Andrea Ferniani, era consapevole che la squadra del Tennis Club San Pancrazio, contro la quale tra meno di un’ora il suo team sarebbe sceso in campo, era al primo posto nella classifica del girone. Al contrario la squadra da lui allenata, i San Giusto’s Tennis Warriors, non aveva ancora raggiunto i punti necessari per salvarsi dalla retrocessione. In quella sera di novembre, seduto a un tavolino della sala del circolo, Andrea rifletteva che precipitare dalla serie B alla serie C del circuito UISP provinciale era un po’ come per uno stronzo scivolare dalla tazza del cesso alle fogne sottostanti: non faceva tanta differenza. Nonostante questo, il direttore della scuola tennis di San Giusto ed ex promessa mancata del tennis nazionale, si sforzava da più di un’ora per trovare una strategia di gioco che garantisse ai suoi uomini almeno una possibilità di successo.
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E dire che all’inizio, quando il Presidentissimo del Circolo Tennis di San Giusto gli aveva proposto di gestire la squadra dei Warriors, Andrea aveva dovuto reprimere l’impulso di saltare dalla finestra e di guidare a tutta velocità fino all’aeroporto più vicino. «Consideralo uno scambio di favori» aveva detto il Presidentissimo: «Serve al Circolo, ma serve anche a te. Per farti un po’ di pubblicità. Per promuoverti» Andrea gli aveva lanciato uno sguardo scanzonato: anche se il bacino di utenza del Circolo di San Giusto non era paragonabile a quello dei modernissimi circoli di Lugo e Bagnacavallo, gli affari del maestro andavano benone, merito in parte della sua indiscussa qualità tecnica - questo giovanotto è stato numero quattordici della classifica nazionale, signori miei: a diciassette anni era in grado di centrare col servizio un birillo a 22 metri di distanza per, dico, dieci volte di seguito! - ed in parte, la parte più grossa, merito del suo aspetto fisico, a metà
strada tra il primo Mastroianni e l’Aragorn de «Il Signore degli Anelli«. Questa combinazione di fattori sortiva l’effetto di riempire ogni settimana l’agenda lavorativa di Andrea con ore di lezione a 32 euro l’una, distribuite tra bambini più o meno promettenti, signori di mezza età desiderosi di mantenersi in forma e una platea variegata di femmine che, pettegolezzo di pubblico dominio, sovente concludevano gli allenamenti sui sedili reclinabili della Matiz arancione del loro atletico maestro, prima di tornare dai rispettivi mariti o fidanzati. «Non credo di avere bisogno di promuovermi. In fondo Warriors potrebbero autogestirsi. Le squadre amatoriali di solito lo fanno» «Hanno già provato. E’ stato un disastro, litigavano in continuazione per decidere chi doveva giocare e chi doveva rimanere in panchina. Hanno bisogno di un capitano, qualcuno che sappia farsi rispettare. Tu sei la persona giusta» Andrea non la pensava allo stesso modo - figurarsi, la persona giusta per gestire i battibecchi di un branco di quarantenni presuntuosi e sovrappeso - perciò aveva battuto un dito sull’agenda, sorridendo con aria dispiaciuta. «La verità è che sono già pieno fino ai capelli. Mattina, pomeriggio e sera» «Vorrà dire che rinuncerai a qualche ora di lezione. I tuoi clienti se ne faranno una ragione» Il sorriso si era accartocciato sulle labbra di Andrea come un capello ato sulla fiamma di una candela: «Disdire gli impegni presi non è un comportamento molto professionale» L’uomo aveva scrollato le spalle: «Vedila così, neppure scoparsi le allieve nello spogliatoio dopo l’orario di chiusura è molto professionale, o sbaglio?» - Touché Andrea fece una smorfia: così, il vecchio bastardo lo aveva aspettato al varco. «Eppure io ho sempre chiuso un occhio», aveva continuato il Presidentissimo, angelico: «Ti ho coperto le spalle. Anche quando hai dimenticato quella cosa usata appesa alla maniglia della doccia»
Andrea si trovato costretto a convenire che un preservativo dimenticato in quel modo nello spogliatoio femminile, sotto gli occhi di chiunque, non poteva considerarsi una buona mossa promozionale per il suo lavoro, specie quando l’unica avventrice femminile del Circolo, quel giorno, era stata la moglie del direttore Unicredit locale. Ma il Presidentissimo, ovvero l’uomo che in quel momento gli stava chiedendo di gestire a tempo perso i Warriors, era riuscito a convincere l’addetto alle pulizie a tenere la bocca chiusa, dio solo sapeva come. Poi aveva gettato il preservativo nella stufa e di quella storia non si era mai saputo nulla. In principio, Andrea aveva pensato che il Presidentissimo gli avesse riservato quella cortesia per non essere costretto a cacciare via dal circolo un maestro di tennis di ottima qualità - numero quattordici della classifica nazionale, cazzo, mica pancetta e brustolini! Ora era chiaro che quel favore era stato concesso a titolo di garanzia su eventuali futuri ricatti. Così, Andrea aveva accettato di diventare il capitano della squadra dei San Giusto’s Tennis Warriors. E fino a quella sera d’autunno, contro ogni sua aspettativa, si era addirittura divertito. La squadra di quarantenni si era comportata egregiamente, nonostante gli scarsi risultati sportivi, e tutti erano soddisfatti del nuovo capitano. Al termine di ogni allenamento, Andrea faceva osservazioni su ciò che ogni singolo giocatore doveva migliorare: chi il diritto, chi la volèè, chi il pallonetto, fino a che i Warriors cominciarono a prenotare ore di lezione privata con il loro capitano, per migliorare i rispettivi punti deboli. Sotto quel punto di vista il Presidentissimo aveva avuto ragione: l’impiego gratuito di caposquadra aveva aumentato il giro d’affari di Andrea.
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Quella gelida sera di metà novembre, alle diciotto e trentaquattro minuti, il telefono del Circolo Tennis di San Giusto cominciò a strillare la sua insulsa melodia caraibica. Andrea restò seduto, facendo finta di niente. Le telefonate di lavoro le riceveva sul proprio cellulare. Rispondere al telefono fisso era una delle mansioni di Mario, il barista-custode che in quel momento se ne stava incardinato in una sedia di plastica a seguire una puntata di Squadra Speciale Cobra 11. Il capitano dei Warriors afferrò una copia della Gazzetta dal tavolo a fianco e cominciò a sfogliarla senza interesse. In sottofondo, la sua mente continuava a riflettere su quelli che potevano essere i punti deboli della squadra di San Pancrazio. Il telefono smise di squillare, sostituito dalla voce di Mario, delicata come uno scarpone da montagna scaraventato contro un muro. Probabilmente, pensò Andrea, uno degli anziani frequentatori serali del Circolo Tennis voleva rassicurarsi sull’ora di inizio dell’incontro - per arrivare puntuale e conquistare un posto in tribuna da cui poter rompere le palle dal primo all’ultimo punto, asciugando un bicchiere di trebbiano via l’altro Alcuni ultras della squadra, aficionados di vecchia data, erano già disseminati tra i tavolini del circolo intenti ad ingannare l’attesa giocando a carte e a latrare come cani randagi ad una gara di fresbee sul prato. Andrea guardò l’orologio: la squadra ospite sarebbe arrivata a momenti. Ripose la Gazzetta, si alzò, raggiunse il banco della segreteria dall’altra parte della sala e staccò un foglio a quadretti da un bloc-notes. Prese anche un pennarello rosso e una penna blu. Tornò a sedere e diede inizio al solito rituale pre-partita. Era una tradizione a cui i Warriors non sapevano rinunciare, retaggio di un epoca in cui al tennis avevano preferito di gran lunga il calcio: prima di ogni incontro, Andrea stendeva la lista dei giocatori titolari, ovvero i nomi dei quattro fortunati che sarebbero scesi in campo per difendere l’onore della squadra. Poiché quest’ultima contava in tutto sei iscritti, due giocatori erano destinati a restare in panchina. Le scommesse, le discussioni, le previsioni su chi, di volta in volta, sarebbe stato escluso dall’elenco dei titolari costituivano l’argomento più caldo del circolo nei giorni
precedenti ad ogni incontro. In alto, sul foglio a quadretti, Andrea scrisse in rosso:
13 novembre 2006 SAN GIUSTO’S TENNIS WARRIORS vs TENNIS CLUB SAN PANCRAZIO. FORMAZIONE TITOLARE
Poi, con la biro blu:
PRIMO SINGOLARE: Alessio Baruzzi DOPPIO: Maurizio Vincenzi / Daniele Ghirlandi SECONDO SINGOLARE: Marco Battaglini
Andrea rilesse quanto scritto, ticchettando il cappuccio della biro contro gli incisivi. Aveva lasciato fuori Mirco Cambiuzzi e Federico Porisini. Poiché sapeva che, come al solito, i due l’avrebbero presa male, Andrea li aveva avvertiti con largo anticipo della sua decisione, per risparmiare loro di arrivare al circolo già cambiati e pronti alla battaglia e di subire l’oltraggio di rimanere esclusi sulla pubblica piazza. Entrambi si erano lamentati come liceali sbattuti fuori dalla festa dell’anno, ma in quel momento non erano le tragedie greche imbastite dai due esclusi a preoccupare Andrea. Il problema era un altro: a Daniele Ghirlandi non piaceva giocare il doppio, e quella poteva essere una bella gatta da pelare.
Daniele era un quarantaduenne con una considerazione di sé abbastanza distorta da essersi convinto di essere, sempre e comunque, la persona più indicata a giocare la partita principe, il Primo Singolare, quello che per tradizione si definisce «l’incontro tra i due Numeri Uno delle squadre avversarie«. Bene, se dal punto di vista tecnico Daniele era senza alcun dubbio il migliore dei Warriors, negli ultimi tempi aveva commesso l’errore di sedersi sugli allori di alcune vittorie inaspettate, con il risultato che la sua forma fisica aveva cominciato a risentirne. Aveva terminato gli ultimi due incontri disputati (persi entrambi) a corto di fiato e con il mal di schiena. Al momento, non era quello che si dice un giocatore al top della forma. Alessio Baruzzi, d’altro canto, era in uno stato di grazia e Andrea pensava che meritasse di giocare il primo singolare. Dopo un ultimo sguardo alla formazione, si alzò e raggiunse la bacheca per gli avvisi, appesa sulla parete di fianco all’ingresso. Prese una puntina e fece per affiggere il foglio. «Ferma un attimo, capo» Il capitano dei Warriors si bloccò a metà del gesto. Da dietro il banco del bar, Mario gli indicò il telefono fisso, accanto al dispenser delle patatine. «Ha telefonato Vincenzi. Ha detto che non può venire» Andrea soppesò la notizia con una smorfia dolente: «Tempismo perfetto. Ha detto anche perché?» Mario si strinse nelle ampie spalle da orso anziano: «Ha la diarrea. Ha detto così, che spruzza merda dal culo come una pompa per il fertilizzante» «Un vero poeta» commentò il capitano. Rilesse la formazione e si sentì assalire dallo sconforto. Vincenzi era la persona più adatta da schierare nel doppio insieme a Daniele Ghirlandi. Gli avrebbe indorato la pillola, per così dire. I due erano compagnoni: andavano a pescare insieme tutti i fine settimana, ma ciò che condividevano non
si limitava a quel atempo. Era infatti noto che da circa un mesetto il figlio di Vincenzi non disdegnava di immergere la propria canna personale nel laghetto intimo della secondogenita di Daniele, una ragazzotta rachitica con le braccia pallide coperte da una peluria sottile da lontra bagnata. La cosa andava bene a entrambi i padri, anche se non ne avevano mai parlato tra loro. Vincenzi era felice perché aveva ottenuto la conferma che suo figlio, da sempre penalizzato da tratti fisici delicati e maniere effeminate, non era quella che nei suoi incubi arrivava a definire una checca terminale. Daniele era contento, sia perchè l’inaspettato principe azzurro poteva risparmiare a quello scorfano di sua figlia minore il futuro pseudo-monacale al quale sembrava destinata, ma soprattutto perché i Vincenzi erano padroni di diosolosapevaquanti ettari di vigneti e pescheti e, come era solito dire, «scoreggiavano nel borotalco«. In cuor suo, Daniele pregava che prima o poi i venti gentili del matrimonio portassero un po’ di quel borotalco fin nella sua squallida vita di impiegato contabile. Oh, sì: Daniele avrebbe venduto l’anima per farsi una bella scoreggina anche lui nel mucchietto di Vincenzi, sollevando così una nuvola profumata di fine talco bianco che arrivasse al naso dei vicini e fe schizzare loro le budella fuori dalle orecchie per l’invidia. Andrea raggiunse il telefono del bar. A quel punto, restava una sola cosa da fare. Scorse tra il pollice e l’indice le pagine della rubrica fino a trovare la pagina in cui erano annotati i recapiti dei suoi giocatori, quella intitolata !WARRIORS! scritto a in stampatello. Chiamò per primo Federico Porisini. Il primo ad essere chiamato, nonché il primo che avevo escluso dalla lista dei titolari, pensò Andrea ascoltando il suono regolare della linea libera nella cornetta. Guardò l’orologio appeso sopra la porta: mancavano solo tredici minuti all’inizio dell’incontro. Al terzo squillo, ripose la moglie di Porisini. «Buonasera signora, sono Andrea Ferniani» Pausa. «Ah. È lei» «Federico è in casa?»
«Perchè lo cerca?» domandò la donna, sospettosa. «Stasera i Warriors giocano in casa. Mi manca un uomo per completare la formazione, così mi chiedevo se Federico…» «Mi ha detto stasera non doveva giocare» «È vero, lo avevo avvertito di restare a casa, ma ora Vincenzi si è ammalato, e dunque...» «Mi perdoni» lo interruppe di nuovo la donna: «Crede che Federico sia a sua completa disposizione? Mio marito lavora, sa? Se aveva tanto bisogno di lui, per quale motivo non l’ha convocato subito?» «Gliel’ho appena detto, signora. Doveva giocare Vincenzi, ma purtroppo…» «Si è ammalato certo. Certo». Poi, dopo un attimo di silenzio: «Non sarà invece che avete organizzato una di quelle vostre seratine particolari, eh?» - Seratine particolari?- Andrea non frequentava i suoi giocatori fuori dal campo: era il loro capitano, non un loro amico. «Non so di cosa stia parlando» «Ah, ma lo so io, caro il mio signor Ferniani. Crede che sia una stupida?» La signora Porisini cambiò voce, scimmiottando quella di suo marito: «Carla, tesoro, Ferniani ci vuole ad allenamento anche stasera! E io che sarei restato tanto volentieri a casa. Farò un po’ tardi, tu vai pure a dormire». La donna scoppiò in una risata stridula: «Ora mi dica lei quale squadra pulciosa di un campionato provinciale si allena quattro volte alla settimana!» Andrea strabuzzò gli occhi, stupefatto: «Quattro volte? Non ho idea di cosa le racconti suo marito, signora, ma l’allenamento settimanale è sempre stato uno solo, il martedì sera alle otto» «Lo ammette pure!», sbottò la donna, incredula: «Coraggio allora, mi dica anche in quale bettola intende trascinare mio marito. Immagino sia uno di quei locali sulla via Emilia, dico bene?»
La bocca di Andrea era spalancata al punto che avrebbe potuto caderci dentro un melone intero. «Mi ascolti bene, caro il mio maestrino con la racchettina», proseguì implacabile la signora Porisini: «Lei e gli altri suoi compagnoni siete liberi andarvene in giro tutta la notte a bere e gozzovigliare con le vostre baldracche, ma mio marito no. È chiaro? Mio marito non è come lei!» «Senta signora, se mi fa parlare un attimo con Federico…» «No! Non si azzardi a chiamare un’altra volta a casa mia, è chiaro? Porco!» Fine della comunicazione. Sbalordito, Andrea agganciò la cornetta. «Tutto bene, mister?», domandò Mario dal banco. Andrea annuì, ma per un lungo istante continuò a fissare il telefono come se fosse un reperto alieno piovuto da un altro pianeta. - Gozzovigliare? Baldracche? Quattro volte alla settimana?Il capitano dei Warriors prese l’appunto mentale di scambiare due parole con Federico Porisini, non appena se ne fosse presentata l’occasione. Scuotendo la testa, sollevò la cornetta e compose il numero di Mirco Cambiuzzi, la sua seconda riserva. «Chi stai chiamando?» Andrea sollevò lo sguardo dalla rubrica. Giuseppe Bersani, Presidentissimo del circolo di San Giusto, ex macellaio in pensione, era in piedi a un metro da lui e lo squadrava dal basso del suo metro e sessanta di statura. «Vincenzi ha la diarrea. Chiamo Cambiuzzi per sostituirlo» Il Presidentissimo scosse la testa e fece un gesto con la grossa mano a cui mancava mezzo pollice.
«Riattacca» Andrea lo guardò, interdetto. Il Presidentissimo ripeté il gesto: «Ti ho detto di riattaccare» Andrea abbassò la cornetta sul ricevitore e rimase in attesa. Il Presidentissimo incrociò le braccia sul petto massiccio e gli lanciò un’occhiata circospetta da sotto le sopracciglia spettinate. Sembrava imbarazzato. «Fai giocare Merighi» disse, a mezza voce. Il capitano dei Warriors rimase di stucco: «Mi prendi in giro? Merighi? Giordano Merighi?» Era un nome che quella sera Andrea non aveva neppure preso in considerazione. Anzi: un nome che non era mai stato preso in considerazione, sin dall’inizio del campionato. Il Presidentissimo annuì, a muso duro: «È ormai un mese che quel rompicoglioni mi tormenta per telefono dalla mattina alla sera. Vuole giocare, quindi mettilo in campo, d’accordo?» Andrea era incredulo. Tutte le squadre amatoriali del mondo, di qualunque sport, vantano un personaggio universalmente conosciuto come «il tifoso numero uno« o «l’aficionado di prima categoria« o «il pazzoide sbarellato che ha finalmente trovato un posto buono per piantare la sua testa bacata«. I San Giusto’s Tennis Warriors non facevano eccezione, ma Giordano Merighi rappresentava una rarità nell’ampio genere dei folli da tribuna: era l’unico della sua specie a figurare ufficialmente anche come giocatore della sua squadra del cuore. C’era una storia, dietro quella stranezza, un aneddoto del quale in paese non si sarebbe mai parlato abbastanza: quando Andrea, all’inizio del campionato, aveva
raccolto in una busta i moduli di iscrizione dei giocatori, non si era accorto che nel mazzo era finito, chissà come (ma è risaputo che i pazzi sono sfuggenti), un documento clandestino, compilato in tutte le sue parti e regolarmente sottoscritto da Giordano Merighi. Andrea aveva spedito tutto alla sede UISP provinciale e, quando al Circolo era giunta la lettera di conferma dell’iscrizione con annesse le tessere ufficiali dei giocatori, tra queste era spuntata anche quella del pazzoide. In un primo momento, tutti avevano pensato ad uno scherzo; fino a che Giordano si era presentato, puntualissimo, il giorno della prima di campionato, con un vecchio borsone pieno di racchette di legno e una maglietta con il logo del Circolo che risaliva a quasi vent’anni prima. Andrea non l’aveva mai fatto giocare, ma lui aveva continuato a venire ad ogni partita, regolare come un peto dopo una scorpacciata di fagioli. «Non ho la minima intenzione di farlo scendere in campo» Il Presidentissimo fissò il capitano, accigliato, tormentandosi il mento con il pollice monco: «L’altra settimana quel matto ha fermato mia moglie al mercato e l’ha seguita fino al cancello di casa. Continuava a chiederle di poter giocare. L’ho dovuto cacciare via con un rastrello da giardino. Capisci a che punto siamo? Fallo giocare, solo per questa volta» «Giochiamo contro San Pancrazio. Nel caso tu non lo sapessi, è la squadra prima in classifica. E noi abbiamo bisogno di punti. Hai tanta fretta di finire in serie C?» «Il campionato è ancora lungo», tagliò corto il Presidentissimo: «C’è tempo per la salvezza. Hai detto che ti manca un giocatore. Metti in campo Giordano, e finiamola qui» «Cos’è, adesso il Presidente ordina al capitano come deve gestire la squadra?» «Vedila come vuoi» «Ci faremo ridere dietro da tutti» «Sbagliato: tu ti farai ridere dietro da tutti»
«La gloria è per la squadra, il disonore per il suo capitano» commentò Andrea, sardonico. «È uno sport duro» Andrea scosse la testa: «Scordatelo. Non lo metterò in campo» Bersani gli lanciò uno sguardo pieno di sfida: «Non te lo sto chiedendo» «Me lo stai ordinando?» «Esatto» Andrea scoppiò a ridere: «Chi cazzo credi di essere, mio padre? Sei grasso e nano, amico, non ci assomigli neanche un po’. I tuoi ordini hanno lo stesso valore per me della roba che ti cresce tra le dita dei piedi» «Errore. Hanno più o meno lo stesso valore di un preservativo usato appeso alla maniglia di una doccia. Ora dimmi: tu che valore dai a un preservativo?» «Fino a quando hai intenzione di tenermi per le palle con questa storia? Hai settant’anni, cazzo, smettila di comportarti come un bambino» Bersani si strinse nelle spalle, con un’espressione dolente che era più finta di una cintura di Gucci venduta su Ebay a trenta euro. Non c’era via di uscita: quell’uomo era duro come una bestemmia urlata nel pieno di una messa domenicale. «D’accordo, lo metto in campo» si rassegnò Andrea, la voce piena di rabbia: «Ma a Cambiuzzi gliela spieghi tu questa bella trovata» Con un grugnito soddisfatto, il Presidentissimo voltò l’ampia schiena e attraversò la sala del circolo con l’incedere tronfio di un gallo che ha appena distribuito la sua inseminata quotidiana a tutte le condomine del pollaio. Si sedette ad un tavolo d’angolo e cominciò a distribuire le carte per un solitario. Andrea lo guardò gongolare, avvertendo un onda d’ira ribollirgli tra stomaco e fegato come l’intruglio venefico di una strega. - Dovrei prenderlo per il collo e dirgli di raccontare in giro quello che vuole. Il
preservativo poteva essere di chiunque, perciò chi gli crederebbe?La moglie isterica di Porisini, tanto per cominciare. Andrea strinse gli occhi, sconfortato: lei per prima e in seguito tutti. Nessuno avrebbe avuto il minimo dubbio al riguardo: il preservativo testimoniava la maratona sessuale consumatasi tra Mirta Beltrani, moglie del noto direttore Unicredit, e Andrea Ferniani, maestro di tennis, irrefrenabile satiro e infestatore diurno dei letti coniugali. - Baldracche e spose, seratine particolari quattro volte alla settimana. Prenotazione obbligatoriaAndrea afferrò la lista dei titolari e tirò una riga sopra il nome di Maurizio Vincenzi, augurandogli col pensiero di cagarsi via anche l’anima. Sopra la riga scrisse «Giordano Merighi«, con la calligrafia resa incerta dalla furia. Tornò ad appendere il foglio alla bacheca. Giordano Merighi e Daniele Ghirlandi: il matto e il Numero Uno. Un doppio storico. - Beh, se non altro, mi farò due risate-
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I San Giusto’s Tennis Warriors e la squadra del Tennis Club San Pancrazio arrivarono quasi nello stesso momento. Daniele Ghirlandi, Numero Uno dei Warriors, attraversò per primo la porta del circolo. Scorse Andrea dall’altra parte della sala e gli puntò contro un dito. «Oh capitano, mio capitano!», esclamò: «Sono pronto a spaccare il mondo!
Guardami, sono il tuo uomo, cazzo!» Dopo di lui, entrarono Baruzzi e Battaglini, seguiti a ruota dal capitano del San Pancrazio e dai giocatori avversari. Andrea notò che Daniele indossava una tuta nuova, lo stesso modello sponsorizzato da Rafael Nadal agli ultimi U.S. Open. «Bella tuta» commentò: «Anche se il colore mi sembra un po’ eccessivo» «Rossa come il primo marchese di una verginella» specificò Daniele a gran voce, lisciandosi la felpa con espressione orgogliosa. Alle sue spalle, Baruzzi e Battaglini scossero il capo all’unisono, dissociandosi da tutto quell’inutile frastuono. Gli avversari avevano appoggiato le borse a terra e squadravano l’uomo con la tuta rossa con espressioni di puro compatimento. «Ho cambiato le corde della racchetta», continuò Daniele, battendo una mano sulla borsa argentata che portava a tracolla: «Luxilon Ultra Hurricane 10. Trentanove euro. Sono catapulte d’assedio» «Le corde più adatte per giocare un doppio», commentò Andrea. Daniele parve non capire: continuò a sorridere e gettò una mano dentro la cerniera della borsa per prendere una racchetta e mostrarla al suo capitano. Poi si bloccò. Squadrò Andrea, mentre l’entusiasmo scemava nei suoi occhi, sostituito da un cipiglio di allarmato sospetto. Senza una parola, si voltò e raggiunse la bacheca a cui era appesa la formazione titolare. Andrea ne approfittò per lanciare un’occhiata ai giocatori del San Pancrazio, che nel frattempo si erano spostati al banco del bar. Erano tutti giovani tra i venti e i trentacinque anni, e atletici. Indossavano la tuta del loro club, bianca e azzurra. Erano tute economiche, comprate in stock da qualche azienda vietnamita, ma Andrea si sorprese a pensare che fossero più dignitose del mostro pacchiano indossato da Daniele.
«Tu sei completamente pazzo!» La vita nella sala comune del circolo parve congelarsi. I vecchi avventori, Mario, il Presidentissimo, i giocatori: tutti si voltarono verso Daniele. Il Numero Uno dei Warriors aveva strappato la formazione dalla bacheca e ora la sventolava in direzione del suo capitano come una bandierina, la sua faccia ridotta a una maschera di furia: «Dimmi che è uno scherzo!» - Ci siamo Andrea lanciò un’occhiata veloce al Presidentissimo: l’uomo se ne stava ancora seduto in un angolo, con il mazzo di carte in una mano e un bicchiere nell’altra. Fissava Daniele e non dava segno di volere intervenire. Soffocando un’imprecazione, Andrea si rivolse al suo giocatore: «Vedi Daniele, le tue ultime prestazioni in campo non mi hanno convinto. Come capitano, ritengo che stasera Baruzzi meriti di giocare il primo singolare» «Al diavolo il primo singolare, non mi riferisco a quello!» Daniele puntò un dito sul foglio: «Cos’è questa storia di Merighi?» Andrea si ò la lingua sulle labbra, indeciso. Daniele non si lasciò sfuggire l’occasione: «Sentite qua, gente!», gridò alla platea di osservatori: «Questa sera, il nostro capitano schiera in campo niente di meno che il buon Giordano Merighi!» Allarmati, Baruzzi e Battaglini si avvicinarono al loro compagno di squadra. Daniele porse loro il foglio con la formazione. I due singolaristi scorsero i nomi annotati e fissarono il capitano sbalorditi. Tra i vecchi in sala serpeggiò un fremito di puro sconcerto. Alcuni scoppiarono a ridere, altri cominciarono a lamentarsi, altri ancora ingiunsero con una
bestemmia di fare meno rumore, porco diavolo. «Giordano non ha mai giocato, quest’anno», disse infine Andrea, sollevando la voce per sovrastare i commenti: «In fin dei conti, anche lui fa parte della squadra, perciò ho pensato di dargli una possibilità» - esattamente come ho pensato di tagliarmi le palle e di darle da mangiare al gatto«Oh, non sapevo fosse la giornata dell’impegno sociale!», lo schernì Daniele con voce carica di veleno: «Spiacente, ma a me non va di partecipare. Voi che dite, ragazzi?» Baruzzi e Battaglini si fissarono a vicenda. Andrea sapeva esattamente cosa stavano pensando: Merighi o meno, quella sera avrebbero giocato i singolari, una possibilità che era loro capitata di rado durante tutto il campionato, causa l’egemonia di Daniele. In più, il fatto che a quest’ultimo toccasse il doppio in coppia con il Matto di San Giusto rappresentava ai loro occhi una sorta di punizione divina per l’irritante spacconeria del Numero Uno dei Warriors. Sarebbero morti, piuttosto che perdersi un simile spettacolo. Anche Daniele parve comprendere i loro pensieri, perchè improvvisamente appallottolò il foglio e lo scagliò verso Andrea: «Fanculo. Trovati un altro doppista. Io me ne vado» Non fece in tempo a girarsi, che uno schianto poderoso solidificò nuovamente la vita nella sala del circolo: Giuseppe Bersani, Presedentissimo del circolo di San Giusto, era scattato in piedi e aveva colpito il ripiano del tavolo con una di quelle sue mani simili a incudini. «Tu non vai da nessuna parte, Ghirlandi!» L’ex macellaio abbandonò la sua postazione e con una serie di i rabbiosi si portò fin sotto il naso di Daniele. Lì si piantò, le mani chiuse a pugno sui fianchi e gli occhi accesi da una furia senile. «Tu stanne fuori», lo sfidò Daniele, fissandolo dall’alto della suo metro e ottantuno: «Non sono affari tuoi»
«Lo sono eccome. Nel caso te lo fossi scordato, qui comando io» Dai vecchi disseminati tra i tavoli si levò un mormorio di approvazione. - Alla buon’ora - pensò Andrea. «Per quanto mi riguarda, Merighi ha pagato la quota di iscrizione al campionato», continuò Bersani: «Questo lo rende un Warriors a tutti gli effetti, che ti piaccia o no. Perciò, a meno che tu non voglia cercarti un’altra squadra disposta a sopportare le tue lagne da primadonna, va a cambiarti e fa quello che il tuo capitano ti dice di fare» I vecchi ai tavoli cominciarono a ragliare come somari drogati di bentolan a una corsa parrocchiale. Qualcuno accennò un applauso, la maggior parte manifestò il proprio appoggio al Presidentissimo con alcune bestemmie che avrebbero scardinato il soffitto di una chiesa. Andrea comprendeva il loro entusiasmo: non capitava spesso che un anziano balordo le cantasse sode ad un fighetto di trent’anni più giovane, e che questi non riuscisse a far altro che starsene immobile ad incassare la batosta. Era uno spettacolo capace di riaccendere nei loro cuori inariditi dal tempo la fiamma di un antico vigore, il ricordo di un’epoca in cui erano padroni della loro vita e del mondo intero: in quel momento, Bersani era invincibile, un eroe in pantaloni di velluto liso e capelli bianchi, e tutto il circolo era con lui. Anche Daniele dovette capirlo: contrasse i muscoli della mascella, lanciò un ultimo sguardo pieno di disprezzo all’ometto che l’aveva appena umiliato e fece per incamminarsi verso il corridoio che conduceva agli spogliatoi. «Ancora una cosa, Ghirlandi» Daniele si bloccò e tornò a voltarsi verso il Presidentissimo. Questi lo fissava con una luce malevola negli occhi, un’espressione che ad Andrea non piacque per niente: «Rimetti a posto il foglio» Un silenzio assoluto cadde sulla sala.
Tutti gli sguardi erano puntati su Daniele che, schiumante di rabbia, sostava al centro della stanza. I vecchi lo scrutavano con cupidigia, ansiosi di scoprire fin dove si sarebbe spinto il loro eroe, Super Bersani, e a quale insperato grado di avvilimento sarebbe riuscito a precipitare il suo giovane avversario. I giocatori del San Pancrazio seguivano la vicenda con interesse malsano, probabilmente chiedendosi in che razza di posto fossero finiti. Battaglini e Baruzzi erano sul chi vive: mostravano lo stesso disagio di chi sa che da un momento all’altro la situazione potrebbe degenerare in qualcosa di spiacevole. Andrea decise di intervenire. In fin dei conti, Daniele era un suo giocatore: «Ora non esagerare, Bersani» Il Presidentissimo fece per ribattere, ma Daniele parlò prima di lui: «Tu stai zitto», sibilò rivolto al capitano: «Non provare a farti bello con quella bocca di merda». Indicò il Presidentissimo: «Quest’uomo vuole coprire di ridicolo la tua squadra e tu, non solo lo lasci fare, ma addirittura sei d’accordo con lui. Perchè è di questo che si tratta, vero? Ti ha convinto a mettere in campo Merighi. Dimmi una cosa: come fa a tenerti per le palle in questa maniera? Ti sei scopato la sua vecchia?» Andrea si irrigidì, aspettandosi che Bersani saltasse addosso all’uomo per staccargli la testa dal collo. Ma il Presidentissimo parve ignorare la provocazione: «Stiamo tutti aspettando, Ghirlandi» disse, continuando a sogghignare. Senza staccare gli occhi di dosso ad Andrea, Daniele si chinò e raccolse la pallottola di carta con la formazione titolare. Con esasperata lentezza, sfilò tra i tavoli fino alla bacheca appesa di fianco alla porta di ingresso. I vecchi lo scrutavano con bramosia, simili a corvi al aggio di un carretto di carne fresca, ma nessuno si azzardò a proferire parola: l’espressione allucinata di Daniele era sufficiente a congelare le loro lingue.
Andrea ne fu enormemente sollevato. Nel silenzio generale, Daniele stirò tra le mani il foglio e lo fissò alla bacheca di sughero. In quel preciso istante la porta di ingresso si spalancò, ed entrò Giordano Merighi. Per una frazione di secondo, il Numero Uno dei Warriors ed il Matto di San Giusto si trovarono faccia a faccia. Andrea non riusciva a scorgere il volto di Daniele, ma dal modo in cui vide contrarsi i muscoli dell’uomo sotto la giacca rossa della tuta, capì che la visione del nuovo compagno di doppio lo aveva precipitato seduta stante dall’ira profonda al più incredulo sconforto: era tutto vero, il capitano dei Warriors lo aveva schierato in formazione con il Matto di San Giusto, ed ora eccolo lì in carne d’ossa, Giordano l’idiota, membro clandestino della squadra, e Daniele avrebbe dovuto scendere in campo insieme a lui. Per un lungo istante, Giordano rimase immobile a fissare con espressione bovina l’uomo davanti a sé, poi trasportò la sua considerevole massa corporea qualche o in avanti, fino a posizionarsi al centro esatto della stanza. Alla vista del nuovo arrivato, i giocatori del San Pancrazio offrirono una gamma di espressioni di puro sbigottimento che avrebbero fatto la gioia di qualunque ritrattista. I vecchi tifosi cominciarono a sghignazzare, facendo oscillare i volti rugosi e cupidi da Daniele a Giordano, e viceversa. Da parte sua, Andrea cercò di vedere il suo giocatore con gli occhi della squadra avversaria. Siccome era un uomo dotato di una buona fantasia, ci riuscì in pieno. Ciò che vide gli fece venire voglia di suicidarsi: Giordano indossava la giacca sformata di una tuta da ginnastica azzurra, sopra un paio di pantaloni grigi che assomigliavano in maniera allarmante a quelli di un vecchio pigiama. L’elastico dei pantaloni era teso allo spasimo sul pancione rotondo dell’uomo, come il cerchio di ferro sull’orlo di una botte. Reggeva a tracolla un’enorme borsone con la scritta Wilson, anche se la lettera «n« era svanita sotto una grossa macchia scura, così che si leggeva solo «Wilso«. Andrea giudicò ad occhio e croce che la borsa contenesse almeno una mezza dozzina di racchette.
Il Matto rispose agli sguardi dei presenti con assoluta tranquillità, limitandosi a muovere gli occhi porcini dietro le lenti appannate di un paio di occhiali da vista con la montatura in corno. Il fatto di essere al centro dell’attenzione di quasi una trentina di persone sembrava non fargli alcun effetto. Si sfilò la berretta di lana nera, liberando un roveto di capelli scurissimi e bisunti, poi si voltò verso la bacheca. Andrea trattenne il fiato. I vecchi ai tavoli si protesero in avanti come spettatori sulle tribune, ansiosi di assistere al momento in cui il Matto di San Giusto si sarebbe reso conto di essere nella lista titolari. Ma Giordano non batté ciglio. Fissò il pezzo di carta su cui, per la prima volta nel campionato, compariva il suo nome, senza che il suo volto largo, chiazzato della barba di tre giorni, cessasse di assomigliare a una lapide commemorativa. Poi, tirò su con il naso, si girò e si incamminò verso il corridoio di comunicazione con gli spogliatoi. Un omone flaccido e sgraziato, con le mani larghe come badili e la camminata ciondolante di un pinguino sovrappeso. Daniele si scansò per farlo are. Giordano lo oltreò senza una parola. L’ex numero uno dei Warriors, degradato per l’occasione a doppista, guardò Andrea con un’espressione che era un misto tra Vuoi davvero farmi questo? e Me la pagherai cara, brutto bastardo. Poi, anche lui imboccò la via per gli spogliatoi, seguito a ruota da Alessio Baruzzi e Marco Battaglini. Quando la porta si chiuse alle loro spalle, l’incantesimo che era caduto sulla stanza sembrò spezzarsi: i giocatori avversari scoppiarono a ridere e gli anziani aficionados scatenarono cori di ragli e motti in dialetto secco che resero l’atmosfera simile a quella che poteva respirarsi in un mercato medievale. Prima di andare incontro al capitano della squadra avversaria per i convenevoli, Andrea scambiò un’occhiata con il Presidentissimo: l’uomo tarchiato, che un tempo aveva gestito la macelleria di via Mazzini a San Giusto, sembrava turbato. Andrea sapeva che il suo stato d’animo non dipendeva dallo scontro con
Daniele, né dalla sommossa che al momento infuriava tra i tifosi dei Warriors distribuiti tra i tavoli. Lo sapeva, perché lui stesso si era sentito improvvisamente a disagio. Era a causa degli occhi di Giordano, quegli occhi da maialino nei quali la scoperta di poter finalmente giocare una partita in campionato non era stata in grado di accendere la benché minima scintilla di entusiasmo. - Come se non gli importasse nulla - pensò Andrea, ricordando quello che gli aveva raccontato il Presidentissimo poco prima, l’insistenza di Giordano per essere messo in campo. - Cosa diavolo a per la testa di quest’uomo? Il capitano dei Warriors avrebbe fatto meglio a riflettere più a lungo su quella stranezza. Ma, in fin dei conti, Giordano era matto, e i matti sono strambi per definizione. Su questo, Andrea non si sbagliava. Solo, non sapeva quanto Giordano fosse matto. Da lì a poco, lo avrebbe scoperto, a sue spese.
***
Andrea spalancò la porta degli spogliatoi che comunicava direttamente sul piccolo cortile del circolo e uscì nell’aria gelida della notte. Il vapore delle docce franò oltre la soglia come una valanga e si disperse verso il cielo terso. - Fumata bianca - pensò l’uomo, e decise di celebrare l’insperata vittoria con una sigaretta. Teneva sempre un pacchetto a portata di mano, anche se non era mai riuscito a prendere il vizio: fumare dopo una giornata difficile lo rilassava, gli forniva una parentesi di tranquillità in cui riusciva a mettere a fuoco i pensieri con maggiore nitidezza. Forse, una sigaretta avrebbe permesso ad Andrea di comprendere come diavolo
fossero riusciti a vincere contro il San Pancrazio. Baruzzi e Battaglini avevano giocato due singolari meravigliosi, roba da farsi schizzare gli occhi dalle orbite per l’incredulità. Gli avversari se ne erano andati via in fretta e furia, ad occhi bassi, senza neppure fare la doccia. Andrea scaricò a terra la borsa delle racchette e il secchio da lezione pieno di palline e incastrò una Camel spiegazzata tra le labbra. Cominciò a palpare le tasche della giacca a vento in cerca dell’accendino. Lanciò uno sguardo in direzione dei vetri appannati del bar: le esclamazioni di gioia degli aficionados stupefatti erano risuonate per più di un’ora, prima che i vecchi decidessero che si era fatta ora di andare a letto. Andrea era pronto a scommettere che nessuno avrebbe detto una parola sul grottesco incontro di doppio giocato da Giordano e Daniele: sarebbe stato ignorato, come una piccola macchia di unto sul colletto di una camicia fresca di bucato. «Vuoi accendere?» Il cuore di Andrea mancò un battito. Si voltò verso l’angolo in ombra del cortile, dove improvvisamente si stagliava la sagoma nera e robusta di un uomo. «Giordano?» chiese Andrea, dopo un attimo di esitazione. La sagoma si animò e fece un o nel rettangolo di luce bianca disegnato dalle piccole finestre degli spogliatoi. Giordano indossava ancora la giacca di tuta che aveva portato durante l’incontro. Il sudore ancora fresco gli disegnava un’ampia macchia scura al centro del torace. Sulla sua testa era sistemata la berretta di lana grezza, dalla quale fuggivano ciocche bagnate di capelli che andavano a confondersi con le sopracciglia larghe e sporgenti. «Pensavo che te ne fossi andato» disse Andrea. «Mi riposavo» rispose lui, appoggiando la borsa delle racchette di fianco ai piedi: «Sono stanco» «È normale. È stata una partita dura. Fai la doccia?»
Giordano scosse la testa: «L’ho già fatta stamattina. E poi ho dimenticato le ciabatte« «Sfiga», commentò Andrea, riflettendo con un moto di disgusto che le abitudini igieniche dell’uomo rispecchiavano il suo aspetto dimesso: «Però dovresti asciugarti. Fa un freddo cane» «Non è tanto freddo» «Ne vuoi una?», chiese Andrea, porgendo il pacchetto di Camel. «Ho le mie» rispose lui, e si accese una sigaretta, poi ò l’accendino ad Andrea. Fumarono in silenzio per qualche minuto. Giordano fumava lentamente, assaporando la sigaretta da fumatore accanito, esperto, di quelli capaci di tenerla in bocca sino a lasciarla consumare completamente, senza mai toccarla, senza mai tossire per il fumo che si infila nelle narici o negli occhi. Andrea tirava invece boccate brevi e frequenti, trattenendo il fumo per il tempo necessario ad aromatizzare un poco la bocca. «Era arrabbiato», disse Giordano. «Chi?» «Daniele Ghirlandi. Non era contento» «Daniele non è mai contento, lo sai anche tu, no?» «Io non lo so. È la prima volta che mi fate giocare. Come faccio a saperlo?» Le parole di Giordano erano uscite piatte, senza alcuna nota accusatoria, ma Andrea alzò lo sguardo su di lui, aspettandosi di trovare sul viso dell’uomo un’ombra di rimprovero. Giordano ricambiò l’occhiata senza scomporsi. La luce soffusa dei neon si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali, nascondendo gli occhi porcini. Esili filamenti di vapore filtravano dalle maglie della sua cuffia di lana, come spifferi di calore dal coperchio di una pentola.
A disagio, Andrea spostò il peso da un piede all’altro: «A Daniele non piace perdere, tutto qui. Vedrai che, dopo la doccia, si sarà calmato» «Diceva che è colpa mia. Diceva che sono un fottuto coglione. I vecchi ridevano, e anche quelli dell’altra squadra» Ecco, quello era stato il momento più basso della serata. Fino ad allora, era stato uno divertente guardare Daniele che ingoiava la rabbia ogni volta che il suo compagno di gioco infossava la palla in rete o la sparava cinque metri fuori dal campo. Diavolo, fino a quel momento era stato uno so guardare Giordano: sembrava l’orso del luna park che cercava di scacciare uno sciame di api con una racchetta. Poi, Daniele aveva perso il controllo e la situazione era degenerata. «Daniele è uno stupido. Come capitano della squadra, lo obbligherò a farti le sue scuse. Avete perso il doppio, ma non è colpa tua. Hai giocato bene e hai chiuso qualche bel punto e…» «Quattro» «Come?» Giordano sollevò la mano destra, con il pollice piegato: «Ho fatto quattro punti» Andrea ne ricordava solo due. Allontanò il pensiero: «Ecco, infatti. Sei un buon doppista. Gli avversari erano più forti, tutto qui. Il tennis è come il mare, prima o poi incontri sempre un pesce più grosso di te. Non è colpa di nessuno. L’importante è avere vinto l’incontro, non credi?» Giordano diede un ultimo, lungo tiro alla sigaretta, poi gettò il mozzicone oltre la rete del cortile: «Te non sei arrabbiato con me?» «Perché dovrei? Quando una squadra vince, il merito è di tutti quanti. Stasera, tu
sei un vincitore, non ho motivo di essere arrabbiato con te» Giordano lo squadrò a lungo, con una mano affondata nella tasca della giacca. Andrea lasciò cadere la sigaretta fumata per metà e la calpestò nervosamente. Quando tornò a guardare Giordano, l’uomo stava sorridendo. Era un sorriso sproporzionato, tutto denti e gengive. Si rifletteva nei suoi occhi in modo bizzarro, accendendoli di una luce opaca. «Parli proprio come un capitano. I capitani dicono sempre quello che i soldati vogliono sentire, lo sai? Me lo diceva il nonno. Quando c’era la guerra, gli hanno sparato in una gamba. Il capitano gli diceva che andava tutto bene, ma la gamba ce l’hanno tagliata. Gli era marcita. Il capitano sapeva che dovevano tagliarla, ma aveva detto una bugia per farlo stare buono. La gamba puzzava come un cadavere morto» Andrea accolse la storia con un cenno del mento: «Beh, io dico quello che penso». Poi: «Mi spiace per tuo nonno« «La gamba non è ricresciuta. Grazie per avermi fatto giocare» «Te lo meritavi», rispose Andrea, di riflesso. «Mi telefoni, quando giocate di nuovo?» «Certo. Vedremo. Ti chiamo io» «Allora va bene» Giordano raccolse la borsa delle racchette e si avviò verso il cancello con la sua andatura da pinguino grasso. Si fermò un attimo prima di uscire sul parcheggio, di nuovo una sagoma nera nella penombra ghiacciata della notte. «Senti», disse: «Cosa ho vinto?» «Come?» «Cosa ho vinto? Hai detto che sono il vincitore. I vincitori vincono un premio, lo sanno tutti. Io cosa ho vinto?»
«Beh, non c’è un premio», cominciò Andrea, incerto. Poi ricordò di stare parlando con Giordano il Matto: «Ma se ne hai voglia, prendi qualcosa da mangiare al bar. Dì a Mario che offro io, d’accordo?» «Pensavo che c’era un premio», rispose Giordano, deluso. «Perché non prendi una barretta al cioccolato?» suggerì Andrea, provando un inaspettato moto di dispiacere: «So che ti piacciono. Mi sembra un bel premio, no?» Giordano gli rivolse un’occhiata rovente: «Non sono un bambino» Andrea sentì le guance avvampare: «Scusami, volevo solo…» «Lo so benissimo che non si può mangiare la cioccolata dopo cena», proseguì Giordano: «Fa venire i denti marci» «Certo», commentò il maestro di tennis, chiedendosi al tempo stesso come uscire da quella conversazione assurda. «Facciamo così», esclamò, colto da un’ispirazione improvvisa: «Domani mattina i dal bar e fai una bella colazione. Parlo io con Mario. Una bella colazione premio, ti piace l’idea?» Giordano rifletté per qualche momento, poi annuì: «La mattina la posso mangiare. La cioccolata, dico» Senza aggiungere altro, l’uomo si voltò e scomparve nel parcheggio. Andrea attese quasi cinque minuti prima di lasciar andare un lungo sospiro esasperato che si dissolse in volute aggraziate verso le stelle. - Pazzo come un gatto con una zanzara nel culo - pensò, e la sua risatina nervosa risuonò nelle ombre del cortile. Fece per tornare al bar e avvisare Mario che l’indomani un ciccione sciroccato avrebbe preteso cappuccino e brioche a spese del maestro del circolo, poi decise
di fumarsi un’altra sigaretta celebrativa, e di godersela questa volta. Avvertiva il forte bisogno di rilassarsi. Rinvenne l’accendino in una tasca della borsa e, senza pensare, tirò una lunga boccata. La nicotina lo colpì al cervello come una mazza foderata di gommapiuma. In preda a un capogiro, si appoggiò al muro degli spogliatoi. Mentre attendeva che la nausea asse e il mondo smettesse di deformarsi davanti ai suoi occhi, Andrea decise che, per quella sera, ne aveva avuta abbastanza. Guardò l’orologio: le lancette segnavano le 23.53: era ancora in tempo per vedere l’ultima replica del Dr. House su Fox. L’idea di stendersi sul divano con una birra ghiacciata e una pizza ai peperoni scaldata nel forno elettrico parve infondergli nuova energia. Afferrò la borsa ed il secchio delle palline e si incamminò verso il cancello. In quel momento, uscirono dagli spogliatoi Baruzzi, Battaglini e Daniele Ghirlandi. Quest’ultimo gli rivolse un’occhiata carica d’astio: «Eccolo qua, il principe dei diseredati», lo apostrofò: «E il tonto? Dov’è finito?» «Andato», rispose Andrea: «Non sei stato carino con lui» «Si fotta. Non schierarlo mai più» «Facciamo così: io non lo schiero più solo se tu ti decidi a smaltire quel salvagente di trippa che porti attorno all’ombelico, sei d’accordo?» «Ehi, io ho pagato l’iscrizione e non intendo…» «Anche Giordano l’ha pagata. Questo lo rende un membro della squadra a tutti gli effetti. Ricordalo, la prossima volta che ti viene voglia di coprirlo di ridicolo davanti a mezzo paese»
Daniele strabuzzò gli occhi: «Coprirlo di ridicolo? Non sono io quello che gli ha infilato una racchetta in mano e l’ha messo in campo contro la squadra più forte del campionato. Cristo, sembrava un orco rintronato a caccia di farfalle. E hai la faccia tosta di farmi la paternale se qualche vecchio ubriaco si è pisciato addosso dal ridere? Fatti un esame di coscienza, capitano» Con un grugnito carico di scherno, Daniele si allontanò in direzione del parcheggio. Andrea rimase a guardarlo, sentendo la rabbia crescere come una pustola infetta. «Lascia perdere», intervenne Baruzzi: «Sai com’è fatto. Tra un’ora gli sarà ata» «E tornerà il solito stronzo di sempre», aggiunse Battaglini. Andrea sorrise: «Se voi due continuate a giocare come avete giocato stasera, lo stronzo dovrà abituarsi alla panchina, altro che al doppio. Siete stati bravi» «Io sono stato bravo», lo corresse Battaglini: «Baruzzi era dopato come un cavallo» «Dopato di Red Bull», confermò Baruzzi, sorridendo: «Se mi strizzi le palle muggisco. Vuoi provare?» Andrea scosse la testa, declinando l’invito: «Fattele strizzare da tua moglie, ti assicuro che è bravissima. Io vado a casa» «Non ti va una birra?» chiese Baruzzi, mentre Battaglini ragliava piegato in due dal ridere: «Noi ci fermiamo al Dragon. Offre lui» «C’è un motivo se non uscirò mai con voi, ragazzi: siete come la citronella, ma invece che le zanzare, fate scappare le femmine. Io ho una reputazione da mantenere»
«Lascia stare, Baruzzi», intervenne Battaglini, sogghignando: «Ho l’impressione che il nostro capitano abbia un po’ di carne fresca sul fuoco» «Non stasera», rispose Andrea, sorridendo: «Stasera vado dritto a casa. Voialtri comportatevi bene» «Certo mammina» Uscirono nel parcheggio deserto. Il Circolo tennis di San Giusto era situato a circa due chilometri dal centro abitato, nel cuore di un’ampia area edificabile su cui sorgevano anche il nuovo Multisala Godzilla e una serie di palazzine ecosostenibili adibite a uffici e negozi. Tutt’intorno si stendevano vigneti e pescheti, come una coperta umida raccolta ai piedi delle colline addormentate. Il Circolo condivideva con il Multisala il grande parcheggio alberato; le fila ordinate di prugni selvatici, piantati solo due anni prima, promettevano un futuro di posteggi ombreggiati che avrebbero reso più allettante per i paesani recarsi a spendere soldi in quello che, nell’immaginario del sindaco, doveva diventare il nuovo cuore pulsante dell’economia comunale. I due giocatori si diressero verso la Ka nera di Battaglini: «Allora, alla prossima, capitano. Sicuro di non voler venire?» «Sicuro. Ci vediamo martedì» Andrea li guardò partire, poi proseguì verso la sagoma scura della sua Matiz, che lo attendeva al centro del parcheggio, a fianco di una vecchia Ford Sierra dai vetri appannati. Le due macchine sembravano volersi tener compagnia, nel vuoto circostante. I rintocchi lontani del campanile del paese annunciarono la mezzanotte, prima di essere annientati dal fragore della saracinesca del Multisala che si abbassava. Andrea tirò fuori la chiave e si infilò nello stretto aggio tra le due vetture.
L’idiota della Ford aveva parcheggiato troppo vicino al suo sportello e il borsone delle racchette sfregò sui vetri sporchi della vettura. Divincolandosi per appoggiare a terra il secchio delle palline, Andrea si chiese a chi diavolo potesse appartenere una macchina tanto vecchia. - Probabilmente, a un contadino cirrotico che la usa anche per fare rally in mezzo… Con la coda dell’occhio, Andrea percepì qualcosa di nero e pesante che si muoveva in basso, nello spazio tra i due cofani. Balzò indietro con un grido, travolgendo il secchio delle palline che eruttò sulla strada un gran numero di sferette gialle e pelose. Annaspando per mantenere l’equilibrio, Andrea vide la forma nera gonfiarsi e crescere. Con la gola secca, protese avanti a sè la chiave della macchina, come un pugnale. Pensò di darsela a gambe attraverso il parcheggio, ma prima che potesse voltarsi, quel pezzo di oscurità viva si trovò improvvisamente eretto sulle gambe di un essere umano. Un essere umano piuttosto grasso. «Scusa» borbottò la cosa: «Ti ho fatto paura» Incredulo, Andrea abbassò la chiave: «Giordano! Cristo santo! Cosa facevi lì nascosto?» Giordano si sfilò la berretta dal capo e si ò una mano sulla fronte sudata, disegnando sulla pelle una lunga striscia nera di fuliggine: «Ho una gomma sgonfia», disse, indifferente al fatto di avere quasi causato un infarto al suo capitano: «I bulloni non girano. Non posso cambiarla» «D’accordo», rispose Andrea, una mano premuta sul cuore che ancora galoppava come un cavallo impazzito: «Dammi un secondo«.»
Giordano attese in silenzio che il capitano si riprendesse dallo spavento. Il sudore sulla giacca della sua tuta non si era ancora asciugato. «Allora vediamo», disse Andrea, quando i battiti del suo cuore tornarono a livelli normali. Giordano gli fece posto vicino alla ruota anteriore. Solo allora, Andrea si accorse che il pneumatico era sollevato di una ventina di centimetri dal suolo. Un piccolo cric pieghevole era sistemato sotto la portiera del eggero. Andrea esaminò la ruota illuminandola con il display del cellulare. Quando la tastò, le dita affondarono con facilità nella gomma umida: «Ho paura che sia bucata» «Me l’hanno bucata» «Ma chi vuoi che…», cominciò Andrea, poi vide l’espressione sul viso sporco di Giordano e capì: «Pensi a Daniele? Non farebbe mai una cosa simile» «Sei sicuro?», chiese Giordano e Andrea si rese conto che no, non ne era affatto sicuro. Decise che avrebbe fatto due chiacchiere a quattr’occhi con il suo primo giocatore, una volta che si fosse calmato e che quella serata del cavolo fosse stata un ricordo. Senza rispondere, indicò la gomma danneggiata: «Dici che non si svita?» Con un gesto, Giordano lo invitò a provare. Sul cofano della Ford era appoggiata una busta di cuoio da cui spuntavano un cacciavite, una grossa brugola, una chiave inglese e un taglierino con il manico di plastica arancione. Andrea prese la brugola e si diede da fare sui bulloni della ruota: erano cementati.
«Hai un po’ d’olio?», sbuffò. Giordano scosse la testa. Andrea provò ancora una volta ad allentare il bullone, senza successo. «Basta», rinunciò infine. Ripose la brugola nella busta e vi strofinò sopra le mani per togliersi lo sporco. Le dita gli dolevano per lo sforzo: «Vuoi chiamare qualcuno?» «Vivo da solo. La mamma è da Gesù, il babbo mi sa che è dal diavolo» - Figurati Andrea lanciò uno sguardo in direzione del circolo, sperando invano di vedere comparire qualche tira-tardi che potesse dar loro una mano. Pensò anche di chiedere aiuto a Mario, ma dal giorno in cui era andato in pensione, il custode aveva sviluppato una repulsione per il lavoro manuale pari a quella di un gatto per l’acqua saponata. Con un sospiro, il capitano dei Warriors si rassegnò a fare ciò che andava fatto, e tanti saluti al Dr. House: quella sera, il medico più amato della TV avrebbe fatto le sue diagnosi senza che Andrea lo guardasse lavorare dai comodi cuscini del suo divano: «Ti do un aggio io. Monta su» «Vivo in collina. È lontano» «Lo so, dove vivi», sbottò Andrea. Fece un lungo respiro per ritrovare la calma: «Non posso certo abbandonare qui uno dei miei giocatori, ti pare? Sali» In silenzio, Giordano smontò il cric e lo ripose insieme alla busta degli attrezzi nel bagagliaio della Ford.
Andrea ne approfittò per raccogliere nel cesto tutte le palline che riuscì a trovare, mansione penosa che lui riservava ai suoi allievi alla fine di ogni ora di lezione. Alcune palline erano finite nelle canaline di scolo che correvano a fianco delle aiuole e ora intasavano gli scarichi per l’acqua piovana. Quando ebbe riempito poco più di mezzo secchio, Andrea decise che potevano bastare: avrebbe raccolto il resto la mattina dopo. Si drizzò sulla schiena dolorante e vide Giordano che lo osservava, in piedi di fianco alla Matiz. Si era una sigaretta. - Grazie per l’aiuto, ciccione «Quella mettila sui sedili posteriori», disse indicando la grossa borsa che Giordano portava a tracolla. «Non ce l’hai il bagagliaio?» «Certo che ce l’ho, ma ci ho fatto montare la bombola dell’impianto a metano. Non c’è spazio» Giordano sistemò la borsa sui sedili e Andrea vi mise a fianco la sua e il secchio delle palline. «È una macchina piccola», osservò Giordano. «Non ho famiglia, e consuma poco. Getta la sigaretta, prima di salire» Giordano se la prese comoda. Tirò un paio di boccate voluttuose, poi si liberò della cicca mezza fumata con un’espressione di puro rammarico. Si accomodò sul sedile del eggero, sbuffando come un orso alla fine del letargo. Infastidito, Andrea avviò la macchina verso l’uscita del parcheggio. La mole di Giordano riempiva buona parte dell’abitacolo: il suo ginocchio sinistro appoggiava sulla leva del cambio, fino quasi a piantarsi nell’autoradio. «Ti dispiace?», chiese Andrea con un cenno del capo. «Scusa», rispose l’uomo spostando il ginocchio.
Andrea ingranò la terza. Al momento di inserire la quarta, il ginocchio di Giordano era di nuovo sul cambio. Andrea deglutì e fece finta di niente. Imboccarono la provinciale 21 in direzione del centro abitato. A quell’ora della notte, la strada era deserta: il flusso dei lavoratori del turno di notte che si recavano agli stabilimenti ceramici di Pieve Ronca si era interrotto da più di un’ora, ed era ancora presto per i puttanieri del giovedì sera diretti all’incrocio con la statale 324. Andrea guidava in silenzio, a velocità sostenuta. Giordano guardava fisso la strada illuminata che correva loro incontro. La sua mano destra era aggrappata alla maniglia sopra il finestrino, come un prosciutto appeso nella cella frigorifera di un macellaio. Presto, l’abitacolo fu saturo del puzzo acre del sudore dell’uomo, un odore rancido, penetrante, di quelli che rimangono a lungo impressi nelle superfici e nell’aria. Andrea trattenne l’impulso di spalancare il finestrino per tirare una boccata di aria fredda. - In fretta- , si sorprese a pensare: - Prima arrivo, prima scarico questo bidone di letameDopo un chilometro, all’altezza del nuovo distributore Tamoil, Andrea abbandonò la provinciale 21 per una stretta strada asfaltata che correva parallela ai crinali delle colline. Non sapeva dove abitasse di preciso Giordano, ma ricordava che fosse dalle parti della vecchia proprietà di Bragagni, il vinaio. In quella zona, i campi e i vigneti erano tenuti come una volta, e apparivano rozzi e disordinati a confronto dei nuovi poderi installati nella Bassa. Andrea aprì la bocca per chiedere al suo compagno di viaggio indicazioni più precise, poi si rese conto che quello avrebbe costituito lo spunto per una conversazione, e lui non aveva alcuna voglia si chiacchierare: al momento
opportuno, sarebbe stato Giordano a dirgli dove andare. Dopo una serie di curve, la strada si spianò in una lungo tratto senza curve. Andrea lo conosceva bene: quando aveva sedici anni, la Dritta delle Vigne era il posto perfetto per collaudare i Ciao Piaggio che lui e i suoi amici elaboravano nell’officina del padre di Michele Frega. Nessun carabiniere, nessun incrocio e soprattutto nessun ficcanaso a cui rompere i timpani con il ruggito da gatto selvatico di una marmitta Malossi Supreme appena montata. Era il paradiso. Andrea ricordava ancora il punto esatto in cui, in un agosto di mille anni prima, il suo Ciao aveva grippato scaraventandolo nel fosso a lato della strada. Era successo a pochi metri da un pilastrino dedicato alla Madonna. «Era meglio una coppa. O una medaglia» «Di che parli?» chiede Andrea, emergendo dai suoi pensieri. «Non la voglio, la tua colazione. Voglio una medaglia. Voglio un premio come si deve» «Beh, dovrai accontentarti della colazione. Questo è un campionato, capisci? Alla fine dell’anno, la squadra che ha fatto più punti vince, e solo allora le danno un premio» «Che premio?» «Una coppa» «Una sola?» «Già» Giordano scosse la testa: «E’ una merdata!», piagnucolò: «E’ una grossa merdata!» Cominciò ad emettere un gemito sommesso attraverso le labbra serrate, come un cagnolino intrappolato in uno sgabuzzino troppo stretto. Andrea gli lanciò un’occhiata rapida: allarmato, vide che gli occhi dell’uomo
brillavano di lacrime trattenute: «Ok. Calmati. Se vuoi, domani...» «Chi la tiene?», lo interruppe Giordano: «Chi la tiene la coppa» «Beh, immagino che, se veramente la vincessimo, la esporremmo al bar del Circolo, ma è molto difficile che la nostra squadra arrivi prima nel campionato. Nella migliore delle ipotesi, dovremo accontentarci di un sesto o quinto posto» «Vinciamo qualcosa? Se arriviamo quinti e sesti, dico» «No. Ti ho detto che solo i primi vincono qualcosa» «Ma metti che arriviamo primi», continuò Giordano, fissando il suo capitano con occhi spiritati: «Allora la coppa la posso tenere io? Facciamo che non vinco la colazione, ma se arriviamo primi la coppa la tengo io» «Mi stai a sentire?», sbottò Andrea: «Non-arriveremo-primi in campionato! Non dico che sia una certezza matematica, ma poco ci manca!» «Che vuol dire?» «Cosa?» «Certezza matematica» «Mi prendi in giro?» Giordano staccò la mano dalla maniglia sopra il finestrino e la sbattè con forza sul cruscotto: «Tu! Tu mi prendi in giro!», gridò, schizzando goccioline di saliva sulla guancia di Andrea: «Dici che gioco bene, poi dici che non ho vinto niente. Dici che la squadra ha vinto l’incontro, poi dici che la squadra non vince il campionato. Dici che non vinciamo la coppa. Io voglio la coppa!» «E chi non la vuole la coppa!», rispose Andrea, infiammandosi: «Mi spieghi tu come facciamo a vincerla, la coppa, se sono costretto a mettere in campo un grassone rintronato che non sa nemmeno da che parte si tiene la racchetta?»
Solo quando richiuse la bocca, Andrea si rese conto di quello che aveva detto. Guardò di soppiatto l’uomo seduto al suo fianco: Giordano era tornato a fissare la strada. Il suo viso poteva essere scambiato per una maschera di cartone, ma nei suoi occhi ancora brillavano le tracce delle lacrime di poco prima. Andrea si rese conto di stare attendendo una reazione dall’uomo, una reazione che non era sicuro di voler affrontare: «Scusami, Giordano» «Ho freddo ai piedi», rispose lui, con le labbra ridotte a un filamento sbiadito sopra al mento. Imbarazzato, Andrea azionò il riscaldamento e diresse il getto d’aria verso i piedi. Il calore avvolse le vecchie scarpe da tennis di Giordano e, immediatamente, al puzzo rancido del sudore dell’uomo nell’abitacolo si aggiunse un tanfo insopportabile di piedi bagnati e calzini luridi che colpì Andrea come un pugno allo stomaco. - Madre santissima! Resistette ancora un paio di respiri, consapevole della delicatezza del momento, poi lo colse un violento conato. Avvertì un fiotto di bile risalirgli gola e fermarsi appena prima di riempirgli la bocca. Di riflesso, pigiò il dito sul pulsante di apertura dei finestrini. L’aria gelida della notte irruppe nell’abitacolo sollevando un turbine di biglietti del parcheggio e di ricevute di bancomat. Andrea cacciò la testa fuori e inalò più volte, a pieni polmoni. Il freddo acuto lo colpì alla testa, provocandogli una fitta dolorosa in mezzo alla fronte. «Ho detto che ho freddo», disse Giordano: «Non puoi aprire i finestrini»
«Puzzi da fare schifo!», ribattè Andrea, dimenticando ogni cautela: «Perché diavolo non ti fai la doccia come tutti gli altri? Sei allergico al sapone?» «Guarda» «Zitto!» sbottò il capitano: «Ora chiudi la bocca o giuro su dio che ti lascio qui» «Guarda che c’è qualcosa, laggiù», continuò Giordano, indifferente. «Dove?» Giordano puntò un dito: «Sul ciglio della strada. Dall’altra mano» Confuso, Andrea aguzzò la vista. Oltre il cono di luce dei fanali, la strada era illuminata debolmente da un quarto di luna, alto sui crinali. «Che significa dall’altra mano? Io non vedo niente, cosa...» «Si muove. Attento» Andrea ebbe appena il tempo di intravedere una sagoma enorme e pelosa, che compariva nel fascio di luce gialla emesso dalla Matiz. Mantenne abbastanza sangue freddo da non provare neppure a schivarla: era troppo vicina, e loro erano troppo veloci. Tese le braccia sul volante un istante prima che la cosa si schiantasse sul cofano, in corrispondenza del fanale destro. Il mondo fu squarciato da un forte rumore di ossa rotte e lamiere spezzate. La macchina decollò inclinandosi su un lato e per una decina di metri procedette in bilico sulle sole ruote di sinistra, come la vettura guidata da uno stunt-man professionista. Impotente, Andrea si volse verso Giordano e, con i sensi resi più acuti dall’emergenza, si accorse che l’uomo non indossava la cintura di sicurezza. - Se adesso ci ribaltiamo, questo bue mi crolla addosso e mi schiaccia contro
l’asfalto Dopo un tempo che ad Andrea parve infinito, la macchina ripiombò con un tonfo sulle quattro ruote e proseguì la sua corsa, come un aereo reduce da un atterraggio di fortuna. Andrea rallentò fino a fermarsi sulla striscia di erba bagnata che separava la carreggiata dal fosso. Per un lungo minuto, i due uomini rimasero in silenzio a fissare il mondo oltre il parabrezza, ognuno con le orecchie piene dei battiti convulsi del proprio cuore. Sentendosi come dentro il corpo di un estraneo, Andrea girò la chiave nel cruscotto. Con un sussulto, il motore della Matiz cessò di borbottare la sua melodia metallica. «Un fottuto cinghiale di merda» dichiarò il capitano. Giordano non rispose: fissava il buio dei campi, la mano di nuovo aggrappata alla maniglia sopra il finestrino. «Stai bene?», chiese Andrea. «Sì. Era un cinghiale» «Lo so che era un cinghiale. Te l’ho appena detto» Andrea si coprì gli occhi con i palmi delle mani e prese a massaggiarseli con movimenti circolari. Poi si afferrò due ciocche di capelli e le strattonò sino a che non ebbe paura di staccarsele dalla testa: «Cazzo! Cazzo, cazzo, cazzo!» Con movimenti rabbiosi, pescò dal cruscotto la torcia elettrica che una volta aveva vinto al distributore di benzina e aprì lo sportello. «Tu resta qui» disse rivolto al compagno, poi uscì. Girò attorno al cofano e puntò il fascio di luce per ispezionare i danni: il
frontalino era distrutto nel punto in cui l’animale aveva impattato con il mezzo, e un’intero spigolo dell’auto era come imploso dentro il vano motore, portandosi dietro paraurti e freccia. Il fanale destro penzolava sui suoi cavi a una spanna da terra, come un occhio strappato dall’orbita. «Ci siamo ati sopra. Abbiamo usato quell’animale come un trampolino» «I danni devi pagarteli da solo» Andrea sollevò lo sguardo e vide Giordano in piedi a pochi i da lui: «Ti avevo detto di rimanere in macchina» «È successo anche al contadino che mi aiuta a raccogliere le olive. Ha messo sotto un capriolo e ha fatto la denuncia. Il sindaco non ha cacciato nemmeno un soldo, per colpa del cartello» «Quale cartello?» Giordano fece un gesto vago in direzione della strada: «Il cartello che dice che i caprioli attraversano. C’è un capriolo disegnato sopra» «Il segnale di pericolo attraversamento selvaggina?» «Quello. Se c’è il cartello, il sindaco non paga» «Fammi indovinare: su questa strada c’è il cartello» «Due chilometri più indietro», confermò Giordano: «L’hanno messo dappertutto. Così non pagano» Andrea tornò ad osservare la macchina: «Guarda che roba» Afferrò un pezzo di frontalino che penzolava e lo strattonò. Il pezzo si staccò con facilità. Andrea lo soppesò fino a che non avvertì una sensazione strana sulle dita: puntò
la torcia sul frammento e vide che era imbrattato di sangue nero. In preda al disgusto, lo scaraventò nel campo a lato della strada, dopodichè, colto da un pensiero improvviso, si mise carponi sull’erba gelida e diresse la luce sotto il paraurti: a conferma dei suoi sospetti, vide larghe chiazze di sangue che gocciolavano dal fondo della macchina, come acqua dal soffitto di una ghiacciaia, e che componevano una lunga scia che arrivava fin sotto al bagagliaio. «Siamo sicuri che è morto?», chiese Giordano. «Certo che è morto. C’è più sangue qua sotto che nel retrobottega di un macellaio la vigilia di Pasqua» «I cinghiali sono robusti. Bisogna prenderli veramente bene per accopparli alla prima botta» «Beh, se è ancora vivo potremmo riprovarci, che dici? Prendo duecento metri di rincorsa e vedo se riesco a dargli il colpo di grazia!» Giordano tirò su col naso e affondò le mani nelle tasche della tuta. Andrea risalì in macchina e girò la chiave: il motore si accese senza difficoltà. L’uomo attese di veder comparire sul cruscotto la spia rossa dell’olio o quella dei freni, ma non successe. «Monta su», disse: «La voglio far finita. Monta su e andiamocene» Giordano mise un piede dentro l’abitacolo, poi prave ripensarci e tornò a sostare ritto a fianco della macchina. Esasperato, Andrea si chinò sul sedile del eggero per vederlo in faccia. L’uomo stava fissando qualcosa lungo la strada alle loro spalle. «Monta in macchina, Giordano, o me ne vado. Non scherzo» «E lo lasciamo lì?» «Cosa?»
«Il cinghiale» Andrea si contorse sul sedile per riuscire a guardare attraverso il lunotto posteriore: cinquanta metri più indietro, sulla strada illuminata dalla luna, si stagliava una sagoma scura, simile a un grosso masso abbandonato nel mezzo della carreggiata. «Cosa dovremmo fare?», chiese, realizzando al tempo stesso di non avere mai pensato seriamente all’animale fino a quel momento. Giordano si strinse nelle spalle: «Prendiamolo su», disse, senza mai staccare lo sguardo dalla forma nera dell’animale. «Mi spieghi dove vorresti infilarlo?», chiese Andrea, includendo l’abitacolo in un breve gesto della mano: «Nel bagagliaio c’è la bombola per il metano e qui dietro ci sono le borse delle racchette e il secchio» «Sì, ma quello è un bel mucchio di carne. È un peccato farla marcire come la gamba del nonno» «Vuoi la carne?», sibilò Andrea, esasperato: «Corri laggiù, e trascinatela a casa da solo. Io me ne vado: ho di meglio da fare che trascorrere la notte in compagnia di un animale morto e del vincitore del premio Idiota dell’Anno» Fu allora che un camlo risuonò nella mente rallentata di Giordano. L’uomo spalancò la bocca in una “O” perfetta, poi si sfilò la berretta e se la premette sul petto, come un innamorato al primo appuntamento con la ragazza più bella del paese. «Non è carne», bisbigliò: «E’ un premio. È il mio premio!» «Ora ascoltami bene, Giordano» disse Andrea, la voce gonfia di rabbia: «Non prenderemo su quell’animale. Ti assicuro che non ho la minima intenzione di caricarlo sulla mia macchina. Monta su. È l’ultima volta che te lo dico» Giordano non si scompose. Gettò un ultimo sguardo alla sagoma del cinghiale e prese posto in macchina, con calma, come se Andrea lo avesse invitato nel più
garbato dei modi. Furioso, Andrea ingranò la prima e armeggiò con il volante, poi avvertì qualcosa che gli premeva in basso, sul fianco destro. Abbassò lo sguardo e vide che si trattava di un taglierino con il manico arancione, lo stesso che aveva visto nella sacca degli attrezzi di Giordano nel parcheggio del Circolo. La lama retrattile era sfoderata sino a metà e aveva già scavato uno squarcio slabbrato nel tessuto della sua giacca a vento. Il mondo rallentò. Il capitano dei Warriors fu travolto da una sensazione di torpore e di profonda irrealtà, come se la sua testa si fosse d’un tratto riempita di ovatta grigia. Avvertì una vertigine fredda sotto ai testicoli e tutti i muscoli del suo corpo si tesero. Giordano, di fianco a lui, lo fissava dritto negli occhi. Nei suoi, brillava una luce sporca che li faceva sembrare più vividi del solito: «Andiamo a prendere il mio premio» Andrea aprì la bocca per rispondere, ma sembrava che l’ovatta dentro la sua testa gli fosse scesa fino gola. Si sforzò di deglutire: «Cosa fai?» In tutta risposta, Giordano spinse il taglierino contro il corpo del capitano. Sul fianco di Andrea sbocciò un dolore sordo. L’uomo rantolò di sorpresa e si strinse al finestrino per sottrarsi alla pressione della lama. Giordano sollevò il taglierino nella luce fioca dell’abitacolo e ne ammirò con sguardo vacuo la punta macchiata di sangue:
«Pensavo che dovevo premere di più» disse, incuriosito. Con un grido strozzato, Andrea spalancò la portiera e posò un piede sull’asfalto. Subito, la mano tozza di Giordano si chiuse sul colletto della sua giacca e lo ritirò indietro. Andrea crollò a sedere, col busto girato in direzione della portiera aperta e cominciò a dimenarsi, sino a che non avvertì la pressione della punta del taglierino, questa volta in mezzo alla schiena. Con un gemito, si immobilizzò, aspettando ad occhi chiusi di sentire sbocciare nuovamente il dolore. Avvertì invece l’alito fetido di Giordano e la sua voce dentro l’orecchio destro: «Stai fermo. Se no, ti pianto questo coso dietro la testa, poi ti scotenno fino al culo, come un capretto» Andrea si girò, piagnucolando. La ferita sul fianco aveva smesso di fargli male, ma pulsava come il cuore di un pulcino fradicio. La stretta di Giordano sul collo della sua tuta era cemento armato. «Adesso andiamo laggiù e prendiamo il mio premio» «Sanguino», rispose Andrea, quasi in tono di scusa, come un bambino che si è appena fatto la pipì addosso. Giordano guardò la macchia scura che andava allargandosi sulla tuta dell’uomo: «È un taglietto. Se ti sbrighi, non muori» Con movimenti meccanici, Andrea chiuse la portiera e ingranò la retromarcia. Senza neppure rendersene conto, effettuò un’inversione e guidò fino al punto della strada su cui giaceva la sagoma del cinghiale morto. Giordano sfilò le chiavi della macchina dal cruscotto e se le mise in tasca.
«Scendi» ordinò, afferrando la torcia elettrica. Andrea ubbidì. L’aria gelida colpì il suo volto madido di sudore come una secchiata d’acqua. Il cinghiale era crollato di traverso sulla carreggiata. Da dove si trovava, Andrea riusciva e vedere solo la parte posteriore dell’animale, con le zampe accavallate in una posa innaturale. «Vedi se è morto», disse Giordano. «Io?» «Dagli un calcio. Se si muove, vai via» Andrea rimase fermo dov’era: il pensiero di avvicinarsi alla bestia riversa lo spaventava quasi quanto il taglierino di Giordano. - Corro via - pensò - corro lungo la strada e non mi fermo fino a quando non incrocio una macchina Quasi gli avesse letto nel pensiero, Giordano scosse la testa: «Non scappare. Se scappi, salgo in macchina e ti metto sotto» A conferma della minaccia, fece tintinnare le chiavi della Matiz nascoste nella sua tasca: «So guidare, sai? Ho una Ford Sierra sfiammeggiante» Rassegnato Andrea si avvicinò alla bestia. Scartò l’idea improvvisa di gettarsi nel campo a lato della strada e di fuggire nel buio. - Sarebbe capace di seguirmi anche lì. E se la macchina ha retto un frontale contro questo mostro enorme, un po’ di rally tra le zolle le darà gli stessi problemi di una scampagnata Trattenendo il fiato, sferrò un calcio secco contro il corpo della bestia.
Fu come colpire un pesante sacco di granaglie: il piede affondò nel manto peloso producendo un rumore di ghiaia smossa, poi venne respinto indietro da qualcosa di molle ed elastico. Il cinghiale non si mosse. «È morto», disse Andrea. Giordano si avvicinò e proiettò la luce della torcia sulla bestia. Dalla bocca aperta dell’animale colava un rivolo di sangue. Sul suo muso, tra i piccoli occhi chiusi, si apriva una profonda ferita. «È una donna», disse Giordano, entusiasta, con gli occhiali che mandavano lampi sbiaditi nel chiarore notturno: «Guarda che pelo biondo! La carne della donna è più buona, lo sanno tutti» Aveva abbassato il taglierino, ma la lama era ancora estratta. «Senti Giordano», sussurrò Andrea, fissando l’arma come ipnotizzato: «Prendi la carne. Prendila tutta, ok? La carichiamo e la portiamo a casa tua, se vuoi. È il tuo premio. Prima, però, metti via quell’affare. Mettilo via, così torniamo a casa e facciamo finta che non sia successo niente, che ne dici? Potrebbe arrivare qualcuno e...» «No» rispose Giordano, scuotendo la testa: «Non a nessuno. Qui vivono solo vecchi contadini. I contadini vanno a letto con le galline, lo sapevi? I contadini non vanno in giro, la notte» «Adesso carichiamo il cinghiale» proseguì: «Poi lo portiamo a casa mia. Poi, facciamo la carne» L’uomo girò attorno alla carcassa della bestia e si chinò ad afferrarla per le zampe davanti. «Prendi quelle dietro», disse. Reprimendo un moto di disgusto, Andrea serrò le mani sulle zampe dell’animale, sopra gli zoccoli scuri.
Il corpo della bestia era ancora caldo ed il suo pelo ispido e grosso emanava un odore selvatico di terra e letame. Era pesante, e i due uomini dovettero trascinarlo fino alla macchina. Giordano sbuffava e mugolava per lo sforzo. «Ora che vuoi fare?» chiese Andrea, cercando di ignorare la ferita pulsante sul fianco. L’improvvisa fatica sembrava aver pompato tutto il sangue del suo corpo verso quel punto preciso. «Lo mettiamo sul sedile del eggero», rispose Giordano. «È troppo grande» «Lo mettiamo seduto. Bello dritto» Andrea guardò il sedile, confuso, poi riportò lo sguardo sul cinghiale: «Vuoi metterlo seduto?» «Seduto», confermò Giordano, paziente: «Come un uomo. Poi gli mettiamo la cintura, così sta dritto e non casca. Dai, uno strattone forte ed è fatta! Oh, issa!» Sollevarono di colpo la carcassa e riuscirono a spingerla sul sedile del eggero. Nel movimento, il muso del cinghiale andò a strofinare Giordano in grembo, disegnando sulla sua tuta striature di sangue e bava. La ferita sul fianco di Andrea protestò con una fitta acuta, alla quale seguì una nuova ondata calda e fradicia. L’uomo si portò una mano alla fronte per controllare un capogiro. - Quanto sangue ho perduto? «Cosa fai, svieni?» chiese Giordano: «Non svenire. Devi guidare. Ora, metti la cintura al cinghiale» Andrea obbedì. La mole dell’animale era ata a malapena attraverso il vano dello sportello e
fu necessaria l’intera estensione della cintura per circondarla ed assicurarla al sedile. Era uno spettacolo grottesco: la bestia era voltata verso il parabrezza, con la grossa testa a ciondoloni sul petto peloso, come un pendolare addormentato sul treno. Esausto, Andrea non poté fare a meno di chiedersi se il culo del cinghiale avrebbe lasciato macchie di merda sul sedile. «Bravo», si congratulò Giordano: «Andiamo» «Io non mi sento bene» «Stai bene. Io mi siedo dietro. Tu, guida» Con o incerto, Andrea girò attorno alla vettura e si sedette al volante. In qualche modo, Giordano riuscì ad incastrare il suo corpaccione sul sedile posteriore, tra i due borsoni ed il secchio, poi si protese nello spazio tra i sedili anteriori, inserì la chiave nel quadro e appoggiò il taglierino sulla spalla di Andrea. Con la mano libera, azionò la chiusura centralizzata degli sportelli. «Guida piano. Ti insegno la strada» Andrea fece manovra e riprese a percorrere la Dritta delle Vigne. Ad ogni piccola buca dell’asfalto, la testa dell’animale ballonzolava come quella di un enorme pupazzo a molla. Dopo un minuto di silenzio, Giordano cominciò a sghignazzare. Andrea lo osservò nello specchietto retrovisore: l’uomo era paonazzo in volto e tentava di reprimere le risate stringendo le labbra in una smorfia contorta. «Perché ridi?», chiese, ed ebbe l’impressione di parlare dal fondo di una lunga galleria. «Sembra la tua morosa», esclamò lui, poi non fu più in grado di contenere
l’eccesso di risa e prese a ragliare come un asino imbizzarrito, con la bocca spalancata verso il tetto della macchina e le lacrime che piovevano dai suoi occhi strabuzzati: «La tua morosa cinghiale! La tua morosa pelooooooosa!» E mentre Giordano rideva, un pensiero prese forma nella mente del capitano dei Warriors. Fu un pensiero nitido, il primo da quando quella serata si era trasformata in un incubo assurdo: - Stanotte, io morirò, e sarà questo matto ad uccidermi Senza rendersene conto, Andrea cominciò a piangere. «Non rallentare!» esclamò Giordano, prima di scoppiare in una risata ancora più forte. Sembrava incapace di controllarsi. Andrea riportò la lancetta del tachimetro sui 40 chilometri. «Senti», disse: «Dopo che abbiamo scaricato il cinghiale, io torno a casa, d’accordo?» Giordano non rispose, ma i suoi latrati calarono di intensità e si trasformarono in un farfuglio esilarato. «Torno a casa, e non ne parliamo più», continuò Andrea: «Dimentichiamo questa storia, ok?» «Quando arrivi al laghetto artificiale, volta a sinistra» disse Giordano, poi trasse un lungo respiro e si accomodò meglio tra i borsoni. «Fare la carne è faticoso» osservò in tono pratico: «Mi devi aiutare» «Ma io non ho mai fatto la carne in vita mia» «È facile. Appendiamo il cinghiale per le zampe di dietro. Sotto scaviamo una bella buca. La buca serve per raccogliere il sangue. Poi lo squartiamo con un
coltello, dalle palle alla gola. Giù! E togliamo le budella e tutta l’altra roba che va a male» «Il nostro cinghiale è femmina», disse Andrea, di riflesso: «Non le ha, le palle» «Oh», ripose Giordano, e prese a grattarsi il mento, dubbioso: «Beh, allora lo squartiamo dalla fica alla gola. È uguale» «E dopo che ti ho aiutato? Posso andare via?» Giordano riflettè a lungo. Infine sospirò e cominciò a picchiettare la lama del taglierino sulla spalla del compagno: «Ecco, il fatto è questo. Se dopo ti mando via, tu vai dai carabinieri. Ci vai, perché ti ho tagliato. Non volevo, ma l’ho fatto. E io vado in prigione. Io non ci voglio andare, in prigione. Allora mi sa che ti annego nella buca del sangue, e poi finisci nella pentola dove faccio il salame. Perché se poi vengono a cercarti, non ti trovano mica! Se ti mescolo nel salame, dico» Andrea cominciò a singhiozzare. «Vai dritto», lo ammonì Giordano. «Vaffanculo!» gridò Andrea, mentre un reticolo di vene bluastre gli si gonfiava in mezzo alla fronte: «Vaffanculo, psicopatico bastardo!» «Tra poco voltiamo» «Ti impiccheranno in piazza, maniaco di merda!» «Stai buono. Siamo quasi arrivati» Andrea urlò, e urlò a lungo, fino a che l’abitacolo della macchina parve risuonare come un diapason gigante. Giordano non si scompose. Continuò a tenere d’occhio la strada, ascoltando le grida dell’uomo seduto davanti a lui, con la stessa distratta serenità di uno che ascolti una canzonetta alla
radio. Poi, d’un tratto, cominciò ad urlare anche lui. Prima a mezzo tono, in una pigra emulazione delle strilla di Andrea, poi sempre più forte, fino a sovrastarle con la sua voce possente e rauca. Infine, con una mossa rapida, affondò il taglierino nella spalla del compagno. L’urlo di Andrea scemò in un rantolo stupefatto di dolore e si spense. La macchina sbandò. Giordano si allungò tra i sedili, afferrò il volante e corresse la direzione del veicolo. «Zitto!», ringhiò, chino in avanti: «Mi fai venire il mal di...» Un altro grido esplose nell’abitacolo, stridulo e bestiale, un grido che non aveva nulla di umano. Andrea voltò di scatto la testa e, come in un incubo, incrociò lo sguardo porcino e terrorizzato del cinghiale che lo fissava, sveglio, dal sedile del eggero. Successe tutto rapidamente. Giordano si ritrasse con uno strillo, mentre la bestia imprigionata cominciava a dimenarsi nella stretta della cintura si sicurezza. In preda ad un panico ancestrale, Andrea si rattrappì contro il finestrino e schiacciò il pedale del freno. La macchina inchiodò. Tutti furono sbalzati in avanti. Grazie all’inerzia della frenata, il cinghiale riuscì a liberare le zampe anteriori e prese a raspare furiosamente sui vetri e sul cruscotto. «È vivo!», strillò Giordano, sferrando colpi frenetici con il taglierino sulla groppa dell’animale impazzito: «È ancora vivo!»
Dimentico della chiusura centralizzata, Andrea armeggiò con la maniglia inerte della portiera, senza rendersi conto dell’inutilità dei suoi sforzi. Udì con chiarezza lo schianto secco della lama del taglierino di Giordano che si spezzava contro la pelle dura della bestia, seguito da quello molto più forte e terrificante della cintura di sicurezza che, infine, cedeva alla forza selvaggia dell’animale. Una volta libero, il cinghiale si spinse contro il parabrezza appannato. Il vetro si gonfiò come una bolla, ma non cedette. Alla seconda spinta, una fitta ragnatela di crepe esplose su tutta la superficie del parabrezza. - Ancora una, pensò Andrea: ancora una, e sei libera Poi, Giordano aprì la portiera posteriore. Il cinghiale voltò indietro la testa e Andrea si rese conto che l’uomo aveva commesso un errore. Percependo l’aria aperta dietro di lui, il cinghiale rinunciò a crearsi una via di fuga attraverso il parabrezza e si scaraventò con tutto il suo peso nello spazio tra i sedili anteriori. Uno dei suoi zoccoli colpì la gamba di Andrea sbriciolando il ginocchio dell’uomo come pane secco. Una sfera nera di dolore esplose nella visuale del capitano dei Warriors. I sedili si allargarono sotto la forza dell’animale, come le porte automatiche di un supermercato. Sui sedili posteriori, Giordano si dimenava tra i borsoni, bloccato, impedito nella fuga dalla mole espansa del suo corpo flaccido, mentre il cinghiale ancora si sforzava di vincere la resistenza dei sedili e di guadagnare il vano della portiera spalancata. - Sono intrappolato in una Matiz insieme a Giordano il Matto e a un cinghiale imbizzarrito . Fu l’ultimo pensiero di Andrea, prima che il mondo si spegnesse.
***
Il maresciallo dei carabinieri della caserma di San Giusto sedeva in compagnia di due appuntati nella sala d’aspetto del pronto soccorso. Guardò l’orologio: le sei e un quarto del mattino. Il pubblico ministero non sarebbe arrivato prima delle sette e mezzo. Il maresciallo sbuffò. Era tutta la notte che aspettava una risposta alle domande che aveva in testa, da quando in caserma era giunta la telefonata di un uomo che pareva in fin di vita. Quello che avevano trovato sulla strada che in paese chiamavano «la Dritta della Vigne«, quasi in corrispondenza del laghetto artificiale dei Manaresi, pareva inspiegabile. L’uomo che aveva telefonato giaceva sull’asfalto, svenuto, con gli abiti imbrattati di sangue e una gamba piegata in maniera innaturale all’altezza del ginocchio. Nella mano, stringeva ancora il cellulare. Ma era quello che avevano trovato sui sedili posteriori della macchina devastata, a far fremere d’impazienza e orrore il maresciallo. Era il cadavere di un uomo. Sembrava spezzato, come se fosse stato calpestato da una mandria di animali imbufaliti. Era riverso su un fianco, con un braccio penzoloni fuori dalla portiera spalancata della Matiz devastata. La sua gola era lacerata da una ferita assurda. Sembrava un morso. Il morso di una bestia furiosa.