IL MIO FILO SOTTILE
Romanzo
Fanny Grespan
Cavinato Editore International
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Disegno di copertina è di SILVIA MASON.
Progetto grafico e impaginazione Rakesh Kumar Sharma
1
Ci sono molte cose che sembrano esistere e avere un essere proprio e, invece, non sono altro che un nome e una parvenza.
QUEVEDO
Ci sono cose che sembrano e non sono, altre che sono e non sembrano. Le nuvole possono sembrare volti, animali, fiori, ma sono solamente nuvole. Anche la luna sembra guardarci col suo volto, ma non è così, e nulla è più indifferente, distante e inconsapevole di lei.
Sono sempre stata ipocondriaca, fin da piccola che io ricordi, o per lo meno fin da quando ho iniziato a capire la differenza tra malattia e salute. Quando si è troppo piccoli, le uniche malattie che si conoscono, se non si è davvero molto sfortunati, sono la tosse, il vomito e altre bazzecole… sintomi che, curati con un surplus di coccole familiari, qualche giorno di vacanza da scuola e due o tre cucchiaini di sciroppo al giorno, da ingurgitare di solito controvoglia, si trasformano presto in inconsistenti fastidi, tanto che a volte vengono simulati dai bambini che in realtà soffrono solamente di bisogno d’affetto e attenzioni.
Nella scuola dell’infanzia, durante l’appello, se non alzi la mano per confermare la tua presenza le insegnanti mettono la tua fototessera in una scatolina… quando guarisci, ti tirano fuori e ti appendono di nuovo al tabellone, accanto alle foto di tutti i tuoi amici sani e presenti. Non lo ricordo questo, non so se fero così anche con me, in quel tempo ormai lontano in cui a gestire gli asili erano solo le suore. Della scatolina mi è stato riferito da un’insegnante. La scatolina è una specie di sanatorio fai da te, insomma. Quando i bimbi tornano a
casa e raccontano alla mamma che il proprio amico del cuore sta ancora nella scatola, da tre giorni, la mamma non capisce cosa significhi e pensa già a qualche strano castigo, chiedendosi se non sia il caso di interpellare la rappresentante di classe... poi tutto si chiarisce e finisce con un sorriso della mamma che, a quel punto, rimpiange di non avere anche lei una scatolina magica in cui entrare nei momenti del bisogno.
Poi, crescendo, mi sono sempre chiesta perché li facciano con quel colorino orrendo fucsia-arancione e con quel gusto dolciastro. Gli sciroppi, intendo.
Tutto qui. Durante la spensierata età dell’infanzia non c’è la consapevolezza della malattia, salvo che non vi siano particolari situazioni familiari che vedano la presenza in casa di una persona gravemente ammalata, magari un nonno. Neanche della morte c’è consapevolezza. Epicuro diceva che non bisogna avere paura della morte, perché se c’è lei non ci siamo noi e viceversa. Faceva però riferimento alla propria morte, senza tener conto del baratro in cui precipitiamo quando a mancare è una persona a noi cara. Per i bimbi la morte è la nonna che sale in cielo e va a fare compagnia agli angeli, una stellina che ci guarda da lassù insieme a tante altre stelline. Anche i neonati sono stelline che cadono dal cielo fin dentro le nostre case, mentre i morti sono stelline che tornano lassù, come la Piccola Fiammiferaia. Beata l’età dell’innocenza in cui così facilmente ci si accontenta delle risposte che appagano i bisogni dell’anima! Beata l’età in cui la fame del corpo si sazia semplicemente con una merendina. Il cielo è sempre bello agli occhi di un bambino, lo specchio di un paradiso perfetto, infinito, dove tutti prima o poi troveremo posto.
Poi, con gli anni, matura la consapevolezza che la morte e la malattia sono ben altro; della morte si riesce a malapena a pronunciare il nome, ecco che si ricorre a locuzioni tipo è mancato, non c’è più, ci ha lasciato; le coccole di mamma e papà hanno perso potere, da sole non bastano a guarire dalle malattie e anche lo sciroppo spesso non è che un palliativo. La scatolina magica non funziona più e, finiti gli anni della scuola dell’infanzia, si porta via assieme alla nostra piccola foto tessera i giochi, i disegni tinti con pallidi colori a cera e anche la visione del
paradiso perfetto, trasformandosi in un armadietto stipato di flaconi e bustine, farmaci di varia natura che, ognuno a suo modo, nascondono il miraggio della guarigione.
Chi non è mai stato ipocondriaco, o non ha mai vissuto a diretto contatto con persone che vivono tale strano malessere esistenziale, probabilmente non riesce a comprendere come trascorrono le giornate di un ipocondriaco: l'ansia, l'agitazione, il senso di inadeguatezza, la paura sono all'ordine del giorno.
2
O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge sì che, sedendo, più che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
GIACOMO LEOPARDI
Crescendo, aumentando a poco a poco la consapevolezza delle cose, cambia tutto: le merendine, che quand'eri piccolo gustavi di ritorno dall'asilo, assaporandole già nel momento in cui salivi sul pulmino, non ti piacciono più, né quelle del Mulino Bianco né quelle della Kinder Ferrero; malgrado ciò, i brufoli ti spuntano come ombrelli sotto la pioggia, soprattutto sul naso e sulla fronte, specialmente di domenica, giorno in cui vorresti sembrare un po' più carina per far bella figura con le amiche e i primi amichetti! Vorresti nascondere almeno quelli che ti punteggiano la fronte con una bella frangetta spessa, ma sembra che stia bene solo alle sine, mentre a te fa un effetto coperta che quando vai in discoteca, a contatto con il sudore che ti bagna la fronte mentre balli, si gira all’insù… che orrore. A vent’anni scopri con orrore ancor più crescente il primo solitario capello bianco… a trenta noti che le merendine famose, che ormai non mangi da almeno quindici anni, si sono trasformate in rotolini adiposi, sui fianchi per la precisione, assomigliando vagamente ai Flauti del Mulino Bianco. Se poi ci metti in mezzo anche qualche figlio, a quarant’anni puoi definirti del tutto compromessa e i rotolini (chiamati anche Bombolotti o Girelle) non riesci più a contarli. Nel frattempo i capelli bianchi sono sempre più difficili da nascondere, la pinzetta non basta ad estirparli ad uno ad uno.
Poi, più in là, subentra la presbiopia e i rotolini fai fatica a vederli, anche perché nel frattempo si sono fusi in tutt'uno, ma questo non vuol dire che non ci siano più. Allora cominci finalmente a ripeterti che l’aspetto non conta, cominci a leggere a più non posso, per fare di te una nuova persona, ricca, se non di giovinezza e bellezza, almeno di cultura; cerchi di recuperare gli anni di conoscenze e cultura persi, a frequentare corsi di letteratura e cinema, i le domeniche ai musei e continui a ripeterti che ora non sei più una ventenne con il fisico da plasmare in vista dello sballo del sabato sera, bensì una donna interessante, intellettuale, con cui è piacevole fare conversazione senza dover per forza parlare di calciatori, moda e locali da ballo.
Anche le cose che si fanno mutano nel tempo; quando si è piccoli è prioritaria la famiglia, che ruota intorno a mamma e papà, ai nonni, ai fratelli, tanto che facciamo fatica a vederci come un essere autonomo, disgiunto da quella cerchia d’affetti che ci accompagna o o e ci protegge. Tutto ciò che si fa avviene quindi in seno a quella che è la nostra culla, il nostro guscio. Da soli, facciamo ben poco.
Negli anni della scuola scopriamo gli amici e le maestre; un loro giudizio ha il potere di cambiare in bene o in male il nostro umore e l’immagine del nostro io che ora comincia a costruirsi. Essere o non essere invitati a un festino di compleanno non è la stessa cosa, ma una questione esistenziale prioritaria.
Nell’età dell’adolescenza il nostro rispecchiarci nella società è ancora più evidente; ecco che tendiamo a fare le cose che tutti fanno, come andare in discoteca anche se la musica ci rimbomba nella testa fino al giorno dopo, vestirci con i jeans a vita bassa anche se sentiamo freddo al fondo schiena, essere fan di qualcuno dei vip in voga in quel momento, ascoltare la musica del gruppo pop che tutta la classe ascolta, anche se dentro di noi, proprio in fondo in fondo, sentiamo che le canzoni di Battisti erano un'altra cosa e facevano sognare per davvero.
Nella fase successiva cambiano nuovamente le priorità: il lavoro occupa gran parte del nostro tempo e dei nostri pensieri, la famiglia d’origine comincia leggermente a sbiadire rispetto a quella che ora vogliamo formare, ci si riscopre donna, poi moglie e infine, quando tutto va bene, mamma.
Se poi le cose sono destinate ad andare davvero superlativamente, rieccoci nonne, ferme davanti ai cancelli di una scuola materna ad aspettare il nostro nipotino che appena ci vedrà ci salterà in braccio festoso, sempre che non sia rinchiuso nella scatolina in attesa di cure.
3 Riflessioni sul tempo
Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, io so cos’è. Se cerco di spiegarlo a chi lo chiede, non lo so.
SANT’AGOSTINO
Tu. Non sto più parlando di me. Non sono io la donna che un giorno sarà mamma e nonna.
Sto parlando di te, che sei stata bambina capricciosa, ragazza ventenne, donna interessante e che ora ti stai preparando ad essere madre, perché per me le cose sono andate diversamente. Ecco, diciamo che strada facendo mi sono persa qualcuno di questi aggi. Strada facendo…
Tu hai vissuto la tua adolescenza, incoerente, incostante. Tu sei cresciuta, hai ballato in discoteca, hai corteggiato e ti sei fatta corteggiare. Tu sei finalmente diventata donna, hai incontrato il vero amore, con cui sei cresciuta ancora e che ancora ti accompagna; sei sbocciata e dentro di te hai fatto crescere un’altra piccola gemma, che presto sarà a sua volta virgulto, arbusto e poi solido tronco.
Io invece sono ancora qui, a chiedermi come sia possibile trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, quando sarebbe bastato cambiare una sola di queste due variabili. Pochi minuti, alcuni insignificanti secondi, sarebbero bastati a cambiare il senso delle cose; chissà, magari se non fosse piovuto: il tempo di aprire e chiudere un ombrello, il tempo di uno starnuto, il tempo di fermarsi a cercare un fazzoletto nella tasca, di soffiarsi il naso, oppure di asciugarsi gli
occhiali.
Per capirci meglio, il momento sbagliato è come quando si a sotto un cavalcavia proprio nell’istante in cui un disgraziato qualsiasi, che circa quindici anni prima era stato un qualsiasi spermatozoo che era meglio se non finiva la sua corsa, lascia cadere un grosso sasso e tu, ignara, sicura nel tuo guidare tranquilla e prudente, senti le note della canzone di Jovanotti, che l’autoradio trasmetteva e che canticchiavi, interrompersi in un frantumarsi del parabrezza... Il momento sbagliato è anche quello in cui tu riesci all'ultimo momento, dopo il fischio del capostazione, a salire sul predellino di quel treno in partenza, quello che poi deraglia... Il momento sbagliato è anche quando decidi per una volta tanto di cambiare strada tornando da scuola e incontri il tuo ex, al quale eri riuscita a non pensare per quasi due anni... Il momento sbagliato è, per tanti, quello in cui gli occhi si chiudono per un colpo di sonno proprio durante l'attraversamento di un crocevia col semaforo rosso, in un'ora in cui non c'è mai nessuno che attraversa quell'incrocio, ma quella sera qualcuno c'è... magari perché ava di là per sbaglio.
Si potrebbero citare migliaia di momenti sbagliati, ogni persona ripensando alla propria vita ne può pescare qualcuno.
Io il tempo l’ho sempre rincorso, combattuto. L’ho sempre considerato all'interno della trinità dei valori importanti della vita: la salute, il tempo, l’amore. Ero solita programmare nei dettagli le attività che dovevo svolgere nella mia giornata: ogni cosa aveva il suo momento. La mia vita aveva sempre corso su binari precisi, non era fatta di ritardi. Nel mio ordine di idee, il ritardo non era uno dei peccati ammessi. Quando non facevo in tempo a fare qualcosa (finire la lettura di un libro della biblioteca prima della scadenza, prendere un autobus) un senso di frustrazione mi saliva dal petto, invadente come l’alta marea. Per anni, dal liceo all’università, ho avuto un sogno ricorrente: correre, correre, correre lungo un binario, verso la porta di un treno che si rinchiude proprio all’ultimo momento, proprio quando il mio piede sta per toccare il predellino. A me, meticolosa e puntuale, nella vita reale era capitato rarissimamente di perdere un
treno, mai per mio demerito tra l’altro; avevo imparato a percorrere in soli otto minuti la strada da Ca’ Bonvicini, sede del Dipartimento di Arti dello Spettacolo della facoltà di Lettere, alla stazione Santa Lucia di Venezia: un dedalo di rii, campielli e ponticelli dove non era difficile imbattersi in qualche turista sperso, un tramezzino a tre piani in mano, gli occhiali affondati nella mappa spiegazzata. «Sorry, San Polo?»
«Non sono di Venezia», tagliavo corto e correvo via, la voce persa tra gli stridi di bianchi gabbiani di mare e il grugare di scuri piccioni di terra, uccelli di mondi diversi che s’incontrano nella laguna, magico punto di comunione tra terra e mare, un gioco d’equilibrio precario e sottile come un filo. Correvo e correvo e in cuor mio pregavo che il treno fosse fermo in un binario con un numero compreso tra l’uno e l’otto, (a Venezia sono quelli i binari più vicini all'ingresso della stazione) e che l’obliteratrice funzionasse. Il treno mi aspettava, era solo quello della notte che chiudeva sempre la porta troppo presto e mi lasciava alla stazione con la rabbia sulla pelle, l’umidità tra i capelli e un’ora di attesa per il prossimo treno. E poco importa se mi trovavo nella città più bella del mondo, alla quale circa due terzi dell’umanità in quello stesso momento avrebbero dedicato volentieri un’oretta del proprio tempo.
Ho sempre vissuto di corsa, con obiettivi sempre ben presenti dentro di me, con traguardi sempre più impegnativi davanti al percorso della mia gara quotidiana. Nessun minuto perso, nessun giorno sprecato. Una vita a combattere contro le malattie che, oltre alla salute e alla spensieratezza della giovinezza, mi volevano portare via anche il tempo.
Col are degli anni mi sono resa consapevole del fatto che il tempo non è un ente oggettivo; benché sia misurabile con orologi e calendari, in realtà tende a seguire i moti dell’animo: può correre troppo in fretta come un cavallo impazzito, proprio quando siamo in ritardo o abbiamo bisogno di fermarci a riflettere; può rallentare fino a far sembrare i secondi secoli, soprattutto quando aspettiamo un evento gradito che speriamo stia per succedere. Può anche interrompersi, fermarsi nel preciso istante in cui accade qualcosa di terribile.
Malgrado ciò, il sole continua a sorgere e a tramontare, le stagioni a ripetersi.
4 L' ipocondria
Questi fantasmi si pretende che parlino: cosa che è evidentemente impossibile senza la presenza della lingua e del palato, e senza che funzionino la gola, il petto, i polmoni. Ci vuole un’intelligenza grande, per scindere la mente dai sensi e distrarre il pensiero dal modo comune di vedere le cose.
CICERONE
Dicevo, sono sempre stata ipocondriaca. A sedici anni ho avuto una febbriciattola che si è protratta per diverse settimane; tutti gli esami che i medici hanno ritenuto opportuno prescrivermi hanno dato esito negativo, ma io ero convinta di avere la leucemia. Era solo uno spauracchio, non sapevo neanche cosa fosse e che sintomi potesse dare quella malattia, ma io ci pensavo di giorno e ci rimuginavo la notte.
Lo stesso vale per la sclerosi multipla; dei formicolii, come quelli che interessano gli arti intorpiditi, magari a causa di una posizione scomoda, bastavano a farmi pensare a quella malattia. Sarebbe bastato muovere le mani e i piedi per sciogliere i nervi e riacquistare la sensibilità, ma i miei arti si paralizzavano per la paura.
A diciotto anni sono stata tormentata per mesi da un mal di gola fastidioso e intermittente; non ho mai ritenuto che a monte potessero esserci gli sbalzi di temperatura cui ci si sottopone entrando e uscendo da locali surriscaldati vestita in maniera succinta: semplicemente, pensavo di avere un tumore alla gola. Questo pensiero mi è tornato più volte anche negli anni seguenti, e a nulla valeva ripetermi che non sono un maschio, non sono fumatrice, non bevo, non ho più di
cinquant’anni, non faccio lavori a rischio eccetera: avevo un tumore in gola che i medici non riuscivano a diagnosticare. Chiaro, no?
Mi è capitato, purtroppo, di dover andare a fare visita a una vicina di casa malata di cancro; difficile dimenticare il suo corpo, che da imponente che era si era come ristretto, rimpicciolito, rinsecchito, come carne lasciata troppo tempo sul fuoco. Impressionante, ma quello che è peggio è stato leggere nei suoi occhi la lucidità, la consapevolezza dell’inevitabile. Era giugno. La luce quasi estiva entrava a righe tra le veneziane della finestra della sua camera. Aveva sul comodino le pagelle dei suoi bambini, che frequentavano entrambe la scuola elementare, e con un cenno del capo me le ha indicate perché anch’io potessi ammirare i loro primi successi. Due giorni dopo la mia visita, quella signora, che un tempo era stata bionda e bella, ha chiuso per l'ultima volta i suoi occhi celesti.
Fino ad allora avevo pensato alla morte come a una disgrazia che capita agli altri, ai nonni degli altri, ai parenti degli altri, non ai miei cari. Tre dei miei nonni erano morti quando ero bambina, troppo immatura per soffrirne, troppo piccola per essere accompagnata sulla bara aperta per l'ultimo saluto. La vista di quella donna, viva ma già morta nello stesso tempo, è stata per me rivelatrice. Non so se quei suoi bei bambini biondi siano stati accompagnati di fronte alla bara o se nel giorno dei funerali qualcuno abbia voluto preservarli da un ennesimo dolore. Non riesco neanche a pensarci. A dire il vero, anche dopo la visita a quella donna facevo ancora molta fatica a pensare alla morte e continuavo a concentrarmi con l’accanimento e la meticolosità di un intagliatore sulle mie malattie.
Un giorno, dopo aver applicato sulla pelle di una coscia una crema depilatoria, ho avuto una strana reazione allergica, con rossore e brufoletti, che sono scomparsi spontaneamente dopo due giorni. In quelle lunghissime quarantotto ore non ho fatto che pensare all’eventualità di aver preso un’infezione, fino a spingermi all’ipotesi estrema che mi venisse amputata la gamba. Era successo in quel periodo che a un ragazzo che aveva frequentato le scuole medie con me fosse amputata la gamba, sotto al ginocchio, dopo che se l'era maciullata in un
incidente con la moto; se era successo a lui, che fino al giorno prima dell'incidente aveva la ione per la bicicletta, perché non sarebbe potuto succedere anche a me? Le disgrazie non possono succedere sempre agli altri.
Anche l’avvento dell’influenza suina mi ha gettato nel panico, come pure la bovina. Sono stata per anni senza mangiare carne nei locali pubblici e nella mensa universitaria; solo a casa ero ogni tanto costretta a mangiare qualche fettina di carne, che mi aiutava a combattere l'anemia che stava sempre in agguato.
Il panico che provavo nei confronti delle malattie si traduceva sovente in attacchi di tachicardia cavalcante. Nel mio petto, il mio cuore si trasformava in un cavallo senza briglie, in uno sferragliare di treno la cui velocità aumentava di minuto in minuto; impossibile fermarlo, non restava che stendersi e sperare che la prossima stazione fosse vicina, ricovero dove fermarsi finalmente a riposare.
E poi c’erano i mal di testa. Normali, da stanchezza, che mi prendevano tutto il capo, ma più martellanti sulle tempie. Credo che tutti ne soffrano al giorno d’oggi, chi più chi meno, ma per me sono sempre stati un dramma. Al minimo accenno di cefalea, creavo dentro di me mille castelli di paure in cui il mal di testa non era che uno dei sintomi di chissà quali catastrofiche malattie. Inutile dire che così facendo il mal di testa, anziché are in poche ore, si faceva sempre più intenso, appannandomi la vista, impedendomi di studiare, di pensare, di sostenere l’esame che era previsto proprio quel giorno, di uscire con gli amici, di vivere insomma.
Ancora più disturbanti dei mal di testa erano i fischi, quelli che mi vibravano insistenti negli orecchi, prima leggeri e soffusi, poi sempre più invadenti; se non ci pensavo scomparivano, ma se solo mi soffermavo un attimo a concentrarmi sulla loro presenza li sentivo subito e solo un altro dolore da qualche altra parte riusciva a spegnerli. Immaginate di dover studiare, concentrarvi su un argomento o semplicemente pensare a qualcosa di quotidiano con uno sciame che vi ronza
intorno, sempre più vicino fino a diventare sibilante: è terribile.
A vent’anni ho deciso di iscrivermi all’AVIS e ho iniziato a donare il sangue con regolarità; alla base di questa scelta non c’era un’indole filantropica, un desiderio di fare del bene incondizionatamente, ma solamente un motivo in più per sottopormi periodicamente a controlli del sangue. Con lo stesso spirito, quando avevo qualche soldino da parte non mancavo di fare donazioni alle varie associazioni che sostengono la ricerca sul cancro, sulla sla, sulla leucemia, perché prima o poi avrei potuto essere io quella da curare.
Essendo donna, come la maggior parte degli esseri di genere femminile ho sempre avuto come desiderio preponderante la maternità, ma ho sempre creduto di non essere fertile. Non so perché. In prima superiore ero l’unica della mia classe a non aver ancora avuto il menarca e pensavo seriamente che in me ci fosse qualcosa di sbagliato; i miei atteggiamenti, i miei pensieri e i miei giochi erano ancora da bambina. Le mie compagne una volta al mese avevano la scusa pronta per saltare le lezione di educazione fisica, molte di loro si riempivano la bocca parlando di ragazzi che avevano baciato in discoteca la domenica prima, mentre io ero ancora un frutto acerbo, i fianchi magrissimi da ragazzino, neanche un accenno di seno sotto la maglietta nera. Mi vestivo quasi sempre di nero e la professoressa di filosofia mi sgridava dicendomi che i colori sono belli e bisogna amarli. Aveva ragione, anche se non ho ancora capito perché guardasse con un’aria quasi sprezzante le scarpe da ginnastica con i lacci di raso rosa di una mia compagna di classe, Lucia. Forse il rosa non era tra i colori da amare? O ad una studentessa seria non si addicevano larghi nastri di raso?
All’inizio del secondo anno il flusso è arrivato e da allora è sempre stato regolare e puntuale. Non ci sono casi d’infertilità nella mia famiglia, che io sappia, nessuno che soffra di malattie ginecologiche o problemi di questa natura, niente di strano insomma, c'era semplicemente un sesto senso che io sentivo e che mi ripeteva che non sarei mai stata madre. Non so ancora se questo sia o non un timore fondato e forse non lo saprò mai. Nello stesso tempo pensavo che sarebbe stato un bene che io non mettessi al mondo dei figli: avrei rischiato di trasferire
anche nei loro riguardi le mie paure, non sarei stata in grado di vederli ammalati e al primo starnuto avrei pensato al peggio, come sempre. Li avrei chiusi in una campana di vetro per proteggerli dal mondo, sarei diventata una mamma insopportabile e opprimente, di quelle che seguono i figli fin sulla porta di casa col berretto e la sciarpa in mano, anche in primavera inoltrata. Del resto, per me affrontare nove mesi di gravidanza sarebbe stata un’agonia. Sarebbero stati lenti e pesanti, grevi di preoccupazioni per la mia salute e per quella del feto. Troppe incognite. Nel dubbio, nell’impossibilità di gestire ogni cosa, meglio lasciare perdere.
Suppongo che alla base della mia malattia ci fosse un ossessivo bisogno di controllare tutto ciò che mi circondava; ma mentre riuscivo con facilità a programmare gli studi, a raggiungere i miei successi scolastici, a controllare la mia dieta e il mio peso (senza fatica, giacché sono magra di costituzione), a gestire i rapporti familiari e sociali, altra cosa erano le malattie, su cui non potevo, ahimè, avere nessuna autorità.
Essere ipocondriaci è un po’ come credere nei fantasmi: non sai mai dove nasconderti per non essere spiata. Anche nell’intimità della tua stanza ti raggiungono, ti prendono, ti violentano nel tuo essere più profondo; anche la notte li senti ululare e non c’è arma che possa sconfiggerli. Avrei voluto almeno riuscire a dare un nome ai miei mali; credevo che se fossi riuscita a catalogarli con precisione la strada verso la cura definitiva sarebbe stata in discesa. Ma non ci riuscivo, e i miei fantasmi si ripresentavano ogni sera, senza che io potessi nemmeno nominarli.
Quando ero ammalata sentivo che non sarei mai guarita e rimpiangevo i momenti di salute in cui avrei potuto fare più cose di quelle che avevo fatte; una volta guarita, poi, mi stupivo di essere stata così pessimista, mi ritrovavo finalmente piena di energie e, per un po' di tempo, fino al sopraggiungere di qualche altra malattia, fiduciosa.
Le mie fantomatiche malattie mi portavano a richiedere con molta più frequenza rispetto alla media della gente il parere medico. Perché c’è da dire che, se le malattie erano creature dei miei spettri, i sintomi erano reali; non ero una bambina che metteva il termometro sul radiatore per simulare la febbre, non inventavo mal di testa e attacchi di panico per sottrarmi ai miei doveri, che volevo veramente affrontare con tutta l’abnegazione di cui ero capace, ma soffrivo per davvero, quasi quotidianamente, un male di vivere che mi logorava l’anima.
Ho perso la fiducia nei confronti del mio medico di base nel momento in cui mi sono resa conto che lui non credeva più nei miei mali oppure tendeva a minimizzarli; mi rivolgevo sempre più spesso a medici specialisti, dando fondo ai pochi risparmi che, fin dal secondo anno del liceo, riuscivo a mettere da parte dando ripetizioni a ragazzini delle scuole medie e rendendomi disponibile nei week end come baby-sitter. Anche i miei genitori hanno pagato molte delle mie visite specialistiche, ma altre le ho nascoste per pudore. Nel momento in cui prendevo un appuntamento con un medico mi sentivo gratificata, felice, quasi come se avessi dovuto incontrarmi con un fidanzatino. Mi preparavo con largo anticipo per l’appuntamento; mi lavavo, mi avvolgevo di crema all’iris, profumo che amo, e mi vestivo con cura per lui o per lei, piena di illusioni, pronta a farmi visitare e curare. In genere li preferivo maschi perché mi sembrava di vedere in loro una propensione maggiore ad ascoltarmi e a darmi retta.
Tuttavia, il mio rapporto con tali medici era ambivalente; da una parte mi mettevo completamente nelle loro mani, accettavo di buon grado il fatto di dover fare ulteriori accertamenti, seguivo pedissequamente cure e consigli; d’altro canto, rifiutavo di accettare il responso finale, che in genere si esauriva con una diagnosi negativa o al più di stress. Ritenevo che essi sottovalutassero i miei sintomi oppure mi volessero nascondere la verità; a nulla valevano le loro parole che mi garantivano che nessun dottore è portato a nascondere il vero ai pazienti. Eppure a quel punto la mia cieca e incondizionata fiducia verso il medico di turno vacillava fino a crollare, portandomi a spandere il mio profumo di crema all’iris nella sala d’attesa di un altro ambulatorio; non era lo stress a farmi credere di essere ammalata, bensì le mie malattie che mi arrecavano stress. Loro non riuscivano a capirlo. Invece di uscire dagli studi medici tranquillizzata, ne
uscivo arrabbiata. Non sono mai stata una buona paziente per tutti i dottori che mi hanno visitata. Ho consultato otorini, ginecologi, gastroenterologi, neurologi, endocrinologi, cardiologi, ma mai psicologi: non volevo essere presa in giro. Volevo che qualcuno trovasse finalmente l’origine dei miei mali per curarmi una volta per tutte.
Purtroppo, sembrava che per questo mio male di vivere non esistesse cura. Ogni sera, appena mi stendevo a letto mi sottoponevo a un gioco, una sorta di rituale; cercavo di inibire i sensi per esaltarne uno in particolare; con la luce e lo stereo spenti, focalizzavo la mia attenzione su una parte ben precisa del mio corpo, ad esempio una gamba, il ventre, per concentrarmi su eventuali presagi di sintomi, per non trovarmi impreparata quando questi mi avrebbero aggredito il giorno dopo, o la settimana successiva. Questo auto esame durava una decina di minuti, dopodiché mi trovavo in un tale stato di agitazione che riuscivo ad allontanare solamente estraniandomi dal mondo reale, leggendo fiabe su fiabe, dalle Mille e una notte alle Fiabe popolari italiane, senza trascurare racconti giapponesi, africani, russi e altri ancora. Con i loro filtri magici e i viaggi fatati, su tappeti magici e aquile dalle ali d’oro, le fiabe mi portavano via dai miei mali.
Mi sarebbe piaciuto viaggiare per davvero. Avevo curiosità per i luoghi esotici, ma il viaggio in sé mi spaventava; le malattie sconosciute, le infezioni, la dissenteria del viaggiatore, erano incognite troppo difficili da affrontare per me. Inoltre avevo il terrore dell’aereo: questo gioiello dell’età contemporanea che non lascia scampo. Temevo che se fossi salita in un aereo non avrei più messo piede a terra.
Credo che tutti, almeno una volta nella vita, pensino alla propria morte, chiedendosi come arriverà. Per quanto ci si pensi e ci si prepari per tempo, alla resa dei conti nessuno è mai pronto a lasciare questo mondo variegato. Non credo nei tarocchi, nella cartomanzia né nella lettura della mano, ma non nego che il vedere la linea centrale della mia mano sinistra tagliata nel mezzo mi ha sempre incusso tristi presagi. Io purtroppo, come si può comprendere dal mio essere ipocondriaca, ho sempre pensato che sarei morta giovane, in seguito a una
lunga e penosa malattia devastante, la morte peggiore che ci possa essere.
Ma mai, e dico poi mai avrei pensato che mi potesse succedere quello che è accaduto e, soprattutto, mai e poi mai, ripeto, avrei pensato di trovarmi qui a raccontarlo, malgrado la ione per la scrittura che mi ha sempre accompagnato, fin da quando ho imparato a tenere la penna in mano.
Oltre al desiderio di viaggiare, tra i miei sogni nel cassetto, fin da quando ero ragazzina, c’è sempre stato quello di scrivere un libro; in quinta elementare, su imitazione di Anna Frank, di cui la mia maestra ebrea parlava ampiamente in classe, ho iniziato a tenere un diario quotidiano e ho scritto la mia prima infantile, ingenua poesia. Negli anni successivi, fino al quarto anno di scuola superiore, ho composto una trentina di poesie e qualche racconto per bimbi, scialbi versi adolescenziali e banali storielle che ora avrei imbarazzo a far leggere a qualcuno. I miei professori del liceo mi hanno sempre detto che il mio modo di scrivere non è razionale, bensì troppo giornalistico: troppi punti esclamativi, troppi puntini di sospensione, troppe frasi a effetto. Ma io non voglio fare la giornalista. Ho sempre sognato di scrivere il libro, non uno qualsiasi, ma il libro che ti cambia la vita, quello con cui la gente t’identifica, quello che ti sopravvive… un altro modo, uno come un altro, di superare malattie e morte e rendersi immortali. Era solo un’idea, in realtà non sapevo proprio cosa scrivere e invidiavo chi ha il dono della scrittura e la fortuna di farsi catturare e trasportare da una storia. Non ero Primo Levi né Isabel Allende (per mia fortuna, se si pensa alle loro vicissitudini personali!), non c’era nella mia vita nulla che valesse la pena di essere raccontato, né nel bene né nel male. La Allende, che è da sempre una delle mie scrittrici preferite, sostiene che la scrittura è come l'illusionismo: non basta estrarre conigli da un cappello, bisogna farlo con eleganza e in modo convincente. Il mio problema fondamentale però era che dal cappello non usciva assolutamente nulla che io poi potessi forgiare con eleganza e convinzione. Aspettavo l’ispirazione, ma avevo nello stesso tempo la triste convinzione che ogni storia degna di essere scritta e letta fosse già stata narrata, che non rimanesse più nulla che potesse interessare i lettori; eppure ogni giorno si scrivono e si leggono nuovi libri, addirittura pare che in Italia siano più le persone che scrivono libri rispetto a quelle che li leggono, ma pensare a questo, anziché rincuorarmi, era motivo di nuovo scoramento. Nello
stesso tempo pensavo che anche le più belle melodie sono già state composte ed eseguite, ma ciò non esime i cantautori dal cercarne di nuove, che non smettono di affascinarci. Le note e gli accordi sono sempre gli stessi, è la loro combinazione sempre diversa che rende le melodie uniche. A volte mi sentivo come un surfista, seduto sulla tavola, in attesa del momento giusto per cavalcare l'onda; ma per me l'onda non arrivava mai e il vento non era mai quello giusto.
E pensare che anch’io tempo addietro ero stata colta da un’idea che mi pareva inconsueta e nuova e subito mi ero messa a scrivere l’inizio di quella che doveva diventare la bozza della mia opera. Quanta è stata la delusione quando, casualmente, mentre studiavo per l’esame di storia del teatro, mi sono imbattuta in un personaggio che aveva vissuto la storia che io stavo scrivendo! Ho acquistato subito Aspettando Godot di Samuel Beckett; la sua storia non era proprio uguale a quella che avevo in mente io, ma le somiglianze erano così tante che si sarebbe potuto accusarmi di plagio. Che fare? Aspettare un’altra ispirazione e sperare che nessun altro vi avesse già fatto ricorso? Smettere di leggere per non incorrere più in tali pericoli? Questo, per la mia indole, non poteva essere.
Ero onnivora, trangugiavo libri con la stessa rapidità con cui i bulimici ingeriscono il cibo. Seguivo un mio principio per cui, una volta iniziato un libro, dovevo arrivare alla fine a tutti i costi. Terminata la lettura mi restava spesso un senso di vuoto nel petto, ma solo se il libro mi era piaciuto davvero; leggevo l’ultima pagina con un rammarico crescente, incapace di abbandonare i personaggi che mi avevano fatto compagnia negli ultimi giorni; avevo imparato a conoscerli, a parlare come loro, addirittura a pensare come loro, e adesso loro non c’erano più e a me restava l’ingombro di cercare un nuovo Montalbano, un altro Pericle Peruzzi, un Aureliano Buendia, qualcuno che mi fe da cicerone in una nuova storia. Per qualche giorno ero incapace di iniziare una nuova lettura, tanto ero ancora presa da quella appena terminata. L’immedesimazione col personaggio di turno comunque non durava che pochi giorni, dopodiché dimenticavo di averlo amato e mi avvicinavo senza titubanze ad un altro; i miei erano amori intensi ma effimeri.
Non avevo in mente uno stile né un genere ben precisi per la mia creazione letteraria. Sognavo di scrivere la mia Opera, come Cent’anni di solitudine, Il deserto dei Tartari, L’eleganza del riccio, I Buddenbrook, Narciso e Boccadoro. Anche l’ultimo di Carlo Lucarelli che avevo letto, L’ottava vibrazione, aveva lasciato un’eco profonda in me, ma io non possedevo la sua verve narrativa.
I miei viaggi io li facevo con i piedi ben piantati per terra, ma con le ali della fantasia spiegate al massimo; le mie letture mi portavano a esplorare il mondo intero, a spaziare da Cuba alla Siberia (che bella la Transiberiana, forse quel lungo viaggio in treno fino a Vladivostok un giorno avrei anche potuto permettermi di farlo), dalle città d’arte, in primis Budapest e Parigi, alle isole paradisiache dell’Oceania, dove la sabbia è più impalpabile dell’aria e il mare più chiaro del cielo, isole che dal vero non avrei mai potuto ammirare.
Se fossi riuscita a superare la paura del viaggio fisico, se avessi potuto raggiungere qualcuno dei posti da favola che agognavo e che avevano incantato anche Gauguin, non dubitavo che anch’io sarei riuscita a lasciarmi suggestionare e a trovare spunti per la mia opera. Sognavo decisamente in grande, ma del resto i sogni per poter essere considerati tali devono essere grandi e, a volte, è davvero sottile il filo che divide i sogni dalla realtà.
Ora ho qualcosa da raccontare, ma non so dire se posso davvero esserne felice. La storia che mi ha catturato l’ha fatto con violenza, mi ha rapita contro la mia volontà, non nel senso bello del termine.
5 Primo giorno di scuola
Se fossi un medico, prescriverei una vacanza a tutti i pazienti che considerano importante il proprio lavoro.
Bertrand Russell
A dispetto dei miei mille mali, sono arrivata alla veneranda età di venticinque anni viva, vegeta e SANA! E a dispetto del mio caratteraccio paranoico, ci sono giunta con un aspetto fisico piacevole, felicemente fidanzata con un promettente medico (che sia casuale?) vecchio dieci anni più di me, laureata in lettere e, cosa ancora più sorprendente, già insegnante di ruolo in un prestigioso istituto superiore dell’entroterra veneziano dove la maggior parte degli studenti, perlomeno quelli dell’ultimo anno, dimostrava più anni di me.
Ricordo con particolare emozione il primo giorno di scuola. Da insegnante. Avevo parcheggiato la mia Yaris nera all’ombra di un platano, in un parcheggio di un quartiere dopo il liceo linguistico Parini in cui dovevo prendere servizio; provavo un certo imbarazzo al pensiero di poter essere notata in Yaris mentre arrivavo nel parcheggio riservato agli insegnanti da un mio alunno, uno che magari si presentava con la bmw di papà; ma a venticinque anni e al mio primo vero impiego non potevo permettermi di meglio. Quante cose avevo ancora da imparare dalla vita, quante frustrazioni delusioni, quanti ahimè dolori, altro che la macchina! La chiamavo il mio scarafaggio, tanto era piccola, nera e sporca di briciole e capelli che non mi curavo di raccogliere, tanto era raro che vi salisse qualcuno.
Appena salita in auto avevo l'autoradio; ero solita giocare, fin da quando
avevo iniziato a guidare, un gioco tutto mio: se la prima canzone che sentivo la mattina in auto mi piaceva, la giornata sarebbe andata bene, se non mi piaceva sarebbe andata storta. Quella mattina mi accolsero le note di Serenata rap di Jovanotti; non ero mai stata attratta dalle sue canzoni, ma da quel giorno ho deciso di farmelo piacere e da allora lo ascolto volentieri.
Ero impaurita e mi chiedevo come avrei fatto a entrare in classe. Naturalmente ero orgogliosa di me, ma avevo timore dell’impressione che avrei fatto ai miei alunni. Mi rimbombavano nella testa i resoconti di mia sorella, di quattro anni più vecchia di me, da qualche anno maestra nella scuola dell’infanzia (è lei che mi ha edotto sui poteri taumaturgici della scatolina), che da quando era entrata in classe non faceva che ripetermi quanto i bambini, già dalla tenera età, siano capricciosi, smaliziati, disattenti e quanto i loro genitori siano esigenti, presuntuosi eccetera eccetera, tante parole che non sarebbe elegante per una signorina ripetere. Avevo paura di non essere all’altezza, di non avere il necessario carisma che mi permettesse di farmi ascoltare dagli alunni. In cuor mio speravo almeno di essere sufficientemente preparata dal punto di vista didattico, per riuscire a superare l’anno di prova e guadagnarmi un po’ di spazio in quel mondo ancora sconosciuto; continuavo a ripetermi che al giorno d’oggi non si consegue un’abilitazione all’insegnamento se non si è in gamba, ma questo non riusciva a tranquillizzarmi.
Un’altra delle mie preoccupazioni riguardava Internet, quel labirinto profondo dove è facile smarrirsi, quel mondo che promette conoscenze senza sudori, dove si può trovare tutto ciò di cui si ha bisogno troppo facilmente. Io lo aborrivo, mi attraeva ma nello stesso tempo mi inquietava, quasi da averne paura. Eppure avrei dovuto farci i conti in quanto si trattava del pane quotidiano di cui si nutrono le nuove generazioni, e quindi anche gli alunni che stavo per conoscere.
A questa nuova generazione di navigatori virtuali appartenevo anch’io, ma solo anagraficamente; Internet era un abisso troppo periglioso da attraversare per me, che amavo leggere su fogli che profumano di carta, studiare su pagine ingiallite, ricercare nuove parole servendomi di dizionari ed enciclopedie, scrivere lettere.
Non avevo mai scritto una e-mail, anche se tutti i miei amici usavano la posta elettronica dai tempi della scuola media e aprivano ogni giorno profili su facebook. Se i miei alunni l’avessero saputo sarei sembrata più arcaica del loro prof di religione, un omone vetusto, prossimo alla pensione, che avevo conosciuto di sfuggita al primo collegio docenti. In qualche modo avrei dovuto sopperire a questa mia ignoranza informatica, magari facendomi aiutare da mio fratello Jacopo che masticava programmi e file con la stessa facilità con cui ingurgitava hot dog. Ecco, Jacopo avrebbe potuto iniziarmi al suo mondo, farmi entrare nella realtà degli adolescenti che stavo per conoscere e che immaginavo simili a lui, anche se vestiti con più firme, da Parini.
Tuttavia, la paura più grande riguardava la mia ipocondria; mi chiedevo se avrei saputo superare i miei peggiori momenti di crisi senza fare troppe assenze da scuola, ma soprattutto se sarebbe trapelato qualcosa, cioè se, essendo così apertamente sotto gli occhi e il giudizio di colleghi, alunni e genitori, qualcuno avrebbe intuito il mio disagio interiore, che facevo di tutto per nascondere, che credo neanche la mia migliore amica e i miei familiari abbiano mai nemmeno compreso appieno.
Quando qualcuno mi parlava delle sue malattie, inizialmente provavo un vergognoso, misero compiacimento e dentro di me mi dicevo “meno male è capitato a lui!” Poi però subentrava un’angosciante paura: “e se capitasse anche a me?”
Spesso le malattie erano uno dei principali argomenti di conversazione tra me e gli altri, ma non ho mai confidato a nessuno le mie paure più nascoste. Parlavo dei miei sintomi come se non fossero una cosa importante, lasciando uscire le parole di bocca come quando si parla del tempo. Se neanche i medici mi capivano, come avrebbero potuto le altre persone? Ero bravissima a nascondere il mio male di vivere; tuttalpiù mi si rimproverava di essere incostante e lunatica. Alternavo giorni in cui ero ansiosa, introversa, agitata, ad altri in cui sapevo mostrarmi sorridente, aperta, una buona amica; mi rendevo conto che quando mostravo questo lato di me era perché riuscivo momentaneamente a rinchiudere
in un cassetto la mia ipocondria, almeno fino al prossimo sintomo, alla prossima febbriciattola, alla successiva scoperta di un neo che forse c’era sempre stato ma che non avevo mai notato. Un neo piccolissimo, impercettibile, ma la cui vista poteva scombinare di nuovo tutto l’equilibrio precario appena conquistato: una macchia di colore nero caduto dal pennello di un pittore distratto su un quadro per il resto sublime.
La mattina del primo giorno di scuola ci avevo messo un’ora prima di scegliere cosa indossare, dopo che tra l’altro vi avevo rimuginato su tutto il giorno prima. Dopotutto la vita è fatta di primi giorni, e ce ne sono tanti, tutti similmente importanti: il primo giorno di vita, il primo compleanno, il primo giorno di scuola, il primo giorno delle mestruazioni… Alcuni ci colgono inaspettati, ma altri li attendiamo con trepidazione e ci prepariamo a viverli dando loro il giusto merito. Alla fine avevo preferito un tailleur blu che a parer mio doveva aggiungermi qualche anno, ma che abbinato a una camicetta bianca con le maniche corte e a un paio di scarpe accollate col misero tacco da quattro centimetri, mi faceva sembrare semplicemente demodé. Giovanissima, ma decisamente fuori moda. Dal giorno dopo per andare alle lezioni ho sempre indossato i jeans.
Era una splendida giornata di settembre. Adoro l’autunno, i suoi caldi colori, il suo sapore nostalgico, ultimo tentativo di aggrapparsi con le unghie ad un’estate ormai finita. Un tempo, tra le stagioni, la mia preferita era senza ombra di dubbio l'estate; sognavo di vivere in un'eterna estate. Col tempo, col trascorrere anche delle mie, di stagioni, ho imparato ad apprezzare ogni stagione, ogni mutamento del tempo, tanto che ora non potrei più rinunciare a questo eterno incantevole alternarsi di colori e sensazioni.
Gli alberi erano ancora verdi e frondosi, il tiepido sole mattutino faceva ben sperare e mi induceva a ripensare con piacere all’estate appena finita e al viaggio in Sicilia che avevo fatto con Massimo. In macchina, naturalmente. Com’è bella Ragusa Ibla, abbarbicata sul suo cucuzzolo, e Modica che pare un presepe; mi piacerebbe rivederle in inverno, la stagione in cui i tramonti si colorano di un
rosso più vivido. La valle dei templi, poi, l’abbiamo vista nella stagione meno idonea, ma in primavera dev'essere un tripudio di colori, sensazioni e suggestioni di tempi remoti, anche per chi, come me, non si lascia facilmente incantare dal fascino della storia antica; questo è uno dei miei limiti, lo riconosco. Il nostro secondo viaggio. Chissà quanti ne avremmo potuti fare ora che anch’io avrei avuto uno stipendio mio e non dovevo provare l’imbarazzo di farmi dare i soldi da mamma e papà per andare in vacanza e per non fare la parte della ragazzina che si fa pagare il viaggio! Avrei dovuto costringere Massimo ad abbandonare il suo amato mezzo di trasporto, l’aereo, a favore di mezzi sicuramente meno pratici ma più consoni al mio essere. Tuttavia non credo che questo sarebbe stato un grosso problema: ci sono così tante mete che si possono raggiungere in macchina o in treno che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il treno mi piace, quando non lo perdo. Permette di osservare il paesaggio, di conoscere gente nuova, è sicuro, rilassante e veloce.
Strada facendo, dopo aver parcheggiato il mio scarafaggio, per cercare di non pensare troppo a ciò che mi attendeva ho fatto un altro giochetto che fin da piccola mi occupava: osservavo i numeri delle targhe delle automobili ed ero contenta quando trovavo qualche combinazione bizzarra, tipo 007 o 883, possibilmente simmetrica, tipo CZ 2442 ZC. Grazie all’abbigliamento che avevo scelto e alla camminata spedita che ho fatto per arrivare con un po’ di anticipo (non troppo, per non essere additata come quella nuova e per non essere già bersaglio della curiosità dei colleghi), sono arrivata a scuola sudaticcia, ma neanche a pensarci a togliermi la giacca! Ne andava della mia immagine, del mio ruolo da interpretare. Le gocce di sudore mi colavano da dietro le orecchie lungo il collo, fin giù sulla schiena. Eccessivo per un giorno di settembre, caldo ma non afoso.
Mi era stato assegnato il corso F. Non ero entusiasta dell’orario perché avevo come giorno libero il mercoledì, che generalmente era anche giorno di riunioni, quindi avrei dovuto rientrare a scuola nel pomeriggio; ma ero in anno di prova, non conoscevo nessuno e dovevo fare la gavetta. Avevo già conosciuto al primo collegio docenti la collega di lettere della sezione A, che si era offerta di farmi da tutor, assieme alla quale avrei dovuto programmare le attività. Aveva alle spalle quasi trent’anni di esperienza e mi sembrava molto autorevole. Quando
interveniva durante le riunioni d’inizio anno, l’uditorio si zittiva per prestarle attenzione; i suoi commenti erano saggi, ineccepibili nei contenuti, ma risultavano taglienti nei toni. Mi dava l’impressione di nascondere dietro i suoi modi bruschi una grande sensibilità che non trovava la strada per svelarsi agli altri. Speravo di trovare un appoggio in lei, qualcuno che mi potesse aiutare nella programmazione, almeno i primi mesi. Non so perché, ma ci tenevo a piacerle, ad avere il suo apprezzamento.
Gli altri colleghi li avevo a malapena intravisti al collegio; per l’emozione era già tanto se avevo visto la sedia su cui sedermi. Durante i collegi docenti di quel mio primo anno scolastico ho avuto modo di osservare che ognuno occupava un posto preciso e se un giorno, per puro caso, un supplente arrivato un po’ troppo presto occupava il posto di qualcun altro, era tutto un susseguirsi di occhiate e cenni tra colleghi per cercare di ripristinare lo stato quo ante. Su questo strano modo di interpretare gli spazi si potrebbe scriverci una tesi.
Ho conosciuto per primi gli alunni della prima F. Entrata in aula mi sono felicemente resa conto del fatto che gli studenti erano imbarazzati e impauriti almeno quanto me, se non di più. Un sollevante anelito di respiro per me; del resto era il loro primo giorno di scuola secondaria, pochissimi si conoscevano tra di loro, alcuni si erano svegliati all’alba per riuscire a prendere i mezzi pubblici e arrivare in tempo per l’inizio delle lezioni. Forse i figli di papà non erano poi tanti quanto la nomea della scuola avrebbe fatto presupporre. Probabilmente quelli avevano optato per un istituto privato che si trovava a pochi chilometri di distanza. E quei pochi che effettivamente lo erano forse un pochino se ne vergognavano, ma questo l’ho pensato più in là.
Abbiamo ato le prime ore di lezione a studiarci e a conoscerci vicendevolmente, io con loro, loro con me, loro tra di loro, maschi con maschi, femmine con femmine, femmine con maschi e viceversa. Un coacervo di caratteri, storie, ideali e aspettative che ci avrebbe messo un bel po’ di tempo prima di potersi amalgamare fino a costituire davvero un gruppo classe; dopotutto, una scolaresca è un microcosmo che rappresenta il mondo, a maggior
ragione oggi, data la presenza considerevole di alunni non italiani, anche al liceo. Un ragazzo argentino, Marcelo, mi ha colpito, oltre che per la sua bellezza esotica, per la vivacità brillante dei suoi occhi scuri da cerbiatto. Ricordo di aver pensato che forse Marcelo avrebbe potuto rappresentare un problema per un’insegnante inesperta come me: sembrava il tipo di alunno che pone tante domande e pretende risposte sincere ed esaurienti. Quel tipo di persona per cui la curiosità è come un pozzo senza fondo, un bambino di tre anni. Avrei saputo dissetare la sua sete? Nel corso dell’anno Marcelo ed io abbiamo imparato a conoscerci e a rispettarci.
I ragazzi mi hanno raccontato da che scuola venivano, che cosa li aveva spinti a iscriversi al liceo Parini; mi sono rivista quindicenne, quando al loro posto c’ero io e non avevo nemmeno il coraggio di alzare la mano, quando per nascondermi allo sguardo e al giudizio altrui studiavo a più non posso, per non dare l’occasione ai professori di trovarmi impreparata e di sgridarmi; non mi rendevo conto che così mi facevo notare di più. Mai uno sciopero, mai un’assenza di comodo.
I primi mesi sono stati intensamente piacevoli, anche se duri. Tutto sommato le ore di lezione avano in fretta, gli alunni mi ascoltavano con discreto interesse, i colleghi erano piuttosto simpatici e mediamente disponibili a collaborare, pardon ad aiutare una novellina come me.
C’era Marianna, docente di storia dell’arte, follemente creativa, dal largo sorriso generoso attorniato da ricci di color castano mogano e dalla dialettica arzigogolata. Aveva gesti ampi e teatrali, nel senso bello del termine. L’avrei vista bene su un palcoscenico, era impossibile non essere catturati dalla sua personalità. Era difficile attribuirle un’età, poteva avere trenta come cinquant’anni. Emanava dal suo essere un’aura di positività che trasmetteva anche agli altri. Portava al collo un gioiello di famiglia che era il suo orgoglio; era appartenuto alla sua bis-bisnonna e si era tramandato di figlia in figlia. Rappresentava un sole dorato attorniato da piccoli cuoricini e ogni volta che vi posavo lo sguardo mi ricordava un talismano portafortuna. L'unico difetto di
Marianna era quello di tardare sempre ad arrivare al dunque nei suoi discorsi; faceva dei peripli di parole degni di Magellano.
C’era poi Paolo, l’insegnante di educazione motoria, sempre in ritardo, che arrivava rotolando frettoloso nella sua tuta taglia extra large; Paolo, che non riusciva a memorizzare i nomi degli alunni ed entrava in palestra con le tasche piene di postit, uno per ogni classe, con su scritto Marco, occhialoni blu, Gianna, quasi anoressica, Dalin, felpa viola… Non si raccapezzava proprio in mezzo a quell’orda di gioventù urlante che pascolava disordinatamente per la palestra. «Quanti giorni mancano alle vacanze estive?» era la sua frase preferita, anche se era l’otto gennaio, eravamo appena rientrati da quelle di Natale e alle finestre c’erano ancora gli elaborati addobbi natalizi che Marianna aveva realizzato con le sue classi. Parlava sottovoce, con una tonalità che sembrava quella dell’orsetto Winnie de Pooh dei cartoni animati. Paolo, ingenuo come un gattino appena nato, trasparente come l’acqua sorgiva. Non so se nella sua vita abbia mai avuto una fidanzata, una donna sua anche solo per un giorno, per una pizza, per una eggiata a Venezia; apparteneva a quel genere di persone alle quali non si riesce ad attribuire una collocazione precisa né tanto meno un ruolo come marito o come padre. Lui sapeva eludere con classe l’argomento amore, sembrava non pensare mai a questo genere di cose, tanto era impegnato a organizzarsi giorno per giorno, a cercare di non smarrirsi nel suo caos di promemoria.
Si dimenticava sempre di spegnere il cellulare, che era solito squillare nei momenti meno opportuni. «È la mamma», si giustificava «non posso spegnerlo, si preoccuperebbe». Un giorno la suoneria ci ha risvegliato dal torpore di un collegio docenti che si trascinava da tre ore e che era stato preceduto da un burrascoso consiglio di classe. Ci ha messo quasi cinque minuti per trovarlo nel marasma del suo borsone verde, colmo di registri dagli angoli spiegazzati, merendine al cioccolato schiacciate nelle confezioni di nylon opaco e riviste di auto di lusso che non era mai riuscito ad acquistare ma che continuava a sognare, sotto lo sguardo irritato del dirigente scolastico, tra le risatine divertite dei colleghi. Quando è riuscito a pescarlo, la mamma aveva riattaccato.
C’era Patrizia, stravagante e caotica all’inverosimile, il cui aspetto da bohemienne e il suo carattere estroverso, incoerente, spesso indecifrabile mal si accompagnavano alla sua materia d’insegnamento, matematica. Indossava gonne lunghe fino alle caviglie, cardigan di lana abbottonati con palline e fiori di stoffa che lei stessa confezionava, calze colorate, collane e orecchini lunghissimi che tintinnavano al suo aggio. Il suo neo nero ben disegnato sul lato destro della bocca poteva sembrare un vezzo civettuolo, a me è sempre sembrato un moscerino fuori posto e più volte ho avuto la tentazione di alzare la mano per cacciarlo via. Patrizia per me è ancora un’incognita… algebrica!
Ma c’era soprattutto Danila, insegnante di inglese. Spiccia nei modi ed essenziale nelle parole, una donna energica, che non finiva mai d’indignarsi di fronte all’ignoranza dilagante, al qualunquismo politico dei giovani, un’insegnante dalla cultura straordinaria, sempre affamata di buone letture. Insegnava da quasi trent’anni ma non era ancora scivolata nell’abitudine della vita lavorativa; aveva l’entusiasmo di un’adolescente, la pazienza di una nonna, un amore sviscerato per i suoi ragazzi. Lei mi ha fatto conoscere Camilleri, che non avevo ancora avuto modo di leggere, e il suo Montalbano, imprestandomi La pazienza del ragno; così, senza che glielo chiedessi, un giorno me l’ha portato a scuola e mi ha detto «Divertiti». Soprattutto, lei ha sempre saputo ascoltarmi, con pazienza, senza giudicarmi. Questo è quello che sempre ricorderò di lei, anche se purtroppo la nostra amicizia era destinata a rimanere allo stadio embrionale.
6 Proposta di matrimonio
I giorni indimenticabili della vita sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.
ENNIO FLAIANO
Massimo è stato una parentesi, una meravigliosa vacanza nella mia vita, un capitolo emozionante di un libro che non ho ancora finito di leggere e che spero potrà, in futuro, regalarmi altre pagine degne di essere raccontate.
Ci eravamo conosciuti una domenica pomeriggio dell’anno prima, il trenta ottobre, nell’intima sala del cinema Piccolo Edera di Treviso, dove quel giorno proiettavano in lingua originale Je vous salue Marie di Godard. A me piace molto il se, anche se la mia lingua preferita è lo spagnolo, mentre sono una delle poche insegnanti della mia età a non conoscere l’inglese; del resto non ne ho mai avvertita la mancanza. Non amo i suoni aspri delle lingue anglosassoni, mentre il se è di una dolcezza squisita che s’intona armoniosamente ai colori e ai temi della nouvelle vague; certi film si possono gustare solo in se.
Lui invece non conosceva il se e si affannava a leggere i sottotitoli, con l’aria insofferente di chi ha sbagliato film; curioso, ha inforcato gli occhiali solamente a metà film e non mi sono mai ricordata di chiedergliene il motivo. Era con un amico, che però ha lasciato la sala a metà proiezione. Strana scelta avevano fatto quella domenica; il film non era adatto a due che non conoscevano la lingua e che non avevano nemmeno la pazienza di aspettarne la fine. Io ero sola. Dopo una lunga serata in discoteca con gli amici, non avevo fatto
programmi particolari per la domenica, che avrei voluto trascorrere in tutto relax, senonché poi mi ero ricordata di quel film, ma nessuna delle mie amiche si era lasciata coinvolgere in cotale impresa, così, eccomi lì. Ricordo che indossavo una gonna svasata al ginocchio di color indaco, abbinata a un dolcevita della stessa tonalità, un paio di scarpe di vernice nera con il tacco da otto centimetri, un giacchino di lana leggera nera incrociato sul petto. Un completo che usavo da due anni, niente cui tenessi particolarmente; del resto non sapevo che proprio quel giorno l’amore avrebbe bussato al mio cuore.
L’amore, un’altra entità della mia trinità: la salute, il tempo, l’amore.
Il film, un’annunciazione della natività rivisitata in chiave moderna, mi è piaciuto parecchio; Massimo invece mi ha confessato, parecchi mesi dopo, che se ne sarebbe andato insieme al suo amico se non avesse già deciso di rivolgermi la parola a pellicola terminata. Il piccolo Edera è un cinema in cui proiettano film di nicchia, non è raro trovarsi in cinque o sei persone in tutta la sala e quel giorno non faceva eccezione. Ricordo, qualche anno prima, di aver assistito a una rassegna di film sull’olocausto; alla proiezione di Jona che visse nella balena di Roberto Faenza eravamo una ventina di persone, all’uscita non ce n’era una che non avesse gli occhi lucidi. Mi è anche capitato, seppur raramente, che qualcuno mi avesse in ato rivolto la parola per sapere la mia opinione su un film appena visto, quindi l’approccio di Massimo non mi è parso strano. Siamo però scivolati ben presto su altri argomenti, più banali ma più normali per due persone di sesso opposto che cominciano a studiarsi. Io sono subito stata attratta dai suoi occhi, non tanto dal colore, un bel castano intenso, quanto dalla loro espressione, profonda ma nello stesso tempo ilare; difficile da spiegare come connubio. Ho notato subito le sue mani, una delle prime cose che guardo nelle persone: eleganti, affusolate, le dita come i rami degli alberi disegnati a matita dai bambini, lineari e sottili. Le unghie erano corte e curate, appena appena rosate. Il suo naso era leggermente adunco, ma nell’insieme del suo viso magro non stonava. Quando rideva, pareva farlo prima con gli occhi che con le labbra. Il suo sorriso aveva spesso un gusto stupito; le labbra rimanevano socchiuse per qualche secondo prima di richiudersi su una bocca non troppo carnosa. Era di media altezza, con un corpo ben proporzionato, di quelli che sanno indossare con disinvoltura abiti di stili diversi. Quel giorno indossava un maglioncino di cotone
blu su un paio di jeans leggermente stinti; la giacca l’aveva dimenticata nell’auto del suo amico, con il quale aveva programmato di fermarsi in città per una pizza. Io gli avevo scombinato leggermente i piani e credo che quella sera lui abbia patito un po’ di freddo, ma ne valeva la pena, se si considera tutto quello che di bello abbiamo vissuto insieme.
Usciti dalla sala, abbiamo eggiato lungo la pista pedonale di Viale Vittorio Veneto fino a Porta San Tommaso; il traffico domenicale procedeva lento e monotono, ogni tanto il suono invadente di un clacson copriva le nostre parole, impazienti di incontrarsi. Dopo aver attraversato Piazzale Burchiellati, dove vagava nell’aria un caldo profumo autunnale di caldarroste, le prime della stagione, ci siamo avventurati in zona Pescheria; una bella scarpinata, ma non sentivamo la fatica, tanto eravamo intenti ad ascoltare la voce l’una dell’altro e a cercare le risposte per trovare il modo di piacersi subito, il più possibile. La sua voce aveva il dono di tranquillizzarmi, era quasi ipnotica ai miei orecchi. Ora mi rendo conto che è una voce normalissima, ma in quel momento volevo farmi incantare e qualsiasi metodo avrebbe sortito l’effetto giusto. Il mio cuore si era fatto più ricettivo che mai e non sarebbe stato sordo a nessun tipo di richiamo.
Sul ponte della Pescheria una coppia di giovani turisti inglesi ha chiesto a Massimo di scattare loro una foto, immortalando per sempre i loro sorrisi, incorniciati, sullo sfondo, dalle vetrate di Ca’ dei Carraresi; chissà se rivedendo la foto ricorderanno anche l’olezzo del pesce, rimasto nell’aria dal mercato del giorno precedente.
Alle otto eravamo in Piazza dei Signori. Sulle mattonelle di porfido sbrecciate nessun bambino giocava a rincorrersi in quell’ora in cui le famiglie si siedono intorno al tavolo per l’ultima cena prima che ricominci un’altra settimana, fatta di orari diversi e pranzi sfasati. Io mi sono resa conto che anche a casa mia erano già a tavola, che la mia auto era da tutt’altra parte della città, parcheggiata in una stradina senza uscita nei pressi del Piccolo Edera. Massimo, da parte sua, si è reso conto che la sua auto proprio non c’era e che l’amico chissà che fine aveva fatto. Dopo aver fatto un colpo di telefono, a casa io, all’amico lui, abbiamo
deciso di fermarci in piazza per una pizza da Pino. Non era da me accettare così su due piedi l’invito di uno sconosciuto che poi probabilmente avrei anche dovuto accompagnare a casa, ma con lui è stato subito tutto facile, fin dall’inizio. Mai un dubbio, mai un tentennamento di troppo su come comportarsi, su cosa dire o non dire. Da parte mia, mi sono subito aperta a lui, più di quanto avessi fatto in ato con altre persone. M’ispirava fiducia, con lui mi sentivo protetta. Era come se le nostre anime si fossero già conosciute in una vita precedente, per rincontrarsi nuovamente in questa. Eravamo predestinati. Anche il sesso era bello con lui, anche se non era l’aspetto più importante: sapere di essere desiderata da lui mi appagava più dell’atto in sé. A volte, con un sentimento misto di sgomento e stupore, mi trovavo a riflettere sul fatto che in realtà era secondario il fatto che lui fosse un uomo; avrebbe potuto essere anche una donna o un essere asessuato, poco importava, dato che la comunione che c’era tra i nostri esseri trascendeva la fisicità. Avevo sempre sentito dentro di me che non appena avessi incontrato l’amore della mia vita, l’uomo giusto per me, l’avrei riconosciuto senza ombra di dubbio, senza bisogno di tempi lunghi di conoscenza, e così è stato. Era lontano anni luce dai miei coetanei che incontravo all’università o che conoscevo nelle discoteche e nei pub che frequentavo. Lui era grande, anche il suo nome, che prima di conoscere lui ho sempre trovato banale e pretenzioso, ne dava conferma. Se avessi dovuto immaginare il mio principe azzurro, avrei dipinto Massimo. La mia scarsa abilità con i pennelli non avrebbe mai saputo rendergli il giusto merito.
La sorpresa, la grande sorpresa è arrivata la sera. Ero rientrata dal mio primo giorno di scuola alle tredici e trenta circa. Ero affamatissima: il grumo d’ansia che nei giorni scorsi mi aveva appesantito lo stomaco si era sciolto e aveva lasciato spazio a un forte appetito. Mi sono preparata un’insalatona con lattuga croccante, fagioli neri messicani, tonno, mozzarella, mais. Mamma, papà e mia sorella Silvia erano a loro volta impegnati al lavoro mentre Jacopo si era fermato a pranzo da un compagno di classe; io ero la prima a fare ritorno. Non volevo perdere troppo tempo in cucina; quella mattina avevo avuto un assaggio di quello che sarebbe stato il lavoro della mia vita, avevo lezioni da programmare e argomenti da riare, i nomi dei miei nuovi alunni da scrivere nel registro intonso color zucca; dovevo leggerli e rileggerli, cercare di associarli ai volti che avevo conosciuto la mattina, per fare bella figura il giorno dopo: non c’è niente di peggio di un insegnante che confonde i nomi, anche se a parer mio sono ancora peggio quelli che chiamano i ragazzini per cognome.
Massimo mi ha telefonato subito dopo pranzo. Mi ha detto che aveva finito il turno in ospedale e che sarebbe venuto a prendermi nel tardo pomeriggio per una eggiata e una cenetta, solo noi due, così, giusto per festeggiare il primo giorno di scuola. «Così mi racconti com’è andata». Una mia amica mi aveva raccontato che il suo ragazzo l’aveva accolta all’uscita del negozio di giocattoli, dove aveva iniziato a lavorare come commessa, con un mazzo di rose stratosferico, una cinquantina, tutte rosse e tante, tante da non sapere proprio in che vasi metterle. Massimo no, lui non era così. Sapevo per certo che quella sera non l'avrei visto spuntare dietro a un mazzo di fiori esagerato. Pur essendo benestante, il tipo di persona che non deve lesinare nei soldi, non si era mai prodigato in regali, nemmeno nei primi mesi di corteggiamento; ma le ricorrenze, le date importanti, gli eventi non gli sfuggivano mai. In genere non amava gli eccessi, non si sprecava mai in grandi sorprese, in doni impegnativi, ma sapeva rendere magici i momenti da ricordare con poche righe scritte in un bigliettino, con una viola del pensiero tra le pagine di un libro di poesie di Auden che mi faceva scoprire per caso, con una saponetta al gelsomino per ricordare i profumi di una eggiata in campagna: piccoli tocchi di buon gusto. Ho capito subito che quel mio primo giorno di scuola sarebbe diventato un’altra delle date che negli anni avremmo ricordato e festeggiato insieme.
Poche le telefonate tra noi due, rarissimi gli sms; eravamo in questo una coppia un po’ all’antica, ci piaceva parlarci solo guardandoci negli occhi, ci scrivevamo lettere d’amore anche se sapevamo che ci saremmo visti poche ore dopo. Io le sue, una decina, le tenevo insieme alla saponetta in una scatola di cartone dorato con i bordi di velluto verde scuro, uno scrigno che nei momenti in cui ero triste, magari in preda a qualcuno dei miei tanti mali, amavo dischiudere per farmi consolare dal profumo del gelsomino.
Quella sera volevo essere elegantissima. Il mio tailleur blu, troppo professionale per una cena con Massimo, l’ho appeso nell’armadio della camera; non l’ho più usato e credo sia ancora lì, se Silvia non se l’è preso come sovente fa con le mie cose. Mi prende soprattutto le scarpe e questo mi fa arrabbiare; ne ho di tanti tipi e di tanti colori, quasi tutte coi tacchi alti per compensare la mia statura bassina.
Sono una maniaca degli accostamenti cromatici. Mi piace abbinare le calzature a ciò che indosso e non sopporto cercarne un paio e non trovarlo perché Silvia l’ha fatto suo.
Ho programmato la lezione più urgente, quella per il giorno dopo, e ho rimandato il resto all'indomani. Mi sono lavata i capelli biondo scuro, che allora portavo lunghissimi, fin quasi alla vita e li ho lisciati con la piastra. Ho indossato un tubino corto nero, semplicissimo ma a mio parere sensuale, un copri-spalle color ghiaccio e un paio di sandali argentati. Ho truccato con cura ma con parsimonia i miei occhi verdi. Ero elettrizzata. Ero stata nervosissima per giorni e giorni, da quando era arrivato il telegramma con la nomina in ruolo fino al mio ingresso in classe, ma in quel momento ero felicemente sicura di me e orgogliosa e volevo che anche Massimo lo fosse. Volevo essere degna di lui, della sua bellezza, del suo successo.
«Dove si va?»
«Boh, sorpresa!»
«Iesolo, Caorle?»
«Ehi, non esiste solo il mare! Abbiamo ato tutta l’estate in spiaggia!»
Questo in effetti era un punto su cui io e Massimo faticavamo a convergere; tanto io amavo crogiolarmi al sole, possibilmente con un buon libro tra le mani, fino a sentire la pelle calda come i sedili di una macchina dimenticata al sole, camminare sul bagnasciuga dove la risacca si porta via i granelli di sabbia dalle caviglie, nuotare nell’acqua fredda che prima stordisce e poi tempra le membra,
fare windsurf con il vento tra i capelli, respirare il sapore della salsedine anche d’inverno, quanto lui adorava incondizionatamente la montagna, le scalate, le eggiate per raccogliere funghi e castagne, le serate con gli amici al tepore di un camino in baite disperse chissà dove.
Il mare per me è lo specchio del mondo. L’immagine che la terra vi proietta può essere nitida e limpida, rappacificante come gli occhi di un bambino, ma può diventare torbida come la menzogna e la cattiveria. Dipende sempre dallo sguardo di chi vi si rispecchia, come nella fiaba del Pesciolino d’oro.
Da piccola, mentre le mie amichette sognavano di fare le ballerine, le vallette o al peggio le parrucchiere, io sostenevo di voler fare il marinaio. Ancora oggi, se leggo racconti di mare, di traversate oceaniche o di burrasche mi emoziono; so tutto dei viaggi di Cristoforo Colombo: cosa si mangiava a bordo delle caravelle, com’era composto l’equipaggio, qual è stato l’itinerario percorso, con quale intensità e in quale direzione hanno soffiato i venti. Non ho ancora fatto un lungo viaggio per mare, solo qualche breve tragitto in motonave, tipo Venezia-Trieste o Chioggia-Pellestrina, ma non dubito che un giorno farò anch’io la mia traversata. Chissà, forse se quella sera lo avessi proposto a Massimo avremmo potuto organizzare una crociera, magari per il prossimo Natale. Mentre l’aereo mi terrorizza e mi fa sentire intrappolata in una scatola mortale, la nave mi affascina col suo lento scivolare, mi tranquillizza. È un’intera città che si muove, in cui vite e destini si intrecciano, un’avventura moderna, anche se è paradossale parlare di avventura quando si è rinchiusi in uno spazio ristretto come quello di una nave.
Ho così poca propensione per la montagna che non riesco nemmeno a memorizzarne la geografia; mentre il mare può chiamarsi Punta Sabbioni, Caorle, Lignano Sabbiadoro, Termoli, Marina di Ragusa e mille altre spiagge, sabbiose e rocciose poco importa, la montagna è montagna e basta. Riconosco che questo è un altro dei miei limiti, ma al cuore non si comanda!
Massimo è arrivato alle diciotto. Ho notato subito che anche lui era elegante, anche se in genere preferiva vestire casual. Dopo quasi un’ora di strada siamo arrivati ad Asolo, un paesetto caratteristico dei colli trevigiani; abbiamo parcheggiato nella piazzetta centrale, quella ai piedi della rocca e siamo scesi per una eggiata, mano nella mano, proprio come due fidanzatini. L’aria serotina cominciava a rinfrescare, il sole si accingeva a tramontare dietro ai colli con le sue mille sfumature dorate e aranciate.
Asolo è carina, conserva ancora qualche angolo che sa di antico, soprattutto se si evitano i week end; non per nulla l’Unesco l’ha eletta patrimonio mondiale dell’umanità. Alcuni dei suoi scorci sono pittoreschi, anche se secondo me non competono con altre località dell’Appennino toscano e marchigiano che ho avuto modo di visitare qualche anno fa. I locali, soprattutto le vinerie, che in questi ultimi anni hanno preso piede a scapito delle birrerie, sono intimi, non troppo raffinati.
Non era la prima volta che eggiavamo per Asolo; c'eravamo stati uno dei primi giorni della nostra frequentazione, la sera in cui Massimo mi aveva baciata per la prima volta; ricordo che in quell'occasione ad Asolo c'era una manifestazione in corso, una rievocazione storica medievale. Appena il sole era tramontato, centinaia di torce posizionate sui davanzali dei piani alti delle case e lungo le strade del centro storico avevano illuminato l'incantevole borgo, tanto che alla notte non era rimasto che indietreggiare di fronte al tremolio suggestivo delle torce.
Finita la eggiata abbiamo ripreso l’auto e Massimo mi ha portato in un ristorantino, anche questo piuttosto intimo, raffinato, vicino a Possagno, paese celebre per il tempio che lo sovrasta e che si nota da lontano, opera dell’estro armonico dell’architetto Antonio Canova.
Essendo lunedì, il locale era quasi deserto, se si esclude una decina di uomini che cenava nella saletta accanto alla nostra, chiacchierando sottovoce,
probabilmente di lavoro; se ne sono andati presto, prima di noi e mentre avano a pochi metri dal nostro tavolo per raggiungere l’uscita ho notato che uno di essi indossava un’impossibile cravatta con disegnata una specie di scala bianca e nera sulla quale ogni scalino era occupato da un animaletto diverso; un pulcino, un gattino, un orsetto. Più in là negli anni l’immagine di quella cravatta infantile e assurda mi è balzata ancora in mente. Non lo so perché: la memoria funziona in modo strano, molto strano, a volte ci impone di ricordare particolari che non ci interessano e non ci servono, altre volte è troppo avara e tiene per sé ricordi che ci appartengono.
Abbiamo mangiato con appetito, un menù semplice. Io amo i primi, mentre Massimo predilige i secondi, soprattutto la carne. Le crêpes farcite con besciamella e funghi, i primi che assaggiavo quella stagione, erano assai delicate. La tagliata cotta al sangue era gustosissima, accompagnata da un cestino di pasta sfoglia ripieno di creme di verdure. Come dolce ci hanno servito una mousse accompagnata da mirtilli rossi e neri disposti ad arte, a guisa di petali, su un piattino quadrato. Il vino non lo ricordo, non sono un’intenditrice. Un particolare però non poteva sfuggirmi, nel sorseggiare lo spumante che Massimo si era fatto portare a fine serata, approfittando del momento in cui mi ero assentata per andare alla toilette: sul fondo del bicchiere brillava un diamante di buona fattura, montato su un semplice cerchietto di oro bianco. «Attenta a non mandarlo giù, altrimenti ti dovrò operare per tirarlo fuori e dovrò offrirti un’altra cena per chiederti di nuovo se vuoi sposarmi».
Poi si è avvicinato un cameriere con una rosa per me, solitaria ma incantevole, dai petali vellutati color rubino. Una musica dolcissima si è diffusa tutt’intorno, un notturno di Chopin, ma a quel punto io non ho sentito più nulla.
7 Nonna Carla
Gli uomini sono artefici del proprio destino: possono commettere sempre gli stessi errori, possono fuggire costantemente da ciò che desiderano, e che magari la vita gli offre in modo generoso; oppure possono abbandonarsi al destino e lottare per i propri sogni accettando il fatto che si presentano sempre nel momento giusto.
PAULO COELHO
La prima persona a cui l’ho detto è stata nonna Carla. La mia unica nonna. Di suo marito, nonno Giovanni, serbo purtroppo pochi ricordi. La foto che nonna tiene in camera lo ritrae in un’espressione severa, resa ancora più austera dai baffi scuri. Le foto degli anziani finiscono sempre con l'assomigliarsi tutte, soprattutto se portano i baffi. Anche mio padre all’età di cinquant’anni si è fatto crescere i baffi e un po’ gli somiglia. Papà mi ha detto che il nonno era un uomo meticoloso, quasi calcolatore, ma in fondo il suo animo dev’essere stato buono se nonna Carla l’ha scelto. Il nonno aveva la ione per gli scacchi, che non ha trasmesso a nessuno dei suoi cinque figli e dei dieci nipoti. La nonna conservava in una cassapanca in cucina tutte le sue scacchiere e per noi nipoti, da piccoli, è sempre stato un momento rituale quello in cui ci sedevamo attorno alla nonna mentre lei le spolverava a una a una per poi riporle con cura, come faceva lui. Le puliva una volta la settimana con un panno di pelle di daino inumidito, con grande devozione, un pedone dopo l’altro, re e regina, torri cavalli e alfieri. Noi non potevamo nemmeno toccarle; questo era l’unico punto su cui nonna era intransigente. La più grande era a quadri di marmo bianco e nero. Un’altra, di alabastro, aveva un colore quasi trasparente. Questa ione del nonno era inconsueta per un uomo nato e vissuto in campagna. Nonna invece era originaria dell’isola di Pellestrina; figlia di un capitano di mare, era nata durante la traversata dell'oceano Atlantico. Era stata cullata dalle onde e allattata fino ai tre anni da sua madre, una donnetta dall'aspetto minuto e insignificante (così mi appare in alcune foto sbiadite); tuttavia i suoi figli maggiori ricordano che,
durante quel viaggio in cui è nata Carla, la bisnonna non si è mai lamentata di nulla, mentre altre donne, in condizioni normali rispetto al suo stato di gestante, vomitavano dalla mattina alla sera e avano la notte sul ponte alla ricerca di un po' d'aria fresca che le rinfrancasse... le cuccette di allora non garantivano l'agio che offrono oggi quelle delle navi da crociera.
Per il mio bisnonno quello era stato l'ultimo viaggio. Si sentiva ormai vecchio per le lunghe traversate e desiderava ritirarsi nella sua isola, per questo aveva portato con sé la famiglia: un viaggio d'addio all'oceano. Mai avrebbe immaginato che Carla nascesse con quasi un mese d'anticipo, quattro giorni prima di avvistare le coste portoghesi. Il padre di nonna Carla, con una figlia e un motivo in più per abbandonare la vita di giramondo, si era riunito ai suoi fratelli di umili pescatori e aveva trascorso a Pellestrina i suoi ultimi dieci anni.
Dopo la morte del marito, la madre di Carla aveva lasciato l’isola con i suoi quattro figli, alla ricerca di un lavoro sulla terraferma; quell'isola, che negli ultimi anni era stata il rifugio del suo intrepido marito, a lei era sempre sembrata troppo stretta; tuttavia Carla aveva conservato nelle iridi il colore del mare e la pacata attesa dei pescatori nelle lente movenze. Da sposa, aveva voluto che la casa fosse dipinta di un azzurro intenso, come quella in cui era vissuta da bambina, l’unico vezzo di una vita semplice. Era una casa in vecchio stile contadino, rettangolare, ma molto più piccola di quelle che punteggiano la campagna veneta e anche per questo, oltre che per il colore, ricordava le povere case dei pescatori. Il suo colore la rendeva unica. Era circondata dai gelsi e da una campagna piatta e piuttosto monotona. La sua cucina con le tendine di pizzo alle finestre odorava sempre di carne bollita, la tv, arrivata in ritardo rispetto al resto del paese, non era mai accesa.
L’indomani, appena sveglia, mi sono vestita in fretta e ho preso la borsa di scuola rossa, un regalo di papà; sono uscita di corsa, poco prima delle sette; i miei genitori e Silvia erano ancora a letto, Jacopo armeggiava davanti al fornello con il bricco del latte in mano, i capelli sugli occhi ancora semichiusi, il vecchio e sbiadito pigiama dei Simpson mezzo sbottonato, ultima vestigia di
un’adolescenza che lo stava abbandonando. E i miei capelli com’erano quel giorno? Mentre mettevo in moto la mia Yaris me lo chiedevo, ma non c’era tempo per quelle frivolezze; sarei andata a scuola dopo aver salutato la nonna, direttamente. Quanta differenza rispetto alle grandi manovre del giorno prima! Dov’era sparita la smania di voler apparire perfetta a tutti i costi? Quel mattino avevo cose più urgenti cui pensare. La vita ci sottopone sempre a delle scelte e le priorità vanno rispettate.
In tre minuti di strada ero già da lei; malgrado fosse presto, la nonna paterna era già china sull’orto, sua grande ione, seconda solamente alla lettura. Probabilmente io avevo preso da lei in questo, mentre il suo orto non mi aveva mai attirato. Faceva abbastanza caldo, le ore notturne non avevano ancora avuto la meglio su quello squarcio di estate cadente.
Nonna Carla mi è venuta incontro con il suo incedere barcollante e con un velo di preoccupazione nei suoi occhi cerulei ancora vispi per i suoi ottantadue anni; nonna era un fiore di ieri, ancora bello ma ormai destinato alla secchezza, con la pelle senza luce ma la vita accesa negli occhi. Non era da me farmi vedere così presto. Il suo viso si è subito allargato in uno dei suoi magici sorrisi appena ha notato che nel mio sguardo non c’erano altro che gioia e trepidazione. Un abisso rispetto all’ansia che mi attanagliava fino a due giorni prima, quando nella mia testa a occupare i miei pensieri c’era solo il nuovo lavoro. «Nonna, mi sposo!» Se possibile, il suo sorriso si è fatto ancora più grande. Non ha detto niente, ma mi ha abbracciato stretta stretta. A lei Massimo era piaciuto fin dal primo istante, dalla prima volta in cui gliene avevo parlato, prima ancora che lo portassi a conoscerla. Del resto, lei avrebbe accolto a braccia aperte chiunque avesse il potere di far stare bene la sua nipotina più piccola. Spesso gli atteggiamenti dei vecchi m’infastidiscono; il loro modo di essere curiosi, pettegoli, astiosi, soprattutto nei confronti della gioventù, cui attribuiscono troppi vizi, soprattutto l'indolenza, e nessun merito non mi piace. Lei no; parlava poco, sapeva ascoltare e consigliare con poche parole che sceglieva con cura, senza mai essere invadente né seccante.
Surreale l’immagine di noi due abbracciate sulla terra ancora bagnata dell’umidità della notte, io nei miei jeans slavati semi-nuovi, con le scarpe beige col tacco che affondava nella terra, lei avvolta nel suo grembiulone verde da lavoro, sullo sfondo il monotono abbaiare di un cane, un salice piangente e il cielo ancora rosato d’aurora.
Poche sono le immagini di una vita che ci rimangono per sempre negli occhi e nel cuore: questa per me è una di quelle.
Non ricordo con quale spirito ho affrontato il mio secondo giorno di scuola; a sole ventiquattr'ore di distanza, lo stato d'animo con cui ho varcato la soglia della classe che quel giorno mi attendeva dev'essere stato completamente diverso. In aula mi aspettava la seconda F, impaziente di conoscere la nuova professoressa di lettere (la collega che mi aveva preceduto era andata in pensione); sicuramente era già giunta loro la notizia che la nuova insegnante era giovane e per nulla disprezzabile, probabilmente mi avevano già adocchiato il giorno prima durante la ricreazione, ma i miei pensieri navigavano verso lidi ben più lontani di quelle quattro pareti verdine tappezzate di carte geografiche e armadietti. Scusate, ragazzi, ma del giorno in cui ho fatto la vostra conoscenza non ricordo quasi nulla.
Finita la scuola, dovevo affrontare un tasto un po’ più delicato rispetto alla nonna: mamma e papà. Ho pensato per tutto il tragitto scuola-casa a come iniziare il discorso, non perché loro non apprezzassero il mio ragazzo, ma perché sembrava che gli eventi stessero precipitando in fretta anche per me, figurarsi per loro che avrebbero dovuto abituarsi all’idea di vedere la casa un po’ più vuota; sarei arrivata a casa all’una e mezza, quel giorno Jacopo e Silvia sarebbero stati già a tavola con mamma e papà, quindi l’uditorio sarebbe stato al completo e non avrei potuto affrontare un fronte alla volta. Sicuramente mamma aveva già intuito che c’era qualcosa di nuovo nell’aria: non era mia abitudine uscire da casa senza aver fatto colazione e senza una parola di saluto; anche Jacopo doveva aver intuito qualcosa, dato che i nostri sguardi si erano incrociati quella mattina: perché, se si eccettuano la mia ipocondria e gli sforzi per
occultarla a tutti i costi, per la mia famiglia sono sempre stata un libro aperto: al solo pensare di dire una bugia arrossivo e balbettavo. Sono stata fortunata; ho incontrato per prima Silvia, che in giardino si rotolava a terra col suo cane, Gustavo, un ammasso di pelo folto e lungo, le flosce orecchie color bronzo scodinzolanti, il naso triangolare sempre umido alla ricerca di nuovi odori; è sempre stata un po’ infantile in fatto di animali, la maestrina. Ogni tanto se lo porta anche in casa e a me dà fastidio. Io Gustavo non lo sopporto dal giorno in cui, da cucciolo, si è mangiato i fascioni laterali della mia Yaris nuova. Silvia, se potesse, aprirebbe uno zoo in casa e ho motivo di temere che durante i miei viaggi lei ne approfitti per portare Gustavo a dormire in camera. Ho colto l'occasione per dirle la novità, a bruciapelo; è saltata in piedi ed è entrata in casa urlando «Mia sorella si sposa!» Ha sempre mancato di tatto, Silvietta, ma del resto in quel frangente aveva fatto il mio gioco, perché era proprio così che mi aspettavo che reagisse, togliendomi dall’imbarazzo di rendere partecipi i miei genitori della grande notizia.
Naturalmente i miei genitori erano felici per me, ma non hanno nascosto qualche perplessità: io e Massimo ci conoscevamo da poco più di un anno, ero in anno di prova e dovevo pensare prima di tutto al lavoro, non c’erano ancora state le presentazioni con i futuri consuoceri… solite preoccupazioni da genitori insomma. E poi io ero la loro bambina, la piccola da proteggere, ed era questa la preoccupazione più grande, l’unica vera.
Jacopo ha bofonchiato un «Complimenti agli sposi» che, detto da lui, diciassettenne in piena fase di contestazione di tutti e di tutto, soprattutto delle convenzioni sociali, era quanto di meglio ci si potesse aspettare.
Silvia poi. ata l’euforia del primo momento sono cominciati i suoi soliti lamentosi piagnistei; l’avrei lasciata sola soletta in camera, avrebbe perso la sua confidente preferita e la spalla su cui sfogare le sue ire post scolastiche, proprio ora che, da insegnante, avrei potuto capire le sue motivazioni e condividere le mie arrabbiature con le sue; ma quel che era peggio, non si erano rispettati i tempi delle cose! Lei e il suo ragazzo, il primo e l’unico che abbia mai avuto,
beati loro, stavano insieme da nove anni, i risparmi da parte per il corredo c’erano, eppure ancora nessuna proposta di matrimonio da parte di Corrado! E poi lei, da inguaribile romantica qual era, sognava un matrimonio di coppia: noi due insieme in una cappella privata, l’abito uguale, stessa taglia, magari due colori diversi, stesso bouquet di rose bianche da lanciare per far sognare non una, ma due ragazze. Un’abbinata con cancelletto comunicante, un cagnolino in società da curare a turno quando l’altra sarebbe stata in vacanza o fuori casa per un week end. Aveva pianificato e idealizzato tutto nei dettagli, a sentire lei mancava solo la data; ma non aveva pensato che, facendo lo stesso lavoro, tutte le mie festività e i ponti sarebbero stati esattamente combacianti con i suoi?
Io quelle sue mire sul nostro matrimonio insieme le ho scoperte solo quel martedì e comunque, anche a saperlo prima, non se ne sarebbe fatto nulla; voglio bene a Silvia, chiaro, è la mia sorellona da sempre, da quando sono venuta al mondo, ma quello che stavo vivendo era il mio momento di gloria, il mio giorno e il cordone ombelicale volevo staccarlo del tutto.
Tra l’altro, i cani non mi piacciono e lei lo sa.
8 Pranzo dai suoceri
Cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’; ma la tua festa Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
GIACOMO LEOPARDI
Ero felice, felice, felice… stavo almeno tre metri sopra il cielo. (Credo che Federico Moccia mi scà, se attingo alla sua creatività, ma è così bravo a rendere l’idea… e comunque non penso proprio che stia leggendo queste mie righe. Nel caso, gli rammento quanto anche lui abbia attinto a piene mani da Battisti e altri; segno della sua stima nei loro confronti, o sbaglio? Magari qualcuno citasse un mio pensiero, qualche mia frase in uno dei suoi libri! Solo i grandi vengono citati).
Solitamente, non ci si accorge mai di essere felici, se non dopo. È più facile bearsi del ricordo della felicità, della nostalgia, che non della felicità stessa. Io invece ero felice e ne ero pienamente conscia. Ovidio diceva che l’amore è come
la tosse, non si può nascondere, e per me era proprio così; anche le mie amiche non facevano che ripetermi che la mia felicità era palpabile e forse qualcuna provava anche un po’ d’invidia.
Nella testa mi risuonavano in continuazione le note della colonna sonora della Vita è bella di Nicola Piovani; quella sarebbe stata la colonna sonora della cerimonia, magari suonata da un dolce flauto traverso. Anche qualche aggio del Quinto concerto brandeburghese di Bach mi sarebbe piaciuto. Magari avrebbe potuto accompagnare il pranzo. Volevo sposarmi in un ristorantino non troppo grande, possibilmente vicino al mare, e fare delle foto in riva o sul pontile.
Ci saremmo sposati il diciannove settembre dell'anno dopo, tre settimane dopo le nozze della mia migliore amica, Virginia, quindi avevamo circa un anno di tempo per organizzare tutto e per trovare casa. A settembre la spiaggia è bella, la sabbia conserva ancora il calore dell’estate, il mare ha un colore che sa già di nostalgia.
Mi chiedevo se tutto sarebbe stato splendido come me lo immaginavo, come si andava a poco a poco delineando nella mia mente, prima a tratti sommari, poi sempre più precisamente nei dettagli, o se sarebbe stato un po’ come Il sabato del villaggio, in cui l’attesa è mille volte più bella del vero e proprio dì di festa.
Tuttavia, in quei giorni l'ottimismo mi accompagnava. Durante i preparativi, mi pareva che tutto filasse alla perfezione; l’unica cosa che poteva rovinare il grande giorno era la mia ipocondria; e se quel giorno avessi avuto la febbre, se mi fossi ammalata prima del sì, se avessi perso la voce, se avessi preso gli orecchioni (l’unica malattia dell’infanzia che non avevo avuto). Se se se …
Era sempre stato così: ogni volta che dovevo affrontare qualcosa d’importante le
mie paure riaffioravano con maggior prepotenza. Al terzo anno di università, avevo rimandato tre volte l’esame di letteratura se contemporanea perché, pur preparatissima, ogni volta che si avvicinava la data dell’appello mi ritrovavo febbricitante; la quarta volta però non mi sono lasciata bloccare, né dalla febbre, che ho abbassato con una buona dose di paracetamolo, né dall’acqua alta, incubo sia per i Veneziani che per noi poveri studenti della terraferma, che, spesso ignari del pericolo che proprio nei giorni degli esami incombeva, arrivavamo alla facoltà con i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, indossando gli stivaloni acquistati strada facendo, a prezzo quadruplicato naturalmente, con in una mano la borsa zeppa di libri di testo fotocopiati tenuti insieme da listelli colorati, un colore diverso per ogni capitolo, romanzi di Gide e appunti, e nell’altra mano le scarpe che, seppur vecchie e lise, volevamo preservare dall’acqua grigiastra “almeno farle arrivare alla fine del semestre”. Quel giorno la docente aveva osato lamentarsi con noi studenti per essere arrivati in sede con un leggero ritardo. Forse lei abitava lì vicino e non aveva dovuto svegliarsi all’alba e combattere con la laguna. Alla fin fine il mio esame di letteratura se l’ho sostenuto, voto ventisette.
Uno alla volta, libri su libri, gli esami li avevo superati tutti; eppure, in un altro dei miei sogni ricorrenti, non riuscivo a laurearmi, mi mancavano sempre due esami, latino e storia moderna. Ogni volta che facevo quell’incubo, mi svegliavo sudata e con in testa un pensiero fisso: “Domani comincerò a studiare latino.” Di solito impiegavo alcuni secondi per rendermi conto che si era trattato di un incubo; ero già laureata, l’attestato è incorniciato e appeso nel mio studio, sopra la scrivania. Non ho altre lauree in programma… per ora.
Qualche settimana dopo avermi donato l’anello di fidanzamento, Massimo ha invitato la mia famiglia a pranzo; l’occasione propizia per far incontrare i nostri genitori. Lui i miei li aveva già conosciuti, dal momento che veniva spesso a prendermi a casa, io i suoi li avevo incontrati un paio di volte, ma solo per pochi minuti.
Papà ha insistito perché Jacopo si sistemasse i capelli per l’occasione, ma Jacopo
non ne aveva proprio l’intenzione. «È già tanto se mi metto la camicia, se non va bene così me ne sto a casa». Silvia sarebbe venuta da sola, poiché il suo fidanzato, Corrado, non amava questo genere di formalità (o forse si sentiva in colpa per non averle ancora chiesto la mano e temeva di dover sopportare per tutto il pranzo il muso lungo di Silvia?). I miei genitori e quelli di Corrado si erano conosciuti per caso un anno fa in ospedale, quando Corrado era stato operato d’appendicite; quel primo incontro non era stato seguito da altri, ma a Silvia e a Corrado stava bene così. Soprattutto a lui.
Il sabato precedente il pranzo a casa di Massimo mamma era andata dalla parrucchiera per una messa in piega, papà aveva tirato fuori dall’armadio il suo abito migliore, quello che riservava per i matrimoni e le prime comunioni, ma aveva la faccia di uno che avrebbe preferito partire per l’Australia pur di evitare l’imbarazzo dell’incontro (tra l'altro, anche lui odia l'aereo).
La famiglia di Massimo abitava in una villetta stile anni ottanta, di un solo piano, circondata da un ampio giardino molto ombroso, troppo, e da un’alta muretta di sassi che la faceva somigliare a una villa bunker, come quelle che piacciono ai mafiosi. Chissà se nello scantinato, nascosto da un vecchio armadio, si apriva un aggio segreto? Me lo sono chiesta per la prima volta quel giorno, mentre l’elegante cancello grigio scuro si apriva lentamente per far entrare l’auto di papà. Un porticato circondava la villa su tre lati. Davanti all’ingresso, una grande aiuola a forma di luna spandeva i suoi profumi; primeggiavano i ciclamini, bellissimi, bianchi rosa e rossi. Poco più in là alcune rondini si rincorrevano svolazzando e garrendo tra le fronde di tre alte magnolie. Forse cominciavano a radunarsi per il lungo volo che le avrebbe portate in siti più caldi. Una malinconica altalena fatta in casa penzolava da un ramo e ondeggiava con un leggero cigolio al vento, che quel giorno era forte, quasi fastidioso. Dava l’impressione di essere inutilizzata da parecchi anni.
Pure l’ingresso era buio. Il lampadario di gocce di cristallo di rocca pendeva spento. Per terra, un rosone spiccava sul pavimento in stile veneziano. Mancava solo l’odore dell’incenso e si sarebbe detto di aver appena varcato il portale di
una chiesa.
Anche il padre di Massimo è medico. Ci è venuto incontro sorridente, con la mano già aperta al saluto. È un signore dall’aspetto distinto, già canuto, con gli occhi scuri e penetranti dietro gli occhiali da presbite e la stessa voce tranquilla del figlio. Pareva sincero quando ha detto a Jacopo che i suoi lunghi capelli erano belli e originali, anche se mio padre non gli ha creduto.
Sua moglie è una donna robusta, dal carattere espansivo e gioviale e dalla voce un po’ troppo querula. Non aveva mai lavorato e si dedicava a tempo pieno al volontariato: organizzava eventi per scopi benefici. In quel periodo stava costruendo con delle amiche delle morbide bambole di pezza da regalare ai bambini ricoverati nel reparto pediatrico dell’ospedale dove lavorava il marito. Entrambi i miei futuri suoceri avevano, ognuno a modo loro, una missione da compiere e questo ai miei occhi ne faceva delle brave persone.
La padrona di casa ha insistito per donarmi una delle sue bambole; tra quelle che avevo intravisto tra i cuscini dei due divani del salotto ha scelto per me la più bella e la più grande, con i capelli di rafia biondi e ricci, l’abito rosso a cuoricini bianchi sopra le culottes di pizzo candido, un fiocco rosso a ornarle il capo.
La sorella di Massimo, di quattro anni minore di lui, pareva una mummia. Il volto di un pallore quasi trasparente, anoressico, non aveva familiarità né con le gote rosse della madre né col colore olivastro dei due uomini di famiglia. Se non fosse stato per gli occhi scuri si sarebbe detta albina. Anche i suoi capelli erano chiari, decolorati, di un biondo platino così incolore da abbagliare. Per tutta la giornata si è espressa a monosillabi, poteva fare coppia con Jacopo. Era lei quella che sembrava fuori posto in quella casa, non la mia famiglia. Silvia invece ha dato il meglio di sé, riempiendo con la sua gaia voce tutti i momenti in cui la conversazione languiva. Una brava intrattenitrice, non c’è che dire, anche se con i suoi modi mi sembrava una maestra che si rivolge a un gruppo di bambini da addomesticare: troppo accondiscendente.
La signora si era detta troppo indaffarata con le bambole per trovare il tempo per cucinare, quindi aveva delegato per l’occasione un servizio di catering. A suo dire, era il modo ideale per testarlo, se mai avessimo voluto servircene per il matrimonio. Non avevamo ancora parlato del ristorante io e Massimo; a dire il vero, avevamo solo stabilito la data e contattato il prete, il resto era tutto da fare. Al pensiero delle tante cose che dovevamo organizzare affinché il giorno del nostro matrimonio fosse davvero indimenticabile, ho sentito l’ansia salirmi dal petto fino in gola. L’ho ricacciata giù, non era il momento di rovinarsi la giornata.
Ci siamo seduti a tavola. Una suocera poco amante dell’arte culinaria mi andava bene, dal momento che neanche io posso definirmi una maga dei fornelli. Aveva anche un’amica sarta da consigliarmi per l’abito e mi aveva già messo qualche foto in mano, quando ho trovato la voce per dirle «Grazie, l’ho già scelto». Non era vero, ma non mi andava che il mio matrimonio diventasse affar suo più di quanto non lo fosse già in quanto mamma dello sposo. Ha sgranato i suoi occhioni da bambola, truccati di un turchino , seguita a ruota da Silvia che un’occhiatina alle foto avrebbe anche voluto darla. A mamma veniva da ridere, si tratteneva con le labbra serrate ma gli occhi la tradivano. I quattro uomini erano troppo impegnati ad assaggiare stuzzichini di vari gusti e a sgusciare aragoste adagiate su larghe foglie di lattuga per far caso ai nostri discorsi. Non sembrava che si trovassero seduti allo stesso tavolo per la prima volta, erano a proprio agio, si stavano sintonizzando sulla stessa frequenza, ma credo che avrebbero mangiato più volentieri un panino con la porchetta, perlomeno Jacopo e papà, dei quali da una vita conoscevo i gusti. La mummia continuava a essere indifferente. Piluccava pezzetti di cibo che sminuzzava con la forchetta e che rimanevano in gran parte nel piatto. Questo mi infastidiva notevolmente, ancor più dei suoi pesanti silenzi. Pareva apatica, ermetica, impossibile per noi normali esseri umani interpretare i suoi pensieri, cogliere un barlume di partecipazione nei suoi occhi evidenziati dall’eye liner nero, con i quali focalizzava la sua attenzione ora su un lampadario rosso e nero di vetro di Murano, ora sul camino spento o sull’acquario in cui una ventina di pesci multicolori nuotava languidamente: il più bello era di un blu cobalto venato di striature gialle. A me i pesci negli acquari sembrano meri elementi d’arredo, si trovano su un gradino più in alto dei soprammobili, in quanto sono vivi, ma più in basso
rispetto ai fiori perché non profumano. Faccio fatica a considerarli animali. Del resto, se fossero ributtati in mare apirebbero ancora prima di un fiore che viene reciso.
In un angolo, sopra un mobile a cassettiera dall’aria vetusta, un violino faceva bella mostra di sé, adagiato sul velluto rosso della sua custodia aperta; serviva a dare un ulteriore tocco di classe all’arredamento o lo suonava qualcuno, magari la sorella? Massimo non me ne aveva mai parlato. Non me la vedevo a suonare uno strumento, avrebbe dovuto svelarsi troppo, scomporsi per seguire il ritmo delle note. Il violino è tzigano, è impeto e colore, mentre a lei gli unici colori che potevano adattarsi erano quelli delicati delle corde di un’arpa.
La signora era cortese e si dava un gran da fare per metterci il più possibile a nostro agio, mentre andava su e giù dal soggiorno alla cucina con i vassoi tra le mani, con la lunga gonna marrone che le ondeggiava intorno alle gambe ben tornite su cui l’assenza di calze lasciava intravedere qualche vena troppo gonfia. «Vuoi vedere la casa cara?»
«No grazie, l’ho già vista». Stavolta è stato Massimo a trasecolare. Non era vero, ma avevo già deciso che quella casa così ombrosa e ingombrante con quei tappeti color rosso cupo e i mobili scuri non mi piaceva. Le pareti erano stuccate di un beige graffiato: cerone troppo pesante su un viso rugoso. Tutto l'insieme, in quella casa, aveva un che di teatrale; pareva che ogni oggetto, anche il più insignificante, fosse stato posizionato ad arte, quasi a voler creare una scenografia in cui si recitavano gli atti della quotidianità di quella famiglia che, vista così, tutta riunita come non mi era capitato di vedere prima, pareva un po' surreale, come se le quattro anime che la componevano fero fatica ad amalgamarsi tra loro. Non c'era un angolo di quella casa che fosse vuoto, nulla su cui far riposare la vista.
La sera ho spiegato a Massimo il perché del mio rifiuto a visitare la casa e mi sono scusata per la mia sgarbatezza, ma lui mi ha dato ragione. Mia mamma
invece si è offerta per farsi accompagnare nelle varie stanze. Poi mi ha riferito che pareva di essere al museo della bambola, da quante ce n'erano. In ogni stanza c’era un vaso con dei fiori recisi da poco, alcuni colti in giardino, altri acquistati in fioreria. Questo a mamma è piaciuto molto. Lei adora i fiori e ama anche dipingerli, imprimere i loro freschi colori sulla tela prima che apiscano. A me invece i fiori recisi non piacciono, puzzano da cimitero.
A metà pomeriggio, mentre la signora versava il caffè nelle tazzine di candida porcellana, suo marito si è alzato per la prima volta da tavola per accendere un cd, forse un concerto per pianoforte e orchestra di Brahms. Mio suocero era indubbiamente un uomo dai gusti raffinati, la moglie invece mi dava l’impressione di essere una persona di umili origini che, dopo aver fatto un matrimonio al di sopra delle sue possibilità, cercava di seguire la scia del marito per non rimanere indietro.
Il gattone persiano che per tutto il tempo si era aggirato sonnecchioso, adagiandosi ora su un tappeto, ora su un divano di velluto nero, ha drizzato gli orecchi e ha cambiato stanza: la musica, seppur sopraffina, non era di suo gradimento. A fine pranzo mio papà, che è allergico ai gatti, lacrimava e starnutiva, ma era soddisfatto per com’era andato l’incontro, o forse del fatto che si fosse concluso. Uscendo da quella casa, il primo gesto che ha fatto è stato quello di allentarsi il nodo della cravatta, segno dello sgonfiarsi della tensione. E io, cosa avrei fatto subito dopo aver pronunciato il mio sì? Probabilmente mi sarei tolta il velo, la mia maschera.
I miei se ne sono andati alla fine del primo movimento del concerto, io e Massimo siamo usciti a eggiare in giardino. «Accompagnala in giardino caro, credo che sarà uno sfondo perfetto per le vostre foto». Ammesso che il fotografo riuscisse a catturare un po’ di luce in mezzo a quel fitto fogliame... e io che sognavo la luce della spiaggia e l'immensità del mare!
Il vento si era fatto ancora più forte, aveva spazzato via qualsiasi residuo di nubi
e il cielo si era aperto in un tramonto colorato e fresco; le foglie delle magnolie cadevano vorticando, le rondini si godevano gli ultimi squarci d'estate. Mi sono seduta sull’altalena. Da piccola ne avevo una simile appesa al salice piangente di nonna Carla. Era da tanto che non mi dondolavo e mi è piaciuto; mi sentivo più leggera fuori da quelle mura. Nel dondolamento, anche il cigolio si era addolcito.
Massimo si è scusato per l’invadenza di sua madre: «Fa sempre così quando è felice».
Da quel giorno in avanti, per me mia suocera è sempre stata la bambola. Di lei rammento soprattutto i capelli cotonati color mogano, in tinta con i mobili di casa, gli occhioni sgranati dalle lunghe ciglia dipinte di nero che battevano troppo spesso, le gote piene, color cipria, che si gonfiavano ancor di più a ogni sua risata, la morbida figura da chioccia.
Di mio suocero ricordo con piacere lo sguardo buono e comprensivo, la riservatezza elegante, i gesti lenti, la stretta di mano energica. Massimo gli somigliava molto. Speravo che invecchiando finisse col somigliargli ancora di più.
Della mummia ricordo solamente l’abito bianco fasciante intorno al corpo asciutto e i pesanti silenzi.
9 Alessandra
Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.
ROLAND BARTHES
Nelle settimane seguenti il pranzo, ata l’euforia dei primi giorni di fidanzamento ufficiale, io e Massimo abbiamo cominciato a pensare con più serietà alla nostra vita insieme. Abbiamo scelto la nostra casa. Era vecchia di dieci anni, si trovava esattamente a metà strada tra la residenza della famiglia di Massimo e la campagna aperta; era stata ricavata restaurando un’abitazione più datata che circa trent’anni fa era stata quasi totalmente distrutta da un incendio. Gli ex proprietari si erano trasferiti nelle Marche, dove avevano acquistato un casolare che volevano convertire in agriturismo. Una svolta davvero radicale della loro vita, a senso quasi unico, dato che ormai la loro casa apparteneva a noi.
La cosa che più ci ha colpito di quella casa, una tra le tante che abbiamo visitato, è stata la luminosità, che ci ha abbagliato anche se la prima volta che l’abbiamo vista era fine novembre e faceva molto freddo, un fine autunno già cosparso di trame di brina. La casa si caratterizzava per una cucina soleggiata, la cui parete ovest era occupata da un’ampia vetrata che portava a un giardinetto piccolo, intimo, occupato in gran parte da trifoglio e che in primavera, a detta dell'agente immobiliare che ci ha accompagnato a visitarla, si riempiva di creste di gallo fucsia e ortensie di colore blu-azzurro; queste ultime le avrei fatte togliere; non mi sono mai piaciute e non amo i fiori blu. Al piano terra, oltre la cucina, un’ampia sala, uno studio e un bagnetto con lavanderia annessa, al primo piano
tre camere, una delle quali, la più grande, si apriva su un ampio terrazzo baciato dal sole levante e un bagno con una vasca ovale al centro.
Quando abbiamo visitato la casa per la prima volta c'era parecchio vento; le foglie degli olmi piantati appena fuori del giardino, lungo il vialetto che dalla strada conduceva alla dimora, vibravano all'aria e facevano andare la mia mente allo sciabordio delle onde sulla rena. Niente è, per me, più appagante del rumore del mare e della sua vista, a prescindere dalle stagioni. Questo era l'unico neo della casa, il non trovarsi in riva al mare come, nei miei sogni, l'avevo da sempre immaginata. Del resto, se si fosse davvero trovata in riva al mare la mia felicità nel possederla sarebbe stata così intensa che avrei rischiato di non avere più voglia di allontanarmene, nemmeno per brevi viaggi, pur di non abbandonarla neanche per un istante.
Io e Massimo, nei mesi che hanno preceduto la data del matrimonio, l’abbiamo ricreata e riarredata a nostra immagine e somiglianza: volevo un arredamento semplice, spazi accoglienti ma nello stesso tempo facili da gestire, privi di soprammobili e inutili orpelli. Mi rendevo conto che era l'antitesi della casa in cui era cresciuto Massimo, ma lui non avrebbe tardato ad abituarcisi, ne avrebbe apprezzato la comodità semplice e pura. Non volevo essere la serva della casa, volevo che fosse lei a servire me. La casa doveva rappresentarmi, assomigliarmi, venirmi incontro quando tornavo dal lavoro, accogliermi con calore al mio ingresso, tranquillizzarmi la sera e coccolarmi la notte.
Nella sala abbiamo sostituito il caminetto, suggestivo ma vecchio e mal funzionante, con una più funzionale stufa a legna. Ne abbiamo scelta una che si adattava perfettamente al camino, che quindi fungeva da cornice per essa. Le pareti dello studio sono state tutte impegnate da librerie, dove io e Massimo avremmo posizionato le nostre centinaia di libri e i molti che avremmo comperato in futuro. Io i miei li dispongo sempre in ordine crescente, a prescindere dall’argomento, mentre Massimo li accosta abbinando i colori; strano per un uomo, o no?
Abbiamo scelto come nostra camera quella con il terrazzo, in modo da essere svegliati dal sole dell’aurora. Vi abbiamo messo un letto alto, un po’ fuori moda rispetto ai letti bassi in stile giapponese che andavano tanto di moda quell’anno, ma che a noi piaceva parecchio, con la testiera decorata da grandi spirali di ferro intrecciate tra di loro. Sul terrazzo avrei voluto mettere dei vasi con delle piante di gelsomino, così il profumo dei loro fiori, che si schiudono la notte, d’estate, con le finestre aperte, ci avrebbe inebriato. Le tende le avrei fatte mettere color indaco, vaporose, impalpabili come nuvole. Mosse dal vento avrebbero ondeggiato come il fiocco di una barca a vela. Le due camerette le abbiamo lasciate vuote; la casa era decisamente grandina per una coppia, ma Massimo immaginava già dei frugoletti scorazzare su e giù, che avrebbero riempito di giochi, pianti e risate anche le camerette.
Sui pavimenti, tutti di rovere anticato, leggermente graffiati in più punti ma ancora belli, niente tappeti, non piacevano né a me né a lui. Le pareti dei bagni le abbiamo fatte decorare a mosaico, verdi chiare e blu quelle del primo piano, giallo ocra quelle del piano terra. Il punto forte doveva essere la cucina; abbiamo scelto i mobili di rovere di color bianco crema con il ripiano di marmo marrone, che ben si abbinava alle piastrelle di cotto. Era una cucina classica e importante, con le ante a cornice contornate da colonnine. Il tavolo era grande e rettangolare, di noce. Chissà da quale albero era stato ricavato, in quale bosco era cresciuto, quale muschio aveva respirato? E adesso sarebbe stato con noi, ad accompagnare tutte le nostre colazioni e i nostri pranzi, i momenti più belli che una coppia può condividere. Anche le sedie erano color noce; vi avrei posato dei cuscini rossi e soffici.
Appena fuori dalla cucina, a ridosso della vetrata, avrei messo dei vasi grandi, bianchi, con delle piante di limone, così d’inverno sarebbe stato semplice ritirarle all’interno, dove avrebbero comunque ricevuto moltissima luce.
Alla sala avremmo pensato in un secondo momento; inizialmente ci saremmo accontentati di un divano rosso davanti alla stufa. Niente tv, quella era in cucina, solo una bella lampada a piantana per leggere in comodità e uno stereo con cui
ascoltare della buona musica: solo jazz e leggera italiana per Massimo, molto più versatile la mia, che spaziava dal rock, sia italiano sia in lingua inglese, al pop, dalla musica etnica alla classica, soprattutto Schubert e Bach, così armoniosamente preciso nella sua apparente semplicità.
Bisognava trovare un posto anche per la bambola dall’abito bianco e rosso, un angolino che le desse importanza, che non la fe sembrare dimenticata, da dove potesse controllare tutto con i suoi occhi di bottoni celesti.
Un altro capitolo avente per tema i preparativi delle nozze riguarda la scelta dei lampadari. Io e Massimo eravamo concordi nel considerare la luce uno degli elementi più importanti in una casa, per cui lampade e lampadari avevano un ruolo non indifferente. Quello della camera, di cui entrambi ci siamo innamorati a prima vista, secondo me era un'opera d'arte: era costituito da otto bracci semicurvi rivolti verso il basso, che s'incrociavano alternandosi ad altri otto bracci rivolti verso l'alto. Ogni braccio finiva con un delizioso faretto di vetro a forma di giglio. In cucina, invece, avevamo optato per due lampadari a forma di palla, di vetro rosso, da far scendere sopra il tavolo, a due altezze diverse. Per la sala avevamo pensato a dei faretti a parete, mentre le altre stanze non le avevamo ancora prese in considerazione; il tempo a nostra disposizione, tra lavoro e preparativi vari, non era molto, per cui preferivamo concentrarci sulle cose più importanti. Al resto avremmo pensato in seguito. Del resto, entrare in una casa già completamente arredata ci avrebbe tolto il gusto, negli anni a venire, di arricchirla ulteriormente, di farla crescere insieme al nostro amore.
Per scegliere l’abito per il grande giorno ci siamo mosse in quattro: una specie di viaggio organizzato in cui a fare da guide turistiche erano le commesse. Mamma, Silvia e Virginia non hanno voluto sentire ragioni e mi hanno accompagnato, con l’intento di consigliare, ma anche di curiosare tra le sete e i veli dei vari atelier, esperienza che non capita tutti i giorni. Silvia ha detto che sono stata sciocca a non voler guardare le fotografie degli abiti confezionati dalla sarta di mia suocera. Io però raramente cerco consigli sul come vestirmi e anche con l’abito da sposa non ho avuto grossi dubbi; dopo avere scartato due negozi, dove avevo
provato cinque o sei abiti in tutto, nel terzo sono andata a colpo sicuro; il primo abito che ho indossato è quello che mamma ha acquistato, dando fondo a tutto lo stipendio dell’ultimo mese. Era un abito incantevole, color avorio, con un bustino stretto decorato davanti da fiorellini di velo e perline, guarnito sulla schiena da una fila di incantevoli bottoncini perlati. La gonna si allargava sul fondo, dove dei fiori simili a quelli del corpetto la trattenevano qua e là creando delle balze morbide. Il velo l'avrei scelto più avanti, dopo avere provato l’acconciatura. Le scarpe erano bianco avorio e avevano un tacco di ben dieci centimetri, un cinturino sottile mi avvolgeva la caviglia.
Nel frattempo, tra il fervore dei preparativi, Massimo e io coltivavamo le nostre amicizie, sia le mie che le sue, che a poco a poco si stavano fondendo diventando appunto, le nostre. Eravamo una coppia che cresceva insieme e ci tenevamo a frequentare gente come noi, coppie felicemente sposate o fidanzate. Massimo amava stare in compagnia; vi si tuffava subito e dava presto se stesso. Io ero in genere più lenta negli approcci, avevo bisogno di tempo per affezionarmi alle persone, ma una volta scavalcato il muro della diffidenza e della timidezza, non tornavo indietro: sapevo divertirmi anch’io; le mie amicizie erano poche ma durature.
Una delle coppie con cui cenavamo più frequentemente era costituita da Mario e Silla. Non sto scherzando, si chiamavano proprio così. Silla, con il suo nome da maga, era in realtà una ragazza piuttosto anonima, semplicissima nei modi e nel vestire: non era né bassa né alta, né magra né grassa, né bella né brutta, né intelligente né stupida, ma aveva il grande dono di parlare poco e ascoltare molto. Una qualità in via d’estinzione, come le tigri bianche. Mario, il suo fidanzato ortopedico, lavorava nella stessa clinica di Massimo; era ancora più insignificante di lei, con quel suo modo di fare sempre ossequioso e mellifluo e i suoi occhialini dalla montatura verde davanti agli occhi leggermente strabici, ma Massi (così chiamavo spesso il mio fidanzato) gli aveva ritagliato un posto d’onore tra i suoi migliori amici e a me tutto sommato non dava fastidio. Mario e Silla parevano vivere in perfetta simbiosi, si completavano perfettamente: uno iniziava la frase e l’altra la finiva, uno mangiava preferibilmente carne e l’altra solo primi piatti e verdure, lui raccontava barzellette e lei era l’unica a riderne. Sincera, divertita.
Deborah e Davide erano invece una coppia estroversa, casinista. Nascondevano dietro falsi litigi il loro grandissimo affiatamento. Davide era amico di Massimo fin dall’infanzia. Quando rideva lo faceva col corpo intero: le spalle tremavano tutte, i piccoli occhi cinerini si assottigliavano ancor di più, le mani si agitavano convulse davanti la bocca. Non si separava mai da un borsellino a quadretti scozzesi rossi e verdi che portava a tracolla. Lui e Massimo erano stati vicini di casa per parecchi anni, prima che la famiglia di Davide cambiasse casa e paese. Erano riusciti a non perdersi negli anni, pur avendo intrapreso strade diverse. Davide era commesso in una profumeria, Deborah parrucchiera. Io e Deborah avevamo frequentato la stessa scuola elementare con un anno di differenza, ci eravamo perse negli anni delle medie per poi ritrovarci il primo anno di liceo, prima che lei si ritirasse per iscriversi alla scuola per parrucchiere. Non avevamo molto in comune, ma eravamo sempre andate d’accordo ed è stato bello ritrovarla a fianco di Davide. A sentirli parlare sembrava che la donna di casa fosse lui; lui cucinava, stirava, accudiva ai gatti e alle tartarughe d’acqua, era l’unico uomo di mia conoscenza ad amare l’arte del ricamo e il patchwork. Stare con loro era uno so; con il loro brio sopperivano alla noia che emanavano Silla e Mario.
Anche Serena e Simone si univano spesso alla nostra compagnia. Serena era carina: capelli molto ricci castani e una frangetta che le nascondeva la fronte troppo alta e bombata, gambe snelle e lunghe, pelle bianca di ceramica. Era il genere di persona contenuta, che soppesa i gesti, come fosse imbrigliata. Solo in discoteca, dove ogni tanto mi era già capitato di incrociarla, mostrava sé stessa agli altri: sotto le luci psichedeliche ballava lasciando che la musica la coinvolgesse, trascinandola, sciogliendola tutta. Dal canto mio, dopo la mia assunzione avevo diradato considerevolmente le serate in discoteca; sarebbe stato poco decoroso trovarmi a ballare fianco a fianco con un mio alunno. Inoltre avevo bisogno di andare a letto presto la sera, per concentrarmi totalmente sulle lezioni che avrei dovuto spiegare in classe il giorno dopo. Questo mi dispiaceva perché anche per me la musica era una valvola di sfogo, ma era una rinuncia che ero disposta a fare pur di entrare appieno nel mio ruolo d’insegnante.
Il ragazzo di Serena, Simone, era leggermente più basso di lei, con i capelli biondi leggermente brizzolati, gli occhi di un incredibile azzurro chiaro, la voce calma, sempre pronta a una parola cortese con tutti; un tipo riflessivo che a volte pareva appartarsi fino a sparire, mentre altre volte lasciava uscire bagliori di spensieratezza che poi si impegnava a far rientrare in fretta. Si era laureato lo stesso giorno di Massimo ed era riuscito a guadagnarsi un ruolo abbastanza importante come assistente chirurgo nell’ospedale di Dolo. Immagino che la sua flemma in sala operatoria gli torni molto utile. Quando l'ho conosciuto, ho pensato che fosse quel tipo di medico di cui, se ne avessi avuto bisogno, avrei potuto fidarmi.
Tra questi ed altri amici, la mia preferita era sempre Virginia. Ginni, come solo io e pochi altri la chiamavamo, era stata per tutti i cinque anni delle superiori una compagna di banco formidabile; discreta, non negava mai un aiuto e sapeva non farlo pesare. Era equilibrata e matura, rari i suoi colpi di testa. L’unico aspetto in cui Ginni non era equilibrata era l’uso assurdo dei colori; li amava tutti, dal grigio più cupo al giallo più sgargiante e li sceglieva per il suo abbigliamento abbinandoli in maniera a dir poco inconsueta. Invidiavo questo suo osare: era questo il modo in cui lei si sfogava, in cui apriva le porte al suo essere. Quando l'ho presentata a Massimo mi sono un po' vergognata: era vestita in modo oltraggioso, con un abito al ginocchio accollato con motivi optical che accostavano un rosso carminio a un verde bandiera; mancava solo il bianco per rendere omaggio al nostro tricolore. Mi chiedevo come l'avrebbe accolta Massimo, sempre così curato nel vestire e attento ai dettagli. Lui le ha porto la mano sfoderando uno dei suoi sorrisi affascinanti, senza mostrare di aver notato l'estrosità della mia amica. Malgrado il suo bel carattere e l’impegno negli studi, Ginni non si era ancora realizzata professionalmente; dopo aver fallito il test d’ammissione alla facoltà di farmacologia si era accontentata di un impiego come cassiera in un supermercato che non la gratificava minimamente; non faceva che ripetermi che il suo destino non era contare soldi. Sognava già una famiglia tutta sua e non vedeva l’ora di diventare mamma.
Antonio, il ragazzo con cui stava da tre anni, era di otto anni più vecchio di lei. I capelli superstiti erano già inesorabilmente grigi, il naso un po’ storto su una bocca sottile, gli occhi buoni, da bue, con lunghe ciglia marroni.
Il Natale precedente la data del matrimonio io e Massimo ci siamo concessi qualche giorno in Toscana, l’ultimo viaggio da fidanzati, l’ultimo prima della luna di miele. Non era la crociera che sognavo da una vita, quella l’avevamo programmata per il nostro viaggio di nozze. Secondo Massimo potevamo farne una anche quel Natale, magari breve, qualche giorno sul Mar Rosso, ma io avevo preferito aspettare la luna di miele; il mio sogno sarebbe stato ancora più bello una volta unita a lui dall’anello nuziale. La Toscana andava benissimo. Conoscendo il mio amore per la fotografia, Massimo a Natale mi aveva regalato una nuova macchina digitale, piccola ma completa, con cui avrei potuto sbizzarrirmi. Fissare per sempre un istante, i cambiamenti della luce, l'emozione di un momento è qualcosa di affascinante, un tentativo estremo di contrastare l'inesorabilità del tempo che a; la foto rappresenta ciò che non c'è più, poiché la luce che segue lo scatto è già diversa da quella che lo precede. Che bella la Val di Pesa, dove oliveti e vigneti si alternano in giochi di linee, dolcemente adagiati su declivi obliqui. Il duomo di Siena è unico nella sua bellezza; difficile dimenticare le sue volte azzurre e le stelle dorate, che inducono a pensare al cielo più limpido della più bella notte di San Lorenzo. Anche Arezzo ha il suo fascino, ma Certaldo, che abbiamo visitato in una splendida giornata di sole, mi è piaciuta di più. Il sole invernale, con la sua luce appena tiepida, ha saputo rendere il giusto merito allo splendido paesetto. A San Gimignano invece pioveva e le foto che abbiamo scattato con l'autoscatto ci ritraggono sotto l’ombrello rosso pieghevole che colora anche la pelle. Nessun cenone di lusso a Capodanno, ma una cenetta semplice, pici al ragù, fiorentina, qualche bicchiere di Chianti e noi due, mano nella mano sul Ponte Vecchio. Non amo il vino, ma non si può lasciare la Toscana senza avere assaggiato il Chianti. È mia opinione che quando si visita un luogo bisogna far proprie le abitudini della gente del posto, anche e soprattutto per ciò che riguarda i sapori. Subito dopo la maturità sono stata in viaggio a Praga con Virginia e con altre compagne di classe e ho scoperto con orrore che in alcuni ristoranti servono la cotoletta alla milanese e gli spaghetti al burro; a chi dovesse visitare quell’incantevole capitale consiglierei invece i ristoranti ebraici, dove si mangia della carne gustosissima, spesso accompagnata da panna e mirtilli; sembra strano a dirsi, soprattutto se a sostenerlo è una che, come me, non ama la carne, ma vale la pena assaggiarla. Consiglierei anche di fare attenzione in strada, dato che i Cechi guidano in modo alquanto spericolato.
Durante la vacanza in Toscana, la nostra conoscenza è progredita, come pure la nostra intimità.
Solo un’ombra veniva di sovente ad offuscare la nostra storia d’amore: ero gelosissima del ato di Massimo. Mentre non mi faceva nessun effetto immaginarlo sorridente in corsia in compagnia di una giovane collega o di un’infermiera carina, il sapere che nel suo ato c’erano state altre ragazze mi inquietava non poco. Sarebbe stato ben strano, preoccupante direi se non vi fossero state, data la sua età, ma soprattutto considerando la sua bella persona e il suo carattere aperto e cordiale che facevano di lui un uomo più che attraente.
Anche per me c’erano stati altri amori; si trattava di infatuazioni che vivevo con grande impeto nei primi periodi, ma che scemavano presto nell’indifferenza, per lo meno da parte mia. Ero incapace di stare sola e sostituivo con facilità un amore con un altro. Non c’era però una premeditata cattiveria né tanto meno la volontà di ferire; ero semplicemente incapace di costruire un rapporto duraturo. Il mio cuore era facile a scaldarsi tanto quanto poi lo era nel raffreddarsi, mentre io avrei voluto che fosse grande come il mare e capace di contenere il calore del sole anche dopo la fine della stagione estiva. Questa mia leggerezza mi allarmava e mi portava sovente a chiedermi se sarei riuscita un giorno a dare ai miei sentimenti un corso duraturo; finivo col rispondermi che si trattava solamente di trovare la persona giusta, quella per cui il mio cuore non avrebbe smesso di battere tanto in fretta.
Avevo vissuto un'adolescenza tormentata da amori effimeri, fatti di baci e carezze più o meno furtive, per poi darmi completamente, all'età di vent'anni, ad un ragazzo di qualche anno più grande di me che mi aveva gettata, dopo una sola notte d'amore, come si butta una scarpa vecchia e scomoda, con l'unica spiegazione di essere ancora innamorato della sua ex ragazza.
Un altro ragazzo mi aveva voluto prima come amica e confidente, per poi cercarmi di più fino a farmi innamorare di lui, il tutto mentre stava con un'altra
che diceva di amare. Alla sua ragazza io, in un impeto di lealtà e pena, avevo confidato la verità, ma non ero stata creduta, bensì infangata e accusata di falsità. Questo amore è l'unico il cui pensiero non desta in me alcuna emozione, ma solo la consapevolezza di avere sprecato lacrime per un animo abietto e superficiale, che non sarebbe mai potuto crescere fino a diventare uomo; dei tanti amori avuti è l'unico al quale, rivedendolo, non avrei proprio nulla da dire, tanto è risultato piccolo il suo intelletto per meritare una qualsiasi parola, qualsiasi rimpianto o semplice pensiero.
Di due storie serbo invece un dolce ricordo; di un ragazzo biondo dagli occhi verdi che avevo creduto di amare, probabilmente perché era tanto diverso da me, all'età di diciotto anni, che per un anno mi aveva fatto sospirare di giorno, mentre la notte sognavo la sua maglietta bianca. Gli scrivevo lettere apionate aspettando l'estate per rivederlo, lettere che lui ricambiava con lunghissime telefonate, senza che né io né lui decidessimo se e come cercare di colmare la distanza fisica che ci divideva. Distanza che poi, da fisica, è diventata mentale: non ci siamo più cercati.
L'altro era un ragazzo dagli occhi azzurri e dai lisci capelli neri che temeva di perdere, sebbene avesse solamente vent'anni su per giù. Lo amavo tanto perché ci somigliavamo tanto. C'eravamo presi e lasciati più volte per tre anni, incapaci di dirci addio, incapaci di andare avanti insieme. Ogni tanto aprivo la porta del mio cuore per farlo uscire, ma ogni volta la ione tornava ad unirci. Anche lui cercava a più riprese di andarsene una volta per tutte, impreparato a fidarsi di me e timoroso di amarmi troppo, ma dopo un mese, qualsiasi scusa, come il doversi restituire un cd, bastava a buttarci ancora una tra le braccia dell'altro. Questo tira e molla, all'interno della quale si sono inserite le varie altre storie, sia mie che sue, è durato per tre anni, fino ad agonizzare del tutto.
A volte, se ripenso a lui, sento che è stata la più grande occasione sprecata della mia vita, come se ci fossimo conosciuti in un tempo sbagliato, incapace di custodire per sempre il nostro amore che non dubito essere stato davvero grande.
Poi però era arrivato, finalmente, Massimo a far esultare il mio cuore e mai avrei voluto che qualcosa o qualcuno sopraggiungesse a turbare il nostro rapporto che si andava sempre più rinvigorendo, che volevo vivere davvero pienamente. Avevo paura che anche lui, come me, serbasse del suo ato qualche nostalgia, qualche ricordo d'amore non ancora risolto del tutto. Vivevo insomma sprazzi di ato e squarci di futuro, ma stentavo a vivere il presente, faticavo a concentrarmi del tutto su di noi.
Non mancavo di porre a Massimo domande sul suo ato, spesso con insistenza, anche se cercavo di apparire più curiosa che gelosa, ma lui capiva e sorrideva mentre, abbracciandomi, mi ripeteva che tra le tante ero io l’unica che avrebbe sposato. Erano comunque più frequenti i momenti in cui cercavo di celare in tutti i modi la mia gelosia rispetto a quelli in cui la lasciavo manifestarsi; non capivo, all'epoca, che l'amore è più forte quando sa dimostrare la propria fragilità, quando mostra la sua imperfezione.
Una volta ho fatto una cosa molto brutta che non gli ho mai confessato e di cui ancora mi vergogno: lo aspettavo nella sua camera mentre si faceva una doccia e, invece di continuare la lettura del libro che lui stesso mi aveva imprestato, ho rovistato in un suo cassetto alla ricerca di chissà cosa; alla fin fine, proprio sul fondo, celata tra carte di scarso interesse e foto di lui bambino, ho trovato la foto di una ragazza con cui lui si abbracciava sorridente, in riva a un lago che avrebbe potuto essere il Garda, ma quello poco importava. Era un po' meno alta di me, meno magra al mio confronto, con qualche chilo che secondo me era di troppo, ma ho pensato che forse era così che avrei dovuto essere per piacere di più a Massimo. Una credenza comune dice che gli uomini cercano in una donna la somiglianza con la propria madre e anche la madre di Massimo non è del tutto magra. I suoi capelli erano biondi e somigliavano ai miei, ma il suo viso abbronzatissimo era più solare del mio e meglio si accompagnava a quello di Massimo. Dietro la foto, solamente una data e un nome: Alessandra. Mi sono chiesta del perché lei fosse lì e soprattutto se quella fotografia lo avrebbe accompagnato anche nella nostra futura casa o se se ne sarebbe distaccato per sempre. E così, senza pensarci su due volte, ho messo la foto nella mia borsa, ben nascosta in un taschino interno. Poi, a casa, l'ho riguardata lungamente per l'ultima volta, l’ho ridotta in mille pezzetti gettandola nel cestino e ho cercato di
dimenticarmene; ma non è servito liberarmi della foto per ignorare il suo soggetto, perché il sorriso di quella bella ragazza mi ha fatto compagnia per diversi mesi. Sapevo che con il matrimonio mi sarei sbarazzata per sempre di lei, ma intanto lei c’era e con lei il rimorso di aver fatto un torto a Massimo e di non riuscire a confessarglielo, anche se uscendo dalla doccia mi aveva chiesto a più riprese cosa mi avesse fatto cambiare d’umore con tanta rapidità.
Delle mie tante malattie, quella della gelosia era la peggiore perché non c’era medico a cui io potessi rivolgermi. Mi sentivo quindi ancora più impotente. Avrei tanto voluto confidare i miei patemi almeno a Ginni, l’amica che sempre aveva avuto per me parole di conforto, colei che nel suo carattere aveva tanta dose di buon senso e di pacatezza da compensare i miei squilibri interiori, però avrei dovuto giustificare i miei timori, rivelare l’episodio della foto rubata; ma così facendo, cercando nel contempo il suo sostegno per la mia fragilità, la bassezza del mio animo avrebbe avuto una testimone. Non farlo, rinchiudere quel furtarello in un angolo recondito del mio essere, sarebbe stato come mentire anche a lei. Meglio confidare il vile gesto o nascondersi dietro un'apparente e perfetta felicità?
Quel piccolo segreto era un tarlo che riduceva ancor più la mia autostima; se ero stata capace di tradire la fiducia del mio ragazzo, se riuscivo a guardare in faccia Ginni senza raccontarle una cosa così importante di me, in quali altre meschinità sarei potuta imbattermi in futuro? In quella mia azione vedevo il preludio di segreti più grandi, di altre cose che avrei dovuto in futuro nascondere al mio amore, come ad esempio l’ipocondria.
In quell’anno che ha preceduto il nostro matrimonio mi sono impegnata ancora di più rispetto al periodo precedente nel nascondere a Massimo la mia ipocondria. Lo rendevo partecipe dei miei mali quando raggiungevano un livello d’insopportabilità troppo elevato. I mal di testa erano abbastanza frequenti e Massimo ne attribuiva la causa ai preparativi delle nozze, intensi, e al mio nuovo lavoro che m’impegnava molto, più che altro sul piano psicologico. Dentro di me sapevo che non era il lavoro a causarmi le mie terribili emicranie. C’era
dell’altro, ma Massimo per ora non doveva saperlo; se avessi avuto una brutta malattia, mi avrebbe sposato lo stesso? Lui così bello, lui che aveva il potere di saper catturare l’attenzione delle donne senza dover darsi daffare, non avrebbe aspirato a qualcosa di meglio? Una volta sposatami sarei stata salva; una volta sancita la nostra unione con un sì sull’altare lui non mi avrebbe mai lasciata. Non sarebbe stato nel suo stile da gentiluomo che aveva indubbiamente ereditato dal suo elegante padre. Io avrei potuto allora confidarmi finalmente con lui, che magari sarebbe riuscito a guarirmi. Per davvero. Magari…
Mi sottoponevo ai miei controlli di routine e alle mie solite visite specialistiche senza renderlo partecipe; a volte temevo che a visitarmi potesse essere un suo amico, anche se evitavo accuratamente la clinica dove Massimo lavorava: sarebbe stato molto imbarazzante se lui avesse saputo delle mie malattie tramite qualcun altro.
È anche per questo che contavo i giorni che mi separavano dalle nozze: la resurrezione, la mia salvezza.
10 L'incidente
Prendila come viene. Hai tempo sufficiente per eggiare, correre e anche trafiggere il sole con le tue frecce. Basta che tu non ti agiti e prenda la vita come viene.
JIM MORRISON
Due soli mesi mancavano ormai alla data del matrimonio. Ero andata a fare la spesa. Quel giorno, era giovedì, mia madre doveva lavorare fino a tardi e mi aveva incaricato di sostituirla nelle compere e di cominciare a imbastire la cena. Ero appena uscita da un consiglio di classe, uno degli ultimi di quell’anno scolastico che stava per finire. Mi sentivo piuttosto stanca, avevo nella borsa, che avevo lasciato sul sedile posteriore della mia macchina, un discreto pacco di testi dei ragazzi della terza F da correggere e pioveva, come se fosse ancora inizio primavera. Era stata quella che stava per finire una primavera noiosamente piovosa, uggiosa, come del resto accadeva da qualche anno. Il clima padano mi stava diventando davvero tedioso: troppa pioggia in primavera, troppa afa in estate, troppa umidità in autunno. Gli ultimi inverni erano stati piuttosto freddi, nell’ultimo erano caduti fiocchi grandi come fazzoletti di carta, per tre giorni l’auto di papà e la mia Yaris si erano fatte compagnia in garage poiché era impossibile farle salire, la rampa era ghiacciata e avevamo fatto a turno per usare la Panda gialla di mamma, l’unica che non trovava posto in garage. Ma andava bene così, gli inverni devono essere freddi. Era tutto il resto che non quadrava più. A me il freddo non ha mai dato particolarmente fastidio, ma la pioggia, insistente, subdola, che ti penetra nelle ossa e sembra volertele mangiare, quella proprio non la sopporto. Sentivo l’umido disagio sotto la pelle, che mi scavava le membra e agognavo già la fine delle lezioni, le vacanze ormai prossime, l’arsura dell’estate, la mia ultima estate da signorina.
Nello stesso modo in cui odio la pioggia insistente e interminabile amo i temporali estivi, quando arrivano minacciosi, senza preavviso, irruenti, rombanti, carichi di elettricità, ma soprattutto quando si chetano all'improvviso e lasciano nel cielo l’aria tersa e stupita, i colori nitidi, il profumo dell’erba bagnata, perlomeno in campagna, e la sensazione di uno scampato pericolo.
Forse è proprio a questo che stavo pensando mentre percorrevo il parcheggio sotterraneo del supermercato con la borsa della spesa in mano. L'auto è uscita in retromarcia da uno dei parcheggi laterali. Non andava forte, anzi, ed è per questo che ho dato per scontato che chi era alla guida mi avesse visto. Ho continuato quindi la mia strada senza rallentare, e quando mi sono resa conto che stavo per essere urtata dal paraurti era ormai troppo tardi per scansarsi.
La vita mi avrebbe poi insegnato, non solo per questa esperienza, ma anche per molte altre, che non bisogna mai dare nulla per scontato. Nulla è mai troppo semplice, troppo lineare, troppo banale da non essere preso in considerazione.
Sono stati lunghi istanti di cui ricordo tutto: le luci al neon che improvvisamente non erano più al mio lato, bensì sopra di me, intermittenti e accecanti, le enormi lettere rosse con la scritta “vietato fumare” che si mescolavano tra di loro e si frammentavano nei miei occhi, l’odore delle fragole troppo mature che si accartocciavano in un cre cre dentro i cestini blu, in dissonanza con la dolcezza del miele che si spandeva a terra, la bottiglia di salsa di pomodoro che andava in frantumi, con un rumore sordo e liquido, le arance che rotolavano intorno al mio corpo steso a terra in maniera scomposta: l’arancio, il rosso e il giallo che si mescolavano violentemente come in un quadro di Kandinskij. Jacopo non avrebbe avuto la sua spremuta; e una sensazione di freddo: non l’umidità della pioggia, quella non la sentivo più. Era proprio un brivido ghiacciato che mi percorreva le membra. L’odore acido della salsa che si mescolava al marcio della frutta dei bidoni delle immondizie e al puzzo di muffa dell’impiantito di cemento.
I capelli si stavano sporcando, qualcosa di appiccicoso come fango liquido li lordava fino alle punte. Erano così belli, lunghi, lisci e biondi, fini come fili di seta. La ragazza dai capelli di lino. Che peccato. Non li avevo mai avuti così lunghi. Volevo essere una sposa romantica. Niente acconciature, un cerchiello sottile di perle su cui fissare il lungo velo, qualche boccolo per addolcire le chiome più lunghe.
Mi hanno detto, qualche anno più tardi, che di per sé l’incidente è stato banalissimo, ma che la mia testa ha urtato violentemente contro lo spigolo di ferro che ricopre le colonne di sostegno del garage. Devo avere perso i sensi istantaneamente, ed è per questo che mi chiedo se i ricordi di quegli istanti siano reali o se siano invece frutto della mia mente. Ho letto da qualche parte che noi sogniamo in bianco e nero e che solamente in un momento successivo attribuiamo cromatismo ai sogni, dato che la nostra mente è incapace di prescindere dai colori. Un meccanismo simile a ciò che è successo con l’invenzione della fotografia: le prime fotografie erano in bianco e nero, molte persone le facevano dipingere ad acquerello per riuscire a riconoscere il proprio volto sulla carta impressa. Forse anche la mia mente ha attribuito troppi colori a quel parcheggio sotterraneo.
Dei brevi attimi che sono trascorsi prima che io perdessi i sensi, ciò che ricordo con maggior chiarezza è l’espressione della donna che mi guardava dal finestrino… non è neanche scesa… il suo viso con stampata un’espressione sospesa tra lo stupore e lo spavento, i capelli appiccicati sulla fronte, forse per l’umidità di quella giornata e il rombo… il rumore del motore dell’automobile di grossa cilindrata che terminava la manovra e si allontanava verso la rampa d’uscita del parcheggio. Questo è quello che più mi ha atterrito: il rombo. Mai come in quel momento mi sono sentita sola, inerme. Gli occhi si sono chiusi e non si sono più riaperti per un periodo di tempo lungo come l’eternità.
Sono sicura che quella donna mi ha vista… l’ho letto nei suoi occhi, come se per un infinitesimale barlume di tempo avessimo comunicato tra noi. Eppure non si è fermata, non è scesa, non mi ha soccorso, non ha chiamato nessuno. Massimo
mi ha detto che non devo pensarci, che non si può pensare alle cose che sarebbero potute andare diversamente. È inutile, non serve a nulla, mentre è più utile e salutare fare i conti col presente e da lì partire per costruire il futuro, giorno dopo giorno; eppure mi sono chiesta spesso se l’intervento di quella donna avrebbe potuto cambiare almeno in parte il corso delle cose.
Se lei fosse scesa
Se non fosse piovuto
Se l’ambulanza fosse arrivata più in fretta
Se l’ossigeno fosse arrivato prima
Se avessi avuto i capelli corti corti e non avessero perso tempo a tagliarmeli
Se la sala TAC fosse stata subito libera
Se il neurochirurgo che mi ha operato si fosse infilato i guanti più in fretta
Se la sala operatoria fosse stata subito pronta
Se l’ematoma fosse stato meno esteso
Tanti se a cui, adesso, non ha più senso pensare.
11 Preghiere e commenti
A Dio, alla Madonna, ad Allah e a chiunque altro sia in ascolto
«Se si sveglia ricomincerò ad andare a messa». Papà Angelo
«Prendi me ma lascia stare lei». Nonna Carla
«È commissario interno agli esami, chi ci aiuterà adesso? Dio fa che si svegli. Subito». sco, un alunno dei meno brillanti della quinta F
«Se si sveglia prometto di studiare di più. Farò meno domande, le farò perdere meno tempo». Marcelo
«Appena si sveglia la sposo, qui, in ospedale. Non m’importa dell’abito, del pranzo, dei parenti. Adesso chiamo Mario e mi faccio portare gli anelli». Massimo
«Madonna mia, perché proprio a lei? Era così felice in questo periodo, non l’avevo mai vista così serena». Ginni
«Che tragedia. Speriamo che si salvi». Bruno, lattaio, amico d'infanzia di nonna Carla
«Povera ragazza, povero Massimo… e chissà cosa starà ando quella povera mamma! Vorrei telefonarle, ma cosa dire per consolarla? Eppure devo... domani». Ines, la mamma di Massimo
«Non prenderò più le sue scarpe senza chiederglielo e neanche i vestiti. Neanche se muore. Dio, cosa ho detto?! Dio fa che si svegli, ti prego». Silvia
«Ero in camera con sua madre quando abbiamo partorito, sono nate con una sola ora di differenza e sono amiche da una vita. Speriamo bene». Verena, la mamma di Ginni
«Non capisco niente, non so più cosa dire, cosa fare, cosa pensare. Ho mal di testa». Mamma Elisa
«Dio bon che sfiga». Jacopo
«Dov’è finita la padroncina, quella più antipatica? La sua macchina è qui ma lei non si vede più». Gustavo, il cane
«Corro subito in ospedale, il tempo di comprare un fiore. Appena si sveglia ve la saluto, poi organizzeremo una festa per il giorno in cui tornerà». Marianna
«L’intervento è riuscito. Ora ci mettiamo nelle mani di Dio». Il dottor Anselmi, primario di neurochirurgia dell’ospedale dell’Angelo, Mestre
«Ma chi ha potuto essere così bastardo? Speriamo che si svegli, speriamo che lo prendano». Paolo
«Con tutto quel casino che c’è sempre lì, possibile che a quell’ora non ci fosse nessuno, nessuno che ha visto?» Corrado
«Non parcheggio mai lì sotto. Mi fa paura» Patrizia
«Neanch’io ci andrò più in quel parcheggio. Anzi, cambierò anche supermercato. Adesso mi fa impressione…» Serena
«È… come dire?» Mario
«Terribile». Silla
«Già, proprio così, terribile». Mario
«Mamma mia, cosa mi racconti! Cosa possiamo fare, possiamo andare a trovarla?» Deborah
«Non credo che ci facciano are». Davide
«Una gran brutta botta. Ma Anselmi è il migliore. Preghiamo per lei, che ce la faccia. Certo, ci vorrà del tempo, tanto tanto tempo. E pazienza». Simone
Il destino a volte è proprio sottile, sottile come un filo...
TREVISO - Un bambino di un anno e mezzo è morto dopo essere stato travolto da un camper, durante una manovra di retromarcia, nel giardino di casa. Il fatto è accaduto a ………, in provincia di Treviso. Sul posto sono arrivati i carabinieri. (...) Il bambino è stato subito soccorso e trasportato in elicottero all'ospedale di Oderzo, dove però è morto poco dopo. (18 giugno 2008)
09/08/2008 12:59
VENEZIA - Pare l'effetto di una bomba ciò che resta sulla corsia per Trieste della A4 dopo lo schianto fra due Tir e tre autovetture: sette i morti tra le fiamme, in un groviglio di auto e camion che trasforma l'autostrada delle vacanze in un inferno. Una giornata di esodo verso il mare è diventata un'altra strage da aggiungere alla lista dei più gravi incidenti stradali italiani. Ancora una volta è stato il salto di carreggiata di un Tir ad innescare il finimondo sulla Venezia-Trieste, tra Cessalto (Treviso) e San Donà (Venezia), un'arteria dove in giorni come questo ano anche 140 mila veicoli.
2009 PRIMI NATI, FIOCCHI ROSA
Montebelluna – Sono di bambine i primi vagiti dell’anno. La prima nata in assoluto nell’Usl 8 è stata Lara. È venuta al mondo alle 2,12 del 1 gennaio.
Alle 16.15 A …........ un motociclista ha investito due ragazzine che camminavano sul marciapiedi di via Trento e Trieste. Le condizioni delle due ragazzine di 14 e 15 anni sono molto gravi. Sul posto è giunto l'elisoccorso del 118 insieme a diverse ambulanze. Intanto è scattata la caccia al pirata della strada in tutta la zona. Decisive le testimonianze di alcune persone che hanno assistito alla scena. (14 Marzo 2010)
PADOVA – Ludovica ce l'ha fatta. Era nata nell'ospedale cittadino sette mesi fa, a sole trenta settimane di gestazione, con gravi complicanze cardiache. Dopo essere stata sottoposta immediatamente a un delicato intervento, era stata affidata alle cure del reparto di neonatologia. Adesso la piccola è fuori pericolo, sarà presto dimessa e potrà aspirare ad una vita normale. (19 giugno 2010)
12 Risveglio
Ogni vero ricordo è ancora un richiamo, una verità che ci lavora nelle ossa, un febbrile atto di sfida al buio di domani.
GIOVANNI ARPINO
Nella vita di ognuno c’è una data importante che segna l’esistenza in maniera inequivocabile, una data che si distingue da quella dalla nascita e da quella della morte, ma che tra queste si situa nel mezzo, da qualche parte lungo la linea della vita; per qualcuno è il giorno del matrimonio, per altri la nascita o la perdita di un figlio, per taluni una vincita milionaria. Anche il mondo ha una sua data, dopo la quale tutto è stato diverso da prima: è l’ 11 settembre 2001. Anch’io ho la mia data ed è il giorno dell’incidente, o forse quella del risveglio. Fa lo stesso, dal momento che quello che sta in mezzo è un vuoto che faccio fatica a considerare parte di me.
Mi sono risvegliata dopo due anni di coma [giugno 2008-giugno 2010], ma ce n’è voluto un altro prima che io riacquistassi del tutto la memoria. Ho camminato come un' acrobata sul filo sottile che divide la vita dalla morte; avrei potuto svegliarmi, come sprofondare per sempre nell’abisso. Il filo sottile è spesso impercettibile. È quello che abbiamo paura a saltare.
Io mi sono svegliata, se così si può dire. Il coma non è come il sonno. Se dormi ti possono svegliare in qualsiasi momento, nello stato in cui mi trovavo io il risveglio era solo una delle due possibilità.
In quei due anni mia mamma è stata una presenza costante al mio fianco, ava con me diverse ore al giorno; Silvia e papà venivano quasi tutte le sere, a turno si fermavano la notte. Jacopo veniva a trovarmi tutti i sabati pomeriggio e la domenica mattina, anche Virginia rubava un po’ di tempo alla sua nuova casa e al suo sposo per stare con me. I dottori non facevano entrare tutti; un vetro trasparente divideva i miei cari dallo stanzino in penombra in cui stavo.
Nonna Carla veniva quando poteva, quando qualcuno l’accompagnava; si era messa in testa che se mi avesse raccontato la fiaba che mi narrava sempre da piccola, la mia preferita, io mi sarei risvegliata. Il principe granchio è una fiaba della tradizione veneziana e narra di un principe rinchiuso in una scorza di granchio per colpa dell' incantesimo di una fata. Una principessa scopre l’arcano e libera il principe suonando una musica dolcissima, che riesce a incantare la fata. La fiaba si conclude con le nozze tra i due.
È stata l’infermiera che più mi ha accudito negli ultimi mesi, Emma, a riferirmi che la nonna mi ripeteva all’infinito Il principe granchio, con la sua voce calma, profonda, cantilenante. Se non la facevano entrare, lei appoggiava le sue mani grosse, macchiate, da contadina, sul vetro, a sostenersi, a cercare un contatto. E raccontava, annebbiando il vetro con il suo alito di vecchia. Io non mi sono risvegliata con la fiaba, ero come il principe, rinchiusa in una scorza che m’impediva di sentire una delle voci a me più care. In compenso Emma, che è originaria dell’Aquila e che ha chiesto di essere trasferita qui dopo il terremoto del 2009, perché non riusciva più a convivere con le immagini desolanti della distruzione, ora ha fatto sua questa fiaba, che è diventata la preferita di suo figlio. Io del terremoto non sapevo nulla, prima che Emma me ne parlasse. A volte mi è venuto da pensare che molti concittadini di Emma avrebbero preferito essere al mio posto, prigionieri in uno stanzino come il mio, imbrigliati in un corpo inerme, ignari di tutto, ciechi e insensibili alle tragedie, piuttosto che dover assistere impotenti alla distruzione della propria città, delle proprie abitazioni, della propria vita. Io dalla mia scorza sono uscita, molti Aquilani non ce l’hanno fatta a rinascere dalle macerie, segregati per sempre nel buio della terra. Terra che concede la vita, salvo poi riprendersela in momenti che non sono mai quelli giusti. Il dramma vissuto dalle famiglie aquilane è molto più grande di quello che la mia famiglia ha dovuto sopportare.
Dicono che sono stata molto fortunata a non riportare danni permanenti; in effetti adesso ricordo la mia vita, cammino, parlo, e con qualche altro anno di fisioterapia dovrei riacquistare del tutto la motricità fine che ho in parte perso in seguito all’incidente, per cui al momento fatico a tenere la penna in mano (figuriamoci un gessetto), non riesco a sbucciare una mela né ad agganciarmi una collana al collo. I primi mesi dopo il risveglio mi lamentavo spesso, ma i medici, i miei genitori, Jacopo, Silvia e Massimo (Massimo!!) insistevano nel ricordarmi quanto io fossi stata fortunata. Sempre che si possa parlare di fortuna quando a due mesi dalle nozze ti ritrovi in un letto di ospedale, in uno sgabuzzino asettico, collegata a un complicato e ingegnoso macchinario da cui dipende la tua vita. Ci metterei quelli del Grande Fratello lì dentro, a fare assistenza alla gente fortunata come me. Non farei vincere nessuno, i soldi li darei a tutti i concorrenti… sarebbero davvero ben guadagnati.
Massimo, mi chiedo perché tu, dottore che hai sempre parlato con me dell’importanza di risvegliare i pazienti tramite i loro ricordi e le loro ioni, mi abbia fatto ascoltare Antonello Venditti; l’ho sentito, sai, non so come, per quale miracolo della natura o della scienza, ma io a tratti brevi e spezzati sentivo. Inerme su quel letto, devo esserti sembrata un patetico manichino, incapace com’ero anche di alzare un sopracciglio per farti capire che ascoltavo, che in qualche modo c’ero, che ero ancora tenacemente attaccata alla vita come l’edera al muro. L’edera mi fa venire in mente Montale, poeta che ho sempre amato, al pari di Leopardi. Forse, se tu mi avessi letto il Canto del pastore errante per l’Asia oppure una poesia di Montale, o se tu mi avessi fatto ascoltare One degli U2, o una canzone qualsiasi dei Doors, i miei sensi avrebbero cominciato a reagire. Le vibrazioni delle note avrebbero messo in moto altre vibrazioni, che sarebbero corse come lampi lungo le strade delle mie membra assopite. Anche Tu che dormivi piano di Vasco Rossi forse avrebbe potuto funzionare, per conciliare il mio sonno lungo e profondo. Invece ho sentito Venditti, che tanto piaceva a te e tanto ho ascoltato con la tua autoradio, ma che non era il mio cantautore. Non te ne faccio una colpa, Massimo, e non incolpo nemmeno Antonello. Non mi è mai piaciuto, ma, ripeto ancora una volta, al cuore non si comanda e anche la musica nasce dal cuore e al cuore si riconduce.
Di quei lunghi mesi, anni di ospedale ricordo ben poco. Anni senza stagioni, senza odori, senza sapori, solo qualche suono di tanto in tanto, qualche raro bagliore di cui ignoravo la provenienza. Un uccello senza vento, incapace di volare. Un pesciolino nell’acquario, che vede il mondo attraverso un vetro opaco, che sente i rumori attutiti dall’acqua, che apre la bocca per parlare ma è incapace di emettere suoni… o forse cerca di respirare. Due anni di vacanza forzata, un intervallo che il mio corpo si è voluto prendere, una pausa dalla frenesia della vita.
Nemmeno la tua voce, Massimo, ricordo di avere sentito, eppure mi hai e mi hanno detto che c’eri, che anche tu hai ato interminabili giorni accanto a me, a quella ragazza con cui avresti dovuto condividere ben altri letti. Oggi accanto a me i volti di mamma, papà, Jacopo e Silvia ridono, ma posso solo immaginare la disperazione che deve averli accompagnati mentre io ero lì, fragile burattino buttato in un angolo che aspettava il suo burattinaio per tornare a recitare nel grande spettacolo che è la vita, orologio scarico in attesa del dio demiurgo che lo ricaricasse.
Anche del giorno del mio risveglio ho vaghi ricordi. Ancora quella luce accecante, rumori indistinti, i e voci concitate, dei vetri in frantumi e poi il viso di mamma e le sue lacrime, e io che tentavo di chiedere “perché piangi”, ma che non trovavo la voce per articolare le parole.
Al di fuori di mia madre, la persona che più mi è stata vicina in quei due lunghi anni di coma, presenza costante e giornaliera accanto a me, la mia mente era tabula rasa. Non ricordavo nulla, né del resto della famiglia, né del mio nuovo lavoro. Massimo è venuto sempre a trovarmi nei giorni, nelle settimane successive il mio risveglio, ma il suo bel viso era per me un volto estraneo, come quello dei fotomodelli che ti guardano dalle copertine dei giornali o dai poster delle vetrine dei barbieri; il suo essere, che pure avevo amato così fortemente, ora era per me una terra sconosciuta. I suoi begli occhi non parlavano al mio cuore. Appena mi ha detto di essere il mio fidanzato mi sono sforzata di sorridergli con la mia bocca un po’ storta sul viso diafano, giallognolo, ma credo
che il mio gesto possa essergli sembrato poco più di una smorfia. Cos’è difatti un sorriso se non sgorga direttamente dal cuore?
Il giorno dopo il mio risveglio, due infermiere sono entrate nel mio bugigattolo, mi hanno sollevata di peso adagiandomi su un letto con le ruote e mi hanno accompagnata in una stanza più grande, luminosa. Dal mio letto, ancora non potevo alzarmi, vedevo uno sguincio di cielo, un triangolino colorato di grigioazzurro cittadino, di smog che tentava di dissolversi senza riuscirci. Ma, meraviglia delle meraviglie, in quel piccolo scorcio di cielo, su un pilone di cemento di un grande parcheggio a più piani in costruzione, una cicogna aveva costruito il suo nido. Visione davvero insolita per chi, come me, aveva come punto d’osservazione una delle centinaia di finestre dell’ospedale di Mestre. La cicogna mi ha fatto compagnia per tutti gli ottanta giorni in cui ho occupato quella stanza. Chissà se anche i miei vicini di stanza erano incantati davanti a quel miracolo? Non ricordavo di aver mai visto prima di allora una cicogna, o forse sì, da piccola, allo zoo di Lignano. Cosa l’aveva spinta a costruire il nido proprio lì? Sono gli Indiani o i Cinesi che vedono nella cicogna un simbolo di longevità? Noi occidentali associamo la sua comparsa alla nascita di un bimbo; anch'io, in quei giorni, vivevo la mia rinascita. Ho letto in quella visione un segno del destino, ho sperato che potesse diventare il mio portafortuna, come il medaglione di Marianna. Che verso fa la cicogna? Come piange, come chiama i suoi piccoli? Questo non lo so. Negli anni successivi ho ripensato molto spesso a quella cicogna. Non ne ho più viste.
La settimana dopo, con l’aiuto di Emma, sono riuscita ad alzarmi. Ho lasciato sul caldo lenzuolo immacolato il segno della mia figura magra, esangue, qualche capello corto e castano sul cuscino. Ho voluto affacciarmi alla finestra, aprire quel vetro lindo all’interno e chiazzato di sporco all’esterno. Volevo aspirare lo smog della città, aria malata di mille e mille anime, anime malate ma vive, dimenticarmi di quell’altra aria malata, la mia, stagnante dietro le mie spalle. La luce abbagliava i miei occhi, non più usi a tanto chiasso. Il lembo triangolare di cielo si è allargato intorno alla cicogna, si è fatto prima trapezio poi grande rettangolo: in fondo, il sole friggeva su un cielo già fin troppo estivo, i suoi raggi si mescolavano fino a fondersi con i fumi delle ciminiere. In basso, un misero parchetto, un fazzolettino verde nel grigio dell’asfalto, uno scampolo di vita
normale; due inservienti paffute, forse polacche, si erano tolte le calze bianche e ridevano fumando una sigaretta che si avano l’una con l’altra, mezze sdraiate su una panchina, ubriache di vita, il viso rivolto al sole, gli occhi chiusi, a cercare un po’ di colore per i loro visi diafani. Un degente anziano, col suo liso pigiama a righe, da carcerato, camminava lento all’ombra di un muretto, lo sguardo spento e malato al cielo, la mano aperta sulle sopracciglia. Mi è sembrato di scorgere un rapido guizzo nei suoi occhi. Chissà se anche lui l’aveva vista, lassù, immota e rasserenante come la luna piena.
In quei due anni in cui la mia vita si era fermata su un letto d’ospedale il mondo aveva continuato a girare, con i suoi giochi politici, le sue guerre pseudo sante, le sue meraviglie e le sue schifezze, i suoi miracoli e le sue efferatezze; in televisione primeggiava ancora Berlusconi, un po’ invecchiato ma intrallazzato con ragazzine sempre più giovani; Obama aveva deluso i suoi elettori per motivi che non conoscevo, perdendo voti nelle elezioni di medio termine; Napoli era ancora sommersa dai rifiuti, la monnezza. Solo al pensiero dell’odore mi sento salire la nausea, più alta della marea di Venezia il giorno dell’esame di se. Vittorio Sgarbi era ancora uno degli ospiti d’onore nei vari talk show, dove continuava a sparare invettive che alternava a cenni sublimi di lezioni d’arte, ma la parte del principe la faceva Roberto Saviano, che la faccia del principe non ce l’ha proprio ma in quanto a dialettica non è secondo nemmeno a Sgarbi.
Durante il mio secondo anno di ospedale, un nuovo tipo di influenza aveva messo in grande allarme il mondo intero e i governi dei vari stati avevano acquistato scorte incredibili di vaccini, salvo poi accorgersi che quel tipo di influenza non aveva nulla di diverso da quelle tradizionali. Anche Jacopo l’aveva presa, senza nessuna conseguenza particolare: un po’ di febbre e qualche giorno a casa da scuola, coccolato da mamma come un bambino. Certo, se io fossi stata cosciente ne sarei stata terrorizzata, non ho dubbi su questo. Probabilmente sarei stata la prima a mettermi in coda per il vaccino, avrei avuto il terrore nell’entrare in posti affollati come i centri commerciali nei week end, non sarei più potuta andare al cinema, anche recarmi a scuola sarebbe stato un problema. In Cina avevano inventato delle mascherine disegnate con sorrisi e ghigni. Per proteggersi dal contagio, per distinguersi uno dall’altro. I Cinesi si assomigliano tutti, come i eri, e quando possono inventare qualcosa per
differenziarsi lo fanno.
Corrado, che tra i suoi interessi mette sovente al primo posto l’economia mondiale, la prima volta che è venuto a trovarmi con Silvia mi ha detto che, dormendo per così tanto tempo, ho avuto modo di evitare di vivere una delle più brutte crisi economiche mondiali degli ultimi secoli; io però credo che anche se fossi stata cosciente non me ne sarei accorta più di tanto, non avendo mai capito molto di economia mondiale.
Tre mesi circa dopo la degenza che è seguita al risveglio mi hanno dimesso. Ero tornata a casa da pochi giorni e la tv trasmetteva immagini dal Cile, dove trentatré minatori venivano estratti vivi da una miniera che li aveva imprigionati per più di due mesi, rischiando di diventare la loro tomba. Questa notizia mi ha impressionato molto. La miniera era stata per loro come per me l’ospedale; la loro vita si era fermata e ora stava per ricominciare fuori dalle viscere della terra. Mi sono chiesta se qualcuno di quei minatori avrebbe scritto un libro per raccontare quella incredibile e tragica esperienza; a differenza di me, che dei due anni di buio conservavo solo il ricordo di qualche sprazzo di luce fugace, loro avrebbero davvero potuto raccontare nei dettagli quei lunghi mesi nelle tenebre.
Non deve essere faticoso ricordare e narrare esperienze della vita conclusesi con un bel lieto fine; altra cosa è dover narrare storie che sono veri e propri drammi.
In quello stesso periodo, in un torrido giovedì di fine agosto, una ragazzina pugliese era stata uccisa; il suo sorriso, che si rincorreva da un canale all’altro della televisione a ogni ora del giorno, era quello di una bambina; la sua vita non si era fermata per poi riprendere in un altro posto, in un altro tempo… era stata portata via per sempre. Chi l’ha uccisa, non ha poi così importanza. Quello che è terribile è che per lei non ci saranno più sorrisi né gite al mare con le amiche. Nel suo diario, fatto di sogni, aspettative, sfoghi di una giovane adolescente, non ci sarebbero più state confessioni da scrivere.
Mai più.
In quei giorni, nel notiziario delle tv locali venete aveva fatto notizia anche il fatto che alcune mamme avessero rubato in un centro commerciale video games e altri giochi, occultandoli sotto le coperte delle carrozzine dei loro bebè. Si erano prese per tempo, in vista del Natale. Il tempo a volte a troppo in fretta, torni dalle vacanze estive, ti pare che manchi tanto al Natale e il giorno dopo invece ti ritrovi le scorte di panettoni in bella vista al supermercato, le luminarie dei negozi accese e gli scaffali pieni di giochi. Ecco un’altra cosa che non potrei sopportare se un giorno avessi dei figli: non avere la possibilità di comprare loro i giochi a Natale. Come glielo spiegherei? Si può spiegare a un bambino che il lavoro di mamma e papà non va più tanto bene, che i soldi che guadagnano sono troppo pochi per andare in vacanza, ma come si può spiegare a un bambino che Babbo Natale si è dimenticato di lui? Non si può.
E quando arriva il giorno in cui veramente Babbo Natale si dimentica di te ti ritrovi grande.
Memoria è sinonimo di vita: le cose che non si ricordano vanno perse inesorabilmente, è come se non fossero mai state vissute. Anche per questo ritengo che scrivere un diario, delle memorie, un'autobiografia, così come scattare fotografie, siano gesti che ogni uomo, a seconda delle inclinazioni personali, dovrebbe far propri.
Un giorno di ottobre, l’undici, per la precisione, a poco a poco, ho iniziato a ricordare. Pioveva, anche quel giorno lì, ma non come il pomeriggio del supermercato (a proposito, riuscirò mai più a fare la spesa?), più intensamente, quasi un fortunale fuori stagione. C’era anche molto vento e la pioggia batteva forte sui vetri della finestra della mia camera. Le imposte non erano state chiuse, mamma se n’era dimenticata ed era uscita per delle commissioni. Le sentivo
sbattere con tonfi ritmici e sordi, quel rumore mi rimbombava martellante nella testa, ma non avevo voglia di alzarmi per chiuderle. Ero ancora debolissima nelle gambe, faticavo ad alzarmi dal letto e a muovere anche solo pochi i. Facevo ogni giorno due ore estenuanti di fisioterapia.
La memoria lavora in modo strano. La mia, nei momenti in cui cominciava a funzionare di nuovo bene, assomigliava a quella dei vecchi. Dal giorno del risveglio godevo di buona memoria, ma solamente per quel che riguardava il dopo risveglio. Ricordavo cosa mi portavano da mangiare le inservienti, i nomi di tutti i dottori e le infermiere, che non finirò mai di ringraziare e ammirare, che si davano un gran daffare attorno ai miei tubicini, ma non riconoscevo le amiche di vecchia data che venivano a farmi visita, nemmeno Ginni, che si prodigava nel raccontarmi aneddoti di scuola e di vita vissuta insieme, come quel ferragosto in cui avevamo dormito in spiaggia, dopo aver ato la serata al Villa. Io ridevo con lei che mi descriveva il modo in cui c'eravamo vestite, con i pantaloni a zampa, le bandane variopinte e le canotte a fiori, cercavo di figurarmi le nostre figure sorridenti e colorate, ma in realtà non ricordavo nulla di quell'episodio.
Quell’undici ottobre, invece, ho cominciato col ricordare davvero: il primo giorno di scuola, ma non al liceo Parini, bensì alle elementari. Giorgia, la prima bimba con cui ho fatto amicizia, la mia maestra ebrea, che è in pensione da un bel po’ e che adorava la matematica, la sagra, le giostre, quel giorno sull’autoscontro viola con mia cugina che urlava perché io guidavo apposta male per il solo gusto di spaventarla, la canzoncina della tartarughina piccolina che la sera non si addormentava e stava sveglia fino alla mattina, perché non c’era chi la consolava, che mia mamma mi cantava la sera per farmi addormentare e che avevo dimenticato da tanti anni.
In compenso faticavo di più con la memoria a breve termine, tanto che mi capitava la mattina di lavarmi più volte il viso perché dimenticavo di averlo già fatto. Queste cose facevano divertire Jacopo che, per sdrammatizzare la situazione, mi prendeva in giro e rideva a crepapelle, chiedendomi diverse volte
al giorno se mi ero ricordata di lavarmi la faccia. Quel viso che stentavo a riconoscere come mio, ora che i miei capelli erano corti e castani, le guance scavate, gli occhi stanchi, la pelle slavata come non ricordavo di avere mai visto.
Ogni giorno che ava i ricordi riaffioravano più nitidi, come quando la nebbia si dissolve al sole… sole che svela i colori, che disappanna la vista. La mia testa era spesso dolorante e confusa, per il troppo sforzo cui era sottoposta.
A mano a mano che mi tornava la memoria mi sforzavo di ammassare nella mente tutto ciò che mi sovveniva, timorosa com’ero al pensiero che una nuova amnesia mi cogliesse strappando nuovamente il mio ato dal mio presente; facevo come quando all’università e in particolar modo quando studiavo per esami impegnativi, come letteratura italiana o filosofia generale, cercavo connessioni tra le nozioni di cui mi infarcivo, creavo schemi mentali in cui collocare le informazioni in base a nessi logici o a giochi linguistici che le univano, in modo da ripescarle successivamente con maggior facilità.
Non mi rendevo conto dell’assurdità del mio comportamento; quelli che mi balzavano in mente non erano titoli di opere scritte da altri, né nomi di mari, fiumi, monti e città (certo, c’erano anche quelli, ma non era di essi che allora ero ghiotta), bensì paragrafi della vita che avevo vissuto e che non avevano bisogno di tecniche di memorizzazione per essere trattenuti, poiché già mi appartenevano. Era come se finalmente un esserino dentro di me mi dettasse le righe dell’opera che da sempre avevo voluto scrivere e, riga dopo riga, la trama si formava per me che ne ero anche l’inconsapevole protagonista, sempre più appagante. Era come se un mago tirasse fuori dal suo cilindro fazzoletti colorati e coniglietti bianchi, solo che per me la magia era ancora più bella: dalla mia testa sgorgavano continuamente ricordi, tasselli della mia vita, tessere di un mosaico che si andava componendo in incantevoli accostamenti di colori; perché questa vita, la mia vita, era proprio bella.
13 Disincanto
L’uomo ama e onora l’uomo fino a che non è in grado di giudicarlo, e il desiderio è frutto di una conoscenza incompleta.
THOMAS MANN
Quei primi giorni in cui i ricordi sono riaffiorati alla mia mente sono stati tra i più belli e ricchi della mia esistenza; flash back continui, un film che si svolgeva davanti ai miei occhi in cui io ero l’incontrastata protagonista, la diva che si muoveva tra finzione e realtà, la dea rinata alla vita.
Dopo, poiché non esiste un mondo di pura gioia se non alternata ai dolori, è arrivato anche il tempo del disincanto.
Ho cominciato a chiedere di Massimo; a poco a poco, durante le ultime settimane, le sue visite erano andate diradandosi, ma io non me ne ero data pena. Lui nei mesi precedenti si era comportato come un bravo fidanzato, eppure io non lo sentivo dentro di me, anche se cercavo di imporre al mio cuore di innamorarsi nuovamente di lui. Inizialmente Silvia, che interrogavo continuamente, ha divagato; poi Massimo, una settimana dopo che avevo cominciato a chiedere di lui, è venuto a trovarmi e, molto semplicemente, con il candore che spesso gli avevo letto nello sguardo, mi ha detto di essersi innamorato di un’altra. Io lo guardavo e mi rendevo conto dell’assurdità della situazione: più lo osservavo e più ricordavo i momenti che avevamo vissuto insieme ma, soprattutto, i sentimenti che per lui provavo e che a lui mi univano. E, paradossalmente, più rimembravo, più avrei voluto tornare a scivolare nel buio del non ricordo. Credevo che certe cose potessero accadere solo nelle soft-
opera, oppure che fungessero da trama per quei romanzetti strappalacrime che tanto andavano di moda nell’Ottocento; io ero la povera ragazza che aveva perso la memoria e che era stata per di più abbandonata dal fidanzato per una fanciulla sicuramente più avvenente (dato il mio aspetto dopo l’incidente) e quasi certamente di una classe sociale più consona a quella del fidanzato. Solo che io non portavo le gonnellone lunghe e vaporose di due secoli fa e il mio essere claudicante si notava maggiormente rispetto a quello delle eroine, almeno finché la fisioterapia non avesse sortito gli effetti che io e i medici che mi avevano in cura speravamo.
Finalmente, dopo il mio lungo peregrinare per i vari studi medici, prima dell’incidente s’intende, avevo incontrato un neurologo e una fisioterapista che si stavano prendendo cura di me con cognizione di causa. Che fosse perché per la prima volta ero davvero ammalata? Mi trattavano con grande professionalità, elargendomi cure amorevoli senza che mai trapelasse il sentimento della pena che invece scorgevo a volte negli occhi dei miei conoscenti. Del resto, per quei medici ero solo una delle tante pazienti che riempivano le loro agende, come i nomi degli alunni negli elenchi dei registri degli insegnanti: noi pazienti abbiamo bisogno dei medici per tornare a una vita normale tanto quanto loro hanno bisogno di noi per lavorare. Comunque stessero le cose, io mi sono finalmente affidata a questi due medici senza riserve, lasciando a loro e basta il compito di diagnosticare, prescrivere, curare, lavorare con il mio corpo che aveva bisogno di essere modellato nuovamente per cercare di tornare bello e soprattutto funzionale come era stato. Non mi sono più data la pena di pensare se quello che dicevano o facevano fosse più o meno sensato ed efficace, ho semplicemente dato per scontato che lo fosse perché così doveva essere, senza più riserve.
Quel giorno in cui è venuto a dirmi del suo nuovo amore (chissà se anche lei, come me, pensava di essere l’ultima della lunga serie, la prescelta per tutta la vita), Massimo era incredibilmente bello, come era sempre stato, tuttavia nel suo sguardo c’era un non so che di patetico che me lo rendeva meno attraente, una luce che non gli avevo mai scorto prima; anche la voce sembrava non appartenergli più, come se egli ne controllasse anche i toni, oltre alle parole, che sceglieva con cura mentre mi parlava, anche se era ovvio che si trattava di
motivazioni che più e più volte doveva essersi ripetuto tra sé e sé prima di farmi visita. Ha pianto, con lacrime grosse come quelle di un bambino che mi hanno stupito, dato che mai lo avevo visto piangere, né di gioia né di dolore, e mi ha detto di sentire come un grumo di fango al posto del cuore, ma di non poter farci nulla. Era successo e basta.
Dai miei occhi invece le lacrime non riuscivano a sgorgare, come fossero imbrigliate tre le ciglia. Per me è stato come battere di nuovo la testa in quel maledetto spigolo di ferro, solo che stavolta ero lucida, non stavo scivolando in quella galleria buia di torpore che, nella sua tragica essenza, ha anche il potere benefico di preservarti dai dolori della vita. Avrei voluto pizzicarmi per essere sicura di essere davvero sveglia, urlare, pregarlo di restare ancora un po’ con me, di darmi tempo, ora che ero di nuovo dentro di me, ora che anche lui era tornato a vivere nei miei ricordi e nel mio cuore, ma così sarei sembrata ancora più patetica. Sentivo le gambe tremare, la vista appannarsi; non stavo sognando, stava succedendo davvero, se ne stava andando via come le navi che lasciando il porto scivolano verso il mare aperto, placide, senza strilli, mentre il grumo di fango che lui sentiva al posto del cuore io l’avevo in gola e mi toglieva il respiro, le parole. Neanche un po’ di saliva in bocca, sudore e freddo sulla pelle. Mi sentivo annaspare come un essere che sta per annegare e cerca disperatamente una boccata d’aria; cercavo una scialuppa che mi issasse e mi riportasse su quella nave che non volevo abbandonare. La mia nave sicura che camminava verso la vita senza di me. La scia che si assottigliava sempre più.
Così, come spesso capita. Ci sono coppie che stanno insieme una vita e poi si lasciano perché si accorgono di non amarsi più, ma non sanno dire quale sia stato il momento preciso in cui l'amore che le ha unite a lungo si è rotto. Non sanno spiegare se sia stato per i figli che non hanno avuto o per quelli che hanno cresciuto insieme, se c'entrino i troppi odori condivisi o le poche parole dette. Le cose succedono e basta, senza un motivo ben preciso. E così è stato anche per noi due. Il filo sottile che ci legava, quello che unisce due persone che si vogliono bene, quello che le fa sentire vicine anche quando sono lontane si era spezzato. Una sforbiciata netta, irreparabile. In un solo istante i miei sogni, il nostro matrimonio perfetto che si era celebrato solo nella mia fantasia, la nostra casa bianca e luminosa, i bambini che avremmo potuto avere, con i miei occhi
chiari e i suoi capelli scuri, tutto crollato, svanito, dissolto nel nulla, come se io, dormendo per due anni, avessi sognato tutto. Prima che trovassi le parole per dire o chiedere qualcosa, (ma cosa?), la pellicola del film della mia vita si è messa improvvisamente a girare troppo in fretta: in un turbine si susseguivano le immagini di quella domenica al cinema, la eggiata a Treviso, Modica, l’anello con il diamante, il Chianti, il bagno con il mosaico giallo come il grano, le ortensie blu, Chopin, il profumo del gelsomino: un coacervo di colori, odori, suoni, tutti mescolati alla rinfusa.
L'amore per me era stato come l'estate, carica di promesse non mantenute: come quando, finita la scuola, programmi le cose belle da fare, quelle per cui non hai avuto tempo durante i mesi invernali, le gite al mare o in montagna, i libri da leggere, gli amici lontani da andare a trovare, salvo poi accorgerti che settembre arriva troppo in fretta e che di tutto quello che sognavi non hai fatto quasi nulla. Il libro appena iniziato sul comodino, sostituito dai testi di studio, nella macchina fotografica solo pochi fotogrammi.
Mi chiedo se solo nelle fiabe gli amori durino per sempre, ma, malgrado il triste epilogo del mio idillio con Massimo, credo di no, o perlomeno lo spero... altra illusione a tenere in piedi la vita. Forse in Africa è così, come nelle fiabe; mentre qui da noi i sentimenti sbiadiscono, lì, dove tutto è colore e dove anche gli odori sono più intensi, gli amori durano davvero per sempre.
Un giorno ci andrò in Africa.
Silvia, la mia adorata sorellona di cui finalmente ricordavo proprio tutto, dalle confidenze ai litigi più feroci, arrivata a trent’anni era andata a convivere con il suo fidanzato storico; il grande o, quello no, non l’aveva ancora fatto. Lei mi ha detto che aspettava me per farlo insieme ed era arrabbiatissima con Massimo per non avere avuto la pazienza di aspettarmi ancora qualche mese. “Ma che uomo è uno che non sa condividere il dolore, ma che vede nella propria metà solamente le gioie dello stare insieme?” Io credo che in realtà Silvia non sarà
mai pronta per pronunciare il fatidico sì. In compenso pochi giorni fa mi ha confidato, con la promessa di non farne parola con mamma e papà, che lei e Corrado stanno cercando di avere un bambino e questa è la cosa più bella che potessero decidere di fare, meglio del matrimonio. C’è bisogno nella nostra famiglia di una ventata di gioia, di nuova linfa!
Mi è tornata in mente la cicogna. Chissà se anch’io un giorno.
Jacopo non è più un adolescente capriccioso; si è tagliato i capelli, che nel periodo in cui ho avuto l’incidente portava acconciati a rasta, con grande disperazione e imbarazzo di papà; non porta più il piercing al naso, anche se ho notato che c’è un buco in più al lobo destro. È riuscito bene o male a diplomarsi e si è addirittura iscritto a ingegneria informatica, anche se per ora non ha dato alcun esame; ora che ricordo con precisione quanto fosse svogliato e pigro nello studio, questa sua scelta mi sorprende, ma conoscendo la sua tenacia nel risolvere inghippi informatici e il suo amore sviscerato per i computer non dubito che riuscirà, se è questo ciò che davvero vuole. A Jacopo piace correre; quanto è lento nello studio, tanto è veloce con le scarpe da ginnastica ai piedi. Dice sempre «Se corro non mi prendono!», ma non ho ancora capito chi dovrebbe prenderlo. La vita è piena di domande senza risposte. Paradossalmente, proprio a lui che ama correre piacciono molto le tartarughe; è da più di dieci anni che ne tiene due in un recinto nel giardino e ogni giorno ne percorre il perimetro scrutando il terreno per accertarsi che non abbiano scavato buche per evadere. Ha una cosa in comune con questi curiosi animali: quando non ha voglia di parlare si raggruma nelle spalle e abbassa il mento fino al petto, chiuso nel suo guscio.
Anche Jacopo mi ha fatto una confessione: ha conosciuto una ragazza australiana di origine veneta, che sta frequentando l’ultimo mese di un anno di Erasmus a Padova e se n’è innamorato, «Ma solo un pochino, sai!»; Jacopo sta lavorando la sera in un bar per racimolare qualche soldino per andare a trovarla il prossimo Natale. Mi ha pregato di non dirlo a mamma e papà, per ora. Mi ha fatto vedere una fotografia che lo ritrae in Piazza delle Erbe abbracciato a questa
ragazza, Mary; è carina, ma ha la bocca troppo carnosa e gli zigomi un po’ troppo larghi per i miei gusti. Mentre qui scarteremo i regali sotto l’albero, davanti al rassicurante tepore del camino , lui le darà il bacio di buon Natale in costume da bagno.
Sarà, ma io il Natale con il caldo non me lo vedo proprio.
Mamma era andata in pensione subito dopo il mio incidente; l’ho ritrovata con i capelli molto ingrigiti sulle tempie; due anni di dolore erano stati impietosi e avevano avuto la meglio sulla sua chioma folta e paglierina e sul suo viso, che ricordavo più levigato e che adesso era increspato da piccole rughe che correvano parallele ai lati della bocca. In quei due anni era invecchiata di dieci. Era come se da mamma si fosse fatta improvvisamente nonna, anche se di nipotini ancora non ce n’erano. Mamma aveva speso tutto il suo tempo accanto al mio letto d’ospedale, lunghi giorni, pesanti come fardelli, ma ora che io ero tornata a casa e avevo meno bisogno della sua presenza costante avrebbe potuto dedicarsi a quella che da sempre era stata la sua ione, la pittura ad olio. E dire che, prima del mio incidente, aveva promesso di dipingere un paesaggio autunnale per la mia nuova sala, foglie gialle, rosse e dorate che avrebbero brillato ancor di più alla fiamma della stufa…
Papà Angelo lavorava ancora, ma anche lui ormai era agli sgoccioli e subito dopo le vacanze di Natale avrebbe lasciato il lavoro e avrebbe potuto ricavarsi i suoi spazi, magari per leggere saggi di filosofia politica o poesie, il genere di letture che lo avevano sempre attratto, oppure per eggiare in montagna alla ricerca di scorci da fotografare e fiori o funghi da raccogliere, a seconda della stagione. Non ho ereditato da lui e da nonna Carla la ione per la montagna, ma mi riconosco in loro per quel che riguarda il mio amore per la lettura. Papà, nello scegliere i nomi dei suoi figli, si è ispirato alla letteratura che tanto ama: io sono una delle donne amate dal Leopardi, quella che ha sposato per davvero un dottore, quella a cui il poeta ha dedicato Il pensiero dominante e tutti i canti del Ciclo di Aspasia, Silvia è la giovane amica del Leopardi, Jacopo è l’Ortis foscoliano.
Se i progetti di Silvia e Corrado fossero andati a buon fine, tra qualche anno papà avrebbe portato i suoi nipotini a cercare muschio nei boschi, durante le sue eggiate. Insieme a loro avrebbe costruito il presepe, mamma avrebbe pensato allo sfondo, dipingendo palme e casette con il tetto piatto e tante stelline luccicanti. Nonno Angelo avrebbe insegnato ai suoi nipotini a costruire le casette di legno e la capanna con la mangiatoia, a Natale tutti insieme avrebbero adagiato il bambinello nella paglia. Gesù bambino assomiglia per certi versi ai personaggi dei cartoni animati che guardavo da piccola: ha gli occhi grandi e azzurri e non va mai in bagno a fare la pipì, nemmeno da grande; da piccola ho pensato tanto a questo e ho letto più volte i Vangeli per cercare di risolvere questo mistero, ma niente. Nei cartoni animati dei miei tempi le case hanno la cucina, le camere, talvolta la stalla, ma il bagno manca sempre. Ho pensato che forse sotto il letto c’è il vasino da notte, ma non ho mai visto Candy Candy o Anna dai capelli rossi servirsene.
Ginni, la mia migliore amica, si è sposata esattamente tre settimane prima di quella che avrebbe dovuto essere la data del mio matrimonio; aveva dovuto trovarsi un’altra testimone al posto mio… cara Ginni, mi aveva aspettato fino all’ultimo, ma io non ero arrivata. Nel periodo della mia convalescenza si era appena licenziata dal suo impiego di cassiera perché era in attesa di due gemellini; quando me l’ha detto ho letto uno strano pudore nei suoi occhi, quasi una vergogna: non voleva ferire me, che avrei tanto voluto essere al suo posto. C’era comunque, proprio in fondo al suo sguardo, una gioia malcelata che non è riuscita a nascondere. Del resto, il largo impermeabile che aveva indossato riusciva a malapena a celare il ventre gonfio. Lei se lo teneva ostinatamente abbottonato e un largo foulard le penzolava dal collo e scendeva fin sotto la vita. Per quello era venuta a dirmelo, ormai le sue rotondità erano difficili da occultare. «E brava Ginni, magari potrò fare da madrina alla bimba». Erano un maschio e una femmina, li avrebbe chiamati Alessandra e Alberto e sarebbero nati intorno a Natale. In fondo ero davvero contenta per lei. Un bel dono da trovare sotto l’albero. Cicogne rosa e azzurre appese sotto il vischio. Non gliel’avevo detto, ma anch’io lì fuori da qualche parte avevo la mia cicogna. Bianca e nera. Con un grande becco e lunghe zampe rosse e sottili come ragnatele.
Per tutti quel Natale che stava arrivando sarebbe stato ancora più speciale dei precedenti. Ognuno aveva intrapreso la propria strada, lungo la quale non sarebbero di certo mancate asperità e ostacoli imprevisti da oltreare. E io, quale strada avrei imboccato, che senso avrei dato alla mia vita dato che tutto intorno a me era mutato così profondamente? Anche i miei occhi non erano più gli stessi; guardandomi allo specchio vi scorgevo un’ombra costante di malinconia che prima non c’era, una stanchezza che faticava a are, malgrado i tranquillanti, malgrado le tante ore di sonno che facevo. Chi era quella giovane donna dagli occhi spenti che mi guardava? Dov’erano finiti i miei capelli biondi e sempre pettinati con cura, il mio amore, il mio lavoro, i miei studenti, la mia casa con il terrazzo soleggiato, il mio vestito da sposa? Il mio corpo, smagrito dalla degenza, era troppo scarno. Avrei potuto essere ancora desiderabile, a molte donne che ogni giorno lottano con la bilancia avrei potuto fare ancora invidia, ma così pallida, privata dei miei tacchi e dei begli abiti non trasmettevo nulla.
Dopo il ritorno della mia memoria, la maggior parte della gente che conoscevo tendeva a trattarmi con indifferenza, come se non mi fosse successo nulla di strano, oppure mi chiedeva come stavo, come quando si guarisce dall'influenza, si rallegrava per il mio stato di salute, ma nessuno sapeva, o voleva, sbirciare oltre le apparenze. Non nego che l'indagare i moti segreti dell'animo umano sia una delle cose più difficili da fare, però mi dava fastidio che nessuno ci provasse. L'argomento Massimo, annesso e connesso al matrimonio sfumato, alla casa dei miei sogni rimasta disabitata, non veniva nemmeno sfiorato. Eppure immagino, anzi ne sono convinta, che dietro le mie spalle la gente, dal momento che ero più o meno guarita, commentasse soprattutto quegli aspetti della faccenda. Immagino la sfilza di “poveretta” che sarà uscita da quelle bocche e questo mi provoca una gran rabbia, perché in quei giorni io non aspettavo altro che un input per potermi sfogare, per dare corso al mio dolore e alle lacrime, per raccontare le mie emozioni confuse, quasi che il dar voce ad esse potesse contribuire un pochino al riassestamento delle scosse del mio cuore. A volte mi veniva da pensare che neanche i movimenti tellurici di un terremoto avrebbero potuto arrecare più crolli alla mia anima.
Eppure qualcosa, dentro di me, dava segni di rinascita. Non facevo più i sogni in cui perdevo il treno, né quelli in cui mancava sempre un esame per raggiungere il mio traguardo, la laurea; tuttavia essi erano stati sostituiti da un incubo ben più traumatico: una macchina, sempre quella, una station wagon blu, mi investiva e partiva sgommando, mentre una faccia che non riuscivo a ricordare al risveglio mi guardava dal finestrino e rideva, rideva, rideva… Mi svegliavo sudata, mi toccavo il petto e i fianchi per indovinare se quell’umido che sentivo fosse sudore o sangue. Avevo paura ad uscire di casa, ma mi spaventava anche sapere che qualcuno della mia famiglia era fuori casa; temevo che quello che era successo a me potesse succedere ancora, perché quell’auto era ancora in circolazione e quella faccia rideva. Mi rasserenavo un pochino quando Jacopo, mamma e papà rientravano in casa, quando Silvia, che indovinava i miei stati d’animo, mi telefonava ogni sera prima di addormentarsi, per rassicurarmi dicendomi che era in pigiama, che lei e Corrado stavano andando a letto e non avevano impegni fuori casa.
Malgrado ciò, appena richiuso il cellulare mi sentivo come la tartarughina della canzone della mia infanzia, che aspettava qualcuno che la consolasse per addormentarsi tranquilla, senza bisogno di farmaci: e un giorno vide un granchio e gli chiese granchio granchietto dondolami un po’, e lui poiché era buono e cortese, la dondolò, e lei si addormentò.
Solo che a me non bastava un granchietto, non avevo bisogno di nessuno; era dentro di me che dovevo trovare la forza di ricominciare, da qualche parte.
Un giorno sono venuti a trovarmi alcuni dei miei colleghi. Paolo era dimagrito ma indossava la solita tuta da ginnastica che ora gli ballava sul sedere; (vabbè che gli insegnanti non navigano nell’oro, ma insomma, un po’ di decenza, dopotutto ora ero una signorina libera e lui un single non ancora rassegnato!).
Marianna, la bella e generosa Marianna, sorrideva a quaranta denti, meglio di Berlusconi, e aveva in mano un biglietto con frasi affettuose scritte per me e un
vassoio di bignè, bellissimi e coloratissimi di creme, ma sicuramente meno buoni e meno dolci di lei; Patrizia si era ingrassata parecchio, era infagottata in una specie di tabarro di lana a righine arancioni e viola (Chanel?), si era sposata e sembrava aver messo la testa a posto (sembrava!). Portava uno stupendo mazzo di rose bianche, le mie preferite. Incredibile, se l’era ricordato. Chissà in quale occasione le avevo espresso i miei gusti in fatto di fiori... questo non lo ricordo ancora, nemmeno adesso.
Ho chiesto di Danila, la mia nuova amica di scuola, l’insegnante di inglese… mi hanno detto che non c’è più, distogliendo gli occhi dai miei e cambiando subito argomento. Ho ancora sul comodino La pazienza del ragno, che mi aveva imprestato tanto tempo fa; mi sono sempre dimenticata di restituirglielo, ora non potrò più farlo. È grande il rimpianto per non averla potuta incontrare prima, conoscere meglio. Non so dove ella sia in questo momento, in quale paradiso o in quale universo, ma sento che difficilmente dimenticherò ancora il suo viso e la sua voce...
Incidenti permettendo.
I miei studenti, quelli che avevo lasciato alla fine della prima, erano arrivati in quarta. La mia seconda F quell’anno avrebbe sostenuto gli esami di maturità. Gli altri, quelli più grandi, avevano già lasciato il liceo Parini e avevano preso altre strade; probabilmente i più bravi si erano iscritti all’università. Chissà se un giorno avrei sentito nominare qualcuno di loro, magari come scrittore, o come avvocato. Auguro a tutti loro, anche a quelli che durante quell'unico anno di scuola che ho vissuto con loro mi hanno fatto disperare, ogni bene. Ero stata sostituita da un’altra insegnante, una supplente che si era trasferita da Caserta. I miei colleghi mi hanno detto che non c’erano stati grossi problemi di adattamento, lei lavorava bene, gli alunni non se ne lamentavano. Mi mandavano a salutare, qualcuno mi ha scritto delle tenere righe di sostegno. Marcelo mi ha scritto in spagnolo, ricordando che è la mia lingua preferita. La sua calligrafia era ancora incerta, come il corpo di un ragazzo che sta per diventare uomo; punti esclamativi dappertutto, all’inizio e alla fine delle frasi, fili d’erba che crescono
in un prato appena seminato. In compenso io facevo ancora fatica a tenere la penna tra le dita. Il mio anno di prova non l’avevo superato, avendo avuto l’incidente pochi giorni prima del colloquio. Avrei dovuto ricominciare, con nuove classi e nuovi ragazzi da conoscere, forse una nuova sede e nuovi colleghi, ma prima dovevo pensare a ristabilirmi del tutto e soprattutto a colmare i vuoti di memoria.
Anche Emma è venuta a farmi visita. Allora ho pensato che non è vero che per i dottori e gli infermieri siamo numeri e basta, anche loro hanno un cuore che batte sotto la casacca bianca e verde. Ha recato con sé il suo figlioletto di cinque anni. Le sue gambe fasciate da dei jeans stretti mi hanno fatto impressione per la loro magrezza. Ha gli occhialini tondi e le orecchie aperte su un viso minuto e appuntito, gli occhi intelligenti e vispi dalle ciglia lunghe come ali di farfalla. Una bocca piccola piccola con risi bianchissimi al posto dei denti. Parla in italiano e ha un lessico incredibile per un bimbo di quell’età, ma si sente il suo accento duro, tutto pieno di u, da aquilano. Emma dice che disegna ancora le case che crollano, i lampadari e gli alberi che ballano. Qui in Veneto invece i bambini della sua età disegnano Gormiti, Ben 10 e altri supereroi dei cartoni animati.
È nel credo comune che una volta toccato il fondo non ci sia più niente da perdere e sia finalmente arrivato il momento per tentare la risalita, ma via via che la mia mente ricordava mi sembrava di precipitare in un baratro sempre più profondo di cui stentavo a vedere la fine. Nella stagione in cui la mia mente vagava nella nebbia, una canuta signora dai begli occhi azzurri era venuta innumerevoli volte a trovarmi, ora accompagnata da papà, ora in autobus, ora in taxi, un lusso che, una volta, non si sarebbe mai concessa; prima, non ne aveva mai visto uno in tutta la sua lunga vita: si chiamava Carla ed era mia nonna. Questo lo sapevo, me l’avevano detto, ma io non ero in grado di ricordare il nostro splendido rapporto, le nostre confidenze. Quando l’ho potuto fare era troppo tardi per beneficiare ancora della sua presenza. Ero contenta, per quanto potessi esserlo date le circostanze, di non essere stata presente al capezzale del suo letto di morte; non avrei potuto reggere la vista dei suoi begli occhi chiusi, della carne rigida e incolore, ma soprattutto mi avrebbe atterrito la bocca serrata in un’espressione che, priva del sorriso, non poteva dirsi la sua. Avrei voluto che
almeno a lei non fosse toccato il dolore di vedermi stesa su quel letto d’ospedale. Preferivo ricordarla come quella mattina in cui le avevo annunciato il mio matrimonio, sorridente nella luce dell’aurora. I colori del crepuscolo non si addicevano a lei. Era scivolata dalla luce della vita all’oscurità della notte con grande tranquillità, senza gemiti e pianti, ando dal sonno alla morte senza quasi rendersene conto. Per tutta la vita aveva avuto la salute granitica dei malaticci: si lamentava senza riserve dei suoi mille acciacchi, ma non aveva mai sofferto di nulla di serio. Nessun ricovero, neanche in punto di morte, nemmeno in occasione dei suoi cinque parti: papà e i suoi quattro fratelli erano nati nella casetta azzurra circondata dai gelsi, a due anni di differenza l’uno dall’altro. Precisi precisi, in un tempo in cui queste cose non si programmavano con il calendario in mano e con il benestare del datore di lavoro, ma si aspettavano semplicemente, con il beneplacito della luna nuova. L’ostetrica che li aveva aiutati a nascere aveva preceduto la nonna di qualche mese, morendo senza la consolazione dei figli che non aveva mai avuto in grembo ma con un pensiero e una preghiera per tutti quelli che aveva fatto venire al mondo.
Nonna, quanto è stata avara e crudele con me la sorte, che ti ha strappato alla vita con qualche mese di anticipo. Anche un solo abbraccio e poche parole sarebbero bastate a far tornare la luce nei tuoi vecchi occhi, a colmare quel buco nero degli ultimi anni, a farti morire felice. Nel mio cuore però tu sei viva e presente, non a giorno che io non pensi a te.
14 Il momento della verità
A volte l’uomo inciampa sulla verità, ma nella maggior parte dei casi, si rialza e continua per la sua strada.
Winston Churchillp
Un giorno, pochi giorni prima di Natale, ho sentito qualcosa sciogliersi dentro di me. Come se quel grumo che Massimo aveva messo anche nel mio cuore, oltre che nel suo, e la cortina che dall’incidente mi ottenebrava il cervello si stessero disintegrando. C’era una nebbia fitta che il sole perplesso non riusciva a diradare, quel giorno in cui il momento dell’incidente mi si è ripresentato davanti agli occhi, chiaro nei dettagli e nei colori ma rallentato nei movimenti, come se stessi riguardando un video al ralenti. Ho rivisto la mia spesa per terra, le arance che rotolavano, la salsa di pomodoro, i bidoni delle immondizie. Ho sentito nuovamente il brusio dei neon sopra di me, la puzza della benzina, il rumore del motore, ma soprattutto ho rivisto quel viso, che mi osservava dal finestrino, soffermarsi sul mio per un eterno istante, con gli occhi sbarrati, per poi spostare lo sguardo sul cruscotto, senza un tentennamento, senza nessun ripensamento. Lucido. Freddo.
Ho deciso di andare alla polizia e di raccontare tutto. Ho pensato che non era giusto che io mi tenessi tutto dentro, era un peso troppo gravoso e volevo liberarmene una volta per tutte. Il mio corpo stava reagendo bene alle cure e alla fisioterapia; la mia amnesia, definita dai medici retrograda globale, era in fase di guarigione, le cure, il tempo e la pazienza mi stavano restituendo la mia vita, non c’erano altri intoppi: adesso tutte le cose stavano andando al posto giusto e non c’erano più motivi affinché io non potessi tornare a essere quella che ero, anche senza Massimo. Era giusto così. Chi aveva sbagliato doveva pagare; la televisione ricorda ogni giorno quante vittime dei pirati della strada vi siano. Io
ero una vittima mancata, dovevo far condannare quella donna, impedirle di ripetere l’errore fatto. Era mio dovere di cittadina far condannare una colpevole, affinché altri innocenti non dovessero patire le mie pene e rischiare la vita, ma soprattutto era mio diritto di giovane donna liberarmi una volta per tutte dei miei incubi, di quelli in cui venivo investita continuamente dalla stessa macchina, al volante sempre lei. Sarei andata dalla polizia e avrei raccontato tutto, così lei sarebbe uscita una volta per tutte dai miei incubi notturni e diurni. Avrebbe pagato, giustizia permettendo, ma anche se non l’avessero messa in prigione avrebbe pagato lo stesso, perché la gente avrebbe saputo, l’avrei detto io in giro, e la sua vita sarebbe stata rovinata per sempre, più di quanto non lo fosse stata la mia.
Mi sono vestita con cura, per la prima volta da quando mi ero risvegliata. Ho indossato i miei jeans più belli, quelli attillati della Pepe, e un maglione di quelli che andavano di moda quell’anno, con il collo a ciambella e le maniche larghe, a pipistrello, regalatomi da Ginni qualche giorno prima, un regalo di Natale in anticipo, nel caso ci fosse stato bisogno di cambiarlo. «Lo so che non ami questo stile, ma quest’inverno vanno così tanto…». In effetti non era male. Ma era il mio viso a non essere male, quel giorno. Il verde della lana mi donava una nuova luce agli occhi e… mi veniva quasi da ridere!
Lei invece non doveva più ridere. Quella donna avrebbe pagato.
Da tanto non mi facevo i colpi di sole e i miei capelli erano sciupati, così li ho nascosti sotto un berrettone di lana grigia; tornando dalla caserma mi sarei fermata dalla parrucchiera per prendere un appuntamento; avrei rifatto i colpi di sole e sarei tornata bella e bionda. Ho messo anche gli orecchini, lunghi, da zingara, vistosi e luccicanti. Ho scelto un paio di stivali alti di camoscio beige, che erano stati di Silvia e che per qualche motivo non si era portata nella sua nuova casa. Per una volta sarei stata io a prendere le sue scarpe. Prima di uscire ho cerchiato la data nel calendario, il giorno della rinascita. Ho notato che era il giorno dedicato a Santa Lucia; la protettrice della vista mi aveva riaperto gli occhi.
Stavo staccando le chiavi della macchina dal chiodino in cui le appendo sempre, quando è squillato il camlo di casa. Non lo sapevo ancora, ma quel dlin dlon sarebbe entrato nei miei incubi dei giorni successivi e avrebbe sostituito la risata della donna. Era Ginni che ava a salutarmi. Era contenta di vedere che avevo indossato il suo maglione, ma soprattutto era felice di vedermi in piedi e sorridente. Ho deciso, appena l’ho vista, che non le avrei detto niente; la lingua mi pizzicava per la voglia di farlo, ma ho preferito trattenermi e dedicarle una mezz'oretta prima di uscire. Doveva essere la polizia la prima a sapere tutto, poi avrei trovato modo di avvertire anche familiari e amici, cercando le parole giuste.
Ho fatto accomodare Ginni sul divano del salottino perché mi sembrava che camminasse barcollando. Ginni ormai non cercava più di nascondere la sua doppia gravidanza, sarebbe stato inutile. Era avvolta da una mantella rossa e sembrava un pallone di quelli che si usano nei corsi di psicomotricità, grandi, grossi e morbidi. Avrebbe anche potuto vestirsi da Babbo Natale e sostituire quei pupazzi gonfiabili che ondeggiavano davanti agli ipermercati già dalla fine di novembre.
Ginni mi ha detto che era di aggio, stava tornando dall’ospedale e ci teneva a confidarmi che anche Serena aspettava un bambino. Loro due non avevano più motivi per frequentarsi ora che non c’ero più io insieme a Massimo a fare da trade union, ma si erano incontrate in ambulatorio e, come sempre accade in queste circostanze, si erano scambiate qualche confidenza come fanno le donne che stanno per diventare mamme: maschio o femmina, come lo chiami, qual è la data del termine, quanto pesa, com’è messo... Il bimbo di Serena sarebbe nato all'inizio dell'estate. Mentre Ginni ne parlava era ancora un bottoncino piccolo piccolo. Ginni mi ha detto che Serena era ancora magra magra: «Tutte le fortune a lei». Io sentivo le orecchie ronzare come se uno sciame di api mi svolazzasse tutt’intorno. Ginni mi ha detto che la maternità non era ancora riuscita ad addolcire i bei tratti algidi di Serena; questa è l’ultima cosa che ricordo di aver sentito durante quella penosa conversazione.
Avrei voluto dire qualcosa, qualche frase di circostanza del tipo «se la rivedi falle le congratulazioni da parte mia», ma non ho fatto in tempo ad aprire la bocca perché sono svenuta, cadendo all’indietro sullo schienale del divano.
E così mia madre, che proprio in quell’istante rientrava in casa con la spesa che io non facevo più, ci ha trovato tutte e due svenute sul divano, io con la pressione troppo alta e il cuore che pompava a mille, Ginni con la pressione troppo bassa e il cuore che pompava più o meno alla stessa velocità del mio.
Un’altra borsa della spesa che cadeva, altre palle che rotolavano, mele questa volta. È bastato il crak della bottiglia di vetro del latte che si frantumava a farci riprendere, ma mentre Ginni ha spiegato che da qualche mese a questa parte le capitava ogni tanto di svenire, soprattutto la mattina a digiuno, non a mezzogiorno come in quel frangente, io non avevo nessuna parola di spiegazione per nessuno né nessuna voglia di provare a cercarla.
Mamma voleva telefonare alla madre di Ginni per farla venire a prendere, magari per portarla in ospedale per un controllo, ma si capiva che era più preoccupata per me; Ginni era giustificata, doveva partorire entro una decina di giorni, ma io quali motivi avevo per svenire? Forse una reazione a qualcuno dei farmaci che prendevo?
E subito mille domande, per vedere se mi ricordavo chi ero, e chi era lei, e come si chiama tuo fratello, e dove abitava la nonna da piccola, e dove lavora Silvia, e chi ha scritto il Gattopardo, e dimmi i sette re di Roma eccetera eccetera, mille domande che neanche al Milionario di Gerry Scotti ne fanno così tante, e tutte per cercare di capire se il mio cervello funzionasse o se alla perdita momentanea di coscienza si associasse anche un’altra amnesia retrograda. Sì, ricordavo tutto, anche i presidenti della repubblica italiani e quelli americani dalla prima guerra mondiale in poi, anche le declinazioni latine che, subito dopo l’esame di latino,
avevo giurato che avrei fatto di tutto per dimenticare. Ma era il mio cuore che stavolta era andato in tilt e l’ultima delle mie pene in quel momento era il dover rispondere all’interrogatorio di mamma.
15 Serena
L’uomo può sopportare le disgrazie, esse sono accidentali e vengono dal di fuori: ma soffrire per le proprie colpe, ecco l’aculeo della vita.
OSCAR WILDE
E tu, Serena, come stai? Sei davvero serena o ti senti tormentata dal rimorso? È più probabile che tu più che rimorso abbia paura, adesso che sicuramente sai che io mi sono risvegliata, che io ho cominciato a ricordare. Perché io mi ricordo di te, sai, ed è a te che parlo con questo mio racconto.
Serena, la bella Serena allora fidanzata, ora moglie, di uno dei colleghi di Massimo. Serena sempre sorridente, Serena sempre disponibile, Serena Serena Serena. I tuoi capelli quel giorno non erano curati come il solito ma ti ricadevano umidi sulla fronte alta e tonda, la frangia troppo lunga era scomposta. Cos’è scattato nella tua testa per farti allontanare così? Com’era stata la tua giornata, dove stavi andando, quali pensieri occupavano la tua mente? Neanche un ripensamento, neanche il giorno dopo, neanche al mio risveglio, neanche ora.
Serena, te l’hanno detto che io ricordo tutto adesso? Non l’ho ancora svelato a nessuno, il mio, il nostro piccolo grande segreto, ma è qui, dentro di me, e forse tu ora ti starai chiedendo come fare per cancellarlo per sempre. Non sono più nel parcheggio semi deserto nei sotterranei di un supermercato, ora sono protetta dalle quattro mura della mia cameretta azzurra. Io e Silvia da piccole l’avevamo voluta azzurra e così è rimasta. Ora che Silvia vive con Corrado c’è tanto spazio per i nuovi libri che acquisterò. Anch’io avrei dovuto abbandonarla il giorno del matrimonio, ma il matrimonio non c’è stato. I miei libri avrebbero dovuto fare
compagnia a quelli di Massimo, in quella bella libreria bianca che avevamo scelto insieme all'Ikea, invece avrebbero abitato ancora nella cameretta azzurra da ragazzina. Ma questo lo sai anche tu, Serena. Eri una degli invitati, ricordi? L’avevi già comprato il vestito per il diciannove settembre, estivo ma non troppo? L’hai più indossato, nei mesi successivi, mentre magari ripensavi a me, a quanto ero sfortunata? Avevi già preso l’appuntamento dalla parrucchiera? Io sì, ma non ci sono potuta andare. Chissà se il mio posto è stato preso da qualche altra donna per una messa in piega o se sul mio nome è stata tracciata una croce e basta. Una croce, come quella di ferro che in questo momento sarebbe in bella evidenza sulla mia tomba se quel filo sottile che mi ha tenuto legata alla vita si fosse spezzato. Invece io sono qui, e con quel filo sto cercando di rattopparla bene la mia vita, per farla durare il più a lungo possibile.
Serena. È proprio nell’angolino più nascosto del mio cuore il tuo nome. Solo a pensarlo, a sussurrarlo sotto voce mi tremano le labbra, mentre vorrei avere il coraggio di pronunciarlo a voce alta, di liberarlo una volta per sempre e di lasciarlo scivolare via, ma non trovo questa forza dentro di me. Scrivo, scrivo, scrivo lentamente al computer, faticando a muovere le dita che s’inceppano sulla tastiera nera, come le ruote di un eggino sulla sabbia, e sfogo così il mio dolore e la mia rabbia.
E tu? Come potrai incrociarmi per strada e riuscire a sostenere il mio sguardo? Cosa sentirà il tuo cuore quando il tuo bimbo, o la tua bambina, ti chiederà di andare a fare un giro in bici, o una eggiata? Riuscirai ad esporlo ai pericoli della strada? Perché sai, di gente come te ce n’è tanta, in giro. Potrei denunciarti e far sapere a tutti ciò che hai fatto, non potresti nemmeno più vivere nel tuo paese, dove interpreti la parte della brava cristiana e chissà se tuo marito, che ogni giorno si prodiga nel salvare vite umane, nel suo animo ti riconoscerebbe ancora come moglie.
Potrei denunciarti e forse un giorno lo farò, libererò il tuo nome dal mio cuore una volta per tutte, ma ora dentro di me c’è solo il pensiero di quel bimbo che presto nascerà, che forse non merita una mamma come te, ma che non merita
nemmeno di crescere senza di te. Un bimbo innocente, che magari avrà i capelli fini simili ai tuoi che s’inanelleranno in tanti riccioloni sulle spalle, forse avrà il sorriso chiaro e la pacatezza del suo papà; un bimbo che sicuramente nascerà senza colpa alcuna, come tutti i bambini, e che ti amerà comunque, perché tu sei la sua mamma.
Tu lo cullerai per farlo dormire, mille volte ogni notte ascolterai il suo respiro delicato, altre mille poserai la mano sul suo dorso, per coglierne l’altalenante movimento rappacificante. Mille volte ti sveglierai per nutrirlo quando ti chiamerà con i suoi vagiti impazienti, ma tutto questo non ti peserà e lo farai con l’amore di una mamma che ama e che sa di doverlo fare, mentre io non so ancora se un giorno potrò.
16 Natale
È meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.
MADRE TERESA DI CALCUTTA
Come la mia casa che non ho mai abitato, anche la casetta azzurra ora è inabitata; è sempre lì, circondata dai gelsi, col suo orto incolto e il triste salice piangente, vuota della presenza terrena della nonna ma zeppa del suo spirito e delle cianfrusaglie con cui l’ha riempita nell’arco di una vita.
Nonna Carla non era una persona ordinata, ma aveva una dote particolare nel celare il disordine; era solita sostenere che si a metà della vita ad accumulare oggetti e un'altra metà a disfarsene. Tuttavia, dopo avere ampiamente oltreato la metà della sua vita, almeno che non ambisse a una esistenza ancor più lunga di quella di alcuni monaci tibetani che pare si aggirino intorno ai centodieci, nonna non è mai stata pronta a disfarsi dei suoi oggetti: riempiva armadi e cassapanche con lettere e cartoline sbiadite, con su i francobolli da cento lire, vestiti di altri tempi, tegami dal fondo graffiato, lenzuola di lino che erano ingiallite senza essere mai state usate, cappelli di paglia dalla tesa larga, grembiuli di tutti i colori che quando le servivano non trovava, giocattoli di legno che il nonno aveva intagliato per i suoi figli, portatovaglioli d’argento annerito, ombrellini di carta per le coppe di gelato e tanti tanti libri con le coste scollate e le pagine macchiate di giallo, odoranti di vecchio. Conservava ancora, con un qualcosa di sacrale, il suo abitino della prima comunione, con il corpetto a nido d’ape ornato di roselline di raso e il velo da sposina; lo teneva in una scatola di cartone blu insieme alla sua treccia di bambina, grossa e di un colore triste, biondo slavato. Mi aveva raccontato più di una volta, con una memoria particolareggiata, di quando sua mamma gliel’aveva recisa in un momento di stizza perché non voleva farsi pettinare. Ci aveva messo anni per fare ricrescere i
capelli così lunghi, ma la treccia non aveva più raggiunto quella grossezza. Forse è per questo che all’età da marito si ostinava ancora a portare la treccina, come si vede nella foto che mi piace tanto.
Ogni tanto, con una cadenza trimestrale, nonna decideva che era il momento di buttare qualcosa; tirava fuori tutto, faceva una cernita meditata e radunava un po’ di cianciafruscole sul pavimento della cucina, se le ava di mano in mano accarezzandole con gli occhi lucidi dell’addio, ma poi finiva col riporre tutto nuovamente negli armadi e nelle cassapanche, mescolando le cose in un disordine diverso rispetto a com’erano state prima, cosicché diventava ancora più arduo cercarle. Anche la credenza della cucina era traboccante di cose impossibili, tanto che a noi nipotini da piccoli poteva capitare di cercare un biscotto e trovare una vecchia pipa in una scatola di sfogliatine, aprire il frigorifero per prendere un succo di frutta e ritrovarci in mano un fazzoletto con le iniziali della nonna ricamate in un angolo, svitare il tappo di un barattolo di Nutella e scoprirvi all’interno un tesoro di monete da cinque e dieci lire. Si poteva davvero giocare alla caccia al tesoro nel suo caos, ma bisognava stare attenti nell’aprire le ante, si doveva farlo lentamente e con la delicatezza dei vecchi, come faceva lei, per non venire sommersi dal disordine.
Solo le scacchiere mantenevano il loro consueto ordine, che era proprio del nonno e che la nonna riusciva stranamente a conservare. A differenza della moglie, il nonno era ordinato e meticoloso, quasi pignolo. Anche dopo anni dalla sua scomparsa nonna Carla ne temeva il controllo e anche per questo si accaniva a spolverare le scacchiere e a ricordarne l’ordine, come se l’ombra del marito la stesse osservando e giudicando come aveva fatto in vita.
Dopo il funerale di nonna Carla nessuno dei figli aveva avuto il coraggio di rientrare nella casetta azzurra per prendere qualche decisione in merito a tutto quel ciarpame da vecchi, troppo vetusto per poter essere recuperato, troppo nuovo per avere pretese di un qualche interesse d’antiquario. Io ormai sono giunta all'età in cui, secondo i principi di nonna Carla, si inizia a buttare e non mi do pena quando si tratta di gettare abiti che non indosso più, vecchie bambole e
altri giochi di quando ero ragazzina, ma se frugassi tra le cose di nonna non riuscirei a eliminare nemmeno un capello.
A noi nipoti sarebbe piaciuto entrare in possesso delle preziose scacchiere, ma avremmo finito col litigare per accaparrarci le più originali. La più ambita l’aveva costruita il nonno con le sue stesse mani e, a guardarla proprio bene, si poteva notare che aveva dato ai cavalli un muso da cane, il suo animale prediletto. Forse quella scacchiera sarebbe finita con l’appartenere al primo di noi che avrebbe violato il silenzio della casetta azzurra.
Due giorni prima di Natale sono nati Alessandra e Alberto, con un parto cesareo veloce. Ginni stava benissimo, i due piccolini anche, ma erano così minuti che erano stati messi in incubatrice; un’altra scatolina magica, che li avrebbe protetti e riscaldati per due o tre settimane, quasi come il ventre della loro mamma. Prima di recarmi all’ospedale per salutare Ginni sono entrata alla Jana bimbi e ho comperato due vestitini, i più belli che c’erano, come se i bimbi fossero stati miei: uno scamiciatino a quadri scozzesi grigi e lilla per Alessandra, una tutina blu con camicetta bianca per Alberto. Erano grandi, gli sarebbero andati bene dopo un anno, così se io fossi stata lontana Ginni avrebbe avuto un motivo in più per pensarmi, mentre li infilava intorno alla carne rosa e fresca delle sue creature.
Anch’io a Natale ho fatto una cosa speciale. Per la prima volta, sono andata in cimitero a trovare la nonna. I miei erano andati alla messa del pomeriggio, anche papà che non era solito santificare le feste, nemmeno il Natale, aveva accompagnato mamma; io non ero entrata in chiesa. Non sapevo proprio quale dio pregare. Ero l’unica anima viva in cimitero; era l’imbrunire, mancava poco alla chiusura e faceva freddo. In lontananza si sentiva il muggito cupo del mare, che immaginavo gonfiarsi e sgonfiarsi come un muscolo sotto il vento gelido. La lapide era senza fregi, di marmo bianco, semplice come era stata lei. Nel vaso bianco, mamma aveva deposto delle calle finte, così ben fatte da sembrare vere, e una piantina sempreverde di cui non conosco il nome, con le foglie verde scuro a forma di cuore screziate di un verde più chiaro, smeraldino, pendule, che
cadevano fino a toccare la lapide. Alla base della tomba qualcuno aveva deposto un mazzo di garofani rossi che stridevano con il nitore della lapide e con il freddo di quella giornata. Doveva essere stato qualcuno che non la conosceva bene, dato che i garofani non le sono mai piaciuti. Forse un ammiratore dei tempi della gioventù oppure una lontana parente.
Nonna Carla da giovane era stata una donna bellissima; conservo con cura una sua foto color seppia che la ritrae seduta, con le mani in grembo e i biondi capelli raccolti in una crocchia laterale con una treccina sottile che le ricade sulla spalla destra dell’abito accollato con le maniche corte a palloncino: due particolari, la treccia e i palloncini, piuttosto inconsueti per la moda di quel periodo.
Ho scavato un po’ di terra sotto la lapide e vi ho deposto un granchietto di vetro, l’ultimo superstite di una famigliola di vetro di Murano che nonna Carla mi aveva comperato durante una eggiata che avevamo fatto insieme a Venezia, tanti anni prima. Aveva il colore caldo dell'ambra e due occhietti piccoli e neri. Mamma non aveva voluto acquistarlo perché quel giorno avevo fatto i capricci in treno, ma nonna Carla aveva finto di restare indietro per entrare nel negozietto e acquistarlo, insieme a una piccola sirena che aveva affascinato Silvia. Me l’aveva dato di nascosto da mamma qualche giorno dopo, una sera in cui mi ero fermata a dormire a casa sua, subito dopo avermi raccontato la nostra fiaba. Ora le avrebbe fatto compagnia per sempre e sarebbe stato un altro dei nostri innocenti segreti.
Mi sono seduta sulla lapide e ho pianto.
Tutte le lacrime che non avevo pianto per Massimo.
Tutte le lacrime non versate per la mia vita interrotta.
Rimaste sospese tra le palpebre per più di due anni.
Lontane, le luci delle luminarie tremolavano.
È proprio su quella lapide che la nonna si è rivelata a me, in mio soccorso, per aiutarmi con i suoi consigli come aveva sempre fatto da viva. Io devo molto a lei. Se adesso sono la donna che sono un po’ è anche merito suo. Anche Serena ha un debito nei suoi confronti. Se ho taciuto non l’ho fatto per lei, ma per la nonna, perché sento che anche lei avrebbe fatto così; se fosse stata al mio posto avrebbe ringraziato il suo Dio per averla risvegliata, per averle dato un’altra possibilità, e avrebbe una candela. Sarebbe rimasta a guardare la fiamma gialla consumare la cera fino alla fine, perché la nonna non aveva mai fretta e il tempo lo sapeva rispettare. Quante volte l’avevo trovata seduta su uno sgabello di legno tarlato sotto il suo salice, beata, come se quello fosse l’unico posto dove poter stare.
Sono tornata molte volte su quella tomba, soprattutto quando avevo decisioni importanti da prendere, di quelle che non fanno dormire la notte. Le porto sempre dei fiori gialli perché so che a lei piacciono, soprattutto rose e girasoli. Il giallo è il colore del sole, della gioia, della vita eterna.
Ogni volta che ritorno da lei mi siedo lì e piango ancora.
Per lei.
17 Il corso della vita
Molte malattie sono una eccellente assicurazione contro la morte. Mentre esse si scambiano delle cortesie sulla porta, la vita segue il suo corso.
JACQUES DYSSORT
Forse, nell’arco di una vita lunga come spero sarà la mia, tre anni non sono poi moltissimi, ma io in quell’arco di tempo ho perso l’amore, il lavoro, gli affetti più cari, la casa.
Ho perso tre anni della mia vita, tre anni in cui sarei potuta diventare una donna diversa da quella che sono ora. Forse sarei diventata una brava insegnante e una buona moglie, forse madre.
Il tempo, quello che una volta programmavo per non perderne neanche un pezzettino, mi aveva rubato un pezzo di vita.
Ho perso tre anni, ma mi sono rialzata in piedi. Ora non ho più paura di ammalarmi, né tanto meno di morire. Sono morta una volta e sono rinata, ora so di essere forte e di poter ricominciare.
Ora sono serena. I libri non li leggo più necessariamente fino alla fine, se le prime pagine non mi piacciono li abbandono. Il sogno del treno non l’ho più fatto. La parola Massimo è tabù, impronunciabile ai miei orecchi, ma il mio
cuore a poco a poca sta guarendo e mi auguro che un giorno sarà pronto per riaprirsi all’amore. A volte mi sento come quando si svuota una casa vecchia, da demolire e si gettano le cose vecchie. Solo che io da ripulire non ho stanze impolverate e scatoloni traboccanti, bensì il cuore. Il mio cuore va ripulito dai ricordi di un amore che per me, ma credo anche per Massimo, è stato grande; solo che il suo, di cuore, si è ripulito in fretta e da solo, per il mio ci vuole del tempo. Devo liberarmi del profumo del gelsomino e dell’aroma della sua pelle, delle canzoni che ascoltavamo insieme nella sua macchina, soprattutto di Biagio Antonacci che è l’unico che era riuscito a farmi amare; troppo attuale perché la radio la smetta di ripropormi continuamente la sua voce. Anche del suo alito mi devo ancora liberare, del suo retrogusto amaro, dei suoi capelli che ogni tanto mi capita ancora di trovare impigliati in una mia sciarpa e dei suoi impagabili sorrisi che l’inganno dell’amore, che arde sopito sotto la cenere, mi fa ancora riconoscere nei riflessi delle vetrine, nei volti degli sconosciuti.
A Massimo non gliene faccio una colpa per avermi abbandonato; sono stata via tre anni. L’amore è come un fiore, se non lo innaffi ogni giorno muore, specialmente quando il suo stelo è ancora fragile. Chi è la sua donna adesso? A chi darà i suoi baci, con chi viaggerà, con chi commenterà film e libri davanti a un camino o a un tramonto? Non lo voglio nemmeno sapere il suo nome, né vedere il suo volto, anche se a volte penso che a suo tempo avrei fatto meglio a preoccuparmi maggiormente delle sue nuove conoscenze piuttosto che andare a ripensare ai fantasmi del suo ato. Nei miei pensieri, il nome del mio amore deve stare solo accanto al mio, perlomeno finché il suo posto non sarà occupato da un nuovo volto. Non si può amare in eterno chi non ci ama più; il tempo, che spesso è l’unica medicina utile per i malanni del cuore, con il suo inesorabile trascorrere prima lenisce e poi cura.
Ogni volta che inciampo nel suo ricordo mi sovvengono domande che non gli ho mai posto: dove aveva comprato quel bell’orologio bianco di cui mi aveva fatto dono il giorno del mio ultimo compleanno con lui e che si era rotto nel momento dell’incidente? Nessuno si era preoccupato di cercarlo e raccoglierlo in quel maledetto parcheggio. Spesso ripenso a come sarebbe potuta essere la nostra vita insieme. Nel nostro breve fidanzamento, non avevamo condiviso il vivere insieme di una vera famiglia, avevamo ato giornate e notti intere insieme
solo durante le vacanze. La vita che non abbiamo vissuto insieme io l’avevo idealizzata. Durante i mesi dell’attesa prima del matrimonio, l’avevo arricchita di così tanti particolari che faticavo a discernere il vero dall’immaginario, un po' come facevo con i miei piccoli mali che ingigantivo fino a farli diventare tragedie. Avevo attribuito a Massimo virtù improbabili, un’aura di santità che poco aveva di attinente con il reale, non solo del mio ragazzo, ma degli esseri umani in genere.
Mi chiedo se io abbia amato di più Massimo o l’idea che mi ero fatta di noi due sotto lo stesso tetto. Dormire insieme in un hotel di lusso, avvolti in pigiami di seta comprati appositamente per l’occasione, dopo una cenetta a lume di candela a Fiesole, a Riva del Garda o a Modica, con i dolci declivi dei colli a fare da sfondo, con il frigo bar a portata di mano e la colazione servita in camera, non è come condividere lo stesso letto per anni, notte dopo notte, in pigiama felpato. Forse il poco che c’è stato è stato più bello e più intenso di quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Le domande che volevo fargli e che per vari motivi non gli avevo mai posto mi venivano in mente nei momenti più impensati: chi suonava il violino? Da dov’era uscita la mummia, così enigmatica e indecifrabile, così diversa da lui e dal resto della famiglia? Una volta che ci fossimo sposati, da che lato del letto avrebbe preferito dormire? Come intendeva suddividere gli spazi che avremmo dovuto condividere, l’armadio, la scarpiera?
La nostra casa è stata messa in vendita, ma è ancora lì, vuota, senza le tende vaporose che avevo immaginato, senza il divano rosso, senza libri, senza vita. È così bella che prima o poi qualcuno se ne innamorerà e la vorrà per sé; adesso, pensare che qualcuno di diverso da noi un giorno la riempirà con la sua roba e la sua vita mi fa soffrire. Intanto, la stufa non è mai stata accesa e sta lì, con la sua bocca nera e triste, affamata di calore.
Non dubito che, benché il mio aspetto abbia perso parte della sua bellezza a causa dell’incidente, la vita mi riserverà altre possibilità, altre occasioni d’amore, data la mia giovane età. Devo però ammettere che sono il tipo di persona che, anziché esaltarsi per un nuovo inizio, teme tutto quel che concerne la fase
dell’innamoramento, del corteggiamento, quella in cui ci si gioca tanto. Dover ricominciare tutto daccapo, ancora una volta, è per me forte motivo d’ansia, tanto quanto amo invece la quotidianità rassicurante, i rapporti consolidati, che anziché logorarsi traggono dal tempo che a nuovi motivi d’essere. Io nell’amore di Massimo mi ero adagiata e coccolata, ora devo rialzarmi dal comodo sofà che lui era diventato per me.
Il tuo nome, Serena, non mi provoca più nessun effetto. Perché io sono guarita dalla mia ipocondria e ora sono io quella veramente serena. Felice, non so dire se lo sono, probabilmente mi ci vorrà del tempo. La felicità che ti fa cantare, che ti fa vedere tutto rosa, il bicchiere sempre mezzo pieno, quella è ancora lontana da me. Ma la felicità è più effimera della serenità; quest’ultima è un bene più stabile ed è a essa che gli uomini dovrebbero tendere.
A poco a poco, la mia rabbia nei tuoi confronti si è andata trasformando in comione. Non la comione dolce che ci fa condividere con gli altri i dolori, bensì quel tipo di comione che diventa una trappola perché inibisce qualsiasi altro sentimento.
Capita che quando si subisce una perdita importante ci si attacchi a qualcos’altro: una persona, un hobby, un vizio, un’idea. Io invece mi sono staccata da tutto. Come un serpente che muta la pelle, ho lasciato che mi scivolassero via le paure, le abitudini, tutto ciò con cui avevo familiarità da una vita e che mi dava sicurezza, per aggrapparmi per la prima volta a un ignoto che anziché spaventarmi mi dona nuova linfa. E per staccarmi proprio da tutto, ho deciso di staccarmi anche dalla terra.
Oggi sono qui, a Venezia, ma non in stazione, come quando, da giovane studentessa universitaria, percorrevo i vagoni alla ricerca di un posto libero su cui sedermi per rileggere ancora una volta gli appunti prima dell’esame.
Ora mi trovo all’aeroporto, con me una piccola valigia, pochissimi vestiti, un paio di scarpe da ginnastica, nessun libro, neanche l’orologio, che non ho più comperato, solo una macchina fotografica digitale, piccola, compatta, come me.
Guardo la gente are e ne vedo tanta, di tutti i colori e di tutti i tipi, come non ne ho mai vista all’università o al liceo Parini. C’è chi spinge valigie immense avvolte dal nastro adesivo e chi porta un leggero bagaglio a mano, chi urla contro un volo cancellato e chi dorme su una panchina grigia, il giornale sotto la testa. Vecchietti che aspettano il volo per Londra dove ad attenderli ci sono i figli e i nipotini, giovani impiegati e precari della scuola che devono raggiungere la famiglia al sud, coppie in viaggio di nozze e qualche classe di liceali che è visibilmente in gita ancora prima di decollare, mentre i genitori si sprecano nelle ultime raccomandazioni e gli insegnanti rifanno ancora una volta l’appello. Ancora una volta ripenso agli alunni che non ho più e mi chiedo se anche loro sono andati in gita quest'anno scolastico.
Guardo tutti e a tutti devo sembrare spaesata, io, per la prima volta in un aeroporto, per la prima volta senza la mia paura di volare.
Dalle grandi vetrate posso vedere gli aerei atterrare e decollare, apparecchi ingegnosi, dalle grandi ali dispiegate. Per la prima volta li vedo come miracoli della scienza, capaci di esaudire i miei desideri, sorta di tappeti magici. Non ho paura, non più, ma non nego che mi batte forte il cuore nel sentire le vibrazioni che il loro rombo provoca sul vetro. Il mio volo è in ritardo, ma non me ne do pena, anzi; spero che tardi ancora di più, così da vedere Venezia accendersi sotto di me, nella notte. Per essere il mio primo volo, sarebbe davvero di buon auspicio. Il mio aereo sarà come una rondine che lascia il freddo per i paesi più caldi. Anch’io parto per lo stesso motivo, perché ho il cuore da riscaldare.
Sento che se sto qui dove sono sempre stata non potrò guarire del tutto, ma sarò come un albero che soffre mentre viene potato, incapace di staccarsi dalle radici per scappare. Devo invece staccarmi da questa terra e partire finalmente, per
viaggiare fuori da me stessa e nelle stesso tempo dentro di me.
Non ho ferite da leccare, solamente un sogno da rincorrere. I miei sogni non voglio più inseguirli con la fatica, il sudore e il dolore, voglio farli volare alti, alti come aquiloni, alti fin sopra le nuvole. Voglio fotografare i colori dell’Africa, voglio vedere se è vero che le tinte dell’Africa sono più intense. Voglio sentire anche gli odori e voglio vedere se i tramonti sono più rossi e se gli amori durano davvero per sempre.
Voglio dispiegare tutto il filo dell’aquilone e tenerlo stretto, quel filo sottile, per non farmelo portare via. Non devo più rincorrere il tempo che scappa sempre troppo in fretta: non ho esami da preparare, lezioni da riare, libri da terminare. Non c’è un fidanzato che mi aspetta sotto casa né un dottore che deve visitarmi, non guardo l’orologio per vedere se è l’ora di prendere la mia medicina né il calendario per contare quanti giorni mancano al matrimonio; non ho bei vestiti da abbinare alle scarpe multicolori dai tacchi alti né lunghi capelli da spazzolare. Adesso di tempo ne ho tanto e voglio prendermela con calma.
Questo è il mio libro; forse non verrà mai pubblicato e rimarrà in un cassetto, o in una delle cassapanche di nonna Carla, ma almeno è stato scritto e questo, per ora, mi basta. Il prossimo, se mai lo scriverò, sarà figlio dell'Africa.
Nairobi mi aspetta.
Treviso, Dicembre 2011
Indice
1.
2.
3. Riflessioni sul tempo
4. L'ipocondria
5. Primo giorno di scuola
6. Proposta di matrimonio
7. Nonna Carla
8. Pranzo dai suoceri
9. Alessandra
10. L'incidente
11. Preghiere e commenti
12. Risveglio
13. Disincanto
14. Il momento della verità
15. Serena
16. Natale
17. Il corso della vita