PITIPACCHIO
Come Maiku Sae diviene strega kuarzica
by: Alessandro Gruppi
Dedicato alla mia amica,
che disse l’importante non è quindi…
ma è quando…
UNA PRODUZIONE FANTASMAGORICA DI POLLUZIONE ARTISTICA SDECORATA D’EMOZIONE IN CODICE CRIPTATO PER CAPIRLO MEGLIO.
ESSERE, tornare a casa.
Aria brumosa, blu e rossa, ti si piglia secca nelle ossa, le nuvole a guardarle ti danno la scossa, la tua anima viene rimossa dalle pupille sovraeccitate.
Vivo, poi vado a casa, scopro il portone rotondo, e come ogni giorno giro la chiave, salgo le scale e mi ritrovo in una stanza, dietro la porta ormai chiusa, a guardarmi allo specchio.
La cassettiera mia è quadrata, apro un cassetto, dlip, mi stacco la bocca, la ripongo in un contenitore con dentro un po’ di zucchero e caffè, poi chiudo il cassetto.
(Non è una dentiera, è proprio la mia bocca, sono giovane, ho (quasi) tutti i denti al loro posto, anche (quasi) tutti quelli del giudizio. Io mi stacco la bocca, le labbra, per non parlare più. La cosa non mi crea dolore, ma il piacere del silenzio assoluto, da parte mia.)
Non avevo più voglia di parlare ed allora mi sono staccata la bocca, le labbra, con molta calma, rosse, sottili, morbide. Dlip.
Voglio stare in silenzio per un poco, voglio trastullarmi nel gioco di questa stanza senza proferire parola, senza rispondere al telefono, lo lascerò squillare… are are.
Chiedo scusa, se per caso dovesse venirmi a trovare qualcuno, allora, la rimetto e proferisco, altrimenti, sto in silenzio.
Ah, che sensazione pacifica non poter parlare, non essere muti davvero e per fortuna non esserlo, ma staccata, per qualche tempo, mi farà bene.
Eccezionale, come per una previsione artistica squilla il telefono, non rispondo, non potrei, lo lascio squillare, are, are, e quando smette, finalmente, godo del silenzio che mi avvolge in un atmosfera cupa di grigio solitario ma rilassante.
In fondo oggi ho lavorato tutto il giorno, in città qui a Dynburg, in banca, è anche giusto prendersi una pausa, così, per riflettere su tutto quello che oggi ho detto, mille parole, milioni di parole inutili senza gergo. Intanto preparo un caffè, un bollente spirito denso e cremoso.
Guardo il tardo pomeriggio dalla finestra. Lungo le vie dell’orizzonte si vedono i tonni rasentare gli scogli in attesa dell’alta marea, che li porterà al di là delle sensazioni presenti, in un futuro senza più scatolette di latta.
Tiro in ballo la voglia di stare ad occhi nocciola piantati sul soffitto, sdraiata sul letto, con le mani in mano, senza tempo da non perdere, e una tazza di caffè sul comodino, e anche accendino e sigarette a portata di mano. Posso fumare anche se non ho la bocca. Sì sembra strano a dirlo, ma posso fare tutto quello che si fa con la bocca, dopo il dlip, dopo che l'ho staccata e messa via, tutto tranne
parlare, e proprio quello voglio non fare.
Mi ci metto di impegno ad aspettare la cena tra un niente ed un forse sibilato verso la cucina.
Chi si muove!
Giro in tondo senza meta, a cercare una mia chiesa tutto fare dal tono singolare e monosillabo, stampiglio brevi discussioni su di me, dentro me, in accordo con me stessa.
Sono una donna scapigliata dal fare semplice, me ne vanto, spengo la luce, suona di nuovo il telefono, efono, efono, lascio andare, si placa. Sorso di caffè. Zuccherato alla perfezione.
Driin che palle, figurati se rispondo, senza bocca, potrei mugugnare qualche sillaba male scandita, al di la della cornetta mi prenderebbero per matta, rimpiangerei il mio sdraiarmi comodo, chi me lo fa fare.
Così mi rotolo fra i cuscini, senza cadere dal letto, penso al mio berretto, capostipite di fragilità immense, sui capelli sciolti e densi, mi sta bene, è un ricordo di mia madre, lo portava quando era allegra.
Andavamo nel parco ed io pigliavo a calci il pallone di qualche simpaticone, mi giostravo sull’altalena.
Adesso, dopo la scomparsa di mia madre, il cappello, fuori moda ma sempre efficace e bello, è ato a me, come i bulloni ano da un operaio all’altro sul nastro trasportatore della fabbrica.
Chioma argento, mio padre il bello, suona l’armonica ancora, nella sua tomba di marmo o cosa sia, ancora suona, vicino a mia madre che ascolta in silenzio perenne.
Ogni tanto una foglia si posa su di loro, a benedirli di pazienza infinita, fida di speranza per il mio futuro, io la vedo e non la sposto, fossi matta, con quello che può significare una foglia al giorno d’oggi.
Ho una carta da giocare quasi in trance poggiata sul mio corpo adagiato sul materasso, che chiasso c’era oggi, pieno di gente così che pretendeva, pretendeva, chissà cosa voleva da me, che, povera, mi guardavo le spalle da dietro la cassa e pregavo che nulla asse in convento.
Schiamazzi, come ho già detto, inutili parole, futili, furtive discussioni a cielo aperto su questioni stupide, di poca importanza, traspare l’ignoranza attraverso questo caos di immagini putride che compongono la mia giornata lavorativa.
Schiva, me ne andavo su e giù per il corridoio della banca mangiando, anzi, bevendo un caffè durante la pausa, e stupidi i miei colleghi mi domandavano se fossi allegra o serena o se le mie bretelle fossero in tiro.
Io rispondevo, se non altro, che nessuna illogicità avrebbe mai potuto colpirmi così a fondo, come quella di costoro che, invece di farmi benessere adorno, mi stordivano di paranoie tutt’attorno, dovunque andassi cadevano rocce di
cretineria ambulante.
Pochi ma limpidi bagliori me li ha dati il mio caffè, che sembra poco ma è un gentiluomo dalla penombra irsuta, piena di conforto per il palato insano.
Così, tiè!, adesso me ne sto senza bocca, colle labbra nel cassetto nell’apposito contenitore e aspetto, fra due ore mangerò, chiacchiererò all’interno di me stessa e non proferirò parola alcuna.
Zitta, devo stare zitta, ora posso, eh, eh, che genio che sono ad inventarmi simili prelibatezze canoniche, tipo riporre via una parte della mia faccia, per quanto prima fosse utile, anche se futile, adesso sarebbe inutile, anche se duttile.
E allora cosa me ne faccio di un pasticcio tale, così vicino alle gengive da farmi sentire il rosso torvo, umido, delle parole che fuoriescono attraverso i denti, battute dalla lingua pendula.
Quale mai, parola, potrà darmi un avvenire, un futuro piccolo e minuto nel presente quotidiano, cosa mai mi aspetto da un discorso a maglie larghe.
Dilagare, poi, fra un tiro e l’altro di una sigaretta è il mio forte, ma nessuno mi ascolta, parlo del tutto, cosmogonizzo il dolce fare sereno, ma nessuno mai mi ascolta.
Sembra che le mie parole di Sole finiscano sempre nell’ombra di un albero gigantesco, nessuno ne raccoglie i frutti per paura che siano amari.
Invece sono fra i più succosi e maturi che madre natura abbia mai creato sulla faccia della terra, profumata.
Punto, sì ecco un punto, se mai i miei sproloqui interiori o esteriori si fero frasi scritte per un libro, ebbene qui ci starebbe un punto.
Bello grosso, punto, ah rotondo, rubicondo, dal rotolio giocondo, che salta tutto in tondo, se ne va in giro per il mondo, ondo, ondo, ondo.
CITTA’
Dynburg è la mia città preferita, qui ho tutti i miei amici, i miei capricci, ma questa sera proprio non ho testa di uscire nemmanco se mi pagano, guarda, nemmeno cascasse il mondo metterei piede fuori di casa.
Cosa vuol dire, se avessi risposto al telefono magari era Mary, magari Antonio, ma tanto avrei detto uhm, ho la bocca nel cassetto, sono staccata, non rompetemi le balle, scusate.
Tra l’altro è giunto il tempo di cucinare. Vado in cucina alzandomi con molta calma dal mio letto preferito.
Subito prendo una pentoluccia, la riempio per metà d’acqua e la metto sul fuoco.
Fuoco sacro fai bollire l’acqua per me questa sera d’autunno in cui le gocce addolciscono gli oceani, danzando in una botticella color cioccolato.
Dall’altro lato preparo in un piatto la giusta quantità di riso da cuocere, per una persona sola, sola in mezzo al mare.
Poi l’acqua bolle, il riso cuoce, lo condisco con la soya, lo mangio in tutta fretta.
Finito il piatto mi preparo un caffè bollente e lo bevo con molto zucchero, così mi piace, zuccherato.
Che bello, ho cenato, poco cibo ma buono, questa è la mia ricetta da quando ho messo su una certa pancetta.
Non mangio mai carne. Non sono vegetariana ma non ho mai voglia di andare dal macellaio, poi la carne costa troppo, è molto meglio un risotto.
Mi rimetto subito a letto, la pigrizia mi opprime ed io la assecondo, la cena veloce non mi sta sullo stomaco come invece potrebbe starmi un pranzo natalizio od una cena di capodanno.
Mi fumo una sigaretta da sdraiata, posso, anche se non ho le labbra, la tengo stretta fra i denti ed aspiro lentamente.
Il sapore di caffè si condisce con il fumo ed il tutto mi rilassa, il posacenere si riempie di cenere, naturalmente, è fatto apposta.
Finita la sigaretta chiudo gli occhi, mi giro sulla destra mia, accoccolo la testa sul cuscino e faccio per addormentarmi.
Uh, che palle, suona di nuovo il telefono, proprio questa sera devono cercarmi in così tanti, o sarà la stessa persona che continua ad insistere, ere, ere.
Finito il drin drin, riesco finalmente a trovare la pace interiore per compiere una piroetta verso il regno dei silenti dormienti.
Cantano, due messicani buddisti, conditi d’amaranto, scivolando nell’ombra come un unico gabbiano, pescano lungo la costa.
Uh, però non mi sono ancora spogliata, allora lo faccio, in tutta fretta, ho ancora gli occhi semi chiusi e la voglia di dormire avanza, anche se è presto.
Finito lo spogliarello mi metto nuda sotto le coperte, ah finalmente nel luogo paradisiaco dei miei sogni migliori.
Il sonno mi prende in fretta, la stanchezza accumulata tutt’oggi mi rimbalza nel cervello e lo spegne poco a poco.
Di tutti i miei cuscini, quello su cui riposo adesso, è il mio preferito, dall’aspetto trasognato, manicaretto di cobalto su cui rimbalzano le pietre dell’ipocrisia.
Poi arriva il soffio della notte, le stelle brillano, la Luna ulula a se stessa, le mie gambe giocano sotto le coperte come frasche spazzate dal vento tiepido di fine estate.
Mi spengo, piano piano, gli occhi si fanno pesanti, sono in silenzio ed i sogni si rendono interessanti.
Ho le orecchie a punta e sono verde, cosparsa di lenticchiette verdi come la buccia delle pere verdi.
Immagino così il mio corpo che si abbassa verso l’infinito piacere del sonno primario, di primaria importanza per un essere umano, figuriamoci per una che lavora in banca tutto il giorno.
Il suono di un flauto accompagna il richiamo verso le foreste dell’incanto, la mano di un santo mi porta verso i rami di un' albero di albicocche, felici di accogliermi, tra le foglie vive, verde e arancione, codesto alberone.
Ho oltreato il limite e adesso dormo tranquilla nel letto come un piccolo insetto si nutre di erbette di prato, come un ghiacciaio è congelato, come l’acqua scorre da esso in torrenti freddissimi.
Non ci siano limiti al mio dormire…
Poco alla volta il mio spirito si stacca da me e vola in alto verso il soffitto, poi gira verso la cucina e si accumula sui piatti non lavati messi alla rinfusa nel lavandino. Va bene, li laverò domani, ma il frigo è freddo e mi ci appoggio, sempre volando staccata dal mio corpo, vado verso la finestra ed esco.
Sorvolo la città, vedo le macchine in basso che girano gli angoli mettendo strane lucette arancioni verso destra o verso sinistra per indicare il cammino.
Il lucino dei lampioni mi attira come fossi una falena ed il mio spirito
svolazzante gli si avvicina.
Da li si vede la gente di un bar che freme per entrare, freme per una gozzoviglia di bicchieri infranti sul bancone, birra o altro, gin o whisky, è importante sai.
Poi salgo le finestre vetrate di un enorme grattacielo, fino alle antenne, da li entro nella televisione e mi perdo fra i programmi stupidi, conditi di falsità, del venerdì sera.
Aspetta e spera che poi si avvera, questo è il mio motto fino a che un botto mi fa uscire dallo schermo di uno dei televisori del grattacielo.
Vedo due persone sedute sul divano che ammirano il blu delle radiazioni televisive, le schivo, esco dalla porta e mi perdo in lunghi corridoi. Corridoi che conosco, ma che non capisco.
Decido così di attraversare il muro portante e di uscire da codesto grattacielo, mi ritrovo nella notte, guardo in alto, le stelle, guardo in basso, le macchine stellari che producono cerchi anulari di luce dai fari accesi.
Adesso vicoli stretti, un gatto gioca con una lattina schiacciata, un cane abbaia dal balcone verso le persone nella strada.
Volo ancora e mi ritrovo di nuovo a casa, rientro dalla finestra, rientro nel mio corpo e mi sveglio.
Mi sveglio ma non mi alzo, fossi matta, ancora intorpidita ricordo di essere stata da qualche parte, chissà, non so dove, ricordo di tubi catodici arrugginiti, lampioni e piatti da lavare.
Rimango in attesa del prossimo sogno, della prossima dose di dormienza, mi rilasso ed aspetto lo sconquasso.
Mi ricordo che domani è sabato e non lavoro, dopodomani è domenica e lavoro ancora meno, poi lunedì mi sveglierò con il bip bip, per domani no, mi alzerò quando la mattina vorrà, quando la buona luce mattutina dischiuderà i miei occhi ridondanti di notte tiepida.
SVEGLIA, ma con calma.
Dischiusi, è mattina che bello, il fardello dei sogni che ho fatto risulta caro alla mia mente quanto Trin, il mercante di chiodi, ai fachiri del sud.
Resto ancora un poco a letto e penso a cosa fare in questa giornata di cui i raggi mi colpiscono la fronte ando dalla finestra.
Apro la finestra, vedo che fuori la gente non si attanaglia come negli altri giorni, in fondo oggi è sabato, un motivo ci sarà.
Screziata, zuccherata, piglio la mia bocca dal cassetto e me la metto, la poggio sulla pelle, aderisce come incollata fatalmente.
Salto in groppa al mio cavallo magico e vado.
Fuori fa caldo, si sta bene, giro gli angoli degli isolati, faccio strade su marciapiedi che si solvono sotto i piedi, trovo mille rimedi al mio male angustiante, posso parlare, ho la bocca, fischietto.
Trilurin, trilurà, eccomi qua tra le fulve d’argento fuori dal mio spavento, all’aria aperta, sotto i tendaggi di un negozio, fra i barabugli dell’immensa città.
Dynburg è bella quando c’è il Sole che l’illumina piena, tostata come un girasole di campagna, segreta come le porte del mistero, mi porta verso un giorno di vacanza colmo di baldanza.
Sono finalmente al parco, parco di finezze estreme tra i fiori d’erba. Mi sdraio e aspetto che venga fradicio all’appuntamento, lunatico, il figlio dei pomodori, la tenerezza fatta persona, Giorgio, il mio… amico, il più sinistro dei maldestri.
Poggiata sulle note di un pianoforte in lontananza mi lascio andare fra i frastugli del prato che sibila gocce di rugiada fresca.
Lente di ingrandimento per le coccinelle, a uno sulle stampelle, a un altro con una carrozzina, ano due di corsa e mai nessuno li fermerà, o io la mia mano sulla bocca, c’è ancora, una volta rimessa, quindi, non si stacca.
Ho voglia di parlare con Giorgio, quando arriverà, per adesso mi godo il Sole rumiro sul corpo, fremito sottile di carezza autunnale ma non troppo, sulla ferita c’è un cerotto.
Di botto, come sempre, dal nulla, una voce mi stratulla, è quella di Giorgio che arriva camminando sulle mani.
Si piazza vicino a me e subito mi bacia come la lumaca lascia la sua bava sulle foglie, così Giorgio, jojo, mi bacia grandiosamente senza fretta, senza quel sapor di sigaretta, che mi contraddistingue di solito, io ricambio e mi avvinghio a lui.
Dormito bene questa notte, esordisce, sì, pensa che ho sognato di volare sulla città.
Io, jojo, ingranaggio d’orologio fato, non mi ricordo cosa ho sognato, però ho mangiato bene ieri sera.
Perché non rispondevi al telefono, ti ho chiamato più volte ma niente, tu tu, tu tu, e poi agganciavo disperato.
Ah, eri tu allora che rompevi i balli, sì ma cosa avevi ? Oh niente ero solo molto stanca, sai dopo il lavoro, mi ero pure staccata le labbra, ma oggi sono fresca come una rosa friccicosa piena di nettare per te, ti va di stare qui tutto il giorno o quasi?
Sì, guarda cosa ho portato, tira fuori da un sacchetto una confezione da quattro lattine di birra, ne apre due e facciamo subito cin cin, all’indiana, per festeggiarci ed augurarci buona fortuna in un attimo di riverenza.
Dim, kia fertile today, unpo polito tyrty fretwert agila makila fitighi, fresca di frigo questa birrozza.
Bona, sa di mela, sidro se, sugo alla bolognese, salcicce saltate alla griglia carboncina, condite di vino svinazzato.
Sì, senti oggi non ho voglia di carpire più di tanto, perché non ce ne stiamo qua a favorire l’erba pepa, che te la dicio, a babamicio.
Eh, cosa ho detto poco fa, possiamo restare qua anche tutto il giorno a fare i buffoni, la bibita c’è, noi ci siamo, se abbiamo fame andiamo al chiosco del parco.
Però, qui su questo prato non si può fare l’amore, ci vedrebbero e poi tremore di vigili incazzati come iene, multa per amoreggiamento in loco pubblico, troppo per noi due, pocco ddue.
Ok ma possiamo sempre baciarci all’insaputa di tutti, non è troppo scandaloso, poi, come lo facciamo noi, è pure bello a vedersi, armonico nel suo sedersi placido sul mondo, cicaleggio morbido, stantuffo soffiato, lingue armonizzate ad arte per raggiungere uno scopo, l’umidità reciproca e fraterna.
Show, shout, shok, dig it, ci manca la radiolina con le nostre cassette preferite, sì è vero, i Fanciulli Disperati, i Gente Piovuta, sono un classico da mettere in queste situazioni.
Intitolerei questa giornata al dolce far niente, all’uso e abuso della pigrizia a se stante, in tutto e per tutto dolce, a noi congeniale.
Taminka, perplessità, ci sarà un modo per far durare questi momenti luminosi in eterno come in una fotografia da averla sempre davanti agli occhi, come in un film da girare all'infinito ?
Sì, c’è, baciamoci adesso, non fare il fesso o il finto tonto, ricordati di non aspirare troppo, altrimenti mi stacchi la bocca e baciami, patata lessa.
In alto a un aereo che lascia due nuvole bianche lunghe dietro se.
Più in basso, sugli alberi stanno, allacciati ai loro fischi, i canarini, senza rischi, senza lupi che li caccino, senza pupi che li taccino con le fionde, ammirano le bionde che ano e si fumano un sigaro cubano.
Vorrei sottolineare il fatto che qui il tempo è immobile, come il mio preferito soprammobile, come la radio mobile, come un mobile, mobile, mobile.
E ce ne stiam on the grass, ricordando i giochi e i cambiamenti di Daisy, i suoi sorrisini isterici ma sbrigliati dall’ipocondria quotidiana, derivanti dalle carmilie di una sottana, meditabondi, bondi.
La Luna, bianca di giorno, ci fa da contorno mirando il Sole che la luma tuma per pity, differenti accordi dalle sonorità piane e forti accompagnano i nostri baci all’aria aperta, a ciel sereno, cavalchiamo l’arcobaleno dopo la pioggia degli stivali, propizia per i barboni, gran danno per i commercianti di scarpe.
Tum, tukutum tumpà, ma ishi kamikishi in apon they taip, bat you keep all to yourself, scrumbleling, timiki all.
Pomiciare è bello sul caro pratello, senza il pesante fardello dell’amaro rovello, senza senso alcuno, immune dalle malattie.
Fratello povero, ti arricchisco io di umidità e di ciel sereno, micoco tantrico
galattico, fingardo prezioso, a tratti smerilloso.
Noi viviamo nell’aria, ci sdraiamo all’ombra, prendiamo il Sole per antonomasia, ci schiacciamo le membra l’uno all’altra, ci riduciamo in poltiglia le menti flebili, flessibili tessute su agarpanti alimentati a vapore.
Profilo statuario, adilo ardimentoso, cos’è quel coso che hai fra i denti, forse una pozzanghera d’amore per me, o una speciale crema dopo barba arrufianatasi alle tue gengive.
Effetti sonori illogici, cicco, ciacco, smukko, smakko, ti rimproverano dal di dentro per uscire fuori a veder le nuvole in the sky, in un day tomorrow, ho la kia felina che non aspetta altro se non ribellarsi al manto grezzo di cui è cosparsa.
Risate magnetiche ci portano a vederci così da vicino, ma così da vicino che ci cascano le parole di bocca, una volta tocca da fingulti isterici, schiamazzi clerici, pigne stracotte o forse faremo a botte trasnuvolati in comizi di ricotte arrapate.
Logico ma simbolico, quest’ipotesi non è da scartare, di alberi un filare, tanto ben ti voglio come il muschio al caprioglio, come la balena al capodoglio, come Stanlio a Olio.
Null’altro se non apostrofate considerazioni sul futuro ettonico, attenuato dalla nuclearizzazione concreta di parti stabili del nostro mondo atavico.
67 organi disposti a coda di fra maculo ottenebrati dalle loro stesse risposte sulla
volta celeste ad accidentarsi fra tumide considerazioni sugli apostrofi bigosomatici o preterenzigoti.
Munnezza spazzata via dallo spazzino, nobile mestiere per un ragazzino alle prime armi, dolce con carmi, sarmi di posteri appesi a poster polverosi, simmetrici, dannosi.
D’annata consigliata questo vino, questa slinguata alla brezza del signore, rama Krsna ci difende, le sue braccia a noi protende e non si arrabbia mai.
Ancora il pianoforte in lontananza, sarà l’effetto della lingua ruvida, da gatto, di Giorgio, la sua melanconia ingovernabile ci traspira verso sensazioni primordie dal fare gomitoloso.
Ci rivoltiamo, rotoloni sull’erba, in gomitoli di lana azzurra, pelucchiosa, adatta ad un caldo maglione invernale, dal tepore serale consacrato dall’indossatore fulgido.-
Carponi, sulla terra cacata dai lombrichi, ci facciamo il solletico a vicenda ed è molto bello vederci ridere per una reazione meccanica al fatto che siamo sconsolati, senza tempo, irritabili, longevi e senza paranoie sgambettanti.
Chi ci guarda dal lontano della fontana pensa, che bel mucchio di panni sporchi da mettere subito in lavatrice, te lo dice Berenice, la dea appisolata.
A donkey mean bullshit a senka near lear ship, peee, peperepe ppe, sona la topa
tipica di dgh in situazioni scomode, Dimitri Prunoski atemba dell’atrina crinoidale la figlia di Spirale.
OMBRE
La lunilla, la lunilla, la lunilla è wild ed illumina il cor.
Canzoncina che ripeto dentro me mentre cammino sotto gli alberi che carezzano la mia pelle con la loro ombra fresca e frammentaria.
I miei occhi cambiano velocemente colore alla corrente del fiume nero, spero che, almeno, nel cimitero si possa stare in pace.
Ebbene sì, mi trovo nel cimitero di Dynburg, dove sono sepolti i miei, accendo un incenso per ognuno e prego un poco tra la rilassatezza della mia anima ed il cordoglio ufficioso del mio corpo in trance.
Il mio nome è Maiku, sì sono io, la solita Maiku, quella che si toglie la bocca, quella che pomicia con Giorgio, quella che si fa il risotto con la soya e poi vola nei sogni.
Sono qui per venerare la coscienza dei miei, assorti nell’infinità del tempo mogio, profuma l’aria l’incenso nel vuoto, mi sento come un uovo sodo in balia della corrente.
Io e te, quante cose faremo, a cielo sereno, Maiku sulla tromba delle scale aspetta di vedere una tomba in lacrime sante, perire sotto le immagini della morte.
Pitipacchio, ritorni tremuli, ricordi increduli, ricordo di un tempo in cui le fragole erano grosse e rosse, il ripostiglio era un nascondiglio sicuro ed io andavo in soffitta per vedere i fantasmi sotto lenzuola bucate ad arte a far spuntare gli occhi.
Avevo appena finito il liceo, quando, sulla terra di corallo, nella contea dell’ovest, dove sta Dynburg per capirci, scoppiò una terribile guerra.
Era la guerra fra l’esercito militare ed il glorioso esercito civile alleato con la mafia, guerra per il territorio, per la supremazia economica e commerciale.
Io mi rifugiai da mia zia nella contea del sud, dove si stava bene ed in pace, dove si ava il tempo a fare la brace, sulla spiaggia fra le conchiglie trasportate dalla marea.
I miei genitori rimasero a Dynburg per tenere, per portare avanti un alveare, uno dei tanti.
Gli alveari erano case in cui i civili ed i mafiosi potevano trovare conforto fra una cannonata e l’altra, dove ristorarsi, dove trovare un letto ed un comodo rifugio per la notte fra le bombe stellari.
Un giorno, papà e mamma stavano cucinando quando cinque spie dell’esercito, travestite da civili, si intrufolarono nell’alveare con intenzioni maligne.
Entrarono in cucina ed uccisero i miei ed il cuoco di seconda con un iniezione letale di stink, liquido mortale usato in vari stati per la pena di morte, morirono così, con una siringa al collo.
Quando la notizia giunse a noi io piansi nel mio latte, piansi per nove giorni, il decimo capii e mi resi conto che a volte il destino è più amaro dell’acido sulfureo.
La guerra proseguì imperterrita, ci furono molte vittime da ambo le parti, alla fine vinsero i militari del generale Koll 18.
Il potere da allora è nelle mani di esseri mostruosi, semi robotici, che disprezzano i poveri in favore dei più abbienti, che condannano i contrabbandieri di sigarette e perdonano la corruzione di stato.
Io vorrei ribellarmi ma non posso, sono troppo sola, sono come una formica senza il suo formicaio, senza una regina da accudire, senza stradine telepatiche da seguire.
Così, finita la guerra tornai a Dynburg, mi trovai un lavoro, in banca, mi rifeci una casa ed una vita, con l’aiuto morale e spirituale di mia zia, sorella di mia madre, grande zingara solare.
Una donna sola in una città sika, trasbordante di feturie ma abbondante di civiltà sommessa, perseverante nella sua scommessa, trasgrediente per antonomasia, Lunare e piccola come un fagiolo nel brodo, come un fungo sulla polenta di montagna.
Beati i piantatori di patate della contea dell’est, che non hanno avuto mai di queste disgrazie, che vissero sempre in pace, che richio il mondo ricusando l’anarchia concettuale.
And so me ne sto accovacciata sul marmo tombale, leggo una scritta sulla lapide, “Beati gli ultimi perché saranno i primi”, voluta dal mistero, non significa niente ma si addice alla voluttà della mia famiglia che in povertà ha saputo farsi rispettare nel mondo avido di macerie polverose.
L’ombra oscura il Sole, teneramente soglia sulle mie gambe, sul mio seno, tristemente me ne vado tra le strade del cimitero in fiamme, calpesto la ghiaia, un sassolino rimbalza, colpisce un vaso, fa sding, ritorna sul sentiero.
Sam slever sensations, che problema è, che rifugio mi donde tepido dal fare titubante, di schianto così assordante, accapiglio uno sbadiglio alle nuvole.
Sono fuori dalle porte del cimitero, Gesù mi vede accendere una sigaretta in tutta calma o in tutta fretta, nemmeno per disdetta, l’accendino non funziona, chiedo fuoco al venditore di incensi alla mia sinistra.
Accendo finalmente e mi rilasso dallo sconquasso ottenebrante, finalmente uso questa parola, ottenebrante che mi ha pigliato in testa, devo pensare più lentamente, lasciarmi scorrere sul fiume nero più in leggerezza, appena posata sull’acqua, ewa, write in smadi con, di qui al manicomio il o è breve.
o fugace, da tartaruga tenue, da salamandra maculata con la testa indaffarata
a profanare misteri che la gente comune non potrebbe intellegere.
Tramuto il senso in sensazione, mi seggo su una panchina lungo il muro di cinta del cimitero, aspetto e spero, potrei travestirmi da fuoco fatuo per stare sempre in compagnia dei miei ma non è nel mio stile.
Piuttosto ci vorrebbe qualcosa da bere, vedo una fontanella, ci vado, bevo tre sorsi, mi riassitto sulla panchina verde.
Suona di colpo il cellulare, rispondo con shantitudine, è Kumiko Sae, la regina dei principi trasformati in rospi, la cugina di Giorgio nonché mia migliore amica.
Dove sei Maiku, senti sono al cimitero, sono a piedi, mi verresti a prendere, Sì fra mezz’ora sono da te.
Kumiko dice sempre mezz’ora poi in un quarto d’ora è già li che strombazza dalla sua auto per implorarti di salire e fare in fretta per poi mettere in moto andando chissà dove.
Punto interrogativo, dove mi trascinerà questa volta ? Speriamo in un luogo simile a questo cimitero, voglio mantenere la sensazione di intima fiducia verso i mezzi dell’umanità che provo in questo istante.
Non ho voglia di calche ne di chiacchiere ridondanti tantomeno di frastuoni cinematografici o teatrali.
Aspetto, seduta sulla panchina, è il punto più in vista per farmi trovare dalla mia amica.
Kumiko Sae è ricca, proviene dalla contea del nord, dove non c’è stata guerra, dove le fontane sgorgano vino fragolino, dove le case sembrano un dipinto iperrealista, cubista, anche se non ha senso critico.
E’ ricca poiché possiede una fabbrica ben avviata di biciclette e quando erediterà anche il resto dei possedimenti dei suoi diventerà ancora più ricca.
Non ha fratelli o sorelle, non ha zie, ha solo una nonna ancora viva in una piccola casa vicino al fiordo di Gaes.
Ci siamo state insieme una volta, a trovare la nonna, il posto è bellissimo ma il mare è impraticabile, è troppo freddo, troppa ombra.
Comunque, anche se è ricca, non è per niente snob, anzi ha un modo di fare da provincialotta che mi affascina e mi rasserena, pensando a quanto sono poco portata io.
Stando con lei non c’è bisogno di cianciare a vanvera, lei è mia amica, ci basta stare assieme, essere il più vicino possibile, poi, se qualcuna ha un che da comunicare, può farlo senza troppi problemi, l’importante è essere sereni.
Mi accendo un’altra sigaretta, quella di prima l’avevo dedicata a mio padre che suona l’armonica, questa la dedico a mia madre che cucina l’arrosto, la prossima
la dedicherò a mia zia e così via lungo un abitudine di dediche che seguo da quando ero al liceo e fumavo le prime cicche tossivendole.
Poty, poty, eccola, è lei, Kumiko, nella sua macchinetta azzurra, con i capelli rossi, lo sguardo da ladra, mi chiama, Maiku, io vado e salgo sul sedile anteriore con la grazia di un’elefantessa in cinta.
Ciao, Ciao, come stai, Bene grazie e tu ?, Insomma, un po’ triste, sai com’è al cimitero non si viene per divertirsi.
Comunque, dove andiamo, io proporrei di andare in collina, la giornata è bella, ci sono i giardini esperanti, le macchie dolci alla frutta, potremmo prenderci un gelato al baretto e poi chiumarcelo da qualche parte a respirare aria buona.
Ok, mi pare un’ottima idea, è da tanto che non salgo in collina, potremmo vedere tutta Dynburg e dintorni da lassù.
Saliamo con la fretta di una scimmia in cerca di banane tenendo testa alla carovana di suore che affollano la strada, senza investirne neanche una raggiungiamo il parco della collina, ci prendiamo un gelato rosso e viola al baruccio dell’ingresso ed entriamo.
Gli alberi ci accolgono pacifici, facciamo due i e ci piazziamo sotto un grande platano dalle radici prorompenti che ci guardano.
Guarda che bella la città grigia sotto di noi, avatar erente tymi le potytte trunche
di favole addormentate nella foresta temila addì preferenziali circostanziali reverenziali.
Che hai fatto in questi giorni Kumiko ? Oh, niente di particolare, me ne sono stata un po’ a casa, Anch’io, Poi ho fatto delle spese ai grandi magazzini, ho scritto in bella copia il mio diario segreto, ho parlato con Giacomo dell’avvenire della fabbrica, sai, mandarla avanti è un’impresa non da poco, gli operai scioperano, i macchinari si guastano ed io devo presenziare ad ogni cosa ad ogni costo.
Sì ma dico, il cuore, come va con il tuo nuovo amore ? Oh, abbiamo deciso di comune accordo di non vederci più per vari motivi tra cui il fatto che, se, ci fossimo visti troppo avremmo legato in amore fatalmente ed ancora non siamo pronti, insomma non è l’uomo della mia vita.
Io e Giorgio invece facciamo faville, l’altro giorno stavamo quasi per fare l’amore davanti a tutti giù al parco sembiante.
Beati voi, ma come fate, cioè come fate a trovare sempre nuovi argomenti, sempre nuove scintille che vi tengano in contatto armonico ? Non saprei, dipende tutto dall’affiatamento, se sei affiatata con una persona allora le cose vanno da sole come trasportate da un torrente fresco di montagna che poi casca in cascate vertiginose d’amore e ione.
Sì certo ma non è da tutti, cioè io non sono mai riuscita a provare questa sensazione così forte come tu la descrivi.
Capisco, ma certo dipende dal fatto che ognuno è composto da diverse molecole,
differenti sono i legami chimici che le intrattengono nel loro liquido primordiale, insomma ognuno è fatto a modo suo e si vede che tu sei fatta così, non ti piacciono i rapporti stabili o duraturi.
No, infatti, non mi piacciono, però mi piacerebbero, mi trastullerebbe stare con uno per più di due o tre settimane, tu e Giorgio state insieme da due anni ed ogni cosa lascia sperare che starete insieme ancora per molto, come fate, come riuscite a non stufarvi ? Te l’ho già detto, è tutta questione d’intesa, se a kia interiore state messi bene, cioè se due si amano, allora la loro kia esteriore li proteggerà da eventuali errori, da possibili cambiamenti bruschi di programma.
Sono questi, i cambiamenti bruschi, la peggio cosa, l’infamia da evitare per far si che la fiamma bruci nel caminetto.
Sì, la fiamma brucerà per me quando troverò la calma interiore per affrontare un uomo con tutta me stessa, senza distrazioni, senza competizione con il resto della mia personalità, capito cosa voglio dire ? Sì, buono sto gelato, mi mangio pure il cono, sa di biscotto croccoloso, Uhm, ho capito parliamo d’altro altrimenti ti faccio sconnettere.
Perché invece non stiamo proprio zitte, silenzio su, godiamoci la pace di questo luogo intonso e benefico per la nostra pelle.
Va bene stiamo zitte, in silenzio, in pace, come vuoi tu, oh già ho parlato troppo.
Però non toglierti la bocca che mi fa schifo, capito Maiku, Sì Kumiko Sae, sto semplicemente in silenzio.
Gli uccellini cinguettano, il grande platano farfuglia un’ombra sedicente su di noi, il paesaggio è grandioso, la città ribelle, il grigio perla che affascina i nostri occhi, le mura, i palazzi in lontananza, giornata di creanza.
Chiuso in una stanza, perplesso, Giorgio sfoglia un libro dalla copertina magica che sussurra parole d’ebbrezza alle orecchie stanche di un ascoltatore sobrio, pigro per natura, scherzerello addirittura.
Mormorano le paludi stantie dei nostri pensieri affollate da cormorani in fuga verso il desiderio.
Picchiettano i picchi sugli alberi per creare tane a se stanti che li proteggano, li piroteggano.
Fingo di essere un salame e mi sdraio sull’erba appoggiando la testa sulle radici del platano, Kumiko estrae una pistola a salve e si suicida.
Mi ricordo il suicidio di massa del 63 quando il capo, Gomiria, della setta dei feticci di Yining, si diede fuoco chiudendo tutte le porte del tempio.
Fu un grave sterminio, i parenti si buttarono dai balconi, gli amici si uccisero facendo indigestione di peperoni, gli animali domestici perirono poiché nessuno dava più loro da mangiare.
Kumiko adesso guarda il Sole, si affanna con lo spirito per carpirne i raggi
magnetici, si arruffa con l’anima per scavarne i segreti più profondi, schermisce la ione di un frutto tondo, astro stellare più grande del mondo, girabondo.
L’erba mi solletica la schiena, una cicala messicana a inosservata, una seppia volante mi spruzza inchiostro sul vestito.
Pazienza, fa niente, tanto è da lavare. La lavatrice mia è sempre intasata da una moltitudine di panni, ma altrimenti non saprei come fare il bucato, sempre ben educato.
Accendo un accendino e mi appizzo una sigaretta, sto fumando troppo, il tempo scorre fra un tiro e l’altro, nessuna vuole rompere il silenzio, Kumiko si sdraia riponendo finalmente la pistola.
Caccio un urlo, cacciamo due urli simultanei, un terzo urlo, silenzio.
Ci siamo divertite abbastanza per oggi, sempre oggi, sempre domani, dove andremo a delirare tomorrow in gradienti alcolici perplessi.
Gam, misuche di peluche dentro statici concetti premestruali apostrofati da frettolosi dormienti organici che sanno di sottigliezze isteriche, affacendati in porcherie assurde, 4, lamenti presciolosi di anitroccole in calore colorate d’azzurro come del resto i miei occhi, quelli di Kumiko, quelli di Giorgio no, sono castani.
Due nocciole rotonde iridelle stantelle poliedriche kumidriche, saffiche a
tavoletta ty tukiro sae gantara de serty quotidiani, ridondanza di significato impressa nel selciato, giostra del domani, aggio sotterraneo verso un futuro ambiguo e pieno di indecisioni.
Chi mi chiamerà dal nonnulla di una frazione je di secondo je, calamita je in rotondo je, canzone aritmica scritta in un quaderno antico je, dal sapor di torta panna je, con in mano una canna je.
Tutto, sottolineo, tutto mi pare opaco, etereo, scadente come il latte fuori dal frigo, come un sigo dentro una bottiglia vuota di vino vuoto di prima piena, qualità semplice è la natura precossa, precotta dentro di noi che ci fa sperare.
Sperare, è chiaro, in un roveto che risolva i problemi di cuore, i quiz della domenica, il o a due dei giocatori di berling, la stimmate in faccia a un santo, ne distillo il pianto, ne separo il sapore, con duro stupore mi accorgo che è vero che non tutto vien per nuocere.
La pasta è da cuocere, tempero la matita e scrivo con un dito pucciato nel barattolo di marmellata gonfia, le farfalle volano indifferenti in differenti maniere, differiscono la posizione delle ali e l’atteggiamento del corpo, quando si posano non muovono un petalo poiché sono troppo leggere.
Quanto vorrei essere, in questo momento, invece che io, quella farfalla blu, trasferimento d’anima e corpo, contro di me si è ritorto, non sarò mai nulla se non io, Maiku, la gatta dal cuore infranto, che quando vuole si toglie la bocca ma le rimangono sempre gli occhi, le orecchie, il naso, le mani per toccare.
Che bello toccare, tocco un legnetto, tocco uno sgambetto, Kumiko estrae di
nuovo la pistola, si mette la canna in bocca e BUM, spara un colpo innocuo, innocente, spavento per un brivido momentaneo, non si è fatta niente, giocattolo costoso ma realmente sembiante, accattivante.
L’anima è un cracker salato in superficie, ce ne sono anche di integrali, ai cinque cereali, non salati o andati a male.
L’insalata è un vento tiepido che ti prende nei polmoni, se ci sono i tortiglioni di pasta fresca poi, poi poi poireer cretofen goner temriechen, kafettonen pieno d’acqua di cicuta sulla folla sparuta.
Sparito all’improvviso il mio senso dell’umorismo mi deride da lontano, nascosto nella nebbia dell’incanto, protetto da una spessa corteccia di smalto, sorrido, penso al ato, come sarebbe il presente senza questo, come sarà il futuro in un presente ato, Clotilde lo sa, liquoroso ! Ma figurati, pensa un po’ te, sarà vermicelloso ecco, tiè, beccati questo razza di pazzo poco concreto, criceto sulla ruota, topo.
Anime di cristallo, giocare al castello con i tuoi amici, travestiti da cavalieri medievali, trasferire la propria immagine alla somiglianza di un tempo.
Perfetto, essere perfetto, senza neanche un difetto, verbo o sostantivo, chi lo sa quanto capivo, chi lo sa quant’era bello giocare nel castello.
Questa frase a me mi piace, ci penserà la brace, questa frase non si dice, ci penserà Berenice.
Berenice torna sempre, donna del tormento, portento di pozione magica, folla illogica, suono distorto, lungi dall’essere contorto, scrivere su due dita, con le frive nella fita.
Tintinnano i lampioni spenti, teneroni, chi li guarda fa un sobbalzo e poi arriva di rimbalzo una cagnolina brava.
La brava cagnolina si mette li, fra noi, ci guarda, disperde i suoi occhi al nulla, appartiene a Camilla, proprietaria pistilla, ci guarda anche lei, chiama, Jody, vieni qui, lascia stare le signore.
Signore, pensa Kumiko, semmai ragazze, fanciulle… a me sta bene anche signore, tanto sono abituata, in banca mi danno tutti del lei.
Si accorciano le frasi del destriero innamorato, scartavetrato dalla ione, come un ciclone a pei campi, lascia le brache ai villeggianti, scotenna le lanterne, svuota e riempie le cisterne.
Bisogna stare attenti ai luoghi comuni, alle impressioni fatali, ai falsi soprannomi che infestano la zona radioattiva.
La centrale nucleare è spenta da tempo ormai, fallì anni orsono quando potenziarono i pannelli solari, ora tutto funziona grazie a questi aggeggi miracolosi, tranne le auto che vanno ancora a benzina.
Per dire, ci sono dei prototipi solari, ma costano troppo e le prestazioni sono
ancora scarse per essere messi in commercio in piena regola.
Mi accendo una sigaretta, la dedico a Giorgio, la prima chissà, gli voglio troppo bene per dimenticarmelo in un momento come questo.
Gira le pagine del libro come arrapato da chissà quale figura femminile, gli darei in testa un badile se non fossi sicura di procurargli un bernoccolo troppo grosso.
Bernoccolo, che bella parola, realizza in pieno il suo significato storto, bernoccolo, è quasi un’onomatopea stilistica, quasi una metafora dell’essenza divina.
Pomezia tritilla tantrica termilla rillo polista, rillo polista termico vantara viniasa sertino, facciamo un bel festino, ah se avessi la voglia di parlare, come starei zitta in momenti come questo.
Il che è un controsenso, d’altronde la vita è a senso unico, o a sensi alternati, non l’ho mai capito, metto il dito nella piaga, inventerò una saga di eroi che combattono per il bene dell’umanità.
Quando sarò grande lo farò sicuramente, ho già tutto un piano inin mente, rima scontata, bacio squallido, tenue, sforzato, pallido, già meglio, si cresce sempre, si va sempre più in alto, stambecchi saltano dotati di corna prodigiose, più dure del legno, più legnose dell’acciaio.
Chisse neffre ga, d’altronde il paragone con uno scoiattolo sarebbe immaturo,
per dir di meglio sarebbe impuro, ripetere più volte, sempre la stessa parola, che esprima lo stesso concetto, fa bene all’ugola.
Dicono che se stimoli l’ugola con due dita poi vomiti tutto quello che hai in corpo.
Che storia magra, a chi può importare, impomodorare, r’assaporire di gusti andati, nella finestra dei piatti sconditi ormai perduti.
Frasi senza senso, eppur significative, che si susseguono in un andi e rivieni di immagini trafitte nel cuore, affittasi ad ore grande barcone per giro turistico sul canale, spettacolo immenso, denso.
Più o meno, più meno che più o più più che meno, eh, boh, mah, lasciamo perdere queste astrazioni deliranti e concentriamoci sul fatto che siamo in collina, sull’erba, all’ombra, sotto un grande platano, all’ombra, sotto un grande albero ombroso.
Capisci che andare via di qua sarebbe impossibile , si sta troppo bene, ci solleva dalle cancrene della vita quotidiana, per diana e dinci bacco.
Giorgio è arrivato al punto in cui il personaggio principale gioca a scacchi contro l’antagonista, che poi è la reincarnazione della morte, gli scacchi sono d’ebano, la scacchiera è di sughero sardo, profuma.
Profumo, ecco cosa mi piace, il pirofumo d’estate che emana Kumiko Sae, la
bella principessa in pinzillacchere, poffarbacco, preghiera, ammenda, il mio naso percepisce anche odore di tabacco.
Ah, è la mia sigaretta che fuma, me ne ero quasi dimenticata, faccio un tiro, sputo fuori il fumo con grazia, prego, ah ah, trafugo i miei polmoni con la nicotina rancida.
A pensarci mi viene voglia di smettere di fumare, sarebbe meglio, tutta salute, fragranza fresca di bocca smaltata a nuovo, perdil’ovo.
CONMILIA QUARZICHE
Paura, agato shin frine datarbatti, menara temete erlio pirolo teribile, limitrofo reticolo di forme distriche, caratteristiche del paesaggio.
Dibattito sull’immortalità, frequente ai giorni nostri, alienante per il modo di fare dei colpiti da tale malattia.
Oggi piove, stiamo chiusi in casa, io e Giorgio, non ci lamentiamo, i viveri non mancano, è un sabato di prima allegria anche se il tempo è brutto, Giorgio spara un rutto, che schifo, sembri una scimmia della giungla nera.
Zed, metaki limico limitato a poche sembianze attive, mirtillo dodolo, fusillo d’orato, leccornia per il palato, stasera fusilli in salsa verde, la preferita dal nostro amato motto di solidarietà.
Non puoi fuggire, devi stare qui con me, Jojo, a seppellirti dal ridere o a schiantarti dalla tristezza, finezza illimitata ad un palato sopraffino, gradisce un po’ di vino rosso, sì grazie.
Ed è qui che si capisce lo sì che sì o lo no che non, biscotti, tenili farei, amarebebi amarabei, sopra volano gli scarabei, 19 per l’esattezza, ci guardano da un’altezza massiccia, pensile che dir si voglia, la madama si spoglia, mi spoglio anch’io, così vuole Dio.
Ert, frontiera del benessere, seduti, l’uno davanti all’altra, sul letto, ci guardiamo. ù.
Esperimento di telepatia, dunque, io non devo parlare ma posso pensare con più scioltezza, la mia emanazione è maggiore rispetto a prima, Giorgio dovrà indovinare cosa sto pensando senza tirare ad indovinare.
Io da parte mia, naturalmente, dovrò essere fedele al copione ed intirizzirmi ad ogni fremito lepido che esca dai suoi occhi onorificiati da ogni consuetudine lamentosa.
Penso, se l’erba è tiepida ci si poserà la cavalletta ?
Ho voglia di spaghetti.
No, hai sbagliato, riproviamo, quando tua madre si è sposata era veramente felice ?
Mi prude la schiena, me la gratteresti ?
No, hai toppato ancora, riproviamo, guardiamo una videocassetta porno !
Devi farti curare.
Sbagliato.
No, tu devi farti curare, come è possibile che indovini anche solo un tuo pensiero, ragiona, non siamo mica nel medioevo mistico dove esistevano maghi o chiaroveggenti.
Sì ma tu non ci hai messo neanche un po’ di impegno, sei un pappamolle di telepate, oj, Jojo, va bene interrompiamo pure il gioco, però con Kumiko mi riesce sempre, sei tu che sei stupido o che non mi conosci abbastanza o che non sai guardare al di la del tuo naso a patata.
Giorgio prende baracche e burattini, sbatte la porta, esce, lo guardo dalla finestra spiovuta, gocciolosa, rigagnola, mentre attraversa la strada, entra nel mercatino delle cibarie.
a qualche minuto, esce, ha un sacchetto in mano, DRIIN, apro, tira fuori dal sacchetto due bottiglie di guscio del sud.+
Umbriacamoci, ancora, ma se te timinfo lolo riticolo terere rewer, insomma non mi sembra il caso, in casa, e poi usciamo, E dove andiamo, ci bagnamo tutti, Andiamo a fare gli scemi sotto la pioggia.
ù. Ma sei matto, ci prendiamo una broncopolmonite spastica e moriamo sul marciapiede, ubriachi, no poi voglio stare a casa.
Si va bene ok, ma ti avverto che i miei argomenti stanno per finire, mi sento
represso, ho voglia di muovermi, ho le gambe femite, mi sento un campione, stento a crederci ma oggi rischieremo di annoiarci.
Poco male, non sarebbe la prima volta, d’altronde, che importa, l’importante è stare insieme, possiamo sempre farci le cocchile, vedrai, il tempo erà senza che neanche…
Che palle, ma almeno accendiamo la televisione, ci terrà compagnia, va bene. Fatto vuoitte laitte, sei contento, Oddio casco dalla noia, come farò ad affrontare il mondo che mia aspetta la fuori, perirò, o me meschino.
Tenti, non prendermi in girula, barbetta sboccata che non sei altro, ricordati che io sono il tuo amante, fratello del diamante, fardello ben pensante, cordella del tramonto, Jojo, il farabutto pù butto che ci sia sulla faccia della terra.
Kia, sembra che la mia sia giù di morale, animale pentito, jiji ijij, farfalla, dalle ali di preghiera, monastero in fondo al mare, gran capo di tutte le mafie, origami del futuro, como comato, stantuffo vaporizzante dal sapor refrigerante.
Dump, ollinol allineato, pronti per il lancio, via, esplosione di coccole amorose, sì ma solo le coccole se no finisce che, senza il profilattico, mi metti in cinta.
Non ho l’età, non mi conviene, ne convieni ? Sì, solo le coccole, così per are il tempo fra un frastullo e un’erba pepa, che te la dicio, a babamicio.
Ojh che bello stare qui, con le dita che scorrono sulla tua pelle, farsi fare i
massaggini, pronti tiepidi e carini, fuori piove oggi fuori non si va, sì forse è meglio proprio dai restare qua, trallalleru trallallà.
Cherubini, smeraldini, adamantini, sciocchi, feroci nel loro comportamento atavico, fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar, a conquistare la nostra primavera, dove sorge il sol dell’avvenir. Tiè.
Agomi agomi cipitu pasa limi, liumi san atara agashan, tiè.
Casette, piccole, fragili, tutte diverse per forma e per colore, ognuna con un odore differente, differente è la cucina, bruma la mattina, sbarabilie la sottana, fatica da fagiano, pentito pentolame.
Ankara uh baby ankara vivere in the street, i love the best in you ma mi piace il peperlone, che shi rikosse stan riuki stan mimò, aliki erh bibò tamatusse are telò.
Il prezzo da pagare per vivere in questa società stantia è troppo alto, riguardo ai mezzi che ti vengono offerti, poi che dire, se non che sono scadenti e privi di ogni identità.
Mi addomestico le mani, ma non ci stavamo coccolando, tra la pelle della tua schiena e le ossa dei miei piedi, ah sì è vero, bando alle ciance.
Fammi bere un po’ di guscio del sud, Anche a me, anche a me, Ne voglio ancora, è troppo buono, sgorga dalla bottiglia come la madreperla dalle conchiglie in fondo al mare.
Ti voglio bene, cioccolatino al rum mio, botteguccia di mamma tua, accendino della mia sigaretta preferita, quella dopo il caffè, che di gusto fa per tre.
Ah ah, attenta, avevi promesso di non fumare, per lo meno non in presenza mia, sì tranquillo era solo un decadimento radioattivo troppo elevato per essere vero.
Le promesse sono sacre, tu chiedilo a Odoacre che promise a mille spose altrettante mille rose, la promessa non mantenne e gli tagliarono le antenne, questa fu l’amara fine di Odoacre imperatore, vuoi finir così anche tu allora fuma a più non posso, fino a consumarti l’osso, fino a farti venire il callo.
No, non ci tengo caro, grazie della storia, l’imparerò a memoria, ma ora diamoci da fare, carezzine a tutto andare, un bel massaggio sulla schiena solleverà la tua pena.
Speriamo che non sollevi qualcos’altro o sarò costretto a metterti in cinta, non è ancora giunto il momento giusto, non siamo pronti, come affrontare le spese poi, dove mandarlo a scuola, prenderà la laurea, troverà una sfidanzata adatta a lui ?
Di sicuro amore mio, sarà il pupo più onesto della terra, ma per adesso non cadrà dalle mani di Dio od io dico, vaffanzum.
Miracolo stellare, pella pilla pulla, piglia la purulla e tirami il talene a molle, cattureremo le balene del mar del Giappone per salvarle dalle baleniere con gli occhi a mandorla e metterle in parchi acquatici americani capitanati dai sette nani.
Biancaneve starà alla cassa, se non è capace di fare altro non è colpa mia, ah no no, però sei un bel tipo, ti tiro il ditino, ti frinilo il pipillo, sì che bello dai continua, baciamoci con la lingua.
La Luna ancora non è sorta e nei suoi pensieri è assorta, chi la sveglierà dal sonno per illuminare il mondo, di una gialla radiazione che mi stimola il fanfullo, tira e molla l’erba pepa, che te la dicio, a babamicio.
Ogni tanto lei ritorna fra frasi frastornate col contorno di patate, tornano anche le patate condite con salsa piperlitia, saluta adesso o mai più le falene del cuccurucù, interrompi la lettura è veramente una rotturà.
Voglio scriverti “son scemo” sulle tue scapole belle, ò il pennarello indelebile inventato dal dottor Akab 49, non è proprio cancellabile con nessun mezzo conosciuto, dovrai farti asportare tre millimetri di pelle.
Allora non farlo, amore, non sono scemo, almeno per quanto mi riguarda, non è il caso, non ho voglia di subire operazioni, costano troppo, poi mi rovini la schiena, lascia stare.
E va bene, per questa volta i, ma lascia che io collassi su di te, tenero orsacchiottone.
Non mi fare il succhiotto sul collo, il succhiotto sai che non mi piace, scusa mi è scappato un po’ di risucchio ma non ti ho lasciato il segno, per ripagarti va bene un assegno.
No, voglio la tua testa, voglio vederti penzolare alla corda, infame, ma come ti permetti di succhiottarmi, un’altra volta ci penserai due volte prima di farlo.
Bevo ancora un po’ di guscio del sud, che strana bevanda, ad ogni sorso ha un gusto diverso, questa volta sa di amarena, la prossima volta saprà ? Non lo so, come potrei, sorpresa.
In bilico, macchia di caffè sulla pelle bianca, le lenzuola sono tutte stropicciate, i cuscini volano per aria, la stanza è in subbuglio armonico, le coccole sono finite, sarebbero sprecate, adesso, che nessuno ne ha più voglia, meglio confabulare fra di noi.
Per esempio potrei finire con un sorso la prima bottiglia di guscio del sud, la finisco, le mie labbra tremano, la mia gola ha un fremito, mi si spalancano le papille gustative, cioccolato al latte, wow.
Mi sdraio sul lampadario, Giorgio si chiude in un cassetto, la pioggia fuori continua imperterrita, caspita che giornata uggiosa, il quadro sobbalza, rappresenta il Sole che abbraccia la Luna, si meraviglia di se stesso, di come brucia forte, di come lassa la via lattea incandere sotto i suoi raggi tepidi.
Tigurio, conmilia quarziche, traspareadio cosmico, poltrona fittica da frastuono assordante, ridicolo, ridondante, si spera che finisca prima o poi, poi la guglia ascetica tramonta e il guru dichiara ai suoi discepoli vendetta satirica.
Ihul, rain, la vita è lunga, Maria arriva per costruirla oggi, coniglio, serpente a
sonagli, corpo di mille balene, arancione color del mattone, rigagnolo di fede traspare dal vetro dell’anima, ho bisogno del tergicristallo automatico, in certe occasioni è utile.
Sun is the same in a relative way but you’re older, il Sole è lo stesso, relativamente, ma tu sei più vecchio, non te ne accorgi eppure il tempo a, imperterrito. PyFyd.
Ecco sì, il tempo, the time, è imperterrito, imperterrito cammina lungo la sua strada battuta da lancette, segnata da meridiane, assecondata dall’umanità che l’insegna, al seno turgido dal fare morbido, condi, mondi, rondi, rondine assetata.
Uoh, termina qui il procondio termico avviato da Fill 23, il termostato attivo è attivato, sotto un cielo solo, solitario se ne va, farfalla farfallà, tristemente casca in un buco, si rompe una gamba, si stagna la rabbia di cagna, furia omicida riversata in un unico angoletto di nostalgia, non dovrebbe essere così, sarebbe meglio che il re e la regina vivessero sempre assieme, nel loro castello, sul loro trono di cobalto color amaranto, farebbero il pino e l’abete, sempreverdi, dal profumo boschivo, schivo.
Apro una lettera, arriva dal distretto centrale, la manda Farrel, il gaglioffo figlio di una marea che non rispetta mai le regole del traffico, Coby, suo fratello si è sposato, ha comprato una macchina nuova, una nuova casa e presto ci verrà a trovare, come da copione, sa il suo da fare.
Giorgio ha trovato un vecchio braccialetto e se l’è messo al collo, come fosse una collana artisticamente confezionata, da manine esperte per la sua messa in piega, sagace.
Coby è un vecchio volpone, è la seconda moglie che prende, ha già tre figli con la prima, spero che desideri continuare a prolificare, è nella sua natura di bestia prematura.
Coccinella, con in mano una stampella inutile, compie un gesto dall’arrangiamento futile e ci stupisce, smeriglia la parapiglia di croci di Cristo, nostro signore, che ci dona calore, giantra, trevor.
Allineamento fatale fantastico, punto di domanda, cordiale, senza tetto me ne sto duda duda, per le strade me ne vo all the duda day.
Seguo la mia freccia, mi porta a fare breccia, scolpisco nella corteccia un cuore e un nome, un nome e un cuore, simbolo d’amore, segno d’eternità, finche l’albero vivrà, vedrà gli uccelli lacrimabondi librarsi in aria, volare in cielo, trafugare le nuvole, fare il nido fra i suoi rami, cinguettare l’ebbrezza.
Piove, su questo non ci piove, ma piove, il guscio del sud mi riempie le vene, siamo a metà della seconda bottiglia.
Caduti in una ubriachezza calda, momentanea, fugace, ci rilassiamo le ossa ognuno per la sua strada, liquidamente accoccolati nell’aldiqua, ruvido miele, il guscio dal colore delle profondità marine, ci riempie i polmoni dell’anima, specchio di Dio, Ryo lo sa bene, cosa scorre nelle vene, sangue dedito a sangue, misto di fratellanza e ignoranza, coltello spirituale, segnale di pericolo, neo fiorito, segna dito.
Dito segna, la spirale dell’insegna al neon, suono di chitarra, corde che vibrano, tamburellare del plettro, kia veloce, Merlo, capace di questo ed altro, ci prende in giro con la finestra aperta, ci lancia segni occasionali fra binocoli e cannocchiali, si inginocchia al tutto, Giorgio, da dentro il suo cassetto, vicino al mio porta bocca, spara un rutto.
Si trova dolce come miele, amaro come fiele, libero come le stelle, prigioniero come la Luna, sui monti di Suna, momenti estetici di fenicotteri in volo sulla baia.
Sorridi fra parentesi connettendo il tutto all’infinito, scrivi il tuo spazio, disegna l’orrendità del capo colonna su fogli riciclati, fingi di essere veritiero quanto puoi, annulla i tuoi lamenti al nulla, sorridi.
Tyng tong, sona il camlo, tung tyng, sona per due volte, nessuno risponde, nessuno si muove, chi ha voglia di aprire al postino, lasci pure le sue robe sul pianerottolo o nella buca delle lettere.
Sempre affaccendato nascondo un ululato a perdifiato sulle scodelle del latte, finisco i cereali, si muove per comione un sibilo.
Un sibilo risponde dalle curve tutte tonde, è Clarissa, l’avventuriera del nord, sulle sue spalle grava il peso di una generazione di alpinisti provetti, senza difetti, pronti a tutto pur di conquistare la vetta più irta.
Chiodo, scarpe al vento, trapela un filo di lana sulla giacca verde piuma, senza parole di cordoglio scaturisce la comitiva 9 dalla stretta valle dell’Alcantara.
Sorvola alto un aeroplano, pilotato da un nano, uno dei sette fratelli di Jiorji, il costruttore di porte anti ladro.
Tamiki est frigula d’emozione fortemente salda, crepita il focherello fra le pietre yantriche, il fumo mi va negli occhi ed io godo di fuliggine repressa dalle lacrime.
Tregua, fra me e Giorgio a una lunga tregua di contatto, si sta alla larga l’uno dall’altra, ci si pensa ma a distanza, ci si carezza con le parole più che con le dita.
Logicamente questa è una sensazione da provare poco alla volta, lo sguardo distolto da innumerevoli frattogrammi che si insinuano nei pori della pelle.
Soffia via la cenere dalla bianca tastiera, ieri sera ho visto un bel film, il disperso se la cava fra la folla di una città in un lungometraggio osceno, sul palcoscenico solo due ballerine rispettano il tempo della musica eppure a me viene da vomitare al cospetto di tutta quella cartomanzia.
34 moscerini stanno sull’uva come i predoni del deserto si riposano nell’oasi della felicità, folcloristici a loro modo, si danno un certo contegno quando hanno ospiti in ballo, fragranze estensibili al centesimo di secondo.
Secondo me è tutta una finzione scenografica, le porte del paradiso vengono aperte solo per pochi e quei pochi pagano un ingresso assai salato.
Gj oio trema dal freddo, sonco lipido dirt quassa la manbassa, solti preolici fingono di morire per incassare la pensione d’invalidità, Samsara ariuky san, loki juhy derft njmjk kjmjk, Giorgio si rilassa giù nel suo cassetto di legno, si crede Pinocchio.
Io mi dondolo in alto, sdraiata sul mio lampadario spento, se fosse brucerei come una falena, che strana posizione, degna di un positrone stanco di proliferare e intimo nel sognare.
Puntura di zanzara, va curata con la crema pomata, dal tocco liquido portentosa, di colore rosa, dalle screziature verdi color coccodrillo, o mio coccodrillo piagnone, ti è piaciuto il bisteccone ?
Drive me crazy, baby, illusione dell’occhio in pensione, fai volare l’aquilone, qui gatta ci cova e gallina fa le fusa, degna di risposta mi accingo a controbattere.
Clarissa mi interrompe e con gesto fulgido schiaccia ogni mia speranza d’equilibrista distruggendo un cristallo dei miei occhiali, non sei desiderosa di amore ?
Sì ma non a quest’ora, le nuvole si sono spente dietro il Sole, le mucche hanno smesso di cantare, i fiumi di scorrere, le stoviglie di accumularsi in bilico nel lavandino, vattene.
Tanto un velo della mia emanazione resterà pur sempre nei vostri cuori, fareste meglio ad abituarvici fin da adesso, Ma chi ne ha voglia, distogli l’attenzione dal
mio ragazzo e vattene, Clarissa.
Corbezzoli, gente, che amarezza scorre nei cieli, sormontati da panna rancida andata a male da quasi un secolo, un attimo fa avrei detto che…
…ma lasciamo perdere, non è roba per poveri ignoranti come voi, fetidi parassiti della società, conmilia quarziche, pavoni senza coda, mulini senza pale, api senza alveare, scimmie senza la banana, dentisti senza denti, in pratica mezze cartucce della terra.
Vattene, levati di torno, sconfonditi con il paesaggio in lontananza, emana la tua puzza fuori di qui, scrosta, beluga.ù
Me ne vado solo perché temo la vostra arroganza, sono così delicata.
E Clarissa se ne andò.
Puchin ermei wertyquale facilmente raggiungibile con un chisso sostanziale, sero teri remiri honda hintu.
Holding on in quiet desperation, dai Pink Floyd +, canzone che scorre fra le pagine di un libro un po’ cretino un po’ vagabondo, giramondo, leggilo fino in fondo e scoprirai che tutto vuol dire nulla o che nulla significa tutto, per un uomo il cui unico scopo nella vita è quello di perire fra le fruglie, d’incanto in uno sbadiglio esagerato fino ad esplodere nelle mascelle.
Le calze supersoniche mi prudono leggere sullo stinco, sarà forse un segno del destino, da cancellare in un frangente perduto in sincronia con l’ambiente etereo.
Lycra tani ovilo miki, yuppiter ariky bon, sogna confusa la gatta dalle preziose fusa, chiusa in una fisarmonica latente dalla quale non riesce ad uscire, è tutta colpa del signor marchese di Govinda che la dentro la costrinse.
Oh, fuori continua a piovere in un lamento di idee bagnate, consunte dall’acqua che riempie i polmoni delle rane giù al lago, Sago saggia la finezza artistica di un involtino primavera.
Loki modo sapere da mani esperte che il guscio del sud è finito da un pezzo e non ci rimane che andare a pesca, apposta, di una squadra di calcio ben allenata.
I soldi son finiti, la musica è iniziata, il violino sona corde fatidiche all’assemblaggio di accordi rotatori dal movimento asincrono, palpabili come la creta fresca.
Sona la tromba allegra per le scale del destino, cade giù un masso di immondizia al sapor di peperlizia che scaturisce dalla nostra fantasia quale sintomo di puerile agonia femminile o maschile.
L’accompagna il tamburello dal sono snello, scavalca la barriera della stupidità travalicando il significato di sindrome adolescenziale, ho voglia di una bella scodella di latte e cioccolato.
La torta è pronta nel forno, l’aranciata è fresca di frigo, possiamo far festa, è la festa del nostro signore Gesù, che camminò sulle acque e moltiplicò i pesci, mai morì, per sempre resterà a colorare di tepore materiale le nostre anime.
La mia materia grigia è in delirio per te, Giorgio, come hai fatto a perderti nella mia cassettiera, non usare il taglia unghie per mozzarti la testa o finirai per morire.
La festa inizia, laggiù in cucina, dove, appollaiati sul grande tavolo, specifichiamo, mangiamo un paio di fette di torta a testa, il resto mancia.
Ci rimane lo zucchero a velo sulle labbra o sui baffi, spolverino, bianco come l’arcobaleno unito, intingiamo il dito nella crema e ci sbafiamo pure quella.
L’aranciata bollicina si trastulla, che carina, nei nostri esofagi come fosse primavera che nasce, fresca, abbondante, ridondante di allegria.
E’ un gioco di parole che ritorna alle nostre orecchie stupido, ripetitivo, tanto non sono capace di contare le pecore, che caldo, togli la testa dal forno, Maiku, ti brucerai i capelli, non importa, facevo finta di suicidarmi.
Che cara, e poi come farei io senza di te, che mi rompi le così dette e mi fai impazzire la maionese.
Con te o senza, calmerò le mie intemperanze cambiando le sembianze di Clarissa a suon di pugni sul grugno, che dire poi della faccia da schiaffi che si
ritrova, è pericoloso andare in giro con una faccia come quella.
Sì, però io le voglio bene, gira in tondo come un disco abbandonato alla puntina, salta la mattina come la befana eppure la stimo, onore e rispetto a lei, capa nostra fatti capanna.
GOCCIA
Cola la cera sulla notte di sera, destroy, siamo a casa di Clarissa, in cucina, sul tavolo, al centro, una candela poggiata su un piattino, noi, io Maiku, Kumiko Sae e Clarissa, siamo sedute tutt’attorno.
Attorno all fiamma flecua che brucia e spera, tre donne, tre streghe in silenzio, ad ammirare il fuoco piccolino che consuma lo stoppino, 123 codice della congrega, bisogna essere dotate per essere una strega, si può colpire ai fianchi questa sera.
La cera si scioglie e cola, le fate aspettano che la nostra natura pellegrina si risvegli, immacolate creature intime si creano davanti ai nostri occhi.
Noi le facciamo combattere fra loro come bestie sudate che chiedono venia e si lamentano sotto i colpi sferzanti delle spade.
Kumiko prepara in un canto la sua pozione magica, Clarissa ed io aspettiamo senza fiato, senza fiatare, che si compia il suo compito mago, sotto l’aspetto di donna si cela una strega.
Non c’è tempo per farsene una ragione, arriva la pozione prodigiosa nelle tazze, tre, smerigliate a dovere, fumanti, d’un fiato beviamo.
Gja milaki oki tama repe tina sa, tu ppa pa tuppete ppà, lama affilata penetra nel
nostro sangue come il miele si fonde nel latte caldo o nel caffè.
Ci trasformiamo lentamente, spudoratamente si levigano le nostre pelli, kja profumata, saltella la lingua di Clarissa pronunciando queste parole.
Kior romi intigo olere enterem mimota avigi, la goccia ci piglia nell’anima, un animale si rimplode in noi, si nasconde sotto le nostre vesti.
Ruggisce la creatura dell’oscurità, artigli venefici, fauci feroci, coda serpentina, corre nelle nostre menti l’incantatore dal flauto argentino, limita i nostri i nel buio.
Assemblea delle streghe, tre cuori colpiti dalla freccia di Taugi, il mago errante dalle dodici parole diaboliche, dicono che non morirà mai, è un immortale.
Si impossessa spesso dei nostri corpi e ci fa fare strane cose, per questo Giorgio lo odia, o forse è solamente geloso dei suoi strani poteri, comunque, questa notte, la nostra amica entrerà in profonda trance e la sua bocca proferirà le parole di Taugi, i suoi gesti crepiteranno sotto la Luna del lupo nero.
Coglierà la rima di una filastrocca antica, mostrerà una fila di denti bianchi, uno sul tavolo, rimbalzando cadrà nel piattino e di cera bianca sarà ricoperto.
Sacrificheremo il dente di Clarissa, dalle sillabe spezzate, si sentirà il boato degli spiriti in pena farsi allegri.
Per adesso beviamo la pozione, Clarissa si concentra, è pronta ad affrontare, d’altra parte è il suo turno, il terribile dolore che l’aspetta.
La mediocrità trionfa sul bene e sul male, l’aratro della notte porta avanti i suoi solchi stellati ancora una volta, Mirko, il gatto di Clarissa, miagola fragorosamente, spaventato dallo strano rito.
Oshi horiu dae, Kia precoce, Kumiko spacca l’uovo nelle tazze e noi beviamo, beviamo il liquido, lentamente, goccia a goccia, goccia dopo goccia la verde speranza si traduce in ione rossa, dura come il marmo, brillante come quarzo, il focherello della candela lancia un segnale, si curva da un lato, verso Clarissa, sì, tocca proprio a lei perdere il dente questa volta.
Kyji, sommette un sospiro la bella Clarissa, la fiamma ha parlato, il destino è segnato.
Dalla boscaglia ombrosa, dalle chiese sconsacrate, dai cimiteri abbandonati, dai supermercati chiusi a quest’ora, si alzano gli spiriti senza comione che chiedono solo una cosa, che il sacrificio avvenga, presto o tardi, prima o poi, di rovescio o di sghimbescio, ma che si compia.
Fremito, sbadiglio immenso, Giorgio mi cerca, lo so, ma il cellulare è spento, non potrei interrompere per nessun motivo quest’assemblea.
Clarissa si concentra, io e Kumiko la guardiamo attonite, con la fregola sotto le ascelle, ci guardiamo bene dal disturbare la sua preparazione all’evento, è troppo importante che la cosa riesca, ne va del nostro prossimo futuro e del buon nome della congrega.
Tre streghe noi siamo, il terrore delle giostre mondane, siamo fuori di testa sotto l’effetto della bevanda ribollente, urliamo dentro di noi, ma non fuori, è tardi e non vogliamo disturbare il vicinato.
Clarissa sospira, Bene, sono pronta, tagliatevi il polpastrello, ci tagliamo il polpastrello del pollice della mano sinistra, Fatemi assaggiare il vostro sangue, l’invasata tira fuori la lingua e noi vi appoggiamo insieme i pollici feriti.
Buono, ottimo, siero prelibato, da madre natura cucinato, con amore preparato, con amore l’ho assaggiato, adesso capisco perché siamo qui, il rito deve essere compiuto, il sacrificio deve andare a buon fine !
Esclamazioni, kia bemolle, Clarissa inizia a grattarsi la schiena, si gratta e si gratta ancora, non la finisce più di grattarsi, d’un tratto s’interrompe.
Salta in piedi sulla sedia con l’agilità di una pantera nera, schiuma bava rosa dalla bocca, Giar, giar, giara tae miruke, ritu wedi hiumi fada zot, ripete questa frase tre volte poi si rimette a sedere come una persona normale.
Taugi ha parlato, il grande mago ci ha comunicato la formula eterea, siamo a cavallo.
Maiku, hai registrato la frase ? Sì Kumiko, dopo la segniamo sul libro delle formule segrete ma prima, prima Clarissa deve soffrire perché il potere si compia.
Che il rito abbia inizio, io e Kumiko Sae pronunciamo per quattordici volte questa frase, Ghia seth retiro merito, iogad sequi merito, gloko fertino fuito merito… alla fine della quattordicesima ripetizione Clarissa caccia un urletto e stacchete, le parte il secondo molare superiore sinistro, rimbalza due volte sul tavolo, finisce dritto dritto nel piattino colmo di cera e vi si stampa, lentamente, piano piano, la cera dall’alto della candela continua a colare, goccia a goccia, fino a ricoprire il dente per intero.
Le nostre previsioni erano azzeccate, abbiamo portato a termine il sacrificio dovuto, la formula magica è nostra, o grazie grande Taugi dalle frecce incantate, arrivederci a presto.
Tutte noi sfoggiamo i buchi dei denti persi in questo modo, riponiamo il dente di Clarissa nell’apposita bacheca, segniamo la frase magica sul libro delle formule segrete, con un appunto in calce, ripetere tre volte consecutivamente.
Mi sanguinano ancora le gengive, ma siamo sicure che tutto sia andato nel modo giusto ?
Sì perché avevi una voce proprio cavernosa, sembrava che ti fossi appena fumata un sigaro cubano, bene, d’altronde ho perso un dente ma ne è valsa la pena.
Infatti ora possediamo la nona frase magica dettataci dal grande mago Taugi in persona.
Dovete sapere che Taugi è immortale e non ha bisogno di cibo per nutrirsi, vive
nella sua grotta lassù sulle montagne della regione di di Hint abbeverandosi di tanto in tanto alla sorgente della Luna che ride, entra nei nostri corpi quando noi lo invochiamo e, se è di buon umore, ci comunica una formula segreta da lui inventata.
Quando avremo raccolto tutte e dodici le sacre frasi, allora la nostra opera sarà completa, diventeremo streghe a tutti gli effetti conoscendo le magiche formule e potremo andare a trovare Taugi alla sua grotta.
Per adesso abbiamo nove prove del suo potere, perderemo altri denti, ci daremo da fare, troveremo le altre tre e ci caleremo nell’abisso del profondo mistero.
I miserabili, comuni, normali esseri umani non possono comprendere le nostre gesta ma noi siamo convinte di agire per il bene dell’umanità, compiremo il nostro dovere a costo della vita, batteremo il sentiero finché è caldo.
Tra l’altro siamo ancora sotto l’effetto della pozione di Kumiko Sae, la nostra druida specialista, abbiamo le pupille dilatate, le orecchie trasognate e le labbra turgide.
Chissà cosa ci mette dentro per produrre tali effetti, non posso dirvelo però sappiate che sono tutte sostanze allucinogene o cerebro stimolanti, vi basta come spiegazione ?
Per tutte le amanite muscarine, ho i pilli tumenici in frillo retinico che scivolano verso altre frontiere, sarà merito della pozione, sarà che gli sprazzi d’armonia pelvica distribuiscono calore alle mie pupille ma mi sembra di entrare in un mondo parallelo quando appena socchiudo gli occhi.
Bene, sono contenta, vuol dire gli ingredienti sono ben rimescolati, kia feroce, giantara ae dimturi, lomiki nhitu era meglio pensarci prima, ormai sono in viaggio.
Prendo baracche e burattini, sbatto la porta ed esco di casa. Maiku che fai, adesso sei sola, fra te ed il mondo a un lieve sospiro di amarezza psicosomatica.
Avanzo per la strada barcollando nel pensiero ma ben salda sulle mie lunghe gambe, sempre più lunghe, poi di colpo si accorciano, mi ritrovo con le chiappe che strisciano per terra.
Cammino cammino fino ad una radura, le foglie mi accarezzano la faccia, le sterpaglie mi intrappano la strada, mi inoltro nella boscaglia fino a trovare un praticello e li mi sdraio ad aspettare il Sole, che sorga presto sul mondo giamitico.
Sono timbrata sull’erba, la rugiada primigenia mi si impermea nei capelli lunghi e neri, non ho più voglia di andare avanti, rimango qui attendendo l’alba, poi si vedrà.
Casa, dolce casa, Giorgio starà ancora dormendo, beato lui che può, il rito, il sacrificio, chimiche vene mi attraversano il cervello, mi sbudellano l’anima fino a farmi capire che le fate esistono veramente.
Eccone una, svolazza trasparente nell’aria blu di notte, gioca al bambino
addormentato, Lovin, dice lei, chi si crede d’essere, solo perché ha le ali non vuol dire che è meglio di me.
Si avvicina, con un colpo di bacchetta mi accende una sigaretta, ah, ci voleva, grazie fata, sei proprio buona, come ti chiami ?
Jinja, il mio nome è Jinja, Ah bel nome, io invece mi chiamo Maiku e sono una strega, la fata se ne va sdegnosa… pausa, mi sdraio con tutta me stessa fumando la sigaretta con una ione inaudita, diridin diridan, nabuho tiem, le mie unghie raschiano la terra, si sporcano tutte, non si possono spezzare perché sono molto corte, come è mia abitudine tenerle.
Provo, in questo momento, una strana sensazione, è come se i miei occhi si fossero girati verso l’interno della mia testa, riesco infatti a vedere me stessa con estrema chiarezza longitudinale.
Come sono bella, bella quanto una stella, brillo dall’interno, kia di schianto, vivo in pace sotto questo cielo, non ho mai fatto male a nessuno, mai ne farò, sono convinta del fatto che, comportandomi sempre così, andrò in una specie di paradiso dove tutto è rosa, si beve il latte direttamente dalle mammelle delle mucche, scorrono fiumi di cioccolato, le angurie sono talmente grandi che ci si può prendere casa all’interno, i mandarini sono talmente saporiti che, non so, ci si potrebbe inventare una leggenda gustologica sopra.
Poi, in questo paradiso, ad ognuno viene chiesto di scegliere come compagni, un cane ed un gatto, parlanti, parlano di tutto, sono molto saggi e ti tengono preziosa compagnia.
Mi immagino di abitare su una nuvoletta azzurra e gialla, di quelle che portano il buon umore assumendo sempre nuove forme stravaganti, ho una bellissima doccia, non come la mia che cade a pezzi, mi lavo tutti i giorni e gli angioletti burloni mi spiano.
Intanto il mondo gira, ruotando su se stesso, navigando intorno al Sole, io, nel mio piccolo piccolino, riesco a percepirne chiaramente il movimento, mi lascio trasportare dal mio pianeta la, via, nello spazio attraverso le sfere armoniche dell’universo.
La mia schiena sente l’opprimente gravità che mi schiaccia contro il terreno, se non esistesse questa forza misteriosa potremmo volare tutti insieme, come sulla Luna, che casino sarebbe, però non ci sarebbe bisogno di automobili inquinanti o di altre schifezze.
We we, giagiolo mi sento pizzicare appena al di sopra della caviglia, eccola la colpevole, una formica rossa, che paura, sono meglio le formiche volanti, almeno volano e non ti fanno scherzi del genere.
Tu, brutta umana di carne, sei troppo grande per essere trasportata al formicaio e con le mie mandibole non riesco a farti a pezzettini, Impertinente ! con un soffio la faccio viaggiare verso un punto ignoto del prato fino a farla scomparire.
Sembra di essere in una specie di anti dimensione, dove tutto è opaco, dove tutto esplode senza fare rumore, dove le tegole gocciolano gocce d’argilla arancione, che si intona con il mio maglione.
Budda, il panzone dorato, si meraviglierebbe a vedermi, così calma, so in pace
con me stessa, lamiki, orgoglio personale, gantara.
Pagine di sorrisi scorrono sotto le mie palpebre annoiate, si contorcono parole cave, concave, diramate in ogni direzione, trapela una voce, un annuncio stile aeroporto, terrore delle sale cinematografiche.
Mi spoglierei nuda se non ci fossero gli elfi del bosco, mi guardano, sono in molti dietro i loro ciuffi folti, ultimo a sinistra sta un ciccione, ha l’aria furba, non mi sono mai piaciuti i furbetti.
Decade di ione, ritorno ai miei pensieri più intimi in un istante, poggio il collo sull’erba che mi accoglie come farebbe un morbido cuscino.
Non importa ciò che dici, in questo momento, parla disperato essere della notte, da dove sei venuto ?
Fiore che sboccia ha poco da dire, il suo compito si conclude in un attimo di freschezza vagabonda e stabile, per nulla ignobile, stanchezza primordiale, scaturiscono le idee dal polline giallo miele.
Goccia, perfezione caduca, idiozia cosmica che si perpetua in un fare fiducioso, mi vengono sempre in mente i lombrichi, che ve la dicio, a babamicio.
Orgoglio ferito, sul pollice, sul dito, scorre il sangue della donna strega, ritorna la vaga sensazione di benessere rigurgitante di calore, sembro un termosifone all’aria aperta, connesso con il nulla, il mio compito è riscaldare l’ambiente
circostante.
Riempire con qualcosa il nulla, pensieri rimati, in ordine allineati, stanno all’erba pepa come Fragolino miagola sulla poltrona di casa sua, mi tremano le ginocchia, mi si distorce la vista, sembra che le figure attorno a me si stiano contorcendo in una danza sfrenata, naturalmente, ne sono conscia, è ancora l’effetto della pozione stregata di Kumiko Sae.
Ogni volta che ritorna questo nome in me un bagliore pervade i miei sensi, le lanterne si fanno cupe, le sonde si smorzano sotto i colpi dell’amicizia, una carezza percuote la mia testa come una mazza da baseball colpisce la palla che vola.
Vola alta sulle nuvole, le buca, arriva fino al Sole, si consola nei suoi raggi, rimane nei paraggi, oh, dentro me palpita il cuore, è di tre colori, rosso perché è pieno di sangue, verde perché è sormontato da uno spesso strato di muffa prolifica, giallo perché ha paura del futuro.
Gioca, fine ultimo della bimba che alberga in me, giocare all’alfabeto senza regole è il mio mestiere momentaneo, chi si dissolve ha perso, scomparendo per sempre nella nebbia più fitta.
Quattrini, servono a volte nella vita, ma non sono la cosa più importante, più in alto c’è l’amore, mi manca Giorgio, la sua stretta gentile, eccolo, o no, era solo un’illusione percettiva, vado alla deriva, nei miei sogni ci sono soltanto baci caldi che girano.
Furore ancestrale, limo, fango, faruggine, bisogna stare attenti a non arrugginire
sotto la pioggia di camaleonti, cadono e si spiaccicano al suolo bagnando tutto con il loro sangue verde alieno, non fanno in tempo a mimetizzarsi.
Peccato, sono animali carini e simpatici, hanno la testa dura, li ha creati madre natura per dare filo da torcere alle mosche ed alle zanzare, i coltivatori di broccoli ne sanno qualcosa.
Si sa infatti, è risaputo ormai, che i camaleonti vivono fra un broccolo e l’altro cacciando le loro prede stando in bilico su di un piede, sempre fermi, immobili, come statue che non hanno paura del vento.
Kra, ragi stae, fragorose le mie mani battono il tempo di una canzone, cantata dai grilli, che hanno un grillo per capello, l’orologio dei limoni va sempre avanti in questa stagione, in che stagione siamo ?
Cocciutaggine, testardaggine, rovino sempre tutto con le mie fantasie barocche, pacchiane, perdi giorno, annulla il tempo se puoi, rovina le clessidre sotto la tua fronte alta e benemerita.
Distruggi tutto quel che puoi, se ci riesci distruggi il mondo, spazza via l’universo con uno starnuto ben indirizzato, cucciolo della terra intirizzito, shock, una scossa elettrica si propaga velocemente sotto la pelle.
Fermati adesso, finché sei in tempo, lascia che l’agopuntura delle costellazioni abbia effetto sulle tue premonizioni precondite, play, stop, pause, comincio a chiedermi se tutto scaturisca da me o se io mi diluisco dal niente.
Dynburg è lontana anche se ci sono immersa dentro, la città è immensa, come la carriola di Dio rispetto ad un rastrello umano, bigonce tove vertigini si insinuano nel mal di mare che mi coglie all’improvviso, con un sorriso mi scaccio immensamente in me, rovine antiche sorvegliano l’entrata per il tesoro immenso delle prime civiltà, io ne posseggo un pezzettino, è mio e nessuno me lo toglierà.
Si arrotola la lingua davanti alla foglia aspra del trifoglio, gustosa, sarebbe meglio condita con un filo d’olio, ma cosa centra, chi si pone al centro di questo viaggio isterico verso la fine della cartapesta.
Il pavimento balla sotto il mio peso, come tutto da un po’ di tempo a questa parte, sto esplodendo in piccole oscure dimenticanze, you raise the blade, insane in a mad brain, collina dei cipressi, colla peperina si fa tutto, figurati se non riesco a trovare la strada di casa.
Ma non ho voglia, non è semplicemente il tempo di trovare e poi percorrere la strada di casa.
Sta sputando il Sole, sfrigola nelle sue macchie, lancio le note con un colpo di tastiera, si è accorto che tutto ciò è geniale e sorge, atteso da ogni possibile popolazione accorta.
La notte si dissolve gradualmente con una lacrima lunare che si fa rosa, poi bianca poi svanisce lasciando il posto ad un astro, se non più importante, almeno sicuramente più grande, enorme, immenso, credo che ogni singola persona lo rispetti come una divinità, il culto del Sole è insito in noi fin dall’antichità e mai verrà eliminato dal nostro codice genetico.
Il giorno si fa strada duramente, sconfigge il buio nero portando luce brillante ai nostri occhi, le camice sono stirate, il vapore ha fatto il proprio dovere, luce sottile corrompe il cielo al suo favore, si percepisce l’odore del mattino.
Gocce di rugiada stanno posate sulle ciglia, una goccia singola si perde, cade nella mia pupilla sinistra dandomi l’effetto del collirio, io sdraiata sbadiglio a più non posso.
La mia mente cade in un fosso, se fossi Dio salverei l’umanità, ma non lo sono e non posso fare altro che salvare me stessa, kia santa, specialmente affetta da comione mi agito per nulla.
Get da Sun, sono seduta nel prato, fra l’erba, il Sole ormai brucia alto nel cielo, la rugiada si sta asciugando, le mie palpebre si socchiudono alla luce, voglio vedere Berenice.
E’ tempo di andare, o forse non ancora, tanto vale alzarsi e decidere da in piedi, ho difficoltà a sostenermi, l’effetto della pozione sta svanendo, finalmente, ma non sono del tutto lucida.
Ci vorrebbe un goccio d’acqua per rinfrescarmi la gola, da queste parti non si trova, assenza di fontane, sento in lontananza un suono di campane.
Din don dan, cantano felici l’arrivo del mattino, din don dan, salutano l’avvicendarsi del pellegrino, mi avvio verso casa, non so che strada prendere.
Seguo il suono che evidentemente mi porterà verso la civiltà, non ricordo da che parte sono venuta.
o dopo o supero un boschetto e subito di getto mi ritrovo in un grande piazzale argentato, asfaltato con cura, davanti a me una chiesa, enorme.
Mi rilasso, ho trovato la città, le mura, il cemento, da qui troverò la strada per andare a casa, eppure no, impossibile, è tutto circondato da una fitta boscaglia, anche la chiesa, il parcheggio, tutto.
Come fare, dove andare a finire, a chi chiedere la via, il tempo è andato, la canzone è finita, le campane hanno smesso di rintoccare, voglio andare via di qui, tiro fuori il telefonino, scarico, inutile.
Mi seggo su una panchina sotto il porticato della chiesa, non sono mai andata a messa, mi sembra di sentire delle voci che cantano provenire dall’interno, eppure non c’è nessuno.
Nessuno nel piazzale, neanche una macchina, non una bicicletta, d’altronde da dove potrebbero arrivare ? E’ tutto chiuso dal verde degli alberi.
Continuano le voci a sussurrarmi dolcezza, canticchio anch’io presa da un non so che, scivolo sulle note come una barca sul fiume trasparente, mi aspetto.
Idea, mi avvicino al portale della chiesa enorme, bianca, completamente immacolata, busso, mi accorgo che invece la porta è aperta, entro, piano con
o delicato, senza far rumore.
Le voci si fanno più intense, più altisonanti, sono in una specie di anticamera, per entrare nella chiesa vera e propria c’è ancora una porta di legno da aprire, da superare, che fare.
Gigola, oddio cigola, silenzio, il coro si azzittisce di colpo, ho creato uno scompiglio pazzesco, forse non si aspettavano che entrasse qualcuno, apro del tutto la porta, faccio tre i in avanti e mi guardo attonita attorno, kia secolare, templare.
CROCE LIQUIDA SOTTERRANEA.
Faccio tre i, sono nella chiesa, all’inizio della navata centrale, nonostante le voci, sembra non esserci nessuno, non un’anima.
La luce del mattino che proviene da fuori filtra attraverso le grandi vetrate colorate e si posa sul pavimento marmoreo di fase solare.
Le vetrate sono intagliate al piombo e portano le rappresentazioni di vari santi che io non conosco, proseguo oltre al centro fra le panche di legno, mi viene voglia di sedermi, sono abbastanza stanca, ma il vuoto del tutto mi lascia impallidire, proseguo lungo l’ampia navata.
Ora mi trovo esattamente sotto l’altare, una grande croce lo sovrasta, Gesù, Cristo in croce mi guarda, io ricambio, che bei piedi, sanguinanti vernice rossa.
Faccio tre gradini e mi trovo al centro dell’altare, potrei toccare la croce, ma vedo che alla mia sinistra c’è un grande organo a canne, che meraviglia, un grande organo a canne lunghe o brevi, mi dirigo verso di esso, salgo una breve scaletta, mi seggo sul seggiolino e sparo una nota, tadaa, risuona fortissimamente, mi stupisco, proseguo, intono un accordo, suono una breve scala, poi ritorno sulla nota precedente e la mantengo a lungo, schiaccio inoltre dei pedali, tiro delle leve con sopra incisi dei numeri romani, mi sto divertendo un sacco.
Questa musica è celestiale, continuo a suonare per lungo tempo, dimentica della
mia missione, tornare a casa, dimentica del fatto che dovrei trovare un’uscita da questo posto cristallino, serenamente suono e mi sconquasso.
Svarione temporale, le note mi portano verso una sensazione di onnipotenza mai provata prima, quest’organo è meraviglioso, non avrei mai avuto l’occasione di provarne uno se non fossi entrata qui.
Cantano gli zaffiri scanalati da mani esperte, da guanti di velluto ricoperte, senza paragoni proseguo il mio canto inerte.
From the sky, una casa di fiori si muove verso la mia mente e la riempie totalmente di profumo inebriante, gas esilarante per le mie orecchie morbide, suono tiepido, lepido.
All’improvviso sulle mie note, che finalmente, dopo qualche prova, hanno preso corpo e soprattutto hanno trovato un’armonia, si alza un coro di stupore che riempie la chiesa di voce santa.
Allora, stupita, invece di continuare questa meraviglia, mi interrompo, mi guardo alle spalle, non c’è nessuno, spaventata scendo dall’impalcatura di legno, che avrà un nome appropriato ma non me lo ricordo.
Ricordo adesso che dovrei darmi da fare per trovare un’ uscita, oh guarda, a sinistra della croce c’è una porta, la provo.
Si apre, al di la si trova un sentierino piccolino, stretto stretto, affiancato da
ambo i lati da un alto e fitto roveto che prosegue a perdita d'occhio.
Mi inoltro per questo sentiero, spinta dalla curiosità, ogni tanto stacco una mora, la mangio soddisfatta, ottime, viola come il tramonto visto dalla Luna.
Cammino, cammino, in uno spazio stretto quanto i miei piedi affiancati, se mi distraggo mi pungo, ah, come adesso per esempio, guardo per terra, terra fresca, guardo in alto, una semi arcata di rovi ed un sottile fazzoletto di cielo azzurro.
Percorro un bel tratto di sentiero, quanta strada avrò fatto ? Non lo so ma qui è sempre tutto uguale.
Cammino cammino, alla fine, ecco, una luce si fa largo fra le spine, poi sento come uno scroscio, come se ci fosse dell’acqua che scorre.
Eccomi, l’acqua non scorre, rimbalza, c’è una bellissima fontana, finalmente posso bere, è freschissima, che goduria, mi verrà mal di pancia dopo tutte quelle more, chi se ne frega, bevo e ringrazio il cielo di poterlo fare.
Ma uffa, mi accorgo che tutta la fontana è circondata da rovi sempre molto fitti e che non c’è alcuna via oltre di essa, posso soltanto tornare indietro.
Mi giro verso il sentiero, sulla sinistra scorgo un cartello, quasi mangiato dai rovi, mi avvicino, lo leggo, “Fontana di Santa Ermenegilda, per trovare la via devi fare a meno dell’acqua”.
Che strano nome, ma come, cosa significa la scritta, ormai ho bevuto, come faccio a fare a meno dell’acqua ?
Giro attorno alla fontana, guardando attentamente al suo interno, con grande stupore vedo una botola, sommersa con sopra impresso a lettere dorate “VIA”, quella dev’essere la strada che leggo in trasparenza. Entro nella fontana bagnandomi tutta, mi chino, con grande sforzo provo a sollevare la botola dall’apposita maniglia. Tutto inutile, il peso dell’acqua è troppo potente. Comunque ho capito che bisogna togliere il pesante liquido, ormai inutile, per proseguire da qualche parte, chissà dove.
Intanto bisogna chiudere il rubinetto che sta al centro, chiuso, lo zampillo si è fermato, poi, ah, ecco, bisogna aprire quello scarico per svuotare completamente la fontana, fatto, l’acqua se ne va.
Apro la botola, poggio la lastra metallica sul pavimento di mosaico bianco, guardo all’interno dell’apertura che si è creata, è tutto buio, si intravede una scala ma la luce del Sole non basta per illuminarla fino in fondo.
C’è per fortuna un lumicino rosso, qualche metro più in basso, al buio, che spunta, scendo di pochi gradini, tasto il muro dove si trova il lumicino e con grande sorpresa, felice, trovo un interruttore della luce, il classico pulsante, lo schiaccio, si accende una fila di neon, ma non traballando, bensì di colpo, le mie pupille si stringono velocemente.
Scendo le scale con molta calma, quasi mi sembra di andare a so per il centro, ma l’ambiente è completamente diverso, mura spoglie, grigio cemento mi circonda, una pista di luci al neon da seguire.
In fondo trovo un corridoio, largo umido e lunghissimo, sembra non finire mai, intraprendo il percorso senza pensarci troppo.
Ancora una volta cammino, cammino fino a quando le luci si spengono di colpo, trovo un altro punto luminoso, rosso, le riaccendo, che bello, potrei andare avanti così all’infinito.
Dopo qualche chilometro, germe tirino mitrico, la via s’interrompe, una porta mi sbarra la strada, consapevole di non trovarmi in un fumetto la apro, si apre, sweung, a un treno velocissimo.
Sono nel sotterraneo della metropolitana, finalmente la civiltà, quella vera, non potevo aspettarmi di meglio, salgo sulla prima carrozza verde che a, mi porterà dritto a casa.
ano attimi di luce sferragliante, ano vari tipi di pubblicità e graffiti metropolitani di ogni genere e stile, il treno si ferma, scendo, salgo le scale, anzi prendo le scale mobili, aria aperta.
Il cielo si staglia alto, azzurro sulla mia testa, i palazzi sono grigi, le macchine fanno un rumore pazzesco di motori e clacsons, faccio due i guardando la gente che scorre bigia nel suo formicaio.
Sono arrivata a casa finalmente, prima cosa mi cambio, mi metto la tuta del grande ozio, poi con abitudinaria noncuranza vado in cucina e mi preparo un bel piatto di riso alla soya, lo mangio in tutta fretta, ho una fame che non ci vedo.
Mi preparo un bel caffè, dopo il quale mi fumo una sigaretta, vado in bagno, mi precipito in camera da letto, dlip, mi levo la bocca dalla faccia, la ripongo nell’apposito contenitore nel solito cassetto, mi sdraio sul letto con la voglia di dormire di un ghiro mutante.
Dormirò fino a domani mattina, che bello, poi, forse, se mi andrà, andrò al lavoro, forse, se mi andrà, andrò, non lo so, mi addormento subito, senza labbra, più leggera, più profondamente che posso.
Chiro chiro, piro libo nibiti urmete, fermenti ossigenati dal parrucchiere infernale, Gonzaga 3, il misterioso, Nefertiti, finestra aperta sul mare, gioielli d’oro, diamanti incastonati su specchi di platino e argento, spunta dal terreno morbido un lombrico bagnato, fa la cacca di terriccio, finimenti trasparenti che osano troppo per i miei gusti.
Ligio al dovere squilla il telefono, vafamocca, volevo vedere se me lo prendeva, tanto dormo, basta, basta, asta, sta, smise, era ora, ora era, rorororonfite, ronf, che juchi, destra, sinistra, direzioni assurde come il nord o il sud, come l’est o l’ovest, la mia bussola impazzisce ogni volta, tyu, tyu fanno le rondini dal bianco nido sopra il mio balcone, poppity poppite, rere, love trerre ritornello strampalacrime, vince la reginetta raganella all’unaminimniniminiminità, scivolo in fase per lunare.
Dioco fure iom potury, giod, dogo lei meniti rii, confessa benemerita vacca, l’hai ucciso tu, maledetta strega, vigliacca che non sei altro, ah oddio, il telefono prima era Giorgio, va be, che importa tanto ci vediamo domani a pranzo, speriamo che sia puntuale.
Buonanotte a tutti, alti magri belli o brutti, anche a quelli che sparano rutti, si ma non a tutti, solo a bimbi d’oro, giusti, i tipi tosti con la chitarra in mano e le
mutande storte.
Serafico, che vuol dire, cercatelo sul dizionario, p, q, r, s, sepa, sequ, sera, serafico, ecco, significa tranquillo, sereno, pacifico, comunque questo momento è veramente serafico, abbiamo imparato una parola nuova, che bello, non siete contenti ?
Io manco per niente, mi manca il pollo alle mandorle del ristorante cinese sotto casa mia, adesso è chiuso dopo che è ata l’ispezione dell’ufficio d’igiene, chissà, boh.
Ecco vedi, boh, è un errore, non significa niente, non è neanche contemplato sul dizionario o forse sì, controlliamo, no infatti come pensavo non c’è, però si trova bohème ovvero vita libera, disordinata e anticonformista, tipica di giovani artisti poveri.
Chi ci avrebbe mai pensato, chi l’avrebbe mai detto che ci sono giovani artisti che conducono una tale vita, non perdiamoci troppo per le pagine del dizionario però la curiosità mi spinge a cercare un’altra parola ovvero atavico, significa : che deriva da antichi antenati.
Ecco io sono atavica, tu sei atavico, siamo tutti atavici, oh evviva, a pensarci prima non avrei fatto nulla d’insolito ma non importa, l’importante è essere atavica.
Quante cose si imparano solo leggendo il dizionario. Mio nonno, pace all’anima sua, una volta mi raccontò che un carcerato, durante la guerra, si fece are un dizionario, solo un misero dizionario, lo imparò tutto a memoria, parole e
significati in ordine alfabetico, uscì completamente pazzo e lo condannarono a morte con lo stink, come i miei, che palle, stupida invenzione.
Cosa il dizionario o lo stink, ma lo stink è ovvio, il dizionario è un’ottima cosa, delizia per il mio palato, per esempio volete sapere cosa significa ancestrale, parola che mi affascina assai, controlliamo : ma, impossibile a dirsi, è sinonimo di atavico, significano la stessa cosa, incredibile, quindi tutti noi oltre ad essere atavici siamo anche ancestrali, che bello, chi l’avrebbe mai detto.
Bandito il dizionario da sotto le mie mani, intraprendo un fremito frucico di vibrazione sdentata, si sente il morbido rossore delle gengive arroventate.
Il mio ferro da stiro, ode a tutte le stiratrici o stiratori del mondo e tutti coloro che in questo momento stanno stirando, saranno in molti considerando i differenti fusi orari, l’arte dello stirare, un pantalone, una camicia, un fazzoletto di stoffa, che bello quando esce il vapore dal ferro, fpufff.
Chi non ha mai stirato almeno una volta nella vita, per caso, così, anche solo per provare, io mi sono innamorata di tale macchina fin dalla tenera infanzia, quando mio padre stirava e mia madre guardava la televisione con una birra in mano, fpufff, eh eh, mi viene da ridere.
Ma non vi sembra una cosa delicata, vergine, fragile, risultato dell’ingegno infinito dell’uomo, o della donna, quando il ferro caldo a sul tessuto vaporizzato lasciando una liscia lissia valle fra le grinze malvagie prodotte dal lavaggio a mano o in lavatrice.
Un fiume di purezza, sacro come il Gange, più nobile del Nilo, molto più
affascinante del Rio delle Amazzoni. Basta, per ora basta, riprenderò a confabulare più tardi, per ora basta, dormiamo e basta, pasta caldiscente.
Dormire di giorno leva il medico di torno, tamburello sul mio ego con zampe d’aquila, torno su me stessa, vecchia foto a colori sbiaditi, lumaca ballerina dalla bava cristallina.
Sono coraggiosa, vado fino in fondo, cavoli che brezza di mare che c’è oggi, dal ponte si vede tutta la baia, dove sto andando, tortura primigenia, l’ombelico frigge le cipolle.
Cosa centrano le cipolle adesso, non ti preoccupare che ci stanno, ogni tanto, non so quando, ci vanno, infondo sono verdure povere e come tali vanno rispettate.
Non ci avevo pensato, colore dell’argilla, forse dovrei scrivere qualcosa di più sonnambulesco, o forse dovrei darmi all’ippica, ma i cavalli non sono mai stata la mia ione.
Sono in via di guarigione, bagliore, scia di cioccolato nera come il carbone ma saporita come lo zabaione, kilopi, tin.
Tin pum pim, pim pam pum, tin, tove li chi, chichi mi lo pirote temiri riogi si deme le mo, dede bu, tam, tam, 0, o °.
°o0 Nessuno ti ha detto quando correre, hai mancato la pistolettata della partenza, assolo di chitarra elettrica sulle pignattate della batteria compressa a
dismisura, sul basso eolico, liturgico di ione remita, recondito sto nel mio pensiero femminile in pensione.
Sei più vecchio di me e su questo non ci piove ma se la gallina fa le ove tu le coverai, le accoglierai fra le tue piume, nasceranno pulcini dall’intelligenza superiore, gialli, li ospiterai a casa tua e davanti al fuoco brinderete vittime delle marche da bollo.
Non sono un pollo eppure vorrei esserlo, Pon, il buono, vicino alla sua piccola mandorla croccante, dolce come il miele, intrisa nella soya, l’accompagna la carota arancione.
Scatta in piedi con il suo medaglione d’oro ben in vista, ha vinto la medaglia, fortunato lui, anzi bravo, è il nostro giovane campione, fautore della ribellione, se lo merita il suo medaglione.-
Esattamente com’è, non bisogna spostare una virgola, questo è il patto, la condizione primaria perché il racconto resti in piedi, sulle sue gambe, tremano dall’avarizia, hanno paura del mostro sacro, non vogliono andare dove comanda il pilota, addio.
Ah, addio mondo crudele, oh cruel world, dove regna l’arroganza, dove il più piccolo si deve nascondere di fronte alle enormità sociali che conturbano la vita di tutti.
Respiro dal naso, non mi secca la gola, non ho le labbra, sento i sospiri più forti, cospiro contro me stessa, dovere mio, schiacciarmi in un giorno assolato contro la paratia dell’autostrada.
Volo in prima classe, risuonano ovattate le trombette del paradiso comune, l’inferno è lontano, grazie a Dio, il purgatorio non esiste ma ci sono le liste d’attesa per quegli spiriti senza casa ne loco, senza fiato ne foco, che svolazzano allegri alle soglie della morte, aspettano una direttiva o una direzione, amara indicazione.
Tremabondo, ricco e vagabondo, limo riletto tero perfetto, si schiude sotto le gocce di olio sacro che scende dalla statua incensaria di Gj, crazy for busy, impazzisce dalle cose da fare, ha troppo lavoro in questo momento, dovrebbe prendersi una bella vacanza, che so, alle Bermuda, sotto il Sole nella spiaggia, ombrellone, sdraio, abbronzante, odore ridondante, scostumato, lima meriti, kia bemolle, si staglia fra le fraglie frusche fraciche un frinulo di speranza fatiscente, chi mi viene in mente non lo so ma non importa, andremo avanti lo stesso.
Quando finir la frase, momento importante, apsio, nero e blu, così sei tu, il mio pipù, io strega non ti abbandonerò e per te fata diverrò.
Più lunga più corta, così si bilancia, lancia la carta magica come provocazione, il mago s’interpone, riflesso di specchio opaco, media adesso per mantenere un certo contegno strutturale, si spegne la musica, va riaccesa, chi avrà l’onore di premere il fatidico bottone, io naturalmente.
Sassofono adamantino, chi mi sveglia quando è mattino lo trito nel frullatore con la mela e me lo bevo per colazione, ecco, giù e fuori, da questa stagione inconsapevole.
Con o senza, ma non di te o di me o di loro o di quelli o di chissà chi, melanconia forte, mera vittima del troppo sale, bisogna, con il sudore della
fronte, rendere dolce il mare, questa è la missione mia.
La tastiera si piega sotto le mie dita martellanti, tiri e schianti, giri e pigi, ligi migi rigi sigi, teu staka, teu ti li mine, re re pire pirette piperette, chi lo sa dove mi porterà, chi guida è bravo, chi abbandona la nave è scemo, solo il capitano ha una scialuppa monoposto a lui riservata, i eggeri morranno sprofondati nelle acque lacustri.
Tempesta si avvicina, sul dorso della balena canterina. Yes. Che carina, se ti do un consiglio accettalo, è per il tuo bene, salutami le sirene sugli scogli, abbronzate come non mai, la loro coda azzurrina, le bolle dalle branchie, non tutto vien per nuocere.
Volgi un piccolo sguardo dall’esterno, schianto di ragazza, sempre fischiata dal pubblico piroettante che non paga mai, vaga lungo l’eternità con un sorriso tenue sulle labbra.
E’ tempo di muoversi, soli fra le api, perfezione stilistica, arrangiamento acrobatico, come posso credere a questo miracolo, il più delle volte si tratta di un banale trucco, spazio, virgola, spazio, tutto attaccato, mavattelappesca.
Crimine, rigorosamente dettato dalla natura, il lupo mangia il coniglio, il coniglio la carota, così a seguire per il resto della vita, la carota si nutre della pioggia e dei minerali della terra, buoni, la pioggia divora le nuvole, le nuvole nascono dai laghi di montagna, la montagna gli alpinisti, gli alpinisti la polenta.
Apri il futuro di una giovane donna che dorme in pace sul suo letto di carboni ardenti, tre ore tre, per dividere l’infinito da ciò che ha un termine preciso,
piccolo capolavoro d’inventiva.
Finisce in questo modo la leggenda dei soverchiatori di padelle, olio, burro, pan focaccia, mangiamo in compagnia, Shesa, mi fa soffrire per le menzogne che racconta, sensazioni elettriche riportate in malo modo, l’una in coda all’altra, tutte riferite al vuoto.
La mia identità è corrotta dal dolce far niente che mi percuote l’anima come una scure si abbatte sull’albero da tagliare, cade, il fogliame si spaventa, gli uccellini volano via terrorizzati, carta da macero, legna da ardere, travi robuste per costruire un tetto o una tettoia.
Ologramma svanito nell’oscurità del giorno prima, lo scoiattolo rosicchia la noce trovata per terra, caduta dall’albero di noci, ormai l’ha fra le zampette e non la lascerà per nessun motivo al mondo, ne porta un’altra nella sua tana in cima alla quercia azzurra, chiude la porticina di foglie, si rilassa.
Occhio che lacrima meccanicamente, riflette la cupidigia, l’ingordigia dell’umanità che si azzuffa per poche pentole di rame da collezionare, lucidate dalla nonna, tenute in serbo nell’antica cucina a legna, forse che le pimpe rare stiano al mu come le mimole al piporlo.
Chi può saperlo, chi andrà a dirlo allo stregone di periferia, quando tutto sarà silente ed in ogni dove regnerà la neve Pitipacchio uscirà dal suo guscio per dirne una, una volta per tutte, e sia.
Se dormi non pigli pesci a meno che non te ne freghi un’acca di pescare, sarà così o meno, lo deciderà in un baleno il mega computer posto nella base
sotterranea capitanata dal colonnello Zig 70.
Fruscio rosa sulle mie tempie, di calma mi riempie, si sente il ronzio dell’arcobaleno frugliare in aria, quinta essenza dei colori, porta con se un tesoro prezioso, ad un capo ne corrisponde un altro, senza accento.
Accetto di perire sotto le sferzate delle armi termonucleari che ci opprimono fin dall’alba dei tempi, tempo non ne ho per nulla, eppure fino a domani non farò nulla o più se non poltrire.
Sedimentazione allergenica sotto pelle, farfalla parassita, kia scondita, oltretomba, orgoglio degli Dei rifugio per gli innocenti, si accettano assegni o carta di credito, sono graditi i contanti.
Fa che la fine giunga presto a cancellare i miei errori da pivella in gonnella, finzione artistica gradita dagli spettatori, analizzabile psicologicamente, da non fare vedere ad uno psichiatra, daad, somiglio tanto ad una sogliola sotto la sabbia, così molle sotto le lenzuola pulite, ho gli occhi chiusi ma non riesco a tenere la mente in silenzio.
Idee lisergiche si attanagliano sotto le mie ciglia, sospiro, dolce sibilo glorioso prodotto da una bocca senza labbra, il prezzo da pagare è salato per essermi addormentata senza aver prescritto al domani una medicina, una cura senza peli sulla lingua, che schifo.
Se avessi un cane, allora sì, ci sarebbero peli dappertutto in casa, in camera da letto, in bagno, in cucina, se lo avessi, ma l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re, chi lo dice lo è mille volte più di me, o di te, o di noi, o loro,
argh.
Bonifacio hai annaffiato le piante ? Bonifacio hai lavato le tende ? Bonifacio, ma insomma Bonifacio, rispondimi, dammi un segno, fammi capire che ci sei, Bonifacio hai temperato la matitina del piccolo ?
No signora, mi licenzio, da oggi non lavorerò più per lei, la signora Williamson mi offre il doppio della paga e mi fa lavorare la metà, così ha promesso, addio.
Non fidarti caro Bonifacio, come si dice, promessa di donna promessa in minigonna.
Perché, mi sono sempre chiesto, alcune frasi me le sottolinea mentre altre no, cosa vuole, dare un giudizio estetico ?
Brutta macchina pistina, dall’aria pellegrina, hai poco da ridere dietro i baffi, ti saldo all’aspirapolvere così almeno fai qualcosa di utile alla società.
Idiozia, rintocco di alabarda, perforatrice automatica in funzione, schivo il traffico, finisco per comprare un frigorifero usato che puzza di vecchio, come facevo a farlo prima ?
Troppe domande, bisogna falciare qualche punto interrogativo, lavarsi i denti tre volte al giorno per prevenire la carie, lo spazzolino è utile, il filo interdentale anche ma ogni tanto esce il sangue.
E’ molto comodo, vi dico, lavarsi i denti senza le labbra, si vedono meglio le gengive.
NOI RESPIRIAMO NELL’ARIA
Fare arte significa compiere un gesto, anche uno solo ma significativo.
Schiribizzo di penna nera per vedere se scrive, scrive, posso andare avanti a fumare il mio cubano, magnetico, kia tossica, le tossine si disperdono nel mio sangue pompato dal cuore.
Perché ridi, non c’è niente da ridere, devi essere quello che sei e non quello che gli altri credono che tu sia, asa, eh asa, che la sa che non la sa.
Suonano le sveglie, suonano i campanacci, rintocca il pendolo da dietro la vetrata, salto in aria come una miccetta bagnata, sfrigolo, è mattino, lavoro presto adesso, ora et labora, è ora di andare.
Presto mi cambio, ho un brutto presentimento oggi, vado in fretta al bagno, mi lavo la faccia, le mani, i denti nell’ordine, con ordine, ah dimenticavo di rimettermi la bocca, fatto, sono pronta colazione faccio poi, non ha tempo la giovane Maiku, oppure sì, in effetti una mezz’oretta potrei, ma no, meglio non rischiare, il bus potrebbe ritardare, gli spazi si avvicendano.
And so aspetto l’autobus alla fermata sotto casa, il 39, solito numero magico che con febbricitante allegria sudata mi porta ogni giorno feriale al lavoro.
Eccolo, spengo per terra con il tacco duro la prima sigaretta del mattino, allungo
la mano, l’autista lo sa, ha capito, si ferma, mi fa salire ed io saluto con disinvoltura il caro omino.
Sette fermate, all’ottava scendo, faccio tre i di numero e mi ritrovo davanti alla banca, entro, saluto ma non vedo nessuno dei miei soliti colleghi, strano, anche il nome della banca è cambiato.
Signorina prego mi segua nell’ufficio del direttore, Lei è licenziata per rinnovo del personale, la banca è stata venduta ad una nuova holding e ci sono stati molti cambiamenti, deve capire, comunque riceverà la sua buona uscita più un premio in buoni pasto…
…bastardi, non si fa così, io che sono sempre stata così ligia al dovere, chi se ne frega, troverò un altro lavoro, presto, molto presto, Maiku non si arrende facilmente, capiranno di che pasta sono fatta, presto, molto presto, a quel direttore da strapazzo gli metterei una bomba atomica non dico dove, non sto a pensare come, l’importante è quando, adesso, se ne avessi una.
Posso sempre cospargermi di benzina e darmi fuoco davanti a tutti, così, per divertimento, no, ne morirei, tanto vale chiamare Giorgio che mi saprà consolare, è tanto bravo a far sorridere la gente anche nei momenti più disperati, ma chi si dispera, in fondo era un brutto lavoro, troverò di meglio, meglio di quella noia in banca che mi faceva irrancidire ogni giorno di più, che so, farò la commessa in un negozio oppure la barista o vincerò la lotteria di stato e vivrò di rendita per il resto dei miei giorni.
Tiro un bel respiro profondo, Pronto, ciao Giorgio, buone notizie, mi hanno appena licenziato, verresti a consolarmi, sì, mi trovi al solito bar, ti aspetto senza ordinare nulla, così mangiamo una tortina e beviamo il caffè insieme, togheter, all togheter now, sì allora, venti minuti e arrivi, ti aspetto ciao.
Ed alla fine è solo tutt’attorno, la via bilanciata, tepore, ne ho bisogno, intima necessità di tepore, calore meccanico di un termosifone, entro nel bar, saluto il barista, Sto aspettando il mio fidanzato quando arriva ordiniamo, Sì signora si accomodi pure, mi accomodo sconsolata ed autunnale sulla poltroncina, poggio la giacca su un’altra sedia preservandola per Giorgio, non si sa mai, la guerra dei posti a sedere potrebbe essermi fatale oggi, non è giornata per litigare con la gente.
Si affollano in me strani pensieri, come suona un mangianastri che si appena mangiato un nastro, magnetico, respiro con calma, sangue freddo Maiku, tra poco arriva Giorgio e sistemeremo tutto, potrei fare la spacciatrice di hashish ma non ho la professionalità per portare avanti un’impresa del genere, poi è troppo rischioso per i miei gusti, magari marjuana.
Va be, scherzo con me stessa per trovare maggiore appiglio alla realtà, non posso crederci, esco la mattina per andare al lavoro e questo si squaglia, tutto in fumo, licenziata, riduzione del personale un corno, è tutto un magna magna generale.
Certo bisogna dire che non me l’aspettavo, però ricordo che avevo, appena alzata, un brutto presentimento, vedi alle volte le cose vanno come meno te le aspetti, tu punti rosso ma la pallina finisce sul nero, perdi tutto, bestemmi, ti ubriachi tutta la notte scroccando dagli amici, tiri un fischio e poi li benedici.
Kumiko Sae magari ha un posto da offrirmi nella sua fabbrica, in fondo so tener di conto, capisco di entrate di uscite di percentuali di mazzette da imboscare, sono un’instancabile lavoratrice, anzi sono stancabile, dormo sempre.
Potrei lavorare al mercato della frutta con Giorgio, ma no, non fa per me, alzarsi
all’alba tutte le mattine non rientra nei programmi futuri, poi non sono capace, è tutta un’altra storia rispetto alla banca, ci vuole mestiere, polso, gola giunonica e un terzo occhio dietro la testa.
No matter how hard I scream, P, incredula vedo Giorgio arrivare avvolto da un particolare alone di scosse elettriche, sposto la giacca, Ciao, si siede, ci guardiamo profondamente negli occhi, Due cappuccini e due cornetti prego, terribilmente a fondo ci scrutiamo, Cosa c’è che non va ?
Navigo sola nell’oscurità dei suoi occhi neri come la notte più fonda, immagine scontata ma sempre valida, fugace e solida, dall’aria insolita, sibila e sorvola le righe stampate, un numero ai miei piedi, divino, P, socialmente reietto, questo è il mio difetto.
Fotografia all’occhio di pesce, colori sfumati, anime sdentate, ci ritroviamo insieme ognuno con i suoi problemi, le apatie, le confessioni inedite.
Parlo a lungo, lui mi ascolta con attenzione tipica delle sue perfette orecchie, solido mi sfiora una mano, capisci senza fretta, colpiscimi in un punto vitale, anzi, mortalmente indomita rimango nel mio guscio a spiarmi di nascosto, da lontano, dietro un impermeabile rosa con il colletto di alluminio come le caffettiere classiche.
Oblò aperto, farfuglio poi pio temere a scanso di fatiche le pieghe tristi di un rapporto sereno, che fare, dove andare a parare, mi hanno fatto gol, sono in minoranza etnica, esistiamo tanto per fare o c’è un motivo ben preciso ?
Non so cosa aggiungere, consolami Giorgio ti prego, ne ho bisogno, con tutto il
cuore consolami, disperdi le mie preoccupazioni con una parola gentile, cara o dolce che sia, aiutami.
Silenzio, perché non parla, è il suo turno, sei venuto qui apposta, dimmi qualcosa, ti prego Giorgio salvami.
Sinistra, Devi darti da fare, cara la mia Maiku, oh ecco, finalmente ha rotto il tacito accordo, re maggiore, Leggi più annunci che puoi, cerca nella rete, chiedi agli amici, insomma non puoi rimanere senza uno stipendio per più di un paio di mesi.
Lo so, senti, pensavo di chiedere a Kumiko Sae se per caso…
Andiamo, lascia i soldi sul tavolino, mi prende per un braccio e mi porta fuori, Per oggi riposati e rifletti, pensa e basta, non preoccuparti, da domani inizierai una nuova vita.
Io adesso devo tornare al mercato, ho ancora un lavoro io, al contrario di te che sei per strada come le mie mutande, vai a casa, fatti una tisana spiralesca e poi telefona a Kumiko, raccontale tutto, vedrai, lei è tua amica, al contrario di Clarissa, ti capirà e correrà in tuo aiuto, io non posso fare niente, ti telefono stasera, ti vengo a trovare dopo cena, staremo insieme, ci vogliamo bene o no ?
Sì ma… va bene farò come hai detto, l’argomento è perfetto, prima di vederti volevo buttarmi da un ponte con un sasso al collo ma adesso… Che bugiarda, sai benissimo che non è vero, anzi secondo me sei contenta, quel lavoro in banca ti deprimeva, slabbrata, ora hai la possibilità, il dovere di rinnovarti, ciao, adesso devo proprio andare, ci vediamo stasera, ciao.
Oh ma che sclero, se ne va, be se no perde tutto il guadagno di una giornata, per lui è importante, è già tanto che sia venuto al bar, così di fretta, è proprio forte, non so come farei senza di lui, lo vedo allontanarsi sul marciapiede, gira l’angolo e scompare, Giorgio, corvo nero, vendi tanta frutta mi raccomando !
Mi incammino anch’io, verso casa, vendo il mio corpo per pochi quattrini, datemi un fagiolo, regalate una speranza ad una povera fanciulla disoccupata, volgo lo sguardo al futuro e scorgo solo un viso, sorridente per fortuna, il volto della Luna bianca di giorno, che continua a girare fino ad eclissare il Sole, raccoglie da per terra le lacrime della brava gente e con queste si adorna, ne fa orecchini collane e monili di vario genere, si culla poi sulle nuvole, traspare in lontananza come in una specie di danza, dal povero buco, specchio del pozzo, si alza, trascurata dall’ignoranza, di fortuna si riempie la panza, ranza.
eggio sui tasti neri di un pianoforte scordato, senza memoria musicale, salto di nota in nota come una foca allegra perché ha la palla sul naso e gioca, equilibrio precario il mio, non penso a niente, la mia mente produce solo una scia, una specie di bava di lumaca triste, più che altro scoraggiata, più che altro posta di fronte ad un ostacolo, uno dei tanti, ma alto alto, senza nè porte nè finestre, solo una lastra di ghiaccio spessa tre metri, larga lunga e alta circa dieci volte la muraglia cinese, mitica, là ti fanno male, aeroporto per gli alieni, esseri lunari dal volto blu, qualcuno ha la proboscide e le orecchie da elefante ma non è importante, devo andare avanti, con lo zaino pesante sulle spalle, grazie per lo scorrimento, prego, si prego che le stelle brillino stanotte o se no saranno botte, ho le scarpe rotte, mi parlano e mi dicono che non vale la pena di abbandonarsi a tanta poesia solo a causa di un licenziamento, anzi, è un controsenso.
+Non c’è amore, ci è scappato fra le virgole abbondanti, lasciamolo ire, non dice errore, beato chi piange, come diceva l’attrice divina, beato il prossimo perché tra poco tocca a lui, chi mi capisce mi evita, chi non capisce levita, chi piscia spera di fare un buco profondissimo e costellato nella neve che si fa gialla, che risplende corallina, che si gela la mattina lasciando un ricordo agli sciatori
natanti, nobili viandanti fra i boschi dei monti verde abete.
Paga laga scritta con la matita del trucco, matita per gli occhi, che si volge scribacchiando al leggere scorrevole e potente del cliente interessante, se tutto è commercio, se la bora non è il libeccio, quando tutto è paranoia non rimane che una cosa da fare, non lamentarsi con se stessi ma creare, riempire un foglio di speranze, una tela di fragranze, una fabbrica di danze, una grotta di stanze, ranze.
Gomma, vorrei essere fatta di gomma per cadere dalla moto e non farmi male in assoluto, potrei andare senza casco, sarei omologata, sarei l’airbag di me stessa, che fessa.
Ecco, eureka, ho trovato finalmente cosa fare per andare avanti in questa vita all’olio di semi di mais, frrr, stsss, fsss, pzik, pzik, ffffuuocco mi accendo una sigaretta bella morbida, un po’ spiegazzata, il fumo si propaga nei miei polmoni come uno squalo chiuso in aquario salato.
L’uomo dai mille volti mi ha detto che fumare fa male ma il suo ventisettesimo volto fuma almeno mezzo pacchetto al giorno, come me, fumare è il miglior modo, dicono, per suicidarsi a lungo termine, con gradualità, appunto per questo fumo, morire neri dentro, come l’asfalto o il cemento, saltare un appuntamento importante, vestito elegante, una falce in mano, una collana di teschi di mammiferi di varia specie, un fischietto altisonante fra le labbra bianche.
Questa è la morte che ci viene a prendere con aria affabile, serena, almeno lei ha un mestiere che la pagano bene, ma non ha famiglia, è sola come una biglia abbandonata sulla sabbia, un bambino ci ha giocato e se l’è dimenticata, vicino a una conchiglia vuota, vicino a un sassolino, vicino a un osso di seppia, morta.
Caso strano, ma allora lo fa apposta, mi cade sulla punta della scarpa da ufficio una cacca di piccione, bianca e arancione, la pulisco con un fazzolettino, cos’altro poi mi riserva la giornata ?
#ogni punto interrogativo esprime una domanda diretta, a chi ? Chi mi vuole mi cerca# sanno dove trovarmi, penso che un secchio pieno di vernice non basti a rinfrescarmi le idee rosse, un pennello non basterà a focalizzare il mio ego entro un limite ben definito di atmosfere compresse, con tutto quello che ho detto, scivolo oltre.
Comprensione antidimensionale, sembrerà banale ma ho il mio da fare, dodecafonia astrusa, gigante arteriosclerotico dallo sguardo ipnotico, ingombra l’aere con il suo sederone, prende l’ombra sotto l’ombrellone.
Motore azione comincia la canzone, si staglia un peperone enorme lassù nel cielo, cavo connesso alla patata energetica, tutti in riga non sgarrate, ma non divaghiamo restiamo sulla traccia, pacchetti vuoti, rotoli di carta igienica finiti.
Tanti saluti da qui al portentone, salutami anche il tuo salamone, mi sto disperdendo non trovo la via, tanto meglio, mi insulteranno per la strada.
Chiasso baccano nel mio cervello, salgo in piedi sullo sgabello, canto per sempre la stupidità di questa giornata che non finirà, almeno così fra le banali osservazioni di un giornalista.
Sempre in pista la vedi è giusta, apro la busta misteriosa, espressione corrosa, vinile graffiato, ormai il gioco è andato, sta attenta a te.
Metto la solita cassetta di musica corrotta, l’ascolto in tutta fretta, mi giro da una parte mi volto dall’altra, tutti mi guardano con gli occhi storti, diventeranno strabici peggio per loro.
C’è un certo ritmo fra le mie dita che si compone, in uno spazio limpido si dispone, questa è la tua scelta non hai più tempo per cambiarla, stop.
Prendo in mano il telefono, bip bip, chiamo Kumiko Sae e le racconto tutto.
Stupore, meraviglia, praticamente, se ho capito bene lei, proprio lei, inaspettatamente mi ha dato il consiglio giusto e cioè di lasciar perdere, di non cercar lavoro fino a libro finito, tanto è noioso, immagina un capitolo dal titolo, “Maiku al lavoro”, ci penserò poi dopo la parola “fine”, quando vivrò come immagine parpulea creata dallo sventolio delle pagine che girano sotto il naso di un qualsiasi lettore incognito.
Ah ah ah, così posso divertirmi, me la rido, anzi sono emozionata, grazie Kumiko per la dritta valida, sei sempre la più solida.
Per la contentezza mi tolgo le labbra, tiro via, dlip, la bocca dal mio viso, la ripongo nel solito cassetto all’interno del solito apposito contenitore all’acqua zuccherina.
Laser, ricominciamo a disperderci lungo il cammino con mano che disinvolta appoggia le sfumature di significato, sul pavimento realizzata a gambe incrociate la musica pop che pompa parole assurde nelle mie spirali laterali all’altezza degli
occhi, insomma posso ascoltare quello che mi pare, su i gusti non si discute.
Chiudo gli occhi, apro il respiro, faccio shu, silenzio interiore ma non ci riesco, mi accontento di palpitare a tempo con le particelle di luce che colpiscono la mia pelle chiara.
Lucertola senza coda non si preoccupa dell’avvenire, tanto è pura fantasia, possono fare di me ciò che vogliono, ormai mi hanno scritta, mi hanno inventata e nulla di me si perderà al vento.
Ma se poi mi rilasso completamente facendo anche finta di essere sott’acqua nelle profondità di un lago vulcanico, escono bolle dalle mie branchie, tre tagli su ambo i lati del collo, ripeto dentro di me un mantra magico di incenso profumato, “om nama shivaya”, a cuore sciolto dalle spore acide di un fungo allucinogeno blu che mi porta alla deriva.
Nella stiva ho poche cose : un fazzoletto quadrato di stoffa verde, un oggetto di terracotta, un piccolo taccuino dalla copertina nera e una biro birò, MK o KM, decidete voi.
L’aquila acquerellata sulla carta paglia si ricompone al nido poggiato fra le rocce irraggiungibili, col becco si spulcia le piume leggere ma pungenti come coltelli affilati, sferzata nell’argento liquido si solidifica al Sole aspettando un serpente che i per poi buttarsi in picchiata, afferrarlo col becco e staccargli la lingua biforcuta.
Shine Shin è un Devi, Diò che poche creature accudì, ma lo fece così bene e a tal punto perfezionò le sue tecniche che gli diedero un premio, cioè gli permisero di
far cader la neve sulla terra a suo esplicito ed esclusivo comando, solo lui poteva farlo e tutt’ora può.
Quando schiocca le dita e dice “ariky bon” la neve comincia a scendere pacifica sul mondo annebbiato, nascono poi pupazzi bianchi con una carota al posto del naso, creati dai bambini con i guanti di lana, le sciarpe e i cappellini col pon-pon.
Kia traslucida, silenziosa galleggio come mezzo guscio di noce vuota sull’olio, galeone immaginario ricolmo di pirati fantasmagorici, ubriachi fino all’inverosimile, stanchi ma allegri, il timoniere, appoggiato sulla ruota di legno, grida ma nessuno l’ascolta, sarà per un’altra volta.
Sono le tradizionali convenzioni che ci portano a sbadigliare senza motivo durante il giorno, sono io che non capisco come smettere di pensare in questo mare di affermazioni mentali pure.
Vens simit elì rimo peri chemi, uity sera metil polimino, con creanza mi decoro di alloro pirofumato, verde e denso che si disperde nella giungla dei miei giocattoli trasformabili o no, non lo chiedere a me, chi fa da sè fa per tre, tocca proprio a te, ridiscendere.
Piedi nudi, senza freddo, sprigionano calore dalle vene reticolate, mi chiamo Maiku, mi confondo con il magnetismo animale primo.
Ci sono due stelle tremule nella nostra anima, supernova chimica, esplosione atipica, freme e palpita in si bemolle che si scioglie sulla soglia della settima nota, spartito pilota, in crescendo.
Perpendicolare al tutto la mia schiena mi regge senza scricchiolare inutilmente, lavo nella soda caustica il mio karma prezioso, lo nasconde un fare prescioloso rigorosamente afflitto dal potere assoluto.
Gantra peri ricò solti muri pipò, al contrario mi arrendo al mio destino fragoroso, distillato di parole senza senso, senza capo nè coda, senza wiki nè soda.
No non leggere, sbaglio ritmica o tengo tre tempi diversi contemporaneamente, mi rilasso di più con la testa rasata a zero come un monaco, rigoroso mi spiega come fare per sopravivere all’urto misterioso mi indica una via nascosta fino a questo momento.
Appare a me dal tepore vicino al termosifone del gatto appollaiato un’immagine chiara, quasi olografica, è Taugi che mi guarda dal profondo della grotta sua, mi chiama.
Maiku vieni da me, sali sulla montagna o prescelta, del resto non hai nulla da fare, porta con te tre caramelle alla ciliegia e vienimi a trovare.
La visione si dissolve lasciandomi esterrefatta, più fatta che esterre, sarà vero, mi dò un pizzico sul pollice del piede, sono sveglia in posizione meditativa, meditabonda ripenso alle parole di Taugi.
Che pitipacchio, vado, dove vado, lascio tutto e tutti per seguire la voce del maestro, caramelle alla ciliegia, tre, da portare con me e nient’altro, argomentazione futile, che vita mi aspetta ?
La mia coscienza mi dice di restare comodamente a casa lasciando perdere le allucinazioni post licenziamento, la mia anima fertile invece mi consiglia di partire verso questa avventura mistica senza battere ciglio.
In fondo se il grande Taugi mi ha chiamata a sé ci sarà un motivo, non dovrò più perdere denti o forse sì, ancora, ma comunque dovrò affrontare sicuramente pene ben più gravi.
Non riesco a finire, il pensiero si ribella alla mia volontà, sono sotto l’influenza del grande mago, la finestra si apre ed entra il vento, che spavento, sotto di me il pavimento si fa scivoloso e cado carponi con la lingua a penzoloni.
Mi seggo sul bordo del letto per riflettere, lo specchio è annebbiato dal vapore del mio fiato, con un dito disegno su di esso i contorni della mia faccia e mi guardo come in un quadro astratto, sono io, non ho mai fatto niente di importante nella mia vita, forse questa è l’occasione per riscattarsi, oppure è solo una fulgida illusione che si concluderà in un nulla di fatto.
Poi penso a Giorgio, come farei a fargli capire tutto questo, ci resterebbe male, mi abbandonerebbe al mio destino di farfalla dalle ali spezzate, rischierei di perderlo.
Rischiaro la mia fronte sudata dall’imbarazzo intervallando il respiro come fossi sott’acqua con le bombole sulla schiena, un cavalluccio marino mi gira attorno con aria di sfida, mi sputa.
Ecco, nessuno mi rispetta, anche le bestie più innocenti mi disprezzano, kia traspirante, dondolo, oscillo fra una via e l’altra, mettermi sotto le coperte lasciando perdere tutto o scivolare oltre la porta chiudendomela alle spalle per sempre.
O magari non era un invito a stare con lui per sempre, era solo per andare a trovarlo, forse ha voglia di parlarmi di rivelarsi a me che in fondo sono la più devota.
Che scelta difficile, intanto mi rimetto la bocca, riattivato l’organo il sangue ricomincia a scorrere all’interno delle labbra, inizio a parlare da sola come i vecchi sul bus, come i pittori in estasi, come gli amanti degli animali.
Tramonto, la corriera parte al tramonto, verso le montagne filosofali, raccolgo le mie scarpe e le scruto come un filatelico cura la sua collezione di francobolli dai mille colori, piccoli difetti, si vede che ho occhi per gli acquisti.
Allora, sono giunta a un bivio dall’architettura scomposta, queste scarpe, anzi non queste che sono da città, magari le altre, adatte ai sentieri impervi, comode, non temono le lunghe camminate, insomma dovranno andare dal grande Taugi o restare qui al calduccio ?
MENTE MECCANICAMENTE MECCANICA
Tara ta rama sa, iko mae lemi tuori. In un cervello ci sono tanti neuroni quanti le creature che abitano gli oceani, bisogna saperli usare al meglio, sfruttare a pieno le loro potenzialità.
Perseguitata dalla mia ragione, mi sento come in prigione, brutto posto per catalizzare energie positive, comunque, dopo aver lasciato un messaggio a Giorgio sulla segreteria telefonica, ho preso la corriera per le montagne di Hint, dopo un viaggio nè breve nè troppo lungo sono arrivata ai piedi del monte Kuraro in un paese chiamato Noname dall’aspetto insolito.
Sono alla stazioncina dove la corriera mi ha lasciato, ho giusto i soldi per un eventuale ritorno a casa, le mie scarpe, un vestito pesante, un cappellino a visiera.
Disorientamento, come fare a trovare la grotta dove vive Taugi? Chiederò alla gente del paese, ho la bocca, posso parlare, interloquire chiedere o domandare.
Entro nel primo bar che incontro, ecco, giusto quello che cercavo, un vecchio montanaro con la barba bianca, sarà sicuramente esperto dei luoghi ed avrà sentito parlare del grande eremita.
Scusi signore, vengo dalla città, potrebbe mica darmi un indicazione, Mi dica signorina, Io devo trovare la grotta del grande eremita Taugi il mago, saprebbe indicarmi la strada per raggiungerlo.
Certamente, vado spesso da quelle parti a parlare con il santo, deve prendere il sentiero 123 segnato con tre strisce gialle sulle rocce e sugli alberi, se mi fa finire di sorseggiare la mia grappa alla genziana la posso condurre fino all’imbocco del sentiero.
Ma deve stare attenta a seguirlo con attenzione perché alrimenti si perderebbe nel bosco, sarebbe preda di animali pericolosi come l’orso bruno o i lupi grigi, inoltre il 123 è l’unica strada da seguire per arrivare alle grotte in cima al monte Kuraro, dove vive Taugi ormai da tempo immemorabile, troverà un lago freddo e trasparente, alla fine del cammino, costeggi le sue sponde e potrà così vedere il maestro o capire qual è la sua grotta in caso egli fosse assente per qualche motivo.
Grazie, quindi la sua dimora è sulle rive di questo lago, Esattamente, il lago di San Friccico.
And so l’osservo rispettosa mentre beve il suo cicchetto riscaldandosi il cuore, scende dallo sgabello, Andiamo pure signorina, mi segua.
Mi porta con o svelto ai confini del paese, in un luogo fra due case dove finisce la strada asfaltata e comincia quella sterrata inerpicandosi per il monte.
Il sentiero è questo cara signorina, faccia buon viaggio e cerchi di arrivare in cima prima che faccia buio, se fosse ancora lungo la strada e la notte la cogliesse all’improvviso, si fermi ad aspettare l’alba lungo il sentiero o perderebbe sicuramente la via, arrivederci.
Arrivederci buon uomo, ma lei non mi ha detto come si chiama, Oh, non ha importanza signorina, d’altra parte nemmeno lei mi ha detto il suo nome.
Così dicendo si allontana, lo perdo subito di vista.
Mi incammino subito per la mulattiera, non è ancora ora di pranzo, spero di arrivare al lago San Friccico prima che faccia buio pesto.
Il percorso non è faticoso, io sono una buona camminatrice, da piccola andavo sempre in montagna con i miei genitori, il sentiero morbidamente ricoperto da aghi di pino è ben marcato, mi riesce facile seguirlo.
Non ho chiesto all’omino a che altezza devo arrivare, grave errore, sarebbe stata un informazione utile per distribuire i tempi di ascesa, per fortuna c’è un bel Sole su nel cielo, il paesaggio è magnifico, l’aria è pura, pulita e cristallina.
Ormai ho trovato il o, il ritmo giusto, come fanno i veri alpinisti, seguirò quest’andamento.
Come mi ha detto il gentile e barbuto vecchietto le svolte o i bivi sono segnati da tre strisce gialle, ora su una roccia ora sulla corteccia di un grande albero, in questo modo facendo attenzione posso orientarmi senza alcun problema.
Sono proprio contenta di essere qui, la fatica o i pericoli del fitto bosco non mi spaventano per niente, sono attirata come un magnete dalla forza ferrea del grande maestro, forse lui sa già che io sto arrivando da lui, magari non pensava
che io avessi tanto coraggio, ma in fondo che ci vuole, un paio di buone scarpe e su bisogna andar.
Krine rimiri timico uvi, lapidi pulini miriri, shen zu mawer ferjinji temili, adfilo finimen geremi omori, aspiri minimi nimiki jer pericli.
Noi respiriamo nell’aria, meccanicamente la nostra mente meccanica ci lancia un impulso che ci fa assorbire e poi espellere il fluido rosa proveniente dal lato oscuro della Luna.
i, uno dietro l’altro in fila indiana, il batterista gioca coi piatti, il sintetizzatore freme sfere colorate bagnate di pioggia sporca, le formiche rosse ostacolano il mio cammino, le o con un balzo atletico ma non troppo, non vorrei calpestarle.
La montagna sibila dal vento, fruscia per i torrenti gelidi, le mie forze si moltiplicano man mano, andando avanti la mia mente si rischiara, si libera dal peso grigio della città incolume e come un giglio arancione fiorisce fra l’erba aspra.
Scaccio via i brutti ricordi, le amare sensazioni vengono spazzate altrove dai polmoni che si riempiono di nuvole bianche, grigia e verde mi mimetizzo a mala pena sul terreno bruno, gli alberi alti mi osservano maestosi.
Cantando un pensiero sciolto dentro me mi inoltro su per i pendii articolati, meticolosamente seguo il mio sentiero, la speranza si fa verde smeraldo, le rocce sospirano un soffice incantesimo magico.
Maiku a fuori dal tempo con le sue gambe di legno di betulla dalla corteccia trasparente, ha l’aria intelligente, non perturba il nostro fare, ci lascia stare, ogni tanto si siede a riposare, amore.
Amore elettrico possiede nei suoi occhi ad alto voltaggio, si unisce al nostro bisbigliare come solo un esperta pettegola saprebbe fare.
Percepisco strane sensazioni, dondolo in un’atmosfera di riverenza intima, con delicatezza atteggio le mani a conca e bevo dalla sorgente pura che sgorga dai fiori gialli, il mio ego è sceso dal suo piedistallo.
Cika bum, cika bum bum, tutto ciò che tocchi e tutto quel che vedi è quello che la tua vita sarà per sempre, il solito fluido rosa scorre nel mio sangue denso e materiale, mi trasformo in un animale.
Salgo verso il cielo azzurro come non mai, mi sento eccitata sotto le unghie, sono imperdonabile perché ho lasciato Giorgio in città, mi piacerebbe essere in sua compagnia in questo momento.
ano le ore, il sentiero scorre veloce dentro i miei occhi attenti, d’un tratto, dopo aver camminato non poco, mucca persa allo sbaraglio, da uno spiraglio di rami intrecciati scorgo una macchia blu come gli occhi di una dea triste, corro felice verso quella che si rivela una conca piena d’acqua, un lago, allora corro ancora a perdifiato lungo le sue rive osservando le rocce che lo circondano.
Mi fermo esausta ma soddisfatta verso metà del percorso, ho trovato una grotta,
l’apertura è abbastanza ampia per arci in piedi, l’oscurità subito la permea, mi divora la curiosità.
Porto pochi i ritrovandomi al confine fra l’ombra e la luce, vuoto, infinitesimale, urlo, c’è qualcuno ?
C’è qualcuno, qualcuno, lcuno, uno, o, sì, s’avanza verso me il bagliore di due occhi, chiasso nella mia anima, rompicapo intraducibile recondito mi sorprende, Ciao Maiku io sono Taugi, sono contento che tu sia arrivata, come è andato il viaggio ?
Si mostra davanti a me uno stranissimo uomo dai capelli e dalla barba lunghissimi, neri, brillanti come onice, i suoi occhi, neri, brillanti come onice mi guardano curiosi.
Bene, ma veramente lei è il grande mago Taugi, io… Sì ma non chiamarmi così, è sufficiente il mio nome e poi soprattutto dammi del tu, io farò altrettanto cara ragazza.
Acqua e sapone, vento e cotone, ritornello prezioso per un esperimento ardimentoso, il freddo accarezza i miei capelli scompigliati da quando mi sono fermata ad ammirare le meraviglie di questa terra ricca e feconda.
Mi accoccolo in me stessa sviluppando energia eterea che si disperde nell’ ambiente circostante, velocemente.
Sento il ghiaccio fra le mie cosce farsi tiepido e lunare, l’erba lunatica scorre fiumi di fluido rosa, il lago di San Friccico respira amore e fraternità dalle sue rive, sgorga in lacrime del giudizio tenere come il latte di una madre povera.
Tu mi guardi scomparire, chiudi la porta e getti via la chiave maga che sotto un sasso, covo di serpenti arrotolati, si riposa eterna come la mia anima.
Fingo di essere affaticata ma il corpo sprizza gioia da tutti i pori, ho raggiunto la meta, di tanti sforzi metafora appagante, credo in me stessa come solo il mio amante ha fatto finora.
Schiaccio un pisolino fra me e me abbracciando me stessa, sono una donna di smeraldo grezzo, sto per dare via il mio cuore, P, dammi una ragione per amarti, per essere una donna, P, sempre e solamente P, semplice ed efficace, gatta procace circondata da fiori fungiformi, rotondi colorati, sobri come il vino rubino in primavera.
Chitarra smorzata, anche se di solito si smorzano le candele accese, piango ma le lacrime non sgorgano, esse scorrono nelle mie vene annacquando il sangue rosso di dura pasta.
E’ tempo di muoversi, ma non per nulla sono qui, perdo la sensibilità del naso in un momento di tenerezza opaca come le radiografie del medico più esperto, argento fotografico, rimbalza polvere nei miei occhi sagaci.
Spinaci, gusto amaro in bocca, la mia lingua si tira indietro come la lumaca rientra nel guscio suo a spirale concava, casa mia è lontana quanto l’anello pacchiano dalla sottana finemente orlata.
Rullano le dita tese al Sole timido, eppure non ricordo cosa ho fatto nell’ultima primavera, forse ero da sola, forse lavoravo o stavo zitta senza labbra per parlare.
Non ci sono problemi se aumenti il volume, kia distorta, dalla gola mi esce un singhiozzo istintivo, prima ero solo una piccola sezione di carne semovente, ora sono quasi una bestia senza motivo, senza ritmo da perdere in costumi o tradizioni inutili.
La vita è solo un gioco ad incastri od un castello di carte poggiato sulla pianura di sale, ci tirano in ballo per divertirsi alle nostre spalle e noi non possiamo fare niente se non partecipare al gioco, nostro dovere vincere o perdere, lasciarci portare dimenticando gli amici che ci stanno alle spalle.
Proteggo un piccolo uovo bianco puntinato di nero che regge le pressioni più intense ma muore dal freddo se l’abbandono, il rumore è mio nemico in questo momento solido, insolita musica percepisce la mia presenza in un mondo fatto di altitudini e paesaggi innevati.
Mi schiarisco la voce come se a momenti dovessi pronunciare un discorso od intonare una canzone davanti ad un folto pubblico intestardito dalla mia presenza, Maiku non si aspettava questa accoglienza fra le montagne, sperava in un colpo in fronte, a seguire, una morte senza troppe pretese…
Qui inizia una riflessione postuma, di poche pagine, di poche pretese, dalle troppe speranze e assolutamente non congrua agli ingranaggi del messaggio subliminale che costella gli appunti del caso.
Sembrerebbe, parola che a me da fastidio leggere, una canzone triste, lacrimosa, lamentosa, invece non è altro che un piccolo omaggio apatico alla mia vita di donna, Maiku, libera e oppressa, montante o sconnessa, puerile e perplessa. Recita questo.
L’ elefante maiuscolo, bardato per la nobile guerra, attraversa il fiume freddo d’autunno con le zampe impresse nel fango sul fondo, la proboscide è alta come una bandiera, chi lo cavalca non si cura del proprio peso spronando l’animale al guado.
Con la mano ti piove un barlume di buon grado immesso in qualche rete di scarico innaturale, sintesi proverbiale da rivedere con calma, quando le pedine saranno disposte per il semplice gioco della dama questa si ritirerà nei suoi appartamenti.
Delirio, il delirare mi è compagno fedele nei miei movimenti da principiante, chi mi capisce lo è, chi non più di me, solo un povero pazzo poteva affidarsi al caso ed alla fretta curatrice di una traccia non corrisposta.
Vorrei poter esser come tu mi vuoi, pensavo di essere speciale, ma sono triste ed infelice, tu mi lasci senza il tempo di capire neanche il perché, mi abbandoni in un momento periglioso di cui non vado orgoglioso, periodo schifoso di frattura con il cosmo.
E penso, ho perso il posto che avevo in casa tua, vicino a te, ho perso un prezioso abbraccio quotidiano perché non ero sano, ma la pazzia non è contagiosa, o forse sì, magari si trasmette attraverso la densità dei costumi intimi esteriori, magari.
Kia ubriaca, meglio fare questo che prostrarsi ad un mondo di schifezze inutili, cogliere un fagiolo per lasciarne altri cento a perire taciturni nel campo, ai corvi a esser mangiati, da un becco storto trafugati, bel destino per un postino mingherlino.
Tradurre e rendere, sono hacker di me stessa, chi mi dice fessa, chi consiglia sii te stessa, l’importante è andare a messa tutti i giorni tranne la domenica, rallentate il ritmo, risparmiate un tiro ad ogni virgola.
La scodella dei dolciumi è vuota da tempo, da quando è ato il tempo delle feste, fuori i mandarini crescono arancioni, sull’erba poggio un piede nudo, l’altro lo tengo sollevato come fanno le gru, pacifici uccelli, o come usano i danzatori più maldestri.
Righe di sabbia fine, bianca come il tulipano bianco, che probabilmente nemmeno esiste o almeno io nella mia fiorita ignoranza floreale non l’ho mai sentito nominare, comunque righe di fine sabbia che ordino con rabbia illogica, melodica, questa poi per me è una novità assoluta, illeggibile dal punto di vista della fragranza, comprensibile a tratti secondo l’ottica del mugnaio più raffinato, movimenti meccanici del suo mulino.
Il mio è mosso dai terremoti, la fata-stregaccia Telluria mi racconta sempre una storia quando vado a trovarla nel deserto degli scheletri rosi, improponibile per la moltitudine dei sani di mente ma efficace per chi possiede un barlume di malinconia da manicomio in sè, gira su sé stessa la forchetta, alleata del palato a meno che non affondi troppo nel mare della follia improvvisata.
Soffermarsi a capire è il diletto di pochi sognatori nostalgici di avventure trasmesse da emozioni di un singolo uomo approssimato alla fatica creativa che come piuma leggera, più volte ripresa e ripetuta, si pone sulle sue dita sporche da
cane pastore.
Creare, distruggere, regalare o ricevere in dono, questa coppia di opposti si affianca per la prima volta nella mia mente, chi pone le regole è maestro di vita o come minimo ha molta esperienza, peccato abbia poca delicatezza nel darlo a bere.
Tutto d’un fiato, singolo flauto immerso suo malgrado in un’orchestra di archi dal suono viperino, si sofferma inutilmente a lungo su una singola nota che viene soppressa dalla professoressa.
Prendi cara la compressa, il miracolo odierno che ti renderà felice e sterile, oppure non farà effetto, questo è il rischio, sia ben chiaro, ma tu comunque ne pagherai le conseguenze.
Confidenze di una spregiudicata pregiudicata giudicata colpevole con effetto eco sulla sua vita immobile come una statua di marmo incompiuta esposta in un museo dai i taccuti, commentano uomini barbuti il silente da fare, sperano che tu non ti possa lamentare, fino a quando non ti ritrovi a remare con le tue sole forze, controcorrente, contromano, contro tutti.
Tremano le foglie al are del vento, sento conforto in gola da quando sciolgo una caramella al miele, si appiccica alla lingua, non chiedo meraviglia se non una confezione di ammortizzanti postronici in regalo al milionesimo cliente.
Sempre la stessa musica che si ripete, il fluido rosa non mi stanca mai, poggio in silenzio i miei piedi di celeste astronauta sul lato oscuro della Luna, che non si vede mai, che non esiste, lo dice in sordina il cantante addormentato quando il
suo cuore finisce di battere all’unisono con l’universo fratto.
Taccuino per gli appunti, misterioso oggetto irresistibilmente adornato da disegni originali a penna nera o blu a seconda delle circostanze, dittongo inesistente, possiedo tenere papille gustative per fare di meglio ancora, su questo pianeta rigido d’inverno ed affollato d’estate.
Kuru kuru kuru, mi sembra di essere in un groviglio di perplessità, dove tutti hanno gli occhi a mandorla e adorano il pollo, Pon, ariky bon, poi con la cioccolata, condensato di teobromina, scartabellano i percorsi nascosti della mente sviluppando poteri soprannaturali, a volte indecenti, per lo più sconvolgenti.
Sfuma come un gelato che si squaglia sotto il Sole cocente, piano sgocciola, saporose per le vespe, gocce che si impregnano con la rena
della spiaggia, il mare battente le porterà via dando zucchero al sale, concentrandosi Poseidone potrà riconoscerne il gusto tra mille correnti fredde o calde, gelide o tiepide, lente o veloci.
>Fra le alghe si mimetizza dall’abile cosmesi un pesce palla, non dice mai bugie, si gonfia di follie spinute, come faccio io, Maiku, quando non c’è altro da fare, sono sola e magari perdo il lavoro tanto odiato.
Ascolto note purpuree smerigliate da polvere plumbea, ormai per inerzia, il pianoforte si contraddice spesso, sottile la chitarra imprime un che di chiarezza alla voce che appare e scompare, si fa di rana o poi di merlo, seduta sullo sgabello inviolabile percuoto con bastoni immaginari un vibrafono invisibile,
non sbaglio mai, l’esecuzione risulta perfetta, esprimo un concetto inverosimile.
Imprimo nell’aria sfere precise, secondo l’umore del pubblico suono più forte o più piano, carezzo le piastre, mi destreggio in virtuosismi elettrici che farebbero invidia alla più vicina officina, sudata mi accontento di un applauso a scena aperta, il popolo è in delirio, conchiudo il mio destino in uno stagno di putride essenze senza spirito che mi assorbono secondo il solito scolastico luogo comune dell’arroganza.
Se trovo un rifugio per l’anima non è colpa mia, decreti, ordinanze, direttive, circolari, annotazioni, di calce è fatta la mia spolveriera, che esista oppure no non mi interessa, so solo che non è utile in una vita di concili universali, dove il male si camuffa e il bene ha perso in partenza, sottolineato in rosso da una macchina pistina che a volte sbaglia, errare è umano.
Sono fuori strada eppure non mi lamento del mio essere sconvolgente, assente per una maledizione che giunge dall’ alto, piramide comunicativa astratta, si distingue dalle rocce per la sua forma precisa e scolpita, posta in fretta sulla terra minerale mi adagio con calma sullo strato biologico che assomiglia molto ad un presepio senza statuine, il personaggio principale sono io ma non esisto.
La chitarra miagola un contorno di atmosfere conturbanti, il mio cappello stona col tutto, Giorgio avrebbe sparato un rutto, io, Maiku, sarei rimasta in silenzio ad ascoltarne l’eco robusta nella stanza composta da sottili pareti di coralli e spugne tra cui si nascondono alcuni esseri dallo sguardo inespressivo o perennemente sorpreso, almeno per esperienza compreso, esplode la canzone composta per un bambino indifeso che si rilassa su una sedia di legno, profondamente arrugginita.
Poi muta lo stile, P, canta una ragazza drogata di jazz, si gioca il tempo dell’anima, prima di andar via verso un paradiso di contemplazione satirica,
nuove amicizie, nuove ragioni per andare avanti vivendo su un pianeta che non rimane mai fermo, ruota, tutte le filosofie lo dicono, esiste una ruota o da qualche parte un cerchio.
Perché se c’è scritto tale cosa ho letto altro ? Ho capito male, il mio trucco si scioglie verso l’alto, infatti rido, secca di un riso e soya, solita nella mia noia, il mio trucco si scioglie verso l’alto fino a tingere i capelli di striature farinose, mi trasformo in una creatura nuova dall’ aria innovativa, sono fiera di me stessa e deleto il mio ato battendolo con la gomma pane.
Ritmicamente, periodicamente, a volte mi distraggo, ma non penso ad altro, semplicemente spengo la mia attenzione senza darle una nuova direzione, sono tutte sensazioni forti come il fendente improvviso di una spada nemica che ti fa saltar la testa, il tuo corpo o quel che resta cade, dapprima s’inginocchia, a volte resta tale, immobile, oppure si sdraia sul sangue che schizza forte fuori.
Divano, è un privilegio averne uno, possedere il tempo per farne uso, lavarne il tessuto che il cane ha sporcato lasciando il segno delle zampe, capita che il gatto lo rovini graffiandolo per farsi le unghie, spesso mi ci appisolo.
Ho smesso di fumare, non mi sono portata dietro neanche una sigaretta, ma adesso ci vorrebbe, potrei offrirne una a Taugi ma sicuramente non gradirebbe, ebbene stanno sulla medesima traiettoria i nostri sguardi, respiriamo la stessa aria, mente meccanicamente meccanica s’avvolge di trucioli di matita temperata, lunghi lunghi come giocano i bimbi alle prime braccia con il disegno colorato.
Questo crea un’anestesia al sapore elettrico di graffite grassa, che piano piano, come dolce un pianoforte suona fra mille vuote bottiglie che portano mille candele accese a consumarsi profumando l’aria di cera calda, mi rende blu dalla testa ai piedi, come la notte di primavera quando la Luna è appena nata fra
piccole stelle che lasciano la scia se le osservi a lungo, alcune la cullano, altre soffiano polvere blu di zaffiro ad impregnare un velo blu dagli orli blu che insiste nel blu e nel blu prosegue la sua corsa, portata dal vento che non è mai spento, non poggerà mai piede sulla terra ne si immergerà nelle acque, ma solo al parco dei piccoli giochi si dondola in eterno sull'altalena retta da forti catene d’acciaio. Save.
CERTAMENTE SONO NEL GIUSTO.
And so siamo insieme, io ed il grande maestro Taugi, nella grotta casereccia, a piedi scalzi davanti al fuoco primordiale, atteggiamento cordiale, il fumo annerisce il soffitto di roccia, i tuberi e le radici si cuociono nella pentola ribollente dell’acqua del lago di San Friccico.
Il buio prende parola costringendoci a rintanarci nel nostro accogliente buco primitivo, regna il silenzio di ombre proiettate contro grezze pareti tempestate di diamanti immaginari, la legna arde, i lupi ululano alla Luna, kia vibrante e riverenziale.
Ma io penso a Giorgio, a quello che magari sta facendo, ai suoi fraintendimenti, alla mia fuga, il grande maestro è attento, mi segue e mi guarda con comprensione evidente, la sua fronte ampia sporca di cenere, i suoi occhi limpidi colmi di saggezza.
D’un tratto, come colto da improvvisa ispirazione, il grande mago Taugi inizia a parlare, con voce chiara e profonda, quando s’interrompe è ripreso da una repentina eco, tiene le mani ferme appoggiate sulle gambe incrociate al terreno, è sereno.
Cara ragazza, Maiku, la tua presenza qui significa soltanto una cosa, tu hai bisogno dei miei insegnamenti, Sì Taugi ne ho bisogno davvero, Cara Maiku tu hai tutte le doti per raggiungere la più ampia delle conoscenze spirituali, io ne sono consapevole, Maestro non credevo, io ho sempre pensato di essere una normalissima ragazza come tutte le altre, devota a te al pari delle mie amiche Kumiko Sae e Clarissa.
Ah certo le tue amiche, fanciullezze, non hanno certo le tue capacità di concentrazione, sono svogliate, impigrite dalla ricchezza, mi stanno antipatiche, non ho nessuna voglia di conoscerle, mi cascano le braccia pensando che compivate quegli stupidi riti perdendo ogni volta un dente, cara ragazza, io ho cercato di avvertirvi in sogno, ma evidentemente non vi ho raggiunto con la chiarezza che desideravo, devi sapere che quella pratica è un trucco della strega rompi-cuori dell’isola Marekka, voi non facevate altro che potenziare le sue formule malvagie ed opprimenti, io non vi avrei mai chiesto un simile sacrificio.
Quindi ho perso tre denti, un molare, un canino ed un incisivo per niente, le formule magiche sono un imbroglio, era la strega che si impossessava dei nostri corpi.
Esatto, comunque, cara Maiku hai portato con te quello che ti ho chiesto ? Sicuro, ecco le tre caramelle alla ciliegia, Ottimamente, brava, allora sei pronta, hai tutto il necessario per affrontare la prima prova da superare fra queste montagne.
Cosa devo fare? Semplice ma complicato, inutile quanto essenziale, dovrai offrire, nell’ordine, la prima gustosa caramella allo scoiattolo striato, la seconda caramella al lupo grigio, la terza caramella all’orso bruno.
Se otterrai la fiducia di queste tre creature ed esse apprezzeranno il dono da te offerto, avrai concluso con successo la prima prova accedendo a quella successiva, la seconda prova che ti illustrerò, forse, a tempo debito.
Ritorna il silenzio nella grotta, tutto tace ed in pace mangiamo i tuberi e le radici che si sono ammorbidite bollendo sul fuoco, Taugi è uno straordinario cuoco
dell’inimmaginabile, ricava cibo da qualsiasi cosa si possa trovare tra le cosce di queste montagne.
Da quanto ho capito si inizia a fare sul serio, domani mattina mi alzerò all’alba ed andrò a cercare i tre animali per superare questa prima prova, devo concentrarmi a lungo questa notte, mi farò una bella dormita sul letto paglierino, che carino.
Luci e ombre vagheggiano mescolandosi in una danza primitiva dettata dal fuoco che è sempre fermo eppure si muove continuamente, come disse il grande Eraclito, Sun is the same in a relative way, come dissero i Pink Floyd, accà nisciuno è fesso, come disse Mimì o Scurnazzato.
Kia assonnata, ho camminato molto oggi, mi sembra giusto andare a nanna, non prima però di aver fatto i miei bisognini dietro un albero nella boscaglia, ritorno nel nostro buco nella roccia e vedo Taugi che pone con cura e devozione un grande pezzo di legna nel fuoco, perché si consumi lentamente durante la notte e ci protegga nel sonno.
Poi contemporaneamente andiamo a dormire, ognuno nel proprio cantuccio, sempre all’interno del caldo raggio prodotto dalle fiamme, da come mi sono adagiata, sdraiata e accoccolata capisco che mi addormenterò quasi subito in preda alla stanchezza naturale di una donna non ancora madre. (*)
La mattina giunge con inaspettata freschezza ed i raggi del Sole mi svegliano, si è appena diradata l’alba mentre Taugi sta già sistemando il fuoco per evitare che si spenga.
Vado al lago e mi sciacquo la faccia prendendo l’acqua trasparente e gelida fra le mani poste a conca, ritrovo finalmente me stessa, guardo il cielo, le nuvole sono state spazzate via dal vento con estrema cura, la natura brilla, respira fra l’azzurro e il verde.
Con estrema calma e cautela mi dirigo verso il bosco per affrontare la prima prova che il grande mago mi ha assegnato, devo trovare uno scoiattolo striato prima che venga la notte, allora mi concentro mentre cammino, mi immergo nel tutto con pacifiche intenzioni, i miei pensieri convergono da cento diverse direzioni, ho le caramelle nella tasca sinistra dei pantaloni, ne tiro fuori una, la scarto, color rosso ciliegia, intenso profumo di frutta. Ho una strana sensazione.
Vedo subito una creatura sul ramo di un pino, la guardo con occhi bonari, con voce delicata timidamente la invito a scendere, mostro il dolce confetto sperando che il suo odore l’attiri a me, ci riesco, lo scoiattolo scende velocissimo dall’albero, posso notare con chiarezza le striature bianche sul dorso.
Si ferma seduto ai miei piedi tendendo verso l’alto le zampette anteriori, mi chino e senza indugiare gli porgo la caramella, la bestiolina l’afferra, gli dà una leccatina, poi mi guarda e senza pensarci troppo scappa via, risale sull’albero, entra nella sua tana.
Dopo pochi istanti esce di nuovo portando con se una ghianda, squittisce dal ramo e la lascia cadere verso di me, io con un riflesso pacato la prendo al volo, sorrido e la metto in tasca, se ha fatto tutto questo significa che ha apprezzato il mio dono, Taugi sarà soddisfatto.
Non è ata neanche mezz’ora ed ho già portato a termine la prima parte della missione, complimenti a me stessa, brava Maiku, continua così.
Ma adesso le cose si complicano, devo trovare un lupo grigio, non ho paura, però penso che non apprezzerà il dolciume alla frutta essendo prettamente carnivoro, fra queste elucubrazioni mi immergo nella fitta boscaglia costeggiando la montagna.
Ho di nuovo quella strana sensazione, come un fruscio dietro di me che mi segue, mi volto più volte ma non scorgo nulla e nessuno, gli alberi mi carezzano, mi schiaffeggiano, si prendono gioco di me.
Dopo quasi un’ora di cammino mi trovo sulla riva di un torrente che si allarga nel breve tratto pianeggiante a seguire una cascata, dall’altra parte vedo con grande sorpresa un branco composto da un lupo bianco e tre lupi grigi, si abbeverano.
Subito le bestie iniziano a ringhiare fra i denti, io non mi scompongo, tiro fuori la seconda caramella e tenendola sul palmo della mano destra, in bella mostra, chiamo a me il branco con voce decisa.
Guadano il placido ruscello che profuma di terra bagnata, il lupo bianco si tiene in disparte, i tre grigi si avvicinano sempre ringhiando, il primo che arriva, il più coraggioso, tranquillizzandosi annusa la caramella con estrema curiosità, ancora quella strana sensazione, sembra che qualcuno oltre ai lupi mi stia osservando con attenzione.
D’un tratto la selva mi molla una zampata sulla mano, il dolce cade per terra e i tre grigi, sbattendo i nasi l’uno contro l’altro, cominciano a leccarla avidamente, il bianco osserva composto la scena.
Decido di lasciarli in pace a godersi il loro bottino, tanto ormai la seconda parte della missione è conclusa, chiaramente i lupi grigi hanno apprezzato il mio dono.
Vado adesso verso l’alto, verso la cima della montagna, senza fatica trovo una grotta, all’entrata di questa è seduto un orso bruno, bello sornione e pacifico.
Per sicurezza prendo in mano la terza ed ultima caramella, la tengo in alto fra il pollice e l’indice, in questo modo l’animale capisce che le mie intenzioni non sono cattive e sentendo il profumo di dolce e di frutta si incuriosisce accettando la mia presenza, la mia compagnia.
Mi avvicino guardandolo fisso negli occhi, l’orso rimane seduto comodamente e non si scompone neanche quando gli metto la caramella sotto il naso che sembra scolpito nel legno, anzi l’annusa a lungo poi si gira e grugnisce più volte.
Dal nero della grotta esce un piccolo d’orso, dal manto bruno, si avvicina con o indeciso, papà orso grugnisce ancora verso di me così io capisco che il dono va offerto al piccolo e non a lui, allora o il dolce al cucciolo che lo inghiotte con voracità strappandomelo dalla mano.
Il grande orso si sdraia a pancia all’aria, suo figlio gli sale sopra balzellando come una scimmia da circo preso dalla felicità, commossa da questa scena da documentario per l’infanzia abbandono il campo tornando sui miei i.
Mentre cammino verso la grotta di Taugi mi accorgo di non provare più quella strana sensazione di prima, mi sento sola, comunque mi ritengo ampiamente
soddisfatta, ho compiuto la missione ancora prima dell’ora di pranzo, ho fatto bene a partire così presto.
+La gioia dentro me si realizza quando vedo la faccia contenta del maestro, mangiando tuberi, radici e qualche fungo bolliti, racconto con fierezza le mie avventure, sembra però che il grande mago, oltre a fidarsi ciecamente, sappia già tutto quello che ho fatto nei minimi particolari e non pone nemmeno una domanda.
Ho capito, ecco il perché di quella sensazione, era lui che mi seguiva di nascosto, evidentemente per accertarsi dei miei risultati, non commento, non mi rivelo, fingo di non aver compreso e mangio, soprattutto mi fanno gola i funghi, sono affamata.
Finito il pasto Taugi mi guarda con occhi di fuoco, cara Maiku, hai superato con successo la prima prova, ora ti dirò in cosa consiste la seconda, dunque tu devi inventare una poesia e poi scriverla a tuo modo nella terra, nell’acqua, nell’aria e infine nel fuoco, sei i tuoi versi saranno graditi a questi quattro elementi divini allora avrai concluso con successo la seconda prova ed accederai alla terza.
Naturale, si tratta di comporre una poesia, poi mi cimenterò con la scrittura elementale…
…tela di ragno ed io sono nel mezzo, C, metto subito al lavoro la mia mente, mentre lavo la pentola al lago, mentre cammino lungo le rive, penso intensamente, mi concentro, spero che non ci sia bisogno di fare la rima, al liceo componevo spesso poesie e le scrivevo sul mio diario personale, devo inventare, inventare.
Magari una poesiola breve che sia però efficace ed intensa, ci sono ecco sì, questo è quello che cercavo, vado subito a scrivere sulla terra.
Prendo un sasso appuntito e trovo un tratto di parete liscia sulla roccia alla sinistra dell’entrata della grotta del maestro, incido le parole con tutta la mia forza, rimarranno, come un graffito, per sempre impresse su questa montagna ed i viandanti potranno leggerle riposandosi sulle rive del lago.
Adesso devo scriverla nell’acqua e le cose si fanno complicate perché il liquido non accetta il dito come penna magica per lasciare scritti impressi sulla sua superficie, devo inventarmi qualche altro metodo.
Allora raccolgo diciassette sassolini bianchi, diciassette sono le parole della poesia, mi concentro sul primo tenendolo in mano e ripetendo mentalmente la prima parola, in questo modo la pietra si carica di un significato ben preciso.
Poi butto nel lago i sassolini uno dopo l’altro, adeguatamente caricati, questi raggiungono il fondo e, come una pastiglia effervescente in un bicchiere d’acqua, liberano la poesia al liquido elemento trasparente.
Per scrivere i miei versi nell’aria ho già in mente una via ben precisa, vado da Taugi e recito ad alta voce :
SONO IL RISO CHE PIANGE, IL PIANTO CHE RIDE, I GATTI CHE CANTANO
E CADE LA NEVE.
Il vento così porterà le mie parole lontano, fra gli alberi, sulle nuvole, fino alle stelle se necessario.
Subito dopo trovo un pezzo di legna abbastanza grande, ci incido sopra la mia poesia con il prezioso coltello del maestro e lo butto nel fuoco, il legno arde e brucia lentamente, così questo caldo elemento divino potrà meglio comprendere i miei significati, così ho scritto nel fuoco.
Arima, peli opili nefriti rieti, kazumi trewi ozerumò telopi, siamo nella grotta al calduccio, io ed il grande maestro Taugi, Cara Maiku, hai superato con eccezionale abilità ed intelligenza le prime due prove, ora ti svelerò quale sarà la terza, nulla di più semplice, dovrai toglierti la bocca davanti a me, so che ne sei capace e sono molto curioso di vederlo fare.
Attimi di silenzio lunghi come la coda di un cavallo ben strigliato, Sì, accetto, però ho bisogno di un contenitore pieno d’acqua per riporla, certo, lo immaginavo, prende da un angolo buio una pietra scavata a conca, all’interno c’è dell’acqua di lago, L’ho fatta con le mie mani aspettando la tua venuta, spero che sia adatta, Oh è semplicemente perfetta.
Mi porto le mani alla bocca, afferro le labbra e tiro, dlip, vengono via con la solita facilità, ripongo la tenera carne vivida nella conchetta fatta apposta allo scopo e guardo il maestro con i soliti occhi tiepidi.
Il tempo è andato, la canzone è finita, il fluido rosa si addensa sulle guance rendendole colorite come dopo un forte pizzicotto, scaldiamo le ossa al fuoco,
rintocca la campana di ferro con i suoi discorsi oscuri a senso unico, la Luna è alta ma non è ancora piena come dovrebbe.+
Piccoli particolari mi sfuggono fra le dita dei piedi come la sabbia ad ogni o, arriva alle mie orecchie un’onda bassa e lunga che fa vibrare i polmoni e lo stomaco, carta bianca che si ricopre di acquerello coloratissimo dai toni smerigliati, il gas inebriante mi gela l’esofago.
Correggo errori con il semplice movimento di un dito fra tessuti ricamati a mano dalla signora più anziana ed esperta del paese, giudico me stessa, prego per il bene dell’umanità, affido le mie speranze ad un magnete scarico che da tempo ha smesso di attrarre anche il più sottile metallo.
Mi muovo carponi, afferro la polvere con le mani, sento la pesantezza della forza di gravità sulla mia schiena, schiava di un mondo chiuso col lucchetto d’acciaio, rimprovero le galline stanche di rotolare nella fantasia dei campi di grano, tu produci il cambiamento in questo universo ed in espansione perpetua, tu urli e nessuno sembra ascoltarti, ti rivedrò sul lato oscuro della Luna.
Ride con grazia la mente instabile del matto di turno, la clinica è piena di pazienti in attesa, la medicina non arriva, il dottore si allontana, le corsie sono spente ed automobili da corsa sfrecciano a tutto gas per i corridoi freddi color tabacco e panna.
Chicchi di grandine ricoprono in fretta le strade, un albero morto gioca col vento, un bambino malato percepisce lo spavento, giuda è contento perché ha baciato Gesù, il gatto dalle nove code non sa dove saltare, la testa brucia apparentemente vuota di brutture.
Poche pagine di giornale ricoprono il giovane barbone che dorme sotto il ponte grigio in questa stagione fredda, kia preoccupata, la signora spalma la marmellata sul pane azimo tagliato sottile per la festa dell’abbondanza.
Il mare produce grandi onde che corrodono le rocce del promontorio magico, solo terra fertile ricopre la mia fronte di donna libera, fremiti, respiri, sibili impercettibili confondono le idee al viandante che si accampa la notte fra le radici del grande albero del pane.
Il danzatore fatto di gomma salta sul pavimento liscio e apposta scivola per far scena, la regina dalla corona di plastica riciclata corre nel labirinto del grande giardino dei sogni perduti, voci lontane chiamano insistenti il padrone dei pipistrelli volpe, cola la resina profumata lungo la corteccia umida di nebbia bianca.
A volte dimentico che la fortezza è stata abbandonata da tempo ormai, la strada non esiste più, alla fine la madre lascia che il figlio si sciolga nella società, ricopre il tutto con zucchero a velo e serve la torta ancora calda.
Calda come un abbraccio fra amanti, unica verità in un giro di finzioni, quando la pioggia è inutile allora è Dio che piange, si accorda un’orchestra intera, il direttore è impaziente, la bacchetta fra le dita freme, ogni nota è un seme che germoglia nel cuore portando via il terrore.
Finalmente il Sole è esploso lasciandoci a riposo per l’eternità, nulla di noi più sarà, conclude la filastrocca un segno incomprensibile fra le righe storte del compositore senza talento, rimane nascosto il segreto delle montagne rosa.
Tante case di mattoni rossi si abbarbicano l’una sull’altra creando un impero facile da conquistare, impossibile da distruggere, l’olio sulla carta lascia trasparire le emozioni di un singolo poeta in vena di scherzi, chiacchiere scandite dal vino-fragola, otto portenti seduti a tavola, rimango io nel mio osservatorio astrale a cercare il pianeta dei sorrisi fragili.
Sul calendario impreciso è segnata la data del mio compleanno, penso troppo poco, ridicolo lo spazio che ci separa dal domani, quando il fucile spara l’anima sussulta, solamente io posso arrivare alla fine di questa commedia spenta, noia perplessa di un vecchio marinaio sulla sedia a dondolo, la pipa fuma, i gabbiani strillano.
Giorno di bambole che frigge e distrugge le umanità uggiose, mosse pericolose ti segnano il volto, prima imibile, ora impossibile, ridondante di espressioni semplici, traboccante di significati, estrema rappresentazione astratta del contratto sociale stipulato al momento della nascita, mi piace essere qui quando posso, con una lattina di birra in mano e poche idee fra i capelli.
Che senso ha continuare in questa direzione, quando le indicazioni sono sbagliate, polpette vegetali incompiute radunano ioni attorno, lievi concessioni creano concomitanze isteriche, compressione fatale dall’incipit banale, ricordo la fine ma ho scordato l’inizio, eppure ho letto con attenzione dall’inizio alla fine, eppure ho studiato con cura questo libro dalla copertina magica, dall’inizio alla fine, dall’inizio alla fine.
Si spegne l’avventura di una notte con una sigaretta dopo un caldo caffè, tutto bene ma fingo, non lascio intravedere le mie reali condizioni d’attore in bilico sul palcoscenico, altissima realizzazione dello spirito intimo e ubriaco, condivido la gloria con un vecchio amico che mi ha aiutato ad arrivare fin quassù, penso a Giorgio e mi si apre una ferita nel petto lunga quanto un serpente arrotolato sotto il macigno del dopoguerra. Ogni realizzazione timida è realtà.
Ho paura di morire nel vento freddo che, mescolandosi con l’acqua in superficie, produce suoni nuovi alle mie orecchie, sono nata da una sirena nel mare, impazzita d’amore, pietra del rancore, i cercatori d’oro setacciano il fiume dall’alba al tramonto per pagarsi la stella più preziosa, la tranquilla lunga folta barba della comione.
Ogni tanto mi apprezzano, mi ritaglio un angolo di successo, a caro prezzo, poi sfuggo alla consuetudine insinuante e produco numerose lacrime di ghiaccio, strampalate come la mia percezione del tutto, rumorose come un coltello affilato, mi riposo sul letto dell’armonia interiore, assaggio fragole mature quanto velenose.
Ogni domenica è segnata, ogni svolta è conquistata, la storia poteva andare meglio, potevano esserci meno roghi, meno guerre, ma il futuro non esiste, il ato è incerto, solo il presente ci fa vivere come un pescatore che si affeziona all’acqua del proprio fiume.
Tale segno ci rafforza, tale altro ci conforta, qualche cosa ci apiona, quale altra ci rintrona, leccornie dallo strano accento ballerino ci scavalcano a più riprese, noi nemmeno le notiamo, nemmeno le vediamo, coglierle è impossibile ma trasgredire è un diritto inalienabile.
Guardati attorno, scegli il tuo proprio terreno, mentre le foglie secche vi cadono, strappate dai rami, pensa al tuo fabbisogno quotidiano e datti da fare prima di essere seppellito vivo dalle zanzare tigre, rivolgiti ad un esperto per comprendere l’inclinazione del tuo ego, rigurgita cibo per i tuoi piccoli pulcini nel nido floreale.
Guardo al mondo che turbinando mi assottiglia, riposta la testa fra le cosce mie, sento la palpitazione del mio corpo farsi inutile e sgraziata al momento dell’impatto, inevitabile quanto necessario, kia trasandata, mi chiudo nella certezza delle mie più intime convinzioni.
Ria danzando bevuto il cantore dell’oblio, i camlini strillano, la chitarra urla sotto le sue mani da esperto zappatore, la vita è lunga e tu sei giovane, mi dice, ascolta il canto che ho imparato nel deserto, riduci a zero le tue possibilità di fuga, rimuginare è inutile quanto fare arte, spogliati nuda, respira, certamente sono nel giusto.+
Il solito pianoforte, no, errore, questa volta è un clavicembalo dalla tonalità mercurica, imprime comunque una certa tristezza alla mia ività dall’elevato gradiente alcolico, simbolo di una ione eretta contro le ingiustizie, in posizione fetale, narcisismo letale, illogicità o metafisica ma certamente sono nel giusto.
Forme, ogni cosa, ogni essere vivente, persino le sostanze eteree, insomma tutto possiede una ben precisa forma per contrastare gli elementi, non ha magari un gran valore ma è preziosa, di materia composta, disposta ad ogni rifugio, la gente se n’è accorta troppo tardi senza poi darle il dovuto rispetto, chi rompe le catene è forte, chi le applica è debole, bisogna sfuggire alle regole per farne di nuove.
Sono assonnata, rilassata, comata, sconosciuta, le mie mani pregano involontariamente, la mia mente è afflitta, il mio cuore non regge questa situazione, penso a Giorgio, il mio ragazzo preferito, penso solo a Giorgio.
DAVANTI A TE
Arime teli poteri opili, minimix tremer sedice, la calma, la ione mi raggiunge, dentro di me si squaglia un gelato al cioccolato, sono sdraiata sul mio comodissimo letto, al mio fianco, ancora addormentato c’è Giorgio appisolato.
Nel frattempo leggo i miei pensieri, scritti sullo specchio col rossetto, dopo una notte intensa d’amore e potenza, imprimo nelle ossa alcune priorità ultime, necessarie allo svolgimento della mia vita.
Sono tornata a casa, non chiedetemi perché, il grande maestro Taugi mi ha salutata con la mano, non mi sono voltata a guardarlo, tun tum karmacoma, kia presciolosa, restare sulle montagne sarebbe risultato pericoloso per la mia anima cittadina e grigia, raminga, bigia, ho fatto la valigia prima di perdermi nella conchiglia sacra.
And so ho ritrovato Giorgio, il ragazzo uomo, nato da un uovo di pinguino, mito del vicinato, tempra d’acciaio, musica per i miei occhi, amico ritrovato sulle scale, l’ascensore è rotto, spirale di marmo bianco, avevo sottovalutato il solco profondo che egli ha scavato in me.
Restituisco indietro tutta la mia conoscenza, M:A., ascolto tutto quello che mi dice, federa remice, è più caldo di un grande fuoco, più nutriente di un arancio maturo, ha il polso sicuro, scaturisce da un vulcano attivo, il suo spirito è fragrante.
Giorgio è un pezzo di pane, io sono un pezzo di cioccolata al latte, la mia casa è un paradiso, mi mancava il riso con la soya, l’ombra delle tende che profumano di detersivo, la voce al telefono di un compagno, sarei impazzita senza tutte queste cose.
Tu vivi nella città e stai per conto tuo, M:A, allora la tua mente si trasforma, raggiunge la consapevolezza in maniera differente seguendo via più simile ad un marciapiede che ad un sentiero fra i monti.
Badadadè oh oh oh, sotto il grande lenzuolo che profuma di prezzemolo ci stiamo noi, i due gatti in calore ormai soddisfatti, randagi più che mai, contenti di esserci riuniti e senza pensieri brutti per la testa.
Attiro la musica nell’aria attraverso una macchina dalle qualità soniche eccezionali, la linea di basso è profonda, atmosfera, mattinata dal battito regolare, immaginando catapulte dai proiettili infiammati, vado in cucina con o da paperotta a piedi scalzi, tutta la gente batte le mani all’unisono, mi preparo un caffè silenzioso.
La caffettiera sì che è una maestra di vita, se cambi con regolarità la guarnizione ti dura all’infinito, io lo faccio sempre, sono precisa in questo.
Con riguardo e gesto abituale soddisfo un rito antico, subito dopo mi accendo una sigaretta, la prima della giornata, la dedico a Giorgio, ma se tu chiudi la porta non potrai vedermi mai più, velluto sotterraneo, blu decorato di banane argentee. La casa ora è in silenzio, subito prima avevo ascoltato con gioia il ribollire frusciante della caffettiera fumante, adesso si sente solo l’elettrico ronzio del frigorifero bianco.
Giorgio infatti, con un riflesso da sonnambulo, si è alzato ha spento la musica e si è rimesso a dormire, devo rispettarlo, con quello che stavo per fargli è il minimo.
Così apri la porta, dopo aver guardato dallo spioncino ad occhio di pesce, non mi prende non ci riesce, devo crescere per smaltire la sbornia, ciuppa ciuppa ciuppa, non posso crederci, sono una perdente baby perché non mi uccidi ? B
Non presto la mia mente ha pensieri antipatici, preferisco interrompere le connessioni neuronali, ed è per questo che dormo contenta, il sonno degli innocenti, pensa essere un malandrino e non poter dormire per i sensi di colpa, sarebbe un problema.
Seduta sulla sedia di legno laccato mi dondolo con estrema imprudenza, Giorgio mi dice sempre di non farlo ma è sempre stata un’abitudine irriducibile, il portacenere rosa sta perdendo chiazze di vernice ad ogni lavaggio, diventerà trasparente.
Che bella notte, a ripensarci mi viene la pelle d’oca per il piacere che ho provato a riabbracciare il mio tipo, la sua pelle di spugna, io, Maiku, animo da fontana accesa, oh Dio non voglio copiarti per poi offenderti fra le piaghe dell’umanità, ma io sono qua ed in qualche modo devo produrre.
I raggi del Sole entrano dalla finestra azzurra accompagnati dalla voce di qualche uccellino infreddolito che cantando si riscalda, tuddidi, mi sento fragile eppure forte, sì sono forte e guardo avanti, Smettila di dondolarti, Giorgio entra in cucina, Sei già li che fumi ? ma non ti vergogni donna dei miei stivali.
Davanti a te… davanti a te si spiegano le forze dell’essere morale, kia sincera, sei uno specchio d’acqua che io faccio evaporare, una chiesa in cui di solito vado a pregare, una fototessera senza documento.
Le linee di confine sulla carta si confondono con le strade e con i fiumi, le città sono macchie nere senza forma o diritti umani, la sbarra spaziatrice oscilla sonora, te lo dico io quando è ora, appollaiarsi su una sedia è facile quanto tradire la fidanzata in un giorno di pioggia.
Figure che ano lente all’interno dei miei occhi percettivi, ritornelli si adornano in conformità con le mie orecchie scavate, pitili memili tengono in mano la voglia di buttare via il tempo, macchina gialla per il cucito, gioco per bambini svegli.
Svegliati completamente, la solita spremuta d’arance per Giorgio, ne abbiamo in abbondanza visto il suo lavoro. Zucchero nell’aria che si fa granulosa, bicchiere che si poggia sul tavolo poi si rialza, un buco nero nelle nostre menti ci fa capire che per oggi bisogna stare in pace, a fare la brace.
In corrispondenza con l’orizzonte mattutino si alza un canto indiano dalla melodia ripetitiva ma inondante da vasi colmi di polvere colorante rossa o blu. Questi si rovesciano ai nostri piedi creando una zona tutta colorata sotto di noi, coi piedi creiamo impronte vane in questa materia grezza ma raffinata.
Ho bisogno di protezione, soffia il vento, ho bisogno di protezione materiale ed ideale, dall’aspetto innaturale, dalla baldanza proverbiale, se mi sento un animale ho bisogno di protezione quando girano spirali di zenzero fra i trini dei capelli scarmigliati.
Stammi attorno, abbracciami ora e poi per sempre a consolarmi, fammi sentire il peso delle tue qualità, rimprovera i miei difetti, pestami i piedi per fermare la mia pazza corsa, fai finta di volermi bene. Se mi ami poi dammi un segno, anche piccolo, da incidere sul legno.
Kapo, le vedi le mie labbra pendono dalle tue, canticchiando fra noi e noi restiamo zitti, per rimanere insieme bisogna anche saper stare in silenzio, d’assenzio, rovescio d’emozioni che ci truccano le ciglia.
Palpabile sentenza di invisibile assenza, ci guardiamo e ci ignoriamo come sirene in fondo al mare che non sanno cosa fare, sono chiuse in una gabbia, il loro Dio si arrabbia, trae una spada dalla sabbia ed uccide un porcospino che non poteva niente poverino.
Batto un ritmo circostante con la punta delle dita sulle gambe della sedia, me ne accorgo e subito mi fermo, sospensione, forse poteva dar fastidio al mio compagno qua davanti che non ascoltava.
Non c’è noia fra di noi a vedersi, bastiamo a noi stessi, poesia dai pochi versi, simboli emozionali che suscitano una confessione intima davanti allo specchio frinico.
Non c’è spazio per le spiegazioni, assurde sarebbero le conclusioni, si creerebbero solamente tensioni, davanti a te si modella l’argilla della mia anima cruda e bagnata.
La casa dalle luci spente, illuminata dal Sole del mattino, respira l’aria seguendo le nostre contrazioni polmonari lievi. Il piccolo quadro che mi ha regalato
Clarissa ci guarda con soddisfazione, l’acquerello si disperde abbagliato dai fotoni intensi che penetrano dalla finestra colpendo trasversalmente il vetro incorniciato.
Brano strumentale ci percorre la pazienza eterna e santa del risveglio comodo e rilassante, nulla dà adito a niente, sottili garbugli d’intenzioni si dipanano velocemente risolvendosi in un nulla di fatto.
Intangibili sguardi di comune comprensione ci dividono, ci uniscono, redimono le nostre volontà altrimenti sfaticate.
All oppò ma ciaccabbuts, sprokols in my head, non ho anima o forse sì, simili a lucette intermittenti ci stagliamo contro il tempo, provando a non pensare.
Tutto ciò che abbiamo amato da qualche parte è andato, B., she can talk the squirrels, lei può parlare agli scoiattoli, Giorgio sembra assorbito da una qualche attività mentale fatiscente.
Mi vede con occhio di cerbiatto matto in preda al panico, ho visto un uomo, ha un fucile con se, muovendosi nel bosco spaventa gli animali che fuggono intirizziti. Io sto qui con un succo d’arancia fra le mani e non capisco il tuo collo di farfalla, la tua sigaretta umida, B., minimo te telasei marenò, Conji.
Compio inconsciamente un gesto decorativo, automaticamente.
La pietra dal quarzo rosa sul tavolo si posa, nasce da un movimento spontaneo
delle mie mani, senza volerlo ho prodotto qualcosa di prezioso fra le pareti della mia cucina.
E’ grande quanto un riccio di mare e sembra originale, Giorgio la guarda stupefatto, da dove è arrivata, da dove l’hai presa ? Cos’è ?
Non lo vedi è kuarzo, sì ma dove lo tenevi nascosto insomma io…
non capisco… lui non capisce ma io sì, evidentemente il grande maestro Taugi mi ha dato il potere del quarzo.
Faccio come prima, con le dita, sul palmo della mano prendo i pensieri di Giorgio, li porto a me e con un gesto li tiro fuori. Ecco che nella tazzina del caffè, scivolando dalla mia pelle, cade un grumo di quarzo con venature nere ma per il resto trasparente.
Ma guarda, un altro, ma sei tu che li fai, dal nulla, ma sei matta, come fai ? Insomma lui si sconvolge, i battiti del kuore aumentano, io, Maiku, imibile, raccolgo nuovamente i pensieri di Giorgio, per farlo stare zitto, stavolta esce un pezzo più grande di quarzo blu con striature dorate.
Evviva Giorgio, diventerò ricca, venderò il kuarzo al mercato delle pietre preziose, sarà questo il mio lavoro… ma lo guardo,
come mai Giorgio ha la faccia del grande maestro Taugi ?
Cara Maiku, prima che tu te ne andassi via dalle montagne, prendendo la strada verso la città grigia, ho eseguito su di te un incantesimo molto potente per donarti il potere della pietra lucente, non è molto ma ti permetterà di fare del bene…
Come quando si cambia canale alla televisione la faccia di Giorgio ritorna quella di prima, la solita.
Il maestro è un grande, usando per ben tre volte questo potere ho appreso che praticamente mi permette di trasformare i pensieri delle persone in pietra, lucente, sembra quarzo ma dovrei farlo esaminare da un esperto in materia.
Allora, vedendo il povero fidanzato mio che guarda le preziose sul tavolo, assorb o con uno strano gesto, teso a cogliere l’emissione aerea proveniente dalla sua mente, il suo meditare attivo. Sento gli elementi che si compongono dentro di me, apro la mano facendo sgorgare un meraviglioso e grande kuarzo arancione con rigature d’oro.
Forse il colore dipende dal tipo di ponderazione che la persona compie, allora posso leggere la personalità della gente e…
Senti Maiku, stavo pensando che, stavo pensando… oddio non mi ricordo più a cosa stavo pensando, che strana sensazione.
Certo che non te lo ricordi, le tue idee sono rinchiuse per sempre qui dentro, poggiando il sasso friccicoso sul tavolo, evidentemente però stavi rimuginando che da questa ricaverò molti soldini.
L’arancione infatti simboleggia l’atteggiamento di protezione che tu hai nei miei confronti, l’oro rappresenta chiaramente il denaro che ti affollava la mente.
Io però credo di aver capito che questo è un potere che mi è stato concesso per fare del bene all’umanità, oltre che per ricavarci dei soldi, devo riflettere a lungo su come usarlo e sfruttarlo al meglio.
Certo cara, intanto io, se mi permetti, porto queste pietre meravigliose e magiche da un esperto e gliele faccio analizzare e valutare, aspettami in casa, non uscire assolutamente.
Bravo, è proprio quello che bisogna fare, Ovviamente dirò che le hai trovate sulle montagne ed anche che non mi hai rivelato esattamente dove.
Esatto, mi sembra un piano perfetto, senti ma sai dove portarle, Sì, c’è un negozio in centro che vende di questi minerali ed il padrone è appunto un esperto in mineralogia.
Avvolgiamo le pietre con cotone e carta di giornale, le mettiamo nel contenitore metallico dei biscotti, Giorgio si veste in tutta fretta ed esce salutandomi velocemente.
Wapati mara, karapi tara larami nara sarà per sempre grande e forte come le uova del rinoceronte albino che si nasconde sotto un pino, al riparo dalle intemperie si provoca una ferita nel petto, il sangue gocciola sulla neve raggrumandosi per il freddo contatto.
I pesci volanti scavalcano le navi saltando sull’acqua, i marinai li prendono con un’apposita rete, li cucinano in salsa agrodolce, festeggiano il compleanno di Tripunga, il nostromo accondiscendente dallo sguardo evanescente.
Comincia l’attesa, il viandante si è perso nelle strade cittadine, micionca peresa letere emiple, ritorna la speranza su velature multiple, ju, ju tink ju farfal de wiknes, malinconia carente, desiderio ardente, tutto si confà alla mia solitudine momentanea.
Un gatto immaginario salta dal frigo sul tavolo, mi si struscia sulle gambe, kia stagnante, l’oppio dei popoli è una materia nera che si fuma tra virgolette, rende tutti apatici e senza membrana emozionale.
Metto su la musica mia preferita, di polvere di sapone condita, la distorsione armonica leggera oscilla con regolarità creando precise onde magnetiche dal sapore voltaico.
< La batteria dell’automobile grassa è scarica da tempo ormai, le portiere sono rimaste aperte ad insaputa dei ladri, i fari accesi nella notte si riposano ora, sono in lutto per la morte travagliata delle frecce direzionali che non lampeggiano più. Arancioni.
Mei pei lei tei, grub eppure nella luce bianca che crea mondrianità, barabigli nei miei fotorecettori senza appigli, i raggi scandagliano il fondo nero del mio mare fondo e denso di pressione millenaria, sul fango ultimo si a il pesce lampara, constatazione amara per pevi di cocca rara sese il popolo si unisse a sconfiggere la macchina finale.
Se non capisco le frasi dei cantanti non significa che sono ignorante, a volte cantano male, a volte sono registrati peggio, se poi parlano strane lingue allora, immaginando, le liuki wuel a pi iuki, wondering, M:A.
Una scalinata di violini viola violano violentemente la volta celeste per nuvole dipinte a mano dall’antico pennello con toni grezzi e striature parallele al suolo che cascano le croste d’intonaco.
Odore forte di vernice fresca, calda anestesia che parte dal naso fino alle unghie dei piedi, smaltate, percorso contrario e viceversa, smaltate di verde, il suono dei camlini perde d’arroganza confondendosi con l’attività neuronale dell’ascoltatore.
Sconfiggo così ogni nevrosi apparente o materiale, appoggio il mento sulla tavola bianca che rimbalza a malapena la luce perché è opacizzata, vedo i granuli, qualcuno ha una ragione, altri hanno una bandiera, B., molti si attaccano alla banana e fischiano in curva.
Sì, riflessioni meteoriche in posizioni strane, che le rime sono rane, che mi piacerebbe avere un cane, dame nane insane si rifugian nelle tane di lana meravigliosa scaldata dal carbone che non sporca ma non brucia.
Non ci metto bocca, give your finger to the rock&roll singer, B., fai il gestaccio al cantante rocchettaro, indietro, ti risponderà una signora pelata con una birra calda in mano, con tono villano, non prestare attenzione.
Miele di stagione solidificato a dovere nel suo primigenio bicchiere che non potrebbe mai cadere, si liquefà senza ragione se lo metti sul termosifone.
Alloppò ma ciakkabuts, che vuol dire non lo so ma mi stuzzica però, dal di dentro parte un botto di ruggine, la ruggine mi mangia le corde vocali, la ruggine ruggisce lentamente. ù
Tutto ciò che sappiamo è sbagliato, B., chi l’ha inventato, ohu ba the ie, sz zs, il suono del frigorifero, unesgi mari tuu, fra la tavola è il mento frappongo un pugno verticale dalla magica spirale, mi sento di volere bene a tutti ma più che altro a me.
Noi tutti siamo droidi sugli asteroidi, brutti e cattivi, rimasti in pochi, combattiamo contro gli androidi dei pianeti in rovina, lasciamo are convogli carichi di boccette di profumo intenso.
Wela tu de batu motu, misticismo ed arroganza si mescolano volentieri affrescati sulle pareti che si sgretolano al vento, sotto la pioggia di fumetti autografati aspetta il lettore giovane e scontento, senza produrre neanche un lamento li raccoglie dal cielo, della madre il velo viola. Dalla Luna spunta la testa di una divinità blu che con voce di tuono parla ai discepoli dei funghi, complimenti, davanti a te mi riduco al tepore di un bruco, scuco, lo scudo arancione di legno, l’armatura di bambù, l’inferno è fuori il paradiso è dentro.
Se in quella foto tengo il cucciolo di volpe in braccio, se i miei capelli sono più lunghi, se il mio sguardo non ha ancora perso l’animo, tenta di capirmi al meglio, sono sulla soglia di un palazzo abbandonato, albergo disprezzato dai clienti più illustri.
La chitarra arpeggia una poesia dalle casse dello stereo, chiusa a chiave in un ripostiglio penso di trattenere il prossimo sbadiglio, che tilomega treki lotiglio, areme trekura serpiglio. All’improvviso dal suo sotterfugio suona la sveglia, il basso e la batteria startano insieme a completare la base musicale, il cantante addormentato trae di gola un diamante rotto che si frigge nell’aria impastato di pastella zuccherata.
China sull’inchiostro, impiastrato delle mie sensazioni, riduco a zero l’attrito con le onde sonore che mi avvolgono contente rimbombando, il soldato ha finito la guerra, sopravvive ferito, il comandante è morto, i cittadini sono chiusi nei bunker anti-bomba, lo sciopero dei cervelli è iniziato ormai da tempo, le mucche non danno più il latte, le pecore non crescono la lana, le api non impastano più il miele, Uriele è seduta sul suo trono di rose spinose, rosse come la ione, rosse come il sangue di suo figlio che è esploso dopo essere stato costretto dai nemici ad ingoiare un ordigno detonante.
Storia vecchia, la cantano le cicale, le formiche stanno ad ascoltare, le rocce si lasciano trasportare, alcune galassie scompaiono dall’universo mentre le mie meningi esprimono un sorriso lagunare, scoppietta il motore della bici-moto usata come mezzo di fuga dai rivoluzionari, gli ospedali sono ricolmi, sertano si dela il pilo deli olmi.
Sto in piedi davanti a te, solo cercando la forza per provare amore, M:A, protezione, palloncini colorati esplodono per la puntura dello scorpione frenetico che sprizza veleno giocando sereno.
Guanti di lana, sciarpa di stoffa pesante, ritornano gli sposi sull’altare pagano, sintomi percepibili di malattia sconcertante, il pianoforte si accascia rotto in più parti dalle martellate del compositore pazzo, si sfoga sulla sua vita, perde l’interesse per la riga.
Riga sul volto del mendicante assorto che vince il freddo grazie a scatole di cartone, piuma di corvo, nero, lippe sei fuori ma sei pigro, kapo speci cippel o cake, , M:A, fischia un flauto digitale che richiama all’ordine la mia mente ribelle, tenebre mozze, sapore di cozze, giocattoli emozionali.
Kia ritrosa, atmosfera spaventosa, fluisce la giornata che o seduta sulla sedia di legno, cristallo, danzano le mani contro vento a senso spento che si incrocia con lo scroscio di una fulgida mattina repentina, potere delle stelle per renderle più belle, per credere all’indizio che ti porta sull’orlo del burrone preparando la colazione.
Gira la clessidra la mano di Dio, la piccola pausa che intercorre è l’occasione per sfuggire all’ordine del cosmo, si strusciano in un chiasmo le insegne del chiosco odoroso nella nebbia dei proverbi.
Sabbia dei deserti, fine fine della finestra stravolta a volte dagli sguardi degli amanti che ritagliano nella tendina uno spazio per i loro occhi muti. Muta la pelle la lucertola del sale che si lascia indietro una parte di se stessa per crescere contenta color giallo polenta.
Granuli di spietatezza mastica il guerriero per farsi forza prima della battaglia ancestrale contro il male del destino, si spezzerà come un grissino croccante sotto la sferza delle streghe dall’urlo pietrificante, un mosaico di croci esotiche ha ridotto il suo esercito a pochi uomini, l’oro vince sulle auree cornici delle libertà incontaminate.
La gente fanatica muore per strada lanciando sassi contro i robotici governanti della stirpe dei generali immateriali, bada a te stessa per seguire il ritmo delle percussioni artistiche che risuonano concave sotto i muscoli dello stato.
Persone perse sono schiave della società che si evolve senza pietà sulla comunione degli ombelichi, la barretta di mercurio scende ad indicare la temperatura che svanisce verso un inverno traditore, incubo delle formiche sotto la tempesta.
Urla religiose stampigliano cartigli sulle mura che dividono i poveri dai ricchi, colonne d’avorio sostengono gli aristocratici sulla dimensione delle banalità, le frenesie sono per i frenetici, la carne per i carnefici, i francobolli per i filatelici.
Ingoiare il cuore del proprio padre per sentirsi liberi, consapevoli di un efferato delitto, procediamo verso il martirio, in bilico sul cornicione alto del quinto grattacielo, solletico per mani esperte che ci fa ridere a crepapelle senza motivi concettosi.
Riflessi cavernosi ci smontano le ossa, le buttiamo nella fossa per vedere il fuoco che sale sulle nostre rovine senza storia, che si creda nella gloria o nel pistillo del fiore profumato, contatto rubato a rari attimi di solitudine dagli angoli smussati.
\Circolo di idee a creare la realtà che amiamo in via platonica, rododendro rosa che cresce alto lungo il fiume scarso d’acqua nella terra del Sole, orgoglio dei compaesani, tatani, rimef desa vimo lintochi ridimo leriti yuji weq.
Meta meticolosamente perseguita dagli avventori più avventurieri, bene placido che assorbe carezze variegate di creature fertili nell’anima, senza ombre sui cuscini, molte pagine nei libri, trema la fuliggine espulsa dal camino della baita fatta di alberi e di pietra.
Salgono e scendono, trasalgono e trascendono gli accordi della canzone che sto ascoltando con interesse tipico di una donna sensibile al volo delle volontà periodiche sulle pause fatidiche.
DELIRIO E DISTRUZIONE
Le pietre lucenti, i cristalli di quarzo sono stati venduti al negozio dell’esperto, abbiamo deciso di fare festa questa sera e tutta la notte senza pensare al futuro o alle conseguenze dei miei poteri.
Il paesaggio che porta alla periferia di Dynburg non è niente di speciale, grigio, cemento, vetri rotti, semafori moderni sempre accesi. Entriamo in una fabbrica abbandonata, enorme, piena di gente, i nostri vecchi amici stentano a riconoscerci, il freddo ci lascia addosso vestiti pesanti ed ingombranti.
La musica copre tutti gli apparati sensoriali, le luci si ritagliano attimi di fraternità illuminati di sfuggita dai colori temprati in qualche cosa di indefinito o latente di polvere attraente.
Facce che si ripetono sensibili, coscienti spirali di occhi sereni che cercano un desiderio o l’appagamento di un sogno. I disegni alle pareti, bianchi su sfondo nero, riproducono psichedelie modulari attraenti, ondulate, sfaccettate da simboli apparenti, senza senso, meticolosa arte della sintesi meccanica.
Giorgio arriva con due birre in bottiglia, una per me ed una per lui stesso, audace portatore di umidità concreta, Mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo, Sì, anche a me, non è cambiato nulla.
Presa dalla voglia di ammirare l’atmosfera, guardandomi attorno tiro fuori l’accendino nuovo, la sigaretta salta fuori da sola, l’accendo, mi sento osservata,
senza troppi prodigi metafisici dal nulla… La gente balla contenta con lo sguardo rivolto ai monoliti neri, le casse, il discorso si fà interessante, le gambe si confondono con le braccia, le teste oscillano a tempo con il tutto rimbombante, le capigliature brillano nel buio.
Si disegnano geometrie biologiche che non hanno nulla a che fare con il mondo normale e reale, kia veloce, circoli d’assenza fra quadrati d’emergenza, trapezi dinamici in contrasto con le sfere sonore.
Ripetitiva ma estasiante la musica ci ovatta in un luogo di intima ribellione alle regole della quotidianità, ci piace, come lascio cadere la cicca per terra e finisco la birra con un’ultima sorsata allora inizio a ballare tra me e me, devo riprenderci la mano, non ho più la sensibilità di una volta.
Giorgio sta già ballando da un pezzo e mentre lo guardavo saliva la voglia di partecipare anch’io alle danze.
Grazie anche all’abilità del Dj entro nel ritmo, calpesto situazioni, palpo percezioni, la calma sale dentro me opponendosi all’entusiasmo che scende verso il basso lungo la spina dorsale.
Fate vestite di panni colorati si contano sulle note, seguo la scia della cometa, ormai ho capito come vanno le cose.
Odore chimico, trasudazione chimica, materia chimica, organismi abituati alla distruzione, menti plasmate dal delirio, cercare una valvola di sfogo è un diritto umano, un dovere alieno.
L’enorme stanza in cui balliamo insieme alle altre persone è costellata di stelle marine variopinte che ruotano su loro stesse, lentamente, sopra le nostre teste, l’estasi della circostanza ci dipinge la mente mentre divaghiamo in posizioni ritmiche e ritmate sotto l’essenza della divulgazione musicale.
I nostri pensieri si disperdono volontariamente fino ad annullarsi, stato di vuoto colmato dalla frenesia della festa che non lascia spazio a vuote grotte di idee lentigginose per opera di streghe-fate meravigliose.
Acchiappo con le dita in strane posizioni le Lune bianche delle anime creative che si contendono il primato di enfasi bioritmica, le ombre tamburellano sulle pareti e sulle colonne di cemento, impalcature metalliche sovrastano la moltitudine di creta in via di modellazione, su di noi si innalza una fatidica divinità dall’aspetto benevolo che chiede sudore da versare in suo onore.
Mentre la notte al di fuori spinge gli spiriti allegri verso le luci della casa magnetica si formano chioschi di stelle stese ad ammirarci dall’alto, cascate di diamanti, colate di mercurio liquido, cristalli di fiocchi di neve cadono fra gli sguardi in giro, acrobatici, tesi ad assorbirsi gli uni con gli altri estetici.
Si instaura come un’atmosfera di muschio e licheni, di gioia e spensieratezza, fra teste veloci o lente, su un pavimento reso scivoloso da una patina sottile di fango e di birra, di incenso e di blu si decorano i suonatori del momento che ci guardano dall’alto ma si sentono piccoli come pulci che tentassero di aggrapparsi a un cane randagio.
Di vibrazioni belle mi riempio ed emetto raggi di voluttà verso Giorgio soprattutto, verso tutti, verso i coni delle casse nere dal marchio bianco che
strampalati fanciulli sospesi nell’aria accarezzano come se fossero madri ad averli non appena partoriti.
a davanti a me una miriade di condizioni umane esprimibili in un resoconto dalle pagine struscicate da barlumi, chiamo a me le mie forze da guerriera ed avvolta dall’alito della festa mi lascio perdere, mi lascio andare in una danza tribale sussurrata al fuoco della storia.
Mi appendo a sottane nitide al tatto, fra l’ordito e la trama il tocco di Rama, il suo flauto d’argento, il conoscitore del vento, il Dio della danza, SNR, è contento di questo portento messo in piedi dalla frenesia di molti piedi che con regolarità si intendono di voler crepitare nel gusto come un applauso di scimmie drogate.
Anfetamina, adrenalina, rosa granulare pastoso, acido criptato dalle generose offerte, carovane di pulcini che abbandonano il nido per volare di schianto fra le nuvole vaporose della spirale aspirante, lontano dalla società, lontano dagli appartamenti, lontano dal posto di lavoro, dalla asfissiante scuola, dall’ordine costituito, lontano dal mondo ma vicini fra loro per affrontare la pesante soglia della lucidità persa da tempo, lempo.
Kia rotolante, voce presa a calci a ritmo di musica, carote bianche, pomodori azzurri, pliocene nel presente, schiamazzo convulso, questa festa è una pacchia per le ossa oleose, schiacciamo come un elefante schiaccia la terra sotto di lui, percuotiamo la pelle tesa della fabbrica come fosse un tamburo abbandonato nella prateria dove le termiti hanno appoggiato il loro grande nido propiziatorio.
Liberiamo le energie degli antichi operai che si chiudevano un tempo fra le mura, per loro opprimenti, di questo luogo che originariamente fu dedicato al lavoro ma che adesso danza sobbalzando fra i colori nelle vie lontane e diradate
della città di Dynburg.
Delirio e distruzione… creanza o comione, i riflessi nello specchio dei desideri portato dalle vallette nude su campo verde, di prati similitudine affranta. Fa molto freddo sola, dentro al cuore, ma il sangue lo riscalda agitato, rimescolato, Giorgio mi guarda poi si rigira e continua a ballare come se io non esistessi, si sta divertendo come ai vecchio tempi, quando al liceo ordinato anteponevamo questo tipo di feste trasgressive.
Poliutti, spy cinque centoventicinque, la tartaruga del logo disegna linee verde bicicletta sullo schermo dagli enormi pixel verdi, un triangolo che si ripete, un abete che si intorcina dentro se stesso.
Se dovessi portare un disegno a carboncino del posto in cui mi trovo adesso schizzerei poche linee dinamiche, figure in movimento dalle grandi braccia e dalle zampe sottili, abbozzerei un turbine di emozioni rigogliose che te le sputano in faccia senza chiederti chi sei o dove vai o cosa fai o perché soprattutto.
Una giostra a forma di grande polipo viola ci porta in alto e in basso con alternanza degna del più pigro arcobaleno, la tazza traballa, il biscotto si squaglia nel tè caldo, il latte versato crea nuvole frattali tridimensionali che osservandole si a il tempo.
Almeno qua dentro nessuno mi giudica per quello che sono o non sono o sarei dovuta essere, l’interesse è solo per il grande enorme caos caotico, caso vuole che i miei occhi siano affascinati dalla luce azzurra che si spegne e si riaccende alla velocità degli scambi neuronali, poi ci sono quelle luci che non esistono ma che rendono il bianco fosforescente come lo vedono le api per distinguere i vari tipi di margherita nei campi di montagna, ci sono, assolutamente importanti e
fondamentali per la festa, delle grandi casse nere, mobili moderni che amplificano suppellettili antiche, ci sono gocce d’arte appese ovunque, o per distrarsi o per incanalare le proprie sensazioni, non ho più paura.
Se mi appoggio alla musica incastrandomi nel ritmo i movimenti ripetitivi si fanno più sciolti e meno ripetitivi, sempre uguale ed uniforme sale la voglia di divertirsi, delirare e uscir distrutta da questa argentea gotica cattedrale delle sfere in moto perpetuo spinte da un motore fremente di benzina di cui si prende cura il gobbo incappucciato.
Urla fischiate che ti protendono nella gigantesca categorica emozione calda, un pipistrello sta facendo il nido fra i miei capelli esposti alle intemperie. Mi chiama una voce mescola alla musica che mi si tatua sulla pelle, Fuggi più veloce, più svelta con le gambe, arrampicati forte con le braccia e valica il monte alto, sulla cima c’è una fonte, pura ma velenosa a volte, radice, ramo, tronco, foglia o frutto, portali con te, portali da me, schiarisciti la voce, riduciti a una noce.
Capisco ma non comprendo, kia ululante, si appannano i vetri, non ho voglia di are lo straccio, scaccio gli ultimi attaccamenti alla realtà esterna prendendo il nulla fra le braccia e lanciandolo tutto dietro le mie spalle alate.
Alate di piume morbide, colore del bronzo, consistenza della farina, odore di gallina ruspante, sono all’interno del diamante prismatico dalle centoventotto sfaccettature lisce come le centoventotto sfaccettature di un prismatico diamante, rovente. Bolle d’aria, pesce dalle branchie striate respiro nell’acqua in questa situazione liquida, senza volerlo mi trasformo, mi deformo, lascio che le convenzioni si uccidano fra di loro ed affronto divergenze e bivi trainata dai lacci delle scarpe.
Scarpe piene dei miei piedi, me ne accorgo quando premo il pavimento umido, quando do un calcio involontario ad una bottiglia, quando pesto o ricevo un pestone trascurato.
I rapporti umani sono come imprigionati nel ghiaccio sporco, rigide statue di sporco ghiaccio, si liberano solo quando questo si liquida in pozze grige senza trasparenze, per effetto della mano calda di un Dio premuroso e pinto del dovere di aiutarci.
Scarabocchi infantili dai connotati generici con solo qualche particolare che risalta descrivono graficamente la nostra psiche oblunga, un ovale irregolare che cerca di inscriversi in un cerchio perfetto tracciato dalla lente di una telecamera ossessiva che a tratti sembra viva, che distratti ci porta a cadere in trabocchetti drammatici, contratti, firmati, con una croce scivolosa che rappresenta molto ma per molti non significa nulla.
L’elemento mancante in questa pozione instabile è il chiramino, chiuso in un piccolo stanzino dalle porte sigillate, aspetta impaziente l’alambicco dell’alchimista geniale che lo usi per la prima volta in una reazione chimica isolata, scaldato dalla fiamma il suo vapore s’alzi, si mescoli alla materia circostante concatenando un’esplosione dietro l’altra provveduta da una mente scaltra.
L’orologio del manichino vestito di tutto punto nella vetrina del negozio, l’orologio è senza batterie, il suo meccanismo si è fermato tempo addietro per desiderio del prestino, che è l’opposto del destino, mi portano senza previa richiesta una sorsata d’acqua che accetto volentieri per sudarla dopo una pausa breve e circoscritta. Per inciso hanno scalpellato su di me una perdizione quasi misteriosa, che Giorgio conosce bene, mi sono ancorata saldamente alle mie incertezze, convinta di far bene, perplessa come una nottambula che si sveglia alla soglia della scalinata, per non essere da se stessa assassinata, ho deciso di cambiare per sempre, in questo momento di festa ho capito che il vecchio è
morto, seppellito nella tomba. Il nuovo deve nascere ancora ma la madre è pregna di una speranza nitida che offusca gli occhi per un ciglio che cadendo si è appoggiato sull’iride pur rimanendo invisibile.
Il gatto ciccione cammina rispettoso fra le statuine, rosse di terracotta, del presepe, butta un cenno curioso verso la grotta di cartapesta, miagola, si butta con un balzo giù dal tavolo apprestato per la ricorrenza estinta, d’istinto va verso il cibo che la nonna rovescia nella ciotola, non si cura di andare oltre l’ultima cellula del suo pelo, diventa sempre più grosso, sempre più pigro.
Io non sono così, io faccio aerobica e mangio poco, mi mantengo da sola, prego da sola, ascolto gli altri da sola, andrò avanti da sola, grazie a me stessa. Delirio e distruzione, non rispetto queste parole pur vaghe, mi devo concentrare, disseminare lo spirito per i campi elusi, illusioni che s’intuiscono, allucinazioni che ti cambiano il futuro in un attimo di cecità ideologica.
Il trovatore ha perso il senno, fuma la coda della paglia secca, gialla come il Sole che l’ha cresciuta nella campagna dove i ponti sono di pietra grezza, dove le case si riconoscono dal colore del fumo che il camino butta fuori, quando il morente ride allora un angelo lo accoglie ricoprendolo di vesti nuove e profumate che gli antichi seriosi lo invidiano.
Fiotti di gioia concreta sgorgano dai buchi che ho nel cranio, il respiro si fa importante, imponente impone la cadenza del mio movimento continuo lungo il viottolo sdentato che scorre sotto di me portandomi verso la prima fila dei festosi diavoli color della ciliegia, mi accolgono con uno sguardo incomprensibilmente breve, le mani degli altri mi strattonano, i loro capelli mi si avvolgono alle cosce, mi ritengo fortunata.
Giorgio è rimasto indietro, io mi sono immersa in una specie di purgatorio dove
le anime vomitano sulle ginocchia altrui, dove ogni tanto qualcuno mi tocca, quando il cuore inizia a battere forte forte per l’emozione di andare verso l’alto, seguendo la spirale intagliata nella torre di marmo che in cima ci sta un cancello aperto verso un verso di una poesia abbagliante da leggere d’impatto senza nome senza tatto.
Complicata, maleducata, ridicola, impacciata, scio sulla parabola portante che mi porta in un portento di musica pilotabile da ambo i lati della confessione, chiudo il campo visivo verso il Dj, il musicista suonatore che si prodiga in prodigi analogici o digitali di latrati divertenti con gesti irriverenti, qui si sente la potenza, non violenta resistenza, animali di vario genere attecchiscono in questo terreno fertile, sono contenta di esserci anch’io, anch’io.
Ho il mio cane, si è perso, Giorgio non si vede più, ma distinguo chiaramente il suo gesto danzerino fra lo stormo di coriandoli infuocati che ci dividono nello spazio e probabilmente nel tempo.
Oceani e api, shh, bzz, il chitarrista sul dorso della balena emersa suona senza problemi con i piedi ben saldi sulla pelle spessa e nera dell’animale maiuscolo.
Ascolto indietro, i suoni girano al contrario, la moneta di cioccolata dell’estasi paga la mia fantasia rombante come una moto da corsa che impenna dopo la vittoria, col senno di poi dico che adesso mi sto divertendo un sacco, non c’è goccia che faccia traboccare il vaso, la furia va controllata.
Mi stabilizzo su un treno in corsa, all’improvviso ne a uno in senso contrario a pochi metri dal finestrino aperto, sussulto immancabile, velocità che si incontrano moltiplicandosi fra loro come quattro per quattro fa otto, ottobre per dicembre fa un mese strano che non esiste ma suona bene.ì.Durezza di contrabbando si va incespicando volentieri nella nota ormai di ieri ormai lontana,
non credo più in niente, non ho più nulla in cui credere se non nel nulla e nel credo, di cui mi fido, che mi conduce sempre con se, non mi lascia mai se non per la sua amante più voluttuosa ma io, Maiku, lo perdono.
Ma io, Maiku, sto aspettando il suono della fine, l’ultima emissione sonora della mia vita su questa terra, per dire, Ho finito di ballare, l’ultima danza ha percosso le ossa sotterranee dei morti svaniti, ma io, Maiku, continuerò a danzare sul nel cielo fra gli Dei, con costui o con costei, nel silenzio eterno… nel silenzio eterno infrangendo il silenzio.
Distruzione e delirio, collirio dell’umanità, goccia pura che cade dentro la pupilla e s’assorbe nel bulbo oculare nel giro di pochi attimi, piangere al contrario non significa ridere.
Sola, in mezzo a tanta gente, sul palcoscenico della festa, raggiungiamo la mattina, l’alba scorre lentamente da un rosa bollente verso un azzurro sereno senza nuvole che l’aria ti si sostituisce al sangue nelle vene. E’ giorno, la luce entra nella mega stanza da finestre e da porte squadrate aperte, rotte, in disuso, gli effetti luminosi si spengono, la gente continua a ballare in uno stato di fusione nucleare, diradata, una persona qua, un’anima la, la maggior parte degli amici è uscita nel cortile della fabbrica per sedersi davanti al fuoco, con legna di recupero, recuperare le forze è importante prima di tornare a casa.
Andiamo a sederci fra gli altri, a gambe incrociate, kia raffreddata, chiacchere futili ma pratiche.
Ogni cosa o persona è avvolta da una particolare aurea bianca che frizza effervescente, chi ne è cosciente ? Abbiamo attorno a noi come una patina chimica, ghiaccio sporco che ci avviluppa, facciamo parte della natura grigia di questo luogo abbandonato dalla civiltà ma che ad essa contribuì amaramente.
Fumo una sigaretta, anche se gli altri hanno ben altre abitudini, addio addio, osservo uno che gioca con le pietrine che si staccano dall’asfalto, poi con un bullone trovato per terra o con una vite, mi esce il fumo dalle orecchie. La musica continua imperterrita per niente spaurita dal diradarsi progressivo dei danzatori, penso che il Dj suonerebbe anche solo per una persona sola che ballasse con lui fino alla fine dell’eternità, fino a consumarsi le scarpe.
Non ho ancora voglia di tornare a casa, voglio godermi un po’ di distruzione ed uscire piano piano dal delirio, quando sarò cotta come una mela in forno allora mi alzerò, risveglierò Giorgio dal suo sonno vivo e meditativo, saluterò i grilli e le cicale, salirò sulla metropolitana e cercando di non addormentarmi fra le braccia forti del mio ragazzo arriverò a salire le scale di casa. Mi leverò la bocca, dlip, mi andrò a dormire sperdendomi nei sogni più riposanti che abbia mai fatto, da tanto tempo. Guardo il timbro nero che ho sulla mano, sfumato, rappresenta un alieno, la faccia di un alieno, me l’hanno fatto all’entrata ed io non avevo ancora capito cos’era, nel buio della notte ata, a volte non bastano ne le stelle ne la Luna per rischiarare la via degli occhi, a volte il fiume nero ci inganna.
Ecco cos’è ! E’ la pelle viscida della rana, maculata del leopardo, il manto bianco dell’orso polare, la pelle pesante dell’elefante, le scaglie del coccodrillo, le squame del pesce, sono le piume di un pavone colorate a festa, il pelo del cane, gli aculei dell’istrice o del riccio,o la pelle delicata di una donna strana che vede cose strambe che ha poteri maghi che si perde sopra i laghi che conosce uomi saghi, combatte contro draghi in lochi vaghi.
Per di più penso di aver perso qualcosa, una specie di verginità nascosta prima d’ora, confabulo con me stessa osservata da spiriti allegri che si perdono dietro una fata o una seta o un personaggio creativo percorso da stoffe serpiche da antico cacciatore o guerriero, lo scudiero suo non l’abbandona.
Cosa cuoce in padella ? Mi offrono una caramella ai frutti di bosco che io non riconosco chi me la cede, eppure l’ho visto ballare quando ancora aveva i denti da latte, poi si avvicina una brezza fredda che proviene dal nord, evidentemente, chi può, chi ha, si stringe con chi può, con chi ha, le coppie si distinguono adesso, che prima era tutto un miscuglio di amici ad andare e venire, eppure c’è il Sole.
Da un libro che stavo leggendo, con la dovuta attenzione, ho ricevuto un’emozione fortissima, quasi mi fosse apparsa la Madonna, ricordo che era di poche pagine ma di concezione profonda, parlava di una donna che stava seduta sulla sponda di un fiume e piangeva, io adesso mi sento così, ma non piango, sono sulla sponda di un fiume freddo, caldo o tiepido ma sorrido stupidamente al tutto come che gli fosse dovuto.
Noi siamo fatti così, siamo legna da ardere che il cielo butta al fuoco per scaldarsi, il cielo marzapane dalla consistenza degli arcobaleni, crepitii costanti ci consumano, le strisce tre importanti ci riesumano, conviti balbuzienti ci denudano, ladri scheletriti e circostanti ci derubano. La donna traspirante ferma il tempo con un dito, l’idiota repellente compie un rito, la ferita si richiude in un sospiro nasale, dimensione libera da progetti farfuglianti.
Finalmente, dopo qualche o compiuto in una camminata che ci trasciniamo dietro il rumore dei tamburi, arriviamo alla fermata della metropolitana, seduti sulla panchina di ferro rosso, io e Giorgio, chiostro svelato da un soffio delicato.
Dopo minuti smisurati d’attesa calibrata fermiamo il convoglio impazzito con un dito, l’unghia si spezza, saliamo felici sulla carrozza trainata da cavalli bianchi e neri, ci spalmiamo contro il ferro semovente che ci porterà a casa mia, casa di Maiku, posto benedetto, mi soffio il naso con un fazzoletto, silenzio rotto.
Silenzio che scende e sale dal treno ad ogni fermata, poi i tamburi riprendono e noi non nascondiamo la nostra volontà musicale, la città sembra purificata come se fosse ata un’orda di angeli purpurei a perpetuare la chiarificazione del bene sul male.
Inizia a piovere, piovono accendini a gas di plastica, di tutti i colori, si schiantano al suolo producendo un rumore frastornante.
Al riparo nei tubi della metropolitana aspettiamo che spiova, ma siamo arrivati alla nostra fermata, non ci resta che uscire quando sarà caduto l’ultimo accendino rosa o verde o blu.
Con noi ci sono altre persone, tutte hanno paura di farsi male ricevendo quegli aggeggi in testa non avendo previsto di portare un ombrello solido, tutte insieme producono un suono maleodorante d’officina sporca o di taverna dal vino acidulo.
Mi chiedo se mai tornerà la normalità, se mai salirò le scale di casa mia verso un letto pulito e profumato, se mai respirerò più in fretta sotto una doccia calda, se mai manderò giù una colazione stretta a causa delle condizioni del mio stomaco e dell’irritazione che mi sono procurata sul palato e sulla lingua.
Chiedo solo di non essere incinta e di non dover partorire qui, in questa stazione pulita solo in apparenza, spero che smetta di piovere.
Pocaputola !
CALORIFERI ACCESI
And so son qui, fratelli, a veder la gente che brulica sulle sue mescole corsie, a veder la pensilina della mia dritta via retta salda su tre chiodi ben piantati nel muro, con sguardo da anti-siluro, o, fra i vestiti ben sgargianti oppure grigi ed eleganti, quantomeno stravaganti quanto poco ridondanti.
Sono io, Maiku, alle prese con il mio nuovo lavoro, l’ho detto già a Kumiko Sae, ho chiamato anche Clarissa, le mie amiche preferite, sono contente che mi sia trovata nuovamente il pane da portare a casa.
Faccio praticamente la venditrice di pietre preziose, ho la mia bancarella decorata, ornata, impreziosita da quarzi lucenti che kuarzano allegri le meraviglie negli occhi della gente che ano al mercato, stagno febbricitante per le vendite della giornata, le vendite ed i regali, e sì perché ho deciso di fare anche dei regali, alle persone belle, a quelle che mi dicono la verità, anche se parziale, anche se banale ma comunque cordiale, apparenza digitale che mi fa capire a chi donare.
La mia bancarella, al mercato della città, più bello che c’è, espone un cartello snello ricamato a mano con l’aiuto di Giorgio, recita le seguenti parole “Caro avventore, se credi di esser pazzo ed hai il coraggio di professarmi le tue follie, allora credimi ti regalerò un cristallo di Quarzo lucente dai mille colori”.
Questo dice il mio cartello bello, ricomponiti Maiku, d’altronde ho promesso al grande maestro e mago Taugi di fare, col nuovo potere che mi ha concesso, il bene dell’umanità, per essa e con essa.
Il bene mi a nelle vene e si siede sull’imene della mia anima in tempesta che si ria la lezione per essere sempre pronta alla cooperazione fra desiderio e ilarità, fra ironia e sincerità, mangio le patatine fritte prima che si sfreddino, il lungo viaggio delle sirene, accompagnate o pinna dai cavallucci marini, marini cavalletti su cui dipinge un poeta dotato di bacchetta direzionale, chiamalo animale, chiamalo sonno eterno.
Posso essere perplessa, sormontata da panna montata, posso essere convessa, richiamata all’attività fatata, rimane il fatto che ho la possibilità, grazie alle mie abili manine, di trasformare in kuarzo lumo i pensieri delle persone, magari le più strane, le più candele accese, quelle a cera che cola sui ricordi di chi vola, sole o magari perse o forse solo tritte in poche righe di kia procace, mani che poggiano su libri di frittate ribaltate, piedi che si sorano nell’abitudine di sempre, fra pochi vaghi, molte tempre.
Caloriferi accesi, ai quali si accede attraverso strade lineari ma complesse, ridondano di fiumi da oltreare per mezzo di radi ponti, a volte il paesaggio è brullo, a volte brilla fino ad abbagliare, strano che a farsi non sembra, stanno nella penombra, attaccati a muri grezzi di speranze, collegati da tubi azzurri ambrati dai sogni dei caldi dormienti, ritornello.
Il cappello si posa sulla testa ma libera i capelli da possibili schianti con meteore accese, mal rese, spesso tese, piangono almeno una volta al mese, in media ridondante di possibile sembiante.
Curve che si incrociano a segnare diagrammi stesi su intemperanze o drammi, si pesano coi grammi, si sommano in quintali, agglomerati in pietre lucenti, per mano mia, grazie alle mie braccia stranamente si risolvono, inconsapevolmente si assottigliano in sibili farfugliati, nel mercato bruno all’ora del caffè.
Il mondo è un garbuglio onnipresente, non si degna di essere mai assente, rasenta la sfericità, spreca la felicità, colma vasi e coppe di sacro Pirimiele coltivato nei campi di Kjesa, raduna ladri e santi che insieme penano le cornici dei quadri più impellenti.
Casualità, rapita, dietro di me mi perdo e non mi trovo inseguendo come un cucciolo la mia coda che gira in tondo, lacci e sberleffi, ridimensionati Maiku, chiedi a me, se lo vuoi, tu chi sei, cosa fai, dove vai, con chi stai, tirerò ad indovinare attraverso metafore o luoghi comuni, non pensare a me, divertiti.
E’ facile facio dire che a volte il freddo proviene da fuori mentre più spesso proviene da dentro, bello sarebbe poter lanciare e spedire ad una cara persona che ora è lontana una musica bella, la tua preferita, schiacciando solo un tasto, un solo bottone e farla contenta contenta di una tua emozione, d’amore, dolore che preme.
Litri e litri di corallo, si chiama Fabrizio, a uno, si ferma, mi guarda, legge il cartello che ho affisso, afflitto forse da un desiderio, quello di liberarsi dalle paure che oscurano la mente in crepe vertiginose senza lamenti, senza mai addii.
Mi chiamo Fabrizio, è vero che se ti racconto la mia pazzia tu mi regalerai una pietra di luce ? Sì certo, siediti qui, vicino a me, non temere, pensa a tutto quello che hai dentro, tira fuori i tuoi pensieri dalla profondità dei tuoi occhi, ragiona su questo, avrai un kuarzo tutto tuo in regalo.
Lui mi racconta, si chiama Fabrizio, parla e parla ancora sotto l’effetto di una coperta termica da me inventata, l’emozione di un sorriso amichevole scorre sulle sue guance facendole arrossire, la sua storia è elegante, a tratti fragrante,
pagine di pianto secondo lui inutile. Si forma una patina duttile di cristalli accesi fra le mie dita. Metto le mani in una borsa che tengo vicino ai miei piedi, assolutamente vuota, serve solo per coprire il mio gesto d’incanto, mi aggrappo ai suoi pensieri con tutte le mie forze, li tiro fuori da quel craneo salato, si forma un quarzo, glielo mostro, Ti piace ?
Sì grazie Maiku, è bellissimo ! E’ una pietra verde con striature rosse di lava, grande come una boccia d’acquazzone, saluto l’amicone che se ne va contento come se fosse nato per la prima volta, non gli chiedo se sta meglio perché si vede chiaramente, glielo si legge internamente, lo saluto tranquilla.
Incontro la Luna, sogno, pulso, puzzo, questi sono i suoi deliri, questa la sua distruzione, perso, denso nel nero della notte che scotta, rido al suo babamicio, ma mannappalleppapepa che scivolone, capitombolo, se vedo la sua fotografia incorniciata piango nel buio di me stessa, solo, abbandonato, è solo un barabuglio, è solo un’abbaglio temporaneo di ione adiposa che si posa sul velo di una sposa rosa dimentica della cosa più importante, i capelli si tosa.
Dalle pene si riposa, in una scuola d’antico stampo rivoltata da un lampo di betulla bianca, non si stanca, si rilassa e si ria, vicino a lui un si bemolle s’intona con la sua voce roca, pelle di foca, gioca con la scatola dei cerini per darsi fuoco ad una sigaretta, se la fuma in fretta, al resto non da retta.
Non ha tempo, ha perso il tram o forse non ha i soldi per pagarsi un taxi, di rado si rade la barba, s’aggiusta il cappello con fare spontaneo, schiocca immagini da ape operaia in cerca di fiori pirofumati per lo campo, macina tabacco per le sue aspettative.
Chi l’osserva vede un uomo, non più giovane, non più svogliato, dal raffinato sapore di muffa condita con barlumi distillati in alambicchi vitrei, la sua fronte
suda carote dell’est, stona con il suo cappotto colore di paglia, dice che sempre sbaglia a mettere la sveglia.
S’addormenta fra i boschi, i lupi lo sorvegliano attenti, non si fanno sfuggire un suo soffio, un suo lamento non a inosservato, te ne sono grato.
Calma, pace, tranquillità, benessere intimo, lo sfiorano appena queste sensazioni, si lascia prendere dal fiatone della comunicatività, si staglia contro un muro di mattoni arancioni come i suoi occhi, veglia.
Caloriferi accesi, disposti distesi, sulla pedana di carboni ardenti lui cammina come rotola una biglia mentre un coleottero sbadiglia, si piglia la voglia di fregarsene del suo malessere ma questo lo avviluppa come carta per la frutta, fotosintesi distrutta al momento del distacco.
Casa, ha un luogo, il suo posto, dal quale parte e torna attraverso traiettorie tradite dal suo umore, kia di clamore, forse aveva un amore, si lamenta della sicurezza per le strade e non a torto.
Amarezza nelle sue labbra, si leggono virgole sulle sue gote rotonde, non scade mai in intemperanza, detesta la violenza, prova molta timidezza, preferirebbe una carezza ad una più completa ebrezza.
Sasso, carta, forbice e biscotti fatti a mano, i suoi atempi preferiti, crede negli eroi dei fumetti, ha una camicia a quadretti.
Quadretti distinti da sottili righine azzurre, si presenta fragile all’appello quotidiano, quando si salda la mattina alla notte, odia le unghie rotte, come tutti del resto, crede in una qualche divinità, non precisata dalle sue parole ai miei intendimenti curiosi.
Ogni tanto si scrocchia le dita, senza lamentarsi se lo guardo stupita dall’insolito gesto, per il resto è una statua di gesso ancora da modellare, sakamina ne possiede, cioè pretende da se stesso quel puro esistere senza differenze fra gli stati psichici che determinano un eventuale perturbazione dello spirito.
Anche se lo stuzzico non si altera mai, si morde la coda come fosse un fazzoletto messo in bocca ad una persona rapita da qualche malandrino, per farlo stare zitto, quatto si propone alle mie domande senza cercare di divagare verso un ambiente più equilibrato o consono alla sua monotonia.
Le sopracciglia tranquille sono separate da un ampio spazio rettangolare che racchiude un suo sospiro vitale, chiamalo spirale, definiscilo angolare primo, salutalo come paradosso ultimo della nascita e della morte, ma è sempre un suo punto di bellezza non indifferente.
Forse si sente in colpa per aver commesso questo fatto che mi descrive con disinvoltura quasi fossi la sua migliore amica, mi ha colpito questo Fabrizio, furbo come un koala, grintoso quanto un pulcino appena nato.
Odore di cipolla proviene dalla porta aperta, per un momento, da un cliente che esce dalla focacceria alle nostre spalle, lo sente, odore di cipolla cotta a puntino in un forno caldo, temprato d’acciaio temperato.
Schiude il suo sorriso, davanti al mio viso, come se non l’avesse mai fatto in vita sua, s’arrabbia con se stesso percependo questo suo fatto interiore, sento un suo urlo di dolore, ma ormai ha ricominciato a parlare, scivola da una parte all’altra del discorso come spostando il rullo di una macchina da scrivere vecchia maniera.
Le sue piccole orecchie scavalcano appena la soglia del cappello, si sente a suo agio dietro la mia pirotecnica bancarella di legno bianco ma di luci multiple che colpiscono le anime in moto verso una materia diversa dal grigio cemento che la società ci impone, ogni tanto si ricompone come se io lo criticassi di un suo fare controverso.
Ha mani pulite come neve appena caduta sui tetti bui delle case, strisce di luce... alluminate. Si scrocchia ancora le dita, questa volta attraversa la mia indifferenza, lo nota con piacere, si sente consolato o forse soddisfatto di aver raggiunto un qualche traguardo importante.
Provo chiasso e maternità dentro di me, mi rivolgo a lui come se fossi la sua nonna preferita, mi rendo conto di essere solo un osservatrice esterna che forse può commettere l’errore di giudicare, cerco di non farlo mai, ad ogni sua parola mi convinco che quelle sono le sue idee e che io, Maiku, devo solo purificarle, magari rinchiudendole in un oggetto morto che le tenga in prigione senza però nascondergliele, ho voglia di stare un po’ con lui, a parlare delle cose della vita o della meteorologia del momento o di qualche film o bella canzone.
Mi lavo solo il capo in una specie di catino trasparente che contiene un liquido trasparente, acqua di fonte, non bagno i capelli per via della mia estetica tutta femminile, ricavo un forte guadagno energetico dal provare ad aiutarlo in qualche maniera.
In fondo lui è affascinato dalle mie luccicose distese di sassi preziosi, si sta sfogando con me, non si lamenta dell’accoglienza spartana caotica e fin troppo casareccia, saluta con la mano un suo conoscente lontano per le vie del mercato che si allontana, lo vede a malapena.
Saluta e mi spiega chi è con poche ma affascinanti parole, subito dopo si trastulla il cappello, sorride per la seconda volta, con meno timidezza, più rilasciato nel suo intento benedicente, mi chiama per nome e mi sbaglia subito l’accento come se fosse uno straniero, ma non lo è per niente.
Orgoglioso, reticente, riduce al nulla le sue belle parole, pur consapevole della loro bellezza, dischiude con chiarezza le palpebre che nascondono appena occhi brillanti di giovane lupo. Cavalca sulle onde delle sue melodie interne come se fosse pazzo di un ebrezza interiore che lo rende ammirevole, ma non lo è in realtà, non farebbe del male ad una mosca, si capisce al volo che in quanto a tenerezza è capace di regalare momenti di gioia allegra.
Kia regolare, come poter valutare effettivamente una persona senza conoscerla a fondo, ma dove stiamo andando, in fondo, luoghi confinanti fra loro o divisi da invisibili barriere, sospiro di emozione contenta e felice che dirada le nostre convinzioni intime verso due universi, momenti magigi che non si ripeteranno mai per nessun altra persona, finestre aperte sul tutto coperto da poveri mortali che sempre esisteranno.
Deserto dei calamari, vivi nell’acqua salata d’inverno, di primavera, d’estate, d’autunno, molto importante questa successione temporale enigmatica, carismatica, apostrofata, meravigliata, da fertilità appagate regolate, le stagioni dell’anno che ano, fate quello che volete ma non quello che vi lasciano fare, kia purpurea di intimidazione sottile.
Kredo in Dio solo tre volte, quando le strisce di pulviscolo rosa scorrono veloci sul palmo delle mie unghie imperfette, non mi scotto, fra tenere carezze di qwertyginose lattughe, hin, hin, hin, logica perversa di una battuta maldestra che in faccia al prossimo si è persa.
Gomitolo fuxia, è lui, il mio amico Fabrizio, un gomitolo fuxia rubicondo che piano piano si tesse tra me e me, lentigginoso, latte di pietra rotonda levigata come uovo, c’è un libro mi dice, di questo se tutto fare che mi dice bene, un libro di fantascienza chimosa, equinozio di esperienze extratemporali chiarite in pochi attimi di secondo rettangolari hiun, sentire è logico come apparire in un momento di estasi locale, rettangolare, rettangolare come un quadrato un po’ allungato, cori notturni che si svegliano al mattino ancora cantando allegre serenate, ballate spensierate in tutti i quartieri del mondo, vino rettangolare in bottiglie d’argento, scaglie d’oriente, espresso, corrente alternata, ciò che è meglio, se lo conservi in un rettangolo di gioia, remi che non tirano in barca perché sono rettangolari, a meno che non sia fetente, ti appare un coriandolo rosa, o di altri colori, il tuo preferito, ma non il nero, il nero non c’è, cosa ho capito parlando con lui ?
Facile a dirsi ma mica sono scema, li capisco i discorsi, anche i più intensi a capirsi fra carte e caramelle. La neve piove dal Sole, rettangolare, quadrata, a volte triangolare come la Luna di Uriele, che si salverà sempre sempre da tutte le porte chiuse a chiave per sbaglio o per gioco, ma sempre con un sorriso distorto, ritorna sui tuoi i ormai che puoi, jira le pagine di un libro governato da un solo demiurgo, non curarti delle tue intemperanze se sono preziose come il Sole da cui neve piove, rettangolare come sbadigli senza limite d’età.
Certe dune del deserto mi sembrano sabbia, altre plastica gialla in polvere granulosa, fiocchi di mimosa che sorprendono al soffio del vento, ty,
FIN.
By: Alessandro Gruppi
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