abbracciano con grande trasporto, come due vecchie amiche. “Non ho quasi chiuso occhio per la preoccupazione” esordisce Cristina, mentre si dirigono verso l’uscita. “Dimmi se Lorenzo sta male.” “No, non è un problema di salute. Si tratta di una cosa molto delicata, assai grave. Dove possiamo parlare?” “Non so… tu hai tempo?” “Un paio d’ore. Riprendo il treno delle sei. Troviamoci un bar un po’ carino.” “Tu come stai? Mi sembri stanca” le dice con sincera sollecitudine. C’è un locale molto intimo, appena fuori dalla stazione, a quell’ora pressoché vuoto. Si siedono su una panchetta di velluto rosso intorno a un tavolo d’angolo, guardandosi in modo diretto e concentrandosi per raccogliere le idee. Cristina è la prima a parlare: “Mi sembra che le cose tra di voi non vadano troppo bene, te lo leggo negli occhi, me lo dice il tuo atteggiamento contrito.” “Sì, la convivenza si è rivelata un fallimento, tanto che da una settimana sono andata a stare da una collega che vive sola.” La cameriera si avvicina e le due donne ordinano due cioccolate calde, per tentare di addolcire e rendere meno grigio quel pomeriggio mesto e insolito. “Mi spiace, ma vivere con lui non è cosa semplice, ne so qualcosa io…” “Cristina, non so come dirtelo… c’è dell’altro. Lorenzo è finito in un brutto giro: quello del gioco d’azzardo. Sta perdendo molti soldi. Ho controllato il suo conto corrente e sono rimasta scioccata.” “Oddio… so che da giovane gli piaceva giocare e andava spesso al casinò ma
sapeva sempre fermarsi al momento opportuno. Io lo consideravo un atempo come un altro, non mi sono mai preoccupata più di tanto.” Si interrompe per assaggiare un sorso di cioccolata, sperando che quella scura e calda bevanda, con il potere del triptofano, l’aiuti a tenere a bada quell’ansia che sente montare. Prova una grande pena per Simona ora che, alla luce degli ultimi avvenimenti, ha perso tutta la sua sicurezza e baldanza. Le sembra invecchiata e trascurata, avvilita e sconfitta, e sa perfettamente che, così ridotta, non potrà ricevere alcun aiuto dal suo uomo. Le prende la mano e gliela stringe, vedendo che gli occhi di Simona si stanno inumidendo. “Non preoccuparti adesso, la situazione non può essere tanto grave. Non posso credere che sia diventato così scriteriato.” Simona intanto ha cominciato a piangere sommessamente e cerca nella borsa un fazzolettino di carta per asciugarsi gli occhi. Cristina si alza e l’abbraccia, cercando di confortarla. “Non è giusto che sia finita così, mi ha detto cose orrende: che non vuole bambini da me, che sono diventata una palla al piede e lo soffoco. Che lui ha bisogno di sentirsi vivo e invece, con me, accumula solo frustrazione.” Fatica a parlare per le lacrime che le serrano la gola. Ripetere le parole del compagno le fa rivivere un momento duro e doloroso. L’intensità del pianto aumenta e aggiunge, con gli occhi rivolti al pavimento, vergognandosi: “E poi ho scoperto che fa uso di cocaina. Devi parlargli tu. Ti ha sempre ascoltata, tenuta in grande considerazione.” “No, no!” Cristina si porta le mani sul viso, a sua volta sconvolta da quelle esternazioni. Scuote il capo, ancora incredula. “Ma sei sicura? Te l’ha detto lui? Magari ti voleva prendere in giro…” Simona ha smesso di piangere, cerca di ricomporsi prendendo uno specchietto dalla borsa e osservando il suo aspetto pietoso. Atteggia il viso a una smorfia disgustata e cerca di aggiustarsi i capelli con le mani, fissandoli dietro le orecchie. Poi torna a concentrarsi su Cristina, rispondendo alle sue domande.
“Mi sono accorta da come tornava a casa, non era più lo stesso. Poi me l’ha confessato, naturalmente minimizzando l’accaduto, sostenendo che dovrei essere un po’ più moderna e non fare tanti drammi per ogni cosa.” “Va bene, gli parlerò io. Domani stesso andrò a Torino e cercherò di farlo ragionare.” Poi, come illuminata da un improvviso pensiero, aggiunge: “Fermati da me, questa notte, sei troppo sconvolta per fare il viaggio da sola. Andremo a Torino insieme in auto domani.”
24
Uno scherzo di sole brilla attraverso la vetrata dell’ufficio. Stefania lo segue fino a portare lo sguardo sulla splendida magnolia, con i suoi fiori carnosi appollaiati sui rami, come eleganti uccelli esotici dal piumaggio rosato. Un tripudio della primavera, che in quella mattinata tiepida e tersa si fa sentire con tutto il suo traboccante vigore. Si lascia coccolare e scaldare dai raggi luminosi mentre, paziente, aspetta l’esito della ricerca che ha appena lanciato sul suo computer. Ha inserito un nome: Nathalie Martin. Sul monitor cominciano a scorrere, in un elenco aggrovigliato e senza senso, centinaia di nomi come quello. Con meticolosità Stefania inizia a controllare. Elimina subito diverse Nathalie, in quanto alcune sono collegate a pubblicità, o sono autrici di poesie, venditrici di oggettistica, non rispecchiano insomma i requisiti della donna sulla quale sta investigando. Quando il raggio di sole diviene invadente e la costringe ad alzarsi e abbassare le piccole persiane verdi, il computer porta in evidenza un dato interessante: un incidente mortale, avvenuto a Milano circa vent’anni prima. Clicca, con il fiato sospeso, sull’articolo di giornale che riporta il trafiletto della cronaca di quel maledetto 15 febbraio. “Tragico incidente, nella notte, vicino a Corso Buenos Aires. Un frontale terribile e violento fra una Dodge Viper, con targa se, e un Fiorino. Il furgoncino sbanda e si porta sulla carreggiata opposta, dove sta transitando, a forte velocità, la potente auto guidata da una donna, colpendola con violenza inaudita sul lato del eggero. La vettura continua poi la sua folle corsa, ormai priva di controllo, andandosi a schiantare contro un pilone del semaforo, squarciandosi in due. Il Fiorino si ribalta più volte su se stesso, fermandosi poi a pochi metri di distanza. I soccorsi sono immediati ma per il piccolo René Duvall, tredici anni, di nazionalità se, non c’è nulla da fare. Muore, dopo poche ore dall’arrivo al Pronto Soccorso, anche il guidatore del Fiorino, un giovane di ventidue anni che non si esclude guidasse in stato di ubriachezza. Miracolosamente illesa la madre del piccolo René, Nathalie Martin Duvall, che era alla guida della Viper, ora ricoverata in ospedale per accertamenti.”
Le auto nelle foto riportate a fianco dell’articolo risultano completamente distrutte e Stefania è pervasa dall’orrore al pensiero che vi fosse coinvolto un bambino. Non è ancora del tutto certa che i fatti riguardino la barbona, in quanto i cognomi non coincidono perfettamente, quindi cerca freneticamente tutti gli articoli correlati a quel terribile sinistro. Trova dei brevi accenni al piccolo René e poi, finalmente, un articolo che riporta la foto di una donna giovane, bella, elegante con un cane identico a Briciola. La donna potrebbe essere la sua conoscente, certo molto modificata nell’aspetto. Sente di essere sulla strada giusta e prosegue le ricerche con grande eccitazione. Le torna subito in mente il ritaglio di giornale che, una sera, Cristina aveva mostrato a lei e a Leo e ora ha l’opportunità di leggere l’articolo per intero. Il trafiletto è breve, ma il titolo è lo stesso: “Scompare dall’ospedale dopo la tragedia.” Ormai è preda di una grande frenesia e non ha più possibilità di arginare e contrastare l’ansiosa, impaziente eccitazione che le impedisce di ragionare lucidamente. Rileva comunque un particolare stridente: il cane. Quello della foto sul giornale è identico a Briciola e anche il collare è il medesimo. Ma la foto deve risalire almeno a vent’anni prima, periodo in cui è successo l’incidente. Tenendo conto che la vita media dei cani è di quindici anni, l’animale in questione non può essere lo stesso. Accantona per un attimo questo ragionamento e cerca di concentrarsi sul monitor, rimandando a dopo tutte le riflessioni e i vari collegamenti. Dopo il titolo, solo poche parole che non aiutano a chiarire una storia ancora piena di risvolti enigmatici. “Non si è scoperto ancora niente della donna se che è scomparsa dall’ospedale San Raffaele nella notte del 20 febbraio u.s. Ricoverata per accertamenti dopo un grave incidente stradale, nel quale è morto il figlio di tredici anni, Nathalie Duvall è svanita nel nulla, lasciando nella stanza la valigia, gli oggetti personali e i documenti. Il marito, un ricco imprenditore di Parigi, non ha rilasciato alcun commento.”
Stefania stampa la documentazione che più le interessa e ripone tutto in una cartelletta. Sente che deve agire immediatamente, per placare l’ansia e l’agitazione che l’attraversano come una scarica elettrica. L’intricata matassa che avvolge il mistero di Nathalie si sta dipanando ma ancora molte tessere mancano alla conclusione del puzzle. Afferra il telefono per chiamare Cristina ma poi si ricorda che è andata a Torino a parlare col marito e non vuole agitarla, in quella che immagina un’incombenza già di per sé molto delicata. E, poi, certi argomenti vanno affrontati guardandosi negli occhi. Decide di aspettare il suo ritorno, in serata, per metterla al corrente di quelle sconvolgenti scoperte. Chiama Leo e gli chiede se si possono incontrare subito.
Milano, come tutte le metropoli, all’alba ha un fascino particolare. Il viaggio verso Torino comincia così, con una città deserta e assopita, sprofondata in un oceano di foschia. Il cielo non riesce a liberarsi dal fascio di nubi e la luce, che è ancora tenue al mattino presto, si rapprende nell’aria in un grigiore diffuso. Cristina guida concentrata, scambiando di tanto in tanto qualche frase con la compagna di viaggio. Hanno parlato molto la sera prima e, ormai, c’è ben poco da aggiungere. Simona ripone le ultime, deboli speranze di una riconciliazione con l’uomo che ama, nel colloquio che la moglie avrà con lui, confidando in un intervento tanto efficace da poter risolvere la situazione a suo favore. Mentre Cristina ha la consapevolezza che Lorenzo non cambierà le proprie decisioni e prova pena e tenerezza per l’ingenuo ottimismo dell’amica. Simona entra nel suo ufficio con l’infelicità stampata sul volto ma in un angolo remoto del suo cuore la speranza che tutto si risistemi con il compagno pulsa, facendole provare sentimenti contrastanti. Miriam accompagna Cristina nell’ufficio del direttore, dicendole di accomodarsi, che il dottor Lenzi sarebbe arrivato a momenti. Infatti dopo cinque minuti lui entra e rimane visibilmente impressionato, trovando la moglie nel suo ufficio. La stringe in un abbraccio frettoloso e le chiede senza altri convenevoli: “Sei qui per Gianluca? Gli è successo qualcosa?” Si siede dietro la scrivania, guardandola di sbieco e sollecitando, con
l’espressione del viso, una risposta. “No, Gianluca sta bene. Sono preoccupata per te. Sono venuta apposta per parlarti. Ho fatto il viaggio con Simona.” “Ah sì, dovevo immaginarlo che sarebbe venuta a piangere da te. Chissà cosa ti ha raccontato…” “La verità, Lorenzo, mi ha detto solo la verità: che non vuoi più vivere con lei, che il vostro rapporto si è deteriorato.” “Lo sapevi che non l’amavo. Poi, lei si è intestardita con questa faccenda del figlio. Io non voglio un altro figlio, ho già abbastanza problemi col mio! Non intendo assolutamente mettere al mondo un’altra creatura malata e infelice.” Parla in modo concitato e sembra non rendersi conto della gravità di quelle affermazioni, che colpiscono duramente Cristina, tanto da farla alzare di scatto dalla poltroncina e avvicinare alla scrivania. Si mette proprio davanti a lui, costringendolo a fare i conti con la sua presenza. “Non puoi dire queste cose, Gianluca non è un infelice. Ne parli come se fosse un povero deficiente e io non te lo permetto! Hai preso questa malattia in modo troppo negativo, ne hai fatto una tragedia. E poi chi ti dice che sia stato tu a trasmettergli la Sindrome di Asperger? Ludovico… il dottor Severi dice che…” “Bene, adesso lo chiami per nome; a questo punto siamo arrivati! Ti sei per caso messa con lui? Certo non hai perso tempo!” “No, Lorenzo, lascia perdere questo tono sarcastico. Severi è solo un amico. Ha preso molto a cuore il caso di nostro figlio. Ti assicuro che è un medico validissimo.” Torna a sedersi e le pare di percepire il peso del suo corpo abbandonato sulla sedia come qualcosa che non le appartiene. Cerca di prendere dei lunghi respiri, per controllare la stizza che le parole del marito le hanno . “Scusa, Cristina, hai ragione. Io… io non riesco ad accettarlo; è come se avessi perso te e anche mio figlio contemporaneamente. Ti ho amata ma ora non c’è posto per un’altra. Sei stata tu a voler chiudere la nostra storia. Ora ho bisogno di riprendermi gli anni scivolati via dalla mia vita.” “Sono un po’ preoccupata, ho saputo che ti sei buttato nel gioco d’azzardo e ritengo che tu stia prendendo una strada sbagliata.”
Lorenzo sembra riflettere qualche istante su queste parole, dettate certo da un affetto che ancora alberga nel cuore della moglie. Socchiude gli occhi e parla a voce bassa, intrappolato in una bolla di debolezza, pensando di sfuggita una frase letta o sentita, e poi custodita in un recesso della sua mente. “Non ci sono strade giuste o sbagliate. È la vita che ci porta sempre avanti. Finché siamo stati insieme ti ho amata…” “Tu non sai amare” lo interrompe Cristina con impetuosità. “Tu hai amato un’idea; l’idea che ti eri fatto dell’amore. Adesso che ci ripenso, non sono mai stata convinta del tuo affetto. Non sappiamo mai quanto spazio occupiamo nella vita degli altri. Ma so che ora, nella tua vita, c’è posto solo per te stesso.” Fuori dalla finestra la luce non ha trasparenza e nella leggera foschia i contorni delle case appaiono di un azzurro evanescente. Il sole, imbrigliato da un groviglio di nubi, non riesce a brillare e rende la mattinata cupa e buia. Lorenzo si alza e accende la luce. Poi scruta per lunghi istanti il volto così familiare della moglie, che ora gli sembra cambiato e sfocato, fuori contesto. Cristina abbassa lo sguardo, improvvisamente imbarazzata da quegli occhi che sembrano frugarle dentro ma non abbandona il tono aspro e lo incalza, cercando di metterlo di fronte alle sue responsabilità. “Comportandoti così cosa pensi di fare”? “Sto bene, mi sento bene, posso persino asserire di essere felice. Ti basta?” Sorride, come se volesse sminuire la gravità delle accuse e degli interrogativi della moglie. “Riesco a trarre energia dal gioco, dalle belle donne, dalle serate piacevoli e goderecce. Ho bisogno di tutto questo per sopportare la separazione, quindi non giudicarmi.” “No, caro, mi spiace!” scatta lei con malcelato sdegno. “Non puoi addossare a me la colpa di tutto; è troppo facile e vigliacco, non te lo permetterò. Se vuoi distruggere la tua vita, fai pure, ma abbi l’onestà di riconoscere che è una tua libera scelta. So anche che fai uso di stupefacenti. Prova a darmi una giustificazione anche per questo, se ci riesci!” “E brava Simona! Ti ha spifferato tutto.” Il tono è amaro e sprezzante. “Sappi che è una donna frustrata, ha una percezione alterata e melodrammatica della realtà. Questa storia del figlio le ha sconvolto la mente. Ti ripeto che sono problemi miei e ricorda che so fermarmi al momento giusto. Non ho mai
sbagliato, è un po’ come negli investimenti.” “Lorenzo, ti prego…” ato il momento d’ira, Cristina è divenuta lagnosa e accorata. Ora prevalgono la preoccupazione e l’affetto e la voce è tornata rassicurante e premurosa, gli occhi sinceri e scivolosi, che si muovono come sotto una patina d’olio. “Ti supplico, prova a riconsiderare la tua storia con Simona. Non posso credere che tu l’abbia già scaricata dal tuo cuore.” Lui si alza dalla poltroncina e la invita a fare altrettanto. “Vieni, Cri, andiamo a bere un caffè, finiamola con questi odiosi discorsi e parliamo un po’ di noi.” Al bar Lorenzo ritorna padrone indiscusso del suo ego e apre la porta a una nuova, esaltata schiettezza, raccontando della sua vita torinese, descrivendo la villa di Luciano e la sua bellissima moglie, la ione per il poker, il lavoro e una nuova promozione, che lo porterà a recarsi a Londra per tre giorni alla settimana. Appare frenetico e invasato, mentre quell’incessante fiume di parole sembra eccitarlo ancora di più. “Sai, è tutta la vita che aspetto questa meritata posizione. Non ammetto ostacoli, né da parte tua, né tantomeno da Simona. Sarò sempre il padre di Gianluca e non ti farò mancare niente ma ti prego, d’ora in poi, di non interferire più nella mia vita.” Cristina sente di aver perso la sua battaglia ed è profondamente avvilita. Capisce che è inutile replicare e si sente responsabile di quel pesante cambiamento del padre di Gianluca. Forse, se lo avesse perdonato e capito, questo non sarebbe successo. Ma è tardi per i rimpianti e decide di non insistere ulteriormente. Pensa che ognuno sia artefice della propria vita anche se sa, in cuor suo, che l’affetto per quell’uomo durerà per sempre. a in ufficio da Simona per riassumerle il colloquio e le consiglia di chiudere una relazione che può diventare pericolosa sentimentalmente. “Non farti più del male, hai già sofferto abbastanza. Torna a Milano, riprendi in mano la tua vita. Questa, che ti ha causato solo dolore, lasciatela alle spalle.” Si abbracciano, mentre il sole ha vinto la battaglia sulle nuvole che lo imprigionavano, irradiando la stanza con un gioioso sfolgorio.
25
Al suono del camlo, un silenzio preoccupante e inusitato insospettisce Cristina, che si sente soggiogare dall’angoscia. Pensa d’istinto a un malore dell’amica e si mette a urlare dal pianerottolo il nome di Nathalie e di Briciola, sperando che dall’interno le pervenga almeno il rumore dello zampettare del cane. Invece il silenzio è assoluto e inquietante. Le a per la testa l’idea che se ne siano andate via di nuovo e rivive con immutato orrore la sparizione dell’amica. Il pensiero è sconvolgente e il mistero che avvolge Nathalie è sempre più fitto. Si siede sull’ultimo gradino della scala e fruga nella borsa, sperando di avere con sé le chiavi del monolocale. Le trova e le stringe forte nella mano, per fermare il tremito che la percorre come un prolungato brivido. Un’ansia, che dapprima si manifesta come un lieve fastidio e poi diventa sempre più insopportabile, la pervade. Il timore che, al di là di quella porta, ci sia ad attenderla una sorpresa terribile e spaventosa le procura un senso di vertigine. Avverte un forte stordimento e sente pulsare dolorosamente le tempie. Invece di agire con impeto, rimane alcuni istanti seduta su quel freddo e granitico gradino, sempre tendendo l’orecchio, ancora sperando di avvertire rumori familiari provenire dalla piccola abitazione. Poi, facendosi coraggio, si alza di scatto e apre la porta, quasi con rabbia, al permanere di quell’intollerabile assenza di suoni. L’appartamento è vuoto e silenzioso, riordinato con cura. Gira lo sguardo allarmata, temendo di trovare in bellavista un bigliettino d’addio, con l’orribile presagio di vivere l’epilogo drammatico di una storia rimasta incompiuta. Controlla frettolosamente anche i cassetti, cercando due righe di scuse o di ringraziamento, scritte con uno scrupolo dell’ultimo momento. Poi si blocca, cogliendo un particolare fuori posto. Lo sguardo si focalizza sullo zaino, quello zaino che la donna custodisce con maniacale e morbosa gelosia e nessuno può toccare. Si trova accanto al divano, probabilmente scivolato a terra, come se fosse stato aperto e poi posato velocemente vicino alla spalliera. Oppure lasciato lì, in bella mostra, affinché lei lo trovasse. Trattiene il fiato quando osserva che lì vicino alcune foto sono uscite e giacciono sul pavimento.
Si affretta a raccoglierle ma quando il viso del bimbo ritratto in bianco e nero diviene nitido e reale ai suoi occhi si blocca. Lo sguardo si arresta su quelle immagini dai colori grigi e anche la mente le pare diventata opaca. È sconvolta e ha persino paura di toccare quelle foto, che riproducono le sembianze di suo figlio. Per un attimo non riesce a pensare a nulla, come se un nero sipario le avvolgesse i pensieri. Un solo ragionamento, ossessivo e logorante come il rumore di un trapano, le rigira vorticosamente nel cervello: perché Nathalie nel suo sudicio zaino nasconde e custodisce la foto di Gianluca? È distratta da un vortice di pensieri su cui non riesce a fermarsi a riflettere, e sente il panico serrarle la gola. Si siede sul divano e, con riluttanza, con il terrore che aumenta, apre il portafoto di plastica rosso. Le immagini che scorrono, sotto i suoi occhi, riguardano tutte un bimbo che sembra a tutti gli effetti suo figlio, solo che le situazioni e le ambientazioni in cui è stato immortalato non le ricordano niente di già vissuto, come se riguardassero qualcuno appartenuto a un’altra esistenza. Sembra un incubo, nel quale la realtà si sovrappone alla trasposizione delle proprie paure. Nella sua mente sconvolta ora Nathalie si è trasformata in una donna malvagia e pericolosa, che vuole far del male, in un modo non ancora chiaro, al suo bambino. Una specie di criminale che ha architettato un piano oscuro per rapire Gianluca, o comunque nuocergli in qualche maniera, con un complotto ordito con deliberata perfidia. Oppure una povera donna con delle turbe psichiche, che ha deciso di colmare un insano vuoto della sua mente, appropriandosi di un figlio non suo. Troppo spaventata per ragionare lucidamente, esce da quel monolocale, che ora le sembra un luogo in cui alligna il male. Non chiude la porta a chiave, scende le scale di corsa con il fiato corto, sospesa fra l’orrore e un senso d’irrealtà. Si infila in macchina e si precipita verso la scuola. Parcheggia e comincia a setacciare i giardinetti, controllando se ci sono dei simboli sui muretti, sforzandosi di operare con meticolosità, quasi fosse sicura di rinvenire un indizio che le confermi i suoi atroci sospetti. Ma il giardino che circonda la scuola sembra quello di sempre, un luogo innocuo, in cui i bimbi giocano serenamente e le mamme chiacchierano affabilmente tra di loro.
Non si decide ad andare a casa, la paura che qualcuno possa portarle via Gianluca la attanaglia e la inchioda alla panchina. Manca ancora un’ora alla fine delle lezioni ma non riesce a smettere di fissare il portone chiuso della scuola. Cerca di calmarsi, mentre controlla tutte le persone che si aggirano lì intorno, cercando di individuare un personaggio equivoco. Quando suona la camla, teme di non vedere uscire il figlio e, per un attimo, si sente svenire. Si appoggia alla ringhiera delle scale e fruga con lo sguardo la schiera di bimbi festanti, che corrono incontro ai loro genitori. L’abbraccio di Gianluca la riempie di sollievo. Lo bacia ripetutamente e gli tiene stretta la manina fino alla macchina. Guida piano, cercando di ricomporsi e di non farsi vedere sconvolta dal bimbo. Ma lui è quello di sempre, leggermente svagato, immerso nella priorità delle sue esigenze, nella sua patologica individualità. “Oggi andiamo da zia Nathalie? Ha detto che ha una sorpresa per me” chiede felice. “No, oggi la zia non c’è!” risponde fredda e decisa la madre, ancora assorta e con i pensieri incanalati in una dimensione di agghiacciante irrealtà. Gianluca protesta in modo impertinente e fa i capricci. Si rifiuta di scendere dalla macchina, suscitando la reazione esasperata della madre, che lo ammonisce in malo modo, strattonandolo per un braccio e trascinandolo fuori dall’abitacolo. Bruna la scruta in modo preoccupato, avvertendo dal suo sguardo sconvolto che è successo qualcosa di grave. Lei non parla, le affida il bambino e sale in camera da letto, per cercare di calmarsi e raccogliere le idee. Pensa di avvertire la polizia, ma si rende conto di avere in mano pochi elementi per una denuncia contro la donna. È disorientata, la mente non risponde alla sua necessità di concentrarsi. La vibrazione del cellulare la ridesta dalle sue penose riflessioni. C’è un messaggio di Stefania.
“Non mi rispondi al telefono. Ho urgenza di comunicarti le ultime scoperte su Nathalie. Leggi la posta.” − Certo − pensa tra sé. − Arrivi in ritardo. Ormai so già tutto. – L’e-mail dell’assistente sociale è molto sintetica: la informa in due righe che ha trovato un interessante articolo di giornale riguardante Nathalie, che le invia in allegato. “Leggilo e poi chiamami.” Il messaggio termina con questo invito. Cristina incolla gli occhi al monitor e scorre, con crescente stupore, l’articolo di giornale, lo stesso che lei ha trovato in solaio, nel quale ha riconosciuto la donna con il cane nella foto ma di cui è riuscita a decifrare solo il titolo. Legge attentamente la cronaca dell’incidente diverse volte, perché fatica ad assimilare quelle poche nozioni. Nathalie Duvall, il nome che aveva pronunciato Ludovico. E se fosse davvero la donna che ha conosciuto lui? Il mistero permane comunque: non si spiegano le foto di Gianluca e tantomeno la sparizione della donna. Stampa il materiale che le ha inviato Stefania e lo infila nella borsa, mentre l’urgenza di far chiarezza in quell’intricata vicenda la spinge a uscire di casa.
“ Devo vedere il professore.” Cristina si rivolge in modo concitato alla segretaria. “Il dottore ė impegnato con un bimbo, dovrà aspettare.” “Non mi muovo di qua” risponde con tono deciso. Sulla poltroncina di plastica del corridoio comincia una buffa pantomima, la donna si alza e si siede in continuazione, con la tensione nervosa alle stelle e la testa che le pulsa, con una sequenza lancinante di battiti sordi. Il tono paterno e pacato di Severi, che la invita a entrare nel suo studio, la coglie quasi di sprovvista. “Scusa se sono piombata qui senza avvisarti ma ho proprio bisogno di parlarti.” “Ma tu sei sconvolta, cos’è successo?”
“Leggi.” Lo invita senza preamboli, mettendogli l’articolo di giornale sotto gli occhi, fissandolo in tono di sfida e scrutando attentamente la sua reazione. Ludovico prende in mano il foglio e solleva gli occhiali, scorrendo l’articolo con l’espressione seria e aggrottata. Si tocca il mento e fissa un punto della scrivania, evocando qualcosa da un ato lontano, aspettando che i ricordi si facciano più nitidi, uscendo dalla nebbia della memoria. Poi si alza di scatto e prende una cartella dal suo archivio, posandola sulla scrivania. Sul frontespizio spicca un nome tracciato col pennarello nero in una spigolosa grafia: René Duvall. Questa volta è Cristina ad aggrottare le sopracciglia, cambiando l’espressione del viso che, da preoccupata e tesa, diventa interrogativa. Il medico si schiarisce la voce, fissa negli occhi la sua amica e inizia con voce bassa e quasi commossa a parlare. “Ti ho detto che la foto che mi avevi mostrato quella sera in macchina mi ricordava qualcuno, ebbene, non mi sbagliavo: Nathalie Duvall, la madre di René, una donna bellissima che veniva da Nizza una volta al mese per sottoporre alle mie cure il suo unico figlio adolescente. A quei tempi, ero appena rientrato dall’America e mi ero specializzato nella Sindrome di Asperger, tenendomi sempre in contatto con i migliori specialisti negli studi sull’autismo. Avevo già diversi pazienti ma il piccolo René aveva qualcosa di speciale ed era il mio preferito, proprio come oggi ho preso sotto la mia ala il tuo bambino. Ti confesso che mi ero un po’ innamorato di Nathalie, una donna con un fascino non comune e una grazia innata. L’aspettavo con ansia e la intrattenevo più del dovuto. Ma lei era molto riservata, parlava poco e manteneva un atteggiamento rigido, sfuggente. Sapevo che era molto ricca, anche se accennava poco alla sua vita e non parlava quasi mai del marito. Nei colloqui con il bambino la figura del padre appariva sempre molto sfocata. Ho pensato che fosse il solito miliardario sempre in viaggio per affari che dedicava poco tempo alla famiglia. Quando ho saputo del tragico incidente le ho scritto una lettera ma non mi ha mai risposto. E ora tu mi stai dicendo che Nathalie è…” “Sì, è così” risponde lapidaria Cristina. “Aspetta, Cristina, rimani con i piedi per terra. È vero, sembra che tutti gli elementi provino che sia lei, ma potrebbe esserci comunque un’altra spiegazione.”
“Per esempio?” “Una sosia.” “Non lo so… sono così confusa… mi scoppia la testa, non riesco a ragionare.” Cristina appoggia per un istante il capo sulla scrivania, sopra le braccia conserte, in un gesto di grande spossatezza. Lui le accarezza piano la testa, timidamente, come se non volesse farsi scoprire. La donna sospira e rimane immobile, cercando di raccogliere le idee, poi gli chiede se per caso, nell’archivio, conserva una foto di René. “Se mi lasci il tempo di fare una piccola ricerca, nel computer dovrei averne una. A proposito di sosia, assomigliava a tuo figlio. Oddio… Non ci avevo pensato. Forse è proprio per questo motivo che mi sono affezionato così tanto a Gianluca. Nel mio inconscio è come se René non fosse morto.” Lentamente appare sul monitor un volto sorridente di bimbo, con gli occhi stupendi e dal taglio molto particolare. Cristina stringe forte il braccio del medico. La foto che ora riempie lo schermo è uguale a quella fuoriuscita dallo zaino di Nathalie.
26
È finito il tempo delle sorprese, dei chiarimenti, delle lacrime. Ora Cristina siede al fianco di Nathalie sul divano del piccolo monolocale. Le è bastato un piccolo impulso e il suo cervello ha ricominciato a funzionare correttamente. Quando ha visto la foto di René, nello studio di Severi, d’un tratto ha capito tutto. La nebbia si è squarciata e si è data ripetutamente dell’idiota per aver congetturato una storia paranoica ai danni dell’ignara e innocua Nathalie. I sospetti farneticanti e le immaginarie paure di attentati alla sicurezza di Gianluca si sono disintegrati in mille frammenti, come visti attraverso un caleidoscopio. E i fatti ora vengono considerati da un’altra angolazione della mente. Si è precipitata nel monolocale e vi ha trovato l’amica sorpresa di vederla così sconvolta, tranquillamente all’oscuro di tutto. Le ha raccontato a raffica gli avvenimenti di quella folle giornata, le considerazioni sulla sua nuova sparizione, le congetture su un piano ordito ai danni di Gianluca. Niente che non si potesse spiegare in modo semplice e razionale. Dopo le lacrime è arrivato anche il riso, per aver costruito un castello di folli fantasie sul fatto che la donna fosse uscita di casa a sua insaputa. E poi, inevitabile, il tempo delle spiegazioni. “Ora, però, mi devi raccontare tutto, non puoi più nasconderti dietro al tuo segreto” l’aveva esortata Cristina e Nathalie aveva capito che non avrebbe più potuto sottrarsi alla verità e aveva cominciato a esporre una serie di avvenimenti. “Avevo vent’anni e la mia vita scorreva tranquilla nella colorita città di Nizza. Frequentavo il terzo anno di Filosofia ed ero felice e senza pensieri. Un giorno, a casa di amici, incontrai un ragazzo un po’ più vecchio di me. A quell’età, di solito, gli innamoramenti sono fuggevoli e durano poco, il tempo di una stagione. Invece il mio era un sentimento forte e tenace e vivevo nella speranza di sposarlo. Lui mi ricambiava e cominciavamo già a fare progetti per il nostro futuro. Una sera, la rivelazione di mio padre mi piombò addosso con la furia di un
tornado e mi sconvolse la vita. Per gravissimi problemi economici era stato costretto a vendere la villa di Nizza e trasferirsi a Parigi. Per fortuna possedeva un piccolo bilocale, che sarebbe diventato il nostro rifugio. A Parigi aveva l’opportunità di iniziare una nuova attività, con la quale tentare di rimettersi a galla. Mia madre sapeva già tutto e mi scrutava, mentre io rimasi impietrita e rigida sulla poltrona di velluto blu. Vedendo il mio capo abbassato e notando il mio silenzio incredulo, mio padre continuò la spiegazione. Il suo socio in affari l’aveva truffato per anni e poi si era volatilizzato, lasciandogli ingenti debiti della società. Corsi in camera a piangere. Avevo paura di diventare povera ma ciò che più mi sconvolgeva era la consapevolezza che la mia storia d’amore sarebbe finita. Naturalmente non pensai neanche per un attimo di ribellarmi alle decisioni di mio padre e ci preparammo, in pochi giorni, a lasciare Nizza, per andare incontro a un incerto e difficile futuro. Dovevo dire addio al mio ragazzo. Non gli avrei spiegato nulla perché mi vergognavo troppo. Gli avrei chiesto solo di regalarmi un’ultima, indimenticabile notte, da portarmi nel cuore per tutta la vita. Così fu. Qualche giorno dopo partimmo per Parigi. Ho saputo solo in un secondo tempo che la villa di Nizza era già stata venduta e i miei genitori, fino all’ultimo giorno, avevano deciso di non dirmi niente e lasciar scorrere serena la mia vita da adolescente. Poi nella mia vita entrò Marc, un giovane rampollo parigino, che ava l’estate nella dimora estiva di Nizza e, fin da ragazzino, era stato innamorato di me. A Parigi cominciai a frequentarlo e, seppur con il cuore ancora impegnato altrove, accettai i suoi corteggiamenti. Era premuroso, infinitamente innamorato. Mi buttai nelle sue braccia anche per cercare di dimenticare l’amore vero che avevo lasciato indietro. Era molto ricco e vidi uno spiraglio di salvezza per la mia famiglia. Alcuni giorni prima del matrimonio, fui preda di un grande turbamento. Non avevo ancora dimenticato il mio amore di Nizza e mi sembrava di tradirlo. Inoltre mi sentivo in colpa nei suoi confronti per essere sparita dalla sua vita senza nemmeno una parola e, ancor di più, mi divorava il desiderio di rivederlo un’ultima volta. Una sera andai a cercarlo, scoprendo che eravamo più innamorati che mai. Fu solo una sera. Poi mi avviai con risolutezza verso la mia nuova vita.
Mio suocero prese mio padre a lavorare presso la sua società, e per i primi tempi la vita tornò a scorrere tranquilla. Ben presto, però, mia madre cadde in una depressione senza scampo. Non le piaceva vivere a Parigi e si era isolata in un mondo tutto suo, estraneo a quello della vita reale, al quale nessuno aveva più accesso. ava le giornate chiusa in casa e aveva persino smesso di parlare. Nemmeno le cure riuscivano a strapparla da quel limbo desolato in cui era precipitata, come in un abisso tetro e tormentato. Si tolse la vita quando René aveva quattro anni. Intanto anche il bambino cominciava a manifestare strani disturbi. Rivelava un carattere chiuso, aggressivo. Lo portai da diversi specialisti e, infine, dovetti con amarezza accettare la triste diagnosi dell’autismo. Marc non ha mai accettato la malattia. Voleva un altro erede, che non arrivava, e mi incolpava di avergli dato un figlio malato. Cominciò a disprezzarmi e a maltrattarmi. Sapevo che frequentava altre donne ma, per il bene di mio figlio e dei miei genitori, accettavo tutto. Avevamo questo tacito accordo, agli occhi della sua famiglia e della gente in generale dovevamo apparire come una normale famiglia felice. Avevo sentito parlare del dottor Severi e del suo metodo all’avanguardia per curare l’autismo, e mi ero rivolta a lui, che mi diagnosticò la Sindrome di Asperger. Ma questa parte del racconto la conosci già, visto che anche tu lo conosci molto bene. Portavo René al controllo una volta al mese, perlopiù spostandomi in aereo, di rado facevo il viaggio in auto, prendendomi anche qualche giorno di vacanza col mio bambino. René migliorava ed era meno paranoico nella sua quotidianità. Mentre Marc diveniva sempre più violento nei confronti miei e del figlio. Finché un giorno perse completamente il controllo e la scenata che fece lasciò René completamente sconvolto, sembrava fuori di sé. Allora partii subito per Milano, per vedere Severi. Fu un viaggio allucinante, arrivai a notte fonda. Il resto lo sai: la pioggia, il furgone… Io ho sterzato, ma il palo del semaforo ha sfondato l’auto e…” Un pianto dirotto interrompe quel racconto fatto tutto d’un fiato, come se temesse di dimenticarsi le parole. Come un copione teatrale ripetuto migliaia di volte nella propria mente. Man mano che i ricordi si fanno più nitidi, uscendo dalla nebbia della memoria, riacquistano e si caricano di tutto il dolore e lo strazio di quei giorni lontani. Rivivere quei drammatici momenti, anche dopo vent’anni, è un’emozione che la riempie di una pena che si rinnova, ogni volta,
con devastante intensità. Sembra incapace di continuare e Cristina le suggerisce di prendersi un po’ di tempo. Ma Nathalie, con un gesto pacato della mano, le comunica che sta bene e che vuole proseguire. “Qui si è chiuso il sipario della mia vita. Stringevo tra le braccia il corpo di mio figlio, ormai privo di vita, desiderando solo che la morte giungesse anche per me. Quando arrivò l’ambulanza, mi sedarono e mi ricoverarono in ospedale. Ho solo vaghi, nebulosi ricordi di quei giorni. Marc che, con rabbia, mi sbatteva in faccia atroci parole. Io non accettavo l’idea di aver perso l’unico scopo della mia vita, mentre mio marito sembrava indifferente. Non avrei mai più potuto vivere con lui, così una notte mi strappai dal braccio la flebo, e quando l’effetto del farmaco svanì e io riuscii ad alzarmi dal letto, abbandonai l’ospedale. Ecco perché tu mi hai trovata all’angolo di una strada. Nel punto in cui il mio amore ha esalato l’ultimo respiro. Avevo giurato di non muovermi più da lì. Sarei morta anch’io in quell’angolo, come lui. Ventidue anni fa, esattamente oggi. Stamattina, quando non mi hai trovata in casa e hai cominciato a ragionare come una folle, ero andata a portare dei fiori nel luogo dell’incidente.” Piano piano tutto si spiega, nella nebbia i contorni riprendono forma, i punti oscuri sono nuovamente irradiati dalla luce di una nuova, insospettata realtà. Nel monolocale comincia a fare buio ma, sull’onda dell’emozionalità del momento, nessuna delle due sembra farci caso. Il flusso della verità non è ancora terminato. “Poi l’infarto e la tua caparbietà nel prenderti cura di me hanno smussato gli angoli della sofferenza. E nei tuoi occhi rivedo il mio piccolo angelo. Una straordinaria somiglianza che mi ha convinto che proprio René, da lassù, ti ha mandato da me per salvarmi.” Cristina non commenta, si limita ad ascoltarla con gli occhi gonfi di lacrime. Nathalie accarezza la testolina pelosa di Briciola. “Briciola è la nipote di Brigitte, la cagnetta di René. Il professor Severi mi aveva parlato dei miracolosi effetti della pet terapy, così avevo trovato per il bimbo quella dolce creatura a quattro zampe. Mio figlio e Brigitte erano inseparabili e lui sembrava diventato un altro.”
Il racconto ha lasciato la donna prostrata e Cristina, rispettosa di quella rievocazione di dolore, rimane qualche istante in silenzio. Non le sembra possibile che un essere umano possa sopravvivere, apparentemente sano di mente, a un carico simile di eventi sconcertanti e dolorosi. L’affetto che prova per quella povera donna cresce, mentre le rivolge uno sguardo carico di condivisa commiserazione. Ora è il suo turno di parlare. “Se tu lo vuoi, adesso hai una famiglia e puoi far da nonna a Gianluca.” “Sarebbe stupendo. È come se il mio piccolo René fosse tornato da un lungo viaggio. Credo di riuscire nuovamente ad amare.” Sulle guance di Nathalie scorrono lunghe lacrime. Le prime, liberatorie, dopo anni di muta e debilitante sofferenza. Si avvicina alla finestra. Oltre i vetri la luna tremola un po’. Mille stelle brillano nel cielo, donandole la luce per iniziare una nuova vita.
27
“Nonno, il libro di Marco Polo è rimasto nella camera della mamma. L’abbiamo letto ieri sera. Me lo vai a prendere?” chiede Gianluca mentre sta sistemando il modellino di barca a vela che gli ha regalato Ludovico, dopo la gita sul lago. “Certo caro. Vado subito.” Sale le scale con una certa allegria. Suo nipote sta meglio e anche sua figlia Cristina è più serena, attiva, piena di iniziative. Da qualche tempo ha ritrovato il sorriso. Si prodiga ad aiutare quella sua strana amica che, ha promesso, presto gli presenterà. La porta della camera è aperta. Comincia a guardarsi in giro alla ricerca del libro, che vede posato sul vecchio cassettone. Allunga la mano per prenderlo e si immobilizza, come paralizzato. Il respiro si blocca, mentre fissa con immenso stupore l’oggetto che ha calamitato la sua attenzione. Si accascia come un sacco vuoto, sul bordo del letto, senza staccare lo sguardo da quel ritratto in bianco e nero che, dalla parete, gli sorride in modo attraente. In un secondo la mente apre il file della sua permanenza a Nizza. Il ricordo di quella meravigliosa ragazza riaffiora in lui, con un impeto struggente. L’amore sincero che ha provato per lei ritorna come un fiume in piena dentro il suo attempato cuore. Si alza, accarezza con delicatezza il viso di quella foto e gli sembra che il suo amore di un tempo gli stia ammiccando. “Lie…” pronuncia con intensa e commovente nostalgia. Immagini felici gli scorrono rapidamente davanti agli occhi, momenti e ricordi che ha serbato gelosamente in un recesso della mente e che ora si tramutano, intatti, in sensazioni vivide e calorose. Ma anche un amaro flashback di lei che sale sul treno, con gli occhi bassi, le spalle leggermente incurvate e scosse dal pianto, per tornare da un altro uomo e intrecciare inevitabilmente con lui la sua vita e il suo destino. La sensazione del mondo che gli crolla addosso, con una veemenza tale da lasciarlo stordito e annichilito, nel parcheggio della stazione, consapevole che la sua esistenza non sarebbe mai più stata la stessa. Torna a sedersi sul letto e comincia a chiedersi come mai sua figlia abbia la foto
di Lie in camera sua, nascosta dietro il cassettone. − Dev’esserci lo zampino della zia Marie. Probabilmente è rimasta in contatto con lei a mia insaputa – pensa. Forse la sua fiamma di un tempo è semplicemente rientrata a Nizza ed è tornata a frequentare la casa degli zii. Scende le scale lentamente portandosi il suo ato appresso e, a ogni gradino, gli pare di sentire riecheggiare la risata contagiosa di Lie. “Nonno me lo leggi? Su, dai” lo esorta Gianluca, con malcelata impazienza. “Andiamo in camera tua, sediamoci sul tappeto blu e pensiamo di essere in mezzo al mare” suggerisce Giovanni, tornando nella stanza del nipotino. Cristina rientra a casa euforica e con il cuore leggero, come le capita di sentirsi da qualche giorno, dopo che le emozioni degli ultimi giorni e la storia di Nathalie le hanno scosso l’animo. Si sente soddisfatta e felice di poter aiutare quella povera donna che, per l’amore smisurato nei confronti di suo figlio, ha sopportato e assecondato un marito ignobile e violento, nonché padre insensibile ed egoista. Ha preferito vivere per strada, rinunciando a una vita agiata, per non scendere più a dolorosi compromessi e a false complicità. Ha scelto di restare laddove il cuore di suo figlio aveva smesso di battere, cercando conforto in quel trafficato e ostile angolo di strada. Così il suo spirito e la sua anima, liberati da una prigione di sentimenti fasulli e avariati, hanno potuto proseguire nell’intento di far rivivere l’amore purissimo, incontaminato e assoluto per il figlio adorato. In fondo, è stato un po’ come morire insieme a lui. − Sono felice che mi veda come un angelo mandato da René − pensa con sollievo, mentre apre la porta di casa. − Così non scapperà più e diventerà un membro della mia famiglia. − Entrando nel salotto, riconosce le voci gioiose di Giovanni e Gianluca provenire dalla cameretta e sorride nel sentirli giocare spensieratamente. Si siede sul divano, concedendosi un attimo tutto per sé.
Sul tavolino Bruna ha raggruppato la posta. Tra lettere poco interessanti della banca e bollette varie, spicca un’inconfondibile busta color lilla. − Ultimamente la zia deve sentirsi sola, perché mi scrive spesso − pensa mentre rigira tra le mani la busta. La apre con un moto di tenerezza nei confronti di quella dolce vecchietta, che ormai non vede da parecchio tempo. Dentro ci sono un biglietto con la bella scrittura un po’ arcaica della zia, una piccola foto e una pagina di libro, strappata frettolosamente, con annotate poche righe vergate con una grafia rotonda e femminile. “Carissima Cristina, ho portato a restaurare un antico mobile, che un tempo era stato lo scrittoio di tuo padre e, infilata dietro un cassetto, ho trovato questa lettera. Siccome sei sempre stata interessata alla storia fra tuo padre e la giovane Lie, te la invio, lasciando decidere a te se parlarne con papà, oppure no. Spero che, prima o poi, degnerai la tua vecchia zia di una visita. Con immenso affetto, Marie.” Una folata d’aria fresca entra dalla finestra aperta, facendo danzare le tende. Cristina rabbrividisce. Prende il plaid e lo stende sulle gambe. Si appoggia più comodamente allo schienale e prende in mano quello strano allegato. La risata fragorosa di Gianluca, proveniente dal piano di sopra, la riporta con la mente, che nel frattempo aveva galoppato lontano, tra le quattro pareti del suo accogliente salotto. Giovanni risponde con una colorita esclamazione e, attraversata da una placida allegria, si accinge a leggere. “Amore mio, ti scrivo queste poche righe mentre tu stai facendo la doccia. Devo lasciarti ma non trovo il coraggio. Questo sarà il nostro ultimo incontro e io so già che, dopo, sarò infelice per il resto della mia vita. Non amerò più nessuno, dopo di te, ricordatelo. Ti auguro ogni bene. Lie.” La piccola foto ritrae una ragazza con i lunghi capelli biondi spettinati dal vento, che Cristina riconosce immediatamente. Sul retro una piccola dedica: “Ogni giorno ti manderò un pensiero d’amore, dovunque tu sia.”
Affonda il capo sotto il plaid mentre è ancora incredula e disorientata. Sente il peso e la leggerezza di quelle parole. Il peso di dover accettare una coincidenza sbalorditiva e inaudita e la leggerezza di una amore che perdura oltre i luoghi, il tempo e lo spazio di una vita. Emozionata e stupefatta rimane rannicchiata sotto la calda coperta, cercando di ricostruire la storia di Giovanni e Nathalie. “Mamma, vieni a vedere, abbiamo costruito un porto bellissimo.” La voce di Gianluca la riporta alla realtà, e piano, a fatica, si scrolla dalla mente la vicenda amorosa di suo padre. Dovrà parlargli e comunicargli che la sua fiaba ha un lieto fine ma non ora. Prima deve cercare le parole adatte e sa che le troverà non appena l’emozione del turbamento si scioglierà al sole di una più consapevole rilassatezza. “Arrivo” gli dice di rimando. La porta della cameretta di Gianluca è spalancata, il pavimento è un porticciolo allegro di barche a vela e gli occhi di suo padre, che si fissano nei suoi, la scrutano e invocano la verità. “Zia Marie ti ha mandato una foto di Lie?” La voce, un mormorio di infinita tenerezza, arriva dritta al cuore di Cristina. “Sedetevi qui, sul pavimento” li invita con dolcezza. “Vicino a me, in mezzo a queste bellissime vele che cercano la libertà nel vento, mentre cavalcano le onde del mare. Ho una bella fiaba per voi.” Racconta la storia che ha ricostruito sotto la calda coperta e poi, senza bisogno di parole, abbraccia Giovanni. Un abbraccio intenso, lungo, traboccante di affetto, mentre fuori il cielo si appiattisce, annunciando la sera.
28
La primavera è nel pieno della sua esuberanza e la mattinata trabocca di sole. Di ottimo umore, perfettamente intonato alla giornata, Cristina suona il camlo del monolocale, aspettando impaziente di raccontare all’amica l’ultima, sconcertante, scoperta. È la tessera mancante di un mosaico che, magistralmente, si è composto e completato, sfidando le regole del destino e della casualità. Una storia intessuta di inverosimili coincidenze che nella vita, a volte, sfidano la prevedibilità, ordendo trame dall’incredibile, stupefacente finale. In certe vicende il caso è il solo sovrano legittimo dell’universo. Nathalie sta preparando il caffè e ha lo sguardo limpido e luminoso, come il lembo di cielo che irrompe nella piccola cucina dalla finestra aperta. Il bel volto non è più solcato dalla tristezza e lo sguardo ha smesso di inseguire le immagini dolorose di una storia di cui, forse, non avrebbe voluto essere la protagonista. “Non vedo l’ora di conoscere tuo padre” cinguetta, garrula, mentre mette la caffettiera sul fuoco. “Non avrai qualche diabolico piano su di lui?” scherza Cristina. “No cara, con gli uomini ho chiuso da un pezzo” la scimmiotta l’amica. “Aspetta di vederlo, prima di parlare.” “Cosa intendi dire?” “Ecco” si limita a replicare, porgendole il foglio sgualcito che la zia Marie ha allegato alla sua lettera. Nathalie diviene di colpo seria, stupita ma non troppo, per quell’ennesimo avvenimento della sua vita che è stato riportato a galla. Ormai la roccaforte che custodiva il suo segreto è stata espugnata, frugata, saccheggiata. Ora è quasi vuota.
Versa il caffè nelle tazzine e le chiede dove e come l’abbia trovato. Dopo la spiegazione accurata le due donne rimangono qualche istante in silenzio, ognuna immersa nelle proprie intime riflessioni. Cristina è la prima a rompere il silenzio, cercando di ripristinare la gaiezza dell’atmosfera. “Il tuo segreto, cara Nat, o Lie se preferisci, mi ha penetrato il cuore fin dalla prima volta che ti ho vista. Ho scelto te, fra mille altri, senza esitazione. Credo che, dietro questa incredibile coincidenza, si nasconda un disegno sicuramente più grande di noi. Ora, però, quello che ci unisce è la verità. E l’immenso affetto che ci ha fatte ritrovare.” “Non sai ancora tutto” aggiunge Nathalie, leggermente titubante. “Ma l’ultimo segreto è proprio il più difficile da svelare. L’ho custodito e fatto crescere dentro di me, con orgoglio, con dedizione. Se confesserò anche questo, mi sentirò svuotata.” Cristina volge lo sguardo alla foto del piccolo René, arroccato in una propria malinconica e serena bellezza. Prova una sensazione piacevole di tristezza, un dolore che non le fa più paura. Con la voce rotta dall’emozione sussurra: “È mio fratello, vero?”
Epilogo
La festa per i cinquantasette anni di Nathalie è stata organizzata con cura da Cristina e Giovanni. È una domenica piena di sole, di un settembre che non si decide a dire addio alla bella stagione e continua a regalare magnifiche e calde giornate estive. La terrazza del ristorante si affaccia sul lago di Garda, da dove Gianluca, felice, può osservare le sue adorate barche. Nathalie, con un tailleur pantalone color pesca, è affascinante. Porta i capelli tagliati cortissimi, che la ringiovaniscono parecchio. Giovanni l’accompagna cingendole le spalle. In centro al tavolo spicca un pacchetto dalla carta dorata e un biglietto, dove ogni invitato ha scritto una frase. Il biglietto è stato disegnato da Gianluca e, al centro, una gigantesca stella, con scritto “Nathalie”, brilla e ammicca irradiando allegria. Ludovico cinge la vita di Cristina mentre l’accompagna a recuperare Gianluca, che è corso verso la piccola spiaggia. Leo e Stefania stanno osservando un dipinto a olio che ritrae un allegro paesaggio, raffigurante una sponda del lago, con una magnifica vegetazione che si riflette placidamente nello specchio d’acqua. Martina conversa animatamente con un collega giovane di Ludovico, per il quale sembra nutrire una grande simpatia. Alle tredici in punto, Giovanni richiama tutti al tavolo e, picchiettando con una forchetta sul bordo di un bicchiere, cerca di attirare l’attenzione. “Amici, voglio comunicarvi con grande orgoglio che oggi, oltre al compleanno della nostra cara Lie, inauguriamo anche La casa di René, un’associazione benefica per l’assistenza ai poveri di strada creata da mia figlia e dalla stessa Nathalie. Vi invito a brindare tutti insieme al buon esito dell’attività. Auguri!” Uno scroscio di applausi e molti flash sottolineano quel particolare momento.
Cristina si assenta un attimo, scusandosi con gli invitati. Ricompare, dopo dieci minuti, tenendo per mano un’adorabile vecchietta con un vestito color lavanda, che bene si intona all’improbabile colore dei suoi capelli tagliati a caschetto. “Signori, vi presento con immensa gioia la mia cara zietta. Grazie a lei, che ha sempre creduto nell’amore dei due giovani, la favola di Giovanni e di Lie può essere raccontata.” Tutti circondano Marie, abbracciandola con calore. Nathalie, con visibile emozione e le mani che tremano leggermente, scarta il regalo e, con commovente sorpresa, mostra un prezioso astuccio di velluto color porpora. All’interno brilla l’anello che Giovanni le aveva comprato molti anni prima, senza avere mai avuto l’occasione di poterglielo donare. Era sempre rimasto nel cassetto dello scrittoio di Nizza, silenzioso e malinconico, ad aspettare il momento di essere infilato al dito di una donna eccezionale. Dopo il pranzo, una eggiata sul lungolago e l’allegria di quella giornata spazzano via le nubi grigie dal cuore di tutti i presenti. Nessuno ha voglia di lasciare quel piccolo paradiso lambito dalle onde, placido e ameno, e rientrano a tarda sera. Durante il viaggio in auto Gianluca si addormenta esausto e felice, e Ludovico guida piano, rilassato, commentando la giornata con Cristina, tenendole la mano. Poco prima di arrivare nella piazzetta sottostante l’abitazione della donna, qualcosa sembra impressionarla, facendole mutare l’espressione di colpo. Proprio un flash: sotto il fascio di luce di un lampione le è sembrato di scorgere un uomo pallido e magro, poco più che un’ombra, con il volto di Lorenzo. “Ludovico, fermati!” gli intima, con grande agitazione. “Cosa c’è, cosa hai visto?” le rimanda lui allarmato, inchiodando l’auto. “No, no… niente. Scusa. Mi sono sbagliata…”
F I N E
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