Angelo Di Strada
di
Flavia Basile Giacomini
TITOLO: Angelo Di Strada Autore: Flavia Basile Giacomini Copyright © Flavia Basile Giacomini http://liberamenteflavia.wordpress.com/ ISBN: 9788891139603 Concept e grafica di copertina: Matteo Villa Direttore di redazione: Dott. Stefano Santini Prima edizione 7/2013 ed. ilmiolibro Seconda Edizione 3/2014 ed. Youcanprint Tutti i diritti sono riservati e protetti da Copyright legalmente depositato. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Youcanprint Self-Publishing Via Roma, 73 – 73039 Tricase (LE) – Italy www.youcanprint.it
[email protected] Facebook: face book.com/youcanprint.it Twitter: twitter.com/youcanprintit Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
A Franco Marenga che l’ha tanto desiderato
e
a Matteo Villa "Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un'esistenza felice, la più grande è l'amicizia." (Epicuro)
Capitolo 1
Probabilmente erano più amici che fratelli. In realtà gemelli. Nessuno lo avrebbe mai detto. Angelo aveva preso tutto dal padre, sia fisicamente sia intellettualmente. Aveva cervello Angelo. Si era laureato con il massimo dei voti in matematica, con un curriculum invidiabile e in un tempo record. I suoi capelli ricci e mori come la barba erano, però, sempre troppo lunghi e poco curati. Questo non piaceva al professor Di Strada, magistrato e professore ordinario alla Facoltà di Giurisprudenza. E non gli piaceva che suo figlio fosse una persona estroversa e allegra, aperta al mondo, alle amicizie e alle frequentazioni di ogni rango. Perché Angelo era una mente curiosa, amava conoscere, incontrare gente, chiacchierare. Ed era un comportamento totalmente intollerabile in seno alla famiglia dalla quale proveniva, nella quale il rigore e le apparenze dovevano venire sempre al di sopra di qualunque altra cosa. Elisa era la sua migliore amica. Lo era stata dal primo momento in cui era esistito, giacché avevano dovuto condividere lo stesso utero per poco più di otto mesi. In verità Elisa non assomigliava a nessuno della famiglia Di Strada. La madre, la signora Laura, era una donna che aveva imparato a sacrificare ogni sua aspirazione professionale in favore della carriera pubblica del marito e si era costruita una torre d’avorio dalla quale guardava lontana e fredda le vite dei propri figli, ai quali aveva impartito un’educazione severa che non aveva lasciato molto spazio all’affettività. Elisa era bellissima, quasi di un altro pianeta per la sua perfezione fisica. Capelli lunghi biondo scuro e occhi di un blu notte, rarissimi se non unici. Il suo corpo slanciato e asciutto si nascondeva sempre sotto felpe nere di due misure più grandi e jeans a taglio dritto che sfilacciati strusciavano perennemente a terra. Era diversa dal suo gemello, in realtà fratello, la sua metà mancante.
Lei non era cervello: lei era arte, ione e istinto. Angelo era la parola dei suoi silenzi, lei la verità scomoda della sua coscienza. Elisa gli era stata messa accanto come il grillo parlante a Pinocchio, di questo Angelo si era convinto con il are degli anni, accumulando occhiatacce e litigate dalle quali usciva sempre e costantemente sconfitto dalla testardaggine della sorella, che non mollava la presa fintanto che non vedeva crollare le mura che intendeva abbattere. A vederli insieme si aveva l’idea di guardare un’unica persona, perfettamente completa in tutto. Elisa toglieva quegli abiti scuri e informi, dentro i quali si nascondeva, solo per danzare. La musica era la sua vita, la danza il suo mondo. Aveva messo le sue prime scarpette a sei anni ed era entrata in Accademia a undici. Non aveva resistito a lungo alle imposizioni e alla disciplina accademiche, approdando dopo tre anni a una più comune vita da liceale, e continuando a danzare in una delle migliori scuole di formazione professionale di Roma. Elisa era taciturna, chiusa nei suoi pensieri e nei suoi sogni. Studiava quanto doveva per arrivare alla sufficienza: “Il minimo sindacale” diceva Angelo, rimarcando sempre quel suo sfuggire agli obblighi, alle regole e al normale ordine di ciò che doveva essere fatto. Ed era proprio il concetto di normale che li rendeva completamente diversi e opposti. Per Angelo l’idea di normalità era inserita in un quadro di ordine, molto simile alla curva di Gauss con le sue variabili, un’idea sofisticatamente filosofica che “in medio stat virtus”, esattamente quel medio inviso a Elisa, che lo combatteva con acredine e tenacia, perché nulla poteva essere vero e libero se era costretto a conformarsi a canoni tacitamente imposti. Nonostante non fosse l’espressione del conformismo e sfidasse incessantemente la disciplina regnante all’interno della sua rigida famiglia, Elisa era da sempre la pupilla del padre che si ostinava a credere nel suo futuro di brillante penalista, sebbene non trovasse valide conferme nel suo lento e poco esaltante percorso universitario, e che le lasciava esprimere il suo fulgido talento artistico come una
forma di divagazione e non come un’ipotetica strada per la propria realizzazione. Elisa ruggiva dentro quella figura che avevano costruito su di lei e che le calzava stretta diversamente dai suoi abiti larghi e anonimi, nei quali sentiva di poter rimanere quella che era davvero, senza la paura di soffocare. Odiava quel futuro imposto, fatto di corsi e ricorsi storici: avvocato il nonno materno, come sua madre, e magistrato suo padre, in un incessante ripetersi di una sequenza senza fine, in cui la legge era paradossalmente quella uguale per tutti e che non ammetteva interpretazioni. Agli occhi del professor Di Strada, Elisa era sempre un gradino superiore ad Angelo che con il suo centodieci e lode, le sue borse di studio e la collaborazione alla cattedra di analisi matematica rimaneva il figlio con i capelli troppo lunghi e sempre disordinati. Poco importava se Elisa fumava e sbatteva le porte quando litigava con sua madre. Non importava, perché Elisa era ciò che lui si aspettava che fosse, indipendentemente da quando sarebbe accaduto. Elisa e Angelo, però, avevano il loro mondo fatto di amici condivisi, di confidenze, di silenzi, di sguardi e di parole. Un universo all’interno del quale si muovevano come nell’utero che li aveva ospitati prima di venire alla luce. Un luogo spirituale che apparteneva soltanto a loro, dove due anime tanto diverse riuscivano a fondersi divenendo di due metà un intero e pensieri tanto distanti finalmente si toccavano, raggiungendo l’assoluta comprensione delle cose e del loro evolversi e svolgersi. Avevano sedici anni quando, verso sera, Elisa entrò nella stanza di Angelo e si lanciò sul suo letto, schiacciando il viso sul cuscino. - Com’è stato? Le chiese Angelo con dolcezza, appoggiando la penna sul quaderno mentre faceva diligentemente i compiti seduto alla sua scrivania, senza neppure voltarsi a guardarla. - Strano. Gli rispose soffocando le parole nel cuscino.
Angelo si alzò dalla sedia e si sdraiò al suo fianco ad ascoltare il loro silenzio. L’importante non erano le parole, neppure le spiegazioni. Quello che importava era ritrovare pace nella loro unità, equilibrio nel loro essere presenti l’uno all’altra. Non era questione di sentirsi meno soli. La solitudine era probabilmente uno dei pochi sentimenti che non riuscivano a sconfiggere insieme, ma le loro solitudini vicine erano di gran lunga più sopportabili. Avevano sedici anni allora, ma Luca sarebbe stato per sempre il primo e unico ragazzo di Elisa. Forse non era stato il grande amore della sua vita ma certamente era la persona migliore che potesse avere accanto per crescere e per sentirsi amata. E poi c’era Bianca. La sorella che non aveva mai avuto. Si erano conosciute all’asilo e si erano detestate per i primi tre anni delle elementari. Dopo l’ennesima litigata furibonda, intorno agli otto anni, furono obbligate a are la ricreazione di un mese intero sedute una vicina all’altra. Così divennero amiche. Amiche del cuore, sorelle per scelta. Dopo il liceo, lo stesso ma in classi diverse, forse per continuare a onorare il rito della ricreazione ata insieme, Bianca aveva scelto la facoltà di medicina, per piacere e per tradizione, poiché era figlia di un chirurgo e di una pediatra. Fu proprio grazie a Bianca che Alessandro era entrato a far parte della combriccola di amici. Se l’era trascinato dietro dopo una giornata ata insieme in Pronto Soccorso a guardare e imparare. Alessandro era cinque anni più grande di loro e, quando si conobbero, era già laureato. Aveva avuto una costanza ferrea nello studio, era già medico a venticinque anni, con l’esame di Stato per l’abilitazione già sostenuto. Aveva vinto subito il concorso per la scuola di specializzazione in chirurgia generale e prestava la sua attività di borsista presso il policlinico Umberto I. “Taglia e cuci” lo chiamavano scherzando. Bianca pendeva letteralmente dalle sue labbra, non a torto, anche perché oltre che simpatico era indiscutibilmente molto affascinante. Il suo carattere estroverso e il suo incontestabile carisma non facevano altro che aggiungere punteggio alle sue doti di ammaliatore e trascinatore del gruppo di amici. Alto e moro, la sua vera bellezza erano gli occhi color miele di castagno. Così li
definì una sera Elisa, forse dopo aver bevuto un bicchiere di vino più del dovuto, e da allora Alessandro aveva scommesso con loro che sarebbe riuscito a far inserire nella sua carta d’identità quella definizione. Gli fu ovviamente negato dall’impiegata dell’ufficio anagrafico che, apponendo il timbro al nuovo documento, arrossiva e abbassava gli occhi, imbarazzata e intimidita dall’audace sguardo castano del dottor Salvemini. Fatto sta, che da quella sera il miele di castagno divenne assolutamente il preferito di Bianca. Purtroppo, però, Alessandro ne aveva assai poco da offrire, quantomeno a Bianca. Angelo e Alessandro legarono sin dal primo momento in maniera particolare. Ad accomunarli era principalmente l’allegria e il trasporto con cui animavano le loro discussioni. La loro amicizia era fatta di reciproca stima, di confidenza, di amore per le stesse cose. Una in particolare probabilmente: Elisa. Bianca sapeva. Bianca vedeva. E continuava a desiderare il miele di castagno. Elisa sorrideva e nel suo silenzio guardava sospirando Luca. Non stavano più insieme da qualche mese. Forse erano solo stanchi dopo tanti anni. Probabilmente avevano voglia di guardare nuovi orizzonti. Ed erano amici, amici più che mai. Forse perché in realtà non si erano mai amati davvero. Si erano voluti bene, e se ne volevano ancora tantissimo. Erano diventati grandi insieme, imparando ad amarsi spinti dalla curiosità e dall’affetto, dalla reciproca attrazione certamente, ma senza essere mai stati travolti veramente dalla ione tumultuosa dei grandi amori. E si chiedevano intimamente come sarebbe stato fare l’amore con qualcun altro. - Perché non dici la verità a papà? Le chiese per l’ennesima volta Angelo, quando stava per avvicinarsi una nuova sessione d’esami cui Elisa non avrebbe partecipato. Ormai tutti quelli del gruppo si erano laureati, tutti tranne Bianca ed Elisa. Bianca, però, era come un treno in corsa, macinava esami su esami e frequentava la facoltà di Medicina assiduamente e volontariamente, sempre al seguito di Alessandro che era diventato un po’ il faro dei laureandi e, in qualità di specializzando capo, frequentava camere operatorie e Pronto Soccorso con
mansioni assistenziali e operative. Elisa invece non sosteneva esami da oltre un anno. I dottori Di Strada, però, non sapevano. Erano sicuri che Elisa s’impegnasse, con i suoi tempi, con i suoi ritardi e le sue distrazioni legate alla danza. Mai avrebbero immaginato che in realtà aveva abbandonato gli studi e non aveva neppure pagato la retta universitaria, convinta con quello strappo segreto di aver definitivamente scelto la sua strada. Non le mancava il coraggio di affrontare il problema con i suoi, ripeteva ad Angelo, era solo questione di trovare il momento giusto per farlo. Da oltre un anno continuava a ripeterlo a se stessa. - E tu? Perché tu non dici la verità, Angelo? Probabilmente sia Angelo sia Elisa avrebbero dovuto sapere che nessuna verità rimane a lungo segreta o nascosta. Anche se tenti di evitarla, sarà lei a venirti a cercare.
Capitolo 2
Angelo e Alessandro avevano una ione comune. La chitarra. Angelo aveva studiato chitarra classica sin da bambino e poi si era dedicato anche allo studio di quella elettrica. Del resto a casa Di Strada la musica e le arti in genere erano molto incentivate, con ferma convinzione che la completezza della persona si costruisca attraverso la conoscenza in ogni suo aspetto. Per Alessandro invece era stata la scoperta fatta in età adolescenziale. Autodidatta, aveva imparato a suonare per il piacere di poter cantare i suoi autori preferiti. Aveva una bella voce e un orecchio molto capace, gli piaceva esibirsi in compagnia, non per narcisismo ma semplicemente per sincero divertimento. L’uno preciso e rigoroso negli arpeggi, l’altro si lasciava guidare da istinto e talento innato. E alla fine il loro livello tecnico era quasi lo stesso. Si chiudevano nella stanza di Angelo a suonare o semplicemente ad ascoltare la loro musica preferita, in quei pomeriggi in cui erano liberi dai rispettivi impegni accademici. Elisa li ascoltava parlare attraverso il muro che separava le loro camere da letto ed era felice che Angelo avesse finalmente trovato un amico così fidato e di animo gentile come Alessandro, uno che apprezzasse il fratello ben oltre le apparenze e che lo conoscesse quasi quanto lei. Difficilmente Elisa sorrideva ma Alessandro, con la sua simpatia e la sua allegria, aveva portato nella loro austera casa una ventata di gioia nuova. Il pomeriggio in cui i dottori Di Strada rientrarono insieme, inaspettatamente per quell’orario, anche Alessandro si trovava in casa con loro. La porta che sbatteva con violenza era il segnale di venti di guerra in arrivo. La prima grande verità nascosta stava per essere rivelata. Elisa non era pronta. Elisa non ci aveva neppure pensato, troppo intenta a
preparare lo spettacolo di fine febbraio con la compagnia di danza contemporanea. Anche le chitarre smisero di suonare. - Elisa! Il professor Di Strada tuonò dal salone di rappresentanza della loro bella casa al quartiere Coppedé. La signora Laura, con il viso tirato, era seduta nervosamente in pizzo al grande divano di pelle bianca e aspettava con aria torva la figlia, facendo tremare velocemente il ginocchio. Elisa comparve nella sua tuta nera, le mani nascoste dentro i polsini, i capelli disordinatamente tenuti in su da una matita, ai piedi soltanto un pesante paio di calzettoni, gli stessi che usava per provare in sala quando aveva troppo freddo. In quella casa faceva sempre troppo freddo. Sembrava una bambina con la bocca ancora sporca dello zucchero di caramelle appena rubate. Ma gli occhi no, quelli non erano di bambina e non erano abbassati. Erano gli occhi di una donna forte e volitiva che non aveva paura di sfidare il mondo anche da sola. A costo di morirne per poi rinascere di nuovo più forte di prima. - L’avevo avvertita. Avrebbe dovuto giocare d’anticipo, ma non mi ha ascoltato, come al solito - disse Angelo a bassa voce, rivolto più a se stesso che ad Alessandro, ben sapendo quello che stava per accadere - Lo avrebbero scoperto alla fine, se solo glielo avesse detto prima, si sarebbe risparmiata il loro disprezzo. Forse... Rimasero sospesi in attesa dello scatenarsi del terremoto. Perché Elisa, che al mondo intero appariva introversa e chiusa, silenziosa e distaccata, in realtà era un concentrato di rabbia e tensione pronte a esplodere. Lo sapeva Angelo, che ascoltava le sue sfuriate per poi offrirle la spalla su cui piangere, come una battigia sicura su cui infrangere l’onda violenta e mostruosa che era partita dal largo di un oceano profondo e imperscrutabile. Lo sapeva Luca, che ormai aveva imparato a camminare sul terreno minato dei suoi sbalzi di umore, evitando tutto ciò che poteva scatenare discussioni estenuanti e senza
fine, dalle quali usciva sempre lui esasperato e dolorante ma soprattutto sempre più solo. E lo sapevano i suoi genitori, che consideravano questo lato ribelle del suo carattere una parte indelebile del suo genio, una giustificazione che continuavano a firmare per convincersi che tutto sarebbe andato secondo i loro piani, indipendentemente dalle deviazioni sul percorso che Elisa continuava a fare. - Io non sono quello che voi volete che io sia! Gridò con acredine, attaccando prima ancora di essere attaccata. Non si sarebbe arresa senza combattere, non si sarebbe arresa mai. A costo di morirne. Lo diceva sempre ad Angelo quelle volte in cui il fratello tentava di farla ragionare e di spingerla a parlare con i genitori della sua scelta prima che asse per un tradimento vero e proprio. Nessun tradimento, rispondeva Elisa, era soltanto una questione di tempi sbagliati e prima o poi avrebbe trovato il momento adatto per affrontare la questione. Il tempo l’aveva colta di sorpresa e non era stata lei a scegliere quando. Aveva programmato qualcosa che era evidentemente sfuggito dal suo controllo. Forse perché Elisa non voleva ammettere che nessuno al mondo ha controllo sul proprio futuro. Neppure lei e le sue indiscutibili verità. Esattamente come pretendeva che non ne avessero i suoi genitori. Probabilmente solo Dio, ma Elisa non credeva in Dio. O meglio non credeva nel Dio imposto dalla religione, costretto anche Lui in tristi e biechi ricatti umani. Se Dio era verità, allora il Dio di Elisa era altrove. Non certo nascosto nel lucore del tramonto dietro la cupola di San Pietro e stampato sulle cartoline che le frotte di turisti con i cappellini di paglia e le macchine fotografiche al collo acquistavano a milioni tra Borgo Pio e Via Ottaviano. Il professor Di Strada replicò con tono alterato: - Non ti permetto di rivolgerti a noi con questi toni. Hai infangato il mio nome! Mi hai umiliato! Avresti dovuto parlarne con noi e non farmi trovare di fronte al fatto compiuto con uno dei miei colleghi. Elisa scoppiò a piangere furibonda. Non aveva un piano di difesa, non un copione da cui attingere. Il padre era stato fermato nei corridoi della Facoltà di Giurisprudenza dal suo amico e professore di storia del diritto romano, il quale aveva notato la strana
assenza di Elisa, non solo nelle sue sessioni di esame ma parlando con altri colleghi anche da quella di tutti gli altri del terzo anno. Al professor Di Strada erano bastate due telefonate: una alla sua segretaria e l’altra ricevuta dalla stessa, che contattata l’amministrazione aveva scoperto la mancata iscrizione di Elisa al quarto anno. Come aveva potuto pensare di sfuggire al destino? Quale destino? Era stata una sua scelta, “il destino non esiste” continuava a deprecarsi interiormente. Avrebbe volentieri preso a testate il muro. Doveva reagire. Soprattutto doveva fare in modo che non asse l’idea che avessero ragione loro. La vita era sua e soltanto lei poteva deciderne. - Voi non avete mai ascoltato! Voi non volete vedere. Avete la vostra verità. E quella vi fa stare bene, quella vi serve a dimostrare chi siete al resto del mondo! La signora Laura si era alzata in piedi con viso duro e occhi severi verso quella figlia ribelle e maldisposta ad accettare regole e imposizioni. - Elisa, ci hai deluso profondamente. - Per che cosa? Perché non sono come voi vorreste? Per cosa mamma? Tu sei quello che qualcun altro ha voluto per te. Non hai mai combattuto per te stessa, non hai fatto nulla che non ti fosse stato imposto. Io non voglio essere un burattino come voi o come Angelo, che è costretto a essere ciò che non è solo per compiacervi! No! Io no! Non voglio diventare un avvocato! Voltò loro le spalle, sbattendo la porta della sua camera, con le lacrime amare che le rigavano il volto e un peso in meno sullo stomaco, i signori Di Strada rimanevano gelati e muti, prendendo coscienza di fatti che ben conoscevano ma che preferivano non vedere. “Non sto scappando, non sto scappando! Li ho colpiti e non sto scappando!” Nel suo cervello continuava a rimbombare quel pensiero, per convincersi che aveva tutta la ragione dalla sua parte e che aveva combattuto una buona battaglia per l’affermazione di sé. Respingeva con fermezza la possibilità che alcune verità possano anche trovarsi nel mezzo. La forza è di chi vince, nel mezzo stanno sempre i feriti e i morti. Su
ogni campo di battaglia. E per Elisa non esistevano tavoli di negoziazione, quello era un “medio” che non conosceva e che non ambiva a conoscere. Angelo e Alessandro si guardarono senza sapere che cosa dirsi. La sentivano piangere e sbattere le cose con violenza contro il muro mentre si preparava a uscire. Scivolò via da casa senza una parola. Aveva bisogno di sfogare la sua rabbia e la sua paura di aver finalmente affrontato a viso scoperto il problema che la stava dilaniando nell’ultimo anno. Non voleva ammettere che il problema le era piombato addosso e l’aveva aggredita senza che lei potesse ancora una volta schivarlo. Non poteva riconoscere che forse non aveva avuto il coraggio di affrontare le cose e aveva semplicemente aspettato che esse accadessero. Era stata vigliacca, ma questo non era ammissibile per lei. Voleva danzare. Quello era ciò che voleva fare davvero. Anche se non fosse mai diventata qualcuno, lei voleva ad ogni costo esprimere la sua vita e il suo essere nell’unico modo in cui era capace di sentirsi davvero libera e pienamente se stessa. I genitori la volevano avvocato affinché seguisse le orme del padre e si affermasse, come invece non aveva fatto sua madre, preferendo vivere all’ombra del marito. Lei voleva danzare. E abbandonarsi alla musica in un mondo tutto e solo suo. Elisa e Luca avevano cominciato ad allontanarsi proprio in seguito al suo abbandono segreto degli studi e del mondo universitario. Luca la ammirava ballare ma desiderava condividere con lei la carriera forense. Litigarono un paio di volte e poi decisero di non toccare più l’argomento e la cosa ricadde quasi immediatamente tra le loro lenzuola. Era più facile dormire che guardarsi in faccia e non riconoscersi più, essendo cresciuti e avendo scelto strade diverse da percorrere da quelle che avevano sognato insieme.
Elisa danzava con tutta l’anima. Elisa danzava esponendo il dolore con cui viveva e rivelando la gioia che non riusciva a trovare altrove. Era brava. Lo era davvero. E sapeva trasmettere emozioni, faceva battere i cuori ogni volta che saliva sul palco. Gli occhi del pubblico erano sempre tutti per lei, anche quando era solo una piccola parte dell’intero. Lei ballava e brillava. Diveniva essenza pura. Quella sera si chiuse nella sala vuota e fredda. Era a sua disposizione quando non era occupata dalle lezioni dei corsi. Era la ballerina più promettente della compagnia, era l’unica cui era concesso anche di improvvisare in scena quando aveva degli assoli, così che alcune delle riprese video divennero dei piccoli e rari tesori coreografici. Inserì il cd nell’impianto hi-fi e scelse la traccia: Comptine D'un Autre été L'après-midi di Yann Tiersen . Tolti i calzettoni e tirate al ginocchio le coulisse dei pantaloni della tuta, rimase immobile davanti allo specchio, perdendosi nei suoi occhi rossi di pianto e duri di determinazione. Avrebbe lottato per il suo sogno, avrebbe difeso la sua verità. La verità era che Elisa non sarebbe mai diventata un avvocato. La verità era che Elisa avrebbe danzato per sempre. Fosse costato quel che fosse costato. Anche il disprezzo dei suoi. Elisa non aveva paura del disprezzo. Elisa temeva invece il non poter essere ciò che realmente era. Si lasciò andare tra le note. Respiro e musica, occhi e sudore, anima e corpo, braccia e gambe, muscoli che si tendono e si rilassano. Elisa volava. Elisa soffriva. Elisa esisteva. E trasformava il dolore in gioia ed estasi. Aveva messo la colonna sonora del film “Il favoloso mondo di Amelie”. Era uno
dei suoi preferiti, ma non si sentiva come Amelie. Invece Elisa e Amelie avevano molto più in comune di quanto lei avesse mai potuto o voluto vedere. Elisa, però, non avrebbe mai potuto scoprire la bellezza del fare del bene anche a se stessa, così intenta a combattere per la sua verità e di chi faceva parte della sua vita. Se solo si fosse fermata a scrutare ancora più profondamente dentro i suoi rarissimi e severi occhi blu notte, avrebbe avuto la possibilità di poter vedere che la felicità è ciò a cui siamo destinati. Alla fine. Chi la guardava con attenzione da mesi era Alessandro, il quale riusciva a scorgerla anche dentro i suoi larghi e anonimi vestiti. Alessandro la osservava con discrezione. La conosceva attraverso l’amico Angelo, di cui Elisa non era altro che uno specchio che riflette simmetricamente. Ciò che in Angelo era destra diveniva sinistra in Elisa, come ciò che in Angelo era razionalità diveniva in Elisa istinto. Angelo era calcolo e scienza, Elisa ispirazione e poesia. Angelo coscienza e ubbidienza, Elisa ionalità e ribellione. E Alessandro scorgeva in entrambi un bellissimo unico piano divino. Angelo era l’amico che non aveva mai avuto, Elisa la donna di cui era innamorato. Anche se lei era ancora di Luca, o almeno pensava di esserlo. Rimase appoggiato allo stipite della porta, perso a seguire quel corpo perfetto che diveniva aria e musica. Accarezzava con gli occhi quei muscoli tirati. Elisa aveva avuto un guizzo e un bagliore rapido accorgendosi della sua presenza dal riflesso dello specchio. Aveva continuato la sequenza, chiudendo gli occhi per non lasciarsi distrarre fino alla fine del brano. Era sudata e stanca, ma nuovamente se stessa, senza il turbamento che l’aveva condotta in sala quella sera. Mentre spegneva la musica, si rivolse con un mezzo sorriso ad Alessandro: - Che ci fai tu qui? - Mi ha detto Angelo dove trovarti.
- E allora? - Stai bene? - Meglio. Ho deluso i miei genitori. Ai loro occhi sarò una fallita sognatrice. Ma sì, sto meglio. Sono libera, finalmente. Mi guardo allo specchio e mi vedo per quello che sono... almeno non devo più nascondermi, come fa Angelo. Alessandro era incantato dalla sua bellezza. Era molto più donna di quanto lei stessa avesse mai creduto. Pur essendosi frequentati per mesi nella stessa compagnia e nella stessa casa, che ormai Alessandro frequentava assiduamente, in realtà non avevano mai parlato tra loro delle loro cose personali. Si conoscevano bene, però. Attraverso Angelo. - Balli divinamente. Tuo fratello me l’aveva detto e ho visto qualche foto in casa tua. Ma non avrei mai immaginato... Elisa lo guardava e lo ascoltava come se fosse stata la prima volta che lo vedesse in vita sua. Forse perché per la prima volta Alessandro si era mostrato interessato a lei. O semplicemente perché con un peso in meno sulla coscienza riusciva anche ad accorgersi di quanto la circondava, senza rimanere fredda e chiusa nei suoi problemi e tormenti interiori. - E che cosa avresti immaginato? Lo sfidò Elisa, giocando a provocarlo. - Non lo so, semplicemente non t’immaginavo. È come vederti per la prima volta Aveva ragione lui. Elisa lo sapeva. - Vado a cambiarmi. Che fai? Mi aspetti o vai via, dopo aver immaginato? Alessandro sorrise con gusto alla sua impertinenza. - Ti aspetto fuori. Gli altri sono al pub, li raggiungiamo? Dopo una ventina di minuti, Elisa era riapparsa, nuovamente imbacuccata nei suoi abiti di sempre, una corazza avrebbe pensato da allora in poi Alessandro,
che l’aveva finalmente vista danzare. Se l’era trovata di fronte, quasi all’improvviso, illuminata soltanto dai lampioni del viale. Il profumo di capelli appena lavati e di doccia schiuma appena asciugato gli era penetrato nelle narici accendendo sensi ed evocando emozioni. Non ci pensò nemmeno due secondi. Al primo aveva già appoggiato le sue labbra su quelle di Elisa assaporandone la calda carnosità. Si baciarono giusto il tempo di are l’uno attraverso l’altra ma non abbastanza affinché Elisa si abbandonasse completamente a lui. Si era tirata indietro imbarazzata. Era stata colta di sorpresa. O forse no. La sorpresa era nello scoprire che le piaceva e nel non accettarlo. Si sentiva ancora vincolata a Luca, anche se non erano più insieme. E a Bianca che desiderava il miele di castagno. - Scusa... Aveva sussurrato, abbassando gli occhi. - Capisco. Le aveva risposto Alessandro con rammarico e sempre più convinto di non avere fretta. Le cose migliori meritano tempo, hanno bisogno di maturare lentamente, come le opere d’arte che vengono ispirate nel barlume di un attimo intuitivo e portate a compimento anche nel corso di una vita intera. Non si erano detti una parola durante il quarto d’ora di macchina che li conduceva al pub. E quando si accomodarono al tavolo con Angelo, Luca e Bianca, tutto quello che era capitato poco prima era stato prontamente infilato in un remoto cassetto in fondo all’anima. - Allora? Ce l’hai fatta? Hai affrontato il mostro? Le aveva chiesto Luca sarcastico, informato da Angelo di quello che era accaduto qualche ora prima nel salone di casa Di Strada.
Luca si era laureato un anno prima in giurisprudenza, quasi contemporaneamente ad Angelo, e frequentava come tirocinante lo studio dei Di Strada. Forse era stato anche questo a tenere ancora in vita il loro legame ormai finito. Un senso di rispetto reciproco e di solidarietà più tipica tra due fratelli, o amici, piuttosto che tra fidanzati. Pur avendo chiarito tra loro che avrebbero potuto guardarsi intorno in cerca di nuovi affetti, mantenevano una sorta di indissolubile fedeltà cui, in verità, non erano tenuti ma che ancora li legava. - In realtà è il mostro ad avere affrontato me. Aveva risposto infastidita Elisa, sapendo che il mostro era a casa ad aspettarla e di certo non se l’era cavata girando le spalle e sfuggendo alle sue responsabilità. - Bolsena! - aveva proposto Angelo con entusiasmo, tagliando corto per evitare inutili discussioni tra Luca ed Elisa, che iniziava palesemente a inacidirsi. - Che ne dite? Ho trovato una bella villa in affitto per la settimana di Capodanno. Otto posti letto. Chi ci sta? Tutti d’accordo. Elisa avrebbe portato con sé Giada, la sua amica della compagnia di ballo, coetanea e neo laureata in lettere moderne, mentre Alessandro lo avrebbe proposto a Fabio, un laureando in medicina a cui mancava solo la discussione della tesi che stava appunto preparando insieme con lui.
Capitolo 3
Si erano dati appuntamento all’uscita dal raccordo sulla via Cassia, il ventinove dicembre, subito dopo pranzo. Il Natale a casa Di Strada era trascorso tra silenzi e musi lunghi, onorando inviti e ricevimenti sia di rappresentanza sia familiari. Nessuno osava toccare alcun argomento suscettibile e così ogni problema da affrontare era stato diplomaticamente rimandato fin dopo le festività. Era uno degli inverni più freddi degli ultimi anni. Almeno così dicevano i telegiornali. Elisa ribadiva che da sempre a dicembre faceva freddo e che le notizie che avano erano un po’ come il panettone e il pandoro, confezionate in astucci sempre uguali, per dare un senso di sicurezza e di appartenenza a chi le ascoltava. Il primo ad arrivare fu Alessandro, con la sua mini blu elettrico, insieme a Bianca e a Fabio. Erano arrivati direttamente dall’ospedale, dopo la mattinata ata a rimettere a posto e aggiornare le cartelle cliniche del reparto, per potersi concedere quei tre giorni di riposo in santa pace e senza il pensiero di qualche pendenza lasciata in arretrato. Non avevano aspettato a lungo e comunque quel giorno non faceva particolarmente freddo. Un tiepido sole splendeva nell’aria frizzantina e limpida delle tre del pomeriggio. Contemporaneamente erano arrivati anche Angelo, Elisa e Giada in una macchina. Nell’altra, Luca viaggiava da solo ascoltando la radio e pensando al suo futuro con la sensazione pesante di trovarsi al giro di boa. Giada era una ragazza solare, dai lunghi e mossi capelli color rame. Ballerina anche lei, era molto loquace e aperta, differentemente da Elisa. Legava molto con Angelo, con il quale intavolava accese discussioni che finivano sempre in un’allegra risata di resa delle parti. La letterata contro il matematico.
E a vincere era sempre il cordiale senso di amicizia che li univa da tempo. Giada e Bianca invece erano agli antipodi. Probabilmente il loro era un rapporto di tacita tolleranza nel segno di Elisa. L’una esuberante e vivace, l’altra razionale e misurata: nel mezzo Elisa che era affezionata a entrambe proprio per il loro essere così diverse. Ad accomunare Elisa con Giada era certamente l’amore per la danza. Con Bianca invece era tutt’altra storia. Il loro era un rapporto di intima complicità. Più simile all’amore che all’amicizia. Per quello preferivano definirsi sorelle. Del resto si conoscevano sin dai tempi dell’asilo e avevano condiviso praticamente tutto della loro giovane vita. Potremmo a buon bisogno definire Bianca come la coscienza di Elisa ed Elisa la parte folle di Bianca. E la loro amicizia funzionava proprio per il loro essere così diverse e per la loro schietta sincerità nel riconoscerlo.
Angelo aveva scelto proprio un bel posto. Lo aveva trovato su internet, come faceva spesso organizzando vacanze e fine settimana per il gruppetto di amici. La villa si trovava immersa nella campagna, sulla via Francigena, e aveva una bellissima vista sul lago. L’aspetto era quello di un rustico casale in pietra, contornato da un grande giardino con piscina. All’interno tutto era curato con raffinatezza tale che l’ambiente risultava caldo e accogliente, con i colori del cotto e del legno. I ragazzi avevano iniziato a scaricare le macchine, mentre le ragazze andavano in perlustrazione della casa chiedendosi come dividersi la zona notte: due stanze con letto matrimoniale e due doppie con letti singoli. - Angelo e Luca in una doppia, Fabio e Alessandro nell’altra, e una di noi rimarrà da sola, o Giada o io, per me non c’è problema. Aveva proposto Bianca, pratica come al solito, senza esitazioni. E a tutti era parsa una soluzione piuttosto accettabile. Elisa avrebbe desiderato rimanere da sola, ma non aveva il coraggio di contraddire Bianca e così aveva taciuto pensando che Giada e Bianca insieme
avrebbero affettato l’aria col coltello. Lo stesso pensiero che aveva fatto Bianca, prendendo la situazione in mano, prima che qualcun altro potesse disporre diversamente. Elisa avrebbe voluto la solitudine della notte perdersi un po’ nel silenzio, tra i pensieri che affollavano disordinatamente la sua anima. Pensieri sulla sua vita da allora in poi, pensieri su Angelo e sul suo difficile fardello, pensieri su Luca e il senso di colpa che li teneva ancora incollati, su Alessandro e su Bianca. Perché Bianca era Bianca e continuava a desiderare febbrilmente il miele di castagno ed Elisa aveva un cassetto chiuso in fondo all’anima che le pesava sul cuore. Un cassetto che a Bianca non sarebbe piaciuto scoprire e che probabilmente avrebbe ferito anche Luca. Troppi problemi ad affollarle la mente. Era tempo di festa e dunque, invece dei pensieri, sarebbe stato giusto per una volta lasciarsi andare e provare a divertirsi in spensieratezza. - Quelle tre buste vanno riposte in frigo! Sono la nostra cena di fine anno! Aveva urlato con tono ilare Giada. Avevano fatto rifornimento di tutto: cibo, bevande, giochi da tavolo e dvd, tra i quali di certo non avevano incluso commedie o film d’amore. - Horror, thriller, azione. Ma non avete in testa altro che sangue e morte voi? Si era fatta sentire Bianca, storcendo il muso mentre ava in rassegna i film che avevano portato. - No! Anche il sesso, ma abbiamo preferito non portare quel genere per non scandalizzarti troppo! Le aveva replicato Alessandro, facendole un occhiolino che l’aveva quasi tramortita per la malia che ci aveva letto dentro. Alessandro era così, nessun intento provocatorio, semplicemente la voglia di scherzare che inavvertitamente lo portava a essere più affascinante di quanto non volesse o fosse già. Angelo e Alessandro avevano portato anche le chitarre e gli spartiti.
Davanti al fuoco del camino, la loro musica e la cioccolata calda erano certamente una delle cose per cui era valsa la pena di vivere. Lo pensava sicuramente Elisa sorridendo discretamente e costatando che il mondo poteva anche finire in quel momento, mentre erano lì tutti insieme, tutti allegri, tutti legati l’uno all’altro. Una volta sistemato tutto, decisero di andare a fare una eggiata sul lungolago. Il sole era ormai tramontato e il freddo era pungente. Chiacchieravano fumando dalle bocche nascoste dietro le sciarpe. Angelo e Fabio erano andati parecchio avanti rispetto agli altri, persi in una conversazione apionata sulla fisica medica. Gli altri avevano convenuto per la cena una bella spaghettata aglio, olio e peperoncino: - Terremo a bada i bollenti spiriti a suon di alitate, oppure scacceremo le streghe! Aveva detto scherzoso Alessandro, lanciando una fugace occhiata a Elisa e ricevendone una piccata da Bianca. Presso un carrettino lungo la strada avevano comprato un sacco da due chili di castagne che Fabio e Angelo arrostirono sul fuoco del caminetto man mano che Luca le spaccava, mentre Giada e Bianca s’indaffaravano in cucina a preparare la spaghettata. Elisa era rimasta a fumare sul portico da sola, seduta su una sedia e avvolta in un plaid di lana, con lo sguardo perso nel buio del lago. Alessandro la raggiunse, avvicinandosi sorridente. Si appoggiò con la spalla a uno dei tralicci di legno che sorreggevano il portico, guardando nella stessa direzione di Elisa. - Non dovresti fumare, fa male. - Tante cose fanno male. - E allora tu evitale – le disse voltandosi a guardarla con serietà. - Come si evita ciò che si è, se a farti male è proprio il tuo stesso essere?
- Parli di te o di Angelo? - Le aveva chiesto, fissandola nel profondo dei suoi occhi blu e cogliendola alla sprovvista come se per un attimo l’avesse spogliata completamente. Elisa aveva impercettibilmente contratto la mascella, coprendo rapidamente la sua anima messa a nudo. - Parlo della vita. Di tutti. Ogni cosa che decidiamo per noi stessi finisce per far male a qualcuno cui teniamo e alla fine la felicità di uno diventa il tormento dell’altro. Alessandro, colpito dalla sua intima osservazione, la osservava nella penombra delle luci del portico. Era bella e triste. Era molto di più di ciò che lei lasciava trasparire di sé. E la desiderava. Elisa era come l’onda del mare che si allunga sulla terra lambendola, per poi ritirarsi nel suo oceano smisurato, lasciando di sé solo il segno del suo aggio e il ricordo del rumore del suo scrosciare. Mentre spegneva la sigaretta nel posacenere, si stringeva nel plaid e alzatasi ritrovò un tono più leggero e allegro. - Entriamo, che oltre al fumo anche il freddo e l’umido fanno male, dottore! Quando stava per avvicinarsi alla porta d’ingresso, Alessandro le posò una mano sulla spalla, fermando il suo o. - Perché mi sfuggi? Lei non si era voltata, aveva paura che leggesse sul suo volto quell’attimo di smarrimento. Non poteva. Non voleva. Si sentiva infame a desiderare Alessandro. Sarebbe stata la prima a rompere il tacito patto di fedeltà con Luca. E avrebbe rubato il miele di castagno a Bianca. No, non poteva. Elisa non era così. Ribelle sì, folle anche, ma leale fino alla morte. - Non sfuggo, evito le cose che fanno male. - Touché. - Aveva sussurrato Alessandro tra sé e sé.
A tavola si erano accuratamente evitati anche con lo sguardo, cercando con disinvoltura di mantenere chiuso il loro cassetto in fondo all’anima. Angelo ascoltava i silenzi di Elisa da tutta la vita, gli ruggivano come tuoni nella testa, ed era il solo che li sentiva gridare con tutta la loro prorompente violenza, anche quando era Elisa stessa a non ascoltare il suono della propria anima e del proprio cuore. Angelo vedeva chiaramente il desiderio dell’amico fraterno e sentiva addosso a sé, come fosse cosa sua, la difficile opera di repressione che Elisa stava facendo su se stessa per evitarlo. Era lo stesso tentativo di soffocare il proprio essere che Angelo aveva operato sulla propria vita da sempre. Per compiacere gli altri. O forse soltanto per paura del loro disprezzo. Aveva tentato in ogni modo di essere il figlio di cui i dottori Di Strada potessero andar fieri. C’erano, però, sempre quei capelli troppo lunghi o troppo disordinati, anche quando erano tagliati o messi in ordine. Anche Bianca percepiva l’elettricità fremente che iniziava a correre tra Alessandro ed Elisa, ma preferiva non vedere e sperare che l’amica rimanesse ferrea sulle sue posizioni, conoscendola bene. Bianca desiderava il miele di castagno e sapeva che senza Elisa sarebbe potuto essere suo. Si deprecava per quel pensiero così perfido verso la sua amica di una vita, verso la sua sorella per scelta. Un pensiero di gelosia che non le era mai appartenuto e che la stava dilaniando tra desiderio e senso di colpa. Non avrebbero affrontato l’argomento, perché in fondo per il momento non c’era davvero nulla da dirsi. Che Bianca fosse attratta da Alessandro lo sapevano anche i muri, del resto lei non faceva nulla per schermirsi. Bianca era carina e intelligente, simpatica con la giusta misura. Molto più femminile di Elisa, il suo corpo minuto era sempre enfatizzato con abiti di buon gusto e i suoi occhi verdi parlavano molto più che la sua lingua. Anche Alessandro sapeva e vedeva, erano amici. Ormai da mesi lavoravano fianco a fianco, e lui cercava di essere in ogni occasione il più disinvolto possibile. Faceva finta di non intendere quando Bianca lanciava qualche
frecciatina o gli posava la mano sul braccio, facendolo are come un gesto amichevole ma il cui tremore lo trasformava sempre in qualcosa che imbarazzava Alessandro, il quale si sentiva certamente immeritevole di quell’interesse non ricambiato da parte sua. Si ritrovarono a chiacchierare divisi in gruppi. Era tardi, la notte e il silenzio della campagna avvolgevano i loro discorsi prossimi al sonno. Angelo e Fabio non avevano smesso un attimo di parlare, scoprendo le centinaia di ioni in comune e l’affinità di pensieri e idee, come se si fossero già conosciuti in una vita ata. Libri, musica, film, posti e viaggi: ogni cosa sembrava accomunarli. Di certo Fabio non era lì per caso. Alessandro sapeva di Angelo e intuiva di Fabio. Alessandro era intelligente e lungimirante, era un medico ma era anche capace di curare le ferite interiori delle persone, aveva quel sesto senso che lo rendeva speciale nell’interpretare i sentimenti degli altri. Amava ridere e gioire e quando lo faceva era per trasmettere la sua gioia anche agli altri.
Su uno dei letti matrimoniali Giada, Bianca e Luca si erano messi ad ascoltare la musica da un iPhone, chiacchierando di cucina e dell’organizzazione del cenone di fine anno. Elisa era rimasta sul divano, davanti al caminetto , le cui fiamme perdevano man mano vigore. Alessandro le sedeva accanto rilassato. - Che cosa farai al rientro? Inizierai a lavorare? - Non lo so. Potrei farmi assegnare un insegnamento dalla scuola di danza, magari una delle classi di propedeutica. In ogni caso avrò da concentrarmi sullo spettacolo di febbraio. Ho ottenuto un buon ruolo, ho due assoli importanti e ci sarà anche qualche giornalista del settore. Lo consideriamo il nostro debutto ufficiale! Alessandro la ascoltava affascinato. Quando Elisa parlava del suo mondo, irradiava ione. - Perché hai deciso di essere un medico?
- Avrei voluto fare il chitarrista. Alla fine del liceo suonavo in una band e avevamo un discreto successo. Abbiamo suonato anche su palchi abbastanza importanti. Ma i miei genitori sono stati intransigenti: dovevo continuare a studiare. E dopo aver visto il film MASH, ho deciso che l’unica strada possibile per me sarebbe stata quel tipo di chirurgia. - Ti sei piegato a ciò che gli altri desideravano per te? - No. Ho trovato un compromesso. - E si vive bene di compromessi? - Gli aveva domandando sollevando il sopracciglio tra sfida e accusa. - L’ho scelto io, perciò sì. - Allora dovrei scendere a compromessi anch’io, secondo te? - Non lo faresti mai. Tu non sei Angelo. E poi, sai? Tu balli talmente bene che puoi permetterti anche di danzare su un sogno. Elisa gli sorrise, confortata dalle sue parole e riscaldata dalla sua stima. Alessandro le stava accarezzando affettuosamente la mano e lei lo lasciò fare.
Il trentuno dicembre si misero all’opera sin dalla mattina. Avrebbero ato il più bel capodanno degli ultimi anni, almeno questo era ciò a cui aspiravano. Di sicuro sarebbe stato l’ultimo che li vedeva tutti insieme, prima che la vita di ognuno fe il suo corso e li portasse su strade diverse. Alcune senza ritorno. Quando si è giovani, si pensa che tutto sarà per sempre e che si potrà avere in seguito la possibilità e il tempo di recuperare ciò che si lascia indietro. Poi però gli anni ano e ci si accorge che quello che non si è preso si è semplicemente perso. Un impercettibile ma tragico scambio di lettera che cambia il destino di tutti per sempre. L’unico “per sempre” a cui non si era pensato. La musica si diffondeva nell’aria e Giada, mentre cucinava e organizzava il cenone, sembrava contemporaneamente danzare. Luca la seguiva divertito e trascinato dalla strana euforia che avvolgeva tutti all’interno di quel casale isolato ai margini delle loro quotidianità.
Elisa non aveva mai ballato come Giada. Elisa lo faceva soltanto entrandoci con l’anima e quando era fuori da quel suo mondo, appariva distaccata e fredda. Invece Giada era gioiosa ed esuberante. Era un sorriso e un’esplosione di vitalità contagiosa che trasmetteva agli altri con la sua fossetta delicata e l’arricciarsi buffo del naso. Luca si lasciava trasportare da quella serenità che Elisa, sempre piena di contrasti e di tormenti, non gli aveva mai offerto. E in quella fine di dicembre, Luca ricominciò a sorridere, come non aveva mai fatto negli ultimi anni, troppo concentrato a risolvere le continue contraddizioni e prese di posizione di Elisa. Era paradossale notare quanto a Elisa mancasse proprio la leggerezza dello spirito, quell’agilità che la rendeva una regina della danza non sembrava appartenerle in tutte le altre situazioni della vita in cui si sentiva continuamente trascinata sul fondo dell’oceano da un peso attaccato addosso del quale non riusciva a liberarsi. Mai. Luca le era stato fedelmente accanto per oltre sette anni, erano cresciuti fianco a fianco, imparando insieme ogni cosa dell’amore e della vita, condividendo tutti i i importanti e le scelte che avevano affrontato fino allora. Certo, Luca non aveva mai potuto scegliere, aveva soltanto subito e preso atto delle decisioni di Elisa. Tra loro era sempre stato così, non litigavano neppure più, tanto si conoscevano e sapevano come sarebbero andate le cose. Ormai discutere rientrava nel catalogo dell’inutile spreco di energie. Ed era, infatti, proprio l’energia che si era spenta tra loro, implacabilmente e senza via di ritorno. A un certo punto si erano trovati come dentro una giacca troppo stretta e troppo corta, che pure a tirarla da tutte le parti non sarebbe mai più calzata a pennello come quando la si era acquistata. Non si erano mai realmente lasciati, avevano semplicemente preso atto che la storia d’amore si era esaurita lasciando viva e forte l’amicizia. Perciò Elisa osservava Luca e Giada senza alcuna gelosia, ma con un sereno sollievo anche per se stessa. Sollievo che non poteva provare guardando Bianca e Alessandro. Con loro il mondo diventava soffocante. E lei non voleva soffocare. Angelo prese la chitarra e Alessandro prontamente lo aveva seguito negli
accordi. In breve si erano trovati tutti a canticchiare e ridere insieme delle storpiature delle canzoni. Guardandoli dall’esterno del casale, attraverso una delle finestre, soltanto osservando i loro volti si poteva intuire che la felicità era lì in mezzo proprio in quel momento. Non un attimo prima e neppure quello dopo. La felicità si trovava nello strimpellare allegro delle chitarre, negli occhi languidi di Bianca che scivolavano sulle dita di Alessandro sinuose nel pizzicare le corde, nel sorriso libero di Luca che cantava con il braccio abbandonato intorno alle spalle di Giada, ed era anche nella composta gentilezza di Fabio e nello sguardo fintamente concentrato sullo spartito di Angelo. Elisa non sorrideva ma sapeva anche lei che la felicità era lì con loro e sentiva che avrebbe voluto fermarla come un’istantanea, una fotografia da guardare per sempre anche quando i colori sarebbero sbiaditi e i contorni ingialliti a causa del tempo impietoso e inarrestabile, che nulla risparmia al suo trascorrere. Il ricordo no, il ricordo della felicità resta immobile, incastrato tra l'anima e il cuore e nessun tempo può intaccarlo o deteriorarlo. Fabio era abbagliato da Angelo e lui per la prima volta in vita sua stava nel mondo senza ritrarsi, fiero dei suoi capelli lunghi e scompigliati. Dopo la cena, che avrebbe fatto concorrenza a un ristorante di gran lusso, avevano iniziato a chiacchierare e ballare, come se fossero in un locale qualunque, mossi anche dai bicchieri di spumante che si versavano senza parsimonia. Erano tutti allegri e su di giri. - Ci siamo! Aveva urlato sopra la musica Giada, alzando il volume della televisione sintonizzata su una delle piazze italiane. - Dieci, nove, otto … tre, due uno: buon anno nuovo! Angelo abbracciò con slancio affettuoso Fabio che gli era accanto, Giada e Luca avevano fatto tintinnare i loro calici e Bianca aveva stampato euforica un bacio sulle labbra di Alessandro che imbarazzato guardava verso Elisa. Lei aveva sollevato il sopracciglio, divertita dall’audacia ebbra della sua migliore amica, tenendo chiuso con entrambe le mani il cassetto in fondo alla sua anima.
Felici e sorridenti. Avevano ato la mezzanotte ed erano saltati nel nuovo anno pieni di aspirazioni e voglia di scoprire dove la vita li avrebbe condotti. Vita che stavano prendendo tra le mani, come acqua ancora limpida da una sorgente. Avrebbero dovuto berne a grandi sorsi, perché si sa, l’acqua con le mani non si può portare da nessuna parte. Erano un sette bello: ognuno con il suo sogno, con la sua ambizione e le sue battaglie da affrontare. Ma non in quel momento. L’indomani forse. Quello era l’attimo della felicità. - A un anno importante! Alessandro alzò il calice brindando mentre raggiungeva Elisa all’esterno, sotto il portico. Lei aveva espirato il fumo e gli aveva sorriso divertita, ricordando Bianca che inebriata aveva abbandonato ogni reticenza nel manifestare la sua attrazione. - Ogni anno è importante quando si decide di vivere e di non morire. Disse in tono profetico Elisa. - E allora: alla vita! Aveva sottolineato Alessandro che, avvicinatosi, la fissava negli occhi con intensità. Il cassetto. Elisa doveva assolutamente tenere chiuso il cassetto o avrebbe fatto del male a qualcuno. Ma Alessandro la desiderava. Voleva poter assaggiare di nuovo il suo bacio. E farsi accarezzare i piedi dalla sua onda prima che si ritirasse nuovamente nel profondo del suo oceano. Le aveva posato un tenero bacio sotto l’orecchio, annusando l’odore caldo della sua pelle e sfiorandola con tutto il corpo facendole percepire quanto la amasse e la volesse sua. Elisa, però, non era solamente istinto. Elisa era anche rigoroso controllo per mantenere fede a ciò che credeva giusto. Indipendentemente da quello che realmente desiderava. Prima la lealtà e la correttezza morale, poi l’istinto e la ione. Voleva potersi
guardare dritto negli occhi e riconoscersi per quella che era. Elisa non poteva né voleva tradire nessuno. Come non aveva tradito Angelo e il suo segreto, da tutta la vita. E non avrebbe tradito Bianca. E neppure Luca, finché non fosse stato lui a decidere di seguire la sua strada. - Mi dispiace Alessandro... - Dimmi il perché? Chiese lui con severità, ben comprendendo le ragioni di Elisa ma volendo sentirsele dire da lei. - Perché io, diversamente da te, non scendo a compromessi con me stessa. Tra noi non potrà mai esserci niente più che la nostra amicizia. Lo aveva colpito diretto al cuore, come una pugnalata dalla quale non si era potuto riparare. Gli aveva fatto più male di quanto lui stesso si sarebbe mai aspettato. E si era fatta male da sola. Non le importava. Elisa era integerrima quando decideva qualcosa. Del resto la disciplina faceva parte del suo mondo. La danza non era solo istinto e poesia, ma anche e soprattutto estremo sacrificio. Alessandro le aveva semplicemente voltato le spalle, lasciandola là ad accendersi un’altra sigaretta. Era ferito e addolorato. Era arrabbiato sia con lei sia con se stesso, per non essere riuscito a farle capire quanto fosse forte il suo sentimento e quanto lei fosse per lui qualcosa di irrinunciabile, esattamente come lo era l’aria che respirava per vivere. La durezza di Elisa non gli lasciava varchi per avvicinarsi, era un marmo pregiato difficile da scalfire. Era rientrato in casa mascherando il dolore, la frustrazione e il peso che provava di fronte a quel cassetto ostinatamente chiuso. Si era buttato sul divano, versandosi nuovamente da bere e Bianca, ormai palesemente alticcia, si era seduta sulle sue ginocchia ridendo: - Certo che sarà un anno importante! Quest’anno facciamo il botto e diventiamo tutti grandi! Fabio si laureerà tra due mesi, io in estate e tu ti specializzerai in
autunno!». Progetti o soltanto il risultato dei loro compromessi, pensava in cuor suo. Le aveva sorriso stanco e Bianca gli aveva ato una mano tra i capelli. Il suo miele di castagno era così invitante. Non aspettava altro da mesi che poterci intingere le dita per rubarselo.
Quando Elisa rientrò in casa, nel grande salone erano rimasti soltanto Angelo e Fabio che guardavano la televisione mollemente buttati sul divano, girando assonnati tra un canale e l’altro. - Decidi: o con me o da sola. Le aveva detto Angelo sbadigliando, lasciandole intendere che ormai ogni distribuzione dei posti letto in precedenza progettata era andata a farsi benedire, rimescolando con i fumi dell’alcol gli equilibri, precariamente mantenuti fino allora, del gruppo. A quanto pareva il suo desiderio era stato accolto: sarebbe rimasta da sola a perdersi tra i pensieri e a chiedersi se la sua integrità l’avesse finora ripagata di qualcosa. A parte potersi guardare dritto negli occhi e riconoscersi. E poter guardare dritto negli occhi delle persone che amava senza sentirsi in colpa. Elisa si alzò presto la mattina di capodanno, convinta di potersi crogiolare ancora un po’ nel silenzio e nella solitudine che il sonno dei suoi amici le offriva. Invece aveva trovato Alessandro in cucina che stava preparando il caffè, fissando la macchinetta sul fuoco, con il viso tirato e severo. Non gli aveva mai visto quell’espressione dura e triste sul volto e così aveva cercato un diversivo, pur di non affrontare la questione rimasta in sospeso tra di loro. - Buon anno nuovo! Esclamò con la voce rauca e lui non le rispose. Non si era neppure voltato a salutarla. Era arrabbiato con lei. Era arrabbiato con se stesso. Aveva lasciato che lo sconforto e la rabbia prendessero il sopravvento. Ed era stata tutta colpa di Elisa e del suo cassetto chiuso.
Anche così era riuscita a ferire chi amava. Si detestava per questo. Ogni volta che respirava qualcuno rimaneva offeso da lei. Sarebbe stato meglio cambiare tattica. - Bianca? - Dorme. Era completamente brilla stanotte. Ora le porto il caffè, ne avrà bisogno. Elisa aveva teso le labbra in un sorriso forzato che nascondesse gelosia e senso di colpa, e Bianca era spuntata come un fantasma silenzioso, abbassando gli occhi. Aveva ancora le labbra sporche di miele di castagno ma gli occhi afflitti di chi dopo un’abbondante scorpacciata sta facendo i conti con il mal di pancia. Tutti e tre conoscevano la verità e la evitavano. Tutti e tre si erano fatti del male cercando di evitare ciò che ai loro occhi sembrava ingiusto. Quando si erano messi insieme intorno al tavolo per la prima colazione del nuovo anno, tutto sembrava diverso dalla sera prima. Molte cose erano cambiate e tante altre stavano cambiando. I colori forti e accesi del quadro sulla vita che si erano portati dietro stavano sbiadendo ed esso mutava tonalità senza che nessuno potesse far nulla per evitarlo. L’anno vecchio era partito portandosi via la leggerezza con cui avevano tentato di affrontare le loro giovani vite e il nuovo anno incombeva oscuro ed enigmatico su di loro, pieno di promesse, di sfide e di problemi da risolvere. Il cassetto in fondo all’anima era rimasto lì, chiuso e sigillato, ando da un anno all’altro senza che nessuno avesse avuto il coraggio di guardarci dentro. Chiuso ma non invisibile. Era lì. Lo osservava distante Elisa. Lo temeva Bianca. Lo odiava Alessandro.
Capitolo 4
- Abbiamo regolarizzato le tasse universitarie. Dalla prossima sessione potrai ricominciare a sostenere gli esami. Aveva sentenziato il professor Di Strada a cena, rompendo il silenzio tagliente che intercorreva tra una comunicazione di servizio e l’altra. Non era un’offerta e neppure un patteggiamento, era semplicemente l'ultimo atto di giudizio, quello della sentenza che la condannava in via definitiva. Angelo deglutì nervosamente alzando gli occhi verso la sorella, la quale manteneva lo sguardo basso nel piatto giocando svogliatamente con la forchetta a schiacciare un pezzo di patata lessa e triste com’era lei in quel momento. - Elisa... – disse con forzata accondiscendenza sua madre - Non pretendiamo che tu recuperi a breve ciò che hai lasciato indietro. Ti chiediamo, però, di portare avanti i tuoi studi, per avere una buona possibilità per il tuo futuro. La dottoressa Laura, avvocato anche lei, collaborava nello studio della sua famiglia, da sempre all’ombra di suo marito. - Un compromesso... Sussurrò piena di indignazione Elisa, pensando che non si trattava veramente di un compromesso ma di una vera e propria imposizione, visto che non le era stato chiesto nulla e avevano deciso per lei. Si era ricordata il discorso di Alessandro sulla necessità di cercare sempre nuove strade all’interno del proprio percorso per costruire la propria vita senza necessariamente abbandonare la meta. Lo stesso viaggio, la stessa destinazione ma deviazioni e itinerari differenti dal programma di partenza. Compromessi, esattamente quello che Elisa aveva sempre respinto. - Continuerò a ballare. – disse categorica - Per il momento sto preparando uno spettacolo importante e almeno fin dopo febbraio non intendo concentrarmi su altro.
Aveva voluto ribadire con fermezza, affinché ci fosse almeno una parvenza di accordo tra le parti. Angelo non aveva detto una parola, costretto tra sua sorella, perennemente in lotta con se stessa e con il mondo intero, e i suoi genitori, che si ostinavano a non voler vedere i loro figli per com’erano realmente ma imponendosi con le loro aspirazioni mancate e schiaccianti pretese. Si era alzato alla fine della cena e si era infilato la giacca uscendo. Aveva sentito Fabio. Si diedero appuntamento in una piccola enoteca di Trastevere, per bere insieme un bicchiere di buon vino e parlare un po’, dimenticando per un paio d’ore il peso sullo stomaco che aveva. Fabio aveva ventisei anni, due in più di Angelo, e si sarebbe laureato dopo pochi giorni. Studente brillante e futuro medico dotato di grande umanità, era divenuto in pochissimo tempo un importante appoggio emotivo per Angelo. Il loro essersi incontrati aveva il sapore del destino al quale non sarebbero potuti sfuggire, come se il conoscersi fosse stato soltanto una questione di tempo ma sarebbe dovuto accadere per forza. Era scritto nelle stelle e potevano affermarlo e anche dissertarci sopra. Ne erano convinti. Amavano parlare e sapevano ascoltarsi con attenzione. Condividevano tante ioni, ma ciò che veramente li legava era il loro reciproco riuscire a vedersi dietro la maschera di apparente imperfettibilità che si erano costruiti agli occhi del mondo. La loro eccellenza nelle rispettive discipline non era altro che il voler appianare il tormento interiore che li struggeva da quando si erano scoperti incapaci di trovare una loro completezza affettiva. Angelo aveva avuto solo una storia nella sua vita, con Bianca, intorno ai diciotto anni. Si erano avvicinati quando lei si era lasciata con il suo primo ragazzo e stava ando un momento di profonda depressione. Trascorreva i pomeriggi con Elisa e con Angelo, come si fa da giovani, appoggiando su di loro il suo cuore spezzato affinché potesse trovare conforto e consolazione. E in quell’unica storia di Angelo i dottori Di Strada avevano riposto tutte le loro speranze per il futuro.
Non Elisa però, che vedeva dentro il cuore di suo fratello e ne sentiva il senso di inadeguatezza e di colpa per non riuscire a provare lo slancio che avrebbe meritato un primo innamoramento e per non essere in grado di offrire a Bianca ciò che veramente desiderava. Durò tre mesi, o poco di più, ma già dopo i primi baci ed effusioni, tra i due si avvertiva l’assenza di una protagonista importante in ogni bella storia d’amore: la ione. Si volevano bene, tanto, anzi tantissimo. E imputarono la mancanza di attrattiva erotica proprio al loro profondissimo e fraterno legame di amicizia. Elisa sapeva però che non era Bianca a non funzionare con Angelo, ma che in realtà era Angelo a non funzionare con se stesso, ostinandosi a reprimere la sua natura per paura degli altri e anche di se stesso e dello scoprirsi non così perfetto come in realtà si voleva. Non si era mai dichiarato ma, soprattutto negli ultimi due anni, non si preoccupava più di cercare una compagna per completare il quadro di sé da presentare al mondo. Per Fabio era tutta un’altra storia. Non aveva bisogno di dichiarare nulla, perché non temeva se stesso né il giudizio degli altri. Soprattutto della sua famiglia. Figlio unico di genitori che lo avevano voluto e amato sopra ogni cosa, era abituato a un rapporto affettuoso in cui lui e il suo essere erano al centro e tutto ciò che faceva parte di lui era amato di conseguenza. Aveva deciso di diventare medico perché amava la vita e le persone e desiderava percorrere una strada in cui avrebbe potuto rendere la sua esistenza operativamente utile anche alla vita degli altri. E non si poneva il problema di se stesso, perché il suo baricentro erano gli altri. Angelo e Fabio ovviamente in questo si compensavano e si completavano. Si erano subito attratti come calamite. La loro sintonia era palpabile nell’aria. Erano capaci di capirsi anche solo con un sorriso. Era nel sorriso di Fabio che Angelo trovava la sua pace. Si erano stretti il pugno in segno di saluto ed erano entrati frettolosamente nell’enoteca per trovare riparo dal gelo che c’era fuori. E anche da quello che Angelo sentiva dentro all’anima quando era uscito da casa sua. Pochi tavoli e la musica di sottofondo rendevano quel piccolo ambiente
confortevole e discreto. - Ha perso il controllo? Ha fatto la matta? Domandò Fabio, cercando di spezzare ironicamente la tensione emotiva di Angelo. - No, anzi... Ha stupito anche me. Credo che Alessandro le abbia detto qualcosa che l’abbia fatta ragionare. Però la ammiro. Lei ha coraggio, non si piega e persegue i suoi obiettivi. Tormentandosi magari, ma non li abbandona. Mai. Soffriva sinceramente al pensiero di Elisa e del suo tormento. Guardava assorto il rosso cupo del Taurasi nel calice, quando Fabio allungò una mano posandola sulla sua. Non si scansò. Aveva cercato, invece, di percepire la scarica elettrica che correva tra loro. Il cuore in gola per quel gesto fraterno di comprensione ma che per lui stava segnando un aggio significativo nella presa di coscienza aggressiva e prorompente della sua innata natura. Non poteva continuare a negarlo a se stesso e non voleva negarsi a Fabio. Lo aveva riconosciuto dal primo momento come la parte mancante alla completezza di sé. E lottava con ogni residua forza razionale per respingere le mille sensazioni che provava standogli accanto. Fabio, però, era serenità e stabilità, era coscienza di sé e imperturbabilità. Fabio era ciò che lui non era e che avrebbe desiderato essere. Fabio era in parte come Elisa, decisione e lealtà, ma senza il peso dei tormenti che dilaniavano sua sorella. Quando era con lui, sentiva che il mondo intero si fermava e poteva finalmente concedersi una pausa dalla recitazione costante di un ruolo che non gli apparteneva. - Ti hanno confermato data e ora per la discussione della tesi? - Giovedì prossimo dopo le dieci di mattina. Verrai? - Che domande? Avevi dubbi? Fabio aveva sorriso con tenerezza, non aveva dubbi, ma voleva sentirselo dire.
Quando uscirono dal locale, dopo un paio d’ore di chiacchiere rilassate, il cuore di Angelo si era alleggerito dell’angoscia provata negli ultimi giorni, o forse in tutta la vita. Si erano avvicinati per scambiarsi un abbraccio di saluto, ma i loro occhi si incrociarono scintillando. Erano rimasti un secondo eterno sospesi, osservando le proprie anime sorridenti per essersi finalmente incontrate e poi Fabio, senza timidezza e con uno slancio del tutto naturale, si era allungato sfiorando le labbra di Angelo. Non si ritrasse. Non lo avrebbe fatto mai più nella vita. Con il cuore che gli scoppiava nel petto, tra paura ed eccitazione, Angelo si era abbandonato a un bacio in cui aveva riversato per la prima volta nella vita tutta la bellezza del suo esistere. E Fabio, che fino ad arrivare a lui non aveva mai baciato nessuno, né donna né uomo, aveva percepito immediatamente il reale significato di “per sempre”. Senza il minimo dubbio. Fabio sentiva nettamente che il suo “per sempre” era riposto nel cuore di Angelo. Quando rientrò a casa, Elisa era nella sua camera, sul letto con gli occhi chiusi. La cuffia nelle orecchie e il mondo tagliato fuori. Si era seduto per terra appoggiandosi con la schiena a fianco del letto e scoppiando a piangere in modo incontenibile. Elisa si era tolta le cuffie, si era girata su un fianco e aveva allungato la mano per accarezzare i capelli lunghi e scompigliati di suo fratello: - Com’è stato? Gli aveva chiesto dolcemente. - Strano. Aveva risposto singhiozzando e lasciando andare tutta la tensione accumulata in ventiquattro anni di vita.
Capitolo 5
Alessandro e Bianca cercarono con disinvoltura di ignorare la notte ata insieme e continuarono a frequentarsi da colleghi in ospedale e da amici fuori, come se nulla fosse mai accaduto. In realtà Bianca, che aveva voluto assaggiare quel miele non suo, si sentiva in colpa verso Elisa, ben sapendo che Alessandro non aveva potuto averla, proprio per la lealtà dell’amica nei suoi confronti, ma che la desiderava profondamente. Quando i fumi dell’alcol avevano portato via ogni audacia sconsiderata, a Bianca era rimasto in bocca solo l’amaro retrogusto del miele di castagno. Non che Alessandro stesse meglio. Diviso a metà tra imbarazzo verso Bianca, sulla quale aveva riversato la sua frustrazione, e rabbia verso Elisa, che con il suo rigore non si lasciava andare all’ovvia evidenza del reciproco attrarsi. Elisa anche stava male, aveva respinto Alessandro ferendolo e così facendo aveva anche permesso che Bianca si bruciasse danzando intorno ad un fuoco che la attraeva tanto ma che non era per lei. Erano ritornati alle loro attività trascinandosi dietro l’amara considerazione che nulla avrebbe potuto funzionare se non lasciandolo a ciò che era destinato. Elisa era completamente concentrata a preparare i due assoli importanti per lo spettacolo di debutto della compagnia. Danzava sulle note degli Enigma di “Way to eternity” e di “Smell of desire”. Avrebbero portato in scena “Battiti e respiri” e mai come allora Elisa si era persa tra le note e il corpo, tirando fuori dalla sua anima il dolore represso che le attanagliava il cuore e la sofferenza che le stracciava l’anima nel non riuscire a far cadere la sua maschera di durezza che aveva costruito nel tempo per evitare di essere colpita dalle incongruenze del mondo che la circondava e di mostrare una fragilità che non voleva riconoscersi. Ballava scacciando i suoi demoni interiori. Ballava e sentiva pulsare nelle vene
l’amore di Alessandro. Ballava e cercava di dimenticare tutto e tutti: i suoi genitori, Angelo, Bianca e Luca. Non riusciva tuttavia a cancellare Alessandro. Lui no. Con il suo viso severo e tirato la mattina di capodanno che le gridava in silenzio tutta la rabbia per averlo spinto a essere ciò che non era mai stato. Come Elisa veniva costretta a essere ciò che non voleva essere. Avrebbe dovuto capirlo. Avrebbe dovuto evitarlo. Lei che lottava contro le imposizioni, con il suo rifiuto aveva imposto al destino di rimanere chiuso in un cassetto e aveva ferito le persone a cui voleva bene. Danzava guardandosi allo specchio con occhi profondi e penetranti, ripetendo la sua coreografia all’esasperazione affinché fosse perfetta. Giada la seguiva ma non riusciva a raggiungere il suo livello di espressività emotiva. Era tecnicamente brava, questo fuor di ogni dubbio, anche perché era stata scelta come sua sostituta. Ma non era Elisa. L’una era tensione e tormento, l’altra gioia e romanticismo. La stessa coreografia diveniva completamente differente plasmata da quei due bellissimi corpi. Quando la coreografa lasciò la sala, le due ragazze erano sedute per terra, sfinite e sudate dopo tre ore filate di prove e il silenzio era rotto solo dal loro respiro affannato. Giada era imbarazzata nel trovarsi da sola davanti a Elisa. Ormai frequentava Luca da oltre un mese, ma con l’amica non avevano mai affrontato l’argomento. Si sentiva in soggezione. Come se avesse rotto qualche fantomatico patto di amicizia e di lealtà. Così era stata Elisa a spaccare la lastra di ghiaccio che si era frapposta tra loro: - Luca sembra finalmente felice. Giada era arrossita chinando la testa per non incrociare lo sguardo di Elisa. Lei invece le sorrideva dolcemente e allungando la mano gliel’aveva posata sulla punta del piede: - Giada, io sono contenta per voi. Davvero! Sei la persona migliore che lui potesse avere accanto. Ti merita e tu meriti lui, perché sembrate davvero fatti l’uno per l’altra. Elisa lo diceva con serena sincerità, perché voleva bene a entrambi e li conosceva ormai da anni.
Elisa e Luca erano anime distanti e avevano confuso l’affetto e la devozione con l’amore. Crescendo, erano stati in grado, seppur con grande sofferenza, di riconoscere la loro totale incapacità di camminarsi a fianco. - Credimi, Elisa, il fatto di essermi innamorata proprio di lui mi ha messo in crisi, anche verso me stessa. Io credo di amarlo davvero... vicino a lui mi sento felice. - È innamorato anche lui, si vede. Tu gli dai tutto ciò che io non sono mai stata in grado di offrirgli. E forse sono stata un’egoista a tenerlo legato a me per tanto tempo. Avevamo paura di rimanere soli. Giada alzò gli occhi, velati di lacrime, con un peso in meno sul cuore e sentendo finalmente di poter essere libera di danzare senza l’ombra di Elisa che la seguiva. Avevano finito tardi quella sera, ormai mancavano due settimane alla prima dello spettacolo. Bianca le aspettava fuori, sarebbero andate insieme alla festa di laurea di Fabio. Erano entrate in macchina sfregandosi le mani per il freddo: - Allora? Centodieci e lode? - Che domande! Siamo parlando di Fabio! - Com’è stato? Grande emozione? - Erano tutti emozionati, non lui. Ha discusso benissimo la sua tesi e ha ricevuto i complimenti compiaciuti della commissione. I suoi genitori brillavano di orgoglio. - Chi c’era? - Tutti, tranne voi due! I signori Corsi non avevano badato a spese per festeggiare quel loro unico figlio del quale andavano fieri.
Le tre ragazze arrivarono intorno alle dieci alla tenuta di Castel di Decima e mentre parcheggiavano, sentivano provenire la musica e le risate di chi si stava già divertendo dentro il castello. Quando erano entrate, avevano attirato sguardi e sorrisi. Soprattutto Elisa che per una rara volta non vestiva i suoi abiti informi e incolori, ma indossava un tubino a collo alto smanicato, color ottanio, che arrivava appena sopra il ginocchio e portava scarpe con il tacco, che slanciavano ancor di più il suo fisico asciutto e le lunghe gambe. - Congratulazioni, dottor Corsi! Esclamò allegra Giada abbracciandolo e Fabio le aveva accolte pieno di gioia. - Finalmente siete arrivate! È ora di scatenarsi! Gli altri sono laggiù. Indicò dall’altra parte della sala, in un angolo, Angelo, Alessandro e Luca i quali avevano prontamente accennato un saluto. Alessandro smise di sorridere non appena intravide Elisa in quella tenuta così inconsueta per lei, ma che esaltava con prepotenza tutta la sua femminilità, abitualmente celata. Dopo qualche chiacchierata e pettegolezzo sui presenti al ricevimento, Bianca ed Elisa si allontanarono per servirsi al buffet. Alessandro le seguiva con lo sguardo. Il suo cuore era lacerato. E per quanto volesse bene e rispettasse profondamente Bianca, non aveva occhi e respiri che per Elisa. Cercava di reprimersi. Inutilmente. - Dovresti lottare per ciò che davvero desideri. Gli aveva detto Angelo sottovoce, alle sue spalle, osservandolo a fissare sua sorella. Lo aveva imparato da lei e stava scoprendo che aveva avuto sempre ragione, con le sue battaglie e le sue sfuriate per ottenere ciò che voleva. La felicità secondo Elisa era lottare con perseveranza per rendere possibile anche ciò che sembrava non esserlo. - Come puoi ignorarlo?
Disse Bianca con disinvoltura, prendendo un vol au vent. - Non lo ignoro. Lo evito. - Le rispose fuggevolmente. - Non dovresti. Non per me. - Bianca, come devo fare? Tu sei come una sorella... Chiese Elisa, voltandosi a guardarla finalmente negli occhi, come non aveva ancora avuto il coraggio di fare da quella mattina in cui ognuno di loro aveva capito quanto fosse stato stupido ignorare quel cassetto chiuso. - Appunto! E da sorella ti dico che è stato solo un momento di follia. Non c’è stato nulla. Ci sentivamo soli e abbiamo fatto qualcosa di cui ci siamo pentiti subito. - Disse concitatamente, - Alessandro è una persona speciale e lo sei anche tu, perciò meritate di più che un inutile e insensato tormento. Né io voglio essere quella che sta in mezzo a voi due. Riprese fiato e continuò: - E poi, sai mia cara? Sono speciale anch’io e voglio qualcuno che mi ami davvero senza riserve. Lo troverò prima o poi. Ora mi concentrerò su me stessa, ma, senza offesa, non voglio essere il ripiego di nessuno. Elisa le aveva sorriso illuminandosi. Alla fine era stata proprio la sua amica di tutta la vita ad avere avuto il coraggio di aprire quel cassetto che tutti si ostinavano a voler tenere chiuso. Avevano ballato e brindato tutti insieme e si erano lasciati andare a una serata gioiosa e solidale in cui ognuno di loro aveva in qualche modo trovato pace per il proprio animo. Alessandro aveva raggiunto Elisa sul terrazzo. Era stretta nel cappotto, ma si vedeva che stava tremando. - È più forte di te! Ti farai venire una broncopolmonite pur di fumarti quella dannata sigaretta! Lei sorrise, vergognandosi per quella sua debolezza e lui l’abbracciò, strofinando
vigorosamente le mani a riscaldarle la schiena. Elisa si era appoggiata con la fronte sul suo petto, in segno di resa, e lui le aveva posato un tenero bacio sui capelli. Trascinandola di nuovo dentro e al caldo le aveva sussurrato piano nell’orecchio: - Sei davvero splendida stasera. Elisa aveva abbassato gli occhi accogliendo il battito del suo cuore che accelerava come il timido affacciarsi nella sua vita di una felicità possibile.
Capitolo 6
A casa Di Strada l’elettricità si sentiva nell’aria. I genitori osservavano con diffidenza i loro figli che apparivano così diversi dai mesi precedenti. Angelo aveva i capelli sempre composti e ben curati. Il lavoro alla cattedra di analisi matematica come assistente lo gratificava e lo impegnava con estrema soddisfazione. Il professore lo stimava particolarmente e gli affidava quasi del tutto la gestione della cattedra e dell’insegnamento. Era amato dai suoi studenti, non aveva fretta di scappare dopo la lezione e si tratteneva con loro per chiarire ciò che gli veniva chiesto, con pazienza e umanità, attento a quelli che erano ragazzi poco più giovani di lui, praticamente coetanei. E poi c’era Fabio. Stava preparando l’esame di Stato per l’abilitazione ed era rimasto accanto ad Alessandro a frequentare il reparto in attesa del concorso per la specializzazione. Dopo la laurea era andato a vivere da solo. Alla porta accanto a quella dei suoi genitori, che in gran segreto avevano acquistato il piccolo monolocale sullo stesso piano. Abitavano in Trastevere, in Piazza San Cosimato. Per la laurea in Medicina gli avevano regalato quel piccolo appartamentino, arredato con gusto e sobrietà, affinché Fabio potesse avere i suoi spazi. Era lì che Fabio e Angelo avano le serate, ascoltando musica e guardando film, parlando della vita e scoprendo di volerla are uno a fianco all’altro. Ed era stato lì che avevano scoperto di essere finalmente completi e non esseri destinati a sentirsi inadatti sia con se stessi sia verso il mondo. I signori Corsi non si erano stupiti di quell’assidua frequentazione di Angelo e anzi lo avevano accolto come un secondo figlio. Lì si sentiva accettato senza giudizi o animi pesanti. Era Angelo e basta. Con i capelli ordinati e pettinati
finalmente. Spesso si fermava a dormire con lui e la mattina se ne andavano insieme all’Università, con la spensieratezza che meriterebbe ogni esistenza. Elisa era assorbita completamente dalle prove di “Battiti e respiri”, divisa tra sala e teatro. Ormai mancavano veramente pochi giorni alla prima e dovevano fare i conti con gli spazi del palco. Alessandro, quando non era di guardia la sera, si faceva trovare fuori dal Teatro Olimpico e la portava a mangiare con lui. Una volta abbandonata la sua corazza, Elisa si era rivelata dolce e ingenua, all’opposto di come voleva apparire. Era mossa da una visione della vita idealistica. Lei vedeva le cose senza mezze misure, non distingueva sfumature, ed era per quello che non riusciva ad accettare compromessi. Era arte pura, guardava con attenzione ogni piccola cosa che la circondava e ne rimaneva affascinata e incuriosita. Il suo silenzio era attenzione. Alessandro la ascoltava parlare rapito e sorpreso. Scoprendo, attraverso le loro lunghe chiacchierate, un universo che non si era neppure immaginato frequentandola in mezzo agli altri. Perché Elisa, che al mondo si mostrava fredda e distante, era in realtà profonda e delicata, completamente diversa dalla ragazza ribelle e battagliera che mostrava di essere. Era come un elastico in continua tensione ed era proprio il suo tendersi estremo che a volte la portava a scattare nei suoi moti di rabbia furibonda. Alessandro questa volta non avrebbe corso, voleva prendersi tutto il tempo per scoprire quel mondo che Elisa teneva celato in sé. La amava e la desiderava, ma non aveva fretta perché sentiva di volerla per il resto della vita.
Guardava nei suoi occhi colore blu notte e ci vedeva dentro milioni di stelle che brillavano, le avrebbe guardate una a una senza mai annoiarsi. - Dopo lo spettacolo ti metterai sotto a studiare per sostenere qualche esame alla sessione estiva o continuerai a scontrarti con i tuoi? Elisa scoppiò a ridere a quella provocazione con voce cristallina. Era bello sentirla ridere, non accadeva spesso, non prima di Alessandro. - Non lo so. Vuoi la verità? - Certo. Sii sincera! - Giurisprudenza mi fa vomitare... – Gli sussurrò avvicinandosi al suo orecchio, come una bambina impertinente che sta dicendo qualcosa di assolutamente proibito. Un brivido caldo, quello del suo fiato, lo fece vibrare impercettibilmente. Alessandro aveva sgranato gli occhi di fronte alla sua affermazione così schiettamente puerile. Eppure man mano che lei gli permetteva di guardare la sua interiorità, si era perfettamente reso conto che lei era notevolmente distante dal freddo mondo delle leggi. - Non mi piace studiare, non mi è mai piaciuto.- Gli spiegò -Tutto ciò che ho fatto è stato soltanto perché mi è stato imposto. - Allora mettila così: a parte ballare che cos’altro ti piace fare? Elisa rimase assorta qualche secondo, come se stesse scavando all’interno di se stessa in cerca di altro che non fosse la danza e poi aveva risposto: - Mi piace ascoltare, leggere, guardare. Anche toccare e assaporare.- Gli lanciò un’occhiata furba - Mi piace osservare tutto ciò che mi circonda. La musica, senza alcun dubbio, e mi piace anche il silenzio. – Lui non le staccava gli occhi da dosso e la lasciava parlare - Mi piace il sapore salato delle lacrime. E sentire il petto che si squarcia quando mi arrabbio. Mi piace sentire Angelo e i suoi numeri. Il freddo che mi entra nelle ossa in inverno e il sudore e l’afa in estate. Dormire con Bianca e sentirle ripetere anatomia e medicina. Mi piace fare impazzire quei due stoccafissi dei miei genitori e contraddire tutti. E alla fine mi piace stare in sala e ballare, ballare, ballare fin quando i muscoli cedono per lo
sfinimento e allora non hai più la forza di pensare a niente ma solo di rimanere a terra a respirare e sentire la vita che ti scorre dentro. Scoppiò a ridere rendendosi conto di non aver per nulla risposto alla sua domanda. L’aveva detto tutto d’un fiato, fissando Alessandro nei suoi occhi scuri e caldi. Lui l’aveva ascoltata sentendo il cuore che gli scoppiava in petto per aver di fronte quell’anima meravigliosa che voleva per tutta la vita.
Capitolo 7
Alla fine la verità sarebbe dovuta venire a galla. Violenta e prepotente. Non avrebbe dovuto temerla. Lo aveva ripetuto sempre a Elisa quando si era irrigidita a mantenere i suoi segreti e invece ci era caduto lui stesso con entrambe le scarpe. Angelo non lo aveva previsto. Non lo riteneva proprio un problema da prendere in considerazione. Aveva inconsciamente separato i due ambiti: da una parte i genitori e la sua casa, dall’altra Fabio e una famiglia in cui si sentiva libero e amato, accettato così com’era, senza sentirsi continuamente sotto esame e in attesa di giudizio. Quella mattina, però, il suo destino e le sue responsabilità lo stavano aspettando dall’altra parte del marciapiede. Aveva aperto il pesante portone del palazzo a Piazza San Cosimato e aveva lasciato il o a Fabio. Avevano trascorso la notte insieme, l’ennesima da quando si erano conosciuti. Erano spensierati mentre parlavano dei loro impegni per la giornata, avviandosi al garage per prendere l’auto. - Un attimo! Aveva intimato con emozione Angelo, infilandosi dentro il bar all’angolo. Ne era uscito poco dopo con un Bacio in mano e sorridendo lo aveva offerto a Fabio. - Un mese e per sempre! - Per sempre! Gli rispose Fabio, allegramente sorpreso, immergendo gli occhi in quelli dell’uomo che amava e posandogli un innocente bacio sulle labbra. Quando, però, Fabio si scostò dal viso di Angelo, dall’altra parte della strada il
mondo aveva iniziato a sgretolarsi. Fermo, come una fredda statua di marmo, la mascella contratta nervosamente, gli occhi tra orrore e rabbia, il pugno chiuso con forza intorno alla sua valigetta, il professor Di Strada guardava una realtà che non aveva voluto mai accettare prima di allora. Si era trovato là apposta per affrontare quell’ombra che seguiva il figlio da sempre e in cuor suo sperava di vederla svanire per incanto. L’ombra, invece, non era svanita e si era trasformata improvvisamente in un enorme buco nero che aveva attirato e risucchiato al suo interno ogni speranza di veder contraddetto ogni sospetto. Angelo era contemporaneamente impallidito raggelandosi e i suoi occhi si erano riempiti di lacrime di terrore. Avrebbe dovuto prevederlo. Era un matematico e sapeva che nulla capita mai per caso. Che tutto ha sempre un numero e un significato. Quand’è che aveva dimenticato di fare i conti? Lo aveva dimenticato da Fabio in poi, da quando la sua vita aveva trovato un senso non freddamente aritmetico. Ma il conto stava comunque arrivando. Anche Fabio, vedendo il suo compagno smarrito, si era girato a guardare il professor Di Strada che voltava loro le spalle e allungava il o nella direzione opposta, allargando il nodo della cravatta che lo stava letteralmente strangolando, mentre cercava di concentrarsi soltanto sul ritmo del proprio respiro. Andarono all’università senza dirsi una parola. Il cielo terso di quella mattina di fine febbraio, Angelo non lo avrebbe mai più dimenticato. Tutte le nuvole nere di tempesta si erano annidate dentro il suo cuore. Angelo era perso tra i suoi pensieri su come avrebbe potuto giustificarsi. Giustificarsi per che cosa? Gli avrebbe chiesto Elisa con tono di rimprovero. Per quello che era?
Angelo era una bella persona. Un ragazzo dai modi gentili, umano e gioioso. Un cervello invidiabile, lavorava onestamente ed era benvoluto in ogni ambiente che frequentava. Angelo amava Fabio. Avrebbe dovuto giustificarlo al giudice Di Strada. Forse avrebbe dovuto chiamare Elisa. Quantomeno per avvertirla. In queste faccende erano sempre stati complici. Provò tre volte durante la mattinata ma aveva il cellulare staccato. Avrebbe dovuto saperlo. A che cosa stava pensando? Forse che il mondo si sarebbe fermato per lui e per la sua sciocca presa di coscienza che al proprio destino nessuno può sfuggire? Elisa era in teatro a provare. Aveva bisogno di sentire qualcuno, di parlare, di sfogare tutta la paura di affrontare i suoi e se stesso, ma non poteva farlo con Fabio, lo avrebbe ferito con la sua incapacità di difendere il loro rapporto. Almeno questo era ciò che pensava a quel tempo Angelo, ancora incapace di classificare il suo legame come un qualunque rapporto tra due persone che decidono di amarsi. Non si sentiva ancora libero di essere se stesso. Si era soltanto costruito una nicchia nella quale prendere boccate d’aria dall’apnea in cui viveva regolarmente. Ora doveva per forza venir fuori e rivelarsi per quello che era realmente. E realmente Angelo era solo e soltanto una bellissima persona. Tutto il resto non doveva contare. Non per gli altri. Neppure per i suoi genitori. Questo gli avrebbe detto Elisa se gli avesse risposto al cellulare. Glielo avrebbe detto anche Alessandro se avesse avuto il coraggio di chiamarlo. Non ne avevano mai parlato esplicitamente, ma era tacito che Alessandro sapesse. Era il suo amico. Era colui che aveva portato Fabio nella sua vita. Aveva accuratamente evitato di rivedere Fabio quel giorno. Si era trattenuto in Facoltà fin oltre le sei del pomeriggio, quando i corridoi erano ormai quasi vuoti e gli inservienti provvedevano alla pulizia e al riordino delle aule.
Non aveva sorriso a nessuno dei suoi studenti cercando di tenere fermo il nodo che sentiva in gola, pronto a sciogliersi in un fiume di lacrime. Un fiume lungo una vita intera che stava per straripare. Ricompose il numero per la millesima volta, ormai come un atto compulsivo. Finalmente Elisa. - Pronto! Che succede, bro’? Mi hai chiamato un sacco di volte, ho ri il cellulare solo ora. Rimase in silenzio senza sapere che dirle. Elisa aveva capito che qualcosa di grande e doloroso stava percuotendo l’anima di suo fratello. - Angelo, stai bene? Non farmi preoccupare... - No! Va tutto a rotoli. Sono una merda di persona! Urlò, scoppiando in singhiozzi, incapace di argomentare oltre il suo assoluto bisogno di lei e della sua rassicurante presenza. - Che dici? Perché dici questo? - Perché è così. Ho deluso tutti. - Chi hai deluso? Non ti capisco. Che hai fatto? - Ho deluso papà e mamma. E ho deluso Fabio. Non sono capace di amare nessuno... Finalmente Elisa era riuscita a mettere insieme qualche tassello di quella conversazione e poteva avvertire strazio che stava dilaniando l’anima e il cuore di suo fratello. Non poteva però rassicurarlo dicendogli che non sarebbe successo niente, perché condivideva gli stessi genitori con lui da ventiquattro anni e sapeva benissimo che un tornado devastante stava per abbattersi su di loro. Sarebbe stata a fianco di Angelo come uno scudo su un campo di battaglia. Non
era però la sua guerra e più che schierarsi dalla parte del fratello per aiutarlo a schivare i fendenti non avrebbe potuto fare. La verità li aveva travolti e non potevano far altro che affrontarla, come una tempesta che li aveva colti di sorpresa senza ripari e che chiedeva di essere attraversata con coraggio. Il coraggio avrebbe dovuto mettercelo Angelo, Elisa avrebbe pensato alla forza di volontà.
Capitolo 8
Appena varcata la soglia di casa, smise di respirare. Non lo aveva fatto apposta, semplicemente stava soffocando di paura per dover affrontare il peggiore dei suoi spettri. Se stesso e la sua naturale e umana imperfezione. Era lui solo, contro di loro. Elisa non sarebbe potuta arrivare prima di un’ora. E in un’ora potevano succedere tante cose, potevano essere dette tante parole ed essere inferte tante dolorose ferite. Invece non era successo nulla. Il solito glaciale e opprimente silenzio. La luce era accesa nello studio di suo padre e dalla cucina provenivano rumori di pentolame che segnalavano il muoversi nervoso di sua madre tra i fornelli. Il solito Angelo. Si deprecava per la sua codardia. Era andato veloce e silenzioso a chiudersi nella sua stanza, come un fantasma che a tra i vivi. In attesa. Non sarebbe finita con uno sguardo severo. Aveva gettato fango sulla figura di suo padre. Questo era ciò che sentiva di sé Angelo. Questo era ciò che volevano che sapesse. Volevano che gli piovesse addosso il loro disprezzo per il suo essere così diverso da come avrebbe dovuto essere il figlio del magistrato Di Strada. Non era successo nulla fino a quando rientrò Elisa, sbattendo con violenza la porta e precipitandosi, senza salutare nessuno, in camera di suo fratello. Lo aveva trovato seduto sul letto con lo sguardo perso nel vuoto. Le faceva male vederlo così indifeso.
Lui era quello bravo tra loro, quello che non si era mai ribellato, che aveva lavorato sodo per dare soddisfazione ai suoi. E non ci era mai riuscito. Nonostante tutto. Non era per nulla effeminato e non aveva mai mostrato atteggiamenti esasperati in alcun senso. Aveva una sensibilità fuori dal comune, quello sì, ed era l’unica caratteristica insopportabile agli occhi di suo padre. I suoi occhi lucidi per l’emozione lo rendevano così “poco uomo”. Del resto c’era poco d’aspettarsi in una casa dove vigeva la legge maschilista del capofamiglia. Una legge a cui soltanto Elisa aveva tentato di ribellarsi, non ottenendo grandi risultati ma almeno evitando di piegarsi completamente al volere degli altri. Erano rimasti in silenzio. Il loro silenzio che urlava di dolore. - Non hai niente di cui vergognarti. E sei una persona di cui andar fieri. Non sono cose che riguardano loro. Lo sapeva che Elisa avrebbe detto così. Parole sante. A cui però non riusciva a credere. Continuava a sentirsi uno scandalo vivente.
Si sedettero a tavola, avvolti da una pesante cappa di malumore. Angelo era teso e non osava scambiare sguardi con nessuno. Neanche con Elisa. Il professor Di Strada, invece, continuava a puntargli addosso i suoi occhi severi, che lo trafiggevano come affilate lame di pugnali. La signora Laura aveva gli occhi gonfi e rossi, non di sofferenza per quel suo figlio debole, che avrebbe meritato comprensione, ma per l’onta subita, per la vergogna provata, per il senso di colpa di aver sbagliato qualcosa anche come madre oltre che come donna. Ogni frustrazione accumulata nel corso della sua vita le era ripiovuta addosso come pioggia acida che da fuori aveva iniziato a corroderle le carni e l’anima. Come se fosse dipeso da lei, come se fosse stata una sua sconfitta. L’ennesima dopo quella di aver buttato al vento la sua brillante carriera e dopo quella di avere una figlia ribelle e ingestibile. - Voglio sapere che ti manca per fare una cosa del genere?
Suo padre infranse quel doloroso silenzio. Era freddo e autoritario. Aveva già tratto le sue conclusioni e faceva domande insensate e senza risposta. Non voleva ascoltare l’imputato che era già condannato, ancor prima del processo. Il magistrato rigoroso e imparziale, meticoloso e onesto nella ricerca di testi e prove attendibili o di vizi processuali era scappato di fronte all’uomo rancoroso e pregiudizievole, aveva gettato la spugna al cospetto del padre deluso, tradito, amareggiato e sconfitto. Spaventato, forse, ma accecato d’ira e presunzione. Angelo deglutì nervosamente, gli occhi lucidi fissi in un punto imprecisato della tavola e il respiro tagliato dall’angoscia. Come avrebbe potuto spiegare che non gli era mancato mai nulla? Non ci si innamora di qualcuno perché si ha qualche mancanza, ma soltanto perché succede e basta. Come avrebbe potuto parlare con suo padre di queste cose, quando il dialogo più lungo che avevano avuto era stato quando aveva deciso di studiare matematica, invece che legge o scienze diplomatiche, deludendolo anche in quell’occasione? - Mi dispiace... Questo è ciò che sono... Era riuscito a dire sommessamente e con grande fatica, mentre Elisa aveva alzato un sopracciglio in tono accusatorio. Era arrabbiata. Gli avrebbe fatto da scudo per difenderlo in tutte le sue battaglie ma non perché si dispie di qualcosa che era parte del suo esistere e che lo rendeva ancora più speciale di quanto non fosse già. - Ciò che sei è uno schifo! Sei la vergogna di questa famiglia! Aveva detto con acredine il padre. Elisa, allora, aveva sbattuto la forchetta nel suo piatto con tanta forza da scheggiarlo e si era alzata in piedi come una dea pronta allo scontro. - Per voi ogni cosa è vergogna. Ogni cosa che non appare per come voi vorreste. Sono le apparenze che contano, l’importante è non dare scandalo. Neppure voi siete così perfetti! Dentro questa casa si mangia da sempre pane e ghiaccio!
- Elisa, resta al tuo posto! Tu e le tue menzogne... Non mi pare tu sia nella posizione di poter difendere tuo fratello! - Per quale motivo? Io lo difendo eccome! Lo trattate come se vi avesse disonorato in qualche modo. Ha studiato con impegno, si è laureato, lavora all’università. Ha fatto sempre tutto quello che avete voluto. Di che cosa è accusato? Io forse non sono come voi avreste voluto, ma non lui! Elisa alzò il tono della voce ed era il segnale per tutti che stava per esplodere. Angelo le aveva afferrato una mano per cercare di calmarla. Lei l’aveva prontamente scansata e aveva continuato: - No, Angelo! Non permettergli di umiliarti! Non lo meriti! La signora Laura rivolse uno sguardo fulminante verso quella figlia così audace, mentre il giudice Di Strada batteva il pugno sul tavolo, alzandosi anch’egli in piedi e protendendosi verso di lei cercando di sovrastare i suoi toni. Rosso in viso e con la bocca che tremava, urlò: - È un frocio! Ci disonora eccome con le sue scelte pervertite! Era un figlio ubbidiente e un fratello affezionato. Era un matematico e un professore stimato. Era un bravo chitarrista e un amico fidato. Era frocio. Questo cancellava tutto il resto. Il verdetto era stato emesso: colpevole per aver commesso il fatto. Nessuna attenuante, colto in flagranza di reato. La buona condotta non lo avrebbe salvato né esonerato dal giudizio. Angelo non era in grado di formulare una parola che fosse una, completamente annichilito e umiliato, sentiva che il mondo intero stava crollandogli addosso e che tutto ciò che aveva fatto fino a quel giorno non era servito a niente, quantomeno non a dargli la rispettabilità e la dignità che avrebbe meritato come persona. Elisa era un vulcano in piena attività eruttiva, aveva occhi di fuoco e muscoli tesi allo spasmo. Il cuore le batteva come una mandria di cavalli al galoppo, mentre cercava di difendere l’onorabilità di suo fratello e probabilmente anche la sua.
- Angelo non vi ha mai disonorato, anzi! È stato costretto da questo vostro modo ottuso di ragionare a vivere una vita di repressioni e di sofferenza. La cosa non vi riguarda! È la sua vita privata e non deve rendere conto a nessuno di quella, che vi piaccia o no. Il giudice Di Strada era talmente alterato che avrebbe potuto avere un infarto in quel momento: - Ah, no, Elisa! Ci riguarda eccome! Quando si bacia in mezzo alla strada con quell’altro... Angelo non gli fece finire la frase e inalando una gran quantità di aria e di coraggio era finalmente sbottato in una parvenza di difesa interrompendolo: - Fabio! Si chiama Fabio, è un medico. È l’unico che mi faccia sentire completo e apprezzato. È una persona colta e socievole, di buona famiglia. È onesto e lavoratore e se fosse stato il compagno di Elisa vi sarebbe piaciuto. Ma è il mio e questo ci rende immeritevoli di stima e di considerazione personale. Il padre aveva chiuso gli occhi per un secondo, metabolizzando l’informazione del figlio, e aveva dovuto cercare con tutto il raziocinio possibile di non lasciarsi prendere dall’ira. - Innamorarsi di qualcuno non è una scelta. Mai! In nessun caso. Ma voi forse questo non lo sapete! Fate sempre soltanto i conti con le vostre convenienze, progettando a tavolino la vostra vita e anche quella degli altri! Aveva gridato Elisa piena di rabbia, andandosene in lacrime, furibonda e stanca, sbattendo violentemente dietro di sé la porta della sua camera. Doveva per forza andare a dormire e cercare di ritrovare la calma, non poteva continuare oltre, tanto le cose non sarebbero cambiate e tutti loro avrebbero continuato all’infinito a lacerarsi il cuore con pugnali affilati e velenosi. L’indomani sarebbe stato il grande giorno della prima di “Battiti e respiri”. La compagnia sarebbe stata recensita sui quotidiani nazionali e per la prima volta incombeva su di loro la pesante e ambiziosa attesa per il debutto ufficiale nell’olimpo della danza. Chiamò Alessandro prima di addormentarsi e gli raccontò quello che era
successo a casa, alleggerendo così il proprio cuore angosciato. Angelo, nella sua camera, si era chiuso al buio e in silenzio. Non aveva avuto il coraggio di chiamare Fabio e anzi aveva spento il cellulare.
Capitolo 9
Prima di uscire da casa, molto presto per essere sabato, Elisa era ata nella camera di Angelo. Lo aveva trovato sdraiato sul letto ancora vestito dalla sera prima, con gli occhi aperti che guardava fisso il soffitto. Si sedette accanto a lui, sospirando: - Senti, mettila così: ormai sei adulto e indipendente. Per quanto il loro giudizio possa farti male, puoi sempre andartene, puoi decidere di vivere la tua vita per conto tuo. Voleva dargli una scossa, voleva fargli vedere che tanto non c’era modo di sfuggire alle proprie sofferenze. Le cose in quella casa non sarebbero cambiate e nemmeno Angelo poteva pretendere di cambiare se stesso, anche perché non c’era nulla in lui che andasse cambiato. - Ci vediamo stasera. Mi raccomando! Alle otto e mezzo dovete essere al teatro per ritirare i posti prenotati. Angelo fece un cenno di assenso e ripiombò nei suoi tormentati pensieri. Aveva deciso di uscire dalla letargia in cui era caduto soltanto quando aveva sentito chiudere la porta di casa dietro i suoi genitori. Allora si era alzato e con flemma si era preparato un caffè lasciando che l’acqua della doccia scorresse a vuoto riempiendo di vapore l’aria. Ancora avvolto nell’accappatoio, decise che da quel momento in poi avrebbe voltato pagina, cambiato capitolo e interpretato un nuovo ruolo in cui si vedeva protagonista della propria vita e non semplicemente una sua controfigura. ando davanti allo specchio annebbiato si deprecò, pensando che aveva davvero un bel coraggio ad affrontare se stesso nel momento della solitudine, senza dover dare spiegazioni ad altri se non alla sua immagine riflessa. Con una mano aveva cancellato l’appannamento sulla lastra di vetro e si era
finalmente visto con occhi nuovi. Almeno non avrebbe più dovuto nascondersi. L’ansia di essere scoperto aveva lasciato il posto all’angoscia per aver deluso tutti. Aveva il cellulare e aveva trovato le chiamate perse di Fabio e di Alessandro. Non aveva voglia di parlare con l’amico, perché non aveva voglia di rivivere, anche solo a parole, tutta l’umiliazione subita il giorno precedente. Alessandro non avrebbe fatto domande, né avrebbe giudicato, questo lo sapeva, e non avrebbe neppure dispensato consigli, non era da lui farlo. Semplicemente sarebbe stato presente, una spalla, un sorriso amico, anche il silenzio davanti ad un caffè, ma alla fine sarebbe stato proprio Angelo a sentire la necessità di lasciarsi andare riaprendo dolorosamente la ferita ancora sanguinante. Fabio era in quel momento l’unica risposta alla sua frustrazione, era l’unico in grado di poter curare la sua anima offesa. Anche perché l’offesa era certamente condivisa. Si incontrarono a pranzo in un ristorantino di Ostia, così, tanto per cambiare aria. La vetrata dava direttamente sul mare e gli occhi di Angelo si perdevano tra l’orizzonte, il cielo e il moto delle onde, evitando accuratamente di incrociare quelli di Fabio, verso cui si sentiva in colpa. Erano rimasti in silenzio per molti lunghissimi minuti. Angelo con gli occhi tristi e Fabio che lo osservava cercando di assorbire un po’ del suo dolore e restituendogli conforto con la sua sola presenza. Alla fine Fabio aveva sospirato, rompendo quel silenzio opprimente e inusuale tra di loro, e aveva sorriso appoggiando il mento sulle mani chiuse a pugno. - Perché non ti trasferisci da me? Angelo alzò gli occhi guardandolo con stupore. Non si sarebbe mai aspettato una simile proposta, almeno non così presto. Non rispose, perché non sapeva che cosa rispondere. In quel momento non sapeva neppure più chi fosse. Allora Fabio aveva continuato: - Alea iacta est. Ormai è andata, non puoi tornare sui tuoi i. Io sono convinto che tra noi sarà per sempre, ma facciamo così: vieni a stare da me fin quando la
tua anima troverà pace e poi deciderai che fare. Avrai il tempo per meditare e la libertà per decidere. Angelo lo ascoltava assorto, come se si trovasse in una dimensione parallela, fuori della sua vita a guardarsi vivere. Come al cinema quando si guarda una scena e si è talmente immedesimati nell’emozione che essa trasmette, da non riuscire neppure a cogliere il senso dei dialoghi, perché il vero significato è altrove, non certo nelle frasi pronunciate. Così le parole gli arrivavano al cervello ovattate, le più importanti sottolineate e immagazzinate, le altre lasciate volare via col vento che sospingeva le onde nel loro moto perpetuo. Per sempre, pace, libertà. - Se rimani nella tua casa, vivrai nell’inferno e probabilmente renderai un inferno anche la vita di Elisa. Io credo che questa al momento sia una buona soluzione. Casa, inferno, soluzione. Aveva ragione Fabio. Avrebbe dovuto allontanarsi, perché restando lì sarebbe vissuto in mezzo al disprezzo e al senso di colpa. E avrebbe costretto Elisa a combattere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Angelo sentiva chiaramente che Fabio era il suo punto di riferimento. Era il coraggio e la stabilità che lui non aveva per se stesso. In fondo doveva ammettere che aveva la stessa forza di Elisa, quell’impeto di affermazione del proprio essere che da sempre aveva dovuto cercare fuori da sé. Libertà, libertà, libertà. Rimbombava come un gong nel suo cervello da quando Fabio aveva pronunciato quella sequenza magica di lettere. - Ci penserò. Era stata l’unica risposta capace di formulare. Per fortuna Fabio aveva anche la grande capacità di aggirare gli ostacoli e riportare la calma lì dove trovava tempesta. Così iniziarono a parlare del più e del meno, degli impegni futuri, degli studi e della serata che stava per
avvicinarsi.
Si diedero appuntamento per le otto alla piccola pizzeria al taglio vicino al Teatro Olimpico. Quando giunsero, Bianca stava addentando un pezzo di pizza ancora fumante e Alessandro sorrideva divertito scommettendo che sarebbe riuscita a macchiare di olio il suo elegantissimo cappotto bianco, quello delle grandi occasioni. Elisa e Giada, alla sala trucco, respiravano profondamente e non parlavano. Erano tese come mai erano state prima di uno spettacolo. Quella volta era diverso, sarebbe stato il lancio della compagnia nel mondo degli eletti, la loro prima vera occasione di entrare nel giro dei grandi. Elisa cercava di catturare ogni emozione e ogni tormento per poterli tirare fuori sul palco. Avrebbe danzato per Angelo affinché trovasse in lei la consolazione per la sua pena. E per Alessandro, al quale non aveva mai dichiarato il suo amore. Avrebbe danzato per Bianca, l’amica alla quale doveva la sua possibilità di essere felice. Avrebbe danzato anche per i suoi genitori, sperando di far loro cogliere quanta vita ci mettesse in ciò che faceva. E avrebbe danzato per se stessa e per affermare che i sogni si avverano solo perseverando e lottando con coraggio, anche quando le ferite diventano difficili da sopportare, come quelle sui suoi piedi affaticati e callosi. Un sogno non si deve mai abbandonare. Quando si fa, lo si condanna a una morte certa. Aveva sbirciato da dietro le quinte. Per loro aveva scelto i posti migliori: la prima fila in galleria centrale. Solo da là sopra avrebbero dominato il palco e l’avrebbero coperta con il loro sguardo. Alessandro era di spalle in piedi, appoggiato alla balaustra che chiacchierava con Angelo e Fabio. Luca e Bianca erano anche loro in piedi e si sporgevano guardando la platea. C’era davvero tanta gente e il teatro continuava ad affollarsi, ma quei due posti in terza fila in platea ruggivano vuoti.
Elisa non ne era stupita. Addolorata sì, ma non stupita. Alle nove in punto le luci in sala si erano spente. “Battiti e respiri”, musica e poesia, la bellezza dei corpi che nell’aria fluttuavano descrivendo emozioni e vita. Tre atti pieni di ione e tensione. Uno spettacolo importante, aveva avuto ragione Elisa. Uno spettacolo maturo, degno di una compagnia che lavorava con sacrificio da tanti anni per riuscire ad affermarsi. A metà del secondo atto, il buio assoluto per cinque secondi. Un silenzio pieno di attesa. Poi uno spot rosso aveva iniziato a muoversi in cerchio sul palco, seguito da uno blu e quindi da uno verde che circolando disegnavano una coreografia luminosa. Era partita la musica e gli spot si erano fermati contemporaneamente al centro del palco illuminando quel corpo perfetto e allungato verso l’alto, immobile come in una preghiera sofferente. Solo i piedi erano martoriati e feriti da tanto sacrificio. Il resto era armonia divina. Elisa. Occhi di ghiaccio. Occhi duri e pieni di ione. Il suo corpo era perfezione e spasmo. Il suo corpo era musica. Gridava e brillava. Il viso severo e teso. L’anima che danzava la sua carne. “Smell of desire” nell’aria. Alessandro poteva sentirlo forte e penetrante, anche se non stava respirando, con il cuore fermo a guardare quell’essere meraviglioso che aveva descritto in lui il reale significato di voglia di vivere. Anche Luca, finalmente spogliato dal legame soffocante con lei, la guardava con occhi nuovi, riconoscendo l’anima tormentata e volitiva della sua amica, con la quale era cresciuto e diventato uomo. Fabio aveva stretto la mano gelata di Angelo, con discrezione, per condividere quel momento di estrema tensione emotiva e per trasmettergli il calore rassicurante della sua presenza. Angelo guardava la sua gemella come quando ci si guarda in uno specchio concavo che riflette la propria immagine capovolta e contraria a se stessa,
sentendo ogni minima sfumatura che in quegli istanti muoveva i muscoli di Elisa, come fossero i suoi. Bianca osservava la sua sorella per scelta con le lacrime agli occhi. L’aveva vista ballare tantissime volte, ma quella sera Elisa non stava danzando e basta, era la trasfigurazione del desiderio, della devozione e della vita stessa. Era l’essenza di ogni cosa. Un essere superiore a tutti. Elisa quella sera era l’amore. E lo gridava con dolore e con la forza istintiva della ione. Nonostante la sala fosse piena, in quei quattro minuti nessuno aveva tossito, nessuno si era mosso, nessuno aveva persino respirato, completamente sospeso e rapito da tanta bellezza. Se Dio aveva creato il mondo e le sue cose, in quel momento Dio era lì sul palco con Elisa e tutti potevano finalmente guardare l’immensa bellezza che le aveva voluto donare. L’ultima nota. Il buio. Un secondo. E poi uno scroscio prorompente di applausi e grida. La platea e la galleria intere erano in piedi, esplose di gioia. In prima fila i giornalisti erano combattuti tra lo scrivere e l’applaudire. Molti avevano gli occhi lucidi. Angelo aveva il volto rigato di lacrime salate, quelle che piacevano tanto a Elisa. Bianca si teneva entrambe le mani a coprire la bocca, pervasa da singhiozzi di gioia per quell’amica che amava come una preziosa sorella, per la sua amica che quella sera aveva concesso al mondo di poter vedere quanta grazia nascondeva dentro le sue felpe informi. Alessandro era immobile e serio. Respirava profondamente, gli sembrava di aver fatto l’amore con Elisa per la prima volta. E che avrebbe voluto farlo soltanto con lei per il resto della sua vita. Gli sarebbe anche bastato soltanto guardarla dormire, per provare la stessa sensazione di totale appartenenza. La sentiva sua. Sua per sempre. Quando Elisa fu dietro le quinte, ascoltando gli applausi, Giada le saltò al collo con entusiasmo, anche lei profondamente commossa. Si lasciò andare a un pianto liberatorio mentre lo spettacolo stava proseguendo.
Il secondo assolo di Elisa era stato affidato al terzo atto. “Way to eternity”, sempre degli Enigma, quasi un destino enigmatico per lei. Più breve del primo ma danzato con la stessa intensità ed emotività. Elisa aveva conquistato il pubblico. Sentiva di aver abbandonato ogni paura di non riuscire a eseguire una tecnica perfetta per lasciare spazio all’espressività che la danza contemporanea richiedeva. Lo spettacolo si concluse con una coinvolgente e difficile coreografia, che vedeva in scena tutti e quindici i ballerini della compagnia. Corpi che si avvolgevano tra loro e che volavano sollevati nell’aria, con la morbidezza che solo il vento avrebbe dovuto avere, e le nuvole, e la poesia. Erano corpi e musica. Un tripudio di forme e di movimenti. Concessero due bis al pubblico in delirio. Giada aveva ripetuto il suo o a due sulle note di Enya di “Only time”, con la sua gioia e leggerezza di vivere. Con il suo dolce sorriso pieno di amore e di allegria. Giada era la parte lieta e gaudiosa della danza. Tragico invece il ripetersi di un presagio danzato con sofferenza, “Way to eternity” per Elisa. Finalmente avevano abbandonato ogni tensione accumulata nei mesi e nei giorni precedenti al debutto e la compagnia gioiva dietro le quinte tra abbracci e soddisfazione, acclamando alla coreografa e a tutti quelli che avevano lavorato per rendere possibile quel sogno. Elisa rideva e stringeva le mani di colleghi ballerini e di giornalisti, che erano prontamente arrivati per raccogliere impressioni e dichiarazioni. Le sembrava di essere ubriaca, ebbra di vita, con l’adrenalina che le scorreva nel sangue. Alessandro era lì, in un angolo semibuio della quinta, che la osservava con occhi pieni d’ammirazione e d’amore. Quando Elisa lo notò, si aprì al più bel sorriso che avesse mai fatto nell’ultimo periodo, anzi il più bello di tutta la sua esistenza. Si avvicinò per salutarlo,
lasciandosi dietro le voci e le risate del corpo di ballo e di tutti gli altri. Si era persa in Alessandro e nei suoi occhi scuri e caldi, come se in quel momento ci fossero solo loro due al mondo. Si sentiva di nuovo sulla scena, buio in sala e l’unico riflettore puntato su di loro, intorno il silenzio, nessun pubblico se non quello delle loro anime. Lui le fece un inchino in segno di complimento: - Superba. Non ho altre parole per te. Magnifica! Elisa rideva luminosa, abbassando lo sguardo in segno di timidezza per tanto entusiasmo. - Mi gira la testa... Gli disse, cercando di rompere quella strana situazione piena di tensione. Alessandro le aveva sollevato il volto e dopo averla guardata per un attimo, le aveva dato un bacio pieno di tenerezza. Quella volta Elisa lo accettò e si abbandonò a lui, lasciando danzare libero il suo cuore su un nuovo sogno chiamato amore.
Capitolo 10
La prima a uscire era stata Giada. Elisa era stata bloccata da giornalisti e fotografi e non riusciva a are per raggiungere i suoi amici che le facevano facce buffe da dietro le porte in vetro del teatro. Appena fuori erano partiti con un urlo e un applauso che avevano fatto girare tutti, richiamando di nuovo l’attenzione di quanti erano lì sulle due ballerine. Angelo aveva raccolto dalle braccia della sorella le decine di mazzi di fiori che aveva ricevuto, mentre Alessandro gliene porse uno speciale: di sole rose rosse. Elisa era imbarazzata. Aveva sempre vestito i panni della dura e improvvisamente si scopriva timida e ingenua di fronte a quel corteggiamento maturo e romantico. Era circondata dalle persone che più amava ed era felice. Quei due posti rimasti vuoti in sala però graffiavano il suo cuore. L’unica nota stonata di una melodia perfetta, l’unico o sbagliato nella sua danza. Un o a cui avrebbe assolutamente dovuto rimediare. Quella sera non ci avrebbe più pensato, se l’era imposto. Quella sera avrebbe goduto per la prima volta di una felicità piena. Aveva scelto di voler essere felice. E i graffi si sarebbero curati con il tempo. Perché la felicità non va lasciata sfuggire quando la si afferra. Perché la felicità è questione di un attimo, a e poi chissà se ritornerà. Perché la felicità era lì in quel momento ed Elisa poteva finalmente toccarla. Un destino che sapeva di avere e che spesso non aveva saputo cogliere.
Si diedero appuntamento al pub che frequentavano abitualmente, vicino a casa di Angelo ed Elisa. Luca e Giada se ne andarono, preferendo are la serata da soli. Erano
innamorati e avevano voglia d’intimità. Tutti avevano abbandonato l’insostenibile pesantezza dei loro problemi, avrebbero rimandato all’indomani ogni pensiero. Quella era una serata leggera. Di quelle per ridere e sentirsi parte di un meraviglioso disegno divino. Era la serata delle risate e della gioia. Era la serata dell’amicizia e dell’amore che li legava. Elisa era bellissima e anche se si era rimessa la sua felpa nera e larga, tutti potevano finalmente vederla ridere senza la sua perenne maschera tormentata. Erano usciti dal locale verso l’una. Fabio e Angelo si tenevano per mano senza nascondersi e per nessuno di loro era stata una cosa strana vedere quella coppia di amici così intimamente legata. Nessuna domanda, nessuna spiegazione. Era così e basta e tutti loro lo avevano sempre saputo. Li amavano per com’erano, due persone meravigliose e non sarebbe potuto essere diverso da com’era. Erano fatti per stare l’uno accanto all’altro, anime gemelle. Il loro mondo era lì. Sentivano che la vita era tutta davanti ai loro occhi, pronta per essere srotolata e vissuta giorno dopo giorno in una scoperta continua del futuro. Bianca era allegra e finalmente alleggerita dal timore di rimanere sola, perché non si sentiva affatto sola insieme con loro e sapeva che libera dalle sue paure avrebbe avuto il cuore aperto a nuovi amori. Amori veri e non infatuazioni. Alessandro continuava a scherzare con Elisa, provocandola e suscitando le sue risate. Aveva ritrovato la sua allegria. Alessandro riusciva a farla ridere come nessuno mai. Faceva freddo, tanto freddo in quella fine di febbraio che li vedeva legati profondamente e grati alla vita per averli fatti incontrare. Elisa tirò fuori una sigaretta dalla borsa e se la accese. Alessandro la prendeva in giro facendole la caricatura, sbuffando il fumo della condensa dalle narici. Quanto lo amava. Quanto la amava. E tutti lo vedevano.
Non si erano detti niente ma avevano scelto che da quel giorno in poi avrebbero provato a camminare l’una a fianco all’altro. Elisa voleva fidarsi per una volta della sua possibilità di essere felice. Erano in cerchio aspettando che finisse la sua maledetta sigaretta, come la chiamava Alessandro. - Ti rendi conto che ci stai facendo ibernare per il tuo vizio di mantenere una quota societaria delle multinazionali del tabacco? Lei gli aveva tirato un pugno affettuoso sulla spalla. - Aria, è solo aria velenosa! Le aveva sussurrato piano, posandole poi un bacio sotto l’orecchio. Non voltarti Elisa, non voltarti a guardare il tuo futuro! Il suo presente era lì davanti. La sua felicità era a portata di cuore. Non avrebbe dovuto voltarsi. E quando lo aveva fatto, girando allegra su se stessa, mentre s’incamminavano attraversando la strada, il destino beffardo e crudele l’aveva aspettata appena scesa da quel maledetto marciapiede con quella maledetta sigaretta ancora tra le dita. - Elisa! Gridò pieno di terrore Angelo. - No! Alessandro aveva esclamato, con il cuore che si fermava per sempre chiudendoci dentro la sua Elisa. Bianca urlava spaventata, in preda a un attacco isterico, e Fabio si era prontamente lanciato correndo verso quel corpo che volteggiava senza peso e senza compostezza nell’aria, sbalzato con un colpo sordo da una macchina che procedeva senza controllo e a una velocità folle in via Nomentana, all’angolo
con Viale Regina Margherita. Elisa non si muoveva sull’asfalto. Fabio era chino su di lei. Sembrava che dormisse con gli occhi socchiusi, se non fosse stato per quella strana posa, così innaturale. Anche Alessandro la raggiunse per soccorrerla, mettendo da parte ogni sentimento per lasciare che la sua razionale professionalità prendesse il sopravvento. - Chiamate l’ambulanza! Aveva gridato mentre le apriva, strappandolo, il giaccone. Fabio seguiva le sue indicazioni e Bianca era accanto a loro, in ginocchio, completamente attonita e incapace di reagire. - Cazzo, è in arresto... Sussurrò con rabbia Alessandro, cercando il battito sulla carotide mentre velocemente iniziava il massaggio cardiaco e Fabio la respirazione artificiale. - Si è spaccata la testa... Disse Bianca con un filo di voce spezzata e con gli occhi pieni di angoscia per quanto stava accadendo e fissando alienata quella macchia di sangue che si stava allargando sull’asfalto. Elisa sembrava dormire. Angelo non riusciva a vederla. Quel corpo non poteva essere sua sorella. Lui lo sentiva vuoto e freddo, mentre Elisa era elettricità vivente, lava che ribolliva dentro le sue vene. Lui non riusciva più a sentirla, come se qualcuno avesse improvvisamente tranciato i cavi della luce che li teneva uniti, interrompendo ogni contatto, e si fosse ritrovato da solo al buio in una stanza completamente vuota. Mai nella sua esistenza aveva provato quel freddo così assoluto prima di allora. Elisa voleva rialzarsi. Elisa voleva raccogliere le sue cose e dire ad Alessandro
di non preoccuparsi che sarebbe andato tutto bene. Elisa sentiva il respiro affannato di Angelo e voleva dirgli che non si era fatta niente, che si era solo sbucciata un po’ il ginocchio come quando da bambini giocavano insieme al parco. Elisa non riusciva a muoversi e non riusciva a farsi sentire. Provava a gridare ma nessuno la sentiva. Si muoveva tra di loro e batteva sulle loro spalle per chiamarli. Nessuno la vedeva. Nessuno la sentiva. L’ambulanza era arrivata dopo cinque eterni minuti, durante i quali Alessandro e Fabio avevano fatto di tutto per tenerla in vita. Il cuore riprese a battere debolmente e aritmicamente, ma il suo respiro rallentando diveniva sempre più flebile.
Capitolo 11
La polizia era giunta quasi subito e aveva accordato loro la possibilità di seguire Elisa al Policlinico, li avrebbero raggiunti lì per le testimonianze, dopo aver effettuato tutti i rilievi. Angelo era freddo, anzi gelido. Non aveva pianto e non si era disperato. Era solo rimasto inanimato come una pietra. Fermo e gelido come una lapide di marmo. Aveva chiamato i suoi. Per la prima volta li aveva odiati. Era un sentimento che non gli era mai appartenuto ma in quel momento li odiava con tutto se stesso perché il dolore che avevano procurato, con il loro egoismo e la loro incapacità di ascoltare, non avrebbe trovato mai un riscatto senza Elisa. - Venite al Policlinico. Elisa ha avuto un incidente. Erano state le sole parole che pronunciò al telefono con un tono piatto e impersonale, come se tutto quello che stava accadendo in quel momento non appartenesse alla sua vita. Elisa sentiva le voci lontane ma non riusciva a vedere niente. A parte la teca di vetro in cui era chiusa. Aveva di nuovo addosso l’abito di scena, una tuta aderente a corpo intero color carne con alcune sfumature di colore rosso cupo, come il fuoco che scorreva nelle sue vene e come la pozzanghera di sangue che aveva lasciato sull’asfalto. Chiusa in quel cubo di vetro cercava di capire come uscirne. Aveva provato a gridare ma nessuno riusciva a sentirla. Neppure Alessandro. Sperava che almeno Angelo potesse percepire il suono del suo richiamo lontano, come un senso atavico che li legava da sempre. Niente. La voce di Alessandro, però, era profonda e ferma. Ne era innamorata, avrebbe dovuto dirglielo. Perché non lo aveva fatto quando era ancora libera? Ora, chiusa là dentro, doveva trovare il modo di farsi sentire.
Forse, se avesse provato a ballare, qualcuno l’avrebbe vista. Perché Elisa sapeva che solo quando danzava riuscivano veramente a vederla. Soltanto danzando poteva esprimere se stessa con parole che nessuna voce avrebbe potuto mai proclamare e che nessun orecchio avrebbe potuto ascoltare. Si era guardata i piedi e con stupore aveva notato che non erano più feriti e doloranti come poche ore prima sulla scena. Erano piedi nuovi e senza calli. Danzava e non sentiva più alcun dolore. Danzava al silenzio di quella teca di cristallo. Avvertiva la voce dei suoi genitori. Erano nervosi e addolorati. Erano arrivati finalmente. Li aveva tanto aspettati e desiderati. Improvvisamente ebbe la necessità di buttarsi tra le braccia di suo padre e chiedergli perdono per averlo offeso, per averlo umiliato e per non aver avuto fiducia in lui e nella possibilità di essere ascoltata e compresa. Aveva finalmente capito che cos’era che aveva sbagliato: aveva emesso la sentenza prima ancora di aver ascoltato l’imputato. Lo stesso tragico errore che addebitava ai suoi, quello che cercava di combattere era anche il suo più grande peccato. Le mura di Gerico erano cadute e lei poteva vedere ogni suo errore che si era nascosto dietro quella fortezza che le era parsa inespugnabile. Aveva la stranissima impressione di avere finalmente capito il senso delle cose e che esse fossero totalmente differenti da come le aveva immaginate. Poteva cogliere l’essenza della verità che non era nel rigore e nella durezza in cui aveva voluto racchiuderla, ma piuttosto in una mutevole e variabile luce che cambiava il suo spettro di colori a seconda di come spostava lo sguardo. La verità non esisteva, l’aveva finalmente compreso: era solamente uno dei tanti punti di vista. E come aveva tentato di correre verso la voce di suo padre per farsi abbracciare, era rimasta schiacciata contro la lastra di vetro che la separava dal resto del mondo. Non provava né dolore né angoscia. La sua anima volteggiava libera e leggera. Nessun tormento, nessuna sofferenza.
Non si sentiva soffocata da alcun peso, come se qualcuno avesse improvvisamente tagliato la catena che le legava al collo l’enorme masso che la trascinava sempre sul fondo dell’oceano. Finalmente poteva nuotare e risalire a galla seguendo la luce che arrivava dalla superficie e allontanandosi dal buio in cui era rimasta intrappolata senza respirare per troppo tempo. Poteva vedere l’amore immenso che provava per Alessandro e non ne era più intimorita. Doveva assolutamente dirglielo. La voce lontana di Bianca era seria come non l’aveva mai sentita. Bianca, che era la donna vera tra loro due, con le sue curve e la sua raffinata femminilità, stava parlando con qualcuno, ma non riusciva a distinguere le parole. Doveva essere Angelo, sì, stava sicuramente parlando con Angelo. - Bianca, prenditi cura di lui, finché non esco da qui dentro! Digli che tutto andrà bene, che le cose si sistemeranno! Deve soltanto avere coraggio. Elisa cercava di comunicare con lei, ne aveva bisogno, ora che nessuno poteva vederla o ascoltarla Bianca doveva essere i suoi pensieri e le sue parole. Bianca doveva assolutamente dimostrare di essere la loro persona, quella che avevano scelto come sorella, l’ago della bilancia fuori dal loro binomio perfetto. Era un grido straziato quello che aveva appena udito? Era la parola “speranza”, quella pronunciata da Bianca? Chi aveva nominato Dio? Perché? Non sapevano che Dio è così grande da non poter essere neppure nominato? Quella voce che negava continuamente era di Angelo, la riconosceva anche da lontano. Lui negava sempre. - Ti amo! Era forte e chiaro, improvvisamente aveva squarciato quel silenzio sordo in cui si trovava ed era rimbombato nella teca come fosse stato gridato dentro una cattedrale vuota. Alessandro non era lontano come gli altri. La sua voce era calda e vicina. Non poteva vederlo ma sentiva la sua avvolgente e rassicurante presenza. Anche
lei lo amava con tutta se stessa. Aveva preso tutta l’aria che poteva per gridarlo forte al punto di rompere quella maledetta lastra di vetro che la stava imprigionando. Non aveva più paura di niente, neppure dell’amore. - Ti amo anch’io! – gridò quanto più forte poteva. La teca esplose con un fragore devastante e una luce abbagliante e improvvisa avvolse tutto e la sollevò, cancellando ogni cosa ata e futura e portandola per sempre via con sé. Il ventotto febbraio alle cinque e zero due del mattino Elisa era stata portata a danzare altrove. Il suo cuore smise di battere autonomamente, il cervello di mandare impulsi elettrici. Elisa aveva smesso di vivere. Non avrebbe mai smesso di esistere per loro.
Capitolo 12
Avevano provato a tenerla in vita, avevano tentato di tutto, ma Alessandro sapeva già, dal primo momento in cui l’aveva vista sull’asfalto, che Elisa se ne sarebbe andata. Anche Angelo aveva capito immediatamente che Elisa gli era stata strappata, appena udito quel rumore sordo che l’aveva lanciata nel vuoto. Si era sentito improvvisamente solo e freddo. Qualcuno aveva tragicamente interrotto ogni flusso che li teneva in contatto da quando erano soltanto un ammasso informe di cellule contenenti un destino comune chiamato vita. Aveva avvertito la desolante sensazione di essere la metà di qualcosa che non avrebbe mai più potuto ritrovare il suo intero.
Bianca si avvicinò nel corridoio e disse, scuotendo la testa: - Non c’è alcuna speranza... Stringendo a sé Angelo, quando capì che Elisa, nonostante ogni tentativo di rianimazione, stava correndo verso una luce diversa dalla loro. Quella della superficie che la chiamava a sé, finalmente libera dalla pesante zavorra che la incatenava alla vita. - Guardami Angelo! - Bianca cercò di richiamarlo all’attenzione - Sta andando via, il suo cervello si sta spegnendo. Dobbiamo decidere in fretta... lei lo avrebbe voluto... Angelo continuava, freddo e immobile, in quel corridoio anonimo e spoglio, a ripetere senza inflessione: - No... no... no... - mentre si dondolava avanti e indietro con il busto, simile a quelle figure prive di anima e di vita che si vedono negli horror, quei film che tanto li entusiasmavano e che ora sembrava ci fossero caduti tutti dentro.
Fabio gli stava di fronte impotente e assolutamente incapace di raccogliere il suo strazio. Era stato il primo a raggiungere il corpo ormai esanime di Elisa, lui che era l’ultimo arrivato nelle loro vite, era stato anche il primo ad aver toccato la morte che li stava per travolgere. Fabio si trovava davanti a lui e non riusciva proprio ad arrivare alla sua anima, la porta era chiusa e forse soltanto Elisa custodiva quella chiave. I dottori Di Strada erano attanagliati in un dolore composto e incredulo. Probabilmente non erano riusciti ancora a metabolizzare una disgrazia enorme come quella che si stava abbattendo ingiusta sulla loro famiglia. La signora Laura avrebbe voluto scuotere sua figlia e svegliarla per dirle almeno una volta, anche se soltanto l’ultima, quanto bene le volesse e quanto la ammirasse per quel suo carattere battagliero e volitivo che lei non aveva avuto nella sua vita. Continuava a invocare Dio. Ora poteva solo apporre la sua firma per il consenso al rispetto della sua morte, un rispetto della sua volontà che avrebbe restituito vita ad altri. Non c’era più tempo. Tutto quello che non avevano preso, detto o fatto al momento giusto era stato perso per sempre. Il per sempre peggiore cui non avevano mai pensato, così intenti a progettare ognuno il proprio futuro. Quello strano gioco di parole che cambia la vita e l’esistenza senza alcuna via di ritorno. Alessandro continuava a guardare Elisa addormentata su quel maledetto letto. Maledetto come le sue maledette sigarette che l’avrebbero uccisa. Invece era stata un’allegra e spensierata giravolta sulle strisce dell’attraversamento pedonale ad avergliela portata via. Un movimento simile a una pirouette era stato il punto finale nella storia della vita di Elisa, la sua morte scritta in un o di danza. Era stato il beffardo destino di una macchina impazzita a cancellare la loro vita insieme. Vita che volevano e che non avevano potuto avere. Era bella, era bellissima come poche ore prima quando aveva capito che poteva essere finalmente sua. Le aveva detto che la amava troppo tardi. Nel momento in cui stava volando via
da lui. L’onda che aveva lambito la battigia, allungandosi su di essa con la sua schiuma fragorosa, si stava ritraendo velocemente verso le profondità del suo mare. Chissà se era vero che per ogni onda che muore ce n’è sempre una pronta a rinascere? Come gli disse Elisa una sera al pub, guardando assorta la sua rossa nel boccale mezzo vuoto. In quel momento tutto ciò che restava era la salsedine sulla pelle e la strana sensazione dei piedi sprofondati nella sabbia bagnata. Alessandro si torturava chiedendosi se l’avesse sentito. Sarebbe stata l’ultima cosa ascoltata nella sua breve vita. Gli consegnarono di corsa i documenti firmati dai famigliari per l’espianto degli organi e, con le mani che tremavano, fece un cenno con la testa agli altri per dare il comando di attivare tutte le procedure necessarie. Non riusciva a parlare, né a deglutire, nemmeno a respirare, ma sapeva che Elisa lo avrebbe voluto, che non avrebbe accettato di morire senza dare un senso a quella morte. E quale miglior senso avrebbe potuto trovare Elisa se non quello della vita? Elisa era vita allo stato puro e anche nella morte era riuscita ad affermarlo con determinazione. La sua morte assurda e inaspettata avrebbe regalato la vita a chi quella morte l’attendeva con rassegnazione. Alessandro aveva l’impressione che il suo cuore si fosse dolorosamente contratto, per sempre stretto in una morsa. Il cassetto che avevano faticosamente aperto si era violentemente richiuso e nessuno lo avrebbe mai più riaperto, perché Elisa aveva portato via con sé la chiave e anche quella felicità per la quale avevano combattuto e della quale avevano assaporato, per un effimero e fuggevole attimo, tutta la dolcezza.
Ai funerali il silenzio strideva simile al gesso sulla lavagna mentre traccia nuove parole e nuove sequenze di numeri. La piccola chiesa di Sant’Agnese, dove i gemelli Di Strada avevano ricevuto tutti i sacramenti, era gremita di gente. Soprattutto giovani. Erano tutti composti in un dolore dignitoso. Quasi nessuno piangeva.
Chi la conosceva sapeva che non avrebbe tollerato di essere motivo di sofferenza per qualcuno. Avrebbe detto che la morte era in fondo l’unica cosa certa della vita e saperla accettare era sicuramente un atto di coraggio, lo stesso coraggio per il quale si era battuta sempre. Elisa non era cinica, era semplicemente una pura, un’idealista. Esigeva squarciare a tutti i costi il velo che copriva la realtà e che la rendeva falsamente più accettabile. La morte è la fine della vita, avrebbe urlato a gran voce, ed è un dato di fatto, perciò raccontarsi storie su quello che c’è dopo è solamente un modo per rendere la cosa più poetica, ma non ne cambia di una virgola la sua essenza. Il dopo non esisteva, almeno non per i vivi. Non era affar loro, che dovevano per forza andare avanti. Elisa avrebbe preso il microfono e lo avrebbe gridato, e avrebbe ribadito che tanto “il dopo” appartiene a tutti, cercare a tutti i costi di scrutarlo prima, per trovarne le ragioni, non sarebbe servito a conoscerlo. Perciò chi era vivo continuasse a vivere e chi era morto si lasciasse andare in pace per una strada che tutti, ma proprio tutti, avrebbero percorso prima o poi. Questo avrebbe detto Elisa ma Elisa non era più là con loro e aveva lasciato un vuoto abissale nelle loro esistenze. Un buco che nessuno sapeva come e se avesse mai più trovato riempimento. Angelo non si era seduto accanto alla sua famiglia ma nel banco dietro, preferendo la vicinanza delle persone che amava e che avevano saputo amare Elisa. Era arrabbiato con i suoi per il loro essere stati ciechi e sordi e perché la delusione e il rimprovero erano stati gli ultimi sentimenti che avevano vissuto con Elisa. Non si può andar via lasciando le questioni in sospeso, le persone che si amano non dovrebbero mai far sopraggiungere la notte senza aver risolto i loro litigi. Ma la notte era piombata loro addosso senza preavviso, un’eclissi di sole che li aveva colti alla sprovvista lasciandoli a brancolare nel buio e nella disperazione. Il sacerdote che non la conosceva, perché lei non frequentava la chiesa, aveva parlato dell’amore di Dio e dell’imperscrutabilità dei suoi disegni. Parole che non potevano consolare i cuori di chi aveva avuto la fortuna di percorrere quel
piccolo tragitto di vita insieme a lei. Alla fine della messa, quando ormai il prete aveva benedetto la salma per lasciare che fosse portata via, Angelo si alzò, con occhi vuoti e vitrei e aveva chiesto la parola, fermando quelli che si stavano avviando a testa bassa per riprendere le loro stanche esistenze. Salì all’ambone e si allentò la cravatta. Aveva aggiustato il microfono davanti alla sua bocca e si era ato le dita ad asciugare il sudore nervoso che gli imperlava il labbro superiore, compiendo tutti questi gesti con meticolosa attenzione, come un presbitero che si prepari a consacrare l’ostia per trasformarla in qualcosa di sacro e prezioso. - Non posso lasciarti andare via così. Non ti ho potuto salutare. Ancora una volta hai scelto tu per entrambi, mi hai fregato di nuovo con questo tuo modo di fare le cose così da metterci di fronte al fatto compiuto, senza possibilità di elaborarlo o di discuterlo. Aveva inspirato aria fino a farsi scoppiare il torace per cercare di rallentare i battiti del suo cuore fuori controllo. Si morse il labbro e riprese: - Non posso permettere che tu te ne vada senza sapere quanto sei stata importante nella mia vita. Eri la mia forza e la mia follia. Devi sapere anche che quando mi arrabbiavo con te per le tue scelte, sempre così controcorrente, e per la tua perenne indolenza a ciò che ti era imposto, io in realtà ti invidiavo. Avrei voluto avere il tuo coraggio e la tua caparbietà nell’affermare ciò che ritenevi giusto. Avrei voluto essere come te. Grazie per essere esistita e per avermi mostrato quello che voglio diventare. Dio deve esistere per forza per averti creato, e sicuramente ti deve amare tantissimo per averti voluta riprendere accanto a Lui sollevandoti da tutto lo strazio che la vita ci riserva. Ovunque tu sia adesso: ciao Elisa! Si allontanò dal microfono con la voce che tremava per lo sforzo con cui cercava di contenere il pianto. Alessandro smise di respirare, aveva il petto squarciato dal dolore e Bianca, che aveva gli occhi rossi e le labbra ferite dai morsi, gli afferrò la mano, che lui stringeva come fosse una fune cui attaccarsi per evitare di precipitare nel vuoto. Si stringevano fino a farsi male, sperando forse in quel modo di riuscire a
rimanere in piedi mentre l’uragano li stava travolgendo impietoso. Ma erano già devastati e giacevano sconvolti in una marea di fango. Si tenevano la mano così forte per affogare almeno insieme. Giada seguì il prete che usciva, gli parlò e lui sorridendo assentì alla sua richiesta, indicandole con il capo un angolo al lato del coro. Diede un cd al direttore. Improvvisamente nella chiesa era partita “Smell of desire” degli Enigma, strappando il cuore da chiunque si trovasse ancora lì dentro. Tutti potevano ancora una volta immaginare Elisa che danzava. Tutti potevano ricordare la sua immensa felicità quando la sua anima si trasformava in musica. Giada l’aveva dovuta riproporre al pubblico la sera prima dei funerali, alla replica dello spettacolo, che si era fermato solo il giorno in cui Elisa era morta e che poi era dovuto andare avanti. Era la sua sostituta e per la prima volta aveva ballato portando in scena un dolore e un tormento che non le appartenevano. Luca aveva guardato Giada che danzava mossa dallo spirito di Elisa. In scena per l’ultima volta, aveva potuto scorgere il suo primo amore, come se fosse lì davvero, e gli era parso addirittura di sentirne il profumo e il sapore di quando a sedici anni, tremante di paura, le aveva ato per la prima volta la lingua sul seno. Un attimo e poi era volata via per sempre.
Mentre guardava la macchina funebre che si allontanava diretta al cimitero, il professor Di Strada sussurrò sovrappensiero e con occhi vacui: - Le nostre vite sono finite con lei. Non abbiamo più alcun futuro cui guardare. Angelo aveva il cuore in miliardi di pezzi ma stavolta non avrebbe pianto. Non avrebbe pianto mai più senza Elisa ad asciugare le sue lacrime, pensò.
Marzo, allontanarsi
Il silenzio di questa casa mi sta spaccando i timpani. Elisa me lo ripeteva in continuazione che qui dentro fa troppo freddo, ed era per questo che voleva sempre uscire, che voleva stare in compagnia. Non ho mai capito fino a oggi perché volesse stare sempre in mezzo agli altri per poi restare in silenzio in disparte ad ascoltare e osservare. Aveva bisogno di calore e di vita, voleva sentirsi parte di qualcosa, indipendentemente dal ruolo di protagonista o meno che avrebbe recitato. Voleva semplicemente essere nel mondo. Da quando se n’è andata, non so come sfuggire da questo silenzio. Almeno prima bastava bussare alla porta della sua camera e sedermi accanto a lei. Non serviva parlare, ma con quattro orecchie, invece che due, il silenzio era meno assoluto. Mio padre abbassa sempre lo sguardo quando mi è di fronte e mia madre non ha detto una parola da quando siamo venuti via dal cimitero. Elisa è morta ed io per loro ero già morto il giorno prima di lei. L’ultima volta in cui Elisa ha parlato con mamma e papà è stato per litigare a causa mia. Non riesco a perdonarmelo. È stata colpa mia se non sono venuti allo spettacolo e non l’hanno vista ballare. L’hanno persa per sempre avendo di lei solo il ricordo di un litigio invece che la sua superba bellezza mentre danzava nel migliore dei suoi spettacoli. È una settimana che non c’è più e ognuno di noi sussulta ogni volta che la porta di casa si apre o si chiude, ogni volta che suona il telefono. Come se improvvisamente potesse tornare, come se ci fossimo immaginati tutto. La stiamo aspettando come se fosse scappata dalle sue responsabilità, per meditare una volta per tutte sui suoi comportamenti così aggressivi e graffianti, e potessimo ritrovarcela davanti da un momento all’altro con gli occhi bassi e le
labbra tese in segno di rammarico. Elisa non scappava, Elisa non abbassava lo sguardo, Elisa non si dispiaceva. Mai in tutta la sua vita. Elisa è morta. Io qui dentro impazzisco! Non riesco a chiudere gli occhi. Quando lo faccio, vedo il suo corpo disteso sull’asfalto, è un’immagine che non mi abbandona. Mi si è impressa nel cervello attraverso le retine. Allora preferisco restare a occhi aperti. Così, sono costretto a guardare i miei genitori, il loro immenso dolore, la loro delusione. Sono costretto a are davanti agli specchi e voltarmi dall’altra parte, incapace di guardarmi in faccia, impaurito dal mio strazio. Oggi ha chiamato Bianca, ma dopo il “ciao” è rimasta in silenzio. Non sappiamo che cosa dirci. Nessuno sa più che cosa dire o di che cosa parlare. Come se Elisa fosse stata tutte le nostre parole e i nostri argomenti. Il silenzio ha avvolto ogni cosa, anche al di fuori di questa casa. Il tipo che ha ucciso Elisa non era ubriaco né drogato. Era una guardia giurata che rientrava dopo un turno di servizio disumano in cui era stato costretto a trattenersi al lavoro per altre sei ore oltre le sue dodici, un ordine di servizio, e che aveva avuto un banale colpo di sonno. Come posso odiarlo? Io vorrei poter odiare qualcuno. Vorrei riversare questa colpa su qualcuno a cui rivolgere tutta la mia rabbia. Devo trovare qualcuno da odiare, un responsabile per questa ingiustizia. Invece è stato soltanto un tragico destino. Non ho più visto Fabio dal giorno dei funerali. Mi ha chiamato ogni giorno, ma anche lui non sa che cosa dirmi. Ed io non ho proprio niente da dire a lui. Non
ho voglia di incontrarlo e se non lo avessi mai incontrato magari le cose sarebbero andate diversamente. Non avremmo litigato e saremmo andati a cena fuori con i miei genitori, dopo lo spettacolo, ed Elisa sarebbe ancora qui. - Chiacchiere, tutte stronzate! È successo perché doveva succedere e basta. Sento ronzare la sua voce nelle orecchie. In questo momento provo solo rabbia, e non so su chi indirizzarla, se non su me stesso. Avrei dovuto esserci io su quell’asfalto. Sarebbe stato meglio per tutti. I miei genitori avrebbero avuto un pensiero in meno per cui addolorarsi. La luce dello studio di mio padre è accesa. Chissà se riesce davvero a concentrarsi sul lavoro? Decido di affrontarlo, non ci siamo più rivolti la parola da quella dannata sera. - Papà, ho deciso di partire. Ho bisogno di allontanarmi per un po’ da tutto e da tutti. Non alza neppure gli occhi per guardarmi in faccia e non smette di leggere quello su cui è concentrato. Capisco che mi ha ascoltato da un impercettibile tremolio della sua mano e non mi interessa cercare la sua benedizione, perciò gli volto le spalle ed esco, lasciandolo a far finta di continuare a vivere. Non so neppure io dove sono diretto, so soltanto che devo andarmene il più lontano possibile. Non chiamerò né Fabio né Alessandro. Me ne voglio andare in silenzio e senza salutare nessuno. Proprio come ha fatto Elisa. Se solo provassi a guardarmi alle spalle, so per certo che qualcuno o qualcosa, anche uno stupido ricordo, avrebbero il potere di farmi restare. Sono un debole e i deboli scappano nel momento in cui sanno di non poter essere fermati.
O forse non è così, Elisa non era debole ma se n’è andata comunque senza avvertirci, senza che potessimo far nulla per trattenerla qui. Ho bisogno di ritrovare una strada da percorrere e una notte da dormire.
La sveglia suona alle cinque della mattina. Fuori è ancora tutto buio. Ho preparato una borsa da viaggio buttandoci dentro qualche maglione e due paia di pantaloni. Di scarpe mi bastano quelle che ho ai piedi. Chiudo la porta di casa alle mie spalle e mi avvio. Ho dimenticato il cellulare e non torno a riprenderlo. Non è vero, non l’ho scordato, ho voluto lasciarlo sulla mia scrivania. Spento. A quest’ora Roma sta cominciando ad animarsi. Alcuni senzatetto sono ammassati sotto coperte e cartoni, in un angolo nascosto della strada, dietro il chiosco di un fioraio chiuso, per sfuggire al freddo pungente di questi giorni. Hanno l’aspetto di fantasmi che non sembrano appartenere a questa vita terrena. Mi sono sempre chiesto se in quell’ammasso di stracci e ossa ci sia la vera libertà, quella che disperatamente cerchiamo di affermare tutti i giorni nella nostra vita, dovendo sempre rendere conto di noi stessi a qualcun altro. In un bar i primi avventori, con gli occhi stanchi e gonfi, sorseggiano cappuccini fumanti. Mi prenderò un caffè prima di partire. Metto in moto la macchina e mi avvio senza una meta certa, intanto uscirò da Roma. Cinque ore senza mai fermarmi. Non ho neppure il navigatore, la strada è segnata sul mio cuore. Senza pensare, senza aver veramente deciso la meta, ho scelto questa come se fosse l’unica direzione possibile. L’ultima volta che siamo venuti qua eravamo ancora una famiglia spensierata.
Eravamo poco più che bambini e ci venivamo in vacanza tutte le estati. È molto diverso guardare questo mare a marzo. Il suo colore è differente. Anche il cielo che lo sovrasta sembra essere un altro. È molto strano osservare questa spiaggia vuota, senza ombrelloni, senza lettini, senza la musica della filodiffusione e i venditori ambulanti di bomboloni. È tutto così immobile se non fosse per lo scrosciare delle onde che si allungano sul bagnasciuga. Arrivavamo di solito il giorno prima di ferragosto e restavamo fino alla prima domenica di settembre. Sempre lo stesso albergo sul lungomare, sempre le stesse camere comunicanti. Ora sembra che sia stato solo un film visto al cinema. Entro in uno dei pochi bar aperti e mi siedo al caldo. Non so neppure io che cosa ci sono venuto a fare qui. Mi chiedo che cosa speravo di trovarci. Forse l’affetto dei miei genitori, di quando mia madre ci impiastricciava di crema solare e mio padre, seduto sulla sdraio con la testa tuffata nel suo quotidiano, si raccomandava di non buttarci sulla sabbia. Oppure le risate di Elisa quando mi tirava addosso una secchiata di acqua di mare o mi distruggeva il castello che avevo costruito per ore, studiandone prospettiva e architettura. Qui non c’è più niente di tutto questo. È marzo e Riccione è vuota e fredda. È tutto cambiato. - È qui per lavoro o per qualche convegno? Mi sorprendo ad ascoltare la voce di questa ragazza carina, molto giovane, che mi fa riemergere da un silenzio lungo giorni, forse lungo anni, e le rivolgo uno sguardo interrogativo. - Difficile vedere qui facce nuove in inverno. Di solito in questo periodo ci si viene per lavoro! Che cosa ti porto? È allegra e mi risolleva un po’ il morale. Le sorrido.
- Una bottiglia d’acqua e due toast ben caldi, per favore. Quando torna, decido di risponderle: - Sono qui solo per riposarmi un po’. Hai da consigliarmi un posto tranquillo dove alloggiare per qualche tempo? - Molti alberghi in questo momento sono ancora chiusi, apriranno il prossimo mese, per Pasqua. I miei gestiscono una piccola pensione a due i da qui, se vuoi, posso domandare se sono disponibili ad affittarti una camera. Non sarà sicuramente il Grand Hotel Des Bains, ma è un posto confortevole e silenzioso da cui si vede anche il mare. Non intendo mettermi alla ricerca, sono stanco e svogliato, decido di cogliere la sua offerta al volo. sca, questo è il suo nome, mi fa venire a prendere da suo padre per accompagnarmi alla pensione. Li ringrazio per la loro disponibilità, mi dicono che per l’affitto ne riparleremo con calma, in base al periodo in cui mi fermerò. Purtroppo, essendo ancora periodo di chiusura, mi dicono che non hanno personale a servizio e pertanto riusciranno soltanto a fornirmi la biancheria pulita settimanalmente, ma che se lo desidero manderanno qualcuno a sistemarmi la stanza. Mi offrono una delle camere migliori, con un terrazzino vista mare, arredata con sobrietà. Un letto, un paio di comodini e il guardaroba, il televisore e un bagno pulito sono tutto ciò che mi serve per sentirmi altrove.
È ata una settimana da quando sono arrivato e le uniche parole che ho scambiato sono state con i proprietari della pensione Flora, che sono gentili e discreti nel non farmi troppe domande sulla mia permanenza solitaria qui in questo periodo. E con sca, diciannove anni, che ha finito la scorsa estate l’istituto tecnico commerciale e si è messa a lavorare al bar subito dopo la maturità. Non sa che
cosa farà in futuro. Vorrei dirle che il futuro non esiste, che il futuro è adesso. Che non deve voltarsi a guardare oltre i sogni che ha davanti al suo naso. Ora e subito. Prendere o perdere, non abbiamo scelta. La vita è traditrice e quando ti mette tutto tra le mani è pronta a strappartelo via. Non glielo dico. Mi piace guardare i suoi occhi pieni di voglia di vivere. Anche Elisa li aveva così, ma soltanto quando ballava. E da quando aveva conosciuto Alessandro. Mi mancano i suoi occhi blu notte. Chiudevano dentro un milione di stelle brillanti. Erano occhi severi e profondi capaci di scrutarti fin dentro l’anima. Non sono mai riuscito a sfuggire al suo sguardo. Era la sua parola soverchia. Il modo in cui guardava il mondo e le persone gridava. La notte ancora non riesco a chiudere gli occhi. Appena lo faccio le ombre si addensano sul mio cuore dandomi la perenne sensazione di schiacciamento. E così mi costringo ad alzarmi e uscire. Cammino sul lungomare e spesso mi siedo sulla panchina del canale. Al buio e in solitudine riesco a non pensare e a concentrarmi solo su ciò che è intorno a me. Osservo il beccheggiare delle barche legate, spesso mi soffermo a contarne le oscillazioni. Dipendono dal vento e dalle onde. Ieri erano più lente. Oggi c’è aria di tempesta in arrivo. Si sente il profumo di mare più forte e più penetrante. Anche la salsedine si attacca sul viso tirandone la pelle e ando la lingua sulle labbra posso assaggiarla.
Quando vedo il rianimarsi della cittadina e l’apparire nelle vetrine di colombe e uova di cioccolato, mi rendo conto che è già da un mese che sono qui. Non ricordo neppure più quando sono arrivato né la strada che mi ha condotto in questo posto. È come se il tempo si fosse fermato in una bolla di sapone sospesa precariamente
nell’aria e pronta a scoppiare in qualunque istante. Un mese in cui ho cercato disperatamente di cancellare ogni pensiero e ogni ricordo. Un mese in cui ho percorso chilometri di sabbia e guardato milioni di onde infrangersi sulla battigia, sperando di veder spezzata quella ricorrenza. Tutto però è rimasto uguale a se stesso. Il mare, mosso o calmo, è sempre lì, mai fermo, e le stelle, coperte o meno dalle nuvole, come la luna, rimangono sempre nel cielo. Per quanto io stia cercando di cancellare i ricordi e i sentimenti, questi continuano a ruggirmi disperati nell’anima. Elisa mi direbbe che sto fuggendo. Che sono un codardo. Come quando da bambini facevamo a battaglia di palle di sabbia e vinceva sempre lei, finché in lacrime non andavo a nascondermi dietro la sdraio di mia madre: - Vieni fuori e combatti! Sei il solito fifone! Non hai coraggio! Lei rideva e mi sfidava, mentre io piangevo. Avevamo otto anni, ma già allora era tutto chiaro. Mia madre impazziva dietro a quella peste di mia sorella e mio padre guardava disgustato le mie lacrime di sconfitta. Aveva ragione Elisa. Sono un vigliacco. Mi si secca la bocca a pensare che ho lasciato Fabio senza una parola. Non lo meritava proprio. Ma in questo momento non riesco a cancellare tutto lo schifo e il senso di colpa che provo verso di me e sono certo che Fabio meriti più di questo me stesso. Capirà. Mi chiedo se Alessandro abbia mai più fatto un sorriso dal ventotto febbraio. E perché avrebbe dovuto? Io non ci sono riuscito. Neppure quando sca mi ha servito una frittata con uno smile disegnato con due olive e un peperone. Sperava di sorprendermi ma la mia espressione era rimasta la stessa di sempre. - Non ridi mai tu? Chi ti è morto?
L’ha detto con leggerezza e ingenuità, quella con cui i giovani esorcizzano il concetto di morte, come se fosse qualcosa che non li possa toccare, la sfidano senza paura, la nominano senza conoscerla. E invece ha colpito nel segno. Avrei dovuto dirle che era morta mia sorella e che il giorno prima di lei ero morto anch’io, paradossale giacché io sono ancora qui e lei non c’è più. Ma non ho avuto il coraggio di ferire la sua dolce ingenuità. Ho solo abbassato lo sguardo e tagliato la mia frittata, reprimendo la sofferenza che ho dentro, spezzando quel peperone e il suo sorriso inopportuno.
Ho improvvisamente voglia di sentirlo. E insieme rabbia per questa mia voglia. L’ho ferito. Lo so. Ne sono certo. E so anche che ha capito ciò che provo. Perché Fabio è così, mi conosce e rispetta il mio timoroso non accettarmi. Fabio non ha fretta e non vuole altro che io stia bene. Si chiama amore. Sono io che sto fuggendo da lui e dalle mie responsabilità. Sono io che sono incapace di amare. Decido di rientrare alla pensione nel primo pomeriggio. Ho acquistato un libro, mi metterò a leggere cercando di divagarmi. Devo assolutamente allontanare il pensiero di Fabio che mi sta martellando la testa. E del male che gli ho fatto ingiustamente. - Signor Angelo! - Mi chiama la signora Flora, che sta annaffiando le aiuole all’ingresso. - Salve. - Le rispondo con lo stesso tono cordiale con cui mi accoglie. Si avvicina, asciugandosi le mani sul grembiule. Mi sorride con il calore tipico della gente romagnola. - Oggi ha chiamato suo padre. Erano circa le dieci di questa mattina. Ha chiesto di essere richiamato. Sento il cuore che mi esplode. La signora Flora mi guarda preoccupata. - Non si sente bene?
Devo essere sbiancato. Quanto credevo di andare lontano? Quanto pensavo di sfuggire dalla mia vita? Deglutisco nervosamente. - No, no, tutto bene. Grazie... La saluto di corsa e salgo nella mia camera. Ho bisogno di un minuto per riordinare le idee. Quanto pensavo di rimanere qui? Che giorno è oggi? Ho perso completamente il senso del tempo. Accendo la televisione per controllare la data esatta: è il quattro di aprile. Oggi ho venticinque anni. - Auguri Elisa! Mi lascio andare al mio primo prorompente e liberatorio pianto da quando se n’è andata. L’anno scorso eravamo a festeggiare con i nostri amici in un agriturismo in Toscana. Eravamo ancora noi stessi, con le nostre ambizioni e i nostri sogni da realizzare. Elisa era tormentata per aver saltato la seconda sessione di esami e aveva fatto solo un timido sorriso soffiando le candeline sul tiramisù preparato da Giada. Lei e Luca si stavano lasciando e Alessandro già la guardava con occhi diversi. Fabio invece non c’era. Lui ancora non era arrivato nella mia vita. Quante cose sono cambiate in un anno? Quant’è banale il tempo: non vivi per ventitré anni, scopri l’amore in una notte d’inverno e muori travolto dal destino di un solo attimo. A che cosa serve quantificarlo? Tanto le cose accadono indipendentemente dal suo scorrere e nel momento in cui lo fanno, lo intrappolano in una fissa e indelebile eternità. Sono ate due ore e alla fine non ho letto, non ho guardato la televisione, non ho dormito. Mi sono seduto su questo terrazzino a guardare il mare, perdendomi tra i ricordi. Proprio quelli da cui pensavo di fuggire. Decido di scendere. La signora sta risistemando il bancone del bar e mi guarda con un discreto sorriso. Ha capito che non sto bene e non fa domande con una preoccupazione manifestata solamente nelle sue espressioni.
- Signora Flora, dove trovo un telefono? La signora è cordiale, ormai mi tratta con affettuose premure, come se mi conoscesse da anni. Mi accompagna alla reception della pensione e mi apre la linea in uscita, allontanandosi per lasciarmi chiamare. Mi trema il dito con cui compongo il numero. - Pronto! La voce di mio padre mi fa sobbalzare. Mi fa sentire in colpa. Sempre. - Ciao... Non riesco a dire niente. Ho la lingua secca. L’ultima volta che gli ho detto qualcosa è stato per avvertirlo che me ne stavo andando. Lui non mi aveva risposto. Appena sente che sono io, sospira. - Ha chiamato la segreteria della tua Facoltà. Le tue ferie sono finite tre giorni fa, ti stanno coprendo con dei giorni di malattia, ma devi tornare, o subirai un richiamo formale dall’amministrazione. È freddo e distante. - Ho capito. Tornerò. Dall’altra parte del filo l’angoscia e l’amarezza di mio padre mi sferzano l’anima. - A presto, allora. - A presto. Chiudiamo la conversazione, entrambi feriti e consapevoli di esserci detti molto più di ciò che le nostre parole hanno proferito. - Auguri Elisa! Oggi è il nostro compleanno! -
Aprile e Maggio, camminare e dormire
Già sul raccordo inizio a sentirmi soffocare. So che mi sto avvicinando alle mie responsabilità e non ho idea di come affrontarle. Ho provato a fuggire ma dovevo immaginare che trovarmi sarebbe stato facilissimo. Del resto mio padre è un magistrato ed io scappavo semplicemente allontanandomi, non mi stavo certo nascondendo. È bastata una telefonata alle forze dell’ordine per rintracciare la mia registrazione turistica. Devo tornare al lavoro o perderò il posto di assistente. E devo assolutamente parlare con Bianca e Alessandro. Si saranno preoccupati per la mia assenza e ancor più per il mio silenzio. Ai miei genitori, invece, non so proprio che cosa dire. E poi c’è Fabio. Mentre parcheggio la macchina nel box, mi rendo conto che sto soffocando davvero. Chiudo gli occhi e ho l’impressione di avere davanti le loro facce che mi guardano severe, mi sembra di vederli girare intorno a me, tutti in attesa di qualcosa, di una parola, di una spiegazione, di una scelta. Mi sento in trappola. Voglio libertà. Ho bisogno di sentirmi svincolato dai condizionamenti e dalle pressioni che mi pesano addosso e mi opprimono. Tutti si aspettano qualcosa da me ed io non sono in grado di dare più niente a nessuno. Entro in casa e ho le mani gelate. Il cuore è fermo. Silenzio. Il solito pesantissimo silenzio glaciale di questa casa. Come sembra piccola rientrando dopo tanti giorni. Scherzi della mente.
La camera di Elisa è socchiusa e buia. Lei non è lì dentro ad ascoltare la musica con le sue cuffie. Nessuno ha aperto le persiane. Lei odiava il buio. Ci entro e sento nell’aria ancora il suo profumo. Nella penombra, noto che è tutto in ordine. Lei non avrebbe mai tenuto la stanza così ordinata. E infatti lei non c’è più. Mi siedo per terra, appoggiandomi con la schiena sul suo letto, come ho fatto sempre, in attesa delle sue dita tra i miei riccioli. Ho i capelli di nuovo lunghi e spettinati. A mio padre non piaceranno. A Elisa invece piacevano tanto, diceva che erano l’unica parte davvero artistica che avessi. Non mi riconosceva neppure il talento nel suonare la chitarra, sosteneva che fossi troppo metodico e irrigidito nella perfezione tecnica, che non fossi capace di lasciarmi andare, costantemente imbrigliato nei miei schemi mentali. In casa non c’è nessuno. Ho un guizzo al cuore, mi sento trascinare dalla voglia istintiva di spaccare ogni cosa. Soffoco. Qui dentro soffoco. Avverto prepotente la voglia di smentirla, di sfidarla e di farle vedere quanto sono capace di rompere tutti gli schemi. - Guardami, Elisa, guardami bene! Te lo voglio proprio far vedere quanto ho imparato bene la tua lezione! Decido di andare nella mia camera, prendo lo zaino grande, quello delle gite in montagna, e senza scegliere ci infilo dentro magliette e felpe, pantaloni e biancheria, fintanto che riesco a infilare. Prendo dal comodino il mio romanzo preferito, di Hermann Hesse, “Il gioco delle perle di vetro” e lo metto nella tasca anteriore dello zaino. Mi sento pervaso, dopo tanto tempo, da una strana euforia. È come se Elisa mi stesse applaudendo: - Bravo bro’! Finalmente una cosa folle! La vedo nella mia testa che ride divertita e compiaciuta. Per la prima volta comprendo la meravigliosa sensazione che lei provava cercando di rompere gli argini che intendevano imprigionare il suo corso incontenibile e impetuoso,
camminando controcorrente. Che cosa voglio? La libertà. La esigo per riuscire a ritrovare me stesso. Io non so quando mi sono perso. Da quando Elisa è andata via, portando con sé l’unica difesa che avessi mai avuto contro questa vita, io non so più chi sono. Una parte di me manca all’appello. Se resto qui, impazzisco. Tutto è pronto. Ritorno nella camera di Elisa, mi mancano altre due cose per dire di aver preso tutto: il suo berretto dei New York Yankees, che le avevo regalato nel nostro viaggio dopo la maturità, e la foto che teneva appesa con una puntina sopra la scrivania. - Ciao Elisa! Vado... Lascio le chiavi della macchina e quelle di casa sul tavolo della cucina e mi chiudo la porta alle spalle.
La prima cosa che devo fare è cercare di ritirare i soldi dal mio conto in banca. Una volta fatto, torno indietro, metto il libretto assegni e il mio bancomat in una busta da lettera, che mi sono portato, la chiudo e ritorno al portone, che è aperto. La infilo nella cassetta della posta di casa mia. Quelli che sono riuscito a prelevare, tra bancomat e sportello, mi sembrano bastevoli per un bel pezzo e non intendo preoccuparmi troppo per un futuro del quale non conosco lo svolgimento. Voglio essere libero. Anche dal futuro. Giro le spalle e m’incammino. Da questo momento in poi non voglio più rendere conto a nessuno di me stesso. Decido di muovermi a piedi, tanto non ho fretta. Arrivo al dannato incrocio dove Elisa è stata investita. Sotto uno dei pali della luce, sul maledetto marciapiede, c’è una piccola lapide di marmo rosato: “Continua a danzare sopra un sogno.
Ciao Elisa.” Sono certo che sia opera di Bianca ma le rose rosse appoggiate a terra, ormai secche, sono di Alessandro. Mi mancano e mi punge la colpa di non aver dato loro neppure una spiegazione, che avrebbero meritato come fratelli piuttosto che come amici. Mi mancano tanto ma devo andarmene o impazzisco di dolore.
Faccio fatica a tenere il conto dei giorni. Pensavo che il difficile fosse vivere senza una casa dove tornare e camminare senza un posto dove andare. In realtà l’unica cosa che mi sembra davvero complicata è tenere il tempo. Mi sfugge. Non avere incombenze né destinazioni da raggiungere mi ha fatto perdere qualunque cognizione temporale. Siamo condizionati. Ecco perché la mattina, quando ci alziamo, già sentiamo la pressione addosso. Il senso di costrizione che non ci abbandona mai, neppure nel sonno, proiettati sempre a ciò che dobbiamo fare. Abbiamo le ore contate, i minuti e i secondi sfuggenti, la giornata perfettamente organizzata, la vita schematizzata. Non respiriamo sopraffatti dagli impegni che abbiamo verso noi stessi e verso la società in cui viviamo. Agogniamo bramosi a boccate d’aria che chiamiamo vacanze. Sorrido mentre penso che, nell’organizzarle meticolosamente, avevo sempre trascurato questo loro senso negativo di vuoto. Ne abbiamo bisogno per scappare dalla realtà piena di obblighi e angosce, un tempo vuoto, vacante, che a volte diventa l’ambizione da raggiungere. Abbiamo perso il senso gioioso del viaggio e lo abbiamo associato a qualcosa di negativo, trasformandolo in un’effimera, momentanea e vana interruzione della quotidianità. Un tempo, la domanda era “quando partirai”? Il viaggio era avventura, scoperta e curiosità. Ormai sento sempre e soltanto chiedere “quando vai in vacanza”? Etimologicamente traducibile in: “Quando diventerai vuoto?”. Vuoto di che cosa? Di vita. La vita è stanchevole, dolorosa, opprimente. Venti giorni di vacanza, interromperla è facile, così facile che non se ne può più fare a meno. Una droga
che stordisce. Rientrare dentro il quotidiano esistere è sempre più deprimente e difficile, così che la vacanza è ciò che desideriamo davvero e non la vita. Da quando sono sulla strada, non ho più bisogno di trovare il tempo. Io sono il mio tempo. Il tempo di mangiare è quando hai fame. Il tempo di dormire è quando hai sonno. Il tempo di ogni cosa è quando decidi che ogni cosa sia. Se tutti avessimo detto o fatto le cose giuste al momento giusto ora non ci sentiremmo così annientati per averle perdute. L’errore più grande in cui cadiamo nelle nostre stanche vite è quello della pianificazione. Cerchiamo di programmare gli eventi come se il futuro ci appartenesse. Ma il futuro è sfuggente e diviene ato nel momento stesso in cui viene pensato, un istante dopo l’altro, in un incessante rincorrersi di frazioni future di attimi, morte ancor prima che possiamo renderci conto di averle veramente vissute. Il tempo presente. L’unico che possa essere vissuto, pur nella nostra desolante incapacità di saperlo cogliere. Il ato è un futuro già morto, il presente è futuro che ci sta sfuggendo senza che siamo capaci di afferrarlo e il futuro stesso non esiste, non è conoscibile né realisticamente predisponibile e non ci appartiene. Devo camminare, non posso fermarmi. Un o dopo l’altro per capire che niente è più incerto di quello successivo, in cui il piede potrebbe vacillare o inciampare, e nulla è più irrecuperabile di quello lasciato indietro. Magari potrò ripercorrere la stessa strada decine di volte ma ognuna sarà sempre diversa dall’altra. È il camminare la vera essenza di ogni o, come la vita lo è di ogni attimo.
Ho ricominciato a dormire. La prima notte non è stato facile, mi sono seduto su una panchina, aspettando che la stanchezza prendesse il sopravvento. Invece sono rimasto intento a guardare le persone che mi avano davanti, sfilando come spettri chiusi nei loro pensieri. Nessuno guarda più nessuno negli occhi, tutti camminano con lo sguardo perso nel vuoto. Sembrano assenti al mondo e al loro stesso cammino. Anch’io ero così prima di andarmene, un automa diretto regolarmente al posto giusto nel momento giusto. Senza guardare, senza pensare.
Il secondo giorno mi sono seduto sui gradini della metro, attaccato all’inferriata del cancello ormai chiuso per la notte e sono rimasto sveglio aspettando l’alba. La terza notte sono riuscito a dormire qualche ora su una panchina di un piccolo giardinetto pubblico. Ero stanco morto e mi sono sdraiato, ho infranto la regola per cui le panchine sono fatte per sedersi e ho vinto me stesso e il mio rigoroso perbenismo. Elisa si sdraiava spesso sulle panchine dei viali di Villa Ada, per prendere i primi soli della bella stagione. Ci andavamo tutti insieme la domenica pomeriggio, noi seduti a gambe incrociate sull’erba come un cerchio di saggi indiani e lei sulla panchina vicino, stesa come se le fosse appartenuta. Quanto mi faceva arrabbiare quel suo atteggiamento così sciatto e irrispettoso di qualcosa che era lì per tutti. Mi guardava in cagnesco, inforcava gli occhiali sulla testa, accendeva una sigaretta, ne sbuffava il fumo e si sdraiava. Incurante di tutto e di tutti. Del mio fastidioso voler a tutti i costi cercare compostezza, dentro e fuori da me, del gruppo dal quale si teneva sempre parzialmente in disparte e degli avventori del parco, che le avano accanto gettando la coda dell’occhio. Lo sapeva che prima o poi avrebbe vinto lei, e, infatti, mi sono dovuto sdraiare e riconoscere che aveva ancora una volta avuto ragione lei a fregarsene degli altri e di quello che avrebbero potuto pensare. Ora riesco di nuovo a dormire. Sono talmente sfinito, dopo aver camminato tutto il giorno, che mi addormento e basta. Non sogno. Finalmente dormo e non ci sono ombre.
Estate, la fame
In questi mesi non ci avevo mai pensato. Ho dato per scontato che sparire equivalesse ad auto cancellarsi dalla vita degli altri. Un atto volontario come quello di uscire dalla propria casa, in silenzio e nel pieno delle proprie facoltà mentali, non avrebbe dovuto affatto prevedere l’ipotesi dello smarrimento. Non avevo considerato che mi stavano aspettando e di me hanno trovato soltanto le chiavi sul tavolo e i documenti nella cassetta della posta. Oggetti che avrebbero dovuto essere esaustivi delle mie intenzioni. Invece mi hanno dato per smarrito, perso, forse fuori di testa e inconsapevole di ciò che sto facendo, magari rapito dagli alieni che stanno compiendo strani esperimenti con il mio cervello. Il foglio appeso a questo albero mi dice che ho sbagliato il calcolo. Strano, sono un matematico. Non è la prima volta che sbaglio a calcolare e prevedere i fatti della vita. Qualcuno mi sta cercando a quanto pare. C’è anche la mia foto. È dell’estate scorsa, ho i capelli corti e sto sorridendo. Tre mesi, quasi quattro, di strada mi hanno sicuramente cambiato. Mi guardo soltanto di sfuggita negli specchi dei bagni pubblici. Ho la barba lunga, del resto riesco a radermi solo una volta al mese, quando vado alle docce pubbliche della comunità di Sant’Egidio. Prima affittavo ogni tanto una stanza in qualche bed and breakfast di infima categoria nei pressi della stazione, giusto per lavarmi e usare un bagno in santa pace. Ma quando ho capito che stavo sperperando i soldi e che in quel modo non mi sarebbero durati a lungo, ho deciso di organizzarmi diversamente. Fabien l’ho incontrato per caso. Era seduto per terra a chiedere l’elemosina con
il suo cane addormentato e suonava stonato una chitarra scordata. Mi fermai a osservarlo, quando lui, alzando gli occhi, mi apostrofò un po’ scontroso: - Che hai da guardare? Non è che stai molto meglio di me! - Guardavo la tua tecnica, sei bravo! - Gli risposi cercando di essere il più credibile possibile. Abbassò di nuovo lo sguardo, seguendo con gli occhi le dita che strimpellavano sulle corde. A un certo punto troncò di netto la sua musica e sbuffò con aria di sufficienza. Posò accanto a sé la chitarra, si alzò in piedi strofinandosi la mano sui jeans sdruciti e me la porse: - Sono Fabien, tu chi sei? - Angelo... - Gliela strinse in un gesto che nulla aveva di quelle strette di mano formali cui ero abituato. Era piuttosto il sigillo di un patto di alleanza, di un contratto di collaborazione i cui termini non erano stati dichiaratamente esplicitati ma che ci vedeva entrambi impegnati a condividere la nostra libertà nel mondo. - Mettiamo le cose subito in chiaro: questo è il mio posto e qui suono soltanto io!
È un ragazzo di Montpellier, dice di avere venticinque anni, come me, ma in realtà ne ha cinque in meno. Credo. È arrivato qua con il treno. Voleva fare l’artista a Roma. Gli è rimasta la chitarra e nulla in tasca. Non sapeva suonare prima e non sa suonare neppure adesso. Ma è simpatico e di buona compagnia. È stato lui a insegnarmi, per un pacchetto di sigarette e un hamburger da McDonald’s, tutti i segreti per far fronte alla vita di strada. Ci sono posti da frequentare e posti da evitare per non avere grane. Ci sono gruppi di senzatetto che vivono come fantasmi, senza curarsi di chi hanno intorno, come avvolti in un bozzolo, e altri aggressivi e suscettibili,
territoriali come bestie selvatiche, dai quali bisogna guardarsi bene. Spesso hanno armi di fortuna come coltelli o semplici vetri di bottiglia acuminati e sono pronti a ficcarteli nella pancia per uno scatolone pieno di cartoni abbandonato fuori dalle vetrine dei negozi la sera. Fabien conosce tutti qui intorno. I suoi capelli biondi e lunghi e gli occhi di un azzurro trasparente lo rendono simpatico e aperto più di quanto lui non voglia dimostrare. Sa dove trovare le cose. Coperte in inverno, docce pubbliche e bagni, angoli per are la notte senza essere infastiditi, fontane dalle quali far bere Pioggia, il suo cane che lo ha seguito dalla stazione di Montpellier in una notte di temporale. Lui conosce gli orari per entrare alle mense della Caritas, anche se preferisce procurarsi da mangiare da solo, per non mischiarsi ai poveri. Dice di non essere povero e dunque di non aver diritto a quel servizio. È un idealista, un giusto. Mi ricorda tremendamente qualcuno, quando s’infervora difendendo le sue posizioni e i suoi pensieri. Ogni tanto penso che sarebbe stato meglio se avesse fatto il poeta o il filosofo di strada, piuttosto che il musicista. Fabien non fa accattonaggio. Lui strimpella la sua chitarra e alla fine della giornata riesce a comprarsi un pacchetto di sigarette e un paio di scatolette per il suo cane al discount. Non ha bisogno di altro per essere felice: cibo per sopravvivere e un fedele compagno di viaggio per non sentirsi solo. Lo osservo con stupore, non ho mai pensato che bastasse così poco. Aveva provato a fare il lavavetri, ma i semafori erano già spartiti tra marocchini e bengalesi, secondo una mappa mafiosa degli angoli di strada. Così, era tornato a suonare la chitarra con Pioggia a fargli compagnia, perennemente addormentato al suo fianco.
Il mio problema non è procurarmi il cibo, di soldi ne ho ancora abbastanza, e da quando sono in giro non mangio poi così tanto. Pranzi e cene non esistono più, come fossero stati soltanto una sovrastruttura culturale imposta dai nostri ritmi sociali. Non è una priorità. Mangio se e quando ho fame. Quello che invece trovo difficile è mantenere un’igiene dignitosa.
Non poter fare una doccia per giorni mi fa ancora sentire a disagio. È uno degli orpelli della vecchia vita a cui non riesco a rinunciare. Le mani piene di polvere e i vestiti macchiati e pregni del mio sudore mi procurano una vera e propria sofferenza. Fabien non se ne preoccupa per niente. All’inizio l’afrore che avvertivo standogli accanto mi stomacava, era lo stesso dal quale mi allontanavo quando ancora dentro la mia vecchia vita mi capitava di are accanto a qualche clochard. Mi pulisco le mani e il viso con le salviettine umide e lui mi guarda con sopportazione e superiorità. La prima volta mi ha preso in giro. - Sei un nobile Angelò! Mi ripeteva che la sporcizia si annida nell’anima e questo mio continuo volerla rimuovere dal mio corpo era il segno di qualcosa che non andava nel mio cervello. Lo ascoltavo e mi sembrava davvero di sentir parlare Elisa. Lo avrebbe detto, eccome se lo avrebbe fatto! Stavolta però è ubriaco e ha iniziato a inveire contro di me: - Ma sei gay? Ti vedi? Continui a strofinarti e profumarti come le checche! Dice, scoppiando a ridere obnubilato dai fiumi di birra che si è scolato con i suoi amici polacchi. Mi punta il dito contro, per mettermi al centro della scena. - Sei un barbone e ti credi un re! Ti comporti proprio da frocio! Una secchiata di ghiaccio, tiratami improvvisamente sull’anima che stava bruciando tra senso di colpa e vergogna. È come ricevere un pugno nello stomaco. Come se qualcuno volesse violentemente riportarmi indietro, da dove sono venuto. Ho ricacciato indietro lacrime di rabbia e annientato l’istinto furibondo di
alzarmi e tirargli un pugno dritto su quella faccetta carina da ragazzino che gioca a fare il duro. Non è vero, semplicemente non ho saputo reagire. Come prima. Come sempre. L’ho lasciato lì, addormentato su una panchina, e me ne sono andato, ricominciando a camminare sulla mia strada. Ancora una volta ho abbandonato ciò che mi ha fatto male, nel momento in cui non avrebbe potuto inseguirmi, così da non doverlo affrontare. Non sto fuggendo, sto affermando la mia dignità. - Chiacchiere! Tutte balle! - La sento sussurrare nel mio orecchio. Cammino senza sosta per ore e lei cammina un o avanti a me, con la faccia contrita di rimprovero. Cammino così tanto da sentire le gambe che tremano, ma decido di non dargliela vinta stavolta. Non sto scappando! Sto avvalendomi della mia facoltà di essere libero e fare il porco comodo di cui ho voglia. E adesso ho voglia di camminare e allontanarmi da quell’imbecille di Fabien. Continua a scuotere la testa e addirittura mi fa un sorriso sardonico. Non la sopporto quando fa così. Non so neppure come mai sia arrivato fino a qui, non ci ho pensato, troppo preso a litigare con lei e la sua integerrima natura che continua a seguirmi ovunque. Sono sfinito, desolato, arrabbiato. Mi siedo sul muro di cinta che porta al piazzale con la statua equestre di Garibaldi, in un angolo un po’ appartato. Lei non è qui. Non c’è più. Mi ha spinto ad arrivare sulla cima di questo piccolo paradiso romano per poi lasciarmi qui a chiedermi che cosa ci faccio in questo posto da solo. Mi risuona nella testa e mi rimbomba nel petto quell’orrenda condanna che mi hanno affibbiato con disprezzo, prima mio padre e poi Fabien. Lei non c’è più a guardarmi storto e a incitarmi ad alzare la testa. Così l’abbasso e scoppio in un pianto disperato e liberatorio. Lacrime di rabbia e orgoglio mi stanno finalmente lavando il viso dalla polvere e il sudore di tanti giorni.
Ho scoperto che qui al Gianicolo fanno il cinema all’aperto. Se mi sporgo un po’ dal muretto, riesco a vedere la metà dello schermo. Quando il film finisce, m’incanto a guardare Roma e le sue luci dalla terrazza sopra il cannone. Non l’avevo mai vista così bella, forse perché non l’avevo mai guardata davvero, avendola sempre sotto gli occhi ed essendo troppo preso a vivere la controfigura di me stesso. I burattini! Sento lo schiamazzo di Pulcinella che proviene dallo storico teatrino e decido di avvicinarmi. Ci venivamo da piccoli. Ci portavano qui a vedere lo spettacolo ma né a me né a Elisa era mai piaciuto. Eppure ora, dopo tanto tempo, mi evoca la dolcissima sensazione di un’infanzia dimenticata in un angolo di cuore. È come se Elisa fosse di nuovo accanto a me sbuffando e dicendomi sottovoce: - Dai, Angelo, andiamocene a giocare a nascondino! Quando il sipario si chiude, la signora dei burattini a tra la gente a raccogliere le offerte, affinché il teatrino continui a mantenersi. Decido di dare anch’io la mia mancia, non per lo spettacolo, che non mi è mai piaciuto, e che è sempre lo stesso di vent’anni fa, ma per la bella sensazione di appartenenza che mi ha regalato. Infilo la mano nella tasca dello zaino. Non lo trovo. Forse l’ho messo dentro. Inizio a cercare sempre più nervosamente. Mentre ormai tutti se ne vanno alla spicciolata, rovescio e rivolto tutto il mio zaino. Mi hanno rubato il portafoglio. Non ho più né soldi né documenti. Ho l’improvvisa sensazione che quello che ho fatto in questi mesi fosse soltanto una prova generale. Ho sempre avuto la possibilità di scegliere e di dimostrare chi fossi se me l’avessero chiesto. Adesso ho perso la mia identità e la libertà di decidere se e quando mangiare. Stavo scappando da ogni condizionamento. Non volevo rendere conto di me a nessuno e adesso non posso renderne neppure a me stesso. Ora non ho più nulla. Eccola la mia libertà!
Rimetto tutto nello zaino, mi sdraio su una panchina vicino al faro e guardo le stelle. Sono troppo stanco per disperarmi. Sono troppo stanco per pensare. Domani deciderò che cosa fare.
Apro gli occhi all’alba. Non avevo mai dormito qui e guardare il sole che sorge sulla città è uno spettacolo indescrivibile. Sarebbe una di quelle cose da infilare di diritto nella lista delle cose da fare almeno una volta nella vita. Mi perdo per un attimo in questo pensiero ancora annebbiato dal sonno e dalla stanchezza, prima di ripiombare pesantemente nella realtà che mi vuole solo, senza casa, senza soldi. “E pure frocio!” mi grida in faccia la mia stessa coscienza con livore e crudeltà. Non c’è nessuno in giro a quest’ora. Lo stomaco emette un fastidioso brontolio. Per una frazione di secondo ho l’istintiva voglia di andare al bar per un caffè e un cornetto, ma ricordo immediatamente che non ho più denaro. Mi assale la paura. Posso sempre tornare indietro. Non è vero. Con che faccia dovrei farlo? E soprattutto dove? Sono andato via a marzo senza dar conto a nessuno. Saranno rassegnati dopo avermi cercato. I miei amici avranno capito. Fabio avrà sofferto ma conosceva il mio cuore e se ne sarà fatto una ragione. Alessandro era troppo chiuso nel suo strazio per poter vedere anche il mio. Bianca avrà fatto di tutto per cercarmi, lei avrà mosso mari e monti pur di ritrovarmi, e alla fine avrà dovuto accettare con acquiescenza il mio silenzio, come doveva sempre cedere a quello di Elisa. Volevo la libertà. Eccola qui la libertà. È davanti, non dietro. Mai tornare indietro, neppure per prendere la rincorsa, aveva detto il Che, e quanto si era arrabbiata Elisa quando avevano attribuito quella citazione ad Andrea Pazienza. L’aveva considerata una vera e propria profanazione. Perciò guardo avanti e proseguo nonostante gli imprevisti.
Cerco nel mio zaino. Un pacchetto di cracker mezzi sbriciolati. Mi basteranno per ora. Mi sciacquo il viso e i capelli alla fontanella che noi romani chiamiamo “er nasone”. Quanto era divertente da bambini tappare con la mano il tubo per far zampillare l’acqua dal beverino. Non avevamo mai sete per davvero ma ci mettevamo diligenti in fila per il nostro turno alla fontanella. Un rito gioioso ripescato in un anfratto di memoria. Bevo. Per fortuna l’acqua si trova ancora gratis. L’afa già appiccica. Decido di mettermi di nuovo in cammino. Devo assolutamente ritrovare Fabien. Gli insegnerò a suonare meglio quella chitarra. Almeno lui sa come procurarsi il cibo. Di altro non ho bisogno. Ingoio l’amaro di bile e sconfitta.
Cammino su Viale Manzoni, verso la stazione, ormai il sole è a picco sulla mia testa. Devo assolutamente togliermi il berretto. Ho fame. Gli odori che escono dalle cucine dei ristoranti e dalle pizzerie al taglio mi offendono. Ho l’acquolina in bocca e continuo a deglutire litri di saliva. Quando imparavamo questo termine a scuola, ci sembrava essere grazioso, legato al profumo di una torta appena sfornata, e invece non è altro che odioso e fastidioso. Una lama che s’infila sotto la lingua ogni volta che un profumo di cibo ti sfiora le narici e schizza come una biglia impazzita ai neuroni cerebrali costringendoti a sbavare senza controllo, perché è la fame a controllarti. Dannato riflesso condizionato! Io che rifuggo da ogni condizionamento. Soltanto fino a ieri avrei potuto soddisfare il mio olfatto e la mia fame. Volevo la libertà. Eccola qui la libertà. Lo ritrovo esattamente dove l’avevo incontrato la prima volta a Piazza dei Cinquecento, all’ingresso dove scendono le scale per le metropolitane. Fabien è un abitudinario.
- Monsieur Angelò! Mi sorride e mi fa un inchino beffardo. Si accorge subito che mi è capitato qualcosa e che sono turbato. - Mi hanno rubato il portafoglio. Mi fa spalluccia e mi dà una pacca su una spalla. - Benvenuto tra noi, finalmente! Gli brillano gli occhi azzurri chiari. Si alza, raccoglie le sue cose e mi fa cenno di seguirlo. Pioggia al nostro fianco s’incammina soporoso. Non sembra che Fabien abbia il minimo sospetto di avermi ferito, probabilmente neppure ricorda quello che è accaduto, o forse non rientra nel suo concetto di offesa, probabilmente non conoscendo davvero la mia intima natura. Non come mio padre che lo disse unicamente per colpirmi a morte nella dignità. Rovista nella sua tracolla e mi allunga una rosetta confezionata in una carta trasparente e bucherellata e un formaggino, senza marca e tutto spiaccicato. Ho fame. Li prendo. Mi siedo in silenzio accanto a lui e mangio. Il pane è gommoso ed elastico, il formaggino è vagamente rancido, del resto con il caldo di questi giorni bastano poche ore a far deteriorare gli alimenti. Siamo seduti fuori dalla stazione, davanti al parcheggio di via Giolitti. Mi guardo intorno e sono circondato da tanti disperati. Le uniche persone socialmente integrate che vedo sono quelle che ano nelle loro macchine. Per il resto extracomunitari, gruppetti di tossici e ubriachi, qualche clochard che trascina i suoi sacchi pieni di resti di vita e cartoni sporchi. Tutte anime in pena che cercano di sopravvivere a se stesse e al loro destino. Io non sono come loro. Neppure Fabien lo è. Noi abbiamo scelto questa libertà. Devo continuarmelo a ripetere mentre cerco di far scivolare giù un pezzo di pane immasticabile insieme al nodo che ho in gola.
Ottobre e Novembre, di nuovo il freddo
ando davanti a un’edicola, mi rendo conto che siamo già a ottobre. Ho camminato tanto in tutti questi mesi. Ho anche dovuto cambiare scarpe. Le altre ormai erano rotte e consumate. Queste qui me le ha procurate Fabien, alla comunità di Sant’Egidio, insieme con una felpa nera e larga. Un po’ come quelle che portava Elisa, ma senza il suo profumo. Da un mese circa dormiamo sotto Ponte Sant’Angelo, al lato della pista ciclabile, insieme con un gruppo di altri tre punkabbestia. Uno di loro è tedesco, gli altri due sono polacchi. Sono amici di Fabien, condividiamo solo lo stesso ponte e lo stesso falò la sera. Loro bevono e spesso finiscono a litigare furiosamente. Io mi tengo in disparte, a volte suono la chitarra di Fabien, altre volte mi siedo sotto uno dei lampioni a rileggere per l’ennesima volta “Il gioco delle perle di vetro” e mi sento sempre più vicino a Knecht e al suo desiderio di libertà. Quando mi addormento, guardo la foto, ormai stropicciata e consumata, che avevo preso dalla camera di Elisa. Eravamo tutti insieme. Ridevamo. Dietro di noi il lago di Bolsena e un tragico destino che stava per devastare le nostre vite. Fabio mi cingeva le spalle e Bianca guardava Alessandro ridendo, mentre lui si era sistemato alla meno peggio vicino a noi, correndo dopo aver innescato l’autoscatto della macchina. Elisa era seduta a terra, sul prato, e Giada, accanto a lei, con il suo dolce sorriso, aveva la testa posata sulla sua spalla mentre Luca, dietro di loro, era accucciato avvolgendole entrambe in un abbraccio affettuoso. Guardo questa foto tutte le sere e mi domando che cosa sia rimasto delle nostre vite e di tutti i nostri sogni, ora che ogni piano è stato scombinato e che guardarci indietro fa solo paura. Bianca si sarà laureata. Ne sono certo. Stava preparando la tesi con Alessandro. Peccato non essere stato lì ad applaudirla, come il giorno della laurea di Fabio. Sono sicuro, conoscendola da una vita intera, che avrà dedicato la sua tesi a
Elisa. La morte di Elisa è stata come una pietra precipitata al centro di un tranquillo lago di montagna, che con la sua violenza improvvisa ha alzato un moto ondoso centrifugo dalla sua origine. La notte mi sveglio spesso e mi siedo a guardare il Tevere che scorre. Mi perdo a contare il ripetersi di alcuni vortici, sempre uguali a se stessi, e in essi il mio pensiero sprofonda nella nostalgia e nel dolore. Mi chiedo come abbiano fatto i miei genitori ad andare avanti. Si saranno concentrati sul lavoro. Chissà se, dopo che me ne sono andato via, avranno iniziato a parlare? O se invece il loro silenzio sia diventato ancora più pesante? Per quanto mi secchi ammetterlo, mi mancano. Non siamo sempre stati così. Una volta eravamo felici. Non riesco, però, a ricordare quand’è che il gelo ha cominciato ad avvolgere la nostra casa e a insinuarsi nelle nostre anime. Volevo la libertà e ora, che sono sotto un ponte a guardare il fiume, sento che qualcosa sta iniziando a soffocarmi di nuovo. Quando mi sveglio il sole è alto. Tutti se ne sono già andati, lasciando cartocci di vino vuoti e bottiglie di birra rotte intorno alla brace che ancora non ha smesso di fumare. Inizia a far freddo e anche tutto il Lungotevere è una distesa di foglie secche che vengono spazzate e alzate dalle raffiche brevi di vento gelido. Mi alzo e noto al mio fianco la chitarra di Fabien. C’è un biglietto scritto malamente, infilato tra le corde: “Au revoir Angelo. Ritorno a Montpellier. Bonne chance. Fabien.” Tutto si ferma in un tempo eterno e sospeso, questo è uno di quei momenti in cui ciò che accade va più veloce di quanto si stia vivendo e non si riesce a metabolizzarlo, a gestirlo, a comprenderlo. È quella strana sensazione di quando ci si addormenta e si inizia a precipitare nel vuoto. Un pervasivo senso di smarrimento. Qualcosa che non si era minimamente immaginato, come se nella vita fosse possibile prevedere tutte le variabili. Ancora una volta non avevo
imparato niente. Mi salgono le lacrime agli occhi. È strano come io mi sia attaccato a quel ragazzo che inconsciamente rappresentava il mio punto fermo in questa vita di strada. Avevo trovato un buon compromesso tra la totale libertà e l’essere meno solo. In realtà ho voluto ancora una volta qualcuno a cui appoggiarmi, pur senza volerlo ammettere. Fabien era libero davvero. Me ne accorgo soltanto in questo momento, qui da solo con la sua chitarra a fianco, mentre ancora una volta ogni certezza mi si sta sgretolando davanti agli occhi. Mi assale di nuovo paura. E mi sento solo. Terribilmente solo. Come mai in tutti questi mesi. Mi sento perso. Volevo ritrovarmi e mi sono perso ancora. Non so dove andare, né dove fossi diretto.
Decido di farmi guidare dall’istinto e mi metto di nuovo in cammino. Non ho fretta. Non me ne frega più niente neppure di sopravvivere. Voglio solo camminare. Se questa è la libertà, allora voglio lasciarla libera di guidarmi. Quando mi fermo, sono esattamente in uno dei posti che ho accuratamente evitato da quando me ne sono andato via. Sono sullo stesso marciapiede dal quale mio padre aveva visto crollare ogni speranza futura che riponeva in me. Lo stesso su cui io avevo visto, nei suoi occhi severi e terrorizzati, infrangersi la stima di me che faticosamente e con scarsi risultati avevo cercato di costruirmi. Rivedo quella scena come se ne fossi uno spettatore estraneo, un’immagine squallida di me e delle mie debolezze. Uno stupido, insignificante gesto nel quale volevo racchiudere la mia rinascita e che invece ha fatto morire ogni mia aspirazione. Cambiare il punto di vista cambia la sostanza delle cose e quello che mi era parso tanto emozionante e bello mi sembra adesso corrotto e deprecabile. Che cosa volevo intendere con quel “per sempre” nascosto dentro la carta
argentata di un melenso cioccolatino per innamorati? Ho un rigurgito di rabbia verso me stesso e la mia ingenua dichiarazione d’amore. “Per sempre” non è nulla di umano, forse soltanto Dio potrebbe pronunciare con cognizione di causa una simile locuzione. E non lo farebbe di certo con un cioccolatino in mano. Ho il cuore che mi martella nel petto e nelle tempie. Non capisco come i miei piedi, in queste scarpe larghe, mi abbiano condotto fin qui. Si chiama libertà. Mi fisso a guardare quell’enorme e pesante portone chiuso. Lì dentro poteva esserci il mio riscatto. Avrei potuto scegliere di essere stimato per come sono, di avere una casa dove rientrare, senza silenzio e gelo, di essere liberamente me stesso. Avrei potuto scegliere l’amore. E non ho accettato nulla di tutto questo, pur avendolo tra le mani, semplicemente perché non ho accettato me stesso. Invece ho voluto prendermi la libertà, che ora mi ha condotto di nuovo qui, per sbattermi in faccia che la verità non può essere negata all’infinito. Mi siedo su una panchina poco distante. Rimango immobile a fissare per ore. Non ho fame, né sonno e neppure freddo. Voglio liberamente rimanere qui a guardare quel portone chiuso dietro il quale avrei potuto trovare una vita, la mia vita. Entrano ed escono persone. Non lui. Mi rassegno e decido di andarmene. Ormai è buio e fa freddo. Quando giro l’angolo, su Viale Trastevere, lo intravedo per caso nel flusso di gente, mentre sta scendendo da un tram, e il respiro mi si ferma. Ha il viso assorto e serio. Non sembra quasi più lui. Ha perso l’atteggiamento del ragazzo spensierato ed è diventato un uomo pienamente consapevole e padrone di sé. Sembra perso tra i suoi pensieri, lui che invece era il pragmatismo e la determinazione fatti persona. Leggo nel suo sguardo assente il dolore di uno strappo. Il colletto del giaccone blu è tirato su per ripararsi dal freddo e porta una borsa a tracolla. Allontano da me un prepotente senso di appartenenza che mi pervade l’anima.
Soltanto guardarlo mi fa sentire di nuovo a casa. Il mio posto nel mondo. Rifiuto questa sensazione che mi vuole trascinare altrove dall’indipendenza che ho consapevolmente scelto e conquistato. Io non ho una casa e non appartengo a nessuno. Non più. Ho deciso in piena libertà di abbandonarmi a questa vita. Mi tiro giù la visiera del berretto e lo sfioro proseguendo sulla mia strada, violentandomi e lasciandomelo alle spalle. Si chiama libertà.
Non voglio tornare a dormire sotto Ponte Sant’Angelo, non senza Fabien, e devo trovarmi un posto riparato, perché sta per piovere. E possibilmente caldo, perché il freddo che sento dentro mi è quasi insopportabile. Non ho mangiato niente da ieri. Ormai è tardi e non ho voglia di camminare troppo. È buio. Mi fermo in un angolo interno dell’ingresso della piccola stazione ferroviaria di Trastevere. Mi guardo intorno. Ci sono almeno sei senzatetto che già dormono sotterrati da coperte e cartoni. Mi sembrano larve dentro i loro bozzoli in attesa della metamorfosi. O forse soltanto in attesa che i. Che i la notte, che i il freddo, che i la fame, che i la solitudine o la sbornia. Che i la vita. Rovisto nel mio zaino in cerca di qualche cosa da mangiare. Non ho nulla. Ho fame e non ho neppure un pezzo di pane ammuffito da mettere sotto i denti. Si chiama libertà. Mi sistemo accucciandomi in posizione fetale per trattenere un po’ di calore, con la foto tra le mani. Voglio dormire. Chiudo gli occhi e sento le lacrime che mi rigano il viso. Mi addormento con il loro sapore salato sulla bocca a saziare il languore. Mi sveglio quando alle biglietterie già c’è un po’ di fila e i pendolari affrettano il o verso l’uscita dalla stazione. Mi siedo cercando di mettere a fuoco, ho la vista annebbiata e mi fanno male le
mani e le labbra. Il freddo mi ha spaccato la pelle. Lo stomaco mi fa male per i morsi della fame. Con Fabien era diverso. Lui mi procurava quel poco di cibo che basta a vivere. Me lo portava la sera, quando ci rincontravamo dopo la giornata ed io gli insegnavo a suonare la chitarra. Mi bastava per farmi sapere di essere giunto al posto giusto. Abbiamo mangiato qualche volta alla Caritas, alle dieci della mattina o alle quattro del pomeriggio devi essere già fuori dai cancelli. Un paio di volte siamo entrati in panetterie con il simbolo del pane pagato. Ho freddo e ho fame. Devo assolutamente pensare a come fare. Ho fatto di nuovo male i calcoli. Non l’avevo messo in conto quando sono andato via portando con me soldi e documenti. Mi era sembrato che fosse solo una questione di adattamento. Che sarebbe stato facile essere libero. Libero da che cosa? Da me stesso? Dagli altri? Dal dolore, dalla paura, dall’amore? È questa la libertà: non avere più niente che ti tiene legato a sofferenza, aspettative, dolore, senso di colpa. Niente. La libertà è molto più fredda di come me l’ero immaginata. Non c’è affetto, né amicizia, né tantomeno amore. Nessun legame. Fabien è veramente un libero e ha tentato d’insegnarmi a essere come lui, ma ci sono cose che non si possono imparare e nature che non cambieranno mai. Fa di nuovo freddo. C’è di nuovo silenzio. Sono solo. Completamente.
Dicembre, il vuoto
Camminare in questi giorni mi fa sentire ancora più invisibile. I marciapiedi si sono vestiti con improbabili guide rosse, come se ogni strada di Roma fosse la brutta copia della Quinta Strada di New York, e le luci intermittenti brillano sospese tra un palazzo e l’altro. Questa non è l’America ma soltanto una sua imitazione, peraltro mal riuscita. Mi chiedo quand’è che abbiamo perduto la nostra cultura identitaria per aspirare a cose che non ci sono mai appartenute. Guarda Halloween. Io non ricordo di averne mai sentito parlare da bambino, in quei giorni c’era il ponte e si andava al Verano per togliere la polvere di un anno intero dalle lapidi dentro alla cappella. Poi sono arrivati i film anni Novanta che ci mostravano quanto potesse essere divertente trasformare la morte di quei giorni in un’occasione per esorcizzarla. Ce la siamo bevuta, anche McDonald’s e i Marshmallow che arrostivamo tristemente sul gas, come se ci trovassimo in campeggio a Yellowstone. Siamo soltanto diventati più tristi e più grassi e dell’America non abbiamo proprio niente. Nulla della sua grandezza, della sua apertura all’affermazione dei diritti civili, della sua politica ed economia mondiali, e nemmeno del senso di appartenenza dei suoi cittadini. Il nostro Natale era diverso dal loro, e forse anche migliore, abbiamo permesso che ce lo prendessero e lo conformassero alla loro cultura esibizionista del grande e su larga scala, rifilandoci sotto l’albero una serie infinita di pacchi uguali per tutti in ogni casa. Regali su larga scala, desideri omologati, tutti identici e tutti allo stesso momento. Il loro Babbo Natale non porta mai il carbone e neppure minaccia di farlo, è sempre rubicondo e sorridente con una barba bella e curata, soprattutto vera. Il nostro ha iniziato a farsi vedere più spesso in giro, vestito di casacche cinesi sintetiche e con barba in lana di vetro che manco il più scemo dei ragazzini al di sopra dei tre anni ci cascherebbe. Le persone si affannano a riempirsi le mani di pacchi pieni di impersonali
inutilità, spesso inutilizzabili, presenti senza sentimento per l’annuale giostra natalizia.
A casa nostra il Natale era il tempo degli eventi sociali, delle cene importanti, a cui Elisa ed io partecipavamo di malumore, ingessati nei nostri vestiti eleganti e con sorrisi di circostanza che dessero lustro all’immagine della famiglia del magistrato Di Strada. Quando la nostra nonna paterna era ancora in vita, però, le cose erano diverse. Il Natale era davvero Natale e il suo profumo era quello dei tortellini in brodo e del pandoro lasciato a scaldarsi sopra il termosifone, del chiodo di garofano e delle bucce di mandarino. Era il tempo in cui aspettavo con ansia l’arrivo di Babbo Natale, quello vero, quello che si nega alla vista dei bambini, perché il loro sguardo lo farebbe irrimediabilmente scomparire. I Babbi di Piazza Navona erano risaputi impostori, ogni romano tra i tre e i dieci anni circa conosceva questa versione, quando si sedeva sulle ginocchia di un uomo troppo magro o troppo moro o che puzzava vistosamente di vino, che di certo non poteva essere il vero, il magico, l’assoluto Santa Claus in persona. Mandavo la letterina sempre in grande anticipo, con almeno tre post scriptum di richieste per Elisa che era sempre troppo pigra per scriverne una tutta sua. Il Natale dei nostri otto anni chiesi in regalo un telescopio a colui che era risaputo viaggiasse tra le stelle: avrebbe dovuto portarmi il più potente e più scientifico che ci fosse mai stato sulla faccia della terra. Soltanto lui avrebbe potuto farlo, a nessun umano sarebbe stato possibile acquistare un simile aggeggio. L’avevo visto su una pubblicità in una rivista per signore e avevo capito che era lì come suggerimento per me. Un messaggio in codice dall’unico e inimitabile, che tutto sapeva e tutto vedeva. Elisa mi aveva chiamato, come faceva lei, sottovoce, quando stava per combinarla grossa. - Angelo! Psss... Angelo! Era nascosta dietro la porta della stanza dei miei.
- Che c’è? - Tu ci credi davvero a Babbo Natale? - Che domande fai? Certo, altrimenti chi mai potrebbe regalarmi un telescopio astronomico con riflettore motorizzato? Ti rendi conto Elisa! Mi aveva guardato con il suo sorriso birichino e mi aveva afferrato per il maglione, trascinandomi dentro e chiudendo la porta. - Sei pronto? L’avevo guardata senza capire e lei, sghignazzando soddisfatta, aveva aperto l’armadio di mio padre, scostando le giacche, e mostrandomi la poco poetica e cruda realtà. Ero scoppiato a piangere disperato di fronte a quel sogno profanato e infranto e quando avevo scartato il telescopio, che era esattamente quello che avevo chiesto, in realtà avevo capito che il vero desiderio era altrove e non sarebbe mai più tornato. Elisa era così: voleva la verità sempre e comunque. Combatteva per affermarla. Anche quando faceva male ed era amara. Diceva che conoscere e accettare la verità rende liberi. Esattamente quello che non ho mai fatto io, tentando di soddisfare le attese degli altri su di me ed evitando di discostare le giacche appese nell’armadio chiuso del mio cuore per scorgerne la verità in esso contenuta. Mi siedo lungo la strada, tra un negozio e l’altro, e accordo la chitarra. Suonando posso racimolare quanto mi occorre per sopravvivere. Non è elemosina. Lavoro. Offro musica in cambio di un’offerta. Come i burattinai del Gianicolo. Continuo a ripeterlo per convincere me stesso. Mi domando se mio padre mi guarderebbe con gli stessi occhi di disprezzo come quando mi vide uscire da casa di Fabio.
Forse questo gli farebbe meno male e sarebbe per lui più accettabile, considerandolo qualcosa di accidentale e recuperabile. Quello che sono però non ha via di ritorno e mi rende invisibile ai suoi occhi. Meglio pezzente che frocio, direbbe con disprezzo. Elisa sbatterebbe la sua forchetta nel piatto e si farebbe fumare le orecchie e poi verrebbe a sedersi qui accanto a me, con un tamburello a tenere il ritmo della mia chitarra. Elisa non c’è più. Neppure io. Non guardo mai la gente che si ferma a mettere le monete dentro il mio berretto. Mi deconcentra. In verità mi vergogno, non riesco ad accettare quello che sto facendo, ma devo farlo per forza. Fabien non c’è più e la sua chitarra è stata la sua ultima lezione per me. Un’eredità. Allora abbasso gli occhi e mi guadagno quel poco che mi basta a sopravvivere. Mi accorgo che ho sempre preferito non guardare ciò che mi fa male. L’amore di Fabio, il disprezzo di mio padre, la morte di Elisa: ho preferito non guardare. La mano di una ragazza si allunga a lasciare due euro e mi dice con voce gentile: - Suoni davvero molto bene! Riconosco immediatamente la sua voce e mi si ferma il respiro. Alzo gli occhi mentre, sorridendomi, se ne sta andando. È Giada. Rallenta un attimo il o, mi osserva e mette a fuoco la mia immagine trasalendo. C’incontriamo con lo sguardo e, in un pugno di velocissimi secondi, la sua espressione a dall’interrogativo domandarsi dove mai può avermi visto, al riconoscermi dietro mesi di strada e privazioni, con capelli arruffati e barba lunga, chili di fame addosso e occhi spenti. Resta senza fiato con il viso sgomento, e istintivamente si volta dall’altra parte a chiamare il ragazzo che è con lei, di spalle, Luca. L’ho riconosciuto. La sua mossa smarrita mi dà il tempo di alzarmi e sparire dietro l’angolo. Li sento chiamare concitati in mezzo alla folla incuriosita.
- Angelo! Angelo! Dove sei? Svuoto con rapidità il berretto dai miseri guadagni e mi metto in tasca le monete, m’infilo velocemente lo zaino sulle spalle e la chitarra a tracolla e inizio a correre nella direzione opposta, allontanandomi, mentre le prime gocce di pioggia cominciano a bagnarmi il viso confondendosi con il pianto. Decido di fermarmi solo quando sono completamente fradicio e le gambe mi tremano per lo sforzo. Entro in un bar e mi prendo un cappuccino caldo. Nel bagno cerco di asciugarmi come posso, con l’asciugatore ad aria calda. Non ho vestiti di ricambio e il freddo e l’umido mi penetrano nelle ossa. Alla stazione Termini alcuni volontari stanno ando per offrire delle coperte a quelli come me, alla gente di strada. Mi avvicino con lo sguardo basso e ne prendo una. Lo considero il mio regalo di Natale. Trovo un posto riparato, lontano da sguardi indiscreti, prendo la foto e la guardo. Mi sento pervadere da una profonda sensazione di vuoto. Non mi sento libero. Mi sento svuotato. Silenzio, freddo, vuoto, solitudine. Credevo che, allontanandomi dalla mia vita, sarei riuscito a cancellare tutto. Invece tutto è rimasto lì, uguale a se stesso, come le onde del mare e il loro infinito ripetersi sulla riva, un universo di frattali che non intendono rompere alcuna regola. Lunghe o corte, calme o agitate, ma sempre se stesse. Onde. Si fa strada la terribile presa di coscienza che intorno a questo mondo vuoto che ho voluto costruirmi, lontano da me stesso e dal mio dolore, c’è ancora l’altro mondo, quello da cui sono fuggito, in cui ero circondato da affetti e presenze, ognuno ovviamente con le sue aspettative, ma che rendevano la mia anima piena. Nonostante tutto. La voce e gli occhi di Giada hanno tuffato il mio cuore, per pochi sfuggevoli attimi, nel calore di chi mi vuole bene. Un calore che ho voluto rifiutare per
questo libero gelo. Ho avuto paura e sono scappato di nuovo. Ho avuto paura di me stesso e del mio smarrimento. Ora, oltre che da questa coperta, sono avvolto anche dal vuoto più assoluto.
Gennaio e Febbraio, al punto di partenza
Da quando ho rivisto Giada e Luca ho cambiato il mio modo di muovermi. Sono diventato un fantasma di strada. Cammino di notte e di mattina presto per non essere visto. Mi stanno cercando. Mi sento braccato e devo nascondermi. Come se fossi un delinquente. Sono sparito e questa è la mia colpa, l’ennesima dopo essere un matematico invece che un legale e probabilmente meno grave della mia natura omosessuale. - Omosessuale... Lo pronuncio per la prima volta nella vita ad alta voce, in un soffio che vorrei veder evaporare nell’aria, seduto a terra sotto i portici di Piazza Vittorio. Mi guardo intorno e mi rendo conto che qui non importa proprio a nessuno chi io sia o come sia, circondato da stranieri, spacciatori e disperati come me. Non importava neppure a loro, i miei amici, non mi hanno mai guardato in maniera diversa da come avevano sempre fatto quando la cosa si era manifestata con Fabio. Ero semplicemente uno di loro. Maschio, femmina, omosessuale, che importava? Non era necessario specificare il genere di ognuno, eravamo noi e basta. Non avevo mai avuto il coraggio di dirlo forte, come se non facendolo, avrei reso possibile il potervi sfuggire. Tanti giri di parole intorno a un banale concetto di genere. Un concetto dal quale le persone normali non rifuggono come faccio io.
Sono stanco e sporco. Mi sento umiliato come la sera in cui mio padre mi ha gridato in faccia tutto il suo disprezzo. Fabio mi aveva offerto la sua doccia per lavare via la sozzura che mi avevano
gettato addosso. Non ho voluto accettarla. A quasi un anno dal rifiuto di me stesso sono ancora più lercio di prima. Di giorno spesso dormo a Villa Pamphili, quando la giornata è serena, o nei capannoni abbandonati dietro al Ponte dell’Industria. Non suono più la chitarra e non guardo più la foto. Ormai è talmente stropicciata e logora che i visi, prima sorridenti, sembrano avere un ghigno di stridente rassegnazione al loro stanco destino. Non rivolgo la parola a nessuno da almeno un mese e non conosco più il suono della mia voce.
Ho smesso di andare a mangiare alla mensa dei poveri quando ho trovato, sulla grata del cancello, un nuovo volantino con la mia foto e i numeri di telefono da chiamare se qualcuno mi avesse visto. La foto di una vita fa. Diceva che sono stato visto in Prati, che avevo barba e capelli lunghi e che ero visibilmente dimagrito. Mi stavano ancora cercando, non si erano rassegnati e anzi l’avermi rivisto aveva ri le loro speranze e rinvigorito la loro voglia di riavermi tra loro. Perché è tutto così difficile da accettare? Che una sorella muoia, che un amico se ne vada, che io sia quello che sono... non riesco a ripeterlo. Ho strappato quel volantino e, mentre lo buttavo al vento, sentivo addosso lo sguardo triste di Bianca e quello severo di Elisa. C’è una minuscola pizzeria al taglio, tenuta da ragazzi maghrebini, in una stradina chiusa e fatiscente nei pressi del gazometro. Mi regalano la pizza avanzata se mi faccio trovare lì dopo la mezzanotte, ormai è diventato un rito e spesso mi aspettano. Li ho conosciuti andandoci a prendere da mangiare e da bere qualche volta e tra una chiacchierata e l’altra sono riusciti a farmi ammettere che vivo per strada. Sono gentili e non mi hanno giudicato, ma non hanno più voluto i miei soldi, anche quando insistevo, sentendomi a disagio per quell’ospitalità immeritata. Mi
hanno raccontato che sono arrivati dal Marocco dopo un lungo viaggio pagato con ogni loro avere, ma quando hanno fatto scalo in Olanda, si sono ritrovati senza documenti e clandestini, con un foglio di rimpatrio immediato. Nonostante ciò, tra un’avventura e l’altra, sono riusciti ad arrivare in Italia chiusi nel doppio fondo di un tir. Sanno che cosa significhi aver fame ed essere disperati e mi dicono che Allah li ha sempre aiutati e adesso loro non possono non restituire ciò che hanno ricevuto. - Allah Akbar! - esclamano - Dio è grande! - rispondo loro. Mi danno una pacca sulla spalla sorridendo e mi correggono: - No, Dio è “il più” grande! È diverso, Angelo. Ecco perché tu sei il nostro dovere verso di Lui. - E indicano ossequiosi il cielo. - Noi Arabi non potremo mai negare l’acqua a nessuno, poiché Allah non l’ha negata a noi neppure nel deserto. Nessuno da quando sono in strada, a parte Fabien che condivideva la mia stessa vita, mi aveva mai offerto qualcosa così generosamente. Qualche volta sono arrivato in ritardo, quando era già chiuso, e ho trovato un pacchetto appeso al tubo della grondaia che corre di lato alla loro serranda. Elisa direbbe fortuna, io dico Provvidenza. Allah, Dio, Jahvè hanno per me il volto e il colore di questi due ragazzi marocchini che mi aiutano a sopravvivere. Oggi è un anno che Elisa se n’è andata. Non ho più un tempo: né mesi, né ore. Neppure più giorno e notte. Oggi però, alle cinque del mattino, è partita improvvisamente nella mia testa la musica degli Enigma e, chiudendo gli occhi, l’ho vista ballare, bella com’era su quel palco l’anno scorso. Mi guardava severa. Era arrabbiata con me, come la sera in cui mi scusa per ciò che ero. Mi manca la mia parte migliore e decido di andarla a trovare. Entro al Verano che saranno circa le dieci. La giornata è luminosa e soleggiata, ma il freddo è intenso e pungente. Un gelo che screpola la pelle e il cuore.
Questo posto è considerato monumentale per la città. È un luogo di morte per me. Di morti illustri. Questa è la dimora definitiva per quelli che hanno la fortuna di potervi accedere per nome, posizione sociale in vita o semplicemente, come noi, per storia familiare. Tutti gli altri vengono spediti con la loro bara a fare la fila, lunga giorni, in attesa di un posto in qualche loculo al quinto piano dei freddi muri di marmo di Prima Porta o del Laurentino. Elisa diceva che anche nella morte non esiste giustizia sociale. Aveva ragione. Anche se pensavamo fosse una ribelle e che contestasse solo per il gusto di farlo. Lei aveva sempre ragione. La famiglia Di Strada ha una piccola cappella privata, dove sono tumulati gli antenati a partire da quel sco Di Strada, omonimo di mio padre, uomo di cultura e professore di filosofia, che nel 1834 vi fu sepolto per primo. Non capisco come ho potuto non pensarci, avvicinandomi rimango impietrito come le statue degli angeli che mi circondano. Il mio cuore scivola sotto i miei piedi. Fermo il o e guardo da lontano. Sono tutti lì. Come ho potuto pensare di essere il solo a volerla venire a salutare? “Scusami Elisa, ho cancellato tutto il mondo come se non esistesse più. Invece è lì e non è scomparso con noi. Esisti ancora per tutti, e sono tutti qui per te”. Tutti. Non come quella maledetta sera in cui due posti sono rimasti vuoti. Chissà ora come brucia nei loro cuori quell’assenza dettata dalla rabbia e dal rimprovero verso il nostro essere diversi da come ci volevano? Ora che non ci siamo più, chissà se rimpiangono anche i nostri difetti e le nostre vite così imperfette? Li osservo mentre stringono la mano al prete che ha benedetto la tua tomba. Vorrei dirgli che tu non sei lì dentro. Che non eri nemmeno sull’asfalto, né sul letto dell’ospedale. Tu sei andata via subito, strappando la metà del mio cuore.
Rimango fermo qui a fissare questo luogo di morte, mentre loro si allontanano. Sono tanto cambiati. La durezza dei loro volti non è più severità ma vuota rassegnazione per un destino così tragico e irrecuperabile. Alessandro abbraccia Bianca per consolare il suo dolore. È scoppiata in lacrime, appoggiandosi inconsolabile al muro di marmo della cappella. È ato un anno e nessuno ti ha dimenticato. Anche se sei andata via per sempre. Rimango qui, lontano, a guardare. Freddo e vuoto. Tu non ci sei. Una mano si posa sulla mia spalla. Aspetto un paio di secondi prima di rendermene conto e riemergere dal mondo di pensieri in cui sono sprofondato. Un contatto inaspettato dopo mesi di assenze e di solitudine mi fa trasalire per un attimo. Avverto il calore che mi trasmette. Mi volto senza espressione, senza voglia, senza vita. Fabio. Mi guarda con gli stessi occhi di comprensione e di affettuosa pazienza che ha sempre avuto nei miei riguardi. Mi osserva e non parla, restiamo in silenzio. Non mi fa domande e non si sorprende. Resta semplicemente fisso nei miei occhi, senza lasciare la mia spalla. Lo guardo e il cuore vuoto improvvisamente viene riempito all’inverosimile, con la sensazione che mi stia per traboccare nel petto. Lui può vedere e toccare il mio smarrimento, io leggo sul suo volto la discrezione e il rispetto del vero amore. Non ci diciamo niente. Mi allontano. Non ho nulla da dirgli. Non sento più niente. Sono andato via alla ricerca di me stesso. Invece ho perso tutto e non sento più niente. Sono invisibile alla mia stessa anima. Anche se Fabio sembra vedermi. Ancora.
Sono sporco e affamato. Anche se Fabio sembra non accorgersene, guardando soltanto i miei occhi e il mio cuore. Non tutto quello che li circonda. Mi guarda andare via e non m’insegue. Fabio aveva parlato di libertà. Io ho provato a inseguirla. Lui resta fermo, com’è sempre stato, è ancora libero. Io no.
Sono due giorni che non mangio. Due giorni che cammino ininterrottamente. Da quando li ho rivisti, ho smarrito la meta. Anche se in realtà non ne ho mai avuta una precisa. Prima della libertà, invece, avevo una strada da seguire. In salita e stretta. Portava all’affermazione di me stesso e del mio essere. Avrei camminato cadendo e piangendo, ma almeno lo avrei fatto accompagnato dalle persone che mi volevano bene. Ora percorro da solo strade larghe e piane, senza una meta da raggiungere. Libertà da tutto e tutti. Ma non sono libero, sono soltanto vuoto, stanco, solo, affamato e tutto mi sembra avvolto nell’oscurità. “Elisa… è questa la morte? È buio come quello che si è impossessato progressivamente della mia anima o è luce come quella nei tuoi occhi quando hai volteggiato divertita su te stessa?” Sono all’incrocio dove tutto è stato strappato in miliardi di pezzi e gettato al vento. È solo un pretesto: sono all’incrocio che mi ha spalancato la porta per fuggire dalle mie responsabilità. Ho girato così tanto in questo anno e adesso mi ritrovo di nuovo qui, da dove sono partito. No, da dove sono scappato. Sono sfinito. Non voglio più cercare un posto e non ho più voglia di camminare. Mi abbandono su questa panchina lungo la strada.
Guardo il maledetto angolo dove tutto è stato spazzato via.
Mi si chiudono gli occhi.
Silenzio.
Nulla.
Capitolo 13
Erano circa le sette del mattino quando alcuni anti decisero di chiamare un’ambulanza. Quel ragazzo, sdraiato sulla panchina davanti all’ingresso della chiesa, non si muoveva. Avvolto nella sua felpa nera con il cappuccio tirato su, sopra il logoro berretto, aveva gli occhi semichiusi e il viso di un colorito cereo. Forse respirava ancora ma nessuno si avvicinò a quel corpo sporco e abbandonato. Nessuno aveva il coraggio di toccare quella vita poco elegante in difficoltà. Un uomo, o quello che restava di esso, giaceva davanti agli occhi di tutti. Soltanto in pochi avevano gettato uno sguardo ando, soltanto uno ebbe la pietà di chiamare soccorsi. Nessuno lo avvicinò né lo toccò, probabilmente spaventato da quella vita che lambiva la morte, oppure semplicemente schifato dalle sue condizioni di degrado. In ogni caso un essere umano, quanto di più prezioso dovrebbe esserci agli occhi di Dio che l’ha creato, era abbandonato da solo al suo destino e alla sua dignità perduta. Gli ambulanzieri cercarono di richiamare la sua attenzione, dandogli degli schiaffi sul volto ma Angelo riusciva solo a farfugliare parole incomprensibili per ripiombare nel bozzolo caldo in cui aveva avvolto la sua coscienza per sfuggire al gelo, alla solitudine, alla fame. Tremava scosso dai brividi della febbre alta e probabilmente vaneggiava. Puzzava, sì, ma non di alcol. Portava addosso l’odore pungente e nauseante della sconfitta e della perdita di sé. Lo avevano preso e scaricato al pronto soccorso del Policlinico, come fosse un sacco inanimato e lurido da portare alla discarica. Un corpo come tanti, abbandonato a se stesso e ormai privo di ogni umanità. Angelo li sentiva parlare come se fossero lontanissimi:
- Non ha documenti, maschio, età tra i venti e i trenta, stato di semincoscienza, l’abbiamo raccolto all’angolo con Viale Regina Margherita. Da come sta combinato, sarà il solito barbone tossico. Disse il portantino che sbatteva violentemente e senza riguardi la sua barella contro un muro. Come una ricorrenza alla quale non riusciva a sfuggire da tutta la sua vita, qualcuno aveva emesso la sua sentenza su di lui senza neppure preoccuparsi di ascoltare che cosa lo avesse condotto fino a lì in quello stato. Colpevole per non aver commesso il fatto, il suo stato era la prova incontrovertibile per non essere scagionato da quel giudizio. Angelo ascoltava, come un corpo senza anima, lo svolgersi di una scena a cui assisteva estraneo. Non aveva più alcuna voglia di combattere per affermare le proprie ragioni, ammesso che mai ne avesse avuta, visto come aveva gestito le sue cose. Una dottoressa, senza avvicinarsi, chiese agli infermieri di portarle il fonendoscopio da dentro uno degli ambulatori. - E per piacere portatemi una metallina. Quest’uomo è scosso da brividi. Gli infermieri, con le facce storte per dover toccare l’ennesimo lurido barbone, gli avevano tolto il berretto e aperto la felpa, e gli avevano attaccato una flebo, su indicazione della dottoressa. Angelo vedeva le persone muoversi su di lui e sentiva le loro voci. Era convinto di essere chiuso in una stanza di vetro e completamente nudo sotto gli occhi di tutti. Non riusciva a ripararsi dai loro sguardi indiscreti. Dai loro giudizi affilati. Non poteva far niente se non abbandonarsi alla loro mercé di giudici senza pietà. La dottoressa si avvicinò, gli aveva posato una mano sul collo per prenderne i battiti, senza guardarlo in faccia mentre dava indicazioni agli infermieri su che cosa fare. Era gentile e, diversamente da tutti gli altri, non era fredda e disinteressata, ma lo trattava con l’umanità e l’attenzione che quel corpo sporco e logoro tutto sommato avrebbe meritato. Per il gelo che si portava dentro da mesi e che ora scuoteva i suoi muscoli, Angelo l’avrebbe definita calda. Poi si chinò con la testa su di lui, per catturarne lo sguardo e riuscire a
comunicare. Lo fissò in volto: - Non è grave. Vedrà, si riprenderà presto. - Lo volle rassicurare, afferrando la sua solitudine e trascinandolo con violenza fuori dal bozzolo di torpore in cui era rimasto incastrato. Ci volle un solo istante affinché gli occhi di Bianca, incontrandosi con i suoi mezzi chiusi, si sgranassero per lo stupore e la gioia immensa da cui era stata investita. Era espressione di pura felicità quella che Angelo leggeva, seppure annebbiato dalla debolezza, sulla faccia della sua amica di tutta la vita. Anche lui la riconobbe subito, l’istinto era quello di saltarle al collo e rimanere avvinghiato a lei, come fanno i bambini quando sono spaventati, ma non riusciva a muoversi né a parlare. Sentiva che Bianca era la mano da afferrare con forza per essere condotto fuori dalla palude in cui stava annegando. Bianca aveva gli occhi pieni di lacrime ingestibili per l’improvvisa scoperta. - Angelo! - Gridò. Si sfilò i guanti in lattice, che lo separavano da lui, e con tutta la sua forza spostò la lettiga, chiamando gli infermieri: - Avanti, avanti! Box due, di corsa! Chiamate Salvemini! Sbrigatevi! Angelo non riusciva a parlare, non ricordava neppure quando fosse stata l’ultima volta che aveva detto una parola. Le sue corde vocali erano probabilmente atrofizzate dal silenzio. Dopo un paio d’ore finalmente era riuscito a riprendersi e si era seduto sulla barella. Alessandro e Bianca, che non si erano mai allontanati da lui, forse per paura che scape di nuovo, lo osservavano pieni di tristezza ma anche traboccanti d’affetto per quel fratello ritrovato. - Angelo, abbiamo dovuto segnalare alla polizia il tuo ritrovamento. Era stata fatta la denuncia per la tua scomparsa. Gli disse Alessandro, non sapendo come infrangere quel pesante silenzio che li aveva soffocati per oltre un anno.
Angelo non riusciva a sostenere il loro sguardo adulto, come se si sentisse infinitamente piccolo. Un bambino di fronte alle sue colpe. I suoi amici, però, erano al suo fianco e stavano chiedendosi come fare per riportarlo alla vita. Il loro Angelo precipitato dal paradiso senza ali. Non lo giudicavano, non lo avevano mai fatto e soltanto in questo momento Angelo si era potuto rendere conto che aveva voluto ignorare che il suo riscatto era proprio nella libertà di amarli e di essere amato da loro. Non parlava. Il silenzio era diventato ormai una sua condizione fisica. Avrebbe voluto dire tante cose, soprattutto scusarsi con loro e stavolta Elisa non avrebbe alzato il sopracciglio, perché loro lo meritavano sul serio. Tuttavia in quel momento non trovava le parole per esprimere la strana e prorompente sensazione di sentir battere nuovamente il suo cuore nel petto. - Ho avvertito i tuoi. - sussurrò Bianca, facendogli sollevare lo sguardo per la prima volta, pieno di timore. Bianca aveva capito. Bianca già sapeva ancor prima di chiamarli ed era per questo che era già d’accordo con loro. - Ho detto loro che stai bene, e che per il momento verrai a stare da me aggiunse subito - Sono felici e rispetteranno la tua volontà. Vogliono soltanto che tu ti riprenda. Lui la guardò perplesso, come se parlasse una lingua sconosciuta o come se gli stesse mentendo per farlo sentire meglio, preferiva immaginarli severi e giustamente arrabbiati per tutto quello che aveva fatto, disonorandoli ancora una volta nella vita. Angelo si vergognava. Non aveva più niente. Non aveva una casa dove tornare, né vestiti da indossare. Non profumava e non era pulito. I capelli oltre che lunghi e spettinati erano anche sporchi. Aveva perduto tutto. Bianca e Alessandro conoscevano il suo cuore e i suoi pensieri. E anche dopo un anno di strada, anche dopo aver provato a cancellarli con ogni forza, erano ancora gli stessi. Come le onde del mare perennemente uguali a battere la riva. Sentivano forte e chiaro il silenzio di Angelo che reclamava l’affetto e la vicinanza delle persone che aveva sempre amato. Anche quando si era
allontanato da loro per sfuggire a se stesso.
Allo smontare del turno di guardia, dopo averlo curato e confortato in ogni modo, Alessandro aveva preso la macchina ed era ato davanti al pronto soccorso per prendere Angelo e Bianca e portarli via da lì. Tutti insieme nuovamente. Li lasciò sotto il portone. - Siete sicuri che non vogliate che salga con voi? Bianca? Aveva domandato con premura. - No, vai tranquillo. Ci vedremo domani. Abbiamo tutti bisogno di riposare, è stata una giornata lunga e intensa. Alessandro sorrise e strinse la mano dell’amico attirandolo a sé in un abbraccio fraterno: - Coraggio! Non sei solo. Angelo aveva pensato che fosse la più bella dichiarazione d’amore ricevuta in vita sua. Non sapeva neppure come fosse potuto sopravvivere alla solitudine. Alla fame e al gelo sì. La solitudine dalle persone che amava era stata la peggiore delle privazioni.
Non era mai stato in quella casa, apparteneva alla famiglia di Bianca, era di sua nonna ma era rimasta vuota per parecchi anni. Lei l’aveva ripulita e arredata con semplicità e buongusto, esattamente com’era lei: semplice e raffinata insieme. Non era grande ma bastava a Bianca per avere un posto tutto suo dove stare. Una bella cucina e un saloncino, il bagno e una stanza da letto erano tutto ciò che desiderava per avere la quiete nella quale rifugiarsi dopo le lunghe giornate ate in ospedale. Era divenuta uno dei loro luoghi di ritrovo. Al pub non andavano più tanto spesso, in quel pub non avevano mai più messo piede.
Prese un accappatoio e gli asciugamani puliti, dall’armadietto del bagno tirò fuori uno spazzolino da denti ancora confezionato: - Lo tengo sempre di riserva! È la prima volta che lo offro a qualcuno! - Si schermì nella vana speranza di strappargli un sorriso. Gli aveva fatto l’occhiolino ma Angelo non aveva sorriso. Era triste e stanco come non lo aveva mai visto. Neppure quando era morta Elisa. L’aveva visto distrutto dal dolore ma non svuotato dalla sua anima, come in quel momento. Aveva anche trovato dei rasoi usa e getta da donna e glieli aveva lasciati appoggiati sul lavandino con discrezione. - Io vado a preparare qualcosa per cena, tu rilassati e prenditi tutto il tempo che vuoi. Lui abbassò lo sguardo ed entrò nel bagno. Era rimasto a lungo a guardarsi davanti allo specchio senza capacitarsi di come avesse fatto a ridursi in quello stato. Era rimasto sotto la doccia per un tempo che gli era parso infinito e dilatato, cercando di lavar via ogni porcheria che gli si era depositata addosso in tutto quel tempo, probabilmente anche dalla sua anima. Si era goduto quel bagno e la sua intimità abbandonando a quel piacere tutta la stanchezza. Quando ne uscì, ancora in accappatoio, sembrava già diverso, di nuovo riconoscibile, senza barba, con il viso tornato color carne, le unghie tagliate e pulite. I capelli ancora troppo lunghi ma composti.
Il profumo della salsa di pomodoro lo lasciò quasi tramortito. Una fragranza semplice di cose di famiglia. Aveva l’acquolina in bocca, come quella volta su Viale Manzoni, di fronte ad un comune piatto fumante di penne al pomodoro. Era l’acquolina che aveva sempre immaginato nei suoi libri delle elementari, quella della parola scritta col cq che evocava la bella sensazione di cose buone. Non certo quella fastidiosa salivazione, che portava lo stesso nome, e che andava a infierire sulla sua fame nei mesi ati.
Bianca aveva posato i piatti sul tavolo e si era seduta di fronte a lui sorridendo felice per averlo di nuovo lì con lei.
Capitolo 14
Lo lasciò mangiare in pace, aveva imparato da Elisa a saper ascoltare e rispettare il silenzio. Angelo non era mai stato silenzioso, anche lui lo aveva imparato da Elisa e dai mesi di solitudine. Avevano cenato con calma, apprezzando il tintinnio delle forchette appoggiate nei piatti vuoti e sorseggiando un calice di buon vino rosso. Bianca stava lavando i piatti quando per la prima volta Angelo aveva detto una parola: - Grazie. La sua voce era talmente arrugginita che sembrava provenire da una vecchia radio gracchiante, in una sola parola aveva gettato tutta la stanchezza di vivere, il dolore subito, il peso del senso di colpa che si portava dietro da un anno. Li abbandonò lì, ai piedi di Bianca, perché da solo non era più capace di gestirli, perché finalmente aveva capito di aver bisogno di qualcuno, anche se Elisa non c’era più. Bianca si era voltata con i guanti pieni di schiuma e aveva fatto spalluccia, poi aveva storto la bocca in modo buffo osservandolo avvolto nel suo accappatoio e con le ciabatte di spugna ai piedi ed era scoppiata a ridere allegramente. Sfilandosi i guanti bagnati, lo aveva afferrato per un polso e trascinato nella sua camera. Aveva aperto il guardaroba e ci si era tuffata dentro. - Domani andremo a comprare qualcosa di meglio, per ora mettiti questi! Gli diede un paio di pantaloni di tuta, i meno femminili che avesse, e una t-shirt delle sue. Dopo averli indossati, Angelo era tornato in bagno a raccogliere i suoi vecchi stracci e li aveva gettati nella spazzatura, cambiando di nuovo capitolo alla propria esistenza. Si sentiva sollevato e aveva capito che la casa in cui si abita
non è un posto fisico ma un sentimento da condividere con chi si ama. In quel momento Bianca era la sua casa e lui era felice di esserci ritornato dopo tanto tempo. Si stesero finalmente sul grande letto, uno accanto all’altra, guardando il soffitto, come avevano fatto tante volte, anche con Elisa, nella vita ata. Bianca gli raccontò del giorno della sua laurea e della commozione di tutti quando aveva dedicato la sua lode con bacio accademico a Elisa. Lui lo sapeva già e sorrise per quel suo conoscerla così a fondo esattamente come probabilmente loro conoscevano lui. Gli disse della soddisfazione di Alessandro per essersi specializzato e aver firmato immediatamente un contratto di collaborazione con la struttura, di Fabio che era entrato alla specializzazione e che aveva parlato in un paio di occasioni con i suoi genitori, quando cercavano straziati di capire l’assurdo gesto di Angelo. Avevano sperato che almeno con lui si sarebbe fatto sentire. Invece non sapevano che Fabio era proprio il primo da cui stava scappando. Fabio era la sua spina nel cuore, tutto ciò che desiderava e ciò che odiava al contempo. Tutti avevano respinto categoricamente dal primo momento l’ipotesi di un suicidio, attaccandosi a quel flebile segno che aveva lasciato dietro di sé prima di scomparire cioè l’aver prelevato del denaro. Chi mai, decidendo di farla finita, l’avrebbe fatto? Era stata nei mesi la loro consolazione inespressa, sebbene quel tarlo avesse corroso ognuno di loro fino al giorno in cui Giada lo aveva riconosciuto nel mendicante che suonava la chitarra. Questo però non aveva voluto raccontarglielo, comprendendo soltanto ora che non era stata la morte di Elisa il vero motivo del suo allontanamento, ma qualcosa di mostruoso che aveva avviluppato il suo essere a partire da molto prima di quell’evento tragico. Gli aveva raccontato invece che Giada e Luca si sarebbero sposati in estate. Angelo, sdraiato sul letto accanto a Bianca, si lasciò cullare dal calore di una voce amica e dalla sensazione morbida di un cuscino sotto la testa. Niente più appariva scontato come lo era stato in ato. Un piatto di pasta al pomodoro, uno spazzolino da denti nuovo, un letto e una maglietta da donna, la voce dell’amica di sempre avevano tutti lo stesso
incommensurabile valore. Angelo si stava rendendo finalmente conto che soltanto la privazione rende speciale e preziosa ogni cosa che invece si considera banale od ovvia quando la si ha costantemente a disposizione. I suoi occhi si chio stanchi e il sonno che lo avvolse non era più soltanto buio. Alessandro ò la mattina presto portando cornetti caldi dal bar all’angolo e qualcosa da vestire per Angelo, affinché potesse tornare nel mondo dei vivi e nei suoi panni. Gli stessi dai quali aveva tentato di fuggire e che adesso desiderava più che mai. - Sono stato a casa tua per prendere questa roba e per rasserenare i tuoi sulle tue condizioni. Dovresti chiamarli. Hanno vissuto un anno di angoscia e magari tante cose sono cambiate per tutti. - Gli suggerì con tatto. Angelo aveva deglutito nervosamente, era ancora fermo a un anno prima, aveva congelato tutto ed era scappato e faceva difficoltà a ritornare in un mondo che era continuato e che non si era fermato. Un mondo che improvvisamente scopriva di desiderare ancora tanto. Nonostante tutto. Che cosa avrebbe potuto dire ai suoi genitori dopo essere sparito per un anno intero senza dare notizie di sé, riducendosi a vivere ai margini della società, come un reietto, e aggiungendo dolore allo strazio che già dovevano affrontare? Dispiacersi. Elisa avrebbe alzato severa il sopracciglio. La verità. Avrebbe dovuto trovare il coraggio di affrontare la verità una volta per tutte. Dopo la colazione, Bianca e Alessandro andarono al lavoro lasciandolo solo. Non gli avevano raccomandato nulla, sapevano che lo avrebbero ritrovato lì quando sarebbero tornati la sera. Quantomeno lo speravano, ma non avevano alcun diritto di pretenderlo stringendo catene alla sua vita. Nel primo pomeriggio, Fabio suonò alla porta e lui se l’era trovato davanti senza aspettarselo. Aveva aperto, pensando potesse essere Bianca o Alessandro che ritornavano. Invece se l’era trovato di fronte austero e freddo come una statua.
Era impreparato ad affrontare quella verità. - Dimmi perché? - Gli aveva domandato con dolorosa severità, senza salutarlo, senza preamboli, senza entusiasmo. Fabio aveva occhi profondi, capaci di inseguire la sua anima ovunque essa tentasse di nascondersi. Angelo non aveva risposte giuste per lui, che almeno consolassero il suo cuore offeso dall’abbandono. - Perché non sono perfetto. E tu sei la mia imperfezione. Non posso accettarlo. Ho fatto del male a tutti quelli a cui tenevo e non posso perdonarmelo. Lo disse sofferente e incapace di guardarlo negli occhi. Lo stava tradendo. Di nuovo. Stava tradendo se stesso. Di nuovo. - Forse, invece, dovresti iniziare a perdonarti e non per il male che hai fatto agli altri ma per quello che hai fatto a te stesso. Angelo provava rabbia. Tutta la rabbia che aveva represso dalla mattina prima che Elisa morisse. Perché era lì che tutto era crollato veramente: sul marciapiede di piazza San Cosimato. Lì aveva perso la stima di sé. Se mai l’avesse avuta. La morte di Elisa era stata solo successiva alla sua. Era stata lo strappo finale, il pretesto per nascondere il dolore dietro ad altro dolore. Fabio era fermo come la montagna che non si sposta. Angelo aveva paura di affrontare i suoi sentieri in salita e bui. Non doveva piangere. Se lo stava imponendo. Non doveva far vedere più a nessuno quelle lacrime che gli erano costate il disprezzo di suo padre e che lo facevano sentire tanto imperfetto. - Ti avevo offerto una via d’uscita. In piena libertà. Non avresti perso nulla e avresti avuto il tempo per pensare senza perdere la tua dignità. Angelo allora esplose:
- Quale dignità? Io l’ho persa uscendo dal portone di casa tua quella stramaledetta mattina! Urlava alterato e sofferente. Fabio lo guardò chiuso in un’espressione severa e imibile, prima di girarsi, aprire la porta e andarsene senza una parola. Sulla soglia dell’ascensore si voltò e, con gli occhi pieni di pianto, gli aveva urlato straziato: - Tu hai scelto per tutti! Hai buttato via la tua vita e anche la mia, senza che io potessi scegliere! Non hai capito niente di niente! Pensavo tu fossi speciale e invece sei soltanto un fottutissimo egoista! E poi aveva sbattuto la porta andandosene. Una volta da solo, Angelo scoppiò in singhiozzi, rabbioso verso se stesso e quella sua incapacità di amare e di farsi amare. Le lacrime di Fabio lo avevano ferito più di ogni sua parola, non se le aspettava e lo avevano colpito con violenza al centro di ogni sua certezza e iniziando mostruosamente a divorarlo dall’interno. Bianca lo trovò così, buttato a faccia in giù sul letto, con il viso schiacciato contro il cuscino. Capì immediatamente. L’aveva compreso già quando Fabio aveva sbattuto nervosamente la cartella del letto cinque sulla scrivania della caposala e taciturno si era levato il camice per andarsene senza salutare nessuno. Non lo aveva fermato, pur sapendo dove sarebbe andato. Non era più il momento di proteggere Angelo, ma era giunto il tempo che riprendesse in mano la sua vita. Ad ogni costo. Anche quello di essere ferito di nuovo e stavolta dalla persona alla quale teneva di più. Forse questo lo avrebbe scosso dalla sua letargia. Si sedette accanto a lui, accarezzandogli i capelli troppo lunghi e raccogliendo le sue lacrime. Bianca percepiva la sua sofferenza e Angelo sentiva l’affetto addolorato della sua amica di tutta la vita.
Si era seduto, con gli occhi gonfi, e l’aveva fissata cercando un nuovo scudo dietro il quale ripararsi dalla vita. Gli occhi verdi e trasparenti di Bianca lo avevano lasciato entrare. Le sfiorò le labbra per cercare calore e lei lo accolse tra le sue braccia. Era oltre un anno che nessuno lo aveva più toccato. Oltre un anno che pativa il freddo e la fame. Bianca voleva scaldarlo e sfamarlo. Angelo voleva affetto e comprensione. Bianca era l’unica vera intimità che gli era rimasta. L’intimità che non chiede nulla perché sa già. Con le mani che gli tremavano, le aveva sfilato il maglione ed era restato assorto a osservare la sua pelle liscia. Le aveva sfiorato il seno con un dito e lei lo aveva preso per i capelli attirandolo su di sé. Avevano iniziato a baciarsi, bevendo vita e morte l’uno dall’altra. Lui l’aveva stretta e la assaggiava ovunque con frenesia, lei lo lasciava fare. Sembrava che volesse mangiarla, mordendole delicatamente la carne, e berla, succhiando avidamente dai suoi seni. L’istinto era quello di soddisfare tutto ciò che gli era mancato in quei lunghi mesi. Con impeto e senza ragione cercava di riprendersi tutto. Si sentiva libero ed euforico avvinghiato a quel corpo amico, non il corpo di Bianca, non il corpo della sua donna. Un corpo e basta, su cui strofinare avidamente ogni voglia che aveva represso per tanto tempo. Angelo infreddolito e affamato fece l’amore con Bianca, lei si lasciò andare sapendo che sarebbe stata l’unica, la prima e l’ultima. Non le importava. Lo amava infinitamente di un amore che non avrebbero mai potuto spiegare al mondo, perché era qualcosa che apparteneva soltanto a loro. Era la loro libertà di amarsi qualunque cosa fossero. Bianca lo aveva consolato per tutta la notte stringendolo a sé e riscaldandolo con tutto il calore che non aveva più avuto da tanto tempo. Si erano sempre amati e quella notte avevano un disperato bisogno di ritrovare le
loro anime perdute. Quando si era fatta mattina, Angelo e Bianca aprirono gli occhi sdraiati sul fianco, uno di fronte all’altra, osservandosi con intima complicità. Angelo sorrise, per la prima volta da quando se n’era andato. La guardava pieno di tenerezza, mordendosi nervosamente il labbro. Scoppiarono a ridere e poi si strinsero l’una all’altro con affetto puro, felici di riconoscersi all’alba del giorno nuovo esattamente per ciò che erano sempre stati. Bianca era contenta di vedere il cuore buono del suo amico senza che le ombre delle sue paure lo nascondessero.
Capitolo 15
Alessandro e Bianca non soltanto lavoravano insieme, ma si erano legati in una profonda amicizia e complicità. Un rapporto nato quando entrambi erano stati travolti dalla tempesta, trascinati dai tragici eventi e dalle loro conseguenze sulla vita di ognuno, e si erano tesi la mano reciprocamente per evitare di affogare. Parlavano e si ascoltavano, si facevano compagnia e insieme cercavano di superare il vuoto lasciato da Elisa e da Angelo. Condividevano lo stesso mondo e gli stessi ricordi. Avevano ato molto tempo insieme in quell’ultimo anno: cinema, teatro, ristorante, eggiate sul lungomare di Ostia. E il tempo migliore era quello trascorso nel cuore della notte quando uno dei due non riusciva a prendere sonno e chiamava al telefono l’altro, sapendo che non gli sarebbe stata negata la presenza. Era accaduto spesso che si addormentassero con la cornetta ancora all’orecchio. A volte ricordavano, altre parlavano del lavoro e altre ancora non parlavano proprio di niente giocando a fare i cretini come due adolescenti. Discorsi senza senso, sbuffi, balbettii fin quando il sonno calava impietoso sulla loro notte ancora spezzata dagli incubi del ricordo. Alessandro non aveva mai avuto nessuno come Bianca, che lo fe sentire in pace e sicuro, al riparo da tutto e tutti. Bianca, sì, aveva avuto Elisa e sapeva che cosa significasse e quanto fosse importante nella vita incontrare la propria persona fuori da sé. Qualcuno in cui specchiarsi riconoscendosi, qualcuno sempre presente, qualcuno disposto ad ascoltare prima ancora di aver sentito. Alessandro aveva scoperto l’universo nascosto dietro i bellissimi occhi verdi di Bianca. Parlava di umanità e di lealtà. Esattamente come quello di Elisa. Meno ribelle però. Il suo era un mondo di amore per la vita, ma diversamente da quello di Elisa, era
fatto di pace. Bianca non era tormentata, inseguiva i suoi ideali con la semplice forza del sentimento e della poesia. Elisa era una guerriera, Bianca invece era una diplomatica. Tutt’e due mosse dagli stessi valori, percorrevano sentieri diversi per affermarli. Elisa era istinto e ionalità, Bianca era cuore e dolcezza. Due donne così diverse ma così forti e vicine. Alessandro non aveva mai potuto veramente accorgersi di Bianca e della sua tenera bellezza finché Elisa, con la sua travolgente forza ribelle e la sua elettrica tensione, era stata in mezzo a loro, trascinando con sé come un vortice ogni cosa che si trovava sulla sua strada. E non si era accorto quanta parte della sua vita e dei suoi pensieri avesse conquistato nel tempo, con la sua tenerezza e il suo timido affetto. Non si era reso conto di come in quell’ultimo anno Bianca fosse diventata per lui una certezza, la persona su cui contare ciecamente, la presenza nei momenti di solitudine e le parole nel silenzio. L’umanità sensibile e delicata di Bianca ava attraverso il suo sorriso rivolto sempre verso chiunque, senza pregiudizi o sfiducia. Bianca con le sue parole e i suoi occhi verdi era per lui il prato di primavera dove far rifiorire la vita dopo un lungo inverno. Bianca, giorno dopo giorno, era diventata per Alessandro la vita dopo la morte. Bianca, istante dopo istante, si era trasformata per Angelo nella luce dopo il buio, per indicargli la giusta direzione per ricominciare.
Angelo ormai aveva perso il posto di assistente alla cattedra di analisi matematica, così si era offerto come insegnante per ripetizioni e con il aparola degli amici arrivarono i primi allievi. Insieme con loro era tornato anche il senso del tempo e del suo svolgersi. Aveva riconquistato i giorni e le notti, le ore, i minuti e il ritmo del battito del proprio cuore.
Gli era bastata un’ora per capire che Bianca era stata la sua scialuppa durante il naufragio, un giorno per capire che il mare in cui si lasciava andare alla deriva era in realtà un oceano, una settimana per rendersi conto che avrebbe avuto bisogno di una nuova nave per attraversarlo, piuttosto che di un mezzo di soccorso inappropriato, con il quale sarebbe presto affogato. A due settimane da quel salvataggio estremo, un’onda anomala e prorompente li travolse. Bianca era rimasta incinta. Era chiusa in bagno a guardare con incredulità le due righe sul test che aveva appena fatto e non riusciva a pensare proprio a niente. Invece di respirare, continuava a inspirare profondamente e a soffiare via l’aria come se la cosa l’aiutasse a spazzare via il nuvolone nero che aveva davanti. Aveva l’impressione che qualcosa di enorme le stesse capitando, ma non riusciva a focalizzare il problema. “No, non è un problema! Tutto, ma non un problema!” Continuava a ripetersi nella testa, dondolandosi avanti e indietro con il busto, seduta sulla tazza chiusa del water. In quell’unica volta che li aveva visti uniti nell’intimità affettuosa della consolazione si era stabilito tra loro un legame di vita.
Angelo bussò alla porta del bagno, preoccupato per lei che era chiusa lì dentro da tanto tempo nel silenzio. - Ehi, Bianca, stai bene? - Le domandò con discrezione. Lei aprì la porta, completamente pallida in volto e con gli occhi fissi in quelli di Angelo. Gli mise in mano lo stick del test di gravidanza. - No! Lo lasciò lì, tramortito e attonito, anche lui improvvisamente sovrastato da qualcosa di enorme, e si era buttata sul letto a guardare il soffitto in cerca di qualcosa da pensare, perché in quel momento aveva il cervello completamente
vuoto, incapace di formulare il benché minimo ragionamento logico. Lui la raggiunse e si sedette accanto a lei: - E adesso? - Non lo so. Erano rimasti in silenzio. Lei e Angelo si guardavano smarriti, seduti uno davanti all’altra, a gambe incrociate, sul letto. Il loro silenzio parlava della loro diversità. Lo ascoltavano guardandosi negli occhi. - Tu lo vuoi? - Angelo squarciò quel momento di tempo dilatato. - Non sono mai stata più sicura di qualcosa in tutta la vita. Non ho mai pensato neppure per una frazione di secondo di non volerlo. Ma ho paura... È la sua grandezza a farmi tanta paura: un figlio. - doveva dire quella parola ad alta voce per cercare di concretizzarla in un’idea. - Un figlio, lo capisci? Forse non sono preparata ad affrontare una cosa simile, forse non sono all’altezza. Non ci avevo mai pensato, no, io lo voglio... ma non so se sarò in grado... Angelo allungò la mano, accarezzandole il braccio e fermando quel flusso di parole scoordinate e nervose. - Non me ne andrò più, se è questo a spaventarti. Non ti lascerò mai più da sola e se vorrai, farò il padre per nostro figlio. Aveva colto nel segno. Bianca aveva il terrore che lui sparisse di nuovo. L’aveva avuto nell’istante stesso in cui si era materializzato sotto i suoi occhi sulla lettiga del Pronto Soccorso. Aveva scacciato quella paura costringendosi a non fargli sentire la sua pressione addosso e lasciandolo respirare senza che si sentisse soffocato dal suo affetto e dal suo timore. In quel momento era tutto diverso però, c’era un figlio in arrivo che non poteva crescere nella sua ansia di veder sparire Angelo nuovamente.
- Tu sei già suo padre! - Ribadì puntigliosa. - Sì, lo so. Non intendevo questo. È che tu... - Non sapeva come continuare per esprimere quella strana situazione tra loro. - Che noi... insomma, sono qui, non me ne vado. Non ti lascio. È nostro figlio. - Sì, è nostro figlio! - Ripeté. Nessuno di loro aveva dubbi sul da farsi. Ciò che li spaventava era la loro posizione di genitori per questo bambino. - Sarai un padre perfetto. Gli allungò una tenera carezza tra i capelli riccioluti sorridendo. Un gesto che lui conosceva bene e che gli procurò la strana sensazione di un segno di presenza arrivato al momento giusto. - Nessuno è perfetto. Sarò un padre, punto!
Non erano una coppia, né lo sarebbero mai stati, questo lo sapevano entrambi. Ma ciò che li legava era comunque l’amore, in una delle sue innumerevoli forme, e almeno questo non potevano negarlo. Bianca in cuor suo non si considerava affatto una madre single. Avere Angelo come padre di suo figlio la onorava, perché era una delle persone a cui voleva più bene al mondo. Se mai avesse dovuto pensare a fare un figlio da sola non aveva dubbi che avrebbe scelto proprio lui. Era capitato, la vita aveva scelto per loro e, in fondo, non aveva sbagliato il tiro poi così tanto. Era il nipote di Elisa quello che stava vivendo dentro di lei e nulla poteva essere più desiderabile. In quel momento non la spaventava neppure l’idea che con un figlio sarebbe stato più difficile trovare un compagno. Aveva smesso di aver paura di rimanere sola, da quando Elisa era morta. Quello che temeva veramente erano le persone che se ne andavano. Ma Angelo era lì davanti a lei che la teneva per mano e la rassicurava. E poi c’era Alessandro, la sua nuova persona.
“Oddio! Alessandro! Non ci avevo pensato proprio!” Aveva esclamato nella sua testa, senza che Angelo potesse accorgersi di quel suo pensiero preoccupato, quando lui stesso le nascondeva i suoi affanni su Fabio.
Capitolo 16
Dirlo ad Alessandro fu esageratamente imbarazzante. Avevano lasciato are un po’ più di una settimana dalla scoperta, giusto il tempo per metabolizzare la cosa anche senza aver ben chiaro come l’avrebbero affrontata e poi avevano organizzato di uscire una sera a mangiare una pizza insieme. Una tresca insomma. Si sentivano complici e colpevoli. Evitavano di guardarsi negli occhi e di toccare argomenti sensibili. In breve l’atmosfera divenne piuttosto rigida e Alessandro non riusciva a capacitarsi del motivo, sentendosi escluso da qualche segreto tra loro. Non sbagliava. Tuttavia Bianca non apparteneva certo ad Alessandro e men che meno gli apparteneva Angelo, eppure i due avevano la strana percezione di aver violato un sacro patto di fedeltà che li voleva uniti in quella triade amicale. Ordinarono, come tutte le altre volte, e aspettarono le rispettive birre per brindare a qualcosa, qualunque cosa fosse venuta loro in mente. Una sorta di rito che avevano da sempre. - Alla ripresa delle vecchie abitudini! - Esclamò Alessandro, trovando la prima ragione di brindisi. Fecero tintinnare i boccali e poi Bianca fece un cenno con la testa e Angelo prese fiato quasi fino a scoppiare, come se nell’aria che inalava dentro i polmoni ci fosse stato gas di coraggio, prima di sorridere con un’espressione poco credibile: - Al bambino che aspettiamo! Rimase incastrato in quel ghigno contratto che voleva rassomigliare a un sorriso, mentre Alessandro ammutoliva, impallidiva e rimaneva immobile con il bicchiere alzato a mezz’aria, come fosse stato folgorato, senza avere più la capacità di posarlo sul tavolo.
Non era stato forse il modo più adatto per dirlo, ma nessun’altra maniera lo sarebbe stata comunque. Perciò averlo fatto così, in modo diretto e inaspettato, aveva spostato il problema un po’ più oltre. Chissà perché aveva l’impressione che il peccato dichiarato fosse anche perdonato. Era l’ennesimo errore di calcolo compiuto dal suo amico matematico. Alessandro però conosceva bene il cuore di entrambi e non era rimasto sorpreso più di tanto dell’accaduto. Conosceva Angelo e il suo smarrimento. Bianca e la sua dolcezza, il suo modo totalizzante di amare e di dare. Lei non sapeva prendere ma offrire, ecco perché l’unica volta che aveva provato a prendere qualcosa che non le apparteneva era rimasta delusa e insoddisfatta. Bianca si schiarì la voce e proseguì senza guardarlo dritto in faccia: - Ale, c’è una cosa che volevamo dirti... è capitato... - Ehi, tranquilli, lo so come si fanno i bambini! - Aveva tentato di riportare il discorso in termini meno impacciati, nascondendo una strana e inspiegabile ondata di gelosia che lo stava assalendo. - Non sappiamo neppure noi come sia potuto accadere... - tentò di aprirsi un varco Angelo, ma Alessandro scoppiando a ridere forzatamente lo aveva interrotto: - Volete che ve lo spieghi io? - Dissimulando cercava disperatamente di arrampicarsi sugli specchi per apparire il più disinvolto possibile, anche se il sangue gli ribolliva nelle vene e un sudore nervoso aveva imperlato la sua fronte - avanti ragazzi, siamo tutti adulti e vaccinati e voi due pervertiti, incapaci di dormirvi accanto senza saltarvi addosso! Voleva tagliare corto, in quel momento non era lucido e ci avrebbe pensato dopo, a mente fredda e da solo. Alessandro aveva improvvisamente e irragionevolmente preso coscienza di esserne innamorato, nel momento stesso in cui seppe che Bianca custodiva in sé una vita nuova.
Una vita per tutti. E non gli importava nulla se quel seme di vita non era suo. L’amava e basta. E amava tutto ciò che le apparteneva. Cenarono stando attenti a non ricadere più sull’argomento, trascorrendo una serata come tante altre. Soltanto che ognuno di loro stava recitando la sua parte, cercando di negare a se stesso e agli altri due l’enormità dei sentimenti in cui si trovavano coinvolti.
Quando li riaccompagnò a casa in auto, trattenne Bianca per un braccio mentre Angelo era già arrivato al portone. Gli fecero cenno di andare e lui aveva capito che era una cosa tra di loro, aveva salutato Alessandro con la mano e si era chiuso la porta alle spalle. Nell’abitacolo della macchina i loro volti erano rischiarati dal lampione della strada. Alessandro aveva preso con due dita il mento di Bianca e l’aveva costretta a guardarlo negli occhi: - È quello che vuoi davvero? - Sì. - Sei sicura? - Sì, ma ho paura. - Che cosa volete fare? Bianca sospirò: - Non lo so... immagino i genitori. Alessandro voleva arrivare al dunque e soltanto Bianca poteva dargli una risposta esatta, cruda com’era crudo ciò che stava per chiederle, una domanda che poteva anche non fare, tanto ne conosceva già la risposta, ma che aveva un disperato bisogno di sentire: - Che cosa siete? - Mi stai chiedendo se stiamo insieme? - Lo sfidò a non indugiare sul suo timore.
Alessandro, allora, aveva annuito col capo e Bianca aveva stretto le labbra in un timido sorriso: - No, se è questo che vuoi sapere. Non siamo una coppia e non lo saremo mai. Le ragioni le conosci benissimo. È vero, abbiamo fatto l’amore. Una volta soltanto, scambiando i nostri sentimenti per qualcosa che invece non ci appartiene. Ci amiamo profondamente, da sempre, ma è una cosa diversa... Alessandro le sfiorò le labbra con un dito per interromperla. Aveva capito. Lo sapeva di già. Voleva solo conferme. Ne aveva bisogno. Avrebbe fatto di tutto questa volta per proteggere la nuova occasione di vita che l’esistenza gli stava offrendo.
Andarono tutti e tre insieme alla prima ecografia e quando videro battere quel puntino piccolo piccolo, custodito nel ventre di Bianca, percepirono prepotente il senso della vita che ricominciava. A casa, Angelo continuava a fissare quel foglietto nero con il puntino sfuocato sopra e più lo osservava più trovava un senso e un ordine per tutte le cose. Non sarebbe mai accaduto se lui non si fosse smarrito e non si sarebbe mai smarrito se Elisa non fosse morta. Voleva a tutti i costi vedere in quella vita, assolutamente inattesa, il senso della morte di Elisa. Voleva dare un risultato esatto a quell’espressione assurda di dolore. La vita era un giusto risultato. Da quel puntino di vita era scaturito il suo coraggio. Era da solo a casa, quando decise di chiamare i suoi: - Pronto. La voce di suo padre era velata di vuota tristezza e rassegnazione. Angelo rimase in silenzio per un secondo, provando nel calore del tono paterno l’accogliente abbraccio delle proprie radici. Nonostante tutto.
- Ciao. Sono tornato. Non sapeva cos’altro poter dire. Il giudice Di Strada rimase con il fiato sospeso, ascoltando di nuovo la voce di suo figlio. Una voce stanca e remissiva, cambiata dalla morte e dalla vita, che aveva desiderato allo spasmo, contrapo verso quel rancore e quella vergogna lancinanti che aveva provato per lui appena prima che scomparisse. Non sapeva che cosa rispondergli. Era il momento che aveva atteso con speranza e agonia ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo di quel lunghissimo anno. Il suo cuore era un fiume in piena pronto a straripare, la stessa enorme e incontenibile emozione che aveva provato quando Elisa se n’era andata. Allora era la morte ad averlo investito, stavolta era la vita che ritornava. Fissarono un appuntamento in un bar di via Po, dove erano soliti far colazione anche con Elisa quando ancora uscivano da casa tutti insieme prima di affrontare le rispettive giornate impegnate e programmate. Angelo era arrivato molto in anticipo e li aspettava dall’altro lato della strada, come fosse in trincea a spiare nascosto il nemico per studiare il suo assalto. Quando però arrivarono, erano solo due genitori affranti in attesa di potersi riprendere indietro almeno un piccolo pezzo di vita ingiustamente sottratta. Attraversò la strada e si trovò di fronte a loro con il cuore sospeso in attesa del giusto rimprovero, dello sguardo severo che avrebbe meritato, del disprezzo che già conosceva sui loro volti. Invece sua madre aveva un’espressione colma di affetto, come non si ricordava avesse mai avuto in tutta la vita verso di loro, e il padre gli occhi lucidi di lacrime trattenute a stento, mai mostrate prima di allora. Neppure quando Elisa era morta e si era chiuso in un gelido silenzio e distacco dal resto del mondo. Angelo, imbarazzato come un bambino dopo una marachella di cui doveva rendere conto, abbassò gli occhi e allungò timidamente la mano a suo padre che l’afferrò con forza, trasmettendogli tutto il calore che in una vita intera non era riuscito a dargli. L’aveva tratto a sé e lo aveva avvolto in un abbraccio stretto e
accogliente. Quel figlio magro e con i capelli lunghi e riccioluti, che gli aveva causato tanto dolore, era in realtà la sua unica ragione per andare avanti, per dire di avere ancora un motivo per continuare a vivere. Anche se imperfetta e diversa da come se l’era immaginata, era la sola aria per tornare a respirare dopo un’apnea lunga mesi, la sola luce da guardare dopo il buio di un anno. Si sedettero in un tavolino all’angolo, di fronte a un cappuccino e due caffè, guardando quel figlio restituito a loro e a se stesso come fosse la prima volta che l’avessero mai visto, come il quattro aprile di quasi ventisei anni prima, quando sorridendo avevano esclamato - il nostro Angelo! - Riponendo in lui e in sua sorella tutte le loro attese e sogni per il futuro. Le cose erano andate diversamente da come se le erano immaginate e avevano imparato, con il dolore delle ferite inferte e subite, che non si possono mettere catene al destino. - Mi dispiace. Il sopracciglio di Elisa era sollevato in segno di disapprovazione, non poteva cavarsela così, e allora Angelo si era fatto forza e aveva aperto con umiltà e, per la prima volta, con sincerità il proprio cuore a quei genitori che erano stati incapaci di ascoltare prima e quando avevano deciso di farlo, avevano trovato solo il silenzio. - Stavo soffocando, mi sono perso, sono scappato... Le loro orecchie si aprirono ad accogliere la musica che usciva dal cuore di quel figlio tanto desiderato. La madre aveva occhi commossi nell’apprendere la vita di stenti e di sofferenze che Angelo si era imposto per fuggire dalla verità. Parlarono di Elisa. Angelo raccontò loro di quanta bellezza vi fosse nello spirito ribelle di sua sorella e scoprì con meraviglia che anche loro amavano quello spirito e che avevano soltanto cercato di offrirgli sentieri sicuri su cui poter camminare, senza avere la pretesa di cambiare la sua destinazione finale. Era convinto che non avessero mai ascoltato e scopriva che anche lui ed Elisa
non lo avevano mai fatto con loro, chiusi nella presunzione di ogni figlio di conoscere la vita prima ancora di averla percorsa, confondendo la meta da raggiungere con il cammino per arrivarci. - Abbiamo conosciuto Fabio. Avevamo bisogno di lui perché forse poteva aiutarci a capire dove cercarti. Aveva osato toccare la questione suo padre. Tuttavia non era il momento giusto per parlare di quello, Fabio era stato nascosto in un cassetto in fondo al cuore che non sapeva neppure lui come e quando avrebbe avuto il coraggio di riaprire. - Non sapevo neppure io dove cercarmi. Era sempre stato lì vicino, eppure distante come lo è un fantasma per le vite tra le quali è costretto a muoversi nell’invisibilità. Non si era mai allontanato, eppure aveva viaggiato tanto alla ricerca di se stesso e alla fine era tornato all’origine scoprendo che era sempre stato lì, che tutta la sua vita era sempre stata sotto i suoi occhi se solo avesse avuto il coraggio di aprirli. - È una brava persona che ti stima profondamente e che ti rispetta. È l’unico che sapeva dal primo momento che saresti tornato. È l’unico che non ha voluto cercarti e si è rassegnato dolorosamente ad aspettarti. - Lo incalzò il padre cogliendolo alla sprovvista. Non si era piegato alla sopportazione di qualcosa che non avrebbe potuto cambiare, per quanto avesse voluto o tentato. L’aveva semplicemente accettato, imparando a guardarci dentro senza averne paura, senza sentirsi responsabile per qualcosa che non era sotto il suo controllo. Il dolore della perdita aveva aperto il varco alla comprensione. Angelo era sorpreso a scoprire che la vita era diversa da come l’avevano programmata e immaginata. Tutto era diverso. Diverso da come avrebbe dovuto essere, diverso da come si aspettava che fosse. Calcoli sbagliati. Provò un grande dolore a sentire di Fabio e sapeva di aver destinato a lui soltanto tutta la sua rabbia e il suo smarrimento. Sapeva di averlo fatto perché sicuro che fosse l’unico capace di sostenerne il peso e invece lo aveva
schiacciato. Fabio aveva sopportato finché aveva potuto e alla fine era crollato. Aveva avuto ragione lui: era stato un fottutissimo egoista. Mentre nuotava nel mare del suo dolore e della sua autocommiserazione, si era trasformato in uno squalo che per sopravvivere aveva ferito chiunque avesse tentato di avvicinarsi. Fabio era quello che aveva subito l’amputazione peggiore. Non aveva ancora voglia di parlarne con loro, doveva capire che cosa voleva farne di quella storia. Invece disse improvvisamente: - Bianca aspetta un figlio da me. Non aveva altre parole per dirlo e non intendeva girarci intorno. Era un fatto che non richiedeva discussione: il suo bambino lui lo aveva visto e da quel momento era diventato l’uomo forte e determinato che non era mai stato in tutta la sua vita. Per suo figlio. Laura e sco Di Strada, in quel lunghissimo anno, avevano imparato ad ascoltare anche oltre le parole dette. Non chiesero nulla, non importava il come o il perché. Era la vita di Angelo. La rispettavano. E colsero la grandezza di quel dono inaspettato e inimmaginabile che la vita aveva deciso per loro. Un futuro che avevano pensato di non poter avere. Avevano fatto male i conti con il destino. Come tutti del resto.
Capitolo 17
La casa non era affatto cambiata da quella mattina in cui era stato colto da quella strana euforia e aveva deciso di prendere il suo zaino grande, quello delle eggiate in montagna. Trattenne il fiato varcando di nuovo la soglia. I suoi genitori, alle sue spalle, stavano raccogliendo i pezzi del loro cuore. Il suo primo sguardo era andato alla stanza di Elisa. Le imposte erano aperte e non c’era buio. Finalmente era tornato. Dopo un lungo e faticoso viaggio, durante il quale si era perso, aveva ritrovato la strada. Quella giusta. Per quanto si sforzasse, non riusciva, però, a cancellare Fabio dai suoi pensieri. Lo aveva abbandonato e poi rinnegato. Invece continuava a battere forte dentro di lui il desiderio di averlo a fianco. Lo considerava lo specchio in cui non voleva guardarsi, perché l’immagine che rifletteva di se stesso gli mostrava una scomoda verità. Fabio aveva continuato a lavorare con Alessandro e Bianca, ma non usciva più con loro, evitando accuratamente d’incontrare Angelo. Nessuno osava parlarne, anche perché avevano un altro coltello tra le mani, pronto per essere scagliato contro di lui. Ad Angelo soltanto spettava quella scomoda posizione e nessuno di loro intendeva sollevarlo da quella responsabilità. Fabio aspettava paziente la resa di Angelo, sapeva che prima o poi avrebbe ceduto. Era soltanto questione di tempo e sarebbe tornato veramente. Quando Fabio gli aveva detto “per sempre”, lo aveva fatto con cognizione di causa. E sebbene in quel momento si portasse dietro un pesante fardello di rabbia e di delusione, non aveva alcuna intenzione di rinnegare quella sua promessa. Lo disse proprio il giorno in cui Elisa morì, poche ore prima di quell’assurdo
dramma, offrendogli il suo riparo, la discrezione e il dignitoso rispetto del suo amore. Angelo non lo aveva ascoltato. Aveva sentito solo libertà ed era scappato, non comprendendo la portata dei sentimenti di Fabio. Non avrebbe dovuto giustificarsi con lui. Non era quello che cercava Fabio ma aveva diritto a qualche spiegazione che gli restituisse la certezza del loro legame. Ne era consapevole. Gli sarebbe bastato soltanto bussare alla sua porta senza dire nulla. Lui sarebbe stato lì ad aspettarlo. Magari pazzo di rabbia, ferito e non più fermo come la roccia che era stato, ma era certo che fosse lì in attesa. Era la sua stessa anima e finalmente aveva imparato ad ascoltarla, ad amarla e a rispettarla. Sapeva anche questo. Così, quando si decise a chiamarlo, la voce dell’amico dall’altro capo del telefono non era per nulla sorpresa. - Ciao. Sono io, sono tornato. Gli disse con semplice umiltà, racchiudendo in quelle banali parole tutto ciò che conteneva la sua anima. - Ciao. Come stai? Chiese Fabio, senza scomporsi e facendogli capire che la sua domanda era tutt’altro che banale: voleva davvero sapere come stesse. Tuttavia manteneva con difficoltà un tono distaccato e freddo. - Ti va se ci vediamo da qualche parte? Angelo voleva guardarlo in faccia, non doveva giustificarsi, ma desiderava dargli delle spiegazioni. Si incontrarono al chiosco del Gianicolo. Era stato Angelo a volere
quell’appuntamento. Forse per esorcizzare per sempre la sua paura. Era il posto dove aveva capito di non essere più libero. Fabio era la sua libertà. Presero due caffè, serviti nei bicchierini di carta, e si sedettero su una panchina, dalla parte del faro della Vittoria. Era la panchina su cui Angelo aveva dormito la notte in cui aveva toccato il fondo, non lo avrebbe raccontato a Fabio, ma essere seduto lì, con lui accanto, gli faceva provare un fortissimo sentimento di consolazione. Fabio non voleva affatto sapere che cosa gli fosse accaduto. Fabio sapeva. Non aveva bisogno di racconti. Lui aveva sempre guardato al cuore di Angelo, tutto il resto non gli importava. Era per questo motivo che era stato l’unico ad averlo aspettato con pazienza. Non riusciva a guardarlo in faccia, perché quello che stava per dirgli era l’ennesimo immeritato schiaffo che stava per assestargli. - Aspetto un figlio. Fabio anche aveva lo sguardo puntato nel vuoto. La sua fermezza vacillò per il barlume di un attimo e poi tornò a essere la solita sicura roccia su cui appoggiarsi. - Diventerai padre. - Disse in un soffio, tentando disperatamente di non sanguinare troppo. Si alzò e si andò ad appoggiare al muretto, guardando il bellissimo panorama. Angelo lo seguì e gli posò una mano sulla spalla. Fabio si era voltato con un sorriso triste in cui aveva riposto ogni sua domanda. - È vero sarò padre. E sono felice di diventarlo, sarei un bugiardo a dirti una cosa diversa. Quando lo abbiamo scoperto, abbiamo avuto paura, perché sappiamo anche chi siamo. Bianca ed io vogliamo il nostro bambino. E ci amiamo
profondamente. Non è però l’amore giusto per vivere insieme le nostre vite. Fabio non aveva bisogno di tutte quelle parole, ma sentirsele dire gli faceva bene all’anima, che nel profondo aveva davvero molte cicatrici. - Che cosa siamo? - gli domandò serio, attendendo una risposta che fosse definitiva. Stavolta non gli avrebbe dato un’altra occasione per sbagliare. - Noi. Siamo. Una. Famiglia. Angelo rispose senza esitazioni, scandendo bene ogni parola perché fosse ben chiara. Fabio per la prima volta aveva veramente paura dell’enormità di ciò che stava accadendo, l’idea della paternità non lo aveva mai neppure sfiorato e adesso Angelo lo aveva catapultato dentro qualcosa di complesso e inaspettato come la responsabilità verso una nuova creatura. - Ancora una volta non mi lasci scelta. Hai fatto tutto da solo ed io posso soltanto accettare. Chi sono io? Era incredulo e non riusciva a collocarsi in quel garbuglio di sentimenti che aveva inspiegabilmente legato tutti insieme, gli uni agli altri, senza che potessero mai più sciogliersi. - Sei la persona che amo, sei la mia anima, sei la mia vita. Tu per me sei questo e non intendo rinnegarlo mai più. Sei il mio compagno, se vorrai esserlo. Te lo ripeto: siamo una famiglia. Angelo stese la sua mano: - Sono tornato. Se mi vuoi ancora. Fabio la strinse senza rispondere nulla, e tornò a guardare nel vuoto davanti a sé.
Capitolo 18
Decisero di riprovarci. Sicuramente avevano molti problemi da risolvere però non potevano fare a meno di pensare che ogni soluzione sarebbe stata insieme. La notizia della paternità di Angelo aveva scavato una voragine nel cuore di Fabio, il suo rigido senso di responsabilità lo stava divorando dall’interno. Non riusciva a collocarsi in alcun modo in tutta quella faccenda e ava le nottate ad arrovellarsi su quale ruolo potesse avere per quel piccolo Di Strada in arrivo. Angelo non aveva avuto esitazioni nel vedere una famiglia nel loro legame, ma per Fabio era tutta un’altra storia. Le parti erano state assegnate in sua assenza e a lui era toccato un ruolo marginale, quasi fuori dalla scena. Uno spettatore probabilmente. Angelo non sembrava rendersi conto di questa spina che aveva infilato proprio al centro del suo cuore, era troppo euforico e preso dallo svolgersi incalzante degli eventi da non considerare che non fosse la stessa cosa per tutti. Dava per scontato che la sua felicità fosse un sentimento condiviso in virtù di quell’amore onnicomprensivo che lo legava a Fabio. Non si era minimamente posto il problema su quello che potesse provare Fabio verso quel bambino. Lui lo amava infinitamente e dunque anche Fabio avrebbe dovuto farlo. E invece non era esattamente così, perché Fabio si tormentava, non riuscendo a superare quel sentimento di estraneità che lo legava a quel piccolo essere custodito nel ventre di Bianca. Probabilmente perché quella pancia che cresceva sotto i suoi occhi gli ricordava di continuo che Angelo aveva scelto lei per lenire il suo dolore, che aveva cercato consolazione nella sua amica di tutta la vita, che si era abbandonato per istinto a ciò che lui aveva reputato la sua spiaggia sicura su cui naufragare. Bianca, non Fabio. Quel bambino ne era la prova vivente e a nulla serviva la presenza di Angelo di nuovo al suo fianco, più convinto che mai, più innamorato di quanto avesse mai dimostrato, soprattutto legato a lui da un sentimento maturo e consapevole. Niente nella sua testa riusciva a schiacciare
quel tarlo che lo stava logorando. Avrebbero fatto l’amore migliaia di volte nella vita ma quell’unica volta con Bianca non avrebbe mai potuto competere con il loro stare insieme. Da lì era arrivata la forza di Angelo, tutta la determinazione che non aveva mai avuto, la sua maturità e soprattutto la vita che amava al di sopra di qualunque altra: quella del figlio.
Da quasi due mesi Angelo e Fabio vivevano insieme, nell’appartamentino di Trastevere. Angelo stava studiando seriamente per il concorso da ricercatore e continuava a dare lezioni private. Fabio lavorava al Policlinico con la borsa di studio da specializzando e faceva sostituzioni negli ambulatori medici. I dottori Di Strada avevano accolto con imbarazzo quella convivenza, ma non per disprezzo, semplicemente perché mentalmente disabituati a pensare in certi termini. Il tempo avrebbe aggiustato le cose. Stimavano e apprezzavano Fabio e dovevano riconoscerne gli indiscutibili meriti nei confronti di Angelo. Era sera e la bomba innescata nell’animo di Fabio era pronta a esplodere. L’aveva contenuta e ne aveva camuffato il ticchettio del conto alla rovescia alla deflagrazione. Angelo era assorto su un libro di analisi matematica e Fabio si era buttato stancamente sul divano a guardare la televisione. «Stati Uniti: storico o per cui da oggi le coppie gay sposate negli Usa avranno gli stessi diritti delle altre. La Corte Suprema Usa ha bocciato, con cinque voti favorevoli e quattro contrari, la legge nota come The Defense of Marriage Act (DOMA), riconoscendo da ultimo quegli stessi diritti di cui godono mariti e mogli statunitensi da sempre, alle coppie omosessuali. La Corte Suprema riconosce diritti federali ai coniugi dello stesso sesso. “L’amore è amore” ha commentato su Twitter il presidente Barack Obama, che ha voluto così festeggiare la sentenza della Corte Suprema sulle nozze gay. “La sentenza di oggi sul Doma è un o storico verso la parità nei matrimoni”, si legge nel
messaggio del capo della Casa Bianca.». Angelo fece appena in tempo a sollevare lo sguardo dal libro, incuriosito dalla notizia trasmessa dal Tg, che Fabio era esploso scagliando con violenza il telecomando contro la parete. Si era aperto in tanti pezzi ed era miseramente finito sul pavimento, come il suo cuore finalmente esploso. Angelo si alzò di scatto guardandolo incredulo e sorpreso. Fabio aveva gli occhi sbarrati, pieni di livore, respirava affannato ed era paonazzo in viso. - Perché? - Gli domandò con circospezione Angelo, senza comprendere quel gesto inaspettato e iroso del suo compagno. Fabio era perso con lo sguardo sui pezzi del telecomando rotto e Angelo, che si trovava alle sue spalle, si era avvicinato piano e gli aveva posato una mano sulla spalla nel tentativo di confortarlo e calmarlo. Fabio, allora, si voltò improvvisamente, piantandogli addosso i suoi occhi pieni di lacrime e rabbia, e gli gridò: - Perché noi non saremo mai una famiglia! Tu sei suo padre e Bianca sua madre! Ed io non sono un cazzo! È il tuo bambino, è il vostro bambino, ed io non c’entro niente! Angelo sbiancò, mentre il dolore di Fabio stava squarciando il velo di una realtà ancora una volta diversa da come se l’era voluta raccontare. - Noi siamo una famiglia... - gli aveva sussurrò sempre meno convinto che quel concetto potesse essere compreso da Fabio. Ma Fabio non voleva comprendere: per una volta pretendeva di essere compreso. In quel momento Angelo non aveva la più pallida idea di come dissuaderlo da ciò che pensava, ma loro erano comunque una famiglia. Di questo era convinto. Invece che discuterne, glielo avrebbe dimostrato.
Dopo pochi giorni si sposarono Giada e Luca. Fu la prima volta che si rividero tutti insieme contemporaneamente. Giada era
raggiante nel suo abito bianco e Luca impettito e fiero di aver raggiunto un altro traguardo importante nel suo percorso di vita. Fabio e Angelo trattennero emozionati il fiato mentre i loro amici pronunciavano le loro solenni promesse. Angelo aveva guardato con la coda dell’occhio una lacrima che rigava il volto del suo compagno e allora, con discrezione, gli aveva stretto la mano per fargli sentire che lui era lì al suo fianco. Che c’era e non se ne sarebbe andato mai più. Fabio si girò e gli sorrise per la prima volta da quando era esploso. Forse quella volta aveva avuto ragione Angelo, faceva una gran fatica a crederlo ma lasciava aperta la porta alla possibilità che potesse essere così.
A Bianca iniziava ad accennarsi la pancia e le sue forme stavano cambiando esaltate dalla maternità di cui era vestita. Il gruppo si era finalmente ricostituito e le serate trascorrevano oziose, a volte a casa di Bianca altre da Angelo e Fabio. Luca e Giada erano partiti in viaggio di nozze, un viaggio da sogno che un tempo avrebbero aspirato a fare tutti insieme. I tempi, però, erano cambiati e ognuno di loro avvertiva con pesante chiarezza la metamorfosi che stava avvenendo. Erano diventati grandi. Non avevano gettato via le loro ambizioni o i loro sogni ma avevano conquistato un senso di realistica responsabilità verso la vita. Ormai avevano imparato che le cose accadono se devono accadere e che nessuno può fare programmi a lungo termine che non vengano sconvolti dal caso, dalla fortuna o da qualunque altra cosa. Qualunque altra cosa che ognuno di loro custodiva nel cuore e che non osava dire per paura di riportarla a galla. Ma era proprio lì tra loro e li guardava sorridente con un filo di fumo che saliva dalla sigaretta accesa.
Alla seconda ecografia l’unico presente che non era medico era il padre. Fabio non era andato con loro; glielo avevano chiesto ma aveva declinato
l’invito, nascondendosi dietro la scusa dell’impegno nel suo reparto quella mattina e Angelo non aveva voluto insistere più di tanto. Quando, però, si erano trovati nel corridoio in attesa di entrare, Alessandro notò il velo di tristezza negli occhi del suo amico e, senza dire nulla, si recò nella stanza della caposala, uscendone poco dopo con occhi furbi. Mentre Bianca era già distesa sul lettino, con la pancia scoperta e con la ginecologa che le cospargeva l’addome di gel, qualcuno bussò perentoriamente alla porta e senza attendere l’invito a entrare si fece avanti con sicurezza. - Sono stato chiamato poco fa per una consulenza chirurgica, la caposala mi ha detto che avete bisogno di me qui. Fabio aveva terminato la frase prima di realizzare il tranello in cui era stato attirato e rimase per un attimo in imbarazzo davanti a loro. Non avrebbe dovuto essere lì, non ne aveva alcun diritto, era una cosa che non gli apparteneva, si sentiva invadente e fuori luogo. Lo avrebbe tollerato, accettato anche, ma il suo posto non era lì con loro, continuava a pensare mentre il cuore aveva accelerato il ritmo dei suoi battiti nel petto. Alessandro gli si fece incontro, padrone di sé e della situazione. - Infatti, abbiamo bisogno di te qui, altrimenti non possiamo iniziare! Allora Fabio guardò Angelo, il quale gli fece soltanto un cenno con la testa per chiedergli di restare vicino a lui. Ne aveva bisogno. Guardarono imbambolati quel corpicino perfetto che sembrava danzare nell’utero di Bianca. Fabio aveva, con discrezione, stretto la mano gelata del suo compagno, come quella lontana sera al teatro, per trasmettergli la sua vicinanza e il suo calore. Ci avrebbe provato, ci sarebbe stato. A qualunque titolo avrebbe partecipato anche lui a quella nuova vita che si apriva per tutti. Alessandro aveva accarezzato dolcemente i capelli di Bianca e si era reso conto di desiderarla come mai avrebbe potuto aspettarsi ancora nella sua vita. Doveva dirglielo assolutamente.
Stavolta non avrebbe dovuto commettere l’errore di lasciare al tempo il suo destino. Il presente e la vita avano in quel momento davanti a lui, doveva soltanto afferrarli e trattenerli per sempre.
Bianca indossava un abitino corto in seta color pesca, che le scivolava addosso rendendola ancora più incantevole di quanto non fosse sempre stata, e Alessandro non riusciva a toglierle gli occhi di dosso mentre la riaccompagnava a casa quel giorno. Chiacchierava e scherzava con lei, con l’intimità di chi ha imparato a conoscersi senza fretta. Quando furono sotto casa, al portone, mentre Bianca trafficava nella sua borsa in cerca delle chiavi per aprire, lui le fermò il braccio, costringendola a guardarlo in faccia. Voleva la sua attenzione, voleva il verde dei suoi occhi su di lui. - Bianca, se ti dicessi che ho bisogno di te per vivere mi crederesti? Era una strana dichiarazione e Bianca era rimasta sopraffatta in silenzio a fissarlo. Improvvisamente e per la prima volta aveva potuto assaporare la dolcezza leggermente amara del miele di castagno. Aveva capito che era il suo miele. Poteva sedersi e mangiarne finché ne avesse voluto, senza sentirsi male. - Sali con me. Nell’ascensore lui l’aveva baciata, intrecciando le sue dita tra i suoi capelli profumati. Fecero l’amore tutta la notte e fu intimo e tenero, ionale e istintivo. La mattina, quando Bianca aveva aperto gli occhi, Alessandro era sdraiato su un fianco, sveglio, che la osservava. andole il profilo con un dito, le disse: - Credo di essermi innamorato di te.
Lei senza rispondere aveva sorriso e tuffato ingorda le dita nel suo miele di castagno.
Capitolo 19
Avrebbero voluto are di nuovo il capodanno tutti insieme da qualche parte, come due anni prima, ma la pancia di Bianca era ormai enorme e pronta ad esplodere e anche Giada aspettava un bambino da pochissimo ed era infastidita dalle nausee. Così preferirono are la serata tutti insieme a casa di Alessandro e Bianca. Si erano trasferiti, da qualche mese, in un appartamento vicino alla zona universitaria dove entrambi lavoravano. Dove in realtà tutti loro lavoravano, avendo Angelo vinto il posto da ricercatore ed essendo rientrato in Facoltà a insegnare. Luca aveva continuato a lavorare nello studio legale dei Di Strada, divenendo a tutti gli effetti il famoso figlio avvocato che avevano sempre desiderato. Il loro era uno stimato matematico, e alla fine erano stati comunque accontentati dalla brillante carriera di Luca, che avevano visto crescere e che per loro rimaneva il primo e unico fidanzato che Elisa avesse avuto nella sua vita. Giada aveva trovato un posto di collaborazione presso una piccola casa editrice emergente e dopo lo spettacolo “Battiti e respiri” aveva smesso per sempre di danzare. L’ultima volta lo aveva fatto per Elisa e a lei aveva affidato quel sogno, dedicandosi all’altra sua ione, la letteratura. Questa volta a festeggiare con loro c’erano anche i dottori Di Strada, i dottori Altieri, genitori di Bianca, e i signori Corsi, genitori di Fabio. In pratica, in quella casa c’erano tre intere generazioni di una grande famiglia allargata. Tutti avevano in qualche modo imparato nuovamente a sorridere e tutti sentivano di essere finalmente giunti al posto giusto dopo tanto vagare. Angelo aveva avuto ragione e Fabio non poteva fare altro che riconoscerlo, fiero di quel “per sempre” che si erano dichiarati due anni prima.
Tutto era crollato senza che loro potessero far nulla per fermare la tragedia, ma ciò che avevano ricostruito da quelle rovine era sicuramente più bello e più solido. Nonni, figli e nipoti in arrivo brindarono al nuovo anno con i cuori ricolmi di speranza. Speravano che la vita potesse finalmente ricominciare. E la vita ricominciò la notte del quindici gennaio dell’anno nuovo, quando Bianca, dopo oltre dieci ore di travaglio, alle cinque e zero due del mattino, diede alla luce la piccola Elisa Marie. Bianca non aveva urlato, concentrando tutto il dolore del parto sul grandissimo amore che l’aveva guidata fino a quel giorno. Accanto a lei, come due angeli custodi, Angelo e Alessandro. Entrambi avevano accolto con occhi d’amore quella meravigliosa creaturina il cui vagito aveva lo stesso squillante tono di un angelo a loro noto. Appena la posarono sul seno di Bianca, Alessandro corse fuori ad annunciare la nascita a tutti i parenti e trascinò in sala parto anche Fabio. Lui era rimasto a guardare imbarazzato sulla soglia e aveva sorriso ad Angelo che non la smetteva di piangere dall’emozione. Bianca allora lo invitò vicino a sé e gli ò la piccola Elisa Marie in braccio. Era stato il primo a stringerla dopo di lei, mentre Angelo e Alessandro li osservavano raggianti. Si sentì finalmente parte di quel cerchio stretto che li racchiudeva, di quel legame forte e indissolubile che travalica ogni forma di legge, di quel sentimento che Angelo aveva chiamato famiglia. Indipendentemente da tutto, una famiglia nel suo spirito più puro: l’amore. Bianca li osservava con orgoglio, comprendendo finalmente l’imperscrutabile e straordinario disegno di Dio. Elisa Marie aveva aperto gli occhi sul mondo.
Trattennero tutti e quattro il respiro, pervasi da stupore e infinita gioia, nel rivedere e riconoscere dopo tanto tempo quella rarissima, se non unica, tonalità di blu. Elisa Marie era il senso di ogni cosa. Era il piano segreto di Dio per le loro vite. E nessun calcolo avrebbe potuto prevedere un risultato tanto perfetto quanto quello che avevano ottenuto. Tutto aveva un ordine e una sua giusta armonia, senza che fosse stato voluto o programmato. Elisa Marie Di Strada era il futuro che nessuno di loro aveva previsto. Elisa Di Strada aveva sempre saputo che la felicità è ciò a cui siamo destinati. Alla fine.
Ringraziamenti
Questo non è il primo romanzo che ho scritto, ma è il primo che ho pubblicato nella mia carriera di scrittrice e che dunque ho aperto oltre la cerchia delle persone amiche. Il primo dei miei ringraziamenti va, senza alcun dubbio, a mio marito Giuseppe e ai miei tre figli, sco, Alessandra ed Elena Margherita, che tollerano con pazienza i miei tempi creativi e le mie assenze. Grazie a Sonia Iachini, perché mi ha detto «scrivi!» nel momento giusto della mia vita, cambiandone il corso. Mi ha seguito sempre, riga dopo riga, idea dopo idea, ascoltando senza mai stancarsi tutte le mie farneticazioni e raccogliendo con dolcezza ogni mio momento di sconforto, incitandomi sempre a non mollare. La mia infinita riconoscenza va a Matteo Villa, amico fraterno, mio creatore grafico, correttore di bozze e, in questo romanzo in particolare, mia fonte d’ispirazione, suggeritore, guida sensibile e attenta in un mondo che ho scoperto con delicato stupore e grandissima ammirazione. Grazie di essere parte della mia vita! A Stefano Santini (e a Peppino, suo padre) va la mia più affettuosa gratitudine, per l’aiuto tecnico nelle fasi d’impaginazione ed elaborazione della struttura grafica del testo, per tutte le dritte e le attenzioni che ha da sempre nel seguire ogni mia mossa. Non posso non ringraziare i miei primi lettori, gli amici di tutta la mia vita, quelli che riempiono il mio quotidiano e che sono i miei primi lettori e critici: Patrizia, Ilaria, Daniela, Paola, Sabrina e tanti altri che non nomino ma che sono nel mio cuore. In occasione di questa seconda edizione devo infinita gratitudine a Luciana Miocchi e Alessandro Pino, mio prezioso ufficio stampa, che si stanno spendendo con grande entusiasmo per far conoscere il mio lavoro al pubblico.
Un pensiero va a mio padre, che non c’è più, e che mi regalò il mio primo libro, “Le avventure di Tom Sawyer”, quando avevo sette anni e la cui dedica riporta: “A Flavia, perché impari bene a leggere e a godere della fantasia. Leggere è una delle strade più belle da percorrere per diventare grandi. Papi.” Da allora ho imparato a considerare i libri una ricchezza irrinunciabile per la mia anima. Non posso non dedicare questo primo lavoro edito a mio suocero, professor sco Marenga, filosofo, studioso, scrittore e grande uomo di cultura, scomparso nel 2009, che si è sempre battuto strenuamente affinché io realizzassi la mia vita nella scrittura. Infine a mia mamma, che ha creduto fin dal primo momento in “Angelo Di Strada” e, sebbene l’argomento non sia congeniale alle sue idee un po’ antiche, l’ha amato e apprezzato superando ogni suo pregiudizio. Questa è stata una delle più grandi soddisfazioni ricevute per questo libro: la bella sensazione che una storia inventata possa anche cambiare la testa delle persone, che muri di pregiudizi apparentemente impossibili da abbattere possano sgretolarsi semplicemente con un libro che parla d’amore autentico e d’umanità.
Sommario
Capitolo 1 (Senza titolo) Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Marzo, allontanarsi Aprile e Maggio, camminare e dormire Estate, la fame Ottobre e Novembre, di nuovo il freddo Dicembre, il vuoto
Gennaio e Febbraio, al punto di partenza Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Ringraziamenti
«La verità li aveva travolti e non potevano far altro che affrontarla, come una tempesta che li aveva colti di sorpresa senza ripari e che chiedeva di essere attraversata con coraggio.»
Elisa e Angelo sono due fratelli gemelli legati indissolubilmente nel loro sentirsi vicini e tuttavia diversi nell’affermare le proprie individualità. Condividono un destino che in ambedue si realizza con le stigmate della diversità. In Elisa intesa come rifiuto del convenzionale e delle scelte sociali imposte, considerate come ipocrite opportunità di realizzazione del sé, di contro a una ione artistica che sia manifestazione della propria interiorità e della propria affermazione nel mondo. In Angelo, invece, come scoperta della sua omosessualità, combattuta e rifiutata nel tentativo disperato di conformarsi alle regole e alle attese del mondo di cui fa parte e in un secondo momento affrontata drammaticamente a causa dei pregiudizi e dei paradigmi fobici della cultura dominante.
La famiglia, gli amici, la morte e la casualità del vivere fanno da sfondo, e nello stesso tempo restano in primo piano, a questa realtà che rappresenta una ferita aperta nelle generazioni che affrontano il XXI secolo e che cercheranno di non tradirlo come i loro padri.
Flavia Basile Giacomini è nata e vive a Roma. Moglie e madre di tre figli innanzitutto. Ha studiato Sociologia con indirizzo “Comunicazioni e mass media” ed è sempre stata una grande apionata di letteratura e linguistica. Ha partecipato al laboratorio di scrittura narrativa “Il libro che non c’è” della Eri-Rai. Ha scritto tre romanzi e partecipato ad alcuni concorsi.