a cura di Vincenzo Vizzini
Scala reale
di Diego Di Dio
1.0 giugno2014 ISBN versione ePub: 9788867753932 © 2014 Diego Di Dio Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0 giugno 2014
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Indice
Colophon
Diego Di Dio
Scala reale
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
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Diego Di Dio
Diego Di Dio è nato nel 1985 e vive a Procida. Lettore onnivoro, collezionista di fumetti, si divide tra la scrittura e la ione per l’editoria. Nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro, “È tempo sprecato uccidere i morti” (Dunwich Edizioni), una raccolta di racconti thriller e noir, con prefazione di Barbara Baraldi e postfazione di Andrea Carlo Cappi. Ha pubblicato una trentina di racconti di diverso genere e con differenti editori. Nel tempo si è aggiudicato parecchi premi: premio Mario Casacci (Orme Gialle 2011) con il racconto “La signora”, premio Nero Lab (2012) con il racconto “Troppo bella”, premio “Writers Magazine Italia” (2013) con il racconto “C’è ancora tempo” e, da ultimo, il Nero Premio, con il racconto “Il coltellaio”. È apparso, due volte, in appendice al Giallo Mondadori, con due brevi noir ambientati nella sua isola. Ha pubblicato, in ebook, il thriller sovrannaturale “Condannati a morte” (Milano Nera). Sul secondo versante, collabora da qualche anno come correttore di bozze e editor per case editrici, agenzie letterarie e committenti privati.
1
Napoli, ieri
È un martellare incessante che rimbomba nelle tempie, un pulsare senza sosta che proviene da dentro. Il dolore. Improvviso, penetrante. Quando Vito tenta di aprire gli occhi, lo strazio si fa ancora più intenso, costringendolo a chiuderli di nuovo. Poi ci riprova, digrignando i denti per lo sforzo. Ma prima ancora di vedere, sente. – Fallo scetare. Quella voce. La conosce. Il primo schiaffo arriva, ma lui quasi non se ne accorge. Sbatte le palpebre più volte, finché non apre completamente gli occhi. Il secondo colpo è più duro, e gli trasmette una fitta lungo tutta la mascella. Vito prova a muoversi, ma le mani sono legate dietro la schiena. Così i piedi, immobilizzati a una sedia. La mano che danza davanti ai suoi occhi sta per colpirlo di nuovo. – Basta così. La mano si ferma. Don Pasquale è seduto di fronte a lui, le gambe accavallate, un leggero sorriso stampato sul viso. Tira fuori un pacchetto di Marlboro e si accende una sigaretta. – Sei sveglio? – chiede. – Mi capisci?
Vito si guarda intorno. La stanza in cui si trova è quasi completamente buia. C’è solo una lampadina, in un angolo del soffitto, che getta un cono di luce su di loro. Per il resto è tutto coperto dall’ombra. Odore di olio per motori, di legno, di plastica bruciata. Devono trovarsi in un garage dimesso o un vecchio scantinato. – Ti capisco, Pasquale. Il Don si alza e comincia a gironzolare per la stanza. È sempre elegante e impeccabile, anche quando la situazione non lo richiede. Sorride divertito. – Vito, tu non mi chiami Don e mi dai pure del tu. L’hai sempre fatto. Un altro, al posto tuo, sarebbe già sotto terra. Invece tu sei ancora vivo, e sai perché? – Lo raggiunge, gli getta in faccia una nuvoletta di fumo, poi gli dà un pizzicotto sulla guancia. – Perché tieni una faccia di cazzo che mi piace assaje. Tieni le palle, perché in tutta la Campania non c’è nessuno che si permette di fare quello che fai tu. E per questo non ti ho mai toccato, nonostante tutte le cose brutte che dici in giro su di noi. – Gira il viso alla sua destra, rivolgendosi all’uomo che lo ha colpito. – È vero, Bolscevi’, che questo qua parla sempre male di noi? Il Bolscevico entra nel suo campo visivo. Ha una sigaretta spenta che penzola dalle labbra. Annuisce, guardandolo in cagnesco. Contrariamente al boss, è vestito in modo sciatto e raffazzonato. Ma anche questo contribuisce alla soggezione che riesce a incutere: la luce che si riflette sulla tua testa calva, le spalle larghe e possenti, le braccia ipertrofiche e smaniose. Su un corpo del genere, un abito elegante sarebbe fuori luogo. Si chiama Ivan, ma questo se lo ricordano in pochi. Un capodecina della mafia russa, che ha trovato in questa città arrampicata sul mare il suo posto nel mondo. – Sai, Vito, il mio amico Ivan è incazzuso assaje, e ci sono state tante di quelle volte, che manco ti immagini, in cui l’ho dovuto fermare io, perché lui ti voleva schiattare ‘a capa. A me sei sempre stato simpatico, pure se non porti rispetto. Ma tieni i coglioni, e per questo non ti ho mai fatto niente. Finora. Tira un’ultima boccata, poi lascia cadere a terra la sigaretta e la disintegra con la scarpa. Scompare in un angolo buio della stanza. – Però questa volta hai esagerato. Già hai fatto un sacco di cose che non dovevi fare, e non ti è mai successo niente, ma stavolta hai osato davvero troppo. –
Quando esce dalla tenebra, regge in mano una pinza e un coltello. Li porge al Bolscevico, che li riceve con un sorriso. – Ho saputo che hai parlato con quella puttana di giudice. È vero? Vito osserva gli strumenti nelle mani del russo. Deglutisce. – È vero. Avete fatto saltare in aria il negozio di fronte al mio. Che dovevo fare? Don Pasquale lancia un’occhiata al russo e scuote la testa. Poi si avvicina a lui, dandogli un secondo pizzicotto sulla guancia. – Ma lo vedi che sei proprio scemo? Potevi venire a parlare con noi. Se tutti i soldi non li tenevi adesso, potevamo concederti più tempo. Noi le capiamo certe cose, la sappiamo la crisi che c’è. Se tu paghi, magari pure con qualche giorno di ritardo, noi il negozio non lo tocchiamo. E invece tu che fai? Vai parlare col giudice. – Sospira, contrariato. – Ma che tieni in quella capa? Tu hai una moglie e un figlio. Non pensare solo a te, pensa pure a loro. Moglie e figlio. Adesso il dolore cede il o al rimorso. Il senso di colpa è un mare impietoso, un’onda improvvisa che si solleva a ricoprire ogni cosa. Ha sbagliato, adesso lo capisce. Li ha messi in pericolo. Anche adesso li sta mettendo in pericolo. Ma lui è sempre stato così, non può farci niente. È nella sua natura. Capa tosta, lo chiamava sempre suo padre. È un istinto più forte di lui. Ma loro, sua moglie e suo figlio, non c’entrano niente. Don Pasquale porge la mano al Bolscevico, il quale gli consegna la pinza. – Adesso tu ci devi dire tutto quello che hai detto a quella puttana. – Gioca con l’attrezzo, aprendolo e chiudendolo. – Sennò ti fai male assaje. Vito chiude gli occhi. Per lui è finita, lo sa bene. Non ha scampo. Ma forse può fare qualcosa per salvare la sua famiglia. Ivan il Bolscevico è un animale, ma Don Pasquale resta un uomo d’onore. – Se vi dico cosa ho detto al giudice, promettetemi che lascerete stare la mia famiglia. – Sospira, guarda il Don in quegli occhi chiari e micidiali. – Voglio la
vostra parola, Don Pasquale. Il boss sorride. È la prima volta che Vito gli porta rispetto. Si scambia una rapida occhiata con il russo, poi gli poggia una mano sulla spalla. – Se ci dici tutto quanto, ti do la mia parola. La tua famiglia non la tocco. Vito annuisce, soddisfatto. – Don Pasqua’, il giudice non sa ancora niente. Dopo che avete fatto esplodere il negozio, è vero che ho parlato con il pubblico ministero. Ma abbiamo solo scambiato due chiacchiere, perché di tutto il papiello che dovevo denunciare, non ho detto ancora nulla. – Prende fiato, si morde le labbra. – Ve lo giuro. Don Pasquale strizza gli occhi e riprende a eggiare per la stanza. – Avete preso un appuntamento? Vito annuisce. – Avremmo dovuto vederci domani sera, in un posto sicuro. Me l’avrebbe fatto sapere lei all’ultimo momento. Don Pasqua’, credetemi, in mano non tiene ancora niente. Il Don torreggia di fronte a lui, un dubbio scolpito tra le pieghe della fronte. – È la verità, Vito? – Ve lo giuro, Don. Non giocherei mai con la mia famiglia. – Bolscevi’, tu che dici? – chiede il boss al suo luogotenente. – Secondo te è la verità? Ivan si piazza di fronte a lui, andosi il coltello da una mano all’altra. Gli fa scivolare la lama sulla guancia, poi sull’altra, con un ghigno stampato sul viso. Vito rabbrividisce. Il metallo gli trasmette il freddo fin dentro le ossa. Ma non è solo la lama. È la paura, che sta crescendo piano, come un’eco lontana che diventa sempre più definita. Sta per morire, questo lo sa bene. Ma per la camorra, nessun omicidio è fine a se stesso: ogni punizione deve essere esemplare. E per chi ha la lingua troppo lunga, il supplizio è sempre lo stesso.
– Dice verità – afferma il Bolscevico, fissandolo negli occhi. – Giudice non sa niente. Don Pasquale annuisce soddisfatto. Poi cambia espressione. È una frazione di secondo, un lampo improvviso che a attraverso i suoi occhi azzurri. Adesso il suo sguardo non è più cordiale e sereno, ma deciso e impietoso. – Tagliamoli la lingua. Vito stringe le mani dietro la schiena. Farà male, molto male. – Lascerete stare la mia famiglia? – grida. Don Pasquale e il Bolscevico non rispondono. Il boss lo raggiunge, lo afferra per i capelli e gli strattona indietro la testa. Poi le mani del russo gli spalancano la bocca. Don Pasquale introduce la pinza nella bocca, alla ricerca della lingua, ma Vito continua a strillare. – Lascerete stare la mia famiglia? La lascerete stare? – Statte quieto! – strilla il boss, esasperato. Poi si rivolge al Bolscevico. – Fallo stare zitto. Il pugno che lo colpisce in pieno viso quasi gli stacca la testa dal collo. Il naso esplode in un dolore accecante, e uno stordimento improvviso avvolge ogni senso. Vito sente il sangue zampillare dalle narici, gli occhi riempirsi di lacrime. Vorrebbe strappare quelle funi e fuggire da lì. Ma le palpebre diventano pesanti, gli occhi lottano per chiudersi. Vorrebbe chiederlo un’ultima volta, per averne la certezza assoluta. “Lascerete stare la mia famiglia?”. Ma quando prova ad articolare la domanda, non può più muovere la lingua. Don Pasquale gliela tiene ferma con una pinza, mentre il Bolscevico sta per tagliare. Prima di svenire, Vito sente un’ultima frase. Don Pasquale.
– Adesso ti tagliamo quella lingua lunga e poi ti uccidiamo. E per la tua famiglia… – La voce è deformata da un sorriso. – La parola l’ho data io, ma il Bolscevico può fare quello che vuole. Vito prova a gridare, quando un dolore improvviso gli fa perdere i sensi.
2
Napoli, oggi
– Tocca a te – sibila Ioanna. Il Bolscevico le dedica un’occhiata pensierosa, poi annuisce. Abbassa la testa e solleva le carte dal tavolo, mezzo centimetro appena. Le guarda e riflette, tenendole in bilico fra le dita. Quindi le ripone e s’infila una Lucky Strike tra le labbra. Mi fissa. Gli occhietti piccoli e neri sono due schegge di basalto. – Amore? – sollecita Ioanna. – Zitta – risponde lui, senza degnarla di uno sguardo. I suoi occhi girano attorno al tavolo, poggiandosi sulle facce degli altri giocatori. Il Bolscevico erà. Non ce l’ha, il punto. È un gigante di ghiaccio, con il volto tozzo privo di mimica. Eppure, nelle pieghe del viso, talvolta trova spazio qualche riflesso involontario. Alla mano precedente aveva un full di Q, e la sua palpebra sinistra ha subito un tremito. Sta solo perdendo tempo, adesso. Crede di innervosire gli avversari, ma in mano non ha niente. La palpebra è ferma. – o – dice dopo un po’. Ora tocca a Bruce Lee parlare.
3
Avevo dieci anni, quando mia madre mi portò dal Bolscevico. Scendevamo lungo la Pignasecca. Ricordo il caldo e la sensazione appiccicosa dei vestiti intrisi di sudore. I venditori ambulanti esponevano borse e scarpe taroccate lungo i marciapiedi. I nostri i divoravano i basoli come se non ci fosse un domani. – Signo’, condoglianze – arrivò a dire il pescivendolo. – Grazie – mormorò mia madre, senza rallentare nemmeno quando lui si avvicinò. Ogni tanto lei si fermava e mi accarezzava, tergendomi il sudore dalla fronte con movimenti nervosi. – Non ti preoccupare – diceva. – Mo’ sistemo tutto io, tu non ti preoccupare. Quindi riprendeva la marcia, trascinandomi senza guardarsi intorno. Ogni dieci i una voce sussurrava: – Condoglianze, signo’ – e mia madre, a testa bassa, ringraziava. La scena si ripeté una dozzina di volte, prima che giungessimo a destinazione: una casa seminascosta dentro uno dei vicoli che si diramano da piazza Carità. Seduto sui gradini c’era un uomo sulla quarantina, la barba poco curata, i capelli radi e unti. Si alzò non appena ci vide arrivare. – Condoglianze, signora Carmela – sussurrò, scambiandosi con mamma un bacio sulle guance. – C’è il signor Ivan di sopra? L’altro scosse la testa. – Stanno mangiando. – Voi ditegli che è importante.
Ci sedemmo sui gradini e aspettammo che l’uomo andasse a riferire. Tornò dopo un po’, le labbra distorte in un sorriso quasi sorpreso. – Ha detto che potete salire. Ricordo le scale. Gradini alti che sembravano non finire mai. Ero stanco e non capivo cosa stesse accadendo. Mi appoggiai al corrimano, affannato. Mia madre mi afferrò per un braccio e mi sollevò di peso. – Siamo arrivati. Erano in tre, seduti attorno al tavolo. Appena entrammo ci guardarono con occhi indispettiti, come se avessimo interrotto un rito sacro. Poi il viso del signore seduto a capotavola si sciolse in un’espressione cordiale. – Signora Carmela, che piacere. – Indicò una sedia vuota. – Volete favorire? Mamma scosse la testa e fece un o in avanti. – Don Pasquale, scusate se vi ho interrotto, ma vi devo dire una cosa importante. – Ditemi pure. Mia madre prese fiato e mosse un altro o. – Don Pasquale, e pure voi, signor Ivan – si rivolse al ragazzo calvo che sedeva alla destra del boss, – voi la conoscete la mia situazione. Ieri sono stata al funerale di mio marito. Ieri… ieri… – Si portò le mani al viso e cominciò a singhiozzare. Potevo vedere la sua schiena scossa dai singulti. – Ieri hanno seppellito Vito. Lo so, lo so che teneva la capa tosta, che voleva fare di testa sua. E non sono qua per dire qualcosa, non sono venuta per vendetta. Sto qua solo per la mia creatura. – Si voltò, mi indicò, il viso rigato dalle lacrime. – Quest’anima di Dio non ha fatto niente. Mo’ sta senza padre e ha già pagato. Io lo so che voi siete i signori, e quando decidete che si deve punire, non guardate in faccia a nessuno, però questa creatura tiene dieci anni. È solo un bambino. Non ha fatto… non ha fatto niente. – Scoppiò di nuovo a piangere. – Assunta – comandò Don Pasquale, indirizzando un cenno del capo alla donna grassa che gli sedeva accanto. Lei si alzò e raggiunse mia mamma, porgendole un fazzoletto di stoffa. – Non
piangete, Carme’ – disse. – Pure io sono mamma, vi capisco. Ivan ci guardava con occhi sprezzanti, le labbra stirate in un sorriso di scherno. – Io non ci tengo alla mia vita, ve lo dico veramente – disse mia madre, dopo essersi soffiata il naso. – Tengo solo al mio guaglione, è l’unica cosa che mi resta. La signora tornò a sedersi, e un silenzio teso cadde nella sala da pranzo. – Carmela, io vi ammiro che siete venuta qua, da sola, a casa mia. – Don Pasquale si lasciò scivolare nella sedia e si portò le mani allacciate sopra la pancia. – Però voi sapete che vostro marito ha fatto quello che non doveva fare, e per questo ieri siete stata al suo funerale. Mo’, voi mi chiedete di perdonare, ma non sono io che decido. Il torto, come sapete, non l’ho subito io. – Lanciò un’occhiata a Ivan. – Bolscevi’, tu che dici? Il quartiere è tuo. Che dobbiamo fare con questa bella signora? Ivan indirizzò a mia madre un altro ghigno traboccante disprezzo. Poi si alzò e ci venne vicino. – Da parti mie, sapete che si dice? – Aveva un forte accento russo, ancora incespicava con l’italiano. – Doppio acquisto, doppio prezzo. Tu essere bella signora, veramente bella. Ma tuo marito ha fatto a me uno… uno… come si dice? – Uno sgarro, bolscevi’ – intervenne Pasquale. – Uno sgarro. – Giusto, sgarro. Tu adesso venuta qua per salvare bambino e negozio, vero? – Mia madre annuì. – Va bene, ma doppio acquisto, doppio prezzo. Quindi voi pagare soldi in tempo ogni mese, più un’altra cosa. – Con due dita sollevò il mento di mia madre e piantò gli occhi neri dentro i suoi. – Un regalo per me, diciamo così. – Parlate chiaro – modulò lei, la voce quasi rotta. Il Bolscevico la squadrò. La leggera piega delle labbra era il preludio dell’ennesimo sorriso. – Devo dire davanti a bambino?
4
Bruce Lee si toglie la gomma dalla bocca e la avvolge in un fazzolettino. Poi ne scarta un’altra e prende a ruminare di nuovo. Mastica, sospira, poi mastica più lentamente. Il rilassamento del corpo è un termometro che misura la sua sicurezza, e mi suggerisce quale punto può avere in mano. Allunga una colonna di fiches al centro del tavolo. – Punto. Mille. Sta in Italia da meno anni del Bolscevico, però ha imparato presto la lingua. Ma si esprime a monosillabi, sempre. Anche quando picchia a sangue i poveri disgraziati che non possono pagare. – Azzo! – esclama Don Pasquale, alla sua sinistra. – Il cinese stasera punta forte, eh? – Bruce Lee non risponde, limitandosi a masticare. – Cine’, io te lo devo dire, però tu non ti pigliare collera. Al paese tuo sapete pure fare a mazzate, ma le carte non sono cosa vostra. – Afferra tre colonne di fiches e le allunga sul tavolo. – Io rilancio di duemila. E siamo a tremila polpette. – Alza lo sguardo nella mia direzione. – Mimmo, tocca a te. Don Pasquale. Il suo viso è una ragnatela di rughe. I capelli e i baffi brizzolati lo fanno assomigliare a un cordiale vecchietto. Penserei questo di lui, se non sapessi che quelle labbra hanno decretato la morte di uomini, donne e bambini. Ioanna si alza e si sistema la gonna. – Dove vai? – chiede il Bolscevico. – In bagno. Lui annuisce e rivolge lo sguardo verso di me. Mi fissano tutti, adesso. Il Bolscevico ha ato, Bruce Lee deve avere un punto discreto e Don Pasquale, secondo me, ha un poker servito. Controllo di nuovo le mie carte: non ho niente in mano. In un’altra situazione avrei bluffato e avrei costretto il Don a
rilanciare, ma non sono qui per giocare. – Lascio – dico.
La prima volta che vidi Bruce Lee, fu un anno prima della morte di papà. Era una tarda sera di ottobre. La Pignasecca era fredda e deserta. Io e i miei amici ne stavamo approfittando per giocare a nascondino in quel dedalo di stradine e vicoletti, che di giorno si riempivano di vita, rumori e caos. Il braccio poggiato contro il muro, la faccia schiacciata nell’incavo del gomito, stavo recitando un Ave Maria. Al posto dei numeri, dicevamo le preghiere che ci insegnava Don Alfonso. Prima che terminassi, mi sentii tirare il giubbino. – Ma che…? – esclamai, voltandomi. – Shhh. – Luca si portò l’indice alle labbra. Poi mi fece segno di abbassarmi. Ci accovacciammo contro la parete. – Che succede? Luca si guardò intorno, per metà eccitato e per l’altra terrorizzato. – Hanno detto ca’ ce sta Bruce Lee. È entrato in una macelleria, e tra un po’ succedono le mazzate. Bruce Lee. Il suo nome, come quello di Don Pasquale, era qualcosa di leggendario, una figura di potere e terrore che si intrufolava nei racconti dei quartieri. Forse la memoria distorce la percezione, altera l’ordine delle cose, e quando tra un evento e il suo ricordo sono ati così tanti anni, non si ha più certezza di nulla. Ma adesso sarei pronto a giurare che, in quel momento, pensai una cosa precisa: sarei rimasto deluso. Molte delle cose che si raccontavano su Bruce Lee non potevano essere vere. Non appena l’avessi visto all’opera, me ne sarei reso conto.
– Dove stanno gli altri? – Shhh – ripeté Luca, guardandosi intorno furtivo. – Dario ci aspetta là. – E Giacomo? – Giacomo s’è cacato sotto ed è scappato a casa. – Trattenne a stento una risata, prima di afferrarmi per un braccio. – Andiamo. Uscimmo dal vicoletto. La Pignasecca non sembrava più una strada. Era un budello scuro, umido. Le poche luci dei lampioni costruivano ombre che si rincorrevano sugli intonaci. I basoli sconnessi, incorniciati da arabeschi d’acqua piovana, davano un senso di solitudine, di abbandono. Ma forse era solo suggestione, era la paura impietosa che mi mordeva la gola e faceva impazzire il cuore nel petto. Camminammo bassi e rasenti ai muri, quasi fossimo sotto tiro di una banda di cecchini. Raggiungemmo la strada che portava alla macelleria. Dario ci stava aspettando lì. Era accovacciato di fronte all’entrata, le mani attorno agli occhi e il viso schiacciato contro il vetro. – Pssst. Si voltò di scatto. Ci riconobbe e sospirò, poi ci fece segno di abbassarci ancora di più. Lo raggiungemmo, ansanti e terrorizzati. – Non si vede niente – mormorò. Mi schiacciai contro il vetro. Dentro c’erano il bancone, il frigo per la carne, un tavolino con la cassa e i volantini appesi alle pareti con le offerte del giorno. La luce del magazzino era accesa, e proiettava un cono dorato sul pavimento dell’ingresso. – Ma Bruce Lee ci sta o no? – chiesi, spazientito. – Oì! – rispose Dario. – L’ho visto entrare assieme a un ragazzo. Poi hanno
chiuso la porta e sono andati in magazzino. – Uhm. – Fu l’ultima cosa che dissi, prima che tutti e tre sobbalzassimo. Un grido fortissimo proveniente dall’interno. La sagoma grassa e inelegante del macellaio barcollò attraverso il cono di luce. Si reggeva due dita in una mano, il viso rubizzo stravolto da un terrore puro, ancestrale. Si trascinò fino al bancone, per poi lasciarsi scivolare contro di esso. – Vi prego… Vi prego… Vi prego… Lo ripeté tre volte, prima che la figura di Bruce Lee si stagliasse nella luce. Era piccolo, magro, nervoso. Capii subito perché lo avevano soprannominato così: non puoi essere un cinese basso, secco e violento, con i capelli neri e folti, e vivere a Napoli senza che qualcuno ti affibbi quel soprannome. Il silenzio di quei momenti era interrotto dai nostri ansiti eccitati e incoscienti. – Soldi – disse Bruce Lee. Già all’epoca parlava a scatti. – Mancano cinquanta. Don Pasquale vuole tutto. – Vi dico che non ne tengo – piagnucolò il macellaio, contraendo il viso in una smorfia di dolore. Si piegò su se stesso, nascondendo due dita di una mano dentro l’altra. Forse gliele avevano spezzate. – Potete… Potete dire a Don Pasquale di are tra una settimana, vi giuro che ve li do. Bruce Lee lo raggiunse a ettini rapidi. Un altro ragazzo comparve nella luce del magazzino, e si appoggiò alla parte con un sorriso divertito stampato sul volto. Stava per godersi lo spettacolo. Quando il cinese torreggiò sulla figura rannicchiata del macellaio, negli occhi del pover’uomo lessi uno sguardo divorato dalla paura. Prima ancora che cominciasse la violenza, capii che mi ero sbagliato. Le cose che si raccontavano su Bruce Lee erano tutte vere. Non era solo violento. Era anche cattivo. Il macellaio aveva bisogno della mani per lavorare. Il cinese avrebbe potuto
punirlo in un altro modo, magari spaccandogli il labbro o la mascella. Così gli avrebbe dato la possibilità di saldare i debiti. Invece no. Si accovacciò e gli afferrò la mano sana. Il macellaio frignava come un bambino, le guance rotonde e piene rigate dalle lacrime. Il secondo ragazzo, appoggiato alla parete, le braccia conserte, commentò la scena con una mezza risata. Bruce Lee stese la mano del macellaio sul pavimento e calò il piede con tutta la forza che doveva aver in corpo. Una, due, tre, quattro volte. Le contai. All’ultimo colpo, il macellaio non urlò nemmeno più. Si accasciò a terra, silenzioso e sanguinante, e chiuse gli occhi.
5
Quel giorno mi rimase scolpito nella memoria. La rabbia dipinta dentro gli occhietti scuri, quell’italiano masticato a forza con frasi secche e brevissime, i movimenti scattanti e aggressivi di un uomo nato per picchiare. La seconda volta che lo vidi, fu l’anno successivo, una settimana dopo il funerale di mio padre. Non ero voluto andare a scuola, e mia madre mi aveva permesso di farle compagnia in negozio. Lei serviva i clienti mostrando camicie e pantaloni. Io disegnavo sul mio album, seduto a un’estremità del banco. Il cinese entrò in negozio senza bussare. Il mio cuore si fermò, una morsa potentissima mi bloccò gola e stomaco. In quel momento, forse, provai la stessa paura che doveva aver provato il macellaio. – Qui per Bolscevico – disse Bruce Lee, rivolto a mia madre. – Soldi? Lei, senza proferire parola, tirò fuori dal cassetto una busta gonfia e gliela porse. Bruce Lee la fece sparire dentro una tasca del giubbotto e si avviò verso la porta. Prima di uscire, si voltò e abbozzò un ghigno divertito. – Oggi. A casa sua. Bolscevico dice alle tre. Mia madre annuì, a capo chino. Il cinese mi lanciò un mezzo sguardo, poi uscì. Solo quando sentii la porta chiudersi, ripresi a respirare. Quella fu una delle ultime volte che vidi il negozio di famiglia. Due settimane dopo, mamma mi fece trasferire a Torino, dagli zii. – È meglio che per un po’ non ci stai qua – mi disse. – Mo’ è un po’ pericoloso, ma non ti preoccupare. – Mani sul mio viso, carezze sui capelli. – È una cosa
temporanea. Sono rimasto a Torino sedici anni.
6
Altra mano di poker. Prima che Ioanna distribuisca le carte, il Bolscevico si allunga su di lei e la bacia sulle labbra. – Portami fortuna – dice, strizzandole un seno in modo plateale. Le carte viaggiano sul tavolo. Il russo le studia e fa la sua puntata. – Millecinquecento euro. – Poi disintegra la Lucky Strike dentro il posacenere e se ne infila un’altra in bocca. Non le fuma mai, le sigarette. Ne tiene una tra le labbra per un po’, finché il filtro non diventa troppo umido. Poi la getta e la sostituisce con la successiva. Ha sempre fatto così. Bruce Lee smette di masticare. – Vedo – dice, allungando le fiches. – Eh, ma con voi non ci sta sfizio! – borbotta Don Pasquale, lisciandosi i baffi con le dita. – Qua solo io tengo le palle per rilanciare pesante. Raddoppio: tremila euro. Il Bolscevico, Bruce Lee e Don Pasquale. Fuori da questa sala compongono il vertice della stessa piramide, legati l’uno all’altro da un patto di soldi e sangue. Ma quando si siedono al tavolo, è come se gli anelli che li uniscono si spezzassero: non ci sono più il boss napoletano, la spalla russa e il picchiatore cinese. Ci sono solo tre giocatori, ognuno contro l’altro e tutti contro tutti. Quando escono di qui, la catena che li tiene insieme si salda di nuovo, più forte di prima. Hanno aperto questo locale tre anni fa, nel cuore dei Quartieri Spagnoli. Per tutta la settimana girano polli e giocatori discreti. Ma le partite vere, quelle con i piatti pesanti, si giocano solo di giovedì, dopo la mezzanotte. Tocca a me. Allungo le fiches verso il centro. – Io rilancio di novemila euro.
Don Pasquale mi guarda, gli occhi spalancati. – Uaglio’, ma tu fuss scemo? – Allunga uno sguardo verso l’orologio appeso alla parete. – È ancora presto per puntare così pesante. Tu a domani mattina non ci arrivi. – Lascia fare – commenta il Bolscevico. – Sono soldi suoi. Guardiamo tutti Ioanna, che ormai è il mazziere di queste partite. Scopre le prime tre carte: un asso e un jack di picche, e un nove di fiori. – Tocca a te. Il Bolscevico scuote la testa, contrariato. – Lascio – dice, lanciando le carte sul tavolo in un gesto di stizza. – Diecimila – mastica Bruce Lee. – Alla faccia della miseria! – esclama Don Pasquale. – Allora la partita si sta facendo seria.
7
Per sedici anni non ho visto né la mia città né il mio quartiere. Ho conosciuto un altro mondo, illudendomi di poterne diventare figlio. Altre strade, altro dialetto, altre usanze. A Torino ho vissuto facendo un po’ di tutto. Cameriere, operaio, falegname, muratore, segretario, lavapiatti. Non ho mai trovato grandi difficoltà ad arrangiarmi. Torino è una città come tante: un agglomerato di strade e di vite, disciplinate da regole non scritte che bisogna imparare presto. Io le ho imparate: la capacità di adattamento è sempre stata la mia dote migliore. Come ho detto, per sedici anni non ho visto né la mia città né il mio quartiere. Li avevo quasi dimenticati, relegandoli in quel cantuccio dove riposano i ricordi sepolti. Ma il ato è una Fenice che risorge dalle proprie ceneri. Sono tornato a Napoli due anni fa, per seppellire mia madre. È stato al funerale che la mia vita precedente mi ha afferrato per il collo e mi ha gridato in faccia chi ero e da dove venivo. Dopo la funzione, seduto al tavolino del bar di fronte al cimitero, ho visto il Bolscevico. Mi sono bloccato, il mio corpo una distesa di sudore freddo. L’ho fissato, il cuore che faceva strane acrobazie dentro il petto. La pelle del suo viso era diventata grinzosa, gli occhi ancora più piccoli. Mi ha guardato, sollevando un sopracciglio. – Che cazzo vuoi? Io ho fatto spallucce e sono andato via. Non mi aveva riconosciuto. Quando mi aveva visto a casa del Don, ero un bambino di dieci anni che si nascondeva dietro la sottana della mamma. Adesso ero un uomo, e del viso paffuto incorniciato da un caschetto biondo, non conservavo che il ricordo. È stato solo l’anno scorso che ho trovato una sistemazione decente a Pianura. Mi serviva un posto più vicino alla mia vecchia zona, ma al contempo abbastanza
lontano da darmi maggiore libertà di movimento. La prima volta che sono entrato in questo locale, non avevo uno scopo ben preciso. Volevo solo vederli in faccia, tutti e tre: Don Pasquale, il Bolscevico e Bruce Lee. Avevano ammazzato mio padre e avevano reso un inferno la vita di mia madre. Qui, di giovedì notte, quando il locale è chiuso, si gioca alla texana senza limiti di puntata. E al tavolo, quasi sempre, siede solo la triade. – Che devo fare per giocare anch’io? – ho chiesto al barman, che mi aveva preso in simpatia. Mi ha guardato con un sorriso indulgente, mentre puliva un boccale di birra. – Tu fai vedere che sei uno a posto e continua a venire qua. Tra un po’, chiedi direttamente a Don Pasquale se ti fa venire una sera, così, per provare. Dei sedici anni che ho trascorso a Torino, dodici li ho ati a un tavolo da poker. Prima in una serie di posti tranquilli, poi nelle peggiori bische della provincia. Locali controllati da telecamere a circuito chiuso, finestre coperte da plexiglas colorati, tutte le precauzioni studiate nei dettagli. C’era un mio amico, lì, che mi ripeteva “A son ij sòld ch’a fan la guèra”, ogni volta che mi sedevo al tavolo. Aveva ragione: sono i soldi che fanno la guerra. Ma la guerra si combatte anche in altro modo. Infatti è stato lì che ho dovuto imparare a sparare. Ho cominciato a frequentare questo locale dei Quartieri, ho iniziato ad accumulare soldi, ma non avevo un piano definito. E non l’ho avuto fino a quando, una sera, non ho conosciuto lei, che se ne stava in un angolino a piangere da sola. Ioanna.
8
Quarta carta sul tavolo, penultimo giro di puntate. Nel piatto ci sono quasi quarantamila euro. Siamo rimasti io, Don Pasquale e Bruce Lee. Il cinese è in difficoltà. Mastica, poi si ferma, quindi riprende a masticare. – Busso – sospira. Don Pasquale fa spallucce e mi guarda. C’è un’intera storia di potere e conquista nascosta in quegli occhi azzurri. Sono venti anni che questo vecchio regge le fila del clan. Hanno provato a ucciderlo almeno una dozzina di volte, ma lui è ancora qui. Non posso sapere quanto ci sia di vero nella leggenda che si racconta sulla sua scalata al potere. So solo che la storia è sempre la stessa, e si rincorre nelle narrazioni a mezza voce che animano i pettegolezzi dei bassi sin da quando ero bambino. Si sa che Don Pasquale è nato in uno dei quartieri più poveri di Scampia. Non ha mai conosciuto il padre: fu ucciso in una rissa prima che lui nascesse. Fu la mamma, povera ed eternamente malata, ad occuparsi di lui. Vissero insieme, in un tugurio divorato dall’umidità e dall’abbandono, fin quando lei non ebbe un tracollo. Nessuno conosce di preciso l’origine della malattia. Alcuni dicono cancro, altri AIDS. Una sola cosa è certa: non c’erano i soldi per pagare le cure mediche. Sua madre morì di povertà. Si dice che, durante la veglia funebre, all’età di undici anni, Pasquale avesse fatto un giuramento sacro. Per nessuno motivo, negli anni a venire, lui o i membri della sua famiglia avrebbero più sofferto la fame. – Busso pure io – dice, mettendosi a braccia conserte.
Mi fissa. Inchiodato dal suo sguardo, mi viene da pensare che gli occhi di un uomo non possono essere lo specchio dell’anima. Se lo sono, allora si tratta di uno specchio deformante. Abbasso lo sguardo e faccio un rapido conto delle fiches che mi restano. – Punto tutto il mio resto – dico. – Venticinquemila euro.
9
Aveva un occhio tumefatto e se ne stava in un angolo del locale, a singhiozzare. Tutti la ignoravano: era la donna del Bolscevico. Anche offrirle un fazzoletto sarebbe stato un’offesa. Ioanna rappresenta la Russia povera che ha inseguito il sogno italiano. Prima viveva in una casa popolare assieme alla mamma da accudire, inchiodata su una sedia a rotelle dalla sclerosi multipla. Poi ha incontrato chi rappresenta, qui in città, la metà ricca e potente del suo paese: Ivan il Bolscevico. Adesso Ioanna può pagare l’affitto e le cure mediche. In compenso, è diventata roba sua. Io ero uscito sul retro a fumarmi una sigaretta. Me la sono ritrovata davanti senza accorgermene, una sagoma scura definita appena in un gioco di ombre. – Ciao. – È stata lei a salutarmi per prima. Era sul muretto, una mano reggeva la sigaretta, l’altra spariva dentro una tasca del cappotto. C’era uno strano silenzio in quello spiazzo. I rumori e le voci del locale sembravano lontani, costretti in un oblio silenzioso appena dietro di noi. Ha tirato una boccata, e la coda di fumo ha danzato nell’aria prima di essere inghiottita dalla tenebra. Non potevo vedere bene i suoi occhi, ma scommetto che li stava puntando dentro i miei. Forse si chiedeva perché non rispondessi. – Io visto te qualche volta, dentro il locale. Tu vincere sempre. Bravo giocatore. – Grazie. – Ho abbozzato un o verso di lei. I capelli lunghi e biondi incorniciavano un viso delicato, dai lineamenti gentili. Ma la cosa che mi ha colpito di più, non appena si è esposta a un riverbero lunare, è stato il suo sguardo. Due occhi illuminati dalla luce di chi ha una guerra in corpo, di chi vorrebbe spaccare il mondo, ma non può fare altro che abbassare la testa e obbedire.
– Tu sei Ioanna? Ha annuito. Ho infilato la sigaretta tra le labbra e ho allungato la mano. – Piacere. Mimmo. Lei mi ha restituito una presa forte e nervosa. Mentre ci scambiavamo quel saluto formale, ho avuto modo di vedere meglio il suo viso. Nonostante il fondotinta, l’occhio era pesto. Un pugno, dritto e micidiale, l’aveva beccata proprio lì. Forse sono rimasto a fissarla troppo, perché lei si è tolta la sigaretta di bocca e l’ha spenta sul muretto. È saltata giù con un movimento improvviso. – Ciao – ha detto di nuovo, prima di sparire dentro il locale.
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Da quella volta, la sigaretta fumata sul retro è diventata una sorta di rituale. Quando c’era il Bolscevico, non ci salutavamo nemmeno. Se invece era da sola, i nostri appuntamenti erano regolati da un accordo tacito. Restavamo lì per qualche minuto, a scambiarci sguardi furtivi e mezze parole. Non potevamo restare insieme troppo a lungo, altrimenti qualcuno si sarebbe insospettito e avrebbe riferito tutto al russo. Quella era la tana del nemico. Bisognava fare attenzione a tutto. In quei giorni mi sono sentito in gabbia, eternamente osservato. Avrei voluto dirle così tante cose. Avrei voluto parlarle della mia vita, e ascoltare ogni parola della sua. Ogni volta che la guardavo, e lei ricambiava lo sguardo, mi sembrava di fissarmi allo specchio. Aspettavamo entrambi qualcosa. C’era un’eterna attesa dipinta nei nostri occhi, scolpita nelle pieghe della fronte. È stata alla quarta sigaretta fumata insieme, che le ho infilato un foglietto nella tasca del cappotto. Le avevo scritto il mio indirizzo.
È comparsa davanti casa, due sere dopo, sotto la pioggia. Io ero stravaccato in poltrona a guardare la televisione, quando il camlo ha cominciato a suonare. Bussate lunghe e insistenti. Ho scostato le tendine e l’ho vista lì, in strada, una sagoma infreddolita che grondava acqua. Quando ho aperto, ho sobbalzato. Stavolta il Bolscevico aveva picchiato più forte del solito. Ioanna aveva un labbro sanguinante e un sopracciglio spaccato. Pioggia e lacrime scivolavano sul viso martoriato.
Siamo rimasti a fissarci per qualche secondo, cullati dallo stesso silenzio che fissava i nostri appuntamenti. Poi lei mi ha gettato le braccia al collo ed è scoppiata in lacrime. L’ho fatta entrare in casa, le ho fatto fare una doccia calda e le ho steso i vestiti sui termosifoni. Quando è uscita dal bagno con il mio accappatoio addosso, profumata e tiepida, sembrava rinata. Lo sfogo era ato, e adesso la collera aveva ceduto il o a un sorriso di gratitudine. – Siediti – ho detto. – Voglio medicarti. Ha scosso la testa. Mi ha raggiunto con un o deciso, mi ha messo una mano dietro la nuca e mi ha portato a sé. Mi ha baciato con tanta ione e tanta rabbia, da farmi quasi male. Non c’era tenerezza in quel bacio. C’era paura, c’era terrore, c’era la voglia di morire e poi rinascere insieme. Quella sera, mentre il temporale flagellava le finestre, abbiamo fatto l’amore per la prima volta. Il suo corpo nudo che si muoveva nella penombra era un pianto disperato, una richiesta d’aiuto. Era la confessione di una donna che cercava una via d’uscita.
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Da quella volta, ogni appuntamento è stato un calcolo metodico, una sfida contro l’ineluttabile. Un castello di menzogne ben architettato, per portarla lì, nel rifugio, tra le mie braccia. La nostra storia ha dovuto combattere contro la paura della morte, contro le mani pesanti del Bolscevico, contro l’indifferenza che ci siamo imposti ogni volta che ci incrociavamo nel locale. Una sera, a letto, mi ha carezzato con le dita il petto nudo e ha sussurrato: – Ya tybyà lyublyu. – Che significa? – ho chiesto, affondando la mano tra i suoi capelli. – Significa ti amo. A quel punto, ho capito di doverle dire la verità. Ho preso le sue mani tra le mie e l’ho guardata negli occhi. – Anche io ti amo, Ioanna. Ma non mi chiamo Mimmo. Mi chiamo Pietro Talesco, e sono qui per uccidere Don Pasquale, Bruce Lee e il Bolscevico.
Dei presenti, Don Pasquale è il giocatore migliore. È imprevedibile, proprio perché fa il contrario di ciò che dovrebbe fare un vero professionista: ostentare sicurezza. Non cerca l’impenetrabilità del viso. Lui no, è cresciuto nella Napoli dei bassi, dove una parola in più è sempre meglio. Ed è proprio questo che lo rende il più forte: mentre ride e scherza, in realtà tiene il conto delle carte uscite. Le bestemmie e gli improperi nascondono veloci calcoli di probabilità. Quinta carta scoperta: dieci di picche. Bruce Lee ha lasciato, siamo rimasti solo
io e il Don. – Tempo – dice. – Ci devo pensare un momento. – Ha una scala – mastica il cinese. Don Pasquale fa spallucce, alzando lo sguardo verso di me. – No, non ce l’ha una scala. Questo qua sta bluffando, ma non ha capito che quando io giocavo a poker, lui ancora portava i pantaloncini corti. È questo il momento, devo farlo adesso. L’attenzione di tutti è catalizzata sulla risposta del boss. – Va bene, allora pensateci con calma. – Mi alzo. – Io devo andare un attimo in bagno. Mi lasciano allontanare senza problemi. Qui il poker è una cosa sacra. Io so che loro non guarderanno il mio punto, loro sanno che io non sono un baro e che non ho carte nascoste chissà dove. Ma stasera non sono qui per una scala reale.
Entro in bagno: il battito del cuore mi dice che la paura sta crescendo come una metastasi. Terza porta. Mi sembra di barcollare in una melassa irreale. Entro nella toilette, puntello i piedi sui bordi della tazza e mi sollevo, allungando le mani sulla mensola sopra lo sciacquone. La pistola. Non c’è. Merda! Sento un formicolio diffondersi per il corpo. Non può essere. Doveva essere qui, questo è il posto. Forse Ioanna ha sbagliato porta. Esco dalla toilette ed entro nella successiva, mentre rivoli di sudore cominciano a serpeggiarmi lungo la schiena. Cerco dappertutto.
Una paura fredda mi morde lo stomaco, rendendo i miei movimenti scattanti e scoordinati. Ripeto la stessa operazione altre due volte, controllando tutti i bagni. Non c’è. La pistola non c’è. E questo può significare solo una cosa: Ioanna mi ha tradito.
12
– Ma perché devi uccidere durante poker? Ci trovavamo al Bolidò, un pub di Pozzuoli. Una zona fuori mano, per i membri del clan. Lì nessuno ci avrebbe visti. – Perché è l’unica occasione che ho. Ci saranno tutti e tre, da soli. – Mi sono guardato intorno, scrutando la folla che ci circondava. – Non avranno altre protezioni e il locale a quell’ora è chiuso. Se riesco a farmi ammettere, saremo solo io, te e loro. Ioanna ha scosso la testa con vigore. – No possibile entrare armato. Se anche ti permettono di giocare, perquisiscono prima. Lo fanno sempre. – Infatti entrerò disarmato. Sarai tu a nascondere la pistola. Hai mai visto Il Padrino? – Mi ha fissato, sgranando gli occhi. – Va bene, non importa. Ascolta il mio piano. Le avrei procurato una pistola piccola, maneggevole, da poter nascondere in una minifondina allacciata alla coscia, sotto la gonna. Durante la partita, lei sarebbe andata in bagno e l’avrebbe nascosta.
Conosco Pianura da poco più di un anno, eppure mi sembra di conoscerla da sempre. Più ci vivo, più mi sembra che assomigli a Sin City: se svolti l’angolo giusto, puoi trovare di tutto. E io, da un venditore di armi rubate, ho trovato quello che serviva: una PSM di fabbricazione russa, sedici centimetri di lunghezza, meno di mezzo chilo in quanto a peso. L’arma ideale. Quando l’ho mostrata a Ioanna assieme alla minifondina, lei ha aggrottato la fronte. – No, non essere buon piano. E se qualcosa andare storto? Ci vuole sempre alternativa.
– Alternativa? – Sì, tu non potere fare tutto solo. Trova altra pistola per me. Insegna a sparare anche a me. L’ho guardata come si guarderebbe un alieno. Era al limite. Le violenze e le angherie subite dal Bolscevico l’avevano portata fino a quel punto: se fosse stata costretta, anche lei avrebbe sparato. Anche lei avrebbe ucciso. – Se anche trovassi una seconda pistola per te, dove la metteresti? Ha sorriso e si è assestata una manata sulla gamba sinistra. – Altra coscia, altra fondina.
13
Quando esco dal bagno, mi sento stringere la gola da una morsa di acciaio. Loro sono lì, seduti attorno al tavolo. Hanno le teste basse, ancora indirizzate verso il piatto che gronda soldi. Don Pasquale si volta a guardarmi, la fronte corrucciata. – Uaglio’, ti vedo un po’ pallido. Ma che hai ato? Il Bolscevico e Bruce Lee commentano con una mezza risata. Riprendo posto, senza rispondere. Lancio uno sguardo disperato a Ioanna, ma lei mantiene gli occhi rivolti al tavolo. – Forse non hai trovato quello che cercavi? – mi chiede il Bolscevico, alzandosi. Porge una mano a Ioanna, senza smettere di guardarmi. Lei si alza la gonna, si slaccia una delle due minifondine e mette la PSM nella mano del russo. – Volevi questa? Mi ha tradito. Deglutisco, mentre una vertigine mi fa ballare il mondo attorno. Non posso crederci: mi ha tradito sul serio. Più me lo ripeto in testa, più mi sembra incredibile. – Perché? – chiedo, ma lei continua a tenere gli occhi bassi. Il silenzio che cade nella stanza è un sudario implacabile che mi dà una sola certezza. Sono un uomo morto. – Hai perso la voce? – insiste il Bolscevico. – Perché? – domando di nuovo. – Guardami, cazzo! Ioanna alza il viso verso di me, gli occhi umidi. – Dispiacere tanto – sussurra. – Ma loro uccidere me, uccidere mamma. Dispiacere tanto.
Le labbra del Bolscevico si distendono in una smorfia di scherno, ma è la voce di Don Pasquale che si infila tra i miei pensieri. – Lo sai che diceva sempre mio padre? Che prima di comprare un pollaio, è meglio conoscere i polli. – Si strofina le mani, sorridendo. – Al Bolidò ci lavora il figlio di un amico nostro. Pensavi di portartela lì senza che nessuno sapesse niente, eh? – Si alza, raggiunge Ioanna a i lenti, le poggia una mano sui capelli. – Non te la prendere con questa guagliona, non è colpa sua. Guarda quanto è bella, guarda! – Le dà un pizzicotto sulla guancia. Lei si sforza di non scoppiare a piangere. – Però oltre che bella, è pure intelligente. Lo sa che, se non ci avesse detto chi eri e che volevi, adesso non stava qua assieme a noi. Sapevano che non ero qui per giocare. Mi hanno lasciato recitare la commedia. Hanno aspettato il momento in cui fossi andato in bagno. Per tutto questo tempo, hanno giocato con me. La loro lucidità mi fa capire, solo adesso, quanto assurdo fosse il mio piano. Don Pasquale, con movimenti misurati, raggiunge di nuovo la sedia e prende posto. Intreccia le mani sopra il tavolo e vi poggia il mento sopra. – Pietro Talesco – mormora. – E così sei tu, il figlio di Vito Talesco. Bolscevi’, te lo ricordi a quel pezzo di merda? Il russo risponde con un mezzo fischio. Don Pasquale abbozza un sorriso, poi si rivolge di nuovo a me. – Sei solo o c’è qualche amico tuo nei dintorni? Sento il calore fluire dal mio viso. Ogni parola che vorrei dire mi muore in gola, e non trovo nemmeno la forza di rispondere. – Prendi l’altra pistola – ordina il Bolscevico, tenendomi sempre di mira. Ioanna annuisce e tira fuori la seconda PSM, nascosta nell’altra fondina. Gliela porge, ma il russo scuote la testa e le punta contro la sua arma. – Se non parla, sparagli nelle palle. Ioanna stringe la pistola a due mani, come le ho insegnato io. Poi si alza e guarda la pistola del russo puntata contro la sua tempia. Quindi abbassa la mira, in direzione del mio inguine.
– Sono solo – rispondo, rivolgendomi a Don Pasquale. Il boss annuisce, pensieroso. – E così eri venuto qua per ucciderci tutte e tre, eh? E bravo! Ma lo sai che non ti avrei riconosciuto? L’ultima volta che ti ho visto eri ‘nu piccirillo alto accussì. – La sua mano di taglio disegna nell’aria l’altezza di un bambino. – Tua mamma era ‘na femmina bella assaje. Devo prendere tempo. Ho bisogno di riflettere. – Sì, mamma era bella assaje – rispondo. – Ma è morta due anni fa, di cancro. – Lo so. Mi è dispiaciuto. È questa la contraddizione della camorra napoletana. Ci sono alcuni rituali che non ammettono deroghe. I camorristi ti offrirebbero un caffè, prima di spararti in testa. E ti farebbero le condoglianze in maniera sincera, anche se stanno per ucciderti. Bruce Lee si alza e si scrocchia le dita. – La notte. È lunga. – Sorride. – Prima mi diverto. Poi lo ammazziamo. Io mi volto verso Ioanna. – Li hai traditi. Ti uccideranno comunque, non si fidano più di te. Bruce Lee fa il giro del tavolo e mi raggiunge. Il primo pugno mi colpisce dritto sulla mascella, oscurandomi la vista per un istante. Crollo all’indietro, urtando contro la sedia. Le risate si moltiplicano attorno a me, mentre il viso mi esplode in una tempesta di dolore. – Ioanna! – grido. – Dopo che mi avranno ucciso, faranno lo stesso con te e tua madre. – Zitto! – grida Bruce Lee. Sto per rimettermi in piedi, quando un calcio mi centra in pieno stomaco. Per un istante, è come se tutto il mondo venisse messo sotto vuoto. Non ho più aria da respirare, mi sembra di annaspare sott’acqua. – Li conosci! Ti uccideranno, assieme a tua ma… – Un altro calcio mi soffoca le
parole in gola. Una fitta erompe dalle costole e si irradia per tutto il corpo. – Uccidilo tu – dice il Bolscevico a Ioanna, premendo la pistola contro la sua tempia. Lei esita, sotto la pressione del metallo. Mi guarda, incredula e sconvolta. Gli occhi chiari sono stretti in due fessure disperate, e l’espressione è di chi vorrebbe trovarsi in un altro luogo, in un altro tempo. Punta la pistola in direzione della mia testa, le mani le tremano. – Ti ammazzeranno! – Zitto – ripete Bruce Lee. – Uccidilo! – ordina il Bolscevico. – Ammazzeranno anche tua madre! – grido. Ioanna mi guarda e contrae il viso in una smorfia sofferta. Le lacrime cominciano a tremare sull’orlo degli occhi. – Ioanna! – urlo, quando un boato mi tortura i timpani. Il dolore e la detonazione giungono quasi assieme. Crollo su me stesso con un grido, mentre una lancia mi traa la gamba. Le risate, attorno a me, si intrecciano, deformandosi a vicenda in un unico suono sguaiato. – E brava Ioanna! – La voce di Don Pasquale è divertita. – Adesso però alza un po’ la mira, eh! La gamba è un universo di sofferenza, una creatura tentacolare che allunga le fitte in ogni parte del corpo. Mi trascino, lasciandomi dietro una striscia di sangue. – Uccideranno tua madre… – provo a dire, ma dalle mie labbra esce solo un gorgoglio strozzato. Ioanna mi guarda, le guance rigate dalle lacrime.
Poi annuisce a se stessa, quasi abbia concluso un ragionamento silenzioso. Il Bolscevico, forse senza accorgersene, ha leggermente abbassato la pistola. Ioanna, con un movimento rapidissimo, sposta la mira in direzione del russo e fa fuoco. Una, due, tre volte. Alla fine chiude gli occhi, mentre il Bolscevico viene sbattuto indietro dalla potenza delle pallottole. Barcolla, poi inciampa sulla sedia e rovina a terra. – Puttana! – strilla Bruce Lee, avventandosi contro di lei. La travolge, la pistola vola nell’aria. Entrambi sbattono contro lo stipite di un mobiletto. – Quel giorno dovevamo ammazzare pure a te! – La voce di Don Pasquale. – Mannaggia a quella puttana di tua mamma, ché non ti abbiamo ucciso. Faccio in tempo a gettarmi di lato, mentre un altro boato squassa la stanza. Una sedia schizza via e una mensola di legno esplode in coriandoli di schegge: il proiettile del boss mi ha mancato di poco. Cerco di ripararmi dietro la poltrona al centro della sala, quando sento la voce di Bruce Lee poco distante. Tutto accade così rapidamente che nemmeno me ne rendo conto. I secondi si dilatano, diventando secoli nello spazio di un istante. – Zoccola russa – dice il cinese, puntando la sua Glock verso Ioanna rannicchiata contro la parete, più morta che viva. Mi lancio contro di lui mentre schegge di sofferenza mi viaggiano in ogni parte del corpo. Lo placco con tutta la forza che mi resta. Cadiamo uno sopra l’altro, e il mondo diventa una giostra nauseante. – Pietro! – strilla. Ioanna è una sagoma che si muove nella mia visuale offuscata. Carponi, afferra la sua PSM da terra e la punta contro Bruce Lee. Spara a raffica, strillando come una guerriera furibonda. Ormai non sento più nemmeno il frastuono dei proiettili. Sono sordo e muto, in un ambiente sospeso tra la vita e la morte. Bruce Lee viene sbattuto indietro. Scivola sul pavimento agonizzante. – Stai giù! – urlo a Ioanna, quando un altro proiettile sibila sopra di noi. Trovo di nuovo protezione dietro la poltrona. Lei è di fronte a me, la fronte
imperlata e lo sguardo incredulo. Le faccio segno di lanciarmi la pistola sul pavimento. Ma è sconvolta, e non calcola bene la distanza. L’arma scivola fino alla parete e ci rimbalza contro. Mi allungo trattenendo un grido di dolore. I muscoli si stirano, mentre una coreografia di mosche luminose danza nel mio campo visivo. Quando ho la PSM tra le mani, mi butto allo scoperto. La gamba mi lancia schegge di dolore. Don Pasquale è a terra, rannicchiato dietro una sedia. Una mano stringe una gamba di legno, l’altra alza la pistola contro di me. Sparo due volte. La figura del Don sobbalza straziata sul pavimento. Frammenti di legno e brandelli di carne esplodono in una pioggia fragorosa. L’ultima cosa che vedo è il boss immobile, il sangue che gli imbratta il corpo. Poi mi abbandono a terra, una stanchezza infinita mi costringe a stare giù. – Pietro – mi raggiunge un rantolo sfinito. – Ioanna. – Non ce la faccio nemmeno ad alzare la testa. – Stai bene? – Più o meno. Tu come stare? Mi tasto la gamba con la mano. L’emorragia sta diminuendo. – Non hai preso un’arteria, credo. Sopravvivrò. Sento il suo corpo strisciare sul pavimento. Mi raggiunge, la mia valchiria russa. Si piega su di me. Sembra uscita dall’inferno, ma conserva intatta la sua bellezza dell’est. – Perdonare me. Perdonare me – dice. – Ti amo. Poi scoppia a piangere, stringendomi in un abbraccio incredulo. – Ya tybyà lyublyu – rispondo. Lei sorride e mi abbraccia di nuovo. Ci solleviamo con difficoltà. Aggrappati l’uno all’altro, ci sosteniamo come due marionette rotte.
– Andiamocene – dico. Lei annuisce. Recuperiamo le pistole e ci trasciniamo distrutti verso l’uscita, lasciandoci alle spalle cadaveri e sangue. Apro la porta e una ventata gelida mi schiaffeggia il viso. Dobbiamo sparire prima che qui arrivi qualcuno. Gli spari si saranno sentiti per tutti i Quartieri Spagnoli. Quella dietro le nostre spalle non è una voce, ma un gemito gorgogliante. – Quel giorno… dovevamo ammazzare… pure a te… Il mio corpo si muove da solo, spostandosi di lato. Non lo sento nemmeno, lo sparo. L’unica cosa che vedo è Ioanna che viene sbattuta contro la porta. Mi giro in tempo per scorgere Don Pasquale steso a terra, il viso deformato in una maschera di odio, la pistola stretta in pugno. Prendo la mira e sparo senza nemmeno rendermene conto. Il proiettile lo centra dritto in faccia. Carne e sangue esplodono in uno schizzo melmoso, e il boss finalmente resta giù. Quando mi volto, Ioanna sta scivolando contro la porta. La striscia di sangue è un’autostrada cremisi che taglia in due il legno. La raggiungo, sostenendola prima che possa cadere. – Pietro… – sussurra. Solo il mio nome, come se ripeterlo più volte possa salvarla. – Pietro. Pietro. Il proiettile ha centrato la spalla. Non è un colpo mortale. – Ce la faremo – dico. La sostengo mentre lo strazio alla gamba mi strappa un lamento di dolore. La tengo stretta a me. Usciamo nella notte. Barcollanti, ci trasciniamo nel nulla più nero, in una tenebra oscura priva di luna e di stelle. Ce la faremo.
FINE
Delos Digital e il DRM
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Sapphire Diamonds, La notte dei cristalli iridati - Senza sfumaturen. 10
Letizia Draghi, Body Sushi - Senza sfumaturen. 11
Emiliana De Vico, Il braccialetto rosa - Senza sfumaturen. 12
Macrina Mirti, Finiamola qui - Senza sfumaturen. 13
Didì Chisel, Un profumo per tre - Senza sfumaturen. 14
Letizia Draghi, Rivelazioni - Senza sfumaturen. 15
Irene Vanni, Tramonti sul lago - Senza sfumaturen. 16
Nora Noir, La serva di Vienna - Senza sfumaturen. 17
Alexandra Maio, Non andare via - Senza sfumaturen. 18
Gioia Monte, Senza respiro - Senza sfumaturen. 19
Elena Vesnaver, Senza scampo - Senza sfumaturen. 20
Lisa Peray, Appunti di viaggio - Senza sfumaturen. 21
Luce Loi, Prima dell'alba - Senza sfumaturen. 22
Elena Arrosi, Taxi driver - Senza sfumaturen. 23
Alessandra Paoloni, L'amante del boia - Senza sfumaturen. 24
Irene Vanni, Vicini e lontani - Senza sfumaturen. 25(in preparazione)
Laura Gay, Sette giorni e sette notti - Senza sfumaturen. 26(in preparazione)
Fantascienza
Robert Silverberg, eggeri - Biblioteca di un sole lontanon. 1
Walter Jon Williams, Elegia per angeli e cani - Biblioteca di un sole lontanon. 2
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Franco Forte, Sono atomi di stelle - Chew-9n. 9
Ilaria Tuti, Cerberus - Chew-9n. 10
Franco Forte, Gli orizzonti del cerchio - Chew-9n. 11
Ilaria Tuti, Egemona - Chew-9n. 12
Diego Lama, Gli orfani di Ana-j - Chew-9n. 13
Roberto Zago, Inferno blu - Chew-9n. 14
Alain Voudì, Alla deriva - Chew-9n. 15
Daniele Pisani, Blue diamond - Chew-9n. 16
Ilaria Tuti, Profondo Alpha - Chew-9n. 17
Lorenzo Fontana, Guantoni rossi - Chew-9n. 18
Andrea Ferrando, Puro spirito - Chew-9n. 19
Michela Pierpaoli, Baras III - Chew-9n. 20(in preparazione)
Vittorio Catani, Tre per uno - Classici della Fantascienza Italianan. 1
Renato Pestriniero, L'ultima porta - Classici della Fantascienza Italianan. 2
Donato Altomare, Parabola - Classici della Fantascienza Italianan. 3
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Carlo Bordoni, Fame da lupo - Classici della Fantascienza Italianan. 5
Mariangela Cerrino, Il segreto di Mavi-Su - Classici della Fantascienza
Italianan. 6
Alessandro Fambrini, Arco iris de mi alma - Classici della Fantascienza Italianan. 7
Donato Altomare, Ogni nave deve incontrare le sue onde - Classici della Fantascienza Italianan. 8
Antonino Fazio, Ripiegamento tattico - Classici della Fantascienza Italianan. 9
Silvio Sosio, Uno nessuno centomila - Classici della Fantascienza Italianan. 10
Vittorio Catani, Storia di un uomo - Classici della Fantascienza Italianan. 11
Franco Forte, L'oscura anima del progresso - Classici della Fantascienza Italianan. 12
Mariangela Cerrino, Altri mondi lontani - Classici della Fantascienza Italianan. 13
Angelo De Ceglie, Babele - Classici della Fantascienza Italianan. 14
Donato Altomare, Come un serpente che si morde la coda - Classici della
Fantascienza Italianan. 15(in preparazione)
Stefano Carducci, I giorni delle meraviglie e dei miracoli - Classici della Fantascienza Italianan. 16(in preparazione)
Enrica Zunic', Del nome dei numeri e della riparazione del cielo - La guerra di Ainn. 1
Enrica Zunic', Il dolore del marmo - La guerra di Ainn. 2
Enrica Zunic', La discesa interrotta dal rosa e dal blu - La guerra di Ainn. 3
Enrica Zunic', Seconda giustificazione: la macchina - La guerra di Ainn. 4
Dario Tonani, Mechardionica - Mechardionican. 1
Dario Tonani, Abradabad - Mechardionican. 2
Dario Tonani, Coriolano - Mechardionican. 3
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, Tutti i mondi di Mondo9 - Odissea Digitaln. 1
Lanfranco Fabriani, Lungo i vicoli del tempo - Odissea Digitaln. 2
Patrizio Bongioanni, Il tesoro di Mazzini - Odissea Digitaln. 3(in preparazione)
Danilo Arona, Santanta - Odissea Digitaln. 4(in preparazione)
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Emanuela Valentini, La longa manus di Nonnina - Red Psychedelian. 3(in preparazione)
Paul Di Filippo, Il demolitore di astronavi - Robotican. 1
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Barbara Baraldi, Paziente 99 - Robotican. 3
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John W. Campbell, jr, La cosa - Robotican. 10
Peter Watts, Le cose - Robotican. 11
Aliette de Bodard, Immersione - Robotican. 12
Barry N. Malzberg, Una galassia di nome Roma - Robotican. 13
Robert J. Sawyer, Carnifex Rex - Robotican. 14
Paul Di Filippo, La singolarità ha bisogno di donne! - Robotican. 15
Paul Di Filippo, Solomon Kane: Fenomeni osservabili - Robotican. 16
Nancy Kress, Evoluzione - Robotican. 17
Lester Del Rey, Helen O'Loy - Robotican. 18(in preparazione)
Dario Tonani, Le polverose conchiglie del mattino - Robotica.itn. 1
Denise Bresci, Nessun dubbio - Robotica.itn. 2
Giovanni De Matteo, Sulle ali della notte - Robotica.itn. 4
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Fantasy
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Marco Paracchini , Sherlock Holmes e il licantropo di Huntingdon Sherlockianan. 33
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Mariangela Camocardi, Un angelo per me - ioni Romantichen. 1
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