La Collana Le Voci dei Classici è una collaborazione il Narratore audiolibri e Smuuks.
Henry James, Daisy Miller
Versione integrale.
Traduzione a cura di Maurizio Falghera.
Grafica, copertina e foto ritocco di Clara Esposito.
Prima edizione di questo eBook: Febbraio 2016.
eBook (EPUB 3, 2016) ISBN: 978-88-6816-261-0 eBook (MOBI/KF8, 2016) ISBN: 978-88-6816-262-7
Copyright © il Narratore S.r.l., Zovencedo (VI), Italia, 2016
La versione Audio-eBook contiene 6 tracce in formato MP3, 128 Kbps, 44 KHz, Mono, una playlist in formato M3U e il testo integrale in formato EPUB 3. La
durata totale è di 2h 20'. Lettura di Virginia Alba. Audio-eBook (EPUB 3, 2016) ISBN: 978-88-6816-260-3
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Presentazione
il Narratore audiolibri — casa editrice indipendente che dal 1999 opera per la promozione della lettura e dell’ascolto della lingua e letteratura italiana, all’avanguardia nella proposta di audiolibri digitali di qualità — propone la nuova Collana Le Voci dei Classici in formato Audio-eBook (EPUB 3).
Questo eBook è parte integrante del progetto editoriale qui presentato, ma è concepito per la sola lettura.
Con il prodotto digitale Audio-eBook intendiamo avvalorare la tesi del miglioramento dell’apprendimento linguistico, emotivo ed empatico attraverso la lettura+ascolto di libri e audiolibri. Il metodo della lettura+ascolto è facilmente impiegabile su larga scala nelle scuole di ogni ordine e grado per ottenere un significativo incremento della Literacy di un’intera popolazione, in tempi brevi e a costi contenuti.
Questo accade perché con la doppia esposizione (lettura e ascolto in sincronia) si attivano contemporaneamente più processi cerebrali in varie aree del cervello deputate a funzioni diverse di codifica e ricodifica visiva e fonologica, compresi il sistema limbico (centro delle emozioni) e i neuroni specchio.
La doppia esposizione permette l’emergenza di stati di coscienza e di comprensione dei testi letterari molto più raffinati e profondi rispetto alla sola lettura o al solo ascolto.
Questa tesi è ata dalle ricerche sul cervello effettuate negli ultimi anni, e
dalle sperimentazioni condotte in classi scolastiche con metodi basati su gruppi sperimentali e gruppi di controllo.
Da queste ricerche scientifiche prendono le mosse anche i nuovi dispositivi di lettura di testi elettronici tecnologicamente avanzati che utilizzano eBooks e audiolibri contemporaneamente (eReader, tablet, smartphone). Questi device ano anche il formato aperto EPUB 3 con nuove funzioni molto importanti per la didattica, soprattutto l’evidenziazione del testo scritto che viene contemporaneamente ascoltato in quel momento.
In un contesto che vede cambiare rapidamente i modi di funzionamento del cervello a causa della profonda immersione nel mondo digitale e telematico (si parla sempre di più, infatti, di generazioni digital native) la lettura diventa un’esperienza multipla e complessa e la lettura+ascolto può essere uno strumento importante per sviluppare l’Information Literacy.
Questa tesi è spiegata, valutata e approfondita dal nostro editore Maurizio Falghera nel suo libro: LETTURA+ASCOLTO. Come migliorare l’apprendimento linguistico, emotivo ed empatico con gli audiolibri, Edizioni Enea, Milano, 2013. Il libro è disponibile anche nelle versioni Audio-eBook (EPUB3), eBook (EPUB3), eBook (MOBI/KF8) e in audiolibro (con PDF allegato): http://www.ilnarratore.com/.
Zovencedo, Italia, Dicembre 2012
Indice
Copertina
Colophon
Presentazione
Frontespizio
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
il Narratore audiolibri
presenta
Daisy Miller
di
Henry James
Traduzione a cura di
Maurizio Falghera
Versione integrale
il Narratore audiolibri Zovencedo, Italia, 2016
Capitolo I
Nella cittadina svizzera di Vevey c’è un albergo particolarmente accogliente. In realtà è solo uno dei tanti alberghi, visto che ospitare i turisti è la risorsa di questo luogo, situato, come ricorderanno molti viaggiatori, sulla sponda di un lago di un azzurro incantevole, un lago che invita ogni turista a visitarlo.
La riva del lago presenta una serie ininterrotta di costruzioni di ogni categoria, dal ‘grand hotel’ all’ultima moda, con la facciata bianco gesso, centinaia di terrazze e una dozzina di bandiere sventolanti sul tetto, fino alla pensioncina svizzera dei tempi andati con il nome tracciato a lettere gotiche sulla facciata rosa oppure gialla e il bizzarro padiglione estivo in un angolo del giardino. Uno degli alberghi di Vevey, tuttavia, è famoso, classico perfino, in quanto si distingue, per una certa aria di lusso e insieme di compostezza, da molti vicini di più recente e meno nobile origine.
In questa regione, durante il mese di giugno, i turisti americani sono numerosissimi; si può addirittura dire che in tale periodo Vevey assuma quasi le caratteristiche di una località termale americana. Ci sono immagini e suoni che evocano la visione e l’eco di Newport o di Saratoga: uno sfarfallar di giovanette all’ultima moda, il fruscio di balze di mussola, il frastuono di musica da ballo nelle ore del mattino e, ininterrotto, il trillo di voci acute.
Tutte queste cose si colgono nell’eccellente locanda delle Trois Couronnes e nella fantasia si viene trasportati all’Ocean House o alla Congress Hall. Vi è però da aggiungere che alle Trois Couronnes ci sono alcuni tratti che alterano questo quadro e la distinguono nettamente da questi suggestivi richiami: inappuntabili camerieri tedeschi, dall’aria di segretari di legazione; principesse russe sedute in giardino; ragazzini polacchi che eggiano tenuti per mano dal precettore; la vista della cima innevata del Dent du Midi e le pittoresche torri del castello di
Chillon.
Chissà se erano le analogie o le differenze a prevalere nella mente di un giovane americano che, due o tre anni fa, seduto nel giardino delle Trois Couronnes, osservava intorno a sé, piuttosto pigramente, alcune di queste graziose visioni ricordate più sopra.
Era una splendida mattina d’estate, e da ogni punto di vista il mondo doveva sembrare incantevole al giovanotto. Era giunto da Ginevra, il giorno prima, con il vaporetto, per far visita a sua zia, la quale, dopo un lungo soggiorno in quella città, abitava ora nell’albergo. Ma la zia aveva l’emicrania – ce l’aveva quasi sempre – e ora, tappata nella sua stanza, aspirava canfora, cosicché egli era libero di gironzolare. Poteva avere un ventisette anni; quando gli amici parlavano di lui, dicevano che era a Ginevra per ‘studiare’, ma se a parlarne erano i nemici… beh, dopo tutto, non aveva nemici: era un giovanotto amabile e simpatico a tutti. In realtà si può dire soltanto questo: quando certe persone parlavano di lui, sostenevano che, se si tratteneva così a lungo a Ginevra, era per devozione a una signora lì residente – una straniera più avanti negli anni di lui. Pochissimi americani – anzi nessuno, secondo me – aveva mai visto questa signora sulla quale giravano varie storie curiose. Ma Winterbourne aveva un affetto di vecchia data per la piccola metropoli del calvinismo; da ragazzo vi era andato a scuola e, più tardi, vi aveva frequentato l’università: circostanze queste che lo avevano portato a fare numerosissime amicizie giovanili. Molte di queste le aveva conservate e ne era molto soddisfatto.
Dopo aver bussato alla porta della zia e aver appreso che era indisposta, aveva fatto una eggiata in città rientrando quindi per la colazione e, una volta finita, era intento a bersi una tazza di caffè servitagli su un tavolino in giardino da uno di quei camerieri con l’aria da diplomatico. Da ultimo, dopo il caffè, si era una sigaretta. Di lì a poco, lungo il sentiero, arrivò un ragazzino, un moccioso di nove o dieci anni. Il piccolo, minuto per la sua età, aveva sul volto un’espressione matura, un colorito pallido e lineamenti appuntiti. Portava pantaloni alla zuava e calzettoni rossi che mettevano in evidenza le magre
gambette; indossava anche una cravatta di un rosso sgargiante. In mano teneva un lungo bastone alpino e ficcava la punta aguzza dove gli capitava: nelle aiuole, nelle panchine, nello strascico degli abiti delle signore. Si fermò davanti a Winterbourne, guardandolo con due occhietti luminosi e penetranti.
«Mi date una zolletta di zucchero?», chiese con una vocina aspra e acuta, una voce immatura eppure, in un certo modo, non giovanile.
Lanciando un’occhiata al tavolino lì accanto, sul quale era poggiato il servizio da caffè, Winterbourne notò che rimanevano parecchi pezzetti di zucchero. «Sì, puoi prenderne una, ma non credo che lo zucchero faccia bene ai ragazzini».
Il ragazzino avanzò e scelse con cura tre delle agognate zollette, due delle quali le seppellì nella tasca dei pantaloni, mettendo prontamente in bocca l’altra. Infilò, a mo’ di lancia, il bastone nella panchina di Winterbourne cercando nel frattempo di spezzare con i denti il pezzo di zucchero.
«Accidenti, è du-r-ro!», esclamò pronunciando l’aggettivo in un modo tutto suo.
Winterbourne si era subito accorto che poteva avere il piacere di considerarlo un compatriota. «Attento a non rovinarti i denti», gli disse in tono paterno.
«Non posso rovinarmi i denti. Sono caduti tutti. Ho soltanto sette denti. Mia mamma li ha contati ieri sera e subito dopo è caduto uno. Dice che mi picchierà se me ne cadono degli altri. Non posso farci niente. È questa vecchia Europa. Colpa del clima se cadono. In America non mi cadevano. Sono questi alberghi».
Winterbourne era divertitissimo. «Se mangi tre zollette di zucchero, stai pure sicuro che la mamma ti darà un ceffone», disse.
«Allora dovrà darmi le caramelle», replicò il giovane interlocutore. «Non riesco a procurarmi caramelle qui… caramelle americane. Le caramelle americane sono le migliori».
«E i ragazzini americani sono anche loro i migliori?», chiese Winterbourne.
«Non lo so. Io sono americano».
«E uno dei migliori, vedo!», disse ridendo Winterbourne.
«Tu sei americano?», continuò il vivace ragazzino. E, alla risposta affermativa aggiunse: «Gli americani sono i migliori».
Winterbourne lo ringraziò del complimento, e il bimbo, che si era messo a cavalcioni del bastone, rimase a guardarsi intorno, mentre attaccava la seconda zolletta. Winterbourne si chiese se fosse stato anche lui così nell’infanzia; era stato infatti portato in Europa più o meno alla stessa età.
«Ecco che arriva mia sorella!», esclamò il ragazzino dopo un attimo. «È americana».
Guardando giù per il sentiero, Winterbourne vide avanzare una bellissima
giovanetta. «Le ragazze americane sono le migliori», disse in tono allegro al suo compagno.
«Mia sorella non è la migliore! Non fa altro che sbraitare contro di me».
«Sarà colpa tua, non sua, immagino», osservò Winterbourne. La giovane, frattanto, si era avvicinata.
Indossava un abito di mussola bianca con innumerevoli balze e gale e fiocchi di un color tenue. Non portava il cappello, ma in mano faceva ondeggiare un ampio ombrellino, con un grande orlo di pizzo. Da restare a bocca aperta tanto era bella. ‘Come sono incantevoli!’, pensò Winterbourne raddrizzandosi, quasi si preparasse ad alzarsi in piedi.
La giovane si fermò davanti alla panchina dove era seduto Winterbourne, vicino al parapetto del giardino, che si affacciava sul lago. Il ragazzino frattanto, con l’aiuto del bastone alpino, convertito in un’asta per salto, saltellava nella ghiaia scalciandone non poca in aria.
«Randolph, che cosa combini?», chiese la giovane.
«Salgo sulle Alpi. Ecco!». E spiccò un altro salto schizzando sassolini intorno alle orecchie di Winterbourne.
«Così vengono giù», osservò Winterbourne.
«È un americano!», esclamò Randolph con la sua vocina aspra.
La giovanetta non prestò attenzione a tale annuncio, ma squadrò il fratello. «Faresti meglio a startene buono», si limitò a commentare.
Parve a Winterbourne di essere stato in qualche modo presentato. Si levò e lentamente si mosse verso la giovane, buttando via la sigaretta.
«Abbiamo fatto amicizia, io e questo ragazzino», disse molto compitamente.
A Ginevra, come sapeva benissimo, un giovanotto non poteva rivolgersi liberamente a una signorina giovane tranne in certe rare occasioni, ma qui a Vevey quali condizioni sarebbero state più propizie di quelle: una graziosa ragazza americana che arriva e si ferma davanti a voi in un giardino! La quale graziosa ragazza americana, tuttavia, sentendo l’osservazione di Winterbourne, si limitò a lanciargli un’occhiata; volse quindi la testa per guardare, oltre il parapetto, il lago e le montagne di fronte. Winterbourne si chiese se non avesse osato troppo, ma decise di avanzare ancora piuttosto che ritirarsi. Mentre cercava qualcos’altro da dire, la signorina si volse di nuovo verso il ragazzino.
«Vorrei proprio sapere dove hai preso quel bastone», chiese.
«Me lo sono comperato!», replicò Randolph.
«Non verrai a dirmi che te lo vuoi portare in Italia!».
«Sicuro che me lo porterò in Italia!».
La giovanetta, guardandosi la pettorina del vestito, si lisciò uno o due fiocchi. Quindi posò di nuovo gli occhi sul panorama. «Secondo me, dovresti piantarlo da qualche parte», disse dopo un attimo.
«Andate in Italia?», si informò Winterbourne in tono assai deferente.
La giovane gli lanciò un’altra occhiata. «Sì, signore», rispose senza aggiungere altro.
«Farete… sì… farete il Sempione?», proseguì Winterbourne un po’ imbarazzato.
«Non lo so. Sarà qualche montagna. Randolph, che montagna attraverseremo?».
«Per andare dove?», chiese il ragazzino.
«In Italia», spiegò Winterbourne.
«Non lo so», disse Randolph. «Non voglio andare in Italia; voglio tornare in America».
«L’Italia è bellissima !», replicò il giovane.
«Si possono comperare le caramelle lì?», chiese Randolph a voce alta.
«Spero di no», disse sua sorella. «Ne hai avute anche troppe di caramelle; ne è convinta anche la mamma».
«Non ne ho da un mucchio di tempo… da cento settimane!», strillò il ragazzino sempre saltando intorno.
La giovane controllò le balze del vestito e di nuovo lisciò i nastri; poco dopo Winterbourne azzardò un’osservazione sulla bellezza del paesaggio. Il suo imbarazzo diminuiva, perché aveva cominciato ad accorgersi che lei non era affatto a disagio. Non c’era stato il minimo mutamento nel suo incantevole incarnato; era evidente che non era né offesa né turbata. Guardare altrove quando le rivolgeva la parola e non dimostrare di prestargli particolare attenzione erano soltanto una sua abitudine, un suo modo di fare. Eppure, mentre egli continuava a parlare e a indicare alcuni scorci interessanti del paesaggio, che sembrava le fossero nuovi, a poco a poco gli concesse qualche occhiata in più, ed egli notò che si trattava di uno sguardo diretto, non ritroso. Non era tuttavia uno sguardo impudente, come si suol dire, perché i suoi occhi erano singolarmente franchi e limpidi. Erano occhi bellissimi; anzi Winterbourne da tempo non aveva visto nulla di più grazioso dei lineamenti di quella sua bionda compatriota: la carnagione, il naso, le orecchie, i denti.
Egli traeva grande piacere dalla bellezza femminile; si deliziava ad osservarla e analizzarla, e sul volto di quella signorina aveva già fatto numerose osservazioni. Non era affatto insipido, senza essere troppo espressivo, e, pur essendo molto delicato, Winterbourne mentalmente gli rimproverò – con grande indulgenza – una certa mancanza di finezza. Riteneva ben possibile che la sorella del signorino Randolph fosse una ragazza frivola, una civetta; aveva di sicuro una sua vivacità, ma in quel visino luminoso, dolce, superficiale, non c’era traccia di
finzione o ironia. Prima che asse molto tempo, fu ben chiaro che era portata alla conversazione. Gli raccontò che sarebbero andati a Roma per trascorrervi l’inverno: lei, sua madre e Randolph. Gli chiese se fosse un vero ‘americano’; non lo avrebbe mai detto, pareva più un tedesco – questo venne detto con qualche esitazione – soprattutto quando parlava. Winterbourne rispose ridendo di avere incontrato molti tedeschi che parlavano come americani, ma di non avere mai incontrato, per quanto ricordasse, nessun americano che parlava come un tedesco. Le chiese quindi se non sarebbe stata più comoda seduta sulla panchina che lui aveva appena lasciato. Rispose che le piaceva stare in piedi e eggiare, ma subito dopo si sedette. Gli raccontò di venire dallo stato di New York, «… se sapete dov’è». Altre cose Winterbourne le apprese dallo sgusciante fratellino, che afferrò, trattenendolo vicino per qualche minuto.
«Dimmi come ti chiami, ragazzino», chiese.
«Randolph C. Miller», rispose l’altro con precisione. «E ti dirò come si chiama lei», e alzò il bastone verso la sorella.
«Aspetta finché non te lo chiedono!», disse la giovanetta con calma.
«Sarei molto lieto di sapere il suo nome», disse Winterbourne.
«Si chiama Daisy Miller!», strillò il ragazzino. «Ma non è il suo vero nome; non è il nome sul biglietto da visita».
«È un peccato che tu non abbia un biglietto!», disse Miss Miller.
«Il suo vero nome è Anne P. Miller», proseguì il ragazzo.
«Chiedigli come si chiama», disse la sorella indicando Winterbourne. Ma a questo punto Randolph, del tutto indifferente, continuò a dare informazioni sulla propria famiglia.
«Mio papà si chiama Ezra B. Miller», annunciò. «Mio papà non è in Europa; mio papà è in un posto più bello dell’Europa».
Per un attimo Winterbourne credette che quell’espressione fosse stata insegnata al bambino per alludere che Mr. Miller si era involato verso le regioni celesti. Ma Randolph aggiunse immediatamente: «Mio papà è a Schenectady. Ha una grossa ditta. Mio papà è ricco, eccome!».
«Bene!», esclamò Miss Miller abbassando l’ombrellino e guardando il bordo di pizzo. Winterbourne lasciò subito andare il piccolo che si allontanò trascinando il bastone lungo il sentiero. «Non gli piace l’Europa; vuole tornare», disse la ragazza.
«A Schenectady?».
«Sì, vuole andare direttamente a casa. Non ci sono ragazzi qui; ce n’è un altro, ma va sempre in giro con il precettore; non lo lasciano giocare».
«Vostro fratello non ha il precettore?», chiese Winterbourne.
«La mamma pensava di prenderne uno che viaggiasse insieme a noi. Una signora le ha parlato di un insegnante molto bravo; una signora americana – forse la conoscete – Mrs. Sanders. Mi pare che sia di Boston. È stata lei ad accennare a questo insegnante e pensavamo di chiedergli di viaggiare con noi. Ma Randolph ha detto di non volerne sapere di precettori che viaggiano con noi; ha detto di non volere avere lezioni quando è in treno. È noi siamo in treno per metà del tempo. C’era una signorina inglese che abbiamo incontrato in treno – mi pare si chiamasse Miss Featherstone, forse la conoscete. Voleva sapere perché non dessi lezioni a Randolph, non gli impartissi ‘istruzioni’, come le chiamava. Secondo me, potrebbe istruire lui me più di quanto non potrei fare io con lui. È molto sveglio.»
«Sì, pare molto sveglio».
«La mamma gli troverà un precettore non appena arriveremo in Italia. Si possono trovare buoni insegnanti in Italia?».
«Ottimi, credo».
«Oppure cercherà una scuola. Randolph dovrebbe proprio imparare di più. Ha soltanto nove anni. Andrà all’università». E così Miss Miller continuò a parlare degli affari di famiglia e di altri argomenti. Se ne stava seduta con le graziosissime mani, ornate di begli anelli scintillanti, piegate in grembo, e con i begli occhi che ora fissavano quelli di Winterbourne, ora si posavano sul giardino, sulle persone che avano accanto, sullo splendido paesaggio. Chiacchierava con Winterbourne quasi lo conoscesse da tanto tempo, ed egli trovava ciò molto gradevole. Erano anni che non sentiva una ragazza chiacchierare tanto. Di quella giovane sconosciuta, venuta a sedersi accanto a lui sulla panchina, si sarebbe ben potuto dire che ‘cicalava’. Se ne stava tranquilla, seduta con incantevole compostezza, ma le sue labbra e i suoi occhi erano in costante movimento. Aveva una voce morbida, esile, gradevole, e il tono era decisamente cordiale. Fece a Winterbourne la storia di tutti i suoi movimenti e
progetti in Europa, di quelli della madre e del fratello, e in particolare enumerò tutti gli alberghi dove avevano alloggiato.
«La signora inglese in treno, Miss Featherstone, mi chiese se in America non vivessimo tutti in albergo. Le risposi di non essere mai stata in tanti alberghi come da quando ero arrivata in Europa. Non ne ho mai visti tanti… ci sono soltanto alberghi». Ma Miss Miller non fece questa osservazione con accento querulo; sembrava contentissima, di tutto. Dichiarò che gli alberghi erano ottimi, una volta che ci si abituava a quel sistema, e che l’Europa era deliziosa. Non ne era delusa, neanche un po’. Forse perché ne aveva sentito parlare tanto prima. Aveva una quantità di amiche e di amici carissimi che vi erano venuti numerose volte.
E poi da sempre usava abiti e accessori di Parigi e tutte le volte che indossava un vestito di Parigi le sembrava di essere in Europa.
«Una specie di berretto magico esaudisci-desideri», commentò Winterbourne.
«Sì», acconsentì Miss Miller senza soffermarsi sull’analogia. «Pensavo sempre: ‘Se almeno fossi lì’. Ma non per i vestiti. Sono sicura che mandano in America le cose più carine: qui se ne vedono di orribili. L’unica cosa che non mi piace è la vita di società. Non ce n’è affatto, oppure se ce n’è, chissà dove si nasconde. Voi lo sapete? Ci sarà pure una vita di società da qualche parte, ma non l’ho mai vista. Adoro la vita di società, e la mia era intensissima. Non dico a Schenectady, ma a New York. Trascorrevo gli inverni a New York, e lì ce n’è tantissima. Lo scorso inverno mi sono state offerte diciassette cene, tre di queste da parte di gentiluomini», aggiunse Daisy Miller. «Ho più amici a New York che a Schenectady… più amici uomini, e anche più amiche», riprese dopo un attimo. Fece un’altra breve pausa; guardava Winterbourne con occhi vivaci e un sorriso lieve, appena un tantino monotono, che esprimevano tutta la sua grazia. «Ho sempre avuto molta compagnia maschile.»
Il povero Winterbourne era divertito, perplesso e decisamente incantato. Non aveva mai, fino a quel momento, sentito una signorina giovane esprimersi in quel modo; mai tranne in casi in cui dire certe cose dimostrava una certa leggerezza di comportamento. Avrebbe allora dovuto incolpare Miss Daisy Miller di una inconduite, come dicono a Ginevra, attuale o potenziale? Sentiva di essere vissuto troppo a lungo a Ginevra e di aver perduto molto; non era più avvezzo al tono americano. C’era da dire, tuttavia, che da quando aveva raggiunto l’età per apprezzare le cose, non aveva mai incontrato una giovane americana con caratteristiche tanto spiccate. Era deliziosa, senza dubbio, e che spigliata! Era soltanto una graziosa ragazza dello stato di New York…? Erano tutte così le ragazze che avevano una numerosa compagnia maschile? Oppure era anche una giovane calcolatrice, audace, priva di scrupoli? Winterbourne aveva smarrito l’istinto in queste cose, e la ragione non lo aiutava. Miss Daisy Miller sembrava innocentissima. C’era stato chi gli aveva detto che, dopo tutto, le giovani americane erano innocenti fino all’esagerazione, e c’era stato chi gli aveva detto che, dopo tutto, non lo erano affatto. Era propenso a considerare Miss Daisy Miller una ragazza leggera, una graziosa civetta americana. Non aveva mai avuto, fino a quel momento, nessuna relazione con signorine di quella categoria. Aveva conosciuto qui, in Europa, due o tre donne – più avanti negli anni di Miss Daisy Miller e accompagnate, per motivi di rispettabilità, dal marito – autentiche donne ‘facili’ – pericolose e terribili con le quali una relazione rischiava di prendere una piega seria.
Ma quella giovinetta non era una civetta in questo senso, non era affatto sofisticata; era soltanto una pura e semplice bella ragazza americana. Winterbourne era quasi compiaciuto di aver trovato la formula giusta per Daisy Miller.
Si lasciò ricadere sullo schienale della panchina; fra sé osservò che aveva il nasino più grazioso che avesse mai visto; si chiese quali fossero le condizioni e i limiti di un rapporto con una bella ragazza americana. Gli sembrava di cominciare a capire.
«Siete mai stato in quel vecchio castello?», chiese la giovane puntando l’ombrellino verso le mura dello Chateau de Chillon che luccicavano in lontananza.
«Sì, tempo fa, più di una volta. Anche voi l’avrete visitato, immagino…».
«No, non ci siamo stati. Muoio dalla voglia di andarci. Lo farò senz’altro. Non me ne andrei mai da qui senza aver visto quel vecchio castello».
«È una splendida eggiata e facile da fare. Potete andare in carrozza, sapete, oppure prendere il vaporetto».
«Si può andare in tram?», chiese Miss Miller.
«Sì, si può andare in tram», assentì Winterbourne.
«Il nostro accompagnatore turistico dice che si arriva dritti fino al castello», continuò la giovane. «Dovevamo andarci la scorsa settimana, ma la mamma vi ha rinunciato. Soffre terribilmente di dispepsia. Ha detto che non ce la faceva ad andarci. Neanche Randolph ci sente da quell’orecchio; dice che dei vecchi castelli non gliene importa un fico secco. Ma andremo questa settimana, penso, se riusciremo a convincerlo ».
«A vostro fratello non interessano i vecchi monumenti?», chiese Winterbourne sorridendo.
«Dice che non gliene importa nulla dei vecchi castelli. Ha soltanto nove anni. Vuole stare in albergo. La mamma ha paura di lasciarlo solo e l’accompagnatore non vuole restare con lui. Per questo non siamo andate in tanti posti. Ma sarebbe un vero peccato non andare lassù». E Miss Miller indicò di nuovo lo Chateau de Chillon.
«Si potrebbe combinare, credo. Non potreste trovare qualcuno che stia, per un pomeriggio, con Randolph?».
Miss Miller lo guardò per un attimo, quindi disse tranquillamente: «Se almeno ci rimaneste voi!».
Winterbourne esitò per un istante. «Preferirei di gran lunga andare a Chillon con voi».
«Con me?», chiese la giovane con la stessa calma.
Non si levò in piedi arrossendo come avrebbe fatto una ragazza di Ginevra, eppure Winterbourne, consapevole di essere stato molto audace, ritenne possibile che si fosse offesa. «E con vostra madre», aggiunse in tono molto rispettoso.
Ma parve che né la sua audacia né il suo rispetto avessero molta presa su Miss Daisy Miller. «Non credo che la mamma verrà, tutto sommato. Non le piace andare in giro di pomeriggio. Ma parlavate sul serio, un attimo fa, dicendo che vi piacerebbe andare lassù?».
«Certamente», dichiarò Winterbourne.
«Allora possiamo organizzare. Se la mamma rimarrà con Randolph, ci resterà anche Eugenio, penso».
«Eugenio?», chiese il giovane.
«Eugenio è il nostro accompagnatore. Non gli piace stare con Randolph; è l’uomo più suscettibile che abbia mai visto. Ma è una guida meravigliosa. Starà a casa con Randolph, credo, se ci starà anche la mamma, e noi potremo andare al castello».
Winterbourne rimase a riflettere per un istante con tutta la lucidità che gli era possibile: ‘noi’ poteva riferirsi soltanto a Miss Daisy Miller e a lui stesso. Sembrava troppo bello per essere vero; ed egli fu tentato di baciarle la mano, cosa che avrebbe forse fatto, mandando così a monte il progetto, se in quel momento non fosse comparsa un’altra persona, presumibilmente Eugenio. Un uomo bello, alto, con basette superbe, una giacca da mattina in velluto e una splendente catena da orologio, che si avvicinò a Miss Miller fissando con sguardo penetrante il suo compagno. «Oh, Eugenio!», esclamò Miss Miller con accento cordialissimo.
Eugenio, che aveva squadrato Winterbourne da capo a piedi, fece un grave inchino alla giovane. «Ho l’onore di annunciare a mademoiselle che il pranzo è in tavola».
Miss Miller, levandosi lentamente, disse: «Sapete, Eugenio, andrò al castello».
«Allo Chateau de Chillon, mademoiselle?», chiese la guida. «Mademoiselle ha organizzato tutto?», aggiunse in un tono che a Winterbourne parve sfrontato.
Un tono che gettò, anche a giudizio di Miss Miller, una luce lievemente ironica sulla sua situazione. Si volse a Winterbourne mentre un lieve, lievissimo rossore le saliva alle guance. «Non vi tirerete indietro?», chiese.
« Non sarò felice finché non ci andremo!», protestò lui.
«Alloggiate in questo albergo?», proseguì lei. «E siete davvero americano?».
Eugenio continuava a guardare con insolenza Winterbourne, un modo di guardare che questi ritenne offensivo per Miss Miller, in quanto implicava l’accusa di ‘andare a caccia’ di amicizie. «Avrò l’onore di presentarvi una persona che vi dirà tutto su di me», rispose il giovane sorridendo, alludendo a sua zia.
«Bene, ci andremo prima o poi», disse Miss Miller. E, rivolgendogli un sorriso, si volse, aprì l’ombrellino e si avviò verso l’albergo con accanto Eugenio.
Winterbourne rimase a guardarla e, mentre lei si allontanava sfiorando la ghiaia con le balze di mussola, si disse che aveva la tournure di una principessa.
Capitolo II
Promettendo a Miss Miller di presentarla a sua zia, Mrs. Costello, Winterbourne si era impegnato a fare più di quanto poteva. Non appena la gentildonna si fu rimessa dall’emicrania, egli andò a renderle omaggio nei suoi appartamenti e, dopo le domande di rito sulla salute, le chiese se avesse notato nell’albergo una famiglia americana: madre, figlia e un ragazzino.
«E un accompagnatore?», aggiunse Mrs. Costello. «Oh, sì, li ho notati. Visti, sentiti, evitati». Mrs. Costello, vedova, titolare di un cospicuo patrimonio, persona di grande distinzione, spesso faceva intendere che probabilmente avrebbe potuto lasciare un’impronta più profonda sui suoi tempi se non avesse tanto sofferto di emicrania. Aveva un volto lungo e pallido, un naso nobile, una folta chioma di capelli bianchi assai suggestiva, che acconciava in cima alla testa in grandi ciuffi e rouleaux. Due figli erano sposati a New York, un altro era allora in Europa. Quest’ultimo, occupato in quel momento a divertirsi ad Amburgo, viaggiava moltissimo, ma raramente – a quanto pareva – visitava una qualsiasi città nel periodo in cui vi si trovava sua madre. Il nipote, perciò, venuto a Vevey appositamente per vederla, le dedicava maggiori premure che non i parenti più stretti, come diceva lei. A Ginevra Winterbourne aveva assorbito l’idea che si debba sempre essere premurosi con le zie. Mrs. Costello, che non lo vedeva da molti anni, ne fu assai compiaciuta e, in segno di approvazione, lo iniziò ai tanti segreti di quella supremazia sociale che lei, come gli fece capire, esercitava nella capitale americana. Ammise di essere molto schizzinosa ma, se egli avesse conosciuto New York, si sarebbe reso conto che era necessario esserlo. E il quadro che gli fece dell’assetto minuziosamente gerarchico di quella società, presentandogliela sotto diverse angolature, parve, all’immaginazione di Winterbourne, di una chiarezza quasi opprimente.
Dal tono capì subito che il posto di Miss Daisy Miller nella scala sociale era basso.
«Non li approvi, temo», le disse.
«Gente ordinaria. Quel tipo di americano che è doveroso non… non accettare».
«Non li accetti?».
«Non posso, mio caro Frederick. Lo farei, ma non posso».
«La ragazza è molto graziosa», disse Winterbourne dopo un attimo.
«Naturalmente è graziosa. Ma è molto ordinaria».
«Sì, capisco quello che intendi, naturalmente», disse Winterbourne dopo un’altra pausa.
«Ha quell’aria incantevole che hanno tutte», riprese sua zia. «Chissà dove vanno a pescarla; si veste alla perfezione… no, non sai con quanto gusto si vesta. Chissà dove imparano ad averne tanto».
«Ma, zia cara, non è dopo tutto una selvaggia comanche».
«È una signorina che tratta con troppa confidenza l’accompagnatore di sua madre».
«Confidenza all’accompagnatore?», chiese il giovane.
«Oh, sua madre è ancora peggio. Trattano quella guida come un amico di famiglia… come un gentiluomo. Non mi sorprenderei se prendesse i pasti con loro. Molto probabilmente non hanno mai visto un uomo dai modi tanto distinti, con abiti tanto eleganti, così simile a un gentiluomo in tutto e per tutto. Probabilmente corrisponde all’idea che la signorina si è fatta di un conte. Alla sera si siede con loro in giardino. Penso che fumi».
Winterbourne ascoltava quelle confidenze con interesse; lo aiutavano a valutare Miss Daisy che, evidentemente, era piuttosto scapigliata. «Ebbene, io non sono una guida turistica, eppure è stata molto carina con me».
«Avresti dovuto dirmelo che la conoscevi», disse Mrs. Costello con sussiego.
«Ci siamo semplicemente incontrati in giardino e abbiamo chiacchierato un po’».
«Tout bonnement! Si può, per favore, sapere quello che vi siete detti?».
«Ho detto che mi sarei preso la libertà di presentarla alla mia meravigliosa zia».
«Ti sono molto obbligata».
«L’ho fatto per garantire la mia rispettabilità».
«Chi garantisce la sua, se mi è lecito?».
«Sei crudele! È una ragazza molto perbene».
«Lo dici con l’aria di non esserne convinto», osservò Mrs. Costello.
«È incolta, ma è graziosissima; in poche parole, è assai simpatica. Per provarti che parlo sul serio, la porterò allo Chateau de Chillon».
«Voi due soli? Direi che questo prova il contrario. Da quanto tempo la conoscevi, se mi è lecito chiedertelo, quando hai predisposto questo interessante progetto? Non sei qui da nemmeno ventiquattro ore».
«La conoscevo da mezz’ora!», disse Winterbourne sorridendo.
«Povera me!», esclamò Mrs. Costello. «Che ragazza tremenda!».
Suo nipote rimase in silenzio per alcuni momenti. «Allora pensi davvero», prese a dire con slancio, ansioso di avere informazioni attendibili, «pensi davvero
che…». Ma fece un’altra pausa.
«Penso che cosa, signore?».
«Che sia il tipo di ragazza che si aspetta di essere rapita, prima o poi, da un uomo?».
«Non ho la minima idea di quello che queste signorine si aspettino da un uomo. Penso invece sul serio che faresti meglio a non immischiarti con ragazzine americane incolte, come le chiami tu. Da troppo tempo vivi lontano dalla patria. Farai di sicuro qualche grosso errore. Sei troppo innocente».
«Cara zia, non sono poi tanto innocente», disse Winterbourne sorridendo e arricciandosi i baffi.
«Troppo colpevole allora?».
Meditabondo, Winterbourne continuò ad arricciarsi i baffi. «Non vuoi allora che quella poverina ti sia presentata?» chiese alla fine.
«È vero, letteralmente vero, che andrà con te allo Chateau de Chillon?».
«Ritengo che ne abbia tutta l’intenzione».
«Allora, mio caro Frederick, devo declinare l’onore della sua conoscenza. Sono una donna vecchia, ma non così vecchia – grazie al cielo! – da essere immune agli scombussolamenti».
«Ma non si comportano tutte così… le ragazze in America?».
Mrs. Costello lo fissò per un attimo. «Vorrei proprio vedere le mie nipoti comportarsi in questo modo!», dichiarò con aria cupa.
Questo parve gettare un po’ di luce sulla faccenda; Winterbourne infatti rammentò di aver sentito dire che le sue graziose cugine di New York erano delle ‘tremende civette’. Se quindi Miss Daisy Miller oltreava gli ampi margini di libertà concessi a queste ultime, probabilmente da lei ci si poteva aspettare di tutto. Winterbourne era impaziente di incontrarla ancora ed era irritato con se stesso per non avere saputo giudicarla d’istinto in modo corretto.
Sebbene fosse impaziente di vederla, non sapeva bene che cosa le avrebbe detto per spiegare il rifiuto di sua zia, ma scoprì abbastanza in fretta che con Miss Daisy Miller non c’era bisogno di usare la mano leggera. La incontrò, quella sera, in giardino, che si aggirava nella tiepida luce delle stelle, come una languida silfide, agitando avanti e indietro il più grande ventaglio che avesse mai visto. Erano le dieci. Aveva cenato con sua zia, le aveva fatto compagnia dopo cena e si era appena congedato da lei fino al mattino seguente. Miss Daisy Miller parve molto contenta di vederlo; dichiarò che quella era la serata più lunga mai trascorsa in vita sua.
«Siete rimasta tutta da sola?».
«Ho eggiato con la mamma. Ma si stanca a eggiare».
«È andata a letto?».
«No, non le va di coricarsi. Non dorme… neppure per tre ore. Chissà come riesce a vivere, dice lei. È nervosissima. Secondo me, dorme più di quanto non creda. È da qualche parte in cerca di Randolph; tenta di mandarlo a letto. Lui non ci sente di andarci».
«Speriamo che riesca a persuaderlo».
«Gli parlerà fino a sfiatarsi, ma lui si spazientisce ad ascoltarla», spiegò Miss Daisy aprendo il ventaglio. «Cercherà di convincere Eugenio a parlargli. Ma Randolph non ha paura di Eugenio. Eugenio è un accompagnatore meraviglioso, ma non ha molta autorità su Randolph! Non credo che andrà a letto prima delle undici».
Pareva che Randolph riuscisse trionfalmente a prolungare la veglia dato che eggiarono per qualche tempo, senza incontrare la madre.
«Mi sono guardata in giro per sapere di quella signora alla quale volete presentarmi», riprese la sua compagna. «È vostra zia».
Dopo che Winterbourne ebbe ammesso la circostanza ed espresso qualche curiosità per come l’avesse appresa, lei gli disse di avere saputo tutto su Mrs. Costello dalla cameriera. Era una donna proprio comme il faut; viveva
ritirata, portava sboffi bianchi, non parlava con nessuno, non cenava mai alla table d’hôte. Ogni due giorni aveva l’emicrania.
«Mi sembra una deliziosa descrizione, emicrania e tutto il resto», disse Miss Daisy cicalando con la sua vocina allegra. «Desidero conoscerla; me la immagino; so che mi sarà simpatica. È molto schizzinosa nello scegliere le persone. Mi piace che una signora sia così schizzinosa; non vedo l’ora di fare anch’io la schizzinosa. Be’, io e la mamma siamo schizzinose. Non parliamo con tutti… oppure sono loro a non parlarci. È più o meno la stessa cosa, credo. Ad ogni modo sarò contenta, davvero tanto, di conoscere vostra zia».
Winterbourne era imbarazzato. «Ne sarebbe felicissima, ma temo che dovremo fare i conti con quelle sue emicranie».
La giovanetta lo guardò nella penombra. «Non avrà l’emicrania ogni giorno, immagino», disse con commiserazione.
Winterbourne rimase in silenzio per un istante. «Lei dice di sì», rispose alla fine non sapendo che dire.
Miss Daisy Miller si fermò e rimase a fissarlo. Nell’oscurità la sua grazia era ancora visibile; apriva e chiudeva il gigantesco ventaglio. «Non vuole conoscermi!», disse all’improvviso. «Perché non lo dite? Non abbiate paura. Io non ne ho!», e diede in una risatina.
A Winterbourne parve di cogliere un tremito nella sua voce; ne fu commosso, turbato, mortificato.
«Mia cara signorina», protestò, «non conosce nessuno. È la sua salute malferma».
La giovane avanzò ancora di alcuni i, sempre ridendo. «Non abbiate paura», ripeté. «Perché dovrebbe avere voglia di conoscermi?». Fece un’altra pausa; si trovava accanto al parapetto del giardino; davanti a lei si stendeva il lago illuminato dalle stelle. Sulla sua superficie indugiava un incerto chiarore, in lontananza si intravedevano nell’oscurità le forme dei monti. Daisy Miller scrutò l’inquietante panorama, prorompendo quindi in una risatina. «Santo cielo! Che sussiego!», disse.
Winterbourne si chiese se non fosse amaramente ferita e per un attimo si augurò che la sensibilità della giovane gli consentisse di tentare di rassicurarla e confortarla. Aveva la piacevole sensazione che fosse pronta a farsi consolare. Per un istante si sentì prontissimo a sacrificare la zia a parole, ad ammettere che si trattava di una donna altera e villana, a dichiarare che non occorreva darle retta. Ma, prima che avesse il tempo di impegnarsi in questo pericoloso miscuglio di galanteria e irriverenza, la signorina, ripresa la eggiata, diede in un’esclamazione di tono ben diverso.
«Ecco la mamma! Scommetto che non è riuscita a mandare a letto Randolph». In lontananza si stagliò la figura di una donna, indistinta nell’oscurità, che avanzava con movimenti lenti e incerti. All’improvviso parve che si fermasse.
«Siete sicura che sia vostra madre? Riuscite a distinguerla con questo buio?».
«Riconoscerò mia madre, no?», esclamò Miss Daisy Miller ridendo. «Tanto più che ha il mio scialle. Mette sempre le mie cose».
La signora in questione, smettendo di procedere, rimase a gironzolare intorno allo stesso punto dove si era fermata.
«Temo che vostra madre non vi abbia visto. O forse», aggiunse pensando che con Miss Miller la battuta fosse possibile, «si sente in colpa per via dello scialle».
«Oh, è vecchissimo!», replicò con serenità la giovane. «Le ho detto che poteva metterselo. Non viene qui perché vi ha visto».
«Allora sarà meglio che vi lasci».
«Oh, no, avanti!», lo incitò Miss Daisy Miller.
«Vostra madre, temo, non approva che eggi con voi».
Miss Miller gli lanciò un’occhiata seria. «Non si tratta di me, si tratta di voi, anzi di lei. Be’, non lo so di chi si tratti! Alla mamma non piace nessuno dei miei amici uomini. È timidissima. Se le presento un signore, si agita da non credere. Ma io glieli presento, eccome!, quasi sempre. Se non presentassi alla mamma i miei amici uomini», aggiunse con la sua vocina morbida, piatta, monotona, «mi sembrerebbe di non essere naturale».
«Per presentarmi dovete sapere come mi chiamo», replicò Winterbourne e glielo disse.
«Santo cielo, non riesco a pronunciarlo tutto!», esclamò la sua compagna ridendo. Avevano nel frattempo raggiunto Mrs. Miller che si era accostata al parapetto del giardino, mentre si avvicinavano, e, voltando loro le spalle, fissava intenta il lago. «Mamma!», chiamò la giovane in tono deciso. E a quella parola l’altra si volse. «Mr. Winterbourne», disse Miss Daisy Miller presentando il giovane con garbata schiettezza. ‘Ordinaria’ l’aveva definita Mrs. Costello, eppure Winterbourne era sorpreso che, pur se ordinaria, avesse una grazia così singolarmente delicata.
Sua madre era minuta, sparuta, fragile, con occhi irrequieti, un naso sottile, un’ampia fronte ornata di ciocche lievi e arricciatissime. Al pari della figlia era vestita con squisita eleganza; alle orecchie portava due enormi brillanti. Per quanto poté notare Winterbourne, non lo salutò e di sicuro non lo guardò. Daisy le era vicino e le raddrizzò lo scialle. «Che cosa stai curiosando qui?», le chiese, ma nel tono non c’era affatto quell’asprezza che farebbe immaginare la scelta di quelle parole.
«Non lo so», rispose sua madre tornando a voltarsi verso il lago.
«Chi l’avrebbe detto che avresti voluto questo scialle!», esclamò Daisy.
«Be’… sì», rispose sua madre con una risatina.
«Sei riuscita a mettere a letto Randolph?».
«No, non ne sono stata capace», rispose Mrs. Miller con dolcezza. «Vuole stare
con il cameriere a parlare. Gli piace chiacchierare con quel cameriere».
«Ne stavo parlando con Mr. Winterbourne», continuò la ragazza e all’orecchio del giovane il tono parve quello di chi pronunciava quel nome da tutta la vita.
«Oh, sì», intervenne Winterbourne. «Ho il piacere di conoscere vostro figlio».
La mamma di Randolph rimase in silenzio, volgendo la sua attenzione al lago. Ma alla fine parlò:
«Come farà a sopravvivere?».
«È sempre meglio che a Dover», disse Daisy Miller.
«Che cosa accadde a Dover?», chiese Winterbourne.
«Non voleva saperne di andare a letto. Rimase in piedi tutta la notte, credo, nel salotto dell’albergo. A mezzanotte non si era ancora coricato: questo lo so di sicuro».
«Era mezzanotte e mezza», dichiarò Mrs. Miller con blando slancio.
«Dorme molto durante la giornata?», chiese Winterbourne.
«Non molto, credo», rispose Daisy.
«Magari lo fe! Non ci riesce, pare», disse sua madre.
«È un gran impiccio quel ragazzo», proseguì Daisy.
Seguì un breve silenzio. «Daisy Miller», disse la signora poco dopo, «non ti metterai a parlar male di tuo fratello!».
«È un impiccio, mamma», disse Daisy ma senza l’asprezza di chi ribatte.
«Ha soltanto nove anni», insistette Mrs. Miller.
«Non è voluto venire al castello. Ci andrò con Mr. Winterbourne».
A questo annuncio, fatto in tono placido, la mamma di Daisy non replicò. Winterbourne dava per scontato che disapprovasse molto il progetto di quella gita, ma – si disse – era una persona semplice e malleabile, e qualche deferente protesta avrebbe attutito il suo dispiacere.
«Sì», cominciò, «vostra figlia mi ha gentilmente concesso l’onore di farle da guida».
Gli occhi irrequieti di Mrs. Miller si fissarono, con aria implorante, su Daisy, la quale però si allontanò di qualche o canticchiando fra sé in tono sommesso.
«Andrete in tram, immagino», disse sua madre.
«Oppure in battello», disse Winterbourne.
«Be’, naturalmente, non lo so», replicò Mrs. Miller. «Non sono mai stata al castello».
«È un peccato che non ci andiate», disse Winterbourne ormai quasi rassicurato che non si sarebbe opposta. Eppure era preparato a sentirsi dire, com’è nell’ordine delle cose, che intendeva accompagnare la figlia.
«Abbiamo pensato tante volte di andarci», proseguì, «ma sembra che non ci sia possibile. Daisy naturalmente… lei vuole andare in giro. Ma c’è una signora qui – non so come si chiama – dice che, a suo parere, non dobbiamo andare a visitare questi castelli; a suo avviso dovremmo aspettare di essere in Italia. Pare che ce ne siano tantissimi lì», proseguì Mrs. Miller con un’aria sempre più sicura. «Naturalmente vogliamo vedere soltanto i principali… Ne abbiamo visti parecchi in Inghilterra», aggiunse poco dopo.
«Ah, sì! In Inghilterra ci sono castelli bellissimi», disse Winterbourne. «Ma Chillon, qui, merita di essere visto».
«Be’, se Daisy se la sente…», disse Mrs. Miller nel tono di chi è consapevole della grandiosità dell’impresa. «Non c’è nulla, sembra, che Daisy non abbia voglia di fare».
«Oh, le piacerà», dichiarò Winterbourne sempre più desideroso di poter contare sull’onore di un tete-à-tete con la giovinetta che davanti a loro continuava a eggiare canticchiando sommessamente. «Non siete disposta, signora, a venire anche voi?».
La madre di Daisy lo guardò per un attimo in tralice; quindi, avviandosi in silenzio, si limitò a dire: «È meglio che vada da sola, credo».
Winterbourne osservò fra sé che la maternità di Mrs. Miller era di un tipo assai diverso da quella delle vigili matrone che nella vecchia città, dall’altra parte del lago, si schieravano in prima linea sul fronte dei rapporti sociali. Ma le sue meditazioni furono interrotte sentendosi chiamare in tono chiaro dall’incustodita figlia di Mrs. Miller.
«Mr. Winterbourne!», mormorò Daisy.
«Mademoiselle!».
«Non volete portarmi a fare un giro in barca?».
«Subito?».
«Certamente!».
«Annie Miller!», esclamò la madre.
«Vi supplico, signora, di lasciarla andare», disse Winterbourne con fervore. Non aveva infatti mai provato la gioiosa sensazione di guidare sotto le stelle d’estate una barchetta con il carico di una ragazza giovane, bella e fresca.
«Non credo che voglia davvero andare», disse la madre. «Credo che dovrebbe rientrare».
«Sono sicura che Mr. Winterbourne vuole portarmi», dichiarò Daisy. «È così premuroso!».
«Vi porterò in barca fino a Chillon sotto le stelle».
«Non ci credo!», disse Daisy.
«Ma…», intervenne ancora la signora.
«Non mi rivolgete la parola da mezz’ora», continuò sua figlia.
«Ho avuto una gradevolissima conversazione con vostra madre».
«Bene, portatemi in barca!», ripeté Daisy. Si erano fermati tutti, e lei si volse a guardare Winterbourne. Sul suo volto indugiava un sorriso incantevole; i begli occhi splendevano; agitava il grande ventaglio avanti e indietro. ‘No, è impossibile essere più graziose’, pensò Winterbourne.
«C’è una mezza dozzina di barche ormeggiate sul molo», disse indicando alcuni gradini che dal giardino scendevano fino al lago. «Se mi farete l’onore di accettare il mio braccio, andremo a sceglierne una».
Daisy rimase lì sorridente; gettando indietro la testa, scoppiò in una risatina. «Mi piace che i signori siano così formali!», dichiarò.
«Vi assicuro che è un invito formale».
«Mi ero ripromessa di farvi dire qualcosa», proseguì Daisy.
«Non è molto difficile, vedete. Ma temo che vi burliate di me».
«Non lo credo, signore», osservò Mrs. Miller in tono mite.
«Lasciatemi allora remare per voi», disse il giovane alla ragazza.
«Che modo delizioso di dirlo !», esclamò Daisy.
«Sarà ancora più delizioso farlo».
«Sì, sarebbe delizioso», disse Daisy. Ma non accennò ad accompagnarlo; se ne stava lì ridendo, nient’altro.
«Fareste bene – credo – a guardare l’ora», intervenne la madre.
«Sono le undici, signora», giunse dall’oscurità circostante una voce con accento straniero. E Winterbourne, girandosi, scorse il florido personaggio al servizio delle signore. Doveva essere appena arrivato.
«Oh, Eugenio, vado a fare un giro in barca!», annunciò Daisy.
«Alle undici, mademoiselle?», disse Eugenio con un inchino.
«Vado con Mr. Winterbourne, in questo stesso istante».
«Ditele che non può», intervenne Mrs. Miller rivolgendosi all’accompagnatore.
«Meglio non uscire in barca, mademoiselle», dichiarò Eugenio.
Se almeno quella graziosa giovanetta non avesse avuto tanta familiarità con la guida, auspicò Winterbourne, ma non disse nulla.
«Immagino che, secondo voi, non stia bene!», esclamò Daisy. «Per Eugenio nulla sta mai bene».
«Sono ai vostri ordini», disse Winterbourne.
«Mademoiselle intende andare da sola?», chiese Eugenio rivolto a Mrs. Miller.
«Oh, no, con questo signore!», rispose la mamma di Daisy.
La guida squadrò Winterbourne per un attimo – questi pensò che sorridesse – quindi, solennemente, facendo un inchino, disse: «Come desidera mademoiselle!».
«Oh, speravo che avreste fatto un gran chiasso! Non mi importa più di andare ormai».
«Farò io un gran chiasso, se non venite», intervenne Winterbourne.
«Ecco quello che voglio… un po’ di chiasso!». E riprese a ridere.
«Il signorino Randolph è andato a letto!», annunciò l’accompagnatore in tono freddo.
«Oh, Daisy, allora possiamo rientrare», disse Mrs. Miller.
Daisy si allontanò da Winterbourne guardandolo, sorridendo e agitando il ventaglio. «Buona notte», disse. «Mi auguro che siate deluso oppure disgustato o qualcosa!».
La guardò prendendo la mano che gli offriva. «Sono sconcertato», rispose.
«Non vi impedirà di prendere sonno, mi auguro!», disse lei prontamente e, scortate da Eugenio, le due signore si avviarono verso l’albergo.
Winterbourne rimase a guardarle; era davvero sconcertato. Indugiò per un quarto d’ora accanto al lago, rimuginando sui modi tutto d’un tratto confidenziali della giovane e sui suoi capricci. Ma l’unica conclusione alla quale giunse fu che gli sarebbe piaciuto, eccome!, ‘tagliar la corda’ con lei da qualche parte.
Due giorni più tardi ‘tagliarono la corda’ per andare insieme al castello di Chillon. Egli l’attese nell’ampio atrio dell’albergo, dove oziavano e osservavano guide turistiche, camerieri, turisti stranieri. Non era quello il luogo che avrebbe scelto per incontrarla; era stata lei a designarlo. Daisy scese le scale con o agile e leggero, abbottonandosi i lunghi guanti, stringendo l’ombrellino chiuso contro la graziosa figura, vestita alla perfezione in un abito da viaggio di sobria eleganza. Winterbourne era un uomo di immaginazione e, come avrebbero detto i nostri vecchi, di sensibilità; mentre osservava il suo vestito e, sulla grande scalinata, il o breve, rapido, sicuro, gli parve che ci fosse in serbo qualcosa
di romantico. Perché non immaginare di essere in procinto di fuggire con lei?
Uscirono insieme in mezzo a quelle persone sfaccendate lì raccolte, che la guardarono fissamente. La ragazza cominciò a chiacchierare non appena lo ebbe raggiunto. Winterbourne avrebbe preferito andare a Chillon in carrozza, ma Daisy espresse il vivo desiderio di andarci in vaporetto: dichiarò di avere la ione dei vaporetti. C’era sempre una brezza deliziosa sull’acqua e si incontravano tante persone. La traversata non fu lunga, ma la compagna di Winterbourne trovò il tempo di dire un mucchio di cose. Per il giovane stesso quella breve gita assomigliava tanto a una scappatella – un’avventura – che, pur sapendo quanto Daisy fosse solitamente libera, sperava che anche per lei fosse così. Ma bisogna confessare che in questo rimase deluso. Daisy Miller era animatissima, di ottimo umore, ma nient’affatto turbata o inquieta; non evitava il suo sguardo né quello degli altri; non arrossiva né quando lo guardava né quando si sentiva guardata. La gente continuava a osservarla con insistenza, e Winterbourne era molto compiaciuto dell’aria distinta della sua graziosa compagna. Aveva avuto qualche timore che si mettesse a parlare ad alta voce, a ridere troppo; perfino, forse, a girare per il vaporetto. Ma dimenticò tutte le sue paure; sedeva sorridendo, tenendole gli occhi puntati sul viso, mentre, senza muoversi dal suo posto, Daisy snocciolava tutta una serie di originali riflessioni. Era deliziosamente garrula, come non aveva mai sentito. Era stato d’accordo nel definirla ‘ordinaria’, ma Daisy dopo tutto lo era … oppure egli si stava semplicemente abituando? La conversazione era prevalentemente di stampo oggettivo, come dicono i metafisici, ma di tanto in tanto prendeva una piega soggettiva.
«Perché mai siete così serio?», chiese tutto d’un tratto fissando i begli occhi in quelli di Winterbourne.
«Serio? Mi pareva di ridere con la bocca aperta da un orecchio all’altro».
«Avete l’aria di accompagnarmi a un funerale. Se quello è un sorriso, avete le
orecchie assai vicine».
«Dovrei mettermi a ballare una danza sfrenata sul ponte?».
«Fatelo vi prego. Io andrò in giro tendendo il cappello. Servirà a pagare le spese del viaggio».
«Non sono mai stato così contento in vita mia», mormorò Winterbourne.
Lo guardò un attimo prima di scoppiare in una risatina. «Mi piace farvi dire queste cose. Siete un bizzarro miscuglio!».
Una volta sbarcati, nel castello prevalse decisamente l’elemento soggettivo. Daisy saltellava rapida e leggera sotto le volte dei saloni, faceva frusciare le vesti lungo le scale a chiocciola, si ritraeva svelta con un gridolino e un fremito dall’orlo delle botole, prestava il grazioso orecchio a tutto quello che le spiegava Winterbourne. Ma egli si accorse che le antichità feudali l’interessavano ben poco e che le tenebrose tradizioni di Chillon le facevano soltanto una blanda impressione. Ebbero la fortuna di aggirarsi per il castello senza altra compagnia che quella del custode, e Winterbourne concordò con quest’ultimo di non fare le cose in fretta, di poter indugiare e sostare ovunque desiderassero. Il custode diede un’interpretazione generosa al patto – dal canto suo Winterbourne era stato ‘generoso’ – finendo per lasciarli praticamente soli.
Le osservazioni di Miss Miller non brillavano per coerenza logica: trovava un pretesto per tutto quello che voleva dire. Le aspre feritoie di Chillon le fornirono numerosi pretesti per porre di punto in bianco a Winterbourne una sfilza di domande su di lui, sulla sua famiglia, la sua vita, i suoi gusti, le sue abitudini, le
sue intenzioni – e per fornire informazioni su se stessa in relazione a quegli stessi punti. Dei propri gusti, delle proprie abitudini e intenzioni Miss Miller era disposta a dare un resoconto assai preciso e invero assai lusinghiero.
«Ne sapete di cose!», disse al suo accompagnatore dopo che questi le ebbe raccontato la storia dell’infelice Bonivard. «Non ho mai conosciuto nessuno che ne sapesse tante!».
La storia di Bonivard le era entrata da un orecchio e uscita dall’altro, come si suol dire. Ma – continuò Daisy – era un gran peccato che Winterbourne non viaggiasse con loro e ‘andasse in giro con loro’; se fosse stato così avrebbero imparato qualcosa.
«Perché non venite a fare da precettore a Randolph?», chiese. Winterbourne rispose che nulla gli sarebbe piaciuto di più ma che, purtroppo, aveva altre occupazioni.
«Altre occupazioni? Non ci credo!», proclamò Miss Daisy. «Che cosa intendete dire? Non siete un uomo d’affari».
Il giovane ammise di non essere un uomo d’affari, ma aveva impegni che, entro uno o due giorni, lo avrebbero costretto a ritornare a Ginevra.
«Che seccatura! Non ci credo!» e prese a parlare d’altro. Ma, alcuni momenti dopo, mentre le faceva rilevare la forma aggraziata di un antico caminetto, lei sbottò di punto in bianco: «Non volete dire che tornerete a Ginevra?».
«È un fatto triste che debba partire domani».
«Be’ Mr. Winterbourne, siete orribile!».
«Oh, non dite cose tanto tremende! Proprio adesso, alla fine!».
«La fine!», esclamò la giovane. «Io lo chiamo il principio. Ho mezza idea di piantarvi qui e di tornare diritta in albergo da sola». E nei dieci minuti che seguirono non fece altro che chiamarlo ‘orribile’. Il povero Winterbourne era attonito; nessuna signorina gli aveva fatto ancora l’onore di agitarsi tanto all’annuncio dei suoi movimenti. La sua compagna, dopo di ciò, smise di prestare attenzione alle curiosità di Chillon o alle bellezze del lago, e aprì il fuoco sulla misteriosa maliarda ginevrina dalla quale – così pareva dare per scontato – egli si precipitava a tornare.
Come faceva Miss Daisy a sapere che c’era una maliarda a Ginevra? Winterbourne, che negò l’esistenza di una tale persona, non riuscì a scoprirlo, ed era diviso fra lo stupore per la rapidità della sua deduzione e il divertimento per la franchezza delle sue frecciate. In tutto questo gli parve che la giovane fosse una straordinaria combinazione di innocenza e grossolanità.
«Non vi concede mai più di tre giorni di fila?», gli chiese ironicamente Daisy. «Non vi concede una vacanza estiva? Nessuno lavora tanto da non poter piantare tutto per andarsene da qualche parte in questa stagione. Scommetto che, se vi tratterrete un giorno di più, verrà a prendervi in barca. Aspettate fino a venerdì: andrò al molo per vederla arrivare!».
Winterbourne cominciò a pensare di avere fatto un errore a sentirsi deluso
dall’umore della signorina. Se aveva sentito la mancanza di un tocco personale, ecco che adesso saltava fuori. E si palesò in modo deciso quando, alla fine gli disse che avrebbe smesso di ‘stuzzicarlo’, se le avesse promesso solennemente di scendere a Roma durante l’inverno.
«Non è una promessa difficile da fare. Mia zia ha preso un appartamento a Roma e mi ha già chiesto di andarla a trovare».
«Non voglio che veniate per vostra zia. Voglio che veniate per me». E fu questa l’unica allusione che l’avrebbe mai sentita fare sulla sua odiosa parente. Egli dichiarò che ci sarebbe andato in ogni caso. Dopo di che Daisy smise di stuzzicarlo. Winterbourne prese una carrozza e al crepuscolo fecero ritorno a Vevey; la giovane era molto calma.
Quella sera Winterbourne accennò a Mrs. Costello di avere trascorso il pomeriggio a Chillon con Miss Daisy Miller.
«Gli americani… con l’accompagnatore?», chiese la signora.
«Per fortuna l’accompagnatore se ne è rimasto qui».
«È venuta da sola con te?».
«Da sola».
Mrs. Costello annusò la bottiglietta di sali. «Ed è questa la giovane che volevi presentarmi!», esclamò.
Capitolo III
Winterbourne, ritornato a Ginevra il giorno successivo alla gita a Chillon, si recò a Roma verso la fine di gennaio. Dalla zia, già sistemata lì da parecchie settimane, aveva ricevuto un paio di lettere. «Quelle persone con le quali eri tanto premuroso l’estate scorsa a Vevey, sono comparse anche qui, accompagnatore e tutto» scriveva. «Pare che abbiano fatto molte conoscenze, ma l’accompagnatore continua a essere il più intime. La signorina, tuttavia, sembra essere intima anche con certi italiani di terza categoria, con i quali impazza in giro suscitando chiacchiere a non finire. Portami quel grazioso romanzo di Cherbulieux – Paule Méré – e non venire dopo il 23».
Era nel corso naturale degli eventi che Winterbourne, arrivato a Roma, si accertasse subito presso la banca americana dell’indirizzo di Mrs. Miller e andasse a porgere i suoi omaggi a Miss Daisy. «Dopo quanto è accaduto a Vevey sono certo di poterle andare a trovare», disse a Mrs. Costello.
«Se, considerato quanto succede – a Vevey e altrove -, desideri mantenere i contatti, fai pure. Agli uomini naturalmente è lecito frequentare chiunque. È un loro privilegio!».
«Che cosa succede, ti prego, … qui, per esempio?».
«La ragazza se ne va in giro da sola con i suoi stranieri. Su quanto succede poi, rivolgiti altrove per avere informazioni. Ha raccattato una dozzina dei soliti cacciatori di dote romani e se li porta dietro in casa di chi la invita. Quando va a un ricevimento, si presenta insieme a un signore dai modi impeccabili e dagli splendidi baffi».
«Dov’è sua madre?».
«Non ne ho la minima idea. Sono gente orribile».
Winterbourne ci meditò su un attimo. «Non sanno nulla… sono soltanto innocenti. Sta’ pure sicura che non sono cattivi».
«Sono irrimediabilmente volgari. Se essere irrimediabilmente volgari sia o non sia essere ‘cattivi’ è un problema che lascio ai metafisici. Sono abbastanza cattivi da riuscire sgradevoli in ogni caso, e in questa nostra breve esistenza è più che sufficiente».
La notizia che Daisy Miller era circondata da una mezza dozzina di splendidi baffi tenne a bada l’impulso di Winterbourne di andare di filato a trovarla. Non che si fosse proprio illuso di avere fatto un’impressione incancellabile sul cuore della giovinetta, ma era seccato di apprendere una situazione così poco in armonia con l’immagine che da qualche tempo si insinuava nei suoi pensieri: l’immagine di una fanciulla graziosissima che, affacciata a un’antica finestra romana, si chiedeva con trepidazione quando sarebbe arrivato Mr. Winterbourne. Se tuttavia decise di aspettare un pochino prima di rivendicare nei confronti di Miss Miller la propria legittima aspettativa alla sua considerazione, andò ben presto a trovare due o tre altre amiche. Una di queste amiche era una signora americana che aveva trascorso parecchi inverni a Ginevra, dove i suoi figli andavano a scuola. Era una donna squisita; abitava in via Gregoriana. Winterbourne la trovò in un salottino cremisi al terzo piano, inondato dal sole meridionale.
Non era lì da dieci minuti quando giunse il domestico annunciando «Madame
Mila!». L’annuncio fu subito seguito dalla comparsa del piccolo Randolph Miller che, fermandosi nel mezzo della stanza, rimase impalato a fissare Winterbourne.
Un istante dopo attraversò la soglia la sua graziosa sorella, quindi, dopo un notevole intervallo, avanzò lentamente Mrs. Miller.
«Io vi conosco!», disse Randolph.
«Sono certo che conosci molte cose», esclamò Winterbourne prendendolo per mano. «Come procedono gli studi?».
Daisy era intenta a salutare con molta grazia la padrona di casa, ma, sentendo la voce di Winterbourne, volse rapidamente la testa. «Guarda un po’!», disse.
«Vi dissi che sarei venuto, lo sapete», replicò Winterbourne sorridendo.
«Be’, non ci credevo», rispose Miss Daisy.
«Ve ne sono molto riconoscente», scoppiò a ridere il giovane.
«Sareste dovuto venire a farmi visita!».
«Sono arrivato soltanto ieri».
«Non ci credo!».
Winterbourne si volse con un sorriso di protesta verso la madre di Daisy, ma la signora evitò il suo sguardo e, sedutasi, prese a fissare il figlio. «Noi abitiamo in un posto più grande», disse Randolph. «È tutto oro sulle pareti»
Mrs. Miller si girò a disagio sulla sedia. «Lo dicevo che, a portarti dietro, ti saresti lasciato scappare qualcosa!», mormorò.
«Io lo dicevo!», esclamò Randolph. «Lo dicevo a voi, signore!», aggiunse scherzosamente dando a Winterbourne un colpetto sul ginocchio. «Ed è anche più grande!».
Daisy si era immersa in una fitta conversazione con la padrona di casa, e Winterbourne ritenne suo dovere rivolgere qualche parola alla madre. «Spero che siate stata bene da quando ci siamo lasciati a Vevey».
Mrs. Miller, a questo punto, finalmente lo guardò… guardò il suo mento. «Non molto bene, signore», rispose.
«Ha la dispepsia», disse Randolph. «Anch’io ce l’ho. Anche papà. Io ce l’ho peggio di tutti!».
Questo annuncio, invece di mettere in imbarazzo Mrs. Miller, parve esserle di sollievo. «Soffro di fegato», disse. «Penso che sia il clima; è meno tonificante di
Schenectady, soprattutto d’inverno. Non so se sappiate che noi viviamo a Schenectady. Stavo dicendo a Daisy che non avevo mai trovato nessuno come il dottor Davis e che non credevo di trovarlo. Oh! A Schenectady è il primo; ne pensano tutti un mondo di bene. È sempre tanto occupato, eppure non c’era nulla che non avrebbe fatto per me. Diceva di non avere mai visto una dispepsia come la mia e si prefiggeva di guarirla. Avrebbe tentato di tutto. Stava proprio per provare una nuova cura, quando siamo partiti. Mr. Miller voleva che Daisy visitasse l’Europa per conto suo. Ho scritto a Mr. Miller che non credo di poter tirare avanti senza il dottor Davis. A Schenectady è il primo, e anche lì ci sono molti malati. Non riesco a dormire».
Mentre Daisy chiacchierava senza posa con la sua interlocutrice, Winterbourne venne a sapere molti pettegolezzi patologici dalla paziente del dottor Davis. Il giovanotto chiese a Mrs. Miller se le pie Roma. «Devo dire di essere delusa. Ne abbiamo sentito parlare tanto; forse ne abbiamo sentito parlare troppo. Ma non era possibile farne a meno. Ci hanno portati a immaginare qualcosa di diverso».
«Aspettate un poco e ve ne innamorerete».
«La odio ogni giorno di più», esclamò Randolph.
«Sembri Annibale bambino», disse Winterbourne.
«No, che non lo sono», dichiarò Randolph a casaccio.
«Bambino non lo sei», disse sua madre. «Ma abbiamo visto luoghi», riprese, «che metterei assai prima di Roma». E in risposta alla domanda di Winterbourne,
osservò: «C’è Zurigo. Secondo me, Zurigo è deliziosa, e non ne abbiamo sentito parlare neanche la metà».
«Il posto più bello che abbiamo visto è la City of Richmond!», esclamò Randolph.
«Si riferisce alla nave», spiegò sua madre. «Abbiamo fatto la traversata su quella nave. Randolph si è divertito molto sulla City of Richmond».
«È il posto più bello che abbia visto», ripeté il ragazzino. «Solo che andava nella direzione sbagliata».
«Andremo in quella giusta, prima o poi», disse sua madre con una risatina. Winterbourne espresse la speranza che almeno sua figlia avesse trovato qualche diletto a Roma, e la signora dichiarò che Daisy era entusiasta.
«Per via della vita di società… la vita di società è meravigliosa. Va dappertutto; ha conosciuto molta gente e naturalmente va in giro più di me. Devo dire che sono stati tutti cordialissimi, l’hanno subito accolta. E conosce molti signori. Oh, secondo lei non c’è niente come Roma. Naturalmente per una ragazza è assai più piacevole se conosce molti signori».
Nel frattempo Daisy aveva di nuovo rivolto l’attenzione su Winterbourne. «Stavo raccontando a Mrs. Walker come siete stato cattivo!», annunciò.
«Quali prove avete addotto?», chiese Winterbourne, piuttosto seccato che
Miss Miller non apprezzasse lo zelo di un ammiratore che, durante il viaggio a Roma, non si era fermato né a Bologna né a Firenze, spinto soltanto da una certa impazienza sentimentale. Ricordò che una volta un cinico compatriota gli aveva detto che le donne americane – quelle graziose, il che dava una certa latitudine all’assioma – erano nello stesso tempo le più esigenti del mondo e le meno inclini alla riconoscenza.
«Siete stato molto cattivo a Vevey. Non avete voluto fare nulla. Non siete voluto restare quando ve l’ho chiesto».
«Mia carissima signorina», esclamò Winterbourne con eloquenza, «ho fatto tanta strada fino a Roma per sentirmi rimproverare?».
«Sentite quello che dice!», disse Daisy alla padrona di casa aggiustandole un nastro dell’abito. «Avete mai sentito nulla di così curioso?».
«Proprio tanto curioso, mia cara?», mormorò Mrs. Walker con il tono di parteggiare per Winterbourne.
«Be’, non lo so», disse Daisy continuando a giocherellare con i nastri di Mrs. Walker. «Mrs. Walker, voglio dirvi una cosa».
«Mamma», interloquì Randolph con quel suo modo brusco di terminare le parole, «dobbiamo andare, te lo dico io. Eugenio, sennò, farà un putiferio».
«Non ho paura di Eugenio», disse Daisy scrollando la testa. «Sentite,
Mrs. Walker», proseguì, «verrò al vostro ricevimento, sapete».
«Sono felice di apprenderlo».
«Ho un abito delizioso».
«Ne sono sicura».
«Ma voglio chiedervi un favore… il permesso di portare un amico».
«Sarò lieta di conoscere qualsiasi vostro amico», disse Mrs. Walker volgendosi con un sorriso a Mrs. Miller.
«Oh, non sono amici miei», rispose la mamma di Daisy sorridendo timidamente nel suo solito modo. «Non ho mai parlato con loro!».
«È un mio caro amico… Mr. Giovanelli», disse Daisy senza alcun tremito nella vocina limpida e senza un’ombra sul visino luminoso.
Dopo un attimo di silenzio Mrs. Walker lanciò una rapida occhiata a Winterbourne. «Sarò lieta di incontrare Mr. Giovanelli», disse alla fine.
«È un italiano», proseguì Daisy con incantevole serenità. «È un mio grande
amico – il più bell’uomo del mondo – ad eccezione di Mr. Winterbourne! Conosce molti italiani, ma vuole conoscere qualche americano. Ne ha un’ottima opinione. È un uomo brillante, assolutamente squisito!».
Fu stabilito che questo brillante personaggio sarebbe venuto alla festa di Mrs. Walker, quindi Mrs. Miller si preparò a prendere congedo. «Torneremo in albergo», disse.
«Torna pure in albergo, mamma; io farò una eggiata».
«Va a eggio con Mr. Giovanelli», annunciò Randolph.
«Andrò al Pincio», disse Daisy sorridendo.
«Da sola, mia cara… a quest’ora?», chiese Mrs. Walker. Il pomeriggio si avviava alla fine – era il momento della calca delle carrozze e dei pedoni contemplativi. «Non credo che sia opportuno», disse Mrs. Walker.
«Neppure io», aggiunse Mrs. Miller. «Ti prenderai la febbre; questo è sicuro come del fatto che sei viva. Ricordati quello che ti diceva il dottor Davis!».
«Dalle qualche medicina prima che esca», disse Randolph.
Si erano alzati tutti; Daisy, mostrando nel sorriso i bei denti, si chinò a dare un bacio alla padrona di casa. «Mrs. Walker, siete troppo sollecita. Non sarò da sola;
vedrò un amico».
«Il tuo amico non ti impedirà di prendere la febbre», osservò Mrs. Miller.
«È Mr. Giovanelli?», chiese la padrona di casa.
Winterbourne osservava la giovane; a questa domanda la sua attenzione si animò. Se ne stava ritta, sorridendo e lisciando i nastri del cappello; lanciò un’occhiata a Winterbourne. Quindi, mentre guardava e sorrideva, rispose senza ombra di esitazione: «Mr. Giovanelli… il bellissimo Mr. Giovanelli».
«Mia cara, giovane amica», disse Mrs. Walker prendendole la mano con gesto supplichevole, «non andate al Pincio a quest’ora a incontrare un bellissimo italiano».
«Ma parla inglese», intervenne Mrs. Miller.
«Santo cielo!», esclamò Daisy. «Non voglio fare nulla di sconveniente. C’è un modo facile per risolvere la cosa». Continuava a guardare Winterbourne. «Il Pincio è soltanto a cento iarde, e se Mr. Winterbourne fosse cortese come dichiara, si offrirebbe di accompagnarmi!».
La cortesia di Winterbourne si precisò subito, e la giovane gli concesse graziosamente licenza di accompagnarla. Scesero al pianterreno camminando davanti alla madre di Daisy e, ferma alla porta, Winterbourne notò la carrozza di Mrs. Miller con dentro seduto il decorativo accompagnatore che aveva
conosciuto a Vevey. «Arrivederci, Eugenio!!», gridò Daisy. «Farò una eggiata».
Dalla via Gregoriana raggiunsero in fretta il bellissimo giardino all’altra estremità del colle del Pincio. Siccome tuttavia la giornata era meravigliosa e intenso il traffico dei veicoli e delle persone che eggiavano e oziavano, i due giovani americani procedevano assai lentamente. La cosa riusciva molto gradita a Winterbourne, malgrado fosse consapevole della singolarità della sua situazione. La folla romana, lenta e oziosamente curiosa, scrutava intenta la graziosissima signorina straniera che gli dava il braccio, e Winterbourne si chiese che cosa mai avesse avuto in mente Daisy quando aveva proposto di esporsi, senza essere accompagnata, a quell’apprezzamento. Secondo Daisy, la sua missione era quella di consegnarla nelle mani di Mr. Giovanelli, ma Winterbourne, seccato e nello stesso tempo lusingato, decise che non avrebbe fatto una cosa simile.
«Perché non siete venuto a trovarmi?», chiese Daisy. «Non riuscirete a cavarvela».
«Ho avuto l’onore di dirvi di essere appena sceso dal treno».
«Dovete essere rimasto in treno un bel po’ dopo che era arrivato!», esclamò la giovane con la sua risatina. «Vi eravate addormentato, immagino. Avete avuto il tempo di andare a trovare Mrs. Walker».
«Conoscevo Mrs. Walker…», prese a spiegare Winterbourne.
«So dove l’avete conosciuta. L’avete conosciuta a Ginevra. Me l’ha detto lei. E
avete conosciuto me a Vevey. È la stessa cosa. Sareste dovuto venire a farmi visita». Non gli rivolse altre domande al di fuori di questa, e incominciò a cinguettare di cose sue. «Abbiamo delle stanze splendide in albergo; secondo Eugenio, sono le migliori di Roma. Ci fermeremo per tutto l’inverno… se non moriremo di febbre malarica; ci resteremo, credo. È assai meglio del previsto; ero convinta che sarebbe stato paurosamente tranquillo, ero sicura che sarebbe stato mostruosamente noioso e che ci sarebbe toccato di andare in giro con qualche orribile vecchio che spiega i quadri e le altre cose. Ne abbiamo avuto soltanto per una settimana, e adesso mi diverto. Conosco tantissima gente, e tutta simpatica. La vita sociale è molto scelta. Ci sono persone di tutti i tipi: inglesi, tedeschi, italiani. Fra tutti preferisco gli inglesi. Mi piace il loro stile di conversazione. Ci sono anche alcuni simpaticissimi americani. Non ho mai visto tanta ospitalità. Ogni giorno c’è qualcosa da fare. Non ci sono molti balli, ma devo dire che il ballo non è tutto, secondo me. Mi è sempre piaciuta la conversazione. Ne avrò un bel po’ da Mrs. Walker… le sue stanze sono troppo piccole per ballare». Quando ebbero oltreato il cancello del Pincio, Miss Miller cominciò a chiedersi dove potesse essere Mr. Giovanelli.
«Andiamo direttamente lì davanti, dove si vede il panorama».
«Non sarò certo io ad aiutarvi a trovarlo», dichiarò Mr. Winterbourne.
«Allora lo troverò senza di voi».
«Non vorrete lasciarmi!», esclamò Winterbourne.
Proruppe nella sua risatina: «Avete paura di perdervi o di essere investito? Ma ecco Mr. Giovanelli, appoggiato a quell’albero. Osserva le donne nelle carrozze: avete mai visto nessuno tanto impudente?».
Winterbourne scorse a una certa distanza un ometto che se ne stava in piedi a braccia incrociate, stringendo il bastone da eggio. Aveva un bel viso, un cappello messo con arte, il monocolo e dei fiorellini all’occhiello. Dopo averlo guardato per un momento, Winterbourne disse: «Intendete parlare a quell’uomo?».
«Parlare a quell’uomo? Non penserete che voglia comunicare a gesti?».
«Cercate allora di capire, vi prego, che intendo rimanere con voi».
Daisy si fermò per guardarlo e sul suo volto, immune dalle inquietudini della coscienza, si vedevano soltanto gli incantevoli occhi e le allegre fossette. ‘Che sfacciata!’, pensò il giovane.
«Non mi piace come lo dite. È troppo imperioso».
«Vi chiedo scusa se ho usato il tono sbagliato. Il punto importante è farvi capire quello che voglio dire».
La giovane lo fissò con maggiore gravità, ma con occhi che erano ancora più belli. «Non ho mai permesso a un uomo di darmi degli ordini o di interferire in quello che faccio».
«È stato un errore, credo. A volte dovreste ascoltare qualche uomo… quello giusto».
Daisy rise di nuovo. «Non faccio altro che ascoltare uomini. Ditemi: Mr. Giovanelli è quello giusto?».
Il signore con i fiorellini all’occhiello aveva ormai scorto i nostri due amici e si avvicinava alla giovane con ossequiosa rapidità. Fece un inchino a Winterbourne e alla sua compagna; aveva un sorriso brillante e occhi intelligenti; Winterbourne pensò che non fosse brutto. Tuttavia disse a Daisy: «No, non è quello giusto».
Daisy, che evidentemente aveva il genio delle presentazioni, disse a ciascuno il nome dell’altro e prese a eggiare in mezzo ai due. Mr. Giovanelli, che parlava inglese molto bene – Winterbourne in seguito venne a sapere che si era esercitato nella lingua con molte ereditiere americane – le rivolse fatui complimenti; era assai compito, e il giovane americano, che non diceva nulla, rifletteva sull’infinita bravura degli italiani di sembrare tanto più garbati quanto più sono acutamente delusi. Giovanelli aveva fatto conto su un incontro più intimo; non aveva concordato un incontro a tre. Ma si controllò con modi che lasciavano intendere progetti ambiziosi. Winterbourne si compiaceva di averlo saputo valutare.
‘Non è un gentiluomo’, si disse il giovane americano, ‘ne è soltanto una buona imitazione. Sarà un maestro di musica, uno scrittorucolo, un artista di terz’ordine. Maledetta la sua bella faccia!’. Mr. Giovanelli aveva infatti un viso molto bello, ma Winterbourne era fieramente indignato che la sua deliziosa compatriota non sapesse distinguere il gentiluomo vero da uno spurio. Giovanelli chiacchierava, scherzava, si rendeva assai piacevole. Se era un’imitazione, era fatta con molta bravura, nessun dubbio. ‘Eppure una ragazza perbene dovrebbe capirlo!’, si diceva Winterbourne. Si ripropose quindi il dilemma se quella fosse una ragazza perbene. Una ragazza perbene – sia pure una frivola fanciulla americana – avrebbe dato appuntamento a uno straniero presumibilmente di bassa condizione? In questo caso l’appuntamento si svolgeva, sì, alla luce del giorno, nell’angolo più frequentato di Roma, ma non era forse possibile considerare la scelta di tali circostanze una prova di estremo
cinismo? Per quanto possa sembrare singolare, Winterbourne era contrariato che la giovane, raggiunto il suo amoroso, non dimostrasse maggiore insofferenza verso di lui e verso la sua compagnia, ed era anche contrariato di essere contrariato. Era impossibile considerarla una signorina inappuntabile; le mancava una certa indispensabile delicatezza. Avrebbe quindi semplificato di molto le cose riuscire a trattarla come la destinataria di una di quelle ioni che i romanzieri chiamano ‘ioni cieche’. Se avesse avuto l’aria di volersi sbarazzare di lui, Winterbourne si sarebbe sentito incoraggiato a considerarla con maggiore leggerezza, e riuscire a considerarla con maggiore leggerezza l’avrebbe resa assai meno inquietante. Ma in questa occasione Daisy continuò a mostrarsi una combinazione imperscrutabile di audacia e innocenza.
eggiava da circa un quarto d’ora, accompagnata dai due cavalieri, rispondendo, così parve a Winterbourne, in un tono di gioia infantile ai graziosi discorsi di Mr. Giovanelli, quando, accanto al sentiero, si fermò una carrozza che si era staccata dal flusso del traffico. In quello stesso momento Winterbourne scorse la sua amica, Mrs. Walker – dalla cui casa era venuto via poco prima – che, seduta nel veicolo, gli faceva cenno. Allontanandosi dal fianco di Miss Miller, si affrettò a obbedire a quell’invito. Mrs. Walker, rossa in faccia, aveva un’aria agitata. «È tremenda. Quella ragazza non deve comportarsi così. Non deve eggiare qui con due uomini. L’hanno notata cinquanta persone».
Winterbourne sollevò le sopracciglia. «È un peccato fare troppo chiasso per una cosa del genere».
«È un peccato lasciare che si rovini da sola!».
«È molto innocente».
«È molto pazza!» esclamò Mrs. Walker. «Avete mai conosciuto qualcuno più
stolto di sua madre? Dopo che ve ne siete andati tutti, or ora, non riuscivo a stare ferma a forza di pensarci. Mi sembrava deplorevole non fare almeno un tentativo per salvarla. Ho ordinato la carrozza, infilato il cappello e sono venuta qui in gran fretta. Grazie al cielo vi ho trovati!».
«Che cosa proponete di farci?» chiese Winterbourne sorridendo.
«Chiederle di salire in carrozza, portarla in giro per mezz’ora, perché il mondo capisca che non è del tutto in balia di se stessa, e quindi riportarla sana e salva a casa».
«Non credo che sia un’idea molto felice, ma potete tentare».
Mrs. Walker tentò. Il giovane raggiunse Miss Miller che, limitandosi a fare un cenno e a sorridere all’interlocutrice nella carrozza, aveva proseguito con il suo accompagnatore. Come seppe che Mrs. Walker desiderava parlarle, Daisy ritornò sui propri i con perfetta buona grazia e con Mr. Giovanelli al fianco. Dichiarò di essere lietissima di avere l’occasione di presentare il gentiluomo a Mrs. Walker. Eseguì immediatamente la presentazione e dichiarò di non avere mai visto in vita sua niente di così grazioso come la coperta da viaggio di Mrs. Walker.
«Sono contenta che vi piaccia», disse la signora con un dolce sorriso, «perché non salite? Ve la metterò addosso».
«Oh no, grazie. L’ammirerò molto di più vedendola su di voi, mentre girate in carrozza».
«Venite con me».
«Sarebbe delizioso, ma è incantevole così!», e Daisy lanciò un’occhiata luminosa ai due signori che le stavano uno da una parte e l’altro dall’altra.
«Sarà incantevole, bambina cara, ma non è l’usanza qui», incalzò Mrs. Walker sporgendosi dalla sua vittoria a mani giunte.
«Peccato! Dovrebbe esserlo! Se non camminassi, morirei».
«Dovreste andare a eggio con vostra madre, cara», esclamò la signora di Ginevra perdendo la pazienza.
«Con mia madre!», proruppe la giovane, e Winterbourne si accorse che subodorava un’intrusione.
«Mia madre non ha mai fatto dieci i in vita sua. E poi, sapete», aggiunse ridendo, «non ho più cinque anni».
«Siete abbastanza grande per essere più ragionevole. Siete abbastanza grande, mia cara, perché si chiacchieri di voi».
Daisy guardò Mrs. Walker sorridendo intensamente. «Si chiacchieri di me? Che
cosa intendete dire?».
«Salite in carrozza, e ve lo dirò». Daisy volse uno sguardo rapido e inquieto da uno all’altro dei signori accanto a lei. Mr. Giovanelli faceva inchini, lisciandosi i guanti e ridendo con molto garbo; Winterbourne la ritenne una scena sgradevolissima. «Non credo di voler sapere quello che intendete dire», replicò Daisy poco dopo. «Non credo che mi farebbe piacere».
Winterbourne si augurò che Mrs. Walker si avvolgesse nella sua coperta e si allontanasse, ma non era donna da accettare colpi di testa, come gli disse in seguito.
«Preferireste essere giudicata una ragazza impudente?», chiese.
«Santo cielo!», esclamò Daisy. Guardò di nuovo Mr. Giovanelli, quindi si volse a Winterbourne. Con un lieve rossore sulle gote era graziosissima.
«Mr. Winterbourne ritiene», cominciò sorridendo, gettando indietro il capo e squadrandolo da cima a fondo, «che, per salvare la reputazione, dovrei salire in carrozza?».
Winterbourne arrossì ed ebbe un attimo di profonda esitazione. Sembrava così strano sentirla parlare in quel modo della sua ‘reputazione’. Dal canto suo doveva parlare secondo le regole della galanteria. In quel caso il gesto più galante era di limitarsi a dire la verità, e per Winterbourne, come lo hanno fatto conoscere al lettore le poche indicazioni che sono stato capace di dare, la verità era che Daisy Miller avrebbe dovuto seguire il consiglio di Mrs. Walker. Osservò la sua grazia squisita; quindi con grande gentilezza disse: «Ritengo che dovreste
salire in carrozza».
Daisy scoppiò a ridere con violenza.
«Non ho mai sentito nulla di tanto bacchettone! Se questa è una cosa sconveniente, Mrs. Walker», proseguì, «allora è tutto sconveniente in me. Lasciatemi perdere. Arrivederci, vi auguro una buona scarrozzata!», e si allontanò con Mr. Giovanelli che fece un saluto ossequiosamente trionfante.
Mrs. Walker rimase a guardarla con le lacrime agli occhi.
«Salite, signore», disse a Winterbourne indicando il posto accanto a lei. Il giovane rispose di sentirsi in obbligo di accompagnare Miss Miller, al che Mrs. Walker dichiarò che non gli avrebbe più rivolto la parola, se le avesse rifiutato quel favore. Era chiaro che parlava sul serio.
Winterbourne raggiunse Daisy e il suo compagno e, offrendo la mano alla giovane, le disse che Mrs. Walker esigeva imperiosamente la sua compagnia. Si aspettava che, per tutta risposta, la ragazza fe qualche commento pungente, qualcosa che confermasse ancora di più quell’‘impudenza’ dalla quale Mrs. Walker si era tanto adoperata per dissuadérla. Si limitò invece a stringergli la mano, guardandolo appena, mentre Mr. Giovanelli lo congedava con un arabesco fin troppo enfatico del cappello.
Nel prendere posto sulla vittoria di Mrs. Walker, Winterbourne non era dell’umore migliore. «Non è stata una mossa abile da parte vostra», le disse con candore, mentre la carrozza rifluiva nella calca dei veicoli.
«In casi del genere non desidero essere abile, desidero essere schietta!».
«La vostra schiettezza è servita soltanto a offenderla e a sconcertarla».
«È andata a meraviglia. Se è tanto decisa a compromettersi, prima lo si sa, meglio è. Si può agire di conseguenza».
«Non aveva cattive intenzioni, credo», aggiunse Winterbourne.
«Lo pensavo anch’io un mese fa. Ma è andata troppo in là».
«Che cosa ha fatto?».
«Tutto quello che non si deve fare. Civettare con tutti gli uomini che raccatta; starsene seduta in un angolino con italiani misteriosi; ballare per tutta la serata con lo stesso cavaliere; ricevere visite alle undici di sera. Quando arrivano i visitatori, sua madre si ritira».
«Ma suo fratello», obiettò Winterbourne ridendo, «sta levato fino a mezzanotte».
«Deve essere edificante quello che vede. Mi hanno raccontato che in albergo parlano tutti di lei, che un sorriso corre fra i camerieri quando arriva un signore a chiedere di Miss Miller».
«Che vadano sulla forca i camerieri!» sbottò Winterbourne con rabbia. «L’unica colpa della poverina», aggiunse subito dopo, «è di essere incolta».
«È maleducata per natura», dichiarò Mrs. Walker. «Prendete questa mattina, per esempio: per quanto tempo l’avete conosciuta a Vevey?».
«Un paio di giorni».
«Figuratevi, allora! Fare una questione personale del fatto che ve ne siete andato!».
Winterbourne rimase in silenzio per qualche momento, quindi disse: «Ho il sospetto, Mrs. Walker, che voi e io siamo vissuti a Ginevra troppo a lungo!». E continuò chiedendole se ci fosse stata una ragione particolare per farlo salire in carrozza.
«Desideravo chiedervi di interrompere il vostro rapporto con Miss Miller, di non corteggiarla, di non darle altre occasioni di esporsi, in breve, di lasciarla sola».
«Non posso farlo, temo. Mi piace moltissimo».
«Ragione di più per non assecondarla nello scandalo».
«Non ci sarà nulla di scandaloso nelle mie attenzioni verso di lei».
«Ci sarà nel modo con cui saranno accolte, questo è sicuro. Ma ho detto quello che avevo sulla coscienza», proseguì Mrs. Walker. «Se desiderate raggiungere la signorina, vi farò scendere. Ecco, è il momento buono».
La carrozza attraversava quella parte dei giardini del Pincio che sovrastano le mura di Roma e si affacciano sulla splendida Villa Borghese. È delimitata da un ampio parapetto, fiancheggiato da vari sedili. Uno di questi, a una certa distanza, era occupato da un gentiluomo e da una signora, che Mrs. Walker indicò con un movimento della testa. In quello stesso momento i due si levarono per avvicinarsi al parapetto. Winterbourne, che aveva chiesto al cocchiere di fermarsi, scese dalla carrozza. La sua accompagnatrice lo fissò per un attimo in silenzio, quindi, mentre egli si levava il cappello, si allontanò con aria maestosa. Winterbourne, fermo in piedi, si era girato verso Daisy e il suo cavaliere. Era evidente che non avevano occhi per nessuno; erano troppo assorti l’uno nell’altra. Quando raggiunsero il muretto basso del giardino, si fermarono un istante a guardare l’ammasso di pini dalle chiome piatte di Villa Borghese, quindi Giovanelli si sedette con disinvoltura sull’ampio bordo del parapetto. Davanti a loro il sole al tramonto mandava fasci luminosi attraverso la coltre delle nuvole, e a questo punto il compagno di Daisy le tolse di mano l’ombrellino e lo aprì. La giovane si avvicinò un pochino ed egli glielo resse, poi, sempre reggendolo, se lo appoggiò sulla spalla sicché le due teste furono nascoste allo sguardo di Winterbourne. Il giovane indugiò per un attimo, quindi si avviò. Ma non si diresse verso la coppia con l’ombrellino; si incamminò verso l’abitazione di sua zia, Mrs. Costello.
Capitolo IV
Winterbourne, il giorno successivo, si illuse che non ci fossero sorrisi fra i camerieri quando alla fine andò a chiedere di Mrs. Miller all’albergo. La signora e la figlia non erano, però, nelle loro stanze, e il giorno dopo, ripetendo la visita, Winterbourne ebbe di nuovo la sfortuna di non trovarle. Il ricevimento di Mrs. Walker ebbe luogo la sera del terzo giorno e, malgrado la freddezza del loro ultimo colloquio, Winterbourne era fra gli ospiti. Mrs. Walker era una di quelle gentildonne americane che, risiedendo all’estero, si propongono – per usare la loro espressione – di ‘studiare’ la società europea, e in questa occasione aveva raggruppato numerosi esemplari umani che servissero, per così dire, da libro di testo. Daisy Miller non era ancora arrivata quando vi giunse Winterbourne, ma dopo pochi attimi vide entrare sua madre con aria timida e sgomenta. I capelli, sopra le tempie scoperte, erano più arricciati che mai. Mentre si avvicinava a Mrs. Walker, anche Winterbourne vi si accostò.
«Vedete, sono venuta da sola», disse la povera Mrs. Miller. «Sono così spaventata; non so che cosa fare; è la prima volta che vengo da sola a un ricevimento, specie in questo paese. Volevo portare Randolph o Eugenio o qualcuno, ma Daisy mi ha cacciata qui, lasciandomi a me stessa. Non sono abituata ad andare in giro da sola».
«Vostra figlia non intende onorarci della sua compagnia?», chiese Mrs. Walker in tono maestoso.
«Daisy è vestita di tutto punto», disse Mrs. Miller con l’accento dello storico imparziale, se non imperturbabile, che sempre usava per registrare i fatti della carriera della figlia. «Prima di cena era vestita di tutto punto per venire, ma è arrivato un suo amico, quel signore… quell’italiano che lei vuole portare qui. Una volta messi al pianoforte, pareva che non potessero staccarsene.
Mr. Giovanelli canta splendidamente. Arriveranno fra poco, immagino», concluse Mrs. Miller in tono fiducioso.
«Mi dispiace che venga… in tal modo», disse Mrs. Walker.
«Gliel’ho ben detto che non aveva senso vestirsi di tutto punto prima di cena se intendeva aspettare tre ore», replicò la mamma di Daisy. «Non vedevo il motivo di mettersi un abito come quello per starsene poi con Mr. Giovanelli».
«È orribile!», esclamò Mrs. Walker girandosi e rivolgendosi a Winterbourne. «Elle s’affiche. Si vendica perché mi sono azzardata a farle le mie rimostranze. Quando arriverà, non le rivolgerò la parola».
Daisy giunse che erano ate le undici, ma non era, in tale occasione, la signorina che aspetta di sentirsi rivolgere la parola. Avanzò con l’abito che frusciava, radiosamente bella, sorridendo e chiacchierando, con in mano un grande mazzo di fiori, accompagnata da Mr. Giovanelli. Tutti smisero di parlare per voltarsi a guardarla. Si diresse subito verso Mrs. Walker. «Avrete pensato che non sarei venuta, temo; per questo ho mandato la mamma ad avvertirvi. Volevo che Mr. Giovanelli, prima di venire, si esercitasse in alcune canzoni; canta meravigliosamente, sapete, e voglio che gli chiediate di cantare. Questo è Mr. Giovanelli; ve l’ho già presentato; ha una voce deliziosa e conosce canzoni incantevoli. L’ho costretto di proposito a riarle questa sera; ci siamo divertiti moltissimo in albergo».
Tutto questo Daisy lo snocciolò con voce chiara, dolce e vivace, guardando ora la padrona di casa, ora la stanza intorno, e dandosi nel frattempo dei colpettini sulle spalle per aggiustarsi gli orli dell’abito. «C’è qualcuno che conosco?», chiese.
«Penso che vi conoscano tutti!», disse Mrs. Walker in tono significativo e salutò molto sbrigativamente Mr. Giovanelli. Questo signore si comportò con galanteria: sorrideva, si inchinava, mostrava i denti candidi, si arricciava i baffi, roteava gli occhi, eseguendo tutto quello che si addice a un bell’italiano nel corso di un ricevimento. Cantò con molto garbo una mezza dozzina di canzoni, sebbene Mrs. Walker, in seguito, dichiarasse di non essere riuscita in alcun modo a scoprire chi glielo avesse chiesto. Non era stata Daisy a ordinarglielo. Seduta a una certa distanza dal pianoforte, Daisy chiacchierò con voce, nient’affatto impercettibile, per tutta la durata dell’esecuzione, pur avendo professato pubblicamente – per così dire – grande ammirazione per quella voce.
«È un peccato che queste stanze siano tanto piccole; non potremo ballare», disse a Winterbourne, come se lo avesse visto appena cinque minuti prima.
«Non mi dispiace che non si possa ballare. Io non ballo».
«No, naturalmente non ballate; siete troppo comato», disse Daisy. «Mi auguro che vi siate divertito a eggiare in carrozza con Mrs. Walker».
«No, non mi sono divertito; preferivo camminare con voi».
«Abbiamo fatto coppia; è stato molto meglio. Avete sentito con quale impudenza Mrs. Walker insisteva per farmi salire in carrozza e piantare in asso il povero Mr. Giovanelli con il pretesto delle convenienze? Come tutti la pensano in modo diverso! Sarebbe stato un gesto assai villano; da dieci giorni parlava di quella eggiata».
«Non avrebbe dovuto parlarvene affatto. A una giovane del suo paese non avrebbe mai proposto di eggiare con lui per la strada».
«Per la strada?», disse Daisy sgranando gli occhi graziosi. «Dove allora le avrebbe proposto di andare a eggio? Il Pincio non è una strada, e, grazie al cielo, non sono una giovane di questo paese. Le signorine di questo paese, da quanto ho capito, fanno una vita noiosissima. Non vedo perché dovrei mutare le mie abitudini per loro».
«Le vostre abitudini, temo, sono quelle di una civetta», disse Winterbourne con gravità.
«Sicuro che lo sono», esclamò lei tornando a dargli un’occhiata scherzosa. «Sono una tremenda, terribile civetta! Avete mai sentito che una ragazza graziosa non lo sia? Ma mi direte, suppongo, che io non sono graziosa».
«Siete graziosissima, ma vorrei che civettaste con me, con me soltanto».
«Ah! Grazie, grazie tantissime. Siete l’ultimo uomo con il quale penserei di farlo. Come ho avuto il piacere di comunicarvi, siete troppo comato».
«Lo dite troppo spesso».
Daisy si abbandonò a una risata compiaciuta. «Se avessi la dolce speranza di farvi arrabbiare, lo direi ancora».
«Non fatelo; quando sono arrabbiato, sono più comato che mai. Ma se non volete civettare con me, smettete almeno di civettare con il vostro amico al pianoforte. La gente non capisce queste cose».
«Pensavo che non capisse nient’altro!», esclamò Daisy.
«Non lo ammette in una giovane donna non sposata».
«Mi sembra assai più decoroso in una giovane non sposata che in una vecchia sposata», dichiarò Daisy.
«Quando frequentate la gente del posto, dovete adeguarvi ai loro costumi. Civettare è un costume tipicamente americano; non esiste qui. Quando, perciò, vi mostrate in pubblico con Mr. Giovanelli e senza vostra madre…».
«Santo cielo! Povera mamma!», interloquì Daisy.
«Se anche voi civettate, non lo fa Mr. Giovanelli; ha altre intenzioni».
«Non fa la predica in ogni caso», rispose Daisy con vivacità. «E se proprio volete saperlo, nessuno dei due civetta con l’altro. Siamo troppo buoni amici per farlo; siamo amici molto stretti».
«Se siete innamorati, allora è un’altra storia», replicò Winterbourne.
Fino a quel punto lo aveva lasciato parlare con tanta franchezza che Winterbourne non si sarebbe aspettato di turbarla con quella frase, ma Daisy si alzò di scatto, arrossendo visibilmente e lasciandolo a dirsi fra sé che le civettine americane erano le creature più bizzarre del mondo.
«Mr. Giovanelli, perlomeno, non mi dice cose tanto sgradevoli», rispose lanciando al suo interlocutore un’occhiataccia.
Winterbourne, attonito, si alzò con gli occhi sgranati. Mr. Giovanelli aveva finito di cantare e, allontanatosi dal pianoforte, si avvicinò a Daisy. «Non volete venire nell’altra stanza a prendere del tè?», chiese chinandosi davanti a lei con il suo miglior sorriso.
Daisy si volse verso Winterbourne, ricominciando a sorridere. Egli era ancora più perplesso perché quel sorriso illogico non chiariva nulla, sebbene sembrasse dimostrare, invero, che Daisy possedeva una dolcezza e una gentilezza che la portavano istintivamente a perdonare le offese.
«Non è mai venuto in mente a Mr. Winterbourne di offrirmi del tè», disse stuzzicandolo un po’.
«Vi ho offerto dei consigli», replicò Mr. Winterbourne.
«Preferisco un po’ di tè leggero!», esclamò Daisy allontanandosi con il brillante Giovanelli.
Per il resto della serata rimase seduta con lui nella stanza adiacente, nel vano della finestra. Ci fu un’interessante esecuzione al pianoforte, ma nessuno dei due vi prestò attenzione. Quando Daisy andò a congedarsi dalla padrona di casa, Mrs. Walker pose coscienziosamente rimedio alla debolezza di cui si era resa colpevole all’arrivo della giovane. Voltandole le spalle, lasciò che Miss Miller se ne andasse con tutta la grazia che le era possibile. Winterbourne, in piedi vicino alla porta, se ne avvide. Daisy si volse, pallidissima, guardando sua madre, ma Mrs. Miller, umilmente inconsapevole di qualsiasi violazione delle consuete regole sociali, pareva anzi provare l’incongruo impulso ad attirare l’attenzione sul fatto che lei le osservava rigorosamente.
«Buona notte, Mrs. Walker», disse, «abbiamo ato una serata deliziosa. Vedete, se permetto a Daisy di andare ai ricevimenti senza di me, non voglio che se ne vada via senza di me».
Daisy si volse guardando con un viso pallido e grave le persone in cerchio davanti alla porta; Winterbourne si accorse che, in quel primo momento, era troppo turbata e assorta perfino per provare indignazione. Dal canto suo egli era molto commosso.
«È stato un gesto crudele», disse a Mrs. Walker.
«Non rimetterà mai più piede nel mio salotto», replicò la padrona di casa.
Dato che non l’avrebbe incontrata nel salotto di Mrs. Walker, Winterbourne si recava il più spesso possibile nell’albergo di Mrs. Miller. Le signore c’erano di rado, ma quando le trovava, era sempre presente il devoto Giovanelli. Molto di frequente il piccolo, raffinato romano era da solo nel salotto con Daisy, visto che
evidentemente Mrs. Miller era sempre dell’avviso che la discrezione fosse l’anima della sorveglianza. Winterbourne notò, in un primo tempo con sorpresa, che in queste occasioni Daisy non era mai imbarazzata o seccata di vederlo, ma ben presto gli parve che la giovane non avesse più sorprese in serbo per lui; nel suo comportamento non restava che prevedere l’imprevedibile. Non manifestava alcun disappunto per il fatto che fosse interrotto il suo tête-à-tête con Mr. Giovanelli; continuava a chiacchierare con la stessa freschezza e libertà con due signori come con uno; nella sua conversazione c’era sempre la stessa strana mescolanza di audacia e puerilità. Winterbourne osservava fra sé che, se Daisy aveva per Giovanelli un interesse autentico, era ben singolare che non si adoperasse di più per proteggere la sacralità dei loro colloqui. E sempre di più gli piacevano l’innocente indifferenza e l’inesauribile buon umore. Non avrebbe saputo dirne la ragione, ma gli sembrava che quella ragazza non sarebbe mai stata gelosa. A rischio di suscitare nel lettore un sorriso quasi di scherno, posso affermare che, nei confronti delle donne che lo avevano interessato fino a quel momento, Winterbourne aveva spesso pensato, fra le varie possibilità, che, date certe circostanze, avrebbe potuto aver paura – letteralmente paura – di tali signore. Aveva invece la piacevole sensazione che non avrebbe mai dovuto aver paura di Daisy Miller. Va aggiunto che questo sentimento non era del tutto lusinghiero verso Daisy Miller; faceva parte della sua convinzione, o meglio della sua apprensione, che si sarebbe dimostrata una giovanetta assai leggera.
Ma evidentemente Daisy aveva un grande interesse per Giovanelli. Lo guardava sempre mentre parlava; gli diceva continuamente di fare questo e di fare quello, lo ‘prendeva in giro’ e lo oltraggiava. Sembrava del tutto dimentica del fatto che Winterbourne avesse detto qualcosa di spiacevole al ricevimento di Mrs. Walker.
Una domenica pomeriggio in cui aveva accompagnato sua zia a San Pietro, Winterbourne scorse Daisy che gironzolava per la chiesa in compagnia dell’inevitabile Giovanelli. Indicò subito la giovane con il suo cavaliere a Mrs. Costello che, dopo averli osservati per un attimo attraverso l’occhialino, disse:
«È per questo che sei così pensieroso in questi giorni, eh?».
«Non avevo la minima idea di essere pensieroso».
«Sei molto preoccupato; stai pensando a qualcosa».
«Di che cosa mi accusi di pensare?».
«Alla tresca di quella signorina, Miss Baker, Miss Chandler, com’è che si chiama? Miss Miller con quel piccolo tirapiedi di barbiere».
«Chiami tresca una relazione così alla luce del sole?».
«È la loro follia, non il loro merito».
«No», rispose Winterbourne con quella pensosità cui aveva alluso sua zia. «A mio avviso non c’è nulla che si possa chiamare tresca».
«Ne ho sentito parlare da dozzine di persone; dicono tutti che sia infatuata di lui».
«Sono di certo amici intimi».
Mrs. Costello esaminò di nuovo la coppia con il suo strumento ottico. «Lui è molto bello. È facile capire come stiano le cose. Lei è convinta che sia l’uomo più elegante del mondo, il gentiluomo più fine. Non ne ha mai conosciuto uno così; è perfino migliore del loro accompagnatore. Sarà stato l’accompagnatore a presentarglielo; si farà avanti per avere una bella provvigione se il suo compare riesce a sposare la signorina».
«Non credo che pensi di sposarlo, e non credo che lui speri di sposarla».
«Sta’ pur sicuro che lei non pensa a nulla. Vive di giorno in giorno, di ora in ora, come facevano nell’età dell’oro. Non riesco a immaginare nulla di più volgare», aggiunse Mrs. Costello. «Aspettati che da un momento all’altro ti dica di essere ‘fidanzata’».
«Secondo me è più di quanto Giovanelli si aspetti ».
«Chi è Giovanelli?».
«Il piccolo italiano. Mi sono informato su di lui e sono venuto a sapere alcune cose. A quanto pare, è un ometto rispettabilissimo. Nel suo piccolo è un cavaliere avvocato, credo, ma non si muove nelle cosiddette alte sfere. Non è da escludere che sia stato l’accompagnatore a presentarlo. Chiaro che è affascinato da Miss Miller. Se lei lo considera il gentiluomo più fine del mondo, egli, dal canto suo, non si è mai trovato in rapporti stretti con una signorina più splendida, più ricca e dispendiosa. E senz’altro gli sembrerà molto graziosa e interessante. Dubito che insegua il sogno di sposarla; lo considererà un colpo di fortuna improponibile. Non ha da offrire altro che una bella faccia, e nella misteriosa terra del dollaro c’è un abbiente Mr. Miller. Giovanelli sa di non avere un titolo
da offrire. Fosse stato almeno un conte o un marchese! Probabilmente è attonito per come è stato accolto!».
«Ne attribuisce il merito alla sua bella faccia, convinto che Miss Miller sia una signorina qui se e ses fantaisies!».
«Vero è», continuò Winterbourne, «che Daisy e la sua mamma non hanno ancora raggiunto quello stadio di – come dire? – di cultura in cui balena l’idea di accalappiarsi un conte o un marchese. Secondo me, sono intellettualmente incapaci di un tale progetto».
«Ah, ma il cavaliere non lo sa».
Dei commenti suscitati dalla ‘tresca’ di Daisy, Winterbourne raccolse sufficienti prove quel giorno a San Pietro. Una dozzina di membri della colonia americana a Roma arrivò per chiacchierare con Mrs. Costello, seduta sul seggiolino portatile alla base di uno dei grandi pilastri. Nel coro adiacente si officiava il vespro fra splendidi canti e note d’organo; nel frattempo fra Mrs. Costello e i suoi amici si faceva un gran dire che la povera piccola Miss Miller andava davvero ‘troppo in là’. A Winterbourne non piacevano affatto le cose che sentiva, ma quando, uscendo sulla grande gradinata della chiesa, vide Daisy, sbucata prima di lui, che saliva in una carrozza scoperta con il suo complice e si allontanava per le ciniche strade di Roma, non poté negare a se stesso che la ragazza andava davvero molto in là. Era dispiaciuto per lei, non perché credesse che avesse perso la testa, ma perché era doloroso vederla inquadrata in una posizione volgare nelle categorie del disordine, lei che era graziosa, inerme, spontanea. Fece in seguito un tentativo di accennarne a Mrs. Miller. Incontrò, un giorno, sul Corso un amico – anche lui turista – appena uscito da Palazzo Doria dove aveva visitato la splendida galleria. L’amico per un momento gli parlò del superbo ritratto di Innocenzo X del Velazquez, appeso in una saletta del palazzo; quindi gli disse: «Nella stessa saletta, a proposito, ho avuto il piacere di contemplare un quadro di tipo diverso: la graziosa americana che mi hai indicato
la scorsa settimana». Rispondendo alle domande di Winterbourne, l’amico gli raccontò che la graziosa americana – più graziosa che mai – sedeva con un signore nella nicchia appartata dove è conservato il grande ritratto papale.
«Chi era il signore?».
«Un piccolo italiano con alcuni fiorellini all’occhiello. La ragazza è incantevole, ma l’altro giorno mi era sembrato di capire da te che fosse una signorina du meilleur monde».
«Lo è!», rispose Winterbourne e, rassicuratosi che il suo informatore avesse visto Daisy e il suo compagno appena cinque minuti prima, saltò su una carrozza per recarsi da Mrs. Miller. La trovò in albergo, e lei si scusò per riceverlo in assenza di Daisy.
«È uscita con Mr. Giovanelli. È sempre in giro con Mr. Giovanelli».
«Ho notato che sono molto intimi», osservò Winterbourne.
«Oh, sembra che non possano vivere l’una senza l’altro! È un vero gentiluomo comunque. Continuo a dire a Daisy che è fidanzata!».
«Che cosa dice Daisy?».
«Oh, che non è fidanzata. Ma potrebbe ben esserlo!», riprese l’imparziale
genitrice. «Si comporta come se lo fosse. Ma mi sono fatta promettere da Mr. Giovanelli di dirmelo lui, se non lo fa lei. Dovrei scriverne a Mr. Miller, vero?».
Winterbourne rispose che sarebbe stato opportuno; l’atteggiamento di Mrs. Miller gli sembrava così nuovo negli annali della vigilanza parentale che rinunciò al tentativo di metterla in guardia, considerandolo del tutto inutile.
Daisy non era mai in albergo, e Winterbourne smise di incontrarla a casa delle comuni conoscenze perché – se ne accorse – queste avvedute persone avevano ormai deciso che andava troppo in là. Smisero di invitarla, lasciando capire ai coscienziosi europei il loro desiderio di annunciare una grande verità: Daisy Miller era, sì, una signorina americana, ma il suo comportamento non era emblematico, anzi era considerato anomalo dai suoi stessi compatrioti. Winterbourne si chiedeva che cosa provasse Daisy davanti a tutta quella gente che freddamente le voltava le spalle; a tratti lo irritava il sospetto che forse non provasse nulla. Si diceva che era troppo leggera e infantile, troppo incolta e sventata, troppo provinciale per avere riflettuto su quell’ostracismo o perfino per averlo notato. In altri momenti si convinceva che in quella sua personcina elegante e irresponsabile si annidasse una coscienza ribelle, apionata, rigorosamente attenta all’impressione che produceva. Si chiedeva se la sfida di Daisy scaturisse dalla consapevolezza dell’innocenza o dal fatto di essere sostanzialmente un’irresponsabile. Si deve ammettere che ostinarsi a credere ‘nell’innocenza’ di Daisy finì per sembrare a Winterbourne sempre più una questione di capziosa galanteria.
Come ho già avuto occasione di dire, era arrabbiato con se stesso per essersi tanto arrovellato su quella signorina; lo turbava di non riuscire a capire istintivamente fino a che punto quelle eccentricità fossero generiche, nazionali e fino a che punto fossero personali. Non era riuscito a coglierne la verità sotto nessuno dei due profili, e ormai era troppo tardi.
Ella era ‘infatuata’ di Mr. Giovanelli.
Alcuni giorni dopo il breve colloquio con la madre, incontrò Daisy in quella stupenda dimora di desolazione lussureggiante nota come il Palazzo dei Cesari. La precoce primavera romana riempiva l’aria di germogli e profumi, e lo scabro terreno del Palatino era avvolto in una tenera verzura. Daisy eggiava in cima a uno di quei grandi cumuli di rovine arginati da marmo muschioso e lastricati con iscrizioni monumentali. Gli parve che Roma non fosse mai stata così deliziosa. Rimase a osservare l’incantevole, remota armonia di linee e colori che all’orizzonte chiudeva la città, assaporando gli odori mollemente umidi, consapevole che la giovinezza dell’anno e l’antichità del luogo si imponevano in una misteriosa mescolanza. Gli parve che Daisy non fosse mai stata tanto graziosa, ma questa era un’osservazione che faceva ogni volta che la incontrava. Giovanelli le era accanto, e anche Giovanelli aveva un’aria insolitamente raggiante.
«Mi sembrate solo!», disse Daisy.
«Solo?» chiese Winterbourne.
«Ve ne andate sempre in giro per conto vostro. Non trovate nessuno che eggi insieme a voi?».
«Non sono fortunato come il vostro cavaliere».
Fin dall’inizio Giovanelli aveva trattato Winterbourne con squisita cortesia, ascoltava le sue osservazioni con aria deferente; rideva con scrupolo cerimonioso alle sue arguzie; sembrava desideroso di dimostrare che riteneva
Winterbourne un giovanotto superiore. Non si comportava affatto come un corteggiatore geloso; aveva ovviamente molto tatto; non aveva obiezioni a che ci si aspettasse da lui un contegno umile. A volte Winterbourne pensava addirittura che Giovanelli avrebbe provato un certo sollievo in un incontro a tu per tu con lui, per dirgli, da giovane intelligente, che – santo cielo! – sapeva bene che la signorina era straordinaria ed egli non si lusingava con speranze illusorie – o perlomeno troppo illusorie – di matrimonio e dollari. In questa particolare occasione si allontanò dalla sua compagna per cogliere un rametto di mandorlo in fiore che con cura infilò all’occhiello.
«So perché parlate così», disse Daisy fissando Giovanelli. «Perché pensate che vada troppo in giro con lui!», e con un cenno del capo indicò il suo accompagnatore.
«Lo pensano tutti… se vi interessa saperlo».
«Naturalmente mi interessa saperlo!», esclamò Daisy in tono serio. «Ma non ci credo. Fingono soltanto di essere turbati. Non gliene importa nulla di quello che faccio. Inoltre non vado in giro troppo».
«Secondo me, scoprirete che a loro importa. Ve lo faranno capire… in modo sgradevole».
Daisy lo guardò per un attimo. «Quanto… sgradevole?».
«Non avete notato nulla?» chiese Winterbourne.
«Ho notato voi. Ma che eravate rigido come un ombrello lo notai la prima volta che vi vidi».
«Scoprirete che sono meno rigido di molti altri», disse Winterbourne sorridendo.
«Come lo scoprirò?».
«Andando a fare loro visita».
«Che cosa mi faranno?».
«Vi volteranno le spalle con freddezza. Lo sapete quello che vuol dire.»
Daisy lo guardava intenta; cominciava ad arrossire. «Come Mrs. Walker l’altra sera?».
«Esattamente!».
Guardò Giovanelli che, un po’ distante, si ornava con i fiori di mandorlo. Quindi, tornando a posare lo sguardo su Winterbourne, disse: «Non dovreste permettere loro di essere tanto sgarbati!».
«Come posso evitarlo?».
«Dovreste dire qualcosa».
«Dirò qualcosa», e dopo una breve pausa aggiunse: «Dirò che, secondo vostra madre, siete fidanzata. Me l’ha detto lei».
«Sì, lo pensa», rispose Daisy con semplicità.
Winterbourne prese a ridere. «Lo pensa anche Randolph?».
«Secondo me, Randolph non pensa niente». Lo scetticismo di Randolph stimolò ancora di più l’ilarità di Winterbourne; si accorse che Giovanelli stava tornando da loro. Daisy, notandolo anche lei, si rivolse al suo compatriota. «Dato che avete toccato l’argomento, io sono fidanzata… ». Winterbourne la guardò: aveva smesso di ridere. «Non ci credete!», aggiunse lei.
Winterbourne rimase in silenzio, quindi disse: «Sì, ci credo!».
«Oh, no, non ci credete», rispose Daisy. «Be’, io… non lo sono!».
La giovane e il suo cicerone si avviarono verso il cancello della recinzione, e Winterbourne, che vi era già entrato, poco dopo si accomiatò da loro.
Una settimana più tardi andò a cena in una bellissima villa sul Celio e, arrivato
licenziò la carrozza presa a nolo. La serata era deliziosa e si riprometteva la gioia di rincasare a piedi ando sotto l’arco di Costantino, accanto ai monumenti fiocamente illuminati del Foro. In cielo c’era una luna calante, con una luce non brillante, velata da una lieve cortina di nubi che diffondeva il chiarore in modo uniforme. Di ritorno dalla villa (erano le undici), nell’avvicinarsi alla fosca mole circolare del Colosseo, a Winterbourne venne in mente, quasi fosse un amante dell’insolito, che sarebbe valsa la pena di dare un’occhiata all’interno sotto il pallido chiarore lunare.
Girò di lato dirigendosi verso una delle arcate vuote, accanto alla quale notò che era ferma una carrozza aperta, uno dei soliti calessi romani. Entrò fra le ombre cavernose dell’imponente monumento per emergere nell’arena vuota e silenziosa. Quel luogo non gli era mai sembrato tanto suggestivo. Una metà del gigantesco circo era immersa nell’ombra; l’altra si adagiava assopita nella penombra luminosa. Mentre stava lì, cominciò a mormorare i famosi versi di Byron dal Manfredi, ma, prima di aver finito la citazione, ricordò che le meditazioni notturne nel Colosseo, se pure sono raccomandate dai poeti, sono deprecate dai medici. L’atmosfera storica era lì, di sicuro, ma, da un punto di vista scientifico, questa atmosfera storica era un abominevole miasma. Winterbourne raggiunse il centro dell’arena per dare un’occhiata più ampia, con l’intenzione quindi di ritirarsi in gran fretta. La grande croce nel mezzo era avvolta nell’ombra; soltanto quando fu vicino, riuscì a distinguerla con chiarezza. Scorse allora due persone ferme sui bassi gradini della base. Una di queste era una figura di donna, seduta; in piedi, davanti a lei, stava il suo compagno.
Poco dopo, gli giunse distinto, nella tiepida aria notturna, il suono di una voce femminile: «Ci guarda come forse tanto tempo fa i leoni e le tigri guardavano i martiri cristiani!». Furono queste le parole che udì nell’accento familiare di Miss Daisy Miller.
«Speriamo che non sia affamato», rispose lo scaltro Giovanelli. «Prenderà prima me; voi sarete il dolce!».
Winterbourne si fermò in preda a una sorta di orrore e, va aggiunto, con un certo sollievo, quasi che sull’ambiguità del comportamento di Daisy si fosse accesa una specie di luce improvvisa, e l’enigma fosse diventato semplice da decifrare: era una signorina che un gentiluomo non deve prendersi la briga di rispettare.
Rimase a guardare lei e il suo compagno, senza riflettere sul fatto di essere con ogni probabilità ben visibile, sebbene li scorgesse vagamente. Era arrabbiato con se stesso per essersi dato tanta pena per trovare il giusto modo di considerare Miss Daisy Miller. Poi, mentre stava per farsi di nuovo avanti, si trattenne, non per il timore di farle un’ingiustizia, ma per non correre il rischio di apparire disdicevolmente esilarato dopo che, d’un tratto, si era dissipata ogni remora a essere cauto nella disapprovazione. Si volse verso l’entrata, ma, nel farlo, sentì di nuovo Daisy che parlava.
«Ehi, è Mr. Winterbourne! Mi ha vista… e mi ignora!».
Che furba bricconcella era, e con quanta finezza si atteggiava a innocente oltraggiata! Ma non l’avrebbe ignorata. Winterbourne avanzò di nuovo, muovendo verso la grande croce. Daisy si era alzata; Giovanelli si levò il cappello. Winterbourne pensava soltanto alla follia, da un punto di vista sanitario, di gironzolare – lei così delicata – in un nido di malaria. E se anche fosse stata una furba scapestrata?». Non era una ragione perché morisse di malaria.
«Da quanto tempo siete qui?» chiese quasi con brutalità.
Deliziosa in quella lusinghiera luce lunare, Daisy lo guardò per un attimo.
«Tutta la sera», rispose poi. «Non ho mai visto niente di così incantevole».
«Temo che non troverete incantevole la malaria», disse Winterbourne. «È così che la si prende. Mi stupisco», aggiunse rivolgendosi a Giovanelli, «che voi, un romano, abbiate incoraggiato tanta imprudenza».
«Ah, non ho paura per me», disse l’avvenente romano.
«Neanch’io… per voi! Mi riferisco alla signorina».
Giovanelli sollevò le belle sopracciglia e mostrò i denti brillanti. Ma accettò docilmente il rimprovero di Winterbourne.
«L’ho detto alla Signorina che era una grave imprudenza, ma è stata mai prudente la signorina?».
«Non mi sono mai ammalata, e non intendo farlo!» dichiarò la Signorina. «Non ho l’aria robusta, ma lo sono! Dovevo vedere il Colosseo al chiaro di luna. Non voglio ritornare a casa senza averlo fatto, ed è stato bellissimo. Non è così, Mr. Giovanelli? Se c’è del pericolo, Eugenio può darmi qualche pillola. Ne ha di meravigliose».
«Vi consiglierei di rientrare in fretta a prenderne una», disse Winterbourne.
«È molto saggio quello che dite», rispose Giovanelli. «Vado ad accertarmi che la carrozza sia vicina». E si allontanò rapidamente. Daisy lo seguì insieme a Winterbourne che continuava a guardarla: non sembrava affatto in imbarazzo. Winterbourne non disse nulla; Daisy cicalava sulla bellezza del luogo. «Ho visto il Colosseo al chiaro di luna!» esclamò. «Che gioia!».
Notando il silenzio di Winterbourne, gli chiese perché non parlasse. Questi, senza rispondere, iniziò a ridere. arono sotto una delle buie arcate; Giovanelli era davanti con` la carrozza. Daisy si fermò per un momento, guardando il giovane americano: «Avete creduto che fossi fidanzata l’altro giorno?», chiese.
«Che importa quello che ho creduto l’altro giorno?», rispose Winterbourne continuando a ridere.
«Che cosa credete adesso?».
«Credo che faccia assai poca differenza che siate fidanzata o meno!».
Nella fitta penombra dell’arcata sentiva fissi su di sé i deliziosi occhi della giovane; evidentemente aveva intenzione di rispondere. Ma Giovanelli arrivò di corsa. «Presto, presto, se rientriamo entro mezzanotte, saremo al sicuro».
Daisy prese posto nella carrozza e il fortunato italiano le si sedette accanto. «Non dimenticate le pillole di Eugenio!», disse Winterbourne levandosi il cappello.
«Non m’importa se ho la malaria o no!», disse Daisy con una strana vocina. Il cocchiere diede un colpo di frusta e si allontanarono sull’antico lastricato rattoppato.
Winterbourne – per fargli giustizia, diciamo così – non accennò a nessuno di avere incontrato a mezzanotte Miss Miller con un signore al Colosseo; eppure, un paio di giorni più tardi, il fatto era noto a tutta la piccola cerchia di americani e commentato di conseguenza. Winterbourne concluse che fossero venuti a saperlo all’albergo e che, al ritorno di Daisy, ci fosse stato uno scambio di battute fra il portiere e il vetturino. Ma nello stesso tempo il giovane era consapevole di non provare più rammarico per il fatto che sulla piccola civetta americana spettegolassero quei gretti domestici. Uno o due giorni più tardi, quella stessa gente aveva una grave notizia da dare: la piccola civetta americana era ammalata in modo allarmante. Quando la diceria lo raggiunse, Winterbourne si recò immediatamente all’albergo per saperne di più. Scoprì che lo avevano preceduto due o tre amici comprensivi, e che nel salone di Mrs. Miller li intratteneva Randolph.
«Andare in giro di notte: ecco quello che l’ha fatta ammalare», diceva Randolph. «Va sempre in giro di notte. Come fa a piacerle… c’è un buio pestifero. Qui non si vede nulla di notte, salvo quando c’è la luna. In America c’è sempre la luna!». Mrs. Miller era invisibile: almeno ora dava alla figlia il sostegno della sua presenza. Era chiaro che Daisy era gravemente malata.
Winterbourne si recava spesso a chiedere sue notizie; incontrò una volta Mrs. Miller che, seppure molto allarmata, era – con sua grande meraviglia – controllata e composta e, come risultava chiaro, un’infermiera efficiente e assennata. Parlò per un bel po’ del dottor Davis, ma Winterbourne, fra sé e sé, le fece un complimento dicendosi che, dopo tutto, non era una mostruosa oca.
«Daisy parlava di voi l’altro giorno. Per metà del tempo non sa quello che dice, ma credo che questa volta lo sapesse. Mi ha affidato un messaggio; mi ha detto
di dirvelo, di dirvi che non è mai stata fidanzata con quel bell’italiano. Ne sono felicissima, questo è sicuro. Mr. Giovanelli non è mai venuto da quando Daisy si è ammalata. Pensavo che fosse un gentiluomo così squisito, ma questa non la chiamo cortesia! Ha paura che sia arrabbiata perché la portava fuori di notte, così mi ha detto una signora. Non mi abbasserei a rimproverarlo. Daisy, in ogni caso, dice di non essere fidanzata. Non so perché volesse farvelo sapere, ma me l’ha detto tre volte: ‘Bada di dirlo a Mr. Winterbourne’. Mi ha anche detto di chiedervi se vi ricordate della volta che siete andati a vedere quel castello in Svizzera. Ma le ho detto che non avrei inoltrato messaggi del genere. Che non sia fidanzata, questo, sono proprio contenta di saperlo».
Ma, come aveva detto Winterbourne, tutto ciò aveva assai poca importanza. Una settimana più tardi la poveretta morì; era stato un caso assai grave di malaria. Daisy fu sepolta nel piccolo cimitero protestante in un angolo vicino alle mura della Roma imperiale, sotto i cipressi e i fitti fiori primaverili. Winterbourne era lì con numerose altre persone in lutto, più di quante avrebbe lasciato supporre lo scandalo suscitato dalla giovane donna. Vicino a lui c’era Giovanelli che gli si avvicinò ancora di più prima che Winterbourne si allontanasse. Giovanelli era pallidissimo e, in questa circostanza, non aveva fiori all’occhiello; sembrava che desiderasse dire qualcosa. Alla fine disse: «Era la ragazza più bella che avessi mai visto e la più amabile». E dopo un attimo aggiunse: «E anche la più innocente». Winterbourne lo guardò e, poco dopo, ripeté: «La più innocente?».
«La più innocente!».
Winterbourne ne fu afflitto e arrabbiato. «Perché diavolo l’avete portata in quel luogo letale?».
L’urbanità di Mr. Giovanelli era imperturbabile. Abbassò lo sguardo per un attimo, quindi disse: «Non avevo paura per me, e lei voleva andare».
«Non era una buona ragione!», dichiarò Winterbourne.
Lo sfuggente romano abbassò di nuovo lo sguardo. «Se fosse vissuta, non avrei ottenuto nulla. Non mi avrebbe mai sposato, ne sono sicuro».
«Non vi avrebbe mai sposato?».
«Per un momento lo sperai. Ma no, ne sono sicuro».
Winterbourne lo ascoltava immobile, fissando il rozzo tumulo fra le margherite primaverili. Quando si volse di nuovo, Mr. Giovanelli si era allontanato con il suo o lento e leggero.
Winterbourne partì da Roma quasi immediatamente, ma, durante la successiva estate, incontrò di nuovo sua zia, Mrs. Costello, a Vevey. A Mrs. Costello Vevey piaceva molto. In quel frattempo Winterbourne aveva spesso pensato a Daisy Miller e ai suoi modi sconcertanti. Un giorno parlò di lei con sua zia; le disse che gli rimordeva la coscienza per averle fatto un’ingiustizia.
«Ti assicuro che non capisco», disse Mrs. Costello. «In che modo la tua ingiustizia le ha fatto del male?».
«Prima di morire mi mandò un messaggio che allora non compresi. Ma l’ho capito successivamente. Avrebbe apprezzato la stima del prossimo».
«È un modo semplice per dire che avrebbe corrisposto l’affetto del prossimo?».
Winterbourne non rispose a quella domanda, ma poco dopo disse: «Era giusta l’osservazione che mi facesti la scorsa estate: ero destinato a fare un errore. Da troppo tempo vivo in paesi stranieri».
Ritornò tuttavia a vivere a Ginevra da dove continuano a giungere i resoconti più contraddittori sui motivi del suo soggiorno: una versione assicura che ‘studia’ molto – un’allusione per dire che gli interessa moltissimo una qualche brillante signora straniera.