Barbara Giorgi
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Chiamatemi Strega
Parole di donna: brevi racconti di donne tra molti sorrisi e qualche riflessione…
Titolo | Chiamatemi Strega Autore | Barbara Giorgi ISBN | 9788891130228 Prima edizione digitale 2013
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Alle donne, tutte. C’è un sottile filo che ci unisce e tesse la tela. Ed io lo vedo, lo sento…
PREFAZIONE
Abito nella mia bella Toscana, vicino al mare, in una casa con un piccolo giardino con palme, limoni, bougainville, oleandri e piante di glicine. Sì, quello stesso glicine della foto di copertina. Quel glicine bello, forte e delicato come lo siamo noi donne. Ho sempre amato i fiori come amo le donne, le mie simili. Per quel sottile filo di intesa e condivisione che ci unisce e ci fa sentire tutte parte di una dimensione dove la razionalità e le emozioni convivono spesso in lotta, a volte in armonia, raramente in tregue periodiche. Pretendiamo molto da noi stesse: siamo donne, siamo mogli, compagne, amanti, siamo madri, siamo amiche e sorelle. E siamo casalinghe, operaie, commesse, imprenditrici, professioniste, docenti, artiste… E siamo anche streghe e fate perché a volte sappiamo sognare e volare via da un quotidiano troppo pesante, troppo invadente. Non risparmiamo mai nulla di noi: ci regaliamo agli altri con un’indole da “madre” che fa parte della nostra natura. Accudiamo e curiamo tutto e tutti: una pianta di fiori o un gatto o un amica o dei figli. La nostra missione di vita è la cura dell’altro, non per retaggio culturale, ma perché fa parte di noi in modo innato. La cura dell’altro è nel dna delle donne. E così - spesso - ci dimentichiamo di noi stesse, di esistere, di avere dei diritti, di poter dire la nostra. E’ per questo che scrivo di donne, sia nel mio blog http://paroladistrega.wordpress.com/ nato un anno fa e dedicato a temi di genere (come la violenza sulle donne e il femminicidio), sia nei miei racconti. Come in questa raccolta di storie di donne, alcune inventate, alcune riferite a spunti di realtà, alcune vere.
Storie allegre, storie tristi, storie che fanno sorridere, storie che fanno riflettere. Storie. Racconti brevi che parlano di noi donne: scritti per voi, care ragazze di tutte le età, con molto affetto. Quello di sempre.
1. CHIAMATEMI STREGA ( monologo teatrale)
Non importa chi sono. Non importa come mi chiamo. Potete chiamarmi Strega. Perché tanto la mia natura è quella. Da sempre, dal primo vagito, dal primo respiro di vita, dal primo calcio che ho tirato al mondo.
Sono una di quelle donne che hanno il fuoco nell’anima, sono una di quelle donne che hanno la vista e l’udito di un gatto, sono una di quelle donne che parlano con gli alberi e le formiche, sono una di quelle donne che hanno il cervello di Ipazia, di Artemisia, di Madame Curie. E sono bella! Ho la bellezza della luce, ho la bellezza dell’armonia, ho la bellezza del mare in tempesta, ho la bellezza di una tigre, ho la bellezza dei girasoli, della lavanda e pure dell’erba gramigna! Per cui sono Strega.
Sono Strega perché sono diversa, sono unica, sono un’altra, sono me stessa, sono fuori dalle righe, sono fuori dagli schemi, sono a-normale…. sono io! Sono Strega perché sono fiera del mio essere animale-donna-zingara-artista e ….. folle ingegnere della mia vita. Sono Strega perché so usare la testa, perché dico sempre ciò che penso, perché non ho paura della parola pericolosa e pruriginosa, della parola potente e possente. Sono Strega perché spesso dò fastidio alle Sante Inquisizioni di questo strano millennio, di questo Medioevo di tribunali mediatici e apatici.
Sono Strega perché i roghi esistono ancora e io – prima o poi – potrei finirci dentro.
2. GUENDA E I GRANCHI
Un anno fa. Esattamente un anno fa. Una data memorabile della sua esistenza. Lei ed Alex erano andati nella loro casa al mare per “ritrovarsi”, per parlare un po’, per riscoprire perché qualche anno prima avevano deciso di amarsi. E quella casa piccola e bianca, quasi una capanna fatta di vecchie assi di legno inchiodato, con il giardino colmo di palme e limoni, con l’edera arrampicata ovunque sui muri di cinta, con quell’assenza di ogni rumore, affacciata sugli scogli e sul mare, era l’ideale per fare da contorno alle loro parole, agli sguardi, alle dita incrociate mano nella mano. Prima di partire Guendalina aveva immaginato le eggiate sul lungomare, con i loro i ondeggianti tra sabbia e acqua, con i loro pensieri immersi in ricordi, con le loro chiacchiere dolci e romantiche. Ma sognare non fa sempre bene. A volte, non fa bene al corpo e non fa bene alla mente. Il sogno ad occhi aperti è spesso un’illusione terribile che corre troppo veloce. E si può schiantare contro il muro della realtà.
Arrivati in quella casa per le vacanze estive, erano subito andati a fare la spesa nel market di quella cittadina da cartone animato. Tutto era piccolo, colorato, ridente, infantile. Sembrava il set di una telenovela brasiliana. Avevano comprato caffè, latte, zucchero, biscotti, cioccolato, pasta e tanta frutta. Erano tornati subito a casa per mangiare qualcosa dopo il lungo viaggio in auto. Incredibile: il progetto estivo di una fuga dalla città, dallo smog e dal traffico si era concretizzato. Adesso, primo agosto, erano nel loro piccolo paradiso terrestre. “Vuoi che cucini un po’ di pasta?” le aveva chiesto lui, vedendola stanca. “No. Mangiamo qualcosa velocemente a andiamo sulla spiaggia. Ti va?” lei lo aveva guardato negli occhi, come faceva sempre, cercando qualcosa. Segnali, forse. Qualcosa che le potesse far comprendere finalmente cosa stava
succedendo tra loro. Lui evitava sempre quegli sguardi. Abbassava gli occhi o guardava altrove. E lei chiedeva a se stessa: “Disinteresse, stanchezza o cos’altro?”.… ma non riusciva poi a formulare anche le risposte. Mai. Avevano mangiato latte e biscotti. Erano andati sul mare e tutto lì era stupendo: il sole caldo che creava una coperta avvolgente sul corpo, il vento leggero, la sabbia sfuggente sotto le piante dei piedi. E quell’odore pungente della salsedine, dei pesci, dei pescatori e delle reti, dei bambini sudati che correvano lì vicino. Era bello anche vedere i granchi caracollanti e impavidi che si avvicinavano uno dopo l’altro, senza porsi troppi problemi: del resto, quello era il loro territorio.
“Adoro questo posto. Ci vivrei sempre, per sempre, ogni giorno. Si sta bene, qui, vero?” Guenda aveva provato a rompere il loro silenzio davanti a quelle onde piatte ed irregolari. “Sì. Qui si sta bene.” Perché le risposte di Alex erano sempre così telegrafiche? Perché neppure in quel momento provava a donare qualcosa di sé? Magari, ad aprire una breccia in quella parete di incomprensioni che ormai entrambi vivevano nel loro quotidiano?
Quello era stato l’inizio della fine. Un anno fa. Esattamente un anno fa. Ora Guenda era lì da sola, davanti a quelle solite onde piatte ed irregolari. Primo agosto. Primo giorno di ferie. Data immemorabile. Rewind.
“Cosa c’è che non va tra noi?” aveva chiesto lei con un sospiro sommesso, impercettibile. Silenzio. Silenzio atroce, interminabile, infinito. Allora lei aveva guardato il mare, forse cercando le risposte in quell’orizzonte
azzurro che proseguiva verso il cielo, perdendosi chissà dove. Ma neppure lì c’erano risposte possibili. Lei era abituata ai silenzi infiniti, ai “perché” sospesi nell’aria come palloncini, ai dubbi irrisolti. Ci viveva dentro da anni, nuotando e cercando di rimanere a galla.
“Sono innamorato di un’altra….” e Alex aveva rotto il silenzio con una coltellata, con una bomba, con un’esplosione nucleare. Guenda aveva continuato a guardare il mare. Nessuna reazione evidente. Non aveva mosso un dito: era una statua di marmo. Non pensava più. La sua mente ad un tratto si era completamente svuotata di tutto. Era una scatola senza contenuto. Era un’assenza di tutto.
Di quel momento adesso poteva ricordare solo quel gran freddo sulla pelle, dentro la pelle. Nonostante il sole d’agosto, lei aveva le vene di ghiaccio e tremava. Quel tremore era l’unica cosa che percepiva di sé. Ad un tratto Guenda pensò: “voglio morire….” Lui non disse altro. Si alzò, tornò in quella piccola casa bianca, le lasciò una lunga lettera di pseudo-scuse sul tavolo in cucina e se ne andò a piedi verso la stazione ferroviaria.
Da allora si erano sentiti solo per telefono, poche volte, per parlare civilmente di questioni economiche. Figli non ne avevano. Ad oggi, restava solo da decidere per la casa al mare. A chi dei due sarebbe andata? Oppure l’avrebbero venduta? Lei adesso era lì per salutare quella casa, quel mare, quella sabbia. Perché non sapeva se li avrebbe più rivisti. Bene o male le avevano tenuto compagnia e, dopo che lui se n’era andato, avevano raccolto pazientemente le sue lacrime amare e disperate.
Ora Guenda, dopo un lungo anno trascorso a ricucire le sue ferite, a ricomporre un puzzle senza tema, a riafferrare i fili di quella matassa annodata e sfilacciata della sua vita, era di nuovo lì. Cambiata. Una nuova Guenda, con alcuni sogni in meno e qualche certezza in più. Osservava ancora l’orizzonte lontano e azzurro. Osservava ancora il lento susseguirsi delle onde. Osservava ancora i piccoli granchi temerari e baldanzosi vicino ai suoi piedi. Ma ora Guenda…. riusciva a sorridere.
3. COME UNA REGINA MAYA
Non mi svegliate: sto facendo un sogno stupendo. Non mi svegliate: potrei diventare tremenda. E io sono tremenda. Sono tremenda? No, non lo sono…. ma vorrei tanto esserlo. Vabbè, diciamo che l’importante è provarci. Comunque il mio sogno è incredibile: sono una regina Maya (tremendissima) appollaiata su un grande trono d’oro, dentro un tempio. E ho intorno decine di servitori che mi portano cibo speziato su vassoi grandi come un letto e bevande di cacao in calici enormi. Alcuni di loro agitano ventagli con piume di pappagallo. Tutti mi temono: lo percepisco nell’aria. E’ una sensazione bellissima. Sono al centro dell’attenzione di un popolo intero. Quassù, in questo luogo sacro, costruito sopra una piramide tronca con gradinate enormi. Ai piedi della piramide, una folla puntiforme disseminata nella pianura. C’è il silenzio assoluto.
Quasi quasi non mi muovo più di là. C’è un modo per rimanere intrappolati in un sogno? No. Mi sa tanto che non c’è, perché sto sentendo quel suono stramaledetto di quella sveglia stramaledetta, poggiata sulla pila di libri accanto al letto. E non posso urlare un bel chissenefrega come vorrei. Non posso perché devo alzarmi, lavarmi, vestirmi e uscire di casa per andare in quel luogo infernale. Anche detto luogo di lavoro. Ciao trono. Ciao piramide. Ciao servitori. Spero di sognarvi nuovamente stasera. Magari preparatemi pure un bagno caldo con il patchouli. No. Il patchouli forse è asiatico: mi fido di voi, scegliete qualcosa di vostro gradimento.
Eccomi qua: sono restaurata a dovere. Non è che sia una cariatide. Sono una
ragazza “cresciuta”, con un fisichino accettabile. Mangio troppa cioccolata e mi viene la cellulite, ma fa niente. Ho adottato un rimedio infallibile: non la controllo. Io e la cellulite conviviamo nello stesso corpo in una civile e reciproca sopportazione. E con questo pensiero alla mia vecchia nemica, esco di casa con il sole che sorge. Scendo le scale del palazzo velocemente, come sempre. Vicino al portone, ecco la Bice, portinaia perfetta. Mi ha visto praticamente crescere, in quella casa dove ora vivo sola soletta. “Lucrezia, stai un po’ attenta a dove metti i piedi! Ho appena lavato per terra!” e la Bice mi saluta come ogni santo giorno. “Visto che non so volare, non mi resta che camminare! Magari potresti considerare il fatto che a quest’ora usciamo tutti per andare a lavorare!” taglio corto con decisione. Taglio corto con decisione? Io? Ieri e altre dieci milioni di volte circa ho provato davvero a volare, per non lasciare impronte di tacco sul pavimento lavato dalla Bice. Come ho fatto a dire ciò che ho detto? Strano. Beh, mi dispiace pure: la Bice mi è simpatica. E’ che a volte fa troppo la despota. Ormai sono uscita dal portone. Quel che è fatto è fatto.
Il sole mi scalda per bene in questa mattina di fine maggio. Vorrei tanto essere in ferie, ma non mi toccano. Almeno per ora. In ufficio, il capo dice che quest’anno le ferie si faranno solo a ferragosto, due o tre giorni. Un lusso. E io che ho risposto? “Va bene”. Una risposta tipica delle mie. Le alternative sono: ok, d’accordo, detto e fatto. Io non so dire “no”. Il mio personale vocabolario rifiuta questo termine. Ma eccomi dentro la metro. Rumori di ogni mattina, chiacchiere, odorini non proprio simpatici, gente sonnacchiosa e cupa. Solo qualche ragazzetto con lo zaino che ride per un nonnulla. Beata gioventù: non mi ricordo neppure più com’ero. Sicuramente, oltre alla
cellulite, avevo i brufoli. Un uomo mi guarda insistentemente. Si avvicina. Le persone premono le une contro le altre, in piedi, con il braccio appeso alle sbarre di ferro per non cadere. L’uomo non si tiene. Ad un tratto mi viene vicinissimo e io sento in modo preciso…. un pizzico sulla cellulite. Cioè, ergo: questo mi tocca! La mia mente non si ferma a riflettere e se lo fa, la mia mano destra se ne frega altamente, perché stampo cinque dita in faccia al signore dabbene. E la mano sembra incollata. Quando decido di scollarla…. rimango a bocca aperta. Due mesi fa mi era successa la stessa cosa con un altro tipo e ho elaborato il lutto facendo finta di niente. In pratica, ho subito. Ora no. Ma che cappero mi sta succedendo? Addirittura uno schiaffo! Mi viene da ridere, ma mi trattengo. L’uomo è imbarazzato, non dice una parola e si allontana, in mezzo ai commenti bisbigliati delle persone vicine. Un’anziana signora esordisce dal suo seggiolino con un “brava” di approvazione. Forse anche lei ha taciuto troppe volte, per troppi pizzichi.
Quasi quasi non mi rendo conto di essere arrivata a destinazione. Scendo trafelata e corro, come sempre, verso la fermata dell’autobus. Bus numero diciassette. Porta male, lo so, ma non posso far cambiare il numero: non ne ho il potere. Sull’autobus c’è una ressa da paura: le sardine in scatola stanno più comode di noi. Un ragazzo nero è seduto accanto al finestrino: sembra assorto nei suoi pensieri. Due ragazzi con lo zaino stracolmo (probabilmente di libri) ridono e lo guardano. Ad un tratto, uno dei due lo apostrofa: “ehi, cioccolato, mi fai sedere? Alzati che quel posto è mio, di diritto!” e sghignazza a più non posso, fiero del suo coraggioso modo di esprimersi. Io vorrei stare zitta. Ma oggi non so cosa mi stia succedendo. La mia consueta timidezza è come se fosse evaporata. “Senti un po’, latticino…. se ti vuoi sedere, siediti per terra!” esordisco, fissando il ragazzo dritto negli occhi.
“Ma io….” prova a dire il giovincello. “Ma tu cosa? Prova a radunare quei due o tre neuroni che hai e vedi di tacere! Sempre preferibile, anziché dire le idiozie che hai detto!” e le mie parole lo destabilizzano. Il ragazzo si chiude in un silenzio abissale, mentre l’amico abbassa la testa per non essere colpito dai miei sguardi tremendi.
Ecco. Sguardi tremendi e parole tremende. Tutto tremendo. Oggi sono tremenda. Ma io in genere non sono così. Io sono conosciuta come una “buona”. E pure un po’ fessa. Perché non sono capace di reagire, di dire la mia: sono soggetta alla sindrome da pietrificazione immediata. Di fronte a soprusi, cattiverie e angherie, io divento una statua, un essere inanimato. E com’è quindi che stamani mi sento diversa? Sono diversa…. Chissà perché, chissà percome, il mio pensiero va alla regina Maya del sogno. Vuoi vedere che lei …. sono davvero io? Vuoi vedere che il sogno è diventato realtà? Sono la reincarnazione di una regina Maya….. tremenda. Tremendissima. Se è così, è davvero stupendo. Voglio stare al gioco. Non mi trattengo. Seguo il flusso degli eventi. E vediamo quel che succede. Al massimo, qualcuno mi manderà a quel paese.
Tra mille pensieri ed ipotesi, sono arrivata davanti alla porta dell’ufficio. Studio di comunicazione ed immagine: praticamente, ci occupiamo di pubblicità, realizziamo pubblicità, creiamo pubblicità. E io disegno. Sono una illustratricebozzettista del team. Tutti uomini. Sono l’unica donna: mi devo subire quotidiane barzellette spinte e battutacce provocatorie da taverna. E loro credono che io sia la lobotomizzata a cui non frega nulla. Una stupida. La mia scrivania è occupata, come sempre, da Raf. Ma lui è un amico: l’unico vero amico che ho lì dentro. Meno male che al mondo ci sono uomini che amano le donne. Raf mi strizza l’occhio e mi scompiglia i capelli: è il suo benvenuto di ogni
mattina. Forse vuole attivare per bene le mie sinapsi. “Oggi sono strana, diversa…. “ dico al mio amico, mentre mi guarda attraverso i suoi occhiali nuovi con la montatura rossa. “In che senso?” chiede Raf mentre cerca caramelle nella mia borsa. “Tremenda” rispondo sicura di me. Raf scoppia a ridere ed esce dalla mia stanza scuotendo la testa. Non ci crede, ovvio. Fino a ieri ero il brutto anatroccolo: oggi sono un cigno. E nessuno qui dentro lo sa ancora. Il capo entra senza bussare e mi urla con la sua voce baritonale: “Briefing immediato! Tutti da me! Subito!” Raduno due cose - tipo blocco e penna - e vado. Prima però mi dò una pettinata alla chioma.
Il briefing: che termine! Tanto per darsi un tono. Fa molto trendy. E chiamatela riunione, che si fa prima. Comunque la riunione è nella stanza grande: l’ufficio del capo. “Ci siete tutti? ……tre, quattro, cinque. Okay, ci siete tutti. Bene. Briefing perché? Perché qui abbiamo un pezzo da novanta. Nota casa produttrice di birra che ci chiede una pubblicità originalissima. Tre agenzie in ballo, tra cui noi. Dobbiamo eliminare le altre. Dobbiamo ottenere il contratto. La mia idea è quella di puntare sul sesso. Donna procace, biondona, curve da autostrada del sole: non si sbaglia mai. Andiamo sul sicuro. Allora d’accordo. Voi adesso mi preparate due progetti diversi e me li sottoponente entro domani!” il re ha emanato l’editto. “Non mi piace! Non sono per niente d’accordo! Questa è una pubblicità sessista!” sento una voce squillante che irrompe nell’aria come un temporale. La voce è la mia. Sì, credo proprio che sia la mia. E la mia voce ha detto praticamente un bel “no” al capo. Dunque. Adesso, non so cosa potrà accadere. Il capo non vuole mai sentirsi dire
di no. Infatti si alza dalla poltrona di pelle (umana?) e mi si para davanti. Capperi! Mi vorrà eliminare fisicamente? “Lucrezia! Pubblicità sessista? Beh, allora trovami tu un’idea! Ma non entro domani…. entro stasera! Se la tua idea va bene, ti affido la campagna pubblicitaria. Altrimenti, continui a disegnare per il resto della tua vita, senza più emettere un fiato!” “Okay. Ma tanto fiaterò eccome. Visto che la mia idea sarà stupenda!” e senza guardare le facce certamente sbalordite dei colleghi uomini, esco dalla stanza in un nano secondo. Raf mi segue a ruota: “Ma sei impazzita?” “Forse sì. A me piacciono tanto i pazzi….” rispondo ridacchiando.
Non so come andrà a finire. Forse avrò l’incarico, forse no. Ma vogliamo metterci un bel chissenefrega? L’importante è che io da oggi mi senta davvero un’altra. Grazie regina Maya, grazie sogno. Adesso sono un cigno…. e volo….
4. IL CASALE DELLE ROSE
Un cancello enorme. Tutto in ferro battuto lavorato con sbarre verticali e gigli fiorentini. C’è una catena chiusa da un lucchetto arrugginito che impedisce l’accesso agli estranei. Si può intravedere una stradina oltre quel cancello: un lungo percorso di sassi bianchi in mezzo a cipressi alti come giganti. Luna tira fuori dalla tasca una chiave - arrugginita anch’essa - e prova ad inserirla dentro il lucchetto. Stranamente, la serratura non è bloccata. Luna spinge in avanti, con fatica, l’anta destra del cancello ed entra. Adesso è sui sassi bianchi e si chiede: “vado avanti o lascio perdere?” Senza pensare, i suoi piedi iniziano a percorrere quel sentiero: o dopo o si ritrova in pochi secondi davanti al casale dei nonni. Uguale a sempre. Uguale a ieri, fermo nel tempo, fermo nei ricordi, fermo nella sua potente presenza: un pachiderma di sassi toscani immerso nel verde di quella campagna rigogliosa. “Anche troppo rigogliosa!” pensa Luna mentre osserva l’edera che, nel corso degli anni, si è arrampicata fino al tetto di cotto, coprendo buona parte della facciata. Tra l’edera, diramazioni di rose rampicanti, ormai seccate dal sole. La porta d’ingresso in legno di castagno fa la guardia al tutto. Sembra una sentinella pronta a dare l’allarme per eventuali intrusioni. Luna accarezza quel legno con la mano destra. Un po’ di terra e qualche moscerino le rimangono sulla pelle del palmo e lei sorride, pensando a quante volte la nonna le aveva fatto are sopra la cera contro i tarli, dicendole: “riempi bene i buchi, che quelle bestiacce me la mangiano tutta!”
Luna cerca una seconda chiave: quella per aprire la porta di castagno, ormai sede di colonie prolifere di tarme e affini. Nell’ingresso, odore di aria antica e pesante, odore di polvere stratificata, odore
di un ato che non può tornare. La vecchia cassapanca con grandi chiodi neri a cupola le dà il benvenuto. Quell’oggetto è il simbolo di tutta una serie di generazioni: lì dentro, da sempre, i nonni custodivano foto e ricordi di ogni tipo. Anche le vesti battesimali dei nipoti. Anche il velo da sposta della nonna. Anche il loro atto di matrimonio, consunto e ingiallito come un vecchio papiro. Ma Luna non ha la chiave della cassapanca. La osserva qualche secondo e poi si dirige verso la cucina: il luogo per eccellenza dove nonna Rebecca esprimeva tutto il suo essere.
Nonna Rebecca non aveva studiato. Contava sulle dita della mano, non conosceva la storia se non quella raccontata dai suoi avi e non conosceva la geografia se non quella della Toscana più prossima al suo casale. Però sapeva parlare. Con la sua capacità dialettica riusciva ad ottenere sempre ciò che voleva. Era testarda, era una donna d’acciaio. Ma dietro tutta quella corazza, c’era un’anima sensibile e generosa. Il suo unico scopo di vita era accudire la famiglia. Tutti. Dal primo all’ultimo: marito, figli, nuore, nipoti. Lei era la matriarca che nutriva ed allevava, lei era il punto di riferimento, lei era la prima a cui rivolgersi per dire “ho bisogno d’aiuto”. Certo, c’era anche nonno Pietro. E lui sì che aveva studiato. Ma il nonno parlava poco e ascoltava molto. E quando doveva comunicare qualcosa, bastava una frase e con quella esprimeva tutto un mondo di concetti e valori. Era la colonna della famiglia.
Qualche anno prima, se n’erano andati entrambi, nel sonno, a distanza di una settimana l’uno dall’altro. Prima era morto il nonno. E la nonna si era subito rifugiata in un suo mondo di sogni, dove il marito era ancora vivo. Gli parlava attraverso le foto. Dopo sette giorni esatti, si era addormentata con il sorriso sulle labbra e lo aveva raggiunto. E tutti avevano pensato che fosse giusto così: un amore durato oltre cinquant’anni non poteva che finire in questo modo.
“No, non finire. Proseguire in un altro mondo, in un’altra dimensione….” aveva pensato Luna il giorno del funerale della nonna, felice per lei, perché certamente era ciò che voleva. Una fuga d’amore oltre le nuvole.
Adesso Luna, in quella cucina colma di pentole di rame e ricordi infiniti, non sapeva che fare. “Neppure un caffè! Non c’è acqua, non c’è gas, non c’è elettricità: qui devo darmi da fare. Ci sono tantissime cose da sistemare, da aggiustare, da sostituire. Il tetto cade a pezzi, la facciata è deteriorata, le finestre non hanno più le imposte e ci sono pure dei vetri rotti. Il giardino è in rovina. Le rose sono secche e l’edera invade qualsiasi cosa. Forse è meglio…. vendere.” Vendere? Gli altri eredi avevano lasciato a lei il casale: nessuno lo voleva perché cadeva a pezzi. Troppe spese di ristrutturazione. Dopo vari scambi di opinione, avevano trovato un accordo: lei rinunciava a qualche ettaro di terreno edificabile lì intorno, per diventare unica proprietaria di quel cumulo di sassi vecchi. Così finalmente le discussioni si erano risolte, qualche giorno prima, davanti ad un notaio. Tutto messo per iscritto. Tutto in regola. “No. Dopo tanta fatica per convincere zii e cugini, no. Non vendo. Qui ho trascorso l’infanzia, l’adolescenza e qui voglio vivere. Ho bisogno di aria pulita, di aria di casa, di aria di rose.” Già, le rose. E Luna pensa: “devo comprare nuove piante di rose, perché la nonna ci teneva tanto. Rose di tutti i colori: rosse, rosa, gialle, bianche….” Sì, la nonna adorava le rose. Soprattutto quelle rosse: diceva che ricordano il colore del sangue, della vita, della ione.
“Luna? Sei tu?” una voce profonda si propaga tra le ragnatele delle cucina. Luna si gira e nota un cappello di paglia da cui spunta una barba bionda. Gli occhi non si vedono bene, ma dovrebbe essere lui. Magro come sempre, con la solita bandana al polso per asciugarsi il sudore della fronte. Una laurea in architettura mai usata perché la sua scelta di vita è da sempre legata al sole e
all’aria aperta, in perenne difesa delle sue piante da frutto contro gli attacchi di merli e di corvi. Jacopo, chiamato appunto “l’architetto”. “Ciao…. architetto. Sì, sono io. Dopo tanti anni, eccomi di nuovo qui.” “Scusa se sono entrato senza bussare, ma ho visto la porta aperta e ho pensato a degli intrusi.” E l’architetto si toglie il cappello e si asciuga il sudore con la bandana rossa. Fa caldo in questo giorno d’estate. Fa caldo in quella cucina povera e dignitosa. Anche le zanzare sono noiose e insistenti.
“Mi fa piacere rivederti. Mi fa sentire ancora di più a casa. Ti offrirei un caffè, ma qui non c’è nulla: neppure l’elettricità! Dovrò rimboccami le maniche, visto che devo viverci!” sbotta Luna, contenta di avere un essere umano a portata di mano con cui scambiare due parole. E poi, quell’essere umano, nell’età dei brufoli e del liceo, era stato il suo primo amore. Il suo primo bacio. Finito male perché li avevi visti zia Pina e ne aveva fatto un caso da cronaca nera. “Ora si devono fidanzare, sennò tutto è compromesso!” aveva detto la zia a tavola il giorno dopo, domenica, con tutto il parentado riunito. “Ma neanche per sogno!” si era subito ribellata Luna, consapevole di vivere in una bellissima famiglia dove tutti si facevano i fatti di tutti e dove le leggi erano dettate da regole antiche come l’arca di Noè. L’incidente era finito lì. Anche perché era intervenuta la nonna: meno antica delle sue figlie. E la nonna aveva decretato un bel: “Pina, taci. Luna fa quello che vuole della sua vita!” Ma nonostante l’appoggio della nonna, Luna non aveva più osato frequentare Jacopo: solo come amico, insieme ad altri amici. Mai soli. Finché a diciotto anni se ne’era andata da quel mondo troppo costretto, delimitato, autoreferenziale.
Jacopo era rimasto nel ricordo di quel bacio tenero e giovane.
E ora è lì, davanti a lei. Un bel ragazzo con la barba bionda, sporco di terra come un bambino che ha giocato con le pozzanghere. “Se hai deciso di tornare nel luogo natìo e di viverci… beh…sono contento per te! La terra non delude mai, ricordatelo! Io vivo qui da sempre, ormai solo nella casa ereditata dai miei genitori, ma non me ne andrei mai. Amo la mia terra e le mie piante. Forse sono un lupo solitario, ma sto bene così….” e il sorriso dell’architetto illumina quella cucina senza luce. “Sì, anch’io voglio godere e vivere in pieno questo ritorno alle origini. Devo organizzarmi! Se tu avessi voglia di darmi una mano….” Luna prova a fare un faccino triste per impietosire Jacopo. La sua tattica di guerra di comprovata efficacia. “Certo che sì. Per prima cosa dobbiamo riattivare tutte le utenze e poi c’è da verificare per bene lo stato strutturale della casa. Infine, penseremo al giardino! Devi ripiantare le rose! Tante rose….” e Jacopo si butta nell’impresa con sincero entusiasmo. “Vedi? Averti incontrato oggi è già un segno di benvenuto per me. Mi serve davvero poter contare su un amico….” e Luna gli tende la mano in segno di accordo, in segno di rinnovata amicizia.
Chissà se anche Jacopo si ricorda di quel bacetto di tanti anni prima. Chissà se anche lui ogni tanto fa una fuga nel ato e rivede quel gruppo variopinto di ragazzi e ragazze sempre a caccia di risate, di avventure, di sogni da realizzare. Chissà se anche lui ripensa alle corse in bicicletta, ai bagni al fiume, ai balli sotto gli alberi a notte fonda, alle incursioni tra i ciliegi del parroco colmi di frutti lucidi ed invitanti. Ma adesso non è il momento di chiederglielo. Adesso è il momento di offrirgli
un caffè al bar del paese. E davanti ad una tazza di caffè caldo, possono accadere cose meravigliose….
5. IN FUGA DA ME STESSA
Ho deciso di fuggire. Ma la mia è una fuga un po’ strana. Sì, perché ho deciso di fuggire da me stessa. Oggi mi è venuta questa strana idea. Forse perché piove, forse perché ho sonno, forse perché ho discusso con un’amica per l’ennesima volta. Così come sono, probabilmente non vado bene: sono come un apparecchio o un utensile difettoso. Come la tv che non si accende, come la macchina del caffè espresso con il filtro otturato che butta giù strani miscugli, come l’aspirapolvere in età pensionabile che soffia fuori aria in ogni dove. Qualcuno ha sempre da criticare qualcosa su ciò che dico, su ciò che faccio. Io vorrei essere perfetta, ma proprio non ci riesco. Ho provato a cambiarmi, modificarmi, resettarmi, rinnovarmi. Non c’è verso. Sono più dura di un muro in cemento armato, di una parete di vetro antisfondamento, di una corazzata da guerra. Posso pure prendermi a picconate da sola. Mi vengono solo graffi invisibili.
Quindi, ho pensato di scrivere una lista dei miei difetti. Quelli da cui devo proprio e tassativamente fuggire. Perché finora ho combattuto. Invece, adesso ho deciso che è meglio la fuga. Già. Sembra facile. Ma come faccio a fuggire da me stessa, da ciò che sono? Mica basta prendere un treno e andare via. Dovrei uscire dal mio corpo, dalla mia testa. Ma non credo di volermi fare lobotomizzare. Non sarebbe carino. Anche perché diventerei una completa stupida e non è ciò che voglio. Io voglio “solo” essere perfetta, piacere alle persone, eliminare tutto quanto di negativo c’è in me. Così, prendo un bel blocco di carta a quadrettini e inizio a scrivere la mia lista. No, non quella della spesa: quella dei difetti. Dovrò pure identificare bene i miei
nemici, per sapere poi come organizzare una fuga.
Al primo posto, scrivo “impulsività”. Già: sono impulsiva, troppo, eccessivamente. Ho provato tutte le tecniche possibili e immaginabili per fare di me un essere equilibratissimo che pondera-valuta prima di parlare. Inutile. Resisto per uno o due tentativi e poi esplodo come un fuoco artificiale nella festa del santo patrono. Come sempre. Anzi, peggio: con gli interessi. Sono un caso disperato. Cioè, se devo dire o fare una cosa, perché perdere tempo in elucubrazioni e bilanci? Io vado sempre avanti come un ariete da sfondamento.
Al secondo posto, ergo medaglia d’argento? Metto la “testardaggine anche detta ostinazione”. No: tiro una riga rossa con il pennarello e la sposto al terzo. Perché al secondo posto metto piuttosto l’”intransigenza”. Sì, perché io sono la regina degli intransigenti: soprattutto con me stessa. Mai sgarrare, neppure di un pelo, su niente, per niente. Sennò…. apriti cielo con i sensi di colpa. Infiniti: come uno sciame di moscerini sul vino, come le cavallette della piaga egizia, come il trifoglio nel mio giardino (e le terribili lumache che si stanno mangiando la magnolia).
Quindi al terzo posto, medaglia di bronzo, scrivo “testardaggine”: perché sono una testa dura. Se credo in una cosa è quella, se dico una cosa è perché ne sono convinta, se faccio una cosa è perché è quella che reputo giusta. Per me, per gli altri, per l’umanità intera. Forse sono la reincarnazione di Giovanna d’Arco: magari finirò sul rogo come lei. Teste di coccio entrambe. E poi scrivo “orgoglio”. E poi “pigrizia”: già pure quella (ma nel senso di ozio riflessivo-creativo). E “superbia”. No! Superbia, no. Cancello subito. Suvvia, non esageriamo. Sennò sembra che sono a confessarmi i vizi capitali.
Ma all’improvviso, sono piacevolmente disturbata da un timido raggio di sole che gioca con la lente dei miei occhiali. Chissà perché, quel raggio di sole mi fa vedere sotto una nuova luce le righe che ho scribacchiato sul blocco. E penso: “però! Non è mica così scontato e usuale…. essere tutte queste cose messe insieme! Impulsiva, intransigente, testarda, orgogliosa, oziosariflessiva….” Sorrido. Caspita. Ma vuoi vedere che non sono difetti? Secondo me potrebbero essere considerate peculiarità, caratteristiche, aspetti incisivi di una persona. Sì, credo che considerarli difetti sia eccessivo. Il raggio di sole ora si fa più intenso. Forse riesce ad accelerare le mie sinapsi. Adesso, non mi va più di fuggire dai miei cosiddetti difetti. Adesso, non mi va più di fuggire da me stessa.
Aspetta un po’ che ora mi piazzo davanti allo specchio grande in sala. Lì, dentro quel rettangolo lucido con la cornice dorata, vedo una tipa che mi piace abbastanza. E quella tipa dietro gli occhiali rosa sono io. Niente male…..
No. Non fuggo più da me stessa. Mi piaccio dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Mi piaccio proprio tutta: fuori e dentro, dentro e fuori. Mi piaccio davvero tanto tanto. Però ora devo aggiungere qualcosa alla lista: “vanitosa”.
6. AISHA
Il sole del Senegal è lontano da qui. In quest’aula di scuola grigia e rumorosa, in quest’aula di scuola fatta di mattoni e di anime. Aisha sorride mentre si sforza di compilare gli esercizi di scrittura guidata. Classe terza di un istituto professionale del settore commerciale. Classe multietnica. “Prof, qui metto aqqua con due q?” mi chiede Aisha spalancando i suoi bellissimi occhi di gatta. “Magari è meglio acqua con cq!” e Milagros, cubana d.o.c., ride e tira le lunghe treccine dell’amica. Aisha è musulmana, ma ha scelto di non indossare l’hijab. Si veste come una ragazza occidentale: jeans, maglietta e scarpe colorate. “Io credo in Allah, ma mi vesto come voglio! Allah non guarda se indosso l’hijab. Allah legge nel mio cuore!” e con questa dichiarazione un giorno Aisha ha zittito tutti in classe.
E’ bella, molto bella: altissima, esile, con un viso armonioso. Gli occhi sono il punto focale di tutto il suo essere. Cambiano luce ogni secondo: ano dalla tristezza all’allegria, diventano pensosi e infine ridono come due grandi mandorle nere. Aisha è bella anche nell’anima. E’ dolce e, nonostante i suoi vent’anni, sembra una bambina ingenua ed innocente.
Mi ripete spesso: “Prof, ho vent’anni e non posso più venire a scuola.”
Tento di dissuaderla, tento di convincerla che senza un diploma di scuola superiore è ancora più difficile trovare un lavoro. Vive con il fratello che lavora come operaio senza contratto in un’impresa edile: a volte lo vedo nel cantiere a due i da casa mia, che salta da un ponteggio all’altro senza cintura di sicurezza. Come faccio a denunciare l’impresa? Li mando tutti a casa, li privo del lavoro? Non posso. Non me la sento. Ma dovrei fare qualcosa….
Intanto Aisha ormai ha preso la sua decisione. E un giorno non la vediamo più seduta al banco accanto a Milagros. Faccio ricerche e vengo a sapere che lavora in una gelateria. Ma quando mi presento davanti al bancone di vetro colorato, lei si è già licenziata.
Aisha significa “vita, prosperità”. E Aisha è piena di vita in ogni sua treccina, in ogni suo sguardo, in ogni suo sorriso. Ma chissà che vita sta inseguendo adesso questa ragazza, alta come una pallavolista, tenera come una bambina. Sarà pronta per affrontare quello che il mondo vuole offrirle, di bello e di brutto?
Vado nel cantiere edile vicino a casa. Il fratello di Aisha si chiama Abdoul. Lo intravedo tra i pali di ferro del ponteggio, su cui salticchia con completa noncuranza del pericolo. Devo mantenermi al di fuori della delimitazione dell’area, ma lo chiamo a voce alta. Abdoul ferma i suoi salti e mi guarda. Mi riconosce e mi raggiunge velocemente all’ingresso del cantiere. “Prof! Ciao!” mi dice sorridendo allegramente. “Abdoul, lo sai che tua sorella non viene più a scuola? E’ pur vero che è maggiorenne, ma vorrei sapere se va tutto bene, se lavora, come sta….” così sommergo quel ragazzone con una valanga di parole, per tentare di ottenere il maggior numero di notizie su Aisha. “Io non so niente e non voglio sapere niente. Abbiamo litigato. Aisha è andata via di casa.” Abdoul adesso mi risponde con il viso cupo ”e ora prof, scusi, ma
devo tornare al lavoro. Ciao!” E con la sua solita fusione di ciao e terze persone, Abdoul mi lascia lì, tra la polvere di cemento e lo sconforto. Non posso arrendermi. Aisha è troppo ingenua e non consce bene la lingua italiana. Temo per lei. Devo assicurarmi che stia bene. Allora mi viene in mente di chiedere a Milagros. Forse la compagna di banco può aver raccolto qualche sua confidenza, qualche frase buttata lì in un momento di intimità tra ragazze. Il giorno dopo, a scuola, durante l’intervallo, parlo con Milagros: noi due da sole. Alla mia domanda: “sai qualcosa di Aisha?” lei sembra quasi spaventata. Abbassa gli occhi e scuote nervosamente la testa. Le ripeto la domanda, toccandole delicatamente il mento e sollevandolo, fino a farle incontrare il mio sguardo tenero, ma deciso. Milagros sbatte forte le palpebre e con gli occhi lucidi mi dice: “Prof, lasci stare….” “No. Non lascio stare per niente. Adesso, per cortesia, mi dici ciò che sai, per filo e per segno. Fai la brava ragazza Milagros e vedi di usare bene la testa. Se Aisha ha bisogno di noi, me lo devi dire. Subito. Immediatamente.” E senza esiti, esprimo una volontà che non lascia spazi ad alternative, a mediazioni, a dubbi. “Aisha lavora…. sulla strada…. di notte, vicino al mare.” E Milagros scappa via. Esce dall’aula e corre in giardino. Si perde tra le compagne di classe. Si perde nel vociare allegro e spensierato di queste giovani donne in crescita. Si confonde tra le risate e le parole sussurrate di queste bambine che credono di conoscere già tutto della vita. E io rimango seduta alla cattedra. Con un enorme nodo in gola. Con delle
stupide lacrime agli occhi che vorrebbero uscire. Con un senso di vuoto dentro e di completa sconfitta. “Cosa ho fatto? Cosa abbiamo fatto?” sono le prime domande che mi pongo, dopo qualche secondo “Perché se Aisha è arrivata a tanto, significa che la sua famiglia, la scuola… tutti abbiamo fallito….” Non ne parlo con nessuno.
Quella stessa sera, indosso anch’io dei jeans e vado sul lungomare, con la mia vecchia macchinina da anni ruggenti. Percorro le strade più frequentate dalla movida. Percorro le strade più frequentate dalle “belle di notte”.
Prima di mezzanotte, la vedo. Sola, vestita come una femme fatale: un abito di raso rosso aderente e cortissimo. Il tutto corredato da finte piume di struzzo. Fermo la mia auto davanti a lei. Abbasso il finestrino. Lei infila la testa dentro e poi, quando mi riconosce grazie alla luce giallastra del lampione, spalanca i suoi splendidi occhi di gatta. “Prof….” sussurra con un filo di voce. “Aisha….” e non riesco a dire altro. Scoppio a piangere. “No, prof, no….” lei sussurra ancora e poi, velocemente, sale in macchina e mi abbraccia. Non chiude la portiera, come se volesse rimanere sospesa tra due situazioni, come se volesse mantenere aperta una via di fuga. “Non puoi fare questo Aisha. Non puoi volere questo dalla vita. Perché questa non è vita! Non c’è nessuna dignità, nessun valore, nessun senso nel vendere il proprio corpo!” e finalmente riprendo forza, riprendo coraggio.
“Non ho scelta. Non trovo lavoro!” prova a giustificarsi lei.
Allora, come una tigre che sta difendendo il suo cucciolo, anche contro il volere di questo, tiro fuori gli artigli. “Non trovi lavoro? Certo che lo trovi. Si tratta di scelte. Bisogna solo vedere se preferisci vendere il tuo corpo per guadagnare bene o se preferisci spaccarti la schiena per guadagnare male….” e sempre più convinta e decisa proseguo “ti ricordi cosa hai detto qualche tempo fa in classe? Hai detto che non porti il velo perché ad Allah non interessa: lui vuol solo leggere nel tuo cuore. Bene: cosa legge adesso Allah nel tuo cuore?” “Dolore….” e finalmente anche Aisha tira fuori qualche lacrima, troppo a lungo trattenuta. “E cosa vorresti che potesse leggere?” insisto io. “Gioia…” mi risponde lentamente Aisha. “E cosa significa…. Aisha ?” le domando ancora. “Vita.” mi risponde lei.
Poi chiude la portiera, si strofina energicamente il rossetto con il dorso della mano, si toglie dalle spalle le finte piume di struzzo. E, finalmente, mi indica la strada davanti a noi.
7. UNA VITA DI CORSA
Sofia Ginevra Carlotta Ludovica. Forse è il nome che la stanca così tanto. Portarselo addosso da quasi quarant’anni è dura. Sofia si alza sempre di buon’ora, barcollando come un’ubriaca, perché soffre di una stanchezza atavica: cioè, non ha proprio più recuperato dalla nascita. Come un perfetto automa, prepara il caffè e scalda il latte. Rintraccia la scatola dei biscotti, dietro la pila di merendine e brioches, tentando di non far cadere nulla. Del resto, il mobile dispensa misura solo sessanta centimetri di profondità: non è il magazzino alimenti di una caserma. Poi apparecchia la tavola con tovagliette all’americana e tazze colorate. Beve il caffè da sola, in piedi, davanti all’acquaio perché non ha tempo per sedersi a tavola con marito e prole. Tre figli tre. Due femmine e un maschio che valgono per dieci. Ciascuno. Poi vola in bagno per potersi concedere qualche misero minuto da essere umano. Mentre la sua banda pasteggia a suon di latte e biscotti (e almeno per un po’ le bocche sono semichiuse), lei si fionda nelle camere. Cuscini, lenzuoli, coperte, pigiami. Tutto un volar di tessuti e colori. Tutto a posto. Cinque minuti per camera. Ma chi è Batman? La casa chiama, Sofia risponde. E Sofia sparecchia la tavola, lava le tazze, veste i figli, dà al marito i calzini (perché dopo anni, non sa ancora qual è il cassetto della sua biancheria), tira un urlo alla grande perché dà i pizzicotti alla piccola, soffia il naso al maschietto perché si è beccato il raffreddore, tenta di pettinarsi i capelli mentre il postino suona alla porta, afferra gli zaini e la sua borsa di Mary Poppins con la speranza di averci messo dentro un rossetto o un lucidalabbra. Sofia arriva all’ora “x” della chiusura porta di casa con l’affanno di chi ha corso la maratona di New York. Tutto normale. Tutto regolare. Fa parte del suo vivere
quotidiano. “Uno, due, tre figli in auto. Ci vediamo stasera. Bacio bacio….” e con un saluto veloce al coniuge, ecco che Sofia è già in auto, in strada, nel traffico.
Tragitto fino a scuola, tutti insieme allegramente: si fa per dire. Perché ogni mattina ci sono i litigi del caso. “Mamma, lui mi ha preso la penna nuova. Lo odio. Volevo essere figlia unica! Potevo avere tutto io! Potevo essere felicissima! Perché hai fatto anche loro due?” chiede la grande (e in genere, questa è la sua domanda preferita). “Mamma, non sono stato io. E’ stato Hulk!” ribadisce il maschietto, che non perde occasione di menzionare il mostro verde, dopo che ha visto il film al cinema un mese fa. “Mi scappa la pipì…” e la piccola dà sempre il colpo di grazia.
“Viene nonna a prendervi dopo!” e Sofia saluta velocemente i tre moschettieri. Prole consegnata alle sante maestre (grazie di esistere!) e via. Sofia tenta di recuperare-inalare aria dall’impianto di climatizzazione dell’auto: ma è rotto da giorni. Non ha tempo per portare il suo macinino in officina. Non ha mai tempo a disposizione per niente. Neppure per andare dal dentista a sostituire un’otturazione deteriorata da mesi. Quando proprio le fa troppo male il dente, prende un antidolorifico e si ripromette di telefonare allo studio medico entro ventiquattr’ore. Ma sa perfettamente che non manterrà la promessa.
Arrivata al lavoro, ecco un bel pelo sullo stomaco lungo qualche chilometro, perché tanto c’è sempre qualcosa che non va: del resto, la perfezione non è di questa terra. E se il p.c. si accende senza danze propiziatorie e la stampante funziona, Sofia si sente già fortunata. E con il mal di testa che la perseguita da due giorni, i piedi gonfi (perché ha
voluto provare le scarpe nuove), il pensiero all’amica che non vede da mesi, le bollette dentro la borsa scadute da una settimana perché sistematicamente si dimentica di pagarle (forse spera che evaporino), il tramezzino preso al bar e mangiato in due minuti scarsi, una telefonata veloce a casa nel pomeriggio per sapere se il tetto è ancora dove l’ha lasciato, Sofia si trascina fino al termine della giornata lavorativa. Al termine? Quale termine? Ora inizia il bello!
Arriva a casa trafelata e con un diavolo per capello a causa del traffico, che è la maledizione del millennio. Si leva l’abitino di cotone-misto-seta da brava ragazza, indossa la tutona da astronauta sulla luna e inizia la disinfestazione del luogo. Marito e figli compresi. E poi preparazione cena: taglia, affetta, sminuzza, polverizza, impasta, friggi, cuoci, impadella-spadella. La truppa è sfamata.
Infine, mentre pensa con gioia al conquistato diritto di vedere cinque secondi (cinque) di tv, sdraiata sul divano, Sofia si gira e vede dentro quella scatola una tipa sorridente con riccioli d’oro, collana di perle e vestito di seta. E’ una donna vera? Oppure è la fata turchina? La tipa sorride con incisivi, canini e molari perfetti, come usciti or ora dalle mani del dentista. La tipa sbatte le palpebre dipinte d’azzurro e incorniciate da due chili di mascara. La tipa inclina la testa a destra e sinistra con fare sornione ed ammaliante.
E Sofia, davanti a quell’immagine di perfezione femminile, si pone l’unica domanda sensata, produttiva, efficace-efficiente, possibile ed immaginabile da
donna eternamente in corsa: “mannaggia!…. ho pagato il canone?”.
8. SORELLE
Beatrice detta Bea. La brava di casa. Nel senso di brava in tutto e per tutto: a scuola, in chiesa, con i nonni, con i vicini, con il quartiere, con l’umanità. Nel caso, anche con gli alieni. Praticamente perfetta. Rebecca detta Rebecca. Perché Becca, come la chiama la mamma, non le piace. Un fulmine a ciel sereno. Inopportuna, inattesa, indefinita. Praticamente imperfetta. Beatrice e Rebecca crescono così: come simboli dell’eterna lotta tra il bene e il male, tra il cane e il gatto, tra lo zucchero e il sale. Incompatibili. Due sorelle con stesso sangue (più o meno) e opposte sembianze, opposti caratteri, opposti voleri e volontà. Tanto che Rebecca, quando è costretta a presentare la sorella, la definisce come “la mia opposta” oppure “la nemica”. E sghignazza. Bea sospira e, immancabilmente, tace, affidandosi alla santa protettrice delle sorelle maggiori.
Rebecca odia la scuola. I libri sono nemici contro cui difendersi con il coltello tra i denti. Seduta alla sua scrivania, li guarda, li annusa, poi li mette in un angolo e trascorre i pomeriggi a disegnare, a sognare una vita diversa, a fantasticare su mondi paralleli.
Bea studia come un topino di biblioteca, perché quello è il suo dovere di brava ragazza. Ore ed ore a leggere, a sottolineare concetti chiave con la matita, a ripetere date, nomi, fatti storici, versi di poesie, simboli chimici e tutto quello che è necessario imprimere per bene nelle celle frigorifere della memoria. Tutto
congelato per bene in sacchetti: una notizia alla volta, un dato alla volta. E, all’occorrenza, scongela e spadella durante l’interrogazione. Un eventuale cinque è una tragedia greca, un sei è indice di deviazione dalla strada maestra. Solo dall’otto in su i voti sono accettabili. Rebecca invece campa di quattro e cinque, con la serena accettazione di chi non si aspetta altro dalla vita.
Purtroppo, Beatrice un giorno è incaricata dal padre di un compito molto impegnativo: “vai a parlare con i professori dei voti di tua sorella, perché noi non possiamo. C’è il ricevimento dei genitori.” All’epoca, Bea ha diciotto anni, ma la sua testa funziona come quella di un adulto. Scoppia la guerra in casa: quella è per Rebecca un’onta da lavare con il sangue (della sorella). Bea che va liberamente a sindacare sul suo operato scolastico. Bea “investita” dell’ordine delle Sante Studiose Inquisitrici dagli stessi genitori che, ahimè, hanno in comune. In quanto sorelle. Almeno da quanto risulta dallo stato di famiglia.
Da allora, Rebecca crea e sbandiera ovunque il suo slogan personale, nel tentativo di emergere in qualcosa rispetto alla sorella: “io sono molto più bella di lei!”. Cosa non vera. Ma Rebecca deve convincere se stessa. E così inizia a trascorrere ore a truccarsi con eyeliner, ombretti e mascara. E così inizia a trascorrere ore a guardarsi allo specchio, cercando quella sua coinquilina che non riesce mai ad identificare. Un “Io” perso tra Inconscio e superIo: un “Io” altalenante tra il desiderio di esserci e la voglia di fuggire.
Vent’anni dopo. Vent’anni di strade diverse, percorse lontano l’una dall’altra. Vent’anni di scelte, fermate, treni persi, rimpianti e rimorsi, qualche soddisfazione, qualche piccola gioia. Vent’anni volati via come un soffio di vento. Vent’anni per guardarsi come estranee e perfette sconosciute.
Ma la vita è davvero una strana signora che gioca la sua partita a scacchi da sola. Noi non partecipiamo. Lei fa la mossa dei neri. E poi risponde con quella dei bianchi. E noi dobbiamo stare lì, come stupiti spettatori di un folle gioco unilaterale.
Ora Rebecca è sdraiata in un letto di ospedale con tubicini di plastica infilati ovunque. Rebecca respira grazie ad un macchinario e non si muove. Incidente stradale e i medici non sciolgono la prognosi: ma lei ha lo sguardo di chi intende farcela. Ha sempre vissuto da medaglia d’argento, ma ora è arrivato il momento di conquistare quella d’oro.
Bea la guarda teneramente, come si guarda una bambina nella culla. Bea prova a sorridere con tutta la forza che ha in corpo, tentando di essere naturale e vera. Vorrebbe urlare, vorrebbe tirare fuori mille cose sigillate nelle celle frigorifere della sua memoria. Dei suoi ricordi. Ma l’unica cosa che riesce a dire alla sorella è: “Sì. Sei sempre stata la più bella….”
9. IL DIVANO
“Che bella coppia siete!” dice la zia Fedora, stringendo le mani di entrambi, alla festa del loro settimo anniversario di matrimonio. Paolo e sca. Neanche a farlo apposta: sembrano usciti or ora dalla Divina Commedia, così, tanto per far godere al mondo la loro presenza d’amore. Il loro vivere uniti in un unico respiro di vita. Ma Dante ha sistemato quel certo Paolo e quella certa sca nell’Inferno: quindi il loro grande amore qualche pecca l’aveva. Infatti era un amore clandestino, rubato. Corna, si direbbe oggi. Il nostro Paolo e la nostra sca non sono clandestini. Anzi: sposatissimi in modo regolarissimo, ufficialissimo. Ma quando l’occhio cade su di loro, è inevitabile pensare all’”amor ch’a nullo amato amar perdona” dei loro famosi omonimi. Mano nella mano, sguardi dolci e tenerezze varie. Roba da invidia all’ennesima potenza: la cugina Marta li sorveglia con il sopracciglio alzato, attendendo sempre lo sgarro che non arriva. A volte, la perfezione è pure di questa terra. E al taglio della torta millefoglie con crema pasticcera, di sette piani, con fiori di zucchero rosa e bianchi, i due colombi innamorati soffiano insieme la candelina a forma di cuore. E poi si scambiano il bacio più tenero del mondo. “Pure questo! Tanto per non farci mancare niente!” sbuffa la cugina Marta che non becca un uomo da quando è nata. Neppure per sbaglio, dato il suo carattere leggermente tendente verso la misandria.
Poi brindisi, balli e canti fino a notte fonda (per la gioia del vicinato).
Ma le feste finiscono come tutte le cose belle (invece, chissà perché quelle brutte e spiacevoli sembrano infinite). Baci, abbracci, promesse della serie “ci vediamo presto” e “ti telefono appena ho due secondi liberi”. Adesso la casa si è svuotata da parenti e amici. Bicchieri di cristallo e piatti limoges da lavare. Briciole di tartine ovunque e qualche goccia di spumante sul tappeto persiano. Cuscini di seta seminati per terra. Da un cassetto della madia antica, semiaperto, spunta una bottiglia di vino vuota. “Ma che invitati pieno di fantasia…” pensa sca, mentre osserva un po’ smarrita quel campo di battaglia. Bene. Rimane solo da darsi da fare. Inutile sprecare tempo nel lamentarsi. Prima si inizia e prima si finisce. sca, con il sorriso più dolce e mieloso del mondo, porge l’aspirapolvere a Paolo. “In che senso?” domanda stupito lui. “Nel senso che devi aspirare le briciole” risponde lei. “Ma è mezzanotte ata” obietta Paolo. “Ma questo aspirapolvere non fa rumore. Non daremo noia. Diamo una pulita veloce e poi andiamo a nanna: domani provvederemo a fare tutto per bene!” insiste gentilmente sca. “Non mi a neppure per l’anticamera del cervello. Lo vedi quello? Si chiama divano. Ora io mi ci butto sopra come un corpo morto e sto lì a russare liberamente tutta la notte. Ho mangiato troppo: a letto mi agiterei nel sonno! Qui sto comodo e libero come un fetta di salame nel panino!” e Paolo si toglie le scarpe e si tuffa come un delfino tra le pieghe di pelle dell’adorato pachiderma. “Non ci posso credere! Quindi dovrei fare tutto io?” domanda con voce lievemente alterata sca. “Siamo in democrazia. Puoi fare ciò che vuoi. Basta che non mi coinvolgi in decisioni unilaterali.” risponde serafico e deciso Paolo.
“Decisioni unilaterali? Qui c’è poco da decidere. C’è solo da pulire. E dove sta scritto che spetta solo a me?” chiede sca con un tono di voce che ora rasenta gli ottanta decibel. “Chi l’ha deciso che ora c’è solo da pulire? Secondo me, ora c’è solo da dormire!” e Paolo si mette un cuscino sulla testa. “Non ti ho chiesto di fare le pulizie di Pasqua. Ti ho chiesto solo di are qualche minuto l’aspirapolvere per non camminare in questo pollaio!” insiste la voce di sca, sempre più squillante. Paolo si toglie il cuscino dal viso ed emette la sentenza definitiva: “io ora dormo. Tu fai ciò che ti pare!” “Non ci posso credere. Dopo tutta la festa, frizzi e lazzi, mi tratti così? No, dico io: ma stiamo scherzando? Ti ho chiesto solo un favore e tu dormi fregandotene altamente?” e sca scuote la testa sempre più nervosa e alterata. E imperterrita continua il suo monologo: “Ehi, tu! Dobbiamo parlare! Le cose così non vanno per niente bene. Io non mi faccio trattare come un oggetto! Voglio rispetto! Mi hai sentito? Dobbiamo parlare!” Peccato che da sotto il cuscino morbido di seta con nappe dorate, provenga uno strano e sordo rumore. Tipo l’emissione d’aria dalle narici di un orso in letargo. Tipo il gorgoglio di acqua in gola quando si fanno gli sciacqui con il colluttorio. Paolo sta russando. E sta sognando un’isola deserta senza madre, senza suocera, senza sorelle, senza amiche, senza Marta. E forse senza neppure sca, con l’aspirapolvere in mano, mentre grida al cielo la sua eterna vendetta.
10. LA FEMMINISTA
Cosa significa essere femminista? Titti se lo chiede da anni, ogni volta che deve partecipare ad una riunione di qualche movimento, comitato, gruppo di lavoro a ciò destinato e dedicato. Perché Titti è una vecchia femminista che ha fatto il sessantotto con le mani tese in aria a simboleggiare il motto “io sono mia”. Si è laureata in sociologia, per diventare poi una docente universitaria di quelle eternamente “in pista”. Cioè, di quelle concrete ed umane, di quelle che girano tra aule e corridoi come vecchie studentesse con le loro sacche di cotone strapiene di libri. Cioè, di quelle sempre attive, sempre dalla parte delle donne, sempre in mezzo a mille iniziative giuste e meno giuste, intraprese con la consapevolezza del “fallire è umano, perseverare è diabolico”. Sposata, separata, divorziata. Il marito fa il medico in Africa, da qualche parte e si fa vivo a Natale per fare gli auguri. Per il compleanno di Titti mai, perché non si ricorda la data. In fondo è un brav’uomo: questo è ciò che lei ha sempre pensato dell’unico amore della sua vita. Dopo di lui, nessun altro rapporto serio o pseudo-serio. “I rapporti impegnativi sono come un’impepata di cozze. Meglio se capitano raramente….” si è sempre ripetuta Titti nelle notti d’inverno mentre inconsciamente cercava dei piedi caldi accanto ai suoi, eternamente congelati.
Titti e l’ex marito hanno un solo figlio, partito per gli States all’età di diciotto anni per fare fortuna. Quale non si sa: per ora sta provando da due anni a fare l’aiuto cuoco, in un grande ristorante di New York. Cioè: il pela-patate, l’affettapomodori, lo sbattitore di uova. A volte gli fanno cuocere gli spaghetti, ma solo quando c’è estrema necessità. “Vedrai mà, diventerò il number one dei cuochi made in Italy” le dice al telefono
quando si ricorda di chiamarla. E l’evento si verifica una volta (massimo due volte) al mese. E lei, regolarmente, tenta di proporre l’alternativa della madre perfetta: “ma studiare no? Perché, mentre insegui questo sogno di fare lo chef, non ti iscrivi all’università? Magari a scienze dell’alimentazione: così, tanto per procurarti un po’ di bagaglio culturale. Sei ignorante come una capra!” “Vabbè mà. Poi ci penso! Stammi bene!” e la telefonata mensile si chiude sempre così.
Perché non una figlia femmina? Non sarebbe stato meglio? No, non sarebbe stato meglio: sarebbero state guerre puniche. E tanta sicurezza le nasce dal fatto che sa cosa significa lo scontro generazionale tra donne. Conosce la materia. Prima l’ha vissuta sulla pelle con sua madre e adesso la vive dentro i comitati e i gruppi femministi. All’università no. Lì è una donna “di potere”: le studentesse non mancano di rispetto ad una docente. Per educazione? No. Per interesse. Meglio eliminare subito un esame, piuttosto che trascinarselo all’infinito per questioni di competizione di genere-generazionale.
Dunque, deceduta sua madre e concluso il loro rapporto d’amore conflittuale, oggi le sue personali guerre puniche sono relegate all’ambito femminista. Infatti, durante le riunioni, c’è una costante aria elettrica, con fulmini e saette che vagano in ogni dove.
All’ultima riunione del gruppo, durante una discussione sulle pari opportunità, Titti propone una bella manifestazione in piazza come ai vecchi tempi. Con tanto di striscioni e slogan. E, ciliegina sulla torta, discorso al parco pubblico, in area stile “speakers’ corner” inglese. Titti guarda soddisfatta quel bel gruppo nutrito di circa una ventina di donne: la
più matura è Anna, ha settant’anni ed è certamente la più scaltra. Ogni tanto le scappa una parolaccia, con cui infiocchetta i suoi lunghissimi discorsi. Forse è una tecnica di comunicazione: così, tanto per smorzare la pesantezza dei suoi monologhi. Anna fuma la pipa e se le chiedono il perché, alza le sopracciglia, scuote la testa e non risponde. Adesso Titti attende riscontri alla sua proposta di manifestare in piazza. Ma improvvisamente, Letizia di vent’anni e Nicoletta di trenta le ridono in faccia: altre tre o quattro “giovincelle” sorridono e si danno gomitate. Le quarantenni e le molte ex sessantottine, decidono di rimanere in silenzio, per ora. “Ma che manifestazione in piazza! Roba da medioevo!” esordisce Letizia. “Qui c’è da studiare una strategia sottile, efficace, moderna, attuale, tecnologica: si deve colpire il nemico al cuore in pochi secondi, senza urli di piazza. Ergo: si deve studiare una email bombing con cui invadere le caselle postali di politici e gente in vista. E la nostra iniziativa avrà il suo bel momento di gloria!” e Nicoletta, tutta soddisfatta, enuncia il suo pensiero. Titti le guarda. Guarda le giovani e quelle più vecchie. Poi il suo sguardo si ferma, statico e deciso, sulle due sedie di plastica dove soggiornano i giovani corpi di Letizia e Nicoletta. E osserva bene, indaga bene, s’insinua bene in quei visi, in quei sorrisi sornioni, in quegli occhi sfavillanti. Vorrebbe gridare in faccia ad entrambe che lei è una vecchia femminista d.o.c., con un ato glorioso alle spalle. Vorrebbe gridare in faccia ad entrambe che lei ha fatto la storia del femminismo, della legge sul divorzio, di quella sull’aborto, di mille altre battaglie vinte (e pure di quelle perse). Ma chissà perché, chissà percome, in quegli sguardi fieri, convinti e apionati rivede i suoi occhi neri di ragazza. Allora Titti sorride. E pensa: “sì, ho un figlio maschio. E molte, molte figlie femmine….”
11. QUEL BREVE E TRANQUILLO CASO DI MOBBING
Avevo vent’anni circa. Avevo deciso di lasciare l’università: facoltà di giurisprudenza, scelta da mio padre, subito dopo la sua inutile operazione. Poi mio padre era morto di cancro al polmone e io non avevo certo voglia di stare seduta delle ore alla scrivania, davanti a quell’assurdo tomo di milleduecento pagine di diritto privato. “Chissenefrega! Chissenefrega di tutto! Uno si fa un mazzo tanto nella vita e poi…. Poi a quella tipa nera con la falce e ti porta via!” pensavo ogni attimo, ogni minuto. Così, mi ero forgiata il mio nuovo, eclatante, undicesimo comandamento: “carpe diem”. Trascorrevo il tempo con le amiche, a fare shopping, al telefono (non c’erano i cellulari), con il ragazzo. E la sera? Sempre fuori: nei locali. Per non pensare, per illudermi che quel momento che stavo vivendo, quei secondi di frastuoni e musica e risate e luci e ragazzi ondeggianti e colorati…. erano la vita vera, l’attimo da godere, da respirare. Con rabbia: con tutta la forza che avevo dentro, con tutta l’adrenalina che mi scoppiava nelle vene.
Poi, un giorno, ho deciso che dovevo - forse - fare anche qualcosa di produttivo. Meno eccitante, ma più concreto. Tipo lavorare. Una di quelle cose che fanno molti esseri umani e che dovrebbe, a regola, garantire una certa dose di dignità. Ecco: ad un tratto, non ho pensato di dover lavorare per guadagnarmi il pane (quello, ringraziando il Cielo, c’era), ma di dover lavorare per guadagnarmi un po’ di dignità. L’avevo persa. Non la trovavo più. Se mi guardavo allo specchio, potevo vedere solo un corpo vuoto, degli occhi senza luce: un essere che non mi piaceva. Non che mi fossi mai amata alla follia, ma in quei momenti anche la mia tenue fiammella di autostima se n’era andata in cerca di fortuna. Chissà dove.
Così, non ricordo neppure più come, un giorno mi ritrovai lì. Il mio primo giorno di lavoro in un palazzo enorme, moderno, con vetrate e ascensori ovunque. Area industriale. In uno dei piani alti del palazzo stile New York City c’erano gli uffici della holding che mi avrebbe accolto nel suo staff. Probabilmente, dopo una settimana di prova, avrei avuto l’incarico di assistente del direttore. Cercavano quella figura. E avrei dovuto dare anche disponibilità a viaggiare, con il medesimo direttore e personale tecnico di contorno.
Mi presentai quindi sul luogo di lavoro, puntuale come un orologio svizzero e fui affidata ad una tutor molto gentile ed esperta: la ragazza avrebbe dovuto erudirmi sulle conoscenze e competenze necessarie ed indispensabili, per rendermi autosufficiente nel giro di sette giorni, sette. Ma già da quel primo giorno, mi resi conto che c’era qualcosa di strano intorno a me. Le vetrate, gli arredi modernissimi, le attrezzature tecnologiche: tutto faceva pensare ad un mondo di perfezione ed efficienza. Ma nell’aria c’era qualcosa di pesante. Percepivo sopra di me sguardi fissi, costanti, inquisitori. Sentivo bisbigliare il mio nome. Vedevo gruppi di persone che si fermavano a pochi i dalla mia scrivania, con la faccia di chi sta testando il nemico. “Forse è perché sono nuova. E’ il primo giorno e devo darmi pazienza. Domani andrà meglio!” e con questo pensiero incoraggiante mi trascinai fino all’ora di pranzo. Un’ora circa di pausa (o poco meno) da utilizzare alla mensa interna, al piano terra del palazzo. La mia tutor, sempre gentile ed educata, mi accompagnò appunto nell’area barristorante-buffet.
“Scegli pure un piatto. Paga l’azienda. I pasti sono compresi nei servizi che ci offre la holding. Bello vero?” e la mia tutor, entusiasta del fatto di poter godere di tanta magnanimità, mi mostrò la vetrina del bancone bar. “Vorrei quella fetta di torta. Grazie” timidamente avevo fatto la mia scelta. Una fetta di torta con le mele. Lo ricordo ancora. Piccola. Unica e solitaria. L’ultima fetta di torta con le mele rimasta in quel vassoio di plastica tondo. “Non si può. Quella no!” e con un piglio deciso e molto aggressivo il donnone con camice dietro il banco continuò “Vuole altro?” In quel preciso istante, una ragazza intravista più volte negli uffici dei piani alti, si avvicinò sicura e sfrontata al banco e il donnone, senza esiti e senza parlare, le porse quella fetta di torta con le mele. “Allora? Deve ancora pensarci su oppure ha deciso? Vuole qualcosa?” mi apostrofò ancora la donna. “No, grazie….” e io con un certo nodo in gola dalla rabbia uscii dalla mensa, lasciando lì la mia tutor che nel frattempo si era seduta ad un allegro tavolo di colleghe. Mi ricordo che l’unica cosa che riuscii a pensare fu: “magari domani mi porto dei crackers.” Povera stupida bambina. Vent’anni. Me lo fero oggi a quaranta, penserei “magari domani porto della candeggina e la verso sulla torta….” Il pomeriggio trascorse come la mattinata: in un’atmosfera meravigliosamente pesante.
La sera a casa, non avevo neppure la forza di parlare. Era come se mi avessero spento il cervello: perché avevo dovuto utilizzare tutte le possibili sinapsi per il lavoro e per difendermi dal nemico. “Non chiedermi niente, per favore….” dissi laconica a mia madre che mi guardava preoccupata e certa del “qualcosa che non va”. Le madri hanno un
sesto senso. E pure un settimo. Ma a volte è meglio tenerle a distanza di sicurezza, perché sennò c’è da consolare noi stesse e loro. Troppa fatica.
Il secondo giorno andò uguale al primo, se non peggio. L’unica variante fu il pacchetto di crackers che mangiai nella mia automobile, parcheggiata nell’area appositamente e logisticamente adibita per le vetture dei dirigenti e degli impiegati della magnifica holding. Piccolo tetrapak di succo di frutta e via.
Se i primi due giorni potevo sospettare di soffrire di manie persecutorie, tale ipotesi sfumò come neve al sole, in qualche nano secondo all’avvio della terza giornata di lavoro. Adesso anche la tutor sembrava acida come una mozzarella andata a male. Mi piazzava quintali di fogli con dati da inserire nel p.c., senza concedere spiegazioni o informazioni, senza parlarmi, senza emettere un fiato. Tutto sbattuto seccamente sulla scrivania: non più la sua, ma un banchetto messo di traverso in una sorta di corridoio. Un banchetto traballante, con qualche chiodo che spuntava qua e là. Ma non era la holding delle meraviglie? Com’è che avevo quel misero banchetto da sette nani? E ora che nessuno mi rivolgeva più la parola, come facevo a capire ciò che avrei dovuto fare? Allora tentai un approccio gentile e mite alla tutor, ma ormai anche lei sembrava ata dalla parte nemica. Sembrava posseduta da una sfinge egizia. “Scusami, questi dati li inserisco in questo file?” provai a domandare. “Lasciami lavorare per favore. Non posso farti da baby sitter in eterno!” e con ciò la tutor aveva preso la sua bella decisione. Aveva fatto la sua scelta. Una scelta certamente indotta, decisa da altre.
Sì, altre. Perché esattamente al terzo giorno, capii (e fu una vera epifania) che le mie nemiche, guarda un po’, erano tutte donne. Gli uomini, pochi (due o tre), stavano lì come merluzzi ad ascoltare il bisbiglìo sommesso e ad osservare le gomitate e gli sguardi di fuoco contro la mia scrivania-banchetto. Ma poi, alla fin della fiera, si facevano i fatti loro. Il gruppo di Erinni era costituito da una dozzina di giovani donne, più o meno trentenni. Più o meno eleganti, veloci, efficienti, ciarliere. Più o meno terribili. Certo, avevo inquadrato il nemico. Ma il motivo di tanta guerra mi era ancora ignoto. Andai avanti così, per i sette giorni sette di prova.
E al settimo giorno lavorativo (numero principe della cabala) fui convocata dal direttore. La cosa strana è che io non l’avevo ancora visto in faccia, né gli avevo parlato. “Allora attiviamo la pratica per lei? Si procede. E’ d’accordo?” mi chiese subito il direttore senza guardarmi negli occhi, con una penna nella mano destra e il telefono nella mano sinistra. E a quella domanda, mi apparvero davanti, scorrendo molto velocemente, le immagini, i fotogrammi di quegli ultimi terribili giorni. “Ma io dovrei lavorare con questa gente folle?” semplice domandina da porsi. Minimo sindacale. “Io me ne vado!” dissi con una certa sicurezza. Erano circa le dieci della mattina di quel fatidico giorno del risveglio della mia fiammella di autostima. Non ricordo la faccia del direttore, né quello che mi disse nel salutarmi garbatamente. Ricordo però il gruppetto di donne davanti all’ascensore. Erano lì per un’autoglorificazione?
Erano lì per godere della loro vittoria? Erano lì per ridere di me in modo finalmente aperto e godereccio? No. Assurdo. Molto più assurdo. Le cospiratrici, tutor compresa (con lacrima da coccodrillo agli occhi), erano lì per chiedermi scusa. “Sai, forse ti sei accorta che siamo state un po’ scostanti con te. Credevamo che tu fossi qui per rimpiazzare una nostra collega in malattia. Temevamo che tu le rubassi il posto!” dichiarò in un solo fiato la “capa” del gruppo. “E non avevate capito che io ero qui, in prova, per il posto di assistente del direttore?” esplosi io, ormai noncurante di toni di voce, sguardi e anatemi vari. “No. Scusaci. Non avevamo capito….” Non avevano capito. E la tutor che mi insegnava a fare l’assistente dirigenziale? Lei tentò di giustificarsi dicendo: “ma io ho avuto l’incarico di doverti insegnare cose generiche d’ufficio. Nessuno mi ha mai specificato il tuo ruolo….” Ah ecco. Un “qui pro quo”. Una sciocchezza. Una bazzecola trasformata in un inferno di sette giorni. Mi allontanai da loro. Poi, all’ascensore, mi girai e guardai la tipa che si era presa la mia fetta di torta di mele. Le sorrisi: “Sai, quella fetta di torta? Ci ho pianto tutta la sera. Non per la torta. Semplicemente, sei riuscita a farmi sentire…. inesistente.” Lei mi guardò con gli occhi spalancati, come persa: aveva dipinto sul volto un devastante senso di colpa. Ora gli occhi di quelle ex spavalde erano tutti abbassati a terra, a guardare quella moquette grigia e perfetta, della holding perfetta, del palazzo perfetto.
Uscii da quel luogo, felice di respirare una fantastica aria inquinata di smog.
12. IO SONO GRANDE
“Prima o poi me ne vado di casa. Prima o poi faccio la valigia e me ne vado. Io sono grande ormai e qui nessuno se ne rende conto!” Carlotta urla per l’ennesima volta il suo grido di battaglia. Contro i genitori egoisti, contro il fratello più grande e tiranno, contro la nonna che non le vuole più bene, contro il mondo terribile in cui è costretta a vivere ogni santo giorno, sgomitando contro tutto e contro tutti. “Ho quindici anni! Volete capire che non sono più una bambina?” insiste Carlotta con le mani sui fianchi, battendo il piede destro sul pavimento, in modo sincopato, insistente. La coda di cavallo dei capelli lunghi e biondi ondeggia a destra e a sinistra, mentre gli occhi color acquamarina promettono vendetta. “Carlotta! Hai rotto!” Marco taglia corto e interrompe i proclami di guerra della sorella, mentre prende un pacchetto di patatine, lo zaino, la chitarra ed esce di casa. “Carlotta! Ho detto di no! Tu a ballare di notte non ci vai. Tu in discoteca con le tue amiche non ci vai. Vedremo a diciott’anni!” esordisce la madre con un tono che non ammette repliche. Il padre alza le spalle e pure le sopracciglia. La nonna annuisce soddisfatta della decisione saggia e inappellabile. “E io dovrei aspettare di avere diciott’anni per fare le cose che le mie amiche fanno adesso a quindici? Sono un essere anormale? Cos’ho io che non va? Perché loro sì e io no?” Carlotta continua la sua protesta. “Cara bambina, noi ci fidiamo di te. Dipendesse solo da te, dal tuo comportamento, sarebbe tutto semplice. Noi non ci fidiamo degli altri. E’ per questo che non possiamo mandarti fuori di notte!” e il padre finalmente parla, sorridendo dolcemente a quella piccola donna scalpitante.
“Facile dire così. Facile dire: mi fido di te e non degli altri. Che significa? Io sono io. Se vi fidate di me, dovete lasciarmi andare. Cosa c’entrano gli altri. E poi quali altri? Le mie amiche? I miei amici? Li conoscete tutti e dite sempre che sono bravi ragazzi. A parte Chicco che si fa le canne!” e Carlotta continua la partita, sola contro tutti. “Cosa sono queste canne?” chiede la nonna. Lei vuol sempre tenersi aggiornata sul mondo dei giovani, perché sostiene che “bisogna tenere gli occhi aperti”. Ma comunque nonna Adele tiene sempre aperti gli occhi e pure le orecchie. Secondo Carlotta, anche troppo, visto che sa anche usare facebook e controlla le sue chat. L’ha pure beccata che controllava la lista degli amici per vedere se c’era qualche maggiorenne pedofilo. “Nonna che fai?” le aveva gridato Carlotta, seccata da tanta invadenza. “Controllo!” aveva risposto seraficamente lei, sorridendo. Perché mentire? Del resto sarebbe stato inutile, visto che era stata colta in flagranza di reato. E adesso la nonna era particolarmente interessata alla piega che poteva prendere quella bella discussione familiare. Sì, perché la sua bambina non poteva certo finire in pasto agli squali, così, senza un minimo di corazza e protezione. Così, senza un minimo di guardie del corpo. Così, senza neppure una parvenza di nonna al seguito. Nessuno comunque risponde alla domanda della nonna sulle canne. Ma lei ha posto quel quesito per pura provocazione, perché in verità, sa esattamente cosa sono. Glielo ha spiegato tempo prima Marco, mentre avvolgeva qualcosa in una piccola carta, in terrazza. E lei ha taciuto il tutto ai genitori, dietro giuramento solenne di cessazione immediata ed irrevocabile dell’uso e consumo di erbe e affini. Ora controlla tutte le sue cose: cassetti, calzini, portafogli, scarpe e pure la chitarra. E Marco non protesta, perché sa comunque che la nonna ha ragione. Ride e l’abbraccia.
Ma adesso è Carlotta al centro dei pensieri dell’anziana signora di casa. “Pulcino…. devi aspettare di essere più grande!” prova a dire mentre con la mano rugosa accarezza quella coda di cavallo di seta bionda.
“Io non sono un pulcino! Io sono una donna!” sbotta Carlotta. Ma il termine “donna” in bocca a quella adolescente scatena l’ilarità dei genitori. Carlotta esplode. “Vi odio! Vi odio!” urla il pulcino, mentre scappa via e si chiude a chiave nella sua stanza.
Dopo tre giorni di silenzio assoluto e di panini consumati sul letto, Carlotta sembra sempre più pallida e nervosa. I genitori decidono di riaffrontare l’argomento. Solo loro due. Per verificare se ci possono essere alternative, possibilità di incontro tra le diverse ed opposte posizioni con la figlia. “Mi ricorda com’ero io, alla sua età. Anch’io avevo fretta di crescere….” sospira la madre, mentre continua la sua riflessione “forse stiamo esagerando. Magari una sera ogni tanto potrebbe uscire. Stabiliamo un’ora accettabile per il rientro.” “Sì, credo anch’io che forse sarebbe meglio fare un o indietro. Non possiamo pretendere che viva fuori dal mondo, protetta dalla bambagia, in una prigione d’oro. Non possiamo evitarle tutti i rischi, i problemi, in modo assoluto. Però possiamo almeno informarla bene sulla situazione. Uscire di notte significa affrontare l’eventualità di incidenti stradali, droga nei locali, alcool….” e il padre inizia un suo preoccupatissimo elenco di pericoli incombenti. “Per carità! Se parli così, mi spaventi. Non la faccio più uscire!” ribatte la madre. Ma dopo quel colloquio a due, è adottata la decisione. Ne viene anche informata la nonna: Carlotta potrà uscire solo di sabato sera, accompagnata dalle due amiche del cuore, in auto guidata dalla sorella maggiorenne di una delle due e con rientro all’una. Tassativo. Nell’udire l’ardua sentenza, Carlotta inizia a saltare sul letto, in preda alla gioia più grande mai provata nei suoi quindici anni di vita: “sono grande! Sono grande! E vado a ballare!” Marco scuote la testa. Lui che ha diciannove anni ed è un uomo di mondo, sa bene che le discoteche non sono luoghi adatti per bambine svampite.
Arriva sabato sera. Carlotta ha trascorso la giornata a prepararsi. Durante la mattina, è andata dal parrucchiere e si è fatta fare i “colpi di sole”, poi ha voluto pure farsi una lampada abbronzante. Durante il pomeriggio, ha provato vestiti con le due amiche, nella sua stanza, chiuse a chiave, ridendo e mandando decine e decine di sms, per annunciare l’evento della sua prima uscita notturna da “grande”. Alle nove di sera, Carlotta è pronta. Senza cena causa blocco allo stomaco. Minigonna jeans, ballerine di vernice nera, giubbotto di pelle invecchiata ed eterna coda di cavallo. La nonna la guarda e pensa: “il mio tesoro! E’ bellissima!” ma non lo dice perché teme di commuoversi.
Carlotta esce con le due amiche, Roberta e Stefania. Ad attenderle sotto casa, c’è Marta, la sorella maggiorenne e patentata di Roberta. “Musica a palla!” dice Marta accendendo la radio. E via. La piccola auto si muove sicura sull’asfalto nero, illuminato da fasci di luce. Dalla terrazza, la famiglia guarda Carlotta. Il padre sospira e rientra subito in sala, pensando: “quanto sono vecchio!”
Davanti alla discoteca, un proliferare di ragazzi e ragazze: sigarette accese, lattine di birra, scooters e auto parcheggiate in mille modi alternativi. E visi. Tanti visi luminosi, pieni di vita. E risate infinite, squillanti, esplosive come fuochi artificiali. E mani intrecciate, braccia intorno alla vita e intorno alle spalle. E corpi uniti, vicini, contaminanti e contaminati da altre pelli, da altri capelli, con la voglia di toccarsi, di fondersi. Carlotta scende dall’auto parcheggiata alla bene e meglio e si sente investita da quell’aria elettrica e speciale. Si sente ubriaca di vita.
Le quattro ragazze pagano il biglietto di ingresso ridotto (chissà perché le donne pagano sempre ridotto) ed entrano in quel tempio sacro della musica e del divertimento.
Appoggiate le giacche su un tavolino qualsiasi per non fare la fila in guardaroba, iniziano subito a ballare, buttandosi nella mischia di corpi sudati. E ballano, ballano, ballano…. A Carlotta sembra di vivere un sogno: si guarda intorno. Luci pazzesche a fasci intermittenti, musica che pulsa dentro le tempie, le vene e il cuore, ragazzi ondeggianti e felici. Un ragazzo le si avvicina e le dice qualcosa all’orecchio, ma lei non capisce per il frastuono. Poi Roberta e le altre ragazze le indicano il bar: si allontanano dalla pista e vanno verso quel bancone di marmo e specchi. Marta chiede al barista una tequila. Poi apre la borsa e tira fuori una scatolina a forma di cuore, con mille brillantini sopra. Bellissima. Apre la scatolina e tira fuori 4 pastiglie rosa, piccole piccole. Ride entusiasta. E’ orgogliosa di poter offrire alle altre ragazze le sue pastiglie “energetiche”. Marta appoggia delicatamente le pastiglie sul palmo della mano destra, porgendole alle altre compagne d’avventura. Ruota la mano lentamente e offre l’ultima rimasta a Carlotta. Lei la guarda con gli occhi spalancati. E poi osserva le altre due ragazze che in un batter d’occhio hanno già ingoiato quelle cosine rosa. “Ma io non la voglio….” dice Carlotta facendosi seria e preoccupata. Le amiche scoppiano a ridere. Marta le dice: “dai, non rovinarci la festa! Non fare la santarellina!” Carlotta le guarda. Le spuntano lacrime agli occhi. In questo momento vorrebbe lì il suo fratellone, vorrebbe lì i suoi noiosi genitori, vorrebbe lì la nonna che le dice “io controllo!”. Ma loro non ci sono. C’è solo quel palmo di mano tesa, con una pastiglia di anfetamina sopra.
Anfetamina. Sa cos’è. Ne hanno parlato a scuola. E in casa le hanno sempre detto cos’è la droga. Ha visto anche una sua amica in coma per un pericoloso mixer di alcool e pasticche non ben identificate. Carlotta è un pulcino, ma non vive sulla luna. E questo è uno di quei momenti della vita in cui si è davanti al bivio, ad un bivio molto impegnativo.
Improvvisamente, Carlotta sussulta e sbotta con un “ma andate a quel paese”. Poi corre via, veloce, verso l’uscita, verso il piazzale. Si ferma accanto ad uno scooter qualsiasi e si appoggia. E’ sudata, stanca, delusa. Desidera solo il suo letto e la trapunta con le farfalle rosa e azzurre. Tira fuori dalla tasca della minigonna jeans il cellulare e compone un sms, perché ha poco credito ed è meglio non telefonare. Trema un po’, ma riesce a comporre quelle poche, necessarie parole. “Mamma, mi vieni a prendere?” E sfiora il tasto d’invio.
13. COME BIANCANEVE
“Giura che non ti piace. Giuralo sulla nostra amicizia! Perché io lo amo troppo, ma se lo ami anche tu, allora io non lo amo più!” e Domitilla detta Tilla si pettina i lunghi capelli castani con le dita affusolate, osservando nello specchio ogni centimetro del suo viso paffutello da adolescente. “Va bene Tilla. Giuro. Ma non farmi fare cento giuramenti al giorno! E poi io non voglio avere il ragazzo. Non voglio nessuno. Io voglio stare solo con te e divertirmi. Noi siamo come sorelle, vero? Staremo sempre insieme, vero?” risponde Bianca. Ma come avranno fatto a chiamarla così, con quei capelli ed occhi nerissimi che si ritrova. Infatti lei si fa chiamare Biancaneve e guai ad usare il suo semplicissimo nome registrato all’anagrafe. Perché Biancaneve? Ma è ovvio: Biancaneve ha i capelli neri e alla fine della favola trova il principe azzurro senza troppa fatica. Sta ferma lì come morta e quello arriva sul cavallo bianco e la bacia. Bianca non vuole faticare a cercare un uomo: proprio non le va. Per cui, il nome Biancaneve è di buon auspicio. Solo Domitilla ha l’autorizzazione a chiamarla con un diminutivo, creato dopo giorni di elucubrazioni mentali a due. Il risultato è stato “Bi”. Tipo una sigla. Quindi Tilla e Bi. Due nomignoli incredibili, come loro due. Sì, perché loro sono incredibili. Vivono in simbiosi perfetta. Quello che sente una, lo sente pure l’altra, ciò che vuole una, lo vuole pure l’altra. Stessa classe del liceo, stesso tipo di zaino e di diario, stessi idoli musicali e cinematografici, stessi pedinamenti al più bello della scuola, stessi gusti culinari (pizza e gelato). Ma non basta. Tutto uguale anche il resto: dal modo di vestire (preferibilmente jeans e ballerine anche sotto zero), ai capelli lunghi piastrati e
lisci come seta, all’anellino all’anulare sinistro.
La loro filosofia di vita si basa sull’”io sono te e tu sei me”. Ergo: due corpi e un’anima. Ergo: fondiamoci e fidiamoci l’una dell’altra. Se ad una festa Tilla decide di vestirsi di bianco, anche Bi deve vestirsi necessariamente di bianco: in caso contrario, non si sentirebbe a suo agio, non toccherebbe con mano il suo alter ego . Se a scuola Bi prende un bel voto, anche Tilla deve riuscirci: in caso contrario, la loro bilancia ideale potrebbe subire seri scompensi.
In questi giorni di fine anno scolastico, prima classe di liceo linguistico, le due amiche provano a studiare insieme, ma è cosa dura, visto che la mente di entrambe vaga in mondi paralleli. “Tilla Mirtilla…. ci mettiamo lo smalto rosso di tua mamma?” e Bi interrompe la lettura del terzo canto della Divina Commedia. “Non mi chiamare Mirtilla. Lo sai che non mi piace! Lo smalto rosso non si può perché l’ultima volta la madre l’ha fatta lunga come l’autostrada… non la finiva più. Parlava a manetta. Vabbè… quando fa così, mi rimbalza. Però le cose dei vecchi è meglio lasciarle stare.” “Non fare l’afosa. Senti, io non ne posso più di Dante. Andiamo a farci una vasca in centro?” E tra manette, rimbalzi, afa e amenità varie, in questo bel pomeriggio di maggio, le due ragazze si preparano ed escono di casa, mano nella mano. C’è il sole e questo già è un bel presagio del fatto che tutto andrà a palla. In piazza c’è il tipo che entrambe amano: seduto sullo scooter bianco, con jeans strappatissimi e t-shirt con teschio. Tatuaggi dal polso sinistro alla spalla. E vari braccialetti di cotone intrecciati al polso destro. Sì, lo amano entrambe: Tilla ammette il fatto, mentre Bi nega ancora.
E come amano due piccole donne? Amano con l’entusiasmo di chi affronta un free climbing, di chi si getta con il paracadute, di chi s’immerge con muta e bombole negli abissi. Un’avventura da mille e una notte. Una favola di Cenerentola con fata allegata e zucca-carrozza in omaggio. Niente di razionale, ponderato, soppesato come invece accade in quello strano mondo adulto dove tutto perde fascino e poesia, dove esiste solo la prosa del quotidiano, della regola, del dovere. L’amore a quindici anni è favola e non può essere altrimenti. Ma il segreto sta nel far vedere che tutto è maledettamente normale, quasi banale. Vissuto e stra-vissuto. “Come vi butta?” l’idolo maschio parla. Sì, perché sa parlare, anche se il suo slang è peggio di quello delle due amiche. Più limitato e limitante, scelto, ermetico. Da loggia segreta, da carboneria rivista e corretta. Le due amiche lo guardano con una certa aria di sufficienza, studiata allo specchio per ore e certificata d.o.c. Tilli emette un pacato “alla grande” mentre Bi tace e volge lo sguardo noncurante altrove: verso un platano. Tanto per evitare di diventare color pomodoro maturo. Tilli invece sostiene lo sguardo del soggetto, detto Chicco. Uno sguardo che le fa battere il cuore come un tamburo impazzito: occhi di ghiaccio e capelli del colore del sole. “E’ il mio amore. Un principe…” pensa Tilli mentre cerca qualcosa nella borsa. Poi tira fuori un pacchetto di sigarette e un accendino rosa. Mette la sigaretta in bocca e la accende come una donna vissuta. Odia le sigarette, ma quando non sa dove mettere le mani e cosa fare, allora fuma: per darsi un tono, un contegno, un certo atteggiamento da adulta. Bi invece non fuma. Ci ha provato, ma ogni volta tossisce come una disperata perché le sembra che il fumo le invada ogni spazio delle vie respiratorie impedendo il aggio dell’aria. E poi non le piace sentirsi addosso quell’odore di tabacco per ore. Chicco osserva Bi. La guarda con insistenza, poi lentamente le si avvicina e a voce bassa le domanda: “Vieni a fare un giro?” Bi guarda terrorizzata Tilla. Cosa deve dire, cosa deve fare? In un nano secondo la sua vita potrebbe subire una svolta epocale. Chicco è il principe sul cavallo
bianco? Tilla sorride a Bi e i suoi occhi dicono: “sì, lo amo, ma non troppo. Vai pure…” Bi riesce solo ad annuire a Chicco. Sale sullo scooter, lancia uno sguardo d’intesa a Tilla che le fa il segno della vittoria con indice e medio della mano destra. E mentre lo scooter vola via nel traffico, lontano dalla piazza, per portarla in un luogo certamente romantico, lei sente uno strano brivido lungo la schiena, mentre dice a se stessa: “evvai! Sono davvero Biancaneve!”
14. PERFETTA
In quella casa elegante e glamour, invidiata dai pochi vicini e osservata dai molti turisti, lì in cima alla collina a piane stracolma di vigneti, ogni cosa deve sempre stare perfettamente al suo posto. Margherita è una moglie perfetta, una madre perfetta, una casalinga perfetta. E appena sveglia, ogni giorno dedica tutto il suo tempo inseguendo disperatamente l’ambita perfezione. Cura ogni minima cosa, ogni dettaglio, ogni sfumatura, come se fosse questione di vita o di morte. Le sedie esattamente distanziate un centimetro dal bordo del tavolo, la frutta non eccessivamente matura nel vassoio di cristallo, il tappeto Bukara con le frange perfettamente adagiate sul pavimento di marmo lucido, la chaise longue posizionata orizzontalmente davanti all’enorme vetrata che dà sul giardino stracolmo di piante di limoni. E quando cucina, fa attenzione contemporaneamente ai tempi di cottura e ad eventuali schizzi di qualsivoglia cibo sul top della cucina. Margherita non tollera la visione di macchie di sugo o di olio fritto, appiccicose ed invadenti, neppure per pochi secondi della sua perfettissima vita. Margherita non tollera niente che sia sporco, contaminante, brutto, esteticamente, superfluo, ingombrante. Lei ama la pulizia, la linearità, l’essenzialità delle cose. Margherita non tollera errori ed imperfezioni. Soprattutto se è lei a causarli.
La regola principale della sua regolarissima vita è: “devo essere perfetta”. Una perfezione totale. Studiata nei particolari, nei dettagli, nelle sfumature. Studiata nell’abbigliamento, nel trucco, nei gesti, nelle parole.
Margherita, in pubblico, indossa solo abiti classici, della serie gonna- due- ditasotto il-ginocchio possibilmente grigia e camicetta di seta pura possibilmente bianca. Tacco medio da signora perbene, collana di perle vere regalo della suocera e coordinate a piccoli orecchini regalo della madre. Trucco minimo con fard rosa pesca e lucidalabbra, capelli raccolti a chignon, con forcine fantasma. Gesti misurati al millimetro e parole calibrate e dosate “q.b.”. Secondo lei, questo è il minimo sindacale della perfezione. Qualcosa in meno potrebbe risultare sciatteria, qualcosa in più potrebbe essere considerato volgarità.
Poi c’è la seconda regola: “ogni oggetto deve avere una sua precisa collocazione e posizione.” E questa è la regola con cui gestisce la realtà di quella casa sulla collina a piane, dove le scatole dei biscotti sono allineate nella dispensa come soldati all’alzabandiera, dove la polvere è ormai un ricordo lontano nel tempo, dove sui vetri delle finestre non soggiornano neppure le mosche infastidite da troppa pulizia.
E Margherita è felice. Perché questa è la terza ed ultima regola: “devo essere felice”. La felicità non può essere un attimo, uno stato d’animo che arriva all’improvviso e fugge via come un ladro: la felicità deve essere una costante della vita. E’ necessario alzarsi felici, sentirsi felici in ogni momento della giornata, andare a dormire felici. Solo così si può vivere una vita perfetta, fuori e dentro. Dalla collana di perle, alla mancanza di polvere, al sorriso sulle labbra. C’è solo un piccolissimo difetto nella vita di Margherita, un piccolo neo: alcune ore della giornata che lei è costretta a vivere da quando si è messa quella fede al dito. Il rientro del marito dal lavoro. Ecco, in quell’istante la vita perfetta e felice di Margherita incontra un ostacolo. Si ferma tutto e tutto diventa un elettroencefalogramma piatto. La perfezione esplode in mille pezzi come un cristallo scagliato contro il muro. La felicità scompare come una piccola isola travolta da uno tsunami.
Alle sei spaccate di ogni sera, lui rientra a casa. Alle sei spaccate di ogni sera, quella casa diventa cupa come un cimitero. Alle sei spaccate di ogni sera, Margherita non è più perfetta. “Cosa hai fatto oggi di meraviglioso, oltre che stirare mutande? Ah già, hai stirato calzini. Certo, ci vuole intelligenza allo stato puro per fare queste cose!” e questo è il saluto tipico e consolidato dell’uomo di casa, del capofamiglia, del lavoratore indefesso, di colui che sbarca il lunario, paga le tasse e sfama la famiglia. In genere Margherita dice solo “ciao” perché sa bene che aggiungere qualsiasi altra parola potrebbe risultare pericoloso per sé e per i due bambini, ancora troppo piccoli per comprendere le sfuriate del padre. Incomprensibili comunque, a qualsiasi età.
“Ciao, mi dici. Ciao. Non dici nient’altro? No, meglio di no: fai silenzio! La tua voce è solo un fastidio. Del resto cosa avresti da dire di interessante tu? Nulla! Una che pulisce pavimenti tutto il santo giorno e si lacca le unghie, cosa vuoi che possa dire di interessante?” e questo è il naturale proseguire del monologo. Ogni santa sera.
Poi il marito beve un aperitivo (preparato da Margherita) e si addormenta fino all’ora di cena. E quando si sveglia dà il massimo di sé, della sua arte oratoria: “Cosa c’è da mangiare stasera? Le tue noiosissime ricette da noiosissima casalinga? Le mogli dei miei colleghi sanno cucinare piatti fantastici e tu mi propini ogni sera le solite cose che ti ha insegnato tua madre. Ma cosa posso aspettarmi da una che non ha un briciolo di iniziativa, di creatività, di inventiva? Nulla. Ora mangio questo schifo e me ne vado fuori al bar, con gli amici. Almeno lì respiro un po’ di vivacità, di allegria. Tu sei una morta che cammina….”
Sì, Margherita è una morta che cammina. Lei ci prova ogni giorno a raccontarsi la favola della perfezione e della felicità. Ma ogni sera il pulsante va sull’off e lei si spenge. E quando il marito finalmente esce dopo cena (per tornare ad orari improbabili), lei finalmente fa l’unica cosa da essere umano che riesce a fare: piange. Messi i bambini a letto, si sdraia sulla chaise longue davanti alla grande vetrata, accende le luci del giardino e osserva le piante di limone. E piange. In silenzio: nel silenzio della casa, nel silenzio della sua anima, nel silenzio dei sentimenti. A volte le balena un timido pensiero: fuggire via. Prendere i bambini e andarsene per sempre. Prendere i bambini e costruire un vita degna di essere vissuta. Ma dove, come? Così, si asciuga le lacrime. E per trovare una via d’uscita a tutto quel dolore, per mentire una volta di più a se stessa, pensa: “la colpa è mia! Devo essere ancora più…. perfetta!”
15. LA STREGA E SAN PIETRO
(monologo teatrale)
No. Noooo…
Questa cosa non mi convince per niente. Cos’è questo strano posto? Cos’è tutta questa luce? Cos’è questo suono d’arpa? Cosa sono questi canti leggeri e continui? Cos’è questo profumo intenso, come di gelsomino e poi lavanda e poi rosa. Ovunque.
Ricordo bene dov’ero.
Ero altrove.
Dopo mesi di prigionia e torture con il torculare e la corda e poi l’ordalìa del fuoco, dopo mesi di grida e pianti e dolore e assurde confessioni, degli armigeri mi hanno trascinata un giorno di primavera, all’alba, al centro della piazza.
Rullavano i tamburi. Urla di una folla informe.
Indossavo un camice di cotone, lungo fino ai piedi ed ero scalza e sporca come un animale caduto in una buca di terra nel bosco. I piedi avevano ferite ed io
sentivo sassi e fango tra le dita, sotto i talloni, fino alle caviglie.
Ricordo bene dov’ero.
Ero tra la folla che spingeva e urlava e donne che sputavano e uomini che lanciavano sassi e bambini di ogni età. E quei giudici vestiti di nero, seduti su un palco lontano per non sporcare le loro vesti eleganti. Anime immacolate, come angeli del cielo.
Ricordo bene dov’ero.
Ero in piedi, legata ad un palo, con mille occhi fissi su di me. Ero sulla catasta di legna accesa e ovunque si diffondeva un odore nauseabondo di carne bruciata, tra fiamme e fumo e cenere e colore nero d’aria.
Ricordo bene dov’ero.
Ero tra fiamme altissime che lambivano le carni - le mie - ed entravano dentro scavando piaghe, cercando velocemente sangue e muscoli e quel mio spirito ribelle per annullarlo e piegarlo e fonderlo per sempre.
Ricordo bene dov’ero e questo posto non è quella piazza colma di fumo.
E le mie carni, stranamente, non bruciano. Non sento dolore. Non sento nulla.
Credo di avere un corpo che non è un corpo: è un tutt’uno con l’aria che respiro, carica di profumo di gelsomino e lavanda e rosa.
Ma questa… cos’è? Una porta, un ingresso a qualcosa, una delimitazione tra questo strano luogo ed un altro forse più strano.
Busso alla porta? Non busso?
Non posso bussare: sono inconsistente. Provo a chiamare.
Scusate! Vorrei parlare con qualcuno qui, cortesemente, gentilmente, amabilmente…. possibilmente….
Questo che avanza…. pare inconsistente come me. Ha una chiave. Ma come fa ad avere una chiave così pesante e grossa, se il suo corpo non è un corpo? Sembra vecchio, vecchissimo. Un vecchio corpo inconsistente fatto d’aria e luce e strani riflessi. Raggi. Energie.
Io non so come sono capitata qui. Può aiutarmi?
No. Non sono una strega. Cioè, gli altri dicono che io sia una strega, ma non lo sono. Oppure lo sono, ma non nel senso che intendono gli altri.
Chi sono gli altri? Sono quelli che decidono tutto: della vita e della morte, nel bene e nel male, di tutto e di tutti. Forse anche del giorno e della notte. La Santa Inquisizione. Loro.
Ah! Ne ha già sentito parlare ampiamente. Allora sa che mandano facilmente molte donne al rogo con accuse di stregoneria. Anche solo se una donna ha i capelli rossi.
Sì, infatti avevo i capelli rossi, lunghi, belli come la seta. Un mantello rosso e lucente e vivo.
Beh, nel mio caso non solo per i capelli rossi.
Mi hanno accusato di aver organizzato un Sabba nella foresta, un rito satanico in piena regola. No, non nomino Satana, scusi. Ma il Sabba io non so nemmeno come si fa.
Ho solo ballato di notte con le mie amiche, tutte scalze, tutte con i capelli sciolti.
Abbiamo danzato accompagnate dal suono dei nostri tamburelli gitani, sotto gli alberi di castagno per ridere insieme e non pensare a niente.
I piedi nella terra e nell’erba e nel muschio. Le braccia e le mani rivolte verso la luna piena.
Ho solo i capelli rossi, ho solo ballato.
E qui, mi scusi, come ci sono finita? Lei lo sa?
Ah! Questo è l’ingresso del Paradiso, lei è San Pietro e io non dovrei essere qui.
Forse… non vi piacciono le donne con i capelli rossi che ballano?
No, non vi piacciono le streghe.
Ma io non sono strega. O forse lo sono, ma le streghe non sono così cattive.
E le domando…. dopo le violenze dei carcerieri nella mia cella sporca abitata da topi e scarafaggi, dopo le torture con cui ti fanno confessare di tutto e che ti fanno desiderare la morte più della vita, dopo il rogo che ha reso cenere ogni mia carne e vena e muscolo…. cosa devo attendermi ancora?
Forse l’Inferno, tra nuove fiamme voraci e diavoli feroci e pene atroci?
Perché?
Perché ho danzato sull’erba e sul muschio bagnato, di notte sotto la luna piena e bianca di luce?
Perché ho danzato scalza, con i capelli rossi ondeggianti e belli che Dio mi ha regalato?
Mi sta dicendo…. mi sta dicendo che resto. Che posso entrare. Che sono la benvenuta. Che va bene se danzo. Che sono libera: d’ora in poi libera, per sempre libera. Libera in eterno.
Perché? San Pietro, perché? Perché ora mi sta dicendo che ho diritto al Paradiso?
Sì, capisco.
Tutti i miei carcerieri e armigeri e torturatori e giudici…. riempiranno presto angoli roventi, pertugi oscuri, buche maleodoranti dell’Inferno, tra fiamme e calore immenso, tra urla e dolore.
E le donne condannate al rogo? E tutte le donne ribelli come me?
Ecco. Avranno diritto al Cielo.
Perché? San Pietro, perché? Perché ora ha cambiato opinione sulle streghe? Su di me?
Sì, capisco.
Per la gioia che danno la danza e il suono dei tamburelli.
Per l’armonia dei boschi e dei castagni e dell’erba e del muschio. E della luna.
Anche per la luce dei miei capelli rossi.
Sì, capisco.
Tutto questo è amato dalle streghe…. ma è amato anche da Dio.
Amatevi, care donne. Ripartite da voi stesse.