Table of Contents
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.
L’Autore DigiLibris
IL PORTO
La Caravella Editrice Viterbo www.lacaravellaeditrice.it
isbn 978-88-68270-89-6
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, località e avvenimenti sono immaginari o usati in chiave fittizia e qualsiasi riferimento a persone, vive o morte, a fatti o a luoghi realmente esistenti è puramente casuale, anche se, effettivamente, non me ne fregherebbe un cazzo.
Giorgio Mosetti
CHIAMATEMI FRANK
www.lacaravellaeditrice.it
Lascia il tuo commento nel nostro sito internet: regalerai all’autore l’occasione per ascoltare la voce dei suoi lettori. La lettura è un viaggio la cui rotta riserva sorprese ed emozioni sconfinate…
Mi appoggio allo schienale. Nato per morire. Nato per vivere come uno scoiattolo maltrattato. Dov’erano le ballerine di fila? Nick Belane Pulp - Una storia del XX secolo - Charles Bukowski, Feltrinelli, 2007
Vi amo bastardi Mario Zucca
A Sara
1.
Apro gli occhi e mi ritrovo ricacciato nella realtà. Fredda e misera, come la mia esistenza meschina. “Porca troia”, mi dico. Poi mi o il dito sui denti e lo annuso. Sa di marcio. Ieri sera non ho avuto neppure la forza di lavarmeli. Sono andato dritto a letto senza neanche accendere la tv. Eppure davano la partita della Juve con il Real Madrid. “Bella roba”, mi dico. Ormai nemmeno il calcio riesce a darmi la scossa. È come se la mia anima si fosse appiattita e liquefatta su un lettino gelido da obitorio. Io neppure credo nell’esistenza dell’anima, figurarsi. Eppure l’immagine del lettino rende. Mi dà l’esatta misura della mia vita dissoluta. E tutto per colpa di quella troia maledetta. È ato un mese, eppure ancora non riesco ad accettare il fatto di essere stato cornificato, licenziato e sputtanato tutto nello stesso giorno. Lei, la troia, era il mio capo al giornale locale. Io mi occupavo di cronaca cittadina. Da tre anni stavamo assieme. E credo che, a modo nostro, ci amassimo. Lei adorava il mio modo di scrivere. Diceva sempre che la mia prosa la eccitava. Era come se le mie parole le colassero sulla pelle liscia e ambrata delle cosce tornite. Se non fossi stato un uomo dall’intelletto superiore, avrei anche potuto crederci. Quello che so con certezza, invece, è che il mio grosso coso, quello sì riusciva a farla “bagnare” sul serio. Fradicia, per la miseria. Almeno fino a quando non è arrivato Jack. Lo stronzo. Jack era un uomo sulla trentina, dall’aspetto scapestrato di eterno adolescente. Portava abiti sformati firmati e i capelli lunghi. Da poco meno di un anno faceva il galoppino al giornale. Andava a tutte le conferenze stampa più barbose e inutili. Quelle a cui a nessun giornalista sano di mente sarebbe mai venuta voglia di andare. Ma faceva parte del lavoro. Eventi culturali locali spacciati per il Festival di Cannes, associazioni no-profit che illustravano il loro ultimo progetto per la salvaguardia dei gatti randagi, il politico locale che decantava i grandi risultati ottenuti vantandosi dell’asfaltatura di Parco della Vittoria o Vicolo del Molino. Una desolazione senza fine. Eppure qualcuno doveva farlo. E Jack si era reso subito disponibile. Diceva sempre che a lui bastava incontrare la gente per essere felice. Accidenti a lui. Poteva semplicemente andare al centro
commerciale allora, anziché venire a rompere i coglioni al giornale. E a rubarmi Anna, soprattutto. Anna la troia. Sta di fatto che da principio non ci avevo dato peso. Lo ammetto, ero così sicuro di me e del mio fascino che non mi era ato neppure per l’anticamera del cervello che quell’invertebrato potesse, non dico scalzarmi, ma neppure scalfire le mie monolitiche certezze. Certo, non sono uno stupido, e di certo non mi sfuggivano gli atteggiamenti teneri e zuccherosi di Anna nei suoi confronti. Ma avevo ingenuamente attribuito a tutto quel miele il disgustoso contentino che si riserva di solito agli esseri inferiori e svantaggiati, come i paralitici, i dementi o i froci. Gente malata, insomma. Invece no. Il demente in quel caso ero stato io. Tra di loro accadeva qualcosa che con me non succedeva. Qualcosa che, come ebbe a dirmi un giorno Anna poco dopo il fattaccio, le procurava veri e propri orgasmi al cervello. Io, mi disse, al massimo le bagnavo le cosce. Tutto accadde un giorno di febbraio. Ero appena arrivato in redazione e mi ero accorto che l’ufficio di Anna era vuoto. La cosa era strana. Raramente usciva dagli schemi preordinati della sua giornata. E la mattina lei la trascorreva nel suo ufficio, tra telefonate e riunioni di redazione. Non ci diedi grande peso. Andai alla mia scrivania e mi misi a scorrere le agenzie regionali. Durante la notte non era accaduto nulla di rilevante, e quindi, salvo sorprese dell’ultimo momento, anche quella sarebbe stata una giornata di routine ata a scrivere di cose di cui non me ne fregava un cazzo. Verso le undici, sollevai lo sguardo e mi accorsi che l’ufficio di Anna era ancora vuoto. Mi girai verso Garlatti e gli tirai un pezzo di carta stropicciata. «Che c’è?» mi chiese infastidito. «Che fine ha fatto Anna?» Garlatti si voltò verso l’ufficio della mia donna come se solo allora si fosse accorto della sua assenza. Poi tornò a guardarmi e sollevò le spalle. «E che ne so. Sarà andata a bere un caffè». «Ma tu l’hai vista stamattina?» insistei. «Sì, è arrivata subito dopo di me».
«Era sola?» Garlatti mi guardò di sbieco, e sul suo volto da cinghiale comparve un ghigno. «Che c’è? Stai diventando uno di quei gelosi paranoici?» mi provocò. Lo mandai “affanculo” lanciandogli un altro pezzo di carta a forma di aeroplano e tornai alle mie cose. A mezzogiorno cominciai a preoccuparmi. Era l’ora della riunione di redazione, e di Anna neppure l’ombra. Decisi di scendere di sotto nel garage per vedere se c’era la macchina. Cominciavo ad essere preoccupato. Presi l’ascensore e arrivai nell’interrato. La macchina di Anna era al suo posto. Tutto in regola, insomma. A parte i finestrini. Affilai lo sguardo per vedere meglio. Erano completamente appannati. Mi avvicinai camminando sulle punte dei piedi, come nei film di spionaggio, e quando giunsi a pochi metri, cominciai a sentire dei gemiti. “Sta male”, fu il primo pensiero. Come detto, ero troppo sicuro di me per poter pensare ad altro. Ma quando mi giunsero i grugniti della voce maschile, percepii una morsa alla bocca dello stomaco. Arrivato alla macchina, aprii la porta di scatto e vidi quell’idiota di Jack compresso tra il volante e il soffitto dell’abitacolo ingropparsi alla pecorina la mia Anna. Strana storia il cervello di una troia, penso ora malignamente. Al rumore della portiera sobbalzarono e si girarono di scatto verso di me. Quando mi videro, Anna sbiancò mentre Jack si mise a tremare e istintivamente si portò una mano al volto come per proteggersi. Io non dissi nulla. Rimasi per un istante interminabile a guardarli. Fissai le chiappe bianche della mia donna velate da una lucentezza di sudore. Aveva un culo da favola, nonostante i suoi trentacinque anni. La gonna attorcigliata attorno alla vita e le mutandine all’altezza delle caviglie, ormai un groviglio di seta e tacchi. Seta. La troia quindi aveva già in programma tutto. Non indossava mai le mutandine di seta, se non quando era in vena di porcherie. Non dissi niente. Prima di tutto la dignità, pensai. Richiusi la portiera e mi allontanai. Poco dopo Anna arrivò in redazione. Si era sistemata i capelli e il trucco, ma un leggero arrossamento delle guance tradiva quello che io interpretai come senso di colpa. Feci finta di niente. «Scusa Frank, vieni un attimo nel mio ufficio» disse con tutta la naturalezza del mondo allontanandosi senza attendere la mia risposta «porta il pezzo» aggiunse
quasi urlando, in modo da farsi sentire da tutti. Per un istante fui tentato di fregarmene. Che vada a farsi fottere, visto che le viene così naturale. Ma poi mi resi conto che restarmene alla mia scrivania avrebbe insospettito tutti. Così mi alzai, presi il pezzo a cui stavo lavorando prima della mia discesa agli inferi ed entrai nell’ufficio di Anna. «Chiudi la porta» mi ordinò con tono glaciale. Lo feci, e poi mi sedetti. «No, resta in piedi» disse sbirciandomi appena. Era evidente che l’imbarazzo aveva ormai lasciato il campo alla sua determinazione di capo redattore. Mi alzai. «Sei licenziato». Così, senza aggiungere altro. La guardai sbalordito. Poi scoppiai a ridere. Una risata grassa che mi saliva dal profondo delle viscere. Rividi in quell’istante il culo di Anna sballottato dal bacino di Jack, e non potei fare altro che continuare a ridere. Questa troia mi aveva appena messo le corna, nello stesso edificio dove lavoravamo assieme da oltre cinque anni, e aveva pure il coraggio di ribaltare la frittata e licenziarmi. Ma per favore. «Non c’è niente da ridere, Frank. La decisione è ormai presa». Smisi immediatamente di ridere e sentii le mani tremare. «Come sarebbe a dire che la decisione è ormai presa?» chiesi. «Prima di salire ho chiamato l’editore. Gli ho detto cosa hai fatto e non ha avuto alcuna esitazione a farti fuori». «Fatto? Cosa avrei fatto?» «Ti sei appena scopato una ragazzina in una macchina nel parcheggio dell’azienda. Meno male che io e Jack stavamo tornando proprio in quel
momento e ti abbiamo beccato sul fatto». «Stai scherzando?» «Ti sembra che stia scherzando?» Rimasi per un attimo senza parole. Una vera condanna per un giornalista. Poi accennai un sorriso. «Mi stai prendendo in giro, vero?» «Nient’affatto». «Ma porca puttana!» sbottai, «Ti ho appena vista trombare Jack, hai fatto di me un povero cornuto coglione, dovrei essere io ad incazzarmi come una bestia, e invece mi ritrovo ad essere liquidato come l’ultimo dei garzoni?» Anna si limitò ad annuire sistemandosi una ciocca di capelli. «Adesso vado a parlare io con l’editore e gli racconto cosa ho visto. Poi vediamo cosa succede». Lei accennò un sorriso scuotendo la testa. «Pensi davvero che ti crederà? Penserà solo che stai cercando di vendicarti per essere stato colto in flagrante». «Gli mostrerò le foto» azzardai disperato. «Finiscila. Non essere ridicolo». La testa prese a pulsarmi. «Perché Anna?» «Era da un po’ che dovevo farlo, Frank. Tra di noi non funzionava». «Non funzionava? Ma che cazzo dici? E poi, anche se fosse, cosa c’entra questo con il lavoro?» «Non mi va di avere attorno vecchi amanti rancorosi».
«Vecchi amanti rancorosi» ripetei. Rimasi ancora per qualche secondo a fissarla. Era perfettamente a proprio agio. «Sei proprio una vacca» dissi disgustato, soprattutto dalla miseria della mia risposta. Mi voltai sui tacchi e uscii dall’ufficio. Andai alla scrivania, raccattai le mie cose e me ne andai. Per sempre.
Da quel giorno è ato un mese, come dicevo, e la mia vita ha preso una piega inaspettata. In un certo senso, da allora navigo a vista. Tanto per cominciare, non ne voglio più sapere di relazioni. Se mi capita una scopata, me la prendo volentieri, ma poi me ne libero con un calcio in culo. Del lavoro non me ne frega più niente. Faccio da addetto stampa a un paio di associazioni e a un borioso quanto intrallazzante politico locale. Tutta merda. Ma almeno pagano quanto basta per tirare avanti. Del resto io non sono mai stato un tipo con troppe esigenze. Pagato l’affitto e le bollette, mi basta qualche spicciolo per comprarmi un libro, vedermi un film al cinema e bermi un paio di birre. Quelle prima le bevevo con gli amici, ora lo faccio da solo in compagnia di Nick Belane, il mio gatto. L’unico essere vivente che amo. Cosa è successo da quel giorno, non so dirlo con esattezza. Qualcosa si è sicuramente rotto in modo irreparabile. La verità è che dietro la mia scorza di altruismo si è sempre rannicchiata una natura felina, amante del dolce far niente e dell’egoismo. Io ho sempre cercato di mascherarla e nasconderla agli occhi degli altri, ma non lo so se ci sono riuscito. La mia relazione con Anna, sebbene atipica, mi completava la vita. Non gliel’ho mai detto, ma io ero innamorato di lei, anche se in un modo forse fuori dagli schemi. Non vivevamo assieme, eravamo liberi di frequentare i rispettivi amici senza doverci sobbarcare il peso di apparire in pubblico come una coppia. Eppure nei momenti che trascorrevo con lei mi sentivo appagato, rilassato, potrei addirittura dire felice. Il mio orgoglio da felino fatica ancora ad ammetterlo, ma quanto accaduto ha incrinato in modo irreversibile la mia spina dorsale. Le coordinate del mio vivere si sono messe a ruotare su se stesse senza essere più in grado di fornirmi una direzione univoca e soprattutto sensata. E allora fanculo tutto, mi sono detto, se devo girare come una trottola, lo farò, ma lo farò a modo mio, e spazzerò via nel
mio rotolare tutto ciò che incontrerò sul mio cammino. Mio e di Nick Belane, l’unico essere vivente che ancora amo. Smetterò di essere la persona per bene che sono stato e lascerò il campo libero al mio animo da gatto. Quindi, gente, d’ora in poi state attenti.
2.
Dopo essermi vestito mi siedo a tavola per fare colazione. Oggi devo andare a una riunione con il politico per studiare le strategie in previsioni del rinnovo del consiglio comunale. Sarà la solita solfa di vacuità celata dietro paroloni altisonanti; prospettive di crescita, idee di sviluppo, strategie di rilancio. Anche se poi, come sempre, tutto si ridurrà a stabilire chi farà parte delle liste e chi no. Insomma, due palle così. Di fronte a me, sul divano, Nick Belane se la ronfa alla grossa. Lui non ha bisogno di strategie. Acciambellato in quel modo meraviglioso in cui solo i gatti riescono a contorcersi con il loro corpo gommoso, non accenna a muoversi. Solo il lento saliscendi del suo piccolo torace mi conferma che è ancora vivo. Resto a guardarlo un bel po’. Guardare i gatti è una delle cose che mi rende più felice. Potrei farlo per ore senza mai stancarmi. Le loro movenze implicano la presenza di un genio della creazione. Io ovviamente non credo in Dio, ma la sola esistenza dei gatti fa scricchiolare in me la ferrea convinzione evoluzionista. Finito di mangiare, riempio le ciotole di Nick Belane di croccantini e acqua, poi infilo il giaccone ed esco. Chiamo l’ascensore. Nonostante abiti soltanto al secondo piano, da quando Anna mi ha scaricato non faccio neppure più le scale. Si apre la porta ed entro. Quando sta per richiudersi, una mano all’altezza del mio ginocchio si infila e blocca la chiusura. La porta si riapre, e mi ritrovo davanti la Baronessa Von Stiegel sulla sua sedia a rotelle. È la mia dirimpettaia. Settant’anni, vedova di un generale dell’esercito, da alcuni anni è costretta a vivere sulla sedia a rotelle a causa di un ictus. Più di una volta mi sono premurato di farle la spesa o qualche altra commissione. Faceva parte del mio essere un ingranaggio del sistema. Un cagnolino pronto a tutto. Ma da un mese a questa parte non mi sono fatto più sentire. E lei è una donna troppo orgogliosa per cercare il mio aiuto. La guardo e improvvisamente trent’anni di altruismo stanno per avere il sopravvento. Ma dura un attimo e lo ricaccio in gola. «Non c’è posto» le dico senza battere ciglio.
Lei mi guarda con la bocca spalancata. Poi mette su un grugno da gorilla. «Come sarebbe a dire che non c’è posto? Questo ascensore è per quattro persone». «Esatto» ribatto «ma zero sedie. Se entra lei con quel suo trabiccolo non ci sto più io». «E quindi vorrebbe lasciarmi qua?» ringhia. «No, le basta aspettare il prossimo giro» e schiaccio il tasto del piano terra. Faccio appena in tempo a vedere gli occhi in fiamme della vecchia baldracca che mi fulminano, che la porta si chiude. Arrivo al piano terra e scendo. Esco dal portone e vengo accecato dal sole del mattino. Prendo gli occhiali da sole e li inforco. Attorno a me la gente cammina frenetica verso luoghi sconosciuti. Non li capisco. Meglio, non li capisco più. Fino a un mese fa anch’io ero di quella risma. Correvo come un dannato verso un nulla fatto d’illusione. Lavoro, vacanze, happy hour, shopping, outlet. In una parola, scodinzolavo. Ora mi basta bere una birra accarezzando il morbido pelo di Nick Belane per sentirmi felice. Tutto il resto è diventato nient’altro che ciarpame. Vado alla fermata del bus e aspetto. Un ragazzino seduto sulla panchina tiene un braccio attorno alle spalle di una ragazzina e le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei si scosta come offesa e gli tira un pugno finto sulla spalla. Poi scoppiano a ridere. Trovo la scena disgustosa. Poveri idioti, spero che la vita vi riempia di merda prima che sia troppo tardi. Scrutandoli con gli occhi, gli auguro qualcosa di brutto. Tipo una malattia tropicale per la quale lui perderà una gamba e l’uso del braccio destro, e lei, dopo dieci anni di amorevole assistenza, lo lascerà per fuggire con l’infermiere del centro di riabilitazione, lasciandolo da solo a commiserarsi e a farsi le seghe con la mano sinistra. Per fortuna arriva l’autobus. Monto dal davanti, dove è vietato. «Ehi» mi fa il conducente. Io lo fulmino con il mio sguardo felino.
Lui brontola qualcosa, mette in marcia e parte. Vado a sedermi al primo posto libero, vicino al corridoio. Al mio fianco, un vecchio con il cappello in testa guarda fuori dal finestrino. Ha l’aria di chi ormai ha dato tutto, e non gli resta altro da fare che guardare fuori dal finestrino. Che vita di merda, deve essere. Me lo vedo, a vent’anni, e poi a trenta, quaranta, fino a settanta, correre come un dannato in cerca di qualcosa che gli dia un senso. Magari lavorando in proprio come ragioniere. In uno studio suo. Anzi no, magari associato con un collega più anziano. E per decenni me lo vedo convinto di fare proprio ciò che ha sempre sognato di fare. Svegliarsi la mattina felice di andare a lavorare. Frequentare l’agenzia delle entrate o come cazzo si chiama. Bere il caffè nella pausa tra una pratica e l’altra con il socio e la loro segretaria. Esporre ai clienti tutta la sua magnificente esperienza accumulata in anni e anni di dichiarazioni dei redditi e domande di rimborso. Poi si sarà sposato, con la prima capitata sotto tiro. O meglio l’ultima, visto che ormai si stava avvicinando ai quaranta e cominciava a temere una vita solitaria. Avrà messo su famiglia e fatto un figlio. Anzi no, due. Giusto per tentare la coppia. Avrà trascorso le vacanze al mare, sempre nel solito luogo. Si sarà dedicato a qualche hobby di lusso come la vela. E tra una strambata e l’altra, avrà fatto qualche corso di assaggio vini. Avrà assecondato sua moglie accompagnandola controvoglia a qualche corso di danza. Magari country, giusto per non sentirsi banale. Poi le domeniche d’inverno, mentre fuori scroscia la pioggia, si sarà dedicato al suo grande progetto: scrivere un libro. E ci sarà pure riuscito. Ne avrà alla fine pubblicati un paio, con un piccolo editore di Torre del Greco, ne avrà venduti un migliaio di copie e si sarà compiaciuto di sentirsi dare dello scrittore dai conoscenti. Poi sarebbero cominciati i malanni. Problemi col sangue troppo denso, probabilmente. Una policitemia vera, magari. E avrebbe cominciato a curarsi con i salassi. Ma forte del suo entusiasmo, avrebbe continuato a vivere come un ventenne. Cazzando vele, ciabattando Applejack e Monterey e scrivendo libri d’amore senza averlo mai conosciuto davvero. E adesso guardalo. È come se cercasse fuori dal finestrino la soluzione a un’equazione che dopo settant’anni ha dato il risultato sbagliato. Ben ti sta, coglione. «Mh mh...» si schiarisce la voce qualcuno in piedi accanto a me. Mi volto e lo guardo. Un altro vecchietto rincoglionito. Mi fissa con aria di rimprovero.
«Che c’è?» gli chiedo con tono seccato. «Mh mh!» fa di nuovo. «Ce l’ha con me?» chiedo guardandomi in giro. “Forse è solo pazzo” penso. Poi capisco. «Oh, intende il posto?» Lui sbuffa come se avesse a che fare con un deficiente. Adesso mi sta proprio facendo incazzare. «Se lo può scordare» gli dico. Lui mi fulmina con lo sguardo. Adesso di sicuro mi farà la solita tiritera sulle nuove generazioni. «Voi giovani siete senza rispetto». «Senta, a me non frega un cazzo di quello che lei pensa di me, semplicemente il posto è mio e me lo tengo. Non vedo perché debba lasciarglielo. «Perché sono anziano e lei è giovane». «Buon per lei. Se è arrivato alla sua età, vuol dire che non ha fatto troppa vita sedentaria». Poi lo scruto con un ghigno. «Ha mica problemi di cuore?» «Come?» fa lui spiazzato. «Le ho chiesto se ha problemi di cuore». «Il mio cuore è come quello di un toro» sbotta battendosi un pugno sul petto. «Nel senso di cornuto?» Mi guarda allibito. «Come dice?»
«No, mi riferivo al cuore come un toro. Perché vede, il mio è davvero cornuto come un toro. Così ho pensato che anche il suo…» «Villano!» sbraita sollevando il bastone della cui presenza mi accorgo solo ora. «Senti, vecchio, non è giornata. Vuoi il mio posto? Be’, te lo scordi». Lui agita il bastone come per colpirmi. «Avanti» lo sfido. Tutta la gente sta ormai guardando la scena. C’è chi ride, chi guarda il vecchio con terrore e chi mi lancia sguardi di disprezzo. «Si calmi, signore, le lascio il mio» fa il vecchio seduto al mio fianco. Lo guardo allibito. «Mi pareva di averci visto giusto» gli dico con una smorfia di disgusto. Fa per alzarsi, ma in quel momento l’autobus rallenta e si ferma. È la mia fermata. «Fermi tutti. Mi avete rotto i coglioni. Scendo io, almeno mi libero dalle vostre facce incartapecorite». Mi alzo, sposto il bastone del vecchio e mi avvio all’uscita. Ovviamente scendo da dove si sale. Arrivo alla riunione con dieci minuti di ritardo. Gaspare Marzini, come sempre sta urlando. «Accidenti a voi! Comando io, sì o no?» Nella sala della giunta cala un silenzio denso come il piombo. Il sindaco, in piedi, proteso in avanti con fare minaccioso, le braccia divaricate a impugnare con fermezza i bordi del lungo tavolo e l’occhio fermo del cecchino, a in rassegna i presenti con una lentezza inquietante. Nella stanza nessuno fiata. Gli assessori hanno ormai imparato a conoscere
quello sguardo. E sanno che non promette nulla di buono. Quando il sindaco si scalda in quel modo, l’unica salvezza è restare immobili e pregare. Sperando che l’occhio del cecchino i oltre, mirando allo sventurato a fianco. Trascorre un minuto buono prima che il volto del sindaco riacquisti un colore rassicurante. Scuote la testa, sbuffa la rabbia fuori dalle narici e si siede. I suoi cento e a chili di potere, nel silenzio siderale, strappano alla morbida poltrona di pelle un sibilo che pare un lamento. Con occhio stanco guarda i fogli davanti a sé. Prende la penna, scorre il testo e comincia a sottolineare la lista dei candidati. Mark Spritz, il mio datore di lavoro, mi guarda e ammicca. Forse è l’unico in quella sala a non temere Marzini. Devo dargli atto. È proprio un gran figlio di puttana. Farà di sicuro strada. Per un momento mi soffermo a pensare che la sua carriera potrebbe voler dire carriera anche per me, e sento la nausea prendere il sopravvento. «A quanti siamo?» chiede il sindaco senza sollevare lo sguardo. È l’ossuto vicesindaco Marcello Festa a trovare il coraggio di parlare. Si schiarisce la voce. «Duecentosettantatre» dice più velocemente che può. Il Sindaco solleva la testa e lo guarda. «Duecentosettantatre?» «Sì» risponde il vicesindaco con le mani sudate. Il sindaco tace. Ritorna a guardare le sue carte nello stesso istante in cui il Festa riprende a respirare. Poi parla. «Allora. Qua abbiamo un problema molto grosso. E voi lo sapete bene quanto io detesti i problemi». Nella sala, incredibilmente, tutti annuiscono senza muovere la testa. «Siamo duecentosettantatre. Bene. Entro stasera dobbiamo essere cinquanta. Quaranta sono i miei, e sapete chi sono. Per gli altri dieci vedetevela voi» e
lancia i fogli sul grande tavolo. Un mormorio invade la sala. Spritz mi fa un cenno con il capo per invitarmi a seguirlo. Esce dalla sala e va in terrazza. Prende una sigaretta e l’accende. «Allora Frank, cosa ne pensi?» «Di cosa?» «Dei duecento e a trombati». Sollevo le spalle indifferente. «Penso che dovranno trovarsi un lavoro». Spritz scoppia a ridere. «Mi piaci Frank. Accidenti se mi piaci. Vedrai, faremo strada io e te». «Io non ci conterei tanto». Spritz si fa serio. «Cosa vorresti dire? Vuoi già mollarmi?» «No, no che non ti mollo. Mi trovo bene con te. Solo che non ho più ambizioni di carriera. Tutto qua». Lui mi scruta con quei suoi occhi da rapace. «E a cosa aspiri, allora?» Non c’è niente da fare. Neppure Spritz con la sua mente affilata riesce a comprendere che non si debba per forza aspirare a qualcosa. «Accarezzare il mio gatto e bermi una birra». Spritz mi guarda come se avesse visto un extraterrestre.
«Mi prendi per il culo?» Scuoto la testa. Poi accenna un sorriso sornione. «Cazzo se mi piaci, Frank. Quasi ci cascavo» e mi dà una pacca sulla spalla. Io non faccio nulla. Lascio che creda ciò che gli fa più comodo. «Senti» mi fa prendendomi sottobraccio e portandomi verso le scale che scendono in giardino. «Ho qualche problema con quel Festa del cazzo». «Il vicesindaco?» «Proprio lui». «Ma è una nullità». «Non farti ingannare. È abile, molto abile. Ti sei mai domandato come un’acqua cheta come quella sia potuta arrivare alla poltrona di vicesindaco?» In effetti non me l’ero mai chiesto, non è che la cosa mi sia mai interessata granché. Ma in effetti è strana. Festa sembra un pulcino bagnato in mezzo ad un branco di lupi affamati. Eppure nessuno è stato ancora in grado di mangiarlo. «Be’, sta di fatto che devi levarmelo dai coglioni» dice Spritz. «Cosa vuoi che faccia?» «Fascicola. Raccogli informazioni, merda nascosta, bambine stuprate, droga. Quello che vuoi. Se serve, inventa. Poi ci penso io». Fino a un mese fa sarei scappato a gambe levate. Ora non me ne frega un cazzo né di Festa né di Spritz. Quindi annuisco. «Bene. Così mi piaci». Ci lasciamo. Lui torna in sala, io vado verso l’uscita. Quando arrivo in strada, vedo un bar e mi ci infilo per bermi un caffè in santa pace. Mi siedo a un tavolino e guardo l’orologio. Sono le undici e trenta. Arriva il cameriere.
«Buongiorno». «Buongiorno». «Caffè?» Torno a guardare l’ora. «No, birra» dico pensando a Nick Belane che ne frattempo si sarà svegliato, si sarà stiracchiato e sarà andato a mangiarsi i croccantini. Perché non sono nato gatto, mi chiedo.
3.
Il pomeriggio lo trascorro in casa, scrivendo alcuni comunicati per le associazioni per cui lavoro. Una si occupa di rassegne ed eventi letterari. I soliti incontri con gli autori, insomma. Tranne qualche eccezione lodevole, per lo più si tratta di insignificanti autori locali. Quelli famosi sono introvabili e costosi, e soprattutto non ti cagano neanche di striscio. Fin qua non ci sarebbe niente di male, se solo la gran parte di questi pseudo-scrittori della domenica, alla prima pubblicazione, rigorosamente autofinanziata, non finisse col sentirsi improvvisamente Celine. Con tutto ciò che ne consegue in termini di pretese, vezzi estrosi e filosofia spicciola. Sembra quasi che ti facciano un piacere a essere tuoi ospiti, si lagnano e fanno cagnara sulle date e sugli orari. Lamentano, di fronte ad una sala semivuota, una scarsa professionalità da parte degli organizzatori, incapaci di promuovere adeguatamente un evento di tale portata. Anche gli organizzatori non sono da meno. Una volta messo in piedi il proprio giocattolo, si sentono i Lorenzo de Medici del ventunesimo secolo. Ma chi se ne frega. A me basta che continuino a pagare. L’altra è un’associazione animalista. Si occupa di cani randagi o abbandonati e di sensibilizzazione delle persone. A me, a parte i gatti, francamente non frega più niente degli animali. Trovo ad esempio che i cani puzzino. E questo sarebbe il meno. Il vero problema è che sono dei veri rompicoglioni. Sempre a saltarti addosso, a scodinzolare, a farti le feste. Ma che cazzo vogliono da me? Perché non se ne stanno al loro posto? Istintivamente porto lo sguardo al divano. Nick Belane sta di nuovo dormendo. Soffice, aggraziato, silenzioso, discreto. E soprattutto pulito. Non c’è storia. Non ci sarà mai storia. Arriva l’ora di cena e sento un languorino farsi largo. Apro il frigo, ma ci trovo solo barattoli di salsa scaduti, una mozzarella e le birre. Sbuffo. Prendo la giacca ed esco. Sulle scale non c’è nessuno. Chiamo l’ascensore e scendo. In strada il ritmo è quello frenetico del rientro. I bravi cagnolini, diligenti, stanno tornando
alla loro cuccia a consolarsi con la tv dopo una giornata di battaglia inutile. Faccio quattro i fino all’angolo ed entro dal cinese. «Ciao amico» mi fa Xue, detto Filippo. Ormai sono di casa. «Ciao muso giallo». Lui storce la faccia in un sorriso che pare una smorfia. Si vede che non capisce che non scherzo affatto. Ma chi se ne frega. «Cosa volele?» riprende. Gli affari prima di tutto. «Una porzione doppia di Zheng Jiao». «Subito plonto». Perché cazzo i cinesi non sanno dire la erre? Questa cosa davvero non l’ho mai capita. Mi prendo un appunto mentale di fare una ricerca su internet appena rientro a casa. Anche se so che resterà nulla di più di un buon proposito. Sono diventato bravissimo in questo. Prendo appunti continuamente su cose da fare. Cambiare contratto del telefono, vendere il vecchio capanno di mio nonno, prendere il regalo per l’amico di turno. Scoprire perché i cinesi non sanno dire quella cazzo di erre. Tutti lì. In bella fila nella lista della mia mente. Dove resteranno per mesi, forse anni, a marcire. Torno a casa con il pacchetto della cena sotto il braccio. Risalgo e mi preparo da mangiare sul divano. Apparecchiare la tavola non solo è inutile, è persino deprimente. Accendo la tv e mi trovo un cuoco che manda “affanculo” un concorrente. Se potessi, andrei là e gli spaccherei la faccia. No, non al cuoco, al concorrente. Chi cazzo ti ha ordinato di andare a farti prendere a pesci in faccia? Tutto per un’ora scarsa di notorietà? Così potrai tornare nel tuo bel quartiere a raccontare com’è stato essere presi a calci in culo dal Grande Maestro dei fornelli? Toccando il fondo e molestando tutti imperdonabilmente, mostrerai persino il video della trasmissione. Pezzo di idiota. Fa bene a mandarti “affanculo”. Spengo e mi concentro sulla cena. Getto le bacchette e uso la forchetta. Finito di mangiare, mi stappo un’altra birra e mi metto ad accarezzare Nick
Belane. Nick Belane. Il nome l’ho rubato a Charles Bukowski, visto che è il nome del protagonista di uno dei suoi migliori romanzi, Pulp. Uno dei personaggi più dannatamente straordinari della letteratura. Ha le stesse movenze del mio gatto e la stessa irritante indifferenza. Un fenomeno. Nick Belane, al mio tatto, si stiracchia e comincia a fare le fusa. Lui si che sa godersi la vita. Se non gli avessero tagliato le palle da piccolo, sarebbe una vita perfetta. Mi stendo, mi accendo una sigaretta e guardo il soffitto. È tutto ingiallito dal fumo. Dovrei ridipingere, aggiungo alla posizione quarantanove o cinquanta della mia lista. Poi mi appisolo.
È domenica. Fuori piove. Una pioggia che non è neanche pioggia, a dire il vero. Sembra più l’effetto di un gigantesco vaporizzatore. La tv è accesa. Senza audio. Così, solo come compagnia di fondo. La moca del caffè brontola, preannunciando un piacere che non so descrivere, riempiendo le mie narici di un aroma che sa di casa. Il dvd è già inserito nel lettore. Il libro che sto leggendo piano, per paura che finisca troppo presto, mi aspetta a terra, ai piedi del divano. Anna gira per casa con l’odore del sonno ancora addosso. Bellissima nella scompigliata intimità casalinga. L’unico dilemma: da cosa comincio? Ma il dubbio dura un attimo. Anna si avvicina al divano con le tazze del caffè. Mi sorride, mi a la mia tazza e si stende accanto a me. Rannicchiata. Dilemma svanito. Il libro a terra e il dvd in standby possono attendere. Loro lo sanno che ci sono altre priorità. Lei si volta verso di me e mi bacia. Poi mi sussurra parole all’orecchio. Io fremo nell’attesa di assaporare le dolcezze o le sconcezze che sta per dirmi. «Tesoro». «Sì?» «Cosa dici se dopo il caffè andiamo a fare un giro all’IKEA?» e si struscia su di me, baciandomi il collo. Guardo il caffè. Guardo il lettore dvd e il libro a terra. E mi chiedo: “Dove ho sbagliato?”
E poi mi sveglio. Mi guardo attorno. La desolante solitudine del mio soggiorno mi assale strozzandomi il fiato. Da quando Anna mi ha scaricato la sogno spesso. Da qualche parte ho letto che i sogni non sono altro che il nostro inconscio che cerca di parlarci. Chissà, forse è proprio così, anche se io, francamente, non lo so cosa stia cercando di dirmi il mio. Mi tiro su e vado verso la libreria. Ho una pila di libri comprati e non ancora letti. Ho questo brutto vizio. Continuo a comprare libri anche se ho la scorta a casa. È più forte di me. L’odore delle librerie, il tatto con i volumi ancora perfettamente rilegati è come una droga. Non riesco a farne a meno. Ne prendo uno a caso e torno al divano. Comincio a leggere. Una. Due. Tre pagine. Alla quarta tiro una bestemmia e scaglio il libro a terra. Perché ‘sta gente viene pubblicata? Possibile che non ci sia più nessuno capace di scrivere con la pancia? Tutti testi perfetti, stili impeccabili. Storie ben strutturate e prive della benché minima incongruenza. Eppure prive di viscere. Dove sono finiti i Jim Thompson, i John Fante, gli Osvaldo Soriano? Ridatemi Kafka, Orwell, Mordecai Richler. Voglio McCarthy, Lansdale, Edward Bunker. Invece niente. Solo robaccia buona per gente senza coraggio. Non mi resta che andarmene a letto. Mi spoglio e mi infilo sotto le coperte. In attesa che arrivi il sonno, prendo a giocare con il mio uccello. Non lo so se succede anche agli altri uomini, ma a me rilassa come nient’altro al mondo. Il problema è che a forza di giocarci, lui reagisce. A quel punto ho due scelte possibili. Mi giro e cerco di dormire con la spada conficcata a mo’ di cavalletto, in attesa che il sangue torni a defluire, oppure mi sparo una sega. Scelgo la seconda. Chiudo gli occhi e comincio a immaginare una scena erotica, di quelle belle spinte come piace a me. Ogni tanto cambio mano, giusto per avere una percezione diversa sul membro, e alla fine vengo. Poi, come sempre, m’incazzo per aver sporcato le lenzuola. Vado in bagno, mi pulisco alla meglio, prendo un po’ di carta igienica e ci pulisco il letto. Poi torno sotto le coperte. Adesso sento il sonno farsi largo. Le gambe e le spalle rilassate e intorpidite dagli spasmi dell’orgasmo. Accenno un sorriso, giusto in tempo per addormentarmi.
4.
La mattina dopo mi sveglio all’alba. Del resto sono andato a dormire con le galline, come si suol dire. Per un po’ me ne resto a letto e mi guardo attorno. La camera è tutta un casino. Ci sono vestiti sporchi dappertutto. Sulla sedia, dove un tempo appoggiavo con cura il vestito da indossare l’indomani, una montagna di stoffa aggrovigliata resta in piedi per miracolo. Qua e là, qualche manica di camicia o la gamba di un pantalone scende fino a terra, affogando nello strato di polvere che si è depositato nell’ultimo mese. Prendo le mutande dal comodino, visto che dormo nudo, le indosso e mi stiracchio. Per prima cosa mi accendo una cicca. “Stai fumando troppo”, mi diceva Anna. Fanculo Anna. Adesso fumo quanto cazzo mi pare. Fumare in camera è una vera goduria. Solo i coglioni non ci provano. Vogliono mantenere salubre almeno quel nido intimo. Poi però vanno a scopare con gli altri. Bella coerenza del cazzo. Vado in cucina e metto su il caffè. Mentre aspetto, mi fumo un’altra cicca e sfoglio i giornali sul mio iPad. Solite storie che si ripetono. Questo mondo è una vite spanata. Non c’è niente da fare. L’unica salvezza è buttare giù per il cesso il cacciavite. Mi verso il caffè nella tazza con disegnato sul fianco Drugo Lebowski in vestaglia che si beve un White Russian e mi metto a pensare alla mia giornata. Per prima cosa devo andare dal mio amico poliziotto a cercare qualche informazione sul vicesindaco Festa. Questa storia di trovare fango su di lui continua a non piacermi, ma so che potrebbe saltarci fuori un bel po’ di grana. E si sa, la grana ti rende libero. E poi che me ne frega a me di Festa? Da come racconta Spritz, è un finto timido. Un falso da tornaconto. Quindi nessuna vittima innocente. Poi devo andare al canile, dove pare sia stata portata un’intera cucciolata di labrador sequestrati a dei trafficanti lituani. Chissà quanta puzza. È meglio se mi metto addosso qualcosa di già sporco, mi dico, ben sapendo che sarà comunque
difficile trovare qualcosa di diverso. Per il resto, nessun programma. Vedrò strada facendo. Esco, prendo l’ascensore e scendo. Questa volta fino al piano interrato. Salgo in macchina e parto. La questura è dall’altra parte della città. Quindi ci vorrà un bel po’. Metto su un po’ di musica. Dalle casse mi arriva la voce vellutata di Dido. Era il cd preferito di Anna. Così lo tiro fuori, lo spezzo in due e lo getto fuori dal finestrino. Quello dietro di me si ritrova i cocci del cd sul cofano della sua nuova, scintillante Bmw serie 6 cabrio. Mi suona. Io guardo nello specchietto. Lo vedo agitarsi come un dannato. Un tempo mi sarei fermato e avrei chiesto scusa, lasciando pure i miei dati per il pagamento di eventuali danni, anche se è un falso problema, perché un tempo non avrei neppure buttato il cd fuori dal finestrino. Questa volta invece mi fermo, ma con tutt’altro spirito. Scende pure lui. Per fortuna non è tanto grosso. Dall’abito si intuisce trattarsi di un avvocato o un commercialista. Anche la macchina da centomila euro lo testimonia. «Problemi?» esordisco con estrema calma. «Problemi? Hai anche il coraggio di chiedermelo?» sbotta rosso in volto. «Perché cazzo mi dà del tu? Ci conosciamo?» faccio lo stronzo. Lui per un attimo pare spiazzato. Si rende conto di non capire bene cosa ha davanti, e questo lo disorienta. «Mi hai buttato i cocci di qualcosa sul cofano» dice indicando la sua macchina. «E quindi?» dico io. «E quindi adesso verifichiamo i danni, e se mi hai graffiato la macchina nuova te la faccio ripagare fino all’ultimo euro. So come fare». Capisco che è un avvocato. Lo scruto assottigliando gli occhi. «Ma lei non è mica quell’avvocato che aveva a che fare con quello spacciatore, da cui è venuto fuori tutto quel casino? Che poi è finito ai domiciliari per falsificazione di prove o roba simile?» Lui mi guarda allibito.
Devo aver fatto centro. Ovviamente non so un cacchio di chi sia ‘sto idiota, ma che io sappia non c’è avvocato che non abbia difeso almeno una volta un tossico, anche occasionale, e soprattutto non c’è avvocato che non abbia scheletri nell’armadio. Vivono in un perenne stato di paranoia, sempre con il terrore che un giorno possa uscir fuori qualcosa che li riguarda. «No, vede, glielo chiedo solo perché avevo giudicato io il caso». «Perché, lei è un magistrato?» «Esatto» mento. Lo vedo lisciarsi il vestito con la mano e scrutarmi. «No, non ero io» si affretta a dire, «e poi io non l’ho mai vista. Mi ricorderei di lei». «Ah sì? Perché? Ho una faccia così brutta che si nota, vuol dire?» Lui spazza l’aria con le mani. Si vede che adesso è a disagio. «No, no, non mi fraintenda. Solo che con tutto il tempo che o in tribunale, dovrei conoscerla». «Io non lavoro più in tribunale. Mi hanno trasferito ormai da un bel pezzo». «Oh, allora si spiega tutto». «Ma torniamo alla macchina». Lui si mette a ridere. «Lasci stare, giudice, neanche un graffio. Queste sono macchine tedesche, ce ne vuole per scalfirle». «Io detesto i tedeschi». Lui si fa serio. «Be’, anch’io, ma di certo le macchine le sanno fare».
«Su questo, niente da dire. Bene, posso andare adesso o abbiamo ancora qualcosa di cui parlare? » «No, no, vada pure. È stato un piacere» e mi allunga un biglietto da visita. Io lo prendo e lo guardo. Avvocato Tullio Marzullo. «Bel nome» gli dico strappandolo davanti ai suoi occhi. Lui ci rimane di sasso. Monto in macchina e riparto. Giungo in questura che è ormai tarda mattina. Vado nell’ufficio di Diego, il mio amico poliziotto, e lo trovo stravaccato sulla sedia, impegnato in una partita a carte con un collega. «Ciao Diego». Lui si volta e mi sorride. «Ciao Frank. Tutto bene? Cosa ti porta da queste parti?» «Notizie». «Notizie? Ma non fai più il giornalista» sogghigna. Ormai la mia vicenda la conoscono tutti in città. «Un giornalista è come un medico. Non smette mai i panni» pontifico. «Be’, se è così allora spara» dice simulando una pistola con le dita. Io guardo il suo collega, che non mi ha degnato neppure di uno sguardo. Mi sta già sui coglioni. «Possiamo parlare in privato?» Diego arriccia la fronte. Guarda me e poi il collega. «Dai, hai sentito, togliti di torno per un po’» gli dice dando un calcio alla sua
sedia. L’altro quasi si ribalta a terra. Scatarra qualche grugnito e se ne va. «Dimmi tutto, reporter» mi prende per il culo. «Ho bisogno di qualche notizia su Festa». «Festa? Chi, il vicesindaco?» «Proprio lui». «E cosa c’entra adesso Festa?» «È una questione piuttosto delicata. Posso parlare liberamente con te senza ritrovarmi denunciato per qualcosa?» Lui toglie i piedi dal tavolo e si tira su sulla sedia. «Hai mica combinato qualche casino?» «No, nessun casino. Ma ho bisogno di avere tutte le informazioni possibili su Festa. Ma non parliamo del nome della signora Festa o della squadra per cui tifa. Ho bisogno del marcio». «Il marcio?» «Sì, tutto ciò che può mettere Festa in cattiva luce». Diego mi scruta socchiudendo gli occhi. «E per chi sarebbero queste informazioni? Spritz?» «Vedo che sei proprio un poliziotto con i controcoglioni». «Senti Frank, non lo so. Questa storia non mi piace. Spritz non mi piace. E non vorrei vederti finire in qualche casino». «Tranquillo, so come comportarmi». «Ne sei sicuro?» «Parola di ranger».
«Mh, non lo so. E in ogni caso non è che abbiamo chissà cosa su Festa. Tutto sommato è uno pulito. Qualche contravvenzione che si è fatto togliere, un paio di raccomandazioni. Insomma, ordinaria amministrazione. «Fa niente. Tu cerca tutto quello che trovi, e io saprò come sdebitarmi». «Ah sì? E cosa faresti mai? Mi pagheresti un viaggio alle Maldive?» «Meglio». «Meglio?» «Molto meglio». «E che c’è di meglio delle Maldive?» «Jenny». Diego tira su le spalle e rimane a bocca spalancata. «Metteresti davvero una buona parola per me con Jenny?» «Puoi giurarci». «Be’, in tal caso, dammi solo un paio di giorni, e ti faccio… la Festa» ed esplode nella sua risata grassa. «Grazie. Sei un amico». Lo saluto con un cenno e me ne vado. Salgo in macchina e vado verso la periferia, dove si trova quel cazzo di canile. Visto che è quasi ora di pranzo, decido di fermarmi prima a mangiare qualcosa. Trovo lungo la strada un furgoncino che fa hot dog e panini con la porchetta. Prendo quest’ultimo, il mio piatto preferito, assieme ad una birra bella fresca. Per dolce, visto che non c’è, mi prendo pure un sacchetto di Fonzies. Finito di mangiare me ne rimango un po’ lì in disparte a fumarmi una sigaretta. Sarà già la decima o undicesima, oggi. Da quando Anna mi ha scaricato, ne fumo circa trenta al giorno. Comprese quelle a letto.
Riparto e arrivo al canile verso l’una. Il chiasso è assordante. Un branco di cuccioli di labrador sta guaendo mentre i ragazzi del centro riempiono le ciotole di cibo. Mi avvicino e Savanna mi viene incontro. È la responsabile del canile. «Ciao Frank, sono contenta che sia venuto». «Quando il lavoro chiama…» «Ci sarebbe da fare un comunicato su questa faccenda dei cani sequestrati. Dovresti calcare la mano sulla possibilità di adozione. Sono quindici in tutto, e noi non possiamo permetterci di mantenerli a lungo». «Ne hai già parlato con il sindaco per qualche contributo speciale?» «Sì, ma Marzini ora ha tutt’altro a cui pensare, con la storia della formazione delle liste. Quando comincerà la campagna elettorale vera e propria, allora avremo qualche speranza, ma potrebbe essere troppo tardi». «Ci penso io nel pezzo a metterlo sotto pressione». «Grazie, sei un amore» e mi dà un bacio sulla guancia. La guardo. È proprio carina Savanna. Se non fosse che ama più gli animali degli esseri umani ci proverei proprio a scoparmela. Anche se temo che, se capitasse, dovrei farlo con uno o due cani ai piedi del letto, e la cosa francamente non mi va. «Senti,» mi fa «adesso che ci penso, perché non ne prendi uno tu?» «Io? Uno di che?» «Dei cuccioli». Mi vengono i brividi ai capelli. «No, guarda. Lo farei volentieri, ma ho già un gatto». «Perfetto, così non saranno soli quando esci».
«Sì, ma cane e gatto…» «Bah, una leggenda da sfatare. Se li abitui, stanno benissimo assieme». «Be’, comunque è meglio di no» taglio corto. Lei ci rimane un po’ male. «Come vuoi, non insisto». … Invece insiste. «Senti, e se fimo un patto? Ne tieni uno giusto fino a quando non troviamo qualcuno che lo adotta. Qualche settimana al massimo». «Te l’ho detto. Non mi va». Lei mi fa gli occhi dolci. «Se accetti ti invito a cena» mi sviolina «a casa mia» aggiunge languida. Il maschio che è in me vacilla. Come sempre. Faccio due calcoli. «D’accordo» dico. Lei squittisce e mi lancia le braccia al collo. «Vedrai che poi non vorrai più separartene». «Da chi, da te?» butto lì. Scoppia a ridere e mi strizza l’occhio. «Chissà, forse. Del resto cucino proprio bene». «Ok, adesso devo andare. Dammi ‘sto benedetto cane». Mi guida verso il recinto.
«Vuoi sceglierlo tu?» «Non saprei come fare» e lo dico sul serio. «Allora lasciati scegliere». «E come si fa?» «Prendi un po’ di cibo, e il primo che viene a mangiare vuol dire che ti ha scelto». A me pare una stronzata troppo new age per i miei gusti, ma in palio c’è la cena (con annessa trombata, spero). Quindi mi adeguo. Prendo una ciotola e allungo la mano verso il branco di cuccioli. Ne vedo uno più baldanzoso degli altri ciondolare verso di me fino a raggiungermi. Poi si mette a mangiare senza alcuna paura. Mi piace il piccolino. Bello tosto. «Visto? Ti ha scelto». Annuisco e accenno un sorriso di circostanza. «Come pensi di chiamarlo?» «Chiamarlo?» «Be’, dovrai pur dargli un nome?» «Credi che sia il caso, visto che lo terrò solo pochi giorni?» «Un cane deve sempre avere un nome. Proprio come un essere umano». A me pare una stronzata. Che cazzo ne sa il cane se ha o non ha un nome? Ovviamente lo direi, se non ci fosse di mezzo la scopata. Così mi metto a pensare. «Cane». «Sì, Frank, è un cane» fa Savanna ridendo. «No, il nome. Cane è il nome».
«Ma non puoi chiamarlo Cane». «Perché no?» «Perché non puoi chiamare un animale con il nome dell’animale». «Dove sta scritto? Allora una donna non dovrebbe neppure potersi chiamare Donna». Savanna mi guarda accigliata. Devo averla spiazzata. «Va bene!» dice alla fine «In fondo il cane è tuo». «Frena. Il cane non è mio. Lo tengo solo pochi giorni, non dimenticarlo». Lei sorride sorniona. È come se sapesse cose che io non so. «Come preferisci, Frank. Comunque grazie dell’aiuto». «Di niente». Mi allunga la mano per stringermela. «Un momento. Non dimentichi qualcosa?» mi affretto a dire. «Cosa?» «La cena». «Certo che non lo dimentico. Sai, il cane il fondo era solo una scusa» e mi strizza l’occhio «ti va bene domani sera?» «Benissimo. o per le otto, allora». «Non vedo l’ora» fa lei. E mi a un plico mastodontico di carte. «Cos’è?» chiedo. «Niente, solo le linee guida per come gestire il cane. Atteggiamenti da adottare, vaccini da fare, linguaggio del corpo. Cose così, insomma».
Mi sembra di dover gestire una centrale nucleare. «Ok, lo leggerò quanto prima» mento. Poi me ne vado. Con Cane.
5.
Carico in macchina lo scatolone con Cane, faccio un gesto di saluto a Savanna e parto. Guardo il cucciolo. Mi sta fissando con quegli occhioni da cucciolo. A me non fanno alcun effetto. Anzi, mi rompe i coglioni che mi fissi. Appena svolto l’angolo, mi fermo, scendo, prendo lo scatolone e lo metto nel portabagagli. Poi rimonto e resto in ascolto. Da dietro mi giunge un guaito soffocato. Faccio un ghigno. Puzza neutralizzata, penso. Poi mi guardo attorno. La mia macchina è un vero cesso. Ad ogni frenata, da sotto i sedili rotolano fuori bottiglie d’acqua e di birra vuote. I tappetini sono sommersi da pacchetti di sigarette accartocciati e da biglietti del parchimetro. Foglie e fango fanno il resto. Penso che devo assolutamente pulirla, visto che l’indomani devo are da Savanna. Così accosto a un torrente che a lungo la strada e comincio a gettarci dentro di tutto. Bottiglie, carta, fango, nylon. Rimonto in macchina e mi sento meglio. o al lavaggio e completo l’opera. Mi sembra di avere la macchina nuova. Arrivo a casa, prendo dal bagagliaio Cane e lo porto in casa. La reazione di Nick Belane non si fa attendere. Inarca la schiena e rizza il pelo. Sembra un istrice incazzato. Poi spalanca le fauci, mette in mostra i suoi dentini assassini e soffia come non l’ho mai sentito fare. Cane reagisce scodinzolando. È proprio stupido come un cane, penso. Mi avvicino a Nick Belane e lo accarezzo per fargli capire che il capo è ancora lui, e che quel coso resterà in casa solo per pochi giorni. Nick capisce, perché è un animale intelligente. Si volta di spalle e torna ad acciambellarsi come se niente fosse. Nel frattempo Cane si è accorto delle ciotole e ci sta dando dentro. Prima che Nick Belane si volti e lo veda, corro in cucina e prendo altre due ciotole. Una con l’acqua e una con le crocchette. Poi tiro via Cane da quelle del gatto e lo avvicino alle sue. Pare non notare la differenza. Continua a divorare tutto ciò che ha davanti. Di ‘sto o finirò sul lastrico, penso. Speriamo che questa cazzo di trombata arrivi il prima possibile.
Vado alla scrivania e mi metto al lavoro. Comincio a scrivere il comunicato sui cani. Forzo la mano al sindaco affinché sganci qualche euro in più per il canile. Divento languido nella descrizione dei cuccioli abbandonati, senza mamma e papà, rinchiusi per giorni interi dentro camion privi di aria. Cerco di aprire il cuore di quegli idioti che, da idioti, se lo lasceranno aprire. Vado su facebook e ci aggiungo una sfilza di immagini raccapriccianti sul maltrattamento dei cani. Poi rileggo il tutto. Mi sembra un ottimo lavoro. Falso ma ottimo. Poi vado su internet e faccio qualche ricerca per conto mio su Festa. Non ci sono molte cose interessanti. Sembra proprio un tipo perbene. Partecipa attivamente a un sacco di attività di volontariato, promuove ordinanze per i più deboli e bisognosi, fa un sacco di beneficienza. Forse Spritz sta solo cercando di farlo are per quello che non è. Ad ogni modo conviene aspettare il rapporto di Diego per farsi un’idea più chiara. Il resto del pomeriggio cazzeggio sul divano. Nick Belane ne approfitta subito e si stende sulla mia pancia. Cane ci trotterella attorno. Sembra invidioso, eppure non smette un attimo di scodinzolare con quella cazzo di coda. Ma se ne resta dov’è. Non ho alcuna intenzione di dargli soddisfazione. Poi mi metto a fissare il soffitto e a pensare alla mia vita. Pessima scelta. Il mio umore ne risente subito. Ho quarant’anni e della vita non ho ancora capito un cazzo. Prima di Anna, almeno avevo l’illusione di saper dove voler andare, ma dal giorno del tradimento, tutto è svanito in una brodaglia oleosa e putrida. Da quel giorno, trovo tutto insopportabilmente intollerabile. La gente su tutto. Sbuffo, mi volto di lato e guardo il muro. Mi ritrovo davanti il faccione del Vecchio Hank. Si tratta di una gigantografia con il primo piano di Charles Bukowski in bianco e nero. Il suo faccione di tre-quarti, ricoperto da una barba ispida e grigia, se ne rimane imibile a fissare il nulla. Un bitorzoluto naso a patata, sopracciglia folte e trasandate, due feritoie al posto degli occhi, cigarillos tra i denti gialli e rughe da Gran Canyon dappertutto. Un bijou. Dai, Vecchio Charles, mi dico, tu che sei il maestro delle vite allo sbando, ti scongiuro, dimmi cosa devo fare. Niente.
Il Vecchio Charles se ne rimane zitto, senza degnarmi nemmeno di un sguardo. Anche se poi, in realtà, qualcosa me la dice. A modo suo, ovviamente. Scritto nell’angolo in alto a destra del poster.
Some people never go crazy. What truly horrible lives they mast lead.
Grazie, Charles, mi dico. E mi sento subito meglio.
6.
Mi sveglio con un peso alla testa, e mi accorgo subito perché. Quella carogna di Cane ha approfittato del mio sonno per salire sul letto. Ora ronfa all’altezza delle mie ginocchia. Nick Belane non ci dev’essere stato, e per mettere in chiaro una volta per tutte che l’unico a cui io appartengo è lui, mi si è acciambellato sulla testa. Prendo Nick e lo sposto docilmente, poi do un calcio a Cane da sotto le coperte. Lui si sveglia di colpo disorientato. Un attimo di esitazione, poi si mette a scodinzolare. Questo idiota scodinzola per ogni cosa. Non lo sopporto. Mi alzo, vado in bagno e mi faccio una bella doccia. Lascio l’acqua scorrermi sul collo e sulla testa, come a volerla ripulire da tutti i perché. Poi vado in cucina e mi preparo la colazione. Cane mi trotterella attorno felice e mi mordicchia le ciabatte. Sono tentato di dargli un altro calcio, ma desisto. Mi volto verso Nick Belane, che nel frattempo si è sistemato sul divano, e ci fissiamo a lungo. Pensiamo la stessa cosa, ma a noi, a differenza di Cane, non ci serve manifestarla. Poi sollevo le spalle come a dire: è fatto così. Riempio le loro ciotole e mi metto a mangiare pure io. Poi mi vesto ed esco. Oggi ho bisogno di svago. Non lavoro. Ho solo un appuntamento alle sei di sera per un incontro letterario organizzato dall’associazione culturale per cui scrivo. Si tratta di un incontro all’interno della rassegna “Il libro che verrà”. Il solito scrittorucolo locale. Mi preparo già a sorbirne la boria. Ma il resto della giornata lo dedico a me, visto che stasera ho la cena da Savanna, e voglio arrivarci bello riposato. Quindi opto per un taglio di capelli e un giro in libreria. Chiamo Marina, la mia parrucchiera, e fisso l’appuntamento per il primo pomeriggio. Poi vado dal mio amico libraio. Si chiama Sam. È lui che mi ha regato il poster di Bukowski che ho in soggiorno. È un vero bastardo. Sposato, due figli, suona assieme ad altri quattro pazzi scatenati in una rock band che si chiama Rideon. Sono partiti facendo cover degli AC/DC, poi hanno
cominciato a scrivere canzoni per conto loro. Un vero e proprio sballo. Qual bastardo di Sam mi viene incontro e mi fa un cenno col capo. È di pochissime parole. Non parla quasi mai. E quando sei tu a parlare, sembra quasi che non ti ascolti. Invece registra tutto, e parla solo quando ritiene necessario dire qualcosa di importante. Fossero tutti così, penso. «Come butta, fratello» mi fa. «Butta bene. E a te?» Solleva le spalle e grugnisce qualcosa. «Novità interessanti?» gli chiedo indicando i libri. Scuote il capo. «No, la solita merda. Gialli come se piovesse e libri di cucina». «Nessuna perla, quindi?» «Una sì, direi. Questa» e prende un libricino dallo scaffale e me lo a. «“La sposa calva”» leggo il titolo. «È una scrittrice di qua. Niente male davvero». «L’ho già sentita» dico. «Sì, qualche anno fa ha scritto un altro libro. “Zero virgola qualcosa”». «Certo che ci sa fare con i titoli». «E non solo con quelli. È una penna assai felice. Dovresti leggerla». «Lo farò» dico sfogliando il libro. Poi cala il silenzio. Con Sam è così. Finito un argomento, se non c’è altro d’interessante da aggiungere, si sta zitti, fino all’argomento successivo, purché necessario. Il che, quando sei faccia a faccia, ancora ancora funziona, ma al telefono a volte diventa un vero e proprio delirio. Minuti di silenzio con il telefono all’orecchio in attesa che uno dei due parli. Per questo mi piace Sam.
Non spreca mai le parole. Eppure ne è pieno. Come di pensieri, arguti e mai banali. Quando penso a lui, mi dico che il mondo potrebbe essere migliore se tutti seguissero il suo esempio. Innanzi tutto ci sarebbe molto meno chiasso, e soprattutto molti meno rimbombi di involucri d’osso vuoti. Giro tra gli scaffali mentre lui è indaffarato con una cliente che vuole comprare a tutti i costi l’ultimo libro della Parodi. Sam, con la sua flemma, sta cercando di convertirla. So già che non ci riuscirà, ma la sua è una missione prima di ogni altra cosa. Cerca di portare i lettori su sentieri degni di essere percorsi. Il più delle volte, il suo impegno risulta inutile, ma gli basta vendere una copia di Cormack McCarthy per illuminargli la giornata. Io vago sempre più depresso. Scorro libri che mi sembrano copertine vuote. Spesso trovo la salvezza nel reparto dedicato ai piccoli editori. Minimum Fax e Marcos y Marcos più di una volta mi salvano la giornata. Ne trovo un paio che mi sembrano dire qualcosa di nuovo e li prendo, assieme a quello suggerito da Sam. Poi lo saluto ed esco. Sono le undici del mattino e decido di farmi uno spuntino. Senza rendermene conto, o davanti alla redazione del giornale in cui lavoravo, e un destino malefico fa sì che ci i proprio quando Anna sta uscendo dal portone. Una stretta allo stomaco mi procura una smorfia, ma ciò che più mi stordisce è vedere che è in compagnia di Mark Spritz. La cosa non è strana. Tutti i politici cercano di avere sempre contatti e buoni rapporti con i giornalisti, in modo da poter strappare qualche notizia o titolo più favorevole. Ma il modo in cui parlano e sorridono mi lascia perplesso. Sembrano molto intimi. Ma forse è solo una mia impressione. Del resto ho visto Anna farsi trombare da dietro da quel coglione di Jack, è quindi ovvio che veda tutto in un’ottica di intimità. Anna si accorge di me e si fa di colpo seria. Fa un cenno a Spritz e mi indica. Lui, politico navigato con il pelo sullo stomaco lungo come quello di un pastore bergamasco, mi sorride a cinquantadue denti. Poi mi si avvicina. «Ciao campione» esordisce. «Ciao Mark» rispondo cercando di mascherare il disagio e l’irritazione per la presenza di Anna.
«Come mai da queste parti?» mi fa. Eccolo il grande politico. Attaccare prima di essere attaccati. «Ero in libreria da Sam e adesso andavo a farmi uno spuntino». «Niente lavoro oggi?» e mi strizza l’occhio. «No, ma mi sono mosso e domani dovrei avere quello che ti serve». «Bene, bene» mi fa dandomi una pacca sulla spalla. Anna se ne resta in silenzio. Ogni tanto mi guarda, ma perlopiù si guarda attorno insofferente. «E tu che ci fai qua, Mark?» butto lì al solo scopo di mettere a disagio Anna. Mark non batte ciglio. È proprio un grande. «Sono venuto a salutare Anna e a parlare un po’ con lei delle prossime elezioni». «Capisco». «Penso che vinceremo» fa lui annuendo con aria soddisfatta. «Ne sono certo» gli dico. «E tu Anna che ne pensi? C’è il rischio che si facciano fottere all’ultimo momento?» Lei mi guarda seriamente per la prima volta e mi fulmina. «No, credo di no. Sono altri quelli che si fanno fottere». Bang! Centrato. L’ho sottovalutata e ora, giustamente, raccolgo i cocci. «Ah ah» scoppia a ridere Spritz. «Dai ragazzi, non cominciate ad azzuffarvi. La vita è così. A volte si vince a volte si perde». «E a volte si pareggia» chioso io. Lui mi guarda per la prima volta con aria dubbiosa. «Già, a volte si pareggia» ripete.
«Comunque adesso dobbiamo andare, Mark, altrimenti non ce la facciamo» fa Anna. Lui le sorride e la prende sotto braccio. «Hai sentito Frank? Mai far aspettare una signora». “Signora” penso tra me. «Be’, devo andare anch’io. Vi saluto». «Ciao Frank» fa Spritz, «ci si sente domani, allora». Annuisco. Poi saluto Anna con un cenno del capo. Lei mi risponde con un gesto un po’ troppo brusco.
Arrivo al bar e mi siedo in un tavolino all’esterno, mentre continuo a rimuginare sull’incontro. Qualcosa non mi torna, mi dico. Ma poi arriva il cameriere. «Buongiorno» mi fa. «Buongiorno». «Caffè?» Guardo l’ora. «No, birra» dico.
7.
Con il nuovo taglio di capelli mi sento proprio un gran figo. Stasera Savanna non saprà resistermi. Cadrà come un frutto maturo ai miei piedi. Poi mi concentrerò su quel rompipalle di Cane. Torno a casa a farmi un’altra doccia in vista della serata. La pulizia è l’unica cosa su cui non transigo. In me e negli altri. Cane, com’era prevedibile, mi fa le feste appena entro. Lo allontano con un calcio leggero ma deciso. Lui pensa che stia giocando e torna alla carica. Allora prendo Nick Belane e glielo lancio addosso. Un groviglio di peli comincia a rotolare sul pavimento. Finisce com’era prevedibile: con Cane rintanato dietro la poltrona con occhi terrorizzati e la coda tra le gambe, e Nick Belane seduto come un re in mezzo alla stanza mentre si pulisce le unghie con i suoi dentini meravigliosi. Il resto del pomeriggio lo o sul divano a leggere il libro che mi ha consigliato Sam. È un vero gioiellino, e per un attimo torno a diventare fiducioso nei confronti della letteratura. Da fuori della finestra mi giunge il chiasso del traffico. Sempre questi idioti che vanno a destra e a manca senza rendersi conto di essere come dei criceti nella ruota. Mi viene in mente il film Matrix. Beata inconsapevolezza. Alle sei vado alla presentazione. Si tiene in un ex ferramenta. Il luogo è molto suggestivo, e devo dire che l’organizzazione non è niente male. Guardo il tabellone per leggere il nome dell’autore di oggi. Si chiama Giorgio Mosetti. Mi accomodo in una delle ultime file e mi metto a sfogliare il pieghevole con il programma. Scopro che questo Mosetti ha già scritto qualcosa. Mi viene subito alla mente quel vecchio rincoglionito che ho incontrato sull’autobus ieri. Il suo libro si intitola “E se”. Decido di non avere pregiudizi, anche se è dura.
Durante la presentazione, mi rendo subito conto che si tratta di un depresso. Lo si capisce prima di tutto dalla sua postura ricurva. In secondo luogo, dal libro stesso. Parla di un uomo che da oltre vent’anni cerca di fuggire da una fortezza senza successo. È chiaro, anche dalle parole dell’autore, che si tratta di una metafora autobiografica. Tipico degli scrittorucoli, mi dico. Non sanno far altro che scrivere di loro stessi. Lui non è poi neanche tanto male quando parla, sebbene abbia una erre moscia che mi sta proprio sulle palle. Mai sopportata la erre moscia. Mi riporta automaticamente ai froci. E io detesto i froci, quasi quanto gli extracomunitari. Anche se ‘sto Mosetti non mi pare essere un frocio. Ma chi può dirlo? Ce ne sono tanti che non sembrano malati, e poi lo sono. Va a sapere. In sala ci saranno si è no otto persone, oltre ai membri dell’associazione, che perlomeno fanno volume. Mi immagino già le lamentele dell’autore a fine presentazione. Quando me lo presentano, mi spiazza. «Ciao, tu devi essere Frank. Volevo ringraziarti per l’organizzazione». «Mi conosci?» «Mi hanno detto che sei l’anima della rassegna». «Anima è una parola grossa». «Be’, il presidente mi ha parlato benissimo di te. Mi ha detto che da quando sei arrivato le iniziative dell’associazione hanno spiccato il volo». «Volo radente, direi». «Non capisco». Indico la sala vuota. «Oh. Be’, ci sono abituato. Mi chiamo Mosetti, mica Chester Himes». Quest’uomo mi cita Chester Himes. Comincia a piacermi. Peccato che sprizzi depressione da tutti i pori. Io detesto i depressi. Sono persone senza palle che non hanno il coraggio di affrontare la vita. Altro che cazzate. E l’aspetto non
aiuta; vagamente sovrappeso e con i capelli radi e spenti. «E cosa fai oltre a scrivere?» «Il ragioniere». «In qualche ditta?» «No, ho uno studio». «Da solo?» «Per molto tempo sì, ora ho un socio». È incredibile la somiglianza con il vecchio del bus. «Magari un socio più anziano». «Sbagliato, quello anziano sono io» e sorride. Meno male, penso. Anche se non capisco che cazzo ci sia da ridere. «E come va il tuo lavoro di ragioniere?» «Direi bene, anche se c’ho le palle piene». «Addirittura?» «Già». «E come mai?» «Boh, burocrazia, gente sempre più rompicoglioni. Un po’ tutto». «E quindi scrivi per consolarti?» «No, scrivo perché per me è catartico». Eccolo. Lo sapevo. Cominciava appena a piacermi che già se ne esce con uno stereotipo da scrittorucolo.
«Se lo dici tu». Lui sorride e mi strizza l’occhio. Vuoi vedere che mi ha preso per il culo? «Senti» mi dice «ti va di andare a bere qualcosa?» «Volentieri, ma ho una cena che mi aspetta». «Fa niente. Sarà per un’altra volta». «Mi piacerebbe» mento. «E grazie ancora per l’organizzazione». «Te l’ho detto, io non organizzo. Mi limito a scrivere comunicati». «Appunto, è quello che dicevo». Mi strizza di nuovo l’occhio e se ne va. Non male penso. Almeno non è un tipo banale. Peccato per quella depressione che gli piega le spalle. Prendo la macchina e mi dirigo a casa di Savanna. Quando arrivo, vengo accolto da un latrato. Dalla terrazza di casa sua due cagnacci guaiscono alla mia vista. Poi si affaccia lei. «Cos’è, l’antifurto?» chiedo cercando di fare il simpatico. Di solito mi riesce. In realtà già mi girano i coglioni. «No, sono solo un allarme stronzi» replica lei ridendo. Accidenti, ironia. Oddio, almeno spero sia ironia. Comunque comincia a piacermi questa Savanna. «Dai, sali,» mi fa «secondo piano». Come il mio, penso senza che ciò abbia un senso. Non c’è ascensore, così faccio le scale. Arrivo all’appartamento e trovo la porta
socchiusa. Busso e apro. Savanna mi viene incontro con un vestitino niente male. Un tubino nero che mette bene in mostra la sua figura snella. Ha i capelli biondi sciolti sulle spalle. Di solito l’ho sempre vista con i capelli raccolti. Devo dire che sta bene in entrambi i modi. La saluto con due baci sulle guance e le allungo la bottiglia di vino. «Cosa mi hai portato?» «Un ottimo Cabernet». «Magnifico. Grazie. Che ne dici di stapparlo mentre io sbrigo un paio di cose in cucina?» Annuisco, prendo l’apribottiglie e mi dò da fare. Intanto mi guardo attorno. E mi sento un po’ nauseato. Tutta ‘sta manfrina della cena romantica mi sta deprimendo. Non ho più la voglia né la pazienza per sopportare tutto questo solo per una scopata. Sempre che poi alla fine la scopata ci sia. Potrebbe benissimo andare a finire che mi tocca parlare tutta la sera fino a notte fonda dei miei progetti, delle mie ioni, delle cose che amo e di quelle che proprio non sopporto. Della politica del nuovo governo, della musica del momento e di quel film vecchio che tanto mi era piaciuto, te lo ricordi? Ovviamente, in tal caso, il primo a farne le spese sarà proprio quel rompicoglioni di Cane. In fondo un po’ mi spiace per lui, ma qualcuno deve pur pagare il prezzo della delusione. Proprio in quel momento, dall’altra stanza arrivano i due cani. Sono grandi come cavalli. Mi si avvicinano scodinzolando e annusandomi le palle. Stupide bestie. Cerco di allontanarli prendendoli a calci, cercando di mirare ai testicoli, ben attento che non compaia Savanna proprio in quel momento. Loro, proprio come Cane, pensano che stia giocando, e così si danno ancora più da fare per rompermi i maroni. Per fortuna Savanna torna in soggiorno con due bicchieri. Ci vede e sorride. «Gli piaci». «Ah sì? E da cosa lo capisci?» «Dal fatto che di solito non fanno tutte quelle feste». Se le dicessi dei calci forse cambierebbe idea. E allora addio scopata.
Prendo i bicchieri e li riempio, ne o uno a Savanna e poi li incrociamo. «A cosa brindiamo?» chiedo. «A Cane, no?» dice lei ridendo. Faccio una smorfia. «A proposito, hai mica trovato qualcuno?» «Qualcuno?» «Sì, per tenerlo». «Cavolo, Frank, sono ate solo ventiquattro ore. Dammi tempo». E si vede che è un po’ delusa. Forse credeva davvero che avrei finito per affezionarmi a quella palla di pelo. «No, non fraintendermi, è solo che ho paura di affezionarmi troppo» mento spudoratamente. Il suo volto si illumina di un sorriso raggiante. «Magari va a finire davvero così. Avremmo risolto due problemi in un colpo solo». «Quali problemi?» «L’adozione di Cane e la tua solitudine». «Ragazza, al tempo. Io non mi sento per niente solo. C’ho Nick Belane, io». «Nick Belane?» «Il mio gatto». «Certo che per i nomi sei proprio un portento» sogghigna. «Puoi dirlo forte».
«CERTO CHE PER I NOMI SEI PROPRIO UN PORTENTO!» urla, e poi scoppia a ridere. Non posso fare a meno di ridere pure io. Cavolo, mi piace proprio questa femmina. Ha l’ironia nel sangue. E questo vale più di tutte le tette e culi del mondo. Almeno per me. Ma subito mi ricompongo. Attento, Frank, mi dico. Attento a dove metti i piedi. Mi raccomando. È bella, ironica, cucina da Dio. Se poi a letto dovesse fare scintille, allora sarebbe proprio una candidata di tutto rispetto. Ovviamente solo se fossi ancora cosi fesso da volermi accasare. Per fortuna non corro più rischi in tal senso. Certo, poi, se proprio vogliamo, ha questo brutto vizio di amare i cani. Ma in fondo nessuno è perfetto. Savanna va in cucina e torna con i vassoi con le pietanze. «Cosa mi hai cucinato di buono?» chiedo. Il profumo e delizioso. «Cosciotto d’agnello alle erbe». La guardo sbalordito. Lei se ne accorge. «Che c’è? Non mi dirai mica che non ti piace l’agnello?» «No, è solo che non mi aspettavo che fossi carnivora». «E perché?» «Be’, per il tuo amore per gli animali». Lei sorride. «Hai ragione, ma vado matta per la carne». «E se questo invece di agnello fosse il cosciotto di Cane?» la provoco. Lei si fa seria e accigliata. «Non dirlo neanche per scherzo». «Quindi cane no, ma agnello sì. Mi spieghi dove sta la discriminante?» sono proprio un bastardo.
«Nella nostra cultura» tentenna. «Oh, quella cultura che vuole il cane amico dell’uomo e l’agnello no?» «Proprio quella, stronzo. E poi dimmi, tu lo mangeresti un cane?» sbotta. Fregato. «No, in effetti credo proprio di no!» ammetto. «A meno che non sia proprio allo stremo» rilancio. «Io piuttosto morirei». «E faresti male». Lei mi guarda con occhi di ghiaccio. Sogghigno, ma decido di non insistere. Non devo dimenticare cosa c’è in palio stasera. «Ok, discorso chiuso. Prometto che faccio il bravo» e sfoggio uno dei miei sorrisi disarmanti. Lei si ammorbidisce. «Dai, sediamoci» mi fa. Mi siedo e verso dell’altro vino a entrambi. Ovviamente il mio obiettivo è farla ubriacare il prima possibile. «Non ci provare» mi sgama subito lei. Io faccio il finto tonto. «Guarda che ti tengo d’occhio» mi dice facendo il gesto con le due dita puntate sugli occhi come De Niro in “Ti presento i miei”. Questo mi piace. Voglio dire, mi piace una donna che cita frasi di cinema. «Scommetto che sono ancora fuori dal cerchio della fiducia» rincaro io.
«Esatto, per ora non sei nessuno. Sei solo chiacchiere e distintivo. Chiacchiere e distintivo». L’adoro. Non va bene. Affatto. Mangiamo l’agnello e ci scoliamo la bottiglia di Cabernet. Per dolce mi porta delle omelette alla nutella. Una delizia. Poi ci spostiamo a bere una grappetta sul divano. La guardo mentre si massaggia il collo, stanca della giornata. Il tubino, sedendosi, si è un po’ sollevato, e mostra delle cosce lunghe e affusolate. Da atleta di salto in alto, direi. Mi piace. Merda. Questo sarebbe il momento di baciarla, ma vedo che non è pronta. I due cani si sono distesi sul tappeto ai nostri piedi. Sembra si siano abituati alla mia presenza. Provo ad accarezzarne uno sulla testa. Poi porto la mano al naso. Puzza. Li odio. O forse, semplicemente odio me. Poi mi volto e vedo Savanna che mi osserva con un sorriso tenue. «Sono deliziosi, vero?» Annuisco senza dire nulla. «Sono animali così intelligenti». Annuisco ancora, ma la cosa comincia a pesarmi. «E poi ti vogliono bene incondizionatamente, ti perdonano tutto, non ti tradiscono mai». Bla, bla, bla, bla, bla. «Mica come gli uomini» aggiunge guardandomi di traverso. La guardo a mia volta. «Intendi gli uomini come maschi o in generale?»
«Maschi». «Ti considero troppo intelligente per generalizzare in modo così sommario» dico. Lei spazza l’aria con la mano come a fregarsene. «I maschi non fanno mai nulla per nulla». «Nessuno fa mai nulla per nulla. Anche tu che ti occupi dei cani non fai nulla per nulla». «Come puoi dire questo? Io lo faccio solo per loro». «Balle. Così ti piace credere. In realtà lo fai per te. Per il tornaconto in termini di benessere che ne trai». «Non sono d’accordo, ma anche se fosse, che male ci sarebbe?» «Nessuno, non fraintendermi. Dico solo che tutti facciamo tutto per un compenso». «Ripeto, non sono d’accordo». «Libera di pensarlo. Ma io resto dell’idea che tu non tieni questi due cani per loro, ma per te. Se ti dicessero che la loro felicità asse dal lasciarli liberi, tu che faresti?» «Stai cambiando discorso. Tipico degli uomini che hanno qualcosa da nascondere» contrattacca lei. Mi sento stranamente accerchiato. «Ti riferisci a qualcosa in particolare o lo dici in generale?» «Tutt’e due» e mi strizza l’occhio. «Ok, come non detto». Mi scruta con un sorriso furbo.
«Tu, ad esempio, perché oggi hai accettato di prendere il cane con te?» «Lo sai perché». «Davvero?» «Certo. A meno che tu non voglia mentirti, lo sai benissimo». «Vuoi portarmi a letto». «Bingo». «E ti sembra questo il modo?» Improvvisamente sbuffo, perché mi sto annoiando. Sta facendo tutto lei. Ho già capito il genere. Questa Savanna è una a cui piace chiacchierare in circolo, come fanno molte donne, magari essere adulata e corteggiata, per poi mandarti in bianco. In tondo come il criceto nella ruota, solo che lei lo fa consapevolmente. Per molti anni ci sono stato anch’io, perché ha sempre fatto parte del gioco. E a dirla tutta, quel gioco mi piaceva un sacco. Ero capace di fare chiacchierate inutili per ore e poi tornare a casa con la gola secca e l’uccello duro. Ma da quando la mia nuova vita è iniziata, non ho più voglia di perdere tempo. Ci piacciamo? Allora poche chiacchiere e scopiamo. «Per voi donne non esiste mai un vero modo» dico. «Che ne sai tu delle donne?» «Assai poco, te lo concedo, ma in certi casi impari molto di più guardando un castello da fuori cercando l’ingresso che standoci rintanato all’interno». «Siamo alle metafore, vedo». «Non son sicuro che sia una metafora. Sta di fatto che questo è ciò che ho imparato». «E cioè?» «Che non esiste mai un vero modo. Quello che scegliete è già deciso. Il modo non c’entra nulla, o quasi. A meno che uno non si comporti proprio da idiota, la
vostra decisione è l’unica discriminante decisiva. L’unica regola è che si faccia a modo vostro. Quindi, come vedi, alla resa dei conti manipolate più voi di noi». «Ci sopravvaluti». «Nient’affatto». «E comunque noi donne non siamo così». «No? Dovresti pensarci mettendo da parte la presunzione femminile». «Pensi che non lo faccia?» «A sentirti, direi di no». «E perché secondo te?» con tono di sfida. «Perché ci vuole coraggio». «Oh, e scommetto che tu ne sei pieno». «Neanche un po’. Questo è solo uno dei miei problemi». Lei sorride intenerita e si versa un altro bicchierino di grappa. Poi mi guarda. «Sai, potrei anche decidere di venire a letto con te, ma tu credi che sarebbe una buona idea?» «Per cosa?» «In genere. Per tutto». La guardo e le sorrido. «Sei fantasticamente donna» le dico, e la bacio sulla guancia. Poi mi alzo e mi avvio alla porta. «Buonanotte, dolcezza,» le dico. «Sappi che tu sei nel mio cerchio della fiducia. Forse un giorno sarò anch’io nel tuo».
«Te ne vai?» mi chiede spaesata. «Certo. A casa mi aspettano» ed esco. Scendendo le scale penso a Cane. Purtroppo qualcuno dovrà pagare, mi dico. È sempre così. È questa sporca, ingiusta vita.
8.
Torno a casa e mi ritrovo davanti quello che non mi aspetto. Nick Belane e Cane stanno dormendo fianco a fianco sul divano, quasi abbracciati. Nick, che ti succede, mi chiedo con amarezza. Vado a dormire deluso da tutto. Dalle contorsioni mentali spacciate per seduzione, da Nick Belane, dalla vita. La mattina dopo carico Cane nello scatolone e lo porto in macchina con me. So già cosa fare, solo che prima devo are da Diego, il mio amico poliziotto, per le informazioni su Festa. Parto alla volta della questura. La giornata è tiepida e piacevole. Ma la gente attorno a me mi mette subito di cattivo umore. Gente che strombazza già incazzata di primo mattino, gente frettolosa, gente con il volto segnato dalla paura, come se stesse attraversando un campo minato. È tutta qua la vita? Una frittata di erbe amare e qualche dolcetto occasionale? mi chiedo. Per sfuggire ai miei pensieri, mi volto verso il sedile di dietro. Questa volta Cane l’ho messo lì, anziché nel bagagliaio. Mi sto rammollendo, penso. La cosa non va bene. Arrivo in questura e salgo nell’ufficio di Diego. Sta parlando fitto con un collega. Mi vede, e mi fa cenno di aspettare. Quando l’altro se ne va, mi fa entrare. «Chiudi la porta» dice. Poi mi siedo di fronte a lui. «Allora, Frank, come ti dicevo, Festa è un tipo pulito. Per quanto possa esserlo un politico, ovviamente». «Quindi non hai trovato niente?» «Praticamente nulla di più di quello che ti dicevo». Poi si lascia andare sulla
sedia e fa una smorfia. «A parte…» riprende. «A parte?» «A parte l’amante, ovviamente». «Mi stai dicendo che ha un’altra donna?» Diego scuote il capo e sogghigna. «Magari. Ha un amante uomo. Il tuo Festa è bisex». Sento la nausea montarmi dentro. Io detesto i froci, ma ancora di più i bisex. Ho sempre detestato quelli che non sanno decidere da che parte stare. «E chi è ‘sto tizio?» chiedo. «Un ragazzo di vent’anni. Il suo portaborse». «Merda». «Puoi dirlo. Anche se in questi casi non so mai con certezza chi usi chi. Molto spesso sono proprio questi ragazzini a tenere le redini, pur di far strada». «E sei certo di questa informazione?» «Assolutamente. Un mese fa li abbiamo beccati con le braghe calate nei campi dietro la zona commerciale». «Certo che mi hai trovato proprio una notizia bomba» dico. «Già». «Spritz farà i salti di gioia». Diego mi si avvicina col busto e mi squadra severo. «Sei sicuro che sia una buona idea?» «Cosa?»
«Dare queste informazioni a Spritz». «Diego, Spritz mi paga bene. Tutto qua». «Lo sai che non mi piace per niente». «L’hai detto pure tu. Neanche Festa è un santo». «In confronto a lui, Festa è un dilettante». «Non me ne frega niente di Festa, se è questo che vuoi sapere». «Non ti riconosco più». «Son sempre io, amico». «No, non è vero. Da quando Anna ti ha scaricato sei cambiato». «Semplicemente mi ha aperto gli occhi». «No, secondo me te li ha chiusi definitivamente». «Che vorresti dire?» Diego fa un gesto vago con la mano. «Niente, niente». Vado via ripensando alle parole di Diego. Non mi vanno né su né giù. Torno in macchina e mi dirigo verso il municipio. Voglio dare subito la notizia a Spritz. Cane, dal sedile di dietro, continua a guardarmi e a scodinzolare. Spritz mi accoglie sorpreso. Ha l’aspetto stranamente scompigliato. Si sistema alla meglio i capelli e sfoggia uno dei suoi sorrisi raggianti da politico navigato. «Allora reporter, quali nuove mi porti?» «Buone nuove, dico» poi, improvvisamente, percepisco qualcosa che mi è molto
familiare. Un profumo. Il profumo che usa Anna. Mi guardo attorno come alla ricerca di qualcosa. Spritz mi scruta senza mollare il sorriso. «Che c’è Frank? Qualche problema?» Mi avvicino a Spritz e lo annuso. «Ma che diavolo…» «Hai un odore strano» dico. «Che cazzo ti prende? Di cosa stai parlando?» e si annusa le ascelle. «Posso andare in bagno?» chiedo all’improvviso. E mi avvio. Lui mi corre dietro. «No, è fuori servizio. Sono tre giorni che mi tocca fare due piani di scale per pisciare». «Ma io devo solo lavarmi le mani» lo provoco. «Rotto anche quello. Un disastro. Altro che Casta, siamo dei poveracci noi politici» e sfoggia una risata delle sue. Ed è allora che noto sul divano un foulard. Non potrei confonderlo con nessun altro. Gliel’ho regalato io ad Anna. Spritz cerca di riprendere in mano la situazione. «Frank, finiscila di fare il folle e parliamo di affari. Cosa mi hai portato su Festa?» Lo guardo. L’istinto mi spinge a saltargli addosso e azzannarlo alla gola. Brutto bastardo. Tu e quella puttana. Dovevo immaginarlo. Sto già per andarmene quando mi viene un’idea migliore. Mi volto e sorrido a Spritz. Un sorriso amaro. «Nulla di buono» gli dico. «In che senso?» si vede che è agitato. Non gli è ancora chiaro se mi riferisco a Festa o alla sua tresca con Anna.
«Nulla di buono su Festa, intendo». «Proprio nulla?» «No, solo qualche multa non pagata e qualche raccomandazione qua è là». «Merda». «Già». «Ma sei proprio sicuro?» «Guarda, ho scavato dappertutto. Vuoto assoluto. Quello è un cazzo di santo». «Merda, merda, merda» ripete Spritz come un mantra. «Senti Mark, potremmo chiudere subito la faccenda compenso? Ho delle spese urgenti per domani». «Come? Oh, sì, certo». Prende il libretto degli assegni e me ne fa uno da mille euro. Niente male davvero. «Eccoti» mi fa «anche se avrei voluto spenderli per qualcosa». «Mi spiace. Non dipende da me». «No, lo so. Tu hai fatto il tuo lavoro. È solo che non so cos’altro fare con quel coglione di Festa». «Magari sfidalo alle elezioni» butto lì. Spritz mi fa un sorriso sornione. «Frank, nessuno di quelli che contano si batte alle elezioni senza aver vinto prima». «Be’, il politico sei tu» taglio corto. «Ora scusami ma ho un sacco di cose da fare. Grazie per il tuo lavoro» e mi stringe la mano. È sudata.
«Grazie a te. Quando vuoi, sai dove trovarmi». «Certo Frank, conto sempre su di te». Si vede che è amareggiato. Esco dall’ufficio e mi dirigo verso la macchina. Monto e mi accendo una sigaretta. Apro il posacenere che sta letteralmente esplodendo di mozziconi. Lo estraggo e lo svuoto nell’aiuola. Poi me ne resto un po’ così, a fumare e pensare. Spritz e Anna. Porca troia. E chissà da quando. Ma la cosa peggiore è che deve essere stata lei a chiedergli di darmi qualche incarico, probabilmente per quietare il suo senso di colpa. O magari solo per godersi la mia disfatta dalla prima fila. È proprio umiliante. Mi volto a guardare Cane. Scodinzola lui. Quasi quasi mi dispiace dovergliela far pagare per tutto. Bene, non buttiamoci giù, mi dico. Anna mi ha sempre sottovalutato. Spritz sicuramente mi considera un coglione che si fa fregare la donna. Ma ora tocca a me. E c’è sicuramente una persona interessata alla tresca del signor Spritz, felicemente sposato e padre di tre bambini. Tra l’altro proprio con la caporedattrice del giornale. Qualcuno che vuole sconfiggere i suoi avversari prima di sfidarli alle elezioni. Qualcuno che pare un santo, ma forse tanto santo non è. L’unica cosa che mi manca sono le prove. Per questo devo pedinare Mark e Anna e fotografarli assieme. Ma se lo faccio io, rischio di essere scoperto, e tutto va in malora. Ed è stato in quell’istante che ho pensato a lui.
9.
Ora ho un piano, e la cosa mi fa sentire vivo. Come non mi sentivo da un mese a questa parte. Ma prima devo risolvere la questione Cane. Così imbocco la statale che porta al lago e da lì prendo l’autostrada. Per fortuna non è ora di punta, quindi non c’è tanto traffico. Alla prima aiuola di servizio accosto. Scendo e apro la portiera di dietro dal lato dei campi. Tiro fuori Cane dallo scatolone. Scodinzola come non mai, evidentemente l’odore di campagna risveglia in lui istinti da predatore libero. Poi apro il portabagagli e prendo la corda. È una di quelle vecchie cinghie elastiche che si usavano per i portapacchi. La porto davanti e la lego al collo di Cane come guinzaglio. Non sta nella pelle. Appena lo faccio scendere dalla macchina, dall’emozione si fa pure la pipì addosso. Stupida bestia. Mi guardo attorno. a solo una macchina ogni tanto, e i eggeri non sembrano interessati a me. Del resto sono solo uno che si è fermato per qualche ragione che non li riguarda. Poi tiro con la cinghia Cane fino al guardrail. Ce la o attorno e l’aggancio in modo che non si possa sciogliere. Cane mi guarda. Ora pare un po’ più perplesso. Lui pregustava già scorribande nei prati circostanti, alla caccia di leprotti e topi di campagna. Invece si ritrova legato a una staccionata metallica. Lo guardo un’ultima volta. «È stato bello conoscerti» lo prendo per il culo «io e Nick Belane non credo che sentiremo la tua mancanza». Risalgo in macchina e attendo il momento buono, ossia l’assenza di altri veicoli. Cane è nascosto dalla mia auto, e fino a quando non parto nessuno può vederlo. Solo che quello stronzo si mette improvvisamente ad abbaiare. E fa una cagnara incredibile.
Torno a scendere e do un bello strattone alla corda, in modo da strozzarlo. Lui guaisce e smette. Ora comincia a capire che c’è poco da scodinzolare. Torno alla macchina di corsa, monto e, a strada libera, riparto a tutta velocità. Guardo nello specchietto retrovisore. Cane mi sta guardando. Si è seduto a terra composto, e solleva il muso come ad annusare l’aria. O forse il mio odore. Non provo nulla. Appena appena un filo di nausea. Ma il senso di liberazione sovrasta tutto. Penso a Savanna. Non mi preoccupo. Ho già pensato a tutto. Le dirò che è venuto a trovarmi un amico spagnolo che, guarda caso, ha una tenuta enorme. Ha visto Cane e se n’è innamorato, gli ho spiegato la situazione, e non ha avuto esitazioni. Se l’è preso e se l’è portato in Spagna. Ha pure detto che non gli avrebbe cambiato il nome. Tanto in spagnolo cane si dice perro, se non ricordo male. Poi penso a me e a Nick Belane di nuovo da soli sul divano, a farci le fusa a vicenda. Che meraviglia.
10.
«Scusa, non capisco. Perché io?» «Perché non ti conoscono». «Ma ci sono migliaia di persone che non conoscono. Perché proprio io?» Abbasso la testa e guardo a terra. Mimando imbarazzo. «Perché non so a chi altro chiederlo». Giorgio Mosetti ha un improvviso impeto di tenerezza. Si vede che è sensibile al disagio degli altri. «E cosa dovrei fare?» Rialzo la testa e accenno un sorriso di speranza. «Dovresti semplicemente seguirli e cercare di fotografarli in momenti di intimità». «Intimità?» «Sì, mentre si baciano, tipo». «Tipo?» «Be’ non ti chiedo di infilarti nella loro camera da letto…» esclamo. Poi mi mordo un labbro «anche se poi… se te la senti, insomma…» «Ma per chi mi hai preso!» sbotta «Per un guardone?» «Ma che guardone e guardone. Devi essere come un investigatore privato. Sei uno scrittore, no? Avrai letto qualche libro su Marlowe. Ecco. Quello devi fare».
Lo scrittorucolo ci pensa su. «Non lo so. Non mi piace per niente questa storia. E poi di sicuro c’è qualcosa di illegale. E io non commetto azioni illegali». «Macché illegale. Non è mica vietato fotografare in luoghi pubblici». «In quelli privati, sì, però». «E tu allora cerca di prenderli in castagna in quelli pubblici». «Ma perché tutto questo?» «Per me. Per avere la conferma che la mia ex donna mi ha tradito con quello stronzo». «Tutto qua?» «Tutto qua» mento. «Ma allora perché non ti limiti a seguirli tu?» «Toc toc. C’è nessuno lì dentro? Te l’ho detto che mi conoscono». «Sarò anche idiota, ma le foto allora a cosa ti servono?» «Per esserne certo». «Non ti basta la mia parola? Cioè, se li vedo che si baciano, te lo dico ed è finita lì». Mosetti si rivela non solo un ingenuo, ma pure un rompicoglioni. «Mi fido di te, non fraintendermi. Ma voglio mandare le foto a entrambi solo per togliermi il sasso dalla scarpa. Sarà puerile e sciocco, ma la cosa mi farebbe stare meglio. Fargli cioè sapere che io so e sapevo tutto». Mosetti pare poco convinto. «E a me che ne viene, scusa?»
Lo guardo e metto su una faccia da cane bastonato. Sono proprio bravo in questo. «Non ho nulla da offrirti a parte la mia gratitudine. So che non vale molto. Ma è tutto ciò che ho». Mosetti mi studia per un po’. Poi annuisce. «D’accordo, lo faccio per te, anche se non ne avrei motivo, visto che neppure ci conosciamo». «Grazie Giorgio, te ne sarò grato per sempre». «Lascia stare. Procurami invece la macchina fotografica e il rullino». «Rullino?» «Sì, altrimenti come faccio a fare le foto?» «Lo sai che i rullini non si usano più?» «Davvero? Be’, non sono molto pratico di foto». “Ma chi è questo qua?” Mi domando. «Non hai uno smartphone?» «Un che?» «Smartphone. Quei telefoni che vanno adesso». «No, ho uno di questi» dice tirando fuori di tasca un catafalco. «Un Motorola 8700?» «Ah, si chiama così? Me l’ha dato mio fratello. È un tipo tecnologico, lui. Pensi faccia pure le foto?» Sbuffo. «No, temo proprio di no. Ok, entro stasera ti procuro una macchina digitale».
«Digi… che?» «Mosetti, ma tu dove cazzo vivi?» «Perché?» «Sembri uscito dai Flinstones». «Perché?» «Lascia stare. Ma i libri, poi, come li scrivi?» «In che senso?» «Al computer?» «No, a mano». «Ah, ecco. Senti, stasera o da te e ti porto il tutto. Magari ti spiego anche come funziona. Non vorrei mai che ti fotografassi il naso, invece dei piccioncini». «Bene, allora ti aspetto». E se ne va ingobbito. Lo guardo allontanarsi. Non sono più così convinto di aver fatto la scelta giusta. A parte la faccenda della tecnologia, non mi convince molto quell’uomo. Pare vivere in un mondo tutto suo. Sarà lo scrivere che l’ha ridotto così, penso. Ma quello che più mi preoccupa è essere certo che sia in grado di svolgere quel compito senza mandare tutto a puttane. Se lo scoprono, quello come niente è capace di spifferare tutto. Poi guardo l’orologio. È quasi ora di cena. o dal mio amico Giovanni, il turco, e mi sparo due kebab belli farciti, assieme ad altrettante birre. Mentre mangio, mi torna in mente Cane. Chissà se è ancora là. Ormai sono trascorse più di dieci ore da quando l’ho abbandonato. Il pensiero va a Savanna. Decido di telefonarle per chiudere la faccenda. «Pronto?»
«Ciao Savanna, sono Frank». «Frank, ciao. Ma come diavolo parli?» «Scusa, sto mangiando un kebab». «Mh, la cena dei campioni. Ma tu mangi sempre così?» «Così come?» «Schifezze». «Tesoro, il kebab sarà quello che vuoi ma di certo non è una schifezza». «Hai capito cosa volevo dire». «Lascia stare la mia dieta. Non sei mica mia moglie». «No, per fortuna». È ancora risentita per l’altra sera, mi dico. Alle donne non va proprio giù di essere rifiutate. «Senti, ti chiamavo per dirti di Cane». «Oddio, gli è mica successo qualcosa?» «No, stai tranquilla, sta bene». «Oh, meno male». «Ho trovato uno che se lo tiene». Savanna sprofonda in un silenzio che mi preoccupa. «Savanna?» «Sì, sono qua. Solo che mi hai colto di sorpresa. Non me l’aspettavo. E come hai fatto?» «È un mio amico spagnolo, Pedro si chiama,» dico mordendomi il palmo della
mano per la scelta così idiota del nome «ha una tenuta vicino a Valencia e quando ha visto Cane se n’è innamorato. Così quando gli ho proposto di tenerlo, ha fatto i salti di gioia». «E se l’è già portato via?» «Sì, è partito stamattina per la Spagna». «Ma scusa, e tutta la documentazione?» «Che documentazione?» «L’anagrafe canina, i permessi del veterinario, i vaccini e tutto il resto». «Oh, non sapevo che per dare un cane ci volesse tutto questo». «Certo che ci vuole». «E adesso? Be’, non possiamo fare finta di niente per una volta?» «No, Cane è già registrato all’anagrafe. L’abbiamo fatto d’ufficio». «E se facciamo figurare che è morto?» «Frank!» «Che c’è? Che ho detto? Era solo un’idea. Comunque possiamo fare così: tu mi dici tutto quello che serve, e io mi metto in contatto con Pedro». «No, troppo casino. Facciamo che mi dai tu il numero di Pedro e mi metto in contatto io». Sento la punta dei capelli rizzarsi. «Non posso» dico troppo in fretta. «Come sarebbe a dire che non puoi?» «Nel senso che ha un numero riservato e non vuole che lo lasci a nessuno» improvviso.
«Be’ allora dagli il mio e digli di chiamarmi». «Ecco» tiro un sospiro di sollievo «così si può fare». «Bene» fa lei. Poi cala un attimo di silenzio. Alla fine è lei che riprende a parlare. «Frank, sai, un po’ mi dispiace. Mi sarebbe davvero piaciuto se Cane fosse restato con te. Mi era parso che vi piaceste a vicenda». «Già» mento «un po’ dispiace anche a me. Mi stavo abituando alla sua presenza. Mi mancherà quel batuffolo. Sono certo che mancherà anche a Nick Belane» dico mentre immagino il mio gatto guardare dal divano le due ciotole vuote di Cane. Fissarle per un po’, e poi leccarsi le palle con la zampa al cielo. «Sai Frank, tu fai spesso il duro e il cinico» dice improvvisamente Savanna «ma io credo che dietro quella scorza ci sia un cuore tenero». «Dillo piano, però, altrimenti mi fai cadere la copertura» ci scherzo su. «Cane ha sofferto tanto, e sono contenta che ora possa avere una vita serena». Sento qualcosa muoversi nella pancia. Qualcosa che non so più cosa sia, e questo mi disturba. «Be’, ora l’avrà, questo è importante». «Senti» fa lei. «Dimmi». «Volevo anche parlare con te dell’altra sera». «Di cosa?» «Di quello che c’è stato tra noi» poi scoppia a ridere. «Oddio, forse è meglio dire quello che non c’è stato». «Sono stato uno stronzo».
«No, non è vero. Hai detto delle cose che mi hanno fatto pensare. Pensare a me, intendo». «Lascia perdere. Dico solo sciocchezze». «Affatto. È proprio per questo che mi piacerebbe rivederti». «Un appuntamento?» «Già, un appuntamento. Ma questa volta in piena regola, con te che vieni a prendermi e mi porti fuori a cena. Ti va?» Ci penso un po’ su. Forse un po’ troppo, perché lei dall’altro capo del filo comincia a tossicchiare. «No, non mi chiedi troppo. Anzi. Che ne dici di sabato?» «Per me va benissimo». «Ok, allora o a prenderti alle otto». «Bene, sono proprio contenta». «A sabato, allora». «Certo». «Ciao». «Ah, Frank…» «Dimmi». «Non dimenticarti di farmi chiamare da Pedro». Accidenti. «No, tranquilla, domani lo chiamo e ti faccio contattare». «Perfetto. Allora ciao».
«Ciao». Merda, ho di nuovo bisogno di Mosetti.
11.
Giorgio Mosetti si era esercitato tutta la notte con la macchina digitale. Gli era parsa pura magia il fatto di poter scattare quante foto volesse, vederle subito e nel caso eliminarle. Aveva preso confidenza con la rimozione del flash, come gli aveva spiegato Frank. Il flash avrebbe potuto tradirlo. Poi si era messo a fotografare se stesso allungando il braccio. Era felice come un bambino, e per qualche ora persino la sua depressione lo abbandonò. La mattina dopo era uscito alle prime luci del giorno diretto alla casa di Anna. L’avrebbe pedinata tutto il giorno. In attesa che si incontrasse, se mai fosse successo, con Spritz. Ora, seduto in macchina a pochi metri dal portone, finge di leggere il giornale. Dopo un po’ esce Anna. È davvero una bella donna, pensa. Infila in tasca la macchina digitale, scende dall’auto e comincia a seguirla a piedi. Frank gli ha detto che Anna non usa mai la macchina per andare al lavoro. Alla fermata del bus lui si ferma un po’ in disparte e finge di guardare dentro una vetrina di tendaggi e stoffe. Poi sale sull’autobus con lei. Si siede in fondo, a distanza di sicurezza. Quando arrivano alla fermata del giornale, aspetta che lei scenda, poi si alza e corre verso le porte che si stanno ormai richiudendo. Si scusa con un cenno con il conducente e salta giù. Va a sedersi a un tavolino del bar di fronte al giornale. Poi attende. Le ore ano. Beve quattro caffè, un ace, un chinotto e, verso mezzogiorno, un Fernet Branca. All’ora di pranzo vede Anna uscire dall’ufficio assieme a dei colleghi. Stanno andando a mangiare. Li segue fino alla piccola trattoria all’angolo. Ha fame anche lui, ora, così entra e si siede in disparte. Ordina una pasta con pomodorini e acciughe e un’insalata verde. Gli altri continuano a chiacchierare e a scherzare. C’è un bel clima tra loro. Non deve essere male lavorare in quel giornale, pensa, e un po’ gli dispiace per Frank, che è dovuto andarsene.
Nel pomeriggio torna al bar. Si beve un amaro, altri quattro caffè, di cui due decaffeinati, e un succo d’ananas. All’imbrunire, sta ormai per rassegnarsi. È stanco, stufo, annoiato. Ha buttato un’intera giornata per nulla. Sta già per alzarsi e andarsene quando davanti al giornale parcheggia una scintillante Audi A6. Dall’auto non scende nessuno. Solo tre di colpi di clacson, quasi fossero un segnale. Un minuto dopo, Anna esce dall’edificio e sale in macchina. Mosetti, che nel frattempo si è un po’ avvicinato senza dare nell’occhio, ha riconosciuto Spritz alla guida. Sente l’adrenalina salire. Quindi è così che si sente Marlowe quando il cerchio si stringe, pensa. Subito dopo, scatta il panico. La macchina, lentamente, si immette nel traffico, mentre lui, se ne rende conto solo ora, è a piedi. Si guarda attorno alla disperata ricerca di un taxi, ma non se ne vede neppure uno. Così si mette a correre. Per fortuna i semafori e il traffico dell’ora preserale lo aiutano a non perdere contatto con la macchina. Procede così, con il cuore in gola, per la bellezza di dieci isolati, e tira un sospiro di sollievo quando vede la macchina poco più avanti rallentare e parcheggiare. Si rimette al o per non destare sospetti. È bagnato fradicio di sudore. Il cuore stenta a recuperare una frequenza umana. Ma almeno non li ha persi di vista. Vede Spritz aprire la portiera ad Anna invitandola ad uscire, poi entrano a braccetto in una taverna. Mosetti cerca di ricomporsi alla meglio. Si asciuga la fronte sulla manica della giacca ed entra nel locale. Per fortuna le luci sono piuttosto soffuse. Vede Spritz e Anna seduti in un tavolino in fondo alla sala. Lui allora si posiziona a una certa distanza, ma rivolto verso di loro. Poi, come gli ha spiegato Frank, comincia ad armeggiare con la macchina fotografica, come se stesse controllando le impostazioni o qualche altra diavoleria del genere. In realtà l’ha già attivata, e sta facendo delle foto alla coppia. Li osserva a lungo, ma non succede niente di compromettente. Sembra quasi deluso. Ha cominciato ad apionarsi a questo ruolo da detective, e gli dispiacerebbe se finisse tutto con un buco nell’acqua. E poi, accadde ciò che non ti aspetti.
12.
«Come sarebbe nel gulash?» «Nel gulash. Avevo preso il gulash». «Avevi preso il gulash? Cioè, spiegami, nel bel mezzo di una azione di spionaggio, tu ti vai a mangiare il gulash?» «Avevo fame». Ho scosso la testa solo per non prenderlo a cazzotti. Quell’idiota di Mosetti ha mandato a puttane tutto quanto. «E poi, com’è successo?» gli chiedo. «Mi è caduta. Tutto qua». «Tutto qua? Mi stai dicendo che la macchina fotografica ti è semplicemente caduta nel gulash?» «Esatto, stavo trafficando come mi avevi detto di fare tu, cercando di non dare nell’occhio. Quando mi è scivolata di mano». “Ma chi l’ha inventato questo qua?” mi chiedo. «Quindi niente foto?» «Be’, ci sono quelle che ho fatto prima». «Fa’ vedere» e gli strappo di mano la macchina. È ancora sporca di rimasugli di gulash rinsecchiti. Sono una sequenza di foto sfuocate e buie da cui non si capisce neppure chi è ripreso. Non ci faccio un cazzo con questa roba.
«E cosa dovrei farci con queste?» Mosetti abbassa ancora di più le spalle. Si vede che è affranto. Ma non mi commuove. «Comunque mi hai detto che si sono baciati. Almeno questo è vero?» Mosetti sembra riscuotersi. «Sì, di questo sono certo. Appena hanno finito di bere, sono usciti. Li ho seguiti e li ho visti salire in macchina. E lì è successo. Lui si è voltato verso di lei, l’ha abbracciata e le ha dato un bacio ionale». «Ne sei proprio certo?» «Lo giuro sui miei libri». Lo guardo. «Qualcosa di maggior valore no?» Lui china il capo e guarda a terra. «Per me valgono» sussurra. «Vabbe’, dai. Non è andata poi così male». In fondo, penso, almeno adesso ho la certezza della tresca tra quei due. Posso sempre andare da Festa a dargli l’informazione. Poi ci penserà lui a tirare fuori le prove. «Sì, ma con la storia delle foto da spedire?» si preoccupa Giorgio. «Lascia stare. Mi metto il cuore in pace e vaffanculo a loro». «Bene, così si fa. Lasciar andare». «Già. Farò così». «Mi dispiace aver mandato tutto in malora…»
Lo guardo e sorrido. «Be’, c’è sempre un modo per farsi perdonare» gli dico. Lui sbianca impercettibilmente. Ha ormai cominciato a conoscermi, e sa che non c’è mai nulla di buono dietro le mie parole. «In che senso?» mi chiede titubante. «Mi devi assolutamente fare Pedro».
13.
«Hola! Savanna?» «Hola. Eres Pedro?» Mosetti abbassa di scatto il cellulare e ci mette una mano sopra. «Ma questa parla spagnolo!» «Merda!» faccio. «Pedro? Pedro? ¿Dónde estás?» La voce di Savanna non lascia dubbi. Mi gratto la testa. Mosetti comincia a tremare. «Lo sapevo che non dovevo farlo» piagnucola. «Smettila di piangere e datti da fare. Dille che vuoi parlare in italiano perché lo stai studiando e vuoi fare esercizio». «Mi sembra una scusa di merda, scusa se te lo dico». «Lascia stare e fai come ti dico. Vedrai che se la beve». «Savanna? Ciao, ehm… io son Pedro. ¿Te dispiacce parlare in italiano? Lo estó studiando y vorrei fare esercizio». «Oh che bella cosa. Va bene, come preferisci. Ma come mai studi italiano?» «Me gusta… me piace molto come lingua, ma soprattutto ho conosiuto una ragazza italiana l'estate scorsa. Sai come è?» «Ah ah, certo che lo so. È lo stesso motivo per cui io anni fa ho studiato lo
spagnolo». «Una ragazza?» Scuoto la testa sconsolato. «No, no, un chico». «Oh, un chico. Bueno. Bueno». «Senti Pedro, Frank ti avrà già detto del problema del cane». «Certo, ma me pare strano. Qui in España non servono tutte quelle carte». «Strano, visto che sono norme europee». Mosetti copre di nuovo il telefono e mi guarda terrorizzato. «E adesso?» «E adesso dille che non lo sapevi. Che cazzo. Un po’ di palle». «Frank… escusame, volevo dire Savanna. Non lo sapevo. E adesso?» «E adesso mi dovresti fare un sacco di documenti, oppure, se per te è più semplice, mi rimandi in Italia Cane, e poi ci penso io. Poi te lo rimando». «E como te lo mando?» «Ci sono dei servizi apposta delle ferrovie. Te lo caricano loro e non devi preoccuparti di niente». «Oh, ma es fantastico». «Già». «Allora d'accordo. Domani provvedo a todo». «Magnifico. Mandami anche il tuo indirizzo, così dopo so dove mandartelo. È un amore quel cane, vero?»
«Oh, un vero amor. Ho fato una fatica per convinsere Frank a lasiarmelo». Sollevo sorpreso la testa di scatto e con la mano mando un bacio a Mosetti. «Dici davvero? Non mi sembrava così entusiasta di tenerlo». «No, io lo conosso bene. Fa el duro, ma es un tenerone». «Sai, in fondo lo penso anch’io» e sorride. «Bene, adios Savanna. Spero un dia di conoserte di persona. Hai una voce bellissima». «Grazie Pedro. Spero anch’io di conoscerti meglio. Un abbraccio». Quando lo scrittorucolo spegne il telefono, lo abbraccio. «Sei stato fantastico, Pedro». Mosetti si scosta e si libera dall’abbraccio. «Va bene, facciamola finita. Adesso mi devi spiegare cos’è tutta questa storia». «Niente, te l’ho detto. Semplicemente Savanna mi aveva dato questo cucciolo di Labrador, solo che non ero in grado di tenerlo, e così l’ho dato a delle persone che possono tenerlo». «Ma allora a che scopo tutta questa manfrina su Pedro? Non potevi dirle la verità?» Abbasso la testa simulando vergogna. «In realtà l’ho dato a degli zingari». «Zingari?» «Già» «Ma sei matto?» «Perché? Guarda che gli zingari amano i cani. Li trattano meglio dei loro
simili». «Non dico il contrario, Frank, ma, Cristo… zingari!» «Dai, non fare il pedante. Poteva andare peggio, no?» «Tipo?» «Tipo potevo darlo a qualcuno che lo abbandonava per strada». Centro. Lo scrittorucolo si mette a pensarci su. Forse ho ragione, pensa nella sua testa depressa.
14.
La mattina dopo mi sveglio che sono già le nove. Non ho impegni, quindi me la prendo comoda. Mi alzo, infilo la tuta e vado in cucina. Nick Belane comincia come al solito a strusciarsi sulle mie gambe. Ha fame. Prendo le ciotole e gliele riempio. Poi mi metto a fare colazione anch’io. Un’intera confezione di Ringo al cioccolato e una tazzona di caffè doppio. Poi vado in bagno, mi lavo, faccio i bisogni e mi sento come un pupo. Per festeggiare vado a distendermi sul divano e comincio a fare il punto della situazione. Negli ultimi giorni le cose si sono parecchio incasinate e ho bisogno di mettere ordine. La questione cane sta andando a rotoli. Devo assolutamente tornare sull’autostrada e sperare di trovare Cane ancora là, altrimenti mi dovrò inventare qualche altra scusa. Tipo un deragliamento del treno su cui viaggiava. Ma dubito che un evento simile possa are inosservato. Magari lo faccio morire da Pedro prima che prenda il treno. Insomma, qualcosa devo pur fare. Anche perché se lo trovo, poi cosa succede? Fatte le carte lo dovrò abbandonare di nuovo? E per quanto la cosa non mi disturbi poi granché, sento dentro di me qualcosa che non mi piace. Un’incertezza che stona. Meglio are oltre. Prima devo pensare a Festa. Devo andare a vendergli l’informazione su Spritz. Farà salti di gioia. Ne sarà entusiasta. Di Festa, francamente non me ne frega un cazzo, così come in fin dei conti di Spritz, ma l’idea della vendetta nei confronti di Anna mi scalda il cuore e le viscere. Decido di farlo oggi stesso. Mi vesto, prendo la macchina e parto alla volta del municipio. Quando ci arrivo, trovo un caos di macchine. Si sta celebrando un matrimonio civile. Tra la folla, scorgo anche Diego, il mio amico poliziotto. «Ciao Frank, che ci fai qua?» «Lavoro» taglio corto.
«Sempre a lavorare sul caso Festa?» sogghigna indicando il municipio con un cenno del capo. «No, barbosi comunicati, questa volta». Non voglio coinvolgerlo nel mio nuovo piano. «Ma chi si sta sposando?» chiedo. «Il portaborse di Festa» e mi strizza l’occhio. «Vorrai mica dire quello…» «Proprio lui». «Ma mi avevi detto che era…» «Bi, caro Frank. Bi.» «Che mondo di merda» impreco, e mi allontano con la nausea in gola. Salgo le scale e arrivo nell’ufficio di Festa. La segretaria mi chiede di attendere e mi annuncia. È lui stesso a venire alla porta. Sfoggia un sorriso da politico di serie A. «Frank, che sorpresa» e mi stringe la mano. «Salve Signor Festa». «Chiamami Marcello, Frank, e soprattutto dammi del tu. Non amo le formalità». «Come vuoi, Marcello». «Avanti, entra, e dimmi cosa ti porta qua». Entro e mi siedo sulla soffice poltrona di fronte alla scrivania. Festa prende il suo posto dall’altra parte e riprende a fumare un sigaro toscano che aveva lasciato a metà. «Una notizia che potrebbe interessarle». «Mh!» fa Festa «Sempre utili le notizie». «Si tratta di qualcosa che potrebbe aiutarla alle prossime elezioni».
«Dici? Mi sembra interessante». «E lo è. Riguarda il suo concorrente». «Spritz?» «Proprio lui». Festa si mette a ridere di gusto. «Quel povero idiota non riconoscerebbe un buco neppure se ci cascasse dentro». «Non lo sottovaluterei». «Oh, no di certo. Mai sottovalutato nessuno in vita mia. Sai, a volte è proprio dai più idioti che ti vengono le sorprese più grandi». «Be’ ho una notizia su Spritz che potrebbe metterlo assai in cattiva luce» sparo. Festa si fa improvvisamente serio. Non l’ho mia visto così. «E quindi sei venuto qua per vendermi questa notizia bomba pensando che io non avrei chiesto di meglio?» «In un certo senso. Sarebbe qualcosa che potrebbe metterlo in ginocchio di fronte al suo elettorato cattolico. Una tresca con Anna, la mia ex». Festa spegne il sigaro con cura, poi si sporge in avanti e appoggia gli avambracci sulla scrivania. «Frank, cosa ti fa pensare che io sia il tipo da usare la merda per sconfiggere i miei avversari? Ti dò quest’impressione?» Mi sento improvvisamente a disagio. «No, solo credevo…» «E hai creduto male. Non l’ho mia fatto in vita mia né mai lo farò». «Ma Spritz…»
«Sì, lo so, Spritz ti ha incaricato di scavare nel torbido della mia vita». Rimango di sasso. «Come fai a saperlo?» «Cosa credi, Frank? Ho anch’io i miei Diego alla questura». «Allora saprà anche che non ho rivelato nulla a Spritz della sua faccenda col ragazzo». «Certo che lo so. E te ne sono grato. Sai, quando l’ho saputo, ho pensato che fossi proprio una persona perbene. Ma ora ti ritrovo qua a vendermi fango sul mio avversario. Che dovrei pensare di te?» Chino la testa vergognandomi. Questa volta sul serio. Festa allunga una mano e la posa sulla mia. «Ragazzo mio, non si fa così. Non si va da nessuna parte in questo modo. Io sono arrivato dove sono combattendo sempre con onestà. E anche quando sono stato tradito da qualcuno, non ho mai pensato alla vendetta. Mi sono rimboccato le maniche e ho trovato altre persone con le quali valesse la pena combattere in questa vita del cavolo. Pensi davvero che rovinando Spritz e Anna sarai finalmente felice? Credi che la vendetta ti renderà libero?» «Non lo so, ma ci sto provando». «E lo fai nel modo sbagliato. Ascoltami. Torna a casa. Fatti una doccia fredda. Trovati una brava ragazza e vivi la tua vita. Magari prenditi pure un cane». Lo guardo. «Io ce l’avevo un cane» dico.
15.
Steso sul divano, guardo il faccione di tre quarti di Charles Bukowski. Nick Belane si è acciambellato sulla mia pancia e dorme profondamente al ritmo del mio respiro. Emetto un sospiro di sfinimento. La mia vita si sta sfaldando. Tra il problema di Cane e Festa sta andando tutto a rotoli. L’unica cosa che mi tiene ancora in piedi è la cena con Savanna. È per stasera, e non vedo l’ora. Sì, perché trombarmi quella donna è l’unica possibilità che mi resta di dare un senso a tutti questi giorni dissoluti. Oggi, dopo aver incontrato Festa, sono andato in autostrada a cercare Cane. Ma non l’ho trovato. Neppure la cinghia. Evidentemente qualcuno l’ha raccolto, oppure è riuscito a liberarsi dal guardrail e a scappare. Nel qual caso, quasi certamente è morto. Cosa vuoi che ne sappia un cucciolo di sopravvivenza? E sento di nuovo quella cosa che non va né su né giù. Ho chiamato Mosetti, per raccontargli del fallimento con Festa. Era contento. Mi ha detto che è un grand’uomo e che forse mi ha salvato la vita. Addirittura. Il solito scrittorucolo esagerato. Ad ogni modo ha detto che alle elezioni voterà per lui. Chissà, forse lo farò pure io. Guardo l’orologio. Sono le sei del pomeriggio. Sposto con delicatezza Nick Belane e mi alzo per andare a farmi una doccia. Poi mi preparo con calma. La calma degli eroi. Alle otto sono sotto casa di Savanna. Lei si affaccia e mi invita a bere un aperitivo su da lei. Salgo le scale. In soggiorno la trovo vestita di tutto punto. Ha un vestitino che le fascia i fianchi in una maniera dannatamente sensuale. I capelli sono tutti tirati all’indietro e raccolti in una coda. Il piccolo seno adorna due spalle delicate e larghe. È una meraviglia. Mi invita a sedermi e mi allunga un flûte con del prosecco. Si siede vicino a me e brindiamo. «Come ti va, Frank?»
«Tutto bene, direi. Perché?» «Non lo so. Sei un po’ silenzioso». «Scusami, sto solo pensando a un problema di lavoro da cui non so ancora come uscire». «Posso aiutarti in qualche modo?» «Ne dubito. Comunque grazie». Le mi guarda di traverso, ma non dice nulla. Poi fa: «Come sta Pedro? Sai se ha già imbarcato Cane?» «Non lo so. L’ho sentito ieri e ha detto che stava andando alla stazione per informarsi». Savanna fa una faccia strana. «Non vedo l’ora di rivederlo. A te non manca?» «Chi, Pedro?» «Ma no, scemo. Cane». «Oh, certo, Cane. Be’, un po’ sì, ma siamo stati assieme troppo poco per affezionarmi». «E poi hai sempre Nick Belane, giusto?» «Giusto, io e Nick viviamo alla grande. Ci comprendiamo a vicenda senza aver bisogno di dirci nulla». Poi andiamo a cena. La porto alla Tavernetta, un posto da togliere il fiato, con una vista notturna meravigliosa su un castello e un campo da golf. Savanna ne rimane ammaliata, e penso di essermi guadagnato in quel momento, in un sol colpo, quantomeno del sano sesso orale. Lei prende la tagliata di manzo, mentre io vado su quella di Patanegra. Tutto è perfetto. Il luogo, i nostri abiti, il cibo. La conversazione.
«Grazie Frank, mi hai portato davvero in un posto meraviglioso». «Lo so, te lo meriti tutto» le liscio il pelo indicandola. Lei si guarda, a una mano sul vestito e sorride. «Forse ti ho giudicato male» mi dice. «In che senso?» «Nel senso che mi ero fatta un’idea sbagliata di te. Avevo come l’impressione che tu fossi una carogna». «Grazie». «No, non fraintendermi. Sto solo dicendo che avevi un modo di fare così cinico». «A volte la vita ti porta dove non vorresti». «Questo è vero. Pensa ad esempio a Cane. Chi avrebbe mai detto che sarebbe finito a vivere in Spagna?» Un brivido mi percorre la schiena. «Già» dico. «Proprio strana la vita». «Almeno adesso ha una casa dove si prendono cura di lui» insiste. «E che casa! Pedro ha una tenuta di venti ettari. Potrà scorrazzare libero e felice». «Già, forse è meglio così. Con te sarebbe stato rinchiuso in un appartamento tutto solo, a parte il gatto, in attesa del tuo ritorno alla sera. Mi sa che ci ha guadagnato». Questa storia non è che mi vada giù. «Be’, l’avrei accudito pure io». «Oh, su questo non ho alcun dubbio».
E fa di nuovo quella faccia strana. Finito di cenare, ce ne torniamo a casa. Lei mette su un cd. Dido. Bestemmio dentro di me ma non lo dò a vedere. Ripenso all’avvocato. Chissà se poi gli ho rigato la sua bella macchina da centomila euro. Son soddisfazioni, mica mandorle. Vado verso il banco bar e riempio due bicchieri di brandy. Il brandy stordisce, penso. Poi vado al divano, dove Savanna si è già seduta, tolta le scarpe e raccolto le gambe sotto i glutei. Già me li sogno quei glutei. Me li vedo vibrare sotto la mia spinta poderosa, mentre con le mani gioco con il suo piccolo seno. Sento l’erezione farsi largo, e istintivamente mi sporgo con il busto verso Savanna. Lei mi sorride e si avvicina a sua volta. Sto per baciarla quando lei mi mette una mano sul petto per fermarmi. «Prima devo dirti una cosa» mi fa. «Dimmi» faccio io simulando interesse. La mia mente è da tutta un’altra parte. «Ho un segreto di cui un po’ mi vergogno». «E proprio adesso devi dirmelo? Non possiamo aspettare?» «No, perché riguarda il sesso». Anziché preoccuparmi, sento un formicolio attraversarmi le parti basse. «Ho un modo un po’ particolare di fare l’amore». «Be’, tanto meglio. Non mi sono mai piaciute le donne di marmo». «Solo che come detto mi vergogno». «E che sarà mai? Guarda che io sono un tipo aperto. Con me puoi parlare di tutto in termini di sesso». «Ho una fantasia ricorrente» Magnifico, esulto dentro di me. «Mi piace legare il partner mentre lo faccio». Quasi vengo. Ci vuole un bello sforzo di concentrazione per ricacciare indietro
gli spermatozoi. «Tutto qua?» dico simulando una sorta di delusione. «Sì, tutto qua». «Be’, se a te piace così, piace anche a me. Puoi starne certa». «Quindi non ti disturba essere legato?» «Assolutamente no». Savanna fa di nuovo quella faccia strana. «Neppure al guardrail?» «Cosa…» riesco a dire, prima di essere attraversato da una scossa elettrica dalle punte dei piedi fino all’ultimo dei capelli. Savanna si abbassa e tira fuori da sotto il divano una cinghia da portapacchi. Identica a quella con cui ho legato Cane. Anzi, direi senza ombra di dubbio che è proprio quella. «Io…» cerco di dire qualcosa, ma non mi viene nulla. «Io cosa?» il suo volto è una maschera di odio. Non dico niente. In certe situazioni il silenzio è l’arma migliore. «Come hai potuto?» Sollevo le spalle e non aggiungo altro. Poi la guardo dritto negli occhi. «Come hai fatto a trovarlo?» «L’ha trovato un brav’uomo sull’autostrada. Mezzo morto di sete. E l’ha portato da noi al canile». Annuisco. «Un brav’uomo che oltretutto conosci» aggiunge.
La guardo sorpreso. «E chi sarebbe?» «Quello che tu chiami lo scrittorucolo». «Giorgio Mosetti?» esclamo. «Proprio lui». «E com’è che lo conosci?» «Non lo conosco, solo che quando ci siamo presentati è rimasto colpito dal mio nome, e mi ha detto di aver conosciuto una Savanna per telefono. Doveva fare un favore ad un amico riguardo, guarda caso, ad un cane da far rientrare dalla Spagna. Ho fatto uno più uno e ho scoperto che lui era nientemeno che il fantomatico Pedro». «Quindi adesso sa tutto pure lui?» «Certo. Quando gli ho raccontato tutta la storia si vergognava da morire. Ha cominciato a chiedermi scusa in tutte le lingue. Compreso lo spagnolo, che tra l’altro non parla. Adesso ti detesta più di me. Dice che ha fatto di tutto per aiutarti, anche per l’altra faccenda delle foto di Spritz con la tua ex, solo perché gli facevi pena, ma che non si sarebbe aspettato di aver a che fare con un simile bastardo». «Ti ha raccontato anche la storia delle foto?» «Certo. Sei proprio una merda». «E del gulash ti ha detto niente?» «Del gulash?» Faccio un gesto vago con la mano. «Lascia stare» dico. Poi faccio un respiro profondo e mi lascio andare contro lo schienale del divano. L’erezione, ovviamente, ormai se n’è andata da un bel po’.
«Quindi credo che non se ne parli di scopare» dico. Savanna diventa tutta rossa di rabbia in faccia e mi fulmina con lo sguardo. «Scopare con un miserabile come te? Preferisco farmi scopare da Mosetti, piuttosto, anche se è grasso e mezzo calvo». «Mosetti. Lo sapevo che non dovevo fidarmi di quell’idiota. Sapevo che avrebbe mandato tutto a puttane». «È un brav’uomo, invece. Ha salvato Cane, non dimenticarlo». «Già, ma ha ucciso me». «Tu ti sei già ucciso da solo, non avevi bisogno della mano di Mosetti». «Forse hai ragione tu» dico guardando il soffitto. Poi mi alzo. «Be’, direi che finisce qua, vero? Penso che sia inutile sperare in una nuova occasione». «Con te? E perché mai dovrei darti un’altra occasione?» «Perché forse non sono come sembro. Tutto qua». Savanna scoppia a ridere. «Vattene, non ti crede nessuno. Sei solo un povero pagliaccio senza palle». Ci penso su, prima di uscire dalla porta. «Forse hai ragione» dico. Poi esco.
16.
Mi sveglio che sono quasi le dieci. Stanotte sono rimasto in piedi fino alle sei del mattino. Troppe cose a frullarmi per la testa. E nessuna voglia di liberarmene. Nick mi ha fatto compagnia come poteva. Ogni tanto s’addormentava. Poi si svegliava e mangiavamo qualcosa assieme. Poi lui tornava a dormire. No, non è stata una bella notte. A dire il vero non è stata neppure una buona giornata, né una buona settimana, né un buon mese. E che dire della vita? Mai come in queste ore mi sono sentito veramente per quello che sono. Una nullità. Mi o una mano sulla faccia come a ripulirla dai pensieri. No, non ci sto. Non mi va di restare qui a commiserarmi e a farmi esami di coscienza. È semplicemente tutta colpa di quel coglione di Mosetti. Se non fosse stato per lui adesso sarei a fare colazione a casa di Savanna, magari staremmo facendo la scopatina del mattino, la più bella. E invece guardami. Prendo dal tavolino il telecomando e mi metto a fare zapping. Tutta merda, come sempre. Spengo il televisore e scaglio il telecomando contro il muro. Nick Belane apre un occhio. Registra l’assenza di pericolo e torna a dormire. Come lo invidio. Perché non posso essere come lui? Poi mi alzo dal divano e vado in cucina a farmi un caffè. Nick Belane, a sorpresa, spalanca entrambi gli occhi, si alza, si stiracchia e mi segue o o. Credo tema io possa fare qualche gesto inconsulto. Non aver paura Nick, non farei mai nulla di estremo. Sono uno senza palle. Proprio come dice Savanna. Già, Savanna. Mi fa male la pancia al solo pensarci. Non dico che avrei potuto innamorarmi di lei, ci conosciamo appena, ma sarebbe stato davvero bello poterla frequentare. Cristo quanto è bella! E invece cosa ho saputo offrirle io? Prendere uno dei suoi cuccioli e abbandonarlo sull’autostrada. Che coglione.
Avrei dovuto sopprimerlo e basta. Accidenti a quell’idiota di Mosetti. Povero scrittorucolo depresso, terrorizzato dalla vita. Proprio come me. Merda. Ha ragione Savanna. Sono senza palle. Già, proprio senza palle. Non riesco più a nascondermelo. Mi sono mascherato per quarant’anni, e alla prima vera sconfitta ho reagito tirando fuori il bastardo che è in me. Tutto qua. Non ho saputo fare altro. Forse un giorno smetterò di mentire a me stesso, ma non è certo questo il momento. Forse quando lo farò, mi renderò conto che della rottura con Anna a demolirmi non è stato tanto il tradimento, quanto lo svelamento dell’illusione in cui vivevo. L’illusione di avere un senso, per il semplice fatto che ero inserito nel contesto delle consuetudini. Lavoro, compagna, e poi famiglia, e figli. Insomma, un altro prodotto di quelle convenzioni rassicuranti a cui tutti o quasi danno il nome di vita. La rottura dello schema mi ha schiacciato, è questa la verità. Mi ha rimesso al mio posto, quello del naufrago in mezzo alla vita vera. Perché l’alternativa io proprio non la conosco. E come potevo reagire se non sbracciando? Ma ora non è tempo. Non mi va di guardarmi nudo dopo una notte insonne. Una notte che, accidenti a me, avrei potuto are con Savanna. Improvvisamente suonano alla porta. Chi cazzo può essere di domenica? Vado ad aprire e mi ritrovo davanti Mosetti. È ingobbito come sempre, ma ha la faccia incazzata. «Posso entrare?» Mi faccio di lato e lo lascio are. «Vedo che ti sei appena alzato» dice indicando il divano con la coperta rovesciata a terra. «E a te che te ne frega?» Eccolo. Il bastardo che torna a galla. «A me niente, ma volevo mettere in chiaro un paio di cose con te prima di non vederti più». «Te ne vai?»
Lui sembra spiazzato. «No che non me ne vado. Semplicemente dopo oggi non avrò più alcun motivo per vederti». «Bene, spara. Mira al cuore, gringo» dico portando una mano al petto. «Bravo, continua così. Continua a fare l’idiota». «Insomma, si può sapere che cazzo vuoi da me?» «Voglio solo capire perché». «Perché? Perché cosa?» «Perché hai fatto quello che hai fatto». «Ti riferisci a Cane?» «Sì, ma anche a Spritz e Anna». «E cosa vuoi sapere? Vuoi sapere se c’ho provato gusto? Se mi sono divertito? Se la mia vita ne ha tratto giovamento?» «Proprio così». Sospiro. Faccio due i indietro e mi lascio andare sul divano. Sono esausto, esausto di tutto. «No, non mi sono divertito. No, la mia vita non ne ha tratto giovamento, anzi. Però sì, per un po’ c’ho provato gusto. È così grave?» Mosetti mi guarda con occhi tristi. L’incazzatura non regge a lungo sui suoi lineamenti. «No, non è grave di per sé». Mi sorprende. Quest’uomo riesce spesso a sorprendermi. E la cosa non mi va giù. «In realtà mi dispiace per te» mi fa.
E lì non ci vedo più. «Chi ti ha chiesto niente? Non sopporto essere commiserato. Tantomeno da un idiota come te». «Non me ne frega un cazzo di quello che pensi di me» sbotta all’improvviso. «Però su una cosa hai ragione: sono un idiota, perché nonostante tutto voglio aiutarti». «Io non ho bisogno del tuo cazzo di aiuto». «Oh, sì che ne hai bisogno». «E poi hai appena detto che non vuoi più vedermi. Quale delle due?» «Si dicono tante cose quando si è incazzati». «E di che tipo di aiuto avrei bisogno?» sparo a bruciapelo. Mosetti esce dalla porta di casa e rientra dopo un attimo con uno scatolone. Dentro c’è qualcosa che si muove. «Non sarà quello che penso, vero?» «Proprio lui». «Neanche per sogno. Scordatelo». «Te lo scordi tu. Adesso te lo tieni e non rompi i coglioni. Ho dovuto discutere ore con Savanna per farmelo dare. Non ne voleva sapere di farlo avere a te. Ha detto che lo avresti mangiato». «È probabile». Mosetti scoppia a ridere. «Dai, non fare lo scemo. Ho promesso a Savanna che saresti stato capace di accudirlo come si deve». «E lei cos’ha detto?»
«Meglio che non te lo dico». «Lo immagino». «Pensa, forse un giorno sarebbe persino disposta a rivederti. Se le dimostri che sei capace di badare a Cane come si deve». «Uh, sono sotto esame, allora?» «In un certo senso». «Non mi piace essere sotto esame. Dì a Savanna che può andare "affanculo"». «Glielo dirò, ma intanto tu fa il bravo e prenditi cura di Cane». «Prima devo avere l’ok da parte di Nick Belane». Mosetti guarda il gatto come se non ne avesse mai visto uno. «Esatto, Mosetti. Uno così non l’hai mai visto». «E pensi che farà storie?» «Non lo so. Appena si sveglia ne parliamo». «Ne parlate?» «Già, io e Nick ne parliamo. Non come intendi tu. Ma in un modo che tu non puoi capire». «Sarà. Comunque adesso io me ne vado». «Era ora». «Rierò domani per vedere cosa hai deciso». «Non vedo l’ora». Mosetti si volta e si avvia alla porta. Esce, e nella stanza cala il silenzio. Dallo scatolone, Cane mi fissa studiandomi. Forse si ricorda di me e di quello che gli ho fatto. Sono bestie stupide, ma hanno memoria. "Fanculo" la memoria. Sai
cosa me ne frega. Sveglio Nick e gli mostro il nuovo arrivato. Lui lo annusa a distanza, ne riconosce l’odore e torna a dormire. Ha approvato, a quanto pare. Tiro fuori Cane dallo scatolone e lo tengo in braccio di fronte alla mia faccia. Lui scodinzola. Non sa far altro. E in quell’istante, tutto mi diventa chiaro. Tutto ciò che devo fare è come una strada diritta illuminata a giorno in una notte senza luna. I dubbi si dissolvono e mi viene da sorridere. Accarezzo Cane e lo metto sul divano accanto a me. Poi vado a prendere la ciotola e la riempio di carne fino all’orlo.
17.
Il giorno dopo, come promesso, quella ciofeca di scrittorucolo è ato da me. Sembrava un ispettore dell’ufficio igiene. Ha controllato tutto. Alla fine ha apprezzato molto quello che ha visto. Avevo preparato una cuccia per Cane, con tanto di copertina soffice. Le sue ciotole erano sempre piene, e lui cresceva felice a vista d’occhio. E come quel giorno, sono ati anche i giorni a seguire. Dopo una settimana mi ha parlato di Savanna. Dentro di me, inutile negarlo, speravo di rivederla prima o poi. A dire il vero era il mio unico obiettivo in quel momento della mia vita. Magari avremmo potuto risolvere le nostre incomprensioni una volta per tutte. Mosetti mi ha detto che era molto felice della piega che avevano preso gli eventi, ma che ancora non si fidava. L’avevo delusa troppo per sperare di avere il suo perdono. Almeno per ora. Ma Mosetti era ottimista. Io ce la mettevo tutta, questo va detto. Dentro di me avevo ormai cominciato a vivere in funzione delle necessità di Cane. Il cibo, l’igiene, le eggiate serali per i bisogni. Ero diventato un padrone perfetto. La cosa è andata avanti per mesi. L’unico a non approvare era Nick Belane. Si domandava quale animale fosse così stupido da aver bisogno di così tante attenzioni. Mosetti aveva nel frattempo imparato ad usare le macchine digitali, e fotografava Cane, che continuava a crescere felice e in salute, per portare le foto a Savanna. In quei giorni, venni a sapere che la ragazza si stava ammorbidendo. I risultati parlavano per me, e Mosetti mi disse che un giorno alla ragazza sarebbe piaciuto poter venire a trovare Cane di persona. Gli dissi che niente mi avrebbe reso più felice. Così Mosetti ha organizzato la cosa, e mi ha dato appuntamento per le sette di sera. Con Savanna. Ho messo in ordine tutta la casa, lavato Cane fino quasi a consumargli il pelo, e provato inutilmente a pettinare Nick Belane. Mi sentivo nervoso come se avessi dovuto sostenere un’ispezione del Ministero.
Alle sette in punto suona il camlo. Vado ad aprire con Cane al mio fianco, come gli ho insegnato a stare. Mi appare davanti Savanna. Bellissima. Forse ancora più bella di quanto ricordassi. Il broncio le dà un tocco che la rende irresistibile. Poco dietro, scorgo Mosetti. Sta sorridendo. Si vede che è felice. Vai a sapere, magari è vero che ci tiene a me. «Ciao» dice Savanna. «Ciao» rispondo io. Mi sento impacciato e intimidito. «E questo è Cane» dice lei. Il broncio non resiste sulle sue labbra, che si aprono in un sorriso bello come una rosa. Poi si abbassa e prende ad accarezzarlo. Cane non si fa pregare. Comincia a scodinzolare e a saltare in tondo felice come non mai. Dal divano, Nick Belane apre un occhio. Poi lo richiude. Mi è parso di vedere che scuotesse la testa, ma non ne sono sicuro. «Avanti, entrate» dico per uscire dall’imbarazzo. Savanna e lo scrittore mi seguono in soggiorno. La casa è linda e ordinata come una di quelle da esposizione. «Vedo che sei sistemato proprio bene» dice Savanna, ando un dito su una mensola. Non c’è un filo di polvere. «Diciamo che sto cercando di rimettermi in riga» dico. «A quanto pare ci stai riuscendo». « Ci sta riuscendo eccome» interviene Mosetti. «L’ho visto cambiare giorno per giorno. Sta tornando il vero Frank». Il vero Frank. Un po’ storco il naso, perché io non lo so ancora chi sia il vero Frank. Ma sorvolo. «Vedo che Cane è cresciuto un sacco» dice Savanna «e mi sembra in ottima salute». Come se Cane avesse capito le parole della donna, mi si avvicina e mi lecca una
mano. Savanna sorride compiaciuta. «E questo è Nick Belane» dice avvicinandosi al divano. Nick apre ancora un occhio e studia Savanna. Non gli deve andare molto a genio, perché appena lei prova ad accarezzarlo, lui, lentamente, si alza e si distende un metro più in là. Savanna un po’ ci rimane male. È lei l’amica degli animali, quindi non riesce facilmente ad accettare che un animale la eviti. Ma non conosce Nick Belane. Poi si volta verso di me e mi sorride. «Sai, ho pensato tanto a te in questo periodo, e mi sono resa conto di cosa hai ato. La fine della tua storia con Anna, il tradimento, Spritz. Insomma, quello che sto cercando di dirti è che ho compreso il tuo atteggiamento. E quindi non sono più così arrabbiata con te. Adesso con Cane mi stai dimostrando che in quel periodo eri solo vittima degli accadimenti, e in situazioni del genere, tutti noi tendiamo a fare cose di cui poi ci pentiamo». Un discorso niente male, se non fosse che mi fa sentire un po’ come un pazzo al centro di igiene mentale che sta per essere rimesso in libertà. «Senti Savanna, non serve che dici niente. Ho fatto delle cazzate orribili, lo so. Ero sconvolto da tutto. Il mondo mi era crollato addosso, e lo trovavo dannatamente ingiusto. Ma come!, mi dicevo, ho sempre fatto il bravo, la cosa giusta, ho aiutato gli altri, sono stato sempre corretto, e poi la vita mi si rivolta contro. Mi dispiace se ti ho fatto soffrire, e mi dispiace per aver fatto soffrire Cane, che poi non c’entrava proprio per nulla. Ma ora so cosa devo fare». Savanna sorride con quel suo sorriso meraviglioso. Mosetti la segue a ruota, anche se il suo sorriso è assai meno affascinante, e le spalle curve non aiutano. «Senti:» le faccio «che ne dite se vi invito a cena come prova del mio pentimento? Solo noi tre». Savanna guarda Mosetti, che annuisce entusiasta. «D’accordo, andata» dice. «Bene! Allora facciamo sabato sera. Vi porto a mangiare dal mio amico
Filippo». «E chi è?» chiede Mosetti. «È un cinese».
18.
Filippo è contentissimo che abbia scelto proprio il suo ristorante per fare quella cena. Gli ho spiegato un po’ la situazione e la particolarità dell’occasione. E lui si è commosso. Abbiamo definito assieme il menù, un menù speciale. E Filippo non sta nella pelle in attesa di dimostrare le sue abilità culinarie. Specialità che di solito non ha mai occasione di proporre ai suoi clienti, soprattutto perché mai richieste. Non è una novità che un ristorante etnico viva su quei tre o quattro piatti standard. Anche lì, la gente, è come omologata. Sono ato a prendere Savanna e Mosetti e li ho portati al ristorante. Filippo ci ha riservato la saletta privè, così possiamo starcene per conto nostro in assoluto relax e pace. «Bello questo posto» dice Mosetti guardandosi attorno. «Sì, proprio carino» rincara Savanna. Si vede che sono felici. È come se stasera si completasse una loro opera di bonifica morale. Prendo la birra cinese e la verso a tutti. Nessuno si oppone. Stasera si festeggia. «Dimmi Frank» mi chiede Mosetti, «adesso cosa pensi di fare per il lavoro?» «Mi sto muovendo in più direzioni. Ho una proposta da un’emittente televisiva e da una radio, per seguire l’informazione locale. Non è proprio il massimo, ma è meglio di niente». «Spero continuerai a gestire i nostri comunicati stampa» fa Savanna. «Io ne sarei contento, solo pensavo che non mi volessi più». «Perché no? Adesso che sei tornato ad essere il vecchio Frank».
Anche lei con questa storia del vecchio Frank. Che ne sanno loro del vecchio Frank? Mi hanno conosciuto entrambi come il nuovo Frank, lo sbandato e bastardo. Eppure sembra che dentro di loro ci sia già un’immagine precostituita, un insieme di coordinate di come debba essere questo Frank. E la cosa proprio non mi va giù. Poi mi rendo conto che la maggior parte della gente è così. Ha bisogno di tratteggiare i tuoi confini e i tuoi lineamenti per rassicurarsi. Pensarti buono, amorevole, altruista, gentile li fa sentire al sicuro. Bene, mi dico. Se è quello che vogliono, avranno proprio il vecchio Frank. Non li deluderò. Né deluderò più me stesso. Faccio un cenno a Filippo. Significa che può cominciare a portare i piatti in tavola. Arriva con un vassoio con un meraviglioso spezzatino di carne tutto decorato con un sacco di fiori e verdure. Si presenta a meraviglia. «Ha un profumo delizioso» fa Savanna leccandosi le labbra. Filippo gongola. «Cos’è chiede Mosetti?» Filippo sorride e agita una mano per aria. «Oh, no, no, niente dile. Licetta a solplesa solo pel voi, amici del mio amico Flank». Gli sorrido e gli do una pacca sulla spalla. «E bravo il mio Filippo. Come detto, questa è una cena in onore del mio ritorno alla vita. Quindi il vostro compito è avere fiducia in me. Pensate di riuscirci?» Mosetti e Savanna annuiscono sorridendo. «E poi questo spezzatino è troppo buono per perdersi in domande. Poi però voglio la ricetta» dice Savanna. «Siculo!» esclama felice Filippo. Mangiamo tutti di gusto, e in un certo senso, per un istante, mi sento legato a queste due persone sedute a tavola con me. Anche se in modo diverso, hanno
cercato di farmi del bene, o meglio, di riportarmi dalla parte del bene. Devo ammettere che tutto questo mi rende un po’ nervoso. Non sono ancora certo di dove mi trovo, di quali siano i reali connotati della mia anima, se mai ne ho avuta una, visto che non ci credo. Ma la cena è deliziosa, e il mio pensiero va a Nick Belane, stravaccato sul divano a non fare un cazzo tutto il giorno, a pensare solo a mangiare e dormire. Una vita meravigliosa. E allora mi sento bene come non mai. Sento le papille inebriate dal sapore vagamente aspro della carne, le braccia e le gambe toniche, come una sensazione di pienezza. Ed è una cosa che mi capita per la prima volta. Pieno di me, forse come non lo sono mai stato. Finito di mangiare, Savanna beve un sorso di birra e si pulisce le bellissime labbra. Si volta verso di me e mi sorride. In un modo inequivocabile. Sono rientrato nel suo cerchio della fiducia. Un cerchio ristretto e accogliente, fatto di pelle vellutata e capelli biondi. Oggi sciolti, domani chissà. Poi guardo Mosetti, lo scrittorucolo, come l’ho chiamato io in tutto questo tempo. Ho letto i suoi libri, tutti quanti, e di certo non è un gran scrittore. Ma ha dalla sua una bontà d’animo invidiabile. Il fatto è che in lui è innata, e nessuno può mutarla. Non è come è stato per me. E come lo è ancora, in fondo. «Una delle migliori cene in assoluto» fa Savanna. Mosetti annuisce a sua volta. «Adesso però voglio la ricetta». Chiamo Filippo e gli indico il vassoio vuoto. «I signori vogliono il segreto della tua arte». Filippo sorride come un bambino felice. «Gou!» dice «Mio piatto plefelito». «Gou?» chiede Mosetti. Io annuisco. Guardo Savanna e vedo che sta sbiancando. Non dico nulla. «Un cane?» riesce solo a dire. Filippo scuote la testa sorridendo.
«No bella signola, non un gou… Gou!». Ed è in quell’istante che anche Mosetti realizza. Mi guarda come spaesato. Poi guarda Savanna come a cercare qualcosa, un appiglio, una ciambella di salvataggio. Prima di cominciare a vomitare. E uno tira l’altra, in un coro di spruzzi che inonda tutta la tavola, con pezzetti di Cane che vanno ad imbrattare la tovaglia. Come se niente fosse, mi alzo, tiro fuori i soldi e pago Filippo. Il cinese è smarrito. Non capisce. «Tranquillo Filippo, sono solo allergici. Non è colpa tua. La cena era davvero ottima. Tieni, questi sono per te. Tieni il resto». Poi me ne vado. Lungo la strada abbasso il finestrino e godo dell’aria tiepida di inizio estate. Mi sento bene. Di quella pienezza che ormai mi accompagna da qualche ora. È la pienezza della consapevolezza di me. Arrivo a casa e trovo Nick nella sua solita posizione. Sembra non essersi mosso da quando è nato. Con un occhio solo mi guarda mentre prendo due delle quattro ciotole e le getto nelle immondizie. Nick Belane chiude l’occhio in segno di approvazione. Missione compiuta. Niente più scodinzolii in questa casa. Qua c’è spazio solo per gatti. Niente più eggiate serali per pisciare. Né bagnetti pieni di peli. Né sbavamenti insopportabili. Basta ruota del criceto. Qua si vive in silenzio e con il minimo sforzo. Tutto il resto può restarsene là fuori a fare le sue scelte sconclusionate. A correggere la morale. Io la mia scelta l’ho fatta, ed è una scelta definitiva. Ora so finalmente chi sono. Un gatto. Un bastardo. Chiamatemi Frank.
Grazie,
alla mia famiglia, che persevera nello starmi vicino, nonostante io perseveri nel detestarla,
ad Andrea che, da buon animo canino, scodinzola, e oltretutto ha la brutta abitudine di volermi bene,
a Maja. E non serve aggiungere altro,
a Valentina del Cuore, che, non solo ha un cane, un pappagallo e tre canarini, ma ha pure la cattiva abitudine di correggermi le bozze,
a tutti quelli che amano i gatti… ma sì, dai, anche i cani (ogni tanto il vecchio Frank mi sfugge di mano. Merda),
e soprattutto a Sara, che è un gatto, proprio come me.
Frank
L’Autore
Giorgio Mosetti è nato a Gorizia nel 1966. Quanto basta per esserci.
DigiLibris
DigiLibris Creazione ebook a cura di Moriano Selene per conto di La Caravella Editrice s.a.s. www.digilibris.it