Feminae (vocativo Plurale) 6d64s

FEMINAE

(vocativo plurale)

Massimo Scalabrino

EDIZIONI SIMPLE

Via Weiden, 27 62100, Macerata [email protected] / www.edizionisimple.it

ISBN edizione digitale: 978-88-6259-686-2 ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-577-3

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Copyright © Massimo Scalabrino

Prima edizione cartacea ottobre 2012 Prima edizione digitale ottobre 2012

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Mi riporti quell’odore di ciliege il cammino tra le rupi mi riporti il tempo

sul filo di una spada come se le nostre tracce fossero i soli sogni la palpabile persistenza Come fosse vivo batte il mio cuore.

Immensamente

(Anamaria Del Re)

La genesi e l’uggia

Aveva quella che si potrebbe definire una sensazione di uggia, di certo non era stanchezza. Sapeva che non sarebbe stato un lungo sonno a renderle un minimo di serenità, sapeva benissimo che se si fosse assopita avrebbe avuto al risveglio un gran mal di testa.. Percepiva uno strano malessere, non localizzato, nemmeno tanto fisico, che tuttavia la rendeva pesante, sfaccendata, incapace di riprendere in mano le poche cose che le restavano da fare. Come quando uno è assalito da un potente raffreddore che arrivato al culmine tiene impegnate tutte le proprie facoltà reattive. Poi il pensiero di quelle due bimbe le creava uno stato di profonda ansietà. Bimbe ! Di certo non lo erano più tanto. Se le fosse stato possibile avrebbe voluto dimenticarle almeno per qualche attimo. Così incostanti, così strane, con una mutevolezza di carattere impressionante. Non poteva assolutamente contare su loro. Le sue gemelle! Così assomiglianti al loro padre, con qualche guizzo, si diceva del nonno materno. Pover’uomo, le ragazze ne parlavano spesso del loro babbo e non l’avevano mai conosciuto; per di più molti pensavano che non esistesse proprio! In verità anche lei, di suo padre ne aveva sentito solo parlare dalla mamma e mai con molto affetto. Di certo sua mamma, così bella, così raffinata, libera e luminosa, non era stata fortunata: già, ma quant’era che non la sentiva, non si telefonavano neppure… oddio.. gran che non si erano mai dette, soprattutto poi quando si era opposta con tanta violenza al suo matrimonio. Quanta ragione!…se avesse avuto il coraggio di darle ascolto! Ma come si fa! S’era innamorata come può farlo una ragazzina…il primo amore, e non aveva capito più niente, non aveva voluto più vivere senza di lui. Ricordava quando lo aveva presentato alla mamma, che già prima di incontrarlo aveva voluto sapere tutto di lui, quasi a farsi confermare un sospetto che le era venuto sulla personalità del suo amore: ma lei non aveva saputo raccontarle nient’altro se non della sua bellezza, della sua imperscrutabile intensità. Così sognando non capì, non si rese conto dello scatto d’ira della mamma quando lo conobbe, quasi lo avesse riconosciuto. Ed ancora le restava inspiegabile quella frase, che in un misto di rabbia e di disperazione, riuscì a gridarle in faccia, non appena se lo ritrovò davanti.

Quello “stupida” urlato con cattiveria, e guardandola fissa negli occhi… “..non vedi come assomiglia a tuo padre, vuoi essere infelice come lo sono stata io?” E quel violentissimo sbattere di porte, quell’urlo incredibile della mamma… no, il suo matrimonio non ebbe la benedizione di sua madre. Quanto al babbo non si fece vivo neanche in quell’occasione. Nella sua memoria sfumava l’immagine di suo padre. Forse l’aveva visto qualche volta, da piccola; o l’aveva intravisto nel mondo che sua mamma a volte, ma molto raramente, le descriveva, lasciandosi quasi andare con nostalgia a parlare di lui. Era, pare, o era stato, il suo babbo, un personaggio molto potente. Chi ne parlava lo faceva con grande rispetto ed a volte con grande paura. Non c’era mai, eppure si diceva che fosse a conoscenza di tutto ciò che accadeva; alcuni poi dicevano, i più tifosi, che lui sapeva le cose prima che accadessero. Era molto più vecchio della mamma, e sinceramente non aveva mai capito lo strano rapporto che c’era stato tra loro. Nei momenti di buona, la mamma parlava di lui come un padre, forse per la differenza di età, raramente come marito, mai con parole d’amore vero, da innamorata. La sua sorpresa fu quando trovò, in una cassapanca in soffitta, quella curiosa lettera di suo padre; la cosa che di più la colpì fu la bellezza della carta, la chiarezza, si disse, la luminosità della calligrafia e poi il testo della lettera! Scriveva alla mamma chiamandola “amore mio” ed a volte “ figlia cara”. Dopo tanti anni ricordava a memoria quella lettera, che aveva letto e riletto cento volte senza capire perché amandola tanto l’aveva lasciata sola, con lei bambina così piccola. Rivedeva se stessa, seduta in soffitta su una pila di vecchi giornali rileggere quella strana, luminosa lettera di suo padre che diceva così. “ Energia, amore mio, puoi pensare che sia stato facile per me, dopo averti pensata, essermi così perdutamente innamorato di te: anche per me pensare non vuol dire vedere. Infatti solo dopo averti pensata e poi creata ti ho vista ed ho capito a fondo la tua straordinaria, potente e splendente bellezza. Così contravvenendo alle mie stesse regole, non mi è stato possibile non amarti profondamente. In tutta la mia esistenza nessuna creatura sarà bella come te. Figlia mia, se dovessi ancora viverti vicino, la tua forza s’imporrebbe a me stesso, e dal momento che sai chi sono destinato ad essere, non posso che lasciare la tua vita ed il mio amore nelle tue mani. Avremo una figlia. Avrai cura di lei, perché se da un lato sarà rappresentazione di te, è anche e soprattutto mia figlia. La chiamerai Materia,

sorvegliala con amore materno perché di lei è l’universo. Ti bacio, per sempre, tuo Dio.” Così si firmava mio padre, Dio. Io non credo di averlo mai conosciuto, ed a tutt’oggi non so se sia mai esistito. Di sicuro mia mamma Energia non ebbe torto ad irritarsi quando conobbe Tempo, il ragazzo di cui mi ero innamorata, se aveva da subito intravisto qualche somiglianza con Dio e aveva capito quanto mi avrebbe resa infelice. Tempo era bellissimo, anche se un po’ sfuggente. Era senza età, e sembrava che gli anni non potessero mai intaccare il suo volto di fanciullo. Le sue burle erano atroci, soprattutto nei travestimenti esprimeva il meglio di sé. La mamma si spaventava tanto quando lui le appariva d’improvviso, nelle sembianze di un vecchio carbonaio, sporco non solo nella pelle e nei cenci, ma nello sguardo ambiguo e cattivo. Fu così che lo conobbi. Ero appena uscita dal collegio delle Orsoline, quando, alla mia prima festa di carnevale, mi si presenta un vecchio mendicante che sul piattino delle elemosine invece degli spiccioli aveva messo un biglietto su cui aveva scritto di fargli la carità ..di un ballo! La cosa mi fece sorridere ed accettai. Ballava benissimo! Subito dopo quel ballo ricomparve vestito da principe azzurro, bellissimo e m’ invitò per ballare un lento. Quando ci si metteva Tempo era lentissimo: tanto lento ed avvolgente…era il mio primo ballo, dopo anni di scuola alle Orsoline. Senza precauzioni e chi le conosceva! Restai subito incinta. Furono mesi bellissimi, fino alla nascita delle due gemelle. Benedette ragazze con quella sorta di follia. Senza un padre vicino: il loro babbo scomparve nel vederle, leggendo cosa aveva scritto sulla culla la mia mamma che voleva si chiamassero una Vita e l’altra Morte. Tempo mi telefonò dicendomi che già era incerto sulla propria esistenza, ma poi l’idea di aver fatto nascere Vita e Morte lo terrorizzava. E se ne andò per sempre. Non so cosa Energia veda in loro di somiglianza col nonno o con il padre, certo è che la loro irrequietezza è sublime. Non hanno assorbito nessun principio morale, sanno essere dolci e terribili a capriccio, senza senso alcuno. Vivono in questa casa come se non ci fossero. Delle due non saprei quale scegliere perché sono uguali nella scelleratezza e nella tenerezza. Non si sa mai se tornano per il pranzo o per cena e spesso la sera mi tocca aspettarle fino a tardi. Ed ecco che, per colmo della noia sta cominciando a piovere! Nel riprendere in mano il lavoro a maglia pensò che anche oggi sarebbe stata un giornata uggiosa.

La profondità del sentire

Francamente può non sembrare possibile! Certo appare molto dolce, pieno di sentimento, romantico, ma volendo anche un poco ridicolo. Se poi la cosa si sa in giro, troviamo solo un piccolo gruppo di persone disposto, conoscendo i personaggi, o meglio, di uno avendo una lontana memoria e dell’altro la simpatica sensazione che possa ospitare nel suo cuore un pizzico di follia, disposto si diceva ad accordare alla storia un sorriso di benevola accettazione. Altri potranno pensare che si sia voluto inventare una curiosa vicenda nella quale i personaggi, così diversi fra loro, così singolari, vengano fatti incontrare per dar vita a qualcosa d’insolito per suscitare un vago desiderio di sorriso di fronte ad un “amore” infantile, mai dimenticato, mai nascosto e mai ritrovato. Tutto ciò perché siamo abituati a considerare come reale l’ordinario, l’abitudine, e quello che non lo è ci mette in tale stato di agitazione da costringerci a colpevolizzare l’evento diverso, prendendo a prestito dal consueto codice del perbenismo leggi di comportamento così lontane dal nostro sentire da sembrare nella loro stupidaggine, veri e propri monumenti ad un innaturale e doloroso imperativo morale. Nell’ascoltare il dipanarsi del racconto, quasi prima che questo cominci, a riprova di quanto detto poc’anzi, si potrebbero invertire sul piano fisico alcuni termini del problema, e tentare un’analisi arrovesciata dei personaggi. Se la donna anziana fosse stata un uomo e l’adolescente maschietto una femminuccia, chi non sarebbe disposto a vedere nella storia un risvolto lolitesco, e addirittura riscriverla, magari con particolari pieni …di particolari. Dotati di buona memoria ci sovviene, neanche fossimo Alberto da Giussano, un proverbio latino che più o meno recita come il discolparsi senza necessità sia un po’ come auto colpevolizzarsi! Arrivato o meglio superata la metà della sua vita, il protagonista di questo racconto si accorse che dalla memoria dei suoi innamoramenti emergeva una sensazione di vuoto, come se vi mancasse un momento, un riscontro; e più ancora, gli amori vezzeggiati nel ricordo si sentissero quasi orfani, come se tra loro ne mancasse uno, l’originale, quello che nel tempo li aveva plasmati e fatti riconoscere.. Chiamarlo “ amore “ non era facile, e dato il contenuto e l’abito

che diamo di solito a questa parola, mal si addice all’insieme di sensazioni che nel corso degli anni la memoria tendeva a ricomporre. Tuttavia non sarebbe sbagliato rivalutare questa espressione approfondendone i contorni ed i contenuti per ridarle il suo senso più originale. In fondo nessuno sa cosa vuol dire “amore”. Parola di misteriosa origine: potrebbe essere nata a-more, da -morsmortis- come morte, stando a significare la sua eternità, senza morte. Chi ama non muore mai. Oppure a-more. Da -mos moris- come costume, legge, morale, non esiste limite all’amore e all’amare. Chissà?! Proprio per evitare che essa si possa applicare a stereotipi di comportamenti dove alla fine si potrebbe identificare in atteggiamenti mentali e fisici che stanno all’amore come la carta stagnola sta al cioccolatino. Conviene che si descriva questo straordinario personaggio di donna, la quale, così per raccontare, ad un certo punto della sua ultima malattia, decise che il colore e l’odore delle medicine prescritte per alleviarle il dolore non erano più di suo gradimento; quindi alzatasi dal letto le rovesciò tutte in un piccolo catino, augurandosi che il catino stesso non ne soffrisse, perché quel miscuglio era pestifero! Per quanto la riguardava preferì una cucchiaiata di ragù e una fetta di prosciutto! Come agli antichi etruschi quando addobbavano i sepolcri con grano ed altre vivande, lei se ne partì con questa piccola e gustosa scorta per il suo più lungo ed apparentemente ultimo viaggio. Al nostro disperato diciassettenne ragazzo, di fronte per la prima volta nella sua vita all’incomprensibile atto della morte, non restava che sedersi sullo scalino più freddo di una lunga scala di marmo e sfogare il suo solitario e profondissimo dolore, in un pianto dirotto. Da quel momento in poi non ci fu che il ricordo da custodire o meglio da coltivare, non perché fosse un oggetto da museo, ma attraverso un’introspezione continua potesse ricercare tutti quei chiarimenti che, se da un alto mantenevano viva l’immagine di lei, dall’altro andavano scoprendo la vera essenza di un rapporto basato su una affascinante simpatia. Ora sul suo tavolo di settantenne, più o meno ben portante, tra libri antichi, pipe, candelabri e tra altre foto, giganteggia una sua immagine fotografica che la ritrae ventenne, nei primi anni del novecento, con un indescrivibile vestito pieno di lacci e fronzoli, il lungo collo scoperto, le labbra molto belle, piene, chiuse in un muto sorriso più che altro ricordato che visibile. Il dato fondamentale del suo essere era una dolce continua allegria ed una totale disponibilità di carattere verso il mondo, il tutto miscelato con una originale e sincera generosità.

Scoperta nel nipote una vena social-comunista e visto il suo accanimento giovanile nell’affermare le sue convinte idee, decise di farlo miracolare e se lo portò dietro per tutti i santuari d’Italia, non trascurando alla sera, nei dopocena, di erudirlo ai segreti del poker, nel quale lei era insuperata maestra! Chi avesse potuto, in quelle sere di primavera infilare il suo naso tra i vetri di quella finestra di quell’albergo di Assisi, avrebbe assistito ad un incontro all’ultimo bluff, in mezzo ad improvvisi scoppi di risa, tra quel mingherlino di un nipote che si divertiva da matti con quella adorabile matta di una nonna! Ma quello che lo affascinava di più era il sentirla raccontare dei suoi viaggi, di quell’America dei primi del novecento, vista con gli occhi di una ragazza che si era ritrovata a Boston dopo due tempestose storie d’amore. Vi aveva vissuto con il suo secondo marito, accompagnandolo in una lunga tournèe per i teatri delle grandi città americane, applaudito tenore. Parlava spesso del suo amore per Alfredo, suscitando sempre una punta di gelosia, per quel brillio degli occhi, quando il racconto s’ inteneriva nel riproporre, come attuali, sensazioni e sentimenti che da tant’anni riposavano vivissime nella sua memoria. E il ragazzino seguiva questo raccontare, concentrando la sua attenzione sulle mani grassocce e piene di efelidi della nonna che, nel loro muoversi, sembravano disegnare scenografie così care e familiari, sempre lì, pronte per essere nuovamente accarezzate, testimonianze attive, cornici mai dimenticate di momenti assoluti dai quali traeva non solo spunti per una fiaba dolce e romantica, ma insegnamenti decisivi sul come gli attimi di amore vadano vissuti con assoluta profondità perché possano essere strutture portanti di tutta una vita. Come se amare una persona, amarla intensamente fosse l’unica ragione per dare come vissuta la vita. Erano questi giorni trascorsi in viaggi con la nonna su e giù per l’Italia, progetti di vita, insegnamenti ineguagliabili, semi di profonda esperienza gettati nel fertile terreno di un diciassettenne curioso e divertito, affascinato e innamorato di questo donnone, pieno di slanci giovanili, di fresche invenzioni che improvvisamente, e spesso, frugando nel guardaroba dei suoi ricordi se ne usciva con piccoli capolavori di vita che altro sembrava non chiedessero che di essere ripetuti all’’infinito. Si dovrebbe poter racchiudere i ricordi in piccoli globi di cristallo unendoli con una catenina di platino e così assicurati farli scorrere tra le dita, in una specie di preghiera propiziatoria agli errori futuri. Ma, forse, errare consiste nel considerare certi momenti della vita come appartenenti al ato, mentre il più delle volte sono più presenti di un qualsiasi presente. Che pensare dunque se non ritenersi fortunati per aver vissuto come si è vissuto, riuscendo a superare futili

barriere, muri invalicabili creati da pregiudizi feroci e stupidi riconoscendo a se stessi, pienamente, le fonti delle proprie origini. Se amare è essere affascinati da un caleidoscopio di illuminazioni che suscitano in noi stessi una profonda capacità di sentire, perché vietarsi un tale riconoscimento legandolo a differenze di età che trovano riscontro solo nella penna di un qualche acclamato poetastro, finito nelle antologie della vita solo perché ne ha saputo esaltare un solo attimo, relegandovi, imprigionandovi un enorme potenziale di sentimenti. Con il buon successivo risultato di inaridire il resto della vita oscurando ogni possibilità di nuovi risvegli, identificando il concetto di amore o di innamoramento in una serie di atti fisici come fossero un esercizio di matematica che per essere tale debba rispettare precise regole. Il seme lasciato in quelle serate ridendo e giocando a poker ha creato radici profonde, sotterranee, costellate di lenti di ingrandimento sotto le quali sono facilmente visibili e riconoscibili le chiavi delle serrature che aprono possibilità di esistenze oltre le cui porte il vivere appare in una luce reale, né di morte o di vita, ma di continua progressiva trasformazione senza ato e senza futuro, in una sorta di non interrompibile presente in cui l’unica cosa che splendidamente cambia e matura sia la propria capacità di sentire. Se allora avesse saputo e potuto essere pronto avrebbe capito quello sguardo, quegli occhi verdi grigi che si posarono su di lui come una carezza quando lo sorpresero nella loro ultima estate, proteso ad accarezzare quell’incredibile bellissimo gatto sconosciuto.

Una tenera carezza ad un gatto sconosciuto

Una foto li ritrae insieme in piazza del Popolo, di fronte alla farmacia Centrale. Sullo sfondo s’ intravede la vecchia chiesa col suo porticato leopoldino, neoclassico di metà ottocento, abbattuta negli anni del novecentosessanta dalla furia ecumenica di un prete che si trovava stretto in quella delizia architettonica, e si fece costruire un ibrido miscuglio che assomiglia ad un bowling ed a un curioso diurno, con tanto di mattonelle blu e bianche. Avrà così pensato di aver dato vita ad un autentico e moderno duomo, che la cronaca di oggi chiama, addirittura, cattedrale. Sembra che non fosse solo quello che la città fu costretta a dimenticare di quel protervo prete, e poi ci si dimenticò della vecchia chiesa con la nuova che troneggia in tutto il suo orrore. Ai nostri due ragazzini ritratti in quella foto dell’estate del millenovecentocinquantuno (scriverlo per esteso sembra meno lontano) della chiesa sullo sfondo non importava gran che; stanno camminando tenendosi per il mignolo con un’aria molto sorpresa, quasi che improvvisamente, nel loro parlottare amichevole, si fosse introdotto un estraneo che li avesse colti nell’attimo in cui lei, soffuso il volto di dolce rossore, diceva che “ anch’io te ne voglio e tantissimo”. La foto è naturalmente invecchiata e sgualcita: lui vi è ritratto con i pantaloni corti, scarpe marroni e bianche, un gilè di cotone, una cravatta molto chiara. Ha i capelli tagliati corti, da bambino per i suoi diciassette anni. Lei non sembra molto carina…che eresia! Lunghe trecce castano bionde sulle spalle, una gonna tutta scampanata, una camicetta bianca con ricamo sulla tasca, calzini bianchi e scarpe, come lui, bianche e marroni. Del suo volto non si vedono gli occhi, grandi, profondi come velluto, non si riconoscono i lineamenti del viso, dolcissimo, la morbidezza di quel sorriso che divenne colonna sonora dei tanti ricordi di quei giorni unici, irripetibili, di scoperte continue. Era quello il secondo anno in cui i suoi genitori avano parte delle loro vacanze in quella beata, allora, cittadina termale.

Nel ricordo tutto l’insieme appare reale, vivissimo come se il tempo anziché sbiadire ne rimarcasse i contorni, i colori. Anche la vita della gente appariva più vera: a nessuno sarebbe venuto in mente di pavoneggiarsi perché il proprio commercio di mutande o quant’altro, andava particolarmente bene; così la cittadina, le sue strade non assomigliavano, come oggi, ad una imbarazzante e volgare sfilata di bancarelle negozi da mercatino. Certo allora le mutande servivano solo da mutande e non da transfert per incredibili quanto ridicole affermazioni di personalità. Essere a seconda del tipo di mutanda indossata, mostrandone il nome del produttore, sarebbe apparso ridicolo, così, d’altronde, checché se ne dica, lo è oggi. Inoltre c’è da annotare che gli amministratori locali, non assurti al ruolo di urbanisti, col pallino dell’arredo urbano e via dicendo, non s’erano ancora permessi, se dio vuole, di tagliare gli alberi ai lati delle strade; si poteva ancora eggiare tra le case e il profumo degli oleandri. Affidare la propria libertà al modello di mutanda indossata! Spendere per un paio delle stesse tanto denaro quanto ne occorre per una buona edizione della Divina Commedia ! Caro Dante, sei stato servito! E con te è stato servito il vivere tra gli alberi, lo svegliarsi a primavera con il profumo delle prime gemme. Ora lungo le strade fioriscono le automobili, solo quelle dei clienti di chi amministra le zone blu. Per un po’ vivremo di colori astratti, il verde al posto degli alberi, il blu al posto di un po’ d’aria buona da respirare. Giustamente, a questo punto, i due ragazzi saranno usciti dalla cornice della fotografia, perché questo tipo di futuro era per loro, e non solo per loro, non immaginabile, ma inutile, come ora trasformato in presente per chi lo vive. Infatti eccoli qui lungo la pineta, mignolo con mignolo, parlottare e ridacchiare guardandosi negli occhi, affondando dolcemente in pensieri così esclusivi, così totalizzanti da isolarli da tutto in questa loro ricerca e scoperta di se stessi. Nel parlarsi, nel discorrersi chiedevano ai loro pochi anni cos’era che li assaliva con tanto rossore, con tanto impeto, quasi che le loro giovani vite fossero scosse da memorie lontane appartenenti ad un ato non loro. Ma com’era possibile, se fino a poco tempo fa, sdraiato sul tappeto di camera sua, movendo le sue truppe di soldatini, fiondandole con rotolini di carta lanciati da un elastico teso tra il pollice e l’indice, si divertiva e giocava alternando vittorie e sconfitte…com’era possibile essere ora, qui, per mano a questa ragazza, rimescolato completamente da un mazzolino di strane voglie, di pizzicori, di bocca secca, di ..santo cielo! Che belle labbra che hai!…. Voglio essere a Lugano, pensava lei, voglio guardare il lago, calmo, senza vento,

eggiare sulle sue rive….ho mai sognato un momento così felice ?!… A destra, per arrivare ai campi di tennis c’era un piccolo ponte, sotto cui si poteva are, un po’ in ombra, fuori dagli sguardi dell’universo. E qui, il mignolo intorpidito cedette il proprio teatrino alle altre dita. Mano nella mano, braccio contro braccio, con la soavità di una piuma che atterra, uno appoggiato all’altra, non più in grado di capire se non la morbidezza del suo seno, appena percepito, con la fragranza tutta di chewin gum del suo alito e la dolcezza viva palpitante di quelle labbra che, ma perché, si schiudevano sotto la pressione delle sue. Quante volte aveva visto al cinema come ci si baciava, e ora le immagini sfumavano al tintinnio dei denti, appena appena, fino a che le lingue si davano un bacino d’incontro, timide interpreti di un caleidoscopio di sensazioni, in cui si alternavano…Catullo?! Ma come ti viene in mente…si linguam clauso tenes in ore.. le note del Chiar di luna…; ma, colpo di spugna sulla lavagna emerge questo affondare di saliva umida, salata da due grosse lacrime che testimoniavano una crescita improvvisa, nel calore di una bionda peluria sul collo, su cui mormorare tutte le promesse impossibili di tutto l’amore del mondo. Quello stesso pomeriggio, applaudito ed incoraggiato dallo sguardo tenerissimo di Claudie, lui vinse, con un secco 6-2, 6-0, un compagno che prima non era mai riuscito a battere !! Con i capelli ancora bagnati dalla doccia, e lei così palpitante, si gettarono giù per la discesa nella pineta, di corsa verso casa, fendendo, con la propria allegria, una fetta di vita. E’ inutile cercare di ricordare quanti giorni arono fino alla partenza di Claudie. Non si può dire che l’Elide e la Luisa fossero due donne di servizio. Erano per lui due persone che vivevano lì, con la sua nonna, e che giravano per casa con un grembiulone nero e sopra uno piccolo bianco. Tra se e se si divertiva a sentirsi quasi spiato, anche se non capiva bene cos’era che suscitava tanta ilarità. In fondo lui era quello di sempre, con il suo mondo di sempre, nel quale tuttavia più si avvicinava a Claudie più si sentiva come uno sperduto marziano. Fra le tante come dimenticare l’uovo nel brodino?! E quel bisbigliato “ ma saranno poco bellini quei due…” Era la Luisa che lo accudiva nel mangiare, e insieme all’Elide si raccomandava con un “ ci vole, sai, l’ovo, nelle tu’ condizioni sa da essere in forze, belli su…” e ridacchiava con quel suo culone toscano su cui troneggiava il gran fiocco bianco del grembiule.

Di quei giorni non c’è quasi più niente nella memoria, non più particolari coloriti o ricordi di momenti, di gite in bicicletta, niente se non dell’ultima sera, dell’ultima volta di Claudie. Lei si batté tutto il giorno con i suoi genitori per non andare con loro a teatro, ne discussero con forza ma educatamente, finché non promise, era il millenovecentocinquantuno (continuiamo a scriverlo per esteso) che alle nove e mezzo avrebbe augurato la buona notte e sarebbe salita in camera sua. Erano giusto le nove e mezzo di quella sera di fine agosto quando lui bussò, piano piano, alla sua porta. Prima uno spiraglio di luce, da cui si intravedeva una camicina di lino, poi la porta lentamente si apriva e nel tenue chiarore di una abat-jour, una dolce meraviglia con i capelli sciolti sulle spalle, un profumo buono di lavanda, una mano tesa. Prendendola entrò nella vita chiudendosi la porta alle spalle. Parlarono? Non si ricorda: forse parlarono, dicendosi parole prima mai dette e mai sentite, inventandosi grammatiche, lessici, tutto. Chi cominciò dei due non ricorda: ecco potrebbe esprimere quella sensazione prendendo a prestito la luce del sole, dall’alba a mezzogiorno, dalla sua più tenue luminescenza che soffusamente imbianca e colora la valle fino alla luce profonda, assoluta, che illumina ogni cosa e di ogni cosa rivela l’essenza. Si avvicinarono l’uno all’altra con grande timore, quasi non sapessero cosa stessero facendo, con la sottile penetrante ansietà che avrebbero potuto farsi del male, non essendo abituati ad ascoltare se stessi. Si accarezzarono a lungo, profondamente, in un oblio di suoni, come fossero cullati, foglie sull’oceano, dalle onde del mare. Si amarono con la timidezza, con lo stesso timore con cui un piccolo bimbo si avvicina ad uno stupendo gatto addormentato e, tremando, con la sua manina grassoccia, comincia lentamente ad accarezzarlo. Così lentamente sfumano le immagini di quella sera di fine agosto, sempre presenti, vive, indimenticabili, pronte a riproiettarsi ogni qual volta l’animo abbia bisogno di una boccata d’aria fresca. Cosa successe dopo? Si scrissero per tanti anni, come due apionati amanti, come due innamorati, come due buoni amici, poi le Pasque, i Natali, poi vivissimo il ricordo.

Ritrovarsi, per lettera

Il carteggio del Leopardi raccolto dal Gabinetto Viesseux, esposto alla Laurenziana, suscitava la curiosità piena e maliziosa, di rendersi finalmente conto se l’uomo, il poeta, che gli era stato così antipatico fin dal primo approccio, avrebbe rinverdito, ad una attenta visione della sua grafia, ogni avversione, ogni contraggenio. C’era tutto il suo perché. Fin da piccolo riteneva di essere una creatura semplice: gli si poteva dire ogni cosa e vi avrebbe creduto; perché mentire, si chiedeva. Ma soprattutto credeva nella gioia di vivere, nelle corse all’aria aperta, e se per caso una notte d’estate si fosse trovato a contemplare, sdraiato su un prato, un cielo pieno di stelle, non avrebbe fatto altro che sorridere e ridere di fronte alla grandezza e magnificenza di ciò che gli capitava di vedere. Non soffriva di malinconie o di nostalgie; e come avrebbe potuto a sedici anni, o giù di lì, essere imbrigliato da una educazione così straniante alla bellezza della vita. “Potessi ritornar giammai, ballatetta, in Toscana…” Assai prima del Leopardi. E vai!, ovunque, anche perché di tanto non ti allontani, senza quel rimescolio continuo per le cose perdute, gli amori non amati, le terre abbandonate, quel continuo piangersi addosso che alla fine ti rivolta contro te stesso e ti fa sentire trasgredente se non ti adegui a quel continuo vorrei-ma-non-posso. Con l’andare del tempo si era poi convinto che tutto questo piagnisteo, questa identificazione dell’uomo a seconda dell’età raggiunta, per cui l’adolescenza si dovesse esprimere attraverso manifestazioni sentimentali sulle quali nel corso della vita si fosse obbligati a ritornare, provandone nostalgia: la giovinezza, i vent’anni, che già sfuggivano di mano con la loro inebriante gioia, mentre lì si viveva, e, giovani Werther, si rimpiangevano come mitologici tempi ati per arrivare come fulmini a “ed è subito sera”, in fondo alla vita, non avendo fatto altro che rimpiangerla. Ecco, pensava, che tutto questo non fosse altro che un piano ordito da una mano infernale che avesse voluto asservire l’uomo ai suoi fini. Quasi a dire – attenzione, la vita che voi state vivendo è stupenda, ora vi insegniamo come si fa a non viverla-, e giù tristezze, lacrime di malinconia, nostalgia.. Perché “sempre caro mi fu quest’ermo colle..” e non “sempre caro mi è quest’ermo colle..”

Povero Giacomo, quanta superficialità nel leggerti, addirittura nel giudicare le tue sudate carte, quanta incomprensione per le tue fatiche che emergono dai testi che stanno scorrendo sotto gli occhi del tuo lettore, stupito e ammirato dalla tua grafia regolare, asciutta, senza guizzi, forse elegante, formale, allineata, e qua e là, corretta. Quante lettere, già quante lettere aveva scritto anche lui, e mandato per il mondo, inseguendo, come no!, i suoi tanti amori. Ricostruire un proprio epistolario! Ed esporlo alla Laurenziana! E fuori, in San Lorenzo, una coda infinita di persone che attendono, magari sotto la pioggia, di poter entrare per gettare uno sguardo distratto ai suoi carteggi, e poi sentirli dire…ho fatto due ore di coda, ma ne valeva la pena! Sono rinfrancato. Ho letto parole piene di gioia, bello, capire così la vita… E cosa mai avrebbe dovuto scrivere per ottenere un risultato così esaltante, così eclatante. Le sue erano, o avrebbero voluto essere solo lettere d’amore. Aveva scritto, ed a lungo per molto tempo, nell’illusione che attraverso le sue ripetute parole, avrebbero potuto continuare a vivere quegli attimi solari, che, uno per uno, gli avevano dato tanto calore da illuminare più di una strada. Adesso riesce a riviverle così. Allora, confessiamolo, esprimevano accattivanti malinconie, pur tentando una sorridente visione ed una forse sofferta scorrevolezza! Non saprebbe decidere così, su due piedi, se gli dava più piacere lo scrivere, dare il via alla fantasia, oppure attendere le risposte a volte commosse, a volte deludenti perché le loro attese avevano creato scenari sentimentali del tutto diversi. Confessarlo ora con una punta di rimprovero sulle incertezze degli obbiettivi. Se voleva essere di nuovo con Claudie, in piena trepidezza di sentimenti, o con Jnga, nello scambio di importanti riflessioni sui modelli e sui modi con cui la vita scorreva sotto le loro penne, o le lettere con Gioia, che avrebbero portato la sua esistenza verso porti impensabili allora, ecco tutto questo rincorrere sensazioni e sentimenti, questa ricerca di testimonianze aveva altri scopi se non quello di ritrovarsi, magari raccontarsi sotto forma di lettera. Di certo allora sperava che avrebbe potuto rileggersi a distanza di tanti anni per cercare di capire, di riconoscere i suoi primi turbamenti, di vedere nella giostra delle parole cosa si aspettava, come stava costruendosi quel futuro che stava per vivere. Ripercorrersi.

Non per trovare una giustificazione ai risultati dell’oggi, o per trovare avvocati alla difesa, nemmeno per riviversi, ma per aprire un nuovo dialogo con se stesso, per orizzonti sempre nuovi. Fino in fondo. Per la certezza che essi non possono che nascere da antiche radici. Andar per tentativi e rievocarsi: una camera ad un piano terra da cui si può accedere ad un giardino. Un armadio di noce, chiaro, moderno, un tavolo di acero bianco. Libri, fogli, giornalini, quaderni di scuola, ricevute di versamenti all’università, alle spalle un letto disfatto ed una piccola piramide di vestiti. Dalla finestra semi aperta entra l’aria dell’alba con i primi rumori della città: bisogna fare piano perché in casa dormono tutti, e dormiranno per diverse ore. Non si può accendere il giradischi, neanche tenendo il volume basso, si può leggiucchiare qualcosa, studiare – ma perché sprecare un’alba così bella?- o scrivere, anzi amore mio, ti scrivo. Ti scrivo di quello che è successo mercoledì. Ti ricordi ! Dopo la telefonata di lunedì sera, rimasi in casa e tentai di studiare fino a mezzanotte: In realtà stavo contando le ore, i minuti ed i secondi che mi separavano da te. In questo conteggio organizzavo meticolosamente la mia vita, la nostra vita, per le prossime ventiquattr’ore. Anche se frequenti le partenze dei miei per Roma sono piccole manne piovute dal cielo, perché mi lasciano, anzi ci lasciano la casa libera e possiamo giocare ai due che vivono insieme…anche se fino a mercoledì nel giuoco il nostro amore era stato un compagno piccino, pieno di piccoli pudori e di ansie, di scoperte e di bacini. Poi mi hai telefonato che ti avevano spostato l’ora di danza e che fino alle cinque non saresti stata libera, allora ti dissi che sarei venuto io, in Santa Croce, a prenderti, a scuola. Così per non farmi aspettare in lambretta sotto l’acqua, infilasti l’impermiabile sopra la calzamaglia, senza rivestirti. Sento ancora le tue mani intorno alla mia vita, il calore del tuo corpo appoggiato alle mie spalle, il tuo odore di un’ora di danza, penetrante, pulito, più forte dell’odore della pioggia, della strada. Mi dava uno stordimento incredibile, e quando mi hai abbracciato, nell’ingresso di casa, quel tuo profumo mi ha assalito e vinto. Amore, ti chiedo e mi chiedo, dov’era la casa, i suoi mobili, le luci, i suoni della strada…mi chiedo e ti chiedo dov’era finito tutto questo quando, sdraiato vicino a te, ti accarezzavo e per la prima volta la tua pelle ambrata sbocciava tra le mie

mani ! Ecco, dov’era finito il mondo?, e con lui le nostre ansie, i nostri discorsi, i nostri progetti!? Così a distanza di poche ore la mia bocca sa della tua bocca, del tuo corpo e ovunque guardo e mi giro vedo il tuo viso velato di un leggero sudore, i tuoi occhi ridenti e profondi…e il tuo sorriso che si è impresso nella mia memoria perché in esso esprimevi con infinita dolcezza i teneri piaceri di quelle ore. Noi vivremo sempre insieme, vero amore, fino alla fine, abbracciati come lo siamo stati quel mercoledì, perché ci amiamo, perché ti amo e non potrei mai dimenticarti, perché la mia vita sarà tua….. Ripercorrersi. Rivedersi, forse. Capitò molti anni dopo, troppi, e si rividero. Ma fu solo lui a riconoscerla: subito lo sguardo, così intelligente, così vivo. Poi la figura slanciata, elegante. La riconobbe e si fermò, guardandola avanzare fino a che non gli fu vicina e lei, senza neppure notarlo, gli ò accanto attraversò la strada, con quel suo o sicuro. Ancora molto bella, ne riassaporò il profumo, socchiudendo gli occhi, in un pomeriggio pieno e ricco di sole.

Perché ti amo

Un ottobre avanzato. Il cielo coperto da grandi nuvole bianche, pomeriggio calante, a piedi sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. Il mare nel suo cupo grigiore, rotto dallo schiumare bianco, sembra più minaccioso. L’arenile deserto, frammenti di cose, tronchi di alberi levigati, lisci e lontano la pineta battuta da un vento cattivo, che trasporta acidità ed uccide. Se non avesse un ricordo letterario e romantico di questo posto potrebbe dire che sta eggiando lungo lo scarico di una gigantesca lavastoviglie. Tant’è. I suoi i lasciano una traccia profonda sulla battigia, ma per fortuna il cupo borbottio del mare ha sostituito il rumore continuo delle auto. Che noia venir giù da Torino. Starsene seduto per ore a dribblare altre auto, su una autostrada divenuta impercorribile per l’alto stupido rischio di un viaggiare egoista, presuntuoso. Dal malessere il piacere di uscire in Versilia, infilare il viale dei Tigli, per ora sufficientemente sano nonostante l’inamovibile spettacolo di una povertà umana in drammatica offerta di sé, e poi la spiaggia libera, o quel che ne resta, su cui tentare di respirare a pieni polmoni, sgranchirsi le ossa informicolite, allargare le braccia al cielo, quasi ad arrendersi, quasi vinto di fronte a quei resti di naturale serenità. Camminare lentamente, in un pomeriggio che volge alla sera, senza nessun particolare pensiero per la testa, se non quello di ascoltare l’infrangersi delle onde e riposare. Starsene lì, incurante della bolgia scatenata che si è lasciata alle spalle. Si guarda le mani ancora contratte dopo ore di guida e le immerge nella sabbia bagnata per scartare quella patina umida che le avvolge. Così accoccolato sulla sabbia raccoglie piccole conchiglie, palline di alghe, le rigira tra le mani, come fossero tesori, lasciandosi suggerire immagini, colori, suoni, parole senza senso logico, finalmente! Parole sussurrate che emergono come bollicine di ossigeno liberando pensieri nascosti, qua e là ricordi. Si guarda intorno, i capelli spettinati dal vento, una umidità che entra nelle ossa, una sottile voglia di lasciarsi andare, di sedersi sulla sabbia aspettando che lentamente la marea lo riporti lontano come una conchiglia qualsiasi, come una storia finita. Poi di nuovo in piedi. Le mani dietro la schiena, se deve essere a Firenze per l’ora di cena ha ancora un po’ di tempo da dedicare a se stesso. Camminare al

contrario, lasciare orme arrovesciate sulla rena umida, voltare le spalle al futuro e poi girarsi di colpo piroettando se stesso, con la segreta speranza di trovarla lì, davanti a sé improvvisamente. Solo, eggiare sulla spiaggia deserta, in questo fine pomeriggio d’ottobre, cupo, grigio, pieno di mirabili colori. Si è chiesto e sta chiedendosi, quasi di nascosto a se stesso, soprattutto perché si era ripromesso di non pensarci, di darsi una tregua, nella segreta speranza di essere avvinto da fasce di sottile oblio, in cui, baco da seta, dimenticare quel volto brigante, pieno di luce, quegli occhi smeraldini, il sorriso dolce tenace pronto ad illuminarlo in ogni momento, che tramortiva le sue coronarie. E che ogni volta che l’aveva avuta lasciava il suo cuore sgualcito strapazzato nella impossibilità di resistere a confessare al mondo il suo amore per lei. Perché e quando si era accorto di amarla?! E poi che voleva dire!, stava confondendo un fare all’amore divertente, intenso, pieno di partecipante sorpresa, insomma un fare all’amore ricco e soddisfacente con l’amare ?! Come se fino ad oggi non avesse saputo che amare era un concretizzarsi dell’innamoramento, o tutt’al più amare era una lenta progressiva intensificazione del volersi bene. Ed allora perché riproporsi nuove questioni, già risolte da tempo e pensare che una simpatia, una infatuazione, un divertimento lo si potesse chiamare amore e poi starsene lì a chiedersene il perché. Ancora, come una singolare percezione di noia perché niente di quel rapporto da lui era stato preparato e voluto. Quindi il aggio così repentino dal solito buongiorno o buonasera, ad una intensità profondissima di pulsazioni non gli era naturale. Per niente. Non programmata, non pensata, non sofferta, non corteggiata, infine non chiesta, ma di colpo, come accendere una sigaretta, avuta. Sapeva tra l’altro di non essere James Bond. E sapeva, ed ancora di più non ne capiva il perché, che il loro primo incontro era stato tale da scoraggiare una qualsiasi Florence Nightingale del sesso, data la sua … ectoplasmatica prestazione! E lei continuava a ridergli dentro ! Guardando quel mare corrusco e imbronciato, sferzato dal vento, ora più calmo nell’ultimo pomeriggio, gli pareva vedere quasi tutto attraverso un filtro colorante di verde, come se davanti ai suoi occhi ci fossero gli occhi di lei, verdi profondi, a trasformare la realtà.

Forse, stava chiedendosi, se non stava dando troppo peso e importanza ad una semplice storia che di lì ad una settimana sarebbe finita, così come finiscono questi incontri, senza neppure dirsi addio. Amarla? Ma se non la conosceva neppure ! Non sapeva niente di lei, né da dove veniva, né chi erano i suoi, niente del suo ato, forse non aveva mai letto il Leopardi!, forse non sapeva neanche scrivere!. Si, in piena Torino c’era una sola analfabeta, ignorante e villana, che per di più non aveva mai sentito parlare del Leopardi, e l’aveva incontrata lui. E se ne era innamorato. Che fosse stato per questo?! Ma si può, stringendosi l’ impermiabile intorno al collo, si può alla mia età, innamorarsi come una ragazzino, senza alcuna barriera, abbandonandosi quasi in estasi alla visione di se stesso trasformato in una splendida vela che, piena di vento, lo trasporta per rotte sconosciute, e forse da sempre desiderate. Ecco qual’era lo scenario di questo quarantenne che tenta di proiettarsi fuori di sé, per inquadrare, capire il momento che sta vivendo. Si guarda, o dopo o, sferzato da un tardo pomeriggio di ottobre, camminare lungo la fine dell’onda, scricchiolando sulla sabbia bagnata, nell’angosciato tentativo di far appello al proprio raziocinio, alla propria capacità di autocritica, per prodursi in un lungo fischio di scherno e cancellare ogni possibilità di replica. Questo si era riproposto dopo il loro primo appuntamento, ridicolamente fallito sul piano più intimo, particolare. Aveva giurato che non l’avrebbe più voluta vedere, che ne era stato inibito, che era stata colpa di quella sua totale improvvisa disponibilità a non attivare la sua capacità…e invece no!! Si rendeva ben conto di cosa gli era successo!! La prova gli era venuta nei tanti indimenticabili incontri, nei viaggi, nei fine settimana trascorsi insieme, ridendo e giocando. Aveva ridestato in lui la possibilità di meravigliarsi. Era stato travolto da quella improvvisa freschezza, ecco giusta la parola, fragranza, che scaturiva da quell’essere, nei momenti più dolci, più intimi. E poi il suo continuo stupore di fronte ai suoi occhi, caldi e profondi, che lo tenevano avvinto e non perdevano un’ attimo il suo sguardo attraversando a piccoli lampi di dolcezza espressiva momenti di gioia, di un piacere sereno e progressivo fino ad incupirsi cambiando colore e tonalità, fino ad aprirsi in prolungato verde smeraldino quando i loro corpi rispondevano all’unisono alla più violenta e dolce carezza del fare all’amore.

Sapeva cos’era questo continuo richiamo della sua mente, questo virare continuo al verde intenso dei suoi occhi che pareva lo seguissero ovunque come a ricordargli che solo ad essi poteva dissetarsi senza angosce, senza ansie, ma con una pirotecnica gioia, con una felicità che gli lasciava dentro un sapore di buono, di pace con se stesso, quasi l’odore dell’erba fresca che entrando nei polmoni sembra purificare tutto il sangue rinfrescando ogni possibilità di sentire. Ma perché non le aveva chiesto di venire a Firenze? Se non per volersi auto punire, infliggendosi feroci nostalgie in una contorsione di attribuzioni di colpe, in una sequela di masturbazioni mentali che lo costringevano a non saper cogliere con totale disponibilità il momento che stava vivendo. Questa abitudine mentale al possesso eterno, a volersi sentire garantito da una continuità fatta di tanti attimi che rifiutava di vivere contorcendosi nella paura di non saperli vivere! E domani, domani cosa sarà senza di lei, cosa farò se da Firenze non riuscirò a telefonarle, perché non sarà in casa ad aspettare che io la chiami, e se non c’è….ed a che ora tornerà…con chi sarà…Ma perché non hai accettato che ti accompagnasse: è forse così giocare all’uomo che sembra sappia dire di no, e che poi si contorce in questa inquieta bramosia, affidarsi a modelli di comportamento che altro non sono che manichini nudi. Ecco cosa vuol dire certe volte attenersi alle regole…ma che significa…. fai l’uomo, dimostra di avere i coglioni, un disperato invito a non pensare che con quelli. A non voler tener conto delle emozioni, non viverle fino alla loro sublimazione in vita vera, quella che ti fa essere assolutamente, realmente felice. Ecco le prime luci della notte, fare dietro front, ritornare sui propri i. Non si era accorto di quanto si fosse allontanato dal parcheggio e così poteva approfittare del ritorno per rimettere in ordine i cassetti dei suoi pensieri, per non essere coinvolto, ed infine straniato dalla propria confusione. Stava diventando sempre più buio, e mentre rifletteva a come la progressiva, rapida mancanza di luce aiutava la sua ansia a crescere, ecco che, improvvisamente, capì. Senza nessuno preavviso, senza che apparentemente fosse frutto di una qualsiasi consequenzialità logica, ma così come il classico fulmine che squarcia le tenebre, capì cos’era questo strano amore, questo nuovo sentire. Rallentò il o per riflettere, per verificare se l’immagine apparsa inaspettatamente poteva rispondere ai suoi perché. Amarla era capire l’amore, amarla era riassumere, far rinascere da vite ate, da storie dimenticate piaceri di infinite profondità.

Amarla era ricordare, immergersi nel verde dei suoi occhi, nella consapevolezza di un coinvolgimento totale, assoluto, che gli determinava uno stato di certezza senza esclusioni di conoscenze tali da far pensare di aver scoperto il segreto finale della vita. Amarla era imparare l’amore, era conoscere, sapere. Non si meravigliò, dopo alcune ore di guida, di ritrovarsi alle porte di Torino; uscendo dall’autostrada sorrideva alla propria mancanza di stanchezza, alla propria vitalità. Sorrideva all’idea che tra qualche minuto, alle tre del mattino, avrebbe suonato il suo camlo. E si figurava la scena. Avrebbe suonato più volte per riuscire a svegliarla, finché non avesse sentito, liberatoria, la sua voce. Lo scatto dell’ascensore. I piani come scalini, pensando a come minimizzare il frastuono nel silenzio notturno. La porta appena aperta, il suo volto insonnolito, un lungo sbadiglio, un abbraccio e poi…ma cosa è successo, perché sei tornato….Dandole una conchiglia le avrebbe detto…sono tornato per dirti che ho scoperto perché ti amo… I suoi occhi lo avrebbero guardato ridendo, le sue labbra si sarebbero dolcemente posate sul suo collo, cancellando di colpo tutto il resto del mondo.

Per non dimenticarmene

Adesso mi racconto di Carla. Per non dimenticarmene. Carla era genovese, una creatura solare. Riusciva a dare al suo volto una tale luminosa espressione da lasciare intimiditi e senza mezzi termini affascinati. Tuttavia non potevo certo dire che fosse bella secondo i canoni consueti, anzi quando metteva gli occhiali, e la sorprendevo intenta in una qualche lettura, sembrava così assente da apparire scialba. Bastava non mi guardasse, o almeno non mi sorridesse, perché tra sguardo e sorriso esprimeva un tale concentrato di serena allegria, di dolce e profonda serenità nella quale chiunque, oltre a me, avrebbe voluto tuffarsi per un bagno miracoloso. Carla aveva poco più di diciotto anni, e quell’estate trascorreva le sue giornate osservandosi quasi in punta di piedi, vedeva crescere ed affermarsi nel proprio corpo una sorprendente carica di sensualità. Carla non era una bella ragazza, quando si muoveva o correva dava la sensazione di essere leggermente goffa con quei suoi fianchi piatti, le braccia un po’ troppo lunghe che, tuttavia. finivano in mani di scultorea levità. Carla aveva mani bellissime, da cui difficilmente potevo togliere lo sguardo ed avrei voluto vederle scorrere sulla tastiera di un pianoforte per suonare qualcosa di struggente, Mahler, al tramonto. Consapevole di questa sua apparente fisica discontinuità sfruttava nell’approccio con i suoi simili una straordinaria cultura, per l’età, accompagnata da una memoria di ferro, che le consentiva di saltare, recitando, dal Petrarca al Lee Master di Spoon River, a Tagore, trovando nessi, esaltando somiglianze magari inesistenti ma vivacissime, in un dialogare fitto di citazioni la cui proprietà era sottolineata dalla vivacità dello sguardo, dal protendersi del busto verso l’interlocutore, quasi volesse porgergli, a conferma del suo argomentare un prolungato dolcissimo bacio. Fervente innamorata di un Cristo, ante litteram figlio dei fiori, era impazzita di divertente esaltazione quando aveva scoperto che in una remota chiesina situata sulla cima di un colle che, per la sua bellezza, sembrava la porta del paradiso, un povero e vecchio prete tuonava, con una parlata toscana degna del Fucini, che… “dopo i’ peccato e c’era, ma di si ’uro l’inferno, accident’ a voi, oh via!!…”

Da brava ligure si risparmiava durante le prediche ogni commento, ma poi fuori della piccola chiesa, quando i pochi fedeli se ne erano andati, seduta a gambe larghe, coperta da una lunga e larga gonna, sfogava la sua ironia mista a rabbia, riconoscendosi una divertente intolleranza, nell’ imitare quel povero don Rosario, così lo aveva ribattezzato, ripetendo in una continua aspirazione di “c” e di “t” la predica da poco sentita. E ne sottolineava quello che le appariva di più straniante dalla sua idea del cristianesimo, sottolineandone la medievale cattolicità. In queste sue diatribe era di una struggente bellezza, per la sua verve, per la sincera ione che vi metteva ed il dirglielo, spesso non mi potevo trattenere dall’applaudirla, le causava un sorpreso imbarazzo, come un’ applauso fuori tempo durante un concerto. Non si poteva non essere innamorati di questa strana ragazza, dei suoi profondi occhi marroni, delle ciglia incolte, e poi quel suo sorriso da Cantico dei Cantici così vivo, tenero. Quando nel pomeriggio di quell’estate, in quell’agosto caldissimo, tutti cercavano riposo nel fresco delle lenzuola, noi due restavamo padroni di casa. Chiudevamo la porta del salotto e accostate le persiane verdi, perché filtrasse una luce discreta, ben posizionati sul giradischi una pila di 78 giri, ci dondolavamo, uno nelle braccia dell’altro, non spostandoci di un centimetro al di fuori di una mattonella trasformata per l’occasione in una immensa sala da ballo. Cercavamo si sentire i nostri corpi, stretti in una aderenza totale, guantata, animata da un filo appena di respiro. Se in quei momenti fosse giunto, chissà da dove, un treno, penso che non ce ne saremmo accorti. Lei appoggiava la guancia sulla mia spalla e solleticando il mio collo con le labbra giocava un lento, torturante acchiapparello con il resto del corpo, e quando mi ava soavemente la mano tra i capelli aderendo alla mia ricerca, offrendosi, a me non restava altro che attendere in spasmodica tensione, di percepire le sinuosità del suo corpo cercando di capirne le dolcezze, i profumi. Poi, come seguissimo un preordinato rituale, mi prendeva una mano e la guidava sul suo seno come una tata premurosa ed attenta che il suo bimbo vi si avvicinasse dolcemente. Era lei che comandava carezze, movimenti, pressioni profonde fino a che non battevamo primati mondiali di apnea in baci abissali fino a che spossati ci davamo per vinti! Il famoso bacio del film Notorius era l’asilo, noi eravamo alla specializzazione post-laurea !! Quando poi ci si riaveva e con coraggio ci guardavamo negli occhi, sorridevamo a quelle nostre labbra stropicciate, arrossate, esauste.

La seconda pila di dischi ci sorprendeva più rilassati, più teneri e chiacchierini, come se la nostra ventata di ione si fosse tranquillizzata e di essa non restasse che un ben percepibile indolenzimento. Certo una grande intensità in quelle ore dei pomeriggi d’agosto, tale che compenetrati l’uno nell’altra spesso dimenticavamo i nostri impegni estivi, saltando le ore di tennis, gli amici in piscina, tutto, perché il mondo che stava nascendo tra noi andava popolandosi così rapidamente di idee, di futuri, il cui dialogare si contraeva e si distendeva a seconda che il nostro argomentare si fe più intimo oppure spaziasse in un domani a cui non si riusciva e non si voleva dare un nome preciso. Io ero comunque percorso da uno straniante sentimento.. Ero assolutamente cosciente come la mia personale partecipazione fosse minata da una bugia di fondo. Spacciavo il mio desiderio di lei come se fosse amore, di quello vero. Certo che desiderio e amore spesso mi confondevano le carte, e così sapevo che, nell’ingannarla, avrei finito per non credere più a me stesso. In fondo la mia voglia di lei era più forte, più vera che non il desiderio di attuare uno dei tanti progetti che ci animavano. Forse, e questo mi calmava, anche per Carla si trattava di un gioco, nel quale lei tuttavia sembrava mettere più sincera partecipazione. Insomma, attimi di lucidità in mezzo ad un costruire sogni in un continuo accarezzarsi e cercare di scoprirsi. Don Rosario fece da inconsapevole esca. Una domenica mattina ci preparammo una speciale colazione a sacco, e con la scusa di una lunga gita in bicicletta dalla quale promettemmo il ritorno per l’ora di cena, ci prendemmo una giornata tutta per noi, fuori dagli sguardi di tutti. La piccola chiesa romanica , che nel parlare del suo arguto custode veniva definita “ duomo ”, così che lui quando gli capitava di doversi presentare lo faceva, cerimoniosamente auto nominandosi “ i’ custode d’i’ domo”, era in vetta ad un incomparabile colle che nella sua forma rivelava un ato vulcanico, tant’è che nelle sue viscere albergavano ed albergano tutt’ora, grotte ed anfratti densi di vapori miracolosi per chi ha bisogno di sciogliersi dalle ossa i nodi del tempo. Per noi, invece, arrivati all’inizio della salita non restava altro che scendere di bicicletta e con tanta pazienza spingerla fino alle antiche mura di cinta. Ci accolse il fresco antico della piccola chiesa, invasa dal suono di quel povero organo su cui quel toscanaccio di un prete pestava i tasti con veemente rabbia, cercando di farlo suonare più con le minacce che con la musica. Finalmente le poche persone del piccolo borgo, impietosite dai lamenti

dell’organo riempirono, faccio per dire, la chiesina. Don Rosario balzò dall’organo all’altare e senza tanti complimenti prese a predicare. Meglio se dicessi che prese ad inveire contro il gestore del cinema del grosso paese che era ai piedi del colle, per aver proiettato un film infernale. Si vedevano, sbraitava, gli attori tutti “gnudi” che facevano “i’ bagno la notte, ma…Iddio che “un pole permette quelle sudicionate …lei gli era ma morta ammazzata, quella svergognata…” Capimmo che parlava di un autentico capolavoro: “Ho ballato una sola estate” film svedese che stava galvanizzando tutti noi ragazzi. Carla non lo resse e uscì di chiesa piangendo. Il film ci aveva commosso per il suo trepido pudore, per la velata verità delle immagini, per la sua storia così umana, così vera. Carla raccolse un grosso sasso ed io la fermai a stento, perché voleva tornare in chiesa e tirarlo in testa al prete. Cosa che forse avrebbe fatto se non si fosse messa a ridere imitando lo sbracciare sciocco di quell’infernale don cretino. Ma poi perché cretino, poveretto, in fondo dicevamo era un piccolo uomo solo, che dalla vita non aveva ne’ avuto ne’ goduto, ne’ capito nulla. E così un po’ rappacificati ci avviammo giù per il pendio, sul retro della chiesa, con il sacco del pranzo sulle spalle, tenendoci per la vita, dicendoci che era veramente bello vivere, anzi stupendo. La cinta muraria, costruita intorno all’undicesimo secolo si estendeva ancora verso il lato est dell’antico borgo e finiva ad una porta ancora intatta, dalla quale scendeva fino a valle un grandissimo dirupo che il tempo aveva trasformato in un grande prato. Poco prima di questa porta, c’era nelle mura una vasta apertura, come un finestrone coperto all’interno da un fitto bosco di quercioli, sembrava, visto tra i rami del bosco, che fosse un buco nel cielo incorniciato da massi bianchi. Insomma, un pezzo di cielo su cui salire era facile, e date le dimensioni vi si poteva stare comodamente nascosti. Una specie di rifugio segreto, di casa nel bosco aperta all’ azzurro di quel cielo d’estate.. Facemmo colazione con allegria non pensando più alle tristezze di don Rosario, inventandoci storie, suggestionati dal luogo, popolate di draghi, cavalieri, fantasmi e belle principesse. Stavamo seduti, uno di fronte all’altra; posso dire che in realtà stavamo spiandoci, cercando di interpretare all’istante quei piccoli segnali che forse avrebbero dato il via a quel giuoco profondo, totale che forse

era lo scopo segreto, finale e sperato della nostra gita in bicicletta. Me ne stavo seduto, a gambe incrociate, con le spalle appoggiate alle mura, completamente rilassato, mentre Carla si era raggomitolata di fronte a me, appoggiando il mento sulle ginocchia raccolte. Ci fissavamo negli occhi sorridenti, centellinando il trascorrere del tempo, quasi non ci importasse più quanto ce ne saremmo stati lì a guardarci sereni e rinfrescati da un venticello che ridestando piccoli rumori del bosco sembrava volesse trasformarci in una canzone naturale, piena di profumi e di suggerimenti. Con un leggero movimento Carla sollevò al di sopra delle gambe la sua gonna a righe, lasciandone scoperta la parte più profonda nella quale il mio sguardo si immerse immediatamente. Nella ambrata leggerezza della sua pelle intravidi un piccolo triangolo bianco che segnava la fine e l’inizio del tutto. Forse senza rendermene conto, mi sporsi verso Carla e nell’accarezzarle le labbra con le labbra posai la mano sulle sue ginocchia che ebbero un percettibile movimento di accogliente sorpresa. Mentre il nostro bacio si faceva più totale ed apionato, la mia mano accettò il tacito invito posandosi piuma su piuma dove poc’anzi lo sguardo si era smarrito. Carla si strinse a me con forza, attraendomi e nel distendere la gamba accettò, anzi aiutò la mia mano ad insinuarsi meno timorosa, sotto il cotone leggero che custodiva le sue tenerezze, ed io cercavo, muovendo piano le dita come volessi trarre dalla tastiera di un pianoforte dolcissime melodie, cercavo di capirne e raccoglierne i soffusi desideri. Si vede tante volte, e lo si sa, che nell’imminenza di un pericolo i piccoli animali del bosco, i loro rumori di sottofondo si tacciono di colpo, e tutto viene inondato da un silenzio d’attesa. Non fu così per noi. Anzi pareva che il bosco di quercioli, nell’abbracciare il nostro abbraccio, partecie col suo al nostro respiro, graduando l’ansimare irregolare del vento alla nostra quasi assenza di respiro, impegnati come eravamo nello spogliarci, un po’ per volta, coprendo di baci e carezze tutto ciò che piano piano appariva. Incontrammo Dio? Di certo gli ammo vicino ! Vivemmo, insieme per la prima volta, e rivivemmo con profonda intensità le prime volte delle nostre ate esistenze, ricordandone gli attimi totalizzanti, il piacere unico ed universale che dovrebbe essere, se nascere volesse sempre dire vivere, il momento irripetibile della creazione della vita.

Più tardi negli anni mi capitò di riflettere come di questo grandissimo evento della natura si faccia un uso mistificatorio e straniante, che pensavo, senza ottusi moralismi, fosse giustificabile solo se inteso come allenamento per…ma?! Via!…..Si tratta di uno dei pochi atti per cui val la pena vivere! Carla era una creatura solare, il suo volto risplendeva di una gioia profonda anche se già velata dall’immagine che forse non avrebbe più avuto una visione così magicamente assoluta, come in quel pomeriggio d’estate. Cercavo nell’abbracciarla una conferma, non volendo assolutamente far trasparire la sensazione di sconforto che mi dava l’idea di aver recitato una parte, di non essere stato sincero, di aver fatto credere a Carla che poteva affidare se stessa al mio innamoramento. E adesso? Adesso che avevo tra le braccia questo corpo reso incantato dall’amore, questo volto intelligente vivo, bellissimo e questi occhi scrutanti che mi indagavano alla ricerca di chissà quali verità, cosa avrei dovuto fare e dire a coronamento di questo mio ambiguo comportamento. Oppure la mia era una difesa, un non volermi riconoscere innamorato di questa donna mentre le sue mani stavano esplorando il mio corpo traendo da esso musiche sconosciute, queste mani che ora stavo baciando. Carla era una creatura di straordinaria e misteriosa bellezza, di acuta e serena intelligenza. E improvvisamente, prendendo il mio volto tra le sue mani delicate mi mormorò che sarebbe stato stupendo se in un qualsiasi lontano futuro fossimo riusciti ad amarci davvero. Protestai, protestai il mio innamoramento ed anche Carla mi giurò il suo. Era un pomeriggio di un agosto incantevole, pieno di profumi e di luci quando scendemmo, ancora biciclette alla mano, tra l’ombra degli alti castagni, parlottando tra noi, certi che quello sarebbe stato un lungo, lunghissimo addio. Ecco, questa la mia storia con Carla, impossibile da dimenticare, dolce e tenera da ricordare.

Sarò io che ti starò cercando

Fare una pausa. Pensare. Come a dire riflettere o meglio riflettersi. Essere il Barnard di se stesso. Stendersi sul lettino di una sala operatoria, sotto il tondo lampadario dai riflessi biancastri, contornato da camici verdi, mani guantate, con anestesie non diverse da quelle usate per la vita di tutti i giorni, e rigirarsi questo cuore tra le mani per cercare di capire di cos’è fatto e, se del caso, sostituirlo con uno più nuovo. Fare il Barthes che semiologa il cuore facendo uno studio lungo un anno sul perché, sul come e sul come mai, finché……scusa se interrompo….come chi sono…vorrei solo tu la piantassi di chiamare sempre in causa me, visto che non sono che un muscolo, una pompa….certo, se mi rompo sono guai….Oh! non te la caverai con così poco: se non sei che una pompa… perché sbatacchi così forte quando la vedo, fai così male quando la penso, quando mi entra nel cuore, appunto….La tua è una fissazione. Tra me ed un calcagno nei tuoi affari di cuore non c’è proprio differenza…Ci sei cascato!!..affari di cuore, li chiami, quindi affari tuoi!!!….Ma via, si fa per dire, per un po’ più di poesia per non dover parlare di fibrillazioni chimiche dell’emisfero destro o sussulti bio stimolanti dell’ipotalamo... Ed alla fine, se non fosse altro che una cartina tornasole sulla quale si misura se uno è ancora vivo o è già bell’e morto. O gli occhi o il cervello, o tutti e due insieme la vedono per la prima volta. Magari il cervello più che vederla, la riconosce e sobbalza. Toh, eccola qui!! Qualcosa di simile. Rapidamente compone un puzzle di immagini e di ricordi, li assimila alla nuova visione, rispondendo a precisi richiami e stimoli che gli provengono da quella sconosciuta ed ambulante biblioteca che è, oppure che so, dal calcagno sinistro ed avverte tutto il corpo lanciando formicolanti messaggi. Aumenta la temperatura, come un pentolino sul fuoco, la cui acqua entrasse pian piano in ebollizione. “ vai, Barthes, semiologa a caldo, se ti riesce !!” Aiutiamoci finalmente a capire qualcosa. Perché ora che ti vedo, persona sconosciuta, mai incontrata, prima ancora di essere, magari dal caso, presentati, quindi prima che io sappia chi realmente tu sia, poiché “ti prefiggo”, ti realizzo in me stesso e poi alla fine esausto ti amo. Cosa mi spinge a disegnarti in me, costruendoti nei minimi particolari, idealizzandoti persino nel mezzo di

locomozione.! Certo, vorrei che tu arrivassi a me su una carrozza dorata, con cocchieri in livrea, pronti a precipitarsi ad aprirti le porte, a svolgere le piccole scale, solo perché tu possa essere tra le mie braccia senza un granello di polvere. Cenerentola docet. Barnard e Barthes cortesemente fatevi da parte, anche lei signor Fromm, faccia la cortesia, si accomodi qui su questa splendida poltrona e si assopisca tranquillo, perché diversamente la mia confusione sarà al colmo. A ciascuno il suo. Non credo possiate neppure servire da binari, da strada o da indicazione del tipo a destra o a sinistra: non perché non siate intelligenti, grandi e profondi. Lo siete, eccome !! Ma credo che voi possiate solo enunciare statistiche in chiave poetica, e come tali costrette ad ammettere un numero sempre maggiore di eccezioni. Perché ogni essere umano, ogni essere vivente pur essendo una cellula di uno stesso universale corpo, è una fantastica eccezione, e lo è soprattutto per se stesso! Se si vuol parlare di innamoramento, a meno che non si voglia descrivere l’alterazione del tasso di albumina nella pipì, o delle variazioni bio chimiche dell’ipotalamo, bisogna senza dubbio parlare di Mario e di Maria, di Irene e di Giancarlo, di Giovanni e della Rosa, insomma di ogni individualistica eccezione. E allora cosa potrebbe dirmi lei signor che sa tutto dell’amore, della danza delle rane che precede l’accoppiamento… Non sapevo che le rane danzassero , prima di.. insomma prima! Glielo hanno detto loro, immagino. Oppure non sarà il caso che le rane insegnano ai propri ranocchi le danze degli uomini prima dell’accoppiamento. “Che, sai rana piccina, gli uomini sono molti buffi prima di accoppiarsi, fanno un sacco di tragedie e niente meno ogni volta chiamano in causa il buon Dio!!” “ Il buon Dio? E lui!?” “ Lui niente, figurati se Ranotrino, l’onnipotente si può occupare di cosa fanno gli uomini, con tutto il daffare che gli diamo noi rane…” Proviamo a guardare un essere vivente come fosse un piccolo principe contornato da un grande e smisurato mantello costruito da tutti coloro che nella vita lo hanno preceduto e hanno contribuito a crearlo, a farlo nascere. Ecco che avanza il piccolo principe dal grande ondeggiante mantello fatto con gli intrecciati caratteri dei suoi avi. Si riconoscono impressi sul bavero rialzato i suoi due genitori e subito dietro i quattro nonni, i suoi sedici trisnonni ed i suoi trentadue quadrisnonni…ognuno

di loro è a sua volta un piccolo principe…ognuno con un grande mantello dove, sul bavero rialzato si riconoscono…che intreccio…che trama…tutti questi piccoli principi che avanzano con i loro ondeggianti mantelli. Ed ogni testa che si alza al di sopra dei baveri rappresenta, per un minuscolo spazio di tempo, o tempo di spazio, un individuo con tutte le sue trame, i suoi intrighi, i suoi amori, i suoi disturbi di stomaco, anche questi ereditari. Egli crederà soprattutto in due cose, prima nel denaro, che lo abbia o non lo abbia, e poi in se stesso quale unico rappresentante sulla terra del vero dio. Basterebbe che, per guardare avanti, desse un’occhiata al bavero del suo mantello. La verità è nello sguardo di chi lo ha preceduto, perché si dice, guarda caso, che morire vuol dire capire. Ma capire cosa? Cosa potrebbe servire capire, in questo caso? Sarebbe sufficiente, vita natural durante, svalorizzare quelle fedi trainanti, quelle che dicono agli altri di fare ciò che loro stesse non farebbero mai, e sostituirle, se non se ne può fare a meno, con altre meno falsificanti. Ricominciare a considerare che sentimenti, emozioni non fanno parte di un corollario rosa ad una verità diversa, ma esse, sincere e prive di qualsiasi speculazione, sono parte fondamentale della verità. Non l’intrigo, il sopruso venduto col sorriso della fraterna amicizia, con la bonarietà di un maestrale sadismo, ma la capacità di sentire e di vivere nel pieno rispetto, nella tutela dei sentimenti, perché il mitico e falso confine del proprio orto, qui, dove si sta indicando l’inizio dell’orto altrui, non esiste, non esistono confini nei grandi mantelli se non quelli artificiali delle grandi ipocrisie. Allora?? Innamorarsi!! Di chi?, se non di una vita diversa, che sia sempre più vicina all’immagine utopica, viva, che di essa ci costruiamo nel sogno. E questa non puoi essere che te, amore mio, a rappresentarla. Eccoti. Potrei descriverti millimetro per millimetro, raccontare le molte cose che so di te, della tua dolcezza nell’affrontare i momenti più duri della nostra unione, quelli in cui io, ancora tutto da crescere, tradisco i tuoi progetti, il nostro futuro. Sei leggermente più alta di me, hai i capelli castano chiari, un po’ mossi, appena appena sulle spalle. Al vento ondeggiano ritmati avvolgendo la pelle abbronzata del tuo volto. Lo splendore dei tuoi occhi gareggia con la luce del tuo sorriso, hai labbra piene, invitanti, quando le bacio esse si fondono e mi avvolgono con la tua piccola carezzevole lingua. Sei snella, hai un seno bello, non grande, da adolescente, come il tuo corpo che, nudo, brilla nella notte sdraiato accanto a

me. Il tuo vivere è generoso, tratti cose e persone per quello che sono, esseri viventi a parità di diritti, senza profittare di niente e di nessuno, perché il tuo impegno globale, a cui dai tutta te stessa, è cercare di capire. Esprimi questa tua ricerca, senza ansie travolgenti, senza lamentare mancanza di agi, di cose che non hai, che con me non potrai mai avere. Il tuo giudizio su me è nobile, hai capito chi sono e mi ami per quello che sono, che ero, che sarò. Anch’io ti amo profondamente: ogni mattino al risveglio, mi innamoro di nuovo di te, come la prima volta che ti vidi. Peccato. Peccato però che io non ti conosca, che non ti abbia mai incontrata, che non sappia nemmeno il tuo nome. Se, tra molti anni, vedrai un vecchio signore con i capelli tutti bianchi, seduto su una panchina in un fresco giardino, e ti parrà assopito dalla lettura di tanti giornali, non credergli, non credere che stia dormendo. Sarò io, che stringendo gli occhi per vedere più lontano ti starò cercando, eternamente ventenne, bellissima, tra la folla della mia sera.

Allora ti prego, non farti riconoscere, avvicinati a me. Chiedimi l’ora. Capirò che sei te, che ti ho finalmente trovata, e basterà questo da aver dato un senso alla mia vita.

L’estate del ‘53

Un bosco di quercioli, lungo la strada che porta alla Futa… Luglio, pomeriggio, ventoso refrigerio al caldo pesante della città. Due plaid, uno lontano dall’altro segnano nel verde dell’erba due territori vicini, ma non più come prima. Guardo e ascolto il vento entrare tra le foglie, sembra volerle spremere, le contorce, le avviluppa fino ad uscirne profumato e si getta giù per la china, a valle, ebbro di nuovi profumi. Non l’aiuto. Sdraiato sulla schiena gioco con i colori del cielo, fumando un mezzo toscano, e la sua punta sembra un periscopio o un fumaiolo di un vecchio vapore. Come periscopio non serve, non amplifica nessuna veduta, l’orizzonte è definito. Una strada lontana, case dalle quali al variare dell’impeto del vento giungono voci. Quelle di bimbi, grida di gioco, il latrare ancora più lontano di un cane. Invece, come fumaiolo di nave, attraccata sotto una quercia, sbuffa e vince una impari lotta contro animalini volanti, farfalle dai polmoni puliti, abituate a quest’aria montana, ideale, senza veleni. Me ne sto qui appoggiato pensando a cosa è successo in questi anni e soprattutto a dov’ero io quando succedeva tutto ciò che è accaduto. Chissà dove siamo realmente quando i fatti, le cose, che poi saranno determinanti per il resto della vita, avvengono. Forse siamo talmente presenti, partecipiamo a tal punto per noi stessi che non ci rendiamo conto di esserci, se non al limite, dopo, nella memoria dell’accaduto. E’ così che capita probabilmente di vivere e rivivere fino a che un particolare ricordo non svanisce oppure entra, prorompente, nella struttura del carattere fino a farci assumere atteggiamenti, gusti, volontà sempre diverse. Un ragionare fresco, fluente smosso da questo vento ai novecento metri, non più collina e non ancora montagna. Un caldo notevole in quell’agosto dell’ottantotto. Ottantotto. L’ottantotto sta al cinquantatre come io potrei stare a x. Eppure, come stavo in quell’agosto del cinquantatre, che estate fu quella!! Devo fermare il troppo rapido svolgimento del film della memoria che conoscendone ogni fotogramma vorrebbe rivederselo rapidamente, tutto d’un colpo. Invece, no. Riepiloghiamo con calma, fatti e luoghi. Partiamo da via della Colonna, da un calcio nel sedere, nel mio beninteso, che un apionato

professore mi propinò all’uscita dell’esame orale di maturità per una risposta poco rispettosa sul Manzoni, a cui feci seguire un’analisi stupida e superficiale sul Leopardi, due personaggi che odiavo a pari merito. Mi salvai per un tema sul Croce, che forse mi era più vicino, che fu giudicato assai bene. Fu proprio quell’esame che aiutò la decisone di mandarmi in vacanza in Sicilia, in casa di un simpatico, profondamente simpatico zio, che avrebbe cercato di riportarmi sulla via di un maggior rispetto, non certo del Leopardi, ma sulla via dell’accettazione di ciò che per legge era bello, giusto e poetico. Lo zio insegnava matematica, e l’unica cosa che imparai fu la bellezza della terra di Sicilia, la sua visione estatica, di un aspro e di un bello, allora per me, non facilmente immaginabili. L’incontro con il mare di Lipari nel ’53, fu un sogno, in cui il blu, il verde, il bianco delle case ed il fuxia delle buganville si disponevano in un ordine naturale, senza artifici per far mormorare un….Dio, che bello!..ai margini di un respiro profondo che aveva il senso di una immedesimazione, una richiesta di poter restare a far parte del tutto. Allora ero assolutamente inurbato, le prime costruzioni, casermoni in cemento, lungo le spiagge toscane erano vendute ed acquistate sotto la voce civiltà, progresso, lavoro, e la struttura orrida di gran parte di questi insediamenti era accettata per usuale, corretta: in fondo, Milano e Torino si andavano riempiendo di case così. Senza alcuna arte, se non quella dello sfruttamento. Le spiagge deserte. Barche colorate e dormienti un sonno diurno, pronte a riprendere il mare al tramonto, Un sciabordio appena palpabile, coperto dal gridare cantato dei grilli di quell’estate del ’53 in cui non successe nulla, apparentemente, di ciò che normalmente poteva succedere. Leggevo un libro poderoso e palloso sulla crisi del liberalismo in Europa, sbadigliando di noia tra una dotta elucubrazione e l’altra, quando scoprii, al di là di una folta siepe di fichi d’india, cresciuti quasi sul mare, uno strano musetto che attentissimo mi spiava.. Sdraiato sui piccoli sassi alzai la mano in segno di saluto, col risultato di far fuggire precipitosamente il mio misterioso pubblico. Non pensai a chi potevo tanto interessare che uscito dall’acqua e d’intorno nessuno, mi misi nudo al sole, quasi volessi confermare a quel mare pulito a quella spiaggia assolata che non mi fero caso, che ero uno di loro. Uno scricchiolio tra i sassi, un respiro un po’ ansante ed impaurito di chi non vuol farsi scoprire, sollevai lentamente le palpebre e vidi che suscitavo molta curiosità in una ragazzina forse poco più che sedicenne, tutta vestita di nero con una straordinaria massa di capelli neri che fluttuavano incorniciando un volto

bianco come il latte in cui si muovevano due grandi occhi nerissimi. Che potevo fare, lì tutto nudo se non trattenere il respiro fingendo un sonno profondo e non volendo spaventare quella creatura. Mi sentivo guardato e non potevo a mia volta vederla bene. Stava in piedi controluce e mi sovrastava con quel suo vestitello nero, svolazzato da una brezza leggera. Facevamo a chi respirava più piano, per non farsi scoprire. Non mi dava fastidio star lì in mostra, impudica per l’epoca, anzi sentivo salirmi una sorta di sottile eccitazione nel sottecchiare le gambe bianche e ben fatte della mia scrutatrice, le ginocchia velate di polvere, i fianchi già di donna, le mani immobili, e quasi la incitavo a guardarmi e se del caso toccarmi, insomma mi stavo predisponendo ad essere pronto! Che sarebbe successo se dalla siepe di fichi d’india fosse sbucato un padre o una madre di questa fanciulla e ci avesse così sorpreso!! Qualcosa, mi dicevo, farà questa grulla, o fuggirà o se ne andrà piano piano, perché non se ne potrà star lì tutto il giorno a fissarmi, immobile ad aspettare il mio risveglio. Mentre si accoccolava ai miei piedi, forse per esaminarmi meglio, mossi una gamba cercando di dare a questo movimento la inaspettatezza del sonno. Non dette segno di paura, continuando tranquilla la sua ispezione. Con gli occhi socchiusi potevo vederla più da vicino e notai la peluria accentuata sulle sue labbra, il tremolare della sua bocca dal mento appoggiato sulle ginocchia sotto cui brillavano di candido pallore due cosce innocenti. Chi era, perché continuava a guardarmi come si guarda un marziano naufragato chissà da quale spazio, senza dire e senza chiedere niente. Cercavo di figurarmi i suoi pensieri e se questi fossero concentrati sul fatto che ero nudo, o solamente su me come essere umano, come una cosa qualsiasi. Avrà pur avuto un nome, questa strana creatura vestita di nero. Allargai leggermente le gambe per meglio capire su cosa concentrava il suo sguardo, ma non dette segno di particolare interesse, tant’è che cominciai a chiedermi se mi vedesse. La situazione si trascinava a lungo e non accennava tramutarsi in niente, quasi come il liberalismo in Europa. Occorreva una rivoluzione improvvisa per scuotere gli animi, uscire da questo torpore invadente, partecipare. Così mi sollevai di colpo, e seduto le chiesi cosa volesse. Senza fare una piega sollevò il mento di qualche millimetro, sibilando una serie di esse e di zeta. Non voleva niente. Allora chi sei. Caterina. E cosa stai facendo. Ti guardo. E perché? In silenzio, con un leggero spostamento sui talloni, un

soffuso rossore sulle guance pallide, sorrise, confondendo la straordinaria bellezza di quella spiaggia deserta con una improvvisa illuminazione degli occhi socchiusi e felici, aprendo per un attimo la visione di un futuro che non avrei mai più avuto. E non sapendo attendere, chiesi di nuovo…. perché?

Bello, mi pari!!

Era l’estate del ’53.

Ne sarò onorato, signora.

“……il problema sessuale/ prende tutta la mia vita/ sarà un bene sarà un male/ mi domando ad ogni uscita…” Posò il libro di poesie… Sandro Penna…In quell’ottobre gli erano capitati alcuni fatti, o meglio gli accaddero alcune cose, oppure potrebbe dirsi che gli si evidenziarono alcune situazioni che lo indussero ad affrontare con estremo rigore eventi di contrastanti apparenze e di rimarchevole determinante sostanza. Può, si chiese, una nuvola malefica rivelarsi in fondo benefica ed aleggiare sulla testa degli uomini, spaventandoli….questo era ciò che andava chiedendosi. Degli uomini…certamente in questo sostantivo comprendeva anche le donne: dire che la nube aleggiava su tutti gli esseri viventi non sarebbe stato assolutamente vero, perché solo gli umani ne parevano colpiti. Tutti gli altri viventi, anche allargando le classificazioni in voga ed includendo tra i vegetali e gli animali anche i minerali, data la loro pacifica esistenza, ne sembravano ai suoi occhi esenti. La specificità di tale evidenziazione era tale da imporre una riflessione introspettiva delle più attente. L’argomento non poteva essere trattato con superficialità o in assenza di un coacervo di informazioni, addottrinamenti e profonde equiparazioni, per esempio, tra sistemi che se pur apparentemente in concorrenza ed in lotta tra loro, stringi stringi andavano ad affermare lo stesso principio, diciamo, di tipo educativo. Ora, se la sua figura di propedeuta tradizionalista gli imponeva nei confronti della sua platea un certo ruolo per cui era chiamato ad agire nel pieno rispetto di se stesso, d’altro lato la sua intelligenza si rifiutava di chiamarla “ voglia”, e si posizionava oltre i confini delle sue espressioni tendenzialmente docenti, che tuttavia spingevano il suo essere verso l’ottenimento di una condizione di estrema beatitudine, cosa che in realtà avrebbe voluto negare alla sua platea ed a se stesso. Se fosse poi riuscito a pensare più semplicemente e meno aderente agli schemi della sua professione, sarebbe riuscito a capirsi, almeno un po’ di più. Un campionario di ipocrisie! Trascorse la sera prima ottimamente in poltrona davanti al camino e vivo, cercando risposte tra lo scoppiettio della legna di pino che incautamente stava facendo bruciare. I suoi pensieri erano cullati dalle note di un concerto per

violino di Geminiani, che gli erano mezzo di trasporto per un girovagare tra culture di secoli ati, alla ricerca dell’oggetto delle sue elucubrazioni, senza tuttavia trovare alcun approdo utilizzabile come nuovo punto di partenza. L’ottobre era l’unica cosa chiara e precisa che aleggiava intorno a lui. I colori della natura viravano lentamente dal verde al verde bruciato, al giallo chiaro, in un leggero progressivo raffreddamento ventoso che rendeva pulito il giorno e luminosa ed esaltante la notte. Insomma nella sua assoluta uguaglianza a se stessa ed ai propri ritmi la natura non si curava minimamente delle sue ambasce, anzi sembrava idillicamente irriderlo. Del che provava una leggera irritazione, mista ad una sensazione di soffuso divertimento perché riusciva a salire un po’ più in alto di se stesso e guardarsi. Ma questo da sempre. Non poteva certo negarsi che il trascorrere del tempo anziché addormentare i suoi dubbi acuiva, certe volte in maniera non sopportabile, la sua angoscia. Oltretutto non gli veniva facile una sintetica formulazione dell’intera problematica tale da poter muoversi da essa come fosse un tema sicuro entro il quale lo svolgimento avrebbe dovuto percorrere binari ben precisi. Abituato com’era a ragionar per analisi e di qui in sintesi navigare in mezzo ad esse con grande bravura, si paragonava ad una sorgente di acque termali dove, bolla dopo bolla, esplodevano una ad una oppure una sull’altra le parole “maleficio” e “beneficio”, senza riuscire a trarre dai loro fumi esalanti alcunché di utile al suo intento chiarificatore. Che era quello di capire a se stesso se si trattava di un bene o di un male, o se per caso l’uno o l’altro non dipendesse dalla quantità d’uso. Non certamente dalla qualità, perché se l’essere bene o male fosse dipeso da quella ci sarebbe stata una ecatombe di miti dai quali era nata la sua presunta e democratica cultura. Anche quella sera, come gli accadeva da sempre, andava riepilogando, nel disporsi per la notte, i pensieri salienti della giornata raggruppandoli per finalità, e classificandoli in modo tale da non avere difficoltà al mattino seguente, a riprenderli in mano e dipanare da essi nuove trame. Trascorse la notte leggermente agitato, come se qualcosa di quella classificazione non fosse stata messa al giusto posto e continuasse un solitario ballo in un cassetto vuoto. Era probabilmente il suo dubbio dominante che cercava una soluzione che assolvesse e la sua storia ed il suo futuro in una proiezione indicativamente ma assolutamente liberatoria. Oppure cercava di attaccarsi alle dolorose interpretazioni del ato e trovare in esse una chiarificazione in chiave di costrizione, ma liberamente e scientemente scelta e voluta.

Il fresco sorriso di Luisa lo accolse in studio, restituendo con la sua dolcezza un che di vita ad un mattino all’apparenza degno di un mal di testa, vero o dichiarato. Luisa era un giovane avvocato che lavorava nel suo studio. Colta, intelligente, ne aveva capito il carattere tollerante ed indipendente. Corrispondeva alla simpatia di Luisa con un attaccamento a volte violento, animale…senza offesa per gli animali. Luisa certamente lo amava, ed a lui piaceva molto; così di tanto in tanto, facevano all’amore, molto bene, in silenziosa assenza di promesse. Come se questo fe parte di un accordo di lavoro, che una volta ottemperato, lo riportava in ottima forma anche se ripiombava nel dilemma maleficio-beneficio, spintovi dai suoi moralismi, ma ancor più da una coscienza non placata. “Avvocato…” “Si, Luisa….” “Una signora…” “Una signora? Che vuol dire una signora! Ha un appuntamento?, sai perché è qui….com’è?? “Bellissima”, rispose Luisa con una punta di amarezza. “Allora, falla accomodare, per cortesia….” Si ritrovò a dire, pentendosi per la sciocca domanda. Si diresse verso la porta, abbottonandosi la giacca e notando con stizza di avere le scarpe polverose. “ Buon giorno, avvocato….” “Signora…si accomodi… sono l’avvocato Andrea de’ Tullis..” Incantevole! Intorno a lei aleggiava un profumo discreto ma penetrante, ricco di suggerimenti. Grande fascino, molto giovane, elegantissima con quello strano cappello, forse fuori moda o molto alla moda, insomma un cappello con veletta assai fitta che non lasciava scorgere il colore degli occhi. Così la sorpresa fu totale quando, sollevato quel piccolo schermo, lasciò spaziare per la stanza occhi di un celeste purissimo, acque marine, che illuminarono ogni angolo del suo studio.

Andrea de’ Tullis, pur mantenendo intatto il suo professionale sangue freddo si sentì profondamente turbato. “Posso chiederLe, signora chi l’ ha indirizzata presso il mio studio, e cosa posso fare per Lei??” Le pupille della donna si strinsero appena, e lui ne notò una strana luce di profonda maturità, così nel togliersi i guanti, fissò negli occhi con assoluta sicurezza l’avvocato e dolcemente tranquilla rispose. “ I suoi dubbi!!” “ Prego, non capisco, signora” “Avvocato, ho scoperto che lei è una persona sincera nelle sue incertezze, nei suoi dubbi. Lei, avvocato, mi piace. L’altra sera l’osservavo, seduto in poltrona di fronte a quel fuoco scoppiettante di pino, per carità non usi più il pino nel camino, ed ho capito quanto lei, pur dubitando di se stesso, sia sincero. Per questo ho deciso di apparirle così…così trasformata, perché potessimo subito intenderci….ho deciso, caro avvocato di sporgere querela contro il mondo, contro la vostra civiltà come somma delle civiltà ate, e purtroppo, se non vi si pone rimedio, come antipasto di quelle future…..”. Disse, già proprio questo lui sentì, mentre la osservava accavallare gambe di scultorea bellezza…. “Lei troverà, avvocato, la strada giusta perché io possa essere ripagata del male, della cattiveria, delle maldicenze, e delle orribili vessazioni, delle prigioni, delle torture a cui, da che mondo è mondo, sono sottoposta…” Andrea de’ Tullis dette segno di irrequietezza e profondo conoscitore di se stesso, si domandò com’era possibile che fosse arrivato a tal punto di alienazione. Guardò con apprensione la porta del suo studio, sperando che Luisa venisse a salvarlo. Niente. Si sporse in avanti, e non poté fare a meno di notare quelle incantevoli gambe appena coperte da un invisibile cortissima gonna. “Non sono un allucinazione, avvocato, sono vera, viva e sento un profondo bisogno di giustizia. E’ soprattutto la vostra conduzione di vita, la fallace educazione di voi umani che mi offende, su questo pianeta. Altre forme di vita mi usano, direi mi adorano e mi amano, voi invece mi offendete in

continuazione, stupidamente e in modo insopportabile con profonda ipocrisia.” Una lacrima color del cielo spuntò tra l’acquamarina di quegli occhi luminosi. De Tullis le porse il suo profumato fazzoletto con mano quasi tremante, e cercando di modulare la voce per nascondere il suo imbarazzo trovò la forza di sillabare… ”Signora, la prego mi racconti di se…” Nel togliersi lentamente la giacca dell’elegante tailleur, lasciò che l’avvocato percorresse dolcemente con lo sguardo il suo giovane corpo, modellato da una corta camicetta di seta. Sentiva gli occhi di lui, ne provò simpatia, poteva fidarsi!! “Avvocato, io sono nata insieme al mondo, anzi un attimo prima…No! Non si turbi e mi perdoni per questo mio aspetto fisico, ma …ecco…io sono come lei mi vuole!! Perché io altro non sono che ..la sensualità!! O come alcuni di voi mi chiamano..io sono il sesso!…Mi creda, avvocato, non posso più sopportare che mi si tratti così, con tale assoluto disprezzo, con così profonda derisione, facendo di me oggetto di cattiveria fino a trattarmi come una mercanzia qualsiasi. Attraverso me, voi umani, avete la vita…attraverso me, voi umani, sapete cos’è il suo unico vero piacere. Io sono portatrice di felicità. Io sono e rappresento il punto focale della vostra esistenza e ciò nonostante predicate contro di me, negate ipocritamente la mia essenza costruendo sulla mia immagine falsi castelli in cui rinchiudete in catene ogni possibilità di libera intensa felicità. Relegate me stessa a pochi anni della vostra vita, pensando che per usarmi siano necessari corpi senza rughe, forniti solo di quella vitalità muscolare in cui nascondete ogni capacità di comprendere la mia vera essenza… Se così non fosse avrei potuto venirla a trovare…dal vivo! Una vecchia signora con qualche miliardo di anni!!! E lei, mi avrebbe ricevuto, creduto?? E lei, così intelligente, sa valutarmi se vengo espressa dall’esperienza, dalla dolcezza, dalla comione della vecchiaia?! Tutto ciò che vi siete inventati in nome di qualsiasi dio mi offende, ed impauriti dal niente, vi costringe ad odiarmi. Non capite, non avete capito che solo servendovi di me con intelligenza ed amore, dalla nascita alla morte, sareste una delle catene viventi più felici dell’universo. Non mi meritate…prima di lasciare il vostro pianeta per sempre, facendovi affogare in quella macchina della ricchezza, unica vostra vera fede, che vi da frutti di grande povertà, voglio tentare questa ultima carta, ho deciso di querelare

tutto il mondo…..” Alle sette di sera, l’avvocato Andrea de’ Tullis, principe del Foro, ex presidente del Consiglio Superiore Europeo della Magistratura, libero docente di Diritto, candidato alla Presidenza della Repubblica…. esausto e finalmente sereno, sfinito ma finalmente liberato, trovò in fondo al cuore le parole giuste. “ Sarò onorato, signora, di patrocinare la sua causa…”

La scimmiotta

Lo incontrai al mattino, molto presto, seduto su una panchina. Non era certamente un’ora abituale per lui, a meno che non fosse ancora andato a dormire. Non avevo molto tempo, anche se il mio treno rappresentava un’incognita assoluta, tant’è che avevo suggerito alle ferrovie di cambiare l’orario e che vi fosse stampata la seguente frase “Il treno delle sette e trenta erà all’incirca all’ora prevista, ma non è detto. Così anche il suo arrivo a Firenze, non dipenderà dall’ora di partenza da questa stazione, ma dal fato..” Quando si dice un’avventura. D’altro canto preferisco il treno: una somma di memorie, la lettura dei giornali, la campagna, qualche occasionale compagnia… su quel tracciato ferroviario voluto da un ardito ingegnere al soldo del granduca di Toscana, Leopoldo e qualche numero. Di Giovanni mi attrasse l’aria cupa, intensa, quasi non mi vide tant’è che non rispose al mio saluto, così mi fermai per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, se stesse bene. Solo allora rispose con intensità, finalmente riconoscendomi, quasi con una punta di gratitudine, come se volesse parlare con qualcuno ed io rappresentassi l’occasione giusta. Era piacevole quell’ora nel parco, una leggera umidità aumentava la freschezza delle prime ore del mattino, il cielo era pulito come capita qualche volta in settembre quando la notte un poco ventosa pulisce l’alba e la rende brillante, antica. “Allora, sei cascato dal letto o devi ancora andarci?” Uno sguardo mesto, un po’ da cane sgridato, ma pieno di dolcezza mi attraversò andando a finire oltre la curvatura della terra. “Giovanni, che c’è?” “Niente, niente” “Si niente, mi guardi e non mi vedi, sei qui, poco dopo l’alba, tutto

infreddolito…ma cosa ti è successo, Giovanni, mi preoccupi….” “Sai, mi è capitato…ma no! Non mi è capitato niente! Lascia stare, ti ringrazio…” Tirai fuori il portasigari. Non mi andava di cominciare a fumare così presto di mattina, ma era quasi un prendere tempo, così come lo star lì seduto, aspettando che Giovanni si decidesse ad utilizzare il mio aiuto. “ E’ così pulito, in ordine, qui fuori…” “ Qui fuori, e costì dentro? Che cosa ti succede, Giovanni?” “Ecco non vorrei che tu mi prendessi in giro, tu sottovalutassi, vorrei solo poter parlare con te, senza nessun giudizio da parte tua, non una parola, non un commento..” Tacqui, aspirando l’asprezza amara del mio toscano, e mentre mi beatificavo con un’aureola evanescente di fumo, allungai un braccio, dando una pacca leggera sulla sua spalla, come a dirgli....vai, attacca… “Non so quando è cominciato, ne sono disponibile a credere che sia stato così fin dall’inizio perché lei era una bambina…” Mi tranquillizzai di colpo. Stavo per ascoltare la storia di un uomo innamorato, in preda a chissà quale solitudine. Restai in silenzio La mia egoistica tranquillità ebbe un soprassalto nel pensare che forse non avrei potuto ascoltarlo fino in fondo. Certe storie poi non finiscono mai. “Non pensare che io sia innamorato di lei. Non è così. Forse alcuni lati del suo carattere mi attraggono e li trovo intelligenti, positivi, anche se espressi senza alcun riguardo per le persone che le vivono intorno….ed in questo non mi piace, non mi piace.” Fedele alla consegna del silenzio, cercai una posizione meno scomoda sulla panchina; Giovanni interpretò male il mio movimento, invitandomi ad andarmene se per caso mi fossi annoiato. Continuai a guardarlo in silenzio; ricambiò il mio sguardo, e con un piccolo sorriso di scusa, riprese “ Io non so cosa mi succede, vedi, sono molto più vecchio di lei, non sorridere, e pur non credendo nel tempo, nel banale conteggio che ci opprime, proprio io te lo

sottolineo per primo. Forse una barriera a difesa. I nostri incontri sono saltuari ed esprimono solo una grande amicizia, una confidenza infinita. Si parla, per ore ed ore, di tutto. Quasi che ad ogni occasione non volessimo trascurare qualsiasi pensiero, qualcosa di non detto. Parliamo con calma, direi con intelligenza, cercando nella pacatezza del nostro pensare, una forte razionalità non priva per questo di emozione, quasi, forse solo da parte mia, come fosse un penetrarsi, un aversi. C’è modo più bello per avere una persona che penetrare a fondo i suoi pensieri, vederli nascere…. Tra qualche giorno sarà di nuovo qui. Ricomincerà questa specie di deliziosa, intelligente giostra…faremo altri giri…” Lo guardai intensamente, cercando di capire attraverso la cortina delle parole lo stato reale del suo animo, del perché si dava un tormento così profondo. “Altri giri, altri racconti, andando alla ricerca dei perché. Noi parliamo di lei, di me, dei miliardi di galassie nelle quali il nostro parlare si dipana, si realizza ed io guardo, scruto come si muove la sua bocca, come brillano i suoi occhi e mi sembra di ingannarla, perché voglio quella bocca, i suoi occhi!! Ma tra noi, il rapporto…… è…quest’estate, per esempio eravamo soli, nella casa al mare, in salotto. Davanti a noi un intero pomeriggio da are parlando. Indossava una vecchia camicia piena di colori e di patacche, un paio di pantaloni corti che le lasciavano scoperte le gambe e le dissi che nel lungo viaggio da cui era tornata non si era occupata del suo corpo, tanto che dal ginocchio in giù, sembrava un ragazzino, pieno di una bionda peluria. Bene, mi rispose che se fosse stato solo per quello si sarebbe data poco pensiero, perché per il resto sembrava una scimmiotta. Così, con una naturalezza da infarto, si alzò in piedi, e sbottonati i pantaloni se li calò fino ai piedi per farmi vedere che era tutta un pelo!!!. Certo, l’avevo vista altre volte, al mare o in giardino, nuda a prendere il sole, ma così spariva, noi soli in salotto, ogni riparo, ogni asetticità. Restai come un bimbo, col naso appiccicato al vetro di un negozio di giocattoli che non vede che quello che vuole, con le mani che protendono verso la scimmiotta sempre desiderata, con la voglia di immergervi il viso e cancellare d’un colpo ogni differenza, ogni ostacolo. E quel vetro resiste, si trasforma in sorriso, ti irride e con lui ironizza su quel momento magico irripetibile, in cui il desiderio che avevo di lei si fondeva con ogni mio respiro…” Giovanni era teso, arrabbiato, nervoso. Tutto ciò che ho riportato gli era uscito a stento quasi rivivesse con intensità quei momenti, impressi direi a fuoco nella sua memoria. Avrei voluto dirgli che aveva fatto male a bloccarsi, a crearsi inutili vetrine, che forse sarebbe stato meglio tentare di rompere il vetro, a costo

di farsi realmente del male. Magari, in quel momento, la scimmiotta non s’aspettava altro che d’essere presa. Mantenni il silenzio. Il pozzo in cui Giovanni era caduto era profondo, la luce lontanissima…come potevo aiutarlo?. Se mi fossi messo a ricordargli Svevo, avrei perso un’ amico! “Adesso torna, riprenderemo il nostro lungo parlare, cullando la mente nello scambio continuo ed io mi perderò a guardarla, impegnandomi in un confronto attivo, vivo, l’unico che questi anni di finta non solitudine mi offrano, e ti assicuro è…vivificante, pulito, aperto” “E’ bella?” chiesi, e fui sorpreso dalla mia stessa voce. Per fortuna, quasi non avendomi udito, mi rispose. “Bella? No, non come io giudico, di solito, bella una donna. Carina, forse…. non lo so, ma non saprei dire se sia bella, carina, brutta…è come una sorta di magia. Forse la tonalità della voce, la disponibilità intellettuale ampia, quasi totale. Come se non volesse altro che donarmi la sua straordinaria amicizia fatta di partecipazione, di emozione, di uniche e straordinarie ioni…e non potrebbe bastarmi??”. I bambini cominciavano a popolare il parco, con i loro colori, le loro corse, inconsapevoli, gioiosi. “Vorrei che tutto avvenisse in silenzio, con estrema prolungata dolcezza, ogni carezza come un libro di millenaria saggezza dove fosse descritta, attimo per attimo, ogni vibrazione della pelle, dove ogni sguardo fosse il riassunto di ogni possibile tenerezza e…se le sue labbra, infine mi baciassero, vorrei sentire Cortot in un notturno di Chopin..e..se poi fossimo l’uno dell’altra, vorrei che tutto si fermasse, così come doveva essere un’ attimo prima della Creazione… vorrei…” Non presi il treno delle sette e mezzo, né quello delle nove e venti. Per primo presi un caffè amaro che andò subito con gusto a sposarsi al sapore del sigaro, e poi presi un autobus, arrivando in ufficio con mezza giornata di ritardo. Giovanni non poteva che aiutarsi da sé, forse realizzava il suo sogno, oppure se

smetteva di sognare realtà non facile per lui, sarebbe guarito. Nel rivederlo, alla sera, appoggiato alla vetrina di un negozio di giocattoli pensai che la sua malattia, che poi non era che assoluta profonda nostalgia di un corrisposto amore, di dolcezze mai dimenticate, avrebbe avuto il decorso della malaria, che ogni tanto ti assale, ti prostra, sembra ucciderti e non c’è chinino che tenga.

Un week end a Waterloo

Chiuse il libro dopo l’ultima pagina. Lo posò sul divano, guardando con stanchezza gli oggetti, le cose che popolavano il suo studio; studio o qualcosa di simile. Una camera in cui aveva raccolto i suoi libri, quel poco di musica che aveva, qualche quadro. Chiamarlo studio era quasi schernire quelle quattro mura, come prenderle in giro senza che si potessero difendere. Cercò di stare immobile, senza pensare, creando una sorta di vuoto, dal quale far emergere lentamente la storia appena letta, appena conclusa.. Cosa poteva dirne, cosa aveva letto? Un racconto pieno di curiosi personaggi, agitati. Ma chi erano, in realtà che volevano dire. Si stava quasi assopendo, un dormire con gli occhi socchiusi. Ripercorreva la trama del racconto alla ricerca di una originalità di pensiero, quale conduttore di una traccia umana. Già di umano, perché quei personaggi erano tutto meno che umani, oppure lo erano a tal punto da confondere, smarrire ogni possibile identificazione del proprio concetto di umano. Cosa avrà avuto in mente questo scrittore dal nome illeggibile; possibile mai che un giorno sia suonato il suo telefono ed un editore ineffabile gli abbia chiesto di scrivere una storia con tutti quegli ingredienti. Più un’insalata è condita più è gustosa, potrebbe avergli detto. E quell’altro, subito pronto alla macchina per scrivere, senza pensare che più c’è condimento meno si sente il vero sapore dell’insalata, avrà clonato da altre storie più o meno gemelle, il suo libro. Qualche morto in più, lo scenario assolutamente internazionale, uomini di successo, che dico di successo!, uomini capaci di lavorare cinquanta ore al giorno, sposandosi e divorziando contemporaneamente, rivoluzionando mercati, paesi, governi, e poi sesso, sesso, con e senza ghiaccio. Liscio o con soda. Sesso ovunque, dai dodici agli ottant’anni, come un cerchio che si chiuda su se stesso, quasi che oramai sia più divertente leggerne che farlo. Il tutto infarcito con una tale sottile slealtà, un perenne gomitolo di malvagità che dipanandosi fasciava di sé ogni cosa rendendola lucida, accettabile, sul tipo non fatevi illusioni questa è la vita. Ventiquattro euro, iva inclusa. Graficamente discreto, buona carta, traduzione efficace. Ma che aveva letto? Storie di un altro pianeta. Prendiamo il protagonista: se lui, dal suo salottino, quattromura, avesse fatto una telefonata

identica nella forma e nella sostanza a quella di cui aveva letto poc’anzi, che risultato avrebbe avuto? Primo e di sicuro il suo interlocutore non gli avrebbe più rivolto la parola, secondo lo avrebbe mandato a quel paese, terzo lo avrebbe prima querelato e poi denunciato per tutti i reati possibili del codice civile e penale!! Come colpito improvvisamente da una freccia Sioux, scoccata da un capo pellirossa, apparso tra un Rex Stout ed un Salgari, tra i libri del suo scaffale, lo colse un sospetto. Così, imitando James Steawart o Tyrone Power nell’ “Attacco all’ultima diligenza” fece quasi l’atto di ripiegarsi su se stesso, senza però sentire il grido strozzato di Jane che invocava il suo nome “ Oh, Dio, William”..anzi in ordine inverso “ William!…oh! Dio!” E se lo scrittore dall’illeggibile nome, avesse avuto ragione? Se quella porzione di vita che aveva descritto, porzione o pozione, non fosse altro che uno specchio di ciò che accadeva al di là delle amorose tende della sua stanza? E l’unica realtà tangibile fosse stata circoscrivibile nei limiti di un rettangolino di carta chiamato “assegno” che l’ineffabile editore avesse dato all’illeggibile scrittore? Respirò profondamente: Riprese in mano il libro soppesandolo, quasi a ricercarne una sua sostanza nascosta, ne sfogliò rapidamente le pagine sperando che da una occhiata a quell’insieme di parole sorgesse una illuminazione improvvisa, da via di Damasco. Che da tutto quel sesso a pioggia ne nascesse un suggerimento del tipo che non c’è solo sesso ma anche amore. E per chi, in ogni caso? Fra i protagonisti di altre storie che l’illeggibile non avrebbe mai scritto: oppure, a suo onore, ne scriveva e ne avrebbe scritte di bellissime e mai pubblicate in assenza di un editore giusto. Qual rovello?! Quali ambasce potevano nascere dalla lettura di ventiquattro euro iva inclusa, distribuite su duecentoventi pagine e qualche milione di caratteri. Tuttavia doveva risolversi, mancavano giusto venti, venticinque minuti alla telefonata “fatale” che avrebbe deciso delle prossime ore e doveva prepararsi con meditata eleganza. Si, proprio così. Per cominciare non doveva far trasparire il suo stato ansioso, doveva comportarsi come quelle damigelle di una volta, dal guanto caduco, sicure che sarebbe stato raccolto dalla mano giusta. La casa, libera fino a martedì, si sarebbe trasformata in un nido di vietate dolcezze. Questo era il programma, fino a domenica sera. Poi avrebbe trascorso tutto il lunedì travestito

da Sherlock Holmes alla ricerca ed alla cancellazione delle tracce di un sabato e di una domenica vergognosamente peccaminose…. Opera di difficilissima attuazione perché l’imprevisto è terribile e può saltare fuori a distanza di tempo quando meno uno se l’aspetta. Certo tutto questo preoccuparsi del dopo diffondeva di sottile, quasi impalpabile angoscia il prima. Avrebbe condizionato anche il durante? Già si figurava, il martedì, con un’aria un po’ annoiata, un tantino triste, dichiarare che sabato e domenica soli senza saper con chi bisticciare, con chi prendersela, erano davvero blee…e che meno male non succedeva spesso. Pensò che avrebbe dovuto assumere una espressione stanca ma allegra per celebrare il suo ritorno….meno male che ora sei qui!! In fondo non si stava adeguando lentamente ad uno dei personaggi del libro da poco vituperato? Come si sarebbe comportato il bel James al suo posto, se non con assoluta sicurezza e tranquilla padronanza. Senza rimorsi. Soprattutto senza vedere alcun male in quello che faceva, anzi pregustandone il bene. Oppure e forse nemmeno questo. Andava dritto, prendeva il bene di ciò che veniva, ringraziava, ma poi nemmeno tanto, e girava pagina. Lealtà, certo al suo godimento. Lealtà con se stessi. Se uno è un porco, è giusto che si comporti così. E se non lo è, non vada a trasformarcisi perché non ci riuscirà mai. Un porco nascosto, pieno di complessi, una via di mezzo tra lealtà e porcineria. Uniformarsi a tutti gli altri. Accampare scuse. Nel lasciare andare i suoi pensieri in completa libertà cercò di ripristinare l’uso dei muscoli sottoponendoli ad una prolungata e godibile stiratura, ed era appena a metà del rilassamento quando lo squillo del telefono lo bloccò di colpo. “Perché non mi hai telefonato?” Erano trascorsi quaranta minuti dall’ora prevista per l’appuntamento telefonico! Si era perso nel suo ragionare confuso dimenticandosi la cosa più importante da fare. Le scuse, le moine, i complimenti, organizzò una piccola vivacissima piedigrotta che raddolcì la sua indispettita Annarosa. Lei per altro si fece desiderare, lasciò che lui la convincesse, stimolandolo a raccontarle per filo e per segno quale sarebbe stato il loro programma, cosa avrebbero fatto, dove lei avrebbe dormito, e infine se poteva stare tranquilla. Fidarsi? Come un angelo, più che una sorella, meglio che un gatto coccolone ai limiti di un sogno, sdraiato sulle sue ginocchia.. Insomma.

L’appuntamento alla stazione, all’arrivo del treno. Così aveva tutto il tempo per rifinire l’accoglienza. Certo che quel chieder quasi se poteva fidarsi, celava che in cuor suo che voleva correre un rischio, e che infine un minimo di disponibilità c’era….se stavano così le cose, stava a lui condurla per mano, con delicatezza, a fidarsi. Ma visto che di norma si utilizza il proprio metro per misurare gli altri c’era da domandarsi se quel suo chiedere se poteva stare tranquilla non era più che altro diretto a se stessa. Era di se stessa che non si fidava del tutto, se così fosse stato stava a lui controllare che il tutto fosse ben lievitato e qual’era il grado di cottura. Una buona impressione iniziale è quello che conta. Preparò un buon letto, ben sistemato, con le lenzuola più allegre in una piccola camera spolverando velocemente i mobili. Con un’occhiata d’insieme si approvò totalmente. Al suo arrivo tutto doveva corrispondere a ciò che lei si aspettava, e solo allora osservandola bene avrebbe potuto leggere sul suo volto cosa lo attendeva nelle prossime ore, anche perché il tutto poteva risolversi in una tragicomica Waterloo: che però quando uno dice Waterloo pensa subito a Napoleone, ma per gli altri fu una grande vittoria, quindi non anticipiamo gli schieramenti. Di sicuro quando se la vide avanzare sulla banchina della stazione si autocongratulò con affetto! Annarosa era assolutamente una ragazza, anzi una donna di grande bellezza. Tanto che si chiese cosa spingeva una creatura così completa, da suscitare sguardi di ammirazione e dolci commenti anche da parte delle donne, cosa l’aveva spinta ad accettare il suo invito. Tutto sommato persino meschino, con quel…. sai resto solo il fine settimana, perché non vieni a trovarmi….Brutto. E allora? Caro il mio Napoleone…. fu convinta dalla fiducia!! E’ così che si pregustano le sconfitte. Ma anche le vittorie! S’ingobbì quasi nel prenderle la valigia e mentre si dirigevano verso l’auto, respirò a pieni polmoni un profumo che conosceva benissimo, cercando con il ridere e lo scherzare di farle una gradevole accoglienza. Dentro di se, si vedeva sul banco degli imputati, accusato di supponenza, di manie di virilismo: con un immaginario e leguleio largo gestire s’invitò a guardarsi irridendosi senza pietà. Distolse lo sguardo da se stesso e furtivamente guardò la dolce Annarosa, mentre galantemente aperto lo sportello dell’auto, l’aiutava salire in macchina. “Signori giurati, popolo mio, giudici…macché supponenza, macché manie…chi di voi sapienti e saggi signori, chi di voi, dall’alto della vostra grande umanità, resterebbe che dico insensibile, che dico freddo, che dico inalterabile di fronte

allo spettacolo veloce ma indimenticabile, elegante ed eccitante, rapido, impresso nella memoria a caldo, di quelle due stupende gambe che Annarosa sollevò nel sedersi? Siate giusti e clementi….” Lo furono. Innestando la retromarcia si autoassolse mentre la vettura si riempiva del profumo raffinato di Annarosa. “Com’è bella, Firenze !” Firenze? Firenze non ha certo queste labbra rosate e leggermente carnose, ne la tua fila di denti candidi, ne il tuo naso distinto di donna di classe, e poi non ha i tuo occhi così grandi, sereni, due laghi in cui fare una lunga e ristoratrice nuotata, e poi non ha i tuoi….. “Ora che la guardo attraverso te, mi sembra più bella, Firenze…” Disgustoso cretino! Tieni la bocca chiusa, che significa questa specie di complimento barocco e cicisbeo…immagina quante volte le hanno detto che è bella, e te che vuoi fare??? Far parte del coro, o vuoi fare una cantatina tutto da solo…si, ora, anche più di una! “Mi prendi in giro. Abituato a vivere in mezzo a questi splendori…oh! Ti puoi fermare…ho sempre desiderato di visitare Santo Spirito, è dell’ Alberti, vero? Posteggiata l’auto, vide un vecchio trippaio sbiancare in volto. Annarosa era scesa di macchina senza badare troppo alla sua gonna corta. Il trippaio fu miracolato a metà pomeriggio!!! In chiesa si dimenticò quasi delle sue ambasce, tanto che nella descrizione di ciò che vedevano, mentre le raccontava di ogni navata, di ogni cappella, non si accorse quasi che aveva preso per mano Annarosa. E fu un bene. Si comportò come James, con noncuranza, naturalezza, finché turbato da tanta audacia, portandosi le dita di lei alle labbra, le accarezzò dolcemente…. Ritonfa! Inguaribile affossatore di se stesso. Si pensò armato di una pala mentre si scavava una grossa buca vicino alla tomba del conte Uberti. Annarosa lo salvò, sfilando la mano e chiedendogli, col tono di una miss inglese, se quel trittico era del Ghirlandaio … no, mia cara, il Ghirlandaio si riconosce per…… Arrivò il momento di uscire di chiesa, in un tiepido pomeriggio di primavera.

Tutto sommato, pensò, a parte due o tre cadute di stile, riteneva di essersela cavata benino, con sufficiente distacco, alla James. Il trippaio che non credeva ai miracoli si era appostato per ringraziare il suo “dio bono” di tanta grazia. Ma oramai aveva capito e la delusione del trippaio fu totale. Era la seconda volta che Annarosa saliva in macchina, ed era per la seconda volta che sentiva rimbombare in mezzo alle case l’urlo di Tarzan, lanciato tra i rami e le liane della giungla. Si rimise al volante sicuro di sé, cianciando delle vecchie strade di San Frediano, di quella umanità genuina, spontanea, delle persiane verdi, riuscendo a ritrovare un suo equilibrio nonostante il profumo avvolgente della sua compagna. Si disse che era arrivato il momento di fare il punto della situazione. Se fosse stato un film avrebbero cominciato a scorrere i titolo di testa…..la Metro Goldwin Mayer presenta (suoni di tromba ) “Week end a Waterloo” con…o perché Waterloo? Quasi una preveggenza, come quando si è in gita sfruttando una bellissima giornata ed improvvisamente si sente odore di pioggia. “E’ verde” .. ..ripartì, respirando di nuovo il suo profumo. “Shalimar?” “ Bravo! Te ne intendi. Ti piace ? » « Lo adoro, trovo che tra gli antichi profumi sia il più straordinario” Arrivarono sotto casa ed il cuore gli cominciò ad andare per conto suo. Prese la valigia ed entrarono insieme in ascensore. Era la prima volta che le stava così vicino: ne vedeva la pelle ambrata piena di piccole efelidi, sentendosi assalire da una voglia ragionieristica di averla, nuda, tra le mani, e contarle una ad una. E poi ricontarle di nuovo. Inebriato pensò che avrebbe lasciato, lunedì, le finestre spalancate, il suo materasso sul balcone perché anche lui si sarebbe ubriacato di Shalimar. Già il suo materasso. Entrarono. “Bella la tua casa, piena di oggetti, posso curiosare?!” Guarda pure che io ti guardo: le tolse il soprabito. Portava un pullover di qualche misura in meno, ed una mini gonna di jeans dalla quale sbocciavano, petali, corolle, fiori, due gambe superbe. Ripensò al trippaio!! Chissà se fosse stato al

suo posto, forse l’avrebbe stesa sul tappeto annaspando con quelle manone tutto quel ben di dio, eccitato anche dalla sua naturale resistenza. E se la fanciulla non avesse resistito? Di certo lui non lo avrebbe mai saputo! “Qual è la mia camera?” Fedele alla fiducia, ormai recitando la parte di James l’accompagnò dove aveva disposto il letto con le lenzuola divertenti…. Così si prese una prima bordata di complimenti, del tipo, ma come mi hai anche rifatto il letto, che carino qui, anche tu sei caro, starò benissimo, sei adorabile. Girava con naturalezza per casa, lasciando un buon sapore di se, scoprendo i segreti di altre presenze, con un pizzico di impertinenza alla quale lui si arrendeva totalmente affascinato da tanta vivacità. Come se ne prendesse possesso. D’altro canto aveva l’impressione che gli oggetti stessi, accarezzati da quegli occhi bellissimi si disponessero ad esserne interamente posseduti. Talché si rivolse loro con un’aria di rimprovero, come, a poche ore dalla partenza delle vostra padrona siete già pronti a darvi ad un’altra….mi meraviglio di voi! Risposero con un coro da far invidia ai Nibelunghi … che potresti anche farci venire da ridere, per lo meno noi stiamo qui fermi senza scodinzolare per casa! Sii serio.“ Perché sei così serio??” Macché serio, Annarosa, sono felice di averti qui, molto felice, si sentì rispondere. Ma era un’onda lunga che ogni tanto lo riportava alla realtà degli impegni quotidiani. Quasi che questa specie di trasgressione, che aveva messo in atto, non gli consentisse al limite di viverla fino in fondo. Un attimo di defaillance, di caduta; riprese quota immediatamente invitando Annarosa a sistemare la sua valigia, indicandole la restante disposizione della casa. Appollaiato su un piccolo panchetto seguiva gli spostamenti di Annarosa guardando le sue cose con curiosità, in un chiacchiericcio ritornato, per poco, allegro e vitale. Annarosa optò per cenare in casa, così sarebbero stati soli senza distrazioni perché lei aveva tanta cose da dirgli, era ansiosa di raccontarsi, di avere consigli, stava attraversando un terribile periodo della sua vita; nel dirlo cambiò incredibilmente espressione, aggiungendo che aveva accettato il suo invito per aver modo di parlare con lui, perché credeva di poter essere aiutata. Eccolo servito. “Però alla cena ci penso io”, disse Annarosa sorridendo nuovamente. Era bravissima con gli sformati, e se avesse avuto degli spinaci…Si sentì come Bracciodiferro. “Ti dispiace se mi faccio una doccia e mi metto un po’ in libertà”

Sulla doccia aveva capito perfettamente cosa voleva dire, mentre gli rimaneva oscuro il concetto di libertà. Se avesse voluto dire meno vestita di com’era bisognava si preparasse spiritualmente all’impatto. Ma, dunque, andiamo, non comportiamoci come adolescenti alla loro prima volta, che mai sarà se, libera, avesse voluto dire meno vestita. Tutta questa sensibilità esasperata; era una ragazza giovane, in casa di un amico più anziano…molto più anziano?… secondo i canonici conteggi del tempo: mica in casa di un satiro affamato! Ah, no? Contegno. Non fare il cialtrone. Sii James. Sentì scorrere l’acqua della doccia. Un lampo improvviso lo colpì. No, non poteva fare una cosa del genere. Farlo a lei e soprattutto farlo a se stesso! Avrebbe voluto dire capitolare nella stupidità più acuta…Si tappò gli orecchi andandosi a sedere nel suo studio. Il romanzo dell’ illeggibile scrittore lo guardava sogghignando dal divano, suggerendogli invasioni sbadate nel bagno. Vai!, non perdere tempo. Non andò; prese il libro tentatore e lo mise sotto una pila di saggi sull’intelligenza artificiale: che imparasse! Attaccò il compact, inserendo un disco di musica per spinetta veneziana. Picchi, Facoli e Gabrieli. Sentiva il bisogno di una doccia distensiva e così appoggiato allo schienale della sua poltrona rivide in sequenza i suoi piani di battaglia studiati uno per uno, con una buona dose di ironica nostalgia. La sua serata sarebbe trascorsa ascoltando le pene di vita e forse d’amore di Annarosa, come una telenovela vissuta da protagonista, caro il mio Napoleone Casanova. Altro che rutilante notte alla scoperta del suo corpo, avrebbe scoperto il suo animo. Ma che forse c’era qualcosa di più intimo dei suoi pensieri, delle sue giovanili ansietà dei suoi grandi problemi…di certo bisognava convincersi che questo voleva dire avere un essere umano, penetrarlo così intensamente da avere un tale contatto che l’altro riversasse tutto se stesso nelle tue mani. E dunque la sua anima sciorinata davanti al suo naso, sezionata in ogni risvolto, analizzata alla ricerca di una verità aderente ai suoi bisogni, alla sua essenza di donna. E che! Se lei si fosse limitata ad andare a letto con lui, cosa ne avrebbe avuto, quasi niente rispetto a ciò che lei stava per dargli. Si invitò a non essere superficiale, a rientrare nel personaggio serio, affettuoso, quasi paterno. Non esageriamo, e nelle correzioni cancelliamo questo aggettivo. Insomma l’uomo maturo, del quale potersi fidare, al di sopra delle debolezze della carne, al quale darsi veramente. Ecco, bello questo, Lei stasera dopo cena si darà a lui totalmente con tutti i suoi pensieri, sogni, progetti e quello che lui avrà in mano sarà la possibilità di delineare il suo futuro, fare quasi un preventivo dei prossimi anni. Questo significava anche essere amati, perché solo se si ama ci si da così totalmente.

Stava sparando le sue ultime cartucce intellettuali alla ricerca di una panacea che lo convincesse a vedere con occhio benevolo la catastrofe imminente, quando Annarosa gli apparve nel vano della porta in “libertà”. Non si ricordava più se il generale Cambronne all’intimazione di posare le armi, gonfiando il petto pieno di medaglie, gridasse rivolto al nemico “ Merde” oppure “ La guardia muore ma non si arrende”. O tutte e due insieme, perché sia l’una che l’altra stavano a pennello a quella che gli era sembrata una richiesta di resa, appena apparsa sulla porta. “ Cos’è, non ti piaccio?!” Si era sciolta i capelli castano-chiari che, soffici intorno al volto e sulle spalla incorniciavano i suoi occhi con tenerissima dolcezza. Aveva indossato un curioso abito dalla gonna cortissima, che abbondantemente scollato gli ricordava costumi, per la parte superiore, ottocenteschi. Girò su se stessa con un movimento infantile e gaio, rivelando il rivelabile, con affettuosa allegria, del tipo –guarda come sono carina- il tutto condito dalle note di una cinquecentesca - canzon se- del Gabrieli. Chissà se questo musicista vedendo quello che vedeva lui, avrebbe continuato a suonare la sua spinetta o sarebbe morto per un colpo al cuore. “Girati ancora” ordinò con voce strozzata, e Annarosa sorridendo, quasi bambina, eseguì prontamente due o tre volte, spandendo la sua freschezza come frammenti di stelle. “ Vediamo cosa c’è in cucina”: Niente, non c’è niente da nessuna parte, in nessun luogo remoto dell’universo c’è niente di meglio di quanto ci sia nel vano della mia porta. Castelli incantati, ville principesche, tende di sceicchi miliardari, grattaceli di multinazionali, cattedrali millenarie, musei, ermitage delle mie palle, cosa non dareste per trasformarvi nei pochi metri quadri della mia stanza!!! James lo prese per mano, accompagnandolo verso la cucina, dove lo spinse con leggere pacche sulle spalle. Calma, amico, falle vedere dove sono gli spinaci… Si, gli spinaci… “ Ecco, Annarosa, a te gli spinaci…” Come il suono di una sveglia il trillo del telefono lo scosse riportandolo di colpo

alla realtà. Si avviò a i pesanti e stanchi verso la camera, sollevò il ricevitore e se ne uscì con un lugubre “pronto”, così strascicato e abbattuto, pensando a cosa fosse pronto, alla disfatta, certamente. Come il canto del cigno. “Uh! Uh! Sei vivo, sono arrivata, pronto, ci sei?” Ma si che ci sono, come stai… e come un torrente in piena, di cui si conosce ogni anfratto, ogni gora, si lanciò alla ricerca di una sicurezza perduta, rinnovando un po’ del suo normale entusiasmo. “ Cosa facevi, dormivi già?” “ Ma si, mi ero assopito, e forse sognavo.” Guarda, qualche volta inconsapevolmente capita di dire la verità: Nient’altro di meglio avrebbe potuto dire se non che stava sognando. “Torno martedì sera, sarai mica già stanco di stare solo?” James lo aiutò. “ Non…sto benissimo senza di te, anche se mi manchi molto”. Che poi in fondo era al momento falsamente vero. Paradossi compresi. In cucina sembrava fosse ata la fatina di Cenerentola. Il tavolo ben apparecchiato, le candele accese, il soufflè in forno, e Annarosa che a braccia protese gli andò incontro abbracciandolo con dolcezza, con un leggero bacio su una guancia, sussurrando di essere calma, sicura di potersi raccontare. Da elettrochoc. Attraversò alla velocità di un fulmine sensazioni paterno protettive, oppure…che grande amico che sono......fino a facciamo all’amore sur un grand lit carrèe jusqu’a la fin du monde….Annarosa, incurante dell’effetto tempestoso che scatenava, chiacchierava beatamente seduta tenendo d’occhio il forno, mentre lui teneva d’occhio l’orlo della sua cortissima gonna esercitandosi in telecinesi per abbassarlo il più possibile per non vedere quello che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere, perso ogni speranzoso progetto di avere. Se questo tormento fosse durato fino a domenica sera, altre ventiquattro ore, avrebbe perso dieci chili di peso. Il che, come risultato, poteva anche essere accettabile. Il soufflè era di una bontà unica, talmente ben fatto e delicato che dimenticò, per qualche minuto i suoi tormenti. Bevvero una bottiglia di vino e si accorse che Annarosa non si tirava indietro nel bere, anzi. E per di più la sua allegria tendeva all’aumento ridendo per un nonnulla, forse in misura forzata; tuttavia si sentì spronato a infilare una battuta dietro l’altra, riesumando dal suo repertorio gags su cui sapeva di poter contare. Tentò poi, alla frutta, qualche

discesa sul lubrico e Annarosa lo segui tranquilla ridendo con un cocktail di rossori e divagazioni sul tema, dimostrando una velocità di riflessi che non facevano che riaccendere fuochi di speranze soffocate. Tra il dire ed il fare… “ Ora lavo i piatti!” “ Non ci pensare neppure, tu non fai niente::” e si alzò portando le stoviglie all’acquaio. Non si era accorta, l’innocente, che la corta gonna le si era tutta arricciata sulla schiena lasciando in primo piano uno slip di seta color carne. Avvertirla avrebbe voluto dire averci fatto caso, per cui giudicò più signorile far finta di niente, non dar peso alla cosa. Il peso della serietà. Mai lavatura di piatti fu più goduta e ci fu anche una sorta di pausa, come tra un primo ed un secondo tempo, quando saputo che il profumo del tabacco da pipa le piaceva moltissimo, sfruttò tal doppio godimento. La Charatan ben caricata e l’occhio decisamente appagato. Con due dita di cognac nel bicchiere si trasferirono nello studio che -povere quattro mura- stava acquistando lo splendore di una sala da ballo di un castello di fate. La sua personale fata si accomodò in poltrona, per volontà di dio, pudicamente disposta, e chiesta un po’ di musica intelligente (scelse nientemeno che un concerto per piano di Beethoven)… “ Ora ti parlo di sco..” “ …d’Assisi, spero” “ No, non d’Assisi, ma di sco mio….” Eccoci, Annarosa aveva un sco: chi era questo essere immondo, questo mostro spaziale che oltre a questo stupendo corpo, si era preso il cuore, il cervello ed ovviamente tutto il resto della bella Annarosa? Come poteva abbandonare questo pozzo di dolcezze, abile persino ai fornelli, lasciandola andare in un’altra città, abbandonarla agli sguardi non casti di un qualsiasi trippaio, e non are i pomeriggi in te-deum di ringraziamenti? Ora lo avrebbe saputo, bastava aspettare. “ Io e sco stiamo insieme da cinque anni- ventitre meno cinque fa diciotto, però il brutto porco- e sco è per me la persona più importante della mia

vita. sco è malato…” “ Annarosa - si sentì dirle- raccontami ciò che vuoi e dimmi se alla fine del tuo racconto desideri un mio consiglio, oppure se tutto questo non ti serve che per riepilogare a te stessa questo tuo pezzo di vita, e basta” “ Sei dolcissimo, voglio invece che tu mi guidi come un’ amico più grande” Si era salvato da una attribuzione di paternità putativa. Annarosa assunse un’espressione di una serietà che non avrebbe mai sospettato. “Conobbi sco alla fine del liceo. Lui era al quarto anno di ingegneria, studiava a Bologna. sco è un uomo bellissimo, alto con i capelli neri e degli straordinari occhi verdi. La vita oltre a questo non gli ha dato molto di più. Lavorava per mantenersi all’università con grande fatica. Suo padre era in sudamerica…la madre, chiusa in una clinica per malattie nervose, in preda ad una malattia che l’aveva resa di estrema fragilità….mi raccontò che il suo babbo l’aveva sorpresa in un atteggiamento d’amore verso una sua antica compagna di studi, e di qui le liti, le incomprensioni, il divorzio e la separazione, forse anche la pazzia…” La voce di Annarosa si era fatta profonda, seria. Non emergeva più la ragazza bella dalla cortissima gonna, ma la donna pensosa, attanagliata da un dolore che, nel procedere del racconto si faceva sempre più devastante. “In treno, tra Milano e Bologna lo avevo seduto di fronte e me ne innamorai vedendolo mangiare e studiare. Poi per caso lo ritrovai e lo conobbi. Non posso descriverti cos’è stato per me incontrare sco se non con una metafora, come il aggio tra il buio e la luce. Fu come se fino ad allora non avessi mai vissuto. I miei genitori, i miei viaggi all’estero, e i primi innamoramenti, tutto scomparso, annullato. sco è positivo, determinato, da sempre di non tante parole. Dopo i primi turbamenti causati da questa nuova dimensione di donna, è stato sco il mio primo e solo uomo, la nostra vita si è svolta regolare, tranquilla. sco si è laureato…” Si alzò, gli parve giusto riproporre altra musica, mentre Annarosa seguiva il filo del suo ricordo; scelse la seconda di Sibelius, venti e mari di terre lontane, maree e cime di alberi piegati in un cielo naturalmente plumbeo, quasi ad indurla a non trascurare niente di sé. “ ….poi il lavoro alla Montedison. Io amavo tutto di lui, anche la sua meticolosa ripetitività di gesti, di atteggiamenti, mi davano

sicurezza. E poi amavo..” “ Amavi…?” Annarosa lo guardò, imbarazzata, cambiò posizione sulla poltrona, bevendo un sorso di cognac e lui bevve un sorso di lei. Non poteva farne a meno. Chinò dolcemente la testa da un lato, socchiuse gli occhi, e quando li riaprì erano umidi di pianto. “Qualunque cosa tu stia per dirmi ricorda questo Annarosa. Primo, il tuo tormento potrebbe non finire finché lo terrai chiuso dentro di te. E resterà tale se non riuscirai ad uscirne, a capirlo. Ma non ti abbandonare al pianto, lotta, sii forte anche perché, per le regole del giuoco, hai davanti a te tutta una vita da vivere.” “Ma che vita sarà!! Avremo dovuto sposarci qualche mese fa, a settembre, poco primo che ti conoscessi…sco fu inviato in Arabia..e ne è tornato solo da poche settimane. E sono stati giorni d’inferno.” Pensò, osservando che era quasi mezzanotte e che secondo uno dei suoi piani di azione, più o meno a quest’ora avrebbero dovuti essere o abbracciati su una pista da ballo di un particolare localino tutto pianoforte e luci basse, o essere seduti, accanto, sul divano impegnati in uno dei tanti giochini preliminari a giochi molto più intensi. Mentre ora si trovava ad ascoltare, con doverosa attenzione, una donna quasi sconosciuta, dai lineamenti tormentati da chissà quale dolore, a tratti disperata. Ma era la stessa ragazza che poche ore prima gli era apparsa “in libertà”, sulla porta del suo studio, la stessa che gli aveva preparato un soufflè favoloso e che gli aveva dato quello spettacolino con la lavatura dei piatti? E dov’era la sua allegria, la sua gioia di vivere. Bravo -si disse- ora si trovava impegnato ad aiutare una persona che si stava dando completamente a lui, nelle sue mani, spiritualmente s’intende, e che da lui si aspettava chissà quale miracolo. Represse uno sbadiglio, non per cattiveria, ma il fumo, il cognac, il dopocena cominciavano a farsi sentire. Annarosa si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla libreria, scorrendo con lo sguardo i titoli dei libri; la lasciò fare, in silenzio. Limitandosi ad ammirarla: una spallina del suo abito stava scivolando, ma non se ne dette cura, cosi che le sue spalle illuminate esaltavano la poca luce della lampada da tavolo. Si alzò in punta di piedi per leggere un titolo sullo scaffale più alto, protendendo il corpo. Era veramente bella. Lasciò are una serie di interminabili minuti mentre le ultime note della sinfonia di Sibelius

sottolineavano il loro silenzio.Accese di nuovo la pipa e si versò un’ altro goccio di cognac. Continuava a guardarla, povera creatura messa di fronte a problemi forse insuperabili…può mai darsi che il sco voglia abbandonarla, sarà mai possibile? Annarosa parve improvvisamente stanca, come per sorreggersi appoggiò una mano ad un ripiano della libreria e lentamente vi fece scorrere la fronte. Si fermò a lungo in quella posizione respirando profondamente. Sembrava quasi volesse riprendere fiato, ma era un pianto sommesso, contenuto; si alzò e le si avvicinò. Stava per mettere la sua mano sulla spalla nuda, ma fu colto da un attimo di imbarazzo. Le accarezzò i capelli. Annarosa si volse verso di lui e con una naturalezza tutta infantile lo strinse a sé gettandogli le braccia intorno al collo. Ebbe più o meno la stessa sensazione che deve provare uno che si lancia da un aereo e non gli si apre il paracadute! Si sentì sprofondare. Quel profumo inconfondibile del capelli, il seno premuto contro il suo petto, il sussulto frenetico di tutto il corpo di Annalisa lo convinsero a sciogliersi subito dall’abbraccio. Non subito. Non subito, perché istintivamente volle carpire, quasi a tradimento i contorni di quella meraviglia abbandonata contro il suo corpo. Quando si rese conto che stava reagendo senza il minimo di carità e di comprensione, l’allontanò da sé e, tenendola per la vita, l’accompagnò a sedersi in poltrona. Corse in camera, leggermente accaldato a prenderle un fazzoletto. Gli occhi, con ancora una traccia di rimmel, leggermente imbrattati dal pianto, avevano uno splendore meraviglioso…le lacrime avevano dato colore al volto di Annarosa che gli apparve di una luce intensa, più matura esprimendo un sentimento diverso, così gli parve, come se invece di uscire dal pensiero di un grande tormento, fosse il risultato di una notte d’amore. “ sco…” “ Non mi chiamo sco…” abbozzò nel tentativo di suscitare un sorriso.“ sco, tornato dall’Arabia venne a Bologna per vedere come avevo sistemato la casa, la nostra casa. Era strano, triste, sembrava stanchissimo. Gli piacquero le cose che avevo comprato, le tende, le poltrone, ma era disattento, quasi estraneo. Mentre preparavo la cena, invece di starsene con me in cucina ad aiutarmi, a chiacchierare, si isolò davanti al televisore. Lo lasciai fare senza intervenire. Pensando a quanto doveva essere stanco, e a chissà quante difficoltà era andato incontro. Cenammo parlottando del più e del meno, senza allegria. Misi a posto la cucina e lo raggiunsi in salotto: semisdraiato sul divano si era completamente rilassato. Pareva assente, ma il suo sguardo si fece improvvisamente duro cattivo, non gli avevo mai visto una espressione che ora posso definire di disgusto.

“ Spogliati” mi ordinò. Restai di marmo. In cinque anni i nostri rapporti erano improntati di una dolcezza incredibile, che mi aveva completamente assorbita. Era sempre sco a prendere l’iniziativa svestendomi lentamente, preoccupandosi più del mio piacere, portandomi, ti direi, per mano, ogni volta fuori del tempo. “Spogliati” Era un ordine, secco. Cattivo. Restai immobile, con una gran voglia di piangere. “ Ma, perché?…”.Allungò il braccio e con un solo strappo mi tolse la gonna leggera. Indietreggiai spaventata, ma pensando ad uno strano scherzo, ritornai verso sco tendendogli le mani. Mi prese per i fianchi spingendomi con violenza sulla poltrona e con una rabbia che non gli conoscevo mi strappò di dosso gli slip gettandosi sopra di me. Ne fui stordita, avvilita, in preda ad una paura mai conosciuta, non per me, per quello che mi sarebbe capitato, ma per lui, per sco…cosa sarebbe stato di noi dopo quello. sco sembrava impazzito, entrò in me e gridai di rabbia, di dolore…” Non riusciva più a frenare il pianto, era senza singhiozzi. Il ricordo della violenza inaspettata e sofferta pareva immenso. “ Non, non soffrivo per quello che mi stava facendo, per il male che mi dava, capivo forse come la vita che con tanto amore, gioia, ci stavamo costruendo preparando andava in mille pezzi. sco si bloccò improvvisamente, mi guardò e mi vide così terrorizzata che si sollevò dal mio corpo sedendosi su tappeto…e poi….poi…abbracciato alle mie gambe cominciò a piangere come un bambino. Udivo il suo pianto e lo confondevo con il mio, ancora piena di speranza, impaurita ma disposta ad ogni perdono, tentai di sollevare una mano per accarezzargli i capelli…Si scostò da me con violenza rifiutando la mia carezza. Lo chiamai, urlando quasi il suo nome, ma sco rannicchiatosi sul tappeto mi volse le spalle affondando la testa tra le ginocchia…” La guardò a lungo con commozione. Le porse di nuovo un bicchiere con un po’ di cognac, pregandola di berne un goccio. Erano già le due del mattino e il dramma di Annarosa era forse vicino all’epilogo. La stupenda ragazza di qualche ora prima sembrava invecchiata di colpo, come sgualcita. Andò in camera e le prese uno scialle perché coprisse quelle spalle, quel seno rigato dalle lacrime. Anche lui non riusciva a vedere altro che una creatura sofferente e delusa come fosse il riflesso di un mondo che odiava dal profondo del cuore per la sua stupida

cattiveria, un mondo talmente abituato alla violenza idiota che non aveva più niente di umano. Invitò Annarosa ad una pausa, a riposare, e nel silenzio del suo cuore ordinò alle sue voglie viril-libertine di andare a farsi fottere da un’altra parte. Inginocchiato vicino ad Annarosa le coprì le gambe con le lunghe frange dello scialle. Voleva proteggerla da tutto, voleva in qualche modo farle capire la sua comprensione. Il cognac, il calore dello scialle quei piccoli gesti di lui la rianimarono un poco. “sco mi chiese perdono, perdono mille volte , io mi gettai alle sue spalle abbracciandolo con tutta la tenerezza possibile pur percependone la totale freddezza. “Annarosa… -ed io …subito sono tua, amore, sono qui…- Annarosa il nostro mondo è finito, tra noi il nostro mondo è morto, non possiamo più vivere insieme: in me, tutto è cambiato, non posso mentirti, perché ti amo, ti ho amato tanto. Ma io per te sono morto, morto per sempre…” “Ti giuro, riprese Annarosa tra le lacrime, non riuscivo più a respirare, mi girava la testa, non capivo le parole, le sentivo ma non gli davo senso, significato, ne udivo solo il rumore, il suono che mi si faceva assordante. Con terrore ebbi la sensazione di essere sola, sensazione liberatoria di aver avuto un incubo che niente fosse vero, come in film, dove ti spaventi a morte…ma non è vero niente. Era invece un terribile realtà. Le ultime parole che sco aveva pronunciato mi rimbombavano nella testa, trascinandomi in un’altra dimensione, in un universo che non mi apparteneva. Mio dio, no , sco, aspetta aspetta non te ne andare, non spaccare di colpo la mia vita, fermati, fermati, parliamo….mentre lo supplicavo si stava rivestendo, mi si rivolse con uno sguardo acido che mi raffreddò. Era vero, non avevo capito, e continuo a rifiutare di comprendere quello che tra le lacrime mi aveva confessato. sco se ne andava, se ne andava per sempre. Le basi della mia vita erano frantumate, polverizzate. sco… si… sco si era innamorato di un arabo, se ne era innamorato perdutamente, dio mio !, lui, il mio sco, di un ingegnere arabo….anche adesso solo nel dirtelo nel pensarlo, provo un dolore fisico profondo, che mi attanaglia lo stomaco, mi da il vomito….” Tacque, spossata. Il silenzio delle ultime ore della notte rotto dal aggio di qualche rara automobile. Lo studio immerso nel fumo del tabacco da pipa, ogni

oggetto appariva stanco, avvilito. Lui stava pensando, per riprendere un po’ fiato, che poteva paragonarsi, il suo patire, a quello di Napoleone che sceso da cavallo per fare due i, si fosse sentito preso di mira da un centinaio di colpi di cannone. La vicenda di Annarosa era terribile. Alla delusione di un amore spezzato, quello di un tormento incomprensibile. L’idolo infranto, l’uomo bello, alto dai grandi occhi verdi, l’uomo impegnato, diritto ai suoi progetti, amato ed aiutato, amato e accudito, amato e sperato si era spaccato. Una specie di dio, morto sul colpo. Guardò l’ora, le tre e mezzo. Annarosa sembrava assopita. Non era il caso d’intervenire ora, per di più non aveva quasi mai parlato in tutta la sera e quello che gli ava per la testa era indicibile, perché si era, a quelle bordate di cannone, completamente svegliato. Anche se non poteva evitarsi di pensare a quante volte aveva rimproverato sua madre di non averlo fatto alto, moro e con gli occhi verdi…e come un flash improvviso gli venne in mente quella vecchia pubblicità trasformandola in ..c’è un arabo nel tuo futuro!! Doveva cucirsi la bocca e si dette del bastardo. Abbracciò Annarosa sollevandola dalla poltrona, lentamente accompagnandola con dolcezza verso la camera da letto. La sua, quella di Annarosa. L’aiutò a sedersi sul letto. Sembrava ipnotizzata, atona. Le appoggiò la testa sul cuscino coprendole il corpo con un piumone. Posò le labbra sulla fronte di Annarosa e spense la luce. Nel piccolo corridoio, verso la camera, spogliandosi meditava su cosa diavolo gli era venuto in mente! Altro che Waterloo! Non c’era stata battaglia, ne vinti ne vincitori. Solo questa ragazza venuta col suo bagaglio di immenso dolore nel tentativo disperato di depositarglielo, lì in casa sua senza ritirare scontrini, s’intende. Quasi le quattro ed era sveglio come un grillo. Si sedette sul letto, e ora? Sentì Annarosa muoversi, andare verso il bagno, rientrare in camera. Forse si era riavuta. Cosa avrebbero fatto quella mattina? Bah! L’avrebbe portata a pranzo a Fiesole, poi alla stazione e poi salute a voi architetti dalle grandi manovre lussuriose e libertine. Appoggiò la testa sul cuscino senza spengere la luce, tanto chi dorme. Dei i per casa, dei i per casa e un buon odore di caffè. Cercò l’orologio,

ma l’aveva al polso. Le undici. Allora aveva dormito! Si alzò di colpo per andare in cucina accorgendosi in tempo di non aver preso la vestaglia e di essere completamente nudo. Nudo…..ma….si ora non cominciare a fare lo stronzo. Annarosa era in cucina, appoggiata alla finestra che dava sul balcone, guardava oltre il giardino, con una tazzina di caffè in mano. Entrò annodandosi la vestaglia. “ Scusami per stanotte -con voce chiara rinfrancata dal riposo-scusami, non avrei dovuto rovinare il tuo fine settimana con i miei dolori. Se non ti dispiace, parto, ritorno subito a casa. Non ho più voglia di stare qui, o di ritornare di là nel tuo studio, ho come l’impressione di rincontrarmi, di ritrovare tutti i miei fantasmi” Le rispose che dormire le aveva fatto male, di partire non se ne parlava proprio e che si sentiva offeso dalle sue parole e che era sincero. Era vero quello che diceva, tanto vero che solo allora si accorse che Annarosa indossava solo un minuscolo slip ed un piccolo reggiseno. Il cuore gli partì a razzo per la luna. Per il resto dovette sedersi e nascondersi nella vestaglia. Vista di spalle, appoggiata alla portafinestra, con il sole che le batteva in faccia, si esaltavano gli armoniosi contorni di quel giovane corpo rivelando i peluzzi d’oro delle braccia e delle cosce che, illuminati dal sole, riflettevano di una bellezza da tesoro inca. Annarosa stava immobile e di certo nella sua statuarietà non era lì nella cucina nemmeno con un centimetro di se stessa. Approfittandone si mosse, prese un’ accappatoio dall’armadio e lo pose sulle spalle di Annarosa che vi si strinse dentro. Guadagnò uno sguardo piene di dolcezza e rivide quel volto, pur ancora segnato dalle lacrime, di una incantevole bellezza. Il colore dei suoi occhi, di un azzurro marino, era limpido, pulito…la disgrazia che si era abbattuta su di lei non aveva mutato quella meraviglia della natura che conservava ancora sulla pelle le tracce dell’estate. “Voglio dirti solo questo, Annarosa, -si sentì dire quasi inaspettatamente- voglio solo dirti grazie. Si grazie per avermi aperto il tuo cuore, mi hai dato stanotte te stessa, il tuo animo. Oggi mi devi dare il tempo di dimostrarti che sotto un certo profilo sono degno del dono che ho avuto. Avrò per molto tempo negli occhi il tuo volto di stanotte…può darsi che lentamente tu dimenticherai di aver tanto sofferto perché la traccia della tua sofferenza si trasformerà nell’amore stupendo

che saprai dare a chi ti amerà per tutta la vita. Io non ti dimenticherò!!” Le prese la tazzina dalle mani e Annarosa si gettò tra le sue braccia. “ Ora però –scostandola a malincuore nuovamente da se…ma cos’era diventato, di pietra?- ora però affrontiamo questa giornata di sole, perché Firenze ci aspetta…e non vorrei farla ingelosire se viene a sapere che ti tengo solo per me!!” Come un frullo di ero un piccolo bacio si posò sulle sue labbra e, uscendo dall’improvviso oscuramento la vide correre verso il bagno. Le rifece il letto, come se nel pomeriggio non avesse dovuto partire. Nello stendere le lenzuola fu assalito dal suo profumo e non poté non pensare a quella peluria bionda che il sole poc’anzi aveva esaltato. Una voglia matta di affondare il viso in quel cuscino! Ma, niente niente se ne stava innamorando? Certo stimolava tenerezza, e lui a produrne era bravissimo, soprattutto sul nuovo; si sorprese a vestirsi con particolare cura, come se veramente dovesse andare ad un appuntamento ricco di sorprese, con una persona sconosciuta. Sapeva invece cosa l’ aspettava e così nel vestirsi pensò che di lì a poco sarebbe toccato a lui parlare, perché se Annarosa voleva sapere cosa ne pensasse, questo non doveva essere banale o appena sufficiente. Avrebbe voluto essere veramente d’aiuto in quella situazione così anomala. Ma si può lasciare una creatura talmente dolce, dopo cinque anni per…un’ingegnere arabo?!! C’era nel suo pensare un misto di derisione e di pietà e si ripromise di star molto attento e non evidenziarla, perché non avrebbe fatto altro che rigirare il coltello nella ferita. Ma che dirle? Che dire ad una donna nel fiore degli anni e della bellezza per cicatrizzare un colpo così grave, inferto con freddezza e cattiveria. Forse far leva su questo: sbattere il mostro in prima pagina così da renderlo talmente esecrabile….no! lei di certo lo amava ancora! Ma si possono dimenticare cinque anni di progetti nel fiorire della vita. Per un tradimento, anche se così assurdo. Assurdo, poi perché? Questa potrebbe essere una strada percorribile, farle accettare il fatto come normale, nel senso che un’ingegnere arabo o una geisha, non vi era differenza. Bell’impresa, davvero! E se Annarosa gli avesse chiesto se anche per lui fosse normale innamorarsi di un altro uomo, cosa gli avrebbe risposto? Che era un tradizionalista, attaccato alle consuetudini. Forse che l’amore ha sesso? Gli rivenne in mente la faccia del trippaio, tutto sesso e niente amore, trasformarsi in un bel cherubino biondo che beatificato da tutto quel sesso

avrebbe conosciuto l’amore con la a maiuscola. Altro che storie. “Sono pronta” Questa volta, oramai esperto, si girò lentamente verso la porta. Avrebbe voluto ripeter quel gesto all’infinito, cosi che verso la miliardesima volta sarebbe riuscito a tenere la bocca chiusa. Doveva essersi già detto che Annarosa era bella. Gli sembrava una creatura al limite dell’impossibile. Non una delle tante sciagattate da calendario, non una Grace Kelly ai tempi d’oro, non una Greta Garbo da Grand Hotel, o una Cyd Charisse con gli occhi della Alida Valli, insomma non uno dei tanti miti della bellezza, ma un impasto tra tutte, con l’aria, nonostante tutto, ridente di una Brigitte Bardot. E dentro un tal contenitore un’anima giusta, ponderata, corretta, intelligente in preda ad una terribile bufera. Gli sembrava di essere una canoa impazzita, tra i gorghi e i flussi di un torrente che ignaro lo travolgeva sei volte al centimetro!! Animo, si disse, animo. Quando non resta che respirare conviene non far altro che respirare, ed in questo caso aspirare. In ascensore se la aspirò tutta. Annarosa aveva indossato un abito blu, con la gonna corta, allacciato davanti e con l’ultima asola, a metà gamba, slacciata. Con la solita galanteria che generava urla alla Tarzan, le aprì lo sportello dell’auto, quasi assuefatto a rapide visoni travolgenti. Bene: mise in moto, se non riusciva a farsi star zitto, si sarebbe trovato in lotta con se stesso, se non altro per tenere le mani sul volante. “Poco più di mezzogiorno e trenta, ti porto a mangiare in collina, un posto tranquillo, in mezzo al verde, si mangia alla toscana, molto bene..” “Non so cosa avrei fatto senza di te, sei stato molto paziente, molto buono e – accarezzandolo leggermente sul collo- non so proprio come dirti grazie…” Eccolo trasformato in una sorta di Lorenz che raccoglieva tutte le oche apparse della sua pelle e sparse ovunque in macchina. Glielo disse. Annarosa scoppiò in un risata genuina, pulita., musicale: sarà esagerato, ma era molto bello sentirla ridere. Le piccole oche quasi scomparse si trasformarono in una oca gigantesca quando oltre alla carezza aggiunse un piccolo bacio su un orecchio, dicendo che era l’oca più piccina, senza saper che così lo trasformava in una fabbrica di ochette!!! Tra un’oca e l’altra, quasi dimentichi della notte ata, salirono verso Fiesole in una stupenda giornata di sole. Annarosa si era ripresa, notava la campagna, i

mandorli, gli ulivi e le prime margherite. “Mi piacerebbe vivere a Firenze, è così festosa, bella, così ricca che sembra di vivere in un film diverso, tanto tutto è perfetto, e poi sono contenta, me lo sentivo che era giusto venire da te. C’era, l’ ho notato quando t’ ho conosciuto, qualcosa di particolare nella tua voce, come una forza, una sicurezza, mista ad una sottile gioia, come se tu fossi uno sempre felice di vivere, come se tu fossi sempre pronto a tentare di trasformare tutto in un giocattolo….” Sveglia, Napoleone, stanno parlando di te, registra, perché nessuno mai ti ha detto queste cose, con questo tono, con questa voce, da una bocca tanto bella… finiscila con questo elenco, se non chissà cosa ti inventi. “…e pensare che la prima volta che ti vidi mi avevi messo soggezione, i baffi, tutto serio, zitto, poi mi sembrasti più vecchio …” Due goal, uno dietro l’altro. Datti da fare, para, non guidare soltanto. “A proposito, quanti anni hai ? Non l’ ho mai saputo, e si che alla mia età, ne ho compiuti ventitre a febbraio, si fa presto a dire che uno è vecchio…e te, dimmi…” Alla una, di domenica, con una giornata di sole talmente bella, in compagnia di una donna splendida,….quanti anni hai?! “Quanti me ne dai?” Fu prontissima, sicura di se, quasi convinta di esagerare ( questo lo si scrive per l’amicizia che si ha verso il protagonista di questo racconto ) ..” ..non più di cinquanta…” “Ma dai, si vedono così bene??” “Non ti lamentare, amico mio, hai l’aria di star benissimo….” Quanti anni fa aveva cinquant’anni? Quando lui aveva cinquant’anni, Annarosa quanti ne aveva? Lo avrebbero arrestato subito. Ma che barbara cosa era questa, di voler per forza contare gli anni come fossero classi sociali di tempi lontani. In un paesino della Sicilia un signore di cinquant’otto anni stava per sposarsi, dopo una “fuitina” d’amore con una fanciulla diciassettenne. Complesso d’Edipo, da parte della bimba. Eccola etichettata. Pedofilo lui. Ecco un’altra etichetta. Con che cosa la teneva a se, con le caramelle al miele, peggio col denaro? E lei

perché stava con lui, era ricattata, violentata, peggio comprata. Macché, niente di tutto questo. Semplicemente, si amavano. E se poi le parti si fossero invertite, lui diciassette e lei cinquant’otto, che avrebbe detto la gente. Perché non si insegna, fin dall’asilo, le imperscrutabili vie del cuore, perché non si insegna a cercare di capire, invece di sentirsi autorizzati a sparare giudizi, ad affettare il prossimo senza saper risparmiare alla fin fine neppure se stessi. “Sei straordinario…” Non si era accorto di aver pensato e parlato ad alta voce. Insieme all’auto frenò se stesso. Si volse verso Annarosa che gli sorrideva con la dolcezza di un flauto magico “..e mi sono bastate poche ore per volerti un gran bene. Le cose che dici, semplici, chiare sono una grande verità…” Aprirò una scuola, pensò, scendendo di macchina. Annarosa, scesa dall’auto, si avvicinò al bordo del parcheggio, un muretto che una volta limitava una grande aia, da dove si godeva una vista incantata e suggestiva. Una corsa disordinata di cipressi terminava in vetta ad un colle su cui sorgeva, come da una favola, il castello di Vincigliata. Si vollero sedere all’aperto La giornata era tiepida, e pochi tavoli erano apparecchiati. La gente, se dio vuole, preferiva star chiusa al caldo. Non poteva non guardarla. Un po’ perché le si era seduta di fronte… e poi ne era seriamente affascinato. Notò, senza molta fatica, lo sguardo del cameriere, ricco di sottintesi anche se serioso, professionale. Nel porgere il menu ad Annarosa ci si era impacchettato dentro, sul tipo… signora mangi me!!, e fu colpito di soprassalto alla domanda –cosa c’è di buono- e gli s’imperlò la fronte di sudore, costringendosi a censurare rapidamente la risposta! Ordinarono crostini e prosciutto, del Gallo Nero e una bistecca per due. A metà antipasto, dopo aver curiosato sull’intruglio squisito dei crostini, Annarosa si fece nuovamente seria; posò la sua mano, dalle dita perfette sulla mano di lui, piccola e grassoccia. “ Ascoltami, sco non lo vedo e non lo sento da sei settimane. Mi pare impossibile che sia scomparso, così nel nulla. L’ ho ricercato, sai, i primi giorni in ufficio, tanto, tanto da creare imbarazzo in chi mi conosceva e mi rispondeva al telefono, negandomelo. Poi – abbassando stancamente la voce- alcune

settimane fa, ricevetti una sua lettera. Quasi dieci pagine. L’ ho letta, riletta e imparata a memoria…qualche pensiero rivolto a me, per capire alla fine che sco scriveva e parlava con se stesso; c’erano alcune frasi rivolte a me, ma di noi due, della nostra vita sognata preparata, messa da parte pezzo per pezzo, si…come un risparmio, non esisteva più. Cancellata. Ed è questo il mio dolore profondo, la mia terribile delusione, perché per tutto il nostro tempo mi ero considerata tutt’uno con sco.” Portarono un’ assaggio di pappardelle, lui le versò un mezzo bicchiere di vino, gustando leggeri attimi di silenzio, in cui sembrava che lo straordinario aroma del ragù alla lepre prendesse il sopravvento sui ricordi. Un’illusione banale, d’accordo, ma nel crogiuolo delle vicende di quelle ore, dava un pizzico di serenità. Tutto sommato sperò di non dover aggiungere lacrime al ragù di lepre. “ sco aveva conosciuto Ahmed, si chiama così il mio rivale….” Si volse verso il castello di Vincigliata, restando come bloccata con il tovagliolo premuto sulle labbra, e non riuscì a capire se era scossa da un singhiozzo o da un angosciato scoppio di riso. Forse tutt’e due. “Scusami ma da qualche giorno al pianto non riesco a trattenere un ridere nervoso per questo mio dramma. Ti dicevo che si erano conosciuti sui lavori di una diga e avevano immediatamente fraternizzato. Questo arabo, dotato secondo sco di straordinario calore umano lo aveva affascinato, quasi plagiato nel giro di poche ore, in cui non avevano parlato che di strutture, ponteggi, opere idrauliche. Pensa te. Questo tizio vive, solo, in una grande villa vicino al cantiere. Sembra molto ricco, con una corte di camerieri. sco non mi ha spiegato come è cominciata la loro storia. Nella sua lettera, mi dice, di essersi sentito attratto come in una trappola di sottintesi accordi in cui si sentiva totalmente partecipe, complice e..poi…” Alla fine delle pappardelle non riuscì trattenere la lacrime. L’aveva già vista piangere la sera prima in preda ad una disperazione totale, ed anche adesso pianse senza freni.Non poté non notare come le lacrime moltiplicavano lo splendore dei suoi occhi. Non sapeva più cosa fare. Si alzò dalla sedia, si avvicinò ad Annarosa posando un leggero bacio sui suoi occhi. Ritornò seduto. Neanche si fosse trattato del principe azzurro, quel suo gesto la sorprese e la calmò. Le riempì di nuovo il bicchiere di vino e quello con l’acqua, sostenendo

lo sguardo accusatore, come se lui fosse la causa di quel pianto, dell’ennesimo cameriere venuto a sostituire i piatti. Quasi rinfrancata Annarosa gli sorrise. “E poi, quei terribili fogli con quella sua scrittura minuta, mi ha descritto la loro …la loro prima notte. Soffermandosi su particolari del suo corpo, del suo corpo che io ho amato tanto. Non potevo non pensare a sco, il mio sco, alla sua penetrante delicatezza..” Tacque di nuovo. L’arrivo dell’oste con l’enorme bistecca li colse di sorpresa. Annarosa si alzò da tavola, andando verso il muretto dell’aia più piccola, mentre il fetido oste se ne uscì apostrofandolo con un “ Ci vole pazienza con queste figliole, anch’io con le mia, sapesse quante me ne fanno,…. o un s’è mi’a babbi per nulla…” Brutto bischero!! Non gli dette retta, raggiunse la ragazza e sostenendola per un braccio la ricondusse al tavolo, incitati da un … “Vi si fredda!!” dell’oste impiccione. La bistecca era veramente buona, si scioglieva in bocca tanto che se ne uscì con una circostanziata disquisizione tra la carne chinina ed altri tipi di carne che rivelavano il quel tipo di taglio e di cottura la loro differenza. “Ma ti rendi conto, dopo settimane di silenzio, cosa d’improvviso mi toccò leggere, subire come se scrivesse ad un amico e non a chi gli era stata amore per cinque anni, e non una parola per me, per noi, non un rimpianto.” arono al dolce. Una monumentale fetta di meringato. L’incontro con il cioccolato e la panna rese più serena Annarosa che guardava il suo confessore con gli occhi pieni di domande, ansiosi di avere da lui qualche parola di conforto, di sostegno. Arturo Toscanini, ringraziato il pubblico e l’orchestra per gli applausi ricevuti, si rivolge agli orchestrali e dopo attimi di silente attesa alza la bacchetta per…..ecco lui si sentiva così. Solo che non sapeva a chi, a cosa, dare l’avvio e per quale musica. Si fece piccolo piccolo …. o se fosse partita stamani! “Senti, posso ripartire domattina col primo treno, quello delle sei, e dormire ancora da te, nel mio lettino?”

Ma, la battaglia di Waterloo quanto durò in realtà! Anche Napoleone si sarà detto che prima o poi sarebbe finita, vedendo profilarsi all’orizzonte l’isola di Sant’Elena. Pagò il conto sotto lo sguardo incuriosito di tutta l’osteria, mentre Annarosa col suo semplice vestitino da collegiale risucchiava l’attenzione di tutto quel piccolo mondo. Le propose quattro i per la pineta, quattro i digestivi. Nel prenderlo sottobraccio lo strinse a se e lui poté percepire il suo disperato bisogno di appoggio e…ma, come si fa…la morbidezza del suo seno. Poteva dirle cose violente, dolci carezzevoli, vigliacche e stupide. Poteva liberarsene con due battute oppure appoggiarla ad un cipresso e… “Aristofane, gli fa dire Platone, sostiene che amare è ritrovare l’altra metà di se stessi…-la stava prendendo lunga di niente-… di quel se stesso che gli dei, invidiosi della intelligente curiosità del conoscere degli uomini divisero in due parti a colpi di fulmine. In un altro dialogo o nello stesso, non ricordo, sollecitato da Diotima, Platone sostiene che amare è conoscere. Se tu mi chiedessi di darti una definizione più vera e profonda dell’amore, non saprei che dirti” L’aveva detta!! Annarosa lo guardò, restando in attesa che proseguisse il suo ragionamento, ma lui prolungò ad arte la pausa. “Uno dei principi fondamentali dell’amare dovrebbe essere, anzi, è il rispettare la volontà, l’essenza dell’oggetto del proprio amore. Se a questo anticipi il possesso e poi i figli del possesso come la gelosia, la violenza concettuale, la costrizione non avrai né darai né sarai amore. Che non è cosa da confondere con l’innamoramento o con l’eros. Cose belle, avvincenti se vuoi durature che stanno all’amore come le leccornie stanno al nutrimento. Ma non sono amore.” Annarosa si era avvinghiata ancora di più al suo braccio, e più alta di lui, metteva in risalto il suo profilo classico, e camminava tenendo gli occhi fissi a terra come a rileggersi le parole che lui seminava. “Se puoi fare tuoi questi concetti semplici ma di certo non facili, puoi considerare il tuo dramma in una luce diversa. Se è vero che tu ami oppure tu hai tanto amato sco, liberalo da te, dentro di te, beninteso, perché per quanto lo riguarda lui di te si è già liberato.

Come se tu lo assolvessi da un peccato commesso contro il tuo amore.. Una morte, una specie di morte. Lo so bene, tu stai pensando al suo ritorno a casa. A cosa gli diresti se tornasse. Ma ti chiedo, saresti in grado di cancellare dalla tua mente queste ultime settimane? Non come figliol prodigo, al quale si perdona l’abbandono, ma assolutamente dimenticare, dimenticare la sua lettera, il suo racconto…” Annarosa sussurrò un mio dio tra le labbra, in un baluginare di denti candidi. “Non andare a pensare cosa faresti allora, pensa all’oggi, ad adesso. Dopo cinque anni il tuo uomo è morto. Non fare che il ricordo della sua morte sia più forte e penetrante del ricordo della vostra vita insieme. Trovo essenziale per te entrare nell’ordine di idee di essere felice di quanto ti è successo. Tu sei servita, la parola è brutta, lo so, ma non me ne viene altre, tu sei servita a sco a trovare se stesso. Attraverso il tuo amore ha fatto la sua scelta. La sua scelta ti addolora perché ti esclude, ma non avrai capito che io sto dicendo che l’amore, quello vero esclude l’egoismo.” “Ma per amare, bisogna essere in due…” bisbigliò Annarosa. “Direi che è essenziale essere in due per fare all’amore, non per amare. Il tuo amore per sco, infatti lo ami, sussiste nonostante la sua morte…” Ancora con un soffio di voce “ Non dire, ti prego, non dire morte..” “Dirò doppia morte, come presente del tuo amore e come futuro del tuo amore: Anzi tripla morte, perché si è suicidato come…” Annarosa gli mise una mano sulle labbra per impedirgli di dire quello che stava per dire. Lui le prese la mano e depositò sul suo palmo un piccolo bacio, con la preghiera di usarlo nel caso ne avesse bisogno. Gli rispose con un sorriso, e continuarono a eggiare in un pomeriggio che volgeva al tramonto, ricco di sfumature, in una delle primavere più tenere di questi ultimi anni. Gironzolarono a lungo, sostarono per un po’ sotto un enorme cipresso. E sembrava che col are delle ore Annarosa si riprendesse dalla sua profonda tristezza. Per lui era finita: Waterloo era già libro di storia, al colmo si sorprese ad osservare quella stupenda creatura raccogliere qualche fiore, senza malizia. Come se quelle gambe scultoree, quei fianchi stretti non destassero più desideri. La vedeva sotto una luce diversa, i suoi ventitre anni rifulgevano di un splendore nuovo, al limite infantile. Si rimproverò. Ma come aveva potuto pensare che

quella ragazzina sarebbe andata a letto con lui, spontaneamente, corrispondendo al suo desiderio. Fetido oste della malora, psicologo della carne ai ferri, con mille ragioni da vendere. Tornarono parlottando con grande affiatamento verso l’auto. Gli dispiaceva vederla partire e pensava a come organizzare il suo domani. Di certo gli impegni di lavoro non lo avrebbero distratto da quel fine settimana di lacrime. E chissà per quanto tempo non sarebbe più stato capace di organizzarsi una trappola di quel genere, così ricca di presunzione. “Ma secondo te, può esistere un uomo che concepisca l’amore così come me lo hai descritto? Un uomo che sappia amarmi così, che io possa amare così.” Oh! Dio, speriamo che non si ricominci con quel sco ed il suo arabo… “Annarosa, non credo che tu possa avere una risposta alla tua domanda….” “Ma tu, per esempio, -saltellandogli davanti- sapresti amarmi così?” Stappare una bottiglia di adrenalina come fosse champagne, col botto! Che ragazzina! “Io, amare te –le rispose- ma potrei tranquillamente essere tuo padre!!” Arreso! Non solo battuto e sconfitto sulla piana di Waterloo, ma arreso senza l’onore delle armi.!” “No mio caro, tu mio padre non potresti mai essere, prima perché non hai l’età….e….poi hai mai visto un padre che guarda la sua figlia, se pur putativa, come mi guardavi ieri sera.!!?” E rideva mentre se ne era uscita con questa battuta; capito, cretino, non eri neppure riuscito a nascondere le tue voglie, bella bellissima figura. “Ma perché, come ti guardavo ieri sera?” se ne mormorò con falsa vergogna. “Mi pareva di capire che ti pii, o mi sbaglio?” E ora che succede, siamo alla resa dei conti e ne chiede la ragione. “Voglio dire, siamo sinceri, sei una creatura stupenda e intelligente, e non credo ci sia una persona normale che non ti desideri..” Ecco, l’aveva detta. Non era possibile che non riuscisse a commettere qualche macroscopico errore, tant’è

che Annarosa arrossì improvvisamente, chinando il capo e nascondendo il viso tra i capelli. Salirono in casa che era già l’ora di cena, ma nessuno aveva voglia di mangiare. Lui le propose un te o un caffè e latte, decisero ridendo che andava bene, col latte, anche pane burro e marmellata. Mentre Annarosa era sotto la doccia, preparò il tutto con cura, apparecchiando su un tavolino basso nel suo studio. Era ormai casa sua, uscita dalla doccia con la sua vestaglia ed un asciugamano a foulard tra i capelli, chiese se poteva restare così. Diamine. Stai come vuoi, mentre correva a rispondere al telefono. “Cosa hai fatto oggi? Brigante!” “Brigante?, chi io? Ma niente, anzi sono stato a mangiare alle Cave. Si, una giornata calda. Certo che solo. Si, le biondine, le ho tutte qui in fila…e tu, piuttosto…” per poi finire con un dormi bene amore, torno martedì sera…. Dormi bene! Come un pascià solitario, come Napoleone con un biglietto di seconda classe per Sant’Elena. Annarosa aveva coscienziosamente spalmato il burro anche un po’ sulla vestaglia e si stava tirando la marmellata su un ginocchio. Certo che quella gamba che spuntava dalla vestaglia semi aperta era più invitante di qualsiasi spettacolo. Unica, realmente. Mentre mangiucchiavano come vecchi coniugi guardando-forse senza vederla- la televisione, Annarosa gli chiese ancora se lei avrebbe mai trovato un uomo che sapesse amarla dell’amore che prima lui le aveva descritto. Ora la risposta ci voleva, seria e precisa. “Non lo so. – bell’esordio - Per esempio io credo di sapere cos’è, ma non so se saprei amare così. Allora mi faccio una domanda, se pur sapendo cos’è l’amore e non riuscendo a dargli vita per la sua essenza più vera, sarei, sono in grado di riconoscerlo? Forse bisognerebbe poter crescere tanto rapidamente da maturare dentro di se una tal maniera di sentire, e una volta arrivati, non dovrebbe essere difficile scoprire se nell’altro ci può essere, magari un seme, di una forza tanto grande. Anzi potrebbe essere questa scoperta, la scoperta di quel seme, che

dovrebbe e potrebbe dimostrare a noi stessi che, nel coltivarlo, stiamo amando realmente”. Per non confondersi addentò una fetta di pane, mentre Annarosa bisbigliò, masticando, che le piaceva tanto sentirlo parlare, e che si stupiva sempre di ciò che le diceva. Olé. Finirono il caffè e latte, ed al posto delle tazze, sul piccolo tavolo appoggiarono i piedi. Annarosa si lasciò un po’ andare, accoccolandosi vicino a lui, e appoggiando la testa sulla sua spalla. Di nuovo lo Shalimar! Com’era buono quel profumo! Pochi attimi ed il respiro di lei si fece più regolare, disteso, si era addormentata. Povera bimba, quanta tristezza, quanto dolore ancora così giovane. Finì di vedere il film e con una leggera carezza su una guancia la svegliò dal suo primo sonno. Semi addormentata era ancora più dolcemente bella. Invece di alzarsi dal divano, lo abbracciò affondandogli il viso su una spalla. “Devo dirti grazie, sei stato fantastico con me, mi hai dato tanto…” Ne restò confuso, non seppe di nuovo cosa fare, se rispondere a quell’abbraccio tenerissimo, o star lì a rimirare quel corpo stupendo che usciva ambrato dalla sua vestaglia. Restò immobile, mentre lei nello scostare il viso, tenendo scherzosamente naso contro naso, lo guardò con quei suoi occhi mare e sinceramente lui si accorse di non poterne più. Annarosa appoggiò le labbra semiaperte sulle sue e lo baciò con grande tenerezza. Impietrito. Ma insomma voleva un’ invito scritto?. Non rispose al bacio. “Grazie, Carlo, grazie” Era la prima volta che pronunciava il suo nome, tanto che si era quasi dimenticato di averne uno. Quando si rianimò, era solo. Annarosa riapparve sorridente sulla porta….come faccio a svegliarmi alle cinque…ma ci penso io, dormi tranquilla. Via, era finita. Poteva liberare da sotto la pila dei saggi sull’intelligenza artificiale il suo scrittore dall’illeggibile nome. Chissà in quale realtà sarebbe finita questa storia. Certo il James della situazione non si sarebbe trovato lì, solo,

con le tazze del caffè e latte da lavare! Filosofia, tolleranza verso se stesso e una buona dose di bischeraggine. Vieni Napoleone, andiamo a dormire. Carlo e Napoleone si avviarono sotto braccio verso la loro camera da letto. In raccoglimento sostarono davanti alla porta chiusa di Annarosa e poi tutt’e due sotto le coperte a raccontarsi le proprie sconfitte. Non sognò quella notte, gli fu anzi pesante risvegliarsi per l’innaturale trillo di un congegno giapponese che non perdeva un nanosecondo. In bagno si guardò allo specchio: orrendo di primo mattino. Indossò la vestaglia per nascondere le sue nudità e pettinatosi alla meglio andò a preparare il caffè. Non doveva spaventare Annarosa. Piovigginava.. L’odore del caffè è spesso più stimolante del suo sapore. Preparò un piccolo vassoio con la lattiera, lo zucchero, e spenta la luce di cucina si mise in cammino verso la camera della sua giovane amica. Un po’ per il sonno e un po’ per il buio sembrava un equilibrista alle prime armi. La camera di Annarosa era soffusamente illuminata dalle luci della strada. La sera non aveva chiuso del tutto le persiane e questo gli consentì di vederla distesa nel suo letto, la schiena scoperta, da mozzare il fiato. Si svegliò del tutto a quella visione. Posato il vassoio su un comodino di fortuna, toccò leggermente, per la verità accarezzò la spalla di Annarosa, con delicatezza per condurla pian piano fuori da un possibile sogno. Annarosa era sveglia, si girò supina e scostata la vestaglia di Carlo, posò la sua mano sulla parte alta della coscia. In alto. Così, senza una parola. Ma chi l’ ha detto che eravamo schierati con i si?? Alle armi, alle armi!!! Annarosa si sollevò sul letto, quasi seduta, appoggiato il viso dove prima aveva la mano impresse sulla pelle, all’attaccatura della gamba , un bacio che via via si faceva più intenso e profondo. Carlo si sentì abbracciare sotto la vita ed attirare verso di lei. La carica dei seicento, la guardia muore ma non si arrende, tutti per uno uno per tutti, qui si fa la patria o si muore: nel sollevarla verso di sé, prendendola sotto le ascelle, gli apparvero in un flash folgorante tutti gli incitamenti possibili e li cancellò quando le sue labbra trovarono la bocca di Annarosa e fu come un morso dissetante in una freschissima pesca. Nel riportarla lentamente, molto lentamente sul cuscino, si tolse la vestaglia. Sollevò le lenzuola ed il corpo nudo

di Annarosa lo stordì per la sua languida bellezza. Con le labbra, con gli occhi, con le mani con tutto se stesso l’accarezzò a lungo fino a trovarsi con il volto immerso in lei. La baciò prima superficialmente gustando il suo sapore giovane profumato, sentendo sotto le labbra la tensione di una peluria quasi neonata. Sembrava velluto. Il suo bacio si fece più insistente, profondo, come se volesse spremere e suggere un frutto che fe a sua volta di tutto per essere succhiato e spremuto. E la bevve, e la bevve, fino a togliersi un’aridità che per poco non gli aveva riseccato anche il cuore. Annarosa agitava piano i fianchi accarezzandogli i capelli, come un gesto di protezione come se a sua volta volesse essere protetta e con un numero incontabile di volte la pressione delle sue mani si alternava fino ad un progressivo dolcissimo abbandono. L’attirò sopra di se, e Carlo come una lumaca cosciente e determinata a non lasciare intatto un lembo di pelle, si posò nel suo corpo con esasperata e voluta lentezza. Se per due giorni Annarosa gli aveva donato senza pudori il cuore, ora riceveva dal suo corpo, senza limiti, una lenta interminabile intensificazione del piacere della creazione. Lampi, squarci del racconto di Annarosa attraversavano la mente di Carlo che senza turbamenti scopriva i più segreti misteri di quell’essere teso e vibrante. Annarosa aprì gli occhi negli occhi di Carlo. E lui ne restò sorpreso per l’intensità vivissima di quell’azzurro limpido che alle prime luci dell’alba illuminava di luce abbagliante il suo animo. Senza distogliere lo sguardo, come in un agguato, per percepire anche la più piccola manifestazione di un piacere di nuovo nascente, rientrò in lei. Annarosa lo accolse, lo avviluppò e lo strinse a se in un abbraccio che annullò ogni altra cosa, svelando una intensità di amare e di farsi amare insospettabile. Stava appoggiato con le spalle al muro, Annarosa gli si era assopita col volto sul petto. Non dormiva, respirava calma mentre Carlo le accarezzava le spalle. Tacquero a lungo. I rumori della città si intensificavano intorno a loro: auto, bambini per le scale, la vita di sempre. Annarosa si mosse piano piano giocando con i peli del petto di Carlo, percorrendo a piccoli baci il suo corpo, seguita dalle mani di lui che l’accarezzavano, inavvertitamente dirigendola. Carlo aveva superato l’età della meraviglia e dello stupore, riteneva di essere un uomo arrivato oltre la cima della collina, pronto e se si vuole rassegnato alla

discesa. Ma le labbra di Annarosa suonavano una canzone irresistibile e con la grazia che è propria della giovinezza, si riappropriò di lui e si amarono di nuovo e più a lungo, con più calma, con maggiore e straordinaria veemenza. Approfittò di un volo leggero di Annarosa verso il bagno per guardare l’orologio: le nove e trenta, per quanto lo riguardava aveva tempo fino a domani. Seguì Annarosa in bagno, e Annarosa seguì lui in cucina. Bevvero insieme il caffè riscaldato. Guardandosi, finalmente in piedi, nudi, uno di fronte all’altra. Si sorrisero, anzi risero, abbracciati finché non conobbero il sapore del caffè nella bocca l’uno dell’altra. Non c’era bisogno di parole, come non ci fosse più nulla da dirsi. Carlo condusse Annarosa verso il suo letto matrimoniale. Si sdraiarono insieme, abbracciati. Di certo lui non stava capendo più niente, aveva perso i contatti con il tempo, con gli oggetti. Gustava al limite della follia la pelle di velluto di quella donna meravigliosa, perdendosi, riavendosi, ritrovandosi in lei. Riconobbe il significato della parola piacere. Non riuscì per qualche attimo a capire perché quel maledetto aggeggio giapponese trillasse di nuovo. Accese l’abat-jour. Era solo. Subito lo pervase la paura di aver sognato, e poi che Annarosa non ci fosse più. La chiamò, nessuna risposta. Urlò il suo nome alle cinque e un quarto di un pomeriggio pieno di pioggia. Poi finalmente capì: girò per casa nudo, a raccogliere i resti, i cocci, con la mente confusa. Alla fine dopo aver tutto sistemato, decise che era anche il caso di fare la doccia, e uscire per cena. Sullo specchio del bagno un biglietto. Ora aveva anche la sua calligrafia…non vorrei ti burlassi di me, mi prendessi in giro; ho avuto da te quanto non avrei mai sperato di poter avere. Una cosa Carlo ti prometto, che in ogni uomo della mia vita cercherò, d’ora in poi, un pezzo di te. Forse ti amo…. Forse. Si guardò nello specchio, fece gli occhi da pesce morto, chinando la testa da un lato. Sbadigliò lungamente e rumorosamente, e terminò quello spettacolo osceno stirandosi ed ammirandosi. Aveva vinto o aveva perso. Era stato abbattuto da un ciclone di giovinezza, al limite, innamorandosi. Forse.

Questo racconto è stato ritrovato abbandonato su una panchina in un parco.

Dallo stile di scrittura sembra che sia stato scritto da me. O da un poeta. Ma!

Caro diario

Caro diario.

arrivato al fin della licenza, io tocco….questo lo faceva dire il bravo Edmond Rostand alla sua creatura, quel Cyrano de Bergerac, innamorato senza speranza, mentre io non so cosa toccare! Quanto alla speranza è l’ultima a morire. Pur continuando, qua e là, a toccare, nonostante tutto! Oddio, in confidenza potrei dirti che “mi tocco”, anche se mi sembra una confidenza un po’ troppo intima, persino per un diario. Sarebbe meglio che ti confessassi che invece di toccarmi potrei tastarmi. Ecco, mi tasto. Come se nel farlo andassi alla ricerca di un qualcosa perduto. Del tipo, eppure ce l’avevo, ma dove l’avrò messo, credevo di sapere dove fosse; meglio… di cosa si trattasse, e invece nel tastarmi vedo di avere le idee un tantino confuse. Questo perché nonostante il gran parlarne, ed in qualche caso il tentare di scriverne, confesso di non averci capito gran ché. Non t’aspettare che io tenti di ricapitolare di nuovo la situazione, non ti sottoporrò ad uno stress così debilitante. Però è certo che alla fine mi piacerebbe poter dire di averci capito qualcosa, e non tanto sul piano strettamente biologico perché qui mi pare di avere le idee piuttosto chiare. Vale a dire che quella fottutissima banda di “geni” di cui siamo portatori indifesi ce l’hanno messa tutta per far sì che l’organismo umano, il corpo di un uomo e di una donna, altro non pensassero che a riprodursi, inventando per loro miliardi di affascinanti scenografie in cui far recitare la parte a loro assegnata. Naturalmente solo allo scopo di continuare, loro i geni, a vivere più a lungo possibile, nella maniera migliore e più godereccia possibile. Ed anche per salvarsi da una incombente noia, disagi compresi Vigliacconi! Si sono approfittati di noi, ci hanno usato solo ai propri fini. Devo anche dirti, caro diario, che noi forse non siamo che quella banda di geni. Il resto potrebbe non esistere assolutamente, e che tutto non sarebbe, come dicevano nell’antica India, che una illusione. Bella, come illusione. Anzi, la più bella. Se me ne fregassi delle regole della

scrittura potrei scriverti che si tratta della più bellissima! Un’illusione. Grandi pensatori, i più grandi di tutti l’hanno definita come un riconoscersi. Ma dove l’ho messa?! Sto cercando questa parola da dieci minuti e non la trovo! Forse nel cassettino di destra della mia memoria? Sapevo che era lì. Non volevo trovarla per non dover ricominciare da capo. Lo sapevo! Una volta tirata fuori le sarebbero saltate dietro anche tante altre. So cosa stai pensando, caro diario. Il tuo sintetico modo di pensare si esprime con due parole, che sono: tonfa e ritonfa! Stai zitto e registra. Innamoramento, desiderio, amore. Ti va bene se mi fermo qui? L’innamoramento, diceva il grande saggio, è un riconoscersi. Se ai suoi tempi avessero inventato il gioco del puzzle, avrebbe detto che si trattava di un puzzle che si ricompone istantaneamente alla vista di una lei o di un lui. Come se si ricomponessero da antichi innamoramenti, pezzetti e frammenti in una sorta di riassunto somatico, tanto da farti dire “guarda chi c’è”. Ma!? Poeticamente la cosa sarebbe anche carina. Di certo. Lo stesso poi sostiene inoltre che il aggio dall’innamoramento, attraverso il compimento del desiderio e quindi l’incontro con l’amore e con il farlo, sia uno sfiorare la bellezza del Creatore. Caro il mio diario, che ti devo dire se non che tra le scenografie inventate da quella banda di geni che ci portiamo in giro, questa è una delle più delicate. Tanto che riesce difficile dubitarne. Per lo meno è delizioso il pensarlo. Ammetto che quando la vedo muoversi, lei così poco incline all’esteriorità del suo essere femminile, mi viene da pensare che ci debba essere in lei qualcosa di straordinario, pur ammettendo che il guardare ed il giudicare dipende in gran parte dalla mia capacità di vedere. Tuttavia quando la vedo camminare mi dico sempre che la gioventù è il momento migliore della vita. L’altro giorno le ho detto qualcosa di simile e lei ridendo con la sua innata naturalezza mi ha suggerito di pensare che i quaranta li aveva superati da un pezzo! Lo so cosa stai pensando! Che a me le fanciulle sono sempre piaciute fanciulle; e che oltre una certa età non si può più parlare di fanciullaggine. Sono pronto a giurare che se questa ex fanciulla curasse se stessa con la stessa attenzione che mette nell’esercizio del suo noioso lavoro, nessuno potrebbe darle gli anni che lei dice di avere. Onestamente il suo volto così lindamente acqua e sapone qualche

piccolo segnale lo da, fatta eccezione per le labbra di cui segretamente e per un attimo e per scandalizzare scherzosamente chi ci osservava, ne ho assaporato la morbi dezza. Nelle labbra, nella bocca e nel tono di voce è giovanissima. Lo sguardo poi è straordinariamente penetrante. Affettuosa, ma dura di carattere, di quei tipi che pur non facendo prigionieri né perdonano né uccidono. Anzi coinvolta suo malgrado in una situazione causata da una persona affetta da un temporaneo squilibrio, presta il suo soccorso difendendola con gentilezza. Apparentemente non dotata di una spesso pregiudizievole base culturale è aperta, curiosa e disponibile a saperne di più. Il che la rende piacevolmente disponibile a valutare il punto di vista altrui, esponendo il proprio senza la pur minima reticenza, dotata com’è di una capacità di analisi e di giudizio di tutto rispetto, al che ti vien voglia di darle una carezza… Cosa hai detto? Hai detto, se non ho capito male, che ci risiamo! Guarda, diario delle mie scatole, che non è che ci risiamo: è che ci siamo sempre stati in questo continuo e dolce stato di innamoramento verso l’altra metà del cielo. Quando poi ne trovi angoli di tale dolcezza non ti resta che sdraiarti su un verde prato e osservare che la vita, quando te ne innamori, è la cosa più bella che ci sia. A proposito, mio bel diario, devo lasciare ai posteri … a chi? ai posteri ho scritto, … e chi sarebbero i posteri? Diario scemo, fai delle strane domande a cui mi piacerebbe risponderti dandoti un esempio della mia “posterità”, quella per cui scrivo: lascio a me stesso! Io vengo dopo essermi scritto le mie scemenzuole, cosi ché io abbia il piacere di rivivermele. Ti basta? Posso continuare?! Mi piacerebbe poter dire che questi appunti cominciano “nel mezzo del cammin della mia vita”. Mi piacerebbe perché questo vorrebbe dire battere Matusalemme di molte lunghezze! D’altro canto dire che ciò mi accadde alla fine della mia vita mi sembra sia da uccello del malaugurio. Freghiamocene dell’età visto che per tanto tempo ho predicato l’inesistenza e l’inconsistenza del tempo, già descritto come un’invenzione diabolica degli orologiai. Allora, mi venne in mente giusto nell’epoca su descritta, di dedicarmi alla cultura creativa. Non scendo in particolari, ma ti racconto che per mettere in opera questo lavoro-divertimento avevo bisogno di un’ aiuto che fosse in grado

di lavorare con uno strumento di cui io non conoscevo niente. Questo stesso con cui scrivo. Nel frattempo ho imparucchiato anch’io. Già che cercavo una persona la volevo che parlasse più di una lingua, visto che il mio progetto era largo quanto l’Europa! E già che la cercavo avrei voluto che controbilanciasse il mio rapporto con il tempo. Quello che non esiste. La persona a cui mi rivolsi aveva giusto per le mani una fanciulla per la quale un suo amico avvocato stava cercando di dare un lavoro. Nel presentarmela telefonicamente mi avvertì, quasi con una aria di scusa, che la fanciulla in questione era un po’ colorata. Fui stupito di questa osservazione perché proveniva da una persona che io avevo giudicato di larghe ed educate vedute. Mai dire mai.

Ju

La chiamerò così. Non notai a prima vista il colore della sua pelle, del quale non me ne importava niente,….anzi successivamente mi dissi che quel colore ambrato la rendeva, se fosse stato possibile, ancora più bella. Mi fu difficile, durante il primo incontro non restare a bocca aperta! O farmi prendere dalla sindrome di Stendhal! Te lo spiego subito. Oltre ad essere curiosamente bellissima, con un sorriso così luminoso da far concorrenza alla più grossa lampada in commercio, mi trovai di fronte ad una donna-ragazza, vivacissima. Molto intelligente, e nonostante la sua straordinaria primavera, dotata di ottima base culturale, con un vistoso patrimonio linguistico e ne fui cosi mirabilmente impressionato che a momenti fui a chiederle di essere assunto! Infatti mi assunse! Nel lavoro fu splendida, veloce, intuitiva insomma le aveva tutte per rendersi indispensabile. Col are delle settimane cominciai a curiosare nel suo ato, domandandole della sua famiglia e delle sue origini. I suoi trisnonni erano russi! Bianchi come la neve. Partiti da quel grande freddo approdarono in quella parte dell’America, un poco più calda, che fu poi chiamata Florida, dove s’imbatterono in etnie indigene che fuggivano dall’avanzata da

nord dei “colonizzatori”. In questa fuga dagli abitanti locali, di origine spagnola, con cui battagliarono, furono chiamati “ cimarrones”. Nome che dagli inglesi, con la loro propensione alle lingue, fu trasformato in “seminoles”. Oltre che con queste etnie i trisnonni di Ju si trovarono di fronte uomini e donne, trasportati dall’Africa, diciamo controvoglia. Gente, a volte, bella come il loro sole. I trisnonni russi erano di religione ebraica e nel cocktail di geni che riuscirono a shekerare nel corso degli anni mantennero costante la loro fede religiosa. Ju era il risultato di questa mistura, mantenendo tratti somatici europei, elasticità nel corpo di un qualche parente africano, vivacità, forza ed intelligenza dei più bellicosi tra gli indiani d’America, e quel colore leggermente ambrato della pelle. Ju era un’incanto! E, come accade a tutti gli incanti, ad un certo punto, svanì. Mi resi conto che non bastava la simpatia del nostro rapporto, l’intelligenza del nostro lavoro, la mia mal celata ammirazione. Poco più che ventenne, era assai giusto aspirasse a realizzarsi in fretta. I genitori, neri come il carbone, professionisti in psichiatria, con studi a Ginevra ed a Los Angeles, benestanti come lo sono quelli bravi, la aiutarono a rendersi indipendente, trasformandola in imprenditrice nel campo delle moda e ad oggi, credo che produca borse che vende, made in Italy, ai suoi cugini semilones. Ripresi la mia ricerca di una collaborazione di cui avevo più chiaro un preciso profilo. Cosicché apparve sulla minuscola scena del mio ufficio, da cui avevo la pretesa di richiamare l’attenzione di tutta l’Europa una nuova fanciulla che chiamerò

Gio

Una ragazzina per bene. Laureata in legge. Fidanzata ad un fiorentino. Manovrava il computer facendogli fare tutto ciò che voleva. Glielo avessimo chiesto avrebbe potuto farne uscire tagliatelle al ragù. Sulla conoscenza delle lingue potevo scegliere. Dallo spagnolo al portoghese, dal se all’ inglese, con una discreta conoscenza del tedesco. L’italiano lo parlava con quella cadenza leggermente veneta che hanno per me gli spagnoli o i sud americani di lingua spagnola. Infatti Gio era nata, vissuta e “studiata” in quel di Caracas, mitica

città, per me, perché vi viveva una cara amica, con cui da bambini ci eravamo promessi amore eterno. Anche Gio aveva la pelle leggermente ambrata, molto intelligente, silenziosa, efficiente e, a momenti mi dimenticavo di ricordarlo, era incredibilmente bella. Così bella che a prima vista non ci facevi caso. Parrà strana questa riflessione, ma era proprio così. Di altezza normale, ne grassa ne magra, un volto regolare incorniciato da una massa di capelli neri sempre ben curati. Osservandola da vicino ne scoprivi la dolcezza e la perfezione dei lineamenti, il disegno perfetto della bocca, le mani bellissime da pianista. A me sinceramente una persona con un tale bagaglio di conoscenze, di esperienze e con una tale eleganza di portamento mi sembrava sprecata per il tipo di lavoro che potevamo offrirle, non parliamo poi della striminzita ricompensa con cui retribuivamo la sua collaborazione. E questo perché, a meno che tu non sia Michelangelo e tu sia morto da cinquecento anni, non c’è barba di ente pubblico, con tutti i propri ammennicoli destinati alla cultura che, primo capisca cosa gli vai a proporre, secondo che te lo finanzi, a meno che tu non sia della stessa area cosiddetta politica, o che tu non pratichi lo sport del “do ut des”. Per me, che odio gli sport falsi come il calcio e tant’altri, al punto che se dovessi andare negli stadi o in televisione ci andrei al grido di “ meno calcio e più fosforo”, non sarebbe facile praticarne uno così avvilente . Quando poi non ti trovi davanti l’assessorucolo di turno che ti fa la domanda furba, chiedendoti che ascolto può avere in Europa un progetto come quello che gli stai proponendo. Tutto sommato riterrei più intelligente che mi si chiedesse del piano di comunicazione e del suo costo predisponendo gli strumenti per andarne poi a verificare, o dietro o, la realizzazione. Mentre l’allestimento di una bella mostra di un pittore, che tutti conoscono come le proprie tasche, ti mette al riparo da qualsiasi critica e ti da la patente di cultore della cultura. Della luna nel pozzo. Nel corso dei mesi di collaborazione, piano piano, Gio mi raccontava dei suoi parenti caraceni, di sua nonna che viveva in una località vicino a Maracaibo, posto che io conoscevo benissimo avendolo più volte visitato insieme a tutti i corsari dai vari colori di salgariana memoria! Della vita difficile in una città come Caracas, soprattutto se si nasce in una famiglia importante, e come questo aumenta seriamente il pericolo che qualcuno ti faccia del male. Odiava il presidente Chavez, sulla cui figura aizzavo potenti discussioni. Gio fu talmente brava, che mi risultò difficile non proporle di aiutarla a trovarsi un lavoro più

adatto alla sua cultura. A me, una cosa che nella vita mi ha sempre fregato è la mia pretesa di fare il pigmalione! E così fu. Gio ci lasciò per altri lidi da me proposti; si è poi sposata, lasciandoci un ottimo ricordo di se. Si rifu, voce del verbo riesserci, da capo. Accadde che durante una coda in copisteria attaccassi a chiacchierare con una simpaticissima fanciulla. Stava ritirando copie della sua tesi di laurea dove raccontava dello spettacolo e della danza. Mi picco di sembrare un tantinello più giovane, diciamo così, della mia età anagrafica, e mi picco di pensare che questo mi agevoli nel chiacchierare con persone che giovani lo sono davvero, vietandomi di immaginare a cosa le malcapitate possano pensare di me. Così proposi a questa fanciulla, nel caso i cui a fine vacanza estiva non avesse trovato un lavoro, di telefonarmi perché avremo potuto aver bisogno di lei. Scusa mio bel diario se nel raccontarti dei miei “amori” ho trascurato di rivolgermi costantemente a te, ma come sai: ubi mayor… Ai primi di settembre una voce milanese, allegra e dolce mi colse di sorpresa. Mi annunciava che era ancora libera da altri impegni e che avrebbe desiderato approfondire quanto ci eravamo detti qualche settimana prima.

Fran

Fran parlava con un bell’accento milanese, stemperato dal dialetto fiorentino che ne correggeva gli accenti e ne rendeva seducente l’approccio. Milanese puro sangue, con lunghi periodi di studio in Inghilterra, una forte propensione alla curiosità di tutto ciò che va sotto il titolo cultura. Non le mancava niente, compreso un fidanzato fiorentino con cui stava mettendo su casa e che amava a corrente alternata. Fisicamente dotata di un corpo educato alla danza classica, si muoveva con eleganza e con grazia, un volto molto piacevole con un sorriso ironico e buono e gli occhi di particolare brillantezza. Veramente intelligente e propositiva sul

lavoro, pronta a correggere le mie sviste, a sdoganare i luoghi comuni in cui, a volte, mi facevo inghiottire come fossero sabbie mobili. Originale nell’affrontare le situazioni e pronta a trasformare un guaio in un sorriso. Una collaboratrice ideale per me che spesso annego in un bicchier d’acqua alla ricerca di aver ragione anche quando palesemente potrei, sottolineo il potrei, non averla! Era molto utile nonché piacevole farsi accompagnare in visita ai nostri referenti, quegli enti in nome dei quali portavamo avanti le nostre iniziative, perché si poneva sempre da pari a pari, senza star li a fare la bella statuina. Nei nostri lunghi parlottii saltava sempre fuori la figura di questo suo fidanzato al quale era legata da un affetto profondo che niente aveva a che fare con l’innamoramento, con la ione e tanto meno con l’amore. Di quest’ultimo, dell’amore, mi domandava sempre notizie: sapevo cos’era, dov’era, che sensazioni dava il provarlo… In compenso io accarezzavo con gli occhi la sua voce, cercavo di vedere nel suo sguardo se ci fosse stato, magari in un angolo, un dono per me….la speranza è l’ultima come si sa a morire, ma io ho un’altra sensazione. D’altro canto la mia attività di consulente-confessore doveva pur trovare un suo compenso. O no!? Va bene. E’ inutile, caro il mio diario, che tu anticipi la risposta. So benissimo che sarebbe stato “no”. Poi accadde una cosa che io non ho ancora capito. Organizzammo una cerimonia per la chiusura della nostra iniziativa. Nel grand hotel dove fu fatta la conferenza stampa di chiusura, la premiazione e la cena di gala, ci facemmo assegnare una camera che fin dal primo mattino trasformammo in un ufficio per espletare tutto ciò che il quelle occasioni va fatto. Finito il primo round ci ritirammo nel nostro improvvisato ufficio sia per disporre delle ultime cose sia per tirare un momento il fiato. Mentre io mettevo in ordine alcune carte, i premi, ciò che ci sarebbe stato necessario di li a poco, Fran si sdraiò a pancia sotto sul letto, accusando i tacchi delle sue scarpe di torture medievali. I suoi abiti leggermente sconvolti, senza alcuna malizia, offrivano al mio sguardo uno spettacolo da applauso. La schiena scoperta abbondantemente, quando mi chiese se potevo farle una cortesia. Pensai ad una bottiglia d’acqua, ad un caffè per cui mi dichiarai subito disponibile. Mi chiese di mettere una mia mano un poco al di sotto della sua vita e massaggiarla lentamente. La mia disponibilità fu totale. Diario mio bello, secondo te cosa avrebbe fatto Matusalemme?! Lo feci anch’io. Per di più e subito fu notato il calore della mia mano. Esplorai con il consenso delle tribù locali ampi territori, sollevando aliti e sospiri di lieta e sopita accettazione.

Potresti anche non crederci perché sei un diario che avresti voluto toccare con mano, ma proprio quando stavo lentamente approdando alla fonte più stupenda del mondo …. bussarono alla porta. Ci scambiammo uno sguardo che per me voleva esprimere un sentito ringraziamento, ed ebbi l’impressione che il suo fosse di sorpresa, quasi a dire..o mio dio! ma eri te! Io e Matusalemme andammo ad aprire la porta e come tutti i sogni anche quello si perse nel nulla. Torniamo a noi. La collaborazione di Fran continuò con grande amicizia ed intelligenza, nessuno dei due accennò alla mia performance di esplorazione, fin ché un giorno mi disse che tornava a Milano, perché dopo un bel po’ di convivenza con il suo fidanzato aveva capito di non provare più niente, ne affetto, ne tanto meno ione o amore. Doveva ricominciare da capo, lei. E anche noi. Non ci scoraggiammo, anche perché oramai avevamo capito quale strada dovevamo percorrere, tant’è che questa volta ne percorremmo una diversa. La sede fiorentina di una famosa università americana ci propose una nuova collaboratrice. Il curriculum parlava di due lauree, una in italiano presa negli States e l’altra in storia dell’arte qui a Firenze. Un mostro. Con del tempo libero. Proviamo ci si disse.

Mel

Proprio un mostro non era, anzi ad uno di noi piacque moltissimo. Sotto i trent’ anni, più larga che lunga, un sorriso che ti metteva allegria, un’ autentica forza della natura, con un italiano-fiorentino denso di espressioni da barrocciaio, quasi desuete. Intelligente, bravissima, con una grande esperienza grafica, così vivace da sentirne la mancanza quando usciva dall’ufficio. Si buttò a capofitto in un progetto che dopo aver ottenuto la collaborazione del locale importantissimo consolato, non riuscimmo a realizzare perché chi avrebbe dovuto finanziarcelo, nonostante i tanti pareri entusiasticamente favorevoli, vinse un campionato mondiale di stupidità. Non per niente era una assessora alla cultura. Ci illustrò cosa per lei fosse la cultura ed i relativi finanziamenti da dedicare al restauro di

antichi fienili, adattandoli così al ricevimento di ospiti inglesi. Ma la colpa non era sua. La colpa era nostra che facevamo sogni impossibili. Mel era più che fidanzata con un bravo ragazzo che, secondo me, lei manteneva di tutto punto. Portandoselo a so negli States per le diverse cerimonie di famiglia, finche non si accorse che il grande amore italiano era in fondo un piccolo omino, che di certo qualcosa di grande avrà pur avuto! Così accettò un primo rientro a casa, con le lacrime agli occhi e non appena fu arrivata e asciugato il pianto, le fu offerta la cattedra di italiano in una tra le più importanti Università americane. Buon viaggio, indimenticabile Mel! Sai benissimo, caro diario, i guai che ammo nel cercare una persona adatta a noi! Finché un giorno ad una conferenza per la presentazione di un libro di fotografie scattate nel nord Europa non incontrai la ragazza con l’orecchino. Si, proprio lei quella del Vermeer.

Pi

Carina, elegante, sorridente e silenziosa. Veniva dal nord Europa, da un paese dove ci sono più laghi ed isole che uomini, dove tutti sono biondi e leggermente color latte. Laureata in italiano nella più importante università della capitale del suo paese era arrivata per caso a Firenze. Per caso. Di solito il caso porta pantaloni da uomo. Su di se era inizialmente molto riservata, non raccontava molto, pur facendo trasparire dai modi gentili di comportarsi di aver ricevuto una ferrea educazione, che le si stava sciogliendo addosso al sole della Toscana. Di temperamento apparentemente docile eseguiva alla perfezione il lavoro che le si chiedeva dimostrando un’ attaccamento al nostro progetto che secondo me era persino eccessivo. Come me assolutamente agnostica si divertiva moltissimo nell’ascoltare lunghe diatribe tra me ed una nostra amica che anche durante il suo lavoro…pregava per noi, raccontandoci le sue visite a tutti i santuari cattolici d’Europa. Viaggiava per Firenze con una bicicletta sgangherata, cercando di battere record di velocità, con qualsiasi tempo. Quello che non riuscivo a capire, e quando non si riesce a capire una cosa, si inventano le più strampalate spiegazioni, era il suo voler essere sempre così vicina alle nostre cose; starei per ricordare, così vicina a me.

Di certo gli ero simpatico. Ed anche lei mi era simpatica nella sua non aggressività, senza imposizioni di nessun tipo, anche se mi trovavo a dare significati strampalati al suo innocente mostrarsi. Mi spiego. Sostengo che girare il mondo con il ventre e la schiena scoperta farà soffrire le fanciulle che praticano questa moda, con l’andare degli anni, di forti dolori articolari! L’alzarsi dalla propria sedia o muoversi su di essa mostrando una buona parte del proprio corpo, essendo io un Matusalemme osservatore del bello, mi convinceva a quello studio delle lingue straniere, che mi consentisse di interpretare giustamente tali visioni. Tra noi stava nascendo una confidenza molto “confidente”. Così venni a sapere particolari dei suoi affetti, della sua vita, dei perché dell’Italia, che ancora di più oscuravano le ragioni della nostra amicizia. Con questa parola spiegavo il suo modo di essere verso di me. Venne l’agosto e me ne andai al mare. Altre volte, mio bel diario, ti ho raccontato cos’è il mare per me. Una mattina arrivando sulla spiaggia alla mia solita ora, quando la sabbia è ancora deserta, e del mare si respira il silenzio, vidi davanti a me un bel corpicino di ragazza che mi ricordò immediatamente Pi, anche se l’avevo sempre vista più o meno vestita. La chiamai, si voltò, era lei. ammo una mattinata deliziosa, facemmo il bagno, nuotammo fino alla boa, prendemmo il sole su un pedalò, così come si prende il sole, senza timore di essere visti. Finché verso le una non la raggiunse un giovane, che mi presentò come il suo ragazzo, e se ne andò via con lui. Quando si dice palmo di naso. Con questo io restai Capitò qualche mese dopo che ritornai al mare per salutare un amico e le chiesi di accompagnarmi. Dopo i saluti ci fermammo a mangiare e poi, data la bella giornata, eggiammo a lungo su quella deserta spiaggia di dicembre. Parlavamo di tutto con serena allegria quando seduti su un tronco d’albero decidemmo di farci raccontare da quel legno la sua storia, da dove veniva, cos’era stato quando i suoi rami erano coperti di foglie, e così mi venne in mente di chiederle improvvisamente qual’era la ragione di questa sua simpatia nei miei confronti. Perché mi seguiva, perché era così condiscendente con me. Si chiuse in un silenzio assoluto, mi guardò come si guarda un estraneo che a prima vista ti sembra anche antipatico. Le domandai cosa avevo detto di strano, se per caso l’avevo offesa. Niente. Risalimmo in macchina. Ed in un silenzio tombale ritornammo verso Firenze, finché ad un certo punto persi la pazienza e

le chiesi cosa era successo. Non mi rispose. Ero io che non avevo capito? Può darsi: ma cosa avrei dovuto aver capito?! Ma che senso ha chiedere il perché di una amicizia; voleva, questo domandare, dare uno scopo particolare al nostro rapporto? Forse pensi, le dissi, che io voglia da te qualcosa di diverso da ciò che ho dalla tua amicizia? Mi guardò sorridendo, e non disse niente. Continuò a lavorare con noi per diverse settimane finché improvvisamente mi disse che l’avevano chiamata a sostituire una persona all’ambasciata del suo paese a Roma, mi chiese di darle un consiglio che non poteva essere che quello di accettare l’offerta, e dopo qualche giorno scomparve. Noi, o meglio io, non avevamo niente di meglio da offrirle. Matusalemme e caro diario, ditemi voi: l’errore sta nel parlare e nel non agire? E poi che azione avrei dovuto fare? Non fate i furbi! Cosa c’era di più bello di un’amicizia che non chiedeva nient’altro che essere tale? Ero lì, pronto con le mani tese, il palmo verso il cielo ad accogliere tutto ciò che ci sarebbe caduto. L’esperienza del vuoto. Confesso che mi rimase nel cuore. Non che me ne fossi innamorato, ma certo provai a lungo la nostalgia della sua dolcezza. Finché non arrivò

AM

Che fosse la più intelligente della tante brave e belle collaboratrici di questa avventura è quasi certo. Che venisse da un paese celebre per la sua storia, per la sua cultura, e per tutto quanto aiuta la civiltà ad essere tale è altrettanto certo. Che si stia apionando alla nostra storia, anche. Che il suo livello di collaborazione sia sinceramente molto alto, tale che le consenta di intervenire in molteplici occasioni: anche questo è certo. Che i suoi interventi siano quasi sempre “ a gamba tesa” è sicurissimo. Che il suo aspetto fisico sia decisamente raffinato, anche. Così raffinato che quando decide di esprimersi senza freni e in

discesa arrossiscono i muri dell’ufficio e i computer si spengono da soli per la vergogna. Un volto minuto molto ben equilibrato è capace di sparare nefandezze sorridendo con grazia e pudore ottocentesco, ed è proprio su questo volto quasi perfetto, anche la bruttezza a volte è perfetta, andrà a cercare di mutarne il profilo. Ognuno ha il diritto di essere pazzo fin che vuole. E siccome è vero che la fortuna aiuta gli audaci nel periodo della sua trasformazione è arrivato un piccolo e ben calibrato angelo dallo stesso cielo del paese di AM. Stiamo seduti in attesa degli eventi.

Bello il mio diario, se c’è una cosa che non esiste e nonostante si ostina a are, questo è il tempo. Oggi ci siamo avventurati in un’altra iniziativa con altre compagne di viaggio. Abbiamo incontrato esseri umani belli brutti intelligenti meno intelligenti falsi e veraci, di tutto un po’. Impareremo mai. Non lo so. Di certo una cosa abbiamo, ho, capito con assoluta fermezza. Non è vero che sia la speranza l’ultima a morire. L’ultima a morire, e che di sicuro morirà dopo di me, è ciò che all’inizio definivo come bellissimissima, mi ripeto l’ultima a morire è l’illusione.

...proviamo a raccontarlo.

l’amore … ne godiamo ne parliamo ne soffriamo questa emozione che dura un attimo una vita e nessuno sa cos’è

...proviamo a raccontarlo.

All’inizio la sensazione improvvisa fu di non sentire più alcun dolore, come un piacere inatteso. Non avevo più spasimi al polmone destro, all’anca, a tutta la gamba. Mi era già capitato di non sentire più, d’improvviso, nessuna fitta, ma si trattava di un truffa cattiva; l’intorpidimento era tale e tale la profondità della sofferenza da procurare una sorta di malefica anestesia, perché come provavo a muovermi, venivo trafitto da decine di aghi avvelenati. Questa volta invece attesi qualche secondo prima di spostarmi, provai lentamente, prima con il mignolo, poi con la mano, poi mossi piano piano il braccio.

Mi fermai, potrei dire ansimando, ma in realtà non ansimavo anzi ero particolarmente calmo. Era piacevole, dava un senso di felicità pensare di potermi muovere senza soffrire, mi faceva nascere un sorriso dentro, un compiaciuto godimento. Tentai di aprire gli occhi senza riuscirvi, così che fui preso dal dubbio che stessi sognando. Uno scoramento. Sapevo di non potermi fidare. Non era vero che non stessi più soffrendo, stavo solo sognando. Peccato. Però -mi dissi- riprova a muovere il braccio, dagli uno strattone violento. Ricordo che mi concentrai, quasi mi dessi il via dopo aver contato fino a tre. E mi ritrovai, ad occhi ben aperti, seduto sul letto. Che meraviglia! Erano mesi che non riuscivo più a sedere sul letto. A parte la sorpresa prendevo rapidamente coscienza che il mio star bene non era solo la fine di un terribile insopportabile dolore, ma era proprio un reale sentirsi bene. Quasi ridacchiando mi dicevo ora chiamo Paola e le faccio questa grande improvvisata. Però prima volli essere sicuro che era vero che stessi seduto sul letto. E mi accorsi che non solo c’ero, ma ero completamente rilassato. Mio dio, che felicità. Ero guarito. Ma poi strano- mi dicevo- oltre che bene mi sento in piena forma, quasi non avessi i miei ottantacinque anni. Ma guarda! La vestaglia, le pantofole, la mia camera, mi sembra di vederla per la prima volta, tutto così nitido, senza occhiali. Ecco, che sensazione stupenda, come se mi stessi riappropriando delle mie cose di tutti i giorni. Provai a tirare su le ginocchia, verso il mento. Ma quant’era che non potevo stare in quella posizione. Che fortuna essere guarito. Però mi dicevo andiamoci piano che le cadute alla mia età sono pericolose. Rimasi lì accoccolato, col mento sulle ginocchia, ad assaporare quel particolare dimenticato benessere, guardando la luce filtrare dalla persiane semichiuse. Fu girandomi per vedere che ore fossero che mi accorsi di Paola, stava con la testa appoggiata sul bordo del letto, ferma, immobile, come se dormisse. Così cercai di non svegliarla e fu nel girarmi verso il comodino che mi vidi. Dio che paura! Feci un tal balzo che a momenti sbatto la testa nel soffitto. Ma come ... Sono in piedi, ritto in fondo al letto e sono anche sdraiato, lì, ma che

faccio...dormo. Cazzo... non è possibile! Macché dormo, macché star bene e star rilassato. Quello lì sono io e se non mi sbaglio sono morto! Ma si! morto, mi dissi, non è possibile, e scesi dal letto, infilandomi le pantofole. Però restavo anche immobile, sdraiato sul letto. Pallido e bianco come... un morto. Paola si scosse lentamente, alzò la testa e si asciugò le lacrime col dorso della mano. La chiamai, le urlai che cavolo piangi sono qui, sono qui. Fu così che mi resi conto, vedendola chinarsi su di me pallido, morto,vecchio, e darmi un bacio sulla fronte e poi sulle labbra. Ma dai Paola che fai, non vedi che sono morto. Certo non me l’aspettavo. Tentai di andarle incontro, di abbracciarla, ma era come stringere l’aria, solo che ero io l’aria. Per sempre. Per sempre. Paola aprì la porta della camera da letto e uscì. Le andai dietro, non avevo proprio voglia di stare lì con quel vecchio morto sul letto, anche se ero io. Di certo mi ci riconoscevo poco. Come se il morire fosse stato un torto, un dispetto. Oddio, non avevo più dolori, non mi faceva male niente. Ciao, bimbo, ciao Pier Luigi! Niente, come se non ci fossi. Abbracci Paola, eh bravo ragazzo. Ora fate commuover anche me, via smettetela. Pier Luigi è un gran bel ragazzo, è come la sua mamma. Che donna straordinaria per gli ultimi anni della mia vita. Certo avesse potuto vivere con me fin dall’inizio. Ma che ti dici, oltre che morto sei anche rincretinito. Ma non ti ricordi che tra te e Paola ci sono quarant’anni di differenza. Niente, è vero, conta, neanche l’età, quando due persone s’incontrano e capiscono di volersi bene. Di amarsi. Adesso sto qui appoggiato al comò nell’ingresso, e come io possa appoggiarmi non lo capisco ancora, ma ci sto appoggiato, quasi mi fossi stancato improvvisamente, come se morire stancasse. Anche se, per ora, ho l’impressione che sia solo una noia mortale! E guardo queste due creature. Mie. Abbracciate. Perché di là ci sono io che sono morto. Sento battere i loro cuori. Pier Luigi abbraccia e sostiene, lui il ragazzo, la sua mamma

Lo osservo di profilo questo bellissimo ragazzo che pur assomigliandomi tanto nel cuore, per fortuna sua non mi assomiglia per niente nel fisico. E’ alto, castano, la pelle scura, si forse come me, con gli occhi azzurri di sua mamma, di Paola. Paola l’altro ieri indossava un vestito a piccoli fiori, le braccia scoperte. Siamo a settembre, non mi sembra che sia il mese giusto per morire, Paola è una donna giovane molto bella con un gran cuore. Mi accorgo ora che posso stare sollevato da terra, beh non male, non mi rendevo però conto se ero vestito, così mi sono girato verso lo specchio ed ho realizzo il mio sogno di sempre, non mi sono visto! Perché adesso posso dirmelo, ero proprio brutto e lo sono sempre stato. E per confermarvelo basterebbe vi affacciaste nella stanza e mi deste un’occhiata. Troppo tardi, mi hanno già portato via. I morti non mi sono mai piaciuti, mi hanno fatto sempre un grande tristezza. Pensa adesso che il morto sono io! Ecco, continuo a dirvi com’è andata. Sto seduto su un armadio e li guardo dall’alto. Quassù non c’è un filo di polvere. Paola, ho vissuto venticinque anni con te, sono stati splendidi. No, non certo per l’assenza di polvere. Lo sono stati per la presenza della tua straordinaria ricchezza di pensiero, di affetto, di amore; ed è stato proprio quando credevo di non farcela più, di essere finito, ti ho incontrata. Ed avevi tutti i numeri per incontrare un uomo diverso da me! Ho amato tanto tuo padre! Lo so, mamma, gli vogliamo tanto bene…e adesso? Si sciolgono dall’abbraccio e Paola si dirige verso il mio studio. Gli ultimi mesi, per Paola sono stati duri, tristi, sapeva in cuor suo cosa sarebbe successo. Io, per la verità, no. Perché mi rispecchiavo in lei, nella sua giovinezza e non avevo dato peso a quel medicastro del Giovanni quando ridendo mi aveva detto che, prima o poi si sarebbe liberato di me. Questa volta aveva avuto ragione lui! Decisi subito che non sarei andato al mio funerale. Proprio non avrei potuto

sopportare tutte quelle facce tristi, vere per carità, bravi, addolorati sul serio, che di sicuro mi avrebbero dato una terribile sensazione di abbandono. Così pensai di restare a casa. Anche Paola non ci andò … o non ci venne? La seguii mentre con l’aiuto di un amica rimetteva a posto la nostra camera, che era servita anche da “camera ardente”. Ardente, ma di che? Poi si dice che il linguaggio non sia che metafora! In questo caso sembra una presa in giro, ma … Buttar via il cuscino, il materasso? Figurati, non ci penso proprio! E degli abiti, delle sue cose che ne farai? Ci penserò, per adesso staranno al loro posto di sempre, poi … vedrò. Vieni, andiamo di là. Le corsi dietro a razzo. Quella stanza puzzava di tristezza, e mi sembrava impossibile che quattro mura, un terrazzo, quelle poltrone e quel letto potessero conservare, come uno scrigno di pirati, un tesoro di memorie così grande. Berrò un po’ della sua grappa! Ma a quest’ora, Paola, non ti farà male? Vieni siediti qui sul divano. Vuoi un plaid? Non sarebbe meglio una camomilla invece che una grappa? A me la grappa non la offre nessuno. Non potresti certo dire che mi farebbe male! Paola accompagna Alice alla porta, vuol restare sola. Come sola, e io? Sorride, quasi mi avesse sentito. Torna verso lo studio e si versa un po’ di grappa. Si siede sulla mia poltrona e accavalla le gambe. Paola hai sempre delle belle gambe. Si porta il bicchiere alle labbra, ne accarezza il bordo e ne beve un lungo sorso, poi come se mi vedesse seduto dietro la scrivania mi sorride. Hai bevuto alla mia salute!? Avrei voglia di sentire della bella musica. Oh, guarda, Paola si alza e come se mi avesse capito, accende la luce. No, non mettere quello, no dai, vorrei una musica adatta alla circostanza, non i Beatles, non li ho mai sopportati, no neanche quello … si! ... ma che mi senti?, perfetto!! Armstrong, il funerale a New Orleans! Dolce Paola, come ti amo. Si siede di nuovo, il suo volto è incantevole, anche così provato, con qualche ruga intorno agli occhi. Ecco sorride. Lo so, avrei compiuto ottantasei anni tra qualche giorno. Che stessi bene, no, ma fino alla scorsa primavera ero un piccolo gigante. Ora come posso ringraziarti per la felicità intensa, apionata e totale per questi venticinque miei ultimi anni?

E se adesso che siamo soli, se dio vuole sono stato portato via, provassimo a ricordarli? Luglio, no macché luglio, fu di settembre primi di ottobre. Avevo da poco compiuto sessant’anni, e mi sentivo un rottame alla deriva. Un superstite per caso di mille naufragi. C’era in me, in quei giorni, una tristezza così profonda che rasentava la disperazione. Avevo la percezione, meglio avevo la certezza di essere completamente finito. Come persona, in grado di non dare più nulla, di non sapermi inventare nessun rifugio, neppure di fantasia. Il mio lavoro si era ridotto, finito in un cunicolo chiuso e buio dal quale sempre più raramente usciva un sogno inutile, irrealizzabile, e quand’anche tentassi di credere che quella sarebbe stata l’ultima buona occasione, vi spingevo tutto me stesso, fantasticando fantastici risultati che non arrivavano mai. Uno strazio. Così consumavo giorno dopo giorno un rapporto di vita che, se per lunghi anni, aveva avuto il pregio di essere molto vero, molto pieno d’amore, stava esplodendo come un grappolo di mine, una dietro l’altra. Ed ero io, la mia insipienza, la mia incapacità di realizzare e di essere, che le innescava, lamentandomi e soffrendo per le continue ferite. Era anche mia o no, la casa dove allora vivevo? Come ci vivevo se non con la spasmodica attenzione di non sporcare niente, di non toccare niente, perché non portando più né amore né soldi, stavo perdendo ogni diritto di essere. E’ vero, mi assumevo in pieno tutte le mie responsabilità del mio fallimento, anche perché non avrei risolto nulla attribuendo ad altri qualsiasi colpa. No, ero io che non riuscivo più ad essere né come persona né come uomo. Ma si, te lo avevo raccontato, neanche come uomo. Certo non avevo molte occasioni per dimostrare il contrario perché anche quando erano capitate, le ultime volte, avrei dovuto esser capace di eccitarmi anche di fronte ad un mare di nebbia. In quei giorni mi chiedevo cocciutamente perché, cosa era successo, perché la mia vita si andava consumando così. Cosa avrei fatto il giorno dopo? Poi improvvisamente venne il domani. Qualche ora prima, e fu l’unica volta nella mia vita, attivai all’inizio inconsciamente, ma subito dopo ben consapevole, uno spaventoso litigio con la donna con cui vivevo. Fu così che ci vomitammo addosso tutto il male possibile, tutte le cattiverie represse di quell’ultimi anni, tutti gli amori veri e lì per lì inventati che in quel tempo mi

avevano sostenuto, e così mi ritrovai per la strada verso le tre di un pomeriggio di un sabato piovigginoso. Avevo compiuto da poco sessant’anni. Non avevo più una casa, pochissimi soldi in tasca, in banca più che conosciuto ero cortesemente ricercato, molte valigie a cui si aggiunsero casse di libri e di quadri che stipai in una stanza in ufficio. Ufficio del quale dovevo pagare l’affitto. Rossella O’Hara di Via col vento. Soltanto che quando il domani è già arrivato e bisogna viverlo, tutto si fa meno romanzesco. Quasi senza che me ne accorgessi trascorse un settimana. Dormivo in ufficio, avevo finito la biancheria pulita, avevo fame, e cominciavo a ridermi addosso, sfidandomi a vedere come ne sarei uscito. Fu quella mattina, verso le dieci sempre di sabato che una postina, con un curioso e ilare viso da film di Frank Capra, mi consegnò un pacchetto di lettere, sorridendo e raccomandandomi di non lavorare di sabato, e di andarmene a casa. Quante volte Paola ti avrò raccontato questo episodio?! Io avevo, diciamo così, un hobby. Tutto mio, che tenevo segreto, quasi. Da molti anni io scrivevo. Di tutto, commedie, romanzi, racconti e qualche poesia. Né pubblicavo né tentavo di pubblicare. Sapevo bene quali erano i miei limiti, e allora scrivevo per me, per il gusto di raccontarmi delle storie, in cui mettevo gran parte di me, dei miei ricordi, dei miei sogni spesso senza nemmeno tanti camuffamenti. Mesi prima, preso da chissà quale raptus fantasioso, avevo spedito il mio primo romanzo, scritto e riscritto non so quante volte, ad un editore di Pescara. Mi piaceva la sua politica editoriale. Libri di piccolo formato, elegantemente pubblicati e venduti ad un prezzo onestissimo. Così avevo tentato anch’io. Il mio editore mi convocava a Pescara! Mi feci prestare un po’ di soldi, tanto quanto mi sarebbe bastato per andare e tornare. Mi ero lavato due camicie. Insomma volevo apparire quello di una volta! Fu come un esame. Fui promosso e quel pomeriggio prenotai una camera all’hotel Palace. Chiesi che mi lavassero la biancheria ed attesi il mattino, non dormendo per correre in banca e trasformare tutti quei numeri di quel bellissimo assegno in soldi contanti e cantanti. Certo avrei voluto girarlo a nome di Rossella O’Hara, perché quella mattina mi sentivo così.

Soldi, soldi guadagnati con una cosa scritta tanti anni prima, per divertimento. Soldi miei!! Che mi sarebbero bastati per affittare una camera anche piccola, da qualche parte, soldi che … Ti annoio, Paola? Allora aspetta, mi accoccolo qui ai tuoi piedi a appoggio la testa sulle tue gambe. Può Paola un morto sentire il profumo? Io sento il tuo, penetrante, una mistura antica raffinatissima, che mi ricorderà sempre il tuo corpo stupendo. Alla stazione di Pescara comprai, come facevo tempo prima, molti quotidiani, qualche rivista, e per resto l’ultimo biglietto della lotteria di Venezia. Appena posso, pensai, torno a Venezia. Ripartii solo, si finalmente solo. O meglio con me viaggiava maliziosamente sorridente la Rossella, quella di Via col vento, del domani è un altro giorno. Ricordo che trascorsi quelle settimane serenamente. I soldi avuti dall’editore mi sollevarono lo spirito e, perché no, la pancia. E poi, alcuni giorni dopo, uno dei miei progetti, il più difficile per la sua complessità organizzativa fu inaspettatamente approvato, e me ne arrivò un congruo anticipo. In fondo pensai sessanta o venti, l’importanza era un pizzico di fiducia in se stessi per credersi ancora vivi. Di certo non speravo né sospettavo l’arrivo di quel colossale colpo di fortuna! Così che mi ritrovai da un sabato ad un lunedì ricchissimo e profondamente veneziano! Io che non avevo mai avuto tanti soldi, ed in verità non avevo mai dato loro grande importanza, mi ritrovavo ricchissimo, ed obbiettivamente lo ero diventato davvero. C’era e c’è da chiedersi cos’è la vita. La disperazione di quando non hai lavoro, di quando non hai affetti, di quando sei o credi di essere assolutamente abbandonato anche da te stesso, sul punto quasi di augurarti che la tua stessa vita finisca e poi, per caso, un gesto banale, compri dei giornali, l’edicolante che invece del resto in soldi ti da un foglietto di carta con su scritto... lotteria di...e non sei più povero e magari, neanche più solo. Puoi pagarti viaggi, case, e persino, forse, dimenticare che non sei più solo, che non hai più nessuno che ti vuole bene. Posso dirti Paola che a me ne derivò una grande paura, cosa significava tutta quella positività? Perché tutto cominciava ad andare non bene ma benissimo? Comprai e arredai questa casa. E per i primi tempi avevo con lei dei rapporti quasi circospetti; ma era casa mia: le pareti rivestite con i tessuti che mi erano sempre piaciuti, e finalmente i mobili che per una vita avevo a lungo ammirato nelle vetrine degli antiquari e poi i libri quanti e più di quanti ne avevo sempre desiderato.

Vivevo solo, con l’Elide s’intende, che mi aveva seguito e si occupava della casa, e di me. Cosi a prima vista sembrava non mi mancasse niente, neppure la soddisfazione che il mio primo romanzo era alla quinta edizione e tutti ne parlavano come di una rivelazione. Fu, ti ricordi, a primavera inoltrata. Ero tornato a Pescara. Il mio buon editore stava stampando una mia raccolta di racconti. Avevo preso un treno da Roma e secondo la consuetudine in seconda classe, per tornare a casa. Poco dopo la partenza del treno nello scompartimento vuoto, mi addormentai. Non ricordo quanto dormii, solo che in un improvviso risveglio mi accorsi di non essere più solo. Raggomitolata in un angolo una ragazza leggeva. Non ne vedevo il volto coperto da una cascata di capelli neri, solo le gambe accavallate con eleganza. Mi interessai subito! Mi ai rapidamente in rivista, riassettandomi. Certo per essere brutto ero brutto, però ben vestito e poi non dimostravo certo sessant’anni. E poi che significa, solo per far due chiacchiere in treno, vero Paola, due chiacchiere che sono durate venticinque anni! E come avrei potuto pensare, immaginare, che io, oggi, morto da parecchie ore, avrei potuto ancora star qui con te a ricordare questo straordinario paradiso che è stata la mia vita, la mia vita con te, la nostra vita. Sai cos’è che mi ricordo in maniera fotografica, come se lo vedessi ora? Ricordo il momento in cui alzasti gli occhi dal libro. Prima guardasti verso il finestrino, ed io già intuivo il miracolo in arrivo, e poi puntasti verso di me quel gran fascio di luce dei tuoi stupendi occhi azzurri. Solleva la testa, per piacere, guardami. Ma non mi senti? Ah! Ecco così, sono ancora più belli. Ricordo benedissimo che restai a bocca aperta!! E’ bellissima, pensai. Cambiasti posizione alle gambe; lo facesti con dolcezza, un movimento come una carezza e nonostante le gonne corte non fosti per niente generosa! Riprendesti a leggere. Il treno fermò a Chiusi, credo, e ripartì. Chiudesti il libro, strana la copertina, a fiori come si usava tanti anni fa a scuola, e io presi il coraggio a due mani, e quasi fossi Tarzan che prende fiato per lanciare il suo poderoso urlo, ti chiesi a bassa voce cosa stavi leggendo. Un libro bellissimo! Che mi emoziona e mi fa pensare, una storia intima, ben scritta.

Questa fu la tua risposta che ascoltai separando le parole dal tono della tua voce. Che bella voce, ben modulata, educata, che splendida ragazza! Ed è un autore italiano? Si, italiano, non ricordo però il suo nome, guardi- porgendomi il libro. E fu così che si scatenò un tifone dentro di me. Si, lo conosco benissimo, ho letto di lui! Ma veramente qui dice che questo è il suo primo lavoro pubblicato ed è del novembre scorso … Certo, ha ragione! Volevo dirle che conosco bene l’autore ed ho avuto la fortuna di leggere i suoi manoscritti. Preso da un attacco di voluttà e di curiosità non ti dissi subito che quel libro era il mio, e mi chiedesti un sacco di cose sull’uomo, sullo scrittore subissandomi di domande, alle quali rispondevo con sorniona felicità. In fondo era la prima volta che parlavo del mio libro, dei suoi contenuti più segreti con una persona sconosciuta e così immedesimata nella concettualità del racconto, e poi così giovane, così assolutamente bella. Ridacchiando tra me e me ti promisi, arrivati in stazione, che ti avrei preso un appuntamento con il tuo scrittore, ricordi? Paola che c’è sei stanca? Non hai più voglia di ascoltarmi? Paola allora si alzò dalla poltrona, si scosse con le mani i capelli, dirigendosi verso la finestra. A me sembrava di poterla seguire con lo sguardo, osservandola da ogni lato e non mi ero ancora abituato a non avere più un corpo, tuttavia provavo come un senso generale di benessere, di leggerezza. Avrà sentito quello che le raccontavo? Paola no, non farlo. Non piangere. Appoggiò la fronte al vetro della finestra e guardò giù nel giardino. Tra poco sarebbe stato ottobre e poi l’inverno. Le prese un brivido, più per il vuoto che aveva dentro e per il grande dolore che le attanagliava il cuore che per il

prossimo freddo. Beh, ma io come faccio a sentire quello che pensa Paola, quasi che una voce esterna a noi due mi raccontasse di lei. Così la vidi girarsi, abbracciare con lo sguardo lo studio, fissare con affettuosa dolce intensità la poltroncina dove mi pareva di star seduto e forse intuendo la mia presenza venne verso di me, si sedette sul bracciolo ed accarezzò con la mano l’alto schienale dove io credevo di stare appoggiato, ma dolorosamente non riuscivo a sentire la sua mano, era come se entrasse ed uscisse da me senza che ne potessi carpire il calore. Cerca di ricordarti che sei morto, mi dissi. Si alzò dalla poltroncina ed uscì dallo studio. Le corsi dietro. Non so, ma nei miei movimenti, o quelli che mi sembrava fossero i miei movimenti, nei miei pensieri non mi riusciva essere serio. Stavo prendendo la mia morte come un gioco, in un giorno di compleanno. La casa era deserta. Pier Luigi ed altri amici erano tutti al mio funerale. Il letto completamente rifatto mi dava fastidio, sul comodino c’era il libro che stavo leggendo, i miei occhiali infilati nel libro a segnare la pagina. Non avevo finito di leggerlo. Paola si muoveva tranquillamente come se io non ci fosse. Accese la radio ed apri la porta del bagno. E ora che faccio? In venticinque anni non avevo mai violato la sua intimità, e adesso!! Sentii scorrere l’acqua nelle vasca. Allora posso entrare. Paola si stava preparando per fare un bagno. La vasca già colma di schiuma. Ei! Paola! Hai messo nell’ acqua la mia schiuma al vetiver! Che sciocco, che dolce sei Paola. Eccola qui bella come non mai, questa quarantacinquenne signora con un corpo giovanissimo, che pelle! Tutta piena di piccole efelidi. Una sera mi ero messo in testa di contarle tutte, e per poco non mi ci addormentavo. Aspetta! Cosa stai pensando!? Fammelo raccontare a me. Fosti sorpresa quando mi riconoscesti nel vano della porta. Quasi delusa con quel ah! è lei! Si, sono io signorina si accomodi. Entrasti timidissima con il mio libro tra le mani, vestita da ometto con un tailleur pantalone ed una camicia di oxford azzurro, dello stesso colore dei tuoi occhi; il nostro primo parlare fu incerto, fin che non mi chiedesti se mi fosse stato possibile domandare al tuo autore di poter leggere qualche breve racconto ancora non pubblicato.

Certo ti dissi, mentre lo aspettiamo, io faccio il tè e lei si legge ciò che vuole. Così ti detti da leggere due racconti, “Lettera di uno spermatozoo a suo babbo”e “Vieni giù cretina!”, per vederti poco dopo apparire nel vano della cucina e sentire quella particolare melodia della tua voce dire … sono bellissimi!. Ma lei crede che l’autore pensi veramente quello che scrive nella lettera al babbo! Che pensi veramente, che per fare l’amore occorra necessariamente amare? E che sia vero questo strano discorso sull’ anima? Ti risposi che per quanto conoscessi lo scrittore, credo che in vita sua gli fosse capitato solo per caso di fare l’amore senza amare e che per di più essendo ad oggi molto tempo che non amava era anche molto tempo che non faceva l’amore, e che per quanto riguardava l’anima, la sua esistenza … già, a proposito, ma io ora che sono? Avrò probabilmente tempo per scoprirlo! Si che ricordo ogni tua parola- “Mi piacerebbe incontrare quest’uomo, lei gli deve volere molto bene se ne parla così dolcemente, tra quanto sarà qui?” Naturale che gli voglia bene, e così quasi scherzando versandoti il té con poco latte ti confessai e mi confessai chiedendoti scusa per lo scherzo innocente. Mi guardasti, ma da chi avrai mai preso quelli occhi azzurri con quel lungo taglio orientale. E ridendo dicesti che ormai ero così familiare ai suoi pensieri che speravi proprio che fossi io il tuo scrittore. A metà serata proponemmo di darci del tu. E fu solo quando fui costretto ad accendere la luce in salotto che ci accorgemmo di aver parlato tutto il pomeriggio, senza un attimo di sosta, senza che io nemmeno per un minuto mi fossi sognato di levare gli occhi dai tuoi occhi. Ma poi cosa ci dicemmo? Diverse volte abbiamo revocato quel nostro secondo incontro per infine concludere che fu parlando del mio lungo e del tuo breve ato... stavamo, in fondo ed inconsciamente, proiettandoci verso uno sconosciuto futuro, il nostro futuro. Un futuro insieme!? Ti proposi di accompagnarti, no non ti dissi di restare a cena, e nel salutarti sulla porta di casa , ti sporgesti verso di me, sfiorando la mia guancia con un bacio leggero. Non aprii le finestre di casa per tre giorni, volevo che vi restasse più a lungo possibile il tuo profumo. Guarda Paola questi venticinque anni li ricordo minuto per minuto. Non so cosa succederà, ma dovessi per caso rinascere chiederei solo di rincontrarti e, se non fosse possibile, di non potermi dimenticare di te.

Vorrei massaggiarti la schiena, ma non ho più mani! Le tue invece sono ancora, e lo saranno sempre, bellissime. Già in treno, la prima volta che ti vidi, guardavo le tue mani lunghe, nervose, le unghie naturalmente curate, avevano il colorito della tua pelle. Può sembrare curiosa questa riflessione ma spesso tra volto e mani la pelle cambia tonalità, in te no; forse perché avendotelo detto e spiegato a lungo, ti sei convinta della inesistenza del tempo e sei rimasta ventenne. Ai miei occhi! … che sono quelli del mondo! Nei primi tempi della nostra amicizia questa grande differenza di età che c’era, e che c’è, tra noi, in cui mi ostinavo a non credere, mi pesava non poco. Anche perché sentivo nascere in me un assoluto bisogno di te, che in certi momenti era totalmente e banalmente fisico. Ti volevo. Ora che ti guardo immersa nel mio bagno schiuma, ti desidero. Visto che sono senza corpo, non so proprio come sia possibile e … a proposito … il mio antico e malazzato corpo dove sarà finito! Sempre in chiesa … forse sto facendo un torto al buon don Filippo, che mi ha finalmente a sua disposizione e potrà senza tema di repliche sarcastiche, dirmene di tutti i colori. Ma ti ricordi come e quante me ne cantò! Eravamo da poco insieme quando piombò in casa, ormai nostra, speditoci da tua nonna … Lui, un pretino giovanissimo e già così saggio. Lei sarà anche intelligente, sarà anche ricco, sarà anche uno scrittore, ma ha ben quarant’anni più di Paola, e andrebbe si e no bene per la mamma di Paola, se fosse sempre viva!! Io lo feci accomodare in salotto, gli offrii una buona grappa, e sorvegliato dallo scintillio luminoso dei tuoi occhi, mentre te ne stavi ridendo dietro la porta della sala da pranzo, cercai di spiegargli che cos’era l’amore, quello vero, quello fatto di un sentire insieme, della voglia di vivere insieme. Buono, onesto don Filippo. Si attaccò alle convenzioni, alla tua università da finire, alla gente che dice, e quando gli chiesi se se la sentiva di sposarci, si rabbonì quasi subito. Gli sembrò e lo fu, una vittoria. Ma questo fu due anni dopo, vero? Dalla tua prima visita, quella fatta a quel brutto signore conosciuto in treno, per incontrare il tuo scrittore preferito, arono alcuni mesi di tanti dolcissimi incontri. Come due amici, in latteria al mattino per la colazione, e poi dopo le tue lezioni all’università, mi venivi a prendere in ufficio dove quei birbanti dei miei soci non la smettevano mai di sogghignare. Già chi di loro sarà al mio funerale? Antonio no di sicuro. Come minimo sarà scappato al mare per fare un giro con la sua nuova barca e, forse, per sfogare la

sua amarezza; Pino, la Iole, loro ci saranno. Ti sta raffreddando l’ acqua! Ma … mi senti … stai facendo scorrere l’acqua calda! Allora ascolta, Paola, se mi senti ti ricordi di Parigi? Eravamo sotto Natale, mi pare, si e com’eri triste quella mattina! Suonasti alla mia porta, verso le otto e mezzo e fui molto sorpreso quando l’Elide mi disse che di là c’era la signorina Paola. Ti corsi incontro! Quella si che era una giornata che cominciava bene ! Bene. Si fa per dire. Avevi bisogno di parlarmi, dopo qualche mese che ci conoscevamo, avevi bisogno di chiedermi un consiglio. E la questione era cosa avresti dovuto fare con Ugo. Ugo? E chi era costui. Era semplicemente il tuo ragazzo. Ma come non aver supposto, non essermi mai domandato, messo in bilancio che te così bella splendidamente intelligente non avresti potuto, ma che dico, dovuto avere un ragazzo? Rimasi di colpo ibernato e rispecchiato nei miei anni. L’autore di romanzi prese il sopravvento in me e fingendo un principesco distacco ti chiesi di raccontarmene. Ugo aveva venticinque anni. Sessanta sta a venticinque come io sto ad un cretino rimbambito. Ugo si stava laureando in ingegneria. Ugo era il tuo primo uomo. Primo uomo? Mi pare naturale, che cosa ti aspettavi, psicologo da quattro soldi. Ugo ti aveva chiesto di sposarlo. Te non amavi più Ugo, anzi pensavi con terrore di non averlo mai amato. Lontano si sentiva in crescente scampanio di gioia. E io con la mia esperienza, no per la verità, mi dicesti, con i tuoi anni, con la tua umanità, con la tua capacità di capire, sentire, descrivere l’amore che consiglio potevi darle. Subito ti dissi, data l’ora, di fare insieme un’abbondante colazione, che la brava Elide ci servì sul divano, in salotto. A pancia un po’ piena si parla meglio d’amore. E parlammo. Restasti lì a pranzo con me, poi prendemmo un te verso le sei, e all’ora di cena ti riaccompagnai piano piano sotto l’ombrello, tenendoti a braccetto, verso la casa di tua nonna.. Con molta complicità, come un gattone soriano che si lecca i baffi, come uno che dica tié, Ugo, eccoti servito! La sera stessa verso le undici mi telefonasti per dirmi grazie, che avevi le idee più chiare, che ne eri felice. Richelieu du Plessis di periferia! Brutto cardinale dei miei stivali! Non ebbi il coraggio di chiederti quale fosse stata la tua decisione. Ti chiesi solo se andava ancora bene per l’indomani sera venire a teatro con me. Fosti tu a fare il gatto

soriano con quella tua risposta metà ambigua e metà sorridente, un misto tra la Greta Garbo e la Marilyn Monroe, che mi procurò una dolce insonnia. Non mi chiedere che spettacolo davano a teatro perché di quella sera ricordo solo il tuo profilo elegante, i tuoi capelli neri sapientemente raccolti sulla nuca, il tuo seno appena intravisto nello scollo del tuo abito da mezza sera. Vissi quelle ore al ritmo del tuo respiro, risi sul sorridere del tuo volto alle comiche battute della recita, e quando col capo reclinato verso di me per ascoltare cosa ti bisbigliavo, mi dicesti semplicemente –si-, io rimasi avvinto, incantato dalla tua dolce bellezza. Ti avevo solo chiesto prendendo il coraggio a diciotto mani, se ti andava di are il capodanno con me, a Parigi. Partimmo in aereo, e subito dopo il decollo cominciai a chiedermi che cavolo stessi facendo, dove stavo andando. A Parigi, no? A fare che? E che ne so. A are il capodanno. E Ugo? Ugo? Chi era costui? Mi sto abituando all’idea di essere morto. Però mi sembra che ci sia un controsenso, come si può essere e … morto. Essere ha sempre presupposto essere … vivo. Stiamo a vedere. In questo momento mi manca solo il mio corpo, tanta è l’abitudine di te che vorrei chiederti di entrare anch’io nella vasca. Prenderei poco posto! Ti va di fare il bagno con un morto? ammo due giorni, in attesa della fine dell’anno, girando per Parigi, come due grandi amici. Che si, dormono insieme nella stessa camera a due letti, rispettando senza minimamente dirselo, la propria intimità. Avevo visitato Parigi molte volte e la riscoprivo con te, strada dietro strada, posti, angoli, la Senna, non un museo, poche chiese e a letto presto la sera. Parigi era te. Io ero te. Cercavamo un posto dove are la mezzanotte dell’ultimo dell’anno, quando a te venne un’idea favolosa. A me, dicesti, non interessa la gente, il ballo, voglio are la mezzanotte con te, senti che ti propongo, compriamo una bella cena, due piccoli candelabri, candele, champagne e stiamo nella nostra camera, io e te, come due … e ti bloccasti! Come due cosa, ti chiesi. Come due, rispondesti, siamo o non siamo in due? Io fino ad allora non ti avevo mai regalato niente, non un fiore, niente. Nell’entrare in una monumentale rosticceria avevo visto in vetrina da un gioielliere, lì vicino, una collana in corallo e oro, di fattura orientale. Così mentre tu facevi confezionare la nostra cena a base di aragosta, io m’infilai di corsa in quel negozio e quasi senza chiedere il prezzo comprai il mio primo

regalo per te. La nostra camera in quell’albergo vecchiotto ma elegante del centro di Parigi era dotata di un piccolo camino che ci facemmo accendere da una divertita e ammiccante cameriera. Ci cambiamo per cena, io mi sono portato lo smoking.. Ed io il mio unico vero abito da sera! Girammo per Montmartre fino alle dieci di sera per strade animate dalla festa che già era cominciata, e poi giustamente vestiti, ci sedemmo al nostro piccolo tavolo pronti per la notte dell’ultimo dell’anno. Paola, tu eri tanto bella quanto curioso il tuo vestito! Ma come ti era venuto? Ovviamente mi complimentai con te e così seppi che era un regalo di tua nonna. Sai, quella sera io ero l’uomo più fortunato dell’universo. All’ultimo piano dello Scribe, mentre fuori cominciava a nevicare, io, col camino in camera , versavo dello champagne nel bicchiere della donna più bella del mondo. Avevo sessant’anni e tu ne avevi venti. Io ti amavo. Se qualcuno non mi capisse, potrebbe dispiacermene molto per lui! Noi capimmo che era mezzanotte dalla grida di gioia che venivano dalla strada, dal suono dei clacson, dallo scampanio di una chiesa vicina. Mi alzai in piedi, ti alzasti. Ero perso nei tuoi occhi. Posate le coppe di champagne sul tavolo, mi sei venuta tra le braccia e appoggiando delicatamente le tue labbra alle mie, mormorasti “… ti amo..ti amo tanto..” E ci baciammo, a lungo, per la prima volta, un bacio durato venticinque anni. Non piangere Paola, non piangere, non rovinare questi anni stupendi pensando solo che sono morto: questo era nelle cose, doveva accadere. Un miracolo è stato l’esserci incontrati. Si non piangere, non lo fare e esci dalla vasca ché ti raffredderai. Io avevo la netta impressione che mi sentisse, tant’è che d’improvviso un po’ rabbrividendo si alzò in piedi, andosi meccanicamente la doccia calda sul corpo. Certo quella sera il tuo corpo sbocciò tra le mie mani come un fiore dai mille colori e dai mille profumi. Ma in tutti i miei anni mi era mai riuscito di amare così una donna? Fu come vedere e sentire il mare dopo una lunga ed estenuante marcia nel deserto, dove uno abbia perso o creduto di perdere il meglio di se stesso. Fu come vedere sorgere il sole per chi abbia vissuto come un cieco mentre descriveva raccontandole le bellezze della luce. Fu immergere il volto nel

tuo corpo come in una sorgente di acque miracolose.. Averti, darmi. Riaverti e insieme, tenendoci per mano, provare la vetta quasi imprendibile dell’amare. E poi ti vidi per la prima volta, quello sguardo lento, languido, d’incantevole sensualità. Non guardavi me, guardavi dentro di me, scandagliavi il mio pensiero, il mio cuore e, sorpresa, esultavi perché ovunque leggevi il mio stupendo, gaio, allegro, giubilante amore per te. Quante volte ci dicemmo quanto ci amavamo. Senz’altro fino al primo mattino del primo giorno del primo anno della nostra vita. E l’occhiata affettuosa e divertita di quella donna anzianotta, avrà avuto un sessantina d’anni -appunto- che ci portò la colazione posando il vassoio su uno dei due letti ancora immacolato, con quel suo cantilenante buon giorno!, e la tua risata franca, felice. Davvero fu un gran giorno, una lunga serie di grandi anni felici. Allora mi ricordai del regalo che ti avevo comprato la sera prima. Balzai con tua grande sorpresa dal letto e tirato fuori dalla tasca del loden l’elegante fagottino, te lo porsi chiedendoti scusa se la sera prima mi ero dimenticato il regalo per te. Pensai che se tu avessi reagito così ad ogni dono, il resto dei miei anni l’avrei ato facendoti regali. Invece fosti tu a farmi il più grande dei regali, i nostri venticinque anni. Nuda e felice ti mettesti in ginocchio sul letto terremotando la colazione, apristi il pacchetto con ridente curiosità per poi restare a bocca aperta letteralmente di fronte a quel piccolo gioiello di corallo. Senza preoccuparti dell’effetto che mi faceva il tuo corpo nudo, ti alzasti per andare di corsa davanti al grande specchio dell’armadio. Forse l’emozione, non so, mi chiamasti perché non riuscivi a chiudere la fermezza. Così abbracciata a me, dondolando come in una ninna-nanna, capace di risuscitare un morto- infatti io sto provando le stesse sensazioni di allora- riempisti il mio collo, le mie braccia di piccoli baci e finimmo per disfare totalmente l’altro letto! ammo poi altri due giorni a Parigi ripercorrendo le stesse strade, gli stessi quartieri, la Senna, nemmeno un museo, poche chiese e scalammo una montagna di progetti. Quella piccola stanza accanto al mio studio diventò il tuo studio, la mia camera la nostra camera, la mia casa la nostra casa. Nessuno tranne l’Elide, che ti accolse come una piccola padrona di casa e tu con amore la trattasti come una affettuosa zia, nessuno avrebbe pensato che noi due avremo vissuto sempre

insieme. I miei colleghi ne furono felici, e per fortuna i loro pronostici furono sarcasticamente infausti, ma lo facevano solo e dolcemente per scaramanzia. Più dura di tutti fu tua nonna. Quanto dolore provò, povera donna, e quanto ne dette a te. In certi casi la sofferenza nasce solo dal proprio egoismo, dal credere che la felicità di chi amiamo dipenda solo dal non trasgredire i disegni, i progetti che abbiamo fatto per loro e, peggio, dal non trasgredire quella così detta morale comune che non permette deroghe. Fu poi l’arrivo di Pier Luigi che spianò le montagne. Adesso sono dietro di te. Sto seduto. Come possa io star seduto non avendo più il mio culo proprio non lo so, ma ho questa sensazione, con il corpo rilassato di chi sta seduto, che tra l’altro si accentua perché mi sto pensando seduto. Ma non voglio parlare di me, ora; anche perché credo che avrò a disposizione un bel po’ di tempo per parlare di me.. Tempo! Spero proprio che qualcuno adesso mi confermi che tu non esisti, brutto vigliacco! Voglio parlare di noi, di te, Paola. Eccomi seduto sul water mentre te mi volgi la schiena nuda, sei un grande spettacolo, Paola mia, mi sento in grado di resuscitare! Ora ci provo! Seguo la spazzola che ti accarezza i capelli…cosa sono quei fili bianchi, non te li avevo mai visti. Anche se è vero che negli ultimi mesi ero così impegnato col dolore che mi assaliva che notavo poche cose. Ma non è che sarò stato io a farteli venire? Béh, però non ti stanno male. In fondo mi sembra giusto che tu abbia un aspetto un po’ da signora, se no quando esci con Pier Luigi ti prenderanno per la sua ragazza. Certo lui ne sarebbe contento. Chissà se quel ragazzo avrà la fortuna di trovare una donna come te, di riconoscerla se la incontrerà in treno, magari a sessant’anni. Spero prima per lui. Pier Luigi! Paola eri vicino alla laurea, ed erano ati due anni da quella notte a Parigi, due anni e pochi mesi da quella notte in treno. Io ero ringiovanito, non avevo più età, e tu eri un fiore straordinario, perché, se possibile, la tua bellezza si era completata. Al naturale fascino di donna, univi una dolcezza umana di comportamento, di pensiero, di concettualità che facevano di te un essere unico. Il professor Foschi, mio amico e poi tuo amico, col quale preparavi la tesi di laurea, quando mi incontrava non si risparmiava nello scherzare con me sulla mia fortuna, sul fatto che io fossi un vecchio satiro, traducendo in farsa un pò boccaccesca la nostra vita. Ed io accettavo sorridendo quella visione che nascondeva una vivacissima e comprensibile gelosia.

E chi non mi invidiava, anche affettuosamente. Quella sera eri nervosa. Io non ti avevo mai visto così agitata e ne fui preoccupatissimo. Eri stata fuori tutto il giorno, prima all’università poi ad informarti della salute di tua nonna, il cui muro di Berlino si era completamente sgretolato. A me quella tua agitazione procurava una tempesta di cattivi presagi. Invece di starmene calmo, come avrei fatto di solito, ad aspettare gli eventi, stavo entrando in ebollizione, tant’è che ti chiesi con sforzatissimo scherzo se mi amavi ancora. Tu hai, avevi, un modo di guardare, certe volte, che sembra tu voglia fulminare il malcapitato e riesci a dosare come un attento alchimista l’intensità del tuo sguardo, sia che esso sia ridente, serio, amoroso: mai uno sguardo cattivo, ma quella sera il tuo sguardo era un concentrato di energia e di amore. Mi fulminavi altro che darmi la scossa. Poi brutta ladra di emozioni mi dicesti che credevi di avere un nuovo amore. Ti risposi che a dir cose così c’era di che uccidere una intera tribù di elefanti. Cosa volevi dire. E per di più il tuo nuovo amore veniva da me, insomma era colpa mia se tu avresti avuto un nuovo amore. Ma chi ti avevo presentato negli ultimi tempi? La moviola della nostra vita riava a grande velocità gli episodi degli ultimi tempi, avanti e indietro. E mentre dicevi queste cose scrutavi i miei occhi, ridacchiando della mia angoscia che cercava di nascondersi dietro un malcelato auto controllo.. Quando poi ti accorgesti che sarei stato travolto da una inesistente tempesta di contrastanti sentimenti, allungasti una mano sul mio volto, in una carezza dal sapore divino, del tipo “fiat lux”, sussurrandomi che aspettavi un figlio, eri incinta, avremo un bambino, e che se fosse stato maschio lo avresti voluto chiamare Pier Luigi, e se fosse stata femmina si sarebbe chiamata Antonella, come tua mamma, e che, comunque avrebbe avuto i tuoi occhi, la nostra bellezza, il mio cuore. Fu come se precipitato da un dirupo fossi atterrato su una tonnellata di panna montata. Ti chiesi se visto che facevi tutto da sola, avrei potuto prima che si laureasse, dirgli “ ciao caro”! Non ci sono diamanti che brillino come i tuoi occhi. Ti gettasti tra le mie braccia, travolgendomi sul divano, e sussurrandomi in mezzo a lacrime di felicità che per un attimo avevi avuto tanta paura perché non sapevi, non ne avevamo mai parlato, non riuscivi ad immaginare la mia razione, e che se questa fosse stata incerta, saresti tornata da tua nonna. Mentre sdraiati sul divano celebravamo l’evento accarezzandoci e spogliandoci per amarci, ti dissi quanto ti amavo e ti assicurai ridendo che a Pier Luigi e ad Antonella oltre che da padre avrei potuto fare anche da nonno.

Tutte le volte, rare per la verità, i cui mi emergeva questa coscienza della nostra differenza di età, tu mi guardavi sorridendo, senza dir nulla; e m’imbarazzavi perché non capivo, non ho mai capito quale fosse il reale significato del tuo sorriso. Dammi un segno! Fammi capire che mi stai ascoltando. Tranne me che non ci sono, o che sono aria, dietro di me c’è solo la tenda della doccia, perché la guardi e sorridi? O sei rivolta verso di me? Paola rispondimi! Strizzami, si! Stavo per chiederti di darmi un pizzicotto! Allora? Indossò lentamente l’accappatoio. Paola è il mio, quello! Gli andai dietro di corsa. Ero o non ero la sua ombra. O ero la mia?! In camera si sedette sul letto. Alzati di lì Paola per piacere non al mio posto! Ci sono morto appena ieri l’altro! Prese il mio libro dal comodino e tentò di mettersi i miei occhiali per leggere. Donna dolcissima. Si tolse gli occhiali, stropicciandosi gli occhi. Alla fine ero anche mezzo cieco. Aprì il libro alla pagina dove avevo interrotto la lettura, e non solo quella, e cominciò a leggere lentamente a voce alta. Stava leggendo per qualcuno. Stava leggendo per me, per aiutarmi a finire il libro. Mi coricai sul letto dalla sua parte, vincendo ogni timore. Si, è vero, ma sentivo di stare sdraiato, poi appoggiato su un gomito, guardavo muoversi le tue labbra e lontana lontana sentivo, adesso basta!, ho detto sentivo, la sua voce. Così attenta educata, una voce piena di vibrazioni, quasi senza accenti dialettali. Dalle labbra scesi verso il collo, avvicinandomi, per godere meglio delle vibrazioni della tua gola e scorsi l’attaccatura del tuo seno. Ma dai! Sei morto e forse già sepolto e ancora guardi il seno di tua moglie!? Perché no?Cosa dovrei fare, pensare al futuro per caso, fare progetti?, rimpiangere il ato, pentirmi di qualche peccato. Non ho mai fatto del male a nessuno, almeno volontariamente, e qui qualcuno a testimoniare ci sarà; certo ho raccontato qualche balla, ma inganni, truffe, mai. Rimpianti: ed a cosa potrebbe servirmi, ora, rimpiangere ciò che ho fatto o non ho fatto. Certo questi venticinque anni di paradiso mi hanno ben abituato. Preferisco ricordare, parlare di te, Paola mia. Vediamo. Ah! si Il giorno della discussione della tua tesi di laurea. Eri al settimo o ottavo mese di gravidanza. Il pancione più pancione del mondo! Avesti difficoltà a superare una grande scrivania per dare la mano al preside della tua facoltà, e mentre ti consegnavano non so cosa stavi in punta di piedi e dalla scarpa destra ti usci un calcagno

vestito da una calza ben smagliata. Ne sorridemmo tutti. Quel piccolo incidente rese, se possibile, più umani vivi e reali i complimenti di quel gruppo di professori che lodavano la tua complicatissima tesi sulla scrittura cuneiforme dei Sumeri. Poi tornasti verso di noi con in mano il tuo diploma e l’altra appoggiata al tuo bellissimo pancione. Venivi verso di me e stavo per accoglierti, quando ti chinasti verso la sorella di tua mamma e porgendole il tuo diploma le dicesti di portarlo alla nonna con un bacio, poi seduta reclinasti la testa sulla mia spalla come per cercarvi riposo, rifugio. La buona Elide ti aveva preparato una gustosa cenetta, adatta al tuo stato e poi tutta confusa ti aveva chiesto se doveva d’ora in poi chiamarti dottoressa, e tu guardandola con grande dolcezza le dicesti che doveva chiamarti Paola e basta. Povera Elide era già molto stanca, ma a me sembrava lo fosse quasi da sempre. Non ricordo che età avesse ma credo vivesse nella mia famiglia da una vita; quando venne a lavorare da noi era poco più grande di me, e tranne qualche breve periodo aveva sempre seguito gli spostamenti di tutti noi. Si era profondamente emozionata all’idea di un nostro figlio, ci aveva tanto sognato sul vedermi sposato e con figli! Io in fondo ero stato per mezzo secolo un suo scapestrato ragazzo e aveva perso ogni speranza finché non eri apparsa tu nella mia vita … ma non voglio parlare dell’Elide, di cui sai tutto. Voglio parlare di noi, di come fummo felice per l’arrivo del nostro bimbo. Ne per te ne per lui ci furono complicazioni. Le uniche ci furono per me, per la pessima idea di esserti vicino in sala parto. Pessima. Stupenda idea! Ricordo di aver visto un documentario sul comportamento dei padri in occasione delle doglie delle mogli in varie parti del mondo, e di come reagiscono o reagivano in un villaggio del centro Africa. Lì l’uomo, incurante dei pericoli si immerge fino alla vita nelle acque del fiume e roteando la testa lancia strazianti grida al cielo, cercando di attirare il dolore che attanaglia la sua donna. E chissà per quale via comunicante la donna sembra soffrire meno fino quasi a partorire sorridendo, mentre l’uomo distrutto dal dolore viene portato a riva e lì lasciato in uno stato di profondo abbattimento. Certo forse ora mi sarà dato, se c’è, d’incontrarlo, il buon Dio, e tra le tante cose che ho da chiedergli c’è anche questa: cosa gli è venuto in mente di trasformare l’atto più bello che ci si sia, il nascere, in una straziante sofferenza. Sono sicuro che mi guarderà stupito, potrà mai stupirsi, dicendomi che lui non c’entra per niente con gioie e sofferenze dei viventi. Se mi resterà fiato gli chiederò allora che ci sta a fare. Vedremo. Avrei dato non so cosa per poter fare come quell’uomo africano. Ma la paura che mi attanagliava la pancia nel vederti soffrire in quel modo, sentire le mie mani

stritolate dalle tue delicatissime dita, vedere il tuo volto trasformarsi mille volte in smorfie di acuto dolore, sentire i miei piedi, per l’unica volta nella mia vita, sguazzare di sudore nei mocassini, tutto ciò mi rendeva pazzo per la mia impotenza. E quel che acuiva la mia disperazione, devo dirlo, il mio travaglio, era la calma olimpica della equipe di medici e infermiere che quasi giocavano con il tuo corpo. Poi, sai bene della mia scemenza!. Certo, certamente eri in una posizione naturale, che diamine, stava nascendo da te una nuova vita, ma perché mi chiedevo proprio da lì, con tutta quella gente intorno! Per me l’arrivo di Pier Luigi fu uno strazio a molti strati, e poi quando nel cercar di parlarti, di asciugare la tua fronte, i tuoi capelli inanellati di sudore, la tua pelle cosi straordinariamente imperlata, ecco quando incontravo i tuoi occhi cosi diamanticamente espressivi, mi sentivo sconvolto da un potente ciclone. Nascere, ora posso dirlo, è ben più doloroso che morire. Fu dal mutare improvviso del tuo sguardo, dalla luce dei tuoi occhi che capii, prima ancora che dal chiacchiericcio dei tuoi carnefici che tutto era finito. Sequenze velocissime nella mia memoria, ehi!, dategli piano è appena nato! L’urlo di Pier Luigi come l’attrito per l’atterraggio in un nuovo mondo. Tra le mie braccia avvolto in un cencio, un panno bianco, lui tutto rosso, con un’aria incazzatissima e te che tendevi le braccia perché te lo porgessi. Lo guardasti un attimo e poi mi chiedesti un bacio. Chissà Paola se l’esser morto mi riserverà momenti così intensi, come è stata la mia vita con te. Adesso che fai? Posi il libro … non mi voltare le spalle! Ecco … brava. Ho la sensazione che tu mi senta. Com’è bello il tuo volto! Ma si, riposa..aspetta che ti copro con il lenzuolo … no, non riesco a sollevarlo, non prendo niente con queste dita fatte di niente. Lo sapevo, che mi ascoltavi! Brava, copriti e chiudi quegli occhioni azzurri, così va bene. Riposa, io sto qua … cosa? Mi parli? No che non siamo a Lipari!… Oh, scusami, stai sognando! Scompare la camera da letto, c’è una distesa di sassi e la tua mano spalma la crema antisole sulla mia schiena. No, che non dormo, Paola, ma la tua mano, questo lento sciabordio della onde sui sassi, questa piccola baia sono l’intero

cielo. Siamo soli, la piccola barca dai colori vivacissimi è ancorata a pochi metri dalla riva. Apro un occhio e vedo le tue gambe, li apro tutti e due e vedo il tuo corpo. Hai solo un piccolo slip giallo che risalta l’abbronzatura d’ebano che questo sole e questo mare hanno cucinato per te. Il tuo volto è sereno, gli occhiali trattengono i capelli e sembrano un diadema. Mi sento così felice che mi viene da dirti che oltre a viverci in eterno potrei anche morirci, qui, a Lipari. Mi dai un pizzicotto sul sedere e un morso sulla spalla. Ridiamo, è bello essere vivi, a morire c’è tempo! Ti sdrai su di me e io mi schiaccio sui sassi. Pesi, Paola, ti sento ridere,e ti chiedo se mi ami di più all’ombra o al sole. Ti alzi e mi dici che mi ami di più sott’acqua perché li sto zitto. Siamo soli, io te e la baia. Andiamo in acqua, lucertola! Ti togli lo slip e me ne fai un cappellino. Mi alzo, ti seguo in acqua e ci divertiamo a are sotto la barca, vedo il tuo corpo nuotare contro il sole che filtra sott’acqua, sei un incantevole delfino. Mi tendi la mano e risaliamo verso la superficie,…cosa c’entra il telefono? Ma perché, perché. Ho ancora negli occhi il sole di quel pomeriggio di tanti anni fa. Come quanti. Non lo so, forse era solo ieri. Ti vedo are sopra di me, che sono solo aria, per prendere il telefono sul comodino. Ora non mi pesi più, purtroppo. Non mi pesi più. Ma con chi parli? Non voglio saperlo. Certo qualcuno che ti fa le sue condoglianze, ora per piacere sogna ancora, ma sogna anche me, dai Paola! Ho come la sensazione di non avere più molto tempo. Non ti sdrai più, vero? Se chiudi gli occhi ritrovi il sogno di Lipari. Quella vacanza fu davvero un sogno. Aspetta, quanti anni fa? Non importa. Era la nostra prima vacanza senza il bimbo. Facemmo più di venti giorni di mare assoluto, ma a questo c’ero abituato guardando i tuoi occhi. E quelle notti. Il cielo di Lipari di notte è come il cielo di Betlemme nel mio presepio da bambino, dove qualche volta con improvviso lungo e tenue lampo appaiono a decine le stelle comete. Sul terrazzo spazioso e tutto nostro dell’albergo, nel silenzio abitato della notte, quanto abbiamo parlato, sottovoce con i piedi appoggiati sul muretto, tu coperta con un leggero scialle di seta ed io morendo di freddo, con solo una maglietta addosso, io difendevo la mia picciottanza. Che lunghissime chiacchierate, che dolcezza parlare con te. Mai che tu alzassi il tono di voce, mai che tu personalizzassi un discorso, mai che tu

accennassi al mio ieri così lungo, al tuo domani così incerto. Il nostro era un dialogare intelligente in cui tu accettavi le mie burle, spesso non innocenti! E poi, quei lunghi silenzi trascorsi a scrutare il cielo, tenendoci per mano, e quante volte abbiamo visto spuntare l’alba da dietro la collina! Ma perché sono morto?! Ti ricordi quel poemetto sumero che citavi spesso, quella lode ad Enlil con cui mi volevi dimostrare l’esistenza di Dio, del suo disegno d’amore come in un libro già scritto che a noi era destinato, solo che avessimo saputo leggerlo e capirlo. Discutevamo di Kafka che secondo me diceva la stessa cosa e tu mi guardavi, dubbiosa e sorridente. Eri gelosa della mia ione per Kafka? Forse avevi ragione. Vorrei, senti che mi viene in mente, che sulla mia tomba, mi avrete ben messo da qualche parte, o sul mio loculo, che tu fi scrivere che sono nato venticinque anni fa, quando ti ho visto la prima volta in treno e che da allora sono immortale. Ognuno ha le sue illusioni, le sue speranze che a quanto pare non muoiono con lui! Paola! E se tu mangiassi qualcosa. Povero amore, saranno due giorni che vivi di caffè; vorrei andare in cucina e prepararti due spaghetti con olio e peperoncino, li mangerei anch’io. Ma dove me li metto. E poi tornerà Pier Luigi dal mio funerale e non avrà piacere di trovarti così stanca. Ma vedi che mi senti! Vengo dietro a te; già questa camera mi da tristezza, ecco brava apri la finestra, ho quasi l’impressione che ci sia odore di … vecchio. Il mio? Oh, Dio sono io che lascio questo odore di stantio? Ti seguo in cucina. Com’è te la nostra cucina. Ordinata pulita giovane e giocosa. Può essere intelligente una cucina? Credo di si. Ho sempre pensato che le cose sono come i cani, prima o poi finiscono per assomigliare a chi le possiede. Come questa casa, anche in ogni suo piccolo dettaglio assomiglia a te. Come se gli oggetti i mobili si mettessero in bella vista, vestiti a festa, pronti ad essere illuminati dal tuo sguardo. Vestiti Paola, non stare con l’accappatoio addosso, tra poco torneranno … come ti viene in mente! Scherzerai col discorso del lutto!.Se tu lo chiedessi a me ti direi i jeans e la camicetta bianca. Ti aspetto qui e sorveglio l’acqua, ti chiamo quando bolle! Con che ti chiamo?! E’ come se non volessi rendermi conto di cosa mi è successo. Ora sono solo. Paola è in

camera che si veste, io che fine farò? Avevo sempre sentito dire che quando uno muore trova a riceverlo, a rincuorarlo qualcuno che ha amato, non so una madre, un padre. Qui invece non c’è nessuno. A me starebbe bene anche continuare così, a vivere con Paola. Insomma vivere. Vedere Paola, Pier Luigi i loro amici, le loro giornate; potrei dar loro consigli, discorrerci. In fondo non costerei niente a nessuno. Guarderei la televisione, le sera, con loro. Per me, ci sto. Anzi firmo subito e accetto di restare qui. E poi vorrei vedere Pier Luigi laurearsi, sposarsi. E se invece fosse Paola a risposarsi? Bella com’è. Potrebbe rifarsi una vita, con uno più giovane di me, uno della sua età. Già, ed io che farei, andrei la sera a letto con loro! Ma che idee mi vengono per il capo. Certo qualcosa mi accadrà. Stasera, domani. O che si lascia uno che muore tutto solo senza dirgli niente. Quest’acqua non bolle, cosa potrei fare per alzare il gas? Certo il fuoco, l’inferno. Andrò all’inferno? Perché poi? Come diceva quell’attore napoletano … ha da à la nottata … Intanto sto qui e vediamo cosa succede. Potrei anche andare in paradiso. In fondo mi ci era abituato, in questi anni stupendi con Paola, di sicuro nessuno sarà cosi malfamato da confinarmi su una graticola. E poi cosa mi brucerebbero? La coscienza? Si, certo potrebbero torturare il mio pensiero, quello solo mi è rimasto, a meno che non si tratti della mia anima. Bella questa, io sarei la mia anima. Macché, la mia anima bella sei te Paola, con quei jeans … ma non sono troppo aderenti … Vorrei essere con la tua anima … potremo comprarci un tandem e andare in giro insieme. A te toccherebbe pedalare anche per me. Perché apparecchi per due? Dai, tata, togli il secondo piatto. Sei solo tu a mangiare! Aspetta ti porto il parmigiano. Si! Non mi abituerò mai all’idea di essere morto. Paola non essere così seria, accigliata, e guarda … questo è il mio primo ordine della nostra vita … non piangere. Però sorridimi. Che fai guardi verso il posto dove mi sedevo in cucina e sorridi?! Quante volte tornando dall’università mi hai sorpreso a pulire i piselli o a preparare il battuto per il sugo. Ero, negli ultimi tempi, diventato un po’ come la Elide, te la ricordi, e così davo una mano in casa. Dopo l’ultimo libro sei o sette anni fa non ho più scritto niente. Qualche intervista, forse un po’ banale, qualche partecipazione a sperduti premi letterari e soprattutto tanta cucina! Non ero male come cuoco, difettavo un po’ nei sapori, troppo forti, gli davo da matto col peperoncino. Insuperabile mago con il roast beef, con gli stufati. E sempre quei tuoi occhi grandi azzurri aperti come cieli su di me.

Solo a vederli gli spaghetti sembrano cotti. Sai che io li preferisco al dente, non vuol dire niente se non posso più mangiare, non facciamo sofisticherie! Paola sei dolce anche quando scoli gli spaghetti, lo fai con eleganza, penso che anche agli spaghetti piaccia essere scolati così e non con violenza. Vorrei alzarmi e scostare la tua sedia per aiutarti a sedere, ma è inutile. Ora che nessuno mi vede appoggio i gomiti sul tavolo e ti guardo mangiare gli spaghetti. Se rinasco voglio rinascere spaghetto e farmi tirare su così. Deve essere dolce are lentamente tra le tue labbra socchiuse. Ho già detto da qualche parte quanto sei bella, se non lo avessi detto lo dico ora. Ma poi cos’è la bellezza?, direi che è armonia non soltanto di forme fisiche, ma di colori, di movenze, di porsi di fronte alle cose. La bellezza consiste nella propria consapevolezza. La voce, per esempio, il tono, la capacità comunicativa non come frutto di apprendimento, magari secondo grammatiche di grande saggezza, ma come naturalità, naturalezza, insomma una sorta di spontaneità educata ed educabile a se stessa. Le mani, quelle di Paola. Gli occhi, sei l’unico essere umano che possa vantare quello sguardo profondo e allegro, di un azzurro di velluto da imperatrice del cielo, e mia. Sono buoni gli spaghetti? Perché guardi l’ora. Dovrebbe tornare Pier Luigi e il mio funerale essere finito. Speriamo abbia voglia di dirci chi c’era. Perché non approfitti del fatto che io non ci sono più e mangi più lentamente, ora puoi masticare con calma, gustarti il cibo, il formaggio, l’olio, il peperoncino. Mi viene l’acquolina in bocca. Chissà dov’è la mia bocca … ma come sarà possibile questo mio…come potrei dire, penseriottare, parlottare con il pensiero, se non mangio, chi mi da l’energia per pensare, con cosa sto pensando? Verrà ben qualcuno a dirmi qualcosa. Sembro impaziente, ma non è così, sono solo curioso. E per forza, uno a tutta la vita a pensare sottofondo alla morte che quando succede, vorrebbe accadesse qualcosa, che so, un piccolo ricevimento, due righe di benvenuto, si accomodi … Dal sobbalzo di Paola ho sentito il suono del camlo. Di certo è Pier Luigi che secondo il solito non si è preso le chiavi di casa. Un saluto veloce alla zia, ci è dispiaciuto tanto sai, ma dobbiamo ripartire di corsa noi per Torino, loro per Trento, Giovanni per Pescara … ehi! Ma c’era gente al mio funerale? Tantissima, mamma, una chiesa piena, e poi fiori, e poi tanti giornalisti, tanti giovani. Non pensavo che tanta gente si ricordasse così del babbo. E quei due chi sono, Pier Luigi? Bimbo rispondi, chi sono quei due? Sembrano

due clowns? Mi domando se si può andare ad un funerale vestiti in frack, ricoperti di lustrini rosa … Sei qui, finalmente.. Dite a me? Certo che diciamo a te, come mai non eri al tuo funerale? tradizione vuole che si faccia lì il ricevimento.. Ma di che parlate? Vedi, dopo la morte, lasciamo sempre che uno se ne stia un po’ per casa per acclimatarsi, e poi fa sempre piacere andare al proprio funerale. Piacere? Questa poi, se c’è una cosa triste sono i funerali, pensa il proprio … Non lo sappiamo, noi non siamo mai morti e neppure mai nati, ma pensiamo che la gente ci vada, un po’ perché è affezionata al proprio corpo, un po’ per vedere di c’è, cosa dicono i parenti, gli amici, se … tutto sommato le lacrime sono vere, se le commozioni sono sentite. Sai per una sorta di verifica. Penso che, almeno per me, se di preoccupazioni ci devono essere, quella di sapere della verità degli altri è di sicuro l’ultima. Lo crediamo anche noi ma che vuoi farci son qualche migliaia di anni che è così, una consuetudine che è diventata legge. E chi trasgredisce? Niente di male. Lo andiamo a prendere a casa. Tanto sappiamo dov’è. Siete venuti a prendermi? Si. Per andare dove? Oltre quella porta. Quale porta, lì non c’è nessuna porta … oh! Questa porta da dove viene?

Se ci scusi il bisticcio delle parole, questa porta c’è la portiamo sempre dietro. Mi sembra buffo, girate portandovi dietro una porta! Eh! Si, ma sai la gente non muore mica tutta nello stesso posto, per cui è necessario portarsi dietro una porta. E..entrati lì, dove si va? Bella domanda! Lo saprai subito, dopo che vi sarai entrato. Voglio saperlo subito. E voglio saperlo per lasciarlo detto a Paola, per capire se potrò tornare indietro a rivederla … ma cosa avete da ridacchiare, buffi come siete così vestiti da clowns, con quei frack rosa.. Frack da clowns? Che vuoi dire? Ma cos’è, non vedete come vi siete vestiti? Noi vestiti? Di! Ma noi non siamo mica vestiti, e su cosa dovremo indossare vestiti secondo te? Io vi vedo vestiti da clowns, senza offesa, anzi ho sempre considerato che il giuoco, i clowns, il circo insomma sia uno spettacolo di grande intelligenza, e vi vedo come in un circo, tutti pieni di lustrini rosa. Buon per te. Questo ti succede perché noi siamo la cosa più intelligente che ci sia e ora, come te, facciamo parte del giuoco … vogliamo andare? Un momento, ditemi dove. Non si può, e non ti serve saperlo prima; non puoi scriverci un romanzo o mandare da lì una cartolina; comunque andiamo in un luogo senza luogo, in uno spazio senza spazio, in un tempo senza tempo. Sembra un cruciverba senza parole. Posso salutare Paola, Pier Luigi … No: abbiamo già fatto tardi. Ma se andiamo in un tempo senza tempo, anche se arriviamo tardi, non è lo

stesso … Possiamo discutere e filosofare quanto vogliamo dietro quella porta ché abbiamo un lungo cammino da fare. Come prima in uno spazio senza spazio, un lungo cammino da fare che durerà un tempo senza tempo… Guarda, Franz, portiamolo via perché se comincia così, sopportarlo fino in fondo sarà dura. Su, ancora uno dei tuoi attimi e poi andiamo Paola, guardami … oh! Scusa lo stai già facendo. Dimmi qualcosa, ecco si! i tuoi occhi, il tuo sguardo come a Parigi, come mille volte il tuo sguardo pieno d’amore, stai guardando dentro di me e sei felice nel leggervi quanto ti amo. Ciao Paola, grazie. Vieni, andiamo. E questa cos’è? La famosa porta senza porta, che mette in un corridoio senza corridoio.. Franz, che t’ho detto? Sarà dura. Aspetta m’è venuta un’idea! Quale? Proviamo a distrarlo. Senti amico nostro, perché intanto che c’incamminiamo non ci racconti qualcosa. Parlaci dell’amore … Certo! Volentieri! Potrei parlarvi dei miei ultimi venticinque anni … di questo amore eterno. Aspettate..proviamo a raccontarlo... All’inizio la sensazione improvvisa fu di non sentire alcun dolore, come una sveglia inattesa ...

… certo inattesa la sua morte! Allora, Pier Luigi mio, abbracciami forte, tienimi stretta stretta …

Si mamma, non soffrire, non piangere, sai che il babbo non ti vorrebbe vedere piangere. Col suo carattere si arrabbierebbe. Lo so, tato, lo so. Ma improvvisamente sento la casa vuota, come se ora, solo ora lui non ci fosse più. Che strana sensazione, Pier Luigi! Vieni andiamo nello studio, stammi vicino, per piacere dammi la mano. Mamma hai mangiato qualcosa? Non ti mettere a ridere, mi sono fatta due spaghetti con olio e peperoncino, come piacevano al babbo. E poi, Pier Luigi, mentre preparavo la tavola ho apparecchiato anche per lui, tanto ero convinta che fosse lì, con me, e ne volesse mangiare un po’. Mamma sei di una incredibile dolcezza. Spero che presto riuscirai ad abituarti. Ci sono io, la tua università. Domattina riprendi le lezioni, vero? Non lo so, amore mio, non so se ce la farò, sono molto stanca, ma non stanca fisicamente, sto bene, sono stanca dentro. Mi raccapriccia l’idea di andare in camera e non trovarci tuo padre. Mi toglie il respiro. Siediti, mamma. Stiamo insieme: parliamo un pochino, se vuoi, e quando sarà l’ora andiamo a dormire. Io stanotte dormirò con te, o sulla poltrona, o ti farò compagnia a letto, al posto del babbo, lo sai che io non russo! Sei caro, amore mio, hai preso tanto da Enrico, tanto; anche certe dolcezze del carattere. Se gli assomiglierai veramente, sarai un uomo fortunato. Mamma, cercherò di assomigliargli e … se ne hai voglia, perché non mi parli di lui, di voi. Il vostro è stato amore …

… proverò a raccontarlo, a raccontarti di questo amore, della nostra vita, di quanto sia stato meraviglioso vivere con tuo padre e poi con te. Vivere con voi due! Sai, credo di aver avuto qualche anno meno di te, quando l’ ho conosciuto. Certamente avevo da poco compiuto vent’anni, e non hai idea di cosa fosse la mia vita con la nonna e la zia. Due angeli, due donne intelligenti, affettuose, due

babbi mamme, fuse e tese al mio bene. Forse per questo, via via che crescevo uscire di casa diventava sempre più difficile. Non perché non volessero, che temessero chissà quali disgrazie, ma mi mettevano, con pacatezza, nella condizione di rammaricarmi per averle lasciate sole! Ho voluto molto bene sia alla nonna, una donna fortissima, di straordinaria lucidità, sia alla zia Carla, che assomigliava molto a mia mamma.. Buona affettuosa, sempre di corsa per essere pronta a fare qualsiasi cosa per me. Il loro dramma e in fondo ne furono contente, fu la mia prima storia d’amore ! Oh! Già, prima di conoscere il babbo mi ero quasi fidanzata, sai! Una storia importante, tanto che se non avessi incontrato Enrico, forse mi sarei sposata con Ugo. Un bellissimo ragazzo, faceva aspetta, si, l’ultimo anno di ingegneria. Era innamorato perso di me. E io? Ma, si! Solo che avevo vent’anni. Né pochi né tanti. La nonna soprattutto era innamorata di Ugo! Le rare volte che potevo invitarlo a pranzo era catturato letteralmente dalla nonna, che certamente lo sapeva affascinare. Lo trattava già come l’uomo di casa, con amichevole confidenza, ma anche con la distanza degli anni, se vuoi. A me Ugo piaceva, ma c’era sempre una piccola punta di amaro tra noi, una incomprensione. Non so, se era un fatto fisico o cosa, ma con lui ero sempre in una posizione di difesa, mai rilassata, serena. Poi ci fu il nostro primo fine settimana, insieme a Roma: si, si inutile che mi guardi così! ammo un fine settimana in casa di amici, o qualche giorno, non ricordo. Avevo comprato, prima di partire, un libro, scelto per caso. E la sera a letto me lo leggevo sempre con maggior avidità. Non avevo mai letto niente di quello scrittore, si del babbo! E mi piaceva quel suo scrivere chiacchierando, era una scrittura che a tutta prima sembrava semplice, quasi parlata, superficiale ma ti dilatava improvvisi orizzonti, esprimeva concetti rivoluzionari, per me, profondissimi con gioia direi giovanile. Poi ne capii la provenienza, l’origine di quella formulazione di concetti. La sua partecipazione con il pensiero taoista e per la filosofia buddista. Insomma il mio fidanzato, o quasi, finiva bistrattato via via che leggevo la storia di Enrico. Bistrattato perché confrontavo, forse senza rendermene conto la profondità di ciò che leggevo con la vera superficialità di Ugo. Ripartii da Roma, da sola, tra le proteste di tutti. Era che, come per capriccio, volessi restarmene sola con il mio libro. In treno l’unico scompartimento che mi andasse bene era occupato anche da un signore che dormiva tranquillamente. Era vestito molto bene, mi sembrava anziano, ma non ne ero sicura. Avrà potuto avere una cinquantina d’anni, mi rassicurava, e c’era

nello scompartimento un buon profumo, non il solito odore triste dei treni. Se vai in bagno senti il profumo al vetiver di tuo padre, in tanti anni non l’ ha mai cambiato. Forse perché sapeva che mi ricordava il nostro primo incontro. Non essere sola mi tranquillizzava, e per di più il mio occasionale compagno di viaggio dormiva. Pensa, tenevo tanto a quel libro che lo avevo avvolto con un foglio di carta a fiorellini, come mi aveva insegnato la nonna per conservare meglio i libri di scuola. Dopo la stazione di Chiusi, credo, quel signore, il tuo babbo, si svegliò. Lo guardai appena e ti assicuro che lo notai perché era brutto. I miei paragoni erano viziati da Ugo, che era proprio un bel ragazzo! Per di più la prima impressione che mi fece Enrico fu quella di essere sicuramente brutto, e nemmeno un brutto speciale. Non avevo mai sentito una voce così calda, ti direi premurosa, se non avessi paura di essere fraintesa. Perché non era gentile, anzi aveva un sottofondo divertito, quasi volesse sempre prenderti un po’ in giro. E infatti lo fece! E io ci cascai, come una grulla! Mi disse che conosceva benissimo l’autore del mio libro, che lo frequentava spesso e che, pensa che imbroglione, aveva letto addirittura i suoi manoscritti. Non mi parve vero, pensa avrei conosciuto quello che stava diventando il mio autore preferito. Per me fu una grande emozione, assolutamente grande. Ero poco più che una ragazzina e a parte la scuola, l’università. La nonna. Ugo … insomma conoscere uno scrittore! Mi tormentò subito l’idea di Ugo. Sai non che non gli volessi bene, anzi credevo di esserne innamorata; ma lì, nel treno, parlare con uno sconosciuto, sentirmi avvolta dalla sua voce, era come se tentassi di nascondere la presenza di Ugo a me stessa, ed ero cosciente di questo e me ne chiedevo il perché. Quasi che quel signore elegante, anziano per me, con quella sua voce affascinante, quel suo parlare calmo, quasi provenisse dal fondo di un saggio, dotto palcoscenico, mi attraesse, rasserenandomi. Insomma fu una simpatia a prima vista accentuata dal suo aspetto, non attraente, direi comune. Penso che incontrato per strada o altrove non lo avrei notato. Parlammo per un’ora o poco più, fino a Firenze, tant’è che non mi accorsi che il treno era già arrivato in stazione! Allora con tanta timidezza mi dette il suo numero di telefono dicendomi che avrebbe invitato per un tè il mio scrittore, quando avessi voluto conoscerlo. Feci are una settimana, quasi sperando di essere sempre meno tentata di fargli una telefonata. Un giorno, d’improvviso mi resi conto della mia sfrontatezza, mentre suonavo il camlo di casa sua, di questa casa. Prima di tutto vorrei descriverti l’impressione che destò in me questa casa, l’arredamento, la freschezza e

l’eleganza dei suoi colori e i libri, i libri! Dovunque. Per scoprire per intero la bellezza di questa casa mi ci volle del tempo, per innamorarmene fu un attimo! Anche Enrico sembrava emozionato nel ricevermi ma sempre, sempre come l’altra sera prima che si … addormentasse, quel sorrisino buono, un po’ ironico, di dolce imbarazzo. Sai mi confessò anni dopo che per la prima mezz’ora della mia presenza in salotto e poi nel suo studio non sapeva cosa fare e che era assalito dalla voglia di mettersi a giocare, a giocare con me come fossimo due bambini. Certo io lo ero davvero, e forse anche lui lo era, e per certi versi lo era più di me. Ero andata a trovarlo credendo di dover sostenere una sorta di esame; avrei dovuto incontrarmi con due signori di una certa età, avrei preso il tè … con grande ansietà, e me ne sarei tornata a casa con una dedica, un autografo. Mai avrei pensato che quelle ore avrebbero segnato così profondamente la mia vita. E mai se per caso avessi ipotizzato una cosa del genere avrei mai potuto pensare che sarei stata così terribilmente felice! Fu facile, in quelle ore, dimenticare la nonna, la zia…Ugo poi mi era scomparso. L’unica realtà, quella voce. Pier Luigi senti, a distanza di più di vent’anni non solo ricordo parola per parola di cosa ci dicemmo, ma ricordo ogni movimento, ogni spostamento, come rivedessi continuamente il più bel film della mia vita. Persino i tentativi di Enrico che cercava di nascondere, non tanto comodamente seduto sul divano, un po’ della sua pancetta! Darei non so cosa per rivivere quel pomeriggio! E non mi sembrava nemmeno più tanto brutto, anzi dietro le lenti già spesse dei suoi occhiali, seguivo il suo sguardo vivacissimo che di tanto in tanto si spostava dal mio volto e si fermava quasi scrutandole, sulle mie mani, su di me … Ma erano attimi, attimi che imparavo a desiderare, a cercare come se mi sentissi di dirgli di guardarmi, di osservarmi … Insomma quel pomeriggio quasi senza rendermene conto mi innamorai di un uomo vero, intelligente, acuto, pieno di umanità, divertente..e mi innamorai sul serio per la prima volta in vita mia. ! Sai quando me ne accorsi? Al ritorno di Ugo, qualche giorno dopo. Venne a prendermi all’università, poverino, contento di essere di nuovo vicino a me. Anch’io ne fui felice, ma subito dopo, camminando tenendoci per mano, come sempre, nel sentirmi raccontare a valanga cosa aveva fatto a Roma, com’era stato il suo viaggio, cosa avrebbe fatto l’indomani, cosa avrebbe fatto con me domenica … e, allora, io!?. Ed io, mi chiedevo, non ti interessa sapere cosa ho fatto, perché sono venuta via da Roma prima, perché non sopportavo gli ammiccamenti dei tuoi amici sui nostri rapporti, com’è stato il mio viaggio, mi sentivo come un grande orecchio ubbidiente ad ogni sua parola. Certo che non volli che mi accompagnasse a casa. Alla fermata del bus, vidi Ugo aggiustarsi la

cravatta, riflettendosi in una vetrina, faccia a faccia con un manichino. So che fui ingiusta. Ma erano belli tutti e due, come due gocce d’acqua.. Mi salvò l’arrivo dell’autobus. Avrei voluto dirgliene quattro a Ugo, ma non aveva nessuna responsabilità del mio stato d’animo. La sera e poi i giorni seguenti pensai che quella sorta di infatuazione che mi aveva assalita per Enrico, sarebbe ata, senza che Enrico ne sapesse niente, naturalmente! Enrico quel pomeriggio era stato così educato, così gentile e poi chissà quanti anni aveva più di me. Insomma mi stavo angosciando per una storia che non sarebbe mai esistita e ne stavo facendo un minestrone in cui la figura di Enrico mi appariva come il padre che non avevo mai conosciuto, come il protagonista di una commediola americana in cui la studentessa se la fa con l’anziano professore, e infine mi vedevo come la Marlene Dietrich, a cavallo di una sedia, io così pudica che tentavo di ammaliare con il mio canto, e tu sai quanto io sia stonata, l’anziano ammiratore. Eppure c’era qualcosa che mi attirava in quella casa. Qui allora ci viveva Enrico con una signora che si occupava di lui, se non fosse riduttivo direi una donna di servizio, ma non era solo quello il suo ruolo. Una donna spontanea, di grande umanissima educazione che, povera lei, riusciva nella confusione delle cose di tuo padre, a mettere ordine, pulire rimettendo tutto come trovava, mai spostando un foglio, niente. E poi avresti dovuto sentire e vedere la gioia con cui rispondeva alle mie telefonate o mi accoglieva in casa. Un giorno, pensa, arrivai con mezz’ora di anticipo ad un appuntamento con tuo padre, dovevo parlare con lui dell’argomento della mia tesi, e la Elide, ti ricordi, si chiamava così, mi chiese se potevo seguirla in una stanza adibita a lavanderia, dove stava stirando. Mi fece un interrogatorio di terzo grado e io, e questo è il bello, me ne accorsi solo qualche giorno dopo! Perché mi raccontò di sé, della sua vita con la famiglia di Enrico, con Enrico, ma in realtà era una che faceva parlare e le cose che mi chiedeva erano sempre o quasi sempre un riflesso di quello che lei narrava. Per esempio, ad un episodio della sua vita, ne chiedeva il mio giudizio, voleva sapere cosa avrei fatto io in quel caso, e così penetrava nei miei pensieri! Enrico telefonò chiedendo se ero arrivata ed annunciò un ritardo dovuto al prolungarsi del suo impegno, così che il mio parlottare con la Elide si fece più profondo. Ed alla fine mi resi conto si che lei aveva parlato di sé, io di me, ma il tutto in una prospettiva che riguardava la vita di Enrico.

A momenti mi ingelosivo della Elide! Ero diventata di casa. Spesso mi fermavo a pranzo, a pranzo da un amico. Un bagno di serenità. Cominciai a vedere sempre meno Ugo, finché una sera si fece invitare a cena dalla nonna. Senti, io ero per tre quarti con Enrico e per il resto a casa mia. No, non mi guardare così, tesoro! Tra me ed Enrico c’era una grandissima amicizia, io gli volevo molto bene, anche se tentavo di convincermi che non ero innamorata di lui, ed Enrico non lo capivo perché non azzardava una mossa oltre la sua gentilezza il suo manifesto piacere di ascoltarmi, di parlarmi. Solo una volta con grande timidezza mi disse che io per lui ero come un’alba, ché via via che il nostro parlare ingigantiva, si sentiva illuminare e riscaldare il cuore! Sai tra l’altro di cosa ero contenta? Che attraverso Enrico mi stavo liberando da una scelta sbagliata, quella di pensare la mia vita con Ugo, anche se povero mio primo amore, lo avevo forse veramente, almeno per un po’, amato. Seriamente non ricordo che in quelle prime settimane fi un confronto fra Ugo e il tuo futuro babbo, e che su di lui avessi un progetto ben preciso. Agli inizi lo ammiravo, mi piaceva stare con lui come ti può piacere stare con un grande amico, una persona di cui ti fidi. Fino a quel giorno, guarda Pier Luigi, quel pomeriggio! Ero terrorizzata! Ugo aveva parlato con mia nonna e con la zia, e come si usava una volta, aveva chiesto la mia mano. E loro due, poverine ed emozionatissime, credendo di interpretare la mia volontà, gli avevano detto di si. Io non seppi che dire. Uscii di corsa di casa, dopo una notte agitatissima, e ti assicuro di corsa piombai qui da Enrico alle otto del mattino! Non so se per una questione di riservatezza, di pudore dei sentimenti, o perché l’argomento ci faceva paura ed era lontano dalle nostre curiosità, e poi non me ne aveva mai chiesto niente, così la prima reazione di Enrico fu di incredulità, poco dopo si adattò alla notizia e fu di una gentilezza cosi pacata e disarmante, alla ricerca di una visione obbiettiva ché la mia storia non sembrasse più la mia storia ed io che raccontassi la vicenda di una amica carissima! Era riuscito a pormi nella condizione di analizzare i miei sentimenti standone al di fuori. Finii per restare a pranzo con lui; annullò tutti i suoi impegni e parlammo tutto il pomeriggio. Non ti dico cosa successe con le mie buone donne quando la sera stessa subito

dopo cena, anch’io come se non parlassi di me, raccontai le mie perplessità su Ugo. La zia si mise a piangere, la nonna era seccatissima. Stava intuendo, prima di me forse, che nella mia vita era entrato un altro uomo. Si alzò di scatto dalla sua poltrona, mi venne vicino e obbligandomi a guardarla negli occhi, mi chiese severamente di dirle la verità. - Amavo Ugo?- Le risposi di no, che non lo amavo e che forse non sapendo cosa volesse dire amare, non lo avevo mai amato. Sempre con lo stesso sguardo, duro ma affettuoso, mi chiese se nel frattempo avessi scoperto cosa voleva dire amare una persona. Sussurrai che forse lo stavo imparando, giorno dopo giorno. Mi voltò le spalle, dette la buona notte alla zia, e si avviò verso la sua camera. Sulla porta del salotto, senza voltarsi mi disse che sarebbe stato bene e meglio che mi decidessi a raccontare anche a loro di questo mio maestro. Restai un po’ a parlare con la zia, consolandola, rassicurandola che stavo bene, che avrei fatto una cosa sbagliata con Ugo e che, da un poco tempo, frequentavo un altro uomo –come amico- le dissi, per rispondere ad un suo sguardo interrogativo, come amico. Sai, Pier Luigi, ci sono dei momenti nella vita in cui ti accorgi che stai prendendo delle decisioni, su cui ti sembra non averci riflettuto e che siano frutto di improvvisazioni alle quali non avevi dedicato il tempo necessario. Così quando qualche sera dopo, a teatro, Enrico mi chiese se volevo andare a are la fine dell’anno a Parigi con lui, risposi subito, che più subito non si può, di si! Puoi avere un’idea dello scompiglio che questo creò ai miei due angeli custodi! Fuori di casa per le Feste, a Parigi e con chi?! Non vi dico con chi, di certo con una persona che mi è carissima e che stessero tranquille, ero al terzo anno di università e per di più maggiorenne! Come fui dispiaciuta di aver detto certe cose e con il tono con cui le dissi … Ma Parigi! Si, ma Parigi c’entrò poco o niente! Devo dirti e raccontarti del babbo e di quei giorni in giro per le botteghe del Quartiere Latino, e raccontarti perché tu possa capire fino a che punto può arrivare la delicatezza e l’amore di un uomo. Anche perché vorrei tanto che tu assimilassi la sua sensibilità per ingigantire con intelligenza la tua capacità di amare. Tuo babbo, durante le ore del giorno, per le strade, per i pochi musei e le poche chiese in cui entrammo, insomma ovunque e con la leggerezza di un piuma, non mi levava gli occhi di dosso, e mi faceva sentire come io fossi il centro del

mondo e del suo mondo! Si trasformava, nelle ore della camera da letto, in un specie di diafano fantasma, lasciandomi il massimo possibile di libertà, avrebbe voluto dare l’impressione di non esserci, di non vedermi, di non desiderarmi. Ero stata io ad insistere che prendessimo una camera a due letti. Non volevo che pagasse solo lui e così, questa la mia ingenua scusa, avremo diviso una spesa più piccola. Non sapevo niente del babbo, se aveva o non aveva soldi, non me ne ero mai interessata e ragionavo come quando uscivo con Ugo … fino a quella sera dell’ultimo dell’anno! Io e tuo padre eravamo grandi amici … e devo superare un momento di imbarazzo nel raccontarti, tesoro mio, del mio primo … incontro con Enrico! E fui io che mi inventai la situazione giusta! Posso dirti con infinita gioia che fui io a gettarmi tra le braccia di tuo padre! Qualche ora prima ebbi un attimo di paura! Il solo in venticinque anni, quasi come quello che provo ora e che, enorme tristezza, non durerà solo un attimo. Eravamo entrati in una grandissima gastronomia e stavamo scegliendo la nostra cena per l’ultimo dell’anno, perché … perché io gli avevo proposto di cenare, noi due soli, in camera, visto che avevamo una deliziosa camera con tanto di camino che per l’occasione ci facemmo accendere. Allora stavo scegliendo tra l’aragosta e le ostriche quando mi girai per chiedere ad Enrico cosa preferiva e lui era scomparso. Non c’era più! Lo cercai nel grande negozio … niente. Così, come cosa naturale continuai ad ordinare la cena! Il mio cuore batteva come un pazzo, così come batte ora rendendomi conto, sempre di più, che Enrico se n’è andato, non è di là nel suo studio o in cucina o che tra un’ attimo suonerà alla porta e l’incubo sarà finito. Ero alla cassa per pagare quando lo sentii dietro di me. Ci guardammo sorridendo, allora l’incubo finì. E adesso, Pier Luigi mio, solo il ricordo. Certo, e mentre lo dico ne prendo coscienza, si tratta di un immenso straordinario ricordo! Ma può una mamma raccontare queste cose ad un figlio? Credo di si perché devi sapere che la tua vita è nata da un grande, grandissimo amore, da uno straordinario desiderio di amare, di essere amata. Allora io avevo poco più di vent’anni e tra le braccia di tuo padre accoglievo in me sentimenti ed emozioni che a vent’anni si possono provare solo se insieme alla ione c’è tenerezza, se il guscio che ti accoglie è forte, premuroso del tuo piacere, quando l’amarsi cancella ogni singola individuale bramosia e si esprime, si manifesta non solo nel darsi piacere ma nel rivelare a te stessa la possibilità di percepire, di provare

di essere travolta da un profondissima commozione. Ti rende capace di amare. In uno stato di dolcissima confusione cercavo di essere più possibile presente a me stessa constatando, riconoscendo con sublime felicità che quello voleva dire amare. Non altro. Come un’ombra che si allontanava velocemente sfumava l’immagine di altri amori, o meglio dell’altro amore, e capivo disordinatamente il senso di fastidio di incompletezza che allora avevo provato, come un luogo lontano che non ti appartiene più, che non ti è mai appartenuto. Cosa non sia stato allora tuo padre e cosa abbia continuato ad essere per tutti questi anni è indicibile, anche se adesso non sembra altro che siano ati in un soffio leggero. Mi piacerebbe trovare un’immagine che ti chiarisca questo mio amore! Forse potrebbe essere così. Pensa ad una bimba che cammini in un giardino incantato e sia lieta della sua felicità, la felicità di questa Alice nel paese delle meraviglie: paese che altro non sia che il prendere coscienza che è dentro di sé questa meravigliosa fonte di felicità, e che ad ogni o le si accendessero le mille luci, le mille fontane e suoni di inaspettata luminosità. Io non ho amato tuo padre per una sola cosa, per una particolare attrattiva del suo corpo o della sua intelligenza o per qualcosa che fosse al di fuori delle sua personalità…ma credo, so, di averlo amato tanto per il suo modo di rapportarsi a me…direi forse di porgersi, di essere, si di essere la chiave che apriva me stessa a me stessa. Io capivo come dovevo essere amata per sentirmi amata. Il suo essere si realizzava in un continuo darsi ed era così che mi aveva totalmente. Oh! Non riesco a dirtelo come vorrei! Di certo una esaltante sensibilità nella quale io assaporavo continuamente il senso vero della vita. Vedi si fa un gran parlare dell’amore, e tutto ciò che mi capita di ascoltare, di leggere, paragonato al rapporto, chiamiamolo così, che c’è tra me e il babbo mi da l’impressione che i più ne parlino per sentito dire, quasi si dovesse rispettare un canone, una specie di tradizione narrativa in cui si esalti l’innamoramento, la ione e di qui non si voglia uscire per la paura di cadere nel buio che ognuno ha dentro di sé. Così non esiste metro di approfondimento, non esiste ricerca, non c’è…un libro di scuola che ti educhi, non per sapere la storia delle emozioni e dell’amore ma per costruirsi una propria casa nella quale ritrovare se stessi. Prendi la mia vita, io ed il tuo babbo. E guarda tesoro, che la mia nonna era una donna di rara intelligenza e di buona cultura; ecco lei vedeva Enrico come una sorta di mostro, di uomo perfido che aveva usato il fascino della propria esperienza per travolgermi, perché io ero una bambina indifesa. Ah! la nonna non faceva eccezioni: Tutto ciò che era diverso dal suo modo di concepire l’amore, non parliamo poi della vita, doveva scorrere su binari che non

ammettevano variazioni di sorta. E questa era la causa maggiore della sua infelicità. Un leggero rallentamento della sua tensione, quando ci sposammo, un disgelo totale alla tua nascita! Eri sano, bello, anzi bellissimo, le sorridevi e questo rientrava nei suoi binari. Puoi immaginare quale sia il posto in cui l’acqua si trovi meglio che non nell’acqua stessa? L’amore che suscita in me tuo padre è così. Mi faceva star bene, felice, serena come l’acqua nell’acqua. E credimi non ho vissuto in un’isola in mezzo al mare. Ho vissuto con la gente, con le mie amiche, quelle che la nonna definiva normali, perché vivevano con uomini della loro stessa età, e io vedevo e sapevo come molte di loro costruissero bellissimi castelli in riva a limpidi laghi per poi confessare nei momenti di scoramento che vivevano morendo di sete. Sono stata fortunata, forse sono solo stata fortunata ad incontrare Enrico. Ecco ti raccontavo di Parigi. Fu quella notte della fine dell’anno, quando al mattino si ricordò di avermi comprato il primo regalo, questa collana di corallo che porto ora. L’ ho davanti agli occhi! Il suo stupore la sua meraviglia nel vedere la mia gioia, nell’indossare la sua collana. Fu come se l’amore dei mesi prima tutto gentilezze e premure, l’amore della notte appena trascorsa ricevesse una corona. Mi sentivo incoronata e nello stesso tempo, con la collana di corallo, catturata. Ma si!, non sorridere, avere questa collana mi dava come un segno di appartenenza. Sono tua, mi dicevo. Ed anche adesso è così. E nello stesso tempo di libertà, perché potevo liberarmene con un solo gesto della mano … non riuscii, allora a spiegare questa sensazione che con un gesto … insomma più di un gesto, d’amore! E tuo padre mi prese con gioia, con una festosità quasi ingenua, come fosse stato un ragazzino. Ma lui era così. Aveva sofferto tutto quel che aveva voluto e potuto negli anni che aveva vissuto prima di incontrarmi, e di quel suo soffrire attribuiva solo a se stesso tutte le responsabilità, e diceva, aveva imparato a vivere ed a prendere la vita con assoluta profondità, con una capacità, ma soprattutto con una tale volontà di capire, da poter affrontare ogni situazione con grande impegno e nello stesso tempo con il sorriso della sua serissima coscienza che si trattasse di un giuoco e come tale andasse preso sul serio! Sai sono convinta che sia riuscito a scherzare con se stesso anche quando, forse, si sarà accorto di essersi addormentato, ed abbia giocato con … si lo so devo

dirlo, con la morte. Guarda Pier Luigi, è solo una impressione che ti ho già detto, ma fino a quando non sei tornato dal funerale, ho avuto la certezza che fosse qui con me, che mi parlasse, giocando con i miei ricordi, con i nostri ricordi. Tentando di aiutarmi a superare questo momento, questo aggio della nostra vita. Perché il ritornare ai momenti più dolci ed intensi non mi consentisse la tristezza del pianto. Ascolta, ti racconterò questa. Ero alla fine del nono mese di gravidanza, di te naturalmente. Enrico era calmissimo, sorridente, metodico. Aveva organizzato tutto, la clinica, una bella camera per me e per te. I medici giusti, perché non ci fosse neanche l’ombra di un problema. Mentre, sdraiata su una lettiga, già in preda ai dolori ritmati del parto, mi stanno portando il sala operatoria, Enrico mi affiancava tenendomi per mano, sorridendo e chiedendomi se era abbastanza elegante per riceverti, beh, si avvicina il primario che era suo amico, e senza indugio ordina che al babbo sia dato un camice bianco, perché vorrà certamente assistere al parto. Ho ancora ben presente l’espressione di Enrico, tra il sorpreso e il terrorizzato! Non poteva certo tirarsi indietro. Mi guardò come a chiedermi cosa doveva fare, ed io con gli occhi lo invitai a venire con me. Sentii la sua stretta di mano aumentare, sembrava volesse chiedermi di non trascinarlo…. per pietà e poi mi confessò che la sua rabbia era di non saper reagire con la dovuta saggezza, oppresso com’era dalla visione del mio corpo così esposto,così fragile e così immensamente forte. Sono certa che tra me e lui in quel momento lui soffrisse di più, a parte te naturalmente. Ma tutto si risolse in pochi minuti. Credo che non si possa dire di amare una persona se non si è in grado di vivere a fondo tutte le emozioni di quei momenti e farne colonne per i ricordi futuri. Per chi ha certamente tanta fortuna. Tuttavia non so se io sia stata solo oggetto inconsapevole di una vita così fortunata, oppure abbia avuto anch’io la mia parte nel riconoscerla, nel saperla fare mia. Te eri ancora piccolo, si e no quattro anni, quando per due settimane, credo fosse metà settembre, ti lasciammo qui con la zia e l’Elide, con una grande apprensione solo in parte mitigata dal piacere di una vacanza, noi due soli a Lipari. In un settembre che nessuna fantasia di pittore avrebbe mai potuto immaginare così splendente e dolce. Ti racconto questo a proposito della fortuna. Avevamo a nostra disposizione in albergo una grandissima terrazza, dalla quale

si vedeva la Rocca e di lato, il mare. Sopra di noi un cielo stellato che ad Enrico ricordava il cielo di un presepe, con le stelle grandi grandi di carta stagnola, brillanti e appiccicate lì a caso. Spesso avamo la notte su elegantissime sdraio, tenendoci per mano e parlando di noi, di te, dei destini della vita, della nostra felicità, litigando dolcemente tra chi di noi due era stato più fortunato e quindi più felice nel nostro incontro, e su come era nato il nostro amore. Parlare con Enrico è per me, e lo sarà sempre come vedere cose nuove, esplorare oggetti, luci con sfumature sempre diverse; aveva nel pensare e nel dire una autentica paura del banale, del luogo comune. Il che lo portava, senza forzature, a immagini verbali di straordinaria fantasia. Ti rendi conto, tesoro mio, di quanto lo ami?! Una sera, una notte, sotto le stelle di Lipari mi accorsi che mentre io me ne stavo avvolta in uno scialle di seta, tuo padre per non alzarsi dalla sdraio e, come mi sussurrò, per non perdere un attimo di me, se ne stava rabbrividendo! Ormai non ti scandalizzo più, vero Pier Luigi se ti racconto che abbassato lo schienale della sua sdraio, mi accoccolai su Enrico per riscaldarlo, e cercando di imitare i lunghissimi tempi della creazione di una vita, ci amammo quasi fino all’alba, senza mai smettere di guardarci negli occhi, respirando insieme in una straordinaria inimmaginabile fusione. Fu una delle tantissime notti di cui, forse te lo posso dire, il nostro amarci prendeva la forma di una preghiera alla vita, un ringraziamento, si un applauso di gioia, di felicità, ecco una preghiera di felicità! Il sole, quella mattina ci colse abbracciati, ma non assopiti, tanto che scendemmo in spiaggia alle luci dell’alba, nuotammo a lungo in un mare caldo, sereno, calmo… sembrava nuotassimo dentro di noi. Sai, tesoro, che prima, mentre ero sola in casa e aspettavo il tuo ritorno, mi sono distesa sul letto e forse dormendo, ho ancora sognato e rivissuto questa vacanza a Lipari. Non so davvero se il tempo vissuto con Enrico sia stato un sogno così bello, così meraviglioso, come solo un sogno può esserlo … Mamma! Si, hai ragione, Pier Luigi mio, aspetta mi appoggio qui sulla tua spalla. Ecco!

Abbracciami … sai che hai il buon odore di tuo padre! Vorrei riposarmi un poco … mi tieni?..Poi, magari un altro giorno, se avrai voglia di ascoltarmi, continuerò … a raccontarti, a dirti … questo mio amore … proverò a raccontarlo …. per sempre..

Indice

La genesi e l’uggia

La profondità del sentire

Una tenera carezza ad un gatto sconosciuto

Ritrovarsi, per lettera

Perché ti amo

Per non dimenticarmene

Sarò io che ti starò cercando

L’estate del ’53

Ne sarò onorato, signora

La scimmiotta

Un week end a Waterloo

Caro diario

...proviamo a raccontarlo.

Feminae (vocativo plurale) - Massimo Scalabrino

Stampato nel mese di ottobre 2012 da www.stampalibri.it - Book on demand

Versione digitale realizzata da: Eugenio De Angelis nel mese di ottobre 2012