Le cornici di Gretel Viaggio nel sogno della qualità
Alessandro Chelo Shamba Edizioni
LE CORNICI DI GRETEL Proprietà letteraria riservata © 2012 Shamba Edizioni ISBN 978-88-97458-13-5
Gretel...
1
Per il saggio, ogni giornata rappresenta una nuova vita, ogni giorno è una nuova fonte di ispirazione, ma occorre non farsi travolgere dalla quotidianità del lavoro e non lasciarsi spingere dagli eventi. G. Kaeser
Gretel sfogliava i suoi vestiti dentro l’armadio, quasi fossero pagine di un libro. Non aveva un guardaroba particolarmente ricco, ma ugualmente si dava un gran daffare: aveva l’abitudine di tenere alla rinfusa, mischiati insieme, i vestiti per tutte le stagioni. Spesso le capitava di vestire in pieno inverno con coloratissimi pantaloni di tela leggera, e quante volte aveva indossato in agosto un gilè di panno pesante senza nulla sotto!
Quel giorno, invece, Gretel sceglieva con cura tutta particolare l’abito che avrebbe indossato: un po’ perché essendo molto presto, erano appena ate le sei del mattino, aveva tutto il tempo per dedicarsi a questa attività, ma soprattutto perché per lei quello era un giorno davvero speciale: avrebbe iniziato il suo nuovo lavoro. A dire il vero sarebbe stato il suo primo lavoro in assoluto, e per una ragazza di ventinove anni che fino a quel momento aveva girato un po’ a casaccio Paesi di mezzo mondo, vivendo la sua vita con la naturalezza di un animale, quello era veramente un momento speciale.
Non riusciva a spiegarsi la ragione che l’aveva indotta a un cambiamento così radicale del suo stile di vita, ma sentiva che quello sarebbe stato il primo giorno del suo futuro: alle otto avrebbe dovuto presentarsi all’ufficio delle Poste per prendere servizio. Aveva calcolato alla perfezione tutti i tempi e aveva pensato che, essendo la viabilità di Genova, la sua città, particolarmente problematica, sarebbe andata a piedi e in fondo le sarebbero bastati quindici, al massimo venti minuti per arrivare all’ufficio postale, che non era poi granché distante dalla sua abitazione.
Era particolarmente euforica e curiosa. Beh, pensò, dalle collanine di perle allo sportello delle Poste. Un salto mica da ridere. Questo pensiero rese Gretel ancora più vitale. Guardandosi vestita di tutto punto nella grande specchiera grezza appoggiata in terra si chiese che tipo di persone avrebbe incontrato e con chi avrebbe dovuto condividere la sua vita d’ufficio. Non sapeva ancora che avrebbe conosciuto una persona che in qualche modo avrebbe cambiato la sua vita intera.
Sulle alture dell’entroterra cittadino, anche Tommaso si stava preparando al suo primo giorno di lavoro. Aveva deciso di abitare in collina per una ragione precisa: l’odore di timo e origano che si sente al mattino presto solo là. Quel profumo trasformava ogni mattino di Tommaso in un momento magico. Eppure quel giorno il suo stato d’animo era molto diverso da quello di Gretel: se avesse potuto, a lavorare non ci sarebbe proprio andato.
Lui che ci teneva tanto a dimostrare sempre a tutti che nulla di negativo poteva mai imbrigliarlo, lui che non sapeva che cosa fosse uno scatto di nervi, lui che da diciassette anni, cioè da quando ne aveva diciotto, non versava una lacrima e sapeva controllare benissimo le sue emozioni. Sì, proprio lui, guardando il bricco del caffè, capì che per quei lunghi anni era stato una maledetta pentola, una pentola sul fuoco. Era una pentola perfetta, non traboccava assolutamente nulla e così dava l’impressione di essere una pentola vuota. Una pentola in esposizione.
Ma ora il coperchio era saltato e lui tutto d’un tratto poteva rileggere “con altri occhiali” gli anni trascorsi. Quei nuovi occhiali rendevano tutto più struggente! “Quante emozioni non comunicate! Quante rinunce a volere veramente bene...” continuava a ripetersi seduto al tavolo della cucina sul quale teneva pesantemente appoggiati i suoi gomiti. A quante amicizie profonde ho rinunciato! Continuò a pensare. Per paura, sì, sicuramente per paura.
Ma da dove vengono le lacrime? Si chiese a voce alta, guardandosi nello specchio del bagno con l’espressione di chi tiene una conferenza televisiva. Io ne ho un serbatoio pieno da qualche parte. L’ho riempito in tutti questi anni. Lo sto svuotando tutto in una volta, in pochi giorni. E allora? Continuò, sempre guardandosi allo specchio, ma con aria da pistolero, c’è mica qualcuno che ha qualcosa da ridire? Ora finisco di farmi la barba e vado al mio nuovo impiego. Non sarà un posto da direttore generale, ma intanto mi farà vivere, e poi bisogna apprezzare il meglio di quello che c’è. Forza, ora basta con queste stronzate. È morto un Tommaso e ne nasce un altro. Chissà che non sia migliore.
Con questo pensiero, infilò il suo giubbotto di jeans, si tirò dietro la porta e, con una strana espressione di sfida dal viso, si incamminò verso il suo primo giorno di lavoro all’ufficio delle Poste.
2
Non capisco perché chi crede negli angeli viene ritenuto più credulo di chi crede negli elettroni. O. Wilde
Fu proprio davanti alle porte di vetro e alluminio dell’ufficio che Gretel e
Tommaso si incontrarono per la prima volta. Tommaso, guardando di soppiatto Gretel, pensava che il suo nuovo lavoro non dovesse essere così male se gli utenti che frequentavano l’ufficio erano così interessanti e, con fare galante, fece entrare Gretel dicendole:
- Si accomodi, spero di poterla servire io.
- Ma io non devo essere “servita”, come dici tu, io lavoro qui. Proprio da oggi, rispose Gretel.
- No!, disse Tommaso stupito e contento, ma è fantastico! Anche per me è il mio primo giorno di lavoro qui dentro. E poi, sai, oggi tutto sommato per me non è solo il primo giorno di lavoro, è anche una specie di primo giorno, come dire... in generale.
Gretel guardò Tommaso, ricordò di aver formulato poco prima lo stesso pensiero e gli chiese:
- Vuoi dire che anche per te oggi è il primo giorno del tuo futuro?
- Sì, sì è proprio così: sai, prima ho pensato che oggi sarebbe morto un Tommaso e ne sarebbe nato un altro.
- Allora cambia anche il nome! disse sicura Gretel.
- Che cosa vuol dire “cambia il nome”?
- Se nasce un nuovo Tommaso, lo vuoi chiamare proprio Tommaso? Sai che noia!
- Ma è una delle poche certezze che ho, disse lui con occhi alla Woody Allen.
- Beh, da oggi non hai più neanche questa. Ti va bene? esclamò Gretel ostentando una sicurezza così spontanea da non risultare fastidiosa.
- Va bene, ma chi se ne importa poi del nome che mi sono portato dietro per tutti questi anni, simulò Tommaso. Secondo te, come mi potrei chiamare?
- Ma è ovvio! Lo capirebbe chiunque! Tranne te, evidentemente, rispose Gretel con un tono così irriverente e confidenziale da risultare insolito tra due persone che si sono appena conosciute. È per entrambi il primo giorno del nostro futuro, ci siamo incontrati come in una favola; io mi chiamo Gretel, tu non puoi che chiamarti Hansel!
- Ma io non sapevo che ti chiamassi Gretel, è bello. Hansel? Sai che non è per niente male?! disse Tommaso a cui, in verità, l’idea di essere chiamato “Hansel” non andava proprio per nulla, ma aggiunse: Hansel e Gretel? Come quelli della favola?
- Già. Hansel e Gretel come quelli della favola, replicò lei facendogli il verso.
In quel momento Hansel percepì nettamente che, da allora, avrebbe sempre perdonato tutto a Gretel, in qualunque caso e qualunque cosa fosse successa.
3
È un folle chi, nel proprio lavoro, non incomincia a lavorare da se stesso. Kung Tse
Il primo giorno di lavoro fu vissuto da Gretel come un’esperienza straordinaria. Tutto era diverso da come lei lo aveva immaginato. Soprattutto il funzionario che aveva la responsabilità di quell’ufficio postale, in altri termini il capo, era fisicamente differente dall’immagine che Gretel si era costruita mentalmente: si aspettava ad accoglierla un signore incravattato, energico, ma gentile; si trovò invece di fronte a un uomo magro, con il viso scavato, un’espressione negli occhi fra l’incarognito e l’indifferente, tipica delle persone endemicamente sole, la sigaretta sempre appiccicata e tenuta appesa quasi miracolosamente al labbro inferiore e poi la barba, a tratti rasata bene, a tratti male, soprattutto sotto il naso e sul collo, all’altezza del gozzo. Aveva una camicia beige con grandi taschini frontali all’altezza del torace che però, a causa della postura dimessa dell’uomo, rimanevano all’altezza dello stomaco. Dalle maniche corte della camicia spuntavano due braccia magre e bianche. A Gretel parvero braccia inutili.
Ma ciò che maggiormente la colpì fu l’odore di alcol che aveva il suo alito. Egli aveva infatti un’abitudine che era ormai diventata un automatismo: alla scadenza di ogni ora, segnalata dal “clang” dell’orologio per la timbratura, si recava al bar di fronte, dove pronunciava sempre la stessa frase: “Il solito”, e il barista: “Un bel succo di vinaccia per il nostro dottor Dellepiane”. Questa scena si ripeteva esattamente cinque volte il giorno, tutti i santi giorni. Da sempre.
A Dellepiane toccò il compito di accogliere i due nuovi assunti. Li chiamò alla sua scrivania con un cenno della testa. La sua scrivania era ricoperta di vecchie carte e pratiche da sempre in attesa di essere sbrigate, così dovette fare un po’ di spazio ammucchiando tutte quelle cartelline. Restò seduto, strinse debolmente la mano a Gretel, poi anche a Tommaso. La sigaretta era sempre lì, appesa al labbro e lui strizzava gli occhi perché il fumo che lentamente saliva ad accarezzargli la faccia scavata, glieli bruciava arrossandoli. Poi parlò con voce bassa:
- Ragazzi, dovrei dirvi: “Benvenuti in questa nostra famiglia” e altre cose del genere. Vi dico solo di fare il vostro lavoro, di non occuparvi troppo degli altri, così nessuno si occuperà di voi e potrete vivere tranquilli. Non fraintendete: qui siamo tutti amici, vi darete del tu con i vostri colleghi, anche con quelli anziani, è un’usanza, e vi chiamerete per nome. A proposito, come vi chiamate? Ho visto nella comunicazione di servizio che uno di voi ha un nome così strano...
Gretel lo interruppe:
- È lui! Si chiama Hansel, anche se da poco.
Tommaso assisteva alla scena come se fosse al cinema e, un po’ stralunato, fece cenno di sì col capo.
- Io invece mi chiamo Gretel, continuò lei, che è un nome molto più comune.
- Già, già , disse Dellepiane senza capire, ora potete andare agli sportelli. Sedetevi al fianco dei vostri colleghi, per oggi il vostro lavoro consiste nel
guardare e imparare . Accompagnò le ultime parole, “guardare e imparare”, con un cenno rafforzativo del dito indice e si rituffò nel suo mondo di alcol e di fumo, stretto dall’assedio della sua solitudine.
4
Non si assume un nuovo atteggiamento lasciandosi trasportare dalle cose, bensì decidendo di adottarlo. T.A. Harris
Verso le tre Hansel, che ormai intrappolato nel gioco aveva accettato completamente il suo nuovo nome, iniziò a pensare a come poter conoscere meglio la sua nuova e singolare collega: invitarla a bere qualcosa o meglio, come si dice, “a mangiare una pizza”. Immaginò la scena: le avrebbe innanzi tutto sorriso con gli occhi. Un giorno, una donna di nome Rosa gli aveva detto che aveva gli occhi speciali, perché sapevano sorridere da soli e lui si era ingenuamente convinto che questo fosse veramente un suo punto di forza. Poi le avrebbe detto: “Gretel, non è stata poi così male la nostra prima giornata di lavoro. E poi il fatto di averti conosciuta, in ogni caso, mi avrebbe ripagato di qualunque cosa fosse andata storta”. Sì, poteva andare.
Alle tre in punto tutti uscirono. Hansel, con un gesto galante e il suo sorriso dentro agli occhi, fece are Gretel prima di lui. Gretel lo guardò incuriosita e poi disse:
- Trovi che ci sia qualcosa da ridere? A me non pare proprio. Beh, mi sa tanto che ci vediamo anche domani e con un lieve cenno della mano salutò Hansel che restò lì, impietrito, con il suo sorriso da stupido negli occhi.
Accidenti, è sempre la stessa storia: quando ti prepari un copione e immagini come si svolgerà una situazione, stai pur certo che sarà tutto il contrario. Se un giorno immaginerò di farci l’amore con quella lì, scommetto che mi sparerà! Pensò deluso Hansel. Devo imparare a “gestire” le situazioni. Immaginarle è troppo facile. Sì, immaginiamo sempre situazioni in cui abbiamo di che compiacerci di noi stessi o in cui ci convinciamo che non possiamo incidere per nulla, preconfezionandoci così un bell’alibi per il nostro fallimento o il nostro non agire. Poi la realtà è sempre tutta un’altra cosa. Devo imparare a vivere al meglio il presente, senza immaginare troppo il futuro. Domani, se mi andrà di invitarla da qualche parte, glielo dirò e basta, glielo dirò con le parole che mi verranno lì per lì.
Come è successo con Rosa: la conoscevo appena, le dissi che sarei rimasto tutta la settimana fuori, a Firenze, e che se voleva poteva raggiungermi il venerdì sera e, l’indomani, avremmo eggiato per tutto il giorno. Glielo dissi così, senza pensarci, senza aver preparato le parole. Lei mi rispose:
- Dài, così andiamo insieme a fare shopping. E poi, fino a quel venerdì sera, mi imposi di non pensare a quello che avremmo fatto, per paura che potesse non accadere ciò che sapevo di desiderare. Quel venerdì sera andammo insieme all’albergo e, ancora vivendo il presente senza averlo prima immaginato, io dissi:
- Prendiamo due camere o una camera con due letti?
- Una camera con due letti, mi rispose lei con l’aria tranquilla di chi dice: “Mi pare la cosa più ragionevole”.
Quella volta Tommaso ò la notte insieme alla sua amica Rosa. Quando si sta
con una donna, sapendo che probabilmente non si avranno altre occasioni, si ha l’impressione di non avere l’opportunità di scambiarsi completamente ciò che si desidera. Quella volta fu così anche per Tommaso: quella notte, con Rosa, non fu amore “pieno”, fu solo un intreccio di bocche, di gambe, di mani. Ma peggio, molto peggio fu il vedersi nei giorni successivi con lo sguardo di chi pensa di dover far finta di niente. Quella tiepida notte fiorentina fu l’unica che arono insieme. Dopo quella notte, vissero una strana storia fatta di baci, carezze, sorrisi, complicità e tenera accettazione di tutte le emozioni dell’altro, ma non dormirono mai più insieme. Questo per lui era fonte di rammarico: pensava di non aver dato a Rosa una vera notte d’amore. E il rimpianto, malignamente, ricorreva, anche ora che con Rosa era finito tutto.
Ma Hansel sentiva che non bastava certo cambiarsi il nome per essere lasciato in pace dai ricordi del ato.
Sapeva che per tacitare i rimpianti non basta la volontà. Ci vuole qualcos’altro che lui non sapeva definire, ma che sentiva essere vicino alla sfera dell’immaginazione. Pensava che la sofferenza dovuta alla fine di una storia d’amore dipendesse da una ritualità che impone il dolore: se non si soffre non si è neppure amati! Questo dice il “rito” al quale ci uniformiamo.
D’altronde, Hansel aveva un rapporto così stretto con il mondo dell’immaginazione e dell’aleatorietà che solo Gretel, destinata a divenire la sua unica amica “del reale”, avrebbe saputo scoprirlo fino in fondo.
5
La qualità comincia dove cominciano le persone e non dove cominciano le cose.
P.B. Crosby
Rientrato a casa, Hansel guardò distrattamente per un po’ la televisione senza neppure balzare nervosamente da un canale all’altro, poi mangiò, poco e male, e andò a dormire. Si fa per dire: fu una pessima notte.
L’indomani mattina uscì veloce di casa con un grande desiderio di evasione ma, scesi gli ultimi gradini della scala, ormai giunto al portone di vetro, si fermò con la bocca aperta e gli occhi da bambola. Gretel era lì, davanti al portone, con un sacchetto di carta bianca in cui si intravedevano alcune strisce di focaccia. Era lì ad aspettare proprio lui. Hansel provò una forte emozione. La sua mente si affollò subito di diversi pensieri: come fa a sapere dove abito? Forse si è pentita di avermi scaricato in quel modo! O forse sono i miei occhi che ridono da soli che l’hanno colpita. O forse è successo qualcosa di spiacevole! No, non è possibile, non avrebbe comprato la focaccia.
- Che cosa ci fai qui? le chiese, desideroso di comunicare a Gretel tutto il suo stupore, ma anche tutto il suo piacere.
- Secondo te? Sono venuta a prenderti. Ti spiace? disse lei col solito tono ironico, ma per l’occasione stranamente dolce.
- Ma che cosa dici! Sei splendida! buttò lì Hansel.
Gretel gli sorrise e lo invitò a prendersi una striscia di focaccia.
Hansel avrebbe voluto dire a Gretel quanto apprezzasse la sua iniziativa, ma non trovava le parole. Gli tornò alla mente quando lui aveva fatto la stessa cosa con Rosa che gli aveva rivolto proprio la stessa domanda da lui poc’anzi fatta a Gretel: “Che cosa ci fai qui?” Quel giorno le aveva dato una risposta che, secondo lui, avrebbe dovuto far innamorare chiunque: “Sono venuto a iniziare bene la giornata...” Ma Rosa non ci aveva fatto caso. Certamente lei non si ricorderà neppure di quell’episodio, pensò Hansel.
- Hei! Sveglia! Hai questa faccia tutte le mattine? gli disse Gretel notando il suo sguardo fisso e perso.
- No, scusa, stavo pensando a una certa cosa, si giustificò lui.
- A una certa cosa? Vorrai dire a una certa donna! A chi credi di raccontarla? Siete tutti uguali. Prima sembra che facciate di tutto per essere scaricati, poi ve ne andate piagnucolando, compiacendovi di quanto sapete soffrire bene!
Hansel restò senza parole. Allora, per dire qualcosa, per stupire, per giustificarsi o chissà per quale motivo, se ne uscì fuori con una frase che gli avrebbe procurato un altro bel colpo:
- Le ho scritto anche una poesia.
- Una poesia? Fantastico! Io adoro le poesie! Si illuminò Gretel.
- Vuoi che te la dica?
- Certo! Dài! esclamò lei.
Hansel, fingendo di non ricordarla proprio alla perfezione, declamò la sua opera:
Rosa di miele che mi sorridi,
Rosa distratta che non mi ami,
piccola Rosa che accetti tutto,
Rosa salata quando porti il conto,
cattiva Rosa piena di spine,
dolcissima Rosa bella da morire...
E le donne si depilano
Con l’asciugamano sulla pancia
E la mano sulla bocca
Quando ridono,
ma non c’è proprio di che ridere,
non c’è nemmeno di che piangere,
ci sarebbe da amare,
e sì. Ci sarebbe da amare.
Maledetta Rosa che male che fai,
benedetta Rosa meno male che ci sei,
Rosa che si fa torturare,
Rosa che è solo da amare,
perché è una Rosa tutta da bere,
Rosa che non ti dà il bicchiere...
E le donne piangono nei momenti più strani,
e le donne ridono nei momenti sbagliati,
e le donne amano quando gira il vento,
gira il vento,
ma non c’è proprio niente da amare,
non c’è più spazio per pensare,
ci sarebbe da ridere,
basterebbe un po’ ridere.
Rosa che non ti ho raccolta,
Rosa che ora è troppo tardi,
Rosa che mi credevo giusto,
Rosa che ero solo cieco,
Rosa di miele che non mi ami mai,
Rosa lontana che te ne vai...
Gretel, che fino a quel momento si era trattenuta, non ce la fece più e sbuffò in una fragorosa e grottesca risata.
- Ehi! Amico del sole, guarda che le poesie non si compongono per farle leggere alle persone a cui si dedicano! Se si fa così, vuol dire che non sono poesie. Sono ricatti. Sono modi per fare pesare le proprie emozioni! E poi non dirmi che l’hai fatta leggere anche a lei?! Ma ti rendi conto? “Rosa da bere e non ti dà il bicchiere”! Ma, dico, ti rendi conto? È roba da bambini di cinque anni. E poi il bicchiere cos’è? La patata? No, dài, non dirmi che davvero gliel’hai fatta leggere?!
E Hansel:
- Certo, gliene ho data una copia. Da conservare. Per sempre.
- Bella stupidaggine! infierì Gretel. Quanto tempo pensi che erà prima che lei la faccia leggere a qualche amica in un momento della serie “guarda come mi amano”?
- Tu non conosci Rosa..., balbettò Hansel.
- Io ti dico che, prima o poi, dopo una bella serata d’amore dirà al suo uomo: “Ora voglio leggerti una cosa”, e, abbracciata a lui, gli leggerà la tua bella composizione e lui commenterà ironico: “Ma era proprio un poeta questo stronzo!”
Hansel sentiva il cuore che batteva come un martello pneumatico.
- Questo lo dici tu! miagolò penosamente.
E lei:
- Ma va’, va’, poeta dei miei stivali, mangia la focaccia!
- Senti Gretel, se sei venuta per insultarmi, potevi farne a meno. Ma chi diavolo ti credi di essere? gridò con una voce un po’ strozzata l’emozionato Hansel, gettando la focaccia dentro la fessura aperta di un cassonetto della spazzatura.
- Ora te lo spiego io perché hai scritto quella stronzissima poesia! Per farle vedere come sei bravo a soffrire! Per dirle che “anche se lei è cattiva le vuoi bene lo stesso!, perché tu sei più forte del dolore! Stronzate!
Hansel sapeva che in fondo Gretel aveva ragione e istintivamente, senza pensarci, trovò il modo di uscire da quella situazione. Sorrise con gli occhi e disse:
- Non è che forse sei un po’ gelosa?
- Ma finiscila, rispose Gretel, lo prese a braccetto e se lo trascinò verso l’ufficio postale.
Dopo pochi i, Gretel capì d’essere stata un po’ troppo dura. In fondo le era piaciuto quel modo adulto e ironico con cui lui aveva saputo sdrammatizzare la situazione.
- Che cosa ti resta di lei? gli chiese.
Hansel rispose:
- I suoi occhi. Fu quando le chiesi se sapeva perché le persone che si vogliono bene si baciano. Lei non se lo era mai chiesto. Allora le spiegai che secondo me si trattava evidentemente di un istinto ancestrale e le chiesi di immaginare di essere una donna primitiva, all’età delle pietra, alle prese con l’alimentazione del suo bambino. Come avrebbe potuto rendere morbido il cibo e somministrarglielo
se non masticando prima e poi ponendolo, spingendolo con la lingua, nella bocca affamata del suo piccolo?
Gretel non apprezzò granché quel saggio di antropologia spicciola, eppure sentì di voler conoscere meglio quel ragazzotto dagli occhi che ridono.
- Capisco. Ma perché, dimmelo sinceramente, perché hai scritto quella poesia?
- Per amore, rispose rapido Hansel.
- Per amore? È una risposta stupida! Prova a chiedere a un uomo che picchia sua moglie perché lo fa! “Per amore!”, ti risponderà il bastardo. E prova a chiedere alla moglie che accetta di vivere con quell’uomo perché lo fa. “Per amore”, ti risponderà. La cretina. E tu cosa rispondi? “Per amore”! Per amore si possono fare cose belle o brutte, furbe o stupide, ma la scelta dipende solo da chi è in gioco.
In verità Gretel non era poi molto convinta di tutto quel ragionamento, ma ormai si era calata nella parte della “rompiballe che ferisce, ma fa aprire gli occhi” e voleva recitarla fino in fondo.
Hansel si era fermato e ascoltava immobile con gli occhi stupiti e, a un tratto, disse con voce seria e lenta:
- Uno dei più grandi pensatori del nostro tempo dice che il cuore conosce ragioni che la ragione stessa non può capire.
- Chi è questo pensatore? chiese Gretel curiosa. Fu allora che Hansel simulò uno sguardo ironico e intelligente alla Robert De Niro e disse sorridendo sornione:
- Io, naturalmente.
Erano mesi che preparava quella battuta! Forse per la prima volta una situazione immaginata si stava effettivamente svolgendo secondo la regia ipotizzata. Una forte emozione li avvolgeva ma Hansel per uno sciocco, inspiegabile senso di rivalsa non la baciò. Era come se le dicesse: “Vedi, ti ho portata a me e ora non ti raccolgo”.
Hansel non immaginava che avrebbe avuto di che pentirsi per non aver saputo vivere quel presente, perché, nella sua storia con Gretel, non si sarebbe mai più ripetuto un così magico momento.
il suo lavoro...
6
Ascoltare significa assumere sinceramente il punto di vista dell’altro. Sia pure temporaneamente e provvisoriamente. C.R. Rogers
QUELLA mattina arrivarono in ufficio con un leggero ritardo, ma non vi fu per questo nessuna conseguenza; anzi, a dire il vero, quasi nessuno se ne accorse. Eppure quel giorno era particolare: era infatti l’ultimo utile per versare i 93 euro che il governo aveva previsto tramite un decreto-legge che aveva preso il nome di “tassa sull’emergenza”. Si trattava infatti di una tassa finalizzata a costituire un fondo per eventi di ogni tipo, dalle inondazioni alle stragi.
La genericità della tassa aveva sollevato un vespaio di proteste: un’imposta supplementare, per di più non proporzionata al reddito. Questo faceva gridare allo scandalo. Altri preferivano ironizzare: la tassa è generica semplicemente perché hanno terminato le idee, non hanno più la fantasia sufficiente per inventarsi qualcosa di specifico!
Naturalmente c’era una grande ressa agli sportelli e il clima non era certo dei più distesi e favorevoli. Molti si lamentavano con gli impiegati per le lunghe code. Alcuni chiedevano chi li avrebbe rimborsati del tempo perduto durante l’estenuante attesa del proprio turno. Altri, più ironici, si rivolgevano ai compagni di coda dicendo: “Non protestiamo troppo, non si sa mai che pensino a
una tassa sui reclami!” A tutte le proteste, dalla più garbate alle più aggressive, gli impiegati rispondevano sempre con le stesse espressioni: “Non dipende da me...” “Non è colpa nostra se...” Ma, il più delle volte, alzavano leggermente le spalle allargando le braccia piegate verso l’esterno. Questo gesto ha in Italia un significato inequivocabile e disarmante: “ Che cosa ci vuoi fare...”
Gretel guardava incuriosita, osservava come fosse al cinema i vari personaggi, tutti diversi, una vetrina di varia umanità.
Ciò che colpì maggiormente Gretel fu il ragionamento di uno strano tipo con gli occhiali chiari e un cappellaccio di velluto verde a coste larghe calcato in testa che commentava tra sé e sé: “Molti di noi per venire a fare questa coda hanno preso un permesso al lavoro. Ciò ha determinato un disservizio alle aziende per cui lavoriamo. Esse, a loro volta, hanno probabilmente procurato dei disservizi ai loro clienti. Ma i loro clienti, alla fine delle scatole cinesi, sono persone come noi! Insomma, stiamo creando un disservizio a noi stessi”. L’uomo aggiunse ancora, questa volta con tono ieratico: “Solo chi sente la qualità come valore personale e sociale, può fare, chiedere e chiedere di fare qualità”.
Parlava con voce calma e sottile, ma assolutamente efficace. Alcuni non capirono, altri sì, ma non dissero nulla.
Per Gretel fu una vera e propria illuminazione. Non avrebbe più visto quell’uomo, ma non ne avrebbe mai dimenticato il messaggio che le aveva trasmesso: non esiste una separazione fra la nostra vita di uomini e la nostra vita di lavoratori, fra il piacere e il dovere, fra le cose che ci riguardano come persone e quelle che ci riguardano come fruitori: tutto ha a che fare con la qualità della nostra vita!
In compagnia di questo pensiero, osservando quella situazione nella sua
complessità, guardandone i contorni, ascoltandone rumori e voci, osservando i comportamenti di tutti, compresi quelli dei suoi colleghi, Gretel pensò che occorreva “dare una dimensione” al problema.
È inutile, pensava, far finta che il problema non esista, o dichiararlo “irrisolvibile”, sarebbe comunque un modo per non farsene carico.
In effetti, questo modo di ragionare è tipico dei “rivoluzionari immaginari”, quelli che ragionano con questa struttura mentale: che cosa non va? “Tutto!” Che cosa si può fare? “Niente!” Perché? “Perché tanto tutto è inutile!” Anche Gretel, a cui piaceva pensarsi non inserita nel sistema, questo sembrava un modo troppo facile di affrontare i problemi. In realtà, quando un problema c’è, va innanzi tutto definito per poterlo in qualche modo superare. Sì, pensò Gretel, voglio misurare il problema. Qual è il problema? È la gente arrabbiata nera! Ma chi è la gente? Continuava a pensare Gretel. Cittadini? Utenti? Sì, in ufficio si chiamano utenti. Ma questi utenti pagano il servizio che noi siamo chiamati a offrirgli? Certo che lo pagano, lo pagano con le loro tasse e le loro imposte! Ma quando una persona paga ciò che desidera avere non è forse un cliente di colui che gli fornisce ciò che desidera? Lo sguardo di Gretel si illuminò. Sentiva di essere vicina alla definizione del problema. Il problema è che i nostri clienti non sono soddisfatti. Già, non sono soddisfatti perché ciò che diamo loro non corrisponde alle loro attese ideali. Supponiamo, per esempio, che io senta il bisogno di mangiare qualcosa di dolce, perché ho fame e perché mi voglio tirare un po’ su; allora compro una bella brioche dall’aspetto invitante, chiudo gli occhi mentre la mordo, pensando al sapore della crema pasticcera sotto la dolce sfoglia e, preparata al piacere, affondo i denti... No! È salata! Ma che orrore questa brioche, penserò, potevano almeno indicarlo che era salata! Eppure, forse, quella brioche salata è un’ottima brioche salata, ma non è in grado di soddisfare il mio bisogno, quindi per me, in quel momento, quell’esperienza non ha qualità. Chiunque pensasse a un prodotto o a un servizio di qualità “in assoluto”, senza fare i conti con i bisogni molteplici e reconditi dei clienti, non caverebbe perciò un ragno dal buco. Ecco la definizione del nostro problema: il servizio che eroghiamo non ha qualità perché non corrisponde ai bisogni dei nostri clienti, perché essi desiderano pagare la loro tassa senza dover chiedere mezza giornata di permesso al loro principale, senza dover lasciare la bambina dai nonni, o
prendere la multa perché non c’è un parcheggio per l’auto o dover affrontare altri disagi assortiti.
Ma allora, se il problema è questo, cosa possiamo fare per migliorare? Innanzi tutto è necessario conoscere i bisogni dei nostri clienti: alcuni sono evidenti, altri nascosti. Ma come si può fare per conoscerli? Il modo più semplice è chiederglielo, magari attraverso la compilazione di un questionario. Poi occorre misurare l’entità del problema. Già, perché se non so esattamente a che punto sono oggi, come potrò sapere se il punto di domani sarà un po’ meglio o un po’ peggio? Sì, occorre misurare il problema che è stato definito!
Senza pensarci due volte, prese carta e penna ed elaborò una scheda grazie alla quale poteva annotare, orologio alla mano, il tempo che i clienti trascorrevano mediamente in coda agli sportelli, differenziandolo per fasce orarie; inoltre, il numero di reclami verbali con gli impiegati e il numero di discussioni fra i clienti, i mugugni del tipo “c’ero prima io...”
Pensò che queste informazioni costituissero una base sufficiente per dare una dimensione al problema e pensò di iniziare subito la raccolta dei dati. Nei giorni seguenti perfezionò il modulo ed elaborò anche un questionario, da consegnare ai clienti, nel quale essi avrebbero potuto indicare cosa migliorare, prioritariamente, nel servizio dell’ufficio, per soddisfarli maggiormente.
Gretel in quel momento era molto fiera di sé. Sentiva che avrebbe determinato dei cambiamenti positivi per tutti; non aveva neppure il pudore dell’ultima arrivata, non si riteneva affatto una rotella di un ingranaggio, ma si sentiva al contrario un soggetto “influente”.
Certo, questo suo stato d’animo rischiò di spezzarsi quando vide un uomo vecchio e curvo affacciarsi allo sportello e avvicinare l’orecchio al vetro. Il
vecchietto era un po’ sordo, e il vetro (simbolo di una separazione concettuale) rendeva sostanzialmente impossibile il dialogo. L’addetto non si scomponeva e, pur consapevole dello stato delle cose, continuava a parlare a voce bassa come a dire: “Se sei sordo è un problema tuo”.
In quel momento Gretel capì che la qualità delle organizzazioni non dipende solo dai loro meccanismi operativi, dalle loro regole, ma soprattutto dalla qualità delle persone che vi operano, cioè dalla loro competenza, capacità e motivazione, o in altri termini, dal loro sapere, dal loro saper fare, dal loro saper essere.
Era così presa dalla sua attività di raccolta dei dati da non accorgersi che Hansel nel frattempo aveva ato molte ore alla scrivania di Dellepiane che, per la prima volta dopo mesi e mesi, aveva rinunciato al suo “succo di vinaccia” per parlare con quello strano ragazzo che faceva domande innocue, con un tono dolce, sorridendo, parlando poco e a bassa voce, ma soprattutto ascoltando attentamente.
A Dellepiane non capitava da molto tempo di essere ascoltato da qualcuno con interesse; sentiva la partecipazione di Hansel che sapeva comunicargli la sua adesione emotiva con semplici cenni del capo. Hansel ascoltò Dellepiane ricordare la severa madre che gli era mancata non da molto, le liti con i fratelli, la nostalgia dei tempi andati, non memorabili e, proprio per questo, ancora più malinconicamente andati.
Al termine della giornata lavorativa, al momento dell’uscita dall’ufficio, Gretel si accostò ad Hansel. Era ansiosa di raccontargli tutti i suoi pensieri e lavori sulla qualità: allora, per agganciare il discorso, gli chiese come era andata la giornata.
- Bene, rispose Hansel, ho ascoltato tanto.
- Ascoltato? chiese Gretel attonita.
- Sì, ho ascoltato. Sai, si tratta di medicina preventiva, affermò senza ironia Hansel.
Gretel lo guardava attonita e interrogativa e chiese sarcastica:
- E chi avresti ascoltato? “Succo di vinaccia?” Con quell’alito alcolico che si ritrova non ti avrà mica ubriacato?
- “Succo che cosa?”, chiese Hansel non capendo.
- “Succo di vinaccia”, dài, è con quella roba lì che si fa la grappa!
Hansel prese atto del nuovo nome attribuito al loro capo e continuò:
- Dimmi, Gretel, secondo te la medicina preventiva è una responsabilità solo verso noi stessi o anche verso gli altri? Insomma, è una responsabilità solo per chi se la vuole accollare o per tutti?
- Ma, non so, rispose Gretel perplessa, forse credo che sia una responsabilità di tutti...
- Ecco, continuò Hansel, ora dimmi, anche secondo te, quando si è delusi e stressati è più facile prendersi un’influenza? Anche secondo te le disgrazie, come si dice, non vengono mai sole, nel senso che più si è insoddisfatti e più si è vulnerabili?
- Beh, in linea di principio... , sussurrò Gretel insicura.
- Sì, qualunque patologia ha la vita più difficile se deve aggredire una persona pienamente soddisfatta di sé. Ma quand’è che ognuno di noi è soddisfatto di sé? Noi siamo soddisfatti quando ci sentiamo importanti, quando sentiamo riconosciuta la nostra capacità di influire sugli altri e sull’ambiente! Per esempio quando ci ascoltano con sincero interesse; in questo caso ci sentiamo soddisfatti perché sentiamo di essere percepiti come persone importanti. E se è vero che quando siamo soddisfatti ci ammaliamo più difficilmente, è vero anche che oggi, ascoltando Dellepiane, ho fatto della medicina preventiva, per lui, non per me, perché è una responsabilità collettiva. Ascoltare gli altri è utile perché si acquisiscono nuove informazioni e non c’è nulla da perdere. Ma ascoltare gli altri è soprattutto un valore sociale. Ascoltare gli altri con sincero interesse è più importante che pagare le tasse. Specie quella sull’emergenza.
Era stato una specie di comizio: Gretel restò impressionata e dimenticò i suoi ragionamenti sulla qualità dell’ufficio e sulla sua misurazione. Ma qualche minuto dopo, eggiando al fianco di Hansel che silenzioso e tranquillo la stava accompagnando verso casa, Gretel esclamò:
- Certo che sei una bella faccia tosta! Parli tanto di ascolto, ma chi ascolta sono solo io! Anch’io, sai, ho moltissime cose da dirti.
Hansel la guardò, con gli occhi che gli ridevano e, in modo così dolce da parere etereo, sussurrò:
- Sono qui solo per ascoltare te; tieni questo, leggilo, e le porse un foglio piegato in quattro che Gretel, rientrata a casa, avrebbe poi letto molto distrattamente e gettato in un cassetto a caso.
Fu proprio in quel momento che Gretel iniziò a sospettare bonariamente che il suo singolare amico fosse una sorta di personaggio lunare.
7
Per fortuna non abbiamo smarrito il nostro senso della misura. In conclusione, è chiaro che la tecnologia offre grandi opportunità. È anche disseminata di trabocchetti. Il trucco consiste nell’evitare i trabocchetti, prendere al balzo le opportunità e tornare a casa per l’ora di cena. W. Allen
L’indomani Gretel pensò che avrebbe raccontato ad Hansel tutti i suoi ragionamenti sulla qualità del lavoro in ufficio e su quanto stava facendo per misurarla.
In effetti, fu proprio Hansel a dirle:
- Ieri ti ho lasciata dicendoti che sono qui solo per ascoltarti...
- Già..., lo interruppe Gretel, vorrei raccontarti un po’ i miei pensieri.
Gretel descrisse tutte le sue idee con molta chiarezza ed Hansel ascoltò con attenzione, annuendo di tanto in tanto; alla fine le chiese:
- Ma dopo aver capito i bisogni dei clienti e misurato la qualità del servizio in questo modo, con questi tuoi moduli, che cosa pensi di fare? Qual è il o successivo?
Gretel si fermò a pensare per alcuni secondi posandosi sopra la bocca la mano aperta, poi disse un po’ accigliata:
- Beh, bisogna, nei limiti del possibile, correggere gli errori, cioè tutto ciò che rappresenta una distanza fra i bisogni dei clienti e le prestazioni del servizio offerto.
- Già, ma vedi, Gretel, rispose Hansel cercando di non irritarla, se nel tuo bicchiere d’acqua ci fosse una mosca, ti basterebbe che il cameriere la togliesse? Ti basterebbe questo gesto per eliminare completamente il fastidio? Credo proprio di no. E tu cosa faresti se fossi il proprietario del bar, sapendo che i tuoi clienti, coloro cioè che ti consentono di pagare affitto, stipendi e via dicendo, potrebbero trovare una mosca nel bicchiere? Cosa faresti tu se nel bicchiere di
un tuo cliente ci fosse una mosca?
- Licenzierei il cameriere che non se ne è accorto... o gli direi di stare più attento. Forse, non so bene..., rispose Gretel un po’ titubante.
- No, Gretel, dài, non si risolverebbe così il problema. Non è cercando il colpevole che si risolve il problema; è cercando la fonte. Non è domandandosi “chi è stato”, è domandandosi “perché” che si può risolvere veramente il problema. In altri termini, non basta intervenire su ciò che “rappresenta” una distanza fra i bisogni dei clienti e le prestazioni del servizio, ma su ciò che la “produce”.
- Già, fece Gretel soddisfatta, bisogna domandarsi “perché”; bravo, Hansel, non è una delle tue solite paturnie. Ma chi lo decide il “perché”?
- Beh, rispose Hansel, io posso avere una visione della fonte del problema, tu un’altra, i nostri colleghi un’altra ancora. E anche Dellepiane, sì, proprio “Succo di vinaccia”, come lo chiami tu, ha la sua visione.
- Quello? Lascialo perdere, per favore, interruppe Gretel.
- Sì, sì, ma io volevo solo dire che forse mettendo insieme tutte le visioni si ha un’immagine più ampia e veritiera della fonte del problema. Chi lo dice che la tua visione è più vera della mia?
- Lo dico io, se è per questo, disse ironica Gretel. Poi Gretel ò da una
cartoleria e comprò dei foglietti adesivi, un pennarello e un grande foglio di cartoncino.
Hansel più o meno immaginò cosa frullava nella mente di Gretel, ma non le chiese niente, né lei disse alcunché a lui.
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Non sono determinanti le doti che ci sono state messe nella culla, ma è determinante l’uso che ne facciamo. G. Kaeser
Il giorno dopo, quando Hansel vide Gretel, pensò che avrebbe voluto farsi coccolare un po’: pensiero improbabile, conoscendo Gretel.
In effetti Gretel quel giorno era troppo presa dai suoi pensieri sulla qualità per potersi dedicare a lui. Qualità!!! Pensò accigliato Hansel, in questo momento l’unico concetto di qualità che mi interessa riguarda il potermi riappropriare della qualità della mia vita! Altro che qualità del servizio postale!
Chissà perché in quel momento la sua mente era prigioniera di un’immagine della sua infanzia. Non riusciva a togliersi di mente il ricordo del suo inseguimento agli uccellini. Da bambino, Hansel, prendeva per buono tutto ciò che gli veniva raccontato; non che da grande fosse diventato diffidente, ma almeno riusciva a distinguere fra possibili verità e paradossi. Da bambino no.
Così aveva creduto anche al modo di dire secondo il quale, per catturare gli uccellini, sarebbe bastato mettere loro del sale sulla coda. Hansel non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di lui, bambino, mentre inseguiva gli uccellini brandendo una manciata di sale. Non riuscendo ad avvicinarsi abbastanza, tirava il sale e, convinto di averli raggiunti, si stupiva che essi non si fermassero per farsi catturare. La considerava un’ingiustizia: lui era sicuro di aver tirato il sale sulle loro coda, ma non si fermavano! Erano uccellini disonesti! Hansel non prendeva neppure in considerazione l’ipotesi che gli adulti avrebbero potuto mentirgli, raccontandogli quella storia.
Aveva in mente quell’immagine, chissà perché, e pensava alla perfezione dei bambini che, adulti, scelgono se rassegnarsi alla mediocrità o mettersi alla faticosa ricerca della perfezione perduta. Egli, naturalmente, non aveva nessuna intenzione di rassegnarsi, ma quel giorno la tentazione era particolarmente forte.
Poi guardò Gretel, la sua fragile forza e la sua dolce arroganza, e pensò che in fondo la qualità della propria vita dipende anche da come si riesce a far convivere la propria esigenza di qualità con la qualità che può esprimere il sistema in cui si vive. Allora disse:
- Gretel, hai uno sguardo da “matta” che promette una giornata interessante.
- No... sai, stavo solo pensando a come far progredire il mio progetto sulla qualità dell’ufficio. Credo ormai di aver individuato tutte le fasi necessarie per lo svolgimento di un programma di miglioramento. Per prima cosa misurerò la situazione e ne farò una specie di fotografia che evidenzierà i bisogni dei clienti e i principali fattori critici; poi analizzerò, chiedendo l’aiuto di tutti i colleghi, le cause che generano l’insoddisfazione dei bisogni: insomma cercherò quella che tu hai chiamato, facendomi l’esempio della mosca nel bicchiere, la “fonte” del problema; in seguito metteremo in pratica delle azioni finalizzate a eliminare le
cause delle criticità e, in ultimo, rifotograferò la situazione per misurare l’efficacia delle azioni intraprese. “Fotografare, chiedersi perché, modificare la fonte, rifotografare”. Che cosa te ne pare?
- Mi pare proprio che tu abbia immaginato la strada giusta. Come sempre. In realtà Hansel era un po’ preoccupato di quanto la qualità stesse diventando per Gretel una vera e propria ossessione.
Gretel lo guardò, come a domandargli se le dicesse così per piaggeria o per convinzione, ma rinfrancata e caricata cominciò a lavorare.
Lavorò sodo e sbrigò una moltitudine di pratiche. Verso sera, rientrando a casa, le tornò in mente il complimento di Hansel e si pose una domanda: quante volte, mediamente, si pronuncia in una giornata la parola “grazie”? Molte: al bar, all’edicola, rivolti al collega che ci apre la porta e in molte altre occasioni, diciamo venti, trenta volte al giorno. Ma quante volte pronunciamo la parola “complimenti”? poche, pochissime, quasi mai. Perché Perché ci lasciamo sfuggire così tante occasioni per complimentarci con gli altri? Semplice! Perché “grazie” è rivolto a una persona che fa qualcosa per noi, quindi “grazie” è in fondo tutto per noi. Ma i complimenti sono rivolti a una persona che fa semplicemente bene qualcosa, indipendentemente dal fatto che noi possiamo trarne qualche beneficio, quindi i complimenti sono tutti regalati. I complimenti: ci fa tanto piacere riceverli, ma quanto è difficile regalarli! Dire a qualcuno che è bravo senza che, più o meno contemporaneamente, sia detto anche a noi, è maledettamente difficile. È più facile quando si è in una posizione di autorità che, per definizione, ti pone comunque al di sopra della persona a cui li elargisci: per un insegnante è più facile fare i complimenti a un allievo che non a un collega, per un genitore è più facile complimentarsi con il figlio che non con un conoscente. Per Hansel non mi pare che sia così, continuò a pensare Gretel, ma in generale è così per tutti. Ma perché? Deve essere una sorta di istinto, di quelle cose che Hansel spiega con le sue trovate antropologiche, come quella del bacio che deriverebbe dal desiderio di sfamare il bambino. Il bambino?! Già! Ai bambini i genitori fanno moltissimi complimenti: “Guarda, guarda, mamma!” E
lei: “Ma come sei bravo!”
Sì, i bambini: ecco la chiave! Essere bambini, almeno fino a un anno di vita, è davvero invivibile: vedi gli altri che camminano, prendono in mano le cose, stanno ben diritti in piedi e comunicano fra di loro. E tu, bambino, sei lì, inerme, adagiato in un lettino e ti agiti, gemi e te la fai addosso: se gli altri non si accorgono di te, rimani lì tutto sporco e, se non ti aiutano con una leggera pacca sulla schiena, non riesci neanche a fare il ruttino! Roba da matti. Essere un bambino è davvero un disastro. Per forza c’è chi non si risolleva mai più. Vedi tutti gli altri che vanno benissimo e tu, giorno dopo giorno, elabori una convinzione, basata sull’esperienza, memorizzi un’immagine, interiorizzi uno stato d’animo, sviluppi un senso: “Gli altri sono all’altezza, io no”.
Ma c’è un bel giorno in cui questo senso svanisce? No? Il “bambino che non è all’altezza” ce lo portiamo dietro per un bel pezzo. A volte per sempre. Finiamo per non utilizzare mai tutto il nostro enorme potenziale, perché siamo convinti di non essere all’altezza.
A volte “il bambino che non è all’altezza” si comporta in modo del tutto emotivo: ora isterico (“Ce l’hanno tutti con me quindi mi ribello”), ora depresso (“sono tutti meglio di me, è meglio che mi rassegni”). È il bisogno di riconoscimenti che muove le persone ad agire in modo positivo? A pensarci bene, noi donne, se vogliamo, raccattiamo quanti riconoscimenti vogliamo: sguardi, complimenti, corteggiamenti eccetera. Tutte cose che a volte ci danno un gran fastidio, ma che, se non ci fossero...
Per gli uomini è diverso: loro i riconoscimenti se li cercano altrove: nel lavoro, nella vita pubblica, insomma in tutti i campi del successo.
Così, anche nell’amore, il loro massimo riconoscimento consiste nel percepire il
loro potere, particolarmente quando fanno l’amore. Basta farli un po’ di “Ooh... oooh... oooooh...” che vanno in brodo di giuggiole. È lì, in quel momento, che superano il loro “bambino che non è all’altezza”. Almeno per un istante.
Ma se ci liberiamo dal senso del “non sono all’altezza”, allora sì che può uscire il bambino vero, quello positivo, quello che ride sicuro. Hansel, dentro di sé, forse non ha il bambino che ride sicuro, ma certo non ha il ribelle emotivo né il depresso rassegnato; Hansel ha uno strano bambino, un bambino che fa il “buon fratello maggiore...”
Gretel arrivò finalmente a casa sua e, ancora dentro ai suoi pensieri, aprì la porta, accese la luce, si fermò all’ingresso e si guardò intorno come se dovesse perlustrare la casa per la prima volta. Poi andò in cucina, aprì il frigo e si versò un bicchiere di vino bianco fresco e frizzante, lo sorseggiò, alzò il bicchiere e disse a voce alta: “Brindo a te, bimbo che non sei all’altezza, perché anche tu hai ben diritto di esistere; ma d’ora in poi, ogni volta che potrò, ti scoverò in ogni angolo del mio comportamento e ti manderò via!”
Molto tempo dopo, Gretel avrebbe veramente superato completamente il senso del “non sono all’altezza”. Molto tempo dopo.
9
Se un nome è proprio necessario, allora questo nome sia “meraviglia”. Di meraviglia in meraviglia, l’esistenza si schiude. Lao Tse
Per diversi giorni Gretel si dedicò a misurare la qualità del lavoro in ufficio compilando con zelo il modulo che aveva elaborato. Non poté invece andare sui bisogni dei clienti. “Succo di vinaccia” non le aveva infatti concesso il permesso di consegnare ai clienti dell’ufficio i questionari informativi che lei aveva predisposto. Secondo Gretel, dalla raccolta e dalla interpretazione dei questionari compilati si potevano comprendere i bisogni impliciti dei clienti. Quei bisogni non espressi, ma che, se soddisfatti, determinano la soddisfazione veramente piena e “attiva” dei clienti stessi.
- Ma fino a quando non conosciamo i loro bisogni, come potremo soddisfare pienamente le loro attese?! Ripeteva Gretel. Ma “Succo di vinaccia” le rispondeva che, al contrario,
- agli utenti non bisogna “grattare la pancia”. Poi si mettono in testa strane idee. Se hanno qualcosa da reclamare, possono farlo, basta che chiedano l’apposito modulo!
Gretel cercava di spiegare come non sempre il cliente insoddisfatto reclami:
- Spesso si rinuncia al reclamo; anche a lei sarà capitato mille volte di non essere soddisfatto di un prodotto o di un servizio, eppure non ha reclamato. Se il cliente non reclama, non è detto che sia soddisfatto! Al contrario, il cliente che reclama è il miglior cliente, perché esprime ciò che occorre fare per soddisfarlo!
Era un dialogo fra sordi. Gretel rinunciò e pensò che, in fondo, sarebbe bastato per ora soddisfare i bisogni espliciti, quelli più evidenti, per fare già un bel salto di qualità.
Al termine del suo lavoro, si trovò con un mucchio di fogli, ognuno per un giorno di misurazione, pieni di crocette. Il problema era come metterli insieme in modo da renderne facilmente leggibile e interpretabile il risultato complessivo. Gretel strutturò allora una tabella riepilogativa dei dati raccolti, ma, ancora, quella tabella piena di numeri non forniva una visione immediata di quello che lei chiamava “la dimensione del problema”. In effetti, la situazione era sì misurata, ma non “fotografata”, come amava dire lei. Trasformò allora la tabella in due grafici: un istogramma per avere la fotografia generale del problema nel periodo tenuto sotto controllo, e un grafico a curva spezzata per avere l’andamento dinamico nel tempo, specie in funzione delle diverse fasce orarie in cui aveva suddiviso la raccolta dei dati. Ecco, ora poteva andare.
Dai grafici di Gretel balzavano agli occhi alcuni aspetti critici.
• Il 27% dei clienti aveva di che lamentarsi, in particolare relativamente ai lunghi tempi di attesa e alla scarsa cortesia e collaborazione del personale addetto agli sportelli.
• La percentuale aumentava sensibilmente (di circa il 25%) nella fascia oraria mediana del mattino, quella fra le dieci e le undici.
• Il 4% dei clienti aveva delle discussioni per l’ordine della coda.
Gretel decise di rendere noto a tutti l’esito del suo studio e della sua fotografia della dimensione del problema. Prese allora dall’armadio il cartoncino e i pennarelli che aveva predisposti un bel po’ di tempo prima e vi tracciò i due grafici. In alto scrisse una sorta di titolo: “Fotografia della qualità”, sotto i grafici scrisse invece: “Vi farò sapere il seguito”. Appese questa specie di manifesto nella stanza adibita spogliatoio-mensa e dispose lì vicino un blocchetto per appunti, affinché chiunque potesse scrivere un commento e attaccarlo sul poster.
Tutti videro la cosa, ma nessuno si entusiasmò per l’iniziativa: anzi, a dire il vero, quasi tutti pensarono che Gretel avrebbe dovuto “farsi gli affari suoi”, come d’altronde a suo tempo le aveva detto di fare il capo. Così nessuno utilizzò il blocco, nemmeno per qualche commento sarcastico. Gretel percepì la diffidenza, ma non si scompose e mantenne il suo atteggiamento di sempre.
Certo, quel giorno Gretel aveva proprio bisogno di uno scambio di opinioni con Hansel che, tutto sommato, fino ad allora le aveva sempre dato consigli magari bizzarri, ma sensati. Sì, è vero, a volte si lasciava andare a quelle che Gretel chiamava “le sue paturnie mentali un po’ pseudointellettuali”, ma se lo si ascoltava c’era sempre qualcosa di cui fare tesoro. Così, all’uscita, Gretel lo prese sotto braccio, lo guardò interrogativa ed esclamò:
- Allora? Che cosa ne pensi?
- Alludi alla tua iniziativa del poster, immagino...
- Certo, a che cosa se no!
- Beh, con te non si sa mai.
- Dài, Hansel, non fare il cretino; che cosa ne pensi?
- Guarda, Gretel, disse Hansel, cercando di comunicare tutta la tranquillità possibile, è una grande iniziativa, lodevole e utile. Ma non lavori mica sola: gli altri sono coinvolti? Cosa sanno davvero della tua iniziativa? La sentono come
loro? Non credere che sia tutto meccanicamente logico, non hai a che fare con degli ingranaggi razionali. Hansel aveva origliato, in effetti, qualche commento non favorevole tra i colleghi. Hai a che fare con delle persone.
- Lo so, lo so. E ora, che cosa mi consigli di fare?
- Senti, bisogna assolutamente fare in modo che gli altri possano partecipare. Se no, se non ci sarà la collaborazione di tutti, sarai considerata una rompiscatole e tutto si fermerà qui.
- Va bene, Hansel, ma dimmi, dimmi come si può fare!
- Occorre innanzi tutto creare il clima giusto.
Hansel parlava con lo stesso slancio entusiastico con il quale a quattordici anni si organizzano le feste.
- Diremo a tutti che abbiamo voluto scioccarli un po’ con quel poster e che ora vogliamo raccontare davvero che cosa abbiamo in mente. Sì, proporremo a tutti i nostri colleghi, anche a “Succo di vinaccia”, di fermarsi per un quarto d’ora dopo la chiusura per parlare della nostra iniziativa. Dobbiamo predisporre bibite, patatine e cioccolatini, in modo che vivano la cosa come un’opportunità per fare due chiacchiere informali e non come una seccatura, per di più oltre l’ora di chiusura. Poi gli dirai come hai raccolto i dati, gli farai vedere i tuoi moduli e chiederai la collaborazione di tutti su due punti distinti: individuare le cause dei fattori critici e immaginare come migliorare la situazione, se preferisci, usando il tuo linguaggio “chiedersi perché” e “modificare la fonte”. Così potrai raccogliere tutte le idee e, in seguito, selezionare le migliori.
Gretel approvò il piano e si impegnò a predisporre tutto per l’indomani, ma chiese ancora ad Hansel se fosse veramente il caso di coinvolgere il capo. Si lamentò di come le avesse impedito la diffusione dei questionari:
- Se non conosciamo la “qualità attesa” dai nostri clienti né la “qualità” da loro “percepita” e quindi non conosciamo la differenza fra l’una e l’altra, non conosceremo in effetti il loro grado di soddisfazione e non potremo progettare una “qualità da proporre” che sia in direzione dell’azzeramento della differenza fra “qualità attesa” e “qualità percepita”!
Hansel la guardava affascinato.
- Che cosa c’è da guardarmi in quel modo?
- C’è che sei proprio una femmina. In tutto e per tutto, le disse Hansel spiazzandola un po’. Mi affascina il fatto che tu riesca a essere libera e senza confini e, contemporaneamente zelante come un ragioniere. Ami e odi. Competi e collabori. Sei disincantata e pignola, sprezzante e attenta, sarcastica e protettiva, aggressiva e remissiva, repressa ed emancipata. Sei tutto. Tutto in un sistema armonico. Cioè, sei una femmina. Noi maschi, invece, separiamo tutto. Siamo degli incorniciatori. Dei folli incorniciatori: da un lato il sesso, dall’altro la tenerezza. In un’altra cornice la famiglia, in un’altra ancora la ione. In una cornice i figli, in un’altra le amanti. Che debolezza! Il futuro della vita è un futuro sistemico, è un mondo di unità, di armonia. Il futuro è un mondo al femminile. Femmine, Gretel, femmine, non “donne”. Non usare il termine “donna”: noi donne... Gli uomini, invece le donne... No! Non esistono gli uomini e le donne. Esiste l’essere umano. La storia non è fatta dagli uomini usando le donne come comparse o, al massimo, come eroine. La storia la fanno le persone. Quando si dice “uomo” si deve sottintendere “uomo maschio” e “uomo femmina”. Se non iniziamo dal linguaggio, che è causa ed effetto della cultura,
le femmine saranno sempre subalterne, saranno sempre “donne”.
Le solite paturnie mentali di Hansel, pensò lei, che, interrompendolo disse:
- Sì, Hansel, va bene, sono un “uomo femmina”. Ci vediamo domani, d’accordo?
Gretel faceva la scorbutica, ma in realtà rimaneva sempre un po’ affascinata da quel guizzo di pazzia che sprizzava dallo sguardo di Hansel quando si lasciava andare alle sue elucubrazioni. E Hansel lo sapeva. Per questo rise alla frase un po’ irriverente di Gretel.
Rise di gusto, le volle bene e si incamminò verso casa.
10
Una persona che vede la qualità e la sente mentre lavora è una persona che ci tiene. E una persona che ci tiene a quello che vede e fa è destinata ad avere alcune caratteristiche di qualità. R.M. Pirsig
L’indomani, Gretel preparò una lettera per tutti i colleghi che consegnò personalmente a una a una. Il testo era il seguente:
“Caro collega,
sei pienamente soddisfatto del posto in cui lavori? E del servizio che offri agli utenti? Pensi che si potrebbe fare di più? Con molto sforzo? Basterebbe forse una migliore organizzazione? Preferiresti essere più efficiente e avere a che fare con persone sorridenti e soddisfatte? Si può fare qualcosa perché questo tuo desiderio possa essere esaudito?
Io dico di sì!
Parliamone giovedì prossimo alle diciassette.
Sarà offerto un rinfresco.”
Se l’obiettivo della lettera era quello di creare una certa curiosità, certamente fu centrato.
Simulando indifferenza e una certa superiorità, tutti i colleghi chiedevano di soppiatto informazioni aggiuntive e conferme sul posto dove si sarebbe tenuta la riunione, sul tipo di rinfresco, su chi fosse stato invitato a partecipare.
Venne presto il fatidico giovedì. Nella stanza mensa-spogliatoio Gretel aveva preparato tutto: tavolo, sedie, segnaposti, blocchi per appunti, penne e, su un tavolino a parte, pasticcini, spumante dolce e bibite.
Gretel accolse tutti sorridendo. Quando tutti furono seduti, lei si alzò, stette per pochi secondi in silenzio orientando lo sguardo in direzione dei colleghi e poi disse:
- Per quale motivo siamo qui riuniti? Ognuno di voi, aderendo al mio invito, si sarà posto questa domanda. Hansel osservava soddisfatto e compiaciuto. Ebbene, siamo qui per rispondere a una domanda: “È possibile, in linea di principio, soddisfare maggiormente gli utenti (a proposito, credo che dovremmo imparare a chiamarli clienti) a cui forniamo i nostri servizi? E ancora, ciò migliorerebbe la qualità della nostra vita?”
Ci fu un attimo di silenzio. Gretel fece con lo sguardo sorridente, ma un po’ teso, un altro rapido giro tavola dei presenti e aggiunse:
- Voglio raccontarvi che cosa ho fatto in proposito fino a oggi... Descrisse con minuzia tutto il lavoro svolto: i moduli, la tabella e i grafici peraltro già affissi a suo tempo. Parlò anche dell’approccio metodologico che aveva elaborato, il famoso “Fotografare, chiedersi perché, modificare la fonte, rifotografare”.
- Di queste quattro fasi, fino a oggi, è stata svolta solo la prima. Restano ancora le altre tre. Siamo qui per questo. Che cosa ne pensate? Hansel intanto osservava in silenzio, con uno strano sguardo pieno di pudore, il pudore di non vorrebbe trovarsi a dover giudicare o correggere.
- Scusa, Gretel, intervenne un collega noto per essere uno scansafatiche, ma unanimemente considerato intelligente, uno di quelli che a scuola sono giudicati sempre con la stessa frase: “È intelligente, peccato che non si applichi”, ma perché dovremmo sforzarci tanto? In nome di che cosa? Per conto di chi? Insomma, scusa se lo dico in modo un po’ banale, ma chi ce lo fa fare?
- Ha ragione lui, intervenne una collega anziana, in verità per nulla simpatica a Gretel. Io lavoro qui da ventidue anni e ho preso solo pesci in faccia. Dal capo, dagli utenti, sottolineò con il tono della voce il termine “utenti”, come a replicare a Gretel che aveva chiesto di iniziare a chiamarli “clienti”, e quasi sempre anche dai colleghi. E ora vieni tu a spiegarmi che devo migliorare. Ma migliorare che cosa?
Gli altri si produssero in un brusio di approvazione. Gretel cercava di mantenere il suo sorriso, così come le aveva suggerito Hansel, ma era evidente il suo stato d’animo tutt’altro che sorridente.
Avrebbe voluto mandare tutti a quel paese, mollarli lì dicendo che allora meritavano davvero una vota dietro a uno sportello a prendersi grugniti e male parole. Avrebbe voluto rompere. Definitivamente. E si vedeva. Fu a questo punto che intervenne Hansel.
- Anch’io sono d’accordo con voi, iniziò guardando Gretel sorridendo con gli occhi. Nessuno di noi deve qualcosa a qualcuno. Ma dobbiamo molto a noi stessi. Io penso che il principale compito di un uomo sia quello sia quello di rendere importante e meritevole, sottolineò col tono di voce i termini “importante” e “meritevole”, la sua vita.
Mentre Hansel parlava, Gretel pensò testualmente: come se non fosse già una brutta giornata, ci mancavano anche le paturnie di Hansel.
- Ho letto l’altro giorno su una rivista, proseguì Hansel, la lettera di un uomo di ottant’anni, era firmata da un certo Jorge L. Borges. L’ho fotocopiata. L’ho qui con me. Posso darvene lettura? Non aspettò neppure un cenno di risposta alla sua
domanda retorica e prese a leggere.
“Se potessi rivivere la mia vita, la prossima volta cercherei di commettere più errori. Non cercherei di essere tanto perfetto. Mi rilasserei di più. Sarei più sciocco di quanto lo sono stato in questo viaggio. Conosco pochissime cose che prenderei sul serio. Sarei più matto. Sarei meno devoto all’igiene. Correrei più rischi, farei più viaggi, scalerei più montagne, nuoterei in più fiumi, guarderei più tramonti, andrei in tanti posti dove non sono mai stato. Mangerei più gelati e meno fagioli. Avrei più problemi veri e meno immaginari.
Vedete, io ero uno di quelli che vivono in modo “profilattico” e sensato e ragionevole, ora per ora e giorno per giorno. Oh, ho avuto i miei problemi, e se dovessi ricominciare daccapo, ne avrei di più di quei momenti. Anzi, cercherei di non avere altro che problemi, momento per momento.
Ero uno di quelli che non vanno mai da nessuna parte senza il termometro, la borsa dell’acqua calda, l’impermeabile e il paracadute. Se dovessi ricominciare daccapo, viaggerei con un bagaglio più leggero.
Se dovessi ricominciare daccapo, comincerei ad andare in giro scalzo all’inizio della primavera e continuerei fino ad autunno inoltrato. Farei tanti giri in giostra di più. Guarderei di più i tramonti e giocherei di più con i bambini, se avessi la mia vita da rivivere. Ma non ce l’ho.”
Hansel lesse negli occhi di alcuni una forte carica di tensione emotiva e proseguì:
- Ebbene, io credo che abbiamo ogni giorno, in ogni momento, l’opportunità di
valorizzare la nostra vita e fare in modo di non divenire lucidamente, malinconicamente e rapidamente vecchi. Ognuno di noi ha ogni giorno la possibilità di rimanere giovane un giorno di più. Di tenere sempre le antenne ben alte, di non abituarsi a una vita sempre uguale a se stessa, di non lasciarsi andare al cinismo. A ognuno di noi si presenta ogni giorno l’opportunità di non invecchiare, ma spesso la allontaniamo, come abbiamo fatto prima con Gretel.
- Dài, Hansel, che cosa c’entra Gretel con tutto questo discorso!? chiesero quasi all’unisono i colleghi.
- C’entra, c’entra. Di fronte alla proposta di Gretel, ci siamo chiesti: “Chi ce lo fa fare?” Proviamo a riformulare la domanda: “Che cosa abbiamo da perdere?” Nulla. In compenso, nella peggiore delle ipotesi avremmo fatto un’esperienza in più che certamente, almeno un poco, ci potrà arricchire come persone e magari rendere più appetibile il nostro curriculum. Io lo dico subito: ci sto!
Una collega non più giovanissima di nome Anna, che non aveva mai nascosto la sua bonaria simpatia per Hansel, lo seguì:
- Sì, anch’io. Ha ragione. Nella peggiore delle ipotesi, in effetti, eremo qualche momento in modo un po’ diverso dal solito, e poi, dobbiamo guardare alla nostra coscienza e basta; che cosa ce ne importa se questa iniziativa ci sarà riconosciuta oppure no?
E un altro aggiunse:
- Beh, in fondo Gretel ci ha già lavorato su, tanto vale continuare...
In breve, praticamente tutti aderirono. Tacque, immobile e di vetro, il solo capo.
Gretel non sapeva come porsi nei confronti di questo nuovo atteggiamento dei colleghi. Non sapeva se ringraziare tutti, o solo Hansel, o proprio nessuno. Se la cavò dicendo:
- Ora beviamoci sopra, forse ho bisogno di riordinare un po’ le idee. Vi farò sapere quale sarà la prossima puntata.
Hansel si alzò. Strizzò l’occhio in direzione di Gretel e andò a stappare lo spumante. Sapeva che per Gretel non era stato un momento facile, sapeva che a lei era caduto addosso come un macigno l’iniziale rifiuto della sua idea. D’altronde, secondo Hansel, Gretel si era dimostrata presuntuosa nel pensare che tutti avrebbero dovuto aderire di getto, ma decise che non avrebbe mai espresso questo giudizio, perché riteneva che Gretel lo avrebbe capito da sola. Poi alzò il suo bicchiere di carta verso il cielo esclamando:
- Alla nostra Gretel!
Gretel si schernì, tradendo un’espressione infastidita e imbarazzata, come si fa quando, da adulti, la mamma ci dice che siamo belli. In fondo però tutti noi sappiamo che se non ce lo dicesse mai, sarebbe un vero guaio.
la sua vita
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Lavorare per lo “zero difetti”, non è un obiettivo né uno scopo. È uno stato d’animo. K. Ishikawa
Nelle settimane seguenti, vi furono altri incontri. Per lo più del tutto informali. Il progetto di miglioramento prese una piega un po’ meno “scientifica” di quanto avrebbe voluto Gretel, però, senza ombra di dubbio, la situazione evolvette e portò nel volgere di poche settimane a tanti piccoli cambiamenti. Il primo fu in verità banale, ma ebbe su tutti, chissà poi perché, un formidabile valore simbolico: tutti conoscono le penne a disposizione degli utenti in un qualsiasi ufficio postale, quando ci sono. Vecchie biro alle quali viene attaccato con nastro marrone uno spago da pacchi a sua volta legato allo sportello. Ebbene, quelle biro furono sostituite con penne a sfera originali e personalizzate, sul dorso delle quali vi era la scritta “Ufficio Postale – Servizio Clienti”. Le nuove penne, contrariamente alle precedenti, non erano legate, bensì inserite in portamatite rotondi posizionati sui banchi di servizio. Era quindi possibile munirsi liberamente di una penna, utilizzarla e rimetterla al suo posto. La questione che si pose fu relativa ai possibili furti delle penne. Si decise allora di far stampare sui portamatite una scritta che inducesse alla collaborazione, ed esattamente: “Le penne sono utili a tutti per un servizio migliore. Concorri anche tu perché non vadano perse!”
Gretel calcolò che, in una settimana, furono rubate nove penne. Ciò equivaleva a una spesa settimanale di poco più di 3 euro, cioè a circa 12 euro il mese che,
pensandoci bene, era una insignificante spesa di cancelleria, per di più con effetti pubblicitari, visto che le penne rubate erano comunque “personalizzate”.
Questo semplice fatto fu apprezzato anche dai clienti e ciò determinò nuovi stimoli: furono imbiancati i muri, rimessi in sesto i banchi di servizio, ma soprattutto si prese l’abitudine di salutare cordialmente sempre e tutti e di accogliere i clienti agli sportelli con frasi del tipo: “Che cosa posso fare per lei, signore?”
Tutti gli impiegati si dotarono di segnaposti con la scritta “Lei in questo momento è servito da...” e, di seguito, il nome dell’addetto, che regolarmente venivano ben esposti agli sportelli. Il principale effetto sul clima dell’ufficio riguardava l’atteggiamento dei clienti che, mediamente, rispettavano di più il lavoro degli addetti ma, era fatale, diventarono anche più esigenti, perché sapevano di poter chiedere di più. Se per esempio veniva segnalato un ritardo nella consegna di una lettera, qualcuno se ne faceva sempre carico cercando di eliminare la causa che aveva generato il ritardo e informandone successivamente il cliente al quale si era chiesto, cortesemente, di lasciare il recapito telefonico. Insomma, era bandita l’espressione “non dipende da me”.
Per promuovere questo stile di comportamento, era stato coniato una specie di slogan: “Fra l’impiegato postale e il suo cliente, chi deve essere simpatico a chi? L’impiegato al cliente? No! Il cliente all’impiegato!” Si riteneva insomma che da uno stato d’animo più positivo nei confronti dei clienti sarebbe scaturito un comportamento più efficace.
Tutto ciò gettò in stato confusionale “Succo di vinaccia”. In una prima fase stette semplicemente a osservare, convinto che l’entusiasmo sarebbe rapidamente venuto meno; ma quando capì che il processo era ormai inarrestabile, cercò in ogni modo di boicottare il meccanismo di continuo miglioramento che si era scatenato. Ma il buon senso dei suoi uomini era più forte della sua ignavia e delle sue paure. Arrivò allora il giorno in cui prese una decisione: informare di
quanto stava accadendo la direzione generale del Ministero delle Poste. Lo fece. Dopo circa un mese arrivò all’ufficio una lettera di risposta da Roma. “Succo di vinaccia” aprì emozionato la busta. La lettera era firmata dal ministro in persona. Ora gliela faccio vedere io a questi scalmanati, pensò. Ma nel leggere il contenuto della lettera rimase completamente frastornato: il ministro si complimentava per le iniziative intraprese dagli impiegati dell’ufficio.
Al Ministero capirono subito che l’idea di quel gruppo di impiegati genovesi poteva essere utilizzata in chiave di propaganda politica: “Sta cambiando il servizio pubblico, caro cittadino. Puoi darci ancora fiducia!” Era più o meno questo il senso dell’entusiasmo ministeriale. Fatto sta che, di lì a breve, fu annunciata la visita all’ufficio del ministro in persona. La data non era ancora stata stabilita. Ma l’impressione era che l’evento sarebbe avvenuto di lì a poco.
Quando Gretel lo seppe, rimase molto impressionata. Per lei infatti il progetto di miglioramento della qualità del servizio non aveva avuto un così grande successo da meritare l’attenzione del ministro in persona. Lei avrebbe voluto fissare degli standard precisi, misurabili e monitorabili di prestazione del servizio: il numero massimo di squilli telefonici prima della risposta, il tempo massimo di attesa del cliente prima d’essere servito e molti altri. Gretel si sentiva lontanissima dal poter guardare alla sua iniziativa come a un successo, eppure stava per avere la benedizione del ministro.
Proprio non capiva. Non capiva come fosse possibile tutto ciò. Le sembrava di vivere un sogno. Eppure non era felice di viverlo.
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Un uomo vide un taglialegna affaticarsi con grande impegno nel cercare di segare il tronco di un grosso albero e osservò che la lama, nonostante tutto il
lavoro, rimaneva sempre allo stesso punto del tronco. Disse allora al taglialegna che forse era il caso di rifare il filo alla lama. E lui rispose: “Lo so anch’io. È che non ho tempo!” E continuò a segare inutilmente. Anonimo
Quella sera Gretel non riusciva a prendere sonno. Non le interessava la visita del ministro, si chiedeva invece perché non fosse riuscita a produrre un cambiamento veramente significativo e a mettere in pratica in modo realmente efficace tutte le fasi del progetto “Fotografare, chiedersi perché, modificare la fonte, rifotografare”. Cercò di spiegarsi quello che lei considerava un fallimento, enumerando tutte le difficoltà incontrate, contò i mille motivi per cui la sua iniziativa non era pienamente attuabile: pensò all’insensibilità di “Succo di vinaccia” e allo spirito poco scientifico dei colleghi, ma non le bastava. Gretel voleva capire dove lei aveva sbagliato, in che cosa lei avrebbe potuto comportarsi diversamente, che cosa doveva aggiungere o modificare in termini concettuali all’architettura di pensiero e comportamento che aveva elaborato.
Fu proprio quando il suo pensiero andò ai colleghi che ebbe l’intuizione: avrebbe dovuto considerare anche i suoi colleghi come dei clienti. Come poteva pensare che essi aderissero alla sua visione della qualità solo per la sua bella faccia? Occorre misurare le attese anche dei colleghi, per poi intraprendere le azioni tese a soddisfare i loro bisogni, esattamente come si fa con i clienti, pensò, e invece io ho solo cercato di convincerli, li ho quasi definiti sciocchi, li ho giudicati e trattati esattamente come non si deve fare con un cliente. La mia tensione nei loro confronti era concentrata sulla persuasione e non, come dovrebbe essere con un cliente, sull’ascolto. Ma subito la sua prostrazione si tramutò in soddisfazione. Era entusiasta di aver aggiunto un nuovo tassello alla sua logica della qualità: il collega a valle del processo di produzione del servizio è a tutti gli effetti un cliente!
Si sentì più felice; pensò che comunque aveva pur prodotto dei pensieri nuovi nei suoi colleghi e che finalmente aveva colto la chiave fondamentale per il successo della sua iniziativa: la “reale” partecipazione di tutti. E capì che l’unico
modo per ottenerla consiste nel considerare l’organizzazione come un insieme di processi individuali interconnessi, in cui ognuno è al tempo stesso gestore di uno specifico processo (cioè direttore generale di una determinata attività), ma anche cliente e fornitori di altri direttori generali, e intuì che solo partendo da questo presupposto si poteva considerare l’ufficio come un vero e proprio organismo, come un “sistema”, e non come una macchina. Allora pensò che il giorno dopo avrebbe stretto la mano a “Succo di vinaccia” e gli avrebbe detto: “Capo, tu sei il mio miglior cliente!” E, compiaciuta pensando a quanto si sarebbe sbigottito, pensò che avrebbe trasmesso a tutti i colleghi questo suo pensiero e che avrebbe proposto loro di identificare, tracciando una mappa, il “chi è cliente e fornitore di chi” nell’ambito dell’organizzazione.
Si sentiva euforica, e fu allora che corse a scartabellare fra le vecchie carte, nei cassetti dove lei usava ammucchiare un po’ alla rinfusa la roba inutile. Cercò e trovò uno scritto di un prete scrittore, un certo Don Balducci, che Hansel le aveva dato un giorno in fotocopia e che lei aveva affrettatamente messo da parte dopo una superficiale lettura. Rilesse quel foglio:
“Il tempo è dunque irreversibile perché nella sua corsa verso il futuro, l’energia non si trova mai nelle condizioni del momento precedente. L’errore del meccanicismo è di considerare il tempo come una successione reversibile e gli eventi come accadimenti che potrebbero ripetersi una volta messe in atto le stesse condizioni. Ma l’ecosistema è così interconnesso che in ogni sua parte è il tutto e ogni sua parte è nel tutto. Se muore un fiore, niente è più come prima.”
Sì, è proprio così, pensò, tutto è organico e in continua mutazione, le macchine non esistono! Insomma, quel foglio che qualche tempo prima le aveva dato Hansel, in qualche modo le aveva dato la conferma filosofica della sua intuizione.
Povero Hansel, in fondo era molto importante per Gretel, ma lei non lo sapeva. Lo riteneva un po’ sciocco, come riteneva tutti gli uomini, d’altronde. Ma a suo
modo gli voleva un gran bene, pensava che poteva meritarsi ogni tanto un pensiero, ed era certa che i suoi pensieri gli fossero in qualche modo trasmessi e che lui riuscisse a percepirli.
Strano, fu proprio pensando ad Hansel che Gretel sentì di essere una molecola influente nell’organismo del mondo; per la prima volta sentì di essere maledettamente importante. Si accoccolò con questo pensiero e senza accorgersene si addormentò.
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La qualità della nostra vita è nella qualità delle nostre relazioni, eppure dedichiamo molte più energie a noi stessi che non alle nostre relazioni. Anonimo
L’indomani Gretel mise in pratica il suo progetto. Appena entrata in ufficio, si precipitò sorridendo verso “Succo di vinaccia” e arrivò davanti alla sua scrivania. La scrivania di “Succo di vinaccia” era particolarmente profonda e si presentava come un’insormontabile diga di cartelline ricolme di pratiche da sbrigare. Insomma, era fisicamente impossibile avvicinare quell’uomo anche solo per stringergli la mano, perché la barriera cartacea lo divideva da chiunque.
Per avvicinarsi, dovette aggirare la scrivania. Lui indietreggiò sulla sua sedia fino a farne sbattere contro il muro la base con le rotelle. Lei lo abbracciò e gli disse quanto aveva deciso:
- Capo, tu sei il mio miglior cliente!
“Succo di Vinaccia” restò letteralmente sbigottito. Non riuscì neppure a fare un sorriso di circostanza. Né a rimproverare la sua strana impiegata. In realtà, ebbe solo paura.
Lei lo percepì, ma non se ne fece un problema. Anzi, per la prima volta provò una strana comprensione verso quell’uomo e il suo atteggiamento.
Gretel propose poi a tutti i colleghi di organizzare un incontro per poter spiegare loro le sue riflessioni intorno all’idea di costruire la mappa “Chi è cliente di chi” nell’ambito dell’ufficio. Per la prima volta prese l’iniziativa senza consultarsi con Hansel.
Si decise di incontrarsi l’indomani, dopo la chiusura dell’ufficio.
Anche in quell’occasione non mancarono bibite e vivande, ma non furono né Hansel né Gretel a portarle. Fu invece Anna, la loro collega che fin da subito aveva aderito al farneticante progetto di Gretel. Anna arrivò infatti con due sacchetti di carta, dai quali spuntava il collo di una bottiglia di vino bianco e si intravedeva l’unto della focaccia. Naturalmente si era munita di un pacchetto di fazzolettini e bicchieri di carta. Sistemò il tutto sul tavolo col fare deciso, distaccato e un po’ burbero di chi pensa: è tutto normale quello che sto facendo, quindi niente ringraziamenti e convenevoli.
Si creò un clima piacevole e amichevole. Quasi intimo. Tanto che per Gretel fu
del tutto naturale sottoporre ai colleghi la sua intuizione:
- Ieri sera ho pensato a tutto il lavoro che stiamo facendo, e mi dispiacevo del fatto che in fondo non molto è cambiato nel nostro modo di lavorare...
- Non è vero... la interruppero un po’ tutti.
- Perché dici questo, Gretel? Spiegati Meglio! chiese Hansel
- Vedete, riprese lei, è vero, abbiamo un modo migliore di porci nei confronti dei nostri clienti, si vedono più facce sorridenti, c’è più comprensione e rispetto. Ma in termini di efficienza, in termini di reale efficacia del servizio, insomma, in termini di prestazione effettiva, siamo sicuri che siano migliorate le cose? Mi sono domandata anche da chi dipendesse il miglioramento delle prestazioni. Cari colleghi, penso che ci sia una sola risposta: da tutti noi. Lo so, lo so che, volendo, possiamo trovare mille ragioni, fonti di inefficienza, indipendenti da noi. D’altronde è anche vero che, per migliorare, ci si deve evidentemente concentrare su ciò su cui si può influire. Inutile concentrarsi su ciò su cui non c’è possibilità di influenza! Così si può certo trovare un alibi, ma non migliorare la situazione!
- Va bene, d’accordo, Gretel, ma vieni al dunque! Sembri Hansel! esclamò qualcuno senza malizia e guardando lo stesso Hansel che naturalmente non se la prese, anzi sorrise compiaciuto.
- Sta bene, riprese Gretel, ora vi dico cosa ho in mente. Tutti noi siamo semplici esecutori di compiti o siamo invece qualcosa di più? E se vogliamo essere qualcosa di più, come vorremmo essere considerati? Io penso che noi siamo
“persone che gestiscono un’attività”, non “addetti che eseguono un compito”! Ognuno di noi è “gestore di un processo che trasforma qualcosa in qualcos’altro che vale di più”! Noi siamo i direttori generali della nostra azienda personale! E anche la nostra azienda personale, come tutte le aziende, ha dei clienti e dei fornitori. I clienti e i fornitori delle nostre aziende personali sono i nostri colleghi a valle e a monte del processo! Insomma, siamo tutti contemporaneamente gestori di un processo, clienti del gestore a monte e fornitori del gestore a valle!
Gli altri la guardavano un po’ allibiti, ma al contempo rapiti dal su entusiasmo. Gretel sorrideva come a dire: “Chiaro, vero?”
- D’accordo, e con questo? Che cosa dobbiamo fare di diverso da quello che già facciamo? chiese Anna fiduciosa di ottenere una risposta convincente.
- Non lo so. In effetti non lo so, rispose Gretel con una disarmante sincerità.
- Bene, se è vero che ognuno di noi è direttore generale della sua azienda personale, intervenne Hansel, potremmo intanto iniziare a definire l’attività di ognuna delle nostre aziende personali. Ognuno di noi potrebbe analizzare “cosa trasforma in cosa” nel processo del quale è gestore!
Discussero a lungo di questa idea e alla fine elaborarono uno schema che ognuno poteva utilizzare per definire tutti gli elementi del proprio processo: che cosa si trasforma in che cosa, i colleghi-clienti, i colleghi-fornitori, i bisogni dei colleghi-clienti e i bisogni propri nei confronti dei colleghi-fornitori. Si diedero il compito di utilizzare quello schema per analizzare la propria attività e poter quindi ridisegnare l’organizzazione dell’ufficio coma una rete di processi interconnessi. Si diedero appuntamento a dieci giorni di distanza con l’impegno di arrivarvi ognuno con il proprio compito svolto.
Gretel era più incredula che soddisfatta, come se temesse che di lì a poco tutto ciò che si stava costruendo sarebbe svanito nel nulla.
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In ciascuno c’è un nobile eroe e un mediocre, a volte prevale l’uno, a volte l’altro. Eppure non sempre l’eroe è migliore del mediocre. A volte il vero eroismo è tutto nella normalità. Anonimo
Contrariamente alle paure di Gretel, di lì a dieci giorni si ritrovarono tutti insieme. Ognuno aveva utilizzato lo schema di Hansel per analizzare il proprio processo. Non solo: quasi tutti avevano anche verificato la rispondenza dei propri bisogni con il servizio che ricevevano dal proprio collega-fornitore. Così ciascuno sapeva anche quanto il proprio collega-cliente fosse soddisfatto del servizio interno che gli si erogava.
Sulla base dell’analisi degli scostamenti fra “specifiche dei bisogni” e “caratteristiche del servizio interno fornito”, si creò un vero e proprio gruppo di lavoro con lo scopo di tendere verso l’eliminazione degli scostamenti.
Si pensò che il metodo da utilizzare per migliorare la “soddisfazione del cliente interno” dovesse essere del tutto analogo a quello utilizzato per il cliente esterno: “Fotografare, chiedersi perché, modificare la fonte, rifotografare”.
Fu così che si iniziò a monitorare la soddisfazione di tutti gli addetti rispetto alla qualità del servizio interno fornito loro, naturalmente con il solo scopo di migliorarlo e non di colpevolizzare alcuno.
Di tutto questo lavoro venne tenuta traccia, tanto che si decise di redigere la descrizione di ogni processo e delle interconnessioni fra i vari processi. Fu redatto il modo in cui si devono “fare le cose” per ottenere la migliore qualità possibile; vennero altresì scritte alcune “istruzioni per l’uso” per quanto attiene le attività più difficili. Questa documentazione veniva tenuta a disposizione di tutti in un raccoglitore ad anelli. Ogni qualvolta una procedura di lavoro o un’istruzione veniva modificata sulla base del suggerimento di qualcuno, per migliorare l’efficacia del servizio interno, la precedente era distrutta e sostituita con la nuova versione.
Lo scopo di questo lavoro documentale era quello di fornire a tutti un promemoria operativo, ma non solo; costituiva anche una sorta di accordo, di contratto fra fornitori e clienti interni sul modo di interagire. Oltre a questo, costituiva un ottimo strumento per l’eventuale inserimento di nuovi addetti che, leggendo le procedure e le istruzioni relative all’attività che avrebbero dovuto svolgere, si potevano fare un’idea sufficientemente chiara del lavoro che li attendeva, abbreviando considerevolmente i tempi di inserimento. In sostanza, documentare il modo di operare consentiva di superare quella visione del proprio lavoro che porta a essere “gelosi”: solo io so come si fa e se vuoi imparare devi soffrire; non ti svelerò “gratis” i segreti del mestiere! Questa logica, essendo tutto documentato, non esisteva più.
Ma il maggior beneficio che portò la documentazione operativa fu la possibilità di migliorare. Fino a quando non si documenta il “modo di procedere”, esistono tanti modi e tutti diversi e ciascuno, convinto di fare nel modo “giusto”, tende a dire: “Ho sempre fatto così...” Ma nel momento in cui esiste una modalità standard convenuta e condivisa, allora il fatto di modificarla nel tempo, il fatto di osservare che in tot mesi è stata modificata tot volte, ti dà la misura del
miglioramento.
Sulla copertina del raccoglitore campeggiava una scritta che era ormai divenuta lo slogan dell’intero progetto: “Fra l’impiegato postale e il cliente, chi deve essere simpatico a chi? Il cliente all’impiegato e non il contrario!”
Anche gli utenti del servizio postale, quando osservavano un addetto consultare il manuale, ne ricavavano un’impressione molto positiva, ma ancor più quando, a fronte di un reclamo, si sentivano rispondere: “Grazie per il suggerimento; compilo subito il modulo ‘Suggerimenti di modifiche alle procedure’ e ne discuterò nella prossima riunione del gruppo di lavoro per il miglioramento del servizio!”
Alcuni utenti, a dire la verità, scambiavano questo modo di fare per un teatrino, ma frequentare più volte l’ufficio postale dava invece la misura di come tutti si facevano davvero carico di migliorare continuamente il servizio e quindi la soddisfazione del cliente.
Un giorno un cliente un po’ scettico e diffidente chiese ad Hansel perché lui e tutti gli addetti si impegnassero tanto, pur svolgendo un lavoro così ripetitivo e noioso. Evidentemente quel cliente era dispiaciuto di non avere motivi per lamentarsi, ed era forse un po’ invidioso di quel modo di lavorare. La sorridente risposta di Hansel lo disarmò:
- Per migliorare la qualità della sua e della mia vita.
Gretel rimase travolta dalla rapida evoluzione del suo progetto: in poche settimane era davvero scattata un’irreversibile abitudine al miglioramento
continuo, e lei quasi non ci credeva. In fondo, il ruolo di eroina della qualità lo aveva giocato un po’ per caso, un po’ perché ormai non poteva più tornare indietro dicendo: “Ho scherzato, sono tutte fandonie”, ma non avrebbe mai immaginato che realmente quel gruppo di persone avrebbe potuto ottenere quei risultati.
Gretel comprese come le organizzazioni si reggano sull’equilibrio fra l’efficacia dei loro meccanismi operativi e la professionalità delle persone che li utilizzano. Comprese in particolare che fra meccanismi operativi e professionalità delle persone esiste un profondo rapporto. Quante volte capita che una persona in un’organizzazione abbia un “problema”, sia motivata a risolverlo, “apra la cassetta degli attrezzi organizzativi” (procedure, istruzioni, sistemi e metodi) e non trovi l’attrezzo giusto! Non trovare l’attrezzo genera sicuramente demotivazione, quindi influisce negativamente sulla professionalità delle persone, perché è impossibile esprimere pienamente la propria professionalità se si è demotivati.
Così come poter invece influire e decidere in ordine alla modifica o creazione di nuovi “attrezzi” genera senso di appartenenza e di soddisfazione. Il significato di tutta la documentazione realizzata era proprio questo: mettere a disposizione di tutti i componenti dell’organizzazione una cassetta di “attrezzi” e consentire a tutti di migliorarli nel tempo.
Ora sì che la visita del ministro aveva un senso, e anche Gretel la attendeva con impazienza.
Mancavano ormai solo due giorni a quello storico evento e Gretel, pur non dandolo a vedere, si sentiva protagonista di una straordinaria esperienza.
L’indomani Gretel non poté però godersi il sapore della vigilia.
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Niente può avere qualità: avere è possedere e possedere è dominare. Niente domina la qualità. Se di possesso e di dominio si può parlare, è la qualità a dominare e possedere. R.M. Pirsig
L’indomani fu infatti per l’ufficio un giorno del tutto insolito: il primo giorno senza Gretel che, al mattino presto, ebbe la notizia della morte di sua madre e, naturalmente, si recò presso la sua famiglia.
Non fu una morte improvvisa. Sua madre era in effetti malata da tempo: Gretel pensava che non sarebbe stato giusto rinunciare alla propria vita per accudirla. La sorella di Gretel, Liza, la pensava in modo diverso: stare vicina alla madre malata era la sua stessa vita.
Questo atteggiamento della sorella generava in Gretel quasi un senso di fastidio: perché ostentare sempre la propria generosità? Si chiedeva, ma subito si trovava ad aggiungere: però, ce ne fossero di persone come Liza... Gretel aveva una grande considerazione per la sorella che, benché più giovane, le appariva molto più forte.
L’ufficio senza Gretel era in un singolare stato di attesa, come se tutti stessero pensando che senza di lei tutto sarebbe finito, e neppure la visita del ministro avrebbe più avuto senso. Ma si sapeva che lei sarebbe tornata. Pure Hansel la
attendeva con la speranza di poterle essere utile e con la consapevolezza di poter fare in realtà molto poco. Quel poco voleva però farlo proprio tutto.
Quel clima ovattato era stemperato dall’attesa della visita del ministro, alla quale mancava ormai solo un giorno: l’evento era vissuto con sufficienza e distacco, ma, al contempo, con lo spirito della sagra paesana. A molti impiegati dell’ufficio, benché non osassero ammetterlo, non sarebbe affatto dispiaciuto accogliere il ministro con lo striscione “Welcome” tipico della provincia americana.
Sta di fatto che l’euforia si poteva respirare. Ognuno si sentiva protagonista di una storia che fino a poco tempo prima non si sarebbe potuta neppure immaginare. Questa consapevolezza rendeva ancora più intensa l’attesa del ritorno di Gretel. Hansel respirava quest’atmosfera con la soddisfazione di chi ne sente la reale paternità e con la seraficità di chi guarda, nella grotta, le ombre di Platone.
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Recitare la parte del pensatore è il primo o per diventarlo. E.de Bono
Quella sera Hansel rientrava verso casa con uno strano o un po’ ciondolato. Guardava negli occhi tutti coloro che incrociava e sembrava voler dire: “Vi guardo, ma sono innocuo. Non preoccupatevi”.
A un tratto sentì il calore di una persona fisicamente vicina. Si voltò con aria
falsamente distratta e vide Gretel. Col capo chino.
- Gretel! esclamò stupito e contento. Entrambi avrebbero voluto abbracciarsi, ma non lo fecero, per quel singolare senso del pudore che caratterizzava il loro rapporto ma che non impediva loro, in altre circostanze, di insultarsi bonariamente.
- Gretel, come stai? chiese ancora Hansel trasmettendo tutta la sua partecipazione emotiva.
- Era già morta. Capisci? È morta senza nemmeno sapere che le voglio bene.
- Non è vero! la interruppe insolitamente perentorio Hansel. I genitori per i figli e i figli per i genitori non fanno mai troppo o troppo poco. Fanno più semplicemente ciò che possono. Tu hai fatto per la tua mamma ciò che hai potuto, così come lei ha fatto ciò che ha potuto per te. E lei lo sa. Lei ora lo sa.
- Tu dici così perché forse credi in Dio. Per me è più difficile.
- Ma che cosa c’entra Dio!? Tu credi che esista l’infinito? E pensi che riguardi solo lo spazio o anche il tempo e tutto il resto? Gretel non si infastidì per questo strano modo di consolarla. Ora voglio parlarti dell’emozione cosmica. Si tratta di una mia convinzione della quale non ho mai parlato con nessuno. L’uomo, tutte le persone, insomma tutti noi nasciamo assolutamente perfetti. Sì, perfetti, perché tutti proveniamo dall’emozione cosmica. Ne siamo tutti figli. Non sono infiniti solo lo spazio e il tempo, è infinita l’emozione che ci genera. Poi, crescendo, tutti noi iamo la nostra esistenza a mettere cornici. Incorniciamo il tempo, lo spazio, le emozioni, le conoscenze, i sogni, la mente, le scienze. Sì,
iamo la nostra vita a fare cornici. Ma tu lo sai cos’è la macchina del tempo? chiese ancora Hansel con il tono di chi desidera essere ascoltato a tutti i costi, mentre Gretel lo seguiva un po’ attonita, ma speranzosa di trovare nelle parole di Hansel una qualche consolazione. Voglio parlartene. Guarda la luna! Dietro ad alcuni palazzi splendeva in effetti una luna tonda e morbida. Credi veramente di vedere la luna lassù come è in questo momento, invece vedi la luna come era qualche istante fa, giusto il tempo che la sua luce percorra la distanza fra la fonte di emissione, la luna stessa, e i nostri occhi! Noi vediamo insomma la luna come è ora per noi, non come è ora per lei. Potrebbe non esistere più e noi continueremmo ugualmente a guardarla innamorandoci ai suoi raggi. Per non parlare delle stelle! Era come se Hansel parlasse di cose di tutti i giorni, con lo stesso tono di chi, nei bar, parla di calcio o quant’altro. Noi guardiamo con grande trasporto emotivo le stelle che magari non esistono più da secoli o da migliaia di anni, ma è tale la distanza che ci separa da loro, che ‘la luce di ciò che non è più’ continua ad arrivarci. Noi, guardando le stelle, guardiamo il ato del cosmo! Guardiamo il cosmo com’era, non com’è! Ma se noi lo guardassimo con un telescopio? Guarderemmo un ato ancora più ato, ma un po’ più da vicino. Pensa, Gretel, potremo forse un giorno costruire un telescopio così potente da vedere da vicino l’inizio del mondo. Ma prima dell’inizio del mondo? Beh, per saperlo dovremo costruire un cannocchiale ancora più potente. Con quel telescopio potremmo penetrare l’emozione cosmica. Capisci, Gretel? La macchina del tempo è un cannocchiale! Per andare indietro nel tempo, bisogna andare lontani nello spazio. Altro che cornici fra tempo e spazio!! Sono la stessa cosa! Ma perché noi mettiamo tutte queste cornici?! Ecco, la tua mamma lo sa. Lei fa parte dell’emozione cosmica. Ora, o forse da sempre, questo ancora non lo so, è parte dell’emozione cosmica. Laggiù non ci sono cornici. Ecco, la migliore definizione dell’emozione cosmica è “luogo in assenza di cornici”.
Gretel ascoltava pensando come fosse singolare essere consolata con strani ragionamenti sui cannocchiali.
- Capisci, Gretel, continuò Hansel, la tua mamma appartiene a una dimensione più ampia che anche noi, qui e ora, dovremmo cercare di disegnare. Dobbiamo disegnare una nuova consapevolezza, una consapevolezza che unisce per
condividere, anziché dividere. Per unire gli stati d’animo, le cose, le situazioni, le visioni, le relazioni. il tutto in un tutt’uno armonico. Noi siamo quello che diamo e saremo quello che abbiamo dato. Ricordati, Gretel, te ne prego, la voce di Hansel si fece roca per l’emozione, anche la nostra immaginazione e i nostri sogni appartengono a una dimensione più ampia.
Hansel, pronunciando queste parole, non volle trattenere le lacrime che, copiose, solcarono il suo viso immobile. Gretel non capì perché Hansel si fosse emozionato in quel modo, fino alle lacrime, parlando dei sogni e dell’emozione cosmica, ma era destinata a capirlo di lì a poco.
Poi Hansel, con un gesto rapido e pudico, si asciugò le lacrime dal viso e confermò a Gretel che l’indomani sarebbe arrivato il ministro in visita all’ufficio. Andarono entrambi a dormire. Il giorno dopo sarebbe stato memorabile.
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L’immaginazione è di gran lunga più importante della conoscenza. A.Einstein
Quella sera Gretel, appena rientrata a casa, si accoccolò sul letto e in breve tempo prese sonno. Dormiva profondamente, ma il suo sonno fu disturbato a un tratto da una strana sensazione di solletico umido che sentì sulla faccia. Era il suo cane. Un barbone nero di otto anni che viaggiava sempre con lei e Walter, il suo compagno. Gretel prese lentamente coscienza di sé e della realtà e, quasi spaventata, esclamò il nome di Hansel.
Walter, un giovane magro, biondiccio e barbuto, la guardò allibito, ma consapevole dello stato confusionale in cui Gretel si era svegliata:
- Gretel! Che cosa dici!? Stai calma! Stiamo in Camargue, a Saint Marie de la Mer, e tu dormi da quasi dodici ore. Non ti saresti svegliata neanche con un terremoto.
Gretel alzò lo sguardo e vide accanto a sé un’asse, appoggiata su due cavalletti, coperta da uno scialle coloratissimo sopra il quale erano esposte tutte le sue creazioni: collane, ciondoli, orecchini e soprattutto anelli. Capì. Ma, pur consapevole, chiese ancora di Hansel, e ne chiese con lo stesso sguardo che ha un bambino al quale si ruba l’orsacchiotto con cui ha dormito per tutta la vita. Walter si stizzì:
- Senti, Gretel, io vado a prendere quelle nuove pietre di cui ti ho parlato ieri. Oggi dovrebbero arrivare molti turisti. Tu, fammi il piacere, sciacquati la faccia e cerca di rimetterti un po’ in sesto. Dài, calmati, hai solo dormito profondamente.
Gretel annuì senza dire alcunché, ma restò seduta in terra. Appoggiò i suoi gomiti alle ginocchia che aveva a loro volta portate al petto, facendo strisciare i piedi sopra la coperta sulla quale aveva dormito, e si mise le mani sul viso all’altezza delle tempie. Il suo sguardo era immobile, i suoi occhi spalancati e tristi. Era in preda a un insopportabile senso di colpa nei confronti di Hansel, al quale non aveva avuto il tempo e il modo di dare, nel sogno, quanto avrebbe meritato. Quante cose non dette! Quante non fatte e non condivise con lui! Eppure era solo un sogno, pensò, ma questa considerazione così razionale non bastava a farla stare meglio. Sapeva che non avrebbe più rivisto il ragazzo con gli occhi che ridono da soli, quel compagno onirico che di lei aveva accettato proprio tutto e da cui aveva accettato anche di farsi cambiare il nome. Di più: sapeva che, nella realtà, non lo aveva in effetti mai conosciuto e ciò rendeva il suo stato d’animo ancora più contrito.
Eppure era solo un sogno, continuava a ripetersi senza capacitarsi di trovarsi a soffrire per qualcosa di completamente irreale. E Rosa chi poteva essere? Forse il ricordo di un personaggio di un sogno? Esiste qualcosa di più etereo di ciò?
Solo una cosa era chiara: quanto avesse voluto bene ad Hansel, sia pure dentro al sogno. In verità, le fu chiaro che gli voleva ancora bene, anche fuori dal sogno. Sentì che non lo avrebbe mai dimenticato e che, in qualche modo, non avrebbe più fatto a meno di lui. Ripensò alle cornici di cui le aveva parlato: lei non avrebbe mail voluto mettere una cornice intorno al suo sogno, separarlo da lei e dalla sua vita. Desiderava, al contrario, che il suo sogno fosse tutt’uno con lei e con il suo modo di vivere dentro quell’emozione cosmica di cui le aveva parlato il suo dolce compagno. E neppure la consolava l’idea che la mamma fosse morta solo dentro il sogno.
Battendosi la fronte col pugno chiuso pensò di aver capito perché Hansel, nel sogno, si era commosso affermando che anche i sogni erano parte di una dimensione più ampia: secondo Gretel, egli in quel momento sapeva di essere solo un sogno e se ne doleva.
Poi si alzò, uscì e camminò verso il mare. Tanto addolorata da non poter piangere né distinguere il disagio fisico da quello del cuore, attraversò leggera la spiaggia. Si inoltrò lungo uno dei tanti tratti di fiume di quel paesaggio lacustre e lunare, fino a raggiungere uno di quei piccoli stagni fangosi, ma incantati e fantasmagorici, tipici dei delta fluviali. Là, osservò gli aironi rosa posarsi leggiadri sull’acqua densa, ma chiara, i bianchi cavalli camarguesi allontanarsi circospetti sul fango indurito dal sole e i tori, di là dai recinti, curiosare distanti. C’era anche Hansel. Lo sentiva e lo sapeva. In quel momento, Gretel pensò che sarebbero rimasti per sempre insieme, uniti nell’emozione cosmica, e da allora lo considerò una specie di angelo custode e pensò che ogni qual volta si fosse trovata, in futuro, in una situazione difficile, avrebbe trovato il modo di affrontarla pensando a cosa le avrebbe potuto consigliare il suo compagno immaginario, il dolce Hansel.
Gretel visse a lungo e intensamente la sua vita. Cambiò stili, uomini e Paesi, e ogni volta rinasceva interiorizzando il ato. Da vecchia, divenne curiosamente equilibrata e saggia, completamente liberata dal senso del “non sono all’altezza”. Dispensava consigli ai più giovani, ma solo se richiesti o quando assolutamente necessari. Quando conversava con qualcuno, amava di gran lunga più ascoltare che parlare. Quando parlava, lo faceva con lo sguardo di chi pensa, sai pure a voce alta, sapendo che, certamente, quella situazione poteva essere considerata da molti altri punti di vista.
Aveva i capelli candidi, raccolti dietro la nuca e tenuti insieme da un semplice fermaglio di legno. Tutti la chiamavano “Zia Gretel”, chissà mai perché. Anche i nipotini dei suoi tanti amici le volevano molto bene e le chiedevano sempre di raccontare le sue favole. Le sue favole erano in realtà del tutto inventate e ogni volta diverse, ma caratterizzate da alcuni tratti comuni: i buoni avevano sempre qualcosa di storto e i cattivi qualcosa di profondamente giusto, le situazioni tristi nascondevano delle opportunità e quelle felici delle insidie. Insomma, anche nelle sue favole c’era un tutt’uno armonico. Spesso i bambini le chiedevano perché raccontasse ogni volta una favola nuova e diversa e lei rispondeva sempre allo stesso modo, come se fosse un gioco, schiacciando con l’indice il nasino del suo piccolo amico: “Zia Gretel non mette mai cornici”.
Già, le cornici che aveva sognato molti anni prima.
Gretel non se ne dimenticò mai e rimase per sempre certa, fino al suo ultimo giorno di vita, che Hansel, lui sì, davvero e da sempre, era appartenuto a una dimensione più ampia.
Alessandro Chelo
Genova 1958. Esperto di leadership e gestione del talento nell’impresa. Dagli anni ’80 lavora nell’ambito della formazione. Aiutare le persone a crescere e a far crescere è la sua ione e la sua attività. Ciò lo ha portato a lavorare con le persone nell’ambito di organizzazioni aziendali, ma anche di altri ambiti sociali: scuole famiglie, coppie. Oggi si rivolge alle imprese, proponendo progetti di consulenza e formazione manageriale, anche interaziendale, e agli individui, proponendo percorsi di crescita personale finalizzati alla ricerca del benessere interiore e dell’autorealizzazione. Su questi temi ha pubblicato diversi libri editi da Sperling & Kupfer: Le cornici di Gretel (1997), La leadership secondo Peter Pan (2002), Leadership & Amore (2004), Il Manager mancino (2008). È autore inoltre di Credevo di aver piantato un baobab (2010) e Autenticità (2011). Nel 2010 ha dato vita a Shamba Edizioni, un’iniziativa editoriale di ebook e audiobook. www.alessandrochelo.it