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Homobruno

Basta poco

Autore: Homobruno Titolo: Basta poco

© Copyright 2015 Cavinato Editore International ISBN: 978-88-6982-014-4 I edizione 2015 Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi

© Cavinato Editore International Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy Q +39 030 2053593 Fax +39 030 2053493 [email protected] www.cavinatoeditore.com

On the cover “Solitario“ photos of Luis A. de Jesús

A mio padre

Tutti gli uomini generalmente tendono a concepire gli altri esseri come simili a loro stessi, ed a trasferire in ogni oggetto le qualità più familiari, più intimamente presenti alla loro coscienza

David Hume

Sommario

L’ultima cena

Appunti di innocenza

Una donna libera

Appunti di conoscenza

Basta poco

L’ultima cena

Non era la prima volta che andavo nella sua villa immersa nel verde; cene e feste mi avevano fatta diventare una di casa. Eppure mi perdevo sempre.

Al momento di varcare il confine immaginario che delimitava la zona residenziale, cercavo sempre di individuare il cancello della sua villa, come se sapessi già che avrei fallito. Nessun punto di riferimento sulla strada, nessun negozio, solo vie parallele e incroci. Indicazioni che sparivano e riapparivano secondo le stagioni e secondo la crescita della vegetazione, sensi vietati che si trasformavano in sensi unici.

«Sono tratti di strada strani, questi.»

Era la sua frase preferita, mentre guardava fuori dalla finestra del suo soggiorno cercando d’imitare i modi di un marinaio esperto: la frase era di Joseph Conrad, e ancora non sono riuscita a capirne il senso.

«Vado a cena a casa del DJ.»

Mi ripetevo questa frase mentre guidavo verso la sua abitazione, ma quella sera non avrei voluto andare a cena a casa sua: c’era qualcosa di segretamente sinistro intorno a quell’appuntamento, un sensazione piccola, appena nata, cieca e malferma sulla gambe, ma che si era presentata al mio cospetto fin dalla mattina.

L’invito era partito all’ultimo momento, tramite una chiamata da un telefono pubblico; il rumore di fondo di una linea disturbata copriva la voce, poi c’era stato il silenzio, nessuna chiamata, nessuna conferma. Non ci avevo fatto troppo caso ed ero partita fra le solite rosee speranze che, devo dirlo, venivano regolarmente messe a dura prova dalla sua apparente indifferenza, dai suoi colpi da musicista, colpi inferti con superficiale leggerezza, senza rendersene conto, ma che non arrestavano le mie spinte, neanche quando lui se ne stava per quasi tutta la sera ad ascoltare la musica, con le cuffie sulle orecchie.

Gli interessi comuni non mancavano, a partire proprio dalla musica, ma poi la finestra si richiudeva e si ava ad altro.

Alla fine, comunque, il bilancio era sempre in positivo: ogni volta che uscivo da quella villa non avrei chiesto più di quello che il DJ poteva concedermi, mi andava bene così, la sua presenza era più che sufficiente. La musica era un contorno, niente di più e niente di meno.

Quando mi trovavo nei pressi di quell’intreccio di strade che costeggiavano le ville, senza navigatore, l’unica speranza per fare prima era chiedere informazioni a un ante; ma era raro imbattersi in qualcuno, specie di sera. Non incontravo mai nessuno a so con il cane, né di sera né di giorno e neanche quando me ne tornavo a casa all’alba, dopo una lunga notte trascorsa con il DJ e altre persone.

La cosa mi aveva sempre turbato; lui all’inizio usava liquidare la cosa come una coincidenza, ma con il tempo mi accompagnò nelle ipotesi più fantasiose. Quando portavano fuori i cani che vivevano nelle case lì intorno? Nelle ville forse facevano i bisogni in giardino, certo, ma chi abitava in una casa senza giardino? In che momento della giornata s’incamminavano con i loro padroni in quelle strade vuote e isolate? Forse non facevano i bisogni? Erano cani senza scorie? Quante volte ci siamo divertiti a fantasticare su che tipo di animali avessero in casa, fino ad arrivare alla conclusione che la mia presenza in quella

zona li teneva alla larga dalla strada. Come se io avessi potuto fargli del male, che assurdità.

Le rarissime volte che ero riuscita a fermare qualcuno dei residenti per farmi spiegare dove fosse la casa del DJ, chi mi aveva parlato si era sempre comportato con immenso garbo; anche su questo avevamo creato ipotesi da quarta dimensione, io avevo sempre detto che era l’acqua che scorre nei rubinetti di casa a renderli così gentili e il DJ si era subito dimostrato d’accordo, visto che anche lui ne beveva e non ci era mai capitato di innescare discussioni o fraintendimenti di alcun genere.

Rimaneva però sempre il problema del labirinto infernale. Ogni volta era una perdita tempo, tuttavia non mi metteva mai a disagio: ormai mi ci ero così abituata che la ricerca stessa della via era diventata una sorta di dolcissimo aperitivo.

Sapevo che le ore che avrei trascorso con lui sarebbero state vera vita, una vita che si scopre essere la migliore proprio quando la si sta vivendo, a costo di arrivare sempre al buio, a un’ora in cui avrei voluto già da tempo essere seduta davanti a una tavola apparecchiata.

Quando andavo a casa del DJ era come se qualcosa mi costringesse a cambiamenti improvvisi di direzione. Durante il viaggio di ritorno, un misto di progetti e intenzioni si palesava nel silenzio ovattato dell’abitacolo, finestrini chiusi e tappezzeria così soffice da sembrare perfino rassicurante.

Parcheggiai vicino alla villa, raccolsi le mie cose e scesi. C’era un vento forte che sembrava essersi concentrato proprio sulla via dove abitava il DJ. Mi scombinò i capelli che con tanta cura avevo sistemato prima di uscire, in una folata come se mi fosse ato accanto un treno ad alta velocità; mi voltai in

direzione della pineta, seccata da quel mancato riconoscimento, ero una di casa, parlavo la stessa lingua dei residenti, perché il vento fingeva di non conoscermi? Mi incamminai verso casa; fu allora che il vento calò come se non ci fosse mai stato.

Cercai di sistemarmi i capelli con una mano, mentre infilavo l’altra nella borsa per afferrare il telefonino. Di fianco all’entrata, appoggiato a una macchina c’era un uomo mai visto prima; non mi era sembrato di averlo notato neanche quando gli ero ata davanti prima di parcheggiare. Era occupato anche lui con il telefonino e quando si accorse che mi stavo dirigendo nella sua direzione chiuse la chiamata che stava facendo e mi sorrise.

«Stai cercando François? Non c’è, ho già provato io. Tu devi essere Chiara, io sono Manuel.»

«Sì, sono Chiara, piacere.»

«Sono un amico del nostro DJ, sono venuto a cena, mi ha invitato lui.»

«Non… non mi aveva detto che c’era un altro ospite a cena. Il cancello è aperto?»

Mentre mi riprendevo dalla sorpresa suonai il camlo. Nessuno rispose. La villetta era avvolta nell’oscurità.

«Ho provato anch’io tante volte, ma non c’è nessuno. Il telefono di casa suona

libero, lo stavo chiamando proprio adesso al cellulare ma è irraggiungibile. È tutto spento. Adesso ci riprovo.»

«Ho dimenticato il telefono a casa. Non risponde?»

Quell’uomo che non conoscevo e che mi stava sorridendo amabilmente si avvicinò e accostò il suo cellulare all’orecchio in modo che potessi sentire il solito messaggio di irreperibilità.

«Devi telefonare?»

«Sì.»

«Prendi il mio, non ti preoccupare, fai tutte le telefonate che vuoi.»

«Grazie, come hai detto che ti chiami?» Le parole, lentamente, stavano tornando al loro posto.

«Manuel. Se devi chiamare lui è il tasto verde, altrimenti devi fare da sola.»

«No, volevo solo vedere se il mio cellulare è caduto fra i sedili, grazie, te lo ridò subito.»

Composi il mio numero ed entrambi ci avvicinammo alla macchina. Una volta entrata con la testa nell’abitacolo e con il telefono che suonava libero, non percependo nessun rumore mi rassegnai a una serata senza cellulare.

«Tieni, grazie, sei molto gentile. Sei di queste parti? Bevi molta acqua?»

«Come, prego?»

«No, scusa stavo pensando a una cosa mia.»

Ci guardammo senza sapere bene cosa fare e prima che l’imbarazzo potesse afferrarmi, tornammo al cancello e suonammo ancora il citofono.

Nessuna risposta.

Lui si allontanò per chiamare a voce alta nella direzione delle finestre chiuse. Niente.

Mi piaceva il suono potente della sua voce e stavo quasi per chiedergli di gridare ancora, solo per vedere se avremmo dato una scossa al silenzio che gravava sulla via, ma non lo feci; mi voltai verso la pineta e rimasi a guardare come se la risposta potesse arrivare da quella parte, poi ebbi un’idea.

«Io so come entrare, vieni con me.»

Entrai nel cancelletto che era sempre aperto e salii le scale che portavano alla porta. Lui, con le mani in tasca, mi guardò allontanarmi come se aspettasse una mia autorizzazione. Lo vidi però meglio, sotto la luce. Era un bell’uomo dai capelli neri, fisico asciutto ben messo, vestiti eleganti: anche se faceva caldo indossava una giacca e dei pantaloni scuri. Alla luce dei lampioni, notai i lineamenti morbidi e la barba appena accennata.

«Mentre aspettavi hai visto qualcuno? Avvicinati, non aver paura.»

«No, da quando sono arrivato non ho visto anima viva, né in strada né all’interno della casa. Perché me lo chiedi?»

«Solo pensieri.»

«Dove stai andando?»

Non risposi, perché mi impressionò la casa vista da vicino: sembrava abbandonata, con tutte le finestre chiuse. Il lampione di fianco all’entrata diffondeva la sua luminosità principalmente sulla strada, e sotto la veranda non si vedeva niente.

Quando arrivavo in quella zona ero sempre sorretta da un’idea, un’emozione che riguardava i cancelli delle ville che incontravo sulla strada. L’effetto che mi provocava quella sequenza di forme artistiche fatte di ferro era una particolare forma d’immobilità, una visione ferma e appariscente come un manifesto affisso sulla parete della memoria e che sotto il suo inchiostro colorato rappresentava le

ville dei residenti come se fossero realmente abbandonate. Non era la luce spenta delle stanze, la mancanza di rumori o latrati di cani ad annunciarlo, solo un’impressione che grazie ai colori che man mano divenivano più sfumati avano dalla realtà all’immaginazione. Ho sempre creduto, affermandolo quando necessario con una sicurezza che prendeva in giro sia me che l’intero vicinato, che quelle oscure abitazioni godessero di una sorta di mimetizzazione supplementare oltre alla vegetazione, che dal canto suo svolgeva il compito assegnatole in maniera fin troppo zelante. Un travestimento a più livelli, sovrapposti e indipendenti l’uno dall’altro, simile a una campana che con il suo peso e la struttura massiccia copre risolutivamente ciò che è nascosto sotto di lei. Una villa sopra un’altra villa, e coloro che abitavano sotto la campana potevano così fare tutto il chiasso che volevano. All’interno il caos, all’esterno silenzio assoluto. Costruzioni silenziose ricoperte di rami e foglie, simili a bunker, un mimetismo che le discostava temporaneamente dal resto del mondo, ville ricoperte da altre ville.

«Non mi dire che stai cercando le chiavi. Come fai a sapere dove sono? Non vorrei fare qualcosa di sbagliato, sei sicura che sia una buona idea entrare? Io, è la prima volta che vengo in questa casa.»

«L’ho fatto un sacco di volte. Mi ha detto lui dove sono le chiavi, proprio perché spesso si presenta alle sue stesse cene in ritardo. Eccole qua.»

Entrai e accesi le luci, aprii le finestre e m’incamminai verso la cucina. Lui invece si spostò nella grande stanza come se fosse un contadino che sta controllando il suo terreno dopo la semina. Gli offrii dell’acqua e gli feci segno con le mani di stare tranquillo, di mettersi comodo, la casa era a nostra disposizione.

«Sei molto gentile anche tu, grazie. Proprio strani questi bicchieri, però sono simpatici, mettono di buon umore, mi piacciono così grandi.»

«Lui li usa per bere il tè, gli piace solo il tè. Scommetto che invece tu sei un tipo da caffè, lungo, all’americana, o sbaglio?»

«Come hai fatto a capirlo?»

«Tiro a indovinare e a volte ci prendo.»

«Io invece sono una frana a capire le persone. Credo di conoscere qualcuno, e invece quando ci sono a contatto tutti i giorni mi accorgo di aver sbagliato. Dovresti aiutarmi a capire come si fa visto che sei così brava.»

«Non sono la persona giusta, mi dispiace. Anch’io ho i miei problemi in merito.»

Iniziai a cercare, qualcosa doveva esserci, un biglietto, un messaggio; salii anche al piano di sopra, rovistai in bagno e in camera da letto, ma non c’era niente.

«Che si fa?»

Non seppi rispondere. Continuai a guardarlo come ipnotizzata dai suoi occhi neri; in realtà stavo pensando e mentre continuavo a farlo distolsi lo sguardo dal suo e cercai qualcosa da bere. Con me non avevo niente, ma lui, come se avesse interpretato i miei pensieri, tirò fuori non so da dove una bottiglia.

«Complimenti, ottima scelta. Sai, quando ti ho visto con la tua cartella poggiata sulla spalla, lì fuori del cancello, ho immaginato che lì dentro potessi avere una bottiglia di champagne.»

«Sei sicura di non volermi aiutare a capire meglio le persone? Sembri brava.»

«È solo intuito da principiante» dissi. «Ho portato del vino rosso. Non stasera, l’ho lasciato qui pochi giorni fa, dovevamo cenare, ma poi io e François siamo andati a mangiare una pizza in centro. Cosa più unica che rara, fattelo dire, non so quanto lo conosca tu, ma in quell’occasione mi ha veramente stupita; pensavo non uscisse mai di sera e invece mi ha portata fuori.»

«Era la prima volta?»

«Sì, ma dove può essere?»

«Chi?»

«Il vino, dico, dovrebbe essere sotto, nella credenza.»

«Vuoi una mano?»

«No grazie, non ti preoccupare, sono brava a cercare le cose. Se vuoi posso insegnarti, quello lo so fare bene. Eccolo, che ti avevo detto?»

«Da quanto tempo state insieme?»

«Da circa un anno. Non è vero. È da circa un anno che lo conosco, che lo frequento. È una storia lunga, forse più tardi te la racconterà lui, se vorrà.»

«Non c’è problema, non sono un tipo curioso, ascolto quello che mi dicono di ascoltare e chiedo quello che posso chiedere, almeno all’inizio.»

Sono sicura che allora volesse dirmi qualcosa, ma io ero ancora in movimento.

«Ho visto François una sola volta. Abbiamo parlato, ma di lui so molto poco, anzi, quasi nulla.»

«È un tipo originale, merita veramente. Com’è che hai portato lo champagne? Se l’avessi saputo ne avrei portato una bottiglia anch’io.»

«Non ti dispiace, vedo.»

«Io ci vado matta. Ho sempre avuto un approccio particolare con le bollicine alcoliche, ma non ne compro mai una bottiglia. Non è per il prezzo, mi è capitato spesso di spendere più soldi per il vino; con lo stesso prezzo potrei comprarne una bottiglia anch’io, invece no, chissà perché.»

«Forse temi che ti possa far girare la testa.»

«A volte fa questo effetto, sì.»

«A me non piace particolarmente, preferisco il vino rosso.»

«Il vino tinto…»

«Sì, quello così scuro che se metti il bicchiere controluce il colore all’interno rimane inalterato.»

«Allora perché hai portato lo champagne?»

«Non lo so perché, forse sapevo che venivi tu, forse inconsciamente volevo festeggiare qualcosa. Festeggiamo?»

«Sei proprio un tipo galante, ma da quale epoca vieni? Sei spagnolo? Hai un’aria da vecchia Madrid.»

«In che senso?»

«Oh, scusa, non volevo dire questo, intendevo distinta. Alta borghesia spagnola. Sei nobile?»

«Non sei la prima a dirmi che somiglio a uno spagnolo, ma alta borghesia di Madrid è la prima volta che lo sento.»

«Che ne dici di iniziare a cucinare? Anche se François non si è fatto ancora vivo, che male c’è se ci portiamo avanti col lavoro?»

«Già, se non smuoviamo qualcosa c’è il rischio, anzi la certezza, di mangiare alle dieci.»

«Per un motivo o per l’altro succede spesso anche quando lui è presente. La spesa, almeno quella, credo sia da qualche parte. Ci penso io, tu mettiti comodo. Ti chiamo se ho bisogno.»

Si allontanò con il o di chi parte all’esplorazione. La casa del DJ non era grande, anche se poteva essere considerata una villa a tutti gli effetti, giardino incluso; il piano inferiore, oltre alla cucina con un modesto tavolo per mangiare, era composto dal salone e dal bagno ed era proprio il salone che l’aveva magnetizzato. Io lo chiamo il salone della musica, una sorta di museo-biblioteca a cielo aperto.

Nella dispensa c’era pochissima roba da mangiare; eppure anche quando eravamo in due il cibo non mancava mai. Vorrà dire che ce la faremo bastare, pensai, l’importante è stare insieme, «A saperlo prima avrei portato qualcosa io.»

«Mi hai chiamato?»

Scoppiai a ridere. «Sei proprio simpatico, ma quanti anni hai?»

«Tu quanti me ne dai?»

Scossi la testa e continuai a guardarlo. Poteva averne quaranta come cinquanta; di sicuro era più grande di me di almeno dieci anni, ma i suoi capelli non avevano neanche l’ombra del bianco e le linee del suo viso sembravano guardarmi più dei suoi occhi.

«Senti, dicevo, da mangiare non c’è tantissimo, ma farò qualche intruglio dei miei. Metti su un po’ di musica mentre preparo.»

«Certo fra tutti questi CD e dischi c’è da impazzire, la console poi è mostruosa.»

«È un collezionista, un uomo pieno di sorprese. Tu che lavoro fai?»

«Ho un laboratorio dove lavoro la pelle, artigianato diciamo, mercatini fuori città, quelle cose lì. La cartella che ho portato con me l’ho fatta io. Ti piace?»

«C’è uno stereo portatile lì in basso vicino alla sedia di François. Accetta i CD e anche se sembra impossibile perfino le cassette, ma non ti fidare di lui. Lo stereo stesso è consapevole di essere solo un contrabbandiere: da quando sono state inventate le nuove tecnologie è vietato quel tipo di lavoro» dissi cercando di sbirciare cosa stava combinando. «Sì, mi piace la tua ventiquattrore anche se preferisco articoli più moderni, materiale sintetico a poco prezzo.»

«Ti capisco, ma questi lavori in cuoio, soprattutto le borse, richiedono molto tempo, un impegno esclusivo: è fatta a mano, anche le cuciture, quando sei impegnato in un’attività del genere non puoi fare altro, richiede concentrazione. Ma questo, tu scommetto che lo sai.»

«La concentrazione la conosco bene e anche da queste parti la conoscono bene: ce ne sono librerie intere dietro di te.»

«Che intendi?»

«Ma non avevi detto, com’è che avevi detto? Chiedo quando posso chiedere, non sono un tipo curioso.»

«Scusa, mi ero fatto prendere dalla conversazione.»

«Niente, stavo scherzando. Rilassati però, sembri un militare a un posto di guardia, togliti la giacca, non senti caldo? Che dicevi a proposito della cartella?»

«Ne ho portata una con me perché François mi ha chiesto di fargliela vedere con calma.»

Interruppe la ricerca della musica rimanendo sempre a una certa distanza da me, determinato a mostrarmi la sua cartella di cuoio presa dal tavolo e illustrata in tutte le possibili funzioni. «Intende comprare una borsa tipo questa, vuole metterci contratti, liberatorie, fogli per la richiesta dei diritti d’autore. Ha detto

anche che è stufo di mettere tutto nel solito zainetto. Ecco lo stereo del contrabbandiere, sto mettendo un CD preso a caso, i Dominic. Li conosci?»

Lo stereo partì.

«Sono un ottimo gruppo, sono norvegesi» dissi. Mentre l’acqua del lavello scorreva sulle mani cercai di ricordare la prima volta che avevo ascoltato quel gruppo; ero stata io a farli conoscere a François, ero stata io a regalargli Nord, il loro secondo album. Red Light era la mia traccia preferita. «Allora sei un artigiano? Lavori anche con altri materiali?»

Parlavamo io dalla cucina e lui dal salone; le due camere erano divise da un muro senza porta e io sentivo le sue parole e addirittura i suoi movimenti, anche con le chitarre dei Dominic in sottofondo. Avevo spento la luce centrale e lasciato accesa solo la lucina sopra i fornelli, stavo lavando l’insalata e mentre ero concentrata sull’acqua che bagnava le mie mani, lo sguardo cominciò ad allontanarsi da dove mi trovavo, i miei occhi e poi tutto il corpo. Mi accadeva spesso quando ero lì, in quella specifica posizione, era la finestra che si trovava di fronte a ispirare quel viaggio, la luce che mi illuminava il viso. Mi voltai verso di lui e notai che mi stava guardando, fermo nell’altra stanza; non abbassò lo sguardo, sembrava stesse scrutando qualcosa che non capiva fino in fondo. Ero sicura avesse capito che mi ero allontanata e che con lo sguardo cercasse di farmi tornare nella stanza. Gli sorrisi senza dire nulla, i miei occhi rientrarono in cucina. Fui io a distogliere lo sguardo, le mani sotto l’acqua che scorreva silenziosa, i colori ammorbiditi, tonalità che si sforzavano di sembrare naturali e che in fondo lo erano, se non fosse che da quando ero rientrata li vedevo differenti, diversi da me, dalla mia pelle, non potevano cambiare e invece l’avevano appena fatto. Anche loro erano usciti con me e con me erano rientrati.

«Non mi hai ancora detto con che tipo di materiali lavori.»

«Mi occupo anche di feltro, mi aiuta la mia ex moglie.»

«Allora sei stato…? Lo dicevo io.»

«Per quindici anni, poi ci siamo separati, a proposito delle mie difficoltà che accennavamo prima. Una brutta storia, ma adesso sono a posto, almeno credo.»

«Non ti sei ancora ripreso?»

«Diciamo al novantacinque per cento. Sono bravi davvero i Dominic, hai detto che sono norvegesi?»

«Sembrano un gruppo gotico new wave, ma se li ascolti bene puoi sentirci qualcosa di Seattle anni Novanta.»

Aveva cambiato subito discorso, con una velocità che giudicai innocua, visto il momento, e quindi mi scusai con lui e ai a condire l’insalata; l’acqua per la pasta era sul fornello anche se ancora spento, mentre su una padella soffriggevo dei cubetti di pancetta. Lui aveva aperto il vino, ma non l’aveva versato in nessun bicchiere.

«Ti piace quello che vedi? La cena intendo, sei vegetariano? Sei sicuro che non hai parenti in Spagna?»

«Seguro.» Rise.

«Come puoi vedere ho attivato la base della cena, poi quando arriva il padrone di casa accendiamo l’acqua e cominciamo a preparare sul serio.»

«Hai fatto bene, ho una fame! Dove sono i bicchieri? Però almeno mettiamo lo champagne in frigo.»

«Mi dispiace, volevi aprirlo subito? Va bene, scusa, apriamolo, beviamo lo champagne, il vino può attendere.»

«Sembra un film, ti pare? Il vino può attendere. Un film anni Quaranta americano, sulla scia di Via col vento. Va bene, beviamo lo champagne. Ma ti va? Sembri contraria.»

«Se mi piace? Sono una fan dello champagne, pensavo solo che volessi stapparlo più tardi, quando arriverà François.»

«È vero! Non ci avevo pensato, hai ragione. Allora beviamo il vino, prendo i bicchieri.»

Si avvicinò al lavabo, prese due bicchieri e me ne porse uno.

«È colpa tua, mi confondi. Questo lo metto in frigo, per dopo. Tu, Chiara, che lavoro fai?»

«Commercio plutonio, ma non posso dirlo a nessuno. Scherzo. Sono una veterinaria. Oltre al lavoro conduco delle ricerche per conto mio, mi piacerebbe fare la ricercatrice.»

«Che tipo di ricerche?»

«Comportamento degli animali. Lo so, è molto generico, ma non vorrei annoiarti. Lo hai detto tu, dobbiamo festeggiare.» In realtà quella che non voleva annoiarsi ero proprio io. Anche se il mio lavoro mi apionava al punto di dimenticare la vita sociale, in quel momento non avevo nessuna intenzione di condividerlo. «Diciamo che devo essere ispirata per raccontarti delle mie ricerche. Sono cose molto personali e poi sono solo bozze di pensiero, almeno per ora.»

Versò il vino e con un brindisi itinerante ci spostammo nel salotto, per chiacchierare più comodi.

«Che ne pensi di questa zona? Ci eri mai stato?»

«No, come ti dicevo è la prima volta.»

«Non ti sembra strana? Tutte queste ville in cui non si vede mai nessuno, le strade poi, meglio che non ne parliamo, mi perdo in continuazione. La pineta invece l’hai vista?»

«Certo, ero arrivato in anticipo e prima che fe buio ci ho fatto un giro.»

«Veramente? Io amo questa pineta.»

«Parlamene, vediamo se sono le stesse cose che ho pensato io.»

«Non credo, ma te lo dico lo stesso. Per prima cosa la pineta la notte riposa, ma quando soffia il vento forte nella sua direzione sembra di essere vicini al mare, si sentono le onde.»

«Le onde?»

«Sì, che s’infrangano sulla spiaggia e la risacca che torna indietro.»

«Ma siamo a più di quaranta chilometri dal mare.»

«Lo so, ma il suono è questo. Te l’avevo detto che non la pensiamo allo stesso modo.»

«Mi piace quel gesto che fai con le mani per simulare il movimento delle onde. A me invece ha dato l’impressione di un posto dove la gente va perché ci deve andare.»

«Come se fosse obbligata?»

«Sì.»

«Ma che fine avrà fatto? Perché non chiama per dirci qualcosa?» dissi sentendomi per la prima volta in imbarazzo. Ero stanca e sebbene lui si fosse dimostrato fino a quel punto una persona amabile e ben disposta, ero comunque sempre io a voler dimostrare qualcosa. «Io ho dimenticato il telefono, ma non chiama neanche te e tantomeno casa. Per favore, riprova un po’ a sentire se ti risponde.»

Il telefono risultava ancora irraggiungibile, non partiva nemmeno la segreteria. Cominciai a percepire un leggero sussurro insistente, come di parole e di sguardi e di occhiate che tutt’e due cercavamo di mascherare e che fino a quel momento avevamo lasciato fuori del cancello della villa.

Non mi venne in mente nulla per ovviare a quella sensazione che rischiava di compromettere una serata già di per sé rovinata e così ricominciai come se niente fosse accaduto, come se il vento che ci aveva colti di sorpresa fosse solo una finestra chiusa male.

«Da quanto tempo conosci François?»

«Da poco. Sono stato ospite di una festa privata in cui lui metteva la musica, ci siamo parlati solo alla fine, abbiamo bevuto qualcosa e lui mi ha invitato alla cena di stasera.»

«Come ti è sembrato?»

«Un tipo simpatico, perché dici che è strano? Mi ha messo subito a mio agio, mi ha chiesto un sacco di cose, sembrava fossi io la star della serata. Anche se devo dire la verità, la musica che mette non mi fa impazzire. Preferisco la classica. Beethoven, per la precisione.»

«Beethoven, anche a lui piace, non te lo ha detto? Strano, lo dice a tutti quelli che incontra. A me la musica piace un po’ tutta, ma in questo periodo preferisco quella elettronica. Ma non temere, dopo cena mette tutti i generi, compresa la classica, anche se a volte lui è l’unico ad ascoltarla; visto che ci sei tu, forse stasera farà un’eccezione.»

«Allora sono nel posto giusto al momento giusto.»

«Speriamo lo sia anch’io.»

«Cos’è che ti fa dubitare? Prima ti ho vista muovere in cucina, mentre guardavi fuori dalla finestra. Una scena molto femminile.»

«In che senso?»

«Sembravi una ballerina di flamenco. Questa casa sembra la tua.»

«Non è per quello e neanche per te, sono solo preoccupata per François.»

La tavola non era ancora stata apparecchiata, aspettavamo il DJ, ma di lui ancora nessuna traccia. In base alla mia esperienza il suo ritardo rientrava nella normalità, nessun imbarazzo, almeno per me, anzi quel contrattempo mi dava l’opportunità di conoscere meglio il nuovo ospite e rilassarmi sul divano. Parlare con lui aveva dissolto ogni disagio e questa mutazione benevola sembrava aver contagiato chi in questo momento continuava a guardarmi con quegli occhi così profondi. C’era però nel ritardo di quella sera qualcosa di diverso, non lo sentivo, non percepivo il suo arrivo, riuscivo a vedere lo spazio fra la villa e dove poteva essere in quell’istante, e quello era uno spazio vuoto, lontano.

Mi alzai e mi avvicinai alla finestra; ora ero io il marinaio esperto che scrutava l’orizzonte alla ricerca della terra, lui invece rimase seduto continuando a bere il suo vino.

«Somigli proprio a un… Se dovessi presentarti a qualcuno, direi: questo è il mio amico spagnolo che è venuto a trovarmi da Madrid.»

«Cosa sono, i capelli lunghi che fanno questo effetto?»

«È l’insieme… i lineamenti, la forma del tuo naso…»

«E va bene, sono spagnolo. Ti ripeto, non sei la prima persona che me lo dice, ti concedo però che questa cosa da un po’ di tempo a questa parte non mi sta dispiacendo.»

Faceva caldo, anche se non tanto da dover aprire la finestra; il clima era sopportabile con un abbigliamento leggero ed essenziale come il mio, ma non con il suo. Continuava a tenere la giacca indossata, e io pensai per un attimo che

la sua camicia potesse non avere le maniche, solo la parte centrale e il colletto come in quei film in cui la indossavano gli uomini senza un soldo. Tornai a sedermi avvicinando al divano un tavolino poco distante dalla console, spostai i giornali e le riviste che erano lì sopra e vi trasferii bicchieri e bottiglia.

«Sono delle belle luci, quelle che hai .»

«Sì, è vero; è pur sempre casa di un DJ, che ti aspettavi?»

Sorridemmo insieme mentre, seduti uno di fianco all’altra, cercavamo ognuno di intavolare una discussione che potesse avere una durata un po’ più lunga.

«Guarda i muri per esempio, non ti sembra che ci sia la carta da parati? Producono un’atmosfera calda e soffusa, da biblioteca abbandonata.»

«Brava, stavo pensando alla stessa cosa.»

«Sono tutte queste lampade accese, lui si occupa anche di effetti di luce nei posti dove va a mettere i dischi.»

«Il risultato è molto romantico.»

«Andiamo a preparare la tavola?»

Ci alzammo dal divano contemporaneamente.

«Ma che facciamo se non arriva? Che dici? Tu lo conosci meglio di me.»

«Non so che dirti, non mi è mai successo che non fe avere sue notizie così a lungo.» Avevo la sensazione che adesso fosse lui a sentirsi a disagio. «Quando è in ritardo una telefonata l’ha sempre fatta per avvertire, per dare disposizioni. Poco fa sono stata sul punto di proporti un’uscita, se ti andava di andare a mangiare qualcosa in città, ma adesso ho cambiato idea.»

Però qualcosa era già cambiato: il marinaio, la vedetta che era in me aveva scorto qualcosa e ora si era presa il comando della nave, un ammutinamento benevolo e senza spargimenti di sangue.

«Sapessi quello che ho pensato io! Pensavo di andarmene, ma per fortuna anch’io ho cambiato idea. Comunque, quello che vuoi fare tu a me va bene.»

«Veramente volevi andare via? Ti mettevo così a disagio?»

«Non eri tu, anzi, sei una padrona di casa perfetta, ero io che mi sentivo un estraneo. Adesso va molto meglio.»

«Facciamo così: aspettiamo una mezz’ora, intanto prepariamo la tavola e ci rimettiamo sul divano, e se per le nove e trenta non è arrivato iniziamo. Uscire a quest’ora per andare a mangiare è una follia, e che tu vada via non se ne parla.» Prima o poi François sarebbe arrivato e io di certo non mi stavo annoiando.

«Male che vada, se arriva mentre siamo con le forchette in mano gli riscaldo la pasta e mangiamo tutti insieme, non ci vedo niente di male, anch’io ho una fame da lupi. Se poi arriva dopo che abbiamo finito il primo, gli porto la pasta riscaldata e ci mangiamo la carne tutti insieme.»

«D’accordo.»

«Sei con me, marinaio?» dissi cercando di rimanere seria. «Ti prendi tu la responsabilità, se arriva nel momento topico gli dico che hai voluto iniziare a mangiare.»

«Ci sto. Anche se devo ammettere che avrei preferito il favoreggiamento alla colpevolezza diretta» disse allontanandosi dalla cucina e dirigendosi in una zona buia del salone. «Mi fido di te, intanto vado a lavarmi le mani così poi ti aiuto ad apparecchiare la tavola. Dov’è il bagno?»

«È quella porta accanto alla libreria più grande, dietro la console. Quando torni iniziamo, intanto mi rilasso sul divano con i Dominic.»

Mentre si avviava verso il bagno, provai a richiamare il DJ. Ancora niente. La luce usciva dalle finestre della villa, rischiarando il terrazzino all’entrata. Pensai che potevamo mangiare fuori, ma cambiai idea subito, non volevo disturbare i vicini, non volevo contravvenire a quella regola non scritta, non detta da nessuno e che però avevo percepito essenziale dalla prima volta che avevo messo piede nella villa. Mentre pianificavo la disposizione logistica per l’ennesima volta, ebbi un sussulto, un colpo che mi arrivò sulla guancia come se qualcuno mi avesse dato un piccolo schiaffo; ero ancora seduta sul divano e la musica allietava la stanza, dal bagno però lo sentii parlare con qualcuno, una voce che si incrociava con un’altra persona di cui non sentivo la voce, un avvenimento che mi sorprese e che per un motivo nascosto mi spaventò.

«Con chi stavi parlando?»

«No, ho chiamato un’amica.»

«Non potevi farlo da qui?»

«È per questioni di lavoro. Cose di cuoio.»

«Come sei misterioso! Capisco che il commercio di armi sia una cosa delicata, caro il mio spagnolo, ma tu esageri.» Mi misi a ridere.

«È lei che mi ha chiamato, ho sentito la vibrazione mentre mi asciugavo le mani. Non sono misterioso, era solo lavoro.»

«Capisco.»

«Quindi ti occupi di animali» disse lui.

«Soprattutto cani e gatti. Curo quelli malati e sterilizzo, quando mi viene richiesto. A volte mi do da fare pure con i randagi. Spesso è stressante e sono obbligata a prendermi una pausa.»

«Tipo stasera?»

«Esatto.»

Anche se mi sforzavo di trasmettere sicurezza e autorità, funzione acquisita con disponibilità ed esperienza, il DJ non c’era, non si era fatto sentire, zero biglietti e nessuna telefonata. Con il are del tempo mi stavano crescendo i dubbi che mi ero impegnata a dissimulare. La cena poteva essere un altro giorno, forse l’audio poco chiaro della telefonata d’invito mi aveva fatto capire male. A a quel punto, sbagliare era un’ipotesi attendibile; eppure, il cibo in frigo e la presenza di quell’uomo accanto a me affermavano il contrario.

«Ma perché porti ancora la giacca?»

«Va bene così, non ti devi preoccupare per me, tu stai bene?» mi chiese poggiando delicatamente il braccio sulla spalliera del divano. «Preferisco così, la giacca mi dà un certo senso di sicurezza. Una curiosità, ma non c’è l’aria condizionata in questa casa?»

«No, non c’è» risposi lanciando uno sguardo al soffitto.

Lo vidi sorridere; quando si accorse che lo stavo guardando, cambiò ancora una volta discorso.

«Io vado a preparare la cena, direi che è arrivato il momento. Mi verseresti dell’altro vino?»

«Arriva subito.»

Mentre apparecchiava la tavola per tre, io scaldai il condimento e portai l’acqua a ebollizione. Quando mi girai verso di lui la sorpresa fu enorme. «Una classica tavola spagnola, complimenti. Come hai fatto a trovare tutto in così poco tempo?»

Non mi rispose, se ne stava lì a guardarmi soddisfatto con il vino in mano come un maître prima di versarlo nel bicchiere di un cliente.

«È rimasto un quarto di bottiglia, ma abbiamo lo champagne» disse alzando verso di me la bottiglia.

«Io per quello aspetterei il padrone di casa.»

«Hai ancora ragione, mi dimentico sempre che questa è la casa del DJ e che è stato lui a invitarmi a cena.»

«Io tolgo la pasta. A me piace al dente, per te va bene?»

«Vai tranquilla, al dente è perfetta.»

Mentre eravamo impegnati entrambi nella delicata missione di espulsione della

pasta, squillò il telefono di casa.

«Vado io.» Prima che io dicessi qualcosa era già con la cornetta del telefono vicino all’orecchio.

«Se è François digli che è uno stronzo, digli proprio così, e digli anche di sbrigarsi che la cena è quasi pronta.»

In mezzo ai vapori dell’acqua bollente, fra lo scorrere dell’acqua e la distanza che mi separava dal salone, non riuscivo a distinguere cosa stava dicendo.

«Sì, pronto? Come? Non ho capito, puoi ripetere?»

«Ma chi è?» dissi con sincera curiosità.

«Aspetta un momento, Chiara, non sento niente.»

«amelo, occupati tu della pasta.»

«Cerchi il DJ? Non è in casa, dovrebbe tornare fra poco, pronto?»

«ami il telefono.» Ero accanto a lui e con una mano presi il telefono e cercai di sapere chi fosse.

«Pronto? Chi è? Sei tu, François? Pronto?»

Il telefono era muto, lo allontanai dall’orecchio e lo fissai.

«Cercavano il DJ, forse, non lo so, c’era tanto rumore. Tu hai afferrato qualcosa?» mi chiese mentre riponeva il telefono nella sua posizione originale.

«Quando mi hai ato il telefono non c’era più nessuno in linea. Mah, che strano. Hai detto che c’era tanto rumore? Che tipo di rumore?»

«Sembravano tante voci che parlavano all’unisono.»

«Mentre io sistemo la pasta nei piatti, tu prova a richiamarlo al cellulare.»

Anche quel tentativo risultò vano. Portai i piatti sulla tavola, ci provai anch’io due, tre volte. Stavo per iniziare a mangiare e colui che mi aveva invitato non c’era, era una novità, un evento fuori da ogni logica; un ritardo era anche accaduto, avevo altre volte iniziato a cucinare, ma lui prima che togliessi la pasta dal fuoco era sempre arrivato, chiamandomi mentre si avvicinava a casa. Non sapevo cosa pensare, però avevo fame. Per i primi minuti non guardai che il mio piatto, poi quando la fame si fu affievolita il mio cervello ricominciò a vorticare intorno a quell’uomo che mi stava di fronte. Sembrava spuntato fuori da un film in bianco e nero, un vecchio parente degli anni Cinquanta di cui da tempo si sono perse le tracce. Potei osservare meglio le sue mani, che cercavano il cibo con una sicurezza straordinaria, mani grandi che durante quei gesti in cui si avvicinavano alla bocca si trasformavano in piccole mani affusolate, come quelle

di un pianista, mani che sembravano rivolgere a me i loro gesti, dotate di un’intelligenza propria.

«È proprio buona questa pasta,» mi disse con voce profonda «complimenti.»

«Dicevi?»

«Dicevo che sei un’ottima cuoca, se la cosa può interessarti.»

«Grazie, sei molto gentile. Questa tovaglia è proprio bella. Non l’avevo mai vista, quando vengo qui a cena con lui mangiamo sempre sul nudo tavolo, tovaglioli di carta compresi. Bravo, si vede che hai gusto.»

«È una prerogativa di noi spagnoli riconoscere le cose belle. L’ho trovata in un cassetto e ho pensato fosse una buona idea.»

«È proprio così, don Manuel.»

«A parte gli scherzi, c’è altro da mangiare?»

«L’insalata, vado a prenderla.»

«Ma non c’era anche della carne?»

«Per il secondo aspettiamo il DJ, almeno si mangia qualcosa di appena preparato. Dividiamoci l’insalata, così la fame si prende una pausa.»

«La pasta no?»

«La pasta non si tocca. Dimmi, invece, cosa ti ha detto il DJ l’altra sera quando vi siete incontrati?»

«Stava parlando animatamente con un uomo che non avevo mai visto. Non stavano litigando e non era il tipo che stava con lui a essere agitato, era il DJ a esserlo. Cercava di spiegargli qualcosa, almeno così credo, e più ci provava più l’altro faceva segno di no. Da dove ero io e con la musica di sottofondo non sentivo nulla, ma devo dire che ero molto incuriosito. Quando il suo amico si è alzato per andare via mi sono avvicinato. Il DJ mi ha fatto cenno di sedermi, come se mi stesse aspettando. Io non ho chiesto, speravo accennasse qualcosa lui, che potesse raccontarmi, come ho visto fare altre volte quando una persona ha appena discusso con qualcuno e vuole parlarne subito con il primo che gli si presenta davanti, ti è mai capitato? A me sì. Ma non l’ha fatto, abbiamo parlato solo della sua musica, poi a fine serata mi ha detto di venire a cena stasera. Tutto qui.»

«Non capisco, continuo a non spiegarmi il suo silenzio e la sua assenza» dissi cercando una conferma alle parole appena pronunciate, guardando la porta di casa. «Che dici, apriamo lo champagne? Il vino è finito e io ho sete.»

«Non so se sia il caso, riguardo allo champagne intendo. Se arriva mentre lo stiamo stappando pensa che figuraccia, l’avevo portato per lui.»

«Non ti preoccupare, François è un tipo alla mano, anche se a volte può sembrare molto formale, ha due facce. Una è il lavoro, quella che hai visto tu, l’altra è quella che vedrai stasera, sempre se viene.» Mi alzai per prendere la bottiglia, lui fece lo stesso.

«Se è questo a preoccuparti, non c’è nessun problema. A volte si dimentica di bere, capita che gli verso da bere e lui lascia il bicchiere intatto. Ho sete, Manuel.»

«Va bene, vado a prenderlo, tu rimettiti seduta. Lo vuoi aprire tu?»

«No, voglio vedere come fai, mi piace guardare.»

Lo vidi andare deciso verso il frigorifero; con altrettanta sicurezza stappò la bottiglia. Non sembrava uno a cui non piace lo champagne e che lo ha portato solo per fare un regalo al DJ, sembrava esperto. I suoi gesti erano quelli di un uomo che lo ha fatto per tanto tempo e a cui si è presentata l’occasione di dimostrare la sua destrezza. C’era qualcosa in lui che non riuscivo a capire, un lato del suo carattere che per quanto nel suo insieme rivelasse un uomo attraente, dolce, brillante, lasciava come risultato finale un’opera incompiuta, come un libro non finito.

«Ti è mai capitato… Oh scusa, salute.»

«Salute, salute al DJ. Che ne dici se ci mettiamo comodi?» dissi alzandomi dal tavolo con il bicchiere e la bottiglia di champagne. «Cosa mi stavi chiedendo?»

«Ti è mai capitato di fare qualcosa che non avresti mai dovuto fare e poi di non riuscire a sbarazzarti del rimorso?»

«Cosa intendi? Non credo d’aver capito.»

«Neanch’io credo d’aver capito.» Rise. «Non mi ricordo più quello che volevo dire, provo a ricominciare daccapo. Adesso sono serio, stavo cercando di chiederti se ti era mai successo di provare un irrefrenabile istinto a compiere un’azione qualsiasi, il giorno dopo però quando ti svegli e ci ripensi, cerchi di allontanare il ricordo ma non ci riesci. Quando ti accorgi che questo rimorso non se ne va, di solito non è una buona notizia, mentre quello che dicevo io era un rimorso che anche se rimane lì dove l’avevi lasciato, non crea disagi, anzi.»

«Un rimorso buono.»

«Esatto. Ma poi che fine fa questo rimorso?»

«Dimmelo tu» dissi sorridendo.

«Non so, so solo che c’è, non disturba nessuno, se ne sta lì come se fosse in una sala d’aspetto.»

«Forse è perché vuole dirti qualcosa, mentre i rimorsi che fanno casino e che disturbano, quelli non ti vogliono dire niente, secondo me.»

«È vero.»

Rimanemmo per un minuto senza dire niente.

«Fammi un esempio, però, altrimenti non ci capiamo bene.»

«Te ne potrei fare a decine, di esempi.»

«Esponimi un caso.»

«Salute.»

«Salute a te, ma non tergiversare, dimmi l’esempio.»

«Fammici pensare, voglio dirtene uno perfetto.»

«Fai con comodo.»

Mentre ci pensava i suoi occhi e il suo viso esploravano il soffitto; sembrava in difficoltà ma io ero divertita e incuriosita e con lui non sentivo più la mancanza del DJ, anche se a tratti il pensiero tornava, ma era un pensiero che ava

inosservato, come se qualcuno in un locale affollato va in bagno mentre nella sala si sta svolgendo un concerto.

«Ci sono. Immagina di aver litigato di brutto con qualcuno e questo qualcuno è la tua migliore amica. Probabilmente non la vedrai mai più. Poi torni a casa e il giorno dopo di solito stai male quando il rimorso della sera prima ti viene a cercare. E invece no. Stai bene sia quel giorno che quello dopo, tutto rimane invariato.»

«Avevo pensato a un’altra cosa.»

«A cosa?»

«No, niente continua.»

«Ho finito. Ti è mai capitata una cosa del genere?»

«Di solito io non ho mai rimorsi, neanche quando faccio una cosa che non avrei dovuto fare. Capisco quello che vuoi dire però, fammici pensare.» Non dovetti starci a riflettere troppo su. «No, non mi ci sono mai trovata, anche se ti ripeto, io non ho rimorsi, quindi sono immune. Forse mi potrebbe essere successo e io non me ne sono accorta, chi lo sa? Credo però che a livello mentale possano esserci delle difficoltà, almeno all’inizio, poi se invece nessuno viene a disturbarti, quando ti svegli il giorno dopo, meglio così. Non credi?»

«Ci mangiamo la pasta?»

«Dici? Ma che ore sono? Va bene, la vado a scaldare; sei proprio ingordo, da quand’è che non mangiavi? Comunque vabbè, il DJ ormai non verrà più, ma non ti preoccupare, non dobbiamo andare via, forse arriverà più tardi, stiamocene buoni qui, aspettiamolo, ti va?»

«Certo. È piacevole parlare con te. Vado a cambiare CD.»

L’aria si stava riempiendo di una personalità forte e piena d’imbarazzo. Avevo le mani fredde e sudate, non riuscivo a stare ferma un minuto, e lo sguardo di Manuel cercava disperatamente un appoggio da parte mia. L’intera situazione somigliava a un foglio bianco con su scritto qualcosa, un’informazione condivisa che sta volando in strada, sospesa in aria, un ordine, una lista o forse solo parole senza senso, previsioni, relazioni, questo per il momento non era possibile nemmeno intuirlo. Aleggiava senza pericoli in attesa di poggiarsi o cadere in una qualunque zona della casa.

«Vuoi cambiare genere?» dissi mentre sistemavo due piatti puliti vicino alla padella con la pasta rimasta. «Metti la radio, a quest’ora trasmettono solo musica carina e senza interruzioni pubblicitarie. È già sintonizzata, devi solo accenderla. Ecco bravo, perfetto. Arrivo con la pasta, la mangiamo sul divano, che dici?»

«Te lo stavo chiedendo io. Salute. Poi però ti aiuto a sistemare, me lo devi promettere.»

«Stai tranquillo, te lo prometto. A proposito di quello che dicevi prima, sul rimorso.»

«Che volevi sapere?»

«Secondo la mia esperienza di donna il rimorso è un brutto cliente e nel tuo caso non ti ostacola, anzi, vuole farti capire un particolare che ti è sfuggito o al quale dai poca importanza: forse quella brutta cosa in fondo non era poi così brutta, va tutto bene e forse se la tua vita deve cambiare, è stato giusto cambiarla adesso.»

«Potrebbe, sì, potrebbe.»

Ora era lui a essere pensieroso, come se le mie parole gli avessero risvegliato un ricordo. «Parlami un po’ di te.»

«Non ho genitori vivi, abito anch’io fuori città, più a nord però, una trentina di chilometri da qui. Ho una casa in campagna, un po’ di piante da ulivo, ma non ho i cavalli. Mi piacerebbe averne, ma sono sicuro che non avrei il tempo per stargli dietro, quindi niente cavalli andalusi.»

«Posso chiederti una cosa?»

«Non ti preoccupare, ho capito, intendi mia moglie,» disse con un sorriso da persona comprensiva. «Ho aperto io il discorso. Che posso dirti? Mi aiuta nel lavoro ogni tanto. Lei abita in un altro paese poco lontano da dove sto adesso, vive nella casa che abbiamo comprato insieme subito dopo il matrimonio. Quando ci siamo separati io sono andato ad abitare dai miei che erano di quella zona, mentre lei è rimasta dov’era; l’ho voluto io, nessun litigio, nessun rancore. La cosa positiva, se voglio trovarci qualcosa di positivo, è che ora ho molta terra. Mi piace eggiare fra gli alberi nella mia proprietà, mi fa sentire una persona fortunata. Non esco quasi mai, ma posso concentrarmi meglio sul mio lavoro.

Possiedo anche un rudere abbandonato vicino al boschetto, anche se non so dirti di che epoca sia; con un po’ di lavoro si può sistemare e rendere abitabile, penso che un giorno quando ne avrò l’occasione lo farò.»

«Anch’io ho una casa fuori città, ma non ci vado quasi mai. Lo sai a cosa stavo pensando? È un pensiero che non c’entra nulla, scusami se o da una cosa all’altra così bruscamente, pensavo all’autostrada. Mi era venuta in mente una cosa che quando ci penso la voglio dire a tutti, poi invece me ne dimentico sempre, adesso mi sono ricordata. Ti va di sentirla?»

«Certo.»

«Pensavo a quando noi facciamo un viaggio in autostrada, ai nostri modi di guidare tutti diversi. Non ti sembra strano che tutte queste persone che ogni giorno in città, in campagna, guidano la loro macchina e poi un giorno se devono fare un viaggio in autostrada sono obbligate a confrontarsi con altri che non conoscono nemmeno? Io ci penso spesso quando sono anch’io in macchina: se va tutto bene alla fine mi dico che sono stata brava, sono tornata a casa, non ho fatto mosse azzardate, sono contenta. Non è facile per me fare un viaggio in macchina, forse tu sei più abituato, ma quando devo partire mi viene sempre un leggero disagio che svanisce solo nel momento in cui parcheggio. Quando arrivo mi faccio i complimenti da sola, per me è come una verifica che però non faccio solo su me stessa, devo tener conto anche degli altri; è proprio questo confronto, superare incolumi e con successo questa prova che definirei collettiva, che mi esalta.»

Manuel mi versò dell’altro champagne e dopo aver ascoltato la mia storia il suo viso esprimeva sorpresa e incredulità. Sorrideva.

«A me succede una cosa simile, ma non si può proprio dire, fa un po’ schifo.»

«Dimmela, dai, che problemi ti fai?»

«Sei sicura? Guarda… Va bene, l’hai voluto tu. Hai presente le feste, quelle di paese, dove ci sono i bagni chimici? A volte mi capita che quando vado a fare pipì trovo il water non sempre pulitissimo, c’è sempre un po’ di materia organica ancora attaccata alla tazza. Non ridere, te l’avevo detto che faceva schifo, adesso viene da ridere anche a me. Allora io con la pipì, per quello che posso, faccio pulizia e ogni volta mi mette ansia il pensiero di non riuscire a pulire tutto con il liquido a mia disposizione. Lo sciacquone non serve, ci vorrebbe lo scopettino, ma in quei bagni non c’è. Mi ci impegno, e quando ci riesco mi dico che sono stato bravo, anche se temo ogni volta di non farcela.»

«È vero, faceva proprio schifo.» Scoppiai a ridere. «Sei proprio un bel tipo, don Manuel. Cos’è, un’usanza della Murcia questa cosa che fate con la pipì?»

«Salute.»

«Salute.»

«Hai un bel vestito» mi disse avvicinando il bicchiere alla bocca.

«Grazie. Ti interessi di moda oltre che di borse di pelle?»

«Faccio anche dei piccoli lavori per alcuni stilisti. Loro mi danno un modello per un accessorio, borse, portafogli, cinte, e io lo eseguo. Ne faccio una ventina

l’anno, quando ho finito glieli porto e loro mi pagano. È normale.»

«In te niente è normale, caro amico mio.»

«E poi mi interesso anche di moda, come fenomeno sociale, mi piace, mi apiona.»

«Spiegati meglio.»

La stanza era perfettamente in linea con le nostre battute; la luce, i rumori di fondo della radio, le stesse pareti sembrava si muovessero nella nostra direzione.

«Non so se riuscirò a spiegarmi con tutto quello che ho bevuto, ma ci provo.»

Posò il bicchiere e si tolse la giacca.

«La moda secondo me è uno strumento molto potente, la gente la segue, ma non sa quello che sta facendo. Non parlo di quella delle sfilate, intendo quella della gente di tutti i giorni, quel curioso modo che hanno alcuni di vestirsi con un capo di abbigliamento uguale a tutti gli altri.»

«Tipo?»

«Non so, occhiali, borse, orologi, pettinature, scarpe, quelle cose lì, rifarsi il seno.»

«Pensi che lo facciano per moda? Io non lo so, forse si rifanno il seno o altro per paura di invecchiare.»

«No, lo fanno per moda. Un capo d’abbigliamento che va per la maggiore ti fa apparire simile agli altri, ti regala un segno distintivo, ti accomuna. La gente quando ti vede che hai un tipo di borsa che porta la maggioranza delle donne, riconosce te come membro di questa associazione immaginaria, si fida di te e quindi ne viene attratto. La stessa cosa vale per chi si sottopone a un intervento al seno, alle labbra. È così diffuso che la gente sta cominciando a riconoscere i membri di quest’altra associazione, quella chirurgica, sta iniziando a fidarsi di loro, ne viene attratto. Capisci?»

«Non ci avevo mai pensato» dissi con soddisfatta curiosità.

«A me non piacciono le donne rifatte, mi piacciono le donne come te, semplici e naturali e poi tu non ne hai bisogno, se posso permettermi» disse cercando invano di non arrossire. «Ti ripeto, ritoccare una parte del corpo è diventato una moda. Nell’istante in cui la gente percepisce questo cambiamento, scatta un meccanismo che fa sembrare la persona più attraente. Non è la diversa forma di una tetta ad attrarre gli uomini, è la moda che rappresenta questo cambiamento ad attirarli sessualmente.»

La stanza in cui stava il divano, dov’eravamo seduti a parlare e bere champagne era satura di un’atmosfera simile a quella di un amplificatore a cui hanno cominciato a scaldarsi le valvole, il suono delle nostre voci era caldo, pastoso, morbido, senza però perdere la sua velocità; più ascoltavo l’intensità che produceva e più non potevo fare a meno di contribuire a quello strano coro di

voci. Dalla cucina proveniva una debole luce, la stessa che amava illuminarmi il viso quando cucinavo o quando i pensieri fuggivano via dalla finestra sopra il lavello. «Mi sento un po’ brilla e tu?»

«Io sto bene, noi spagnoli beviamo molto, ma non ci ubriachiamo mai.»

«Sì, come no.» Risi. «Non ci credo neanche se lo vedo.»

«Strana questa frase che viene detta ogni volta, che ne dici? Non ci credo neanche se lo vedo, chissà che vuole dire?»

«Secondo me è fin troppo chiaro cosa s’intende… Attento! Ti sei versato lo champagne sulla camicia. Non ti preoccupare, va via quando la lavi, almeno penso.» Risi di nuovo.

«Non mi va di andarmi a bagnare adesso, sto tanto bene qui. Se non va via ne comprerò un’altra.»

«Voi spagnoli le fabbricate le camicie, vero?»

«Un’antica tradizione anche quella, le famose camicie di cotone spagnolo, chissà se esistono.»

«Come se non lo sapessi. Di dove hai detto che sono i tuoi? Barcellona? Valladolid? No, Madrid, vecchia borghesia di Madrid, hai detto che ti piaceva

questa denominazione.»

«Non ho detto niente, almeno mi sembra.» Sorrise.

Continuai a ruotare lo sguardo intorno alla stanza come avevo sempre fatto quando ero ospite in quella casa, mi piaceva esplorare nuovi comparti della libreria che per via dell’altezza erano rimasti per me sempre vergini.

«Pensa se tutti questi dischi iniziassero a suonare contemporaneamente, ognuno per conto suo. Migliaia di suoni mischiati fra loro, una sinfonia universale.»

«Sarebbe un incubo, credo che impazzirei dopo un minuto, a te piacerebbe? Non ci credo, andresti fuori anche tu, dai. A che volume poi?»

«Volume basso» risposi. «Penso che mi piacerebbe e forse anche a te, ti sorprenderebbe positivamente.»

«Come fai a dirlo?»

«Non lo so, non so se sarebbe possibile neanche metterlo in pratica, neanche con la musica presa da un computer riesco a immaginarlo. Sento che loro vorrebbero cantare insieme, almeno per una volta, CD compresi, anzi i CD con un timbro musicale più alto, come per equilibrare il suono della maggioranza dei dischi in vinile, che invece me li immagino più bassi, profondi.»

«Di cosa hai detto che ti occupi?»

«Cetacei, capodogli, mi piacerebbe lavorare insieme alle persone che fanno studi sugli animali in mare aperto. Penso che non avrei paura; non so quasi neanche nuotare, ma sono sicura che non mi spaventerei.»

Mi sentivo veramente a casa mia, ma non erano solo i movimenti a testimoniarlo, bensì le parole che uscivano dalla mia bocca, argomenti che non avevo mai affrontato da quando frequentavo il DJ e che ora giocavano allegramente con le sue parole come farebbero due bambini che si sono appena conosciuti a una cena di famiglia.

Fuori dalla villa non si sentiva nessun rumore, macchine, persone che camminavano a piedi, un cane in lontananza, niente, il vuoto cosmico, un silenzio così profondo da avere una connotazione sonora esso stesso, una musica che suonava insieme a quella che proveniva dallo stereo. L’abitazione del DJ governava quel buio, indirizzava i suoni, un faro nella notte. Della pineta invece non vi era nessuna traccia e non perché la musica ricoprisse il fruscio degli alberi, ma perché non si muoveva proprio, tagliata fuori da tutti i discorsi che provenivano dalla villa.

«Che mi dicevi della pineta? Sei andato a fare un giretto prima di venire qui, no?»

«Sì, e chi se lo ricorda?»

«Ma hai detto che ci sei stato. Dai, mi piace parlare della pineta, io ne parlo sempre con le mie amiche, anche se loro non mi dicono mai niente di

interessante, almeno tu sei andato a fare una visita, dimmi qualcosa, ti prego. Se non me ne parli mi finisco lo champagne e non ti do neanche un goccio.»

«Ok, mi arrendo. Attenta, se no me ne versi dell’altro addosso. Salute.»

«Salute. Allora?»

«Vediamo, stava facendo buio e c’era un forte vento, mi sono seduto su una panchina scomoda e ho cominciato a giocare con il cellulare. Non fare quella faccia, ho smesso subito. Che ti devo dire?» mi chiese con l’aria di uno che vuol prolungare l’attesa di chi sta impazientemente aspettando una risposta. «C’era un’aria tranquilla, mi sentivo bene lì; una cosa me la ricordo, mi sono messo a ridere da solo, non stavo pensando a niente in particolare, ho cominciato a ridere e basta. Per fortuna non c’era nessuno, è grande e anche ben tenuta e adesso che ci penso bene è strano vederla così deserta; capisco perché ti piace. Perché tu sei così, come la pineta, è una parte di te.»

«Sei un osservatore» dissi cercando di non far trasparire la mia soddisfazione.

«Osservatore praticante. Mi piace il tuo vestito.»

«Grazie.»

«Mi piace perché ti nasconde il corpo.»

«Non ti piace il mio corpo? Pensi che vada coperto?»

«No anzi, il fatto è che così vestita riesco a vederlo meglio, hai un corpo perfetto» disse toccandosi il viso con la mano libera.

«Mi stai spogliando con gli occhi, te ne rendi conto, spero.»

«Noi spagnoli non abbiamo bisogno di spogliare una donna per vedere com’è fatta.»

«Ti piace quello che vedi?»

Il foglietto che fino a poco prima volteggiava libero nella stanza, dopo tanto volare mi cadde sulle ginocchia, lo afferrai e iniziai a leggerlo all’istante.

«Vado a sistemare di là.» Mi alzai con un grande sforzo, presi i piatti dal tavolinetto e mi avviai verso la cucina.

Non sentivo neanche la musica, il silenzio aveva avvolto tutto in una bolla trasparente, un luogo piacevole dove regnavano sentimenti concordi, un’atmosfera protetta.

«Che ci fai qui?»

«Mi hai promesso che ti saresti fatta aiutare.»

Avevo voglia di sentirmi toccata, non era solo voglia di sesso, volevo essere toccata da quell’uomo, che ora di fianco a me mi stava prendendo le mani, mi stava baciando. La sua lingua cominciò a leccarmi i capezzoli attraverso la camicetta che indossavo. Immaginai quella stessa lingua mentre si insinuava sotto la gonna e su per le cosce, fino ad arrivare sulla fica. Più avano i secondi e più l’eccitazione trascinava il pensiero con sé, c’erano un mucchio di pensieri in quei caldi sospiri che insieme avevamo cominciato a emettere. Mi sfiorò le gambe, il suo cazzo era bello duro, mentre ci baciavamo con le mie spalle poggiate sul mobile della cucina. Mi toccava i fianchi con le mani, le sue labbra salivano lungo il collo, i capezzoli diventarono ancora più duri. Poi lui mi voltò e da dietro continuò a baciarmi, mi massaggiò i seni, lentamente, stringendo piano i capezzoli e poi sempre più forte. Lentamente cominciò a sbottonarmi la camicetta, mentre io spingevo con il culo verso il suo cazzo. Mi girò ancora e si gettò sui miei seni, stringendoli fino a farmi male. Mi prese per i fianchi e mi portò sul divano, continuando a baciarmi, piccoli baci sul collo, dietro l’orecchio, sulla spalla, il seno, la pancia, la fica.

«Aspetta un momento, non possiamo» dissi mentre cercavo di riprendere fiato.

«Come non possiamo?»

«Se poi arriva François?»

Ci girammo verso la porta, che era ancora come l’avevamo lasciata, e scoppiammo a ridere.

«Ormai non arriva più.»

«Non ne siamo sicuri. Che facciamo?»

Ricominciò a carezzarmi e più giocava con me, più l’eccitazione aumentava, mi godevo quel massaggio fatto con tanta lentezza, fatto con la lingua e con tanto ardore e tanta voglia di sentirmi dentro. Poi cominciò a leccare, ma non con avidità come prima; leccava senza fretta dapprima solo intorno alle labbra poi sempre più vicino, sempre più vicino, fino a penetrarle.

«Aspetta.»

Mi tirai su e rischiai di dargli una testata sui denti. «Non possiamo, non mi sento tranquilla, mi dispiace.»

«Dammi un altro bacio.»

«Possiamo andare da me, ti va? Mettiamo tutto a posto e spostiamoci a casa mia, non è lontano.»

Avrei voluto fare sesso lì, a casa del DJ, su quel divano dove di solito guardavo la televisione. Frenare me stessa e lui fu uno sforzo senza precedenti, un atto di coraggio che lì per lì non avrei saputo nemmeno come giustificare a me stessa; la voglia di abbandonarmi era così forte che forse, data la sua intensità così improvvisa e inaspettata, andava consumata in un posto tranquillo e senza barriere, senza pensieri o paure che potessero diminuirne l’intensità.

Durante il viaggio, ripercorrendo l’andamento di quell’insolita ma piacevole serata, che si preannunciava ancora più piacevole nelle prossime ore, ebbi la netta sensazione di camminare in una via immaginaria, una strada senza impedimenti, abbandonata e chiusa al traffico ma ancora praticabile, dove l’asfalto era ancora in buone condizioni.

Durante una sosta obbligata a un semaforo mi affiancai alla sua macchina e tirai giù il finestrino.

«Cos’è, vuoi fare una corsa?»

«Meglio di no, anche se hai una macchina più veloce della mia vincerei io sicuramente: sono più brava e conosco la strada, non dimenticarlo.»

«Hai paura?»

«Sì, ma adesso sto meglio, prima pensavo a delle cose.»

«Va tutto bene?»

«Certo, è solo che pensavo che avrei preferito fare la strada insieme a te. Forse dovevamo lasciare la tua macchina a casa del DJ.»

Appena arrivammo nel mio appartamento mi strinse forte a sé e iniziò a tempestarmi di baci. Lo spinsi sul divano sedendomi cavalcioni su di lui; la sua lingua cercava la mia, le sue mani cercavano le mie, il suo corpo cercava il mio. Mi alzò la gonna carezzandomi il culo, arrivando lentamente alla fica. A un tratto con un salto mi staccò da lui e mi buttò sui cuscini del divano, mi sfilò la gonna, mi spostò il perizoma e cominciò a leccarmi la fica. Mi accorsi che ansimavo, gli dicevo di continuare.

Restammo in quella stessa posizione per alcuni minuti, per dare modo di riprenderci, mentre io sentivo il suo cazzo che piano piano si afflosciava, tutt’e due a terra abbracciati l’uno all’altra inermi, appagati e soddisfatti.

«Non so te, ma mi è piaciuto da morire. È un’esperienza sublime scopare con te.»

«Sarei scema se non dicessi che ho goduto come non mai.»

Ci baciammo un’ultima volta, prima che lui mi prendesse in braccio e mi portasse in camera da letto, dove non facemmo in tempo a dire niente e ci addormentammo subito. Dopo appena un’ora di sonno agitato capii che continuare a sforzarmi non sarebbe servito a niente, il sonno forse se n’era andato a dormire da un’altra parte, la temperatura era insopportabile nonostante il condizionatore : il suo corpo era ancora a contatto con il mio, ancora mi avvolgeva.

Durante il tempo in cui ero riuscita a dormire, come se non bastasse la realtà che reclamava attenzioni, un sogno aveva attraversato le mie sinapsi con lo stesso fragore di un camion dotato di catene che prova a scendere una strada di montagna. Un sogno che riguardava i ricordi di bambina, di quando giocavo con Anna, la mia amica del cuore, nei dintorni della casa dei miei genitori in

campagna. Faceva caldo, poi cominciò a piovere; noi ci eravamo rifugiate sotto un capannone vuoto cercando di asciugarci i capelli, quando vedemmo due uomini in lontananza che discutevano tra loro. L’erba alta li copriva fino alla cintola, uno di loro aveva un cappello che da quella distanza gli copriva interamente il volto. Anna mi fece segno che doveva dirmi qualcosa all’orecchio; io mi girai verso di lei, ma non riuscivo a capire niente. Allora portai l’attenzione verso i due uomini per vedere cosa stessero facendo, ma adesso ne era rimasto solo uno. Quello senza cappello stava andando via, mentre l’altro era sparito. La mia amica continuava a insistere affinché io ritornassi vicino a lei, con ampi gesti muti di urgenza, mi doveva parlare da vicino, la sua bocca cercava il mio orecchio, mentre io continuavo a non sentire niente. Volevo correre verso il punto dove stavano parlando i due uomini, ero determinata a vedere che fine avesse fatto l’uomo con il cappello. Anna mi tratteneva per un braccio. Era una stretta così forte che pensavo che prima o poi mi avrebbe spezzato il braccio e più cercavo di scappare più quella innaturale morsa mi serrava a sé, continuando a mimare con l’altra mano il messaggio che voleva sussurrarmi all’orecchio.

Mi svegliai, mi tirai su e stetti a guardare da seduta l’oscurità della stanza.

Avrei voluto svegliarlo e raccontargli il mio sogno. Avevo sete e andai in cucina; mi accorsi che la segreteria del telefono di casa aveva un messaggio, ma per non svegliarlo abbassai il volume al minimo. Il messaggio era di mezz’ora prima.

«Ciao Chiara, sono François, ma il tuo cellulare che fine ha fatto? Sono due giorni che ti chiamo, è sempre irraggiungibile, devi venire subito da me, un favore personale, è importante, lo so che sei lì a dormire. Ci sei? Ci sei? Rispondi.»

Alzai il volume della segreteria e riascoltai, gesto di cui mi pentii all’istante. Spensi tutto e staccai la presa del telefono, andai in bagno per riascoltare ancora una volta senza essere disturbata. Se erano due giorni che mi cercava chi mi

aveva invitata alla cena di quella sera? Avrei voluto avere qualcuno con cui parlare in quel piccolo bagno di casa mia, luogo sempre molto avvezzo a pensieri confusi e decisioni dell’ultimo momento, ma stavolta non c’era nessuno, solo una voce che proveniva dal telefono e che svelava una realtà diversa da quella che avevo appena vissuto e condiviso. Dovevo richiamare subito il mio amico. Uscii dal bagno per riattivare il telefono; provai ma il numero di casa era occupato, mentre il cellulare dava il solito segnale che per tutta quella sera mi aveva ossessionato. Ero nuda, in piedi sulle gelide mattonelle della cucina; cominciai a guardarmi intorno, la luce artificiale della strada mi illuminava il corpo come un foulard trasparente. Una luce fredda e insieme violenta. Avevo ancora il telefono in mano, guardavo verso il letto piena di rabbia e incredulità, volevo sapere e lo volevo subito.

«Ehi, svegliati, svegliati, svegliati.»

«Che succede? Che fai lì in piedi? Vieni a letto» mi disse lui con la testa ancora poggiata sul cuscino.

«Devo andare!»

Iniziai a vestirmi in fretta raccogliendo i vestiti sparsi sul pavimento del salotto, mi infilai le scarpe, ero pronta a uscire.

«Dove vai? Aspetta, mi vesto anch’io. Ma che succede?»

«C’è un cane che sta molto male, devo andare a fare una visita a domicilio e se è il caso portarlo in clinica.»

«Ma che ore sono? Ti accompagno. Ma ha suonato il telefono? Io non l’ho sentito, tu come hai fatto a sentirlo? Dormivamo.»

Lo guardai in faccia, cessando per un attimo di infilarmi le scarpe. «Ti posso fare una domanda?»

«Certo, ma cos’hai? È successo qualcosa? Sei bianca in viso.»

«Quando è stato che vi siete visti con il DJ? Che giorno era quando ti ha invitato a cena?»

«Perché me lo chiedi? Cosa ti prende?»

«Solo una curiosità, dimmi che giorno era.»

Aveva quasi terminato di vestirsi, era seduto sul letto e stava allacciandosi la cinta, la giacca non si trovava, le luci della casa erano tutte accese.

«Oggi è venerdì, dev’essere stato una settimana fa, sabato o domenica scorsa, domenica.»

«Devo andare, ti chiamo più tardi.»

«Ma che c’entra quando ho visto il DJ? Vengo con te, dove devi andare? Ti accompagno.»

«Non ti preoccupare, vado da sola, ti chiamo dopo io.»

«Vengo con te.»

«Va tutto bene, ti ho detto che vado da sola. Se vuoi puoi rimanere, ma io devo andare.»

Mentre guidavo a gran velocità verso casa del DJ, mi venne in mente il mare. Dapprima lo considerai un intruso, ma poi assecondai la mia immaginazione. Un oceano scuro, notturno, tormentato dalla pioggia, onde che si muovevano come un grosso animale che si sposta strisciando. Una boa, una di quelle con una piccola campana e una luce che si accende a intermittenza, si muoveva e ondeggiava. Immaginavo di essere su una barca nei pressi della boa, sarebbe stato bello poter guardarla muoversi e suonare, ascoltare quel suono in contrasto con il rumore della pioggia.

Dopo qualche semaforo ritornai alla realtà. Richiamai il DJ, ma rispose la segreteria. Non sapevo proprio cosa pensare, avevo il presentimento, anzi, la convinzione che l’uomo che mi era stato accanto solo pochi minuti prima non fosse stato invitato dal DJ. Forse neanch’io lo ero stata. La verità poteva essere svelata solo da François. Per fortuna con Manuel eravamo usciti da casa mia insieme; anche se gli avevo proposto di rimanere ad aspettarmi in cuor mio speravo non accettasse, volevo allontanarmi da lui più in fretta possibile. Avevo gioito e tirato un sospiro di sollievo quando, dallo specchietto retrovisore, avevo visto la sua macchina allontanarsi nella direzione opposta alla mia. Ero più

serena ma ancora non mi sentivo al sicuro: controllavo spesso se qualche macchina stesse percorrendo la strada insieme a me e per fortuna non ce n’erano. Forse neanche lo conosceva il DJ, le supposizioni mi assalivano di continuo afferrandomi per la gola, obbligandomi a guidare a gran velocità.

Esordirono fuoriuscendo da chissà dove le immagini che poco fa avevo vissuto in prima persona, probabilmente la corrente stava allontanando la boa dalla mia visuale: quando ero ancora sdraiata sul pavimento con le gambe aperte, quando lui si era abbassato su di me dandomi un bacio e quando con calma aveva infilato il cazzo dentro la fica. Provavo ancora piacere nel ricordo, ma la paura prese il sopravvento.

Cercavo in tutti i modi di ricacciare via quei ricordi, sentivo ancora le sue mani frugarmi fra le cosce, quando mi aveva fatta girare penetrandomi ancora una volta, con la pancia poggiata sul bracciolo del divano, senza dire una parola, alternando spinte quasi violente a spinte dolci, mentre io stringevo i cuscini con un misto di piacere e dolore. Mi tornarono in mente i brividi che mi erano corsi su tutta la schiena, i gemiti che si erano confusi con quelli di lui. Era stato bello, ma non riuscivo a farmene una ragione, mi sentivo raggirata. Mi ero fidata di lui, assecondandolo in tutto. Era impossibile che qualcuno mi avesse imbrogliata, non mi meritavo di vivere quell’incubo, lo ripetevo in continuazione, fra curve e soste indesiderate, non poteva essermi accaduta una cosa del genere, solo nei film succedevano queste cose, perché proprio a me? Ma erano parole al vento, più veloci delle forme meccaniche e colorate che mi sfrecciavano accanto, automobili che fluivano come un liquido su tavolo di legno appena pulito, senza ostacoli, senza obiettivi.

Ma non era sempre e solo rabbia quella con cui stavo combattendo da quando ero fuggita da casa mia: c’era in me anche un lato possibilista, al quale mi aggrappavo con tutta la forza che avevo in quell’istante. Doveva per forza conoscerlo il DJ, chi altrimenti poteva essere quell’uomo, come poteva essersi presentato a casa sua senza un invito? Come sapeva che il padrone di casa non sarebbe arrivato? Per un attimo pensai di tornare indietro, chiamarlo e fare sesso

ancora una volta, in macchina se fosse stato il caso; i dubbi, però, ritornarono subito a cantare la loro canzone.

Il DJ era stato chiaro, doveva parlarmi di una cosa importante, non aveva fatto nessun riferimento all’ospite inatteso, non un cenno alla cena a casa sua né al fatto di non essere venuto per niente. Se solo lo avesse fatto, forse neanche sarei uscita, sarei rimasta a dormire e il giorno dopo mi sarei svegliata con lo spagnolo accanto a me, se almeno si fosse scusato non mi sarei spaventata e il cervello avrebbe potuto godere di un meritato riposo. Invece no. Pensai che il DJ si potesse essere dimenticato, dando per scontata la presenza di un ospite, il problema che gli aveva impedito di venire; la telefonata di poco prima poteva esserne la prova, una spiegazione che aveva fretta di essere spiegata a sua volta, ma pur sempre una spiegazione. Forse aveva lasciato lo stesso messaggio sulla segreteria di Manuel.

C’erano troppi forse, dovevo parlare con il DJ, chiarire, sapere chi mai poteva essere quell’uomo dai capelli neri e dalle mani che parlavano.

Oltre a queste elucubrazioni, cosa mai poteva volere il DJ a quell’ora della notte? Quello che doveva dirmi era forse legato alla presenza di quell’uomo? Visto che mi aveva svegliato di soprassalto, doveva essere per forza una cosa grave, una cosa che senza dubbio gettava ombre sulla conoscenza carnale di quella sera. Non lo sapevo ancora, speravo fossero buone notizie, uno scherzo ben riuscito: forse li avrei trovati lì tutt’e due che mi aspettavano. Era questa la considerazione che aveva il DJ di me? Riprovai a chiamarlo. Più arrabbiata di prima notai che il telefono si stava scaricando e lo spensi per il momento, mentre mi allontanavo dalla città, dai rumori e dalle luci che cercavano invano di distrarmi. Poi piano piano tornai alla calma, e così anche i pensieri cambiarono un’altra volta colore.

In fondo non era successo niente di strano, avevo fatto sesso con uomo e mi era anche piaciuto, ma non ne ero convinta del tutto. Doveva essere successo

qualcosa a casa del DJ per forza, probabilmente una particolare traccia del suo carattere non girava nella stessa direzione delle altre. Ma allora perché ci ero andata a letto se inconsciamente non mi fidavo di lui? A questo argomento non osavo neanche avvicinarmi, adesso c’erano altre priorità, meglio rimandare questi pensieri a più tardi, con più calma e scherzandoci su, bevendo un bicchiere di vino forse. Ma con chi dei due?

La strada era ancora vuota. Ora provavo piacere nel guidare e le poche macchine che incontravo e l’aria fresca che entrava dal finestrino erano ottimi collaboratori; le luci invece non riuscivo ancora a seguirle, ad andare alla stessa loro velocità. Cercai un indizio tra le frasi, le parole che ci eravamo detti prima di finire a letto; avevo bevuto quella sera, però un piccolo ricevitore deve aver notato due parole che insieme erano state di troppo, anche se ora non lo ricordavo doveva esserci per forza, depositato, registrato su una cassetta. Erano state solo frasi, che così come erano arrivate ora se n’erano andate.

Mi ricordai quello che mi aveva chiesto riguardo ai rimorsi, il senso di colpa del giorno dopo. La mia risposta era stata che io non ho mai provato rimorsi. Adesso che ci ripensavo mi accorsi che aveva un suono molto più potente di quello che avevo sentito quando avevo risposto alla sua domanda. Ricomparve il ricordo di un’amica che mi aveva confessato con un velo di preoccupazione i suoi timori rispetto a una persona, un uomo che diceva di conoscermi, aveva parlato con lei e con altri suoi amici asserendo che io andavo in giro a dire cose non vere sul suo conto. Sebbene cercassi di giustificarmi con i miei amici, questa persona non riuscivo a vederla mai, non lo conoscevo nemmeno, non sapevo chi fosse. Il tempo poi fece dimenticare a tutti qualunque legame di verità su quanto era accaduto, quei falsi sussurri sparirono, compresa la persona che li aveva prodotti. Mentre notavo che la spia della benzina era pericolosamente accesa, ero indecisa se quanto accaduto in ato fosse tornato solo con lo scopo di turbarmi maggiormente o se la fretta di arrivare a casa del DJ contenesse qualcosa di completamente diverso, squilibrato, rispetto all’attenzione che stavo prestando ai fatti di quella notte.

Questa piccola infezione comunque non voleva allontanarsi, si era messa lì e ora era seduta stabilmente sul sedile di fianco a me, un ospite indesiderato all’interno della mia macchina.

«Chi ti ha fatto entrare? Io ovviamente.»

Finalmente ero giunta nella zona delle villette. La notte sembrava non volesse finire mai, considerai la cosa con un pizzico di felicità, se qualcosa di spiacevole mi era capitato era mia intenzione risolverla prima dell’alba, prima che il sole congelasse ogni sofferenza. Come al solito, non c’era nessuno; cosa più strana, ero arrivata senza perdermi. Faceva ancora caldo e il vento era in agitazione, come se non sapesse bene se muoversi o stare fermo; l’effetto in ogni caso era quello di una sorta di work music incurante degli stati d’animo delle persone che potevano udirla, una musica stonata per alcuni, la colonna sonora perfetta per altri. Scesi dalla macchina e come facevo sempre quando arrivavo a destinazione interrogai la pineta: non ricevetti risposte, o meglio, mi parlava la pineta, il problema era che io non volevo ascoltare, i suoi messaggi arrivarono a me spogli, senza la solita dose di saggezza, come lo sportello di un frigorifero lasciato aperto e che fa filtrare una luce che illumina il pavimento, una luce straniera, irriconoscibile, non classificabile, ma che fa quello che deve fare.

Aprii il cancelletto e salii le scale. La luce era sempre scarsa e quando arrivai all’ultimo gradino mi girai per controllare se ci fosse qualcuno che mi stesse seguendo: non c’era nessuno. Mi voltai e mentre tastavo il muro alla ricerca del camlo mi accorsi che la porta di casa era socchiusa. Con cautela e un pizzico di indecisione, mi apprestai a entrare; la lucina della console illuminava il mixer e poco altro. Una musica in sottofondo suonava a volume bassissimo, non capivo se fossero degli strumenti o qualcuno che stava parlando alla radio. Forse il tragitto per arrivare lì era stato più lungo di quanto avessi immaginato, dal momento del messaggio in segreteria poteva essere ato troppo tempo e il DJ adesso stava dormendo al piano di sopra. Il salone era vuoto e spento, l’atmosfera sapeva di notte, di sonno, stanchezze condivise che mi fecero pensare in un primissimo momento di lasciare un messaggio su un pezzo di carta

in cui gli dicevo che ero arrivata tardi e che quello che aveva da dirmi poteva essere rimandato al giorno dopo. La porta semiaperta però diceva altro e questo era un bel problema. Certo, potevo rimanere a dormire sul divano senza far rumore; se si fosse alzato per qualunque motivo sarei già stata lì. Oppure potevo salire e controllare se stava dormendo. Ormai però non avevo più un briciolo di forza, e di rincasare e scrivere biglietti non se ne parlava nemmeno; mi poggiai sul divano e mi tolsi le scarpe. Spensi la musica e mi sdraiai, ma prima di chiudere gli occhi andai verso la cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Mi tornarono alla mente alcune rappresentazioni, non erano solo immagini, erano conversazioni che risuonavano ancora nell’aria, parole separate dalle persone, come un’eco infinito che continuava a volteggiare fra le pareti e i dischi, una melodia di cui riuscivo a percepire solo il ritmo. Mentre ero ancora a metà strada dalla cucina udii qualcuno scendere le scale.

«François?» dissi sottovoce.

Nessuno rispose. Ma non fu quel rumore che proveniva da sopra a spaventarmi.

«Mio Dio! François! Che hai fatto? È morto! François! François! Che è successo? François!»

Il DJ era steso sul pavimento della cucina con il cranio fracassato. Il sangue gli ricopriva tutta una parte del volto, quella che mi stava guardando.

«François! François!»

Mi piegai sulle ginocchia, mi coprii il viso, non volevo guardare, volevo uscire, andare via da quella casa, fuori da tutto e soprattutto da me stessa, piangevo,

urlavo, chiedevo aiuto. Rimasi inginocchiata con le lacrime che filtravano tra le dita per cadere sulla gonna e in terra, poi mi alzai di scatto e mentre stavo per andare in cucina, vidi un uomo scendere le scale.

«Io non lo farei se fossi in te.»

«Chi sei? Che fai in questa casa? Che stai facendo? Il DJ è morto! Adesso chiamo la polizia.»

«Io non lo farei se fossi in te.»

Finito di scendere le scale, l’uomo si avviò in cucina e accese la piccola luce sopra i fornelli posizionandosi in piedi davanti alla sagoma senza vita di François. Mi guardava di traverso: la testa e il collo formavano un angolo di novanta gradi e il viso, girato di lato, faceva sembrare il corpo incassato e distorto, mostrando una spalla destra decisamente più in alto rispetto al collo e dando la sensazione di una sorta di gobba.

Mi esaminava con una calma talmente inadatta a quella tragica situazione che mi spaventò ancora di più. Inoltre c’era il mio amico morto in terra, c’era sangue, non potevo vedere altro. Ero ferma nello stesso punto in cui avevo visto il suo lungo soprabito nero precederlo in cucina, immobilizzata e scalza. Avevo solo gli occhi che funzionavano ancora e con essi iniziai a dare un nome a quello che stavo guardando, i suoi capelli castani ben curati, la barba che gli avvolgeva il viso, nessuna sbavatura, nessuna macchia di sangue sul soprabito. Sembrava cercare con lo sguardo qualcosa nella stanza piegando il collo in posizione orizzontale; a un certo punto prese una sedia e ci si sedette sopra con la spalliera vicino al torace. Stava fumando, non me ne ero accorta; con un gesto mi fece cenno di mettermi seduta a una certa distanza, sul bracciolo del divano sembrava andare bene. Sperai che quell’uomo fosse della polizia, un agente in borghese

arrivato prima di me nel luogo del delitto. Ma non poteva essere un agente, aveva l’aria di una persona straniera, un americano forse, non ero sicura, il suo sguardo che ora riuscivo a vedere meglio si poggiava su di me furtivo, anche se non stava parlando mi stava chiedendo qualcosa, con tutto quel sangue che quasi toccava le sue scarpe. Con una mano teneva la sigaretta accanto alla bocca e con l’altra qualcosa che non riuscivo a capire cosa fosse, un movimento dopo l’altro, gettando la cenere in un recipiente di metallo apparso dal nulla; non parlava e quindi decisi che non lo avrei fatto neanch’io, ma poi quel silenzio divenne insopportabile. La sigaretta era finita, l’uomo si alzò e si mise a guardare il cadavere dall’alto.

«Cosa vuoi? Vuoi uccidere anche me? Cosa ti ho fatto? Perché l’hai ucciso?»

«Il testimone è là ed è in uno stato cata… cata… Poliziotto: Catatonico, signore. Lestrade: Non si sente bene.»

«Chi è Lestrade? Cosa vuoi?» chiesi ancora più terrorizzata.

«La vita di un uomo non si può spiegare con una sola parola.»

Si avvicinò, aveva qualcosa in mano, ma per la paura non riuscivo ancora a capire cosa fosse. Poi tornò indietro verso il cadavere. Sembrava volesse proteggerlo da qualcosa.

«Ne vale la pena? Che la nostra felicità sia così tanto collegata alla vita di un altro essere umano?»

Potei vedere il coltello che teneva stretto nell’altra mano.

«La vita non è che un’ombra in cammino, un misero attore che inscena per un’ora, arranca e si pavoneggia, del quale nulla più si saprà. Una favola detta da un idiota, piena di strepito e di furore, ma senza alcun significato.»

«Cosa vuoi dire? Posso andare via?»

«Se guarda attentamente, troverà che ogni cosa ha un punto debole dove può rompersi, presto o tardi.»

Non volevo stare lì, stavo impazzendo avvolta in quell’incubo soprannaturale, volevo uscire e forse potevo farlo, dovevo stare attenta, aspettare il momento giusto.

«Quando pensi che tutto sia scontato, c’è sempre qualcosa che risulta tutt’altro che prevedibile.»

La sua voce era rassicurante, armonica con il contesto della sua persona, ma terrorizzante in rapporto al mio amico morto che assisteva a quel delirio. Le frasi sembravano pensate prima e preparate per l’occasione, e non avevano nessun senso.

«Ognuno pensa di avere ragione in una guerra, ma alla fine muoiono tutti.»

«Quale guerra?» provai a chiedere.

«Nella vita una cosa sola è certa, se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che si può uccidere chiunque.»

«Perché l’hai ucciso? Cosa ti aveva fatto?»

«Come disse mio padre prima di uccidere mia madre, se vuoi un lavoro ben fatto, fallo da solo!»

«Cosa ti aveva fatto?»

«La cosa migliore di me è che ci sono molti me.»

«Lasciami andare, ti prego.»

«Se le persone che amiamo ci vengono portate via, perché continuino a vivere non dobbiamo mai smettere di amarle. Le case bruciano, le persone muoiono, ma il vero amore è per sempre!»

Si spostò ancora con una tranquillità che sembrava dominare l’intera situazione, movimenti che parlavano una lingua altrettanto strana, ma che almeno potevo cercare d’intuire; si trovava a circa due metri dal divano.

Anche se tutte le altre lampade erano spente, alla luce della cucina notai che adesso non aveva più nessun coltello in mano. La porta d’ingresso era chiusa.

«Le impronte appartengono a una certa Salander, la vittima era il suo tutore.»

«Chi è Salander?»

«Se la risposta non ti soddisfa, cambia la domanda!»

«Cos’è successo?» chiesi disperata.

«Sonja: Non hai nessun dubbio? Mikael: Lisbeth non ha ucciso nessuno, qualcuno sta cercando di incastrarla.»

«Chi ha ucciso il DJ?»

«Be’, c’è sempre qualcun altro, la nostra sacrificabilità è la sola cosa di cui si può essere certi in questa vita.»

«Chi è stato? Perché sei qui? Adesso chiamo la polizia.»

Più provavo a spaventarlo, più mi spaventavo io. Le frasi che dicevamo tutt’e due si incrociavano, viaggiavano parallele per un quarto di secondo, ma all’atto

pratico nessuno dei due ascoltava quello che l’altro aveva da dirgli. Io avevo provato a interpretare dopo un comprensibile momento di terrore, lui invece non mi ascoltava proprio.

«Dobbiamo ringraziare il destino per averci fatto uscire senza alcun danno da tutte le nostre avventure. Sia da quelle vere, che da quelle solo sognate.»

«Lasciami andare.»

«Il tuo cuore non parla mai, ma tu devi ascoltarlo sempre.»

Se solo avessi permesso a Manuel di accompagnarmi a quest’ora le cose sarebbero andate diversamente: in due e senza una pistola di mezzo si poteva scappare o provare a trattenerlo, mentre l’altro telefonava alla polizia. La mia stupida follia mi aveva portata ad andare da sola, ero arrabbiata, impaurita, il DJ era morto e un uomo mi stava trattenendo contro la mia volontà e soprattutto ero molto stanca.

Lui intanto continuava a parlare da solo, a volte mi guardava negli occhi come per sottolineare una frase a effetto, altre volte con lo sguardo rivolto verso il DJ sembrava parlare con lui, come rivolgendosi a un vecchio amico in difficoltà. «Jerry: Pronto? Voce Fuori Campo: L’Fbi farà irruzione nel tuo appartamento fra 30 o 40 secondi. Jerry: Chi parla? No, questa roba non è mia!»

«Vuoi dire che non sei stato tu?»

«Un brillante detective, il suo ultimo caso che soltanto lui può risolvere, un brutale serial killer che trasforma le sue vittime in opere d’arte. Deve trovare la soluzione e la chiave sta nel suo ato. Ora rimetterà tutto in discussione prima di diventare la prossima vittima.»

«Chi è la prossima vittima? Perché deve esserci?»

«Decidi se vuoi essere quello che è messo in croce o che pianta i chiodi.»

«Lasciami andare, ti scongiuro. Io non ti ho fatto niente. Perché mi vuoi coinvolgere?»

«Paul: I casi come questi rimangono irrisolti, non si riesce mai a collegare A con B. Thomas: E lei come lo sa? Paul: Perché sono io che impedisco di collegare A con B.»

«Mi sto sforzando di capirti, ma non ci riesco, chi è stato a uccidere François? Dimmelo o lasciami andare, non ne posso più.»

«Eric: Lei ha una sorella. Claire: Come dice? Eric: Perché non la chiama mai?»

L’uomo ora aveva rivolto lo sguardo alla finestra della cucina; immobile, mi diede le spalle in quella posizione per un tempo troppo lungo per non essere interpretato nella giusta maniera. Le sue parole cessarono come portate via da un colpo di vento, la sua energia che prima mi aveva messo in soggezione si era spenta all’improvviso. Era di fronte alla finestra, luogo in cui i miei sogni

partivano per pianeti sconosciuti e che tornavano senza la possibilità di raccontare niente. Per un istante mi balenò l’idea di chiedergli se anche lui avesse percepito quella sensazione. Poi, facendo attenzione a non fare rumore, infilai le scarpe, mi alzai dal divano lentamente, senza nemmeno respirare aprii con la massima dolcezza la porta di casa, scesi le scale ancora più lentamente e una volta aperto il cancello corsi alla macchina.

Le chiavi entrarono senza problemi, il motore non fece scherzi. Presi il volo allontanandomi da quella casa maledetta. Anche se non mi sentivo ancora al sicuro tenevo le mani salde sul volante e gli occhi puntati ora sulla strada ora allo specchietto retrovisore. Di fermarmi non se ne parlava nemmeno. Il tempo scorreva anche se io non me ne accorgevo. La notte era ancora presente, le strade sembravano tutte uguali, non riuscivo a raggiungere la via principale. Accelerai di nuovo come se la velocità potesse indicami la giusta strada da percorrere, la più breve e la più sicura e mentre maledicevo tutto e tutti, la rabbia divenne di colpo terrore.

Stavo riando a tutta velocità sotto casa del DJ, ero tornata indietro e non me n’ero accorta! Mi girai alla mia sinistra e all’altezza del cancello c’era quell’uomo che era quasi arrivato sulla strada, con le mani sembrava farmi dei cenni. Sfrecciai senza dargli il tempo di fare niente, sorai la villa e dopo poche curve mi ritrovai sulla strada principale, quella che portava in città. Non ero ancora al sicuro, tra lo choc per la morte del mio amico e l’ipnotica conversazione con quell’uomo avevano lasciato il segno. Lo sentivo anche se non potevo opporre nessuna resistenza. Quando arrivai alla centrale di polizia era quasi l’alba. Il cielo era diviso a metà, una parte luminosa e l’altra ancora avvolta nella notte. Fu la prima sensazione neutra che provavo, un dolce ricordo, una realtà che aveva smesso di essere ostile, la corsa era finita.

Un altro metro, un altro secondo e sarei scoppiata. La centrale di polizia era un edificio basso e ampio, a due piani; davanti al portone c’era una volante ma dentro non c’erano poliziotti ad aspettarmi. Le pareti di muratura abbellite da mattoni dal colore aranciato e dalle finestre solide e inaccessibili dall’esterno, mi

davano un senso di solidità simile a quello di una banca, sensazione che fui ben lieta di accogliere, nonostante lo sguardo fosse alla ricerca del pulsante di chiamata e per inerzia verso le macchine che avano per caso.

«C’è qualcuno? Mi aprite per favore? Ho bisogno d’aiuto.»

Trovai il camlo, ma non feci in tempo a suonare che il massiccio portone di legno si aprì con uno scatto.

L’entrata, superati dieci bassi scalini, mi condusse agli uffici privi di divisori e al banco delle informazioni che faceva anche da centralino, davanti ai quali probabilmente la mattina gli agenti sfilavano per raggiungere la loro scrivania in questo o quell’altro punto della sala. Anche se ancora non avevo visto nessuno, provai la dolce sensazione che provo quando d’inverno mi metto sotto il piumino e sono sul punto di addormentarmi, pronta a sognare, a cancellare.

Tre poliziotti in divisa mi guardavano senza dire una parola e per poco non caddi in terra, non sapevo se correre verso di loro o urlare a gran voce la paura che avevo appena attraversato. Vedendomi in difficoltà si diressero verso di me. Ora dovevo essere comprensibile. Raccolsi le mie ultime forze.

«Si calmi, mi dica cosa è successo.»

«Hanno ucciso, François, il mio amico DJ è morto.»

«Chi è François?»

Mi condussero nel seminterrato, in una stanza poco illuminata, ma confortevole, senza specchi, poi mi fecero bere dell’acqua chiedendomi se avessi bisogno di un dottore, non volevo niente, dovevo fare in fretta. Iniziai a raccontare la storia, la mia versione della storia. La cena dal DJ, una cena che facevo quasi ogni settimana, di come l’avevo aspettato e di come e perché avevo iniziato a mangiare, di quanto si fosse fatto tardi, del senso di colpa che mi aveva preso mentre tornavo a casa.

«Dopo un po’ che dormivo mi sono svegliata per bere dell’acqua e ho notato che in segreteria c’era un messaggio, il DJ diceva che voleva parlarmi, che voleva dirmi una cosa importante.»

Aiutandomi con gesti delle mani li informai che la porta della casa era aperta e che dentro, in cucina, c’era il cadavere del DJ steso sul pavimento, con la testa piena di sangue.

«C’era un uomo nella casa, aveva un coltello, parlava in modo strano.» La possibilità di fuggire, le scarpe che avevo tolto per non fare rumore, il fatto che quell’uomo mentre cercavo di scappare con la macchina mi stesse quasi per raggiungere.

«Non potevo fermarmi, temevo che mi stesse seguendo, sono fuggita, che potevo fare?»

Il poliziotto prese appunti e con una radio comunicò qualcosa di incomprensibile a un collega, mi chiese di descrivere a grandi linee l’uomo con il coltello, poi si alzò e uscì dall’ufficio.

«Stava scappando, ho visto che stava uscendo dalla villa.»

«Va bene, vado a controllare, lei rimanga qui. Se le serve qualcosa, chieda pure a lei.» La collega era apparsa dal nulla e quando voltai lo sguardo nella sua direzione scoprii la sua presenza dietro le spalle, stava parlando anch’essa alla radio.

«Fatemi venire con voi.»

«Non si preoccupi, lei deve rimanere qui, può essere pericoloso, è stata fortunata a uscirne viva, cerchi di rilassarsi, beva qualcosa, faccia colazione, si metta comoda su quella poltrona. La terremo informata.»

«Posso fare una telefonata? Il mio cellulare si è scaricato.»

L’agente mi ò accanto, scambiò un cenno d’intesa con la donna che aveva assistito al mio racconto e si allontanò dall’ufficio. Nonostante l’agente che era rimasta con me si prodigasse a farmi stare tranquilla, non riuscivo a rilassarmi: mi alzavo per poi risiedermi sulla poltrona, chiudevo gli occhi e di nuovo in piedi, parlavo, ricordavo il terrore provocato dalla vista di quell’uomo. Portarono del caffè e dei panini, ma non riuscivo a mandare giù niente, volevo uscire da quella specie di cantina, tornare a casa del DJ, stavolta in assoluta sicurezza, ne avrei avuto veramente bisogno.

Dopo un lasso di tempo che non riuscii a definire, dopo aver ceduto sul caffè, ci vennero a chiamare. Un altro poliziotto si avvicinò, parlottarono sottovoce

guardandomi fisso negli occhi.

«Venga con me, andiamo a casa del suo amico» mi disse la donna prendendomi sottobraccio.

«Cos’è successo? L’avete preso?»

«Dobbiamo andare lì anche noi, mi segua.»

Mentre uscivamo dalla centrale riai nel salone grande degli uffici, il sole faceva filtrare dalle finestre una luminosità inquieta.

Il desiderio di tornare nel luogo del delitto era stato esaudito; qualcosa però non mi convinceva fino in fondo, c’era nell’aria qualcosa di diverso che non seppi tradurre, parole sussurrate, una distanza resa ancora maggiore dalla mia posizione sul sedile posteriore della volante, mentre loro continuavano a parlare a bassa voce escludendomi da ogni discorso. Era come se non esistessi, i due poliziotti viaggiavano da soli, in quella città illuminata da un sole che sembrava l’unico a essere consapevole di quanto avvenuto poco tempo prima, come se la notte andando via gli avesse raccontato tutto prima di lasciargli il posto.

Quando arrivammo di fronte alla casa del DJ c’erano tre macchine della polizia, una se ne stava andando. Aprii lo sportello e l’agente che aveva lasciato la centrale per andare a controllare si avvicinò facendo segno al poliziotto alla guida di abbassare il finestrino. Mi guardava e non diceva una parola, senza un sorriso.

«Non c’è nessuno.»

«È scappato?»

«Non c’è nessuno in casa, non c’è nessuno di sopra e non c’è nessun morto in cucina, zero sangue. Tutto pulito, abbiamo controllato. La casa è vuota.»

«Come è vuota? Fatemi vedere.»

«Aspetti un attimo. Si calmi, devo chiederle alcune cose. Lei è sicura di quello che ha visto? Non si sta sbagliando con un’altra casa? Qui sembrano tutte uguali» disse guardandosi intorno in quel mattino dall’aria ritardata.

«Ci sono migliaia di dischi, sulle pareti? E allora è quella. No che non mi sono sbagliata, ci sono venuta tante volte qui, l’indirizzo che vi ho dato è questo, fatemi entrare e ve lo confermerò.»

Scesi dalla macchina e mi precipitai in casa, quando fui dentro notai i poliziotti presenti che giravano lo sguardo verso di me. Quando alle mie spalle apparve l’agente che avevo incontrato di fuori, con un gesto mi fece avvicinare all’interno della cucina. Non c’era nessun morto, il pavimento era pulito, nessuno parlava. La casa vista di giorno sembrava un altro posto, un luogo in cui non avevo mai messo piede, ero impietrita. Non osavo guardare nessuno, non per paura o per timore, era il pavimento ad attirare il mio interesse, pulito come non era stato mai; mi chinai per toccarlo e un braccio me lo impedì.

«Faremo delle ricerche più approfondite, ma a una prima occhiata non abbiamo rilevato tracce di sangue né qui né altrove. La casa è vuota» mi disse il poliziotto accanto a me. «Stiamo cercando di metterci in contatto con il DJ, ma ancora niente. Per maggiore sicurezza lasceremo una pattuglia all’entrata della villa: se arriva qualcuno saremo i primi a saperlo.»

Il poliziotto in fondo sembrava credermi, era prudente, questo sì, come lo sarei stata io: si atteneva non solo ai fatti che avevo descritto in centrale ma soprattutto a ciò che vedeva in quel momento, cioè nulla. Avevo seguito il suo sguardo quando nella sala degli interrogatori cercava di calmarmi senza trarre nessuna conclusione, prendendo appunti mi porgeva domande pertinenti sull’accaduto. Non si era mai allontanato da me durante la conversazione e non lo stava facendo adesso che mi sentivo più confusa e impaurita di prima; fu un gesto che apprezzai moltissimo, mentre mi mostrava il pavimento.

«Lo avrà portato via quell’uomo il corpo, non c’è altra spiegazione» gli dissi cercando di non farmi sentire dagli altri.

«Non c’è sangue e non ci sono sostanze che possono aver alterato la scena del crimine, non se ne sente il minimo odore.» Si avvicinò agli altri agenti che stavano esaminando il pavimento della cucina e con loro scambiò qualche rapida battuta.

«Se gli orari che ci ha detto sono quelli, non ci sarebbe stato modo in così poco tempo di cancellare tutte le tracce di sangue.»

«Ma è impossibile. L’ho visto, era qui con tutto il sangue sulla testa, com’è possibile?» dissi urlando e fregandomene di chi potesse sentirmi. «Lei mi crede, non è vero? Avrà usato qualche prodotto speciale, forse è un ex poliziotto, ne aveva l’aria, sembrava uno che è abituato a porre delle domande. Aveva la barba,

fatemi guardare qualche foto, forse lo riconosco.»

«Abbiamo ispezionato anche di sopra. Mi dispiace.» Controllò il suo telefono e si avvicinò di nuovo a me. «Venga, se vuole l’accompagno io a casa, la sua macchina la faccio portare da un agente. Dev’esserci una spiegazione, la troveremo.»

Il poliziotto uscì di casa precedendomi verso il cancello. Non volevo andare via o forse sì, stazionavo sulle scale davanti alla porta, guardavo tutto intorno a me cercando punti di riferimento, ricordi e sensazioni che potessero aiutarmi a capirci qualcosa. Una volta in macchina il poliziotto accese il motore e in silenzio ci allontanammo da casa del DJ.

Non riuscivo a crederci. Il DJ era in terra, morto. Mi tornava ancora in mente la profonda ferita che partiva dal sopracciglio sinistro e che scendeva fino all’attaccatura della mandibola, la carne squarciata. Quell’uomo doveva essere stato abile a pulire tutto o forse aveva messo sul pavimento un telo trasparente per poi rimuoverlo quando aveva portato via il corpo, ma questo non lo dissi al poliziotto, lo tenni per me: non avevano di certo bisogno dei miei consigli, già era tanto che qualcuno mi credesse. C’era il fatto che il DJ non era in casa e che continuava a non rispondere alle chiamate. Finché la polizia non avesse trovato informazioni su di lui, fino a quando non fossero riusciti a capire dove si trovasse, io ero una pazza visionaria a cui nessuno avrebbe dato ascolto. Ero seduta comoda nella macchina dell’agente quando cominciammo ad allontanarci dalla villa, costretta a interrompere le mie riflessioni perché la macchina si stava dirigendo nella direzione sbagliata, costeggiando la pineta.

«C’è mai stata?» disse indicando fuori dal finestrino con la testa.

«Come, scusi?»

«È la strada più breve per arrivare alla centrale, c’è mai stato nella pineta?»

«A volte, anzi, ci vado spesso.»

«Una volta in questa pineta scomparve un ragazzo, non qui da queste parti, ma sul lato opposto vicino a un altro comprensorio di ville. Poi però venne ritrovato, aveva perso la memoria. Adesso non so se l’ha riacquistata, il lavoro purtroppo ci sommerge e le cose ci si dimentica di aggiornarle.»

«Com’è successa questa sparizione, che fine aveva fatto il ragazzo?» chiesi.

«È stato trovato da alcuni suoi coetanei. Uno di questi durante l’interrogatorio ci raccontò di essere entrato di nascosto nella casa dei genitori del ragazzo scomparso, per sfuggire da qualcuno che stava inseguendo lui e i suoi amici. Non seppe dirci il perché, ma una macchina li tallonava da alcuni chilometri, non era della polizia e a bordo c’erano quattro uomini, poi c’è stato un incidente. Loro avevano tentato di accelerare e l’altra macchina li aveva presi in pieno. Abbiamo controllato; sul luogo dell’incidente c’erano solo la loro vettura distrutta e i resti di un fanale. Uno di loro, il ragazzo che ha ritrovato per caso lo scomparso, si era introdotto proprio in quella casa per cercare aiuto. I proprietari non erano in casa a quell’ora, non doveva esserci nessuno. Le ho condotte io le indagini, ormai sono ati dieci anni.»

«Come si chiamava?»

«Iacopo» disse l’agente, che durante il racconto si era una sigaretta con

singolare destrezza. «Aveva vent’anni quando accadde quell’evento; la madre raccontò che pochi giorni prima della scomparsa l’aveva visto strano, assente, ma aveva lasciato correre, poi però una mattina si erano svegliati e il figlio non c’era. Di solito usciva presto per andare a scuola. Nel pomeriggio tardi, non vedendolo e non ricevendo notizie dai suoi amici, ci hanno chiamato. Cercammo dappertutto, interrogammo anche gli alberi, non ha mai sentito parlare di questa storia? È strano, giornali e televisioni erano sempre in prima fila. Comunque non riuscimmo a scoprire niente, salvo il fatto che ultimamente i genitori avevano percepito che qualcosa stava avvenendo, soprattutto la madre. Quando stavamo nel pieno delle ricerche, una mattina ci chiamò il padre di Iacopo dicendoci che il figlio era tornato; con lui c’era un’altra persona. Quel tizio fuggito dal luogo dell’incidente era entrato scavalcando il muro di protezione, scegliendo a caso fra le varie abitazioni della zona, si era introdotto in casa e per nascondersi si era ficcato nel bagno. Ero di fronte a lui, nella sala degli interrogatori, quando descrisse la paura che aveva provato nel momento in cui qualcuno aveva tentato di aprire la porta chiusa a chiave. Si era messo a urlare scappando dalla finestra del bagno nel tentativo di sfuggire ai suoi inseguitori.

«Si trovò di fronte Iacopo. Non parlava nemmeno quando siamo arrivati noi, non ha detto una parola di dove era stato tutto quel tempo, non riconosceva i suoi genitori. Lo abbiamo portato all’ospedale, siamo andati ancora a parlare con lui e con i dottori, ma non spiccicava una parola, né un gesto né un disegno, niente. Dalle analisi sembrava non avesse subito violenze, anzi, era in perfetta forma. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto.»

La macchina si accostò al marciapiede e si fermò. Avevo ascoltato quella storia in religioso silenzio, forse troppo: anche se il mio cervello si ricordava quanto detto dal poliziotto, i miei occhi a fasi alterne si abbassavano cercando di riposare almeno un po’. Il poliziotto si girò verso di me, ma io non mossi un muscolo.

Rimanemmo ancora seduti guardando il traffico che scorreva al nostro fianco; le luci, i rumori sembravano così diversi dall’ultima volta che avevo fatto caso a

loro.

«Senta,» disse il poliziotto «capisco quanto sia preoccupata, tutto quello che le è accaduto dev’essere terribile, lei teme per la sorte del suo amico. Io le credo, veramente, l’ho fatto dal primo istante che l’ho vista, ma lì il sangue non c’è mai stato; può sembrare strano, per me lo è, immagino quanto lo sia per lei. Comunque continueremo a fare accertamenti, presto, molto presto avremo dei risultati più sicuri. Sinceramente non so cosa augurarle, mi dispiace.»

«Io ho detto la verità.»

«Dovrebbe are più tardi, anche nel pomeriggio o domani se vuole, ci sarebbe da firmare il verbale. Una semplice dichiarazione, niente di pesante. L’agente che ha portato la macchina rimarrà con un’altra volante sotto la sua abitazione, fino a quando non avremo capito cosa è successo. Se ci sono novità la chiamo, non si preoccupi, adesso vada a riposare.»

Un agente si avvicinò e dal finestrino mi ò le chiavi della mia macchina; eravamo sotto casa e non me ne ero davvero accorta.

«Quell’uomo, quello con il coltello, parlava di una sorella, ma il DJ non ha nessuna sorella.»

Appunti di innocenza

Ero così furioso e in modo così veemente che chi provava a comunicare con me, in una normale conversazione, non capiva mai di cosa stessi parlando. Non potevo dargli torto accecato com’ero dalla rabbia. Alcuni, che conoscevo in maniera superficiale, si allontanarono; quelli che invece tenevano di più a me si adeguarono in maniera inconscia trasformando il rapporto di amicizia nello studio di una nuova lingua, mai ascoltata prima da nessuno e sconosciuta a tutti. Non era un problema di grammatica, le frasi che pronunciavo erano in ordine; la cosa che scompigliava tutto era appunto che queste frasi non erano legate l’una con l’altra, mancavano della più semplice cronologia. Questo avveniva quando mi rendevo conto della situazione che dovevo affrontare, in pratica da quando aprivo gli occhi la mattina fino a quando ritornavo a dormire. C’erano comunque alcuni lampi di lucidità che resistevano alla definitiva vittoria della follia.

«La fortuna è bendata, le sventure invece sono cieche» dicevo in uno di quei rari momenti in cui potevo comunicare con gli altri senza essere scambiato per pazzo. Possedevo tutte le ragioni per pensarla così, per essere così arrabbiato, per comportarmi in quel modo: ero a tutti gli effetti un latitante, avevo perfino dovuto cambiare nome, mi facevo chiamare Matteo da quando ero scappato dall’aula del tribunale con la sentenza che mi alitava sul collo. Corsi fuori dal palazzo e presi un autobus al marciapiede di fronte, allontanandomi nel traffico della città, fra anti, macchine, taxi e mezzi pubblici con la lentezza di una barca a remi. Due poliziotti in particolare avevano provato a inseguirmi uscendo però dalla porta del tribunale troppo tardi, facendomi guadagnare un vantaggio sufficiente a dileguarmi. Vidi la loro auto di servizio allontanarsi nella direzione opposta al mio autobus, con le luci accese della sirena sopra il tetto.

Non sapevo bene dove andare né cosa fare, non avevo soldi né documenti con me. Elencai dentro di me quello che andava evitato. Non contattare nessuno che potesse essere ricondotto a me, non tornare a casa, uscire al più presto dalla città. Era ancora presto, la sentenza era stata pronunciata la mattina e da quello che

potevo capire era quasi l’ora di pranzo: alcuni eggeri sui sedili dell’autobus stavano mangiando panini. Arrivato al capolinea scesi e mi incamminai nei campi che circondavano i palazzi, senza guardarmi alle spalle. La prima cosa da fare era trovare del denaro. Ma dove? Quell’incertezza mi colpì come un pugno allo stomaco, non mi veniva in mente nulla, quello che riuscivo a fare era solo camminare e allontanarmi il più possibile, sperando che la direzione fosse contraria a quella della polizia. Prima o poi in quella campagna avrei incontrato una fattoria e avrei lavorato lì. Qualunque cosa mi avessero chiesto di fare l’avrei fatta; per il resto non pensavo a nient’altro, almeno per il momento tornare in città era fuori discussione. In un’azienda agricola anche se avessi guadagnato poco avrei avuto comunque un tetto sopra la testa, un posto dove dormire. Di andare nei boschi non era proprio il caso. Se c’era una speranza ero deciso a sfruttarla nonostante il rischio di entrare in contatto con altre persone, anche se le foto di me fuggitivo sarebbero state fatte circolare entro qualche ora. In fondo non c’era altro da fare.

Durante quel primo giorno di fuga ero perfino rassegnato a essere preso nel giro di poco tempo, mi aspettavo di tornare in cella a bordo di una macchina piena di luce e velocità. Ma non volevo andare dentro. Per quanto fosse veloce l’istruzione di un altro processo sarebbe ato almeno un altro anno. Fra le altre cose avevo il dubbio e perfino il convincimento che anche se fossi stato giudicato una seconda volta il verdetto sarebbe stato identico, colpevole. La rabbia proveniva da questa sicurezza, dalla certezza che tutti quelli che avevano stabilito la mia colpevolezza, avvocati, giudici, poliziotti, ognuno a modo proprio, si erano fissati solo su di me, un giudizio immediato e negativo da cui non erano mai usciti. Avevo cercato in tutti i modi di convincerli, di fargli cambiare idea, urlando la mia innocenza contro chi invece descriveva i misfatti che io avrei compiuto. Niente da fare. Ventisei anni. Mentre camminavo in mezzo a prati e boschetti che decoravano il paesaggio come nei sulla coscia di un gigante, mi accorsi d’avere le scarpe piene di fango, scarpe da tribunale inadatte a quella strana eggiata, così come i vestiti e tutto il resto.

Mi diressi verso una piccola insenatura di fianco alla strada, per cercare dell’acqua in qualche bottiglia abbandonata e dove per fortuna trovai una cascatella che scendeva dal lato della collina.

Le scarpe furono le prime a essere lavate, poi i pantaloni, che però erano ridotti veramente male; impiegai molto tempo a pulire tutto quello che era possibile. Trattori e macchine avano con tanta fretta da neanche notarmi. Il risultato fu accettabile, così accettabile da farmi decidere che era il momento di chiedere un aggio. Le distanze erano più lunghe di quanto avessi pensato e, se volevo raggiungere almeno una fattoria prima che fe buio, dovevo spostarmi in macchina. Lo trovai subito; le cose belle ti accadono nel momento del bisogno, l’esperienza me l’ha insegnato. Un furgoncino bianco si fermò ancor prima che potessi girarmi e alzare il braccio.

Al volante c’era un uomo robusto, calvo, con barba e baffi che gli arricchivano delicatamente il viso; era vestito tutto di bianco e dopo avermi fatto salire mi chiese se mi andava una sigaretta. Si chiamava Andrea e gli mancava la mano sinistra.

Mi presentai col mio nuovo nome: «Piacere, io sono Matteo».

Gli chiesi se poteva accompagnarmi alla fattoria più vicina. L’uomo scoppiò in una lunga risata, delicata come la sua personalità dimostrava, una nobile risata che riuscì a conquistarmi nonostante i mille pensieri che correvano dentro. Andrea abitava in quella che io chiamavo una fattoria, ma che in realtà era un caseificio, dove fra le altre cose il latte che usava non era neanche il suo, così disse. Non pretendevo di girare intorno alla cosa fingendo cordialità, quindi gli domandai subito se gli serviva qualcuno che andasse a lavorare per lui. Il lavoro c’era, ma da dormire no.

Andrea abitava da solo e la casa era troppo piccola per due persone, soprattutto per lui che ci abitava da troppo tempo per condividerla. Mi disse che si fidava di me, ma non fino a quel punto, almeno per il momento. Ci fu un periodo di silenzio dove tutt’e due guardavamo la strada inghiottita dal furgone. Andrea

guidava grazie a una piccola manopola fissata sul volante, che lui girava con la parte monca del braccio sinistro, mentre con la mano sana cambiava le marce o correggeva la direzione quando la strada si faceva più difficile.

Dopo una curva che aveva necessitato dell’aiuto della mano, mi confessò che una sistemazione forse c’era, ma dovevo adattarmi molto. Quello che poteva offrirmi era il retro della cantina, dove c’erano attrezzi e macchinari abbandonati. Per poterci stare con un letto dovevo fare spazio a mobili e attrezzi che lui non usava più; c’era comunque un bagno. Mi spiegò che dovevo fare tutto da solo però, non tanto per la sua mano che mi mostrò abbandonando il volante su un rettilineo, quanto perché c’era da fare il formaggio. Anzi, prima avremmo fatto il formaggio e poi avrei potuto occuparmi del mio letto.

«Il lavoro è semplice,» mi annunciò senza guardarmi «tu lo impari e lavori per me. Non ci saranno problemi, almeno da parte mia. Lavorare ti farà bene, non sembri uno che è adatto alla campagna, sembri piuttosto un avvocato. Come hai detto che ti chiami?»

«Matteo» risposi.

Quel nome era stato il primo a venirmi in mente mentre salivo sull’autobus con i poliziotti che mi inseguivano. Non ebbi ricordo solo del nome ma di una persona, un amico che non vedevo da tanto tempo, a cui mi ero sentito sempre molto legato, ma che durante il processo non era mai venuto a trovarmi, neanche una telefonata, niente. Tenendo il braccio sul finestrino, con un occhio scrutai lo specchietto retrovisore, poi chiesi ad Andrea se nelle vicinanze ci fosse un campeggio.

«Un ospedale, invece?» chiesi ancora, cercando di non fargli capire quanto per me fossero importanti quelle informazioni.

Avevo sempre avuto durante la preparazione della fuga la convinzione che andarsi a rifugiare in un campeggio, lavorare lì o confondersi con il resto dei turisti, dormire in tenda, potesse servire a are inosservato. Un’altra idea era quella di andare in un ospedale, nella sala d’aspetto di un pronto soccorso o di un ambulatorio, far finta di star male, far are avanti delle persone se era il caso e quando fosse toccato a me, accusare un forte mal di stomaco, una colica. Queste soluzioni d’emergenza mi erano venute in mente nel corso degli ultimi tempi, un po’ per un’idea di un posto sicuro e un po’ per aver visto troppi telefilm polizieschi. Il campeggio mi aveva sempre ispirato, un luogo dove avevo visto susseguirsi solo persone che nell’intimità delle loro tende o dei loro camper conducevano una vita assai riservata, una discrezione più alta rispetto a quella che avviene fra vicini di casa o di stanza. L’ospedale, invece, quando ero arrivato con un problema o accompagnando un amico, quando mi era capitato di aspettare, mi aveva sempre mostrato una situazione in cui le persone sono chiuse nel loro dolore, con l’unica motivazione di farsi visitare e poca voglia di fare conversazione.

La fattoria era sicuramente la scelta più opportuna e con le migliori prospettive, non dovevo lasciarmela scappare.

«Non ci sono ospedali né campeggi da queste parti. Ma che ci devi fare con l’ospedale?»

«Niente, ho solo un po’ di mal di stomaco.»

«E il campeggio?»

«Volevo andare a chiedere lì se gli serviva una persona, mi sarebbe piaciuto

lavorare in un campeggio, ma poi ho incontrato te e quindi è meglio così.»

I residui di quanto mi ero lasciato alle spalle erano veloci e, anche se non vedevo nessuno apparire nello specchietto, sapevo e sentivo che c’erano. Le indagini, il processo, la sentenza e poi la fuga, tutto in pochi istanti, doloroso e pesante come non avrei mai immaginato, sensazioni così nitide che ne sentivo la violenza sul mio stesso corpo. Amare, desolanti al punto da farmi pensare che fosse l’aria a procurarmi quel cambiamento d’umore improvviso.

Ritrassi il braccio e chiusi il finestrino. Ho cominciato ad amarla dal primo istante che l’ho vista, usava dire un mio amico che lavorava nell’universo parallelo del trasporto pubblico, quando mi parlava dell’incontro con sua moglie. Sguardi che si erano avvicinati e mani che si erano sfiorate, con la stessa meraviglia di uno speleologo che scopre una grotta inesplorata. Niente di tutto quello che stavo ando ora si avvicinava a un tale incanto, soprattutto dopo che mi avevano condannato per omicidio e per occultamento di cadavere.

«Non avete capito niente, anche lei, avvocato. Non ha capito niente, come avete potuto giudicarmi e condannarmi?» avevo detto alla fine del processo, con tutto il fiato che possedevo. Avevo avuto una storia con lei, un approccio immaginario e non per questo meno intenso, ma era durata troppo poco. Le indagini erano partite con il piede sbagliato, erano intervenuti anche dei poliziotti di città, sicuri di sapere tutto, certi già dall’inizio della mia colpevolezza. Mi avevano interrogato più di una volta in quanto persona che l’aveva vista per ultimo, sapendo che non era vero; con il are del tempo, in una squallida sala nei sotterranei della centrale di polizia, anche se continuavo a professarmi innocente, venni arrestato. Ricordo ancora quelle domande che si insinuavano dentro, cercando dei collegamenti dove non ce n’erano e creandone di nuovi quando quelli appena esaminati si dissolvevano in circostanze vaghe. Domande a cui risposi dicendo la semplice verità, ma più cercavo di allontanare i loro sospetti più questi ritornavano con più forza, un elastico che non si spezzò mai.

«Dicci dove hai nascosto il cadavere.»

Me lo chiedevano di continuo. Non c’era stata nessuna confessione, ma questo sembrava un dettaglio di poco conto: lo stesso avvocato che cercava di difendermi fece capire che se avessi confessato, la pena sarebbe stata più lieve. Io continuavo a dire la verità, eppure mi avevano processato e nel giro di poco tempo condannato a ventisei anni per un reato che non avevo commesso.

Andrea, all’oscuro di tutto, guidava il suo furgoncino tra le lunghe vie che attraversavano la campagna, lo sguardo rivolto verso l’orizzonte, verso una direzione opposta alla mia precedente vita.

L’avvocato, un uomo giovane e dallo sguardo profondo che trasmetteva sicurezza e fiducia, aveva fatto di tutto per non farmi condannare, ma anche lui era stato costretto a misurarsi con una sentenza già scritta prima dell’inizio del processo.

Ero arrabbiato, certo, e per non farlo notare ad Andrea rimasi zitto, anche ne avrei avute di cose da dire; invece mi addormentai o almeno provai a dormire, il cervello non permetteva cali di tensione. Consideravo tutti dei figli di puttana bastardi da manicomio, senza il mio amico non ce l’avrei mai fatta, ero pieno di rabbia. Come potevo dormire?

Quando aveva avuto successo quel diversivo che mi aveva fatto eludere la sorveglianza, il sangue era impegnato a correre insieme all’adrenalina, a fuggire con l’aiuto di Bob. Una fuga che un attimo prima che iniziasse, durante il breve colloquio con il mio amico, mi aveva disorientato, smarrito, ancor prima di mettere in moto i muscoli. Potevo solo far finta di non provare quei sentimenti, con l’occhio destro che scrutava la strada, in quel furgone che attraversava le verdi colline, con la stessa incertezza di una eggiata sotto la pioggia. Mi

tornò in mente una frase che Bob mi aveva detto prima di allontanarsi e cercare di farmi guadagnare tempo con i poliziotti: «Mi dispiace, io non sapevo. Non potevo sapere una cosa del genere, neanche lui immaginava».

Con le urla degli uomini dietro di me che cercavano di trattenerlo, di farsi spazio e corrermi dietro, le sue parole, che al contrario degli agenti erano riuscite a are, le portai con me anche se non ne conoscevo il senso. Di cosa si doveva scusare Bob? Ero io che lo avrei ringraziato per sempre. Avrei voluto chiamarlo per chiedergli spiegazioni, ma decisi che era giunta l’ora di riprendermi: le telefonate non sarebbero state ammesse per tanto tempo, forse per sempre. Il tempo finalmente aveva ricominciato a girare nel senso che conoscevo, seppur in grembo a una serie di incertezze che non mi lasciavano in pace. Poco a poco riconobbi il conforto che il lavoro mi infondeva, per di più regalandomi un’amicizia inaspettata. Una notte, dopo circa due mesi che lavoravo al caseificio, era Pasqua, con Andrea organizzammo un barbecue, carne e formaggio alla brace, un’insalata che non mangiammo mai e tanto vino. Il laboratorio sarebbe stato chiuso tutto il giorno e davanti a me c’era una sana volontà di riposo da quel lavoro che, da quando era iniziato, non mi aveva fatto fermare neanche la notte quando dormivo, pieno di volontà di imparare com’ero, grato per quell’opportunità piovuta dal cielo. Durante i pochi minuti che precedevano il sonno su quel piccolo letto introdotto con difficoltà in cantina, cercavo sempre di innovare qualcosa: un ingrediente che poteva essere cambiato, diminuito, messo insieme a un altro…

Alla seconda bottiglia di vino non resistei più, troppo tempo senza parlare, troppo tempo a badare solo a me stesso, dovevo confessare a qualcuno la mia innocenza.

In tutto quel tempo, grazie alla complicità Andrea, non avevo avuto contatti con nessuno, chiuso nel laboratorio off limits per tutti, dormendo in quello stanzino senza finestre e senza porta, con un lenzuolo usato per dividere i due spazi. Quella sera per la prima volta decisi di allentare le difese, lasciarmi andare in un fiume di parole che rischiò di farmi annegare.

«Sono tutti degli stronzi pezzi di merda» dissi a voce alta facendo versare inavvertitamente il vino sul prato. «Ma lo sai che faccio? Se ne incontro uno lo ammazzo. Se dovessi incontrare il giudice per caso ti giuro che lo ammazzo, pezzi di merda, stronzi, andate tutti affanculo.»

«Christian, tu sei matto.»

Gli avevo detto il mio vero nome, anche lui si fidava di me, non avevo dubbi su questo, potevo stare tranquillo, avevo dimostrato chi ero anche senza i discorsi di quella sera: non poteva sfuggire a nessuno la mia vera condizione, quella di un uomo che con tanto impegno si dedicava al suo lavoro. Ero innocente e le parole che mi uscivano dalla bocca, anche se astiose e colme di violenza, erano soltanto uno sfogo.

«Tu ti rendi conto in che casino mi hanno messo questi? Io devo tentare di trovarla, non posso credere sia morta, se ci riesco riuscirò a provare la mia innocenza.»

«Christian, devi mettere in conto che potresti trovarla morta. Sei già nei guai, non peggiorare la situazione.»

«Morta?» chiesi risvegliato da quella parola, una sensazione di cui avevo sempre conservato il peso dentro la testa e che invece di farmi infuriare di più, mi calmò.

«Bevi un altro po’ di vino.»

«La devo trovare.»

Pensavo a lei giorno e notte, da quando riscaldavo il latte nella caldaia a quando separavo il siero imprigionato dentro la cagliata, sogni e incubi si susseguivano durante la notte e mi tenevano sveglio e attento.

L’avevo conosciuta alla festa del piccolo paese dove abitavo, un evento che allietava l’estate calda di un paesaggio immobile. Un avvenimento che richiamava sempre tante persone sia dai paesi limitrofi sia dalla città. Come sempre avveniva, ero arrivato quando ancora il sole non era calato completamente, quando i tavoli apparecchiati con tovaglie di carta colorata erano messi a dura prova dalle folate di vento caldo che spazzava la piazza.

Il mio tavolo preferito era quello vicino alle cucine, il più lontano possibile dalla musica, dove forse con l’aiuto della birra si poteva fare conversazione; lei era di fronte a me. Le ordinazioni venivano fatte prima di mettersi seduti, non c’era la fila, molti ragazzi volontari sempre in movimento servivano ai tavoli, una cosa questa che mi aveva sempre fatto sentire come a casa. L’essere seduti nella piazzetta del paese con il sole che stava per tramontare, con la prospettiva di are una splendida serata, era veramente il massimo.

Il suo viso mi apparve per la prima volta come una figura triste. Il suo sguardo nascondeva pensieri non condivisibili con chiunque, e fu proprio questo a darmi il coraggio di invitarla al mio tavolo. Non sapevo che dire e improvvisai.

«Lì dove sono seduto io fra pochi minuti ci sarà ombra naturale.»

Lei rispose con un sorriso pieno di delicatezza soffice, poi divenne seria e mi spiegò che lo staff aveva il numero del tavolo in cui era seduta e che temeva di creare confusione.

«Neanche io ti ho mai vista di giorno, lavoro in città e la sera torno a casa stanco. Sai come vanno queste cose. Poi negli ultimi tempi vado spesso a trovare un amico che sta formando un gruppo, gli do una mano con il suono.»

Nonostante ridesse insieme a me e si interessasse ai discorsi che tiravo fuori con l’abilità di un mago, manteneva un certo distacco, come se avesse tutt’altro nella testa, uno sguardo che attraversava lo spazio intorno, noncurante degli ostacoli che incontrava, diretto e preciso verso il suo inevitabile destino.

«Fottuti bastardi. Come hanno fatto?»

«Non ci pensare, vado a mettere del pecorino a cuocere, ne vuoi?»

«Sono solo dei bastardi. Secondo loro quello era un processo, ma ti rendi conto?»

Avevo appena iniziato a frequentarla, a conoscerla meglio, ad apprezzare l’odore dei suoi capelli. Di colpo era sparita. Dopo neanche una settimana da quando l’avevo incontrata. Eravamo stati insieme a cena a casa mia, verso le due di notte aveva detto di sentirsi stanca e che voleva tornare; io le avevo proposto il letto, avrei dormito sul divano. La sua risposta fu un bacio veloce sulle labbra. Se ne andò con un sorriso. Fu l’ultima volta che la vidi. Se n’era andata come faceva sempre, poi nessuna notizia. Gli interrogatori, le ricerche, le manette, il processo, la fuga grazie a Bob, lei che non c’era più, una strada interrotta, un semaforo che

segnava da troppo tempo il rosso. Seppur breve, quell’incontro era rimasto ancorato alla mia vita, poteva sfuggire e regredire a un semplice aggio, ma vuoi per le vicissitudini legali, vuoi per quello che aveva rappresentato, da esso non avevo nessuna intenzione di allontanarmi.

Per la prima volta lo stavo raccontando a qualcuno, acqua che non vedeva la luce del sole da troppo tempo, che sgorgava dalle fondamenta, un liquido dal colore torbido e dall’odore tetro.

«Non puoi capire quanto era bella, dentro e fuori, su ogni lato e ogni curva, su ogni dosso e in qualunque momento, aveva l’iride della bellezza, emanava gioia e innocenza allo stesso tempo, pur mantenendo una forza incredibile.» Iniziai a esprimermi con una voce strozzata dalle lacrime, feci uno sforzo sovrumano per resistergli e alla fine ci riuscii. «Non abbiamo mai fatto l’amore nonostante ci desiderassimo a vicenda. C’era qualcosa che la bloccava, non mi ha mai detto cosa, ma suppongo fosse solo prudenza, avrei aspettato il tempo necessario, non mi sarei mai sognato di rovinare tutto. È successo così in fretta, dopo una settimana che ci frequentavamo lei non c’era più, sparita.»

«Mi dispiace. Vuoi una sigaretta?»

«Stronzi, sono dei pezzi di merda. Mi hanno messo in mezzo perché la frequentavo, pensa che intelligenza investigativa che si sono inventati, quando si dice l’intuito, intuito di merda.»

«Prima mi hai detto che c’entrava anche un DJ.»

«Ma che cazzo ne so! Mi hanno messo in mezzo quelle teste di cazzo, ecco cosa

sono, delle teste di cazzo.»

«Chi era questo DJ?» chiese Andrea.

«C’entrava qualcosa, ma non c’entrava un cazzo, almeno non con me.» Accettai la sigaretta e iniziai a fumarla con avidità. «Era sparito, poi non era sparito, poi era sparito, io non l’ho mai conosciuto. So solo che era stata lei a denunciarne la scomparsa due settimane prima che ci incontrassimo, si è parlato anche di questo al processo, ma a me non fregava un bel niente di lui. Quel giorno Bob non c’era, tutta quella solfa sul DJ mi aveva fatto innervosire, cercavano di collegare tutto alle mie responsabilità, qualunque cosa uscisse dal dibattimento ero stato io, ne ero responsabile secondo loro, ma ti rendi conto? Io sono innocente, ma come cazzo gliel’avrei dovuto far capire secondo te?»

Le risposte non arrivarono, forse intimidite dalle domande che con forza brutale avevano conquistato la piazzetta dietro il caseificio, una banda di domande che bevevano e tiravano calci ai bidoni, cantando e inveendo contro se stesse. Era una serata piena di luce e non troppo fredda, il barbecue riscaldava il tavolino che avevamo piazzato lì davanti, seduti su due comode sedie reclinabili. Viaggiavo con la mente a fasi alterne, da una parte ricordavo e nello stesso tempo spiegavo sfogandomi come meglio potevo, dall’altro speravo di trovare un filo da seguire, qualcosa con cui ancora sperare.

C’erano momenti in cui odiavo tutti quelli di cui conservavo il ricordo, arrivai a detestare perfino le persone a cui volevo bene, chi avevo incontrato o conosciuto per caso, anche i cani. Tutti meno che una persona sola, la donna che amavo, Chiara. Ero stato segnato da quella esperienza e quello sfogo non era che un anticipo delle conseguenze a cui pensavo di andare incontro. Era ato quasi un anno, ma non mi ero dimenticato di lei.

«Ho visto che ti sei messo a dipingere. Sei bravo, dove hai imparato?»

«Bravo a dipingere forme di formaggio?» dissi mostrandone un pezzo che avevo preso dalla brace ormai spenta. «Mi diverto, quello sì, considero il formaggio oramai una figura artistica, un modello diligente, sfrutto solo quello che ho in laboratorio, se fossi un topo sarei felice tutta la vita, ma non ci somiglio nemmeno. Non può andare così per sempre, mi sono stancato di vivere una vita che non è la mia.»

«Devi restare. Ti stanno cercando anche adesso, non devi abbassare la guardia, non fare sciocchezze, dammi retta.»

«Lo sai che abbiamo fatto la prima sera che ci siamo visti?» dissi con gli occhi che continuavano a bagnarsi. «Siamo andati con qualche amico a casa mia, per continuare a stare insieme dopo che la festa in piazza era finita. Con noi è venuta anche la mia ex, Claudia. Eravamo parecchi e ci stavamo divertendo, abbiamo messo la musica e abbiamo ballato, il volume era esagerato. Le persone si sono piano piano dissolte, siamo rimasti io e lei a parlare, lei mi prendeva in giro dicendomi che quando mi ero avvicinato al suo tavolo si era spaventata, poi invece sentendomi parlare le era sembrato tutto più semplice. C’era la musica di sottofondo che andava per tutta la casa, non sapevo chi ci fosse ancora, ma a me non importava niente, stavo bene. Mentre parlavo con lei vidi Claudia con il mio cuscino fra le braccia scendere le scale e andarsene. Non ho mai avuto tempo e modo di chiederle che cosa fosse successo, non mi importava, neanche adesso. Mentre la guardavo pensavo che se il prezzo doveva essere un cuscino, be’, poteva andarmi molto peggio, te lo assicuro.»

«Ti capisco, anch’io ho avuto una bella storia simile alla tua, molti anni fa. Io però non avevo incontrato la donna della mia vita, avevo incontrato mia moglie.»

Mentre lo ascoltavo parlare, intento a raccontare di musica di piazza durante una delle tante feste di paese, la mente tornò ancora a Chiara: cominciai a pensare alla sua energia, una forza d’animo che non avevo mai visto in nessuno, tantomeno in una donna. Il sorriso dei suoi occhi, i suoi gesti, la sua curiosità. Non potevo fare altro che tornare e ritornare su quei fugaci momenti consumati, probabilmente già consapevole che sarebbe finita presto. Adesso che ci ripenso sono sicuro che dentro di me, almeno una piccola parte, anche se il resto del corpo godeva di quell’incontro, lo pensava. Ripensavo a quello che le avevo detto, ai baci sfiorati e silenziosi, un contatto che mi aveva regalato la gioia di vivere, una felicità che mi era stata d’un tratto negata senza spiegazioni.

«Vedrai che prima o poi si risolverà tutto» diceva Andrea.

«E come? Producendo formaggi in una cantina senza mai vedere nessuno? Quelli sono convinti che sia io il colpevole, cercano solo me, non indagano su qualcun altro.»

Pensavo spesso a quei baci, così innocenti e carichi di ione, avevano un profumo particolare che purtroppo avevo dimenticato, cercavo di farli tornare nei miei ricordi ma non ci riuscivo. Ero convinto che con il tempo forse lei mi avrebbe svelato i suoi segreti, ciò che non le permetteva di allentare la tensione che teneva nascosta, ma che io riuscivo a vedere. Ero arrivato a pensare che forse era colpa mia, la presenza, il mio modo di fare, qualcosa che avevo detto, ma lei non me lo fece mai credere, ogni suo gesto mi rassicurava, mi metteva in pace, calmava le mie paure.

«Ma lo sai che anche mio fratello pensa che io sia colpevole?» dissi girandomi verso di lui questa volta senza il pericolo di scoppiare a piangere. «La prima volta che mi ha visto, che è venuto a trovarmi, mi ha sputato in faccia e mi ha detto di non farmi più vedere, altrimenti mi avrebbe ammazzato. Mio fratello! A volte penso sia giusto lasciarmi andare, consegnarmi alle autorità, poi mi vengono in mette le sue labbra e allora tutto torna al livello di guardia, sconforto

totale senza panico. Ecco come vivo. Devo fare qualcosa.»

Nonostante avessimo finito di mangiare non ci era ancora venuta voglia di ritornare in casa. Ce ne stavano davanti alla brace in silenzio alternato; siccome iniziava a fare freddo avevamo rimboccato il braciere con altra carbonella e qualche legnetto.

«Il processo.» Le parole mi uscivano libere e tranquille. «Più ci ripenso e più mi viene voglia di spaccare tutto, un processo più farsa di quello non esiste sulla faccia della Terra. Dovevano incolpare qualcuno per la sparizione di due persone, di cui una neanche la conoscevo e a chi hanno pensato? Volevano condannarmi anche per la sparizione del DJ, ma tu ti rendi conto? Se ne avessero avuto la facoltà l’avrebbero fatto, una seconda condanna che confermava la prima, bingo. Per loro è solo un gioco. Non immaginano nemmeno quale sia la verità, quel canale del loro cervello è otturato da una frana fossile, da quella parte non si a, il fatto che possano ricredersi è fuori dal mondo. Io non ci credo più.»

«Come fai a dirlo?»

«Sono altre le prove che devono riesaminare con i loro occhi, non basta presentarsi lì e dire: “Io sono innocente, non ho né ucciso Chiara né occultato il suo cadavere, potete approfondire per favore?”. Ho un presentimento, credo che lei non sia morta; potrebbe essere viva da qualche parte, forse in pericolo, ma più ci penso e più non ci capisco niente. L’unica cosa che so è che devo fare qualcosa.»

Il giorno dopo, mentre mi allontanavo dal caseificio in una mattina fredda e ancora buia, mi apparve, come se fosse una persona in carne e ossa venuta a salutarmi, la certezza che stavo facendo la cosa giusta. Non quando mi svegliai e

neanche durante la rapida preparazione del bagaglio, solo quando uscii e mi trovai immerso in quella nuvola umida che mi stava aspettando. Questa assurda idea che avevo della nebbia era legata a me per via di un evento accaduto molto tempo prima, quando intorno ai vent’anni durante un concerto che durava tre giorni e in cui gli spettatori dormivano nelle tende, una mattina decisi di abbandonare gli amici e tornarmene a casa senza uno specifico motivo. Un mare di tende avvolto in una nebbia che ne nascondeva forme e colori. Ero uscito fuori dalla tenda e la nebbia aveva subito incrociato il mio cammino, avvolgendomi in una fredda ma sicura coperta che nascondeva la musica, le persone, il tempo ato a cercare gli amici che puntualmente perdevo dopo il terzo gruppo, mostrandomi solo la strada verso la stazione, la mia strada.

Non c’erano ragioni sufficienti che potessero fermarmi nelle parole scambiate con Andrea fino a tarda notte, lusinghe, timori, riflessioni ponderate che giocavano con il senso di colpa, nulla di tutto questo riuscì a bloccare la fuga. La notte lasciò il posto alla luce che lentamente illuminò i i, nello stesso modo che avevo già vissuto tanti anni prima. Una donna che amavo ancora e che per un attimo credetti mi stesse seguendo fu il primo pensiero che ebbi. Una sorta di dedica che volli concedermi e che indirizzai a Chiara, un sentimento che sentivo di dover conservare gelosamente, un nome il cui suono mi faceva rivedere il sorriso dei suoi occhi, una piccola brace che avrei portato con me. Era l’unico modo che conoscevo per trattenere l’incanto dei suoi capelli che le ornavano le spalle, le orecchie, tutto il corpo. Quest’emozione mi colse di sorpresa, perché adesso ero di nuovo solo e senza difese, non c’era più una rete che poteva mettermi in salvo. Mi faceva male la testa.

Allo stesso modo però un altro tipo di rete, stavolta fatta di persone e di agenti di polizia, stava per incrociare il mio cammino, cercando in tutti i modi di catturarmi. In un istante tutto intorno a me modificò il suo peso: divenni un uomo a contatto con una gravità più pesante, arrivai perfino al punto di credere che scappare da quel lavoro che mi aveva tenuto libero e in vita fosse la cosa più sbagliata del mondo. Abbandonai subito la strada, ne fui costretto, sembravo un ubriaco; mi sedetti su un grosso sasso con l’intento di riprendere fiato e ragionare, al riparo da alberi e cespugli che per il momento, e ancora per poco, mimetizzavano la mia presenza. Avevo dei fogli con me, che conservavo da

sempre, scritti da Chiara e che lei mi aveva regalato poche ore prima che si dissolvesse nel nulla. La sera prima che scomparisse, rimanemmo a parlare per ore. Fu una notte bellissima e nello stesso tempo tragica: lei sembrava particolarmente ispirata e io la accompagnai fino in fondo. Quella fu l’ultima volta che la vidi.

«Non è una cosa che mostro così facilmente alla prima persona che incontro. Se posso dirla tutta, mi vergogno anche. Tieni, sono dei fogli in cui ho scarabocchiato delle idee che mi sono venute in mente in tutti questi anni, è una specie di diario pseudoscientifico. Io ne ho una copia, tienili qui in casa e dimmi cosa ne pensi.»

Il riflesso condizionato è una reazione prodotta nell’animale in cattività da un elemento esterno, per sua natura inadatto a produrre una data reazione e che l’animale si abitua ad associare a un preciso stimolo. Questo riflesso può essere instaurato creando una correlazione obbligata fra il primo stimolo e un altro cui invece fa normalmente seguito la risposta. Questo esperimento, seppur realizzato più di cento anni fa, rimane un esempio di come il nostro sistema nervoso può essere condizionato a comportamenti e modi di essere. Negli ultimi tempi ho studiato lo spiaggiamento dei cetacei, ma non sono riuscita a trovare molto. Ci sono teorie che non coincidono. Sono riuscita a sentire alcuni esempi di suoni emessi da gruppi di balene anche molto distanti fra loro e ho notato una certa somiglianza con i suoni che può emettere la radio di una nave. Gli scienziati più sbrigativi sono convinti che molte balene udendo questi suoni ne vengano confuse percependo analogie con la loro lingua; di conseguenza si perdono, come spesso accade. Ma io non ne sono convinta. Credo che le balene abbiano un loro linguaggio e addirittura un proprio dialetto; la storia delle radio delle navi o dei sommergibili che le confondono è una balla. Non conosco ancora il motivo, ma credo che lo spiaggiamento involontario sia legato a questo canto oscuro e affascinante, vedremo. È come se tutti gli animali avessero dei sensi più sviluppati dei nostri, questo perché noi li abbiamo fortificati, protetti da un nemico che forse non si farà mai vedere e che volendo potrebbe colpirci durante il sonno. Abbiamo continuato a camminare come inseguiti da qualcuno senza riflettere su quello che ci stavamo lasciando alle spalle, stimoli che loro hanno e che a noi mancano. È come se svilupero i loro sensi di base per sopperire

alla possibilità di immaginare il futuro, un futuro che noi progettiamo, mentre loro, non potendolo evocare, è come se si fossero appropriati del riflesso condizionato per leggere in maniera limpida e inequivocabile il mondo intorno a loro. Il linguaggio mi ha sempre affascinato, sia quello dell’uomo che quello degli animali, le espressioni corporee degli uccelli soprattutto, anche se l’ornitologia non è il mio forte, quelle comunicazioni infinite che non potrò mai imparare a imitare. Vorrei tanto un giorno, se incontrerò una persona simile a me, poter condividere con lui questa ione che ho imparato solo superficialmente a dominare; credo proprio che riuscirò ad andare a fondo al problema, a questa sorta di porta magica che tanto sto inseguendo.

Più rileggevo quei fogli e più la amavo, anche ora che di notte me ne stavo seduto sotto le stelle in un bosco fuori città, anche se quell’incontro aveva per sempre cambiato la mia vita, in peggio per il momento. Avevo sentito il suono che diffonde la balena sotto il livello del mare, me l’aveva fatto sentire lei in una registrazione. La prima volta mi fece spostare dalla sedia a una poltrona vicino alla console del computer, spense tutte le luci e suggerì di chiudere gli occhi e non pensare a niente, poi delle cuffie apparse dal nulla si erano depositate sulle mie orecchie. Da lì in poi era iniziato il viaggio nel profondo, dove il sole non si è mai fatto vedere. Il suono mi sconcertò fino al punto che non aspettai la fine della registrazione e aprii gli occhi. Qualcosa prese vita, si risvegliò cominciando a muoversi già in quei primi istanti.

«Lo sai che questa registrazione è una delle più lunghe che si può trovare su internet?» mi disse con un sorriso fiero del risultato che di lì a poco avrebbe condiviso con me.

Durante quell’ascolto, cominciai a provare un certo timore, incertezze che si specchiavano e che provenivano dalle mie stesse profondità, un suono che già era dentro di me. Un suono troppo grande e troppo sconosciuto per non temerlo. Però ripresi subito il controllo, mi occorreva guardarla sorridere con le cuffie indossate e pensare alle parole che mi sussurrava e che riuscivano ad apparire insieme alle balene. Un sorriso pieno d’affetto, sensuale, sorridente, baci dati in

una stanza buia. L’incredulità si trasformava in altro, come se lei fosse lì a proteggermi da ogni pericolo. Erano state le sue mani, sfiorate appena nel aggio delle cuffie, il suo odore, la sua voce, il suo corpo che si muoveva senza fare nessun rumore, sensazioni che accompagnarono il silenzio prima dell’ascolto della registrazione.

«Non si sente niente» dissi più per riprendere fiato che per altro.

«Aspetta, ascolta bene, non essere nervoso. Io ci sono e ci sarò sempre.»

Non si avvicinava nemmeno al suono di un qualsiasi altro animale quel muggito soffocato, sembrava provenire dallo spazio, una vibrazione dotata di vita propria e che si era persa nel tentativo d’incontrare la sua compagna. Un effetto acustico spogliato della sua radice animale, un rumore che viveva per conto suo sperduto chissà dove e capitato per caso a contatto con un microfono.

Un viaggio nelle stelle, nei pianeti e nelle galassie, molto lento, un suono che non ambiva a nessun ascoltatore. Nei suoi intenti profondi forse c’era quello di cercare un suo simile, ma era solo una speranza. Avrei voluto avere quella registrazione in quel momento, quando, dopo aver finito di leggere, posai i fogli con cura. Gli alberi mi guardavano ridendo, ma purtroppo quel suono così profondo era scomparso insieme a lei. Eravamo simili a quel segnale, due persone che cercavano d’incontrarsi, di ritornare a essere vicine come un tempo.

I primi giorni li ai alla macchia. Preferivo non rischiare nulla. Avevo tagliato i capelli con un paio di forbicine portate via dal laboratorio, grazie al riflesso che trasmetteva un piccolo corso d’acqua scelto come base di residenza. Mi aggiravo per le campagne indossando un cappellino da baseball, evitavo la strada, i centri abitati, le fattorie. Somigliavo a un uomo dalla memoria dimenticata e che non sapendo dove andare, cammina in una direzione qualsiasi, come se solo l’atto di

mettersi in marcia e non incontrare nessuno fosse servito a liberarmi dalle paure, un’assoluzione da colpe inesistenti, un meccanismo con un solo obiettivo: ritrovare Chiara. Avevo portato con me uno zaino con lo stretto necessario, alcune cose che speravo potessero aiutare la sopravvivenza nel bosco per circa una settimana, un cambio d’abito per entrare in città, carta e penna.

Fu proprio durante una di quelle notti ate sotto le stelle, a vivere come l’ultimo uomo sulla terra, che iniziai a scrivere un mio diario. Lo chiamai Appunti di innocenza. Dopo alcuni giorni m’impegnò così profondamente da farmi dimenticare il cibo, gli altri animali, il freddo, la pioggia che per fortuna non si presentò mai. Non immaginavo quanto potesse essere gratificante mettere per iscritto quello che per tanto tempo avevo tenuto dentro, tutte le argomentazioni che avevo tirato fuori con veemenza solo pochi giorni prima insieme ad Andrea. Forse farlo prima avrebbe liberato parecchie tensioni accumulate nel tempo, una marea che scivolava su un terreno bisognoso d’acqua, per nutrirsi, per crescere, per cambiare qualcosa, il tutto con un semplice gesto conquistato a furia di scappare, a portata di mano da sempre. Forse era stata Chiara a suggerirmelo, un’indicazione nascosta fra i suoi tanti gesti. Fu un modo di avvicinarmi a lei, alle sue parole ancora ridondanti, ai suoi dubbi espressi in maniera sottile, al processo. Sapevo che il processo era ancora il mio punto debole.

Cominciai a scrivere partendo da lì. Nel momento in cui fossi stato catturato avrei potuto mettere qualcosa sul tavolo di un interrogatorio, prima di finire in prigione per sempre. Elaborai una relazione lucida su come il dibattimento era stato portato avanti, senza sottolineare nessun punto di vista preponderante, dalla reazione delle persone che mi vedevano entrare in aula, dal giudice e dagli avvocati che cercavano di aver ragione, per poi finire con il punto di vista di colei che non c’era più.

“Io ho ragione.”

Era la frase che avevo usato quando iniziai a scrivere e che ripetevo dentro di me, una combinazione alfanumerica di una cassetta di sicurezza, lunghissima e difficile da ricordare, non tanto per non essere sentita e vera, ma per il fatto che il resto delle persone e delle cose dicevano il contrario.

Nei primi giorni il bosco fu mio alleato, giorni in cui respirai il profumo della libertà, dove i pensieri correvano inseguendosi l’un l’altro; ebbi tempo e modo di pensare a me stesso. Avevo deciso già di prendere in affitto una casetta in paese, a una certa distanza dalla città, prima che una mattina mi svegliassi con l’acqua che invadeva lentamente il mio sacco a pelo. La città mi considerava un evaso, ma nello stesso tempo poteva fornire informazioni utili alla mia piccola e insignificante indagine personale. Ricerche che partirono già alla prima occasione e che proseguii ogni mattina, confuso con i pendolari che andavano e tornavano dal lavoro.

Immergermi in un immaginario branco mi concedeva un’utile sensazione di protezione, la materia prima per mettere in atto quel progetto. Cercavo tracce d’ogni genere, conoscenze che se avvicinate potevano far luce su quella inspiegabile sparizione. Iniziai con piccoli appostamenti solitari davanti alla casa dove abitava Chiara; riuscii a entrare nel parcheggio sotterraneo del palazzo per poi sostare davanti alla porta della sua abitazione, con l’orecchio sullo spioncino. ai nei dintorni del laboratorio. Presi a seguire le colleghe di lavoro, a prendere i mezzi di trasporto che usavano loro e che poi io abbandonavo per tornare sui miei i, fuori dalla città senza farmi notare. Non osavo presentarmi e chiedere loro informazioni; poi però quegli appostamenti divennero solo speranze. Il pensiero di vederla un giorno salutare le sue amiche come se niente fosse, incontrarla nel tragitto che faceva per andare a lavoro, sullo stesso autobus tra la folla.

La sera quando tornavo a casa venivo trafitto dallo sconforto. Più di una volta fui sul punto di andare a costituirmi. Quello che mi manteneva ancora in piedi e che per fortuna portavo sempre con me era il mio diario Appunti di innocenza. Pagine che scandivano il tempo e che per il momento, a parte una sensazione di

benessere, non avevano ancora svelato nessun segreto. Di soldi per il momento ne aveva a sufficienza per una latitanza dignitosa, e per un lasso di tempo che si aggirava intorno ai sei mesi.

Il mio datore di lavoro, oltre a consegnarmi una busta con un bel po’ di soldi e un suo documento che non mi somigliava affatto, mi aveva assicurato che, se le cose si fossero messe male, potevo sempre tornare al caseificio.

Decisi che forse era meglio non farsi vedere troppo in giro, soprattutto nei grossi centri abitati dove la polizia era più presente. Non mi restava che andare a controllare nei piccoli paesi limitrofi. La cosa migliore sarebbe stata alternare gli spostamenti con uno o due giorni chiuso in casa, la prudenza non era mai troppa. Scrivere il diario poi non era di certo semplice sui mezzi pubblici e sulle strade.

Nei ristoranti avevo smesso di andarci, stare fermo e aspettare mi metteva ansia e quindi per mangiare frequentavo bar, consumavo un panino mentre camminavo o sulle panchine di un parco. Era il pensiero di lei a ingentilire la mia vita da latitante, era come se fossimo sempre insieme, un alito di vento che mi consigliava quale direzione prendere. Ero determinato, oltre al portare avanti Appunti di innocenza nei ritagli di tempo, a trovarla viva o morta; una volta compiuta quest’azione mi sarei arreso. Ero andato anche da uno strano personaggio conosciuto tempo prima, con la speranza che potesse sapere qualcosa, che potesse credere alla mia estraneità sull’intera vicenda. Le mie speranze furono in parte esaudite, solo in parte però. Nonostante quest’uomo credesse alla mia versione, mi informò subito che non poteva aiutarmi, primo perché non faceva abbastanza caldo e poi perché in quel periodo non aveva la forza di aiutare nessuno. C’era qualcosa che lo allontanava dalla gente, mi disse la prima volta che lo andai a cercare; parlava soltanto di musica, di gruppi che non avevo mai sentito nominare. Ero entrato in contatto con lui tramite Bob.

Una calda mattina d’estate io e Bob ci vedemmo davanti al centro commerciale, il nostro posto di lavoro. Le serrande erano abbassate e una lucina laterale ne

segnalava l’imminente apertura.

Dentro molti ragazzi come noi avevano già iniziato a sistemare i negozi, aprire i bar, fare le pulizie. La nostra amicizia era iniziata proprio in quel luogo. Arrivammo tutt’e due in orario.

«Ciao Christian.»

«Ehilà, Bob» dissi io salutandolo con una pacca sulla spalla.

«Ti piace la camicia?»

«Sì, molto bohème se anni Ottanta, stile Tom Waits. Dove l’hai presa?»

«A un mercatino dell’usato fuori città. L’ho pagata pochissimo.»

«Immagino, stavo scherzando.»

«È bella! Non ti piace?»

«Sì, mi piace, mi piace. È che con le scarpe da ginnastica le camicie non andrebbero indossate.» Rivolsi lo sguardo verso terra. «Io ne avevo una tipo la tua, con dei fronzoli disegnati lungo la linea dei bottoni, bianca a righe nere.

L’avevo comprata in un negozio di montagna pagandola moltissimo, ma siccome ero in vacanza, mi sono detto, ma chi se ne frega e l’ho presa.»

«Ho capito quale dici, ma non è troppo raffinata?»

«Sì, infatti la metto nelle medie occasioni diciamo, quelle non troppo eleganti, per le situazioni speciali ho quella bianca. Quella l’ho comprata anch’io in un negozio dell’usato, era tutta gialla, sporca e chiusa in uno scatolone, poi l’ho fatta lavare come si deve e adesso sembra la camicia di un matrimonio, tipo Vi presento Joe Black.»

Ci piaceva prenderci in giro, era un’altra caratteristica del nostro rapporto. Poi c’erano le ragazze, le donne.

«Guarda, guarda!» disse Bob spostando la mia visuale di 180 gradi.

«Eeeeeehhh.»

«Che roba!»

«È proprio bella! Che avrà, una quarta? Una quinta.»

Bob sorrideva. «Una quinta. Attenzione, i vestiti ingannano. Tu vedi una donna che cammina vestita in abiti normali, poi ti capita di andarci a letto e quando la spogli c’è la sorpresa, ha una quinta. È tipo una pesca di beneficenza, tu il

contratto l’avevi già firmato, quello che ti capita dalla pesca è tutto di guadagnato.»

«Ahahah.»

«A me è capitato, sai com’è, i misteri della matematica» disse Bob.

«Anche a me è successo, ti posso dire con certezza che il contrario non capita mai. Anche se riconosci un reggiseno che gonfia le misure, stai tranquillo che quando vai allo spoglio dell’urna, le dimensioni e magari sono anche più grosse. Non si rimane mai delusi.» L’argomento come al solito ci stava apionando, il sole e il caldo facevano il resto del lavoro. Poi veniva il calcio.

«L’hai vista la partita ieri sera?» chiese Bob.

«L’ho vista, ma mi sono rotto, sono troppo forti, il prossimo anno disdico l’abbonamento, tanto vincono sempre loro, non c’è gusto di questi tempi a vedere la Champions.» Mi accesi una sigaretta e controllai se nella segreteria del telefono c’erano messaggi. «Voglio organizzare una conferenza internazionale tipo ONU, chiedo in affitto il Palazzo di Vetro e gli dico che è importante, l’ordine del giorno è come fare a battere il Barcellona. Non è solo la diminuzione degli abbonamenti il problema, se andiamo avanti così il calcio internazionale diventerà come il tennis. Si deve mantenere un equilibrio, abbattere questa tirannia sportiva, una cosa ufficiale. È per il bene comune, per questo che serve l’ONU.»

«Guarda che sull’uno a zero l’altra squadra ha avuto delle occasioni importanti, se avessero segnato?»

«Non avrebbe fatto nessuna differenza» dissi. «Con loro è come se giocasse il numero venti in classifica contro il numero uno al mondo, Roland Garros. Se avessero pareggiato, e non l’hanno fatto, nel giro di venti minuti il Barcellona ne avrebbero segnati cinque. Non si può andare avanti così, forse più che l’ONU servirebbe la NATO.» Risi, e alcuni anti si voltarono.

«Comunque giocano bene,» continuai «possesso palla, una serie infinita di sovrapposizioni e come se non bastasse appena perdono il pallone dopo un nanosecondo lo riconquistano e partono verso la porta avversaria. Sono formichine, sono milioni, non sono undici» E imitai con le dita il movimento degli insetti.

«Vada per le Nazioni Unite allora.»

«Arriva l’autobus, è questo che dobbiamo prendere?»

«Sì.»

Salimmo su e miracolosamente riuscimmo a trovare due posti liberi. L’autobus era più caldo di quanto potessimo immaginare, una condizione per certi versi dolorosa, la stessa che avevamo affrontato mentre aspettavamo sul marciapiede senza neanche un fazzoletto d’ombra. In effetti un riparo c’era, quello creato dal palo della fermata, ma né io né lui avevamo provato ad avvicinarci, un mutuo accordo che forse faceva capo a una sorta di dignità inconsapevole. L’aria condizionata non c’era o funzionava male, l’autobus era affollato ma non troppo, con quei due posti a sedere che stavano aspettando noi.

«Ti ricordi quando siamo stati al mare un anno fa?»

«Non era con me» dissi io.

«Ah, è vero, stavo con Stefano. Una cosa incredibile, Christian, non puoi immaginare quanta fica c’è.»

«Incredibile, lo so. Al mare è come in un tunnel, per quello quando torni sei stanco e non ti va di fare niente. Come mai in montagna non è così? Eppure cammini molto di più, fai più fatica, stai sotto il sole, non c’è neanche una piscina dove farti il bagno, eppure dopo che ti sei fatto una doccia stai meglio di prima. È una battaglia, non mi dire niente.»

«Christian, tu non puoi capire.»

«Posso immaginare.»

L’autobus fece un paio di fermate; il tragitto non era troppo trafficato, il problema erano i semafori, tutti rossi, tutti sotto il sole.

In quella giornata così speciale io e Bob ci eravamo presi un giorno di ferie per andare insieme al mare. Lavoravamo insieme nello stesso grande magazzino come addetti alle pulizie, facevamo parte di una squadra di dodici persone che a turno si occupavano di pulire un piano dell’edificio per volta, ma le cose per Bob non andavano a gonfie vele.

«Non vedo l’ora di tornare a casa. Quando esco di lì l’unica cosa che voglio è tornare a casa e farmi una doccia, sono così stanco che non riesco nemmeno a guardare la televisione. È un lavoro molto pesante, lo devi ammettere, poi tu vieni addirittura da fuori, dimmi la verità, riesci a fare qualcosa oltre a dormire e andare a bere il fine settimana?»

«Alla prima occasione ci prendiamo un caffè, che ne dici?» gli chiesi con l’intento di cambiare discorso e allentare il suo malcontento.

«Dobbiamo cambiare lavoro. Voglio seguire di più i miei interessi e non un giorno sì e quattro no, sempre.»

«Dai che dopo andiamo a mangiare qualcosa in un ristorante da quelle parti, ci sono ristoranti?»

«Va bene, per il pranzo» disse Bob.

«Quante fermate sono?»

«Dobbiamo scendere al capolinea e prendere la metro, facciamo tre fermate e siamo arrivati alla stazione, poi dobbiamo prendere il treno.»

«In macchina no?»

«Con questo caldo? E così nessuno dei due guida, possiamo rilassarci senza

pensare al traffico.»

«Ma andiamo dove siete stati tu e Stefano?»

«Sì.»

«Fa proprio caldo» dissi asciugandomi il viso con la maglietta. «Agosto non perdona. L’hai visto Limitless?»

«No» fece Bob.

«Devi vederlo. C’è questo tipo che trova una droga per caso. Una droga che dà una concentrazione assoluta e una velocità supersonica. Scrive un libro in una notte, corretto, tutto quanto. Poi gioca in borsa e lì iniziano i casini. Lo devi vedere.»

«Va bene. Proverò questa droga. Tu invece guarda quella,» disse Bob voltandosi verso il finestrino. «Guarda com’è vestita! Anzi come non è vestita. Hai ragione, dovremmo uscire la notte e con occhiali neri, altrimenti è un massacro.»

«Forse sarebbe la stessa cosa, anzi di notte le donne si vestono ancora più sexy.»

«Io dico di notte fonda, alle quattro del mattino per intenderci. Dovremmo alterare le nostre funzioni vitali, cambiare lavoro e uscire di notte. Soprattutto d’estate.»

«Sempre a pensare di cambiare lavoro. Ma non sei contento di averne uno?»

«Non mi piace,» disse Bob «voglio fare un’altra cosa, una cosa che mi apioni, un lavoro per cui mi sveglio la mattina e sono contento di andarci. Tu vieni contento al centro commerciale?»

«No, però che c’entra?»

«Ecco appunto, a me piacciono i libri, i musei, i film, l’arte, sono grato di avere questo lavoro, ma vorrei condurre la mia vita in un’altra direzione. Conosco a memoria tutte le frasi più celebri dei film polizieschi americani, potrei esprimermi con una persona usando solo i dialoghi tratti dai film gialli. Una volta l’ho fatto con una donna.»

«E com’è andata?» chiesi.

«Ha reagito male, si è spaventata ed è scappata.»

Il viaggio in autobus continuava pacifico, fuori faceva caldo e l’aria condizionata, ammesso che funzionasse, non riusciva a lasciare fuori l’afa della città.

Dopo alcune fermate i posti a sedere vuoti erano aumentati permettendoci di parlare più liberamente, come due turisti in una città estera. Le persone che camminavano a piedi e che scorrevano sotto di noi, per via del caldo,

sembravano anime condannate che vagavano nell’inferno senza meta, cercando invano di mimetizzarsi. Chi era stato al mare o chi era tornato da una vacanza in montagna, dopo aver goduto il fresco naturale, stava soffrendo più degli altri, non aveva nemmeno il conforto di un altro essere umano incrociato per caso al semaforo. Almeno dentro l’autobus non batteva il sole. Il traffico era inesistente, ma non perché in città c’era poca gente, al contrario, per essere agosto la città non si era svuotata: quello che accadeva era che le macchine, come le persone, si erano riparate in qualche casa o garage della città, smettendo di soffrire almeno per qualche ora.

«Guarda quante poche macchine.»

«È tutto così innaturale, prima le cose hanno un senso e poi ti giri intorno e non lo hanno più. A volte io non ci capisco niente. Penso d’aver trovato l’equilibrio possibile, ma poi succede qualcosa e la mia struttura ecocompatibile se ne va a farsi benedire.»

«Anch’io sono confuso a volte, ma è il lavoro, dobbiamo cambiarlo, dai retta a me.»

«E che facciamo?»

«Non lo so» disse Bob.

«Potresti fare un film. Mi hai detto che tempo fa hai girato qualcosa.»

«Ho fatto un corto, dura quindici minuti. Non ho fatto un film.»

«Be’, il procedimento è lo stesso, no? Scherzo. Ma di che parlava?»

«Niente, una cosa tragicomica. Si intitolava I film che non ho mai visto.»

«Cioè?»

«Erano tre mini corti all’interno di un corto. Il primo… La vuoi sentire veramente?»

«Certo, scherzi? Dimmi tutto.»

«Il primo corto parla di un tipo che va dalla sua amante, che però non vede spesso, cenano e mentre lei lava i piatti, prima di andare a scopare, accende il televisore. Sta iniziando Proposta indecente, è finita la pubblicità. Si vede lui che in fondo vorrebbe guardarlo, ma la serata dopo la cena prevede sesso, quello vero. Dopo un paio di minuti dove si nota l’interesse che gli sta suscitando il film, la tipa sparisce, spegne tutte le luci e riappare nuda che va verso il salotto dove lui sta guardando il film. Un film nel film.»

«Sì, ti piacerebbe, eh?» dissi io.

«Ah, certo che mi piacerebbe. Comunque la tipa arriva e gli si piazza cavalcioni, coprendogli interamente la visuale del film. Dopo un po’ di vani tentativi di

rinvio, lui prende il telecomando. Spegne il televisore e si spengono anche le luci della casa. Ho provato a fare un paio di concorsi, ma non ho vinto nulla.»

«Bello, simpatica l’idea. Gli altri due mini corti com’erano?»

«Ma niente, gli altri erano di contorno, quello principale era questo. Il secondo è lo stesso tipo di prima che va dai genitori della moglie dopo cena, inizia un film stile Bollywood romantico, lui decide che si può tranquillamente interessare al film senza sembrare scortese, un orecchio alla famiglia e uno al film. Poi il padre della moglie inizia a raccontare la storia del fratello che durante la seconda guerra mondiale era prigioniero in Germania. Lentamente il racconto comincia a suscitare il suo interesse e così lascia il film al suo destino. Il terzo parla di due amici, uno è sempre quello di prima, vanno a mangiare al ristorante, il posto è vuoto, c’è un televisore enorme proprio davanti a loro, fanno le ordinazioni e quando arriva da mangiare inizia Tin Cup, il film sul golf con Kevin Kostner. Lui lo vorrebbe vedere, ma il suo amico inizia a chiacchierare e il film svanisce. Dobbiamo scendere.»

Ora anche noi diventammo bersagli mobili del sole e anche se il tragitto fino alla metro non era lungo, cominciammo a sudare copiosamente.

«Attraversiamo, aspetta, è rosso» disse Bob.

«Ma non c’è nessuno.»

«Aspetta. Adesso è verde, andiamo.»

Arrivammo nel tunnel della metro, sudatissimi, camicia di Tom Waits per prima; cercavamo conforto in quel buio, un’oscurità dall’aria soffocante, che almeno all’inizio ci fece sudare ancora di più.

Mentre camminavamo lenti sul marciapiede della metro, notai un poster gigantesco affisso sul muro dietro di noi, fu un secondo.

«Bob, guarda qui. Cosa vedi di strano?»

«Pubblicità di occhiali, una bella ragazza che sorride e mi sta guardando. Perché?»

«Hai detto bene, ti sta guardando e sta guardando anche me. Non è incredibile? Ti sei mai chiesto com’è possibile? Se mi sposto, così per esempio, mi guarda ancora e nello stesso tempo continua a guardare anche te, non è assurdo? Come te lo spieghi.»

«Dev’esserci per forza una spiegazione, che vuoi che sia?»

«Il fatto che ci sia una spiegazione è la prima cosa a cui ho pensato ed è la stessa che mi ripeto ogni volta che noto questo sguardo incrociato dei manifesti. Ma non può essere così semplice. Se una cosa del genere fosse accaduta tremila anni fa, davanti a ogni pubblicità avrebbero costruito templi e sacrificato vitelli grassi, adesso invece sappiamo tutto, qualunque cosa che ci domandiamo ha una spiegazione e lo sai qual è il risultato di tutto questo? Niente ci stupisce più. Diamo per scontato un mucchio di cose, tanto la scienza l’avrà già spiegato da qualche parte, in un libro, abbiamo smesso di compiere riti di ringraziamento.»

Dopo quella camminata sotto il sole, sentire la maglietta zuppa di sudore aveva cambiato il mio asse, euforia e curiosità si impadronirono di me, i colori e le sensazioni sembravano avere effetti più potenti del solito, ma la cosa non era condivisa.

«Guarda a sinistra, ma non ti girare di scatto» disse Bob.

«Va bene» dissi io.

«Hai visto quanto ce le ha grosse? È un’esposizione universale, mi gira la testa. Mammmelle con dodici M, troppo esagerata.»

«Arriva la metro.»

Una volta entrati ci accorgemmo che a differenza dell’autobus non c’erano posti liberi, il vagone era affollato e il fatto che la destinazione del treno fosse la stazione centrale non aiutava di certo a tenere lontane le persone le une dalle altre. Eravamo nel vagone di testa, l’aria condizionata non c’era.

«Senti che caldo, non ho mai smesso di sudare» disse Bob.

Quella strana febbre che mi aveva fatto scoprire il lato misterioso dei poster pubblicitari continuava la sua marcia inesorabile, un cammino che mi avrebbe accompagnato per tutto il tempo in quel giorno di vacanza. «Hai visto che strana situazione?»

«Quale situazione?» chiese sottovoce.

«Le vedi? Sono nella metro, ho paura che siamo entrati nel vagone sbagliato.»

«Non capisco» fece Bob.

«Io ho una teoria, mettiamoci più in là così non ci sente nessuno.» Ci spostammo verso la zona dove i due vagoni si incontravano. Mi guardai intorno. «Questi sono turisti, non comprendono la nostra lingua.»

«Spiegati. Guarda quella bionda che culo, calzoncini che non esistono, scusa vai, ti ascolto» disse Bob.

«Un venerdì qualunque mio fratello mi aveva invitato a cena a casa sua, presi la metro per andare e non mi ricordo perché ma avevo portato la macchina fotografica. Mentre ero seduto notai una ragazza in piedi davanti a me; vestiva in maniera elegante, una bella ragazza come se ne vedono tante in giro, portava con sé un trolley rosa. C’era in lei qualcosa di strano che mi incuriosiva, niente tette o culo, era solo una sensazione indefinita che m’ispirò curiosità. Volevo scattarle una foto, ma poi pensai che mi avrebbe visto e che la cosa poteva non andarle a genio e mentre ero assorto nei pensieri, scese e io rimasi seduto senza fare nulla. Mentre andavo da mio fratello riflettei molto sul perché quella ragazza avesse suscitato in me così tanta curiosità.»

«Ma com’era?» chiese Bob.

«Era una bella ragazza, te l’ho detto. Non pensavo a spogliarla con gli occhi, la mia mente era occupata a capire che tipo di persona fosse. Poi capii.»

«Io no.»

«Tornai i seguenti venerdì alla stessa ora con l’intento di scattare qualche foto, sempre nello stesso tragitto di metro, ma non la incontrai più. In compenso vidi almeno una decina di altre ragazze, tutte con la stessa aria trasognata, come se intorno a loro non ci fosse nessuno, come se stessero nel salotto di casa comodamente sedute ad armeggiare con il telefono. Tutte avevano un trolley. Le chiamai le Trolley Women, e mi domandavo quale fosse la loro destinazione, perché avevano l’aria così misteriosa? È di fronte a te, girati, guarda e dimmi se non ha l’aria di una donna che sta andando a trovare il suo uomo, l’amante, o forse qualcuno mai visto prima e che sta per incontrare per la prima volta, conosciuto su Internet.»

«È vero, anche secondo me sta andando a un incontro con un estraneo conosciuto in una chat o su un social network, quella in particolare è da social network, ne ha tutta l’aria. Non ho visto com’erano le altre, ma questa qui emana una sorta di melanconia e sembra che lei lo sappia, ne è consapevole. Vero?» chiese Bob.

«Lo spero per lei» dissi avvicinandomi a lui e cercando di non parlare troppo forte. «Sembra triste, me ne sono accorto anch’io la prima volta. Sembra un agente segreto in missione, le mancano gli occhiali scuri. Sfumerà dolcemente, sono sicuro» dissi io con un’aria che cercava d’imitare quella delle Trolley Women.

«Hai mai pensato che potrebbero essere solo ragazze in procinto di partire? In fondo lì vedo anche degli uomini che hanno il trolley, che ne dici?» mi chiese Bob.

«Non ci ho mai pensato, ho subito identificato questo loro atteggiamento in funzione di un incontro amoroso, ci posso riflettere quanto ti pare ma non credo di poter cambiare idea» dissi.

«Quanti giorni rimangono secondo te, dal tipo, quello con cui faranno follie? Guarda, ce n’è un’altra sta entrando adesso, anzi sono due.»

«Le Trolley Women. Oggi è venerdì, domenica dopo pranzo ripartono, una rapida colazione, al massimo alle diciotto sono a casa a farsi una bella doccia. In fondo il loro amore, quello della loro vita, potrebbe essere quello che stanno per incontrare, tanto vale tentare; io farei lo stesso al posto loro.»

«In effetti, potresti avere ragione, può nascondersi in qualunque luogo la persona che stanno cercando, quella che ameranno per sempre. Senza contare che potrebbe anche non esistere e questo loro lo sanno, è l’unico motivo per cui si danno tanto da fare.»

Si erano liberati due posti; ci mettemmo comodi. La visuale verso l’altro vagone rimaneva libera.

«Più strumenti si hanno e più è probabile che accada, uno di questi è la lingua inglese. Per lo scritto si può sempre usare il computer, ma la conversazione, quella vera, tipo in una metro come questa, come fai?»

«Purtroppo hai ragione, Christian.»

«Le Trolley Women. È proprio un bel nome che rende bene l’idea, sono stato bravo. Una persona sensuale che però viene frenata dal trolley. Sembra il nome di un gruppo, potresti dire a tua figlia se con le sue amiche mettono su una band, le Trolley Women. Ho pensato alla coreografia che dovrebbero interpretare sul palco. Tutte vestite stile ufficio americano, come sono vestite loro, tutte con il trolley, poi prendono le chitarre e iniziano a suonare.»

«Mia figlia è un po’ timida» disse Bob. «E poi anche se le piacerebbe, non credo che alle sue amiche vada bene un’entrata così spettacolare, loro fanno rock classico, hanno un altro nome, dovrebbero cambiare tutto, la madre farebbe ostruzione. Però è proprio un bel nome.»

«Vedendole qui mi vengono in mente alcune parti di femminilità chiusa nel loro trolley, ripiegata e mimetizzata, in lanolina.»

«Ahah.»

«Un’altra cosa mi sono dimenticato di dirti: se adesso ci avviciniamo a quella che sta per scendere lo sentirai anche tu, non hanno odore» dissi io.

Scendemmo dalla metro e ci incamminammo in direzione delle scale mobili, continuando a parlare e a sbirciare le Trolley Women che erano scese alla nostra fermata. Nella sala d’aspetto della stazione, mentre io e Bob controllavamo gli orari dei treni, le ragazze presero la direzione dei rispettivi binari, probabilmente

con già il biglietto in tasca. Può sembrare strano ma tutt’e due immaginavamo che le Trolley Women partissero alla stessa ora, diversi treni, diverse località, diversi binari, ma con un unico orario uguale per tutte.

All’interno l’aria condizionata funzionava abbastanza bene, le sale, i bar, l’edicola erano popolati da eggeri che per non aspettare sotto il sole si prendevano una pausa nei freschi ambienti della stazione. Le Trolley Women non si erano nemmeno fermate per prendere un caffè, si erano dirette subito ad aspettare il loro treno, con la fondata speranza che un angolo d’ombra lo si potesse sempre trovare.

«Non ti sei portato niente per la spiaggia?» chiesi a Bob.

«No.»

«E perché?»

«Perché non andiamo al mare.»

«E dove andiamo?»

«Dall’Oracolo.»

Non avevo mai subito uno scherzo del genere, l’avevo visto solo nei film o in qualche libro dalla copertina rigida, ero sorpreso altroché, ma anche incuriosito;

mi adeguai senza dire nulla, con un sorriso che contraccambiava quello di Bob, mentre davanti a noi iniziavano le scale per uscire sotto il sole. Il treno era in ritardo, ma Bob decise comunque di avviarsi verso la banchina. C’era molta gente che aspettava il nostro stesso treno e più ava il tempo più la folla aumentava. Quelli che erano ad aspettare da più tempo avevano conquistato una piccola fetta d’ombra, chi era in possesso del suo feudo lo difendeva con i denti, un capannello di gente di forma circolare che come una testuggine si muoveva e spostava contemporaneamente alla posizione del sole. Quel poco d’ombra era creata dall’edificio che sovrastava la stazione vera e propria, una costruzione a forma di scatola allungata che collegava, grazie a doppie scale mobili, la parte dei binari con la zona commerciale.

«Vieni con me. Lì c’è una panchina vuota» disse Bob.

«Ma è sotto il sole! Io rimango qui.»

Bob si allontanò lo stesso e io gli andai dietro borbottando. La panchina, bollente, era nella parte finale della banchina, nel punto più lontano dall’ombra. Arrivato prima di me, Bob si sedette facendomi cenno con ampi gesti delle mani di fare lo stesso.

«Non aver paura, vieni qui.»

«Chi sarebbe questo Oracolo?» chiesi.

Potevo anche essere d’accordo con il cambiamento di programma, ma aspettare un treno in ritardo sotto il sole di agosto, quando invece potevamo rimanere in attesa sotto il tunnel fresco e con tanto di display, cominciava a essere troppo

pesante.

«In realtà questo treno che prenderemo ci va, al mare, ma la spiaggia non sarà la nostra destinazione» disse Bob. «Ho formato un gruppo musicale, per ora siamo solo io e il batterista. Lui è un mio vecchio compagno di scuola che sta nel mio quartiere dove abito, ci manca solo il chitarrista. Il gruppo si chiamerà De Poliss, una tribute band dei Police ovviamente, io canterò e suonerò il basso, le canzoni le conosco tutte a memoria.»

«È un’ottima idea, ma come farete a trovare un chitarrista? E poi cosa c’entra l’Oracolo? Cos’è e chi è?»

«Un argomento per volta» fece Bob. «È una cosa strana, anch’io come te pensavo che per trovare un chitarrista che volesse fare un gruppo di cover dei Police, con due quarantenni senza un soldo, sarebbe stata un’impresa ardua. Ma non è così. Guarda!» Bob si alzò ed estrasse dalla tasca dei pantaloni alcuni fogli di carta. Erano dei nomi, sembrava una pagina di Internet stampata in bianco e nero, con dei link in rapida successione; accanto c’erano dei simboli e sempre sulla stessa linea, ogni nome aveva vicino un orario.

«Sono due pagine di nomi, che significa?» chiesi trattenendo i fogli nelle mie mani.

«Sono quelli che mi hanno risposto dopo che ho messo l’annuncio, un sito come un altro.»

«Incredibile.»

«È vero, è assurdo» disse Bob compiaciuto.

«Saranno più di cinquanta.»

«Sono di più, all’inizio non ci credevo e ho cominciato a cliccare su ogni nome per capire se fosse pubblicità o qualcuno che aveva interpretato male l’annuncio. Invece no, ognuno diceva che era interessato.»

«Non l’avrei mai detto, vogliono far parte tutti di un gruppo che fa cover dei Police. Anzi, De Poliss.» Risi.

«Per me che ho messo l’annuncio è ancora più strano, non riesco a capacitarmi di così tanto entusiasmo a portata di mano. Ti devo dire che la cosa mi preoccupa, dev’esserci per forza qualcosa che non riesco ad afferrare. Che tipi saranno queste persone che vogliono suonare insieme a noi? Perché non l’hanno creato prima e fra loro un gruppo che suona i Police? Perché aspettare me per formarlo? Leggi, leggi, guarda quanti sono, controlla le date, fra il primo e l’ultimo non sono ate neanche sei ore, è così fuori di testa che questa caccia al chitarrista è diventata addirittura divertente.»

Mi coprii il viso con i fogli. «È vero, fa ridere.»

«Supponevo di mettere l’annuncio e poi dimenticarlo nel tempo, invece ho ricevuto questa valanga di risposte.»

«Non mi dire che uno di questi è l’Oracolo?» chiesi indicando una parte non ben definita della banchina. «Ho capito che vuoi fare, hai deciso di valutare ognuno di questi della lista uno alla volta, e uno di questi è l’Oracolo.»

«Ma quale casting,» disse Bob «ci vorrebbe una vita. Hai ragione, per incontrare tutta questa gente, parlare con ognuno di loro e cantare un paio di canzoni, altro che tre anni. Potrei scegliere a caso, potrei fare alcune domande ai canditati e scegliere in base a risposte su cui non accetto compromessi, ma poi in fondo ti puoi fidare di tutto questo?»

«E quindi?»

«A questo punto entra in gioco l’Oracolo. Chiederò a lui quale chitarrista scegliere. Un mese fa ho fatto un piacere a un tale, un favore strano di cui non posso parlarti. Questo tizio mi disse poi che avrei ricevuto la telefonata da un tale che mi avrebbe contattato, e così è stato.»

«Che strana storia mi stai raccontando.»

«L’idea del gruppo mi è venuta in mente da poco, così ho preso la palla al balzo e sono venuto qui. Se non ti va di stare sentiti libero di fare quello che vuoi, ma ti confesso che apprezzerei molto se rimanessi.»

«Figurati, arrivati a questo punto non torno più indietro. Ma chi è l’Oracolo?» chiesi ancora una volta asciugandomi la fronte con la maglietta.

«So delle cose, ma non ho il quadro completo. Anzitutto la causa per cui stiamo adesso sotto il sole dipende da una sua specifica richiesta: lui riesce ad aiutarti solo se, quando entriamo sul treno, siamo sudati fino all’inverosimile, come adesso appunto.»

«Appunto.»

«Non tutti conoscono l’Oracolo, non è un distributore di informazioni. Mi ha detto che per il momento deve necessariamente scegliere lui chi aiutare, poi se i fatti andranno come dice la cosa sarà resa pubblica. Si è raccomandato di venire sudati all’incontro e con una temperatura all’esterno molto alta, non basta fare una corsa per esempio e venire subito dopo qui, ci sono delle condizioni che devono essere rispettate, sono state le sue specifiche parole.»

«Come lo troviamo?»

«Si mette sempre all’inizio del treno, nel primo vagone. Appena saremo dentro lui ci riconoscerà, o meglio riconoscerà me, così ha detto.»

«Ma se la mia presenza non gli andasse a genio?»

«Se qualcosa non va puoi sempre scendere al volo e se non fai in tempo subito puoi farlo alla stazione successiva, ma non credo sia necessario. È un tipo interessante, vedrai che ti piacerà.»

«Ma come fa?» chiesi io.

«Tu dici come fa a fare le predizioni? Non so nulla e non ho chiesto chiarimenti, questa è la prima volta che ci vado» disse Bob.

«Ma cos’è questo favore che avresti fatto? Cose illegali?»

«Ma quale illegali…» Bob mosse la mano in segno negativo. «Ho aiutato un tizio a salutare una persona, di più non posso dirti; la telefonata dell’Oracolo da quello che ho capito è una sorta di ricompensa. Ti prego, non farmi più domande altrimenti mando te a fare i provini ai chitarristi.»

«Va bene, scusa.»

«Scherzavo, non ti preoccupare, andrà tutto bene,» disse Bob, anche lui in guerra con il sudore che gli colava dalla fronte «pensa che è stato lui a chiamarmi e a dirmi che potevo andare a trovarlo. Lui non ha un cellulare, mi ha contattato da un telefono pubblico. Non so come ma sapeva che avevo bisogno d’aiuto, mi ha detto che se volevo lui poteva aiutarmi, così come ha iniziato a fare con altre persone. Mi ha spiegato tutto il tragitto, l’orario, la cosa di venire sudati.»

«Il mistero del treno. Non puoi proprio dirmi quale è stato il favore che hai fatto a quel tizio, vero?» Lo chiesi senza la minima speranza di ottenere risposta e infatti non la ricevetti. Il profilo del treno non si era ancora delineato all’orizzonte, l’estate risplendeva in tutta la sua luce, mentre il display mostrava un ritardo che con il are del tempo si dilatava sempre più.

«Sai che lui rimane sempre sul treno?» disse Bob. «Ci vive, nel vagone di testa.

Questa linea fa avanti indietro di continuo, è lo stesso treno che arriva al mare e poi subito dopo ripercorre gli stessi binari, senza mai fermarsi. Gli ho chiesto se potevamo incontrarci a casa mia, ma lui mi ha risposto che in questo momento la sua casa è il treno e che da lì non può spostarsi, non vuole.»

«Sarà sceso alla stazione e ti avrà telefonato.»

«Come, scusa? Ah sì, se non ha il cellulare probabilmente è andata così.»

«Sono curioso di vederlo e di conoscerlo. Spero che tutto vada bene, che non ti faccia problemi, per la tua richiesta intendo» dissi dimenticandomi per un attimo del caldo.

«Lo spero, anche se ho già delle idee su come faremo con il gruppo, voglio comunque conoscere il suo parere» disse Bob.

Del treno nessuna traccia, altri convogli con altre destinazioni si susseguivano in stazione, in lontananza, ma la cosa che mi irritava di più erano i treni merci. Erano i più odiosi, ne parlai anche con Bob che invece aveva la testa da tutt’altra parte, nonostante il sudore e il caldo. Le segnalazioni del ritardo venivano aggiornate ogni cinque minuti, un ritardo che coinvolgeva tutti gli altri treni che percorrevano la sua stessa tratta, mentre la folla aumentava con persone che si avvicinavano a dov’eravamo noi per poi ritornare sotto l’ombra del grande edificio.

«Ci serve un chitarrista che sappia le canzoni a memoria e che aiuti negli arrangiamenti. Non ci serve Jimi Hendrix, solo uno che esegua le musiche come sono sui dischi dei Police. Io ho già suonato in un gruppo, ai tempi del

cortometraggio, e so come organizzare concerti. Vedrai che bello.»

«Io non m’intendo di musica e di film come te, ma ho un buon orecchio e quando farete la prima prova in sala verrò a darvi una mano, anzi l’orecchio.»

«Magari, se vieni sarebbe il massimo» disse Bob.

«Non ci sono problemi, se posso sono già lì. Anche se devo dire, nonostante conosca le canzoni dei Police, non mi hanno mai fatto impazzire.»

«Ma perché?»

«Li ho sempre snobbati, tu sei più grande di me e li hai vissuti in prima persona quando spopolavano, io invece ero troppo piccolo, il mio orecchio faceva selezione all’entrata, non come adesso che ascolto di tutto.»

«Che musica sentivi?»

«In quel periodo non badavo alla qualità, ascoltavo quello che mi attirava lì per lì.»

«A me sono sempre piaciuti.»

«Ero un tipo da radio, ogni tanto li avano i Police, ma cambiavo subito, le uniche volte che li ho sentiti come si deve è stato quando sono andato alla gita del terzo anno, classe mista, pullman, radio, Police in continuazione, mi mettevano tristezza.»

«Li devi riascoltare» disse Bob.

«Ammetto che adesso dopo tutto questo tempo, potrebbe essere diverso. Chissà se mi piaceranno suonati da voi, potrei approfondire…» dissi guardandolo negli occhi.

«Non puoi non apprezzarli, neanche i Clash ti piacciono?»

«No» risposi senza tentennamenti.

«Io i Police li conosco bene, sono sempre stati il mio gruppo preferito, sono andato anche a un concerto una volta, quando avevo quindici anni, insieme a mio fratello più grande. Bello.»

«Com’è stato?»

«Una vera esperienza, vedevo Sting sul palco, era lontanissimo, ma la musica almeno per la mia giovane esperienza era altissima.»

«Staremo a vedere. Mi dicevi che il tipo è nel primo vagone del treno, giusto?»

«Credo di sì, ma non ci aspetterà seduto: ha detto che è sempre in piedi e noi dobbiamo fare lo stesso, me lo ha detto lui anche se ci fossero posti liberi. Con tutte queste persone che aspettano il treno è già tanto se riusciamo a entrare. Ha detto che se lo troviamo seduto, dobbiamo andarcene subito.»

«Andrà tutto bene, vedrai.»

Immersi nelle ipotesi più disparate sull’Oracolo, non ci accorgemmo che il sole lentamente si stava facendo oscurare dalle nuvole, che minacciavano un repentino abbassamento della temperatura, finanche un temporale. Bob fu costretto ad alzarsi dalla panchina, a percorrere insieme a me la pensilina che spariva all’orizzonte. Ho sempre pensato che le pensiline dei treni siano troppo lunghe, esageratamente più di quanto servano davvero, ma forse una ragione c’è e io la ignoro. Bob decise che non poteva lasciare niente al caso, il sudore gli si stava asciugando, le sue vesti non erano bagnate come prima, il malessere fin lì provato sotto gli impietosi raggi del sole si stava trasformando in una piacevole sensazione di fresco.»

«Dobbiamo rimanere caldi» fece Bob.

«Sono bollente, altro che caldo» dissi agitando le braccia e rallentando il o. «Secondo me non c’è bisogno che camminiamo avanti e indietro. Ti ha detto lui di venire.»

«Non voglio che arriviamo e lo troviamo seduto a farsi i fatti suoi è meglio che facciamo così, altrimenti con il gruppo è un casino. Si è raccomandato, è la cosa a cui ha fatto più spesso riferimento durante la telefonata.»

«Sono zuppo di sudore, la temperatura non si abbasserà di molto.»

«Mi ha detto di venire, mi aiuterà, mi fido di lui. Smetteremo di sudare se il cielo diventerà nuvoloso, invece noi dobbiamo arrivare sudati come giocatori di calcio. Dobbiamo sudare e poi rimetterci seduti, se si accorge che abbiamo camminato per mantenerci bagnati allora sono spacciato.»

«Secondo me sei paranoico. Ti ha chiamato lui, che vuoi di più?»

«Dai, muoviti altrimenti faccio da solo» fece Bob. «Ti ripeto, se preferisci puoi andartene.»

«Anch’io posso chiedere qualcosa?» dissi muovendomi velocemente verso la sua posizione.

«Oggi no, fai parlare solo me, non si sa mai. Se poi lui ti vorrà fare una domanda tu rispondi come meglio credi.»

Finalmente il treno arrivò, tutte le persone si distaccarono dal cerchio magico dell’ombra pronte a entrare nei vagoni.

«Vienimi dietro e non farti superare, ti chiederei di darmi la mano ma non mi sembra il caso. Fai solo attenzione a non rimanere indietro, devi entrare a tutti i costi. Ci siamo!»

La calca non permetteva di entrare, c’era pure una porta fuori uso e anche se si trovava vicino a noi questa non era una bella notizia, stava scendendo tanta gente e due cumuli di persone si accalcavano ai lati della porta accompagnando con lo sguardo chi scendeva dal treno.

In ogni caso, quando si cominciò a entrare ci accorgemmo che il numero di persone che era sceso era inferiore a chi stava entrando, in più c’erano quelli che erano rimasti all’interno. Bob fendeva la folla come una nave rompighiaccio, portandomi dietro seguito a ruota da chi aveva capito che la nostra incursione poteva essere quella vincente. Per fortuna il muro di persone si aprì d’improvviso come per far are qualcuno, ed eravamo noi. Quando entrammo ci guardammo negli occhi con una certa soddisfazione. La prima cosa che feci fu controllare se ci fosse un sedile libero, ma non poteva esserci, le persone rimaste all’interno avevano già occupato tutti i posti. Le porte si accostarono con uno scatto veloce e rumoroso alla fine del movimento, un suono fatto di gomma e metallo, creando all’interno del vagone la sensazione di un locale pressurizzato.

Bob intanto cercava di spostarsi all’interno del vagone che dopo un’ampia zona iniziale, dove c’era la maggior parte delle persone, cambiava aspetto. C’erano due possibilità: o il piano superiore o quello inferiore. Bob scelse di rimanere giù e io mi adeguai. Ci spostammo all’interno del vagone di testa, che iniziava con un corridoio anch’esso ben affollato; c’era anche una porta. Stavamo a metà strada, facendoci spazio stavolta con più delicatezza, quando capimmo che la curva che ostruiva il aggio era il bagno per disabili. Ci fermammo, non eravamo più sudati. L’aria condizionata aveva dissolto sudore e fatica, regalandoci la possibilità di respirare come non mi ricordavo di aver fatto da tanto tempo. Gli occhi e le pupille di Bob sembravano aver perduto la forza di gravità,

giravano in tutte le direzioni e senza un obiettivo, ma quando un uomo anziano poggiato sulla parete curva del bagno gli fece un piccolo gesto con il viso fu ancora peggio di prima. Era a circa tre metri da noi, all’inizio non l’avevo visto;

il mio amico osservò quell’uomo per pochi secondi, distogliendo subito dopo lo sguardo.

Il vecchio dai capelli corti, bianchi, ben curati e vestito di nero, continuava a gesticolare, ma Bob non rispondeva. Mi godevo la splendida aria gelata che sembrava avvolgere tutto il treno, persone comprese, quelle dentro il vagone e quelle sfrecciavano fuori dai finestrini. Era per me inconcepibile che l’aria fuori dal convoglio non potesse essere quella che ora mi stringeva fra le sue braccia, una conversione gelata, rapida e piena di affetti e attrazioni verso chiunque. C’era chi leggeva, chi sentiva la musica con le cuffie, chi parlava al cellulare, una scena normalissima, non fosse per il fatto che fra dentro e fuori c’erano almeno quindici gradi di differenza. Il treno aveva cominciato a muoversi e abbandonare la stazione, l’uomo vestito di nero era sempre lì, in quello stato di delicata armonia in cui ora mi trovavo anch’io. Mi accorsi che le persone formavano distrattamente intorno a lui un semicerchio vuoto, un’area protetta solo per lui, per il suo corpo, per i suoi occhi, una strana e florida isola felice.

Appena il treno prese velocità, però, i suoi movimenti iniziarono a essere diversi, sembrava essere in difficoltà a mantenersi in piedi nonostante poggiasse il peso del corpo sulla parete. Era il normale rollio di un treno sui binari, ma questo movimento pareva provocargli un tale sussulto da costringerlo ad assumere posizioni sempre più incerte. Vidi i suoi occhi, una leggera increspatura ai bordi delle labbra trasmetteva un senso di comprensione benevola. Era il segnale.

«Ma non può essere lui» disse Bob.

«Lui chi? Quel tipo anziano con i capelli bianchi?»

«Al telefono sembrava molto più giovane, non è lui, ma mi ha fatto un segnale con la bocca, forse è un suo amico, andiamo» disse Bob.

Mentre ci avvicinavamo, la sua figura mi apparve come un’immagine statica, simile a quella di un uomo che aspetta qualcuno a un angolo della strada, calmo e imperturbabile, tranquillo per essere arrivato in anticipo, con molto spazio intorno, un equilibrio perfetto. Dal finestrino scorrevano le moderne case di periferia, il sole s’intrufolava fra un palazzo e un altro.

Ma l’aria condizionata conteneva tranquillamente i suoi eggeri in una bolla impenetrabile, un fresco riparo da ogni tentativo di intrusione.

«Ciao Bob, che ci fai qui?»

«Salve.»

«Non mi riconosci?»

«No, chi sei?»

«Fai allontanare il tuo amico, ma non farlo scendere dal treno» disse quell’uomo a Bob.

Mi allontanai accostandomi a un gruppetto di persone. L’Oracolo e Bob stavano parlando con le teste vicine l’uno di fianco all’altro, nella loro speciale spiaggia privata e non come noi che combattevamo per un appiglio decente dove poggiare la mano. Dalla posizione in cui ero potevo vedere, attraverso lo stretto corridoio da cui eravamo entrati, buona parte di un altro vagone che comunicava con il

nostro: lì la situazione forse era peggio, non c’erano isole, non c’erano slarghi in cui stare in piedi.

Dopo un paio di minuti mi richiamarono. Bob era pallido, sembrava trattenersi a stento con un sorriso di circostanza che non gli avevo mai visto. Entrai anch’io nell’isola.

«E lui chi è?»

«È un amico, ma non è coinvolto in quello che sto organizzando. È a posto, fidati di me.»

«Cos’hai fatto?» disse l’uomo sgranando gli occhi e scostandosi con la schiena dal suo comodo appoggio. «Tranquillo non ho detto niente,» disse Bob «è del tutto all’oscuro, non si immagina nemmeno, non hai nulla da temere, Christian è una persona speciale.»

«Va bene, ti credo» disse l’uomo riprendendo la sua posizione iniziale.

«Volevo parlarti del motivo per cui sono qui. Sono venuto a chiederti un favore, sono in difficoltà, mi serve il tuo aiuto, ma prima dimmi una cosa, ma come facevi a saperlo?»

L’Oracolo era poco più basso di me, poteva avere circa sessant’anni, distinto. Era vestito di nero, pantaloni eleganti e maglietta a maniche corte. Aveva i capelli bianchi, il suo viso era chiaro ma non dava l’idea di essere pallido, le

rughe e i tratti della pelle lo facevano sembrare addirittura abbronzato. Come in una foto in bianco e nero. Aveva la barba e i baffi, anch’essi bianchi.

«È che devo essere diffidente, farmi notare troppo sarebbe pericoloso, la cosa deve rimanere dentro una stretta cerchia di persone.»

«Sono io che volevo conoscerla, lui non c’entra niente» dissi provando a entrare nel discorso.

Nei periodi in cui giravo per la città in cerca di tracce di Chiara, mi ritornava sempre in mente quel colloquio. Un ricordo che spesso accompagnava le mie solitarie camminate intorno al paese dove abitavo. Tornavo volentieri su quanto era accaduto, era importante per me. Anche se gli eventi che si susseguirono dopo, l’amore e la scomparsa della donna che amavo, e poi la latitanza, avevano cancellato parte dei suoi colori, dei suoi profumi, di tante parole che mi sforzavo di ricordare.

«Cos’è non ti piace? La mia voce? Non mi capisci bene? E tu Bob mi capisci? Tu sì, te l’ho appena spiegato, tu invece ci vediamo per la prima volta e già inizi a mentirmi? Ma non fa niente, so chi sei, non devi dimostrarlo a me; piuttosto sei tu che forse non sai bene chi sei.»

Ero tentato di rispondergli quando Bob mi interruppe poggiandomi il braccio teso sul petto: non era un messaggio, era una preghiera che esortava al silenzio e alla moderazione. In quel momento pensai che si stesse pentendo di avermi portato con sé.

«Ho un problema» disse Bob.

«Lo sapevate che mille anni fa non esisteva YouTube? Le persone mangiavano insieme, bevevano e dopo cena parlavano davanti a un camino o dormivano per la stanchezza. Adesso è tutto diverso… i video musicali hanno invaso le nostre menti, ci hanno colonizzato. Dimmi cosa vuoi.»

«Mi serve un tuo parere. Sto creando un gruppo musicale, una band» disse Bob.

«Che nome del cazzo però, De Poliss. Se volevi che somigliasse al nome originale, una traduzione qualunque da un’altra lingua avrebbe avuto un effetto migliore del tuo. Lo sai come si dice polizia in creolo haitiano? Lapolis, tutto attaccato, ma a me non importa, sono questioni tue, non voglio entrare nella tua vita, anche se è proprio il motivo per cui sei venuto, buffo no?»

L’Oracolo ci guardò e non disse niente, eravamo tutti in silenzio.

«Va bene così, non te la prendere, con il tempo si migliora, ci si evolve, si riesce sempre a fare meglio, quello che noi chiamiamo la ricerca della perfezione è nient’altro che il movimento del nostro corpo che si trasforma.»

«Come fai a sapere queste cose?» chiese Bob. «Non abbiamo mai parlato del gruppo. Ho capito, scusami.»

«Non ti preoccupare,» disse l’Oracolo «leggimi un po’ di nomi e caratteristiche generiche di queste persone.»

Bob prese i fogli dalla tasca e glieli porse. «Ma chi ti ha parlato dei fogli?»

«Leggili tu, a me non va. Ho bisogno di pensare. Io ti ascolto, ma fallo a bassa voce, nonostante l’età ci sento ancora meglio di tutt’e due messi insieme» disse l’uomo guardando negli occhi Bob.

La situazione si era normalizzata, l’aria condizionata dominava tutto il treno con pace ed equità. Non c’era volontà di avvicinamento fra i eggeri nel vagone, non esisteva e mai c’era stata l’intenzione di conoscersi meglio. Era come se i pensieri fossero fermi, bloccati, mentre tutto intorno girava vorticosamente, il rumore del treno ne dava un’identità ben precisa: non erano solo le menti a essere ferme, ma anche il loro corpo pur se si muoveva come faceva di solito, compiva gesti chiusi nel recinto, costretti e addormentati.

«Omaha: maschio, trentadue anni, chitarra Fender Stratocaster del 1981, ha esperienza sia con le canzoni dei Police che con quelle degli U2. CMN: maschio, diciotto anni, chitarra Eko del 1977, prima esperienza in un gruppo, gli piace il punk-rock americano. Flam: donna, ventitré anni, prima esperienza, le piacciono i Police, non suona la chitarra, vorrebbe cantare. Night: uomo, quarantacinque anni, ha una Gibson Les Paul del 1965, amplificatore valvolare dell’epoca. Hrv78: trentaquattro anni, uomo, abita fuori città, ma si può spostare velocemente, ha una Fender Telecaster, una copia identica di quella di Andy Summers, suona già in un altro gruppo, fanno cover degli Oasis, ma si unirebbe volentieri a questa nuova avventura. Gtr61: uomo, venticinque anni, suona il violino, gli piacciono i Police, un suo amico dice ha la voce uguale a Sting, lui suonerebbe volentieri il suo strumento in qualunque pezzo. Jesss, con tre s, è scritto così, suona la chitarra da dieci anni, ha fatto parte di un gruppo rock anni Sessanta, poi ha lasciato la band, questa proposta lo interessa molto, arriva al momento giusto, dice.»

«Basta così. Sono proprio tanti, per la miseria, ma in quanti ti hanno risposto? Io credevo una selezione fra tre, massimo quattro aspiranti.»

«Non lo dire a noi, ne stavamo proprio parlando poco prima di salire sul treno.»

«A dir la verità prima di salire sul treno stavate guardando tette e culi, se non sbaglio.»

«Anche tette e culi, ma poi ci siamo concentrati sul problema e le tette sono sparite» disse Bob.

«Continua.»

«Gimm99: maschio, ha suonato con i Pocher, non dice l’età. Gli piacciono i Duran Duran e i Maroon 5. H2O: ha venticinque anni, maschio, suona la chitarra e il basso se serve, non ha mai suonato in un gruppo, ma è sveglio, c’è scritto così. Chili79: formazione conservatorio, suona la chitarra classica, l’elettrica non ce l’ha, sa leggere la musica. Fres: ventuno anni, conosce a memoria le canzoni dei Police, è proprietario di una sala prove. Decca66: 45 anni…»

«Basta, basta, ho sentito a sufficienza.»

Bob mostrò i fogli. «Ho appena iniziato.»

«Ho capito, non serve continuare. Sono tanti, è vero, la cosa mi fa pensare molto di più di quello che mi sarei potuto attendere.»

«Sì, è strano, l’abbiamo detto anche noi.»

«Lo sapete che gli altri eggeri quando camminano sul corridoio non perdono l’equilibrio?» disse l’Oracolo. «È una cosa che mi ha sempre infastidito. Sto cercando di trovare una spiegazione. Io faccio come loro, non sono un vecchio di novant’anni, mi reggo dove mi devo reggere, ma quando il treno comincia a muoversi è la fine. Io devo spostarmi da un capo all’altro del treno, lungo tutto il corridoio che lo attraversa, almeno tre volte al giorno; mi muovo con gli occhi bassi, cercando di non guardare le persone negli occhi, mi imbarazza questa mia instabilità. A volte sbircio se qualcuno non regge i movimenti bruschi come me.»

«Perché accade secondo te?» chiese Bob.

«Secondo me perché il treno va troppo veloce. Lo fa per recuperare il ritardo che si porta dietro da sempre. La cosa che non capirò mai è perché io rischio di cadere a ogni o mentre loro sembrano statue, cazzo. Nessuno è in difficoltà come me. Come ve lo spiegate? Io non ci riesco.»

Io e Bob ci guardammo perplessi.

«Forse un giorno incontrerò qualcuno che riuscirà a svelarmi questo segreto, o forse sarò io a scoprirlo, chi lo sa?» disse infine l’Oracolo.

«Perché non ti metti mai seduto? Perché mi hai fatto entrare sudato?» chiese Bob.

«Una volta, quando ancora non vivevo sul treno, ma lo frequentavo come tutte le persone intorno a voi in questo momento, durante un pomeriggio appena iniziato, salii su un treno come questo. Ero molto più sudato di voi quando siete arrivati.

«Mah…»

«Non dire niente, so tutto, il temporale, l’aria fredda in arrivo, la camminata sulla banchina, non devi giustificarti, va tutto bene, Bob.»

«È vero, è andata così» dissi io.

Ci fissava negli occhi senza un’espressione particolare, muovendo impercettibilmente la testa.

«Come vi stavo dicendo, trovai facilmente posto a sedere e iniziai a leggere il mio libro. L’aria condizionata credo fosse al massimo, in quanto dal momento che entrai smisi di colpo di sudare, dall’inferno al paradiso in un istante solo. Vi capisco. Una cosa molto repentina, ho difficoltà ancora oggi a spiegarmi quale tipo di effetto avesse provocato in me. Mentre leggevo pensavo a quanto ero a disagio quando aspettavo sotto il sole e quanto ero ben disposto ora che mi stavo rilassando a una temperatura più fresca.»

Eravamo vittime delle sue parole, vittime coscienti e per niente ostili, anche se il dilemma che riguardava il gruppo era ancora senza una soluzione. L’uomo dai capelli bianchi, che nel frattempo si era appoggiato alla parete esterna del bagno, guardava il soffitto, ascoltava i rumori che provenivano dal piano superiore del vagone, persone che si preparavano a scendere alla prossima stazione. Con

calma riprese a parlare.

«Dopo l’ultima fermata il vagone si era svuotato completamente, ero rimasto da solo con quella sensazione di benessere. Poi, prima di ripartire, una coppia di anziani si accomodò nei posti paralleli ai miei divisi dal corridoio vuoto. Iniziarono a chiacchierare e data la mia vicinanza non potei fare a meno di ascoltare. Poi squillò un cellulare.»

Ero ipnotizzato dalle sue mani e dalla sua voce così particolare, simile a quella che si ascolta quando qualcuno interviene a una trasmissione radiofonica: mi attaccava alla sue parole senza che io potessi sfuggirle, mi rilassava.

«Capii subito l’argomento della conversazione, anche perché parlavano con un tono di voce che, seppure alto, non dava eccessiva noia. Ero in ascolto non di chi era dall’altro capo del telefono, ma dell’uomo con sua moglie. Dal tono e dagli sguardi compresi subito che la telefonata era attesa da diverso tempo. Chi li aveva contattati era il figlio maschio; anche grazie ai gesti eloquenti con cui l’uomo traduceva a sua moglie la telefonata, capii che il ragazzo voleva uno scooter. Aveva appena compiuto sedici anni e nonostante il regalo ufficiale fosse stato già consegnato, una vacanza per due persone in una fattoria di campagna, il ragazzo pretendeva di più.»

Non capivo come potesse esprimersi con quella voce, sembrava avesse un microfono e una piccola cassa nascosta chissà dove, ma siccome non volevo interrompere il racconto, quando notai che Bob stava ignorando le mie occhiate mi adeguai all’ascolto ivo.

«Iniziarono a discutere. Mi sforzavo di osservare i tratti dei loro visi, espressioni che da sole bastavano a spiegare tutto, uno spettacolo a cui potevo assistere in prima fila, un avvenimento sportivo vero e proprio. Voleva essere più autonomo

il ragazzo, i suoi amici c’è l’avevano tutti il motorino, ma sullo scooter non si poteva andare in due, era pericoloso. La madre era preoccupata, ascoltava pensierosa e nello stesso tempo, forse per distrarsi, guardava il paesaggio fuori dal finestrino. Guardava anche dalla mia parte, sembrava non vedermi, attenta com’era a seguire il corso della telefonata. Non era solo un problema di autonomia, il ragazzo giocò la sua ultima carta, ora l’argomento che fu messo all’attenzione del padre era l’impossibilità di tornare a casa di notte con i mezzi pubblici, aspettare da soli un autobus notturno nel buio della città, troppo pericoloso.»

Continuavo a essere immerso dalla sue parole, mi ci stavo abbandonando e la sensazione non era per niente spiacevole; l’Oracolo rivolgeva il suo sguardo soprattutto su Bob e io, anche se con poco margine d’azione, ero libero di osservare il suo corpo oltre che il suono della sua voce. Le sue mani iniziarono a muoversi sempre più veloci e per un attimo pensai che lo stesse facendo perché aveva capito che ne ero attratto. Mi sbagliavo, era lui a esserne attirato. Per un attimo si fermò e si guardò le mani girandole in un senso e nell’altro. Si voltò dalla mia parte e mi fissò e, prima che potessi dire qualcosa, continuò a raccontare.

«Il padre del ragazzo rivolgendosi a sua moglie e con la mano che chiudeva il telefono la guardò con aria perplessa. Ogni tanto quando il treno si fermava o rallentava la voce del figlio era perfettamente udibile anche da me che ero più distante. All’inizio, quando erano entrati nel vagone, i due anziani genitori si erano messi seduti con una smorfia di sofferenza, lamentandosi per la fatica e il sudore durante l’attesa. Subito dopo era partita la telefonata, quando ancora la donna con il fazzoletto stava cercando di detergere il suo viso e quello del marito. Io ero salito tre fermate prima ed ero già stato sedato dall’aria condizionata, mentre i due vecchietti ancora alle prese con il caldo continuavano la loro guerra psicologica con il figlio. Sembravano irremovibili, ma quando il gelo dell’aria condizionata arrivò sulla loro pelle, come d’incanto cambiarono prospettiva, il loro corpo si destò da un sonno fatto di sofferenze e caldo asfissiante. Con un sorriso si guardarono, lui posò il telefono sulle gambe e si diedero un bacio, subito dopo venne confermato l’acquisto dello scooter a breve termine. Da quel giorno la mia vita cambiò, credo anche la loro, ragazzo con il

motorino compreso. Avevo assistito a qualcosa di incredibile, alcune cose che pensavo confusamente si trovarono legate fra loro da un filo trasparente, una linea che da ombra sconnessa divenne salda e visibile fino a diventare filo spinato. Ciò che era aperto si chiuse. Quello che provavo e che avevo vissuto mi fece pensare a un lungo tentacolo di una piovra, liscio, senza le ventose che lo ricoprono, una linea azzurra che si muoveva sinuosa e silenziosa seguendo un percorso memorizzato da chissà quanto tempo.»

Gli occhi dell’Oracolo si erano fatti di colpo assenti, poi però tornò su di noi cercando nei nostri visi una certa reazione, ma quando non la trovò non fece drammi, riprese semplicemente a raccontare dal punto in cui si era interrotto.

«Il tutto grazie all’aria condizionata al massimo. Anticamente c’era chi riusciva ad avere poteri divinatori grazie all’osservazione del fuoco, interpretando l’andamento del vento o dei sogni, squartando animali, io invece grazie all’aria condizionata. Non vi sembra buffo? Sono partito da lì, una giornata come tante altre in cui stavo per tornare a casa, un luogo che non vidi più e di cui, da quando vivo su questo treno, ho dimenticato perfino l’esistenza. In quei momenti iniziali concitati della telefonata non avevo previsto nessun risultato a favore del ragazzo: quello che avvenne si trovava da un’altra parte, nella mia mente e nel mio corpo. Non rimase come un’esperienza vissuta, si trasformò in codice di lettura che filtra tutt’oggi la mia vita, quella degli altri. E ora eccomi qua, a parlarvi del mio ato. In fondo non è importante, non per tutti i presenti, forse lo sarà in futuro per qualcuno che sta seduto davanti a noi. Ma torniamo alla questione originale; eri venuto per chiedermi del gruppo. No?»

«Sì, ma adesso non so bene perché» disse Bob.

«Non ti preoccupare, la questione è semplice: prendete il tipo che viene da fuori, com’è che si chiama?»

«Hrv78» disse Bob.

«Sì, lui, sarà un ottimo componente, una persona affidabile e se deve fare molta strada per venire alle prove, va bene lo stesso, anzi, durante il viaggio in macchina avrà modo di riflettere, potrà ascoltare i demo che farete in sala prove, le canzoni dei Police che deciderete di suonare insieme. Solo chi parla con se stesso sa essere creativo fino in fondo.»

«Anch’io abito fuori città» dissi con un sorriso che voleva compiacere la deliberazione appena enunciata.

«Non ho finito, dovete prendere anche la ragazza. Flam.»

«Come la ragazza? Che c’entra? A noi serve una sola persona, i Police suonavano con un’unica chitarra.»

«Non suonerà la chitarra, sarà la cantante.»

«È impossibile, sono io il cantante, suono anche il basso» disse Bob ad alta voce.

«Non sarà necessario, hai una voce troppo profonda, una tonalità più simile a un tenore che a quella fina e velata di Sting. Sì, anche Sting suonava il basso e non c’era una donna nel loro gruppo, ma se farete così la sua voce sarà più simile a quella originale e sempre meglio della tua. So perfettamente che sai tutte le canzoni a memoria; con lei però ci sarà l’elemento sorpresa, il gruppo avrà una sua identità ben precisa e anche se suonerete solo cover potrete dar loro la vostra

impronta. Sarete voi a prendere le decisioni, non le canzoni. Chi verrà ai concerti per la prima volta si aspetterà di vedere un uomo che suona il basso e che canta. Quando salirete sul palco, prima che vi avviciniate agli strumenti, l’immaginazione li spingerà a pensare che voi siate un gruppo misto composto da tre componenti più una voce maschile solista. Sussurreranno con sorpresa la presenza di un elemento in più rispetto ai Police originali. Mai si aspetteranno una donna che canta, mai. Sarà un successo e dipenderà solo da voi.»

A una fermata fatta chissà quanto tempo prima erano scese moltissime persone, lasciando il nostro vagone semideserto. L’aria condizionata continuava il suo lavoro di risanamento meteorologico, mentre riflettevamo sulla previsione appena descritta dall’Oracolo. Bob riprese i fogli e li infilò nella tasca posteriore dei jeans, come aveva fatto quando dalla panchina infuocata ci eravamo diretti verso le porte del treno: la sua mente probabilmente stava facendo calcoli, algoritmi in successione, note musicali, sonorità femminili, un concerto con tanta gente.

«Sono senza parole. Il mio amico batterista l’aveva proposto, aveva detto di prendere la ragazza come cantante, ma io non gli avevo neanche risposto, mi sembrava una cosa fuori da ogni parametro dei Police, ma se le cose stanno così faremo come hai detto tu.»

Non so il motivo, ma mi sentivo appagato; credo che il mio viso esprimesse un sorriso di approvazione, che lo stesso Oracolo sembrava condividere.

«Tu non suoni?» L’Oracolo rivolse il suo sguardo verso di me.

«Chi, io? No, troppo difficile. Cambiare le corde, controllare i microfoni non fa per me, io seguo il gruppo, sarò il quinto Police.»

«Un’ultima cosa: fate attenzione al batterista, con il tempo inizierà ad avere dei dubbi, di tanto in tanto va rifocillato, per lui è uno sforzo maggiore rispetto a voi. All’inizio sarà entusiasta, ma con il tempo quest’euforia calerà di colpo insieme alla sua volontà di fare concerti e fare tardi la sera, soprattutto quando il giorno dopo dovrà andare a lavorare. Se non starete attenti vi ritroverete senza batterista.

«Questo non è possibile» disse Bob.

«Se non mi dai ascolto dovrete affrontare la cosa quando sarà già troppo tardi. Cosa farai dopo verrai a portarmi un’altra lista? Dovrai essere tu quello che tiene su il batterista, e quando noterai in lui un certo rilassamento, dovrai impegnarti di più. Il tuo amico non è solo importante, è anche bravo, è la parte fondamentale del gruppo, senza di lui non ci sarà un altro batterista. Adesso devo andare. Addio.»

L’Oracolo si allontanò da noi, ma dopo appena due i tornò indietro, in equilibrio precario.

«Com’è che hai detto? Com’è che diceva Paul?»

«Non ho capito, chi è Paul?» disse Bob.

«Cosa diceva Paul?»

Lo sguardo di Bob cambiò di colpo assumendo via via un’espressione sempre più seria e preoccupata. I due si guardarono con Bob che da un lato cercava spiegazioni a qualcosa che aveva appena ascoltato e con l’Oracolo che invece aveva stampato sulla faccia la stessa espressione che gli avevo visto fin da quando ero entrato in quel treno, decisa e solenne.

«Diceva che i casi a volte rimangono irrisolti» disse Bob con la testa piegata sul petto.

«E chi era a impedirlo?»

«Era lo stesso Paul.»

«Adesso devo proprio andare.»

Si guardò ancora le mani rigirandole su entrambi i lati, poi si voltò e s’incamminò lungo il corridoio del treno, verso la coda, sorreggendosi alle pareti.

«Ma perché si muove così? Sembra non reggersi in piedi. E che voce era quella? L’hai sentita anche tu? Forse usa una specie di microfono?» chiesi con la curiosità di un bambino.

«Lui prevede il futuro.»

Quello fu il nostro primo incontro. Imparai a conoscere bene l’Oracolo ritornandoci più di una volta, anche se sempre con la rassegnata sicurezza di non ricevere mai indicazioni sulla scomparsa di Chiara. Però il suo atteggiamento rivelava comprensione, una vicinanza allo condizione in cui mi trovavo, la drammaticità del mio nuovo stato di latitante: ogni volta che ci vedemmo poté farmi dimenticare sempre qualcosa in più, un pezzo alla volta.

Per il momento mi andava bene così, non stavo peggiorando. Mi sembrava sempre strano che pur non sentendo la sua voce prima d’incontrarci lo trovavo sempre al suo posto ad aspettarmi, nell’orario in cui avevo deciso di arrivare, sempre da solo e mai in piedi a barcollare nel vagone, seduto fra i comuni eggeri con un posto libero al suo fianco, intento a leggere un giornale o ascoltare la radio con le cuffie, a volte addirittura addormentato. Quello che non era cambiato era il suono della sua voce.

Tutto ritornava e prendeva forma nei miei ricordi. Avevo tremendamente bisogno delle sue strane preveggenze, in realtà di qualunque cosa, anche solo sapere se Chiara era ancora viva, ma niente di quello che disse riuscì a fare luce sull’oscurità che avvolgeva il mio futuro. Le visite all’Oracolo mi mostrarono con il are del tempo alcuni lati della sua personalità che in un primo tempo, durante la latitanza e nei primi incontri con lui, non avevo ancora messo a fuoco. La cosa più strana in assoluto era senz’altro la sua voce elettrificata. Ma c’era anche altro, anche se non così evidente: c’era la sua nobile presenza seduta al mio fianco e mai di fronte, il parlare di cose che non erano utili alla mia ricerca, le immagini del suo instabile movimento mentre si aggirava tra i corridoi del treno, in realtà erano tutte azioni con uno scopo ben preciso. La sua voce per esempio, una voce che sembrava amplificata e filtrata da un telefono cellulare. Non capii mai come potesse emettere un tale suono; era convinto che in questo modo le persone che lo ascoltavano avrebbero posto più attenzione a quello che aveva da dire. Il risultato era perfetto, non avevo bisogno di guardarlo per capire i movimenti del suo viso, mi bastava ascoltare anche se girato da un’altra parte, sempre attento a non farmi riconoscere. Capivo tutte le parole senza nessuno sforzo, il problema era che non ne capivo il senso. Un’esposizione perfetta, una voce elettrificata e rilassante che non concedeva dubbi, almeno nel significato letterale del termine, ma che semanticamente lasciava molto a desiderare. Era

come ascoltare una talk radio. Ne venivo ogni volta catturato, era come se la sua voce evocasse fantasie e ragionamenti che in condizioni normali probabilmente non sarei riuscito a sentire. Sarei potuto rimanere con lui, a un certo punto lo volevo fortemente, vivere sul treno solo per ascoltarlo, riuscii anche a confessare il mio proposito un giorno, ma fu solo un istante: se fossi rimasto la mia vita da latitante sarebbe potuta terminare da un momento all’altro, durante un controllo casuale da parte della polizia o di uno scrupoloso controllore.

Di certo gli strani aspetti della sua personalità non mi avrebbero aiutato a nascondermi, a mimetizzarmi fra la gente. Cercai di comprendere anche il perché del suo instabile incedere, di ricordare. Arrivai alla conclusione che oscillare fra i corridoi azzurri e sempre pieni di gente dipendesse dal fatto che in questo modo l’Oracolo si sentiva protetto, una semplice tecnica di autodifesa dai fattori esterni a volte imprevedibili, a volte violenti, un’incertezza che lo distoglieva dal suo equilibrio. Quel vecchio dai capelli bianchi sempre ben curati amministrava perfettamente la sua privacy, mettendo in atto e forse senza saperlo tutta una serie di diversivi volti a smorzare l’attenzione altrui o quantomeno a deviarla, come spostarsi in perenne pericolo di cadere, soltanto per essere lasciato in pace.

«Hai detto che saresti stato generoso se qualcuno ti avesse aiutato a capire perché non riesci a essere stabile su questo treno. Funziona, stai tranquillo. Quando ti ho rivisto avevi l’aria di un vecchio che non ce la fa a rimanere in piedi, ma che deve spostarsi per forza: neanche il più malintenzionato si azzarderebbe ad aggredirti, quasi non riuscivo a vederti, se non ti avessi già conosciuto non mi sarei azzardato neanche a chiederti il biglietto se fossi stato il controllore.»

«Io il biglietto c’è l’ho.»

«Ti prego, dimmi almeno se è viva.»

L’Oracolo parlava come al solito di argomenti che gli avano per la testa, fuori da ogni schema logico di pensiero, di musica. Nonostante una buona dose di concentrazione e di attenzione, non ci capivo niente, zero assoluto. Avevo provato a prendere appunti e a rileggerli con calma nella mia abitazione, ma erano tutti sforzi inutili che fra le altre cose mi stavano allontanando dalle mie scritture private. Avrei potuto raccontargli degli Appunti di innocenza, di quello che stavo portando avanti; una volta gli parlai anche dei fogli che mi aveva lasciato Chiara. Quel giorno lo trovai in piedi, ma subito dopo mi disse di sedermi accanto a lui come sempre. Sembrava stanco, canticchiava delle canzoni, in testa aveva un berretto di lana colorato che disse di aver trovato poco prima su un sedile del treno, mi fece uno strano effetto. Fu l’ultima volta che lo vidi.

Arrivai a pensare che veramente non sapesse nulla della scomparsa di Chiara e che parlasse con me per lo stesso motivo per cui io lo andavo a trovare, una piacevole e cordiale frequentazione, una strana amicizia. Anche per non rischiare più del dovuto, smisi di andare alla stazione.

Stavo girando da più di un mese e non avevo scoperto niente, nessuna traccia che potesse darmi una piccola speranza. Iniziai così a frequentare in maniera assidua anche i tre parchi della città con l’obiettivo di conquistarmi uno spicchio di solitudine all’aria aperta, un luogo dove riflettere e pensare a quanto e a che cosa andavo incontro, ma soprattutto per continuare a scrivere senza essere disturbato. Ne avevo scelto uno in particolare, un parco che sorgeva su una collina da cui, varcato il cancello, si poteva ammirare una vallata dall’erba ben curata e dagli alberi frondosi.

Una volta dentro, il visitatore aveva facoltà di scegliere se rimanere sull’altura o scendere nella valle, dove cespugli e alberi permettevano un anonimato pressoché perfetto. Appunti d’innocenza prese forma proprio in quegli anfratti.

La descrizione del processo era il mio chiodo fisso, narrazione confusa a righe

strette di una mal riuscita recita collettiva. C’era stato un errore e quindi l’unico obiettivo era uscirne e chiarire quell’orribile malinteso. Cominciai ad analizzare e nello stesso tempo a descrivere in maniera scrupolosa in Appunti di innocenza ogni singolo personaggio visualizzato durante le sedute in aula, dibattimenti chiusi al pubblico in cui il silenzio del tribunale faceva il paio con gli sguardi minacciosi degli attori di quella che percepii come un’irreale scena d’altri tempi. M avventurai in diciture che illustravano i modi di pensare, la trasformazione dei volti d’ognuno di loro, con sfumature che avevo percepito e con altre che inventai lì per lì, il tutto accompagnato da una scrittura alternata a piccoli disegni e a forme stilizzate. Il risultato era nel complesso soddisfacente, i disegni dell’aula del tribunale, i giudici, gli avvocati, fotografavano l’atmosfera che avevo respirato, le parole completavano il quadro e illustravano i miei più profondi incubi, come quando il mio avvocato mi aveva guardato con occhi pieni di sconforto. Descrissi quel gioco, una competizione da cui ero uscito sconfitto, un meccanismo contorto fuori da ogni logica e portata. Mentre scrivevo, saliva in me la convinzione di un distorto e inconcepibile sistema di giudizio, il non potersi basare su alcune regole che fino ad allora erano sempre state affidabili, il non poter guardare in basso senza avere nausea e giramenti di testa: il vuoto aveva preso il posto della massa e man mano che la scrittura andava avanti ne ero sempre più convinto. Concentrai l’attenzione sul mio avvocato, mi chiedevo di continuo il motivo per cui non era riuscito a spiegare com’erano andate le cose. Ipotesi, domande, vie di fuga che riguardavano anche me stesso, in quanto incapace come lui di fare la cosa giusta quando ero stato condotto a testimoniare di fronte al giudice.

Una versione che ricordavo bene, ma che non riuscii a tirare fuori come l’avevo preparata. Fatti i dovuti bilanciamenti arrivai alla conclusione che era il sistema a essere sbagliato. Scrissi di come la giustizia non potesse giudicare chi è davvero colpevole o innocente, domande a cui era impossibile rispondere per il momento, una separazione fra domande e risposte che si evidenziò da sola e senza che io inserissi anche solo una piccola parte di volontà personale. Due entità semisconosciute che si muovevano in uno spazio ristretto, ignare del loro imminente incontro, ognuna alla ricerca di se stessa, con una coscienza comunque pronta a incontrare qualcosa di diverso, aperta a ogni soluzione, compresa quella di rimanere per sempre da soli. Perché non si poteva parlare liberamente? Perché non era possibile raccontare la propria versione dei fatti ed essere assolti all’istante subito dopo aver detto la verità? Il giudice fra le sue

facoltà doveva esserne in grado, per forza. Perché dev’esserci un avvocato e un pubblico ministero che portano avanti teorie in competizione fra loro? Qual era l’impedimento? Dire la verità e se si è innocenti assolti all’istante, per sempre. Com’era possibile che questo non fosse il sistema adottato da tutti i tribunali?

Non potrò mai difendermi come voglio se nessuno si fida delle mie parole, se nessuno è capace di distinguere alcune differenze. Due estranei non possono e non dovrebbero scontrarsi per una causa che non è la loro. Sarebbe tutto più equo, la giustizia trionferebbe. Io vengo messo a processo, dicono che ho ucciso una persona, una donna che amo: va bene, andiamo dal giudice, parlo, lui ascolta, mi crede e io sono libero. Basta poco. Tutte le persone dovrebbero avere la possibilità di difendersi in questo modo. Ci sono dei punti così fragili nei dibattimenti di oggi che stento a credere che nessuno abbia mai pensato di cambiarli. La prima cosa che mi viene in mente è l’istituzione del processo in differita, dieci secondi bastano e avanzano. Il pubblico ministero, l’avvocato difensore e l’imputato sono in una stanza insieme a un giudice, isolati dal resto del tribunale. Il giudice che si trova insieme all’imputato, tramite semplici tecniche di montaggio video, trasmetterà nell’aula solo le conversazioni pertinenti al processo, filtrate alla radice da obiezioni o contestazioni capaci di condizionare l’altro giudice e la giuria presenti in aula. Una soluzione che non permetterebbe a nessuno di farsi del male. Ma questo è solo un palliativo a un sistema errato già in partenza. Chi è innocente neanche ci dovrebbe arrivare, davanti al giudice.

Altre direzioni mi stavano attraendo. Le parole che scrivevo libere sulle pagine consumate in fretta, questa miscela fatta di sfogo e di ricerca, aprirono la strada ad altri nodi da sciogliere. Se prima era solo il processo ad apionarmi, adesso era tutto il mondo a ruotare sotto quest’astrazione appena concepita. Senza che me ne accorgessi ai dal dilemma “innocente o colpevole” a un’alternativa che non lasciava spazio a errori di nessun genere, una questione di vita o di morte.

Una persona malata di cuore una mattina esce di casa e si dimentica le pillole

che prende in caso d’emergenza; in strada per una ragione qualunque i suoi battiti cominciano a innervosirsi, si spaventa, perde la calma, gli viene un attacco di cuore, ma non ha con sé le pillole, quindi muore. Ma lui le pillole ce l’ha! Le ha a casa, non è che non le hai mai avute, non è che non esistono anzi, ne ha intere scatole nel mobiletto del bagno, se le è solo dimenticate. Se solo avesse portato il suo salvavita formato medicinale sarebbe vivo, gli sarebbe servito avere una cosa già in suo possesso e che viene venduta normalmente in tutte le farmacie. Basta poco. Mi trovo in strada e cercano di rapinarmi, sono in due armati di coltelli: una pistola spunta all’improvviso e i due rapinatori se la danno a gambe. Non si deve possedere un oggetto alieno, non serve una pistola al plasma che ancora devono inventare, solo una semplice pistola, che si può acquistare senza problemi e che qualcuno possiede già, perfino una scacciacani andrebbe bene. Una pistola finta che sembri vera e ci si può salvare la vita. Un’arma che non ei mai contro qualcuno, neanche se fossi costretto, ma che forse alla vista dei due ladri può apparire come un pericolo troppo grande per una rapina in strada. C’è un processo? Si va davanti a un giudice e finisce lì, non sto andando dal benzinaio a farmi giudicare, sto andando da un giudice che viene pagato per questo, il giudice esiste già, non me lo devo inventare o andarlo a cercare sulle montagne. Mi ci portano! Serve avere o usare qualcosa che è già in essere, un oggetto, un’istituzione disponibile per tutti e che si è evoluta al punto da risolvere i problemi ancor prima che accadano. Se allargo la visione posso notare per esempio come sia ingiusto o crudele affogare mentre si fa il bagno in spiaggia. Perché non si dovrebbe avere la disponibilità di un canotto, di un materassino, dei braccioli, di una ciambella mentre si cerca con le poche forze rimaste di rimanere a galla? Tutte cose che non vengono spacciate nei sobborghi notturni della città, materiale legale in vendita presso tutti i negozi delle città di mare. Non si deve costruire a mano, serve solo comprarlo e portarlo con sé quando si va a fare il bagno. Non è la teoria della nascita dell’universo, basta poco. Viviamo in un mondo imperfetto, non è sufficiente la buona volontà, la coscienza a posto, la voglia di vivere, serve sempre un canotto o un buon avvocato. Non è importante quello che dico, non dovrebbe essere importante quello che penso. L’Oracolo… Quando andai da lui insieme a Bob a un certo punto disse qualcosa riguardo a un tipo che non riusciva a unire due fili: forse sono io che devo fare dei cambiamenti, ma non so ancora dove.

Con una motivazione del genere e senza i mezzi per portarla avanti, in breve tempo caddi nella disperazione, nonostante provassi ancora qualche lampo di

euforia dovuto a una nuova scoperta, l’analisi di un altro punto di vista, un differente bisogno. C’era ormai solo la scrittura a mandarmi avanti. Avevo rinunciato ad andare in città, vivendo sempre in paese nella casa presa in affitto, senza mai uscire; mi facevo addirittura portare la spesa davanti la porta. Il processo era ormai cosa dimenticata.

Alle balene conosciute con lei per la prima volta in maniera adeguata, brindo a voi in questa mia cena solitaria che ho appena consumato. Un maschio e una femmina, un fratello e una sorella, evidenziando la forza della femmina rispetto a quella del maschio. Una forza che veniva da qualche luogo sconosciuto e che la metteva, ogni volta che udiva quella registrazione, stranamente a disagio. Quanto era bella quando faceva una smorfia con la bocca e mi ava le cuffie. E io ascoltavo, ora ricordo.

Mentre mangiavo scrivevo, mentre dormivo scrivevo, mentre scrivevo viaggiavo lontano con la mente, vicino e poi ancora più lontano, nelle profondità dello spazio, ad anni luce dalla terra, alla ricerca di altre forme di vita.

Penso a come si possa morire facilmente in un deserto, senz’acqua né cibo, ma soprattutto senz’acqua. Non parlo di esploratori professionisti, non parlo di programmi televisivi, ma di persone comuni, gente come me che in certe situazioni si fa prendere dal panico, com’è giusto che sia, purtroppo. Non mi salverei neanche se a un certo punto mi trovassi di fronte a una fonte d’acqua: potrebbero volerci giorni prima che qualcuno si avventuri da quelle parti e in quel caso morirei di fame. Potrei allontanarmi dalla fonte in cerca d’aiuto, di cibo, potrei uccidere un animale che viene ad abbeverarsi, ma è più probabile che lui uccida me. Quello che servirebbe è una tanica di plastica, una borraccia facilmente trasportabile e capiente. Un semplice oggetto e le probabilità di vivere si allungherebbero a perdita d’occhio. Basta poco. Non serve cercare dell’acqua, l’ho già trovata, devo solo cercare un modo per trasportarla e per poi poter sperare d’incontrare qualcuno fra le dune. È incredibile come può cambiare il valore di un elemento rispetto alle proprie esigenze. Come si convive, come si sopravvive senza annientare il terreno che ci sostiene in vita? Senza equilibrio.

La fortuna non si basa sul fatto che si deve avere quello che non si è mai avuto: non si deve barattare la propria vita con un diamante, ma con qualcosa che è solo poco distante e che in certi casi si possiede. Uno spicciolo di semplicità. Non si tratta solo di sopravvivenza, rischiare di dover morire abbandonato nel deserto, i problemi possono nascere anche dietro a situazioni ordinarie, dove è in gioco la dignità. Ci sono i rapporti sociali, le persone che parlano e che cercano di comprendersi a vicenda. Vengo chiamato dal capoufficio, il direttore, c’è un problema di cui io non sono il responsabile, un danno che si sta cercando ancora di risolvere, quest’uomo mi esorta a illustrare le mie ragioni, devo dire solo la verità. Basta poco. Il capo però è prevenuto, il collega di lavoro chiamato insieme a me è più bravo nel parlare e devia le colpe verso di me e tutto finisce con scuse che, pur avendo ragione, capisco di dover esprimere per non rischiare ulteriori complicazioni. Non deve andare così. È talmente tutto chiaro ora che posso collegare l’intera vicenda in un secondo, guardare dove solo pochi giorni fa non sapevo neanche di poterlo fare, quando viaggiavo sui treni e in città. Adesso, apparsi dal nulla ci sono problemi d’ogni tipo e natura, situazioni di cui non conosco nemmeno la provenienza, esperienze che non ho mai avuto l’occasione di vivere, racconti che ho sentito solo di sfuggita e non avevo mai avuto il coraggio di approfondire. Non parlo di oggetti che possono salvare la vita a un malcapitato, parlo di pensieri, capacità che la normale evoluzione dell’uomo avrebbe dovuto ormai possedere. Ampi pensieri, specchi di memoria.

Gli appunti presero così tanto spazio nella mia vita che l’unico momento in cui staccavo con facilità dalla scrittura era quando mi immergevo nella vasca da bagno. Acqua bollente. La temperatura era importante, un leggero sentimento di freddo risvegliava dubbi e mi faceva subito uscire per continuare a scrivere; quindi integravo con altra acqua bollente facendo uscire dallo scarico quella che si era appena intiepidita. Consideravo quel gesto all’apparenza votato alla pulizia personale come una eggiata nel buio; nonostante i pensieri girassero senza sosta il mio corpo rimaneva immobile, il buio avvolgeva gli odori, niente appunti, niente legami e intrecci che cercavo in ogni occasione di sciogliere potevano distrarmi, un vuoto di memoria pacificato. Se un’idea chiedeva udienza avrebbe dovuto aspettare e se impaziente se ne fosse andata non ne avrei fatto un dramma, l’avrei lasciata andare, perduta per sempre.

La casetta in affitto in fondo mi faceva sentire bene, i mobili, l’atmosfera che si respirava, gli odori che nel corso della giornata si davano il cambio al cospetto della mia presenza, tutto era capace di schiarire lo stato di abbandono in cui ero caduto. Poi però il panorama che si estendeva dalla finestra della camera da letto, una finestra più alta di me fatta di legno morbido quasi vuoto e di vetro, una vista che innalzava i miei pensieri verso confini sempre più alti, un panorama attraente molto più profondo di quello della mia vecchia casa dove avevo sempre abitato, portava ulteriore conforto.

Trovarsi di fronte a una persona ben vestita che fa belle domande con l’unico scopo di assumere un nuovo dipendente. Un colloquio. Può capitare di essere colui che gli sta di fronte, può succedere di avere tante speranze legate alla propria sicurezza professionale, esserne sicuri al punto di pensare a quali vantaggi otterrà l’azienda, subito dopo la firma del contratto. Succede qualcosa, nascono delle incomprensioni, personalità che si scontrano e dove nessuna delle due vuole uscirne sconfitta. Si diventa d’improvviso la persona giusta al momento sbagliato e tutto va storto. Le parole che si era pronti a pronunciare sfuggono al controllo per poi tornare in un secondo momento, quando ormai non servono più. Ma perché dovrebbe esserci incomprensione? La volontà è medesima, le intenzioni simili se non uguali, e invece niente. Si vuole la stessa cosa eppure non ci si riesce a intendere, un qualche meccanismo mentale taglia la strada alle intenzioni e tutto finisce nel nulla di fatto. A me sembra semplice, la vita com’è adesso invece non lo è affatto. Ci vogliono altre doti, non bastano l’impegno e i sacrifici. Non deve e non può andare in questo modo, se c’è un problema allora dev’esserci una soluzione. Se io voglio qualcosa e anche la persona che mi sta davanti vuole la stessa cosa, lo sforzo massimo richiesto dovrebbe essere simile a quello di girare la maniglia di una porta, che ci vuole? Basta poco. Si dovrebbe immaginare il futuro, sapere cosa dire e cosa fare al momento giusto, saperlo prima, avere le capacità e le carte in regola per ottenere quello di cui si ha bisogno, dovrebbe essere tutto automatico, non possono verificarsi fraintendimenti, altrimenti dove andremo a finire? Si dovrebbe saper riconoscere chi ci sta davanti, intendere quello che il nostro corpo andrà ad affrontare di lì a pochi minuti: se questo può salvare la vita, allora dev’essere alla portata di tutti.

Non voglio morire.

Anche Chiara era sparita per sempre. Il suo sguardo mi aveva subito creduto, nonostante la cupa allegria che trasmetteva, un affresco temporaneo della sua personalità che non per questo la faceva diventare una donna meno coinvolgente. Un’esperienza vissuta già dai primi istanti con la stessa intensità di come io adesso l’immaginavo possibile per tutti, quell’interruzione aveva creato un distacco, un abbandono che solo ora stava portando a termine il suo lavoro e quello che chiariva con la sua presenza, la storia che era avvenuta, non mi piaceva affatto. Per questo cercavo a prescindere dai successi della ricerca, era la spinta nucleare che Chiara mi aveva trasmesso e che mi faceva pensare che non mi sarei fermato per niente al mondo, a costo di impegnare il resto della mia vita nello sforzo di compiere un risultato.

Sarà lei a mandarmi avanti, ne sono sicuro. I tentativi che porterò con me in questo percorso pieno di indistinte convinzioni, anche se non sostenuti da successi evidenti, mi indicheranno i prossimi traguardi da raggiungere, una sorta di ultima difesa che mi sosterrà quando i dubbi cercheranno di fare piazza pulita delle deboli certezze fin lì acquisite. Forse alla fine mi renderò conto che la mia vita doveva andare così, senza possibilità di uscire allo scoperto, ma non m’importa adesso. So cosa devo fare e questo è già un enorme successo per me. Spero solo sia Chiara la persona che troverò alla fine della strada e mi auguro sia viva, sorridente e con un abbraccio reciproco capace di scacciare via tutte le ingiustizie patite. C’è una relazione e anche se non esistesse la farò esistere io, legherò il suo destino al mio per poi unirci a tutti quelli che vorranno seguirci. Mi farò trasportare dalla volontà mai sopita definitivamente, determinato a cercarla ancora, risoluto nel tentativo di sapere cosa è successo, per comprendere fino in fondo i concetti del “basta poco” e poter riunirmi alla persona che amerò per sempre. Intanto continuerò a scrivere. Una coppia di fratelli che giocano con l’azzurro dell’acqua, un maschio e una femmina.

Una donna libera

Quest’uomo non è mai stato sposato. Ora che riesco a vederlo bene, sono in grado di percepire il suo lato oscuro, un uomo malvagio e fuori di testa che aveva camuffato la sua identità con successo per poi scoprire le sue carte maledette, bastardo. Ora però non può più nascondersi, deve per forza di cose essere quello che è, la stessa persona che mi appare ogni volta che entra da quella porta, un essere che non merita nemmeno una risposta a quelle che lui considera domande, ma che in realtà sono solo macchinazioni di cui lui è maestro e che per fortuna non mi fanno più paura.

In quest’ultimo anno ho studiato ogni singolo movimento del suo corpo, dei suoi vestiti, ho rielaborato tutti i tentativi di comunicazione messi in piedi per avere almeno una speranza nei miei confronti, ma da quando è subentrato fra noi un diverso bilanciamento di potere e di connessione con l’esterno, ciascuna frase ha cessato di avere significato per le mie orecchie.

Da come lo vedo io, nella sua nuova veste che gli ho stampato indelebilmente addosso, mi sembra evidente che in un tempo lontano quest’uomo avesse qualcosa in cui credere, un briciolo di storia personale che portava avanti come poteva. Adesso invece è solo caos, una serie di sciagure che lo hanno prima abbattuto e poi portato a diventare quello che è, un’infelicità meccanica.

Non ricordo come sia riuscita a farmi un quadro così preciso sulle situazioni che ha dovuto affrontare prima di entrare nella mia vita; fatto sta che ogni idea, ogni intuizione corrisponde alla realtà. Lo vedo dai suoi movimenti, da quello che dice, dal suo odore. È come se girasse per la stanza con una didascalia stampata su ogni parte del corpo. Lui non ne è a conoscenza, immagina che io sia la vittima e che prima o poi, colta dalla disperazione, ceda ai suoi ricatti. Non so quando tutto questo avrà fine; forse un giorno lui si arrenderà all’evidenza o

forse sarò io ad arrendermi a lui, ma finché ne avrò la forza combatterò con tutta me stessa. Non posso giudicare e nemmeno giustificare quanto mi ha fatto e quanto continua a portare avanti senza avere la benché minima idea su quello che accadrà dopo, in fondo siamo vittime tutt’e due del suo caos interno; certo, io più di lui, ma tutto sommato lui non se la a meglio di me. Cosa lo abbia portato a questo crudele trattamento nei mie confronti, non mi interessa più di tanto. In questo momento sono impegnata a centellinare le forze e dosare ogni singola parola e movimento verso quella che un giorno sarà la vera resa dei conti.

Le sue avversità, che sfilano segretamente davanti ai miei occhi, allietano le mie indistinguibili giornate; la mia è una sorta di atempo, una caccia al tesoro mentale. Posso immaginarmelo mentre camminava per le strade, con l’andatura di chi sa il fatto suo, pieno di soldi e di donne, a bordo di una bella macchina, mentre ordina champagne contornato da amici e amiche della sua stessa estrazione economica. Un uomo ricco, ecco come dev’essere stata la sua vita quando aveva vent’anni, una volta ne ha anche accennato, poi dev’essere capitato qualcosa alla sua famiglia.

Mi immagino i vestiti che lentamente diventano sempre meno eleganti, le eggiate in città sempre meno frequenti, l’incedere malsicuro, un’incertezza che si dev’essere trasferita sugli abiti che indossa, offuscandoli sino a farli diventare grigi e pieni di polvere. Una polvere invisibile che nel corso degli anni ha ricoperto la sua vita.

Mi viene in mente una scena emblematica del ato, lui che parla con alcuni amici: man mano che la conversazione va avanti essi se ne vanno a uno a uno, e mentre con lo sguardo li accompagna andar via non si accorge che i residui della sigaretta gli stanno cadendo sui pantaloni, con la mano a cucchiaio adibita a posacenere. L’immagine della stessa disperazione che gli leggo negli occhi anche adesso, le poche volte che mi degno di guardarlo mentre dice qualcosa di insensato. Oramai mi sono familiari quei piccoli frammenti di polvere che gli ricoprono la giacca, i bordi del bavero, le maniche, perfino nelle aperture delle

tasche esterne, sempre la stessa giacca, lo stesso vestito che indossa da più di un anno.

«Chiara, devi mangiare, non fare così, ti prego, non voglio farti del male.»

Per me è un vantaggio non rispondergli. Lui immagina che sia sfinita, che voglia mollare tutto e assecondare le richieste e le confessioni che mi fece il primo giorno, e che ora non ricordo nemmeno quali fossero. Dev’essere l’unico vestito che possiede, sporco di cenere, ricoperto da un alone di buia esistenza, quello che indossa ogni mattina con l’ultimo centesimo di dignità che possiede.

Non so come possa mandare avanti tutta questa situazione e non solo a livello mentale, soprattutto economicamente, dove trova i soldi per vivere, per mangiare, per la corrente elettrica; questo non mi è dato di saperlo, forse un vecchio lascito che comprende la terra in cui abita, la casa e poco altro. Ha ancora dei soldi, ma stanno per terminare e invece di mettersi a lavorare ha deciso di montare quella che adesso si è trasformata in una cosa più grande di lui.

«Tu non sai la vita che ho vissuto io, le persone importanti che ho conosciuto e il tuo silenzio lo sta a dimostrare. Non puoi neanche immaginare quando entravo in un ristorante quanti camerieri erano pronti a esaudire ogni mio desiderio.»

A un certo punto, probabilmente ha cominciato a bere, o a giocare a carte perdendo tutto. Si vede che è un perdente.

In seguito deve aver chiesto un prestito a qualcuno, forse un amico gli ha offerto dei soldi e in lui devono essersi risvegliati i fasti di una volta; ritengo abbia

pensato che la fortuna riiniziasse a girare dalla sua parte, ricominciando così a offrire da bere a cene costose in costosi alberghi, dove sotto l’effetto dell’alcol poteva raccontare storie del ato. Ma il tempo era trascorso e né lui né i soldi potevano farci niente. Si sarà rituffato nel gioco d’azzardo riperdendo tutto una seconda volta. Poi, in un ambiente che ancora non sono stata capace di spiegarmi, ha conosciuto me. Si è allontanato di colpo, disciolto dopo che quella notte eravamo stati insieme. Con il trascorrere del tempo sarà senza dubbio tornato sui suoi i, pentendosi d’avermi lasciata andare, non poteva sapere cosa io stessi pensando di lui, non poteva in nessun modo immaginare i dubbi che mi avevano assalito in macchina quella sera, poi quando si è ripresentato non ha accettato il mio rifiuto. Non c’entrano i soldi, all’inizio forse, ma adesso è tutto diverso: sono ata dall’essere una fonte di guadagno, a una preda da mettere sotto chiave e infine, una donna con cui stare insieme mantenendo in vita uno strano rapporto, una comunicazione che nessun altro essere umano sopporterebbe così a lungo. Se fosse stato per il denaro la sua scelta sarebbe senza ombra di dubbio sbagliata. Quante dosi di assurdo e insensato pregiudizio ci sono nell’idea di cacciarsi in questa vicenda senza uscita? La risposta è circoscritta in un particolare che deve aver notato in me, un lato della personalità, di come sono fisicamente, di uno specifico mio modo di fare. In un modo poco ordinario direi, una violenza e una crudeltà fuori del comune. L’incontrarmi per la prima volta deve per forza avergli provocato un black out, che non è riuscito più a controllare. Lo capivo dai suoi discorsi che a volte rasentavano la follia.

«Da quella notte che siamo stati insieme noi siamo un’unica persona e se ora non ricordo il tuo nome non è importante, quello che conta è la nostra unione. Siamo solo all’inizio, dobbiamo completare l’opera.»

Forse gli ho ricordato qualcuno, una donna con cui ha avuto un rapporto normale e che per una notte gli si è concessa senza ostacoli, amandolo e desiderando il suo corpo. Spero solo che questa persona sia ancora viva. Ho gridato per tutto il tempo durante il quale ero ancora convinta che qualcuno potesse udire la mia voce. Un anno scandito da sofferenze e privazioni, in cui la mia negazione ha trionfato al cospetto delle sue innaturali facoltà di prendermi con la forza. Ho immaginato droghe e violenze d’ogni genere, soprattutto i primi giorni in cui ero

chiusa nella stanza in cui tuttora sopravvivo; ho provato a scappare continuando a gridare e a usare tutto quello che avevo sotto mano contro di lui, ma non è servito a niente. Spero ancora in un colpo di fortuna, un biglietto della lotteria giocato non con la speranza di vincere, abbandonato in qualche tasca di una borsa, di cui ricordo l’esistenza: il solo pensiero che esista mi fa stare meglio.

Piango lacrime esauste, ancora oggi quando il dolore si acuisce, quando mi accorgo di non aver nessun appiglio di salvezza. Chiudo gli occhi e mi lascio andare. In quella specie di sonno controllato respiro aria senza la pressione che normalmente poggia su di me, una sensazione bella da un certo punto di vista, ma certamente pericolosa, abbandonando le tensioni che loro malgrado mi hanno impedito di morire. È strano come siano rimaste solo loro a mantenermi in vita, ansie che agiscono come trazioni: invece di abbandonarmi a esse ne mantengo l’intensità a un livello sempre più alto, ed è per questo che il loro peso sta diventando un fardello troppo pesante per la mia sopportazione, per i limiti che già ho superato un’infinità di volte. Sarebbe gratificante non doversi più preoccupare di come comportarmi con Manuel, di quali sotterfugi mettere in atto per spaventarlo e tenerlo lontano da me, un’altra boccata d’ossigeno, l’ultima. Un colpo di fortuna che conduca la polizia a fare un controllo casuale in questa zona, di cui non conosco la posizione.

Non sono mai riuscita a capire cosa ci sia all’esterno, non riesco a vedere nemmeno uno spicchio di cielo. Posso fare solo delle supposizioni. Mi fa pensare a un terreno di campagna isolato dalle persone e dalla strada e sono i deboli rumori che sento a indicarmelo; gridare non serve a niente, lo fa irritare, è solo fiato sprecato. Nessuno abita con lui, altrimenti avrei visto dei cambiamenti, è lui a cucinare, cibo che non mi attira più come i primi giorni e di cui ho imparato a farne a meno. È sempre lui a portarmi i vestiti puliti e a sistemare la mia stanza. Azioni che lo portano a giustificare la sua vicinanza, mentre cerca di parlarmi, di spiegare.

«Ti ho portato dei vestiti leggeri così potrai stare più fresca. Ti va di parlare un po’ con me? Ci sono tante cose che tu non sai e se me lo permetti sono pronto a

interpretarle insieme a te.»

Nessuno viene mai a trovarlo, anche se non abita nello stesso posto in cui sono io, ne avrei sentito il rumore. Ho un ricordo confuso di quella prima notte, io che sono in macchina da sola, che lo vedo aprire un cancello e che subito dopo rientra in macchina sbattendo la portiera, un rumore che deve avermi svegliato. Poi non ci sono più ricordi.

Ogni tanto sento delle chiavi che chiudono una porta poco distante, probabilmente dove lui risiede, una macchina che parte e il cancello che si chiude. Non sento nient’altro, né televisione né radio né altre voci, solo qualche uccello e un latrato di cani lontani. Sta fuori per un tempo che stimo essere di due ore, sento la macchina avvicinarsi e il motore che si spegne con un borbottio sincopato, sportelli che si chiudono e si riaprono. Probabilmente in quelle giornate va a fare la spesa.

«Siamo una famiglia.»

È questo che lui crede, le parole che mi sussurra mentre mi guarda poggiato alla porta, con le mani incrociate sul petto. Due persone che hanno un rapporto e che nonostante incomprensioni profonde vanno avanti da un anno. Incarno nelle sua immaginazione il ruolo di una moglie separata in casa, una donna che non ha nessun punto in comune con l’uomo che ha sposato e che reagisce con violenza a ogni tentativo di approccio da parte sua. Ecco chi devo sopportare, assecondare e tenere lontano il più possibile, è questo l’uomo che mi ha rapito. Chissà per quanto tempo ancora questo equilibrio potrà durare, non è eterna la vita e nemmeno la sua. Ho apportato numerosi cambiamenti al mio modo di fare fino ad arrivare alla scelta di appoggiarmi come fa lui su uno stato di cose in apparenza immutabile, una condizione di isolamento che in ogni caso, se io dovessi ribellarmi con la forza come ho fatto in ato, non cambierebbe mai e che quindi ho assimilato come una cosa del tutto normale. Forse ho sbagliato a fare così, forse avrei dovuto continuare a oppormi con tutta la forza che avevo,

ma ho preferito mettermi in parallelo con lui, con l’idea che se lui riesce a sopportare questo scompenso, posso farlo anch’io.

Un confine fisico che non è mai stato violato, almeno per tutte le situazioni in cui sono stata cosciente. È questa distanza che mi ha spinto a sopportare fino all’inverosimile questa situazione. Mi ricordo il terrore e la rabbia quando ai la prima notte in questa stanza, mi ricordo il buio, l’assenza di rumori, i suoi i che andavano e venivano, l’odore delle sue sigarette. Se devo essere rinchiusa tanto vale non avere nessun rapporto, né visivo né verbale né tantomeno fisico; vivo questa carcerazione con un certo orgoglio. L’unico rammarico è che forse, anche se lo volessi, non potrei più cambiare. Provo molta sofferenza e per fortuna riesco a rigettarla fuori nel momento in cui si genera, quando rimango sola la notte; allora e solo allora mi dimentico di esistere, non sono più lì e non bastano di certo i sogni a liberarmi dall’angoscia.

Sono sempre all’erta e quando a volte penso di lasciare perdere tutto e di non pensare più a nulla, è perché questo impegno di guardiana delle mie debolezze mi sta sfinendo. Non so precisamente quando, ma fra non molto non ne sarò più in grado. Senz’accorgermene sono diventata una persona razionale, come forse non lo ero mai stata prima di adesso. Gioco con il fuoco, lo so, a volte è lui stesso a ricordarmelo, ma il mio stato d’animo ha assunto a sé un’energica presa di posizione, è diventata una questione di principio. Doso le energie fisiche e quelle nervose e appena lui si presenta dentro la stanza, per portarmi da mangiare o tentare di parlarmi, gli getto addosso tutto lo sdegno che sono capace di urlargli in faccia.

Se mi fai del male, ti prendo a morsi, lurido maniaco.

Se mi fai del male, ti prendo a morsi, lurido maniaco.

Se mi fai del male, ti prendo a morsi, lurido maniaco.

Se mi fai del male, ti prendo a morsi, lurido maniaco.

Se mi fai del male, ti prendo a morsi, lurido maniaco.

Se mi fai del male, ti prendo a morsi, lurido maniaco.

Una reazione che ho lasciato come sfogo personale e che lui tollera senza problemi apparenti, nonostante gli impedisca materialmente di parlare con me. Non è solo il mio sdegno a uscirmi dalla bocca per poi esplodergli in faccia, il mio e di quello di un coro di altre dieci persone, tutte insieme e tutte con un tono di voce diverso. Non so come sia possibile che io sia in grado di tirar fuori una simile voce e non mi interessa più di tanto, sono solo attenta che non se ne vada: altrimenti perderei in un colpo solo la speranza di sopravvivere e l’unica arma che ho a disposizione. Queste sono le mie difese contro l’uomo che ha deciso di togliermi di mezzo senza però uccidermi, queste sono le mani che hanno costruito il castello che lentamente cerca di nascondermi alla sua vista. All’inizio pensavo a uno scherzo, poi a un rapimento a scopo sessuale, poi ho capito che all’inizio neanche lui sapeva quello che voleva. Adesso sono sicura che lo scopo è tenermi con lui, vicino a dove dorme, non gli importa se distante, vuole avermi a disposizione, sapere che quando vuole può vedermi e stare nella mia stessa stanza. Non importa se io sono di spalle, non fa differenza il suono della mia voce: rimane lì senza dire nulla e con la schiena poggiata al muro o seduto per terra con lo sguardo nella mia direzione, che cerca di catturarmi una seconda volta.

Ha voluto fermare il corso della mia vita, vuole possedermi, ma non lo permetterò. Non ho mai chiesto il motivo e mai dalla mia bocca uscirà una tale domanda. Dopo aver consumato tutti i soldi si è accorto di aver perso anche me,

a quel punto ha deciso di rapirmi.

«Sei una strega, come fai a tirar fuori quelle voci? Se credi di spaventarmi ti sbagli di grosso, non mi conosci.»

La vita si è fermata, sì, sento il tempo scorrere anche se non lo vedo esternamente, non ho punti di riferimento, ma quel poco che mi è dato di osservare lo faccio mio, lo metto da parte e quando sono da sola ci ritorno su. Un cambiamento climatico, un diverso tipo di cibo, la sua espressione. Il tempo dimenticato, veloce e rumoroso compagno di viaggio, chissà se ogni tanto pensa a me, se si chiederà durante una pausa notturna dove sia finita. Almeno lui mi sta cercando?

Avranno cercato dappertutto, chiesto informazioni, spero stiano continuando a farlo anche adesso, proprio in questo momento, mentre me ne sto seduta sopra il cuscino a gambe incrociate, mentre cerco di fermare la luce che sta scomparendo dal piccolissimo buco nel rivestimento della finestra. Erano proprio piccole le aperture di queste vecchie costruzioni, da quello che mi ricordo le case di campagna e specificamente la mansarda in cui credo di vivere, hanno sempre avuto piccole fessure per fare entrare la luce e sotto certi aspetti era anche giusto per quei tempi. Il problema è che nessuno si è mai immaginato che potessero essere usate come uno strumento di tortura, nessuno ne immaginava un uso tanto perverso, rinchiuderci una donna per un anno intero.

Cerco per quanto possibile di non girarmi mai dalla sua parte, verso la porta, quando lui entra sto sempre in questa posizione e se lui si mette a parlare con me o cerca di mettersi davanti girandomi intorno, lo fulmino con le parole, il suono della mia voce. All’inizio ho provato a non toccare cibo e non bere; poi ho ripreso a mangiare, però ho smesso di parlare con lui.

«Cosa ti prende? Sono tre giorni che non dici una parola» mi disse la prima volta che si accorse del mio silenzio.

Forse oltre a lui ci sono altre persone immischiate in questa storia, neanch’io ho le idee chiare, ma non voglio farglielo capire, deve pensare che io abbia un piano preciso e che il mio stia funzionando. La casa dove abita non dev’essere distante da dove sono io, sento il rumore dei suoi i quando si allontana da qui e quelli di quando sta per tornare. Ieri mi ha detto che mi avrebbe portato una sorpresa, ma a me non me ne frega un cazzo di niente, può impiccarsi con tutte le sorprese che vuole. Non gli darò nessuna soddisfazione né oggi né mai. Quello a cui devo stare attenta è che venga comunque ogni giorno: se dovesse succedergli qualcosa per me sarebbe finita. O forse invece qualcuno verrebbe da queste parti prima o poi a controllare, sì, in effetti è meglio che muoia. Deve morire. A volte sembra spaventato, lo percepisco dal rumore dei suoi i che salgono le scale; allora mi fa domande d’ogni genere, parla da solo perché io finché non si avvicina troppo non gli rispondo. Se prova a toccarmi lo faccio arretrare con il coro di voci.

«Posso sedermi vicino a te? Almeno fatti guardare, sei così bella.»

Non ti avvicinare. Non ti avvicinare. Non ti avvicinare.

Non ti avvicinare. Non ti avvicinare. Non ti avvicinare.

Non ti avvicinare. Non ti avvicinare. Non ti avvicinare.

Non ti avvicinare. Non ti avvicinare. Non ti avvicinare.

Non ti avvicinare. Non ti avvicinare. Non ti avvicinare.

Non ti avvicinare. Non ti avvicinare. Non ti avvicinare.

Poi se ne va, lo sento chiudere la porta a chiave e scendere le scale, sento anche mentre cammina fra i cespugli e poi non sento più nulla.

Cerco di mantenere la calma, non posso fare nulla, ho provato anche a scappare una volta, mi sono nascosta dietro la porta e quando è entrato gli ho dato una sediata in testa, ma non l’ho colpito bene. Risultato: sono rimasta senza cibo per una settimana. Pensavo a una reazione violenta, credevo volesse uccidermi, quando con la testa sporca di sangue si era avvicinato a me con la rabbia che gli usciva dalle orbite degli occhi. Ma erano i primi giorni e questa mia reazione credo l’avesse messa in conto.

Non so proprio quali siano le sue intenzioni. Forse vuole solo fermare la mia vita, con la speranza che io mi trasformi in quello che non sono mai stata. Sembra ci provi gusto a non dirmi niente del futuro e forse fa così perché pensa che io abbia capito, non vuole uccidermi, non vuole violentarmi, lo ha già fatto in un certo senso e continua a farlo: è un sadico e se posso ostacolare i suoi progetti lo farò.

I primi di quelli che considero mesi, nei momenti in cui lui non c’era mi aggiravo per la stanza alla ricerca di uno strumento, una via d’uscita. Con il tempo però ho imparato a non farlo più, non solo perché non ho mai trovato niente di utile, ma perché non ne avevo più la volontà. Ecco un altro pezzo di me che si è staccato, la rassegnazione a una vita del genere, una sopravvivenza che per ora rimane dignitosa e che mi fa credere di poter vivere così in eterno. Solo

un coro di sdegno, nessuna soddisfazione avrà da me, mai. In questa stanza dove mi ha rinchiusa ho tutto quello che mi serve per andare avanti, un luogo in cui le pareti sono di pietra e il soffitto basso, un bagno di fortuna con una lavello e una tazza, un materasso poggiato sul pavimento di legno, un termosifone che accendo quando ho bisogno di un po’ di calore, mi basta. Mi piacerebbe come non mai poter leggere un giornale, sfoglierei avidamente le pagine e cercherei un riferimento alla mia scomparsa. Anche se sono viva per lui sono morta, respiro, mangio, vado in bagno, ma oltre a questo nient’altro, solo sdegno. Non so dove mi porterà questa mia condotta, se riuscirò a stancarlo, o se invece farà crollare rovinosamente la sua identità, se sarò ancora in vita per raccontarlo o se diventerò una delle tante persone che si dissolvono nel nulla. Se mai un giorno mi lascerà andare, ho poche speranze per la mia anima. Il più delle volte non se ne sta con le mani in mano, cerca di avvicinarsi con delicatezza, ma quando lo fa gli grido contro parole piene di odio, con una forza tale che si spaventa subito e lascia la stanza senza una parola. Non dev’esserci nessun contatto. Parlo così e forse lo farò per sempre. Ho provato anche da sola, dopo che accadde per la prima volta. Quando l’ho sentito allontanarsi con la macchina ho provato, ho tentato di esprimermi in maniera diversa, ma non c’erano differenze: variava solo il tono con cui pronunciavo le parole e che cambiava di continuo, senza però l’odio che trasmettevano quelle che gli avevo rivolto poco prima. Il suono era quello che ha tuttora la mia voce, sempre lo stesso. Se questo cambiamento dovesse essere permanente, non ha importanza, la cosa fondamentale è che è un’arma e quest’arma tiene lui a debita distanza. Sento accrescere la trasformazione che sta penetrando nelle più sconosciute fessure della mia struttura fisica e mentale, mi sta cambiando e forse lui vuole proprio questo, desidera un cambiamento, una differenza che possa ribaltare l’attuale equilibrio fra noi, ma non potrà mai riuscirci perché non sa che questa diversa struttura che si sta plasmando su di me è la stessa che riesce a mantenerlo fermo, a distanza di sicurezza. Ho l’obbligo di dosarla nel tempo, il dovere di razionarla per averne sempre una piccola quantità di riserva.

Vivo in un continuo stato di allerta, faccio tutto da sola e posso farlo all’infinito. Potrà pensare quello che vuole, non cederò neanche di un centimetro. Ne ho da vendere di energia, potrei illuminare una cittadina di diecimila abitanti. Brutto bastardo. Dopo lo stupido sciopero della fame che avevo provato ad attuare, dopo tutti i tentativi di fuga che avevo tentato rischiando di morire in maniera violenta, ho cominciato a cambiare rotta e quella è stata la mia salvezza. Ho

digiunato in tempi diversi, all’inizio come una reazione istintiva e in altre occasioni in cui la rassegnazione prendeva il sopravvento e non avrei voluto altro che morire.

La fame però mi aveva offerto una strana forma di lucidità e anche quando ho ripreso a mangiare l’ho sempre fatto con accortezza.

«Devi mangiare, altrimenti non reggerai il freddo dell’inverno. Ti prego, se non vuoi farlo per me fallo per te stessa.»

Gli diedi ascolto.

Il giorno dopo in cui sparì il DJ andai a firmare il verbale, non potei andarci il pomeriggio stesso perché appena arrivata a casa crollai sul letto. Prima di addormentarmi vidi che la segreteria non conteneva messaggi e che il cellulare, funzionante e in carica, non aveva ricevuto nessuna chiamata. Quando mi svegliai non sapevo nemmeno più chi fossi veramente, non era il sonno che ancora mi afferrava per le gambe ad annebbiare quel contesto, piuttosto un disordine che non aveva avuto il tempo di spazzare via le parti oscure della notte precedente.

Quando arrivai in centrale potei notare che tutti mi guardavano con una certa diffidenza. La stessa espressione che avevo avuto modo di osservare a casa del DJ, quando ero entrata di corsa per verificare con i miei occhi l’assenza del cadavere. Era evidente e dovevo anche aspettarmelo, non mi credevano. In quelle ore ate a dormire non c’erano state novità, François ancora non si era fatto vedere né a casa né da un’altra parte, le tracce di sangue non c’erano mai state. Iniziai a credere che i loro occhi nascondessero qualcosa di ancora più minaccioso, mi credevano pazza. Una che si era inventata tutta quella storia solo per attirare su di sé l’attenzione. Chissà, forse avevano ragione a credermi una

svitata, forse non avevo mai visto il DJ quella notte, probabilmente l’avevo solo sognato, l’uomo che parlava in modo strano compreso. Ricominciai a ricordare, a provare e a sentire se ancora conservavo il peso di quanto ero sicura di aver vissuto, le ferite ancora aperte. C’erano. Le sentivo, lo sapevo. L’agente che aveva parlato con me quella notte non c’era, mi dissero che era in servizio fuori dalla centrale. Mi fecero studiare una sfilza di foto, persone con lo sguardo truce e che non avevo mai visto, tra loro non riconobbi nessuno, neanche una lontana somiglianza con l’uomo che era apparso dal nulla.

«Se la sente di aiutarci a fare un identikit?» mi dissero senza troppa convinzione.

Forse non ero pazza. Me ne andai dopo appena un’ora, con un biglietto da visita che faceva il paio con quello che avevo ricevuto dal poliziotto che mi aveva accompagnato a casa.

Non sapevo dove andare, me ne stavo lì fuori sul marciapiede in attesa di qualcuno, di una macchina, di un aggio forse. Ci volle una settimana chiusa in casa senza vedere nessuno per riprendermi, alla fine della quale riuscii a tornare a lavorare. Ben presto mi accorsi però che non sarei mai riuscita ad andare avanti, era una cosa più grande di me, una montagna che mi oscurava la vista. Mi presi una lunga vacanza e lasciai la città. Al laboratorio dove curavamo gli animali d’estate c’era sempre molto lavoro, più del solito forse, ma nessuno mi disse di no e così andai. Avevo voglia di stare da sola, are un po’ di tempo lontano da tutto, come se il mondo intero non potesse vivere vicino a me. Non avevo molte speranze però, nella testa riecheggiavano ancora le parole senza senso che quel tipo aveva pronunciato in casa del DJ, frasi che sembravano rivolte a una platea di un teatro all’aperto e non a me, che intanto stavo morendo di paura. Ripercorrere quella notte e cercare la sera di addormentarmi in una città piena di rumori assordanti non faceva al caso mio.

Andai alla casa che avevo fuori città, in un piccolo paese di campagna. Volevo distrarmi per non pensare più al DJ senza vita, a quell’uomo che mi aveva così

spaventata. Ero morta di paura quando l’avevo visto uscire dalla villa, mentre io non facevo che perdermi in quelle stradine del cazzo. Ancora oggi quando ci ripenso non arrivo a cogliere nessun filo conduttore, sembravano frasi che avrebbe potuto recitare un attore; so solo che parlava di una sorella che era coinvolta e che per ragioni ignote lui conosceva e io no. Questo era l’unico dettaglio che avevo afferrato per la coda, l’unico che mi è rimasto in mente, un indizio che illustrai alla polizia e che risultò essere privo di solidità investigativa.

François non aveva sorelle, ma nella confusione più totale in cui ero precipitata a metà della mia esperienza di prigioniera pensai addirittura che potessi essere figlia dei suoi stessi genitori, ma questo era ovviamente impossibile e poi non ero stata di certo io a uccidere il DJ. Non fu di certo un dettaglio che ignorai anzi, devo confessare che in certi giorni in cui Manuel non veniva a portarmi da mangiare mi comportavo come se lo fossi davvero, come se io e il DJ avessimo lo stesso sangue. Ben presto il mio senso di colpa scemò così come la bizzarra parentela con François.

In tutto questo tempo ato a capire perché io sia rinchiusa in questa specie di torre abbandonata, mi sono venuti pensieri d’ogni genere legati a quella notte. Valide teorie di cui sono stata persuasa, per poi ritornare sui miei i con un’altra teoria contraria alla precedente. Ho sperato che quello che avevo visto potesse essere un’allucinazione dovuta alla stanchezza e alla paura, ho sperato che il DJ fosse ancora vivo e che potesse essere rinchiuso insieme a me qui da qualche parte. L’idea di fondo, quella più probabile, è che invece dopo che io sono andata via quell’uomo abbia caricato il corpo in macchina e lo abbia sotterrato in una zona poco frequentata, in qualche angolo nascosto della pineta per esempio.

Nei giorni subito successivi all’omicidio ho cercato di seguire le indagini della polizia, informazioni di cui ogni tanto venivo messa al corrente, esami che non avevano rilevato la benché minima traccia di sangue. Quello era un punto fermo da parte loro, niente cadavere e niente sangue. «Le tavole del pavimento sono in legno, se fosse colato del sangue si sarebbe subito notato. C’è anche dell’altro, il

parquet era uniformemente sporco, è impossibile togliere delle macchie di sangue da un pavimento in legno e poi ricoprire il tutto con la stessa polvere che era presente nella casa.» Così mi disse il poliziotto che mi telefonò una mattina.

È strano per me riflettere su quell’immagine di omicidio che ho visto, è strano perché mi ritrovo a pensare spesso anche al suo contrario. Forse è ancora vivo. Lo spero.

Se il DJ fosse ancora in vita potrebbe essere a sua volta prigioniero; lui è un uomo, avrebbe più possibilità di liberarsi e, chissà, venirmi a prendere, ammesso che sia vivo e sappia della mia condizione. Sarebbe bello rivederlo un’altra volta, avrei da chiedergli due milioni di cose, ma ho poche speranze. È ato tanto tempo e non ha mai avuto certezze da quando mi ritrovo immischiata in quest’incubo. Sono convinta solo di una cosa, che Manuel centri qualcosa con l’omicidio.

Forse Christian prima o poi avrà la forza e la sensibilità di mettersi sulle mie tracce, ma lui non conosce Manuel e sempre ammesso che non sia stato rapito o ucciso a sua volta, dubito che gli vada di farlo. Ultimamente vedo tutto nero, un’immagine scura dopo l’altra che si sovrappone al ricordo di chi mi sta più a cuore, fotogramma dopo fotogramma.

Siamo stati così poco tempo insieme, io e Christian, che nemmeno si ricorderà di me a quest’ora. Avrà pensato che me ne sono andata da qualche parte per i fatti miei; non lo biasimo, forse avrei fatto anch’io la stessa cosa, come diceva la polizia nel caso del DJ, niente sangue, niente cadavere… Quanto avrei voluto stringere Christian fra le mie braccia in quei giorni insieme, quanto vorrei farlo ora che non posso. Ne sento un bisogno fisico, un’attrazione che non hai mai smesso di esistere. Ho conosciuto Christian e sono stata in sua compagnia per tutto il tempo che ho potuto, ma non gli ho mai raccontato niente né del DJ né di Manuel. È stato un errore, o forse è stato meglio così, lo avrei coinvolto in qualcosa in cui sarebbe stato troppo pericoloso immischiarsi, e in ogni caso non

ne ho avuto il tempo. Io volevo solo dimenticare.

Chi poteva saperlo che abbandonare la città potesse portarmi dove sono adesso? E anche se lo avessi saputo prima, sarei riuscita a rinunciarvi? Sarebbe cambiato qualcosa se mi fossi immersa nella vita di sempre? Mi avrebbe presa anche in città, non sarebbe cambiato niente. Non avrei incontrato Christian, è questa l’unica differenza che conta, mi sarei tuffata a testa bassa sul lavoro con la poco intelligente speranza che il DJ prima o poi si sarebbe fatto vivo; poi, una sera, sarebbe accaduta la stessa cosa che è accaduta in campagna. Una notte in cui tornavo a casa mia dopo essere stata con Christian, mentre eggiavo sulla strada che attraversava il centro storico del paese, mi accorsi della sua presenza. Manuel era in macchina e si affiancò a me dal lato eggero. All’inizio pensai fosse qualcuno che voleva chiedere un’informazione stradale. Sorrisi al pensiero di come potevo averlo scambiato per una persona che si era persa, ma quando lo vidi affacciarsi dal finestrino per poco non mi venne un colpo. Ero sorpresa e anche un po’ arrabbiata con lui: nei giorni che ero rimasta in città avevo provato a mettermi in contatto, ma il telefono mi diceva che il numero era inesistente.

«Ma che fine hai fatto?» gli dissi. «Hai cambiato numero?»

Stavo iniziando a raccontargli del DJ morto quando mi interruppe e mi chiese se mi andava di fare un giro con lui, doveva dirmi una cosa importante.

«Come hai fatto a trovarmi?»

«Ti dirò tutto, sto cercando uno spiazzo così parliamo tranquilli» mi disse mentre guidava la sua macchina nella notte.

Quando ci fermammo, iniziai a parlare io. Gli raccontai quello che avevo visto a casa del DJ, gli dissi anche che non c’era nessun cane malato e che gli avevo detto quella bugia perché nutrivo dei dubbi su di lui. Precisai che avevo provato a richiamarlo, ma che il suo telefono era sempre spento. Gli confidai come ero cambiata in quei giorni, per necessità, nel tempo breve. Lo fissavo nel buio, sembrava ascoltare con interesse, ma non ne ero sicura; con la scusa che volevo fumarmi una sigaretta gli feci accendere la luce interna della macchina.

Era sempre lui, l’uomo con cui avevo fatto l’amore quella notte e che aveva scatenato la mia rabbia; c’era un’unica differenza, non riconoscevo il suo odore. Non era un profumo sgradevole, mancava però di quella limpidezza rassicurante che avevo sentito la prima volta, meno trasparente, un’opacità che si era trasferita sul suo viso. Non so come, ma quella figura palesava la sua presenza in maniera del tutto anomala, dimostrava di essere già al corrente di tutta la storia e aspettava che finissi per iniziare a parlare.

«Sono venuta qui per cercare di riposarmi, non voglio pensare a niente voglio solo dimenticare» conclusi.

Ci fu un lungo periodo di silenzio, una polvere invisibile e inodore che si posava su di noi.

Non poteva sapere di quei giorni felici ati con Christian. Mi sentivo una donna, nel senso più primitivo del termine, appartenevo al genere umano, l’avevo percepito in maniera forte anche se non avevamo mai fatto l’amore, nonostante lo desiderassimo tutti e due, ma non c’erano state costrizioni o rinunce dolorose.

Era impossibile, pensai, come poteva esserne a conoscenza, ma lo sguardo di Manuel esprimeva proprio questo. Mentre stavamo chiusi in macchina

nell’oscurità della campagna mi accorsi che anche lui era cambiato, non possedeva più quello spirito allegro e curioso che aveva quella sera, quel sorriso complice che mi aveva fatto fidare di lui.

Eravamo due estranei. Sarebbe potuto essere, se solo io l’avessi capito, un segnale di allarme; mi sarei allontanata con la scusa di dover andare in bagno, in un cespuglio qualunque del bosco, per poi fuggire. Non lo feci, ero curiosa di sapere come potesse essersi dileguato nel momento in cui avevo più bisogno di lui. In un attimo la sua figura si dissolse. Quando Manuel iniziò a farmi delle avances gli dissi subito che stavo con un altro uomo, che ero felice, non avevo nessuna intenzione di rovinare il mio rapporto con Christian.

Poi non ricordo più niente, devo aver perso i sensi e quando mi sono svegliata mi sono ritrovata dove sono adesso, in questo rudere che sigilla le mie speranze e la mia vita da un anno a questa parte. Anche se intorno a me ci fosse una stanza arredata con mobili antichi e arazzi le cose non cambierebbero affatto. Dentro di me piango di rabbia e tristezza. Credo che la sera in cui Manuel mi ha rapita, quando in macchina cercò di sbottonarmi la camicetta, lo stesse facendo per una sorta di reazione involontaria: non aspirava a fare sesso con me, neanche ora lo pretende, è già riuscito a sedurmi, quello che vuole adesso è fermare la mia vita. Un embargo sociale.

Sono sicura che mi credono morta: avranno cercato per un po’, poi man mano che il tempo si accumulava su se stesso hanno deciso di continuare le ricerche a tavolino, tramite computer e intuizioni che, visti i risultati, tardano a venire.

Vorrei darvi una mano ragazzi Vorrei darvi una mano ragazzi

Vorrei darvi una mano ragazzi Vorrei darvi una mano ragazzi

Vorrei darvi una mano ragazzi Vorrei darvi una mano ragazzi

Vorrei darvi una mano ragazzi Vorrei darvi una mano ragazzi

Vorrei darvi una mano ragazzi Vorrei darvi una mano ragazzi

Non biasimo nessuno. ati sei mesi dalla scomparsa avrei gettato anch’io la spugna e avrei cominciato a occuparmi di altri casi, che purtroppo non mancano mai, alla fine mi sarei arresa.

Ogni tanto ci riprova a chiedermi perché parli in quel modo, lui lo chiama a rosario, mi chiede da dove vengano tutte quelle altre voci. Ne so quanto lui, ma gli ho sempre fatto credere di essere io a modulare il suono e da come mi guarda ci sono riuscita. Posso solo pensare le parole da dire, ma è poi il mio corpo che attraverso la lingua e il palato fa scaturire le voci. In effetti, la definizione di rosario non è del tutto sbagliata, rende l’idea.

La sera che incontrai Manuel per la prima volta, ebbi l’impressione che mentre parlavamo seduti sul divano riuscisse a guardarmi dentro l’anima; mi sentivo inerme di fronte a lui, ma non feci niente per ostacolarlo. Nessuno dei miei sensi mi stava avvertendo del pericolo. Manuel in fondo è come tutti gli altri uomini che mi è capitato d’incontrare, con cui non necessariamente ho fatto sesso, uomini che in apparenza accettano di buon grado la mia personalità, la mia curiosità, il fidarsi interamente senza riserve; poi però in tutti questi uomini succede qualcosa, un meccanismo del loro cervello si inceppa e non riescono più ad andare né avanti né indietro. Si chiudono in stessi, la loro personalità si sovrappone con altri lati del carattere, si genera confusione e non ne escono più.

Se solo accettassero tutto, senza cercare differenze.

Alcune persone che ho incontrato, anche donne, sembrano affascinati da me, dal mio modo di fare, dal senso di libertà che cerco sempre di mantenere più vicino possibile a me, una libertà che ad alcuni fa paura. Mi seguono, ma poi si fermano, le donne per esempio tornano indietro smettendo di colpo di essere mie amiche, mentre gli uomini continuano a girarmi intorno come un barbone vicino a un supermercato. Sento gli occhi che si posano sulla mia pelle, vedo le loro bocche dolci come il miele, il battito del loro cuore sul mio collo, li sento spingere verso di me. Ovviamente non tutti sono così, solo una minima parte non sopporta che io sia felice, la maggioranza segue la sua vita senza sprecare il tempo a sforzarsi di capire come sono e come dovrei essere.

Purtroppo per me ho incontrato la persona sbagliata, quello che ha trasformato una fantasia in un atto reale. Maledizione. Non me lo meritavo un trattamento del genere, che cazzo c’entravo io con questo svitato? Perché sono salita su quella macchina di merda? Come avrà fatto a farmi perdere i sensi? Non ricordo nulla. Se volesse potrebbe drogare il cibo e l’acqua che bevo, ma non sono sicura che sia questo quello che desidera, a lui basta tenermi qui, avere la sensazione di possedere a casa sua un missile intercontinentale atomico. È proprio uno stronzo testa di cazzo quest’uomo e se potesse esserci giustizia in questo momento, se ne avessi l’opportunità, lo ucciderei senza problemi. Quando mi ha conosciuta non aveva idea di quello che stava attraversando, forse cercava qualcosa che non aveva ancora trovato, un suo modello di libertà che credeva essere il migliore possibile; si è avvicinato pensando potessi aiutarlo a capire meglio se stesso, mi ha seguito e quando sono tornata alla mia vita ha capito di avermi perso per sempre. Quello che non mi spiego è perché non si sia fatto vivo i giorni successivi all’omicidio.

La spiegazione probabilmente è sepolta nella sua mente, lui stesso non ne conosce la posizione esatta, continuo a non capire. Mi vuole distruggere. La sua aspirazione è farmi sparire per sempre, estinta e cancellata dalla vita. All’inizio

forse era solo il suo inconscio a volerlo, ma poi l’idea è piaciuta anche al suo corpo e alla sua mente. Non ha nessuna intenzione di liberarmi, andrà sempre peggio fino a un momento in cui, per non cadere nella follia, dovrò per forza di cose abbandonarmi a una convivenza stabile. Lo odio, come lui odia me. Sono arrivata alla conclusione che nelle prime settimane abbia provato a trasmettermi il suo amore bacato; quando si è accorto che non ci sarebbe stata nessuna strada da percorrere, ha cominciato a odiarmi. Proprio una bella storia d’amore.

Ha paura di me, come tutti gli altri uomini, tutti meno Christian, lui no, lui mi ha subito capito, dal primo momento che ci siamo incontrati. Hanno paura del mio scarso bilanciamento, del mio sorriso, vorrebbero dominarlo, spegnerlo definitivamente, per potermelo loro stessi consegnare in un secondo momento, quando gli va, quando sarà più comodo. Non ce la fanno ad accettare che io possa portare avanti la mia vita, considerano il mio atteggiamento una tipologia sottile di pericolo, una forma di sicurezza che cerca di dominarli senza che loro possano fare qualcosa per impedirlo. Un equilibrio che lo stesso Manuel ha cercato invano prima di catturare e poi di annientare, un tentativo portato avanti con la speranza di farmi uscire dal mondo, un esilio che lui stesso controlla e che gli fa credere che io non esista. Un’azione meschina e vigliacca che gli dà una speranza di sopravvivenza, senza l’obbligo di confrontarsi con me, perché io non esisto, non esisto più. Questo almeno è quello che crede lui. Forse è solo la tenacia con cui cerco di controbattere ogni suo tentativo che mi fa ancora sembrare possibile una via d’uscita, ma non ho alternativa, devo per forza di cose fare finta che sia vero.

Il problema è che proprio questo mio viaggiare al buio lo ha attirato e attira gli uomini quando mi incontrano per la prima volta. Come se nella loro vita non avessero mai visto una donna comportarsi così, come se non avessero mai visto una persona che reagisce a quello che le accade, sempre con il sorriso sulla labbra. Io non vengo da un altro pianeta, sto solo bene con me stessa e credo che come me ci siano tante altre donne disposte a crederlo, a renderlo possibile. Questa è l’unica cosa che varrebbe la pena di spiegare a Manuel, ma in fondo non cambierebbe niente, continuerebbe a seguire la cieca strada intrapresa fin dall’inizio.

Ho sempre cercato di parlare con tutti concedendo sempre una possibilità a chi me la chiedeva, senza giudicare prima di conoscere. Di essere persona che ragiona da sola e non si fa condizionare da tante scemenze che per gli altri invece sono importanti, una persona che ha sempre inseguito la libertà.

Non mi pento delle mie scelte, sono orgogliosa del mio modo di pensare e se tutto questo mi ha portato a essere rinchiusa qui da più di un anno, va bene lo stesso. Non la considero come una punizione, anzi, piuttosto un premio alla carriera. Non potevo immaginare d’incontrare uno come Manuel, un uomo che non sopporta questo peso, un fardello che rischia di schiacciarlo e che quindi ha isolato per sempre. Per lui tutto questo rappresenta il raggiungimento di un obiettivo a lungo inseguito. Lo odio, ma in fondo lo capisco, me lo immagino durante un giorno qualunque sorprendersi a un’evidenza che aveva sempre cercato di ignorare, un fatto importante che tutti sanno meno che lui, un segreto che io possiedo e che conservo gelosamente, io come tutte le altre persone che ha incontrato nella sua stupida vita. Povero Manuel. Si è dichiarato sconfitto, si è arreso alla mia trasparenza, vorrebbe essere come me, di tutto questa storia l’unico che ne esce sconfitto è proprio lui, ma questo non lo sa, per fortuna aggiungo io, perché quando lo capirà la sua rabbia diventerà incontrollabile. In fondo se non lo ha capito finora, ci sono buone speranze che non ci arrivi mai e vedendomi così ostile nei suoi confronti, posso fargli intendere che sia lui a dominare la situazione.

Segue una specie di mappa, stazioni temporanee dove attinge energia vitale e una di queste stazioni, la stazione centrale, sono io. Parte, si sposta, ma ritorna sempre da me, è qui che lui vorrebbe scendere.

In realtà vuole solo eludere la sua povera esistenza e ha deciso che l’unica soluzione è tenermi qui, lo fa stare meglio, crede in quest’organizzazione così strutturata, penso che si senta una persona migliore. Sono la sua evasione, tenendomi prigioniera lui evade dalla sua squallida realtà.

All’inizio ha cominciato a parlarmi dei suoi problemi con la moglie, anche se sapevo benissimo che questa donna non era mai esistita. Poi ha iniziato a esprimersi in modo strano.

«Chiara… non sento niente, devi aspettare e mai credere di poter capire» mi diceva e lo fa tuttora quando intuisce che sono più vulnerabile. Diceva di conoscermi, ma non so se stava parlando con me o con l’immagine di sua moglie che aveva nella testa. Parla spesso anche della separazione, così la chiama lui, dice che è un problema, che è stato un problema.

«Voglio essere liberato.» Ride quando dice questo. «Sbatte una porta, io però sono stato bravo e non mi ha colpito in faccia. Da quell’incontro ho scoperto tante cose, prima non sentivo, non capivo.»

Ultimamente non usa più frasi sottovoce, ha cominciato a interpretare una parte, come se seguisse un copione.

Parla in modo suadente, fa sembrare sempre che insieme a lui ci sia un’altra persona con cui sta avviando una conversazione, solo nella sua testa.

«Ti aspettavo mezz’ora fa, che fine hai fatto? Potevi avvertirmi, sai che sono sempre in pensiero per te. Sei bellissima. Entriamo, il tavolo è pronto, ho una fame stasera…»

È una donna invisibile, ma non è con lei che parla, è con me. Parla di luoghi mondani, di soldi, di cavalli, lusso, feste, negozi alla moda, locali esclusivi.

«Mi chiedi se ho avuto altre storie. Certo. La bellezza di una donna non a mai inosservata. Ti va di ballare mentre aspettiamo la cena?»

A volte ho anche pensato che non sia lui a parlarmi attraverso la persona immaginaria, ma un altro uomo che lui finge di essere.

Odio tutto di lui, odio il suo odore, mi piacque quando lo incontrai per la prima volta, ma adesso lo odio con tutta me stessa. So tutto sugli odori adesso, li sento dal primo all’ultimo, sono il mio atempo preferito. Hanno una personalità, alcuni sono simpatici, altri snob, altri ancora non li sopporto. Sto cambiando e anche loro cambiano insieme a me. A volte quando dalla campagna arriva dell’aria carica di pioggia sento in me accendersi qualcosa. Con quelli più forti la mia mente si isola, vengo portata via, per poi tornare fresca e riposata. Non è un massaggio che allenta le mie nevrosi, piuttosto una porzione di vita diversa: alcuni odori mi fanno vivere per una manciata di minuti vite che ho già vissuto o che forse vivrò quando uscirò da qua, se mai uscirò.

Sono ancora molto in pena per il mio amico DJ. La polizia non mi ha mai fatto un interrogatorio, hanno preso le dichiarazioni da me fornite facendomele firmare davanti a un agente, poi più niente. Ho risentito al telefono solo un’ultima volta il poliziotto che mi aveva accompagnato a casa.

«Come sta?»

Non risposi.

«Abbiamo sentito il produttore del DJ: ci ha comunicato che François è partito per il Brasile per un tour all’ultimo momento, neanche lui lo sente da parecchi giorni, ha aggiunto che se riusciva a mettersi in contatto gli avrebbe detto di telefonare alla centrale di polizia.»

La cosa non mi convinse e provai a dirlo al poliziotto, mi offrii anche di andare di persona per spiegarlo meglio, ma lui disse che non dovevo scomodarmi perché appena avesse ricevuto notizie mi avrebbe subito informato. Non mi piacque per niente quella telefonata. Il DJ non aveva un produttore, non ne avevo mai sentito parlare, se lo avesse avuto ne sarei stata al corrente. Non faceva un tour da almeno dieci anni, figuriamoci in Brasile. Era tutta una montatura, ma non mi credette. Aspettò che mi calmassi, poi riprese a parlare.

«C’è stato un volo verso San Paulo con a bordo una persona con le generalità di François, la cosa strana è che è partito una settimana prima della sua denuncia di omicidio.»

Mi disse che avrebbe contattato l’ambasciata del Brasile, ma poi sono stata rapita e la risposta è rimasta nel buio. L’unica certezza è che non lo rivedrò mai più. Non sono più tornata in quella casa nei giorni successivi all’omicidio. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il coraggio. Sono ancora molto legata al DJ, anche se penso non ci sia più. Ero affascinata dal suo modo di fare, dalla sua musica. Mi raccontò che c’è stato un periodo in cui era molto di moda andare ai suoi spettacoli; con il are del tempo però aveva cominciato a rifiutare le proposte delle discoteche, solo qualche isolata apparizione in locali sulla spiaggia o manifestazioni all’aperto. Si era dedicato anima e corpo all’organizzazione di serate musicali all’interno di ville private. Da quello che mi ha descritto François ho capito che dietro ogni esibizione c’era qualcos’altro oltre ai video e alla musica, qualcosa che non è mai riuscito a spiegare.

«Suggestioni e turbamenti che sono ben forti ed evidenti nel momento in cui si mostrano al pubblico e che ata la notte della festa scompaiono come un

mantello nella nebbia.» Parole sue.

Mi ha raccontato che per un periodo era partito per un lungo viaggio, ma quando gli chiedevo di illustrami le sue esperienze deviava verso altri discorsi. Mi disse solo che dopo essere tornato aveva iniziato a dedicarsi a un’attività non proprio convenzionale per un DJ, serate che alcuni suoi colleghi consideravano poco o niente e che invece con il tempo divennero avvenimenti esclusivi, dove proprio i suoi colleghi non venivano mai invitati.

Video musicali, e non dischi, venivano fatti suonare.

Raccontava che non c’era un unico schermo, ma tutta una serie di televisori sparsi per la casa, cucina adibita a bar e salotto compresi, a trasmettere i video che lui stesso selezionava dalle sue playlist.

«Ma lo sai che c’è chi ancora va a fare il DJ con scatoloni di dischi e attrezzature all’avanguardia?» mi chiedeva con un sorriso pieno di soddisfazione.

A lui bastava il portatile e una connessione che gli permettesse di mettere in attesa cinquanta video pronti per essere visti e ascoltati. Gli era sufficiente entrare su YouTube e scegliere fra centinaia di video che teneva in varie playlist suddivise in ordine cronologico.

«Devi sapere che io accedo a questi video di YouTube proprio nel momento in cui mi servono, non li ho scaricati e messi da parte nel disco rigido del computer, non sono immagini statiche o spezzoni di film asincroni rispetto alla musica.»

Non partecipai mai a una di quelle serate; solo una volta ci capitai per caso e quando arrivai era tardi, troppo tardi per capirci qualcosa, tardi anche per ballare. Ne conservo memoria attraverso i suoi racconti capaci di farmi assistere all’evento anche se non ero mai presente. Mi diceva con la sua particolare dolcezza che quella musica non faceva per me, che non mi sarebbe mai piaciuta. Mi sentivo più fortunata di chi partecipava alle feste, io vedevo e toccavo con i miei occhi la ione con cui François praticava la ricerca continua di nuova musica, ascoltavo altri sentimenti, era come assistere a una lezione universitaria. Gli piaceva spiegarmi come andavano quelle serate e sebbene ne fossi incuriosita non gli chiesi mai di invitarmi, aspettavo il momento giusto, un momento che non tornerà mai più. Mi diceva che quando un video era piaciuto molto lo metteva anche per tre volte di seguito.

«Se lasci On a mission lasci anche Rocket.»

Così mi sussurrava all’orecchio quando mi vedeva perplessa.

«Private lo metti e fai lo snob, lo devi mettere all’inizio e alla fine. B-Girl invece la puoi far sentire sempre, quando ti pare.»

Gli venivano inviate newsletter da vari canali musicali che proponevano canzoni sempre nuove, e in più si informava sui siti di alcune radio e su altri che proponevano classifiche musicali da quasi tutti i paesi del mondo.

«L’Europa è una miniera inesauribile di novità.»

Diceva sempre che tenersi aggiornato sulle mode musicali del momento era di fondamentale importanza nella scelta dei video. Cercava di identificare la serata

con lo stato d’animo che percepiva nella gente, ma non nelle persone che venivano alle feste, bensì nella cultura di tutti, di tutto il mondo musicale, tutta la musica che veniva fatta ascoltare attraverso i video e trasmessa su YouTube con aggiornamenti continui. Per questo considerava le feste con i suoi video musicali più interessanti di quelle nelle discoteche pubbliche. Mi parlava di un filo trasparente che portava con sé ogni volta, un aggio segreto cui si accedeva solo quando le persone ballavano di fronte a un video. Avrebbe voluto invitare alcuni gruppi che potessero suonare dal vivo le stesse canzoni di cui lui selezionava i video, ma non c’era mai riuscito.

«Costa troppo, alcuni gruppi sono famosi e per venire chiedono troppi zero.»

Rimaneva comunque il suo sogno proibito, un salto di qualità che rincorreva da quando aveva cambiato stile e modo di far ballare la gente.

«Una volta farò venire qualche gruppo americano e vedrai che festa ne uscirà fuori, ci vogliono tanti soldi ma non dispero, forse un colpo di fortuna potrebbe aiutarmi.»

Colpi di fortuna non se ne sono visti. Il sogno aveva cominciato a dissolversi già alcune settimane prima della sua morte. Le feste non vennero più prodotte, adducendo come scusa che non si riusciva a trovare mai un posto disponibile e che quando l’avrebbe scovato sarei stata la prima a saperlo. Aveva deciso di invitarmi. Ultimamente l’avevo visto distante dai suoi canali musicali; provai a chiedere, ma non ricevetti nessuna risposta se non quella di non preoccuparmi e che tutto si sarebbe risolto. Da quanto compresi sembrava avesse abbandonato anche la ricerca e nonostante se ne stesse sempre lì con gli occhi puntati sul monitor del computer, nell’aria non c’era più quella tensione positiva che avevo sempre distintamente notato. Chissà, forse la sera in cui mi lasciò il messaggio in segreteria voleva parlarmi proprio di questo, o forse no. Mi piace pensare al DJ, mi distrae. Quanto erano rilassanti le cene che ci facevamo insieme, i discorsi che ne uscivano. Per un breve periodo di tempo ho pensato che io e François

potessimo metterci insieme, ma lui era preso solo dalla musica e quindi mi sono adeguata. Questo non ha indebolito i nostri incontri, anzi. Era come entrare a contatto con un’altra lingua, una lingua morta che lui riusciva a far rinascere, per me era come andare a scuola. Il DJ aveva grandi aspirazioni, ambiva al successo, macchine, feste, abiti costosi.

Una volta mi raccontò che oltre ai soldi la cosa che l’avrebbe maggiormente gratificato sarebbe stato non dover più ripetere le stesse cose in ogni circostanza in cui gli capitava d’incontrare un amico. Era certo che giunto sulla linea d’arrivo la gente avrebbe iniziato ad ascoltarlo sul serio, senza mai dimenticare le sue parole, i traguardi, il cammino condiviso con tutti loro e che invece era obbligato a riprendere ogni volta daccapo. Con me era diverso, cambiava spesso aspetto e questo lo faceva rilassare molto, io lo ascoltavo e registravo le cose che diceva, gliene chiedevo conto. Avrebbe voluto stare con me, far parte di un altro tipo di contatto, ma prima aveva una missione da portare a termine, diventare un DJ famoso. In fondo la sua ricerca della musica gli donava un’aura particolare, quella di una persona che insegue una sorta di liberazione, una ricerca che solo in apparenza lo isolava, mettendolo invece in comunicazione con tutti quando faceva sentire e vedere i suoi video, particolari e, almeno all’inizio, con un basso numero di visualizzazioni.

«Ho uno strano rapporto con gli altri DJ, li vedo diversi, sembra che non gli manchi nulla, secondo loro io sono solo un pazzo che cerca di arrangiarsi.»

Non era mortificato per questa differenza di vedute, rivendicava la sua conoscenza infinita della musica, gruppi che gli altri in un primo tempo ignoravano. Canzoni che non conoscevano ancora la vera distribuzione, niente aggi sulle radio e sui canali di video. Quello che provava non si chiamava dispiacere, solo un pizzico di delusione, una rassegnazione verso un certo modo di procedere della cultura musicale che lo spingeva di continuo a rifugiarsi nel suo personale circolo privato.

Non so che fine abbia fatto, forse è morto o forse no, di sicuro c’entra Manuel, ne sono convinta.

Durante la mia prigionia lui non me ne ha mai parlato spontaneamente. Potrei chiederglielo, ma potrebbe rispondere quello che vuole e io non voglio farmi distrarre da un maniaco del cazzo. Sono viva ed è solo questo quello che conta, sono debole, mangio poco e mi muovo a malapena nella stanza, ma sono viva, i ricordi mi tengono in vita, almeno fino a ora. La scorta si sta esaurendo, devo tenere duro, voglio dedicarmi di più alla mia voce, voglio provare a farlo più spesso, ma devo essere sicura che non mi senta, non voglio dargli nessun vantaggio. Mi ha rapita! Che stronzo. Mi ha strappata dalle braccia di Christian. Amo ancora Christian. In quel poco tempo in cui ci siamo frequentati è stato bellissimo stare vicino a lui, tutto risplendeva di una luce radiante, tutto, il clima, la musica, la festa in paese, le nostre eggiate nella notte. Aveva uno strano cappello quando ci incontrammo in piazza per la prima volta, a me non piaceva, ma mi ricordava qualcosa che in un primo momento mi sfuggì. Solo in seguito collegai la sua forma e il suo colore a quello che apparteneva all’uomo che era scomparso nel sogno che feci quella notte in cui dormii insieme a Manuel, nella mia casa. La somiglianza mi turbò, mi lasciò senza parole; quando Christian mi disse che era del nonno e che l’aveva indossato perché in paese tutti hanno il cappello e quindi, anche se era estate, non voleva essere da meno, mi tranquillizzai di colpo. Christian aveva anche un bastone, ma non zoppicava, un bastone da eggio, molto bello, resistente. Era una parte di un ramo di un albero, dritto ma dalle venature imprevedibili, delle bolle di legno.

Non ho avuto né il tempo né la voglia di raccontargli quello che mi era successo. Non avevo raccontato niente neanche alla polizia, credevo non fosse importante. Ero ancora presa dalla confusione e soprattutto non volevo confessare di essere stata sul punto di fare sesso in una casa dove poco dopo avevo trovato il corpo del DJ senza vita. Un pudore misto a fantasie sbagliate, una miscela di combinazioni che nasconde la verità e anche la soluzione della verità. Se lo avessi confessato sarebbero venuti a chiedere informazioni a Manuel, forse avrebbero eseguito una perquisizione.

Christian senz’altro l’avrebbe raccontato alla polizia, si sarebbe messo in moto per indagare lui stesso, se solo avessi detto la verità. Manuel però per il resto del mondo non esiste.

Ho discusso con Christian delle mie ricerche sugli animali, ma non gli ho detto la cosa che forse mi avrebbe salvato la vita. Ho la sensazione di aver ato con lui più tempo di quanto la realtà mi suggerisca di credere. Non parlo di giorni, la mia mente si è aggrappata a un tempo più lungo, una distanza che si dilata ogni giorno che o rinchiusa qui. Una sorta di bilanciamento che tenta di soverchiare la mia esperienza diretta; alla fine mi appare un tempo molto lungo trascorso insieme a Christian che si allunga in maniera proporzionale alla durata della prigionia. Dal momento che ho cominciato a frequentarlo sono subito entrata nel suo mondo, un mondo che era di fronte a me, ma che io non vedevo. Christian abitava in paese, era ben voluto e rispettato. Nel suo piccolo, era famoso. Non saprò mai se anche per Christian sia stata la stessa cosa, quell’identica intensità di emozioni che a volte sogno di aver vissuto. Stare con lui, osservarlo mentre con il bastone poggiato su una roccia il suo sguardo vagava fra le stelle, per poi girarsi e sorridermi. Mi addentrai in azioni dall’aspetto inusuale, diverse da quelle che avrei fatto io almeno, cose divertenti, piene di avvenimenti inaspettati. Era come andare in un paese straniero, ma sempre con la ferma volontà di non rimanere isolati, di imparare in fretta la lingua che si parlava in quel luogo. Era stato lui a farmi entrare in quel mondo, non lo dimenticherò mai. Ci aggiravamo nei boschi di notte e nelle valli di giorno, camminate che in un primo tempo giudicavo pericolose, i da attraversare, discese da prendere con cura e a volte con la luce di una torcia. Un timore che svaniva quando arrivavamo a destinazione, ne valeva sempre la pena, era giusto rischiare. Con lui ho capito che differenza c’è tra i rumori che produce la campagna e quelli che si odono in un sentiero di montagna. Come se quei suoni che in realtà erano fatalmente assenti avessero toccato una parte di me nascosta chissà dove, un richiamo a una personalità tenuta da parte da troppo tempo. In città avrei guardato la mia vita come se stessi vedendo un film già visto, invece quando me ne andai, il film lo giravo insieme a Christian, regista, attori, attrici, tecnici del suono, eravamo noi. Insieme per sempre.

Appunti di conoscenza

All’inizio quando stavo cercando una spiegazione al basta poco pensavo ci volesse un sistema simile a un computer collegato al cervello umano, un organico e meccanico allo stesso tempo, in modo tale da operare proprio come fa l’antivirus, aggiornandosi e comunicando quando sta per entrare qualcosa di sospetto. Sarebbe utile? Sì. Possibile? No, per il livello di tecnologia esistente. Credevo di poter mettere in atto questo aggiornamento, di collegarlo al basta poco con il solo o della mente, ma sono troppe le informazioni che si dovrebbero elaborare, ci vorrebbe una mente speciale, una concentrazione univoca. Occorrerebbe una parte del cervello che aggiorni tutte le informazioni in base alle cause e agli effetti, e che in automatico selezioni la realtà da affrontare con i migliori mezzi a disposizione. Un computer all’interno della nostra testa che immagina la realtà, la scompone e la rimette insieme con tutti i dati necessari in quel preciso istante. Una medicina satellitare che comprenda tutto quello di cui l’uomo ha bisogno. Il cervello dovrebbe evolversi in questa direzione, dovrebbe operare con le stesse armi di alcuni virus, con l’inganno. Un dispositivo che manda dei segnali falsi a tutti gli organi che sono più a rischio, un messaggio che renda alcune parti del corpo invisibili, in questo modo il virus vede e non sente niente, è disorientato; si guadagna del tempo e si può intervenire a livello medico anche con un leggero ritardo. Un messaggio preregistrato come quello usato in alcuni film in cui si vede il caveau di una banca, mentre in realtà dentro si stanno sgraffignando tutto.

Alcune frasi del mio diario le ho sempre portate con me.

Mentre scrivevo mi venivano in mente altre idee sul basta poco e nel momento in cui mi avvicinavo a loro speravo rimanessero ferme, affinché io le potessi fermare su carta. Non mi importava più del mio caso, se mi avessero preso sbattendomi in prigione avrei continuato a scrivere; senza la preoccupazione di dover sempre scappare, forse avrei avuto anche una maggiore concentrazione. La depressione era un argomento che mi affascinava molto, anche se non avevo

strumenti per approfondire.

Penso spesso alla depressione come a una ricarica. Usata in questo modo e considerarla tale potrebbe farla apparire sotto un’altra luce, una linea luminosa perenne che ci porta giù e che però ci guida fuori dal pericolo insieme a una sensazione di benessere, non una reazione senza controllo, qualcosa di più forte, di più duraturo. Una condizione necessaria per rimescolare il proprio corpo, la propria mente.

Per il momento i miei scritti viaggiavano liberi come barche, con il tempo speravo arrivassero a gareggiare gli uni contro gli altri, una sana competizione che potesse risvegliare dal torpore un pensiero dominante in grado di guidarmi fino alla fine. Un giorno stavo camminando in città, ci ero tornato perché avevo un dubbio su un’amica di Chiara che ancora non ero riuscito a vedere nemmeno una volta. Mentre camminavo sul viale principale della città, il mio cammino venne ostacolato. C’era una piccola folla di turisti che si muoveva lentamente, il marciapiede era ridotto rispetto al normale e si procedeva a fatica. Sulla strada stavano montando un palco per una sfilata di auto storiche. Io dovevo proseguire però e anche alla svelta. Questi turisti camminavano, parlavano, aspettavano e io non potevo fare altre strade, non potevo neanche superarli a forza, mi avrebbero visto e notato. Questa scena mi fece riflettere sul fatto che a volte ci si trova in situazioni in cui si è solo di aggio. Non si capita lì per le stesse ragioni degli altri, l’obiettivo è diverso, più nobile. Nonostante le motivazioni, però, per una sterminata serie di cause ci si trova a fare un tratto di strada insieme, costretti a seguire le stesse regole. Il contrattempo mi fece irritare, in cuor mio ero convinto di avere la precedenza su tutti: purtroppo non potevo esternarla, ero immerso nella loro vita, avevo abbandonato i miei problemi e abbracciato quelli di un turista in vacanza.

Mi è capitato di essere ospite di un albergo di montagna con fuori dieci gradi sotto zero. Ero con la mia fidanzata e con tutta la sua famiglia. Una sera sono andato a fare il bagno nella piscina riscaldata; era inverno fuori, c’era la neve e in quel vapore mi stavo godevo la sensazione di rimanere a galla. Ero solo, ma a

un certo punto è arrivata la sorella minore della mia compagna. È entrata in acqua e ci siamo guardati in silenzio, in quella pace così confortevole. Dopo un po’, proprio mentre stavo uscendo è arrivata sua mamma, lei entra, io esco, la ragazza è rimasta a mollo. A cena, davanti a tutta la famiglia la madre mi ha chiesto perché fossi uscito dalla piscina proprio quando lei era arrivata. Chissà cosa si era immaginata, era stata una semplice coincidenza, nient’altro che un movimento di una persona, un’azione qualunque, e se chi ci guarda ha una sua idea fissa su un presunto legame incestuoso, si diventa attori protagonisti di un film. Una scrittura che può essere inventata da chiunque, solo con l’uso della mente, un incastro ciecamente portato avanti. Un po’ come il processo, loro erano convinti della mia colpevolezza, ma non hanno avuto il coraggio di accendere la luce della giustizia, semplicemente non gli andava: non è stata cattiveria la loro, solo pigrizia.

Scrivevo di cancellazione di ricordi, di un antivirus contro le malattie comuni e di un adeguamento biodinamico. Una specie di incontro programmato, una riunione che poi diventa unione, ci si conosce con i nuovi aggiornamenti, si cena insieme e poi si torna a casa con loro, da adesso in poi avrebbero vissuto con me.

Più andavo avanti nella scrittura che accompagnava i pensieri come una scorta a cavallo, più mi sentivo confuso. Mi sentivo vulnerabile nel corpo e nella mente, avrei dovuto stare più attento a non perdermi sui mille appoggi che avrei incrociato in futuro, anzi, dovevo starne proprio alla larga.

Non era lecito rilassarsi, dovevo sempre essere concentrato, ventiquattro ore su ventiquattro, avere sempre una vigilanza assoluta. Chiara era sparita, morta, non sapevo nulla. Arrivai a pensare di gettare il mio libro in un cassonetto, finirla con il basta poco. Avevo molti dubbi e quello sulle mie scritture era uno di questi. Forse sbagliavo a scrivere le mie riflessioni su carta, forse più scrivevo e più lei si allontanava da me. Chiara era morta. Invece continuai. Dovevo avvicinarmi di più e per farlo l’idea era quella di viversi un momento qualunque della propria vita in un modo in cui, quando avrei capito di avere un problema, anche potendo arrivare facilmente alla soluzione, avrei scelto di non agire. Per osservare meglio

quello che stava accadendo senza far diventare la cosa troppo pericolosa, per comprendere altre informazioni e andare oltre.

Si può ingannare il basta poco?

Volevo porre rimedio a tutto questo, mi sentivo in grado di farlo, obbligato a portare avanti la mia doppia ricerca. Continuare a scrivere e cercare di ritrovare Chiara, viva o morta che fosse. Non capivo dove stessi andando, non mi interessava; lasciai cadere le mie scelte su luoghi presi a caso, in fondo quello che dovevo fare era solo osservare, non mi preoccupavo neanche più di essere catturato. Potevo essere scambiato con una barca alla deriva, ma non era così: avevo la sensazione di essere seduto su un’enorme camera d’aria che si spostava sulla strada, galleggiando. Devo dire che era una sensazione veramente piacevole, come se avessi avuto un mio autista personale. Dovevo solo pensare a osservare e a scrivere i miei appunti. In fondo non era difficile, nessuno sembrava badare a me e a volte mentre camminavo mi accorgevo della presenza della polizia solo dopo che avevo incrociato il loro cammino.

Durante la latitanza sono stato sempre previdente e accurato per quello che riguarda la mimetizzazione. Il primo strumento che ho usato è stata una cartella sintetica da professore squattrinato, comprata di seconda mano per pochi spiccioli. Prima cosa per mettere dentro il diario, le penne e tutto quello che mi poteva essere utile, poi per non fare la figura di uno straniero che gira con lo zaino.

Avevo anche con me un telefonino preso in un centro di raccolta cellulari usati. Quando mi trovavo in una situazione di probabile pericolo facevo finta di telefonare. Come doveva essere difficile un tempo senza telefonini o smartphone; una volta si usava il giornale, si guardava l’orologio nervosamente facendo credere di stare ad aspettare qualcuno, oggi invece si può fingere di mandare un messaggio e il gioco è fatto. Le prime volte facevo finta di muovere i tasti anche con il telefonino spento, poi ho iniziato a comportarmi come un

regista neorealista. Anche se non mandavo messaggi perché non c’era la scheda li componevo lo stesso, virgole e punti e numero di telefono compresi. Arrivai a pensare, forse suggestionato dalla buona sorte, che questo modo di fare fe la differenza. Non era solo perché la gente reagisce spesso con indifferenza di fronte a una persona che fa una telefonata mentre cammina, ero io in primo luogo che inviavo loro un messaggio, ma non con la tastiera. I gesti che facevo, sommati alla composizione di un vero SMS, caricavano molto di più la cosa, la rendevano più credibile. Possedevo anche una cuffia sempre attaccata al cellulare, facevo finta di ascoltare musica, quando avo di fianco alla gente. Sono convinto che le persone che sono al telefono hanno una licenza particolare per i loro movimenti, un po’ come dei bambini che giocano allegramente dentro una casa. Un invisibile, un tacito accordo grazie al quale qualunque cosa dicano o facciano, nei limiti della logica, può e deve are inosservata. Era un gioco che mi divertivo a fare, soprattutto quando mi toccava aspettare l’amica di Chiara, quella che ancora non avevo conosciuto. Poi l’ho incontrata, stava anche lei al telefono quando mi sono avvicinato.

«Christian, che ci fai qui? Non ti ho visto arrivare, mi hai spaventata.»

Nel breve periodo che sono stato suo ospite, oltre a riprendere una tranquillità che pensavo aver perduto per sempre, rilessi con calma le pagine e sistemai i miei appunti. Mi confessò di non avermi mai creduto colpevole e che era convinta che Chiara fosse ancora viva da qualche parte e non necessariamente in pericolo. Il suo ottimismo mi diede forza, nuova energia, una fiducia che non mi aspettavo di ricevere da nessuno e che invece quella donna dai tratti fisici simili a Chiara seppe donarmi con una semplicità disarmante. La casa dove ero in affitto l’avevo abbandonata ed ero pronto a trasferirmi in un altro posto, la sistemazione che mi offrì non poteva capitare in un momento più propizio. Non mi ero avvicinato a lei per quel motivo, il mio obiettivo era solo quello di farle poche domande e andarmene così come ero arrivato. Invece, fu lei a capire in che situazione mi trovavo, fu lei a invitarmi a casa sua per una settimana.

Una sera, ho visto un vecchio video su alcune balene che si erano spiaggiate,

erano tantissime. In quel periodo non rimuginavo più sui discorsi che avevo fatto con Chiara, ma quando tornai a confrontarmi con alcune immagini condivise con lei sobbalzai sul divano, per poi correre e fermarmi davanti alla porta della mia benefattrice. Ci riflettei bene, mi dissi che era meglio se me ne stavo buono e che coinvolgerla non avrebbe avuto senso. Mi preparai il letto e cominciai a guardare tutti i tentativi che alcuni volontari, surfisti, veterinari, scienziati, fecero nel tentativo di non far morire quei grossi mammiferi. Giorni e notti ati a idratare le balene, che non riuscivano a muoversi di un centimetro. Tifai per loro fino a quando arrivarono i traghetti che con corde e argani ne rimisero tantissime in mare. Ma le balene non si allontanavano, come se fossero attirate dalla spiaggia. La mattina al risveglio cominciai subito a scrivere.

Approfondii e creai collegamenti originali, provai anche a chiedere all’amica di Chiara un suo giudizio, ma la sua cortesia non si spingeva così lontano e così smisi. Avrei gradito la presenza di Chiara vicino a me, anche solo un’immagine olografica che appariva di tanto in tanto, mi avrebbe aiutato, chissà. Guardai pagine e foto di mille tartarughe marine e dei loro viaggi migratori negli oceani, linee invisibili di un percorso che parte da alcune zone dell’Africa e che va in tutte le direzioni, in altri continenti. Alle tartarughe funzionava benissimo l’orientamento, per i grandi cetacei invece a volte erano grossi problemi. Volevo fare un raffronto fra questi due animali, ma poi ho deciso di andarmene e la cosa è rimasta nel vago. C’era ancora molto da fare, da scoprire; ricominciai a uscire sempre più spesso da casa, fino al punto in cui una mattina, senza far rumore, mi svegliai presto come al solito sul divano e me ne andai.

Non ero pessimista, confidavo in quello che pensavo e in quello che facevo e fino ad allora mi era andata bene, dovevo solo impegnarmi di più. Credevo con fermezza che la decisione di affrontare quello che ora consideravo un mio problema, sotto un altro punto di vista, fosse giusta. Un’altra cosa giusta era che lo stavo facendo consapevolmente, anche se quello che mi accadeva era in apparenza slegato da ogni logica. Sarebbero state le stesse esperienze a dimostrarmi la riuscita o no delle mie azioni. La scrittura fece tutto il resto.

C’erano sì degli ostacoli, ma sarei stato aiutato da una successione ordinata di necessità, lucenti come una vecchia bottiglia di vino conservata e pulita bene per l’occasione. Urgenze con cui mi sarei confrontato vicendevolmente. Esisteva un riflesso e quindi un confronto, un gemello, e per quanto il suo apparire fosse ancora lieve e senza sonoro, non mi avrebbe più abbandonato. Non avrei più dovuto relazionarmi mio malgrado con impedimenti reali o inventati.

La necessità è una leva, datemi una necessità e vi solleverò il mondo.

Per me è stato diverso, è durato poco il dilemma, sono stato obbligato a farlo, a cambiare il modo di vivere in maniera così radicale. Chi per un motivo chi per un altro, nessuno convivrebbe con una presenza sottile di paura, giorno dopo giorno, che non ti abbandona mai definitivamente, quella di essere arrestato.

Era importante per me andare avanti con la scrittura e se dovevo finire in prigione, andava bene lo stesso: avrei continuato la ricerca anche chiuso in una cella.

Il primo impulso dovrebbe accendersi consapevolmente.

La mattina che me ne andai da casa dell’amica di Chiara vidi una ragazza che camminava davanti a me in strada. Era la prima volta da quando ero stato in stretti rapporti con Chiara che provavo attrazione per un’altra persona. La cosa strana è che la ragazza mi piaceva così tanto che ho cominciato a seguirla, volevo rivedere il suo viso che avevo incrociato solo pochi secondi prima, sul marciapiede di fronte a un palazzo adibito a uffici. Lei stava uscendo dal portone, ci guardammo per un istante come fanno due persone che non si ricordano di conoscersi, poi lei si è allontanata proseguendo per la sua strada. Il suo corpo aveva risvegliato in me una sessualità a cui non ero più abituato e anche se all’inizio la cosa mi diede alquanto fastidio, decisi di seguirla lo stesso.

Ero così attirato dal calore del viso e dalla femminilità che esprimevano i suoi movimenti che la desideravo con tutto me stesso. La sua figura avvolta in quel vestito elegante e dai colori scuri, la sua gonna, la giacca, la camicetta, invece cercava di respingermi. Non perché non apprezzassi gli abiti, era come se loro avessero capito le mie intenzioni e cercassero di avvertire la donna che un intruso era presente. Il suo corpo invece non mi respingeva, anzi moltiplicava le mie fantasie alla stessa velocità di un contatore elettrico di un fast food aperto tutto il giorno. Pensavo che se mi avesse invitato nella sua casa per fare del sesso, lo avrei fatto senza badare troppo alle conseguenze, l’avrei spogliata lentamente e avrei dato sfoggio di una delle mie migliori prestazioni mai portate a termine.

Non ricordo se in ato avessi mai avvertito così intensamente lo scorrere del sangue nel corpo. Ero un latitante. La mente viaggiava, viaggiava fra coperte e tacchi a spillo, fra reggiseni e sesso orale, viaggiava più veloce del sangue. La ragazza entrò in un bar dove ad aspettarla c’era un’altra donna, forse ancora più attraente di lei. Entrai anch’io, presi da bere e fra un SMS immaginario e un altro cercavo di rincontrare il suo sguardo, poi me ne sono andato. La mia fantasia si era dissolta e i problemi che stavo affrontando, con il loro clamore scoppiettante, riconquistarono il lungomare dei miei pensieri.

Fine dell’armatura sessuale. Era strano, ma per un momento mi sono sentito capace di poter sedurre qualunque donna avessi voluto. Sapevo che tutto questo con il basta poco non c’entrava nulla, almeno non superficialmente, eppure ritenevo possibile ricavarne un certo tipo di interpretazione, con la stessa facilità con cui si è in grado di prendere una mela dalla propria borsa, un semplice frutto avvolto in un fazzoletto di carta. Seguendo e fantasticando su quella donna mi sentivo armato e eggiavo con noncuranza in un luogo dove le pistole non esistevano. Ogni donna poteva essere una banca e io di soldi avevo sempre bisogno. Era come se avessi avuto le sembianze fisiche di un uomo grande e grosso, in grado di picchiare chiunque. La supremazia fisica sugli altri è un dolce sapore, ci nutre come il latte materno, è come un atto sessuale. Era quello che provavo per quella donna, un’erezione fisica e mentale in una città popolata solo da donne. Ma dopo quel blitz nel cuore della sensualità tornai sui mie i. Riconoscermi come uomo, una persona così idonea a soddisfare tutti i piaceri

sessuali delle donne, era frutto di un ragionamento che solo per caso era transitato attraverso l’originale brevetto da me elaborato. Causare una tale aggio e ottenere la certezza di non fallire un approccio era un avvenimento che non potevo ignorare. Essere sospinti con una così potente intensità verso quella ragazza incontrata per caso non riguardava il piacere fisico; se avessi potuto rendermene conto subito avrei guadagnato tempo prezioso che non avevo neanche per me, respinto e obbligato a nascondermi. Una casa senza muri e senza tetto, con il solo pavimento che a modo suo faceva le veci di tutto il resto, ma senza ostacolare niente. Camminavo e sorridevo senza pensare a niente in particolare, quando vidi venire verso di me due poliziotti a piedi, con radio e manette. Parlavano alla radio, i lori occhi erano puntati su di me, si stavano dirigendo proprio nella mia direzione.

Mi fermai e con il telefonino finsi di comporre un messaggio, mi girai dall’altra parte e cominciai a guardare la vetrina di un negozio che era dietro di me. Potevo vederli nel riflesso del vetro e nello stesso tempo diventare invisibile. Mi sorarono dirigendosi lungo la fine della strada. Paura non ne avevo avuta. Ero seccato per la mia poca attenzione e maledicevo i pensieri orgasmici che si erano impossessati di me per tutto quel tempo.

Il o falso che per poco non mi faceva arrestare era stato provocato non tanto dall’eccitazione con cui avevo seguito quella ragazza, ma dall’intensità con la quale questo aveva portato a una successiva reazione. Con il sorriso sulla labbra e a viso aperto, lanciavo occhiate a tutte le donne che incrociavo senza controllarmi le spalle. Ero stato così preso a immaginarmi gigolò che ero diventato un vero gigolò. Non vi era dubbio però che era stato bello poter vivere per un attimo quel sogno, un bisogno così forte da non poterne fare a meno, spinto da una forza incontrollabile, un tram senza freni in folle discesa verso un burrone.

Se mi fossi comportato come un animale domestico avrei dovuto avvicinare quella donna, ottenere un appuntamento, portarla a cena, portarla a letto. All’interno della mente tutto si era compiuto una, due, tre volte almeno, con lei,

con l’amica e anche con la barista. Mi ero immaginato di essere già al terzo appuntamento e ancora non ero entrato nel bar. Avrei dovuto comunicarci, senza la prospettiva obbligata di un approccio fisico. Non lo capii subito come invece avrei dovuto, l’immagine di quella donna si sovrapponeva a quella degli uomini delle forze dell’ordine e anche se i poliziotti non stavano cercando me, consideravo quell’evento un’occasione persa. Se le avessi parlato avrei abbandonato la postura con cui avevo fantasticato fino a quel momento, un atteggiamento che mi allontanava da me stesso più di quanto le vicissitudini esterne avevano fatto finora.

Una cosa è certa, quella era una traccia. Non potevo immaginare e non potevo neanche sapere dove mi avrebbe condotto, una riva abbandonata ma pur sempre un appoggio. Avevo attraversato la sua vita alla velocità della luce, andando così avanti nel tempo, sorando ioni e parole; ero stanco e non avevo neanche iniziato. In quell’occasione ero stato troppo prudente. Per il momento però dovevo togliermi di dosso quella frustrazione che mi stava schiacciando con tale violenza e così andai al cinema. Mentre guardavo il film in quella sala così poco frequentata a quell’ora del pomeriggio presi la decisione di cercare Chiara dove non avevo finora cercato: la città non era il posto giusto e in più era frequentata dalla polizia. Mi venne in mente l’Oracolo, era da tempo che non lo frequentavo, forse era arrivato il momento di tornare da lui, ma poi decisi di non farlo, la pellicola si mosse e io mi addormentai.

Era buio quando uscii dal cinema ancora più stanco di prima, quindi decisi di cercarmi un albergo. Mentre me ne stavo in camera mangiando un panino, rilassato e senza pensieri opprimenti, mi venne l’idea di fare una cosa stupida: mi alzai, mi lavai i denti e andai a trovare mio fratello. L’ultima persona a cui chiedere udienza, lo stesso fratello che durante il processo, se avesse potuto, si sarebbe costituito parte civile. Non mi aveva più parlato e io non avevo mai provato a riavvicinarmi a lui.

Mentre scendevo spedito le scale e avo davanti alla reception ero sì convinto di stare per commettere una sciocchezza, ma al tempo stesso ero eccitato all’idea

di un faccia a faccia con lui. Un’eccitazione che stavo iniziando a conoscere bene. Le cose non andarono molto diversamente da come me le ero immaginate: nel momento in cui mi vide, mi disse subito che aveva già chiamato la polizia. Non rimasi sorpreso e in quei pochi istanti in cui ero di fronte a mio fratello, cercando di guardarlo negli occhi e comunicargli qualcosa, la mia mente stava già pensando ad altro. Mi rivolse urla feroci e piene di odio, verso un uomo che era diventato un estraneo, una persona cattiva che aveva infangato il suo nome e quello di tutta la sua famiglia. Sentivo ancora la sua voce e quella di altre persone, mentre mi allontanavo in fretta. Non sarei dovuto tornare in albergo, i poliziotti probabilmente stavano già lì ad aspettarmi, non potevo farci niente. Sarei dovuto scappare e allontanarmi dalla città, ma ero stanco e quell’accelerazione non fece altro che spingere più in basso il mio stato d’animo. Mi controllai le tasche per prendere il taccuino e annotare la parola fine sulle mie ricerche, quando mi accorsi di trovarmi davanti a un cimitero. La porta era solo accostata, ed entrai. Era buio, ma le luci sulle lapidi illuminavano abbastanza bene la terra sotto i miei piedi. Feci un giro con sentimenti che adesso stento a riconoscere, guardando distrattamente le date di nascita e di morte. Fiori e fotografie si contrapponevano al rumore della città che in lontananza mostrava i suoi muscoli alla vita. Sedetti in terra con le spalle poggiate al cancelletto di una cappella, fumando una sigaretta che poi ebbi cura di gettare nel secchio della spazzatura, guardavo il cielo e pensavo che forse era meglio se rimanevo lì. Non avrebbe fatto nessuna differenza. Rialzatomi da terra mi avviai all’uscita. Mentre chiudevo con cura il cancello dietro di me mi accorsi che sul muro di fianco c’era un foglietto di carta attaccato con puntine da disegno. Si offriva assistenza per il servizio lampade votive, c’era anche un numero di cellulare; presi nota e me andai.

Quando arrivai in albergo, prima di andare a letto telefonai dalla camera a quel tizio, parlai con lui inventandomi un sacco di stronzate logiche e concilianti. Fu come prendere una tazza di latte caldo prima di addormentarsi, prima di finire in carcere. Dopo averlo salutato dicendogli che avrei richiamato per un appuntamento e per un sopralluogo, mi posai sul letto e chiusi gli occhi. Feci sogni confusi, alcuni li dimenticai, di altri ne conservai il ricordo per tutta la mattina, per il tempo necessario a sistemare le mie cose sparse nella stanza. Ero sorpreso che ancora nessuno avesse bussato alla porta. La stanchezza per fortuna era cessata e così tutta la rassegnazione con la quale mi ero addormentato; ero deciso ad andarmene dalla città, ma stavo aspettando qualcosa, un dettaglio fatto

di sostanza che provenisse da quella stanza. Non volevo più essere catturato, ma nello stesso tempo ero deciso a rimanere lì per prendere quello che mi era necessario, quello che era sempre stato mio. Non mi importava se quella decisione mi avvicinava al pericolo del carcere; non avendo altra scelta scesi a fare colazione e tornai su per scrivere qualcosa sul mio diario.

Mi sentivo come un operaio con un grosso arnese di ferro in mano nell’atto di deviare manualmente il corso di un treno, ma quella realtà, quel gesto non cambiò nulla, almeno in apparenza, nessuna deviazione. Io non ero l’addetto alla circolazione, non fui io a deviare, fu qualcos’altro. Il treno viaggiava per conto suo, non c’era bisogno di un mio intervento, dovevo solo guardare il panorama e tutto sarebbe andato bene, ogni cosa al suo posto, ma era solo un sogno a occhi aperti, ben diverso da quello della notte prima. Avevo sognato un muro. Facevo parte di un popolo primitivo, giravo con lance di selce e pelle d’animale come vestiti. Cacciavamo e ci spostavamo di continuo sulle montagne. Durante il sogno, in una mattina con un sole così cocente da rimanere fulminati, mentre ci spostavamo verso una zona più fresca per cercare dell’acqua, incontrammo sulla nostra strada un muro di pietra. Era stato modellato dalla natura, ma sembrava fosse stato costruito da mani esperte, da altri uomini. Il muro era alto all’incirca tre metri e lungo almeno cinque, si trovava nel bel mezzo della pianura, tutt’intorno c’era solo erba. Gli uomini del mio gruppo neanche lo notarono, ma io deviai il cammino e feci per avvicinarmi. Non riuscii mai a raggiungere il muro perché svenni e mi risvegliai in un’altra epoca. Stessa valle, stesso muro, altre persone insieme a me, vestite in modo diverso e con armi più affidabili. Rividi il muro e mi avvicinai di nuovo, svenni e riaprii gli occhi in un altro momento storico e così via, attraverso il tempo, fino a quando invece ero un soldato della prima guerra mondiale, con tanto di uniforme e di fucile con baionetta. Non riconobbi la valle, anche perché i proiettili e le bombe sibilavano da tutte le parti. Mentre procedevamo nell’oscurità, illuminato da un bagliore di una bomba caduta proprio lì vicino, scorsi il muro di pietra, anche stavolta cercai di raggiungerlo, ma in quell’occasione le cose andarono diversamente. I miei compagni mi gridavano qualcosa in una lingua sconosciuta, qualcuno cercò addirittura di fermarmi con la forza. Quando mi trovai di fronte al muro mi accorsi però che la costruzione era recintata da paletti e filo spinato, tutto intorno uomini armati mi intimavano di non avvicinarmi. Qualcuno mi diede un colpo in testa e stavolta al risveglio ero ancora in zona di guerra, insieme ai compagni che avevano cercato di fermarmi. Uno dei soldati che mi aveva aiutato a riprendermi

mi sollevò di peso e mi condusse dietro a una roccia, mi spiegò cosa era accaduto. Mi disse che ero un pazzo a volermi suicidare proprio adesso che la battaglia stava volgendo a nostro favore, avvicinarmi troppo a quel muro sarebbe stata la mia condanna a morte, come potevo non saperlo? Il muro non andava toccato, si muore all’istante, mi ripeté fino allo sfinimento. Poi mi svegliai.

Mentre ero sul letto e bevevo dell’acqua ripensai a quel muro che distribuiva morte: era sempre stato così, ero morto un’infinità di volte. In quel sogno il muro letale aveva condizionato l’intera esistenza e tutti si erano adeguati a lui. Forse non uccideva tutti, forse lo faceva solo con me, o forse semplicemente non era lui la causa.

Da parte mia non potei fare altro che seguire la linea che era tracciata, una reazione che nacque spontaneamente e che mi aveva portato a fuggire e a nascondermi, a sotterrare le speranze. Una rete di circostanze così assurde e inverosimili, che mi faceva venire in mente che dietro questo incastro di situazioni potesse esserci un’entità superiore a governarne il funzionamento. Pensai alla possibilità di un uomo che, come me, in un’altra parte del mondo potesse trovarsi nella mia stessa condizione e che stava reagendo allo stesso modo.

Pensai ancora a Chiara, di quanto la sentissi più vicina durante quella mattina nella camera d’albergo, desideravo stringerla fra le mie braccia.

Era quasi mezzogiorno, il mattino stava cambiando aspetto, c’era luce, tanta luce. Raggi bianchi entravano dalle finestre e attraverso il riflesso sui muri giunsero a me. Una vicinanza insieme alla quale viaggiai nei ricordi del tempo, un ato fatto anch’esso di luce e suoni ovattati, di quando avevo all’incirca sei anni ed ero a casa con la febbre.

Una medicina bevuta e direttamente accompagnata dalle mani di mia madre, un televisore che trasmetteva l’immagine di un monoscopio a colori, musica suonata da un’orchestra, una successiva trasformazione composta da linee che convergevano nello stesso punto. Un treno che correva attraverso una grande costruzione antica fatta di volte altissime e la cui cima era una lunga curva senza fine.

La luce del sole sembrava muoversi molto più lentamente del normale, disponendosi in alcuni punti specifici della stanza, con la volontà di non abbandonarli più. Un teatro che andava disponendosi prima dell’inizio del concerto, ogni raggio di luce nel suo posto prenotato. Un flusso costante, una sensazione di caldo e di riposo, uguali prospettive, immediate prospettive, quelle di un bambino che ha appena fatto colazione.

Quando fu tutto a posto anch’io ero pronto, preparato a quella variazione musicale, la riconobbi attraverso il ricordo, mentre il treno continuava a girare in quell’angusto cerchio di terra. Presi lo zaino, la cartella portadocumenti e lasciai definitivamente l’albergo.

Tornai in città e presi un treno. Il mio sguardo seguiva le case che dominavano dall’alto la ferrovia, sentivo ancora la musica di prima. Il tempo continuava ad addormentare i miei pensieri, stava cancellando il ato. Due memorie in conflitto fra loro, in apparenza autonome e impegnate ad annientarsi a vicenda, una situazione in cui però ero io a decidere, ero io a scegliere qual era la migliore.

Scesi a una stazione qualunque e mi diressi subito in un bar. Era sera e i clienti per lo più uomini anziani; stavano guardando un incontro di calcio, due squadre straniere si sfidavano in una partita di seconda divisione. Presi qualcosa da mangiare e una birra e mi sedetti anch’io a guardare la televisione. Il panino era caldo e buono, il cameriere dopo avermi servito venne anche lui catturato dalle azioni di gioco. Durante un contropiede l’attaccante di una delle due squadre

fece gol. Niente da fare per il portiere. Almeno in apparenza, perché dopo che i giocatori finirono di esultare, le immagini vennero proiettate più volte al rallentatore. Il portiere aveva ritratto la mano proprio quando il pallone era ato vicino ai suoi guantoni, era evidente dai replay. A quanto pare però ero stato solo io a notare questa scena; gli altri clienti erano tutti d’accordo con il commentatore della tv, il quale diceva che la palla era imparabile.

Una volta fuori mi incamminai verso il centro della città. Sentii d’un tratto le gambe cedermi. Un malessere generale colpì i muscoli del mio corpo. Non so se avessi la febbre, ma le sensazioni erano proprio quelle, la cosa più grave però non era la mia stanchezza, ma accorgermi di aver perduto il diario con gli appunti. Quando ero uscito dalla mia stanza di albergo l’avevo ancora con me, ma ora che lo cercavo nei miei abiti non c’era più. Non sapevo se fosse un bene o un male, ma di sicuro indietro non sarei tornato.

Invece di cercarmi un posto per dormire zoppicai dentro un locale. Si chiamava White Shadow. Non ricordo che ora fosse, il locale era pieno di gente, schivai alcune birre che ondeggiavano in mani incerte e mi avvicinai al bancone. In fondo al locale dei ragazzi stavano approntando il palco con strumenti e amplificatori. Mi sedetti su uno sgabello e ordinai da bere. Era la prima volta che durante la latitanza stavo male e senza l’appoggio di un letto, di un tetto sulla testa. La febbre la sentivo forte, ma stranamente la condizione fisica non stava ancora plagiando l’umore. Mi sentivo a mio agio, ma non tanto per l’ambiente confortevole e le persone che s’intrattenevano nel locale, ero io a vivere bene la condizione in cui ero, il resto non aveva importanza. Bevevo lentamente e senza fretta la fresca birra che nel frattempo il barista mi aveva portato, osservando le persone senza curiosità. Certo avrei preferito un bagno caldo e un letto fresco che sapeva di pulito, ma avevo la mia birra che riuscii a finire in pochi minuti.

Il concerto non era ancora iniziato, una tenue musica di sottofondo permetteva la libera comunicazione e nello stesso tempo non catturava l’attenzione di nessuno. Il proprietario controllò velocemente qualcosa sullo schermo di un portatile e se ne andò. Mi avvicinai allo schermo e mi accorsi che stavamo ascoltando una

radio streaming, una stazione che da quanto avevo sentito finora trasmetteva rock di vario genere, tutto sfumato perfettamente dalla selezione digitale. Un brano dopo l’altro, senza pubblicità.

«Tu credi in Dio?» Una ragazza si era seduta accanto al mio sgabello, mentre con lo sguardo cercava di attirare a sé qualcuno che le servisse da bere. Dalla confidenza che aveva con il barista e dal fatto che avesse fatto segno di mettere sul suo conto, capii che non era nuova di quel locale. Si girò verso di me e mi fissò.

«Conosci la band che suonerà stasera? Sembra che vengano da fuori» mi disse sorridendo.

«Certo, sono venuto con loro.» Mentii.

La ragazza che adesso riuscivo a vedere meglio era ben formata e dall’aspetto provocante.

«Ti posso chiedere una cosa?»

«Dimmi tutto» risposi.

«Non è che mi presenteresti il bassista? Lo trovo attraente, come si chiama?»

«Controlla la birra, vado a dirgli che vuoi conoscerlo.»

Mi alzai e mi avvicinai al palco dove c’era il biondo componente del gruppo che stava accordando lo strumento.

A parte una sensazione iniziale di malessere e di imbarazzo, ebbi come l’impressione di trovarmi d’un tratto insieme a una famiglia numerosa a una festa di Natale. Per fortuna Dan Ove, così si chiamava il bassista, era una persona simpatica, mi disse che aveva già notato la tipa, anche perché da quando era entrato nel locale non faceva che fissarlo. Arrivammo a un accordo in breve tempo: sapendo che ero da solo e che non conoscevo nessuno, mi consigliò di godermi il concerto, subito dopo avremmo parlato bevendoci qualcosa insieme, poi saremmo andati da lei.

«Stammi vicino,» mi disse Dan Ove «non mi piace, non andrei mai a letto con lei, ma se mi accompagni dopo ci andiamo a fare due chiacchiere. Se me lo chiede le dico che ci conosciamo e che siamo venuti insieme.»

Tornai al bancone e le dissi dell’appuntamento che avremmo avuto dopo il concerto con Dan Ove, era contenta e dopo avermi dato un bacio sulla guancia mi fece segno di seguirla con la birra al posto che occupava prima.

«Vieni, non ti mangio mica. Io sono Adele.»

Al tavolo c’erano altre tre persone, un uomo e altre due donne. Ci stavamo per presentare quando un muro di suono si abbatté su di noi, provai a farmi sentire e ascoltare quello che mi dicevano gli altri, ma era tutto inutile. Eravamo troppo vicini al palco e con uno sguardo pieno di sofferenza ci comunicammo a vicenda l’urgenza di spostarci da lì per andare nell’altra sala, che comunque era adiacente con quella del concerto, ma più piccola e confortevole. Da lì potevamo ascoltare

la band e nello stesso tempo con la ritrovata opportunità di avere una conversazione decente.

Ordinammo tutti da bere.

«Perché mi hai chiesto se credevo in Dio?» domandai ad Adele nel tragitto verso il nostro nuovo tavolo.

«Non lo so, mi sei sembrato un tipo religioso, sei un sacerdote in incognito?»

Io non ero mai stato un credente, neanche da bambino, quando frequentavo la chiesa del quartiere.

«Cerco solo di comportarmi bene anche se non tutti pensano che io ne sia capace. In questo momento seguo il dover essere» dissi.

«Vado a dare un’occhiata al concerto, voi tanto avete fatto amicizia, trattatemelo bene, è un sacerdote» disse Adele allontanandosi dal tavolo e seguendo la musica che stava suonando il gruppo. Avevano cominciato a chiedermi maggiori informazioni sulla mia vita. Domande alle quali risposi cercando di nascondere il meno possibile.

«È singolare il tuo punto di vista sulla religione» disse la persona più grande di tutti noi, il marito di una delle donne sedute accanto a me; si chiamava Devis.

Io sorrisi. «Mi piace studiare la natura, ci sono tutte le risposte. E ovviamente non sono un sacerdote.»

«Non ti preoccupare, Adele è così, quando le piace qualcuno va fuori di testa e non si ferma fino a quando non ottiene quello che vuole. Io che sono sua amica ti potrei raccontare ogni volta che ha cercato di coinvolgermi in situazioni tipo quella di stasera dove invece ha coinvolto te.»

«Questo nella migliore delle ipotesi, cara la mia sca» disse Elena, la moglie del tipo che era interessato al mio stile di vita.

«Cos’è che ti affascina di più?» mi chiese Devis cercando di avere più particolari possibili.

«Mi piace l’effetto che ha su di me. Camminare in una valle di montagna per esempio» risposi tra un sorso di birra e un altro.

«Dai, venite a vedere il concerto.» Adele piombò sul nostro tavolo. «Non state bevendo niente, dovete bere più birra, se lo fate il volume della musica non vi darà fastidio.»

Adele andò verso il bancone, prese altre birre che poggiò sul nostro tavolo, disse qualcosa sottovoce alla ragazza seduta di fronte a me e si allontanò.

«Cosa stavi dicendo?» chiese la moglie di Devis.

«Non è facile da spiegare. Dapprima si è davanti a quello che si pensa possa esserci in un luogo come quello, alberi, terra, cespugli, animali. Poi ti potresti accorgere che il tuo corpo si sta adeguando a tutt’altro, a uno scenario differente da quello che vedono i tuoi occhi.»

«Interessante» disse Devis.

«Una notte che ero con Chiara decidemmo di andare a fare una eggiata nel bosco. Dopo una lunga camminata su un sentiero ben visibile anche di notte, ci fermammo a riposare su un prato. Quando iniziammo a parlare, ci accorgemmo sia io che lei che in quei momenti di silenzio reciproco avevamo avuto una sensazione di solitudine. Ci siamo fatti tante domande. Non era la prima volta che mi capitava. Ci sentivamo parte di qualcosa, dove venivamo messi sullo stesso piano di tutto quello che ci circondava.»

«Chi è Chiara?» mi chiese sca.

«È una mia amica.»

Non badai neanche a inventare bugie. Quelle persone mi trasmettevano fiducia e da come la vedevo io, per loro era la stessa cosa.

«Non vai a vedere il concerto dei Dominic? Hai detto che sono tuoi amici.»

«Li ho visti e sentiti così tante volte nella sala prove che conosco a memoria i pezzi che faranno stasera» dissi cercando di fare finta di niente.

«Ma non era il loro primo concerto?» disse l’amica di Adele.

«Da qui riesco a sentire meglio, ci saranno altre occasioni, è una mia cosa, una scaramanzia.»

«Parli come se fossi il loro agente» disse Devis.

«Non sei il primo a dirmelo e a volte lo lascio credere, conviene a tutti» risposi.

«Quindi ti piace sperimentare cose nuove, da quello che ho capito?» chiese Elena.

«Sì, ma voi chi siete? Mi sembrate ferrati sull’argomento, molto più di me.»

«Siamo amici di Adele e per circostanze imponderabili siamo capitati in questo locale» disse Devis cingendo sua moglie con un braccio. «Io e lei eravamo in casa quando ci sono venute a trovare Adele e sca, ci hanno proposto una cena veloce per poi andare tutti a vedere il concerto e quindi eccoci qui. Saranno vent’anni che non andiamo a un concerto, al massimo organizziamo una cena con qualche amico. Non siamo poi così vecchi come sembra.»

«Mi piace la vostra compagnia, sono contento di avervi conosciuto.»

Devis mi guardò sorpreso, come se lo avessi accusato di un furto durante una festa di beneficenza. «È una cosa naturale, almeno per me.»

«Anch’io la penso allo stesso modo» disse Elena.

«E per te com’è?» chiesi a sca.

«Non saprei dirvi. Vado a sentire il concerto, la birra mi ha anestetizzato le orecchie, aveva ragione Adele.»

Il malessere fisico mi aveva concesso una tregua, stavo meglio, forse era stata la birra o forse altro, fatto sta che quando sca ci lasciò da soli, la cosa mi dispiacque molto.

«Siamo rimasti noi tre.»

«Se vuoi andare anche tu non farti problemi, io e la mia mogliettina staremo bene comunque.»

«No, anzi mi piace parlare con voi due, la musica può aspettare.»

Continuai a bere, anche loro bevevano e quando finirono i bicchieri Devis andò a prendere un altro giro.

«Tu non sei amico del gruppo, vero?» chiese Elena.

«Da cosa l’hai capito?»

«Non l’avevo capito, ho tirato a indovinare e tu me lo hai appena confermato, scherzetto» disse Elena con una punta d’impudenza.

«Sono solo di aggio, ho preso un treno e sono sceso a una stazione a caso, ero in vena di novità. Ma ho parlato veramente con il bassista, mi ha detto che dopo il concerto andrà a fare due chiacchiere con Adele, anche se devo ammettere che mi ha confessato di non essere attratto da lei» dissi cercando conforto nelle smerigliature del bicchiere.

«Come lo capisco. Adele è un tantino aggressiva, se poi ci metti che ti sbatte in faccia le tette come una bandiera di Risiko, ecco che il gioco è fatto.»

Devis stava tornando con le birre e Elena con un cenno mi fece capire che la mia confessione era al sicuro, almeno per il momento. Devo dire che invece a me Adele piaceva, il suo mostrarsi così generosamente aveva attirato la mia attenzione, ma questo lo tenni per me.

«Stavo ripensando a quello che dicevi prima sulla natura, mi hai detto già come ti chiami?» disse Devis poggiando i bicchieri sul tavolo.

«Mi chiamo Christian. Sì, la cosa della natura è un discorso complesso anche per me che ci sono dentro; ti direi una bugia se ti dicessi che è tutto sotto controllo,

nero su bianco. Sono partito da una necessità. Lo conoscete Chester Carlson?» chiesi senz’aspettarmi una risposta. «Era un avvocato dell’ufficio brevetti di New York e inventore nel tempo libero. Nel suo lavoro Carlson doveva spesso copiare documenti a mano e soffrendo di artrite trovava la cosa tediosa e causa di dolori. Inventò la fotocopiatrice. Ecco, una cosa del genere. Sono ato attraverso vari studi, che a un certo punto hanno cominciato a combaciare con le mie eggiate solitarie. Più mi isolavo da ogni contatto umano, più riuscivo a superare ragionamenti che di solito rimanevano sospesi nel nulla. Poi i pensieri si sono concentrati su alberi, piante, tutto quello che mi capitava d’incontrare. Sono entrato in una comunità.»

Ridemmo.

«A quanto pare sei anche fuggito da una comunità.»

«È una storia lunga.»

«Sei simpatico,» disse Elena «dai, racconta. Abbiamo tutto il tempo che ci pare, oggi è venerdì e domani non dobbiamo lavorare.»

«Magari un’altra volta, è una cosa molto personale, ma come dice Adele la birra anestetizza le orecchie e forse più tardi, chissà, avrò il coraggio di raccontarvela.»

«Sei una persona sincera, Christian» disse Elena invitando tutti a un brindisi.

Avevo la sensazione che se avessi raccontato tutto, anche il fatto che ero un latitante, mi avrebbero compreso, dovevo farlo, volevo farlo, ma non ne avevo ancora il coraggio. Gli appunti non c’erano più e anche se all’inizio non mi importava niente, con il are delle ore ne percepivo sempre più la mancanza. Le speranze erano ridotte a una sola unità, forte, bella, invincibile, utile solo se presa con la giusta direzione. Se avessi sbagliato a muovermi sarei tornato diritto in prigione; mi sentivo nudo, indifeso, ma stranamente poco preoccupato. Non c’era conflitto fra quello che provavo e la compagnia di Devis e sua moglie, né con Adele e la sua amica, che quando mi alzai per andare in bagno vidi ballare scatenate davanti al palco.

La sistemazione per la notte era l’ultimo dei miei pensieri. Mi sembrava di stare dentro un gioco di ruolo, dove il mio compito era immaginarmi nei panni di un cavaliere, un mago, un uomo dalla forza sovrumana. La febbre scomparve definitivamente, anche grazie alle abbondanti dosi di birra, ma senza spiegarmi il perché ne avvertivo ora l’assenza. Una sensazione provocata da circostanze indefinibili, per me fu come essere arrivato in un posto bellissimo, per poi accorgermi di non sapere come ritornare indietro.

Fu Devis a togliermi da quell’ime; vederlo di fronte a me e parlare con lui e la moglie, il loro sorriso così pieno di equilibrio e accettazione, spazzò via ogni dubbio, facendomi riprendere in breve tempo il controllo di me stesso. Finché c’erano quei due accanto a me non mi sarebbe accaduto niente di male, le uniche variabili che non potevo controllare erano Adele e la sua amica sca.

«Ma non vieni a vedere il concerto? Avete visto sca? Stava vicino a me, poi si è allontanata con un tipo. Voi due siete proprio i soliti, state influenzando il mio nuovo amico. Ti dispiace se bevo la tua birra?»

«Vai tranquilla, tieni» dissi ad Adele che era tornata con una rapidità tale da non farmi accorgermi della sua presenza, la stessa rapidità con cui si allontanò con il mio bicchiere verso la musica, senz’aspettare una mia risposta.

«Devis, amore, lo sai che Christian non lo conosce il gruppo? Non li ha nemmeno mai sentiti suonare, come noi del resto.»

«E adesso come si fa con Adele?»

«È vero, non ho mai visto questo gruppo in vita mia, il piccolo segreto è stato svelato. Inaspettatamente aggiungerei» dissi lanciando un’occhiata a Elena. «Ma ho parlato veramente con il bassista e mi ha promesso che più tardi si sarebbe intrattenuto con noi.»

«Non ti preoccupare. Va tutto bene» disse Elena. «Non è vero, Devis?»

«Certo, che importanza può avere? Domani Adele non si ricorderà nemmeno di essere stata a un concerto e se seguiamo la sua strada, nemmeno noi ci ricorderemo niente» disse Devis. «Che ne dite se abbandoniamo la birra e ci buttiamo sul vino rosso?»

«Io sono d’accordo.»

«Lo sai come la penso» disse Elena.

«Vado, voi fate i bravi, avete preferenze? Ok, ho capito, vino rosso e basta.» Devis si avviò verso il bar.

Il vino, devo ammettere, era il mio punto debole. In compenso la compagnia era eccellente e io non avevo né la forza né la volontà per dire di no. Cominciai a pensare al dopo, ma non a una situazione comoda e confortevole per la notte bensì a un legame fra me e Adele. Sentivo il mio corpo come un cantiere aperto, lavori che si svolgevano per una viabilità migliore in futuro, ma che in questo momento mi stavano consumando. Cominciammo a bere il vino, sempre con l’aria di chi ha tante cose da dirsi e che dispone anche del tempo per farlo. Dopo l’incontro che avrei avuto con Dan Ove, saremmo andati a parlare con Adele, gliel’avrei presentato io, anche se arrivato a quel punto non sapevo se la copertura che avevo tirato su avesse ancora importanza. Ero attratto da Adele, percepivo la mia mente rilassata; il corpo invece era andato, mi sentivo paralizzato su quella sedia. Il basta poco, almeno per una sera, poteva aspettare. Avevo il desiderio di sapere, ricercare, conoscere meglio Adele e stavolta non sembrava proprio una traccia, ma una donna piena di ione. Non era questione di come riuscire a sedurla nonostante lei fosse attratta dal bassista, il problema era se farlo o no. Se avessi rinunciato probabilmente sarebbe andata allo stesso modo, ma sentii arrivarmi sulla pelle la stessa sensazione che avevo provato solo poche ore prima con mio fratello. Stavolta però la cosa prometteva effetti collaterali del tutto diversi. Serviva un’alternativa e mentre riflettevo, buttando un occhio nell’oscurità dell’altra sala, arrivò un’altra bottiglia di vino.

«Sai, Christian, non sono molto d’accordo con te su come tu dici di guardare la natura.»

«Cosa vuoi dire?»

«Non ne so abbastanza, ma mentre stavo per ordinare da bere ho pensato che forse quello che accade intorno a noi sono solo cose che accadono e basta, non c’è altro oltre a questo. Sei tu a volere che ci sia dell’altro. Le cose vanno avanti così da sempre, perché dovrebbero comunicarti qualcosa e perché nessuno finora ci ha mai pensato?»

«Forse hai ragione, ci sono cose che non comprendo.»

«Non starlo ad ascoltare, Christian, lui fa sempre così, quello che non capisce cerca di abbatterlo, altrimenti non si sente sicuro. Non è vero, Devis?»

«Tu cosa stai cercando in realtà?» mi chiese Devis.

«È un po’ complicato e come ti dicevo prima, ancora non sono pronto per parlarne con qualcuno.»

«Scusami, era solo per fare due chiacchiere.»

«Forse hai ragione tu, forse accade tutto per caso e sono io che cerco di dipingere quello che è già dipinto e che non ha bisogno d’altra spiegazione.»

Nel corso delle serata notai che Elena sembrava avere una certa influenza su Adele, mentre Devis se ne stava per conto suo a chiacchierare con me; sembrava più di un’amica, sembrava la madre e Devis il padre.

sca non riuscivo invece a inquadrarla. Il suo rapporto era un legame distante e indifferente; da quanto ci aveva detto Adele, si era allontanata dal locale con un ragazzo e ora chissà dov’era. Forse avrei dovuto andarmene da lì, chiudere ogni rapporto e uscire dal locale con una scusa, ma ero bloccato sulla sedia. Avrei dovuto sforzarmi perché sentivo che quella situazione non era più quella che dovevo seguire, mi stavo fermando, era stato il mio corpo a comunicarmelo per primo e io per tutto quel tempo non gli avevo dato ascolto.

«Sentite, io esco un attimo, ho bevuto troppo, ho bisogno di prendere una boccata d’aria.»

«Dove vai, Christian? Vuoi che ti accompagni?» disse Devis.

«Non ti preoccupare torno subito, mi faccio un giro e sono di nuovo qui, devo presentare Adele a Dan Ove, non me lo sono mica dimenticato.»

Quando l’aria fresca della notte mi accarezzò il viso capii d’aver fatto la scelta giusta. Andai a trovarmi un posto per dormire; poi forse sarei tornato al pub. Mi mancava il mio diario, mi sentivo solo, ma forse non era poi così male. Avrei di certo potuto scroccare un posto letto per la notte a casa di Devis, preferivo comunque essere autosufficiente, crearmi una via di fuga per ogni evenienza. Mentre eggiavo per la piccola cittadina deserta nel cuore della notte pensai per un momento di tornare indietro. Pensavo a una cosa e poi me la rimangiavo, quello che prima aveva importanza di colpo svaniva in una nuvola di nebbia. C’era in quella città qualcosa che sfuggiva alle mie comprensioni: non solo non c’era nessun essere umano che attraversava le strade, ma anche le macchine erano assenti su quei vialoni che sembravano non finire mai. Era come se quel deserto di fronte a me si sforzasse di non farmi orientare. Ebbi paura. Più cercavo di allontanarla da me più lei faceva un o in avanti. Decisi quindi di abbandonare la strada e seguire vie secondarie.

Camminando così a vuoto non potei fare altro che accusare stanchezza, sia fisica che mentale. C’era il buio a coprirmi il cammino. Poi iniziò a piovere. Se la polizia mi avesse visto, non avrei potuto di certo cavarmela con il telefonino. Il pensiero del caldo pub che avevo senza motivo abbandonato mi ritornò in mente, anche il fantomatico albergo mi venne in mente, più ci pensavo più i miei i diventavano incerti, quindi mi concentrai sul cercare di non cadere. Intravidi insegne illuminate, macchine, persone che stavano di fronte a quello che mi

sembrava un bar. Di bere non ne avevo voglia però mi avvicinai lo stesso, con le scarpe ricoperte di fango. Il locale era aperto all’esterno da grandi vetrate che davano sulla strada; seduto al tavolo guardavo fuori la gente are e le macchine scorrere lente. Ordinai del caffè.

Dovevo trovare un albergo a ogni costo, ero stanchissimo e mi era tornata la sensazione di febbre.

Stavolta però nessuna pace interiore, nessuna visione equilibrata delle cose, solo febbre e mal di testa. Mi alzai per pagare e per chiedere informazioni, quando mi sentii chiamare alle mie spalle. Era sca, l’amica di Adele, stava con un ragazzo e stavano bevendo una birra, anche loro sembravano avere gli occhi rossi, anche se non per lo stesso mio motivo.

«Christian! Che ci fai qui?»

«Facevo un giro.» Stavo per chiedere cosa ci fero loro in quel bar, quando il tipo si alzò dal tavolo e, senza presentarsi, uscì e se ne andò. sca mi fece cenno di sedermi e io obbedii.

«Vuoi bere qualcosa? Mi sembri distrutto. Va tutto bene?»

«No grazie, sono pieno, ho appena preso un caffè, sono molto stanco, stavo per uscire.»

«Dai, fammi un po’ di compagnia, poi torniamo al pub, non ti preoccupare, non

scappano mica i tuoi nuovi amici.»

«Non è per quello.»

«Ma come fai a parlare con loro? Sono di una noia, non li sopporto proprio, quando mi metto ad ascoltare quello che dicono, soprattutto Devis, mi viene da sbadigliare. Tu invece sembravi interessato, devi essere un tipo tutto casa e lavoro tu.»

«Più o meno,» dissi io «anche se negli ultimi tempi sto cercando di far diventare la mia vita un po’ più movimentata.»

«Stavi tornando al pub?»

«Senti, sca, devo proprio andare, sono molto stanco, devo tornare in albergo.»

«Ok, fai come vuoi, volevo solo non tornare al pub da sola. Sai, di notte, una donna sola…»

«Non mi sembri una persona che si fa di questi problemi.»

«Ti riferisci ad Antoine? Una storia veloce, niente di più. Che fai, sei geloso?»

«Io non ti conosco nemmeno, come faccio a essere geloso?»

«Se vuoi andare vai, ricordati che domani c’è la festa qui in paese, si mangia all’aperto, musica e balli di gruppo: se vieni possiamo farci un ballo insieme.»

«Ok, verrò senza dubbio. Ciao e scusami se me ne vado così in fretta, voglio andare a dormire.»

«Non ti preoccupare. Dove sei in albergo?»

«Qui vicino, ho preso una stanza per un paio di giorni. Ci vediamo domani alla festa.»

«Ahahah. Non sei così sincero, però.»

«Perché?»

«In questo paese non ci sono alberghi, l’unica cosa che somiglia a un posto letto è la sala d’aspetto della stazione. Mettiti seduto, non fare lo stupido.»

«Va bene» dissi io cercando di non mettermi a piangere per la stanchezza, la disperazione, la febbre.

«Non ti preoccupare,» mi disse sca prendendomi le mani fra le sue «stiamocene un altro po’ qui, poi ce ne ritorniamo al pub, ci vediamo la fine del concerto e poi ti troveremo un posto per la notte.»

«Non c’è problema, posso anche dormire nella sala d’aspetto della stazione» dissi io neanche troppo convinto. Mio malgrado assecondai sca e mi preparai.

L’unico problema era che non avevo energia e se volevo andare avanti fino a quando, con un po’ di fortuna, avrei trovato un letto per dormire, dovevo riprendere a bere.

sca sembrava non guardarmi, in continua distrazione, ma proprio quando ne ero più convinto, i suoi occhi entravano nei miei. Mentre parlavo con lei mi venne in mente che forse in un altro momento avevo già vissuto quell’esperienza. Io e lei che parliamo, il silenzio provocato da una televisione accesa in un lontano angolo del bar.

«Torniamo al pub. Ti va?» dissi io.

«Adesso? Ma non ho ancora finito.» sca mi mostrò la bottiglia ancora a metà.

«Ti aiuto io.»

«Ma non eri stanco? Volevi andare in albergo.»

«È un’altra cosa.»

Quando iniziammo a camminare sotto la pioggia, che per fortuna era poco consistente, mi immaginai di dover riattraversare il pratone abbandonato, invece sca aveva la macchina; in pochi minuti arrivammo a destinazione.

«Tu credi in Dio?»

«No, perché, tu sì? Come mai me lo chiedi?» chiese sca.

«Niente, era solo una domanda che negli ultimi tempi sento spesso e che per non essere da meno faccio anch’io.»

«No, non ci credo, però sarebbe bello essere Dio, mi piacerebbe.»

«Prima ero pieno di fango, per arrivare in quel bar dov’eri tu ho attraversato un campo, mi ero perso, poi ha cominciato a piovere, un esodo.»

«E perché?»

«Mi ero perso, cercavo un albergo, ma poi niente. Però non mi andata male.»

«Rimaniamo ancora un po’ in macchina, ti va?» disse sca rilassandosi sui sedili.

«Ma non volevi andare a sentire il concerto?»

«Prendiamoci del tempo, poi scendiamo.»

«Va bene, va bene, sono d’accordo.»

sca aprì il finestrino per accendersi una sigaretta.

«Ne vuoi una?»

«Sì, grazie. Guarda quelli» dissi indicando fuori dalla macchina.

«Dove? Non vedo, Ah ecco, sì. Che stanno facendo?»

«Non gli parte la macchina, sono in due e devono spingere. Con questa pioggia può succedere, si scarica la batteria in un attimo.»

«Dove vai? Christian, entriamo al locale.»

«Tu se vuoi entrare vai, senza problema, ci vediamo dentro.» Uscii e mi diressi senza voltarmi verso l’auto in panne.

La macchina dei due ragazzi, che sembravano ubriachi, era una grossa Ford a quattro porte, pesante, maledettamente pesante, e dopo varie scivolate si mise in moto. I due se ne andarono abbozzando un saluto. Mi diressi verso il White Shadow e quando entrai le cose non erano cambiate di molto. Adele ballava con un tipo che non era il bassista, mentre al tavolo di Devis, oltre a sca e a Elena, si erano aggiunte altre tre persone. Il locale era ancora affollatissimo e ogni tavolo veniva suddiviso fra più persone. Trovai uno sgabello e mi sedetti. Si unì al nostro tavolo anche Adele che, non trovando posto, si posò sulle mie ginocchia.

«Me lo hai promesso, ricordati.»

E prima che la potessi rassicurare se ne andò ad ascoltare quello che veniva annunciato come l’ultimo pezzo, facendo rovesciare con un movimento maldestro una bottiglia vuota di vino dal tavolo. La presi al volo prima che toccasse terra.

«Ci vediamo fra un po’» dissi a quelli del tavolo.

Quando entrai il brano era già iniziato e nell’oscurità la vidi dimenarsi insieme a un gruppo di persone scatenate. Appena finito il pezzo, i Dominic cominciarono subito a smontare gli strumenti, la luce tornò e le persone si misero a chiacchierare fra loro, il bis doveva esserci stato molto tempo prima. Adele, insieme a un tipo sulla cinquantina, si avvicinò a me.

Anche il bassista dei Dominic si avvicinò a noi.

«Andiamo fuori» disse Dan Ove.

Uscimmo tutti all’esterno del locale.

«Ciao, io sono Adele.»

«Lei è la fan che ti dicevo» dissi io.

«L’avevo immaginato, è tutta la sera che balla davanti al palco. Avevi ragione, è proprio una bella femmina.»

Tutti ridemmo.

«Io sono proprio innamorata di te, ma cosa sono quei tatuaggi che hai sulle braccia?» disse Adele come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«È proprio una bella femmina, porti la quinta?»

«La sesta.»

«Non ci credo.»

«Vuoi vedere?»

«Ci credo, ci credo» disse Dan Ove.

Dopo l’ennesimo scambio di birre, Adele si rese conto di essersi dimenticata delle presentazioni.

«Ah, non vi ho presentato.»

«Lui vabbè lo conosci, è il tuo amico Christian…»

«Ma lui non è un mio amico, non ve lo ha detto?»

Tutti guardarono me e io senza sapere cosa dire abbassai lo sguardo verso terra.

«No, mi aveva detto che era venuto con voi e che ti conosceva. Non è vero?» disse Adele guardandomi con un sorriso di sorpresa.

«Lui è mio fratello, è venuto con noi e torna con noi» rassicurò tutti Dan Ove.

«Ma voi non rimanete?» dissi con un malcelato sorriso di sorpresa.

«Io vado, Christian. Sono stanco e poi sono in macchina con Øyvind, non mi va di farlo ritornare da solo, ho anche il basso con me, questo coso alto come te e che pesa come te» disse Dan Ove.

Tutti ridemmo.

«Dai, rimani, puoi dormire da me e domattina ti accompagno alla stazione» disse Adele quasi supplicando.

La proposta era veramente una bella idea, ma il bassista non cedeva, era deciso a tornare a casa quella sera e soprattutto a fare il viaggio di ritorno con il suo amico batterista.

«Perché non rimaniamo?» cercai di insistere, scorgendo la speranza di un letto anche per me.

«Io vado, rimani tu, ci vediamo quando torni.»

Intanto si unirono al nostro gruppo Devis ed Elena, sca era andata via. Anche Adele, dopo che Dan Ove ci ebbe salutato tutti, prese il largo verso casa sua. Perfettamente ristabilita, ci baciò uno per uno e si allontanò verso la macchina.

«Vi va di venire a casa nostra?» disse Devis a me e al tipo che mi stava di fianco e che sembrava essere loro amico. Una persona dall’aria riservata e che per tutto il tempo non aveva smesso di fissarmi. Da quello che emerse successivamente, anche se aveva la macchina non gli andava di guidare e quindi l’invito era rivolto anche a lui. «Qui fuori fa freddo e sta anche iniziando a piovere. Se volete potete dormire anche da noi, la casa è grande.»

«Abitiamo a due i da qui, se ci sbrighiamo non prendiamo la pioggia» disse Elena incamminandosi verso l’uscita del parcheggio.

«Finalmente una bella notizia» dissi io.

Una volta a casa le cose accaddero molto in fretta e senza che io ne abbia un ricordo lucido e consapevole. Io e Devis ci piazzammo nella cucina e con uno stereo di sottofondo continuammo quasi fino all’alba a chiacchierare chissà di cosa. Elena invece appena entrata salì le scale e si mise a letto. Anche il loro amico andò subito a dormire.

Io avevo per me un letto singolo accanto a quello del loro ospite; appena mi appoggiai sul cuscino persi i sensi. C’è solo una cosa che ricordo o forse non è proprio un ricordo, forse è un sogno.

Il giorno seguente mi svegliai che erano le dieci e ne volevo subito parlare con il mio compagno di stanza, volevo chiedergli se anche lui avesse sentito quelle urla e quei botti provenire dall’altro lato della casa, ma nella stanza oltre a me non c’era nessuno. Il letto era stato rifatto. Non ne feci parola con Elena, che incontrai in cucina mentre sistemava il tavolo pieno di cose e preparava del caffè per tutti. Devis apparve subito dopo. Avevo bisogno di una doccia, ma non volevo esagerare e quindi subito dopo aver bevuto il caffè e mangiato un paio di biscotti duri come il marmo salutai, ringraziai e stavo per andarmene quando

venni richiamato.

«Vieni a pranzo in città, dopo? C’è la festa, si mangia in piazza. Se non hai da fare puoi venirti a mangiare qualcosa» mi invitò Elena.

«Ci penserò su.»

Tanto per cambiare iniziai a girare la città con la solita indifferenza di chi non sa dove andare. ai da un bar all’altro sperando che prima o poi mi venisse l’ispirazione giusta. C’era una cosa sola da fare, anche se una piccola parte di me voleva continuare a spostarsi, andare via da lì. Andai alla festa.

La giornata era piena di sole e anche se l’erba era ancora bagnata dalla sera prima, gli organizzatori avevano architettato un ottimo stratagemma. Un enorme tendone e sotto di esso tavolini, panche e una cucina riparata che a quell’ora era nel pieno delle sue funzioni. Si sentiva nell’aria l’odore di carne grigliata.

Non avevo fame e neanche un’idea brillante su cosa fare; mi piazzai a uno dei tavolini che ancora non erano stati apparecchiati. Nessuno mi disse niente. Leggevo il giornale che avevo appena comprato, mi sentivo bene, rilassato, senza troppe domande mi godevo i preparativi per il pranzo che uno stuolo di persone con addosso magliette tutte uguali stavano mettendo in atto. Tovaglie da piazzare e bloccare su ogni tavolo, numerazione degli stessi, organizzare il posto dove si pagava, scrivere il menù, aprire il bar delle bibite, il tutto inframezzato con un su e giù nella cucina. Il mio tavolo era il numero 10.

«Che si dice di bello oggi? Ci sono novità?»

«Ciao Manuel, niente, leggevo così per are il tempo. Stavo guardando le notizie sportive, una volta seguivo il calcio.»

«Dormito bene?»

«Io molto poco, tu sei andato a letto appena siamo arrivati da Devis. Nonostante i duemila caffè che mi sono bevuto, sono ancora incerto sui miei i. Per questo mi sono messo seduto, staziono. Ma tu hai sentito gridare ieri notte, strillare, risate, colpi?»

«Eheheheh. No, quando dormo non mi sveglia neanche la rivoluzione industriale.»

«Ma dove sei stato stamattina? Quando mi sono svegliato non c’eri più.»

«Sono andato a fare un giro con la macchina» disse Manuel mentre con lo sguardo sembrava cercare qualcuno. «Sono tornato un secondo da me, non abito lontano, ma avevo delle cose da sbrigare e che avrei dovuto fare già ieri sera, poi siccome non mi andava di stare in casa, sono tornato per mangiare qui.»

«Manuel, che bel nome che hai, è per caso spagnolo?»

«Sì, mio padre era di Mérida, nell’Estremadura, al confine con il Portogallo. Mia madre invece è nata da queste parti.»

«Ci avrei scommesso che eri mezzo spagnolo, ieri sera volevo chiedertelo, ma poi mi sono dimenticato di farlo.»

«È tutto ok.»

Mentre ce ne stavamo seduti sui tavoli ancora disabitati, io leggevo il giornale, mentre Manuel armeggiava con il suo telefonino. La cosa mi faceva sorridere, pensai al mio di telefonino e che forse anche lui stava fingendo di scrivere un messaggio. Più che leggere guardavo le figure e i titoli principali, non avevo la concentrazione necessaria per metabolizzare un articolo dall’inizio alla fine, stavo per chiudere quando vidi la pubblicità di alcune macchine usate. Un concessionario della zona elencava una serie di vetture in vendita con tanto di foto e prezzi. Una sola macchina non aveva la foto, una Peugeot degli anni Settanta, ancora in discrete condizioni. Chilometri non pervenuti, colore azzurro, una macchina robusta. Robusta. Robusta. La parola era ripetuta e sottolineata sia sul giornale che in quel momento da me.

«Cos’è robusta?» mi chiese Manuel sorridendo.

«È una bella parola, mi fa bene. Robusta.»

«Ti senti bene?»

«Non lo so, stavo leggendo un annuncio di una macchina e poi qualcosa è cambiato.»

«Cos’è cambiato?»

Stavo per rispondergli, quando pensai invece che non dovevo farlo. Se lo avessi fatto avrei rivelato un dono. Provai a continuare la lettura facendo finta di niente, rilessi degli annunci di altre macchine, ma solo quando i miei occhi avano vicino a quello della Peugeot accadeva qualcosa. Robusta. Non ci capivo niente, non stavo pensando alla macchina. Mi veniva in mente piuttosto un paese come la Nigeria, i colori della sua bandiera, ciò che sapevo di quella nazione. Mi ritrovavi a sognare a occhi aperti, un viaggio su una strada sterrata e polverosa nigeriana a bordo della Peugeot azzurra, una macchina robusta. Mi piaceva proprio quella parola, ma non dovevo pronunciarla più. Non ero più disorientato, quel viaggio in Africa non l’avevo mai fatto, ma era come se ne avessi il ricordo vivido. Ero veramente a bordo di quella macchina, con la polvere che entrava dai finestrini e con il vento che faceva volare ogni cosa, anche se su quella macchina non c’ero mai stato. Mi alzai e andai a prendere un caffè per tutt’e due al bar della festa che aveva appena aperto. Tornai al tavolo: Manuel, mentre mi aspettava, si era messo a leggere il giornale. Feci finta di niente e con la scusa di voler controllare le previsioni del tempo me lo rifeci ridare. Non mi andava molto di parlare e quindi iniziai a interessarmi ad altri articoli che prima non avevo neanche guardato. Ero così preso dalla lettura che non mi accorsi che Manuel si era allontanato a parlare con Devis ed Elena che nel frattempo avevano raggiunto la festa; né Adele né sca erano con loro. Mi fecero un segno di saluto che contraccambiai subito e mi rituffai nel giornale.

Pensai che forse dovevo contattare chi aveva messo l’annuncio della macchina, ma era ormai l’una ata e il concessionario era sicuramente chiuso. Non avevo un cellulare funzionante e mi sarei dovuto spostare da lì per chiamare. Cosa che feci subito. ai di fianco a loro, li salutai con una stretta di mano e con una scusa qualunque mi allontanai. Avevo dimenticato il giornale sul tavolo, così tornai indietro e con una smorfia gli riai di fianco, mentre Manuel più distaccato dal gruppo sembrava mi aspettasse per dirmi qualcosa.

«Dove vai? Non lasciarmi da solo con loro, tu li conosci meglio di me, ieri sera appena sono entrato in casa sono andato a letto e stamattina sono uscito senza salutare, sono venuti per te.»

«Ma non sono amici tuoi?» chiesi.

«No, macché. Li ho conosciuti ieri sera, come te.»

«Torno fra un po’, prendete un tavolo.»

«Almeno lasciami il giornale.»

«Non posso, a dopo.»

Avevo voglia di restare lì con loro e nello stesso tempo andare a telefonare al concessionario, anche se ero sicuro che a quell’ora sarebbe stato chiuso.

Due volontà, un’unica vita. Questo almeno era quello che vedevo. Correvo giù dalla collinetta, con il giornale in mano e senza preoccuparmi di niente e nessuno, neanche di due poliziotti che lentamente si muovevano in un’altra direzione, a una certa distanza da me. Mi spiaceva di aver lasciato da solo Manuel, non pensavo di reagire in quel modo così risoluto, non sapevo neanche di esserne capace e quando mi girai nella direzione del tendone della festa e lo vidi che si avvicinava a me, anche lui correndo. Mi lasciai raggiungere.

«Devo fare una telefonata, mi accompagni? Voglio comprarmi una macchina, una Peugeot anni Settanta, azzurra» dissi contento.

«Ti farei chiamare con il mio telefono, ma ho finito il credito, ho consumato anche la ricarica extra.»

«Non ti preoccupare, troviamo un posto dove hanno il telefono e chiamo da lì. Non credo sia aperto il concessionario, ma non si sa mai.»

«Ti va una eggiata dopo?» disse Manuel. «Possiamo andare anche a piedi, come preferisci.»

«Hai ragione, anche a me della festa non mi interessa molto, preferisco evitare la confusione. Soprattutto dopo una serata come quella di ieri» dissi io.

Mentre camminavamo l’aria del paese era calda e piena di luce, ogni persona che incontravamo aveva negli occhi la luce della festa. Tutti i locali erano chiusi, di telefoni pubblici neanche l’ombra e quindi decidemmo di prendere la macchina di Manuel per cambiare posto.

«Dov’è il concessionario? Invece di telefonare possiamo andarci con la macchina?»

ai il giornale a Manuel.

«Sì, conosco quel posto, non è lontano.»

«Grazie.»

«E di che?»

Salimmo in macchina e in pochi minuti ci lasciammo il paese, la festa e gli amici alle spalle.

«Ho un’idea, un gioco: chiediamo la strada per il concessionario, anche se tu la conosci. Vediamo se è la stessa che avresti fatto tu.»

«Ma perché? Non c’è bisogno di chiedere, la so perfettamente. E poi non c’è nessuno su questa strada.»

«Prendi quella stradina sulla sinistra, vedo una casa alla fine del sentiero. Scendiamo e andiamo a chiedere a qualcuno, l’indicazione. Che t’importa? Hai programmi diversi?»

«No, ma non capisco la motivazione.»

Appena parcheggiammo provammo ad avvicinarci al cancello e un cane dalla voce tonante ci sbarrò la strada.

Suonai il camlo. Una donna anziana, seguita a distanza dal marito, si avvicinò a noi.

L’indicazione per il concessionario era stata bizzarra e come se non bastasse, credendoci in difficoltà, quell’uomo si offrì anche di accompagnarci. Declinammo e dopo una contrattazione fra me e Manuel, decidemmo di seguire la strada che ci aveva indicato.

Quando arrivammo al concessionario, che altro non era che un deposito di macchine usate, lo trovammo chiuso. Decisi comunque di scendere dalla macchina per controllare orari di apertura e automobili parcheggiate. Manuel mi seguiva e lo sentii imprecare quando davanti al cancello cominciai a scavalcare per entrare nel parcheggio.

«Ma cosa fai? Cosa mi fai fare? Adesso chiamano la polizia, che cos’hai in mente?»

«Solo una sbirciatina e ce ne andiamo. Intorno non c’è nessuno, non facciamo niente di male. Dai, scavalca anche tu.»

La Peugeot era in fondo al parcheggio, in un’area che aveva intorno a sé solo terra e un piccolo capanno di legno.

Era aperta e così entrammo, io ovviamente al posto di guida, Manuel al mio fianco sul sedile del eggero.

«Ma cosa stai cercando?»

«Le chiavi.»

Le trovai e provai a metterla in moto. Volevo sentire solo il rumore del motore, ma la macchina non si accendeva, sembrava non esserci corrente nella batteria. Rimanemmo a guardare fuori dal vetro di fronte a noi, come a un semaforo.

«Entriamo nel capanno.»

«Ma sarà chiuso. Va bene, entriamo» disse Manuel.

La fortuna volle che fosse aperto. Dentro c’era un’altra Peugeot stesso modello, stesso colore, lucidata da poco, le ruote nuove di un nero luccicante e le portiere chiuse. Mentre le eggiavamo intorno ci accorgemmo che la macchina non poteva essere entrata da quella porta e che quindi, non essendoci altre uscite, la baracca di legno le doveva essere stata costruita intorno. Forse calata dall’alto.

«È strano questa sorta di garage,» dissi io «dev’essere importante per quelli del concessionario, questa cosa significa molto di più di quello che pensiamo, è inutile che cerchiamo di capire.»

«Forse non dovevamo entrare.»

«Io invece credo di sì.»

«Sei un tipo strano. Ma mi sei simpatico, e la ragione per cui non me ne vado e ti lascio da solo è perché voglio vedere dove vuoi arrivare. Prima o poi, il rischio dovrai pagarlo e io con te se rimango qui.»

«Hai ragione, potresti andartene, io non mi offenderei mica, ma mi sembra che tu sia sempre rimasto, sembra che tu mi stia seguendo» dissi io.

«Certo, voglio vedere che succede.»

«Lo sai che ti vedo diverso da quando siamo entrati?» dissi cercando di annodare un pensiero che mi era venuto in mente in quel momento. «Non so, sembri più nervoso. Prima, quando abbiamo seguito le indicazioni di quel tipo o quando abbiamo scavalcato hai protestato ma poi mi ha seguito con buonumore, adesso invece no.»

«Ma che dici?»

«Sono solo fantasie, non ti devi preoccupare.»

«Non riesco a capire quello che vuoi dire.»

Mentre parlavamo eravamo appoggiati con la schiena e con le mani a delle mensole parallele alla fiancata laterale della macchina.

«Io non mi sento tranquillo in questa situazione, ti dico la verità. Usciamo, che ne dici?»

«Va bene, andiamo. Andiamo a farci una eggiata, devono esserci bei posti qui vicino.»

Quando fummo arrivati alla macchina di Manuel, gli chiesi se potevo guidare io e lui senza fare obiezioni mi ò le chiavi.

«È bello guidare su queste strade di campagna, diventa tutto più semplice, non credi?» dissi io.

«Be’, sai, io ci sono abituato, non è che ci faccio più caso.»

Ci fermammo in una piazzola lungo la strada e proseguimmo a piedi sulla strada in discesa.

«È strano però che nessuno dei due abbia chiesto all’altro cosa faccia nella vita, se è sposato, se lavora, dove abita, è singolare, non trovi?» dissi io.

Manuel non rispose.

«Guarda quell’albero!»

«Dove?»

«Là verso il basso, in mezzo al bosco, quello con i rampicanti intorno, è l’unico che li ha.»

«Sfortunato?»

«Forse no» dissi io.

Si era fatto all’improvviso buio, il sole non riusciva a are attraverso le foglie.

«Io ci vedo bene, sei sicuro di stare bene?»

«Mai stato meglio.»

Ci dirigemmo verso l’albero che aveva intorno a sé quelle che sembravano delle radici con foglie intorno, lo tenevano bello stretto.

«Tu cosa vedi?» gli chiesi.

«Un albero in difficoltà. Perché, tu cosa ci trovi?»

«Un albero in difficoltà, concordo,» dissi avvicinandomi al tronco «anche se dipende molto dal modo in cui lo osservi, per tanti motivi che non ti sto a spiegare. Sono d’accordo, un albero in difficoltà. Diciamo che adesso vedo quello che vedi tu, ma prima avevo immaginato due persone unite da quello che pensavo fosse un abbraccio, anche se adesso non ne sono più così sicuro. Una domanda te la voglio fare però: tu a cosa tieni più della tua vita?»

«Mah, al lavoro, alla salute, un tetto, una donna. Queste cose qui. Perché me lo chiedi?»

«È solo per conoscerci meglio. Io invece tengo a quest’albero, a quello, a quello, a quello là in fondo. Mi piace proprio questo boschetto.»

«Mi piacerebbe pensarla come te, sei un tipo eccentrico, devi avere qualche proprietà senza aver problemi di soldi. Se è così ti invidio.»

«Sei lontano mille miglia, ma in fondo ci hai preso, io sono un tipo che non dà molta importanza ai soldi,» risposi «e per dimostrartelo mi alzerei in volo e ti farei vedere il boschetto dall’alto.»

«Sarebbe fantastico.»

Tornammo indietro, la salita ci aspettava. Andammo in un ristorante chiuso, ma dove si potevano mangiare dei panini e bere qualcosa. Al coperto, seduti e serviti. C’erano solo un altro paio di persone che guardavano la televisione, altri due giocavano a carte.

«Senti, ti andrebbe di andare a casa mia?» mi chiese Manuel con il suo amabile sorriso. «Abito in campagna, a una trentina di chilometri da qui, possiamo are al supermercato e comprare da mangiare. Devo comunque are da casa, come preferisci, se non hai voglia ti accompagno dove vuoi e poi io vado, come ti pare. Possiamo anche andare in città, è lontano, ma al centro ci sono dei bellissimi ristoranti.»

«Non ci penso nemmeno, andiamo al supermercato e compriamoci due bistecche, hai il BBQ?»

«Certo. Possiamo anche mettere la carbonella nel camino e cucinarci dentro, che ne dici?»

«Certo, dopo questi panini chissà quando riavrò fame, ma come dice il proverbio, meglio fare la spesa quando si ha la pancia piena.»

«Giusto.»

«Non ti sembra che facciamo parte di un quadro? Noi che mangiamo, i tipi che giocano a carte, la televisione accesa che fa da sottofondo. Un quadro dipinto più volte, in un tutte le salse, televisione esclusa, ovviamente.»

«È vero.»

«È sufficiente immaginarti un camino al posto della televisione e si trasforma in

un’altra situazione.»

«Un cieco come se la immaginerebbe, secondo te?»

«È una bella domanda, Manuel. E un matto, uno fuori di testa? Come la vedrebbe lui? Sai, c’è una persona che non vedo da tanto tempo, una donna, a volte ho la sensazione che se fosse viva o morta sarebbe la stessa cosa, in ogni caso non la vedo più.»

«E che fine ha fatto?»

«È una lunga storia. Ti posso dire solo che a volte ho la sensazione che non sia mai esistita.»

«Andiamo a fare la spesa.»

Durante il viaggio ci abbandonammo ognuno ai propri pensieri. Stare fuori tutto il giorno stanca, anche se non si fa niente.

Basta poco

Può avvenire di trovarsi davanti a ciò che di solito non si riesce a vedere. Ci sfugge, lo rintracciamo e lo perdiamo di nuovo, sempre quello, sempre lo stesso, si pensa di essere arrivati e in seguito ci ricordiamo che avremmo potuto fare un’altra cosa, più semplice, meno impegnativa. A me è capitato e dopo che è successo mi sono sentito uno stupido. Quando ero ancora DJ la mia vita era disseminata di irregolari momenti di lucidità e con quelli pensavo di portare avanti la mia esistenza. Mentre guidavo verso casa di notte ad esempio, ragionavo spesso sul fatto che la macchina non è in realtà una macchina, mi ricordavo gli abbracci che avevo ricevuto all’uscita della discoteca, dove un saluto spiegava molto più di tante parole. Ero convinto che se fossi stato obbligato a farlo mi sarei dovuto fermare, non sarebbe stato poi così brutto come mi immaginavo io.

Mi arrivavano messaggi di produttori, amici, persone conosciute solo poche ore prima, alcuni dei quali a malapena consideravo, mentre ora sono diventati importanti. Per non sbagliare li seguo tutti, i messaggi; la cosa che mi stupisce di più ogni volta è che provengono da chi credevo non potesse farlo. È sorprendente, una cosa inaspettata. Mi siedo comodamente su una poltrona e ci sono tante storie ad aspettarmi, ognuna con il suo gruzzolo di domande; io rispondo e loro mi ascoltano. Mi divertivo, seguivo i miei interessi e conoscevo un mucchio di gente. Mi capitava ovunque andassi, ne ero perfino ossessionato di quella marea di persone che erano al mio seguito e quando si verificava l’opportunità di fare una pausa lavorativa, ne ho sentito la mancanza. La necessità. Per un periodo ho anche tentato un distacco dal mondo della musica, solo per vedere come sarebbe andata: se all’inizio era la curiosità a spingermi, con il are del tempo quella nuova condizione è diventata interessante, importante. Non cercavo di tirare a indovinare, evitare i pericoli, scegliere le persone da frequentare: era solo calata la tensione che fino ad allora mi aveva provocato ingiustificati timori, paure e preoccupazioni. ato il pericolo che potessi perdermi in una spirale di solitudine e con la possibilità concreta di non avere più il lavoro, iniziai una nuova storia, con maggiore entusiasmo, con risultati professionali ancora più importanti di prima. Locali e feste sempre più

grandi a cui partecipavano moltissime persone. Temevo però che potesse accadere qualcosa, quel sogno così a lungo rincorso e che era a breve distanza da me potesse di colpo implodere su stesso. Non era facile stare al o con gli atri DJ che cercavano allo stesso modo la loro fetta di gloria, era come leggere un libro così apionante che si contano le pagine per paura che finisca troppo presto. Mentre leggevo questo libro, per dare continuità alla mia buona stella lavorativa ho cominciato ad interpretare un ruolo che non era il mio. La domanda che mi faccio spesso è perché non è sempre stato così: un cambiamento è un cambiamento, perché negarlo? Non sono ancora riuscito a darmi una risposta, non ci ho mai provato seriamente, per il momento sono altre le cose che mi affliggono, quella che era una fantasia e che invece ora è realtà. Ero andato oltre le mie possibilità, non potevo sopportare quel carico di lavoro, ogni giorno della settimana e ogni volta tornare a casa sempre più tardi. Era come se qualcuno stesse decidendo al posto mio, ma non un estraneo, io stesso, un’essenza immateriale capace di viaggiare senza pericoli o preoccupazioni di alcun genere. È come incontrare una persona per la prima volta e contemporaneamente conoscerne mille in ogni parte del mondo. Se non stavo attento, potevo anche rimetterci la vita.

L’unico modo che avevo era continuare a vivere come avevo fatto fino a quel momento, senza farmi ostacolare da niente, ogni pericolo era solo un problema da superare, niente di meno, niente di più. Avevo bisogno di muovermi, non ne potevo fare a meno, un viaggio senza fine e non per questo meno bello di altri. Quando ho cominciato a prendermi lunghe pause dal lavoro, ho accettato il fatto che i miei colleghi potessero deridermi, ma sono convinto che chi lo ha fatto avrebbe voluto essere come me, lo spero. Posso sentirmi solo a volte e quindi sfrutto quei momenti per cercare qualcosa, un oggetto abbandonato, lo riporto in vita, lo smonto e lo rimonto, provo a usarlo e poi o a un altro oggetto. Perché non dovrei farlo? Mi fa sentire vivo, più di una serata dove io metto i dischi e ci sono cinquecento persone che ballano, e non è facile superare quella sensazione, sia chiaro. Sentirsi vivo ha disegnato sempre le mie emozioni, fin da quando sono nato e ogni volta quell’accezione cercava di dirmi qualcosa, adesso invece è lei a guidarmi. Non me la sono sentita di dirlo a nessuno, a Chiara ad esempio, era troppo pericoloso, dovevo farlo da solo, ero obbligato a riuscirci, poi da qualche parte dentro di me qualcuno si è affacciato e ha detto, posso guidare? La mia macchina è raro che la faccia portare a un estraneo, a costo di tenere il finestrino aperto con la neve, sono sempre io a cambiare le marce. Poi

mi accorgo che questa persona che voleva guidare in fondo non se la cava tanto male: a quel punto si abbandonano le difese e ci si lascia trasportare dalla strada, si riesce addirittura a far salire a bordo un autostoppista, fino a quando ci dispiace che il viaggio è terminato. Avendo più tempo libero cominciai a godermi il panorama di quella forzata vacanza, a chiacchierare di qualunque cosa mi asse per la testa. Altre esigenze, altre figure, altri piaceri. Incontrai sconosciuti che per la prima volta si rapportavano con me in modo naturale, una persona come tante altre e non un DJ a cui chiedere una foto. Era diverso, la figura di un essere umano è importante, tanto quanto le parole, sono capaci di mutare tutto quello che ci circonda, esse si uniscono e si disuniscono, cambiano sempre.

Sono stato ingannato da produttori, colleghi, case discografiche, estranei che in realtà non esistevano, ingannato e giudicato, mi sono trovato a dovermi confrontare con chi voleva il mio male, eppure sono riuscito a rimanere ben saldo nelle mie idee. In questo movimento vacillante c’è chi mi ha aiutato cercando di avvertirmi come meglio poteva, anche se all’oscuro dei miei problemi di adattamento, figure più o meno note che lavoravano nell’ambiente musicale e che però non avevano secondi fini. È stata la presenza di queste persone che mi ha dato la possibilità di sopravvivere, da solo contro tutti, molto più forte di prima. Volevo continuare a vivere e proprio quando me ne sono reso conto, è cominciato a non importarmi niente di quello che il destino aveva preparato per me. Sapevo che prima o poi avrei dovuto trovarmi un altro lavoro, un pensiero legato alla sopravvivenza, un istinto così radicato che riuscì a impossessarsi anche dell’equilibrio fin lì acquisito.

Con chi ha sostenuto i miei dubbi, in quell’oscuro periodo della mia esistenza, discorrevo a lungo e anche se i discorsi non entravano nel merito di quel che stavo attraversando, costoro riuscivano loro malgrado a dialogare con il mio mondo interiore, sentimenti che ho creduto di non poter associare a niente, melodie così intense da farmi dimenticare qualunque cosa. Per un lasso di tempo ho anche viaggiato, ho visto costruire davanti a me una società che non operava con le leggi della natura, anzi, ne dava un’interpretazione inversa. Suoni e musica già incontrati, di cui avevo percepito l’emanazione durante situazioni del ato, una serie di individui che mi avevano chiesto le stesse cose che mi

domandavano ora, come ho fatto a non rendermene conto? Come sono riuscito a evitare tutto questo? Devo essere stato proprio bravo, non era facile sorprendere il destino, trovo assurdo tutto questo, patetico. Ho fatto l’impossibile per aderire alla musica e puntualmente sbagliavo, non capivo che per essere ascoltato avrei dovuto immaginare e non cercare la mia libertà, avrei dovuto farlo prima, ora mi sentirei meno stanco. Come una persona vede se stesso attraverso un film, una foto e quello che vede non è lui, ma un altro, quasi uno sconosciuto. Potrebbe essere uno strano gioco da fare, portare avanti un’idea che altri non negherebbero mai. Confermare una rilevante somiglianza con un altro essere umano, ammettere che potrebbero esserci corrispondenze con il proprio viso, per poi alla fine sospettare che qualcuno abbia voluto fare uno scherzo. E volendo continuare quel gioco, sentirsi vicini a questa persona, a questo sosia, pensarla allo stesso modo e se capitasse l’occasione, ricambiare lo scherzo. Un gemello mai conosciuto e incrociato per caso in aeroporto, tutt’e due diretti nella stessa destinazione. Parlare del perché ci si è incontrati, forse qualcuno voleva che accadesse.

Incontrai Chiara a una festa che avevo organizzato in una casa privata, lei arrivò tardi e non poté assistere all’esibizione.

«Ehi, sei tu il DJ? Come mai avete spento tutto?»

Era vestita con un abito nero che ne modellava la figura, aveva una birra nella mano destra e nell’altra un telefono cellulare. Cominciammo a parlare e alla fine di quella serata la invitai a cena a casa mia.

«Mi devi spiegare bene dove sei però, io non sono tanto pratica della zona dove abiti. So solo che da quelle parti c’è una pineta. Vero?»

Ero da poco tornato dal viaggio che avevo intrapreso per fare un po’ di

chiarezza. Un’esperienza che mi ha impegnato a scoprire l’esistenza di chi, con il solo contributo dell’intuito, si è sforzato di raggiungere una plausibile comprensione, ma il confine rimaneva sempre quello, inesplorato, inavvicinabile, fuori portata. Motivo per cui, quando ero nel mezzo di una conversazione, mentre ascoltavo gli altri parlare provavo la sensazione di assistere a una riproduzione originale, un ritratto espresso con tutta la ione possibile. L’ostacolo maggiore che incontravo erano le diverse opinioni che tramite immagini cercavano di entrare nei dialoghi, per definire quello che in realtà era impossibile delineare. Erano fuorvianti, mi confondevano e così le ho abbandonate da subito.

Quello che ho attraversato durante i mesi in cui non sono stato più DJ fino a quando sono tornato per fare le serate con i video musicali, non era niente che poteva essere identificato come un problema e neanche come una soluzione. Durante il viaggio all’estero mi sono trovato insieme a tanta gente, confrontandomi con loro su ogni livello, alla ricerca di una porta che si potesse aprire, una porta dimenticata e che nessuno mai aveva chiuso a chiave. Finché agivo come voleva chi era accanto a me, nulla poteva essere risolto, la porta diventava sempre una finestra murata. Non c’è niente di più brutto di una finestra murata. Se volevo tornare a fare il mio lavoro dovevo farlo in un altro modo, non solo diverso per gli altri ma soprattutto per me.

Una volta in un paese di montagna ho incontrato un uomo che mi conosceva: anche lui frequentava le discoteche, ma ora si era stabilito lontano dalla confusione e viveva con la sua numerosa famiglia in una casa di campagna. Decidemmo di fare un vacanza insieme, solo per pochi giorni. Fu come essere contemporaneamente in un viaggio da fermo e nello stesso tempo in movimento, tutto il giorno a consultare la carta stradale, mete, punti di arrivo e soste selvagge sempre in macchina, qualche volta in treno.

«François, che dici, macchina o treno?» mi chiese una sera sapendo già cosa avrei risposto.

«In ogni caso preferisco la macchina, posso sempre decidere quando partire e dove andare, fermarmi o tirare dritto, da solo o in compagnia. Preferisco in compagnia» risposi.

Strade e via di fuga che appaiono e poi scompaiono, azioni che cercano sempre il proprio compagno e che si fanno notare solo durante un’inversione di marcia o a un incrocio senza indicazioni. Fu un viaggio interessante, niente di meraviglioso, solo una pausa di riflessione che mi permise di saggiare uno spicchio di tranquillità.

Quando partivo, mentre fuggivo, senz’accorgermene e senza averne la consapevolezza, portavo con me l’originale stato delle forme, un eggero scomodo che però mi ha offerto sempre la sicurezza di sbagliare orientamento. Era come se le strade, avvolte in un’unica gigantesca matassa, si riavvolgessero su se stesse solo per il gusto di cambiare direzione. A volte tutto questo mi confondeva a tal punto da non essere mai certo di raggiungere la destinazione che mi ero prefissato. Quando avevo deciso di partire.

«Quando ti guardo seduto davanti al computer, penso sempre che stai cercando qualcosa che però non è in quella scatola che hai di fronte» mi disse una sera Chiara a casa mia. Chiara era così, poteva indovinare come ero sempre stato solo ascoltando il suono della mia voce, sdraiata a guardare la televisione dopo cena, mentre io setacciavo video su YouTube.

Non posso chiamarla confusione il tempo ato fra biglietti aerei e sigarette fumate accanto al corrimano di una nave poco prima che spuntasse l’alba, sono state proprio queste digressioni a indicarmi a che punto ero arrivato. Avrei dovuto accorgermene subito, era impossibile fuggire dalla mia condizione se a guidare questa fuga ero io, a decidere cosa e chi avrei incontrato. Sono stato sempre bravo a sbagliare strada e quindi preparato a intraprendere nuove conoscenze. Legami avviati nel giro di pochi giorni, troppo brevi per essere veri, relazioni che tutti rimpiangevamo quando poi ero costretto a cambiare per

l’ennesima volta destinazione. Costretto per modo di dire, perché nessuno mi stava cercando, nessuno aveva in cuor suo la preoccupazione di cosa potesse essermi accaduto.

Se solo avessi incontrato prima Chiara a quest’ora le cose avrebbero preso un’altra piega. Anche se in apparenza spiacevoli, amavo percorrere quelle situazioni legate al momento in cui avrei ripreso il viaggio, una separazione che poi puntualmente rimandavo. Una volta assuefatto alla novità era necessaria una forza di smisurata intensità per lasciare tutto. avo il tempo a ritoccare dettagli di progetti, a stracciare programmi e piani, a bruciare obiettivi che svanivano più velocemente di qualunque cosa avessi mai provato a costruire. Non ci vedo niente di strano; una volta che si percepiscono intorno a sé affetti e persone che ci dimostrano quello di cui abbiamo bisogno, è quasi impossibile staccare. Visto da fuori il mio comportamento poteva somigliare a una ripicca, ma non era così. Ero solo confuso e quello che disorientava di più erano le discordi attrazioni che provavo verso la città. Cenavo nei migliori ristoranti, alloggiavo dove il suono delle macchine era solo un ricordo, conoscevo persone dai caratteri indimenticabili, di tutto il meglio.

E poi c’erano le donne. In ogni contesto dove provavo a confrontarmi, c’era sempre una donna dal temperamento simile al mio, con interessi divergenti, dalla semplicità disarmante e che mi faceva innamorare.

Non rimanevo molto, tre o quattro giorni al massimo poi ripartivo senza pianificare la prossima destinazione con le persone che avevo incontrato che si prodigavano a salutarmi e ad augurarmi buona fortuna, dimostrando in maniera garbata ma risoluta il loro disaccordo.

«Tu stai fuggendo» mi disse una donna una sera prima di partire. «Certo hai il tuo lavoro da DJ, è normale, ma se posso darti un consiglio, caro François, quello che io ho visto è un’altra persona rispetto alle tue parole, alle cose che dici.

«Mi dispiace, Denise, non erano questi i miei propositi. Io però sono convinto del contrario» le risposi in quell’occasione guardandola negli occhi.

Non stavo fuggendo con l’idea di tradire una donna a cui volevo bene, con un senso di colpa capace di anticipare il mio ritorno: stavo da solo e ci rimanevo tutto il tempo. Dopo quell’ultimo saluto con Denise però le cose iniziarono a non combaciare più, uscivo dalle loro vite per sempre. Ero ancora incapace di condividere e questo per una donna è sempre stato una certezza e non una possibilità. Ero solo un uomo che fa un lavoro che lo porta a stare a stretto contatto con centinaia di persone, che a di lì per caso e che per caso si ferma a riflettere. Avrei potuto e forse inconsciamente voluto rimanere, fermarmi e spiegare meglio come andavano le cose, cosa cercavo e cosa stavo rischiando di perdere, ma non l’ho fatto. L’unica alternativa era essere convinti d’aver trovato la situazione giusta, aver ottenuto il massimo a cui si può aspirare. Non mi riferisco ai sentimenti, sto parlando di notare una differenza, c’era qualcos’altro che pesava di più e che quindi dovevo seguire un’ultima volta. Non esistevano solo nebbia e desolazione in questa differenza, c’erano anche altre necessità, altre aspettative, a poca distanza da me. Avevo voglia di fermarmi, anche se ancora non lo sapevo. Decisi di tornare e ricominciare a far sentire la mia musica a più persone possibili, i soldi stavano finendo e dopo aver operato questa scelta compresi di avere improvvisamente altro a cui pensare. ai da una riflessione fatta in solitudine in una camera d’albergo, a una discussione affollata di gente. Quando mi trovavo nella giusta condizione, nella natura o su un tavolo di un ristorante vuoto dopo che la serata in una villa era appena finita, studiavo, se così posso dire. Scrivevo delle cose sul computer che avevo l’abitudine di portare sempre con me, riflessioni fatte a me stesso, sintesi di alcune pagine web lette per caso, giorno dopo giorno. Per un periodo di tempo le preoccupazioni ritornarono ad assalirmi, anche se pensavo in fondo di potere stare con i piedi in tutt’e due le parti. Ci voleva ben altro, serviva un piano, una mappa che potesse guidarmi. Serviva acqua e non fuoco, una distanza che cambiava forma ogni volta e che io cercavo di interpretare, di fermare. In quel periodo incontrai Chiara, quando già avevo cominciato a riscuotere un discreto successo con le feste private. Non parlammo mai di quello che stavo affrontando, ma sono sicuro che lei capiva anche senza che io le dicessi una parola. All’inizio quando cominciò a venire ospite a casa mia pensai decisamente di poter stare insieme a

lei, in una forma più intima. Un corpo perfetto, occhi che parlavano una lingua tutta loro, una donna stupenda. Quelli però erano tempi ambigui per me, come gli strani tratti di mare di Conrad, plumbei e con un clima che non mi permetteva distrazioni; feci scorrere le cosa e Chiara fece lo stesso, rimanemmo in attrazione ma ognuno nella propria orbita. L’unico lusso che mi permisi era quello di vederci ogni tanto da soli o in compagnia di altri amici, mangiare insieme e mentre loro s’intrattenevano per conto proprio con musica e televisione io infilavo le cuffie e riprendevo la ricerca dei video su Internet. Per fortuna i cambiamenti avvennero gradualmente e mi convinsero a cancellare tutti i dubbi, le esperienze assorbite nelle città, i paesi, le persone, le cose che incontrai nella mia strada fecero il resto. Allontanarmi da quelli che mi conoscevano mi riportò indietro nel tempo, venni sommerso dalle reminiscenze, bambino, adolescente, io che con occhi così aperti da spaventare chiunque, cercavo di far luce sul ato. Con una serenità che nei ricordi però non avevo. Fu come venire fuori da una foresta pluviale e trovarsi di fronte una spiaggia con il mare. In quel nugolo di vegetazione senza uscita, dove avevo provato a orientarmi con scarsi risultati, per poi uscire all’aria aperta.

Mi piaceva osservare le persone mentre ballavano, chiacchieravano e si divertivano grazie ai video musicali che selezionavo: la gente veniva per ballare e si trova inaspettatamente a guardare e sognare al ritmo delle immagini che venivano proiettate. Ero il primo a goderne i vantaggi, ma non sono mai riuscito a spiegarlo a nessuno.

«Non so come fartelo capire. Diciamo che l’ambiente che si crea quando la musica diventa liquida somiglia a una scala di carta, in grado di farti salire dove desideri» dissi una sera, rispondendo a una domanda precisa di Chiara che era curiosa di conoscere che tipo di situazione ci fosse nelle feste. Ogni tanto tornava a richiedermelo e io ogni volta riuscivo a illustrane un nuovo particolare, una sensazione. Una scala di carta, solida per salire ma poco sicura per scendere. La musica fine a se stessa non mi attirava più, c’era bisogno d’altro e io ero riuscito a trovarlo. In quel momento ero un sarto e quello che cucivo non si manifestava mai come compiuto, eppure la stoffa era nelle mie mani, riuscivo a sentirne addirittura l’odore. Era qualcosa che non riusciva a definirsi completamente, in quelle poche volte che succedeva mi veniva voglia di

chiudere gli occhi, di non guardare, anche se continuavo a cucire. Riuscivo a farlo e infatti quando li riaprivo non ero andato fuori dalla traccia iniziale. Non si accetta facilmente una cosa del genere, lavorare per poi ritrovarsi fra le mani niente o nulla di finito e neanche appena cominciato. Sentivo la stanchezza prendere il sopravvento, ma resistevo andavo avanti. I benefici per il momento superavano i problemi che si portavano inevitabilmente dietro, le notti ate con quella musica e con quei video, anche loro in competizione l’uno con l’altro, erano un atempo istruttivo. Stessa rampa, due diverse destinazioni; io però di solito prendevo sempre l’aereo sbagliato.

Accadeva sempre allo stesso modo, nonostante volessi stare bene, svagarmi e are una vacanza serena: finivo con il salire verso la destinazione più affollata e caotica. Già dalla partenza intuivo che non era quello l’aereo, ma non potevo certo scendere e quindi mi facevo tutto il viaggio, mi divertivo anche, ma al ritorno ad aspettarmi c’era sempre un conto salatissimo. Una successione di numeri che si ripetevano sempre, numeri colorati, numeri luccicanti, profumati, musica per le mie orecchie, non riuscivo a fermarmi, avevo creato io quel problema e solo io potevo sapere come uscirne. Erano sbagliate le premesse di quello che pensavo potesse diventare la mia particolare forma d’arte, un’immagine di tante immagini musicali. Mi accorsi, e non fu affatto facile capirlo, che non ci sarebbe stato nessun DJ nel mio futuro, nessuna playlist da accudire con cura, niente Hollywood. Partivo sempre dalla paura, da una posizione di svantaggio e se da una parte non percepivo nessuna difficoltà a seguire me stesso, iniziai anche a pensare a quali risultati sarei potuto giungere se fossi partito dalla gioia, dalla ione. Di sicuro volevo andare al mare, ma la mia situazione non me lo permetteva. Ero convinto di poter camminare sull’acqua, ma erano solo pensieri, sogni a occhi aperti che mi spingevano ad avvicinarmi al mare, alla ricerca di un rumore piacevole, ma sconosciuto, che si vuole seguire per scoprirne la vera natura. Un suono familiare che era causato dalle onde che s’infrangevano sulla spiaggia, ma che all’inizio somigliava a quello che proveniva dall’interno del mio stomaco. Non onde che provocano un forte frastuono, bensì quelle leggere che lambiscono la battigia alle prime luci del giorno, lontane, infinite, ricoprivano tutto, anche la terra sotto i miei piedi. Riequilibrare la mia vita era tutt’altro che semplice. Se volevo però fare qualcosa le circostanze andavano prese sul serio, un impegno morale e virtuoso che avrei dovuto portare avanti sino alla fine dei miei giorni. Mai più isolamento, mai più notti ate sdraiato sul letto a fissare il soffitto in luoghi sconosciuti e con il

telefono spento, avevo bisogno di uscire, incontrare più gente possibile, conoscerla veramente e non sul palco di una discoteca, rischiare qualcosa se necessario, i pensieri che cercavano di liberarmi avevano loro stessi iniziato a chiudermi in un angolo.

Dipendeva tutto da me, se fossi riuscito o no non aveva importanza, era un mio compito, nessuno poteva guidarmi. Un uomo mascherato da animale, ecco cos’ero, dovevo togliermi la maschera e gettarla più lontano possibile. Potevo distinguere due diverse esistenze, dall’aspetto simile e che potevano far pensare all’opportunità di un raffronto, ma non era così, si nascondevano una dentro l’altra apparendo ognuna l’alternativa di se stessa. Questa visione si materializzava in un impegno così inverosimile da sembrare addirittura senza senso, una vigilanza perenne, una spia infiltrata nel corpo e nella mente. Studiai per questo, mi impegnai e con il tempo imparai a fare mio questo tipo di attenzione, un addestramento sul campo, allo stesso modo di un attore che viene scelto per una parte importante, la sua prima grande occasione. Un film che lo potrebbe rendere famoso in tutto il mondo, un talento innato ancora inespresso, mai usato, mai interpretato. Un copione che nessuno aveva accettato. La realtà collegata alla finzione, un’esegesi che doveva unire le due forme di esistenza, tenerle strette per capire chi aveva modificato definitivamente il suo aspetto.

Ricominciai dall’inizio, da dove qualcuno aveva lasciato un segno, molto distante, ma pur sempre un inizio, un utile punto di riferimento che avevo sempre snobbato. Quello che provavo rispetto alla musica era diventato improvvisamente intraducibile, una questione personale e anche se all’esterno facevo di tutto per sembrare a posto, ero arrivato al punto di non riuscire più a parlare nemmeno con Chiara. Ogni considerazione si traduceva in un altro pensiero e siccome le persone vicine a me non erano al corrente delle puntate precedenti, diventava impossibile condividere con loro ogni progresso. La ricerca musicale di video da mettere nelle playlist aveva preso il sopravvento su tutto, asciugato le amicizie, gli affetti, le parole, come se la musica potesse da sola surrogare un dialogo.

Ciò che non potei ignorare, nonostante la sorpresa iniziale, fu accorgermi che più cercavo e più mi perdevo. Credevo di poter sempre intervenire nel momento del bisogno, immaginavo di esserne capace se mai se ne fossero presentate le esigenze, e invece no. Continuavo ad allontanarmi dalle parole; anche grazie ai video, quello con cui mi confrontavo erano solo immagini. Uno smisurato numero di indicazioni che premevano per entrare, diverse esistenze con differenti aspetti, ma non più selezionate in base alla loro apparenza. Ho sempre combattuto con il superfluo e il più delle volte ne sono uscito sconfitto, dischi, CD, DVD e soprattutto i computer affollavano la mia casa e la mia mente; in quell’occasione però lo spazio che avevo a disposizione era abbondante, ne avevo quanto ne volevo. Era sufficiente essere presente e osservare chi entrava, la mia presenza non era un ostacolo, non avrei mai fatto tornare indietro nessuno solo perché vestito in modo inadeguato o perché accompagnato da qualcuno di sospetto. Tutti dentro.

Nei miei pensieri e nelle immagini che rincorrevo ero il proprietario di un locale da sempre convinto e confuso sul numero di persone che poteva contenere il suo bar. Lo volevo far diventare un luogo alternativo e, nello stesso tempo, al o con le mode del momento. Il risultato era una qualità alquanto ordinaria, un posto come tanti altri, niente di speciale. Immaginavo il locale pieno di gente e con personalità del mondo dello spettacolo, sempre pronte a farmi pubblicità e ad appoggiare ogni iniziativa e invece, come poi scoprii osservando meglio, impedivo alcuni tentativi di accesso con stupide motivazioni. Era solo colpa mia se vedevo andar via la gente e non tornare più. Le cose non andavano bene, avrei voluto lasciar perdere non si sa quante volte, abbandonare ogni iniziativa come per verificare se quella resa poteva essere la soluzione al problema. Ci provai, senza però la giusta spinta, con la rabbia di chi non viene ascoltato e capito. Smisi così di farmi vedere, rimasi chiuso nel mio ufficio e interruppi ogni relazione sociale. Facevo finta di occuparmi di calcoli importanti, mentre dalla finestra osservavo chi si divertiva al suono della musica. Serviva una scossa, serviva una situazione profonda, una circostanza poetica. L’acustica di una chitarra le cui corde non vengono agitate da chissà quanto tempo, un suono che non era pulito. Uscii e rimpiazzai il buttafuori, cominciai a parlare con le persone in fila per entrare, non dicevo che ero il padrone del locale, solo un semplice dipendente e questo bastò a cambiare tutto. Ognuno aveva una buona ragione per entrare e io l’ascoltavo, la rendevo profonda. Inventavo composizioni che ripetevo dentro di me e a ognuno dei clienti, creavo dei versi

che poi prima di entrare riavo a voce bassa, senza il bisogno di farmi sentire.

Il mattino dopo la stessa cosa, gli interessi, le ambizioni, e non solo dell’immaginario locale di cui ero stato il proprietario, ma delle sempre più animate conversazioni con la mia mente, tutto eseguito per filo e per segno senza mai spostare una virgola, con il solo scopo di proteggermi. Mai un imprevisto, un fatto nuovo che potesse mettermi in difficoltà. La mia non era una malevola disposizione d’animo, in fondo credevo che fare così fosse giusto, tenersi lontano dai guai. Dovevo cambiare e nello stesso tempo mantenere il risultato di tranquillità che fino ad allora avevo difeso. Quello che era opportuno modificare non era il finale, ma la sceneggiatura. All’inizio pensai ad andarmene con sequenzialità, sfumando la mia presenza come facevo con un brano musicale, sistemare le ultime cose e salutare uno per uno i miei amici, fare tutto per bene con calma e senza strascichi. I soldi non erano un problema e sia la casa che gli oggetti al suo interno potevano rimanere dov’erano. L’inizio di una canzone è importante tanto quanto il finale, e io ero negato a cominciare qualcosa anche se con il are del tempo miglioravo. Potevo solo cercare di fidarmi da subito, senza tentennamenti. Era fuori discussione intraprendere questo viaggio con un conflitto, una persecuzione, un dubbio che poteva sopravvenire se ad esempio un mattino mi fossi svegliato in pigiama, invece che nel mio letto, su un treno in corsa. Di notte stavolta, con il biglietto nella tasca della maglia, rimanendo seduto senza farmi prendere dal panico, noncurante dell’abbigliamento e di chi è indifferente. Aspettare un segno che potesse risvegliarmi o vivere l’incubo fino in fondo, se necessario. Fu un lungo viaggio dove niente mi disturbò, impegnato a riconoscere e a gioire di una foglia di un albero che si avvicinò al finestrino, di una penna abbandonata sul sedile di fronte al mio e di una macchina azzurra che correva di fianco ai binari. Avevo la sensazione che quel treno non volesse più fermarsi, non perché andasse troppo veloce, ma perché non c’erano stazioni. Paesaggi sconosciuti e confini inimmaginabili si alternavano l’uno con l’altro.

Il distacco dal mondo della musica non avvenne come supponevo, con gradualità, ordine, con una normale successione di eventi, bensì all’improvviso una sera che mi accorsi che la musica stava perdendo importanza, nonostante continuassi a dimostrare il contrario. Un singolo inizio, un tendenza che in breve tempo si sarebbe automatizzata, una vigilanza esterna che pensavo potesse

nuocermi a lungo andare, una riflessione scomoda per certi aspetti, fatta nel momento meno adatto e che però a modo suo mi assisteva.

Fu allora che mi capitò d’incontrare una persona con cui non ero in rapporto da molto tempo. L’ultima volta che ci eravamo visti con Walter, mi raccontò di trovarsi in grande difficoltà, economica e affettiva: la sua casa era un alberghetto e per lo stress aveva cominciato a bere. Pensavo che navigasse ancora in cattive acque, invece era cambiato tutto.

«Ho aperto un negozio di tatuaggi» mi disse Walter seduto di fronte a me in un bar dove ci eravamo dati appuntamento. «Con mia moglie è tutto finito, ma non ci odiamo. Abbiamo appianato tutte le divergenze, adesso sto con un’altra donna che mi aiuta allo studio di tattoo. I soldi non sono più un problema, io e Monica abbiamo comprato una casa e tra due mesi ci sposeremo.»

«Una grande trasformazione.» Gli chiesi come mai non mi avesse avvertito e lui rispose che se lo avesse fatto forse non sarebbe andata allo stesso modo.

«In fondo adesso lo sai e questa situazione fortunata che mi sta capitando non è molto che gira bene.»

Mi fidai, gli diedi ragione e andammo a cena insieme.

«Ho sentito dire che per un periodo avevi smesso di fare il DJ. Cosa ti era capitato? Lo stress immagino.»

«In parte sì» risposi. «In realtà volevo solo vedere delle cose, toccarle con mano. Avevo sempre sentito parlare di edifici bellissimi, di costruzioni imprevedibili, che sfidavano il cielo e la terra, ma fino a quando non le ho osservate con i miei occhi, non avrebbero avuto nessun significato per me, anzi.»

«Ma tu hai sempre viaggiato moltissimo, di cose ne avrai viste in abbondanza» disse Walter sorseggiando la sua birra. Poi si accese una sigaretta.

«Non proprio. Nelle città in cui mi esibivo era come se ogni piccolo chiodo o bullone, mattoni o travi deviassero i ragionamenti verso una verità che non sarebbe mai diventata tale.»

«Interessante, non immaginavo che provassi queste inquietudini. È molto tempo che non ci vediamo.»

«Trovarmi lì, sotto quei grattacieli, esserci arrivato con le mie gambe e non perché la sera dovevo far sentire la musica, ha spazzato via ogni incerta immaginazione. Mi ha dato speranza. Unire diverse persone in un unico soggetto. Lo stupore davanti a qualcosa di inaspettato, invisibile, sconosciuto, aver basato l’esistenza sull’inesistenza, sul non essere, una forma negata e che ora è perfettamente visibile.»

«Ho capito, ma ancora non del tutto. Mi dici che ti sei accorto che c’è altro oltre alla musica, ma da quanto ne so stai avendo ancora più successo di prima, con le tue proiezioni musicali.»

ammo a parlare dei suoi tatuaggi che dopo essersi tirato su le maniche della felpa mi mostrò nel pieno dello splendore. Blocchi di inchiostro nero che si

susseguivano e accavallavano formando geometrie e immagini tribali.

Non potevo dirgli niente di quello che avevo appena stabilito, era diventato reale e in maniera inaspettata anche per me. Ho deciso io di farlo, nessuno mi ha costretto o influenzato, ci sono arrivato perché volevo, ne avevo bisogno. Non è stata colpa di nessuno. Dovevo sopravvivere. In fondo se non fossi diventato DJ cosa avrei fatto della mia vita? Come avrei organizzato le mie giornate senza la musica o i video? Può sembrare strano, ma è andata proprio così: una o più forme che all’improvviso cambiano il loro aspetto, si incastrano perfettamente in un sistema appena costituito e che vuole, per necessità, quello che voleva il precedente meccanismo. Un gioco di una società allargata a tutti, che diventa serio quando si parla di cose serie e che finge di non capire quando si illustra loro la via più breve.

«La mia è un un’attività che è sempre esistita» dissi. «Oltre il muro del tempo, forse non si chiamavano DJ le persone che intrattenevamo uomini e donne davanti a un fuoco, ma la funzione è la stessa, un comune esercizio che una volta si è mascherato in una festa di carnevale, in cui il mio unico errore fu quello di scegliere un vestito simile a quello di un altro invitato.»

«Ho capito che festa dici, c’ero anch’io e mi ricordo quel vestito, se non sbaglio eri con una donna. Quanto tempo sarà ato? Tre anni?»

«Sì, c’era di mezzo una donna, una tipa che stavo cercando di corteggiare, ma se ben ricordi purtroppo non ero il solo.»

«Ma com’è nata la cosa del vestito?» mi chiese.

«Potendo selezionare con più lucidità ovviamente non mi metterei mai lo stesso abito del mio rivale in amore, cambierei maschera o forse abbandonerei tutto il travestimento. Avrei dovuto pensare ad altro mentre provavo i vari indumenti da indossare, non avrei dovuto pensare a chi volevo corteggiare, al suo viso, alle sue labbra, alla sua voce, forse era meglio se sceglievo un costume da jolly» dissi immaginando la figura di un menestrello sorridente.

«Una maschera su cui si concentrano molte aspettative, quelle degli altri, non le tue, immagino» disse lui.

«Esatto. Una festa che si preannunciava perfetta e che invece diventò un incubo, il tutto perché credevo di sapere come stavano veramente le cose, una delusione dopo l’altra. Camuffarsi da jolly, quello delle carte si, invece, avrebbe suscitato curiosità, anche più di una maschera originale. Immagina se tutt’e due all’ultimo momento cambiavamo idea e invece di travestirci entrambi da moschettiere se ci fossimo vestiti da jolly, due carte vincenti in carne e ossa nella stessa sala.»

«Divertente.»

«Pensa che situazione si sarebbe creata con queste due carte umane che girano intorno alla stessa donna.»

«Com’è andata con la tipa poi?» Walter ordinò due birre alla cameriera che si aggirava intorno al nostro tavolo. Eravamo i soli due clienti.

«Uscì dalla mia vita definitivamente, non l’ho più rivista da quella festa di carnevale. Immagino e spero sia felice.»

«Peccato. Anche noi non ci vediamo da quel giorno se non sbaglio.»

«No. Sono stato insieme a te in un’altra occasione, stavi divorziando da tua moglie, non ti ricordi?» dissi.

«Hai ragione me n’ero dimenticato, sarà perché ho rimosso quel periodo della mia esistenza. Ora è tutto diverso. Distante.»

Ci salutammo ripromettendoci che ci saremmo rivisti al più presto, ma tutt’e due consapevoli che non sarebbe accaduto.

Era così, finalmente avevo capito come agire e arrivato a quel punto l’unica cosa da fare è andarsene, rimanere un po’ da soli, per la seconda volta, per sempre. Per il momento potevo solo starmene in disparte e così feci. Provai e riprovai assumendo la figura di uno che dà buoni consigli a chi ne ha bisogno, di un uomo che viaggia in continuazione su un treno, che sa quello che accade nella vita, ma che può spiegarlo solo alle persone con cui ha stabilito delle condizioni precise. Per loro ero l’Oracolo. Gli argomenti non erano certo quelli che immaginavo di affrontare, ma anche se si trattava solo di saggi consigli su problemi banali, sapevo che quello che volevo comunicare era arrivato a destinazione. Un’entrata di servizio.

Tutto sommato non andò male. Anzi, il risultato per alcuni fu stupefacente. Così inaspettato che continuai con più entusiasmo; se quello era l’unico canale che potevo usare mi andava benissimo. Quello che la gente mi sentiva pronunciare erano le stesse cose che loro dicevano a me, risposte ovvie che conoscevano già prima di venire. Ero solo un’immagine suggestiva delle loro paure, un aspetto che avevano sempre finto di credere inesistente. Solo il gesto di affrontare le

condizioni climatiche per chiedermi qualcosa, faceva partire in loro un meccanismo che ben presto, a prescindere da quello che volevano conoscere, li avrebbe favoriti. Alcuni descrivevano le loro vite aggiungendo informazioni sempre più raffinate e impedendomi dapprincipio una corretta valutazione della situazione; era il loro mondo e tentavano di farlo sembrare bellissimo. Importante per tante ragioni plausibili, ma non era la verità, emozioni d’ogni genere inquinavano il campo.

Li vedevo arrivare sul treno e guardarmi con occhi pieni di speranza, speranza che non veniva infranta quando, dopo essersi asciugati il sudore, cominciavano a parlare, cercando di identificarmi, di darmi una classificazione plausibile secondo le loro aspettative. Solo dopo che il loro fallimento era evidente, iniziavo a parlare io. All’inizio è difficile ammettere di essersi sbagliati, ma per fortuna quando li vedevo allontanarsi dal treno insieme agli altri eggeri, il loro viso dimostrava che avevano iniziato a farlo.

Alcuni sono tornati a trovarmi, per altre ragioni, questioni per cui io non potevo fare nulla. Christian ne è un esempio. Lo conobbi quando venne con il suo amico Bob per cercare il cantante per un gruppo rock; quella volta li indirizzai bene, poi però quando tornò per raccontarmi di Chiara, della persona che amava e che per oscure ragioni era scomparsa, rimasi in silenzio. Christian era diverso, all’improvviso era cambiato; ci sono cose che nessuno può prevedere, intuirne l’esito finale.

Poteva essere un caso, un’abitudine mai abbandonata: il problema era che chi saliva sul treno, di quelle abitudini aveva fatto una ragione di vita. Io però capivo subito con chi avevo a che fare e cercavo di non controbattere il problema che erano venuti a risolvere, bensì la sensazione finale da raggiungere, quella sensazione io la riportavo alla luce, il resto dipendeva da loro. La musica era comunque e sempre il denominatore comune di ogni problema e di ogni soluzione. Io amo la musica, l’ho sempre amata, fin da quando ero piccolo e mi divertivo a cambiare le stazioni della radio di mio padre. La musica non ha limiti, è forte, dipende sempre da come la si vuole ascoltare e il solo

cambiamento di un’apparecchiatura audio ne determina una differenza di rilevanza storica. La musica può essere un amico, una sorella, un amante. Tutti vogliono un amico, sempre, sia quando non si risponde al telefono perché si è malati, sia nel momento del bisogno. Posso affermare con sincerità di non aver mai cercato di risolvere i loro problemi, quelli che venivano a raccontarmi; andavo oltre. Un cambiamento che iniziava soprattutto dopo che avevano ascoltato la mia voce, un suono che cambiava di continuo al punto di percepirne io stesso le differenze ogni giorno. Stavo cambiando anch’io, per l’ennesima volta, su un treno diverso da quello in cui di solito incontravo le persone, avvicinandomi senza nessuna sorpresa a una stazione dopo l’altra.

Così come facevo io anche tutti gli altri avevano simili corrispondenze, anche di più pesanti, più difficili da localizzare e da tenere sotto controllo; l’ho imparato a mie spese, era già tutto pronto, e cosa alquanto strana era l’unico messaggio che arrivava in quel momento. Mi sembra logico pensare che non si può sfuggire da una così potente forza di gravità interiore, da un simile bisogno. Che ne sarebbe stato di me? Per questo la ricomposizione poteva ottenere dei risultati, era un’altra voce, qualcuno di cui si è solo immaginato l’esistenza e di cui ora, per la prima volta, si possono ascoltare le parole, in carne e ossa e davanti ai propri occhi.

Prima di abbandonare tutto e salire sul treno cercavo di continuo qualcosa che potesse farmi rilassare, smettere di pensare per qualche ora; una di queste era andare al cinema. Mi piaceva vedere sempre lo stesso film, come se fosse la prima volta. Mi divertiva seguire la linea della sceneggiatura, mettermi nei panni di un personaggio sempre diverso, ogni volta una sensazione differente. Divenni bravo nell’opera di suddivisione dei ruoli degli attori, fino a un punto in cui venivo conquistato dalla trama del film. Non vedevo l’ora di tornare per rifarlo daccapo. È stato curioso rendersi conto di quanto fosse semplice entrare in rapporto con un punto di vista sempre diverso, ma poi venne il treno e io ci montai sopra.

Le intenzioni sostenute e portate avanti all’inizio non corrispondevano più con la

realtà dei fatti, ma questo non mi spaventò, nonostante pensassi che prima o poi ne avrei dovuto sopportare il peso, il buio mi ha sempre spaventato. Mi abituai velocemente all’oscurità, i miei occhi non vedevano niente, sole nero. Un calore che però aveva origine da qualche parte, che scaldava tutto il corpo, acuiva i miei sensi, i miei otto sensi. Se mi fossi trovato in quella situazione solo pochi mesi prima quando ancora ero un DJ avrei cominciato a urlare invece no, nessun timore sopraggiunse, sole nero, il coraggio e la fame di un leone. Esami, aggi, gallerie, fermate improvvise, porte che si bloccano, scompartimenti affollati, paura di rimanere solo nelle notti in cui il treno viaggiava senza eggeri. Quello che volevo veramente era avvicinarmi a chi come me stava cercando qualcosa, io e gli altri, due entità separate e unite dalla stessa necessità, tutti insieme nello stesso punto, collegati a proporzioni e corrispondenze infinite. Anche se adesso i ricordi sottolineano giornate luminose, ci fu un istante in cui il buio diventò ancora più nero, dove antiche inquietudini rischiarono di avere la meglio su quello che ero riuscito a conservare. Però, quando mi accorsi che alcune convinzioni aderivano perfettamente all’idea di una volontà concordata, al rapporto con chi veniva sul treno per parlarmi, l’oscurità si trasformò in radianza. Ci fu un incontro che segnò questa trasformazione, un rapporto che feci divenire possibile prima di salire definitivamente sul treno. Ero amico di Bob da poco più di un anno; mi aiutò a sbrigare alcune faccende che non potevo fare io direttamente, mi conosceva sotto una luce e identità diversa da quella che poi diventai e che tuttora sono, lavori sporchi tanto per cominciare. Per lui i soldi contavano più d’ogni altra cosa, fu facile farmi aiutare. Quando lo rividi sul treno insieme a Christian per fortuna non mi riconobbe.

Parlare con chi saliva sul treno mi aveva obbligato a non commettere più errori, era stato necessario che imparassi in fretta e questo mi faceva sentire piccolo di età. Non un viaggio nel tempo e nemmeno una seconda possibilità, una scuola diversa, altri professori, altri edifici, odori sconosciuti, senza polvere, senza ossigeno. Ero costretto a inseguire la certezza di aver ripulito tutto e immaginarmi bambino mi sembrò un’ottima idea. Lo zaino vuoto, il primo giorno di scuola. Quando sarei ritornato in classe la mattina dopo, potevo farlo senza alcuna preoccupazione, avendo già acquisito quello che mi sarebbe occorso. Il corpo di adulto mi permetteva di poter soddisfare qualunque necessità, di intraprendere percorsi in apparenza senza un significato comune, proprio come piacevano a me da qualche tempo a questa parte. Osservare il cielo, una macchina che si ferma in un parcheggio, accogliere un avvenimento

dopo l’altro in una presa di coscienza allargata, sempre attenta a non tradire il fine che mi ero proposto. Un compito che rassomigliava sempre più, con il are del tempo, a quello di Christian. Spostamenti, incontri e scritture che viaggiarono parallele alle nostre vite. In certi momenti sembrava che lui potesse addirittura assimilare le informazioni più in fretta di me, e capire subito le corrette interpretazioni, ma lui aveva un altro scopo, una differenza che con il tempo avrebbe separato definitivamente le nostre strade.

Io non mi accontentavo solo di immaginare, volevo anche vedere, entrare in contatto con le persone, trovarle e non riconoscere nessuno. Trascorrere una serata insieme a qualcuno che il giorno dopo scompare per sempre, rivederlo in condizioni tremende con il sangue che esce da una ferita. Non vederlo più. are dalla vita alla morte senz’accorgersi di nulla, fermarsi a un Autogrill, attraversare un campo, dormire di pomeriggio, tutto alla stessa maniera. Vedere il riflesso di una persona attraverso un vetro, considerarlo un avvenimento ordinario, abituarsi a questo aggio. Poi un giorno il vetro divenne opaco. Fu una sensazione di calore che provai quando invece avrei dovuto sentire freddo, entrare in mare in una piovosa mattina di gennaio. Iniziai ad abitare il mare. Lo riconobbi subito come si fa con un vecchio amico, ma riconoscere non è comprendere, tutto era nuovo, diverso, sorprendente. Volevo fare il marinaio. Nei miei sogni mi imbarcavo su una nave porta-container, vuota. Starmene per conto mio, compiere lavori duri e pesanti fino a sfiancarmi, preferivo dimenticare. Quello che non sapevo però era che non aspiravo a cancellare la memoria, al contrario, intendevo fermarla, portarla via con me, nasconderla a tutti. Dai ricordi ai futuri ricordi. Il vetro trasparente che si scurisce lentamente, fino a diventare nero. Con il tempo ci si abitua; fu semplice, divertente e triste allo stesso modo, una piacevole sorpresa che però per via dell’oscurità non riusciva a riconoscere la sua rivale, quella che ha sempre cercato di contrastarla. Le emozioni tendevano ad avvicinarsi l’una all’altra, si incontravano senza sfiorarsi, percependo la reciproca presenza. Ho messo alla prova tutti quelli che mi sono venuti per incontrarmi sul treno, comunicando loro prima la risposta che cercavano da sempre e poi un’altra soluzione, più complessa, inaspettata. Li avrei accompagnati, tutti, dal primo all’ultimo, nelle loro storie, ero in grado di compiere quel gesto e lo facevo con piacere, anche se non potevo parlare con loro direttamente. Non li stavo giudicando e nemmeno loro lo facevano con me, mi assicuravo solo che le reazioni smettessero di essere reazioni. Li vedevo farsi pensierosi, titubanti, si dimenticavano anche perché erano venuti. Niente di

strano, spegnevano la luce e uscivano.

Non ero io a innescare il processo, piuttosto i loro atteggiamenti, gli argomenti che mi avevano illustrato, le separazioni che si intrecciavano una sopra all’altra, definizioni che non riuscivo mai a capire, ma che portavano sempre a un risultato positivo.

Facevano cose strane queste persone, azioni insolite a un occhio non abituato, ma non per me che invece ne comprendevo il reale valore. A chiunque poteva capitare per esempio di incontrare uno sconosciuto che gli si avvicinava alle spalle solo per sistemare la targhetta uscita dalla camicia; ecco, quella persona io l’avevo incontrata sul treno. I miei risultati. C’era chi prendeva una pausa dal lavoro, chi partiva per un viaggio senz’avvertire nessuno, chi continuava a fare quello che aveva sempre fatto, solo con una direzione dissimile. Uomini e donne che ho cominciato ad apprezzare per la loro semplicità, un’aderenza moderata alla realtà che cominciava gradualmente a diventare importante. Alterazioni che per via dell’orientamento intrapreso turbavano chi gli era accanto. Per fortuna questa insolita confusione avveniva in due zone distinte e separate e permetteva a chiunque di continuare la propria vita normalmente. Era solo la fase iniziale a essere concitata e durava pochi giorni, poi anche i comportamenti più eccentrici cessavano di colpo, adeguandosi alla realtà. I dubbi sparivano senza far rumore, producendone un altro di natura diversa, il rumore dell’attenzione che nasceva dentro il loro corpo, vibrava, si innalzava sopra le loro teste, tornando un secondo dopo nel suo luogo d’origine, un vero spettacolo.

La vita andava avanti per tutti, me compreso, ma con ancora un enorme fardello che continuava a violare indisturbato la mia sensibilità, la sorte di Chiara. Christian è quello che avevo seguito di più, proprio per quel motivo, nella sua dolorosa ricerca. Lo avevo visto scrivere il diario, tornare, nascondersi, finché non ha deciso di uscire allo scoperto, una storia simile alla mia. Ne era sicuramente in grado, fin da quando iniziò quello che per lui rappresentava una doppia possibilità di salvezza. Iniziò come un gioco, poi Christian nella sua confusa ricerca pensò bene di affrontare la solitudine, di perdersi, di non avere

con sé il necessario per quel lungo viaggio, ma non andò così. Dove c’era bisogno di caldo trovò caldo, dove cercava dei segni trovò i segni, c’era qualcuno ad aiutarlo e quello non ero io. Dal momento in cui constatò che le persone tendevano a richiamare un criterio uniforme a quello che lui desiderava, iniziò a cambiare personalità. L’unico rischio che corse fu quando andò a trovare il suo stupido fratello. Differenti identità, caratteristiche del tutto naturali che di volta in volta cambiavano posizione dentro di lui. Strategicamente, permettendogli di usarne una e poi un’altra, secondo i casi. Nessun punto di riferimento per chi stava sulle sue tracce. Tutto si incastrò nella giusta posizione permettendogli una più che dignitosa latitanza: eventi, coincidenze, aspetti, promesse, non solo tennero Christian lontano dai guai, ma contribuirono a introdurlo nel difficile compito di allentare le ambiguità che aveva cercato di illustrare nel suo diario. Fortuna volle che le stesse dinamiche che stava faticosamente affrontando aiutarono anche me, mi fecero capire cosa avrei fatto dopo, aprendo profondità nel mio futuro; non sarebbe stato solo bello nuotare nel mare, avrei avuto anche l’opportunità di scoprirne il lati più nascosti. Un giorno trovai il suo diario, per caso: ero sceso dal treno perché avevo urgente bisogno di un pasto caldo e, quando stavo per tornare alla banchina della stazione, lo vidi in terra e lo raccolsi. Non sapevo ancora che fosse il suo, ci arrivai solo quando fra le righe vidi il nome di Chiara ripetuto con continuità. Lo portai con me e iniziai a leggerlo durante intervalli di tempo che disegnarono le future stanze in cui avrei abitato. Eravamo uniti e in fondo volevamo la medesima cosa: liberare dal buio dell’indeterminatezza la stessa persona, Chiara. L’unico enorme inconveniente che nessuno di noi due aveva previsto era Manuel.

Non sapevo niente di lui e, mentre io e Christian avamo il tempo a prendere coscienza della morte o non morte di Chiara, c’era chi stava dieci i avanti a noi. Ciò che vedevamo lo vedeva anche lui, ma molto più avanti di noi, gli stessi meccanismi che inconsciamente impiegavamo per corrergli dietro, Manuel li usava per pianificare i suoi intenti, il suo attacco finale, catturare anche Christian. Se avesse voluto denunciarlo avrebbe potuto farlo in qualunque momento della giornata che avevano ato insieme invece voleva rinchiuderlo, tenerlo prigioniero come stava facendo con Chiara. Forse non si sarebbe fermato neanche con Christian, forse voleva anche me.

Oltre a questo dubbio sentivo il richiamo silenzioso di qualcuno che oltre a Chiara e Christian, aveva bisogno d’aiuto. Una persona vicina a noi, qualcuno che tutti conoscevamo bene.

Io e Christian ormai eravamo uniti in tutto, raggiungere questa sintonia era stato importante per me, l’avevo voluto con tutto me stesso. Anche se ora stavamo per prendere due strade diverse, potei assistere agli eventi che si susseguirono da quella notte in cui andò a dormire nel letto accanto a Manuel, ospite a casa di Devis. Fu allora che entrai per la prima volta in contatto con lui. Il caso gli fece leggere quell’annuncio, quella macchina azzurra, la Peugeot conservata nel capanno. Anche a me accadde una cosa simile, ma non fu una macchina a regalarmi la forza di buttarmi nel mare gelido, fu una donna, una persona che adesso non c’è più, che vide in me quello che ancora io non scorgevo, un pomeriggio quando stavo per tornare alla mia città. Mi venne incontro e mi volle salutare di nuovo, l’aveva fatto già pochi minuti prima, pensavo fosse uscita dalla stazione, ma poi quando la vidi ritornare verso di me, qualcosa scattò. Mi afferrò il braccio, pronunciò il mio nome e se ne andò per la seconda volta. Non la rividi mai più. Quando Christian si mise sulle tracce di quella macchina, anche lui aveva capito che doveva riuscire a vederla, almeno in una circostanza. Accendere il motore, far finta di partire, una visione di un mondo che da sempre aveva cercato di avvicinare, di cui lo ossessionavano le fantasie, a volte in maniera leggera, altre in maniera violenta, sempre mascherato, con abiti sempre diversi. Sarei stato accanto a lui, e questa vicinanza, quest’unione, modellava su di noi le nostre reciproche presenze, una misteriosa forza che agiva sui nostri corpi. Tutto era possibile a quel punto per ognuno di noi, compreso Manuel.

Il concerto di quella sera, le ragazze e i loro amici, i Dominic, Manuel stesso che dapprima non l’aveva riconosciuto e che ò la notte fingendo di dormire, ascoltando Christian che parlava con Devis nella cucina accanto, a pianificare il modo di attirarlo nella sua casa. Erano tutte parti di un elemento più grande, complesso e nascosto agli occhi di tutti, inodore e impossibile da frammentare. E poi c’era quel disagio che mi girava intorno. Cosa voleva significare? Chi aveva bisogno d’aiuto?

Rimasi accanto a Christian; quello che per noi era possibile stava per diventare tale anche per tutti gli altri protagonisti della vicenda. Come quando, da buon latitante senza un posto dove dormire, accettò la proposta di Manuel, quella di andare a casa sua per cenare insieme. Non so se avesse paura; credo di no, penso sia stato sempre tranquillo, immerso così com’era in quella dimensione sconosciuta. Non so come invece vedesse le cose Manuel e neanche come se le immaginasse, fatto sta che quando era in viaggio con Christian intento a guidare, diretti verso la sua casa di campagna, Christian si addormentò, si allontanò. Un approccio diverso sarebbe stato inutile, aveva sonno e così chiuse gli occhi. In ato forse non l’avrebbe fatto, ma ora tutto si era modificato, quello che gli girava intorno e quello che era nascosto, anch’io ero cambiato. Chi non era cambiato era Manuel, lui continuava a distinguere davanti a sé solo l’odio e la pazzia. Non vide niente, pensò che Christian fosse un ingenuo e che stesse soltanto facilitandogli il compito. Christian invece, nonostante l’oscurità e il riposo che si era concesso, vedeva benissimo, anzi: ai suoi occhi Manuel era un essere piccolissimo, perso nei meccanismi automatici del suo odio, ato e futuro del suo ostile oppositore gli erano davanti.

Per la prima volta Manuel si sentì a disagio e in pericolo; i suoi pensieri contorti e ricolmi di pretese cercarono di farlo diventare più grande. Si accorse di essere prevedibile. I suoi ragionamenti si sforzavano, nonostante non fossero lì per quello, di sollevarlo come una torre d’assedio allo stesso livello di quell’uomo che dormiva al suo fianco.

Una cosa aveva ancora Christian più di Manuel, la determinazione: ogni cosa e ogni persona erano diventati solo un mezzo utile al suo scopo. Era più o meno quello che immaginava Manuel, procurarsi un’arma e con quella costringere Christian a entrare nella torre, in un’altra stanza, proprio di fianco a Chiara, ma quella della violenza era solo l’ultima delle possibilità. Una volta entrati in casa avrebbe potuto gestire la cosa con più calma. Intravedevo la luce del giorno che si stava spegnendo, la strada buia che percorrevano con la macchina, le foglie cadute sui bordi della strada. Christian non commise il suo stesso errore. Non aveva preso nessuna decisione, poteva fare tutto e questo pensiero lo svegliò; guardando con un sorriso Manuel, aprì il finestrino per respirare un po’ d’aria fresca. Stava pensando a com’era arrivato fin lì, dal processo al concerto dei

Dominic, pensò anche al DJ, ne aveva sentito parlare durante il processo. Il suo viso divenne teso mentre fingeva di guardare la strada, si immaginò le conseguenze se avesse cambiato anche solo una piccola cosa, un dettaglio insignificante, una scelta diversa durante uno dei tanti momenti vissuti da latitante. Anche se lui ancora non lo sapeva, c’era stata una forte motivazione, una persona l’aveva cambiato e ora, per la prima volta, dopo tanto tempo, gli era stato dato un vantaggio, la possibilità di rincontrarla, ricominciare ad amarla.

Christian si fidava di se stesso, aveva sperimentato l’efficacia di quel gesto, l’aveva accudita e amorevolmente coccolata questa fiducia, Manuel no. Christian d’altro canto iniziò ad avere qualche dubbio su di lui proprio quando insieme entrarono nella Peugeot ferma al concessionario. Sentì qualcosa in sé, dentro il suo corpo, si sentì spostato e senza più la sua volontà.

Nel tragitto verso casa sua Manuel, per paura di dover fronteggiare un nemico che per tutto il viaggio aveva dormito e che non sembrava preoccupato di niente, aveva immaginato di tutto e a tutto aveva creato una soluzione adeguata, nonostante avvertisse il sospetto che anche Christian fosse sul punto di scoprirlo e che con il suo modo di agire lo stesse mettendo alla prova. Pensò anche che probabilmente non avrebbe dovuto rischiare e che forse era il caso di eliminare Christian, subito, lì in macchina. Stava dormendo, se voleva farlo quello era il momento, ma mentre si apprestava a fermare la macchina e aggredirlo, Christian si svegliò, aprì il finestrino e con una mano iniziò a giocare con il vento. Qualcosa non andava, non era un presentimento, la sua vittima era troppo tranquilla; colto di sorpresa riprese a percorrere la strada con la stessa andatura. Se Christian aveva capito tutto, come mai se ne stava a guardare il paesaggio, come un cane che vuole prendere aria? Forse ha un’arma con sé, pensò, e io lo sto portando proprio dove vuole andare, ma questo non era possibile. Nella notte in cui aveva dormito con lui, aveva perquisito la sua borsa e di pistole e coltelli neanche l’ombra. Sentiva il bisogno di avere sotto controllo l’intera situazione e progettò di esercitare subito la tecnica dell’incastro, appena entrati in casa.

Lo fece entrare accogliendolo con cortesia anche quando Christian una volta

varcata la porta si mise a proprio agio su una poltrona del salotto, quando ancora lui aveva le chiavi nella mano destra, prima ancora di accendere tutte le luci, chiudere le finestre, mettere della musica. Christian si guardò intorno, la casa era su un unico piano, le numerose porte tutte chiuse contornavano il salone dove c’era il camino, la luce centrale del lampadario, a rischiarare la stanza, era troppo forte e fredda per quell’ambiente.

«Sono comode queste poltrone, e poi questo velluto marrone a coste larghe che le ricopre è veramente piacevole» disse Christian strofinando gli avambracci sulle due spalliere.

«Vado in cucina a preparare da bere.»

«Per me niente, sono a posto così, forse più tardi una birra quando accendiamo il fuoco, non ho assolutamente fame. E tu?»

«Neanche io. Senti, io intanto la apro e la faccio respirare, quando ne vuoi un bicchiere dimmelo.»

Manuel stappò una bottiglia di vino e ne versò una parte nel suo bicchiere. Se ne stavano seduti uno di fronte all’altro, ognuno sulla poltrona, con la stanchezza che aveva obbligato entrambi a rifugiarsi nei propri pensieri. Christian andò in bagno e, quando tornò, Manuel era ancora seduto nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato, stava leggendo una rivista.

«Mi siedo anch’io, queste poltrone attirano il corpo umano, sono fantastiche.»

Provava una splendida sensazione di cortesia, di disponibilità, una gentilezza e un benessere che sembravano completarlo, un ospite inatteso e ben accetto che arriva all’ultimo momento, proprio quando non si pensava venisse più. Benessere che non sembrava invece trasparire sul volto di Manuel, che nel frattempo era occupato ad accendersi una sigaretta, prendersi da bere e leggere distrattamente la rivista.

Christian riusciva ad anticipare, a prevedere le situazioni che sarebbero accadute, proprio in quel momento si accorse di esserci riuscito. La cosa per un attimo sembrò avere la forza necessaria per sopraffarlo, un leggero capogiro lo portò a compiere involontariamente uno strano movimento sulla poltrona, ma si riprese subito. Dissimulò, fece finta di niente, sorrise, aveva scoperto la soluzione al basta poco, ma per via delle circostanze non poteva parlarne con nessuno. La prima verifica sarebbe servita proprio a lui, non si era immaginato che partisse così, ma tant’era, le contingenze erano urgenti. Vide Chiara, era viva e lo stava aspettando. Sperimentò l’emozione di essere vicino a incontrare per la seconda volta una persona che aveva sempre amato. Spettatore e attore nello stesso tempo, medico e paziente in uno studio sanitario dall’aria fredda e tetra, la casa di Manuel.

«Io so chi sei» disse Manuel guardandolo negli occhi. «Ti ho riconosciuto subito, tempo fa ho visto una tua fotografia sul giornale. Tu sei quello che ha ucciso Chiara e occultato il suo cadavere chissà dove. Se non mi sbaglio ti sei sempre dichiarato innocente. Non ti agitare, stai tranquillo, io ti credo.»

Christian fece una smorfia. «Io non mi sto agitando.»

«È successa una cosa strana. Questa mattina prima, che ci incontrassimo alla festa con Devis e sua moglie, ho ricevuto una telefonata dalla polizia.»

«Cosa volevano, se posso chiedertelo?»

«Mi hanno domandato se conoscevo una donna, una certa Chiara. Gli detto che non capivo perché lo stessero chiedendo proprio a me, non sapeva nemmeno chi fosse questa Chiara. Volevano sapere se l’avessi mai incontrata, se conoscevo te e soprattutto se ultimamente ti avessi visto.» Ammise che erano stati insistenti, perfino sgarbati e così aveva reagito; per tutta risposta l’avevano convocato per la mattina dopo alla stazione di polizia. Tutto falso, solo bugie che gli servivano per architettare la sua tecnica dell’incastro. Christian rimase in silenzio, lo guardava come per sollecitare la continuazione del discorso.

«Non dirò niente, non ti preoccupare, né oggi né domani. Se non sai dove andare stasera posso ospitarti io, sempre se lo ritieni sicuro. Non credo che la polizia verrà a farmi visita stanotte.»

Christian fece finta di tirare un sospiro di sollievo, ma Manuel non aveva abboccato e infatti continuò il discorso manifestando una certa irritazione, informandolo di essere comunque molto contrariato con lui e che non dirgli niente era stata una mossa molto stupida, pericolosa.

«Abbiamo girovagato fra alberi e concessionari, solo un rischio inutile. Confesso che mi sarei aspettato un certo grado di sincerità da parte tua dopo quello che abbiamo condiviso stamattina. Credevo potesse essere un buon inizio per una futura amicizia, invece mi hai tenuto all’oscuro, come una persona appena conosciuta.»

Ammise di essere arrabbiato, ma non c’era bisogno, lo stava già gridando a voce alta.

«Perché non mi hai detto niente? Un comportamento inopportuno nei mei confronti.»

Il tono della voce di Manuel si alzò sempre più, la faccia era rossa e il suo sguardo trasmetteva odio. Si alzò dalla poltrona.

«Ci ho ripensato, te ne devi andare.» Manuel aprì la porta e fece cenno a Christian di uscire.

Christian cercò di mormorare qualcosa, ma Manuel non gli fece finire la frase, lo spinse fuori di casa e richiuse rumorosamente la porta dietro di lui. Christian rimase in silenzio, ancora non aveva fatto neanche un o, rimase così per circa un minuto, ascoltando i rumori della notte in quella bellissima campagna. Poi si allontanò in direzione del cancello. Dietro alcuni alberi c’era una collinetta. Con la luce della luna gli sarebbe piaciuto fare un giro da quelle parti.

Stava per spostarsi quando si sentì chiamare.

«Christian!» Manuel gli corse incontro. «Scusami, ti prego, è solo un risentimento che sarebbe dovuto uscire in modo meno aggressivo, io ci tengo all’amicizia e se ho reagito così è solo perché la considero una cosa importante.»

«Non ti devi scusare, capisco benissimo.»

«Rientriamo, ti va?»

«Certo, grazie Manuel.»

Manuel gli ò un bicchiere di vino, ma lui non lo accettò.

«Se cercassi di spiegarti la mia storia, la latitanza, sarebbero necessari due giorni, quarantotto ore senza dormire, e se invece fosse un libro, duecento pagine. Riconosco le mie colpe, avrei dovuto immaginarlo che anche tu eri stato colpito dalla nostro giro nelle campagne. Hai ragione, l’amicizia è tutto, sono io che mi devo scusare.»

Manuel iniziò a parlare con più calma, sembrava sollevato dalle sue ammissioni, iniziò a raccontare la storia di quella casa, di quanto fosse antica e che oltre la collinetta di fronte c’era un rudere di una torre molto suggestivo. Christian era incuriosito, ma poi prese a chiedersi il perché fosse andato a casa sua. Non riusciva a darsi una spiegazione. Di certo il motivo principale era trovare Chiara, ma non sopportava l’idea di non ricordare quello che l’aveva portato a relazionarsi con quell’uomo, a farsi seguire per tutto il tempo. Gli venne in mente che forse era andato fino a casa sua perché voleva dimostrare che ne era capace, l’incertezza su quello che poteva accadere dopo non poteva essere un ostacolo, non doveva. Un futuro che dipendeva esclusivamente dalle reazioni che ognuno di loro avrebbe avuto, da quell’istante in poi. Il problema sarebbe cambiato quando la rabbia di Manuel, stavolta senza freni inibitori, fosse uscita allo scoperto. Ciò che non permetteva a Christian di essere tranquillo come lo era stato fino a quel momento era non tanto l’esplosione imminente a cui avrebbe assistito, ma paradossalmente il malessere, il senso di colpa che Manuel avrebbe patito dopo quello sfogo. Christian disapprovava tutta questa sofferenza, non avrebbe voluto permettere che ciò avvenisse, poco importava se quella stessa persona intendeva sopraffarlo in un modo o nell’altro. Dapprima sembrò strano anche a me, ma quello era l’unico ragionamento che lo disturbasse, nient’altro poteva farlo, nemmeno riuscire a conoscere come si sarebbero svolti i fatti lo incuriosiva. Aveva compreso il suo male, l’aveva già visto prima che accadesse, mentre gli si avvicinava pericolosamente, un approssimarsi necessario, probabilmente un rischio calcolato; in ogni caso Christian lo ritenne

l’unico modo per uscire vivo da quella casa. Aveva smesso di aver paura.

Manuel non aveva ancora deciso come agire: aggredirlo quando si fossero spostati entrambi nella cucina, o mettere un sonnifero nel vino o in un altro liquore più forte, le sue azioni erano precipitose, legate a pensieri già fatti e immaginati. Andò in cucina e aprì un cassetto, cercava qualcosa, rovistava le posate con movimenti bruschi e chiasso, posò la bottiglia sul ripiano e iniziò a cercare con tutt’e due le mani. Alla fine trovò un grosso coltello appuntito e con il manico nero opaco e squadrato, ma quando si girò verso la poltrona si accorse di aver fatto un terribile errore.

Christian era sparito.

Era uscito di nuovo, stavolta però portando con sé cellulare e chiavi di casa, un grosso mazzo pesante.

Manuel si scagliò sulla porta e con il coltello cercò di bucarla, poi si diresse verso le finestre e con la lama ne ruppe il vetro, riuscì anche a spalancare le persiane, ma le grate in ferro lo bloccarono all’interno dell’edificio. Urlava e sbraitava, lanciava oggetti contro la porta e contro le grate.

«Pronto, Polizia? Sono Christian, sono l’evaso che ha ucciso Chiara, sono quello fuggito dal tribunale, venitemi a prendere, sbrigatevi altrimenti non mi vedrete più.»

Era stato capace di essere cauto e concentrato sugli obiettivi di Manuel, anche se il suo aspetto esterno aveva sempre affermato il contrario, un’azione intenzionale che in un primo istante aveva allineato con una perfetta sintonia, anche se ancora

distanti fra loro, le loro stesse paure, per poi avvicinarle allo stesso livello sotto la spinta del basta poco.

Un’osservazione che fece luce non tanto sull’alternanza o nel contenuto degli avvenimenti futuri, quanto sul legame che c’era fra la sensazione provata in quel contesto e quella che avrebbe sperimentato dopo aver liberato Chiara. Necessità e intenzioni, erano queste le nuove realtà, attenzioni presenti che si univano con quelle di un immediato futuro, una specie di colla che univa ogni istante vissuto con quelli ancora da vivere.

Quando arrivarono le forze dell’ordine Manuel era ancora all’interno della casa, si era calmato, non si sentiva nessun rumore provenire da dentro e quando Christian vide le luci azzurre delle macchine della polizia entrare dal cancello, si arrischiò ad affacciarsi. Manuel era seduto sulla poltrona, non si girò neanche dalla sua parte, il suo sguardo era diretto nel vuoto.

Quello con la polizia per Christian fu il primo contatto con la realtà dopo tanto tempo. Si comportò in modo strano, ma non destò sospetti, era pur sempre un latitante, non doveva giustificare niente a nessuno.

Chiara era nella torre, viva, debole, dispersa anche nell’aria. Ci volle del tempo per riabilitare il suo corpo, la sua mente, la sua voce. Tornare a parlare in modo naturale e non in forma di rosario. Servirono dosi di pazienza e di comione anche per imparare di nuovo a mangiare, muoversi, vedere altre persone, stare insieme a Christian. Attitudini in parte recise e gettate in un pozzo, tranciate di netto e fatte apire per un tempo lunghissimo, capacità che lentamente si sarebbero allineate con la nuova realtà, forse.

I dottori che la visitarono per primi le dissero che la ripresa non era affatto sicura, ci voleva pazienza e per il momento doveva considerarsi fortunata a

essere ancora viva. In più Manuel era in prigione e Christian era insieme a lei.

«Ti aiuterò a riprenderti, pensa solo a stare bene.»

Sono felice di rivederti Christian

Sono felice di rivederti Christian

Sono felice di rivederti Christian

Sono felice di rivederti Christian

Glielo disse mentre la trasportavano in barella all’interno dell’ospedale. L’avrebbe aiutata a riprendersi dal quel suo strano modo di parlare, glielo ripeteva continuamente, cercando di infonderle più possibile coraggio.

La trasformazione che aveva coinvolto Christian e che l’aveva accompagnato nella medesima direzione da me intrapresa, terminò lì. Si fermò, non andò oltre, la sua grande spinta proveniva esclusivamente dalla volontà di riavvicinarsi a Chiara, del resto non gli importava nulla. Era stata la sua più grande e forse unica necessità, ed è per questo che ci riuscì così velocemente, e per questo mi allontanai da lui e dalla sua vita.

Quando Christian entrò al White Shadow incontrando per caso i suoi nuovi amici pensava che per una sera la ricerca del basta poco, anche per le sue

precarie condizioni fisiche, potesse temporaneamente fermarsi. Inconsapevolmente lo stava invece ancora inseguendo.

Quando al paese quella mattina aveva salutato Manuel e si era presentato a lui mentre leggeva il giornale, in Christian si avviò un processo di eventi spontaneo e pieno di superficiali ostacoli. L’irreale viaggio in Nigeria con la Peugeot azzurra anni Settanta provocò il distacco da questi ostacoli, uno stimolo finalmente liberato che all’inizio apparve come deciso e violento, ma che pian piano lo riavvicinò a quello che aveva sempre desiderato, un elastico emozionale. Fu per lui come scendere da una metropolitana e prenderne un’altra che viaggia in direzione opposta, senza immaginare niente. La macchina azzurra era il mezzo, capace di are sopra i continenti e i mari che lo dividevano dal suo obiettivo.

Manuel voleva arrivare a me, è quello che penso adesso, può darsi mi sbagli, anzi lo spero. Quello con Chiara doveva essere il primo o, poi sarebbe stato il turno di Christian, e infine il mio. Una striscia lineare di odio che però al suo interno non aveva previsto il vincolo che Christian aveva con se stesso, la sua intensità, la forza. Un’evidente e aperta immobilità, avvenuta in tempi brevi e che all’improvviso ebbe effetti benefici su Manuel, anche se solo di riflesso, spostandosi ininterrottamente da un preciso istante al successivo. Questo filo congiunse anche Manuel, allineandosi con lui in un’illusoria attinenza, ma Christian era più preparato, pronto a seguire quel filo; per Manuel invece quello era solo un frammento di una storia che non riuscì nemmeno a capire, lo sfiorò, ne percepì la presenza, un benessere solo superficiale. Mentre Manuel tentava di esaminare quella morbida e profonda sensazione di resistenza intercettata per caso, Christian ne affrontava le conseguenze. Un aggio ricevuto durante un viaggio, la macchina azzurra. Manuel non si era mai allontanato da se stesso, rimanendo ostinatamente sempre nello stesso punto in cui si trovava, cercando in ogni momento di cicatrizzare il luogo dove si era fermato.

Per Christian, anche se all’inizio considerò così poco probabile la riuscita di quella ricerca disperata e intrapresa per necessità, i aggi successivi aprirono

le sue azioni a conseguenze divenute ora d’un tratto invisibili. Somigliavano a un contenitore vuoto, dove lui per la prima volta non poteva e non voleva infilare niente. Una sensazione incoraggiante che Christian notò immediatamente, avere uno spazio a disposizione, grande e con niente dentro. Spazio, tanto spazio.

Oramai poteva proseguire da solo, un movimento che di dinamico però aveva solo il nome, era solo l’inerzia a trascinarlo, mentre il suo corpo e la mente si stavano fermando. Come possa Christian disfarsi così facilmente di tutto questo e in che modo sopporterà un simile peso, probabilmente non lo saprò mai. Una piccola distrazione che porterò sempre con me.

Ho un ricordo dolce della mia esperienza ata, soprattutto la vita in treno, il cambiamento che mi provocò l’aria condizionata in quel pomeriggio d’estate ato ad ascoltare una telefonata fra un uomo, una donna e il loro figlio adolescente. Gli occhi della gente che mi guardava perplessa quando camminavo nei corridoi delle carrozze. Il mio o instabile e traballante, sempre sul punto di cadere.

Ho iniziato a scrivere sul diario di Christian, continuando quello che insieme avevamo iniziato e che in maniera identica aveva portato le nostre strade a separarsi. Quando Christian parlò con Chiara di me, per lei fu come perfezionare qualcosa di già visto, riconoscere un’intuizione. Chiara gli disse che voleva sapere la verità, che fine aveva fatto il DJ, ma fu la polizia a riferirle come stavano le cose, di come era stato considerato una persona scomparsa.

Alcune settimane dopo Chiara lo incoraggiò a venire da me, per chiedermi aiuto, per aiutarla a ritrovare il suo amico. Effettivamente Christian un giorno venne a trovarmi, una mattina con molta luce, con una temperatura calda ma non bollente come preferivo di solito io, un particolare che ormai non avrebbe fatto più nessuna differenza. Voleva raccontarmi tutto, di Manuel, di come aveva liberato Chiara, in via di guarigione e di nuovo innamorata. Del basta poco. Intendeva

chiedermi un ultimo favore prima che me ne andassi per sempre, ma io non potevo aiutarlo.

Non compresi mai se Manuel ce l’avesse con me, come fosse riuscito a intercettare Chiara e farla venire a casa mia quando io non c’ero, le motivazioni che l’avevano spinto a compiere quel gesto crudele. Purtroppo Manuel non disse una parola alla polizia che lo interrogò. Posso solo fare delle ipotesi, che comunque non arriveranno mai alla verità.

L’idea di andare via attraverso la messinscena dell’omicidio e con Bob che avrebbe dovuto parlare con Chiara attraverso frasi di film, cominciai a prenderla in considerazione una sera in cui stavo parlando con lui durante una normalissima cena. Bob ne fu entusiasta e nonostante le mie perplessità, decidemmo alla fine di farlo. A lui non dissi perché lo stavo facendo; cosa mi sarebbe capitato dopo, la mia vita sul treno, la stessa persona che non mi riconobbe quando venne a farmi visita con Christian allo scopo di trovare un chitarrista per il gruppo. Ero andato a casa sua per preparare la simulazione, quando finimmo era tardi, ma decidemmo di andare avanti. Tornammo alla mia villa e da lì chiamai Chiara per farle credere di avere urgenza di vederla, lei non rispondeva e quindi lasciai un messaggio sulla segreteria, ero sicuro che sarebbe venuta. Mi sono pentito per quello che ho fatto a Chiara, il proposito di andarmene per sempre, la volontà di farmi credere morto, erano solo stupide esigenze, nulla si può confrontare con quello che ha ato lei. Ma a parte la messinscena smontabile e tridimensionale che avevo architettato con Bob e che probabilmente non era necessaria, io con il suo rapimento non c’entravo niente.

Appena sono andato via di casa mi sono stabilito sul treno e quando pochi giorni dopo lei è stata presa da Manuel non potevo farci più niente, non sapevo cosa le fosse accaduto, ero informato solo sul fatto che era sparita. L’avrebbe presa lo stesso anche se fosse rimasta in città, non ci sarebbe stata nessuna differenza con quanto era avvenuto, nessuna esclusa Christian. Non conoscevo Manuel, non so da dove sia spuntato fuori, forse abitava nella pineta, chi lo sa. Ho sempre rispettato con orgoglio la pineta, quando tornavo a casa dopo una serata ata a

mettere musica scendevo dalla macchina e mi facevo un giro al suo interno. Mi piacciono le poesie. Dentro al parco giochi, nella parte iniziale della pineta, affissi su scivoli e altalene, c’erano dei fogli di carta con su scritte poesie. Una simpatica iniziativa, che permetteva ai genitori che erano accanto ai propri figli di leggere a volte una frase romantica, a volte un verso profondo. Per me che mi aggiravo di notte fra quei foglietti era completamente diverso, con il solo rumore che era possibile udire, un suono soffocato e ormai stanco che veniva da lontano. Dietro ogni cespuglio mi sembrava di vedere una persona, a volte avevo la sensazione che fossero dappertutto e che mi avrebbero lasciato in pace finché fossi rimasto nel parco giochi. Non era solo la sensazione di pericolo, avevo il presentimento che la pineta di notte fosse abitata, così come lo era stata tanti anni prima. Donne che sottovoce parlavano fra loro, una luce tenue che illuminava il luogo dove si trovavano, persone che vagavano nella notte senza sapere se stavano fuggendo o se erano lì per cercare qualcuno.

Il DJ, tutti cercavano il DJ.

Ho sempre ragionato sul fatto che la musica, compresa quella classica e insieme alla letteratura, dev’essere aggiornata continuamente. La linea che lega un brano o un libro a un altro attraversa varie fasi della vita e non può fermarsi a criteri statici, un aggiornamento parallelo fra quello che si ascolta o si legge e quello che si diventa col tempo. Un circolo frenetico di brutte novità e capolavori fuori concorso, un vortice che lotta e prevarica tutto quello che incontra, nessuno escluso. Era il mio credo quando facevo il DJ e lo portavo avanti con ione, un ponte usato spesso e che un giorno si interruppe facendomi diventare l’uomo che viaggiava sul treno, l’Oracolo. Era iniziato da lì, da quello strappo che mi trascinò via senza illusioni, l’avvicendamento, una sera mentre stavo per iniziare l’aggiornamento delle mie playlist musicali. Un gesto che compivo giornalmente e che mi portava via gran parte del tempo. Non mi tiravo mai indietro, sapevo come funzionava, dove andare e da chi aspettarmi quello che volevo. Mentre mi apprestavo a bermi un caffè dopo cena e a mettermi al lavoro, notai che le penne, le matite, i fogli di carta sempre sparsi, il mouse, il portacenere, non c’erano. Di solito erano sempre sul tavolo accanto alla tastiera, mentre ora erano accatastati uno sull’altro sulla colonna del computer. Ordinati in modo da permettere alla tastiera di padroneggiare incontrastata il tavolo. Come se qualcuno avesse pulito

la scrivania e prima di andarsene si fosse dimenticato di sistemare le cose come erano in precedenza. Non era possibile. Difficile credere a una cosa del genere e infatti non riuscendo a darmi una spiegazione verosimile, prima di iniziare impiegai parte del tempo a rifletterci sopra. Accesi il computer e prima di are in rassegna i siti di musica entrai nella casella di posta elettronica. Era tramite mail che ricevevo la maggior parte delle informazioni sulle nuove uscite di brani musicali o di video su YouTube. Non ero preparato a quello che vidi: quando si posò davanti ai miei occhi mi avvicinai allo schermo così bruscamente che feci cadere sul tappeto il bicchiere che tenevo in mano. All’interno c’erano centinaia di mail non aperte, pagine e pagine di messaggi arrivati il giorno stesso, nessuno di essi era uno spam. Provai ad aprirne un paio con la speranza che fosse un abbaglio del sistema, ma quelli che avevo davanti non era un abituale errore, ma una moltitudine infinita di lettere ancora da aprire, tutte diverse e tutte interessanti per il mio lavoro da DJ. Non avrei mai potuto farcela ad aprirle tutte e verificarne il contenuto una per una, erano troppe, ci avrei impiegato un mese, potevo comunque andare sui siti di riferimento, lì mi sarei fatto un’idea più precisa. Per me era sempre stato più semplice e piacevole scorrere immagini piuttosto che parole sullo schermo. Sembrava tutto in ordine, non c’erano segnalazioni o avvertimenti, niente brillava più del solito e quindi tornai alla casella di posta elettronica. Tramite un semplice calcolo matematico scoprii che quel giorno erano stati pubblicati qualcosa come cinquemila video musicali che io non avevo mai ascoltato e nemmeno visto. Un evento straordinario, non era mai capitata una cosa simile. A voler essere ottimisti i video che quotidianamente ogni sito pubblicava sulla propria pagina potevano essere al massimo dieci, di cui solo uno che valeva la pena riascoltare, a volte nessuno. In quell’occasione invece dal campione di brani che provai a scartare, nel senso di aprire e non di accantonarli nel dimenticatoio, sembravano tutti interessanti, accattivanti e pieni di novità visive e musicali. Non sapevo che pensare, sembrava che la mia casella di posta non fosse stata aperta da un anno, dodici mesi di totale inattività, scadute, siti che si erano trasferiti, canali musicali di YouTube bannati. Erano proprio quelli che avevano chiuso i canali più produttivi di novità, quelli che ora al loro interno non avevano neanche più un video. Gli altri, scorrendo nella lista di iscrizioni, i video li avevano ancora con la particolarità però che le nuove uscite superavano di gran lunga le cinquanta pagine. Volli anche fare un altro tentativo: partire dalla fine, dalle pubblicazioni che risalivano a cinque anni prima. Anche se c’erano buchi temporali strutturalmente prevedibili, alcuni video non c’erano più. Si ava da un anno all’altro in una sola pagina fino ad arrivare al muro invalicabile di video che avevano tutti la data di quel giorno. Ero iscritto a quarantadue canali

musicali. Conobbi subito la verità: il mio lavoro, selezionare video musicali e farli vedere e ascoltare durante le serate, era finito. Afferrai il concetto nel momento in cui iniziai a dare ordine a quella esorbitante massa di dati e indicazioni che comunque provai a scalare, un’eruzione che non avrebbe mai potuto essere contenuta.

In quell’anno trascorso in un solo giorno erano cambiate troppe cose, pensai anche alla probabilità tutt’altro che remota che forse in tutto quel tempo erano spuntati fuori nuovi generi musicali e io senz’altro ne ero all’oscuro. Non avrei mai potuto completare l’aggiornamento. Il mio orecchio era sì in grado di capire solo dopo alcuni secondi se il video era conforme ai gusti musicali che preferivo, ma anche se avessi proceduto in quel modo erano pur sempre cinquemila tentativi. Nel momento che fossi riuscito a mettermi in pari, intanto sarebbero spuntati fuori altri video, altra musica, altre tendenze. Non avevo la capacità umana di assimilarli tutti insieme. C’era un altro fattore a complicare la situazione, i gusti e le tendenze musicali erano fermi ai brani che avevo ascoltato la sera prima e non a quelli che avrei per forza di cose tentato di assorbire se avessi deciso di intraprendere quel folle ascolto. Potevo integrare i nuovi video in unico pianeta musicale, abbandonare alcuni brani che erano stati fino a poche ore prime le regine dell’ascolto, creare nuove playlist dove salvare i pezzi più meritevoli, ma non avrebbe funzionato. Era a rischio la ione per la musica, il lavoro da DJ, un evento che somigliava più al collasso di una stella che alla nascita di un pianeta, una massa indecifrabile e dall’instabile gravità, dove ogni componente di quel mondo che avevo faticosamente costruito negli anni mancava all’improvviso di attrazione reciproca. Tutti i gruppi che mi piacevano di più erano ancora presenti e con il loro normale seguito di ammiratori, però ne erano spuntati molti altri con un seguito altrettanto folto. Non saprei quantificare con certezza, ma se le mie preferenze prima erano legate a due sottogeneri di un unico genere musicale, adesso di generi ce n’erano almeno tre nuovi, con al loro interno un numero imprecisato di sottogeneri. L’incubo di ogni ricercatore, come mi definivo io in quel periodo, un’operazione che mi avrebbe fatto naufragare nell’oblio; ero davanti a una miniera di novità abbandonata per un anno e che mi chiedeva di entrare. Io amavo quel genere di cose, mi piaceva stare tutta la notte all’ascolto di una qualche radio streaming che nel suo sito esponeva la playlist, per poi copiare titolo e gruppo su YouTube, controllare se quel pezzo esisteva, se era un video o un’immagine ferma e se la canzone rispecchiava i miei gusti. Ma non volevo più farlo. Credo che alla fine sarei riuscito a venirne fuori indenne,

ma forse questa fortuna sarebbe capitata più che altro alle playlist, perché io invece avrei rischiato la mia stessa vita. Non mi sarei accontentato di farlo in un lasso di tempo ampio e compatibile, mi ci sarei buttato subito in quell’oceano buio, per uscirne solo dopo aver sistemato e catalogato tutti i video, compresi quelli che sarebbero usciti nei giorni successivi. Un lavoro più grande di me, inutile per certi aspetti, tutto il piacere, la ione sarebbe scemata, ascolti fatti in fretta e con un metro di giudizio sbagliato. Provai a rimanere per qualche giorno, per una settimana, mi stufai, decisi che avrei abbandonato la mia professione, la musica. Prima però dovevo cancellare tutte le playlist che fino ad allora avevo messo da parte con tanta cura. Titoli, link di video, di case discografiche, l’iscrizione alle newsletter, ma soprattutto i video musicali. Una sequenza molto drammatica, tanti attimi formati da operazioni meccaniche che si distendevano senza pietà, durò in tutto tre minuti.

Quando Christian venne per incontrarmi un’ultima volta, per chiedermi di aiutare Chiara a ritrovare il suo amico DJ, io ero pronto a sparire di nuovo. Quella mattina mi ero rasato con cura, avevo dato fondo a tutto quello che c’era nello zaino, mi ero perfino cambiato d’abito. Non ero più un vecchio con la barba lunga e dal vestito nero, ma un uomo che dimostra la vera identità, la sua età effettiva, un eggero come tanti altri, nessun barcollamento, nessun su e giù nei corridoi. Appena scesi dal treno notai subito Christian che si faceva largo per entrare nel vagone, il treno stette ad aspettare il via libera per un tempo infinito, sufficiente a Christian per capire che la mia presenza non era più dove si aspettava che fosse. Scese rassegnato, lo vidi cercare tra le persone che erano scese alla fermata e fra quelle che arrivavano all’ultimo momento in debito di fiato. Non mi vide, non mi riconobbe, non poteva. Mi nascosi fra le colonne della stazione, sulla stessa banchina e a poca distanza da lui, lo guardavo cercare in tutte le direzioni, poi se ne andò, tornò da Chiara e di loro due non seppi più nulla.

Mi allontanai anch’io. Il treno era ancora al suo posto con le porte che si chiudevano e riaprivano a intermittenza, un rumore che aleggiava nella stazione, misto all’attesa di ripartire. Non potevo rimanere, avevo altri propositi e per metterli in pratica dovevo trovare ulteriori diversità, sottrarre contrasti, cambiare aspetto per l’ennesima volta, entrare a far parte di un altro gruppo, differenze

studiate con attenzione e se necessario vissute in prima persona. Da quando mi ero staccato dal destino di Christian mi ero prefissato traguardi che non sarebbe stato facile raggiungere, che per il momento non vedevo ma che ero sicuro ci fossero, similitudini e obiettivi che avevo visto compiersi intorno alle persone che avevo incontrato e che ora non potevo più aiutare, ero solo e non mi andava più di esserlo. Chiara avrebbe capito, la pineta avrebbe capito.

Sono ormai convinto che il tempo somigli a una scala graduata, un disco circolare fatto di pietra, alto tre metri e dal diametro di un chilometro, immobile e impegnato a proteggere la sua struttura dall’esterno. Si è di solito portati a girargli accanto con la fragile speranza di andare a vedere cosa c’è dietro la prossima curva, spostandosi in una frequenza orizzontale, tutto intorno al gigantesco disco di pietra. Non so ancora se varrebbe la pena fermarsi e cercare di salire in cima alla struttura; quello che so è che questo spostarsi costringe i sensi a valutare il tempo come un punto di vista. Un punto di vista orizzontale, un oscuramento della realtà in cui si vede solo quello che si riesce a distinguere in quel momento. Una selezione indipendente e autosufficiente. Un nobile tentativo di superare quella strana scala graduata fatta di pietra è sempre stato quello di marcare ogni spostamento dopo il proprio aggio, tacca dopo tacca, in maniera orizzontale, sempre circolarmente, un’eclissi che però permette di vivere solo nel modo in cui si riesce a vedere. Per me era diverso. La mia mente era serena, niente ostacolava una visione ampia e nitida. In fondo la difficoltà, l’unico inconveniente che avrei dovuto superare, era di non poter considerare mai le cose come finite, terminate, senza la minima incertezza, una visione che non mi apparteneva più, un ato dove l’unica alternativa possibile era tornare indietro.

Fine