Il Filo Rosso 675n4

il Filo Rosso

New York,

1 maggio 2014

«Cin Cin!»

Non posso crederci... finalmente.

La mano di Leo stringe teneramente la mia ed ancora non riesco a distogliere lo sguardo da ciò che mi circonda: tutto è splendente, ogni cosa è al suo posto e soprattutto sono spariti dalla mia vista e dalla mia vita gli enormi ed impolverati scatoloni di cartone.

Trasloco finito.

Per un intero mese, sommersa da valigie-vestiti-tende-bastoni-piatti-e-chi-piùne-ha-più-ne-metta, non ho fatto altro che pentirmi di aver richiesto il trasferimento allo studio legale internazionale per cui lavoro.

Con la mia proverbiale tenacia ho convinto i soci senior della necessità di un giovane e brillante avvocato presso la loro sede più prestigiosa, quella nel cuore di Manhattan, ed ora eccomi qui. Che bella soddisfazione riuscire ad avere la meglio ed il totale controllo della propria vita: dopotutto, se mi chiamano “mastino”, un motivo ci sarà, giusto? Giusto!

In realtà considerando l’enorme mole di lavoro che mi aspetta e le ingenti fatiche che ne conseguiranno, non sono poi così convinta di aver davvero “avuto la meglio”.

Ma non voglio pensarci.

Guardandomi di nuovo intorno, avvolta nel caloroso abbraccio di mio marito e ricordando il principale motivo che mi ha spinta a trasferirmi, ogni ansia e preoccupazione si dissolvono come neve al sole: l’idea di poter riavere la mia adorata sorellina di nuovo accanto e di ricominciare a vivere con lei quella quotidianità che avevamo perso quando decise di partire per la Grande Mela, fa automaticamente are in secondo piano tutti i problemi che avrò a lavoro nonché la nostalgia che sentirò per l’Italia, i genitori, gli amici e soprattutto per la pasta.

Non vedo l’ora che arrivi sabato quando finalmente potrò riabbracciarla.

L’ ultima volta ci siamo viste venti giorni fa proprio qui, nel mio piccolo soggiorno, dove al posto del tavolino di cristallo e sedie ultramoderne c’erano cassette della frutta rivoltate ed utilizzate come seggiole e, neanche a dirlo, scatoloni ancora pieni che fungevano da tavoli, comodini, mensole e quant’altro: mancava solo riuscissi a cuocerci le uova.

Siamo state insieme per pochissimo tempo, la mia casa impolverata l’ha fatta scappare ancor prima che potessi chiederle una mano per le pulizie.

Aveva con sé il suo inseparabile compagno, il trolley fucsia dei numerosi viaggi di lavoro che sono ormai diventati una costante nella sua vita. Bé, non potrebbe

essere diversamente visto che è una reporter giornalistica: dopo aver lavorato qualche tempo al New York Post è approdata sei mesi fa presso la maggiore emittente televisiva d’America, niente meno che la NBC!!!

Avrà fatto minimo trentasette colloqui e alla fine è riuscita a spuntarla.

Data la sua determinazione anche il suo soprannome sarebbe dovuto essere “Mastino” e non “Scricciolo”, affibbiatole da nostro padre per via della sua corporatura esile e della sua giovane età.

Che poi non è che io sia tanto più vecchia di lei, intendiamoci bene!

Anche se sette anni di differenza non sono pochi e se spesso sia tentata di mettere davanti un 2 anziché un 3 sulle mie torte di compleanno, sono felice di essere arrivata a trentacinque anni con tutte le conquiste ottenute in campo affettivo e lavorativo.

Mancherebbe solo un ultimo piccolo tassello per completare il mio quadretto perfetto... è un progetto sul quale Leo ed io stiamo lavorando alacremente da diversi mesi e, devo ammettere, mai lavoro è stato più piacevole.

Ebbene sì: vogliamo l’ “Erede”!

Per il momento ancora nessun risultato, ma non mi abbatto: mica è facile rimanere incinta, giusto? Giusto!

Tante coppie riescono solo dopo molti tentativi. Giusto? Giusto...

Leonardo, che sembra mi abbia letto nel pensiero, fa tintinnare di nuovo i nostri calici mentre sensuale lascia intuire i suoi propositi per il dopocena.

Chissà che non sia la volta buona che arrivi Viola Junior!

Mentre le sue dita iniziano ad accarezzarmi le spalle e le braccia, risalendo su per ripercorrere lentamente la mia schiena che si scioglie ad ogni tocco, un trillo alla porta mi fa sobbalzare.

Ci guardiamo con aria interrogativa.

Non aspettiamo nessuno, Emma è fuori città e non conosciamo nessun altro, fatta eccezione per i miei colleghi matusalemme che dubito siano venuti a salutarmi. Ho notato che mi studiano con sospetto: sono così antichi che non ritengono possa una donna, per di più giovane, essere all’altezza delle loro cause milionarie.

Gli farò vedere io di che pasta sono fatta. Devo ricordarmi di affinare meglio la mia temibilissima occhiataccia sbieca da coccodrillo...

Mentre faccio al volo una prova di sguardo torvo davanti allo specchio, mio marito andando ad aprire resta travolto da un abbagliante color giallo lime e da un’intensa scia di profumo floreale.

Ci fissiamo esterrefatti, mentre una figura magrolina dallo smagliante sorriso ed occhialoni da diva scuri, neanche fossimo all’aperto a mezzogiorno, avanza verso di noi con un grande regalo in mano.

«Ben arrivati vicini! Io sono Jay, molto piacere!»

Porge la sua mano ossuta che temo di stringere per paura si rompa qualche pezzo: «Ehm... Grazie mille, il piacere è nostro...» farfuglio ancora sorpresa.

Notando il disagio di Leonardo rimasto impalato sulla porta, sopravanzo facendo gli onori di casa: «Che gentile, è bello essere accolti in modo festoso in terra straniera!» improvviso mentre prendiamo spazio verso la sala.

L’ondeggiare sinuoso di Jay contrasta con la sua corporatura magra e spigolosa, che mi fa subito pensare di rimpolpare con qualche manicaretto preso dal ricettario di mia madre. È sicuro che in un paio di settimane potrebbe ingrassare di quei sei-sette chiletti che donerebbero al suo fisico ora un po’ troppo asciutto.

Restando per un attimo a rimuginare se sia più adatta allo scopo una melanzana alla parmigiana o una bella carbonara, e mentre Leo è ancora in piedi sulla porta con la stessa espressione da fesso, Jay si volta verso di noi come a dire: “Bé, non mi chiedete di accomodare o di togliere la giacca? E soprattutto, non mi fate alcun complimento per la giacca? È all’ultimo grido!”

«Scusami per la scortesia Jay. Vuoi sederti mentre ti preparo un buon caffè italiano?

Ho fatto fare alla mia caffettiera un volo transoceanico pur di non bere le vostre brodaglie americane! Vedrai, non le vorrai più neanche tu dopo stasera, tornerai sempre qui!»

Ridiamo entrambi, la sua testa con folti capelli neri dalla piega perfetta reclina leggermente all’indietro mentre con la mano davanti la bocca tenta di coprire una risata squillante e al tempo stesso delicata.

Ancora non conosco Jay, ma già mi piace, molto!

Sembra una persona simpatica ed estroversa; per di più, col suo modo di vestire “super glam” sono sicura potrà darmi tanti utili consigli!

Inoltre, visto che Leo non ha ancora ottenuto il trasferimento dalla sua società e presto dovrà ripartire per Roma, e che anche Emma non sarà sempre nei paraggi per via dei suoi frequenti viaggi di lavoro, con Jay magari sarò meno sola...

Nascerà una bella amicizia, me lo sento!

Finalmente si toglie gli occhialoni da diva, guardando il regalo che tiene sulle ginocchia con due occhi a mandorla che rivelano origini asiatiche.

In imbarazzo faccio presente che non avrebbe dovuto ma, non appena le mie mani sfiorano quella morbida pelle profumata, ogni disagio scompare.

La borsa più bella che abbia mai visto!

Mi dice essere un’original “Stella McCartney Falabella”. Non so cosa voglia dire, ma ho ben presente chi sia la stilista ed intuito quanto possa costare.

«È troppo! Non... non posso accettarla...» dico con le lacrime agli occhi per il fatto che la sto restituendo.

«Con questo caffè fa-vo-lo-so siamo pari, mia cara! E poi conosco Stella personalmente... Sono designer d’interni, le ho appena riprogettato ed arredato il suo “piccolo” loft newyorkese.»

I nostri sorrisi già complici si spalancano, mentre Leo ci guarda preoccupato: starà già immaginando Jay che rivoluziona il nostro appartamento inondandolo di colore, incensi profumati e chissà cos’altro.

Bé, è probabile. Altamente probabile.

Dopo aver salutato Jay, che sull’uscio mi strizza l’occhiolino per complimentarsi di Leonardo facendolo arrossire come un peperone, mi volto verso di lui in uno stato a dir poco euforico: sono felicissima!

Mio marito un po’ meno, leggermente infastidito per aver appena ricevuto espliciti apprezzamenti da un uomo.

«Almeno non dovrai temere la concorrenza!» dichiaro festosa.

Ho sempre desiderato avere un amico gay, perché hanno l’enorme pregio di essere uomini sensibili dall’animo gentile, in grado di capire sia coloro che vengono da Marte sia coloro che vengono da Venere.

Insomma, avrei mai potuto chiedere un vicino migliore di così?

Ancora più raggiante, recupero la situazione da dove era stata interrotta ed afferro il mio calice di champagne, che vibra contro quello di Leo facendogli tornare il buon umore.

Ora che anche le visite più inattese sono terminate, nessuno disturberà la nostra notte di fuoco.

Lui mi guarda dritto negli occhi, in modo così profondo che sembra avermi già spogliata.

Mi accarezza una ciocca di capelli, sento il suo respiro profumato di fragole e champagne fondersi col mio; avvicina le sue labbra disegnate che schiudono le mie in un vortice di ione.

Sta per condurmi in camera quando sento di nuovo un lieve scamlio al portone.

«Hai sentito?» gli chiedo staccandomi per un secondo dalla sua bocca.

Leo, che sta facendo scivolare le spalline del mio vestito, risponde in tutta fretta di no. Mi bacia lungo il collo e continua a farmi indietreggiare verso il letto, quando un trillo più lungo sopraggiunge dietro di noi.

«Questa volta l’hai sentito? Chi sarà?!» domando divincolandomi da Leonardo, che si accascia sul cuscino mentre il camlo risuona di nuovo in modo persistente.

La prima cosa da cui i miei occhi vengono attratti appena spalanco la porta non è la persona che ho di fronte, ma i numerosi bagagli che ha con sé.

«E tu?! Che cosa ci fai qui?!»

«Ciao! Scusami per l’ora, dormivi?»

«No! Non proprio...» interviene Leo arrivato da dietro per capire chi fosse il guastafeste.

«...ma alla mia cognata preferita è concesso anche di piombare in casa a mezzanotte!» continua lui non appena la vede, abbracciandola e scompigliandole teneramente i capelli.

Scanso Leo per ricevere anch’io il caloroso abbraccio di mia sorella, anche se è

tutt’altro che caldo: è fradicia dalla testa ai piedi.

«Cos’è successo?! Perché sei zuppa come un savoiardo?» domando con apprensione mentre Leonardo le chiede spiegazioni per essere già rientrata dal suo viaggio di lavoro e, intuendo il peggio, per avere al seguito ben sette valigie.

«Mi hanno fatto tornare prima da Boston perché questa settimana avranno bisogno di me qui a New York: dovrò fare diversi reportage sulle tempeste che si stanno abbattendo sulla città.»

«Ma fuori non piove.» ribatte Leo un po’ confuso, vedendo dalla finestra un cielo terso e al tempo stesso Emma gocciolare sul pavimento come un mocio.

«Pioverà, pioverà. Così almeno è previsto.

Per quanto riguarda i miei panni intrisi d’acqua, invece, è per via dei tubi vecchi del mio appartamento...

Rientrata oggi dal mio viaggio, immaginate che sorpresa quando aprendo il portone mi sono ritrovata il Lago Michigan nel salotto! Mancavano solo le trote! Ho provato a rimediare in qualche modo, ho preso stracci, secchi, ma niente è bastato per risucchiarlo.

E il risultato è questo.» Dice andosi una mano dalla testa fino alle scarpe.

“E il risultato è questo.” Dico io nella mia mente fissando tutte le sue valigie.

2 maggio 2014

Lo squillante jingle del telegiornale interrompe bruscamente il programma che sta andando in onda, preannunciando in modo inconfondibile ciò per cui tutti siamo in allerta.

«Edizione straordinaria.

Il tornado Wendy si sta per abbattere sui quartieri Queens e Brooklyn di New York.

Non uscite. In casa restate lontano da porte e finestre, cercate riparo vicino a muri portanti o sotto tavoli, letti, banconi.

Se siete fuori, non rifugiatevi in auto né sotto i cavalcavia. Trovate riparo in edifici solidi o in avvallamenti del terreno.»

Panico.

La tazza di caffè mi scivola tra le mani, Leonardo alza il volume della televisione ed Emma, ancora in pigiama, lascia la sua brioche, afferra il cellulare ed inizia rapidamente a vestirsi.

La seguo con la coda dell’occhio ed intanto prego che non vi siano vittime né feriti e che la mia casetta appena acquistata venga risparmiata dalla violenza del tornado.

È una piccola villetta a schiera nel quartiere residenziale “Greenwich Village”, nella parte occidentale del centro di Manhattan.

Per descriverla potrei fare un paragone con la casa dei Robinson, la famosa famiglia del telefilm di Bill Cosby.

Ecco, l’entrata è la stessa: stessi scalini e stessa ringhiera in ferro battuto, ai cui lati siepi ben rifinite colorano di verde i mattoncini rossi della cortina.

Bene, della casa dei Robinson non c’è null’altro: la loro immensa cucina è sostituita da un piccolo cucinotto all’angolo del saloncino; non ci sono nemmeno le decine di stanze dei vari figli Robinson, ma solo una camera da letto ed una piccola cameretta, che per ora è adibita a lavanderia e stenditoio.

Quando arriverà l’ “Erede”, o si cambia casa, o non laverò più i panni.

Comunque mi piace da matti, è così calda ed accogliente!

Talmente accogliente che temo non mi scrollerò più di dosso mia sorella che ha deciso di restare da me finché non termineranno i lavori sulle tubazioni del suo appartamento, e probabilmente anche oltre.

«Devo andare.» annuncia solenne l’eroica paladina distogliendo i miei pensieri.

«Dove?! Sei impazzita?! Hai sentito cosa hanno detto? “Non Uscite!”»

«Viola, lo sai, è il mio lavoro. Devo essere sempre sul pezzo!

Jack, ci vediamo a Brooklyn, alla fine del ponte, all’angolo fra Adams St e Tillary St, partiremo da lì.» comunica lapidaria al suo collega dall’altro capo del telefono.

«Il tuo lavoro è farti travolgere dagli uragani?!» le urlo mentre è già fuori dalla porta.

Mi scaravento allora anch’io sull’uscio da dove la vedo rombare con quel ferrovecchio che ha ancora il coraggio di chiamare macchina.

Spero si rompa tra un paio di metri e la lasci a piedi, così almeno sarà costretta a tornare a casa, al sicuro.

Sono ate più di quattro ore e fuori si è scatenato il diluvio universale.

Emma non ha mai chiamato ed io non posso far altro che stare incollata alla tv, per rimanere aggiornata sulle condizioni meteo e per sperare di vedere mia

sorella davanti ad una telecamera, sana e salva, mentre annuncia in diretta le ultime novità.

Invece niente.

Al telegiornale della NBC non mandano in onda i collegamenti con l’esterno, che per via della forte pioggia si stanno rivelando estremamente difficoltosi.

Di male in peggio.

Come se non bastasse, c’è sempre lo stesso faccione di gomma dell’anchorman Mike Sullivan che, comodamente seduto sulla sua poltrona, parla della catastrofe che si sta abbattendo sulla città.

Non l’ho mai potuto sopportare, con quelle espressioni di circostanza che sfodera a seconda dell’occasione: se annuncia servizi di cronaca nera, assume un carico cipiglio crucciato; se di cronaca rosa, si fa venire le stelline luccicanti negli occhi; per non parlare dei salvataggi in diretta dove dà veramente il peggio, come in questo momento. Praticamente sembra lui il pompiere di turno alle prese con la vecchietta intrappolata in casa o con l’intera scolaresca salvata da morte certa.

Se poi si considera che è la persona che ha mandato “al fronte” Emma, la mia intolleranza nei confronti di quest’uomo si trasforma in vero e proprio odio. È solo colpa sua se mia sorella sta rischiando la vita per fare uno stupido reportage in diretta!

Ancora non capisco cosa ci trovi una ragazza brillante come lei in un tale pallone gonfiato, con i denti finti ed i capelli impomatati.

Sì, è proprio così: hanno una storia.

Quando me l’ha detto ero sulla scala ad imbiancare la parete del bagno... e per poco non precipito.

Comunque, è da un paio di mesi che si frequentano, Emma sembra felice e questo per il momento mi basta. O meglio, me lo faccio bastare: fosse per me le impedirei di vederlo, ma non posso sempre interferire nella sua vita amorosa!

Certo, le smorfiette da soubrette e quel finto sorriso non mi aiutano a cambiare opinione su di lui, ma proverò a dargli il beneficio del dubbio.

In fin dei conti se va bene a lei deve andar bene anche a me. Giusto? Giusto...

Oltretutto è ancora vivida nella mia memoria tutta la storia col suo platonico amore del ato che non approvavo, Liam, di cui per un fatale scherzo del destino mi stavo invaghendo io.

Se ripenso a tutto il disastro che ne era poi scaturito, ancora mi vengono i brividi.

Liam... Chissà che fine ha fatto...

Bé, ora che sono di nuovo a New York magari potremmo rivederci per un caffè.

Mentre i pensieri vagano verso ricordi lontani, la televisione continua a mandare in onda immagini di pali divelti, alberi sradicati e strade allagate, facendo tornare la mia attenzione vigile sulla calamità che sta avendo luogo.

Sono sempre più in pensiero, quando Emma torna a casa mi sente!

Non può decidere di morire come un kamikaze e pretendere che me ne stia pure zitta! Le farò una di quelle ramanzine che rimarrà nella “Top Five dei predicozzi”, anzi scalerà la classifica! Sto anche valutando l’idea di cacciarla via di casa.

Proprio come previsto, purtroppo, è arrivato.

Il tornado Wendy si è scaraventato prima su Brooklyn, alle ore 13.45 circa, continuando poi la sua corsa distruttiva sul Queens spinto da venti che viaggiano ad almeno 180 miglia orarie.

Categoria 3 sulla scala Enhanced Fujita: solo due gradi sotto il massimo possibile.

Emma chiamami!! Dai, non ti farò andar via da casa, ti farò soltanto la ramanzina.

Da quella non posso esimermi, lo sai che sono il tuo grillo parlante. Giusto? Giusto.

Ancora altre tre ore e ventisette minuti senza sue notizie.

Continua a piovere incessantemente ed il telegiornale comincia a parlare dei primi dispersi.

Ti supplico Emma, fammi uno squillo! Dai, non ti farò neanche la ramanzina! Anzi, domani andiamo a fare shopping e ti compro tutto ciò che vuoi!

Sono le ore 18.

Finalmente riesco a mettermi in contatto con la sua redazione.

Il sollievo per essere riuscita a prendere la linea tuttavia svanisce nei pochi istanti dopo: mi comunicano di essere alla ricerca di mia sorella da questa mattina.

All’appuntamento con i colleghi Emma non è mai arrivata.

Oh mio Dio.

Il gelo inizia a scorrere nelle vene, il terrore ad impallidirmi il viso.

Leonardo capisce al volo e, senza far domande, afferra le chiavi della macchina.

Mentre le ipotesi e le immagini peggiori si rincorrono nella mia mente ci precipitiamo verso la porta, spalancandola e ritrovandoci faccia a faccia con due spaventaeri gocciolanti.

Mia sorella, col dito fermatosi a mezz’aria verso il camlo, abbozza un timido sorriso rendendosi conto dai nostri sguardi sconvolti della preoccupazione in cui ci ha fatto vivere per ore.

I suoi capelli sono infangati, il suo viso è infangato, i suoi vestiti sono infangati e la sua scarpa è infangata.

“Dov’è l’altra?” avrei curiosità di chiederle, ma l’istinto di ucciderla con le mie mani nude ha il sopravvento: «Che diavolo di fine avevi fatto!!! Siamo stati in pena tutto il santo giorno, per non parlare dell’infarto che mi è preso quando mi hanno detto che eri tra i dispersi!» Le lacrime iniziano a sgorgare, miste a singulti quasi isterici.

Entriamo in casa, ed ogni loro o sguscia come avessero le zampe palmate.

Poi realizzo, mi blocco, mi giro: lo guardo avanzare mentre alla stregua di una lumaca lascia una scia melmosa nel mio salotto appena ripulito.

Lo “spaventaeri numero due”... Chi è?!

3 maggio 2014

«Buongiorno sorellona adorata!»

Apro un occhio e, sebbene l’altro sia ancora mezzo chiuso, riesco lo stesso a lanciarle la mia occhiataccia sbieca da coccodrillo.

Non so se abbia sortito l’effetto di spaventarla o meno, ma a questo punto ha anche poca importanza.

Quel che interessa, invece, è che sia già stato posto rimedio a ciò che altrimenti si trasformerà in un vero e proprio incubo.

«Non è affatto un buongiorno...» le ringhio tra i denti sbiascicando ancora dal sonno «A meno che tu non abbia mandato via il tuo ospite da casa mia!»

Per colpa sua e del tizio che si è portata dietro non ho dormito neanche un minuto, arrovellandomi sull’assurda situazione nella speranza di trovare una soluzione.

Come se non bastasse, poi, stanotte oltre al danno ho ricevuto anche la beffa: entrata in cucina per bere un bicchiere d’acqua, il nuovo ospite ronfava beato, serenamente sul MIO divano, con un pigiama di MIO marito e con l’abatjour del MIO comodino collocatagli accanto per l’occasione. Ad un certo punto, proprio mentre lo stavo fissando, ha persino sorriso nel sonno. Pure!

Io a trascorrere la nottata insonne e lui a sognare come un angioletto chissà che cosa.

Vederlo così serafico, tuttavia, è servito a farmi quantomeno accantonare l’ipotesi che possa essere uno psicopatico serial killer.

Potrei però sempre ricredermi. Spero solo di non doverlo fare sulla mia pelle.

Respiro profondamente, redarguendomi di non fare malsani pensieri e cercando di convincermi che tutto andrà bene.

Dovrei riprendere gli esercizi di training autogeno che avevo imparato un po’ di tempo fa e che per pigrizia ho abbandonato: ora sarebbero stati davvero utili. Per non parlare di quelli di yoga! Ero anche brava! La mia prima lezione la feci con mia sorella proprio qui a New York, un paio d’anni or sono. A dir la verità fu anche l’ultima, le varie figuracce collezionate in un sol giorno mi bastarono.

Ok, non ero poi così brava.

Sono sicura però che a quest’ora sarei stata abilissima, se all’epoca la vergogna non mi avesse inibito a continuare!

Al ricordo che più della metà di quelle brutte figure furono causate da mia sorella, mi soffermo a riflettere su quanto spesso Emma mi abbia causato pasticci a cui ho dovuto rimediare, anche se niente è lontanamente paragonabile

a quello che mi ha combinato ieri.

“Dai Viola, non essere così catastrofica!” - continuo a spronarmi nella mente “Sii meno pessimista e vedrai che ogni cosa andrà per il meglio.”

Dopotutto, con mia sorella sono stata estremamente chiara fin da subito: il tizio avrebbe potuto dormire qui solo per una notte, sparendo dalla mia vista all’alba del giorno dopo.

Calcolando che sono le 9.30 ate, sarà già andato via.

Inoltre, se è venuta persino a portarmi la colazione a letto, vuol dire che ha risolto il problema e che questo è il suo modo per chiedermi scusa dell’accaduto.

Un intenso profumo di caffè e di croissant appena sfornato mi inebria, sul vassoio ci sono persino tre cioccolatini, mi sto quasi rasserenando quando, augurandomi buon appetito, mi informa di aver amorevolmente lasciato quell’ultimo cornetto per me.

Mi alzo seduta di scatto, scrutandola con aria ammonitrice: «E’ ancora qui!!

Non mi avresti mai lasciato l’ultima brioche se non avessi ancora qualcosa da farti perdonare!»

«Perché dici questo?!» reclama offesa lei «Non si può essere gentili con l’amata

sorella, sangue del tuo stesso sangue?»

Già non l’ascolto più mentre, impalata sulla porta della mia stanza, vedo il tizio intento a smangiucchiare un toast. Un MIO toast con il MIO formaggio sul MIO tavolo!

Mi giro furibonda verso Emma, che alza le spalle in segno di innocenza: «Dopotutto mi ha salvato la vita!!» mi rammenta con occhioni supplichevoli.

«Lo so, ho capito! Gli ho ampliamente dimostrato la mia gratitudine facendolo restare a dormire qui e facendogli mangiare i miei toast!»

«Ah, la mia vita per te vale giusto un paio di sandwich?» ora è lei ad assumere un tono arrabbiato.

Ma tu sentila, sta cercando di rigirare la frittata! Devo stare attenta o va a finire che poi devo chiederle pure scusa per averli ospitati.

«Il fatto è che non sappiamo nulla di quest’uomo! E la cosa peggiore è che neanche lui sa nulla di sé!!! Che poi, detto tra noi: tu ci credi davvero alla storia dell’amnesia?» bisbiglio per non farmi sentire.

«Guarda Viola, non lo so! So solo che se non ci fosse stato lui ieri a gettarsi in mio soccorso sfidando le acque tempestose del fiume Hudson, a quest’ora non sarei qui, e il tuo impegno per la mattinata sarebbe stato cercarmi chissà dove e non certo quello di trangugiare cornetti!»

Va bene, dovrei essergli più riconoscente, ok. E, giusto per precisare, il cornetto era solo uno, non cento.

Comunque, proverò a sforzarmi e a dimostrarmi più gentile, in fin dei conti questo tizio è un eroe... Sempre che non abbia appositamente fatto in modo che Emma precipitasse nel fiume, per poi far finta di salvarla, entrare così in casa sua (o di sua sorella nella fattispecie), ottenere la sua fiducia e la sua lealtà, farle venire i sensi di colpa per avergli causato una finta perdita di memoria e riuscire così ad ottenere tutto ciò che vuole: soldi, vestiti... sandwich al formaggio!

Uhm... questa teoria non fa una piega.

Indagherò, ovviamente senza farmi accorgere da quella permalosa di mia sorella che altrimenti potrebbe non parlarmi mai più.

«Buongiorno!» esordisco con aria decisamente troppo festosa attirando su di me lo sguardo scettico di Emma.

«Buongiorno a te Viola. Volevo ancora ringraziarti per avermi concesso di dormire qui, sei stata così ospitale, grazie.»

Non crederà che bastino due parole di ringraziamento per intenerirmi, spero!

«Visto che mi sono alzato presto, in segno di gratitudine mi sono permesso di fare una piccola tortina. Non ho la più pallida idea di dove l’abbia imparata, ma

il risultato non dovrebbe essere male.» conclude piazzandomi davanti una fumante e golosa pasta sfoglia rigonfia.

Mentre raccatto dal tavolo anche le ultime briciole della superba torta di mele, tutti i dubbi e le perplessità su Mister X svaniscono magicamente.

Mi ritrovo non so come a sorridere beata e satolla, mentre Leonardo che non si fa distrarre da dolciumi e simili sciocchezze cerca di capire ancora una volta come siano andati i fatti.

Emma allora racconta di nuovo l’accaduto, aggiungendo dettagli che man mano le tornano alla mente.

Era ovviamente di fretta, mentre correva all’appuntamento che aveva col collega.

Fuori un cielo nero e tuonante rabbuiava la città, sebbene fossero le prime ore del mattino.

Le strade erano allagate. Alcune inagibili per via degli alberi sradicati e pali della luce divelti; altre, troppo pericolose da percorrere, erano state chiuse al traffico. Tra queste c’era proprio Center St, che Emma avrebbe dovuto imboccare.

Così cambia direzione alla ricerca di una scorciatoia.

La trova, o almeno è ciò che crede.

Prosegue fino a che la strada non si interrompe, anch’essa chiusa da transenne che, per essere state lì, avranno avuto un motivo più che valido.

Invece, non curante del pericolo, ha la brillante idea di lasciare la macchina e di oltreare le transenne a piedi. Einstein in confronto a lei non era nessuno.

Si infila tra viette secondarie che le fanno perdere il senso dell’orientamento, la pioggia continua a battere incessante, l’acqua per le strade alta quasi cinquanta centimetri la porta a scivolare in terra più e più volte.

Si rialza, esausta, vorrebbe ritrovare la sua auto ma la cerca invano, si è completamente smarrita; sa di essere nei pressi del ponte, vede gli argini del fiume a poca distanza da lei; non ci sono negozi, né edifici in cui rifugiarsi, solo saracinesche serrate di magazzini sbarrati.

Gli unici suoi ripari sono un ombrello ormai rotto ed un K-way con cappuccio, ovviamente inutili: la furia della tempesta è all’apice.

Continua a camminare per forza d’inerzia nella speranza di trovare un luogo chiuso, ma ogni tentativo è vano finché, stremata dalla stanchezza ed impaurita, sente sotto ai piedi un terreno melmoso che la fa sdrucciolare verso il basso.

Da qui i suoi ricordi si fanno più vaghi ed evanescenti: fango, tanto fango; le sue grida, sovrastate dal rumore del fiume in tempesta che sente sempre più vicino;

la gamba che s’impiglia, i lunghi capelli sul viso; la forza dell’acqua che la tira verso il fondo, e la forza di un braccio che la rialza.

Accanto a lei, un ragazzo di un metro e novanta dalla corporatura vigorosa cerca di contrastare il torrente di melma e detriti; le lancia prima la sua giacca a mo di fune, che cade in acqua al terzo tentativo; si avvicina allora di più, le loro mani disperatamente si tendono, fino quasi a sfiorarsi; lui sprezzante del rischio prosegue ancora verso di lei; la raggiunge, la sollevarla di peso, portandola in salvo sul ciglio della strada.

Proprio mentre le fa toccare un suolo più stabile, lui scivola nuovamente verso il basso battendo violentemente la nuca contro un masso.

Privo di sensi continua la sua discesa verso le torbide acque dell’Hudson, quando mia sorella inseguendolo riesce ad afferrarlo per la camicia.

Anche qui i ricordi si fanno più sfumati, lei che gli urla di riprendersi, lui che riapre gli occhi e che finalmente reagisce con potenza.

Sani e salvi, troveranno per alcune ore riparo sotto una fatiscente tettoia di un deposito, per poi proseguire a piedi verso casa.

“The end”, verrebbe da dire.

Invece... è solo l’inizio.

4 maggio 2014

Sono le ore 6.30 di mattina. È già tardi.

Da dove si comincia oggi?

Dal preparare le valigie del tuo adorato marito che riparte per l’Italia tra poche ore?

Oppure dal cucinare il pranzo alla sorellina che, ancora dolorante per le ferite riportate ieri, non si è voluta prendere neppure un giorno di riposo dal lavoro?

O ancora, dall’aiutare il tizio che dorme sul tuo divano a ricordare qualcosa della sua vita? Portarlo da un medico magari, oppure fare annunci in tv tipo: “Ritrovato uomo sulla trentina, alto, carnagione olivastra, mangiatore di toast. Cercasi famiglia, la sua o qualsiasi altra disposta a prenderselo”.

La scelta è ardua ed il tempo a disposizione poco. La mia giornata dovrebbe essere almeno di quarantotto ore, anzi no, settantadue.

Come se non bastasse dovrei pure iniziare ad esaminare un fascicolo di causa di oltre settecento pagine, regalo di benvenuto dei soci del mio studio.

Tra il trasloco ed i lavori di casa, il tornado, Emma che si è trasferita da me e che

ha deciso di ospitare anche l’uomo del mistero, non sono mai riuscita neanche ad aprirlo, quel fascicolo!

Mi licenzieranno in tronco, lo so: mi guarderanno dall’alto in basso con la loro solita aria tronfia, scuotendo la testa come a dire “sapevamo che avresti fallito”, mentre io intenta a raccattare da terra le ultime scartoffie lascerò per sempre il mio ufficio a orecchie basse.

Che triste destino.

Do un’occhiata veloce al mega-faldone, pesantemente appoggiato sull’ultima mensola della libreria che temo possa cedere sotto la sua mole, e o oltre cercando di non pensare più a lui per il resto della giornata.

Entro nella camera da letto, dove per un mese ho condiviso con Leonardo momenti indimenticabili: le coccole al termine di estenuanti pomeriggi a pitturare pareti ed imbiancare soffitti; le nostre chiacchiere consumate su questi cuscini in mancanza di sedie, divani, o di qualsiasi altro mobile d’arredo; i teneri baci e le notti d’amore, in cui forse abbiamo concepito nostro figlio.

A quest’ultimo pensiero una lacrima mi riga il viso, che Leonardo avanzando da dietro mi asciuga dolcemente.

«Non voglio che tu te ne vada...» sussurro mentre lo stringo forte a me.

«Non vorrei neanch’io, soprattutto ora che hai più bisogno di me... l’idea poi di

lasciarti in casa con questo sconosciuto non mi rende affatto tranquillo!

Ovviamente ci sentiremo tutti giorni, dovrai aggiornarmi su ogni cosa.

Promettimi che starai bene. Io ti prometto che tornerò presto, e per sempre.»

«Per sempre...» ripeto con un filo di voce mentre di nuovo gli occhi si gonfiano di pianto ai ricordi che queste due parole rievocano: le abbiamo pronunciate il giorno nostro matrimonio, su una spiaggia bianca a piedi scalzi, e fatte incidere nelle nostre fedi.

Mi sforzo di sorridere e di non farmi vedere triste.

In auto però ho un nodo alla gola, che trattengo fin quando arriviamo in aeroporto.

Leo si unisce alla folla sparpagliata dei eggeri; è lontano ormai, di spalle; nonostante ciò continuo a seguirlo con gli occhi mentre si fa sempre più piccolo.

Sto per voltarmi verso l’uscita ma decido di rimanere ancora un attimo: attimo in cui lui improvvisamente si gira ed alza per l’ultima volta la mano, salutandomi con due dita unite poggiate sulla tempia come un soldato al suo capitano.

Gli rimando un sorriso, che si piega all’ingiù non appena l’immagine evanescente di Leonardo non svanisce completamente.

Il magone che finora ho contenuto irrompe in singhiozzi inarrestabili.

So bene che non starà via a lungo e che la mia reazione è esagerata, ma non riesco proprio a frenare questi goccioloni.

Sulla strada di ritorno verso casa mi esorto a non pensare a Leo bensì ad altro.

Tanto, di cose su cui concentrarsi ce ne sono fin troppe. Due a caso: Emma e “Lo Smemorato di Collegno”.

Varcando la porta me li ritrovo neanche a dirlo a chiacchierare concitati sul divano.

«Ma non dovresti essere a lavoro?» domando a mia sorella. «Ti avevo preparato pure il pranzo...»

«Sì, lo so, grazie. Alla fine però ho deciso di prendermi la giornata libera, la gamba mi fa ancora molto male, oltre al fatto che vorrei accompagnare il nostro amico da un medico specialista che ho contattato poco fa.»

“L’amico è solo il tuo” mi verrebbe da precisare, mentre Emma continua a sgomitare sul braccio del ragazzo come a volerlo spronare.

Con sguardi trionfanti iniziano allora a fissarmi, ottenendo il risultato sì di incuriosirmi, ma anche e soprattutto di inquietarmi.

Mister X si alza in piedi e, visibilmente emozionato, tira fuori qualcosa dalle tasche dei jeans di mio marito.

Ormai si è appropriato del suo guardaroba: hanno una fisicità simile, entrambi alti e ben strutturati, spalle larghe e muscolatura tonica.

Il risultato è che gli calzano perfettamente tutti vestiti di Leo, e che mia sorella inizia a guardarlo con una strana luce negli occhi.

Bé, è sicuramente meglio di Mike Sullivan, di gran lunga aggiungerei!

Non dimentichiamo inoltre che le ha salvato la vita, esercitando così pure il fascino del principe azzurro.

Forse lo preferisco rispetto a “Zigomo di Plastica”. Anzi, lo preferirei decisamente: chiunque sarebbe meglio dell’anchorman di gomma.

Nel frattempo, vedo Mister X intento ad aprire un fazzoletto di seta con estrema cura: «Era nelle tasche dei miei pantaloni, chiuso esattamente così.» mi anticipa.

Oh mio Dio.

Non ho mai ritrattato un pensiero tanto velocemente come ora: per mia sorella non è adatto. È meglio Sullivan.

Da quel lembo di stoffa sono infatti appena fuoriusciti due lucenti cerchi d’oro giallo.

Sono... fedi!

Prende la più piccola, legge in controluce l’incisione, “Contro tutto e tutti”.

Afferra poi la grande, indossandola: gli calza a pennello, è a dir poco perfetta.

Se la rigira sull’anulare, come se volesse provare a ricordare il peso di quei pochi grammi sul dito, pensando al tempo in cui l’avrà portata.

All’interno non c’è alcuna data ad aiutare, ma solo la stessa frase dell’altra.

«Sei sposato...» le parole mi muoiono sulle labbra.

«Parrebbe di sì.» risponde lui con un timido sorriso.

«Anche se non ho più un dannato ricordo a confermarmelo.» prosegue andosi con frustrazione un braccio dietro al collo.

Gli prendo la mano sfiorando con dolcezza quell’anello d’oro senza un inizio né una fine, simbolo per questo di un amore eterno, e gli prometto seriamente che l’avremmo aiutato.

D’improvviso è scattata dentro di me una forte solidarietà nei confronti della povera moglie che, da qualche parte, starà piangendo la sua scomparsa fin dal giorno del tornado; ma anche nei confronti dell’uomo che ho di fronte, che con i suoi occhi limpidi e un po’ spauriti inizia a suscitare la mia benevolenza.

Seduti attorno al tavolo per ore, stabiliamo un preciso programma per la giornata: la prima cosa da fare è andare dal Dott. J. T. Nelson, luminare nel campo della neurologia, che potrà spiegarci esattamente cosa sia accaduto alla memoria del nostro amico.

Sì. Da ora è anche amico “mio”.

Arrivati al centro neurologico, pendiamo dalle labbra del professore mentre le sue parole ci illuminano.

Sostanzialmente, spiega il Dott. Nelson, esistono tre tipi di memoria:

quella semantica, che si riferisce ad una conoscenza generale dei fatti e dei concetti non legati a nessun tempo o luogo particolari. Riguarda cioè conoscenze

di carattere generale che non sono associate ad esperienze personali.

Ad esempio: Parigi è la capitale della Francia; il mese di maggio viene dopo aprile.

Quella procedurale riguarda invece le abilità motorie e fonetiche, che vengono apprese con il semplice esercizio ed utilizzate inconsciamente.

Si ricorda cioè come eseguire determinate funzioni che richiedono un certo numero di azioni da compiersi in sequenza. Ad esempio: come si parla, come si guida o come si prepara una certa pietanza.

Infine c’è la memoria autobiografica, quella di fatti accaduti in un particolare tempo e luogo nel vissuto di un soggetto.

Riguarda le esperienze personali dell’individuo, ed è proprio questa che è stata intaccata nel nostro caso.

Mister X non ricorda più il suo ato, il suo nome, i suoi affetti, il suo lavoro, nulla.

Restiamo tutti e tre in silenzio mentre elaboriamo le nozioni che il Dott. Nelson continua a trasferirci.

Sta ora proseguendo con lo spiegarci che il disturbo nella memoria

autobiografica prende il nome di amnesia, ed è una sorta di difesa nei confronti di una situazione sconvolgente difficile da elaborare nell'immediato. La sua causa risiede, infatti, in un grande shock emotivo solitamente unito ad un trauma fisico.

«L’urto contro il masso!» sobbalza mia sorella ricordando che il suo eroe, nell’aiutarla, aveva violentemente battuto la nuca vicino all’argine del fiume.

«Si, esatto. Sicuramente il colpo di cui parli, insieme ad un forte trauma emotivo, avrà contribuito a causare l’attuale stato del paziente.» conviene il neurologo.

Di nuovo silenzio. Ora anche il medico ha smesso di discorrere.

Come se avessimo tutti le nuvolette disegnate a mo di fumetto sopra le nostre teste, riesco ad intuire il pensiero di ognuno: “Quale disastroso shock avrà mai potuto subire quest’uomo, poco prima di lanciarsi in soccorso di Emma?”

Ancora turbati all’idea che un evento brutale possa farti perdere i ricordi di una vita e lasciarti in un limbo di immagini vuote, le parole di Mister X tagliano l’aria che stiamo respirando: «Ricorderò mai chi sono?» chiede in modo conciso e diretto tale da non lasciare spazio a frasi di circostanza.

Il professore si assesta meglio sulla poltrona, chissà quante volte avrà sentito questa domanda e quante volte avrà dovuto spezzare il sogno dei suoi pazienti di riprendersi la propria vita.

«Vorrei poterle dire che la memoria tornerà, ma non posso.

I ricordi potrebbero tornare del tutto, spesso accade; oppure solo parzialmente.

O per niente.

Solo il tempo potrà darci una risposta.»

Mia sorella ed io ci giriamo istantaneamente verso di lui. Notiamo le sue mascelle contrarsi, i pugni serrati sulle cosce e gli occhi fissi nel vuoto che si sforzano per vedere oltre, laggiù, nel ato.

Emma gli poggia una mano su una gamba per infondergli coraggio, ed io su una spalla per fargli capire che non sarà solo.

Stiamo per alzarci come degli automi congelati quando il dottore compie un gesto che ci spiazza: prende un foglietto dal cassetto, porgendolo con una penna al nostro amico.

«Firmi.» gli ingiunge.

Il volto di Mister X assume un’espressione dubbiosa, tuttavia esegue il comando senza replicare.

Come per magia l’inchiostro inizia a segnare il pezzo di carta, facendo comparire una scritta.

«Hai firmato!!!!» urliamo all’unisono io e mia sorella, mentre lui osserva sbigottito ciò che aveva appena fatto.

«La memoria procedurale.» sentenzia il professore.

«Giusto, è vero!» esplodiamo in coro. Un’azione automatica, che ormai è entrata a far parte di un bagaglio di nozioni inconsce che non possono essere dimenticate.

Le nostre teste si chinano in contemporanea sul foglio di carta, curiose di conoscere finalmente il nome steso nero su bianco.

Il sorriso sui nostri volti però dura poco, trasformandosi in delusione quando scopriamo che la sua firma è praticamente illeggibile.

Forse di lavoro fa il medico. Si sa che i medici hanno delle calligrafie indecifrabili.

Comunque, il nome sembrerebbe iniziare per F., così come il cognome. O forse è una P.

Prende il via così il “toto-nome”: «Per me c’è scritto Franklyn.» inizia Emma.

«Per me è più Frederick.» sostengo io.

«Ma va, non ha certo l’aria di essere tedesco!» ribatte mia sorella.

«Io credo invece sia Fletcher.» interviene pure il dottore.

Insomma, tutti a dire la propria tranne il diretto interessato, che con occhi sgranati ancora scruta quel pezzo di carta come se potesse rivelargli la sua intera biografia.

«Non credo sia nessuno di questi tre.» annuncia solenne.

«Penso sia... Sebastian!» conclude vittorioso.

Silenzio.

La sua firma non sembra coincidere con quel nome, ma magari ci sbagliamo.

Continuiamo a fissarlo mentre attendiamo ci riveli qualcosa di più.

«Hai ricordato qualcosa?!» lo esorta mia sorella.

«Ehm... No. Veramente no.

Però “Sebastian” mi piace molto di più.»

Ci guardiamo ammutoliti, non sappiamo se stia scherzando o dicendo sul serio.

Poi finalmente le labbra di lui si piegano in un sorriso, che si tramuta in una piccola risata. Breve e composta, ma pur sempre un buon inizio.

Ancora disorientati per le notizie che avevamo appreso, sulla strada verso gli studi televisivi della NBC non facciamo altro che mettere insieme i pochi indizi che abbiamo, aggrappandoci ad essi con un approccio nonostante tutto fiducioso.

In primo luogo, ci sono le fedi.

Sebbene sembri molto giovane, probabilmente ha alle spalle diversi anni di matrimonio, visto che gli anelli sono molto rigati e leggermente opacizzati. Paragonati alla mia, che indosso da un paio d’anni, si nota una netta differenza.

Ciò che ovviamente ci sfugge è il perché Sebastian non indossasse la sua al momento dell’incidente, e soprattutto il motivo per cui avesse con sé anche quella della moglie.

«Forse la conservi tu perché lei è morta!» se ne esce d’impeto mia sorella tappandosi la bocca troppo tardi.

«Grazie, quest’idea mi fa sentire molto meglio: senza ricordi e pure vedovo!» ribatte lui frustrato.

«Scusa Emma...» riprende Sebastian «...non volevo prendermela con te, è che tutta la situazione è a dir poco snervante.

In realtà la tua teoria potrebbe essere valida, altrimenti perché dovrei averla io la sua fede?!»

«Forse perché vi siete soltanto separati!» cerco di rimediare io «Probabilmente tu l’ami ancora e hai deciso di tenerle entrambe. Sono sicura che è ancora viva, che ti riconoscerà in tv e che verrà da te, così finalmente avrai qualcuno che ti racconterà la tua vita!».

Il suo volto si illumina di una ritrovata speranza, ed io mi compiaccio della brillante intuizione che ho avuto.

Continuo quindi nei miei ragionamenti ad alta voce: «C’è poi quell’incisione enigmatica, “Contro tutto e tutti”.

Il vostro è stato un amore ostacolato, Capuleti contro Montecchi dei tempi moderni.» fantastico io con due occhi a cuore mentre mi ricostruisco nella mente la storia di due giovani amanti innamorati.

Questa faccenda mi intriga sempre di più!!

«Ecco allora!» irrompe lui. «Forse non siamo nemmeno divorziati, siamo solo stati separati dalle nostre famiglie che ci contrastano! Mi avrà dato la sua fede come ultimo pegno del suo amore!» conclude con tale romanticismo da farmi venire i lucciconi agli occhi.

Possibile che mi commuova per ogni cosa? Possibile che mi stia rammollendo così? Alla faccia del “Mastino” che dovrei essere!!

A farmi ricacciare indentro le lacrime ci pensa comunque la guastafeste razionale di mia sorella: «Su ragazzi, non scherziamo... Storie di amori contrastati, ora mi direte pure di matrimoni combinati, non siamo mica nel Medioevo! Non credo sia così, cerchiamo di essere lucidi per favore!»

Uhm... forse ha ragione.

Spero solo non abbia ragione pure sul fatto che Sebastian sia vedovo!

Continuando ad analizzare gli indizi, troppo pochi in verità, riprendiamo in mano il foglietto di carta con la sua firma, facendogliene fare altre venti per sperare che qualcuna possa decifrarsi meglio.

Niente: tutte simili, se non peggio.

«Sai fare le torte!!!» esplode Emma come se avesse rivelato al mondo l’intuizione del secolo.

Sebastian ed io ci guardiamo con aria divertita mentre rassegnati scuotiamo la testa.

«Però su una cosa Emma ha ragione.» azzardo «Tu hai incamerato e ricordato il procedimento per fare la torta: è la memoria procedurale che, essendo a lungo termine, non è stata scalfita dall’amnesia.

Devi allora cimentarti in quante più cose possibili, così da scoprire se c’è qualche attività che sai fare meglio di altre.

Se l’hai immagazzinata nella memoria procedurale, vorrà dire che è un’attività che sei avvezzo a fare. Potrebbero essere dei nuovi indizi!

Tipo: se ora mia sorella perdesse i sensi, sapresti rianimarla? Se sì, forse potresti essere un infermiere o un medico. Intuizione, questa, già ampliamente ata dalla tua pessima calligrafia.»

«Non lo so... » risponde lui titubante.

«Senti Sebastian, io voglio aiutarti, ma tu devi essere collaborativo, non siamo nelle condizioni di poter scartare alcuna possibilità!

Dai Emma, svieni.» dico a mia sorella come fosse la cosa più naturale del mondo.

Anche lei mi guarda perplessa, ma di fronte alla mia occhiata sbieca da coccodrillo si accascia per terra, toccandosi pure la fronte con il dorso della mano. Un’attrice da premio Oscar.

Sebastian resta per un attimo interdetto, qualche ante ci osserva senza avvicinarsi, messi in soggezione dai miei sguardi torvi col chiaro significato di “non vi avvicinate, o faccio svenire pure voi!”

Lui si china allora prendendole dolcemente la testa, tappandole il naso ed espirando lievemente aria nella sua bocca.

Le labbra carnose di lui sfiorano con delicatezza quelle più sottili di lei; ancora ispira ed espira; ancora labbra contro labbra.

Vedo mia sorella sorridere timidamente, tenendo sempre gli occhi chiusi da attrice consumata.

Anche lui chiude gli occhi, sembra assaporare il profumo di lei ed il tepore della sua bocca. Questo però non era nel copione del regista, che sarei io.

Ma che fanno?! Si stanno baciando sul serio?!

Io in piedi fisso la scena incredula mentre i miei attori rivoluzionano tutta la trama.

Tossisco intimidita per la situazione che si è creata, rammentando non appena si staccano che il bell’eroe è sposato e che, comunque, non è né un medico né un infermiere, e se lo fosse sarebbe ben poco professionale.

«Peccato, primo tentativo non andato a buon fine.» fa il vago lui alzandosi in piedi ed allungando un braccio a mia sorella per sostenerla.

«Sì, peccato...» dice lei andosi un dito all’angolo della bocca «Però, se può consolare, baci bene.» conclude lei guardandolo dritto negli occhi, facendo arrossire lui ed anche me.

Ma tu guarda in che guaio mi sto cacciando!

Sentendomi ormai un terzo incomodo, sono felice non appena intravedo l’insegna luminosa della NBC all’entrata del GE Building del Rockefeller Center.

Perfettamente in tema con questa enorme città, anche gli studi televisivi sono megagalattici: colori sgargianti, luci al neon, gente che corre frenetica di qua e di là; c’è chi senza alzare nemmeno la testa è intento a digitare sui tasti del suo pc; chi sfreccia accanto a noi con mucchi di fogli in mano; tecnici alle prese con telecamere e prove audio; decine di monitor accesi l’uno di fianco all’altro; truccatrici che seguono come ombre gli anchorman di turno.

A proposito, non vedo il mio carissimo amico di plastica: sarà in camerino a provare le faccine.

Mentre ci addentriamo nell’open space, dove in fondo sulla sinistra è posizionata la famosa scrivania da cui i telegiornalisti lanciano i servizi, il vociare concitato dei presenti pian piano si affievolisce.

Staranno per partire le riprese, suppongo.

Invece, con stupore, mi rendo conto che il silenzio che sta calando dipende solo da noi.

Si avvicinano a mia sorella prima un paio di colleghe, poi altre cinque, che cinguettano ammiccando al bel moro che si porta dietro.

Ecco ora anche le truccatrici, poi i cameraman, infine gli stessi giornalisti: tutti con gli occhi puntati su Sebastian.

«Così è lui?» tuona una voce alle nostre spalle.

Emma ha un sussulto, che padroneggia immediatamente sfoderando uno dei suoi più smaglianti sorrisi.

Si stacca dal gruppo per dirigersi da Mike Sullivan che, impalato a braccia conserte, aspetta una risposta.

Lei si avvicina e gli stampa un bacio sulle labbra, quasi a doverlo rassicurare di aver occhi solo per lui.

Purtroppo non sanno ancora la verità, neanche Emma la sa.

Solo io ho capito, ma cercherò di far finta di niente e di smorzare ogni scintilla pronta ad accendersi: dopotutto Sebastian è sposato! A parte questo, inoltre, di lui non sappiamo assolutamente nulla! È vero che è un eroe, ma come può Emma essersi innamorata di lui così, su due piedi?!

In teoria, poi, lei sarebbe anche fidanzata...

Guardando il faccione di gomma di Sullivan, mi rimangio le parole seduta stante: non è certo difficile invaghirsi di un ragazzo di un metro e novanta, occhi neri e profondi, fisico scolpito, di mestiere “supereroe”, quando si frequenta Mister Antipatia 2014 con denti finti, capelli leccati e smorfiette melense.

Mia sorella, prendendo sotto braccio Sebastian, inizia a fare le presentazioni: «Loro sono i miei colleghi.» dice sbrigativa; «Lui invece è l’uomo che mi ha salvato la vita.» gongola.

Mentre il nostro amico senza memoria si a a disagio una mano fra i capelli, le colleghe sospirano con un po’ d’invidia: in effetti sfido chiunque a non voler

essere salvata da un ragazzo così.

Dopo i soliti convenevoli iniziano i preparativi per l’annuncio da registrare: vengono sistemati i microfoni, le luci, un trucco veloce per Sebastian, uno più pesante per Mike Sullivan, e... «Tre, due, uno: in onda!»

In diretta nazionale la richiesta di aiuto di Sebastian.

Devo dire che ha un viso che buca lo schermo: ha il fascino di Antonio Banderas ma l’età di Orlando Bloom.

Spero solo che, vedendolo così attraente, non si presentino troppe mitomani.

Per fortuna abbiamo la fede come cartina di tornasole: non solo la faremo provare alle aspiranti mogli come fosse la scarpetta di Cenerentola, ma dovranno anche conoscere la scritta incisa dentro. Solo quella sarà la prova!

Terminato il lungo pomeriggio agli studi televisivi, finalmente i miei piedi ritrovano la comodità di morbide pantofole da camera.

Avendo notato che mia sorella voleva vantarsi ancora di lui, li ho lasciati in redazione cogliendo al balzo l’occasione per tornare a casa da sola, così da evitare di sentirmi di nuovo un terzo incomodo.

Con in bocca un mega panino al formaggio filante, realizzo che quando si è

esausti la propria casetta appare ancora più bella di quel che è.

Mi guardo intorno, il divano sembra ancor più comodo, il cibo ancor più appetitoso e... i faldoni di settecento pagine ancora più pesanti!!!!

“No Viola, non ce la puoi fare!” fa presente il piccolo diavoletto che è spuntato sulla mia testa.

“Però dovresti!” ammonisce l’angioletto comparso senza che nessuno gliel’abbia chiesto. “Sono giorni che ormai è lì, dovresti iniziare almeno a dargli un’occhiata!” continua imperterrito.

“Ma domani, a mente fresca, è meglio!” ribatte giustamente quello rosso con le corna.

“Certo però che i giorni ano!” ma che vuole questo puffo con le ali?

Mentre la lotta tra il bene e il male procede incessante, lascio i due litiganti al loro destino per andare ad aprire alla porta.

«Buonasera mia cara!»

Oh mamma, ci mancava.

«Ciao Jay, come stai?»

«Tutto ok mia cara! Oggi ho finito prima di lavorare, così ho pensato bene di venirti a trovare!»

“Si, guarda, hai pensato proprio bene!” ripeto ironicamente tra me e me.

Con tutto ciò che dovrei fare, tipo finire di mangiare il mio toast al formaggio, guardare la mia sit-com preferita e soprattutto lavorare sul mega-fascicolone, non vedevo l’ora che arrivassi tu!

Non faccio in tempo a chiedergli di entrare che già si è avvicinato al divano in attesa di essere invitato a sedersi.

Perfetto, anche oggi non si lavora.

«Prego, siediti. Ti preparo un caffè?» gli dico mentre continua a guardarsi intorno con fare indagatore.

«Dov’è?» mi domanda a brucia pelo.

«Chi?!» ribatto colta alla sprovvista.

«Dai, su, il bel fusto! Fa-vo-lo-so!»

«Mio marito intendi? È partito proprio questa mattina...»

«No mia cara, l’altro bel fusto! Certo che in questa casa non mancano eh!»

«Sebastian vuoi dire?!»

«Ah che bel nome, si chiama così?»

«Sì... ehm...Veramente, no... ehm... Non lo so.»

Mi guarda giustamente interdetto.

Nonostante non conosca ancora bene il mio interlocutore, ho talmente bisogno di sfogarmi con qualcuno che inizio a raccontargli tutta l’assurda vicenda: mia sorella incosciente che si precipita contro il tornado, che rischia la vita scivolando lungo gli argini dell’Hudson, e poi Sebastian che la salva ma che, nel farlo, batte violentemente la testa contro un masso.

Racconto dunque della visita neurologica, spiegando che quel colpo alla nuca gli ha causato una perdita di memoria.

«Ma c’è di più!» proseguo «L’amnesia non è dovuta solo al trauma fisico. Questo infatti deve essere associato ad un forte trauma emotivo per determinare l’enorme lacuna che si è verificata nei ricordi di Sebastian.»

Gli occhi di Jay diventano sempre più grandi e le sue labbra sempre più fini per via dei continui morsetti che si sta dando.

«Quel che ovviamente vorremmo tutti sapere è che cosa gli sia capitato poco prima di soccorrere Emma. Deve essere stato qualcosa di straordinariamente sconvolgente.»

Dopo qualche minuto di silenzio in cui restiamo a meditare sui vari scenari possibili, Jay se ne esce prospettando il più impensabile: «E se fosse stato testimone involontario di un omicidio?!»

Oh mio Dio.

Questo sì che potrebbe essere uno shock difficile da elaborare nell’immediato, come direbbe il dott. Nelson. Anche se io direi piuttosto uno shock da trent’anni di psicoanalisi!

«Ma dai, siamo seri! Non può essere!» cerco di rinsavire nonostante l’ipotesi di Jay abbia già iniziato ad insinuarsi come un tarlo.

Mica siamo nel Far West! Giusto? Giusto.

Mentre sto tenacemente cercando di convincermi sull’assurdità della sua teoria, mi dà il colpo di grazia: «E se gli assassini si fossero messi alla sua ricerca per toglierlo di mezzo?!»

Oh Cielo.

Ora lo shock emotivo ce l’ho io.

5 maggio 2014

Neanche questa notte ho chiuso occhio.

Perché diavolo do ascolto a gente vestita di fucsia e verde mela, che per giunta nemmeno conosco?

Ieri sera, quando Emma ed il suo eroe sono rincasati, non ho detto nulla né di Jay né delle sue inverosimili tesi.

Tra l’altro erano talmente sorridenti, perfino sereni, che non volevo guastare quel breve momento idilliaco.

Oggi però affronterò la questione: dopotutto devo metterli in guardia se dei pericolosi serial killer si sono messi sulle tracce di Sebastian.

Non appena svegli ricominciano a parlare degli studi televisivi, dei colleghi di Emma e soprattutto dell’annuncio andato in diretta nazionale.

Oh mio Dio, l’annuncio! Non ci avevo pensato!

Ora i sicari sanno anche dove venirci a scovare!!

Squilla il telefono ed io sobbalzo per lo spavento.

È la redazione, comunica che sono iniziati i primi riconoscimenti: ben sette aspiranti mogli. Prego solo che tra queste non vi sia la complice degli assassini!

Rimasti d’accordo che oggi andranno solo loro ad incontrare le donne, ma non certo perché io abbia paura di ritrovarmi faccia a faccia con Nikita 2, inizio finalmente ad esaminare il mio faldone.

La prima cosa che emerge non appena lo apro è una grossa nuvola di polvere.

Iniziamo bene.

Scartoffie su scartoffie, planimetrie, foto, cartine geografiche.

Ma cos’è questa roba?

Impiego più di tre ore solo per rimettere in ordine il marasma di scritti che è ato di collega in collega finché non è stato trovato l’avvocato perfetto a cui appioppare la “patata bollente”.

È una di quelle cause talmente complesse che vi si sono allontanati tutti come dalla peste.

Bé, non mi spaventano un po’ di carte, sono il mio pane!

A proposito di pane... mi è venuta una certa fame.

Esortandomi a restare concentrata, analizzo le parti in causa: una sfilza di nomi contro un certo Pedro Ferreya, cugino di terzo grado di Francisco Ferreya... niente meno che il fondatore dell’impero delle carni “Primero”.

Riprendo dunque in mano le carte geografiche e le foto che avevo appena riposto in un’apposita cartellina, che finalmente capisco a cosa servono: ad identificare nel dettaglio l’oggetto del contendere.

Più le analizzo, più non riesco a credere a ciò che il mio cervello sta elaborando.

Le mani tremano, mentre le immagini combaciano perfettamente con quanto addotto negli atti.

L’oggetto di causa è... mezza Argentina!

Ampissime pianure che si estendono dalla regione della Pampa alle regioni di Santa Fe, Buenos Aires e Cordoba: superfici di milioni di ettari, dove bestiame destinato alla produzione di carne viene allevato allo stato brado.

Tutto di proprietà di Francisco Ferreya.

L’estratto dell’atto di morte dichiara il suo decesso nello scorso gennaio.

Invece in quest’altra lista c’è la linea dei discendenti. Rigiro il foglio per vedere se ci siano altri nomi, ma niente, solo Pedro Ferreya. Non posso crederci, un unico erede per una fortuna così immensa. Che spreco.

Il nuovo Paperon de Paperoni, al cui confronto la regina d’Inghilterra è una pezzente, d’istinto già mi sta antipatico. Bé, meno male che non è lui il mio cliente.

Prendo allora il plico contenente le informazioni della parte a cui dovrò prestare assistenza legale: più vado avanti nella lettura, più realizzo che avrei voluto difendere l’antipaticissimo zio Paperone.

Almeno se avessi difeso lui sarei stata sicura di vincere.

Invece no.

Ecco perché mi hanno affibbiato questa pratica non appena ho messo piede nello studio! È praticamente una causa persa!!!

I miei clienti sono pastori, contadini, fattori, allevatori. Si vogliono opporre alla supremazia dello straricco erede che ha intenzione di bruciare quelle vaste pianure a vantaggio di un’edilizia sfrenata.

Certo, Ferreya è un pazzo se vuole rovinare quanto nei decenni suo zio ha costruito, ma i miei clienti sono ancor più matti se credono di farcela contro di lui!

Nonostante l’impossibilità dell’impresa, la “paladina delle mucche” – che sarei io – non si darà comunque per vinta in partenza.

Mi preparerò alla perfezione, studierò ogni cavillo anche di notte, tanto ormai sono giorni che non dormo, quindi notte in più o notte in meno non fa differenza.

Continuando a sfogliare le carte mi rendo conto, con estremo sconforto, che le difficoltà non hanno intenzione di diminuire: molti scritti sono in spagnolo e poi... oh mamma, non ci avevo pensato: il foro competente per la decisione è quello di Buenos Aires!

Mi toccherà pure andare in Argentina.

Con tutti i miei guai ci mancava solo questo.

Ancora con la testa china sulla scrivania, sento in lontananza delle risa che mi distolgono e che mi fanno render conto di essere già trascorse più di sette ore.

Mentre entrano li ascolto prendere in giro una delle aspiranti mogli, soprannominata la “russa”, presentatasi all’incontro praticamente in baby doll.

Mi scosto un po’ col capo per vedere meglio quell’ombra dietro Emma e Sebastian che li sta seguendo.

Oh mio Dio, i sicari!!!

Ho l’istinto di accucciarmi sotto al tavolo, che fortunatamente freno prima di mettere a segno una delle mie ennesime figuracce: a qualche o da loro, infatti, c’è solo il faccione di plastica di Mike Sullivan.

Come mai “Sua Maestà” è sceso dal trono per entrare nella casa di una comune plebea?

Sono sicura che vuole marcare il territorio e vedere dove vivono la sua fidanzata e il bell’eroe.

Mentre tutti si accomodano sul divano, che devo assolutamente cambiare perché evidentemente troppo accogliente, l’anchorman di punta della NBC senza essere interpellato inizia a lodarsi e sbrodolarsi: lui è il più fico di tutti, fa il lavoro più fico di tutti, idem per l’automobile, la casa, la collezione di orologi, la barca a vela e il suo criceto.

Ad ogni elemento che aggiungeva alla lista, Sebastian ed io ci rimandavamo occhiate eloquenti sbuffando e sbadigliando di tanto in tanto.

Il mio amico “smemorato” mi piace sempre di più, si vede che è un tipo in

gamba e che ha capito al volo chi ha di fronte, non come Emma!

Il fondo l’abbiamo toccato comunque quando Sullivan ha fatto un estratto conto della sua carta di credito e svelato il suo stipendio. Effettivamente è da capogiro, ma come puoi presentarti a persone che non conosci sbandierando il tuo conto in banca?

“Con tutti quei soldi dovresti comprare un po’ di educazione e di umiltà”, leggo nello sguardo infastidito di Sebastian.

Quando finalmente il più fico di New York leva le tende, Sebastian emozionato ci raduna attorno al tavolo.

«Non ci crederete mai!» esordisce.

«Oggi, mentre ero al colloquio con l’aspirante moglie “numero quattro”, che parlava e parlava inventando storie sul nostro fidanzamento, sul nostro matrimonio, sul nostro cane e via discorrendo, capito che si trattava di una millantatrice ho iniziato a non prestarle più attenzione.

La mia mente senza volerlo è tornata al momento in cui ho salvato Emma:, rivedevo davanti ai miei occhi il fiume in piena, e poi detriti, fango e ancora pioggia; poi, tutto d’un tratto, mi compare un numero. È grande, nero... un 2.

Immediatamente dopo, un altro veloce flash: 9.

Di nuovo fango, acqua, le grida di Emma, e poi... 0.

Così, ancora, 8 – 2 – 0 – 1 – 3.»

Si blocca di colpo.

Noi aspettiamo col fiato sospeso che ci dica di più.

«Vi rendete conto?!» esulta festoso. «Ho ricordato!»

«È fantastico Sebastian!!» gioisco anch’io mentre mia sorella rimugina.

«Però... tutti questi numeri... che significano?» interviene Emma spezzando la felicità del momento.

Lui abbassa lo sguardo quasi vergognandosi di essersi tanto entusiasmato per un ricordo che, forse, non è nemmeno tale, probabilmente solo frutto di chissà quale elaborazione mentale: «Bé, in effetti...» dice andosi una mano sul mento «...non saprei.»

«Dai, non abbatterti.» lo consola Emma «Sono convinta che questi numeri corrispondano ad un ricordo reale, e presto capiremo qual è.»

«Intanto potremmo giocarceli al lotto! Forse il tuo destino è quello di diventare ricchissimo!» concludo io credendo di infondergli un po’ di speranza, ma ottenendo da entrambi occhiate sbieche da coccodrillo che hanno imparato a fare meglio della sottoscritta.

Sebastian afferra un foglio, anzi la mia bolletta della luce, cominciando a scrivere la sequenza di numeri.

2 – 9 – 0 – 8 – 2 – 0 – 1 – 3.

«Cosa vorrà mai significare?» ragiona ad alta voce.

«Un codice da decifrare? O magari, più semplicemente, una data.» si illumina.

«29 – 08 – 2013... potrebbe essere!» concordiamo noi.

Il 29 agosto 2013... che sarà successo in questo giorno?

Ovviamente lui non riesce a ricordare altro, quindi, tanto per non lasciare nulla di intentato cerchiamo su internet se da qualche parte nel mondo sia accaduto qualcosa di rilevante. Sarà sicuramente un buco nell’acqua, ma non abbiamo nulla da perdere.

Come volevasi dimostrare, dopo alcuni tentativi di ricerca non è emerso niente degno di nota.

Emma sfiora le spalle di Sebastian ricurve per lo scoramento: vedo i loro sguardi incrociarsi ed un bagliore illuminarli. Lui le sorride, lei gli accarezza una mano. Mi sembra di sentire gli uccellini volare per la stanza.

“Mayday, mayday!!” Qui le cose iniziano a complicarsi.

Devo assolutamente parlare con Emma e metterla in guardia del guaio in cui si sta impantanando. Lui è sposato!!! Ma possibile che l’unica a ricordarselo sia io? Sebastian ha l’amnesia, ok; ma Emma, che problemi di memoria ha?!

In questo momento la persona che più deve rimanere lucida tra i due è lei, perché lui è troppo sconvolto da sensazioni ed emozioni che possono indurlo ad interpretare male ciò che sta provando: Sebastian si sentirà solo come non mai, è pure normale che si affezioni!

«Mi sento così solo...» ci spiazza neanche avesse letto nei miei pensieri.

«Possibile che non abbia una famiglia o uno straccio di amico? Possibile che nessuno mi abbia riconosciuto in Tv?! Eppure l’annuncio è andato in diretta nazionale!» contempla alzando la voce di un tono.

Emma ed io restiamo disorientate senza sapere cosa dire.

«E poi le fedi, l’incisione, i numeri... tutto così enigmatico...» continua lui demoralizzato.

«Se solo non avessi perso la giacca il giorno in cui ti ho soccorsa, sicuramente a quest’ora avrei un portafogli con dei documenti, o un cellulare con dei contatti! Invece niente!»

«Mi dispiace, è tutta colpa mia.» confessa mia sorella abbassando lo sguardo per il rimorso.

«Se non mi fossi avventurata così incoscientemente, andando contro il tornado come una pazza, non sarei precipitata e non avresti dovuto salvarmi.

Non solo non avresti perso la giacca, ma non avresti perso nemmeno la memoria...» riconosce Emma non riuscendo a trattenere la lacrima che ora le sta rigando una guancia.

Vedendola così mortificata anch’io non riesco a non provare angoscia per entrambi, né a frenare un pianto dirompente. Questa storia mi sta esaurendo più di quanto pensavo: io non mi commuovo mai in questa maniera, e invece guardatemi... sembro un vitello!

«Non è colpa tua, non dirlo neanche per scherzo!» si arrabbia lui, più con sé stesso in verità per averla portata a sentirsi un tale peso addosso.

«Inoltre non dobbiamo dimenticare che la causa della mia amnesia non risiede solo nel trauma fisico, ma anche e soprattutto in quello psicologico che dovrei aver subìto poco prima.»

A seguito di quest’ultima precisazione tutti ci sforziamo per l’ennesima volta di ipotizzare le situazioni più diverse.

A nessuno è venuta in mente la supposizione di Jay, per cui sono indecisa se prospettarla o meno.

Forse dovrei. Dopotutto, se c’è anche solo una remota possibilità che sia andata così, non posso tenermela per me...

Ma è talmente inverosimile! Se glielo dicessi otterrei solo lo scopo di preoccuparli inutilmente. No, non glielo dico.

Inoltre se ci fosse stato un assassinio lo avremmo saputo dai notiziari! Giusto? Giusto!

Vedi, non è come dice Jay, nessun morto, nessun omicidio e quindi nessun testimone.

Però se di mezzo ci fosse la mafia, magari il cadavere è stato sciolto nell’acido...

Oh mio Dio, la mafia!!!

Se succedesse qualcosa ad Emma e Sabastian non potrei mai perdonarmelo!

Va bene, allora glielo dico.

«Ehm... ragazzi... volevo dirvi una cosa. Sebastian...»

Prendo fiato, deglutisco, i loro occhi puntano su di me.

“Forse sei stato il testimone involontario di un omicidio!” No, troppo diretto.

“In questi giorni ti senti osservato, magari seguito?” No, fa troppo James Bond.

“Hai per caso il ricordo di uno sparo? O di un barile di acido?” No, troppo macabro.

“Quel giorno forse hai visto qualcosa che non avresti dovuto.” Meglio, più vago e meno terrificante.

Di nuovo un respiro, più lungo e profondo: «Sebastian... volevo dirti... ecco io... pensavo... cioè Jay pensava... ehm... senti: le uova le preferisci col bacon o al formaggio? Si è fatta quasi l’ora di cena.»

Mi guardano entrambi come se stessi delirando, ed un po’ in effetti è così.

Nel pieno delle nostre ipotesi sullo shock emotivo di Seba, me ne esco con le uova al bacon.

Mi faranno fuori dai loro discorsi, e molto presto anche.

Però sempre meglio che rivelare questa assurdità della mafia.

«Chi è Jay?» chiede mia sorella facendomi trasalire.

La fisso con sguardo misto tra l’incredulo e lo spaventato, come se mi avesse chiesto del barile di acido appena congetturato.

«Jay, l’hai menzionato ora.» incalza lei.

«Ehm... sì, certo, Jay! È un amico. In realtà solo un vicino di casa, piuttosto simpatico direi. Ha idee un po’ strambe ogni tanto, ma tutto sommato non posso lamentarmi. Guarda cosa mi ha regalato come “omaggio” di benvenuto!»

Per cercare di non farla più tornare sull’argomento “Jay”, tiro fuori la fantastica borsa che come immaginavo sortisce l’effetto di farle dimenticare tutto il resto: è lì che sbavucchia su quella morbida pelle, che cerco di riprendermi per paura venga sporcata anche col solo respiro, mentre Sebastian ci osserva come fossimo due marziane.

«Che c’è, non hai mai visto una borsa di Stella McCartney? Allora sicuramente

non sei un modaiolo!» ribatte Emma.

«Scusate, possiamo rimanere più concentrati?» chiede lui in soggezione.

«Certo, scusaci. Sai cosa potremmo fare? Domani potremmo andare sul luogo del delitto... ehm... dell’incidente volevo dire, per vedere se possa esserti d’aiuto nel ricordare qualcosa.»

Questa è una genialata, devo proprio congratularmi con me stessa.

Non faccio in tempo a lodarmi come avrei voluto, che subito un tarlo si fa strada nella mia testa: e se lì trovassimo ad attenderci gli spietati assassini? Spero di non aver peggiorato la situazione, devo proprio imparare a tenere la bocca chiusa.

«Benissimo!» esplode Sebastian rinvigorito da una nuova speranza.

«Benissimo!» concorda anche mia sorella che nel frattempo si è inguattata la borsa con nonchalance, come se potesse andarci da qualche parte senza farsi accorgere dal “Mastino”.

«Benissimo, allora sia.» concludo io solenne, tremando al pensiero dei sicari e riprendendomi la “Falabella” di Stella McCartney.

Domani sarà un’altra intensa giornata.

In più dovrò anche affrontare il discorso con Emma in merito alla pericolosa situazione che io, “Volpe del Deserto”, ho già intuito ancor prima che accada: devo fare in modo che mia sorella e Sebastian non diventino troppo “intimi”.

6 maggio 2014

«Ah. Sì. Va bene... Grazie.» sento Emma ribattere a qualcuno dall’altro capo del telefono.

Si gira verso di noi sfoderando uno dei suoi sorrisi, ma io la conosco come le mie tasche: non è così felice come vorrebbe far credere.

«Chi era? È successo qualcosa?» le domando.

«In effetti, sì.

Sembra sia comparsa in redazione una donna che ha convinto tutti... dovrebbe essere la volta giusta, Sebastian.

Ti è stato fissato un colloquio con lei per questa mattina.»

Come volevasi dimostrare, non sbagliavo: il sorriso di Emma era la maschera per la delusione della telefonata appena ricevuta.

Noto gli occhi del “bell’eroe” accendersi e contemporaneamente quelli di Emma spegnersi.

Mi dispiace per lei, però è meglio così.

Posso comprendere che si sia invaghita di Sebastian, ma almeno non è arrivata al punto di innamorarsene perdutamente. Se fosse ato altro tempo sarebbe di sicuro successo l’inevitabile, e i dolori sarebbero stati solo maggiori.

«Chissà se vedendola avrò lo stesso colpo al cuore che mi avrà fatto innamorare la prima volta... chissà se riconoscerò il suo volto o se inizierò a ricordare qualcosa del mio ato...» inizia a fantasticare lui ad alta voce mentre in cuor mio gioisco che sia saltato il programma per la mattinata: non torneremo sul luogo dell’incidente e non rischieremo di imbatterci nei pericolosissimi mafiosi, almeno non oggi.

Lungo la strada verso il Rockfeller Center, di nuovo in mezzo ad Emma e Sebastian, stranamente non mi sento il terzo incomodo. Non chiacchierano vivacemente come al solito: lui è assorto nei suoi pensieri, carico di aspettative per questo incontro; lei sembra stia andando al patibolo, ha gli occhi fissi sull’asfalto ed un’espressione mesta.

Io sono l’unica a guardare dritta davanti a me, assaporando la fresca aria primaverile di New York. È così bella anche in questa stagione, piena di verde, col sole che brilla sui vetri dei grattaceli facendoli riflettere come tanti diamanti neri.

Vorrei poter vivere questa città più di quanto non stia facendo da quando mi sono trasferita.

Se penso poi che potrebbero esserci dei sicari alle nostre calcagna, realizzo che

non mi sono neanche tolta lo sfizio di comprarmi l’ultimo regalino da Tiffany.

Oh Tiffany... già il solo pensiero fa partire nella mia testa la musica di Moon River, catapultandomi negli anni cinquanta in un raffinato tubino nero, con l’asticella degli occhialoni da sole fra le labbra ed un grande cappello a tesa larga.

Arrivati all’entrata degli studi, il mio vestito da Audrey Hepburn si vaporizza ritrovandomi, come Cenerentola dopo la mezzanotte, nelle mie Nike e nei miei jeans forse un po’ troppo stretti: devo assolutamente smettere di mangiare i miei toast al formaggio.

Uhm... Toast al formaggio... Buoni...

Con l’acquolina in bocca e lo stomaco che brontola, entriamo nella redazione che ci accoglie con ancor più fermento della volta scorsa.

Noto i comprensibili sguardi ammiccanti delle ragazze verso Sebastian e quelli di approvazione, che non capisco, arrivare dal fronte maschile.

Il dilemma tuttavia è presto sciolto non appena ci viene presentata lei, la presunta moglie che ha convinto già tutti.

Una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri, occhi scuri da cerbiatta ed un rossetto scarlatto ad evidenziare le labbra perfette, strizzata in un abito attillato dello stesso colore della bocca.

In un’unica parola, una bomba.

Sia Emma che Sebastian restano per un attimo a fissarla, ma per motivi esattamente opposti.

Dopo gli iniziali convenevoli mia sorella ed io veniamo invitate ad accomodarci fuori, mentre loro proseguono la conoscenza.

Sebastian non l’ha riconosciuta, il che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ad Emma, ma questo non vuol dire nulla. La prova del nove sarà la fede: non solo dovrà calzarle a pennello, ma dovrà conoscerne la scritta incisa dentro.

Chissà se finalmente ne sapremo il significato!

Dopo circa un’ora mia sorella si è mangiata per il nervoso tutte le unghie. Erano anni che aveva perso il vizio, e per tornale è bastata la sola vista di Isabelle.

Viene poi chiamata nella stanza di Mike Sullivan, dove rimane per un’altra interminabile ora.

Meno male che mi sono portata dietro una piccola cartella con del lavoro da sbrigare, così da non perdere tempo prezioso: tra un paio di giorni avrò una riunione per fare il punto della situazione sulla causa, ed io sono ancora in altissimo mare.

Finalmente sia Emma che Sebastian terminano i rispettivi incontri, ritrovandoci tutti e tre, anzi cinque se si considerano anche Sullivan ed Isabelle, faccia a faccia.

I pochi secondi di silenzio sono spezzati dalla languida voce della bomba sexy vestita di rosso che, rivolgendosi a Sebastian, cinguetta: «Nos vemos esta noche...».

Mentre lui abbozza un timido sorriso, lei gli fa l’occhiolino e girando le spalle se ne va, ondeggiando su tacchi vertiginosi degni giusto di mia sorella.

«Cosa ti ha detto?!» irrompe Emma senza contenersi.

«“Ci vediamo stasera.”» traduce lui. «Ho scoperto di sapere lo spagnolo!» aggiunge esaltato.

«È tua moglie sì o no?!» chiede diretta Emma noncurante del modo in cui potrebbe apparire soprattutto dinnanzi agli occhi del fidanzato.

La sua risposta, arrivata con un semplice gesto del capo, ci lascia tutti interdetti.

«Come no?!» prorompe di nuovo Emma senza trattenere un sorriso. Dopo un istante, però, realizza e si corruccia: «Allora... perché vi vedete questa sera? Forse è solo un modo di dire?»

«No, non è un modo di dire. Andremo davvero a cena insieme.»

Colgo lo sguardo inceneritore di mia sorella lanciare fulmini e saette, mentre io per deglutire mi ingoio per sbaglio la gomma.

«Ah. Sì. Bene. Divertitevi.» Emma smette di elaborare frasi più o meno lunghe parlando a monosillabi. Poi si gira verso di me: «Avviatevi verso casa, io resto ancora un po’ qui a lavorare.»

Si avvicina allora al suo ragazzo di plastica, accarezzandogli prima il braccio e poi una spalla con fare seducente. Lo fa voltare portando i loro visi l’uno di fronte all’altro e, guardandolo intensamente negli occhi, gli dà un lunghissimo bacio ionale che coglie di sorpresa lo stesso Mike Sullivan nonché me, Sebastian e mezza redazione che assiste alla scena quasi hot.

È ufficiale: mia sorella è impazzita. Ma non per il suo fidanzato; per quello che vorrebbe avere.

Tornati a casa, per soddisfare la mia curiosità non posso fare a meno di domandare al mio amico tutti i dettagli del suo incontro con Isabelle.

Ciò che più avrebbe apprezzato di lei è la sincerità dimostrata fin da subito.

A differenza di tutte le altre, che inventavano spudorate storie di matrimoni da sogno approfittando della situazione, lei ha esordito con una frase diretta,

concisa ed onesta: “Non sono tua moglie.

Non sono venuta qui per prenderti in giro, per dirti che ci amiamo da anni, che abbiamo una casa e una splendida famiglia insieme.”

Ovviamente, però, questo era quanto aveva affermato alla redazione per ottenere il colloquio. Gli ha candidamente ammesso che avrebbe fatto carte false con chiunque, pur di conoscere quell’eroe che l’aveva folgorata non appena era comparso in tv.

Tuttavia non voleva illuderlo che grazie a lei avrebbe potuto conoscere dettagli della sua vita ata, perché non ne aveva fatto parte.

Rispettando il suo matrimonio, si sarebbe fatta da parte all’istante semmai fosse arrivata la sua vera moglie; l’ha però fatto riflettere che forse una moglie potrebbe non esserci, magari non c’è mai stata. Dopotutto che prove reali ha dell’esistenza di questa donna?

Solo un paio di fedi, e quella che si ipotizza essere di lui non la indossava neanche al momento dell’incidente.

«Non mi dirai che non credi più alla nostra romantica congettura di un amore shakespeariano contrastato dalle famiglie!» gli rispondo d’impeto, mentre riascoltando le mie parole mi rendo conto che probabilmente Isabelle non ha tutti i torti.

«Comunque» si affretta a precisare lui «non ho intenzione di iniziare una frequentazione che vada oltre l’amicizia. Anzi, al principio ho pensato perfino di rifiutare il suo invito a cena ma poi, quando mi ha salutato in spagnolo, qualcosa dentro di me si è accesso: conoscevo la sua lingua! Così ho creduto che avrei potuto sfruttare la situazione a mio vantaggio: magari parlando con qualcuno in una lingua che anch’io conosco, forse mi sarebbero potuti tornare in mente dei ricordi!

Rammenti cosa ci siamo detti sulla memoria procedurale? Ricordi cosa mi dicesti sul compiere quante più attività possibili per capire se ce ne fosse qualcuna a cui sono più avvezzo? Magari scopro di essere un professore di spagnolo! Oppure che sono ispanico anch’io come lei!»

Lo guardo con la mia famosa occhiataccia: «Uhm... Allora è solo per questo?

Il suo fisico mozzafiato e il suo sorriso ammaliatore non c’entrano affatto?»

«Dai, che dici!» ribatte lui imbarazzato e chiedendomi l’ora: banalissima scusa per cambiare argomento.

Oh mamma, a proposito di “ora”!

Il mio tempo sta stringendo inesorabile come una morsa, e non riuscirò mai a prepararmi per la riunione di dopodomani!

Tutto d’un tratto un lampo mi illumina d’immenso: mi blocco, fissando col mio

sguardo furbo Sebastian che si accorge del mio repentino cambio d’atteggiamento: «Fino all’ora di cena non hai impegni, giusto?

Benissimo, iniziamo a sollecitare la tua memoria procedurale: volevi parlare spagnolo?

Ti accontenterò anch’io.

Traducimi questi atti e documenti!»

Spazzo via con un braccio tutto ciò che c’è sul tavolo e faccio accomodare lui, il pesantissimo e straripante mega-faldone.

Che gran colpo di fortuna!

Le ore scorrono, lui decifra i miei testi ed io scrivo a raffica riuscendo a stargli dietro a mala pena. Molte cose sono già più chiare e mi ha pure insegnato la pronuncia corretta di tante parole, farò un figurone al mio meeting.

Grazie amichetto mio del cuore!!!!

L’incontro con Isabelle è stato provvidenziale, una vera benedizione!

7 maggio 2014

«L’incontro con Isabelle è stato inopportuno, una vera inutilità!» bofonchia a mezza bocca Emma mentre si accanisce su quel povero muffin.

Non le dirò che l’ha sfornato Sebastian, altrimenti sarebbe capace di tirarmelo addosso.

«Eroe di qua, eroe di là... Ma quale eroe! Tzè! Eroe... Certo! Ma chi ci crede! Sono tutti uguali! Gli uomini...» continua a farfugliare seminando briciole.

Nel frattempo ha tutte le luci del soggiorno, la musica ad altissimo volume ed il frullatore, che avrà usato sì e no due volte in vita sua ma che sta mattina è diventato improvvisamente indispensabile: tutto ciò, ovviamente, solo per svegliare Sebastian che rincasato tardi ieri sera dalla cena, dorme in quella che è diventata la sua alcova, il mio divano.

«Ti sembra giusto che stia continuando a ronfare così!? Senza il minimo rispetto per noi, i padroni di casa che lo stanno ospitando!?»

“Veramente il padrone di casa sarei solo io” penso senza avere il coraggio di contraddirla.

«È da gran maleducati dormire fino a mezzogiorno in casa d’altri, non trovi!?»

“Ma sono appena le nove!”

«Non è possibile che io debba avere delle remore per farmi un’aranciata con lo spremiagrumi!»

“Non mi sembra ti sia fatta problemi.”

«Non può mica pretendere di trasferirsi in casa nostra ed imporci le sue regole senza attenersi alle nostre!»

“Questa è casa mia, e le mie regole non le stai rispettando neanche tu, se proprio dobbiamo dirlo.”

«Hai avuto una pessima idea a farlo stare qui!»

“L’idea è stata tua!!!” Devo insegnarle bene il concetto di mio e tuo.

«Caccialo fuori di qui!»

“Io non caccio fuori proprio nessuno. Soprattutto non ora che mi serve per tradurre gli atti della mia causa!”

«Tanto qualche amico da cui andare ce l’ha! Non credo gli dispiacerà trasferirsi

dalla bella spagnola focosa!!»

“La verità è che sei gelosa!”

Questa frase, fra tutte, è in assoluto la più impronunciabile. Caccerebbe da casa mia anche me; ed io per paura della sua ira funesta me ne andrei pure senza batter ciglio.

Vista la situazione, cerco comunque di non prestarle attenzione e di fare la vaga.

Mentre le sue orecchie continuano a fumare, noto Sebastian iniziare a stiracchiarsi e a massaggiarsi il collo indolenzito.

Alzandosi sbiascica tra i denti le uniche parole che non avrebbe mai dovuto proferire: «Che nottata...»

Mi giro di scatto verso Emma.

Con le sue antenne è riuscita a captarlo ed io non posso far altro che vedere consumarsi davanti ai miei occhi l’apocalisse.

«Neanche si dice più “Buongiorno” eh!» ruggisce mia sorella.

Lui, che non l’aveva nemmeno notata, per rimediare la saluta con cordialità. Per giunta si scusa di essersi svegliato un po’ più tardi del solito, rimarcando che la serata si era protratta più del previsto.

Allora sta proprio cercando lo scontro!

Per indurlo a smettere gli mando dei segnali con gesti ed occhiate eloquenti, ma lui niente: entusiasta per aver parlato tutta la sera in spagnolo ci racconta imperterrito l’appuntamento, anche se non sapremo mai come è andato a finire.

Mia sorella infatti, dopo aver ascoltato a malapena l’inizio, lo interrompe con fare gelido: «Sebastian, a noi non interessa.»

“Parla per te!”

Lui si zittisce colto di sorpresa per il tono sprezzante.

Sventolandogli in faccia l’ennesimo muffin che si sta divorando, lo redarguisce per aver accettato incontri galanti con femme fatales senza il minimo rispetto per sua moglie.

“Ma non eri sostenitrice della teoria che fosse morta?” sto per ribattere quando lui inizia a giustificarsi: «Guarda che non ho fatto nulla di male!»

«Certo, come no!» ride sarcastica.

«Cos’è questo tono?» chiede lui offeso.

«Nulla, assolutamente nulla. Va tutto bene!» taglia lei.

«A me non sembra che vada tutto bene.» incalza lui.

«Bé, dico solo che se per te va bene andare in giro con Miss Universo a far baldoria, va bene anche a me.

Evidentemente abbiamo valori diversi nella vita! Vedi, che bello, hai scoperto un’altra cosa: non hai scrupoli verso nessuno!»

«Ma cosa stai farneticando? Miss Universo, valori diversi?!»

«Ti rammento che sei sposato. Hai l’amnesia, ma ti ricordi bene come fare il cascamorto!»

«Senti, ti ripeto che non abbiamo fatto altro che parlare!» ribadisce lui infastidito.

«Per parlare non serviva una cena a lume di candela con il vestito elegante di mio cognato.» prosegue indicando il completo di Leonardo ripiegato accuratamente accanto al divano.

«L’ho indossato solo perché Isabelle aveva scelto il Four Seasons! E ovviamente avevo chiesto a Viola il permesso di indossare l’abito di suo marito!»

«Il Four Seasons?!» ribadisce lei sempre più incredula. Poi si gira verso di me, fulminandomi all’istante: “Tu lo sapevi e non mi hai detto niente!?” stanno colpevolizzando i suoi occhi.

Beccata: avrei voluto sgattaiolare non appena Sebastian mi ha nominata ma non ho fatto in tempo.

«Anche noi abbiamo parlato con te per giorni...» riprende inviperita «...ma non siamo mai andati a mangiare in posti da tre stelle Michelin! Sarebbe stato inadeguato e non rispettoso verso la situazione che stai affrontando!

Ma evidentemente, quando c’è una bella mora che si getta ai tuoi piedi, ogni problema svanisce per magia!»

Lui sorride beffardo, cosa che fa imbestialire ancor di più mia sorella: «Sono contenta che ti stia facendo ridere. Rendimi partecipe dei tuoi pensieri, così magari mi diverto anch’io!»

«Visto che proprio vuoi saperlo, credo che se al posto di Isabelle ci fosse stata una donna brutta e poco attraente, tutto questo astio nei miei confronti non l’avresti avuto.»

«Cosa vuoi insinuare?!» ribatte lei scrutandolo con due occhi che si stringono fino a diventare due fessure.

“Oh mamma, no! Sebastian, non dirlo!”

«Sei gelosa.» sentenzia lui con naturalezza.

Silenzio.

“È arrivata, la fine del mondo è arrivata! Si salvi chi può!”

Resto lì impietrita, in attesa che Emma gli getti le mani al collo o tiri fuori un bazooka dalla sua borsetta.

Invece piega il capo all’indietro, facendo riecheggiare nella sala una risata fin troppo carica.

«Ho capito! Di lavoro nella vita fai il comico!» riprende derisoria.

«Bell’eroe scendi dal piedistallo... Il mondo non gira intorno a te, men che meno il mio.

Per la cronaca, sono felicemente fidanzata con un uomo fantastico e, anche se

non dovrei ancora dirlo, presto ci sposeremo: Mike sta per chiedermi in moglie!»

«Cosa?!» domando esterrefatta intervenendo nella discussione tra i due. «Come lo sai? Sei sicura?!»

Lei risponde con un largo sorriso, che ancora una volta mi appare di circostanza.

«Certo che sono sicura.

Come avrai notato, ieri pomeriggio mentre Sebastian era con “Miss labbra e tette rifatte”, mi sono trattenuta per diverso tempo da Mike. C’è stato un momento in cui sono rimasta sola perché lui è stato chiamato fuori dall’assistente, Allison.

Il suo cellulare riposto nel cassetto ha iniziato a squillare e così, per prenderlo, mi sono imbattuta in una piccola scatolina di velluto rosso.

Intuito cosa contesse, l’ho afferrata con mani tremanti per aprirla: ovviamente c’era un anello, un meraviglioso e costosissimo anello!

Sebbene non fosse il classico solitario, ma una grande fascia di brillanti con al centro un rubino a forma di cuore, il significato è indubbio.

Diventerò la signora Sullivan...» conclude facendo morire le parole sulla bocca.

Non riesco a decifrare la sua espressione, ma la mia rispecchierà di sicuro quella dell’ “Urlo” di Munch.

«Pertanto...» riprende imperterrita contro Sebastian «...spero di averti dato ampia conferma di non essere gelosa di te! Anzi, ti auguro di essere felice con chiunque tu voglia, che sia tua moglie o “la mora di plastica”.»

«Ehi, non ti conviene parlar male di chi ricorre alla chirurgia plastica, visto che il tuo futuro maritino ne è il più grande esempio!» le tiene testa lui.

La tensione è all’apice ed io non riesco a trovare un appiglio per cambiare argomento, fino a che non odo in lontananza il jingle della pubblicità “Primero”.

Ecco l’occasione giusta per far cessare la guerriglia: «Ragazzi venite a vedere! La causa supermilionaria che sto seguendo riguarda questo, le carni più famose al mondo!»

annuncio entusiasta mentre mia sorella, per tutta risposta, alza i tacchi e si chiude in bagno. Sebastian mi presta un minimo di attenzione e segue lo spot, più per carineria nei miei confronti che per sincero interesse, ma poi anche lui gira le spalle e se ne va in cucina a prepararsi un toast.

Queste sì che sono soddisfazioni!

Bé, quantomeno ho ottenuto lo scopo di farli smettere di litigare.

Da ora in avanti la convivenza sotto lo stesso tetto sarà tutt’altro che semplice.

La sola idea già di per sé è fonte di stress. Stento a crederci, ma avrei proprio bisogno di... Jay!

8 maggio 2014

“J’adore!”

Parola chiave dell’intera mattinata trascorsa insieme al mio inimitabile vicino.

Lui “adora” tutto: soprattutto il nuovo taglio di capelli che mi ha costretta a fare dal suo parrucchiere di fiducia, Jean Pierre.

Erano le ore 10.30 quando qualcuno suona alla mia porta.

Questo qualcuno è la stessa persona che tutti i giorni alla stessa ora a da me con la scusa di bere un “fa-vo-lo-so” caffè italiano e per fare due chiacchiere.

Ormai è diventato di casa, ha fatto amicizia con Emma e Sebastian diventando quasi il mio terzo coinquilino. Credo inizierò a chiedere l’affitto a ciascuno di loro.

Non appena superata la soglia, gli bastano tre secondi netti per accorgersi della tensione che c’è nell’aria.

«Che è successo mia cara? Loro hanno litigato, si percepisce da un miglio di distanza...

e tu... hai due occhiaie da far paura!»

«Sì, è vero, hanno discusso... ed io...» dico dirigendomi verso lo specchio «...ho davvero due occhiaie da far paura!!» confermo vedendo quei marcati cerchi neri attorno agli occhi.

In effetti non potrebbe essere diversamente, visto che mi sono alzata alle quattro di notte per lavorare sul fascicolo di causa che ormai conosco a menadito. Nel pomeriggio si terrà la fatidica riunione con tutti i colleghi pronti a mettermi in difficoltà, ed io non devo fallire.

«Mia cara, non avrai mica intenzione di presentarti in uno stato così malconcio davanti ai tuoi “nemici”?

Allora devo insegnarti proprio le basi. Il tuo viso pallido, per non parare di quelle borse sotto agli occhi più grandi di quelle della spesa, gridano al mondo: “Sono stremata per la stanchezza, sono insicura di me e per questo motivo ho lavorato tutta la notte! Ovviamente mi sono applicata sulla causa solo negli ultimi giorni, altrimenti non mi sarei ridotta così!”»

«Ma cosa sei? Un designer d’interni o uno psicologo?»

«Sono solo una persona che sa come va il mondo, mia cara!» ribatte afferrando contemporaneamente la sua e la mia giacca.

«Forza, andiamo.» mi intima lapidario.

«Dove?!»

«Non fare troppe domande, sbrigati e basta!»

«Ma sono ancora in pigiama!»

«Non importa, tanto dove andremo non ci saranno occhi che ti giudicheranno, solo amici disposti a darti una mano.»

«Io non ho bisogno di nessuna mano!» ribatto offesa sapendo, in fondo, che Jay ha ragione.

Mi sono così ritrovata in uno dei saloni di bellezza più esclusivi di tutta New York.

Talmente esclusivo che, al posto del comune open space che ti aspetteresti di trovare, vi sono singole stanze dotate di ogni comfort per ciascuna cliente.

Da una di queste ho persino visto uscire uno dei miei miti, l’attrice delle mie amatissime commedie rosa, Kate Hudson! È così luminosa, divina con quei morbidi boccoli biondi e con quelle scarpe Chanel...

Mi ha addirittura sorriso, probabilmente divertita dalla mia espressione giubilante o, molto più probabilmente, dal mio pigiama.

Avrei voluto seguirla per chiederle un autografo, ma Jay mi sospinge verso la sala che mi era stata riservata: è più grande dell’appartamento mio e di mia sorella messi insieme.

Il proprietario del salone accoglie il mio amico in modo festoso, si scambiano due baci sulle guancie senza sfiorarle ed iniziano a complimentarsi vicendevolmente su abiti, scarpe e look complessivo.

Al termine dei convenevoli Jay mi presenta al suo amico, Jean Luis, che guarda con aria critica i miei capelli sfibrati, il mio viso pallido e soprattutto questo dannato pigiama che il caro vicino non mi ha dato tempo di togliere. Mi sento come Julia Roberts in “Pretty Woman” nella famosa scena in cui le commesse della boutique di lusso la guardano sprezzanti ed infine la cacciano via.

“Meno male che qui non mi avrebbero giudicato!” fulmino Jay che traduce alla perfezione il mio sguardo.

«Jean Luis, la situazione è molto meno drastica di quanto sembra. Ti assicuro che la materia prima è buona, ha un fisico taglia 40/42 ed un bel viso ma, per via degli accadimenti che le stanno capitando nell’ultimo periodo, è un po’... come dire... sfiorita.»

«Chéri, c’è mai stato un caso che non abbia risolto?» domanda borioso il nuovo capo dell’FBI.

«Mio caro, certo che no!» ribatte Jay cominciando a girovagare per la stanza ed impilando riviste le une sulle altre. «Per lei pensavo ad un genere alla Anne Hathaway in “Il Diavolo veste Prada”. Oggi pomeriggio dobbiamo risultare professionali e vincenti, in un’unica parola, fa-vo-lo-si!»

«Ogni tuo desiderio è un ordine, chéri!» conclude Jean Luis portandomi un accappatoio, delle ciabattine e... cosa sono queste? Mutande di carta?! Cosa dovrei farci?!

Non faccio in tempo a chiederglielo che mi conduce davanti ad una piccola porta sulla sinistra, che in realtà all’inizio pensavo fosse il bagno.

Dentro per quanto è buio non vedo nulla, ma tutto profuma di incenso al sandalo. Qualcuno che mi sta aspettando accende allora candele e lumini, mentre musiche che richiamano la natura come lo scorrere dell’acqua o il fruscio delle foglie riecheggiano tra le pareti della saletta.

Intravedo il tipico lettino delle spa, quello col foro per il viso, e subito capisco cosa stanno per farmi: un lungo massaggio distensivo con oli profumati e magari degustazioni di vino rosso e cioccolatini fondenti del Madagascar.

Così mi spoglio, mi sdraio a pancia in giù e chiudo gli occhi in attesa che delicate mani thailandesi sciolgano la mia schiena indolenzita.

Jay ti amo!

Pochi istanti dopo, gli occhi che avevano appena trovato un po’ di riposo si spalancano terrorizzati.

«Buongiorno signora» mi saluta da dietro una voce da orco.

Sobbalzo di scatto per lo spavento, ritrovandomi faccia a faccia con Shrek.

Un grosso omone si sta ungendo le mani per cominciare ciò che intuisco sarà un vero e proprio massacro. Aiuto!

Vorrei scappare, ma quelle enormi mani mi prendono il collo che viene tirato come fossi una gallina.

Track!!!

Credo mi abbia rotto una vertebra.

Jay ti odio!

Mi mette allora un dito in bocca, tira di lato verso la mandibola e... Track! Di nuovo!

Che dolore!

a poi alle spalle, alle clavicole, alle braccia, è tutto un “Crick” e un “Track”!

Dopo una buona mezz’ora sfodera un tenero sorriso e mi ringrazia: abbiamo finito.

Mi alzo stravolta ma, con grande stupore, sento il mio corpo più leggero. Wow! Che sensazione!

«Grazie a te Shrek... ehm... volevo dire... Thai Li.»

Molleggiando sulle gambe che sembrano ora due budini, vengo fatta accomodare su una poltrona di pelle marrone scuro che ben si accosta con i colori panna, crema e oro della stanza.

Jean Luis mi presenta allora Jean Pierre, per prendersi cura dei miei “cheveux crepus”.

Che fanno, parlano in se perché così non li capisco?

Benissimo, darò loro pan per focaccia: «Je suis juste un peu stressé en ce moment! Habituellement, mes cheveux sont merveilleux!» ovvero “Sono solo un po’ stressata in questo periodo! Di solito i miei capelli sono meravigliosi!”

Jay, apprezzando la mia risposta, guarda divertito “Gianni e Pinotto” che si rimandano occhiate imbarazzate.

Incassata la lezione di educazione mi avvolgono il viso in un caldo asciugamano nel quale mi abbandono totalmente.

La mia mente si concentra di nuovo sul lavoro, ma il tepore dell’asciugamano mi rimanda in posti esotici baciati dal calore del sole; mi impongo di tornare con attenzione alla mia causa e al meeting di oggi, ma poi sento una sabbia calda sotto ai piedi ed il rumore dolce delle onde; in questo scenario paradisiaco vedo palme, barchette all’orizzonte, pappagalli colorati e... no!

Che c’entrano Emma e Sebastian?!

Ci sono anche loro, in costume da bagno, mentre si schizzano in un mare turchese e... si baciano teneramente!

Sussulto dalla poltrona, sentendo le forbici di Jean Luis pericolosamente vicine al lobo dell’orecchio ed ottenendo per questo pure una bella strigliata.

Ma che pensieri faccio?

A parte il fatto che Sebastian sicuramente è ammogliato, anche Emma ora sta per sposarsi!

Sento la tensione che avevo iniziato a sciogliere col massaggio tornare prepotente ad attorcigliare il mio stomaco: non posso proprio credere che Mister Plastic diventerà mio cognato!

Però ci potrebbe essere sempre la possibilità che mia sorella abbia frainteso. Dopotutto, un anello di diamanti non vuol dire per forza fidanzamento ufficiale, giusto? Giusto!

Certo però c’è anche il rubino centrale a forma di cuore...

Proseguo in questi ragionamenti per non so quanto altro tempo ancora.

Quel che so è che, ad un certo punto, il tepore dell’asciugamano e il massaggio ai piedi mi hanno condotto dritta fra le braccia di Morfeo, risvegliandomi a lavoro ultimato.

Oh Santo Cielo!!!

Lo stress, se possibile, si è quadruplicato.

«Che cos’è questa frangetta?!»

Mi giro di scatto verso Jay e con lo sguardo lo supplico di farmela ricrescere

all’istante.

«Io ho i capelli ricci!!!» esplodo frustrata al ricordo che l’ultima volta che ho consentito a mia madre di tagliarmi la frangia è stata all’età di tre anni, quando ho compreso la differenza tra esseri umani e cani.

«La frangetta con i boccoli mi fa sembrare un cocker misto a un barboncino nano!» ribatto in preda all’isterismo.

«È per questo, chéri, che ti abbiamo lisciato i capelli.» risponde pacato Jean Pierre non cogliendo il dramma che questo comporterà: demolizione della mia autostima nonché litigi ogni mattina con mia sorella per il dominio sul bagno.

Mi accompagna dunque come nulla fosse successo da una persona che mi sta aspettando dall’altra parte della sala, Jean Antoine. Ma qui si chiamano tutti “Jean” qualcosa?

È un uomo alto e magro, sembra un pistolero del Far West con quei gingilli che ha attaccati alla cintura: pennelli di ogni forma ed attrezzi che mi fanno paura, come il piega ciglia. Quando l’ha usato la mia amica Annette, ha avuto un occhio pesto per due settimane.

Inizia a mettersi all’opera, mischia colori, spolvera ciprie muovendo la sua mano come un pittore. Spero solo non esca sul mio viso un quadro di Picasso, visto il precedente della frangetta.

Le ore che trascorro “sotto ai ferri” cominciano sul serio a farmi dubitare del mio aspetto: c’è davvero bisogno di tutto questo per rimettermi un po’ in sesto? Sono così mostruosa?!

Come a voler rispondere alla domanda, Jean Antoine gira la poltrona su cui sono seduta dirigendola verso lo specchio, che rimanda una donna dai lunghi capelli castani e con intensi occhi scuri, bellissima e sicura di sé.

«Sai, chéri, che ricordi realmente Anne Hathaway?» esulta sbucandomi alle spalle Jean Luis.

Mi osservo facendo qualche smorfia di compiacimento per l’immagine che vedo riflessa: effettivamente, un po’ assomiglio alla protagonista della divertente commedia in cui la mitica Meryl Streep veste i panni dell’inflessibile direttrice della rivista di moda “Runway” e la Hathaway quello della giornalista talentuosa ma bruttina che viene esteticamente rivoluzionata, diventando una perfetta “prima assistente”.

Con l’andamento sicuro che mi contraddistingue e questi lunghi capelli che fluttuano, mi immagino camminare a o svelto verso i miei colleghi che restano intimoriti non appena compaio sulla soglia.

È proprio l’effetto che vorrei suscitare!

Peccato che il mio sogno ad occhi aperti sia brutalmente spezzato dal pigiama a fiorellini lilla che incute tutto tranne soggezione.

Il mio vicino Jay, con cui ormai sono in completa sintonia, dopo aver congedato i vari “Jean qui” e “Jean lì” fa entrare uno squadrone, una sorta di truppa armata: i loro mezzi militari sono grucce, vestiti, giacche, gonne, camice e stoffe di ogni genere e colore.

Osservo il mio amico esterrefatta, non potendo fare a meno di domandarmi, viste le sue conoscenze e le sue possibilità economiche, chi sia in realtà: più che un designer d’interni mi sembra un potente magnate dello showbiz hollywoodiano!

Con un “Clap” di mani tutti i suoi soldati cominciano ad operare: c’è chi mi prende le misure, chi mi sfila le scarpe, chi mi mette accessori, combinandoli con borse e cappelli.

Non so bene cosa sia successo, so solo che mi sono ritrovata dentro un vortice d’aria che mi ha risucchiato con il pigiama e mi ha sputato fuori con un elegante tailleur color avorio, gonna a tubino fino alle ginocchia, camicia di seta cipria e vertiginose décolleté ton sur ton.

Non ho parole. Anzi, una ce l’ho: «Fa-vo-lo-sa!!!»

A questo punto il mio amico, con un altro “Clap”, mi fa aiutare da un assistente ad indossare un morbido trench che conferisce se possibile un’aria ancor più professionale.

Se fossi il giudice della causa, mi darei la vittoria già solo per come sono vestita!

È incredibile che un abito possa farti sentire così a tuo agio e soprattutto farti dimenticare la strizza che avevi fino a poche ore prima.

Come ogni favola che si rispetti, i rintocchi dell’orologio che nel caso di specie sono i trilli del cellulare di Jay, mi riportano al presente e a quanto sta per accadere.

È giunta l’ora.

Mi faccio dunque accompagnare allo studio: devo essere rilassata e sicura, dopotutto ho lavorato sodo ed indosso un completo di Dolce & Gabbana che non potrei permettermi neanche vincessi tutte le cause di questo mondo, quindi, come si suol dire, “sono a cavallo”!“J’adore!”

Parola chiave dell’intera mattinata trascorsa insieme al mio inimitabile vicino.

Lui “adora” tutto: soprattutto il nuovo taglio di capelli che mi ha costretta a fare dal suo parrucchiere di fiducia, Jean Pierre.

Erano le ore 10.30 quando qualcuno suona alla mia porta.

Questo qualcuno è la stessa persona che tutti i giorni alla stessa ora a da me con la scusa di bere un “fa-vo-lo-so” caffè italiano e per fare due chiacchiere.

Ormai è diventato di casa, ha fatto amicizia con Emma e Sebastian diventando

quasi il mio terzo coinquilino. Credo inizierò a chiedere l’affitto a ciascuno di loro.

Non appena superata la soglia, gli bastano tre secondi netti per accorgersi della tensione che c’è nell’aria.

«Che è successo mia cara? Loro hanno litigato, si percepisce da un miglio di distanza...

e tu... hai due occhiaie da far paura!»

«Sì, è vero, hanno discusso... ed io...» dico dirigendomi verso lo specchio «...ho davvero due occhiaie da far paura!!» confermo vedendo quei marcati cerchi neri attorno agli occhi.

In effetti non potrebbe essere diversamente, visto che mi sono alzata alle quattro di notte per lavorare sul fascicolo di causa che ormai conosco a menadito. Nel pomeriggio si terrà la fatidica riunione con tutti i colleghi pronti a mettermi in difficoltà, ed io non devo fallire.

«Mia cara, non avrai mica intenzione di presentarti in uno stato così malconcio davanti ai tuoi “nemici”?

Allora devo insegnarti proprio le basi. Il tuo viso pallido, per non parare di quelle borse sotto agli occhi più grandi di quelle della spesa, gridano al mondo: “Sono stremata per la stanchezza, sono insicura di me e per questo motivo ho

lavorato tutta la notte! Ovviamente mi sono applicata sulla causa solo negli ultimi giorni, altrimenti non mi sarei ridotta così!”»

«Ma cosa sei? Un designer d’interni o uno psicologo?»

«Sono solo una persona che sa come va il mondo, mia cara!» ribatte afferrando contemporaneamente la sua e la mia giacca.

«Forza, andiamo.» mi intima lapidario.

«Dove?!»

«Non fare troppe domande, sbrigati e basta!»

«Ma sono ancora in pigiama!»

«Non importa, tanto dove andremo non ci saranno occhi che ti giudicheranno, solo amici disposti a darti una mano.»

«Io non ho bisogno di nessuna mano!» ribatto offesa sapendo, in fondo, che Jay ha ragione.

Mi sono così ritrovata in uno dei saloni di bellezza più esclusivi di tutta New

York.

Talmente esclusivo che, al posto del comune open space che ti aspetteresti di trovare, vi sono singole stanze dotate di ogni comfort per ciascuna cliente.

Da una di queste ho persino visto uscire uno dei miei miti, l’attrice delle mie amatissime commedie rosa, Kate Hudson! È così luminosa, divina con quei morbidi boccoli biondi e con quelle scarpe Chanel...

Mi ha addirittura sorriso, probabilmente divertita dalla mia espressione giubilante o, molto più probabilmente, dal mio pigiama.

Avrei voluto seguirla per chiederle un autografo, ma Jay mi sospinge verso la sala che mi era stata riservata: è più grande dell’appartamento mio e di mia sorella messi insieme.

Il proprietario del salone accoglie il mio amico in modo festoso, si scambiano due baci sulle guancie senza sfiorarle ed iniziano a complimentarsi vicendevolmente su abiti, scarpe e look complessivo.

Al termine dei convenevoli Jay mi presenta al suo amico, Jean Luis, che guarda con aria critica i miei capelli sfibrati, il mio viso pallido e soprattutto questo dannato pigiama che il caro vicino non mi ha dato tempo di togliere. Mi sento come Julia Roberts in “Pretty Woman” nella famosa scena in cui le commesse della boutique di lusso la guardano sprezzanti ed infine la cacciano via.

“Meno male che qui non mi avrebbero giudicato!” fulmino Jay che traduce alla perfezione il mio sguardo.

«Jean Luis, la situazione è molto meno drastica di quanto sembra. Ti assicuro che la materia prima è buona, ha un fisico taglia 40/42 ed un bel viso ma, per via degli accadimenti che le stanno capitando nell’ultimo periodo, è un po’... come dire... sfiorita.»

«Chéri, c’è mai stato un caso che non abbia risolto?» domanda borioso il nuovo capo dell’FBI.

«Mio caro, certo che no!» ribatte Jay cominciando a girovagare per la stanza ed impilando riviste le une sulle altre. «Per lei pensavo ad un genere alla Anne Hathaway in “Il Diavolo veste Prada”. Oggi pomeriggio dobbiamo risultare professionali e vincenti, in un’unica parola, fa-vo-lo-si!»

«Ogni tuo desiderio è un ordine, chéri!» conclude Jean Luis portandomi un accappatoio, delle ciabattine e... cosa sono queste? Mutande di carta?! Cosa dovrei farci?!

Non faccio in tempo a chiederglielo che mi conduce davanti ad una piccola porta sulla sinistra, che in realtà all’inizio pensavo fosse il bagno.

Dentro per quanto è buio non vedo nulla, ma tutto profuma di incenso al sandalo. Qualcuno che mi sta aspettando accende allora candele e lumini, mentre musiche che richiamano la natura come lo scorrere dell’acqua o il fruscio delle foglie riecheggiano tra le pareti della saletta.

Intravedo il tipico lettino delle spa, quello col foro per il viso, e subito capisco cosa stanno per farmi: un lungo massaggio distensivo con oli profumati e magari degustazioni di vino rosso e cioccolatini fondenti del Madagascar.

Così mi spoglio, mi sdraio a pancia in giù e chiudo gli occhi in attesa che delicate mani thailandesi sciolgano la mia schiena indolenzita.

Jay ti amo!

Pochi istanti dopo, gli occhi che avevano appena trovato un po’ di riposo si spalancano terrorizzati.

«Buongiorno signora» mi saluta da dietro una voce da orco.

Sobbalzo di scatto per lo spavento, ritrovandomi faccia a faccia con Shrek.

Un grosso omone si sta ungendo le mani per cominciare ciò che intuisco sarà un vero e proprio massacro. Aiuto!

Vorrei scappare, ma quelle enormi mani mi prendono il collo che viene tirato come fossi una gallina.

Track!!!

Credo mi abbia rotto una vertebra.

Jay ti odio!

Mi mette allora un dito in bocca, tira di lato verso la mandibola e... Track! Di nuovo!

Che dolore!

a poi alle spalle, alle clavicole, alle braccia, è tutto un “Crick” e un “Track”!

Dopo una buona mezz’ora sfodera un tenero sorriso e mi ringrazia: abbiamo finito.

Mi alzo stravolta ma, con grande stupore, sento il mio corpo più leggero. Wow! Che sensazione!

«Grazie a te Shrek... ehm... volevo dire... Thai Li.»

Molleggiando sulle gambe che sembrano ora due budini, vengo fatta accomodare su una poltrona di pelle marrone scuro che ben si accosta con i colori panna, crema e oro della stanza.

Jean Luis mi presenta allora Jean Pierre, per prendersi cura dei miei “cheveux crepus”.

Che fanno, parlano in se perché così non li capisco?

Benissimo, darò loro pan per focaccia: «Je suis juste un peu stressé en ce moment! Habituellement, mes cheveux sont merveilleux!» ovvero “Sono solo un po’ stressata in questo periodo! Di solito i miei capelli sono meravigliosi!”

Jay, apprezzando la mia risposta, guarda divertito “Gianni e Pinotto” che si rimandano occhiate imbarazzate.

Incassata la lezione di educazione mi avvolgono il viso in un caldo asciugamano nel quale mi abbandono totalmente.

La mia mente si concentra di nuovo sul lavoro, ma il tepore dell’asciugamano mi rimanda in posti esotici baciati dal calore del sole; mi impongo di tornare con attenzione alla mia causa e al meeting di oggi, ma poi sento una sabbia calda sotto ai piedi ed il rumore dolce delle onde; in questo scenario paradisiaco vedo palme, barchette all’orizzonte, pappagalli colorati e... no!

Che c’entrano Emma e Sebastian?!

Ci sono anche loro, in costume da bagno, mentre si schizzano in un mare turchese e... si baciano teneramente!

Sussulto dalla poltrona, sentendo le forbici di Jean Luis pericolosamente vicine al lobo dell’orecchio ed ottenendo per questo pure una bella strigliata.

Ma che pensieri faccio?

A parte il fatto che Sebastian sicuramente è ammogliato, anche Emma ora sta per sposarsi!

Sento la tensione che avevo iniziato a sciogliere col massaggio tornare prepotente ad attorcigliare il mio stomaco: non posso proprio credere che Mister Plastic diventerà mio cognato!

Però ci potrebbe essere sempre la possibilità che mia sorella abbia frainteso. Dopotutto, un anello di diamanti non vuol dire per forza fidanzamento ufficiale, giusto? Giusto!

Certo però c’è anche il rubino centrale a forma di cuore...

Proseguo in questi ragionamenti per non so quanto altro tempo ancora.

Quel che so è che, ad un certo punto, il tepore dell’asciugamano e il massaggio ai piedi mi hanno condotto dritta fra le braccia di Morfeo, risvegliandomi a lavoro ultimato.

Oh Santo Cielo!!!

Lo stress, se possibile, si è quadruplicato.

«Che cos’è questa frangetta?!»

Mi giro di scatto verso Jay e con lo sguardo lo supplico di farmela ricrescere all’istante.

«Io ho i capelli ricci!!!» esplodo frustrata al ricordo che l’ultima volta che ho consentito a mia madre di tagliarmi la frangia è stata all’età di tre anni, quando ho compreso la differenza tra esseri umani e cani.

«La frangetta con i boccoli mi fa sembrare un cocker misto a un barboncino nano!» ribatto in preda all’isterismo.

«È per questo, chéri, che ti abbiamo lisciato i capelli.» risponde pacato Jean Pierre non cogliendo il dramma che questo comporterà: demolizione della mia autostima nonché litigi ogni mattina con mia sorella per il dominio sul bagno.

Mi accompagna dunque come nulla fosse successo da una persona che mi sta aspettando dall’altra parte della sala, Jean Antoine. Ma qui si chiamano tutti “Jean” qualcosa?

È un uomo alto e magro, sembra un pistolero del Far West con quei gingilli che

ha attaccati alla cintura: pennelli di ogni forma ed attrezzi che mi fanno paura, come il piega ciglia. Quando l’ha usato la mia amica Annette, ha avuto un occhio pesto per due settimane.

Inizia a mettersi all’opera, mischia colori, spolvera ciprie muovendo la sua mano come un pittore. Spero solo non esca sul mio viso un quadro di Picasso, visto il precedente della frangetta.

Le ore che trascorro “sotto ai ferri” cominciano sul serio a farmi dubitare del mio aspetto: c’è davvero bisogno di tutto questo per rimettermi un po’ in sesto? Sono così mostruosa?!

Come a voler rispondere alla domanda, Jean Antoine gira la poltrona su cui sono seduta dirigendola verso lo specchio, che rimanda una donna dai lunghi capelli castani e con intensi occhi scuri, bellissima e sicura di sé.

«Sai, chéri, che ricordi realmente Anne Hathaway?» esulta sbucandomi alle spalle Jean Luis.

Mi osservo facendo qualche smorfia di compiacimento per l’immagine che vedo riflessa: effettivamente, un po’ assomiglio alla protagonista della divertente commedia in cui la mitica Meryl Streep veste i panni dell’inflessibile direttrice della rivista di moda “Runway” e la Hathaway quello della giornalista talentuosa ma bruttina che viene esteticamente rivoluzionata, diventando una perfetta “prima assistente”.

Con l’andamento sicuro che mi contraddistingue e questi lunghi capelli che fluttuano, mi immagino camminare a o svelto verso i miei colleghi che

restano intimoriti non appena compaio sulla soglia.

È proprio l’effetto che vorrei suscitare!

Peccato che il mio sogno ad occhi aperti sia brutalmente spezzato dal pigiama a fiorellini lilla che incute tutto tranne soggezione.

Il mio vicino Jay, con cui ormai sono in completa sintonia, dopo aver congedato i vari “Jean qui” e “Jean lì” fa entrare uno squadrone, una sorta di truppa armata: i loro mezzi militari sono grucce, vestiti, giacche, gonne, camice e stoffe di ogni genere e colore.

Osservo il mio amico esterrefatta, non potendo fare a meno di domandarmi, viste le sue conoscenze e le sue possibilità economiche, chi sia in realtà: più che un designer d’interni mi sembra un potente magnate dello showbiz hollywoodiano!

Con un “Clap” di mani tutti i suoi soldati cominciano ad operare: c’è chi mi prende le misure, chi mi sfila le scarpe, chi mi mette accessori, combinandoli con borse e cappelli.

Non so bene cosa sia successo, so solo che mi sono ritrovata dentro un vortice d’aria che mi ha risucchiato con il pigiama e mi ha sputato fuori con un elegante tailleur color avorio, gonna a tubino fino alle ginocchia, camicia di seta cipria e vertiginose décolleté ton sur ton.

Non ho parole. Anzi, una ce l’ho: «Fa-vo-lo-sa!!!»

A questo punto il mio amico, con un altro “Clap”, mi fa aiutare da un assistente ad indossare un morbido trench che conferisce se possibile un’aria ancor più professionale.

Se fossi il giudice della causa, mi darei la vittoria già solo per come sono vestita!

È incredibile che un abito possa farti sentire così a tuo agio e soprattutto farti dimenticare la strizza che avevi fino a poche ore prima.

Come ogni favola che si rispetti, i rintocchi dell’orologio che nel caso di specie sono i trilli del cellulare di Jay, mi riportano al presente e a quanto sta per accadere.

È giunta l’ora.

Mi faccio dunque accompagnare allo studio: devo essere rilassata e sicura, dopotutto ho lavorato sodo ed indosso un completo di Dolce & Gabbana che non potrei permettermi neanche vincessi tutte le cause di questo mondo, quindi, come si suol dire, “sono a cavallo”!

9 maggio 2014

Il cavallo mi ha abbandonato.

Ero partita benissimo. Giuro, alla grande.

Un’entrata trionfante, proprio come l’avevo immaginata: sembravo un’amazzone, al posto della corazza il mio bel tailleur, al posto dello scudo una pesante cartella di cuoio ordinata con precisione. La penna era la mia spada.

Con tanta voglia di mostrare grinta e risolutezza, ero carica.

Tuttavia non avevo fatto i conti con il mio karma del giorno, che non d’accordo aveva per me altri piani. Me li ha dimostrati sin da subito, quando appena prima di entrare in riunione mi sono ritrovata senza un tacco e costretta a raggiungere i soci senior zoppicante.

Non può essere stato null’altro che il destino avverso, altrimenti non si spiega come sia accaduta una cosa del genere ad una scarpa da 400 dollari!

L’inesorabile declino ha poi proseguito con una serie di sfortunati eventi verificatisi inspiegabilmente uno dietro l’altro.

Entrata nella sala meeting con una gamba più corta dell’altra di dodici centimetri

ed un sorriso alquanto tirato, non mi accorgo che da dietro sopraggiungeva Miranda, la segretaria, con un grande vassoio carico di caffè e cappuccini.

Sembra la scena trita e ritrita di un film, ma purtroppo è accaduto davvero: per sfilarmi il trench colpisco il portavivande già in bilico, causando l’inevitabile.

Il lato positivo è stato che per tutta la durata della riunione siamo stati accompagnati da un buonissimo aroma di caffè energizzante. Quello negativo è che, neanche a farlo apposta, gli unici pantaloni rimasti compromessi nell’incidente sono stati proprio, fra tutti, quelli del “Grande Capo”.

Quantomeno ho frenato l’istinto di andare a tamponare con un fazzolettino proprio “lì”, ma neppure io so quante volte avrò chiesto scusa, tra risatine generali e sguardi critici dei presenti.

Come una pallina che, posta in discesa, inizia a rotolare senza freni, così è continuata la mia sfiga.

Inizia la riunione.

La spavalderia che avevo avuto fino a che il tacco rotto ed i caffè rovesciati non hanno preso la scena, ha ovviamente lasciato il o ad una forte agitazione.

Il “Grande Capo”, nervoso per la portata economica della causa che stavamo discutendo, per la macchia sui suoi “gioielli di famiglia” e per non aver bevuto il suo caffè, mi cede la parola.

Ancora adesso non riesco a capacitarmi di come sia stato possibile che io, il Mastino, quella che non sta zitta neanche quando dorme, abbia iniziato a... balbettare!

Per mascherare il disagio lessicale ho afferrato la mia cartella nuova di zecca che, in quanto tale, aveva il fermaglio della chiusura duro.

Non c’era verso, non voleva aprirsi, fino a che con uno strattone violento finalmente si sgancia: fogli, atti, documenti si sparpagliano disordinatamente sul tavolo e per terra, ed io cercando di mantenere il controllo li raduno velocemente gli uni sugli altri, mischiandoli ancor di più.

Ottimo.

Meno male che avevo il mio memorandum, su cui erano annotati i punti più salienti da esporre.

Cerco nella cartella, ancora e ancora. Dove diavolo è andato a finire?!

In un lampo ricordo.

Cavolo.

È rimasto nel bagno della reception al piano di sotto.

Prima di salire su, infatti, una leggera ansia aveva avuto un effetto... come dire... stimolante, per cui avevo pensato di ottimizzare i tempi e di fare un riino veloce!

In piedi, sbilenca, in mezzo ai colleghi che mi fissavano, mi sono tornate in mente le parole di mio padre che rimproverava sempre me e mia sorella perché il bagno non era una biblioteca, mentre noi ci leggevamo di tutto, dalle riviste di gossip ai testi universitari. Se gli avessi dato ascolto, il mio memorandum ora sarebbe stato con me e non a fare amicizia col bidè e la saponetta!

Ho tentato di mascherare il senso di insicurezza che stava prendendo il sopravvento rammentando a me stessa che, dopotutto, avevo lavorato duro su quel faldone e che qualcosa avrei pur dovuto immagazzinare.

Quasi per magia smetto allora di balbettare ed illustro al meglio gli aspetti oggetto di causa che ritenevo meritevoli di approfondimenti.

Con sorpresa ricordo ogni cavillo che avevo analizzato, nonché tutti gli scritti in spagnolo che ripeto in lingua originale, impressionando la platea di “nemici”. ata più di un’ora, in cui ho monopolizzato la discussione con un piglio deciso che mai avrei pensato di ritrovare, il “Grande Capo” mi interrompe: «Avvocato, fin qui è tutto chiaro. Noto che conosce alla perfezione praticamente l’intero fascicolo. Quel che voglio sapere però è: “Come vinciamo?”»

Silenzio.

Di nuovo tutti mi squadrano.

Sento il viso avvampare e no... non posso ricominciare a... ba-ba-ba-bal-bet-betare!

Provo a farfugliare qualcosa, ma è indubbio che le possibilità di vittoria sono pochissime. Anzi, zero.

Pedro Ferreya è troppo potente, e soprattutto ha ogni diritto su quelle fertili terre, sebbene voglia distruggerle in favore di alberghi di lusso, grandi centri commerciali e schiere sconfinate di palazzi.

Darà vita a vere e proprie città su quelle ampie pianure che ora danno lavoro a centinaia di famiglie le quali, per decenni, hanno servito con orgoglio suo zio.

Mi dispiace per loro, ma purtroppo non vedo validi espedienti legali per cambiare le sorti; e mi dispiace per me, che verrò cacciata dallo studio a pedate. Il che non è solo un’ipotesi, ma una concreta realtà rafforzata dalle parole del boss: «Non possiamo permetterci di perdere una causa di tal rilievo. È una delle più prestigiose mai ottenute, con una visibilità internazionale! Non farmi fare brutta figura. Altrimenti, tutto il mondo saprà il tuo nome.» tuona in conclusione facendo calare il gelo nella stanza.

Benissimo.

Non solo non lavorerò più per questo studio, ma per nessun altro in tutto il pianeta Terra.

Che sia arrivato il momento di aprirmi una “Cioccolateria” come ho sempre sognato?

10 maggio 2014

«Ci sei, mia cara?»

Chiede Jay fuori dalla porta continuando incessante a suonare il camlo.

Da quando sono tornata dalla catastrofica riunione, non l’ho più richiamato per aggiornarlo su come fosse andata.

In verità non ne ho parlato con nessuno, neanche con Emma e Sebastian, tanto neppure loro erano dell’umore giusto per conversare: tra i due continua ad esserci una forte tensione, non si sono ancora dati una tregua dall’ultimo scontro. Addirittura cercano di non incrociarsi in una casa di 60 mq, e tale è la loro volontà che ci riescono perfino.

Comunque non ho tempo né voglia di pensare alle loro beghe, devo concentrarmi sul lavoro e trovare assolutamente un modo per vincere o, quantomeno, per soccombere a testa alta.

Di nuovo col pigiama a fiorellini lilla, che il mio vicino si era illuso avessi gettato via per sempre, accolgo Jay che come consuetudine mi chiede un buon caffè italiano.

«Ti prego, non parlarmi più di caffè! Mai più finché avrò vita!» Come un fiume in piena parto dunque col mio racconto, dall’entrata zoppicante ai caffè rovesciati sino alle minacce finali del capo.

Lui per tutto il tempo ascolta ammutolito.

Vedo che pensa e rimugina, perché mentre lo fa posiziona le labbra in un modo strano che ormai ho imparato a decifrare. Le mette come se volesse schioccare un bacio, facendole poi roteare in senso orario.

«Ciò che proprio non comprendo è... come diamine ha fatto a rompersi il tacco di quelle scarpe fa-vo-lo-se!» si interroga come fosse il dilemma più enigmatico in tutto il discorso appena fatto.

Certe volte non so se mi prende in giro o se sia davvero serio. Io gli voglio già bene, giuro, ma alcune volte proprio non lo capisco.

Anzi, in verità non lo capisco quasi mai.

Seppure sia una persona adorabile, non riesco ad intendere il suo modo di fare, soprattutto se si pensa a tutto ciò che ha fatto per me dai pochi giorni in cui ci conosciamo.

Così presa dalla curiosità ed approfittando dell’assenza di Emma e Sebastian, glielo domando senza troppi indugi: «Perché, Jay?»

«“Perché”?» ripete lui senza capire il senso della mia richiesta.

«Sì, perché hai fatto tutto questo per me?» incalzo abbassando la voce di un tono.

Intravedo i suoi occhi da dietro le lenti scure avere un guizzo di sorpresa; non si aspettava una domanda del genere anche se dovrebbe ben comprenderne il motivo: regali di benvenuto costosissimi, per non parlare dei lussuosi trattamenti estetici e del mezzo guardaroba di cui mi ha rifornito.

«In verità... c’è un motivo, ma tu mi hai detto che non devo più nominare quella parola!»

«Io?! Quale parola, di che stai parlando?»

«Del del tuo fa-vo-lo-so “italian coffee”!» risponde lui canzonatorio spalancando un sorriso.

«Dai, scemo, smettila! Su, seriamente!»

I suoi occhi di solito gioiosi si rabbuiano, mentre i suoi pollici si girano l’uno intorno all’altro come potrebbe fare un bambino di sei anni.

Per la prima volta vedo il suo viso solare coprirsi da un velo di tristezza.

«Perché tu sei stata gentile con me...

Sin da quando la prima sera sono piombato in casa tua senza neanche ci conoscessimo, mi hai mostrato ospitalità e calore.»

«Bé, non credo di aver fatto nulla di speciale... è stato solo perché mi hai ispirato subito simpatia...» replico senza riuscire ancora una volta a capirlo fino in fondo.

Cogliendo i miei dubbi, senza altri giri di parole stavolta va dritto al centro, lasciandomi senza fiato: «La verità...» esordisce «...è che sono solo.

Anche se sono sempre circondato da tanta gente, mi sento solo dentro: nella mia vita non ci sono persone care su cui possa contare.

I miei “amici” sono artefatti, la maggior parte delle volte interessati solo ai miei soldi o nella migliore delle ipotesi al mio lavoro.»

Deglutisce, a stento trattiene il magone, prende fiato e ricomincia: «Così, quando ho incrociato te, col viso sporco di vernice mentre ridevi con Leonardo sugli scalini di casa, mi hai suscitato un’immediata simpatia.

Mi sei sembrata talmente genuina e divertente, così diversa da tutte le persone che frequento! La tua risata squillante mi aveva messo di buon umore e mi sono detto: “ehi, forse è la volta buona che è arrivata un’amica!”

Per quanto riguarda i regali, ovviamente posso permettermeli tutti, ma se ti imbarazzano posso anche evitare di farteli.»

«No, no!» sbotto d’istinto apparendo esattamente come il resto delle persone che Jay frequenta.

Fortunatamente capisce la buona fede e così, ridendoci su, pone fine all’argomento.

Tuttavia, sarà per la complicità che si è creata o per la curiosità che spesse volte dovrei frenare, mi spingo oltre domandandogli qualcosa sulla sua famiglia.

Non avrà amici, ma avrà dei parenti!

Invece, per tutta risposta, anziché raccontarmi qualche aneddoto divertente su di loro come potrei fare io, mi gela il sangue.

Va di nuovo dritto al sodo, affrontando una questione talmente spinosa che fa venire a lui i lucciconi agli occhi e, a me, la pelle d’oca: «Vuoi sapere della mia famiglia? Va bene.»

Ingoia di nuovo, tenendo stretti nei pugni i lembi del copridivano.

«I miei genitori non hanno mai accettato la mia omosessualità, e mia sorella continua a ripetermi che ho fatto morire io nostro padre di crepacuore.»

Il suo magone scoppia in un pianto e la sua voce acuta diventa più bassa: «Ma io non volevo, giuro, non volevo!»

«Cosa stai dicendo Jay? È ovvio che non è colpa tua se tuo padre è venuto a mancare...» non sapendo come consolarlo lo avvolgo in un caloroso abbraccio attraverso cui vorrei trasmettergli un po’ della mia forza.

Sebbene mi fossi ripromessa che non avrei più bevuto caffè in vita mia, ora me ne serve assolutamente uno, forte e doppio.

Mentre gli porgo una calda tazzina fumante, Jay ricomincia:

«Mio padre, originario di una piccola città del sud-est della Cina, era un estremo conservatore.

Sempre duro con me e mia sorella Sakura, non ricordo un’infanzia di affetto e di coccole, solo di imposizioni e severi divieti.

Non parlavamo mai, giocare men che meno. Lui lavorava giorno e notte, il tempo per lui era fonte di denaro, inconcepibile sprecarlo per stare con noi.

Anche mia madre ha sempre avuto un carattere forte, necessario per stare accanto ad un uomo del genere e per crescere da sola due figli.

Il giorno in cui le confidai il mio orientamento sessuale, mi disse che mai avrei

dovuto rivelarlo a mio padre, il quale negli anni era diventato debole di cuore. Lei, dal canto suo, fece finta di non aver mai sentito, ostinandosi ogni volta a chiedermi informazioni su nuove fidanzate che lei ben sapeva non sarebbero mai arrivate.

Così non dissi più nulla, mi chiusi ancor più a riccio e terminati gli studi mi trasferii nella “città della libertà”, la cui statua simbolo ricorda al mondo intero che qui tutto è possibile.

Tornato dopo diversi anni in Cina per far visita alla famiglia, contrariamente a quanto mi aspettassi notai negli occhi di mio padre una felicità che mi colse di sorpresa.

In quel giorno di primavera sembrava avesse per la prima volta voglia di parlarmi: si aggrappò pesantemente al mio braccio e, zoppicando, mi condusse in un grande giardino poco distante.

Sebbene vicino casa, mi stupii di non averlo mai visto prima. Era un classico giardino orientale, con un grande stagno pieno di ninfee ed un elegante padiglione rosso in armonia con tutto il resto, le piante, le rocce, i piccoli ruscelletti e i colori dei fiori.

Mi invitò quindi a sedermi accanto a lui, su un masso sotto un albero di pesco.

Con lo sguardo rivolto verso quel panorama incantato, vedevo che cercava le parole per dirmi qualcosa ma, non avendo avuto mai alcun tipo di dialogo prima, era in evidente difficoltà.

“Conosci la leggenda del filo rosso?” esordì allora senza preamboli.

Accennai un “no” con la testa, e lui iniziò a narrarla.

“Ognuno di noi nasce con un invisibile filo rosso legato al mignolo della mano sinistra, che ci lega indissolubilmente alla nostra anima gemella.

Le due persone così unite sono destinate ad incontrarsi, non importa il tempo che dovrà are, le circostanze o le distanze che le separano.

Perché il filo rosso sarà lunghissimo e fortissimo e non si spezzerà mai. Sarà lo stesso destino a tenerlo saldo ed unito finché esse non s’incontreranno...”

In quel momento distolse lo sguardo dallo stagno, mi guardò dritto negli occhi ed io capii: lui sapeva.

La leggenda non parlava di un uomo e una donna, ma di “anime gemelle” senza specificazione, perché tutto ciò che davvero ha importanza è l’amore tra di esse e solo questo. Punto.

Dall’albero di pesco sotto cui eravamo seduti iniziarono come per incanto a nevicare petali rosa e, per la prima volta, sentii il calore di un abbraccio di mio padre.

Fu il suo modo per dirmi che mi accettava e che si augurava per me l’Amore della vita... l’Amore con la persona a me legata da quel filo rosso

Mi rammentò che l’esistenza era troppo breve per inseguire stereotipi insignificanti e che tutto ciò che avrei dovuto fare era sorridere inseguendo la felicità.»

Le lacrime riprendono a rigargli il viso mentre io, intenta ad asciugarlo con un fazzoletto, non mi rendo conto di averne più bisogno di lui: sono una maschera d’acqua.

«Jay, ma è una storia bellissima...» singhiozzo immersa nei kleenex.

«Sì, se non fosse per il fatto che... » si interrompe per un breve istante, trattiene il fiato ed il pianto « ...per il fatto che fu il primo ed ultimo abbraccio di mio padre.

Ancora avvolto dal suo calore, avvertii prima una stretta più forte, poi improvvisamente flebile.

Lo sentii lasciare la presa ed accasciarsi in terra, mentre quella neve di petali si trasformava in lacrime rosa.

Era morto. Di infarto.

Ed è stata tutta colpa mia.» sentenzia lui con l’assoluta certezza della verità.

«Oh Jay no! No!

Lui era malato, non avresti mai potuto impedirlo! Invece, dandogli quella chance di parlarti, hai impedito che se ne andasse per sempre senza averti fatto capire quanto ti amasse!

Se n’è andato felice, sono sicura, ed il merito è tuo, perché tu hai fatto in modo che succedesse!

Con quell’abbraccio lui si è sentito perdonato per tutti gli anni di freddezza nei tuoi confronti... Con quell’abbraccio, lui si è sentito finalmente libero di morire!

Tuo padre non avrebbe mai voluto vederti così.» dico infine alzandogli il viso e facendolo guardare nello specchio che riflette lacrime e dolore.

Lui si limita ad abbozzare un sorriso e a tenermi la mano, in segno di gratitudine.

Credo di essere stata l’unica persona con cui si sia mai confidato, rendendomi onorata. Se prima pensavo di volergli bene per la sua simpatia, ora gli voglio bene soprattutto per la sincerità e per la vulnerabilità che non ha avuto paura di mostrare.

Dopo avermi ringraziato per le parole di conforto, ritorna ad essere lo spirito allegro di sempre e cambia di netto argomento, come se le rivelazioni che mi aveva appena fatto non richiedessero ulteriori discorsi.

Rispettando il suo dolore e la volontà di non parlarne più, lo aggiorno su Emma e Sebastian.

«Bé, cosa dire... I sicari della mafia non ci hanno ancora ucciso, lui ha avuto un incontro galante con una bella spagnola e mia sorella sta per ricevere la proposta di matrimonio da Mike.» sintetizzo in tono ironico, anche se c’è proprio poco da ridere.

Jay prova allora ad elencarmi gli aspetti positivi di un uomo come Sullivan, senza tuttavia riuscire a convincermi.

Sarà pure ricco e, a suo dire, belloccio, ma per me rimane arrogante, presuntuoso e di plastica.

Mentre le nostre chiacchiere si fanno sempre più dentro l’argomento, irrompe in casa Sebastian che ci domanda in tutta fretta se Emma fosse qui.

«No... ehm... Non c’è. Perché la stai cercando? Che è successo? Cos’è quest’agitazione?!»

«Non potrai mai crederci!» annuncia concitato senza nemmeno accomodarsi.

«Ero a fare jogging a Central Park per sgranchirmi le gambe e svagarmi un po’. Va bé, questo in realtà non è rilevante.» blatera affannato mentre Jay ed io ci rimandiamo occhiate interrogative. «Ciò che importa, invece, è che circa un’ora fa mi viene una fame incontenibile.»

Di nuovo io ed il mio vicino ci guardiamo interdetti per lo strampalato racconto che stiamo ascoltando.

«Allora...» riprende un Sebastian farneticante «...ancora indeciso tra un hot dog o un gelato, o davanti un piccolo bistrot dall’inebriante profumo di dolci.»

“Si, ok, e quindi?!” sto per chiedergli perdendo la pazienza mentre Jay fa il terzo sbadiglio.

«E loro erano lì!» rivela infervorato.

«Chi?» domando finalmente interessata.

«I sicari!!» interviene Jay preoccupatissimo.

Sebastian lo guarda con aria perplessa per l’argomento completamente avulso e bizzarro che aveva tirato fuori.

Senza prestargli comunque attenzione, ci svela la sensazionale scoperta.

«Mike Sullivan!!»

Io e Jay nuovamente ci fissiamo, divertiti ma anche irritati per il tempo che stiamo perdendo.

«Va bene, e allora? Dopotutto sono quasi fidanzati ufficialmente, li vedrai spesso in giro insieme.

Non vorrei che anche tu stia diventando un po’ geloso...» minimizzo ridendo.

Lui invece non ride, anzi mi ammonisce con uno sguardo torvo.

«Non hai capito. Non era con Emma, a meno che non si sia fatta bionda!» ribatte seccato.

«Comunque sia non vedo il problema. Sarà stata un’amica o una collega con cui è andato a pranzo.» rincaro stupendomi di aver preso le difese di Sullivan.

Jay, in accordo con me, annuisce con la sua folta capigliatura.

«Voi non vedete il problema?! Siete così abituati a palpeggiare i sederi dei vostri amici o colleghi?!» ci spiazza allora Sebastian facendoci trasecolare.

«Sì, avete capito bene!» risponde ai nostri sguardi increduli «Erano avvinghiati come due seppie! In verità la “seppia” era lui, perché la biondina faceva finta di negarsi come un’oca.»

La mia mascella cade in terra, da dove il mio vicino la raccoglie: «Meno male che Mike doveva essere un buon partito!» faccio presente a Jay che alza le spalle in segno di resa.

«Non è possibile che ti sia sbagliato?» provo l’ultimo tentativo in difesa di quel viscido uomo di plastica, più per l’interesse di Emma in realtà che per il suo.

Se fosse vero, questa sarebbe l’ennesima batosta amorosa da cui non so come riuscirebbe a venir fuori.

«Sono sicuro. Quello era lui; quella era la sua mano; e quel sedere non era di Emma.»

Panico.

«Ora che si fa?» interviene Jay.

«Bé, non abbiamo molte alternative... se non quella di dirglielo.» suppongo io mordendomi il labbro dal nervoso.

«Altrimenti potrei affrontare direttamente Mike e costringerlo a confessare tutto ad Emma!» propone Sebastian mentre batte un pugno nel palmo della mano facendo presagire il suo intento di metterlo anche KO.

«No, credo sia giusto dirlo ad Emma, sarà lei poi a decidere come risolvere la questione.» ribadisco.

«E sia.» conclude Sebastian mentre pian piano realizza, dagli sguardi miei e di Jay che stanno convergendo su di lui, a chi spetterà l’amaro compito di parlare a mia sorella.

«No, non io!» scuote le mani provando a rifiutare l’incarico. «In questo momento mi odia, non mi fa neanche avvicinare di un o! Non appena mi vede trova sempre il pretesto di andarsene! No, se non vogliamo fare un buco nell’acqua sarà meglio glielo dica tu, Viola.» ipotizza lui.

«Se non vogliamo fare un buco nell’acqua... sarà meglio sbrigarci!» concludo dirigendomi verso l’uscita e facendo segno ai miei amici di seguirmi.

Entrambi però si fermano dietro di me, non muovono un muscolo e mi guardano ridendo.

«Cos’altro c’è?!»

Di nuovo mi fissano dalla testa ai piedi: ah! Il mio pigiama lilla!

Sta diventando un’abitudine uscire così!

Durante il percorso per raggiungere il posto in cui Emma dovrebbe trovarsi, Sebastian non fa altro che parlare di lei e di quel damerino del suo fidanzato: diciamo solo che la parola “damerino” non è stata tra quelle uscite dalla sua bocca.

Finalmente arrivati a destinazione, nel Theater District di Broadway, sentiamo riecheggiare per le strade le musiche più svariate: classiche, jazz, pop; bonghi africani, nacchere spagnole e chi più ne ha più ne metta.

Entrati nell’edificio che cercavamo, la prima cosa che salta all’occhio è la miriade di scuole di ballo che lo popolano.

Avanziamo titubanti verso la hall e chiediamo informazioni sul corso di danza di Joaquín Sanchez, che ci indicano essere in fondo al corridoio.

Per arrivare nella sua sala fiancheggiamo delle immense vetrate da dove possiamo ammirare ballerini atletici ed armoniosi volteggiare come libellule: un autentico ristoro per gli occhi.

Abbiamo anche perso Jay per un attimo, fermatosi a conversare amabilmente con uno di questi, ed ho dovuto strattonarlo cinque volte per farlo smuovere.

Allineati come tre soldatini di fronte alla stanza in cui Emma si trova, una minuta assistente spuntata alle nostre spalle ci sospinge all’interno

catapultandoci in un mondo fatto di tacchi altissimi, calze a rete, scarpe di vernice, abbracci ionali e fisarmoniche sincopate.

«Fa-vo-lo-so...» bisbiglia Jay tra sé.

Un uomo alto ed aitante ci viene incontro, continuando a parlare ai suoi allievi ma guardando dritto dentro ai miei occhi.

“Che avrò fatto? Perché mi fissa così? Ho già sbagliato? Ho le scarpe sporche e sta per cacciarmi?”

Invece si avvicina, mi fa un inchino ed io mi rilasso.

“Meno male, chissà cosa credevo!” sospiro rimandandogli un sorriso che, probabilmente, era il cenno che aspettava.

Mi ritrovo così all’improvviso stretta tra le sue braccia, con la sua fronte poggiata sulla mia, mentre volteggio totalmente ignara dei movimenti che sto compiendo.

Sebbene non abbia la più pallida idea di cosa stia facendo, sento le mie gambe seguire con estrema facilità le sue: guida i miei i, consecutivamente un pivot, facendo in modo che disegni un otto con i piedi.

«Il tango non è maschio, è coppia. Cinquanta per cento uomo e cinquanta

donna.» dice con un marcatissimo accento spagnolo.

«Nessuna danza raggiunge lo stesso livello di comunicazione tra i corpi: emozione, energia, respirazione, abbraccio, palpitazione.» conclude ricollocandomi, con un ultima rotazione, tra Sebastian e Jay.

Mia sorella, che ha assistito alla scena come tutti i presenti, si precipita verso di noi inveendo contro Sebastian: «Cosa ci fai qui?!»

«Dobbiamo parlare.»

«Non vedi che non è il momento?! Ogni lezione di tango mi costa cinquanta dollari, per cui dovrai aspettare!» gli ribatte brusca.

Per tutta risposta, lui l’afferra per un braccio cingendole la vita con l’altro.

«Dobbiamo parlare.» rimarca mentre inizia a seguire la musica.

Muove un o indietro, poi di lato, avanti, ancora avanti fino a portare Emma ad incrociare i suoi piedi: «Ho visto il tuo fidanzato qualche ora fa.»

Il vigoroso maestro nel frattempo si è di nuovo avvicinato a me, ma questa volta anziché condurmi in un ionale tango mi posiziona di fronte a Jay che non ha la minima idea di cosa fare.

«Improvvisate.» ripete il mega-fusto alla sala intera. «Il tango è un ballo totalmente libero, privo di coreografie predefinite... Lasciatevi ispirare dalla musica...»

Jay ed io ci guardiamo negli occhi, anzi, lui guarda nei miei, io nei suoi occhiali da sole; proviamo a muoverci ma il risultato sono due tronchi di pino che si muovono scoordinati come pinguini; scoppiamo in una risata e ci defiliamo in fondo, dove il bel maestro non può assillarci più di tanto e dove possiamo avere una visuale d’insieme su ogni coppia.

Con sorpresa notiamo che la migliore è proprio quella formata da Emma e dal suo eroe, senza alcun’ombra di dubbio.

Sapevo che mia sorella fosse la prima del suo corso, più volte se ne era vantata, ma mai avrei immaginato che Sebastian fosse così bravo.

È sicuro ad ogni o: la guida in un giro attorno al proprio asse; poi lei effettua una “strisciata” col dorso del piede sulla gamba di lui, dapprima solo lievemente accennata, dopo decisamente esibita.

Trasudano ione e sensualità.

Ora lui interrompe col piede il o di lei, che alza una gamba incrociandola dietro con l'altra come a formare il numero "4".

Li vedo parlare in modo concitato ed il ballo non fa altro che enfatizzare la tensione che c’è tra loro.

Sebastian le sta raccontando di Mike: credo sia andato dritto al sodo, ma da qui posso solo provare ad interpretare i labiali.

Man mano che la musica prosegue con un ritmo sempre più incalzante, ogni coppia si ferma ad ammirarli nonostante il maestro esorti tutti a riprendere le danze.

Quei due sono come magneti, per gli altri che non riescono a smettere di guardarli, e fra di loro, che non riescono a staccarsi l’un l’altro gli occhi di dosso.

Emma effettua una sorta di “seduta” sulla gamba del ballerino, allungata e tesa verso l'esterno; è la fine, le note stanno per sfumare; lui la rialza con fermezza, i loro visi di nuovo frontali, gli sguardi che si incrociano. Sebastian le dice un’ultima cosa, lei non ribatte; la mano di Emma lascia allora la presa, si allontana di un o e...

...uno schiaffo in pieno viso!!!

Nello stupore generale, Sebastian gira la faccia accarezzandosi la guancia colpita, mia sorella sostiene ancora per un attimo il suo sguardo ed infine se ne va, lasciando tutti ammutoliti compreso il maestro.

Mi divido dal gruppo per raggiungerla negli spogliatoi, dove a dispetto di ogni previsione non la trovo in lacrime, ma verde di rabbia.

«È un bugiardo!» esordisce.

«Come si permette di insinuare certe cose! Non ha alcun diritto di venire qui, di interrompere la mia lezione e di comunicarmi senza mezzi termini che il mio fidanzato mi tradisce! Sono solo menzogne, e lui è semplicemente invidioso!»

Provo a risponderle qualcosa ma lei continua indispettita: «Forse Isabelle l’ha già mollato?! Pensa che mi getterò tra le sue braccia? Bé, non sarò mai la sua alternativa!» si sfoga Emma non prendendo minimamente in considerazione la possibilità che Sullivan la tradisca.

«Chi si crede di essere? Solo perché mi ha salvata una volta, non significa che debba continuare a fare l’eroe o il paladino dei cuori infranti!

Gliel’ho già detto una volta: deve scendere dal piedistallo su cui si è messo solo perché è bello e affascinante! Tra l’altro nudo non è neanche un granché!

Spalle larghe, addominali, ma niente che non si sia già visto!»

Mentre è lì che si autoconvince, sbraitando e riempiendo alla rinfusa il suo borsone da palestra, io non l’ascolto più: il mio cervello si è inceppato sulla parola “nudo” che gli è appena uscita di bocca.

«Come l’hai visto nudo?! Che avete fatto?!» non posso far a meno di domandare.

Lei prontamente ribatte sulla difensiva: «Niente, assolutamente niente! Non è come pensi, l’ho solo beccato mentre usciva dalla doccia!»

Continuo a guardarla con due occhi sgranati che fanno le domande al posto mio.

«E non guardarmi così! Non è stata mica colpa mia, è lui che non si è chiuso a chiave!» prova a giustificarsi.

«Inoltre pure tu, che hai solo un bagno!!! Lo sanno tutti che in una casa servono almeno due bagni, no?!»

«Ah, scusa eh! Scusa se vi sto ospitando e se la mia casa non è adeguata!» rispondo incredula.

Tu guarda che coraggio...

Va bé, diciamo che è sotto shock, la perdono.

Ciò che più mi fa riflettere, però, è il suo monologo esclusivamente incentrato su Sebastian, mentre dovrebbe essere su Mike.

Sembra che non le bruci la notizia che ha appena ricevuto, inveendo invece contro Sebastian per avergliela semplicemente data.

Molte cose qui non quadrano. Molte cose andrebbero approfondite meglio.

Tuttavia ora non è il momento: Emma è troppo agitata per affrontare qualsiasi tipo di discorso.

17 maggio 2014

Sono ati diversi giorni dall’ultimo incontro-scontro tra mia sorella e Sebastian.

Di quel ionale tango argentino non è rimasto più nulla.

Si evitano come la peste, fanno in modo di non trovarsi sulla stessa traiettoria e non si parlano neppure per chiedersi il sale a tavola.

Per troncare alla radice ogni tipo di contatto, inoltre, stamane Emma ha annunciato la decisione di lasciare casa mia.

La sua abitazione non è ancora accessibile, per cui andrà a stare da Mike. All’inizio la scelta non mi convinceva, ma mi sono ricreduta: in questo modo potrà tenerlo d’occhio e notare cambiamenti dovuti all’esistenza di un’eventuale amante.

In più l’atmosfera tra i miei due coinquilini era diventata decisamente insostenibile: sotto lo stesso tetto, lei si rifugiava in camera da letto con le cuffiette a tutto volume e lui in cucina a far dolci per scaricare la tensione.

Il risultato è stato deleterio: mia sorella ha perso l’uso della parola ed io sono ingrassata di due chili a causa di tutte le torte di Seba.

Visto che entrambi a stento rivolgevano parola anche alla sottoscritta, ho approfittato per lavorare sul mio faldone: pure lì, niente di nuovo.

Purtroppo non c’è alcun cavillo a cui possa aggrapparmi per provare quantomeno a contrastare la forza delle argomentazioni di controparte.

Devo iniziare a specializzarmi in cioccolate calde e biscottini da tè, se dovrò aprirmi una cioccolateria: il totale fallimento come avvocato è ormai prossimo.

Accontentandomi per ora di affinare il mio palato, degusto qualche tocchetto di delizioso “Cibo degli Dei”, come veniva chiamato dai Maya.

Un paio di tavolette di cioccolata dopo, tra un atto in spagnolo e l’altro, d’improvviso mi illumino.

A proposito di Argentina!

Come diavolo ha fatto Sebastian a ballare quel tango quasi meglio del maestro mega-fusto?

Per via della sceneggiata culminata col sonoro ceffone di Emma, non gli avevo dato il giusto peso quando invece potrebbe essere un punto di partenza per ritrovare la memoria!!

Non appena mi spunta alle spalle con una profumata torta all’ananas che è un

vero e proprio attentato alla linea, gli domando se ballando gli fosse tornato in mente qualche ricordo: si muoveva troppo bene per essere semplicemente alle prime armi.

Inserisco dunque nello stereo un cd di musica classica, per vedere se sa fare altrettanto con punte e mezze punte.

No, decisamente un papero.

o allora al genere pop: con questo va meglio ma, ad ogni modo, nulla di speciale.

Non conosce un o di flamenco, né di danza del ventre. Per quest’ultima avrei dovuto immaginarlo, ma ho voluto lo stesso fare un tentativo, non si mai. Gli ho persino appoggiato sui pantaloni un gonnellino dai tanti camlini fruscianti, ed è stato buffissimo perché in quell’istante è entrato Jay che si è messo a sventolare il suo sedere mingherlino di fianco a Sebastian facendolo sobbalzare.

Pertanto, compreso che l’unico ballo in cui è davvero ferrato è il tango, ci convinciamo che anche lui sia un insegnante. Il fisico adatto ce l’ha, muscoloso, ben proporzionato, spalle larghe e... Oh Dio, se penso che Emma l’ha visto nudo mi viene da ridere.

Camuffo la mia espressione divertita ingoiando la quarta fetta di torta: tanto si sa che l’ananas “brucia i grassi” quindi, se proprio vogliamo dirlo, è perfino dietetica.

Ripreso inevitabilmente il discorso dell’amnesia, propongo di fare ciò che da tempo avremmo dovuto: recarci sul luogo dell’incidente per vedere se possa essergli da stimolo al fine di ricordare qualcosa in più.

Ci imbarchiamo così tutti e tre arrivando nei pressi del fiume dove Emma era precipitata.

Purtroppo Sebastian non riesce a rammentare nulla, se non il momento del salvataggio.

Ripercorre gli argini come aveva fatto la prima volta; prova persino a valicarli, rientrando coi piedi nel fango e chiudendo gli occhi. Si concentra sul rumore impetuoso dello scorrere delle acque e ci racconta ciò che la sua mente vede: Emma semisdraiata, che cerca di divincolarsi dal ramo cui la sua gamba è rimasta impigliata. Grida aiuto, mentre prova da sola a rialzarsi. Lui era lì, dove ora c’è Jay.

La giacca che cade, le loro mani che tentano disperatamente di incrociarsi.

Poi finalmente la afferra, la solleva e la porta in salvo.

«Quello è il masso contro cui ho urtato!» grida Sebastian riconoscendolo.

Risale su, i suoi ricordi non vanno oltre.

Ci sediamo per un po’ sul ciglio in attesa di chissà quale rivelazione, sebbene ci rendiamo presto conto che l’idea di venire qui non sia stata risolutiva come speravamo.

Provo allora a stimolare la sua memoria in ordine alla sequenza di numeri, probabilmente corrispondenti ad una data, che aveva rammentato non molto tempo fa.

Anche su questo versante, nessuna folgorazione né intuizione.

Mentre stiamo andando via, però, il volto di Sebastian d’improvviso si ravviva.

Il suo sguardo sembra fissarsi nel vuoto, ma in realtà è diretto verso un punto ben preciso: si tratta di un dismesso locale, più che altro un magazzino, che si trova sull’altro lato della strada.

L’entrata è sbarrata da due travi di legno, i vetri alle finestre frantumati; da questi si può però vedere all’interno: tanta polvere adagiata su un vecchio bancone con file di mensole alle sue spalle. Non c’è altro, se non un grande lampadario stile rococò che non si adatta per niente al contesto.

Mentre ci avviciniamo, Sebastian mormora qualcosa.

«Cos’hai detto?» chiedo.

Lui, come un disco rotto, ripete: «Il pane più saporito e le comodità più piacevoli sono quelle che si guadagnano col proprio sudore...»

«Che vuoi dire?»

Con ancora gli occhi fissi sul bancone sussurra flebile due parole, semplici ma al tempo stesso cariche di valore: «Mio... padre.»

I brividi mi corrono lungo la schiena.

Finalmente un ricordo; e non uno qualsiasi: quello dei suoi genitori.

Jay gli stringe una mano e Sebastian prende coraggio per proseguire.

«È stato un flash: come vedere una fotografia, che la mia mente ha scattato nel ato e ha poi sovrapposto a ciò che sta vedendo ora.

Il posto è diverso da questo, però nell’immagine che mi è sopravvenuta c’era un bancone uguale e delle mensole, tante, sulle quali c’era... » si interrompe creando involontariamente una suspense.

«...Pane.»

«Pane?!» ripetiamo in coro Jay ed io.

Sebastian prosegue il suo racconto continuando come un automa a guardare dritto davanti a sé.

«C’era un uomo. Non so come si chiami, ma so chi è: siamo uguali, stessi tratti marcati, stessi occhi neri, stesse mani sporche di farina.

Mio padre.»

Mentre noi restiamo in silenzio incantati dalle sue parole, lui va avanti: «...Si inginocchia per raggiungere l’altezza di un bambino che gli è accanto, lo guarda dritto negli occhi ripetendogli la frase che ho appena ricordato e che sta generando, a catena, altri frammenti di memoria: “Il pane più saporito e le comodità più piacevoli sono quelle che si guadagnano col proprio sudore.”

Quel bambino, allora, si dirige verso un piccolo forno in miniatura, uno di quei giocattoli che però funzionano davvero.

Da lì prende un panetto appena cotto, sarebbe dovuto essere tondo ma, per via dell’inesperienza, era una massa informe.

Dopo aver dato un gran morso fa prima una smorfia di stupore per poi spalancare un enorme sorriso.

Riesco a sentirne il profumo, di nuovo.

Perché quel bambino... ero io.»

«Oh Sebastian, sai chi sei!» esplode Jay emozionato mentre io ancora una volta non trattengo le lacrime... Il fatto è che sono così felice per il mio amico che non posso fare a meno di piangere!

Cerco di tornare in me, facendogli domande alle quali non riesce a dare risposta: non è in grado di andare più in là di quanto abbia appena visto nel suo flash.

Tuttavia ha fatto un o in avanti gigantesco: non solo perché ora conosce il volto di suo padre, ma soprattutto perché comincia ad affacciarsi una concreta luce in fondo al tunnel!

Il dott. Nelson ci aveva prospettato questa possibilità ma Sebastian, visto il totale buio nei suoi ricordi, stava cominciando a demoralizzarsi.

Invece, ora, ha una speranza!

Al pensiero mi verrebbe nuovamente da piangere ma mi freno: «La cosa bizzarra è che questi flashback ti sono arrivati guardando il magazzino.» faccio presente di nuovo lucida. «Capisco che il bancone ti abbia rievocato quello di tuo padre, ma ciò che non comprendo è che il bancone che abbiamo davanti ora non era visibile dal ciglio della strada dove sedevamo poco fa, mentre tu hai iniziato a

ricordare avendo visto solo il locale da fuori. Come se lo conoscessi già!»

«E’ vero.» conferma lui. «In effetti era come se lo conoscessi; eppure, non era uguale a quello che ho visto fotografato nella mia mente...»

Se da un lato la vicenda si fa più chiara, dall’altro il mistero s’infittisce.

Oltre a capire se c’è una moglie da qualche parte nel mondo, di chi sono le fedi, a cosa si riferisce la loro incisione, la sequenza dei numeri da me ribattezzati “del lotto”, per non parlare del pesante shock emotivo che ha contribuito a causare l’amnesia, dobbiamo ora anche capire che collegamento c’è tra Sebastian e questa specie di locale.

Sempre più difficile.

Ma Sherlock Holmes, che sarei io, lo scoprirà.

18 maggio 2014

«Pronto? Emma sono io, chiamami, è il sesto messaggio che lascio in segreteria! Ci sono delle importanti novità!»

È da ieri che provo a mettermi in contatto con mia sorella senza risultati... Quanto è cambiata nell’ultimo periodo, sempre sfuggente, scontrosa, suscettibile. Perfino con me, e sinceramente non ne capisco il motivo.

Ho quindi deciso che oggi, all’uscita degli studi televisivi, andrò a prenderla: le offrirò un bel “Cosmopolitan”, anzi quattro in onore di ognuna delle protagoniste di “Sex and the City” che lei adora e che di questo cocktail ne hanno fatto un mito.

Ne berremo due a testa, così forse riuscirò a farla parlare senza filtri.

Sono le ore 19.

Sto aspettando che Emma finisca di lavorare, mi ha avvertito che è questione di pochi minuti.

Anzi, secondi: eccola lì, la vedo scendere a o svelto sicura di sé e bellissima, anche con quel buffo cappello.

Mentre attraversa la strada per raggiungermi, mi specchio rapidamente nella vetrina di un negozio: nonostante i meravigliosi abiti di Jay io invece mi sento gonfia, per colpa dei dolci di Sebastian, e stanca per via del lavoro sulla causa “Primero”.

Man mano che si avvicina tuttavia i miei problemi cominciano a svanire, perché intuisco se ne stia per prospettare uno molto più grave.

«Cosa diamine hai fatto ai capelli?!» mi impressiono portando le mani alla bocca.

Lei rimanda un sorriso che non riesco a decifrare: non so se è pentita o realmente soddisfatta.

«Non ti piacciono per caso?» mi domanda delusa lisciandosi le punte.

«In realtà non so se piacciono a te, visto che per nasconderli preferisci portare questo buffo cappello!»

«Avevo voglia di cambiare.» Evasiva. E banale.

«Tu non sei mai stata bionda! Per di più platino!!»

Quando una donna ha voglia di cambiamenti nella sua vita, la prima cosa che fa è tagliarsi i capelli o tingerli. Ma ho il vago presentimento che questo c’entri

poco con mia sorella.

Un dubbio si insinua allora nella mia mente... No, dai, sicuramente mi sbaglio, non può essere...

Emma ha un carattere così forte che non può essere caduta in un tale meccanismo.

Fatalità, però, questo cambiamento arriva dopo la rivelazione del tradimento di Mike che, per l’appunto, sarebbe avvenuto con una bionda.

È assurdo ma devo chiederglielo: «Sei sicura che il nuovo look non dipenda da ciò che ti ha raccontato Seba?» domando andando dritta al punto.

I suoi occhi si infiammano e di nuovo parole taglienti travolgono il povero Sebastian.

Sullivan invece viene menzionato solo per rimarcare la sua innocenza.

È mai possibile che non voglia neanche prendere minimamente in considerazione l’idea che l’abbia tradita davvero?!

Comprendo che questo atteggiamento possa essere una difesa ad un’ennesima delusione d’amore difficile da superare, ma non può continuare a vivere ciecamente illudendosi che tutto vada bene!

Cerco allora di riprendere il discorso, stavolta però un po’ più alla larga: «Come ha reagito il tuo fidanzato quando ti ha vista così?»

Di nuovo mi sorride, di nuovo non so interpretarla.

«Ne è stato entusiasta.» sintetizza.

Io, diffidente di natura, non posso fare a meno di sospettare che a quel viscido piaccia il nuovo aspetto di Emma perché stuzzicato dall’idea che sia simile alla sua amante.

Lei invece, dal canto suo, mi sta dando l’impressione di voler trovare un modo di piacere ancor più a Mike e di legarsi sempre più a lui, ma allo scopo sbagliato: quello di allontanarsi dal suo chiodo fisso, il ragazzo che l’ha spiazzata e travolta nel momento in cui era convinta di aver finalmente trovato la persona giusta.

Ce la sta mettendo tutta per non innamorarsi del suo eroe, ma non sa proprio come cancellarlo dalla mente.

«E’ chiaro che io sia stata turbata dalle illazioni di Sebastian...» mi sorprende lei di punto in bianco tirando fuori la scottante questione del tradimento.

«E’ chiaro che questo mio cambiamento rifletta, se vuoi, anche un disagio, una richiesta di attenzioni forse... ed è chiaro che non sono una totale sprovveduta: se Mike ha un’amante, lo scoprirò. Non è stato così casuale il mio trasferimento a

casa sua. Sto indagando, anche se per ora non mi ha dato adito di sospettare alcunché.»

Rincuorata dal fatto che non abbia perso il suo temperamento ma rattristata nel doverla vedere in tale condizione, posso solo prometterle che tutto andrà per il meglio e che potrà comunque, sempre, fare affidamento su di me.

È proprio il momento di un bel Cosmopolitan!

Ormai al terzo cocktail, Emma è senza freni.

Io fortunatamente sono rimasta sobria perché dopo il primo, sentendomi più sottosopra del previsto, mi sono fermata.

Quando era ancora capace di intendere e volere, le ho raccontato dei progressi di Sebastian e dei suoi primi ricordi legati al padre.

Nonostante l’iniziale tentativo di mascherare il suo entusiasmo, era così felice per la bella notizia che è ato in secondo piano il risentimento nei suoi confronti, nonché l’inquietudine per il possibile tradimento da parte di Mike.

Poi la conversazione è degenerata: più l’alcool entrava in circolo, più l’argomento cambiava deviando su Isabelle e su ulteriori incontri galanti che, per quanto ne sapessi io, non vi erano stati.

«Sono proprio contenta che non si sono più rivisti...» sbiascica ormai ubriaca «Isabelle è tutta rifatta... facile essere belle andando dal chirurgo!» singhiozza gaia.

«Anche Mike è tutto rifatto... però... shhhhhhhhh, è un segreto!» mi dice facendomi segno con l’indice davanti dalla bocca e sganasciandosi dalle risate.

«Voglio l’anello, quello col cuore.» annuncia saltando di palo in frasca.

«Però non mi sposo, non voglio...» rivela.

«Avete capito?! Io non sposerò Mike Sullivan!» urla girandosi verso i presenti che guardano la scena divertiti. Un uomo di rimando le grida: «Sposa me!»

«Va bene, ma voglio l’anello col cuore!» gli ribatte mia sorella senza nemmeno individuarlo tra la folla.

Ok, è ora di tornare a casa. Ovviamente a casa mia, non posso lasciarla in questo stato da Mike.

Mentre la tiro su per un braccio facendola appoggiare sulla mia spalla, si avvicina all’orecchio e mi fa: «Sebastian invece è bellissimo... nudo ancora meglio... l’ho visto sai? E’ così... così... »

«D'accordo, lascia stare, non voglio saperlo. Ora andiamo, forza, ti serve una

lunga dormita.»

19 maggio 2014

«Chi sta suonando il tamburo?» farnetica Emma uscendo dalla mia camera da letto.

«E perché usi il martello pneumatico in cucina?!» domanda senza ben articolare le parole non appena mi individua.

«Veramente sto solo tritando le cipolle col coltello.» le rispondo stupita nel vederla ancora soggiogata dagli effetti post sbornia nonostante le dodici ore di fila di sonno.

Mentre si accascia sulla mia spalla in attesa di una coccola, più precisamente del “morso del coniglio” che è il lungo pizzicotto sotto al mento che le facevo sin da bambina, rincasa Sebastian ed improvvisamente Emma assume una postura sull’attenti.

Anche lui resta di sasso nel rivederla dopo tanti giorni, per di più bionda platino.

Dietro di lui, la nostra immancabile ombra, Jay, per il quale ho già pronta una caffettiera carica anche se è quasi ora di pranzo. Tanto servirà anche ad Emma per smorzare il mal di testa e la lingua ancora felpata dall’alcol.

Intuendo la situazione, il mio vicino prova a darle qualche consiglio per farla sentire meglio: «Dovresti bere acqua di cocco!» è l’idea geniale con cui ci illumina.

«Non mi risultano ci siano palme in giardino. Dove lo trovo un cocco a New York? È già tanto che troviamo le mele.» faccio presente.

«Il rimedio ideale è questo.» suggerisce Sebastian prendendo una fetta di pane.

Si avvicina ad Emma e le sorride porgendogliela, mentre lei non riesce a sostenere il suo sguardo memore del ceffone che gli aveva dato l’ultima volta che si erano visti.

«Le farine, assorbendo l’alcol, riducono l’effetto della sbronza» illustra lui.

Mentre Emma inizia a ruminare, Jay baldanzoso ci annuncia il motivo della sua visita.

«Perché, non sei venuto per il solito caffè?» lo punzecchio.

«Non solo mia cara: come saprete, i proprietari del prestigiosissimo golf club che ho appena progettato sono mie vecchie conoscenze e... indovinate un po’?

Mi hanno invitato alla cerimonia di apertura!»

«Uhm... interessante... » ribatto volutamente indifferente.

«Sì! E non vi ho ancora raccontato il meglio!

Dopo l’intero pomeriggio a giocare a golf si terrà un grande ricevimento in terrazza, con vip, diplomatici, divi della musica e del cinema. È trapelato anche qualche nome, ma non posso svelarvelo.» ride civettuolo credendo che a noi interessi qualcosa.

«Tipo Sharon Stone e Bono degli U2!» si vanta immediatamente dopo.

Il mio rosicare tuttavia raggiunge l’apice quando annuncia che ogni ben di Dio sulla tavola sarà preparato niente meno che da... Gordon Ramsay!

Lo chef “dodici stelle Michelin”, quello della televisione, vi rendete conto?

La sottoscritta sì, e per poco non collassa.

Emma ed io non possiamo far a meno di sospirare dall’invidia, mentre Sebastian ne rimane meno impressionato. Forse con l’amnesia ha dimenticato anche chi sia Gordon Ramsay, altrimenti non si spiega il suo totale disinteresse!

«Sarà una giornata carina.» replico senza volergli dare la benché minima soddisfazione.

In realtà sarà un evento divertentissimo e sono contenta per lui, ma devo prenderlo un pò in giro, è la mia piccola rivincita per non poter prendere parte anch’io alla festa dell’anno.

«Solo “carina”, mia cara? È fa-vo-lo-sa!!

Ma se pensi che non ne valga la pena, puoi sempre restare qui a... tritare cipolle.» mi punzecchia.

«Cosa vuoi dire?!» interviene allora mia sorella con la bocca piena di pane.

«Voglio dire che se non avete meglio da fare, miei cari, domani potrete venire con me!»

All’annuncio del secolo cominciamo a saltellare gioiose come grilli; anche Sebastian sta sorridendo, evitando tuttavia di scomporsi con capriole e salti circensi.

«Ho a disposizione sei ingressi, quindi se ti va, Emma, puoi portare Mike.»

«Certo!» risponde lei senza indugio.

«E tu, Seba, ovviamente puoi far venire Isabelle.»

«Ok, volentieri.» ribatte lui guardando fermo mia sorella.

Cosa diavolo sta combinando Jay? Il mio vicino per caso è impazzito? Oppure ha deliberatamente deciso di far litigare tutti quanti?

Come prevedibile, Emma e Sebastian tornano a fissarsi in cagnesco.

Lei, assunto di nuovo un atteggiamento ostico, si imbosca l’intero sfilatino di pane sotto al braccio e se ne va.

Anche lui, con una scusa, si allontana lasciandomi sola con Jay.

«Sei diventato matto?!» lo fulmino non appena ho la certezza che nessuno possa sentirci.

«Mia cara, rifletti.

Ogni occasione è buona per studiare il comportamento di Sullivan: se non sbaglio, non hai mai ato in sua compagnia più di un paio d’ore, per cui un evento del genere, che durerà dal primo pomeriggio fino a tarda sera, potrà aiutarci a scoprire qualcosa in più sul suo conto.

Lo so, sono un genio, non ringraziarmi.»

«Se questo è il motivo, genio, cosa c’entra Isabelle? Perché hai invitato pure lei?» incalzo lanciandogli la mia occhiata sbieca da coccodrillo.

Come un bambino che ha appena combinato una marachella, spalanca uno dei suoi sorrisi più sornioni: «Bé... lei darà un po’ di pepe alla giornata!»

«Pessima mossa genio.» lo redarguisco scuotendo la testa.

Altro che pepe: saranno fuochi d’artificio.

20 maggio 2014

Le domande dell’umanità sono cambiate.

Un tempo mi interrogavo sul senso della vita e sull’esistenza degli alieni.

Stamane invece mi sono posta nell’ordine i seguenti interrogativi amletici: “Come si sopravvive tra due coppie che si odiano e che sono costrette a trascorrere insieme un’intera giornata?”; “Come si supera la mancanza di tuo marito in un giorno come questo, ma anche come in tutti gli altri che si stanno inesorabilmente susseguendo senza di lui?”; “E soprattutto: come ci si veste in un golf club per uno degli eventi più mondani della stagione?”

Ho iniziato così a svuotare l’armadio in cerca di qualche golfino a rombi o kilt scozzese. Sinceramente non so perché abbia pensato al kilt, ma tanto non l’ho trovato.

Ho invece scovato una camicetta con dei quadrettoni, che potrebbero sostituire i rombi, pur facendo molto “pic-nic in campagna” o “cow-boy col lazzo”; come detto, la gonnellina scozzese mi manca, però ne ho una plissettata rossa bordeaux che ben si abbina al rosso dei quadri della camicia.

Ai piedi servirebbero quelle scarpette con la suola dentata che ovviamente noleggerò lì; per ora ho messo delle scarpe da ginnastica Converse.

Perfetto.

Ora mi serve solo uno specchio per contemplare la mise che Jay non potrà che definire fa-vo-lo-sa!

Neanche a farlo apposta, eccolo suonare alla porta puntuale come un orologio svizzero per il suo caffè.

Non appena mi vede, anziché salutare mi spiazza: «Dov’è?!»

«Chi?!»

«Che emozione, voglio farci un giro anch’io!» farnetica entusiasta.

«Su cosa?» continuo a chiedere senza comprenderlo.

«Sulla macchina del tempo!!» esplode lui ridendo.

«Ma che diavolo stai blaterando?»

«Non far finta di niente! So che ce l’hai!

Guardati, sei appena ritornata dagli anni ’50. Me l’hai salutato Fonzie?»

continua imperterrito la sua pantomima.

Finalmente capisco dove vuole andare a parare.

«Perché, non vado bene vestita così?» gli domando offesa allargando i lati della gonna che si aprono a fisarmonica.

«Sì, vai benissimo se hai un appuntamento al drive-in! Proiettano “Happy Days”?»

«Oh, insomma, la smetti di prendermi in giro?»

Odio ammetterlo, ma aveva ragione.

Soprattutto ora che posso constatare con i miei occhi la differenza tra una giocatrice di bowling degli anni ‘50 che ha appena terminato un pic-nic in campagna ed una aristocratica ragazza degna del golf club più esclusivo di New York.

Ho persino un fazzoletto al collo ed un berretto intonato!

Non vedo l’ora di sfoggiare la mia mise e di cimentarmi nel torneo di golf... Magari lo vinco pure e mi nominano socia onoraria! Che bello, non sono mai stata socia di un club, se si esclude quello di Topolino quando avevo sette anni.

I primi ad arrivare sul luogo dell’appuntamento siamo Jay ed io, elegantissimi nei nostri abiti di alta sartoria.

Giungono poi Emma e Sullivan.

Lei è perfetta senza neanche aver avuto bisogno della consulenza di Jay; lui pure non è male, si vede che sa come vestirsi in occasioni di un certo livello, anche se per me resta il viscido uomo di plastica che si è permesso di tradire mia sorella. Quindi, comunque non mi piace.

Inoltre, col suo atteggiamento ossequioso nei confronti di Jay riesce persino ad infastidirmi di più di quanto non avesse già fatto con la sua sola presenza: è il classico tipo che cerca di rendersi simpatico agli occhi di una persona importante solo per voler risplendere un po’ di luce riflessa.

Rappresenta insomma l’emblema dei cosiddetti “amici” che circondano Jay per conseguire secondi fini.

Quanto è insopportabile!

Come se non bastasse, appena Sebastian e la bella spagnola ci raggiungono, tutte le attenzioni che stava dirigendo sul mio vicino vanno di getto a confluire su Isabelle.

Non riesco davvero a credere che la mia intelligente sorellina possa stare con un

uomo del genere.

È così penoso: non stacca gli occhi di dosso dal decolté ispanico, che lei certo non ha vergogna di mostrare. Voglio proprio vedere quest’altra come giocherà a golf con una scollatura tanto vertiginosa!

Comunque, mantenuta una tregua apparente ci dirigiamo tutti e sei verso il grande patio all’entrata, dove camerieri con smoking bianchi servono calici di champagne. Sarà meglio che tenga sott’occhio Emma, se non voglio che si ubriachi come ha fatto con i “Cosmopolitan” e riveli dettagli imbarazzanti.

Neanche facciamo in tempo ad addentrarci di qualche o, che Jay viene risucchiato da persone dall’aria facoltosa.

Non sembra il ragazzo che si è svelato a me e che soffre terribilmente per la sua vicenda familiare, ma un sicuro businessman che intrattiene relazioni di lavoro da milioni di dollari.

Deve avere una forza di volontà più grande di quanto pensassi: è riuscito ad arrivare sin qui facendo affidamento solo ed esclusivamente su se stesso e sulle sue capacità. Non sarà stato facile, ma guarda che risultati: tutti lo avvicinano, tutti vogliono parlare con lui, gli offrono grandi progetti e di conseguenza tanti soldi, e mi viene da ridere al pensiero che in questo momento l’unico modo che avrebbero per convincerlo sarebbe solo un buon caffè italiano!

Distolgo lo sguardo dal mio amico per dirigerlo verso l’infinita distesa verde che si staglia di fronte, a dir poco meravigliosa.

Anche Emma, allontanatasi dal gruppo, rimira il panorama totalmente assorta nei suoi pensieri. Chissà quali risposte i suoi grandi occhi chiari stanno cercando in queste colline...

Una risata sguaiata ci fa destare ognuna dalle rispettive riflessioni e voltare di scatto.

È solo Isabelle, lusingata dai complimenti che sta ricevendo da uno sceicco. Dove è andata a finire la romantica donna che si era innamorata a prima vista del bell’eroe?

Sebastian ha seguito la scena senza rimanerne infastidito come sarei stata io al suo posto. Ciò che lo sta disturbando, piuttosto, è la vista di Mike.

Ora poi che si è avvicinato ad Emma cingendole la vita da dietro e baciandole il collo, lo vedo frenare l’istinto di andarli a dividere, per non parlare di quello di sferrargli un gancio in pieno viso che sta reprimendo fin dal giorno in cui l’ha beccato con la biondina.

Mamma mia, oggi va a finire male, lo sento!

Sebastian incenerisce Sullivan con lo sguardo; Emma se ne accorge e fulmina Sebastian; Isabelle, perse le attenzioni del ricco sceicco e ricordatasi di avere un partner, guarda gelosa mia sorella. Insomma, qui è tutto un lanciare occhiate torve mascherate da sorrisi di circostanza.

Meno male che stiamo per cominciare a giocare, così ci distrarremo.

O almeno è ciò credevo mezz’ora fa!

Non abbiamo ancora toccato una pallina.

Jay si sta dilungando oltremodo nello spiegarci le regole ma neanche lo ascolto più.

Chi è che non sa come si gioca a golf?! Hai una mazza, una palletta e una buca. Voglio dire, 2 + 2 = 4! Che ci vuole!

Un’altra mezz’ora dopo finalmente ci consegnano le borse contenenti pesantissime mazze da golf. Ma non ne bastava una?

Mentre le carichiamo su una di quelle bianche minicar con le quali i giocatori si spostano sul green, i miei ricordi volano all’ultima volta in cui ne ho guidata una. In verità l’avevo rubata: era del resort messicano nel quale mi ero infiltrata nella convinzione di trovare Leonardo con l’amante che non ha mai avuto. Ma questa è un’altra storia.

Al pensiero di quelle peripezie mi si stampa un automatico sorriso, che però si smorza allo squillare del telefonino: è il mio capo.

Gelo.

Rispondo?

No. Meglio di no.

Ok, sì.

«Pronto?!»

«Avvocato, buonasera.» esordisce glaciale.

Replico a fatica già al solo saluto: ho la bocca secca e la salivazione azzerata.

Che diamine vorrà?

«Sono ati diversi giorni dal nostro ultimo meeting, per cui è necessario fissarne un altro. La fatidica data dell’udienza si avvicina, dobbiamo predisporre un piano di difesa vincente.»

“Sì, vincente... come no...” sospiro tra me e me.

«Ho già convocato i soci senior: la riunione è fissata per oggi pomeriggio alle ore 18.»

Che cosa?!

Panico.

Lo so che con tutti i soldi che mi paga devo essere a sua disposizione quasi ventiquattrore ore al giorno, ma io oggi proprio non posso! Non solo perché non so quali novità raccontargli visto che le chance di vincere sono sempre le stesse, ma anche perché a quell’ora sarò nel pieno del mio torneo!

«Allora, avvocato?! Sto aspettando una risposta.»

«Uhm... stasera ho un impegno!» invento.

«Quale impegno?» indaga lui.

Ora riaggancio. Gli dirò che non c’era campo e che la linea è caduta. Sì, ma poi vorrà comunque avere una risposta.

«Allora?» mi incalza.

Viola, pensa a qualcosa di credibile...

“È morta mia nonna.” No, no, perché se poi muore davvero mi sentirò in colpa, e certo non è più una ragazzina. Dovrei chiamarla... però quando la chiamo non ha mai niente da dirmi... Certo che ogni tanto potrebbe anche chiamarmi lei!

«Avvocato?!!!» «È morta mia nonna!»

Appena torno in Italia le porterò un bel regalo... se l’è proprio meritato.

Finalmente iniziamo a giocare.

Mentre gli altri per far scena fingono di studiare quale sia la mazza migliore, io ne prendo una a caso.

Noto che tutti, di colpo, sono diventati metereologi esperti: si vedono in aria decine di dita alzate per sentire dove e come soffia il vento... Mi sembrano tanti “E.T. telefono casa”.

Avrei voglia anch’io di sventolare in alto il dito, ma non l’indice. Sai che ridere!!! Tuttavia mi trattengo, dopotutto sono una lady, ho persino il foularino al collo.

Al mio primo tiro, faccio cilecca.

Bé mica posso pretendere di essere un fenomeno in tutto? Giusto? Giusto!

Un uomo allora si avvicina e ripone nuovamente la pallina accanto a me. Che gentile.

Mi metto in posizione, scuoto un po’ il sedere, faccio la finta del dito al vento e... centro! Bel lancio Viola! Non è andata molto in là, ma almeno l’ho presa.

Devo proprio farmi i complimenti da sola, visto che gli altri non me ne fanno.

«Scusi signorina! Quello era il mio turno e quella la mia pallina!»

Ops.

Sarà meglio seguire Jay come un segugio ed attendere sue istruzioni.

Concentrata nei miei tiri iperbolici, non mi rendo conto del teatrino che nel frattempo hanno iniziato a mettere in atto i due baldi giovani che ci accompagnano.

Sebastian, che in questo sport non è per nulla ferrato, sta cercando come un

furetto di carpire le posizioni migliori per dare potenza ai suoi lanci. È palese la sua gelosia verso l’acerrimo avversario Mike che, più portato, gli rimanda con sfida sguardi trionfanti.

Ovviamente il duello è agli esordi e non si limiteranno alle sole occhiatacce.

Neanche faccio in tempo a pensarlo, che me li ritrovo a correre verso la buca numero uno per andare a vedere dove sia andata a finire la pallina colpita da Mike. Tale è la loro idiozia che, durante la corsa, accelerano il o con nonchalance per superarsi a vicenda, arrivando infine a sgomitarsi e strattonarsi.

Due ragazzini.

Come se non bastasse, ovviamente c’è anche una sorta di contesa tra le dolci pulzelle, più a colpi di chiome fluttuanti in realtà che a colpi sul campo da golf.

Entrambe si atteggiano a primedonne e, se è vero che ciò non mi stupisce di Isabelle, quanto a mia sorella resto parecchio interdetta.

Perché si sta abbassando al suo livello?

Tra l’altro non è minimamente paragonabile la sua classe innata con la chiassosità della bella mora.

Continuarla a vedere poi così astiosa nei confronti di Sebastian e così troppo

poco in quelli di Mike, di nuovo mi fa dubitare del suo raziocinio.

Eppure è sempre stata una ragazza saggia, equilibrata, intelligente... non riesco davvero a capacitarmi dei suoi comportamenti degli ultimi tempi: l’unica spiegazione è che stia soffrendo talmente tanto per la sua situazione amorosa che non è più in grado di ragionare.

Dopotutto, quale donna non andrebbe in tilt al suo posto? Sta con un uomo che non è alla sua altezza, che sta per chiederle di sposarlo e che per giunta forse la tradisce, e a complicare il tutto ci si è messo quell’eroe di Sebastian, i cui segni particolari sono: bellissimo, smemorato e sicuramente sposato.

Il torneo prosegue.

Ormai mi son dovuta rendere conto che non lo vincerò e che non mi faranno socia onoraria. Peccato.

Devo però vedere il lato positivo: è già tanto che non mi abbiano inserito nella black list. Sembrava infatti che avessi commesso chissà quale reato quando sono andata a riprendermi la pallina da una duna di sabbia! Hanno iniziato a gridarmi contro, alcuni addirittura hanno fischiato e Jay mi ha guardato storto per un buon quarto d’ora.

Ma io dico, come vi viene in mente di mettere delle aree di sabbia in una distesa di erba verde! A che servono! Rovinano pure la scenografia!

Poi si lamentano se uno va riprendersi la propria palletta! Era la mia, mica di un altro. Stavolta non avevo interferito nel gioco di nessuno!

I praticanti di questo sport sono troppo suscettibili per i miei gusti: così snob solo perché straricchi!

Per fortuna, o sfortuna a seconda dei punti di vista, le mie azioni sono ate in secondo piano per via dei comportamenti insensati di Totò e Peppino, al secolo Mike e Sebastian.

Il culmine l’hanno raggiunto quando si sono azzuffati finendo entrambi nel laghetto artificiale e segnando definitivamente la conclusione della nostra partecipazione al torneo.

Tra sguardi di disapprovazione e risate generali, ci allontaniamo con i due soggetti gocciolanti al seguito cercando di non incrociare i visi di nessuno. Tra non molto infatti ci sarà il gran rinfresco in terrazza e non vorrei essere riconosciuta come l’amica dei tuffatori olimpionici.

Guai a loro se al buffet non staranno lontani almeno mille metri l’uno dall’altro!

Oh my God...

Gordon Ramsay, santo subito!

Questo risotto è sublime. Per non parlare di queste tagliatelle ai funghi e... cosa sono questi, fagioli? Ottimi!

Il pasticcio di carne, poi, una vera goduria. Ah! Ci sono pure i gamberetti fritti!

Più che un ospite sembro un cameriere, con tutti i piatti che sto accumulando in mano. Però ogni pietanza è talmente squisita che sarebbe un vero peccato non assaggiare: il mio carissimo amico Gordon potrebbe anche rimanerci male!

Eh sì, siamo diventati grandi amici: quando ci hanno presentati ho fatto bella mostra di me dandogli la ricetta del timballo di mia nonna, quella morta che in realtà è viva.

Dovrò portarle un regalo anche per questo.

Quattro “assaggi” di pasta più tardi, il mio vestitino rosa confetto comincia a tirarmi un po’: dev’essere cambiato il mio metabolismo negli ultimi tempi, non posso più mangiare “niente” che mi gonfio come un pesce palla.

Vorrei avere la silhouette di mia sorella, lei sì che non ingrassa di un etto, eppure guardala lì come addenta ferocemente quella povera fetta di tiramisù: e per “fetta” intendo “mezzo vassoio”.

Sembra voler affogare le sue preoccupazioni in ogni dolce che trova, senza tuttavia rendersi conto che non avrebbe motivo di averne: non solo è stupenda, con un viso d’angelo e un fisico mozzafiato, ma è brillante, simpatica, ha un

ottimo lavoro nonché una sorella very very cool!

In questo momento tutti gli occhi maschili sono rivolti su di lei e neanche se ne accorge, potrebbe avere al suo fianco chiunque desideri.

Il guaio è che vorrebbe proprio l’unico fuori mercato.

Mi avvicino a lei cercando un argomento di conversazione per farla desistere dall’ingozzarsi: «Se ora scoppiasse un incendio e tu potessi salvare il dolce o me, chi sceglieresti?»

Brillante spunto di riflessione.

«Non è corretto, il dolce non ha le gambe.» mi spiazza lei continuando a masticare la torta al cioccolato.

Così imparo a fare domande idiote.

«Dov’è andato a finire Mike?» le chiedo facendo finta di non essermela presa.

«Si è allontanato per una telefonata di lavoro.

Sai... al riguardo volevo dirti, ora che siamo sole, che ho controllato il suo

cellulare da cima a fondo, nonché le sue e-mail personali e professionali: per il momento non ho scoperto nulla di sospetto.»

«Tesoro, eccoti, sei qui!» ci interrompe il lupus in fabula raggiungendoci da dietro.

«Chi era al telefono, amore?» domanda lei con fare innocente.

«Lo sai... i soliti problemi in redazione. A proposito, domani ho un appuntamento di lavoro fuori città. Già ti anticipo che non rientrerò per cena.»

Emma ed io incrociamo fulmineamente i nostri sguardi.

Ecco il piano che in un decimo di secondo ci comunichiamo telepaticamente: “domani lo pediniamo – lo cogliamo in flagrante con l’amante – lo prendiamo a pugni – gli rubiamo la carta di credito – la dilapidiamo. Viene pure Jay? – Viene pure Jay. o e chiudo.”

Ricominciamo a rifocillarci, ci servono energie per domani!

21 maggio 2014

«Devo per caso ricordarvi che stiamo andando a pedinare un uomo?

Devo per caso ricordarvi che negli appostamenti non dobbiamo dare nell’occhio?

Mi sembra logico che occorre mantenere un profilo basso, giusto? Giusto!» domanda il generale Rommel, cioè io.

«E allora perché tu sei vestito di fucsia?! E tu perché hai ancora quei capelli biondo platino sotto un cappello che ha addirittura i camlini?! Servono per avvertire della tua presenza?»

«A dire il vero...» prova a giustificarsi Jay.

«Noi credevamo che...» continua Emma.

«Voi non dovete credere! Voi dovete solo eseguire le mie istruzioni!» ribatto infervorata mentre loro mi guardano come fossi una pazza esaltata.

Bé, un po’ lo sono, ma dopotutto qui sono l’unica ad avere esperienze nel campo dello spionaggio! Grazie al mio ato e alla turbolenta storia con l’uomo che poi ho sposato, degna dei migliori best-seller, ho meritato a pieni titoli la nomina

di “capo della missione”.

«Per cui... ecco: indossate queste!» impongo.

Mia sorella continua a fissarmi come se stessi delirando e Jay per poco non mi sviene davanti: «Stai scherzando spero?! Mia cara, questi pantaloni e questa maglia non si abbinano col rosa shocking.»

«Infatti non devono abbinarsi! Il rosa shocking dovrà scomparire nel giro di tre minuti netti!»

Guardo l’orologio e per poco non sono io a svenire. È tardissimo! Siamo già disallineati con la mia tabella di marcia!

«Su, andiamo, muoversi, muoversi!» incalzo notando solo ora di non avere il fischietto con cui poterli richiamare all’ordine.

Ogni buon generale ha un fischietto. Scommetto che anche Napoleone ai suoi tempi ne avesse uno.

È la prima regola: fischietto più cavallo bianco. Visto che già non posso avere il quadrupede, almeno devo rimediare l’altro strumento.

Per il momento ò le due dita poggiate sulla lingua, tipo allevatore di pecore più che condottiero, ma alla fine ciò che conta è ottenere lo scopo. Giusto!

In un balzo Emma e Jay indossano le mie tute mimetiche e balzano fuori casa quasi marciando. Uhm. Mi piace questa obbedienza, potrei anche abituarmi.

Pensa se iniziassi a comportarmi così anche con i soci ed i colleghi dello studio: “Tu, vammi a fare le fotocopie! Tu, portami la borsa! Tu, il caffèlatte alla vaniglia! E tu, Grande Capo, sei alto sì e no un metro e cinquanta, quindi fatti chiamare solo Capo!”

Rimango a gongolare qualche istante all’idea che un giorno tutto ciò possa realizzarsi, quando Emma osa suonare il clacson per farmi sbrigare! Insolente! Io non ho il fischietto e lei addirittura usa il clacson! Le farò fare cento flessioni!

Entrata in auto, colgo dai loro sguardi una certa disapprovazione.

«Vedrete che mi darete ragione! Non vi stanno neanche male in fondo...» un buon generale deve saper dare anche piccole gratificazioni.

Carlo Magno sarebbe fiero di me.

Appostati dietro ad un grigio palazzo, dove effettivamente la nostra tuta mimetica verde ci fa solo che risaltare, seguiamo il nostro obiettivo dal nome in codice “Seppia di mare”.

Abbiamo percorso più di sessanta chilometri, infrangendo addirittura la legge per stargli dietro: un valido condottiero, se vuole la vittoria, deve essere

sprezzante del pericolo, per cui non ho esitato a fermarmi in sosta vietata in attesa che “Seppia di mare” fe la sua colazione e, addirittura, ad attraversare alcuni incroci in pieno semaforo arancione!

Medaglia al valore.

La Seppia sta entrando in quell’elegante edificio: meno male che di fronte c’è un parco con delle aiuole in cui imboscarsi. Le mie tute mimetiche iniziano ad essere utili, non avevo dubbi.

Mentre tiro fuori il binocolo, con cui ho intenzione di seguire l’obiettivo dal cespuglio, Jay apre il portabagagli.

Ne tira fuori un borsone: «Possiamo finirla ora con questa pagliacciata del soldato Ryan?»

Emma, senza neanche aspettare un mio cenno di risposta, o quantomeno un mio fischio con le dita, tira fuori un tailleur nero per lei, un completo gessato per lui e... che cos’è questa felpa brutta?! Perché loro così fashion e a me spetta una sottospecie di pigiama?!

«Non mi hai dato il tempo di scegliere, mi hai messo troppa fretta con i tuoi deliri e i tuoi fischi!» si giustifica Jay.

Traditori! Neanche Bruto fu tanto crudele con Giulio Cesare!

Il risultato dell’ammutinamento è che ora gli occhi di tutti i presenti sono puntati su me, sembrando una teenager capitata per sbaglio in un edificio di tale imponenza dove businessman procedono a o svelto coi loro bei capi firmati e le loro valigette ventiquattrore.

Questa me la pagano.

Ovviamente per non continuare ad attirare l’attenzione hanno deciso che io resterò giù, mentre loro continueranno il pedinamento e si godranno tutta l’azione.

Praticamente non c’è differenza tra me e quel povero cagnolino legato al gancio lì fuori, a parte il fatto che lui non ha questa felpa orrenda... beato lui.

È ata un’ora.

Non ho potuto fare un granché da qui, se non giocare al cellulare e familiarizzare col cane: con un’intera bustina di caramelle gommose alla coca cola mi sono comprata la sua complicità, sia mai all’improvviso debba aver bisogno di un socio per la missione che a tradimento mi è stata sottratta.

Dopo un’altra ora e un’altra bustina di caramelle a Fuffi, l’occasione che aspettavo si presenta davanti ai miei occhi.

Vedo Mike scendere dall’ascensore a vetri, è con una donna, forse è lei l’amante. In verità non è bionda, ma castana chiara, e non corrisponde alla descrizione

fatta da Sebastian. Tuttavia fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

Inoltre sono qui per investigare, non per fare conoscenza col barboncino nano. Giusto? Giusto! Perciò decido di pedinarlo.

Per fortuna non prendono l’auto ma si recano a piedi, guarda caso, proprio verso il parco di fronte: lo sapevo che avrei dovuto rimanere con la mimetica.

Va bé, ormai devo sfruttare i mezzi che ho: mi guardo intorno, non ho nulla, la mia truppa chissà dove è andata a finire ed io ho solo una codina che mi scodinzola davanti, affamata di dolciumi.

«Ok Fuffi, andiamo!»

Mentre mi dirigo verso l’area verde studiando un modo per avvicinarmi il più possibile a loro, d’un tratto mi blocco.

Oh Dio!

Anche se Fuffi è un mio complice, grazie al quale potrò sembrare una comune sedicenne che fa la eggiatina col cane, formalmente l’ho appena rubato!

Mi domando perché ogni volta che mi lancio in pedinamenti mi ritrovo a rubare qualcosa. La prossima volta chi prenderò, un neonato dalla carrozzina?

Entro pochissimo avrò la polizia di New York City alle calcagna!

Devo velocizzarmi e scoprire quanto prima chi sia quella donna.

Perfetto, si sono appena seduti su una panchina.

«Muoviti Fuffi, appostiamoci lì dietro!»

Il bello non è solo che il cane mi segue a qualsiasi comando, ma che ogni volta che lo chiamo “Fuffi” si gira davvero! Eppure il nome me lo sono inventato, sul collarino ci sono solo tante piccole borchie nere, ma nessun riferimento a come si chiami. Dopo proverò con “Black”, vediamo se mi segue uguale.

«È una situazione molto delicata, lo sai che in questo momento non dovremmo neanche essere insieme.» sussurra la tizia.

«Lo so, hai ragione. Però io... ho bisogno di te!»

Wow! La confessione più veloce della storia! Devo solo prendere il cellulare per registrare e... cavolo!

«Fuffi! Torna qui! Black!!!» cerco di urlare bisbigliando, il che è un’impresa davvero da pochi. Noto con la coda dell’occhio di aver attirato l’attenzione dei

due piccioncini, ed istintivamente giro le spalle per non farmi riconoscere in volto, ottenendo così il risultato di perdere di vista il cagnolino che sarà andato alla ricerca di chissà quale alberello per fare i suoi bisogni.

Tanto non andrà lontano con quelle le zampette corte, lo raggiungerò non appena avrò registrato le prove che mi servono.

Mi acquatto nuovamente per origliare la conversazione, ma... dove diavolo sono andati?!

Eccoli laggiù! eggiano l’uno di fianco all’altro mentre parlano concitati. Lei ogni tanto, anzi spesso, si guarda attorno circospetta mentre lui tenta di rassicurarla.

Si stanno abbracciando!

Click! Prima foto scattata.

Mi avvicino un po’, riesco di nuovo a sentirli.

«Voglio proteggere la mia famiglia, mio marito e i miei figli. Loro devono rimanere fuori da questa faccenda. Vorrei che non venissero mai a saperlo, ma ormai siamo andati troppo oltre...»

È pure sposata! Brava! Complimenti!!

«Stai tranquilla mia cara, di me puoi fidarti.» la rasserena il marpione stringendole una mano. Click! Altra foto.

Ora le asciuga una lacrima. Che tenerone il nostro latin lover...

“Chi asciugherà le lacrime di mia sorella, eh?!” vorrei gridargli limitandomi invece ad un altro scatto.

Chiamatemi pure Mata Hari.

Missione compiuta.

Mentre riguardo con soddisfazione le immagini che ho immortalato, qualcosa di insolito nell’ultima fotografia attira il mio sguardo.

Un gomitolo di lana bianca, che sembra proprio Fuffi, sta aggrovigliato con... Oh mio Dio! Fuffi non è un maschietto, è una femmina! E quello non è un altro barboncino dal costoso pedigree, ma uno spelacchiato bastardino!

Farò meglio a sbrigarmi a riportarlo dove l’ho trovato.

Addirittura... Non posso crederci! Ora come faccio?!

Ad attenderci fuori dall’edificio, una decina di volanti della polizia ed altrettante a sirene spiegate si stanno precipitando.

Quando dicevo che avrei avuto alle calcagna la polizia di tutta New York, non intendevo sul serio! Al massimo mi aspettavo un vigile urbano!

Intravedo la ricca proprietaria del cane, anzi, visti gli ultimi aggiornamenti, dei cani.

Sta singhiozzando in preda all’isteria, mentre descrive ad un poliziotto il suo... “Gollum”?! Ho capito bene?!? Ha davvero chiamato questo povero cane come il più brutto personaggio del Signore degli Anelli?

Ci credo che si girava quando lo chiamavo Fuffi! Qualsiasi altro nome gli andava meglio del suo!

Inoltre “Gollum” è un nome maschile... lo saprà che invece è una femmina? Bé, lo scoprirà molto presto temo.

Lascio il guinzaglio nella speranza che vada dalla sua padrona, ma per quanto è strana non avevo dubbi che non muovesse un o nella sua direzione.

Lo prendo allora in braccio: «Ho trovato questo cagnolino dall’altra parte della strada!» creo al momento. Magari mi dà pure una lauta ricompensa.

Mentre lo porgo alla donna dal costosissimo cappottino di Armani, sento lo stomaco di Gollum brontolare forte.

La donna si avvicina, di un o e un altro ancora, fino a che lo prende tra le sue mani. Un commovente abbraccio e... il cappotto di re Giorgio avrà per sempre il ricordo delle mie caramelle gommose alla coca cola.

Mi allontano velocemente per evitare domande e soprattutto l’arresto, sia per il furto del cane sia per aver causato quel tremendo danno sul soprabito da svariate migliaia di dollari.

Con estremo stupore, tuttavia, realizzo che quelle volanti non sono lì per me. Emma e Jay, spuntati finalmente fuori, mi aggiornano su quanto stia accadendo, ma non prima di avermi fatto una bella ramanzina per essermi allontanata.

«Veramente ero andata ad investigare al vostro posto! Dove eravate spariti voi, piuttosto!»

Farò sparire quei loro sguardi critici mostrandogli il mio reportage da cronista d’assalto: «Mi dispiace Emma... ma Sebastian aveva ragione. Ho le prove.»

Jay e mia sorella mi fissano con aria interrogativa, spronandomi a proseguire.

«Questa è lei.» dico ad Emma mostrandole la prima foto.

Di nuovo mi fissano.

Poi si voltano verso due agenti della polizia che stanno ammanettando una donna: stessi capelli castani, stessa gonna a pois, stesso sguardo mesto.

«Oh mio Dio, stanno arrestando l’amante di Mike!» esclamo colta totalmente alla sprovvista, mentre Jay e mia sorella non si scompongono un minimo.

«Non è la sua amante. È la sua fonte.» rivela Emma.

«Fonte?!» ripeto senza capire.

«Mentre eravamo su, abbiamo scoperto che Sullivan aveva sì un incontro con una donna, ma non per il motivo che sospettavamo.» spiega Jay.

«Domani il nostro telegiornale darà la notizia in anteprima, anzi, lo farà Mike in persona.

Lei si chiama Adele McKanzie, è una reo-confessa.

Ha svaligiato centinaia di banche, ed il bello è che ha fatto tutto da sola: non aveva un complice, un palo, qualcuno che l’aspettasse con la macchina in moto. Nessuno.

Una perfetta moglie e madre di famiglia che, anziché deliziarsi nel fare torte di mele, ava il suo tempo a mettere a segno furti con scasso alle più prestigiose banche del Paese.

Neanche tutto lo squadrone della Banda Bassotti avrebbe potuto eguagliarla in furbizia ed abilità. Purtroppo ha commesso un errore fatale che l’ha incastrata come una pivella, motivo per cui si è persuasa a consegnarsi spontaneamente alla polizia.

Il resto lo sapremo domani dal tg.

Mike si collegherà dal carcere e le farà un’intervista che terrà incollate migliaia di americani.» conclude Emma.

«Non posso crederci... quindi Mike aveva davvero un appuntamento di lavoro!» mi stupisco.

«Non solo... Mi ha appena chiamata dicendomi di aver finito e che rincaserà per cena.»

Il tono di Emma è fermo, non lascia trasparire alcuna emozione.

Sicuramente sarà sollevata nell’aver appurato che Mike non le ha mentito in merito ad oggi, ma il dubbio sull’esistenza di un’eventuale amante resta.

C’è qualcosa però che non quadra: ho la percezione, infatti, che mia sorella sia... come dire... dispiaciuta. Magari è solo perché ha dubitato del suo fidanzato che in questo momento sta correndo da lei; oppure perché non l’ha colto in flagrante e dovrà continuare ad investigare; oppure perché... no, non può essere... non è che per caso avrebbe voluto scoprire il tradimento per avere un motivo per lasciarlo?

Voglio dire, non è che i rapporti finiscono solo a causa di un amante, si può decidere di troncare una relazione a prescindere!

Sebbene stia provando a non dar peso a quest’ipotesi, mi torna in mente la sera in cui si era ubriacata ed ancor di più la mia convinzione si rafforza.

Se è vero che “in vino veritas”, allora Emma sul serio non vuole sposarsi!

Il problema è che da sobria non lo ammetterà mai, e che il giorno della proposta di matrimonio si sta pericolosamente avvicinando.

22 maggio 2014

«Lo sai a cosa sto pensando, mia cara?» domanda il mio vicino irrompendo in casa.

«Che hai bisogno di un caffè?»

«Anche. Però no, pensavo a un’altra cosa.»

«A quanto è successo ieri? Ad Emma e Sullivan?» tiro ad indovinare.

«No. Acqua.»

«Jay, non ho voglia di giocare agli indovinelli, ho parecchio lavoro da fare ed una buonissima fetta di torta alle nocciole che mi aspetta in cucina.»

«Fuochino!» grida lui puntando il dito verso di me e facendomi sussultare.

«Che vuoi dire?»

«Che stavo pensando proprio a questo!» dichiara festoso.

«Cioè al mio lavoro?»

«No, acqua.»

Mi sta iniziando ad irritare.

«Alla torta di nocciole?» azzardo confusa.

«Sì! E a tutte le altre!» proclama spalancando un sorriso smagliante.

«Pensavo, in sostanza, a come farti smettere di ingrassare!»

Gelo.

Mi giro di scatto verso il mio ex amico, ribadisco, ex.

«Di cosa stai parlando?!» ringhio coprendo istintivamente la pancetta con la mano.

«In realtà tu e il tuo rotolino di pancia beneficerete della mia iniziativa solo in via indiretta.» specifica lui mentre io, ascoltandolo ormai a mala pena, mi sto già

specchiando di profilo.

È vero che qualche jeans non mi entra più, ma ho una gonna stranamente taglia 40 che mi va ancora bene, o almeno l’ho portata fino alla scorsa stagione ed era il mio orgoglio: se ero giù per qualche motivo, indossavo la mia gonna “magica” ed automaticamente il mio umore migliorava.

Comunque, avrò messo su neanche un paio di chili!

Se la matematica non è un’opinione, due chili sono solo venti etti. Etti! Gli etti sono leggeri! Quando compri gli affettati al supermercato, li compri ad etti, giusto? Giusto! Perché gli etti pesano poco, altrimenti spenderesti troppo, e nessuno vuole pagare un capitombolo per un prosciutto! Giusto? Giusto!

Sto vaneggiando.

Ancora sotto shock, di tutto il discorso che Jay sta facendo capto solo poche parole: “Sebastian”, “magazzino”, e una decine di volte “torte”.

Al termine mi domanda se la sua brillante idea mi piaccia e se abbia suggerimenti in merito, ma l’unica cosa che riesco a fare è trattenere i goccioloni di pianto.

È così frustrante sapere di essere ingrassata, di non poter più mangiare dolci a volontà e soprattutto realizzare di avere affianco un Giuda che sta tramando chissà cosa alle mie spalle!

Arrivato anche Sebastian, ricominciano a parlare del locale che avevamo visto l’altro giorno, ma di nuovo non li ascolto: effettivamente anche le mie cosce sono più tornite, per non parlare del viso più pieno.

«Non so proprio come ringraziarti Jay. Ti ripagherò con gli interessi, sei un vero amico.» sento dire da Sebastian.

«Sì, amico, come no! Fino a che un bel giorno entrerà in casa tua e ti dirà che hai messo su troppi chili.» bisbiglio tenendo ancora gli occhi incollati allo specchio.

Domani cosa mi dirà, che devo farmi una plastica al naso?

Non so quante ore siano trascorse.

So solo che sono in compagnia del mio bel faldone di causa, che mi sembra addirittura rassicurante viste le poche certezze che ho nella vita: mio marito è lontano e non sappiamo se e quando gli verrà concesso il trasferimento a New York; il mio amico Jay ora si chiama “ex amico Jay”; mia sorella non è più la stessa; il mio fisico non è più lo stesso, aumentato di alcuni chili che però abbiamo assodato essere solo “etti”.

L’unica certezza è il mio faldone, la mia causa, e il fatto che la perderò. Almeno è un dato sicuro, incontrovertibile e, a suo modo, rassicurante. Appunto.

Sto vaneggiando di nuovo.

Butto uno sguardo in cucina, dove sono ancora appollaiati sul mio tavolo Jay e Sebastian a contemplare piantine e progetti.

Non vorrei avvicinarmi al nemico, però la curiosità mi spinge ad alzarmi per sbirciare: “Wow! Che bei disegni!”

Ovviamente non voglio dare soddisfazione al mio “ex amico”, per cui terrò i complimenti per me: «Cosa sono questi schizzi?» minimizzo i capolavori degni del Bernini.

«Non gliene hai parlato, Jay?» chiede Sebastian.

«Veramente le ho delineato ogni aspetto.» ribatte il mio vicino sorpreso.

«Certo che sì, scusate! Sono talmente presa dal mio lavoro che per un attimo me ne ero scordata.» dico ridendo come una scema.

Va bé, lo scoprirò presto.

Intanto vado a prepararmi una bella, gustosa ed appagante... insalata.

Mi abituerò presto ad una sana alimentazione, ed i miei jeans torneranno a calzarmi a pennello, anzi, mi andranno persino larghi!

25 maggio 2014

Ho fame.

Odio le insalate e odio tutto ciò che è verde.

Sono come una pecora al pascolo, mangio erba in continuazione e se a metà giornata lo stomaco brontola addento una mela. Una mela! Vi rendete conto? Mi sento un bruco. Una bruco-pecora. Che brutta scena.

Inoltre sono diventata più suscettibile e nervosa da quando sto a dieta.

Allo squillare del mio cellulare, per quanto sono tesa ho addirittura un trasalimento.

«Cos’è questa storia? Perché non me ne hai parlato?» si agita mia sorella dall’altro capo del telefono.

«Buongiorno anche a te, Emma!»

Per caso anche lei ha iniziato una dieta che l’agita più del solito?

Senza neanche darmi il tempo di ribattere che non so di cosa stia parlando, inizia a raccontare: «Ero a Central Park, stavo facendo jogging e...»

«Da quando in qua fai jogging? Il tuo sport preferito è fare canestro nella bocca coi pop-corn spalmata sul divano!» ribatto stupita.

«Insomma, ero a fare jogging e...» riprende lei non dando seguito alla mia osservazione.

«Uhm... pop-corn... buoni...» Ho fame.

«Viola, vuoi ascoltarmi?!»

«Sì, certo, scusa, vai avanti.»

I pop-corn in teoria sono pure dietetici, sono solo mais. Ora me ne preparo una ciotola.

«Facevo jogging ed ho incontrato Jay...»

«Anche lui si è dato alla corsa? Non ce lo vedo proprio a sudare nei suoi completi di Dolce&Gabbana!»

«Non mi interrompere in continuazione!

Comunque no, lui stava solo attraversando il parco camminando, aveva la sua cartella di lavoro e vari cartoncini arrotolati sotto al braccio e... me l’ha detto.»

«Ah, l’ha detto anche a te? Non vedo perché debbano saperlo tutti!»

«Bé, io non sono “tutti”, sono tua sorella, e avrei voluto esserne messa al corrente. Dopotutto è una cosa piuttosto importante, non credi?» mi domanda in tono offeso.

«Sinceramente no, non credo proprio. Sono solo un paio di chili in più, forse tre! Ma ora sono una bruco-pecora, li perderò in fretta!»

«Cosa diamine stai blaterando!» mi interrompe lei.

«Jay ristrutturerà il magazzino che ha fatto tornare i ricordi a Sebastian!» esplode con impeto.

«Davvero?!»

«Certo che è vero, e mi ha detto che tu ne eri stata già informata!»

Capendo dal mio disorientamento che in realtà non ne so nulla, prosegue: «Jay, grazie al lavoro che fa e alle sue svariate conoscenze, non avrà problemi a rimettere in piedi quel locale trasformandolo in una panetteria: se già ha rievocato in Sebastian dei ricordi vedendolo semplicemente da fuori, probabilmente ne sovverranno degli altri se iniziasse a lavorarci dentro.

Oltretutto così smetterà di ciondolare dentro casa tua e comincerà un’attività nel quale è bravissimo. Ripagherà Jay dei primi due mesi di affitto che gli anticiperà e...»

«Ecco cos’era tutta quella storia sul farmi smettere di ingrassare! Visto che non preparerà più torte a casa mia, non potrò più mangiarle ad oltranza e, come stava cercando di dirmi l’altro giorno, la mia pancetta ne beneficerà in via indiretta!! Però io ho fame...»

«Viola, certe volte non ti capisco. Comunque mi sembra un bel progetto.» dice riportando il discorso sull’argomento principale.

«Sì, è una buona idea» concordo «dirò a Jay che può contare su di noi.»

«Su di te, vorrai dire!» mi corregge lei.

«Dai Emma! Non puoi continuare a tenere un atteggiamento così astioso nei confronti di Sebastian... Non puoi prendertela con lui se ti ha rivelato ciò che ha visto su Mike, anzi, dovresti ringraziarlo.

Invece devi affrontare Sullivan, metterlo con le spalle al muro e dirgli che sai tutto della sua amante! E poi... dovresti lasciarlo. Tu non lo ami veramente, e sei a dir poco terrorizzata all’idea che ti chieda di sposarlo!»

Il mio cuore è a mille e la salivazione azzerata. Finalmente gliel’ho detto.

«Emma? Emma?! Ci sei? Sei ancora in linea?!»

Ha riagganciato.

14 giugno 2014

Se fossi stata figlia unica avrei avuto, nell’ordine: più giocattoli da piccola, più scarpe in adolescenza, più rossetti ed ombretti a vent’anni, più vestiti a venticinque.

Invece ho sempre smezzato tutto con lei, fin da quando è venuta al mondo.

E dire che sono stata io a desiderarla tanto ardentemente, io ad aver supplicato per anni i miei genitori che, se fosse stato per loro, si sarebbero fermati a me.

Bel ringraziamento.

Sei nata grazie a me, ti ho dato tutto e ora non posso neanche permettermi di dirti come la penso su una questione tanto importante che ti riguarda!

Sono la sorella maggiore, il grillo parlante, non posso far finta di niente se ritengo che stai sbagliando! Se stai andando a sbattere contro un treno in corsa, ho il dovere di dirti “Ehi scusa, spostati un po’ più in là, che stai per prendere un treno in faccia!”

Invece no!

Non è possibile farle presente nulla, non è neanche lontanamente immaginabile!

Da giorni ormai ha interrotto i ponti con me: ci sentiamo solo per brevi saluti e per sapere se siamo vive; l’argomento clou è diventato intoccabile: se nomino anche solo di sfuggita Mike, per non parlare di Sebastian, mi incenerisce senza pietà.

Avrei voluto dirle, tra l’altro, che oggi si sarebbe tenuta l’inaugurazione della panetteria di Sebastian e che la sua presenza avrebbe fatto molto piacere a tutti, ma a questo punto non mi importa: guarderò come sempre il lato positivo, più torta per me, prenderò anche la parte di Emma.

Ebbene sì, annuncio ufficialmente che l’alimentazione da bruco-pecora è finita.

Divento triste se non mangio e, avendo già tante preoccupazioni che mi deprimono, non ho intenzione di flagellarmi oltre.

A prescindere da ciò, comunque, oggi sarebbe impossibile rispettare una qualsivoglia dieta inferiore alle cinquemila calorie.

Già a un chilometro di distanza dal locale, un buonissimo profumo di zucchero, paste frolle, pizze e torte inebria l’aria facendo arrivare persone a frotte come i topolini del pifferaio magico, nonostante un imprevisto temporale abbia iniziato a scatenarsi con violenza.

Mi faccio largo tra la folla fino ad arrivare di fronte alla vetrina, una delle più belle che abbia mai visto. Ricorda la casetta di marzapane di Hansel e Gretel, sulle prime due file di mensole ci sono cestini di pane di ogni forma e

dimensione, mentre sull’ultima troneggiano torte coloratissime che per quanto perfette paiono finte.

Mi asciugo l’angolo della bocca da una bavetta imbarazzante e mi infiltro come una sardina: ci saranno un centinaio di persone, tutte affamate di pizze e biscotti.

“Da quant’è che non mangiate?!”

Visto che sono giorni che non faccio assaporare al mio palato qualcosa di sano, dove per “sano” intendo “intero” e per “qualcosa” intendo “torta”, senza volere ho iniziato a gridare «Largo! Ho un calo di zuccheri, devo avere la precedenza!»

Comunque sia nessuno mi ha dato ascolto.

Nessuno, tranne lui.

A pochi i da me... il mio ex amico, il traditore che ha dato vita a tutto questo per i miei fantomatici etti di troppo: che poi, alla fine, gli etti sono solo grammi!

“Basta Viola, non ricominciare a delirare con questa storia.”

Jay mi sta guardando torvo, lo vedo anche da dietro le lenti scure degli occhiali da sole.

O forse ho solo la coda di paglia.

Si avvicina, apre il braccio come a volermi dare uno schiaffo e mi fa:

«Ti piace, mia cara?»

Allarga fiero anche l’altro braccio e mi indica l’intera sala, mostrandomi con un sorriso raggiante il risultato della sua ultima fatica di lavoro.

Ok, ho di sicuro la coda di paglia.

«È tutto... così... come dire... fa-vo-lo-so!» non posso fare a meno di rispondere.

Ogni cosa è curata nei più piccoli dettagli, sembra una gioielleria più che una panetteria! La chicca è sicuramente il lampadario rococò stile Versailles che Jay ha voluto mantenere, il contrasto è forte ma di grande impatto.

Mi porge un calice di champagne e mi fa strada verso Sebastian ed Isabelle. Dopo di che, si allunga verso il bancone e... pace fatta: mi offre una sensazionale fetta di torta al limone, che divoro in un secondo senza nemmeno aspettare il brindisi.

«Auguri Sebastian! Che questo sia l’inizio di una nuova vita, presto di nuovo piena di ricordi, futuri ma anche ati.» esulta Jay.

No, non ci credo.

Non può essere.

Sto piangendo un’altra volta!

Non è pensabile che mi commuova pure per il brindisi! Possibile che del mio coccodrillo dalle temibili occhiatacce sbieche siano rimaste ormai solo le lacrime?!

15 giugno 2014

“Bip – Bip!”

Un messaggino dal pessimo tempismo: siamo appena rientrati in casa dall’inaugurazione, è mezzanotte ata ed io sono talmente sfinita che non ho nemmeno la forza di prendere il cellulare dalla borsa.

«È proprio dura la vita da assaggiatore ufficiale di torte.» dico a Sebastian che nel frattempo è già crollato sul divano.

I miei occhi, mezzi chiusi per il sonno ed il senso di satollamento, si spalancano leggendo il numero sul display.

È Emma.

“Volevo solo dirti che ho la febbre a 40. Mal di ossa, sudori freddi e tosse rantolante. Ma nulla di grave, per il resto sto bene, non preoccuparti. Ti ricordi che tra due giorni c’è il mercatino vintage sulla 3rd Avenue? Buonanotte.”

«Oh no!» grido svegliando di soprassalto Sebastian che torna a sonnecchiare un decimo di secondo dopo.

«Che succede?» mi chiede girando inconsciamente la testa dall’altra parte.

«Mia sorella...»

«Tua sorella?! Che le è successo? Sta bene? C’entra Mike?! Avrei dovuto prenderlo a pugni quando ne avevo avuto l’occasione!!» inizia a smaniare lui alzandosi di scatto.

«A dire il vero, Emma sta male... ma non per colpa di Mike: ha un febbrone da cavallo e domattina andrò a trovarla.

Quindi puoi tornare a dormire, per oggi non dovrai prendere a pugni nessuno.»

“Dlin dlon! Dlin dlon!”

È la centesima volta che suono alla sua porta, e questa sarà l’ultima.

Il mio dito, diventato ormai un tutt’uno col camlo, si arresta di colpo. Un fantasma!

Due occhiaie nere su una pelle diafana mi accolgono in casa; né “Ciao” né “Buongiorno”, dalla sua bocca escono solo rantoli; non cammina: si trascina zigzagando.

Mentre si rincantuccia sotto un piumone che contrasta con la mia magliettina

estiva a mezze maniche, non posso non chiederle come diavolo abbia fatto ad ammalarsi così.

«È colpa di Sebastian.» annuncia tra un colpo di tosse e l’altro.

Ti pareva: ci risiamo. Ora mi dirà che anche le guerre nel mondo avvengono “per colpa di Sebastian”!

«Emma, capisco che il febbrone ti faccia vaneggiare, ma così è troppo!»

Senza darmi modo di continuare, di colpo cambia argomento: «Ieri li ho visti, sai?!

Erano così belli, affiatati... si guardavano intensamente negli occhi mentre i loro calici tintinnavano. Romantici piccioncini...»

«Oh mio Dio! Hai scoperto Mike con la sua amante?! L’hai seguito di nuovo? Dov’erano?!»

«Mike? Che c’entra Mike!» si gira stupita proseguendo nel suo delirante discorso: «Ho visto Sebastian con la sua inseparabile amichetta!

Quanto vorrei che spuntasse finalmente fuori la sua vera moglie e gliene dicesse quattro! Vorrei scovarla ovunque fosse e dirle che suo marito fa il marpione con le belle spagnole focose.

Tanto è solo questione di tempo, prima o poi arriverà ed io sarò lì ad aspettarla per raccontarle tutto!»

Ride come una psicopatica senza smettere di rantolare: la febbre sta avendo effetti più devastanti dei “Cosmopolitan”.

«Ma cosa stai dicendo? Quando li hai visti? Ieri io ero con loro e posso garantirti che Sebastian si è comportato da perfetto gentleman, non c’era alcun feeling tra loro... La sua vera moglie può stare tranquilla, se è questo che ti preoccupa davvero.» rispondo con una vena ironica che non coglie.

«Sì?! Bene, me ne compiaccio.

Ah! Volevo dirti di non metterti più quel vestitino bianco, ti ingrossa!»

Ma cosa volete tutti quanti? Ora ci si mette pure lei a farmi la predica sui miei “etti” di troppo?

Mentre mi guardo intorno per trovare uno specchio in casa di Mike, di colpo realizzo: come fa a sapere che vestito indossavo ieri?

«Sei venuta all’inaugurazione?!» domando sorpresa.

«Certo che sono venuta! Volevo vedere come era stato sistemato il locale. Inoltre c’eravate tutti: tu, Jay, la spagnola rifatta e... mezza New York!» ribatte sulla difensiva come a doversi giustificare.

«Quando sei entrata? Nessuno di noi ti ha vista!»

«In verità gli sguardi miei e di Isabelle per un attimo si sono incrociati dalla vetrina, ma dubito che abbia detto a qualcuno di avermi notata.

A prescindere da lei, alla fine ho deciso comunque di non entrare: mi stavo dirigendo verso la soglia quando ho visto i vostri calici in aria brindare alla nuova vita di Sebastian, ed è stato in quell’istante che ho capito: io non ne farò mai parte, dunque che senso avrebbe avuto?

Quando sono in sua presenza mi sento un pesce fuor d’acqua, per non parlare del fatto che l’ultima volta che siamo stati nella stessa stanza l’ho colpito con quel forte ceffone davanti a tutti, e poi, al torneo di golf si è azzuffato col mio fidanzato, insomma, non andiamo d’accordo, e non credo le cose cambieranno tra noi.

Io non lo sopporto, e la cosa è reciproca.» sentenzia tra un rantolo e uno starnuto.

«Così ho voltato le spalle e sono andata via, sotto quel violento temporale che nel frattempo aveva deciso di sorprendermi e di inzupparmi fino alle ossa, con questo lieto risultato.» conclude estraendo dall’ascella un termometro bollente.

Non capisco perché non si sia riparata in qualche edificio finché il temporale non avesse smesso, ma conoscendola avrà preferito bagnarsi completamente per camuffare il pianto che le rigava il viso. Ci scommetto.

«Comunque non è vero che non ti sopporta.» esordisco facendola sbucare fuori dal piumone come un leprotto.

Non dice nulla, ma i suoi grandi occhi verdi mi implorano di andare avanti.

«Altrimenti, dopo tutta la stanchezza per l’inaugurazione, non sarebbe rimasto sveglio fino alle tre e mezza di notte per preparare questo.» le comunico tirando fuori dalla borsa un sacchetto contenente un’insolita miscela di erbe essiccate.

«Che roba è? Droga?»

«Ah ah, spiritosa. No, dovrebbe essere un infuso, va preparato come una tisana.» le rispondo dirigendomi in cucina. «La cosa meravigliosa è che mentre la preparava, ato dall’ormai nota memoria procedurale, ha ricordato che era la ricetta segreta di sua nonna per quando qualcuno stava male.

Non è fantastico?! Gli stanno tornando in mente altri dettagli della sua vita!

Bevi, forza, sembra faccia miracoli!!»

Lei, emozionata, si sta visibilmente commuovendo: dei grossi lacrimoni le

stanno riempiendo gli occhi mentre sorseggia la calda bevanda.

«Che schifo!!!» grida inaspettatamente sputacchiando la “pozione magica”.

Non era commossa, solo disgustata.

«È amarissima! Vuole per caso avvelenarmi?!» rincara lei.

«Sei sempre la solita melodrammatica... Che sarà mai?» dico avvicinandomi alla sua tazza per berne un sorso.

«Che schifo!!!» concordo evitando quantomeno di sputare. «Il miracolo è farla andar giù! Ora mi spiego perché mi ha dato anche questi...» realizzo porgendole un’invitante confezione di biscotti chiusi da un nastrino rosa.

Ne addentiamo uno, poi due, tre, quattro, fino a vedere il fondo della scatola.

«Erano abbastanza buoni.» si pronuncia Master Chef 2014 leccandosi anche le briciole dalla busta «...ma non ce n’era affatto bisogno. Guarda quanti ne avevo fatti io! Anche i miei sono alla cannella eh!» afferma srotolandomi davanti agli occhi una tovaglia intera di dolcetti.

Un brivido mi corre lungo la schiena al ricordo del sapore rivoltante dei suoi frollini, che lei sostiene essere alla cannella ma che in realtà sanno solo di sapone.

«Non sono così cattivi.» cerca di autoconvincersi leggendomi nel pensiero e dando un minuscolo morsetto al primo sasso... ehm, volevo dire biscotto.

Li aveva preparati per Mike, che appena li ha visti ha “stranamente” iniziato una dieta.

Sebbene la mia antipatia per Sullivan sia palese, stavolta non mi sento di criticarlo. Pover’uomo, bloccato tra due fuochi: o i frollini di Emma o una forzata cura dimagrante per i mesi a seguire.

Anch’io al posto suo avrei fatto comunque la stessa scelta, bruco-pecora tutta la vita piuttosto che lavanda gastrica.

Solo un autentico principe azzurro potrebbe mangiare i suoi coriacei biscotti alla cannella-saponetta e rimanere vivo. E credo che anche lei ne sia cosciente, in fondo.

Molto in fondo.

Mentre cerco un recipiente, un secchio o qualsiasi altra cosa in cui gettare il terribile pezzo di marmo che mi ha offerto, noto un vaso di rose rosse che fa proprio al caso mio: ce ne saranno un centinaio, perfette per mimetizzare un piccolo biscottino.

Mi avvicino furtiva, ma proprio mentre sto per portare a termine la missione un

biglietto al lato mi distrae: “Con l’augurio di una pronta guarigione. Mike.”

Queste rose saranno pure bellissime e tante quante non ho mai visto, ma la frase è così misera!

Inoltre il mazzo di fiori, per quanto scenografico possa essere, è pur sempre “un mazzo di fiori”: banale!

Per non dire che sicuramente l’avrà fatto ordinare dalla sua segretaria... Pessimo.

Mi domando dove sia: in casa non c’è traccia del suo faccione di plastica né del suo forte profumo di dopobarba.

«Belle... vero?» esordisce Emma interrompendo le mie riflessioni.

«Si, molto...» rispondo con la sua stessa poca convinzione.

«Oggi e domani Mike sarà fuori per lavoro.» informa lapidaria.

I nostri sguardi si incrociano per un lungo istante, è malinconica e rassegnata: il suo fidanzato l’ha lasciata sola pur sapendo in che stato fosse e senza preoccuparsi di tornare a casa quantomeno per la notte.

Ammesso e non concesso che non stia con la sua amante, cosa che dubito, e che sia realmente fuori per lavoro, a mio avviso non ci sarebbe dovuto esser nulla di più importante che mia sorella, nulla a cui dover dare la precedenza anche fosse stato lo scoop del secolo.

Però le ha regalato i fiori eh. Lo odio.

«Se l’avessi saputo prima, avrei potuto pedinarlo io al tuo posto.» faccio presente.

«Con la stessa tuta mimetica dell’altra volta?» mi stuzzica con un lieve sorriso sulle labbra.

«Ovvio che sì!» ribatto fiera «...e avrei rubato anche un altro cane, se fosse stato necessario!»

Finalmente ride. Un momento più unico che raro di questi tempi.

Avrei voglia di abbracciarla, ma non vorrei farla sentire più fragile di quanto non sia già. Così mi limito a toglierle di mano quella tazza ancora mezza piena del disgustoso intruglio, sostituendola con una colma di morbida e vellutata cioccolata.

Ora sì che si ragiona.

«Che programmi hai per dopodomani?» le chiedo in vista del suo ventottesimo compleanno per cambiare argomento.

«Veramente, a parte dilapidare il mio ultimo stipendio al mercatino vintage al quale tu dovrai categoricamente accompagnarmi, non ho altri propositi. Andrò via da lavoro un po’ prima e erò a prenderti per le 18. Poi andrò a cena con Mike.»

«Bé, vorrei quasi che tu non guarisca per non dover affrontare due interminabili ore tra vestiti vecchi e banchetti tristi!

Senti, ho un’idea! Portaci Sullivan al mercato dell’usato! Mi sembra una giusta punizione!»

Lei ride di nuovo: «No, lo sai che voglio andarci con te! E per la cronaca, non è un mercato dell’usato! Ti farò ricredere quando comprerò un originale Chanel anni ’20!»

Un paio d’ore dopo il suo viso inizia a riprendere un bel colorito: sarà stato l’infuso magico di Sebastian o, molto più probabilmente, l’idea di acquistare qualcosa di Chanel, ma la febbre sta calando.

«Cerca di rimetterti in forze, altrimenti erai un compleanno bruttissimo.

Anche se quello delle tue sedici candeline rimarrà imbattibile nei secoli... Ti ricordi? Sei rimasta chiusa in bagno per mezzo pomeriggio perché “Tony

Rubacuori”, il tuo grande amore dell’epoca, si era presentato alla festa con... come si chiamava?»

«Adriana “bocca di rana”.» scoppia a ridere lei.

«È vero!

Era talmente pettegola che si era meritata quel soprannome!» ricordo.

«Non capisco perché io sia da sempre così sfortunata in amore.» si interroga Emma spiazzandomi.

«Vedrai... sarai felice prima o poi.» profetizzo sentendomi investita dei poteri di Nostradamus.

Stampandole quell’ultimo sorriso sulle labbra mi dirigo verso l’uscio: «A domani sorellina. Ti voglio bene.»

«Io di più.»

16 giugno 2014

«La mia piccolina sta crescendo: già ventotto anni!

Sembra ieri che ti tenevo in fasce...»

Singhiozzi e soffiate di naso.

«Stai diventando una meravigliosa donna, mentre io sto diventando sempre più vecchia. Ai miei tempi...»

Pianto disperato.

«Dai, non fare così.

Comunque io sono Viola, nonna! Il numero di Emma è questo...»

«Oh Viola, mia cara!»

Il pianto disperato di colpo scompare.

«Tu quanti anni hai compiuto quest’anno?» mi chiede a bruciapelo.

«Sto per farne trentacinque.»

«Sembra ieri che ti tenevo in fasce... Stai diventando una meravigliosa donna, mentre io sempre più vecchia.»

Pianto disperato.

«Ai miei tempi...»

Ecco che ricomincia.

Un’ora più tardi, posso finalmente dedicarmi all’acquisto del regalo di Emma.

Non sarà vintage, ma pur sempre di Chanel!

Non vedo l’ora di vedere la sua faccia felice quando lo scarterà!

Questo giorno deve essere gioioso, ed una borsa di Coco aiuterà di sicuro. Spero solo che Leonardo non chieda un estratto conto domani, altrimenti gli verrà un infarto.

Sto per varcare l’uscio di casa quando il telefono squilla per l’ennesima volta: prego non sia di nuovo mia nonna.

«Corri presto! Vieni subito!» urla una voce concitata che mi fa trasalire.

«Oh mio Dio! Che succede?!» chiedo in preda al panico.

«Chiama Jay e sbrigatevi! Ora finalmente so!» chiude Sebastian sconvolto.

Busso di corsa al portone del mio vicino, ritrovandomelo elegantissimo pure in pigiama. Ma possibile che è sempre così perfetto? Se vedesse come vado a dormire io, coi calzettoni a cuori sopra la tuta, e per “sopra” intendo proprio “sopra ai pantaloni” tipo cosacco russo, mi toglierebbe il saluto definitivamente.

Per non parlare del gilet celeste sbiadito che indosso come vestaglia, vecchio di almeno dieci anni. È l’antisesso per eccellenza, ma ovviamente non lo indosso mica durante le serate romantiche!

E comunque non è colpa mia se sono freddolosa, quindi il mio amico “Celestino” è perfetto.

Si, lo so: gli ho dato pure un nome. Voi non date mai i nomi alle cose cui siete affezionati? Appunto.

«Buongiorno mia cara!» squittisce raggiante Jay.

Mi accoglie sempre col sorriso, è la cosa che adoro di più in quest’uomo. Mi spiace doverglielo cancellare dal viso stamane, ma la telefonata ricevuta poco fa mi ha allarmato tremendamente.

Nonostante Sebastian abbia ricordato qualcos’altro, il suo tono non mi è piaciuto affatto.

«Vestiti, presto!» lo incito.

«Cosa ti prende mia cara?»

«Dobbiamo andare di corsa in panetteria. Mi ha chiamato Seba, è letteralmente sotto shock. Ha ricordato! Sta volta credo tutto!»

«È fantastico!» esplode Jay rimanendo impalato a battere le mani.

«Dovrebbe essere fantastico, però non so... dalla sua voce traspariva preoccupazione, angoscia. Non mi sembrava felice come sarebbe dovuto essere.» gli dico cercando di smuoverlo.

Lui tuttavia resta immobile, mentre i suoi occhi all’unisono con la bocca si sgranano terrorizzati.

«Te l’avevo detto io! Te l’avevo detto! Te l’avevo detto! Te l’avevo detto!» ripete iniziando a girovagare per la stanza come una papera.

«Perché non dai mai ascolto al tuo vecchio amico Jay?!» prosegue imperterrito.

“Ma se sei più giovane di me...” continuo a rispondergli nella mia testa senza avere la benché minima possibilità di inserirmi nel suo soliloquio.

«Perché non ti fidi mai?! Eppure ci conosciamo da tantissimo tempo ormai!»

“Veramente saranno neanche un paio di mesi!” Se glielo dicessi si offenderebbe a morte.

«Se Sebastian ha ricordato tutto ed ora è sotto shock, può essere solo per un motivo!» sentenzia lui lasciando che il silenzio appena calato si carichi di ansia.

«L’omicidio di mafia.» conclude in tono drammatico.

Benissimo. È bello sapere che puoi sempre contare su una parola di conforto degli amici: grazie.

Arrivati al locale, quasi non riconosciamo quel posto che avevamo visto pochi giorni fa stracolmo di gente.

È deserto.

All’entrata, il cartello “Chiuso” allontana i clienti mentre sugli scaffali pane, dolci e biscotti aspettano invano di essere mangiati. Poverini... so io come prendermi cura di loro: nel mio stomaco saranno felicissimi!

Appena il tintinnare del camlino annuncia il nostro ingresso, Sebastian alza lo sguardo smettendo di impastare veementemente come stava facendo.

«Ora ricordo.» esordisce senza nemmeno salutarci.

È comprensibilmente sgomento, i suoi occhi lucidi di pianto.

Noi restiamo in piedi e muti, aspettando che riveli il nome di chissà quale boss di mafia.

Sebastian deglutisce, noi facciamo lo stesso.

Comincio davvero a temere il peggio, quando le sue prime parole mi tranquillizzano.

«Ricordo... Lei.»

Jay tira un sospiro di sollievo, mentre io lo fulmino per avermi condizionato a tal punto da credere alle sue strampalate teorie.

Senza più riuscire a contenersi Sebastian inizia a raccontare ciò che la sua mente ha riportato alla luce, ed intanto la pasta morbida e farinosa da cui non distoglie lo sguardo continua a scorrere tra le sue mani. Sembra come se, fissandola, assicuri nei suoi ricordi le immagini di un ato che sta risorgendo dall’oscurità.

Non ci svela subito chi sia lui, come se gli importasse meno.

Si concentra invece su colei che non avrebbe mai dovuto dimenticare: «Si chiama Helena» annuncia con voce ferma.

Nonostante Jay ed io fossimo ormai pronti alla rivelazione di sua moglie, sentirla nominare comunque ci spiazza.

«Grandi occhi verdi, un sorriso che incanta. Meravigliosa, anche nell’anima. Sembra un sogno, i suoi capelli biondi la rendono eterea, invece è reale. Il mio cuore lo sa.»

Veloce, elenca ogni piccolo particolare che gli sovviene per paura di dimenticare ancora: «Ama stare in compagnia, è solare, gioiosa; adora i cani, le lunghe eggiate all’aria aperta, ha un modo buffo di ridere, arriccia il naso e fa una specie di grugnito che contagia; sulla sua mano sinistra vedo brillare la minuscola fede che ho trovato avvolta in quel fazzoletto il giorno dell’incidente;

la sua corporatura esile contrasta con la sua grande forza d’animo; prepara deliziosi toast al formaggio; ama la nostra casa, che inizio a ricordare nitidamente.

Ama inoltre il suo lavoro... il suo viso è spesso impolverato di farina, ma è la più bella donna che abbia mai visto. Abbiamo insieme una panetteria.

Jay, non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi aiutato: l’avevi intuito, ed hai avuto ragione.»

Si ferma giusto un attimo per riprendere fiato: «All’alba di stamane ero sul mio bancone ad impastare quando di colpo un flash mi ha accecato: i suoi occhi color smeraldo. Intensi, limpidi, puri.

Concentrato nella speranza di vedere un’altra fotografia del mio ato, una voce mi sorprende: è giovane e fresca; sta ripetendo la frase che le mie orecchie un tempo sentivano in continuazione: “Perché questi biscotti non vengono mai bene? Più amore ci metto, più sono cattivi!”; la sua risata divertente, il suo caldo abbraccio, il suo volto luminoso e sereno.

Come ho fatto a dimenticare...» sussurra abbassando il capo.

Continua a stringere i pugni in quell’impasto, provando a reprimere i sensi di colpa per aver permesso alla sua mente di cancellare i ricordi della donna più importante della sua vita.

Vorrei rincuorarlo, ma ogni parola sarebbe superflua, per non parlare del fatto che i singhiozzi del mio pianto incontrollabile non mi consentirebbero pur volendo di dire alcunché.

«Dopo tutto quello che c’è stato tra noi, dopo tutte le avversità che abbiamo dovuto superare per stare insieme...» Sebastian riprende i fili di un discorso che sta elaborando nella sua testa senza avercene reso partecipi.

«Che vuoi dire?» lo interroga Jay mentre entrambi realizziamo a cosa possa riferirsi.

«“Contro tutto e tutti.”» conferma lui.

«Le fedi... l’incisione... ora ne conosco il significato.

Anche ci sono ancora aspetti fumosi se nella mia mente, so per certo che la nostra unione è stata contrastata dalla mia famiglia; credo addirittura fosse stata scelta per me un’altra donna!»

«No, è impossibile.» ribatte Jay scioccato.

«Comunque siano andati i fatti, devo ritrovarla.

Non importa quanto tempo impiegherà la mia memoria per tornare pienamente, non devo più aspettare. Helena non deve più aspettare. Aiutatemi.»

«Va bene, certo, sai che puoi contare su di noi. Purtroppo però non abbiamo molti riferimenti concreti cui aggrapparci.» osservo constatando l’evidenza.

«Lo so, non riesco a ricordare altro!» si dispera il nostro amico.

«Vedrai Sebastian, risolveremo tutto: stai facendo i da gigante, non ho dubbi che presto verremo a capo di questa ingarbugliata situazione.» lo rincuora Jay che prosegue: «Ciò che devi fare al momento è solo tranquillizzarti: i problemi trovano prima la giusta soluzione, in uno stato psicofisico più sereno.

E poi Sebastian, non dimenticare... la leggenda del filo rosso: non ci sarà tempo né spazio che potrà dividere due anime gemelle legate da quel nastro scarlatto. Vi ritroverete.»

«Volevo dirti...» prova a ribattere Seba.

«So che ti sentirai impotente.» intervengo allora anch’io «ma non precipitarti in una ricerca affannosa che non porterà alcun frutto.»

«Si, ok, però...»

«Nessun però. Riapri il locale, torna alla tua appena riconquistata quotidianità e tieniti pronto: secondo me avrai nuovi flash prima di quanto immagini.» concludo.

Lui ripulisce le sue mani dalla farina e ci sorride: «Ok, vi darò ascolto. Però volevo solo dirvi che... mi chiamo Fernando.»

«Cosa?!» esplodiamo all’unisono io e Jay.

«Sai il tuo nome e non è la prima cosa che ci riveli?!» Non riesco a contenere la mia gioia. Stiamo davvero per avvicinarci alla meta!

«Che aspettavi a dircelo?!»

«In verità ci stavo provando!» ride rendendosi conto dei nostri atteggiamenti apprensivi dettati dal profondo affetto che ormai ci lega.

«Sai anche il tuo cognome?» chiedo allora sulle spine.

«No, quello purtroppo no. Altrimenti avrei davvero risolto tutti i miei guai.»

« “Fernando”...» ripeto ad alta voce «Mi fa strano ora chiamarti così.»

«È vero, in effetti dovrò riabituarmi anch’io.»

Povero Sebastian.

Se mi mettessi nei suoi panni, vorrei togliermeli l’immediato istante dopo: inerme nell’oblio della sua amnesia, che gli concede sprazzi di luce tuttavia non sufficienti per ritrovare la sua strada.

Il risultato di questo graduale ritorno di memoria non è altro che una lenta presa di coscienza della sua impotenza. Anche il suo nome gli suona estraneo, deve essere terribile.

Non ha ricordato nulla di concreto, tipo un indirizzo o un cognome, per cui non è che possiamo bussare alla porta di tutti i “Fernando” dell’elenco telefonico o andare alla ricerca di tutte le “Helena” di New York.

Però magari potremmo fare un tentativo in tutte le panetterie. Certo sarà una faticaccia, ma potrebbe valerne la pena.

Che idea fa-vo-lo-sa!

Lasciato dunque il nostro amico al suo lavoro, illustro a Jay il geniale piano che tuttavia viene bocciato in tronco.

Era un intelligentissimo proposito e lui l’ha respinto senza neanche ragionarci sopra. Non è che vi siano poi molte altre scelte! Giusto? Giusto!

«Quale soluzione proponi allora?!» gli chiedo in tono di sfida.

Siamo alla nona panetteria e già sono morta.

Mi fanno male i piedi, la testa ed ho anche una fame da lupi.

Jay è peggio di un sergente: una volta compresa l’ingegnosità del mio piano, ha predisposto una mappa con tutti i panifici della Grande Mela, che ora stiamo battendo senza tregua come segugi.

Oltre a ciò, non mi consente di comprare neanche un misero muffin... crudele: è come far entrare un bambino in tanti negozi di balocchi e non farlo giocare nemmeno con un trenino! Povero bimbo...

Alla diciassettesima panetteria, alzo le mani in segno di resa.

«Va bene, va bene, va bene! Se volevi dimostrare che la mia idea era sbagliata, complimenti! Ci sei riuscito!»

Jay si gira gongolante verso di me con un sorriso a trentasei denti.

«Cosa odono le mie orecchie?»

«Ho fatto un piccolo errore di valutazione» sminuisco.

«Piccolo?» rincara lui.

«Ok, avevo torto marcio, contento?! Però, ragione o meno, non possiamo starcene con le mani in mano! Dobbiamo aiutare Sebastian! Ehm... volevo dire Fernando!»

«Mia cara, lo so anch’io! Tuttavia ci sono migliaia di panifici, ti rendi conto della follia che hai proposto? Guarda, siamo neanche alla ventesima tappa e sei già a pezzi: zoppichi, ti fa male la schiena, sei sudata come avessi corso la maratona ed il tuo stomaco non la finisce di brontolare! Per non parlare del fatto che Helena potrebbe non trovarsi neanche a New York! Magari lui era venuto qui per altri motivi, lasciando sua moglie a casa chissà dove!

Di ipotesi ne potremmo fare a bizzeffe!»

«Va bene, ti ho detto che hai ragione, quante volte vuoi sentirtelo dire?»

«Un’altra trentina di volte e basta. Anche perché poi dovrei andare via» replica fiero battendo il dito sul suo Rolex.

Di riflesso guardo il mio Swatch: è tardissimo!!!! Il regalo di Emma!!

Saluto allora Jay e mi precipito claudicante verso la metropolitana per

raggiungere il negozio di Chanel sulla Fifth Avenue, ovvero a più di trenta blocchi di distanza.

Arrivo trafelata davanti al bel commesso piazzato all’entrata come una statua, il quale guarda con sospetto i miei capelli disordinati e gli imbarazzanti aloni di sudore sotto le ascelle che rendono la mia camicetta praticamente bicolore.

Mi rendo conto di non essere un fiore, ma dato che sto per lasciare nelle casse di questo atelier una cifra da capogiro sarà meglio che la smetta di fissare con aria critica sia me che le mie ascelle!

Mi liscio velocemente i capelli con le mani, accosto ben strette le braccia al torace per coprire senza grandi risultati gli aloni, salgo il primo gradino e... il cellulare inizia a squillare.

«Corri presto! Vieni subito!» la stessa identica frase che mi ha fatto trasalire stamattina.

«Oh mio Dio! Che succede?!» stessa identica risposta e stesso identico panico che mi assale.

«Chiama Jay e sbrigatevi!» uguale anche in questo.

Ci risiamo. Un circolo vizioso.

Solo che, stavolta, dall’altro capo del telefono c’è mia sorella.

17 giugno 2014

«Questa storia batte alla grande quella di “Tony Rubacuori con Adriana brutta befana”.» constato.

«Era “Adriana bocca di rana”» mi corregge Emma.

«Va bé, fa lo stesso: oggi come allora, sempre un compleanno da schifo è stato.» concludo amareggiata mentre porgo a mia sorella la terza cioccolata calda.

È notte fonda, i suoi ventotto anni sono appena trascorsi portandole talmente tante sorprese che la metà bastavano.

Sedute sul lettone con le nostre tazze fumanti, ci confidiamo come non facevamo da tempo: questa terribile situazione, almeno, ha avuto il lato positivo di riavvicinarci.

Mi sento finalmente libera di parlare senza filtri e di dirle chiaramente ciò che penso, senza il timore di ferirla o di compromettere le sue già precarie relazioni interpersonali.

Tanto, più compromesse di così è impossibile.

«Ma ti rendi conto, Viola? Se ci ripenso mi sale una tale rabbia...»

Ecco che riparte. “Lascia almeno in pace il mio peluche!” vorrei implorare.

«Ops! Scusa... Non volevo staccare la testa al tuo orsacchiotto. Te ne comprerò un altro.»

«Era un coniglio... Comunque non preoccuparti, non fa niente!» rispondo magnanime. “Tanto era solo il mio amico del cuore fin dai tempi dell’asilo...” rimugino.

«Non riesco ancora a crederci, tantomeno ad accettarlo!» esplode trangugiando la cioccolata come fosse un doppio whisky.

Qualcosa mi dice che comincerà a raccontarmi tutto, di nuovo.

«Vuoi raccontarmi più nel dettaglio come è andata?» l’anticipo.

Lei, senza farselo ripetere due volte, parte col suo monologo.

«Quando Mike ed io ci siamo recati in redazione, mi sono subito resa conto che c’era un silenzio decisamente atipico, di solito già da due piani sotto riesco a sentire le voci concitate dei colleghi, le prove tecniche dell’audio e dei microfoni, lo scalpitio di scarpe che corrono su e giù per l’intero studio, mentre ieri non si sentiva neanche un ticchettare d’orologio...

Non appena le porte scorrevoli si sono spalancate, davanti ai miei occhi compare uno scenario che mai avevo visto: luci spente, scrivanie vuote, sedie libere, computer in stand by. In redazione c’è sempre qualcuno che lavora anche alle tre di notte, per cui ritrovarmi in quel deserto mi ha fatto impressione, quasi paura.

Tutto d’un tratto sento uno scoppio.

Poi un altro, e un altro ancora!

Salto in aria e, in contemporanea, saltano fuori pure tutti i miei colleghi, con cappellini, trombette e palloncini!

Mi inondano di applausi, baci ed abbracci mentre io, lì impalata, non riesco neanche a muovermi: sorrido, come un ebete, felice per la sorpresa che il mio fidanzato aveva organizzato.

Le scrivanie che fino ad un attimo prima erano vuote vengono caricate di vassoi colmi di panini, pizzette e patatine.

La piccola festa è andata avanti così per un paio di ore finché non è arrivato il momento clou: quello dei regali.

Borsette, trucchi, un paio di scarpe da ginnastica.

Alla fine ne era rimasto da scartare uno solo: troneggiava al centro della

scrivania di Allison, enorme e colorato.

Mike si avvicina al grande pacco che solleva come fosse un macigno. Si avvicina quindi a me, inginocchiandosi per appoggiarlo in terra e, nell’attimo di un lampo, realizzo.

Stava per farmi la proposta di matrimonio e pensava, con quel siparietto, di cogliermi ancor più di sorpresa.

Il grande scatolone, riempito probabilmente di palle di carta e fiocchi di polistirolo, conteneva di certo l’anello di diamanti col centrale di rubino a forma di cuore!

La stanza intorno a me ha iniziato a girare, i miei colleghi disposti in cerchio avevano di colpo uno o più gemelli. Vedevo doppio, sfocato, ed in quell’istante di apparente non lucidità ero più consapevole che mai: non volevo sposarmi.

Non perché avessi paura di impegnarmi... ma perché non amavo Mike!!

Finalmente l’avevo capito: non poteva essere l’uomo giusto per me la persona che stava facendo ruotare anche quel romantico momento solo ed esclusivamente su se stesso.

Lo vedevo lì, in ginocchio, il suo sorriso sempre più compiaciuto ed il suo ego sempre più grande: era il protagonista indiscusso del momento e non riusciva a celare il suo appagamento per avere gli sguardi di tutti addosso. Non era

emozionato: solo gongolante.

Anch’io ero un personaggio chiave della scena ma accanto a lui mi sentivo, come sempre, marginale.

In una frazione di secondo mi sono ati davanti agli occhi tutti i nostri momenti insieme, che seppur piacevoli realizzavo non esser mai stati niente di speciale; e poi le sue mancanze nei miei riguardi: le ultime in ordine di tempo non meno di due giorni fa... lo scorso week-end ero malata e mi ha fatto recapitare un mazzo di fiori, mentre io quelle notti avevo bisogno che lui fosse accanto a me per prepararmi una camomilla! Con le rose rosse la febbre a 40° non è mai ata a nessuno!

Infine ho ripensato a Sebastian e alle sue parole.

Non mi riferisco a quando mi ha rivelato che aveva visto Mike con una bionda, ma a quando mi aveva salvato la vita il giorno dell’uragano: «Non preoccuparti, ci sono io, stringiti forte a me ed andrà tutto bene!»

So che era una frase di circostanza, l’unica da dire in un momento tanto grave come quello, ma il mio cuore l’ha voluta percepire come una promessa di vita: una vita al sicuro, lontana da sofferenze e meschinerie, con un vero principe azzurro.

Un film romantico, lo so, queste cose nel mondo reale non succedono. Così come so che quel principe, semmai arriverà, non potrà essere Sebastian.

Tuttavia le sue parole, riaffiorate ieri con prepotenza, mi hanno fatto comprendere cosa voglio sul serio nella vita, e soprattutto quale persona assolutamente non avrebbe dovuto farne parte.

Così, mentre Mike era ancora inginocchiato di fronte a me con l’attenzione di tutti addosso, ho provato con una scusa a chiedergli di andare nella sua stanza prima di aprire il regalo.

«Tesoro, ora guarda cosa c’è qui dentro, poi andremo in qualunque stanza vorrai!» ribatte malizioso dando il colpo di grazia al romanticismo.

“Ok, non ho scampo. Mi dispiace, sarà umiliante per lui, ma quando mi farà la proposta non potrò dirgli il fatidico Sì.” mi ripetevo nella mente.

China sul regalo, lo scartavo il più lentamente possibile per prendere tempo e pensare a come rispondere provocando meno danni possibili.

Come immaginavo, nel primo grande pacco ce n’era un altro, anch’esso incartato, dentro al quale ne avrei trovati sicuramente altri ancora come in una matrioska.

Cerco di estrarre allora la scatola intermedia stupendomi di quanto fosse realmente pesante, al punto che ho pensato ci avesse messo dei sassi per rendere la scena più veritiera.

Mi aiuta così a sollevarlo e a scartarlo, facendo emergere con mio estremo

stupore un computer Macintosh di ultimissima generazione.

È stato il regalo più gradito mai ricevuto in vita mia!!

Ovviamente non per l’oggetto in sé, ma solo perché non era l’anello col cuore di rubino che temevo.

Ho tirato un gran sospiro di sollievo, mentre la sala è esplosa in un’ovazione neanche vi fossero in quel pacco le chiavi di una villa con piscina a Malibù! Esagerati.

Lui, senza nemmeno chiedermi se mi pie, inizia ad atteggiarsi coi colleghi elencando le prestazioni di quel pc che, a sentir lui, sarebbe in grado pure di stirargli le camicie.

Comunque non mi importava, ero felice e per la prima volta dopo tanto tempo, serena: avevo finalmente maturato una consapevolezza in merito alla mia relazione con Mike e presto gliene avrei parlato. Mi sentivo talmente libera e leggera che mi sembrava di volare a cinque metri da terra, insieme agli uccellini che cinguettavano per la stanza!

Ci dirigiamo così verso una grande torta alla panna, che Mike probabilmente aveva dimenticato essere l’unica a non piacermi fra i mille altri gusti possibili, ma non ne rimasi delusa: nulla in quel momento avrebbe potuto togliermi dallo stato di grazia in cui mi sentivo.

Ovviamente sbagliavo.

Mentre tutti erano intenti a gustare la mia torta di compleanno, vedo Allison mettere in scena il classico banale siparietto: il dito tuffato nella panna e messo poi in bocca per assaggiare.

Alcuni ragazzi, tra cui Mike, la guardano divertiti come se non fosse uno spettacolo già visto miliardi di volte: puntuale ad ogni festa, c’è sempre un’oca pronta a leccarsi la panna dalle mani.

Tuttavia non è stato il dito inzuppato nella torta a farmi perdere la serafica pace interiore appena riconquistata dopo anni, ma ciò che su quel dito spiccava.

Inconfondibile, l’avrei riconosciuto tra mille, l’anello che avevo visto nel cassetto del mio fidanzato: la fascia tempestata di diamanti col cuore di rubino!!

Soffoco non so come un urlo alla “Tarzan” e mi avvicino con nonchalance alla biondina con la scusa di chiederle se volesse un cucchiaino, potendo anche smetterla di usare il dito.

«Che bello questo anello! Ce l’hai da molto? Non l’avevo mai notato.» la stuzzico.

«No, in realtà ce l’ho solo dallo scorso week-end. È bello, non trovi? Me l’ha regalato una persona molto speciale!» risatina da finta timida e sguardo fugace verso Mike, che è ancora preso a pavoneggiarsi coi colleghi del regalo che aveva

comprato.

Un brivido mi corre lungo la schiena.

Ho sentito gli occhi gonfiarsi di pianto, perché nonostante avessi appena deciso di troncare il mio rapporto con Mike, sapere di essere stata tradita fa comunque male, tanto!

Sono riuscita tuttavia a ricacciare dentro le lacrime e a prendere il centro della sala, da dove tutti avrebbero potuto ascoltare il mio discorso.

Ogni festeggiato ha diritto di fare il suo discorso, per cui non potevo non approfittare di un’occasione più unica che rara: tintinno un cucchiaino sul mio calice di champagne in modo che ogni persona presente fosse concentrata su ciò che stavo per dire.

Sono partita in modo soft, ringraziando per la fantastica festa a sorpresa e per i bellissimi regali ricevuti: «...Anche se l’onore va a lui, il regalo dei regali, il fantastico computer del mio fidanzato!

Non vedo l’ora di giocare insieme al tuo videogame preferito, se non sbaglio quello con gli animaletti della fattoria, vero? Col tuo paperotto riesci ad andare avanti quasi tutta la notte!

Lo dici sempre quanto ti fa stare bene durare in qualcosa per più di tre minuti...

Da stasera, tesorino, le nostre serate potranno accendersi davvero!»

La sala intera era divertita mentre lui, fucsia, non sapeva come intervenire.

«Cosa stai dicendo?!» ha provato a balbettare.

Quindi, prendendo la palla al balzo, ho chiesto conferma alla sua segretaria: «Allison, non è per caso vero che dura al massimo tre minuti?»

Silenzio agghiacciante.

L’ilarità che fino a quel momento regnava nello studio si trasforma in esclamazioni di stupore e sgomitate furtive tra colleghi.

Tutti ora sapevano quanto il “perfetto” Mike Sullivan era in realtà un mediocre uomo come tanti.»

«Mi dispiace così tanto sorellina...» provo a consolarla io trovando finalmente uno spiraglio per intervenire.

«Perché? Non c’è assolutamente motivo per essere dispiaciuti.» mi spiazza lei.

«È vero che tutti ricorderanno il mio compleanno come il funesto giorno in cui

ho scoperto il tradimento di Mike, ma io non lo ricorderò così.

È stato invece uno dei più lieti, poiché finalmente ho capito cosa davvero voglio nella vita.

Troppo spesso ho confuso l’amore con regali di lusso e viaggi costosi, senza rendermi conto che Mike non avrebbe mai potuto comprare ciò di cui avevo veramente bisogno: amore, semplicità, onestà.»

«Wow Emma! Questa brutta avventura ti ha reso più forte e matura!» osservo io sollevata nel riscontrare che la sua rabbia si sta lentamente smorzando in favore di una ritrovata serenità.

«Se c’è una cosa di cui mi dispiaccio, invece, è per come ho trattato Sebastian in quest’ultimo periodo.

Avevi ragione, Viola, quando cercavi di farmi capire che dovevo prendermela con Mike e non con lui. Sono stata davvero una sciocca.

Appena si sveglierà gli chiederò scusa.»

«A proposito di Sebastian, dovresti essere aggiornata su una novità...»

«Che è successo, ha ricordato qualcos’altro?!» intuisce schizzando seduta sui cuscini.

«In verità... sì.» rispondo cercando le parole migliori con cui raccontarle i fatti.

Un sorriso si spalanca sul suo viso mentre i suoi grandi occhi verdi brillano come avessero tante piccole pagliuzze dorate al loro interno.

«Si chiama Fernando» le preannuncio senza troppi giri.

«Fernando?!» ripete incredula. «Mio Dio, non credevo che le novità fossero così importanti! Ha ricordato addirittura chi è!»

«Quasi... in realtà non ricorda il suo cognome, quindi da un punto di vista pratico è un dettaglio che serve a poco.»

«Un o alla volta. Piano piano ricorderà tutto! Non avrà ancora molte certezze nella vita, però ci siamo noi!

Può stare qui, lo sa che la nostra casa è sempre aperta agli amici, non c’è fretta!» ribatte lei pimpante.

“Ora è diventata di nuovo la “nostra” casa e consideri di nuovo Sebastian tuo amico?” vorrei chiedere mentre mi limito ad andare avanti in ciò che ho di più importante da rivelarle.

«In realtà Seba, anzi Fernando, di fretta ne ha molta. Perché ora ha la sicurezza che, da qualche parte, qualcuno di speciale lo sta aspettando.»

«Davvero? Chi?!» chiede sorpresa con ancora quel sorriso che la illumina.

«Sua moglie.»

Nel silenzio piombato repentino nella stanza, sul suo volto si stampa un’espressione mesta.

Altrettanto velocemente però ritrova la forza di sorridere: «Bé, sapevamo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato...» realizza in tono rassegnato.

«Sono felice per lui, sul serio... Ora finalmente sa che sua moglie, finora sempre solo ipotizzata, esiste davvero. Sono felice...» ripete mentre, furtiva, si asciuga gli occhi dal pianto.

19 giugno 2014

Forse riuscirò ad uscire indenne dal massacro. Forse.

La mia parlantina dovrà essere più convincente del solito, ma posso farcela.

Devo farcela.

Nonostante le chance di vincere la causa “Primero” siano prossime allo zero, al Grande Capo non ho potuto prospettare un catastrofico fallimento.

Così, per salvare la mia reputazione e la mia scrivania, ho proposto una soluzione alternativa che credo possa farci uscire dalla vicenda a testa alta.

Anche perché il Grande Puffo, ehm... volevo dire Capo, è stato ben chiaro sulle sorti che mi aspetteranno in caso di schiacciante sconfitta, considerate le gravi ripercussioni che ricadrebbero sul suo studio sia in termini economici che mediatici.

L’unica strada che ho ritenuto plausibile è stata dunque quella di tentare un accordo stragiudiziale.

Non sarà facile convincere la controparte, che avendo tutte le carte in regola per vincere non vorrà cedere neanche su mezzo punto, ma devo provarci.

In realtà è stato faticosissimo già solo ottenere un incontro con Pedro Ferreya e i suoi legali, figuriamoci persuaderli ad una transazione!

È per questo motivo che oggi la mia dialettica da principe del foro e la mia faccia tosta dovranno assistermi, nonostante l’enorme posta in gioco mi faccia letteralmente tremare le gambe.

Giungo all’appuntamento in anticipo di un’ora: rileggo i miei appunti, provo il discorso, mangio venti barrette energetiche al cioccolato ed affino le mie occhiatacce sbieche da coccodrillo.

Sono pronta.

Il rumore di i pesanti anticipano l’arrivo dell’armata Potionkin. “Ero” pronta.

Come immaginavo, la prima impressione che ho del novello Paperon De Paperoni è pessima: Pedro Ferreya, alto ed elegante nel suo abito sartoriale, sopraggiunge tronfio con la schiera dei suoi legali al seguito, undici in tutto. Io invece sono sola, affiancata soltanto dal Grande Capo che, per via della sua bassa statura, vale sì e no mezzo.

Già a prima vista predominano: ottimo inizio.

Prende la parola l’avvocato più anziano il quale, dopo essersi presentato col

nome di Alfred Ruiz, mette subito in chiaro la pressoché inutilità di questo incontro: non hanno la benché minima intenzione di trovare alcun accordo non solo perché hanno la vittoria già in pugno, essendo Ferreya l’unico erede dell’impero creato dallo zio, ma anche perché una soluzione extragiudiziale non avrebbe lo stesso impatto e la stessa pubblicità, a livello mondiale, di un eclatante processo.

Tuttavia non mi lascio abbattere dalle loro argomentazioni e appena mi cedono parola inizio ad esporre con convinzione la mia linea difensiva, puntando tutto sulla rivoluzione che si scatenerà in Argentina quando l’edilizia sfrenata progettata da Pedro Ferreya prenderà il sopravvento a scapito dei vasti territori che, fino ad oggi, hanno dato lavoro alle centinaia di famiglie nostre clienti.

Prospetto in toni minacciosi di essere inoltre già in contatto con potenti gruppi di ambientalisti che freneranno i loro propositi distruttivi, nonché con televisioni di mezzo mondo pronte a mostrare i lati più oscuri della faccenda.

«A voi dunque la scelta: o vincere in tribunale per poi soccombere sul campo, o riconoscere un equo indennizzo a tutte le famiglie che hanno contribuito con i loro sacrifici a creare il vostro impero, poiché presto come “ricompensa” si ritroveranno senza lavoro.»

Ho finito.

Ho tenuto banco per un’ora e mezza in modo esemplare. Ora posso pure svenire.

Non riesco a credere di essere riuscita ad attirare l’attenzione di tutti e di vedere nei loro occhi un certo timore.

Il Grande Puffo per la prima volta mi sta guardando con ammirazione... se mi desse un aumento però sarei ancora più felice.

«No, non se ne parla.» mi gela Ferreya mentre l’avvocato Ruiz si precipita al suo orecchio per suggerirgli qualcosa.

«Ho detto di no, non mi lascerò ricattare da qualche zotico allevatore di mucche.» ribadisce fermo battendo il palmo della mano sul tavolo.

L’avvocato mi chiede tempo per poter conferire col suo cliente, rientrando in stanza una buona mezz’ora dopo.

«25.000 dollari a famiglia.» annuncia secco, senza preamboli.

Io, con sguardo impenetrabile e senza badare al sorriso già soddisfatto del mio capo che rapidamente si sta facendo due calcoli, alzo la posta: «80.000.»

Il Grande Capo si volta di scatto minacciandomi telepaticamente il licenziamento, mentre io non curante ripeto la cifra.

«50.000. Non spezzi la corda, avvocatessa.» intima Ferreya.

Mi alzo in piedi, fisso dritto negli occhi Paperon De Paperoni e tendo il braccio

verso di lui: «Affare fatto.»

Dopo aver stabilito quando e dove stipulare l’accordo, che dovrà essere formalizzato in presenza dei rappresentanti delle famiglie da noi assistite, ci congediamo.

Non sono mai stata tanto soddisfatta di me stessa: sono riuscita a chiudere la causa a più di venti milioni di dollari, considerato che le famiglie interessate sono oltre quattrocento, e a portare nelle casse del mio studio una commissione pari al dieci per cento di quella somma da capogiro!

Per non parlare del fatto che ho aiutato tanta brava gente e questo non ha prezzo.

Infine, mi sono evitata un viaggio fino a Buones Aires che mi avrebbe visto soccombere in tribunale davanti alle Tv di tutto il mondo. Non male direi!

Voglio subito chiamare il Sig. Ramirez, rappresentante delle famiglie, per comunicare la lieta notizia!

«Cosa ha fatto?!» mi spiazza la sua voce sbigottita.

«Sì, ha capito bene Sig. Ramirez, 50.000 dollari per ciascuna famiglia!» ribadisco euforica.

«Cosa ha fatto... No... No... Non avrebbe dovuto!» si dispera lui dall’altro capo

del telefono.

«Ma Sig. Ramirez... Sapeva bene che le possibilità di vincere in giudizio erano nulle, questa era l’unica strada percorribile!» gli rammento incredula.

«Avvocato, lei non capisce!» mi ribatte con parole rotte dal pianto. «Fissiamo un incontro, subito, dobbiamo parlare. Io mi trovo qui a New York per motivi personali. Nel frattempo, la prego, non concluda alcun accordo!»

Oh - Mio - Dio. Chi lo dice ora al Grande Capo?!

«Avvocato! Avvocato! Sono qui!» urla e sbraccia a più di trecento metri di distanza il Sig. Ramirez.

Mi sporgo tra la gente che affolla l’entrata dell’Empire State Building, che il mio assistito ha scelto quale luogo dell’incontro.

In realtà non sono l’unica ad essermi sporta per individuarlo: ha infatti attirato l’attenzione di tutti, turisti e anti, per via del suo saluto concitato e soprattutto del suo bizzarro vestiario. Praticamente è mascherato da cowboy. Cappello alla John Wayne, camicia a quadri, gilet di pelle scamosciata nonostante l’afa estiva, e pantaloni pezzati bianchi e neri in perfetto stile “Mucca Carolina”.

Spero almeno non abbia con sé il fucile.

Avanza tra le risatine della gente senza avere la percezione di essere preso in giro.

«Avvocato! Avvocato! Eccomi!!» continua ad urlare arrivando a pochi i da me.

«Salve Sig. Ramirez, come sta?» lo saluto stringendogli la mano.

Non è anziano, ma il duro lavoro da allevatore svolto per tutta la vita deve averlo segnato a tal punto da dimostrare venti anni di più.

Lo allontano dagli sguardi e dagli stupidi commenti che sento fare dai presenti e che ora probabilmente avrà udito anche lui.

A differenza mia, però, non sembra esserne infastidito e, come risposta del tutto inaspettata, mi mostra le mani.

Non capisco il gesto, ma il disorientamento lascia il posto a quei grandi palmi.

Sono segnati, scuri, ruvidi e pieni di calli.

Li accarezzo lievemente con le dita, che quasi si graffiano al contatto della sua pelle dura ed inspessita.

Il suo sguardo fisso sulle mani si alza sino ad incrociare i miei occhi: «Da sempre ho convissuto, come il resto della mia gente, con i giudizi derisori delle persone, però ora non mi scalfiscono più.

Sono orgoglioso di chi sono, delle mie umili origini e di queste mani, che sfamano ogni giorno mia moglie ed i miei figli.

Questo, avvocato, mi porta diretto a ciò che sono venuto a dirle.»

Ci avviamo dunque verso la quiete di una panchina di Central Park poiché l’argomento merita tranquillità.

«Volevo intanto ringraziarla in nome di tutte le famiglie che rappresento. Sappiamo quanto critica sia la nostra posizione e quante poche siano le possibilità di vincere la causa contro Pedro Ferreya» esordisce il mio cliente.

«Però... Non possiamo accettare quell’accordo.»

Un brivido mi gela il sangue.

«Sig. Ramirez, senza quell’accordo rimarrete tutti con un pugno di mosche!» tento nuovamente di convincerlo io.

«Almeno avremmo lottato» mi spiazza. «Se prendessimo quei soldi, dovremmo abbandonare i nostri campi e le nostre case dimenticando noi stessi, i nostri

valori, il nostro ato.

Sarebbe come tradire queste.» conclude con voce spezzata mostrandomi nuovamente le mani.

Resto senza fiato ad osservarle, mentre le mie labbra sono incapaci di aggiungere altro.

L’insegnamento che quest’uomo mi sta dando è commovente: sa bene di non avere possibilità contro Ferreya, ma vuole continuare a crederci.

La sua speranza è così forte che riesco quasi a sentirla gridare.

Nonostante quei soldi farebbero comodo a tutti, vogliono continuare ad essere fedeli alla loro dea Terra senza piegarsi al dio Denaro. Ammirevoli.

E purtroppo anche persuasivi.

Ora dovrò essere io a convincere il mio capo che la somma da capogiro che avremmo potuto intascare dalla transazione l’ha solo immaginata.

Sì, gli dirò che era solo un sogno e che in realtà non c’è mai stato né un incontro né un accordo.

Neanche a farlo apposta, il mio cellulare inizia a squillare facendo lampeggiare senza sosta l’unico nome non gradito di tutta la rubrica: “Grande Puffo – Grande Puffo – Grande Puffo”.

Vuole vedermi immediatamente.

Ha già saputo?!

È meglio che strada facendo mi fermi ad un’edicola per comprare qualche giornale di annunci di lavoro.

Circondato dalla solita schiera di soci e lacchè, il Grande Capo mi sta aspettando con calici vuoti che presto sarebbero stati riempiti; al primo timoroso o verso i presenti, scattano applausi scroscianti e sguardi di stima conditi da un pizzico di invidia.

C’è chi si congratula, chi mi rivolge parola per la prima volta come fossimo amici da sempre, chi mi ringrazia per l’ingente somma che entrerà nelle casse dello studio, chi mi invita ad esporre di nuovo i punti salienti della trattativa, chi mi chiede consigli per altre cause.

Sono diventata tutt’un tratto il guru da venerare.

Io ovviamente non so che fare: sorrido senza sosta e parlo il meno possibile, per evitare di tradirmi e rivelare involontariamente più del dovuto.

Dopo l’ultimo brindisi e l’ennesimo applauso, il Grande Capo mi convoca nel suo ufficio che io, da quando lavoro qui, non ho mai avuto l’onore di vedere.

È sontuoso ed elegante, ma qualcosa mi inquieta: appese alle pareti, le une di fianco alle altre, ci fissano dall’alto teste di alci e di orsi, a cui di colpo ho visto accostata un’altra testa, la mia.

Non riuscendo ad intavolare lo spinoso argomento che mi affligge, temporeggio complimentandomi per i poveri animali imbalsamati: «Belli questi trofei di caccia!» che nella mia mente suona più o meno: “Che impressione! Pure spelacchiati!”

«Sono cacciatore da più di trent’anni, modestamente ho una mira infallibile.» si pavoneggia lui mentre io impallidisco all’idea di poter essere il suo prossimo bersaglio.

Non potevamo cominciare la discussione in modo peggiore.

Si avvicina al suo frigobar da cui temo esca fuori qualche altra bestia morta e congelata, quando invece prende la decima bottiglia di champagne della giornata.

Questa volta è del prestigioso vigneto Perrier Jouet ed ha l’aria di essere molto più costosa di quella che avevamo condiviso con gli altri.

«Se l’è meritata, avvocato!» mi dice stappandola con entusiasmo.

Ovviamente la prima cosa che penso è approfittare della situazione per farlo ubriacare: gli potrei così rivelare che l’accordo è sfumato sperando che ebbro per l’alcol ci rida su.

Cinque calici dopo realizzo di non avere la minima speranza di vederlo barcollare, poiché regge gli alcolici come fossero chinotti.

Mi decido dunque ad affrontare la questione. Sarò diretta e concisa.

«Ha mai visitato Buenos Aires?» Va bé, l’ho presa un po’ più alla larga.

Lui che sta riempiendo l’ennesimo bicchiere si blocca.

Mi guarda di sottecchi non capendo il senso della mia domanda. Ci manca solo che creda gli stia proponendo una fuga romantica!

Così mi affretto ad aggiustare il tiro: «Dovremo andarci per lavoro... ma giusto un attimo: un salto in tribunale e poi via, di nuovo su un volo diretto a New York! Talmente veloce che quasi non si accorgerà di aver lasciato questo fantastico studio: le ho già detto quanto sono belli i suoi trofei?»

Lui continua a guardarmi con due occhi diventati nel frattempo due fessure: mi sta studiando senza allentare la presa sulla bottiglia.

Aiuto.

Poi, del tutto inaspettatamente, il suo viso grassottello si spalanca in una fragorosa risata.

Perfetto, lo champagne alla fine ha avuto l’effetto sperato.

È il momento perfetto per la rivelazione: «La transazione non si farà» annuncio.

Lui continua a ridere, tenendosi addirittura il panciotto con la mano libera. Nell’altra tiene ancora stretta la bottiglia di Perrier Jouet, che deve costare proprio un occhio della testa per non posarla nemmeno un secondo.

Così inizio a ridere anch’io: prima in modo impacciato, poi sempre più convinta.

Talmente presa dalla mia risata catartica, non mi accorgo che lui ha già smesso da un pezzo.

Torno seria, e lui mi sorride.

In fin dei conti è un bravo capo, lo devo ammettere, comprensivo ed indulgente: lo champagne avrà pure fatto la sua parte, ma pochi altri al suo posto avrebbero compreso.

Tuttavia non mi convince il modo in cui continua ad impugnare la bottiglia, cioè dal collo.

«Sa qual è la cosa più divertente di tutta questa faccenda?» mi domanda gaio.

«No, qual è?» mi rallegro anch’io.

«Che stavo per concederle un lauto aumento.

Però le persone col suo spirito d’iniziativa e la sua creatività meriterebbero di meglio. Talmente di meglio che io non sono in grado, col mio misero studio internazionale di oltre sessanta collaboratori, di soddisfare le esigenze di un genio come lei.»

Non lo sto capendo.

«Quindi, anziché darle l’aumento che avevo considerato, penso proprio che... la licenzierò!» urla puntandomi la bottiglia contro come fosse uno dei suoi fucili da caccia.

No, decisamente non lo sto capendo: non mi aveva appena definito un “genio”?

«Se non si accorda sulla causa “Primero” in qualche modo, si consideri fuori da questo ufficio seduta stante!»

E poi non era ubriaco? Sembra che abbia capito proprio tutto invece!

«Non mi interessa chi o cosa le abbia fatto cambiare idea, o se dovrà andare a Buenos Aires o sulla Luna per sistemare la questione!»

Ma dov’è finito il bravo capo, comprensivo ed indulgente?

«Ed ora si tolga dalla mia...»

Slam! La porta sbatte dietro le mie spalle: sono fuori ancor prima che finisca la frase.

«...vista!!!!!!!»

Bé, non è andata poi così male in fondo.

20 giugno 2014

«Non mi era mai capitato di sentir pronunciare, nel giro di pochi secondi, due parole così antitetiche in questo esatto ordine: “Aumento” e “Licenziamento”» racconto a Fernando.

Quanto mi fa strano chiamarlo così...

«Per non parlare della bottiglia di champagne che da simbolo del successo è quasi ata ad arma contundente. Non c’è niente da ridere!!» rimprovero il mio amico che non vuole prendermi sul serio.

«La mia unica speranza è di trovare domani un giudice magnanime che capisca i miei assistiti. Dopotutto, se ho compreso io le loro motivazioni, potrebbe comprenderli anche qualcun altro! Giusto? Giusto! emo la stessa tecnica, che ho ribattezzato “delle mani”: le mostreremo a tutti. Su di me ha avuto effetto!

Ma la smetti?!»

«Scusami, non voglio prenderti in giro, ma sto ancora immaginando la scena che mi hai descritto, con le teste di alci e tutto il resto!» replica Fernando.

«...e pensare che ero riuscita a trovare un accordo ottimo! Neanch’io riesco a capacitarmi di come ci sia riuscita... ma tanto che importa... ogni sforzo è stato vano, ed ora eccomi qui a preparare il trolley per Buenos Aires. Meglio questo o

questo?» chiedo sventolando il tailleur grigio e quello nero di fronte ad Emma che è appena rincasata.

«Per andare dove?» mi domanda notando la valigia aperta sul letto.

«In Argentina.» rispondo a malincuore.

Lei sgrana gli occhi incuriosita, ma anziché soffermarsi sull’argomento volge lo sguardo verso Fernando: «Possiamo parlare un attimo?»

«Certo. Che succede?» chiede lui sorpreso del fatto che gli stia rivolgendo parola senza aggredirlo.

Emma si dirige verso la porta facendogli cenno di seguirlo.

Che fanno, escono? E io? Che faccio, devo restare qui? Voglio sentire anch’io!

Sto quindi per accodarmi con nonchalance a Fernando quando mi fermo: se hanno bisogno di parlare in privato, li lascerò fare. Sono proprio delicata.

Prendo allora il bicchiere che tengo sul comodino e lo appoggio alla porta per origliare: ho detto che sono delicata, mica pure onesta!

«Volevo dirti... sai... Non so come iniziare...» comincia lei «È difficile... ammetto raramente di sbagliare...»

Wow! Quanto vorrei un registratore: non ho mai sentito mia sorella confessare una cosa del genere, prima o poi mi sarebbe tornata utile.

«Stavolta però ho commesso un così madornale errore nei tuoi confronti che non posso non chiederti...» continua lei abbassando lo sguardo a disagio.

Lo so, sono pessima, sto anche guardando dal buco della serratura.

«Scusa.»

Segue un lungo silenzio.

Fernando le solleva il viso sfiorandole il mento con l’indice, costringendo i loro occhi ad incrociarsi: non avevo mai visto quelli di mia sorella brillare in modo così intenso, e non per via delle lacrime che stanno affiorando, ma per l’amore che prova nei confronti di colui che rimarrà per sempre il suo eroe.

Mi dispiace davvero tanto per lei...

«Scusa per come ti ho trattato, scusa per non averti creduto, scusa per non aver condiviso momenti importanti come quello dell’inaugurazione, che ha significato per te l’inizio di una nuova speranza.»

«Smettila di scusarti» la interrompe Fernando. «Avevi ragione quando mi rimproveravi di restare concentrato e di non farmi fuorviare da distrazioni come Isabelle: ora infatti mi sento tremendamente in colpa nei confronti di Helena, perché avrei dovuto continuare a credere in noi, a cercarla. Non l’avrei mai dovuta dimenticare!»

«Bé, non ti criticavo solo per il tuo bene o per quello di tua moglie: la verità è che ero... gelosa. È il momento delle ammissioni di colpa, no?» sorride mia sorella che, superando l’imbarazzo, prosegue: «Comunque ho deciso di andare avanti: da quando ho lasciato Mike ho preso coscienza della persona che voglio essere, in primo luogo sincera nei confronti degli altri e di me stessa. Una persona leale ed altruista, che agisce per il meglio non con secondi fini, ma solo perché è giusto così.

È per questo che ti aiuterò, Sebastian... ehm, volevo dire, Fernando... non so ancora come chiamarti!

Ti prometto che ritroveremo tua moglie: è una ragazza speciale, se ti ama come credo.»

I suoi grandi occhi verdi brillano di nuovo, riesco a vederli addirittura io dalla piccola fessura di una porta.

Lo ama a tal punto che si farà da parte e lo aiuterà a ritrovare la donna che lo sta aspettando chissà dove.

Vorrei uscir fuori per abbracciarla, ma chiaramente non posso.

Vedo Fernando avvicinarsi a lei in modo impacciato, appoggiandole una mano sulla spalla in segno di gratitudine; poi, cogliendola di sorpresa, di colpo la tira a sé stringendola forte.

Lei è rigida come una lastra di marmo ma, pian piano, si abbandona nel suo abbraccio posando il capo sul petto di lui e respirando il profumo di pane dei suoi abiti.

A proposito di abiti!!!

Sarà meglio mi sbrighi a riempire questa valigia!

Mi è sempre piaciuto viaggiare, vedere posti nuovi, conoscere gente diversa ed altre culture.

Ogni qualvolta partivo, sia che fosse stato per i Caraibi o anche solo per andare al paese della zia ultranovantenne, ero euforica dalla settimana precedente.

Ora invece sembra stia andando al patibolo: anche perché, in fin dei conti, è proprio lì che mi sto recando.

Non ci sarà forse il boia incappucciato, ma il risultato sarà il medesimo: un giudice in toga nera batterà il suo martelletto sul tavolo, darà lettura della sentenza, Pedro Ferreya e la sua sfilza di legali vinceranno su ogni fronte e la mia testa rotolerà giù dalla ghigliottina, con il Grande Capo pronto a raccoglierla e ad imbalsamarla accanto ai suoi procioni e buoi muschiati.

Afferro dunque il trolley, saluto mia sorella e Jay come se non potessi rivederli mai più e mi avvio verso il taxi che è già fuori ad aspettarmi, attraversando il corridoio di casa che mi ricorda il famoso miglio verde nel film con Tom Hanks.

L’unico a cui non ho potuto dire addio è stato Fernando il quale, come ogni fornaio, si è recato in panetteria alle quattro di notte.

Non appena in macchina, neanche a dirlo il mio cellulare inizia a vibrare: è lui.

«Ciao Fernando, sono in partenza. Mi dispiace non averti potuto salutare, non starò via a lungo, rientrerò dopodomani. Sarò appesa per la testa con una

targhetta sotto, ma comunque rientrerò.»

«Ti prego non partire!» urla lui al telefono.

«Che stai dicendo? Guarda che non devi preoccuparti, stavo scherzando, il Grande Capo non imbalsamerà la mia testa!»

“Mi caccerà dal suo studio a calci e farà in modo che nessun altro mi assuma, ma non mi sparerà mica! Giusto? Giusto...”

«No, devi venire subito qui! So tutto! Davvero tutto!!» annuncia lui concitatissimo.

«Ma tra meno di tre ore parte l’aereo!»

«Viola, non capisci! So chi ero!! È riaffiorato ogni ricordo del mio ato!

So anche qual è stato lo shock emotivo che ha causato la mia amnesia! Tutto!! Ma è troppo lungo da spiegare per telefono!

Porta con te anche Emma! L’ho chiamata decine di volte, ma il suo cellulare è sempre irraggiungibile!»

Santo Cielo, adesso come faccio? Che pessimo tempismo... Però non posso dirgli di no, la questione in effetti è troppo seria per non andare da lui.

«Mi scusi, può fare inversione?» chiedo al tassista mentre sono ancora in linea con Fernando che, a questo punto, capisce che sto per raggiungerlo: «Grazie Viola. Sei un’amica. Non ti pentirai di avermi aiutato.»

Spero di no; e soprattutto spero di non perdere l’aereo.

Non facciamo in tempo ad arrivare al negozio, che ci ritroviamo Sebastian all’angolo della strada ad aspettarci: non sta più nella pelle, sbraccia da lontano con un sorriso che mai avevo visto ad essere umano. Arriva alle orecchie.

Ci precipitiamo dunque verso di lui che, anziché indirizzarsi verso l’entrata della panetteria, ci conduce nella direzione esattamente opposta: «Non crederete mai a quanto ho scoperto!»

«Dai Fernando, non tenerci sulle spine!» incalza Jay che si era aggregato alla nostra spericolata corsa in taxi.

Lui per tutta risposta affretta il o e, con un sorriso ancor più ampio, ci spalanca le porte a vetri di un istituto bancario sulla destra.

«Dove stiamo andando?!» domanda Emma interpretando i pensieri anche miei e del mio vicino.

Si volta allora verso di noi con uno sguardo raggiante; poi, staccandosi dal gruppo, va a stringere la mano di un tizio alto e distinto che lo sta aspettando sulla soglia di un ascensore interno.

«Vi presento John Ivory, direttore di questa filiale. Loro sono i miei amici: Viola, Emma e Jay.»

“Perché invece di fare tutte queste presentazioni non ci dici come ti chiami tu, se hai finalmente ricordato chi sei?” strepito rendendomi conto che sono già ati altri quaranta minuti.

Ovviamente per non essere maleducata mi perdo nei convenevoli come stanno facendo tutti gli altri: peccato però che a differenza loro io abbia un aereo da prendere tra due ore e mezza!

Senza che Fernando ci anticipi ancora nulla, veniamo registrati e schedati come fossimo ad Alcatraz, per poi entrare nell’ascensore che non la smette di calare giù.

Dove stiamo andando? Al centro della Terra? Chi ci aspetta, Lucifero?

Le espressioni di Emma e Jay sono interdette quanto la mia, mentre Fernando e il direttore ci guardano gongolanti: cosa che, sommata alla persistenza del mistero e al fatto che sto per perdere l’aereo, inizia davvero ad infastidirmi.

Lo scenario che si apre dinnanzi ai nostri occhi, cinque piani sotto il livello zero,

è a dir poco spettacolare.

Un caveau blindatissimo, il cui accesso è consentito solo dopo la digitazione di sette con tanto di scansione retinica finale: mi sembra di essere nella scenografia di “Ocean’s Eleven”!

Purtroppo mancano Brad Pitt e George Clooney, ma il deposito sotterraneo è identico a quello del Bellagio di Las Vegas svaligiato nel film.

Incastonata nella parete domina un’imponente cassaforte grigia antracite, è di classica forma circolare con un diametro di almeno due metri.

L’ingranaggio di apertura è comandato dal tipico timone, che viene fatto ruotare in un verso e in un altro secondo una combinazione ben precisa.

Siamo in trepidazione ad ogni scatto, anche se non è niente in confronto all’euforia che sprizza da Fernando.

Non appena lo smisurato oblò della cassaforte si schiude, scorgiamo al suo interno centinaia e centinaia di cassette di sicurezza, tutte uguali e perfettamente allineate, che ricoprono la totalità delle pareti nelle quali sono incassate.

«Ci stai facendo preoccupare! Che storia è mai questa?» gli chiede Emma per l’ennesima volta.

«Tutto merito del suo pane...» sfugge al direttore che immediatamente si arresta, come se temesse di aver detto troppo.

Con sguardo mortificato porge le sue scuse a Fernando che, di rimando, gli sorride benevolo: «Non deve scusarsi, anzi... Se entrando nella mia panetteria non mi avesse riconosciuto, a quest’ora ancora non saprei il mio nome. È grazie a lei se ho scoperto tutto, con le fondamentali conseguenze che ne sono scaturite!»

Il direttore, sollevato, gli stringe di nuovo la mano e si congeda.

È prassi bancaria infatti lasciare da soli i titolari delle cassette di sicurezza per consentir loro di effettuare in piena privacy le operazioni di immissione o di estrazione di valori dalla cassetta stessa.

«Vuoi dirci una buona volta che succede?» bisbiglio abbassando il tono della voce come se stessimo per saccheggiare l’intero caveau.

Finalmente Fernando inizia il suo racconto: «Questa mattina il direttore...»

«Il direttore...» ripete Jay senza controllarsi.

«...è entrato nel mio negozio che come avete visto è a pochi i dalla banca, per comprare del pane.»

«Per comprare del pane.» ripete Jay ancora una volta.

«Ad un certo punto, quando i nostri sguardi si incrociano, il volto di lui si illumina. Gli chiedo allora se volesse dell’altro, biscotti o pizzette...»

«Biscotti o pizzette...» Jay non riesce a stare zitto.

«Ma lui risponde di no...»

«No.» ridice Jay.

Ora picchio entrambi: Fernando se non si sbriga, e Jay se non la smette di fare il pappagallo.

«Cogliendomi totalmente di sorpresa, mi saluta calorosamente come se mi conoscesse già.» prosegue.

Nel silenziosissimo caveau, cala se possibile un mutismo ancor più profondo.

Anche Jay stavolta non ripete.

Tutti e tre pendiamo dalle labbra di Fernando senza riuscire neanche a battere le ciglia.

«Sono rimasto sgomento e disorientato esattamente come voi ora, per un attimo ho indugiato seppur sapessi bene cosa fare: avrei dovuto chiedergli se ci fossimo già visti e se sapesse chi fossi, ma non ho fatto in tempo.»

«Non hai fatto in tempo...» ecco che Jay ricomincia.

«No, perché il direttore mi ha anticipato: “Come sta?” mi chiede “Vedo che è riuscito ad aprire la panetteria di cui mi aveva parlato! È stato velocissimo, complimenti! Per non dire che ha avuto un successo clamoroso sin da subito, il negozio è sempre pieno, lo noto ogni mattina prima di entrare in ufficio.”

Potete immaginare il mio stupore nel sentire quelle parole, così lo prego di rimanere mentre allontano con una scusa tutti gli altri clienti.

Gli racconto allora dell’incidente, della perdita di memoria, nonché dei miei flash che seppur importanti non avevano ancora fatto piena luce sul mio ato; gli ho parlato di mia moglie, della serie di numeri che avevo ricordato, tutto ciò che potevo riferirgli gliel’ho detto, mentre lui ascoltava incredulo.

Al termine, mi rivela che sapeva il mio nome perché ci eravamo conosciuti proprio il giorno dell’uragano!»

«Il giorno dell’uragano?» esplodiamo in coro Jay ed io, mentre Emma in silenzio gli stringe una mano.

«Si! Quel giorno ho avuto un incontro in banca col direttore in persona.

Ovviamente, quando lui stamane mi raccontava ciò che sapeva, io ancora non ricordavo nulla: è stato solo entrando in questo caveau che ho iniziato a vedere dei flash, continui, tantissimi, l’uno di seguito all’altro, che mi hanno letteralmente travolto. Non erano sempre temporalmente consequenziali e non riguardavano solamente questo posto: toccavano, mano a mano, tutta la mia vita!! Ricordi dei luoghi e delle persone che ho conosciuto, parenti stretti e lontani, le mie ioni, la mia infanzia, i miei amori, tutto!

Anche se i flash arrivavano veloci e scollegati tra loro, gradualmente sono riuscito a mettere a posto ogni tassello del puzzle.

Non so neanche da dove cominciare, per quante cose incredibili ho da rivelarvi!»

«Magari partiamo dal perché ci troviamo all’interno di un deposito bancario super blindato attorniati da centinaia di cassette di sicurezza incassate alle pareti!» propongo.

«No... In realtà voglio partire dalla cosa più importante.» annuncia Fernando che sembra finalmente aver deciso.

Mio Dio, non riesco a credere che dopo tutto questo tempo sapremo la verità ed ogni cosa sarà chiara.

«E la cosa più importante, anzi, la persona più importante...» prosegue lui riferendosi sicuramente ad Helena «...sei tu, Emma.» dice girandosi verso di lei e stringendole anche l’altra mano.

Meno male che la faccenda sarebbe dovuta essere più chiara: cosa sta dicendo?!

Mia sorella si è cristallizzata, avrebbe mille domande ma le sue labbra restano serrate in attesa di capire il senso di quelle parole.

Fernando la guarda allora dritta negli occhi: occhi che d’improvviso si accendono, di quella stessa luce che le vedevo brillare ogni qualvolta Sebastian compariva o anche solo lo si nominava.

«Non ho mai capito perché i tuoi occhi mi avessero affascinato sin dal primo istante in cui ti ho vista. Come non capivo, nonostante sapessi di essere sposato e nonostante avessi perfino ricordato Helena, il motivo per cui c’era sempre qualcosa nei tuoi occhi che mi attirava.

Ho cercato di non dar peso a queste sensazioni, ho provato perfino ad uscire con Isabelle, che ora posso rivelarti essere stato un tentativo per distrarmi da te, sino a che oggi finalmente ogni cosa ha avuto un senso.

Fra i tanti flash che mi sono ritornati alla memoria c’era anche il ricordo non di un’immagine, ma di una voce.

Quella di mia madre.

Avevo undici anni quando morì: era così giovane, trentadue anni appena; una donna nel fiore della vita, meravigliosa, con ciocche di capelli che le uscivano dalla cuffietta e con due occhi verdi che brillavano nonostante la stanchezza dovuta al lavoro e alla malattia che a nostra insaputa la stava portando via.

Una sera, mentre mi rimboccava le coperte, la sua voce amorevole mi disse la frase che oggi, veloce ed improvvisa come un fulmine, ho ricordato.

“Quando troverai una donna che ti guarderà con i miei stessi occhi, allora saprai che è quella giusta.”

Lì per lì non capii il significato delle sue parole, avvolto nel caldo del mio lettino mi limitai ad annuire e a darle il bacio della buonanotte.

Fu l’ultimo che le diedi.

Se ne andò quella notte stessa, lasciando me e mio padre per sempre.»

Lacrime di ricordi lontani iniziano a fluire lentamente, così come quelle di Emma.

Anch’io, aggrappata al braccio di Jay, non riesco a non piangere nonostante tenti in ogni modo di trattenermi.

«I tuoi occhi, Emma... Ho ritrovato nei tuoi occhi la stessa luce che c’era in quelli di mia madre e che avrei dovuto ricercare nella donna della mia vita.»

«Fernando, io non riesco a capire. Sono lusingata dalle tue parole, il mio cuore sta esplodendo di felicità... però... se io sono la donna che credi, che mi dici di tua moglie?

Dovrai comunque cercarla, per capire se davvero vuoi rinunciare a lei: non puoi dimenticarti di nuovo di Helena, potresti essere infelice per il resto della tua vita!» risponde mia sorella con un amore disperato.

«Ma io non la dimenticherò mai. È impossibile dimenticare la propria madre.»

Gelo.

Tutti e tre rimaniamo ancor più attoniti.

«Helena era tua madre...» ripete Emma ad alta voce per metabolizzare la notizia.

«Sì... Quando ho iniziato a ricordare di lei, pochi giorni fa, la mia mente era ancora oscurata dall’amnesia e da ricordi falsati: il suo viso giovane e l’amore che ci legava mi hanno fuorviato facendomi ritenere che fosse lei la donna della mia vita.

In un certo senso lo è stata e lo sarà sempre, ma non è certo mia moglie.

La fede che portavo con me era la sua, mentre l’altra era di mio padre... Fernando.»

Non ci credo! Altro colpo di scena! Cosa ci dirà ora, che viene da Giove?

«Ho creduto di chiamarmi così perché nei miei flash avevo ricordato Helena invocare quel nome, che invece era di mio padre.

Credevo fosse mia moglie che chiamava me, invece stavo ricordando loro: la relazione che avevo rammentato non era la mia, ma quella dei miei genitori!

Era la loro unione, infatti, ad essere stata contrastata dalla ricchissima famiglia di mio padre!! Erano loro ad aver voluto incidere nelle loro fedi la scritta “Contro tutto e tutti”!»

«Vuoi dirci qual è il tuo nome allora?» gli sussurra Emma sulle spine.

«Esteban. Mi chiamo Esteban.» le risponde accarezzandole il viso, porgendogli poi la mano come si fa quando ci si presenta.

Lei, ancora incredula, allunga la sua mano per stringergliela: «In realtà, Esteban, non ho bisogno di presentazioni perché so già chi sei: il mio eroe.»

Io, in un fiume di lacrime, non riesco a capacitarmi di tutta questa storia che ha a dir poco dell’incredibile. Sembra fantascienza, al cui confronto le miei adorate commedie hollywoodiane non hanno trama.

Continuo a stringere il braccio di Jay il quale, sussurrando, mi fa correre un brivido nelle vene: «Il Filo Rosso...»

È tutto meraviglioso, romantico all’ennesima potenza, anche se qualcosa sta interferendo col pathos del momento: la fredda cassaforte blindata di una banca dentro cui ci troviamo può essere un’ottima spiegazione.

Perché siamo qui?

Come se avesse captato il mio dubbio, Esteban prende una chiave: «Quando ho raccontato la mia storia al direttore, lui si è persuaso a dirmi il motivo del nostro incontro.

La ragione per la quale ci vedemmo, circa due mesi fa, risiede in questa chiave, che mi è stata appena riconsegnata dopo aver verificato la corrispondenza delle mie impronte digitali con quelle schedate nel server.

Così come quel giorno l’uragano si abbatté sulla città distruggendola, così quello stesso giorno la chiave che vedete ora sconvolse la mia vita. È questa chiave, infatti, che custodisce il segreto che mi aveva a tal punto sconvolto da causare la mia amnesia, unitamente al trauma cranico che subii salvando Emma poco dopo.»

Mia sorella, Jay ed io lo fissiamo attoniti, domandandoci cosa mai potrà contenere di così scioccante una piccola cassetta di sicurezza.

Esteban si avvicina alla settima a partire dall’alto, sulla dodicesima fila.

La chiave gira, lo sportello si apre, il nostro amico si ferma.

È esitante nel tirar fuori una scatola, anch’essa metallica, di medie dimensioni, all’incirca venti centimetri per trenta, color piombo.

Non ha scritte né marchi, è anonima: ha solo una combinazione digitale per l’apertura.

Prima di iniziare a sfiorare i tasti, si ferma di nuovo: ringrazia ognuno di noi per l’amicizia ed il o dato ad un totale sconosciuto senza memoria, senza casa, senza lavoro e senza un nome.

Riprende quindi in mano la scatola, che appoggia sul tavolo rettangolare al centro della stanza.

Di seguito, una fila di otto piccole lucine verdi si accendono ad ogni numero digitato correttamente, che lui pronuncia ad alta voce: «2 – 9 – 0 – 8 – 2 – 0 – 1 – 3.»

La sequenza di numeri!!!

Allora non era una data come avevamo ipotizzato! Era la combinazione di una cassetta di sicurezza contenuta all’interno di una banca!

Sarebbe stato impossibile capirlo...

Non sto più nella pelle, non vedo l’ora di sapere cosa si cela al suo interno: visto lo shock che ha subito Esteban, spero solo di non fare la stessa fine.

«Viola! Viola!!! Viola, ci sei?! Dì qualcosa, riprenditi!!!» grida Emma mentre sento il mio peso sorreggersi solo grazie alle braccia di Jay che mi stanno sostenendo.

Le gambe tremano, le mani tremano, tutto trema: o c’è un terremoto in corso, o sto per collassare.

Quando dicevo di non voler fare la stessa fine di Esteban ero ironica, ma ovviamente solo perché non conoscevo il contenuto di quella cassetta di sicurezza. Non avrei mai potuto neanche lontanamente immaginare che incredibile sorpresa vi si celasse!

«Viola, ti prego, parla!» mi incita di nuovo Emma mentre io, chiusa in un mutismo assoluto, continuo a tenere fra le dita quel documento, che leggo e rileggo come un automa imbambolato.

Poi, di colpo, mi scuoto.

«Che ore sono?!» domando lasciando tutti perplessi per l’illogicità della richiesta: in effetti avrei potuto dire qualsiasi altra cosa a seguito di una rivelazione tanto sconvolgente, ma l’unica frase che riesce ad uscirmi di nuovo di bocca è... «Che ore sono?!»

Panico.

«Ho un aereo che non posso perdere!!!!!»

22 giugno 2014

Come non detto.

Ho perso l’aereo.

No, non è la citazione del celebre film che ripropongono puntuale ogni 25 Dicembre in televisione, quello in cui il bambino biondo viene lasciato a casa dalla famiglia durante le festività natalizie e si ritrova a fronteggiare due ladri maldestri e scapestrati.

No, questo non è un film, questa è la mia vita. E se non si sbriga ad arrivare un qualsiasi altro aereo diretto in Argentina, da domani dirò: “Questa È STATA la mia vita.”

Sì, parlerò al ato, dalle pareti dello studio del mio capo appesa tra alci e caprioli.

È da ieri pomeriggio che sono piantonata in aeroporto in attesa di imbarcarmi sul primo volo disponibile per Buenos Aires.

Finalmente un’assistente di volo si avvicina, comunicandomi che sono stata inserita nella lista eggeri del volo 0531 che tuttavia non sarà diretto.

Non importa, quel che conta è partire.

Dopo diciannove ore, devo rettificare: quel che conta è arrivare.

Perché non ho preso il treno?!

Perché non ho preso la bicicletta?!

Perché non sono andata a piedi?!

Avrei fatto prima!!!

È mai possibile far durare un viaggio quasi venti ore? Tra scali, recupero bagagli, nuove file da seguire e via discorrendo, con lo stesso tempo sarei arrivata sulla Luna!

Va bé, non importa, quel che conta adesso è arrivare in tempo Tribunale.

I tassisti di Buenos Aires sono se possibile ancor più spericolati di quelli newyorkesi, e di nuovo non posso fare a meno di pormi gli amletici dilemmi:

Perché non ho preso il treno?!

Perché non ho preso la bicicletta?!

Perché non sono andata a piedi?!

Non capisco quale speciale patente devono prendere per guidare così male. Oltretutto il taxi non mi porta neanche all’indirizzo richiesto: c’è infatti una sorta di manifestazione che sta bloccando le strade che conducono al tribunale... la mia solita fortuna.

Scendo e, anziché precipitarmi verso il palazzo di giustizia che si vede in lontananza, resto imbambolata a leggere i cartelli della protesta: “Via le mani dalle nostre terre”; “Distruggerete l’Argentina!”; “Pedro Ferreya vi farà mangiare il suo asfalto!”

Oh mio Dio!

Queste sono le famiglie che sto assistendo in giudizio!

Cerco di farmi largo nella folla attraversando il corteo tra striscioni e fischi assordanti. Spintonata e accartocciata come un fazzoletto riesco in qualche modo ad uscirne e a ritrovarmi all’ingresso della maestosa Corte di Giustizia che, già da fuori, incute soggezione. Mi dirigo impavida verso l’entrata ma, ahimè, constato che non ce n’è una sola: saranno almeno trenta. Ottimo.

Prima di imboccarne una a caso, devo perdere altro tempo allo screening del

metal detector dove mi chiedono addirittura di togliere l’elastico ai capelli perché il gancetto di ferro suona: me li ero appena sistemati in un composto chignon, e ora invece guarda! Sembro Garfield il gatto!

Finalmente entro, corro di qua e di là cercando di orientarmi tra le varie aule di udienza: con questi capelli ricci arruffati, il mio tailleur stropicciato e il rumore dei tacchi che strepitano sul pavimento mi stanno notando tutti! Meno male che almeno non mi conosce nessuno.

Al termine del lungo corridoio intravedo un uomo basso e cicciotto che identifico fin troppo bene; mi sta aspettando, fortunatamente senza il suo fucile da caccia, fuori da quella che è sicuramente l’aula del nostro processo ticchettando sull’orologio col dito paffuto. Appena mi individua, corre con fatica verso di me: dovrebbe andare in palestra invece che a sparare alle renne!

«Che diavolo di fine aveva fatto?!» esplode il Grande Capo «I legali di Pedro Ferreya sono già arrivati all’arringa finale! Stiamo tutti aspettando lei!» digrigna tra i denti inferocito.

Come metto piede in aula, non c’è persona che non si volti per fissarmi: lo credo bene, con questi capelli!

La cosa peggiore è che stanno puntando su di me pure le televisioni di mezzo mondo: riconosco la BBC, la CNN, Al Jazeera, Russia Today, 24...

Con gambe tremanti ma sguardo fiero mi dirigo verso il giudice, ando dritta di fronte Pedro Ferreya che non degno di un’occhiata.

Il suo legale, gongolante, sorride tra i baffi sapendo già di aver vinto. Mi guarda con pietà, che se possibile è peggio del disprezzo: nonostante la mia posizione di evidente svantaggio, non voglio far pena proprio a nessuno.

Chiedo scusa per il ritardo, tra lo sguardo inceneritore del Grande Capo e quello derisorio dell’avvocato di controparte, ed esordisco con una richiesta: «Signor Giudice, col suo permesso vorrei raccontare una storia.»

«Obiezione Vostro Onore! Non c’è più tempo per le storie. L’avvocato avrebbe dovuto presentarsi prima, se avesse voluto raccontarci la favola della buonanotte.» ironizza l’avvocato Ruiz.

«Obiezione respinta.» sentenzia il giudice dando un colpo di martelletto.

«Grazie Vostro Onore. La mia storia...» riprendo «...narra di una terra lontana, dove dinnanzi ad autoctoni e forestieri si spiegavano vastea distese fertilissime rimaste incolto da sempre.

Un ragazzo umile, nato e cresciuto in quelle terre, un giorno decise di farvi pascolare lì il suo bestiame per poter sfamare la sua famiglia con le carni che ne ricavava.

Grazie alle fatiche e al suo duro lavoro, negli anni produsse più di quanto lui stesso si aspettasse: talmente tanto che non ritenne onesto goderne dei frutti da solo.

Così iniziò a riunire molte altre famiglie per consentir loro di sfruttare quelle terre allo stesso modo.

Queste, in segno di gratitudine, decisero di lavorare spontaneamente per l’uomo chiedendogli in cambio nulla in più se non il giusto per vivere degnamente.

Il ragazzo però, generoso ancora una volta, reputò corretto andare oltre alle loro semplici richieste, decidendo di garantire a costoro non solo cibo in abbondanza ma anche una remunerazione economica, che comportò garanzie, superamento di avversità e dignità.»

«Vostro Onore, obiezione!! Cosa ci sta raccontando, la vita del buon samaritano? O forse di Babbo Natale!»

«Respinta. E moderi il sarcasmo.»

«Grazie Vostro Onore.

Quest’uomo non era un buon samaritano, a differenza di ciò che crede l’avvocato Ruiz. Anzi, di difetti ne aveva molti: tanto era generoso e comprensivo con gli altri, tanto era duro col suo unico figlio, che arrivò addirittura a diseredare perché non sottostò al matrimonio combinato che gli aveva imposto.»

«Obiezione Signor Giudice! A chi interessa questa favola?»

«Obiezione respinta. Però, avvocatessa, la prego di arrivare al punto.»

«Grazie per non aver accolto l’opposizione del collega.

Perché vede, Vostro Onore, la mia favola a qualcuno interessa.» affermo avvicinandomi alla finestra che spalanco con un gesto plateale, facendo irrompere fischi e grida di protesta.

«Interessa alle centinaia di famiglie che quell’uomo ha aiutato.»

Faccio seguire volutamente una lunga pausa di silenzio, in cui la quiete tombale dell’aula contrasta con la disperazione proveniente da fuori.

«Negli anni a seguire, l’uomo di cui vi sto narrando continuò a faticare con la sua gente su quei campi che non abbandonò mai, nonostante l’avanzare dell’età e nonostante fosse diventato una delle persone più ricche dell’America Latina; l’uomo di cui vi sto narrando, aveva creato infatti un vero e proprio impero con le sue pregiate carni oggi famose in ogni parte del mondo.

L’uomo di cui vi sto narrando, Vostro Onore, non è avulso dal nostro caso: perché altri non è che il signor Francisco Ferreya, zio del qui presente Pedro.

Egli non avrebbe mai voluto che le sue terre fertili diventassero aride superfici sotto manti di cemento; come non avrebbe mai voluto che la sua gente, rimastagli fedele per tutta una vita, si ritrovasse alla sua morte senza casa, lavoro

e senza quella dignità guadagnata col sudore e la stanchezza.

Signor Giudice, la prego di venire a vedere con quale fierezza quelle famiglie mostrano sul corpo i segni di una vita di fatiche! Senta nelle loro parole l’orgoglio con cui difendono le loro terre che, a ben pensare, sono anche nostre.

Sì, nostre: siamo noi a beneficiare dei sacrifici che questa povera gente non chiede altro di poter continuare a fare. Per noi. Per i nostri figli, per i nostri cari.»

«Vostro Onore, mi oppongo!!!

L’avvocatessa è talmente abile con le parole da commuovere i sassi, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare gli atti, le carte, i documenti!

Ogni singolo pezzo di carta depositato in giudizio parla chiaro: il mio cliente è l’unico erede dell’impero “Primero” e delle terre di suo zio. Così come parla chiaro la legge, che tutela i discendenti di sangue, non gli allevatori di mucche!»

«Obiezione accolta.» conferma suo malgrado il giudice.

«Vostro Onore, condivido anch’io l’obiezione sollevata dal collega.» affermo spiazzando tutti. «Del resto è vero, la legge parla chiaro: è solo il legame di sangue che conferisce il diritto di eredità.» annuisco in segno di resa, prima verso l’avvocato Ruiz e poi verso il giudice.

«Così come parla chiaro nell’affermare che i parenti di grado prossimo escludono quelli di grado più remoto.»

«Esattamente.» concorda l’avvocato Ruiz «Anche se quest’ultima precisazione ha scarso rilievo nel caso di specie, il mio cliente è l’unico erede.»

«Sì, lo sappiamo avvocato, lo avrà ripetuto almeno un centinaio di volte.

Se però mi avesse lasciato continuare, invece di deridermi e contrastarmi con le sue “obiezioni”, avrebbe evitato di perseverare così spesso nel suo errore.»

«Quale errore?» domandano l’avvocato Ruiz ed il giudice all’unisono.

«Vostro Onore, ho il permesso di continuare? Grazie.

Se non sbaglio, eravamo rimasti al matrimonio combinato che il Sig. Ferreya aveva programmato per suo figlio, senza tuttavia fare i conti col fatto che quest’ultimo aveva già promesso il suo cuore ad un’altra donna.

Così nonostante le minacce, poi attuate, di perdere l’ingente patrimonio accumulato dal padre, il figlio innamorato decise di fuggire e di sposare la ragazza che amava; il loro amore durò a lungo, fu profondo e travolgente finché, un giorno, la morte non li separò per sempre.

Se ne andò prima lei; parecchi anni più tardi lui.

«Vostro onore, il fatto che Francisco Ferreya non avesse eredi, perché premorti o comunque diseredati, è già stato più volte ribadito dalla nostra difesa.» interviene l’avvocato Ruiz senza aver prima contenuto un grosso sbadiglio.

«Avvocatessa, la prego di terminare.» sollecita il giudice.

Frugo dunque nelle tasche del mio tailleur, tirandone fuori un pezzo di carta accuratamente ripiegato.

«“Mio caro nipote...”» inizio a leggere «“queste poche parole sono solo per chiederti scusa. Scusa per non averti mai cercato e per aver fatto soffrire la tua famiglia, che in realtà è anche la mia.

Mi strazia il cuore maturare solo alla fine dei miei giorni la consapevolezza di aver sbagliato con le persone più importanti: il mio adorato figlio, che ho allontanato come un cane, e il nipote che non ho mai conosciuto.

Anche se nulla potrà sopperire all’amore che non vi ho saputo dare, ti prego, caro nipote, di accettare in eredità tutto ciò che tolsi a tuo padre.

Alla mia morte, ogni terra su cui ho sudato con fatica, vorrei fosse tua: ti chiedo solo di amarla e rispettarla come ho fatto io per tutta la vita.

Con immensa gratitudine.

Tuo nonno.”»

Un silenzio irreale piomba nell’aula.

Pedro Ferreya guarda attonito i suoi legali, i quali a loro volta si guardano tra loro cercando gli uni negli occhi degli altri una plausibile spiegazione.

L’avvocato Ruiz, colto di sorpresa come tutti, non si lascia intimorire ed urla per l’ennesima volta: «Obiezione!!!

Questa lettera non è stata depositata agli atti, non ha alcun valore giuridico! Chi può certificarne l’autenticità?! Chi ci dice che è vera?»

«Obiezione accolta.»

«Non c’è bisogno di infervorarsi così, collega: concordo con lei ancora una volta. Nessuno può dirci se la lettera sia un originale o un falso. Certo, potrei sempre chiedere una perizia calligrafica... ma, prima che si opponga di nuovo, già le dico che non è mia intenzione farne richiesta.»

Il viso del mio avversario si distende: credo di avergli fatto venire un po’ di strizza, ma è durata poco. Troppo poco. Mi piaceva vederlo spaventato all’idea di perdere la sua causa milionaria e la sua bella percentuale!

Bé, quell’espressione terrorizzata ricomparirà sul suo volto molto presto, e non se ne andrà con la stessa velocità.

Mi dirigo dunque verso la mia cartella di pelle, mentre noto le telecamere di mezzo mondo seguirmi ad ogni o. Penso ai miei capelli scompigliati, quanto vorrei uno specchio... Fortunatamente, però, la gente oggi non mi ricorderà per la chioma da gatto Silvestro: mi ricorderà per aver vinto una delle cause più importanti negli ultimi decenni!!

Riprendo quindi la parola: «Come stavo dicendo non farò richiesta di alcuna perizia tecnica sulla calligrafia del signor Francisco Ferreya, ma non perché non voglia. È solo perché non ne ho bisogno.

Col Suo permesso, Vostro Onore, vorrei mostrarle il motivo della mia risolutezza.» dico estraendo dalla mia cartella una scatola sigillata.

«Signor Giudice, è inammissibile la prosecuzione di questa farsa!» sbraita spazientito Ruiz «È palese che l’avvocatessa stia tirando la corda, ma ormai si è spezzata! Quanto ancora dovrà durare la sua pantomima? Cosa farà fuoriuscire dal cilindro, un coniglio balzellante?».

Mi avvicino dunque col mio “scrigno segreto” al banco del giudice ove, sotto ai suoi occhi, digito il codice numerico che ne consentirà l’apertura.

2 – 9 – 0 – 8 – 2 – 0 – 1 – 3.

La scatola si apre magicamente, mostrando al mondo il suo contenuto.

«Non direi un coniglio... Piuttosto un testamento.

Testamento redatto in presenza di notaio, uno dei più prestigiosi in tutta l’Argentina, che ne conferisce pubblica validità ed autenticità.

È di poche parole, tuttavia sufficienti a togliere ogni diritto di eredità a Pedro Ferreya e ad attribuirli a lui!»

Punto il dito verso l’uomo rimasto in disparte in fondo alla sala, che avevo visto arrivare circa mezz’ora fa. Sarà riuscito a prendere il volo immediatamente successivo al mio, visto che sul mio aereo non c’erano più posti a disposizione.

«Vostro Onore, vorrei presentarvi colui che è stato nominato erede universale di Francisco: suo nipote, Esteban Ferreya.»

23 giugno 2014

«Esteban, ora che hai scoperto di essere uno degli uomini più ricchi al mondo, non è che mi faresti un favore?» chiedo al mio amico mentre siamo in attesa di imbarcarci sul volo di ritorno per New York.

«Te lo farei anche se fossi rimasto lo squattrinato che ero fino a pochi giorni fa.» risponde sorridendo.

«No, non credo che avresti potuto nelle condizioni economiche in cui eri fino all’altro ieri: è un favore... un po’ costoso.» ribatto mettendogli curiosità.

«Va bene, allora dimmi, di che si tratta?»

«Della Cina.» lo spiazzo.

«Viola, è vero che sono ricco, ma la Cina non posso ancora comprartela.» dice dopo qualche attimo di perplessità.

«Dai, scemo! È ovvio che, se avessi potuto chiederti una cosa del genere, avrei puntato su qualche atollo della Polinesia! Che me ne farei della Cina? I cinesi poi sono troppi, come si gestiscono più di un miliardo di persone?»

«Allora spiegati meglio, che vorresti?» chiede Esteban tornando serio.

«Visto che siamo in aeroporto... vorrei fare un salto in Cina.

So che abbiamo già acquistato i biglietti per New York e che hai fretta di tornare da Emma, ma fidati, non sono così pazza come sembra, il favore che ti sto chiedendo è per una buona causa.

«Cioè?»

«È per Jay, la buona causa è lui.»

«Jay?! Se me lo avessi detto subito avremmo già avuto in mano i biglietti per il Sol Levante!»

1 luglio 2014

«Cin Cin!»

Sono ati due mesi esatti dall’ultima volta che nel mio salone ancora fresco di pittura ho innalzato i calici per il brindisi, che stava segnando l’inizio della mia nuova vita a New York.

Quel giorno ero sola con Leonardo, il tavolino era apparecchiato per due a lume di candela, con sottofondo di musica classica ed io con indosso un sexy vestitino corto.

Oggi invece alla mia tavola ho aggiunto molte altre sedie, ci sono festoni colorati che scendono dal soffitto, l’ultimo cd di Pink risuona per la sala ed io ballo nella mia comoda tuta, rigorosamente nera perché sfina.

Quante cose sono cambiate in così poco tempo...

«Cin Cin per il mio fidanzamento!» strepita Emma incollata al braccio di Esteban senza riuscire a contenere la sua euforia.

Sorride beata, mentre i suoi occhi non hanno più smesso di brillare dal giorno della dichiarazione d’amore in quel caveau.

Il camlo suona alla porta, deve essere Jay.

La forte scia di profumo ed il completo gessato color carta da zucchero arrivano quasi prima di lui, come fossero altri due ospiti della serata con propria identità.

Riconosco al suo seguito l’ombra di una ragazza minuta che, intimidita, saluta i presenti e mi ringrazia per l’ennesima volta... come se non bastassero i ringraziamenti di cui mi ha inondato nei giorni scorsi: «Non ho parole per quanto hai fatto, non ti sarò mai riconoscente abbastanza.»

«Non dire così... In fondo, non ho fatto nulla di speciale: ti ho solamente raccontato ciò che era giusto sapessi.» dico stringendole la mano ossuta identica a quella di suo fratello, mentre lei di rimando sorride dolcemente: «Per farlo però sei venuta a cercarmi fino in capo del mondo!»

«Bé, ero già in aeroporto per prendere un volo, ho solo fatto, come dire... una piccola deviazione!

Come ti ho detto, Jay per me è un amico speciale, una perla rara, generoso, altruista, per cui una volta tanto ho voluto fare io qualcosa per lui.»

Sin da quando mi parlò del suo ato e di ciò che avvenne il giorno in cui il padre morì, rimasi così profondamente colpita da tutto quel dolore che mi ripromisi che prima o poi lo avrei aiutato. A vederlo sempre allegro non si sarebbe mai detto quale enorme sofferenza celasse dentro, e per di più senza motivo.

«La felicità di Jay per averti ritrovata e per aver chiarito con te ogni cosa» riprendo «è per me l’unico ringraziamento.»

«Vorrei fare un altro brindisi!» annuncia allora Sakura lottando contro la sua timidezza.

«Ai fratelli ritrovati!» esclama cingendo la vita di Jay che, alzando il suo bicchiere, a sua volta aggiunge: «Alle sorelle “di sangue”... e a quelle “di cuore”.»

Mi guarda con commozione, facendo ben intendere a chi si stia riferendo: ci risiamo, ho di nuovo i lucciconi agli occhi.

Deglutisco, prendo fiato e chiedo anch’io la parola per il mio brindisi.

«Qualcuno un giorno mi raccontò una leggenda: narra di un filo rosso che unisce i cuori... ed è proprio a questo che vorrei brindare.

Al filo rosso che ha congiunto due anime gemelle, Emma ed Esteban.

Al filo rosso che ha riunito due fratelli lontani.

Ed infine, al filo rosso che ha riportato da me Leonardo.» annuncio girandomi verso mio marito che è a dir poco raggiante.

È lì che mi sorride e mi guarda con occhi più innamorati che mai.

Lo conosco fin troppo bene ed intuisco che non riesce più a trattenersi: «Il nostro filo rosso, quello che ci terrà legati per sempre, presto avrà anche un nome: lo sceglieremo quando vedremo il suo bel visino per la prima volta.» esulta.

Nel salone cala un silenzio surreale, seguito da un boato di ovazione e da tanti abbracci in cui mi sono ritrovata stretta. Il primo è stato quello di Jay, poi di Esteban, di Sakura ed infine di Emma che, tra le lacrime, riesce solo a dirmi: «Grazie. È il più bel regalo che avresti mai potuto farmi.»

Dopo che tutti si sono ripresi dalla lieta notizia, mi preme aggiungere a mia difesa un elemento chiarificatore: «Ecco perché ero diventata così emotiva e mi bastava un niente per piangere! Ed ecco soprattutto perché stavo ingrassando! Non era per via dei dolci di Esteban che divoravo... o almeno non del tutto.»

«A proposito di dolci!» se ne esce Emma «Ho fatto i miei famosi biscotti alla cannella!!! Chi ne vuole?» domanda mostrandoci entusiasta un vassoio stracolmo.

Oh Dio.

Chi con una scusa, chi con un’altra, ci dileguiamo tutti e facciamo finta di non aver sentito: Jay si toglie gli occhiali da sole per pulirli, ma in realtà è solo per intimare con lo sguardo a sua sorella di non avvicinarsi né ad Emma né a ciò che sta tenendo in mano; Leonardo corre in cucina a rispondere al cellulare che non

ha mai squillato; io mento dicendo di avere fortissime nausee dovute alla gravidanza.

È rimasto solo Esteban che, non so se ignaro o stoico, ha allungato una mano verso quei pasticcini canalizzando tutti gli occhi su di sé.

Vorrei urlargli di non farlo, ma la voce non esce e, fissa, guardo la scena come se stesse andando a rallentatore: lui che afferra un biscotto, lo guarda, lo rigira tra le dita e poi apre la bocca, ingurgitandolo per intero. Mastica, ancora, ancora e ancora vista la consistenza coriacea; si volta verso di noi, che lo aspettiamo risputare fuori almeno un paio di denti, ed invece ci spiazza: «Un po’ duretto... ma buono! Posso prenderne un altro?»

La prova del nove.

Mia sorella è trionfante, ora ha la matematica certezza di aver finalmente trovato il suo principe azzurro.

Fine