Valerio Moschetti
RACCONTI DI MARE
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Smashwords Edition Copyright 2012 Valerio Moschetti
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1° Racconto: La Contessa Spreafico
In quel periodo ero imbarcato su una bettolina minore della Marina Militare, di base a Messina. Si era quindici di equipaggio, contando Lilly, una cagnetta randagia che si era imbarcata all'ultimo istante prima che lasciassimo l'ormeggio, una mattina di freddo inverno, forse convinta che la nostra rotta la portasse verso climi tropicali ed infinite riserve di crocchette. Il comandante, Filippo Aricò, ci ordinò di filarla a mare, perché a bordo non poteva assolutamente esserci un cane. Ma non ci credeva neanche lui a quello che diceva e subito dopo, appena preso il largo con la nave, chiese al cuoco qualche avanzo di carne per rifocillarla. Lilly divenne la mascotte di tutti noi ed era sempre la prima a scendere a terra, come la erella veniva posata in banchina. Seguiva le operazioni di ormeggio con grande attenzione, mentre quando si salpava si accucciava a poppa, tra le cime arrotolate, lasciando che i suoi marinai si occuero delle operazioni di bordo. Aveva una ione sfrenata per il cuoco, lo stimava profondamente. Era cosciente del fatto che il cibo ava comunque per le sue mani e non c'era mattina che non lo aspettasse, scondizolante, davanti alla porta della cucina. Faceva una vita da regina, a bordo, ed era coccolata da tutti. E quella notte, mentre navigavamo verso l'isola di Marettimo per il solito rifornimento settimanale d'acqua, fiutava l'aria cercando profumi conosciuti. Andare a Marettimo in quella stagione estiva, come andare a Favignana, era per tutti noi una grande festa. L'isola era colma di turisti, soprattutto stranieri, ed arrivare portando il bene più prezioso, l'acqua, vestiti da marinaio, con i vent'anni nelle gambe e non solo, ci dava un entusiasmo senza pari.
In banchina ci aspettavano sempre curiosi e pescatori, macchine fotografiche che riprendevano le operazioni di sbarco delle manichette per l'acqua e spesso alla fine dell'ormeggio si sentiva un applauso collettivo dei presenti a quella che sembrava una rappresentazione organizzata dalla Pro-Loco. Non lo nego, ci sentivamo un pò parte di un set cinematografico, e la cosa ci rendeva frizzanti. Anche qualche macchia di unto sulle magliette bianche dava maggior credito alle operazioni. La visita a Marettimo era però particolare. A ridosso del porto, con le finestre che davano sulla nera scogliera lavica contrastata da una candida sabbia, c'era la Villa Spreafico, una splendida palazzina di tre piani, stile ottocento, leggermente barocca. Tutt'attorno un recinto di oleandri fioriti e fichi d'india la ornavano con i colori tipici della terra sicula. La villa, un tempo abitata dai nobili probabilmente proprietari dell'isola, era ora abitata da una loro discendente, la Contessa Concetta Spreafico di Marettimo, nobile decaduta. Le finanze della sua famiglia si erano esaurite negli anni e lei aveva venduto progressivamente i suoi terreni e gli appartamenti per far fronte alle spese che la casa e la vita le avevano imposto. Ma questo non aveva intaccato il suo stile e la sua grazia, lasciandole inalterato quell'aspetto affascinante ed un pò snob che tanto incantava chi aveva l'occasione di incontrarla. Nonostante le sue nobili origini e la sua classe, amava vestirsi come i giovani di allora, utilizzando ampie gonne a decori floreali, camicette con il pizzo e teneva i lunghi capelli, oramai striati ma non tinti, raccolti in una gonfia treccia adagiata sulla spalla. Ma i suoi occhi, neri come la brace, erano luminosi come lampare nella notte e quando il suo sguardo catturava l'attenzione, non era possibile distoglierlo da lei.
Il suo viso, non più giovane, era una baia sulla quale ogni marinaio sognava di naufragare. E lei, ben cosciente del suo fascino, non faceva nulla per evitare il naufragio delle povere anime. La sua ione per la gioventù faceva si che la sua villa era aperta ad ogni giovane che con il sacco a pelo sbarcasse sull'isola e la sua casa era un caleidoscopio di colori e risate. Sembrava un ostello della gioventù, dove ognuno portava quello che poteva per fare una grigliata, una bella bevuta od una notte di sballo sino al mattino. Ma quando sapeva che la bettolina arrivava al porto, la Contessa Spreafico faceva stendere alle finestre superiori un lenzuolo bianco al cui centro era ricamato lo stemma del suo casato. Si pettinava con cura i capelli e li agghindava con fiori di oleandro. Metteva una splendida gonna a larghe balze, dalla quale traspariva una sottoveste di pizzo candido. Poi indossava una camicetta che le lasciava respiro al seno prorompente, ponendo nella fessura una rosa rossa. Seguiva da lontano le operazioni di scarico dell'acqua e quando, dopo una abbondante ora, tutto sembrava volgere al termine, si incamminava verso il porto, seguita dal suo fedele alano, ultimo vero simbolo della nobiltà di un tempo. Noi ci si indaffarava a completare il rifornimento, adocchiando le ragazze in banchina che con sorrisi ammiccanti dimostravano le loro simpatie. La sera cominciava ad avanzare ed una volta terminato il lavoro la notte era tutta nostra. Il comandante dirigeva le operazioni sbirciando di tanto in tanto verso la Villa. Non era più un ragazzo neanche lui ma il suo verace sangue siculo lo manteneva vigile ed attento.
E quel sangue, striato di blu da parte di madre, lo attirava inevitabilmente verso la contessa. Quando tutto sembrava sistemato, abbandonava il suo posto e scendeva in cabina. Metteva l'uniforme più elegante in sua dotazione e prendeva dall'armadietto un mazzo di fiori acquistato il giorno precedente. Controllava dall'oblò i movimenti nei pressi della Villa e quando capiva che la contessa si avviava verso il porto usciva. Quasi a completamento di una scena cinematografica d'altri tempi, la Contessa varcava l'ingresso del porto, seguita dal fedele alano e da uno stuolo di ragazzi fricchettoni mentre il Comandante Filippo lasciava la nave, con il dovuto saluto militare alla bandiera italiana. La sera era oramai prossima e l'incontro era carico di tensione e ione. I loro occhi si incontravano in un sorriso, mentre con un leggero inchino Aricò le baciava, senza sfiorarla, la mano. Lei, rivolgendosi verso la sua casa, ci invitava per la cena a festeggiare con i suoi giovani ospiti. Era incredibile come quella scena, perpetuata più volte nell'estate, fosse sempre fonte di così tanta emozione. Quasi un rituale, magico e profondo, che preparava ad una notte di festa. E mentre lui le porgeva, sorridendole, i fiori, accettava l'invito a condizione di pensare noi al cibo e alle bevande. Acconsentendo, la Contessa prendeva la mano del Comandante e si incamminavano verso la villa, mentre noi ed i ragazzi del posto iniziavamo a fare conoscenza, senza formali preamboli. La notte poi era un vero baccanale, il vino ed il resto trasformavano la festa in quello che oggi noi chiamiamo un rave party. Un flebile lume nell'ultima stanza al piano più alto ci segnalava che il Comandante e la sua Contessa si amavano in quella calda notte estiva.
Ma nessuno di noi, a quel punto, era in grado di farci caso.
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2° Racconto: Lilly
Lilly era una biondina con gli occhi color mandorla ed un ciuffo chiaro che le scendeva tra gli occhi. Tutte le volte che arrivavamo in porto con la nave ci aspettava in banchina, camminando da un estremo all'altro sino a quando gli ormeggi non erano saldamente fissati alle bitte e la erella non era stata calata a terra. Allora si metteva davanti al primo scalino ad aspettare il marinaio di guardia per salutarlo con tutto l'affetto di cui era capace ma di salire a bordo non se ne parlava nemmeno, da quando il comandante in modo assolutamente perentorio aveva detto, urlando contro di lei: "Su questa nave non salirà mai nessun cane". Ma lei paziente ci aspettava ogni volta, scodinzolando festosa come solo i cani sanno fare e per tutti noi era il miglior benvenuto che potessimo immaginare. Il cuoco aveva conservato i ritagli della carne avanzati in navigazione e lei, con impaziente attesa, scodinzolava ed annuiva, mentre lui li trasferiva dalla carta alla ciotola che gli avevamo riservato. Poi, una volta sazia, si sedeva con la coda simile ad un piumino elegantemente accostata su di un fianco e ci guardava uno ad uno, mentre armeggiavamo con le manovre di poppa, quasi a farci intendere che ci conosceva tutti, con un saluto. Un pomeriggio d'estate l'eccitazione a bordo era a mille, un gigantesco topone si era abusivamente imbarcato ed era l'oggetto di una caccia serrata con bastoni e mazze improvvisate. Dopo alcuni volteggi sulle balaustre ed una fuga a testa sotto lunga una grossa
cima, il ratto si fiondò giù per la erella cercando scampo sulla banchina. Ma Lilly attenta e veloce come un cobra fece uno scatto repentino azzannandolo al collo, intraprendendo una lotta del cui risultato la sorte non era certa. Capriole, polvere sollevata, squittii e lamenti del cane; con un colpo da maestro la cagnetta spezzò il collo al povero topo che inerte si accasciò a terra. Lilly lo annusò con una certa circospezione, quasi temesse un rigurgito di energia dall'animale e, sicura della sua morte, la pose ai piedi della erella quasi come offerta di riconoscenza. Poi ci guardò dicendoci con lo sguardo, "Ecco, si fa così". L'applauso fu generale, lo spettacolo fu insolito ed eccitante in quel caldo pomeriggio di luglio e lo sguardo di tutti i marinai andarono verso il comandante che dall'alto della tuga aveva anche lui seguito l'incontro. Ci fu un momento di silenzio, dove mille pensieri senza parole si intrecciarono ed il sorriso del buon Aricò fu un assenso che tutti aspettavano, Lilly per prima. "Fatela salire, se lo è meritato". Quasi capisse il linguaggio degli uomini meglio degli uomini stessi il cane sali a bordo, prendendosi le carezze di tutti i marinai, felice come mai era stata nella sua esistenza di cane randagio. ò quella erella per la prima volta quasi fosse una clandestina ma una volta a bordo divenne una regina. Trovò rifugio dietro alcune cime arrotolate ed imparò subito che a bordo era vietato sporcare. Durante le navigazioni aveva un angolo con sabbia e cartoni e mai, neanche una volta tradì quel patto. Quando capiva che presto si sarebbe lasciato il porto scendeva a terra, quasi avesse amici da salutare e poi rientrava rapida prendendo posto a prua, vicino all'argano dove la visuale era ottima. Fiutava il vento tenendo gli occhi socchiusi, quella brezza di mare portava al suo
naso infallibile profumi lontani. Poi una volta in alto mare si accucciava nel suo rifugio aspettando l'ora del pasto. I mesi trascorsero e la sua presenza a bordo divenne talmente importante che il comandante stesso si sincerava ogni volta che fosse salita prima di salpare l'ancora. Una domenica di Pasqua il mare ruggiva con tutta la forza che il vento di maestrale gli aveva donato e rientrare da Ustica verso Messina sembrava un'impresa impossibile. Il comandante vigilava personalmente la rotta in plancia correggendo continuamente i gesti del timoniere. Lilly si contorceva a poppa quasi imitando alcuni marinai a cui il mare regalava solo tormenti. A nessuno di noi venne in mente che in realtà lei non pativa il mal di mare ma stava male a causa di alcuni parassiti che per i cani spesso sono letali. E tra le cure di tanti e le lacrime di molti la piccola Lilly regalò l'ultimo leccata alla mano del marò che piangendo le carezzava il muso. Mentre le onde cercavano di squassare la prora gli ultimi spasmi scossero quel corpo a cui nessuno di noi aveva mancato di dare una carezza. A ridosso del capo il mare si chetò in parte e ci stringemmo attorno a quella creatura in cui ogni nostro cuore aveva riposto un po' di se. Come in un film in cui scorrono i titoli di coda nelle nostre menti si presentarono le immagini felici delle sue corse in banchina, le sere a chiacchierare a poppa carezzandola a pancia all'aria, le sue caccie ad eventuali emuli del primo topo finito male. Fu Michele, il marò cuoco che venne portando con sé una piccola e sfilacciata bandiera tricolore. Senza una parola avvolse Lilly con quel cencio legandola con una piccola sagola. Poi la sollevò, guardando verso il nostromo. Questi estrasse il fischietto di ordinanza e solennemente salutò quella creatura per l'ultima volta,
mentre cadeva a mare avvolta in una vecchia bandiera quasi fosse un eroe. Trattenere le lacrime non riuscì a nessuno ma questo non fu un problema, in mezzo al mare nessuno sapeva. Qualcuno, nei racconti che seguirono in porto, giurò di aver intravisto luccicare gli occhi del comandante, che da quella sera volle una foto di Lilly appesa in mensa ufficiali.
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3° Racconto: Manu e Luca
Manuela aveva appena chiuso la sua valigia viola, regalo di Mirko per la maturità, quando la mamma, dal piano di sotto le urlò, "Le lenti, le hai prese quelle di ricambio?", "Si mamma" disse, riaprendo la valigia e tirandole fuori dal cassetto del comò. Cominciavano le vacanze, la scuola era andata bene, anzi benissimo, matura da 100 su 100 al liceo, era un gran successo. Il suo, poi, non era un Cepu, per capirci. I suoi tornavano, dopo anni, in Liguria ed avevano chesto a Manu di andare ancora una volta con loro. Mirko andava con i suoi, in barca, e lei soffriva il mal di mare. Poi aveva piacere di stare con i genitori, erano solo quindici giorni ed il posto era bello, anche se non conosceva nessuno. Arrivarono che era quasi sera, la pensione era accogliente, vicino al mare. Si sentiva il rumore delle onde dalla finestra della sua camera, ed il profumo di ambra solare e salsedine saliva dal carugio sottostante assieme al vociare dei tanti turisti in strada. Scese a fare una eggiata, intanto che papa e mamma disfavano le valigie, litigando soavemente, come sempre. Si immerse tra la gente che camminava, guardando le vetrine, entrando ed uscendo dai negozi. Svoltò alla piazzetta ed andò verso il mare, guidata dal rumore delle onde. Era
bellissimo, profumato, ed il colore bianco della spuma, quando l'onda si frangeva era addirittura elegante. Vide un gruppo di ragazzi, le sembrava fossero della sua età, Si avvicinò, gli accenti erano un pò delle sue parti, lombardi, un pò piemontesi. Si, erano coetanei, ed anche da come vestivano, scarpe a punta, camice con i rayban appesi la rassicuravano: una bella compagnia, la migliore, visto che lei, lì non conosceva nessuno. Come accade a quell'età, fu naturale fare conoscenza. Tra loro c'era anche qualche ragazzo del posto. Si riconoscevano subito, poco stile, scarpe da ginnastica senza arte ne parte. Paninari, insomma. "Cosa fate, stasera?" chiese Manuela. "Aspettiamo Luca, poi vediamo. Magari andiamo in spiaggia con Marco che suona la chitarra". "Mhh, sai che roba", pensò Manu - Speravo in qualcosa di più magari quel locale che ho visto arrivando oggi, all'inizio del paese. Poi chissà chi è sto Marco, che suona la chitarra. E sto Luca, boh." Chiamò al cellulare Mirko, che era a Porto Santo Stefano, prontO a salpare. "Andiamo in Sardegna, partiamo ora e navighiamo tutta la notte" le disse con la sua bella erre strascicata, che la faceva impazzire, quando la chiamava amore. Sardegna, che invidia. Costa Smeralda, Millionaire... che sballo. altro che chitarra in spiaggia, e magari lattina di birra da far girare. Va beh, viste le facce comunque una canna la si fa pure qui.
Il rombo di una marmitta la distolse dai pensieri, e la voce degli altri, "Eccoli, finalmente. Ciao Luca, ciao Marco". Manu li squadrò subito dalla testa ai piedi. Begli esemplari ruspanti, pensò. Marco aveva i capelli ricci, quelli classici da suonatore di chitarra da spiaggia. Jeans rotti, ma rotti perché consumati, ed una camicia hawaiana. Luca invece,.....mentre lo stava guardando sentì gli occhi di lui che le si posarono addosso. "Ciao, sei appena arrivata vero? Io sono Luca, come ti chiami?". Le allungò la mano, abbronzata, con un braccialetto fatto da uno spago girato due volte, ed un fermaglio ad anello. Mani nervose, e calde. Non identificò, come faceva d'abitudine, le scarpe. Notò il tendine teso, e il dorso del piede abbronzato, con il contorno bianco della scarpa. ed i capelli, neri, che la moto aveva scombinato. Gli occhi arrossati dall'aria, ma neri anche loro come il carbone, e quel profumo di vento e salsedine che sapeva di pulito, ma anche di selvatico. Non riuscì a rispondere, e pensò di togliersi dall'imbarazzo avvicinandosi a lui, per il bacio sulla guancia. Ma quando le fu contro, guancia contro guancia la brezza della sera mischiò i loro capelli, ed anche i loro pensieri. "Manuela, ma chiamami pure Manu, mi chiamano tutti così". Ma con gli occhi le disse "Mi piaci, mamma mia quanto mi piaci". Lui le sorrise "Allora ti chiamo Manuela, cosi ti accorgi che sono io" ma i suoi occhi le stavano dicendo "Cazzo come sei bella, mi piaci da morire". Scesero tutti in spiaggia, come da copione Marco prese la chitarra. La luna fece capolino dalle nuvole per ascoltare anche lei, era una fan di Battisti. E sperava tanto suonassero anche Blue Moon. Vanitosa. Manu si avvicinò a Luca, e di nascosto ne saggiava il profumo. Sapeva di buono, sapeva di quella terra. Poi lui si girò verso di lei, le sorrise. Si guardarono negli occhi. Gli occhi neri di lui si fo con l'azzurro di quelli di lei. Lei guardò le labbra di Luca, che lentamente si posarono sulle sue, per baciarla. Voleva dire qualcosa prima, valutare, capire, spiegare. Ma perché, quella era l'unica cosa che avesse senso fare. Poi Luca la prese per mano, e si allontanarono sulla spiaggia. Si distese a fianco a lei, e la baciò all'infinito, con dolcezza e
ione, sin quando non sentì il corpo di lei sciogliersi contro il suo. "Facciamo il bagno" disse lui. "Ma non ho il costume" disse Manu. "Facciamolo nudi, ci siamo solo noi qui, e la luna." Lei si spogliò e cosi fece Luca. Entrarono nell'acqua ridendo, giocando, abbracciandosi mentre da lontano arrivavano le note della chitarra, portate dal vento leggero. Poi, sdraiati sui sassi ancora tiepidi dal sole del pomeriggio, si accarezzarono l'un l'altro. "Vestiamoci", disse Luca. "Ti porto a vedere le stelle, cosi ci asciughiamo i capelli". " Ma vorrei fare la doccia, e asciugarli con il phon, sennò vengono crespi". Lui rise, mentre metteva i jeans. "Vieni, vieni con me". Salirono sulla moto e presero la strada della collina. La luna venne via con loro, illuminando il cammino. L'odore dei rododendri, dell'eucaliptus, poi gli ulivi ed la brezza in collina. Era incantata Manu, tutto quello che pensava era saltato. Era felice, eccitata, le sembrava di volare, seduta dietro quella moto con le ali ma soprattutto dietro quelle spalle quadrate, massicce. Poggiava la guancia sulla sua maglietta e lo stringeva stretto stretto. Si fermarono in un prato, poggiarono la moto ad un albero. Poi lui la prese per mano e scesero più in basso, dove nessuno li avrebbe visti. Solo la luna e milioni di stelle facevano brillare i loro occhi, mentre baciandosi si toglievano i vestiti. Fecero l'amore, completamente nudi. Lei, sopra di lui, allargò le braccia provando un piacere infinito. L'odore dell'erba, l'odore di lui. E l'odore di lei, erano cosi vicini alla terra, alla natura, all'amore. Della casa di Mirko, di quella Mercedes di suo padre, con i sedili reclinabili motorizzati ed il riscaldamento multizona non restava nulla. Erano come Adamo ed Eva, e quello era il loro paradiso terrestre. Addosso avevano l'unica cosa che conta davvero nella vita, il profumo del loro sudore avuto in dono dal loro piacere profondo. Rimasero cosi a lungo, respirando forte. Abbracciati. Poi si rivestirono, e tornando alla moto, si giurarono amore, quello vero. Quella notte Manu non dormì affatto. Tutto il suo mondo era in discussione. E tutte le cose in cui aveva creduto sino a quel momento. Sarebbe voluta scappare di casa, con lui. Avrebbe
voluto trovarlo sotto casa ad aspettarlo, salire su quella moto, ed iniziare la vita, quella vera, senza catene d'oro, con le fatiche della libertà. E con lui. I quindici giorni volarono, non sentì quasi più Mirko, con mille scuse diverse. Poi, piangendo, ricompose quella valigia viola, per tornare verso la sua Milano. In auto non parlò, immersa nell'I-pod.. La sua musica, l'aveva dimenticata. La sua camera, i suoi bei vestiti. I profumi e le serate a raccontare alle amiche delle vacanza. Tornò anche Mirko. Litigarono, ma poi si ritrovarono. Andarono ai Navigli, lui la portò a mangiare in un locale molto chic. Le regalò una "vera" comprata in Sardegna, quelle di oro lavorato. Tutte intrecciate. Andò a sostituire quella fatta con un nocciolo di pesca grattato contro il muro, che aveva imparato a fare al mare. Al ritorno si fermarono sul Mercedes, e fecero l'amore. Una sera, era già ottobre, suonò il camlo della porta. Andò lei a rispondere, c'era Luca. Rimase un attimo in silenzio, poi disse: "Scendo". Prese l'ascensore, era confusa. Quando lo vide davanti al portone lui le mise le braccia attorno al collo, e la baciò. Lei si lasciò baciare, sentendo l'odore del treno, del viaggio, di quelle scarpe di gomma senza nome. Fecero due i lungo la via, verso al bar dell'angolo. Presero due caffé, molto lunghi, come era loro abitudine. Si parlarono a lungo, ed ogni parola, anche se dolce, se cortese, era come un mattone aggiunto ad un muro, attraverso il quale non riuscivano quasi più a vedersi. Un bip sul telefono di lei fermò il loro dialogo. Lui le disse, cortesemente, leggi pure. Lei si alzò, gli diede un bacio sulle labbra, con la bocca chiusa, e torno verso casa. Una Mercedes bianca, sotto il suo portone, aspettava con il motore
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4° Racconto: Rotta su Pantelleria
Seduto sulla poltroncina del timoniere, chiacchieravo con Michele. Eravamo in rotta verso Pantelleria, notte fonda. Michele era il vero timoniere, io facevo l'ufficiale in terza. Ma stare al timone era la mia ione. Soprattutto la notte, quando l'immensa distesa del mare, scura come la pece, ti dava il senso dello spazio infinito. Michele nella vita di tutti i giorni portava il peschereccio di suo padre ed ora che era sotto naja, marò semplice, non gli sembrava vero di stare seduto al posto di comando, impartendo lui la rotta. Era davvero simpatico, con quel accento messinese marcato, mille aneddoti e racconti avventurosi. In cambio mi chiedeva sempre di raccontargli come era il nord, la grande città. "Voi polentoni lassù, siete speciali" mi diceva sempre. Polentone era il contrapposto a "terrone" che lo infastidiva tanto. E le ore di guardia scorrevano veloci, tra un racconto ed una sigaretta. Il mare era calmo ed una lenta onda lunga faceva beccheggiare la nostra bettolina porta acqua, carica di rifornimento idrico per l'isola così lontana. Al tempo, parliamo degli anni '70, i dissalatori non erano ancora in funzione e le riserve di Pantelleria non erano sufficienti a compensare la richiesta dei turisti. Noi si faceva un viaggio alla settimana, con qualsiasi mare. La nostra nave quando era a pieno carico dava l'impressione di essere un sommergibile in emersione. La parte centrale era quasi a livello del mare e quando questo era agitato le onde spazzavano la coperta coprendola completamente. Ma quella notte, senza luna, il mare era magicamente addormentato e ci cullava con quel suo lento moto ondoso che, a chi non pativa il mal di mare, ricordava una comoda amaca su cui dondolare. Io mi divertivo tenendo d'occhio la bussola e correggevo ogni piccola variazione di rotta, compensando con il timone. Quello è un esercizio che le prime volte riesce difficile ma poi con la pratica è un'operazione quasi istintiva, come tenere in carreggiata un'automobile.
Ad un certo momento Michele mi fece notare che verso ovest la luna stava sorgendo e quella notte era piena, splendidamente luminosa. Molto velocemente fece capolino all'orizzonte, rischiarando la notte buia. I suoi raggi scivolando sulle piccole creste delle onde si infilarono tra le pieghe del mare, per scendere in profondità. La prua della nave, che fendeva l'acqua creando una piccola onda, tutto ad un tratto sembrò illuminata, proprio all'altezza della piccola onda che sollevava. In un attimo dal fondo del mare, su tutta la sua estensione, una insolita luminescenza cominciò a diffondersi, salendo verso la superficie. Era uno spettacolo incantevole, magico, fantastico. Nessun film di Walt Disney aveva mai osato tanto. Io non avevo voce per parlare, tanto ero stupito da questo fenomeno. Michele, saltando sulla poltroncina, esclamò un inequivocabile "minchia!" di stupore. Per qualche istante la nave sembrava sospesa nel vuoto, quasi navigasse nello spazio siderale ed una ipotetica costellazione di milioni e milioni di stelle si stesse avvicinando. Lo spettacolo è difficile da descrivere, ma il contrasto tra la luminosità di quella superficie irregolare che si avvicinava dal basso e la notte buia che si confondeva con il mare era qualcosa che superava ogni immaginazione. E anche Michele, esperto di navigazione notturna molto più di me, ne rimase incantato. Quel movimento, innaturale, quello scambio di prospettive addirittura mi procurarono un certo senso di nausea, perché quella parte luminosa che si avvicinava rappresentava il riferimento. E non era fermo. Tutt'altro. In pochi minuti la superficie del mare sembrò d'argento, ed ogni piccola onda sembrava disegnata con un inchiostro luminoso. La scia che la nave lasciava, a poppa, era un gioco di luci incantevole. E lo sciabordio dell'acqua sulla fiancata era la musica di quel momento. Solo i motori, con il loro sommesso rombo, davano ragione alla realtà. Tutto il resto era un sogno. La nostra nave poteva in quel momento solcare il mare dell'eternità, verso un mondo nuovo. Tutto questo aveva comunque una spiegazione razionale, non meno stupefacente delle mie fantasie. Quella luce era il plancton fluorescente che attratto dalla luce della luna saliva in superficie per riprodursi. La luminosità era il trucco di quei minuscoli organismi per attrarre il
compagno ed i miliardi di individui costituivano quella incantevole meraviglia che ci aveva stupito quella notte. Anche Michele, molto meno attratto dalla poesia di quanto fossi io, si era incantato a quello spettacolo. Nonostante tutte le ore di mare che aveva sostenuto nella sua vita, non aveva mai visto quel fenomeno così accentuato. Allora non esistevano macchine fotografiche digitali e forse la scarsa luminescenza non avrebbe impressionato neanche i moderni cd, non avrebbero catturato quel fenomeno. Ma la mia memoria si e quel ricordo è rimasto vivo come allora anche a distanza di tanti e tanti anni. Rividi quello spettacolo ancora qualche volta, mai così intenso. Poi, l'altra estate, mi ricapitò la stessa situazione, ma in barca a vela. Certo, molto ma molto più attenuato. Temo che anche l'inquinamento negli anni abbia dato il suo contributo a far si che il plancton avesse problemi nella sua riproduzione. Ma forse nei grandi oceani che, purtroppo, mai sono stati nelle mie rotte, tutto questo è rimasto immutato.
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5° Racconto: Caio Mario
"In un vasooo - di porcellanaaaa - c'era rinchiusa una bella cinesinaaaa". Così canticchiava mentre saliva la corta erella che portava a bordo del Magia, sul pontile di Montecarlo. Caio Mario era il suo nome, davvero originale. L'armatore, il proprietario della barca, ce lo aveva presentato come un esperto di nuove tecnologie. Era un suo nipote e l'aspetto baldanzoso e sicuro dava l'idea dell'alto concetto che aveva di se. Il Magia era una splendida imbarcazione d'epoca, con una doppia randa, che quando aveva tutte le vele al vento contava ben sette ali per planare veloce sul
mare. Il suo proprietario, un noto armatore genovese, ci aveva raccomandato di metterla al vento il più possibile. Voleva che tutti ammirassero la sua eleganza e la sua linea, nonché la sua capacità di tenere il mare. Era il simbolo della compagnia di navigazione di cui era a capo ed era degna del suo ruolo. Io avevo da poco finito il militare e quello era il mio primo impiego; nonostante i miei due anni di mare la mia esperienza a vela era davvero scarsa. Sotto naia avevo imparato tanta teoria, sin tanto che ero stato in accademia e qualche tecnica di combattimento per il periodo trascorso al San Marco. Poi tanto mare, ma sulle bettoline porta acqua che nulla avevano da spartire con le bianche vele d'altura. L'armatore aveva quindi assunto un vero vecchio lupo di mare, il comandante Sattalich, di origine slava. Nonostante il suo cognome era un vero se. Assomigliava molto all'ispettore Clouseau, con due baffetti a decoro di un viso molto vispo, nonostante la sua età avanzata. Sempre elegante ed imibile, raffinato ed un po' strafottente; un vero se! Viveva sulle alture di Montecarlo ed aveva una serie di storie sentimentali molto intrigate, sulle quali venni istruito per tempo, prima di fare irrimediabili gaffes. Anche lui alla vista di Caio Mario provò uno strano senso di disagio, come chi si accorge per tempo che da li a poco inizia a piovere. Come fu a bordo iniziò a maneggiare un'insolita apparecchiatura, quella che oggi chiamiamo GPS e che tutti hanno a bordo, ma allora era una vera novità. Cominciò a pontificare che quello era la stella polare del futuro e che senza quella ogni marinaio era un disperso nel mare blu. Il comandante sorrise: aveva ato la sua gioventù navigando sui cargo a vela della compagnia del padre sulle rotte dell'Adriatico e conosceva l'uso del sestante meglio di chiunque altro. Mi diede l'ordine di prepararmi a mollare gli ormeggi perché avremmo fatto rotta verso le Porquerolles. Si era alzato un vento fresco e teso, l'ideale per quella barca. Caio Mario cominciò ad armeggiare con i suoi marchingegni, digitando, premendo pulsanti, cercando di interfacciare il gps con il pilota automatico.
Intanto prendemmo il largo e sospinti da quel bel maestrale puntammo la prora a sud est con le vele gonfie di vento. Dopo qualche ora il mare rinforzò e la barca era decisamente sbandata anche se non dava l'idea di essere a disagio. Sattalich stava al timone sgranocchiando un grissino. Con il suo inconfondibile tono mi chiese: "Un petite verre de vin, si vous plait, Valerio". Era il suo modo per intraprendere un racconto del suo incredibile ato. Buttava di tanto in tanto un'occhiata verso la costa e riusciva in questo modo a tenere la barca in rotta senza neanche guardare la bussola. La sicurezza che infondeva era tale che nonostante le onde spesso traversassero la coperta, noi si stava tranquillamente a chiacchierare. Caio Mario entrava ed usciva, non si capacitava di come il suo Gps non prendesse il segnale. Forse l'antenna non faceva ben contatto, forse le nuvole schermavano il segnale. Fatto sta che in questo sali e scendi concitato, mentre un'onda spaccata dalla prua avvolse la barca, lui perse l'equilibrio e miracolosamente rimase a bordo grazie ad una sartia che si trovò sulla sua caduta. Non fu così fortunato il suo marchingegno diabolico che, senza indugio, si immerse nelle profondità più oscure sparendo rapidamente alla vista. Con lui tutte le convinzioni e le sicurezze di Caio Mario. Fradicio e sconsolato si sedette sulla scaletta che portava sotto coperta, dichiarando che da quel momento non avremmo più avuto la certezza di dove ci si trovasse. Beffardo, sogghignando sotto i baffi, come un vero se, il comandante lo guardò trionfante. "Non c'è problema", disse "io sò esattamente dove siamo....". "Ah si?" rispose Caio Mario, "e dove siamo di grazia?". "Siamo qui", fu l'immediata risposta di Sattalich. Poi si rivolse a me dicendo la mitica frase: "Un petite verre de vin, si vous plait. Puor boire...". Certo, comandante, per bere. Cos'altro ci dobbiamo fare, con un bicchiere di vino?
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Racconto n°6: Immersione in Corsica
Credo siano ati almeno quindici anni eppure il ricordo di quella gita è ancora li, vivo nei miei pensieri ed in quelli del nostro gruppo. Qualcuno ci aveva detto che a Calvi c'era il relitto di uno spitfire, un aereo da guerra, precipitato in mare ed adagiato su uno scoglio ad una profondità non superiore ai trenta metri facilmente raggiungibile con il gommone. Oltre a ciò una guida del posto faceva tariffe assolutamente alla portata per accompagnarti sul posto. L'idea di una breve vacanza in Corsica, con un immersione su un obbiettivo così pregiato fu subito il tema dominante delle nostre riunioni del venerdì sera e per il primo ponte possibile fu fissata la data della partenza. Gianni che aveva innate doti organizzative si interessò di trovare il posto dove alloggiare, gli orari dei traghetti per andare e tornare e tutti quei dettagli che sono indispensabili quando si pensa di muoversi, come nel nostro caso, in una dozzina di persone. Ricordo che ci trovammo eccezionalmente un mercoledì per i dettagli ed il nostro "agente di viaggi" si presentò con una voluminosa cartellina ed un sorriso soddisfatto che faceva presagire belle notizie. Così fu, infatti. Gianni aveva contattato la Corsica Ferry per i traghetti, fissate le prenotazioni, stampato per ognuno un bel programma e, particolare clou della spedizione, contattato personalmente Gerard, la guida, che con un prezzo veramente interessante ci avrebbe ospitato a bordo del suo catamarano in cabine fornite di doccia, ormeggiato proprio nel porto di Calvi. Ci guardammo l'un l'altro negli occhi soddisfatti, era l'occasione per un weekend lungo indimenticabile. La partenza era fissata da Savona per la Corsica alle nove del mattino. Quindi levataccia, viaggio Torino-Savona in auto e poi sul traghetto, tutti a dormire.
Questa era la parola d'ordine e così successe. Piccola variante il mare che, tutt'altro che tranquillo, iniziò da subito a testare lo stomaco dei più. Personalmente non mi accorsi neanche di essere in mare e sprofondai in un sonno dal quale riemersi sei ore dopo, con il disappunto di molti per il fatto che li avevo abbandonati alla balia del beccheggio. Sbarcando a Calvi, visti da lontano, credo sembrassimo l'armata Brancaleone. Ed in una delle sue peggiori uscite. Chi si trascinava, chi inveiva contro il marito per averla coinvolta in quella avventura invece di un regolare fine settimana in Liguria. Ma lo spirito di noi subacquei e sopra ogni cosa il clima trovato sull'isola misero ben presto a tacere ogni recriminazione famigliare. Gianni si mobilitò subito per cercare Gerard, colui che ci avrebbe ospitato nei giorni seguenti. E proprio lui ci venne incontro con un sorriso luminoso e la mano tesa. Era un uomo attorno ai cinquant'anni, brizzolato, indiscutibilmente atletico e con l'aspetto di uno che l'ultimo raffreddore l'aveva preso alle elementari. In perfetto italiano, con un accento lievemente se, ci salutò uno ad uno dandoci il benvenuto sull'isola della bellezza. Le signore, visibilmente affascinate, iniziarono a commentare a riguardo del clima splendido, il viaggio terribile, il profumo delle fioriture, il desiderio di un bagno in mare e cosi via. Cosi dicendo Gerard ci indicò la strada verso la banchina dove era ormeggiato il suo catamarano. Non ci si poteva certo sbagliare, nel porto di Calvi non c'erano sicuramente molti catamarani in grado di possedere 8 cabine con la doccia e quello di Gerard era davvero uno spettacolo. Sulla erella una splendida donna dai lunghi capelli neri, non oltre i trentacinque anni, con un bimbo in braccio ci aspettava mentre sulla banchina altri due ragazzini dai boccoli biondi tentavano di pescare qualche sprovveduto pesce. Io che ho una certa immediatezza nell'inquadrare le situazioni, mi resi conto che eravamo di fronte al sogno di ogni persona che ama il mare: un luogo di incanto, una barca fantastica ed una meravigliosa famiglia. Sinceramente provai anche una profonda ma sana invidia nei confronti di Gerard che a mio parere aveva tutto ciò che di meglio la vita poteva regalare ad un uomo.
Salimmo a bordo, ognuno prese posto nella sua cabina. Il confort era essenziale, d'altronde quella era una barca usata per le immersioni e non uno yacht di lusso, ma sicuramente non ti faceva rimpiangere la stanza di un albergo. Un buon Pastis accompagnato con tranci di baguette coperti da patè de fois ci fece dimenticare il viaggio, il lavoro ed ogni altra amenità della vita continentale. La sera uscimmo tutti a cena fuori con il consiglio imperativo di Gerard di non esagerare con il vino perché l'indomani ci aspettava l'immersione, impegnativa e stancante tra il trasferimento in mare e tutto il resto. Infatti il mattino dopo alle otto eravamo già intenti a caricare le bombole e le attrezzature sul gommone. L'umore era ottimo, il mare si era calmato ed il sole era bello caldo. Non che questo sia di vitale importanza, visto che noi saremmo scesi a trenta metri, ma era importante per le varie consorti che si sarebbero dedicate alla tintarella nella spiaggia antistante il porto. Dopo circa un'ora di gommone raggiungemmo il punto dove calarci e nel giro di pochi minuti si era tutti pronti a scendere in acqua. Un buon gruppo subacqueo si vede dalla rapidità con cui riesce a prepararsi a scendere, senza creare confusione o intralci. E noi in quello eravamo maestri. In acqua poi lo spettacolo si moltiplicò per cento; anemoni di mare, pomodori da scoglio, pesci, saraghi e castagnole. Veramente un parco marino popolarissimo già dai primi metri. Scendendo in profondità, Gerad ci indicò la direzione da prendere ed in un attimo si stagliò di fronte a noi la sagoma del relitto, poggiato su uno scoglio. Sembrava ancora in volo, anche se le alghe e le incrostazioni lo avevano ricoperto. Era uno strano oggetto, in quel mare azzurro e ricco di vita. Eppure la sua forma non stonava con le evoluzioni che i pesci compievano nuotando tra le sue ali, le sue eliche arrugginite. Ma la cosa che ci fece tutti stupire era la carlinga, integra esclusi i vetri, probabilmente rotti nell'impatto con l'acqua, popolata di aragoste rosse come il fuoco. Avevano scelto quel luogo come loro tana e rendevano così il relitto ancor più irreale. Il tempo trascorse in fretta e mi sembrò di essere appena disceso quando Gianni
fece il cenno di iniziare la risalita, seguendo le tabelle di decompressione. Poi, una volta sul gommone, ripetemmo quel provato rituale della vestizione che contraddistingue, come detto prima, un buon gruppo subacqueo. Al rientro ci aspettava la bella moglie di Gerard con una spaghettata talmente invitante che metteva quasi in ombra il suo fascino. Vino locale abbondante ed allegria furono i fogli sui quali scrivemmo il nostro pomeriggio. L'innegabile fascino di quella famiglia ci aveva coinvolti tutti, o quasi. Una delle mogli del gruppo, un po' stizzita dal quadro che si trovava davanti con il quale non poteva competere, non potè trattenersi dall'unico commento negativo che potesse fare "Certo, tutto bello, ma d'inverno vivere su questa barca, con l'umidità che c'è ed il freddo non deve essere una grande cosa". La moglie di Gerard, con un serafico sorriso la guardò e, sporgendosi appenda indicando la collina rispose "Vede quella casa lassù, sulla collina, dove ci sono quei cavalli liberi? Ecco, noi d'inverno viviamo lassù!". Quello fu il tocco finale, nessuno aveva più nulla da obbiettare su quel sogno che un po' tutti, prima o poi ci ha accarezzato ed ora lo si vedeva realizzato in quella bella famiglia corsa.
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E’ un piacere ricevere contatti su: https://www.facebook.com/valemos https://www.smashwords.com/profile/view/vmvalmos Grazie della lettura. *** Note sull’autore:
Valerio Moschetti nasce a Bordighera, Italia, il 22/11/1955 dove vive la sua adolescenza a contatto del mare e della vita di campagna. Molti dei personaggi delle sue storie sono state ispirate dalle persone che ha incontrato. Ruvide, burbere, vere. Ma non si accorge subito della sua ione, scrivere. E’ durante il secondo anno del liceo che la sua insegnante d’italiano, bella come la Anna Magnani, propone alla classe un tema dal titolo provocatorio: Racconta un momento di sport. Un pò per gioco un pò perché quella donna aveva la luce negli occhi, Valerio si abbandona a raccontare una semplice azione di una ipotetica partita di calcio, un corner, che inevitabilmente diventa un goal. E la sua penna scivola tra le righe del protocollo raccontando i personaggi e le loro emozioni con una fluidità ed un sentimento che stupiscono innanzi tutto lui. Prende un voto bellissimo e l’insegnante gli suggerisce di cercare tra le pieghe della sua anima quei racconti, quelle parole. Perché è un peccato lasciarle nascoste nel cuore. La vita lo porta a vivere molte esperienze, a ricominciare tante volte daccapo. Molti anni dopo, quasi per caso, inizia a collaborare con un giornale on-line, Bordighera.net, e trova nell’amore la fonte della sua ispirazione. Come se avesse da sempre aspettato quel momento lascia correre le mani sulla tastiera del computer e vede riempirsi il video di tante storie piene di emozioni, sentimenti. Piacciono, piacciono ai suoi amici, ai lettori del giornale ed anche a qualche critico notoriamente difficile. Piacciono anche a lui ma più di tutto trova nella scrittura il permesso per esprimere la sua essenza, i sentimenti.